Cent'anni dalla Grande Guerra (14)

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«LE MEMORIE» DI

Antonio Parmesan Ora la guerra è finita e la Patria non è più sotto il pericolo di essere minacciata dal barbaro nemico, noi figli d’Italia abbiamo saputo difenderla, noi abbiamo combattuto con tutte le forze del nostro corpo per difenderla e per distruggere quel barbaro nemico che da lunghi anni odiava e cercava di distruggere la nostra cara Italia. La guerra è stata molto lunga, molto sanguinosa, l’Italia piange i suoi 600.000 morti, ma questi eroi non sono morti, loro saranno in eterno tra noi, perché le loro memorie le serberemo in eterno. Noi superstiti della Grande Guerra quando ci troveremo in età avanzata, parleremo di loro e ai giovani, nostri nipoti e pronipoti, racconteremo quanto grande è stato l’eroismo di questi poveri morti. Noi che abbiamo avuto l’onore di combattere al loro fianco, noi che abbiamo medicato le loro ferite, noi che abbiamo visto la terra tinta col loro sangue, noi che abbiamo raccolto i brandelli della loro carne e sepolto i loro miseri cadaveri, mai cancelleremo le loro memorie. In tutti i paesi e le città d’Italia innalzeremo dei monumenti e su di essi vogliamo incisi i nomi di tutti i nostri morti, noi dobbiamo rispettare e amare questa bella terra d’Italia che con tanto eroismo loro morirono per difenderla e per unire ad essa Trento e Trieste che si trovavano sotto il dominio del barbaro austriaco. Con la loro morte loro coronarono la grande Vittoria delle armi italiane. Il 4 novembre in tutta l’Italia si festeggerà l’anniversario di questa grande Vittoria, il nostro pensiero volerà dal Trentino all’Isonzo e dal Carso al Sacro Piave, dove vedremo in eterno molti e molti Cimiteri di guerra e ricordiamoci che in questi Cimiteri riposano coloro che tutto diedero per il bene e per la grandezza della nostra bella e cara Patria. Dobbiamo ricordarci di loro e pregare il buon Dio invocando la pace delle loro Anime. Ricordiamoci ancora di coloro che morirono durante la terribile prigionia e che per loro sfortuna si

trovano sepolti in terra straniera privi di un fiore o di qualche piccola croce che loro meritano in segno di riconoscenza. Poi ancora ricordiamoci di molti altri che dai loro superiori furono dati dispersi e non possiamo sapere dove trovarono la morte e dove riposano i loro poveri corpi. *** Partito da Cuneo, a mezzanotte arrivo a Torino e passeggio con tutti gli altri per la città. Al mattino del 9 aprile 1919 la tradotta è pronta e si parte per Vercelli, Novara e Milano. Qui abbiamo due ore di fermata ed io entro in città e arrivo fino in piazza del Duomo. Si riparte ci fermiamo a Treviso, da qui si parte presto e il giorno 10 alle 8 di sera arrivo a Dardago dove trovo tutta la mia famiglia. Per festeggiare il mio ritorno alla vita borghese mando a prendere un bicchiere di vino e lo bevo in allegria coi miei genitori, con mia moglie e i miei bambini. Mi sembra un sogno di trovarmi libero fra loro. Vedendomi di nuovo sano e salvo fra loro il mio cuore piange di gioia, vorrei raccontare tante cose ma le mie forze non lo permettono. Mia madre e mia moglie mi parlano di patimenti, delle sofferenze che dovettero patire durante l’anno d’invasione. Mio padre mi racconta quanto faticosa è stata la sua vita durante l’anno che è stato profugo, così sento che per colpa della guerra tutti indistintamente abbiamo dovuto soffrire. Ora però è finito il nostro soffrire ed io riprenderò il mio lavoro e cercherò di essere utile alla mia famiglia. Ma molti e molti dovranno soffrire ancora, soffrono molti vecchi genitori che restarono senza l’aiuto di qualche loro figliolo. Soffriranno molte povere vedove che trovandosi senza marito dovranno lottare per il mantenimento delle loro creature. Soffriranno anche molti bambini che perdendo il loro padre si trovano senza conforto e senza la protezione e il bacio paterno. Così ebbero fine i 42 mesi che ho avuto l’onore di servire la bella e cara Patria italiana. ANTONIO PARMESAN

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Cartolina spedita da Antonio Parmesan ai famigliari.

