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Ambasciata d ’Italia Berna
L’italianità, l’arte e la moda Che cos’è l’italianità? Ci sono associazioni mentali e sensoriali, emotive e razionali che evocano ovunque il concetto di italianità: la storia, la lingua, l’arte visiva e l’arte del saper vivere, la moda. In due parole, la cultura di un popolo, con i suoi pregi e difetti. Sarebbe presuntuoso pensare di racchiudere il concetto di italianità in un così breve scritto, tanto più che ci piace pensare ad essa come ad un processo dinamico più che ad un concetto statico. Delle molteplici espressioni dell’italianità, ve ne sono due che amo sempre richiamare. Una rileva marginalmente in questa sede, ma mi pare giusto menzionarla anche per evitare che si interpreti questa nostra operazione come retorica auto-celebrazione: la capacità degli italiani di essere critici verso se stessi, direi auto-ironici. La seconda rileva in questa sede ed è appunto il senso estetico, frutto della produzione culturale e artistica presente, ma soprattutto passata. Secondo l’UNESCO, l’Italia ospita la maggior parte del patrimonio artistico dell’umanità. Questo ha influenzato il modo di fare, di pensare e di produrre degli italiani. E veniamo quindi alla moda. Ciò che più colpisce è la reciproca contaminazione fra arte e moda: le opere d’arte hanno immortalato la moda italiana, mentre la moda si è ispirata all’arte nelle sue produzioni di maggiore rilievo, che hanno reso celebre l’Italia. Da questo presupposto e dall’incontro con la Galleria Canesso è generata l’idea di una collaborazione volta a valorizzare le dimensioni sinergiche della moda e dell’arte, coniugate negli spazi – anch’essi simbolo di italianità – della Residenza dell’Ambasciata d’Italia a Berna. Nasce così il progetto di ospitare presso la Residenza, sulla cui storia mi soffermerò più avanti, cinque ritratti di Moroni, Fachetti, Bassano, Ceresa e Vignali, rappresentazioni figurative che testimoniano la moda cinque-seicentesca, affiancandoli – in un connubio tra passato e presente – a tre abiti di Roberto Capucci, maestro della moda, che delle opere d’arte ha fatto una sua fonte di ispirazione. Di questo connubio tra arte e moda, e della loro italianità, questo opuscolo vuole essere una duratura sintesi, al di là del tempo espositivo delle predette opere, grazie al prezioso contributo intellettuale di chi vi scrive. All’abito, ai modi e alle maniere è dedicato l’intervento di Carlo Ossola, Accademico dei Lincei, professore al Collège de France. Enrico Minio Capucci, Direttore della Fondazione Roberto Capucci, scrive della moda italiana quale “ariete che ha portato ad affermare la reputazione della creatività italiana nel mondo”. Di questa creatività Roberto Capucci è stato simbolo, facendo dell’arte una sua fonte di ispirazione. Maurizio Canesso, che da oltre trent’anni opera nel settore dei dipinti antichi a livello internazionale, traccia un percorso Vittore Ghislandi detto “Fra’ Galgario”, Ritratto di bambino con turbante, già Galleria Canesso.
