Galerie Canesso - Alessandro Magnasco IT

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Alessandro

Magnasco (1667-1749)

gli anni della maturitĂ di un pittore anticonformista

Galerie Canesso PA R I S



Alessandro

Magnasco (1667-1749)

gli anni della maturitĂ di un pittore anticonformista


Questo catalogo è stato pubblicato in occasione della mostra Alessandro Magnasco (1667-1749). Gli anni della maturità di un pittore anticonformista Galerie Canesso, Parigi 25 novembre 2015 – 31 gennaio 2016 Musei di Strada Nuova, Genova 25 febbraio – 5 giugno 2016.

Comitato scientifico e organizzativo Piero Boccardo, Musei di Strada Nuova Maurizio Canesso, Galerie Canesso Véronique Damian, Galerie Canesso Fausta Franchini Guelfi, Università degli Studi di Genova

Coordinazione editoriale: Véronique Damian con l’assistenza di Corentin Dury Traduzione: Alia Regli Concezione grafica: François Junot Fotolito e stampa: PPA Mahé, Montreuil, novembre 2015

© Galerie Canesso, 2015 ISBN 978-2-9529848-8-1

Ambasciata  d’ Italia Parigi


Alessandro

Magnasco (1667-1749)

gli anni della maturitĂ di un pittore anticonformista

A cura di Fausta Franchini Guelfi

Galerie Canesso PAR I S



ringraziamenti La Galerie Canesso e i Musei di Strada Nuova desiderano ringraziare tutte le persone e le istituzioni che, grazie ai loro generosi prestiti, hanno permesso la realizzazione di questa mostra: – Giuliana Ericani, direttrice, Museo Biblioteca Archivio, Bassano del Grappa – Cesare Castelbarco Albani, presidente, Banca Carige, Genova – Maria Flora Giubilei, direttrice, Musei di Nervi, Genova – Paolo Biscottini, direttore, Museo Diocesano, Milano – Paul Salmona, direttore, Musée d’art et d’histoire du Judaïsme, Parigi – Dario Matteoni, direttore, Museo nazionale di Palazzo Reale, Pisa – Francesca Lapiccirella Brass, Venezia e i collezionisti privati che hanno scelto di rimanere anonimi. La mostra è stata patrocinata dall’Ambasciata d’Italia a Parigi, alla quale gli organizzatori desiderano esprimere tutta la loro gratitudine. I nostri ringraziamenti vanno anche agli autori dei saggi e del catalogo, in particolare a Fausta Franchini Guelfi e Maria Silvia Proni per il loro prezioso contributo. Vorremmo citare e ringraziare i nostri collaboratori alla Galerie Canesso: in primo luogo Olimpia Valdivieso, senza dimenticare Julian Morin e Riccardo Rinaldi. Desideriamo inoltre esprimere i nostri sentiti ringraziamenti, a nome della Galerie Canesso, dei Musei di Strada Nuova e del comitato scientifico, a tutti coloro che ci hanno aiutati per la preparazione della mostra e la redazione del catalogo: Angela Acordon, Genova, Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici della Liguria; Sébastien Allard, Parigi, Musée du Louvre; Paolo Arduino, Genova, Centro civico di documentazione per la storia, l’arte e l’immagine; Raffaella Besta, Genova, Musei di Strada Nuova; Damien Brill, Parigi, INHA; Stéphanie Brivois, Parigi, Musée du Louvre; Emanuela Carpani, Venezia, Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per Venezia e Laguna; padre Vittorio Casalino, Genova, Ordo fratrum minorum capuccinorum; Stefano Casciu, Polo museale regionale della Toscana; Marie Cathala, Bordeaux, Musée des BeauxArts; Kateryna Chuyeva, Kiev, Museo nazionale d’arte “Bogdan e Varvara Khanenko”; Emanuela Daffra, Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Milano, Bergamo, Como, Lecco, Lodi, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese; Giovanni Delama, Trento, Biblioteca comunale; Dafne Ferrero, Genova, Biblioteca provinciale dei Cappuccini; Maura Fioravanti, Genova, Banca Carige; Giancarla Ischio, Milano, Museo Diocesano; Guillaume Kazerouni, Rennes, Musée des Beaux-Arts; Olga Kurovets, Kiev, Museo Nazionale d’Arte “Bogdan e Varvara Khanenko”; Fabrizio Lemme; Stéphane Loire, Parigi, Musée du Louvre; Fabrizio Magani, Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza; Alfredo Majo, Genova, Banca Carige; Jean-Luc Martinez, Parigi, Musée du Louvre; Stefania Mason, Venezia, Università degli Studi di Udine e Venezia; Philippe Esteves Mendes, Parigi, Galerie Mendes; Federica Milozzi, Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio; Andrea Muzzi, Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Pisa e Livorno; Roberto e Guglielmina Nam; Caterina Olcese, Genova, Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici della Liguria; Simonetta Ottani, Genova, Biblioteca provinciale dei Cappuccini; Claudio Paolocci, Genova, Fondazione Franzoni; Loredana Pessa, Genova, Museo Luxoro; Paola Pioli, Genova, Alliance française Galliera; Salvador Salor-Pons, Detroit, Institute of Art; Stefano Pitto, Genova, Banca Carige; Luciano Maria Provenzano, Roma, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo; Antonella Ranaldi, Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Milano, Bergamo, Como, Lecco, Lodi, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese; Luca Rinaldi, Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici della Liguria; Pietro Maria Rosi, Genova, Banca Carige; Marie-Josée Spinosa, Paris, Musée d’art et d’histoire du Judaïsme; Oliver Tostmann, Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art; Evelyn D. Trebilcock, Hudson, The Olana Partnership; Silvana Vernazza, Genova, Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici della Liguria; Eric Wheeler, Detroit, Institute of Art; Olena Zhyvkova, Kiev, Museo nazionale d’arte “Bogdan e Varvara Khanenko”.


Nelle mie peregrinazioni alla ricerca di opere d’arte si rivelò fondamentale per il mio futuro di gallerista l’incontro con La Lanterna magica di Alessandro Magnasco. Presi al volo quel dipinto straordinario, colpito dalla qualità pittorica di quelle figurette, eseguite con grande maestria, leggere ed instabili come solo Francesco Guardi sapeva fare a quel tempo. Tutto quel tumulto di figure e tutto il mondo che rappresentava mi fu svelato da Dante Isella (1922-2007), che da fine ed attento collezionista e colto storico, mise a mia disposizione il suo sapere, introducendomi nella Milano del primo Settecento. Mi raccontò il teatro di Carlo Maria Maggi (1630-1699), mi rivelò tutta la potenza creatrice ed innovativa di Magnasco mostrandomi come riusciva con la sua pittura a dare una visione critica della società del tempo, mai indifferente al dramma umano. Profondamente colpito dalla qualità pittorica e dal messaggio trasmesso, non mi lasciai scappare, quando Magnasco si presentò nuovamente sulla mia strada, il Funerale ebraico (scheda n. 10) che seppi riunire in coppia con lo splendido Omaggio a Plutone (scheda n. 9). Ancora una volta fui sorpreso dal dipinto La dissipazione e l’ignoranza distruggono le arti e le scienze (scheda n. 22), che non esitai a far mio, dove forte era la denuncia della decadenza della nobiltà, della borghesia e degli ordini religiosi, tanto che un asino dissenziente scalciava contro il cavalletto di un pittore malmenando le arti. Ho fatto nel tempo molte altre acquisizioni di questo estroso pittore e pensando di metterlo in mostra in Francia dove ancora è poco noto, ho deciso di rivolgermi a Piero Boccardo, direttore dei Musei di Strada Nuova e Fausta Franchini Guelfi, specialista riconosciuta dell’artista, per avere il loro aiuto. Ringrazio vivamente entrambi per aver aderito al progetto con grande entusiasmo e fattivo impegno.

maurizio canesso – Presidente, Galerie Canesso


Poiché fino a oggi risulta indubbiamente inconsueta la collaborazione tra un’istituzione museale pubblica e una galleria antiquaria, quando Maurizio Canesso ha lanciato l’idea di organizzare insieme una mostra monografica dedicata ad Alessandro Magnasco, prima di rispondere e di sottoporre il progetto alla Direzione Cultura del Comune di Genova ho preso tempo per riflettere sugli aspetti per così dire di “etica museale” della proposta, tanto più che in altre nazioni esistono precisi divieti riguardo al prestito di opere di proprietà pubblica a istituti privati. Tuttavia, da un lato avendo ben presente la qualità delle opere passate attraverso la Galerie Canesso – per esempio dal 2004 ai Musei di Strada Nuova è presente, con questa provenienza e per la generosità della Compagnia di San Paolo, l’Autoritratto di Luca Cambiaso, mentre in tempi successivi l’University Art Museum di Princeton vi ha acquistato un importante bozzetto del Baciccio e il Musée du Louvre Venere e Adone, sempre di Cambiaso, e il Funerale ebraico (scheda n. 10) proprio di Magnasco – e dall’altro considerando la serietà di un’iniziativa in cui la selezione delle opere sarebbe stata condivisa con Fausta Franchini Guelfi, la massima autorità scientifica, a livello mondiale, riguardo all’anticonformista pittore genovese del Settecento, mi è sembrata un’ottima opportunità quella di poter esporre una qualificatissima antologia di sue opere. L’iniziativa si è dunque voluta configurare come un virtuoso impegno congiunto tra pubblico e privato, volto a ribadire la trasparenza e il reciproco vantaggio delle relazioni tra i musei, un serio e professionale mercato artistico e i collezionisti, e nel contempo attento alla qualità e alla ricerca. Anticonvenzionale l’artista, e innovativa dunque anche la scelta di organizzare un’esposizione d’arte insieme a una galleria privata, ma dal punto di vista dell’anticonformismo una mostra Magnasco ha dei propizi precedenti: fu proprio con una rassegna a lui dedicata che nel 1949 venne riaperto Palazzo Bianco risarcito dei danni bellici e rinnovato nell’allestimento in termini allora del tutto inediti e quasi sconcertanti ma poi apprezzati e celebrati a livello mondiale. Questa iniziativa viene per altro a cadere proprio alla conclusione dei nuovi lavori che, nel rispetto dell’esistente, hanno adeguato e potenziato le prerogative espositive dell’edificio nell’ambito della complessiva valorizzazione dei Musei di Strada Nuova. Per arrivare a presentare questa bella rassegna, oltre all’assistenza, nell’ambito dei Musei di Strada Nuova, di Raffaella Besta e Loredana Pessa, è stata fondamentale a Parigi l’efficace e sempre pronta collaborazione di Véronique Damian e l’attività di segretariato di Corentin Dury, che ringrazio entrambi per la diuturna e totale dedizione al raggiungimento di un buon risultato.

piero boccardo – Direttore, Musei di Strada Nuova


Alessandro Magnasco è stato l’ultimo grande protagonista della plurisecolare stagione pittorica genovese. Ultimo ma del tutto autonomo e libero nei confronti della tradizione locale. Uno spirito per molti aspetti anticonvenzionale che ben figura nel “secolo dei lumi” per quanto, se non altro per ragioni cronologiche, egli può al più apparire un precorritore dell’Illuminismo. Non è però certo solo un caso che tanti musei francesi conservino sue opere – in alcuni casi veri capolavori – e che sia una seria e affermata galleria d’arte parigina, la Galerie Canesso, ad aver proposto di organizzare, in partenariato con i Musei di Strada Nuova di Genova, una mostra monografica dedicata a Magnasco. Per altro il nome di Magnasco rappresenta per Genova qualcosa di più di uno straordinario pittore, perché fu proprio con una grande esposizione a lui dedicata che la città dimostrò nel 1949 l’inizio del riscatto dalle distruzioni belliche e consacrò l’artista alla fama internazionale. Alla riconoscenza di Genova nei confronti di quanti, nell’ambito della Galerie Canesso, dei Musei di Strada Nuova, del Settore Musei e Biblioteche del Comune, delle Soprintendenze coinvolte e del Ministero, e degli studiosi, dei musei e dei collezionisti che si sono adoperati o hanno dato la loro disponibilità per la riuscita dell’iniziativa, va aggiunto un grazie sentito e particolare a Maurizio Canesso che non solo ha patrocinato per intero questo evento ma, coinvolgendo i Musei di Strada Nuova, ha anche fatto sì che la mostra dopo Parigi passi a Genova proprio nello stesso Palazzo Bianco ove si tenne quella del 1949. Allora l’edificio si presentava da poco risarcito dai danni di guerra, oggi appena dotato di nuovi servizi e collegamenti necessari al buon funzionamento di una struttura museale moderna, e arricchito e valorizzato nei suoi spazi. E quindi ancora una volta Magnasco annuncia novità e tempi migliori.

marco doria – Sindaco di Genova carla sibilla – Assessore alla cultura


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Ritratto di Alessandro Magnasco, in C.G. Ratti, Vite de’ pittori, scultori ed architetti genovesi, Genova, 1769.


Sommario

Alessandro Magnasco (1667-1749), La vita e le scelte dell’artista fra Genova e Milano

fausta franchini guelfi

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Magnasco in Francia, la riscoperta e il mercato dell’arte

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vronique damian

Catalogo

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Alessandro Magnasco

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Bibliografia


Alessandro Magnasco (1667-1749). La vita e le scelte dell’artista fra Genova e Milano fausta franchini guelfi

La vita del Magnasco è scarsamente documentata, benché recenti scoperte archivistiche abbiano portato nuovi contributi alla definizione della sua biografia. A lungo la sola fonte è stata la sua Vita compresa nelle Vite de’ pittori, scultori ed architetti genovesi (Genova 1769) di Carlo Giuseppe Ratti (1737-1795). Di alcuni fatti importanti citati dal Ratti, come l’alunnato presso l’Abbiati, abbiamo la prova nelle opere stesse del pittore, ma nessun riscontro documentario. Tutta la documentazione finora rintracciata è illustrata nell’accuratissimo Regesto1 e nell’Appendice documentaria2 pubblicati nel catalogo della grande mo­ stra Alessandro Magnasco 1667-1749 realizzata a Milano nel 1996; a questo testo si farà d’ora in poi riferimento. Figlio del pittore Stefano Magnasco (1635 circa 1672/1674), che era stato allievo di Valerio Castello (16241659), Alessandro nacque a Genova il 4 febbraio 1667. Si trasferì a Milano forse intorno al 1677 (il padre era morto nel 1672-1674 circa) ed entrò come allievo nella bottega di Filippo Abbiati (1640-1715), uno dei pittori milanesi più noti, che esperimentava soluzioni nuove e aggiornate dei problemi della luce e della scrittura pittorica. Le forti suggestioni dell’opera del maestro e della pittura lombarda sono attestate da tele come il Cristo portacroce di collezione privata (direttamente ripreso dal Portacroce dell’Abbiati al Museo Civico di Pavia), l’Estasi di San Francesco di Palazzo Bianco a Genova, l’Ecce Homo (fig. 1) e la Maddalena penitente di collezione privata, opere caratterizzate da un discorso severamente penitenziale nel colore livido e nei drammatici contrasti luce/ombra. Accanto a questi dipinti, che si possono datare attorno al 1690, si può collocare anche la produzione ritrattistica dell’artista, attestata dal

Ratti e finora riconosciuta in un piccolo gruppo di ritratti di grande qualità, improntati tutti ad una severa analisi della realtà, nel solco della tradizione anticelebrativa della ritrattistica lombarda: il Gentiluomo di Palazzo Bianco, il Bartolomeo Micone della Pinacoteca di Brera, lo Scrittore di collezione privata (fig. 2), le due Dame pendants del Museo Civico di Como e di collezione privata e la Dama della collezione Terruzzi3. È a Milano che il pittore viene conosciuto come Alessandrino o Lissandrino, diminutivo che si legge negli inventari delle quadrerie. Le prime opere datate, la Riunione di quaccheri (1695, fig. 4) e la Processione di cappuccini (1697), ambedue di collezione privata, attestano come in questi anni l’artista si sia già attivamente inserito nell’ambiente della “pittura minore”, con quel ruolo di specialista di piccole figure che continuerà a ricoprire in tutto il corso della sua lunga attività, in stretta collaborazione con paesaggisti come Antonio Francesco Peruzzini (1643/46-1724) e con pittori di rovine architettoniche come Clemente Spera (1662 circa - 1742). Nel 1698 e nel 1699 eseguì quattro grandi Rovine classiche con figure, non ancora rintracciate, per l’aristocratico milanese Giovan Francesco Arese, in collaborazione con lo Spera. Restano per ora oscuri i tempi e i modi di questa svolta decisiva, che il Magnasco compì probabilmente agli inizi dell’ultimo decennio del secolo, ma chiari appaiono i caratteri fondamentali del suo nuovo orientamento, confermato dal successo delle sue opere a Firenze, dove è documentato nel 1703 assieme al Peruzzini e dove lavorò con lui per il Gran Principe Ferdinando de’ Medici erede del granducato (1663-1713) e per altri committenti. Per Ferdinando realizzò, oltre ai due dipinti oggi alla Galleria degli Uffizi (fig. 4a), citati nell’inventario della

. Milano 1996, pp. 353-371. . Milano 1996, pp. 372-382.



3. Franchini Guelfi 1999, pp. 78-82.


collezione personale del Gran Principe, quella Scena di caccia oggi al Wadsworth Atheneum di Hartford (U.S.A., fig. 3), dove il suo illustre committente è ritratto assieme alla moglie, la Principessa Violante di Baviera, al pittore Sebastiano Ricci (1659-1734), prediletto di Ferdinando e amico del Magnasco, e al Magnasco stesso. Nel 1704 è documentata una sua collaborazione col paesaggista francese Jean Baptiste Feret (1664 circa - 1739) in due dipinti per un committente di Livorno; nel 1705 eseguì le figure dei trappisti nella Tebaide di collezione privata con i paesaggisti Nicola Van Houbraken (1668-1720) e Marco Ricci (1676-1730), nipote di Sebastiano, anch’egli a Firenze in quegli anni. Durante il soggiorno fiorentino, che si concluse con il suo ritorno a Milano nel 1709, il pittore mantenne co­stanti rapporti con Genova, dove vivevano sua madre e i suoi fratelli, come attestano una lettera scritta nel 1703 dal paesaggista genovese Carlo Antonio Tavella (1668-1738) al collezionista e mercante bergamasco Francesco Brontino, che aveva chiesto al Magnasco una Processione di cappuccini, e la procura notarile affidata nel 1723 dall’artista al genovese Lorenzo Giustiniani affinché riscuotesse a Genova per suo conto un lascito testamentario. Molto probabilmente dopo il ritorno a Milano l’artista si recò a Venezia, in stretto contatto con l’amico Sebastiano Ricci. Si era frattanto sposato a Genova (1708 circa) con la giovane vedova Maria Rosa Caterina Borea, dalla quale nacque nel 1709 Livia Caterina, la sola figlia sopravvissuta dopo la morte dei piccoli Francesca (17101712) e Stefano (1712-1713). A Milano l’artista, che risulta affiliato all’Accademia di San Luca, lavorò per prestigiosi committenti, come i Borromeo, gli Archinto, i Casnedi, i Visconti, i Durini, spesso in collaborazione col Peruzzini e con lo Spera, realizzando numerosissime scene di vita monastica, soggetti picareschi di zingari e vagabondi, raffigurazioni mitologiche e figure di lavandaie e viandanti in paesaggi, oltre ad alcune Riunioni di quaccheri e Sinagoghe. Per il conte Gerolamo di Colloredo (1674-1726), governatore austriaco di Milano dal 1719 al 1725, il pittore eseguì le quattro grandi tele oggi presso la Pinacoteca dell’Abbazia di Seitenstetten (Austria), alla quale il conte le lasciò in eredità: la Biblioteca e il Refettorio dei cappuccini (fig. 16a), la Sinagoga e il Catechismo nel duomo di Milano (fig. 7b). L’ultima opera databile con certezza è Il furto sacrilego del Museo Diocesano di Milano (scheda n. 8), eseguito poco dopo il tentativo di furto nella chiesa di Santa Maria di Siziano (Pavia) nel gennaio 1731. Probabilmente nel 1733, poco dopo la morte della moglie (1732), sua figlia Livia Caterina si sposò a Genova con Giacomo Miconi e il Magnasco tornò a vivere nella città natale. Nel 1743, ammalato, nominò la figlia sua procuratrice ed erede trasmettendole piena potestà sul suo denaro investito nel Banco di San Giorgio. I suoi problemi di salute vennero però superati; egli morì infatti a Genova a ottantadue anni il 12 marzo 1749 e venne sepolto nella chiesa di San Donato, presso la quale abitava. Come scrive il Ratti, aveva continuato a dipingere fino agli ultimi giorni di vita.

Fig. 1 – Alessandro Magnasco, Ecce Homo, Collezione privata. Fig. 2 – Alessandro Magnasco, Ritratto di scrittore, Collezione privata.




Fig. 3 – Alessandro Magnasco e ignoto paesaggista, Scena

Un pittore del dissenso nella crisi della coscienza europea

di caccia, Hartford (U.S.A.), Wadsworth Atheneum Museum of Art.

Per primo il grande storico francese Paul Hazard (18781944), nel suo libro La crise de la conscience européenne 1680-1715 (Paris 1935), esplorò le correnti culturali, i dibattiti, le trasformazioni del pensiero, la nascita di nuove idee fra la fine del Seicento e il primo Settecento, periodo fino ad allora trascurato dagli storici della cultura. È in questi anni di intensissima attività intellettuale che si pongono le premesse della cultura illuministica: dall’emergere del primato della ragione alla critica delle credenze tradizionali, da una nuova visione dei problemi religiosi e della morale sociale all’interesse per il progresso della scienza. Sono movimenti che coinvolgono un’élite intellettuale europea, con la diffusione di libri, manoscritti e pamphlets clandestini: fra le resistenze della cultura conservatrice e l’opposizione delle istituzioni – prima fra tutte la Chiesa – il pensiero esperimenta nuove strade e nuove esperienze. È in questi anni inquieti e intensissimi che vive il Magnasco. I suoi dipinti rappresentano in Italia la sola espressione figurativa del fitto intreccio di idee e orientamenti di pensiero

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intorno ad alcune delle nuove problematiche. Bisogna dun­que supporre nell’artista una profonda consapevolezza e un acuto interesse per tematiche finora mai rappresentate nella pittura italiana e un vitale rapporto con una cultura che, in quel momento storico, metteva in crisi molte certezze per avventurarsi su un nuovo terreno di indagine e di discussione. Nella fascinazione delle tenebre, nella dissoluzione delle forme e nel severo discorso morale di gran parte della sua opera si evidenzia il suo dissenso rispetto alla cultura figurativa contemporanea; le sue opere si rivolgono ad una committenza che apprezza immagini di severo rigore, caratterizzate da un cromatismo austero e da un violento, drammatico emergere delle figure dall’oscurità. Già a partire dagli ultimi anni del Seicento l’artista rappresenta quasi al completo il vasto repertorio iconografico che, per tutto il lungo corso della sua attività, continuerà a ripetere e ad arricchire di nuove variazioni, con soggetti che presuppongono una committenza vivamente interessata ai dibattiti in corso sulle problematiche religiose, come le Sinagoghe e le Riunioni di quaccheri. Con precisi riferimenti alla realtà: nella seconda metà del Seicento, infatti, un gruppo di quaccheri inglesi era presente a Milano e nel


1657 sei missionari quaccheri erano giunti a Livorno, città che ospitava una forte comunità ebraica, alla quale i quaccheri si rivolsero con una folta pubblicistica e con interventi diretti come la predicazione nella sinagoga cittadina4. Non è dunque un caso che il Magnasco abbia dipinto negli anni del suo soggiorno fiorentino la Sinagoga e la Riunione di quaccheri pendants oggi agli Uffizi. L’interesse suscitato da questa nuova setta nata in Inghilterra, che presentava stupefacenti singolarità, come la predicazione permessa alle donne, è certamente all’origine delle Riunioni di quaccheri del Magnasco, la prima delle quali, datata 1695 (fig. 4), fu sicuramente eseguita a Milano, dove i quaccheri inglesi nel 1672 avevano fatto un clamoroso intervento nel duomo. La fonte iconografica dell’artista è costituita da una ripresa diretta della realtà: le stampe di Jacob Gole (1660-1737) tratte dai dipinti dell’olandese Egbert Van Heemskerk (1634-1704), che nel suo soggiorno londinese aveva ritratto dal vero le assemblee dei quaccheri (fig. 5)5. Nello studio delle tematiche iconografiche della pittura magnaschesca è infatti necessario cercare sempre un ri­ scontro nella realtà del suo tempo, ma su due diversi piani interpretativi: i fatti storici, attestati dai documenti e dalle cronache contemporanee; e le fonti figurative e letterarie, che di quei fatti forniscono una visione finalizzata alle trasformazioni del pensiero e della coscienza, nello stretto rapporto con una committenza interessata a quelle particolari problematiche. Una Histoire abregée du Kuakerisme (Colonia 1694) era presente nella biblioteca del barone Giorgio Guglielmo di Hohendorf, gran raccoglitore da tutta Europa di libri e manoscritti per sé e per il principe Eugenio di Savoia (1663-1736), governatore austriaco di Milano negli anni 1706-1716 e amico dei Borromeo committenti del Magnasco. E testi sulla religione ebraica erano presenti sia fra i libri dello Hohendorf, sia nella biblioteca del dotto milanese Michele Maggi, anch’egli molto vicino al principe Eugenio e in seguito al conte Gerolamo di Colloredo, anch’egli governatore di Milano dal 1719 al 1725 e committente del Magnasco. Non è possibile ripetere qui l’analisi dell’ambiente culturale cittadino negli anni in cui l’artista visse e lavorò a Milano e dei suoi rapporti con la committenza6. È però necessario evidenziare come i nomi finora noti dei suoi committenti (dai Borromeo agli Arese, dai Casnedi agli Archinto, dai Visconti ai Durini) facessero tutti parte di quell’aristocrazia assai vicina ai nuovi governanti austriaci, che si caratterizzava – in contrasto con il passato governo conservatore e retrivo della Spagna – per indirizzi chiaramente laici e giurisdizionalisti, in un’ottica che si può definire “illuminata” se con questo termine vogliamo intendere, con Paul Hazard, ciò che precede e che prepara il movimento illuministico lombardo degli inizi della seconda metà del Settecento.

