Una scultura di Tommaso Rodari
Una scultura di Tommaso Rodari
Una scultura di Tommaso Rodari
catalogo a cura di
C hiara N aldi
Coordinamento editoriale Chiara Naldi Concezione grafica Chiara Naldi e Grafiche dell’Artiere - Italia Fotolito e stampa Grafiche dell’Artiere - Italia Finito di stampare nel Giugno 2013 © Galleria Canesso Sagl Edizione fuori commercio
Si ringraziano per il prezioso contributo: Lara Calderari, Letizia Casati, Marco Franciolli (Museo Cantonale d'Arte, Lugano), Giancarlo Gentilini, Cristiano Masini, Gerardo Rigozzi (Biblioteca Cantonale di Lugano), Gabriele Rovelli e Ugo Ambroggio (Aleph s.n.c., Como), Luca Saltini (Biblioteca Cantonale di Lugano), Elio Schenini (Museo Cantonale d'Arte, Lugano), Lorenza Senni, Simone Soldini, Paolo Sulmoni (Museo d'arte di Mendrisio).
Piazza Riforma 2 . 6900 Lugano . Svizzera Tel. +41 91 682 89 80 . Fax +41 91 682 89 81 info@galleriacanesso.ch . www.galleriacanesso.ch
Sommario u n a s c u lt u r a d i to m m a s o ro d a r i
Tommaso Rodari, Busto virile paludato
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Un lago di pietre e marmi. Apporti “ceresiani� alla scultura Rinascimentale Lombarda
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Vito Zani
Laura Damiani Cabrini
Una scultura di Tommaso Rodari
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Tommaso Rodari, Busto virile paludato Vito Zani
marmo, 59 × 57 × 27 cm Il busto si trovava fino a pochi anni or sono nel giardino di una villa del basso Piemonte, dove era approdato in epoca e da provenienza imprecisabili. Rappresenta un uomo vigorosamente caratterizzato, con capigliatura e barba dai folti riccioli, paludato in una veste a saio, con un manto su una spalla, e sul petto un gioiello simile a un fermaglio con incastonata una gemma. La superficie scolpita risulta in buone condizioni conservative, mentre una lacuna nel profilo del naso è stata integrata da un restauro. La figura è ricavata da un blocco di marmo bianco con diffuse marezzature di grigio chiaro, e una venatura più scura con un alveolo cristallino sullo zigomo sinistro, quasi certamente affiorata in seguito alla lavorazione scultorea. La pietra, somigliante ad alcune varietà del bianco carrarese, sembra identificabile nel marmo di Musso, largamente impiegato in Lombardia già nell’antichità romana, e per lo più in area comasca durante l’epoca rinascimentale. L’accurata rifinitura della figura si attenua progressivamente sul dorso, fino a una ristretta fascia verticale appena sbozzata che ne dimostra la destinazione d’origine per una visuale non a tutto tondo. In nessun punto del marmo risultano resti né alloggiamenti di parti metalliche per l’ancoraggio del busto, mentre dalla sommità del capo, in posizione leggermente arretrata, sporge un piccolo perno in ferro evidentemente predisposto per il fissaggio di un’aureola o di un altro elemento, in metallo o legno dorato. L’inserimento di questo ferro in tempi molto remoti, presumibilmente alle origini dell’opera, si evince dall’infiltrazione di ossido cui ha dato origine nel marmo in un breve tratto dietro la testa, lungo il tracciato di gocce d’umidità o di pioggia. Il piano d’appoggio del busto è livellato su una superficie resa uniformemente scabra da una lavorazione a scalpello, apportata per far meglio aderire lo strato di malta che assicurava l’opera nella sua antica sede. Tra gli interstizi di tale trama a scalpello si ravvisano ancora alcuni residui di malta, non risalenti alla storia conosciuta dell’opera. La mancanza di cognizioni anteriori impedisce di escludere che il busto possa essere il frammento di una statua a figura intera, alta in proporzione più di due metri. Tale congettura non trova però indizi favorevoli nell’appena esaminata conformazione fisica dell’opera, e neppure nella sua autosufficienza rappresentativa, chiaramente concentrata sullo sguardo e sui volumi enfatizzati dei riccioli della capigliatura e della barba, destinati con ogni probabilità ad una visione non ravvicinata. Appurato che la pristina integrità dell’opera dovrebbe corrispondere al suo stato attuale, ci si può finalmente interrogare su quale potesse essere l’originaria funzione di questo singolare e importante manufatto. La lavorazione del dorso ne rende certa la prima destinazione a ridosso di una parete o di un supporto di fondo, mentre la forma della base presuppone un piano d’appoggio piatto, non
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compatibile col profilo ricurvo di un oculo o di un medaglione. L’ipotesi più plausibile farebbe dunque immaginare il busto nella lunetta o nella cimasa di un portale, oppure di un complesso scultoreo. Non si può escludere che la figura fosse allora affiancata da un’altra, visto che la finitura sulla zona arretrata delle spalle risulta più accurata da una parte (la sinistra), lasciandone supporre la predisposizione per un’apertura visuale differenziata sui due lati. Il contesto d’appartenenza dell’opera era presumibilmente sacro, quale almeno sembra essere il soggetto del busto, nonostante l’iconografia e la tipologia chiaramente debitrici della ritrattistica romana, in particolare del genere delle effigi dei Cesari. Purtroppo, la perdita dell’adornamento aggregato in origine al capo tramite il già esaminato perno metallico impedisce di stabilire se si trattasse di un attributo sacro come l’aureola, oppure, come suggerisce Laura Damiani, di un connotato profano come la corona d’alloro, da regnante, o da dignitario. Se la posizione dell’innesto sembrerebbe comunque più compatibile con un’aureola, il soggetto sacro dell’opera verrebbe suggerito anche dai paludamenti e dal gioiello, abbinati al corpo secondo soluzioni piuttosto lontane dai canoni del busto di pretta ispirazione antiquaria, in una concezione d’insieme che ricorda anche molto quella dei busti-reliquiari. Verrebbe così da pensare all’effigie di un santo dei primordi della cristianità, forse insignito della carica vescovile, a cui potrebbe alludere il fermaglio a castone, simile nella foggia a quelli usati per i piviali. In alternativa, il gioiello potrebbe essere inteso come un attributo specifico di Sant’Eligio, patrono degli orafi e anch’egli santo della prima cristianità. Nella sigla risoluta del volto, nel disegno dei panneggi e nella forma degli occhi, la figura rivela alcuni risaputi caratteri della scultura del tardo Quattrocento in Lombardia, mentre resta ancora non inquadrabile negli studi di questo ambito il particolare modellato della capigliatura e della barba, tendenzialmente caratterizzato da una trama modulare di riccioli ad anse regolari e compenetranti, agganciate a coppie, con forti effetti di simmetria. Si deve alle ricerche di Cristiano Masini l’individuazione in questa formula di un peculiare e misconosciuto aspetto dello stile di Tommaso Rodari da Maroggia, scultore noto soprattutto per l’intensa attività prestata nel Duomo di Como, dove esordì nel 1484 come protostatuario, guadagnando in soli tre anni anche la carica di ingegnere capo del cantiere, conferitagli all’unanimità dai deputati della fabbrica con grandi attestati di stima1. La singolare struttura formale di questo modellato chiamato in causa è ravvisabile ad esempio nella statua di San Giovanni Battista in S. Maria del Sasso a Morcote2, parte di un’ancona smembrata della stessa chiesa, ma anche nelle ben più famose figure sedute dei Plinii sulla facciata del Duomo di Como3. Nella statua di Morcote (Figg. 1 e 7), ritenuta databile verso i primi anni ’90 del Quattrocento, il pur attenuato rilievo della capigliatura e della barba è chiaramente impostato secondo la medesima