sull’arte dal Cinquecento a quella contemporanea. Chiude questo libretto la Direttrice della Galleria Canesso di Lugano, Ginevra Agliardi, che traccia un fil rouge tra arte e moda quali mezzi di comunicazione sociale e culturale. Marco Del Panta Ridolfi Ambasciatore d’Italia
La Residenza dell’Ambasciata d'Italia a Berna
Nato a Roma il 15 marzo 1861 e morto in Roma nel febbraio del 1930, fu senatore del Regno e regio ambasciatore; ricoprì varie cariche prestigiose: delegato italiano Commissione Internazionale dell’Elba e del Reno e delegato italiano nella Commissione per la tratta delle donne e dei fanciulli della Società delle Nazioni. Dal 1924 fu membro del Contenzioso Diplomatico e membro del Tribunale Arbitrale Italo-Svizzero. È stato autore di numerosi studi di problemi sociali, d’arte e di storia, fra cui: I girovaghi italiani in Inghilterra, Città di Castello, 1893 e Larmes et sourires de l’émigration italienne, Parigi, 1907
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La Residenza dell’Ambasciata d’Italia a Berna Case, immobili, edifici raccontano almeno due storie: la storia di chi l’ha progettata e costruita, e la storia di chi l’ha abitata o la abita. Ma spesso – ed è sicuramente il caso di ambasciate e residenze diplomatiche – gli edifici raccontano anche una terza storia, che è quella della sua destinazione d’uso e quindi della sua funzione, che nel caso di uno stabile diplomatico è una funziona eminentemente istituzionale e “di servizio”. L’Ambasciata d’Italia a Berna vanta un passato illustre: gli immobili che oggi formano la Residenza e la Cancelleria appartenevano alla Famiglia Paulucci de’ Calboli, che vi abitò fino agli inizi del 1900. Dal 1913 al 1919, in particolare, fu residenza dell’Ambasciatore Raniero Paulucci de’ Calboli1, mentre il figlio Fulcieri, futura medaglia d’oro al valor militare nella Prima guerra mondiale, da giovane vi soggiornò a lungo impegnandosi attivamente in favore degli immigrati italiani e fondando, tra l’altro, la Scuola italiana di Berna insieme a Carlo Spinazzola e alla giornalista ticinese Rosetta Colombi. Dopo la tragica morte di Fulcieri, a seguito delle ferite riportate in guerra, il complesso di edifici (la Residenza con relativa dépendance e giardino per un totale di 5.300 mq) venne ceduto allo Stato italiano nel febbraio del 1920, per 450.000 Franchi Svizzeri, dalla figlia dell’Ambasciatore, la Marchesa Eugenia Virginia, rimasta unica erede della Famiglia Paulucci. Da allora, quindi, il complesso di edifici situato in Elfenstrasse 10-14 appartiene allo Stato italiano ed è sede dell’Ambasciata d’Italia presso la Confederazione svizzera e presso il Principato del Liechtenstein. Come tale, esso svolge la sua funzione istituzionale di residenza dell’Ambasciatore d’Italia ma soprattutto – ed è quello che più conta – è al servizio dello Stato italiano per tutte le attività inerenti alla promozione dell’Italia, siano esse di tenore politico-diplomatico, economico-commerciale, consolare o culturale, nonché alle relazioni italo-svizzere. È con questo spirito che abbiamo organizzato presso la nostra Residenza d’Italia a Berna una mostra che intende mettere in rilievo quel connubio fra arte e moda, che costituisce uno dei tratti salienti della cultura italiana. Dal 28 febbraio 2018 ospiteremo quindi per due mesi presso i saloni di rappresentanza del suo pianterreno cinque ritratti dipinti da Moroni, Fachetti, Ceresa, Bassano, Vignali e i tre abiti di Roberto Capucci, facendo da cornice all’italianità della mostra “Moda dipinta, arte indossata” realizzata in collaborazione con la Galleria Canesso di Lugano. Questa brochure intende però andare oltre la mostra e rimanere come “biglietto da visita” dell’Ambasciata d’Italia a Berna, in quanto rappresentazione di quel binomio arte-cultura che tanto ha significato nella nascita dell’Italia di oggi, ma anche, a pensarci bene, alle relazioni fra Svizzera e Italia. Marco Del Panta Ridolfi Ambasciatore d’Italia
L’Ambasciata d’Italia a Berna ospita nella propria Residenza la mostra
MODA DIPINTA ARTE INDOSSATA Dipinti antichi dalla Galleria Canesso e abiti contemporanei dalla Fondazione Roberto Capucci