Grazie, Antonio! Un sentito ringraziamento a Franca Catullo e al marito Mario Asti per aver messo a disposizione il «Diario di guerra» di nonno Antonio Parmesan Danùt e il relativo materiale fotografico. Le testimonianze e i fatti narrati da Antonio, apparsi in ogni inserto, ci hanno accompagnato lungo tutto il cammino di questi tragici avvenimenti.

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La celebre figura di mons. Giuseppe Lozer nella Grande Guerra

1915-1918, anni difficili per un prete scomodo Vi proponiamo alcuni momenti da lui vissuti in quei tragici anni, estrapolati dal suo volume «Ricordi di un prete» (Udine 1960). Uno dei momenti più tristi ed umilianti della sua esistenza, che lo segnò profondamente, accadde il primo maggio 1915, a seguito di una lettera da lui inoltrata al Console tedesco di Venezia, in qualità di presidente del Segretariato di Emigrazione, a difesa – così scriveva – degli emigranti che dovettero lasciare tutto (tranne un po’ di vestiario e biancheria) nei paesi e città dove lavoravano, in Germania, Austria, Ungheria. Descrivevano le peripezie del loro viaggio in carri di bestiame, la fame patita perché nelle stazioni di sosta si rifiutava loro il pane [...]. E continuava: Era già diffusa all’estero la voce che l’Italia avrebbe denunciato il trattato d’alleanza e sa-

Don Lozer nel suo studio presso la canonica di Torre di Pordenone, nel primo decennio del secolo scorso (Archivio Società Operaia).

rebbe entrata in guerra contro gli imperi centrali». [...] «Vi prego a far inserire sui vostri giornali che il popolo italiano non vuole la guerra [...] nessuno condivide il pensiero dei giornali guerrafondai [...]. Da quel momento iniziarono i guai per il nostro concittadino. La lettera, aperta dalla censura poliziesca, fu pubblicata il 24 giugno su «Il Popolo d’Italia» di Milano col falso titolo «Un prete austriacante» (come fosse stata indirizzata al Console d’Austria!). Venni invitato – annotava don Lozer – a presentarmi al Commissariato di P.S. di Pordenone, dove il Comando dei Carabinieri emise l’infamante e falsa accusa di prete politicante, contrario alle Istituzioni, e austriacante [...] e venni accompagnato alle carceri giudiziarie [...]. Il 15 luglio uscì dal carcere, perché assolto in istruttoria per inesistenza di reato e rimesso in libertà. Per volontà del vescovo fu trasferito a Roma. Qui, però, ricevette subito l’obbligo di presentarsi alla Questura di Firenze dove venne internato e gli fu persino vietata la celebrazione della Messa. Il 18 agosto 1915, fu inviato al confino in Sardegna, a Gairo, un paesino di circa 1420 abitanti nella subregione dell’Ogliastra in provincia di Cagliari (annotava don Lozer), ora provincia di Nuoro, dove rimase fino alla fine dell’anno. Il 2 gennaio 1916 ritornò a Roma al Vicariato, che lo destinò alla parrocchia di Santa Maria e San Giuseppe oltre Trastevere, per l’assistenza religiosa e l’insegnamento della dottrina cristiana. Sebbene egli fosse parroco di Torre e vicecurato in Roma, non fu dispensato dalla chiamata alle armi e il 30 aprile 1916 fu arruolato nell’VIII Compagnia di Sanità di Roma con destinazione il Reparto Segregazione dov’erano ricoverati gli anormali, i neu-


Don Lozer in divisa militare.

