Poste Italiane SpA – Spedizione in Abbonamento Postale – 70% NE/PD –Anno 47 –N. 07 Ottobre-Novembre 2019 –Mensile
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Organo mensile dell’Associazione Italiana Calciatori
OTT-NOV
2019
Andrea Petagna attaccante della Spal
"Nessuno arriva per caso… e bisogna crederci sempre"
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editoriale
di Damiano Tommasi
Ammutinamento
È stato definito un ammutinamento quello che ha visto protagonisti i calciatori del Napoli lo scorso 5 novembre che, nel dopopartita di Champions (Napoli – Salisburgo 1-1), hanno comunicato alla società che non sarebbero andati in ritiro fino a sabato 9 novembre, giorno di Napoli-Genoa. Al momento in cui andiamo in stampa non sappiamo se ci sarà una multa, qualche cessione o ulteriori sviluppi della vicenda ma possiamo già dire che per il Napoli la stagione si complica. Ho letto striscioni e commenti che richiamavano il “Rispetto" e io credo che è la stessa parola che dovrebbero usare i calciatori in questione. Esigere di essere trattati da professionisti quali sono ma, soprattutto, non confondere la professionalità con la sottomissione. “Costruttivo”, sarebbe stata questa l’intenzione dalla società che aveva previsto un’intera settimana di convivenza forzata, 24 ore al giorno, per prepararsi “al meglio". In questi mesi stiamo discutendo il rinnovo dell’accordo Collettivo della serie A e sempre più spesso ci sentiamo dire che “sì, ma questa è la Serie A, non dovete confondere la trattativa con altre categorie di calciatori, qui stiamo parlando ormai di piccole aziende". Il tema è ricorrente, dipendenti quando interessa e si deve decidere anche della loro vita
privata e imprenditori quando si tratta di definire le tutele. L’episodio di Napoli è arrivato nelle settimane in cui si parlava del pallone lanciato in curva da Balotelli. Anche qui, un calciatore che ha deciso per “l'ammutinamento". Troppe persone a dire che il problema è… Balotelli! L’abbiamo detto già molte volte in questi mesi e lo ripetiamo ancora più convintamente, il calcio italiano deve avere il coraggio di voltare pagina. Un filo di speranza però lo avverto. L'Hellas Verona che esclude fino al 2030 un suo “tifoso", la Roma che interviene a gamba tesa sul “razzista da tastiera" squalificato a vita dallo stadio Olimpico per un messaggio razzista a Juan Jesus e la presa di posizione, già raccontata lo scorso mese, della Juventus. Sono segnali che finalmente non solo chi difende sindacalmente la categoria scende in campo al fianco dei calciatori ma anche chi deve tutelare il “giocattolo" non può più girare lo sguardo dall’altra parte. È il tempo di allinearsi per un ammutinamento generale nei confronti di chi ci vuole rovinare la nostra passione. P.s.: welcome back Gianluca Vialli! Damiano
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sommario Poste Italiane SpA – Spedizione in Abbonamento Postale – 70% NE/PD –Anno 47 –N. 07 Ottobre-Novembre 2019 –Mensile
07
Organo mensile dell’Associazione Italiana Calciatori
OTT-NOV
2019
Andrea Petagna attaccante della Spal
"Nessuno arriva per caso… e bisogna crederci sempre"
intervista 6 di Pino Lazzaro
A quattr’occhi con Andrea Petagna, attaccante della Spal che si racconta, in questa lunga intervista, dagli esordi con la maglia dell’Itala San Marco al Milan, passando per Ascoli, Vicenza e Bergamo dove con l’Atalanta è arrivato fino alla Nazionale.
Organo mensile dell’Associazione Italiana Calciatori
direttore direttore responsabile condirettore redazione
foto redazione e amministrazione tel. fax http: e-mail: stampa e impaginazione REG.TRIB.VI
Sergio Campana Gianni Grazioli Nicola Bosio Pino Lazzaro Stefano Sartori Stefano Fontana Tommaso Franco Diego Guido Mario Dall’Angelo Claudio Sottile Fabio Appetiti Maurizio Borsari A.I.C. Service Contrà delle Grazie, 10 36100 Vicenza 0444 233233 0444 233250 www.assocalciatori.it info@assocalciatori.it Tipolitografia Campisi Srl Arcugnano (VI) N.289 del 15-11-1972
Questo periodico è iscritto all’USPI Unione Stampa Periodica Italiana
Finito di stampare il 14-11-2019
editoriale
di Damiano Tommasi
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primo piano di Nicola Bosio
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scatti
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Galà del Calcio Triveneto 2019 di Maurizio Borsari
scatti di Stefano Ferrio
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calcio e legge di Stefano Sartori
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calcio e legge di Federico Trefiletti
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regole del gioco di Pierpaolo Romani
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politicalcio di Fabio Appetiti
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Tre foto tre storie
Contratto per i diritti d’immagine
Inviolabilità del diritto di partecipare agli allenamenti Superare i limiti tra sogno e responsabilità
Tommaso Nannicini
segreteria
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femminile di Pino lazzaro
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secondo tempo di Vanni Zagnoli
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io e il calcio di Pino lazzaro Daigoro Timoncini
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internet
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tempo libero
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Visioni Mondiali/2: Alice Parisi Massimo Bonini
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l’intervista
di Pino Lazzaro
Andrea Petagna, attaccante della Spal
Nessuno arriva per caso… e bisogna crederci sempre “Per quel che mi ricordo, avrò avuto 2-3 anni, rivedo sta pallina con cui giocavo lì in casa, a Trieste. Poi i pomeriggi giù in cortile, terra e cemento, una sorta di piazzetta, con mio nonno, lui che ha fatto il calciatore. E la ricordo ancora la scena, avevo 6 anni, io con mio padre e c’è l’incontro con un suo vecchio amico, lui a parlargli della Domio, una società di calcio, perché non lo mandi lì da noi? Ecco così come ho cominciato, è stata quella la mia prima squadra. No, non era lontano da casa, a portarmi ci pensava mia mamma, tre volte la settimana facevo così calcio e due volte nuoto: mia mamma nuotatrice, ancora adesso insegna nuoto. Con la Domio ci sono stato dai 6 ai 10 anni, facevamo tanti tornei, ricordo che eravamo spesso i più bravi e giocavamo su campi in terra, poca erba, non c’era ancora allora il sintetico. Andavo agli allenamenti e quando tornavo, continuavo a giocare lì nella piazzetta sotto casa, quel posto in cui chissà quante volte mio nonno insisteva perché continuassi a fare sempre muro, che era quello il modo per migliorare, che se fossi diventato bravo con quello piccolo, poi avrei fatto presto col pallone grande”. “Avevo così 10 anni e capitò che feci bene in un torneo contro una squadra, l’Itala San Marco. Aveva uno dei migliori settori giovanili ed era affiliata all’Atalanta. Dai e dai, mio padre alla fine mi ha portato lì da loro, anche per portarmi proprio via da Trieste, di mezzo pure un po’ il fatto che mio nonno aveva giocato anche in Serie A, pareva così che fossi una specie di raccomandato, ste cose qui. Così con l’Itala, a Gradisca d’Isonzo e venivano a prendermi col pullmino fuori da scuola, panini su panini, quattro volte la settimana e tornavo a casa alle nove di sera e il tutto è andato avanti per tre anni. Con la scuola? Avevo un’amica sotto casa e ricordo che nel tragitto sino a scuola mi mettevo lì a copiare i compiti…”.
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“Provini su provini, con l’Atalanta, con l’Empoli, col Torino, ma niente di concreto. Ricordo ancora quella volta che s’andò in tre ad Empoli, presero i miei due compagni e io venni scartato. A 13 anni passai poi al Donatello di Udine, società consigliata dal Milan. Lì era arrivato Bianchessi che prima era all’Atalanta, una volta al mese andavo sino a Milano, al campo Vismara, ad allenarmi con loro ed è stato un periodo duro, ricordo l’ora in cui arrivavo a casa la sera da Udine, sempre alle 21.10, sempre, così stanco che me la facevo la mattina dopo la doccia. Comunque sia, è stato quello un anno super positivo: abbiamo vinto il campionato regionale, siamo andati alle finali nazionali e a metà aprile c’è stato quell’ultimo provino per il Milan, lo fecero a Venezia. Alla fine chiamarono me, mia mamma e mio papà: sarei stato un nuovo tifoso del Milan, così ci dissero”.
vano. Erano andati a vedere dove sarei andato a vivere, la scuola: loro tranquilli e io super felice. Però quanto è stato duro il primo anno e le chiamate che ho fatto a casa, che non ci volevo più stare, che volevo tornare indietro. No, non c’entrava il calcio, no, solo che nel convitto mi sentivo proprio solo, abbandonato, erano proprio diverse le cose da Trieste. È stato insomma molto difficile e per fortuna c’era il campo che dava delle soddisfazioni: abbiamo vinto lo scudetto dei Giovanissimi, contro la Roma, c’era Montella allenatore per loro e a marcarmi c’era Romagnoli, lui che adesso è uno dei miei migliori amici. Quel primo anno tornavo a casa una volta al mese, cinque-sei ore di treno; il secondo tornavo sì, ma c’era pure la possibilità così di saltare il lunedì e il martedì di scuola… poi sempre meno, ora a casa capita che ci vado giusto una volta l’anno, è così”.
“Beh, per me il calcio era tutto. Di sport ne ho fatti altri, atletica, karate, sci, nuoto… però il tutto era in funzione del calcio, l’idea era quella che mi avrebbero dato qualcosa in più per il pallone. Nella mia testa ce l’avevo da tempo l’idea che a 14 anni me ne sarei andato via, un qualcosa che sentivo dentro ed era poi quello che scrivevo anche a scuola, quando ci facevano fare i temi, che sarei diventato un calciatore, che avrei fatto il calciatore. Non so perché, forse perché prima l’aveva fatto mio nonno, forse per la passione che ha sempre avuto mio padre, lui che ha sì giocato ma a livello basso, lui che è stato e tuttora è il maestro più grande, lui che non mi dice che sono bravissimo e tutto il resto, anzi, critica e critica, in maniera costruttiva ma critica”.
“Se ripenso a tutti quegli anni, mi rendo conto che sono stato sempre trattato benissimo e credo sia stata una fortuna che pure ero sempre tra
“Dunque sarei passato al Milan, me ne sarei andato da Trieste. Ricordo i mesi che precedettero la partenza, a casa tutti contenti, loro che mi appoggia-
l’intervista
Andrea Petagna è nato nel giugno 1995 a Trieste. Il nonno, Francesco, è stato calciatore (con, tra l’altro, dieci campionati con la Triestina di cui nove in serie A e un totale di 274 presenze che lo piazzano al quinto posto nella classifica assoluta del club) e allenatore (in C, B e pure in serie A, giusto con la Spal). A livello giovanile via via con le società Doimo (Trieste), Itala San Marco (Gradisca d’Isonzo) e Donatello (Udine), a 14 anni Andrea entra nel settore giovanile del Milan, conquistando in quei suoi primi anni rossoneri, sia lo scudetto dei Giovanissimi che quello degli Allievi Nazionali. Debutta tra i prof a 17 anni in una gara di Champions League (0-1 a San Siro contro lo Zenit San Pietroburgo), mentre l’esordio in serie A – sempre col Milan – lo fa nell’agosto del 2013, diciottenne, a Verona (Verona-Milan 2-1). A settembre, sempre del 2013, passa alla Sampdoria (A), tornando al Milan già a gennaio 2014, vincendo poi con i rossoneri il Trofeo di Viareggio di quell’anno. Ha vestito poi le maglie di Latina (B), Vicenza (B), Ascoli (B) ed Atalanta (A; stagioni 2016/2017 e 2017/2018). È alla Spal da luglio 2018.
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l’intervista
A filo d’erba
Mi ritorni in mente “La partita che non dimentico è la prima partita in Europa League con l’Atalanta (stagione 2017/2018), dove vincemmo 3-0 contro l’Everton. Affrontammo un avversario molto forte,
costruito per fare un gran campionato in Premier, con grandi campioni come Wayne Rooney. Giocammo una partita straordinaria che ancora oggi mi fa venire i brividi quando la rivedo in televisione. Quella invece che vorrei rigiocare è una sempre di quella stagione, il doppio confronto con il Borussia Dortmund ai sedicesimi di Europa League. Nelle gare del girone ero sempre partito titolare, mentre in quelle due partite sono subentrato. Mi sarebbe piaciuto partire dall’inizio in almeno una delle due perché magari avrei potuto dare una grossa mano alla squadra. Un gol che mi è proprio rimasto dentro? Ce ne sono due. Il primo è quello che ho segnato con l’Atalanta contro il Napoli (stagione 2016/2017). Venivamo da una serie di sconfitte e quella volta Gasperini decise di far giocare
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tutti giovani. Ci fu un’azione sulla sinistra, con cross al centro del “Papu” Gomez. Sono andato sulla respinta del difensore e ho segnato di sinistro. Vincemmo 1-0 e da quel giorno probabilmente cambiò la storia dell’Atalanta. L’altro gol che ricordo con grande piacere è quello che ho fatto nella scorsa stagione con la SPAL ad Empoli che probabilmente è stato il più bello della mia carriera, tra l’altro decisivo per la nostra salvezza. Ho ricevuto un assist di Floccari al limite dell’area, mi sono girato e ho calciato forte di destro. Dopo il gol sono andato sotto la curva dei nostri tifosi ed è stata un’emozione incredibile. No, sinceramente non c’è un avversario in particolare da citare. Ne farei più un concetto di squadra, perché è chiaro che quando incontri un’avversaria come la Juventus è sempre molto difficile da affrontare perché ha una mentalità ed una cattiveria agonistica diverse rispetto alle altre. Lo stadio dove più mi piace andare a giocare è San Siro, perché è stato lo stadio dove ho esordito nel professionismo ed è quello che mi piace di più per la sua atmosfera e per la sua grandezza”.
Con presenze nelle giovanili azzurre a partire dall’Under 16 su su sino all’Under 21, ha sinora una presenza con la Nazionale maggiore (esattamente il 28 marzo del 2017, ad Amsterdam, Olanda-Italia 1-2, subentrando nel secondo tempo al posto di Eder; Ventura c.t.). Di recente a Milano, dove abita, ha aperto in società con Sfera Ebbasta (attuale giudice a X Factor) un locale salutista, l’Healty Color, locale alcool free. Così i due soci (da Vanity Fair): “Prendersi cura di sé stessi e volersi bene sono atti di fondamentale importanza che dipendono anche dalle nostre scelte alimentari quotidiane in quanto il cibo è vita ed energia”.
i più bravi, forse anche questo ha voluto dire perché magari mi trattassero meglio di altri. Un’altra fortuna, dopo il primo anno, è stata quella di conoscere Giuseppe Riso, che è sì il mio procuratore ma che prima di tutto è un amico, una sorta di guida. Anche lui non era conosciuto, non aveva proprio niente in mano e riandando a quegli anni ricordo quanto ho condiviso con Cristante, noi che siamo poi arrivati assieme in prima squadra ed è stata la nostra un’amicizia super positiva: eravamo i due più bravi, tra noi sempre tanta competizione e anche questo è servito per migliorarci”.
l’intervista
“Con la scuola? Ahi, sì, era privata ma il primo anno sono stato bocciato e il secondo, ripetendo la prima, sono stato promosso e non è stato difficile per-
“Avevo 17/18 anni, ero con la prima io uno solo, il mio primo tra i professquadra del Milan. Due ritiri con Alsionisti, contro il Bari. Arrivò l’estate e legri allenatore, ricordo quell’inizio di non c’era una richiesta che fosse una, stagione, l’amichevole col Manchester nessuna squadra mi voleva. Lo stipenCity, il Trofeo Tim, ero dio che avevo col Milan poteva essere “Non so, ma da sempre, sin dall’inizio sapevo insomma il primo camun problema per tante squadre di B, il dove avrei potuto arrivare. Quando ci credi, con bio e mi sentivo proprio Milan poi non mi aveva chiamato per la forza del pensiero poi accade veramente e io un giocatore del Milan il ritiro ed ero insomma in difficoltà, fin da subito come detto ci ho creduto. Ricordo ed ecco che all’ultimo mia mamma che insisteva per via della quando con mio nonno e mia mamma ci hanno giorno di ritiro presero scuola, che potevo tornare a casa, tutti accompagnato lì al Milan a prender il materiale Matri. Andai in prestito lì a dir la loro e io ad allenarmi da solo, finché andai ad Ascoli, loro ripescati per il ritiro. Lì a far delle foto, emozioni belle, alla Sampdoria ma ero in serie B, l’allenatore Petrone a volercome no, ma forse più per loro, non tanto per in difficoltà, a gennaio tornai subito al Milan e mi, è stato lì che un po’ è partita la mia me, quasi sapessi che succedeva”. fu quello un anno così storia. Ricordo che andavo in palestra, ché ricordavo per bene le cose del pricosì, passò in fretta, di buono solo la lì a correre sul tapis roulant; pur non mo anno. Poi ho cambiato scuola e al vittoria al Viareggio. Così la stagione giocando avevo avuto modo di imparamomento degli esami di fine anno c’edopo andai a Latina, c’era Mario Beretre tanto ed è stato quello un periodo in rano le finali del campionato Allievi e ta allenatore, era lui che mi aveva volucui mi è scattato dentro qualcosa, ho così ho perso un altro anno. Sono arrito. Alla prima presenza, venni sostituiproprio cambiato mood: prima ero in vato così a 16/17 anni ed è stato in quel to dopo 40 minuti, finii per non giocare paranoia e non riuscivo più a fare quel periodo che ho cominciato ad allenarquasi mai, cambiarono tre allenatori in che facevo prima. È scattato qualcosa mi con la prima squadra, con Allegri, pochi mesi e da me si allenamenti quasi sempre al mattino, è aspettavano chissà che “Il fatto di lasciare la compagnia degli amici finita lì. C’era sua figlia allora a scuola cosa: non ero pronto. non è mai stato un problema per me, mai. Il con me e per via della scuola ricordo Così a gennaio cambiai fatto è che di amici in fondo a Trieste non ne che capitava che mi rimproverasse ancora, passai al Vicen- avevo e tuttora non ne ho. Tra scuola e calcio, davanti a tutti, io lì che mi vergognaza. La squadra fece un tempo libero non ne avevo, il sabato c’era la vo, ma anche lui si rendeva conto della bel campionato ma io partita e spesso giocavo pure la domenica. situazione e ricordo le battute che mi continuai a giocare po- Feste di compleanno, Halloween, tutto il resto: faceva, di correre di più altrimenti mi chissimo, in attacco c’e- niente di niente, lasciare Trieste insomma non avrebbe mandato a scuola”. ra Cocco, fece 18/19 gol, è stato difficile”.
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l’intervista
e così ad Ascoli sono diventato un giocatore importante, ero un altro”. “Cerco sempre di migliorarmi, mettendomi in competizione con gli altri. Allenamenti sempre a 200 all’ora, provando sempre a vincere. La mia fortuna sono stati gli allenatori che ho avuto sin da ragazzo, gli esempi che ho avuto: persone positive che così mi hanno aiutato nel mio percorso. Stare al Milan è particolare, sei come dentro una bolla, tutto è perfetto e ti senti una superstar. Però quando esci da lì è davvero dura, per questo sono pochi quelli che in effetti poi riescono. Se non sei pronto e se non hai attorno gente giusta che ti aiuta, facile mollare, facile finire per fare altro”. “Penso al periodo in cui ero alla Sampdoria, a una frase ricorrente di Mihajlovic, quando ci ripeteva che il nostro non è un lavoro, ma un gioco.
non so bene uno da fuori cosa possa sempre e sempre. Ogni tanto mi capita pensare di me, l’idea che si può fare. di andare in qualche scuola e poi ci sono Può comunque pensare quel che vuole i social, i loro messaggi, il fatto che ti coperché chi sa veramente piano, che so, la pettinatura o le scarpe “Qualcosa del calcio che mi piace meno? Il quel che sono, sa come che indossi e ricordo che è pari pari a quel che facevo io da ragazzino”. ritiro, ecco, quello estivo, se si potesse io lo faccio le cose, quanto di farei giù, qui, sul campo. Non so, sarà che la me dedico al calcio. Pen“Con gli arbitri non ho mai avuto a montagna non mi piace, sarà che ti trovi a so così d’essere uno “serio”, come dici tu, che ci che dire. In fondo nemmeno li conodover ricominciare dopo le vacanze, i doppi mette sempre impegno sco e nemmeno ci bado, non come alallenamenti… no, non mi piace”. e passione. Nello spotri compagni che sanno com’è questo Che quel che facevamo era la cosa più gliatoio, specie con i ragazzi della Prio quest’altro. Di rossi ne ho preso giubella del mondo, che non si poteva essemavera, provo magari a dare qualche sto uno, era al tempo di Ascoli, contro re tristi. In effetti questo mio io non lo consiglio, per quello che poi posso dare. il Bari; ero subentrato e ho fatto un chiamo lavoro, non ci riesco. Penso che Ho con me l’esempio di quei grandi giofallo, mi ha dato il giallo. Ero nervoso, dovremmo solo ringraziare, di privilegi catori che al Milan ti aiutavano, ricordo l’ho toccato sul braccio e m’ha dato ne abbiamo mille, siamo benvoluti da Ibrahimovic, quanto magari rompeva il rosso”. tutti e sono così tanti quelli che lavoradurante le partitine ma poi ti veniva lì, no attorno a te e per te. No, non riesco a veniva a parlarti, ti diceva di fare così “I primi anni lì sul campo mi capitava chiamarlo lavoro. I sacrifici ci sono, cere così e poi Gattuso, Ambrosini, Pirlo… di sentire l’emozione, avevo così con to, ma dai, siamo ben pagati, fortunati e sbagliavi e venivano loro “Mia mamma è ebrea, ho fatto le elementari privilegiati. Ognuno però ha il suo pera darti dei consigli”. in una scuola ebraica però i miei non mi corso e si sa che nessuno regala niente; ci vogliono tante cose, ci vuole fortuna, “Siamo sotto gli occhi di hanno imposto niente, hanno lasciato a me l’ambiente giusto, l’allenatore eccetera, tutti non solo lì sul cam- la scelta e non sono neppure circonciso. Sì, ma nessuno arriva per caso”. po ma anche fuori, quo- il mio bisnonno lo portarono via, è morto ad tidianamente. Ti fermano Auschwitz, mio nonno e la bisnonna riuscirono “Sono uno a cui piace scherzare, mille per strada, ti guardano a scappare in barca, arrivarono in seguito sino battute, mi piacciono i social e li uso e fin che sei lì che mangi, a Parigi e ce la fecero a tornare poi in Istria”.
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l’intervista
come l’impressione che all’estero invece ci sia partecipazione al successo di uno, come dire, wow, che bravo che sei stato. Qui te ne puoi accorgere proprio tramite i social, dalle critiche che comunque saltano fuori se uno arriva a farcela… sai com’è, raccomandato e tanto altro. E non è un qualcosa limitato al calcio, no”.
