Maschere sacre e popolari tra la grecia antica e roma: vasi cabirici farsa fliacica fabula atellana

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MASCHERE SACRE E POPOLARI TRA LA GRECIA ANTICA E ROMA: VASI CABIRICI, FARSA FLIACICA, FABULA ATELLANA di Grazia Affatigato

Le maschere cultuali hanno anche un valore apotropaico. Maschere con tratti esageratamente caricaturizzati dovevano esprimere il carattere ambivalente dei demoni con cui entrare in contatto: dovevano, cioè, essere spaventose come i demoni, per entrare in sintonia con essi, e nello stesso tempo ammansirli e divertirli, per poter influenzare favorevolmente le loro azioni. Il riso, del resto, ha una funzione liberatoria. I Greci, ben consci di ciò, avevano un’antica divinità dell’oscenità e della grassa risata propiziatrice: Baubo o Baubò. Essa era legata alla sfera sessuale e alla fertilità, tanto che è sempre raffigurata con gli organi sessuali ben in evidenza: in alcuni versioni del mito è addirittura una donna priva di testa che parla attraverso la vagina. La stessa “risata” dovevano suscitare le danze, i canti e le farse nelle quali le maschere erano adoperate. All’epoca in cui la Commedia greca raggiunse il suo apice (seconda metà del V sec. a.C.) risalgono i cosiddetti “vasi cabirici” a figure nere rinvenuti in Beozia, quasi esclusivamente a Tebe, per la presenza nelle vicinanze di un santuario in onore di Kabeiros, variante beota di Dioniso. I Cabiri, demoni della vegetazione, piccoli e panciuti, avevano un culto di tipo teatrale, come testimoniano le turbolente e grottesche scene di farse rappresentate sui vasi.


Le divinità e gli eroi della tradizione greca, così come i personaggi di scene di simposio o di caccia o di palestra, appaiono trasformati e stravolti da una precisa volontà caricaturale che esprime pienamente la licenziosità e il gusto rozzamente comico e popolare di ancestrali feste mascherate legate al mondo agricolo. Maschere, grasse risate di una comicità elementare e simbolismo sessuale (per es. carro trainato da asini itifallici in vasi con scene processionali) sono strettamente legati a queste feste il cui intento è quello di propiziarsi i demoni della fecondità e della fertilità. Espressioni simili le ritroviamo nella farsa fliacica magno-greca, pur non esistendo legami diretti fra i due generi. I fliaci (φλύακες) erano una sorta di saltimbanchi girovaghi che con l’aiuto di un ridicolo e sguaiato costume – in cui erano evidenziati gli attributi sessuali – e di maschere caricaturali portavano in giro per la Magna Grecia e Sicilia della farse burlesche, in gran parte improvvisate su un canovaccio. Su vasi magno-greci (apuli, campani, paestani) e sicelioti, in prevalenza a figure rosse, del IV e III sec. a.C. e in alcune terrecotte siceliote i fliaci sono sempre rappresentati con enormi rotondità anteriori e posteriori, un lungo fallo probabilmente di cuoio (dato il colore rosso-bruno), maschere grottesche perlopiù barbute, bocca smisuratamente larga. Indossano quasi sempre, sopra una sorta di calzamaglia aderente, una casacca o camicia di lino o lana candida, dato il colore bianco, cadente sino a mezza coscia e cinta in vita, con strisce trasversali , pieghe, cuciture per lungo (nei vasi paestani larga cucitura bianca lungo le braccia e gambe), orli marginali. Spesso indossano un giubbotto strettamente aderente al corpo (σομάτιον) su cui sono dipinti capezzoli e ombelico. Possono anche indossare il χιτών (chiton, ovvero la tunica) o


l’ἐξομίς (exomis, il mantello), sempre in forma corta così da lasciare visibile il fallo. Gli attributi sessuali in evidenza, legati alla celebrazione della fertilità e fecondità nel mondo agreste durante le feste stagionali della Natura (falloforie), contrastano con il colore rigorosamente bianco del camiciotto, poiché il bianco è associato alla “Dea della Morte” sin dalla Preistoria, ribadendo ancora una volta il principio vita-morte-rinascita che è alla base delle cerimonie cultuali con maschere, musica e danze e delle rappresentazioni teatrali strettamente a loro connesse. Quest’abbigliamento, infatti, presenta delle analogie con quello di alcuni demoni del corteo di Dioniso (probabilmente attori mascherati) in alcuni vasi corinzi del VI sec. a.C. e con quello di attori della più antica Commedia attica in vasi della fine del Vinizi IV. A Corinto, durante le cerimonie in onore di Dioniso, si svolgevano in atmosfera gioviale e sconcia, contrasti mimici e danzati di maschere a tipo fisso. Φλύαξ (da cui φλύακες, ovvero fliaci), che è un epiteto dello stesso Dioniso o il nome di uno dei demoni del suo séguito, deriva dal verbo φλύω (ovvero scorro), poiché Dioniso era originariamente la linfa vitale che scorre nel mondo vegetale e ne determina la riproduzione. Uno dei significati attribuiti alla parola φλύαξ è “ribollente di discorsi” (ovvero “loquace”) e traduce pienamente il fermento della vita vegetale durante il ciclo riproduttivo. I fliaci, stando all’erudito Sosibio Lacone1, a Sparta erano chiamati invece δεικηλισταί (dorico δεικηλίκται). Con questo termine, che deriva dal verbo δείκνυμι, ovvero “rappresento”, si indicavano attori comici mascherati che