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Tommaso Rodari, Busto virile paludato, marmo, Lugano, Galleria Canesso
Fig. 1 Tommaso Rodari, San Giovanni Battista, particolare, Morcote, chiesa di S. Maria del Sasso
Fig. 2 Tommaso e Giacomo Rodari, Plinio il Giovane, particolare, Como, facciata del Duomo
Fig. 3 Tommaso e Giacomo Rodari, Plinio il Vecchio, particolare, Como, facciata del Duomo
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costruzione che ricorre nel busto inedito qui presentato. Nei due Plinii (Figg. 2, 3 e 11), datati 1498 e firmati congiuntamente da Tommaso Rodari e dal fratello Giacomo, gli accentuati sottosquadri dei riccioli rendono invece ancor più evidente questo singolare concetto di composizione modulare e simmetrica. Esso è presente in ulteriori opere del Rodari, sempre sulla facciata della cattedrale comasca, come ad esempio la statua di San Bartolomeo (Fig. 4), eseguita poco prima del novembre 14854, oppure in una figura dell’Adorazione sulla lunetta del portale sinistro (Fig. 5), non documentabile ma presumibilmente da collocare nell’ultimo decennio del secolo5. Altro elemento specificamente rodariano è, nell’inedito busto, la particolarissima tecnica scultorea impiegata per le iridi degli occhi, leggermente rilevate sui globi ma con una lieve concavità nel centro, così da restituire l’impressione della pupilla scura non nettamente circoscritta dal foro di un trapano, come era normalmente d’uso, ma variabilmente delineata in rapporto alla luce, secondo un preciso intento di imitazione del fenomeno naturale. È la medesima tecnica impiegata nel già incontrato San Giovanni Battista di Morcote (Figg. 1 e 7) e in numerose statue sulla facciata e sui fianchi della cattedrale di Como, come il San Pietro (Fig. 6), pagato nel giugno 1485, o il Profeta Davide (Fig. 8), dove l’effetto è evidentemente cercato nella rispondenza alle mutevoli angolazioni del sole durante le ore del giorno e nel corso delle stagioni6. Questi aspetti formali della statuaria di Tommaso Rodari, per quanto distintivi, non esauriscono tuttavia l’ampio repertorio di soluzioni adottate di volta in volta dall’artista, secondo diverse combinazioni
Fig. 4 Tommaso Rodari e bottega, San Bartolomeo, particolare, Como, facciata del Duomo
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Fig. 5 Tommaso Rodari e bottega, Adorazione dei pastori, particolare, Como, facciata del Duomo
Fig. 6 Tommaso Rodari, San Pietro, particolare, Como, facciata del Duomo
Fig. 7 Tommaso Rodari, San Giovanni Battista, Morcote, chiesa di S. Maria del Sasso
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dettate dall’occorrenza. Così, puntando l’attenzione al di sopra dei singoli dettagli, si possono cogliere ulteriori riscontri altrettanto stringenti e forse ancor più significativi tra l’inedito busto e l’opera del Rodari. Ci si accorge, ad esempio, che la fisionomia del volto è identica a quella della statua del Profeta Davide sul fianco settentrionale del Duomo di Como (Fig. 8), dove invece la capigliatura e la barba appaiono meno elaborate sul piano tecnico. Un similare riscontro, proposto da Cristiano Masini, si ottiene confrontando i profili del busto inedito con quello di una coeva statua lombarda del Louvre, raffigurante San Giovanni Battista (Figg. 9 e 10), giustamente ritenuta da Masini di àmbito rodariano anche per la ricomparsa della sigla caratteristica già esaminata della trama a meandri della capigliatura e della barba7. Tirando le somme dai confronti esaminati, si può quindi ipotizzare per l’inedito busto una plausibile datazione all’ultimo decennio del Quattrocento, mentre la sua qualità artistica, l’originalità e la forza della sua elaborazione figurativa fanno chiaramente propendere per la piena autografia di Tommaso Rodari, nel cui ampio catalogo la nuova opera va ad assumere un ruolo di particolare interesse. Nelle opere degli esordi, cioè le statue consegnate a partire dal 1484 per la facciata del Duomo di Como, Tommaso si presenta profondamente influenzato dall’Amadeo8, cioè dallo stile in qualche modo normativo messo a punto dal maestro pavese proprio in quegli anni, nelle commissioni cremonesi dell’arca
Fig. 8 Tommaso Rodari e bottega, Davide Profeta, particolare, Como, fianco settentrionale del Duomo
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Fig. 9 Bottega o cerchia dei Rodari, San Giovanni Battista, particolare, Parigi, Musée du Louvre
Fig. 10 Bottega o cerchia dei Rodari, San Giovanni Battista, Parigi, MusĂŠe du Louvre
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dei Martiri persiani (1480-1482) e di quella di Sant’Arealdo (1482-1484), e soprattutto nel grande riquadro con l’Elemosina di Sant’Imerio (1481-1484) destinato all’arca dello stesso santo9. Quest’ultima opera segna il culmine del percorso attraverso cui l’Amadeo sintetizzò le divergenti e cruciali istanze di modernità sorte in seno alla scultura lombarda nel precedente decennio, cui egli stesso aveva dato un fondamentale contributo, rivisitandole ora alla luce dei nuovi precetti bramanteschi. Maturò così una maniera di forte impatto, che potenziava le figure coniugando l’espressionismo cartaceo di Antonio Mantegazza alla nuova monumentalità bramantesca, e imprimeva alle scene istoriate una spazialità prospettica spesso iperbolica, mettendo a frutto l’eredità del razionalismo di Giovanni Antonio Piatti (socio e coetaneo dell’Amadeo, morto nel 1480) e le sperimentazioni prospettiche di Bramante. Tuttavia, se negli anni ottanta la produzione di Tommaso Rodari ci rimane attestata soltanto da statue che confermano la sua tendenziale adesione all’esempio del caposcuola, è nel decennio seguente, con notevoli prove anche sul piano decorativo, narrativo e di composizione architettonica, che l’artista comincia ad esprimere valori di originalità tali da rendere il suo stile una ben caratterizzata variante critica dell’amadeismo, espressa al meglio in opere per la cattedrale comasca come le