ATLANTE
DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
Settima edizione - Le mappe
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO Settima edizione Dedicata a chi ci crede
Associazione 46° Parallelo
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO SETTIMA EDIZIONE Direttore Responsabile Raffaele Crocco
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In redazione Beatrice Taddei Saltini Daniele Bellesi Alice Pistolesi Hanno scritto e fotografato Manu Brabo Fabio Bucciarelli Angelo d’Andrea Federico Fossi Flora Graiff Diego Ibarra Sánchez Adel Jabbar Flavio Lotti Enzo Nucci Ilaria Pedrali Guillem Valle Alessandro Vanoli Collaboratori Paolo Affatato Mario Boccia Nicole Corritore Cecilia Dalla Negra Davide Demichelis Danilo Elia Marina Forti Emanuele Giordana Ruggero Giuliani Rosella Idéo Enzo Mangini Federica Miglio Razi Mohebi Sohelia Mohebi Alessandro Piccioli Emanuele Profumi Federica Ramacci Alessandro Rocca Ornella Sangiovanni Pino Scaccia Luciano Scalettari Alessandro Turci Roberto Zichittella
Redazione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it
Un ringraziamento speciale a: Riccardo Noury, Portavoce di Amnesty International Marica Di Pierri, Presidente Cdca Giovanni Scotto, Presidente del corso di laurea Sviluppo economico, cooperazione internazionale, socio-sanitaria e gestione dei conflitti (SECI) Il progetto, Tentativi di Pace, è stato realizzato con la collaborazione di studenti del SECI e del corso di laurea in Scienze Politiche: Chiara Girasoli Francesco Magrini Lorenzo Moscufo Valeria Pauletti Cecilia Piazza Anna Sofia Pisani Serena Sonaglioni
Progetto grafico ed impaginazione Daniele Bellesi Progetto grafico della copertina Daniele Bellesi
Foto di copertina Una famiglia siriana dopo aver raggiunto su un gommone l'isola greca di Lesbo. 10 Ottobre 2015. ©Fabio Bucciarelli www.fabiobucciarelli.com
Testata registrata presso il Tribunale di Trento n° 1389RS del 10 luglio 2009 Tutti i diritti di copyright sono riservati ISSN: 2037-3279 ISBN-13: 978-8866811688 Finito di stampare nel giugno 2016 Grafiche Garattoni - Rimini
Editoriale Raffaele Crocco Saluti e ringraziamenti Istruzioni per l’uso La Redazione Introduzione Riccardo Noury Introduzione Marica Di Pierri La situazione Raffaele Crocco In cerca della pace Giovanni Scotto Reportage/1 Alice Pistolesi Reportage/2 Enzo Nucci AFRICA Africa e diritti umani Amnesty International Leggere i conflitti di ogni Paese Giovanni Scotto Tentativi di Pace AMERICA Nel Continente ancora ingiustizia e violenza Amnesty International Per la pace centrali gli Stati Uniti Giovanni Scotto Tentativi di Pace ASIA Qualcosa che cambia ma troppo lentamente Amnesty International Il Continente vive nell'instabilità Giovanni Scotto Tentativi di Pace VICINO ORIENTE Nel Vicino Oriente vince la paura Amnesty International Nella Regione sta cambiando la storia Giovanni Scotto Tentativi di Pace EUROPA Rifugiati e diritto di asilo Amnesty International In crisi l'architettura istituzionale Giovanni Scotto Tentativi di Pace SPECIALE CONFLITTI AMBIENTALI Acqua, terra, risorse: cercate li la guerra La redazione Cambogia: un Paese in vendita Cdca Kurdistan: acqua e petrolio in terra di spartizione Cdca Land and water grabbing nella Valle dell'Omo Cdca L'Isis e la guerra in Siria e Iraq: tra clima e controllo delle risorse Cdca Le missioni Onu Nazioni Unite - I Caschi Blu Raffaele Crocco Vittime di guerra Federico Fossi Formazione e Pace Flavio Lotti Svolta Islam Adel Jabbar Glossario Islam Alessandro Vanoli I disegni e la pace Flora Graiff Foto Reportage Fabio Bucciarelli Gruppo di lavoro Fonti Glossario Altri saluti INFOGRAFICHE Tavola 1 - Missioni Onu Tavola 2 - Commercio armi Tavola 3 - Pirateria Tavola 4 - Conflitti Ambientali Fonti fossili Tavola 5 - Land Grabbing Tavola 6 - Conflitti Ambientali Acqua Tavola 7 - I muri Tavola 8 - Le religioni Tavola 9 - Libertà di stampa Tavola 10 - Donne e guerra Tavola 11 - I diritti dell'infanzia Tavola 12 - Scolarizzazione Tavola 13 - Spesa sanitaria Tavola 14 - Beni distrutti Caso Isis Tavola 15 - Le strade dei migranti
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Indice
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Idea e progetto Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento
Edizione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it In collaborazione con Editrice AAM Terra Nuova S.r.l. Via Ponte di Mezzo, 1 50127 - Firenze Tel. +39 055 3215729 info@aamterranuova.it www.aamterranuova.it
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Editoriale
Il silenzio dell’informazione
E' questo il peggior nemico della pace
Il Direttore Raffaele Crocco
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C
osa dire: il 2015 è stato un anno durissimo, ancora una volta. Il Vicino Oriente, con la crisi militare e politica creata anche dall’arrivo dell’Isis, è un campo di battaglia permanente, in cui si scontrano potenze mondiali, medie e eserciti e milizie assolutamente locali. Un esempio di “glocal” inquietante. Se ci pensate, quella combattuta laggiù è una piccola guerra mondiale concentrata in poche migliaia di chilometri quadrati. I confini e il futuro di Paesi che abbiamo conosciuto, Siria e Iraq ad esempio, sembrano destinati a mutare per sempre. Non basta? Bene: in Ucraina c’è una tregua fragile, che non regala alcun futuro al Paese. Si muore come sempre in Nigeria, nella Repubblica Centrafricana, in Mali. In Niger, e Nagorno Karabakh invece la guerra è ripresa. Se tiriamo le somme, ci ritroviamo con 36 guerre tra le mani e decine di situazioni di crisi, sempre a combattere per il controllo di risorse fondamentali: cibo, acqua, materie prime. E tutto mentre restano pesanti gli squilibri:128milioni di individui, controllano il 60 per cento del Pil mondiale. Il risultato sono, anche, 60milioni di profughi in cerca di una vita in qualche angolo di mondo. Di tutto questo sappiamo poco, parliamo poco. Eppure, senza saperlo ci confrontiamo con questi problemi, anzi con questi fatti, ogni giorno. Ogni giorno, discutiamo della questione dell’arrivo di richiedenti asilo dalle zone di guerra. Ogni giorno, un po’ dei nostri soldi finiscono nelle zone di conflitto per mantenere le nostre forze armate all’estero: ci costano due miliardi di euro l’anno, quanto i tagli alla sanità in Finanziaria. Dobbiamo saperne di più e il 2016 potrebbe essere l’anno buono per cominciare a capire l’importanza di queste informazioni, di queste notizie. Potrebbe essere il momento per chiedere al servizio pubblico televisivo di smetterla di programmare nel cuore della notte le rubriche che parlano del mondo. Potrebbe essere l’ora per pretendere dagli editori che sulle prime pagine dei quotidiani non si parli sempre e solo del pettegolezzo politico locale. Non ci credete? Si può fare, andate in Spagna e comprate El Paìs, il quotidiano più importante. Le prime pagine, le prime dieci-dodici pagine, ogni giorno raccontano quello che accade nel mondo. Solo dopo arrivano la politica e la cronaca del Paese. Sapere cosa accade nel mondo è fondamentale per ognuno di noi. Ci permette di decidere che fare, come agire. Ci regala libertà, perché il silenzio è il peggior nemico anche per la pace e la democrazia.
Saluti e ringraziamenti
S
ono davvero tanti coloro che vanno ringraziati per aver reso possibile, in un qualsiasi modo, questa settima edizione dell'Atlante delle Guerre e dei Conflitti. Parto con MeMo, la banda di fotografi internazionali, autori della rivista www.memo-mag.com. Anche quest'anno parte delle foto sono loro. Un abbraccio particolare va a Fabio Bucciarelli, autore della fotografia di copertina e dell'importante reportage all'interno. Lui, oltre ad essere un grande fotografo, è un amico fidato, capace di dare stimoli, di esserci quando serve. Non è poco. Qui, subito, ringrazio gli sponsor. Parlo dell’Associazione Artigiani di Trento e della Federazione delle Cooperative Trentine. Senza di loro non saremmo usciti per questa settima volta. I soldi, per altro, ce li hanno dati anche l’Assessorato alla cooperazione internazionale della Provincia Autonoma di Trento e la Regione Toscana. Sono finanziamenti essenziali, questi per pagare i volumi, i materiali e le decine di incontri che facciamo, gratuitamente o quasi, in giro per il Paese. Come sempre, qui a questo punto, voglio ringraziare le tante organizzazioni che credono in questo progetto tanto da essersi fidate. Unhcr, Amnesty International, Cdca, Asal. Sono gruppi fatti da donne e uomini che lavorano bene, con passione. Come cerchiamo di fare noi. Infine, un cenno ad alcune persone che da sempre ci sostengono, aiutano e incoraggiano. Mi riferisco a Sara Ferrari, Stefano Fusi e la moglie Jill, a Maurizio Del Bufalo e gli amici del Festival del Cinema per i diritti umani di Napoli, la nostra "isola d'aria pulita". Poi Giuliano Andreolli, Laura Strada e Fulvio Dal Ri, Paolo Burli, Giorgio Fracalossi, Francesco Cavalli, Luciano Scalettari e Alex Rocca. Un grazie ancora a Flora Graiff, per aver accettato di portare Kako tra noi anche quest'anno.
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Il direttore Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo
S
iamo orgogliosi di presentare la settima edizione dell’Atlante, come sempre ricco d’informazioni, spunti di riflessione e approfondimento. L’auspicio è che possa essere consultato da sempre più lettori, giovani lettrici e giovani lettori in primis, ai quali dobbiamo saper trasmettere una cultura profondamente radicata nei valori della pace. Anche per questo, l’edizione 2016 è stata arricchita con informazioni e strumenti grafici di natura geografica. Siamo consapevoli che dalla lettura di queste pagine potrà scaturire una sempre più responsabile e consolidata duplice consapevolezza: da un lato non possiamo assolutamente assuefarci all’elevato numero di eventi bellici che purtroppo accompagnano le nostre quotidianità, anzi dobbiamo tenere alta la capacità di rifiutare le logiche della guerra; dall’altro che la cultura della pace, unitamente a una competenza sulla cittadinanza globale, deve essere uno strumento imprescindibile nell’attraversare le esperienze della vita di ognuno di noi. In tutto questo la Provincia autonoma di Trento eserciterà sempre un ruolo attivo, anche con strumenti di crescita culturale come questa pubblicazione, curata come sempre da Associazione 46° Parallelo alla quale va il nostro più convinto plauso. Sara Ferrari Assessore all'università e ricerca, politiche giovanili, pari opportunità, cooperazione allo sviluppo della Provincia autonoma di Trento
Istruzioni per l’uso La redazione
Se siete già lettori dell'Atlante ve ne accorgerete rapidamente. Se lo avete fra le mani per la prima volta, meglio dirvelo subito. L'edizione numero sette del nostro libro è edizione di svolta. Quest'anno l'aggiornamento sul numero di guerre in corso - sono 36 - lo troverete solo sulle carte geografiche. Non ci sono, infatti, le tradizionali schede conflitto, ma solo una infografica generale e quelle parziali per indicare brevemente dove si combatte. Subito dopo, è una delle novità, troverete il racconto di quello che si tenta di fare per la Pace in numerose aree di guerra. Questa parte è stata curata dagli studenti dell'Università di Firenze, coordinati dal professor Scotto. Un mutamento di rotta, questo, che ci sembrava necessario. Il mondo è cambiato in questi sette anni, se possibile è diventato più complesso. L'Atlante doveva adeguarsi, cambiare di conseguenza. Così, dopo le pagine con i report sulla situazione, i reportage e le informazioni sullo stato del Pianeta, in fondo, in una apposita tasca, troverete 15 carte infografiche. Raccontano come sta andando il mondo, facendo emergere le ragioni, le cause, che portano alle guerre. Per il resto, le istruzioni per l'uso e la lettura restano quelle di sempre. Spiegare le ragioni che ci hanno portato a scrivere, trattare e impaginare in un certo modo argomenti e fatti è una tradizione di questo Atlante e, soprattutto, di questa pagina. Iniziamo: diciamo subito che quando si parla di guerre, vittime, orrore, diventa essenziale dare la giusta chiave, o almeno quella che secondo noi è la chiave giusta. Così, abbiamo scelto temi e collaboratori con cura. In questa ottica, prosegue la collaborazione con il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali: questo ci consente di raccontare la guerra anche da un altro punto di vista. Per l’uso delle parole, cioè per le definizioni che diamo ad ogni aspetto delle guerre, vi rimandiamo anche quest’anno al Glossario che troverete nelle ultime pagine. Leggetelo, perché è importante per avere un criterio univoco e senza incertezze. Le definizioni che diamo non sono scientifiche, lo scriviamo sempre, ma sono una scelta, fatta dopo giorni di discussione. E danno un indirizzo preciso alla lettura. Siamo un Atlante e quindi concludiamo parlandovi delle carte geografiche. Quest'anno non troverete le carte geografiche parziali, quelle dei Paesi, dato che mancano le schede conflitto. Troverete le mappe sui conflitti, le infografiche a tema e la Carta di Peters. L'uso di quella proiezione, ci teniamo a ripeterlo, è una scelta assolutamente politica. Buona lettura
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Piccola guida alla lettura della settima edizione
Introduzione
Armare i conflitti
E' il mercato legale a crere insicurezza
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L
a vicenda delle armi inviate nel corso degli ultimi quattro decenni all'Iraq e finite nelle mani dello "Stato islamico", è l'esempio da manuale di come trasferimenti legali quanto irresponsabili, destinati a Paesi in guerra o a Regioni comunque instabili, favoriscano crimini efferati in quei territori e rischino di ritorcersi contro i Paesi fornitori, creando in ogni caso una situazione globale di grande insicurezza e pericolo. Quando lo "Stato islamico" ha conquistato Mosul, nel giugno 2014, ha vinto la lotteria. Nei depositi di armi lasciati incustoditi da un esercito iracheno allora allo sbando, ha recuperato un numero incredibile di pezzi d'antiquariato ma perfettamente funzionanti, risalenti alle forniture inviate all'Iraq negli anni Ottanta per contrastare l'Iran, e prodotti ultramoderni destinati al riarmo successivo all'invasione del 2003. Con quelle armi, lo "Stato islamico" ha realizzato una furibonda campagna di pulizia etnica e religiosa, di distruzione di interi villaggi, di sequestri, stupri e uccisioni di massa. La presenza e l'uso di quelle armi hanno dato un enorme contributo all'odierna crisi globale dei rifugiati. Una crisi che investe quasi completamente i Paesi prossimi ai conflitti (il 95 per cento dei rifugiati siriani si trova in Turchia, Libano e Giordania) ma che fa gridare all'invasione proprio i Paesi che quelle armi le hanno prodotte e trasferite nei conflitti. Questo ennesimo capitolo di quella storia infinita che potremmo intitolare "Armare i conflitti", mostra come nella comunità internazionale vi sia chi agisce per porre fine alle guerra e chi vi annusa l'affare. Il lupo non perde il vizio, ma neanche il pelo: nel corso della guerra Iraq-Iran degli anni Ottanta, 34 stati inviarono armi all'Iraq. Di questi, contemporaneamente, 28 le inviarono anche all'Iran. Secondo la Casa bianca, nel 2014 cinque stati dell'Unione europea considerati insieme (Francia, Regno Unito, Spagna, Germania e Italia) hanno venduto in giro per il mondo piÚ armi degli Usa. Sicuri che siano in buone mani? Riccardo Noury Portavoce Amnesty International
Introduzione
Le guerre per l'acqua
Conflitti armati e controllo delle risorse idriche
Marica Di Pierri Presidente CDCA Centro Documentazione Conflitti Ambientali
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L
'esistenza di un legame a doppio filo tra conflitti armati e controllo delle risorse naturali non è elemento di novità che emerge analizzando le dinamiche fondanti delle guerre in corso nel pianeta. Questo legame è ancor più saldo quando ad essere oggetto della lotta per il controllo e lo sfruttamento sono risorse strategiche o vitali per la sopravvivenza delle comunità umane o del nostro - poco razionale e del tutto insostenibile - modello economico. Quest'anno, nell'ormai consueto focus dedicato ai conflitti ambientali, ci dedicheremo ad indagare le relazioni tra i conflitti armati e la risorsa naturale più essenziale: l'acqua. Per fornire una panoramica delle molteplici implicazioni del controllo delle risorse idriche in termini di conflitti e instabilità geopolitica, tratteremo 4 casi di grande rilievo, riguardanti rispettivamente Siria, Kurdistan, Cambogia, Kenya. Bene comune per eccellenza e diritto umano inviolabile, dalla disponibilità d'acqua dipende la vita in tutte le sue forme. Partendo da questo presupposto, il 28 luglio 2010 l'Assemblea Generale dell'ONU ha approvato una risoluzione storica che riconosce l'accesso all'acqua potabile e ai servizi igienico sanitari quale diritti umani fondamentali: un passo decisivo per affrontare il problema della scarsità delle risorse e - soprattutto - per emancipare l'acqua dall'assoggettamento alle regole del mercato. Tale diritto è stato recentemente introdotto anche in diversi testi costituzionali, come in Ecuador, Bolivia, Uruguay. Nonostante gli avanzamenti normativi e l'innegabile carattere di indispensabilità delle risorse idriche, la mappa della distribuzione dell'acqua potabile nel mondo - e dunque dell'accesso ai servizi idrici essenziali - disegna una geografia di autentica disuguaglianza e di progressivo impoverimento di intere regioni del mondo. Lo stress idrico colpisce soprattutto le popolazioni che vivono nelle aree rurali delle zone più povere del pianeta. Ancora oggi - soprattutto nei paesi più poveri, Africa sub sahariana in testa - ogni 15 secondi un bambino muore per malattie causate dall'uso di acqua non pulita. Più in generale, 748milioni di persone nel mondo vivono ancora senza acqua potabile, mentre 2,5miliardi persone non hanno a tutt'oggi accesso ai servizi igienici essenziali. Secondo decine di analisi geopolitiche e Report dell'ONU, la principale causa - ma anche la principale conseguenza - degli attuali e dei futuri conflitti è proprio la diseguale distribuzione delle risorse idriche. Nel 2014 si stimavano 37 casi di conflitto direttamente connessi al controllo dell'acqua dolce. Nella realtà tuttavia i conflitti in cui interessi economici strategici e azioni militari si intrecciano coinvolgendo il tema dell'accesso all'acqua sono molte di più. Il Pacific Institute ha individuato nel report World's Water diverse categorie di conflitti legati alla distribuzione delle risorse idriche. I conflitti possono nascere per il controllo dell'accesso all'acqua; possono utilizzare le risorse idriche come strumento di controllo militare o politico, ancora: i bacini idrici possono essere oggetto di atti terroristici o azioni militari; infine attorno alla gestione dell'acqua possono ingenerarsi conflitti sociali legati alla contestazione dei modelli di sviluppo economico e sociale imposti a determinati territori. La disponibilità d'acqua influisce in maniera determinante anche sui flussi migratori: la Segreteria Esecutiva dell’Unccd ha recentemente evidenziato come desertificazione e degrado del territorio amplifichino fenomeni quali migrazioni forzate e insorgenza di conflitti armati. Ulteriore fattore di rischio è rappresentato infine dall'incalzare dei cambiamenti climatici. È direttamente legata agli stravolgimenti del clima un'ulteriore diminuzione (stimata attorno del 20%) nella possibilità di accesso alle risorse idriche mondiali. Nel 2025 si stimano 3miliardi di persone a rischio di stress idrico, in particolare in Cina, India e nelle aree subsahariane, mediorientali e nordafricane.Tali elementi, assieme all'avanzare della desertificazione e alla perdita dei mezzi di sussistenza per milioni di persone, rendono la crisi idrica mondiale una delle emergenze ambientali più gravi tra quelle in corso, per la risoluzione della quale occorrono azioni urgenti e politiche coordinate a livello sia locale che globale.
