Anno XXXII · Aprile 2003 ·Numero 98
Periodico della Comunità di Dardago · Budoia · Santa Lucia
Partire non è tutto... l’amore può cambiare l’umanità
Da via pal mondo i nostre i ne conta...
Saverio Scolari illustre giurista e politico
Don Lozer, un prete scomodo
Il suono festoso delle campane dei nostri paesi pedemontani ha accompagnato la tanto attesa notizia della beatificazione di Padre Marco d’Aviano, il prossimo 27 aprile. È un evento straordinario di grazia, che coinvolge le chiese del Triveneto e d’Europa. Attuale è il messaggio che il Beato, eccezionale personalità di sacerdote, di religioso, di predicatore evangelico e di protagonista della storia europea, propone a suoi uomini del terzo millennio: l’unità europea, perseguita nel nome di Cristo. Anche le nostre comunità sono direttamente rappresentate nel Comitato organizzativo per la Beatificazione di Padre Marco nelle persone di Ferdinando Del Maschio e Mario Povoledo, ai quali la redazione augura buon lavoro. VITTORINA CARLON
di Roberto Zambon
[ l’editoriale ]
MARCO, PROMOTORE EUROPEA
DELL’UNITÀ
Come altre volte nei trent’anni divita de l’Artugna, anche questo numero viene preparato mentre la televisione innonda le nostre case con le terribili immagini della guerra. Quante volte in questi anni la guerra è stata letta non nei libri di storia ma tra le pagine di cronaca! Iraq, Bosnia, Kossovo, Cecenia, Somalia, Palestina... solo per elencare le guerre più vicine geograficamente e cronologicamente. E poi gli spaventosi atti di terrorismo che periodicamente interessano un po’ tutte le parti del mondo! L’uomo non ha ancora compreso che la violenza, la guerra, il terrorismo non risolvono i problemi ma inevitabilmente li aggravano e ne creano di nuovi. Anche questa volta il Papa ha invocato la pace e condannato la guerra con tutta la forza morale di cui dispone. Ha rivolto ai due contendenti un fermo appello per evitare la guerra. Purtroppo non è stato ascoltato. A quando un mondo migliore?
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È l’anno del numero
Intendiamo il centesimo numero del nostro periodico che uscirà a Natale di quest’anno. Sfogliando queste pagine i lettori potranno ammirare la nuova veste grafica che abbiamo pensato per festeggiare questo traguardo. La nuova impaginazione, i nuovi caratteri, ed altre novità ci aiuteranno per iniziare con ancor 2
più «giovanile» entusiasmo il ciclo del periodico con il numero a 3 cifre. Speriamo che la veste della «nuova» l’Artugna piaccia ai nostri lettori. Avvicinandoci al numero 100, la Redazione sta pensando ad un grande incontro con i tanti collaboratori che in questi anni hanno contribuito all’uscita del periodico. Oltre al momento celebrativo, questo incontro avrà anche lo scopo di rinvigorire e rimpolpare l’attuale numero dei collaboratori per portare più linfa al nostro giornale. Stiamo pensando anche ad un nuovo indice tematico degli argomenti di questi 100 numeri che integrerà quello pubblicato nel 1987 relativo i primi 50 numeri de l’Artugna. Grazie a tutti per il traguardo che si sta avvicinando: ai molti collaboratori, agli enti pubblici – Comune, Provincia e Regione – che ci hanno sostenuto con il contributo finanziario ma, soprattutto, grazie ai lettori che in questi 30 anni ci sono stati sempre molto vicini con il loro affetto (e le loro offerte). Senza la sentita presenza dei lettori, alcune volte ci sarebbe stata anche la tentazione di mettere fine a questa esperienza. Il loro affetto ci ha fatto sempre superare le varie difficoltà che inevitabilmente e periodicamente si presentano sul nostro cammino.
cenderà per il mondo intero una nuova stella del firmamento celeste che potrà illuminarci all’esercizio del perdono, che è condizione irrinunciabile per ottenere e mantenere il grande dono della pace. L’apostolato di Padre
la lettera del Plevan Carissimi fratelli e sorelle, mi rivolgo a voi in questa Pasqua di Risurrezione con il cuore in mano. Penso profondamente a tutto quello che è successo e sta succedendo in Iraq. Certo la morte sembra abbia vinto e regnino la violenza e la desolazione. Prima dell’inizio della guerra abbiamo assistito a un intenso e paziente lavoro diplomatico. Tutto il mondo si è mosso, compreso il Vaticano; il Papa personalmente ha inviato a Bagdad un suo collaboratore stretto, dopo averlo inviato a Betlehem per la festa di Natale. Abbiamo visto il luogo della nascita di Cristo circondato da carri armati, minacciato di diventare luogo di morte e non di nascita! E oggi, purtroppo, vediamo immagini di uomini stroncati dalla guerra e di prigionieri catturati! Tutto questo fa vincere il male e i suoi servi. Vi prego: per noi non sia così. Cerchiamo di far vincere Gesù e farlo risuscitare nei nostri cuori. Come possiamo fare? Certo tu non sei responsabile in modo diretto, però puoi contribuire alla pace lasciando entrare nel tuo cuore il Dio della vita. Questo avviene con una vera e profonda conversione del cuore, della mente e degli atteggiamenti. Un maestro di pentimento e un predicatore di conversione è Padre Marco d’Aviano: la sua beatificazione è in programma a Roma il prossimo 27 aprile, domenica dichiarata dal Papa «Della Divina Misericordia». Con questo atto, il Santo Padre ac-
Marco fu orientato tutto alla predicazione (sono celebri i suoi quaresimali), avvalorata dai miracoli. «Tornate a Dio con un cuore umile e pentito», egli ci ammonisce oggi. La sua fede e santità ottennero all’Europa di essere salva anche dalla minaccia allora costituita dall’invasione ottomana, arrestata – come sappiamo –
per la preghiera dell’umile-potente Padre Marco alle porte di Vienna nel 1683. In queste settimane di guerra, preghiamo l’intercessione di Padre Marco, promotore di pace e apostolo del perdono, perché finisca presto questo momento difficile per la terra intera. Sia scongiurato il pericolo di un conflitto a dimensioni più vaste. Sarebbe una complicazione tanto grave. Chiediamo al Dio della vita, fonte di riconciliazione, che ci sia – come esortava Padre Marco – «Pace con Te (Principe della Pace), pace fra di noi e con tutto il nostro prossimo (a qualunque popolo e credo religioso appartenga)». DON ADEL NASR
Santa Pasqua: il trionfo della vita «Buona Pasqua!» È il trionfo della Vita sulla cattiveria, sull’odio e sulla morte... Anche se sembra un controsenso tale augurio in un clima di guerra, distruzione, morte, vendette, rappresaglie, kamikaze sugli aerei e sulle piazze... Il cristiano ha questo coraggio di augurare agli altri e per gli altri la «Buona Pasqua» ma anche di costruire giorno dopo giorno, passo dopo passo, la Vita, il Perdono. l’Amore, la Pace, la comprensione, l’accoglienza... perché Gesù è risorto da morte, la morte non ha più alcun potere su di lui... Su Gesù si sono abbattute tutte le possibili cattiverie del cuore umano: odio, tradimenti, menzogne, violenze raffinate, derisioni, umiliazioni, disprezzo, uccisione violenta e dolorosa su di un «patibolo» (strumento di tortura che è la pace...) ed infine anche un sepolcro «sigillato»... Sembrava tutto finito in quel giorno così convulso, dopo i tumulti della piazza, la condanna a morte infamante, i condannati scortati, il terremoto e l’oscurità del sole... e il cadavere nel sepolcro... No, tutto stava per cominciare... Una nuova storia per l’umanità, una nuova Vita... Dio non può essere costretto in un sepolcro. La Vita non può essere chiusa, l’Amore è più forte della Morte, il Perdono è più grande di ogni cattiveria... Gesù risorto dice ai suoi amici: «Pace a voi!». È la nuova «pasqua», un «passaggio» ad una liberazione più grande, perché dimostra che la morte non ha più l’ultima parola... In altre lingue e culture europee cristiane il saluto e l’augurio di oggi, più che un semplice «Buona Pasqua», spesso ridotto solo all’uovo di cioccolato ed al dolce a forma di colomba, risuona così: «Il Signore è risorto! Alleluja». Facciamo perciò festa nel Signore risorto, l’unico che dà senso e il significato all’esistenza di ogni giorno, l’unico che porta gioia e pace, l’unico che porta vero progresso e speranza... Da quel mattino del 15 di Nisan (il giorno dopo il grande Sabato ebraico) l’umanità si trova costantemente al bivio: senza Gesù o con Gesù risorto... Senza Gesù l’umanità, nonostante tutti gli sforzi umani, non potrà mai trovare pace, concordia, sicurezza, progresso, serenità, vita... Con Gesù, risorto da morte e che ha lasciato come primo dono lo Spirito di Dio «ricevete lo Spirito Santo», tutto diventa possibile a chi crede e si lascia guidare da Lui... Buona Pasqua, e Pace con Gesù risorto da morte! Alleluja! Lodiamo il Signore! SAC. ALDO GASPAROTTO
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NASCITE
[ avvenimenti ]
Benvenuti! Abbiamo suonato le campane per l’arrivo di... Matteo Carlon di Luigi e Gemma Circassi – Milano Filippo Fedrigolli di Dario e Sara Sarto – Bollate (Milano) Xhulia Kasa di Haki e Festima Kasa – Budoia Ajeta Selimoska di Taip e Serka Selimoska – Santa Lucia Angelo Gennaro Cerasuolo di Antonio e Fabiana Donzelli – Budoia Mattia Missinato di Giorgio e Luana Bragagnolo – Budoia Lorenzo Zambon di Michele e Fabiola Canova – Budoia Riccardo Zambon di Daniele e Manuela Vignola – Venezia Anna Maria Zambon di Paolo e Claudia Diaz – North Hollywood – California (USA)
M AT R I M O N I Hanno unito il loro amore. Felicitazioni a… Gianni Caligo con Eleonora Carlon – Budoia Antonio Cerasuolo con Fabiana Donzelli – Budoia Philip J. Jr Feeley con Francesca Begotti – Budoia Rino Zambon con Natalia Kobylina – Dardago Marco Del Maschio con Carla Pavanello – Budoia Nozze d’argento Danilo Zambon e Wilma Zambon – Budoia Nozze d’oro Elio Carlon e Maria Zambon – Budoia Osvaldo Carlon e Maria Piccoli – Budoia Francesco Lacchin e Lina Signora – Gloucesteer (Inghilterra)
LAUREE E DIPLOMI Complimenti! IMPORTANTE
Lauree
Giungono talvolta lamentele per omissioni di nominativi nella rubrica Avvenimenti. Ricordiamo che la nostra fonte di informazioni sono i registri dell’Anagrafe comunale. Pertanto, chi è interessato a pubblicare nominativi relativi ad avvenimenti fuori Comune o relativi a particolari ricorrenze (nascite, nozze d’argento, d’oro, risultati scolastici, ecc.) è pregato di comunicarli alla Redazione. I nominativi pubblicati sono pervenuti in Redazione entro il 6 aprile 2003. Chi desidera usufruire di questa rubrica è invitato a comunicare i dati almeno venti giorni prima dell’uscita del periodico.
Marzia Del Zotto – Psicologia – Budoia Chiara Zambon – Economia e Commercio – Budoia Orietta Zambon – Lingue e Letterature straniere – Dardago Maurizio Cauz – Economia e Commercio – Budoia
DEFUNTI Riposano nella pace di Cristo. Condoglianze ai famigliari di… Luigi Gislon di anni 81 – Budoia Angela Zambon di anni 91 – Dardago Rosa Gina Angelin di anni 91 – Dardago Giovanni Gislon di anni 75 – Budoia Ilva Bocus di anni 74 – Dardago Maria Modolo di anni 93 – Santa Lucia Marilla Signora di anni 66 – Budoia Renato Bortoluzzi di anni 46 – Santa Lucia Adele Zambon di anni 85 – Santa Lucia Armanda Ferrini di anni 85 – Dardago Angelo Zambon di anni 86 – Dardago Plinto Lachin di anni 79 – Santa Lucia Erna Lucas di anni 50 – New York Angela Spader di anni 90 – Budoia Rosa Zambon di anni 93 – Lione Ida Ianna di anni 94 – Dardago Elides Zunino di anni 94 – Santa Lucia Giovanni Pujatti di anni 29 – Dardago Teresa Ianna di anni 98 – Dardago Antonio Zambon di anni 85 – Belgio Giuseppe Del Maschio di anni 81 – Budoia
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Periodico quadrimestrale della Comunità di Dardago, Budoia e Santa Lucia (PN)
In copertina
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Marco, promotore dell’unità europea di Vittorina Carlon
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È l’anno del numero 100 di Roberto Zambon
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La lettera del Plevan di don Adel Nasr
«Il congedo di Cristo da Maria» di Francesca Begotti, olio su tela (cm 40x50).
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Rapporti culturali romeno-italiani di Cellia Ontelus Boro
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Alla riscoperta dell’aramaico di Andrea Zampoli
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Il mado si è messo... in mostra a cura della Redazione
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Lasciano un grande vuoto
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A Dardago si restaura a cura del Comitato Restauro
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L’angolo della poesia
Santa Pasqua: il trionfo della vita di don Aldo Gasparotto
prile 2003
ann
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98 sommario
Direzione, Redazione, Amministrazione tel. 0434.654033 · C.C.P. 11716594 Internet www.naonis.com/artugna e-mail l.artugna@naonis.com Direttore responsabile Roberto Zambon · tel. 0434.654616
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Ed inoltre hanno collaborato Ennio Carlon, Espedito Zambon, Adelaide Bastianello, Mario Cosmo, Fabrizio Fucile. Stampa Arti Grafiche Risma · Roveredo in Piano/Pn
Autorizzazione del Tribunale di Pordenone n. 89 del 13 aprile 1973 Spedizione in abbonamento postale. Art. 2, comma 20, lettera C, legge n. 662/96. Filiale di Pordenone. Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione di qualsiasi parte del periodico, foto incluse, senza il consenso scritto della redazione, degli autori e dei proprietari del materiale iconografico.
Partire non è tutto... di Pietro Janna
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Cencio Besa di Fabrizio Fucile
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In ricordo del maestro di Mario Povoledo
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Cronaca
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Il gruppo Chernobyl «Don Nillo Carniel»
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Inno alla vita
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Da via pal mondo, i nostre i ne conta... di Adelaide Bastianello
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I ne à scrit
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Palsa
’N te la vetrina
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Don Lozer, un prete scomodo di Fernando Del Maschio
Programma della Settimana Santa Bilancio Economico
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Saverio Scolari di Pompeo Pitter
Per la redazione Vittorina Carlon Impaginazione Vittorio Janna
Avvenimenti
I Pup(p)in(i) di Osvaldo Puppin
Intorvìa la tóla a cura di Adelaide Bastianello
Il nostro compaesano Pietro Janna, a gennaio e febbraio di quest’anno, è ritornato in Bolivia e Brasile in visita ad alcune comunità conosciute in un suo precedente viaggio. Pietro ha potuto dare una mano ai pochi sacerdoti e alle suore che in quei luoghi prestano il loro prezioso servizio e ha consegnato anche le offerte raccolte a Dardago. In queste pagine vengono riportati i suoi ricordi e le sue impressioni e gli interventi di Padre Ermanno Nigris – missionario salesiano di 72 anni, originario di Ampezzo, che da decenni opera tra i poveri dell’America latina – e di Suor Generosa – superiora delle Suore della Provvidenza in Bolivia.