ropsicopatici, persone alienate dalle atrocità della guerra, quale aiutante del maggiore Sergi, professore all’Università di Roma e direttore di un reparto al manicomio provinciale Santa Maria della Pietà. Precisava: Ero considerato comunque sempre un internato anche se militare, e per maggior ignominia elencato nella rubrica delle spie presso il commissariato di P.S. di piazza Collegio Romano, presso il quale dovevo presentarmi una volta al mese. Ricordava, inoltre: La vita militare era una continua umiliazione, la persona umana divenuta una cosa. [...] Talvolta bisticciava (-o) anche col mio maggiore. «Dovrei punirti. – mi diceva – Ricordati che sei militare». E il nostro replicava: – Ma sono militare per caso; prima però d’essere soldato, sono uomo e sono prete e sento la mia dignità. Con la disfatta di Caporetto, don Lozer divenne un punto di riferimento per gli sfollati di Torre; alcuni dei quali furono ospitati a Roma, ma anche per gli stessi abitanti rimasti in paese, che richiedevano informazioni sui famigliari. Fu per lui un lavoro estenuante che svolgeva la sera al ritorno dall’ospedale. Così si esprimeva: L’affetto verso i miei parrocchiani, la comprensione delle amarissime condizioni in cui venivano a trovarsi tante famiglie e tanti soldati, moltiplicavano le mie energie. Sottolineava l’umiliazione ricevuta: in 33 mesi di servizio attivo non mi si concesse mai una breve licenza. Non fui promosso nemmeno caporale; la domanda documentata con le migliori attestazioni ecclesiastiche per essere nominato Cappellano militare venne archiviata. Per l’intero periodo pesò la falsa etichetta marchiata dal Comando dei Carabinieri di Pordenone. Rimase in servizio militare fino alla conclusione della guerra e ritornò a Torre il 31 dicembre 1918.

Le famiglie sconvolte dalla guerra La guerra modifica pesantemente la vita dei paesi e moltissime famiglie sono coinvolte dalla tragedia. La famiglia di Basilio Santin Tesser è una di queste. Basilio (n. 1868) aveva una famiglia numerosa. Era sposato con Vittoria Zambon Marin ed ebbe 6 figli: Giovanni, Maria, Anna, Giacomo, Giuseppina e Angela. Nella casa dei Tesser in via San Tomè a Dardago, all’inizio del secolo, abitavano anche il fratello Luigi, la cognata e numerosi nipoti. Giovanni, il primogenito, imparò il mestiere di muratore e da giovane, come molti suoi compaesani, andò all’estero per lavorare. Per questo motivo, al momento della prima chiamata alle armi, nel 1912, non si trovava in Italia ed ebbe la dispensa dal servizio militare fino al suo rientro. Nel luglio 1913 fu arruolato a Udine e vi rimase fino a dicembre. Il 18 maggio 1915 Giovanni, benché nel frattempo si fosse sposato con Ermellina Mezzarobba, fu chiamato alle armi per la guerra ormai imminente. Cinque mesi dopo, il 17 ottobre 1915, mentre il papà combatteva nelle Dolomiti, nacque Irma.1 Forse Giovanni non vide mai la sua piccola: il 17 novembre 1917, a 26 anni, morì in un combattimento. Per molto tempo e suoi cari non ebbero notizie. Dopo un solo anno morì anche Vittoria, la mamma di Giovanni. La famiglia era numerosa e Basilio, qualche tempo dopo, sposò Rosa Zambon di Luigi Pinal (n. 1880) a sua volta vedova di Giacomo Bocus Frith e madre dei 3 figlie: Ernesta, Vincenza e Angelica. Da questo matrimonio nacque, nel 1927, la piccola Vittoria: Basilio aveva quasi 60 anni e Rosa 47. Nonostante l’età dei genitori, Vittoria non ebbe problemi: dopo vent’anni sposò Agostino Vettor Cariola e diede alla luce Fioralba e Daniela. ROBERTO ZAMBON NOTA

1. Irma, orfana di Giovanni, sposerà Ferruccio Ponte. Ebbe tre figli: Giovanni Anselmo, Roberto Ovidio Antonio e Paolo Ezio.