algeria
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costa d’avorio
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CONFLITTI, MISSIONI ONU, INOLTRE
colombia
guinea bissau
mali
SITUAZIONE A GIUGNO 2016
kosovo
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Burkina Faso
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Iran
Etiopia
Birmania Myanmar
Irlanda del Nord
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Cina Xinjiang
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Corea Nord Corea Sud
Paesi Baschi
MISSIONI ONU
CONFLITTI
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UNTSO
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UNAMID
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MONUSCO
UNFICYP
UNMIL
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UNDOF
UNOCI
UNMISS
UNIFIL
Algeria
MINUSTAH
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Sudan
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MINUSCA
Kurdistan
Ciad
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Pakistan
Costa d’Avorio
Colombia
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birmania/myanmar
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Liberia
Haiti
Yemen
Libia
Afghanistan
Israele Palestina
Mali
Cina/Tibet
Libano
Niger
Filippine
Siria
Nigeria
India
Cecenia
Repubblica Centrafricana
Iraq
Cipro
R.D. del Congo
Nagorno Karabakh
Georgia
Sahara Occidentale
Kashmir
Kosovo
Somalia
Kirghizistan
Ucraina
La situazione
Raffaele Crocco
Trentasei guerre guerreggiate, una dozzina o più di situazioni di crisi: il 2015 si chiude con il medesimo bilancio dell’anno prima, più o meno. Fermare le guerre resta impresa complicata, impossibile dice qualcuno. In Siria si continua a combattere, i morti sono saliti a circa 300mila, i profughi variano a seconda delle stime: fra i 7 e i 9milioni. Qualcuno ha fatto sapere che anche i sostenitori del Presidente Assad sarebbero stanchi. Gli alawiti - corrente minoritaria dell’Islam a cui fa riferimento la famiglia Assad - avrebbero firmato un documento in 35 punti per favorire la transizione. Per ora, tutto sembra restare nel campo delle ipotesi. Ucraina, Palestina, India e Pakistan, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, solo per citare alcuni casi, continuano a combattere e anche dove la pace sembrava certa, in Colombia, si resta con il fiato sospeso. Gli accordi firmati alla fine del 2015 da Governo e Farc sembravano aver scritto la parola fine a 60 anni di guerra. Non è così, la tensione resta alta, non c’è intesa sul disarmo e tutto potrebbe ricominciare. Tensioni, quindi, il Mondo continua a vivere con il fiato sospeso. Ad innescare micce continue - le ultime sono il ritorno alla guerra in Nogorno Karabach, nel cuore dell’Asia - sono ancora disequilibri, pessimo uso della ricchezza e delle risorse, cattiva distribuzione del cibo, mancanza di diritti. Insomma, la guerra è sempre più - appare sempre più - come effetto di una catena di cose che non vanno e sempre meno come causa di queste. Proviamo a capirlo. Il tema dell’anno, almeno in Europa, è stato quello dei profughi, della loro gestione, di come ottimizzare il flusso di centinaia di migliaia di persone in fuga da fame e guerre. Molti dicono: ci invadono, ci tolgono lavoro, in un momento in cui la lunga crisi economica ha tagliato le gambe a tutti e fatto crescere il numero dei poveri - poveri veri - anche nel Vecchio Continente. Dagli Stati Uniti, però, arriva uno studio interessante, firmato dall’Intelligence Unite dell’Economist (Eiu). Lavora su previsioni sino al 2050, arrivando alla conclusione che per quella data la Cina avrà superato - come Prodotto Interno Lordo Complessivo - gli Stati Uniti, diventando la prima economia mondiale. Al terzo posto salirà l’India, mentre nelle prime dieci entreranno stabilmente Messico, Brasile e Indonesia. Europa, Giappone e resto dell’Asia declineranno: perché? Perché calerà la loro forza lavoro. Il Giappone, ad esempio, passerà dagli attuali 66milioni a 47milioni. Grecia, Portogallo e Germania avranno diminuzioni del 20%. Questo - continuano gli studiosi - metterà al centro di tutte le agende statali il tema di come favorire le migrazioni per reintegrare la forza lavoro, mettendo le singole economie in aperta competizione fra di loro per riuscirci. Morale: quella che per l’attuale generazione di politici è una vera catastrofe - con conseguenze che immaginano letali sul piano elettorale, per la prossima generazione diventerà una opportunità di rilancio per Paesi che, altrimenti, rischiano di perdere il treno dell’economia mondiale. Nel frattempo, nell’immediato, l’economia planetaria continuerà a restare una palude pericolosa. La crisi del 2007-2008 non si è esaurita. La banca Mondiale ha recentemente rivisto al ribasso il tasso di crescita mondiale per il 2016: sarà del 3,3%, contro il 3,5 annunciato. “L’economia globale è in un momento sconcertante, la ripresa è molto più lenta di quanto ci si aspettava”, ha ammesso l’economista Kaushik Basu. Ne sanno qualcosa i quasi due miliardi di individui che non riescono a venir fuori dalla povertà assoluta. Un numero spaventoso, eppure qualcosa sta cambiando, sta in un qualche modo migliorando. Stando ai rapporti delle Nazioni Unite sulla fame (Lo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo 2015 - Sofi), il numero totale delle persone che soffrono la fame nel mondo è sceso a
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Fra guerre e disuguaglianze arriva qualche buona notizia
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795milioni, 216milioni in meno rispetto al biennio 1990-1992. Una discesa che conta ancora di più, se pensiamo che da allora la popolazione mondiale è cresciuta rapidamente di quasi 2miliardi di individui. Nei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo”, la percentuale di persone denutrite è scesa al 12,9%, con un calo del 23% rispetto ad un quarto di secolo fa. Fate attenzione: 72 su 129 Paesi monitorati dalla Fao hanno raggiunto gli Obiettivi del Millennio - arrivati a chiusura nel 2015 - di dimezzare la denutrizione. Segno, dicono gli esperti, che si può fare, che la fame si può abbattere. Questo nonostante le crisi ambientali - desertificazione, rarefazione dell’acqua - mettano almeno 24 Paesi africani in costante emergenza alimentare. La soluzione è stata trovata sviluppando l’agricoltura famigliare, migliorando la qualità e produttività. Piccoli orti - viene da dire - per grandi risultati. Abbattere la fame significa mettere miliardi di persone nelle condizioni non solo di sopravvivere, ma di vivere meglio. È tra gli elementi fondamentali per scardinare le ragioni delle guerre e per fermare l’idea delle grandi migrazioni forzate, con intere popolazioni in movimento coatto. I segni del miglioramento sono anche in altri campi. Ad esempio, la sanità: per Unicef e Organizzazione Mondiale della Sanità il numero di bambini sotto i cinque anni che muoiono ogni dodici mesi è sceso dagli oltre 12milioni del 1990 agli attuali 7,5milioni. Vuol dire, che ogni giorno sopravvivono - nel mondo - 12mila bambini in più. Le zone a rischio restano ancora molte, con l’Africa Sub Sahariana in testa e l’Asia Meridionale a seguire. Ma anche qui la situazione sta mutando. Sono buone notizie, quindi, segni che vanno nella direzione di intervenire sugli elementi che costruiscono le ragioni delle guerre e renderli inoffensivi. Un percorso lungo, se è vero che mentre arrivano dati positivi, le spese militari globali aumentano. Nel 2015 sono salite - a livello mondiale - dell’1%. Non accadeva da quattro anni. A rivelarlo è come sempre lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), che spiega anche come con il 10% di quanto si spende per armi, si potrebbero coprire le spese per mettere fine a povertà e fame globali entro il 2030. L’Istituto ha calcolato che le spese militari del 2015 sono state 1.676miliardi di dollari, con gli Stati Uniti saldamente al primo posto con 596miliardi di dollari investiti. La Cina è al secondo posto, con 215miliardi di dollari, l’Arabia Saudita è terza, dopo aver superato Russia e Gran Bretagna. Il dato sull’Arabia Saudita, in questi anni, è esemplare. Ci fa rimpiombare nella logica della guerra come strumento politico e di affermazione dei propri, singoli interessi. Insomma, in qualche modo smonta nella pratica tutto ciò che abbiamo cercato di raccontare sin qui. Vediamo perché. L’Arabia Saudita è considerata la fedele alleata di Stati Uniti e Europa nel Vicino Oriente, soprattutto da quando è scesa in campo per contrastare il cosiddetto califfato, l’Isis padrone di pezzi di Iraq, Siria e Libia. Dalla capitale, Riad, i regnanti sauditi hanno intrecciato una alleanza di Paesi islamici - tutti sunniti - che dovrebbe fermare l’Isis. Ma questa alleanza politico militare, chiamata ”la piccola Nato sunnita”, è utile a Riad soprattutto per riaffermare il proprio ruolo di potenza egemone nell’area, contrastando gli sciiti iraniani. È uno scontro feroce quello in atto, giocato sulla pelle di milioni di persone. Nello Yemen, la minoranza sciita che ha osato rovesciare il Governo sunnita viene quotidianamente bombardata dall’aviazione dell’Arabia Saudita. Una guerra non raccontata, che lascia sul terreno migliaia di morti, combattuta con le armi che Riad ha acquistato - teoricamente - per sconfiggere l’Isis. I ribelli sono houthi e sono sciiti come gli Iraniani. L’Iran di oggi, sdoganato dagli accordi sul nucleare firmati a Vienna con gli Usa, si riaffaccia sulla scena mondiale come un interlocutore interessante. Ha il petrolio, ha potenza militare, ha mercato interno e cultura. Può diventare un punto di riferimento e per Riad questo è impensabile. Di qui la corsa alle armi e la guerra permanente. Un esempio. È solo un esempio di come rapidamente le ipotesi positive possano essere smentite e smontate. In Arabia Saudita si governa applicando in modo altrettanto rigoroso la stessa legge islamica che ci terrorizza quando usata dall’Isis. Esecuzioni di oppositori, lapidazioni, carcere per gli oppositori sono all’ordine del giorno a Riad. Si lascia fare per “convenienza internazionale”, per non perdere un alleato. In queste contraddizioni - ce ne sono molte altre - si perdono le occasioni e diseguaglianze e cattive gestioni restano lì, a guardarci. E noi guardiamo la guerra diventare - ogni volta - normale conclusione di tante pessime scelte, di infiniti problemi non risolti.
In cerca della pace Giovanni Scotto
Gli attentati di Parigi a novembre 2015 e la risposta militare decisa dal Governo Hollande di bombardare l'Isis in Siria, hanno confermato il diffondersi di una nuova forma della guerra, inaugurata l'11 settembre 2001: da un lato l'intervento armato ad alta tecnologia delle grandi potenze nei teatri di instabilità e di guerra, dall'altro l'uso del terrorismo nelle retrovie. Ognuna delle due dinamiche rafforza e prepara la strada all'altra: dalla guerra in Afghanistan di fine 2001 in poi, gli interventi militari dell'Occidente hanno spesso contribuito a creare vaste zone di instabilità ed anarchia, in cui gruppi armati di varia natura hanno potuto insediarsi e prosperare. I tentativi di aumentare la pressione militare paradossalmente rafforzano le motivazioni e la popolarità dei gruppi armati: anche in Occidente non sono più casi isolati le persone attratte da quella lotta armata che si avviano al reclutamento in Medio Oriente, o si offrono per attentati terroristici che provano a scuotere la stabilità dei Paesi ricchi in cui vivono. A livello globale dobbiamo registrare una serie di altri fattori di tensione, che tendono a sommarsi e ad aumentare il livello generale di instabilità e conflitto: l'acutizzarsi delle tensioni tra Stati Uniti e Russia, l'ascesa di nuovi Paesi che intendono aumentare la propria influenza nelle rispettive aree regionali (Turchia, Iran, Arabia Saudita), l'instabilità economica dovuta al repentino crollo dei prezzi del petrolio, e, più lontana all'orizzonte ma non meno preoccupante, la doppia minaccia del riscaldamento globale e dell'esaurimento delle risorse. Di fronte a questi processi apparentemente inarrestabili, e che tendono a rafforzarsi a vicenda, sembrano flebili i tentativi di pace che dall'anno scorso proviamo a mappare. L'International Crisis Group offre una buona panoramica mondiale delle crisi e dei processi di pace. Scorrendo gli eventi
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Le trasformazioni della guerra e le strade strette per la pace
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registrati dal “Crisis Watch” nel 2015, non sono molte le situazioni conflittuali che hanno mostrato segni di progresso o soluzione. La guerra civile in Colombia, uno dei conflitti armati più annosi nel continente americano, si è avviata a conclusione grazie ai negoziati tra Governo e Farc, che hanno raggiunto risultati importanti negli ultimi mesi dell'anno. In particolare è stato firmato un accordo specifico sulla gestione della giustizia nella fase di transizione, che ha permesso di graziare alcuni detenuti del gruppo guerrigliero. Altri importanti accordi specifici hanno riguardato lo sminamento in zone rurali e l'avvio di investigazioni sulla sorte degli scomparsi. Nel Sud Sudan, l'accordo di pace firmato ad agosto è stato messo in pratica con molta lentezza, trovando ostacoli sia all'interno del Paese, sia nelle debolezze dell'Igad, l'organizzazione regionale che ha fatto da mediatore. Il più appariscente successo diplomatico dell'anno è stato tuttavia l'accordo di luglio sull'uso pacifico dell'energia nucleare tra Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania. Sappiamo però che la pace è anche un processo molecolare e non solo il risultato di negoziazioni diplomatiche internazionali. Ed è anche importante ricordare che ogni conflitto armato ha una storia a sé, anche se spesso le analisi geopolitiche non sembrano volersi attardare a comprendere radici e ragioni locali di crisi e conflitti armati.
Reportage/1
Alice Pistolesi
Evoluzione e probabile svolta nella “questione” Saharawi, una di quelle diatribe presenti nell’agenda della politica internazionale da quarantuno anni. Nel marzo 2016 il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon ha visitato i campi profughi del deserto algerino, nei quali gli esuli si rifugiarono dopo essere stati allontanati dal Marocco dal Sahara Occidentale nel 1975. Era la prima volta che Ban Ki Moon visitava i campi che ospitano i rifugiati e i territori del Sahara Occidentale non più occupati dal Marocco. Ed è durante la sua permanenza che il segretario generale ha usato l’espressione “occupazione” per definire la presenza del Marocco nel Sahara Occidentale. Non si è fatta attendere la reazione marocchina che ha espulso quasi tutti gli esperti civili stranieri della missione Onu Minurso, ha chiuso un ufficio di collegamento militare e annullato il contributo volontario che il Marocco accorda al funzionamento della stessa missione. A pochi giorni dalla visita, infatti “Il Regno del Marocco - si legge in una nota governativa del ministero degli Esteri e della Cooperazione internazionale - si riserva il diritto legittimo di ricorrere ad altre misure per difendere, nel rispetto rigoroso della Carta delle Nazioni Unite, i suoi interessi, la sua sovranità e la sua integrità territoriale”. Tutte queste avvisaglie fanno pensare che la ripresa delle ostilità non sia una prospettiva da escludere. Per anni i Saharawi hanno abitato il deserto del Sahara algerino cercando di organizzare la vita in uno dei territori meno accoglienti al mondo, ma sembra che oggi sia arrivato per loro il momento di capire se potranno tornare nelle proprie case. O almeno in quello che ne rimane. A confermare le sensazioni arrivano le parole di Mohammed Abdelaziz, leader del movimento Fronte Polisario e Presidente della Rasd (Repubblica Democratica Araba Saharawi) che ha espresso in una lettera indirizzata alle Nazioni Unite timori e minacce nel caso in cui il Consiglio di sicurezza non dovesse esercitare "una pressione reale e diretta" sul Marocco, per permettere alla missione Onu di "riprendere il proprio lavoro e il mandato per organizzare il referendum sull'autodeterminazione". Se questo non avvenisse, scrive ancora Abdelaziz: "Il popolo Saharawi sarebbe costretto ancora una volta a difendere i propri diritti con tutti i mezzi legittimi, tra cui la lotta armata, che è legale per l'Onu se riguarda i popoli colonizzati". Un altro segnale era arrivato il 27 febbraio 2016, quando a Tindouf si è tenuto il quarantennale della
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Saharawi, pace a rischio nel Sahara Occidentale
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nascita della Rasd con tanto di sfilata di carrarmati, missili, mezzi anfibi e più di 25mila uomini. In quell’occasione il primo Ministro del Fronte Polisario ha dichiarato: “Con la sfilata delle nostre forze militari vogliamo far vedere di avere un esercito bene armato e preparato. La lotta armata per l’indipendenza è una possibilità che non è esclusa e per la quale ci stiamo preparando”. E in questo momento il Polisario si trova impegnato anche sul fronte del controllo dei confini, svolgendo la funzione anti terrorismo per combattere l’avanzata dei jihadisti islamici di Mali e Mauritania. Il mese di aprile di ogni anno si rinnova la missione Onu, iniziata nel 1991, alla fine della guerra e che dovrebbe portare all’attuazione di un referendum di autoderminazione in cui i Saharawi del Sahara Occidentale sceglieranno fra l'integrazione con il Marocco e l’indipendenza. Il censimento è pronto da anni, la documentazione si trova a Ginevra, ma tutto è bloccato. In questo quadro determinante è la posizione dell’Unione europea, soprattutto della Francia che ha più volte posto il veto sulla questione referendum in sede Onu. In questo contesto i saharawi aspettano ancora una volta la risposta delle Nazioni Unite, ma sembra che alla luce di questo passo indietro non siano disposti ad attenderla sine die. La sensazione che la ripresa delle ostilità fosse nell’aria esiste già da tempo, ma le parole dirette del leader del Polisario, personalità che ha finora sempre tentato la mediazione per il proprio popolo appaiono ancora più preoccupanti. La situazione nei campi di rifugiati è dunque tesa, sembra infatti che tutti stiano aspettando la famosa “goccia che fa traboccare il vaso”. I territori dei campi sono ad oggi militarizzati, le delegazioni di volontariato che ogni anno si recano nel deserto algerino per portare aiuti sono scortate. Nel mese di marzo 2016 una delegazione toscana doveva visitare i cosiddetti “territori liberati” ma gli è stato impedito per ragioni di sicurezza. L’atteggiamento saharawi rispetto al proprio futuro sembra quindi essere cambiato: se per anni si è scelto l’attesa, l’inerzia, pare che oggi qualcosa stia per cambiare, pur nelle mille contraddizioni. Per anni, infatti, il popolo saharawi è stato combattuto sul considerare quel deserto transitorio, solo un passaggio obbligato prima di poter tornare nelle proprie terre. Subito dopo la fuga dal Sahara Occidentale, i saharawi non sapevano neppure se dovevano montare delle tende, la situazione doveva essere più che transitoria. Con il passare degli anni, però, si è deciso di considerarla casa. Oggi le varie municipalità dei campi sono collegate da strade, a tratti asfaltate, non ci sono quasi più tende, ma casette in muratura. Non mancano i negozi e da poco sono addirittura arrivati i souvenir in stile occidentale. Inoltre si lavora per portare l’elettricità in tutte le municipalità, finora utilizzabile quasi solo a Boujadur, la “capitale” dei campi, dove risiede anche il Presidente e la sua famiglia. Anche le disparità economiche tra le famiglie si sono fatte negli anni più evidenti. “Abbiamo notato un cambiamento impressionante - racconta una delle delegazioni toscane impegnate nella solidarietà con la causa Saharawi - anni fa tutti abitavano nelle tende mentre oggi si vede una grande differenza tra le famiglie che stanno economicamente meglio e le altre. Alcune case sono in muratura, hanno mattonelle, colonne, archi, mentre molti vivono ancora nelle tende”. In questo quadro si inserisce però l’eccezionale alluvione del novembre 2015 che ha provocato danni ingenti. I saharawi vivono ancora di aiuti internazionali, anche se a causa della crisi economica sono negli anni diminuiti anche del 70%. Creare un’economia, anche nei territori del Sahara Occidentale non più occupati, è impensabile. Si tratta infatti di un’area troppo politicamente contesa nella quale ipotetici finanziatori potrebbero vedere da un momento all’altro distrutti i propri investimenti produttivi. L’autosufficienza alimentare, poi, per gli abitanti del deserto algerino è fuori discussione. Coltivare è infatti impossibile, così come pensare ad impianti di irrigazione. In questo quadro è molto difficile prevedere i passi futuri di Onu, Marocco, Saharawi e anche dell’Europa, che di riflesso si ritrova coinvolta. Una posizione l’Europa l’ha presa nel dicembre del 2015, quando la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha annullato l’accordo di liberalizzazione degli scambi di prodotti agricoli e della pesca fra Europa e Regno del Marocco per la sezione che riguarda il Sahara Occidentale. La ragione si ritrova nelle violazioni dei diritti di libertà e autodeterminazione a danno del popolo saharawi che l’accordo avrebbe indirettamente legittimato.
