Galleria Canesso Lugano - Petrini ritrovati

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Petrini ritrovati

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Petrini ritrovati



Petrini ritrovati

catalogo a cura di

c hiara N aldi


Coordinamento editoriale Chiara Naldi Concezione grafica Chiara Naldi e Grafiche dell’Artiere – Italia Fotolito e stampa Grafiche dell’Artiere – Italia Redazione Emanuela Di Lallo Segretariato Susanne Michelutti Regli, Lorenza Senni

Finito di stampare nel mese di aprile 2016 © Galleria Canesso Sagl

Edizione fuori commercio

con il sostegno di PKB Privatbank SA

Piazza Riforma 2 6900 Lugano Svizzera Tel. +41 (0)91 682 89 80 Fax +41 (0)91 682 89 81 info@galleriacanesso.ch www.galleriacanesso.ch

a destra Veduta aerea del castello di Hauteville, St-Légier-La Chiésaz



Desideriamo ringraziare per la sua preziosa disponibilità Philip Grand d’Hauteville. Egualmente, alla sorella Elisabeth Grand d’Hauteville, al fratello Jacques Grand d’Hauteville e alla cognata Marie-Claire Grand d’Hauteville esprimiamo la nostra riconoscenza per averci permesso la visita al castello di famiglia, accogliendoci con grande gentilezza. Molte persone hanno contribuito in forme diverse allo svolgimento delle ricerche annesse alla mostra. Desideriamo ringraziare in particolare: Fanny Abbott Henri Bercher Katja Bigger Paul Bissegger Sergio Calvi Carlo Canonica Roger Carr-Whitworth Simonetta Coppa Sylvie Costa Paillet Gilbert Coutaz Denis Decrausaz Chantal de Schoulepnikoff Emanuela Di Lallo Sally Evans Lorraine Filippozzi Monique Fontannaz Francesco Frangi Eric Frigière Rémy Gindroz Laurent Golay Françoise Lambert François Margot Isabelle Marty Luigi Napi Mauro Natale Emmanuelle Neukomm Dominique Radrizzani Pierfranco Riva Damiano Robbiani Bruno Scardeoni Don Giovanni Spinelli Eric Teysseire Paolo Vanoli


Non avrei mai immaginato, ma questa è la magia del mio mestiere, di riscoprire la testimonianza dell’attività di un artista ticinese nel Canton Vaud. L’estate scorsa fu messo all’asta l’intero contenuto della bellissima dimora che i Grand d’Hauteville ereditarono dai Cannac, che a loro volta avevano acquistato la proprietà dai d’Herwarth, una delle più insigni famiglie del Settecento in territorio svizzero. Tra i lotti catalogati, conservati nel solaio c’erano i bozzetti e le tele presentati oggi in questa sede. Un appassionante lavoro di ricerca operato dalla Galleria ha potuto ricollocare le opere nel contesto storico e artistico dell’epoca. Ringrazio per la collaborazione a questo progetto Mauro Natale, il quale per primo ha avuto l’intuizione che questo insieme appartenesse a Petrini, e Alessandro Morandotti che ha condiviso tale opinione e curato il saggio sul pittore in apertura del catalogo. Ringrazio per il suo impegno Manuela Kahn-Rossi. È stato fondamentale il suo intervento di ricostruzione delle origini della commessa, che nasce e si inserisce nel contesto di una famiglia legata ad illustri figure politiche e culturali del Settecento europeo. La riscoperta è un vero lavoro di squadra, per questo ringrazio Chiara Naldi che ha schedato le opere e coordinato il lavoro. Ricordo con simpatia l’entrata trionfale che riservammo alle opere in piazza della Riforma a Lugano quando Susanna Michelutti Regli, non potendo abbandonare ad un trasporto qualsiasi le fragilissime telette, attese la consegna dopo l’asta e prese in senso inverso al Petrini il passo della Nufenen per riportare a casa il prezioso tesoro.

Maurizio Canesso


È in un castello sulle rive del Lago Lemano, oggi appartenente alla dinastia dei Grand d’Hauteville, che il raro insieme di opere qui messo in luce è stato recuperato a seguito della dispersione dei contenuti del maniero avvenuta recentemente. Le ricerche promosse per questa mostra, documentate dal presente catalogo, evidenziano che il nucleo di opere esposto proviene in origine e in modo differenziato da due residenze del XVIII secolo ubicate l’una nel cuore di Vevey, alla Place du Marché, l’altra in campagna, a St-Légier-La Chiésaz, distante pochi chilometri e conosciuta con il nome appunto di Château d’Hauteville. Dal 1734 al 1760 entrambe le proprietà appartenevano a una stessa famiglia, alla quale si deve l’edificazione, già a inizio Settecento, della dimora cittadina. I sette lavori esposti formano il corpus prezioso sul quale si è concentrata in questa occasione l’indagine critica: esso è costituito da bozzetti e dipinti da rapportare all’universo del maestro ticinese Giuseppe Antonio Petrini, artista menzionato già fra le carte settecentesche di una delle due dimore. Grazie agli approfondimenti promossi per la mostra, scopriamo anche che vicende complesse legano direttamente o indirettamente alcune opere esposte a programmi decorativi presenti in entrambe le proprietà. In questo catalogo l’attenzione è posta su bozzetti e dipinti, mentre gli affreschi meritano un capitolo di ricerca a parte che l’evento espositivo potrà sicuramente stimolare; essi sono comunque integrati all’indagine laddove si rivelano attinenti allo studio delle opere in mostra o utili a documentare la ricostruzione, qui pure affrontata, delle vicende legate alla famiglia dei committenti.


Sommario 11

Petrini a Vevey Alessandro Morandotti

c ata lo g o

Chiara Naldi

delle opere

1. Giuseppe Antonio Petrini (Carona 1677 - 1755/1759)

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a) Allegoria femminile; b) Allegoria maschile

2. Giuseppe Antonio Petrini (Carona 1677 - 1755/1759)

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Astronomo

3. Giuseppe Antonio Petrini (Carona 1677 - 1755/1759)

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Filosofo

4. Giuseppe Antonio Petrini (Carona 1677 - 1755/1759)

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Lucrezia

5. Giuseppe Antonio Petrini (Carona 1677 - 1755/1759)

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Coppia di putti che sorregge un medaglione

6. Pittore ignoto della cerchia di Giuseppe Antonio Petrini (?) (attivo intorno alla metĂ del XVIII secolo)

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Il giudizio di Paride

Un potenziale nascosto: la famiglia d’Herwarth, l’universo di Petrini e le premesse di una committenza europea in terra vodese Manuela Kahn-Rossi

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Petrini a Vevey

Alessandro Morandotti

Sorprende davvero ritrovare, nella residenza settecentesca di un’illustre famiglia del Canton Vaud, materiali di studio di un pittore che sembrerebbe più logico rintracciare alla sua morte nell’inventario di bottega. Dipinti molto distanti per tema iconografico e grado di finitura, ma legati dalla comune autografia, qualificano lo stretto rapporto tra Giuseppe Antonio Petrini e la famiglia d’Herwarth, radicata a Vevey nella prima metà del Settecento. I ritrovamenti documentari molto importanti di Manuela Kahn-Rossi hanno cominciato a fare chiarezza, almeno in parte, sulle ragioni di queste presenze, ma se la figura allegorica femminile delineata in un rapido bozzetto (cat. 1a) si ritrova, grazie alla ricerca della studiosa, su un soffitto del distrutto palazzo di città della famiglia d’Herwarth documentato da un’antica fotografia, a quale decorazione sarà invece stato destinato il suo pendant con un giovane uomo che ascende in cielo tra le nuvole (cat. 1b)? Difficile pensare a un soggetto profano da vedere realizzato in un’altra stanza di quel perduto palazzo di cui peraltro non abbiamo tracce, visto che la presenza contestuale della foglia di palma e della freccia appena visibile tra le mani di uno dei putti in volo non possono che alludere a una gloria di un santo, e di san Sebastiano nel caso. Si tratta quindi di bozzetti di lavoro da impiegare in contesti diversi o forse solo da adattare alle esigenze della committenza, con modifiche anche iconografiche. La qualità luminosissima di questi ritrovati modelletti restituisce il talento di Petrini decoratore, capace di accendere le cromie con toni brillanti certo desunti dal confronto con le opere dei grandi frescanti delle terre dei laghi, e con Carlo Innocenzo Carloni innanzitutto. I blu come di smalto dei cieli, il rosa acceso del panneggio dell’allegoria femminile, le figure scattanti sono molto in linea con le scelte dei grandi decoratori lombardi del tardo barocco, anche se interviene sempre il pedale di smorzo tipico di Petrini, e i carnati si velano di una patina brunita che è solo sua. Sono più o meno gli anni delle decorazioni di Palazzo Riva a Lugano, che sono attestati negli studi intorno agli anni Quaranta del Settecento. Di fronte a questi bozzetti materici e sontuosi sorprende la ‘povertà’ esecutiva e compositiva del dipinto con una giovane donna in una stanza disadorna (cat. 4), opera volutamente trascurata nella tecnica compendiaria, qualità specifica di stesura accentuata anche dai danni conservativi (il quadro è sopravvissuto a una serie di incendi, come ci racconta Chiara Naldi nella scheda relativa). Il riconoscimento del soggetto non è immediato, ma si dovrebbe trattare di una versione semplificata, e domestica, della storia di Lucrezia, al cui suicidio allude il pugnale appoggiato sul tavolo. Non vedo molte alternative, visto che l’atteggiamento della giovane dall’aria malinconica non è quello di una santa. È pur vero che santa Giustina è uccisa con un pugnale, ma essa è sempre riccamente abbigliata e l’ambientazione della scena del suo martirio in una stanza non è consueta. Una lettura molto personale delle iconografie che non sorprende in un pittore sempre eccentrico come Petrini. Al più consueto repertorio del pittore ticinese rimandano infine i due vecchi sapienti (cat. 2 e 3), uno solo dei

fig. 1 (a sinistra) Pittore attivo ante 1760, Veturia e Volumnia davanti a Coriolano, dettaglio degli affreschi parietali del Salone d’onore del castello di Hauteville, St-Légier-La Chiésaz

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quali riconoscibile come un astronomo per gli inequivocabili attributi che ne contraddistinguono l’ambito di ricerca (una sfera celeste e un compasso). Il ritratto è ambientato all’aperto, contro un cielo solcato da nubi, a rimarcare la natura del suo infaticabile indagare, tra la volta celeste e il globo dove restituire artificialmente la posizione delle stelle osservate dal vero. Il suo pendant presenta invece, in un interno spoglio, la figura di un uomo ammantato il cui volto è incorniciato da una barba canuta. L’intensità dello sguardo, il volto febbrile segnato dalle rughe espressive della fronte corrugata, ne qualificano l’attività intellettuale anche se nessun attributo ne indica la natura specifica (un filosofo? un apostolo? un profeta?). Si tratta di un’opera significativa del Petrini per la qualità degli impasti dei carnati del volto e la disinvoltura esecutiva dei panneggi, perfettamente in linea, insieme alla tela gemella, con un ambito di specializzazione riconosciuto da tempo come tipico di Petrini. Astronomi, filosofi, ma anche sapienti legati alla storia sacra (profeti, santi ed eremiti) fanno parte di un repertorio collaudato di ritratti immaginari di uomini illustri dell’antichità di cui il catalogo dell’opera pittorica nota di Petrini è punteggiato a diverse altezze cronologiche; restituiti a mezza figura, sono effigiati su supporti di tela giocati in alternanza nei formati orizzontali e verticali. In molti studi dedicati a Petrini è stata giustamente avvistata la lontana parentela di questa tipologia di opere con la tradizione seicentesca dei ritratti dei sapienti dell’antichità, avviata come vero e proprio genere dallo spagnolo Jusepe de Ribera. Sfilano, nel repertorio del pittore valenciano e della sua scuola, figure quasi romanzesche, perché l’iconografia di molti di quei personaggi era avvolta nella leggenda, e solo raramente iscrizioni provavano ad avvalorare identificazioni ‘certe’. Euclide, Archimede, Eraclito, Democrito, Anassagora, Socrate, Diogene, Platone e Aristotele, Seneca, Catone ma anche nomi relativamente meno noti come Cratete, Archita, Xenocrate, Origene… Sulla fortuna di questa tradizione iconografica ha scritto un importante saggio Oreste Ferrari, al quale va anche il merito di avere stilato un catalogo delle opere con simili soggetti nelle collezioni di tutta Europa, utile a capire quali sono i pittori specializzati in questa tipologia di ‘ritratto’: e si tratta quasi sempre di seguaci, se non addirittura di allievi diretti, di Ribera1. La difficoltà di interpretare questi soggetti era connaturata alla mancanza di un’iconografia attendibile, che pure gli antiquari fin dal Cinquecento cercavano di definire. E non risulta difficile comprendere le ragioni per le quali, di fronte a tutte queste incertezze e alla natura quasi ‘leggendaria’ di queste figure di sapienti antichi, siano stati proprio i modelli di Ribera, insieme a quelli di alcuni suoi stretti seguaci molto mobili nell’Italia del tempo come Salvator Rosa e Luca Giordano, a diventare canonici nel corso del Seicento: in Italia centrale e meridionale, ma anche nella Venezia di Langetti, Johann Carl Loth e Pietro della Vecchia, come presto nella Lombardia di Giuseppe Antonio Petrini.

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Questi ‘apostoli’ del sapere sono quasi sempre raffigurati con barbe, abiti dimessi, libri, strumenti scientifici o matematici, ad annullare ogni distinzione tra filosofi e sapienti in diversi ambiti del pensiero, purché tutti impegnati ad applicare la propria intelligenza nello studio. Le loro raffigurazioni si sovrappongono talvolta a quelle di profeti biblici e santi anacoreti, perché ugualmente animati dalla febbre della ricerca (anche la fede presumeva ricerca) ed è solo il riconoscimento di qualche attributo a guidarci nella distinzione tra tutti questi uomini con barba: magri, emaciati e spesso raffigurati come poveri straccioni. Non sempre le caratteristiche iconografiche offrono una sponda a chi guarda e se Diogene si riconosce per la lanterna accesa tra le mani utile alla ricerca della verità, o Eraclito e Democrito per i loro distinti atteggiamenti (il riso, il pianto) di fronte ai rivolgimenti della vita terrena, in altri casi riferimenti troppo generici lasciano spazio alla libera interpretazione. È il caso di almeno uno di questi due dipinti ora in mostra, così come di altre opere di simile soggetto licenziate da Petrini. Sorprende ritrovare nel presunto filosofo qui in discussione i “tremendi impasti” di Ribera (così li definisce il biografo settecentesco dei pittori napoletani Bernardo De Dominici nella vita dedicata al pittore spagnolo), di una luminosità neo-seicentesca non insolita nella produzione del pittore ticinese. Un naturalismo che ne connota le scelte in chiave anti-celebrativa e anti-barocca, secondo soluzioni stilistiche non comuni tra gli artisti attivi nell’Italia del Settecento2. Questi angeli custodi della sapienza completano la rassegna di opere di Petrini presenti anticamente nelle residenze della famiglia d’Herwarth, tra il palazzo di Vevey e la dimora di campagna, il castello di Hauteville dove Maurizio Canesso ha riscoperto i dipinti ora in mostra in occasione di una recente vendita all’asta. Riprendere il filo della storia della provenienza delle opere ha condotto il gruppo di lavoro, al quale sono stato chiamato a partecipare, nelle sale di quella antica casa non lontana dalle sponde del Lago di Ginevra. Grande è stata la sorpresa di trovare una spettacolare e intatta stanza affrescata con quadrature e medaglioni figurati con alcuni celebri episodi di storia romana antica. La tradizionale attribuzione a Petrini di quegli affreschi non era plausibile, ma ci si rendeva subito conto di essersi imbattuti in un altro importante ritrovamento per gli studi sull’arte lombarda del Settecento. La sequenza delle foto in questo catalogo rende giustizia alla qualità del piccolo ciclo sul quale, almeno personalmente, non ho raggiunto certezze attributive. Per quanto attiene al pittore di figura ci troviamo di fronte a un equivalente più estroso e febbrile di Pietro Antonio Magatti o Giuseppe Antonio Felice Orelli, sempre più accademici e aggraziati rispetto a quanto ci fa vedere l’artista al lavoro nelle stanza dello Château d’Hauteville. Il carattere espressivo, a volte caricato e grottesco, di molti dettagli, le stesure rapide e inchiostrate che animano ogni brano degli affreschi restituiscono ragione all’idea di Chiara Naldi che possa essere di questo stesso pittore il bozzetto con Il giudizio di Paride (cat. 6) anticamente presente, come la serie dei quadri di Petrini, nelle case già dei d’Herwarth. Le sgrammaticature e le forzature prospettiche sono quelle di un abbozzo

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velocissimo, anche se il carattere eccentrico di quest’opera su tela (di cultura veneta, ma come vista dalla Germania o dall’Austria) introduce caratteri di stile che non ci aiutano a risolvere la questione attributiva degli affreschi. Una vicenda questa che andrà riaffrontata negli studi con la calma necessaria, anche grazie alla sequenza delle fotografie pubblicate in questo catalogo, tenendo presente che allo stesso pittore appartiene il medaglione posto al centro del soffitto in testa alla scala che conduce al primo piano del castello, un affresco dai toni sorprendentemente delicati, ma coerenti con la specifica iconografia da interpretare (un Trionfo di Flora, o Allegoria della Primavera).