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I RICORDI...

E la guerra... continuò a mietere tragedie MAGDA E VITTORINA CARLON Marco e Vittoria nel giorno delle nozze.

Ci scrive Carla Del Maschio da Mùnsingen Berna In ricordo del nonno materno Giobatta Carlon, di cui ho visto la foto nell’inserto «I nostri eroi» (p. 92). Io avevo solo un vago ricordo di quella foto e mi ha fatto molto piacere rivederla. Qui, in Svizzera, conservo un documento come ricordo di lui. Si tratta della «medaglia di gratitudine nazionale», decretata alla madre Agata, la mia bisnonna, dal Ministero della Guerra nel 1926, per il figlio Giobatta caduto per la Patria nella guerra 1915-1918. Lo conservo con molto affetto e orgoglio: sta appeso nel salotto, così tutti possono vedere e sono stupiti nel veder firmato Mussolini.

Dopo quattro lunghi anni di sofferenza per il distacco dalla persona amata, di solitudine affettiva, di difficoltà materiali e di angosciosa attesa di uno scritto, finalmente per le coppie più fortunate giungeva il momento del gioioso riabbracciarsi. Si trattava del grande giorno. Per chi non era ancora sposato, era giunto il tempo di progettare la vita coniugale, nella speranza di un lungo futuro insieme. Pure il nonno paterno Marco Carlon di Antonio de la Fameia granda (classe 1896), seppure indebolito dalla guerra e non nel pieno delle sue forze, al rientro sognava una lunga vita matrimoniale con la sua futura sposa, Vittoria Carlon Saccon di Martino e di Burigana Elena (classe 1900). I due lasciarono trascorrere del tempo, prepararono il loro «nido’ e fissarono la data del matrimonio, il 20 gennaio 1921, celebrato dallo zio della sposa, monsignor Angelo Burigana Spinel, parroco di Marsure. La nonna rimase incinta e la

coppia attendeva con gioia l’arrivo del loro primogenito, ma le conseguenze della guerra erano ancora in agguato e non avevano smesso di mietere vittime. Il nonno s’ammalò improvvisamente e in breve morì il 26 novembre dello stesso anno, all’età di 25 anni, «dopo breve malat-

tia», debilitato dalle condizioni disumane della guerra. Al rito funebre parteciparono i curati di Budoia, don Pietro Corona, e di Santa Lucia, il pievano di Dardago, oltre a don Angelo. La giovane nonna di appena ventuno anni, distrutta dal dolore, si trovò improvvisamente

Marco Carlon (terzo da sinistra in piedi) insieme con altri commilitoni.


Architetture della memoria vedova e con un figlio in grembo, nostro padre, nato due mesi e mezzo dopo la morte del suo sposo, il 14 febbraio 1922; per lui scelse come primo nome ovviamente quello del marito, affiancato da un secondo, Valentino, per affidarlo alla protezione del santo del giorno in cui il piccolo nacque. Anche lei per tanti anni si vestì da lutto, con abiti neri, e appese al collo la foto dell’amatissimo

marito custodita nel piccolo portaritratti dorato con l’incisione «In Ricordo». Si rimboccò le maniche, e, affidando inizialmente il figlioletto alle cure dei nonni materni, partì per Trieste, città in cui trascorse la sua esistenza, portando poi con sé il bambino; fu assunta dapprima come cuoca nella famiglia toscana dei Manni, quindi come guardarobiera nell’albergo Savoia Excelsior della città.