Bolivia Brasile
Partire non è tutto... di Pietro Janna
APPELLO AI LETTORI l’Artugna, sostenendo l’appello di Pietro Janna a favore della «Casa da Pastoral da Criança» di Suor Rita Saccol in Brasile, ricorda che chi desiderasse contribuire può rivolgersi a Pietro Janna · via Rui de Col, 18 33070 Dardago · Pordenone · tel. 338/6707619
Venerdì 21 febbraio È notte e sto volando verso Milano e mi aspettano ancora otto ore di volo; sono stanco perché sono partito da Santa Cruz della Sierra (Bolivia) alle due del pomeriggio ma non riesco ad addormentarmi: il posto è stretto, vicino a me un giovane medico brasiliano sta sorseggiando una fiaschetta di whisky. Mi affiorano alla mente i ricordi e le esperienze dei 45 giorni trascorsi fra il Brasile e la Bolivia... Salvador de Baja (Brasile) Sussuarana Velha: qui ho incon6
trato Suor Celeste Servilla, una suora della Provvidenza, impegnata assieme ad altre 2 consorelle all’educazione scolastica di 130 ragazzi. Fanno da sole, con l’aiuto della provvidenza: hanno i migliori insegnanti perché vogliono dare di più e meglio della scuola pubblica. Non ricevono niente dal comune o dallo stato perché non accettano il ricatto: vi aiutiamo se prendete nella vostra scuola i ragazzi che vogliamo noi. Loro invece, fedeli all’insegnamento del loro fondatore padre Luigi Scrosoppi (friulano), ricevo-
no gli ultimi, i poveri, quelli che non hanno i mezzi per frequentare le scuole pubbliche. La parrocchia nella quale sono inserite ha centomila abitanti ed un unico sacerdote, quindi devono collaborare anche alla pastorale e soprattutto alla visita delle comunità più povere. Suor Celeste mi ha accompagnato a visitare una di queste comunità. Fognature a cielo aperto attraverso il quartiere: sono gli scarichi di chi abita in alto, i più ricchi. Immaginatevi gli odori con 36 gradi, i topi e quant’altro che lascio alla immaginazione di ognuno di voi. Quel giorno i ragazzi stavano pulendo quel canale per favorire il deflusso della melma, perché erano previste piogge intense e c’era il rischio che la fogna entrasse nelle case e poi a fine mese c’era la festa patronale del sobborgo con relativa processione della Madonna (una statua di 30 cm). I ragazzi erano particolarmente contenti, perché durante le operazioni di pulizia avevano catturato un piccolo serpente che avrebbero allevato per poi mangiarlo quando arrivava agli otto metri. La suora mi ha presentato la catechista che viveva in una casa di due stanze (ed era una delle migliori) assieme alla madre, al secondo marito, alla figlia avuta con lui, al figlio e alla figlia avuti dal precedente marito assieme ai rispettivi marito e mogli tutte e due regolarmente incinte: il tutto in 20 mt quadrati! Alto de Coqueirinho: qui ho conosciuto suor Rita Saccol originaria di Villorba di Treviso. Dopo aver lavorato per 35 anni tra le miserie di San Paolo del Brasile, quando poteva godere dei frutti del suo impegno, all’età di 68 anni i suoi superiori le hanno chiesto un’ulteriore prova di amore verso i più deboli: trasferirsi in questa località e ricominciare da capo. Alto è un barrio a un’ora e mezzo di autobus dal centro di Salvador dove vive povera gente, disoccu-
pati, sottoccupati, gente che arriva dalla campagna in città in cerca di fortuna o di lavoro che non c’é. Vicino ci sono le spiagge che offrono qualche occasione di lavoro cercando di vendere tutto quello che possono (noccioline, castagne, chewing-gum, piccoli lavoretti di artigianato casalingo e quant’altro la fantasia possa offrire). All’interno di questo «barrio», che conta duecentomila persone, c’è una favela: all’interno della favela vivono 50/100 mila persone (nessuno le ha mai censite) senza nome, sconosciute all’anagrafe: abusivi, gente violenta, quasi tutti hanno un qualcosa da nascondere: drogati, ladri, piccoli spacciatori, gente che vive di espedienti... per un estraneo entrare in una favela vuol dire rischiare la vita. Questa favela si chiama «favela baixo de tubo» (a basso del tubo) perché è delimitata dal quartiere da un tubo di un metro di diametro che porta l’acqua a Salvador e attraverso delle scale a pioli si accede ad essa. Con suor Rita sono entrato nella favela ed è molto difficile descrivere quello che si prova nell’entrare in quell’inferno: le strade sono larghe un metro e delimitate da catapecchie di tavole e cartoni messi assieme alla meglio all’interno delle quali vivono una decina di persone,per di più bambini e ragazzi. Mediamente una donna ha sette o otto figli, non c’è il senso della famiglia per cui sono figli di uomini diversi che stanno insieme alla donna quel tanto che basta a soddisfare i propri bisogni. D’altronde in un ambiente violento come quello, una donna ha comunque bisogno della protezione di un uomo anche se viene solo «usata». I bambini appena si svegliano vengono scaricati sulla strada di cui sono figli: le immondizie sono il loro campo da gioco, le fognature a cielo aperto un posto in cui giocare. Per loro non esistono scuole, asili; sono destinati alla denutrizione, alla 7
strada, forse al commercio di organi o alla pedofilia e dal futuro si aspettano solo una favela. Nella favela ci sono solo tre battezzati. In Brasile ci sono oltre 15 milioni di «meninos de rua» (ragazzi di strada) e quando cominciano a «fare branco» e a diventare pericolosi la polizia li raduna e li ammazza. Le suore comboniane sono presenti da un anno in quel quartiere e resesi conto della grande necessità di scuole e asili hanno fondato la casa della pastorale del bambino (Pastoral da criança) che è diventata operativa lo scorso mese di ottobre: qui badano a 150 bambini, da 0 a 6 anni. Ogni mese questi bambini e le loro famiglie ricevono la visita delle volontarie, viene controllato il peso e distribuita una multimistura di ferro, vitamine ecc. Trenta di questi bambini frequentano la casa della pastorale del bambino, perché denutriti, dove ricevono un pasto al giorno, la merenda, le cure necessarie oltre alle attività ed educazione. Questa casa si trova all’interno della favela e recentemente dei ladri hanno sfondato il tetto in eternit per entrare e rubare. Ora c’è la necessità di fare una copertura in cemento armato e ampliare la casa per rispondere alle maggiori necessità e suor Rita mi ha chiesto un aiuto economico. Faccio appello attraverso queste pagine alle persone sensibili che se possono contribuire economicamente alla realizzazione di questa opera si mettano in contatto con me. Mi sono sentito in dovere di lasciare a suor Rita un’offerta a nome della nostra parrocchia a favore di quei bambini. Un’altra opera che le suore stanno realizzando e che entra in funzione a marzo è una scuola di base e professionale per i ragazzi più poveri, anche in questo caso senza aiuti da parte dello stato ma della sola provvidenza e della solidarietà di tante persone. Vole-
Cercando di capire. vo sottolineare che l’unica presenza ammessa nella favela è quella delle suore e delle volontarie: nessuno si azzarda ad entrare.
Allora era la guerra e io avevo solo 13 anni e frequentavo la seconda media; il collegio era lontano e non c’erano corriere. I tedeschi non guardavano in faccia nessuno. Mio nonno si offerse per portarmi in collegio, dai salesiani a Tolmezzo con il suo carro e il suo asino. Mio padre e mia madre furono d’accordo. Andavo con tutto: letto e coperte, libri e... fionda. La stessa cosa ho fatto domenica con Lupe, una sorellina delle Misioneras salesianas del Niño Jesùs. Caricato tutto sulla macchina le dissi «Ti do alle suore Oblate e che tu possa studiare. Sii brava, studia. lavora, taci molto, ascolta tutto e non aver paura della scuola e, specialmente, quello che sai di medicina delle erbe e radici tiralo fuori tutto, perché porti con te un gran dono di Dio. Prega e sta in chiesa per lo meno un’ora al giorno. Quella delle suore del Niño Jesùs è una storia difficile da raccontare. Che cosa volevo io? Niente, avevo bisogno di gente che mi stesse vicino nel lavoro, che fosse disponibile a entrare in contatto con gli Yuqui (in quel tempo ne avevamo ancora una quarantina) che non fosse gente di città e che mi lasciasse fare. Ai loro studi avrei pensato poco alla volta. Furono loro a dirmi: «Non ci basta, vogliamo formare una famiglia religiosa, dacci un nome». Mi sembrò una cosa da ridere. Mi avevano scritto una lettera nel tempo che ero a casa mia. Consultai mia madre che sempre aveva detto «No stà metiti a mandà int a fasi predis e suoris, a àn di iesi lor c’a a disin». Dissi a lei il contenuto della lettera, tirai fuori il nome, le piacque e così fu: «Hermanas misioneras del Niño Jesùs», «Salesianas» venne dopo. Le regole? Vangelo alla mano: stare con i poveri, non pretendere mai di essere gente di città, accettare tutti, con un’unica condizione che abbiano bisogno di te, non pretendere niente, pregare e essere solo di Dio, con la misura del Niño Jesùs. E siamo partiti. Davanti a noi: 12 comunità sparse su 60 km alle spalle altre 4, gente povera, senza comunicazioni, una strada che si pratica con la moto solo d’inverno, quando non piove, un «carril» da mettere sulle rotaie con il suo motore e affidarsi al Signore. Gente di fame e di speranza, che vive in capanne nel desiderio di un buon raccolto per andare in città o comprarsi un camion, perché i loro sudori li perdono nel pagare trasporti. Una vita dura, sacrificata ogni giorno. Punti di aiuto: la Provvidenza che si fa viva con le persone buone che ci conoscono; i pericoli li vede ed aiuta a schivarli Lui, il Niño che dice: «Io regnerò». Non ci è mai mancato nè pane, nè lavoro. Le vocazioni? Provavano un poco e dicevano: «Non si può, troppo duro». Duro il lavoro, duro il carattere nostro. La casa è nata come un fungo: le ragazze venivano, non volevamo che tornassero dalla città con un figlio in braccio. E per le ragazze nacque Casa Betania. I poveri ammalati e i vecchi crescevano: venne eretta la casa dell’anziano; abbiamo messo cappelle dove abbiamo potuto, ce ne mancano 4; ci hanno dato altre 4 comunità oltre il Rio Palacio. Siamo uno più due e lei, Lupe, che studia e vedremo come va. Basta al Niño? Tutto è suo; deve essere Lui a sapere se basta o no. I vescovi non ne vogliono sapere: troppo allo sbaraglio! Lucia e Feli hanno studiato infermeria e sono alla Licenzatura in Scienze della educazione, Lupe studia ora, due infermiere e Lupe lo sarà. Il futuro? Lucia ammalata, ma che tira; Felicidad un poco stanca, ma che suona bene la chitarra e che dà tutto; Lupe che il vento può portare via e che se lavora molto, perde quel poco di salute che ha. Basta così? Ho detto che tocca a Lui, che tutto è solo suo; ha cominciato e va. Dodici ragazze hanno tentato di fermarsi: non ce n’è una! Casa Betania è una sfida al buon senso, per questo nessun vescovo se la sente di dire: «Andate avanti.» Basta che non dicano «chiudete». E io so che il Niño sa fare e che ha una forza che nessuno controlla. Lo vedo quando guido per fango o sono in pericolo: «Metti la manina sul volante della Toyota, sulla mia vita, sulla nostra casa. Solo con Te e tua Madre si va. Fin quando? Tu lo sai e tocca a Te decidere. A me va bene così: il piede sull’acceleratore, con calma, ma sicuro, senza paure!» Forse siamo un insulto al buon senso! Ma chi ci dà una mano, è benedetto da Lui. Lo vediamo.
Martedì 21 gennaio Arrivo in Bolivia e precisamente nella parrocchia di San Carlos. La parrocchia di San Carlos si trova nel dipartimento di Santa Cruz de la Sierra quindi in zona pianeggiante a 300 m sul livello del mare. Il dipartimento di Santa Cruz è grande quanto l’Italia, ma ha solo un milione di abitanti di cui ottocentomila vivono nella città. Mentre ero lì, leggevo su un quotidiano che la Bolivia (grande tre volte e mezzo l’Italia) ha 7 milioni di abitanti di cui il 48% (quasi la metà!) ha meno di 18 anni, circa un milione sono a rischio di vita per denutrizione. La parrocchia di San Carlos è grande quanto la provincia di Pordenone e vi operano 5 salesiani di cui 4 italiani e un boliviano più un laico e diverse comunità di suore. Molte sono le opere che hanno realizzato nei quasi trenta anni di loro presenza: il centro del bambino denutrito, l’ospedale, la scuola di agraria, la falegnameria, la scuola per meccanici, collegi per ragazze dei campesinos, scuole per anziani e ovviamente diverse chiese e cappelle nelle comunità più lontane. In tutta la Bolivia c’è una sola strada asfaltata ed è quella che collega La Paz con l'Argentina ed è larga dai tre ai quattro metri e arriva fino ai 4000 mt di altitudine: parte di questa è bianca e in zona geologicamente instabile per cui durante la stagione delle piogge spesso è inagibile e quando c’è qualche protesta i manifestanti la bloccano. Non esiste la ferrovia per cui in totale assenza di vie di comunicazione non ci può essere sviluppo di alcun tipo. I missionari, quindi, si devono muovere all’interno di queste difficoltà e alle volte ci mettono inte-
Padre Ermanno Nigris, missionario salesiano
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RENDICONTO «OFFERTE PRO BOLIVIA»
re giornate per raggiungere le comunità più lontane. Una di queste comunità è Ayacucho: fino a due anni fa la strada era tutta bianca per 60 km, ora solo 20 grazie ad un intervento del governo giapponese che ne ha asfaltati 40, perché a San Juan vive una comunità di grossi agricoltori nipponici. Ayacucho era un posto dimenticato da Dio e padre Nigris ha voluto sfidare l’impossibile con quella testardaggine tipica della gente carnica: ha costruito una cappella, una scuola di falegnameria, una scuola elementare. Grazie ad un finanziamento di una parrocchia svizzera ha costruito tre nuovi edifici scolastici e da quest’anno anche il nuovo internado (collegio) per ragazze provenienti da comunità all’interno della foresta alle quali vengono impartite le più elementari norme di una donna di casa: pulire, far da mangiare, cucire, fare l’orto (al quale ho contribuito anch’io) ecc. Il tutto con l’aiuto della provvidenza... Nella pagina a fronte lo stesso padre Nigris (72 anni, instancabile e con una gran fede in Dio e nella Madonna) ci parla un po’ di Ayacucho.
Offerte dalla popolazione
2.835 euro
Consegnati al «Centro del Bambino» Consegnati al «Pastoral da Creança» Consegnati alla Parrocchia San Carlos
1.500 euro 450 euro 900 euro
NELLA FOTO IN ALTO: I RAGAZZI DEL BARRIO DI SUSSUARANA (BRASILE) CONTENTI PER LA CATTURA DEL SERPENTE. FOTO AL CENTRO: PADRE DARIO CON I RAGAZZI DI CASCABEL (UNA COMUNITÀ ALL’INTERNO DELLA FORESTA). FOTO IN BASSO: I BAMBINI DENUTRITI DEL CENTRO DI SAN CARLOS.
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che dicevano: «passa Padre» per poi ridere se rimanevi impantanato, ma pronti a interrompere la partita di calcio per aiutarti ad uscire. Bambini ovunque e questo è una delle cose che mi manca di più oltre ai momenti del pranzo con i missionari e gli altri volontari. I missionari ormai avanti con l’età, ma instancabili nella loro missione e nelle preghiere e poi le suore della provvidenza e le
loro opere a favore dei bambini denutriti, delle famiglie bisognose, nella cura e attenzione che pongono nel gestire tutte le adozioni a distanza. Qui desidero riportare quanto mi ha scritto Suor Generosa che è la superiora delle suore della provvidenza in Bolivia, che risiede nella comunità di Cochabamba e che ho avuto il piacere di conoscere.
Partire non è tutto... l’amore può cambiare l’umanità. «Lì, dove nessuno vuole andare, deve stare la suora della Provvidenza» (P. Luigi Scrosoppi). E qui siamo dal 1980, in Bolivia, nel cuore dell’America Latina, come figlie di questo Santo friulano, per servire, come «gagliarde facchine del Buon Dio», questi nostri fratelli tanto amati perché appartengono a quei «poveri che saranno sempre con noi» e per i quali Gesù è venuto su questa terra. Il 24 ottobre 1980 mettevano piede in San Carlo (Santa Cruz) a 200 m di altitudine, le prime tre sorelle, chiamate dall’allora parroco di San Carlos e ora arcivescovo di Cochabamba, Monsignor Tito Solari di Pesaris (Ud). Il nostro servizio era per il piccolo ospedale da campo, l’unico della zona in quegli anni. Povertà, malattie, denutrizione, TBC, morti infantili sempre sotto i nostri occhi. Che fare di più soprattutto per i bambini che in quel tempo non valevano tanto come persone e per i quali non valevano la pena spendere i 4 soldi che guadagnavano per vivere? Meglio che muoiano se si ammalano. Dopo vari anni, il sogno di un centro nutrizionale, si è fatto una realtà e dal 1989 a oggi, sono già più di 1600 i bimbi che sono stati recuperati e che hanno ripreso a sorridere alla vita. Purtroppo la denutrizione continua anche oggi per tanti fattori, uno dei quali la povertà che, nelle sue diverse sfaccettature, persiste e si fa sempre più dura. Il bambino denutrito non serve a nessuno, fa spendere soldi per recuperarlo e soprattutto ci vuole molto tempo e «cariño» affetto, molto affetto e il nostro cuore di madri trova spazio a non finire e anche in forza della nostra consacrazione a Dio siamo capaci di abbracciare, non solo uno o tre figli, ma un «sin numero». Non contente di quest’opera, dopo tre anni, dai 200 m siamo andate a 3600 m, a Chivimarca (Cochabamba) «dove il diavolo ha perso il poncho». A fare che? «Tutto ciò che il vostro cuore di donne vi ispira» è quanto i Padri Salesiani, che operano nella stessa grande zona, ci hanno detto. Educazione alla giovane, alle donne, alfabetizzazio-
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Molti altri ricordi mi affiorano alla mente: il mio lavoro presso la scuola di agraria, il rapporto con i ragazzi e il loro insegnante, le suore di Ayacucho e il piccolo allevamento di conigli che ho avviato per loro e per le ragazze dell’internado (collegio), le visite assieme ai missionari, alle comunità che si trovano all'interno, tutte le volte che sono rimasto infangato con il fuoristrada e i bambini
ne, salute. Oggi, dopo 20 anni, è un centro educativo molto forte e prepara i professori per le scuole. Dopo altri tre anni un’altra comunità, nella periferia della città di Cochabamba a 2600 m, zona agricola, però senza acqua, tuttora la gente la compera dalle autobotti che passano tre volte alla settimana. La gente è per di più proveniente dall’altipiano, dalle miniere chiuse, che vengono alla città in cerca di lavoro che non trovano e che si mettono a costruire i mattoni «adobe» di terra battuta e al piccolo commercio. La nostra presenza e servizio sono rivolti soprattutto alla salute di questa gente e all’educazione delle famiglie con il sistema delle adozioni a distanza, e poi alla catechesi a vari livelli con le giovani che si preparano alla vita religiosa. Dal 1998 siamo a 4200 m a El Alto (La Paz) come comunità inserita per venire incontro alle necessità della gente. Vorremmo essere di più per poter fare di più. È una goccia ciò che possiamo fare ma speriamo che non sia inutile, Il cuore vorrebbe e vedrebbe tante altre necessità, ma sappiamo che arriva il Signore e per questo la nostra preghiera perché «il pane quotidiano» non manchi a nessuno. «Partire non è tutto» frase del vecchio canto «esci dalla tua terra...» che mi ha accompagnato lungo questi 22 anni di Bolivia, i più belli della mia vita di suora e nei quali ho riscoperto l’amore di Dio per l’umanità sentendomi amata da Lui e cercando di donare questo stesso amore a quanti mi stanno vicino. È molto di più ciò che ho ricevuto da questa gente tanto diversa per cultura, ambiente fisico e sociale nelle nostre quattro comunità, che ciò che ho dato loro. Sono grata alle tante persone che non conosco personalmente ma che porto nel cuore e presento a Gesù nella preghiera e che sono «la nostra grande mano della Provvidenza di Dio che ha cura dei suoi piccoli». Noi, senza di voi, non potremmo fare ciò che riusciamo a realizzare. Grazie, grazie di cuore per stimolarci, con la vostra generosità, a donarci sempre di più come «gagliarde facchine del Buon Dio». Con affetto Suor Generosa, suora della Provvidenza della Bolivia
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Ho incontrato Cencio Besa le prime volte a casa sua, intento a lavori domestici o di giardinaggio, con il cane Hegel che gli scodinzolava intorno. Dopo la lezione di catechismo della signorina Anna, sorella di Vincenzo, i biscotti al cioccolato e l’aranciata, era proprio Hegel – nome appioppato da una famiglia di maestri – che ci faceva divertire e ci rendeva più piacevole questo momento del sabato pomeriggio. Cencio, con le maniche della camicia arrotolate, spesso si affacciava alla porta del soggiorno che dava sul giardino e lo richiamava fuori, preoccupato che potesse disturbare le parabole evangeliche, i fioretti della settimana, le virtù teologali e i sette sacramenti che noi bambi-
ISTANTANEE DI UN ALPINO IN GUERRA, POI MAESTRO IN PRIMA LINEA CON LE ARMI DELLA PAROLA
Cencio Besa di Fabrizio Fucile
NELLA FOTO IN ALTO: CENCIO TRA I SUOI ALPINI.