ancone della Passione e di Santo Stefano, le porte dei fianchi esterni, e soprattutto le statue dei Plinii sulla facciata con le relative edicole10. Nelle due edicole dei Plinii (cfr. Fig. 11) e nella porta del fianco settentrionale, detta “della Rana” (la cui sommità fu verosimilmente compiuta nei primi anni del Cinquecento), tutte opere firmate congiuntamente da Tommaso Rodari e dal fratello minore Giacomo, si assiste all’elaborazione di un linguaggio all’antica di singolare ricchezza, con l’uso di fonti figurative anche di prima mano e l’adozione di soluzioni sintattiche piuttosto complesse. Del resto, che il raggio di ispirazione dei Rodari andasse oltre l’Amadeo è dimostrato dall’anomalo carattere veneziano, più volte sottolineato dalla critica, dei prospetti delle due ancone citate della Passione e soprattutto di Santo Stefano. Non di meno, gli otto medaglioni figurati con Apostoli nella tribuna della chiesa di S. Maurizio a Ponte in Valtellina – attribuibili a Giacomo Rodari, stando a quanto previsto dal contratto stipulato nel 1498 tra i committenti e il fratello Tommaso – rappresentano un episodio di eccentrismo piuttosto anomalo nello scenario della scultura lombarda dell’epoca, reso ancor più attraente e problematico da una qualità artistica a dir poco sorprendente11. Non è da escludere che la grande impresa famigliare guidata da Tommaso, affiancato dai fratelli Giacomo, Donato e Bernardino, fosse favorita nei rapporti con centri emergenti della cultura antiquaria in Italia anche dalla singolare circostanza di essere rimasta radicata in quei luoghi, patria delle secolari dinastie degli scultori campionesi, migranti per tradizione, ma spesso legati da rapporti parentali e proprietà immobiliari alle loro terre d’origine. Sotto questo profilo, va ricordato che un collaboratore dei Rodari
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Fig. 11 Tommaso e Giacomo Rodari, Plinio il Giovane, Como, facciata del Duomo
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al Duomo di Como, Tommaso Righetia, è risultato da recenti ricerche fratello di Andrea Bregno12. Né si può trascurare – e purtroppo nemmeno valutare per la scarsità di appigli storici – l’eventuale apporto di un Giovanni Gagini da Bissone, che, reduce da una prestigiosa carriera spesa a Genova, tornò in patria in primo Cinquecento allacciando rapporti con maestranze locali, molto probabilmente anche con Tommaso Rodari13. Oltre a ciò, i prospetti venezianeggianti di ispirazione codussiana delle già citate ancone della Passione e di Santo Stefano nel Duomo di Como, realizzate nell’ultimo decennio del Quattrocento, non rappresentano l’unico segnale di rapporti con la città lagunare. Si possono infatti notare in molte figure di Tommaso sulla facciata e in qualche ancona del Duomo di Como forti somiglianze con qualche busto di Profeta nel ciclo sui pennacchi dei fianchi esterni della chiesa di S. Maria dei Miracoli a Venezia, realizzata da Pietro Lombardo tra il 1480 e il 148714. Somiglianze che certo non provano, ma non permettono neppure di negare l’eventualità di una tappa veneziana di Tommaso Rodari presso la bottega di Pietro Lombardo, prima dell’approdo a Como. Sul piano dei possibili rapporti con la città lagunare, va messa in conto anche l’assonanza, rilevata da David Lucidi e riferita da Giancarlo Gentilini, tra alcuni aspetti del Busto inedito qui presentato e la statua di San Marco sul frontespizio della Scuola di San Marco a Venezia, il cui mirabile prospetto fu messo in opera a partire dal 1489 da Pietro Lombardo e Giovanni Buora, cui si affiancarono l’anno dopo Mauro Codussi e forse Antonio Rizzo, fino al rapido compimento avvenuto verso il 149515. La statua veneziana, ascrivibile con ogni verosimiglianza a Pietro Lombardo e collaboratori, presenta il volto diversamente caratterizzazione da quello del Busto, ma rivela soluzioni analoghe nella costruzione della capigliatura e della barba. È dunque nel quadro di questi multiformi stimoli che dovette nascere l’inedito Busto virile paludato qui presentato, frutto evidente di un rapporto con l’antico inteso ad oltrepassare i canoni interpretativi del dettato dell’Amadeo, e a raccogliere anche nuovi suggerimenti dal panorama milanese. Così verrebbe da pensare di fronte all’espressione vagamente satiresca dell’effigie e all’intonazione interiore impressa nell’accenno di un sorriso quasi impercettibile, per il quale non si potrebbe escludere una suggestione dal primo Leonardo milanese. Resta l’interrogativo sull’originaria destinazione dell’opera, la cui importanza è resa chiara dalle dimensioni e dalla singolare tipologia. Nell’ipotesi già avanzata che il busto possa rappresentare un santo dei primi secoli della Cristianità, non si può escludere la sua pristina sede in una delle chiese comasche di più antico culto, come San Fedele o Sant’Abbondio, magari sulle lunette dei portali, molto rimaneggiati nel corso dei secoli.
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Note
1. Non esiste ancora uno studio complessivo su Tommaso Rodari, certamente l’artista che più di ogni altro impresse un personale sigillo sulla cultura figurativa del tardo Quattrocento in area comasca. Fondamentali per lo studio della sua produzione scultorea sono i contributi di S. Soldini, Ricostruzione della prima attività alla Fabbrica del Duomo di Como di Tommaso Rodari da Maroggia, contemporaneo e seguace dell’Amadeo, in J. Shell, L. Castelfranchi (a cura di), Giovanni Antonio Amadeo. Scultura e architettura del suo tempo, atti del convegno, Milano 1993, pp. 505-523; D. Morosini, Le pale d’altare in S. Maria Maggiore a Como, in M. L. Casati e D. Pescarmona (a cura di), Le arti a Como durante i Vescovi Trivulzio, Atti del convegno (Como 26-27 settembre 1996), Como 1998, pp. 73-84; L. Calderari, scheda in G. Agosti, J. Stoppa, M. Tanzi (a cura di), Il Rinascimento nelle terre ticinesi. Da Bramantino a Bernardino Luini, Cat. Esp. Rancate, ottobre 2010 - gennaio 2011 Milano 2010, pp. 100-103, cat. 21. Utile, anche per l’apparato illustrativo, è il contributo di L. Cogliati Arano, La scultura, in Il Duomo di Como, Milano 1972, pp. 105-188. Si veda inoltre la nota 1 del saggio di Laura Damiani Cabrini nel presente catalogo. 2. L. Calderari, scheda in Il Rinascimento..., Op. cit. 3. S. Soldini, Ricostruzione della prima attività..., Op. cit., p. 517. 4. S. Soldini, Ricostruzione della prima attività..., Op. cit., pp. 515-516 e nota 30. 5. S. Soldini, Ricostruzione della prima attività..., Op. cit., p. 513. 6. Di queste due statue risulta documentabile solo il San Pietro, indicato semplicemente come “Petrum” nell’atto di pagamento, tuttavia identificato in San Pietro Martire da Soldini (Ricostruzione della prima attività..., Op. cit., p. 515 e nota 26). Quanto alla statua del Profeta Davide, se ne può supporre una datazione analoga a quella dell’attigua Porta della Rana, non documentata, firmata anch’essa da Tommaso e Giacomo Rodari, e ricondotta ad un arco di anni compreso tra il 1490 e il 1510 circa (cfr. Cogliati Arano, La scultura..., Op. cit., p. 132). 