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In fondo ad un cassetto
from l'Artugna
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la costruzione in pietra del Ruial de San Tomè – fatti, abusi, irregolarità –
TERZA PARTE
Sempre in fondo al cassetto della mia vecchia libreria ho trovato una storia inedita.
Don Andrea Cardazzo (che da ora chiamerò semplicemente con il nome di don Andrea) ci racconta minuziosamente la storia della costruzione in pietra del ruial de s. Tomè così come a noi è pervenuto. Dalla lettura emergono una particolare arguzia e una pungente ironia nei confronti dei suoi compaesani budoiesi, pure a lui affidati alla cura delle loro anime.
A noi è nota la storia della vecchia canaletta in tavole di legno costruita nel 1669 per portare l’acqua dalla Val de Croda fino all’edificio situato di fronte alle scuole di Dardago per alimentare l’orsoglio alla bolognese che con la forza dell’acqua torceva il filo di seta. Questo filatoio era il più antico del Friuli.
Scrive don Andrea nel suo libro, che negli anni 1865-1867 fu costruito anche l’acquedotto del quale «mi è d’uopo far menzione sia perché per questo pure ebbi a soffrire delle molestie come anche cagione di litigi fra le frazioni» .
di Pietro Ianna
L’antico acquedotto del 1667, da più anni, era andato in rovina (era durato quasi 200 anni) e a Dardago e Budoia mancava frequentemente l’acqua, specialmente nelle stagioni estive ed invernali, tanto che era necessario procurarsela con i carri: Dardago sotto Castello e Budoia a San Giovanni.
Nel 1859 fu dato l’incarico della realizzazione del progetto all’ingegner Quaglia. Con la sua consueta ironia, don Andrea aggiunse «per mala sorta» .
«Questo il fece – prosegue don Andrea – ma con tutti quei malanni che di seguito accennerò e che in parte resteranno a sua perpetua infamia» .
Budoia era quella che aveva più bisogno di acqua ma invece di favorire l’esecuzione pose in essere ogni mezzo per ostacolarla e continuava a trovare pretesti per non eseguire un lavoro radicale.
Tra tutti si distingueva – ancora una volta – il Frate che giunse al punto di implorare il commissario affinché nominasse un altro ingegnere al tempo di massima siccità ad osservare la sorgente per dichiarare l’inutilità dell’intervento in quanto questa era a secco.
Venne questo ingegnere ma dichiarò tutto l’opposto e vennero esposti gli avvisi d’asta.
Ben sei avvisi d’asta andarono deserti e la delegazione, sospettando che questo era dovuto alla tenuità della somma messa a disposizione, attraverso il commissario invitò l’ingegnere a riordinare le idee ed aggiornare il capitolato di spesa. L’importo venne aumentato del 15% e si affissero nuovi avvisi d’asta.
Vi furono dei concorrenti che vennero in sopralluogo, ma vedendo che non veniva calcolato né lo scavo né il trasporto dei materiali non parteciparono all’asta.
Avvilito, l’ingegnere cercò di sollecitare alcuni paesani. Si rivolse anche al parroco affinché assumesse lui la realizzazione della canaletta, promettendogli un ingente guadagno a favore della chiesa o del campanile. Ma, avveduto qual era, don Andrea non si fece accalappiare. Ciò infastidì molto l’ingegnere.
Dopo alcuni giorni, il lavoro fu assegnato ad un certo Reghini di Udine. Tutti, fino al momento dell’approvazione del contratto, erano all’oscuro di come questo fosse accaduto e a che condizioni: semplicemente invece dei 7.400 fiorini iniziali ne vennero offerti 9.000.
Don Andrea commenta affermando che in questo lavoro furono commesse, dalla delegazione e dall’impresa, abusi, irregolarità, ridicolaggini tali da muovere la bile e la nausea e descrive i principali errori commessi da ciascuno di questi personaggi.
Relativamente all’impresa Reghini che ricevé in consegna il lavoro il 15 maggio del 1864 e doveva compirlo in 200 giorni lavorativi, don Andrea commentò che «sarebbe un prodigio se si vedesse compiuto al termine dell’anno 1867» .
