testimonianze
Due militari dell’esercito austro-ungarico mentre si preparano a consumare il proprio rancio. A sinistra. Budoia, fine 1800-primi anni 1900 circa. Gruppo di soldati e sottoufficiali del Regio Esercito Italiano prima della distribuzione del rancio. Foto Angelo Bernardis (1844-1937). Per gentile cortesia di Florio Bernardis. Tratta da «Le opere e i giorni» Budoia: una storia per immagini, Comune di Budoia, Centro Regionale di Catalogazione e Restauro dei Beni Culturali.
Anna aveva ‘guardato’ oltre Piccola cronaca dardaghese nell’anno dell’occupazione In un’inoltrata mattina dell’estate 1918, i raggi di un sole già alto illuminavano le case di Dardago, i prati e gli orti del paese. Le bianche strade in terra battuta riflettevano una vivida luce restituendola all’azzurro infinito del cielo. Alcune rondini volavano attorno al vecchio campanile, garrivano felici e, rincorrendosi, disegnavano ampie volute. A quell’ora le donne e le persone anziane, rimaste in paese, avevano già sbrigato le faccende di casa e ‘governato’ i pochi e preziosi animali domestici risparmiati dalle razzie ‘legalizzate’. Apparentemente la vita pareva svolgersi normalmente... ma così non era. Una ‘latente’ e sinistra realtà condizionava ogni pensiero e ogni azione della gente. Tutti in paese stavano subendo il dramma e le conseguenze di uno stato di guerra. Una maledetta guerra rovina-famiglie per cui mariti, padri e figli in età di ‘leva militare’ erano stati chiamati alle armi. Privazioni, lutti, fame, miseria, paure e ansie, accresciute spesso dalla mancanza di notizie, accomunavano ogni focolare. Quella mattina anche Nuta, mia nonna paterna (Anna Parmesan Danùt), terminati i lavori domestici, si era recata nell’orto insieme alla suocera Luigia, alle figlie Rosa e Assunta di 10 e 8 anni e al figlio Ettore di 4 per lavorare e rimediare qualcosa per il pranzo. La gestione domestica, le incombenze e le responsabilità del vivere quotidiano gravavano interamente sulle sue spalle, come su quelle di molte altre donne divenute ‘forzatamente’ capofamiglia. In aggiunta allo stato di guerra che perdurava 12°
ormai da circa quattro anni, l’Esercito Italiano verso la fine di ottobre dell’anno precedente, sul fronte a nord-est, aveva subìto una rovinosa disfatta. Una ‘rotta’ disastrosa che aveva costretto numerosi soldati a ripiegare sino al fiume Piave e, a causa dell’avanzare delle truppe todhesche nell’intero Friuli e parte del Veneto, aveva fatto fuggire dai paesi tante famiglie verso altre regioni italiane. Mentre Nuta lavorava nell’orto, nella sua mente si affollavano ricorrenti domande alle quali non riusciva a dar risposta, alimentando così continui e inquietanti dubbi sulla sorte del marito. Dove sarà? Come starà? Starà bene... sarà ferito? Sarà ancora vivo? Da oltre dieci mesi non riceveva più notizie di lui. Lo sapeva combattente con i reparti di artiglieria sul Monte Merzli, a nord di Tolmino tra l’Italia e la Slovenia, ma ora la situazione era completamente mutata. Nuta, sposata con Sante Janna Tavàn, aveva compiuto trentaquattro anni e dalla loro unione erano nati sei figli, di cui purtroppo tre erano morti. Lino, l’ultimo figlio, era mancato da poco più di nove mesi. Se avesse potuto comunicare con il marito, lo avrebbe certamente informato della morte del figlio, della salute degli altri, della propria e di quella dell’anziana madre, dell’andamento della famiglia, della scuola, del lavoro nei campi e della vita in paese. Certamente gli avrebbe pure chiesto come viveva e quali sacrifici doveva sopportare. Gli avrebbe fatto sicuramente mille raccomandazioni,
NOTA
Anna Parmesan Danùt (30 dicembre 1884 – 28 maggio 1960) Anna, detta Nuta, era figlia di Francesco e di Santa Zambon. Suo fratello Antonio (classe 1887) è l’autore di «Le Memorie», la trascrizione postuma degli eventi bellici che, pubblicata a puntate in questi inserti, ci accompagna nel lungo racconto della Grande Guerra. Sante Janna Tavàn, cav. di Vittorio Veneto (4 luglio 1883 – 28 ottobre 1972) L’artigliere Sante, marito di Nuta, fu fatto prigioniero con la complicità di gas lacrimogeni sul Monte Merzli il 24 ottobre 1917 da truppe tedesco-austroungariche. Deportato in un campo di prigionia in Germania, rientrerà in Italia solo l’11 febbraio 1919 (cfr. l’Artugna, n. 114, agosto 2008). Negli anni successivi Sante e Anna ebbero altri quattro figli: Luigia, Rina, Romeo e Lea. Luigia e Romeo moriranno infanti.