Reportage/2
Enzo Nucci
In Sud Sudan è emergenza alimentare, specialmente nello stato federale di Unità. 40mila persone rischiano la morte per fame mentre altri 2milioni e 800mila abitanti (ovvero il 25% della popolazione) hanno urgente bisogno di cibo. L’Onu sottolinea come l’aumento della denutrizione coincida con il periodo post-raccolto, quando il Sud Sudan dovrebbe invece avere più derrate a disposizione. È probabile dunque che il picco della crisi alimentare si toccherà durante la stagione di magra, ovvero luglio. Una catastrofe umanitaria che potrebbe essere evitata consentendo alle organizzazioni internazionali di portare aiuti nelle aree di conflitto, dove dal dicembre 2013 si fronteggiano i seguaci del Presidente Salva Kiir e quelli dell’ex vicePresidente Riek Machar. Eppure intorno a questo martoriato Paese (a maggioranza cristiana ed animista) erano ben altre le speranze che si nutrivano quando nacque ufficialmente come nazione il 9 luglio 2011, dopo quasi 50 anni di guerra per ottenere l’indipendenza dal Sudan islamico e con forte influenza araba. Il Paese più giovane del mondo ha deluso, inutile nasconderlo. I problemi tra dinka e nuer (le due etnie principali) non sono mai mancati ed anche durante la comune guerra di liberazione contro il Sudan, il nemico di tutti, non sono mancati massacri e lotte intestine che secondo alcuni osservatori hanno provocato addirittura un maggior numero di vittime del conflitto con le forze di Khartoum. Monsignor Paolino Lukudu, arcivescovo metropolita di Juba, ammette senza mezze frasi che si tratta di un conflitto etnico, uguale a quello che ha opposto hutu e tutsi negli anni novanta in Rwanda. “Forse - ci confessa - come chiesa cattolica non abbiamo capito in tempo utile e denunciato la gravità degli scontri”. Le sue sono parole amare perché anche la Chiesa cattolica ha fallito l’opera di pacificazione. Da metà dicembre 2013 sono stati sottoscritti almeno una dozzina di cessate il fuoco, fragili accordi di pace, violati puntualmente dopo meno di 24 ore. A contendersi il potere sono due forti personalità politiche. Da una parte il Presidente Salva Kiir, 65 anni, di etnia dinka, cattolico, tra i fondatori dell’ Splm, l’Esercito di Liberazione del Popolo. Dall’altra il vicePresidente deposto Riek Machar, 63 anni, di etnia nuer, protestante, anche lui di formazione militare. La sua storia d’amore con la cooperante inglese Emma MacCune (scomparsa tragicamente a Nairobi in un incidente automobilistico dai contorni misteriosi) è raccontata in un libro tradotto in tutto il mondo, in Italia con il titolo “La guerra di Emma” (Alet Editore). Le tensioni tra i due leader hanno visto una drammatica escalation nel 2013. All’origine dello scon-
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Sud Sudan, dopo tre anni resta solo il fallimento
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tro finale, la decisione del Presidente Salva Kiir di rimuovere dal suo incarico il vicePresidente che aveva annunciato l’intenzione di candidarsi alle elezioni presidenziali, in programma nel luglio 2015. La crisi precipitò il 15 dicembre 2013 nella capitale Juba quando nella caserma della guardia presidenziale i soldati di etnia dinka (fedeli al Presidente) uccisero i militari nuer, vicini a Riek Machar. Fuori dal presidio si scatenò la caccia al nuer: in poche ore almeno 18mila di loro morirono per mano della folla aizzata dalla autorità. Ed i nuer (per rappresaglia) fecero altrettanto contro i dinka nelle città di Bor, Malakal e Bentiu. Salva Kiir si difese affermando che i suoi uomini erano intervenuti per fermare un colpo di stato, ipotesi smentita dai fatti. Ma tutto questo è bastato a versare benzina sul fuoco dell’odio etnico che da tempo ardeva sotto le ceneri di una breve pace apparente. Nessuno pensi di individuare buoni e cattivi, perché sono ruoli in continuo e frenetico scambio. Ed anche per il contingente Unmiss delle Nazioni Unite non è semplice difendere i campi profughi dai continui attacchi. La classe politica del Sud Sudan non si è preoccupata di avviare la formazione di una identità nazionale che aveva invece i presupposti per nascere come reazione all’oppressione del regime di Khartoum nei confronti di tutte le genti del Sud. Nei due anni di vita della nazione il potere e le risorse economiche sono state distribuite solo in base all’appartenenza etnica, favorendo comunque le elites. Petrolio ed agricoltura rappresentano grandi risorse, ma la crisi economica generata dalla guerra (accompagnata da corruzione e dilapidazione dei beni comuni) ha messo il Sud Sudan in ginocchio. I pozzi petroliferi lavorano pochissimo, perché si trovano nelle aree di conflitto e quindi sono insicuri ed in ogni caso la loro attività per quanto ridotta serve a finanziare le spese militari. Gli scandali e gli sperperi pubblici evidenziano una classe politica tesa solo all’arricchimento personale mentre anche la comunità internazionale si interroga sugli aiuti che servono ad alimentare ruberie e corruzione. Difficile ipotizzare una soluzione alla luce di tre anni di trattative rivelatesi inutili. Stanno pericolosamente crescendo gruppi armati che contribuiscono ad incrementare l’insicurezza ed i conflitti locali, anche in zone fino ad ora stabili. Bisogna infatti tener presente che il Sud Sudan è una Repubblica federale (composta di dieci Stati) grande due volte l’Italia. I 12milioni di abitanti sono suddivisi in ben 65 etnie. Una ipotesi su cui si sta ragionando è quella di arrivare ad un accordo per la divisione del Paese in tre grandi Regioni su base etnica: i dinka nell’area di Bahr el-Ghazal, i nuer nel Nilo Superiore in una difficile convivenza con gli shilluk, mentre ai bari sarebbe assegnata la zona dell’Equatoria. Quasi impossibile credere in uno stato unito così come ci si illuse nel 2011. Il fallimento è purtroppo dietro l’angolo.
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3 - COSTA D’AVORIO
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Ex colonia francese, è uno dei Paesi più poveri del mondo. È in guerra - interna ed esterna - dal giorno dell’indipendenza, nel 1960. Dal 2005 al 2010 ha dovuto affrontare una guerra con il Sudan. Negli ultimi anni ha vissuto anche il problema degli sconfinamenti pericolosi dei guerriglieri di Boko Haram, gli jihadisti attivi in Nigeria.
costa d’avorio
2 - CIAD
algeria
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In guerra dal 1991, con lo scontro fra il Governo centrale e il Fonte Islamico di Salvezza, che vince il primo turno delle politiche. Di fronte al rischio integralista, i militari interrompono il Processo elettorale e il Fis è dichiarato fuorilegge. Da quel momento è scontro con migliaia di morti. Ora è Al-Qaeda per il Maghreb a tentare di unire le forze jihadiste.
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1 - ALGERIA
sahara occidentale
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SITUAZIONE CONFLITTI
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È una tregua fragile quella che regge dal 2011. L’ex Presidente Laurent Gbagbo è in carcere all’Aja, processato per crimini contro l’umanità. Il Paese tenta di riprendersi, ma le bande armate sono ancora padrone del territorio, alimentate da Stati Uniti, Francia e Cina, che si contendono di fatto il controllo del Paese.
4 - LIBERIA 22
Da dieci anni il Paese è formalmente in pace, mantenuta e custodita da 15mila caschi blu dell’Onu. La crisi di ebola - con circa tremila morti per il contagio - ha fatto riprecipitare l’economia nel baratro. La Presidente Ellen Johnson Sirleaf è stata la garante del difficile processo di rilancio: nel 2011 le è stato assegnato il Nobel per la Pace.
5 - LIBIA
La rivolta del 2011 sostenuta militarmente da Francia, Gran Bretagna e Italia, l’uccisione del dittatore storico, Gheddafi, nell’ottobre dello stesso anno: sono solo due tappe - quelle iniziali - della guerra che la Libia vive da anni, contesa fra varie tribù che vogliono controllare un territorio ricco di petrolio e gas. A questo si aggiunge l’arrivo dell’Isis.
6 - MALI
Nel 2012 l’alleanza fra indipendentisti tuareg e integralisti islamici stava portando alla caduta della capitale, Bamako. L’intervento militare francese con l’operazione Serval nel gennaio del 2013, ha fermato tutto. Con i tuareg è stato siglato un accordo, gli islamici sono stati respinti. Sul terreno resta una forza multinazionale franco africana a garantire la pace.
7 - NIGER
Il Paese vive di fatto sotto la minaccia dei terroristi islamici di Boko Haram, che dalla vicina Nigeria sconfinano uccidendo e razziando: almeno cento i morti solo nel 2015. Ad aggiungere problemi il passaggio di migranti, che vogliono raggiungere le coste mediterranee. Ne sono passati, nel 2015, 150mila. Il Governo ha chiesto all’Unione Europea soldi per fermare i flussi.
8 - NIGERIA
Migliaia di morti, rapimenti, attacchi di pirateria: la situazione nigeriana resta caotica. Gli integralisti islamici di Boko Haram - affiliati a Al-Qaeda - continuano a colpire, ma sembrano in difficoltà anche per l’intervento militare dei Paesi confinanti. Lo scontro fra popolazione cristiana e islamica resta latente.
9 - REPUBBLICA CENTRO AFRICANA
La guerra resta sotto traccia, con scaramucce diffuse e una tregua che pare comunque reggere fra le milizie di ispirazione islamica Seleka e i comitati di autodifesa Antibalaka, cristiani o animisti. A garantire la tenuta del cessate il fuoco è la presenza di un contingente di caschi Blu dell’Onu. Ne fa parte anche una cinquantina di paracadutisti della Folgore.
10 - REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
Otto milioni di morti - il dato non è ufficiale - in vent’anni di guerra civile. Nella Repubblica Democratica del Congo la pace appare lontana. I movimenti antigovernativi - M23 e Forza Democratiche Alleate (Adf) - restano attivi, riorganizzati anche nei Paesi vicini, come Rwanda e Uganda. L’obiettivo resta il controllo delle ricchezze naturali, coltan in testa.
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11 - SAHARA OCCIDENTALE
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Dal 1975 il territorio è occupato dal Marocco e da quell’anno i Saharawi chiedono l’indipendenza. Il Fonte Polisario - braccio armato della resistenza saharawi - ha accettato di far tacere le armi e dal 1991 si attende un referendum - determinato da una risoluzione dell’Onu - che non arriva mai. Il Marocco non cede e la tensione torna a salire.
Il Paese è in guerra dal gennaio del 1991, periodo della caduta del dittatore Siad Barre. Da 25 anni non c’è pace, con lotte armate fra signori della guerra e l’inserimento, a partire dal 2000, degli integralisti delle Corti Islamiche. Esiste - dal 2005 - un Governo federale di transizione, appoggiato da Etiopia e Onu, che tenta di controllare il territorio
Prima una ventennale guerra - pagata con milioni di morti e non finita ancora - per contrastare l’ indipendenza del Sud Sudan ed evitare di perdere il controllo dei pozzi di petrolio. Ora una guerriglia permanente contro l’autonomismo del Darfur. Il Paese resta fra i più poveri del mondo, ma la lotta per il petrolio vale la vita di milioni di sudanesi.
E’ lo Stato più giovane del mondo, nato dal referendum del 2011, ma ha ben due fronti di guerra aperti. Il primo è con il Sudan, nemico storico, per il controllo del petrolio. Il secondo è fra le fazioni che, all’interno, vogliono il potere. I profughi generati dai due conflitti sono centinaia di migliaia e nel 2015 si sono registrate tensioni alla frontiera con l’Uganda.
Africa
A cura di Amnesty International
Africa e diritti umani Premesse scoraggianti L'Unione africana ha dichiarato il 2016 Anno dei diritti umani in Africa. Le premesse sono però scoraggianti: conflitti, instabilità politica, autoritarismo, povertà e disastri umanitari hanno dominato il 2015. Gravi violazioni del diritto internazionale umanitario hanno avuto luogo nei conflitti armati interni di Libia, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Repubblica Centrafricana e Repubblica Democratica del Congo, causando migliaia di morti e seminando il terrore tra milioni di persone. Quasi 500mila persone (un terzo della popolazione) sono fuggite dallo stato sudanese del Sud Kordofan. I nuovi sfollati dal Darfur sono stati 223mila e hanno portato il totale dei profughi interni darfuriani a 2,5milioni. Altre 60mila persone hanno lasciato le loro terre nello stato del Nilo Azzurro mentre il conflitto del Sud Sudan ha costretto a riparare altrove 2,2milioni di persone e quello somalo 1,3milioni di persone. Quasi mezzo milione, infine, sono i cittadini della Repubblica Centrafricana (in prevalenza di religione musulmana) riparati nei Paesi confinanti. In Nigeria e Camerun (e in parte anche in Niger
e Ciad), arresti di massa, esecuzioni extragiudiziali e torture hanno contraddistinto le operazioni militari e di sicurezza contro il gruppo armato islamista Boko haram, il quale ha continuato a compiere stragi efferate e attacchi contro i centri abitati, in Nigeria e oltreconfine. In Tunisia, una serie di attentati con decine di morti ha spinto le autorità a introdurre lo stato d'emergenza e ad inasprire le norme anti-terrorismo, con preoccupanti sviluppi dal punto di vista della tutela dei diritti umani. In Egitto sono aumentati gli arresti di giornalisti, la tortura è rimasta all'ordine del giorno e sono rimaste in vigore norme fortemente penalizzanti nei confronti della libertà di manifestazione e di associazione. Elezioni generali o parziali si sono svolte in 15 Paesi ma è stato raro trovarne uno in cui la campagna elettorale non abbia avuto luogo in un clima di violenza e intimidazione nei confronti degli avversari politici. In Burundi è scoppiata una nuova fase di violenza politica che ha preceduto e, soprattutto, seguito la contestata terza rielezione del Presidente Nkurunziza. Le forze di sicurezza hanno represso nel sangue le proteste e hanno effettuato raid nei quartieri della capitale Bujumbura ritenuti capisaldi dell'opposizione. Decine di migliaia di persone hanno lasciato il Paese. In molti Paesi, come Angola, Gambia, Guinea Equatoriale, Mauritania, Repubblica Democratica del Congo, Ruanda, Swaziland, Tanzania, Uganda e Zambia le associazioni della società
civile, i difensori dei diritti umani, i giornalisti e gli oppositori politici hanno dovuto affrontare un clima sempre più ostile. Manifestazioni pacifiche sono state stroncate con la forza in Burkina Faso, Guinea, Sudafrica, Togo e Zimbabwe. Migliaia di giovani eritrei hanno continuato a lasciare il Paese a causa del servizio militare obbligatorio e a tempo indeterminato. Nel Paese la repressione resta durissima: i prigionieri di coscienza sono migliaia e non esiste il minimo spazio per l'attivismo politico, la libertà accademica e l'informazione indipendente. Alla fine dell'anno, il Governo dell'Etiopia ha represso con estrema forza le proteste promosse dall'etnia oromo contro un progetto di piano regolatore che avrebbe strappato loro terreni per favorire l'espansione della capitale Addis Abeba. In Sudafrica, abitazioni e negozi di migranti e rifugiati sono stati distrutti da un'ondata di violenza xenofoba, non contrastata adeguatamente dalle autorità. In Burkina Faso il fallimento di un tentativo di
colpo di stato ha segnato la fine dell'era-Compaoré. Le nuove autorità si sono impegnate a fare luce sui crimini del passato, tra cui gli omicidi dell'ex Presidente Thomas Sankara e del giornalista Norbert Zongo. Le donne hanno continuato a subire il peso e la violenza di tradizioni culturali e leggi discriminatorie. In Burkina Faso la mortalità materna e i matrimoni forzati e precoci costituiscono una grave, e correlata, emergenza. Le persone Lgbti hanno subito attacchi e persecuzione in molti Paesi, tra cui Camerun, Nigeria, Senegal, Sudafrica e Uganda. In Malawi, nonostante la condanna ufficiale del Presidente, è stato registrato un notevole aumento degli attacchi, anche mortali, nei confronti degli albini da parte di gruppi criminali. Anche in Tanzania, il Governo non è stato capace di prendere misure adeguate per proteggere gli albini: vi sono state segnalazioni di sequestri, mutilazioni e vendita di parti del corpo delle vittime.