. Villani 1996; Vismara Chiappa 1996; Villani 1997. . Franchini Guelfi 1977, pp. 36-39. . Analisi già approfondita in Franchini Guelfi 1977, Milano 1996 e Franchini Guelfi 2014.

Giunto a Milano giovanissimo, il Magnasco passò la maggior parte della sua vita in questa città ricca di fermenti culturali, in rapida trasformazione politica ed economica. In stretto rapporto con le figure dei committenti dell’artista, la personalità di alcuni intellettuali è la chiave per capire il senso del suo intervento in questo stesso contesto culturale, del quale egli assorbe gli stimoli: intervento che egli compie col suo mestiere di pittore, la produzione di immagini. Le opere teatrali del poeta milanese Carlo Maria Maggi (1630-1699) e le riflessioni sull’educazione religiosa e sugli ordini conventuali di Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), che soggiornò a Milano dal 1695 al 1700, sono l’espressione di un nuovo pensiero volto ad una visione razionale e “illuminata” della realtà. Ambedue protetti dagli Arese, dai Borromeo e dai Visconti, il Maggi e il Muratori condivisero un nuovo modo di sentire di cui certamente



Fig. 4 – Alessandro Magnasco, Riunione di quaccheri, Collezione privata. Fig. 5 – Egbert Van Heemskerk, Riunione di quaccheri, Londra, The Royal Collection.





il Magnasco fu partecipe7. Un’opera rivelatrice è in questo senso la Satira del nobile in miseria dell’Institute of Arts di Detroit (fig. 6): in un interno povero e nudo, un allampanato gentiluomo dalla veste rattoppata siede su rozze panche, appoggiato a sacconi di paglia. Ma egli esibisce un elmo antico, stringe fieramente l’elsa della lunga spada e srotola con sussiego una pergamena con l’albero genealogico. Alle sue spalle una figura lo indica alla derisione mostrandogli la lingua e facendogli le corna con la mano sinistra. Il disprezzo per una nobiltà impoverita, ma ancora piena di prosopopea per l’antichità del proprio blasone e per le glorie degli antenati, è uno dei motivi conduttori del teatro satirico in vernacolo milanese del Maggi, dal Manco male (1695) al Barone di Birbanza (1696). Nel dipinto del Magnasco la ridicolizzazione di questo personaggio è tanto vicina alla rappresentazione del don Filotimo nel Manco male del Maggi, da far pensare che il pittore, su richiesta di un committente particolarmente interessato a questa tematica, abbia raffigurato, diversi anni dopo, proprio un momento di questa rappresentazione teatrale8. Sappiamo quanto il pittore fosse interessato al teatro contemporaneo (schede nn. 2-3 e 9-10). C’è anche, negli scritti del Maggi, una condanna morale del nobile ozioso e dissipatore: discorso che il Magnasco svilupperà in seguito, dopo le polemiche nate dalla denuncia dell’ “ozio vile” e dell’ “ignobil vita” di certa aristocrazia, nel trattato del marchese Scipione Maffei Della scienza chiamata cavalleresca (Roma 1710), con il dipinto La dissipazione e l’ignoranza distruggono le arti e le scienze (scheda n. 22)9. La grande diffusione del libro del Maffei (1675-1755), che attaccava gli aspetti degenerativi dell’ideologia nobiliare del tempo, portava a nuovi sviluppi la riflessione del Maggi10. La morale arguta e sentenziosa del Maggi, unita all’esercizio sottile dell’ironia, con la demolizione caricaturale di una nobiltà ormai superata dalle trasformazioni sociali ed economiche in atto, si esprime proprio sul crinale dell’ultimo Seicento spagnolo in Lombardia, nel traumatico avvio della crisi di un antiquato sistema di potere11. In questi stessi anni giunge a Milano Antonio Ludovico Muratori, chiamato da Carlo IV Borromeo (1657-1734), nipote di Vitaliano Borromeo (1620-1690) protettore del Maggi. Di Carlo, Pietro Verri (1728-1797) scriverà che fu “uno dei più illuminati patrizi di quel tempo”12. Come il Maggi, anche il Muratori sente la necessità di una riforma morale, da perseguire con la scorta di un prudente razionalismo e di un vigile senso della realtà, sia sul piano delle istituzioni che su quello del costume. Dirà più tardi nel suo trattato Dei difetti della giurisprudenza (Venezia 1742): “Ha bisogno il mondo d’essere

. Franchini Guelfi 1977, pp. 189-190. . Franchini Guelfi 1977, pp. 174-176, 189. . La citazione è tratta dalla terza edizione del trattato, Venezia 1716,

di tanto in tanto riformato e pulito”13. Anche dopo essere partito da Milano nel 1700, il Muratori resterà sempre in stretto contatto con l’élite culturale milanese: fu il conte Gerolamo di Colloredo, governatore austriaco di Milano e committente del Magnasco, a patrocinare la pubblicazione di alcune delle sue opere più importanti. Le riflessioni del Muratori sui problemi dell’educazione religiosa, della devozione popolare e della situazione di rilassatezza e corruzione degli ordini claustrali sono espresse in opere fondamentali per la storia del pensiero settecentesco: in De ingeniorum moderatione in religionis negotio (1714), De superstitione vitanda (1740) e Della regolata divozion de’ cristiani (1747) egli esponeva critiche e proposte basate tutte sull’osservazione della realtà. Una religiosità inquinata dalla superstizione, un ammasso ingovernabile di devozioni che sconfinavano con la magia dovevano essere corretti da regole di lucida razionalità. Ben prima della loro pubblicazione, queste idee erano state espresse dal Muratori negli anni del suo soggiorno milanese, a contatto con un ambiente intellettuale ben consapevole di questi problemi. È in questo contesto che si collocano il Catechismo del Magnasco (scheda n. 7) e le sue numerose scene di “missione” rurale (scheda n. 6). Il Muratori avrebbe voluto scrivere anche un libro sulla riforma degli ordini monastici; il suo progetto rimase allo stato di abbozzo, ma gli appunti che egli preparò sono estremamente significativi. Egli individuava nell’allontanamento dalla povertà delle origini la ragione principale della vita corrotta della maggior parte dei conventi e proponeva dunque un ritorno rigoroso alla Regola. Ma prevedeva anche soluzioni drastiche: “Ove si possa riformarli, farlo; se no, abolirli”14. È proprio fra la seconda metà del Seicento e la prima metà del Settecento, infatti, che infuria la polemica sugli ordini regolari. Dall’Europa protestante giungevano spietate invettive antimonastiche come le rappresentazioni di frati beoni e lussuriosi di Cornelis Dusart (1660-1704) e di Jacob Gole, incisore olandese coetaneo di Magnasco che in una serie di cinquanta stampe raffigurò il Renversement de la morale chrétienne par les desordres du monachisme, e i viaggiatori stranieri descrivevano stupefatti la potenza e la diffusione della “moinerie”, per usare le parole del Montesquieu: “L’Italie est le Paradis des Moines. Il n’y a aucun ordre qui n’y soit relaché” (1728)15. Nel pensiero dei riformatori cattolici, la denuncia di questa situazione è sempre accompagnata dalla proposta di un ritorno alla stretta osservanza della povertà monastica: a fronte delle enormi ricchezze e del potere degli ordini monastici, il nuovo pensiero giurisdizionalista sente l’esigenza dell’eliminazione di autonomie e immunità feudali che ritardano e ostacolano il rafforzamento del nuovo stato assolutistico. Gli interessi dello stato laico si incontrano con quelli dell’aristocrazia “illuminata” nella denuncia degli abusi e del potere temporale del clero. Certamente il Magnasco fu partecipe di

p. 362. . Donati 1978, pp. 32-34.

. Muratori 1742; edizione consultata Milano 1958, p. 20.

. Isella 1964, pp. XXI – XXIV; Zardin 1997, p. 19.

. Vecchi 1957, pp. 242-244.

. Franchini Guelfi 1977, p. 166.

. Montesquieu 1949, p. 635.



Fig. 6 – Alessandro Magnasco, Satira del nobile in miseria, Detroit, Institute of Arts.


Fig. 7 – Alessandro Magnasco, Laboratorio di monache, Darmstadt, Hessisches Landesmuseum. Fig. 8 – Alessandro Magnasco, Cappuccini attorno al camino, Darmstadt, Hessisches Landesmuseum.

queste discussioni, come attestano le sue numerosissime “fraterie”. Non sono rappresentazioni satiriche: basta confrontarle con le stampe e i dipinti degli artisti nordici per notare la differenza. Sono, invece, la narrazione dei momenti della vita quotidiana di frati e monache poverissimi (figg. 7-8), che si scaldano attorno al camino, che si inginocchiano in penitenza davanti al superiore, che studiano in biblioteca, che compiono umili lavori manuali. Gli ambienti conventuali sono nudi e spogli; gli arredi sono rozze panche e sgabelli. In queste scene di vita conventuale, raffigurate con affettuosa partecipazione, risalta proprio quella povertà che i riformatori indicavano per un ritorno alle origini delle istituzioni monastiche16. Il pittore rappresenta monache francescane, frati cappuccini e frati trappisti, riconoscibili dall’abito bianco. La scelta di questi ordini non è casuale. In quegli anni l’ordine Cappuccino era quello che aveva conservato molto più degli altri una vita di po-

vertà e di preghiera; mentre i Trappisti errano nati pochi anni prima (1678) dalla riforma dell’abate Armand – Jean Bouthillier de Rancé (1626-1700), che aveva voluto riportare l’ordine Cistercense all’originaria purezza della Regola di San Benedetto. Nel De la sainteté et des devoirs de la vie monastique (Paris 1683, già in terza edizione nel 1684) e negli Eclaircissemens de quelques difficultez que l’on a formées sur le livre de la sainteté et des devoirs de la vie monastique (Paris 1685), il de Rancé proponeva un ideale austero e severissimo di vita cenobitica, tutta basata sulla povertà, sulla preghiera, sul lavoro e sulla penitenza. Accanto alla denuncia della rilassatezza della vita conventuale, egli illustrava un programma di vita che comprendeva anche il ritorno del lavoro manuale prescritto da San Benedetto: i monaci che non lavorano “deshonorent […] leur santé par leur inutilité & par leur paresse […] corrompent la pureté de leur ame, puisque l’oisiveté est la source de tous les desordres & de tous les maux”17. Ancor più eloquenti gli Eclaircissemens, testo nel quale l’autore risponde alle obiezioni sollevate all’apparire del suo primo libro, confermando l’assoluto rigore della vita monastica che egli ha inteso ripristinare. Le descrizioni della vita eremitica del nuovo ordine e della preghiera incessante che sconfigge anche le tentazioni diaboliche, sono rappresentate dal Magnasco in numerosissimi dipinti, che attestano l’interesse dei suoi committenti per questa nuova riforma monastica. Di questo interesse dell’artista e dei suoi committenti per una riforma rigorista degli ordini claustrali abbiamo un documento decisivo: la traduzione in lingua italiana del testo degli Eclaircissemens da parte dell’aristocratico milanese Giovan Francesco Arese (1642-1721), committente dell’artista. Tuttora conservato nell’archivio della famiglia Arese, il testo delle Dilucidazioni di alcune difficoltà che sono insorte sopra il libro della santità e degli obblighi della vita monastica è una versione assolutamente fedele del testo del de Rancé. Il lavoro dell’Arese rimase mano­ scritto; l’intransigenza e la durezza della sua condanna dei “disordini de’ chiostri”, delle “conversazioni impure, e mondane”, della “dissipazione […] dei chiostri luoghi di golosità, e di licenza”18, oltre allo straordinario rigore della riforma proposta, suggerì evidentemente di non pub­ blicare questo testo, che certo circolò e fu commentato nell’ambiente “illuminato” milanese. Sul frontispizio infatti è annotato: “Seconda edizione revista, coretta e aumentata dall’Autore”19. La traduzione dell’Arese è intensamente partecipe: le sue parole commosse sul lavoro manuale “che purifica, perché abbassa, e umilia” mentre “nel silenzio, e nel raccoglimento del cuore, le mani sono occupate in esercizj d’umiltà, e di penitenza” richiamano le intensissime tele del Magnasco con i Frati arrotini e le Monache filatrici (figg. 9-10)20. Ancor più vicino al Magnasco, che forse lo conobbe, è un grande predicatore cappuccino, il lombardo . De Rancé [1683] 1684, II, p. 321. . Arese s.d., pp. 24-27. . Franchini Guelfi 1977, pp. 210-212; Franchini Guelfi 1986, pp. 303-306.

. Franchini Guelfi 1977, pp. 192-215.

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. Arese s.d., pp. 242-252.


Fig. 9 – Alessandro Magnasco, Monache filatrici, Collezione privata. Fig. 10 – Alessandro Magnasco, Frati arrotini, Collezione privata.

Gaetano Maria da Bergamo, al secolo Marco Migliorini (1672-1753), con le sue Istruzioni morali, ascetiche, sopra la povertà de’ frati minori cappuccini di S.Francesco […] Opera, che può essere molto utile a chiunque professa il voto solenne di povertà ne’ sacri chiostri (Padova 1750), testo scritto alla fine di una vita tutta spesa a tentare di riformare l’ordine monastico. La protagonista assoluta di questo libro è la povertà, una “reale, ed attuale spropriazione di tutto […] poiché la Povertà nostra è in grado assai superiore, e più alto; siccome è più alta quella perfezione evangelica, alla quale siamo chiamati”21. Nelle “fraterie” del Magnasco vi sono molti richiami alle regole proposte dal Migliorini, ad esempio il divieto di indossare vesti nuove: l’abito del cappuccino “è da rappezzarsi allorché è logoro […] il vecchio si raggiusti, e si ricopra di sacchi, e di altre pezze”22: quasi tutti i cappuccini rappresentati dall’artista hanno l’abito visibilmente rattoppato. Nei numerosi dipinti con cappuccini in viaggio, i frati sono rappresentati sempre a piedi: “ci è proibita parimenti la cavalcatura, cioè l’uso del fare viaggio a cavallo, in carrozza, in lettica o altra simile comodità […] eccetto ne’ casi in infermità”23. Ed ecco in questo bellissimo disegno un frate giovane e vigoroso che accompagna a piedi un confratello anziano in groppa a un somarello (fig. 11). Tutte le tematiche del discorso dell’artista sono presenti nei testi del de Rancé e

del Migliorini. Anche i dipinti che rappresentano cappuccini e trappisti che studiano nella biblioteca del convento (scheda n. 15) vogliono essere una risposta alle accuse di ignoranza rivolte agli ordini monastici. Nel 1705 anche il Muratori aveva elaborato una proposta di riforma degli studi monastici volta al superamento di questa situazione di diffusa incultura degli ordini regolari. Ma ancor prima del Migliorini, nel Seicento un dotto cappuccino genovese aveva anch’egli scritto, nella Descrittione della vita del vero Capuccino, manoscritto inedito già nel convento cappuccino genovese della Santissima Concezione, che nella vita conventuale deve soprattutto “risplendere la povertà”24. Nel capitolo sull’edificio del monastero egli prescrive ambienti poverissimi e spogli: “la nudità di quelle povere pareti” è quella delle “fraterie” del Magnasco25. Le “fraterie” del Magnasco rappresentano dunque un intervento concreto in favore di una riforma degli ordini, in sintonìa con una committenza vivamente partecipe a questa discussione. Lo attestano La biblioteca e Il refettorio di cappuccini (fig. 16a) dipinti fra il 1719 e il 1725 dall’artista per il conte Gerolamo di Colloredo, protettore del Muratori e amico di Michele Maggi, figlio di Carlo Maria, precettore dei suoi figli. Nella biblioteca del Maggi si trovavano diversi testi sui quaccheri e sui riti ebraici; ricordiamo che proprio nel 1714, sotto il governo austriaco, gli ebrei, a suo tempo scacciati dal governo spagnolo, furono riammessi

. Gaetano Maria da Bergamo 1750, pp. 47-48. . Gaetano Maria da Bergamo 1750, p. 98.

. Descrittione… XVII s., p. 148.

. Gaetano Maria da Bergamo 1750, p. 101.

. Descrittione… XVII s., p. 159.




Fig. 11 – Alessandro Magnasco, Frati cappuccini in viaggio, Collezione privata.

nello Stato di Milano. La figura del Colloredo, governante “illuminato”, è già stata indagata26: la sua fervente religiosità muratoriana e la sua apertura culturale sono attestate anche dalla commissione al Magnasco di altri due grandi pendants, Il catechismo nel duomo di Milano (fig. 7b) e La sinagoga, anch’essi oggi a Seitenstetten. Vediamo dunque come l’artista si sia trovato al centro di un ambiente intellettuale ricco di stimoli, volto a proposte riformiste di chiara razionalità. Lo stesso padre Gaetano Maria da Bergamo, che scrisse anche celebri testi di devozione per i suoi cappuccini (Il cappuccino ritirato per dieci giorni in se stesso, Milano 1719 e Pensieri ed affetti sulla Passione di G.Cristo per ogni giorno dell’anno, Bergamo 1733) dichiarava di andare “sulla scorta della propria ragione”27. Certamente non sono estranee a questi testi le numerose piccole tele con Il Crocifisso adorato da un cappuccino realizzate dal Magnasco per la devozione privata di laici e di ecclesia­ stici molto vicini agli ideali religiosi dell’ordine (fig. 12). Le “fraterie” del Magnasco vanno dunque viste come esplicite dichiarazioni di adesione a posizioni culturali, che emergono non appena le opere dell’artista vengano messe in rapporto con le vicende storiche e con le correnti di pensiero contemporanee nella Milano del tempo. E la committenza che condivise col Magnasco letture e problematiche anticonformiste va probabilmente cercata, oltre che in un’aristocrazia cosmopolita aggiornata sulle correnti culturali, anche in un’operosa borghesia mercantile e finanziaria in ascesa, attivamente impegnata in collegamenti internazionali che avevano da tempo superato il rapporto esclusivo e limitante con la Spagna per aprirsi alla Francia e al nord Europa: una committenza che poteva certamente apprezzare la Satira del nobile in miseria (fig. 6).

Il “pittor pitocco” Il discorso del Magnasco appare dunque tutto calato nella realtà del suo tempo; ma l’artista seppe svolgerlo anche a livelli diversi di impegno, nella straordinaria varietà delle tematiche e delle fonti figurative e letterarie. Sono infatti numerosissime le sue scene mitologiche, quasi sempre ambientate fra le teatrali architetture in rovina di Clemente Spera (schede nn. 2-3), come anche le figure di viandanti, lavandaie e pescatori collocate nei paesaggi di Antonio Francesco Peruzzini e di altri collaboratori. La maggior parte dei suoi numerosi disegni, quasi tutti a matita rossa con lumeggiature di biacca, delineano con straordinaria immediatezza figure di frati, viandanti, boscaioli, pescatori, lavandaie, eremiti: un vero e proprio dizionario di piccole figure prive di contesto ambientale, destinate ad essere inserite nei paesaggi e fra le rovine architettoniche dei suoi collaboratori (fig. 13)28. Documento del successo di queste tipologie è la decorazione ad affresco realizzata non dal Magnasco, ma da un suo allievo o imitatore, con lavandaie, pescatori, marinai, girovaghi fra rovine e in paesaggi, nel castello di Brignano Gera d’Adda, nell’appartamento del cardinal Eugenio Visconti (1713-1788), legato sia al principe Eugenio di Savoia suo padrino, sia al Colloredo per il matrimonio di un Visconti con la figlia del governatore. I dipinti con figure del Magnasco nei paesaggi e fra le rovine di collaboratori si potrebbero definire opere puramente decorative se non fosse che le sue figurette, disarticolate in positure di una spasmodica tensione espressiva e tratteggiate da una pennellata frantumata e guizzante, sono ben diverse dalle rassicuranti, arcadiche rappresentazioni della pittura contemporanea. Infatti è evidente il dissenso dell’artista rispetto ai luminosi e rasserenanti idilli del nuovo edonismo settecentesco. Questo dissenso

. Capra 1996, pp. 99-105. . Citato in Metodio da Nembro 1950, p. 115.

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. Franchini Guelfi 1999.


si manifesta sia nei caratteri del suo linguaggio pittorico sia nelle scelte iconografiche dell’artista, che in un autoritratto simbolico si rappresenta come un pittore intento, in un ambiente poverissimo, a ritrarre un cencioso suonatore ambulante (scheda n. 1): esplicita dichiarazione di poetica che rivela la consapevolezza della diversità della sua opera. Gran parte dei suoi dipinti è infatti dedicata ad un mondo di zingari, mendicanti, soldatacci, suonatori e cantastorie girovaghi accampati fra rovine fatiscenti o in interni tenebrosi (schede nn. 4, 5, 6 e 21): tematica apprezzata da numerosi committenti per il suo linguaggio anticonformista e per la possibilità di infinite e fantasiose variazioni iconografiche (figg. 14-15). Le fonti figurative sono costituite soprattutto dalla pittura di “genere” olandese e fiamminga del Seicento, che il Magnasco poté vedere a Milano, a Firenze e a Genova, e dallo straordinario repertorio delle stampe di Jacques Callot (1592-1635) conservate nelle collezioni medicee a Firenze, dove l’incisore aveva lavorato dal 1612 al 1621, ma presenti anche a Milano: ne aveva una raccolta Carlo Maria Maggi29. Il Magnasco fu tanto affascinato dalle incisioni del Callot da tradurre in pittura tre de Les misères et les malheurs de la guerre dell’artista lorenese (fig. 16): sono l’Ospedale del Museo di Bucarest, Il saccheggio di una chiesa del Muzeul Brukenthal di Sibiu e L’interrogatorio in carcere del Kunsthistorisches Museum di Vienna. È la rappresentazione di una guerra senza eroi di tragica brutalità, che il Callot aveva narrato nella spregiudicata negazione di ogni gloria militare, così come aveva descritto la turba infinita dei gueux e dei bohémiens che percorrevano le strade d’Europa nella prima metà del Seicento. Accanto a queste fonti figurative, il Magnasco riprese testi letterari diffusissimi fino alla metà del Settecento: i romanzi picareschi spagnoli e i testi italiani sulla vita dei pitocchi. Dal Lazarillo da Tormes (1554) a La vida del pícaro Guzmán de

Fig. 12 – Alessandro Magnasco, Crocifisso adorato da un cappuccino, Genova, Fondazione Franzoni, Galleria di Palazzo Franzoni.

Fig. 13 – Alessandro Magnasco, Due pescatori, Genova, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Palazzo Rosso.

. Bona Castellotti 1996, p. 16.

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Fig. 14 – Alessandro Magnasco, Pícaros che giocano a carte, Collezione privata. Fig. 15 – Alessandro Magnasco, Cena di pícaros, Collezione privata.