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Lo stato di occupazione è testimoniato da una scritta lasciata da un soldato austro-ungarico sotto il pianale di una sedia. Un disegno a mezzobusto con decorazione sul petto precede il cognome e il nome, il numero del reggimento, il battaglione ed il suo (se così si può definire) fermoposta; al termine la data.
Frühbaùer Ludwing Kùk Inf. Reg. n. 79 II Baon Feldpost 62-8 28 XII 1917 *** La sedia è conservata a Dardago in via San Tomè presso l’abitazione di Luciano Pasa, che ringrazio sentitamente per la collaborazione e per avermi permesso di scattare e pubblicare la foto.
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assicurandogli la costante preghiera a Dio, nella speranza di veder presto la fine del conflitto e di riaverlo a casa sano e salvo. Non avrebbe dimenticato di infondergli coraggio per aiutarlo ad adempiere il suo dovere di soldato e, se ‘avesse potuto’, gli avrebbe pure descritto quei foresti e i loro stati d’animo – non come soldati, ma come uomini – che ora occupavano il paese. Anche loro provavano gli stessi sentimenti, anche loro avevano dovuto lasciare mamme, mogli e figli. Pure le loro famiglie erano in ansia e li attendevano a casa. E anche se indossavano una divisa di colore diverso e parlavano una lingua a lei sconosciuta, vedeva che compivano le nostre stesse azioni. Conoscevano la paura, nei loro volti vi leggeva tristezza e desolazione e anche loro pregavano Dio di non morire. E ogni giorno, in fila, andavano con la gavetta a prendere da mangiare. Anche loro, come noi, pativano gli orrori della guerra. Nuta da diversi mesi ormai si ‘alimentava’ di speranza, solo l’amor di madre e il dovere verso la famiglia non venivano mai meno. Domande, dubbi e ricordi, mescolati agli impegni quotidiani, con il passar del tempo piano piano si stemperavano e lasciavano posto alla nostalgia, che inesorabilmente favoriva e dilatava il sentimento della tristezza. Più cercava di liberarsi dai consueti pensieri, più la sua mente ne creava di nuovi. Così, anche quella
mattina, ancora si tormentava chiedendosi: Sante sarà vivo? Dove sarà? Avrà perso la cognizione del tempo? Come avrà passato l’inverno? Chissà... sarà cambiato? Dall’ultima licenza del marito le sembrava fosse passata un’eternità e ora in lei si incuneava pure il timore di non essere più in grado di riconoscerlo. Un grido improvviso, proveniente dalla vicina contrada, la distolse da quel suo triste meditare. Una donna, una vicina di casa, allarmata, avvertiva Nuta che un soldato todhesco si era introdotto nella sua casa. Perché quell’improvvisa intrusione? Con quale scopo e con quali intenzioni? Ora Nuta doveva far appello a tutto il suo coraggio. Non bastava interrompere il lavoro, fuggire per cercare protezione per sé e per i famigliari, doveva trovare la forza per affrontare chi aveva violato la sua casa... il suo focolare. Lasciati figli e suocera, raccomandando loro di non muoversi, determinata e con il cuore che le batteva fortemente, uscì in fretta dall’orto. Giunta alla porta di casa, istintivamente si fermò come per prender fiato e riunire le forze. Nella leggera penombra che avvolgeva il foghèr, netta si stagliava la sagoma di un uomo, ma più che un todhesco armato, sembrava un soldato... che si era dato alla fuga, uno di quelli che la legge degli eserciti e della guerra definisce: ‘disertore’. Un soldato ‘sbandato’. Dinanzi al pericolo anche lei come una merla a cui s’insidia il nido, si sarebbe opposta con tutte le sue
Venezia, 1911 circa. Nuta (Anna Parmesan Danùt) con le figlie Rosa (a sinistra) e Maria Assunta.