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Oreste Ferrari, L’iconografia dei filosofi antichi nella pittura del sec. XVII in Italia, in “Storia dell’Arte”, 57, 1986, pp. 103-181. Mina Gregori, “Giuseppe Antonio Petrini e la ripresa del naturalismo come istanza antibarocca”, in Artisti lombardi e centri di produzione italiani nel Settecento. Interscambi, modelli, tecniche, committenti, cantieri, Studi in onore di Rossana Bossaglia, a cura di Gianni Carlo Sciolla e Valerio Terraroli, Bergamo 1995, pp. 39-43.

fig. 2 (a destra) Pittore attivo ante 1760, Brenno che negozia con il Senato romano, dettaglio degli affreschi parietali del Salone d’onore del castello di Hauteville, St-Légier-La Chiésaz

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Catalogo delle opere Chiara Naldi


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Giuseppe Antonio Petrini (Carona 1677 – 1755/1759)

a) Allegoria femminile b) Allegoria maschile

oli su carta, 55,5 × 32,5 cm ciascuno proveNieNza

Probabilmente proprietà della famiglia d’Herwarth fino al 1760 in relazione alla dimora di famiglia a Vevey, Place du Marché; a quella data il castello di Hauteville fu venduto alla famiglia Cannac; per discendenza famiglia Grand d’Hauteville; Château d’Hauteville, St-Légier-La Chiésaz, Svizzera, fino al 2015: Hôtel des Ventes Bernard Piguet, Genève, 11-12 settembre 2015, lotto 352 come scuola italiana del XVIII secolo. bibliografia

Inedito

Questa inedita coppia di dipinti costituisce una straordinaria novità che va ad arricchire il corpus di Giuseppe Antonio Petrini. Siamo di fronte, infatti, agli unici bozzetti realizzati a olio su carta fino ad oggi noti del pittore caronese, del quale si conoscono invece su supporto cartaceo diversi disegni. L’importanza di questo ritrovamento è ancora maggiore se consideriamo che, attraverso i bozzetti e grazie alle scoperte portate alla luce da Manuela Kahn-Rossi1, si apre un nuovo importante spazio di ricerca nell’ambito dell’opera e della carriera dell’artista ticinese, nonché della sua committenza. Non era effettivamente finora emersa negli studi sul pittore la prova dell’attività di Petrini in Canton Vaud, né il suo rapporto, insieme ad altri artisti ticinesi, con la committenza della famiglia d’Herwarth, illustre e potente casato di banchieri e diplomatici di origine bavarese, che in territorio vodese si installò all’inizio del XVIII secolo, inserendosi e influenzando notevolmente il contesto locale.

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Se di una attività del Petrini in Canton Vaud era rimasta traccia nelle fonti2, la conferma manifesta è arrivata dalla riscoperta di questi bozzetti di cui uno preparatorio per un affresco realizzato in una delle dimore d’Herwarth. L’affresco, che corrisponde alla nostra

fig. 1 Giuseppe Antonio Petrini, Predica di san Vincenzo de’ Paoli, chiesa di Santa Caterina, Bergamo, dettaglio

Per ogni approfondimento a riguardo, rimando al saggio di Manuela Kahn-Rossi in catalogo, pp. 45-67. Cfr. Manuela Kahn-Rossi in catalogo, p. 45.


cat. 1a

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Allegoria femminile, è andato purtroppo distrutto nel 1896, così come la residenza che lo conteneva, ma ne è rimasta preziosa testimonianza in una fotografia ottocentesca su lastra di vetro, che Manuela Kahn-Rossi ha fortunatamente ritrovato (fig. 12 a p. 53). I nostri bozzetti restano quindi le uniche opere superstiti in relazione a tale progetto decorativo e documentano anche la fase creativa precedente alla realizzazione a fresco. Dal raffronto tra bozzetto e fotografia dell’affresco colpisce la perfetta corrispondenza fra modello e stesura finale, analoghi in tutto e per tutto, fin nei minimi dettagli. Entrambi i bozzetti sono stati realizzati con grande precisione e maestria esecutiva, come se fossero opere finite, mantenendo però una maggiore freschezza rispetto alla più cristallizzata stesura finale, grazie alla libertà di tocco pittorico e alla velocità di esecuzione. L’essenzialità compositiva, tipica di Petrini e del barocchetto lombardo più sobrio, giocato su pochi elementi e lontano dall’horror vacui delle decorazioni a fresco barocche, sembra ben adattarsi anche ad una committenza ugonotta. L’attribuzione dei bozzetti – e del conseguente affresco scomparso – a Giuseppe Antonio Petrini è pienamente confermata dall’analisi stilistica e dai confronti con le opere certe dell’artista. Petrini ha spesso riutilizzato, anche a distanza di molti anni, gli stessi modelli e stilemi, componendoli in diversi assemblaggi. I due bozzetti ne sono un perfetto esempio, in particolare osservando i putti/angioletti che incorniciano le figure principali. Nell’Allegoria maschile l’angioletto seduto sulla nuvola a destra ricompare nell’affresco della volta della chiesa arcipretale di San Vittore a Balerna, di cui esiste anche una versione disegnata a sanguigna3 (fig. 3 a p. 39). Inoltre lo stesso modello compare, dal busto in su, nella Madonna col Bambino sopra la porta d’ingresso della casa del pittore a Carona. Il putto che si infila nella nuvola su cui siede la figura maschile e di cui scorgiamo solo la parte inferiore è identico nell’affre3 4 5 6 7

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sco della casa parrocchiale di Lugano Carabbia, datato 1726 circa (fig. 2). Anche la coppia di teste di angioletti incorniciate da piccole ali fu usata da Petrini, con lievi varianti, in diverse altre opere: dalla Madonna del Rosario con i santi Domenico e Caterina 4 della chiesa di Delebio alla Morte di san Giuseppe di Morbio Inferiore5, o ancora nel dipinto di analogo soggetto nella chiesa di Sant’Antonio Abate a Lugano6 o nel “quadro nel quadro” del San Luca che dipinge la Madonna alla Kunsthaus di Zurigo7.

fig. 2 Giuseppe Antonio Petrini, dettaglio dell’affresco nella casa parrocchiale di Lugano Carabbia, 1726 circa

Cfr. Giuseppe Antonio Petrini, catalogo della mostra, a cura di Rudy Chiappini (Lugano, Villa Malpensata, 14 settembre – 24 novembre 1991), tav. VII, p. 107. Ivi, cat. 6, p. 120. Ivi, cat. 20, pp. 146-147. Ivi, fig. 20, p. 51. Ivi, cat. 44, pp. 192-193.


cat. 1b

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fig. 3 Giuseppe Antonio Petrini, Aurora, Palazzo Riva di Santa Margherita, Lugano, 1740 circa

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Analogamente nell’Allegoria femminile il putto che si precipita dall’alto verso la figura principale è una citazione pressoché letterale dell’angioletto che compare nella Predica di san Vincenzo de’ Paoli 8 della chiesa di Santa Caterina a Bergamo (fig. 1), datato agli anni Quaranta, con l’unica differenza che nella tela menzionata l’angelo tiene fra le mani un cartiglio. Lo stesso modello in controparte e con lievi differenze è stato utilizzato da Petrini nell’affresco dell’Aurora in Palazzo Riva di Santa Margherita a Lugano (fig. 3). Sempre nell’Allegoria femminile l’angioletto accovacciato sulla nuvola di destra si ritrova con piccole varianti nella Gloria di sant’Amanzio nella chiesa di Sant’Amanzio e del Gesù a Como, ma anche, capovolto, in un disegno a sanguigna di collezione privata luganese9 (fig. 2 a p. 39), o ancora nella tela della Madonna col Bambino, sant’Andrea, l’Angelo custode e il san Giovannino della Pinacoteca Züst di Rancate10 (fig. 4), datata 17381740, nel putto in alto a destra del fregio con angeli reggicortina che inquadra l’edicola della Crocefissione nella chiesa di San Giorgio a Carona e, puntualmente, nel già citato affresco dell’Aurora in Palazzo Riva di Santa Margherita a Lugano, datato 1740 circa. Quest’ultimo affresco è particolarmente significativo per i nostri raffronti poiché l’intera composizione è analoga a quella realizzata per i d’Herwarth nel palazzo vodese, come anche la gamma cromatica imperniata sugli azzurri accesi per i cieli, gli ocra e i rosa per i panneggi. La collocazione cronologica dell’affresco in Palazzo Riva intorno al 1740 costituisce un ottimo riferimento anche per i nostri bozzetti e per il perduto affresco di Vevey, forse da anticipare alla seconda metà degli anni Trenta. L’impaginazione delle figure principali, aeree e delicatamente posate sulle nubi, con un braccio levato al cielo, scorciate da sotto in su e attorniate da angeli era già presente in opere di tematica e destinazione religiosa, quali la pala della Gloria di sant’Antonio Abate nell’omonima chiesa di Lugano, realizzata prima del 1734, anche se in quel caso i toni non sono così accesi e squillanti. Gli abbondanti panneggi, scavati dalle ombre in larghe pieghe, sembrano avere vita autonoma rispetto alle figure e sono un elemento tipico dello stile di Petrini. Nella fisionomia fine del volto dell’Allegoria femminile è riscontrabile una forte somiglianza con quella del gio-


fig. 4 Giuseppe Antonio Petrini, Madonna col Bambino, sant’Andrea, l’Angelo custode e il san Giovannino, 1738-1740, Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, Rancate, dettaglio

fig. 5 Giuseppe Antonio Petrini, Disputa nel Tempio, Santuario della Madonna, Morbio Inferiore, dettaglio

vane Gesù della Disputa nel Tempio del Santuario della Madonna a Morbio Inferiore (fig. 5), un raffinato olio su rame che anche nella gamma cromatica si avvicina al modelletto in mostra. I soggetti rappresentati non sono facilmente decifrabili, specialmente senza conoscere le specifiche richieste della committenza né l’eventuale programma iconografico destinato alla decorazione del palazzo. L’Allegoria maschile potrebbe essere, secondo l’ipotesi di Alessandro Morandotti11, una inconsueta rappresentazione della gloria di san Sebastiano, dove la foglia di palma che l’uomo tiene sollevata nella mano destra e la freccia impugnata dall’angioletto a sinistra alluderebbero al martirio. Resta il dubbio che una committenza protestante possa avere scelto un soggetto religioso per affrescare un ambiente privato. Manuela Kahn-Rossi propone una lettura alternativa, identificando nella palma un simbolo di vittoria e ascesa sociale e riconducendo la freccia all’attività di arciere del committente JacquesPhilippe d’Herwarth, di cui l’affresco costituirebbe la personale celebrazione12. L’interpretazione della Allegoria femminile, priva di attributi specifici, è ancora più problematica. In tutta evi-

denza i bozzetti furono prodotti nello stesso momento, per la completa analogia formale e stilistica e per l’identico formato; è probabile che Petrini abbia fornito al committente almeno due possibilità tra cui scegliere quella destinata ad essere tradotta in affresco. Non abbiamo, infatti, evidenze documentarie riguardo all’effettiva esecuzione dell’Allegoria maschile o Gloria di san Sebastiano. Potremmo anche ipotizzare, data la sensibilità artistica di entrambi i coniugi d’Herwarth, che fosse prevista la realizzazione di due affreschi in altrettanti ambienti privati del palazzo, ma non avendo evidenza di un programma iconografico per la dimora di Vevey e allo stato attuale delle conoscenze non ci è possibile andare oltre13. Entrambe le opere sono in un eccellente stato di conservazione, soprattutto considerato il delicato supporto della carta: indice che i bozzetti, a differenza delle tele, furono conservati in un luogo protetto da umidità o da eccessivo calore. Si è dunque aperto un nuovo capitolo sull’attività di Giuseppe Antonio Petrini e ci auguriamo che in futuro possano emergere dagli studi ulteriori elementi che portino nuova luce e approfondiscano la conoscenza dell’opera del maestro ticinese.

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Ivi, cat. 54, pp. 212-213. Ivi, tav. VI, p. 106. Ivi, cat. 22, pp. 150-151. Cfr. Alessandro Morandotti in catalogo, p. 11. Cfr. Manuela Kahn-Rossi in catalogo, pp. 51-52. L'unico documento emerso fino ad ora che potrebbe far riferimento ai bozzetti è l’inventario Grand d’Hauteville del 1786 dove, a pagina 85, sono citati “15 tableaux esquisses” tra i quali potrebbero essere inclusi i nostri.

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Giuseppe Antonio Petrini (Carona 1677 – 1755/1759)

Astronomo

olio su tela, 106,5 × 81 cm proveNieNza

Probabilmente proprietà della famiglia d’Herwarth fino al 1760, data di vendita del castello di Hauteville alla famiglia Cannac; per discendenza famiglia Grand d’Hauteville; Château d’Hauteville, St-Légier-La Chiésaz, Svizzera, fino al 2015; Hôtel des Ventes Bernard Piguet, Genève, 11-12 settembre 2015, lotto 345 come “Geografo”, scuola francese del XVIII secolo. bibliografia

Inedito

La rappresentazione di Astronomi, Matematici e Filosofi è un filone molto interessante e peculiare nell’opera di Petrini, come già dimostrato negli scritti di Federica Bianchi e Marco Bona Castellotti nel catalogo del 1991, che ad oggi rimane il principale punto di riferimento per gli studi sul pittore1. Tali soggetti sono una rarità fra i dipinti settecenteschi; appartengono piuttosto al repertorio della pittura naturalistica del primo Seicento. Con tutta probabilità, l’impulso alla loro realizzazione proveniva da una committenza colta che conciliava interessi storico-letterari con inclinazioni filosofico-scientifiche. Sappiamo che Petrini realizzò alla fine degli anni Venti per la famiglia Riva – i cui membri sostennero e promossero già dal secondo decennio l’attività artistica del pittore – un Astronomo 2 e un Filosofo 3 in pendant. Probabilmente questi soggetti

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rispecchiavano le inclinazioni intellettuali della famiglia, legata in particolar modo agli ambienti accademico-scientifici bolognesi aggiornati sulle nuove teorie newtoniane, che circolavano attraverso pubblicazioni, manoscritti e lettere in tutta Europa. Tali interessi sembrano aver solleticato anche la committenza romanda delle nostre due tele, che, come ci racconta Manuela Kahn-Rossi nel saggio in catalogo, pare essere stata legata al vivace clima filosofico-scientifico sviluppatosi sulle sponde del Lago Lemano intorno alla metà del XVIII secolo; in particolare l’interesse per l’astronomia potrebbe essere confermato dalla presenza di un telescopio tra gli averi della famiglia4. Tanto l’Astronomo quanto il Filosofo della scheda che segue (cat. 3) adottano uno schema compositivo tipico del pittore caronese, sono simili per taglio e formato

Federica Bianchi, “Petrini durante il periodo luganese: l’incontro con la famiglia Riva e la sua incidenza nell’opera dell’artista”, pp. 61-73 e Marco Bona Castellotti, “Petrini e i committenti nel clima della cultura filosofico-scientifica del primo Settecento”, in Giuseppe Antonio Petrini, catalogo della mostra, a cura di Rudy Chiappini (Lugano, Villa Malpensata, 14 settembre – 24 novembre 1991). Ivi, cat. 26, pp. 158-159. Ivi, cat. 27, pp. 160-161. Cfr. Manuela Kahn-Rossi in catalogo, p. 57.