L’abito e le maniere «L’abito» è molto di più che un vestimento: è un modo di procedere, secondo interni e ricorrenti paradigmi, che ingenerano «abitudini», espresse da atti e parole, che san Tommaso d’Aquino così definisce: «habitus quodammodo est medium inter potentiam puram et purum actum («L’abito si situa, in certo modo, tra la pura potenza e l’atto pieno»: Summa theologica, I, q. 87, art. 2). L’abito è l’accento del nostro agire e parlare, produce maniere d’essere e d’apparire; nulla meglio lo spiega che le «buone maniere», forme dell’agire che si richiamano a paradigmi di “onesto”, “educato”, “opportuno”, i quali orientano, dalla nostra interiorità, i segnali esterni della nostra presenza: azioni, gesti, parole pronunciate. Norbert Elias, nel suo saggio La civiltà delle buone manière1, ha illustrato i caratteri che hanno normato le società di Antico Regime, sin dal Cortegiano di Baldassar Castiglione e dal Galateo di Giovanni Della Casa nel XVI secolo. Ma occorre anche ricordare l’influenza europea del trattato di Erasmo da Rotterdam, De civilitate morum puerilium del 1530, che in inglese fu tradotto come un prontuario di «buone maniere»2. Noi oggi vestiamo e parliamo casual e le società hanno largamente aderito a una deregulation di norme che rendono i rapporti economici più flessibili e le garanzie più aleatorie; un tempo arbitrario viviamo, mentre per lunghi secoli è esistito un rapporto reciproco, direbbe Vladimir Jankélévitch, tra la manière e l’occasion3: le maniere interpretano l’occasione e la piegano all’abito; se ‘casuale’ è l’occasione, non casuale deve essere la risposta. L’abito infatti è una “riserva di senso” che si accumula sceverando dall’esperienza e, in questo sceverare proprio della discrezione e del discernimento, la parola ha un ruolo essenziale. Il Castiglione lo illustra ampiamente nel libro II del Cortegiano: «Così ancor, parlando pur d’arme, il nostro cortegiano arà risguardo alla profession di coloro con chi parla, ed a questo accommodarassi, altramente ancor parlandone con omini, altramente con donne; e se vorrà toccar qualche cosa che sia in laude sua propria, lo farà dissimulatamente, come a caso e per transito e con quella discrezione ed avvertenzia, che ieri ci mostrò il conte Ludovico» (II, VIII); e ancor più: «Ma il condimento del tutto bisogna che sia la discrezione; perché in effetto saria impossibile imaginar tutti i casi che occorrono» (II, XIII). Non diversamente – di fronte alla «varietà delle circunstanze» - Francesco Guicciardini interpretava il sale della discrezione, nei suoi Ricordi: « È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare Leandro Bassano, Ritratto d’uomo, Galleria Canesso, particolare
con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione» (§ 6). Se il modo proprio del presentarsi è la sprezzatura, la maniera opportuna del parlare e dell’agire è la discrezione che è dettata e secerne le «buone maniere». Nell’Ottocento ancora lo ricorderà Silvio Pellico, che associa queste a virtù “forti” quali la liberalità e la giustizia: «Sii liberale in ogni genere di sovvenimento a chi ne abbisogna: – di denari e protezione, quando puoi; – di consigli, negli incontri opportuni; – di buone maniere e di buoni esempi, sempre. Ma principalmente se tu vedi il merito oppresso, t’adopera con tutte le forze a rialzarlo, o se ciò non puoi, t’adopera almeno a consolarlo ed a rendergli onore. Arrossire di mostrare stima al disgraziato onesto, è la più indegna delle viltà. La troverai pur troppo comune; sii tanto più vigilante a non lasciarti infettare da essa mai».4 Il capitolo citato sarà poi scelto da Niccolò Tommaseo per illustrare la sua antologia Letture italiane scelte5 , per la nettezza del rapporto che intercorre tra etica e parola, come sottolineava nella sua Prefazione: «La scelta cadrà sopra i passi esattamente veri e nella trattazione e nel tono».6 Questa esattezza, che per “arte del levare” fa corrispondere una parola, discreta dal discernimento, al vero comune, lungi dall’essere il retaggio di una “civiltà dei doveri” (quali potrebbe apparire evocando i nomi di Pellico e Tommaseo) è la struttura portante della convivenza civile; e nessuna definizione meglio potrebbe ricapitolare secoli di meditazione europea sulle «buone maniere» che quella di Antonio Gramsci: «In Inghilterra, fino a tutto il secolo scorso, si potrebbe quasi dire fino alla