“Un sogno? Quello di riuscire un giorno ad approdare in una grande squadra per poter giocare la Champions League. Sono riuscito a giocare un anno in Europa League con l’Atalanta e quello è stato un periodo stupendo della mia carriera perché giocare in Europa ti dà una sensazione diversa rispetto alle altre partite”. me la paura di sbagliare. Ora invece è diverso, sono tranquillo e verso la partita mi accompagna la musica, è lei a darmi energia, a darmi la carica. Rap americano o del mio amico Sfera Ebbasta, fin da quando partiamo dall’albergo, mi piace molto. In campo ascolto, sento e vedo e mi gaso sia quando fischiano che quando spingono. Per me il calcio è prima di tutto divertimento, non è unicamente il fare gol. No, a me piace saltare magari l’avversario, uno stop fatto bene, le cose che facevo insomma sin da bambino e lo so che magari dovrei essere più concreto e convinto in area di rigore, lo so, lo so”. “A un ragazzo che comincia quel che posso/potrei consigliare è innanzitutto di credere in sé stesso e di ascoltare le persone che gli vogliono bene. Di non abbattersi e di cercare e trovare dentro di sé la voglia e le motivazioni. La mia idea è che se hai in testa un obiettivo, tutti i giorni ti devi allenare con questo in testa, far di tutto per arrivarci. Secondo me, quelli che non arrivano è perché non ci credono sino in fondo all’obiettivo”. “Per un paio di volte con un amico sono andato in Inghilterra a vedere delle partite dell’Arsenal. Non so, a me pare che lì sia diverso, qui quel che capita di sentire per tutto il tempo sono degli insulti, non so. Pare quasi che chi ha successo – nel calcio ma pure nella vita, non è solo nel calcio – per forza di cose faccia scattare l’invidia e dunque la prima cosa che scatta è l’insulto. Ho
“Non so quel che potremmo fare noi
calciatori quando c’è casino sugli spalti, se ne parla da anni, non vedo come si possa noi controllare quello che fa la gente. Vedi la questione del razzismo: giusto smettere di giocare? Io penso che non sarebbe giusto per tutti gli altri. Una questione di mentalità, di una maleducazione che va al di fuori del calcio, che c’è nel quotidiano di tutti giorni, solo che magari nello stadio uno si sente più libero di fare ciò che vuole. Un tema questo del razzismo che va combattuto a partire dai ragazzini, a cominciare dalla scuola e nel rapporto tra genitori e figli”.
Il primo tatuaggio? A 16 anni… “Sì, di tatuaggi ne ho proprio tanti. Il primo l’ho fatto a 16 anni. È un aeroplano che ho sulla spalla destra. Lo avevo fatto ispirandomi a quello del rapper Gué Pequeno che ce l’ha sul collo. E proprio in una sua canzone diceva “Mi sono tatuato un aeroplano per volare in alto”. Questa frase ed il tatuaggio mi sono piaciuti molto e quindi ho fatto questa scelta. I miei? Inizialmente lo sapeva solo mia mamma e lei mi diceva sempre: “Ora basta, questo è l’ultimo!”. Io le rispondevo sempre che sarebbe stato l’ultimo, poi alla fine, negli anni, ne ho fatti tanti altri. Mio padre invece non mi ha mai detto niente. Si era solo arrabbiato perché quando ero più piccolo mi ero fatto gli orecchini. Il più importante è sicuramente quello che ho sulla coscia sinistra con il ritratto di mia mamma, mio papà e mio fratello. Ho scelto la parte sinistra perché è la stessa del cuore e perché la gamba sinistra è la mia gamba più forte. Di spazio adesso ce n’è ancora molto ma sinceramente non ho ancora pensato a cosa potrei farmi. Sono però convinto che in futuro mi
verranno delle idee, magari anche in seguito ad avvenimenti importanti che accadranno nella mia vita. Certo, se li ho fatti significa che mi piaceva farli. Solitamente non sono uno che ha ripensamenti o torna indietro sulle proprie scelte”.
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primo piano
di Nicola Bosio
A Vicenza con Paolo Nicolato
Galà del Calcio Triveneto 2019 Il tecnico dell’Under 21 è stato l’ospite d’onore della 19ª edizione del premio che si è svolto lunedi 4 novembre scorso alTeatro Comunale di Vicenza
Galà del Calcio Triveneto edizione numero 19: sul palco del ridotto del Teatro Comunale di Vicenza, il 4 novembre scorso, i migliori calciatori delle squadre professionistiche del Triveneto (Calcio a 5 e Femminile compreso), nonché il miglior arbitro e il miglior allenatore, che più e meglio degli altri hanno saputo mostrare qualità e continuità di rendimento nell’arco dello scorso campionato. L’iniziativa, organizzata dall’Associazione Italiana Calciatori insieme all’Ussi (Unione Stampa Sportiva) del Triveneto e “moderata” dal Direttore Generale AIC Gianni Grazioli, ha confermato anche quest’anno la collaborazione con il Giornale di Vicenza e l’Ufficio Scolastico Provinciale per il
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consueto concorso giornalistico riservato agli studenti delle scuole superiori di città e provincia. Premiati anche gli autori dei migliori elaborati che saranno pubblicati sulle pagine del Giornale di Vicenza nei prossimi giorni. Ospite d’onore di questa edizione il tecnico dell’Under 21 Paolo Nicolato che, parlando agli studenti ha ricordato come sia importante “accettare l’errore, perché siamo figli delle tante cose che riusciamo a fare bene ma anche di quelle che facciamo male”. “Non conosco persone che non sbagliano” – ha proseguito – “e personalmente cerco di andarci leggero con i miei calciatori quando commettono errori in campo e fuori”. Riguardo l’abbinamento sport e scuola ha concluso:
“È un tema delicato e credo che in Italia ci siano grandi margini di miglioramento. Se i giovani hanno voglia di mettere lo sport tra le priorità della loro crescita avremo non solo una generazione più sana fisicamente ma anche più rispettosa delle regole”. Padrone di casa il Presidente dell’AIC Damiano Tommasi che ha aperto la mattinata sottolineando che “il premio ha due precisi obiettivi: presentare il meglio del calcio triveneto e far raccontare ai giovani quei valori che dallo sport arrivano e restano. Fare calcio non vuol dire non poter studiare, istruzione e sport possono andare a braccetto e lo sport può darci insegnamenti positivi. La presenza di Nicolato in questo senso è molto significativa perché l’allenatore dell’Under 21 è uno di quelli che racconta il calcio al di là dell’aspetto tecnico ed i suoi
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insegnamenti diventano veramente lezioni di vita”. Sul palco del ridotto anche il Presidente USSI Veneto Alberto Nuvolari (“per far emergere i veri valori dello sport bisogna essere tutti uniti, dai protagonisti che vanno in campo a chi va sugli spalti degli stadi a seguirli”) e il Direttore del Giornale di Vicenza Luca Ancetti (“La frase di Nicolato al termine di una gara persa ‘non conta solo vincere’ credo sia un motto che tutti i giovani dovrebbero seguire”). Le premiazioni In rapida successione tutti i premiati di questa edizione (per loro, oltre il consueto trofeo che rappresenta le tre regioni, anche un libro della casa editrice InContropiede). In ordine “di apparizione”: Stefano Minelli, portiere del Padova (“Campiona-
to lungo e difficile, essere primi oggi è importante ma sarà dura arrivare primi fino alla fine”); Emanuele Giaccherini, centrocampista del Chievo (“Lo scorso anno stagione travagliata e questo premio mi fa dimenticare per un attimo quel campionato. La B è difficile, non c’entra il blasone dei calciatori, ci deve essere grande determinazione e la testa giusta per affrontare ogni partita. La Nazionale sta vivendo un bel momento di rinascita dal punto di vista del talento, giovani forti che giocano in squadre top”); il responsabile della comunicazione Alberto Michelin ritira il premio per Alberto Barison del Pordenone; Tommaso Morosini, centrocampista col vizio del gol del Sud Tirol (“Avere un fratello in serie A è motivo di orgoglio ma anche uno stimolo. Quest’anno sono partito meglio io ma il campionato è lungo. Sono
Tutti i premiati del 2018/19 • CHIEVO: Emanuele Giaccherini • UDINESE: Rodrigo De Paul • CITTADELLA: Alberto Paleari • HELLAS VERONA: Marco Silvestri • VENEZIA: Marco Modolo • PADOVA: Stefano Minelli • PORDENONE: Alberto Barison • SÜDTIROL-ALTO ADIGE:
Tommaso Morosini • TRIESTINA: Federico Maracchi • VICENZA: Loris Zonta • VIRTUS VERONA: Domenico Danti • ALLENATORE: Attilio Tesser • ARBITRO: Riccardo Ros • CALCIO A 5:
Márcio Roberto Brancher (Arzignano) • CALCIO FEMMINILE:
Marta Mascarello (Tavagnacco ora Fiorentina)
Le tracce proposte La sedentarietà diffusa tra i giovani, la violenza sulle donne, il calcio femminile e le pari opportunità, il dilagare del razzismo e della discriminazione nello sport: queste le tracce che hanno impegnato gli studenti che hanno aderito al concorso indetto da AIC e “Il Giornale di Vicenza” insieme all’Ufficio Scolastico provinciale. I migliori elaborati sono stati pubblicati sul quotidiano vicentino.
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1) Mirco Rossetti presidente della società Arzignano Calcio a 5, ritira il premio, consegnato da Alberto Nuvolari dell’USSI, per Márcio Roberto Brancher; 2) Domenico Danti, attaccante della Virtus Verona premiato da Giuseppe Ruzza Presidente del Comitato Veneto; 3) per il Pordenone ritira il premio, consegnato da Luca Pozza dell’USSI, di Alberto Barison il responsabile della comunicazione Marco Michelin; 4) i ragazzi premiati per il concorso indetto da Il Giornale di Vicenza; 5) Tommaso Morosini del Sud Tirolo premiato da Diego Bonavina, presidente AIC Onlus; 6) miglior calciatrice Marta Mascarello, ex Tavagnacco oggi alla Fiorentina, premiata dalla responsabile AIC del Calcio femminile Katia Serra; 7) il Direttore generale AIC Gianni Grazioli con Loris Zonta del Vicenza; 8) il capitano del Venezia Marco Modolo, premiato da Umberto Calcagno Vicepresidente AIC; 9) il portiere del Cittadella Alberto Paleari premiato da Nicolato; 10) Tommasi Nicolato e Nuvolari con Marco Silvestri, portiere del Verona; 11) il portiere del Padova Stefano Minelli premiato dal Direttore organizzativo AIC Fabio Poli; 12) foto di gruppo con gli studenti premiati per i migliori elaborati; 13) ; miglior arbitro è risultato Riccardo Ros della sezione di Pordenone, premiato da Gabriele Gava; 14) Emanuele Giaccherini, miglior calciatore del Chievo, premiato da Tommasi e Nicolato; 15) Massimo Paganin, responsabile del Dipartimento Senior AIC, e Luca Ancetti, Direttore de Il Giornale di Vicenza, con Attilio Tesser del Pordenone, miglior allenatore della stagione; 16) Rodrigo De Pol, nazionale argentino dell’Udinese, premiato da Nicolato e Tommasi.
contento perché il SudTirolo è una realtà in crescita e speriamo di fare un campionato di livello”); dopo aver solo citato Federico Maracchi, assente con la Triestina impegnata a Salò, sul palco l’idolo di casa Loris Zonta, miglior calciatore del Vicenza (“Tra campionato e Universiadi per me è stato un 2019 importante, ora siamo ai primi posti della classifica e vogliamo puntare in alto. Campionato molto equilibrato e ci sono tre quattro squadre che possono vincere”); Domenico Danti della Virtus Verona (“Siamo contenti di essere in zona play off anche se per la nostra società l’obiettivo è la salvezza”); per il calcio femminile Marta Mascarello, ex Tavagnacco ora alla Fiorentina (“Il Mondiale in Francia ha dimostrato che anche le ragazze meritano di avere contesti migliori per poter migliorare sempre di più”); per il Calcio a 5, il presidente dell’Arzignano Mirco Rossetti ritira il premio per Márcio Roberto Brancher impegnato con la squadra a Roma; per il Cittadella il portiere Alberto Paleari, da poco laureato in scienze motorie (“Consiglio a tutti di continuare il percorso negli studi perché calcio e libri si possono conciliare. Giocare in Serie A rimane un sogno, non sarà facile”); altro portiere, quello dell’Hellas Verona, Marco Silvestri tra i protagonisti della promozione in A degli scaligeri (“Sono stato in Inghilterra, bella esperienza, campionato molto fisico, stadi magnifici e pieni ma mi mancava l’Italia e appena ho avuto l’occasione sono tornato volentieri. Lo scorso anno è stato complicato ma ce l’abbiamo fatta, quest’anno credo che l’atteggiamento sia quello giusto, siamo partiti bene”); Marco Modolo, nuovo capitano del Venezia (“Squadra piena di novità ma peggio di come è andata lo scorso anno credo non possa andare. Ma
dalle esperienze negative bisogna prendere il meglio per crescere e ora siamo ripartiti con grande entusiasmo”); per gli arbitri premiato Riccardo Ros della sezione di Pordenone (“Di solito per noi applausi pochi, questo premio è un orgoglio. Personalmente cerco sempre il dialogo con i calciatori, non dire sempre ho ragione io, posso anche sbagliare. È l’unico modo per istaurare un rapporto costruttivo e cercare di portare le partite ad un livello equilibrato”); gli fa eco il “premiatore” Gabriele Gava, braccio destro di Rizzoli: “Se manca rispetto e fiducia diventa un problema, dovremmo trovarci e parlarci di più per capire. Se un arbitro sbaglia lo fermiamo ma non è un fermo punitivo, è per fargli riprendere lo stato di forma ottimale. Se un calciatore sbaglia un calcio di rigore la domenica dopo gioca nuovamente, se un arbitro sbaglia ad assegnare un rigore si pretende che venga fermato. Credo che ci debba essere una cultura diversa, quella della sconfitta che faccia capire che siamo umani e possiamo sbagliare anche noi arbitri”; miglior allenatore Attilio Tesser del Pordenone (“Premio che condivido con i collaboratori, la società e i miei calciatori che sono poi quelli che vanno in campo. Siamo partiti bene ma siamo consapevoli
che il campionato che stiamo facendo è importante, mai stati in B, solo col lavoro quotidiano cercheremo di arrivare più in alto possibile”); finale da Serie A con l’argentino Rodrigo De Paul dell’Udinese (“Gioco in una società molto seria e cerco di fare al meglio il mio lavoro. Lo scorso anno per me è stata un’annata straordinaria con la convocazione in Nazionale e stare al fianco di Messi e Aguero è il massimo. Quando il lavoro si premia non può che farmi contento”).
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di Pino Lazzaro
La partita che non dimentico
Giorgia Motta
(Women Hellas Verona) “Dai, sempre lì vado col ricordo, come faccio a non pensare a quelle due partite di Champions che abbiamo giocato nel 2008 col Bardolino contro il Francoforte? Ne sono passati di anni e nonostante tutti i passi avanti che ci sono stati, siamo ancora noi le uniche a essere arrivate così avanti: una semifinale di Champions. In più all’andata ho fatto pure gol, io difensore, così poco abituata. Un gol anche bellissimo: calcio d’angolo, deviazione, palla lì fuori area e io di contro balzo l’ho messa dentro e sono stata la prima a
Champions. Il ricordo che ho di quella partita di ritorno è bellissimo. Noi abituate ad averne sempre pochi di spettatori, ci siamo ritrovate lì al Bentegodi ad averne 14.000… per me poi, da sempre tifosissima del Verona, già giocare in quello stadio era speciale e la ricorderò per sempre l’emozione che ho provato uscendo lì dal tunnel nel vedere tutta quella gente”.
“Come mai ho partecipato al ritiro di Coverciano? Beh, sono ormai avanti con gli anni (classe ’84; ndr) e l’idea è quella di rimanere comun“Le due partite di Champions que in questo mondo del calcio, magari a contatto giocate nel 2008 col Bardolino con i giovani. Già insegno a scuola, spagnolo, especontro il Francoforte” rienze sia con le medie che saltare addosso alle mie compagne. con le superiori: trovo che siano due In tribuna c’era la mia famiglia, pure mondi paralleli e mi ci trovo bene. Ani cugini, amici, tutti arrivati sin lasdare poi a Coverciano è stato per me sù per quella partita, per noi. Da loro pure mettermi alla prova, era un vero e perdemmo per 4 a 2: pensa un po’, la proprio ritiro, due sedute di allenamenGabbiadini e io siamo tuttora le unito al giorno. È stata poi una cosa molto che italiane ad aver segnato a livello di bella la condivisione tra tutti e aggiunsemifinale Champions. In casa poi ci go che magari lì a tavola capitava di batterono per 3 a 0, erano più forti di star vicino a Nocerino che parlava di noi, l’hanno poi vinta loro quell’anno la Ibrahimovic o Barzagli – dico Barzagli – che mi dava dei suggerimenti per la fase difensiva”. “No, non mi dispiace – per me intendo – che questo cambiamento del nostro calcio sia capitato solo adesso. Sono felicissima certo che sia successo, però se penso agli anni che ho passato, sono dell’idea che siano stati proprio quelli gli anni migliori. Ora sono entrate le società maschili, va benissimo, questa è la strada, però il tutto vorrà dire pure un uniformarsi. Il livello ora si alzerà, tante e tante bambine in più si dedicheranno al calcio, ma io continuo a guardare con molto piacere a quei miei anni, penso per esempio a quand’ero alla Torres, le tante e tante difficoltà che dovevamo affrontare e superare. Un altro mondo a cui resto
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comunque legata. So che qui nel veronese, tanti paesi stanno ora mettendo assieme squadre di ragazzine e ripenso così a quel mio essere allora praticamente un’aliena dato che appunto giocavo a calcio”.
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Davide Succi
(Massa Lombarda) “Ne avrei diverse e te ne dico così due. Intanto il primo gol che ho segnato in Serie A, giocavo allora col Palermo e quel gol l’ho segnato proprio a Bologna, in fondo il giardino di casa, io sono proprio di lì. Quel giorno, quando entrai nel secondo tempo, si perdeva 1 a 0, ricordo che prima presi pure una traversa,
nato, gol di Ibrahimovic e Balotelli. Nel secondo tempo, subito Cavani fece il 2 a 1 e dopo un po’ ecco un lancio di Mark Bresciano, con Miccoli che la mette in mette in mezzo: sono riuscito ad anticipare il difensore, forse era Cordoba ma non ne sono sicuro, c’era Toldo in porta, non Julio Cesar. Loro, l’Inter, che l’hanno dopo “Il mio primo gol in Serie A e avrebbero fatto il triplete. gol che ogni tanto mi quello a San Siro contro l’Inter Un capita ancora di rivedere, meno di un tempo, ma che di Mourinho” resta un qualcosa di molto finché al 90° arriva questa palla in area bello anche perché ho questo ricordo e in mezza rovesciata la metto dentro. dell’esultanza fatta proprio sotto la Io col Palermo, quella squadra che era curva dove c’erano i nostri tifosi, a quel proprio forte, io tante volte in tribuna, tempo la tifoseria ospite era ancora in avevo 27 gol e avevo fatto gol in Serie basso, non su in alto come adesso. Mi A. Fu quella mia in fondo un’esultanza levai la maglia e ricordo pure che lì in strana, lì ad urlare a braccia aperte, mezzo ai tifosi distinsi mio padre e mio con i compagni che corrono a saltarmi suocero che esultavano. Pensa, l’esoraddosso: indimenticabile”. dio a San Siro, il gol del 2 a 2, così finì, con quella “cartolina” lì sul tabellone “L’altra partita è quella in cui un gol che ricordava che i marcatori erano l’ho segnato nella Scala del calcio, a Ibrahimovic-Balotelli-Cavani-Succi”. San Siro, all’Inter, Mourinho allenatore. Anche quella volta entrai nel secondo “Adesso? Ho fatto il corso lì a Covertempo, nel primo ci avevano praticaciano per l’Uefa B e il prossimo giugno mente ammazzato, avevano stradomiho intenzione di fare l’Uefa A. Sì, è la
strada che voglio percorrere e spero di avere l’opportunità di cominciare. Il corso che ho fatto a Coverciano mi è proprio servito, da un paio d’anni ero un po’ fuori da questo nostro mondo, diciamo che mi ha riaperto la mente. Ora vediamo, spero di fare questi otto mesi di cui ho bisogno, anche come collaboratore, tra i dilettanti o i prof, non importa, così da poter fare subito l’Uefa A. Le idee sono chiare, sono pronto ad andare dappertutto, fare sacrifici è l’ultimo dei problemi, tutta la vita li ho sempre fatti”.