Alfarache (1599 e 1604) di Mateo Alemán alla Historia de la vida del buscón llamado don Pablo, ejemplo de vagabundos y espejo de tacaños (1626) di Francisco de Quevedo, i romanzi picareschi spagnoli si diffondono in Italia sia nella lingua originale sia in traduzioni italiane di vasta popolarità. I protagonisti sono gli stessi personaggi delle stampe del Callot e dei dipinti del Magnasco: figure di straccioni, zingari, briganti e mendicanti truffaldini che vivono sulla strada. In Francia queste tematiche vennero riprese da La vie généreuse de mercelots, gueux et boesmiens di Pechon de Ruby (1596) e da l’Inventaire général de l’histoire des larrons di F.D.C. Lyonnois (1624); in Italia Il vagabondo ovvero sferza dei bianti, e vagabondi (1621) di Raffaele Frianoro è uno testi più diffusi e ristampati fino alla metà del Settecento. Le iconografie picaresche del Magnasco non ritraggono la realtà, ma appaiono come una coltissima rielaborazione di questo filone letterario ripreso anche da Giulio Cesare Croce, l’autore del Bertoldo: ne L’arte della forfanteria (1622), preceduta da una dedica “Alli famosissimi signori pitoccanti”, egli rappresentava una grottesca “corte dei miracoli” che, come il mondo dei pícaros, vive nei termini della convenzione letteraria. Ancor più significativi, anche per il linguaggio pittoresco, sempre del Croce, La strazzosa et molto meschina compagnia del mantellaccio (1600), La compagnia de i rapezzati, nella quale s’invitano à entrarvi tutti i falliti, i frusti, i strazzosi, & i ruinati à fatto (1608), infine La tremenda e spaventevole compagnia di tagliacantoni overo scapigliati (1614). Questa tematica permette al Magnasco infinite variazioni, gradite a una committenza che ne apprezza, oltre al virtuosismo pittorico, il discorso demistificante rispetto ai soggetti nobili e allo stile elevato della grande pittura. Fra i committenti delle scene picaresche del Magnasco c’è infatti il Gran Principe Ferdinando de’ Medici, mecenate raffinatissimo e anticon-

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formista, che al Magnasco ordinò quella Scena di caccia del Wadsworth Atheneum di Hartford (fig. 3), cronaca divertita di una burla ai danni di un cortigiano, dove l’artista ritrasse Ferdinando, la principessa Violante di Baviera sua moglie, se stesso e il suo amico Sebastiano Ricci, anch’egli presente nell’entourage del Principe. Il dipinto è la demi­ stificazione della tradizionale ritrattistica aulica, deputata da sempre a privilegiare, della vita di corte, la parata di rappresentanza e l’esibizione del potere. La galleria degli Uffizi conserva tuttora due opere picaresche del Magnasco, ordinate anch’esse da Ferdinando. Nell’inventario della sua collezione esse vengono descritte proprio con le parole dei testi sulla vita dei pitocchi: “un biante [vagabondo] in atto di insegnare a cantare ad una gazzera […] con due zingare” (fig. 4a) e “una scuola dipintovi più birboni […] e tre altri birbi”. L’iconografia della lezione di canto alla gazza fu ripetuta molte volte dall’artista (scheda n. 4) e della Scuola dei birbi si parla ne Il vagabondo: i vecchi “bianti” insegnano ai fanciulli “tutte le arti […] da ingannare il prossimo”30. Il divertissement letterario si traduce dunque in immagini che non fanno riferimento a una precisa realtà, ma all’interesse della committenza e dell’artista per il grande repertorio del “genere” picaresco, ricco di storie avventurose e maledette e di personaggi fantasiosi e pittoreschi. Ma certamente la posizione di dissenso anticonformista del Magnasco si presenta con immediata evidenza, ancor prima di un’analisi delle sue inconsuete e originalissime iconografie, con il suo linguaggio pittorico, del tutto in contrasto con la splendida decorazione, dalla rasserenante luminosità e dallo smagliante colore, spesso finalizzata alla celebrazione, di gran parte della pittura fra la fine del Seicento e la metà del Settecento. Egli si avvale . Franchini Guelfi 1977, pp. 103-104.


di un colore dalle tonalità livide e spente nella prevalenza di marroni con rari tocchi di rosso, giallo e azzurro e con lampeggianti risalti luminosi di un bianco rappreso in pennellate grumose. Le forme emergono da un’oscurità che le corrode, precariamente percepite nell’istante immediatamente precedente al loro disfacimento; la grafìa pittorica, che si fa sempre più rapida e sciolta con la maturità dell’artista, nega ogni consistenza a figure che si muovono come labili parvenze al di là di ogni intenzione descrittiva. Questi caratteri stilistici furono ben notati dai contemporanei. L’Orlandi ne lodava “una certa mossa di tocchi risoluti, e spediti di gran macchia”31 e il Ratti nella sua biografia dell’artista ne metteva in risalto il “dipinger di tocco”: “veloci, e sprezzanti, ma artificiosi tocchi, lanciati con una certa bravura […] una franchezza sì prode […] una non curanza sì particolare”32. Certamente nello sviluppo del suo linguaggio si legge la lezione della pittura genovese e in particolare di Valerio Castello (maestro di suo padre Stefano) nel disgregarsi delle forme in lampi luminosi, negli scorci vertiginosi delle figure travolte in un movimento avventante, nel fluire rapidissimo del segno, nella sensibilità per una materia in movimento, sfilacciata e disfatta in vibrazioni di luce e di colore, nella negazione di ogni plastico volume e di ogni definizione disegnativa33. Ma al contempo egli nega, della pittura di Valerio, il raffinatissimo discorso decorativo. Alla maturazione del suo linguaggio diede un contributo fondamentale lo studio delle stampe del Callot: il segno graffiante, che delinea le figurette disposte in ritmi di costante tensione, l’esasperata stilizzazione degli atteggiamenti, infine il complicato . Orlandi 1719, p. 58. . Ratti 1769, pp. 155, 157. . Franchini Guelfi 1977, pp. 136-143; Franchini Guelfi 1999, pp. 21-28.

si­stema di simmetrìe e contrapposti, di rispondenze ritmiche e di calcolate dissonanze, che si esprime nelle tipiche sigle astratte delle sue disarticolate “macchiette” (figurette), sono i caratteri dell’opera del Callot che il Magnasco coglie con più intensa partecipazione. Il fascino delle raffigurazioni del Callot e del Magnasco sta nella contraddizione fra un linguaggio visivo per nulla realistico, anzi tutto orientato alla più virtuosistica stilizzazione, e la scelta di rappresentare la realtà del loro tempo: le “storie contemporanee” dei due artisti si svolgono sul filo del contrasto fra una scrittura di stilizzata astrazione e un’iconografia tutta calata nella realtà. La maturazione del pensiero e del linguaggio pittorico Negli anni della sua estrema maturità il discorso dell’artista ha una svolta. Si collocano infatti dal 1730/1735 in poi alcuni dipinti nei quali il suo pensiero assume accenti esplicitamente critici sia attraverso inediti sviluppi di tematiche iconografiche già rappresentate negli anni precedenti, sia attraverso la raffigurazione di soggetti del tutto nuovi, che sono anch’essi un unicum nella pittura italiana contemporanea. Così alla proposta di una vita conventuale di rigorosa povertà si aggiungono ora, a contrasto, opere come Il parlatorio (scheda n. 18), La cioccolata (scheda n. 19), Il concerto (fig. 20a), L’acconciatura (fig. 18b), Monache in giardino (fig. 18a), nelle quali giovani monache aristocratiche ricevono raffinati damerini, vengono servite e acconciate davanti allo specchio in celle lussuosamente arredate, eseguono musica sullo sfondo di splendidi giardini. Un vero osservato con un chiaro giudizio morale, che giunge alla rappresentazione di una realtà finora mai proposta alla riflessione, nella cultura figurativa italiana, con i due gran-



Fig. 16 – Jacques Callot, Les Misères et les malheurs de la guerre, tav. X, Paris, Bibliothèque nationale de France.


Fig. 17 – Alessandro Magnasco, L’arrivo e l’interrogatorio dei galeotti, Bordeaux, Musée des BeauxArts.

di dipinti pendants del Museo di Bordeaux, L’arrivo e l’interrogatorio dei galeotti e L’imbarco dei galeotti nel porto di Genova (figg. 17-18), e i due pendants L’interrogatorio e La tortura già dello Städelsches Kunstinstitut di Francoforte (distrutti, figg. 19-20). Per queste quattro opere si deve supporre che il Magnasco condividesse con i suoi committenti letture e frequentazioni che portarono a nuovi percorsi di pensiero, all’acquisizione di razionali consapevolezze ma anche alla turbata esplorazione di nuovi territori della co­ scienza. La riflessione sulla tortura giudiziaria era iniziata ben prima del trattato Dei delitti e delle pene del milanese Cesare Beccaria (1764), con le opere, fra le altre, di Johann de Greve (Tribunal reformatum: in quo sanioris et tutioris justitiae via judici commonstratur, rejecta et fugata tortura, Amburgo 1624) e di Augustin Nicolas (Si la torture est un moyen seur à vérifier les crimes secrets, dissertation morale et juridique, Amsterdam 1682). Nei quattro dipinti del Magnasco lo straordinario virtuosismo pittorico esprime la totale negazione di ogni “piacere” visivo nell’angosciante indagine di un vero del tutto estraneo alla produzione pittorica contemporanea, nella forte tensione emotiva e intellettuale nei confronti di una problematica che soltanto la cultura illuministica affronterà esplicitamente, non molti anni dopo. Inoltre l’articolarsi del discorso nei momenti successivi dell’interrogatorio, della tortura e della condanna, attraverso lo strutturarsi della narrazione in coppie di dipinti, esplicita da parte dei committenti, per ora ignoti, una precisa volontà di riflessione e di indagine. La scoperta di un terzo pendant delle due tele di Francoforte, la Traduzione di galeotti della Frederic Church’s Home di Olana (U.S.A., fig. 21) fa supporre che la narrazione si articolasse in un ciclo di episodi non tutti ancora rintracciati34. Nei due dipinti di Francoforte (figg. 19-20) la burocratica

Fig. 18 – Alessandro Magnasco, L’imbarco dei galeotti nel porto di Genova, Bordeaux, Musée des BeauxArts.

. Franchini Guelfi 1999, p. 70, fig. 52.

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Fig. 19 – Alessandro Magnasco, L’interrogatorio, già a Frankfurt, Städelsches Kunstinstitut (distrutto).

indifferenza dei due cancellieri che stendono il verbale e l’inflessibile efficienza del giudice esprimono un giudizio che anticipa quello del milanese Pietro Verri su queste “metodiche atrocità” (Osservazioni sulla tortura, 1777)35. L’orrore del soggetto è accentuato dal colore livido e cupo e dall’esasperata gestualità delle figure: la tensione implacabile del giudice, la spasmodica contorsione dell’appeso. Per i due dipinti di Bordeaux (figg. 17-18) non si può escludere che l’artista abbia ripreso una delle più realistiche e crudeli vicende narrate ne La vida del pícaro Guzmán de Alfarache di Mateo Alemán, tradotto in italiano già nei primi anni del Seicento, forse il romanzo picaresco spagnolo più noto e diffuso. Nel VII capitolo infatti il protagonista, incatenato con altri malfattori, viene condotto con un lungo viaggio a piedi (come ne L’imbarco dei galeotti; fig. 18) fino al porto, dove gli schiavi mori tosano i prigionieri, li caricano sulle barche e li portano sulle galere, dove li incatenano al remo. Ma da questa fonte letteraria il Magnasco porta la vicenda in una realtà precisa e storicamente verificabile, che nessun pittore aveva finora osato rappresentare: la presenza delle galere e la condanna al remo nel porto di Genova. La rarità di queste opere, a contrasto con le numerosissime “fraterie”, è certamente correlata al ristrettissimo numero di committenti non solo in grado di condividere discorsi tanto apertamente critici, ma anche di esibire questa corrosive immagini nelle loro quadrerie. Negli ultimi anni genovesi dell’artista si colloca anche la Sinagoga del museo di Cleveland (fig. 22), uno dei suoi massimi raggiungimenti nella scrittura pittorica che si di­ sgrega in impalpabili vibrazioni di luce e di colore, in un totale rifiuto delle convenzioni della rappresentazione visiva. Un disfacimento della forma sul filo delle accensioni luminose, un disgregarsi delle cose in scheggiati frammenti . Franchini Guelfi 1977, pp. 234, 253 nota 116.

Fig. 20 – Alessandro Magnasco, La tortura, già a Frankfurt, Städelsches Kunstinstitut (distrutto).

sconvolti da un ritmo guizzante che è però sorretto – come sempre nell’opera del Magnasco – da una struttura compositiva di assoluta razionalità. Dall’ architettura all’arredo, alle figure, tutti gli elementi della scena si dispongono in un calibratissimo sistema di simmetrìe e rispondenze, e la calcolata distribuzione delle macchie di rosso e di azzurro nella brulicante folla di figure indica i percorsi del coinvolgimento emotivo. Quest’opera si colloca nel vivo di un dibattito che a Genova interessò l’aristocrazia di governo




Fig. 21 – Alessandro Magnasco, Traduzione di galeotti, Olana (U.S.A.), Fredric Church’s Home. Fig. 22 – Alessandro Magnasco, Sinagoga, Cleveland, Museum of Art.

per molti anni e in particolare proprio nella prima metà del Settecento. La comunità ebraica di Genova, presente soprattutto nelle attività commerciali, era protetta dalla Repubblica che ne permetteva gli affari a tutto beneficio dell’erario. Nonostante le pressanti richieste delle autorità ecclesiastiche che chiedevano l’espulsione degli ebrei dal territorio dello stato, i governanti genovesi difesero la comunità ebraica con spregiudicato pragmatismo sulla base dei Capitoli per la Natione Hebrea emanati nel 1658; anzi nel 1752 la Repubblica pubblicherà nuovi e più liberali Capitoli, con norme illuministiche di tolleranza religiosa36. La Sinagoga di Cleveland fu dunque probabilmente eseguita, nel contesto dell’aspro dibattito con la curia romana, per un committente genovese particolarmente interessato a questa problematica. E ancora un preciso richiamo a un dibattito che coinvolse molti intellettuali “illuminati” della prima metà del Settecento – dal Muratori al Maffei – è nelle quattro Streghe di collezione privata (figg. 23-24), che il Magnasco rappresenta con tutti i caratteri iconografici consacrati dalla tradizione figurativa e letteraria diffusa da Salvator Rosa nel Seicento – dai gatti neri all’uccisione di un bambino, dal cerchio magico al volo al Sabba sulle spalle di un demonio – ma con accenti d’orrore che rispecchiano le parole di Gerolamo Tartarotti (1706-1761), il primo pensatore italiano a smentire la realtà della stregoneria, che definisce queste convinzioni, difese dalla Chiesa, “fantasie guaste e pervertite”37. È, l’accanita querelle sulla stregoneria nella prima metà del Settecento in Italia, “la maggior prova compiuta in quegli anni onde saggiare i limiti e il valore dell’umana ragione, mettendola alla prova di contro alla

tradizione, alla superstizione e ai pregiudizi”38. Anche il Magnasco, come più tardi Goya (1746-1828), pensa che “el sueño de la razón produce monstruos”39. Con queste opere egli si avventura nelle zone più cupe e sotterranee della coscienza, esprimendo con straordinaria forza il fascino delle tenebre come già nel Furto sacrilego del 1731 (scheda n. 8) aveva rappresentato la turbinosa danza macabra dei morti accorsi a difendere la loro chiesa dai ladri notturni. L’artista partecipò dunque, con interventi di assoluta originalità, ad alcune delle discussioni intellettuali più avanzate del suo tempo, in direzione di un rinnovamento del pensiero ma con l’acuta e angosciante percezione del continuo dissolversi della realtà in frammenti inconoscibili, senza alcun facile ottimismo né alcuna fiducia che il pensiero e l’umano operare possano rischiarare la paurosa oscurità nella quale le cose sembrano disgregarsi. Vista sotto questa angolazione, cioè come un contributo concreto nella storia del pensiero in questo momento storico, l’opera del Magnasco assume una straordinaria rilevanza, perché è uno dei pochissimi artisti ad assumere tematiche strettamente connesse ai dibattiti culturali contemporanei e perché con la sua straordinaria sensibilità a volte coglie sul nascere idee e orientamenti culturali, già ben vivi a livello di discussione, esprimendoli in immagini prima che essi vengano manifestati e teorizzati con la diffusione di scritti e pubblicazioni. Nelle opere della sua estrema maturità il linguaggio dell’artista si fa ancor più raffinato: negli accenti cromaticamente più difficili e nella disgregazione delle forme in . Venturi 1969, p. 355; Franchini Guelfi 1977, pp. 231-234.

. Franchini Guelfi 1996, p. 246.

. Didascalia della stampa n. 43 de Los Caprichos di Francisco Goya,

. Franchini Guelfi 1977, p. 234

pubblicati nel 1799.




Fig. 23 – Alessandro Magnasco, Strega, Collezione privata. Fig. 24 – Alessandro Magnasco, Strega, Collezione privata.

vibrazioni di luce e di colore – come nella stupenda Cena in Emmaus nel refettorio del convento di San Francesco d’Albaro – la scrittura pittorica si atteggia nelle più squisite stilizzazioni della pittura rocaille, ma in netto contrasto alla luminosità solare, alle tenere e chiare tinte pastello, alle forme concatenate in un continuum decorativo del rococò contemporaneo. Così nel Trattenimento in giardino (scheda n. 23), ritratto di gruppo che rifiuta sia i toni di pomposo decoro e di trionfalistica celebrazione, sia le intenzioni rasserenatrici e il linguaggio edonistico della ritrattistica genovese contemporanea: rappresentazione di uno dei riti sociali di una classe nobiliare genovese in irreversibile declino economico e politico. L’adesione alla realtà, spinta, a livello iconografico, fino ai minimi dettagli – nelle “fraterie” (schede nn. 14-17) come nel Catechismo (scheda n. 7), nei dipinti di Bordeaux (figg. 17-18) e di Francoforte (figg. 19-20), come nelle rappresentazioni della vita delle monache aristocratiche (schede nn. 18-20) – convive con un totale disinteresse per la rappresentazione realistica sul piano del linguaggio: un contenuto di realtà viene espresso e comunicato da una scrittura pittorica che rifiuta ogni verosimiglianza di colore e di percorso grafico, e che nello straordinario virtuosismo pittorico e nelle più impalpabili raffinatezze cromatiche svolge un difficilissimo di­ scorso che è la negazione stessa di ogni “piacere” visivo e di ogni rassicurante decorativismo. Il più profondo dissenso del Magnasco, infatti, si esprime nella decisa negazione dell’ottimismo che contrassegna il pensiero “illuminato” nelle sue finalità di razionalizzazione della realtà. La fondamentale contraddizione, che ha reso a lungo indecifrabile l’iconologia magnaschesca, fra la tensione verso un rinnovamento del pensiero e l’angosciante sfiducia che esso pos-

sa vincere le tenebre nelle quali la realtà sembra dissolversi, colloca l’artista in una posizione isolata anche nel contesto di questo nuovo discorso culturale, assieme a una committenza che, nel condividerne gli accenti fortemente critici, ne apprezzò anche il linguaggio pittorico lontano da ogni rasserenante e ottimistica visione della realtà.

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Magnasco in Francia, la riscoperta e il mercato dell’arte vronique damian

Gli Antiquari, cercatori indefessi d’opere abbandonate o incomprese, valorizzatori delle qualità principali, salvatori occasionali di pezzi emotivi, hanno nel movimento delle arti una parte che non si può ignorare. Essi rappresentano una forza viva e di enorme utilità pratica. Arthur Sambon, 19331

Nel 1914, Émile Dacier (1876-1952), inarrestabile scopritore del XVIII secolo francese, scrive nella prefazione al catalogo della prima mostra su Magnasco in Francia, tenutasi alla Galerie Levesque di Parigi: “Alessandro Magnasco paraît être le dernier venu de ces revenants de l’histoire de l’art”2. Questo catalogo presenta sessantaquattro numeri (di cui 13 disegni), tutte opere della collezione di Benno Geiger (1882-1965), difensore e collezionista più fervente di questo artista3. Di fatto, la riscoperta del pittore genovese si situa sotto gli auspici del mercato dell’arte che, a sua volta, diventa un vero e proprio protagonista nella diffusione e nel riconoscimento della sua opera. Sia per la storia dell’arte che per quella del collezioni­ smo, l’inizio della diffusione delle opere di Magnasco in Francia risale a un secolo fa, ovvero a qualche mese prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, e si iscrive in un movimento più ampio geograficamente, organiz. Sambon 1933, p. 8. . Paris 1914 (64 numeri, nessuna figura): “Alessandro Magnasco sembra essere l’ultimo arrivato fra questi redivivi della storia dell’arte” [traduzione nostra]. La galleria si trovava al 109 di Faubourg Saint-Honoré, nel primo arrondissement di Parigi. I cataloghi pubblicati dalla galleria negli anni prima della guerra denotano delle scelte molto eclettiche. Se consideriamo solo il 1914, prima di Magnasco, venivano presentate delle opere di Roger de la Fresnay (20 aprile – 3 maggio) e dopo Magnasco, la

zato sotto la guida di Benno Geiger su più assi europei: l’Italia, la Germania e poi la Francia. Viennese di nascita, fece di Venezia la sua patria d’elezione, questo intellettuale fu un elegante poeta in lingua tedesca, traduttore, critico, storico dell’arte e, occasionalmente, anche mercante d’arte4. All’inizio del XX secolo, Venezia era il centro della Mitteleuropa e ha spesso dettato i toni in fatto di riscoperte. Ai tempi, la pittura barocca tornava in auge, ed era collezionata con passione anche da un altro veneziano, l’artista Italico Brass (1870-1943), amico, tra l’altro, di Benno Geiger e, come lui, accanito collezionista delle opere dell’artista genovese e in generale della pittura del Seicento e del Settecento. Numerosi capolavori della collezione Brass sono andati ad arricchire le collezioni dei musei americani intorno agli anni ‘305. Benno Geiger ha riunito in un lasso di tempo molto breve, fra il 1912 e il 1913, una grande quantità di quadri di Magnasco. Sceglie di esporre la sua collezione, in modo itinerante, in alcune gallerie private: a Berlino nel 1914 (presso il mercante Paul Cassirer), lo stesso anno, a Parigi (Galerie Levesque), a Monaco di Baviera (Galerie Tannhauser), e dopo la guerra, nel 1920, a Düsseldorf (Galerie Flechtheim). Scegliere questa direzione per far conoscere e valorizzare il proprio artista prediletto, vuol dire mettere in atto, in maniera originale per l’inizio del XX secolo, una strategia abitualmente utilizzata dai mercanti d’arte moderna e contemporanea. Geiger evidente-

galleria presentava due artisti americani moderni, Bryson Burroughs e Ernest Lawson (3 luglio – primo ottobre).

. Franchini Guelfi 2001.

. Geiger [1958], 2009; Zambon-Geiger Ariè 2006; Meli-Geiger Ariè 2010.

. Morandotti 2001.

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Fig. 25 – Alessandro Magnasco, L’Adorazione dei magi, Dunkerque, Musée des Beaux-Arts.

mente si rendeva conto del vantaggio economico che poteva trarre da un’operazione del genere, tuttavia il carattere sistematico e la varietà dei paesi lasciano intendere che il suo proposito era ben più vasto: si trattava di familia­ rizzare il pubblico internazionale degli appassionati d’arte con questo grande artista italiano la cui innovativa opera è caduta troppo presto nell’oblio. La lunga lista delle sue pubblicazioni, che andranno poi a confluire nella voluminosa e fondamentale monografia del 1949, sono la prova della sua reale implicazione6. Il nostro pioniere della riscoperta riferisce che la mostra del 1914 a Parigi, al contrario di quella di Berlino, riscontrò un grande successo sia per la stampa che per i visitatori. Aggiunge che ebbe lui stesso il piacere di far cono­scere l’artista genovese a Gabriele d’Annunzio (18631938) e Anatole France (1844-1924)7. Dopo questo pro­ mettente debutto, una seconda mostra su Magnasco apre i battenti nella capitale francese nel 1929. Sarà il mercante Arthur Sambon (1867-1947) a organizzarla nella sua galleria (al 7 di square de Messine). Il catalogo comprende una ventina di numeri e l’introduzione – non firmata – comincia in questo modo: “De jour en jour grandit la renommée du peintre génois Alessandro Magnasco, ce prodigieux

improvisateur du ‘Settecento’ italien”8. Per ogni numero è stato precisato il nome del proprietario o del collezionista e possiamo notare che la mostra è stata concepita – ad eccezione dei quadri provenienti da collezioni pubbliche – allo stesso modo di quella che proponiamo oggi alla Galerie Canesso. I quadri di proprietà del mercante sono indicati come “coll. Sambon” e sono accompagnati da delle opere di “coll. Privées”, “coll. Carvallo”, “coll. Dr. Mathon”, “coll. D’Atri”, “coll. Beltrami”, “coll. Gentili di Giuseppe” o ancora da “anc. coll. Chamberlayne” o “anc. coll. Chiesa”. Tutti questi nomi dimostrano che, già a partire dagli anni 1920, Magnasco ha incontrato un pubblico di collezionisti e che è sufficientemente riconosciuto sul mercato dell’arte perché un mercante gli dedichi una mostra. È un artista che Sambon difende e che ha già fatto figurare l’anno prima, con altri quattro quadri, in una mostra sui Paysagistes . Paris 1929, p. 3: “Di giorno in giorno, cresce la fama del pittore genovese Alessandro Magnasco, questo prodigioso improvvisatore del Settecento italiano” [traduzione nostra]. Arthur Sambon, nato a Portici in Italia, era numismatico e anche antiquario. Divenne Président de la Chambre des Experts d’Art de Paris, fondò e diresse una rivista specializzata in arte classica, Le Musée. La sua erudizione gli permetteva di fare delle incursioni nell’ambito della pittura, in particolare, ha organizzato subito dopo la mostra su Magnasco, una mostra sui Bassano (Les Bassano. Catalogue des

. Geiger 1949.

œuvres de ces artistes exposés à la galerie Sambon, Paris, 15-30 juin 1929,

. Geiger [1958] 2009, p. 360.

13 numeri).




Fig. 26 – Alessandro Magnasco, Cristo guarisce il paralitico, Parigi, Musée du Louvre.