TENTATIVI DI PACE A cura di Giovanni Scotto
Leggere i conflitti di ogni Paese Nel 2015 diversi Paesi africani hanno attraversato momenti difficili: atti di violenza terrorista (Kenia, Nigeria ), guerre civili o violenza politica diffusa o vere e proprie guerre civili (Libia). Nel continente la violenza di matrice islamista si è diffusa utilizzando e amplificando conflitti e tensioni preesistenti. È importante interrogarsi sulle risposte da dare a questo fenomeno e non limitarsi a leggere ogni conflitto armato con le lenti della “guerra globale al terrorismo”. È piuttosto vero il contrario. La cultura della violenza di ispirazione
jihadista si incrocia e si innesta con i conflitti locali pre-esistenti: la ribellione della Nigeria del Nord contro un'élite corrotta e disinteressata ha creato lo spazio per Boko Haram, il collasso dello stato in Libia ha prodotto le condizioni per l'avanzata dell'Isis sulla sponda Sud del Mediterraneo. È indispensabile quindi guardare più da vicino i singoli Paesi, in modo da poter comprendere meglio le dinamiche conflittuali e le possibilità di risoluzione proprie di ogni contesto.
Elenco schede Tentativi di Pace Algeria Ciad Costa d’Avorio Liberia Libia Mali Nigeria R. Centrafricana R. D. Congo Sahara Occidentale Somalia Sudan Sud Sudan
Il Paese protagonista nella mediazione
ALGERIA
Un teatro di pace
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Un “calcio” alla guerra
COSTA D'AVORIO
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L’Algeria, dopo aver superato la critica fase della guerra civile, si trova ad attraversare una situazione di relativa stabilità interna. Questo le ha permesso di assumere, nel corso dell’ultimo anno, un importante ruolo di mediatore nella risoluzione dei conflitti nelle principali aree di guerra dell’Africa NordOccidentale. Nel 2015, oltre all’impegno nella risoluzione della crisi libica, il maggiore intervento di mediazione ha riguardato gli scontri avvenuti in Mali, che ha reso di fatto il Paese algerino un importante interlocutore per gli attori Occidentali nei tentativi di costruzione della pace e di lotta al terrorismo. L’intervento dell’Algeria nel conflitto maliano è stato fondamentale per riuscire a elaborare l’accordo di pace tra i ribelli tuareg dell’Azawad, che chiedevano l’indipendenza dal resto del Paese, e il Governo centrale di Bamako. Dopo lunghi mesi di negoziati, che hanno avuto luogo ad Algeri, Il 15 maggio 2015 è stato ufficializzato il testo dell’intesa, che prevede l’implementazione di nuovi programmi per la sicurezza e lo sviluppo dell’Azawad e una maggiore rappresentanza delle minoranze nelle istituzioni. L’Algeria, grazie all’importante ruolo ricoperto negli interventi di mediazione, si candida ufficialmente a passare da Paese in guerra a risolutrice dei conflitti. (Cecilia Piazza)
L’associazione Djamah-Afrik (Gente dell’Africa) è una compagnia teatrale professionale ciadiana che opera nell’area della capitale e nelle zone limitrofi. Organizza e conduce attività creative, formative e di riflessione incentrate sul ruolo del dialogo e sulle possibili azioni di pace in un territorio nel quale diverse etnie e diverse religioni vivono quotidianamente fianco a fianco. La compagnia lavora seguendo una stretta relazione “arte-popolazione-territorio” : non solo le rappresentazioni si svolgono in luoghi pubblici ma soprattutto viene promossa la partecipazione degli abitanti sia agli spettacoli sia ai dibattiti tra gli spettatori e gli attori proposti dopo di essi. In particolare con il progetto 'Mutations Urbaines', realizzato tra il 2013 e il 2014 nella capitale N’Djamena, l’associazione ha voluto ampliare il proprio raggio d’azione, organizzando, oltre agli spettacoli pubblici, mostre fotografiche e forum teatrali, ma senza perdere la sua vicinanza alla popolazione, invitandola nuovamente a interagire con gli artisti protagonisti dell’iniziativa ma anche promuovendo il dialogo tra le varie anime delle comunità locali, dai funzionari fino ai leader religiosi. Il Ciad può trasformarsi da teatro di guerra in teatro di pace? (Francesco Magrini)
Il successo sportivo come base su cui costruire la pace: è questo il caso della Costa D’avorio. La nazionale, soprannominata gli ‘Elefanti’ dallo stemma sulla divisa, sconfigge il Ghana ai rigori in finale e conquista l’8 febbraio 2015 la Coppa d’Africa. La festa attraversa tutto il Paese, unendo tutti i cittadini, che per qualche momento dimenticano il conflitto. È già da lungo tempo che il calcio è candidato a divenire uno strumento di pacificazione interna. Didier Drogba, il giocatore più rappresentativo degli Elefanti, già nel 2007 riuscì a far disputare una partita contro il Madagascar valida per le qualificazioni alla Coppa D’africa 2008 a Bouake, città dove si registrava un alto numero di ribelli al regime di Abidjan. Negli anni successivi ha istituito una fondazione a suo nome per la costruzione di un ospedale proprio nella città di Abidjan, da completare entro la fine del 2015. Un altro evento sportivo degno di nota è stato un torneo calcistico denominato 'Cote D’Ivoire Unity By Football', organizzato dall’associazione 'Events Creators' nell’ottobre 2013, in cui si sono affrontati alcuni caschi blu della missione ivoriana Onuci e gruppi di forze armate locali. Queste sono solo alcune di tante iniziative, con un’unica grande speranza dietro di esse: abbattere le divisioni attraverso la passione comune per il calcio. (Francesco Magrini)
LIBERIA
L’Oms annuncia la fine dell'epidemia, ora si pensa alla ricostruzione
Il 3 settembre 2015, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha annunciato la sconfitta del virus Ebola. La Liberia è stato uno dei Paesi più colpiti e a dicembre 2015 gli ultimi due pazienti sono stati dimessi. Ora c'è chi pensa alla ripresa. La situazione generale sembra in miglioramento nel Paese: la fine dell'epidemia coincide con la fase finale della missione militare dell'Onu, a oltre dieci anni dalla conclusione della guerra civile. Il Governo statunitense ha anche deciso di rimuovere le sanzioni stabilite nel 2004 dall'amministrazione Bush contro diverse personalità del regime dell'epoca, corresponsabile della guerra civile. Resta da considerare, che per l'epidemia di Ebola la Liberia ha pagato un prezzo grave. L'emergenza ha ostacolato un gran numero di progetti di sviluppo e di assistenza sanitaria alla parte più vulnerabile della popolazione. Tra questi progetti vanno citati quelli di Sightsavers, un'Ong che ha sostenuto le attività mediche in tutta la zona colpita dal virus. (Lorenzo Moscufo)
Un processo di pace a guida internazionale
In una situazione che rimane critica a causa delle centinaia di milizie costituitesi su base locale e dei gruppi di jihadisti che continuano a minacciare la sicurezza del Paese, il 9 ottobre 2015 è arrivata la firma di un importante accordo tra i due Governi di Tobruk e Tripoli e le diverse fazioni in lotta. Grazie alla mediazione di Bernardino Leon, inviato speciale dell’Onu, e dei diplomatici italiani e algerini, si è giunti alla creazione di un Governo di unità nazionale, un primo importante passo per porre fine alla crisi politica e per riprendere il cammino di pace interna e di sviluppo del Paese. In particolare le nuove istituzioni libiche dovranno immediatamente confrontarsi con due grandi sfide, ovvero mettere in sicurezza numerose zone ancora dilaniate dagli scontri e tentare di far ripartire l’economia, ma l’implementazione dell’accordo avverrà con il costante supporto delle stesse Nazioni Unite attraverso la missione Unsmil, in un percorso che si annuncia ricco di ostacoli ma che può almeno contare su una base molto solida a livello internazionale. (Cecilia Piazza)
MALI
Da Timbuktu una lezione di tolleranza e di pace
I sedici mausolei di Timbuktu sono una delle poche testimonianze della città del Mali Settentrionale che, fino al XVI secolo, era stato fiorente punto d’incontro tra la cultura araba e quella africana, e rappresentano oggi uno dei siti archeologici più celebri del Paese. Nel 1988 sono stati dichiarati dall’Unesco 'Patrimonio dell’Umanità', ma nel corso del 2012, alcuni di essi sono stati gravemente danneggiati dal gruppo islamico Ansar Dine (letteralmente 'difensori della fede') che, dopo aver preso il controllo della città, ha tentato di cancellarne la memoria, ritenendo i mausolei simbolo d’idolatria e dunque d’infedeltà all’Islam. La stessa Unesco tuttavia, approfittando dell’allontanamento dei guerriglieri integralisti, ha avviato la ricostruzione dei mausolei nel 2014, avvalendosi dell’apporto di manodopera dei lavoratori locali e del supporto logistico di Minusma la Missione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione del Mali. A luglio 2015, con la conclusione dei lavori, i mausolei sono stati riportati all’antica magnificenza, rappresentando una piccola vittoria della cultura contro l’estremismo integralista. (Cecilia Piazza)
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LIBIA
I giovani per un futuro di pace
NIGERIA
'The Peace Initiative Network' (Pin) è un’associazione non governativa che opera a livello locale, organizzando campagne di sensibilizzazione alla pace, conferenze sui processi di peacebuilding, ma anche attività di volontariato nel Nord del Paese. Il progetto su cui sono stati investiti maggiori sforzi è il Peace Club Project for young people', nato il 27 maggio 2006 in occasione della Giornata dei Bambini in Nigeria e che da allora riunisce, con incontri settimanali, ragazzi con background etnici, linguistici e culturali molto diversi, organizzando per loro incontri di educazione alla pace ma anche attività sportive, musicali e teatrali, strumenti ritenuti fondamentali per promuovere la tolleranza, la cooperazione e il rispetto reciproco. Dalle venti ragazze e i trenta ragazzi che nove anni fa hanno dato il via al progetto, si è arrivati oggi a 4500 iscritti di età compresa tra i sette e i diciotto anni provenienti da scuole di tutto il Paese: i giovani stanno diventando sempre più i protagonisti di un futuro di pace per la Nigeria. (Cecilia Piazza)
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Costruire il proprio futuro
Nella Repubblica Centrafricana molti bambini sono costretti a imbracciare le armi e a combattere per il gruppo di miliziani che li arruola, perdendo così non solo il presente, ma anche la possibilità di costruirsi un degno futuro tramite l’educazione. È qui che si inserisce la fondazione 'Les Enfants D’Abord', che lavora su diversi fronti proprio per strappare i bambini dalla guerra e portarli a scuola. Sotto la protezione giuridica dei principi della Dichiarazione dei diritti del fanciullo dell’Onu, l’associazione si serve dell’aiuto di partner finanziari per aiutare economicamente le famiglie dei ragazzi che non hanno mai frequentato la scuola o che hanno smesso di farlo e in parallelo promuove campagne di sensibilizzazione sull’importanza dell’educazione. Ad oggi la fondazione ha riportato a scuola oltre 5000 ragazzi e ha ottenuto il riconoscimento dei propri sforzi anche da parte di alcuni dei gruppi armati che prima arruolavano i bambini-soldato: esiste un’alternativa a combattere su un campo di battaglia, quella di combattere per il proprio futuro. (Francesco Magrini)
15 anni di Amka: l'empowerment nella Repubblica Democratica del Congo
'Svegliarsi, alzarsi': è questa la traduzione della parola 'amka' dalla lingua Swahili. L'obiettivo di Amka attiva nella Repubblica Democratica del Congo in collaborazione con l'associazione gemella Amka Katanga, è di stimolare e sostenere le capacità delle persone attraverso l'apprendimento, l'organizzazione e l'azione. Nel progetto integrato portato avanti da Amka rientrano: sanità di base, lotta alla malnutrizione, all'Hiv e all'Aids, educazione elementare, accesso all'acqua potabile e sostegno delle attività produttive. L'associazione ha fatto della popolazione locale la propria forza, infatti Amka conta oggi 30 collaboratori congolesi tra cui operatori, insegnanti, medici, assistenti sociali e oltre 11500 beneficiari. Questi ultimi, in quanto soggetti attivi del cambiamento, esprimono le proprie necessità e elaborano le strategie per farvi fronte. Il dialogo, la collaborazione e l'integrazione con la popolazione locale hanno fatto di Amka una parte fondamentale della società congolese. (Chiara Girasoli)
REPUBBLICA CENTRO AFRICANA
REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
SAHARA OCCIDENTALE
FiSahara: una finestra sul mondo per i rifugiati
SOMALIA
I processi di sviluppo e pace si rafforzano anche investendo nella cultura
Dal 26 al 28 agosto 2015 a Mogadiscio si è tenuta la “Prima fiera internazionale del libro”. L’evento ha visto la partecipazione di scrittori, artisti e musicisti, ma anche quella di molti studenti ed editori locali. Questi ultimi hanno valutato l’evento in modo molto positivo, sottolineando come l’editoria ha bisogno di iniziative di promozione per promuovere cultura e nuovi talenti. L'attivista Mohamed Diini, organizzatore dell'evento, ha affermato che l’obiettivo di tale fiera è di far incontrare gli scrittori locali con gli omologhi stranieri, così da creare una rete con prospettive diverse e più ampie, improntate sullo sviluppo della cultura somala. L'intenzione di Diini è di proporre in futuro la manifestazione ogni anno. Ha partecipato anche il Presidente Hassan Sheikh Mohamud, che ha sottolineato in più interviste l'importanza di far rivivere la cultura della scrittura e della lettura in Somalia. Durante la fiera ha tenuto un discorso anche Mohamed Omer, formatore e coach proveniente dal Somaliland: "Ho visto una Somalia diversa e felice " ha dichiarato. "Un Paese che può svilupparsi e modernizzarsi attraverso la collaborazione di tutto il popolo somalo". (Lorenzo Moscufo)
SUDAN
Informazione e peacebuilding per i cittadini
Molte, troppe le persone sudanesi che si trovano quotidianamente faccia a faccia con la violenza dei conflitti armati. Il Paese conta circa due milioni di sfollati, le condizioni di vita, per molti di loro, sono davvero complesse. L’organizzazione Sudia (Sudanese Development Initiative), fondata nel 1996, si impegna a far giungere a quante più persone possibili le informazioni diramate da giornali e media. L'obiettivo è far conoscere gli avvenimenti che riguardano la nazione. Sudia si occupa continuamente della creazione di progetti di pace partendo da una chiara interpretazione dei problemi locali. Attua programmi improntati sul dialogo e sulla riconciliazione per risolvere gli scontri che possono svilupparsi, ad esempio, nella zona Ovest del Paese, lungo il confine con il Ciad, dove vivono diverse popolazioni. Ascoltare in presa diretta le persone principalmente interessate dai conflitti può rivelarsi utile per comprendere le esatte dinamiche dei problemi e quindi agire nella maniera migliore. Con questo progetto si vuole stabilire relazioni con partner nazionali e internazionali che possano fornire aiuti concreti alla popolazione in condizioni di maggior bisogno. (Francesco Magrini)
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Il Fronte Polisario nel 2015 ha proseguito nella politica di resistenza pacifica contro il Marocco per il riconoscimento dei diritti del popolo Saharawi. Il Marocco ha irrigidito la propria posizione negli ultimi mesi dell'anno, anche in seguito a una decisione della Corte di Giustizia Europea che rimetteva in discussione il trattato di libero scambio con il Paese. A settembre il campo profughi di Dakhla per cinque giorni ha ospitato FiSahara: un film festival internazionale nel deserto. Tale iniziativa è nata dodici anni fa, l'obiettivo di donare ai rifugiati una finestra sul mondo e di portare un messaggio di fiducia e maggiore speranza per un’evoluzione positiva della situazione politica. Dopo la morte, il 22 agosto scorso, in un accampamento per rifugiati, di Mariem Hassan, una delle militanti più importanti del popolo Sahawari, la manifestazione è stata utile per ridare speranza ai militanti. (Lorenzo Moscufo)
Una lotta incessante per la pace
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Il Sud Sudan, durante la sua breve storia come stato indipendente, ha dovuto fare i conti sin da subito con conflitti armati sia ai propri confini che al proprio interno. Tra le organizzazioni che stanno cercando di portare avanti progetti di pace c’è l’associazione Ipca (Initiative for Peace Communication Association), nata con l’obiettivo di promuovere il dialogo tra le autorità locali e la società civile su temi legati alla democrazia, ai diritti umani e alla libertà di espressione. A tal proposito Ipca distribuisce gratuitamente alla popolazione magliette e volantini con messaggi di pace ma soprattutto organizza seminari e workshop in varie zone del territorio sud sudanese, trasmessi e seguiti anche a livello radiofonico. Nell’ultimo anno Ipca ha realizzato il progetto ‘Peace 24’, che con lo slogan ‘No peace, no rest' ha portato per 365 giorni discussioni e dibattiti in tutto il Paese sulle problematiche legate ai conflitti e su nuove possibili iniziative di pace. Alla campagna hanno partecipato tutte le fasce della popolazione, ma protagonisti sono stati i giovani, con i loro problemi e soprattutto con i loro punti di vista: saranno loro a costruire un futuro di pace per il Sud Sudan? (Francesco Magrini)
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QUESTA PROIEZIONE EQUIVALENTE É BASATA SULLA RETE GEOGRAFICA DECIMALE DI ARNO PETERS. ESSA SPOSTA IL MERIDIANO ZERO SULLA LINEA RETTIFICATA DEL CAMBIAMENTO DI DATA - INDICATA CON IL PUNTEGGIO - E SUDDIVIDE LA SUPERFICIE TERRESTRE IN 100 RETTANGOLI LONGITUDINALI DI UGUALE LARGHEZZA E IN 100 RETTANGOLI LATITUDINALI DI UGUALE ALTEZZA. CON QUESTA PROIEZIONE SI OTTENGONO NELLA FASCIA EQUATORIALE RETTANGOLI VERTICALI CHE SI TRASFORMANO, AVVICINANDOSI AI POLI, IN QUADRATI E POI IN RETTANGOLI ORIZZONTALI. LE COORDINATE DELLA NUOVA RETE SI TROVANO AI MARGINI DELLA CARTA ACCANTO ALLE COORDINATE TRADIZIONALI.