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Nella rete Gabriel Vasconcelos Ferreira in Lecce – Spal 1-3
Muro infranto Alessandro Murgia in Lecce – Spal 1-3
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di Maurizio Borsari
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Il volo Marco Silvestri in Hellas Verona – Udinese 0-0
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di Stefano Ferrio
Tre foto tre storie
Il turco di Ferrara, Mazzone-Jack Nicholson e... Un bomber degli anni '50, consigliato al presidente della Spal niente meno che da Meazza, un terrificante primo piano stile "Shining" del "sor Carletto" durante il primo periodo ad Ascoli (con testimonianza diretta del suo ex giocatore Mandorlini), e migliaia di spettatori riflessi negli occhiali di uno (o forse una) di loro. Ogni immagine, si sa, racconta una storia, non necessariamente rivelata da quanto si vede in primo piano, perché tante volte sono i particolari sullo sfondo a diventare la chiave d'accesso a una qualche verità. Ciò vale più che mai per l'immenso e prezioso archivio fotografico dell'Associazione Italiana Calciatori, dove ogni faccia, ogni tiro, ogni volo, ogni gruppo, ogni azione, ogni stadio sullo sfondo rimandano non solo a un risultato finale e a una classifica di vincenti e perdenti, ma anche a un'epoca, a una moda, a qualcosa o a qualcuno che magari è scomparso, eppure "vive" ancora nella memoria. Ecco perché abbiamo il piacere di iniziare a condividere con voi, sulle pagine del Calciatore, alcune immagini dell'archivio AIC, cercando di capire, di volta in volta, cosa questi "scatti" ci dicono a una settimana, a un anno o anche a un secolo dal momento in cui venivano fermati nel tempo. Bulent, Aziz Asel (Spal, Serie A 1951 – 1952) – Le gambe tese a novanta gradi, subito dopo avere scoccato un bel tiro al volo, i muscoli possenti, il volto ancora concentrato nell'esecuzione del gesto tecnico, e il fisico ben piantato, da "torello" d'area di rigore. Questa foto è una vera e propria "figurina" del Bulent che i tifosi della Spal di una certa età portano indelebile nell'album del proprio cuore. La stagione è quella 1951-'52 in cui si celebra lo storico debutto in Serie A della squadra biancazzurra di Ferrara, neopromossa dalla B, quando il presidente Paolo Mazza, elettricista innamorato pazzo del pallone, intende onorare la grande occasione offertagli dalla Storia allestendo un undici assolutamente competitivo. Al momento di innestarvi quei talenti stranieri di cui nemmeno allora si poteva fare a meno, il navigato Mazza "pesca" in campionati meno battuti dagli altri presidenti. Dopo avere fatto centro l'anno prima in Danimarca, dove ha ingaggiato il tuttofare offensivo Niels Bennike, decisivo nella stagione della promozione, nell'estate del '51 il presidente si ripete in Turchia, contando su un lussuoso consulente quale è Peppin Meazza, goleador dell'Inter e campione del mondo del 1938, allenatore per un solo campionato del
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Besiktas Istanbul. Un unico torneo, ma sufficiente a fargli raccomandare vivamente al patron della Spal le prestazioni di questo cannoniere tozzo e feroce, classico finalizzatore da area piccola, all'epoca ventiquattrenne giocatore della sua squadra. Bulent diventa così uno dei primi turchi a giocare in Italia, tre anni dopo Sukru Gulesin, attaccante di Palermo e Lazio, e nello
stesso campionato di Lefter Kucukandonyadis, altra punta che la Fiorentina acquista dal Fenerbache. Rispetto ai due connazionali, Aziz Bulent, noto per le sigarette che fuma in continuazione, come i turchi delle barzellette, mostra molta più qualità, segnando già la bellezza di tredici gol durante il campionato dell'esordio, record per attaccanti della Spal in massima serie destinato a resistere fino alla scorsa stagione, quando lo batte Andrea Petagna con i suoi diciassette centri. Ma il primato caduto nulla toglie al fascino un po' gitano di Bulent, morto settantasettenne a Smirne, nel 2004, potendo vantare una carriera da bomber in cui il capitolo più glorioso è costituito dalle tre stagioni trascorse a Ferrara. Dove con la maglia della Spal, duettando con altro attaccante di razza come Alberto Fontanesi, realizza 27 gol in 77 partite. "Storico" quello con cui, il 21 ottobre 1951 allo stadio di Genova contro la Sampdoria, inscrive il primo successo esterno in Serie A negli annali del club biancoazzurro. Spal "squadra corsara" si inizierà a dire, dopo quell'impresa a Marassi. Mazzone, Carlo (Ascoli, Serie B, 1973 – '74) –"An vedi, er Carletto" viene da sbottare, in puro slang romanesco, di fronte a questo primo piano di Mazzone che potrebbe benissimo appartenere a una controfigura dello Jack Nicholson di "Shining", oppure a uno di quegli attori nati per fare i pistoleri negli spaghetti western di mezzo secolo fa. E invece no, o forse sì... perché, in fondo, questo maestro italiano della panchina, nato a Roma il 19 marzo 1937, resta uno dei più spettacolari, travolgenti e "caciarosi" mister di una Serie A da lui intesa come qualcosa di molto simile a un duello fra cow boy stile "Mezzogiorno di fuoco". Nella fattispecie, le basette, la pelata e il grugno sono quelli del Carlo Mazzone che, realizzando il sogno del presiden-
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il futuro te Costantino Rozzi e di un'intera città marchigiana, nella stagione 1973 – '74 guida l'Ascoli a conquistare la prima, storica promozione in Serie A. Seguiranno il debutto nel massimo campionato italiano con epica salvezza finale, e un'altra trentina d'anni di panchine, comprese quelle di Roma, Bologna e Fiorentina. Ovunque sia andato, Carletto Mazzone si è portato in un'ideale valigia anche le sue proverbiali "maschere" fatte, a seconda dei casi, di rabbia, sofferenza, sarcasmo, goliardia. Come è ritratto in questa foto, lo ha visto più di una volta Andrea Mandorlini, classe 1960, da Ravenna, allenatore che, nel proprio passato di difensore centrale, incornicia tre campionati di A nell'Ascoli dei primi anni '80, quando la squadra torna nelle mani di Mazzone, classificandosi addirittura sesta alla fine del torneo 1981 – '82. Nella stagione successiva tutto si complica di brutto, obbligando
l'Ascoli a lottare per la salvezza fino all'ultima giornata. Nel mezzo trova posto anche la trasferta del 20 febbraio 1983 sul campo dell'Udinese dove, sul risultato di 1-1, a venti minuti dalla fine l'allenatore dei padroni di casa, Enzo Ferrari, fa entrare Paolino Pulici, in arte Puliciclone, bomber campione d'Italia nel 1976 con la maglia del Torino. “È un ingresso che ci mette subito in soggezione” – ricorda Mandorlini – “tanto che io e l'altro centrale, Leonardo Menichini, iniziamo a palleggiarci la sua marcatura. Abbiamo appena iniziato a parlarne che Pulici, su azione di corner, ci uccella tutti e due, segnando il gol della vittoria per l'Udinese..." "Apriti cielo” – continua il mister – “non dimenticherò mai il ritorno in spogliatoio, con Mazzone che nel sottopassaggio si incolla proprio a noi due, e inizia a sussurrarci Ah bellini, macchi lo doveva marcà, Pulici? Un vero incubo, che sarebbe continuato per un'intera settimana di
allenamenti… Fortuna che all'ultima giornata riuscimmo a salvarci, battendo il Cagliari”. Stadio Tardini di Parma (Serie A, 24 agosto 2019, Parma – Juventus 0-1) – Lo stadio riflesso in un paio d'occhiali, prima del fischio d'inizio di un altro, lungo e appassionante campionato di Serie A. Migliaia di tifosi, un attimo prima che la festa (o il dramma) incominci, vengono catturati nello sguardo di "uno di loro", sempre che non sia "una", visto come i lunghi capelli e la pelle, rugosa ma imberbe, potrebbero far pensare. Pure quest'indeterminatezza acquista un senso felice nell'anno degli stadi definitivamente conquistati dalle donne, protagoniste di un Mondiale francese che, secondo la Fifa, ha sfondato il muro del miliardo di telespettatori. Ecco perché questa strana foto sembra volerci dire: “Mettetevi comodi, il Futuro del calcio è una partita tutta da scoprire”.
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biblioteca AIC
di Pino Lazzaro
Il libro di Salvatore Bagni
Continuo a girare il mondo “Il libro? Diciamo che sono stato, come dire, praticamente forzato a farlo. All’inizio proprio non è che volessi farlo ma ci sono state tante insistenze, ancora e ancora, finché sono stato preso per… stanchezza. Tutto è cominciato lì in treno, Bologna-Napoli, ci vado abbastanza spesso e mi capita così di incontrare questo signore, Ignazio Senatore, lui psichiatra, lui che di libri ne aveva già fatti altri. Ha insomma lanciato l’idea e, come detto, di tanto in tanto insisteva e la cosa è andata avanti per un paio d’anni, continuava a chiamarmi, fintanto che ho detto sì. L’abbiamo scritto d’estate, lì a casa mia, ci sono voluti 4-5 giorni, quello era lo spazio, non è che ne abbia poi molto di tempo libero. Ora che è stato stampato, devo ringraziarlo perché ne è venuta fuori una cosa leggibile, mi pare con una sua leggerezza. Le correzioni le facevamo mano a mano e l’obiettivo era comunque quello non tanto di raccontare la mia vita – non mi interessava – quanto alla persona, attraverso ricordi e aneddoti”. “Sono 30 anni che tratto calciatori in tutto il mondo e così continuo a viag-
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giare. Io che guardo all’aspetto tecnico, mio figlio Gianluca come agente che pensa a tutto il resto. Sì, mi piace ancora molto andarmene in giro, visitare paesi e vedere partite. Un lavoro questo mio che è arrivato in fondo da sé, nessuno mi ha forzato e dopo le esperienze in televisione e da dirigente in vari club, ora continuo così. Ho girato in pratica tutto il mondo, solo l’Indonesia in fondo mi manca e dappertutto si possono trovare calciatori. Chiaro, se per dire vai in Spagna ne trovi magari venti, in Australia invece uno, però si trova. Quello a cui prima guardo, di cui più mi fido, è la personalità, poi viene il resto che certo serve ma è intanto la personalità, il carattere che devi comunque avere. Se poi giochi in mezzo al campo, non importa se non sei un gigante e se giochi esterno ecco che la devi avere della rapidità e della tecnica, come è chiaro che i difensori centrali devono avere il fisico ed essere alti. Però è la personalità la prima cosa come detto a cui sto attento. Come persona puoi magari essere un timido, ma lo puoi essere fuori dal campo, lì sì, non certo fin che giochi”.
Sono uno che dentro di sé nasconde, ma neppure troppo, l’anima del siciliano. Orgoglioso, timido, introverso, determinato e sempre disposto a esporsi per una giusta causa. È un carattere che ho ereditato dai genitori. Luciano, mio padre, faceva il calciatore. Ha giocato a Licata e Gela, a sud dell’isola. Mi dicono fosse un dribblomane. Estroverso in campo, ma nella vita era un uomo molto chiuso. La parte focosa della mia indole devo averla presa dalla mamma siciliana. Si sono incontrati negli anni Cinquanta. È stato così che mia sorella, la primogenita, è nata in Sicilia. Poi ci siamo spostati, abbiamo risalito l’Italia fino a Correggio, in Emilia. È lì che sono nato io, lì che sono venuti al mondo l’altra sorella e mio fratello. Sarà un caso ma, a pochi anni di distanza, hanno frequentato la stessa parrocchia della mia città anche il rocker Luciano Ligabue, il flautista Andrea Griminelli, lo scrittore Pier Vittorio Tondelli, Guido Silvestri l’ideatore di Lupo Alberto, i cestisti Giorgio Rustichelli e Tullio Magnani che hanno militato in Serie A, Gianni Gualdi che ha giocato per trent’anni a basket in serie B e Pasqualino Abeti il velocista, primatista mondiale con la 4x200 assieme a Pietro Mennea, Luigi Benedetti e Franco Ossola. Niente male per un paesino di sedicimila abitanti. Forse sarebbe il caso che qualcuno studiasse il fenomeno, i risultati dell’indagine potrebbero stupirci. Papà giocava ala. Era leggerino, pesava cinquanta chili. Raccontano che fosse un calciatore molto bravo, veloce, tecni-
Organo mensile dell’Associazione Italiana Calciatori
speciale ott-nov 2019
Cantieri di storia SISSCO L’AIC e le trasformazioni del calcio (1968-1981)
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di Alberto Molinari
Le origini dell’AIC. La crisi del calcio e il mestiere del pallone
L’Associazione Italiana Calciat e le trasformazioni del calcio (1 Il 20 settembre scorso, in occasione della decima edizione dei Cantieri di Storia, tenutisi presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, organizzato dalla SISSCO (Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea), è stata presentata la ricerca sull’Associazione Italiana Calciatori del prof. Alberto Molinari. La ricerca ha ripercorso la storia dell’AIC soffermandosi principalmente sugli inizi nel 1968 e sulla creazione di un sindacato, sull’onda dei movimenti di quegli anni, che ha vedeva, per la prima volta, protagonisti diretti gli stessi calciatori. Il valore di quanto riportato nello studio del prof. Molinari, per la completezza delle informazioni, per la ricca documentazione bibliografica e per la puntuale contestualizzazione del periodo storico, merita senza dubbio di essere pubblicato integralmente. La sera del 10 giugno 1968, allo stadio Olimpico di Roma, l’Italia conquistò la Coppa Europea per Nazioni, battendo in finale la Jugoslavia. Al termine dell’incontro in tutto il Paese una folla festante si riversò per le strade, si formarono cortei di automobili accompagnati dal suono dei clacson e dallo sventolio di bandiere, le piazze si riempirono di persone, in un entusiasmo collettivo senza precedenti nella storia del calcio italiano. La vittoria degli azzurri riavvicinò la Nazionale al suo pubblico e contribuì a ricucire nell’immaginario collettivo la ferita dei Mondiali del 1966 in Inghilterra, quan-
do l’Italia era stata eliminata dalla competizione in seguito alla sconfitta con la Corea del Nord. In questo frangente passò quasi inosservata la costituzione dell’Associazione Italiana Calciatori, nata sulle ceneri del vecchio sindacato dei giocatori, fondato nel 1945. L’idea, maturata in un gruppo di giocatori che ne avevano discusso a Coverciano durante la preparazione agli europei, prese corpo il 3 luglio 1968 in uno studio notarile milanese. Gianni Rivera, Sandro Mazzola, Giacomo Bulgarelli, Giancarlo De Sisti, Gianni Corelli, Giacomo Losi, Carlo Mupo, Giorgio Sereni e Ernesto Castano firmarono l’atto costitutivo, insieme a Sergio Campana, un giovane avvocato con un passato da mezz’ala nel Vicenza e nel Bologna, nominato presidente dell’Associazione.1 L’AIC si proponeva di tutelare la professione calcistica dal punto di vista economico e normativo e dichiarava di battersi per il diritto di partecipazione dei giocatori al governo del calcio, introducendo con “un piccolo atto di sovversione” una crepa “in un mondo tenacemente ancorato a valori e mentalità autoritarie”.2 1 L’atto è conservato presso l’archivio dell’AIC nella sede di Vicenza. Ringrazio Nicola Bosio, responsabile dell’area comunicazione dell’Associazione, che mi ha consentito di consultare la stampa dell’AIC e alcuni documenti dell’archivio vicentino. 2 Antonio Papa, Guido Panico, Storia so-
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Le prime iniziative dell’Associazione suscitarono reazioni negative nell’opinione pubblica e negli ambienti politico-sportivi. Da un lato l’AIC veniva rappresentata come il sindacato dei “nababbi” che difendeva gli interessi di un gruppo di privilegiati diventati ricchi grazie al pallone. Dall’altro si paventava il rischio di una destabilizzazione dello status quo calcistico, come se anche nel mondo dello sport più popolare stesse penetrando lo spirito sovversivo del ’68. Al pari di altri settori dello sport, negli ambienti calcistici era radicata la convinzione che l’universo sportivo costituisse una realtà separata e impermeabile rispetto al contesto politico e sociale. Il calcio si autorappresentava come un mondo neutro e aconflittuale, al riparo dalle contraddizioni e dalle tensioni che attraversavano lo spazio pubblico. Le passioni suscitate dal rito domenicale contribuivano a distogliere lo sguardo dalle trasformazioni e dai problemi che investivano la dimensione calcistica. Lungo gli anni Sessanta i processi di modernizzazione che avevano modificato in profondità anche le attività legate al tempo libero si erano riverberati sul mondo del pallone. L’interesse per il calcio, alimentato dalla diffusione dei mezzi di informazione, era creciale del calcio in Italia. Dai campionati del dopoguerra alla Champions League (19452000), Bologna, Il Mulino, 2000, p. 97.
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tori 1968-1981) non minor parte alle numerose e fantasiose uscite di danaro dalle società che costituivano, per i dirigenti, guadagni sotterranei”.5 Le cifre iperboliche investite per l’ingaggio dei campioni consentivano di mantenere alta la passione dei tifosi e alimentavano la notorietà dei proprietari dei club che puntavano su un ritorno in termini di prestigio, visibilità, influenza e relazioni in ambito economico e politico. La competizione spingeva le società a gestire il calcio facendo un uso disinvolto del denaro e aprendo voragini nei bilanci.6
sciuto e gli stadi si riempivano sempre più di appassionati: gli spettatori di Serie A e B nel giro di dieci anni – dal 1960 al 1970 – erano cresciuti del 29%. Il fenomeno non si limitava alla massima serie: anche intorno ai campi dei centri minori la passione per il pallone, resa più solida dalla conquista di un decoroso benessere in molta parte della provincia italiana, ebbe una crescita senza precedenti. Tra il 1962 e il 1970 i sessanta impianti della Serie C accolsero un milione e mezzo di spettatori in più, corrispondente a un incremento dell’83%.3 Grazie al boom economico il calcio aveva aumentato le sue entrate – tra il 1961 e il 1971 gli incassi della Serie A passarono da 5,41 miliardi a 12,9 miliardi –4 ma i club spendevano più di quanto incassavano. Ciò era dovuto in parte “alla crescita dei compensi ai calciatori e al calciomercato, in altra 3 Papa, Panico, Storia sociale del calcio in Italia. Dai campionati del dopoguerra alla Champions League (1945-2000), cit., p. 85. 4 Nicola De Ianni, Il calcio italiano 18981981. Economia e potere, Soveria Mannelli, Rubettino, 2015, p. 22.
Per fare fronte alla pessima gestione dei club, nel 1966 le associazioni calcistiche furono trasformate in società per azioni. Il provvedimento, voluto dalla Federazione Italiana Gioco Calcio, intendeva contribuire al risanamento delle posizioni debitorie dei club, facendo convivere le finalità sportive con l’esigenza di un’ordinata gestione economica. La trasformazione in Spa rendeva infatti applicabili alle società una serie di disposizioni legislative in materia di formazione e pubblicità del bilancio che avrebbero dovuto assicurare un’amministrazione più oculata e trasparente, nonché la possibilità di controllo da parte delle autorità sportive competenti. Il Ministero del Turismo e dello Spettacolo aveva inoltre legato il passaggio a società per azioni all’erogazione di un mutuo ad interesse agevolato a favore dei club, finalizzato al loro risanamento.7 Dopo il varo del provvedimento la situa-
zione non era però cambiata. La gestione delle società continuava a seguire il tradizionale "modello mecenatistico", che vedeva “il club sportivo acquisito da un ricco proprietario pronto a pompare denaro in acquisizione di calciatori come se non vi fosse limite alle possibilità di spesa”.8 Secondo un’inchiesta sulla crisi del calcio condotta da Mario Salvatorelli, responsabile delle pagine economiche de “La Stampa”, nel 1969 il passivo dello stato patrimoniale delle società di Serie A ammontava a 14 miliardi; il Presidente della Lega calcio Stacchi ammetteva che nel complesso i club professionistici accusavano un totale di circa 22 miliardi di debiti, un dato destinato a salire nel 1971 a 34 miliardi.9 Nel 1968 la Lega lanciava l’ennesimo grido di allarme sulla crisi del calcio 8 Pippo Russo, Soldi e pallone. Come è cambiato il calciomercato, Milano, Meltemi, 2018, p.120. 9 Mario Salvatorelli, Nella giostra dei miliardi del calcio alle società restano solo debiti, “La Stampa”, 6 gennaio 1971; Calcio professionistico deficit di 34 miliardi, “La Stampa”, 4 dicembre 1971.
5 Ivi, p. 48. 6 Si veda l’inchiesta condotta da Mario Salvatorelli, responsabile delle pagine economiche de “La Stampa”: Nella giostra dei miliardi del calcio alle società restano solo debiti, “La Stampa”, 6 gennaio 1971; Calcio professionistico deficit di 34 miliardi, “La Stampa”, 4 dicembre 1971. 7 De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, cit., p. 203.
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italiano, chiedendo un nuovo aiuto dello Stato con l’introduzione di sgravi fiscali e facendo pressioni sul CONI affinché fosse aumentata la quota del Totocalcio destinata al settore calcistico. Come notava una delle principali firme del giornalismo sportivo italiano, i dirigenti del football italiano cercavano “disperatamente in qualunque modo altro denaro” senza riconoscere le proprie responsabilità.10 Con la loro acquiescenza, i calciatori contribuivano a perpetuare un sistema che garantiva lauti guadagni alle “stelle” del pallone ma si fondava su un rapporto di completa subordinazione dell’atleta rispetto alle società di appartenenza. A fronte di un’élite che raggiungeva fama e ricchezza, per la maggior parte dei giocatori la carriera era un’avventura breve ed incerta, avara di soddisfazioni economiche, priva di garanzie e tutele giuridiche, condizionata dalle difficoltà di ricollocazione nel mondo del lavoro dopo la conclusione della traiettoria agonistica. 10 Gino Palumbo, Mancano le idee, “Corriere della sera”, 31 marzo 1968.
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I calciatori erano legati da un vincolo di proprietà “a vita” ai club che ne disponevano a piacimento nella compravendita e nei trasferimenti del calciomercato. Il giocatore non poteva spostarsi liberamente dal luogo di residenza, la possibilità di esprimere le proprie opinioni era limitata e condizionata dal rischio di essere multato o professionalmente emarginato. Mancavano norme per la tutela della salute e per la previdenza, non erano previsti giorni di riposo. Chi militava in Serie C, in quanto “semiprofessionista”, veniva sottopagato perché il calcio era considerato un secondo lavoro; in realtà gran parte delle squadre imponevano allenamenti e ritiri come quelli dei club delle serie superiori impedendo lo svolgimento di altre attività e configurando di fatto uno status di professionista all’atleta. Le società spesso ritardavano di mesi i pagamenti e potevano avvalersi di una clausola cosiddetta del 40 per cento che condizionava il versamento degli emolumenti alle partite disputate. Ad un giocatore di Serie A che non dispu-
tava almeno 20 partite, o 24 se di Serie B, la società poteva diminuire del 40 per cento gli stipendi pattuiti ad inizio stagione; in pratica, “fatta eccezione per taluni uomini-chiave, insostituibili salvo casi di forza maggiore, i dirigenti delle società, con opportune istruzioni all’allenatore, provvedevano a far sì che molti giocatori non entrassero nella formazione per più di 19 giornate (o 23 per la serie B)”.11 Le condizioni di lavoro dei calciatori erano pressoché ignorate dalla massa degli appassionati che tendevano ad identificare la figura del giocatore con gli atleti più celebri e pagati. A restituire un’immagine distorta del mondo del calcio contribuiva la grande stampa sportiva, abituata in genere a guardare al football solo in un’ottica tecnica, concentrandosi sulle gesta dei campioni e ignorando i risvolti sociali delle discipline sportive in nome della presunta neutralità e separatezza dello sport. D’altronde “il cronista che navigava nel mondo del calcio […] aveva contatti […] coi presidenti di società, con gli allenatori, coi managers; andando più in su, coi dirigenti della Lega, con quelli federali. E quando anche riusciva ad avvicinare i calciatori, o trovava bocche chiuse o addirittura si imbatteva in risposte disarmanti: io non so niente, non mi occupo di politica e di sindacalismo, non saprei cosa dire”.12 Alla fine degli anni Sessanta alcuni giocatori iniziarono a rilasciare interviste nelle quali affrontavano i problemi del loro mestiere. Nel 1967 “l’Unità” condusse un’inchiesta sui “prodotti” dell’industria dello spettacolo calcistico. Titoli, occhielli e sommari degli articoli riassumevano icasticamente le questioni messe in 11 Luigi Cecchini (a cura di), Associazione Italiana Calciatori 1968-1978. Dieci anni di impegno, Vicenza,Tip. Utive, 1978, p. 18. 12 Ivi, pp. 11-12
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luce dall’inchiesta attraverso interviste a calciatori di serie A e ad ex giocatori: I robot del calcio – La tristezza milionaria dei “ragazzi d’oro”. Il sistema offre ai suoi “figli” un breve paradiso, pagato a prezzo della loro personalità; Una vita vissuta alla rovescia. Quando gli altri “arrivano” un calciatore finisce – Devono (come i carabinieri) rendere conto di quello che fanno quando sono “fuori servizio”; Li attende presto il “cimitero degli elefanti”.13 13 L’inchiesta, curata da Kino Marzullo,
Poco dopo Giacomo Losi, uno dei giocatori più noti della Roma, rispondeva così alla domanda su quale dovesse essere il compito di un sindacato dei calciatori: “Assicurare un avvenire a tutti. Ne ho visti, durante la mia carriera, di giocatori rovinarsi, restare al verde […]. Siamo degli sbandati ai margini della società. La gente si diverte, ci paga, ci porta alle stelle. Poi si spencomparve su “l’Unità” del 13, 20 marzo, 3, 10 aprile, 1 maggio 1967.
gono le luci della ribalta e ognuno resta solo, con le proprie miserie. […] Vogliamo la sicurezza, la tranquillità, come ce l’hanno tutti, come la pretendono tutti”.14 Nelle prese di posizione pubbliche dei giocatori si avvertiva un superamento dell’approccio individuale alla propria condizione lavorativa che rifletteva anche una trasformazione del profilo culturale dello sportivo professionista. I processi di scolarizzazione di massa incidevano su una parte dei giovani che calcavano per mestiere i campi di calcio. In molti casi gli impegni sportivi precludevano la prosecuzione degli studi e l’orizzonte culturale dei giocatori era limitato dalle chiusure e dall’autoreferenzialità dell’ambiente calcistico, ma “i giocatori di calcio del 1968 avevano studiato più dei loro predecessori”.15 La partecipazione in prima persona e la “presa di parola” rappresentavano elementi di novità che rompevano l’immobilismo e la passività della categoria ed erano in parte riconducibili ad alcune istanze della contestazione giovanile, ma la protesta dei calciatori italiani non assunse il carattere radicalmente politico del ‘68 del calcio d’oltralpe16 e si concentrò sulla definizione dello status giuridico del giocatore e sulla relazione che intercorreva tra l’atleta e il suo datore di lavoro. Sullo status del calciatore la giurisprudenza non era concorde. Secondo alcuni orientamenti la prestazione dello sportivo professionista era un’attività autonoma, secondo altri si trattava di 14 Cecchini (a cura di), Associazione Italiana Calciatori 1968-1978. Dieci anni di impegno, cit, p. 9. 15 Papa, Panico, Storia sociale del calcio in Italia. Dai campionati del dopoguerra alla Champions League (1945-2000), cit., p. 97. 16 Cfr. Alfred Wahl, Le mai ’68 des footballeurs français, ”Vingtième siècle”, aprile-maggio 1990, pp. 73-82.