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e presentano i medesimi connotati stilistici. In questa produzione di opere da stanza di medio formato la figura principale è collocata in modo da lasciare un ampio spazio vuoto nella parte superiore del dipinto. Il modello è ancora dichiaratamente secentesco e rinvia, come sottolineato anche da Alessandro Morandotti5, agli Apostoladi e alle mezze figure che ricorrono nelle opere di Jusepe de Ribera e di Luca Giordano. Rispetto, però, alla matrice drammatica del naturalismo napoletano, le atmosfere di Petrini si fanno più rarefatte e silenziose. Tanto nelle immagini sacre – molto più frequenti nel corpus del pittore – quanto in quelle profane non vi è spazio per un’emotività esasperata, ma piuttosto per presenze ieratiche e sospese nel tempo. I protagonisti sono raccolti in una pensosa concentrazione e non in una sofferta introspezione esaltata dai contrasti chiaroscurali. Non vi sono nemmeno elementi o dettagli di costume che riportino alla realtà quotidiana contemporanea, e le figure divengono paradigmatiche di una antica sapienza. Come ricordava Mina Gregori6, per Petrini la ripresa del naturalismo seicentesco ha il valore di istanza antibarocca. L’artista caronese ha sempre rivolto uno sguardo al secolo precedente pur all’interno di una cultura figurativa ampia e composita: dalle suggestioni genovesi e venete a quelle lombarde di pittori come Morazzone e Cerano. Il nostro Astronomo è rappresentato intento nello studio del globo celeste, sul quale al posto delle costellazioni appaiono alcune stelle stilizzate: una rappresentazione simbolica dell’universo. L’uomo sta effettuando misurazioni con un compasso stretto nella mano destra, che fuoriesce a malapena dagli abbondanti panneggi. L’ambientazione è quella di una grotta aperta sul cielo blu, attraversato da un paio di nuvole sfilacciate dal vento. Nella parte inferiore dell’opera, il ripiano su cui è posato il globo è stato ritoccato in occasione di un vecchio restauro, così come il profilo dell’astronomo. È probabile che originariamente la figura fosse contor-

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nata da un alone più chiaro che permetteva di staccare in modo più vistoso il corpo dallo sfondo, secondo un procedimento tipico della tecnica pittorica del Petrini che si attenuerà progressivamente nelle opere più tarde7. Anche la gamma cromatica è quella prediletta dall’artista: gli azzurri cerulei e sordi alternati ai rosa chiari dei panneggi, con il cielo di un blu più denso. Lo studio degli effetti di chiaroscuro sull’espressione concentrata del volto è ancora ben percepibile, le orbite degli occhi sono in penombra, mentre le palpebre emergono grazie a veloci tocchi di terra verde, che il pittore utilizzava spesso sui volti. L’impasto è più ricco sulla fronte, sul naso e sugli zigomi, mentre i capelli e la barba sono resi con una pennellata più fluida ed evanescente. Nel trattamento di panneggi e incarnati, nella scelta della gamma cromatica e nella pennellata magra che lascia trasparire la preparazione rossastra mi sembra di poter riscontrare forti analogie con opere giovanili di Petrini quali la Rebecca al pozzo del Kunstmuseum di Basilea8, che con i nostri Astronomo e Filosofo sembra condividere l’interesse per la ritrattistica dal vero. Allo stato attuale e in mancanza di certezze documentarie, l’analisi stilistica di questo gruppo di opere – non priva di insidie dato che Petrini riprese stilemi e tecniche pittoriche anche a distanza di decenni – ci porta a situarle non oltre il quarto decennio del Settecento. Non vi è traccia in queste tele della cromia rischiarata e della fredda luminosità che caratterizzano progressivamente il lavoro del pittore ticinese a partire dalla fine degli anni Trenta.

Cfr. Alessandro Morandotti in catalogo, pp. 12-13. Mina Gregori, “Giuseppe Antonio Petrini e la ripresa del naturalismo come istanza antibarocca”, in Artisti lombardi e centri di produzione italiani nel Settecento. Interscambi, modelli, tecniche, committenti, cantieri, Studi in onore di Rossana Bossaglia, a cura di Gianni Carlo Sciolla e Valerio Terraroli, Bergamo 1995, pp. 39-43. Paolo Bensi, “Aspetti della tecnica pittorica di Giuseppe Antonio Petrini: il ‘Filosofo’ dell’Accademia Ligustica di Genova”, ivi, pp. 89-91. Chiappini, Giuseppe Antonio Petrini, cat. 12, pp. 134-135.


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Giuseppe Antonio Petrini (Carona 1677 – 1755/1759)

Filosofo

olio su tela, 108 × 82 cm proveNieNza

Probabilmente proprietà della famiglia d’Herwarth fino al 1760, data di vendita del castello di Hauteville alla famiglia Cannac; per discendenza famiglia Grand d’Hauteville; Château d’Hauteville, St-Légier-La Chiésaz, Svizzera, fino al 2015; Hôtel des Ventes Bernard Piguet, Genève, 11-12 settembre 2015, lotto 345 come “Filosofo”, scuola francese del XVIII secolo. bibliografia

Inedito

Sullo sfondo in penombra, dove scorgiamo uno scenario architettonico di un interno appena delineato, emerge la figura di un uomo dalla presenza autorevole e dallo sguardo interlocutorio. A differenza dell’Astronomo (cat. 2), che abbiamo trovato in atteggiamento meditativo e concentrato sul suo studio, quest’uomo interagisce con l’osservatore non solo attraverso lo sguardo, ma anche attraverso la gestualità: la bocca è socchiusa in atto di proferire parola e con la mano destra indica qualcosa di esterno allo spazio del dipinto. Se l’Astronomo ha attributi specifici che ci aiutano a identificarlo, nel caso di questa figura essi ci vengono purtroppo a mancare. La committenza privata protestante e la vicinanza stilistica con l’Astronomo ci portano a propendere per una interpretazione non religiosa del soggetto. Per la solennità della figura e per il gesto perentorio della mano è molto probabile che possa trattarsi di un Filosofo. Tali soggetti, come evidenziato nel saggio di Manuela Kahn-Rossi in catalogo, sembrerebbero far eco al clima di fervore filosoficoscientifico che si andava sviluppando negli stessi anni

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Cfr. Manuela Kahn-Rossi in catalogo, pp. 57-60.

anche nella regione lemanica, in particolare intorno alla figura del filosofo Jean-Pierre de Crousaz (16631750) e al periodico “Bibliothèque italique”1. L’ipotesi maggiormente plausibile è, dunque, che le due figure maschili siano state concepite nello stesso momento, sebbene le dimensioni differiscano lievemente, come allegorie della scienza e della conoscenza. Pur ipotizzando che le figure derivino da modelli ritratti dal vero, la scelta degli abiti antichi conferisce loro un’autorità fuori dal tempo. La difficoltà a individuare con esattezza il soggetto del dipinto deriva anche dal fatto che Petrini ha animato i suoi personaggi profani con lo stesso spirito che infondeva nei santi cristiani o, comunque, nelle figure religiose. Il confine è sempre molto sottile e permette all’artista di trasfigurare i suoi protagonisti in figure ideali, in genere non avulse da implicazioni morali. Le doti ritrattistiche del Petrini sono esibite anche in queste figure di fantasia, che non hanno una fisionomia anonima ma sono ben caratterizzate somaticamente e testimoniano lo studio dal naturale. Da ciò deriva una sincera


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e profonda indagine umana, la cui intensità però resta in parte inespressa: è solo allusa e trattenuta in attitudini compassate, da cui è bandita ogni indulgenza mondana. L’impaginazione della figura a mezzo busto, l’ampio respiro lasciato alla parte alta della tela, il modellato degli ampi panneggi semplificati, la scelta cromatica che mette in contrasto gli ocra e i rossi più squillanti con gli azzurri e i rosa più tenui, la mano in primo piano più grande del naturale, la fronte alta e corrugata incorniciata da corte ciocche di capelli spartiti al centro del capo come già abbiamo visto nell’Astronomo e in molte figure maschili del pittore, l’essenzialità degli elementi e del modellato, l’austerità della figura sono tutti indizi che confermano l’autografia di Giuseppe Antonio Petrini. Il restauro ha confermato che il formato dell’opera è quello originale. L’esame agli infrarossi ha rivelato alcuni elementi interessanti. Un pentimento è visibile anche ad occhio nudo: il colletto della tunica azzurra era infatti più alto e la barba probabilmente più corta. Abbiamo poi scoperto che la manica del braccio destro teso terminava con un risvolto a colletto svolazzante e ripiegato all’indietro sul manto rosso. Inoltre l’occhio destro e il naso erano posizionati un po’ più in alto rispetto a quelli attualmente visibili (fig. 1). Tutto ciò testimonia la spontaneità della realizzazione dell’opera direttamente sulla tela senza disegno preparatorio e i cambiamenti della composizione in corso d’opera. Un alone intorno al capo, visibile ancora ad occhio nudo, corrisponde a una tecnica, molto utilizzata da Petrini come abbiamo già visto nel caso dell’Astronomo, per dare maggiore risalto alla figura rispetto allo sfondo. Sempre dall’analisi ai raggi infrarossi emerge un riquadro più scuro e più piccolo, che fa pensare a una composizione originale di dimensioni minori. Spesso nei suoi dipinti Petrini esprime la deliberata volontà di far emergere le preparazioni bruno-rossicce per immergere le figure in ambientazioni oscure; la pellicola pittorica è dunque particolarmente sottile e la pennellata fluida. Come già indicato a proposito dell’Astronomo, nonostante la problematicità che emerge nella definizione di una cronologia specifica nell’opera del pittore caronese, anche per la ripresa di tecniche e moduli stilistici lungo l’intera carriera dell’artista, dall’indagine stili-

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stica emergono elementi che ci portano a ipotizzare come datazione per questo gruppo di opere il passaggio tra il terzo e quarto decennio del XVIII secolo.


fig. 1 Fotografia agli infrarossi eseguita sulla tela del Filosofo

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Giuseppe Antonio Petrini (Carona 1677 – 1755/1759)

Lucrezia

olio su tela, 104,5 × 81,2 cm proveNieNza

Probabilmente proprietà della famiglia d’Herwarth fino al 1760, data di vendita del castello di Hauteville alla famiglia Cannac; per discendenza famiglia Grand d’Hauteville; Château d’Hauteville, St-Légier-La Chiésaz, Svizzera, fino al 2015; Hôtel des Ventes Bernard Piguet, Genève, 11-12 settembre 2015, lotto 345 come “Donna col pugnale”, scuola francese del XVIII secolo. bibliografia

Inedito

Nell’inventario del 1786 tra i dipinti presenti all’interno del castello, nei corridoi, figura essere presente anche una Lucrezia, senza che però ne venga specificato l’autore1; verosimilmente si tratta del dipinto che presentiamo in questa sede. La storia di Lucrezia, bella e pudica matrona romana sposata al cugino del re di Roma Tarquinio il Superbo, è tramandata da Tito Livio (Ab Urbe Condita, I, 57-59). Il figlio del re, Sesto Tarquinio, invaghitosi di lei, le aveva usato violenza ed ella per sottrarsi al disonore, sebbene involontario, si tolse la vita. La sua morte provocò lo sdegno e la ribellione popolare e la successiva cacciata del re e dei suoi figli, segnando la fine della monarchia romana. Ignoriamo le ragioni della scelta del soggetto, inconsueto anche per Petrini, da parte dei committenti. La figura di Lucrezia sembra comunque corrispondere alla sensibilità del pittore come simbolo di onorata virtù, contrapposto alla decadenza e al vizio. L’arte di Petrini è costantemente percorsa da un rigore e da un

1- Cfr. Manuela Kahn-Rossi in catalogo, nota 36 a p. 65.

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impegno morale che sono peculiari della tradizione lombarda e della religiosità borromaica. Ne scaturisce uno stile pittorico severo, essenziale, fatto di atmosfere austere e rarefatte, di chiarezza e semplicità narrativa, di pacata monumentalità, di sobria gestualità, dove non vi è spazio per le eccentriche stravaganze rococò. L’unica nota di mondanità e di costume nel dipinto, a richiamare l’estrazione nobile della donna, è il dettaglio della perla montata a gioiello sopra la fronte, che fissa la capigliatura raccolta in un nastro rosa. Quale esempio di onore e integrità, la Lucrezia parrebbe ben integrarsi, dunque, nel gruppo di figure simboliche che esprimono saggezza e valori antichi e atemporali, come l’Astronomo e il Filosofo che abbiamo già analizzato in catalogo (cat. 2 e 3). L’artista ha scelto di non rappresentare l’acme della tragedia di Lucrezia, l’atto del suicidio, quanto piuttosto il travagliato percorso interiore che la donna ha attraversato per giungere a quella estrema risoluzione. Non vi è infatti nel dipinto alcun pathos drammatico


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esasperato, né un eccessivo pietismo. Fedele alle sue silenziose figure assorte in meditazione, tanto sacre quanto profane, Petrini preferisce ai grandi drammi la composta espressione di intensi moti d’animo interiori. La giovane donna siede in contemplazione dolorosa, con il volto sostenuto dalla mano destra. Il braccio è appoggiato su un tavolo su cui spicca, rivolto verso di lei, un acuminato pugnale. L’accostamento di colori vivaci quali l’azzurro e l’ocra degli ampi panneggi che la avvolgono conferisce maggiore risalto alla figura. Lucrezia emerge dallo sfondo di un interno spoglio, nel quale distinguiamo il profilo di una finestra aperta sul cielo alle spalle della donna; il tavolo in primo piano è scorciato diagonalmente con una prospettiva semplificata, anche questa riscontrabile spesso nell’opera del Petrini; si veda ad esempio l’affresco con la Disputa nel Tempio nel Santuario della Madonna d’Ongero a Carona, nel quale spigoli e diagonali non sempre coerenti prospetticamente amplificano la verticalità della composizione. Per la figura, Petrini sembra essersi servito dello stesso modello utilizzato per la Vergine nella Morte di san Giuseppe della chiesa di Sant’Antonio a Lugano (fig. 1), eseguito prima del 1734, soprattutto per la posa del volto appoggiato sul palmo della mano destra, ma anche per il trattamento dei voluminosi e spigolosi panneggi. Anche nel caso di questo dipinto, come per i precedenti, è ancora visibile a occhio nudo un alone che contorna la figura, come soleva fare il Petrini, poi ridipinto in occasione di un precedente restauro; altre tracce di ritocchi si rilevano a livello del manto e degli incarnati, in particolare del viso, forse a seguito dell’esposizione a forti fonti di calore2. Riguardo alla datazione, anche questo dipinto, come i due precedenti, può essere riferito al terzo o al quarto decennio del Settecento.

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Diversi incendi interessarono il castello di Hauteville; solo nel XIX secolo ne sono documentati almeno tre nell’archivio della famiglia Grand d’Hauteville, risalenti al 1830, al 1843 e al 1880.


fig. 1 Giuseppe Antonio Petrini, Morte di san Giuseppe, chiesa di Sant’Antonio Abate, Lugano, dettaglio

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Giuseppe Antonio Petrini (Carona 1677 – 1755/1759)

Coppia di putti che sorregge un medaglione olio su tela, 108,5 × 79 cm proveNieNza

Probabilmente proprietà della famiglia d’Herwarth fino al 1760, data di vendita del castello di Hauteville alla famiglia Cannac; per discendenza famiglia Grand d’Hauteville; Château d’Hauteville, St-Légier-La Chiésaz, Svizzera, fino al 2015; Hôtel des Ventes Bernard Piguet, Genève, 11-12 settembre 2015, lotto 345 come “Putti”, scuola francese del XVIII secolo. bibliografia

Inedito

Spetta alla mano di Petrini anche questa coppia di putti, probabilmente angioletti che, volteggiando fra le nuvole in un cielo dorato, sorreggono un medaglione, forse uno scudo, con un bassorilievo sul quale è rappresentata una figura femminile nuda, a mezzo busto e di profilo, forse una ninfa o una dea, mentre emerge dall’acqua o dalle nubi e volge le braccia verso il cielo. È probabile che essa alluda a un tema allegorico-mitologico, data la destinazione privata dell’opera, il che ben si accorderebbe anche con l’iconografia del Salone d’onore del castello di Hauteville, in particolare con gli episodi mitologici dipinti anch’essi a grisaille1. Il dipinto non risulta citato in modo specifico negli inventari fino ad oggi rinvenuti del castello, ma le affinità stilistiche con le altre opere sono convincenti. Le pose dei due angioletti sono affini a quelle dei putti già analizzati nella scheda dei due bozzetti su carta (cat. 1), in particolare per gli arditi scorci da sottinsù, per la forma dei piedini squadrata e massiccia e per il

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Cfr. Manuela Kahn-Rossi in catalogo, pp. 56-57.

loro posarsi lieve sulle nuvole grigie. Anche il panneggio blu dell’angioletto di sinistra richiama fortemente quello del putto alato nell’Allegoria femminile: le pieghe spigolose, dalla campitura ampia e geometrica

fig. 1 Giuseppe Antonio Petrini, dettaglio dell’affresco nella Cappella del Santo Spirito, chiesa di San Lorenzo a Fusine, 1709 circa


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corrispondono, così come simile è il modo di definire le ombre marcate e la posa delle gambe, una distesa e l’altra ripiegata. Le pennellate sono larghe e magre, le campiture e le forme sono semplificate. Il tipo di stesura pittorica a pennellate veloci e frizzanti e la forte scorciatura dei putti consente di supporre che si tratti di uno studio per un affresco. Il soggetto si presenta dunque compiuto in questo modo, com’è dimostrato anche dall’immutato formato originario della tela. Non sarebbe d’altronde la prima volta che Petrini utilizza la rappresentazione di una coppia di putti per singole partiture decorative: si vedano ad esempio i due angioletti affrescati sulla volta al centro della Cappella del Santo Spirito nella chiesa di San Lorenzo a Fusine, realizzati intorno al 1709 (fig. 1). La luce calda proviene diffusamente dall’angolo superiore sinistro, ma i contrasti chiaroscurali sono netti, a scolpire drammaticamente i volumi. Laddove la luce indugia maggiormente, il pittore ha utilizzato impasti materici più generosi. L’opera è realizzata con una gamma cromatica ristretta e giocata su toni terrosi, ocra e grigi, interrotta solo dall’azzurro sordo del panneggio.

