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Anno XLV · Agosto 2016 · Numero 138 Periodico della Comunità di Dardago · Budoia · Santa Lucia
Io sono la porta Giubileo: si aprono le Porte Sante nelle diocesi Il capitolo decimo del Vangelo di Giovanni ci presenta la figura di Gesù Buon Pastore. Egli è il Buon Pastore che ama le sue pecore per le quali è disposto a dare la propria vita. Non è un mercenario al quale non importa nulla delle pecore e che, vedendo arrivare il lupo, fugge, lasciandole in balia della bestia feroce. Gesù Cristo affronta il Male, Satana, il peccato per dare alle sue pecore, fuor di metafora, a ciascuno di noi uomini, di poter entrare nel suo ovile e pascolare nel suo regno di giustizia, di amore, di santità e di vita eterna. Ma per entrare nel suo Regno dobbiamo passare attraverso la porta. E qual è questa porta. Gesù afferma: «Io sono la porta, se uno entra attraverso di me, sarà salvato, entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv. 10,9). Dobbiamo entrare attraverso Gesù per ottenere il perdono dei peccati ed esperimentare la Misericordia di Dio. Tutti abbiamo bisogno di misericordia. Tutti siamo immersi in un mondo di peccato e di tenebre, la vera luce è Gesù Cristo e tutti coloro che lo seguono nella stretta via che conduce alla sua Casa ne fanno esperienza. Anche la religione mussulmana dà come primo titolo ad Allah: il Misericordioso. Forse dovrebbero convincersene coloro che in nome di Allah compiono stragi... Il Papa ha voluto che questo Anno Santo che stiamo vivendo sia intitolato il Giubileo della Misericordia e ha voluto moltiplicare la possibilità di entrare per la Porta Santa. Infatti mentre dal primo Giubileo della storia cristiana indetto da papa Bonifacio VIII nel 1300 fino al giubileo del 2000 indetto da San Giovanni Paolo II venivano aperte solo le porte sante delle quattro basiliche romane (San Pietro, Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano e San Paolo fuori le mura) e tutti i cattolici per lucrare l’indulgenza dell’Anno Santo
Pordenone, Duomo concattedrale San Marco. Vescovo Giuseppe Pellegrini (foto Messaggero Veneto).
dovevano andare a Roma, nel Giubileo della Misericordia indetto da Papa Francesco per quest’anno, oltre a tutte le cattedrali delle Diocesi del mondo ogni vescovo può stabilire che abbiano la loro porta santa altri Santuari delle varie Diocesi insieme a carceri, luoghi di cura e di assistenza e ad altri luoghi. Gli ammalati che non possono muoversi hanno la possibilità di fare il Giubileo sul loro letto. Anche le par2
rocchie più disagiate e lontane dai centri giubilari possono ottenere la loro Porta Santa. Un grande disegno di accostamento alla misericordia del Signore, all’anno della redenzione. Non quindi l’accento posto sul formale passaggio di un portone di legno ma l’accostamento consapevole, pentito e fiducioso in Colui che si è definito la Porta per eccellenza quella che ci apre il passaggio all’ingresso nel Regno di Cristo.
la lettera del Plevàn
di don Maurizio Busetti
aperta la Grande Porta della misericordia e possiamo, anche noi, diventare misericordiosi così che possiamo trovare misericordia presso Dio e sentire il nostro cuore aperto verso tutti. Il Giubileo delle tre parrocchie lo celebreremo poi, in maniera speciale, a metà ottobre, sotto lo sguardo amorevole e premuroso della Madonna del Monte, santuario diocesano, molto vicino a noi che è diventato il luogo giubilare, per eccellenza di tutta la nostra Pedemontana.
Domenica 29 novembre 2015. Papa Francesco apre la Porta Santa della Cattedrale di Bangui nella Repubblica Centrafricana.
Genova, cattedrale San Lorenzo. Cardinale Bagnasco (foto Marco Balostro).
Assisi, Basilica Inferiore San Francesco. Vescovo Monsignor Domenico Sorrentino.
Anche noi abbiamo restaurato le porte delle nostre Chiese Parrocchiali prima a Santa Lucia, poi a Dardago perché esse sono il passaggio nella casa di Dio, nel luogo di preghiera per eccellenza, laddove si celebrano i Sacramenti della Misericordia: la Riconciliazione dei penitenti e l’Eucarestia. La Chiesa Parrocchiale, nei nostri paesi, non è un museo che custodisce opere d’arte, né un luogo di abbellimento del paesaggio, an-
Milano, Duomo. Cardinale Angelo Scola (foto Lapresse).
che se sono splendide. La Chiesa è la presenza di Dio nella storia quotidiana dell’uomo, è il luogo dell’incontro dell’uomo con Dio, è un pezzo di cielo sulla terra. E la porta ci introduce in questo pezzo di cielo. Nel giorno dell’Assunta, anche Lei invocata nelle Litanie come «Janua coeli» (porta del cielo), entreremo insieme attraverso la porta pregando e cantando, chiedendo, che per l’intercessione di Maria, ci venga 3
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www.parrocchie-artugna.blogspot.it
[ la ruota della vita ]
NASCITE Benvenuti! Abbiamo suonato le campane per l’arrivo di... Nikita Freschet di Egidio e di Natalia Sharapova – Dardago Matilde Zecchinon di Fabio e di Sabrina Fort – Santa Lucia Alice Linda Micheluz di Alessandro e di Fata Francesca Delpopolo – Santa Lucia Lorenzo Carbonera di Stefano e di Cristiana Vuerich – Budoia
MATRIMONI Felicitazioni a... Fabio Zecchinon e Sabrina Fort – Santa Lucia Matteo Pivetta e Maria Assunta Sommario – Santa Lucia Nozze d’oro Giuseppe Villanti e Silvana Zambon Pétol – Mestre
LAUREE, DIPLOMI Complimenti! Laurea Martina Stella Carlon Scopio – Laurea Magistrale in Architettura e Innovazione – Venezia Francesca Zambon – Laurea Magistrale in Italianistica e Scienze Letterarie
DEFUNTI Riposano nella pace di Cristo. Condoglianze ai famigliari di…
IMPORTANTE Per ragioni legate alla normativa sulla privacy, non è più possibile avere dagli uffici comunali i dati relativi al movimento demografico del comune (nati, morti, matrimoni). Pertanto, i nominativi che appaiono su questa rubrica sono solo quelli che ci sono stati comunicati dagli interessati o da loro parenti, oppure di cui siamo venuti a conoscenza pubblicamente. Naturalmente l’elenco sarà incompleto. Ci scusiamo con i lettori.
Mirella Bonetti di anni 72 – Milano Santina Modolo di anni 94 – Gorgazzo Sergio Veclani di anni 89 – Budoia Vittorio Zambon di anni 87 – Milano Vittoria Varnier di anni 96 – Santa Lucia Lea Janna di anni 89 – Budoia Silvestro Zambon di anni 87 – Dardago Celestina Cosmo di anni 82 – Budoia Attilio Vettor di anni 74 – Dardago Ornella Zambon di anni 86 – Dardago Valentino Ianna di anni 90 – Dardago Anna Buso di anni 72 – Dardago Omar Carlon di anni 46 – Budoia Maria Rosa Busetti di anni 70 – Aviano Lorenzo Moreschi di anni 73 – Dardago Primo Panizzut di anni 92 – Budoia Ovidio Vicenzi (Rico) di anni 92 – Santa Lucia Osvaldo Zambon di anni 67 – Budoia Iolanda Piccoli di anni 84 – Budoia Rosina Del Zotto di anni 83 – Budoia Giovanni Fedrigolli di anni 85 – Dardago
Chi desidera usufruire di questa rubrica è invitato a comunicare i dati almeno venti giorni prima dell’uscita del periodico.
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La porta restaurata della chiesa parrocchiale di Dardago. [foto di Vittorio Janna] *** Anno Santo della Misericordia Cristo porta del Regno e luce del mondo. Chi passa attraverso di Lui entra nella luce della vita.
2 La lettera del Plevàn di don Maurizio Busetti
sommario
In copertina.
4 La ruota della vita 6 Convegno: il valore storico e culturale delle pergamene di Roberto Zambon
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agosto 20
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anno X L
7 La mostra: l’Archivio di Dardago e il suo restuaro di Roberto Zambon
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9 Visita al ‘giardino’ delle pergamene della Pieve di Carlo Zoldan
Direzione, Redazione, Amministrazione tel. 348.8293208 · C.C.P. 11716594 IBAN IT54Y0533665090000030011728 internet www.artugna.blogspot.com e-mail direzione.artugna@gmail.com
11 La Quiàbita e ’l foc salvàre tra fede e superstizione di Fabrizio Fucile
Direttore responsabile Roberto Zambon · tel. 348.8293208
14 Dopo la disfatta di Caporetto di Alberta (Noemi) Panizzut
Per la redazione Vittorina Carlon
15 Un ricordo del tempo di guerra di Bruna Zambon Maressial
Impaginazione Vittorio Janna
17 Le stelle erano tante, milioni di milioni di Vittorio Janna Tavàn
Contributi fotografici Archivio de l’Artugna, Archivio Gabriella Lorenzin, Paolo Burigana, Vittorio Janna, Francesca Romana Zambon, Valentino Zambon Ite
20 Pinài del Belo, un ramo ancora inesplorato la Redazione
Spedizione Francesca Fort
22 La paura in 58 secondi di Chiara Maccioccu
Ed inoltre hanno collaborato Francesca Janna, Espedito Zambon, Gianni Zambon Rosìt
23 Da Budoia alla Prussia di Alessandro Fontana
Stampa Sincromia · Roveredo in Piano/Pn
26 Un centesimo della mia vita di Pietro Fort 27 La turistica Sacile-Gemona
Autorizzazione del Tribunale di Pordenone n. 89 del 13 aprile 1973 Spedizione in abbonamento postale. Art. 2, comma 20, lettera C, legge n. 662/96. Filiale di Pordenone.
28 La Pedemontana Sacile-Pinzano-Gemona di Fortunato Rui 29 ’n te la vetrina 30 Lasciano un grande vuoto...
Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione di qualsiasi parte del periodico, foto incluse, senza il consenso scritto della redazione, degli autori e dei proprietari del materiale iconografico.
34 È nata la Cooperativa Cial de Mulin di Pietro Ianna 5
34 Cronaca 36 Inno alla vita 38 I ne à scrit... 38 Bilancio 39 Programma Dardagosto
ed inoltre... Albero genealogico «I Zambon Pétol» a cura di don Maurizio Busetti, Vittorina Carlon, Vittorio Janna, Roberto Zambon *** Cent’anni dalla Grande Guerra Inserto n. 5 a cura di Vittorina Carlon, Vittorio Janna e Roberto Zambon
14 MAGGIO 2016 · TEATRO DI DARDAGO
C ONVEGN O
il valore storico e culturale delle pergamene Come annunciato nel numero di Pasqua, la nostra redazione e la parrocchia hanno organizzato un importante convegno e una mostra in occasione dell’avvenuto restauro di parte dell’archivio storico della Pieve di Dardago. Il tutto si è svolto nel teatro, la cui sala è stata abbellita, per l’occasione, con tre grandi pannelli che formano la scritta «Teatro di Dardago». Il restauro è stato realizzato grazie ai contributi finanziari della Fondazione CRUP e al lascito del nostro concittadino Sergio Zambon Momoleti destinato al Periodico l’Artugna. Dei lavori effettuati, dei contributi e del lascito abbiamo raccontato diffusamente nello scorso numero; qui ci soffermiamo sul recente convegno e sulla mostra. Il convegno, che verteva sul tema «Il valore storico e culturale delle pergamene», inserito nel programma della Settimana della Cultura Friulana, indetta dalla Società Filologica Friulana, è stato organizzato per fa-
vorire la conoscenza della storia dell’antica pieve attraverso i documenti più remoti conservati nell’archivio, con l’inserimento in contesti di studi più ampi. Hanno collaborato alla realizzazione il Comitato del Ruial de San Tomè, la Pro Loco di Budoia e il Comitato Festeggiamenti di Dardago. In una insperata cornice di pubblico che ha letteralmente riempito i due piani del teatro, l’evento si è aperto con il saluto delle autorità. Li ricordiamo e ringraziamo anche da queste colonne. L’arch. Roberto de Marchi, Sindaco di Budoia, che è sempre molto vicino, con la sua amministrazione, alle attività del periodico, e che anche in questa occasione ha deliberato un contributo per affrontare le spese sostenute. Il prof. Federico Vicario, Presidente Società Filologica Friulana che ha l’inserito l’evento dardaghese tra le manifestazioni della prestigiosa Settimana della Cultura Friulana. È stata la prima volta che un presiden6
di Roberto Zambon
te della SFF visita il nostro Comune. Il dott. Lionello D’Agostini, presidente della Fondazione CRUP, che ha riconosciuto il nostro lavoro di restauro meritevole dell’aiuto finanziario. L’opera della Fondazione riveste una straordinaria importanza per la salvaguardia del patrimonio artistico e culturale del Friuli, specialmente in questi anni in cui i contributi pubblici hanno subito un drastico taglio. Prima degli interventi dei relatori, Don Maurizio Busetti, parroco delle nostre parrocchie, sostenitore della necessità della creazione di un museo parrocchiale e della sistemazione dell’archivio storico, ha ringraziato le autorità ed i relatori intervenuti.
Le relazioni Il programma prevedeva la presenza della dottoressa Paola Sist, Responsabile dell’archivio storico diocesano di Concordia Pordenone. Per motivi personali non ha potuto partecipare. È stata gentilmente
sostituita da Laura Pavan, archivista professionista, che ha curato personalmente l’inventario e la catalogazione di tutte le pergamene della curia. Ha trattato il tema «Il corpus delle pergamene dell’Archivio storico diocesano» illustrandone la composizione e i recenti lavori di schedatura, regestazione e trascrizione. Quindi è intervenuto Carlo Zoldan, ricercatore e autore del libro La pieve di Dardago tra XIII e
Il prof. Federico Vicario, Presidente Società Filologica Friulana.
XVI secolo. Le pergamene dell’archivio. Parte del suo intervento è riportato in queste pagine con il titolo: Visita al ‘giardino’ delle pergamene della Pieve. L’ultima relazione, Il restauro dei manoscritti canonici è stata svolta da Adriano Macchitella responsabile del Centro Studi e Restauro di Gorizia al quale sono stati affidati gli antichi registri della nostra pieve per il delicato lavoro.
Il dott. Lionello D’Agostini, Presidente Fondazione CRUP.
L’intermezzo musicale Ogni relazione è stata preceduta da un brano dell’Insieme Vocale Elastico diretto da Fabrizio Fucile e formato dalle coriste Elena Bazzo, Luisa Doretto, Teresa Giust, Sandra Pasut, Cinzia Pessot, Sara Zambon e Daniela Zecchin. Il repertorio scelto dal direttore, era imperniato su brani di Alessando Orologio (1551-1633), musicista e compositore friulano.
Adriano Macchitella, responsabile Centro Studi e Restauro di Gorizia.
Il Coro Elastico con il direttore Fabrizio Fucile.
LA MOSTR A
l’Archivio di Dardago e il suo restuaro Il percorso della mostra, allestita al piano superiore del teatro, si sviluppa in tre sezioni: le pergamene dell’archivio, gli altri documenti e registri, il restauro. Su alcuni pannelli sono elencate tutte le pergamene conservate nell’archivio, con l’indicazione del luogo e della data di stesura nonché del notaio che le redasse. Per ogni notaio è riportato anche il Signum, cioè il simbolo manuale e personalizzato che, posto accanto alla sottoscrizione, costituiva la garanzia di autenticità degli atti: una specie di timbro ante litteram. Vengono anche ricordati il restauro di questi preziosi documenti eseguito, dal 1973 al 1976, presso la Certosa di Pavia e la pubblicazione su questo periodico
della raccolta organica dei regesti delle pergamene effettuata da Paolo Goi e Tullio Perfetti nel 1979. In due teche sono esposte cinque
pergamene tra cui la più antica (dell’anno 1299 redatta dal notaio Zambonus) e una del 1548 caratterizzata da un bellissimo
Vista parziale della mostra con pannelli e teche contenenti alcune antiche pergamene.