energie, pur sapendo che avrebbe potuto solo ‘gridare’ per cercare di mettere in fuga chi per la famiglia, rappresentava una minaccia. All’interno il todhesco si muoveva lentamente. Non dimostrava intenzioni malvagie. Chino sulla cialdiera, utilizzata la sera prima per cuocere la polenta, con un senso che aveva quasi del religioso, ‘pescava’ e portava alla bocca le scalete (croste della polenta) ormai ammollite dall’acqua. A quella vista, la paura e l’impeto istintivo di difesa provati da Nuta lentamente mutarono lasciando spazio ad un sentimento di crescente pietà. L’uomo, sentendosi scoperto in quello che noi impropriamente definiremmo ‘furto’, senz’ombra d’arroganza, timoroso, ma cercando solo di farsi capire, rivolse a Nuta una chiara richiesta d’aiuto: «Mutter!... Mama!...» e... contemporaneamente, con un gesto inequivocabile, portò le dita della mano destra alla bocca spalancata. Un gesto antico, un gesto che si perde sin nella notte dei tempi, il cui significato è capibile non solo dal genere umano ma universalmente intuibile da tutte le creature viventi. Aveva fame! Quel soldato, quello ‘sbandato’ chiedeva solo qualcosa da mangiare. Nuta aveva di fronte chi le rappresentava il ‘nemico’, ma dentro la logora divisa vedeva solo un figlio, un marito provato dalla fatica e dalla fame... che chiedeva. Non serviva la conoscenza della lingua. Il colore dell’uniforme non separava più. Libera dalla dimensione temporale si sentì proiettata in quella più ampia e infinita... di mamma, di sposa. Istintivamente, senza porsi interrogativi, si recò nella piccola stanthia, che gli eventi anche per lei e per la sua famiglia avevano reso povera. Sullo scaffale, coperta da un vecchio tovagliolo, c’era una fetta di polenta fredda conservata dalla sera, cercò poi un pezzetto di formaggio, sottile come una scheggia, lo ‘condì’ con un sorriso e glielo offrì. Ecco, era poco, ma era tutto.
Filippo Tommaso Marinetti. Sotto. Ansaldo-Lancia 1Z. Fu un massiccio autoblindo italiano schierato durante la Prima Guerra Mondiale. Ampiamente usato in azione dalla Seconda battaglia dell’Isonzo fino a quella di Vittorio Veneto.
Filippo Tommaso Marinetti a Budoia?
Nella luce di quel mattino, lontane dai rumori e dagli orrori della guerra, alcune rondini volavano ancora attorno al vecchio campanile, le strade bianche riflettevano ancora la vivida luce e la restituivano all’azzurro infinito del cielo. Gli occhi ‘silenziosi’ di una sposa, di una mamma, serenamente accompagnavano uno ‘sbandato’ a riprendere il cammino... verso casa.
Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), l’istrionico e stravagante intellettuale fondatore del Futurismo, passò molto probabilmente per Budoia fra il 30 ottobre e il 2 novembre del 1918, secondo quanto è scritto nel libro autobiografico L’alcova d’acciaio («romanzo vissuto», come lui stesso lo definisce). In questo volume, pubblicato dalla casa editrice Vitagliano di Milano nel 1921 e poi più volte ristampato, lo scrittore narra in ventinove capitoli le proprie imprese e sensazioni negli ultimi sei mesi del conflitto, fino ai primi di novembre del 1918, combattuti da tenente, ancorché non più giovane, sul fronte veneto-friulano, prima come artigliere, poi come autista di autoblindo. L’alcova d’acciaio che dà lo strano titolo al romanzo è per lui proprio la sua amatissima autoblindo (al femminile, non al maschile!) Ansaldo 74, simbolo della modernità e del progresso tecnologico, con la quale lo scrittore vive un rapporto praticamente erotico (il libro all’epoca fece scandalo). Non sappiamo quanto ci sia di vero in quello che Marinetti racconta nel suo romanzo, e quanto invece sia frutto della «deformazione artistica» della realtà. Comunque sia, Marinetti racconta come, dopo la battaglia di Vittorio Veneto, inseguendo gli Austriaci in fuga verso est, le autoblindo su cui si trovava arrivarono nella Pedemontana altoliventina e liberarono in rapida successione i paesi di Polcenigo, Castello d’Aviano e Villotta (erroneamente citata come Villetta nel testo!). Così il testo: Polcenigo, Castello d’Aviano e Villetta sono preziose miniature di villaggi disposti sopra una serie di colline verdi, basse, flessuose. La strada che li attraversa tutti va su e giù con grazia disinvolta, curve molli persuasive seguendo le ondulazioni musicali del paesaggio. La strada bianca ondeggia e freme come un immenso albero caduto sotto il peso dei suoi villaggi appollaiati a destra e a sinistra sui rami. Come si vede, Budoia non è citata espressamente, anche se lo scrittore-soldato dovette per forza passarvi per giungere da Polcenigo a Castello.