I monumentI AI CADutI...

di Dardago,

ChI usCì DI senno Semo de guerra! Era l’appellativo offensivo, usato spesso dai ragazzi negli anni Cinquanta del secolo scorso durante i loro giochi. Per spiegarne l’origine dobbiamo risalire alla fine della Grande Guerra. Di fronte alle atrocità, ai lunghi ed estenuanti anni in campi di battaglia tra fango, malattie, corpi dei compagni straziati dai bombardamenti e trasportati a spalle per assegnare loro una sepoltura, è difficile rimanere in senno se non scegliendo di ‘uscire dal proprio io’, estraniandosi e convincendo se stesso a non essere partecipe di quei terrificanti eventi. Al momento del rientro nei loro ambienti famigliari, i sopravvissuti non furono più gli stessi. I più ‘fortunati’, la maggior parte, riuscirono a ‘rientrare nel proprio io’, scegliendo il silenzio sulle atrocità della guerra, interrotto solo in tarda età con il racconto del terrificante vissuto ai nipoti. Non fu così, purtroppo, per tutti i sopravvissuti: alcuni non riuscirono più a ‘rientrare in loro stessi’, il loro sistema psicofisico e mentale fu irrimediabilmente compromesso. Certi rivivevano continuamente le battaglie, imitando i rumori delle armi e scappando dal nemico; altri regredivano a uno stato infantile, invocando l’aiuto dei genitori; alcuni scandivano per l’intera giornata numeri in ordine crescente, convinti di continuare a contare i cadaveri caduti in combattimento com’era loro compito in guerra, e ancora altre tipologie di follia. Non esistevano cure per i loro incubi né c’erano denominazioni per definire il tipo di patologia: furono semplicemente chiamati ‘scemi di guerra’.

di Budoia,

di Santa Lucia.

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testimonianze tardivello, il trombettiere del «cessate il fuoco». Una curiosità: è stato un bersagliere a suonare la fine della prima Guerra mondiale, il trombettiere Costantino Tardivello, un ragazzo del ’99 che suonò il definitivo cessate il fuoco, al bivio Paradiso, nei pressi di Castions di Strada, alle ore 14 del 4 novembre 1918, al momento dello scoccare dell’armistizio con i soldati austro-ungarici. Matricola 3290, arruolato nel glorioso Ottavo Bersaglieri, suonò con emozione al momento in cui gli ufficiali italiani e austriaci si stringevano la mano. Ricordava: «il col. Conti mi ordinò di suonare la tromba del cessate il fuoco: la Grande Guerra era finita!» Era stato chiamato giovanissimo a partecipare all’ultima fase del conflitto: era nato il 29 dicembre del 1899; la sua numerosa famiglia (con 5 maschi e 7 femmine ) allora abitava a San Vito al Tagliamento e lui faceva il fotografo. Nel dopoguerra, dagli anni Trenta, il veterano e Cavaliere di Vittorio Veneto abitava a Trieste, dove fino al 1977 ha gestito le giostre del giardino pubblico. Conservo una sua cortese lettera autografa del 12 febbraio 1983, nella quale mi scrive: «Contraccambio con sincero affetto Bersaglieresco gli auguri», terminando così: «perdoni la mia firma, poiché io sono cieco». SERGIO GENTILINI Roveredo in Piano

La foto è stata scattata a Gradisca a guerra finita.