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un lavoro subordinato.17 All’inizio degli anni Sessanta si era pronunciata in questo senso una sentenza della Corte di Cassazione, relativa ad una controversia tra il Milan e un suo tesserato, che aveva riconosciuto alle prestazioni degli atleti professionisti i caratteri della continuità tipici del lavoro subordinato, in quanto essi in cambio della 17 Paolo Dalla Costa, La disciplina giuridica del lavoro sportivo, Vicenza, Egida, 1993, pp. 33-41.
retribuzione mettevano a disposizione della società sportiva le proprie energie fisiche e attitudini tecniche.18 Dieci anni dopo questa impostazione veniva ribadita da una sentenza sulla richiesta di risarcimento danni avanzata dal Torino in seguito al tragico incidente in cui aveva perso la vita Gigi Meroni.19 Anche sulla base di queste sentenze, l’AIC chiedeva che la posizione del calciatore venisse ricondotta alla figura del lavoratore subordinato con il diritto ad una tutela sindacale. Da questo punto di vista, la costituzione dell’AIC si inseriva nei nuovi processi di sindacalizzazione che, sull’onda delle grandi mobilitazioni del mondo del lavoro, coinvolgevano settori non riconducibili direttamente al dipendente salariato, il tradizionale riferimento dell’organiz18 Interessante sentenza della Corte di Cassazione sui giocatori di calcio, “La Stampa”, 31 ottobre 1961. 19 Meroni, Il Torino sarà risarcito, “Corriere della sera”, 30 gennaio 1971. La tesi della società si basava sul concetto di avviamento dell’impresa sportiva costituito anche dall’insieme dei giocatori. Accogliendo la richiesta delTorino, “la Cassazione ricomprende[va] il rapporto di lavoro sportivo nello schema dei rapporti di credito e quindi nell’ambito della subordinazione”, Dalla Costa, La disciplina giuridica del lavoro sportivo, cit, p. 35.
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zazione sindacale. Quella dei calciatori era però una sindacalizzazione che rimaneva autonoma rispetto alle strutture confederali e rifletteva le contraddizioni di una categoria eterogenea. Per alcuni aspetti l’azione dell’AIC si prestava all’accusa di “corporativismo” e di rafforzare oggettivamente le posizioni dell’élite del calcio. Nello stesso tempo l’Associazione sollevava questioni di carattere generale che coinvolgevano tutti i calciatori, compresi quelli delle serie minori, a partire dalla richiesta del riconoscimento della loro dignità umana e professionale a fronte dell’assenza di diritti e dello “sfruttamento” del giocatore come “merce”. L’AIC metteva in discussione mentalità e assetti consolidati nelle gerarchie calcistiche ed evidenziava le criticità di un mondo dominato da interessi speculativi e spregiudicate manovre affaristiche. La nascita del sindacato era dunque anche il frutto della crisi strutturale del football italiano e il sintomo dell’insostenibilità di una gestione anacronistica dell’”azienda-calcio”, un universo conservatore chiuso a qualsiasi ipotesi di cambiamento. Le critiche dell’Associazione guidata da Campana si concentrarono sulle distorsioni più eclatanti del mondo calcistico e si fermarono sulla soglia di una più radicale denuncia delle logiche politico-economiche dominanti nello sport. L’AIC scelse di muoversi sul terreno della “moralizzazione” del calcio, intrecciando le battaglie per il rinnovamento dei suoi istituti più arcaici con la rivendicazione di diritti per il calciatore, nella speranza che una conduzione illuminata dell’universo del pallone potesse aprire una pagina nuova nella storia del football italiano. I diritti del calciatore. Le rivendicazioni dell’Associazione e il dibattito politico-sportivo Il nucleo originario dell’AIC era costituito da un gruppo ristretto di giocatori di
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ministro dello Sport e dello Spettacolo Lorenzo Natali che assicurò di impegnarsi in una mediazione per risolvere i problemi posti dai calciatori.21 Formulato un ventaglio di richieste, l’AIC mise a fuoco come primo obiettivo l’abolizione della clausola del 40 per cento.
primo piano della scena calcistica nazionale che garantivano visibilità all’Associazione. Per dare forza alla propria azione, l’AIC doveva però anzitutto estendere la propria influenza radicandosi tra i calciatori, dimostrare l’efficacia dell’azione sindacale per tutta la categoria, a partire dalle fasce meno tutelate, e ottenere il riconoscimento da parte della Lega calcio e della FIGC. Erano gli obiettivi che il vecchio sindacato non aveva raggiunto, perdendo così di credibilità di fronte ai calciatori. Nell’aprile del 1969 Campana fu per la prima volta invitato come presidente dell’AIC ad una riunione della Commissione Affari Sindacali della Lega Calcio alla quale presentò una piattaforma articolata in diversi punti: eliminazione della clausola del 40 per cento; aumento dei minimi contrattuali; previdenza e assistenza per malattia; garanzia del regolare pagamento degli emolumenti; presenza di una rappresentanza dei calciatori nelle commissioni della Lega.20 L’Associazione si rivolse anche al 20 Il C. D. dei calciatori ricevuto da Stac-
La trattativa si sviluppò secondo un copione destinato a ripetersi negli anni successivi. I vertici del calcio ricorsero a espedienti dilatori per eludere un vero confronto e rinviare l’assunzione di decisioni. Di fronte a questo atteggiamento, l’AIC decise di proclamare lo sciopero dei calciatori.22 Applicato al mondo del calcio, lo strumento sindacale dello sciopero comportava conseguenze rilevanti per la macchina dello spettacolo sportivo e costi notevoli per i calciatori in termini di popolarità. Bloccare una giornata di campionato significava interrompere uno degli eventi più amati e seguiti dagli italiani, far perdere al CONI l’ingente flusso di risorse che derivava dal Totocalcio, rischiare penalizzazioni per le squadre nelle quali militavano i giocatori che si rifiutavano di scendere in campo. La minaccia dello sciopero fu sufficiente per sbloccare la situazione. Ottenuta l’abolizione della norma del 40 per cento – grazie alla mediazione di Artemio Franchi, presidente della FIGC – lo sciopero venne revocato.23 Tra il 1970 e il 1971 l’iniziativa sindacale si concentrò principalmente sulla richiesta di costituire una Commissione paritetica formata da rappresentanti della Lega e dei calciatori. La Lega respinse la proposta, dimostrando di rifiuchi, “La Gazzetta dello sport”, 2 aprile 1969. 21 I calciatori sono andati dal ministro, “Corriere della sera”, 1 aprile 1969. 22 Franco Mentana, Via la norma del 40% o sciopero l’11 maggio, “La Gazzetta dello sport”, 3 maggio 1969. 23 Mino Mulinacci, Pieno accordo tra calciatori e Commissione affari sindacali, “La Gazzetta dello sport”, 8 maggio 1969.
tare il dialogo e di non tollerare ingerenze di alcun genere. Il Consiglio Direttivo dell’AIC rispose con l’indizione di un nuovo sciopero per il 2 maggio 1971.24 La polemica si accese e la protesta dei calciatori riuscì per la prima volta a conquistare un ampio spazio sui mezzi di informazione. Da punti di vista e con sfumature diverse, la stampa tendeva a riconoscere la legittimità dell’azione condotta dall’Associazione, oscillando tra una convinta adesione alle ragioni dei calciatori e inviti alla prudenza e al senso di responsabilità dettati dalla preoccupazione per un inasprimento del conflitto che avrebbe minato ulteriormente il traballante “giocattolo” calcistico. Le testate nazionali ospitarono i commenti delle più importanti firme del giornalismo sportivo. Antonio Ghirelli interpretava la presa di coscienza sindacale dei calciatori nel contesto di una richiesta di partecipazione che investiva l’intera società. Nonostante i limiti di un’azione ancora viziata da residui di corporativismo, il giornalista napoletano riconosceva ai giocatori più in vista il merito di essersi fatti carico dei problemi dell’intera categoria e di avere modificato “sostanzialmente” “la vecchia immagine del calciatore” basata “su un misto di puerilismo, di eroismo e di divismo”.25 Alla “ragione sociale” del movimento dei calciatori faceva riferimento Sergio Neri in un’inchiesta pubblicata sulla prima pagina del “Corriere dello sport”,26 mentre “La Stampa” proponeva una “magna charta” del calciatore che ricalcava in gran parte le richieste dell’AIC.27 24 Sciopero proclamato per il 2 maggio, “La Stampa”, 20 aprile 1971. 25 Antonio Ghirelli, La “lezione” dei calciatori, “Corriere della sera”, 30 gennaio 1971; La cicala diventa formica, “Corriere della sera”, 24 aprile 1971. 26 Sergio Neri, Pensaci, presidente!, “Corriere dello sport”, 19 gennaio 1971. 27 La “magna charta” del calciatore, “La
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Gino Palumbo notava che “chi aveva creduto di poter rispondere allo sciopero dei calciatori con una scrollata di spalle, con l’indifferenza o peggio ancora con sarcasmo”, “assumendo atteggiamenti di sfida che andavano di moda nel ventennio”, era stato seccamente smentito dalla determinazione della “base” dei calciatori. I giocatori avevano però sbagliato ad insistere per lo sciopero e un errore altrettanto grave era stato commesso dalla Lega che non aveva accettato di intavolare una trattativa. Il giornalista del “Corriere della sera” auspicava quindi un dialogo tra le parti per evitare una spaccatura che rischiava di aggravare la crisi del calcio italiano.28 Giovanni Arpino – lo scrittore che seguiva le vicende sportive per “La Stampa” – registrava gli umori dell’opinione pubblica rispetto alle proteste dei giocatori: “il pubblico è diviso: non sa se sostenerli – come farebbe con i tranvieri, gli avvocati, i postini […] – oppure sposare la parte più facile della critica, quella che accusa i calciatori come beneficiati dalla fortuna, immeritevoli di milioni e di rispetto, puri roStampa”, 19 ottobre 1971. 28 Gino Palumbo, Franchi, Stacchi e Campana si devono incontrare, “Corriere della sera”, 27 aprile 1971.
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bot obbligati al consumo del circense ad uso collettivo”. I calciatori, concludeva Arpino, “non vogliono restare gli uomini da spogliatoio e da domenicali applausi casuali. Il loro futuro dipende da questa diatriba: se prevarrà la ragione, vorrà dire che il calcio, come merita, non è governato e giocato soltanto coi piedi”.29 Pur con riserve e puntualizzazioni critiche, anche la stampa di sinistra seguiva con attenzione la vicenda e incalzava l’AIC invitandola a collegarsi alle organizzazioni sindacali confederali.30 Secondo “l’Unità” “Rivera e soci” avevano avviato “un discorso non più procrastinabile” sulle “riforme necessarie per restituire al calciatore la sua dignità di uomo e di professionista sottraendolo a leggi e “tradizioni”” che lo consideravano “un “numero” e niente più”.31 29 Giovanni Arpino, Gli “abatini alla riscossa”, “La Stampa”, 22 aprile 1971. 30 Pirastu: una lotta giusta, “l’Unità”, 21 aprile 1971. Si veda anche G. Be., Uomini e non robot, “Avanti!”, 21 aprile 1971. All’interno dell’AIC l’impostazione più politica, ma sostanzialmente isolata, era quella sostenuta da Paolo Sollier – calciatore professionista e militante dell’organizzazione della sinistra extraparlamentare Avanguardia Operaia – che proponeva all’AIC di aderire agli scioperi generali indetti da CGIL-CISL-UIL. 31 f. g., I contratti del calciatore, “l’Unità”,
La Federazione Italiana Lavoratori dello Spettacolo, affiliata alla Cgil, solidarizzava con l’AIC e Ignazio Pirastu, responsabile per lo sport del Partito comunista, stigmatizzava gli “immorali” guadagni dei grandi calciatori ma chiedeva alle “grandi organizzazioni sindacali” di “dare il loro aiuto” per rendere più efficace la “giusta” lotta dell’Associazione “in difesa dell’oscura maggioranza di atleti il cui destino [era] quello di trovarsi, in età ancora giovane, privi di qualsiasi assistenza, di una adeguata assicurazione e con ardue difficoltà di reinserimento nella società”.32 Alla vigilia dello sciopero, l’ennesima mediazione di Franchi e le pressioni del presidente del CONI Onesti, preoccupato per le possibili perdite del Totocalcio, costrinsero la Lega a cedere.33 Negli anni successivi – tra scioperi pro12 agosto 1968. 32 Pirastu: una lotta giusta, “l’Unità”, 21 aprile 1971. 33 Gianni De Felice, Domani si gioca: revocato lo sciopero, “Corriere della sera”, 30 aprile 1971.
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clamati e revocati, lunghe trattative, complicati iter normativi – l’AIC riuscì a raggiungere diversi obiettivi: la rivalutazione dei minimi di retribuzione, il diritto al riposo settimanale, la liquidazione a fine carriera, la partecipazione dei giocatori ai diritti sulle immagini, il riconoscimento della qualifica di professionista anche ai giocatori di Serie C impiegati con prestazioni eccedenti i limiti previsti per i “semipro”.34 Particolarmente rilevante fu l’approvazione della legge sull’assistenza e la previdenza per i calciatori di Serie A, B e C. Dopo una serie di incontri al Ministero del lavoro tra Campana, Franco Carraro, in rappresentanza della FIGC, e i consiglieri giuridici della Camera dei deputati, il progetto di legge approdò in parlamento nel 1973. In sede di discussione parlamentare Francesco Mazzola, esponente della Democrazia cristiana e relatore sul disegno di legge, accolse l’impostazione dell’AIC sottolineando l’importanza del provvedimento per la maggior parte dei giocatori che, a differenza degli “assi”, non raggiungevano “stipendi e premi tali da consentire loro di potersi autonomamente organizzare un futuro” e dare “a loro stessi ed alle loro fami34 Le nostre conquiste, “Il Calciatore”, n. 7, settembre 1974.
glie un minimo di garanzia economica e di tranquillità”.35 Nel frattempo l’AIC si era rafforzata con l’adesione dei calciatori delle serie minori, la definizione di un’articolata struttura organizzativa e la creazione di una rete di relazioni con i sindacati di altri paesi che stavano elaborando una piattaforma comune dei giocatori europei. Nel 1973 iniziò la pubblicazione de “Il Calciatore”, l’organo dell’Associazione. Oltre a seguire i problemi sindacali della categoria, attraverso approfondimenti e inchieste, contributi di autorevoli giornalisti – tra gli altri, Oreste Del Buono, Gianni Mura, Bruno Pizzul, Beppe Viola, Gian Paolo Ormezzano – e di esperti in vari settori, il foglio dell’AIC affrontava diversi aspetti del mondo del pallone: dalla crisi finanziaria del calcio alla “mafia” del calciomercato, dalla funzione della medicina sportiva ai risvolti giuridici della professione, dalle nuove forme assunte dal tifo organizzato alle prime esperienze del calcio femminile. La dialettica interna all’Associazione 35 Camera dei deputati. Commissioni in sede legislativa. Tredicesima Commissione. Seduta del 14 marzo 1973, Discussione del disegno di legge sulla previdenza e assistenza ai calciatori, relazione di Francesco Mazzola (Democrazia Cristiana).
veniva documentata dalle cronache dei dibattiti che si svolgevano in occasione delle assemblee generali. Per contrastare l’immagine consueta del calciatore edonista e disimpegnato, la rivista pubblicava stralci di opere letterarie a tema calcistico e organizzava concorsi artistici per gli iscritti. Nell’ambito dell’Associazione si costituirono Commissioni di studio, formate da giocatori laureati in discipline giuridiche e scientifiche o diplomati Isef, che avanzarono proposte per lo sport nella scuola, per la riforma della legislazione sportiva e la tutela sanitaria dei calciatori.36 Il tema della salute si impose all’attenzione dell’opinione pubblica in seguito alla morte sul campo di alcuni giocatori delle serie minori e di Renato Curi, il centrocampista del Perugia deceduto il 30 ottobre 1977 durante una partita con la Juventus. Dopo la morte di Curi, “Il Calciatore” uscì con un titolo a tutta pagina (Di calcio non si deve morire)37 e denunciò il tentativo di coprire i responsabili, dai vertici societari ai medici sportivi che avevano sottovalutato i problemi cardiaci del giocatore.38 L’AIC presentò un documento sulla tutela preventiva della salute dei praticanti l’attività calcistica, dal settore giovanile ai professionisti. Le proposte dell’Associazione furono recepite dalla Federcalcio che si impegnò ad introdurle nella normativa per renderle operanti a partire dai campionati 19781979.39 L’impegno dell’AIC aveva portato ad un importante risultato, in sintonia con le conquiste del movimento dei lavoratori per il diritto alla salute. 36 Perché nascono le Commissioni di studio. I problemi del calcio ce li studiamo da soli, “Il Calciatore”, n. 7, settembre 1976. 37 “Il Calciatore”, n. 11-12, novembre–dicembre 1977. 38 Giorgio Viglino, Sepolto Curi, il caso continua, “La Stampa”, 2 novembre 1977. 39 Cecchini (a cura di), Associazione Italiana Calciatori 1968-1978, cit., p. 152.
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La libertà del giocatore e il calciomercato. Dal caso Scala alla Legge 91/’81 Uno dei punti qualificanti della piattaforma dell’AIC era l’abolizione dell’istituto del vincolo e l’introduzione della firma contestuale del giocatore nei contratti di trasferimento. Per porre fine ad un sistema che rendeva il calciatore alienabile come un oggetto, il passaggio da una società all’altra doveva avvenire con il suo assenso. La richiesta dell’AIC si scontrava con una fortissima resistenza delle società: “Una società pagava tot milioni un acquisto e poteva assegnargli un valore anche maggiore nello stato patrimoniale, mentre provvedeva con ammortamenti pluriennali a scontarne il costo nel conto economico”.40 L’eliminazione del vincolo avrebbe messo in grave difficoltà i club che sarebbero stati costretti a giustificare “spesa per acquisto ed emolumenti soltanto con i ricavi e questo in un momento storico in cui avevano l’abitudine di impegnare in retribuzioni e spese generali mediamente tra il 10 e il 20% in più di quanto incassavano al botteghino”.41 Il 29 gennaio 1973 un’Assemblea straordinaria dei capitani delle squadre di 40 De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, cit., p. 226. 41 Ibid.
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A, B, C e D, promossa dall’AIC, avanzò la richiesta di una graduale eliminazione del vincolo.42 Il presidente del Milan Alberto Buticchi inviò a Campana una lettera dai toni provocatori, emblematica di una mentalità diffusa tra i dirigenti delle società. Di fronte alla “prospettata abolizione del vincolo”, Buticchi dichiarava che il Milan aveva deciso di sospendere “ogni contatto relativo all’acquisto di giovani promesse” e di ridimensionare l’organico del settore giovanile.43 In febbraio Aldo Stacchi si dimise da presidente della Lega. Lo sostituì Franco Carraro, chiamato a superare l’immobilismo della gestione Stacchi, a cercare nuove soluzioni per la disastrosa situazione finanziaria del calcio e a contenere le richieste del sindacato sullo svincolo.44 La questione dell’assenso dei calciatori al trasferimento si ripropose nel corso del campionato 1973-’74 quando 42 Raffaello Paloscia, I calciatori hanno deciso: “Entro cinque anni non saremo più schiavi”, “Corriere della sera”, 30 gennaio 1973. 43 Buticchi: il “vivaio” e l’abolizione del vincolo, “l’Unità”, 20 febbraio 1973. La lettera di Buticchi è riprodotta nell’ultima pagina de “Il Calciatore”, n. 2, marzo 1973. 44 Silvano Tauceri, Carraro ha un compito arduo. Alla Lega è tutto da rifare, “Corriere della sera”, 28 giugno 1973.
scoppiò il caso di Augusto Scala. Acquistato dal Bologna che lo aveva poi ceduto all’Avellino, Scala rifiutò il trasferimento e il presidente della squadra emiliana Luciano Conti decise di emarginarlo impedendogli di allenarsi con la prima squadra.45 Il 14 aprile 1974 l’AIC invitò i calciatori a ritardare di dieci minuti l’inizio delle partite di Serie A in segno di protesta contro i dirigenti delle società che trattavano gli atleti come “un pacco da spedire di qua e di là”.46 Tutte le squadre risposero all’appello dell’Associazione.47 45 Dal “caso Scala” un esempio e un monito, “Il Calciatore”, n. 9, dicembre 1973. 46 Daniele Parolini, Oggi il primo sciopero del calcio italiano, “Corriere della sera”, 14 aprile 1974. 47 Campana soddisfatto: “Una data storica”, “Corriere della sera”, 17 aprile 1974.
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Per diversi giorni la stampa diede ampio spazio alla vicenda dimostrando di comprendere le ragioni dei calciatori. Sul “Corriere della sera” il giuslavorista Gino Giugni sosteneva che la decisione del Bologna violava lo statuto dei lavoratori.48 Riassumendo la vicenda, “l’Unità” non esitava ad usare argomenti che richiamavano il conflitto sindacale tra lavoratori e padronato: “il calcio fino ad oggi è stato retto con sistemi dittatoriali, da grande padronato; ma […] la ragione è dalla parte dei calciatori: ora che hanno la forza di difendere la propria dignità non possono attendere che i padroni del calcio “concedano” il rispetto”.49 Tutte le squadre risposero all’appello dell’AIC ritardando l’inizio delle partite. Campana rilasciò una dichiarazione nella quale esprimeva soddisfazione per la serietà e la compattezza dimostrata dalla categoria e ribadiva l’urgenza di rivedere il sistema dei trasferimenti e la qualifica professionale del calciatore.50 Il giudice sportivo comminò multe alle società le quali si rivalsero sui giocatori decurtando i loro stipendi.
tro della discussione anche nel Consiglio Direttivo della FIFPro Fèdèration Internationale des Association de Footballeurs Professionnels, del quale facevano parte Sergio Campana e Claudio Pasqualin, segretario dell’AIC.54 Nel gennaio 1976 le organizzazioni dei calciatori europei riunite a Parigi chiesero l’eliminazione del vincolo e “la liProfessional Football before Bosman, “Web Journal of Current Legal Issues” in association with Blackstone Press Ltd., 2000. 54 Anche al vertice del calcio mondiale si fa sentire la voce dei calciatori, “Il Calciatore”, n. 9, dicembre 1973.
bera circolazione dei “lavoratori” del football, almeno entro i confini della comunità economica europea, come per tutti gli altri prestatori d’opera”.55 Questa fondamentale battaglia dell’Associazione si intrecciava con la denuncia delle storture del calciomercato. Durante l’estate l’attenzione dei tifosi e i riflettori della stampa sportiva si concentravano sugli scambi dei giocatori e in particolare sulle cifre esorbitanti pagate dai presidenti per acqui55 Paolo Patruno, La linea intransigente italiana bocciata al Congresso di Parigi, “La Stampa”, 14 gennaio 1976.