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Ora che il lavoro di restauro dei documenti più importanti si sta avviando al termine, si dovranno affrontare le spese per la sistemazione delle sale destinate all’archivio/museo e per l’acquisto dell’attrezzatura necessaria. Sarà indispensabile dotare le sale di armadi metallici ignifughi e di teche per l’esposizione dei documenti. Altro lavoro urgente è la catalogazione di centinaia di fogli sciolti ora ammassati disordinatamente in alcuni faldoni da affidare a un’archivista. Bisognerà, pertanto, affrontare una spesa elevata che, allo stato attuale, le finanze della parrocchia non sono in grado di affrontare. Per questo invitiamo i lettori e la popolazione ad adottare un libre, completamente o parzialmente.
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Il costo medio per il restauro di un volume si aggira intorno a mille euro. L’adozione completa sarà certificata da una pagina inserita all’inizio del libro con il nominativo del benefattore. Offerte inferiori, fino a 200 euro, consentiranno una adozione parziale. Anche in questo caso nella pagina iniziale saranno elencati i nominativi degli offerenti. In ogni caso tutte le offerte, anche di importo inferiore, sono importanti e gradite. Un elenco completo dei benefattori troverà opportuna pubblicazione. Ci affidiamo alla sensibilità e alla possibilità di chi ci legge per aiutarci a preservare un patrimonio culturale preziosissimo.
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Adottare un libro significa, in fondo, adottare noi stessi lasciando una traccia della nostra vita. *** Le offerte e le adesioni possono essere effettuate in canonica oppure utilizzando il bollettino postale allegato. Inoltre è possibile effettuare un bonifico con il seguente IBAN IT54Y0533665090000030 011728. Dall’estero aggiungere il codice BIC/SWIFT: BPPNIT2P037
stemma notarile. Oltre alle pergamene, l’archivio di Dardago è composto di documenti sciolti e di parecchi volumi tra registri anagrafici, registri di conti, instrumenti, che custodiscono le radici degli abitanti dei nostri tre paesi. Il più antico dei registri anagrafici risale al 1657. Si tratta di un volume multiplo contenente atti di battesimo, di matrimonio e di morte come imposto in quel tempo dalle disposizioni del Concilio di Trento. Fino al XIX secolo, i registri anagrafici parrocchiali ebbero anche valore civile. I documenti sono preziosi per le ricerche storiche sulla nostra zona e per la ricostruzione della genealogia delle famiglie locali. La mostra mette in evidenza lo stato di degrado di questo patrimonio, prima del restauro, con fotografie e con l’esposizione di volumi non ancora restaurati. Vari pannelli, che illustrano le varie fasi del delicato lavoro di restauro effettuato a Gorizia nel 2015, ci accompagnano alla parte finale della mostra in cui possiamo ammirare, nelle teche, alcuni registri restaurati.
Il Registro «Libro dei Matrimoni 1687-1717» restaurato.
Pergamena n. 1. Dardago 1299.
14 MAGGIO 2016 · TEATRO DI DARDAGO
Carlo Zoldan presenta il contenuto di alcuni nostri documenti. Grazie alla sua competenza le nostre 62 pergamene sono state trascritte.
visita al ‘giardino’ delle pergamene della Pieve di Carlo Zoldan Il programma di questo convegno intitola il mio breve intervento come il volume che ho curato a partire da una ventina d’anni fa: La pieve di Dardago tra XIII e XVI secolo. Le pergamene dell’archivio. È stato scelto questo titolo per dar modo a chi interverrà, di mostrare, per quanto possibile, e concretamente, come può essere utilizzato il corpus di manoscritti della pieve di Dardago per ricerche di storia locale o anche per curiosità… quindi non una presentazione del libro, pur citandolo, ma una sorta di spigolatura tra i documenti d’archivio. Il presente contributo, tuttavia, essendo nato come conversazione per una sorta di visita guidata al ‘giardino’ delle pergamene, poco si presta ad essere trasformato in articolo; verranno dunque segnalati gli argomenti, invitando a cercarli, leggerli e gustarli. Per rendere il lavoro più agevole e fruttuoso, sarà bene ricordare la struttura del documento notarile medioevale, i suoi caratteri intrinseci ed estrinseci, in modo da individuare subito il tipo di documento, la sua datazione, i protagonisti dell’atto, la natura del contenuti, le clausole, il notaio… Ovviamente, tutto questo è facilitato, anzi reso possibile, solamente avendo davanti l’immagine e una guida che aiuta a «vedere» dentro l’atto.
La pergamena n. 1 Contiene una serie di cinque atti di concessione di livelli a privati da parte della Pieve di Dardago; si tratta di contratti d’affitto, cioè dietro pagamento in natura e denaro di un canone. Con questa forma di contratto, il proprietario, che in questo caso è la Luminaria della Chiesa di Santa Maria di Dardago, cioè l’amministrazione della pieve, affitta le sue proprietà. Si trovano concentrate nei cinque atti tutte le condizioni, le clausole previste per questo tipo di contratto: tipologia del contratto – livello, livello perpetuo – denominazione e tipologia (arativo, piantato) del bene dato in affitto, ubicazione e confini, canone, clausola riguardante eventuali migliorie fatte al bene stesso, riparazioni, costruzioni edificazioni, piantagioni. Nella prima pergamena emerge la figura del giurato della Pieve Varnerio de Lasor, che ha il consenso del decano del capitolo di Concordia. Si trova pure il riferimento alla regola, di cui sono giurati Giovanni e Adalpreto e all’appartenenza della pieve di Dardago al Decanato del capitolo cattedrale di Concordia. 9
La chiesa di Dardago riconciliata Nell’anno 1440, la chiesa della Pieve di Dardago viene riconsegnata ai fedeli e al culto, con il rito specifico della riconciliazione. Non vengono riportati i motivi, e questo lascia pensare che fosse stata profanata. La profanazione di un luogo sacro avveniva per vari motivi; ne ricordiamo tre: 1. effusione di sangue provocata da atti di violenza all’interno della chiesa; 2. sepoltura di eretici e scomunicati; 3. omicidi anche senza effusione di sangue, quindi per impiccagione o soffocamento. In occasione della riconciliazione, come era consuetudine, il vescovo, in questo caso Guglielmo II, vescovo di Iesolo, Equilinus episcopus, suf-
Pergamena n. 53. Dardago 1542.
fraganeo di quello di Concordia Daniele Scotto, concede 40 giorni di indulgenza a tutti quei fedeli che, nel giorno dell’anniversario della riconciliazione, si recheranno a pregare nella stessa chiesa. Il vescovo suffraganeo era il titolare di una chiesa appunto suffraganea, cioè facente parte di una provincia ecclesiastica; attualmente, ad esempio Concordia-Pordenone è suffraganea di Venezia, che è sede metropolitana, come lo sono Gorizia, Udine, Trento, sedi arcivescovili. In questo caso, però, era detto suffraganeo anche il vescovo che sostituiva il titolare impegnato lontano dalla sua dicessi; nell’atto riferito alla riconciliazione della chiesa sono riportati i nomi di due vescovi: Daniele vescovo di Concordia e Guglielmo vescovo di Iesolo e suo suffraganeo. Guglielmo sostituiva quindi il vescovo di Concordia, impegnato a Roma, con importanti incarichi curiali, durante un pontificato, quello del veneziano Eugenio IV Condulmer, difficile, com10
plesso e tormentato. Da notare che i quaranta giorni di indulgenza concessi in occasione di riconciliazioni di chiese ed altari, nel caso di Dardago, diventano ottanta, in quanto li concede anche il vescovo titolare oltre al celebrante delegato.
Diritto di sosta La pergamena n. 53 documenta una tradizione religiosa che, per molti secoli, ha avuto radici profonde nella popolazione delle campagne: le Rogazioni. La storia di questi riti è interessante, ma richiede spazi troppo ampi, per cui si dirà solamente che si svolgevano il 25 aprile – Rogazione maggiore – e nei tre giorni che precedevano la festa dell’Ascensione. Per evitare problemi, il pievano di Dardago Girolamo Campesio, a proprie spese, acquista il diritto di far sostare la processione del secondo giorno delle rogazioni, presso la chiesa di san Giorgio, su un terreno della superficie doppia di quella della chiesa stessa. Curiosa la sottolineatura di una clausola: i fedeli possono sostare sul terreno acquistato anche se esso è già seminato o comunque la vegetazione è in movimento… in teoria dovevano fidarsi i proprietari del terreno: dopo tutto i fedeli della Pieve di Dardago si recavano lì, in processione, per chiedere l’integrità dei raccolti… L’atto riporta una serie di clausole, compresa quella che dà la possibilità ad un membro delle famiglie dei due venditori di partecipare, ogni anno e in perpetuo, al pranzo insieme al sacerdote presente alla Rogazione. Questi sono tre esempi di analisi dei documenti, al fine di rinvenire notizie sempre utili alla ricostruzione della storia della Pieve e della sua gente, in un determinato periodo storico: un esperimento da valorizzare e ripetere, anche a livello di gruppo, per far «parlare» le pergamene dell’antica Pieve di Dardago. E, per divertirsi un po’, i più pazienti tra i visitatori del «giardino» potrebbero dilettarsi nella scomposizione e nella lettura dei segni dei notai formati con il loro monogramma.
Dobbiamo alla sensibilità e alla cura attenta di Vittorina Carlon la testimonianza della Quiàbita nella nostra tradizione culturale dei secoli scorsi. Affresco murale raffigurante la Madonna tra i santi Giovanni Battista e Antonio di Padova... posto nella casa di Marcella Lachin Rizzo, a Santa Lucia.
la Quiàbita e ’l foc salvàre tra fede e superstizione di Fabrizio Fucile Pubblicata nel volume C’era una volta la pietà popolare1 è riportata come una antica preghiera e catalogata nella sezione Scongiuri del volume stesso. Il testo è stato raccolto nel 1987 dalla testimone Marcella Lachin Polat coniugata in Rizzo Marcolin, nata a Santa Lucia nel 1904.2 Trattasi di una versione assai corrotta del salmo 90 il cui incipit Qui habitat ha originato il termine. Declinato al femminile, nella tradizione veneto-giuliana3 viene trascritto in differenti modi (quiàbita, cuiàbita, chiàbita) e per lo più tramandato in espressioni proverbiali o idiomatiche. Sta ad indicare un ammonimento, una paternale, un rimprovero.4 Fino a qualche decennio fa, tra le nostre espressioni locali non era difficile incontrare el me a tirat su na quiàbita per indicare persona o argomento lamentoso, fastidioso da sentire o più raramente prolisso (alla stregua di lonc come el passio, lonc come na quaresema). Per una possibile lettura del testo e della sua funzione5 lo abbiamo qui riprodotto a lato con a margine la versione latina. La versione tramandata è alquanto corrotta e la distribuzione del testo ha subìto forti variazioni rispetto all’originale; dei sedici versetti del testo latino se ne presentano
Quiabita ’l Signor itorio meo altissimi e ti purrisioni di senic onorabit
Qui habitat in adiutorio Altissimi in protectione Dei caeli commorabitur
Disse te Domino concebito meo fulgit di me speravit eius (che saria ’l Diavol)
dicet Domino susceptor meus es tu et refugium meum Deus meus sperabo in eum
Coniat tibe semi liberáme da l’acqua bilanthia che verbo
quoniam ipse liberavit me de laqueo venantium et a verbo aspero
scapili sui non brabi tibi superpenebis sperabit
scapulis suis obumbrabit tibi et sub pinnis eius sperabis
Curtum me thercum da te veritas eius sentimonio nonturno
scuto circumbabit te veritas eius non timebis a timore nocturno
A segni stimolanti, negossi tribulanti, a te le rincurto demonio meridiano
a sagitta volante per diem a negotio perambulante in tenebris a ruina et daemonio meridiano
No stalasti tu milieresti e milieresti tui e no stalasta e no me porta in quabitur
cadent a latere tuo mille et decem milia a dextris tuis tibi autem non adpropriabit
Voluntar meo conossui e non dabit tribulassioni peccatorum
verumtamen oculis tuis considerabis et retributionem peccatorum videbis
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quoniam tu es Domine spes mea Altissimum posuisti refugium tuum
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non accedent ad te mala et flagellum non adpropriabit tabernacolo tuo
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quoniam angelis suis mandavit de te ut custodiant te in omnibus viis tuis
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in manibus portabunt te ne umquam offendas ad lapidem pedem tuum
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super aspidem et basiliscum ambulabis et conculcabis leonem et draconem
quoniam esperabu libera vu eis quoniam cum Dominu eis
quoniam in me speravit et liberabo eum protegam eum quoniam cognovit nomen meum
Sclamàmi dami te custodia es chinìpiu sun et te gloria pecato eius
invocabit me et ego exaudiam eum cum ipso sum in tribulatione eripiam eum et glorificabo eum
Lungene tu genere et contribuire et sondairi et salutare eius
longitudine dierum adimplebo eum et ostendam illi salutare meum
solamente undici e come in ogni tradizione orale la prima parte segue fedelmente (anche se storpiandolo) il testo, mentre la seconda è più la11
cunosa, incompleta e incongrua. I versi da 1 a 8 sono facilmente collazionabili, mentre da 9 a 16 si salvano solo quelli dal 13 al 16; il v. 15
non mostra alcuna evidente corrispondenza. La didascalia posta dopo il v. 2, quasi una nota a margine o meglio un ndn (nota del narratore) inserita nella recita del salmo, è una spiegazione extra testuale e si deve riferire laqueo venantium (il laccio del cacciatore) del verso 3, metafora del diavolo, che è cacciatore, orditore di trappole, malattia pestifera che tutto distrugge.6 È singolare che l’unica parte dei due testi esattamente corrispondente, sia per posizione che per successione dei termini, sia la chiusa del verso 6 demonio meridiano. Il salmo 90 è quello che Satana utilizzò per tentare Cristo nel deserto,7 stralciandone un solo versetto e distorcendone il significato,8 ma è anche quello che annuncia con chiarezza la sua sconfitta perché colui che abita al riparo dell’Altissimo e a lui si affida completamente non teme alcun male.9 Sant’Agostino nell’interpretarlo spiega che molti sono caduti e cadranno a causa del demonio, ma nulla potrà colpire e sarà sotto la protezione di Dio chi resta saldo nella fede.10 Il salmo continua con immagini che sono state lette come prefigurazione della vittoria di Cristo sul peccato11 e come promessa di vita eterna per ogni cristiano capace di seguirlo.12 L’importanza del testo fa sì che sia inciso in forme simboliche sulla cattedra papale in San Giovanni in Laterano come rappresentazione dell’aiuto di Dio sul cammino del giusto attraverso il sostegno degli angeli.13 Un richiamo alla salvezza nella lotta tra il bene e il male. Senza affrontare questioni di difficile competenza biblica ed esegetica, possiamo sicuramente dire che questo stesso salmo, ancora oggi, è proposto come preghiera di liberazione dallo spirito del male e fa parte di alcune formule esorcistiche contro l’attacco del maligno.14 Per una possibile interpretazione sull’uso della Quiàbita dobbiamo forse soffermarci su alcune particolari immagini ivi proposte: non temerai i terrori della notte, né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno. La notte, a causa delle tenebre, è da sempre simbolo di sventura e di morte. Ma cosa dire a proposito del «terrore che devasta a mezzogiorno»?
Roma. Cattedra papale in San Giovanni in Laterano. Particolare.