improvvisavano scenette di vita quotidiana i cui protagonisti erano personaggi come il ciarlatano imbroglione, il ladruncolo di frutta, il medico itinerante di origine straniera ecc… Altri nomi assunti nei diversi paesi erano: a Sicione quello di φαλλοφόροι (“portatori di φαλῆς”, ovvero il “fallo”), evidentemente in relazione ad ancestrali cerimonie mascherate del mondo agricolo e pastorale (falloforie); αυτοκάβδαλοι, ovvero “improvvisatori”, forse a Corinto o Megara-Nisea, insistendo sul fatto che si trattava di un’improvvisazione su canovaccio; ἐθελονταί, a Tebe; σοφισταί, un po’ ovunque. I fliaci mettevano in scena parodie mitologiche o tragiche oppure grottesche rappresentazioni di “tipi” umani. Sempre dai vasi fliacici apprendiamo che i tipi parodiati erano costituiti dalla figura dell’avaro (che alla fine viene sempre derubato), del servo (rappresentato ora mentre gozzoviglia, ora mentre è picchiato da un randello), del contadino sciocco che viene frodato, del figlio dissoluto che passa le notti a ubriacarsi in simposi, del ladro inseguito, del ghiottone. Il contrasto, sempre in tono ridicolo, è tra vecchi e giovani, tra padre e figlio (a volte in lotta per una stessa donnina), tra servo e padrone, oppure tra due servi, di cui uno giovane e l’altro anziano. La farsa fliacica ebbe un notevole sviluppo soprattutto in ambiente magno-greco, tanto che verrà fissata in forma letteraria da Rintone, poeta del IV-III sec. a.C. probabilmente originario di Siracusa2, il quale, pur echeggiando l’opera dei siciliani Epicarmo e Sofrone, usò il dialetto dorico di Taranto per dare alla farsa maggiore eleganza e finezza letteraria (“ilarotragedia”). Il successo della farsa fliacica è dovuto probabilmente anche ai contatti e alle reciproche influenze con la “fabula atellana” diffusa nei territori limitrofi.


L’Atellana era una farsa con maschere, tipica di un mondo italico contadino, la cui comicità di tipo elementare poneva l’accento su aspetti quali la ghiottoneria o la sensualità oppure la dabbenaggine. Il nome deriva da Atella, una città osca della Campania, situata tra Napoli e Cuma in territorio magnogreco, importante poiché ad essa faceva capo una delle federazioni in cui erano raggruppati gli Osci. L’Atellana, pur essendo legata, così come i falisci “Fescennini” o gli “improperi in versi” della bassa Etruria3, alle feste agricole stagionali propiziatorie, diventò poi, probabilmente per i rapporti con la farsa fliacica, una vera e propria commedia di “maschere fisse”. Queste raffiguravano “tipi” sempre uguali, pur se in varie condizioni, nel senso che il carattere, la mimica, il linguaggio di ciascuna di loro obbediva a tratti convenzionali, verso cui si orientavano le attese del pubblico e l’offerta degli attori. Le parti dei singoli attori, che impersonavano ciascuna una maschera diversa, erano sommariamente tratteggiate su un canovaccio (trica, da cui “intrigo”), e su questo s’improvvisavano in scena le battute, cioè si “recitava a soggetto”. Le quattro Maschere più note hanno nomi che rappresentano in genere derivazioni latine di termini originariamente osci o etruschi e seguono una tradizione farsesca da tempo ben consolidata. Maccus (dal greco μακκοάω, ovvero “sono stupido”, oppure da una radice osca connessa al termine “mascella”, che, poiché grossa, alluderebbe a un personaggio che parla tanto e a vanvera) era il ghiottone stupido, bevitore, sempre innamorato di qualche procace fanciulla che inevitabilmente lo prendeva in giro4. Con la testa a punta e il naso sporgente a becco di gallina, è