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fig. 2 Giuseppe Antonio Petrini, Angioletto, disegno a sanguigna, 18,5 Ă— 27,5 cm, collezione privata

fig. 3 Giuseppe Antonio Petrini, Angioletto, disegno a sanguigna, 18,3 Ă— 27,5 cm, collezione privata

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Pittore ignoto della cerchia di Giuseppe Antonio Petrini(?) (attivo intorno alla metà del XVIII secolo)

Il giudizio di Paride

olio su tela ottagonale, 57,5 × 50,5 cm proveNieNza

Probabilmente proprietà della famiglia d’Herwarth fino al 1760, data di vendita del castello di Hauteville alla famiglia Cannac; per discendenza famiglia Grand d’Hauteville; Château d’Hauteville, St-Légier-La Chiésaz, Svizzera, fino al 2015; Hôtel des Ventes Bernard Piguet, Genève, 11-12 settembre 2015, lotto 352 come scuola italiana del XVIII secolo. bibliografia

Inedito

Oltre al gruppo di dipinti attribuibili a Giuseppe Antonio Petrini, al castello di Hauteville era conservato anche questo bozzetto preparatorio per un affresco, probabilmente destinato ad un soffitto visto il taglio ottagonale, la forte scorciatura e le evidenti proporzioni distorte che presuppongono un punto di vista ribassato. Manca ancora una attribuzione specifica, ma l’opera presenta caratteristiche stilistiche così marcate che ci auguriamo possa presto essere identificata la mano che l’ha prodotta. In questa sede proponiamo una serie di raffronti utili a stabilire almeno il contesto e le relazioni all’interno delle quali l’artista operò. Quello del giudizio di Paride è un tema molto amato in pittura sin dal Cinquecento, in particolare nella decorazione a fresco. Il mito, assai noto nell’antichità greco-romana, nasce dall’intreccio di due storie tratte dalla mitologia e dalla letteratura greca. Una è quella di Paride, figlio rigettato del re di Troia Priamo, allevato dal bovaro Agelao e poi riaccolto dal padre; l’altra è quella della dea della Discordia (Eris o Ate) che, offesa per non essere stata invitata al banchetto di nozze di Teti e Peleo, lancia la sfida della mela d’oro destinata alla più bella. Per dirimere il litigio nato fra le tre

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dee che si contendevano il titolo, Giove-Zeus ordina a Mercurio di portarle sul Monte Ida, dove proprio il pastore Paride avrebbe fatto da giudice. Le tre dee gli offrono ciascuna un premio ed egli sceglie quello di Venere-Afrodite, che gli ha promessa in moglie Elena, la più bella di tutte le donne ma già moglie di Menelao, re di Sparta. Da qui ha origine la guerra di Troia, da cui poi deriva la fondazione di Roma. Il pittore rappresenta il momento in cui Mercurio consegna a Paride il pomo dorato ed egli indica Venere-Afrodite come destinataria. La dea, riconoscibile per la sua nudità e per l’abbraccio del piccolo Eros avvolto in un drappo rosso, tende la mano destra pronta ad accogliere l’ambito premio. Dietro di lei Minerva-Atena, in abiti da guerriera, osserva placidamente la scena, appoggiata al suo scudo. Seduta più in basso, la dea Giunone-Era – accompagnata dal pavone, suo attributo, accanto ai piedi – rivolge lo sguardo direttamente allo spettatore e indica la scena principale. Sul Monte Ida pascolano capre e pecore, alludendo al mestiere di pastore del giudice Paride, mentre in alto alcuni putti sorreggono una ghirlanda di fiori, pronti ad incoronare la vincitrice. Nella singolare attitudine di Mercurio, che plana dia-


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gonalmente dal cielo, con l’elmo e i piedi alati scorciati, a consegnare il pomo a Paride, seduto placidamente sotto un albero, come non pensare a una suggestione scaturita dall’affresco di Annibale Carracci alla Galleria Farnese di Roma con il medesimo soggetto? Il pittore sembra aver tratto ispirazione da quel modello, se non conosciuto direttamente almeno attraverso le numerose derivazioni, e mostra perciò di avere una cultura figurativa tutt’altro che provinciale. Le scelte iconografiche e stilistiche per quanto riguarda la decorazione d’insieme non sembrano condurci lontano dall’opera di Giuseppe Antonio Felice Orelli, che proprio a Lugano, a Palazzo Riva di Canova, aveva rappresentato lo stesso tema in un affresco murale, e dai fratelli Torricelli per le quadrature. Eppure né l’uno né gli altri appaiono attribuzioni convincenti per il nostro bozzetto, né altri nomi emergono attualmente in maniera efficace. Senz’altro occorre tener presente che, anche data la prestigiosa committenza, Petrini partì alla volta del Canton Vaud seguito con tutta probabilità da un gruppo di pittori con i quali verosimilmente aveva già collaborato in cantieri precedenti e in ambito lombardo e ticinese. Mi pare quindi fortemente plausibile che il nostro pittore facesse parte di questa cerchia di artisti ticinesi, su cui ancora oggi gli studi presentano lacune. Dall’analisi stilistica emerge un elemento importante. Se messo in relazione con gli affreschi del Salone d’onore del castello di Hauteville, il bozzetto presenta analogie manifeste. Le membra sono allungate, in particolare gli arti inferiori, la muscolatura evidenziata e le carni pingui, i volti femminili sono ammiccanti e a tratti caricaturali: gli occhi rotondi o appena accennati a fessura, i piccoli nasi a patata, il rossore delle gote è accentuato proprio sotto gli occhi; le boccucce rosee appena delineate accennano, tanto nel bozzetto quanto negli affreschi, ad espressioni divertite. Gli effetti luministici sono teatrali e accentuati dalla fonte luminosa proveniente dal basso, la vivacità della gamma cromatica è impreziosita da audaci accostamenti e dall’alternanza di zone in luce e altre in ombra. Sono utili i confronti con alcuni dettagli, soprattutto con le figure allegoriche femminili.

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Il più evidente a mio avviso è quello tra la figura di Giunone del nostro bozzetto e la Temperanza (fig. 1) e la Giustizia (fig. 2), tanto per le pose quanto per la brillante cromia. Forte è la tentazione a pensare che ci sia un legame tra Il giudizio di Paride e l’affresco sul soffitto del Salone con il Trionfo di Venere (fig. 13 a p. 54), dove la dea stringe nella mano destra proprio il pomo appena assegnatole da Paride; non abbiamo però ancora reperito tracce documentarie riferite al bozzetto1. Possiamo dunque realisticamente ipotizzare che il medesimo pittore abbia realizzato, almeno in parte, anche gli affreschi del castello di Hauteville. La stesura molto più libera e disinvolta del bozzetto rispetto agli affreschi è implicita alla natura stessa del modelletto. Come ha già evidenziato nel saggio introduttivo Alessandro Morandotti2, anche in questo bozzetto è lampante il rapporto con la cultura figurativa di matrice filoveneta e tiepolesca, senza escludere influssi di area germanica. Ma il nostro artista esce dall’alveo più tradizionale della decorazione tardobarocca e rococò, arricchendola di elementi che lo rendono particolarmente distintivo e originale. Indubbio è il suo grande estro esecutivo e il carattere eccentrico; probabilmente si tratta di un artista già ben affermato, se gli furono affidati gli affreschi principali del castello di famiglia.

Il bozzetto potrebbe essere incluso fra i “15 tableaux esquisses” citati nell’inventario della famiglia Grand d’Hauteville del 1786, a p. 85. Cfr. Alessandro Morandotti in catalogo, p. 14.


fig. 1 Autore ignoto, Temperanza, dettaglio degli affreschi nel Salone d’onore, castello di Hauteville, St-Légier-La Chiésaz

fig. 2 Autore ignoto, Giustizia, dettaglio degli affreschi nel Salone d’onore, castello di Hauteville, St-Légier-La Chiésaz

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Rosine Abraham von Graffenried von Graffenried 1655-1717 1655-1675 (3 figli)

matrimonio nel 1671

Jean-Henri d’Herwarth 1609-1675 (3 matrimoni, 7 figli)

(fig. 4)

Judith Asuba von Graffenried 1674-1737 (o 1752)

(fig. 3)

matrimonio nel 1635

(fig. 6)

Philibert d’Herwarth 1644-1721

Esther Tribolet 1633-?

matrimonio nel 1662

Abraham I Dünz Anna Barbara 1630-1688 Jenner (2 matrimoni, 6 figli) 1647-1703/4

matrimonio nel 1662

(fig. 7)

Johanna Wyss 1668-1747

Hans Jakob III Dünz 1667-1742

matrimonio nel 1696 (9 figli)

matrimonio nel 1705

Jacques-Philippe d’Herwarth 1706-1764

Johanna Esther Dünz 1706 -1779

matrimonio nel 1727

(fig. 5)

Philippe Sigismond d’Herwarth 1729-1730

David Wyss 1632-1700 (7 figli)

Marie-Rosine von Rehlingen 1616-1646

Sabine Catherine d’Herwarth 1731-1731

Charles Antoine d’Herwarth 1733-1750 senza posterità

(fig. 8)

Louise Sabine d’Herwarth 1734-1798 (2 matrimoni) matrimonio nel 1761 con Rowland Winn baronetto inglese

(fig. 9) fig. 1 Albero genealogico del nucleo familiare ristretto della famiglia d’Herwarth-Dünz (per le didascalie delle singole opere cfr. p. 67)

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Julie Susanne d’Herwarth 1735-?


Un potenziale nascosto: la famiglia d’Herwarth, l’universo di Petrini e le premesse di una committenza europea in terra vodese Manuela Kahn-Rossi

Nel 1924 il conservatore del Musée des Beaux-Arts di Vevey scriveva alla Città di Lugano chiedendo informazioni sugli artisti Petrini di cui si erano trovate tracce a Vevey nel castello Grand d’Hauteville, riferite al 1760. Il comune incaricherà uno storico locale di riunire alcuni dati su Giuseppe Antonio Petrini (1677-1755/59), poi trasmessi in risposta1. La preziosa notizia non attecchisce su territorio ticinese e nemmeno giunge come segnalazione a Wilhelm Suida (1877-1959), che teneva corrispondenza con la stessa autorità. È un periodo d’interesse febbrile attorno all’artista di Carona: nel 1925, a seguito del parere favorevole di Suida, entra nella collezione luganese la Sacra Famiglia e l’anno seguente saranno incamerate altre tre opere, due vendute dalla parrocchiale di Vezia. Provvede al loro restauro Emilio Ferrazzini (1895-1975), appassionato di Petrini, al quale dedicherà nel 1933 una prima succinta esposizione2. Nel frattempo, nel 1930 era stato pubblicato dallo studioso viennese un importante articolo monografico in cui, nella ricostruzione delle opere del caronese ubicate fuori Ticino, non si fa menzione di Hauteville; sul versante vodese, nel 1932 viene edita la monografia di Frédéric Grand d’Hauteville dedicata al maniero3, nella quale si segnalano dipinti di Petrini e di “Petrini le fils de Lugano”, e soggetti che rimandano incontestabilmente al maestro. Da un appunto dattiloscritto si evince che Ferrazzini, pur a conoscenza del volume, non accenna ai dipinti che non conosce perché desumibili solo dagli inventari, e si mostra scettico sull’attribuzione degli affreschi4. È anche probabile che il lontano grado di parentela dei Grand d’Hauteville con il bernese Rudolf Emanuel von Haller (1747-1833), possidente a Mendrisio, a cui risalirebbero alcune suppellettili conservate nel castello vodese, abbia immesso eventuali studiosi su un binario di ricerca in verità fuorviante e privo di sbocchi5. Solo notizie sparse accennano nei decenni alla presenza di Petrini nella Svizzera occidentale. Si esprime nel 1976 l’autorevole studioso Marcel Grandjean che, guardando alle decorazioni dipinte nelle dimore vodesi e constatando che si caratterizzano per scarsità di numero, cita l’imponente decorazione barocca del grande salone a Hauteville “attribuée aux Petrini de Lugano”, precisando che in merito ai soffitti dipinti, “peu nombreux au 18e siècle […] il y en avait anciennement à Vevey, par les Petrini”6. Tale insieme di circostanze, e l’estrema riservatezza che caratterizza nei decenni questo castello privato e il suo contenuto, spiegano la rarità di informazioni. Incredibilmente solo oggi, grazie alla perspicacia di Maurizio Canesso, viene portato in Ticino e posto sotto i riflettori un nucleo di opere provenienti proprio dalla dimora7. Un’occasione imperdibile per proporci di capire su quali premesse, nell’entroterra collinoso della campagna vodese, si siano adagiate nella prima metà del Settecento opere legate al maestro caronese. Il tema diventa per noi qui quello della committenza, su cui si indaga partendo dal vaglio oculato degli inventari: emerge subito la necessità di procedere a ritroso nel tempo e guardare alle epoche antecedenti i Grand d’Hauteville. Ma prima si impone una breve premessa sulla storia dell’avvicendamento dei proprietari. Desidero ringraziare personalmente per la loro squisita collaborazione nell’ambito di questa ricerca Gilbert Coutaz, Chantal de Schoulepnikoff, Fanny Abbott, Luigi Napi, e naturalmente la famiglia Grand d’Hauteville. A loro si aggiungano gli innumerevoli studiosi che in Svizzera e in Inghilterra mi hanno fornito preziose informazioni. Ai miei figli, Tommaso e Carlotta, un grazie di cuore per la sollecita e pratica disponibilità garantitami nel reperimento di materiali su territorio vodese e a mio marito Pierre un ringraziamento per la consulenza nella predisposizione dell’albero genealogico della famiglia Herwarth-Dünz.