L’istituto del vincolo – abolito in Francia51 e in Portogallo52 e parzialmente modificato in Inghilterra53 – era al cen48 Gino Giugni, Secondo lo Statuto dei lavoratori non è ammesso retrocedere un giocatore nelle squadre giovanili, “Corriere della sera”, 14 aprile 1974. 49 Dieci minuti…che dicono molto, “l’Unità”, 14 aprile 1974. 50 Campana soddisfatto: “Una data storica”, “Corriere della sera”, 17 aprile 1974. Cfr. anche Dieci minuti di dignità, “Il Calciatore”, n. 5, maggio 1974. 51 Cfr. Alfred Wahl, Pierre Lanfranchi, Les footballeurs professionnels des années trente à nos jours, Paris, Hachette, 1995, pp. 179-185. 52 Il vincolo cancellato in Portogallo, “Il Calciatore”, n. 1, gennaio 1976. 53 Sulla storia del retain-and-transfer system cfr. David McArdle, One HundredYears of Servitude: Contractual Conflict in English
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stare gli “assi” del pallone. Rimaneva invece nell’ombra il sottobosco del calciomercato costituito dai mediatori, una figura vietata dalle disposizioni federali. A loro i presidenti delle società affidavano spesso l’individuazione dei calciatori da comprare e versavano una percentuale che contribuiva a far lievitare i costi dei giocatori e le spese complessive del calcio.56 Per abolire la figura del mediatore e contro le storture del calciomercato, l’AIC organizzò numerose iniziative sindacali culminate nella decisione di ritardare l’inizio delle partite in apertura dei campionati di Serie A e B della stagione 1976-‘77. Migliaia di volantini firmati dall’Associazione furono distribuiti negli stadi per spiegare le ragioni della protesta.57 Intanto la macchina del calcio accumulava nuove perdite raggiungendo un deficit di 50 miliardi, con 10 di interessi passivi.58 La crisi economica internazionale che aveva investito anche la società italiana pesava sul bilancio del calcio: “Come tutti i settori fortemente indebitati e con scarsa redditività, anche il calcio subì la crisi inflazionistica che con il rialzo dei tassi di interesse rese sempre più soffocanti gli oneri finanziari”.59 In una congiuntura economica sfavorevole, risultava stridente il contrasto tra i sacrifici chiesti ai cittadini e gli sproporzionati guadagni delle stelle del calcio, tra le politiche di austerità e la finanza “allegra” dei club. Mentre Carraro esortava le società a risanare i bilanci, i presidenti continuavano ad acquistare giocatori per cifre 56 Sergio Campana, Un primato non invidiabile, “Il Calciatore”, n. 7, settembre 1976. 57 Angelo Zomegnan, Ritardi di 15’ in serie A e B, “l’Unità”, 21 settembre 1976. 58 Giulio Accatino, Calcio in crisi, “s.o.s.”, “La Stampa”, 23 luglio 1977. 59 De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, cit., p. 29.
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stratosferiche. Il 20 maggio 1978 venne stabilito un nuovo record assoluto di valutazione di un calciatore. Il Vicenza e la Juventus andarono alle buste per la comproprietà di Paolo Rossi. Il presidente del Vicenza Farina offrì 2,24 miliardi, contro il miliardo e mezzo della Juventus: in pratica Farina aveva valutato complessivamente Paolo Rossi cinque miliardi. L’AIC diramò un comunicato nel quale definiva “abnorme e sconcertante” una vicenda che “offende [va] la realtà sociale” di un paese in grave crisi e Carraro si dimise dal vertice del calcio prendendo le distanze da un atteggiamento che considerava indifendibile in sede federale.60 60 Carraro si è dimesso per protesta contro lo scandaloso “caso Rossi”, “l’Unità”,
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Durante l’estate la battaglia moralizzatrice dell’AIC sconvolse il calcio mercato. Il 4 luglio, sulla base di un esposto presentato da Campana, la pretura di Milano ordinò ai carabinieri di perquisire l’albergo dove si svolgevano le trattative, configurando illecite modalità di svolgimento nella compravendita dei giocatori legate alla mediazione di manodopera a scopo di lucro.61 Con le perquisizioni e il sequestro di un centinaio di documenti, il calciomercato venne di fatto chiuso.62 20 maggio 1978. Nel 1976 Carraro aveva lasciato la Lega per succedere a Franchi nella presidenza della Federcalcio; nel 1978 aveva poi assunto anche l’incarico di commissario straordinario della Lega in seguito alle dimissioni di Antonio Griffi. Dopo avere lasciato Lega nel maggio 1978, Carraro si apprestava a divenire il nuovo presidente del CONI. 61 Giorgio Gandolfi, Calcio-mercato “arrestato” dai carabinieri, “La Stampa”, 5 luglio 1978. 62 Il calcio fuori legge, “La Gazzetta delo sport”, 8 luglio 1978.
I presidenti dei club reagirono in modo stizzito, gridarono allo scandalo, chiesero alla Lega di rompere ogni rapporto con l’AIC e di deferire Campana alla giustizia sportiva.63 I commentatori si divisero. Alcuni si allinearono sulle posizioni dei presidenti, altri espressero valutazioni articolate che si misuravano con le questioni sollevate dall’AIC e con le cause della crisi del calcio italiano: le carenze nella politica sportiva, la dissennata gestione finanziaria delle società, le opacità del calcio mercato, gli errori commessi da dirigenti interessati più alla loro carriera che alle sorti del mondo del calcio. Mentre su “La Gazzetta dello sport” Gino Palumbo accusava il “traditore” Campana (“La pugnalata che oggi fa vivere allo sport italiano la sua pagina più triste è stata inferta […] dall’interno del movimento sportivo”) di volere distruggere il calcio,64 il “Corriere della sera” difendeva Campana: “La pietra dello scandalo è l’avvocato Campana, 63 La Lega denuncerà il legale vicentino, “La Stampa”, 5 luglio 1978. 64 Gino Palumbo, Chi sorride non deve vincere, “La Gazzetta dello sport”, 8 luglio 1978.
ex calciatore e dunque un “traditore”, che ha il torto di voler fare seriamente il presidente del sindacato calciatori. […] Ci assale il dubbio che gli operatori di mercato e i dirigenti di società non abbiano mai preso sul serio le iniziative di Campana […]. Non vogliono capire che Campana sta cercando con tutti i mezzi di svegliarli dal comodo torpore in cui da sempre si cullano”.65 Sulle pagine sportive de “l’Unità” Alberto Costa descriveva Campana come “un uomo scomodo” che aveva “costantemente creduto nella funzione rinnovatrice e moralizzatrice del sindacato”. Molti giocatori tendevano ancora “ad isolarsi” “dalla vita politica ed economica”, ma il sindacato aveva messo “radici saldissime all’interno dei campionati minori” e “conta[va] meriti non trascurabili”: “la sua funzione di stimolo, di critica, la sua carica dirompente di aggressività” aveva “scosso nel profondo l’anima conservatrice e medievale del calcio italiano”.66 65 Un brusco risveglio, “Corriere della sera”, 6 luglio 1978. 66 Alberto Costa, Campana, un caso di
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stranieri, accantonata con un blocco dell’importazione durato quasi vent’anni, segnalava un epocale cambiamento di tendenza”; il primo contratto firmato dalla Lega per le sponsorizzazioni faceva intravedere le potenzialità di quel mercato; la nomina di Carraro alla presidenza del CONI modificava i rapporti di forza del calcio rispetto ad altre discipline, con ricadute anche in termini economici:69 “In definitiva, […] cominciarono a mutare i termini del problema creando le condizioni per la nascita esclusiva del calcio industria”.70 Conclusioni L’abolizione del vincolo introdotta in Italia e in altri paesi europei rappresentava un passo in avanti verso l’autonomia del calciatore, ma non garantiva una piena libertà dell’atleta nei trasferimenti. Per liberare un giocatore in sca-
In una situazione dello sport italiano resa ancora più delicata dalle fine dell’era Onesti alla presidenza del CONI, l’8 luglio il Consiglio Direttivo della Lega rispose all’iniziativa della pretura invitando le società a sospendere ogni attività.67 I vertici politico-sportivi si mossero per scongiurare il blocco del calcio. L’11 luglio Franco Evangelisti – per conto del presidente del Consiglio Giulio Andreotti – convocò un incontro al quale presero parte i ministri del Lavoro e del Turismo e dello Spettacolo, il presidente della Federcalcio e il segretario generale del CONI. Dalla riunione scaturì la decisiocoscienza per il calcio italiano, “l’Unità”, 6 luglio 1978. 67 Bruno Perucca, Il calcio nel caos, il Coni senza presidente. Due svolte storiche nel calcio italiano, “La Stampa”, 8 luglio 1978.
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ne di varare un decreto per risolvere la situazione d’emergenza, con l’impegno di presentare entro un anno alle Camere un disegno di legge per regolamentare in modo definitivo il rapporto di lavoro tra calciatore e società.68 Dopo un lungo iter parlamentare, nel 1981 venne approvata la Legge 91 che eliminava gradualmente il vincolo e garantiva al calciatore la libertà di scegliere il club per il quale prestare la propria opera, accogliendo la proposta che l’AIC avanzava da tempo. All’alba degli anni Ottanta, la legge si inseriva in una nuova fase di trasformazione del mondo del calcio: la riapertura della “questione degli 68 Roberto Milazzo, Pronto il decreto che rimette in moto il calcio, “Corriere della sera”, 12 luglio 1978.
69 Nel 1981 la giunta del Coni presieduta da Carraro approvò un incremento del 50% della quota delTotocalcio destinata al calcio. 70 De Ianni, Il calcio italiano 1898-1981. Economia e potere, cit., pp. 226-227.
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denza di contratto, la società di provenienza aveva infatti diritto di chiedere a quella acquirente un indennizzo determinato in base ad una serie di parametri (stipendio, età, categoria ecc.). A partire dalla cifra stabilita per l’indennizzo, venivano avviate le trattative ed era la società a decidere la destinazione del calciatore in base alla migliore offerta. Il riconoscimento dell’indennità dava ossigeno alle casse dei club, ma il calciatore rimaneva in una posizione subalterna rispetto alla società. All’atleta restava solo il diritto di rifiutare il trasferimento, possibilità peraltro rischiosa vista la prospettiva di ritorsioni da parte della stessa società. Il problema venne superato solo nel 1995 con la celebre sentenza della Corte di Giustizia Europea – nota come “sentenza Bosman”, dal nome del giocatore belga che si era rivolto alla Corte per risolvere il suo caso -71 che riconosceva come illegittima la garanzia di un indennizzo per la liberazione di un lavoratore dopo la scadenza del contratto. Inoltre, applicando l’articolo 48 del Trattato di Roma agli atleti, la sentenza rivoluzionava gli scambi con l’introduzione della libera circolazione dei calciatori comunitari nello spazio europeo. La richiesta di abolizione dell’indennizzo da parte di Bosman era stata utilizzata come “grimaldello” “per scardinare l’assetto regolamentare in materia di status e trasferimenti dei calciatori”: In questo senso, è legittimo dire che la Sentenza Bosman contenga due anime: un’anima giuridica, legata allo status del calciatore e alle sue libertà individuali in quanto lavoratore; e un’anima politica, poiché la controversia accesa dal calciatore belga è 71 Una ricostruzione del caso del giocatore belga e della relativa sentenza della Corte di Giustizia Europea si trova in Russo, Soldi e pallone. Come è cambiato il calciomercato, cit., pp. 61-76.
stata il pretesto per piegare il calcio professionistico europee alla dinamica dell’europeizzazione.72 Gli effetti della liberazione dei calciatori dai vecchi vincoli sono stati contraddittori. Da un lato, il nuovo status del giocatore ha contribuito alla “sua emancipazione civile” e al “suo affrancamento da una condizione di negazione della libertà e della dignità professionale”; dall’altro ha costituito la premessa “per l’introduzione di nuove e più umilianti forme di assoggettamento dei calciatori a impresari di nuova generazione, più cinici dei precedenti perché sintonizzati su un mutamento delle logiche di mercato globale che ha completamente ristrutturato l’orizzonte economico e culturale del calcio”.73 L’impresario calcistico ha assunto progressivamente “vesti diverse”: quelle dell’agente che col pretesto di gestire la carriera del calciatore finisce con l’esserne il reale datore di lavoro. O quello dell’investitore che ha scommesso denaro sul talento della persona e rimane in attesa di incassare il rendimento. O quella del fondo d’investimento con sede legale presso un paradiso fiscale. Ciascuna di queste vesti descrive nuove forme dell’assoggettamento per il calciatore. E si innesta dentro un panorama del calcio che va in una direzione di turbo-capitalismo finanziario.74 La liberalizzazione del mercato dei calciatori a livello globale ha inoltre favorito una polarizzazione sempre più netta tra un gruppo limitato di atleti ambiti e strapagati e la grande maggioranza dei giocatori.75 La forbice stipendiale non è che un 72 73 74 75
Ivi, p. 73. Ivi, p. 61. Ivi, pp. 13-14. Ivi, pp. 59-60.
aspetto del più generale squilibrio che si è determinato nei rapporti di forza, economici e sportivi, all’interno del mondo del pallone. Nell’epoca dell’estrema spettacolarizzazione e finanziarizzazione del calcio, delle pay tv e del marketing, i maggiori club, diventati imprese transnazionali, dominano pressoché incontrastati le competizioni, con una crescita esponenziale della loro superiorità rispetto alle altre formazioni. Recentemente l’European Club Association ha presentato un progetto di Super Champions League che ha suscitato numerose proteste perché coinvolge una ristretta élite di società a livello continentale e comporta un’ulteriore concentrazione delle risorse a favore di pochi club. Come ha affermato il segretario della FIFPro, annunciando l’agitazione del sindacato mondiale dei calciatori contro la nuova Champions, i campionati nazionali verrebbero “sacrificati allo spettacolo globale, orchestrato dalle televisioni a immagine e somiglianza dei grandi club”.76 76 Enrico Currò, L’agitazione dei calciatori contro la nuova Champions, “La Repubblica”, 5 dicembre 2018.
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biblioteca AIC Salvatore Bagni con Ignazio Senatore
IL GUERRIERO
L’incipit
I primi passi co. A ventiquattro anni è tornato a Correggio, è entrato in squadra con la Correggese. Quando ha capito che i sogni sarebbero rimasti tali, ha cercato lavoro. L’ha trovato in una ditta di mangimi. Mi ha visto giocare e avere successo. Ha seguito la mia carriera con grande discrezione. Mia madre, invece, esplodeva, parlava, chiacchierava con tutti, sia quando ero a Perugia, ma soprattutto quando ero a Napoli. Lui non mi accompagnava sui campetti di calcio. Assolutamente no. Per spronarmi ogni tanto diceva: “Vediamo se arrivi a giocare in Promozione”. Da piccolo non pensavo che sarei riuscito a diventare un calciatore professionista, i livelli raggiunti da papà mi sembravano impossibili da uguagliare. Credevo non fossero nel mio DNA. Fino a cinque anni abbiamo vissuto in un’abitazione con una sola stanza in Via Casati, a Correggio. Mio padre, grande lavoratore, con il suo esempio mi ha fatto capire cosa fosse la fatica. In famiglia c’era molta dignità ma, naturalmente, c’era anche un’aria pesante, tanto nervosismo. Era dura arrivare a fine mese. Mangiavamo la carne una volta ogni quindici giorni. Ma non mi lamento, ho vissuto un’infanzia felice. Nel ’61 ci siamo trasferiti nelle case popolari, costruite a un chilometro dal centro di Correggio. È stato lì che ho iniziato a giocare, nel campetto sotto casa. Ero piccolino, ma mi impegnavo in interminabili partite con i più grandi. Per me era un passatempo, ma aveva il pregio di regalarmi una sensazione di libertà.
Non a caso la mia canzone preferita è sempre stata Io vagabondo dei Nomadi. Non ho mai giocato nella squadra del mio paese. È strano, ogni volta che ci penso mi chiedo: perché? Non sono mai riuscito a darmi una risposta. Ero brutto, piccolo, senza una lira, mi sentivo insicuro e non riuscivo a vedere quale avrebbe potuto essere il mio futuro.
Sfogliando Mi hanno chiamato i dirigenti della società e mi hanno detto che mi avevano venduto al Perugia. Non sapevo neanche in che categoria giocasse. Quando ho scoperto che era in serie A, sono quasi svenuto… (pag. 46) Nello spogliatoio ero un leader, ma non perché comandassi. Mi sono sempre esposto. Ho sempre sospettato di quelli che si nascondono dietro un angolo e rimangono in silenzio. Mi sono sempre battuto per difendere gli interessi degli altri calciatori… (pag. 49) In tanti mi chiedono di definire come calciatore Diego Armando Maradona. Rispondo sempre nello stesso modo. Lasciamo stare Leo Messi o Cristiano Ronaldo. Diego aveva forza fisica, qualità, personalità, giocava per la squadra, aiutava i compagni, non li metteva mai in difficoltà, li incoraggiava se sbagliavano qualche passaggio… (pag. 53) Il giocatore più difficile da marcare è stato Platini. Non ce la facevo a picchiarlo perché era sempre allegro. In campo rideva, scherzava, sdrammatizzava. Gli davo qualche spintarella e lui rideva… (pag. 126)
Introduzioni di Beppe Bergomi e Ilario Castagner Absolutely Free Libri Salvatore Bagni è nato a Correggio (Reggio Emilia) nel settembre del 1956. Dopo le giovanili con la società Kennedy di Carpi, ha giocato per due stagioni in serie D col Carpi, salendo poi direttamente in A col Perugia. Nel periodo umbro (quattro stagioni) fu tra i protagonisti nella stagione 1978/1979 del cosiddetto Perugia dei miracoli: secondo posto in classifica dietro al Milan, col record di imbattibilità (nessuna sconfitta nel campionato). Nell’estate del 1981 è passato all’Inter con cui vinse, subito nella prima stagione, la Coppa Italia. Tre i campionati in nerazzurro, cui seguirono i quattro col Napoli con cui – stagione 86/87 – vinse sia lo scudetto che la Coppa Italia. L’ultima sua stagione sul campo fu infine con l’Avellino in serie B (88/89). Dopo le presenze con l’Under 21, Bagni ha fatto l’esordio con la Nazionale maggiore nel gennaio del 1981 (in Uruguay, al Mundialito, contro i Paesi Bassi: 1 a 1), collezionando poi 41 presenze e partecipando tra l’altro al Mondiale del 1986 in Messico. Dopo aver fatto via via il direttore generale del Napoli, consulente tecnico di Lazio e Bologna, commentatore tv per Fininvest, Stream, Rai e Sky, da qualche anno è consulente e mediatore di mercato. Psichiatra e psicoterapeuta dell’Università Federico II di Napoli, Ignazio Senatore è presidente e fondatore della Sezione Arte, Musica, Teatro, Cinema e Mass Media della Società Italiana di Psichiatria. Sempre per la Absolutely Free Libri, nella collana Sport.doc, ha pubblicato Quando il cinema fa gol e Potevo essere Pelé ho scelto la libertà.
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calcio e legge
di Stefano Sartori
Questo mese parliamo di…
Contratto per i diritti d’immagine Una decisione del CAS di Losanna (2018/A/5653, gennaio 2019) ci consente di verificare l’orientamento in sede internazionale a proposito del rapporto tra contratto di lavoro e contratto per lo sfruttamento dei diritti d’immagine. Inoltre, trattandosi di risoluzione del contratto per giusta causa, va anche aggiunto il tema legato alla mitigazione da applicare all’indennizzo applicabile a titolo di risarcimento del danno. I fatti • Un calciatore argentino ed una società peruviana stipulano un primo contratto di lavoro per il 2016 ed un altro per il 2017; contestualmente, calciatore e proprietario del club firmano anche un accordo a latere (contratto di licenza) per l'utilizzo delle immagini del calciatore medesimo. • Quest’ultimo, alla scadenza del primo contratto, ritorna in Argentina per le vacanze e proprio a partire da questo periodo il club “sparisce” letteralmente e di conseguenza il secondo contratto non viene onorato. Il calciatore chiede i biglietti aerei per ritornare in Perù nonché il pagamento degli stipendi arretrati di ottobre e novembre 2016. Infine, dopo altri due atti corrispondenti a delle messe in mora, in data 8 marzo 2017, rescinde unilateralmente per giusta causa sia il contratto di lavoro che quello relativo all’utilizzo delle immagini ed in seguito si rivolge alla DRC della FIFA, chiedendo: a) il pagamento delle mensilità in sospeso del contratto del 2016; b) un indennizzo pari al valore totale del contratto del 2017; c) un ulteriore indennizzo pari al valore totale dell'accordo a latere. • Il 9 novembre 2017 il reclamo viene parzialmente accolto dalla DRC, nel senso che vengono riconosciuti come dovuti gli stipendi non pagati del 2016, più un indennizzo dato dal valore residuo del contratto di lavoro
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del 2017 mitigato però sottraendo il valore del contratto stipulato con un nuovo club per il periodo di sovrapposizione nonché –in conformità alla giurisprudenza di vecchia data della DRC –imponendo una riduzione dei 2/3 del valore totale residuo, in quanto il contratto 2017 non è mai stato eseguito. Inoltre, il pagamento del compenso per il contratto d’immagine viene respinto in quanto firmato dal proprietario del club ed inoltre perché non avente natura di contratto di lavoro. Il CAS Il giocatore ricorre quindi in secondo grado al CAS per chiedere che l’accordo per lo sfruttamento del diritto d’immagine venga riconosciuto come un contratto di lavoro ed inoltre perché la riduzione dell’indennizzo passi da 2/3 ad 1/3 del valore residuo. Ia questione: la prima importante problematica affrontata dal Giudice Unico (GU) del CAS si riferisce al seguente quesito: può il contratto d’immagine essere considerato un contratto di lavoro e, se sì, tale con-
tratto è vincolante per il club? A questo proposito, nell’analizzare con attenzione la controversia, il GU ha evidenziato che “nell'ambito del diritto del lavoro, ci sono vari princìpi che sono riconosciuti trasversalmente dai vari sistemi giuridici nazionali, tra cui lo svizzero e il peruviano. Tra gli altri, (...) il principio di protezione del lavoratore e il principio del primato della realtà”. In sintesi, in un rapporto di lavoro si devono considerare due princìpi: il primo si riferisce all’orientamento secondo cui va data una protezione speciale alla parte più debole, il secondo attiene al fatto che il contenuto non dipende da ciò che le parti abbiano concordato per iscritto, ma dalla situazione reale in cui il lavoratore si trova. Ciò premesso, ha concluso che appare chiaro lo stretto legame dell’accordo a latere di licenza con il contratto di lavoro sottoscritto con il club, in quanto: 1) l’accordo firmato personalmente dal Presidente del club è stato perfezionato lo stesso giorno in cui è stato sottoscritto il contratto di lavoro, e per di più i due conte-
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nuti sono strettamente collegati; 2) il contratto di licenza non è mai stato applicato, in caso contrario non sarebbe stato difficile dimostrare il contrario (fotografie, pubblicità, iniziative nelle quali fosse stata utilizzata l'immagine del giocatore); 3) la presenza di altri compagni di squadra che, pur avendo firmato accordi di licenza, non sono mai stati invitati a utilizzare i loro diritti d'immagine; 4) la sproporzione tra gli importi concordati nel contratto di lavoro con quelli del contratto di licenza (9 volte maggiore!), con il club che non ha saputo spiegare l’abissale differenza ed incongruità tra i due importi; 5) i due contratti recano lo stesso domicilio, data di inizio e di scadenza.