VITTORIO JANNA TAVàN
ALESSANDRO FADELLI
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i nostri eroi 1918 La questione della Città-Stato di Fiume Dopo il 3 novembre 1918, le truppe italiane occupano Rovigno, Fiume, Pola, Zara e Sebenico, cercando di spingersi fino a Lubiana, ma sono fermate dai serbi, nei pressi di Postumia. Fin dal 29 ottobre 1918, il Consiglio nazionale di Fiume aveva proclamato l’annessione all’Italia, poiché la maggioranza della popolazione era storicamente di origine italiana, ma incidenti tra la popolazione e le truppe interalleate d’occupazione (luglio 1919) portano la Conferenza di Pace di Parigi a deliberare lo scioglimento del Consiglio e della Legione volontari fiumani e l’allontanamento delle truppe italiane. Tra queste ultime, i Granatieri di Sardegna si rivolgono al poeta Gabriele D’Annunzio, chiedendogli di mettersi alla loro testa e di occupare la città. Così procedono all’occupazione il 12 settembre 1919, passata alla storia come «Impresa di Fiume», proclamando unilateralmente l’annessione all’Italia, in contrasto con il Patto di Londra (1915) che l’aveva assegnata alla Croazia. Con l’incapacità del governo italiano di risolvere il problema dei confini orientali e delle colonie, inizia ad agitarsi in tutta Italia un forte senso di disagio e si parla di ‘vittoria mutilata’. Con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, l’Italia e il Regno di Croati, Serbi e Sloveni (che nel 1929 assume il nome di Jugoslavia) stabiliscono i rispettivi confini: l’Italia ottiene la Venezia Giulia, l’Istria, alcuni territori della Slovenia, le Isole del Quarnaro e la Città di Zara, mentre Fiume viene riconosciuta città libera, ma D’Annunzio non lo riconosce. La questione è risolta solo nel 1924 con gli accordi di Roma in cui la Jugoslavia riconosce Fiume all’Italia, in cambio di Porto Barosa e del cosiddetto Delta. 18 gennaio 1919 Alla Conferenza di Pace, convocata a Parigi per discutere e preparare i trattati di pace che saranno conclusi con i vinti, vi partecipano i trentadue Stati vincitori, ma la direzione spetta a quattro nazioni: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia.
vede la conquista di località e quote come l’Altopiano della Bainsizza e il Monte Santo, divenute tristemente famose per l’elevato numero di morti. Giobatta, purtroppo, in quei combattimenti perde la vita: risulta disperso tra il 20 e 22 agosto 1917. Il suo nome è riportato nel Monumento ai Caduti di Budoia ma non è presente nell’Albo d’Oro dei Caduti.
Arruolato nel 31° Reggimento di Fanteria, muore il 25 luglio 1915 sul Monte San Michele, per ferite riportate in combattimento.
* Testimonianze di Luigia Basaldella Carlon. ***
Aristide Puppin Freal di Gabriele di Francesco e di Angela Paron nasce il 10 settembre 1890 a Col di Rodi San Remo (Imperia). *** Arruolato nel 1° Reggimento Fanteria, muore per le ferite riportate in combattimento il 21 novembre 1915 sul Monte Podgora, nei pressi di Gorizia, attualmente chiamato Piedimonte del Calvario, luogo in cui avvenne un forte attacco nemico.
La divisa degli arditi era differente da quella dei fanti: giacca grigio-verde, con le famigerate fiamme nere sul bavaro, maglione bianco a collo alto (vedi foto), scelto per evitare la scomodità della chiusura sul collo delle divise di fanteria. L’arma simbolo degli arditi era il pugnale, usato durante gli assalti nelle trincee nemiche. Insieme ad esso venivano impiegati petardi, granate, lanciafiamme, moschetto a canna corta. La vera forza degli arditi risiedeva nell’innovazione del loro impiego, il successo del quale era dovuto ad addestramenti durissimi sul piano fisico e tattico.