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16 - HAITI
La transizione democratica del Paese sta durando anni, resa ancora più complicata dal terremoto che nel 2010 causò la morte di 200mila persone e mise l’economia definitivamente in ginocchio. A garantire ricostruzione e pace è ancora un contingente di caschi Blu delle Nazioni Unite
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15 - COLOMBIA
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America
A cura di Amnesty International
Nel Continente ancora ingiustizia e violenza Il continente americano ha presentato il consueto mix di discriminazione, violenza, disuguaglianza, insicurezza, povertà, conflitti, danni all'ambiente e assenza di giustizia. La cultura dell'impunità, la corruzione del sistema giudiziario e degli apparati di sicurezza e la mancanza di volontà politica hanno continuato a negare risarcimenti e giustizia a milioni di persone. La risposta alle proteste sociali, soprattutto nei confronti dei rischi per i diritti umani dei popoli nativi portati dalle attività delle imprese multinazionali, è stata essenzialmente di tipo militare. In Brasile, decine di persone sono state uccise nel contesto delle lotte per il possesso della terra e delle risorse naturali. L'uso eccessivo della forza è rimasto diffuso anche in contesti di protesta e scontro urbano, in Paesi quali Bahamas, Brasile, Cile, Ecuador, Giamaica, Guyana, Repubblica Domenicana, Trinidad and Tobago, Venezuela e Usa. In questo Paese almeno 43 persone sono morte dopo essere state colpite con una pistola Taser e sono proseguiti gli omicidi di polizia basati sul "profilo razziale" della vittima.
In un continente nel quale si trovano otto dei 10 Paesi coi maggiori livelli di violenza al mondo, la criminalità è dilagata e solo un omicidio su cinque ha dato luogo alla condanna dei responsabili. In El Salvador, tra gennaio e ottobre del 2015, sono state assassinate 475 donne. Quella violenza, insieme alle difficoltà economiche, ha costretto un sempre maggior numero di persone - tra cui molti minori non accompagnati - a lasciare i Paesi dell'America Centrale per cercare di dirigersi, attraverso il Messico, verso gli Usa. Prima di giungere al confine statunitense, molti migranti sono stati rapiti, stuprati e uccisi. Dall'altra parte della frontiera, le autorità degli Usa hanno intercettato decine di migliaia di famiglie e di minori non accompagnati, trattenendoli anche per mesi in centri di detenzione privi di adeguati servizi medici, sanitari e legali. Molte persone di origine haitiana sono rimaste apolidi nella Repubblica Domenicana a seguito di una sentenza della Corte costituzionale del 2013 che le ha private della cittadinanza. Dopo la minaccia del Governo di dare seguito alla sentenza espellendo i migranti diventati irregolari, decine di migliaia di persone di origine haitiana sono tornate ad Haiti e centinaia di altre sono finite in campi di fortuna alla frontiera tra i due Paesi. In Messico sono state presentate migliaia di denunce di tortura. Il primo anniversario della sparizione di 43 studenti della scuola magistrale di Ayotzinapa è trascorso invano senza che le autorità intendessero indagare in modo efficace
per chiarire la sorte di quei ragazzi. Oltre 26mila persone risultano ancora scomparse in tutto il Paese. In Venezuela, l'intolleranza del Governo in carica fino allo svolgimento delle elezioni, ha prodotto condanne di oppositori politici e minacce nei confronti dei difensori dei diritti umani. Le persone Lgbti hanno continuato a subire discriminazione e violenza in tutto il continente. Un'ondata di omicidi di donne transgender ha scosso l'Argentina, mentre violenza omofobica è stata registrata in El Salvador, Guyana, Honduras, Repubblica Domenicana, Trinidad e Tobago e Venezuela. In Giamaica, nonostante il clima di intolleranza e impunità verso gli autori di crimini omofobici, per la prima volta è stato possibile svolgere il Pride. Nel continente sono in vigore alcune delle leggi antiabortiste più restrittive al mondo. Alla fine del 2015, l'aborto risultava completamente vietato in Cile, El Salvador, Haiti, Honduras, Nicaragua, Repubblica Domenicana e Surimane. Ha fatto il giro del mondo il caso della ragazza di 10 anni cui le autorità del Paraguay hanno insisten-
temente negato l'aborto, nonostante fosse stata ripetutamente violentata dal padre adottivo. In El Salvador è rimasta in vigore la legge che impedisce l'aborto in ogni circostanza e condanna a lunghe pene detentive per il reato di "omicidio" le ragazze e le donne che interrompono la gravidanza. Nonostante quasi 20 rilasci, il centro di detenzione di Guantánamo Bay è rimasto ancora aperto, con 111 prigionieri ancora in attesa di venire formalmente incriminati oppure rilasciati. Gli Usa sono rimasti ancora una volta l'unico stato americano a eseguire condanne a morte, anche se il numero delle esecuzioni, analogamente a quello delle nuove condanne a morte, è risultato sensibilmente in calo. Particolarmente rilevante sono state la normalizzazione dei rapporti tra Cuba e Usa e la progressione dei negoziati di pace tra il Governo della Colombia e le Forze armate rivoluzionarie di Colombia, che alla fine dell'anno avevano grandi probabilità di porre definitivamente termine a un conflitto armato durato mezzo secolo.
TENTATIVI DI PACE A cura di Giovanni Scotto
Per la pace centrali gli Stati Uniti Uno sguardo superficiale alle Americhe può portare a una conclusione semplice: non è un continente dove la guerra è di casa, quindi anche mettersi alla ricerca di “tentativi di pace” è complesso. Da questo punto di vista, le schede raccolte qui sono soltanto due. Sarebbe fatale però dimenticare il ruolo degli Stati Uniti, il Paese che nel 2015 ha destinato alle sue forze armate - stazionate in quasi 150 Paesi - circa 600 miliardi di dollari, oltre un terzo delle spese militari a livello mondiale (fonte: International Institute for Strategic Studies). Nel 2015, gli Usa hanno combattuto in Iraq e in Siria, e hanno usato droni per uccidere individui considerati terroristi in Pakistan, Yemen e Somalia. Hanno inviato consiglieri militari in Uganda e Camerun. Gli Stati Uniti però hanno anche un notevole movimento per la pace, dalla lunga tradizione: come dimenticare le mobilitazioni contro la guerra in Vietnam, Woodstock compresa? Per
sapere oggi cosa bolle in pentola nei movimenti che si oppongono alle guerre e alla violenza può essere utile conoscere alcuni dei siti di informazione più importanti: presenze web come Common Dreams www.commondreams.org), Yes Magazine www.yesmagazine.com o Alternet www.alternet.org funzionano come veri e propri magazine alternativi che coprono temi come i diritti civili, le lotte ambientali e le mobilitazioni per la pace. A questi vanno aggiunti i siti che dichiaratamente fanno parte dei movimenti per la pace e il cambiamento sociale (dal notissimo MoveOn a Waging Nonviolence). Per finire, ricordiamo una voce critica dell'estabilhsment statunitense che non ha il passaporto a stelle e strisce: John Oliver è un attore e comico britannico che nei suoi programmi TV affronta con una satira tagliente temi scomodi negli Stati Uniti: i morti civili causati dai droni, l'uso della tortura, le armi da fuoco.
Elenco schede Tentativi di Pace Colombia Haiti
“We all have right to peace”
COLOMBIA
Tutti abbiamo diritto alla pace: è questo il motto con cui, dal 1994, Conciliation Resources previene i conflitti e costruisce la pace garantendo aiuto, supporto e risorse. In Colombia l'associazione ha supportato attraverso il dialogo, fin dal 2012, le negoziazioni di pace iniziate ad Havana tra il Governo della Colombia e le Forze Armate Rivoluzionarie (Farc). Conciliation Resources ritiene che la pace derivi dalla capacità della società di discutere, raggiungere accordi e, soprattutto, agire in vista di cambiamenti politici, economici, sociali e culturali. Per questo motivo, il progetto di Conciliation Resources attivo sul territorio ha una prospettiva comparata della pace, combinata con una profonda conoscenza del contesto colombiano e delle sua posizione nell'universo internazionale. Il progetto si articola attraverso pubblicazioni e presentazioni, in partnership con le organizzazioni della società civile, al fine di rendere la popolazione partecipe delle decisioni e dei cambiamenti che stanno interessando la loro terra. (Chiara Girasoli)
36
Una speranza per Haiti: le cinque chiavi dello sviluppo
"Hope for Haiti” basa il suo impegno su cinque parole chiave: economia, sanità, nutrizione, acqua ed infrastrutture. Con cura, attenzione e dedizione verso tutti gli aspetti delle comunità rurali, il progetto coopera da 25 anni con gli abitanti locali, prestando particolare attenzione alle necessità dei bambini, al fine di migliorarne le condizioni di vita e cercare soluzioni innovative e durature ai problemi derivanti dalla povertà. Nel Marzo 2015 Bob e Renee Parsons, fondatori della The Bob and Renee Parsons Foundation, sono rimasti colpiti dai progressi fatti rispetto alla loro prima visita ad Haiti, risalente al 2010. La loro fondazione ha donato al progetto 3.5milioni di dollari affinché possa continuare il proprio programma, simbolo di sviluppo e speranza per una Nazione molto spesso dimenticata. (Chiara Girasoli)
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Quarantamila soldati dell’esercito Cinese occuparono il Tibet – era Stato sovrano – il 7 ottobre 1950. Da allora, Pechino controlla saldamente la Regione, fondamentale per le riserve d’acqua e per la posizione strategica. Il Governo cinese considera il Tibet “affare interno” e la diplomazia internazionale non interviene. Il Dalai Lama è in esilio dal 1959. Le rivolte vengono represse con durezza.
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18 - CINA – TIBET
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E’ in guerra da sempre, certamente dal 1979, cioè dall’invasione dell’allora Armata Rossa sovietica. L’Afghanistan non ha pace: liberatosi dei sovietici, combattuta una lunghissima guerra civile finita con la vittoria dei talebani, ora è presidiato dalle forze alleate a comando Usa, che lo hanno occupato nel 2001, cacciando i talebani. Prima della guerra in Siria, da lì veniva il maggior numero di profughi al mondo.
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17 - AFGHANISTAN
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SITUAZIONE CONFLITTI
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19 - FILIPPINE
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Due le guerre in corso nell’arcipelago, entrambe vecchie di qualche decennio. La prima è contro gli indipendentisti islamici dell’isola Mindanao, nel Sud. La pace firmata nel 2014 concedeva una forte autonomia, ma fatica a reggere. La seconda contro le organizzazioni comuniste che vogliono rovesciare il Governo centrale di Manila. I morti sono migliaia.
20 - INDIA
Una lunga guerriglia filo maoista attraversa il Paese sin dagli anni ’60, sviluppandosi nelle Regioni Centro - Orientali abitate dalla cosiddetta “popolazione indigena”. Si tratta di circa 90milioni di individui tra i più poveri della società indiana, che vivono però in un territorio particolarmente ricco di miniere. I protagonisti del conflitto sono noti come “naxaliti”.
21 - IRAQ
Una Prima Guerra del Golfo nel 1991, poi una Seconda nel 2003, sempre contro coalizioni internazionali guidate dagli Stati Uniti: da 25 anni l’Iraq è praticamente sempre in guerra. Il Governo di Baghdad, protetto dalla forze armate alleate, oggi controlla pochissimo territorio. Lo scontro fra sunniti e sciiti è furioso, rinfocolato dalla presenza del cosiddetto Califfato (Isis), che controlla la zona al confine con la Siria.
22 - NAGORNO KARABAKH
Grande come l’Abruzzo, con una popolazione di soli 150mila abitanti, è una specie di enclave armeno-cristiana nel pieno dell’Azerbaijan islamico. Le richieste di indipendenza e di riunione con la madre patria armena non vengono ascoltate. Risultato: il Paese vive in una situazione di semi guerra dal 1994. Allora, il primo conflitto causò 30mila morti. Ora le scaramucce sono continue.
23 - KASHMIR
E’ uno dei conflitti più antichi del subcontinente indiano ed è una faccia della guerra che contrappone dal 1947 India e Pakistan per il controllo di alcune Regioni himalayane. Due le guerre combattute ufficialmente dai due Paesi: nel 1948 e nel 1965, più quella non ufficiale del 199. Il conflitto interno - separatista - è ufficialmente iniziato negli anni ’80 del ‘900 e sta causando migliaia di morti.
24 - KIRGHIZISTAN
Ex Stato dell’Unione Sovietica, indipendente dal 1992, è da sempre attraversato da tensioni interne che sfociano in rivolte represse duramente e in cambi improvvisi di classe dirigente. Base fondamentale degli Usa nella guerra in Afghanistan, il Paese negli ultimi anni si è avvicinato sempre più a Russia e Cina: di qui la nascita di altre tensioni.
25 - KURDISTAN
Diviso fra Turchia, Siria e Iraq, è il “Paese che non c’è”. Milioni di curdi - popolazione di ceppo indo-iraniano - chiedono l’indipendenza sin dai tempi dell’impero ottomano. Oggi, continuano gli scontri con la Turchia, che non legittima alcuna richiesta indipendentista. Nella Siria della guerra civile, i curdi hanno di fatto creato stato indipendente, contrastando - spesso da soli - l’avanzata del cosiddetto Califfato (Isis). In Iraq sono riconosciuti come popolo costituente del Paese.
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26 - PAKISTAN
In guerra - di fatto - con l’India fin dall’indipendenza, nel 1947, oggi il Pakistan è a giudizio delle agenzia internazionali il “centro nevralgico di Al-Quaeda”. Attorno a questo Paese si sta sviluppando il nuovo “Grande Gioco”, con Cina e Stati Uniti come protagonisti. Non mancano gli elementi per un confronto religioso durissimo, sia fra islamici e cristiani, sia all’interno dell’islam.
27 - THAILANDIA
Sono stati mesi tranquilli gli ultimi del 2015 in Thailandia. Lo potremmo definire il “Paese dei golpe”. Ce ne sono stati 19 dal 1932, l’ultimo - messo a segno dai militari - è datato 22 maggio 2014. Di fatto, il colpo di stato ha soffocato ogni movimento e ogni resistenza, ponendo per ora fine ad una guerra interna che dal 2004 aveva causato più di seimila morti, tutti sacrificati all’altare del potere.
28 - YEMEN
Il Paese è allo stremo dopo anni di scontri interni - culminati con il colpo di mano della tribù sciita houthi nel 2014 - e per effetto della guerra scatenata dall’Arabia Saudita, decisa a ridare un Governo sunnita allo Yemen. I bombardamenti iniziati nel 2015 hanno causato ad oggi almeno 10mila morti, ma il vero pericolo è la fame: 13milioni le persone a rischio. Da agosto 2015 è stata proclamata una fragile tregua.
Asia
A cura di Amnesty International
Qualcosa cambia ma troppo lentamente In un contesto caratterizzato da repentini cambiamenti economici e sociali, il quadro dei diritti umani è rimasto spesso segnato da repressione, ingiustizia e impunità (che, nel caso dell'Indonesia, ha raggiunto il mezzo secolo in relazione all'uccisione, nel 1965, di centinaia di migliaia di iscritti e presunti simpatizzanti del partito comunista locale). La crisi globale dei rifugiati si è fatta sentire anche in questa Regione, soprattutto nel Golfo del Bengala e nel mare delle Andamane, dove i trafficanti hanno abbandonato migliaia di migranti e rifugiati, lasciandoli alla deriva per settimane prima che Indonesia, Malesia e Thailandia prestassero i primi, parziali soccorsi. L'Australia ha portato avanti la sua politica di "esternalizzazione" dell'esame delle richieste di asilo politico, coinvolgendovi Papua Nuova Guinea e Nauru. Una commissione d'inchiesta indipendente ha accertato che nel centro di detenzione di Nauru vi sono stati casi di aggressione sessuale e stupro. Amnesty International ha raccolto prove sul coinvolgimento della marina militare australiana in attività criminali, quali
l'aver pagato l'equipaggio di navi di trafficanti per portare migranti e rifugiati al largo, verso l'Indonesia. Centinaia di migliaia di persone hanno continuato a languire nei campi di prigionia della Corea del Nord, dove carestia, lavori forzati e torture sono all'ordine del giorno. Cambogia, Cina, India, Indonesia, Malesia, Thailandia, Vietnam e i Paesi dell'ex spazio sovietico hanno intensificato la repressione nei confronti delle voci critiche, degli avvocati e dei difensori dei diritti umani introducendo e applicando rigorosamente nuove e vecchie leggi liberticide, soprattutto in relazione all'espressione delle opinioni sui social media. Il Pakistan è rimasto uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti mentre in Bangladesh sono stati uccisi almeno quattro blogger. La vittoria, dopo quasi mezzo secolo di regime militare, della Lega nazionale per la democrazia alle elezioni di novembre, ha aperto la speranza in un profondo cambiamento in Myanmar: speranza su cui grava l'ipoteca dell'impunità per i crimini del passato e del perdurante silenzio che continua ad accompagnare la persecuzione della minoranza musulmana rohingya. In Afghanistan, India, Myanmar e Thailandia tanto le forze di sicurezza quanto i gruppi armati hanno commesso violazioni dei diritti umani. In Afghanistan, quando a settembre i talebani hanno preso il controllo della Provincia di Kunduz, sono emerse denunce di uccisioni e stupri di massa. Sempre nel contesto del conflitto
afgano e della zona di Kunduz, l'aviazione Usa ha bombardato un ospedale di Medici senza frontiere uccidendo 22 tra pazienti e medici. Tre milioni di afgani continuano a vivere all'estero, soprattutto in Iran e Pakistan, mentre gli sfollati interni hanno raggiunto la cifra di un milione. Denunce di tortura sono arrivate da numerosi Paesi, tra cui Cina, Corea del Nord, Figi, Filippine, India, Indonesia, Malesia, Mongolia, Nepal, Thailandia, Timor-Leste, Uzbekistan e Vietnam. In Cina, la libertà di fede religiosa è stata sistematicamente negata. Nella Provincia dello Zhejiang il Governo ha lanciato una campagna per demolire le chiese ed eliminare il simbolo della croce. È rimasto ferreo il controllo sui monasteri buddisti tibetani. In India, le autorità non hanno voluto impedire molti casi di violenza religiosa e in alcuni casi hanno attizzato l'odio religioso contro i musulmani.
La discriminazione e la violenza contro le donne sono rimaste diffuse in vari Paesi, tra cui Nepal e Papua Nuova Guinea. Da quest'ultimo Paese sono arrivate altre denunce di uccisioni di donne e bambine ritenute streghe. La pena di morte è stata applicata massicciamente in Cina, pur se è diminuito il numero dei reati capitali. Il Pakistan è entrato nell'elenco dei Paesi che più usano la pena di morte, con oltre 300 esecuzioni, mentre in Giappone hanno avuto luogo tre impiccagioni. In direzione contraria, le isole Figi sono diventate il 100esimo stato completamente abolizionista e in Mongolia è stato approvato il nuovo codice penale, che non prevede la pena di morte.