Vénitiens et Français des xviie et xviiie Siècles. L’intento è sempre lo stesso, scoprire e far scoprire: “C’est la première fois que l’on essaie de présenter à Paris un ensemble de tableaux donnant un aperçu de l’évolution de l’art du paysage à Venise”9. Da notare che nel 1935, la mostra al Petit Palais consacrata all’Art italien presentava un solo quadro, un po’ atipico, di Magnasco (dell’ “école lombarde”!), Il mercato del Verziere, prestato dal Castello Sforzesco di Milano10. Eppure, le liste pubblicate da Geiger nel 1949 nella sua monografia, attestano una presenza importante delle sue opere in territorio francese. Il nostro intento qui non è di analizzare la pertinenza delle sue attribuzioni a questo artista, ma di constatare che Geiger aveva preso in considerazione sia le collezioni pubbliche che quelle private11. La riscoperta dell’opera di Magnasco si può spiegare unicamente grazie all’azione intrapresa da Benno Geiger in favore di questo artista, oppure si può trovare un certa correlazione fra i suoi temi pittorici originali, nei quali il colore serve l’espressione, e quel particolare momento in

Europa, in cui incombeva la minaccia della Prima guerra mondiale? Antonio Morassi non esita a fare un parallelo con “les développements de la peinture contemporaine et surtout de l’expressionnisme allemand”12, aggiungendo che era anche il momento in cui si riscopriva El Greco (15411614). In effetti, a partire dal 1920, il pittore Émile Bernard (1868-1941) reputa Magnasco degno di figurare, assieme a El Greco, nel pantheon dei suoi maestri13. È indubbiamente Benno Geiger a consigliare quello che fu il suo “diletto amico”14 nell’acquisizione di un quadro del pittore genovese rappresentante Un monaco in preghiera, descritto da Émile Bernard come un “être nouveau, vrai e grandiose, naturalisé par son aspect fruste et apostolique de héros qu’ont battu les vents, fouetté les pluies, déchiré les épines et les ronces; sorte de saint Pierre éternel qui chemine à travers les sentiers

. Morassi 1958: “gli sviluppi della pittura contemporanea e soprattutto dell’Espressionismo tedesco” [traduzione nostra]. . Bernard 1920, p. 351: “Après le Gréco, génie si justement remis sur le piédestal de l’admiration, voici Alessandro Magnasco, peintre

. Paris 1928, inizio dell’avant-propos: “È la prima volta che si presenta

génois à l’étrange accent, au tempérament mêlé de pittoresque et de

a Parigi un insieme di quadri che propongano un breve resoconto

mystique” / “Dopo El Greco, genio sì giustamente rimesso sul piedistallo

sull’evoluzione dell’arte del paesaggio a Venezia” [traduzione nostra].

dell’ammirazione, ecco Alessandro Magnasco, pittore genovese dall’accento

. Paris 1935, tav. 160.

strano, dal temperamento tra il pittoresco e il mistico” [traduzione nostra].

. Geiger 1949, pp. 125-129.

. Geiger 1949, p. 36.




de la forêt mauvaise de la vie [...]”15. Nei suoi scritti pieni di entusiasmo, Magnasco – pittore dall’assoluta modernità – è paradossalmente diventato il maestro di colui che difende il bello ideale e la tradizione contro la modernità nell’arte. Più in generale, l’artista genovese tende a diventare il pittore dei pittori, come attesta ancora una volta la presenza di un San Francesco d’Assisi ai piedi del crocifisso nella collezione del pittore spagnolo Ignacio Zuolaga (1870-1945), grande amico, non a caso, di Émile Bernard16. Potremmo aggiungere a questa lista La bottega di un pittore, donato al Musée du Louvre, nel 1934, dall’artista Émile Wouters17. La critica su Magnasco, nel caso della Francia, si è limitata a ripetere il giudizio severo di Pierre-Jean Mariette (1694-1774) che sosteneva che nelle composizioni del pittore raffiguranti frati cappuccini “en général les idées en fussent basses et trop abjectes [...]”, anche se le considerava fra le migliori. Gli rimproverava inoltre il suo colore “extrêmement gris” e la mancanza di azioni nobili18. Eppure, con questi temi, il nostro artista continua la tradizione pittorica del XVII secolo che usava rappresentare i monaci in un paesaggio, tradizione ripresa tra l’altro da Pier Francesco Mola (1612-1666) o Salvator Rosa (1615-1673). La ragione per cui i collezionisti francesi hanno ini­ ziato solo tardivamente ad interessarsi a Magnasco non deve ricondursi unicamente a questo giudizio negativo. In effetti, numerose altre caratteristiche della sua opera possono destare sconcerto. In primo luogo, il suo repertorio iconografico inedito e raro, quasi criptico, che si ispira alle idee dell’Illuminismo nascente. Particolare non irrilevante, se si pensa che ancora non sappiamo molto dei suoi committenti, specialmente per quanto riguarda la Chiesa. In secondo luogo, il fatto di aver scelto uno stile antiaccademico, dal tratto rapido, che privilegia le figure piccole, spesso ridotte a dei segni, prefigurando l’arte dei veneziani, come quelle del suo amico Sebastiano Ricci (1659-1734) o di Francesco Guardi (1712-1793). In un saggio sulla pittura genovese e la Francia nel XVII e XVIII secolo, Pierre Rosenberg ha evocato la ricezione dell’opera di Magnasco in Francia, notando l’assenza del suo nome negli inventari del XVIII secolo, assenza da riconsi­ derare dopo la consultazione di elenchi più recenti nel Getty Provenance Index19. In effetti, questi ultimi recensiscono alcuni risultati di vendite a nome dell’artista nel XVIII secolo ma, sorprendentemente, solo per dei paesaggi. Questo pro-

va ancora una volta, se era necessario, che la fama dell’artista è recente e che in Francia, fino al XIX secolo, i suoi quadri erano considerati come opera d’altri nella maggior parte dei casi. Basta guardare, per averne conferma, le attribuzio­ ni con cui i quadri dell’artista sono entrati nei musei francesi, principalmente tramite donazione. Citeremo un solo esempio, L’adorazione dei magi (fig. 25), un’opera di fine carriera dell’artista, donata nel 1878 da Thomas Gaspard Malo (1804-1884) al Musée des Beaux-Arts di Dunkerque. Questa tela è definita, nel catalogo del museo (1880), come opera di Francesco Zucarelli (1702-1788), un paesaggista attivo preminentemente a Venezia20. Ci rendiamo conto del percorso compiuto dalla fortuna critica dell’artista quando, nel 1983, Othon Kaufmann e François Schlageter, donano al Musée du Louvre il magnifico Cristo guarisce il paralitico (fig. 26). Verso la fine del XX secolo l’artista ha riacquistato, dopo anni di oblio, un posto di rilievo nella formazione delle collezioni private, anche grazie al lavoro di ricerca costante di Fausta Franchini Guelfi21. E per quanto riguarda le collezioni pubbliche? Nel 1961, il Musée des Beaux-Arts di Bordeaux acquista due capolavori di Magnasco, Arrivo e interrogatorio dei galeotti e Imbarco dei galeotti nel porto di Genova (figg. 17 e 18), segnando infine, al di là dell’assoluta maestria del pittore nella narrazione del dramma umano, il riconoscimento dell’artista in Francia22. A quest’acquisizione segue, grazie alla generosità di un mecenate, l’arrivo del Funerale ebraico al Musée d’art et d’histoire du Judaïsme (scheda n. 10) nel 201023. Questa rapida rassegna sulla riscoperta dell’opera di Magnasco in Francia durante il XX secolo, ambisce a mettere in luce il caso particolare di cui ha beneficiato l’artista. È raro infatti, che la critica o la storia dell’arte stringano simultaneamente dei rapporti con il mercato dell’arte e i collezionisti, riuscendo a creare da subito un triangolo perfetto. Ci auguriamo che questa nuova mostra sugli anni della maturità dell’artista, frutto di una volontà comune fra pubblico e privato, sappia convincere i visitatori del ruolo fondamentale della sua arte, tanto nel XVIII secolo, come espressione dell’Illuminismo in Nord Italia, quanto nel nostro mondo contemporaneo, grazie ai suoi soggetti sempre attuali, che ci toccano da vicino ancora oggi.

. Dunkerque, Musée des Beaux-Arts (Inv. P. 50). Si veda Sarrazin in . Bernard 1920, p. 356: “un individuo nuovo, vero e grandioso,

Lyon-Lille 2000-2001, p. 83.

contraddistinto dal suo aspetto rozzo e apostolico di eroe battuto dai

. Rosenberg 1984, p. 110, n. 39; Franchini Guelfi 2002, p. 52-53, fig. 6.

venti, frustato dalle piogge, squarciato dalle spine e dai rovi; una specie di

Notiamo tuttavia che Il banchetto nuziale, R.F. 1619, era entrato al Musée

san Pietro eterno che avanza per i sentieri della foresta malvagia della vita

du Louvre a nome di Magnasco, quando fu donato nel 1927 da Christian

[...]” [traduzione nostra].

Lazare (1880-1943) e sua moglie, Annette Lazare nata May (1883-1976).

. Geiger 1949, p. 128. Geiger precisa che quest’opera è stata presente alle

Ringraziamo Stéphane Loire per quest’informazione.

due mostre parigine del 1914 e del 1929.

. Inv. Bx 1961.11.1. e Bx 1961.11.2, Bordeaux, Musée des Beaux-Arts.

. Paris Musée du Louvre, R.F. 3851; Bréjon de Lavergnée – Thiébaut

Registrati come “École italienne du XVIIe siècle”, la loro reale paternità

Dominique 1981, p. 199.

non è sfuggita all’occhio sagace di Sylvie Béguin (1962, pp. 71-76).

. Mariette 1854-1856, p. 234: “[...] in generale, le idee fossero basse e

. Inv. D.2010.03.001, acquisizione da parte del Musée du Louvre allo

troppo spregevoli [...]”.

scopo di depositarlo al MAHJ. Si veda Damian, 2010, pp. 48-59; Sigal-

. Wildenstein 1982; Rosenberg 2000, p. 230.

Klagsbald 2010, pp. 9-12.





Catalogo piero boccardo (p.b.) fausta franchini guelfi (f.f.g.) maria silvia proni (m.s.p.)

ďœłďœł


Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 1. Il Pittor pitocco o Autoritratto simbolico dell’artista

olio su tela. 60,5 × 42,5 cm collezione privata ₍gi parigi, galerie canesso₎

provenienza: Venezia, collezione Benno Geiger (1882-1965); Venezia, collezione Italico Brass (18701943); Lugano, collezione privata.

bibliografia: Geiger 1949, p. 144, tav. 149 (con bibl. precedente); Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 258-259, fig. 280 (con bibl. precedente); Damian 2011, pp. 56-59.

In un interno poverissimo, scarsamente illuminato da una finestra aperta in alto a sinistra, un pittore, avvolto in un mantello bianco, con un alto berretto nero in capo, regge con la mano sinistra la tavolozza e ritrae su una tela posata sul cavalletto un vecchio e cencioso suonatore ambulante. Questi, seduto davanti a lui con un violino sotto il braccio, è in atto di cantare con il foglietto del testo nella destra e con la mano sinistra alzata a battere il tempo. Accanto al pittore, un giovane osserva il dipinto, appena delineato con il disegno preparatorio a biacca sul fondo rossastro della preparazione; in primo piano, una giovane donna allatta un bambino. Il pavimento di assi sconnesse accentua la povertà dell’ambiente. Per i caratteri stilistici la tela si può collocare intorno al 1730. Il Magnasco replicò diverse volte questo soggetto, variando a volte soltanto il personaggio ritratto dal pittore. Ad esempio nel grande dipinto del Museo Luxoro qui esposto (scheda n. 21) il pittore sta ritraendo un mendicante storpio. Questa iconografia esprime il consapevole dissenso del Magnasco nei confronti delle finalità celebrative e del linguaggio splendidamente decorativo di gran parte della pittura contemporanea: è infatti un autoritratto non realistico, ma simbolico nel quale la figura dell’artista si identifica con la sua tematica. Quando infatti il Magnasco ha voluto rappresentarsi realisticamente, ha mostrato un volto ben diverso nell’autoritratto inserito nella Scena di caccia del Wadsworth Atheneum di Hartford (fig. 3; autoritratto che coincide perfettamente con il suo ritratto a stampa pubblicato dal suo biografo Carlo Giuseppe Ratti nel 1769); e nel celebre Trattenimento (scheda n. 23) si è raffigurato decorosamente vestito come un gentiluomo, con giacca dai polsini di pizzo, cravatta bianca e tricorno, mentre ritrae dal vero i nobili Saluzzo sulla terrazza della villa di Albaro. Ne Il pittor pitocco, attraverso il

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supporto tradizionale dell’autoritratto l’artista esprime una concreta dichiarazione di poetica: espediente retorico che si trova anche nella pittura di un altro artista del tempo attivo in Lombardia, Giacomo Francesco Cipper detto il Todeschini ([1664-1736]; Gruber in Brescia 19981999, pp. 447-448, n. 124). Il vecchio suonatore cencioso è uno di quei personaggi che, come zingari, soldatacci, mendicanti, cantastorie e Pulcinella, popolano moltissimi dipinti del Magnasco, in interni tenebrosi e fatiscenti o fra diroccate architetture in rovina. È la “pittura barona”, che cioè rappresenta straccioni e vagabondi, genere considerato ignobile e disprezzato da Salvator Rosa: per il Magnasco questa iconografia rappresenta una scelta consapevole di quelle tematiche che il raffinato conoscitore Pierre Jean Mariette (1694-1774), parlando dell’artista genovese, definisce “basses… abjectes... pas nobles” (Mariette 1854-1856, p. 234). Le sue fonti figurative e culturali vanno dalle stampe con i gueux di Jacques Callot ai bamboccianti fiamminghi e olandesi, dai romanzi picareschi spagnoli, diffusissimi in Italia, ai testi secenteschi italiani sull’arte della forfanteria, veri e propri dizionari della “birba” vagabonda. Dopo i “bamboccianti” nordici e il Callot, Magnasco è forse l’ultimo artista a raffigurare questi soggetti, che rappresentano non tanto un ritratto della realtà, quanto un interesse per tematiche antiaccademiche e demistificanti, in contrasto con i soggetti nobili e lo stile elevato della pittura celebrativa. Anche sul piano stilistico: poiché in opposizione al brillante colore e alle forme seduttive della grande pittura, il Magnasco presenta un’intavolazione cromatica tutta basata su tonalità livide e spente, con un prevalere dei marroni con lampeggianti risalti luminosi di pennellate bianche, giallastre, azzurre, che emergono dall’oscurità dello sfondo a delineare, in tratti frammentati e movimentatissimi, figure del tutto prive di definizione disegnativa. f.f.g.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) Clemente Spera (1662 circa – 1742) per le architetture 2. Riposo di Diana fra rovine architettoniche

olio su tela. 44 × 59 cm genova, banca carige

3. Riposo di Sileno fra rovine architettoniche

olio su tela. 44 × 59 cm genova, banca carige

provenienza: Genova, collezione Angelo Costa (1901-1976); alienate dagli eredi Costa nel 1978.

bibliografia: Franchini Guelfi 1977, p. 125, figg. 121-122; Muti-De Sarno Prignano 1994, pp. 219-220 (con bibl. precedente); Orlando 2001, p. 174, figg. 161-162; Franchini Guelfi in Genova-Salerno 2003, p. 93; Franchini Guelfi in Rotondi Terminiello 2008, pp. 150-151, figg. 109-110.

Nel Riposo di Diana, davanti a maestose rovine di un tempio classico connotato da una fantasiosa varietà di stili – colonne lisce e scanalate, capitelli ionici e dorici – Diana, sdraiata su un drappo azzurro, si riposa fra le ninfe sue compagne di caccia; alla colonna centrale sono appesi la faretra, l’arco e il corno, altri corni e una faretra sono posati a terra e due snelli levrieri sono tenuti al guinzaglio da una ninfa che, come la dea, regge una lancia. Fra le rovine, sormontate da fronde e arbusti che ne evidenziano la corrosione e l’abbandono, si intravvede in una nicchia a sinistra una statua di divinità femminile ignuda e, fra le colonne scanalate, un’erma maschile che si staglia contro un arco fatiscente, sullo sfondo del mare lontano e di un luminoso cielo azzurro percorso da nuvole. Da destra irrompe correndo una ninfa che suona il corno per chiamare le compagne alla caccia, mentre un cervo esce improvvisamente dal colonnato. Nel Riposo di Sileno, davanti a rovine classiche assai simili a quelle del Riposo di Diana, giace un panciuto Sileno, attorniato dalle figure femminili e dai fauni che costituiscono il suo tradizionale corteggio. Accanto a lui su un drappo azzurro sono posate due anfore; un piccolo satiro giunge da destra recando sul capo un’anfora fumante. Un fauno si aggrappa a una colonna affacciandosi a guardare; un altro entra da sinistra suonando il corno; una ninfa avvolta in una veste bianca e in un manto azzurro giace davanti a Sileno. Sullo sfondo, oltre la fontana che conclude lo scenario architettonico,

Fig. 2a — Alessandro Magnasco e Clemente Spera, Baccanale, Mosca, Museo Puškin.

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un grigio scoglio dirupato si erge dalla distesa marina e un luminoso cielo azzurro percorso da nuvole sovrasta la scena e si intravvede fra gli archi in rovina. Le due tele sono caratterizzate dalle stesse misure, dagli stessi accenti stilistici e dall’impaginazione compositiva perfettamente speculare a costituire le due parti laterali della stessa scena teatrale, con le quinte architettoniche digradanti verso il centro focale della rappresentazione secondo la tradizionale impostazione prospettica della scenografia teatrale barocca. Le architetture classiche in rovina, sulle quali cresce una vegetazione che ne accentua il disfacimento, sono certamente state eseguite da Clemente Spera (1662 circa - 1742), pittore specialista in rovine architettoniche, che collaborò a lungo con il Magnasco in stretta sintonia. Alla specularità delle strutture architettoniche corrisponde la disposizione simmetrica delle figure, da quelle sdraiate al centro ai due suonatori di corno che entrano correndo; perfino le note cromatiche blu intenso si corrispondono simmetricamente, rivelando un’attenta elaborazione di queste due tele come coppia. Inoltre non esiste distacco o cesura fra gli interventi dei due artisti: fra le rovine dello Spera il Magnasco ha rappresentato statue, oggetti, figure in movimento, in una collaudata osmosi compositiva e cromatica. Clemente Spera fu per molti anni fra i più assidui collaboratori del Magnasco in scenografiche raffigurazioni sia di tematiche mitologiche, sia di episodi storici, biblici ed evangelici, sia anche in scene di “genere” con zingari e soldatacci accampati fra rovine. Documentato a Milano dal 1690 e bene inserito, come Magnasco, nella milanese Accademia di San Luca, lo Spera si caratterizza per le notevoli capacità scenografiche e per un fantasioso gusto delle rovine; la sua pennellata pastosa e morbida non costruisce i brani architettonici con un disegno nitido e preciso, ma definisce l’incidenza della luce sui dettagli della corrosione e del disfacimento delle colonne, delle muraglie, degli archi, degli architravi spezzati e cadenti, invasi dalla vegetazione, fra i quali le figure del Magnasco si inseriscono anche sotto forma di statue a monocromato. Lo stretto rapporto di questi due dipinti con la cultura teatrale del tempo è evidenziato


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Fig. 2b — Alessandro Magnasco e Clemente Spera, Baccanale, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

anche dalle tematiche mitologiche, che si identificano con alcuni dei soggetti più consueti dei balletti rappresentati negli Intermezzi. Il riposo di Diana e delle Ninfe è interrotto dall’apparizione di un cervo, evidente allusione alla trasformazione del cacciatore Atteone; l’ubriachezza di Sileno fra i satiri rientra nella tematica del baccanale, spesso rappresentata dal Magnasco e dallo Spera, come nei due dipinti pendants del Museo Puškin di Mosca e del Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo (figg. 2a e b). I due dipinti qui esposti possono essere collocati cronologicamente negli anni 1725-1730 per i caratteri della scrittura pittorica dell’artista, condotta con pennellate veloci, che disgregano le forme in sbavature luminose. Il successo di opere come queste presso la committenza è evidenziato dalla citazione elogiativa in inventari aristocratici come quello della quadreria Arese a Milano, nel quale si descrivono dipinti (oggi dispersi) con figure del Magnasco e “l’architettura di Clemente Spera con solido fondamento dell’arte maestosamente lavorata, alternata da rottami producenti per la vetustà germinate verdure fra le quali, e fra le arcate traspare lo sfondato d’un orizzonte” (Arese 1967, pp. 129-130). Come nella gran parte dei dipinti a soggetto mitologico, il Magnasco

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schiarisce il colore ed elabora movimentate variazioni sul tema delle figure danzanti e musicanti, in un discorso squisitamente decorativo. E tuttavia, anche in queste opere culturalmente meno impegnative delle “fraterie” e dei catechismi, l’artista assume una posizione personale. Egli infatti non si adegua alle modalità espressive tipiche delle tematiche mitologiche, che in quegli stessi anni molti pittori rappresentavano per una committenza volta soprattutto all’assaporamento edonistico delle immagini. Le sue ninfe livide e scarnificate e i suoi satiretti demoniaci negano ogni piacevolezza galante a un “genere” iconografico quasi sempre deputato a esprimere erotismo e più che mai volto in questa direzione nella prima metà del Settecento. A Venezia e a Milano gli affreschi di Giovan Battista Tiepolo (1696-1770), a Genova gli amori degli dèi di Gregorio (1647-1626) e Lorenzo (1680-1744) de Ferrari, a Firenze e a Venezia le mitologie galanti di Sebastiano Ricci (1659-1734; opere tutte che il Magnasco certamente poté vedere) propongono un discorso di solare luminosità, di vivido, brillante colore e di sensuale godimento che Magnasco consapevolmente rifiuta nelle sue mitologie inquietanti. f.f.g.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 4. La lezione di canto alla gazza

olio su tela. 48,5 × 38,5 cm collezione privata

provenienza: Genova, collezione Aldo Zerbone.

bibliografia: Franchini Guelfi 1986, p. 297, fig. 107; Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 271, n. 419, fig. 438 (con bibl. precedente).

In un interno oscuro e disadorno, un picaresco personaggio seduto su una panchetta, con una veste blu, un mantello bianco e un cappello nero ornato da una piuma, tenendo in mano un foglietto con il testo e alzando l’altra mano a battere il tempo insegna a cantare a una gazza che posa su una botte. Un compare seduto accanto a lui esegue l’accompagnamento musicale con un fagotto. Alla parete di fondo è appoggiato un lungo fucile. La struttura compositiva della scena, con i due personaggi disposti secondo due diagonali incrociate, rivela le capacità di impaginazione scenografica e spaziale dell’artista, che anche nelle raffigurazioni più complesse colloca sempre gli elementi della composizione in un calibratissimo insieme di simmetrie e rispondenze. I caratteri della scrittura pittorica sono tipici degli anni 1720-1725. I due personaggi di questo dipinto fanno parte della “birba vagabonda”, quella folla di girovaghi descritti ne Il vagabondo, ovvero sferza dei bianti, e vagabondi di Raffaele Frianoro (1621), uno dei libri più diffusi e ristampati nel Seicento e nel Settecento, e nell’ Arte della furfanteria (1622) di Giulio Cesare Croce, l’autore del Bertoldo. In questi testi vengono descritte le specializzazioni truffaldine di un variegato popolo di accattoni, bari e ciarlatani, ma anche ladri e briganti da strada, che il Magnasco rappresenta spesso nel momento del riposo e dello svago, assieme a donne e a bambini, in ricoveri fatiscenti e diroccati. Sono i gueux delle incisioni di Jacques Callot, sono i pícaros dei numerosi romanzi spagnoli, come La vida del pícaro Guzmán de Alfarache di Mateo Alemán (1599 e 1604) e la Historia de la vida del buscón llamado don Pablo, ejemplo de vagabundos y espejo de tacaños di Francisco de Quevedo (1626), per citare solo

Fig. 4a — Alessandro Magnasco, Lezione di canto alla gazza, Firenze, Galleria degli Uffizi.

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i testi più famosi, che circolarono fino al Settecento in molte traduzioni italiane. È la cosiddetta letteratura dei pitocchi, che narra le imprese della mendicità organizzata e ne analizza i complicati metodi di fraudolenza, descrivendo dettagliatamente le astuzie di straccioni che vivono sulla strada. Il Magnasco è il solo pittore italiano, assieme al Todeschini (1664-1736), ad attingere a queste fonti culturali, per committenti che gradivano una pittura “giocosa”. Nel contesto di questa vasta iconografia picaresca, della quale il Magnasco per tutto il corso della sua lunga attività ci offre innumerevoli variazioni, questa Lezione di canto alla gazza rappresenta il filone del concertino eseguito da strumenti e animali, come nel dipinto di collezione privata con il canto della gazza e il miagolio del gatto accompagnati da un liuto, una spinetta, un tamburello e un contrabbasso (Franchini Guelfi 1991, pp. 50-51). Sia nella pittura dei “bamboccianti” fiamminghi e olandesi, sia nel romanzo picaresco, il concerto con strumenti e cantanti impropri ha connotazioni burlesche ed è collegato ad un genere particolare di produzione musicale, la produzione carnevalesca, che comprende pezzi come la Capricciata e contrapunto bestiale per cane, gatto, cuculo e civetta composta per il giovedì grasso dal musicista Adriano Banchieri (1608). Il celebre Duetto buffo per due gatti di Gioacchino Rossini è forse l’ultimo esemplare di questo antico filone musicale. La prima Lezione di canto alla gazza fu eseguita dal Magnasco nei primissimi anni del Settecento per un raffinato committente che amava la pittura “giocosa”: il Gran Principe Ferdinando de’ Medici, erede del Granducato di Toscana. Sono esposti alla Galleria degli Uffizi due dipinti pendants che il Magnasco realizzò per lui nel suo soggiorno fiorentino (1703 circa - 1709) e che sono descritti nell’inventario della collezione di Ferdinando redatto alla sua morte nel 1713, La scuola dei birbi e La lezione di canto alla gazza (fig. 4a). Quest’ultimo dipinto è descritto nell’inventario come “un biante [vagabondo] a sedere con un foglio in mano in atto di battere [il tempo], et insegnare a cantare ad una gazzera” (Franchini Guelfi 1977, p. 103), dove il termine “biante” (girovago) rivela la conoscenza della letteratura dei pitocchi nell’ambiente culturale fiorentino per il quale il Magnasco lavorò con successo fino al suo ritorno a Milano. Il soggetto della gazza ammaestrata fu rappresentato anche da due altri pittori contemporanei del Magnasco, noti anch’essi per i loro soggetti picareschi: Giacomo Francesco Cipper detto il Todeschini e Giuseppe Maria Crespi (1665-1747). f.f.g.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 5. Soldati e pitocchi olio su tela. 56 × 41,5 cm parigi, galerie canesso

provenienza: Genova, collezione Aldo Zerbone.

bibliografia: Franchini Guelfi 1977, tav. XL; Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 240, n. 235, fig. 363 (con bibl. precedente).