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Il castello è situato in un piccolo comune costituito dai due villaggi, St-Légier e La Chiésaz, da cui prende il nome, e varie frazioni8. La proprietà, con parco di 27 ettari, poggia su un declivio che scende verso la riva del Lago Lemano su Vevey. Dalla prossimità con il capoluogo deriva l’appartenenza in passato del comune al baliaggio di Vevey, assoggettato al regime bernese. Le terre erano franchi allodi. L’architettura oggi visibile, ispirata ai moduli francesi, risale al 1764, voluta da Pierre-Philippe Cannac (1705-1785) il quale inglobò nella proprietà parte del piccolo castello preesistente. Il nome Grand d’Hauteville si situa all’altezza di una nipote Cannac maritata a Daniel Grand de la Chaise (1761-1828); la coppia deciderà di denominarsi “Grand d’Hauteville”, e con essa il castello, ancora oggi legato ai discendenti. Fra questi l’autore della monografia del 1932, che ha approfondito la vicenda storica della dimora guardando ai Cannac-Grand d’Hauteville. Il nostro scandaglio dell’inventario originale completo stilato al momento dell’acquisto di tutto il sedime da parte di Pierre-Philippe Cannac conferma che già nel 1760 sussistevano in casa dipinti rapportati al nome di Petrini9. Inoltre, sia il salone d’apparato sia il soffitto della scala che dal vestibolo d’entrata conduce al piano nobile risultavano affrescati. Per inquadrare il contesto di provenienza del corpus di opere riscoperte in questa occasione espositiva è quindi indispensabile risalire ulteriormente nel tempo, guardare a un’epoca antecedente a Cannac. Giungiamo così a Jacques-Philippe d’Herwarth (1706-1764) (fig. 5). La famiglia d’Herwarth: ugonotta, ricca e potente L’illustre casato d’Herwarth, patrizio di Augsburg, ha goduto in passato di una notevole notorietà. Lo spostamento di alcuni suoi membri, protestanti e ricchi banchieri, dal sud della Baviera verso il bacino occidentale europeo risale al trisavolo paterno del nostro Jacques-Philippe10. Un suo figlio, Daniel Herwarth (1574-1638), ottiene la cittadinanza di Lione nel 1625 e si sposa due volte: la prima con Anne Ernelin (o Hernelin), con la quale avrà cinque dei suoi nove figli. Sono i loro due maschi, Barthélemy e Jean-Henri, che condurranno gli affari finanziari e commerciali della famiglia a un alto grado di prosperità. Si pensi che Barthélemy (16071676), lionese morto a Parigi, uomo potentissimo, riesce per le sue eminenti doti diplomatiche e capacità finanziarie eccezionali a far tollerare la propria matrice protestante, entrando totalmente come ugonotto al servizio del sovrano Louis XIV. I due fratelli ottengono la nazionalità francese, vengono nobilitati con la baronia di Huningue e Barthélemy nel 1650 occuperà il posto strategico di intendente delle finanze sotto il cardinale Mazzarino e di controllore generale per il sovrano. Il fratello cadetto Jean-Henri (1609-1675) assicura però per primo una brillante riuscita sposando a Ginevra Marie Rosine von Rehlingen (1616-1646), figlia di un ricco finanziere di Augsburg. Stabilitosi poi ad Arles, costituisce un’impresa familiare che diverrà assai florida (da cui il nome Jean-Henri des Marais) e che impegnerà dal 1675 al 1685 il padre del nostro Jacques-Philippe, Philibert d’Herwarth (1644-1721) (cfr. fig. 1 albero genealogico). Dopo la revoca dell’Editto di Nantes (1685), Philibert si rifugia in Inghilterra da dove re Willem III lo invia per mansioni diplomatiche prima a

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Ginevra (1690-1691), poi a Berna dove ricopre la carica di ministro presso i cantoni svizzeri, collaborando ad accogliere i rifugiati ugonotti. Abbandonata la diplomazia, Philibert si trasferisce attorno al 1702 a Vevey, propaggine bernese. Vi rimane solo pochi anni (morirà in Inghilterra nel 1721) che gli consentono comunque di inserirsi immediatamente nel tessuto sociale11: uomo altamente considerato, ottiene la cittadinanza nel 1706, contribuisce economicamente a spianare il terreno della vasta Place du Marché costantemente inondata

fig. 2 Palazzo d’Herwarth a Vevey, Place du Marché, prima della sua demolizione nel 1896, fotografia Penard, Musée historique de Vevey

dalla Veveyse, dove costruirà la dimora familiare con corte, corpo centrale, due ali laterali adibite a “écurie” e “remise”, enorme giardino guarnito di sculture e una grotta (fig. 2). Operazione capitale, poiché ubicazione, dimensioni e magnificenza dei dettagli sono fattori che contribuiscono ad accrescere il prestigio del casato.

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Un potere simbolico che, offrendo Philibert finanziamenti per il nuovo palazzo comunale confinante con la dimora di famiglia, si unirà alla reputazione veicolata dalla solidità finanziaria12. Brillanti alleanze matrimoniali bernesi e rifugio dorato nel cuore di Vevey Jacques-Philippe d’Herwarth vede la luce nella dimora di Vevey nel 170613. Se dal lato paterno ostenta una discendenza da capogiro che gli apporta reputazione, patrimonio considerevole e relazioni aristocratiche di respiro europeo, anche il versante femminile, rappresentato dalla madre von Graffenried e in seguito dalla moglie nata Dünz (o Düntz), lo colloca autorevolmente nel quadro elvetico grazie alla tradizione patrizia bernese a cui le due donne di famiglia appartengono. Conoscendo il background degli Herwarth, anche le alleanze matrimoniali dovevano essere di prestigio. L’intuizione è stata prefig. 5 Johann Rudolf Huber (1668-1748), Called Jacques-Philippe miata indagando sui Dünz, che ci hanno aperto la d’Hervart, Baron de St. Légier, 1729, olio su tela, 81 × 64 cm, Nostell Priory, West Yorkshire via all’individuazione significativa di un nucleo di beni provenienti dalla casa di Vevey e trasportati in Inghilterra attorno al 1781. Grazie a questo ritrovamento e a due ritratti rintracciati presso il Musée historique de Lausanne, possiamo ricostruire la costellazione della famiglia centrale nella nostra vicenda di committenza e stabilire una relazione con il contesto bernese indirettamente correlato all’universo di Giuseppe Antonio Petrini14 (fig. 1). Judith Asuba von Graffenried (1674-1737 o 1752) (albero genealogico, fig. 3), che Philibert conosce durante la sua funzione di ambasciatore a Berna e sposa nel 1696 beneficiando di una dote elevatissima, ricongiunge addirittura due rami diversi dei von Graffenried, attraverso il padre Abraham (1655-1675) e la madre Rosine (1655-1717) (albero genealogico, fig. 4). La qualità elevata dei ritratti di moglie e suocera di Philibert testimonia l’alto standing della potente famiglia patrizia e balivale che annovera avvocati, finanzieri, alti gradi militari, commercianti, possidenti di case patrizie nella Berna storica e di vari castelli sparsi nella Svizzera d’oltralpe. L’altra famiglia di riferimento è quella dei Dünz di Brugg, dinastia di architetti e artisti che entra nella nostra orbita tramite il matrimonio di Johanna Esther (1706-1779) (fig. 8) nel 1727 con

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Jacques-Philippe d’Herwarth (fig. 5). Si innesta così un apporto culturale sostanzioso, poiché la giovane è figlia di Hans Jakob III Dünz (1667-1742), capomastro della cattedrale di Berna e architetto, e Johanna Wyss figlia di David Wyss (1632-1700), professore emerito di filosofia e di teologia a Berna15. Che la sostanza culturale declinata dal ramo femminile abbia un certo peso specifico in seno alla famiglia d’Herwarth lo si conclude dal fatto che i ritratti dei nonni David Wyss in posa con la Bibbia (albero genealogico, fig. 6), e Abraham I Dünz (1630-1688), già capomastro della cattedrale di Berna nel 1660, responsabile della progettazione o di perizie in circa quaranta chiese di campagna, ideatore di modelli di luoghi di culto protestanti e qui immortalato con il compasso in mano (albero genealogico, fig. 7), fanno parte dei beni familiari trasferiti in Inghilterra per essere conservati. Entro la famiglia d’Herwarth i matrimoni sono alleanze sociali ma anche canali di flussi di denari e di beni culturali.

fig. 8 Emanuel Handmann (1718-1781), Jeanne Esther Dunz, Madame la Baronne d’Hervart, 1763, olio su tela, 80 × 62 cm, Nostell Priory, West Yorkshire

I coniugi Herwarth-Dünz: una coppia di prestigio, cosmopolita e sensibile all’arte Quando Jacques-Philippe firma i contratti per St-Légier-La Chiésaz e Hauteville è già sposato da cinque anni con Johanna Esther (fig. 8) ed è padre16. Sarà una figlia della coppia, baronessa Louise Sabine d’Herwarth (1734-1798), a maritarsi in seconde nozze a Sir Rowland Winn (1739-1785), baronetto ideatore della Library alla Nostell Priory (albero genealogico, fig. 9). La baronessa eredita i beni di famiglia conservati nella casa di Vevey, tra cui i dipinti citati e molto altro ancora: un patrimonio contenuto in diciassette casse spedite in Inghilterra “duty free” alla morte della mamma sopravvenuta nel 1779. L’inventario relativo consultato elenca gli oggetti in sequenza secondo vari cabinets, sale e stanze e parla di una dimora sicuramente corrispondente a quella di Place du Marché, di apparenza signorile17. La lista d’inventario conferma l’esistenza di un “Cabinet of the Library” con collezione di libri e include mobili, suppellettili e opere d’arte18. Vi si rintracciano, oltre a due opere di Nicolas Poussin, numerosi ritratti, dipinti specificati solo per genere come paesaggi, nature

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morte, scene di storia, stampe riguardanti Berna e il castello di Thun, carte geografiche. Attirano la nostra attenzione, senza poter purtroppo beneficiare all’ora attuale di maggiori dettagli: un dipinto di Diogene e Alessandro, un Ritratto di Ercole, un grande dipinto di Venere e Adone, un dipinto illustrante Venere in cielo e un altro con Cupido volteggiante in cielo con una torcia in mano. Su alcuni ritratti sappiamo di più, e già ciò è molto utile ai nostri scopi: gli artisti incaricati sono sempre scelti fra i migliori dell’epoca. I coniugi Herwarth-Dünz attingono alle doti dei fratelli ginevrini Guillibaud: Barthélemy (1687-1742) dipinge nel 1736 una raffigurazione allegorica di tre dei quattro figli d’Herwarth19. Il basilese Emanuel Handmann (1718-1781) esegue nel 1763 il ritratto di Johanna Esther (fig. 8) mentre il basilese residente a Berna Johann Rudolf Huber (1668-1748) immortala nel 1729 Jacques-Philippe ventitreenne (fig. 5) e più tardi due sue figlie. Manuel Kehrli, studioso dell’artista, indica che Huber, figura polivalente, collezionista e mercante d’arte, avrebbe dipinto già negli anni 1702-1703 varie opere per Philibert d’Herwarth, tra cui due volte la moglie Sedide Azube (Judith Asuba) von Graffenried e la suocera Rosine von Graffenried con la figlia20. Non può trattarsi, per incongruenza cronologica, dei due ritratti anonimi che qui illustriamo, ma questo perlomeno attesta l’atteggiamento celebrativo già proprio al padre e consono all’epoca (albero genealogico, figg. 3 e 4). Si fa strada l’idea di una committenza da ascrivere principalmente alla coppia Herwarth-Dünz. Le donne di casa Herwarth sono d’altronde state notate anche da Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) che ne menziona l’incontro in La nouvelle Héloïse 21. L’arte esibita fra la casa in città e il castello in campagna La posizione invidiabile e l’estensione della proprietà, dotata di un grande vigneto, un mulino e piccole costruzioni d’appoggio, dovettero rappresentare le qualità che spinsero Jacques-Philippe d’Herwarth, già proprietario della grande dimora a Vevey che aveva ereditato, a vendere una proprietà a Veyre-Devant, altra casa signorile della baronia di St-Légier, per acquistare, adattandolo ai suoi gusti, il possedimento di Hauteville22. Il 19 gennaio 1734 acquisisce la baronia di St-Légier e La Chiésaz e la signoria di Hauteville con tutti i diritti, compresa la cappella nella chiesa di La Chiésaz, avendo già sottoscritto il feudo di St-Légier nel 1733. Jacques-Philippe garantisce con queste firme l’espansione economica della famiglia verso il settore degli investimenti fondiari. La proprietà esistente sull’enorme sedime è troppo limitata per le esigenze degli Herwarth-Dünz e viene ampliata (architetto e anno sconosciuti) di nuove parti, tra cui un corpo con salone d’apparato. Probabilmente il nuovo castello, in aperta campagna, veniva abitato in alternanza alla casa in Place du Marché. Un secondo ritrovamento, sostanziale per la comprensione del tema, ha offerto la prova della correlazione tra le due abitazioni: giunge da un nostro riscontro della corrispondenza fra uno dei deliziosi bozzetti qui esposti attribuiti a Giuseppe Antonio Petrini, Allegoria femminile (cat. 1a), preservato nei secoli nel castello prima di

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fig. 10 Pittore attivo ante 1760, affreschi del Salone d’onore del castello di Hauteville, St-Légier-La Chiésaz, veduta d’insieme

essere acquisito da Maurizio Canesso, con una fotografia d’epoca scattata poco prima del 1896 – momento della distruzione senza scrupoli della casa di Vevey – e illustrante la volta di un salone (fig. 12) ubicato al primo piano, secondo la didascalia apposta23. Forse una Venere nell’Olimpo volteggiante fra le nubi e attorniata da putti, la figura femminile è il culmine celeste di un ardito scorcio prospettico dominato da finte colonne e cornicione con vasi fioriti. Il secondo bozzetto esposto, Allegoria maschile (cat. 1b), pendant del primo, e forse destinato a sviluppare la decorazione di un secondo soffitto della dimora, presenta il trionfo di un personaggio maschile con in mano foglie di palma – simbolo di vittoria e ascesa – e circondato da putti, uno dei quali con una freccia. L’iconografia va probabilmente ricondotta all’attività di arciere di Jacques-Philippe, il quale era socio dal 1728, diventandone poi anche “re”, della Société de l’Arc a Vevey24. Questa istituzione riuniva le famiglie più rinomate e nobili della città, celebrate fastosamente una volta l’anno con parata alla presenza di

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tutto il Consiglio cittadino25: pratica condotta sotto l’egida del motto virgiliano “Vires acquirit eundo”. Il giovane barone d’Herwarth, come i più blasonati del consesso, ha donato per la collezione dell’Abbaye de l’Arc di Vevey una coppa in argento dorato sul cui coperchio domina una civetta, emblema del suo casato, incisa con una frase che dice molto della gioventù “dorata” dell’epoca: “A l’envi, laissons nous saisir aux transports d’une douce ivresse; qu’importe, si c’est un plaisir, que ce soit folie ou sagesse-Présent de Jaques d’hervart, roy de la Société de l’Arc, le 15 juillet 1730”. Sul retro è inciso un fascio di frecce (fig. 11)26. Anche Ercole era abilissimo tiratore con l’arco, e saettava gli uccelli stinfalidi. Entro questa temperie e per quanto emerso, le dimore di Vevey e Hauteville sono strettamente connesse ed espressione di un medesimo humus culturale. Non possediamo la datazione degli affreschi né del soffitto a Vevey, né del grande salone e del soffitto della scala a St-Légier-La Chiésaz. Frédéric Grand d’Hauteville avanza l’opinione che siano di mano probabilmente “des Petrini qui travaillaient pour les Herwarth à Vevey au moment de la construction de cette pièce [il castello di Hauteville] et ont peint les plafonds de leur maison de la place du Marché”27. Questo autore è un conoscitore profondo della storia del castello; probabilmente alcune informazioni si sono tramandate nel tempo solo oralmente in famiglia28. Si delineerebbe allora che non è stato Philibert, che sappiamo costruttore della dimora in centro città (d’altronde ripartito molto presto da Vevey alla volta dell’Olanda e dell’Inghilterra, dove è morto, ricordiamo, nel 1721), a incaricare un artista per la decorazione pittorica degli interni, bensì suo figlio29. Considerando la data di nascita di quest’ultimo, il lavoro a Vevey (come forse anche alcune tele e sicuramente i bozzetti di Petrini qui esposti) potrebbe essere stato eseguito poco dopo il 1726, cioè attorno al suo ventesimo anno di età. Nel 1727 si sposa e il suo nome comincia a fig. 11 Coppa in argento dorato, offerta da Jacques-Philippe comparire nei “Manual des Conseil” cittadini per d’Herwarth all’Abbaye de l’Arc di Vevey nel 1730, Abbaye de l’Arc, Vevey faccende varie relative alla casa, sia nel 1728 che

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fig. 12

Soffitto nella dimora della famiglia d’Herwarth a Vevey, Place du Marché, con decorazione pittorica attribuita a Giuseppe Antonio Petrini, Frères Fischer, lastra fotografica, ante 1896, Musée historique de Vevey