TENTATIVI DI PACE A cura di Giovanni Scotto
Il Continente vive nell'instabilità Una buona parte del continente asiatico vive un periodo di incertezza e instabilità. In Pakistan una serie di attacchi terroristici è culminata a novembre 2015 con l'attentato all'università Bacha Kahn, dove si commemorava il leader nonviolento Pashtun Abdul Ghaffar Kahn, e con il massacro di Lahore durante le feste di Pasqua del 2016. L'Afghanistan nel 2015 ha contato 11mila vittime civili nella guerra in corso, e la produzione di oppio ha raggiunto nuovi record. Nonostante i tentativi fatti, ad oggi non si è ancora avviato un processo negoziale con i talebani. La diplomazia sta provando a muoversi e da qualche tempo è attivo un “processo quadrilaterale” con Usa, Afghanistan, Pakistan e Cina alla ricerca di una via di uscita negoziale dalla guerra. Ma intorno all'Afghanistan anche altro si muo-
ve, come i progetti di infrastrutture e sfruttamento minerario in cui sono coinvolti l'Iran e l'India, due Paesi tradizionalmente in buoni rapporti con Kabul. Proprio l'Iran sta iniziando una nuova fase nei suoi rapporti con il resto del mondo. Con l'accordo sul programma nucleare, Teheran ha superato una lunga fase di isolamento, e ha l'opportunità di consolidare il proprio ruolo nella Regione. Nel subcontinente indiano, si moltiplicano le voci di chi intende rimettere in discussione la ormai secolare rivalità tra India e Pakistan. I due Paesi oggi hanno entrambi relazioni politiche economiche strette (e contraddittorie) con Kabul. E se la chiave per la pace nel continente asiatico fosse l'Afghanistan?
Elenco schede Tentativi di Pace Afghanistan Cina/Tibet Filippine India Iraq Kashmir Kurdistan Pakistan Thailandia Yemen
L'economia del fanatismo estremo
AFGHANISTAN
Il Dalai Lama contro l’auto-immolazione
CINA TIBET
Il commercio solidale di Panay
FILIPPINE
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Il nostro senso comune ci spinge automaticamente a guardare ai conflitti in un'ottica negativa. In situazioni problematiche, affinché si creino dei miglioramenti, è necessario coinvolgere la società. Equality for peace and democracy (Epd) è un'organizzazione non governativa afghana che lavora nel proprio Paese dal 2010 per rafforzare il pensiero e l'attività della comunità, in un ambiente dove repressione e ostilità ostacolano il dialogo e la comunicazione. Fra i vari progetti portati avanti da Epd nel 2015 ha avuto molto successo un corso di formazione per coordinatori provinciali e funzionari politici realizzato a Kabul dal 24 al 27 di agosto. A questo corso è stato evidenziato il costo economico del fanatismo estremo che dilania il Paese, portante via una somma superiore al 43% del Pil, pari a 9miliardi di dollari all'anno, che viene investita in armamenti e difesa. Lo scopo di questo progetto è stato indirizzare la classe dirigente a deviare queste spese in settori quatidianamente trascurati, come sanità, trasporto ed educazione, apportando così un netto miglioramento nei servizi e nell'immagine globale del Paese. (Anna Sofia Pisani)
Il 2015 è stato un anno di grande importanza simbolica per il Tibet. L’8 settembre sono avvenuti i festeggiamenti per i cinquant’anni dalla proclamazione dell'autonomia della Regione, e il regime cinese ha fornito una prova di forza simbolica con una parata militare per le strade di Lhasa. Durante l'anno, stando alle denunce di Human Rights Watch, si sono succeduti numerosi episodi di protesta, mentre la rete di controllo delle autorità cinesi è diventata più stringente. Nel 2015 vi sono state sette auto-immolazioni di monaci, mentre lo stesso Dalai Lama si è dichiarato contrario a questa pratica, ritenendola un sacrificio troppo doloroso e di utilità limitata. Dal 2009 sono oltre 140, di cui 30 donne, i tibetani che hanno deciso di darsi fuoco per la libertà della propria Regione. Nonostante le minacce delle autorità, continuano gli episodi di protesta delle comunità locali contro alcuni progetti di sfruttamento minerario promossi dalle autorità cinesi. (Lorenzo Moscufo)
Panay Fair Trade Centre, nato nel 1991 nell'isola di Panay grazie all'iniziativa di Ctm Altromercato e dalla rete filippina di movimenti femminili Gabriela, mette in contatto comunità urbane marginali costruendo circuiti economici nei quali i contadini forniscono le materie prime e i gruppi urbani le trasformano. Grazie alla produzione di zucchero Mascobado biologico e di banana chips Pftc ha ridato vita al commercio filippino. Negli ultimi quattro anni, il centro è stato colpito da violenze, sparizioni e omicidi, tra cui quello del Presidente Romeo Capalla, ma ciò non ha posto un freno al suo operato. Nel 2015 il nuovo Presidente Ruth Fe Salditos ha presentato un progetto per l'ampliamento e la ristrutturazione del centro di produzione di zucchero e banane e la formazione di 200 volontari nel distretto di Iloilo, per la promozione di un corretto comportamento in caso di emergenza per disastri naturali. L'impegno politico e sociale di Pftc si esprime oggi nella diffusione del commercio equo e solidale e nella partecipazione a iniziative su temi di democrazia, diritti delle comunità indigene e autodeterminazione. (Chiara Girasoli)
INDIA
Il giornale che disegna la pace
IRAQ
'Another Iraq is possible'
KASHMIR
Puntare sui giovani per raccogliere i frutti nel futuro
'Un altro Iraq è possibile': è questo il motto dell’Iraqi Social Forum (Isf), uno dei progetti messi in atto dall’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative, che nella battaglia per il rispetto dei diritti umani e della giustizia sociale cerca dal 2003 di connettere i movimenti di cittadini iracheni con la società civile internazionale. L’Isf nasce già nel settembre 2013 per riunire sotto un’unica sigla la società e i movimenti civili iracheni, le organizzazioni locali e i sindacati, e ottiene uno dei suoi primi grandi successi nell’agosto 2015: l'Isf si schiera a sostegno delle prolungate manifestazioni di migliaia di iracheni contro la corruzione che affligge il Paese e fa pressioni sul Governo, affinché approvi un pacchetto di riforme anti-corruzione e contro gli sprechi. Questo viene ratificato già nello stesso agosto da parte del Consiglio dei ministri e poi dalla Camera dei Rappresentati. Il lavoro dell’Iraqi Social Forum non si ferma qui: in ottobre viene lanciato un forum sulla pace a Baghdad, nel quale 2500 iracheni, ma anche centinaia di volontari provenienti da numerosi Paesi arabi partecipano a discussioni su un’ampia varietà di temi sociali e politici, e prendono parte a numerose attività tra cui spettacoli musicali e una maratona in onore della celebrazione della Giornata Mondiale della non-violenza. (Valeria Pauletti)
In Kashmir - Regione contesa tra India, Pakistan e Cina - date le ripetute violenze, le divisioni interne e i mancati diritti, la parola rivendicazione acquisisce una connotazione importante. Ong e gruppi di iniziativa civile hanno il ruolo fondamentale di essere i catalizzatori dell'impegno sociale. Due importanti associazioni lavorano in questo panorama: da una parte Wiscomp, che dal 1999 ha iniziato ad operare con l'intenzione di migliorare la posizione delle donne nei processi di decision-making, e dall'altra il Centro di Dialogo per la Riconciliazione (Cdr), che dagli anni 2000 ha dato molta importanza ai progetti per la risoluzione dei conflitti all'interno della comunità kashimira. Entrambe oggi si concentrano sullo sviluppo delle capacità mentali dei giovani, portando avanti, in modo separato, seminari dove i ragazzi hanno la possibilità di imparare a canalizzare, attraverso delle tecniche, l'ira e le esperienze negative della quotidianità in una mentalità imprenditoriale e di leadership creativa. L'obiettivo è rafforzare le abilità dei giovani, affinché queste siano in futuro messe al servizio della comunità per la costruzione di un futuro migliore in Kashmir. (Anna Sofia Pisani)
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La fondazione Gurudev Rabindranath Tagore di New Delhi, nella quale operano esperti della comunicazione, lavoratori sociali e ricercatori, ha utilizzato il nome di uno strumento cinese per battezzare il suo giornale: The Peace Gong. Così, come il suono del gong quando viene percosso, questa interessante proposta di giornalismo ha l'intenzione di riscuotere un profondo eco nei suoi lettori. La particolarità di questo progetto, in atto dal 2012, è il fatto che siano bambini e ragazzi dagli 11 ai 20 anni a scrivere gli articoli e le storie che riempiono le pagine virtuali di questo manifesto per la pace. La costruzione di ponti di amicizia fra i piccoli mittenti e destinatari è l'obiettivo fondamentale di questo progetto. The Peace Gong sviluppa le abilità comunicative, culturali e semiotiche dei partecipanti, i quali, già da piccoli, si muovono in un ambiente di dibattito, dialogo e confronto, dove imparano a capire le scelte e le motivazioni delle altre persone. La speranza è quella di formare una nuova specie di cittadini attivi e più attenti alla costruzione di un mondo non-violento e culturalmente integrato. (Anna Sofia Pisani)
In attesa della pace si rilancia il ruolo delle donne
KURDISTAN
Un'iniziativa di integrazione per due avversari storici
PAKISTAN
Solidarietà e rispetto per le culture
THAILANDIA
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La lotta secolare della popolazione curda, a cui ora partecipano varie organizzazioni, per la ricerca del proprio legittimo posto del mondo, la propria indipendenza, non è ancora giunta a conclusione. Donne e bambini subiscono le maggiori conseguenze dallo stato di violenza, vengono trascurati e molto spesso dimenticati, in luoghi dove vari fattori, come analfabetismo e povertà, aggravano la loro condizione. Il gruppo Wadi, un'associazione tedesca per la cooperazione e la solidarietà fondata nel 1992, attualmente lavora nel Kurdistan iracheno per fermare la pratica della mutilazione genitale delle donne. Le attiviste si recano nelle diverse località per avere incontri diretti con le famiglie delle bambine destinate all'infibulazione, spiegando loro i pericolosi danni che arreca tale pratica alla salute fisica e mentale. Wadi organizza gruppi di discussione per dialogare su questa tematica e gruppi di appoggio che seguono le persone in tutto il processo di riconciliazione ideologica. L'obiettivo è creare uno spazio di sicurezza e valore femminile, come mai è stato realizzato prima nella comunità curda. (Anna Sofia Pisani)
Le conseguenze sociali e culturali del lungo conflitto indo-pakistano hanno reso difficile qualsiasi tentativo di riconciliazione. Aman Ki Asha, cioè “speranza per la pace”, è il nome di una campagna promossa da due gruppi di media, lo Jang Group in Pakistan e il Times of India Group, con lo scopo di superare le ferite storiche ed aprire a un futuro dove dialogo, collaborazione economica e rivalorizzazione della tradizione possano avvenire all'interno di una dinamica di partnership. Il teatro e la danza sono gli strumenti fondamentali dell'iniziativa, nella quale studenti e professionisti recitano e ballano storie e canzoni di due memorie culturali diverse, si allontanano dalle loro controversie e imparano ognuno dall'altro. Significativi anche la pittura e la scrittura, soprattutto attraverso la continua stimolazione dei più piccoli con bandi e concorsi per la mostra o la pubblicazione delle varie opere d'arte vincitrici. L'obiettivo è, cercando di far leva sulle nuove generazioni, immettere più consoni modelli di integrazione. L'arricchimento culturale e la formazione di una mentalità pacifica indo-pakistana sono i massimi apporti che Aman Ki Asha lascerà come eredità. (Anna Sofia Pisani)
Rispetto per le differenze culturali, progetti di sviluppo eco-solidali ed educazione dei soggetti svantaggiati sono i punti cardine derivanti l’unione di due grandi associazioni di volontariato quali Vsa Thailand ed Oikos. Le due Ong indirizzano i propri sforzi per uno sviluppo solidale, sostenibile ed orientato in tutti gli ambiti della vita sociale delle comunità locali, in modo da favorire un’apertura per la popolazione a nuove prospettive culturali ed un futuro migliore. I progetti più importanti che figurano nell’agenda costruita dalle due organizzazioni spaziano in vari ambiti: dall’assistenza all’educazione infantile, all’educazione alimentare, alla costruzione di nuovi campi di coltivazione di frutta e ortaggi, sino al supporto dello staff medico locale e alla manutenzione di musei e santuari buddhisti. Tra i vari progetti figura quello svolto nella Provincia di Chonburi chiamato Maab Aung Agri-Nature, che ha lo scopo di insegnare alla popolazione autoctona la coltivazione del cibo biologico per uso proprio, in una Regione dove le multinazionali di gamberetti hanno distrutto per più di un ventennio le colture locali. (Lorenzo Moscufo)
'Care Nazioni Unite'
Nel Paese più povero della penisola arabica, la guerra civile e l'intervento militare a guida saudita hanno prodotto una gravissima crisi umanitaria con milioni di persone senza cibo, acqua potabile e medicinali. Ad agosto 2015 gli Huothi accettavano di mettere in atto parti rilevanti della risoluzione 2216 del Consiglio di Sicurezza Onu, che aveva attribuito a loro la responsabilità per il conflitto armato e legittimato l'intervento militare a guida saudita. Le trattative di pace a guida Onu, però, rimanevano bloccate. Il 22 ottobre 2015 Oxfam, Consiglio Norvegese per i Rifugiati, Save the Children, Action Contre La Faim e altre sette agenzie umanitarie inviano un’importante lettera aperta al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La lettera, condivisa da numerosi attori umanitari, dimostrava l’urgenza delle azioni da compiere, chiedendo innanzitutto alle Nazioni Unite di creare un corridoio umanitario per l’ingresso nel Paese di aiuti per le comunità locali. Sottolineava anche la necessità del cessate il fuoco e dell’avvio immediato del processo di pace. Oltre a questo, in una critica all'orientamento della risoluzione 2216, si chiede alle Nazioni Unite di estendere l’embargo sulle armi, finora decretato soltanto contro gli Huothi, a tutti gli attori del conbflitto e di attuare un maggior controllo sui crimini di guerra. (Valeria Pauletti)
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SITUAZIONE CONFLITTI 29 - ISRAELE/PALESTINA
Dal 1948 va avanti questa guerra infinita e senza soluzioni. Inserito nel quadro più ampio delle guerre israeliano-arabe, lo scontro ha trasformato i palestinesi in profughi in casa loro, con piccole fette di territorio controllato nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Dal 29 novembre del 2012 la Palestina è ammessa all’Onu come osservatore permanente.
30 - LIBANO
Indipendente dalla metà degli anni ’50, a lungo considerato “la Svizzera del Medio Oriente”, il Libano vive una situazione di guerra dichiarata o latente a partire dagli anni ’80 del ‘900. Fu allora che Israele lo attaccò per colpire la dirigenza palestinese. Ne seguì una guerra civile sanguinosa, che ha pregiudicato per sempre i delicati equilibri interni fra culture e religioni.
31 - SIRIA
300mila morti, 9milioni di rifugiati e sfollati: in queste cifre la guerra civile siriana, iniziata nel 2011 da parte della popolazione per liberarsi della dittatura della famiglia Assad e diventata guerra per procura, in cui si scontrano Usa, Russia Iran, Arabia saudita, Curdi, ribelli, oligarchia e Isis. Ognuno è contro tutti e la pace sembra irraggiungibile.
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rep. centrafricana
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kurdistan
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Vicino Oriente
A cura di Amnesty International
Nel Vicino Oriente vince la paura Per milioni di persone il 2015 è stato ancora un anno di guerra, devastazione e miseria. I conflitti armati in Siria, Iraq e Yemen hanno causato innumerevoli vittime civili e trasferimenti di popolazioni. Le parti coinvolte nei conflitti della Regione - forze governative e gruppi armati hanno mostrato un totale disprezzo per la vita umana. Alla fine del 2015 il numero delle vittime della guerra in Siria era arrivato a 250mila, quello dei rifugiati a 4.600.000 (oltre il 90% dei quali ospitati in Turchia, Libano e Giordania e sempre a rischio di chiusura dei confini e anche di respingimenti), quello dei profughi interni a 7.600.000. Almeno 400mila persone hanno chiuso l’anno soffrendo la fame in decine di villaggi sottoposti ad assedio. Le forze fedeli al Presidente siriano Bashar alAssad hanno continuato a bombardare i centri abitati nelle aree controllate dai gruppi armati d’opposizione, facendo anche uso dei “barili bomba” e in alcune occasioni di agenti chimici. Il numero degli “scomparsi” ha superato i 60mila: sulla sorte delle vittime di sparizione
forzate si è sviluppato un cinico mercato, nel quale presunti “mediatori” estorcono denaro ai familiari millantando di avere informazioni sui loro parenti. I gruppi armati d’opposizione, sotto il cui controllo sono rimaste ampie zone della Siria e anche dell’Iraq, hanno compiuto crimini di guerra e contro l’umanità, imponendo pene crudeli, inumane e degradanti, accanendosi in particolare contro appartenenti a minoranze religiose, donne e omosessuali e distruggendo edifici religiosi e siti archeologici. Le forze internazionali coinvolte nei conflitti della Siria e dell’Iraq hanno commesso crimini di guerra: tanto gli attacchi aerei della coalizione a guida Usa, composta da forze armate di Paesi Arabi e Occidentali quanto quelli della Russia hanno causato centinaia di vittime civili. La coalizione guidata dall’Arabia Saudita, che il 25 marzo ha avviato le operazioni militari contro le zone dello Yemen controllate dalle forze Houti, si è resa responsabile di crimini di guerra, attraverso continui attacchi contro centri abitati, infrastrutture civili, scuole, strade, ponti mercati, moschee e ospedali. Nonostante fosse impegnata in un conflitto armato, l’Arabia Saudita ha continuato a ricevere armi da Stati Uniti, Regno Unito e da altri Paesi, Italia compresa. Alla fine del 2015 il conflitto aveva provocato 2700 morti e 2.500.000 sfollati tra la popolazione civile. La tensione in Israele e nei Territori palestinesi occupati è rimasta costante. Israele ha prose-
guito a espandere gli insediamenti illegali e a restringere la libertà di movimento dei palestinesi, migliaia dei quali sono stati arrestati nei corso delle proteste. Nell’ultimo trimestre dell’anno, le forze israeliane hanno reagito al crescendo di accoltellamenti e altri attacchi di palestinesi contro civili e militari israeliani uccidendo almeno 156 persone. In quasi tutti i Paesi della Regione il dissenso è stato azzerato, attraverso incriminazioni pretestuose per attentato alla sicurezza, promozione dell’ateismo, offesa all’Islam o diffamazione nei confronti delle autorità. In Arabia Saudita tutta la dirigenza della principale associazione per i diritti umani è finita in carcere, mentre è diventata definitiva la condanna del blogger Raif Badawi a dieci anni di carcere e a 1000 frustate, 50 delle quali eseguite il 9 gennaio. In Bahrain attivisti e difensori dei diritti umani sono finiti in carcere per aver postato online commenti critici nei confronti della famiglia re-
ale. In Giordania decine di giornalisti e attivisti sono stati incriminati ai sensi della nuova legge antiterrorismo. In Iran numerosi attivisti, giornalisti, sindacalisti e artisti sono finiti in carcere per “propaganda contro il Governo”. I migranti impiegati in Qatar nel lavoro domestico e nella costruzione degli impianti e delle infrastrutture per i mondiali di calcio del 2022 hanno continuato a subire un livello estremo di sfruttamento. Le autorità hanno ritardato o non hanno attuato affatto le riforme che avevano annunciato nel 2014 ed è rimasto in vigore il sistema chiamato kafala, che lega i migranti ai loro datori di lavoro. La pena di morte è stata usata massicciamente: Iran, Arabia Saudita e Iraq sono rimasti tra i primi cinque Paesi del mondo per numero di esecuzioni. In Arabia Saudita sono state raggiunge le 157 esecuzioni, il numero maggiore degli ultimi venti anni, mentre in Iran le condanne a morte eseguite sono state un migliaio.