ni interrogati inanellavamo uno dopo l’altro, senza renderci propriamente conto delle verità e dei misteri che stavamo sbucciando come noccioline. Di fronte alla esuberante vivacità della moglie Alba e alla loquacità della sorella mi hanno sempre colpito la calma, le parole misurate di Cencio, la tranquillità dei gesti e delle espressioni che, troppo piccolo per capirlo, erano espressione del suo temperamento e della sua forza interiore. Vincenzo era nato a Santa Lucia l’8 ottobre del 1915, quartogenito dopo Luigi, morto diciotenne per l’epidemia di spagnola, Anna ed Elio. Senza aver conosciuto il papà Eugenio, mancato tragicamente lontano da casa, era cresciuto sostenuto dall’affetto della mamma Maria Fort, dei fratelli e dello zio paterno don Niccolò, presso il quale, nella parrocchia di Malnisio, i tre piccoli Besa vissero i primi anni della loro infanzia e sotto il cui occhio vigile completarono la formazione ele11
mentare. Anna studiò poi presso le suore Canossiane di Venezia, Elio seguì la vocazione sacerdotale; dopo la quarta e quinta ginnasio al Don Bosco, anche Vincenzo preferì il diploma magistrale. Impossibile non rievocare la sua gioventù di soldato. Ammesso quale aspirante allievo ufficiale di complemento alla scuola di Bassano del Grappa Arma di fanteria nel giugno 1937 e giunto all’8° reggimento Alpini nel marzo dell’anno successivo per prestare il servizio di prima nomina, partì con esso da Bari il 16 aprile 1939 arrivando due giorni dopo a Durazzo. Esattamente dopo un anno di servizio in Albania, durante la notte tra il 20 ed il 21 aprile, Cencio rimase ferito ad un braccio durante un incendio. Così recita in merito all’episodio il rapporto del colonnello Dapino, comandante del reggimento: «Al segnale d’allarme gli alpini della 16a compagnia sono balzati pronti, pieni di slancio. Con coraggio e con ammirevole noncuranza del pericolo si sono prodigati per isolare e spegnere l’incendio e per sottrarre alle fiamme i materiali che ancora si potevano salvare. Cito all’ordine del giorno la 16a compagnia e in particolare elogio il S. Tenente Besa Vincenzo che in quel giorno comandava interinalmente la Compagnia per la prontezza di spirito e l’ardimento dimostrati». Dopo dolorose peregrinazioni tra gli ospedali militari di Tirana, Bari e Udine rientrò in servizio il 1 novembre del 1940. Sbarcò a Durazzo il 16 di quel mese e riprese il suo posto tra i compagni. Nel febbraio del ’41 in seguito ad una caduta in terreno accidentato fu nuovamente ospite degli ospedali di Valona e Tirana. Rientrato in Italia e trascorsi periodi vari di convalescenza e visite mediche, fu trasferito al 26° Battaglione complementi. Partì per la Francia come comandante di
compagnia il 20 gennaio 1943. Il 9 settembre dello stesso anno, caduto prigioniero dei Tedeschi, fu mandato in Germania. Lanciandosi dal treno in corsa, riuscì a fuggire e riparò presso famiglie italiane e francesi. «Le difficoltà del vitto, la penosa condizione di vivere in casa altrui senza poter ricambiare minimamente, il timore di rappresaglie a carico delle persone che mi ospitavano, qualora mi avessero preso, il pericolo incessante del tedesco, i bandi di minaccia, emanati continuamente dallo pseudo governo italiano, m’indussero a tentare di raggiungere l’Italia attraverso la zona montagnosa. Il tentativo non riuscì». Sono righe scritte da Cencio nel suo rapporto per il periodo dall’8 settembre 1943 al 28 aprile 1945. Cadde nelle mani della Gestapo e nuovamente tradotto verso destinazione ignota. Fuggito per la seconda volta, dopo fortunose vicende e ormai segnalato come elemento sospetto, rientrò in Italia. Richiamato alle armi preferì scappare in montagna per unirsi ai partigiani. Inserito nella lista di essi dal Comando tedesco di Roveredo si rifugiò a Venezia, ospite di parenti, e lì rimase fino al giorno della Liberazione. Se tra i ricordi e le carte di Cencio troviamo tutti i documenti relativi al suo stato di servizio, all’incidente, agli elogi e compiaci-
menti per l’esemplare comportamento, agli auguri di pronta guarigione ciò dimostra quanto fosse viva in lui la consapevolezza di aver agito con coraggio e prontezza, buon senso e decisione e quanto queste doti Cencio le volesse far diventare compagne della sua vita futura. Nel suo rapporto personale la preoccupazione per la vita altrui è al di sopra di tutto; si respira il pericolo, ma non la paura. La fedeltà del soldato agli ideali patriottici di libertà e giustizia è più salda che l’attaccamento alla vita stessa. È stato l’esercito la vera scuola di Cencio; gli alpini i suoi maestri; un’Italia migliore la spinta ad essere in prima linea senza vanità. Solo di sfuggita l’ho visto dietro alla cattedra. Insieme alla moglie Alba, sposata nel 1949, insegnò per alcuni anni a Grizzo, passando poi a svolgere il suo servizio nelle scuole comunali di Dardago e Budoia. In un’epoca in cui i maestri per insegnare usavano sia le mani che le parole, Cencio ha sempre usato le parole. Le metafore semplici che arrivavano all’essenziale, la pazienza che conquistava anche i meno desiderosi di apprendimento. Era attento allo stato d’animo degli scolari, anche se le cause della loro ansia e delle loro preoccupazioni erano da cercarsi lontano
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dai banchi e dai calamai. E fuori dall’aula, ai genitori preoccupati dei progressi didattici dei figlioli, i successi venivano sottolineati e gli insuccessi si addolcivano in quella sua parlata veneta, cortese e cordiale, quasi musica, un tempo usata per essere più vicini alla nostra gente poco avvezza all’italiano. L’ho sempre incontrato al Pan e Vin. In quello che è l’incontro aconfessionale ed apolitico per eccellenza, tra fede religiosa e credenze popolari, appuntamento comune per la celebrazione della nostra anima contadina, lui era sempre presente. Quando dopo le Litanie e le varie villotte – nome ingrato per poesie di profondo romanticismo nel senso più letterario del termine – gli chiedevamo di intonare Stelutis, lo faceva quasi con religiosa reverenza, accompagnata da una solenne raccomandazione «questa la xe dificile». Difficile perché? Per l’estensione, per una lingua diversa dalla nostra? Penso che a suo modo lo dicesse a se stesso; difficile per lui perché lo impegnava in ricordi e riflessioni faticose. Se tu vens ca su tas cretis, la che lor mi han soterat; a volte l’ho visto commuoversi. Quanti compagni persi; quanta fatica e quanto coraggio dovevano ricordagli i versi di quel
virtù introvabili al giorno d’oggi. E quando le trovava, in sé e negli altri, si sentiva fiero e valoroso. L’ultimo ricordo che ho di lui risale a un tardo pomeriggio del periodo natalizio del 2001. Era venuto a trovare mio suocero, Fausto, costretto a casa dalla rottura del femore. Era un Cencio diverso, anche lui appoggiato ad un bastone, a tratti quasi lontano, ma non assente; difficile ritrovare in lui il maestro o il soldato, ma non l’amico. Anche negli acciacchi della vecchiaia, senza più la forza di un tempo, conservava la forza dell’affetto e della stima solidale ai compagni di giovinezza; pur stanco e affaticato gli rimanevano comunque integri il coraggio e la dignità di resistere alle prove della vita e chi gli era più vicino poteva capire che l’impavidità e la sfida temeraria alla morte, compagne di un tempo, si erano smorzate di fronte alla debolezza degli anni e alla perdita dei suoi cari. So che non si possono raccogliere le stelle alpine, ma invito comunque chi lo ha conosciuto come compaesano, rispettato e affettuosamente amato come maestro, a raccoglierne una tra le montagne d’amorosi sensi e posarla dove riposa Cencio, perché sot di lor, come tanti suoi commilitoni di un tempo, possa dormire cujet.
UN GRAZIE A QUANTI – AMICI E ALLIEVI – MI HANNO PARLATO DI CENCIO; UNO PARTICOLARE AD EMANUELA PER LA DISPONIBILITÀ E LA STIMA AFFETTUOSA DIMOSTRATA NELL’AIUTARMI A RICORDARE
NELLA FOTO A SINISTRA: IL MAESTRO CENCIO
SUO PADRE.
CON GLI ALUNNI DELLA CLASSE DEL 1966, A CONCLUSIONE DELLA SUA VITA LAVORATIVA, NEL 1973.
in ricordo del maestro
brano. Fra i suoi commilitoni, subalterni o superiori che fossero, aveva trovato fiducia, stima, rispetto e forse anche quell’affetto paterno che gli era tanto mancato. E accanto a questo ricordo gli si allargava il cuore di gioia nel cantare la montagna, dove nella sua casa in Sauc ritrovava serenità e vigore. L’aveva voluta con tanto amore, costruita con le sue mani e con l’aiuto di Alba, fedele compagna di una vita. Negli anni l’aveva migliorata ed insieme vi trascorrevano le giornate libere, ma senza passarci la notte, perché a casa, a Santa Lucia, c’era Anna e lui non voleva che restasse a dormire da sola. La famiglia per Cencio era rimasta negli anni quella che gli aveva dato la vita e quella che egli aveva voluto per sé. Diversamente amate, ma ugualmente rispettate e protette. Forte della sua passione, come amministratore locale aveva sostenuto il progetto Venezia delle Nevi, sicuro che avrebbe dato vitalità e nuovi sviluppi economici e turistici alla montagna di Budoia. Ma non sono mai spiccati in lui l’ambizione, il distacco e la furbizia del politico. Cencio non cercava la gloria, ma l’umanità delle persone. Cencio di nome e di fatto, amava definirsi con ironia. Non si celebrava, ma si vantava dell’onestà e dell’umiltà,
Quando arriva il momento del distacco, i ricordi si fanno più vivi, soprattutto verso coloro che hanno avuto un ruolo fondamentale e quindi incancellabile. Chi scrive è doppiamente grato al maestro Vincenzo: prima perché allievo, nelle classi IV e V; poi come suo segretario negli anni ottanta quando era Capo Gruppo degli Alpini di Budoia. Di lui ricordo il suo attaccamento alla scuola e agli scolari, una passione condivisa con la moglie Alba e con gli altri maestri nostrani: Giacomo Zanchet, Armando Del Maschio e Umberto Sanson, tutti scomparsi; una generazione di educatori solidi, forti, di specchiata fedeltà e senso del dovere verso l’istituzione, verso la Patria. Da capitano degli Alpini il suo tenace attaccamento ai «valori» quelli imperituri, senza i quali la nostra vita non avrebbe senso e quindi da Capo Gruppo di Budoia, sempre attento a non travalicare, sempre pronto a dare una mano, sempre con il sorriso sulle labbra, quasi a dirci che «gente allegra il cielo aiuta». Da pubblico amministratore, anche qui il maestro ha trasfuso – e non poteva che essere così – tutto quello che in precedenza si è detto, in un periodo in cui la tecnologia non era così avanzata ad alleviare il lavoro. Solo la buona volontà, l’ingegno, pochi uomini e mezzi a disposizione e la forza interiore di fare bene e farlo per il bene della collettività. Ci mancherà il maestro Cencio; non lo dimenticheremo. Sarà il modo migliore per ricordare l’educatore, l’amministratore attento ed onesto, l’Alpino integerrimo, il buon padre di famiglia.
MARIO POVOLEDO
(FOTO DI PROPRIETÀ DI ALBERTO DEL MASCHIO).
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Siamo un gruppo di persone che raccogliendo l’invito di Don Nillo Carniel, parroco di S. Lucia di Budoia da poco scomparso, continua ad occuparsi dei bambini Bielorussi colpiti nel loro territorio dalle radiazioni nucleari conseguenti la tragedia di Chernobyl.
Il gruppo Chernobyl «Don Nillo Carniel» Nell’anno appena trascorso abbiamo portato a termine alcune attività che ci hanno impegnato molto e di cui desideriamo parlarvi.
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Chi volesse contribuire può farlo con riferimento al CC n° 4693 presso il Credito Cooperativo Pordenonese, filiale di Porcia (Pn).
1. Intervento chirurgico e riabilitazione per ridurre gli handicap di cinque bambini; 2. ospitalità di 13 bambini e 2 accompagnatrici provenienti dall’istituto di Ivenetz in una struttura a Lignano Sabbiadoro con tutte le spese sia di viaggio che di alloggio a carico della nostra associazione; 3. accoglienza di bambini ospiti delle famiglie. Il primo progetto ha impegnato alcune famiglie che hanno ospitato i bambini dal momento del loro arrivo in Italia fino alla dimissione dall’ospedale e per l’intero periodo di riabilitazione, durato più di due mesi, fino al ritorno in Bielorussia. Lo sforzo dei «genitori adottivi» è stato molto importante se pensate che oltre all’accoglienza in casa si è provveduto a portare i bambini quasi giornalmente nei luoghi di riabilitazione. È quindi grazie all’impegno continuo e costante di queste famiglie che il nostro progetto ha potuto essere realizzato. Per i bambini ospitati nella colonia di Lignano e per la loro salute, il soggiorno, allietato da splendide giornate di sole, è stato molto importante ed il beneficio conseguente notevole. Alcuni di essi 14
non avevano mai visto il mare prima; all’inizio erano restii a tuffarsi, ma già dopo qualche giorno non volevano più uscire dall’acqua. I bambini accolti nelle famiglie invece sono quelli che hanno dato più soddisfazione, per il crearsi di un tutt’uno con la famiglia stessa, specialmente dopo l’apprendimento delle prime parole in italiano. E così il mese di permanenza è scivolato via veloce e alla fine è come se ogni bambino fosse sempre stato in casa; ecco perchè al momento del distacco gli occhi di tutti si sono gonfiati di lacrime. Questi progetti sono stati realizzati grazie alla disponibilità delle famiglie e delle tante persone, enti pubblici e privati che ci aiutano con le loro offerte. A questo proposito vogliamo ringraziare tutti quelli che hanno acquistato biglietti della lotteria e tutte le persone che hanno acquistato oggetti in occasione del mercatino organizzato durante la Festa dei Funghi, e le signore Francesca Fort e Marcella Bastianello per l’aiuto nella realizzazione degli oggetti posti in vendita. L’Associazione «Don Nillo Carniel» vuole continuare ad operare, anzi se possibile conta di ampliare le sue attività aiutando persone che sono in missione in Romania e in Moldavia. Noi contiamo, come sempre, sulla vostra generosità. Sperando che le notizie pubblicate vi abbiano interessato, vi salutiamo cordialmente ed il prossimo anno saremo ancora qui per darvi il resoconto di come avremo impiegato le vostre generose offerte. IL GRUPPO CHERNOBYL «DON NILLO CARNIEL»
di Adelaide Bastianello
Da via pal mondo, i nostre i ne conta...
BATTERIA PER LA FESTA DEI COSCRITTI.
È noto che il Friuli è terra di emigranti. Sin dai tempi più lontani i nostri giovani lasciavano le loro famiglie per andare «pal mondo a fà fortuna», così dicevano, in cerca cioè di un lavoro che desse loro la possibilità di crescere, vivere, mandare i soldi a casa e formarsi anche una famiglia. C’è chi ha fatto più fortuna di altri, si sono in ogni caso distinti e fatti conoscere nel mondo per persone fidate, oneste e operose. Molti ragazzi partiti come giovani
manovali sono diventati poi muratori e a loro volta impresari: giovani «comins» sono diventati camerieri, direttori d’albergo e albergatori ed ora dal mondo, o semplicemente dall’Italia, ci fanno sentire la loro storia. Dobbiamo affermare che è difficile farsi raccontare come sono diventati, perché il friulano tende sempre a minimizzare, semplificare, a non dare importanza alla sua persona, tipico è il detto «eh, cossa voto che sea», «i à volut meteme sul giornal, ma mi no ài fat niént». Questa premessa per introdurre una rubrica che vuole dar voce alla nostra gente, che ha lasciato il paese e la famiglia per cercare un lavoro nel mondo, partendo con una valigia, tanta buona volontà e tanti sogni e speranze.