Giacomo Leopardi nel giovanile Saggio sopra gli errori popolari degli antichi15 ricorda come gli antichi avessero timore delle apparizioni soprannaturali che spesso si manifestavano nel tempo del meriggio, quando il caldo, il sole cocente e il frinire delle cicale invitavano al torpore e al riposo. Come la notte, il tempo
destinato al sonno, quello della quiete e del silenzio, dopo il pranzo, era quello che risvegliava le paure di fantasmi e visioni. Leopardi cita anche San Girolamo come testimone di una credenza popolare per la quale si temeva un demone meridiano (il Keteb, così chiamato anche nel testo ebraico del salmo 90), che assale di
N O T E 1. R. ed E. Appi, M. e V. Carlon, A. e D. Pagnucco, C’era una volta la pietà popolare, Segni religiosi e preghiere del Friuli Occidentale, Società Filologica Friulana, Udine 1992. 2. Marcella Lachin, attraverso il racconto del figlio Angelo Rizzo Marcolin è anche testimone per i testi n. XI, LIII, LXXIII di E. e R. Appi, U. Sanson, M. e V. Carlon, Racconti popolari friulani, Zona di Budoia VII, Società Filologica Friulana (1971) 1999 3. Testimonianze sono presenti nel bellunese, cenedese, rovignese e soprattutto nel chioggiotto. Si veda a proposito di Chioggia la pubblicazione Chioggia itinerari storico-artistici di G. Scarpa e S. Ravagnan, dove alla voce «Il bragozzo» si legge: Suggestiva e festosa era la cerimonia del varo di un bragozzo niovo, il quale, prima di farlo scendere in acqua, tutto pavesato a festa, veniva benedetto, dopo aver recitato la Chiàbita, storpiatura dell’inizio del salmo 90 «Qui habitat». Sul significato invece di chiàbita come preghiera si veda E. Sfriso, La Chiàbita del nono, Quaderni del Lombardo Veneto, n. 50, 2000. 4. Per questi usi si vedano: A. Dalmedico, Proverbi veneziani (1857), «El diavolo no vol sentir la Quiabita»; G. de Angelini, Dizionario Enciclopedico Rovignese-Italiano, dove il termine è spiegato come «predica, predicozzo, raccomandazione, invito alla ragione»; G. Pellegrini, in «Notarelle linguistiche Bisiacche», AA.VV. Romania et Slavia Adriatica (1987), pp. 223-236, indica il significato di cuiàbita come «ammonimento, paternale, predica, rimprovero», e l’espressione «sentir la cuiabita» come «sentire la predica». Aggiunge che si tratta del salmo 90, recitato per esorcismi (da cui il proverbio di cui sopra: «il diavolo non vuole sentire l’orazione degli esorcisti»).
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5. Nel volume citato alla n. 1 si legge come didascalia: Questa è l’unica versione della Quiàbita (nominataci in parecchie occasioni – talvolta anche con il significato di cosa lunga, prolissa o minacciosa – ma mai rammentata) che abbiamo trovato. È una storpiatura del salmo 90: Qui habitat..., e ne mantiene il ritmo ma ormai senza significato. Veniva recitata in caso di pericoli e in modo particolare quando vi erano temporali, soprattutto da parte dei bambini che si inginocchiavano sulla soglia di casa o della camera da letto, sul piòl, e pregavano a mani giunte, rivolti verso il temporale. 6. Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge. Ti coprirà con le sue penne sotto le sue ali troverai rifugio. La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza; non temerai i terrori della notte, né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno. È interessante notare dal punto di vista linguistico che la didascalia utilizza la koinè veneta (saria invece di sarave), spiegazione dotta, ma anche possibile testimonianza di una derivazione della formula da quell’area, e l’introduzione nel latino della interdentale sorda th (v. 4 acqua bilanthia e al v. 5 thercum ) propria invece della nostra parlata locale. 7. Matteo, 4, 6: Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio, e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia ad urtare contro un sasso il tuo piede». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo. 8. Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i suoi passi.
giorno, fierissimo e molto più aggressivo di quelli della notte. E ancora Stazio secondo il quale le ombre dei morti vagano di giorno; o Porfirio che racconta degli dei meridiantes che vagano nell’ora del mezzodì. Del demonio meridiano Keteb Daniela Bisagno16 scrive: un’altra figura mostruosa che, nelle credenze popolari
ebraiche, usava manifestarsi nell’ora del mezzogiorno, era il demone Keteb… che infieriva soprattutto nei mesi estivi e nelle ore più calde della giornata.. aveva l’abitudine di rotolare in avanti come una palla e di provocare la morte... Non ricorda forse el foc salvàre che rotolando dalla campagna era in grado di giungere
Sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede. 9. Tu che abiti al riparo dell’Altissimo e dimori all’ombra dell’Onnipotente, dì al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio, in cui confido». 10. Mille cadranno al tuo fianco, e diecimila alla tua destra; ma nulla ti potrà colpire. Solo che tu guardi, con i tuoi occhi vedrai il castigo degli empi. Poiché tuo rifugio è il Signore e hai fatto dell’Altissimo la tua dimora, non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda. 11. Camminerai su aspidi e vipere, schiaccerai leoni e draghi. Il richiamo va al serpente genesiaco e quello citato in alcuni passi del vangelo (Luca 10,19) e dell’apocalisse giovannea (Apoc. 12,9 e 20,2): si tratta ovviamente del diavolo, e le successive aspide e basilisco sono figure del peccato e della morte prodotti dalla caduta genesiaca (vd. L’anticristo. Testi dai secoli II-IV, a cura di G.L. Potestà e M. Rizzi, Fondazione Valla Mondadori. 12. Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e gli darò risposta; presso di lui sarò nella sventura, lo salverò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli mostrerò la mia salvezza. 13. Udienze generali di S.S. Papa Giovanni Paolo II del 31.07.1986 e del 06.08.1986; Giovanni Coppa, 74 omelie sul libro dei Salmi, Origene e Giordano, Edizioni Paoline 1993; Discorsi di san Bernardo abate (Disc. 12 sul salmo 90, Opera omnia, ed. Cistercensi 4 [1966], 458-462 14. Si vedano le molte pubblicazioni di padre Gabriele Amorth, esorcista della diocesi di Roma (Ediz. Paoline).
15. Leopardi, Tutte le opere, Firenze, Sansoni 1969, 1989, vol. IV, pp. 794-798. 16. D. Bisagno, La parola incantata, Torino, Edisco, 2002; 2006, pp. 223-224. 17. Vd. Racc. Pop, citato, n. LXXVII, pp. 268-269. Per il foc salvàre si è aggiunta la nota del fuoco come manifestazione della anime dei morti, ma è nel nome (traducibile in «fuoco selvatico o selvaggio», l’esatto contrario di «domestico, mansueto, mite») che si conserva l’idea della ferocia dello stesso; e quando il protagonista del racconto lo vede è sul piol, tipico luogo di recitazione della quiàbita (vd. n. 5). 18. Nella dottrina cristiana il demone meridiano (identificato con l’accidia) diventa quello temuto dai Padri del deserto che tenta il credente nel mezzogiorno della vita quando maggiore è il rischio di disattendere le scelte fatte nella propria giovinezza. J-C. Nault, Il demonio meridiano, L’accidia, un’insidia sconosciuta del nostro tempo, Ediz. San Paolo, 2015. 19. Vd. Racc. Pop, citato, nn. LXVIII, LXIX, LXX, LXXI, LXII, LXXIII, LXXIV, pp. 241-259. 20. La superstizione degli antichi greci e romani era vissuta in un quadro di normali rapporti fra umano e divino e sebbene il cristianesimo l’avesse condannata in tutte le sue forme è rimasta comunque viva nel sostrato culturale. 21. C. Ginzburg, I Benandanti, stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1996. 22. Le sue opere, scritte con intenti religiosi, influenzarono una lunga serie di ordini esoterici e varie correnti massoniche e rosacruciane. 23. www.iagi.info, Blasonature, a cura di G. Aldrigetti, voci su Jacopo Nacchianti di S. Ravagnan, A. Padoan e A. Mozzato.
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fino in paese?17 E più avanti continua: il demone meridiano si poteva combattere ricorrendo a esorcismi, a scongiuri, incantesimi…18 Ecco dunque l’ausilio della Quiàbita che poteva servire anche per allontanare tutte le altre paure legate a orchi, streghe, forze oscure non dominabili dall’uso della ragione.19 L’animo dell’uomo era costantemente oppresso dal timore, dall’angoscia, dalla paura e ciò lo spingeva a moltiplicare le preghiere e i rituali superstiziosi per cercare rassicurazione.20 La natura operativa di ciascun salmo (nei 150 testi troviamo in ognuno una specifica preghiera per una particolare lode o supplica) si prestò bene a questo scopo e l’uso sistematico, costante e peculiare dei testi dello psalterio ha fatto favorito una funzione diversa da quella per cui erano stati scritti; col passare dei secoli venne trasferito l’ufficio da puramente religioso a magico-terapeutico, soprattutto nei rituali di quella magia popolare, chiamata anche magia delle campagne, che non ha manuali o codici, ma testi tramandati a voce, spesso in segreto, ricavati da antiche formule. E nel Friuli (e in tutta l’area veneto-giuliana e dalmata) abbiamo esempi solidi, ben documentati dagli studi di Carlo Ginzburg.21 Quando all’inizio del Novecento Julien-Ernest Houssay, meglio conosciuto come l’abate Julio (vescovo cattolico francese, 1844-1912), spiegò ad una ad una le virtù di ogni salmo,22 questi per le loro facoltà ed efficacia facevano già parte a pieno titolo della magia popolare. Non sarà stato a caso, che già nel 1551 il vescovo di Chioggia Jacopo Nacchianti, che viene ricordato anche per l’impegno di correggere pratiche religiose più vicine alla superstizione che ad autentiche espressioni di fede, avesse pubblicato una spiegazione del Qui habitat, probabilmente già all’epoca destinato a scongiuri.23 Il sottile confine tra fede e superstizione è nelle parole di Cristo in un versetto del vangelo di Marco (11,24): «Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato».
OGGETTI CHE RACCHIUDONO UNA STORIA
dopo la disfatta di Caporetto di Alberta (Noemi) Panizzut
Dopo la disfatta di Caporetto le truppe austro-ungariche dilagarono nel Friuli e a Budoia. Il comando dei soldati ungheresi si stanziò nella casa di mia nonna, che tuttora si trova a sinistra della chiesa, percorrendo la stradina dietro l’abside. Mia mamma Caterina era una ragazzina e ricordava perfettamente quel periodo. Qualche ricordo era annebbiato perché trascorse un periodo gravemente ammalata. Si trattava di una forma di influenza dagli esiti mortali per gran parte dei contagiati, e probabilmente diffusa dai soldati austro-ungarici fortemente debilitati per la sottoalimentazione; nel 1918 fu identificata come «spagnola». La sua mamma le raccontò che una sera si è avvicinato al suo capezzale il comandante dei soldati che erano di stanza nella sua casa e le sollevò le palpebre: dopo qualche secondo disse. «Nulla da fare, è morta». Invece Caterina si riprese e guarì. Le famiglie vedevano questi soldati entrare nelle loro case, prendere ciò di cui avevano bisogno; a tal proposito il nonno Giosuè ricordava la strana «funzione» cui fu adibito il cancello (che ancora si può vedere nel cortile
della casa che appartiene ora agli eredi di don Alfredo Pasut). I militi avevano razziato alcune galline e deciso di arrostirle sulle braci, gli serviva quindi una graticola… eccola pronta, rappresentata dal cancello divelto! Il nonno era particolarmente legato a quel cancello, da lui costruito, ma soprattutto alle pigne in pietra che sovrastano le colonne in mattoni. Come si può vedere
nostre vecchie case e nei nostri cortili. Sarebbe bello che fossero censite e valorizzate, ogni persona che si avvicina alla mia età (94) ha senza dubbio qualcosa da raccontare; sono sicura che esistano nel nostro paese molti oggetti che racchiudono una storia. Come avviene se si visita una città d’arte o un sito archeologico, se non si ha nella nostra mente
Il cancello utilizzato come graticola dai soldati austro-ungarici.
dalle foto, sono magistralmente scolpite ed erano state realizzate proprio da lui. Desidero ricordare queste semplici cose per far riflettere le persone su quante cose particolari, con valore affettivo, ma non solo, si trovano nelle 14
la conoscenza di ciò che si sta guardando, gli oggetti sono solo pietre, metallo, legno, carta, o tela. La storia, invece, che sta dietro a quegli stessi oggetti trasmette commozione a chi ne è consapevole.
Budoia. La piazza in una cartolina d’epoca.
TESTIMONIANZE
un ricordo del tempo di guerra
di Bruna Zambon Maressial
E ra l’anno scolastico 1944-45 ed io avevo diciotto anni e mi era stato assegnato l’incarico come insegnante nelle scuole elementari di Budoia. Un giorno, non ricordo bene, se di fine gennaio o primi giorni di febbraio, quello che di certo ricordo è che era una bella giornata di sole e verso le 13 e 30 passai come di consueto, per la piazza di Budoia per recarmi alla scuola e notai, presso il bar, oggi di Renè, diverse persone che tranquillamente si godevano il sole in attesa di ritirare la posta. Il mio sguardo si posò per un attimo su dei giovani militari tedeschi che giocherellavano tra loro spingendosi, tanto da darmi l’impressione di essere un po’ brilli. Dopo circa un’ora dall’inizio delle lezioni, si udì un fortissimo
botto: corsi sull’uscio da cui si poteva vedere bene parte della piazza e vidi, davanti al bar, alcune persone a terra e altre spaventate che scappavano gridando a gran voce; «I partigiani! I partigiani!» Nel frattempo anche la maestra Irma Burigana, che occupava l’aula accanto alla mia, mi raggiunse e vedendo la scena, dopo qualche minuto, mi chiese di recarmi sul posto per accertarmi di che cosa fosse realmente accaduto. In pochi minuti la piazza e il bar erano diventati deserti; mi rivolsi allora, per avere esatte notizie, alla proprietaria che, pallida e sgomenta, stava seduta dietro al bancone. Mi raccontò che i soldati tedeschi stavano giocando tra loro gettandosi, come fosse una palla, quella bomba a mano che erano soliti portare attac15
cata alla cintura. Improvvisamente l’ordigno era caduto e, scoppiando, aveva ferito più o meno gravemente i militari ed anche alcuni civili. Quando domandai se ci fosse stata anche responsabilità dei partigiani, la donna risoluta negò. Riferii tutto alla maestra Irma e all’improvviso ci guardammo perché ad entrambe, come un fulmine, passò per la testa la parola «rappresaglia» se fosse arrivata al comando tedesco la voce che incolpava dell’accaduto i partigiani. Riflettemmo per qualche minuto e poi decidemmo che occorreva un testimone dell’accaduto e chi meglio di uno di quei soldati, sperando che riferisse ai suoi superiori il vero? Solo scagionando così i partigiani si sarebbe allontanato il pericolo di una reazione te-
desca contro la popolazione. Così fu stabilito. La decisione però più difficile e preoccupante per noi in quel momento riguardava gli alunni che avevamo in classe. Pensammo che, anche nella pur minima probabilità che la situazione evolvesse al peggio, i bambini sarebbero stati più sicuri nelle loro case con i loro genitori. Entrammo perciò in classe e mandammo subito a casa gli alunni, raccomandando loro, ripetutamente, di non fermarsi per strada. Andammo poi verso la piazza deserta, a terra giacevano i soldati, la maestra Irma, con grande corag-
be cercato il medico condotto. Il militare continuava a lamentarsi e ad invocare la «mutter», mentre io continuavo a ripetergli con insistenza: «Tu dire: no partigiani!». La nostra era una ripetitiva e dolorosa cantilena, ma io ero fermamente decisa a fargli entrare in testa ciò che avrebbe dovuto dire ai suoi superiori. Questo lo ritenevo un dovere e un atto d’amore verso il mio paese che doveva essere tenuto fuori da ogni responsabilità. In quel momento ho dovuto far forza su me stessa perché quel continuo chiamare «mamma» mi commuoveva e in quella parola
Attraversando il Brait, a quel tempo completamente deserto, mi fermai più volte perché mi sembrava sempre di sentire il rumore dei camion tedeschi, e anche a dir il vero, per prendere il respiro che ogni tanto mi mancava per l’ansia. All’indomani seppi dalla maestra Irma che sorridente mi abbracciò: «Siamo salvi, tutto bene!» Il ferito era stato portato all’ambulatorio comunale e, mentre il dottore stava medicando le ultime ferite, entrarono due ufficiali tedeschi che chiesero subito al militare cosa fosse accaduto e specificatamente se erano (fossero) stati i partigia-
Dardago. Anno scolastico 1930-31. La maestra Irma Burigana con alcuni allievi della classe IV.