7. G. Bresc-Bautier (a cura di), Les sculpture européennes du musée du Louvre, Paris 2006, p. 242 cat. RF 1638. 8. S. Soldini, Ricostruzione della prima attività..., Op. cit. 9. Su queste opere si veda V. Zani, La scultura dalla metà del Quattrocento al 1550, in Cattedrale di Cremona, Parma 2007, pp. 81-83. 10. Su queste opere si veda: Morosini, Le pale d’altare..., Op. cit., pp. 77-82, figg. 7-8 (per le due ancone); Cogliati Arano, La scultura..., Op. cit., pp. 129, 132 (per le porte sui fianchi); Soldini, Ricostruzione della prima attività..., Op. cit., p. 517 (per i Plinii e le relative edicole). 11. A. Corbellini, Il contratto di Tomaso e Giacomo Rodari per il presbiterio della chiesa di San Maurizio di Ponte, in “Bollettino della Società Storica Valtelliese”, 51 (1998), pp. 107-112. L’appalto dell’impresa era stato affidato tre anni prima all’Amadeo, che disattese l’impegno. Il nuovo contratto fu stipulato il 6 giugno 1498 con Tommaso Rodari, che si impegnava fra le altre cose “ad dictam fabricationem facere morari et permanere magistrum Jacobum fratrem suum ad laborandum in marmore figuras et alia necessaria”. Nel presbiterio restano otto medaglioni, la cui tipologia ricorda quelli murati all’esterno della tribuna di S. Maria delle Grazie a Milano, tuttavia molto più convenzionali nella raffigurazione dei santi. 12. Sulla presenza di Tommaso Righetia tra i collaboratori del Rodari al cantiere del Duomo di Como si veda S. Soldini, Ricostruzione della prima attività..., Op. cit., p. 507. “Tomaxo taiapria de Regexa”, che nel 1470 risultava iscritto alla fraglia dei lapicidi a Vicenza, è detto figlio di Cristoforo in alcuni successivi documenti che lo registrano a Como fino al 1502, mentre in un altro atto comasco del 1508, successivo alla sua morte, veniva nominato “Tommaso de Blegniis de Hosteno” dalla moglie, che usava il cognome “Blegnis” (cioè “Bregno”) in alternativa al Rigezia o simili, così come fecero altri lapicidi della stessa famiglia in altre zone d’Italia. Le corrispondenti indicazioni della paternità e del cognome hanno portato ad appurare che questo Tommaso era un fratello di Andrea Bregno, figlio anch’esso di Cristoforo (M. Mascetti, Lapicidi della Fabbrica del Duomo negli atti notarili tra Quattro e Cinquecento, in S. Della Torre, T. Mannoni e V. Pracchi (a cura di), Magistri d’Europa. Eventi, relazioni, strutture della migrazione di artisti e costruttori dai laghi lombardi, Atti del convegno (Como, ottobre 1996), Como 1997, p. 64).
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13. Sulla questione, incentrata sul polittico lapideo già in S. Giovanni a Mendrisio e ora nel chiostro dell’ex convento dei Serviti della stessa città, sede del locale museo, si rimanda al contributo di Laura Damiani in questo catalogo. 14. Si tratta di quelli riprodotti nel volume M. Piana, W. Wolters (a cura di), Santa Maria dei Miracoli a Venezia. La storia, la fabbrica, i restauri, Venezia 2003, pp. 44, 46-48 (tavv. 35, 38-40, 42), 72 (tav. 56), sui quali si veda M. Ceriana, L’architettura e la scultura decorativa, in Ibid., pp. 77-78. 15. Sull’impresa della facciata veneziana si veda R. Schofield, La facciata della Scuola grande di San Marco: osservazioni preliminari, in A. Guerra, M. Morresi, R. Schofield (a cura di), I Lombardo. Architettura e scultura a Venezia tra ‘400 e ‘500, Venezia 2006, pp. 161-164.
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Como, facciata del Duomo
Un lago di pietre e marmi. Apporti “ceresiani” alla scultura Rinascimentale Lombarda Laura Damiani Cabrini
Sono rari – e proprio per questa ragione da salutare con entusiasmo – i rinvenimenti di opere erratiche riconducibili a interventi di scultori operosi nell’antica diocesi comasca quali i Rodari: gli artisti che hanno dettato, con la loro cadenza regionale, l’idioma principale della scultura rinascimentale in area “insubrica”. Gli sventramenti avvenuti in epoca postconciliare ci hanno infatti privati dell’assetto originario di molti edifici di culto della regione, a cui si devono sommare le soppressioni monastiche, che già alla fine del 1700 e nella prima metà del secolo successivo hanno sacrificato numerosi insiemi monumentali. Così frammenti di altari marmorei e di complessi funerari vengono oggi solo saltuariamente recuperati alla memoria, grazie a parti smembrate spesso inserite in contesti del tutto inusuali1. Non si dubita infatti che in tutta la diocesi comasca, comprendente fino al 1884 la totalità dei bacini del Lario e del Ceresio, la pietra lavorata (di Musso, di Saltrio, di Candoglia) occupasse, tra la fine del XV e la prima metà del secolo succesivo, un ruolo predominante nel mercato artistico della regione. A prescindere dai più importanti cantieri aperti allo scadere del Quattrocento (Duomo di Como, Santuario della Madonna di Tirano, Cattedrale di Lugano), all’interno dei quali il ruolo del rilievo decorativo fu determinante, ciò che oggi può essere rintracciabile in questi territori non può che fornire un’immagine sbiadita del panorama delle presenze scultoree originariamente disseminate lungo le sponde dei laghi lombardi. Il cahier de doléances è stato opportunamente compilato per la parte inerente il territorio comasco da Alberto Rovi2, che con perizia da certosino ha ricostruito, tramite un’attenta lettura delle visite pastorali, le presenze di materiali scultorei rinascimentali a Como e zone limitrofe. Un’analoga operazione è stata tentata in Ticino solo sul materiale superstite, mentre un censimento a tappeto di tutte le distruzioni e le soppressioni di altari e di monumenti marmorei potrà essere operata solo attraverso un vaglio completo delle visite pastorali dei comuni appartenenti all’antica diocesi comasca e grazie alla lettura capillare dei sei volumi miscellanei che compongono l’opera ciclopica redatta il secolo scorso da Luigi Brentani3. Un’idea di ciò che ancora poteva essere visibile in edifici privati alla prima metà del Novecento è in parte deducibile dalle pagine di Francesco Chiesa date alle stampe nel 19284. Valga per tutti l’esempio dei “Camini Quattrocenteschi” citati come provenienti da case di Bissone e di Grancia, allora conservati presso il Museo Storico della città di Lugano e di cui non sembra restare traccia alcuna. Così, allo stato attuale degli studi, chi voglia avvicinarsi a questo mondo disperso, per trarre una mappatura delle emergenze scultoree sul territorio, non può che far capo alle guide della regione5, oltre che alle acute riflessioni dei “pionieri” della ricerca sulla scultura di epoca Rinascimentale in area nord-Italiana – in particolare Johann Rudolf Rahn e Gotthold Meyer – e, da ultimo, al ricco catalogo dedicato dalla Pinacoteca Züst di Rancate alla cultura artistica Rinascimentale nel Cantone del Ticino6. Come per altre epoche oggi meglio studiate, anche nel campo della scultura possono essere distinti tra le opere superstiti due diversi livelli espressivi: quello facente capo a personalità artistiche originarie e