Umberto Fort
Giuseppe Scandolo di Domenico nasce il 6 maggio 1883 in Polcenigo. *** Arruolato nel ruolo di caporale nel 1397a Compagnia Lavoratori, muore per malattia il 31 gennaio 1919, in Austria. Era stato fatto probabilmente prigioniero. Il suo nominativo appare nei Monumenti ai Caduti di Santa Lucia e di Budoia.
di Agostino e di Teresa Angelin nasce il 31 agosto 1883, a Santa Lucia. *** Arruolato nel 14° Reggimento Bersaglieri, dopo lunga prigionia muore il 22 marzo 1918 per malattia. Il suo nominativo appare nel Monumento ai Caduti di Santa Lucia e nell’Albo d’Oro.
Matteo Gislon
Giobatta Carlon de la Fameia granda
figlio di GioMaria e di Vincenza Burigana nasce a Santa Lucia, il 1° dicembre 1895.
primogenito di Pietro e di Agata Carlon nasce il 4 settembre 1881, in Budoia via Lunga. Sposa Anna Maria Del Maschio e la coppia ha quattro figli: Teresa Maria (1908), Agata (1910), Emma (1912) e Luigi (1914).
*** Arruolato con il grado di sergente nel 111° Reggimento Fanteria, trova la morte per le ferite riportate in combattimento nell’Altopiano di Asiago, il 1° luglio 1916.
*** Arruolato nel corpo militare di Fanteria, Giobatta è inserito nella 1a Compagnia d’Assalto Arditi,* reparto costituito il 12 giugno 1917 e avviato subito verso il fronte del Carso per combettere l’undicesima battaglia dell’Isonzo (17-31 agosto), che
Basilio Domenico Quaia di Antonio di Domenico e di Maria Fort nasce a Santa Lucia, il 10 dicembre 1894.
Paolo Sanson Cabola di Agostino di Francesco e di Lucia Stefinlongo nasce il 25 gennaio 1874, a Budoia. Sposa Lucia Angelin e dalla loro unione nascono Maria nel 1914 e Angelo che muore a soli 10 mesi. *** Non si conosce il corpo d’appartenenza. Muore il 23 maggio 1917 (disperso?), ma rimane sconosciuta la località.
un volto ai nostri eroi
Il suo nominativo non è presente nell’Albo d’Oro e neppure nel Registro dei Morti della Parrocchia di Budoia.
Fotografie ad integrazione di biografie già pubblicate.
Giuseppe Matteo Angelin Pelat Osvaldo Carlon Brolo di Andrea di Osvaldo e di Luigia Del Maschio nasce a Budoia, il 22 dicembre 1896. *** Arruolato nel corpo degli alpini, non si conosce, però, il reggimento di appartenenza. Muore il 9 luglio 1916 (disperso?), ma rimane sconosciuta la località. Il suo nome non appare nell’elenco dell’Albo d’Oro dei Caduti, né è riportato nel registro dei Morti della Parrocchia di Budoia.
di Giuseppe di Valentino e di Agata Carlon nasce a Budoia il 22 maggio 1894. *** Non si conosce il Reggimento di appartenenza. Disperso, è ricordato accanto al padre, suo omonimo, nel cimitero di Budoia.
Angelo Dedor Piai (cfr. testo a p. 37). Riposa accanto al figlio Natale Dedor, deceduto in un bombardamento aereo nella campagna budoiese durante la 2a guerra mondiale, il 18 novembre 1944, all’età di 34 anni. I due conflitti mondiali hanno colpito tragicamente la famiglia Dedor Piai, padre e figlio, lasciando vedove e orfani due generazioni.
Alberto Fort di Santo nasce il 26 dicembre 1897, in Venezia. *** Arruolato nella 1297a Compagnia Mitraglieri, il 22 agosto 1917, a 19 anni, risulta disperso durante un combattimento. Il suo nominativo appare nel Monumento ai Caduti di Santa Lucia ed è presente nell’Albo d’Oro.
Antonio Carlon Salvador di Andrea, nasce il 15 maggio 1885, in Venezia. *** Arruolato nel ruolo di caporale nel 4° Reggimento Artiglieria da Fortezza, muore in prigionia per malattia il 4 maggio 1918. Il suo nominativo appare nel Monumento ai Caduti di Budoia.
Nella lapide è incisa la seguente iscrizione, appena leggibile: «dall’immane guerra vittima del dovere supremo non fece più ritorno. I congiunti addoloratissimi». La sua foto è stata erroneamente attribuita ad un suo omonimo (cfr. p. 66).
Angelo Cecchelin Battistella (cfr. testo a p. 46).