In un interno buio, appena rischiarato da un fuoco che si intravvede sullo sfondo, due soldati (o briganti da strada?) con la spada al fianco riposano in compagnia di tre donne, fra le quali una giovane con un bimbo arrampicato sulla spalla e una vecchia seduta in primo piano con un bambino sulle ginocchia. La terza donna, in piedi a destra, sta lavorando a maglia. Il soldato in piedi offre una ciotola a un uccello ammaestrato, mentre l’altro, seduto a terra, ha sulle spalle una scimmietta indicata da un ragazzo seduto vicino a lui. In primo piano un lungo fucile è appoggiato al muro, alle pareti e alle colonne sono appesi pezzi di armature. Nelle collezioni dei Musei di Strada Nuova a Genova è conservata una replica autografa identica di questo soggetto e presso l’Art Institute di Chicago si conserva il bellissimo disegno preparatorio (fig. 5a). Queste opere sono tutte databili agli anni 1735-1740.

Fig. 5a — Alessandro Magnasco, Soldati e pitocchi, Chicago, Art Institute.

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Si tratta dell’iconografia tipicamente nordica dei “corpi di guardia” fiamminghi e dei “ritrovi di soldati e vagabondi” tedeschi e olandesi del Seicento, che il Magnasco poté vedere nelle collezioni genovesi e in quelle dei Medici a Firenze. E certamente l’artista studiò anche le stampe di Jacques Callot (1592-1635): dalle opere dell’incisore lorenese riprese non solo la tematica dei gueux, ma anche il segno graffiante, i disarticolati atteggiamenti delle figurette, le “storie senza storia” della serie Les misères et les malheurs de la guerre (fig. 16) che egli trascrisse nei tre dipinti dei musei di Vienna, di Bucarest e di Sibiu. Ma l’artista si ispirò anche a fonti letterarie: ai romanzi picareschi spagnoli e all’italiana “letteratura dei pitocchi”, ad esempio a testi come La strazzosa et molto meschina Compagnia del Mantellaccio (1600) e La tremenda e spaventevole compagnia di tagliacantoni overo scapigliati (1614) di Giulio Cesare Croce, opere tutte diffusissime fino al Settecento. I personaggi rappresentati sono fratelli dei pícaros di Mateo Alemán e di Francisco De Quevedo e dei soldati di ventura descritti da Hans J. Grimmelshausen nel suo Simplicissimus (1668). Un popolo di straccioni vagabondi fra mendicità e brigantaggio, che le guerre e le carestie avevano gettato sulle strade d’Europa, ma che nei testi letterari e nelle tele del Magnasco costituiscono soprattutto, più che un ritratto della realtà, un’alternativa anticonformista e demistificante rispetto ai soggetti nobili e allo stile elevato della letteratura aulica e celebrativa e della pittura decorativa. Nelle sue scene di pícaros e pitocchi le figure emergono da sfondi tenebrosi: la pennellata franta e scheggiata non si ferma a descrivere, in un andamento ritmico e spezzato evidenziato da risalti luminosi nell’assoluta mancanza di definizione disegnativa delle forme. Il pittore genovese rappresentò questo soggetto in numerosissimi dipinti, per tutto il corso della sua lunga attività; il riposo dei pícaros è talvolta ambientato fra rovine architettoniche eseguite dal suo collaboratore Clemente Spera (1662 circa - 1742), come nei grandiosi dipinti della collezione Lechi a Brescia e dell’Ermitage di San Pietroburgo. f.f.g.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 6. Preghiera davanti a una cappella campestre

olio su tela. 114 × 90 cm genova, musei di strada nuova - palazzo bianco, inv. pb 324

provenienza: Genova, collezione Pietro Sanguineti; dono da Maria Parocchino, vedova Sanguineti, 1939.

bibliografia: Geiger 1949, p. 21, tav. 162 (con bibl. precedente); Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 218, n. 101; Franchini Guelfi 1996, p. 28, fig. 19; Muti-De Sarno Prignano 1996, p. 152, n. 38 (con bibl. precedente).

In un paesaggio boscoso si erge una cappella a tempietto; le finestre ad arco aperte per lasciar vedere l’immagine sacra o le reliquie, oggetto di devozione, sono chiuse da grate. Davanti ad esse un prete, affiancato da due chierichetti che reggono alti fanali processionali, legge un libriccino di preghiere ascoltato da un piccolo gruppo di uomini, donne e bambini, alcuni dei quali inginocchiati in atteggiamento di profonda devozione. Il dipinto si colloca negli anni 1725-1730 ed è eseguito integralmente dall’artista anche nell’ambientazione paesistica: il paesaggio con i grandi alberi frondosi e il cielo striato di nubi è caratterizzato da un virtuosismo pittorico che supera la lezione del Peruzzini (per molti anni collaboratore del Magnasco come specialista in paesaggi) in direzione di una totale disgregazione del dato descrittivo in rapida notazione luminosa. Il tema prediletto del Peruzzini, il grande albero minutamente descritto nei rami e nelle fronde, qui non è più leggibile come elemento naturalistico ma come stilizzata e scenografica sigla decorativa, composta a inquadrare teatralmente la scena. Dopo la morte del Peruzzini nel 1724 il Magnasco riprese le sue scenografiche ambientazioni paesistiche, portando a un’estrema

Fig. 6a — Alessandro Magnasco, Preghiera davanti a una cappella campestre, Cleveland, Museum of Art.

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semplificazione gli elementi della composizione: alberi e fronde sono rappresentati da pennellate a tocco e da veloci colpeggiature luminose, molto lontane dalle accurate e dettagliatissime descrizioni naturalistiche tipiche del Peruzzini. Non si concorda dunque con l’attribuzione al Peruzzini di questo paesaggio, proposta da Muti – De Sarno Prignano (1996, p. 152, n. 38), che non tiene conto né dei caratteri pittorici delle figure del Magnasco, sicuramente eseguite anni dopo il 1724, né delle evidenti differenze stilistiche rispetto alle opere certe del paesaggista. Il Magnasco replicò molte volte questo soggetto, per il quale si conosce anche un bellissimo disegno preparatorio del Museo di Cleveland (fig. 6a), eseguito in pendant con un altro disegno dalle stesse misure e dagli stessi caratteri stilistici, il Cantastorie dell’Art Institute di Chicago (Franchini Guelfi 1999, pp. 134-137, nn. 31-32). Questo accostamento di una preghiera collettiva guidata da un sacerdote e di una narrazione sacra di un cantastorie girovago davanti a un’immagine della Madonna di Loreto, accompagnata dagli stessi atteggiamenti di devozione di un gruppo di popolani, rivela l’interesse dell’artista e dei suoi committenti per un dibattito molto acceso fra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento negli ambienti del cattolicesimo “illuminato”: l’educazione religiosa degli strati popolari. Questa iconografia non ha precedenti figurativi ed è troppo esplicitamente riferita a una realtà quotidiana per non sottintendere un discorso sul costume devozionale contemporaneo che il Magnasco è il primo pittore a indagare con acuto interesse (Franchini Guelfi 1977, pp. 218-225). Proprio negli stessi anni Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), che a Milano aveva frequentato gli stessi ambienti culturali dei committenti del Magnasco, conduceva una lunga ricerca sulle forme della devozione. In questo stesso contesto si collocano le tre rappresentazioni del Catechismo, l’una eseguita dall’artista per il Colloredo, governatore di Milano, con la sua replica autografa del Museo di Philadelphia, l’altra esposta in questa sede (scheda n. 7), che presentano un’importante iniziativa del laicato milanese per l’educazione religiosa dei bambini poveri. Questa Preghiera davanti a una cappella campestre non è dunque un “paesaggio con figure” puramente decorativo e si riferisce molto probabilmente alle “missioni” promosse in quegli anni soprattutto dai gesuiti nelle campagne lombarde per l’evangelizzazione della popolazione rurale. f.f.g.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 7. Il catechismo in chiesa olio su tela. 69,5 × 57 cm roma, collezione privata ₍gi parigi, galerie canesso₎

provenienza: Lugano, collezione privata.

bibliografia: Franchini Guelfi in Genova 1992, pp. 216-218, n. 117; Franchini Guelfi 2000, pp. 338-339; Damian 2012, pp. 48-53 (con bibl. precedente).

Nell’ampia navata di una chiesa con archi gotici e pilastri a fascio si svolge l’insegnamento del catechismo. Fra panche, sgabelli e inginocchiatoi, ecclesiastici e laici insegnano a una folla di bambini a farsi il segno della croce, a ripetere a memoria preghiere e definizioni della dottrina, a leggere il testo del catechismo su appositi libriccini. A destra, un vecchio gentiluomo munito di canna avanza suonando un campanello per imporre silenzio a chi chiacchiera; a sinistra, un giovane seduto con una canna vigila sul comportamento degli scolari; al centro un prete parla dal pulpito. La descrizione dell’interno e dell’arredo, interamente eseguita dal Magnasco, sembra riferirsi ad una chiesa ben precisa. In capo alla navata c’è un altare con tabernacolo a tempietto, sormontato da un baldacchino a tenda, e accanto ad esso si intravvede, addossato ad un pilastro, un pulpito sormontato da un capocielo e sorretto da alte cariatidi con la mitra vescovile: si tratta probabilmente del tardo cinquecentesco Pulpito dei Dottori del duomo di Milano. Del tutto realistica è anche la complessa, animatissima scena, che rappresenta fin nei dettagli una delle numerose scuole della Dottrina Cristiana operanti nella diocesi di Milano. Gestite da laici in stretto collegamento con le gerarchie ecclesiastiche, queste scuole costituivano una vasta e capillare organizzazione scolastica aperta ai bambini poveri, anzi creata appositamente per loro. La loro impostazione didattica era finalizzata all’educazione religiosa, ma lo strumento di base era costituito da testi devozionali sui quali gli allievi potevano imparare anche a leggere e scrivere. È questa particolarità a distinguere le scuole della diocesi milanese: l’artista pone infatti

Fig. 7a — Alessandro Magnasco, Il catechismo, Philadelphia, Museum of Art. Fig. 7b — Alessandro Magnasco, Il catechismo nel duomo di Milano, Seitenstetten (Austria), Pinacoteca dell’Abbazia.

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in grande evidenza l’uso del libro di testo. A destra, un anziano gentiluomo dal mantello rosso insegna a leggere ad un bambino inginocchiato indicandogli le lettere col dito, mentre accanto a lui due piccoli, appoggiati a due panchette e momentaneamente distratti, sono in atto di scrivere su un quadernetto. Fondate nel Cinquecento e in seguito fortemente sostenute dall’azione pastorale di San Carlo Borromeo (1538-1584), proprio nella prima metà del Settecento le scuole della Dottrina Cristiana, in connessione con il risvegliarsi di un diffuso interesse per i problemi educativi, ebbero un nuovo sviluppo. Sono gli anni nei quali una corrente di pensiero “illuminato” si riconosceva negli scritti di Ludovico Antonio Muratori, che nel De ingeniorum moderatione in religionis negotio (1714) e in seguito nel Della regolata divozion de’ cristiani (1747) esprimeva una ferma denuncia delle forme aberranti di devozione, ne individuava nell’ignoranza il terreno più fertile e proponeva una più corretta istruzione religiosa. Gli interventi del Muratori sono fra i contributi più importanti nella discussione sulla devozione popolare e sull’istruzione religiosa; ed è certo all’interno di questa discussione che si colloca il dipinto del Magnasco. A partire dalla sua prima istituzione (1539), la Compagnia delli Servi de i puttini in carità, la quale insegna ne i dì de le feste a’ puttini et alle puttine li boni costumi christiani et legere et scrivere gratis et amore Dei prescriveva regole precise per il funzionamento delle scuole. Il corretto uso della canna per le punizioni, i compiti del Silenziere con il suo campanello, del Pescatore che conduceva i negligenti e i ritardatari, dei Maestri e del Cancelliere che insegnava a


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scrivere agli allievi più dotati sono descritti in testi come il Libretto per conoscer il governo delle Scuole de’ Putti, & Putte, & come si debba orare (Brescia 1595), che offrono un dettagliato riscontro del dipinto magnaschesco. Il grande interesse di questo Catechismo sta non solo nell’altissima qualità pittorica e nel realismo della rappresentazione, ma anche nel rapporto con l’ambiente “illuminato” milanese: oltre alla redazione qui esposta, infatti, che per ragioni stilistiche sembra eseguita intorno al 1730, l’artista dipinse altri due Catechismi quasi identici, nei quali la scena si allarga orizzontalmente e comprende anche un Pescatore, che giunge da sinistra conducendo per mano un bambino, e a destra un tavolo al quale siedono i Sopramaestri, un prete e due laici. Le due tele si trovano al Philadelphia Museum of Art e nella pinacoteca dell’abbazia di Seitenstetten (figg. 7a e b). Quest’ultimo Catechismo fu dipinto fra il 1719 e il 1725 per il conte Gerolamo di Colloredo (1674-1726), governatore austriaco di Milano, in pendant con una Sinagoga. La connessione della tematica del Catechismo con il Colloredo, che fu tra i patrocinatori della pubblicazione di alcune opere del Muratori, è un fatto estremamente significativo per capire questi dipinti del Magnasco, che non hanno nessun precedente figurativo e che furono realizzati su richiesta di una committenza coinvolta nelle problematiche

dell’educazione religiosa. Colpisce il grande rilievo dato dal pittore sia alla forte partecipazione dei laici, visivamente connotati dalla foggia e dal colore degli abiti, sia all’assoluta fedeltà alla Regola della scuola nel basso numero di allievi per ogni maestro e nella presentazione dei vari gradini dell’insegnamento, che iniziava dal segno della croce e dalla ripetizione a memoria di semplici preghiere, per continuare con l’apprendimento della lettura sul volumetto del catechismo, infine con la scrittura di “buone sentenze e santi documenti”. La straordinaria evidenza ritrattistica di alcuni laici rappresentati nelle tre redazioni del Catechismo, come il Pescatore delle tele di Philadelphia e di Seitestetten e il Silenziere del dipinto qui esposto, fa supporre che essi alludano a personaggi ben noti ai committenti; ed anche da questa iconografia emerge l’originalità del discorso del pittore, che del supporto tradizionale della scena di genere si serve – smentendone la funzione puramente decorativa – per intervenire nei dibattiti più impegnativi della cultura contemporanea e nella riflessione sulla realtà del suo tempo. L’interesse dell’artista e dei suoi committenti per le modalità della devozione popolare si espresse anche nei numerosi dipinti con la rappresentazione della Preghiera davanti a una cappella campestre, come quello dei Musei di Strada Nuova a Genova (scheda n. 6). f.f.g.

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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 8. Il furto sacrilego olio su tela. 176 × 236,5 cm milano, museo diocesano, quadreria archivescovile, inv. md 2001.060.001

provenienza: Siziano (Pavia), Chiesa di Santa Maria Assunta di Campomorto; Milano, Quadreria Arcivescovile, trasferito nel 21 febbraio 1974.

bibliografia: Geiger 1949, pp. 55-56, 77, tavv. 317-318 (con bibl. precedente); Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 233, n. 189, fig. 87, tavv. XXXII-XXXIII (con bibl. precedente); De Bortoli in Milano 1996, pp. 220-221, n. 61; Ghio 1996, pp. 30-31; Coppa 1999, p. 295; Di Fabio in Bona Castellotti 1999, pp. 446-449; Franchini Guelfi 1999, p. 10, fig. 1; Bianchi in Milano 2000, pp. 178179, n. 67; Franchini Guelfi 2000, p. 343, fig. 499; Franchini Guelfi 2001, p. 253, fig. 248; Bianchi in Milano 2003-2004, pp. 570-571; Biscottini 2005, p. 205; De Stefano Giannuzzi Savelli in Torino 2005, p. 335, n. 105; Biscottini-Crivelli 2006, p. 110; Devitini in Biscottini 2011, pp. 246-247; Spiriti 2014, pp. 350-351.

La notte del 6 gennaio 1731 Benedetto Colombo detto il Barcarolo, Francesco Antonio Avogader detto il Sartorone, Grandur e Adamo Colombo detto il Bestuco “che furono carcerati, e successivamente […] condannati alla forca […] hanno confessato nelli loro processi, essere andati di notte tempo per rubbare […] in detta Chiesa di Santa Maria di Campomorto, servendosi di un catteletto, che stava di fuori di detta Chiesa per salire sopra una finestra, per potere da quella entrare […] il che gli è riuscito, e entrando per quella sopra d’un confessionario, che sotto a detta finestra vi stava, rimasero confusi e storditi di maniera tale che non ardirono discendere da quello per il grande rumore, e strepito, che sentivano in detta Chiesa, e persone vestite di nero, che vedevano passegiare con lume acceso in mano, con di più acendersi e smorzarsi le lampade […] in tempo che il Bestuco era andato ad una cassina contigua a cercare una scala per loro maggior commodo, il quale arrivato che fu salì anch’esso con detta scala alla medesima finestra per entrare e ritrovò li detti compagni che erano ancora in piedi sopra detto confessionario mezzi immobili; e gli adimandò: eh bene avete rubbato niente ancora? li quali gli risposero non esservi niente da fare narandogli il strepito, il rumore de’ banche, la gente con lume acceso in mano […] gli rispose: che sarà il Curato che sarà per mettervi paura: lasciate pur fare a me, che gli darò una pestonata, il che, dal medesimo veduto, come hanno veduto li altri ancor esso impaurito rispose: Qui non vi è niente a fare per noi, ma bisogna siano li Morti: andiamo a fare li fatti nostri, e questo è quanto resta brevemente estratto dalla loro depositione”. Questo documento, oggi irreperibile, fu scoperto da Benno Geiger nel 1938 nell’archivio della chiesa di Santa Maria di Campomorto a Siziano (Geiger 1949, pp. 55-56), dove il dipinto del Magnasco fu conservato nella sua collocazione originaria fino alla seconda metà del Novecento, per essere poi trasferito alla Quadreria Arcivescovile di Milano per ragioni di sicurezza e successivamente al Museo Diocesano. Il Geiger aveva visto il dipinto nel 1937 nello studio milanese del restauratore Mauro Pellicioli, al quale era stato affidato dalla chiesa di Siziano. Alla ricerca di opere del Magnasco in tutta Europa, il Geiger tentò di acquistarlo per 30.000 lire; ma il parroco, dopo aver interpellato la Soprintendenza di Milano, rifiutò l’offerta e non si lasciò indurre a vendere il dipinto neppure in seguito quando, dopo la pubblicazione dell’articolo del Geiger nel 1938, si presentarono altri acquirenti (Coppa 1999, p. 295; Franchini Guelfi 2001, pp. 253-255).

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Assieme alla Cena in Emmaus del convento di San Francesco d’Albaro a Genova, è il solo dipinto finora noto dell’artista a destinazione chiesastica, dato che il Presepe eseguito dall’artista per i gesuiti milanesi non è stato finora rintracciato e per ragioni stilistiche non è identificabile con la tela pubblicata dal Geiger (Geiger 1949, pp. 102-103, tavv. 216-217). Certamente l’opera fu richiesta al Magnasco poco dopo il fatto; è dunque una delle pochissime tele databili con certezza e costituisce un punto di riferimento per la datazione e l’analisi della scrittura pittorica di molte altre opere. L’intavolazione cromatica è tutta basata su toni lividi e spenti, marroni e grigi con pochi tocchi di azzurro, giallo e bianco; la pennellata si disgrega nelle spasmodiche contorsioni e nell’esasperata gestualità delle figure, che emergono dalle tenebre in risalti luminosi di forte drammaticità. Il Magnasco ha rappresentato il tentativo di furto sacrilego seguendo fedelmente la cronaca del fatto, che certamente gli fu fornita dalla committenza, svolgendo la narrazione in quattro momenti successivi, che si leggono da sinistra a destra. In una notte tenebrosa, appena rischiarata da una falce di luna nel cielo sopra la chiesa, a sinistra i quattro ladri si arrampicano dall’esterno fino ad una finestra della chiesa servendosi di un “cataletto” (barella per il trasporto dei defunti); nella scena centrale è rappresentato l’interno della chiesa con il terrorizzante spettacolo dei morti che, sorgendo dalle tombe nel sottosuolo della chiesa, spostano le panche e agitano fiaccole per scacciare gli intrusi; in primo piano a destra si vede il Bestuco che giunge recando la scala. La scena a destra sullo sfondo si divide in due momenti: i ladri che fuggono nell’oscurità inseguiti dai morti e, all’estremità superiore del dipinto, la lugubre rappresentazione della loro impiccagione. Affacciata ad una nuvola, la Vergine, titolare e protettrice della chiesa, con veste bianca e manto azzurro, tende il braccio destro con gesto imperioso a suscitare i morti e con il sinistro indica il castigo dei malfattori. Il restauro effettuato nel 1990 ha abolito le ridipinture che avevano coperto totalmente l’episodio della fuga e dell’impiccagione, e anche il braccio sinistro della Vergine, certo quando non restava più memoria del fatto e quei particolari risultavano sgradevoli. Si tratta dunque evidentemente di un ex voto, anche nella struttura narrativa: tutte le fasi dell’azione sono rappresentate simultaneamente, da sinistra a destra, certo su precise indicazioni della committenza. L’artista resta fedele al fatto fin nei dettagli, come nel nero drappo funebre caduto a terra dal cataletto,


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ma esalta al massimo il fulcro emozionale della vicenda: il tumultuoso intervento dei morti, che sorgono dalle lastre tombali e si dispongono negli atteggiamenti di una turbinosa danza macabra ancor memore delle Totentanz (danze della Morte) medievali e dei trionfi della Morte dei sepolcri barocchi. Le suggestioni emotive di quest’opera sono ben diverse dalla rassicurante cronaca tipica degli ex voto: l’edificante racconto della chiesa difesa dai morti e del sacrilegio punito si trasforma in una notte d’orrore, popolata da scheletri terrificanti che scaturiscono violentemente dalle tenebre, personificazione dei più spaventosi incubi della mente. Con questo dipinto e con altre opere come le quattro Streghe di collezione privata, il pittore si avventura nelle zone più cupe e sotterranee della coscienza, esprimendo con straordinaria forza la seduzione delle tenebre. È ancora una volta la sensibilità

del Muratori ad esprimere l’orrore e il fascino delle tenebre della mente parlando della “forza della fantasia umana” (1727): “mi sono incontrato in grotte che m’han fatto tremare”. Magnasco non condivide la luminosità e l’ottimismo di un nuovo possesso razionale della realtà, che questa “età illustrata” dalla ragione (Maffei [1710] 1716, p. 162) comincia a far intravvedere: l’inquietante “danza macabra” di questo dipinto nega ogni razionalità per far affiorare gli insopprimibili terrori dell’animo. Non è possibile accettare l’interpretazione ironica e umoristica di quest’opera, recentemente proposta come “lettura libertina “ e “scettica nei confronti del miracolo” (Spiriti 2014, pp. 350-351). L’evidente tragicità della rappresentazione nel protagonismo degli scheletri che aggrediscono i malfattori non fornisce nessun elemento per un’interpretazione di questo tipo. f.f.g.

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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 9. Omaggio a Plutone olio su tela. 87 × 117 cm collezione privata ₍gi parigi, galerie canesso₎

10. Funerale ebraico ₍in mostra soltanto a genova₎ olio su tela. 87 × 117 cm parigi, muse d’art et d’histoire du judasme, inv. d.2010.03.001, deposito del muse du louvre, ₍gi parigi, galerie canesso₎

n. 9 provenienza: Milano, collezione Giuseppe Beltrami; Genova, collezione Alessandro Basevi; Lugano, collezione Orazio Bagnasco.

bibliografia: Geiger 1949, pp. 91-92, tav. 310 (con bibl. precedente); Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 220, n. 111, fig. 338 (con bibl. precedente); Vismara Chiappa 1996, p. 93, fig. 2; De Sarno Prignano in Ancona 1997, p. 37, fig. 35; Franchini Guelfi 2000, p. 334, fig. 490; Romanengo 2001, p. 114, fig. 73; Muti 2002, p. 335, fig. 29, tav. XLIII; Damian 2009, pp. 48-59.

n. 10 provenienza: Venezia, collezione Italico Brass (1870-1943); Genova, collezione Alessandro Basevi; Lugano, collezione Orazio Bagnasco.

bibliografia: Geiger 1949, p. 144, tav. 309 (con bibl. precedente); Franchini Guelfi 1977, p. 219, fig. 242; MutiDe Sarno Prignano 1994, p. 258, n. 337, fig. 337; Vismara Chiappa 1996, p. 91; De Sarno Prignano in Ancona 1997, pp. 158-159, n. 48; Damian 2009, pp. 48-59; SigalKlagsbald 2010, pp. 9-12.