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del bacino del Ceresio, ma di grande caratura espressiva, la cui acculturazione era avvenuta al di fuori dei confini lombardi; e quello relativo alla presenza di maestranze di stanza nella diocesi comasca, la cui attività rientra, su scala di valori diversa, sotto la sfera d’influenza del linguaggio di Tommaso Rodari. Da questo punto di vista, oltre, naturalmente, al dato stilistico, può risultare un efficace indice di distinzione degli interventi delle diverse maestranze anche quello materiale. Si possono infatti contare sulle dita della mano i casi di opere realizzate in marmo carrarese, spesso lavorate direttamente nei luoghi di produzione e in seguito trasferite sulle sponde del Ceresio o, più raramente, realizzate sul posto. Gli scultori locali si avvalgono invece delle pietre provenienti dalle cave di marmo autoctone, come il Candoglia, il Musso o la pietra di Saltrio, spesso destinata a essere dipinta. A contendersi il primato delle presenze “fuori contesto” rispetto alle asprezze del linguaggio rodariano, restano solo gli stupefacenti inserti marmorei della facciata della Cattedrale di Lugano7 e le sculture di Carona, dov’è presumibile la presenza, intorno al 1526, di Antonio Maria Aprile8. Ma bisognerebbe meglio riflettere anche sulle opere eclatanti collocate nella chiesa Parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo di Osteno, da sempre attribuite ad Andrea Bregno (Osteno, 1418 circa-Roma, settembre 1503): il protagonista indiscusso della scultura romana di epoca rinascimentale9. Vale la pena qui di ricordare almeno la notevole qualità formale di opere che devono aver contribuito ad innescare il processo di acculturazione delle regioni più periferiche del ducato visconteo sui linguaggi di punta della grammatica scultorea di matrice classicista. Si sta parlando di un tabernacolo in pietra di Saltrio, che riporta la data (molto probabilmente postuma) del 1464, il cui esibito classicismo nella definizione delle grottesche non trova paragoni a quelle date in Lombardia, e di una pregevole Madonna col Bambino in marmo di Carrara inserita in un altare laterale, fra i Santi Anna e Giuseppe. L’osservazione diretta di questi manufatti solleva però non poche perplessità circa la loro attribuzione e la loro datazione precoce, basata sulla scritta apposta sul tabernacolo. Mi sembra infatti di cogliere un tangibile riflesso dell’altare padovano del Santo di Donatello, con l’immagine bizantineggiante della Vergine colta frontalmente ad esibire tra le braccia il Bambino, filtrata però attraverso una sensibilità per l’antico ormai perfettamente accordata alla produzione degli esegeti della cultura classicista in area veneta degli ultimi decenni del Quattrocento, Lombardo-Solari in testa. A parziale riprova di questa tesi può essere citato un documento già usato dalla critica come attestazione di un patronato Bregno per l’altare di Osteno e per ribadire l’attribuzione della statua a Andrea, ma che in realtà sembra spostare i termini della questione al primo decennio del Cinquecento. Si tratta di un inventario della chiesa, ora conservato all’Archivio Diocesano di Milano, nel quale, in testa a un capitolo compare l’indicazione: “1507 – Altaris Sante Marie – Hereditas Jo. Bleny” 10, che confermerebbe la tesi di una realizzazione dell’altare maggiore della chiesa quale frutto di un lascito testamentario avvenuto proprio intorno a
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Fig. 1 Tommaso Rodari, Tabernacolo eucaristico, marmo di Musso, Lugano, Cattedrale di San Lorenzo
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quella data11. Il riferimento è a Giovanni Antonio Bregno, artista ed erede testamentario di Andrea, forse a Brescia dal 1495 al 1497, residente a Ferrara nel 1504 e presente a Roma due anni dopo per l’esecuzione testamentaria della tomba dello zio in Santa Maria sopra Minerva12. Queste considerazioni, lasciate per il momento in sospeso, valgono ora solo come traccia di ricerca, in quanto vanno a toccare un tabù storiografico inerente la prima attività di Andrea Bregno che varrà la pena di prendere con le pinze e discutere approfonditamente in altra sede. È però la scultura di matrice rodariana a vantare il primato delle presenze nella “Regione dei Laghi” su qualsiasi altro manufatto scolpito. L’omologazione linguistica prodottasi all’interno del cantiere del Duomo di Como, dove a partire dal 1484 lavorava un gruppo di scultori capitanato da Tommaso Rodari (documentato dal 1484 al 1526), quasi tutti appartenenti alla stessa famiglia originaria di Maroggia, ebbe dei riflessi tangibili sulla diffusione del loro stile nella regione del Ceresio, anche nelle zone più periferiche. Benché nulla si sappia circa la sua formazione, che presumibilmente avvenne nell’ambito del cantiere della certosa pavese, Tommaso, originario di Maroggia e presente a Como già nel 1484, divenne ben presto la figura egemone nelle dinamiche edificatorie del Duomo Comasco, all’interno del quale fu attivo fino al 152613. Attestato in qualità di scultore a partire dal 1484 e di capocantiere tra il 1487 e il 1526, fu anche presente in altre fabbriche erette tra Comasco e Valtellina a cavallo tra Quattro e Cinquecento: a Ponte in Valtellina, nella ricostruzione del coro di S. Maurizio (1498-1500); a Bellinzona, dove fu coinvolto nel 1514 nel progetto della collegiata; nella facciata della chiesa dell'Assunta a Morbegno (1515-17) e a Busto Arsizio, nella chiesa di S. Maria in Piazza, del 1522. Gli sono ascritti anche i progetti per il santuario di Tirano (1505), per la coeva facciata della cattedrale di Lugano (1517) e del “tempietto” di Brugherio, già incorporato nella chiesa conventuale di San Francesco. Influenzato dallo stile “cartaceo” di Amadeo e Mantegazza, in ambito scultoreo ne perpetuò all’infinito le caratteristiche pieghe accartocciate e il repertorio antichizzante, lasciandoli in eredità ai membri della bottega, che li divulgarono in tutta la diocesi. Il successo della rielaborazione personale del classicismo lombardo fornita dalla bottega di Maroggia, misurabile ben oltre le soglie del Cinquecento, è testimoniato, ad esempio, dai numerosi tabernacoli conservatisi anche in edifici di culto discosti, situati nelle valli affacciate sul Ceresio. Pur nella disomogeneità dei gradi di acculturazione dei propri esecutori, essi divulgano infatti gli aulici modelli proposti dalla bottega rodariana, tra cui primeggia l’esemplare presente nella Cattedrale di Lugano14 (Fig. 1). Si vedano, ad esempio, quelli collocati nella Chiesa di San Siro a Lanzo d’Intelvi, di Pellio Inferiore e Superiore, di Grotto, di Campione, alcuni dei quali mostrano, come a Lugano, la figura di Cristo risorto dal sepolcro; così come quelli superstiti in area sottocenerina, come a Coldrerio, Rancate, Arogno, Bissone, Brusino Arsizio, Sonvico. Per contro, praticamente nulla sopravvive dei portali marmorei di epoca rinascimentale, la cui unica