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Romano Janna, decorato con Medaglia di bronzo al Valore Militare Romano Janna Bernardo di Antonio e Luigia Rigo, nato a Dardago il 18 giugno 1895, caporale al 10° Reggimento Fanteria, poi sergente al 226°, il 31 luglio 1916, poi al 210°. Ricevuto l’ordine di ritirarsi, con serena fermezza disciplinava il ripiegamento del proprio reparto e, sotto il violento bombardamento avversario, abbandonava la posizione per ultimo. Durante il movimento, accortosi che una nostra mitragliatrice stava per essere catturata, raccolti alcuni militari sbandati di altri reparti, si opponeva con essi all’avversario sventandone il tentativo. Bell’esempio di fermezza e di alto sentimento del dovere. Casa Bellisini, Piave, 18 giugno 1918
i nostri eroi Elenco nominativo di eroi privi di alcuni dati personali. Di loro non si conoscono il corpo militare di appartenenza né la data di morte e per qualcuno nemmeno i dati anagrafici completi.
Non si conosce il reggimento di appartenenza. Risulta disperso. Il suo nome è presente nel Monumento ai Caduti di Budoia, ma non è riportato nel registro dei Morti della Parrocchia di Budoia né nell’Albo d’Oro dei Caduti. Le informazioni sostituiscono quelle riportate erroneamente a pagina 66, attribuite a Giuseppe Angelin che non pare essere deceduto per motivi bellici.
La coppia ha tre figlie: Elena (1904), Teresa (1906) e Sofia (1914). *** Muore in guerra. Il suo nome non è presente nell’Albo d’Oro, né appare nell’elenco del Monumento ai Caduti. (Testimonianze della nipote Paola Da Ros).
Guglielmo Angelin Demelo di Luigi e di Vincenza Sanson nasce a Budoia il 6 aprile 1890. Di professione fornaio. *** Non si conosce il corpo militare di appartenenza. Muore in guerra, in Romania nel 1918, probabilmente da prigioniero. Il suo nome è presente nel Monumento ai Caduti di Budoia ma non è riportato nel registro dei Morti della Parrocchia di Budoia né nell’Albo d’Oro dei Caduti.
Ermenegildo Benvenuti nasce nel 1884.
Pietro Antonio Cardazzo Schiavon primogenito di Eugenio di Giuseppe e di Celestina Masarutti nasce il 15 dicembre 1892.
*** Non si conosce il corpo militare di appartenenza. Il suo nome è riportato nei Monumenti ai Caduti di Budoia e di Santa Lucia ma non è presente nell’Albo d’Oro dei Caduti.
*** Non si conosce il corpo militare di appartenenza. Il suo nome è riportato nel Monumento ai Caduti di Budoia insieme a quello del fratello Antonio Francesco (cfr. p. 12), ma non appare nel registro dei Morti della Parrocchia di Budoia né nell’Albo d’Oro dei Caduti.
Umberto Giuseppe Angelin Perut primogenito di Angelo di Giuseppe e di Anna Panizzut, nasce il 10 ottobre 1897, in Budoia.
Carlo Busetto de Bronte di Andrea di Antonio e di Angela Zamattio nasce a Dardago il 1° settembre 1876. È marito di Rosa Del Maschio.
Mario Romano Fort di Giuseppe e di Maria Fort nasce a Santa Lucia il 10 gennaio 1883.
UN GIOCO FINITO IN TRAGEDIA
Non si conosce il corpo militare di appartenenza. Il suo nominativo è presente nei Monumenti ai Caduti di Santa Lucia e di Budoia. Nell’Albo d’Oro dei Caduti, la località, Santa Lucia di Budoia, viene probabilmente confusa con Santa Lucia di Piave a meno che non esista un suo omonimo.
Con l’armistizio del 3 novembre 1918 la guerra era finalmente conclusa, ma la morte continuava a mietere ancora vittime anche tra i civili. Il 28 novembre 1918 fu un giorno tragico per l’intera popolazione budoiese per l’immane disgrazia che colpì crudelmente i coniugi Domenico Angelin Frate e Luigia Bosser, che in un attimo persero due figli – il terzogenito Valentino di 10 anni (n. 21.8.1908) e il quartogenito Ferdinando di 8 (n.13.3.1910) – incuriositi da una bomba inesplosa trovata in un campo. I bambini morirono «sfracellati» come riporta il curato don Giovanni Manfè, nel registro dei Morti. Abitavano in via Lunga superiore.
[ d a p a g i n a 85 ]
«LE MEMORIE» DI
Antonio Parmesan
Giacomo Dedor Non si conosce il corpo militare di appartenenza. Non appare nel registro dei Battesimi, né in quello dei Morti della Parrocchia di Budoia, né nell’Albo d’Oro dei Caduti. Il suo nome è invece inserito nel Monumento ai Caduti di Budoia.