TENTATIVI DI PACE A cura di Giovanni Scotto
Nella Regione sta cambiando la storia L'ordine della Regione emerso con la fine della seconda guerra mondiale e del colonialismo è in crisi profonda e non appare esserci una prospettiva di uscita a breve termine. La Siria e l'Iraq sono in piena guerra civile, anche per l'avanzata del sedicente “Stato Islamico”. La Siria è l'epicentro di un conflitto regionale che vede schierati da un lato l'Arabia Saudita e le comunità sunnite locali, almeno in parte contigue all'Isis, e dall'altro l'Iran e le comunità sciite, tra cui il Governo siriano di Assad. I tentativi di trovare una soluzione negoziata alla guerra civile siriana si sono rivelati senza esito. Dal settembre del 2015 sono scese in campo anche le forze armate russe, che sostengono il Governo di Assad.
Paradossalmente, quello che per decenni era stato il problema decisivo della Regione, il conflitto irrisolto tra Israele e i palestinesi, è passato in secondo piano. Si consolida invece la capacità di autogoverno del popolo curdo, nonostante l'isolamento e l'ostilità turca. A livello regionale, una novità positiva nel 2015 è stata senz'altro l'accordo tra i Paesi del Consiglio di Sicurezza Onu e l'Iran sul programma nucleare di Teheran. Il riavvicinamento tra Iran e Occidente non ha prodotto risultati immediati per la Siria: ora però uno degli attori chiave può sedere al tavolo delle trattative.
Elenco schede Tentativi di Pace Israele/Palestina Libano Siria
Il potere della musica oltrepassa i confini
ISRAELE PALESTINA
Uno spettacolo di pace di scena in un teatro di guerra
LIBANO
Radio Souriali - FM Basta Guerra
SIRIA
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HEARTBEAT è un’ organizzazione no profit che dal 2007 riunisce giovani musicisti israeliani e palestinesi e organizza concerti, produzioni audio e video, ma anche workshop e incontri periodici in varie città israeliane e nei Territori palestinesi occupati. Heartbeat intende combattere le barriere culturali, sociali e fisiche del conflitto tramite la passione comune per la musica, che fa lavorare costantemente i giovani a stretto contatto e facilita la costruzione della comprensione e del rispetto reciproco. In questo senso è fondamentale, oltre alla presenza di musicisti professionisti, il contributo di mediatori che formano gli artisti e li aiutano a diventare protagonisti di un cambiamento sociale a sostegno della pace. Nel dicembre 2014 Heartbeat ha vinto il premio Tomorrow’s peacebuilders, assegnato alla miglior organizzazione locale di peacebuilduing, e dal 2010 offre degli scambi internazionali con la Germania. Nel febbraio 2015 è partito il suo quarto tour negli Stati Uniti: un piccolo esempio di come la musica possa davvero essere un linguaggio internazionale di pace. (Valeria Pauletti)
Rappresentare ed esorcizzare su un palco la drammatica situazione palestinese: è questo l’obiettivo dell’Istanbouli Theatre, compagnia di teatro indipendente di base a Tiro nel Sud del Libano, che avvalendosi di studenti libanesi, siriani e palestinesi si esibisce non solo sui palcoscenici, ma anche per strada e in ogni genere di spazio all'aperto, per immergersi a fondo nella difficile realtà sociale e politica dell’area. Il suo direttore, il trentenne Kassem Istanbouli, l'ha fondata con la convinzione che il teatro potesse essere più di semplice intrattenimento, diventando baluardo della resistenza della cultura e dell’arte contro la distruzione della guerra. Oggi la compagnia sensibilizza la popolazione libanese e porta i suoi spettacoli anche in numerosi Paesi arabi e europei, parlando non solo di guerra civile, ma più in generale dei problemi che affliggono la popolazione palestinese. Un tema importante negli spettacoli dell'Istanbouli Theatre è la difficile condizione delle donne, che sono spesso costrette a subire violenze, ma che hanno iniziato la lotta per vedersi riconosciuti maggiori diritti civili. Il 21 settembre 2015, in occasione della Giornata Internazionale per la Pace, il team dell’Istanbouli Theatre ha messo in scena a Tiro lo spettacolo “Marhaba” (“Buongiorno”), che è stato trasmesso in diretta streaming alla sede delle Nazioni Unite di New York. (Valeria Pauletti)
Un processo di pace non costruito dall’alta diplomazia internazionale ma dal basso, dalle persone che vivono il conflitto ogni giorno: è questo il tentativo di Radio SouriaLi, emittente libera nata nel 2012, ma censurata fin da subito e dunque costretta a lavorare in esilio e a trasmettere principalmente online per garantire la sicurezza del suo staff. I suoi programmi spaziano dai notiziari e le interviste fino alle amate soap opera che vedono protagoniste famiglie siriane, cercando di tenere informati gli ascoltatori, ma anche di offrire loro un momento di distrazione e di pausa dall’incessante conflitto. I suoi fondatori Iyad, Caroline, Honey e Mazen hanno voluto fin da subito ricordare ai propri connazionali, ormai anche geograficamente assai frammentati, le proprie tradizioni e la ricchezza culturale della Siria, e trasmettono in modo continuativo perché non svanisca la memoria dell’identità siriana. L’obiettivo che unisce chi trasmette e chi ascolta i programmi è di mantenere integra l’unità del popolo siriano e dare così un piccolo contributo nella costruzione di un futuro di pace per il Paese. (Valeria Pauletti)
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Da vent’anni i Ceceni chiedono l’indipendenza dalla Russia. Dopo due guerre devastanti, con milioni di morti e profughi e la capitale Groznyi devastata dall’Armata Russa, la guerra cova sotto la cenere di un’apparente pace. Il Governo filorusso di Kadyrov tiene sotto controllo la guerriglia islamica, pronta a colpire in nome della libertà.
33 - CIPRO
Dal 1974 - data dell’invasione turca e della guerra con la Grecia l’isola è divisa in due, una fazione filogreca e l’altra filoturca. La pace è ancora garantita da un contingente di caschi Blu, ma ora sembrano ben avviati i colloqui per arrivare ad una soluzione, con la riunificazione dell’isola. Resta da chiarire il problema delle indennità da dare a chi ha perduto i beni.
34 - GEORGIA
La questione dell’Ossezia del Sud lascia aperta la porta a possibili scontri armati con la Russia, come già accaduto nel 2008. La tensione resta alta: Mosca nel 2014 ha riconosciuto l’indipendenza di Ossezia del Sud e Abhazia, territori formalmente georgiani. Il Paese tenta la normalizzazione avvicinandosi alla Ue e avviando il processo di pre adesione alla Nato.
35 - KOSOVO
Dopo la guerra di indipendenza del 1999, supportata da parte della comunità internazionale, il Kosovo fatica a trovare equilibri e normalità. La sua sovranità non è riconosciuta da tutti gli Stati e la situazione interna resta difficile soprattutto nel Nord, con scontri continui fra la maggioranza albanese e l’ormai minoranza serba, che non riconosce il distacco da Belgrado.
36 - UCRAINA
Il Paese è in guerra del 2013, quando la rinuncia dell’allora Presidente Janukovic ad aderire alla Ue scatenò la rivolta. Sull’onda dei disordini, i filorussi di Crimea e dell’Est proclamarono l’indipendenza, aiutati da Mosca. La guerra non è ancora terminata. I morti sono migliaia e la situazione su terreno e sul piano diplomatico è tutt’altro che chiarita.
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32 - CECENIA
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Europa
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A cura di Amnesty International
Rifugiati e diritto di asilo Buco nero dell'Europa L’immagine-simbolo della crisi globale dei rifugiati e del fallimento dell’Europa nel contribuire a porvi rimedio è quella di Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni che giace privo di vita su una spiaggia turca. Prima della sua morte e dopo, nel 2015 3700 migranti e rifugiati hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere la frontiera marittima dell’Unione europea. Un milione di migranti e di rifugiati, per lo più provenienti dalla Siria, è entrato irregolarmente nell’Unione europea, per lo più dalla frontiera marittima Grecia. A fronte di questo dato, l’Unione europea non ha saputo sviluppare politiche coerenti, umane e rispettose dei diritti umani. Se l’espansione delle attività dell’agenzia Frontex ha contribuito a ridurre naufragi e vittime nel mar Mediterraneo centrale, nelle acque dell’Egeo il loro numero è aumentato in modo impressionante. Il “sistema di Dublino” ha collassato, mentre la redistribuzione dei richiedenti asilo sollecitata dalla Commissione europea non ha dato risultati significativi, così come l’impegno a reinsediare in Europa 20mila rifugiati. E se la
Germania ha dato una risposta commisurata alla dimensione della crisi dei rifugiati, altri stati membri, in primo luogo l’Ungheria, hanno creato ostacoli, posto in essere misure illegali e reagito con violenza e crudeltà all’afflusso dei migranti e dei rifugiati ungo la rotta balcanica. Alla fine dell’anno, l’Unione europea ha offerto tre miliardi di euro alla Turchia in cambio dell’impegno a rafforzare i controlli di frontiera per limitare le partenze verso la Grecia. Dopo l’accordo, le autorità turche hanno effettuato retate di rifugiati e richiedenti asilo, che in non pochi casi sono stati deportati in Siria e Iraq. Oscurato dalla crisi dei rifugiati e dalle minacce e dagli attacchi terroristici, il conflitto dell’Ucraina è proseguito, con particolare intensità soprattutto nell’area di Donetsk. Alla fine del 2015 il numero dei morti era salito a 9000, di cui almeno 2000 civili. Le parti in conflitto si sono rese responsabili di bombardamenti indiscriminati, torture, esecuzioni sommarie e altri crimini di guerra. In Turchia, lo stentato processo di pace tra Governo e Partito dei lavoratori del Kurdistan si è fermato del tutto. A partire dalla strage di Suruc si è assistito a una nuova forte militarizzazione delle aree a maggioranza curda. Le forze armate turche hanno ucciso almeno 100 civili e imposto lunghi coprifuoco in diverse aree urbane. Nel resto del Paese gli attacchi contro la libertà d’espressione si sono fatti sempre più intensi: il difensore dei diritti umani Tahir Elci assassinato, oltre cento procedimenti penali
avviati per “offesa al Presidente”, giornalisti fatti licenziare, arrestati e aggrediti. La libertà d’espressione è stata sottoposta a gravi limitazioni anche in Russia. Alla fine dell’anno il numero delle organizzazioni non governative inserite nella lista degli “agenti stranieri” aveva superato il centinaio. La storica ong “Memorial” è stata multata per non aver inserito sulle copertine delle sue pubblicazioni l’infamante etichetta di “agente straniero”. È entrata in vigore anche una legge sulle organizzazioni straniere “indesiderabili”. In Azerbaigian, nonostante il positivo rilascio di Leyla Yunus (presidentessa dell’Istituto per la pace e la democrazia) e di suo marito Arif Yunus, il numero dei prigionieri di coscienza è rimasto elevato, almeno 18 alla fine dell’anno. Gli attentati di Parigi di gennaio e novembre hanno dato luogo all’adozione di misure pericolose per i diritti umani: nuove leggi antiterrorismo, aumento dei poteri di perquisizione
e arresto, espulsioni sommarie, sorveglianza indiscriminata e di massa, provvedimenti “antiradicalizzazione” di portata ampia e potenzialmente minacciose per la libertà d’espressione. Per l’Italia il 2015 è stato un ulteriore anno perso nel campo dei diritti umani. È perdurata la discriminazione contro i rom, con migliaia di persone segregate in campi monoetnici. Il parlamento non è riuscito a introdurre il reato di tortura nella legislazione nazionale, a creare un’istituzione nazionale indipendente per i diritti umani e a garantire il riconoscimento legale alle coppie dello stesso sesso.
TENTATIVI DI PACE A cura di Giovanni Scotto
In crisi l'architettura istituzionale Nel 2015 il continente europeo è stato investito in pieno dagli effetti delle guerre alla sua periferia. In particolare, la guerra civile siriana e l'instabilità nell'Africa a Sud del Sahara hanno prodotto un flusso di rifugiati e richiedenti asilo stimato in più di un milione di persone nel 2015. Nella pericolosa traversata del Mediterraneo, durante l'anno sono morte o disperse 2800 persone. L'architettura istituzionale europea è entrata in crisi con l'arrivo di decine di migliaia di migranti, e molti Paesi, a partire dall'Ungheria, hanno deciso di chiudere le frontiere. La Germania ha annunciato di accogliere tutti i rifugiati provenienti dalla Siria, ma nonostante questo l'Ue ha preferito, nel marzo 2016, accordarsi con la Tur-
chia di Erdogan per delegare di fatto a quest'ultima la gestione del flusso di rifugiati dal vicino Paese in guerra. Le istituzioni sovranazionali di cui gli Stati europei fanno parte faticano a tenere il passo delle crisi: lo si è visto in campo economico con la crisi greca, risoltasi in un braccio di ferro in cui Atene alla fine ha ceduto a tutte le richieste di Bruxelles e Francoforte. Anche l'Osce, un tempo la camera di compensazione in cui Usa, Russia e Paesi Europei gestivano le crisi seguite alla fine della guerra fredda, è solo riuscita ad arginare la guerra in Ucraina, senza riuscire finora ad avviare il conflitto a una soluzione. La responsabilità è certo del Cremlino, ma non solo.
Elenco schede Tentativi di Pace Cecenia Cipro Georgia Kosovo Ucraina
La spiaggia come solo luogo di libertà
L'otto agosto, in Cecenia è stata inaugurata la prima spiaggia per sole donne, bagnata dalle acque del cosiddetto mare di Grozny, un lago artificiale. La spiaggia è circondata da un muro alto tre metri e gli unici visitatori di sesso maschile ammessi sono i bambini fino a 12 anni, solo se accompagnati dalle mamme. Anche il personale addetto alle operazioni di salvataggio è solo ed esclusivamente femminile. L'amministratore della struttura ha tenuto a precisare che sono state create tutte le condizioni tali per cui le donne possano riposarsi in un luogo tranquillo e, soprattutto, sicuro. Questo progetto non deve essere visto come un'ulteriore segregazione del genere femminile in un luogo difficile da vivere come la Cecenia, bensì come un'opportunità per le donne di avere un posto dove poter trascorrere in tutta sicurezza del sano relax, senza essere vessate dal potere maschile che impera su tutto il Paese, forte della legittimazione da parte del Presidente Kadyrov. (Serena Sonaglioni)
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Cauto ottimismo sul futuro dell’isola
Alla fine del 2015 è iniziato a circolare un cauto ottimismo sull'esito dei negoziati per superare la divisione dell'isola risalente all'invasione turca del 1974. Il 10 settembre, nel quadro dei colloqui per la riunificazione, il leader greco-cipriota Anastasiades e il suo omologo turco Akıncı hanno incontrato rappresentanti delle principali confessioni religiose dell'isola, cristiani ortodossi, cattolici, armeni, maroniti, oltre al Gran Mufti turco. Nei mesi successivi anche la Turchia ha dato segnali di apertura. I negoziati potrebbero giungere alla fase conclusiva nel corso del 2016 e l'accordo finale potrebbe essere sottoposto a referendum popolare nelle due parti dell'isola, dopo le elezioni politiche greco-cipriote previste per maggio. Nel 2004 un piano per la riunificazione elaborato dall'Onu era stato bocciato dai greco-ciprioti in un referendum. (Serena Sonaglioni)
Sono i giovani a cercare la pace
L'Institute for Multi-Track Diplomacy, organizzazione statunitense, insieme all'International Center for Conflict and Negotiation, anch'essa made in Usa e all'Associazione Trascend International, fondata da Johan Galtung, hanno organizzato un evento in Georgia che ha catturato l'interesse di milioni di persone a livello internazionale: si tratta dello “Youth Peace Festival”. L'iniziativa, che si è svolta dal 20 al 26 settembre, ha dato luogo a cinque giorni di conferenze incentrate sul tema della promozione nel Paese di reti sociali pacifiche e non violente. Per la prima volta, in Georgia, si è assistito ad un fatto di una simile portata che ha riunito giovani e rappresentanti accademici provenienti da tutto il mondo. Gli studenti che vi hanno partecipato hanno dimostrato, soprattutto durante le conferenze, un altissimo interesse per i temi dell'attivismo per la pace, della trasformazione dei conflitti e dei diritti umani. Il progetto è stato pensato anche per celebrare il giorno internazionale della pace: il 21 settembre. Questa manifestazione acquisisce una valenza importantissima in un Paese martoriato da anni di guerre come la Georgia. (Serena Sonaglioni)
GEORGIA
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Si punta alle nuove generazioni per la pace
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Il dialogo per immaginare il futuro
Nel Luglio del 2015, l'organizzazione Crisis Management Initiative (Cmi) ha organizzato un meeting di due giorni in Ucraina, al quale hanno partecipato esperti ed esponenti di alto livello sia russi sia ucraini. I partecipanti hanno discusso dell'attuale situazione tra Russia e Ucraina, delle relazioni che si sono create tra i due Paesi e dell'ampio contesto internazionale nel quale si inseriscono. Si è cercato poi di capire che ruolo possa svolgere il dialogo in un contesto di conflitto come questo e quali possano essere gli strumenti da utilizzare per avviare una risoluzione pacifica della controversia. L'iniziativa è stata sostenuta dal Ministero degli Affari Esteri della Finlandia. Crisis Management Initiative, fondata nel 2000 dall'ex Presidente finlandese Marti Ahtisaari. Dopo l'indipendenza raggiunta nel 1991, sembra che l'Ucraina non abbia ancora superato la complessa fase di transizione post-sovietica. Ancora oggi, Russia e Ucraina non hanno una visione condivisa di quale debba essere il futuro di quest'ultima; ed è proprio per questo motivo che il dialogo acquisisce un ruolo decisivo e fondamentale. È possibile pensare che, stimolando un pacifico scambio intellettuale tra le due fazioni, esse arrivino ad immaginare lo stesso destino per l'Ucraina. (Serena Sonaglioni)
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Il progetto 'Diversity is Opportunity', promosso dall'associazione Ecmi (European Center for Minority Iusses) intende proteggere i diritti delle minoranze etniche in Kosovo. Nasce dal desiderio di avvicinare giovani albanesi, serbi e rom attraverso corsi di formazione e laboratori creativi a Mitrovica, Prizren e Gracanica. I 32 giovani che hanno partecipato al progetto si sono presentati agli altri e hanno parlato della loro comunità, per distruggere stereotipi e pregiudizi che hanno contribuito ai lunghi anni di conflitto. Alla fine di queste giornate di incontri, i partecipanti hanno presentato un reportage, illustrando le esperienze personali con la diversità culturale in Kosovo. I vari reportage sono stati poi pubblicati online per sensibilizzare un vasto numero di persone sul tema della distanza esistente tra giovani di diverse comunità del Kosovo. Il progetto è iniziato a settembre 2015 e si è concluso nel marzo 2016. Poiché il Kosovo ha la popolazione più giovane d'Europa, è chiaro che un progetto che chiama in causa i ragazzi vuole trasmettere l'idea di un cambiamento per il futuro: infatti, si ritiene che solo creando un clima pacifico tra le nuove generazioni sarà possibile distruggere le barriere tra le comunità etniche e creare una società multietnica stabile, dove la tolleranza deve essere un principio indiscutibile. (Serena Sonaglioni)
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SPECIALE CONFLITTI AMBIENTALI
Conflitti Ambientali La redazione
Acqua, terra, risorse: cercate lì la guerra
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Quattro casi per raccontare i conflitti ambientali in corso nel mondo. L’ormai noto fenomeno del land grabbing, la Cambogia, il Kurdistan, la Valle dell’Omo tra Etiopia e Kenya e la questione Siria Iraq sono gli esempi scelti dal Centro di Documentazione sui conflitti Ambientali per raccontare un lato della guerra spesso poco analizzato, ma determinante per definire assetti geopolitici e strategici. Il land grabbing è, ad esempio, un fenomeno più che diffuso. Negli anni è arrivato a coinvolgere Stati e imprese private, non più soltanto in Africa. Non è usuale, poi, analizzare la questione curda dal punto di vista delle risorse: nel Kurdistan turco si estraggono petrolio e minerali tra cui il cromo, di cui la Turchia è tra i maggiori produttori mondiali. Inoltre proprio da quella terra contesa passa il più importante dei tre oleodotti che trasportano il greggio iracheno verso il mediterraneo. In Cambogia la corsa all’accaparramento riguarda invece la gomma:l’80% dei terreni espropriati e dati in concessione è stato destinato alla coltivazione di alberi che la producono. Questo esproprio, ovviamente, incide sul sostentamento della popolazione, che non potendo più coltivare riso soffre la fame. L’acqua è invece la protagonista della situazione del fiume Omo, il cui delta si trova in Etiopia. Qui, oltre al problema della siccità e delle produzioni intensive di biocarburanti, si aggiunge la creazione della diga di Gibe III, una infrastrutture altamente impattante che rischia di impattare su biodiversità e sicurezza alimentare delle popolazioni che dipendono dalle esondazioni stagionali del fiume. Risorse naturali e concause ambientali hanno assunto un ruolo rilevante anche nel conflitto che coinvolge Siria e Iraq. Tra le cause che lo hanno scatenato si deve quindi tenere anche in considerazione siccità, trasferimento massivo dei contadini, controllo del petrolio, e l’innalzamento dei pressi dei generi di consumo.