gio e fermezza, decise di prendere quello che sembrava meno grave e portarlo a casa sua che si trovava nelle vicinanze (in prossimità) della scuola. Cominciammo a trascinarlo con molta fatica, avevamo percorso forse qualche metro quando si avvicinò un uomo alto, piuttosto robusto e deciso a darci una mano. Si caricò il ferito sulle spalle, e lo depose su un letto a casa della maestra poi se ne andò di corsa, temendo anche lui l’arrivo dei tedeschi. La mia collega, che era stata anche la mia insegnante, mi consegnò un catino con dell’acqua e un asciugamano e mi chiese di pulire alla meglio il ferito che sanguinava in più parti, mentre lei avreb-
e in quel volto sofferente vedevo la sofferenza di tutti i nostri ragazzi sparsi sui vari fronti e, pensando a loro, mi venne spontaneo accarezzarlo sui capelli insanguinati e dirgli per incoraggiarlo;» Sì, mutter viene». Dopo circa mezzora la maestra Irma rientrò e mi riferì che presto sarebbe arrivato il medico e che io potevo andare a casa. A Budoia regnava un’atmosfera surreale: nel frattempo era calato il crepuscolo e una leggera foschia avvolgeva il paese dove regnava il silenzio assoluto. Tutti erano chiusi nelle loro case in angosciosa e timorosa attesa dell’evolversi degli eventi. Io, dalle scuole di Budoia alla mia casa di Dardago, non incontrai anima viva. 16
ni. Dopo un momento di esitazione che sembrò eterno, il militare raccontò l’accaduto come era realmente avvenuto. Gli ufficiali ringraziarono il medico e i presenti per le cure prestate al soldato e se ne andarono portandolo con loro. Ora, se ancora in vita, mi piacerebbe tanto incontrare quell’ex militare, ora anziano signore come me, ringraziarlo per la sincerità nel riferire il fatto, pur sapendo che con ogni probabilità sarebbe andato incontro a qualche punizione per l’accaduto, ma soprattutto per stringergli la mano con la bella parola: pace, pace per noi e per tutti i popoli.
Un fenomeno che ha attraversato la vita del nostro paese e di tanti paesi della Pedemontana e che è ancora vivo nella memoria di diversi nostri compaesani.
le stelle... erano tante, milioni di milioni di Vittorio Janna Tavàn Chiunque sia appassionato di montagna ne conosce risorse ed insidie. Risorse per l’anima, certamente, per la quieta riflessione, per la sperimentazione dei propri limiti e delle proprie capacità; insidie per i pericoli, gli inciampi, la fatica che si nascondono ad ogni salita, tra i boschi, ad ogni arrampicata o pedalata. Quando pensiamo alla montagna, una delle prime immagini a cui l’associamo è quella moderna delle escursioni o degli hobby e degli sport del tempo libero. È naturale, ma c’è stato un tempo in cui risorse ed insidie si “frequentavano” con ancor maggiore consuetudine anche tra le nostre crode. Epoca in cui la montagna rappresentava un confronto quotidiano, simbiotico e necessario per la sussistenza di intere famiglie. Le risorse avevano suggestioni meno poetiche e più pratiche per alimentazione e conforto per gli uomini – raccolta di frutti selvatici, funghi, ap-
provvigionamento di legna e pietre – e per gli animali – pascoli, malghe, fienagione – e dove le insidie si vestivano dell’abito dei sacrifici e della sopravvivenza. Era il tempo in cui, per chi non fosse nato sotto una buona stella – la maggior parte della nostra gente – poteva contare almeno su quelle più terrene e sul proprio ingegno personale. Già, perché anche la comune stella alpina, Leontopodium alpinum, che proliferava biancheggiando i nostri prati montani, ha rappresentato per lungo tempo una risorsa economica alternativa per molti nostri paesani. L’argomento è stato dibattuto ampiamente, specie nell’avianese, dove scritti e filmati hanno tracciato la storia della sua raccolta dalla fine
dell’Ottocento fino agli anni Sessanta del secolo scorso, quando la specie fu salvaguardata ed il suo commercio proibito per legge. Parlare di stelle alpine equivale parlare della storia della nostra gente, di un costume che ha contribuito a plasmare la nostra identità contemporanea. Se, agli inizi del Novecento, questa particolare usanza di origine austro-tedesca si estendeva dal gruppo del Monte Cavallo fino ai Comuni di Montereale Valcellina e Barcis, ben presto si ampliò alle vette dei Comuni di Aviano, Budoia, Polcenigo, fino al Cansiglio. Un tempo, infatti, i nostri prati in altura erano costellati a perdita d’occhio di stelle alpine, risparmiate dai bovini e dagli ovini al pascolo che si cibavano dell’erba lasciando «sul piatto» questi fiori lanuginosi dal gusto amarognolo. Un angolo di Paradiso, generato – secondo la leggenda – proprio da un iniziale fiocco di candida lana che la Madonna fece cadere in Terra mentre filava e che divenne poi un fiore. Ancora vivide nella memoria di molti dardaghesi sono le ritualità estive che coinvolgevano intere famiglie – uomini, donne, anziani e bambini, persino emigranti che face-
vano ritorno in paese – e che concedevano, grazie al ricavato della raccolta, della lavorazione e della vendita, un po’ di respiro all’economia domestica. Certamente agli occhi di Rosina Vettor Cariola, classe 1927, il ricordo, sebbene lontano, riporta il sapore di quelle estati, quando tra giugno
commerciale di questo fenomeno, tanto da farne un’impresa professionale con un raggio di vendita esteso e capillare. Amico, lettore e sostenitore del nostro periodico (vd. la corrispondenza in l’Artugna, anno terzo, numero uno), aveva iniziato l’attività nel 1948, ottenendo dal Comune di
Giais, 1964. Il maestro Ernesto Lorenzin con una cesta colma di stelle alpine.
Il maestro con alcune «impacatrici» nel cortile della sua abitazione.
ed agosto le stelle alpine fiorivano ed erano raccolte in grande quantità. «Avevo dieci anni – racconta Rosina – e mia mamma mi concedeva il permesso di recarmi a casa de la Maria Fusèra con altre sette amiche coetanee. La signora era vedova con due figli ancora piccoli, abitava in via San Tomè vicino a Frate e si occupava del confezionamento delle stelle per ricavarne qualche soldo». I preziosi fiori raccolti erano affidati alle «cure» delle donne che spesso si avvalevano della collaborazione di bambini e anziani per la fase di pulizia e composizione su fogli di carta che diventavano poi ’articolo’ di vendita. «Le ceste e gli zaini venivano svuotati – continua – e le stelle ammucchiate alla rinfusa sopra il tavolo. Era compito di noi bambini quello di districarli, stenderne stelo e foglioline, tendere ed allargare bene i petali, allinearli su un foglio di carta, impaccarli e pressarli con un peso. In base a quanti riuscivamo a confezionarne, ci veniva corrisposta una piccola somma di denaro». Se il metodo era omologato un po’ ovunque nella nostra Pedemontana, si deve però all’intraprendenza di Ernesto Lorenzin di Giais, classe 1912, l’innovazione e l’evoluzione
Aviano la licenza per la vendita di stelle alpine. Dopo gli iniziali conferimenti ad acquirenti della Carnia, organizzò e strutturò un’intensa esportazione verso Austria, Germania, Svizzera e Francia. Accompagnato dal figlio, si recava inoltre, a bordo di una Vespa Piaggio, in diverse località del bellunese da Alleghe a Misurina fi-
TE TE PÉNSETO DE CUAN CH’EREANE CANAIS… NEI RICORDI DI
Arnaldo Busetti, Omero e Giorgio Bocus, Flavio, Ugo e Valentino Zambon Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso noi ragazzi andavamo a impacà le stelle alpine nell’ex bottega di Colùs, la vecchia sede del Club Alpino Italiano (in via san Tomè), detta anche la bottega del Turco, perché il titolare Arcangelo Zambon Colùs, marito della Tonina Colussa (Tonina Zambon Thampéla), aveva soggiornato per lavoro in Turchia. Altri luoghi deputati all’attività delle stelle erano le ciase de Buréla, dei fratelli Ernesto e Angelo (Ano) Del Maschio, le ciase de Moreal di Giuseppe Rigo e della moglie Aurelia o le ciase de Curadhéla di Natalino Zambon (Gidio). Anche altre persone, tra cui Luigi Ermacora, Giancarlo Pauletti e Bianca Fort Pèrtia, erano appassionati
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raccoglitori e conferivano il loro prezioso raccolto a queste famiglie. È indubbio che la loro conoscenza dei sentieri e dei luoghi fosse impeccabile, ma come facessero ad orientarsi anche nel buio resta ancora un mistero. Noi ragazzi prendevamo servizio al mattino e ci ritrovavamo a lavorare le stelle alpine confezionate in mazzetti dentro grandi ceste. Ci contendevamo quelli più belli perché così la fase di sistemazione dei fiori si sarebbe svolta con maggior velocità e resa lavoro e quindi un maggior compenso economico. L’attività per tutti consueta era quella di ripulire le stelle e terminava con la stesura di 100 esemplari su fogli di carta gialla
no a Cortina d’Ampezzo, per mostrare direttamente il suo variegato campionario floreale suddiviso in cinque categorie di grandezza. Anche quando la raccolta spontanea fu proibita, non si perse d’animo ed inaugurò un primo vivaio a Piancavallo. Di quell’ingegnosa persona, Ro-
sina ne conserva ancora un iniziale ricordo: «Una volta sistemate le stelle, la signora Maria vendeva i fogli impaccati ad una persona dalle parti di Aviano, che avrebbe provveduto successivamente allo smercio all’ingrosso o al confezionamento in cartoline, biglietti per ricorrenze, piatti da muro o diari». L’attività, specie quella avianese degli anni Sessanta, era molto fiorente. Basti pensare che una buona impacatrice nell’arco di una giornata poteva completare da 70 a 100 fogli (7.000-10.000 fiori) e ricavarne un compenso di circa 2.500-3.000 lire, ben superiore a quello di un operaio.
Ciartòn di stelle alpine composto da 100 fiori. Sotto. Uno dei biglietti preparati da Natalino Zambon e conservato ancor oggi da Ugo Zambon Pala.
da macelleria: 10 stelle per riga per un totale di 10 righe. Erano poi ricoperti da un foglio della medesima carta e pressati. Al termine della giornata ricevevamo un compenso di 10 lire per foglio completato, di media 40-50 lire che erano immediatamente convertite in caramelle, gelati o altri dolciumi. Le stelle erano quasi sempre consegnate al maestro Ernesto Lorenzin ed erano destinate alla vendita in altre regioni o all’esportazione. Tra i tanti dardaghesi si distingueva l’opera di Natalino Zambon (Gidio) che, oltre alla raccolta, si dilettava anche alla preparazione di cartoline con le stelle ad uso souvenir oppure cartoline ad uso postale. Praticava un foro nell’angolo in
alto a sinistra del cartoncino di circa 4-5 cm di diametro, entro il quale poi, protette da carta trasparente simile al cellophane, inseriva una o più stelle. Se inizialmente si aiutava con un punzone battuto da un martello per ricavare il piccolo «oblò», successivamente ricorse ad una pressa di sua invenzione, che ne meccanizzò l’attività. Il primo commercio di Natalino fu limitato ai nostri paesi. Lo espanse poi ai territori dell’Alpago, dove giungeva in treno, dopo aver pedalato fino a Conegliano con la sua bicicletta.
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«Tra i diversi raccoglitori – ricorda infine Rosina – vi era anche Natalino Zambon (Gidio), un tipo dal carattere solitario che, quando rientrava dalla montagna, riforniva di stelle alpine la signora Maria e di erbe medicinali la farmacia del paese». Diverse erano le zone di raccolta nei nostri pendii e diverse erano le caratteristiche dei fiori secondo le zone. A Piancavallo presentavano petali bianchissimi e stelo corto, mentre nelle nostre zone fino a Polcenigo la tonalità tendeva all’avorio con stelo più lungo e fiore più grosso. Da Dardago si potevano scegliere vari itinerari che, come già menzionato da Fausto Bocus Frith sul nostro giornale, partivano dal Palèr e salivano al Ciàmp fino ai Piétins (dove crescevano le stelle più belle), continuando poi per la Busa Granda e per le Gloe lungo la Val Granda. I nostri uomini si spingevano anche in Ciàstaldia, in Colalt e in Valfredda, ma la loro presenza non era gradita ai raccoglitori di Giais che rivendicavano come propria quella zona e «invitavano» i nostri a rientrare entro i loro confini. Oggi, per comprensibili motivi legali e per la minor presenza di questi fiori particolari, sarebbe impossibile intraprendere la pratica delle stelle alpine, ma ritrovarne ancora una tra le pagine di un libro impolverato ha ancora quel sapore magico che aveva incantato di fascino e preziosità i nostri occhi adolescenti. Forse è solo la ricerca di un sogno ancora puro, la visione nostalgica delle nostre montagne incontaminate e dell’identità confortevole delle nostre radici a rapirci il pensiero. O semplicemente la dolce poesia della giovinezza, che attraverso le stelle, ci consente ancora di sognare!
Sono grato lla, figlia alla signora Gabrie o Lorenzin, del maestro Ernest per la gentile ne e fattiva collaborazio nel fornire materiale e informazioni utili lo. alla stesura dell’artico
UNA PARTE DELL’ALBERO GENEALOGICO DELLA NUMEROSA
Zuane Bon n. 1620 ca.
Pinài del Belo un ramo ancora inesplorato
Osvaldo n. 1650 ca.
sposa Domenica della Janna
Zuane Bon n. 1688
sposa Maria?
Gio Maria n. 1718
sposa Pasqua de Pellegrin
Giovanni n. 1750
sposa Giovanna Zambon
Giomaria n. 1778
sposa Domenica Anzelin
Vincenzo
Giuseppe
Giovanni
Maria
n. 1811
n. 1815
n. 1807 m. 1876
n. 1817
sposa Giacoma Zambon
Giomaria
Giovanna
Antonio
Caterina
Angela
Angela
Santa
Angela
Giacomo
n. 17.01.1831
n. 30.12.1831
n. 29.12.1834
n. 31.05.1837
n. 24.04.1839
n. 14.07.1840
n. 28.01.1843
n. 22.06.1845
n. 17.03.1847
Sante d.to Belo n. 25.03.1849
sposa Teodora Vettor
Emilia
Umberto
n. 23.10.1876
n. 16.07.1878
sposa Luigia Alzetta
Mario Sebastiano
Maria Maddalena
n. 09.01.1907
n. 19.10.1908
Emilia n. 05.05.1910
Teodora Ida n. 04.01.1912
Rosa Iolanda n. 12.11.1913
sposa ... Calderan
Pietro Calderan n. 1941
Adele n. 22.08.1917
Ida Marianna n. 28.09.1920
FAMIGLIA ZAMBON PINÀL DI DARDAGO
D al 1983, anno di stampa del
Pietro Calderan, che vive in Belgio, desidera conoscere le origini dardaghesi della propria madre, Rosa Zambon, e lo fa tramite la cugina, Lucia Fabbro abitante a Castello, la quale ci contatta fornendoci i primi dati che ci permettono di ricomporre uno dei rami della numerosissima famiglia degli Zambon Pinàl di via Rivetta.
primo inserto sugli Zambon Pinàl, altre pubblicazioni di alberi genealogici (Marco Pinàl Riveta, Pinàl Bavàn, Pinai Glir), a cura di Roberto Zambon, si sono succedute e hanno permesso di riorganizzare e capire le relazioni parentali del vasto universo dei Pinài, certamente una delle famiglie più numerose del Comune di Budoia. Santo (n. 1849), ultimogenito di dieci figli di Giovanni (n. 1807, cfr. inserto n. 117) di Giomaria (n. 1778) e di Giacoma Zambon, dà origine al ramo dei Pinài del Belo, soprannome assegnato per la sua vanità, tanto che – racconta la pronipote Lucia – il bisnonno non dimenticava mai di portare con sé pettine
Giovanni
Gioseppa
Gregorio
Felice
Gregorio
Felice
n. 17.11.1879
n. 17.03.1881
n. 20.04.1882
n. 09.01.1884
n. 28.08.1885
n. 15.03.1887
sposa Anna Cecchelin
Domenica Giacoma n. 16.01.1889
Piero n. 09.12.1890
e specchietto nemmeno durante i lavori di fienagione in Sauc. Santo, sposatosi con Teodora Vettor, generò quattordici figli, alcuni dei quali morirono infanti; dal matrimonio del secondogenito Umberto con Luigia Alzetta nacquero sette bambini tra cui Rosa, madre di Pietro Calderan, mentre da quello del terzogenito Giovanni con Anna Cecchelin, venne alla luce Iginia Assunta, madre di Lucia Fabbro. Ci auguriamo di aver accontentato sia Pietro sia sua cugina Lucia.