L’inutilità delle guerre Così mio padre, Angelo Zambon (2 giugno 1897-22 luglio1993), raccontò le vicende della Prima Guerra Mondiale da lui vissuta. Nel 1915 mi trovavo a Capodistria per lavoro e poco prima della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria feci ritorno a Dardago, anche se le autorità austriache mi avevano assicurato che potevo tranquillamente rimanere, perché mai mi avrebbero internato. Nel 1916 chiamato alla visita militare a Pordenone, fui giudicato ‘rivedibile’ e nel gennaio 1917 in una seconda visita fui dichiarato ‘abile per mobilitazione’ e dal Distretto di Sacile fui inviato al 58° Fanteria di Padova. Dopo un mese e mezzo di addestramento ad Este, partimmo per il fronte. Abbiamo sostato a Basaldella, a Dolegna, a San Martino – Quisca e con il 242° Reggimento Fanteria Brigata Teramo siamo giunti in prima linea in trincea sul Monte Cucco (1.5.1917). Attraversato l’Isonzo, ci siamo attestati sulla linea M. Cucco – M. Santo – Vodice. Ho partecipato alle battaglie per la presa di questi monti; ricordo in particolare la decima battaglia dell’Isonzo con inizio il 12 maggio e la sanguinosissima undicesima battaglia dell’Isonzo iniziata nella notte dal 18 al 19 agosto. Alla battaglia di maggio ho partecipato come truppa di rincalzo, in quella di agosto ho combattuto in prima linea. Ho visto morire tantissimi uomini. Le trincee nemiche erano a 100 m da noi. La preparazione di fuoco era intensissima, l’artiglieria sparava dal Sabotino, le granate passavano sopra le nostre teste, poi si usciva all’assalto. Anche le nostre postazioni furono colpite dai nostri. Siamo avanzati per giornate intere nell’agosto del ’17 fino ai piedi della Bainsizza. Prima avevamo in dotazione il fucile Vetterli, molto vecchio e pesante, in trincea invece ci hanno dato il fucile ’91 e bombe a mano. Avevamo anche la maschera antigas, ma non si resisteva a tenerla a lungo; fu sostituita successivamente da una maschera di fabbricazione inglese più sopportabile. Durante l’offensiva i viveri non arrivavano; quando

eravamo in trincea il rancio giungeva solo di notte. Ricordo un episodio particolarmente doloroso. In una trincea vicina alla mia i soldati si sono rifiutati di andare all’assalto; sono stati tutti passati per le armi sul posto. Toccò allora a noi uscire all’assalto, siamo ritornati vivi in cinque. Dopo l’offensiva siamo andati in riposo a San Martino – Quisca, anche per ricostruire il battaglione ormai inesistente. A causa del micidiale gas, l’yprite, che avevo respirato, mi ammalai (vomito, difficoltà respiratorie con forti dolori) e con la CRI fui portato ad Udine in un ospedale da campo. In seguito alla ritirata di Caporetto con il treno della CRI sono stato portato a Vigevano in Sul foglio di congedo illimitato si legge «Durante il tempo passato sotto le armi ha tenuto buona condotta ed ha servito con fedeltà ed onore».


I Cavalieri dell’Ordine di Vittorio Veneto un ospedale militare e poi sono stato ospite dell’ottima famiglia del capitano Barbiero, pure ferito, che avevo aiutato durante la degenza. Finita la convalescenza sono stato mandato al 40° Fanteria a Benevento (10.11.1917) e dopo una settimana siamo partiti per il fronte. Lasciata Padova, siamo passati per Cittadella, Bassano, fino a Semonzetto in comune di Borso del Grappa, Romano Alto e di nuovo in trincea, là dov’era la linea inglese. Nella primavera del ’18 sono stato trasferito al 58° Fanteria Brigata Abruzzo. A Semonzetto eravamo in una trincea inglese come truppa di rincalzo. Quindi siamo passati sul Monte Grappa e sull’Asolone in prima linea. Cominciata l’offensiva di ottobre, durata 8/10 giorni, abbiamo sfondato le linee: sparavano da tutte le parti, tante volte la morte mi è passata vicino. A piedi siamo giunti a Fonzaso, Lamon, Strigno. La guerra ormai era finita. Dopo una licenza di 15 giorni a Dardago, ho raggiunto il Reggimento a Codroipo e poi ci siamo accampati a Duino per recuperare il materiale bellico sparso sul Carso, facendo parte dei corpi speciali. Siamo ritornati a Padova nella caserma di Prato della Valle, rimanendovi fino al congedo (10.4.1920) Ho ripreso il mio lavoro a Capodistria, dove ho trascorso con la mia famiglia tanti anni felici.

Onorificenza consegnata ai Cavalieri dell’Ordine di Vittorio Veneto.