guerra mondiale, il fine educativo più alto che si proponevano le migliori scuole era quello di formare il gentleman. La parola gentleman, come tutti sanno, non corrisponde a gentiluomo italiano; e non può esser resa con precisione nella nostra lingua; indica una persona che abbia non solo buone maniere, ma che possegga un senso di equilibrio, una padronanza sicura di se stesso, una disciplina morale che gli permetta di subordinare volontariamente il proprio interesse egoistico a quelli più vasti della società in cui vive».7 «Il gentleman è dunque la persona colta, nel significato più nobile del termine, se per cultura intendiamo non semplicemente ricchezza di cognizioni intellettuali, ma capacità di compiere il proprio dovere e di comprendere i propri simili, rispettando ogni principio, ogni opinione, ogni fede che sia sinceramente professata». La civiltà italiana dimora nella memoria della parola, nel suo attivo tornare come “avvenire”, coscienza di una storia e non riducibile speranza di rinnovamento: non
saprei altrimenti esprimere il senso di questa durata di una parola «esattamente vera e nella trattazione e nel tono» se non ricorrendo a una raccolta definizione che inaugura il Prologo di un nobile scrigno di memorie, dettato da Luigi Pintor: «Scritta sotto il ritratto di un antenato mi colpì, quand’ero piccolissimo, una misteriosa parola latina: servabo. Può voler dire conserverò, terrò in serbo, terrò fede, o anche servirò, sarò utile».8 Ecco il miglior “abito”: servabo. Carlo Ossola Collège de France
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Trad. it. : Bologna, Il Mulino, 1982. A lytil booke of good manners for Children, nella versione di Robert Whytyngdon, London, Wynkyn de Worde, 1532. V. Jankélévitch, Le Je-ne-sais-quoi et le presque rien : 1. La Manière et l’occasion, Paris, Seuil, 1981 S. Pellico, Dei doveri degli uomini. Discorso ad un giovane, cap. XXVI; in Opere, vol. III, Firenze, Batelli, 1834, IV ediz., pp. 100-101. Letture italiane scelte da Niccolò Tommaseo, con Prefazione e note letterarie e morali, Milano, Giuseppe Reina, 1854, p. 120. Ivi, Prefazione, p. VII. A. Gramsci, Intellettuali. Noterelle sulla cultura inglese, in Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana: Quaderno 4: 1930-32 [Miscellanea], § 93; vol. I, pp. 533-534. L. Pintor, Servabo. Memorie di fine secolo, Torino, Bollati Boringhieri, 1991 (poi in La vita indocile, Torino, Bollati Boringhieri, 2013 e 2015).
Arte italiana: una questione di prospettiva La notizia fa il giro del mondo in poche ore: il Salvator mundi sarà il cuore di un nuovo museo universale, il Louvre Abu Dhabi. Non è solo la cifra record di 450 milioni di dollari a impressionare, quanto la scelta forte e chiara e il messaggio che l’accompagna: l’arte italiana è al vertice dell’attenzione e dell’apprezzamento del mondo intero. È una vera rivincita per il Rinascimento italiano, che resta un punto fermo nell’interesse collettivo. Così Leonardo – venerato al Louvre parigino soprattutto nella Gioconda, icona di fama planetaria – diventa ambasciatore, negli Emirati Arabi, dei valori di una cultura e di un’epoca tra le più “rivoluzionarie” della storia dell’arte: il Rinascimento. Si tratta di un’epoca rivoluzionaria non solo per l’invenzione della prospettiva ma anche perché si cambia di prospettiva: gli artisti, inebriati da una nuova fiducia nelle possibilità umane, sono alle prese con quella chance straordinaria di poter osservare e rappresentare il mondo dal proprio punto di vista - umano e terrestre - usando il disegno e la geometria per inverarlo, il colore per ravvivarne l’acutezza e il sentimento per dargli respiro. Il Rinascimento, ponendo l’uomo al centro del mondo, riveste un ruolo fondamentale nello studio e nelle scelte che caratterizzano le collezioni dei nuovi mercati, in particolare quello arabo, russo e asiatico. Tra le mostre dedicate ai pittori del Quattrocento e Cinquecento italiano vale la pena di ricordare quelle dedicate a Giovanni Bellini al Getty Center di Los Angeles, a Michelangelo al Metropolitan di New York, a Mantegna, Tiziano, Veronese e Tintoretto al Louvre di Parigi, a Tiziano al Metropolitan Art Museum di Tokyo, a Giovan Battista Moroni alla Royal Academy of Arts di Londra. Quando poi, nel