Augusta Margherita
Raffaele n. 14.11.1895
n. 03.09.1893
Iginia Assunta n. 15.08.1912
sposa Guido Fabbro
Lucia Fabbro n. 1946
Zambon Pinàl Ricerca genealogica eseguita dalla Redazione del periodico l’Artugna. Fonte consultata: Archivio Storico della Pieve di Santa Maria Maggiore di Dardago. 29 giugno 2016, Ss. Pietro e Paolo.
Cristina Maria
Marianna Rosa
n. 17.10.1897
n. 03.10.1900
6 1976 MAGGIO 2016
40anni
Giovedì 6 maggio. La terra trema sotto i nostri piedi. La violenta scossa di terremoto ci coglie improvvisa e ci riempe di sgomento. Ci riversiamo sulle strade, sulla piazza, costernati nella piena oscurità. Le colline attorno e verso Mezzomonte appaiono come illuminate da sinistri bagliori. Ci sentiamo piccoli, ci sentiamo niente. Crediamo di essere i soli ad aver avuto questa tremenda esperienza. Poi un transistor che trasmette Radio-Pordenone ci segnala che il sisma ha avuto proporzioni grandi ed una violenza inaudita nel Friuli orientale. Crolli, morti e feriti. Alcune cittadine e paesi non esistono più... anche noi abbiamo qualche segno del terremoto. Alcune case lesionate e, nella chiesa, il lampadario, autentico gioiello del ’700, è danneggiato gravemente. ...Lo so. Un lampadario è una cosa e mille lampadari non valgono un pover’uomo. Un pover’uomo vale più dell’universo. Eppure il lampadario, quella mattina, non mi è parso solo una «cosa». Mi è parso come il cuore grande della nostra gente e della sua storia.
Soffitto e lampadario lesionati dal sisma.
[ riflessioni dell’allora pievano don Giovanni Perin, pubblicate sul periodico l’Artugna dell’agosto 1976 ]
40 ANNI DAL TERREMOTO IN FRIULI Nel mese di maggio stampa e TV hanno ricordato i tragici eventi. Numerose sono state le commemorazioni. Anche nelle scuole se ne è parlato alle nuove generazioni.
la paura in 58 secondi di Chiara Maccioccu
Ciao nonno, oggi ricorre il quarantesimo anniversario del terremoto del Friuli, mi racconti la tua esperienza? «Ero seduto sulla poltrona del soggiorno, come tutte le sere. La televisione era accesa, ma io stavo guardando mia moglie che giocava con Roberto. Lei era incinta, il parto era previsto tra quella settimana e la prossima. Erano appena scattate le 21 quando improvvisamente ho sentito un forte boato, un rumore tonante. La terra tremava. Paola mi guardava impaurita, immobile; mio figlio si nascondeva sotto al tavolo. «Il terremoto!» Urlavo, ma eravamo tutti pietrificati. L’istinto ha avuto il sopravvento sulla ragione: mi sono alzato, ho preso il bambino in braccio e mia moglie per mano. Siamo corsi verso la porta che Paola cercava di aprire al buio, perché mancava la corrente. Siamo intrappolati. Pochi secondi dopo l’uscio si è aperto, le montagne sembravano che ci venissero addosso, non erano mai state così vicine. «C’è il fuoco!» gridava Roberto, il cielo era di un colore intenso: arancione, rosso. Per un attimo ho pensato che fosse la fine del mondo. Siamo corsi lontano dalla casa, nel giardino. La scossa era finita. Sono stati 58 secondi interminabili. 22
La parola «terremoto» era stata fino a quel momento un termine astratto, troppo grande e troppo forte; si sapeva per sentito dire cosa fosse. Un silenzio assordante ha invaso il paese, noi tre ci siamo fissati per qualche minuto senza dire una parola. Poco dopo abbiamo visto compaesani che scappava-
Le operazioni di soccorso videro impegnati circa diecimila persone fra militari, vigili del fuoco e carabinieri, oltre a migliaia di giovani volontari.
no attraverso i campi circostanti, il vicinato veniva a controllare la salute di Paola: era impaurita e temeva per la bambina che aveva in grembo. Le comunicazioni erano interrotte, ma presto i collegamenti militari sono stati ristabiliti, infatti mi hanno subito contattato. Mi hanno informato che c’era stata una forte scossa, di magnitudo 6.4, nei pressi di Gemona e che sarebbero venuti a prendermi perché io e i miei colleghi dovevamo andare a soccorrere gli abitanti. Nel furgone, percorrendo la strada, tra voragini e macerie, capivo veramente la gravità del fatto. I Friulani, nonostante la disperazione, si sono subito rimboccati le maniche e noi con loro abbiamo trascorso dei giorni scavando con le mani tra i detriti delle abitazioni per cercare di salvare il maggior numero di persone possibile. Ma la
Così appariva il paese di Trasaghis la mattina del 7 maggio.
paura non è terminata il 6 maggio. Io e la mia famiglia, nei giorni seguenti, dormivamo all’interno di una tenda militare in giardino a causa delle frequenti scosse di assestamento, sebbene ci fossero notti ventose e tempestose. Dunque, dopo alcune settimane, ci siamo spostati di nuovo in
casa per dormire, ma le finestre erano sempre aperte per riuscire a scappare più in fretta in caso ci siano state eventuali scosse. Il 15 settembre pensavamo che fosse tutto terminato, ma c’è stato un altro sisma, intenso quasi quanto l’altro, che ha rinnovato nell’animo di tutti i Friulani la paura».
STORIE DI EROICHE EMIGRAZIONI
da Budoia alla Prussia di Alessandro Fontana Prima dell’alba, un giorno d’estate, uno strano quartetto di uomini si era incontrato nella piazzetta del paese. Dopo essersi salutati e scambiato un deciso ‘muoviamoci’ si erano avviati da Castello d’Aviano per raggiungere la ‘Pedemontana’. Era sorprendente per chi li incontrava vedere tre di loro spingere ognuno una carriola nascosta da una coperta mentre il quarto camminava a mani libere. Si muovevano in coppia, due davanti e due dietro, e procedevano scambiando poche parole pensando a quanti passi avrebbero dovuto fare per raggiungere la Prussia. Allora nessuno qui in Friuli chiamava quei
territori Germania, Austria, o Polonia ma solo Prussia. Ma soprattutto pensavano, senza parlarne con gli altri, alle famiglie che erano costretti a lasciare. Se ne erano fatti una muta ragione: non dovevano cedere alla nostalgia né al timore dell’ignoto. I quattro erano vestiti in camicia e giacca (le mattinate erano ancora appena tiepide) e tre di essi portavano un basco: il quarto, Giuseppe – era il più anziano anche se solo di un anno – calzava un logoro Borsalino. Guardavano con curiosità quei luoghi che soltanto Giuseppe aveva percorso una volta che il padre aveva portato sul carretto tutta la fa23
miglia, una domenica, da Budoia fino al lago di Barcis. Mattia e Lorenzo erano nati e vivevano a Polcenigo: Giovanni era proprio di Castello e nessuno dei tre era ancora uscito dai confini dei loro paesi. Giuseppe invece era di Budoia. Le loro famiglie vivevano soltanto di lavoro e per giovanotti poco più che ven-
tenni, nel pieno delle forze, quello era l’unico destino e la sola opportunità. Avevano iniziato a guadagnarsi il pane aiutando scalpellini e tagliapietre fin da nove anni. Il loro era stato sempre un lavoro duro, talvolta neanche pagato, che fino a due anni prima aveva concesso loro una vita stentata però dignitosa in aiuto alla famiglia: ora, all’inizio del ventesimo secolo non era più così. Era come se lo scoccare del millenovecento avesse significato la perdita al diritto di mangiare, di vestirsi e fumarsi una sigaretta. Quanto poi a sposarsi, quello era un cruccio senza fine per dei giovani robusti e volenterosi ma poveri. Avevano però sentito da qualche fortunato, ritornato in paese dall’estero, che al di là della Carnia, in Prussia c’era lavoro in abbondanza e soprattutto per tagliapietre la richiesta era assicurata. Così un paio di mesi prima si erano incontrati a Messa una domenica. Era stato Giuseppe a chiamare gli altri a Budoia e per tutta la funzione non aveva fatto altro che guardare, ricambiato di sottecchi, Elena che per combinazione portava, senza essere parenti, il suo stesso cognome: Del Maschio. Non le si poteva neanche avvicinare, si sentiva inadatto – per la propria povertà – a corteggiare una ragazza così bella e una delle meglio vestite del paese. Ma sapeva di essere ricambiato nel suo sentimento e in quell’attimo si disse che l’avrebbe sposata. Poi, al termine della Messa riunì i tre amici e lanciò loro la proposta cui pensava già da tempo. Nessuno si era rifiutato e s’incontrarono quasi ogni giorno nel tempo libero, per programmare quel viaggio al meglio delle loro conoscenze, in particolare per decidere la via da percorrere. Erano un po’ intimoriti dalla cinta di montagne che chiudeva la visuale a nord: le avevano viste innevate a lungo ad ogni inverno e non erano sicuri che adesso, all’inizio d’estate, i passi alpini fossero già sgombri da ghiaccio e neve. Sapevano anche che dopo quei preoccupanti contrafforti c’erano montagne ancora più alte ma anche vallate percorse da fiumi e perciò certamente attraversabili. Dall’amico Andrea, bidello della scuola elementare, si erano fatti pro-
curare una carta geografica del centro Europa in cambio di un giorno di lavoro per dissodare un pezzetto di terreno incolto che aveva ricevuto in eredità e ora pensava di coltivare ad orto. I quattro se l’erano sbrigata in poco più di mezza giornata. Avevano deciso di non rivelare il loro piano nemmeno al bonario bidello, e soprattutto alla famiglia, nel timore di essere dissuasi o peggio: li avrebbero certamente costretti a non partire, anche con la forza. La strada ‘Pontebbana’ che partendo da Mestre attraversa Treviso, Conegliano, Pordenone e poi Udine fino a Tarvisio e la Carinzia era stata pensata ai tempi del Bonaparte – si dice proprio da lui – che voleva così contenere la pianura fra la via litoranea, da Venezia raggiunge Trieste, e proprio la futura Strada Pontebbana che da Venezia, passando per Udine, raggiunge poi il confine con l’Austria. Il progetto, dopo la sconfitta di Napoleone e la successiva conquista del nord-est italiano da parte dell’Impero asburgico, fu invece portato a termine dagli austriaci che ne avevano deciso ed eseguito il tracciato definitivo. Successivamente questi avevano perfino realizzato una comoda strada ferrata che da Venezia, attraversando il Friuli, raggiungeva la loro capitale: Vienna. Queste notizie le avevano sentite in giro ed anche dalla stessa bocca di Andrea. In verità, da Budoia a Vienna c’erano poco più di seicento chilometri e i quattro avevano messo in conto circa duecento ore di cammino ma avevano anche cercato informazioni sul costo dei biglietti in treno. La loro conclusione era stata che andare in treno sarebbe stato costoso anche perché c’erano le carriole. Queste dovevano svolgere un compito importante: non solo trasportare coperte, indumenti, scarpe e qualche po’ di mangiare, ma anche gli strumenti di lavoro: mazzette, vari scalpelli, cunei, martelli, metri, squadre e seghe. Questo materiale avrebbe rappresentato un alto costo aggiuntivo per il loro trasporto in ferrovia e nessuno di loro poteva permetterselo. Avevano comunque deciso che le carriole sarebbero state solo tre così che, a turno, uno di loro si sarebbe riposato o avrebbe aiutato chi degli amici avesse avuto un qualsiasi problema. 24
Giuseppe Del Maschio Danelin con la moglie Elena Del Maschio, sotto il porticato della loro abitazione, nel 1938.