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fig. 13

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Pittore attivo ante 1760, Trionfo di Venere, dettaglio dell’affresco sul soffitto del Salone d’onore del castello di Hauteville, St-Légier-La Chiésaz


nel 172930. Il soffitto a Vevey potrebbe essere una traccia evocativa dell’unione matrimoniale, con i due visi, uno maschile e l’altro femminile (visibili sulla fotografia in bianco e nero), integrati dal pennello del quadraturista nella rappresentazione pittorica. Avendo comunque provato la coincidenza palmare tra bozzetto (si specifica, conservato a Hauteville) e soffitto di Vevey e la mano assodata di Giuseppe Antonio Petrini per i due bozzetti delle allegorie qui esposte, la questione attributiva si fa stuzzicante. Diventa infatti intricata perché in realtà l’osservazione de visu degli affreschi al castello (eseguiti fra il 1734 e il 1760) ci rende assolutamente scettici, come sostiene anche Alessandro Morandotti nel suo saggio in questo catalogo a cui rinviamo, sulla possibilità di accoglierli nel catalogo delle opere di Giuseppe Antonio Petrini. Se il figlio Marco, conosciuto soprattutto come ritrattista, vi avesse posto pure mano, significa che l’ha fatto prima del 1737, termine ante quem ben possibile. Con Petrini, sappiamo, collaboravano vari artisti come i Torricelli, attivi ad esempio più tardi, nel 1748-1749, nell’abbazia benedettina di Einsiedeln, questi ultimi a loro volta influenzati anche da Giuseppe Antonio Felice Orelli (1706-1776) del quale non possiamo scordare, guardando le quadrature dei nostri affreschi, quelle rintracciabili in varie sedi a Locarno31. Ma non è la disquisizione attributiva degli affreschi il tema di questo saggio. Il programma iconografico dipanato negli affreschi celebra allegoricamente l’apogeo della coppia Herwarth-Dünz. Sul soffitto (fig. 13) il Trionfo di Venere dea dell’Amore, con il pomo d’oro nella mano e ai piedi due colombe, suo attributo e valenza qui simbolica riferita sia all’unione coniugale sia alla concordia; la dea è circondata da ninfe o naiadi, mentre nel gruppo compatto in sottofondo appaiono il Tempo ed Ercole 32. Nel cielo, al punto massimo di luminosità, Giove solenne domina come dio tonante e regge nella mano destra lo scettro volgendo lo sguardo saettante ad alcuni putti, che vengono allontanati con le loro nubi minacciose; nel bagliore le nuvole si fanno diafane, lasciando intravedere la figura dell’aquila, suo simbolo di potenza. La raffigurazione è completata da inserti con il Ratto di Proserpina (fig. 14), a cui fa da pendant sul lato opposto Io rapita da Giove; sulle pareti laterali inserti con Leda e il cigno (fig. 15) (a magnificare lo stemma araldico del casato Dünz, un cigno appunto) e Il ratto d’Europa. La decorazione include putti che personificano le Arti e figure femminili che incarnano le Virtù: fra le cardinali si notano Giustizia (fig. 2 a p. 43) con un codice, Concordia con il ramo d’ulivo, Temperanza (fig. 1 a p. 43) con la clessidra, affiancate dalla più eccelsa delle Virtù teologali, la Carità con in mano una campanella. Alle pareti, nei riquadri principali, le scene raffigurate sono tratte dalla storia romana con Veturia e Volumnia davanti a Coriolano (fig. 1 a p. 10) e Brenno che negozia con il Senato romano (fig. 2 a p. 15) a sottolineare le doti di virtù e umiltà, ma anche ad alludere alla carriera militare e forse diplomatica di Jacques-Philippe. L’articolazione d’assieme, che gioca fra realtà e illusione, fra plasticità corporea nei riquadri e coinvolgente bravura illusionistica con volute, lembi arricciati e tralci variopinti che rivestono tutta la sala, potrebbe giustificare eventualmente un lavoro di cooperazione fra due o più

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fig. 14

Pittore attivo ante 1760, Il ratto di Proserpina, dettaglio degli affreschi del Salone d’onore del castello di Hauteville, St-Légier-La Chiésaz

artisti. Difficile esprimersi sull’affresco del soffitto che decora la scala verso ponente (fig. 16); è stato maggiormente ritoccato, ma importa ritenere che esso è stato realizzato prima del 1760 e che dominava la rampa in cui erano allestiti nove dipinti, quattro marine eseguite da un artista italiano non precisato e cinque altri “de Petrini le fils de Lugano très bien peints”33. È probabile che l’affresco celebri gioiosamente, in un tripudio di fiori e frutti, l’Allegoria della Primavera racchiusa nel medaglione centrale. Il fiore simboleggia l’energia vitale e la fine dell’inverno: un richiamo alle stagioni che scandisce la fascia a decoro illusionistico architettonico incorniciante lo spazio rettangolare, in cui si decriptano nelle conchiglie rigonfie l’Inverno, l’Estate e in modo binario l’Autunno con uva bianca e nera34. L’assonanza iconografica con il salone gioca sull’associazione possibile della figura femminile, che attraverso la rosa sottintende l’allegoria sia di Venere che di Giunone, ma soprattutto sulla ripresa della vite e dell’uva e della ghirlanda di fiori, quest’ultima simbolo di unione matrimoniale. Nel complesso il ciclo iconografico, bipartito in due spazi, suona come un omaggio tributato alla coppia dei fruitori-committenti e ci sembra il frutto di una politica d’immagine che vuole sottolineare l’armonia coniugale, la bellezza, la gioia di vivere, le arti, le virtù, la diplomazia e le gesta dei committenti. È proprio il ricorso a una potente scenografia, molto rara in terra romanda e quindi di effetto assicurato, a convenire pienamente alle esigenze di una coppia così colta e glamour.

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fig. 15

Pittore attivo ante 1760, Leda e il cigno, dettaglio degli affreschi nel Salone d’onore del castello di Hauteville, St-Légier-La Chiésaz

Il fermento della cultura scientifica sulle rive del Lago Lemano Non è dato sapere in quali circostanze e con chi Jacques-Philippe d’Herwarth abbia studiato; si sa che viene mandato in Olanda presso cugini a “imparare l’arte della guerra”, da cui la sua attività entro i reggimenti svizzeri. Certo cresce negli ambienti più esclusivi, sapendo che dal sovrano inglese in persona riceve in dono una miniatura e una medaglia d’oro. La presenza di un “telescopio” rintracciabile negli averi di famiglia nella casa di Vevey potrebbe forse essere indice di un suo interesse per le novità della scienza astronomica35. Per vincoli familiari gli Herwarth sono lontanamente imparentati con il mondo ginevrino dei Favre, degli Hertner, e dei Calandrini che annoverano lo scienziato riformato Jean-Louis Calandrini (1703-1758), studioso di fisica che sostiene una tesi sui colori concepita interamente in un quadro teorico newtoniano. La constatazione della confluenza di parecchi elementi verso l’ambito del sapere filosofico-scientifico ginevrino e vodese, cronologicamente contemporaneo e geograficamente prossimo alle due generazioni d’Herwarth, si nutre rapidamente di altre componenti rilevanti illuminando sulla presenza di opere di soggetto profano quali Astronomo (cat. 2) e Filosofo (cat. 3) incluse nella raccolta del castello36. Sulle rive del Lemano tra fine Seicento e metà Settecento il mondo scientifico è contraddistinto da una grande vitalità. Pur trattandosi di una regione discosta dai maggiori centri, Londra, Parigi o Berlino, grazie alla sua posizione politica e confessionale il territorio è attrattivo per gli uomini di scienza. Sia Ginevra che Losanna vantano un polo

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fig. 16

Pittore attivo ante 1760, Allegoria della Primavera, affresco sul soffitto che decora la scala verso ponente, castello di Hauteville, St-Légier-La Chiésaz

accademico di prim’ordine: professori impegnati nei due atenei sono contemporaneamente membri delle società scientifiche londinesi, parigine, berlinesi e bolognesi. La loro fitta corrispondenza stabilisce una rete di scambi intellettuali con i maggiori luminari europei ed è fondamentale per la diffusione del pensiero preilluminista, favorendo contatti non solo fra i pensatori a nord delle Alpi, ma anche tra i territori elvetici e l’Italia. A Ginevra Calandrini e Gabriel Cramer (1704-1752) inaugurano l’insegnamento della matematica e dell’astronomia, mentre a Losanna la cattedra di filosofia comprende fisica, matematica e astronomia. Qui il magistero è impartito da Jean-Pierre de Crousaz (1663-1750), impegnato nell’insegnamento della filosofia fin dal 1700 e regolarmente dal 1738 al 174837. Ma lo sviluppo delle scienze non risiede solo entro le mura accademiche. Si ricorda che proprio nel 1736, per poter perseguire i suoi studi di astronomia, il

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nipote del de Crousaz, Jean-Philippe Loys de Cheseaux (1718-1751), fa installare un osservatorio astronomico nel parco del castello paterno di Cheseaux-sur-Lausanne, ubicato a pochi chilometri da quello dei d’Herwarth a Hauteville. Questo giovane prodigio intellettuale, abiatico di de Crousaz sotto la cui guida studia con sbalorditivo profitto, scrive i suoi primi testi di fisica e astronomia conosciuti almeno dal 1735, inviandoli all’Académie des sciences di Parigi38. Deceduto a soli trentatré anni, fra le pubblicazioni che lo proiettano a livello europeo quale astronomo di riferimento vi sono trattati sulle comete e le loro orbite39. Credo sia quasi scontato, per gli Herwarth-Dünz, aver ricevuto almeno un’eco di tanto fermento filosofico e astronomico: la tentazione è forte di vedere nei nostri due Astronomo e Filosofo di Petrini un’allusione pittorica ai due uomini di scienza e pensatori vodesi, loro vicini di casa. La “Bibliothèque italique”: un collegamento a distanza tra i d’Herwarth e i conti Riva di Lugano L’attività di un periodico di spessore quale la “Bibliothèque italique”, edito a Ginevra dal 1728 al 1734, gli anni in cui Jacques-Philippe d’Herwarth si affaccia in grande pompa sul palcoscenico della nobile società vodese e acquista la tenuta di St-Légier-La Chiésaz, è di considerevole significato. La rivista, promossa da un gruppo di eruditi ugonotti rifugiatisi tra Ginevra, Losanna e Neuchâtel e sostenuta da nobili losannesi, diffonde a livello europeo le scienze e la cultura italiane pubblicandone le principali opere scientifiche. Si presenta, in diciotto volumi ricercatissimi, il pensiero di modernisti italiani quali Scipione Maffei, Pier Jacopo Martello, Pietro Calepio, Ludovico Antonio Muratori, Pietro Giannone: significa che questo strumento di mediazione culturale filtra in terra romanda un sapere scientifico-filosofico di cui l’arte di Petrini è portatrice, e agli occhi del nostro committente interpreta in modo esclusivo la grande attualità. Sappiamo dei legami tra Giuseppe Antonio Petrini e la famiglia dei conti Riva di Lugano, e che alcuni membri di questo casato condividono una serie di interessi con una cultura italiana “e forse europea” di inclinazione filosofico-scientifica40. Fra i dipinti da loro richiesti, come nel caso degli Herwarth, un Filosofo e un Astronomo, posizionati per datazione alla fine del terzo decennio del Settecento41. Gian Pietro Riva (1696-1785) intrattiene stretti contatti con l’ambiente delle accademie bolognesi, vicino anche a padre Giovanni Francesco Crivelli (1690-1743), associato all’Accademia delle scienze di Bologna e coinvolto nella “Bibliothèque italique”. Crivelli appartiene all’ordine dei Somaschi, orbita nella quale si inscrive la ricca committenza dei Riva a Lugano a favore di Petrini. Il Riva soggiorna a Bologna negli anni 1724-1729, corrispondenti alla fase concitata di elaborazione e all’esordio della rivista ginevrina nonché al periodo di vari viaggi nella penisola di alcuni promotori42. Il contatto epistolare tra Gian Pietro Riva e Giampiero Zanotti (1674-1765) è pure tassello che alimenta il vortice di una circolazione che assimila l’arte di Petrini e della sua bottega. Lo Zanotti, il cui figlio è astronomo, ha per fratello Francesco Maria Zanotti (1692-1777), professore di filosofia e segretario dell’Istituto delle scienze. Siamo vicini alla famosa lettera del luganese Riva in lode di Petrini spedita nel 1734 a Zanotti. Al

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1735 inoltre è datato il Matematico conosciuto di Petrini43. Siamo in anni sensibili anche sul versante vodese, dove Herwarth è dedito alla costruzione delle nuove parti di proprietà a Hauteville, tra cui l’ala affrescata, e forse intento ad arricchire la raccolta di alcuni Petrini tra cui, oltre al Filosofo e all’Astronomo, una serie con Le quattro stagioni purtroppo non più reperibile, appesa ad abbellire uno dei due cabinets a ovest del salone, ma anche l’intensa Lucrezia qui esposta (cat. 4)44. Tutto ciò conforta l’idea di poter stabilire un circolo virtuoso tra esponenti di centri scientifici avanzati della Svizzera francese e dell’Italia, con ramificazioni nella Lombardia ticinese; prerogativa che Petrini amplifica con la sua arte, abbracciando in Ticino i desideri dei Riva e in area vodese quelli dei d’Herwarth-Dünz. La corte degli Hessen-Kassel e la città di Berna: due crocevia culturali tra Vevey e il Ticino Nel 1735 Jacques-Philippe d’Herwarth accoglie a Vevey il principe di Hessen-Kassel45. L’informazione ci ha posti in allerta perché assume notevole importanza nel quadro della nostra indagine, inducendoci a rintracciarne la fonte precisa. L’affondo archivistico ha confermato questa notizia, fornendo alcuni particolari46. Si apprende che nella sua visita il principe si reca dagli Herwarth, presso i quali la Città a sua volta decide di inviare per l’occasione sei consiglieri al fine di complimentare l’ospite straniero. Inoltre, trattandosi di ricevere persona insigne, i membri del Consiglio decidono di consultare preventivamente il barone d’Herwarth sia a proposito del soggiorno dell’illustre personaggio in arrivo sia per sapere in che modo converrà procedere. Attraverso questi elementi deduciamo che Jacques-Philippe, allora ventinovenne, dovesse conoscere assai bene il principe di Hessen-Kassel al punto da poterlo ospitare nella propria dimora, sicuramente quella alla Place du Marché. È anche ipotizzabile che l’Herwarth abbia mostrato all’augusto amico anche il castello di St-Légier-La Chiésaz, il cui acquisto era appena avvenuto. Forse il castello a quel punto era già stato accresciuto del grande salone d’apparato, da lui voluto e in procinto di essere affrescato, a meno che l’ampliamento fosse ancora in corso e Jacques-Philippe stesse vagliando il destinatario della committenza pittorica. Non sappiamo dalle fonti di quale membro dell’illustre e potente casato d’HessenKassel si trattasse; tutto porta a pensare che vada identificato molto probabilmente con Wilhelm VIII von Hessen-Kassel (1682-1760) oppure con il figlio principe ereditario Friedrich II von Hessen-Kassel (17201785). Rispetto a quest’ultimo importa notare che ebbe come precettore per quattro anni proprio il filosofo losannese Jean-Pierre de Crousaz sopra citato, nonno dell’astronomo prodigio Jean-Philippe Loys de Cheseaux. Il de Crousaz era stato chiamato a tale incarico da Wilhelm VIII, e lo ha rivestito dal 1726 al 173347; si aggiunga che a partire dal 1732 e fino al 1737 circa Friedrich II frequenterà anche gli studi a Ginevra, condottovi dal luogotenente e consigliere personale del langravio Auguste-Maurice de Donop48. Oltre a stabilire un nesso diretto con la famiglia d’Herwarth e, tramite de Crousaz, con l’ambito intellettuale losannese e ginevrino di cui conosciamo le implicazioni con il mondo scientifico, il casato d’Hessen-Kassel

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ci proietta verso l’arte di Giuseppe Antonio Petrini. Nella collezione costituita da Wilhelm VIII in gran parte fra il 1700 e il 1760 si trova infatti – si pensa fin dal 1730 – il Diogene del maestro di Carona49. Non è dato per ora sapere quali fossero i rapporti diretti fra Petrini e questa corte tedesca, mentre si conosce che l’artista ticinese Carlo Francesco Rusca (1693-1769) vi risiede personalmente proprio dal 1734 al 1736, frangente in cui si situa la visita nel 1735 del principe di Hessen-Kassel presso gli Herwarth50. Rusca esegue numerosi ritratti della famiglia principesca, primo fra tutti quello dello stesso Wilhelm VIII (fig. 17); fra i dipinti realizzati per questa corte vi è inoltre il Monaco che legge, un omaggio tributato al Petrini in rapporto alle sue mezze figure di Filosofi, Astronomi e Matematici. È dato probabile un avvicendamento precoce fra Petrini e Rusca, o perlomeno un passaggio del pittore ticinese nella bottega che il maestro di Carona avviava negli anni Venti e in cui collabora anche il figlio Marco Petrini, nato nel 1704 (dunque artifig. 17 Carlo Francesco Rusca (1693-1769), Porträt Landgraf Wilhelm VIII. von Hessen-Kassel, olio su tela, 137,5 × 107 cm, sticamente “coetaneo” del Rusca), prematuramente Kassel, Museumslandschaft Hessen Kassel scomparso come visto sopra nel 173751. Nonostante una leggera discrepanza nelle date, si potrebbe deporre a favore dell’opinione secondo cui dovette essere il Rusca “a portare con sé presso la stessa corte [Hessen-Kassel] l’intenso Diogene del Petrini, unica sua presenza accertata nelle collezioni che andavano formandosi nei primi decenni del Settecento in quelle regioni d’Europa”52. Sembra comunque per noi sempre più convincente il nesso Petrini–Rusca–Hessen-Kassel–Herwarth, con la figura del Rusca nel ruolo di anello di congiunzione e quella del d’Herwarth come recettore e attore della ricaduta in terra elvetica protestante dell’universo di Petrini e della sua bottega. Esistono poi altre convergenze. Fra le opere ascritte al Rusca vi è un lavoro realizzato a Ginevra nel 1734-1735 nella Galerie d’apparats della residenza del Grand Morillon. Forse quindi il Rusca, già in Svizzera romanda, può aver caldeggiato in situ una presenza di Petrini e della sua bottega.