Verso i primi anni ‘50 era un giovane di 14 anni come tanti altri che, finita la scuola dell’obbligo, doveva decidere il suo futuro: nonostante i maestri lo spingessero a continuare gli studi perché «prometteva bene», suo malgrado, doveva rinunciare alla scuola a causa della mancanza di denaro. Anche i soldi della corriera erano un lusso, non restava quindi che il lavoro. Lui una cosa però sapeva bene: non avrebbe fatto il contadino, il lavoro non gli piaceva, ai suoi occhi non era stimolante.
Nel suo cuore aveva un sogno: i ragazzi più grandi di lui, che erano partiti dal paese, tornavano ben vestiti, contenti e con qualche soldo in tasca, vedevano il mondo e parlavano di tante cose a lui, così curioso e interessato alle novità, sconosciute e intriganti. Bisognava però trovare l’occasione giusta e questa gliela fornì il «santolo Angelin Zambon». «Non ti preoccupare, vieni a lavorare con me a Verona» gli disse. A quei tempi si tendeva a cercare un posto negli alberghi, perché, oltre al lavoro, offrivano vitto e
alloggio e quello che guadagnavi era pulito. Eccolo dunque partire: il primo passo verso la realizzazione del sogno era stato fatto. Ora bisognava buttarsi a capofitto e pensare solo al lavoro: questo non era difficile perché, a differenza di oggi, i principianti o apprendisti non avevano diritto a giorni di riposo o a giorni di ferie. Eccolo dunque a lucidare ottoni, a pulire, a fare ogni lavoro umile che gli consentisse di guadagnare. Dopo poco però decise che doveva proseguire il cammino, eccolo
UN ESEMPIO PER MOLTI GIOVANI CHE INIZIANO LA LORO VITA DA ADULTI GIÀ CON MOLTE PRETESE, MA POCO DISPONIBILI AD ACCETTARE SACRIFICI O RINUNCE.
NELLA FOTO: PIETRO VETTOR CARIOLA ALLA
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quindi al mitico «Danieli» a Venezia come «comin». Già si sentiva un arrivato, il piccolo sognatore stava conquistando il mondo: attori famosi, personalità importanti, questo era quello che vedeva dal suo punto di osservazione nelle prestigiose sale ristorante del «Danieli», mentre preparava i tavoli o portava via i piatti e intanto imparava il mestiere. Ora la sua meta era diventare un bravo cameriere e poi chissà… Luigi Zambon (Gigetto Rosit) era per lui un esempio da seguire, non sarebbe mai arrivato a tanto, certo no, ma avrebbe almeno cercato di fare del suo meglio. Trascorsi tre anni decise che la conoscenza delle lingue straniere era indispensabile per migliorare: un po’ di inglese lo ma-
sticava, bisognava ora imparare il tedesco. Gli fu offerta la possibilità di sostituire Luigi (Gigi) Bocus in un ristorante a Francoforte, prese quindi la solita valigia e partì alla volta di Francoforte, come cameriere questa volta. Vi rimase due anni, giusto il tempo per imparare a sostenere, senza problemi, una buona conversazione in lingua tedesca. Ora poteva scegliere il lavoro che più gli piaceva e dove voleva. Decise di provare in Svizzera, senza sapere che S. Moritz gli avrebbe cambiato il corso della vita: qui, infatti, incontrò una giovane spagnola che poi diventò sua moglie. Dopo oltre un anno di lavoro insieme, c’era un bimbo in arrivo. Poiché, nella Svizzera degli anni ‘60, le immigrate in at-
2.
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FOTO 1. PIETRO VETTOR FOTO 2. GIANCARLO ZAMBON FOTO 3. ALFREDO ZAMBON FOTO 4. LUIGI ZAMBON (AL CENTRO) FOTO 5. EVARISTO BUSETTI (A SINISTRA)
tesa di figli dovevano lasciare il paese, dovette ripartire e scelse quindi di stabilirsi a Milano dove poteva contare sulla compagnia della sorella Luciana e di Camillo Bastianello (Thisa). Come si sa i compaesani si aiutavano sempre tra loro e la fortuna volle che si rendesse disponibile un posto di cameriere al mitico «Savini» in Galleria Vittorio Emanuele. A quale posto più prestigioso poteva ambire il ragazzino partito tanti anni prima, pieno di belle speranze e di sogni? Ora doveva dimostrare di valere veramente qualcosa, la bicicletta gli era stata data un’altra volta... ora doveva pedalare in salita. Nei successivi 30 anni di lavoro al Savini ne fece di strada! Dopo otto anni divenne Maître d’hotel: 3.
ricetta
con la quale Pietro Vettor nel 2000 ha vinto il premio «Cucina alla lampada da tavolo»
GAMBERONI PRIMAVERA 5 PERSONE 12 gamberoni 1/4 di panna da cucina, 70 g di burro 3 cucchiai d’olio di oliva 5/10 g di zafferano 500 g di verdure miste «julienne» sale, pepe q.b., cognac, prezzemolo INGREDIENTI PER
PREPARAZIONE
Rosolare i gamberoni con olio di oliva e burro, bagnare con il cognac, flambare, aggiungere panna, zafferano e cuocere per qualche minuto. Togliere i gamberoni
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dal tegame e porli nel piatto. Ridurre la salsa e coprire i gamberoni. Far cuocere le verdure e guarnire. GUARNIZIONE E PRESENTAZIONE
Su piatto rotondo del diametro di cm 28, con verdure miste tagliate sottili e brasate. COMPOSIZIONE VINO
Pinot Grigio: ottenuto da uve nere vinificate in bianco dal carattere organolettico di grande pregio. Vino bianco secco tranquillo, dal profumo delicato; da servire alla temperatura di 10/12.°
Associazione Maître Italiani Ristoranti Alberghi
Questa è un’organizzazione riconosciuta a livello internazionale dove, durante i congressi annuali indetti dall’associazione, i Maîtres si ritrovano per proporre, nuovi piatti e migliorare il servizio. A questo club aderiscono più di 4000 associati sparsi in tutto il mondo. In quarant’anni di vita, l’associazione ha conferito a 60 Maîtres il titolo onorifico di Grande Maestro della Ristorazione. Per poter concorrere ad ottenere questo titolo bisogna essere iscritti all’associazione, essere presentati da un socio e vantare un curriculum vitae che possa dimostrare d’aver lavorato per almeno 15 anni in alberghi o ristoranti ad alto o altissimo livello con mansioni dirigenziali (maitre o direttore). Scorrendo i nomi dei 60 Grandi Maestri insigniti dell’onorificenza si nota che ben quattro di loro provengono da Dardago e uno da Santa Lucia. I loro nomi sono stampati nell’albo dell’Associazione e sono:
Alfredo
Gigeto
Giancarlo
Perin
Busetti
NOME, COGNOME
Alfredo Zambon
Luigi Zambon
Giancarlo Zambon
Pietro Vettor
Evaristo Busetti
HOTEL/RISTORANTE
–
Savoy Hotel
Hotel Cavalieri Hilton
Savini
Jolly Hotel
SEDE DI LAVORO
Venezia
Londra
Roma
Milano
Trieste
ANNO DI NOMINA
1978
1982
2000
2000
2000
4.
5.
era chiamato a servire i personaggi più noti durante le riunioni più importanti, la sua serietà professionale, la sua riservatezza erano una garanzia indispensabile. Non un giorno di assenza o malattia. Venne in contatto con personaggi influenti e famosi provenienti da tutto il mondo: capi di stato, industriali, principi, cantanti, attori e direttori d’orchestra (il teatro alla Scala è a due passi dal Savini), sarebbe troppo lungo elencarli tutti, certo è che di soddisfazioni e rivincite se ne prese molte. Per migliorare la sua cono-
scenza e per rimanere nell’ambito dei professionisti più conosciuti s’iscrisse all’AMIRA (Associazione Maitres Italiani Ristoranti e Alberghi) e nel 2000 anche al giovane ragazzo, Pietro Vettor, partito da Dardago nei primi anni ‘50 è stato conferito l’onore di ricevere il collare di Gran Maestro della Ristorazione. Una riconoscenza inaspettata, ma a lungo sognata, preceduta da sacrifici, onestà e caparbietà. Durante gli incontri annuali dell’Associazione, grande soddisfazione e gratificazione gli è 17
giunta anche dal premio vinto nel 2000 presentando alla gara «Cucina alla lampada da tavolo», per la sezione di Milano, una ricetta da lui inventata. L’esperienza che ha acquisito in tutti questi anni di lavoro ad alti livelli, gli permette ora di essere a sua volta «giudice» e far quindi parte di commissioni nelle scuole alberghiere, per gli esami del settore ai giovani allievi e futuri camerieri e barman. Finalmente il piccolo Perin Cariola, ormai nonno, ha avverato il suo sogno di bambino.
’n te la vetrina NELLA FOTO: SANTINA BESA FORT PALANCA (N. 1889) CON LA FIGLIA RINA IN PIAZZA SAN MARCO A VENEZIA, NEL 1919-’20 (FOTO DI PROPRIETÀ DI ORFEO FORT)
SOTTO A SINISTRA: ANNA PARMESAN DANUT IN JANNA CON LA FIGLIA ROSA IN UNA FOTO SCATTATA A VENEZIA NEL 1908. (FOTO DI PROPRIETÀ DI SANTE UGO JANNA)
SOTTO A DESTRA: OSVALDO BOCUS, SVALDIN FRITH, MILITARE NEL 1942 A SCUTARI (ALBANIA), IN COSTUME TRADIZIONALE ALBANESE. (FOTO DI PROPRIETÀ DI OSVALDO BOCUS)
NELLA FOTO: GEMONA 1927. UN NUTRITO GRUPPO DI ALPINI DI LEVA, ALL’ESTERNO DELLA CASERMA DI GEMONA. TRA QUESTI GIUSEPPE CARLON SACCON, IL QUARTO DA SINISTRA, IN SECONDA FILA. (FOTO DI PROPRIETÀ DI ELENA E LAURA CARLON)
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QUATTRO GRUPPI DI FAMIGLIE PRESENTI IN FRIULI A PARTIRE DAL 1250-1400
I Pup(p)in(i) di Osvaldo Puppin
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più modestamente; i rondoni hanno sollevato qualche coppo del tetto, come a casa mia, a Budoia... Chissà, forse era proprio questa l’abitazione di una delle famiglie PUPPIN di Costalungal L’aria scotta, c’è silenzio, interrotto solo dal ronzio di qualche bombo che cerca il nettare tra i
Un giovane che non conosce i suoi avi è come una foglia che non sa di appartenere a un albero
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23 LUGLIO 1991 È mezzogiorno, ed ho appena terminato la consultazione, frenetica, (...sto utilizzando una settimana di ferie per continuare queste ricerche) degli archivi di Campeglio-Raschiacco, è andata bene, grazie anche alla cortesia del Parroco ed alla ospitalità di amici di Udine. Fa caldo, il sole picchia forte a quest’ora, e mi inerpico con la Ritmo ansimante lungo la valle dei Grivò, percorrendo una stradina
che diviene sempre più stretta, è sterrata nell’ultimo tratto. Lascio l’auto all’ingresso del Borgo di Costalunga e mi incammino, nel sole infuocato, fra le case di sasso del paese. Nessuno!... Solo lucertole che corrono scattando sui muri e fra il pietrisco del viottolo. Mi avevano avvisato! Più nessuno abita ora qui stabilmente. Solo case sbrecciate, con i pioi quasi senza più tole, con il tetto cadente, si altemano ad altre abitazioni recentemente ristrutturate in un gradevole stile rustico. Percorro il viottolo di destra ed ecco, dopo qualche casa, ormai al termine della borgata, apparire, giù in fondo, 4-500 metri sotto di me Feadis. Terra dei miei avi? ... Può anche darsi! Sicuramente terra di alcuni Puppin che scendevano lungo questa erta scoscesa e boscosa per le cerimonie «importanti»: per il matrimonio, per portarvi i figli a battezzare, chissà forse anche per i funerali.. e poi risalivano faticosamente il pendio, per tomare a quelle semplici dimore ora slabbrate dal terremoto da 1976. Un uscio di una casa ristrutturata è rimasto aperto, ed attraverso il robusto cancelletto in ferro che la protegge si intravvede un frigo, aperto pure lui, con una bottiglia di whisky nella mensola... dov’è finita la buona grappa dei nostri veci? Povere tradizioni! Mi sposto verso la parte ovest del Borgo: altre case, restaurate
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LE PERSONE (II) Dei quattro nuclei di insediamenti certi di PUP(P)IN(I) che dal 1500 troviamo in Friuli, in un numero precedente abbiamo parlato di Budoia, di Cavazzo Carnico e delle eventuali connessioni con Bologna. Passiamo ora ad esaminare Faedis e Roverbasso di Codognè (quest’ultimo, anche se oggi in terra trevisana, era storicamente legato al Friuli tramite il Comune di Brugnera e l’influenza dei conti di Porcia). E poi?… Schio che cela agganci con l’Alto Friuli, probabilmente Faedis, l’Austria con i suoi Pupini provenienti da Bagnarola sopra Portogruaro, Serbia-Polonia-Lituania quasi sicuramente collegate con il Trevisano… Prima di descrivere brevemente questi gruppi voglio iniziare esternando sentimenti e riflessioni che mi hanno pervaso, una decina di anni fa, in occasione della mia prima visita a Costalunga di Faedis…
PROVERBIO NILOTICO
fiori che crescono nelle aiuole rocciose o fra i ruderi... Proseguo.. altri ruderi con il cartello «Vendesi» ed un numero di telefono, non di Faedis... Una borgata in vendita... Un ciapitèl con una madonnina votiva ncorda un campo scout di tre anni fa, chissà se allora qui risiedeva ancora qualcuno... passo oltre e quasi all’estremità del paese una lapide a ricordo dei nove ignoti partigiani delle brigate Garibaldi-Osoppo in quell’occasione unite, che il 29 settembre 1944 arsero vivi nella casa incendiata dai nazifascisti. Quante violenze hanno visto queste colline! I saccheggi dei cividalesi del 1300, le rivolte del 1500, gli assedi e le distruzioni dei castelli vicini: Cucco, Printi-
stagno, Suffumbergo ... gli incendi delle povere case del paese, le viti e gli alberi tagliati alla base durante le scorrerie delle bande armate ... quelle dei soldati di ambedue gli schieramenti durante la Grande Guerra del 1915-18, .... ed anche ora poco più in là oltre quel crinale in Iugoslavia si sta sparando... Il viottolo si è fatto più ripido ed ecco all’inizio del Borgo, ad accogliere chi sale a piedi come un tempo da Faedis, la cappellina. È spoglia, con abbandonate panche e tavole disordinatamente accatastate, qualche sacco di malta e calcinacci qua e là, ad indicare la volontà di un restauro iniziato, ma non ancora concluso. FAEDIS E LA VALLE DEL GRIVÒ Le ricerche per questi rami sono ancora in corso; abbiamo al 1600-1700 una consistente presenza a Costalunga, citazioni, ma non residenze a Cividale, una discesa certa a Raschiacco, una molto probabile a Remanzacco, sporadiche presenze nelle valli del Natisone. I PUP(P)IN(I) di Faedis sono oggi diffusi in tutto il Friuli centrale ed orientale (tra loro vi è anche un campione di go-kart) presentano la grafia del cognome la più variata, come si è potuto desumere dalle lapidi presenti nel cimitero. L’aspetto più stimolante riguarda però le origini di questo gruppo e le varie ipotesi – da verificare – di una loro connessione con eventi storici e con gli altri gruppi. Il patriarca Popone insedia il conterraneo Schinella, nel lontano 1027, quale conte di Cucagna (nome che deriva dal colle dal quale si domina la zona). Con il procedere degli anni i Cucagna divengono marescalchi (ossia amministratori) del Patriarca ed acquisiscono diritti sul lago di Cavazzo e qui si pongono molteplici interrogativi: legame con l’altro nucleo di PUPPIN?; quali ammi-
nistratori sono uomini di fiducia: legami con la Masovia polacca dei cui granduca il Patriarca era cognato (vedi l’Artugna n. 58, dicembre 1989 pag. 7-9. l’Artugna n. 62, aprile 1991 pag. 8-10. l’Artugna n. 92, aprile 2001 pag. 10- 12); rapporti di alleanze con le altre due famiglie nobili più potenti della Patrie: i Polcenigo [legami con Budoia?] ed i Porcia [legami con Roverbasso?]... I PUPIN DI SCHIO Bernardino (n.v.1640) di Iseppo è la prima traccia documentata presente negli archivi dei Duomo. Lunghe traversie e incendi di canoniche hanno distrutto molti registri ed alcuni «originali» più antichi (purtroppo in calligrafie «impossibili») sono consultabili solo in microfilm... tuttavia esiste ancora tra i PUPIN di Schio il ricordo tramandato di un antenato che «trattava in legname» e che si fermò in tale cittadina fuggendo da una grande peste dell’Alto Friuli [Faedis?], dopo che i monatti, di manzoniana memoria, lo avevano posto ancor vivo sul carro dei cadaveri (a Udine? o a Cividale?). Nell’arco di tutto il 1700 troviamo a Schio parecchi PUPIN tessitori; con Domenico (nato nel 1803 e morto di vaiolo nel 1856) inizia quella generazione di pittori che continua ancor oggi con Bepin (classe 1907, conosciuto in un incontro indimenticabile una dozzina di anni fa) e che ha il suo culmine con Valentino (18301886) che affrescò, oltre al Duomo di Schio molte chiese del Vicentino. Ben dodici sono i pittori scaturiti da questo gruppo e ricordati da testi, cataloghi, riviste d’arte figurativa. Oltre al Vicentino abbiamo qualche presenza a Milano, a Catania, una presenza temporanea in Eritrea. Va anche ricordato Tiziano, missionario salesiano in Messico, cui è stata colà recentemente dedicata una strada. 20
ROVERBASSO DI CODOGNÈ Pietro di Pupo nasce a Codognè verso il 1365 e di professione fa il munaro (= mugnaio); al 1550 il cognome sarà cristallizzato in MUNARO (Paolo, Domenego...). Ma altri mugnai continueranno ad operare a Roverbasso mantenendo invece, ormai cristallizzato, il cognome PUPIN (1541, arch Altàn). Abbiamo a quest’epoca un proliferare di nomi e di spezzoni di genealogie difficilmente collegabili fra loro se non attraverso fortunate citazioni in testamenti e atti notarili del tempo. I sia pur ben tenuti archivi parrocchiali non ci consentono infatti di risalire nel tempo ad un punto tale che ci permetta di dipanare tale matassa. Friulani in territorio trevisano? Sì, perché fino alla fine del 1400 Roverbasso, collegata con Brugnera e con i conti di Porcia, è stata territorio della Piccola Patria, anche se circondata da possedimenti della nobiltà trevisana. Sotto la Repubblica Veneta le famiglie divengono sempre più numerose e così nel ‘600 Toni
PUPIN è costretto a pagare una multa per un prelievo abusivo di ghiaia dal terreno comunale... Passa il tempo e si susseguono le generazioni... chi resta a Codognè da villico passa a fare il muratore, o il barista, Noè si trasferisce a Treviso negli anni ‘20 ove avvia una rinomata bottega di calzoleria che ancora ne porta il nome, qualcuno emigra in Venezuela, Attilia negli Usa... Altri PU(P)IN avevano però intrapreso strade diverse: Giacomo, nato nel 1688 a Roverbasso, si trasferisce a Porcia; i suoi pronipoti, nati alla fine dei 1700 diverranno ottimi artigiani a servizio dei conti del luogo; dei loro figli qualcuno cerca (e fa) fortuna a Venezia, qualcun altro resta a lavorare in zona... qualche altra generazione e giungiamo ai tempi nostri: le Mercerie PUPIN di viale Martelli a Pordenone, Rodolfo, esperto rocciatore inspiegabilmente caduto sul Monte Cavallo il 15 agosto 1997, Paolo apprezzato commercialista pure prematuramente scomparso, Carlo tra i fondatori dell’Associazione Arbitri. Un altro ramo da Porcia emigra in Francia ed in Belgio. Altri ancora si distinguono a Prata di Pordenone, o «ritornano» verso il Friuli, a Sedegliano e a Codroipo. Un gruppo di famiglie assume il soprannome da un avo comune dopo il trasferimento a Oderzo; sono i PUPPIN dicti Battiston. Sette famiglie di loro emigrano in Brasile e si insediano a Batatais, a nord di San Paolo ove ben 12 vie o piazze portano il nome di qualche Puppin o Pupim. Uno di loro rientra in Italia ancora ragazzo: è quel Gigi di cui lo scrittore Bucciol parla tanto nei suoi libri di storia locale e che è stato uno dei pionieri della coltivazione di mais ibridi a San Donà di Piave. Nelle campagne di Piavon convergono (da dove? Stiamo ancora cercando di appurarlo ... ) a fine 1700 due gruppi che assu-
meranno dimensioni veramente considerevoli. Nella frazione di Valentigo si stabiliscono nel 1792-3 i discendenti di un certo Francesco (nato verso il 1735). Ben dodici famiglie di suoi nipoti o pronipoti emigreranno in Brasile tra il 1887 ed il 1888, dopo aver lasciato Piavon attorno al 1873, insediandosi sia nello stato di San Paolo che in Paranà. Chi resta in Italia si trasferisce a Casarsa, e da qui qualcuno va in Calabria, il figlio risale a Bolzano; altri in Argentina, un altro gruppo in Sardegna ove si distinguono nella selezione di bovini da latte. Oggi riscontriamo loro presenze anche in Piemonte, a Padova e nell’Isontino. I discendenti di GioBatta (nato verso il 1750) giungono a Piavon poco dopo e da qui si disperdono in tutto il trevisano e la parte orientale della provincia di Venezia, perdendo rapidamente la conoscenza dei rapporti di parentela che li legano; qualcuno emigra in Belgio, a Panama (ove una PUPPIN è campionessa di tennis), in Svizzera, in Francia... e poi a Bologna, in Lombardia, Liguria, nel Bellunese oltre ovviamente a Venezia (e ricordiamo zio e nipote campioni di rally). Nel 1585 a San Giorgio di Teglio un Marco PUPINO era fabbriciere «Revmus d. visitator apostolicus, auditis S. Marco Pupino camerario ecclesie S. Georgei de Tileo et...» ...ritroviamo ancora Puppin qualche anno dopo, nella vicina Bagnarola (sposo di una giovane di Oderzo) e poi a Portogruaro fino a metà dei 1800. Questo ramo, di cui siamo fortunosamente venuti a conoscenza attraverso la copia di una cartolina datata 10 novembre 1913 spedita da Pirano (allora nell’Istria austriaca – oggi Slovenia) dal dr. Orazio PUPINI a Carlo PUPPIN di Venezia (del ramo dei notai di Osoppo), ci conduce a Vienna, poi a Linz e, grazie ai recenti con21
tatti via intemet, sappiamo esser ora presente anche in Svezia ed in Argentina. Per la Serbia, la Lituania e la Polonia rimandiamo a quanto già pubblicato nelle note in calce all’articolo l’Artugna n. 58, dicembre 1989 pag. 7-9, e in l’Artugna n. 62, aprile 1991 pag. 8-10.