IIa questione: è opportuno ridurre l'importo del risarcimento per la risoluzione del contratto di lavoro da 2/3 ad 1/3 del valore corrispondente? Il GU ha tenuto in considerazione il Codice delle Obbligazioni Svizzero che, nel suo art. 337B, si riferisce al pieno risarcimento per la perdita/ danno; inoltre, la giurisprudenza del
CAS che, in varie occasioni, si è appellato al concetto di "interesse positivo" e cioè l’intento di ripristinare a vantaggio della parte lesa la situazione che si sarebbe verificata se la violazione non fosse mai accaduta. Con ciò, il GU ha modificato l’orientamento fatto proprio dalla DRC secondo il quale la mancata esecuzione del contratto comporta una forte mitigazione del valore dell’indennizzo. In tal senso, alcune considerazioni sono state decisive: 1) il contratto di lavoro valido e pienamente esecutivo è stato risolto a seguito di una decisione unilaterale e inopportuna del club e pertanto al calciatore è stata impedita l’esecuzione della propria attività professionale; 2) il calciatore si è comportato diligentemente e con attitudine propositiva, e si è posto nelle condi-
zioni di firmare un contratto con un nuovo club contribuendo così ad una mitigazione del valore dell’indennizzo che, tutto considerato, appare in sé sufficiente. In conclusione, il GU ha deciso di considerare gli importi di entrambi i contratti – lavoro più immagine – e di dedurre dal valore dell’indennizzo il solo importo del nuovo contratto del giocatore per il periodo di sovrapposizione. Si tratta, in tutta evidenza, di un precedente molto interessante, soprattutto perché certifica che il contratto di licenza per i diritti d’immagine va considerato parte complementare del contratto di lavoro tra club e calciatore. Altrettanto importante (ma da verificare in prossime decisioni) la minore mitigazione del valore dell’indennizzo in caso di mancata attuazione del contratto.
Storico avvocato Fiduciario AIC
La scomparsa di Carlo Carroli Con profondo dispiacere ricordiamo, con queste poche righe, la prematura scomparsa dell’amico e collega avv. Carlo Carroli. Carlo è stato per decenni un pilastro della struttura di assistenza legale – la c.d. “rete dei Fiduciari” - costituita nella seconda metà degli anni ’70 dall’AIC a tutela dei calciatori. Venne infatti nominato fiduciario dell’Associazione Calciatori nel 1977, e dal 1990 aveva ricoperto ininterrottamente la funzione di arbitro del Collegio Arbitrale costituito presso la Lega Serie C. Nella sua quarantennale attività al servizio dei calciatori, si è sempre distinto per la sua competenza e profonda conoscenza delle normative ma, ci piace sottolinearlo, anche per
il garbo non comune e le spiccate doti umane. Per questo, lo ricorderemo sempre con gratitudine ed affetto.
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di Federico Trefiletti
Tutele e sanzioni per il calciatore professionista
Inviolabilità del diritto di partecipare agli allenamenti Nel numero 6 del magazine “Il Calciatore”, edito nel mese di dicembre del 2018, abbiamo affrontato una tematica di primaria importanza e che ci sembra interessante e opportuno riproporre in quanto attiene ad un diritto primario di qualsiasi calciatore professionista. Stiamo parlando del diritto di ogni calciatore a prendere parte agli allenamenti. Ma andiamo indietro nel tempo e ripercorriamo insieme la controversia: il calciatore Michelangelo Albertazzi, contrattualmente vincolato all’Hellas Verona F.C. s.p.a. sino al 30 giugno 2018, veniva informato di non rientrare più nei “piani societari” relativamente al campionato di LNP Serie A che l'Hellas Verona F.C. avrebbe disputato nella stagione sportiva 2017/2018 e pertanto veniva invitato a valutare la possibilità di accettare possibili alternative di lavoro presso altri sodalizi societari eventualmente interessati ad avvalersi delle sue prestazioni sportive.
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Preso atto della posizione assunta dalla società sportiva, il calciatore rinunciava a trasferirsi presso altre società professionistiche decidendo di rimanere accasato con l’Hellas Verona. In questo contesto, sinteticamente delineato, si instaura il comportamento lesivo posto in essere dalla società verso il calciatore il quale veniva escluso non solo dalla disputa delle partite valevoli per il campionato di Serie A ma a cui veniva financo impedito di prendere parte agli allenamenti della prima squadra. Venendo all’aspetto normativo, il diritto di prendere parte agli allenamenti è disciplinato dall’art. 7.1. dell’accordo collettivo AIC – Lega Serie A secondo cui “La Società fornisce al Calciatore attrezzature idonee alla preparazione e mette a sua disposizione un ambiente consono alla sua dignità professionale. In ogni caso il Calciatore ha diritto di partecipare agli allenamenti e alla preparazione precampionato con la prima squadra, salvo il disposto di cui infra sub art. 11”. La disposizione normativa in questione si erge a tutela di qualsiasi calciatore professionista e regola allo stesso modo la condotta della società sportiva: per il solo fatto che tra le parti intercorre un rapporto negoziale valido ed efficace, la società sportiva deve garantire al calciatore la possibilità di svolgere sessioni di allenamento dedicate e alternative senza emarginarlo integralmente dalla "vita sportiva" dell'organico della prima squadra. È evidente che ogni società sportiva ha il diritto di fare le proprie valutazioni di natura organizzativa cosi come all’allenatore sono riservate le scelte di natura meramente tecnica ma, si torna a dire, queste non possono mai assumere portata tale da comprimere integralmente il diritto indefettibile del calciatore di prendere parte agli allenamenti che si sostanzia in un diritto incomprimibile, trovando fondamento
persino nell’art. 2 della Costituzione. Tuttavia il diritto ad allenarsi, come detto, non è assoluto potendo essere escluso nei casi previsti dall’art. 11 dell’Accordo Collettivo, ovvero qualora il calciatore “sia venuto meno ai suoi obblighi contrattuali verso la Società, ovvero agli obblighi derivanti da Regolamenti Federali, fonti normative, statuali o federali, che siano rilevanti con la, o integrative della, disciplina contrattuale” ma solo quando la condotta del calciatore sia talmente grave “da non consentire, senza obiettivo immediato nocumento per la Società, la partecipazione del Calciatore alla preparazione e/o agli allenamenti con la prima squadra”. Esaminiamo inoltre gli strumenti di tutela predisposti dall’ordinamento sportivo: il calciatore, cui viene impedita la partecipazione agli allenamenti, può diffidare la società alla quale è concesso un termine perentorio di 3 giorni. In caso di inadempimento della società, il calciatore, ai sensi dell’art. 12.2 dell’Accordo Collettivo, “può adire il Collegio Arbitrale per ottenere a sua scelta la reintegrazione ovvero la risoluzione del contratto. In entrambi i casi il Calciatore ha altresì diritto al risarcimento del danno in misura non inferiore al 20% (ventipercento) della parte fissa della retribuzione annua lorda”. La società sportiva incorre inoltre nella responsabilità oggettiva prevista dall’art. 4 comma 2 del Codice di Giustizia Sportiva per le condotte illecite ascritte ai propri tesserati che materialmente hanno impedito al calciatore di allenarsi (v. comunicato nr 185/AA del 14/03/2019). Questi ultimi, in particolare l’allenatore in carica, invece incorrono nelle violazioni previste agli artt. 1 bis comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, in relazione all’art. 10 comma 11 del Codice di Giustizia Sportiva ed all’art. 91, comma 1 delle NOIF (v. comunicato 179/AA dell’11/03/2019).
regole del gioco
di Pierpaolo Romani
Per scoprire, scoprirsi e migliorare
Superare i limiti, tra sogno e responsabilità Superare il limite, sfidarlo, è sempre stata una molla potente per chi pratica lo sport. “Pensi di avere un limite, così provi a toccare questo limite. Accade qualcosa. E immediatamente riesci a correre un po’ più forte, grazie al potere della tua mente, alla tua determinazione, al tuo istinto e grazie all’esperienza”. Così si esprimeva Ayrton Senna, il più grande pilota di formula uno che sia mai esistito al mondo. E al senso del limite, al suo superamento, si collega anche la storia del maratoneta kenyota Eliud Kipchoge, che Emanuela Audisio ha definito “il Bolt della corsa su strada”. A Berlino, nel settembre del 2019, Kipchoge ha stabilito il nuovo record del mondo nella maratona tagliando il traguardo sotto le due ore e due minuti, migliorando di 78 secondi il primato precedente, che apparteneva al connazionale Dennis Kimetto.
le regole e rispettarle, non demordere, avere fiducia in se stessi e anche negli altri. Imparare dagli errori. Guardare e prendere esempio da chi è meglio di noi. Essere responsabili.
Responsabilità non significa cercare di superare il limite a tutti i costi. Responsabilità, al contrario, significa avere coscienza di dove realmente si può arrivare per non compromettere se stessi e i propri compagni di squadra. Un esempio in tal senso è quello della scalatrice Tamara Lunger, “una sognatrice innamorata delle montagne” come si definisce lei. Nel libro curato da Paolo Crepaz intitolato All you need is sport (Erickson), Tamara racconta che nel 2016 mentre era a 70 metri della vetta del Nanga Parbat, la nona montagna più alta della Terra, sfinita fisicamente, ha deciso di fermarsi per non morire e non mettere a rischio Se si chiede alle donne e agli uomini la vita dei compagni di cordata che, nel che praticano lo sport, e che hanno frattempo, erano già arrivati in vetta. ottenuto successi importanti, qual è Non aver superato questo limite è stastata la strada che hanno percorso ta una sconfitta? Risponde Tamara: “È per raggiungere dei traguardi storici ovvio che quella vetta era un sogno, e superare il limite, spesso ci si sente ma dopo ho scoperto che era solo un pezzo di un Un vincitore è semplicemente un sogno, di un puzzle più grande. Tu sognatore che non si è mai arreso non sei solo i tuoi successi, le tue rispondere che si è dovuto andare in cime conquistate. Fai fatica, rinunci salita più che in discesa che, a partia qualcosa, piangi, hai male: queste re dalla giovane età, si è rinunciato a sono esperienze che alla fine ti regacose importanti, come ad esempio, il lano di più, perché ti portano avanti, restare in famiglia, il mangiare e bere ti aiutano a pensare diversamente, ti cibi e bevande che si desiderava, le permettono di migliorare, di cambiauscite con gli amici nel week end, re, di conoscerti a fondo e pian piano la libera gestione del proprio tempo, scoprire chi sei davvero”. spesso poco libero e molto scandito da allenamenti e gare. Disciplina, saIl limite, se analizzato, compreso e crificio, passione, tenacia, costanza. accettato – cosa possibile, anche se Capacità di mantenere allenati non non facile né semplice – è un aiuto a solo i muscoli, ma anche il cervello. scoprire e a scoprirsi, uno stimolo a Questo insegna lo sport: per superare migliorarsi. Nessuno può impedirci di il limite occorre avere cura del proprio cercare di superare il limite. Quello corpo e della propria mente, darsi delche lo sport ci insegna è che, accanto
all’uso fondamentale del raziocinio, ci deve essere lo spazio anche per il sogno. Nelson Mandela, un grande uomo della storia del Novecento, un amante dello sport, uno che aveva capito quanto un evento sportivo può contribuire a far superare i limiti e i confini di culture diverse, ha affermato: “Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso”.
Erickson
All you need is sport di Paolo Crepaz – 260 pagine –€ 16,00 Sfidare se stessi, gli altri, l’ambiente, scoprire e migliorare le proprie qualità, misurarsi con i propri limiti per superarli o per far pace con loro, inseguire una prestazione o un record, divertirsi assaporando le dinamiche del team... Tutto questo e tanto altro ancora è il senso dello sport. E ha anche un inatteso e sorprendente effetto collaterale: la felicità. Cultura e vita, teoria e prassi si incontrano in questo libro, per promuovere il dialogo tra culture che si interessano di attività motoria e sportiva da prospettive multiformi: psicologica, spirituale, intellettuale e sociale, nonché da quella di atleti con straordinarie storie di vita e di sport. Un libro per educatori, allenatori, sportivi professionisti e semplici appassionati. Perché lo sport è di per sé scuola di vita, gioco che educa alla vita: sviluppa in sé la capacità di conoscere e valorizzare la bellezza irripetibile di ciascuno, la diversa abilità delle persone, garantendo il diritto alla partecipazione, premessa di qualunque inclusione sociale. Presentazione di Stefano Bizzotto.
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di Fabio Appetiti
Con il senatore Tommaso Nannicini
Nello sport business e diritti debbono crescere insieme Intervistare il senatore Tommaso Nannicini non è stato fare una intervista come le altre. Aver conosciuto 3 anni fa un economista del suo valore (allora sottosegretario governo Renzi) disposto a ragionare seriamente sul welfare degli sportivi senza l’approccio demagogico dei "miliardari del pallone", è stata una grande opportunità ed una fortuna. E forse la "formazione americana" del senatore dove lo sport è business ma anche diritti, basta guardare alle calciatrici Usa e alle tante battaglie sindacali dei professionisti dello sport statunitense, è stata decisiva nel suo approccio alla materia. Le priorità della categoria oggi sono la previdenza delle ragazze e le politiche attive e di formazione per il post carriera e speriamo che la politica nei prossimi mesi batta un colpo. L'intervista è stata anche un'occasione per ricordare il compianto prof. Patriarca artefice della norma sulla previdenza. Ciao Stefano, ci manchi sempre. Sen. Nannicini lei è stato tra i padri del provvedimento sugli anticipi di pensione per gli sportivi professionisti tramite un contributo di solidarietà, insieme al compianto prof. Stefano Patriarca. Le chiedo di cominciare questa intervista proprio con un ricordo del professore scomparso qualche mese fa. “Stefano era una persona unica, instancabile se c’era da risolvere un problema che toccava la vita delle persone. Quando ascolto Brunori Sas penso sempre che questa frase sia stata scritta per Stefano: ‘Non sarò mai abbastanza cinico da smettere di credere che il mondo possa essere mi-
gliore di com’è. Ma non sarò neanche tanto stupido da credere che il mondo possa crescere se non parto da me’. Il caso delle pensioni degli sportivi a cui, tra mille altri dossier, Stefano si era appassionato è un esempio di questo suo approccio. Molti ci dicevano: ma perché vi occupate di calciatori? Ci sono mille altri problemi più seri e categorie più svantaggiate. E invece sì, ce ne siamo voluti occupare perché con quella scusa non si fa mai niente. Senza oneri per la finanza pubblica, abbiamo fatto un intervento che ha allargato le tutele previdenziali per professionisti che hanno dedicato la loro vita allo sport, chiedendo un piccolo contributo a quelli con redditi più alti. Una misura equa e sostenibile. Un piccolo risultato nella direzione giusta”. Parliamo di Legge di bilancio, tra qualche giorno arriverà la discussione in Parlamento. Quali sono le principali novità contenute in manovra? “Si disinnesca l’aumento dell’Iva, che avrebbe inciso negativamente sui consumi e sulle tasche degli italiani. E si stanziano prime risorse, non sufficienti ma importanti, per tagliare le tasse a chi lavora (il famigerato cuneo fiscale), aiutare le giovani coppie che vogliono diventare genitori e far partire un piano per la riconversione circolare del nostro tessuto produttivo, in modo da favorire la sostenibilità ambientale
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della nostra economia. Sono scelte importanti, anche se secondo me ci sarebbe voluto più coraggio. La scelta di non toccare l’Iva neanche per i consumi di lusso e di non superare Quota 100 ha limitato troppo gli spazi di manovra. Con meno veti incrociati tra le forze che compongono la maggioranza, si sarebbe potuto fare di più per la crescita e l’uguaglianza”. Lei fa spesso riferimento nei suoi interventi pubblici a interventi per donne, giovani, famiglie. Mi dica secondo lei un provvedimento per ognuna delle categorie che prenderebbe subito. “Mentre il mondo corre incontro al 5G, l’Italia è bloccata dalle 3G delle sue disuguaglianze: di genere, generazionali e geografiche. Aree interne che si spopolano, giovani che inseguono i loro sogni all’estero, donne che lasciano il lavoro dopo la nascita di un figlio per non farvi rientro. Dovevano essere queste le priorità della manovra. Come? Rafforzando i congedi parentali e facendo subito un assegno universale per tutte le famiglie con figli, perché il nostro fisco al momento aiuta poco le famiglie e contiene disuguaglianze inaccettabili: chi ha redditi bassi non riceve detrazioni e i lavoratori autonomi non hanno
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l’assegno al nucleo. E poi dirottando tutte le risorse che ci sono per il taglio del cuneo fiscale, ma che rischiano di essere inutili se spalmate su una platea troppo ampia, per fare un taglio selettivo, ma massiccio, solo sui giovani e sulle donne”. Parliamo di sport. Lei ha passato molti anni a insegnare nelle università Usa tra baseball, basket, football americano. Mi piacerebbe conoscere qualche sua impressione sul sistema sportivo americano. “La prima cosa che ti colpisce degli sport americani (io amo soprattutto il baseball) è il clima negli stadi. Un’esperienza coinvolgente per tutti: tifosi, appassionati di sport, famiglie. Noi facciamo spesso la caricatura degli americani che vanno allo stadio solo per mangiare hotdog, ma non è così, c’è di tutto e tutti convivono in un clima positivo. La prima volta che sono andato a Fenway Park, lo storico stadio dei Boston Red Sox, non c’erano ancora gli smartphone e mi ricordo padri e figli che segnavano il punteggio con penna e carta, seguendo regole che gli
appassionati imparano fin da piccoli da oltre un secolo. Poi, per carità, gli sport americani sono anche un grande business, con regole tutte particolari. Niente retrocessione. Società che hanno squadre in tutte le categorie minori, dove i giocatori fanno gavetta per salire. E rapporti di lavoro disciplinati in maniera ferrea, con regole a cui si è arrivati anche con momenti di lotte sindacali. C’è un libro molto bello di un ex giocatore di baseball professionista, Curt Flood, ‘A Well-Paid Slave’, dove si racconta la lotta molto dura che i giocatori hanno dovuto fare per ottenere la “free agency”, la possibilità di andare sul mercato autonomamente dopo alcuni anni di professionismo. Prima non era possibile, anche se ti scadeva il contratto restavi “schiavo” della squadra che ti aveva lanciato. Di nuovo, qualcuno storcerà il naso: stai parlando di giocatori professionisti non di lavoratori nelle piantagioni… Ma non c’è luogo dove la giustizia sociale non abbia bisogno di qualcuno che lotta per realizzarla”. Pensiamo alle calciatrici della nazio-
nale Usa campioni del mondo. Sono avanti a tutte e la loro capitana Megan Rapinoe è una icona planetaria dei diritti delle donne. In Italia invece su questi temi siamo ancora indietro, le ragazze per esempio non hanno previdenza e solo da poco la maternità e in generale c’è poca attenzione al welfare dello sportivo, soprattutto per il dopo. Quale il suo pensiero? “Io sono stato in Francia, a Valenciennes, per vedere le nostre azzurre giocare contro il Brasile per il Mondiale. Al di là del risultato, una sconfitta in ogni caso per noi non penalizzante, è stata una bellissima serata. Bel gioco e un clima stupendo sugli spalti. Un po’ come negli Usa, appunto. È fantastico che in così poco tempo il calcio femminile in Italia stia guadagnando consapevolezza e popolarità. Sul professionismo, penso che dovremmo uscire dalle dichiarazioni di principio e allargare lo sguardo a tutti gli sport femminili, non solo il calcio. La legge consente già alle federazioni di far passare le donne al professionismo, ma il problema è la sostenibilità economica che questo passaggio comporta.
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sta facendo una stagione straordinaria, mentre a sinistra il vecchio cuore rossoblù Criscito, esperienza e buon piede. Centrocampo a tre con due giovani: Zaniolo e Castrovilli, grandi sorprese solo per chi non segue il calcio. Poi serve un uomo di esperienza e ordine, quindi metto Pjanic da play davanti alla difesa. In attacco non posso lasciar fuori un campione come Ribery, che ha portato un grande valore aggiunto al nostro campionato. L’altro esterno? Dybala, faccia d’angelo ma istinto da killer con il suo formidabile sinistro. Davanti sono vecchio stile, non per niente il mio idolo giovanile era Paolo Rossi, prediligo il centravanti ossessionato dal goal: Immobile, fisico e corsa, grande temperamento e palla in cassaforte. Straordinario”. Senatore d’attacco… La politica, invece di fare dichiarazioni generiche a favore del professionismo delle nostre sportive, batta un colpo. Per esempio con misure temporanee che diano incentivi fiscali o contributivi per i campionati femminili che decidono di raccogliere questa sfida. E poi per gli sportivi in generale l’intervento sulla previdenza è stato un primo importante intervento a cui ne dovranno necessariamente seguire altri, in termini di politiche attive e della formazione, nello spazio temporale che va dal fine carriera alla pensione”. Sempre in tema di rapporti Italia-Usa le chiedo se conosce il neo proprietario della Fiorentina Commisso e se è favorevole all’intervento di capitali stranieri nelle società italiane di calcio? “Non conosco bene la nuova gestione della Fiorentina, ma ha portato molto entusiasmo in città e, da juventino anomalo che ha simpatia per due belle società come Fiorentina e Torino, spero
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che questo entusiasmo si trasformi in risultati tangibili. La storia recente di proprietà straniere in Italia ci ha fornito esempi positivi e negativi, ma penso che in questo caso la familiarità con l’esperienza statunitense sia un viatico positivo, perché chi arriva viene da un ambiente molto competitivo dove sostenibilità economica e risultati sportivi devono necessariamente andare a braccetto. È la filosofia giusta, anche per l’Italia”. Per chiudere una domanda di competenza calcistica, leggera ma non semplice: la Top 11 della Serie A di Tommaso Nannicini “Mi lancio su un 4-3-3 figlio del Sarrismo, tra l’altro con Sarri condivido le origini. Qualità ed equilibrio. Partirei in porta con Berisha, portiere poco spettacolare ma concreto. I due centrali Izzo, con la sua storia meravigliosa, e Acerbi, giocatore che si contraddistingue per un’umanità incredibile. A destra schiererei Di Lorenzo, che
segreteria
di Nicola Bosio
Un libro fotografico personalizzato per ogni calciatrice
Ragazze Mondiali Consegnato il 1° ottobre scorso a Roma, nel ritiro della Nazionale Femminile, lo speciale “omaggio” che l’Associazione Italiana Calciatori ha voluto fare alle calciatrici azzurre che hanno partecipato al Mondiale di Francia: per ognuna di loro è stato infatti confezionato un libro fotografico in ricordo della fantastica avventura che le ha viste protagoniste, il giugno scorso, in terra francese. Grazie alle immagini scattate dal fotografo Maurizio Borsari sono nati 25 album personalizzati che ripercorrono tutta la “FIFA Women’s World Cup 2019”, dall’apertura con Francia-Sud Korea alla finale vinta dagli Stati Uniti sull’Olanda. All’interno del viaggio fotografico sono presenti particolari sezioni dedicate alle cinque partite giocate dalla Nazionale azzurra: Australia, Giamaica, Brasile, Cina e Olanda. Per ogni calciatrice è stata fatta una selezione delle foto più significative per un’opera unica, un modo esclusivo di ringraziare tutta la squadra per l’emozione che è riuscita a trasmettere scrivendo un’autentica pagina di storia del calcio.