Nel 1968, in occasione del 50° anno dalla fine della prima guerra mondiale, lo Stato conferì l’onorificenza di cavalierato dell’Ordine di Vittorio Veneto agli ex combattenti, per riconosciuti meriti combattentistici (art. 4 della Legge 18 marzo 1968 n. 263). A Budoia le onorificenze furono consegnate in tre momenti distinti. I primi quindici ex combattenti furono nominati nel febbraio 1969. Così riportava «Il Gazzettino» dell’epoca. NEO CAVALIERI DI BUDOIA Anche a Budoia, con austera solennità, si è svolta la cerimonia della consegna delle insegne della Vittoria a quindici ex combattenti della Grande Guerra (uno alla memoria). Ha aperto i discorsi di prammatica il sindaco maestro Armando Del Maschio e ha tenuto la commemorazione ufficiale il vice sindaco maestro Besa, ex ufficiale degli alpini. Il Sindaco ha appuntato le onorificenze personalmente, mentre quella assegnata a Egidio Ruffilli, sottufficiale della marina deceduto recentemente, è stata data alla figlia. Il primo gruppo di insigniti del Comune di Budoia comprende Romolo Cipriano Angelin, Angelo Bastianello, Giuseppe Bastianello, Umberto Bocus, Osvaldo Carlon, Ermolao Del Maschio, Giovanni Maria Fort, Paolo Fort, Maurizio Gislon, Vincenzo Ianna, Riccardo Panizzut, Giuseppe Rizzo, Eligio Ruffilli, Iginio Santin e Costante Zambon.

I neo-cavalieri con il sindaco Armando Del Maschio (foto Angelo Modolo).

A questo punto mio padre si chiudeva in un muto indicibile dolore, non solo perché riviveva gli orrori della guerra, ma anche perché aveva impressa nel cuore e nella mente un’altra dolorosa data: 16 giugno 1953. Dopo otto anni di durissimo comunismo sotto il regime di Tito, sopportati con la speranza di un cambiamento, privato della casa e del lavoro, scacciato, con la possibilità di andare via solo dopo il pagamento di una cospicua somma di denaro, quel giorno lasciava per sempre quella nobile ed amata terra che combattendo con tanto sacrificio e lealtà aveva contribuito a rendere libera. Si sentiva offeso ed umiliato nel suo essere uomo ed essere cristiano ed essere italiano. E rifletteva sull’inutilità delle guerre e l’ingiustizia di trattati di pace. ROSELLA ZAMBON Articolo tratto da l’Artugna, anno XXXVII, dicembre 2008, n. 115.

Momenti della cerimonia, nella piazza di Budoia (foto Vittorina Carlon).

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1915: i primi mesi di guerra Triplice Alleanza e Triplice Intesa Le memorie di Antonio Parmesan Sacile, unico distretto militare del Friuli Le foto dei nostri soldati dall’archivio fotografico di Franca Angelin e famiglia Signora Le battaglie dell’Isonzo Matricola 78487 di Domenico Diana I nostri eroi Le memorie di Antonio Parmesan Tre Budoiesi «Aiutanti di battaglia» Se una piastrina di riconoscimento potesse parlare... dall’archivio privato di Luciano Angelin Adolfo Carlon al raggruppamento Bombardieri di Loredana e Franco Carlon Mio zio Umberto Panizzut di Alberta Noemi Panizzut Lettere dal fronte dall’archivio fotografico di Alberta Noemi Panizzut Le memorie di Antonio Parmesan Veglia (poesia) di Giuseppe Ungaretti Le foto dei nostri soldati dall’archivio fotografico di Aurelio e Nives Zambon Il coraggio e la generosità delle ‘portatrici carniche’ Sono una creatura (poesia) di Giuseppe Ungaretti Pietro Bocus, Cavalleggero del 17° Reggimento Caserta di Silvana Bocus I nostri eroi 1916, dal diario di don Romano Zambon Il nemico invisibile Le memorie di Antonio Parmesan Curiosità del primo anno di guerra di Sergio Gentilini Aeroporti di Aviano e Comina nella Grande Guerra di Roberto Zambon I mezzi di trasporto bellici ...ero artigliere sul Monte Mrzli di Vittorio Janna I nostri eroi Le memorie di Antonio Parmesan Marianna Carlon, Testimonianze Pellegrinaggio (poesia) di Giuseppe Ungaretti Vittime di una disumanità Le memorie di Antonio Parmesan Santa Messa al campo dall’archivio privato di Luciano Angelin San Martino del Carso (poesia) di Giuseppe Ungaretti All’Alpino (poesia), Anonimo I nostri eroi Quando moriva un soldato di Roberto Zambon Ricordi e racconti di guerra a casa Pol, Marin e Tomè di Fabrizio Fucile I nostri eroi La propaganda, dalla collezione privata di Fortunato Rui Nonna Giovanna Colussa... una roccia di Arnaldo Busetti