Barocco, la regola diventa estrosa, l’arte italiana, stravolgendo i canoni rinascimentali, sfida lo spazio, inventa scenografie, dà voce alle passioni e all’anima. Il Seicento italiano, riscoperto nel corso del Novecento, è stato al centro della vita culturale in Francia, dove nell’estate 2017, ha avuto ampio spazio attraverso diciotto sedi espositive su tutto il territorio. Tra i molti progetti in preparazione ricordo quello sulla pittura genovese organizzato dalla National Gallery di Washington. Il rapido giro d’orizzonte su quegli aspetti dell’arte italiana capaci ancora oggi di suscitare l’attenzione nel mondo, si sofferma poi davanti a Caravaggio e ai caravaggeschi. A sorprendere sono la verità e l’attualità delle opere del Merisi. Artista che stupisce per la modernità del suo linguaggio fotografico, per la sua capacità di catturare l’attimo usando sapientemente la luce e l’ombra per dire cose e tacerne altre. La sua capacità di sintesi espressiva ci attrae nelle sue tranches de vie, che dialogano con il Sacro, sicché noi non possiamo esimerci dal parteciparvi. Carlo Ceresa, Ritratto d’uomo con parrucca, Galleria Canesso, particolare
Non solo Caravaggio ma anche l’ampia schiera dei suoi seguaci che, reinterpretando l’arte del grande maestro, rinnovano il linguaggio artistico della penisola, sanno ancora catturare l’attenzione internazionale. La Danae di Orazio Gentileschi è stata comprata dal Paul Getty Museum di Los Angeles a una cifra da record. Il museo di Tokyo ha di recente acquisito un dipinto di Bartolomeo Manfredi. Le mostre su Caravaggio e i caravaggeschi hanno sempre un grande successo: basti ricordare quelle recenti di Milano e di Los Angeles. È una fascinazione che prosegue con gli artisti e le opere dei secoli successivi fino ai maestri contemporanei. Per citare alcuni nomi, in una selezione non facile: Modigliani, Burri, Fontana. Una volta ancora compaiono cifre a molti zeri nelle aste e nelle gallerie e, una volta ancora, “arte italiana” significa come sperimentazione, come sfida, come prova di coraggio. L’arte italiana è stata quindi, per secoli, cuore pulsante d’innovazione e rinnovamento, ambasciatrice della bellezza, della cultura e della civiltà con cui, fin dall’antichità, s’identificava il Bel Paese. Oggi noi leggiamo le opere “storiograficamente”: il tempo è passato, gli studi sono proseguiti e sempre proseguono e i nostri occhi si sono ormai abituati a certe rivoluzioni concettuali. Prima non c’era stato nulla di simile: ecco la sfida per l’artista, ecco l’innovazione, ecco la nuova prospettiva. È proprio grazie alla capacità delle opere d’arte di narrare il paesaggio culturale del luogo ove sono state create, di raccontarne quella particolare trama di atmosfere e valori, con una potenza evocativa della quale a volte ci sorprendiamo, che esse diventano le migliori e più sincere testimonianze della cultura italiana. Mi diverte ricordare un caro amico e collezionista che spesso viene a trovarmi in Galleria a Parigi perché ha voglia di viaggiare attraverso i dipinti, ritrovare i suoi ricordi e sentirsi un po’ in Italia! Si sa, il mercato dell’arte è prepotentemente contemporaneo anche a causa dell’immensa offerta sul mercato in rapporto al ristrettissimo numero di opere di antichi maestri. Tuttavia, sempre più frequentemente, mi capita di conoscere collezionisti che guardano verso l’antico, affiancando nelle loro collezioni pezzi antichi alle concettuali opere contemporanee. Perché? Forse per la sorprendente “modernità” di alcuni artisti del passato? O forse perché, in una società in cui gli oggetti invecchiano e muoiono con una rapidità vertiginosa, si sente il bisogno di possedere qualcosa che, attraversando i secoli e la storia, è giunto fino a noi, ricollegandoci con le nostre radici. Che non sia di nuovo tutta una questione di prospettiva? Maurizio Canesso Galleria Canesso, Parigi – Lugano