ritenuto una specie di antenato di Pulcinella, che lo ricorda non solo nel costume – come testimoniano alcune statuine, pitture parietali, affreschi e mosaici –, ma anche e soprattutto nei tratti salienti, come la stupidità o ancora di più la voracità, che fanno di Maccus quasi un trickster, ovvero un “buffone sacro”, così come lo sarà poi la figura di Pulcinella. La tradizione delle Maschere, del resto, sarà assimilata e sviluppata dalla Commedia dell’Arte. Un altro personaggio della tradizione farsesca confluì nella “maschera fissa” di Pappus (dal greco πάππος ovvero “vecchio padre”, che, stando alle fonti, sostituì il termine osco Casnar, ovvero “il vecchio”), che era il vecchio vizioso, libidinoso e avaro, perciò destinato ad essere gabbato e derubato o dalla moglie o da qualche altra donna, insieme ad astuti schiavi o giovani squattrinati. Dossennus (dall’etrusco dossus, ovvero “dorso” o “gobba”, da cui il latino dorsum, e da una radice osca) era il gobbo astuto e sapientone che spesso, però, come un popolano, mostrava solo i lati negativi della sua furbizia: era cioè imbroglione. Era il saggio e il filosofo, ma spesso incoerente con i suoi stessi insegnamenti. Un’altra delle “maschere” principali, infine, era quella di Buccus (dal latino volgare bucca, ovvero “grossa bocca”), cioè il millantatore, smargiasso, sempre pronto a vantarsi, a dire fanfaronate e, quindi, a rendersi ridicolo5. A queste si aggiunge una maschera antropoteriomorfa, Kikirrus, raffigurante un volto umano con testa crestata e naso a becco di gallina. Già lo stesso nome, che in osco significa “galletto”, riconduce la maschera ad ancestrali demoni agresti di tradizioni del mondo


contadino e pastorale. I tratti ornitomorfi di questi demoni li ritroveremo, poi, nella figura di Pulcinella che, almeno in origine, aveva proprio le caratteristiche di un essere ibrido, metà umano e metà pulcino, gallo o gallina, esprimendo ancora una volta il carattere ambivalente della “Maschera”. Non mancano i personaggi secondari come Manducus, dalla bocca immensa, grosso pancione e denti enormi che rumoreggiavano incutendo paura ai bambini, o, come nella tradizione greca, Lamia, intrigante, impicciona, dal cui ventre si tiravano fuori i bambini divorati6. Le maschere Atellane a volte agivano con l’ausilio di altre figure, quali acrobati, giocolieri e attori-mimi, tutti presi in prestito dal “mimo romano”. Questo tipo di spettacolo, pur se di derivazione etnica dal mimo greco, andò differenziandosi sempre più da esso, diventando uno spettacolo contemporaneamente recitato, musicato e danzato – simile al music-hall moderno –, di natura molto licenziosa e scurrile, in cui la parte più importante restava sempre, però, quella istintiva del gesto, cioè quella di mimare l’accaduto. Tra le figure del mimo confluite nell’Atellana le più interessanti dal nostro punto di vista sono quelle del “mimus albus”, dal costume rigorosamente bianco, come da tradizione (vd. farsa fliacica), e il “mimus centunculus” dalla testa calva, scarpe senza suola, spada di legno e, soprattutto, dal costume fatto di toppe variopinte. Tutte queste caratteristiche le ritroveremo poi nella Commedia dell’Arte, a partire dalla spada di legno, derivazione dall’antichissimo bastone pastorale simbolo di potere: Arlecchino, Pulcinella o Scapino si difendono spesso con un manganello o una


spatola. Nella Commedia dell’Arte, del resto, il “teatro delle maschere” troverà la sua massima espressione, fondendosi ancora una volta, almeno all’origine, la “popolarità” di alcune cerimonie cultuali con il valore simbolico e sacrale che le maschere esprimono.

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Sosibio Lacone (III sec. a.C.) fu autore di ricerche sulle feste religiose di Sparta, forse parte di una più generale ricerca sui costumi spartani. La testimonianza ci è pervenuta indirettamente attraverso Ateneo di Naucrati (II sec. d.C.), Deipnosofisti XIV 621d-f. 2 La poetessa sua contemporanea Nosside lo definisce “siracusano” (Antologia Palatina VII 414). La Suda, invece, lo definisce “tarentino”. 3 I “Fescennini versus” erano una sorta di diverbio dialogato, a versi alterni, di contenuto pungente e licenzioso, recitati da contadini (probabilmente divisi in due gruppi) che indossavano delle maschere. A questo genere appartenevano i dialoghi utilizzati dai contadini della bassa Etruria, che per salvaguardare il proprio raccolto investivano di “improperi in versi” quello degli altri. 4 Con Maccus hanno una radice comune le parole “ammaccato” (dal latino volgare maccare, verbo onomatopeico), che indica una persona priva di lucidità e malmessa; “maccherone”, ovvero persona non molto sveglia; “macchietta”, persona goffa ed impacciata. 5 Ha una radice comune la parola “buccellatarii” o “buccellatorii”, ovvero i parassiti voraci, gli scrocconi di mestiere. 6 Le “lamie” erano figure antropoteriomorfe, rapitrici di bambini. Lamia, nel mito greco originario, era la bellissima figlia di Belo e Libia, che divenne amante di Zeus e ne ebbe dei figli, suscitando per questo l’ira di Era che glieli uccise tutti, tranne Scilla. Per vendetta Lamia decise di divorare i bambini delle altre madri succhiandogli il sangue.


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