Osvaldo Lachin Non si conosce il corpo militare di appartenenza. Il suo nome è riportato nei Monumenti ai Caduti di Budoia e di Santa Lucia; non presente nell’Albo d’Oro dei Caduti.
Il 27 novembre 1918 vado a presentarmi e, con molti altri, parto per Treviso. Entriamo nella caserma dei carabinieri che si trova senza imposte e priva di finestre e la notte fa molto freddo. Il 1° dicembre si parte con una tradotta e alle due di notte si arriva a Revere in provincia di Mantova, vicino al Po; tutti i giorni abbiamo la nebbia e fa un freddo grandissimo. Questi paesi si trovano occupati da migliaia e migliaia di prigionieri e tutti siamo miseramente alloggiati nelle case dei contadini. La confusione è molto grande e non si sa dove rivolgersi per avere qualche cosa per mangiare. Tutte le case sono occupate da noi. Le prime notti le passo in un fienile. Tutti abbiamo la libertà di trovarci un alloggio. In mia compagnia si trova anche mio cugino Angelo Zambon detto Tarabin e molti altri paesani. Essendo che nel fienile non si trova riparo dal gran freddo, cerco alloggio in altre case, ma la cosa si presenta assai difficile perché sono tutte occupate. Non mi perdo però di coraggio e prego una buona famiglia di contadini di lasciarmi dormire nella stalla. [...] Con me si trovano altri quattro dardaghesi, tra i quali il cugino Angelo e Umberto Ianna detto Simon [...]. Più o meno tutti abbiamo qualche soldo e con questo andiamo dai contadini ad acquistare la farina per fare la polenta. Ben presto restiamo senza soldi e la
cosa si presenta dolorosa. Si pensa di lavorare dai contadini per ricevere un po’ di farina e di patate per levarsi la fame. Il giorno 11 dicembre ci vestono tutti con la divisa grigio-verde. Il 14 siamo tutti interrogati da un ufficiale per vedere in qual modo eravamo caduti prigionieri; con noi si trova qualcuno che non sa bene spiegarsi e viene direttamente interrogato dai Carabinieri e certi vengono arrestati per sospetto di essersi dati disertori. La sera del giorno 19 alle ore 11 si sentono le trombe che suonano la sveglia e poi l’adunata e tutti dobbiamo sortire dai nostri miseri alloggi e si sente che era arrivato l’ordine di partire e raggiungere i depositi dei nostri reggimenti. Qualche ora dopo arriva un secondo ordine: è sospesa la partenza. Tutti ritorniamo nei nostri alloggi, ma non si dorme più, perché la confusione è molto grande [...]. Il mattino del 20 si sente che oggi stesso si deve partire. Così saluto e ringrazio molto la buona famiglia di contadini che mi aveva permesso di dormire. Alle due si parte per la stazione di Revere. Dopo circa due ore arriva il treno e si parte per Bologna, Milano, Torino, dove arriviamo alle ore 6 del 21 dicembre. Qui si deve attendere il treno per Cuneo e mi ricordo di mia cognata Cecilia, che qui lavora, e io
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C E N T ’A N N I D A L L A G R A N D E G U E R R A
la cronologia 1918 penso di andare a trovarla [...] e così faccio, ma non la trovo a casa. [...]. Ritorno alla stazione, parto per Cuneo e arrivo a mezzanotte. Vado a dormire al vecchio teatro. Il mattino del 22 entro al deposito, presento il mio foglio di viaggio e direttamente domando la licenza che mi aspetta. È il 25, giorno di Natale, ancora non si decidono di mandarmi in licenza, ma io insisto e prego il Maresciallo addetto all’ufficio licenze. Il 28 mattina con altri sette friulani ritorniamo dal Maresciallo e lo preghiamo di occuparsi al più presto e che per lui ci sarà un buona bottiglia. Alla sera alle sei otteniamo la licenza e alle sette si parte, contenti di passare il primo dell’anno con le nostre famiglie. A mezzanotte arrivo a Torino e alle sei del mattino avrei potuto partire, ma ricordandomi di mia cognata, pensai di perdere il treno per andare a salutarla. Aspetto il mattino e vado a trovarla [...]