Incominciò il lavoro dalla briglia del torrente in Val de Croda, questa doveva essere profonda tre metri e più se non si avesse trovato terreno solido, roccia o argilla, che impediva il trafello dell’acqua. Doveva essere posta per cinquanta centimetri in cimento idraulico e alla base doveva avere tre metri di larghezza. Don Andrea più volte avvertì l’ingegnere di essere oculato in tale lavoro poiché da qui verrà «che ci darete l’acqua o ce la toglierete per sempre» .
Ma ecco come venne ascoltato.
Il Reghini mandò due muratori e un tagliapietre che si intendevano di scavi meno di chi fa una fossa da morto: non li fornì né di macchine ma neppure di una grossa leva di una fune. Prosegue don Andrea: Avrei sfidato Giobbe ad osservarli per un’ora senza perdere la pazienza vedendo tanti inutili sforzi e nessuna direzione.
Non si fece una rosta per deviare l’acqua dal lavoro, non si allargò in modo di avere campo per maneggiare le pietre, ai lati si scavò in profondità per solo due metri e nel centro ove l’acqua tende si collocarono le pietre non solo su un terreno ghiaioso ma sopra l’acqua che correva non essendo stati capaci di arginarla.
L’effetto di tale balordaggine lo vedremo più avanti.
Don Andrea si pone legittimamente una domanda «ma chi presiede e dirige i lavori?» .
Sicuramente non il Reghini, perché troppo distante e non gli conveniva: l’impresario si vide solo due volte e poi nominò due uomini del luogo – che non si intendevano di nulla – nelle persone dell’agente comunale e di un deputato (assessore) di Budoia i quali vista la loro carica dovevano fare l’interesse del Comune e invece erano pagati per fare l’interesse dell’impresa. Il tutto con il benestare del commissario il quale li difese anche dai reclami innalzati dalla popolazione.
Il Reghini aveva dato loro pieno mandato – specialmente all’agente Stefinlongo – il quale per prima cosa fece un contratto con Zambon Giuseppe Lopa per la cessione di un terreno ad uso cava in località Thengle a queste condizioni: due Napoleoni, per solo provare, e otto se fosse risultato buono come cava.
Pose a lavorare quattro uomini del paese guidati dal tagliapietre foresto il quale anziché porsi dove si era già scavato la pietra per il campanile, si pose in altro luogo con l’amaro risultato che dopo ventiquattro giorni non si era scavata una sola pietra.
Avvilito l’impresario rimise tutto allo Stefinlongo il quale gli suggerì di comperare le doce (singoli pezzi ad U della canaletta) un tanto al metro lasciando a lui la facoltà di stringere i contratti.
I poveri artieri (coloro che facevano le Doce) e i muratori ebbero a soffrire di diverse angherie: gli artieri, oltre ad essere tiranneggiati nel prezzo, dovevano dare a lui un grosso interesse e ai muratori – che avevano un contratto per un quarto di fiorino al metro – chiedeva il 5% e a chi non ci stava abbassava il prezzo al metro.
Il lettore si immagini come doveva riuscire un lavoro così tiranneggiato e mal diretto.
Gli operai per non morir di fame dovettero sacrificare l’esattezza e la solidità, anche perché chi doveva controllare non era mai presente ed era privo di ogni cognizione e l’ingegnere non veniva per disegnare le linee.
Col vecchio acquedotto l’acqua veniva tradotta al di là del torrente sopra grossi travi a forma di cavalletti: ora era desiderio del Comune che venisse costruito un ponte della larghezza di un metro per consentire, in caso di montana, il transito a chi ne fosse bloccato.
L’ingegnere non volle assolutamente aderire a questa richiesta e progettò i tubi di ghisa che costarono 1000 fiorini cioè di poco inferiore al costo del ponte.
Disegnò e prescrisse che le doce di pietra lungo la linea fossero
Canalette in pietra momentaneamente rimosse per i lavori di restauro del ruial effettuati qualche anno fa. Si tratta delle canalette installate, tra molte polemiche – come racconta don Andrea – in sostituzione delle precedenti in legno, risalenti agli anni ’70 del 1600.