Debbo questi bozzetti alla cortesia di Giuseppe PUPIN n.1905, in occasione dell’incontro, che tuttora ricordo con estremo piacere, avvenuto nell'estate del 1988, nella sua casa di Schio, proprio di fianco al Duomo, un'antica dimora patrizia, ove lui ed Argia accolsero me e mia moglie con una cordialità squisita. Le pareti tappezzate di quadri di Giuseppe, di illustri colleghi, dei collages scolastici delle nipotine, ci han detto, molto più delle singole parole sulla capacità di tramandare l'arte di generazione in generazione; così come l'estrema lucidità dei nostri ospiti, a dispetto delle loro numerose «primavere» ci ha consentito di ricostruire gran parte della genealogia dei PUPPIN vicentini.
Don Lozer unprete scomodo RICORDO A CENTO ANNI DALLA PRIMA MESSA di Fernando Del Maschio
FOTO IN ALTO: DON LOZER NELLA SUA CHIESA IL 3 FEBBRAIO 1963, IN OCCASIONE DEL 60° ANNIVERSARIO DELL’ORDINAZIONE, CON DON ALFREDO, DON MATTEO E VINCENZO GISLON, IL CHIERICHETTO.
Il 2 febbraio 1903, nella splendida chiesa di Sant’Andrea Apostolo in Budoia, cantava la sua prima messa don Giuseppe Lozer, un prete che grande impronta della sua opera avrebbe lasciato nella storia pordenonese del ’900. Era di umili origini e fin dal tempo degli studi in Seminario era stato vicino alle idee progressiste che, seppur timidamente, cominciavano a entrare anche nella compagine del clero. Appena ordinato, venne mandato quale Amministratore parrocchiale a Torre di Pordenone, comunità fra le più difficili della Diocesi, dove i problemi della classe operaia si sommavano a quelli dei mezzadri e degli emigranti e dove la discussione politica e sindacale era particolarmente accesa con la presenza massiccia del partito socialista, allora anticlericale e rivoluzionario. Il giovane prete, – aveva meno di ventitrè anni – si rese subito 22
conto che non doveva limitarsi a predicare il Vangelo dal pulpito ma calarlo in pratica nella realtà parrocchiale. Deciso e volitivo come è sempre stato fin in tarda età si fece promotore di cospicue opere di promozione economica e sociale quali: la Cassa Operaia Agricola, la Cooperativa di Consumo, il Molino con il forno, la Biblioteca, l’Asilo e la Scuola di Lavoro per ragazze, l’Oratorio, le Case operaie, la Canonica e tutto questo nel breve volgere di neanche tre lustri. La Guerra Mondiale lo vide neutralista e per questo dovette soffrire l’internamento, quale persona sospetta, e altro tipo di umiliazioni. Con l’avvento del fascismo il prete, che godeva fama di socialista, fu ancora più perseguitato tant’è che i superiori pensarono di promuoverlo a Canonico della cattedrale e quindi chiamarlo a lavorare in Curia Diocesana (promoveatur ut amoveatur). Le sue capacità, però, si dimostrarono anche in quel nuovo incarico. Divenne il braccio destro del Vescovo Paulini, che però non mancava di invitare alle dimissioni quando il Presule fu troppo vecchio e infermo. Durante il suo lavoro in Curia fu cofondatore del settimanale diocesano IL POPOLO; si attivò per il trasferimento del Seminario da Portogruaro a Pordenone e tentò, senza riuscirci, di portare anche la sede vescovile in Friuli. Insegnava nel Collegio Marconi di Portogruaro e continuava a seguire le sue opere sociali, fascismo permettendo.
Durante la seconda guerra partecipò, naturalmente non in armi, alla resistenza e la sua fama di antifascista gli valse prigionia e rischio d’internamento nei lager. Alla fine del secondo conflitto chiese e ottenne la Parrocchia di Lorenzaga, dove fra l’altro ebbe come coadiutore l’allora giovane don Alfredo Pasut. Nonostante la breve permanenza (circa due anni) si segnalò anche là per le sue attività sociali e caritative. Nel 1947 ritorna a Torre dove trova una situazione indubbiamente migliore degli anni del primo novecento, ma di sicuro con molti problemi sociali ed economici. Non mancavano neanche, essendo lui un prete, le problematiche morali e religiose. Anche se ormai anziano, monsignor Lozer si butta a capofitto, con il suo solito stile, nell’agone dell’assistenza e della carità. Notevole da parte sua fu l’impegno politico, perché in quei tempi era costume che i preti si occupassero di politica. A tale proposito mi sento di smentire una diceria che andava per la maggiore anche nei nostri paesi e cioè che don Lozer era socialista. Per mia diretta conoscenza posso dire che il nostro illustre compaesano prima collaborò con il Partito Popolare di don Sturzo (anni venti) e poi fu attivo nella Democrazia Cristiana del dopo guerra. La nomea di prete socialista gli venne affibbiata senza dubbio dai proprietari terrieri e dai miopi imprenditori industriali ai quali don Lozer non risparmiava critiche e rimproveri in difesa dei deboli subalterni,
sia nei Sindacati di ispirazione cattolica che nelle famose Leghe Bianche degli agricoltori. Nel 1957 ritenendo di non essere più idoneo per età a reggere una parrocchia, spontaneamente si ritirò nella Casa di Riposo «Umberto I» a Pordenone, da lui abbondantemente beneficata. Serenamente si spense, carico d’anni e di opere buone compiute, nel 1974. A Budoia passò solo gli anni dell’infanzia e le brevi vacanze estive, occupate, con i suoi condiscepoli del Seminario e su ordine del Curato don Foraboschi, nell’eseguire le finiture ornamentali della chiesa e nella istruzione della gioventù. Don Lozer non dimenticò il suo paese. È merito suo, anche con esborso di denaro, se la curazia di Budoia, subalterna alla Pieve di Santa Maria Maggiore, divenne Parrocchia autonoma. Nel 1928. lasciò pure in dono il calice del venticinquesimo di Messa. Inoltre aveva senza dubbio un occhio di particolare interesse per tutti i compaesani (probabilmente centinaia, fra i quali chi scrive), che a lui si rivolgevano per ogni tipo di necessità. Come ultimo atto, pochi anni prima della morte, ricordo la generosa donazione della sua biblioteca al Comune che, unita a una discreta somma di denaro, contribuì alla fondazione della nostra Biblioteca Civica che porta il suo nome. Vorrei concludere questo breve ricordo con alcuni aneddoti. Quando il monsignore entrò 23
come ospite nella Casa di Riposo, la prima cosa che fece ispezionò le cucine per vedere come venivano trattati gli assistiti. Trovando stoviglie piuttosto vecchie e non di bello aspetto con un tiro tipico del suo carattere rovesciò alcune pile di tali stoviglie e intimò alle suore di rivolgersi a suo nome e spese alla ditta Galvani per la sostituzione. Io stesso posso testimoniare la sua inizialmente burbera accoglienza quando si andava a trovarlo. Specialmente negli ultimi anni si lamentava in modo «lozeriano» che tutti lo avevano dimenticato. Cessata la tempesta, estraeva da un vecchio armadio l’immancabile bottiglia di vermuth e i savoiardi e, volente o nolente, mi obbligava a bere due bei bicchieri e a mangiare almeno cinque o sei biscotti. Una volta i suoi congiunti di Budoia, fra i quali il nostro sacrestano Elio, si accorsero che lo zio monsignore, oltre alla solita tonica lisa, portava biancheria rattoppata e in cattivo stato, per cui pensarono di regalargli una congrua quantità sia di cotone che di lana. Dopo pochi giorni dal regalo ebbero occasione di constatare che don Lozer continuava a indossare le vecchia biancheria. Chiesta spiegazione si sentirono rispondere: «Ghe la go data a chi che gaveva più bisogno de mi!». Non ammise replica, perché questo era Monsignor Giuseppe Lozer. LA REDAZIONE RINGRAZIA CORDIALMENTE PER LA COLLABORAZIONE I NIPOTI DI DON LOZER, FERDINANDO ED ELIO CARLON.
UOMINI ILLUSTRI DELLA PEDEMONTANA
Saverio Scolari, illustre giurista e politico di Pompeo Pitter
Chi attraversi il centro di Polcenigo e presti un minimo di attenzione ai bei palazzi che vi si affacciano, non potrà far a meno di notare il palazzo Scolari-Salice, per la sua architettura elegante e severa, per i magnifici pilastri scolpiti che sorreggono il portico che dà sulla strada principale, nonché per il bellissimo giardino all’italiana che dal palazzo sale al colle retrostante. L’edificio presenta però un ulteriore motivo di interesse, perché su una facciata laterale è apposta una lapide visibile dalla strada; in essa si ricorda Saverio Scolari, già proprietario della casa nel secolo XIX. È opportuno riportare il testo della lapide, e poi cercare di meglio capire chi fosse il personaggio cui essa si riferisce. Eccone il testo: «Al concittadino Saverio Scolari acuto maestro di legge nelle università di Parma Pisa Roma che non da solitarie astrazioni di dotti ma dalla viva coscienza dei popoli volle ammaestrati i legislatori. Diffuse in Italia la dottrina della scuola storica e con l’osservanza dei fatti ritemprò la scuola del diritto e dello stato giovando col senno alla patria come volontario le giovò col braccio nelle battaglie contro lo straniero. n. 1831, m. 1893» La lapide fu inaugurata il 7 aprile 1895, con una solenne ce24
rimonia, nella quale il prof. Lando Landucci, ordinario di diritto romano nell’Università di Padova, tenne la commemorazione dello scomparso. Il discorso venne pubblicato nel 1896 e costituisce un’importante fonte di notizie sulla vita e le opere di Saverio Scolari. Ma chi era dunque Saverio Scolari? Dall’iscrizione si desume che egli fu un illustre personaggio, ma viene spontanea la constatazione come di lui non vi sia certo una conoscenza diffusa tra gli abitanti del Friuli occidentale e neppure tra quelli della Pedemontana. Ed allora ci pare opportuno delineare, del personaggio, i tratti essenziali e le vicende principali della vita e dell’attività svolta. Diciamo anzitutto che Saverio Scolari non era di Polcenigo. Al bel paese della Pedemontana egli approdò avendo sposato Aldina Quaglia, unica figlia del progettista e «giardinista» Pietro Quaglia, proprietario del palazzo cui abbiamo fatto cenno e che oggi è denominato Scolari-Salice. Pietro Quaglia fu un celebre architetto di giardini e su suo progetto venne realizzato il giardino retrostante la sua casa, cui già abbiamo fatto cenno. La sua notorietà fu tale che venne chiamato a sistemare e modificare il grande parco della Villa Manin di Passariano, incarico, questo, di
MARIA MAINARDI DI ANIMO E FORMA ELETTISSIMI 6 APRILE 1823 A TRAVESIO · M. 24 DICEMBRE 1861
N.
E
PIETRO QUAGLIA · INGEGNERE CHE SPOSATOSI A LEI DOPO 12 ANNI FELICI DERELITTO QUI NE COMPOSE LE SPOGLIE N.