I due dipinti, caratterizzati dalle stesse misure e dagli stessi accenti stilistici, sono con ogni probabilità stati realizzati come pendants e si possono collocare negli anni 17351740. Nell’Omaggio a Plutone, in una cupa atmosfera notturna, fra alberi spogli e rinsecchiti e sepolcri pagani a piramide, in un cimitero formicolante di inquietanti presenze, si erge al centro della scena un altare decorato da pendoni di frutta e da un bucranio e sormontato da una statua di Plutone incoronato, avvolto in un drappeggio svolazzante. Che si tratti del re degli Inferi è attestato dall’ambientazione in un cimitero e da inquietanti presenze sataniche: i due caproni ai due lati della scena e il demone cornuto a destra che agitando un turibolo offre incenso alla statua del dio. Ai lati e davanti all’altare satiri e satiretti dalle zampe caprine suonano tamburelli e siringhe; un satiretto in primo piano suona una conchiglia mentre una satiressa e una giovane donna, disposte specularmente davanti all’altare, suonano un lungo flauto traverso; un’altra satiressa a destra impugna anch’ella una siringa. Al centro una gran fiamma è accesa in un braciere; due raffinatissime brocche argentee posano a terra fra i satiretti. Nella rigorosa struttura compositiva perfettamente calibrata nella disposizione simmetrica degli elementi figurativi, la rappresentazione è animata da un turbinoso movimento, nelle forme condotte da una pennellata scioltissima. Fra tutti i numerosi soggetti mitologici del Magnasco, questo è sicuramente il più anticonformista, anzi più che al “genere” della mitologia si avvicina alle raffigurazioni stregonesche che il Magnasco eseguì nei suoi ultimi anni, per la potenza evocativa di presenze tenebrose e sataniche. Nelle sue composizioni mitologiche l’artista rifiuta la piacevolezza delle forme e la sensualità coloristica tipica di questa tematica, che fra la seconda metà del Seicento e la prima metà del Settecento rappresenta il “genere” decorativo per eccellenza, in dipinti su tela e in affreschi connotati da un’atmosfera erotica e galante nella narrazione degli amori degli dei e nella raffigurazione di luminose presenze in cieli di limpido azzurro. Le livide ninfe e i diabolici satiri del Magnasco, dalle membra disarticolate in movimenti convulsi, sono caratterizzati

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da un colore spento e da forme prive di qualunque intenzionalità erotica e di ogni rasserenante piacere visivo. Nelle mitologie del Magnasco c’è probabilmente anche la suggestione degli Intermezzi musicali con balletti, tipici degli spettacoli teatrali del tempo, molto spesso dal soggetto mitologico. L’interesse del Magnasco e dei suoi committenti per la produzione teatrale del tempo è attestata sia dalle scenografie prospettiche di Clemente Spera in numerose tele con figure del pittore genovese, sia dal dipinto di collezione privata con la raffigurazione della scena di apertura del Giuseppe che interpreta i sogni, opera rappresentata nel 1726 con musica di Antonio Caldara (Franchini Guelfi in Milano 1996, pp. 168-169). Nel Funerale ebraico, all’interno di un cimitero con tombe di varie forme, da sontuosi monumenti a piramide a umili cippi a livello del terreno, tutti contrassegnati da uno stemma, tre uomini scavano con la vanga una fossa per il defunto che giace a destra, fra i parenti inginocchiati. A sinistra un personaggio dal mantello blu, che indica con la mano gli scavatori, sembra guidare la cerimonia, che viene seguita dagli astanti recitando le preghiere di rito da un libro, mentre altri piangono attorno a questo personaggio e vicino al cadavere. Quasi tutti portano il tipico copricapo ebraico. L’ambientazione paesistica, anch’essa opera dell’artista, è caratterizzata da alcuni alberi ai lati della scena e da uno spazio aperto con una città sullo sfondo; il cimitero si colloca dunque lontano da centri abitati. La rappresentazione è connotata da una forte drammaticità. L’interesse del Magnasco per i riti ebraici nasce con ogni probabilità durante il suo soggiorno toscano (1703 - 1709 circa): risalgono a questi anni i due pendants Riunione di quaccheri e Sinagoga oggi alla Galleria degli Uffizi. In quest’ultimo dipinto la sinagoga è rappresentata con esattezza e non è escluso che l’artista abbia visto direttamente il luogo di culto ebraico, poiché è documentato al 1704 un suo lavoro per un committente di Livorno, città nella quale fin dalla fine del Cinquecento viveva una importante comunità ebraica, protetta dal governo dei Medici, che aveva permesso la costruzione di una sinagoga (Frattarelli Fischer 1995, pp. 33-46). I privilegi concessi dai Medici


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favorirono la prosperità di questa comunità, costituita soprattutto da commercianti. Nel 1657 un piccolo gruppo di missionari quaccheri giunse a Livorno e si rivolse agli ebrei, che la accolsero a predicare in sinagoga (Villani 1996; Vismara Chiappa 1996; Villani 1997). I due pendants del Magnasco furono realizzati certamente sull’eco di questo straordinario avvenimento. In seguito il pittore rappresentò ancora sinagoghe; la più importante è certamente la grande tela eseguita, in pendant col Catechismo nel duomo di Milano (fig. 7b), per il conte Gerolamo di Colloredo, governatore austriaco di Milano dal 1719 al 1725, oggi nella pinacoteca dell’abbazia di Seitenstetten (Austria), alla quale il conte la lasciò in eredità. In questa grandiosa composizione è rappresentato con esattezza l’arredo della sinagoga e l’imponente figura di vecchio che, col libro delle preghiere in mano, si volge verso l’osservatore, è forse un ritratto. Anche nell’entourage del Colloredo era vivo l’interesse per i riti ebraici, come attesta il catalogo della biblioteca di Michele Maggi, insegnante alle Scuole Palatine di Milano e precettore dei figli del Colloredo. Fra i suoi libri c’erano

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diversi testi sulla storia e i rituali ebraici, fra i quali il De sepulchris hebraeorum di Giovanni Nicolai (1706), che trattava appunto dei funerali (Bona Castellotti 1996, p. 16). Da ricordare che proprio nel 1714 il governo austriaco aveva decretato la riammissione degli ebrei nel territorio di Milano, inaugurando una politica di tolleranza in contrasto col passato governo spagnolo. Il Magnasco è l’unico pittore italiano a rappresentare i riti ebraici; la sola altra raffigurazione di una sinagoga è la stampa dell’incisore genovese Giovanni Andrea Delle Piane (1679-1759), coetaneo di Magnasco (Montiani Bensi 2000, p. 200, fig. 1). Anche a Genova esisteva una forte comunità ebraica di commercianti, protetta dal governo. Resta per ora inspiegabile l’accostamento fra l’Omaggio a Plutone e il Funerale ebraico, se, come è probabile, i due dipinti furono realizzati come pendants. Accomunati dall’atmosfera notturna e dai caratteri stilistici della maturità dell’artista, i due dipinti affiancano una scena immaginaria a un brano di realtà contemporanea, che resta finora un unicum nell’opera del Magnasco. f.f.g.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 11. Sant’Agostino e l’angelo olio su tela. 118 × 92 cm genova, musei di strada nuova - palazzo bianco, inv. pb 2746

12. Sant’Antonio predica ai pesci ₍in mostra soltanto a genova₎ lio su tela. 118 × 92,5 cm o pisa, museo nazionale di palazzo reale, inv. 1767

n. 11 provenienza: Genova, collezione Gianni Delmonte; donato nel 1969 da Mila Fissore Dolci in memoria del cognato G. Delmonte.

bibliografia: Geiger 1949, p. 92 (con bibl. precedente); Muti-De Sarno Prignano 1994, pp. 218-219, fig. 266, tavv. XII-XIII (con bibl. precedente); Franchini Guelfi in Milano 1996, p. 184, n. 41; Gregori 1997, p. 65, tav. 32; Muti in Ancona 1997, pp. 132-133, n. 37; Franchini Guelfi 1999, p. 63, fig. 47; Profumo 1999, p. 228; De Rossi 2003, p. 460, fig. 7.

n. 12 provenienza: Pisa, collezione Antonio Ceci (1852-1920); legato A. Ceci, 1920.

bibliografia: Geiger 1949, p. 130, tavv. 483-484 (con bibl. precedente); MutiDe Sarno Prignano 1994, p. 248, fig. 416 (con bibl. precedente); Franchini Guelfi in Milano 1996, pp. 184-185; Muti in Ancona 1997, pp. 130-131, n. 36; De Rossi 2003, p. 460, fig. 8; Boccardo 2007, pp. 43-49.

Sulla riva di un’insenatura marina, fiancheggiata da grandi alberi frondosi, sullo sfondo di un cielo striato di nuvole, Sant’Agostino con un gran libro aperto in mano si volge verso un bambino che, seduto a terra, gli mostra un cucchiaio dal quale cola dell’acqua. È il noto episodio che riguarda la riflessione del santo sul mistero della Trinità. Ad Agostino che cerca di comprendere il mistero, compare un angioletto che tenta di svuotare il mare con un cucchiaio: impresa impossibile come quella di penetrare i misteri divini. Il dipinto si può collocare intorno al 1740 per le inflessioni mature del linguaggio pittorico: l’intavolazione cromatica è tutta impostata sui toni dell’azzurro cinereo e le forme appaiono come labili parvenze luminose nell’attimo stesso del loro scomporsi e disgregarsi in pure vibrazioni cromatiche. La struttura compositiva pone al centro della scena il nucleo narrativo delle figure, nella cornice scenografica di un ventoso paesaggio; la perfetta identità pittorica fra le figure e il paesaggio porta ad attribuire tutta la composizione al Magnasco. Lo stesso discorso si può fare per il Sant’Antonio predica ai pesci del Museo di Pisa, caratterizzato dalle stesse misure, dalla stessa scrittura pittorica e dalla stessa struttura compositiva, molto probabilmente in origine eseguito assieme al Sant’Agostino come pendant. L’artista aveva eseguito altri due pendants con gli stessi soggetti, probabilmente alcuni anni prima come sembrerebbe dai caratteri stilistici

Fig. 11a — Alessandro Magnasco e Antonio Francesco Peruzzini, Il grande bosco, Venezia, Gallerie dell’Accademia. Fig. 11b — Alessandro Magnasco, Il battesimo di Cristo, Washington, National Gallery of Art.

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(già coll. Benno Geiger, Muti – De Sarno Prignano 1994, p. 268, nn. 396-397, figg. 263-264). L’attribuzione ad Antonio Francesco Peruzzini (1643/1646 - 1724) di tutti i paesaggi con figure del Magnasco, fra i quali questi due dipinti, da parte di Laura Muti e Daniele De Sarno Prignano (Muti – De Sarno Prignano 1994; Muti – De Sarno Prignano 1996; Ancona 1997) pone un problema che, in mancanza di documentazione archivistica, può per ora essere discusso solo sulla base della lettura stilistica delle opere. Prima della scoperta della personalità di Antonio Francesco Peruzzini da parte di Wart Arslan (1959), Mina Gregori (1964 e 1975) e Marco Chiarini (1969 e 1975) (Franchini Guelfi 1999, pp. 42-64), quasi tutti i paesaggi con figure del Magnasco erano stati sempre attribuiti al pittore genovese; ma la documentazione rintracciata dai tre studiosi in riferimento ad alcuni dipinti di collezioni private e delle collezioni medicee (i due pittori soggiornarono insieme a Firenze dal 1703 al 1709 circa) permise di riconoscere la grafìa del paesaggista e di attribuirgli numerosi paesaggi realizzati in collaborazione col Magnasco. Il suo virtuosistico linguaggio pittorico è connotato da un vibrante “puntinismo” nella dettagliata, vivacissima descrizione delle fronde, dei tronchi, del sottobosco; le composizioni presentano la scenografica disposizione di grandiosi alberi dagli intricati viluppi frondosi, che


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Fig. 11c — Alessandro Magnasco, Cristo salva San Pietro dalle onde, Washington, National Gallery of Art.

spesso sono i veri protagonisti della scena rispetto alle figure del Magnasco. Esempio fra i più eloquenti è il Grande bosco delle Gallerie dell’Accademia a Venezia (fig. 11a), realizzato certamente negli anni fiorentini, molto vicino ai dipinti documentati degli Uffizi. La morte del Peruzzini nel 1724 pose fine a questa lunga collaborazione ed è proprio dalle opere stilisticamente collocabili (per le figure del Magnasco) a partire dal 1725 circa che i caratteri pittorici dell’ambientazione paesistica evolvono in direzione del superamento del dato naturalistico verso una stilizzata cifra decorativa, in una totale simbiosi pittorica con le figure: i grandi alberi si smaterializzano in tratti luminosi e veloci pennellate e si dispongono ai lati della composizione, in funzione di quinte teatrali, ad evidenziare la centralità delle figure. Il paesaggio boscoso

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si trasforma da protagonista a cornice: trasformazione a cui il Peruzzini non avrebbe sicuramente aderito. È dunque con ogni probabilità il Magnasco stesso ad eseguire quasi tutti i paesaggi nei quali si collocano le sue figure databili dopo il 1725, compresi i due noti pendants della National Gallery of Art di Washington, Il battesimo di Cristo e Cristo salva San Pietro dalle onde (figg. 11b e c), dipinti intorno al 1740, nei quali gli elementi paesistici appaiono totalmente smaterializzati in velocissimi tocchi luminosi, privi di ogni intenzione descrittiva. Inoltre, per poter dare al Peruzzini i paesaggi di opere come quelle di Washington e come i due pendants che qui si espongono, Muti e De Sarno Prignano hanno dovuto datarle ad anni antecedenti al 1724: operazione chiaramente inaccettabile sul piano dell’analisi stilistica. f.f.g.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 13. Seppellimento di un frate trappista olio su tela. 91 × 129 cm bassano del grappa, museo biblioteca archivio, inv. 187

provenienza: legato Giuseppe Riva (1791-1872), 1876.

bibliografia: Geiger 1949, p. 69, tav. 441 (con bibl. precedente); Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 201, n. 14, fig. 223 (con bibl. precedente); Guderzo in Milano 1996, pp. 172173, n. 34; Franchini Guelfi 2008, p. 280, n. 141; Franchini Guelfi 2014, p. 308, fig. 6.

Sullo sfondo di un cielo notturno, un gruppo di frati trappisti dalla caratteristica veste bianca è impegnato a seppellire il corpo di un confratello che giace su un cataletto. La scena si svolge all’interno di un chiostro, definito da quattro arcate sostenute da colonne binate, con clipei raffiguranti ad altorilievo busti di vescovi fra un arco e l’altro; nudi tronchi di alberi scheletrici fanno da contrappunto, con le loro scabre superfici percorse da guizzi di luce, alle colonne sullo sfondo; accanto al cataletto si erge su un alto basamento una colonna con capitello corinzio cimata da una croce, a indicare la destinazione cimiteriale del chiostro. Il corteo funebre, guidato da un anziano frate che regge una croce astile e da due giovani monaci che recano due alti ceri, è fermo in attesa; due frati inginocchiati vicino al defunto leggono da un libretto le preci funebri mentre un altro sembra benedire la salma e accanto a lui un confratello regge il secchiello con l’aspersorio dell’acqua benedetta. Al centro un gruppo di frati sta scavando la fossa in un terreno già denso di sepolture contrassegnate da piccole croci. Questa tela si inserisce nella ricchissima serie di episodi della vita conventuale dei Trappisti, che il Magnasco è il solo artista a rappresentare, spesso in pendant con momenti della vita di frati cappuccini, come nelle due piccole tele del Rijksmuseum di Amsterdam, Tre frati trappisti nell’eremo e Tre frati cappuccini nell’eremo (figg. 13a e b). Il dipinto è caratterizzato da un cromatismo di severa sobrietà e da una cupa drammaticità; la consistenza della pennellata lenta e grumosa porta a collocare l’opera nel secondo decennio del Settecento. Il soggetto rappresenta forse l’espressione più forte di quel rifiuto della decorazione rasserenante e piacevole tipica di molta pittura

Fig. 13a e b — Alessandro Magnasco, Tre frati trappisti nell’eremo e Tre frati cappuccini nell’eremo, Amsterdam, Rijksmuseum.

Fig. 13c — Alessandro Magnasco, Seppellimento di un frate trappista, Kiev, Museo Bogdan e Varvara Khanenko.

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settecentesca, che il Magnasco dichiara in tutte le tematiche della sua pittura e particolarmente nelle “fraterie”. Accanto alla rappresentazione della rigorosa adesione all’ideale di povertà dei Cappuccini, la presenza dei Trappisti, ordine di recentissima istituzione (1678) conferma la posizione del Magnasco e dei suoi committenti nell’acceso dibattito contemporaneo sugli ordini religiosi: la proposta di una riforma rigorista col ritorno all’originaria vita di povertà e di preghiera. La fondazione dei Trappisti, i Cistercensi riformati di stretta osservanza, fu realizzata dall’abate Armand Jean Le Bouthillier de Rancé (1626-1700) e fu diffusa dai suoi scritti, come gli Eclaircissemens […] de la sainteté et des devoirs de la vie monastique (1685): questo severissimo testo, nel quale il fondatore proponeva il ritorno alla santità primitiva della vita cenobitica, fu tradotto in lingua italiana (Dilucidazione […] sopra il libro della santità e degli obblighi della vita monastica, rimasto manoscritto) da uno dei committenti milanesi del Magnasco, l’aristocratico Giovan Francesco Arese. “L’afflizione della penitenza […] lo spirito d’umiltà, e di sofferenza” (dalla traduzione dell’Arese, p. 256) sono i valori soprattutto esaltati dal de Rancé, assieme


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Fig. 13d — Alessandro Magnasco, Frati trappisti in biblioteca, Collezione privata, courtesy Robilant-Voena.

alla povertà e alla rivalutazione del lavoro manuale, in opposizione alla decadenza e alla corruzione della vita conventuale del tempo (Franchini Guelfi 1977, pp. 192216; Franchini Guelfi 1986, pp. 303-307). Che su queste posizioni concordassero numerosi committenti del Magnasco è dimostrato dal numero notevolissimo delle sue “fraterie” e, per quanto riguarda questo Seppellimento, dalle repliche dell’artista e dalle copie eseguite da allievi e imitatori. Si conoscono due repliche di mano dell’artista, quella già della collezione Von Heister a Düsseldorf e quella già della collezione Liechtenstein a Vienna (Geiger 1949, tavv. 439-440), mentre il Seppellimento del Museo della Collegiata di Castellarquato è opera di un ignoto imitatore (Muti – De Sarno Prignano 1994, p. 285, n. 67).

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Nel 1730 circa il pittore eseguì altri due Seppellimenti di un frate trappista, di diverso formato, ora al Musée Magnin di Dijon e al Museo Bogdan e Varvara Khanenko di Kiev (fig. 13c). La stessa collocazione cronologica ha anche un grande dipinto con Frati trappisti in biblioteca di collezione privata (fig. 13d), che sembra far riferimento allo stesso convento del Seppellimento di Bassano nelle grandi arcate su colonne binate aperte sullo sfondo; qui l’evidente riferimento alla necessità dello studio, riconosciuta dal de Rancé in contrasto con l’accusa di ignoranza rivolta agli ordini monastici, svolge lo stesso discorso dei dipinti con i Cappuccini in biblioteca, uno dei quali fu dall’artista eseguito fra il 1719 e il 1725 per il conte Gerolamo di Colloredo. f.f.g.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 14. Scaldatoio olio su tela. 93 × 72 cm collezione lapiccirella brass

15. La biblioteca del convento lio su tela. 92 × 73 cm o collezione privata

n. 14 provenienza: Milano, collezione Cavenaghi; Venezia, collezione Italico Brass (1870-1943).

bibliografia: Geiger 1949, p. 146; Morassi in Genova 1949, p. 37, n. 45, fig. 50; Nicco Fasola 1950, p. 233; Roli 1964, tav. X; Franchini Guelfi 1977, p. 193, tavv. XXI-XXIII; Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 261, n. 356, fig. 350 (con bibl. precedente); Proni 2014, p. 103, n. 8.

n. 15 provenienza: Milano, collezione Cavenaghi; Venezia, collezione Italico Brass (1870-1943); Roma, collezione privata; Milano, asta Sotheby’s, 30 maggio 2006, n. 20; Milano, collezione privata.

Un medesimo personaggio anima le due composizioni, appoggiato a due grucce, un anziano monaco dalla lunga barba, ricurvo, il volto nascosto dal cappuccio, pare uscire dalla scena al lato destro dello scaldatoio mentre, ne La biblioteca del convento, si posiziona oltre i gradini che conducono allo scranno del priore e sembra avanzare faticosamente verso il centro della composizione. Il cappuccino storpio pare condensare il senso di povertà, di solitudine, di accettazione e di rinuncia che ogni religioso dovrebbe praticare, secondo il pensiero del Muratori (1672-1750) e del Migliorini (1672-1753) che Magnasco dimostra di conoscere illustrando, assiduamente, una auspicabile povertà nei conventi. Nello Scaldatoio, l’ambientazione, scabra ed essenziale, è la stessa proposta in altre tele analoghe, come ne Lo scaldatoio dei frati di Darmstadt, Hessisches

bibliografia: Geiger 1949, p. 146, tavv. 411-413; Morassi in Genova 1949, p. 37, n. 46, fig. 51; Nicco Fasola 1950, p. 234; São Paulo 1954, p. 92, n. 76, tav. XLV; Calamai 1963, fig. 9; Roli 1964, tav. XI, Franchini Guelfi 1977, p. 193, tavv. XXIV-XXVI; Franchini Guelfi 1991, pp. 74-75, n. 31; Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 261, n. 355, fig. 307 (con bibl. precedente); Proni 2014, pp. 89-97, n. 8.

Fig. 14a — Alessandro Magnasco, Scaldatoio di cappuccini, Collezione privata.