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Fig. 2 Tommaso Rodari e bottega, Madonna col Bambino, San Giovanni Battista e San Fedele, altare di pietra di Saltrio, Vico Morcote, Chiesa dei Santi Fedele e Simone
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eccezione è costituita da una Vergine Annunciata rilevata da Rovi nel Museo Civico di Como, acquistata nell’ottobre del 1909 e proveniente dal portale d’accesso della Casa Rodari a Maroggia, oltre a quello della Chiesa di san Nicola a Cressogno15. Tra gli altri casi “fuori contesto” va annoverata la serie, non molto numerosa, di ritratti di notabili colti di profilo coadiuvati da una scritta dedicatoria, i quali occupano attualmente spazi dominati da un verbo stilistico completamente barocco, se non roccocò (l’Effigie di Luca De Garavo di Bissone, fondatore del Convento dei Serviti di Mendrisio, datata 1504 è murata all’interno della Chiesa settecentesca di San Giovanni; quella di Marco Paernio, del 1503, è murata nella Collegiata di Balerna16). Anche un volto, forse appartenuto a Ludovico il Moro, si stagliava sulla facciata di Casa Lampugnani a Sorengo: attribuibile a Benedetto Briosco e confrontabile con i ritratti di profilo realizzati dallo stesso artista alla Certosa di Pavia, il rilievo è probabilmente andato a infittire il già florido mercato antiquario ticinese17. Con la grammatica rodariana vanno anche lette le ancone marmoree più conosciute e studiate a partire dal Rahn, nella quasi totalità dei casi inserite, ancora una volta, in contesti che ne snaturano la funzione d’origine. I frammenti di un altare già patronato Orelli si conservano nel castello di Locarno18. A Morcote, le parti smembrate dell’altare maggiore dell’edificio, già manomesso intorno al 1578, sopravvivono nella Madonna col Bambino attribuita a Tommaso Rodari, ora inserita nel nuovo altare maggiore della Chiesa, e nei Santi Giovanni Battista e Pietro, custoditi in casa Parrocchiale, mentre la cimasa del complesso, con L’Imago Pietatis tra due angeli, è murata lungo il sentiero che porta dal paese alla chiesa19. Un migliore stato di conservazione ha permesso ad altri tre dossali sottocenerini di ricevere qualche attenzione in passato da parte della critica. Si tratta delle ancone di Vico Morcote, Mendrisio e Balerna, che costituiscono le testimonianze più integre negli edifici di culto della regione di quella scultura di pietre e marmi che in epoca rinascimentale doveva sicuramente costituire l’impronta distintiva della produzione artistica della “Regione dei Laghi”. L’altare di pietra di Saltrio della chiesa dei Santi Fedele e Simone di Vico Morcote (Fig. 2) è oggi collocato sopra la porta d'entrata della sagrestia, posizionato probabilmente nella navata al termine dei lavori di ammodernamento della chiesa iniziati nel 159120. La presenza di San Fedele, martirizzato sulle rive del lago di Como e patrono della chiesa insieme a San Simone, attesta la destinazione originaria dell’opera. In considerazione delle notevoli dimensioni della pala in rapporto a quelle della chiesa quattrocentesca, si può legittimamente immaginare che essa fungesse da dossale per l’altare maggiore del preesistente edificio21. È probabile che a coronamento della pala tripartita si trovasse un’ulteriore terminazione architettonica: forse un timpano, sopra il quale doveva ergersi la figura di Cristo resuscitato, secondo un modello diffuso nei monumenti lapidei parietali realizzati in epoca sforzesca in tutta la Lombardia. La nobile impostazione architettonica dell’ancona, di stampo prettamente rinascimentale, si arricchisce
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nell’incorniciatura del riquadro superiore di dischi circolari in marmo nero di Varenna e in marmo rosso d’Arzo che riflettono un uso della policromia connaturato nella tradizione architettonica e scultorea lombarda del Quattrocento, ma qui tradotto in un contesto ormai compiutamente classicista, memore
Fig. 3 Ambito di bottega di Tommaso Rodari, Vergine col Bambino, Santa Caterina e San Giovanni Battista, dossale in “pietra molera”, Mendrisio, Museo d’arte
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di esempi rivolti verso Brescia e l’ambiente veronese. La datazione tarda dell’insieme, circoscrivibile alla metà del secondo decennio del Cinquecento, porta a stringere confronti diretti con l’uso che della pietra policroma stava facendo Tommaso Rodari in quel periodo all’interno del cantiere del Duomo di Como. In particolare nella cosiddetta “Porta della Rana” (1505-1507), nella quale trovano posto anche figure erette caratterizzate da arti affusolati e da panneggi lineari sovrapponibili a quelle dei santi presenti nell’altare di Vico, così come volute laterali di raccordo tra scomparto inferiore e superiore. Anche la forma dell’ancona rimanda a una tipologia di cui si può ripercorrere l’evoluzione nel corso degli Anni Novanta del Quattrocento grazie alla serie di ancone realizzate dall’artista di Maroggia all’interno del Duomo comasco. La mano del Rodari si percepisce ancora negli inconfondibili stilemi caratterizzanti l’ovale perfettamente calibrato della figura della Vergine, contrastante col panneggio spezzato del manto, ancorato a un linguaggio anacronistico a quelle date, perché caratteristico dello stile dominante in Lombardia a partire dagli Anni Settanta del Quattrocento. Tornano alla mente, in particolare, le due Vergini col Bambino realizzare da Tommaso già prima del 1514, rispettivamente per l’altare maggiore della Cattedrale di Como e della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Gravedona22, cui sono state affiancate recentemente da Lara Calderari e Vito Zani anche le omonime statue conservate nella chiesa di Obino, nella Casa Parrocchiale di Melano23 e nel Museo Diocesano di Milano24. Figure caratterizzate, oltre che dagli elementi stilistici già evidenziati, da quelle mani affusolate e apparentemente incapaci di sostenere la mole del Gesù Bambino che sono nota rilevabile anche della Vergine seduta sull’altare di Santa Maria del Sasso a Vico Morcote. Questi dati, che confermano l’appartenenza delle figure alla tarda