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Egitto - Siria - Tunisia
Quando a metà gennaio Piazza Tahrir cominciò a riempirsi di giovani e meno giovani che chiedevano a voce alta le sue dimissioni, in molti – soprattutto fra i diplomatici e i commentatori occidentali - pensarono alla solita, ennesima fiammata di protesta, che prima o poi si sarebbe spenta. D’altra parte, era stato sempre così, nei 30 anni di potere di Hosni Mubarak, detto il Faraone. E non c’erano segnali chiari che questa volta sarebbe andata diversamente: anche se nella vicina Tunisia era stato appena cacciato, il Presidente Ben Ali; e anche se il malumore della piazza, soprattutto per la designazione (tacita ma ormai sicura) del figlio Gamal alla successione, aveva superato da tempo il livello di guardia. In realtà, tutto è precipitato nel giro di qualche settimana, man mano che è cresciuta la folla venuta a presidiare, giorno e notte, Piazza Tahrir e le principali piazze egiziane. Il 25 gennaio, Giornata della Collera, segna l’inizio delle ostilità, perché Mubarak ordina per la prima volta alla polizia di sparare sulla folla. Il 28 gennaio procede ad un rimpasto di Governo, che la piazza però boccia, giudicandolo un gesto insufficiente. Il 1° febbraio si dichiara disponibile a rinunciare ad un ennesimo mandato – sarebbe stato il sesto – ma dichiara di voler restare in carica fino alla fine di quello in corso, cioè fino a settembre del 2011. Il 10 febbraio annuncia libere elezioni entro l’anno ed il trasferimento dei suoi poteri al nuovo Vice-presidente, Omar Seuleiman. Infine, l’11 febbraio, parte con la famiglia per la sua residenza di Sharm el Sheick e qualche ora dopo il suo Vice, che parla a nome dei militari, ne annuncia le dimissioni. Il Faraone è costretto a mollare la presa. L’Egitto non è più suo. Raccontata così, sembra una passeggiata. E invece la Rivoluzione egiziana ha fatto, secondo l’ultimo bilancio, 864 morti fra i manifestanti e 6.460 feriti, più 26 poliziotti uccisi durante gli scontri di piazza di gennaio e febbraio. Un tributo pesante, che è poi cresciuto nei mesi successivi, per via del braccio di ferro che si è venuto a creare fra la piazza e le forze che guidano
oggi – come dicono i giovani di Piazza Tahrir – la restaurazione e quindi la controrivoluzione. Il problema, infatti, è che la cacciata di Mubarak non si è tradotta in un cambio di regime. Sono i militari, suoi sodali da sempre, ad aver allontanato Mubarak, che era diventato ormai impresentabile; e sono i militari a tenere oggi in mano le redini del Paese, di cui vogliono pilotare la transizione verso il futuro, attraverso il Consiglio Supremo delle Forze Armate. Che l’Egitto vada perciò verso la democrazia è una scommessa ancora azzardata. La partita è ancora aperta. E le manifestazioni non più unitarie che ci sono state negli ultimi mesi ne sono la prova. Il 29 e 30 giugno violenti scontri hanno opposto in Piazza Tahrir le forze dell’ordine ai familiari delle vittime, che chiedono verità e giustizia. L’8 luglio sono tornati a manifestare i giovani, a decine di migliaia, per chiedere da un lato la fine dei processi militari per i cittadini arrestati fra gennaio e febbraio e dall’altro l’apertura dei processi ai personaggi più in vista del vecchio regime. Il 29 luglio, infine, in quello che doveva essere il Venerdì dell’Unità, c’è stata una prova di forza delle formazioni islamiste, Fratelli Musulmani in testa, che hanno occupato Piazza Tahrir a centinaia di migliaia, per sostenere i militari al potere e chiedere che la religione sia il punto di riferimento irrinunciabile del nuovo Egitto. Comunque vada a finire, è finita un’era. Quella di un Faraone che solo nel primo decennio del suo regno era riuscito ad avere una certa popolarità, in patria come nel resto del mondo arabo, perdendola poi in maniera progressiva ma inesorabile, per via del suo attaccamento al potere, morboso, e per i suoi troppi errori.