1 5 6 / 2 0 2 2 O T S O G A 16 della profondità di soli 5 cent e larghe 10 e fu somma sventura: essendo d’incomodo ai tagliapietre il costruirle piccole si offrirono di farle al doppio della dimensione prevista quindi 10 e 20 allo stesso prezzo.
L’ingegnere stabilì poi che sopra di queste venissero posti dei sassi saldati a cimento idraulico e per formare tutto un pezzo e permise si ponesse nelle fessure ogni piccolo ciottolo.
Fin dai primi mesi si videro guasti che andavano via via crescendo. Si temeva che le piogge erodessero tutto e rimanesse solo la docia. Quindi due furono gli errori madornali che si commisero: impugnata dal popolo avevano disgustato non solo Budoia, ma anche Dardago.
Fu commesso anche un tal errore che rimarrà a perpetua infamia dell’ingegnere: sopra il mulino la canaletta era delle dimensioni di 35 centesimi, il tubo in ghisa che porta l’acqua al di qua del torrente ne porta 15 centesimi e in tempo di piogge copiose e abbondanza di acqua, metà si versa nel torrente dalla parte di Dardago dopo aver percorso dentro la canaletta ben 2000 metri.
Con questo spreco si potrebbe annaffiare per due parti Dardago e per il resto continuare con la canatasse 25 passi di gorna di legno per tradurre almeno una picciola quantità oltre l’abisso formato» .
Si iniziano le chiacchiere e le imprecazioni dei paesani e lui per la vergogna non si fece veder per giorni. Venne, finalmente, ma non potendo evitare l’evidenza dei fatti ordinò che si scavasse subito una nuova fossa al di sopra della briglia per poter «profondarsi» e edificare un muro a ridosso delle fondamenta oppure otturare le fessure e rendere compatto e solido il suolo «con pellegrina materia» .
Ascolti il lettore «sterco di bue che tosto si fece apparecchiare»
Rosta del rujal. Le roste erano costruite per rallentare la velocità dell’acqua. Sulla destra si può notare la briglia di presa. Per circa 200 metri il rujal scorre murato all’interno di un anfratto della roccia. Si può notare la muratura di tamponamento.
Se si fossero posizionati sassi lunghi 30 centesimi ben presenti sul luogo, non sarebbero stati sconnessi dal ghiaccio ne sarebbe occorso tanto cimento con il risultato di un’opera più duratura.
Non aver fatto la docia profonda 25 in modo da poter evitare la posa di sassi e cimento: l’opera sarebbe stata eterna, non ci sarebbe stata dispersione d’acqua la spesa uguale perché i tagliapietre che la fecero per un fiorino al metro per un e cinquanta avrebbero fatto anche quest’ultima che era uguale al valore della calce e dei sassi posi in opera. La poca professionalità nell’eseguire i lavori, la sovrintendenza concessa all’agente comunale malvista ed letta fino a Santa Lucia che lo desiderava. Lo stesso Reghini aveva invitato lo Stefinlongo a pensarci prima di ordinare i tubi. Anche don Andrea lo invitò alla riflessione, ma lui gli rispose che il lavoro lo faceva per la magra e non per la piena; alla fine lo fece passare come fomentatore del popolo dipingendolo per tale anche presso il dirigente commissariale.
Don Andrea ritorna al 1865 quando si costruì la briglia e l’effetto che si ebbe nel vedere i sui primi lavori. «Il settembre 1865 corre una pioggia e questa bastò per l’acqua la quale per lo innanzi anche nelle massime siccità arrivò fino a metà Cengle, restasse al di la della briglia, e fu mestiere che Manajo por-
Si incominciò quindi l’escavo «senza verun strumento idraulico: fu allora che si conobbe l’abbondanza dell’acqua che sortendo da tutte le parti impediva il lavoro qualora non fosse asciugata con grandi stantuffi, ma questi non avendo si tentò di asciugare con le secchie finché giunse una gran montana che li fece desistere. E così dopo aver sprecato a carico del comune ben 60 fiorini abbandonarono il lavoro lasciando quasi al fondo aperto il foro praticato per cui si aggiungerà un nuovo malanno» .
Dopo questo, ogni lavoro restò sospeso fino a marzo 1866.