Il programma perciò era di raggiungere a piedi la Prussia ma senza sapere al momento della partenza in quale città sarebbero arrivati. L’importante era superare i confini, giungere alla meta e poi avrebbero deciso. L’anno in cui erano partiti era il 1903 oppure il 1905: neanche questo momento è rimasto certo nella memoria dei parenti e degli amici che oggi, a oltre centodieci anni dal fatto e a trentacinque anni dalla morte di Giuseppe, o non sono più tra noi o ricordano poco di questa straordinaria avventura. I quattro giovani avevano anche appurato che c’era un’altra strada da percorrere per arrivare in Prussia, più corta di qualche diecina di chilometri, forse addirittura sessanta e questo avrebbe rappresentato un risparmio di tre o anche cinque giorni di cammino. Fino a Tarvisio i due itinerari coincidevano ma, entrati in Austria a Villach, divergevano e invece che a Vienna avrebbero puntato a sinistra, verso Monaco di Baviera. Da Monaco, poi si sarebbero diretti a Stoccarda e infine a Francoforte: qui avrebbero raggiunto il cuore della Prussia. Avevano contato, più o meno, no-
vecento chilometri da Budoia a Francoforte e perciò dovevano camminare per almeno quarantacinque o cinquanta giorni se tutto fosse andato per il meglio. Il periodo estivo era per loro favorevole Dopo un mese di conti, programmi e pensamenti erano pronti a partire e Giuseppe chiamò ancora gli amici di domenica ad ascoltare la Messa e raccomandarsi al Signore. Il giorno dopo sarebbero partiti e Giuseppe cercò ancora lo sguardo di Elena; sul sagrato le passò vicino, fece furtivamente con la mano il gesto di aspettarlo sussurrandole con occhi decisi: ‘Tornerò’. Fu l’ultima volta che in paese videro i quattro assieme e per oltre tre anni nessuno seppe dove fossero andati o, tantomeno, quale strada avessero preso ed il perché di quella sparizione ma soprattutto se fossero ancora vivi. Nei paesi la gente parlò a lungo di loro senza alcuna certezza. I parenti erano disperati soprattutto quando i carabinieri avevano dovuto rinunciare alla loro ricerca. Soltanto Elena ricordava, fiduciosa per tutto il tempo, quell’unica parola mormorata da Giuseppe: lei non
l’aveva confidata a nessuno ma vi credeva con tutto il cuore. Trascorsero tre anni e quattro mesi da quel momento e molti si erano quasi dimenticati dei quattro giovani anche perché nessuno di loro aveva inviato a parenti e amici una lettera o una cartolina in tutto quel tempo. I mesi trascorsi da quella mattina in chiesa erano stati contati soltanto dalle madri e dalle nonne. Ma un giorno di fine settembre di quell’anno millenovecento sei (oppure otto?), del tutto inaspettato Giuseppe ritornò a Budoia e anche Mattia, Lorenzo e Giovanni bussarono alle loro case nei vicini paesi. Tutti avevano riportato indietro le loro carriole e gli attrezzi. Dopo aver riabbracciato genitori, fratelli e sorelle e aver loro mostrato quanti soldi avesse guadagnato, Giuseppe si sbarbò e lavò accuratamente, si pettinò con un poco di brillantina e prese dalla carriola un bel vestito, scarpe e borsalino nuovi: tutto era ancora incartato. In dialetto budoiese annunciò che sarebbe ritornato per pranzo e che il giorno dopo sarebbe andato con la madre e le due sorelle a comprare per loro vestiti a Pordenone. Poi chiese permesso e uscì di casa impettito, salutando in tedesco. La famiglia era rimasta sbalordita alla trasformazione di Giuseppe. Era diventato un uomo alto più di un metro e settanta, occhi marrone che irradiavano decisione e tranquillità, snello e muscoloso, dalla bella faccia larga abbronzata: ispirava fiducia e rispetto e sembrava avesse mantenuto il carattere socievole e generoso che gli conoscevano. Ma soprattutto il padre non si spiegava, anche se fosse stato retribuito con tre volte la paga italiana, come avesse fatto ad accumulare quel denaro. Giuseppe andò a picchiare alla porta di Elena che nel vederlo sull’uscio di casa, manco a dirlo, svenne regolarmente e una mezz’ora più tardi erano ufficialmente fidanzati. Dopo qualche mese si sposarono ma da questo matrimonio non nacquero figli. E anche questa mancanza risultò inspiegabile per le famiglie invece assai prolifiche dei due sposi. L’altro segreto insolubile era quello del viaggio suo e dei suoi amici: nessuno aveva detto in quale città fossero stati, – rispondevano laconicamente 25
«siamo stati in Prussia» – in quale azienda avessero lavorato, come avessero mangiato e dormito e come avevano potuto mettere da parte tutti quei soldi. Con il passare degli anni Giuseppe si era affezionato ad un pronipote, discendenza di suo fratello Antonio. Il ragazzo di allora oggi è un uomo da poco andato in pensione, di nome Pietro, già più volte nonno, che ha trascorso molto tempo con Giuseppe frequentandolo fino alla sua morte avvenuta nell’anno millenovecento ottanta. Pietro è oggi l’unico depositario di quello scampolo di verità raccontato da Giuseppe che gli ha anche regalato alcune fotografie in cui i quattro sono assieme a molti altri tagliapietre mentre bevono birra e si riposano in due cave di chissà dove. Ma non era destino che Giuseppe si portasse con sé il proprio mistero prussiano. Infatti nel mille novecento settanta, Giuseppe, ormai ottantasettenne, ricevette una lettera dalla Germania. La lettera su carta intestata del Ministero tedesco della Previdenza Sociale gli annunciava che dai loro registri risultava che lui non aveva riscosso la pensione cui invece aveva diritto per gli anni di lavoro trascorsi a Dusseldorf dove i suoi contributi erano stati regolarmente versati. Il Ministero chiedeva soltanto se fosse ancora in vita e a breve avrebbe ricevuto i suoi soldi perfino aumentati degli interessi maturati in quasi settant’anni. Anche le famiglie di Mattia, Lorenzo e Giovanni avevano ricevuto la stessa lettera. Gli assegni erano poi giunti puntualmente a tutti. Il mistero di quell’assenza era così caduto, svelato dalla straordinaria efficienza della burocrazia tedesca (o sarebbe meglio dire prussiana?), ma soltanto in parte. Resta infatti ancora insoddisfatta, e vi resterà sempre, la curiosità di sapere quale strada abbiano percorso, quanti giorni abbiano impiegato, come si siano guadagnati tutti quei soldi e con che mezzo infine erano ritornati qui in Friuli. A me piace immaginare che in questo ritorno abbiano preso il treno pagando il biglietto anche per le carriole. 30 GENNAIO 2016
Emigrante con un po’ di nostalgia
un centesimo della mia vita di Pietro Fort Abbiamo ricevuto dal signor Pietro Fort Cocol di Santa Lucia, nostro affezionato lettore «da sempre», abitante in Sutherland Drive, Airdrie, in Scozia, un testo, corredato da alcune foto, sulla sua vita di lavoratore emigrante. Nel post scriptum conclude con una riflessione: «Mi rendo conto che nulla di tutto ciò potrà essere pubblicato su l’Artugna, ma, anche se nessuno farà un commento, va bene lo stesso: almeno ho raccontato solo un centesimo della mia vita». Signor Pietro, potrà invece leggere la centesima parte della sua vita lavorativa, proprio dalle pagine de l’Artugna. La sua è un’autobiografia che potrebbe servire a qualche studioso o laureando.
In alto. Pietro Fort con 49 camerieri al suo comando, nel 1980. Nel tondo. Un suo ritratto, ad olio.
Sono il signor Pietro Fort e, avendo raggiunto la matura età di 80 anni, non ho mai fatto conoscere la mia storia ai miei paesani. Dopo aver vissuto per 58 anni fuori dal mio paese, pur avendo fatto regolarmente visite in parecchie parti d’Italia e nel nostro Comune e dintorni almeno ogni due anni, solo qualche amico e qualche parente sanno la mia storia, come ho fatto carriera per garantire da vivere e mantenere la famiglia. Sono sposato con Mary da 56 anni e ho cresciuto cinque figli, tre maschi e due femmine, tutti professionisti, e ho la fortuna di avere quattro nipoti. Posso sinceramente dire di aver vissuto un’ottima carriera lavorativa. Iniziai a lavorare a 12 anni dal fornaio a Santa Lucia, per 17 mesi: senza paga, solo pane per la mia famiglia e il mangiare per me e imparare il mestiere. A 14 anni cominciai a lavorare nel ramo alberghiero, a Venezia, dove un mio zio mi trovò impiego come apprendista all’Hotel Gior26
gione, per sei mesi; poi l’inverno lo trascorsi a casa. L’anno seguente fui impiegato, sempre a Venezia, in una trattoria per due anni; durante l’inverno fui ingaggiato come apprendista al ristorante nuovo e famoso «Manin Pilsen», vicino al Bacino Orseolo. Dopo sei mesi, essendo stato informato da una persona che il «Gritti Palace Hotel» cercava un commis di sala, mi presentai e fui ingaggiato per due stagioni. Alla fine del periodo, ottenni un contratto per l’intera stagione del 1953 al «Grand Hotel National» di Lucerna, in Svizzera. Al ritorno, dopo l’inverno, mi presentai al «Danieli», a Venezia, per due stagioni come commis di sala. Ai primi di gennaio del 1956 fui richiamato e ingaggiato nuovamente al «Gritti» come chef de rang permanente. Il contratto terminò a fine settembre 1957 per chiusura dovuta a restauro. Allora avevo già un invito a Parigi, tramite un amico, per un lavoro in una brasserie e vi rimasi per sei mesi ma, essendo senza permesso, dovetti andarme-
ne. Un’altra conoscenza mi fece avere un contratto per l’Inghilterra per due anni e poi in Scozia dove passai il resto della mia vita. Vi voglio fare un riassunto dei miei 58 anni, in Gran Bretagna. Ho imparato tre lingue, inglese, francese e spagnolo, e sono stato promosso a cariche di maitre d’hotel e manager di reparto in tre famosi alberghi, cioè nella Britis Transport Hotels Limited di proprietà governativa, essendo stati annessi alle Ferrovie dello Stato fin dal 1948 e privatizzati nel 1988: si trattava di 31 hotels a 4 e 5 stelle sparsi tra Inghilterra e Scozia; il 60% erano vicini alle stazioni ferroviarie nelle grandi città e il 40% in grandi tenute fuori città con campi da golf, con nomi famosi. Io fui impiegato dal 1958 al 1983, anno in cui il governo conservatore con la signora
Pietro Fort con il duca di Edimburgo, consorte della regina Elisabetta.
Thatcher decise di vendere tutti gli hotels, quindi dovetti trovare altro impiego che arrivò subito. Durante gli anni Sessanta, quando avevo avuto la fiducia sul lavoro, mi fu chiesto dall’ufficio del personale di venire in Italia per cercare del personale disposto a raggiungere la Gran Bretagna,
purché fossero esperti di lavoro alberghiero e riuscii a far venire circa una decina di ragazzi, alcuni dei quali sono ancora nel Comune di Budoia e possono testimoniare quanto ho detto. *** Ho raccontato solo un centesimo della mia vita.
LA TURISTICA
Sacile-Gemona La soluzione per salvare la tratta ferroviaria Sacile-Gemona, interrotta dal 2012 per una frana nella zona di Pinzano, potrebbe essere la chiave turistica. Il progetto, presentato alla Commissione competente della Camera dall’assessore regionale ai Trasporti, Mariagrazia
Si è tenuta una serata sull’argomento da parte dell’Amministrazione Comunale con la partecipazione di Sigfrido Cescut e Leontina Busetti.
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Santoro, nel maggio scorso, e «apprezzato per l’illustrazione dei testi», prevede l’inserimento del percorso pedemontano tra le linee nazionali in disuso o in corso di dismissione situate in aree di particolare pregio naturalistico e archeologico, quindi in zone d’interesse
turistico. La Sacile-Gemona attraversa, infatti, un’importante area naturalistico-ambientale e, inoltre, la linea è contigua alla ciclo-via Alpe Adria Radweg.
Un punto di forza di tale progetto è stato il totale appoggio dei quattordici Comuni raggiunti dalla linea ferroviaria che hanno sottoscritto con la Regione
un protocollo d’intesa, col quale si sono impegnati a stanziare risorse per il progetto, mettendo a disposizione fabbricati e manufatti e prevedendo il coinvolgimento di associazioni di volontariato. Il presidente della Commissione ha annunciato una visita conoscitiva in Regione, entro la fine di giugno, per analizzare nel dettaglio la situazione della linea e approfondire le proposte regionali.
Stazione di Budoia-Polcenigo. Cartolina del 1935. Annullo postale del 75° anno dall’inaugurazione.
28 ottobre 1930. Inaugurazione della linea Sacile-Pinzano con entrata in Budoia del treno inaugurale.
LA PEDEMONTANA
Sacile-Pinzano-Gemona di Fortunato Rui La Pedemontana Sacile-Gemona, iniziata nel 1914 per scopi bellici e inaugurata il 28 ottobre 1930, era già in origine concepita con due tronchi ben distinti tra loro: la Gemona-Pinzano e la Portogruaro-Casarsa-Gemona. Il primo tronco era il tratto terminale di una linea concepita già alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, con l’intento di unire il porto di Venezia alla costruenda ferrovia Pontebbana, voluta da Venezia e avversata da Udine. Il secondo
tronco venne completato solo nelle tratte più meridionali nel 1888 tra Portogruaro e Casarsa, e nel 1891 tra Casarsa e Spilimbergo. La progettazione e la costruzione dell’ultimo tratto da Spilimbergo a Gemona, inaugurato nel 1914, subì ritardi e rinvii a causa delle croniche carenze di bilancio, e alle ferme opposizioni dei Comuni del Mandamento di San Daniele e non solo, che avrebbero voluto che la ferrovia passasse sulla riva sinistra del 28
Tagliamento sotto Pinzano, per meglio servire le aree più popolate del Sandanielese, e poi riprendere il tracciato originario a Majano. La linea si sarebbe saldata alla tramvia a vapore UdineSan Daniele e sarebbe stato il modo più veloce secondo il senatore Gabriele Luigi Pecile, per collegare al Capoluogo del Friuli il territorio di Spilimbergo.
’n te la vetrina
15 agosto 1966... cinquant’anni orsono! Immagini dei giochi popolari che si svolsero, in piazza, nel pomeriggio, dopo i vesperi. Come si potrà notare la piazza era stracolma di persone, dardaghesi ed abitanti dei paesi vicini… altri (bei) tempi! Il tutto venne accompagnato, con l’aiuto di due altoparlanti, dalla esilarante e colorita cronaca, in vernacolo, da parte di Dario Pagoto.
UN ACCORATO APPELLO AI LETTORI Se desiderate far pubblicare foto a voi care ed interessanti per le nostre comunità e per i lettori, la redazione de l’Artugna chiede la vostra collaborazione. Accompagnate le foto con una didascalia corredata di nomi, cognomi e soprannomi delle persone ritratte. Se poi conoscete anche l’anno, il luogo e l’occasione tanto meglio. Così facendo aiuterete a svolgere nella maniera più corretta il servizio sociale che il giornale desidera perseguire. In mancanza di tali informazioni la redazione non riterrà possibile la pubblicazione delle foto.
Corsa coi sacchi e giostra. (testo e foto di Flavio Zambon Tarabìn Modola)
Rottura delle pignatte, all’ombra del Baler, da notare quanta gioventù vi fosse! (testo e foto di Flavio Zambon Tarabìn Modola)
Gara delle angurie. In prima fila Marino Zambon Marin, Antonio Vettor Muci, Gianni Zambon Rosit, Pietro Ianna Theco. In basso a destra Maurizio Bocùs Frith e Fausto Rigato. Sopra, sul tetto del portone e muretto di Bedin da sinistra a destra: Dario Zambon Pagoto (cronista dell’avvenimento), Mario Santin Tesser, Flavio Zambon Tarabin Modola, Graziano Bocùs Frith, Roger Dall’Arche, Renato Rigo Barisel, Armando Zambon Biso, vicino alla scala; Ezio Zambon Ite, Paolo Ponte… le altre persone sono sconosciute. (testo e foto di Flavio Zambon Tarabìn Modola)
Lasciano un grande vuoto... l’Artugna porge le più sentite condoglianze ai famigliari
grazie, Omar! Omar Carlon.