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La Siria è un’eccezione, è stato il mantra del regime di Damasco fino alla vigilia delle proteste popolari senza precedenti scoppiate nel marzo 2011. Secondo la propaganda, gli uragani tunisino ed egiziano non avrebbero lambito le coste siriane, protette dal profondo attaccamento della popolazione al suo Presidente Bashar al-Asad. Che la Siria sia un’eccezione nel panorama delle altre rivolte arabe si è paradossalmente rivelato un fatto, dimostrato da inarrestabili manifestazioni pacifiche represse nel sangue da un sistema di potere che al suo interno non ha finora mostrato alcuna frattura. Lo scenario siriano è inoltre eccezionale perché a differenza degli altri – dalla Tunisia al Bahrain passando per Egitto e Yemen – gli attori regionali e internazionali preferiscono attendere, lasciando che la mattanza continui pressoché indisturbata. No alternativa? No rivoluzione. Il motivo principale di quest’atteggiamento è dovuto all’assenza di una alternativa politica che assicuri un post-Asad al riparo da pericolosi scossoni regionali. Il tassello siriano è quello centrale nel puzzle di una Regione dove da decenni si scontrano interessi cruciali per i giganti del mondo: Israele, Iran, Arabia Saudita, Turchia, Russia e Stati Uniti. Lo Stato ebraico, alleato di Washington, è da quarant’anni protetto di fatto a Est da una Siria che non ha alcuna intenzione di minacciare il pericoloso vicino. L’Arabia Saudita, anch’essa alleata degli Usa, è una monarchia del Golfo solo in apparenza esente dal malcontento sociale e politico serpeggiante in tutte le città arabe. Ormai spinge per la caduta del regime degli al-Asad ma teme fortemente una destabilizzazione su scala regionale. Lo scenario iracheno ha dimostrato a Riyad la concretezza di una minaccia dell’espansionismo iraniano nel Medio Oriente arabo. La Turchia, che condivide con Damasco oltre 800 km di frontiera abitata in prevalenza dall’irrequieta minoranza curda, condanna la repressione ma prende tempo. La Siria è alleata da trent’anni dell’Iran. Nell’ambito di tale rapporto privilegiato, Damasco intrattiene rapporti eccellenti con il movimento armato sciita libanese Hezbollah. Presente in funzione anti-israeliana, la forza del Partito di Dio è dovuta al suo arsenale militare, rifornito regolarmente grazie al corridoio siriano. La Russia, ex Urss, non ha che la Siria come alleato in Medio Oriente: mantiene un porto militare a Latakia e strutture logistiche a Tortosa, continua da anni a vendere armi di seconda mano all’esercito di Damasco e a lungo termine mira a svolgere un ruolo di opposizione all’influenza statunitense nell’area. Uno, cento, mille oppositori. Dopo quasi mezzo secolo di assenza di una vera vita politica in Siria, con migliaia di prigionieri rinchiusi nelle carceri per reati di opinione e altri migliaia da decenni in esilio e sparsi tra Europa e Nordamerica, il fronte delle opposizioni in Siria muove i suoi primi veri passi solo da pochi mesi. Da fine aprile a settembre 2011, i dissidenti della generazione dei cinquantenni e sessantenni e membri dei partiti ideologici si sono riuniti in una decina di diversi congressi e riunioni svoltisi tra Istanbul, Cairo, Doha, Ankara, Parigi, Bruxelles e Damasco. Sul terreno, i giovani delle città e delle campagne reclamano – ciascuno con modalità diverse – “libertà”, “giustizia sociale”, uno “Stato laico” e “civile” (non religioso, né militare), un “sistema pluralistico” e “democratico”. Con oltre 3mila civili uccisi e decine di migliaia di scomparsi nelle segrete del regime (fine settembre 2011), in patria gli attivisti faticano a elaborare un progetto politico lucido e concreto per il post-Asad. All’estero, al di là dei proclami di unità, deve ancora emergere un unico vero attore in grado di rappresentare le istanze di chi da circa sette mesi invoca la caduta degli al-Asad.