13 APRILE 1810 A POLCENIGO · M. 8 SETTEMBRE 1882
CONFORTATI DAL PIANTO DELLA SUPERSTITE DI 6 FIGLI ALDA SCOLARI E DALL’AUGURIO DEI BUONI CHE DURI FECONDA LA MEMORIA DI LOR VIRTÙ PIE DOMESTICHE CIVILI
PALAZZO SALICE, GIÀ SCOLARI–QUAGLIA, A POLCENIGO. ( ILLUSTRAZIONE TRATTA DA
[Testo della lapide posta all’ingresso della chiesa di San Giacomo a Polcenigo]
«POLCENIGO NEI DISEGNI DI ERMANNO VARNIER»).
grandissimo prestigio. Pietro Quaglia sposò Maria Mainardi da cui ebbe un’unica figlia, Aldina Quaglia. Dal matrimonio tra Saverio Scolari e Aldina Quaglia nacquero un figlio e due figlie, e cosi il palazzo di Pietro Quaglia passò alla famiglia Scolari. Per il vero va segnalato che Saverio Scolari già prima del matrimonio ben conosceva la Pedemontana. Fin da ragazzo, infatti, aveva avuto modo di soggiornare a Sacile presso i nonni materni Zeffiri, di un’antica famiglia veneziana, ed era imparentato anche con la famiglia Bellavitis, che ebbe spesso ad ospitarlo nella residenza di Sarone. Saverio Scolari era nato a Belluno nel 1831, dove il padre risiedeva per ragioni di lavoro, ma la famiglia era di antica origine fiorentina. Nel 1848 – aveva soltanto diciassette anni – lo troviamo guardia civica prima alla difesa di Palmanova e poi a quella di Venezia durante l’insurrezione contro il regime austriaco. Egli si dedicò poi allo studio del diritto, si laureò in giurisprudenza a Padova nel 1856 e giunse alla cattedra universitaria: dapprima a Parma, dove insegnò filosofia del diritto, e poi dal novembre 1861 a Pisa ove insegnò diritto costituzionale e dove risiedette per molti anni; infine nel 1888 si trasferì a Roma per insegnare la medesima
materia. Rivestì anche cariche di elevato livello nell’amministrazione dello Stato, alle quali fu chiamato, per la sua competenza giuridico-amministrativa. In particolare, va ricordato che egli venne nominato membro del Consiglio superiore di statistica. Partecipò, poi, alla vita politica come consigliere comunale a Pisa e venne eletto deputato nel terzo collegio di Udine per la XV legislatura, nel 1880. Nel 1883 rinunciò, però, alla carica. Benché gli impegni dell’insegnamento universitario lo trattenessero per lunghi periodi in altre città, egli rientrò spesso a Polcenigo, dove l’atmosfera accogliente del paese e della propria casa gli consentivano di riposarsi dalle fatiche che gli derivavano da così numerose 25
ed intense attività. Morì a Roma nel 1893. È il caso, a questo punto e dopo aver rapidamente percorso le tappe fondamentali della sua vita, di chiedersi che cosa abbia rappresentato Saverio Scolari nel mondo della scienza del diritto e della vita politica italiana del tardo Ottocento. Anzitutto, possiamo dire che egli viene considerato come uno dei primi teorici del diritto amministrativo, ramo della scienza giuridica che nasce, appunto, nell’Ottocento con il formarsi degli Stati costituzionali, e che quindi è certamente molto più giovane di altri rami di tale scienza, quali il diritto civile (che risale all’antica Roma) e il diritto penale. Il suo trattato «Del diritto amministrativo» (Pisa, 1864) è tra
le prime opere che cercano di dare un’impostazione sistematica a questo ramo del diritto che avrà, poi, nel secolo successivo, così importanti sviluppi ricollegabili alla sempre maggior presenza dello Stato nei rapporti sociali ed economici. Ma Scolari non si limitò ad approfondire e a sistematizzare il diritto. Il ramo dell’ordinamento che costituiva l’oggetto dei suoi interessi giuridici riguardava i rapporti tra cittadini e Pubbliche Amministrazioni ed è quindi strettamente collegato alle scienze sociali e politiche. Ed infatti Scolari si occupò anche di queste scienze e pubblicò a Pisa nel 1871 un trattato dal titolo «Istituzioni di scienza politica». Più tardi, l’anno prima della morte, pubblicò un’opera dal titolo un po’ curioso «Il regno e la sociocrazia in Italia» (Venezia 1892), dedicato a Giuseppe Zanardelli, Presidente del Consiglio. In essa egli avverte che usa i termini «regno» e «sociocrazia» come equivalenti di «monarchia» e «democrazia», ritenendoli più adeguati. Il suo interesse, però, non riguardò soltanto la scienza politi-
ca ma, come già si è detto, anche la vita politica. Egli, infatti, assunse un atteggiamento politico preciso schierandosi tra i c.d. progressisti, in cui leaders furono Rattazzi, Depretis, Zanardelli, e si pronunciò a favore di riforme che, per quei tempi, apparivano molto avanzate, quali un’equa imposizione tributaria, la scuola obbligatoria e altre. Nel contempo, fu un fervente sostenitore dell’istituto monarchico distaccandosi, in tal modo, da quella consistente parte dei c.d. progressisti che erano allineati su posizioni mazziniane e quindi repubblicane, dimostrando così una forte indipendenza ed originalità nelle proprie convinzioni. Da ultimo, va ricordato che Scolari fu anche uno studioso di storia del diritto e, in particolare, della storia dei diritti antichi che fu oggetto di altre sue pubblicazioni. Abbiamo qui voluto ricordare soltanto i tratti più salienti della vita di Saverio Scolari, le principali attività svolte ed i suoi libri più importanti. Un’esposizione completa della sua produzione letteraria dovrebbe comprendere molte altre pubblicazioni, di diritto pubbli-
co, di scienza politica e di storia del diritto. Numerosissimi furono anche gli articoli da lui pubblicati in riviste giuridiche e di scienza politica, ed una sua completa bibliografia non è mai stata compilata. Vogliamo qui soltanto ricordare che egli collaborò, tra l’altro, anche con la rivista «Archivio giuridico» fondata dal grande giurista pordenonese Pietro Ellero, strenuo propugnatore dell’abolizione della pena di morte, a lui quasi coetaneo e con il quale ebbe numerosi e frequenti contatti. Si tratta, perciò, di una figura interessante, significativa di un preciso momento storico e che merita essere ricordata non solo nel mondo degli studiosi ma anche nei luoghi della Pedemontana che egli predilesse e dove cosi volentieri soggiornò. Saverio Scolari riposa nella cappella di famiglia sita nel Cimitero di Polcenigo. Alla sua memoria venne dedicata la lapide che qui trascriviamo nel testo latino, unendovi successivamente la traduzione in italiano.
«PERVIGILI PULCINICI MUNICIPIO OBSEQUI MONUMENTUS E AMORIS IN XÁVERIUM SCOLARIS
TRADUZIONE
IAM PARMAE PISARUM ROMAE PRECLARUM IURISPERITUM EMERITUMQUE MAGISTRI PATRIAE MODERATORUM ET POPULI LICEORUM DOCENTIUM, DISCENTIUMQUE UNANIMI PLAUSU ET COLLATITIA STIPE DECRETUM ET ERECTUM A.D. VII IDUS. APR. MDCCCXCV PATAVINI ATHENEI ALUMNI COMMENDARUNT».
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«Testimonianza d’ossequio e d’affetto, deliberata ed eretta all’unanimità e con partecipazione collettiva dalla sempre vigile comunità di Polcenigo, in onore di Saverio Scolari, già chiarissimo professore di diritto a Parma, Pisa, Roma, nonché emerito maestro di reggitori della patria e del popolo e di docenti e allievi dei licei. Il settimo giomo delle idi di aprile (7 aprile) 1895 affidarono alla memoria gli allievi dell’Università di Padova».
Rapporti culturali romeno-italiani
di Cellia Ontelus Boro
NELLA FOTO: UN GRUPPO DI INTELLETTUALI ITALIANI CHE HANNO PORTATO E MANTENUTO LA CULTURA ITALIANA IN ROMANIA E HANNO LASCIATO SCRITTO QUELLO CHE OGGI È LA NOSTRA STORIA. TRA LORO CI SONO PERSONE ANCHE DELLO STESSO VILLAGGIO.
L’Italia è sempre stata per la Romania il simbolo della latinità, basata anche sulla coscienza della origine comune dei due popoli. Sotto questo segno si sono sviluppati, per molti secoli, i rapporti fra il popolo romeno e quello italiano. La cultura italiana è entrata in Romania attraverso varie forme. Dal punto di vista cronologico, si usa prendere in considerazione l’anno 1439, anno del Concilio di Firenze, come punto di contatto ufficiale, dal momento che si attesta proprio in quella occasione, la presenza di tre rappresentanti romeni della Chiesa Ortodossa. Stefano il Grande, Principe di Moldavia, ebbe come medico curante alla sua corte, Matteo di Murano, a partire dall’anno 1511. Molto numerosi, e allo stesso tempo molto minuziosi, sono i rappresentanti dei missionari francescani venuti in Valacchia e Moldavia (*). Essi poterono con27
statare che sulle terre romene, «si parlava quasi tutti in italiano». Come scriveva al Papa uno dei frati. Nel cinquecento molti giovani romeni hanno potuto viaggiare ed essere educati in Italia. Una figura rappresentativa è stata quella di Petru Cercel, che ha scritto in italiano i «Dialoghi Piacevoli». La cultura romena si arricchirà di una serie di traduzioni italiane, come ad esempio «Romanzo D’Alessandro» o «Fiore di virtù». Gli umanisti italiani, come Poggio Bracciolini o Silvio Piccolamini, hanno sostenuto con forza l’idea della latinità del popolo romeno. I grandi cronisti romeni erano convinti che i romeni avessero origine a Roma. Nel 1534 Andrea della Valle scrive sui romeni di Transilvania di essere molto impressionato dall’affinità delle due lingue, romeno ed italiano. Un grande storico romeno, Costantin Cantacusino, studia a
Padova nel XVII secolo. Dopo il 1700, molti giovani romeni, discendenti dei cattolici prima dello scisma del 1054, studiarono a Roma all’istituto di «Propaganda fide». Nella grande biblioteca del Vaticano sono stati rinvenuti documenti di grande valore sull’origine latina del popolo romeno. La chiesa cattolica di rito bizantino romeno è stata in stretto contatto con la Santa Sede. Nel XVII secolo, la cultura italiana era molto conosciuta in Romania, soprattutto Ludovico Ariosto, Tasso, Tassoni, Metastasio. In questo secolo, hanno cominciato anche ad essere conosciuti i giornali italiani «Notizie dal mondo» e «Il Redattore Italiano». Nel XIX secolo, George Asachi ed Ion Heliade Radulescu hanno pubblicato numerosi articoli e saggi sull’arte e la cultura italiana.
In epoca recente, sono stati avviati anche i primi corsi di lingua italiana. Nel 1848 sono molto conosciute le relazioni fra i rivoluzionari Bàlcescu e Mazzini ecc. Dopo l’ultima guerra mondiale, i rapporti culturali con l’Italia si sono interrotti per molti anni. Il momento decisivo per la ripresa dei rapporti con la cultura italiana è stato il 1989, dopo il crollo della dittatura comunista. Oggi registriamo un soffio di vita nel riallacciare i legami interrotti 50 anni fa: si è tornato a studiare l’italiano nelle scuole romene, si riscontra una grande affezione per la cultura e per la lingua italiana. A Bucarest è stata fondata la scuola Dante Alighieri.
(*) Valahia (Tara Românesca), Moldovia, Transilvania e Dobrogea (dove abito io) sono le regioni della Romania.
LA CHIESA DI SANTA LUCIA, COSTRUITA DAGLI SCALPELLINI ITALIANI. A DESTRA, IL GRUPPO CORALE CHE SI ESIBIVA CON PICCOLI SPETTACOLI NEI VILLAGGI VICINI PER GUADAGNARE SOLDI NECESSARI PER TERMINARE LA CHIESETTA. ANCHE OGGI SI CANTANO LE CANZONI IN LINGUA ITALIANA, IN TUTTE LE OCCASIONI E ANCHE LA MESSA VIENE CELEBRATA IN LATINO. LA TERRA PER COSTRUIRE LA CHIESA È STATA DONATA DA MIO NONNO, ANGELO BORO.
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Alla riscoperta dell’aramaico di Andrea Zampoli Girovagavo tra Libano e Siria inseguendo i miei interessi archeologici da Ugarit a Damasco, quando giunsi a Maalula poco prima dell’ora di cena. Alla fine della strada in salita, resa ampia ed agevole dai recenti lavori eseguiti per accogliere degnamente la visita del Papa in occasione della Sua Missione pastorale in Siria avvenuta dal 5 all’8 maggio del 2001, l’immagine del piccolo paese apparve intensamente suggestiva... quasi irreale.
NELLA FOTO: L’AUTORE IN UNA TAPPA DEL SUO VIAGGIO TRA LIBANO E SIRIA
Sopra le chiese risaltavano le grandi croci, illuminate a vivaci colori, le quali si stagliavano nitide nel buio della fresca sera di novembre. Maalula dista 56 km da Damasco e si trova arroccata in fondo ad una profonda gola rocciosa del monte Kalamun nella catena dell’Antilibano a 1.700 m s.l.m. Conta circa duemila abitanti in inverno e quasi ottomila in estate (gran parte dei cittadini emigra per lavoro). L’aspetto antropologico decisamente attrattivo di questo sito consiste nell’essere una delle pochissime sedi rimaste in tutto il Vicino Oriente in cui vi sia una Comunità linguistica che utilizza, per le proprie necessità interne, la lingua aramaica. L’aramaico, la lingua di Cristo, è una lingua semitica del gruppo nordoccidentale, come l’ebraico e il fenicio (mentre l’arabo è del sottogruppo sudoccidentale). Le prime iscrizioni aramaiche risalgono al X sec. a.C. e nei due tre secoli successivi, con l’ascesa della potenza di Damasco, l’aramaico si impose come lingua dominante della Siria. Gli imperi (assiro, caldeo) che conquistarono in seguito la regione inglobarono e deportarono in vario modo le popolazioni di lingua aramaica, favorendo con ciò la diffusione di questa lingua come varietà «comune» (parlata e scritta) in tutto il Vicino Oriente: tanto che in età persiana (VI-IV sec. a.C.) essa divenne una delle più prestigiose lingue d’uso internazionale, attestata dall’India all’Egitto (alcuni libri della Bibbia hanno parti in aramaico). A partire dalla fine del III sec. a.C., con il governo di Seleuco e dei suoi successori, la lingua greca prese il sopravvento relegando l’ara29
maico a patrimonio di comunità particolari tra Levante ed Egitto, poi anche in Europa (ebrei e cristiani). D’altra parte, fin dai primi secoli del I millennio d.C. nella zona siro-mesopotamica (Edessa e altrove) la lingua conobbe un nuovo grande e lunghissimo sviluppo come veicolo della liturgia della Cristianità d’Oriente: questa manifestazione dialettale – che ci ha tramandato un patrimonio testuale immenso – è nota come siriaco. A Maalula ci sono otto chiese cristiane: sei cattoliche e due greco-ortodosse, più una piccola moschea per la sparuta presenza musulmana. Delle otto chiese, due sono santuari con annesso convento: uno greco-ortodosso intitolato a santa Tecla martire, seguace di San Paolo, l’altro cattolico intitolato a San Sergio. Quest'ultimo possiede una collezione di icone del XIII sec. e qualche elemento architettonico bizantino. Avvenne qua il mio incontro con Georget, che mi recitò il Padre Nostro in aramaico, nel quale riconobbi una sola parola: ABU cioè padre. All’uscita, il conservatore del museo mi offrì un piccolo calice metallico contenente del vino scuro, prodotto nel convento, dal sapore maderato ma che gradii ugualmente. Poi ancora sulla strada per Damasco, dove penottare. L’indomani mi attendeva il trasferimento sulle rive dell’Eufrate dove avrei visitato la città di Mari, appartenuta alla civiltà Sumera.
L’idea di Vittorio Janna di ripristinare la tradizione del mado, come momento di aggregazione degli abitanti delle singole contrade, suscitò ampi consensi nella comunità dardaghese, tanto che raggiunsero le decina gli alberelli collocati lungo la corsia centrale della chiesa rafforzando il suggestivo clima natalizio di quei giorni. Addobbati con frutta secca, agrumi, pane, immagini sacre, fiocchi colorati ed altro ancora, a seconda della creatività e del significato che ogni singolo gruppo intendeva assegnare al mado, gli alberelli hanno ridato vita – seppur con significati diversi dall’origine – a quel rito abbandonato a Budoia negli anni ’20, conseguenza forse dell’emigrazione giovanile, e a Dardago negli anni ’40. Nell’attesa di ricevere ulteriori testimonianze sull’argomento (in particolare da Santa Lucia) ne riportiamo di seguito alcune raccolte ancora negli anni ‘70 ed altre in questi ultimi tempi.
ilmado a
si è messo... in mostra UNA RACCOLTA DI TESTIMONIANZE Avevo dodici, tredici anni, nel 1924/25, quando in casa, durante le festività di Natale la mia famiglia si riuniva per preparare il mado. Era mia madre, Maria Gislon di Santa Lucia, la detentrice di questa tradizione, insolita a Budoia (per lo meno a memoria d’uomo). Fu lei a trasferirla qui, dopo le nozze – nel 1906 – con Giuseppe Ariet. Fin da bambina partecipava alla decorazione del mado, mentre i suoi fratelli Paolo e Pietro, falegnami, preparavano la struttura lignea. Era un palo di legno leggero, alto circa due metri, squadrato e sostenuto alla base da due assi incrociati con un foro al centro; i rami, rotondi come i pe cui de le s’ciale di varie dimensioni, venivano posti ad incastro nei fori praticati in modo alterno e scalare nel tronco. Su questi assi di legno venivano fissati con il filo di ferro dei rami di pino. La decorazione aspettava alle donne, in particolare a lei e alla zia Genoveffa, sua sorella. Provvedevano a recuperare in casa fazzoletti di seta colorati di varie dimensioni, da naso e da spalla, che si appendevano ai rami per la parte centrale o per un angolo, a seconda della grandezza, nastri larghi altrettanto colorati, qualche santino e qualche gingillo. Era lei a sollecitare i figli alla costruzione. Così con la supervisione i miei fratelli Matteo e Giuseppe lo preparavano. Si dedicarono a questa tradizione per alcuni anni, fino a quando, giovanotti, partirono a lavorare a Venezia. Era un momento straordinario! Ne eravamo orgogliosi. Anche il prete don Corona aspettava con piacere di vederlo al centro della chiesa, tanto che ripeteva: «quan lo porteo sù?» Il trasporto avveniva su un carrettino, rimaneva in chiesa per otto-dieci giorni, con certezza all’Epifania era lì. Era bello! I plaseva a duth. E al era lavoro a falo! Negli anni successivi, anche la famiglia Angelin Pelat iniziò questa usanza, però era un vero albero di ginepro e aveva più l’aspetto dell’attuale albero di Natale. LUIGIA ARIET DEDOR (CLASSE 1911)
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Era un ginepro (sbrodicio) decorato con candele, immagini di santi, cartoline e in cima un fiocco. Veniva portato in chiesa il giorno dell’Epifania e successivamente bruciato nel falò. Era uno per tutto il paese. La tradizione finì con la guerra, almeno a Budoia. «Se lo feva pa’ l’abondantha». TERESA BURIGANA ANGELIN PELAT (1887-1985) – ANNI 92 AL MOMENTO DELL’INTERVISTA –
Era il 1944 e allora avevo otto anni: fu l’ultima volta che assistetti alla realizzazione del mado. Mia zia Vittoria (1905), sorella di mio padre Giacomo, decorò un bel sbrodicio (ginepro) con piccoli e semplici gingilli, quindi, lo collocò in un secchio e, caricatolo sulla carriola, con l’aiuto dei famigliari lo trasportò in chiesa per la benedizione, la sera della vigilia dell’Epifania. Nel dopoguerra la tradizione venne dimenticata. ESPEDITO ZAMBON (CLASSE 1936)
FOTO DI CESARE GENUZIO
Rendiconto «Madi 2002» Offerte dagli abitanti delle vie, al netto delle spese Euro Via San Tomè 81,22 Via della Chiesa e Via degli Artigiani 36,00 Via Tarabin 41,00 Piazza Vittorio Emanuele 37,00 Via Pedemontana 40,00 Via Rui De Col e Via Parmesan 34,00 Via Rivetta e Via Caporal 37,00 Via Stradon e Via Manzoni 33,00 Via Castello e Via Masarlada 114,00 TOTALE
453,22
La somma è stata così destinata Pro Restauro Chiesa di Dardago 200,00 Per Bambini Bolivia (Janna Pietro) 100,00 Per Fiori Chiesa 100,00 Per Vasi dei Madi 2003 53,22 TOTALE
453,22
Gli organizzatori ringraziano la popolazione per la generosità dimostrata anche in questa occasione.