Sette anni fa, quando venni eletto Sindaco per la prima volta, non avrei mai pensato di trovarmi qui in questa circostanza, a parlare di Omar, e non avrei mai voluto doverlo fare; in realtà devo proprio essere io a farlo, non solo perché esprimo la carica rappresentativa della comunità di Budoia, e per questo devo ringraziare molte persone: gli elettori, i colleghi amministratori, ma perché più di tutti, per questo mio ruolo, per essere stato eletto Sindaco due volte, devo ringraziare una persona in particolare; Omar Carlon. E lo ringrazio raccontandolo, perché attraverso il racconto non si saluta mai una persona, ma ci si fa custodi della sua esistenza, di quanto ci ha dato e di quanto continuerà a dare. Omar venne da me sette anni fa e mi chiese se ero disposto a candidarmi come Sindaco; mi spiazzò totalmente, gli dissi di passare più avanti, ci dovevo pensare un po’. Lui ritornò, secondo me era curioso di conoscere la mia risposta, e sentivo che voleva iniziare una nuova avventura; così mi convinsi per questo suo spirito di «concreta incoscienza» che appartiene anche a me, oltre che per la bottiglia di refosco che ci bevemmo assieme per sugellare quel momento e intraprendere con lo stesso spirito un nuovo viaggio. A distanza di anni mi sono convinto che se non fosse stato lui a chiedermi di assumere così giovane un ruolo così importante per la comunità di Budoia,
probabilmente non avrei accettato, anzi, credo non ci avrei pensato un momento e avrei detto subito di no, quindi oggi conoscete il responsabile. Omar, nella grande avventura che si prospettava davanti, mi dava sicurezza, non tanto perché avesse maturato un’esperienza come amministratore, ma perché, come me era, un «concreto incosciente», ovvero, affrontava lo sconosciuto oceano della vita, con pochi strumenti, semplici ma efficaci, e per me rappresentavano una solida nave su cui imbarcarmi. Su questa nave sapevamo che bisogna avere un buon equipaggio e che condividesse delle regole, e noi ce l’avevamo, con il nostro equipaggio non si aveva sempre la stessa visione, non si condivideva la stessa rotta, ma, in ogni caso, si andava avanti sempre assieme grazie alla stima reciproca che era alla base dei nostri rapporti, e questa semplice taratura morale ci ha sempre concesso di risolvere molte situazioni senza mai litigare. Una Giunta ed una maggioranza che chiude un mandato amministrativo senza mai litigare, credetemi, è cosa rara se non impossibile, e questo è avvenuto grazie al contributo importante di tutti e di Omar in particolare. Potrei raccontarvi tante cose, aspetti che pochi conoscono, perché Omar era bravo a fare molte cose tranne la pubblicità di se stesso. Non gli interessava apparire, e pertanto
per rispettare questo suo modo di essere non vi dirò quanto ha fatto come Assessore alle politiche sociali per stare vicino alle persone più fragili e deboli, non vi racconterò cosa ha fatto per le associazioni di volontariato che operano per la comunità di Budoia, o per la Proloco, che lui amava e riteneva un motore senza il quale la comunità di Budoia sarebbe stata più povera; ecco, non vi racconterò nulla di tutto ciò, perché se non ve lo ha raccontato lui, io non ve lo racconto. Vi racconterò una cosa, come considerava la politica: Omar riteneva la politica il luogo del dare e non dell’avere, e lui era uno che dava, dava incondizionatamente quanto poteva per la comunità di Budoia, e questo suo fare per me rappresentava una leva, che permetteva a tutti di raggiungere buoni risultati, nell’interesse generale della comunità che amministravamo, ma al tempo stesso era un’asta morale molto alta, che ci faceva crescere in un contesto generale in cui il fare politica viene interpretato come il fare molte cose, tranne gli interessi delle persone per cui si è chiamati ad impegnarsi. Omar, per come l’ho conosciuto io, si occupava di poche cose: la famiglia, il lavoro, la politica, gli amici; ma tutto ciò lo faceva con una intensità ed una onestà che lo assorbivano interamente, non centellinava il proprio impegno, anzi, credo abbia sempre sofferto per non poter fare di più, e questo mi fa sentire in colpa, perché
avrei dovuto dirgli più volte che era molto quanto faceva. Mi sarebbe piaciuto che il nostro viaggio continuasse tracciando la rotta assieme, per questa ragione lo nominai Assessore esterno nel secondo mandato, perché squadra che vince non si cambia. Purtroppo non poteva, anche se ben sapevo che voleva, e pertanto ho sempre cercato di coinvolgerlo, abbiamo tutti sempre cercato di portare avanti la nave con il suo aiuto, raccontandogli le insidie dei mari, le tempeste, ma anche gli orizzonti sereni che spesso si profilavano e le nuove destinazioni raggiunte. Da buon marinaio lui era sempre profondamente interessato a quanto accadeva in questa nave chiamata Budoia, lo teneva vivo, attento, perché lui fuori da quella nave non voleva stare e tanto meno voleva cambiare nave; per questa ragione fino all’ultimo nostro incontro gli ho sempre presentato rapporto, gli ho sempre portato il giornale di bordo che lui seguiva con attenzione. I grandi marinai si vedono nella tempesta, e lui si è trovato in mare aperto, con il mare in tempesta, e in queste condizioni un bravo marinaio non si lamenta ma cerca sempre di mantenere la rotta, e questo è stato il suo viaggio, un viaggio chiamato dignità, dove l’altro veniva sempre prima di se stesso, con questo spirito un buon marinaio non abbandona mai la nave, e Omar non l’ha abbandonata, è con noi grazie al racconto; il mio racconto, il vostro racconto, il racconto dei suoi genitori, di sua sorella, delle sue nipotine, nel racconto di Chiara, e grazie a tutti questi racconti avremo sempre la forza di affrontare le tempeste e scoprire nuove terre e isole meravigliose. Grazie Omar per tutti i racconti che ci accompagneranno, insieme, nel grande oceano chiamato vita. DAL RICORDO DEL SINDACO,ROBERTO DE MARCHI 21 maggio 2016
Dardago, 6 novembre 2005. Mario Ponte presso la sede degli alpini.
Mario Reduce di Russia, iscritto come Aggregato al Gruppo Alpini di Budoia. Alle sue esequie gli Alpini lo hanno accompagnato per una promessa e un debito. La promessa, strappata a lui il giorno del suo 90° compleanno, quando, prendendomi in disparte mi chiese con gentilezza e garbo, quasi con pudore, ma con tanta dignità: «Mario, al mio funerale desidero essere accompagnato da voi Alpini di cui conservo sempre un caro e grato ricordo». Promessa mantenuta! Il debito. È la riconoscenza che dobbiamo a questi uomini valorosi che hanno combattuto una guerra non voluta, solo per rispettare, da veri soldati, l’ordine impartito. Quando chiama la Patria si risponde sempre «Sì»! Mario Ponte e, potrei fare tanti alti nomi di nostri «andati avanti» lo hanno sempre sostenuto. È la riconoscenza che l’Italia deve a questi suoi figli che al ritorno dal fronte, dimenticati e abbandonati da tutti, quasi come dei lebbrosi, avrebbero potuto attaccare il cappello da soldati al primo chiodo della loro soffitta e fregarsene di tutto e di tutti. Non è stato così di loro, anzi, hanno continuato a voler bene alla Patria e hanno costruito con il loro
lavoro, giorno dopo giorno, anche sulle macerie dell’indifferenza, un futuro ricco di prosperità, di pace, di sicurezza, di fraternità. A loro il nostro imperituro ricordo. Ai suoi funerali erano presenti con il sindaco Roberto De Marchi, che ha
1941. Mario a Pola. Quinta Artiglieria C. A. Cannone 105/28.
tenuto l’orazione funebre, il Presidente della Sezione Alpini di Pordenone Ilario Merlin, accompagnato dal suo predecessore Giovanni Gasparet e, in rappresentanza dell’UNIRR (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia), il consigliere Girolamo Carnevale di scorta al Vessillo provinciale. In camposanto, dopo l’ultimo saluto, il silenzio suonato dal trombettiere Tiziano Redolfi di Aviano. Ai suoi famigliari le più sentite condoglianze. MARIO POVOLEDO
Renè Siamo in tanti oggi a salutarti caro Renè. È tutta la gente che ti ha stimato e ben voluto e ricambia così unendosi alla tua famiglia, quell’amicizia genuina e sincera che hai riservato nei lunghi anni del tuo servizio a Budoia, sino alla fine, anche quando il declino fisico si evidenziava giorno dopo giorno; con la tua scomparsa siamo un po’ più soli perché viene a mancare un punto di riferimento e un caro amico, nobile, signorile, generoso, educato. Ti sei fatto conoscere ed apprezzare per quello che hai costruito come ristoratore, finito negli annali della guida gastronomica Michelin, quando avevi iniziato, giovanissimo, un’avventura che ti ha fatto diventare un mito. Bastava nominare Budoia e subito veniva spontaneo il collegamento al tuo nome. Per tutto ciò, aiutato dai tuoi famigliari e da validi collaboratori, sei stato insignito di svariati premi e importanti riconoscimenti per il settore gastronomico, non ultimo la Croce di Cavaliere al merito della Repubblica Italiana, onorificenza, da te sempre ostentata. Nel tuo ristorante si sono sedute persone importanti e persone semplici, che hai trattato con uguale signorilità senza fare distinzioni di ceto e di portafoglio. Anche nel tuo bar, un bar di un piccolo paese hai accompagnato intere generazioni sempre con il sorriso, con accoglienza, con affetto, ricordando che anche tu eri passato dalla esperienza dell’emigrazione dei tuoi genitori ed eri ritornato immigrato, un problema questo, divenuto dolorosamente planetario, anche se il contesto attuale è ben diverso. Il tuo amico Cornelio Zambon ti ha scritto una poesia, poi musicata da sua moglie la signora Tina intitolata semplicemente «da Renè»! Hai amato la Comunità, intesa come l’unione di tre paesi, scevra da futili ed inutili campanilismi, retaggio di gretta ignoranza e solo uno che ha voluto bene come te ha potuto spendersi anche nel volontariato. Socio fondatore dell’Associazione Pro Loco Budoia, indiscusso Presidente dell’A.S. Calcio Budoia, con giocatori anche da fuori
Renè Del Zotto.
provincia che ancora oggi si ricordano del bel clima vissuto nello spogliatoio, in campo e nel tuo ristorante. Quanti piatti di «rigatoni alla Renè» abbiamo mangiato assieme! Hai fatto parte come Consigliere dell’Azienda Autonoma Soggiorno e Turismo, conscio che le peculiarità della vicina Piancavallo e delle nostre Comunità limitrofe andavano incentivate, fatte conoscere ed apprezzare per non rimanere gli ultimi della classe. Anche in questo caso hai operato meglio di tanti politici! Hai creduto nei valori della nostra Associazione Nazionale Alpini, che
continua ad essere un esempio per questa nostra Italia, a volte incapace di essere generosa al pari di noi. E il cappello alpino, che solitamente poniamo sopra il cofano funebre tu lo hai dentro, accanto al tuo cuore e ti farà compagnia nel lungo viaggio verso l’eternità. Mi è stato riferito che il tuo pronipotino Gianpiero vedendo i suoi genitori e sua nonna tua sorella Mirella rattristati per la tua scomparsa abbia detto queste parole: «Lo zio Renè è insieme al nonno Piero e un giorno staremo tutti assieme»! Una bella lezione che ci viene donata oggi a noi tutti dalla semplicità di un fanciullo, quasi a farci ragionare a non soffermarsi solo all’effimero e all’umano, che è destinato a passare, ma a guardare in alto! Questo almeno per chi ha la fortuna di credere. E oggi un altro tuo amico ti farà compagnia il col. dott. Mario Ponte, reduce di Russia. A Rosa Pia, a Mirella, e congiunti tutti va il nostro abbraccio di stima e di solidarietà. Ciao Renè riposa in pace. MARIO POVOLEDO Budoia, 19 marzo 2016
Antonio Antonio Del Maschio Fantin.
Il giorno 21 febbraio 2016 è venuto a mancare il nostro caro Antonio. Ha lasciato un grande vuoto sia nella famiglia, perché egli è stato un punto di riferimento per le sorelle, la mamma centenaria, la moglie Mirella, la figlia Monica e, soprattutto un pilastro, per i suoi nipoti Cristian e Riccardo, sia nel mondo del volontariato, perché era sempre
presente per la Comunità Avianese con il suo inconfondibile sorriso e spirito alpino. Noi tutti lo portiamo sempre nel cuore e che da lassù ci protegga sempre. Ciao. I TUOI CARI
Angelo
Angelo Pisu.
Lo scorso 13 febbraio ci ha lasciati il caro Angelo, marito di Silvana Bocus. Originario della Sardegna, Angelo entrò da giovane nell’Arma dei Carabinieri. Nel 1958 trascorse un mese con gli alpini, aggregato alla caserma Italia di Tarvisio, per controllare l’ordine pubblico durante gli scioperi alle cave del Predil. Dopo aver prestato servizio in varie parte d’Italia, tra cui Trieste (dove conobbe Silvana), Angelo venne trasferito nel 1965 a Susegana, dove rimase fino alla pensione. Grande appassionato di storia e dell’ambiente, amava condividere
con gli altri queste sue conoscenze, accompagnando gruppi e comitive sui luoghi della Grande Guerra, scoperti e riportati alla luce dopo decenni di oblio. A lui si deve, tra l’altro, individuazione dell’ospedale militare austriaco nelle grotte di Villa Jacur a Colfosco. Era il socio più anziano e uno dei più attivi dell’associazione ArcheoSusegana. Grande amico degli alpini di Collalto, per le sue ricerche, intesseva rapporti con importanti istituzioni storiche. Era anche un profondo conoscitore di vie e sentieri delle Dolomiti. Tra i legami di Angelo le nostre terre va ricordata la grandissima devozione verso Padre Marco d’Aviano. I SUOI CARI
Anna Maria Anna Maria Buso.
Ciao mamma, lunedì mattina 30 maggio ci hai lasciato; te ne sei andata in silenzio, in punta di piedi, come per non volerci disturbare. La sorte non è mai stata troppo generosa con te. Gli ultimi anni della tua vita li hai trascorsi combattendo contro una lunga malattia che lentamente
solo andato niente, io sono La morte non è canto. nella stanza ac pre. voi lo sono sem r pe Ciò che ero e parlato. pr m se e et av e mi Parlatemi com faceva ci e ere di ciò ch Continuate a rid ridere insieme. ate per me. ate a me, preg Sorridete, pens e. pr m se ificato di La vita ha il sign . zato Il filo non è spez i vostri pensieri? essere fuori da ei vr do hé rc Pe ntano, Io non sono lo mmino. altro lato del ca ll’ da lo so sono
ti ha consumato come si consuma la cera di un lumino ma che fino all’ultimo hai affrontato con tenacia, caparbietà, serenità e dignità. Ti abbiamo sempre chiamata «la nostra leonessa» per come hai sempre affrontato le difficoltà, tenace quando serviva la determinazione, dolce quando necessitava la dolcezza. Ciò che ti ha aiutato, in questi anni,
a sopportare tutto è stata la tua profonda fede; la tua devozione a Padre Pio e a Santa Elisabetta Vendramini. Alla loro protezione affidavi sempre le tue pietre più preziose: Riccardo, Beatrice, Alessio e Simone. Ci hai sempre inculcato, assieme al papà, i veri valori e principi che arricchiscono la vita e noi auspichiamo di saperli trasmettere ai nostri figli. Mamma, riposa in pace. Lassù in cielo c’è Romina che ti aspetta; ti ha preparato il posto. Mamma, grazie di tutto ciò che hai fatto per noi, di tutto ciò che ci hai insegnato e trasmesso, di tutto il tuo amore. Veglia su di noi, sul papà tuo sposo, sui tuoi nipoti e tutti coloro che ti vogliono bene. Ciao mamma, buon viaggio. LE TUE FIGLIE
CRONACA
Cronaca
di Pietro Ianna
RODUTTORI
È nata la Cooperativa. Che a Dardago si coltivi lo zafferano, meglio conosciuto come «oro rosso» lo sanno in tanti. La stampa locale ne ha parlato e continua a parlarne. Che lo zafferano prodotto a Dardago non abbia niente da invidiare rispetto a quelli più blasonati lo sanno i molti che lo hanno già acquistato come pure chi ha partecipato al primo evento regionale Dardago Fior di Zafferano che lo ha potuto conoscere anche grazie alla professionalità dei nostri chef. Analisi chimico-organolettiche effettuate lo hanno confermato definitivamente. Cosa contribuisce a far sì che lo zafferano di Dardago sia così pregiato? Innanzitutto amore e passione con i quali viene lavorato in tutte le sue fasi: dalla semina dei bulbi alla raccolta dei fiori, dalla separazione degli stimmi all’essiccazione e al confezionamento. Inoltre le peculiarità del nostro territorio quali: un terreno sciolto, leggermente alcalino, drenante, con un clima temperato e una buona esposizione e giacitura. Tutto questo ha convinto l’anno scorso un gruppo di amici a seminare un piccolo quantitativo di bulbi (circa 5.000) in località Cial de Mulin per iniziare un’esperienza giudicata poi positiva, al punto di pensare di coinvolgere altre persone in questo progetto. La risposta è stata concreta. Hanno aderito una ottantina di persone, provenienti da diversi Comuni del pordenonese e due del trevigiano, sottoscrivendo circa 200 quote del valore nominale di 100 euro cadauna. La motivazione di tanto interesse è la curiosità e il fascino che suscita lo zafferano, il guardare a qualcosa di nuovo e, perché no, fare comunità attorno ad un progetto condivisibile. Trovarsi per discutere, analizzare e lavorare insieme. Per dare una configurazione giuridica a questo progetto ci siamo affidati all’Unione Cooperative che ha ritagliato uno statuto che si adatta perfettamente alla nostra specificità. Uno statuto per certi versi innovativo rispetto a quelli tradizionali, pur sempre rispettoso del principio fondamentale della cooperazione: quello della mutualità. La potremmo definire una cooperativa di Comunità. Ogni socio, in base alle sue attitudini e passioni, può contribuire per realizzare gli scopi sociali. È una cooperativa aperta, tutti possono partecipare. Basta compilare un modulo e versare la quota sociale prevista; l’importante è condividerne scopi e mission. Quali gli obiettivi? Ne cito solo alcuni. Favorire la promozione del territorio sia dal punto SOCI PRODUTTORI di vista economico che turistico. Diffondere la conoscenza e la pratica di colture pregiate, sostenere la formazione professionale delle persone che si dedicano a nuove esperienze in agricoltura. Per tutto questo, quale miglior prodotto di «sua maestà lo zafferano»? Conosciuto, decantato e celebrato nella storia per le sue proprietà culinarie, medicinali, afrodisiache, terapeutiche e coloranti? L’importante è credere in un progetto e noi ci crediamo, tanto che il 16 maggio 2016 abbiamo costituito la Cooperativa Agricola Cial de Mulin. A fine agosto semineremo un’importante quantità di bulbi: un gruppo di soci si occuperà della lavorazione e produzione del prodotto, un altro della comunicazione, del marketing e della commercializzazione, un altro curerà l’aspetto amministrativo. Ogni socio è così coinvolto e partecipe all’attività della propria cooperativa. Abbiamo lanciato una sfida e siamo certi di vincerla. 34
Il Comune cerca Idee sull’Abitare Sociale Si è tenuto nella sala conferenza dell’ex latteria di Budoia un convegno, indetto dall’Amministrazione Comunale e dedicato alle nuove forme dell’abitare. Estrapoliamo dalla relazione di apertura del sindaco Roberto De Marchi alcuni concetti: «Vogliamo stimolare un dibattito per capire quali possono essere i modelli del costruire del futuro, in una società nuova dove l’innovazione tecnologica, la sostenibilità e l’ambiente siano i tre fattori principali di uno sviluppo per il futuro, capaci di creare anche elementi di attrattività di un determinato territorio. […] Sui temi dell’innovazione tecnologica e della sostenibilità siamo attivi già da qualche anno, con la fibra. Ricordo che Budoia è stato il primo Comune in Italia ad averla portata nelle case già nel 2011 e ora vogliamo avviare un approfondimento su alcuni temi che stanno diventando sempre più importanti. […] Ma da questa riflessione vogliamo dare vita anche ad una fase propositiva che metta in pratica tutti questi concetti e lo faremo con un «Concorso di Idee» che partirà a settembre e che sarà incentrato su un’area del nostro Comune nella quale il Piano Regolatore prevede un intervento di tipo sociale».