produzione rodariana, contrastano per contro con l’assenza di spessore qualitativo rilevabile negli elementi decorativi dell’altare, risolti in modo meccanico attraverso l’impiego di moduli ripetitivi, e nell’esecuzione sommaria degli inserti figurativi, completamente privi di spazialità prospettica. Ciò viene a testimoniare l’intervento massiccio della bottega nelle parti secondarie, ad affiancare un lavoro coordinato dall’anziano capobottega. Tale dicotomia tra parti meglio risolte e resa sommaria dei dettagli decorativi, è un dato stilistico che accomuna anche gli altri due altari sui quali si è appuntata la nostra attenzione, probabilmente originariamente policromi. Il rilievo murato nel Chiostro del Convento dei Serviti a Mendrisio (oggi Museo d’arte) (Fig. 3) era originariamente collocato nell’antica Chiesa di San Giovanni, eretta a partire dal 1503 dal frate Luca Garvo di Bissone e demolita nel 1721. Nel 1511 mostrava tre altari, due dei quali dotati da Giovanni Gaggini di Bissone: l’altare di Santa Caterina, dov’era collocato il rilievo superstite, che era detto popolarmente “l’altare del Zenovese”, e quello dei Santi Rocco e Sebastiano, dove un’altra ancona nel 1517 doveva ancora essere dipinta, dorata e collocata sopra l’altare. Si sa che quest’ultima pala era stata
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Fig. 4 Tommaso Rodari e Bottega, Madonna col Bambino, San Vittore e Santo Stefano, dossale in pietra dipinta, Cappella Battesimale di Santa Maria delle Grazie e San Giovanni Battista, Balerna, Chiesa di San Vittore martire
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eseguita “per magistrum Thomam scultorem hab. Comi”, ciò che è stato interpretato come la conferma dell’intervento di Tommaso Rodari nella chiesa di Mendrisio. Già Martinola ci invitava però a riflettere sul fatto che si sarebbe potuto anche trattare di altro Tommaso, forse Tomaso Lopia, detto il Barazino, parente del Gagini e scultore a Genova e a Como, di cui però non sono rimaste opere superstiti25. L’ancona oggi murata all’interno del Chiostro dell’antico Convento dei Serviti (Museo d’arte) è scolpita in pietra molera, facilmente reperibile negli argini dei fiumi della zona ma molto friabile e delicata. Si presenta infatti molto consunta in superficie, con tracce superstiti di policromia. Anch’essa è tripartita da quattro lesene con capitelli ionici, decorati a candelabre, entro le quali tre nicchie contengono i rilievi raffiguranti la Vergine col Bambino, affiancata da Santa Caterina (a destra) e San Giovanni Battista (a sinistra). Ai piedi della Vergine una figura di giovane è intenta a scagliare un fendente ad una fanciulla. La scritta dedicatoria non lascia dubbi circa la commissione dell’opera da parte di “Joannes Gazinus. de Bissono Januensis (…) 1514”. Nonostante lo stato di conservazione al limite della leggibilità, le caratteristiche stilistiche dell’insieme portano a rilevare quei tratti tipici della corrente rodariana, già rilevati a partire dall’analisi dell’ancona di Vico Morcote, che sono stati anche sottolineati dalla critica che si è avvicinata all’analisi dell’opera26. Sempre attribuito al Rodari e alla sua bottega è l’ammirevole trittico posto sulla parete destra della Cappella battesimale di Santa Maria delle Grazie e San Giovanni Battista annessa alla Chiesa di San Vittore martire di Balerna, originariamente collocato sull’altare maggiore della Collegiata e rimosso nel 1700, con la posa dell’altare barocco (Fig. 4). È pesantemente dipinto di nero, probabilmente a simulare il bronzo, ma originariamente era policromo e dorato, come indicano le visite pastorali che hanno interessato l’edificio27. Presenta al centro la Madonna col Bambino e ai lati San Vittore e Santo Stefano, nel coronamento il rilievo con la Crocifissione racchiuso in volute laterali a riccioli invertiti e incorniciato da un elegante fregio, che ricorda stilisticamente quello della "porta della rana", sul fianco destro del duomo comasco. Anche in questo caso, l’insieme è confrontabile con una certa facilità all’ambito stilistico della bottega comasca ed è databile intorno al 1500, per i forti parallelismi con l’ancona della Deposizione del Duomo di Como, del 1498. Tra i frammenti erratici sono ancora da segnalare anche la già citata Madonna col Bambino conservata nella casa Parrocchiale di Melano (Fig. 5), forse appartenente ad un altare dell’antica Parrocchiale28, e una figura già segnalata dalla critica29 come Sant'Antonino impugnante la spada, ma più opportunamente identificabile con l’iconognafia di San Fedele – santo martirizzato sulle rive del lago di Como, il cui culto è abbastanza diffuso nella regione – o con San Vittore. Il confronto stringente con l’analoga figura inserita nell’altare di Vico Morcote non lascia dubbi circa l’ambito di bottega rodariano all’interno del quale dovette operare il suo anonimo esecutore.
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Fig. 5 Ambito di Tommaso Rodari, Madonna col Bambino, Melano, Casa Parrocchiale
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Note
1. Si veda, ad esempio, l’altare di Maroggia: L. Calderari, Rinascimento in Santa Maria del Sasso a Morcote: la cappella maggiore tra Quattro e Cinquecento; l'ancona di Tommaso Rodari da Maroggia, in “Zeitschrift für schweizerische Archäologie und Kunstgeschichte”, 66, 1, 2009, pp. 47-56, con una disamina complessiva dell’operato di Tommaso Rodari nei primi due decenni del XVI secolo; inoltre S. Valle Parri, Una civile raccolta. Morcote 4 Aprile 1894: i frammenti di pietra del XVI secolo, in “Bollettino storico della Svizzera Italiana”, 1 (2012), pp. 51-72. 2. A. Rovi, Dispersione e riuso di opere d’arte a Como e nella Pieve di Zezio, in M. L. Casati, D. Pescarmona (a cura di), Le arti nella Diocesi di Como durante i Vescovi Trivulzio, Atti del Convegno (Como, 26-27 settembre 1996), Como 1998, pp. 119-240. 3. L. Brentani, Antichi maestri d'arte e di scuola delle terre ticinesi, VII vol., Como 1937-1963. 4. F. Chiesa, Monumenti storici e opere d’arte esistenti nel Cantone Ticino, Lugano 1928, p. 24. 5. Si vedano le catalogazioni del patrimonio storico-artistico conservato nel comprensorio ticinese redatte nel corso del Novecento da Piero Bianconi, Giuseppe Martinola e Virgilio Gilardoni, e più recentemente della Guida d’arte della Svizzera Italiana, edita dalla Società Svizzera di Storia dell’arte. Per quanto riguarda la parte italiana sono utili, oltre le pubblicazioni del Touring Club Italiano, le Guide della Provincia di Como edite da “Nodo Libri” (AA.VV., Guide della Provincia di Como, 6 vol., Como 1994-2003). 