. Mi fa entrare in casa dove lavora e il padrone mi invita a passare la giornata con loro. Poi Cecilia mi accompagna al treno e parto per Milano, Verona, Vicenza, Castelfranco, Treviso. Da qui il treno non continua perché il ponte sul Piave è completamente distrutto, per fortuna posso prendere un camion e arrivo a Conegliano; con un altro camion arrivo a Sacile e alle sette di sera del 31 dicembre arrivo a Dardago. Ora trovo anche mio padre che era arrivato da profugo e sono contento di vedermi circondato dalla mia famiglia e da amici. [...] I giorni passano e si avvicina la fine della mia licenza e il 21 gennaio 1919 riparto per Torino [...] e poi per Cuneo; mi presento al comandi con la mia licenza finita. Mi assegnano alla compagnia permanente, dove assegnano tutti coloro che ritornano dalla licenza, in attesa della formazione di nuove compagnie. Il 25 sera fui comandato di montare la guardia; io protesto perché questo servizio non mi aspetta, ma un prepotente di un sergente maggiore minaccia di farmi entrare in prigione. Mi metto di guardia e il giorno dopo vado dal comandante di compagnia per dirgli le mie ragioni e da lui vengo levato dalla guardia. Alla sera vedo l’amico Fedele Zambon Pinal e insieme andiamo alla caserma Torre Bonada a cercare Domenico Lacchin, contento di rivederci. Il 27 gennaio formano la 62° Compagnia e io ne faccio parte insieme ai miei amici e siamo ben trattati. [...]. I giorni passano, il 27 febbraio si lascia la caserma Torre Bonada e si va in distaccamento a Peveragno, sempre in provincia di Cuneo. Anche qui ci troviamo bene in un ricreatorio [...]
giugno 1919-novembre 1920 In tale arco di tempo sono firmati sei trattati di pace, ai quali va aggiunto quello separato tra Germania e Russia, già siglato il 3 marzo 1918, a BrestLitovsk, in Bielorussia. Con questi trattati è sancita anche la fine di quattro grandi imperi europei: austro-ungarico, prussiano, russo, ottomano. Il risultato dei patti crea una nuova geografia dell’Europa, diversa nei confini e nelle forme di governo.
Venezia, 16 agosto 1914. Antonio Parmesan Danùt con la moglie Angela Zambon Mao.
Il 1° marzo arriva l’ordine di congedo per la classe 1885. Ora si aspetta di giorno in giorno l’ordine di congedo della classe 1886 e poi speriamo che segua il 1887. La mia contentezza è straordinaria. Le giornate mi sembrano anni; non trovo pace. [...] finalmente il 27 marzo arriva l’ordine di congedo della mia classe: dal 1° al 10 aprile tutta la classe deve essere congedata e a tutti sarà pagato il premio di smobilitazione e con tale premio riceverò 250 lire che mi saranno utili per il viaggio e per portare qualcosa alla mia famiglia. I giorni passano e mi sembrano anni, si pensa che fra qualche giorno ritorneremo liberi cittadini e ritorneremo alle nostre case. Il 5 aprile si parte per Cuneo sotto una pioggia a dirotto, con un carro; si saluta per sempre questa buona gente e due ore dopo fra canti e gridi [...] ci fermiamo in una caserma e qui trovo vecchi compagni, si ricordano i nomi di molti amici caduti sui campi di battaglia e si ricordano molti altri morti da fame durante la dolorosa prigionia. Al loro ricordo i nostri cuori soffrono e pensano a quanto sarà grande il dolore delle loro mogli, delle loro famiglie e dei loro genitori nel vedere che molti e molti ritornano alle loro case e i loro cari non ritorneranno più. Serberemo in eterno le loro care memorie. [...] Il 7 vado alla visita medica, ciò significa che la mia partenza è molto vicina. Alla sera ricevo il premio di smobilitazione e con molti amici andiamo al cinematografo. La mattina dell’8 ricevo il foglio di licenza illimitata e alle 8 di sera si parte, dopo aver salutato chi rimane. [...] [CONTINUA]
*** Si conclude una guerra che è costata la vita a 10 milioni di soldati delle varie nazioni coinvolti nel conflitto e 7.000.000 civili, di cui 590.000 italiani. La guerra è vinta ma lascia solo distruzione e 650 mila morti e 1.500.000 feriti, di cui 500.000 mutilati italiani (dati approssimativi). Dei 650.000 morti 400.000 grossomodo cadono sul fronte dell’Isonzo, 100.000 sugli altri fronti, 100.000 in prigionia e 50.000 dopo la fine del conflitto, per malattie contratte durante la guerra. Il Friuli si trovò con 15 mila caduti e 5.000 invalidi, oltre a un consistente numero di vedove e di orfani.