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Le memorie di Antonio Parmesan Trincea 12 agosto 2012 (poesia) di Angelo Pisu 1917, l’inizio dell’occupazione nemica Volantino dalla collezione privata di Giovanni Bufalo Lettere dal fronte dall’archivio privato di Luciano Angelin I nostri eroi Le memorie di Antonio Parmesan Nuovi gas asfissianti tossici 1917-1918, l’occupazione nemica I nostri eroi Dal sentiero della battaglia di Pradis a Santa Lucia di Budoia di Giancarlo Schimd Profughi Dardaghesi in Lombardia Quasi sei anni dedicati alla Patria di Magda e Vittorina Carlon Le memorie di Antonio Parmesan 1918, l’occupazione nemica di Roberto Zambon La situazione sanitaria: la ‘spagnola’ a cura di Vittorina Carlon, Roberto Zambon, Fabrizio Fucile Le memorie di Antonio Parmesan I nostri eroi La Rosa Ciarniela, una ‘portatrice carnica’ di Leontina Busetti Lettere dal fronte dall’archivio privato di Luciano Angelin Volantini dalla collezione privata di Giovanni Bufalo L’artigianato di trincea dalla collezione privata di Carlo Carlon Le memorie di Antonio Parmesan I nostri eroi I miei cari nonni, sacrificati per la Patria a cura di Adelina Ariet e Vladi De Nadai Anna aveva ‘guardato’ oltre di Vittorio Janna Filippo Tommaso Marinetti a Budoia? di Alessandro Fadelli I nostri eroi 1918, Romano Janna, decorato con Medaglia di bronzo al Valore Militare Un gioco finito in tragedia Le memorie di Antonio Parmesan La vita in paese... I nostri eroi Le memorie di Antonio Parmesan 1915-1918, anni difficili per un prete scomodo Le famiglie sconvolte dalla guerra di Roberto Zambon I ricordi di Carla Del Maschio E la guerra continuò a mietere tragedie di Magda e Vittorina Carlon Chi uscì di senno Architetture della memoria: i Monumenti ai Caduti Tardivello, il trombettiere del «cessate il fuoco» di Sergio Gentilini L’inutilità delle guerre di Rosella Zambon I Cavalieri dell’Ordine di Vittorio Veneto Le rubriche e gli articoli non firmati appartengono a Vittorina Carlon e Roberto Zambon

RINGRAZIAMENTI I curatori dell’opera ringraziano di cuore tutte le persone che hanno collaborato in qualunque modo all’arricchimento della ricerca. In particolare: Don Maurizio Busetti per la disponibilità alla consultazione degli archivi parrocchiali di Budoia, Dardago e Santa Lucia, Franca Angelin, Luciano Angelin, Luigia Basaldella, Emanuela Besa, Giovanni Bufalo, Leontina Busetti, Ferruccio Cardazzo, Carlo Carlon, Ornella Carlon, Umberto Coassin, Carla Del Maschio Schener, Gloria e Diomira Del Puppo, Maria Diana Scunsor, Gianni Fabbro, Fabrizio Fucile, Francesca Panizzut, Sandra Panizzut, Raul Panizzut, Mario Povoledo, Fortunato Rui, Santina Carlon, Daniela Vettor, Espedito Zambon, Giuseppe Zambon Luthol, Raffaele Zambon. Ci scusiamo per eventuali involontarie omissioni.


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