Verso la fine del 1938, all’età di sette anni, mi trovavo per lavoro con la mia famiglia in località «La Ficcia», nel comune di Aviano, e mio padre, Giovanni, individuò tra la vegetazione un bellissimo esemplare di sbrodicio (era difficile trovarne uno dritto e alto!), tanto che annunciò soddisfatto: «Sto an fon un mado grand». Una volta tagliato e portato – non senza difficoltà – a casa, spettò a Bruna, mia sorella (1930) e a mia cugina Angelina (1923), attualmente residente in Francia, adornare quel ginepro. Noi bambini eravamo orgogliosi, perché era davvero grande e imponente tanto che mio padre faticò a farlo entrare attraverso la porta della chiesa. ANGELO JANNA TAVAN (CLASSE 1931)
Ai tempi della mia infanzia non c’era la tradizione dell’albero di Natale come quelli che si vedono in questi anni. Mi ricordo, però, dei «madi»,caratteristici alberi ornati che venivano portati in chiesa la vigilia dell’Epifania. Quella era la sera dei «pan e vin». Ce n’erano molti a Dardago, dai «magreit» a «là de Rosìt», dai «masaron sot la ciasa de Gigeto Marin» a «là de la Cate». Fino agli anni ’22 – ’24 il «pan e vin» veniva costruito anche in piazza. Dopo la benedizione dell’acqua, il sacerdote usciva dalla chiesa per benedirlo. La benedizione dell’acqua avveniva al centro della chiesa. L’acqua era in un grande mastello di circa 2 ettolitri circondato per tre lati dai banchi oltre i quali i cantori intonavano i salmi e le litanie. Da metà chiesa in giù si trovavano i «madi» portati da diverse famiglie. Gli alberelli, di solito sbrodicio (ginepro), venivano presi dai boschi intorno al paese (Solvela, Ciampore, Ligont, Masaret…), ornati con frutta (arance, mele...), santini, nastri... e portati in chiesa in un cesto. Certi «madi» erano alti anche due metri. Naturalmente ognuno voleva che il proprio «mado» fosse il più bello, ma era impossibile superare quello della Rossanda, sempre vivace, allora come adesso che ha 97 anni. CAMILLO ZAMBON PINAL (CLASSE 1914)
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Lasciano un grande vuoto... Maria Zamboni Da quando in silenzio te ne sei andata è già passato un anno. Hai lasciato un grande vuoto, però tu sarai sempre nei nostri pensieri e nei nostri cuori. Ti ricordiamo sempre. LE TUE AMICHE foto di Davide Fabbro
Giovanni Gislon Ti sia lieve la terra
È di conforto per la mamma e per me sapere che il doloroso cammino verso l’eternità ha trovato l’assistenza di «veri angeli». È facile lasciarsi andare alla retorica, ma quello che è stato fatto per il mio papà all’hospice «Via di Natale» ha attenuato la nostra sofferenza; l’amore, le cure e l’affetto di cui è stato circondato hanno reso meno amaro il distacco. Di questa triste vicenda conserverò sempre nel cuore il ricordo e la gratitudine per delle persone meravigliose che non mi stancherò mai di ringraziare. Mandi papà, ti sia lieve la terra.
«De mortuis nihil, nisi bonum» recita un adagio latino: dei morti non si può dire nulla se non bene. Queste parole a maggior ragione valgono per una figlia; ma non è l’affetto che mi fa dire che il mio papà era una persona buona e giusta. Lo dicono il cordoglio unanime, i tanti amici che nel corso della malattia e in occasione della sua morte hanno manifestato affettuosa partecipazione e sincero cordoglio. Dopo una lunga e travagliata vita di lavoro aveva finalmente coronato il suo desiderio di finire i suoi giorni nell’amata Budoia. Purtroppo sono stati giorni brevi.
LA TUA PAOLA
Angelo Zambon A due anni dalla morte della moglie Attilia, anche Angelo Zambon (Angelin Rosit) ha lasciato questo mondo. Confortato e circondato dall’affetto dei suoi famigliari, ha trascorso una serena vecchiaia. Noto in tutta la comunità per il lavoro svolto in vita e per il suo impegno nel sociale, lascia un vuoto incolmabile in quanti l’hanno conosciuto e amato. I FAMIGLIARI
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Erna Lucas Erna Lucas, vedova di Antonio Bocus, a soli 50 anni, ha perso la sua battaglia contro il male che non perdona lasciando nel dolore due figli di 18 e 20 anni e i vari parenti acquisiti in quel di Aviano e di Budoia. Erna lavorava nelle Torri Gemelle di New York e in quel terribile giorno dell’11 settembre 2001 si salvò dal crollo perché assente per indisposizione. In quello sciagurato giorno del vile attentato i parenti stessi, molto preoccupati sapendo che lavorava là, telefonicamente sono stati rassicurati che era in casa. È stata sepolta nel cimitero di New York. Era di origine austriaca. A soli tre anni fu portata dai genitori in America. Era vedova da circa quattro anni di Antonio Bocus improvvisamente scomparso e sepolto nel cimitero di Castel d’Aviano. Lui lavorava a Manhatan, mentre lei al Word Trade Center per una agenzia d’assicurazione, al 70° piano.
La famiglia Bocus era molto conosciuta a Castel d’Aviano dove avevano una casetta lasciata dai genitori di lui e dove venivano spesso a trascorrervi le vacanze. Il nonno di lui era di origine dardaghese Giacinto Bocus sopranominato La Rossa che nel lontano 1912 si era portato a Castel d’Aviano a gestire un’osteria. La famiglia dei Bocus La Rossa era numerosa: diversi fratelli e quasi tutti avevano un’attività nel commercio: osteria, generi alimentari, forno e ristoranti ed ancora oggi qualcuno della famiglia continua la tradizione. Informazioni acquisite dalla sorella di Antonio Bocus, Clorinda Bocus Paronuzzi, abitante a Marsure d’Aviano, e dalla cugina, Adele Bocus Del Maschio, abitante a Dardago. ESPEDITO ZAMBON
Giovanni Pujatti Imponenti sono state le esequi funebri svoltasi nella chiesa parrocchiale di Dardago con la partecipazione di diversi sacerdoti e di persone a lui care; anche la comunità dardaghese ha manifestato il proprio dolore stringendosi ai famigliari. Un interminabile corteo di macchine lo ha accompagnato al cimitero di Villanova di Prata.
Aveva appena iniziato a conoscere la nostra comunità di Dardago, Giovanni Pujatti, un fisioterapista trentenne che della famiglia e del lavoro aveva fatto il suo credo. Originario di Villanova di Prata, aveva scelto i nostri colli per vivere il suo sogno d’amore con Federica, ma un tragico destino lo attendeva, a pochi mesi dal matrimonio. Mentre stava lavorando in un rustico acquistato due anni orsono in via Solvela e stava pulendo il muro dalle incrostazioni con la smerigliatrice, è stato soffocato dal foulard, che portava al volto per ripararsi dalla polvere, impigliandosi nel disco dell’utensile. Stava preparando, a volte anche con l’aiuto della fidanzata Federica, la casa per il suo matrimonio, ma il destino crudele ha voluto troncare l’inizio di una nuova famiglia.
ESPEDITO ZAMBON
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DA TEMPO SI ATTENDEVA...
[ ] TRE CANALI PER LE OFFERTE
1 Direttamente in parrocchia
2 Tramite bonifico bancario presso la Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone ag. AVIANO c.c. n. 7000028B, cod. ABI 06340, cod. CAB 64770
3 Tramite il conto corrente postale de l’Artugna, specificando nella causale «PRO RESTAURO CHIESA». Confidando nella consueta generosità dei lettori, ci diamo appuntamento al prossimo numero di Agosto per un primo resoconto.
NUOVO SPLENDORE PER LA CHIESA DELL’ANTICA PIEVE
a Dardago si restaura Finalmente, dopo Pasqua, dovrebbero iniziare i lavori di restauro della parrocchiale di Dardago. La regione ha finanziato i due lotti dei lavori destinati al consolidamento dell’edificio (principalmente tetto e soffitto), al rifacimento dell’impianto elettrico, all’adeguamento dell’impianto di riscaldamento e alla pittura interna ed esterna. Il lavoro più delicato riguarda certamente il tetto e il soffitto. Lungo tutto il perimetro del soffitto verrà realizzata una cordolatura: tramite apposite opera-
zioni di carotaggio verranno inseriti dei tiranti nelle pareti per rinforzare la struttura. Nel soffitto verranno effettuate iniezioni di speciali resine per rendere stabili gli intonaci attualmente indeboliti a causa della differenza di temperatura sopra e sotto il soffitto. I lavori finanziati prevedono la pittura interna limitatamente all’aula (la parte destinata ai fedeli). Altri lavori, quali la cappella feriale, i servizi igienici, la sistemazione dei finestroni, la costruzione di una scala esterna per l’ispezione del tetto ecc. possono essere effettuati con risorse proprie della parrocchia e sarebbe logico effettuarli contemporaneamente. Parlando di costi, queste sono le cifre. Il preventivo per i due lotti è di 300 mila euro coperti con un mutuo per l’80%. Rimangono scoperti da mutuo, quindi, 60 mila euro a cui si devono aggiungere altri 100 mila euro per lavori che non rientrano nel preventivo. È urgente e indispensabile che ognuno di noi, secondo le proprie disponibilità e sensibilità intervenga per poter raccogliere ciò che ancora ci manca. I nostri avi, in tempi di miseria, sono stati capaci di costruire una chiesa tanto grande e bella; noi dobbiamo essere capaci, almeno, di mantenerla bella e sicura! IL COMITATO ED I CONSIGLI PER GLI AFFARI ECONOMICI E PASTORALE
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L’angolo della poesia Aprile Vado a riconoscere il lontano ieri del cuore. Sopravvivono inclinazioni d’infinito, di freschezza antica, interminabile riverbero destinato a me.
Sono con l’istante aperto all’incontenibile evento di colori e alle emozioni nuove di aprile. Sono con la pioggia fine del pomeriggio che trafigge le labbra e la terra. Sento l’amoroso potere della percezione nella realtà fuggente e un suono di campane. È l’inconsapevole miraggio, un intento nostalgico che prima o poi soffre la vita. E forme di silenzio scendono semplicemente su una cascata suadente di glicini, mentre scuote i suoi baci azzurri in un rinnovo rapido di vento. E si fa invisibile e ardente il profumo svestito dai gelsomini, trasparenza confusa di calici e tempo. Vanno a stendersi le sere sulle colline corpose di verde e di antiche figure create dall’intensità della terra. È un movimento muto come una mano nuda. Tocca e cresce la primavera isola, campagna danzante, che riserva cieli alla quiete e tessuti di giardini al sogno.
Vedo di colpo la mano di mio padre in una fotografia strappata, l’acqua torbida di un fosso dove cercavo di vedere le rane, con un mazzo di viole sciupate tra le dita. E i fiori aperti del pesco che sommergendo dolcezza, cadevano dalla loro esile vita prima di spezzare i rami. Così resistono gli invisibili miti in un luogo sognante diverso e chiaro. Quasi sfuggita da un incanto emigra nelle distanti città dell’anima la luce di adesso. Un irreale sorriso a una colomba fuori dal balcone e rispondono nuovi nidi e rampicanti freschi di sole. È un’isola immensa, altitudini turchesi spaziano dagli occhi al tempo. Aprile. Sento e tengo il giorno come un bacio seminato tra i ciliegi. LAURA MORO
Profum di viarte Piel di luna di levada lavris bagnâts da la rosada frascis di ciaviei ch’a nissin vui trois sidins di ciamp tal siel violet al ven tal sac dai ricuarts al resta il sbrindinàt to profum di viarta. FRANCA SANSON (da «Cors pratic di lenghe e culture furlane 2000/1 di mestre Erika Cristante)
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Int or
Dobbiamo la disponibilità di queste ricette alla cortesia della signora Angela Basso. Rinnoviamo l’appello ai nostri lettori se vorranno favorirci proponendoci vecchie ricette dal sapore pedemontano.
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a l ó t a l RENGA FUMADA Ingredienti per 6 persone 12 aringhe affumicate prezzemolo, sale, aglio, olio Preparazione Preparate la griglia ben calda, stendete le aringhe affumicate, pulite e lavate e fatele cuocere per circa 10 minuti avendo cura di girarle ogni tanto aggiustandole di sale. A cottura ultimata, bagnatele con una emulsione composta da un trito d’aglio, olio e prezzemolo. Si gusteranno meglio se servite con polenta. La renga fumada è un piatto che era abitudine consumare durante la Quaresima e il Venerdì Santo.
LEPRE IN SALMÌ
AGNELLO ARROSTO
Ingredienti per 4 persone una gamba di sedano una cipolla aglio, rosmarino, salvia, maggiorana vino nero (merlot) sale, pepe
Ingredienti per 10 persone 1 coscia di agnello (non da latte) pancetta o lardo aglio, rosmarino, salvia, maggiorana 1 litro e mezzo di vino nero (merlot) sale, pepe
Preparazione Preparate una marinata con aglio, rosmarino, salvia, sedano, cipolla, immergetevi i pezzi di carne, lasciateli a bagno per una notte. Il giorno dopo, toglieteli dalla marinata, asciugateli e infarinate i pezzi di carne. Mettete il tutto a freddo in una padella con tutte le verdure della marinata, aggiungete un bicchierino di grappa e fate cuocere a fuoco lento per circa due ore e mezzo.
Preparazione Preparate una marinata con aglio, rosmarino, salvia, maggiorana, vino nero corposo (merlot) e lasciarvi a bagno la coscia di agnello per due giorni. Preparate quindi un trito con gli stessi ingredienti della marinata e «steccate» con questo trito la coscia d’agnello. Mettete quindi dell’olio nella pentola, fate rosolare la pancetta tagliata a dadini o il lardo e aggiungetevi l’agnello facendolo rosolare per 15/20 minuti finché avrà un bel colore dorato. Salate, pepate, bagnate con circa un litro di vino rosso e fate riprendere il bollore. Mettete in forno per 3 ore. A CURA DI ADELAIDE BASTIANELLO
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Coscritti in festa
Cronaca
Si sono ritrovati il 28 dicembre scorso a Dardago i coscritti del Comune classe 1947 per festeggiare i loro 55 anni. Durante la S. Messa sono stati ricordati i coetanei Roberto Zambon, Gianni Carlon, Gianni Zambon, Giancarlo Del Maschio e Donatella Del Zotto che non ci sono più.
del Pordenonese. Dal 1° Aprile questo nuovo ente sostituisce le comunità montane. Nel Comprensorio Montano rientrano ben 26 comuni da Caneva a Vito d’Asio (circa metà dell’intero territorio provinciale). Le funzioni di questa istituzione sono simili a quelle delle ex comunità montane e cioè la «salvaguardia e la valorizzazione del territorio montano e lo sviluppo sociale, economico e culturale delle popolazioni residenti». Il compito del neo presidente si prevede alquanto difficile anche perché i nuovi Comprensori sono nati tra le polemiche dei molti che ritengono che un territorio così vasto e poco omogeneo mal si presti ad atti amministrativi realmente utili ai bisogni delle singole collettività. Complimenti al Sindaco Antonio Zambon e «in bocca al lupo» per questo nuovo impegnativo incarico.
Borc: ier e uncuoi
All’appuntamento erano presenti: Salvatore Bufalo, Maria Assunta Busetti, Daniela Carlon, Giacomo Del Maschio, Nadia Modolo, Bruno Quaia, Antonio Vettor, Franco Zambon, Giuseppe Zambon, Marino Zambon, Quinto Zambon. È seguita una lauta cena in un ristorante della zona. Arrivederci al prossimo appuntamento.
El nostre sindic, president del Comprensorio Montano Il nostro sindaco Antonio Zambon è il primo presidente del neonato Comprensorio Montano 37
Sabato 22 marzo, nell’ambito dell’iniziativa «Primavera Pedemontana» viene presentata la guida «Polcenigo nei disegni di Ermanno Varnier». La guida creata da Varnier (nostro lettore e collaboratore) vuol far conoscere al visitatore di Polcenigo il paese di oggi e di ieri. Infatti grazie ai disegni e ai commenti dell’autore possiamo immaginare anche alcune opere oggi non più visibili come la monumentale scalinata che doveva collegare il castello al borgo oppure la torre dell’orologio posta prima del centro, all’altezza del Rui de Brosa.
La mestra Eutimia La maestra Eutimia Pajalich Carlon festeggerà il 3 agosto il suo novantesimo compleanno. I famigliari sono lieti di condividere questo momento di gioia con parenti, amici, ex alunni e quanti desiderassero partecipare. Per l’occasione verrà celebrata, il giorno 3 agosto 2003, una Santa Messa nella chiesa di S. Andrea di Budoia. Auguri di Buon Compleanno alla maestra Eutimia, da tutti noi!
