oggi – come dicono i giovani di Piazza Tahrir – la restaurazione e quindi la controrivoluzione. Il problema, infatti, è che la cacciata di Mubarak non si è tradotta in un cambio di regime. Sono i militari, suoi sodali da sempre, ad aver allontanato Mubarak, che era diventato ormai impresentabile; e sono i militari a tenere oggi in mano le redini del Paese, di cui vogliono pilotare la transizione verso il futuro, attraverso il Consiglio Supremo delle Forze Armate. Che l’Egitto vada perciò verso la democrazia è una scommessa ancora azzardata. La partita è ancora aperta. E le manifestazioni non più unitarie che ci sono state negli ultimi mesi ne sono la prova. Il 29 e 30 giugno violenti scontri hanno opposto in Piazza Tahrir le forze dell’ordine ai familiari delle vittime, che chiedono verità e giustizia. L’8 luglio sono tornati a manifestare i giovani, a decine di migliaia, per chiedere da un lato la fine dei processi militari per i cittadini arrestati fra gennaio e febbraio e dall’altro l’apertura dei processi ai personaggi più in vista del vecchio regime. Il 29 luglio, infine, in quello che doveva essere il Venerdì dell’Unità, c’è stata una prova di forza delle formazioni islamiste, Fratelli Musulmani in testa, che hanno occupato Piazza Tahrir a centinaia di migliaia, per sostenere i militari al potere e chiedere che la religione sia il punto di riferimento irrinunciabile del nuovo Egitto. Comunque vada a finire, è finita un’era. Quella di un Faraone che solo nel primo decennio del suo regno era riuscito ad avere una certa popolarità, in patria come nel resto del mondo arabo, perdendola poi in maniera progressiva ma inesorabile, per via del suo attaccamento al potere, morboso, e per i suoi troppi errori.
EGITTO
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Quando a metà gennaio Piazza Tahrir cominciò a riempirsi di giovani e meno giovani che chiedevano a voce alta le sue dimissioni, in molti – soprattutto fra i diplomatici e i commentatori occidentali - pensarono alla solita, ennesima fiammata di protesta, che prima o poi si sarebbe spenta. D’altra parte, era stato sempre così, nei 30 anni di potere di Hosni Mubarak, detto il Faraone. E non c’erano segnali chiari che questa volta sarebbe andata diversamente: anche se nella vicina Tunisia era stato appena cacciato, il Presidente Ben Ali; e anche se il malumore della piazza, soprattutto per la designazione (tacita ma ormai sicura) del figlio Gamal alla successione, aveva superato da tempo il livello di guardia. In realtà, tutto è precipitato nel giro di qualche settimana, man mano che è cresciuta la folla venuta a presidiare, giorno e notte, Piazza Tahrir e le principali piazze egiziane. Il 25 gennaio, Giornata della Collera, segna l’inizio delle ostilità, perché Mubarak ordina per la prima volta alla polizia di sparare sulla folla. Il 28 gennaio procede ad un rimpasto di Governo, che la piazza però boccia, giudicandolo un gesto insufficiente. Il 1° febbraio si dichiara disponibile a rinunciare ad un ennesimo mandato – sarebbe stato il sesto – ma dichiara di voler restare in carica fino alla fine di quello in corso, cioè fino a settembre del 2011. Il 10 febbraio annuncia libere elezioni entro l’anno ed il trasferimento dei suoi poteri al nuovo Vice-presidente, Omar Seuleiman. Infine, l’11 febbraio, parte con la famiglia per la sua residenza di Sharm el Sheick e qualche ora dopo il suo Vice, che parla a nome dei militari, ne annuncia le dimissioni. Il Faraone è costretto a mollare la presa. L’Egitto non è più suo. Raccontata così, sembra una passeggiata. E invece la Rivoluzione egiziana ha fatto, secondo l’ultimo bilancio, 864 morti fra i manifestanti e 6.460 feriti, più 26 poliziotti uccisi durante gli scontri di piazza di gennaio e febbraio. Un tributo pesante, che è poi cresciuto nei mesi successivi, per via del braccio di ferro che si è venuto a creare fra la piazza e le forze che guidano