La scintilla che innesca in Tunisia la cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini” è un episodio che il 17 dicembre 2010 avviene nella cittadina di Sidi Bouzid, situata nella Tunisia centro-occidentale, a 265 chilometri da Tunisi. Mohammed Bouazizi, un giovane di 26 si cosparge di benzina e si dà fuoco quando la polizia gli impedisce di vendere come ambulante frutta e verdura. Bouazizi è diplomato, ma non trova lavoro e il suo carretto di frutta e verdura è l’unica attività che sostiene lui e la sua famiglia, però è senza licenza. Il gesto di Bouazizi scatena la protesta nella Regione da parte dei giovani, frustarti per il carovita, la mancanza di lavoro e di prospettive. Il 22 dicembre un altro giovane di 22 anni si uccide appendendosi ai cavi dell’alta tensione a Sidi Bouzid. Il 24 dicembre un manifestante di 18 anni, Mohamed Amari, è ucciso dalla polizia durante una violenta manifestazione a Menzel Bouzaiene. La dura reazione del regime di Ben Ali rinfocola la protesta, che si estende a Tunisi, Sfax, Kairouan, Sousse e Ben Guerdane. Il 28 dicembre il Presidente Ben Ali rivolge alla nazione un messaggio televisivo nel quale accusa “l’uso della violenza nelle strade da parte di una minoranza di estremisti” e promette una risposta “ferma” da parte dello Stato. Ma la protesta si estende, raccoglie l’adesione dei sindacati e degli avvocati, che si radunano per manifestare davanti al palazzo di giustizia di Tunisi. Un avvocato denuncia di aver subito torture da parte della polizia. Intanto il 30 dicembre muore un altro giovane che era stato colpito dalla polizia durante una manifestazione. Mohammed Bouazizi muore in ospedale il 5 gennaio in seguito alle gravissime ustioni riportate nel suo tentativo di suicidio. Ormai la protesta dilaga in tutto il Paese e il regime risponde con una dura repressione, che provoca morti e feriti, senza contare i casi di tortura. Il 13 gennaio il Presidente Ben Ali compare nuovamente in televisione. Questa volta an-
nuncia riforme politiche, promette l’apertura di inchieste sulla morte dei dimostranti, annuncia che non si candiderà nelle elezioni presidenziali del 2014. Sono le ultime mosse disperate di un despota che sente franare il piedistallo. Il 14 gennaio Ben Ali decreta lo stato di emergenza (con il divieto di assembramento per più di tre persone), scioglie il Governo e assicura lo svolgimento di libere elezioni entro sei mesi. Ma ormai nessuno gli crede, Tunisi è in fiamme e il regime di sta sgretolando. Nella notte Ben Ali e i suoi familiari si imbarcano su un aereo e lasciano il Paese. Prima puntano su Malta, poi su Parigi, ma il Presidente francese Sarkozy nega l’atterraggio. Alla fine Ben Ali e il suo clan fanno rotta sull’Arabia Saudita. Intanto a Tunisi il primo Ministro Mohammed Gannouchi compare in televisione e annuncia di assumere l’incarico di Presidente ad interim. Tuttavia la Corte costituzionale stabilisce che il ruolo di Presidente spetta a Fouad Mebazaa, lo speaker del parlamento. Gannouchi resta in carica come primo Ministro mentre in tutta la Tunisia regna il caos tra violenze, saccheggi e regolamenti di conti fra i membri del regime appena caduto. Gannouchi forma un nuovo Governo, nel quale però sono presenti diversi membri del partito unico di Ben Ali, l’Rcd. In mancanza di veri segnali di discontinuità con il passato, la protesta dei tunisini non si placa.