Moda italiana nel mondo Dovevano proprio brillare di gioia gli occhi a Giovanni Battista Giorgini la sera del 14 febbraio 1951, quando alla domanda “How did you like it?” Gertrude Ziminsky, forse la più influente compratrice di moda di New York del momento, rispose “It was worth the trip!”. Era la sera del ballo di chiusura del First italian high fashion show organizzato nella sua residenza fiorentina a villa Torrigiani, in Oltrarno: l’atmosfera da Rinascimento fiorentino, il richiamo al periodo più fulgido della creatività e eleganza italiana, erano perfetti. Nel suo impeccabile frac si godeva il suo trionfo: il suo sogno si stava avverando! La parola d’ordine era quella di far prevalere la creatività italiana. Ai creatori di moda invitati alla manifestazione era stato chiesto di attenersi a questo tema, addirittura agli invitati della buona società fiorentina era stato raccomandato di vestire “italiano”. Giorgini, neanche nei suoi più azzardati pensieri poteva immaginare ciò che sarebbe successo in seguito a quei due giorni. Fino ad allora la moda era stata prevalentemente francese, la capitale era Parigi, persino Charles Frederick Worth, quello che viene considerato come il primo creatore di moda moderno, pur essendo inglese, dovette andare a cercare fortuna in Francia. A parte qualche tentativo (Rosa Genoni ad inizio secolo scorso) la moda italiana non era mai esistita prima di quel momento. Da lì in avanti le sartorie di alta moda, poi il prêt à porter, le borse, le scarpe, i tessuti, hanno portato prima Firenze, poi Roma e Milano a diventare le capitali mondiali della moda. Tutto ciò che era italiano e correlato alla moda ha cominciato a rappresentare sinonimo di eleganza, creatività e qualità. Un abito di alta moda di Capucci o Valentino, un tailleur di Armani, un abito di Versace o una camicia di Ferrè sono diventati garanzia di massima qualità. I marchi italiani hanno assunto la valenza di status symbol: portare una borsa di Gucci o scarpe di Ferragamo innalza lo status di chi li indossa, non solo per il loro valore economico ma per una scelta che denota un gusto raffinato. La corsa negli anni ’80 e ’90 a possedere abiti, accessori o anche gadget con griffe italiana portò i fatturati delle aziende a cifre fino ad allora impensabili per quel settore, fino ad influire sul Bilancio di Stato. Si può asserire che la moda è stata, insieme al design industriale, l’ariete che ha portato ad affermare la reputazione della creatività italiana nel mondo. In anni di globalizzazione rimane difficile parlare di moda italiana. Il periodo in cui lo stilista, il management, la produzione e la proprietà delle aziende erano interamente italiani oggi è rimasto un ricordo. Così come designer italiani firmano linee francesi e stilisti americani hanno fatto la gloria di maisons italiane, alla fine di italiano rimangono solo i brand e comunque l’immagine che evocano nel consumatore internazionale rimane immutata grazie a quegli anni che nascono da quei due giorni fiorentini del 1951 e dalla visione di Giovanni Battista Giorgini Enrico Minio Capucci Direttore della Fondazione Roberto Capucci
Roberto Capucci – Tra moda e arte La fase d’ispirazione è per un artista un momento molto particolare: è difficile stabilire cosa può far scattare la scintilla, può essere qualsiasi cosa, anche un movimento. Amo spesso ricordare che l’ispirazione di uno degli abiti iconici di Capucci, le “Nove gonne”, è nata dalle onde d’acqua create dal lancio di un sasso in una fontana. Ma l’ispirazione può nascere anche da un fiore, una musica, un’opera d’arte, un costume storico. L’importante è che l’artista, creando, ne faccia qualcosa di nuovo, ne dia una sua versione, una sua visione, portando così avanti il testimone. Moda e arte sono territori contermini, in cui non di rado si creano sovrapposizioni. Le avanguardie artistiche d’inizi Novecento hanno aperto la strada alle contaminazioni estendendo il loro raggio di azione al settore dell’abbigliamento, affermando che l’uomo nuovo non poteva indossare abiti del passato. In modo inequivoco il Futurismo ha dichiarato l’identità di moda e arte. Da lì in poi l’intreccio di forme espressive ha visto nascere collaborazioni eccellenti, come quella tra Schiaparelli e Salvador Dalì, ma anche dei chiari e dichiarati omaggi, come quelli di Yves Saint Laurent a Mondrian, di Gianni Versace ad Andy Warhol, di Alexander Mc Queen ad Aubrey Beardsley. Anche Roberto Capucci, a metà degli anni Sessanta, si ispira a Victor Vasarely e all’op art. Negli stessi anni alcune sue opere si avvicinano anche ai “cretti” di Burri, sulla base di una comune ispirazione al mondo naturale. Accade che