Primo incontro con il Signore Domenica 15 maggio 2016 nella chiesa di Santa Lucia hanno ricevuto la Prima Comunione 9 bambini dei nostri paesi: Morgana Bianchini, Federico Braido, Alice Bruno, Sara
I bambini nel giorno della Prima Comunione con il parroco don Maurizio e la catechista Gianfranca. Da sinistra, in prima fila: Lorenzo, Marco, Morgana, Luca; in seconda fila: Sabrina, Thomas, Alice; in terza fila: Federico e Sara.
Chisu, Luca Ferrarelli, Thomas Foscarini, Sabrina Maraldo, Lorenzo Tomasello e Marco Zambon. La Santa Messa, celebrata dal parroco don Maurizio, è stata accompagnata dal coro che riuniva coristi di tutte tre le parrocchie. Anche i bambini delle altre classi hanno partecipato alla festa cantando insieme «Acqua siamo noi». Un ringraziamento particolare alla catechista Gianfranca Portaluppi che con pazienza e dedizione ha accompagnato i bambini nel cammino di preparazione a questo sacramento. Tra i momenti più significativi del percorso catechistico, i bambini e le loro famiglie ricorderanno con gioia il ritiro spirituale alla Madonna del Monte la settimana precedente: in questa occasione, hanno percorso il suggestivo cammino mariano, hanno varcato la Porta Santa e si sono confessati. Naturalmente non sono mancati il pranzo in spirito di condivisione e i giochi all’aperto.
L’Associazione fondiaria
zioni di Moreno Baccichet su «La trasformazione del paesaggio della Pedemontana negli ultimi due secoli», di Gabriele Iussig dell’Università di Torino su «L’Associazione fondiaria, strumento per il recupero funzionale, la promozione e la tutela dei terreni abbandonati» ed infine l’intervento del Sindaco di Stregna, Luca Postregna su «L’Associazione Fondiaria Valle dell’Erbezzo nelle Valli del Natisone» Lo scopo è raggruppare i proprietari, o aventi diritto, dei terreni con destinazione agricola, boschiva o pastorale, anche abbandonati, per una gestione del territorio che ne conservi e migliori i valori agricoli, paesaggistici ed ambientali, nonché la biodiversità. Le prime esperienze nascono in Francia, sono esportate in Piemonte, Lombardia e la prima Associazione fondiaria delle Alpi orientali è operativa da un anno con l’unica esperienza, appunto, della Valle dell’Erbezzo, la più sudorientale delle Valli del Natisone, soprattutto per iniziativa del Co-
mune di Stregna. Il successo di quest’iniziativa potrebbe essere trasferito presto anche nella Pedemontana Pordenonese, dove ci sono simili problematiche di abbandono e marginalità. Un dato incoraggiante è la risposta positiva ottenuta dalla popolazione delle Valli del Natisone nel primo anno di vita dell’Associazione fondiaria Valle dell’Erbezzo: «Fin da subito – afferma il sindaco Postregna – siamo riusciti a coinvolgere numerosi soci che, percepite le potenzialità dello strumento, si sono attivati per contattare i proprietari dei fondi. I cittadini, una volta rassicurati sul mantenimento della proprietà, hanno condiviso il nostro obiettivo, cioè far rinascere un paesaggio antico, legato alla memoria dei più anziani».
La più bella sala da pranzo Bello e ben riuscito l’evento organizzato dagli Amici del Girasole nella serata del 30 luglio: la Cena in Bianco. Grazie anche alla suggestiva piazza di Dardago, scelta dagli organizzatori, il centro del paese ha offerto un indimenticabile colpo d’occhio. La manifestazione che, da qualche anno, sta affermandosi in diverse città, grandi e piccole, consiste in una cena caratterizzata dal colore bianco. Bianchi i vestiti dei parteci-
I commensali «di bianco vestiti» in piazza a Dardago (foto di Loredana Scarpat – Polcenigo).
Nella sala teatro di Dardago si è svolto il convegno «L’Associazione fondiaria, strumento per il contrasto dell’abbandono della montagna e per la conservazione del paesaggio», promosso dal Comune, da Legambiente e dall’Ecomuseo Lis Aganis. Dopo il saluto del sindaco Roberto De Marchi e l’introduzione di Renato Marcon di Legambiente di Pordenone, si sono succedute le interessanti rela35
inno
alla vita
panti, bianche le tovaglie; bianchi i fiori e gli addobbi. Lo scopo è di colorare tutto di bianco all’insegna delle 5 E: Etica, Estetica, Educazione, Eleganza ed Ecologia. La piazza è stata trasformata in una grande «sala da pranzo» a cielo aperto. La regola della manifestazione è che ogni partecipante si porta tutto da casa, vivande, stoviglie in ceramica, bicchieri di vetro... niente carta e niente plastica. Si apparecchia e si imbandisce la propria tavola con amici, familiari, colleghi, nonni e bambini per vivere l’emozione di una cena tutti insieme per strada. Non è un buffet in piedi o un pic-nic a terra: è una cena seduti. E, ovviamente, finita la festa, ognuno deve
lasciare il posto in ordine e pulito. Durante la manifestazione sono state raccolte offerte per l’Area Giovani del CRO di Aviano. Congratulazioni agli organizzatori ed in particolare a Claudio Mariani. Arrivederci alla prossima cena in bianco a Budoia o a Santa Lucia.
Da Sallertaine a San Martino Nella chiesetta di San Martino, recentemente restaurata, viene inaugurata la vetrata istoriata raffigurante il santo che divide il mantello col mendicante, dono del Comune di Sallertaine (Vandea francese) ge-
Marianna Carlon ha raggiunto quota 102, anni che non hanno alterato la sua lucidità mentale né il suo fisico sempre giovanile. Grazie per averci saputo regalare ancora un caloroso sorriso e una parola di gratitudine a tutti! Complimenti e tantissimi auguri.
Complimenti vivissimi ad Alice Braido che è stata premiata come la miglior laureata nel proprio corso di Studi all’Università di Udine, dove alcuni mesi fa si era laureata con il massimo dei voti in Tecniche di Radiologia Medica. Auguriamo ad Alice di poter presto mettere a frutto le proprie capacità nel campo professionale.
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mellato con il nostro Comune di Budoia. È il 25 aprile, giorno in cui secondo la tradizione, ci si incontra presso la chiesetta per innalzare le preghiere di rogazione per una stagione favorevole. Il vice sindaco Pietro Janna illustra la storia del gemellaggio e di quanto è stato
Rachele Asti spegne la prima candelina assieme ai fratellini Simone, Lucia, Irene e a tutta la famiglia. Auguri!
Battesimo di Matilde Zecchinon a Santa Lucia. Nello stesso giorno il matrimonio di mamma Sabrina Fort e papà Fabio Zecchinon.
fatto dai volontari per la sistemazione dell’antico luogo di culto. Un grazie particolare a Gianandrea Bocus Frith, che ha installato la vetrata e rifatto le altre due finestre in memoria del papà Luciano. Pubblico in visita al mercatino di prodotti tipici nella piazza del paese.
Tertha festa de ’l Ruial
Sabato 7 maggio il Concerto gospel e spiritual della Corale austriaca «Gospel & Jazz Choir» di Graz, ospite del Collis Chorus di Santa Lucia, apre la manifestazione in chiesa a Dardago. Domenica segue la camminata sportiva per appassionati e per le
famiglie lungo i sentieri del Cjastelat, Gór sino al sito palafitticolo del Palù del Livenza di Polcenigo, dove giungevano anche altri marciatori partiti dal castello di Caneva. La piazza di Dardago è lo scenario per il mercatino di prodotti agroalimentari e artigianali della Pedemontana Pordenonese. L’Associazione CFD in collaborazione con prestigiosi cuochi prepa-
Auguri dalla Redazione! 37
Festa de la faméa in San Tomè Nella suggestiva cornice di Val de Croda domenica 3 luglio, in occasione della ricorrenza di San Tommaso Apostolo, si svolge la festa della famiglia. La Santa Messa, accompagnata dalla corale, viene celebrata per le nostre tre comunità dal pievano don Maurizio Busetti nella chiesetta sot ’l Crep. I numerosi partecipanti concludono insieme la mattinata con un momento conviviale organizzato da un gruppo di volontari.
Cave canem e... atenti ai giath
Antonella Del Puppo e Alessandro Baracchini hanno festeggiato, il 14 luglio, i loro 25 anni di matrimonio circondati dall’affetto delle figlie Chiara e Laura, dei familiari e degli amici più cari.
Il 21 maggio 2016 il tempo si è fermato... Papà Davide e mamma Daniela si sono sposati a Roveredo in Piano nella chiesa di San Bartolomeo. È stata una splendida giornata. Simone Del Maschio, di anni 2.
ra ottime pietanze per pranzo e cena delle due giornate. Il Comitato Ruial de San Tomè ringrazia tutti e dà appuntamento alla prossima manifestazione.
Anche una carezza, come segno di simpatia e affetto, a volte può essere mal interpretata. È quanto capitato a Luigi Zambon Pala. L’intento è fare una carezza ad un gatto che, forse per paura o per il dolore provocato ad una ferita non visibile, reagisce in modo inaspettato. La mano è profondamente azzannata e il felino è deciso a non mollare la presa. Luigi – tra spavento e dolori – a stento riesce a liberarsi e ricorrere subito alle cure dei sanitari. Dall’esame radiografico il responso è piuttosto duro: lesione al tendine. Necessario un intervento chirurgico. Avevano ragione i nostri vecchi «a lavài el ciaf al mus se perth aga e savòn e a volte te pol ciapà ancia ’na pethadha!». Auguri Luigi!
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Ciàmpore sempro pì bela Anche quest’anno, prima dell’apertura stagionale, i volontari del Comitato del Ruial, in accordo con l’Ufficio Tecnico del Comune, provvedono con manutenzione straordinaria al miglioramento del parco di Ciàmpore. Sono sostituiti diversi tavoli e panche e create nuove zo-
dir viar ezi eu on e.a na e r tu gn -ma a@ i gm l... ail. co m
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Sì... venerdì 8 luglio i volontari del Comitato del Ruial de San Tomè si concedono una pausa. Accompagnati da mogli e mariti, danno vita ad una allegra serata nello scenario di Ciàmpore. Uno spiedo gigante (7 ore di preparazione), torte e dolcetti preparati dalle signore e ottimo vino allietano la cena sotto le stelle. Grazie a tutti, ma in particolare a chi ha avuto l’idea e a coloro che si sono prodigati per la preparazione e la riuscita dell’incontro.
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Münsingen (Svizzera), 11 aprile 2016
Cari amici della Redazione, tante tante grazie! Con grande commozione e con le lacrime agli occhi, leggendo la pagina «Lasciano un grande vuoto», c’è la foto del mio caro marito Jean Pierre, lui che sarebbe venuto anche quest’anno per la «Festa dei funghi», lui che non mancava mai di venire nella «sua» Budoia, purtroppo ci ha lasciati. Mi ha commosso anche il caro saluto per Jean Pierre da parte dei cugini Del Maschio. A voi tutti, un forte abbraccio. Spero di venire presto. CARLA DEL MASCHIO
P.S. Per l’Artugna che ricevo sempre con tanto piacere!
Ciao Carla, ti porgiamo le nostre più sentite condoglianze e ti ringraziamo per la tua generosità.
Castello d’Aviano, 12 luglio 2016
Gentile Redazione, esprimo la mia gratitudine per la ricerca genealogica degli Zambon Pinal Belo, eseguita dalla Redazione, che ringrazio cordialmente. LUCIA FABBRO
Gentilissima signora Lucia, siamo soddisfatti di averla accontentata e la ringraziamo per la sua generosità.
Il campo scout dei ragazzi americani.
ne; viene dato l’impregnante a tutte le strutture lignee, rifatta la copertura ai servizi igienici e livellati alcuni punti eliminando le crode che affiorano. Recuperare per valorizzare un ambiente che richiama sempre più persone: è diventato infatti mèta preferita da molti bambini dei Grest della provincia e dalle scolaresche della zona. Anche un gruppo di scout americani soggiorna in tenda per alcune notti.
bilancio Situazione economica del periodico l’Artugna Periodico n. 137
entrate
Costo per la realizzazione
4.200,00
Spedizioni e varie (bustoni)
333,00
Entrate dal 01.03.2016 al 20.07.2016
4.455,00
Totale
4,455,00
38
uscite
4.533,00
Stella alpina Leontopodium Alpinum – Stela alpina
❖ È uno dei fiori più belli delle nostre montagne tant’è che da sempre è utilizzato come icona dalla tradizione alpina. Elegante e bianca la stella alpina si trova nei prati, nei pascoli sassosi e sui dirupi di Alpi e Appennini. Leontopodium, il nome scientifico, letteralmente significa «piede di leone» per la forma dei capolini fiorali simili ad una zampa di leone. È simbolo di coraggio. Per riuscire a coglierla è necessario infatti sopportare la fatica unita all’audacia, a volte a rischio anche della propria incolumità. Il suo maggior pregio è quello – una volta essiccata – di conservare intatte le proprie caratteristiche: possiamo trovarla tra le pagine di un libro o come ornamento per cartoline e composizioni floreali. Consuetudine questa che risale già alla seconda metà del Settecento. Oggi la stella alpina appartiene alla flora protetta. La prima legge, che la tutelava e ne proibiva la raccolta, fu emanata in Svizzera nel 1878. Numerose ne seguirono. In Friuli Venezia Giulia è salvaguardata dalle leggi regionali del dicembre 1979 e del giugno 1981. Un fiore da rispettare in natura, ma che è possibile coltivare in giardino o anche in vaso. Oltre che nei vivai, le piantine si possono acquistare online.