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Landesmuseum (fig. 8), o nello Scaldatoio dei cappuccini (fig. 14a; Franchini Guelfi 1991, p. 72, n. 30), di collezione privata, dove compare il medesimo camino, dalla cappa diroccata, ornata da poveri utensili. Attorno al fuoco religiosi macilenti, infagottati in miseri sai rattoppati, si dispongono in un ordine calibratissimo che prevede l’alternanza di anziani frati seduti a più giovani confratelli in piedi. I cappuccini allungano scarni piedi nodosi, permettendo ai riflessi rossastri delle fiamme di evidenziarli, in un movimento centripeto sottolineato dalla postura delle braccia. Una luce irreale, reinventata oltre il fascio luminoso del fuoco centrale, riverbera sui crani rasati, sulle mani adunche, insiste appena sui poveri oggetti esposti in primo piano, scivola sui due gattini, la cui presenza – costante in scene analoghe – regala al rappresentato una sorta di quotidianità intimista e confortante. In una disposizione spaziale attentamente studiata, piedi, mani e teste inventano tre ellissi concentriche aperte verso lo spettatore, al quale pare facciano riferimento le due figure laterali, il giovane frate che gioca con il gattino, il busto appena girato, pronto a volgere il capo, e il monaco con le grucce, che, con passo malfermo, si dirige verso il riguardante. Nelle opere dell’artista, l’individuazione di griglie rigorosamente geometriche, spesso utilizzate, dimostra che l’apparente casualità, nel disporre i personaggi o gli oggetti che animano le scene, sia frutto di una precisa ricerca spaziale, di un impegno prospettico teso a conferire movimento e profondità alle composizioni, in accordo con una pennellata franca, veloce, sprezzante ed essenziale, capace di evocare, all’occorrenza, dalla scura preparazione di fondo, l’intera scena, pur rendendola con una ineguagliata sapienza coloristica monocorde. Come ben dimostra l’allestimento de La biblioteca del convento, dove si ritrova una precisa attenzione al particolare, nel delineare l’ambientazione della scena, rispetto agli abituali interni dell’autore. Oltre l’arco centrale, impreziosito da un foro ovale, un intreccio di colonne evidenzia la ripida scala, protagonista abituale delle scenografie del Magnasco (Proni 2014, p. 96, nota 4), che pare arrampicarsi oltre l’inconsueta apertura del cielo, ad inventare profondità al rappresentato, ulteriormente


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segnalato dall’andamento diagonale di linee oblique zigzaganti o parallele, lungo le quali sono collocati i cappuccini intenti allo studio. Dalla scala nel fondo, una direttiva discendente culmina al monaco, in piedi, intento alla lettura, per ripartire, ad angolo retto, verso lo sgabello nell’angolo destro del proscenio, intersecata da una nuova linea che, dal priore, seduto in posizione rialzata, scivola oltre lo storpio appoggiato alle grucce, attraversa il cappuccino penitente, in contrizione, inginocchiato al centro della scena, le braccia allargate, il capo chino, nella postura dell’estrema ammissione di colpa, per proseguire fino al monaco seduto, le gambe accavallate, impegnato a compitare. Tutti i rimanenti gruppi di religiosi, dai magri corpi sfilati, che paion disossati e disarticolati per le positure imposte, sono posizionati secondo direttive geometriche precise, ordinate, studiate in calibratissimi espedienti prospettici, persino il drappo azzurro, vera sigla dell’autore, aumenta, nel movimento impostogli, l’andamento diagonale della scena. Come già sottolineato da Franchini Guelfi (1977, p. 204; 1991, p. 74), il Muratori denunciava l’ignoranza del clero, auspicando una riforma che riguardasse gli studi da svolgersi nei conventi e, in una lettera del 1705, Ai Capi, Maestri, Lettori, ed altri Ministeri degli Ordini religiosi d’Italia, segnalava la necessità di un cambiamento nell’ “incultura monastica” (Muratori, ed. Campori 1901) promuovendo studi oltre la stretta conoscenza teologica

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e, ne La biblioteca, la presenza di ben tre mappamondi, di libri, di strumenti scientifici, dichiarano l’interesse per gli studi a cui i monaci sono intenti. È evidente l’adesione del Magnasco alla cultura progressista, anche se è difficile stabilire se la rappresentazione di un luogo “colto”, dove i religiosi si applichino al sapere, sia cronaca di una realtà rara ma possibile o allestimento in chiave moralizzante, critica spietata e corrosiva dei costumi correnti. E, comunque, l’abbinamento contemporaneo, delle due iconografie, rappresentanti povertà e conoscenza, ma anche aspetti fondamentali del vivere monastico, quali la coralità, nel gruppo di figure attorno al fuoco, l’accudimento reciproco, i frati più giovani cedono le sedie ai più anziani, l’operosità, nel lavoro in biblioteca, l’ubbidienza e l’umiltà, nel frate in contrizione, offrono uno spaccato di quotidianità religiosa da poter essere proposta quale modello e tutto concorre alla resa di atmosfere di pacata serenità, di concentrata quiete. Se dello Scaldatoio esistono numerose varianti, proposte con misure differenti, de La biblioteca è nota una sola replica, conservata a Springfield, Museum of Fine Arts, pressoché identica alla tela qui considerata. La coppia di tele, appartenute alla collezione di Italico Brass, oggi in collezioni private differenti, trova collocazione cronologica verso la fine del secondo decennio del Settecento, quando la calligrafia pittorica dell’autore raggiunge il massimo delle proprie capacità espressive. m.s.p.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 16. Il frate barbiere olio su tela. 43 × 29 cm parigi, galerie canesso

17. Frati cappuccini in penitenza lio su tela. 43 × 29 cm o parigi, galerie canesso

n. 16 provenienza: Pisa, collezione Antonio Ceci (1852-1920); Venezia, collezione Benno Geiger (1882-1965); Vienna, collezione Stefan Auspitz von Artenegg (1869-1945); L’Aja, collezione Kurt Walter Bachstitz (1882-1949); Genova, collezione Aldo Zerbone.

bibliografia: Geiger 1949, pp. 149, 156, tav. 416 (con bibl. precedente); Franchini Guelfi 1991, pp. 106-107, n. 44; Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 227, n. 156.

n. 17 provenienza: Pisa, collezione Antonio Ceci (1852-1920); Venezia, collezione Benno Geiger (1882-1965); Vienna, collezione Josef von Flesch (1871-1928); la sua asta Vienna, Kunstauktion von C. J. Wawra, 12-13 maggio 1930, p. 24, n. 143; Roma, collezione privata (vedere Pospisil 1945, tav. 113); Genova, collezione Aldo Zerbone.

bibliografia: Geiger 1949, pp. 149, 156, tavv. 389, 416 (con bibl. precedente); Franchini Guelfi 1991, pp. 106-107; Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 227, n. 157, fig. 328.

I due piccoli dipinti pendant, riferibili per il linguaggio estremamente maturo agli ultimi anni di attività dell’artista, rappresentano due fra i momenti più umili e quotidiani della vita dei conventi cappuccini. Ne Il frate barbiere un frate rade un giovane confratello, che siede a testa china; appesa alla parete si vede la tipica bacinella lunata da barbiere; a terra è posato uno scaldino pieno di cenere calda vicino ai piedi nudi del frate, che ha lasciato i sandali poco lontano; da una finestra in alto si vede l’azzurro del cielo. Anche in questa piccola composizione si evidenzia la solida intelaiatura strutturale che caratterizza sempre le opere magnaschesche: l’angolo retto della finestra si ripete nell’angolo formato dalle braccia dei due frati e si conclude, in contrapposto, con l’angolo dello sgabello in basso a sinistra. Magnasco aveva già rappresentato anni prima I frati barbieri nel dipinto più vasto e complesso del Museo di Odessa. Iconograficamente vicino a questo soggetto è il dipinto con Un cappuccino che taglia le unghie dei piedi a un confratello di collezione privata (Proni 2014, pp. 98-102), anch’esso rappresentazione di una vita quotidiana umile e poverissima. In Frati cappuccini in penitenza il Magnasco rappresenta il “capitolo delle colpe”, cioè l’atto di autoaccusa e contrizione che i frati novizi compiono davanti al superiore e all’intera comunità conventuale, come esercizio di umiltà: non si tratta di una confessione (sempre segreta e individuale), ma di una pratica penitenziale relativa

Fig. 16a — Alessandro Magnasco, Refettorio di cappuccini, Seitenstetten (Austria), Pinacoteca dell’Abbazia.

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alle infrazioni non gravi della Regola. Ai novizi che dichiarano le loro colpe il superiore rivolge esortazioni e indica la penitenza; di questa pratica, anch’essa da svolgersi davanti all’intera comunità conventuale, il Magnasco aveva già dato una commossa rappresentazione nel Refettorio di cappuccini di Seitenstetten (fig. 16a), dipinto per il Colloredo, nel quale la penitenza del digiuno viene eseguita dando ai gatti del convento il pasto dei tre giovani frati che, inginocchiati al centro della sala, si rivolgono al superiore in atteggiamento di contrizione. Nella Descrittione della vita del vero Capuccino, manoscritto secentesco inedito di un dotto cappuccino genovese (Biblioteca Provinciale dei Cappuccini di Genova, AA/98), fra le penitenze inflitte ai novizi è scritto infatti “che s’inginocchino in mezzo del Refettorio” (p. 211). Il dipinto rappresenta dunque uno dei rituali della vita dei conventi cappuccini, tutta impostata all’umiltà e all’obbedienza, cardini della vita dell’ordine cappuccino. Sotto un arco con una mensola che regge un teschio, memento mori sempre presente nei conventi francescani, un anziano frate siede su un alto seggio, in atteggiamento di profonda riflessione e di ascolto, mentre ai suoi piedi due frati sono inginocchiati e un terzo è prostrato a terra. A destra un campanello, evidentemente connesso al rituale, poggia su una mensola; a terra al centro è posato uno scaldino di cenere calda. Il soggetto del “capitolo delle colpe” fu rappresentato più volte dall’artista, ad esempio nelle tele del Museo di Philadelphia, del Ritiro di San Pellegrino a Bologna e dell’Academia de Bellas Artes de San Fernando a Madrid (fig. 16b). Fra le numerosissime rappresentazioni della vita cappuccina che il Magnasco realizzò a partire dagli ultimi anni del Seicento, queste due telette sono certamente fra le più intense e commoventi. L’assoluta povertà e il rigore penitenziale dell’ordine vi sono espressi con accenti di verità che ricordano le parole di padre Gaetano Maria da Bergamo (1672-1753), predicatore cappuccino lombardo coetaneo di Magnasco, che nelle sue Istruzioni morali, ascetiche, sopra la povertà de’ frati minori cappuccini di S. Francesco, pubblicate nel 1750 ma frutto di tutta una vita di lavoro educativo nelle comunità conventuali lombarde, svolge un discorso assai severo sulla povertà francescana,


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Fig. 16b — Alessandro Magnasco, Frati cappuccini in penitenza, Madrid, Academia de Ballas Artes de San Fernando. Fig. 16c — Alessandro Magnasco, Refettorio di francescani osservanti, Bassano del Grappa, Museo Civico. Fig. 16d — Alessandro Magnasco, Disegno preparatorio di un particolare del Refettorio di francescani osservanti, Collezione privata.

che egli definisce “una reale, ed attuale spropriazione di tutto”. Certo il Magnasco nelle sue “fraterie” (come a volte venivano indicate negli inventari delle quadrerie settecentesche) si dimostra perfettamente informato delle usanze, dei rituali e dei vari momenti della vita dei conventi cappuccini, che egli è il solo pittore italiano a rappresentare; ma soprattutto il favore riscosso da questi dipinti presso la committenza attesta un forte interesse per il dibattito sugli ordini religiosi, che fra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento fu molto intenso e si inserì con accenti anche molto accesi nel conflitto giurisdizionale fra il potere dello stato e i privilegi ecclesiastici. Del tutto prive di intenti caricaturali, le “fraterie” del Magnasco sembrano riecheggiare le idee di Ludovico Antonio Muratori (vissuto per alcuni anni

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a Milano e protetto dai Borromeo, dagli Arese e dal Colloredo committenti del Magnasco) su una riforma rigorista degli ordini religiosi, per un ritorno ad una vita claustrale di ascetica povertà. Le scene di vita cappuccina dell’artista non narrano “storie” né presentano protagonisti. Scene di “genere” dunque, ma di un “genere” del tutto nuovo, che il pittore inventa e sviluppa, nel corso della sua lunga attività, in numerosissimi dipinti nei quali frati cappuccini o trappisti pregano, respingono le tentazioni diaboliche, mangiano in refettorio, studiano in biblioteca, si confessano davanti al superiore, seppelliscono un confratello, lavorano come arrotini o falegnami nel laboratorio del convento, si scaldano attorno ad un grande camino. Le inquiete figure emergono dall’oscurità per i colpi di luce sui piedi disarticolati e nodosi, sulle mani rattrappite, sulle teste connotate dalle svirgolature luminose delle barbe. La scrittura pittorica raggiunge una straordinaria maturazione nella ritmica frantumazione delle forme e nell’intavolazione cromatica raffinatissima, tutta basata su virtuosistiche variazioni di marrone. A contrasto con la rappresentazione della povertà cappuccina, il grande Refettorio di frati del Museo Civico di Bassano (fig. 16c), anch’esso realizzato negli anni della maturità dell’artista, rappresenta il ricco banchetto, in un sontuoso interno conventuale, di una comunità di Francescani osservanti, una delle ramificazioni dell’ordine che si erano ormai distaccate dalla povertà delle origini: è appunto per tornare a queste origini che venne istituita la riforma cappuccina nella prima metà del Cinquecento, che ancora fra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento si caratterizzava per la sua aderenza allo spirito di San Francesco e che dunque il Magnasco poteva assumere come modello per una riforma degli ordini, assieme ai Trappisti di recente fondazione. Di un particolare del Refettorio di Bassano è stato recentemente pubblicato un bellissimo disegno preparatorio di collezione privata (fig. 16d; Mancini in Rennes 2015, p. 188, n. 70). f.f.g.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 18. Il parlatorio delle monache olio su tela. 73 × 57 cm collezione privata

19. La cioccolata lio su tela. 73 × 57 cm o collezione privata

n. 18 provenienza: Venezia, collezione Italico Brass (1870-1943).

bibliografia: Geiger 1949, p. 144, tav. 426 (con bibl. precedente); Franchini Guelfi 1991, pp. 98-99, n. 41a; Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 238, n. 223, figg. 367, 368, 369 (con bibl. precedente); Franchini Guelfi 1996, pp. 30, 32, fig. 25; Franchini Guelfi 2014, p. 309, fig. 8.

n. 19 provenienza: Torino, Galleria Caretto, 1989.

bibliografia: Franchini Guelfi 1991, pp. 98-99, n. 41b; Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 271, n. 421, fig. 454; Franchini Guelfi 1996, pp. 30, 32, fig. 25; Magnani 2011, p. 43, fig. 16.

Le due tele, appartenenti a due diverse collezioni private, molto probabilmente sono state eseguite come pendants. Hanno infatti le stesse misure, sono caratterizzate dagli stessi accenti stilistici e sono accomunate dalla stessa tematica: la vita oziosa e mondana delle monache in conventi lussuosi per le figlie dell’aristocrazia. Ne Il parlatorio, sullo sfondo di un giardino nel quale, contro l’azzurro del cielo, un’elegantissima fontana termina con la coda serpeggiante di un delfino, accanto a un loggiato aperto, alcune giovani monache si affacciano alla grata del parlatorio a ricevere l’omaggio di un concertino: un musicista suona il violoncello leggendo lo spartito posato sullo sgabello a destra, mentre un aggraziato damerino canta seguendo anch’egli il testo su un foglietto. Fra gli altri visitatori, un frate benedettino e accanto a lui un giovane che si protende per parlare con le monache al di là della grata. Nel catalogo dell’opera dell’artista di Muti – De Sarno Prignano i due autori, che come è scritto

Fig. 18a — Alessandro Magnasco, Monache in giardino, Collezione privata.

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nella scheda non hanno mai visto direttamente il dipinto e non ne conoscono la storia, basandosi su tre foto della tela (quella, mal riprodotta, pubblicata dal Geiger, quella prima del restauro con alcune ridipinture e quella dopo il restauro), ipotizzano l’esistenza di tre versioni autografe del soggetto “con leggere varianti”. Si tratta in realtà sempre della stessa opera, che da molti anni non si è mai mossa dalla sua attuale collocazione. Ne La cioccolata una giovane suora seduta in poltrona rimescola col cucchiaino la cioccolata fumante in una tazzina, mentre una monaca le aggiusta l’acconciatura e una piccola educanda dall’abito rosa, seduta accanto al tavolino da lavoro col pizzo al tombolo, regge anch’essa la tazza fumante e porge un biscotto a un cagnolino. Sullo sfondo, due serventi rifanno il letto; si tratta dunque della colazione del mattino. L’ambiente ha ben poco in comune con una cella monacale ed è arredato come il boudoir di una ricca dama, dalle decorazioni a stucco sull’arco d’ingresso dell’alcova e sull’arco che incornicia il piccolo, prezioso altare per le devozioni private, alla console dai raffinati riccioli rocaille che regge lo specchio e le suppellettili per la toilette, al treppiede con il catino a conchiglia e la brocca a sinistra, infine al violoncello posato in primo piano. Accanto ai piedi della suora e dell’educanda sono posati sul pavimento due scaldini pieni di cenere calda. Il Magnasco eseguì numerosi dipinti con suore francescane in preghiera o al lavoro in ambienti poverissimi, spesso in pendant con raffigurazioni di cappuccini, a rappresentare una vita conventuale di povertà e di penitenza; sono invece soltanto sei le raffigurazioni di ricche monache in conventi lussuosi, eseguite tutte negli anni estremi dell’artista, 1740-1745: oltre a questi due dipinti e al Laboratorio di monache (scheda n. 20) qui esposto, un Concerto di monache (fig. 20a) e i due piccoli pendants Monache in giardino e L’acconciatura (figg. 18a e b; Franchini Guelfi 1999, p. 69, figg. 55-56), tutti in collezioni private. L’abito monacale è identico in tutti questi dipinti. La fontana col delfino, presente sia nel Parlatorio che nel Concerto, può essere un preciso riferimento a un convento realmente esistente, per ora non identificato, ma certamente a Genova, per la datazione di queste opere


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negli ultimi anni genovesi dell’artista. A Genova infatti il parlatorio di alcuni conventi femminili era un luogo di ritrovo, conversazione e scambio di doni, dove affluivano corteggiatori con precisi intenti di seduzione. Le monacazioni forzate e la corruzione della vita conventuale nel Seicento e nel Settecento sono ampiamente documentate (Fontana 2014). Il discorso su una riforma rigorista degli ordini religiosi (vedere schede nn. 14-17), che nei dipinti con i Cappuccini e le suore francescane evidenzia le esigenze di moralizzazione nell’aspetto ascetico e nella povertà della vita conventuale, con queste sei opere invece ha una svolta decisiva nei toni corrosivi della rappresentazione di una realtà severamente giudicata. Le figure si atteggiano in gesti graziosi da salotto galante, la grata del Parlatorio riluce fragile e preziosa come una trina, la pennellata si disgrega in vibrazioni luminose e traccia raffinatissime sigle rococò nei guizzi di luce sui copricapi delle suore, nella mano e nel foglietto del damerino, nel ricciolo attorto del delfino che sfuma nell’azzurro, nella brocca d’argento e nello specchio, nella tazzina della monaca nella sua cella lussuosa. f.f.g.

Fig. 18b — Alessandro Magnasco, L’acconciatura, Collezione privata.

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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 20. Laboratorio di monache olio su tela. 98 × 74 cm collezione privata

provenienza: Roma, collezione generale Majorca; Milano, collezione Orazio Bagnasco.

bibliografia: Geiger 1949, pp. 94, 132, tav. 425 (con bibl. precedente); MutiDe Sarno Prignano 1994, p. 251, n. 301, figg. 34, 365 (con bibl. precedente).

In una loggia che si apre su un giardino, alcune monache lavorano al tombolo assieme a tre piccole educande. In secondo piano tre monache sedute a un tavolo stanno componendo un mazzo di fiori di stoffa, destinato all’altare di una chiesa: tipica produzione dei conventi femminili. Seduta a sinistra, una giovane monaca si esercita a suonare il violoncello seguendo lo spartito su un leggìo posto su uno sgabello; da uno scalone a sinistra scende un’inserviente che reca un vassoio con due tazzine. Oltre l’arcata della loggia si vede una terrazza con un giardino; la descrizione architettonica di questo ambiente rappresenta un convento lussuoso. Molto simile a questa ambientazione è quella del Concerto di monache di collezione privata (fig. 20a), dove al di là dei due pilastri che delimitano la loggia, una splendida fontana a tre vasche, sormontata da un delfino dalla coda attorta, spicca contro lo sfondo di un cielo azzurro solcato da nubi; a destra scendono da uno scalone monache con

Fig. 20a — Alessandro Magnasco, Concerto di monache, Collezione privata.

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vassoi di rinfreschi. Al centro della scena una giovane suora suona su una spinetta, accompagnata col violino da un’altra monaca e da una suora più anziana che suona un violoncello. A sinistra una monaca presenta a un prelato una giovane educanda dall’abito rosa, che si inginocchia per baciargli la mano. Il tavolo su cui poggia la spinetta, la poltrona del prelato e i due sgabelli a destra sono mobili dalle raffinate linee rocaille. Questi dipinti presentano la stessa tematica e gli stessi caratteri stilistici dei due pendants Il parlatorio e La cioccolata (schede nn. 18-19) e dei due ovali Monache in giardino e L’acconciatura (figg. 18a e b), opere tutte in collezioni private. Le suore rappresentate sono caratterizzate tutte dallo stesso abito e la presenza della stessa fontana sormontata da un delfino nel Parlatorio e nel Concerto fa supporre che l’artista abbia voluto indicare un preciso convento, certamente genovese dato che questo gruppo di dipinti si colloca negli anni Quaranta del Settecento, ben dopo il ritorno del Magnasco a Genova; inoltre le forme della fontana col delfino sono tipicamente genovesi. Il linguaggio pittorico dell’artista è in queste opere raffinatissimo: le forme si disgregano in impalpabili vibrazioni di luce e di colore. È soltanto nei suoi ultimi anni che l’artista, dopo aver rappresentato per tutto il lungo corso della sua attività monache francescane al lavoro in ambienti conventuali poveri e disadorni, spesso in pendant con la raffigurazione della vita di povertà e di penitenza di frati cappuccini, come nei due dipinti del museo di Darmstadt (figg. 7-8), svolge con queste sei opere un discorso ben diverso, che si inserisce nel dibattito sulla rilassatezza degli ordini monastici e in particolare sulla vita conventuale delle monache di origine aristocratica. f.f.g.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 21. Il pittor pitocco fra zingari e vagabondi olio su tela. 94 × 95 cm genova, museo giannettino luxoro, inv. mgl 1329

provenienza: Genova, collezione Luxoro; legato Luxoro, 1945.

bibliografia: Geiger 1949, p. 95 (con bibl. precedente); Franchini Guelfi 1991, pp. 108-109, n. 45; MutiDe Sarno Prignano 1994, p. 219, fig. 445, tav. XXXIX (con bibl. precedente); Galassi in Milano 1996, pp. 252-253, n. 78; Orlando in Brescia 1998-1999, p. 392, n. 73; Franchini Guelfi 2002, p. 56, fig. 11.

Nella vasta composizione una folla di figure si muove fra scenografiche architetture in rovina, certamente delineate dal Magnasco stesso. Si tratta infatti di strutture architettoniche ben lontane da quelle dipinte da Clemente Spera (1662 circa - 1742, schede nn. 2-3), lo specialista di rovine che collaborò per molti anni col Magnasco fino al ritorno del pittore a Genova. Lo Spera, che è documentato a Milano a partire dal 1690, e iscritto come il Magnasco alla milanese Accademia di San Luca, rimase infatti a vivere a Milano dove morì nel 1742 (Milano 1996, p. 363) e questo dipinto, come appare evidente dai caratteri della scrittura pittorica, si colloca negli ultimi anni genovesi di attività del Magnasco. Qui l’artista ha raffigurato in un insieme di straordinaria vitalità molti dei soggetti della sua tematica picaresca. Al centro, sotto un arco che si apre sullo sfondo del cielo, un pittoresco concertino di due flauti traversi e di un fagotto accompagna la danza di una bambina; a sinistra un’altra bimba si dondola su un’altalena e a destra una giovane donna sostiene un bimbo nudo che accenna i primi passi, accanto a un girello di vimini poggiato a terra. In primo piano un pittore sta ritraendo, su una tela appoggiata a un alto cavalletto, un mendicante storpio vestito di stracci, mentre lo osserva un soldataccio dalla lunga spada con la pipa in mano, seduto a terra dietro di lui. Vicino al mendicante è seduto

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uno straccione con una scimmia sulle spalle; un bambino seduto a terra dà da mangiare a un pappagallo da una ciotola e una bambina mangia a un desco improvvisato apparecchiato su una botte: tovaglia bianca, pane, piatto fumante. All’estremità destra della scena, una giovane donna allatta un bambino, figura sempre presente nella rappresentazione del “pittor pitocco”; uno schiavo moro (riconoscibile dalla coda di capelli al sommo della testa, come il bambino col pappagallo) sembra offrirle un piatto di vivande. Appesi alle colonne che sorreggono gli archi si vedono armi, corazze e tamburi. L’artista ha qui rappresentato il suo “pittor pitocco” totalmente immerso in quel mondo di pícaros che costituisce una delle sue tematiche più originali e anticonformiste: e la scimmietta appollaiata alla sommità del cavalletto del pittore è la figura simbolica della Pittura come imitazione della realtà, se pure attraverso il filtro di fonti letterarie e figurative. Il dipinto si colloca negli ultimi anni dell’artista: il segno pittorico sfatto, le forme dissolte in sbavature luminose e grumi di colore, caratterizzano l’inquietante brulicare di indefinite presenze in un mondo sotterraneo di straccioni agli antipodi dei luminosi e limpidi empirei delle mitologie rococò e delle idilliche scene arcadiche dai colori pastello della pittura contemporanea. f.f.g.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 22. La dissipazione e l’ignoranza distruggono le arti e le scienze olio su tela. 62,3 × 91,5 cm collezione privata ₍gi parigi, galerie canesso₎

provenienza: Bruxelles, collezione Paul Jean Cels; la sua asta Londra, Christie’s, 19 novembre 1920, n. 15; Londra, collezione Harold Bendixon; Londra, galleria Artemis, 1977; Milano, collezione Ottaviano Venier (vedere MutiDe Sarno Prignano 1994); Genova, collezione Aldo Zerbone.

bibliografia: Geiger 1949, p. 99, tav. 332 (con bibl. precedente); Franchini Guelfi in Genova 1992, pp. 217218, n. 118 (con bibl. precedente); Muti-De Sarno Prignano 1994, p. 225, n. 143, fig. 370 (con bibl. precedente); Franchini Guelfi 1996, p. 37, fig. 32; Franchini Guelfi 2000, pp. 347-348; Damian 2005, pp. 34-39.

In un’alcova lussuosa, una dama gioca a carte con quattro amici disposti attorno al suo letto; fra essi, un giovane ecclesiastico che le si appoggia familiarmente alla spalla e un militare con spada, stivali, casacca rossa e tricorno. Quest’ultimo regge una tazza in cui è immerso un biscotto, mentre un giovane servitore porge un vassoio con due tazzine; per terra accanto all’ufficiale sono sparse carte da gioco. A sinistra un cinghiale (simbolo della lussuria) si alza verso un grande specchio (simbolo della vanità) mentre a destra un altro cinghiale e un asino (simbolo dell’ignoranza) rovesciano un cavalletto da pittore e scacciano alcune figure con pennelli, compassi, un libro e un mappamondo (le arti e le scienze). Sullo sfondo, in un sontuoso ambiente architettonico, un uomo brucia incenso davanti a un alto trono sovrastato da un baldacchino, sul quale siede un animale dalle lunghe orecchie, forse un asino. Eseguita negli anni 1735-1740 come dimostra l’estrema maturità della scrittura pittorica, la raffinatissima teletta, eseguita integralmente dal Magnasco, rappresenta una delle sue iconografie più rare. Fino ad oggi se ne conosce infatti soltanto un’altra assai simile, con gli stessi personaggi e lo stesso discorso simbolico, anch’essa di collezione privata (fig. 22a; Milano, già collezione dott. G. Premoselli, Morassi in Genova 1949, n. 65). In queste opere l’artista si pone in aperto contrasto con i numerosi dipinti contemporanei con garbate scene di corteggiamento e di intrattenimenti galanti; discorso estremamente impegnativo che scaturisce dalla sua profonda adesione alla cultura “illuminata” lombarda, che a partire dagli ultimi anni del Seicento esprimeva un giudizio sulla realtà ispirato a una rigorosa moralità.