Il 2 dicembre al Megawatt Court di Milano
Gran Galà del Calcio AIC 2019 Giunge alla 9ª edizione il “Gran Galà del Calcio AIC”, l’esclusivo appuntamento organizzato dall’Associazione Italiana Calciatori in collaborazione con l’agenzia di comunicazione ed eventi Dema4. Anche quest’anno, la cerimonia di consegna si svolgerà il 2 dicembre al Megawatt Court di Milano (Via Watt, 15). Alla presenza delle massime autorità del nostro calcio, sarà una grande serata di sport, spettacolo e cucina stellata. Hashtag di questa di 9ª edizione #GGDC19. Media partner dell’evento sono Sky Sport e Radio 105. Novità di quest’anno sarà l’introduzione del premio alle 11 calciatrici top: nel corso della serata verrà infatti premiato quella che per il 2019 è stata votata come la squadra ideale della Serie A sia maschile che femminile; ruolo per ruolo, i più forti calciatori e calciatrici di un’ipotetica super formazione dell’anno, oltre al calciatore e calciatrice top della stagione. Sarà dedicato spazio anche ad altre speciali sezioni come: l’allenatore, l’arbitro, la squadra, il giovane di Serie B che si sono maggiormente distinti nell’ultimo campionato. Ad indicare queste fantastiche forma-
zioni, una giuria d’eccezione formata da allenatori, arbitri, giornalisti, C.T. ed ex C.T. della Nazionale, ma soprattutto, dai calciatori e calciatrici della Serie A che, meglio di chiunque altro, possono giudicare compagni e compagne o avversari e avversarie con i quali e con le quali si sono affrontati e affrontate direttamente sul campo. Dopo il grandissimo successo dello scorso anno, che ha registrato il numero record di 42.312 votanti, per la seconda volta nella storia del Gran Galà del Calcio AIC ci sarà un premio dedicato al gol più votato (maschile e femminile) della stagione 2018/2019. È possibile votarli ai link http://grangala.assocalciatori.it/vota-il-goal-dellanno-maschile/ e http://grangala. assocalciatori.it/vota-il-goal-dellanno-femminile/
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di Pino Lazzaro
Mi ritorni in mente…
VISIONI MONDIALI /2: Alice Parisi Seconda puntata di questa nostra rubrica che parte sì dal guardare all’indietro, a quelle giornate francesi d’inizio estate, alle immagini/diapositive/altro ancora che le protagoniste del nostro Mondiale hanno per prime ben piantate nel cuore e nella mente, ma che vuole concentrarsi poi sul presente/futuro, a quelle che per forza di cose sono ora nuove responsabilità (e maggiori consapevolezze). Alice, quale dunque la prima immagine/diapositiva/anche sensazione che hai dentro quando pensi al Mondiale di Francia? “Se vuoi la possiamo chiamare pure immagine, ma quel che mi si è mosso e ancor si muove quando penso a quei giorni è un po’ tutto il percorso che ho fatto per arrivare sino in Francia. I sacrifici, le scelte, tutta la strada che ho fatto. Lì con me al Mondiale c’erano così le prime ragazze con cui ho giocato, i sacrifici dei miei genitori e degli stessi allenatori che mi venivano a prendere e mi riportavano a casa. Il calcio che mi ha portato via da casa, gli allenamenti al freddo, il tornare tardi la notte, riconoscendomi lì al momento l’orgoglio di avercela fatta, sì. Un qualcosa che ho iniziato a percepire appena arrivata in Francia, rendendomi conto dell’importanza, della
potenza di un tale evento. Il giocare o meno in fondo non conta, ci sei comunque dentro, ne fai parte, con messaggi e messaggi che ti arrivano da persone che non sentivi da chissà quanto. Escono così fuori tanti ricordi, che per forza ti portano poi a fare un bilancio di te stessa, con tutti coloro che mi hanno accompagnato: non si tratta certo solo del calcio, ma è un po’ tutta la tua vita. È uno sport meraviglioso il calcio, per come ti forma come persona, ti fa capire chi sei, cosa vuoi diventare”. Da più parti si sente dire che per il calcio giocato dalle donne qui in Italia non sarà più come prima… “Sicuramente tanto è cambiato e sta cambiando. Il nostro calcio è diventato una realtà, se prima per dire uno su dieci sapeva che anche noi giocavamo a calcio, ora lo sanno in dieci. Sono già
tre anni, da quando è entrato il maschile, che le cose stanno comunque cambiando. Poi ci vogliono i risultati, se non ci sono non lo puoi vendere “il prodotto”, certo che per il nostro Mondiale si sono messe assieme un bel po’ di cose: l’assenza dei maschi al loro, noi che mancavamo da venti anni e pure il fatto che non c’erano altri importanti eventi in contemporanea”. Allora? “Ora ci sentiamo ancora più in diritto di chiedere cose che del resto sono giuste. Prima sapevamo che la risposta era comunque un no, ma ora abbiamo delle armi in mano e dobbiamo essere intelligenti a non chiedere la luna, ma di puntare su obiettivi di crescita che siano realizzabili. Aggiungo che tutto il gruppo della Nazionale è cosciente di questo, tutte spingono verso lo stesso obiettivo, uno spirito che si è ben visto pure in campo. Abbiamo ora un potere molto importante che va sfruttato: non è il momento di fermarsi”. Comunque sia, un bello scrollone c’è
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stato e un altro risultato è che sono parecchie di più le ragazzine che si stanno ora avvicinando al pallone. “Certo, le bimbe che nascono ora potranno chiedere normalmente di giocare a calcio e le mamme, tranquille, diranno di sì. Le giovani che provano ora ad emergere, capitano in ambienti più professionali, dove c’è più competizione e dove si deve lavorare tanto per poterci stare: più stimolante ma anche più difficile. Non ci vorrà solo il talento, ma pure testa, umiltà, spirito di sacrificio. Noi all’epoca non avevamo nemmeno le strutture, ora non ci sono alibi, hai tutto a disposizione e questo non può non responsabilizzarti. Se c’è il pericolo di perdere un po’ di identità? Sì, il rischio c’è, non è poi facile da giovane avere la maturità che serve, però siamo donne, dai, ho fiducia”. Un Mondiale che ha fatto cambiare pure il tuo approccio, ti ha cambiata come calciatrice? “No, io sono cambiata prima. È stato quando, una volta finita l’università, ho scelto Firenze. Un ambiente che sapevo m’avrebbe fatto finalmente sentire una calciatrice… vera, col calcio che rappresenta un vero e proprio lavoro. Era proprio questo che avevo in testa quando ho deciso di andarci”.
Da “Il Calcio è Donna”
Quel mio sì a lungo termine Nel libro edito dall’Assocalciatori alla vigilia dell’Europeo 2013 c’era pure Alice: ecco un frammento del suo racconto di allora. (…) A 17 anni sono passata al Bardolino, quattro anni di liceo scientifico li ho fatti a Trento, l’ultimo a Garda. Quella di andare è stata una delle scelte più importanti della mia vita. Sapevo che era quello per me un sì a lungo termine e in effetti devo ancora tornare dalle mie parti. Minorenne, senza patente, dovevo fare la maturità: il tutto mi ha responsabilizzata ed è stata una fortuna. Avevo tutto da dimostrare e tutto da imparare. C’erano lì con me la Gabbiadini, la Panico, altre ancora: c’era veramente il calcio femminile e non è che avessi allora particolari ambizioni. O andavo
o rimanevo in Trentino, poteva essere sì un trampolino di lancio ma ricordo che non pensavo in effetti a dove potevo arrivare, ne avevo altri di pensieri: la scuola, il farmi la patente, l’arrangiarmi in tutto e mettermi così alla prova a 360°. No, non è stato poi un grande sacrificio; per me c’era solo il calcio, non ne avevo di tempo per la compagnia lì a casa. Uscire al sabato sera proprio non ce la facevo; tutte le mattine su alle sei e mezza, un’ora di corriera sino a Trento per la scuola, tre sere gli allenamenti, a letto a mezzanotte: arrivavo morta alla fine della settimana”.
mento e non sapevo in fondo nemmeno di cosa stessero parlando. Ora sto sì giocando, ma avverto che m’interessa pure conoscere ciò che regolamenta questo nostro sport, le decisioni che vengono prese. È una parte questa che
ora mi chiama, che ho bisogno di capire. Ecco così che se emergesse l’esigenza di rimanere in questo contesto, potrei farlo. Una laurea comunque ce l’ho: bisognerà vedere nella mia vita che ruolo potrà avere l’essere un’infermiera”.
Andando a rileggere Il Calcio è donna, ti definivi anni fa un po’ “fastidiosa”: esigente con te stessa ma pure non poco con le compagne, ancora e ancora… “Beh, negli anni sono cambiata e tanto. Ho capito che essere esigenti va bene ma che ci vuole sempre della empatia: è il modo con cui ti rapporti che poi cambia il risultato. Un tempo ero in effetti una mina vagante, io dovevo fare bene e così dovevano fare le altre, come no, ma ho poi capito che fare il mio meglio dipende anche dagli altri. Ci vuole complicità e sì, penso d’essere molto cresciuta a livello umano e tanto mi ha aiutato pure l’università”. Qualche idea su quel che farai “da grande”? “Ancora non lo so. Una laurea ce l’ho ma da qui a quando smetterò chissà quante cose capiteranno. Penso a quand’ero ragazzina, sentivo le altre parlare della crescita del nostro movi-
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di Vanni Zagnoli
I 60 anni dell’ex mediano bianconero
Il pallone racconta: Massimo Bonini Massimo Bonini ha compiuto 60 anni, da gregario, sempre di corsa, simbolo di un calcio diverso, più romantico. L’ex centrocampista giocò da titolare due finali di Coppa dei Campioni, l’avevamo incontrato nel suo ufficio a Serravalle, castello di San Marino, dove fa l’imprenditore edile e ha una serie di
liana, nel 1977-78 al Bellaria, con Arrigo Sacchi allenatore… “Gli bastarono due allenamenti per capire le mie qualità, mi impiegò sempre da titolare, permettendomi di brillare. Quando invece arrivò al Milan, mi chiamò, io ero in scadenza di contratto con la Juve, mi fecero un triennale e allora restai a Torino”.
Platini ci invitava spesso a casa sua, soprattutto chi non era sposato foto d’epoca appese alle pareti e anche qualche targa sulla scrivania. È stato l’erede di Beppe Furino, furia, furin, furetto, com’era chiamato il capitano bianconero degli anni ’70 da Vladimiro Caminiti, grande penna di Tuttosport. Anche Bonini era un maratoneta della fascia destra, contrasto, recupero palla e ripartenza, con quella zazzera bionda: era cresciuto nel settore giovanile della Juvenes, nella repubblica di San Marino, quasi un presagio della sua carriera. Massimo, il suo primo presidente fu un sacerdote, don Peppino. “Gestiva tutto lui. Ero tifoso bianconero e andare a finire nella Juve per me è stato proprio il massimo. Addirittura un anno volevo smettere per diventare maestro di tennis, per fortuna ho continuato con il pallone…”. A 18 anni si trasferì nella Serie D ita-
Nel 1979 passò al Cesena, con Osvaldo Bagnoli in panchina. In squadra c’erano Daniele Arrigoni, poi allenatore bianconero, lo scomparso Corrado Benedetti e Giancarlo Oddi, già campione d’Italia con la Lazio… “Ero in un centrocampo di giovanissimi, con Adriano Piraccini e Fabrizio Lucchi. Alla 2^ seconda stagione ottenemmo la promozione in Serie A, nonostante squadroni come Milan e Lazio. Fin da piccolo andavo a vedere il Cesena, seguivo molto questa società che per noi in Romagna è un punto di riferimento”. Fu Pierluigi Cera, vicecampione del mondo nel ’70, a consigliarlo a Giampiero Boniperti e alla Juve arrivò per 700 milioni più Vinicio Verza e la comproprietà di Massimo Storgato. “Fece tutto Boniperti, stabilì il mio contratto e l’indennizzo per il Cesena, tantopiù che lo scomparso presidente Edmeo
Lugaresi non sapeva quanto chiedergli. Me lo raccontava sempre, ero stato la sua prima grande cessione”. E poi l’esordio in Serie A, con Trapattoni in panchina, proprio contro i romagnoli, il 13 settembre 1981. “Mi diede la soddisfazione di entrare, vincemmo 6-0”. E tre giorni dopo il debutto in coppa dei Campioni, a Glasgow contro il Celtic. “Lì ero titolare, non riuscivo a capire dove fossi poiché non ero abituato a questo tifo. In Scozia vinsero loro 1-0 ma passammo noi al ritorno, 2-0, al Comunale”. E ben presto nacque il suo piccolo mito, di giocatore di minore classe fra tanti campioni. “Trapattoni mi dava il compito di coprire i molti calciatori offensivi che avevamo. Cabrini avanzava a sinistra, Gentile faceva anche l’ala destra, Scirea il centrocampista, dunque ero quello che tamponava o cercava di rallentare la giocata quando si perdeva palla”. Eppure quasi non poteva superare la metà campo… “Già, il Trap ogni volta che avanzavo iniziava a fischiare e mi mostrava il pugno”. Com’era il rapporto con la famiglia Agnelli? “Prima della partita ci recavamo spesso a Villar Perosa, alla villa arrivava sempre l’avvocato, con l’elicottero. Parlavamo e c’era Michel Platini che fumava, l’avvocato lo pregava di smettere, perché un calciatore non dovrebbe e il francese replicò: “L’importante è che non fumi Bonini…”. All’epoca erano concessi molti più falli, prima di arrivare all’ammonizione e all’espulsione. “Da mediano, ero sempre al centro del gioco, dovevo essere duro ma sono stato espulso una sola volta, nel derby
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con il Torino. L’arbitro Casarin mi ammonì per un fallo che in realtà aveva fatto Dossena, battei le mani e allora mi buttò fuori”. Ad Atene eravate favoritissimi. Perché vinse l’Amburgo? “Il campionato era finito troppo presto, un mese prima della gara più importante. Arrivammo una settimana prima e per ogni allenamento sembrava passasse il giro d’Italia, fra tante bandiere bianconere. E anche allo stadio c’erano soltanto 5mila tedeschi. Il girone di qualificazione fu incredibile, vincemmo ogni gara. Arrivammo talmente carichi che neanche ci eravamo resi conto di avere perso, con quel sinistro da fuori di Magath”. Lo marcava lei? “Sì, segnò peraltro da fuori area, pescando il jolly. Diedero la colpa a Dino Zoff ma il portiere non c’entrava: Bettega lo andò a pressare, saltò, io ero dietro e il trequartista la mise nel sette”. Come andò quella tragica serata dell’Heysel? “Non avevamo mai vinto la Coppa dei Campioni, la società voleva alzarla. Accadde quello che non deve mai succedere, non si può morire per andare a vedere una partita di calcio. Già la mattina erano successi un po’ di taffe-
morto, altri addirittura di cento”.
to, alla Juve mi mise subito a mio agio”.
E a dicembre dell’85 arrivò la Coppa Intercontinentale, a Tokyo. “Il trofeo più bello che abbia sollevato, ero davvero campione del mondo, come club. Eravamo sempre sotto e recuperammo, con l’Argentinos Juniors. L’arbitro annullò un gol incredibile di Platini, con il sombrero: l’aveva messa nel sette. In base all’andamento, fu la partita che mi emozionò di più”.
Lei smise a 34 anni, tra i professionisti, e poi? “Iniziai subito a fare l’allenatore. Della Nazionale di San Marino, la qualificazione ai Mondiali del ’98. Poi Totò De Falco mi volle al settore giovanile del Cesena: lanciai Biondini, Pulzetti, Bernacci, finito in Serie D nonostante un grandissimo talento”.
Perché passò al Bologna, a neanche 29 anni? “Il mio amico Ivano Bonetti ci era appena andato, fu lui a convincermi. Una settimana dopo andai a parlare in sede, volevo andare via, c’era la Lazio interessata ma ho preferito restare vicino a casa”.
Era il Bologna di Gigi Maifredi, neopromosso in Serie A. “Giocava un calcio molto propositivo, alla Sacchi e davvero offrivamo spettacolo. Era proprio un Felice per Pioli per la carriera che ha modo diveravuto e per questa occasione al Milan so di intendere lo sport, rugli, in centro, giocammo in uno statutta la settimana a ridere e a scherzadio inadeguato a una finale”. re. E poi c’era anche Eraldo Pecci, una bella caricatura”. Davvero non vi rendeste conto di quanto fosse accaduto? Trent’anni fa la morte di Gaetano Scirea. “Veramente. Durante la fase di riscal“Ancora non posso credere che non ci damento negli spogliatoi arrivava di sia più (Bonini si commuove ndr), dentro tutto, gente che aveva perso le scarpe, di me è ancora vivo. Mi ha dato tanto, era in realtà non si capiva bene cosa fosun leader onesto, neanche sembrava un se accaduto. Qualcuno parlava di un giocatore. Era il mio punto di riferimen-
Giocò nell’Under 21 azzurra, non in Nazionale. “Perché non avevo il passaporto italiano, così giocai sempre nella Nazionale del Titano”. Ha sempre vissuto di calcio? “Non solo. Ho studiato per due anni da geometra, mi piace proprio dividere gli appartamenti, scegliere le mattonelle, ricercare i materiali e scegliere i colori”. Fra l’altro aveva aperto una scuola calcio negli Stati Uniti. “Con Ciccio Graziani, che la fece per conto della Roma, a New York, a Long Island”. Come vive lontano dal grande calcio? “La sensazione è stranissima, nei casi in cui entro in uno stadio che mi ha visto protagonista. Tornano alla memoria le partite, vivo gli attimi, non amo vivere di ricordi”. Da due anni è direttore tecnico di tutte le Nazionali di San Marino. “Sono stato io a scegliere Franco Varrella come ct”.
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io e il calcio
di Pino Lazzaro
Daigoro Timoncini (lotta greco-romana)
Lottare sempre con lealtà e rispetto “Diciamo che dall’inizio un po’ sono stato anche canalizzato verso la lotta perché mio padre era un lottatore. Poi sono di Faenza, di qui è Maenza, lui che negli anni 80 nella lotta ha vinto tutto quello che c’era da vincere. Realtà sportive ce n’erano e ce ne sono diverse, ho fatto calcio, ho fatto basket e ho fatto pure la lotta. Li ho provati tutti, in palestra è stato naturale andarci con mio padre e anche a calcio ho giocato parecchio, portiere, me la
voro? Beh, dai e dai, lo diventa. All’inizio è giusto un gioco, c’è divertimento; però più vai avanti, più ne fai di fatica, il divertimento così un po’ sparisce e devi allora fare in modo almeno di non dimenticarlo, di ragionarci su… allenamenti su allenamenti e stress che certo non manca”.
“Dipende dal momento della stagione, per quale appuntamento mi sto preparando, ma in sintesi la mia settimana tipo è fatta di tre “Dal 2012 sono in reperibilità giornaliera, cioè allenamenti al giorno, che possono venire a farti i controlli antidoping esclusa la domenica in ogni momento, minimo 4-5 all’anno sono in cui sto proprio fersicuri. Devo stare ancora più attento a tutto, mo e il mercoledì in cui è un attimo essere squalificati, vai poi a ne faccio solo una di spiegarglielo che t’è capitato di sbagliare seduta. Comincio alle sette di mattina, prima qualcosa”. della prima colazione cavavo, sono andato anche in rappreed è un risveglio muscolare, con corsa sentativa dell’Emilia Romagna ma poi e stretching. Poi un altro allenamento ho dovuto scegliere. Mi allenavo a calmattutino, un paio d'ore e in quello del cio e mi allenavo per la lotta, non potepomeriggio si fa soprattutto tecnica. vo più star dietro a entrambi e ho scelUno dei problemi che dobbiamo fronto la lotta. Ho cominciato che avevo 9 teggiare è poi quello del peso, ci sono le anni, poi le cose hanno cominciato a varie categorie, in genere praticamente diventare via via più serie a partire dai tutti hanno sempre qualche chilo in più 17-18 anni. Scegliere la lotta è venuto del proprio limite ed è con l’avvicinarsi anche perché in prospettiva poteva delle gare che si comincia a “dimagriesserci più spazio che col calcio, potere”. Per me, romagnolo e buona forva essere più “facile” e ricordo i primi tornei vinti, il primo titolo nazionale, le prime uscite a livello internazionale, col sogno, chissà, pure delle Olimpiadi: andavo avanti e vedevo che pure i risultati continuavano a venire”. “A differenza del calcio dove puoi diventare anche professionista, qui da noi – come tanti altri sport, specie i cosiddetti minori – l’unico modo per arrivare ad avere uno stipendio è tramite i gruppi militari sportivi, avendo poi in più la garanzia che se ti capita un infortunio grave e devi smettere, almeno un posto di lavoro ce l’hai. Ecco così che riesco tuttora a fare l’atleta a tempo pieno, grazie al supporto del mio gruppo militare. Se è proprio un la-
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chetta, è davvero un impegno…”. “Una delle cose che più mi piacciono è la possibilità di girare, di vedere il mondo. A parte l’Australia e poca Africa, sono stato dappertutto. Capita che si vada a gareggiare e non si riesca a fare altro, ma a volte capita che per dire il volo di rientro non ce l’hai subito, magari devi aspettare un giorno e allora cerco sempre di approfittarne. Penso ancora all’esperienza che ho vissuto nel 2016, in Mongolia. Giorno libero e non sono di quelli che stanno ad aspettare in albergo o sono sempre lì attaccati a internet. No, sono curioso, mi piace vedere le cose e così abbiamo preso una guida e abbiamo fatto un tour di un giorno intero. Ricordo l’incontro con delle famiglie nomadi, un giro col cammello, il monumento a Gengis Khan, la visita a un monastero buddista…”. “Se mi capita di aver paura? Non so, bisogna credo distinguere, parlerei soprattutto di ansia, ecco. Che è pure un bene che ci sia, ti tiene sveglio e quel che devi fare è saperla gestire, imparare a farlo, con quell’emozione/tensione che può non farti dormire di notte. A differenza per esempio del calcio in cui giocano tutte le settimane, dai e dai un po’ ti abitui, noi di gare importanti in un anno ne abbiamo giusto due-tre, poi di media una gara la fai ogni paio di mesi, bisogna insomma imparare a conviverci. Sì, pure da noi c’è la video analisi, è fondamentale perché conoscendo quali sono le caratteristiche del tuo avversario, hai qualche possibilità in più di vincere. Non è tutto naturalmente, conta ancor più conoscere sé stessi, ma aiuta. Come aiuta il supporto di uno psicologo sportivo che ci segue. Aggiungo che per l’età che ho, il dormire poco potrebbe essere un problema non da poco: ho lavorato su di me, anche prima delle gare riesco a riposare per bene, sapendo quanto alla mia età ancor più fondamentale sia ora il recupero”. “Quel che penso m’abbia sempre pia-
io e il calcio
ciuto della lotta è il fatto di poterti confrontare con quello che hai davanti, uno contro l’altro, non fai parte lì sul tappeto di una squadra con cui arrivi magari lo stesso a vincere, anche se tu non ci sei tanto. No, con la lotta i conti li fai con te stesso e tutto quello che arrivi a conquistare, è merito tuo. E guarda che è uno sport di valori il nostro, cresci sapendo cosa vogliano dire lealtà e rispetto. In fondo non ci sono nemmeno avversari, tanto è vero che io ho ottimi rapporti con parecchi con i quali poi ci si sfida. Questo si spiega anche perché spesso noi andiamo ad allenarci in veri e proprio stage, spesso all’estero, in cui convergono atleti di parecchie nazioni. Per spiegarmi: qui in Italia non è che siamo proprio tanti di lottatori e poi c’è la questione del peso, della categoria, dobbiamo per forza avere di fronte lottatori di uguale taglia e così ecco lo stage in cui hai modo di allenarti con atleti che poi ti ritrovi ad affrontare in gara. Così si creano rapporti di amicizia, ci si incrocia e ci si conosce”. “Perché un bambino dovrebbe provare anche con la lotta? Intanto dovrebbe per l’appunto provare, come tanti altri sport, certo che penso che il primo gioco che un bambino fa è proprio quello della lotta, sia con un coetaneo che col suo papà, lì sul letto. Una cosa spontanea, naturale, che viene riportata sul tappeto con delle regole da seguire. In
questi ultimi anni io ho ripreso a studiare, mi sono laureato un paio d’anni fa in Scienze Motorie e oltre ai valori di cui parlavo, mi rendo conto che attraverso la lotta può venire canalizzata anche l’aggressività: fare sport è insomma un vantaggio sociale perché ti dà una mano a difenderti da possibili dipendenze e penso alla droga per esempio. Non confrontarsi con gli altri significa che è facile il chiudersi in sé stessi, senza così essere consapevole dei limiti che ognuno di noi ha nel rapportarsi con l’esterno. Una questione non da poco, specie adesso in cui l’abuso di internet sta portando in effetti sempre più ragazzi ad isolarsi”. “Il mio obiettivo adesso? Sono arrivato a farne tre di Olimpiadi e –come sono fatti di solito gli atleti, mai appagati, se vincono una volta vogliono vincere la seconda – io posso dire che ci proverò con tutte le mie possibilità a qualificarmi e partecipare così a Tokio 2020, sarebbe la mia quarta. So insomma che ci metterò cuore e passione, non vorrei insomma che finisse qui: ecco perché ci proverò sino alla fine”.
gari pure del romanticismo per come le vedo io le cose, ma mi piaceva di più quel calcio che aveva ancora delle bandiere, penso a Maldini e Baresi: ora un giorno ci sei e domani non più, dai tanto e subito non sei più niente”.