Capucci si ispiri ad abiti storici, visti in opere pittoriche che hanno esercitato su di lui una particolare suggestione. È questo il caso di un abito da sposa ispirato da un personaggio della “Continenza di Scipione”, opera di Giambattista Tiepolo per la Villa Cordellina di Alte di Montecchio, o delle “gorgere” degli anni Ottanta. Un esempio di reinterpretazione di un abito storico è poi la “Marsina”, che certamente nasce dalla marsina rossa di Mozart, tanto amata dal compositore che era arrivato a pregare la Baronessa von Waldstätten di trovargliela, altrimenti sarebbe impazzito, e, una volta ottenuta, a ringraziarla nel suo esuberante stile: “Allerliebste, Allerbeste, Allerschönste, Vergoldete, Versilberte und Verzuckerte Wertheste und schätzbarste Gnädige Frau Baronin!” come emerge dalla sua lettera del 2 ottobre 1782. Capucci ha sostituito il velluto con un taffetas plissé in vari toni di rosso, messo una ruche plissé ai bordi, tolto gli alamari, abbassato la vita e aumentato sensibilmente i volumi, creando così la sua marsina. Chissà, forse sarebbe piaciuta al “Wolfy” di Miloš Forman! Enrico Minio Capucci Direttore della Fondazione Roberto Capucci Roberto Capucci, Marsina in seta plissettata, particolare
Moda dipinta, arte indossata L’abito non dovrebbe fare il monaco, ma lo ha fatto per secoli. E in modo egregio. Non esiste infatti sintesi più breve e più efficace in grado di raccontare visivamente, in un solo colpo d’occhio, la personalità, la cultura, la geografia e la storia individuale e sociale di un essere umano. E nei ritratti i pittori hanno saputo immortalare abiti e personaggi, traghettando i loro messaggi attraverso i secoli. Al rapporto tra Arte e Moda è dedicata la mostra allestita nella residenza dell’Ambasciata italiana, in collaborazione con la Galleria Canesso di Lugano e la Fondazione Roberto Capucci. Si potranno ammirare cinque ritratti, rispettivamente di Moroni, Fachetti, Bassano, Ceresa e Vignali, in un excursus temporale che va dal tardo Rinascimento al Barocco. I legami tra Arte e Moda sono diversi. Entrambe, anzitutto, si rivolgono al senso estetico. I pittori, affascinati dalla materialità delle stoffe, usano tutta la loro maestria per riuscire a restituirne gli effetti tattili. Chi osserva l’opera d’arte resta affascinato dall’abilità dell’artista, capace di restituirgli persino questo piacere sensoriale. Arte e Moda, inoltre, si sostengono a vicenda. Senza i ritratti perderemmo il miglior documento storico a nostra disposizione per conoscere la moda dei nostri avi. Senza gli abiti, d’altra parte, perderemmo una parte essenziale della bellezza e del significato dei ritratti. Cosa sarebbe l’Eleonora da Toledo dipinta dal Bronzino senza l’eleganza straordinaria del suo abito in velluto? Come potrebbe Holbein trasformare Enrico VIII nel “Re” che ha cambiato le sorti d’Inghilterra senza utilizzare l’imponenza e la magnificenza dell’abito che indossa? Infine, al di là dell’aspetto puramente estetico, Arte e Moda sono entrambe potenti mezzi di comunicazione culturale e sociale. Così, il bel vestito rosso e oro dipinto dal Fachetti, esposto in mostra, con le sue fogge geometriche e rigide, racconta non solo la supremazia spagnola nell’Italia del XVI secolo, ma anche la rigidità politica e il rigore morale caratteristici della corte di Filippo II. Di contro, l’abito del Cavaliere dipinto dal Ceresa cinquant’anni più tardi, creato secondo i dettami della moda francese, rimanda alla ricercata mondanità tipica della Francia del Re Sole, che sarebbe sfociata nell’invenzione politica di Versailles. Accanto ai dipinti, come a tessere un fil rouge tra antico e moderno, sono esposti alcuni bellissimi abiti di Roberto Capucci. Couturier contemporaneo di fama mondiale, Capucci è stato capace di interpretare ed esportare nel mondo l’eleganza italiana, attingendo tra l’altro anche alla storia dell’arte. Tra i suoi abiti abbiamo scelto quelli che più sapevano porsi in dialogo con i costumi raffigurati nei dipinti esposti, sì da creare suggestive assonanze estetiche e formali. Ginevra Ventimiglia Agliardi Direttrice Galleria Canesso – Lugano Roberto Capucci, Abito in faille di seta, ricamato con filo d’oro e pietre in pasta di turchese
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