6. J. R. Rahn, Beiträge zur Geschichte der oberitalienischen Plastik, in “Repertorium für Kunstwissenschaft”, III, f, 4, 1880, 386 - 401; A. G. Meyer, Oberitalienische Frührenaissance: Bauten Und Bildwerke der Lombardei, II, Berlino 1900; G. Agosti, J. Stoppa, M. Tanzi (a cura di), Il Rinascimento nelle terre ticinesi. Da Bramantino a Bernardino Luini, Cat. Esp. Rancate, 2 vol., Milano 2010. 7. Sui quali, L. Calderari, L. Damiani Cabrini, Tracce dell’officina Della Porta-Gaggini a Lugano. Alcune considerazioni sui tondi del portale centrale della cattedrale di San Lorenzo, di prossima pubblicazione. 8. Di portata eccezionale per lo studio delle dinamiche storico-artistiche della regione è il ritrovamento da parte di Rahn, alla fine dell’Ottocento, di una serie di lastre scolpite abbandonate nel cimitero di Carona e oggi conservate nell’attuale chiesa parrocchiale. Cfr. L. Damiani Cabrini, Carona, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi. Da Bramantino a Bernardino Luini. Itinerari…Op. cit., 2010, pp. 80-83. Eadem, 49. Antonio Maria Aprile (?). San Giovanni Battista, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi… Op. cit., 2010, pp. 208-209. 9. L’attribuzione del Cetti non è mai stata contestata: B. Cetti, Scultori comacini: i Bregno, in “Arte Cristiana”, LXX, 685 (1982), pp. 31-44. Per ultimo, C. Crescentini, C. Strinati (a cura di), Andrea Bregno. Il senso della forma nella cultura artistica del Rinascimento, Roma/Firenze 2008. 10. Citato in C. Crescentini, Inedite riflessioni documentali e nuove collazioni stilistiche. Andrea Bregno, la “via ferrarese” fra Osteno e Roma, con riferimento alle prime opere romane, in Andrea Bregno. Il senso della forma… Op. cit., 2008, pp. 133-167 (143, 144). 11. Le medesime perplessità sono avanzate recentemente da Pöpper, il quale propone per le sculture addirittura una datazione al 1656 (T. Pöpper, Skulpturen für das Papsttum. Leben und Werk des Andrea Bregno im Rom des 15. Jahrhunderts, Leipzig 2010, pp. 21-22). 12. L’ipotesi di una presenza dello dello scultore a Brescia insieme al fratello fratello Cristoforo (eredi di Andrea Bregno) è stata avanzata in V. Zani, Gasparo Cairano, Brescia 2010, 97 n. 53. 13. Per una sintesi della parabola artistica di Tommaso Rodari, oltre la bibliografia citata in precedenza, S. Soldini, Rodari, Tommaso, in Dizionario biografico dell'arte svizzera, 1998; S. Soldini, Il Duomo di Como nel periodo rodariano, in C. L. Frommel (a cura di), Bramante milanese e l'architettura del Rinascimento lombardo, Milano 2002, pp. 243-249; L. Calderari, Rodari, Rodari Tommaso, in Dizionario storico della Svizzera, 10, 2011, 469. 14. L. Calderari, L. Damiani Cabrini, N. Soldini, Lugano, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi Da Bramantino a Bernardino Luini. Itinerari… Op. cit., 2010, pp. 105-107. 15. A. Rovi, Dispersione e riuso… Op. cit., 1998, p. 137. Un discorso a parte merita invece il portale della chiesa di Cressogno, per il quale G. Agosti, J. Stoppa, M. Tanzi, Il Rinascimento lombardo (visto da Rancate), in Il Rinascimento nelle terre ticinesi… Op. cit., 2010, p. 54.
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16. Ibidem, pp. 33-34. 17. F. Chiesa, Monumenti storici… Op. cit., 1928, p. 85, T.XXIII. 18. P. Ostinelli, 10. Locarno. Castello, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi… Op. cit., 2010, pp. 91-95. Con bibliografia. 19. L. Calderari, Rinascimento in Santa Maria del Sasso… Op. cit., 2009. 20. Per informazioni generali sulla storia di Vico Morcote e sulla chiesa parrocchiale dei Santi Fedele e Simone: E. Agustoni, La chiesa parrocchiale dei Santi Fedele e Simone a Vico Morcote, Berna 2001; K. Bigger, in Guida d’arte della Svizzera italiana, Bellinzona 2007, pp. 346, 349-350. Sull’ancona lapidea e sull’attribuzione a Tommaso Rodari valgono ancora le sintetiche ma acute indicazioni di J. R. Rahn, Beiträge zur Geschichte… Op. cit., 1880, pp. 399-401; A. G. Meyer, Oberitalienische Frührenaissance… Op. cit., 1900, pp. 256-257; L. Brentani, Arte retrospettiva: nuove opere di Giacomo e Tommaso Rodari, in "Emporium", XLIII, 253 (1916), pp. 31-38; G. Casella La Svizzera Italiana nell’arte e nella natura. Carona, Morcote e VicoMorcote. Medioevo e Rinascimento, Lugano 1912, pp. 37-40. Più recentemente: A. Rovetta, L’architettura in Valtellina dall’età sforzesca al pieno Cinquecento, in S. Coppa (a cura di), Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il Medioevo e il primo Cinquecento, Sondrio 2000, pp. 103-118; L. Calderari, Rinascimento in Santa Maria del Sasso… Op. cit., 2009, pp. 47-56. Da ultimo L. Damiani Cabrini, 25. Vico Morcote Santi Fedele e Simone, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi Da Bramantino a Bernardino Luini, Itinerari... Op. cit., 2010, pp. 177-179. 21. Tale ipotesi è suffragata da una menzione desunta dagli atti della visita pastorale di Filippo Archinti del 1597, che parla di una “Icona marmorea cum pluribus imaginibus” collocata sopra l’altare principale della chiesa. 22. A. Battaglia, Una scultura di Tommaso Rodari: la Vergine con il Bambino della Chiesa di Santa Maria a Gravedona, in Arte e Storia di Lombardia. Scritti in memoria di Graziano Sironi, Roma 2006, pp. 195-202. 23. L. Calderari, Tommaso Rodari, San Giovanni Battista, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi… Op. cit., 2010, pp. 100-103. 24. V. Zani, Tommaso Rodari, 138. Madonna con il Bambino, in Museo Diocesano, Milano 2011, pp. 133-136. 25. Per queste notizie, G. Martinola, Inventario d’arte… Op. cit., 1975, p. 261. 26. L. Brentani, Arte retrospettiva… Op. cit., 1916, pp. 31-38. Mi sembra per contro completamente fuori luogo invece il confronto che si è voluto vedere tra lo stile del rilievo di Mendrisio e il Mausoleo monumentale dei Cardinali d'Amboise, conservato nella Cattedrale di Rouen, opera documentata tra 1515-25 di Roulland Le Roux e Pierre des Aubeaux: E. Chirol, Aux sources italiennes de la Reanaissance Rouennaise: le relief de Mendrisio et le tombeau des cardinaux d’Amboise, in «Revue Societés Savantes de H.te Normandie, 18 (1960), ripresa da G. Martinola, Inventario d’arte… Op. cit., 1975, p. 280, n. 25 bis. 27. Ibidem, 1975, p. 56. 28. L. Calderari, Tommaso Rodari. San Giovanni Battista, in Il Rinascimento nelle terre ticinesi... Op. cit., 2010, pp. 100-103. 29. Eadem, in Guida d’Arte della Svizzera Italiana …, Op, cit., p. 476.
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Crediti Fotografici Agence Photographique de la RĂŠunion des musĂŠes nationaux, Paris, France: p.15, fig.10 Aleph foto, Como: p.22 Museo d'arte, Mendrisio: p.29, fig.3 Ufficio beni culturali di Bellinzona: p.13 fig.7; p.25, fig.1; p.27, fig.2; p.31, fig.4; p.33, fig.5 Vito Zani: p.11, figg.1-3; p.12, figg.5,6; p.14, figg. 8,9
L'editore è a disposizione degli eventuali detentori di diritti che non sia stato possibile rintracciare.
In copertina: Tommaso Rodari, Busto virile paludato, marmo di Musso, Lugano, Galleria Canesso