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Anche il tramite del suo maestro degli anni bernesi, l’artista Johann Rudolf Huber (al quale come si è detto si devono alcuni ritratti del nucleo familiare dei d’Herwarth, primo fra tutti quello del nostro committente Jacques-Philippe), è essenziale: Huber è espressione di un’arte polivalente che si mette al servizio delle maggiori corti principesche, inizialmente dei Baden-Durlach – tra l’altro pure studenti a Losanna nel 1714, 1728 e 1732 – per i quali lavora sin dal 1696 spostandosi in seguito a Stoccarda, dove realizza affreschi barocchi purtroppo distrutti salvo un ciclo con la storia di Ercole53. Dal 1702 al 1738 Huber risiede principalmente a Berna ed è questo il periodo della vicinanza con Rusca. Il vincolo relazionale che dal Ticino porta a Vevey tramite Hessen-Kassel e Berna si fa stringente. Il genere della ritrattistica rafforza il peso di Berna, meta obbligata della diplomazia internazionale e baricentro culturale per gli Herwarth-Dünz. Huber residente a Berna dal 1702 al 1738 ritrae i membri del patriziato locale e gli esponenti della classe sociale e politica emergente: non stupisce dunque che siano di sua mano anche dei ritratti del nucleo familiare Herwarth-Dünz. Rusca sarà occupato anche in Ticino, dove è documentato nuovamente negli anni Quaranta quando “‘eredita’ la committenza esclusiva e selezionata di Giuseppe Antonio Petrini” soprattutto alla morte prematura del figlio54. A Marco Petrini sono stati rapportati almeno due ritratti della famiglia Riva di Lugano, Antonio e Regina Francesca Riva Giani, oggi prove certe della sua attività in tale ambito55. Negli anni Quaranta, da parte sua, Carlo Francesco Rusca realizzerà il ritratto del conte Rodolfo Riva e quello della moglie contessa Maddalena Riva-Rusca56. Petrini interprete delle aspettative della grande committenza europea La vitalità intellettuale della regione di residenza degli Herwarth, una realtà geopolitica diversificata comprendente la signoria e repubblica di Ginevra, il baliaggio bernese di Vevey e il principato di Neuchâtel, in particolare nell’ambito della riflessione filosofica e negli sviluppi della scienza astronomica, parla a favore di un contesto niente affatto provinciale e perfettamente predisposto a promuovere un’arte come quella di Petrini e della sua bottega. Soggetti profani quali Filosofi e Astronomi vengono a inserirsi proprio a Vevey nel flusso della cultura più aggiornata. La presentazione odierna di un capitolo vodese legato a Petrini aggiunge un tassello inedito di storica importanza sull’artista di Carona, perché getta luce sulla fisionomia di una famiglia di committenti di respiro trans-nazionale e lega ora anche alla Svizzera romanda la sua partecipazione nelle vesti di comprimario, di produttore di immagini che la committenza illuminata richiede nel paesaggio culturale della prima metà del Settecento. Forze magnetiche per questa presenza sono da un lato il fermento filosofico-scientifico animatosi nelle terre ginevrine e vodesi e le sue ramificazioni verso la cultura scientifica in Italia incarnata dalla “Bibliothèque italique”, che unisce indirettamente la famiglia d’Herwarth ai Riva di Lugano. In secondo luogo gioca il dispiegamento nelle stesse località delle relazioni costruite nei decenni da una famiglia di rifugiati ugonotti, agiati e dotati di abilità diplo-

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matiche, tanto economicamente potenti a livello europeo da vantare amicizie eccellenti quale quella con gli Hessen-Kassel, essi stessi collezionisti di opere di Petrini, e alle corti dei sovrani francese e inglese. Il coinvolgimento in questo contesto del maestro caronese e della sua bottega potrebbe spiegarsi con il ruolo di ponte fra Ticino, Hessen-Kassel, Vevey e St-Légier-La Chiésaz rivestito da Carlo Francesco Rusca. Il quale rivendica oggi però anche quello di intermediario influente sulla scena bernese, a cui sono legate per origine le componenti femminili della famiglia d’Herwarth. I matrimoni accrescono il potere d’influenza e proiettano gli Herwarth in una dimensione allargata su Berna; nei canali di questi flussi culturali si inserisce anche il nome di Petrini. Le loro proprietà in terra vodese costituiscono una felice ricaduta entro i confini elvetici di una duplice declinazione artistica: con Giuseppe Antonio Petrini si allineano alla punta avanzata della cultura filosofico-scientifica, e con Petrini e la sua bottega allo spirito di grandiosità celebrativa che maestranze ticinesi operanti in tutta Europa hanno saputo interpretare affrescando palazzi, castelli e dimore anche nella Germania meridionale (come non pensare ai Carloni e ai Colomba), regione da dove i d’Herwarth provengono e a cui, crediamo, si sono ispirati per decidere di realizzare affreschi con tali caratteristiche e tanto unici nel discreto contesto confessionale protestante vodese da fornire ai committenti un impatto d’immagine assicurato. Gli Herwarth-Dünz applicano questa filosofia a tutto tondo in entrambi i possedimenti immobiliari, quello cittadino simbolo di potere politico-finanziario ereditato e trasmesso da padre in figlio e quello di campagna espressione di espansione fondiaria. L’universo petriniano risponde, per i suoi contenuti, a questo bisogno di investimento culturale, adeguato al rango di una famiglia di prestigio europeo con radici nella Svizzera settentrionale e indiretti legami con il meridione.

• ACVevey = Archives communales de la Ville de Vevey • ACVL = Archives cantonales vaudoises de Lausanne • DSS = Dizionario Storico della Svizzera 1

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Lettera di H.E. [Henri-Edouard] Bercher alla Città di Lugano, Vevey, 31 gennaio 1924. Archivio storico della Città di Lugano, Fondo antico del Comune di Lugano, Fondazione Antono Caccia, 10.1. Bercher parla di “deux artistes de Lugano du XVIIIme siècle? Il s’agit des Petrini ou Petrini père et fils…”. Per il documento di risposta: “Biografia del pittore Giuseppe Petrini di Carona comunicata dal Signor Emilio Mazzetti, Rovio 2 Febbraio 1924”. Archivio storico della Città di Lugano, Fondo antico del Comune di Lugano, Fondazione Antono Caccia, 10.1. Esposizione retrospettiva del pittore Cav. Giuseppe Petrini, Lugano, Piazza Maghetti, 26 dicembre 1933 – 3 gennaio 1934, a cura di Emilio Ferrazzini, Lugano 1933. Willhelm Suida, Die Werke des Cav. Giuseppe Petrini von Carona, in “Anzeiger für schweizerische Altertumskunde”, anno 32, n. 4, 1930, pp. 269-283; Frédéric Grand d’Hauteville, Le Château d’Hauteville et la baronie de St-Légier et La Chiésaz, Editions Spes S.A., Lausanne 1932. Ferrazzini pensa trattarsi forse degli Orelli di Locarno[pagina dattiloscritta sciolta, indicata come p. 11, proveniente probabilmente da un elenco. Archivio privato]. Nel Livre d’Or del castello non risulta da una nostra verifica una visita di Ferrazzini. Accennando alla sigla “Haller” segnata in un inventario del 1808 in connessione a due candelabri e due lampade, Frédéric Grand d’Hauteville si interroga se eventualmente altri beni appartenuti a Rudolf Emanuel von Haller non possano essere giunti a Vevey da Mendrisio. Il nobile bernese, figlio di Albrecht von Haller, coltivò ampi interessi nel mendrisiotto dall’ultimo decennio del Settecento fino a circa il 1820. Alcuni oggetti della

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dimora signorile di Mendrisio, “saccheggiati dai francesi alla corte di Mantova”, sono pervenuti ad arredare le sale di Hauteville all’inizio dell’Ottocento, al momento della vendita decisa dal von Haller in gravi difficoltà finanziarie. Non si parla comunque di opere d’arte, e la data dell’eventuale trapasso si posizionerebbe in decenni successivi all’arco cronologico di nostra pertinenza: gli oggetti ricordati nella casa di Rudolf Emanuel sono principalmente suppellettili e mobili. In merito al von Haller, anche a Mendrisio, si veda Lorenza Barbero, Rudolf Emanuel von Haller, primo rappresentante della Repubblica Elvetica presso il governo cisalpino, in “Bollettino Storico della Svizzera Italiana”, 106, 2003, pp. 13-32. Marcel Grandjean, Les Arts, in Encyclopédie illustrée du Pays de Vaud, vol. 6, a cura di Claude Reymond, Lausanne 1976, p. 103. Château d’Hauteville, Vente aux enchères, Hôtel des Ventes Bernard Piguet, Genève, 11-12 settembre 2015. Sulla storia del castello: Henri Perrochon, Au château d’Hauteville, in “Revue historique vaudoise”, anno 55, quaderno 1, 1947; Michelette Rossier-Menthonnex, Histoire du domaine d’Hauteville, de son Château et de la baronnie de St-Légier et la Chiésaz, in “Vibiscum: les annales veveysannes”, vol. 8, 2000, pp. 172-213. Si veda Inventaire des Effets mobiliers vendus avec la Baronnie de St. Légier, et la Chiésaz, et la Seigneurie d’Hauteville, pris le 24 avril 1760, ACVL, PP 410 B 9/1. In merito all’atto di acquisto di Cannac della proprietà si veda: ACVL PP 410 A 1.2.21/1. Sono stati verificati alcuni altri documenti inventariati sotto il cognome Herwarth, tra cui anche alcuni non ancora schedati messi gentilmente a disposizione per visione da Gilbet Coutaz, che ringrazio; ma per ora non sono emerse altre informazioni utili per la nostra indagine. Cognome declinato anche in d’Herwart, d’Ervart o Dervart. Sul ramo francese degli Herwarth, che qui conta, si vedano Philippe Mieg, Notes biographiques et généalogiques sur la branche française des Herwart, in “Bulletin de la Société de l’Histoire du Protestantisme français”, anno 117, luglio-settembre 1971, pp. 446-468; André Coigny, Une famille européenne et veveysanne, les Herwarth, in “Vibiscum: les annales veveysannes”, vol. 3, 1993, pp. 159-166; “Herwarth Philibert, Baron von Hüningen (1644-1712)”, a cura di Vivienne Larminie, in Oxford Dictionary of National Biograpy, ad vocem. Già nel 1716 si ritira a Londra, dopo essere stato per una decina d’anni (quindi dal 1706 circa) all’Aia. Ciò significherebbe che è rimasto a Vevey non più di quattro o cinque anni. In un documento che attesta un suo dono alla città, risalente al 1706 circa, è citata la partenza per l’Olanda. Manual des Conseils, 25 juin 1705 – 26 février 1708, ACVevey, Aa bleu 33, pp. 260-261. Atto di cittadinanza in Manual des Conseils, 2 mars 1702 – 22 juin 1705, ACVevey, Aa bleu 32, p. 430. Una pianta sommaria della proprietà è contenuta in un piano catastale del 1726: Plans cadastraux de Vevey et de son territoire, levés en 1766, ACVevey, Ga bleu 246, plan n. 4. Ancora nel 1757 il figlio Jacques-Philippe contribuirà alla manutenzione della Veveyse: Manual des Conseils, 8 octobre 1753 – 18 avril 1757, ACVevey, Aa bleu 57, p. 609. Registre des baptêmes, 9 mai 1696 – 22 janvier 1723, ACVevey, D orange 1, p. 81. Della fratria, Jacques-Philippe è il solo ad essere battezzato a Vevey. Gli altri nascono chi prima a Berna, chi dopo all’Aia e a Southampton. È probabile che alla scomparsa del marito nel 1721, la madre sia rientrata a Vevey (1723 circa) con i figli, poiché continuerà a vivere nella casa fino alla morte. L’indizio ci è stato fornito da un ritratto, parte di un ventaglio di ritratti e altri beni inseriti nella collezione museale visibile in Inghilterra presso la Nostell Priory, West Yorkshire. Il National Trust ha incamerato in fasi diverse, fra cui una vendita privata di Lord St Oswald nel 2010, ritratti attinenti ai d’Herwarth. Sulla collezione Oswald esiste un catalogo di Maurice Walter Brockwell del 1915 in cui alcuni dei dipinti che ci concernono sono inclusi. Non abbiamo potuto per ora visionare tale pubblicazione: il prosieguo futuro delle nostre ricerche su tale fondo potrà portare ulteriore luce sugli Herwarth. Ringrazio Roger Carr-Whitworth, Curator al National Trust e Sally Evans, Archive Assistant per avermi successivamente segnalato l’esistenza di un inventario generale dei beni trasferiti in Inghilterra dalla figlia della coppia Herwarth-Dünz, Louise Sabine, e di altri materiali in via di inventariazione dettagliata da parte delle loro istituzioni. I due ritratti conservati al Musée historique de Lausanne fanno parte del dono della famiglia Cerjat, che comprende anche una miniatura di SabineFrançoise Cerjat nata d’Herwarth (1710-1780), sorella del nostro Jacques-Philippe. In merito ai Cerjat si veda Maxime Reymond, Cerjat, Impr. L. Danel, Lille 1938 e il capitolo sulla famiglia Cerjat in Monique Fontannaz, Moudon. Les Monuments Historiques: Vaud, vol. VI, Bern 2006, pp. 249-262. Ringrazio Monique Fontannaz per le sue indicazioni relative al casato Cerjat. Brugg, oggi comune del Canton Argovia, era allora bastione nord-orientale dello Stato bernese. Sui Dünz si veda Klaus Speich, Die Künstlerfamilie Dünz aus Brugg, Kommissionsverlag Effingerhof, Brugg 1984 (per Hans Jakob III Dünz, pp. 244-263). Philippe Sigismond, nato nel 1729, muore nel 1730; Sabine Catherine, nata e morta nel 1731. Charles Antoine mancherà nel 1750, prima dei genitori, senza lasciare posterità. Di Julie Susanne, che nasce nel 1735, non vi sono altre notizie. Dati riportati in Mieg, Notes biographiques, p. 461. I vari dati sono stati da noi verificati nei libri di battesimo e morte presso gli ACVevey. “… une maison à laquelle il avait donné une apparence seigneuriale, avec ailes, grille et cour d’honneur, qui a fait longtemps l’un des ornements de la grande place …”, citazione da Jules Chavannes, Les réfugiés français dans le pays de Vaud et particulièrement à Vevey, Georges Bridel, Lausanne 1874, pp. 256-257. Si veda a proposito Fédia Muller, Images de Vevey d’autrefois, Editeur-imprimeur Säuberlin+Pfeiffer S.A., Vevey 1975 (al capitolo “L’ancienne Douane, résedence du Baron d’Herwart, et la Maison de Mme de Warens”, pp. 79-81).