«Foghin» sote processo?
«Foghin». Così era soprannominato il tenente medico Alfred Dornenburg comandante del presidio tedesco di Roveredo in Piano durante gli anni bui della seconda guerra mondiale. Secondo gli investigatori, Dornenburg avrebbe avuto un ruolo decisivo nelle stragi e nelle fucilazioni sommarie avvenute in provincia di Pordenone e nella pedemontana in particolare. Si parla di un fascicolo penale a suo carico con un elenco di trentuno morti accertati e di altre nefandezze. Negli anni 1944/45 Ranzano, Giais, Polcenigo, Aviano, Pordenone, San Vito al Tagliamento, Malnisio, Sarone furono teatro degli eccidi a lui imputati. A Dardago, nel marzo 1945, furono uccisi i giovani fratelli Pietro ed Enrico Zambon. La Procura militare di Padova ritiene di avere elementi per processare Dornenburg. Dopo anni di ricerche l’ex tenente medico è stato rintracciato nella città di Spira nella Renania e gli agenti dell'Interpol gli hanno notificato l'avviso di garanzia della Procura. «Foghin» ha, ora, ottantasette anni e vive con la pensione di exprimario dell’ospedale di Colonia.
FOTO SOPRA: LA MAESTRA EUTIMIA ACCANTO A
Promessa mantignuda
DON NICOLÒ DEL TOSO, AD UN INCONTRO CONVIVIALE. FOTO SOTTO: ROSA PIA E RENÈ DRIO EL BANCO,
Dopo un anno e mezzo di silenzio forzato, con l’inizio della primavera la piazza di Budoia si è nuovamente animata. Sabato 22 marzo è stato inaugurato il nuovo bar «Da Renè», un accogliente locale che, con l’indiscutibile professionalità di Renè e di Rosa Pia, diverrà sicuramente punto di aggregazione di paesani e richiamerà gente dai paesi limitrofi. I à mantignut la promessa fata doi ains fa! A Rosa Pia e a Renè la redazione augura un lavoro ricco di soddisfazioni. 38
ALLE PRESE CON I PRIMI CLIENTI.
I canais de scola a Davian A causa dei lavori per la sistemazione del tetto delle nostre scuole elementari, i bambini delle 6 classi saranno ospitati, per l’ultima parte dell’anno scolastico, presso le scuole elementari di Aviano. Il trasporto è assicurato dal servizio scuolabus del Comune.
Matteo Carlon, nato a Milano il 30 giugno 2002
Filippo Fedrigotti, nato a Bollate (Mi) il 6 dicembre 2002
Chiara Michelazzi, nata a Milano il 29 ottobre 2002
Inno alla vita
Golden Wedding! Il 14 gennaio passato, Mr Francesco Lacchin, conosciuto in quel di Budoia come Checchi Lacchin, e Mrs Lina Signora hanno raggiunto il traguardo dei 50 anni di matrimonio, iniziato nel 1953 nella chiesa Sant’Andrea Apostolo di Budoia, seguito da una lunghissima luna di miele a Gloucesteer, in Inghilterra, dove ora vivono. In questa città dove hanno festeggiato le Nozze d’oro prima assieme alla comunità italiana con il «Ballo degli Italiani», poi i festeggiamenti sono continuati in famiglia con i due figli e i rispettivi consorti e gli otto nipoti.
Grande festa per le nozze d’oro di Elio Carlon e Maria Zambon, che hanno ricordato la loro unione lunga 50 anni tra gli affetti dei famigliari.
Attorniati dall’affetto di figli, nuora, nipoti e parenti, Osvaldo Carlon e Maria Piccoli hanno vissuto momenti di felicità, nel rinnovare il loro amore dopo 50 anni di matrimonio. 39
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Le due statue sull’altare maggiore, ai lati dell’Assunta, raffigurano Sant’Andrea e Santa Lucia, patroni delle attuali parrocchie di Budoia e Santa Lucia. Un caro saluto
Milano, 24 gennaio 2003
Milano, S. Natale 2002
Greci (Romania), 27 gennaio 2003
A tutta la Redazione il mio più sincero augurio.
Gentile Redazione, ho ricevuto l’Artugna. Che piacere! La leggo ogni giorno con la nostalgia di Dardago, dei luoghi lasciati qualche mese fa. Complimenti per il vostro lavoro di un alto livello giornalistico! Vi chiedo (se avete spazio) di pubblicare il mio articolo «Rapporti culturali romeno-italiani» che dedico ai giovani italiani che non conoscono la sorella d’Italia, la Romania. In seguito ve ne invierò altri. Leggendo l’Artugna, apprezzo la sua valorosa opera di trattare contemporaneamente sia la vita quotidiana che il passato. Per il vostro lavoro, auguri di buona continuazione e di grandi successi! Saluti a tutti.
Ciao a tutti, In occasione di una mia visita al museo Diocesano a Pordenone ho visto una mano molto bella (penso in argento). Era scritto «dalla parrocchiale di Dardago». penso che sarebbe interessante saperne di più su l’Artugna. Inoltre mi piacerebbe sapere chi sono i due santi sull’altare a lato dell’Assunta.
ins. CELLIA ONTELUS BORO
CLELIA
Gentilissima Signora Cellia, siamo lieti che il nostro periodico le faccia ricordare il periodo trascorso serenamente tra i dardaghesi e la ringraziamo per le sue espressioni di stima. Cordialmente.
Cara Clelia, il braccio in argento presente al Museo Diocesano è effettivamente di proprietà della nostra Pieve. Di questo reliquiario ne abbiamo diffusamente scritto in varie occasioni su l’Artugna.
MARIO FORT
Ricambiamo gli auguri (ormai di buona Pasqua). È un piacere sentire i lettori così vicini al nostro lavoro!
Lignano, 2 gennaio 2003
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Gentile Redazione de l’Artugna, mi chiamo Lelia Cecchelin e vi scrivo da Milano, dove vivo con la mia famiglia. Ho sempre letto con molto piacere il vostro periodico che la mamma – Nullina Dal Re Cecchelin – riceveva qui a Milano; purtroppo però la mamma è scomparsa improvvisamente nel mese di maggio. Ora lei non c’è più, mi piacerebbe continuare a ricevere l’Artugna al mio indirizzo: sarà un modo per restare in contatto con la vostra (e nostra) comunità ma anche per sentire più vicini la mia mamma e il mio papà, che riposano nel piccolo cimitero di Dardago. Pregandovi di comunicarmi al più presto le modalità di pagamento, resto in attesa di vostre notizie inviandovi i miei più cordiali saluti. LEILA CECCHELIN
Gentilissima Signora Leila, Le spediamo l’Artugna all’indirizzo che ci ha segnalato. l’Artugna è ponte tra i nostri paesi e quanti sono lontani, modo per stare più vicini ai genitori che non ci sono più! La ringraziamo di tanto affetto
[...dai conti correnti] Milano, 10 marzo 2003
Dardago, 4 febbraio 2003
Alla Redazione. Vi sarei molto grato se potrete pubblicare sul prossimo numero de l'Artugna la foto di Matteo Carlon, figlio di Luigi Carlon e Gemma Circassi, nato a Milano il 30 giugno 2002. Grazie al Vostro lavoro ci fate sentire a casa!
Spett. Redazione, ho preso gratuitamente una copia del calendario 2003 da Nives. Complimenti per la pubblicazione assieme al Comune di Budoia e grazie.
GIANLUCA CARLON
Un piccolo Carlon! Una gioia per i genitori, i parenti e gli amici. Volentieri partecipiamo con la pubblicazione di questa bella fotografia. Gradiremmo conoscere il soprannome dei suoi avi. Grazie!
Cara Redazione, questa sera cercando su Internet abbiamo scoperto con vero piacere che la nostra amata rivista ha un sito. Complimenti! Sarà più facile per noi essere informati sulle vostre attività. Un augurio di buon Natale e di felice anno nuovo. PIETRO E ANTONIA VETTOR
Grazie al sito ci arrivano molti messaggi come questi. È un modo moderno, pratico e veloce per sentirci vicini a dispetto della distanza geografica. Grazie per gli auguri.
PIETRO COVRE · TRIESTE
Con molto piacere ricevo l’Artugna; un grazie a tutto lo staff per il vostro impegno. GIANCARLO ZAMBON · ROMA
MARCO GIGANTE
Cari saluti a tutti. Siamo felici che il nostro lavoro sia di suo gradimento. Saremmo lieti di ospitare tra le nostre pagine anche qualche suo intervento.
MARCO TULLIO BUSETTI · SCORZÈ
l’Artugna – un’emozione che non finisce mai. Grazie. MARIO FORT PITÙS · MILANO
Grazie per l’emozione che ci regalate con l’Artugna. Un abbraccio a tutta la redazione. Milano, 13 dicembre 2002
Milano, 25 dicembre 2002
Con tanti auguri da un pedemontano.
Alla Redazione de l’Artugna Vi comunichiamo che in data venerdì 6 dicembre 2002 è nato a Bollate (Mi) Filippo Fedrigotti, figlio di Dario Fedrigotti e Sara Sartor nipote di Anna Maria Busetti e Giovanni Fedrigotti (residenti a Dardago). Distinti saluti
JOLE E IVAN ZAMBON · MILANO
In ricordo di mamma Luigia. ANNA MARIA FERRARI · MILANO
In ricordo di Nando, Anna, Marcella, Elisa Rigo. ADELAIDE RIGO · TORINO
Auguri per un Buon 2003. ANNA JANNA · MILANO
DARIO FEDRIGOTTI
La Redazione si congratula con i genitori e pubblica volentieri la foto di Filippo. Da queste pagine arrivi un saluto anche ai nostri compaesani Anna Maria e Giovanni.
Buon Anno 2003 a tutti voi. DONATELLA ANGELIN · MILANO
Grazie per l’Artugna, buon lavoro. VINCENZO BURIGANA · NEW YORK
In memoria di Cecchini Ferdinando il figlio Romano ringrazia l’Artugna sempre presente. ROMANO CECCHINI · MILANO
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[la Palsa] La cariéga
disegno di Guido Benedetto
Ce ch’al ûl dî no savê nuje di machinis
In un villaggio del Friuli, la figlia di un uomo chiese al parroco di recarsi a casa sua per far visita a suo padre che era molto malato e per coinvolgerlo in un momento di preghiera. Quando il sacerdote arrivò nella camera, trovò il pover’uomo nel suo letto con il capo sostenuto da due cuscini. A lato del suo letto, c’era una sedia, il sacerdote pensò che sapesse della sua venuta. – Suppongo che mi stesse aspettando? – gli disse. – No ma lei chi è? – rispose l'uomo malato. – Sono il nuovo parroco del paese, sua figlia mi ha chiamato, perché venissi a farle visita e poi... poter pregare con lei. Quando sono entrato, ho notato la sedia vicino al suo letto e ho pensato che lei mi stesse aspettando. – – Ah si, la sedia! – Le dispiace chiudere la porta? – disse l’uomo con un filo di voce. Il novello parroco, sorpreso, chiuse la porta. L’uomo riprese: – Già che lei è qui, vorrei confidarle ciò che non ho mai detto a nessuno. Nella mia vita ho sempre sentito
Intôr Nadâl ‘e ven a cjatâmi la mê amie Rosete. – Astu sintût – mi dîs – che e an tentât une rapine ae Bancje di Lavoreit (Roveredo in Piano)? – No no ai sintût nuje. Contimi, contimi. – Doi malvivents a àn spietât ch’e rivàs la comesse da la COOP a depositâ te CASSA CONTINUA l’incàs dal sabide (ch’al jere atôr i vot, dis milions) e an tentât di partâjlu vie. Par fortune, li dongje e jere ferme une patulie dai carabinîrs che e an subìt arestât i doi malvivents. – Ma come mai – j dîs jo a je – i carabinîrs a jerin propite li, pronts aes vot di sere? – Tu as di savê, ch’al jere oremai
un pôc di timp che viodevin chê Subaru lì ferme, ogni sere, ae stesse ore! – Par fuarce, e lave a depositâ i beçs simpri jê! – jo j rispuint. – Ma chi? – mi domande Rosete. – Chê là pò, cemùt si clamje, la Subaru, chê par mê e jere d’acuardi cui larîs, se no lôr no stavin là a spietâle dutis lis seris! La Rosete tignintsi la panze dal ridi: – Ma Ane! La Subaru e jè la machine giaponese che a dopravin i larîs par faj la pueste a la comesse.
discorsi sulla preghiera, come la si deve intendere, i benefici che porta... ma posso assicurarle che la cosa mi ha sempre lasciato alquanto indifferente e ho continuato così fino a circa quattro anni fa, quando conversando di preti, di fede, e di preghiera con un amico, lui mi disse: «Giuseppe, la preghiera non è così difficile da capire, basta avere semplicemente una conversazione con Gesù, ti suggerisco di fare così... Ti siedi su una sedia ne metti un’altra davanti a te, quindi con fede guardi Gesù seduto davanti a te. Farlo non è cosa da dementi poiché lui ci ha detto: «Io sarò sempre con voi». Quindi parlagli ed ascoltalo come ora tu lo stai facendo con me». Così ho provato e la cosa non mi ha lasciato indifferente, tanto che da allora ho continuato a farlo per almeno un paio d’ore al giorno. Sto molto attento a non farmi vedere da mia figlia... altrimenti penserebbe che sono matto. Il parroco, ascoltandolo, provò grande emozione e ammirazione e disse a Giuseppe: – Ciò che lei fa è profondamente significativo. – Poi insieme pregarono... Gli im-
partì la sua benedizione e tornò alla canonica e ai doveri del suo ministero. Alcuni giorni dopo, la figlia di Giuseppe ritornò dal sacerdote per avvisarlo della morte di suo padre e per chiedergli, come consuetudine, di far suonare le campane per l’Ave Maria a suffragio. Il sacerdote rattristato chiese dell’improvvisa morte. – Questa mattina dovevo uscire di casa, avevo premura. Lo salutai come al solito, nulla faceva presagire, lui mi chiamò dal suo letto, mi volle vicina, mi disse che mi amava molto e mi volle anche baciare. – Quando tornai, solo un’ora dopo, lo trovai morto. – C’è tuttavia qualcosa di strano che non riesco a capire. Poco prima di morire ha accostato la sedia che teneva sempre vicino al letto, e vi ha appoggiato la sua testa. L’ho trovato così, sembrava sorridesse. Non capisco cosa possa significare questo suo ultimo gesto. Il parroco commosso si asciugò due lacrime e le rispose: – Magari tutti noi potessimo andarcene in questo modo.
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ANNA BURIGANA Tratto da «Cors pratic di lenghe e culture furlane 2000/01» di mestre Erika Cristante
programma
A STENTO IL NULLA
DELLA SETTIMANA SANTA DOMENICA DELLE PALME • Benedizione dell’Ulivo in piazza, processione e Santa Messa di Passione
Budoia
Dardago
No, credere a Pasqua non è giusta fede: troppo bello sei a Pasqua! Fede vera è al venerdì santo quando Tu non c’eri lassù!
9.30
11.00
LUNEDI, MARTEDI, MERCOLEDI SANTO • Santa Messa e apertura della solenne Adorazione Eucaristica delle 40 ore • Chiusura dell’Adorazione Eucaristica
9.00 18.00
9.30 12.00
GIOVEDI SANTO • Santa Messa Vespertina «In Cœna Domini», riposizione del SS. Sacramento all’Altare del Sepolcro, spogliazione degli altari e adorazione
20.00
18.30
e a stento il Nulla dà forma alla tua assenza.
15.00
–
DAVID MARIA TUROLDO DA CANTI ULTIMI, GARZANTI, MILANO 1991
15.30
17.00
–
20.00
SABATO SANTO • Benedizione del fuoco ed accensione del Cero Pasquale sul sagrato, Veglia Pasquale, benedizione dell’acqua con rinnovazione delle promesse battesimali e Santa Messa di Risurrezione.
22.00
20.30
DOMENICA DI PASQUA • Santa Messa Solenne • Santa Messa Vespertina
10.00 18.00
11.00 –
LUNEDI DI PASQUA • Santa Messa
10.00
11.00
CONFESSIONI Lunedi, martedi, mercoledi Santo Venerdi Santo Sabato Santo
17.00/18.00 14.30/15.20 16.00/18.00 18.00/20.15 Bambini e ragazzi (con l’orario del Catechismo)
– 18.00/19.30 14.30/15.30
bilancio Situazione economica del periodico l’Artugna Periodico n. 97
entrate
Costo per la realizzazione + sito Web Spedizioni e varie Entrate dal 5/12/2002 al 10/03/2003
3.255,00
Totali
3.255,00 43
uscite 3.192,00 130,00
3.322,00
gli auguri della redazione
VENERDI SANTO • Suono dei 33 rintocchi «nell’ora della morte del Cristo» • Azione Liturgica della morte di Gesù, recita del Passio, adorazione della Croce e Santa Comunione • Solenne Via Crucis, con partenza dalla Chiesa di Budoia e conclusione in Chiesa a Dardago (in caso di maltempo, la Via Crucis si svolge nella Chiesa di Dardago)
Quando non una eco risponde al tuo alto grido
Acacia dealbata La pianta che comunemente viene chiamata «mimosa», e che viene sfrondata ai primi di marzo, non appartiene al genere «Mimosa», ma al genere «Acacia». L’acacia dealbata è una pianta sempreverde originaria dell’Australia. Le sue foglie bipennate sono composte da numerosissime foglioline che si richiudono di notte o in caso di temperatura fredda. I fiori sono piccoli rotondi, raccolti in grappoli di colore giallo più o meno intenso e molto profumati. L’usanza di regalare mimose per la festa della donna è diffusa solo in Italia e risale al 1946, anno in cui venne scelta a simbolo semplicemente perché fioriva in occasione di questa festa (8 marzo).
O nella foto «la mimosa nel cortile della Elsa Salute»