La scheda Classe 1985, romagnolo di Faenza, Daigoro Timoncini (nome singolare il suo – lo riconosce naturalmente pure l’interessato – scelto dai genitori, appassionatisi allora alla serie televisiva Samurai, col protagonista che nelle diverse avventure aveva sempre con sé un figlio piccolo, di nome appunto Daigoro), è nazionale di lotta greco-romana ed ha al suo attivo già tre partecipazioni olimpiche: Pechino 2008, Londra 2012 e Rio 2016. Atleta del Centro Sportivo Carabinieri, ben 13 titoli italiani assoluti, in questo 2019 ha conquistato la medaglia di bronzo (97 kg) agli Europei disputatisi a Bucarest.
“La Gazzetta dello Sport la sfoglio partendo dal fondo, sono consapevole che la lotta, come tanti altri sport, ha poco-pochissimo spazio, è sempre più il dio denaro che adesso guida e comanda. Ormai ci sono e ci siamo abituati, se lo spazio fosse un po’ di più sarebbe meglio ma ormai non ci bado nemmeno più e la leggo poi tutta la Gazzetta, sono un amante dello sport. Allo stadio ci andavo più da piccolo, ora ci vado ogni tanto e ricordo la partita di due anni fa a Roma contro il Barcellona in Champions, quando sono riusciti a ribaltare il risultato: bellissimo. Sono meno tifoso di prima, ma continuo a seguirlo, me la sono vista ad esempio la partita del Napoli contro il Liverpool. Da piccolo tifavo un po’ Milan, il mio preferito era Baggio e continuano ad appassionarmi le storie come quella di Ranieri col Leicester. Ci sarà ma-
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di Mario Dall’Angelo
I link utili
A sostegno della Comunità di Sant’Egidio Nello scorso campionato, il mondo del calcio ha sostenuto, tra le altre, un’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, la Onlus fondata nel 1968 a Roma da Andrea Riccardi. Allora ancora studente liceale, Riccardi ebbe l’idea di riunirsi
con i compagni di scuola per leggere insieme il Vangelo e apprenderne gli insegnamenti. Il passaggio dalla lettura e la preghiera all’azione nel campo della solidarietà fu rapido, portando gli appartenenti alla comunità, ancora senza un nome ufficiale, nella periferia romana. Fu solo nel 1973 che prese il nome di Sant’Egidio, dalla chiesa trasteverina in cui avvenivano le riunioni per pregare. Negli anni successivi le attività comunitarie spiccarono il volo, diffondendosi prima in Italia e poi nel resto del mondo, facendo diventare Sant'Egidio, come viene abbreviato, un riferimento internazionale in circa 70 paesi. Il sito www.santegidio.org, nella pagina sulla Comunità, riporta molte altre notizie sulla sua storia e i suoi primi passi. Oltre alla diffusione nei luoghi più remoti per portare aiuto ai più bisognosi, Riccardi è riuscito a raggiungere obiettivi di livello politico superiore, come il contributo di mediazione dato per il raggiungimento della pace in alcuni paesi tra cui il Mozambico. Un profilo alto, quindi, che lo ha portato a rivestire anche un ruolo di governo come ministro per la cooperazione internazionale e l'integrazione nel 2011. I riferimenti centrali per Sant'Egidio sono la preghiera, i poveri e la pace. La prima, guida e accompagna la co-
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munità. I secondi sono gli amici bisognosi, dagli anziani ai senza dimora ai migranti. Per quanto riguarda la pace, la sua ricerca è una delle maggiori responsabilità dei cristiani. Ecco quindi che le iniziative della Onlus sono tutte imperniate su questi riferimenti. Come il pranzo di Natale sostenuto dalla Lega di Serie A. Per la comunità, che si considera una famiglia raccolta dal Vangelo, è una tradizione ormai dal 1982, quando alcuni poveri furono accolti a pranzo per la festa nella basilica di Santa Maria in Trastevere. Come in ogni famiglia cristiana a Natale ci si riunisce attorno a una tavola imbandita, Sant’Egidio scelse di non fare eccezione. Nel corso degli anni l’iniziativa ha varcato i confini italiani fino a raggiungere, nel 2018, circa 240.000 persone in 78 paesi. Non sono stati dimenticati i carcerati, raggiunti in circa 18.000 in 96 carceri di tutto il mondo. Gli anziani, in quanto persone in particolari condizioni di vulnerabilità, sono seguiti dall’Onlus con l’assistenza domiciliare. Si tratta infatti di persone che soffrono il distacco dal proprio ambiente domestico e familiare. Per venire incontro a tale disagio, la comunità aiuta le famiglie con anziani a carico. Inoltre, è presente in centinaia di casa di riposo per aiutare, attraverso la compagnia e l’animazione, a mantenere una vita di relazione, anche con l’esterno. Ma l’attività di sostegno si è evoluta anche in esperienze di coabitazione tra anziani in case famiglia e condomini protetti. Un’altra categoria di persone al centro dell’attenzione di Sant’Egidio è costituita dai disabili. Nel 1985 vennero fondati i primi laboratori d’arte per consentire a disabili adulti di apprendere e di sviluppare in modo personale i codici di espressione artistica. L’attività condotta nei laboratori si è via via evoluta fino a suscitare, fin dagli anni ‘90, l’attenzione di istituzioni artistiche e dei media. Nel 2011, l’artista brasiliano Cesar Meneghetti portò alla Biennale d'Arte
di Venezia l'opera I\O_IO È UN ALTRO, lavoro iniziato nei laboratori della onlus. Da questa iniziativa prese corpo un gruppo di opere realizzate nei laboratori ed esposte alla Biennale 2013 e successivamente al MAXXI –Museo nazionale delle arti del XXI secolo –a Roma. Un'altra esigenza particolarmente sentita da parte di molti disabili è il lavoro. Fin dal '91, per favorire l'inserimento lavorativo, venne fondata la Cooperativa sociale Pulcinella-Lavoro da un primo nucleo composto da quattro disabili e da amici della comunità. Decisero di puntare sulla ristorazione e il successo è stato tale che oggi in piazza di S.Egidio a Roma c'è la trattoria de Gli Amici, che dà lavoro a 13 disabili, tra assistenza in cucina e lavoro ai tavoli. L'iniziativa consente anche di allestire dei corsi di formazione che finora hanno visto la partecipazione di circa 200 persone, molte delle quali hanno poi trovato impiego in mense e ristoranti. Le numerose attività e iniziative della comunità di Sant'Egidio sono efficacemente descritte sul sito e sui profili social ufficiali, oltre a una rete di blog collegati alla Onlus. Claudio Marchisio @ClaMarchisio8 Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l'avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini… questo scriveva Anna Frank nel suo diario, nel 1942. Oggi, 77 anni dopo, è iniziato il bombardamento della Turchia contro i Curdi in #Siria. Una vergogna per tutta la comunità internazionale. Sentiamoci pure responsabili per ogni vittima.
internet
di Stefano Fontana
Calciatori in rete
Palanca e Signori: sinistri magici www.massimopalanca.it Questo mese la nostra rubrica dedica spazio al sito personale di Massimo Palanca, attaccante di grande talento classe 1953: autentica leggenda vivente del Catanzaro, grazie alle sue gesta
sul campo entrò per sempre nel cuore dei tifosi della squadra calabrese. Un metro e settanta di altezza, scarpini numero 37, una grinta ineguagliabile: Palanca fu protagonista di una vera e propria epopea calcistica, una delle più entusiasmanti degli anni settanta. Tra le sue imprese più celebri va cita-
Pepe Reina @PReina25 Sorpresa, concentrazione, errore, dispiacere, responsabilità, orgoglio, frustrazione, allegria e alla fine 3 punti. Il Calcio oggi mi ha “regalato” tutto quello, ed è per questo che amo questo lavoro!!
ta la straordinaria capacità di segnare direttamente dal calcio d’angolo: l’ala sinistra, originaria di Loreto, riuscì in quest’impresa ben tredici volte. All’interno del sito troviamo una dettagliata “carta d'identità” con numerosi dati biometrici del giocatore. La pagina denominata “La storia” contiene una cronistoria dettagliata inerente la carriera di Massimo. “O Rey”, come lo chiamavano gli entusiasti tifosi del Catanzaro, esordì nel 1970 con la Passamonti Camerino in Serie D. In seguito militò nella S.C. Frosinone, contesto dove il suo talento ebbe modo di emergere con chiarezza lampante. Nel ‘74 il passaggio cruciale: l’approdo al Catanzaro, dove rimase fino all’81 come protagonista di stagioni memorabili per il club giallorosso. Le giocate ed i gol di Palanca meritano di essere ricordati e riscoperti dalle nuove generazioni: un campione vero, “imperatore” di una città e di una curva che seppe dimostrargli il più sincero degli amori.
Cristiano Ronaldo @Cristiano Pazienza e persistenza sono due caratteristiche che differenziano il professionista dal dilettante. Tutto ciò che è grande oggi è iniziato da piccolo. Non puoi fare tutto, ma fai tutto il possibile per realizzare i tuoi sogni.
Fede Bernardeschi @fbernardeschi Dietro ogni vittoria c'è il lavoro, il sacrificio e la fatica di tutti. Non esistono vittorie dei singoli, esistono solo vittorie di squadra.
Ronaldo Vieira @Ronaldo_Vieira8 Il calcio oggi ha la responsabilità di punire e educare gli idioti negli stadi
Paulo Dybala @PauDybala_JR I have a dream. Ho un sogno, come ha detto Martin Luther King e dovremmo ripeterlo ogni giorno. Il sogno è che il razzismo non vinca negli stadi di calcio e fuori, come nelle nostre vite… ogni giorno. #noracism #stopracism
www.beppesignori.it Tra i fuoriclasse più talentuosi ed efficaci degli anni ‘90 e duemila va indubbiamente annoverato Giuseppe “Beppe” Signori, autentico fenomeno forte di caratteristiche tecniche davvero uniche. Mancino veloce e leggero, disponeva di un tiro estremamente potente e preciso, caratteristica che fece di lui un eccellente rigorista (dal punto
di vista statistico tra i più vincenti nella storia del calcio professionistico). Celebri anche le punizioni: sono infatti numerose le realizzazioni da cineteca nei calci piazzati. Di assoluto pregio anche le progressioni palla al piede, la visione di gioco, il senso del gol, il carisma e la correttezza dimostrati in campo. Il sito ufficiale del bomber, nato ad Alzano Lombardo nel 1968, è ben realizzato e ricco di materiale: dalle informazioni alle immagini, vale indubbiamente una visita approfondita. La pagina dedicata alla carriera rappresenta la spina dorsale del sito: l’ascesa ed i successi di Beppe prendono vita in una cronistoria che sa di trionfo. L’attaccante partecipò da primo attore ad alcune delle stagioni più memorabili di grandi club come Lazio e Bologna. Signori fu molto attivo anche con la Nazionale, con 28 presenze e sette reti messe a segno. L’intensa attività social è riportata nelle pagine del sito: foto ed interviste pubblicati su Instagram risultano così a portata di mano. Presente all’appello anche un’accurata e puntuale rassegna stampa.
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sfogliando Frasi, mezze frasi, motti, credi proclamati come parabole, spesso vere e proprie “poesie”
Alle volte il calcio parlato diverte più del calcio giocato Io sono quello che sono, ho sempre vissuto allo stesso modo. Il mio errore è stato ripetere a trent'anni gli stessi errori commessi a venticinque. Dovevo essere più intelligente. Ma cerco di vivere come una persona normale. Nainggolan calciatore nasce dalla felicità del Radja uomo – Radja Nainggolan (Cagliari) Un bullo secondo me ha qualcosa che manca dentro di sé, fa così perché ha vissuto una situazione di difficoltà – Leonardo Bonucci
Leonardo Bonucci difensore della Juventus “Sport e politica”
“In Italia gli sportivi si espongono poco su temi politici e sociali perché il mondo fatica a recepire il messaggio. Noi, quando parliamo, siamo sempre giudicati: l’invidia e il giudizio negativo spesso la fanno da padrona”
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(Juventus) Per un calciatore l’autostima è fondamentale, per un allenatore più che autostima direi la coerenza con sé stesso e con la società verso il progetto che sta portando avanti. Io credo sia importante la coerenza con quello che stai proponendo dal primo giorno. Voglio dire che i calciatori e l'ambiente devono sentire che c'è un progetto che resiste agli inevitabili stormire di fronde del mondo del calcio che ha, come è noto, un tasso elevato di emotività. Credo che questo sia un grande, importante, punto di partenza. Dà sicurezza a tutti. Ma credo, in fondo, sia così in ogni lavoro – Vincenzo Montella (Fiorentina) È inutile andare a giocare in giro per il mondo amichevoli che non hanno nessun significato: si sottopongono i calciatori a un tour de force di 12-13 giorni e in palio non c'è niente. E poi ci si lamenta se gli infortuni aumentano... Certe gare non le guarda nessuno, sono inutili sia sotto il profilo tecnico-tattico sia sotto quello dello spettacolo. Speriamo che questo "scempio" delle nazionali finisca: non si può fermare tre volte in tre mesi il campionato e le coppe. A questo punto meglio concentrare le sfide delle nazionali in un'unica sosta – Gian Piero Gasperini (Atalanta) Lo sport aiuta tanto: se sei bravo, il gruppo ti accetta e questo aiuta a essere più sicuri – Leonardo Bonucci (Juventus) La serie A è un grande palcoscenico, dove credo di avere ancora molto da dare – Emiliano Rigoni (Sampdoria) Abbiamo superato tante difficoltà per arrivare ad avere questa credibilità come Nazionale e come livello del nostro calcio in generale, tra club e settori giovanili. Ora, però, non dobbiamo pensare di avere raggiunto alcun obiettivo, ma continuare a sudare. A testa bassa – Milena Bertolini (C.T. Nazionale femminile) Da noi il Var si usa male. La partita non può rimanere ferma cinque minuti per ogni singolo
Radja Nainggolan centrocampista del Cagliari “No al razzismo 1”
“Il razzismo esiste da sempre. E non sempre è legato al colore della pelle. A volte gli ululati li fanno davvero solo per mandare fuori di testa un giocatore, ma se si prendessero uno ad uno i colpevoli, gli stadi si svuoterebbero per metà. Non c'è soluzione: per uno che bandisci dagli stadi, altri prenderanno il suo posto”.
episodio. L'arbitro va chiamato se in campo i giocatori protestano e non se il gioco continua e nessuno apre bocca, altrimenti non se ne esce. In Italia la partita è continuamente spezzettata, col Var il tempo effettivo si è ulteriormente ridotto – Radja Nainggolan (Cagliari) La tattica credo che sia, tra le varie componenti, quella che conta di meno. Partiamo dal presupposto che si può dire qualsiasi cosa agli allenatori ma credo che in Italia ci sia una grandissima preparazione, è difficile oggi trovare un allenatore sprovveduto a livello tattico. Secondo
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me contano il metodo, l'idea, il progetto. Poi credo anche che per ogni gruppo di calciatori ci possa, anzi ci debba, essere un modulo originale di riferimento. Dico di più: secondo me conta molto di più la strategia di gara piuttosto che il modulo fisso – Vincenzo Montella (Fiorentina) Non sono legato a un modulo: bisogna saperli allenare tutti, la differenza è in difesa. Qui faccio un calcio dinamico, non attacchiamo o difendiamo mai alla stessa maniera – Paolo Zanetti (Ascoli) All'occorrenza bisogna saper leggere le partite in maniera diversa da come si impostano a tavolino – Michele Marroni (Pisa) I moduli sono una formula, dipende da come li interpreti, il cambia-mento è faticoso, a volte necessario. Io credo che si possa giocare con sistemi diversi – Camillo Ciano (Frosinone) Se il pallone, colpendo un palo, va dentro o va fuori puoi passare in un istante da essere un eroe ad esser veramente un..., come dice Lino Banfi. Si deve valutare più il lavoro nel complesso. Bisogna dare tempo a un progetto di realizzarsi – Vincenzo Montella (Fiorentina) Qual è la dote di un grande allenatore? Forse la coerenza, forse riuscire a capire cosa pensano cinquanta persone: oggi nella gestione di una squadra non ci sono solo i calciatori. È diventata una struttura complicata. E il compito di un allenatore è creare armonia e tensione positiva in tutto l'ambiente – Vincenzo Montella (Fiorentina) Non sono integralista, non credo nel possesso palla a tutti i costi, non dobbiamo fare il City. Giocare bene piace a tutti, ma il gioco deve andare di pari passo con il risultato – Paolo Zanetti (Ascoli) Negli ultimi anni la tendenza è cambiata anche perché ora ci sono giovani più interessanti, quindi abbiamo più voglia di farli giocare – Vincenzo Montella (Fiorentina) Un calciatore deve sapersi prendere delle responsabilità anche nella vita privata e da
imposto, visto il fisico che ho, se faccio il cattivo è un problema – Stefano Okaka (Udinese) La gente non capisce una cosa: io non sono uno che ci tiene a essere amico dei tifosi. Credo che il tifoso debba sostenere la squadra, e non il giocatore –Radja Nainggolan (Cagliari) La B è tosta: in certi momenti bisogna saper tenere botta, in altri abbiamo la prepotenza giusta per segnare tanti gol – Paolo Zanetti (Ascoli)
Vincenzo Montella allenatore della Fiorentina “No al razzismo 2”
“Sul problema razzismo bisogna assolutamente essere ancora più duri, non si offendono degli esseri umani, mai. Io credo sia un fenomeno destinato a finire negli stadi. Forse nella vita di tutti i giorni no, è un percorso molto più lungo, ma credo, in generale, che si stia muovendo nella società qualcosa in positivo”.
questo punto di vista so di essere in difetto, ma fa parte del mio carattere. Però una cosa non potranno mai rinfacciarmi: di non aver dato il massimo nel lavoro. E questa è la soddisfazione più grande –Radja Nainggolan (Cagliari) Per me sono il migliore della storia. Non seguo i record, sono loro a inseguirmi. Ho l'ossessione per la vittoria, mi motiva – Cristiano Ronaldo (Juventus) Io credo nel lavoro. E con i sacrifici devi sperare che il destino venga dalla tua parte – Paolo Zanetti (Ascoli) Non mi sono mai picchiato con nessuno nel calcio. Me lo sono
Gian Piero Gasperini allenatore dell’Atalanta “Questione di meritocrazia”
“Con gli ingaggi non vinci le partite. L'aspetto economico però è fondamentale perché ti obbliga a vendere a 20-25 milioni dei giocatori che le grandi potrebbero anche pagare di più. Nel calcio italiano non c'è un premio alla meritocrazia e se l'Atalanta arriva terza, quarta o quinta per tre stagioni di fila non può accorciare il gap le big. C'è una situazione prestabilita che rimane così indipendentemente dal campo”.
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Liam Gallagher
Why Me? Why Not? Se non è un capolavoro questo… poco ci manca: decisamente più accattivante del precedente “As you where”, il nuovo lavoro di Liam Gallagher “Why Me? Why Not?” è destinato a segnare la carriera solista del “cattivo” degli Oasis. Liam, se ce ne fosse stato bisogno, fa un ulteriore salto di qualità sfornando 11 tracce (più tre nella versione deluxe) di grande impatto sonoro ed emotivo. Canzoni molto ben eseguite con grande utilizzo di archi e incisioni orchestrali, chitarre sempre in primo piano e strutture tipiche alla Gallagher, dove aleggia sempre un’ombra di oasisiana memoria.
Rispetto al fratello Noel (con il quale è in perenne conflitto ma che probabilmente sarà anche più bravo da un punto di vista “tecnico”), Liam fa più colpo tra i fan rimasti orfani degli Oasis e in un panorama musicale privo di grandi star, si ritaglia un posticino di tutto rispetto. Il suo successo dopo soli due album non deve però sorprendere: il cantautore inglese scrive bene, canta con una voce inconfondibile, tiene la scena come pochi e piace per quella sua anima “dannata” da distruttore di hotel e chitarre da rocker puro.
Edizioni inContropiede
Non era Champagne di Enzo D’Orsi – 117 pagine – € 14,50 Stagione ‘90/’91: sulla panchina della Juventus arriva Gigi Maifredi, il tecnico che più di tutti intende seguire le tracce di Arrigo Sacchi, il profeta del Milan berlusconiano. Ma il piano non riesce: il rendimento della squadra non è lineare, molte scelte non si rivelano indovinate, i gol di Baggio non bastano. La fiducia in Maifredi, reduce dalle felici stagioni al Bologna, non è illimitata. L’allenatore che prima di diventare professionista vendeva liquori e bevande, non riesce a superare le difficoltà. “Non era cham-
pagne” di Enzo D’Orsi è il racconto di una rivoluzione fallita. Il girone di ritorno disastroso, unito alle eliminazioni dalla Coppa Italia e dalla Coppa delle Coppe, costa alla Juventus l’esclusione dalle competizioni europee dopo ventotto anni. Maifredi esce di scena con dignità. Aveva sottoscritto un contratto annuale senza opzioni. Accetta la decisione di Agnelli e se ne va in silenzio. L’esperienza torinese, per la quale probabilmente non era ancora pronto, gli toglie entusiasmo e spregiudicatezza.
La Giuntina
Un calcio al razzismo di Massimiliano Castellani – 106 pagine - € 10,00 Il calcio, il gioco più bello del mondo, subisce sempre più l’insidioso veleno del razzismo. Una minaccia che ha origine nei drammi che hanno attraversato la società europea nel secolo scorso e che ancora pulsa nel ricordo di quelle ferite. C’è infatti un filo che collega i maestri danubiani della Serie A epurati dal regime fascista in quanto ebrei agli ignobili attacchi contro campioni di oggi come Koulibaly e Lukaku. È quello che cerca di spiegare questo libro, in un percorso con diversi inediti, che spazia da Giorgio Bassani alle colte citazioni di Lilian Thuram, dal ruolo
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salvifico di questo sport per i reduci dai lager all’abominio di chi oggi propaga odio nelle curve. Fu una schedina, quella mitica del Totocalcio, il sogno di riscatto del giornalista Massimo Della Pergola quando si trovava ancora in un campo di internamento in Svizzera. E fu un pallone che rotolava nel segno di una “Stella Azzurra” a ridare ad Alberto Mieli, sopravvissuto ad Auschwitz, la forza di restare in vita. Memorie un po’ sbiadite, che hanno invece molto da insegnarci. C’è un gioco da salvare. E la cura potrà essere solo una buona dose di consapevolezza.
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Paolo Nicolato al GalĂ del Calcio Triveneto
"Non conta solo vincere bisogna accettare l'errore"
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