18 Il dettaglio della libreria avrebbe permesso di inquadrare le letture di famiglia. 19 Probabilmente Louise Sabine, Charles Antoine e Julie Suzanne: Barthélemy Guillibaud, Three d’Hervart Children, as the Infant Bacchus and Attendants, with a God, olio su tela, 103 × 125 cm, Nostell Priory Collection, Inv. NT 960081. 20 Si veda Manuel Kehrli, “sein Geist ist zu allem fähig”. Der Maler, Sammler und Kunstkenner Johann Rudolf Huber, 1668-1748, Schwabe, Basel 2010, p. 46. Inoltre: “Huber, Johann Rudolf ”, a cura di Alexander Jegger, in Dizionario biografico dell’arte svizzera, A-K, ad vocem, pp. 514-515. 21 La Nouvelle Héloïse, I, 33. Si veda Annales de la Société J.J.Rousseau, Librairie Jullien, Genève 1992, vol. 40, p. 124. 22 La terra di Hauteville era passata precedentemente in varie mani, fra cui i Dubois, i de la Mothe e nel 1704 Charles Jacquemin. Per VeyreDevant si veda: ACVL GB 346 C Plan de tous les Biens fonds existants riére la Seigneurie de Saint Leger et La Chisaz, tiré geometriquement pour la renovation des Fiefs de la ditte Terre durant les années 1714- 1715, ff. 15-16. 23 Ringrazio Luigi Napi, Monique Fontannaz, Fanny Abbott e Gilbert Coutaz che mi hanno segnalato l’esistenza di lastre fotografiche e di alcune tirature riguardanti la dimora di Vevey. Le lastre sono conservate al Musée historique di Vevey, le fotografie presso gli Archives cantonales vaudoises di Losanna: AMH A 174/3 Vevey 348, A 13268/1 e A 13269/1. 24 Pensiamo meno probabile una raffigurazione di san Sebastiano, iconografia poco aderente al contesto. L’immatricolazione il 17 luglio 1728 è registrata nel manuale della Société de l’Arc: Manual de la Société de l’Arc, 6 juin 1694 – 3 juin 1804, ACVevey, A orange 04, pp. 198-199. Anche il fratello Maximilien Frédéric risulta nella stessa Società. 25 Si veda François Margot, “L’Abbaye de l’Arc de Vevey. Des berges de la Veveyse à la Colline de Saint-Martin”, in Gilbert Marion, David Auberson e Paul Bissegger, Abbayes, vie associative et tir à l’arc à Lausanne, XVIII au XX siècle, Bibliothèque historique vaudoise, vol. 140, Lausanne 2014, pp. 228-238. 26 Manual de la Société de l’Arc, 6 juin 1694 – 3 juin 1804, ACVevey, A orange 04, p. 252. 27 Frédéric Grand d’Hauteville, Le Château, p. 126. L’autore del volume non cita purtroppo le fonti d’appoggio. 28 Ipotesi avanzatami gentilmente da Denis Decrausaz. 29 Nel caso, a nostro avviso parecchio improbabile, che Philibert fosse il committente, ci si dovrebbe orientare anche per i due bozzetti Allegoria femminile e Allegoria maschile agli anni 1702-1706 circa, che corrispondono al periodo in cui Petrini faceva la spola tra la Vatellina – a Rogolo, Dubino, Fusine e Delebio soprattutto entro la committenza dei nobili Peregalli – e il Ticino, dove è documentato per la nascita dei figli. Questa ipotesi, che non percorriamo perché poco convincente considerando l’insieme di tutti gli elementi raccolti in questo saggio sulla nostra committenza, porterebbe per logica deduttiva a pensare a un primo incarico a Petrini giunto dal padre Philibert per Vevey e a un secondo dal figlio Jacques-Philippe, dopo il 1734, a Petrini e la sua bottega. Su Petrini in Valtellina si veda Daria Caverzasio, Le opere giovanili di Giuseppe Antonio Petrini in Valtellina e i suoi rapporti con la famiglia Peregalli di Delebio, in “Unsere Kunstdenkmäler: Mitteilungsblatt für die Mitglieder der Gesellschaft für Schweizerische Kunstgeschichte”, anno 38, n. 4, 1987, pp. 508-515. 30 Manual des Conseils, 22 novembre 1728 – 13 novembre 1730, ACVevey, Aa bleu 44, pp. 196-197, 227. 31 Sui fratelli Torricelli, Giuseppe Antonio Maria (1710-1808) e Giovanni Antonio (1719-1811), si vedano Edoardo Agustoni, I fratelli Torricelli e Giuseppe Antonio Petrini: contatti, influenze e divergenze, in “Archivio Storico Ticinese”, 124, 1998, pp. 201-232; Simonetta Coppa, L’opera dei fratelli Torricelli da Lugano in Lombardia, in “Zeitschrift für schweizerische Archäologie und Kunstgeschichte”, anno 46, n. 1, 1989, pp. 68-76. Su Giuseppe Antonio Felice Orelli si veda Virgilio Gilardoni, I pittori Orelli da Locarno, Istituto Editotiale Ticinese, Bellinzona 1941; inoltre: "Orelli, Giuseppe Antonio Felice", a cura di Eliana Perotti, in Dizionario biografico dell'arte svizzera, L-Z, ad vocem, pp. 798-799. 32 Giunone e Minerva, antagoniste di Venere nel Giudizio di Paride a cui farebbe allusione il pomo (tema al centro di un bozzetto in mostra; si veda la scheda relativa di Chiara Naldi, cat. 6), potrebbero essere le due figure che fanno capolino in alto, vicino a Giove. Non è chiaro inoltre se una delle naiadi in realtà non sia invece Diana, presente come espressione della forza del sentimento d’amore o come divinità della caccia, del tiro con l’arco. Ringrazio Mauro Natale per l’apporto costruttivo in merito alla lettura dell’affresco. 33 Inventaire des Effets mobiliers vendus avec la Baronnie de St. Légier, et la Chiésaz, et la Seigneurie d’Hauteville, pris le 24 avril 1760, f. 4. ACVL PP410 B 9/1. Questo angolo del castello ha molto probabilmente subito danni maggiori durante uno dei tre incendi (cfr. qui Chiara Naldi, p. 34), da cui in seguito l’intervento di restauro ottocentesco e, crediamo, anche l’impatto sulle tele sottostanti. 34 Si ricordi che il sedime del castello includeva un enorme parco di piante e fiori e soprattutto un esteso vigneto. 35 Citato nell’elenco del “Cabinet at the side of the Red Room” nell’Inventario della Nostell Priory. 36 Si veda nell’Inventario del 1786: “Corridors […] un dit, Lucrèce idem, Quatre dits, les quatre saisons idem, Un dit Notre Seigneur, Un dit, une Magdeleine, Un dit, un astronome Un dit, un vieillard, Deux dits, un vieillard et une femme épleurée, Un dit, une femme tenant le portrait de son mari…”. Si veda Frédéric Grand d’Hauteville, Le Château, p. 74.

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37 Si noti che il de Crousaz aveva anche interessi di filosofia estetica, quale autore del “Traité du beau” (1715), riedito a Ginevra nel 1724, che sollevò ampio dibattito. In tale contesto, egli prende in considerazione l’esistenza di coadiuvanti quali la grandezza, la diversità e la novità come elementi di rafforzo della bellezza, certo non avulsi da riferimenti, proprio perché in terra romanda, agli affreschi di Hauteville. Si veda Syliane Milinowski-Charles, Entre rationalisme et subjectivisme: l’esthétique de Jean-Pierre de Crousaz, in “Revue de théologie et de philosophie”, anno 54, 2004, pp. 7-21. Roger Francillon, “Crousaz, Jean-Pierre de”, in DSS, ad vocem. 38 Al 1735 risalgono gli Essais de Physique e, nell’aprile dello stesso anno, la memoria scritta Sur les satellites en général et sur ceux de Saturne en particulier. Questi scritti sono stati pubblicati postumi, mentre è ritenuto dagli studiosi che molti altri manoscritti devono essere andati perduti. In merito alla ricostruzione della sua figura e alla bibliografia delle sue opere si vedano Maurice Paschoud, L’astronome vaudois Jean-Philippe Loys de Cheseaux (1718-1751). Etude sur sa vie et ses œuvres, in “Bulletin de la Société Vaudoise des Sciences Naturelles”, anno 49, n. 179, 1913; “Loys, Jean Philippe (de Cheseaux)”, a cura di Valérie Cossy, in DSS, ad vocem. 39 Si ricorda il Traité de la Comète (1744), in cui si riallaccia ai concetti fisici di Isaac Newton e discute il paradosso di Olbers, e Nouvelles méthodes de calculer la position des orbites des comètes (1748). 40 Si vedano Mauro Natale, “Petrini: L’attività a Lugano e nella Svizzera italiana”, in Giuseppe Antonio Petrini, catalogo della mostra, a cura di Rudy Chiappini (Lugano, Villa Malpensata, 14 settembre – 24 novembre 1991), pp. 49-59; Federica Bianchi, “Petrini durante il periodo luganese: l’incontro con la famiglia Riva e la sua incidenza nell’opera dell’artista”, ivi, pp. 61-73; Marco Bona Castellotti, “Petrini e i committenti nel clima della cultura filosofico-scientifica del primo Settecento”, ivi, pp. 75-79. 41 Giuseppe Antonio Petrini, Astronomo, olio su tela, 90 × 120 cm, Lugano, collezione privata; Giuseppe Antonio Petrini, Filosofo, olio su tela, 90 × 120 cm, Lugano, collezione privata. 42 Marco Bona Castellotti sostiene a giusta ragione che: “Come si diceva gli studi del Riva sembrerebbero fissarsi su temi specificamente letterari, da docente di retorica qual era nel collegio Gallio di Como, ma non escludo che possa avere assorbito proprio a Bologna alcune incitazioni dagli interessi scientifici che aleggiavano in città e quindi averli trasmessi al Petrini, che li tradusse figurativamente idealizzandoli”, in Chiappini, Giuseppe Antonio Petrini, p. 76. 43 Giuseppe Antonio Petrini, Matematico, olio su tela, 94 × 132 cm, Varese, collezione privata. 44 Nell’inventario del 1760, nel secondo cabinet costruito da Herwarth di fianco al salone, vi sono “Quatre Tableaux du Fameux Petrini de Lugano representant les 4 saisons, estimés avec leurs cadres dorés 5 louïs d’or neuf pièce”. Inventaire des Effets mobiliers vendus avec la Baronnie de St. Légier, et la Chiésaz, et la Seigneurie d’Hauteville, pris le 24 avril 1760, f. 2. ACVL PP410 B 9/1. 45 Coigny, Une famille, p. 164. 46 Manual des Conseils, ACVevey Aa bleu 48, p. 194. 47 Si veda André Bandelier e Christian Sester, Jean-Pierre Crousaz, Lettres sur l’éducation – examen du pyrrhonisme ancien & moderne, in “Revue de théologie et philosophie”, n. 136, 2004, pp. 71-79. 48 Jean-Pierre de Crousaz, Jean -Pierre de Crousaz: philosophe lausannois du siècle des Lumières, in “Revue de théologie et de philosophie”, anno 54, 1, 2004, pp. 71-79. 49 Giuseppe Antonio Petrini, Diogene, olio su tela, 97 × 82 cm, Gemäldegalerie Alte Meister, Kassel. Si veda su questa opera F.B. [Federica Bianchi], “Diogene”, scheda in Chiappini, Giuseppe Antonio Petrini, p. 166. L’opera è segnalata nell’inventario di Karl d’Hessen-Kassel. 50 “Rusca, Carlo Francesco (cavaliere)”, a cura di Federica Bianchi, in Dizionario biografico dell’arte svizzera, L-Z, ad vocem, p. 906. Il primo contatto con Petrini è stato ipotizzato al momento di un probabile rimpatrio dopo il soggiorno in Piemonte. Il soggiorno successivo nella città lagunare viene posto fra il 1725 circa e il 1733-1734, prima della partenza per Berna, e più tardi Hessen-Kassel. 51 Marco Petrini resta poco conosciuto. Nel suo Conte Antonio Riva non nasconde la prossimità con la vicenda artistica del Rusca. 52 Federica Bianchi, “Carlo Francesco Rusca (1693-1769) pittore della Lombardia Svizzera in Europa”, in Liber Veritatis. Mélanges en l’honneur du professeur Marcel G. Roethlisberger, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2007 (Biblioteca d’arte 15), p. 149. Si veda anche E. Riboldi, Carlo Francesco Rusca pittore alla corte di [P]Russia, in “Bollettino Storico della Svizzera Italiana”, 1903, pp. 104-114. Sul fratello Bernardo Petrini, di cui pressoché nulla si conosce, si veda Natale in Chiappini, Giuseppe Antonio Petrini, p. 58. 53 Louis Junod, Academiae Lausannensis, 1537-1837, II, 1608-1837, F. Rouge & Cie S.A., Librairie de l’Université de Lausanne, 1937, pp. 99, 107, 111. 54 Bianchi, “Carlo Francesco Rusca (1693-1769) pittore della Lombardia”, p. 156. 55 F.B. [Federica Bianchi] e S.S. [Simone Soldini], Ritratto del conte Antonio Riva e Ritratto della contessa Regina Francesca Riva Giani, schede delle opere, in Chiappini, Giuseppe Antonio Petrini, pp. 194-197. 56 Carlo Francesco Rusca, Conte Rodolfo Riva, 1750 circa, olio su tela, 120 × 93 cm, collezione privata; Carlo Francesco Rusca, Contessa Maria Maddalena Riva, ante 1749, olio su tela, 117 × 94 cm, collezione privata.

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Didascalie relative all’albero genealogico a p. 44 (fig. 1) fig. 3 Autore ignoto, Gedida Asuba [Sedide Azube] von Graffenried [...] ines Alters 3. Jahr, 1677, olio su tela, 101,5 × 75,6 cm, Musée historique de Lausanne, Inv. I.164.Graffenr GedAs.1 fig. 4 Autore ignoto, Portrait “R von G” [Rosine von Graffenried], 1674, olio su tela, 107,5 × 85,2 cm, Musée historique de Lausanne, Inv. I.164.collectif.4 fig. 5 Johann Rudolf Huber (1668-1748), Called Jacques-Philippe d’Hervarth [Herwarth], Baron de St. Légier, 1729, olio su tela, 81 × 64 cm, Nostell Priory, West Yorkshire, Inv. NT 959495 fig. 6 Scuola svizzera, David Weiss [Wyss], 1700, olio su tela, 75 × 61 cm, Nostell Priory, West Yorkshire fig. 7 Scuola svizzera, Abraham Duntz [Dünz], 1655, olio su tela, 74,9 × 68,6 cm, Nostell Priory, West Yorkshire, Inv. NT 959456 fig. 8 Emanuel Handmann (1718-1781), Jeanne Esther Dunz [Dünz], Madame la Baronne d’Hervart [Herwarth], 1763, olio su tela, 80 × 62 cm, Nostell Priory, West Yorkshire, Inv. NT 959404 fig. 9 Hugh Douglas Hamilton RHA (1739/40-1808), Sir Rowland Winn, 5th Bt and his Wife Sabine Louise d’Hervart [Herwarth] in the Library at Nostell Priory, 1767, olio su tela, 100,3 × 125,7 cm, Nostell Priory, West Yorkshire, Inv. NT 960061

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Crediti fotografici Atelier Arcanes, Paris: p. 31 fig. 1 Guillaume Benoit: pp. 19, 21, 25, 27, 29, 33, 37, 41 Carlo Canonica: p. 20 fig. 2 Frères Fischer, Musée historique de Vevey: p. 53 fig. 12 Eric Frigière: pp. 10 e 15; p. 43 figg. 1 e 2; p. 51 fig. 10; p. 54 fig. 13; p. 56 fig. 14; p. 57 fig. 15; p. 58 fig. 16 Céline Michel: p. 52 fig. 11 © Musée historique de Lausanne; photo: Atelier de numérisation de la Ville de Lausanne: p. 44 figg. 3 e 4 © Museumslandschaft Hessen Kassel, Gemäldegalerie Alte Meister: p. 61 fig. 17 © National Trust Images: p. 44 figg. 5, 6, 7, 8 e 9; p. 48 fig. 5; pag. 49 fig. 8 Photo Penard, Musée historique de Vevey: p. 47 fig. 2 © Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, Rancate: p. 23 fig. 4 Roberto Pellegrini: p. 22 fig. 3 www.rivieraproperties.ch: p. 5


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Piazza Riforma 2, 6900 Lugano Tel. +41 (0)91 682 89 80 www.galleriacanesso.ch


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