Fig. 22a — Alessandro Magnasco, La dissipazione e l’ignoranza distruggono le arti e le scienze, Collezione privata.

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È quell’ “esigenza morale di un rapporto di verità col proprio tempo” (Isella 1965, p. 10) espressa nelle opere teatrali del milanese Carlo Maria Maggi (1630-1699) e, più tardi, nel poema Il giorno di Giuseppe Parini (1763), nella rappresentazione di una casta nobiliare dedita al lusso e al piacere, in una oziosa e corrotta decadenza. Qui il pittore esprime il rifiuto di ogni rasserenante piacevolezza, con un linguaggio pittorico che va in direzione opposta rispetto alla brillante e gioiosa decorazione della pittura genovese, e rappresenta una tematica del tutto estranea a questa cultura figurativa. Infatti questo dipinto fu sicuramente realizzato a Genova, negli ultimi anni dell’attività del Magnasco, per un committente che evidentemente condivideva il severo giudizio morale dell’artista e ne apprezzava il linguaggio anticonformista. Nelle sue Lettres familières écrites d’Italie il presidente Charles de Brosses (1709-1777), che nel suo soggiorno a Genova nel 1739 aveva osservato i costumi dell’aristocrazia, scriveva che i genovesi conoscevano di lettere soltanto quelle di cambio: “ne connaissent de lettres que les lettres de change, dont ils font le plus grand commerce de l’univers” (de Brosses 1858, p. 64), definizione severa di una classe sociale che del traffico del denaro aveva fatto il suo principale interesse. Nello stesso ambiente nobiliare non mancavano forti critiche della dissipazione e dell’ignoranza e dell’uso dissennato delle ricchezze: nel 1704 nel trattato La vanità della scienza cavalleresca il marchese Scipione Maffei (16751755), coetaneo del Magnasco ed esponente cosmopolita di quella cultura “illuminata” che si appellava alla “pura naturale umana ragione”, additava alla riprovazione e al disprezzo appunto quell’uso del denaro e quel tipo di vita che il Magnasco rappresenta in questo dipinto. Nel 1710 il Maffei approfondiva il discorso nel libro Della scienza chiamata cavalleresca, che ebbe tale risonanza da avere altre cinque edizioni in pochi anni (1712, 1716, 1717, 1721, 1738). Agli occhi del Maffei, letterato e poeta, eruditissimo storico e archeologo, in contatto con Voltaire e Muratori, l’ “ignobil vita” di “tutti coloro, i quali delle ricchezze non ad altro si vagliono, che a passare l’età nel giuoco, e a vivere in ozio, ovvero in faccende, che dell’ozio son peggio” (Maffei [1710] 1716, p. 412) appare in inammissibile contrasto con questa “età sì illustrata” dalla luce della ragione (Maffei [1710] 1716, p. 162). Che i testi del Maffei circolassero a Milano e a Genova e che fossero noti ai committenti del Magnasco è indubbio. È in questo contesto culturale che si colloca questo dipinto. f.f.g.


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Alessandro Magnasco (1667 – 1749) 23. Trattenimento in un giardino d’Albaro olio su tela. 86 × 198 cm genova, musei di strada nuova - palazzo bianco, inv. pb 81

provenienza: deposito a Palazzo Bianco, 15 maggio 1896 - 15 giugno 1898; acquisito dalla signora Rosa Orsolino (o Orsolina?) Vaccheri, vedova Moro, 15 giugno 1898.

bibliografia: Geiger 1949, p. 90, tavv. 126129; Christen 1954, pp. 7-11; Genova 1969, pp. 350-351, n. 146; Franchini Guelfi 1977, pp. 23, 31, 134, 162, 239, 244 e 245; Di Fabio 1990, pp. 11-18; Franchini Guelfi 1991, pp. 110-115; Di Fabio in Milano 1996, pp. 258-261, n. 81 (con bibl. precedente); Profumo 1999, pp. 224-231; Boccardo in Genova 2010-2011, pp. 36-41, n. 6; Boccardo in Reggia di VenariaFirenze 2011, pp. 205-206.

La tela, dal decisamente inconsueto formato bislungo, presenta in primo piano un terrazzamento di giardino, dove diversi personaggi sono intenti per lo più allo svago e al riposo: da sinistra un portantino si riposa, o forse si è assopito, appoggiato alla sua bussola; poco discosto un artista – una sorta di autoritratto, ma in più giovane età – in una posa un po’ stravaccata è in procinto di tracciare dei segni su un gran foglio di carta; un religioso, forse sceso dalla portantina citata, s’avanza verso destra dove altre tre persone comodamente sedute su poltrone stanno giocando a carte intorno a un tavolo; un altro religioso pare intenda avvicinarsi a quelli trasportando con un po’ di impaccio una poltrona; di seguito un gruppo di sei figure, parte sedute e parte in piedi, fanno conversazione: fra essi si distinguono tre religiosi (di cui due con l’abito dei Domenicani?), un gentiluomo ben accomodato su una poltrona che butta lo sguardo su un cagnolino, e una dama cui un servitore porge una tazzina; poco discosta una coppia passeggia avvicinando una figura maschile – una silhouette da vero damerino – che pare scherzare con un cagnetto; a cavalcioni del muro di cinta e presso il gruppo che conversa, due uomini armati di fucile: il primo indossa vesti popolari, il secondo, abbigliato in maniera decisamente più elegante, pare piuttosto un membro della nobile compagnia che, reduce dalla caccia, pulisce la canna della sua arma. Qua e là sono sgabelli, e alcuni vasi di fiori – in diversi casi si tratta specificamente di garofani – su bassi plinti, a uno dei quali si intravede incatenata una scimmia, mentre altri vasi segnano il muro di cinta un po’ sbrecciato, oltre il quale la vista spazia sull’amplissimo paesaggio. Per quanto il bitume riscontrato nell’imprimitura bruna e il resinato di rame utilizzato per rendere parte della vegetazione lo stiano irrimediabilmente inscurendo, nel pianoro verdeggiante si distinguono ancora bene le strade lungo le quali sono situati gruppi di case, che a tratti infittiscono come veri e propri borghi; sulle colline di sfondo, oltre una cinta di mura, altri edifici la cui disposizione, e il cui numero fa intendere trattarsi di un agglomerato urbano, riconosciuto fin dalla prima menzione moderna della tela, proprio in Genova di cui, in termini inconsueti, è proposta un’immagine pedemontana presa da levante che prescinde dallo scenografico affaccio della città sul mare. Giunto a Palazzo Bianco il 15 maggio 1896 – allora aperto da solo quattro anni – ma solo a titolo di deposito, il dipinto venne definitivamente ad arricchire le civiche raccolte due anni più tardi, quando ne venne deliberato

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l’acquisto dalla signora Rosa Orsolino (o Orsolina?) Vaccheri vedova Moro, per 300 o 350 lire (sia sulla cifra pagata, sia sul nome della proprietaria le carte forniscono indicazioni difformi). Non si hanno notizie sulle vicende precedenti dell’opera, e forse non sarà facile trovarne, per lo meno procedendo a ritroso in base al nome dell’autore, visto che nel primo inventario del museo (Quinzio n. 3699), quando venne registrato al momento del deposito, e poi nella delibera d’acquisto (15 giugno 1898) è definita «d’autore incerto» e solo nel Resoconto morale della Giunta Comunale di quell’anno si riporta che fosse «della scuola di Alessandro Magnasco». Unico ulteriore indizio sulla provenienza ricavabile dall’inventario citato è il dato accessorio che la stessa proprietaria abbia concesso in deposito a Palazzo Bianco anche una tavola con l’Adorazione dei Magi, allora assegnata a Marco d’Oggiono, che le fu resa dopo circa un mese. Dagli stessi documenti, per contro, risulta evidente che l’interesse inizialmente dimostrato nei confronti della bislunga tela era concentrato sugli aspetti iconografici, o meglio topografici, dato che l’inventario del museo la descrive come «rappresentante un’antica veduta del piano del Bisagno» e il citato Resoconto, più esplicitamente, «raffigurante un panorama di Genova nel ‘600», risultando nel complesso chiaro che era stato riconosciuto lo scenario della porzione terminale della vallata del torrente Bisagno, costituente lo storico limite geografico orientale del capoluogo ligure, con il punto di vista da levante ovvero con nello sfondo le alture di Montesano e Multedo e a seguire i rilievi montuosi che fanno corona alla città. Anche il titolo di «Scena patrizia in un giardino con veduta panoramica» poi riscontrabile nei primi cataloghi a stampa di Palazzo Bianco (Grosso 1909, p. 22; Grosso 1912, p. 15) parrebbe far intendere che si apprezzasse l’opera come interessante documento per la topografia cittadina, e fu solo Wilhelm Suida (1906, p. 188), quando era esposta da ormai dieci anni, a specificamente menzionarla come opera rimarchevole del Magnasco in quello che fu il primo testo di moderna storia dell’arte dedicato a Genova. Negli anni tra le due Guerre mondiali il dipinto figurò – certo anche per merito di Orlando Grosso, nuovo direttore del museo – in alcune delle più importanti rassegne d’arte allora organizzate in Italia e in Europa, giacché venne presentato alle mostre sul Sei e Settecento di Firenze (1922) e Venezia (1929), a quella sull’arte italiana tenutasi a Londra nel 1930, e a quella sul giardino italiano allestita ancora


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a Firenze nel 1931, ma furono gli studi monografici di Benno Geiger e le esposizioni di Genova del 1947 e del 1949 a determinarne definitivamente la fortuna: nel 1947 si adottò il riuscitissimo titolo Trattenimento in un giardino d’Albaro (pp. 97-98), mentre nel 1949 l’opera venne scelta per illustrare la copertina del catalogo della mostra monografica dedicata all’artista in Palazzo Bianco, riaperto per l’occasione dopo i danni bellici con l’innovativo allestimento dell’architetto Franco Albini. È probabilmente sull’onda dell’ulteriore notorietà conseguita in seguito a queste circostanze – nella sucessiva mostra genovese del 1969 venne definito a tutte lettere il “capolavoro” del Magnasco – che Alessandro Christen si applicò a individuare il preciso punto di stazione per la veduta elaborata dal pittore e lo riconobbe nella tardocinquecentesca villa Saluzzo, detta per la sua magnificenza “Il Paradiso” (fig. 23a), situata appunto sul fronte occidentale della collina di Albaro dalla quale si affaccia sulle ultime pendici della valle del torrente Bisagno. Il Christen ritenne di poter identificare decine e decine delle costruzioni sommariamente raffigurate da Magnasco attribuendo all’opera il valore di precisissimo documento topografico, al punto che, notando l’assenza di edifici, o di segmenti di essi, costruiti dopo il 1703, fissò l’esecuzione dell’opera entro questa data. Successivamente Fausta Franchini Guelfi ha rilevato però che tale cronologia è in contrasto con lo stile pittorico straordinariamente libero dell’artista, e come tale riconducibile piuttosto – come anche ha dimostrato poi lo studio sulle fogge degli abiti (Cataldi Gallo 1990, pp. 1920) – agli ultimi anni di attività del Magnasco, ovvero dopo il 1735, data del suo definitivo rientro a Genova. Per trovare una conciliazione tra i due discordanti termini cronologici si era dunque convenuto che la veduta del Trattenimento, certamente elaborata a tavolino tanto più che è frutto – secondo una diffusa pratica settecentesca – della fusione di due prospettive distinte dato che copre un angolo visuale superiore alle possibilità visive dell’uomo, sia stata basata su un’immagine più antica, che tuttavia non venne individuata. Il recente ritrovamento di una poco più larga e ben più alta tela – misura cm 170,5 × 223,5 – dipinta a Genova nei primissimi anni del Seicento da uno, o forse frutto della Fig. 23a — Villa del Paradiso, veduta attuale.

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collaborazione di due, dei tre fratelli Van Deynen, per illustrare un Ricevimento in onore degli arciduchi Alberto e Isabella d’Asburgo alla presenza del doge Lorenzo Sauli (fig. 23b) ha però colmato questa lacuna. Anche quest’altro dipinto è organizzato in due piani: sul primo un gruppo di personaggi meticolosamente delineati in varie attitudini e per lo più in eleganti costumi dà vita a una festa su un terrazzamento verdeggiante delimitato da una balaustra; su quello dello sfondo si distende un’ampia veduta, che occupa i tre quarti dell’altezza della tela, in buona parte somigliante a quella poi delineata dal Magnasco. Ma rispetto a quella settecentesca quella di un secolo più antica si differenzia per la raffigurazione sulla sinistra – ovvero più a sud – di una vasta costruzione a cortili, e più indietro di quella delle mura e del profilo di un centro urbano: edificio e città affacciano sul mare, che lambisce una costa montuosa e al cui largo compare una flotta di navi. È stato ancora più facile, in questo caso, ravvisarvi Genova, pur sempre vista da levante, ma con i più riconoscibili dettagli del Lazzaretto alla foce del Bisagno (edificato nel XVI secolo e distrutto nel XIX), della basilica dedicata all’Assunta sul colle di Carignano, di cui si vede bene l’imponente profilo della cupola e, poco discosta ma più in distanza e illuminata dal sole, l’inconfondibile e slanciata torre della Lanterna. Rimandando allo specifico contributo pubblicato nel catalogo della mostra incentrata sul confronto tra le due tele per l’approfondimento degli aspetti inerenti l’autografia e l’iconografia del dipinto fiammingo (Boccardo in Genova 2010-2011, pp.12-14 e 32-35), quello che merita qui ricordare, sottolineandolo, è che la scelta della veduta di sfondo non corrisponde alla reale ambientazione di uno dei ricevimenti offerto agli arciduchi Alberto ed Isabella d’Asburgo in occasione del loro passaggio per Genova nel giugno del 1599 alla presenza del doge neoeletto Lorenzo Sauli, ma è funzionale alla celebrazione della famiglia di quest’ultimo attraverso un punto di vista che, da una loro villa d’Albaro, dove si immagina ambientato questo trattenimento ufficiale, mette in risalto il colle di Carignano ove sorgeva una loro ancor più splendida residenza, ma soprattutto la maestosa basilica che proprio per i Sauli era stata eretta da Galeazzo Alessi a partire dal 1550 quale loro “smisurata” chiesa gentilizia. Che questa tela, di cui non vanno taciute le non alte qualità pittoriche, costituisca non solo l’immagine “più antica” da cui Magnasco trasse spunto per la sua veduta, ma il vero e proprio archetipo del suo capolavoro è dimostrato non solo dalla generale corrispondenza tra le due composizioni identicamente impostate sul gruppo di astanti in primo piano che occupa la parte bassa della tela, per lasciare un ampio spazio al paesaggio retrostante in quella superiore, ma anche da un dettaglio che non può essere spiegato come una mera coincidenza: in tutti e due i dipinti in basso a sinistra è rappresentata una portantina (figg. 23c e d). Il fatto che quella dei


Fig. 23b — Fratelli Van Deynen, Ricevimento genovese in onore degli arciduchi Alberto e Isabella d’Asburgo alla presenza del doge Lorenzo Sauli, Collezione privata.

Van Deynen risulti in movimento, dato che il portatore visibile procede reggendo le relative stanghe, mentre quella di Magnasco è a terra e il portatore le si appoggia per riposare, non muta la sostanza, e anzi offre il destro per affermare fin da subito che l’aver attinto a una tela di circa centoquarant’anni prima – credibilmente su suggestione della committenza – non ridimensiona in nulla il talento dell’artista settecentesco dato che la sua non è né una copia, né un centone, ma piuttosto una libera e trasfigurata interpretazione di quell’archetipo. Le sue guizzanti figure di dame e parrucconi, di cicisbei e di servitori, di abati e reverendi padri, tra cani, sgabelli, vasi e perfino una scimmia nulla hanno a che vedere con le imbalsamate e stereotipe teorie di gentildonne e gentiluomini del quadro dei Van Deynen, ed è piuttosto nel paesaggio a ben guardare che Magnasco sembra riprendere a un di presso quello più antico, limitandosi ad aggiornare la veduta con l’aggiunta delle mura seicentesche e a spostarla di qualche grado verso settentrione, sicché mentre nel dipinto di primo Seicento si vede una porzione di mare che nel Trattenimento è ignorato, in quest’ultimo si arriva a comprendere nel paesaggio il santuario di Nostra Signora del Monte. È quest’ultimo dettaglio a indurre a dare ancora per buona la spiegazione di una scelta legata alla committenza, individuata nella famiglia Saluzzo, dato che, analogamente a quanto illustrato nella tela seicentesca per ciò che concerne i Sauli, ai Saluzzo apparteneva

invece il giuspatronato della cappella maggiore della chiesa del Monte, così come la villa “del Paradiso” nel cui giardino, come si è detto, secondo Christen e gli studiosi successivi il pittore settecentesco ha ambientato la scena. Sicché come nel dipinto dei Van Deynen la vista della basilica di Carignano è funzionale all’identificazione e alla celebrazione dei Sauli, in quello di Magnasco il santuario di Nostra Signora del Monte – visibile dalla stessa collina d’Albaro semplicemente ruotando lo sguardo un poco più a settentrione – lo è all’identificazione e alla celebrazione dei Saluzzo. Riguardo a una più specifica committenza, in un suo contributo sull’opera Clario Di Fabio (1990, p. 15) aveva proposto di identificare il primo proprietario del dipinto in uno degli otto figli maschi di Bartolomeo Saluzzo – personaggio noto in particolare per una superba ancorché effimera collezione di pittura custodita nel palazzo che possedeva in piazza Giustiniani – indicando in uno dei più giovani, Urbano Maria, nato nel 1692, il più probabile committente dato che ne è documentato il personale interesse – in realtà da estendere anche al fratello minore Gio.Luigi – estrinsecato nei confronti di quel santuario. È documentato, infatti, che egli nel 1748 abbia contribuito, per l’appunto insieme al fratello, sia al rifacimento dell’ammattonato della salita che porta alla chiesa, sia alla costruzione delle cappelle che la fiancheggiano. Questa cauta e relativamente circostanziata ipotesi non regge però alle verifiche storico-genealogiche: il

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Fig. 23c — Fratelli Van Deynen, Ricevimento genovese… (dettaglio), Collezione privata. Fig. 23d — Alessandro Magnasco, Trattenimento… (dettaglio).

giuspatronato della cappella maggiore di Nostra Signora del Monte venne sì acquisito nel 1601 da Giacomo Saluzzo, che pochi anni prima aveva altresì rilevato da Nicolò Giudice l’area su cui fece immediatamente edificare la villa soprannominata “Il Paradiso” nel cui giardino Magnasco un secolo più tardi ambientò idealmente il dipinto, ma Giacomo non era un antenato di Bartolomeo, Urbano Maria e Gio.Luigi, ma solo un loro collaterale. Giacomo Saluzzo, per contro, fu lo stipite del ramo più illustre della casata, dato che non solo i suoi discendenti si poterono fregiare dei titoli nobiliari di duca di Corigliano e di principe di Lequile, nel Regno di Napoli, ma per di più suo figlio Agostino fu eletto alla suprema carica della Repubblica di Genova, venendo incoronato doge il 7 luglio 1673. È dunque in quest’altra branca dell’albero dei Saluzzo che va ricercato il committente del Magnasco, dato che, nonostante i possedimenti meridionali, fortissimo si mantenne il legame con la città d’origine e con la chiesa del Monte, come dimostra non solo l’elezione dogale citata, ma anche il fatto che poco prima che scadesse il primo anno del mandato, il doge Agostino Saluzzo si prese l’inconsueta libertà di lasciare la sede del governo per recarsi a visitare, con alcuni famigliari e un seguito di guardie e paggi, proprio il santuario di cui pro tempore deteneva il giuspatronato. È il nipote omonimo del doge, nato nel 1680 e morto nel 1747, il candidato più accreditabile al ruolo di committente del Trattenimento in un giardino d’Albaro giacché pur essendo stato lui ad acquisire nel 1731 i diritti sulla cappella in cornu Evangelii di San Giorgio dei Genovesi a Napoli e nel 1732 la proprietà del palazzo già Di Sangro e Limatola – oggi spesso citato tout-court

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come Palazzo Corigliano – sulla piazza San Domenico della stessa città, nel testamento dettato nel 1747 (Archivio di Stato di Napoli, Fondo Saluzzo, busta 31) previde comunque la possibilità di essere sepolto al Monte e dispose affinché gli eredi potessero acquistare una più grande e comoda residenza cittadina a Genova, rispetto al palazzo avito di Strada Nuova (via Garibaldi civ. 8). Sono due le circostanze che depongono a favore della sua committenza: da un lato il fatto che sposò una lontana cugina, Paola, figlia del citato Bartolomeo e sorella quindi di Urbano Maria e Gio.Luigi, ricompattando i due principali rami della casata alla vigilia dell’estinzione della famiglia della moglie, e dall’altro che in tempi di poco precedenti la stesura del testamento avesse rilevato la metà della villa di Albaro toccata in eredità al fratello di suo padre e poi al di lui figlio, in modo da tornare ad esserne l’unico proprietario. Queste due azioni, che hanno determinato su due fronti la riunificazione della casata e del suo patrimonio in ambito genovese paiono infatti il contesto più adatto a una celebrazione famigliare dove Agostino Saluzzo junior si fa rappresentare con almeno una parte del parentado della moglie nel giardino della villa di cui può finalmente disporre per intero, e con nello sfondo la chiesa sulla cui cappella maggiore i suoi avi da quasi un secolo e mezzo hanno attivamente e generosamente esercitato il giuspatronato. In una sorta di ambivalente metonimia, dunque, un dipinto, il Trattenimento in un giardino d’Albaro di Magnasco, è la degna cornice entro cui inserire quegli eventi, ma nel contempo gli stessi inquadrano con efficacia una delle più emblematiche tele del Settecento europeo. p.b.


Villa delle Peschiere Porta Pila ? Porta Romana ?

Forte Castellaccio

Villa dello Zerbino Borgo Incrociati

Ponte di Sant’Agata

Sant’Agata

Marassi

Nostra Signora del Monte

Fig. 23e — Alessandro Magnasco, Trattenimento… (Individuazione dei siti e degli edifici più riconoscibili)

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Bibliografia

manoscritti Arese s.d. F. Arese, Dilucidazioni di alcune difficoltà che sono insorte sopra il libro della santità e degli obblighi della vita monastica, manoscritto s.d., archivio famiglia Arese. Descrittione… XVII s. Cappuccino genovese, Descrittione della vita del vero Capuccino, manoscritto del XVII s., Genova, Biblioteca provinciale dei Cappuccini, inv. AA/98.

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crediti fotografici • AFSPI n. 28.13.10/1.4 su concessione del MiBACT/Soprintendenza Pisa, prot. 79.09 del 9 luglio 2015: p. 61 • Banca Carige, Genova: pp. 37, 39 • Museo Biblioteca Archivio, Bassano del Grappa: pp. 63, 65, 72 (basso, sinistra) • Bibliothèque nationale de France, Parigi: p. 23 • Piero Boccardo: pp. 88, 89, 90 (sinistra), 91 • © Musée des Beaux-Arts – Mairie de Bordeaux. fot. L. Gauthier: p. 24 • Elena Datrino: p. 41 • Detroit Institute of Art: p. 16 • Fausta Franchini Guelfi: pp. 4, 10, 13 (basso), 15 (alto), 19, 20, 21, 22, 25, 27, 42, 44, 66, 70, 74, 75, 76, 77 • Galerie Canesso, Parigi: pp. 9, 35, 43, 47, 48, 55, 57, 59, 67, 71, 73, 83, 85, 86-87, 90 (destra) • Galerie Mendes, Parigi: p. 79 • Diritti riservati, di proprietà del Museo • Diocesano di Milano. Vietata la riproduzione: p. 51, 52 • Museo nazionale d’arte “Bogdan e Varvara Khanenko”, Kiev: p. 62 (destra) • Museo Luxoro, Genova: p. 81 • Musei di Strada Nuova, Genova: p. 45 • National Gallery of Art, Washington: pp. 58 (destra), 60 • The Olana Partnership, Hudson: p. 26 (sinistra) • Rijksmuseum, Amsterdam: p. 62 (sinistra) • Robilant + Voena, Londra: p. 64 • Royal Collection Trust / © Her Majesty Queen Elizabeth II 2015: p. 15 (basso) • Wadsworth Atheneum Museum of Art, Hartford: p. 14 • Diritti riservati: pp. 13 (alto), 30, 69, 72 (destra) • Da Alessandro Magnasco (1667-1749), cat. mostra, 1996: pp. 18, 29, 36, 38, 40, 46, 72 (alto, sinistra) • Da La Pittura a Genova e in Liguria dal Seicento al Primo Novecento, 1998: pp. 78, 82 • Da Muti – De Sarno Prignano, Alessandro Magnasco, 1994: p. 58 (sinistra)

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galerie canesso 26, rue Laffitte, 75009 Paris Tel: +33 1 40 22 61 71 Fax: +33 1 40 22 61 81 e-mail: contact@canesso.com www.canesso.com



ISBN 978-2-9529848-8-1


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