Conflitti Ambientali Cdca
L’ormai noto fenomeno del land grabbing coinvolge Stati e imprese private, non più soltanto in Africa. Gli Stati favoriscono gli accordi sul piano politico e diplomatico, le imprese portano avanti i progetti. Tra i principali Paesi acquirenti Arabia Saudita, Emirati Arabi e Paesi del Golfo, India, Cina, Giappone, Corea del Sud, Libia, Siria, Giordania, ma anche Germania, Stati Uniti, Gran Bretagna, Svezia. Multinazionali e fondi di investimento detengono centinaia di migliaia di ettari di terreni agricoli. Il fenomeno riguarda i Paesi con il più elevato rischio di fame e povertà, proprio quelli in cui la popolazione maggiormente dipende dall’agricoltura. I motivi sono la maggiore disponibilità e il basso costo della superficie coltivabile nonché la disponibilità di manodopera. In Cambogia il fenomeno ha assunto dimensioni tali da far pensare al più grave caso a livello globale. Già nel 2010, UN’s Food and Agriculture Organization stimava in 2,8milioni di ettari - un'area più o meno vasta come il Belgio - la superficie agricola sottratta alla popolazione cambogiana attraverso deforestazione e land grabbing. Secondo dati del 2014, il fenomeno riguarda più del 70% dei terreni arabili finiti nelle mani di grandi investitori; circa mezzo milione i cambogiani colpiti e 2mila le famiglie vittime di accaparramenti anche violenti. Da statistiche del Governo, risulta che il 20% dei terreni dati in concessione appartiene a soli 5 latifondisti. Dal 2000, circa 770mila persone, il 6% della popolazione cambogiana, sono state costrette a lasciare le proprie terre per finire, nella migliore delle ipotesi, in campi di re-insediamento. Almeno 4milioni di ettari, il 22% della superficie della Cambogia, risultano oggi occupati principalmente da piantagioni di gomma e canna da zucchero. Nel 2014 il caso è arrivato alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia. La documentazione presentata dagli avvocati parla di resistenze sedate con la violenza, 300 omicidi di matrice politica dal ‘90, villaggi rasi al suolo con operazioni di polizia, dell’esercito o delle forze private delle stesse imprese coinvolte. I casi di resistenza da parte delle comunità locali sono oggetto di dure repressioni. Il Governo di Hun Sen, al potere dal 1993 dopo il terrore dei Kmer Rossi e la guerra civile, sta letteralmente espropriando il popolo cambogiano in favore dello stesso establishment politico o di investitori stranieri. Il tutto favorito anche dall’assenza di titoli di proprietà aboliti durante il Governo dei Khmer Rossi. Tra i casi emblematici, nella Regione di Sre Ambel, le piantagioni di zucchero della Thai Khon Kaen Sugar che rifornisce le grandi multinazionali del cibo Occidentali. Nella Provincia di Mondol Kiri, al confine con il Vietnam, opera invece la Socfin-Kcd, partecipata del gruppo francese Bolloré, leader nella produzione di pneumatici. Dopo l’esproprio dei
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Cambogia: un Paese in vendita
Conflitti Ambientali Cdca
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terreni ai danni dei Bunong, minoranza etnica aborigena, nella zona è stata avviata una piantagione di circa 7mila ettari di alberi da gomma con la distruzione di terre ancestrali e luoghi di culto. L’80% dei terreni espropriati e dati in concessione in Cambogia è stato destinato alla coltivazione di alberi da gomma. Una situazione che ha effetti anche sulla sicurezza alimentare data la sostituzione delle coltivazioni di riso, fondamentali per il sostentamento della popolazione. Il controllo dell’agricoltura all’estero rappresenta per alcuni Paesi la risposta alla crisi alimentare ma anche alla crescente domanda di agro-energie e di nuovi materiali grezzi per la produzione manifatturiera. In altri casi si tratta di investimenti in terreni agricoli sui mercati finanziari operati da banche o grandi investitori privati. A preoccupare sono le dimensioni e le modalità assunte da questo fenomeno in epoca non coloniale, con implicazioni sui problemi connessi alla fame nel mondo e un forte ostacolo allo sviluppo dei Paesi che cedono le loro risorse.
Kurdistan: acqua e petrolio in terra di spartizione Il Kurdistan è la Regione geofisica di 450mila kmq prevalentemente abitata dai curdi e politicamente divisa fra Turchia, Iran, Iraq e, in minor misura, Siria ed Armenia. Poco più della metà del Kurdistan è situata all’interno dei confini turchi per un’estensione pari al 30% del territorio della Turchia. Il Kurdistan occupa poi il 7,5% (125mila kmq) del territorio iraniano, il 17% (74mila kmq) di quello iracheno e il 10% (18.300 kmq) di quello Siriano, qui però senza continuità geografica. Se il Kurdistan raggiungesse l’unità politico-amministrativa potrebbe essere tra gli Stati più ricchi del Medio Oriente per quantità di petrolio e acqua nonché per la sua posizione strategica. Nel Kurdistan turco si estraggono petrolio, nell’area di Siirt, Raman, Garzan, Diyarbakir, e minerali tra cui il cromo, di cui la Turchia è tra i maggiori produttori mondiali. Di qui passa anche il più importante dei tre oleodotti che trasportano il greggio iracheno verso il mediterraneo. Kerashuk, Ramelan, Zarbe, Oda, Sayede e Lelak sono i pozzi petroliferi del Kurdistan siriano. I curdi abitano la Provincia di Kermanshah in Iran, dove si produce petrolio per il consumo interno mentre, in Iraq, sono insediati nell’area da cui proviene il 75% del petrolio iracheno. Dal Kurdistan passano anche le linee di trasporto degli idrocarburi provenienti dai giacimenti del Mar Caspio e delle repubbliche centrasiatiche. Tutto ciò ha fatto di questa Regione una terra di spartizione, imponendo ai curdi forti discriminazioni. Atteggiamento non troppo diverso hanno
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avuto le potenze Occidentali. Il Regno Unito, ad esempio, per tutelare i propri interessi nella zona più ricca di petrolio assegnatagli all’interno del Mandato britannico dell'Iraq, ne ha ostacolato l’autonomia proprio quando questa sarebbe stata storicamente favorita dallo sfaldamento dell’Impero Ottomano alla fine della prima guerra mondiale. Ad oggi, dopo la fine del Regime di Saddam Hussein, solo il Kurdistan iracheno gode di una certa autonomia politica, come regione federale. Il Kurdistan siriano ha acquisito invece un’autonomia di fatto con l’inizio della guerra civile siriana. Nello scenario attuale, la popolazione curda è schiacciata, da un lato, dalla pressione dell’estremismo jihadista dell’Isis in Siria e Iraq, inconciliabile con qualsiasi forma di autonomia; dall’altro, dal controllo militare esercitato dal Governo Turco. Oltre al petrolio, a giocare un ruolo determinante sono le risorse idriche. Sia l’Eufrate che il Tigri nascono nel Sud-Est della Turchia abitato dai curdi. Il primo dei due fiumi si trova per l’88% in territorio turco e per il 12% in Siria. Il secondo è alimentato soprattutto dagli affluenti iracheni e si trova per il 51,8% in Turchia e per il 49,2% in Iraq. La Siria utilizza le basi dei guerriglieri curdi del Pkk sul suo territorio come strumento di pressione anche per bilanciare la posizione a valle del bacino dell’Eufrate. La militarizzazione del territorio, l’insicurezza, la condizione periferica di quest’area della Turchia spingono le popolazioni agricole curde all’urbanizzazione forzata. Negli anni ’90 iniziarono gli accordi internazionali per lo sfruttamento delle risorse idriche che seguivano ai progetti idraulici degli anni ’70. Tra questi, il Gap Progetto Idrico per l’Anatolia Sud-Orientale, prevede la costruzione di ventuno dighe, diciassette centrali idroelettriche e centinaia di chilometri di canali e condotte. Emblematica, riguardo agli effetti, la città di Hasankeyf, a pochi chilometri dal confine con la Siria e con l’Iraq e già al centro delle rotte del petrolio turco verso il Nord. Qui la diga di Ilisu, in cantiere dalla metà degli anni Novanta, alta 138 metri e larga 1.820, un lago artificiale di 313 chilometri quadrati che dividerebbe in due il territorio abitato dai curdi e una centrale elettrica con 1.200 Mw di potenza, provocherebbero la sommersione delle rovine millenarie e del minareto del 1400 oltre che un imprecisato numero di profughi. I lavori, ripresi nel 2011, hanno assunto una maggiore rilevanza strategica con lo sconquassamento della situazione irachena e siriana. Se le dighe di questi due Paesi dovessero ritornare ad essere gestite secondo logiche ostili alla Turchia, questa perderebbe il controllo dei bacini idrici della zona. D’altra parte, la diga di Hasankeyf e i numerosi progetti di irrigazione del bacino del Tigri provocherebbero la diminuzione della portata del fiume in Iraq e Siria. Il carico ambientale del progetto nel suo complesso è facilmente immaginabile in termini di sconvolgimento del paesaggio, squilibri dell’ecosistema, impatto sul clima, carico alluvionale dei numerosi laghi artificiali. A questo si uniscono le ripercussioni economiche e gli sconvolgimenti sociali per le popolazioni curde. È infatti nelle zone curde che si sviluppa una gran parte del progetto Gap e questo implica l’intensificarsi del controllo militare del governo turco e delle relative tensioni.
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Land and water grabbing nella Valle dell’Omo Il lago Turkana, situato all’interno della Rift Valley, nell'Africa Centro-Orientale, ha una superficie di 6.405 km² ed è il più grande lago permanente del mondo in zona desertica. Suoi immissari sono l'Omo, il Turkwell e il Kerio. La superficie del lago è quasi completamente all'interno dei confini del Kenya; solo la parte settentrionale, in corrispondenza del delta del fiume Omo, si trova in Etiopia. A 30 chilometri dal lago, in Kenya, si trova il sito archeologico di Nataruk, scoperto nel 2012. Qui, nel gennaio 2016, gli scavi hanno riportato alla luce quella che ad oggi risulta essere la più antica testimonianza di una guerra che sia mai stata scoperta. Si tratta delle ossa fossili di un gruppo di cacciatori-raccoglitori uccisi nell’ambito di un conflitto per il controllo delle risorse e risalenti a circa 10mila anni fa. Ancora oggi la conflittualità per l’accesso a risorse sempre più scarse interessa quest’area, il fenomeno tende però a radicalizzarsi a causa dall’aumento delle temperature e della siccità cui si aggiungono scelte riguardanti la gestione del territorio. Agli anni ’60 e ’70 risale l’istituzione di due Parchi nazionali che non hanno visto il coinvolgimento dei popoli indigeni nella gestione. Negli anni ’80 sono iniziati processi di implementazione di grandi fattorie irrigate e controllate dallo Stato a scapito dell’agricoltura tradizionale. Nel 2011, il Governo etiope ha cominciato ad affittare vasti appezzamenti di terra ad aziende malesi, italiane, indiane e coreane per la coltivazione di palma da olio, jatropha, cotone e mais destinati alla produzione di biocarburanti. Alle popolazioni indigene è stato così imposto il trasferimento coatto in campi di re-insediamento, reprimendo ogni opposizione e militarizzando la Regione per tutelare le piantagioni e le infrastrutture in costruzione. Le popolazioni sono state private dei pascoli e assoggettate a regimi di dipendenza da aiuti governativi. A tutto questo si aggiunge la realizzazione di infrastrutture gravemente impattanti. Al confine tra Etiopia e Kenya, lungo il corso del fiume Omo, insiste la diga di Gibe III in fase di completamento. Il costo dell’opera è stato stimato in 1,8miliardi di dollari e dovrebbe generare 6.500 gigawatt di energia all’ora. L’Italia è coinvolta nel progetto attraverso la società Salini, che ha già realizzato la Gibe II, sempre lungo il corso del fiume Omo. Il Governo etiope non ha mai approfondito i possibili impatti ambientali della costruzione delle dighe mentre quello keniota non ha difeso i diritti delle popolazioni che abitano sulle sponde del lago. L’energia prodotta non serve a soddisfare i bisogni della popolazione etiope che in quell’area nemmeno usufruisce degli allacci alla rete, bensì alla vendita di energia al Kenya. La rete per il trasporto dell’energia è stata realizzata con gli investimenti della Banca Mondiale. Il territorio della bassa Valle dell’Omo ospita una delle ultime foreste pluviali dell’Africa sub-sahariana. Biodiversità e sicurezza alimentare della popolazione dipendono dalle esondazioni stagionali del
Conflitti Ambientali
fiume. I sistemi di irrigazione necessari all’agricoltura intensiva, lo sbarramento operato dalle dighe e i bacini artificiali, uniti al riscaldamento globale e alla siccità, potrebbe ridurre del 70% l’afflusso di acqua al lago Turkana con conseguenze facilmente intuibili. Il livello delle acque, secondo gli studi idrogeologici, potrebbe subire un calo compreso tra i 16 e i 22 metri a fronte di una profondità media dell’invaso pari a 31 metri. A rischio i fragili ecosistemi, le riserve di pesca e la piccola agricoltura da cui dipendono le tribù Bodi, Daasanach, Kara, Kwegu, Mursi e Nyangatom che vivono sulle rive del Turkana e del fiume Omo. Altri popoli, come gli Hamar, i Chai, i Suri e i Turkana possono accedere alle risorse generate dalle piene attraverso un antico sistema di alleanze etniche. Anche se tra le varie tribù ci sono rapporti di cooperazione e scambi commerciali, l’accesso a risorse scarse è da sempre motivo di periodici conflitti ma la sottrazione di risorse e il loro deterioramento ha accentuato la competizione e messo la popolazione in costante rischio di “catastrofe umanitaria”. L’introduzione delle armi da fuoco ha poi radicalizzato la pericolosità di questi conflitti rispetto al passato. A tutto ciò, bisogna aggiungere le operazioni militari condotte dai soldati etiopi a danno, ad esempio, dei pastori Hamar e delle altre tribù che si oppongono alle politiche governative di “villagizzazione”. Nel 2013, la guerra armata per il controllo dell’acqua causò decine di morti e 60mila profughi. Nello stesso anno l’Unesco ha scoperto, proprio nel deserto del Turkana, una delle falde acquifere sotterranee più grandi al mondo, circa 250miliardi di metri cubi di cui possono esserne sfruttati 3,4 l’anno senza intaccare la portata della falda. Tutto ciò a patto di non stravolgere l’ecosistema in superficie. L’anno precedente, nella stessa Regione, era stato scoperto un giacimento di petrolio, il cui valore sembra irrisorio rispetto alle enormi riserve d’acqua.
L’Isis e la guerra in Siria e Iraq: tra clima e controllo delle risorse Il conflitto siriano, innescato nel marzo 2011 dalle proteste contro il regime monopartitico del Presidente Baššār al-Asad e velocemente sfociato in guerra civile ha ridotto in povertà il 60% della popolazione e generato 7milioni di profughi. Al comando della ribellione armata vi era inizialmente l’Esercito Siriano Libero il cui ruolo è andato però marginalizzandosi a vantaggio dell’estremismo jihadista di stampo salafita che mira all’istituzio-
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ne della Shari'a in Siria, in particolare nella parte Orientale del Paese. Al Fronte al-Nusra, affiliato ad Al-Qaeda, si è affiancato a partire dal luglio 2013, lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (Isis), esercito composto in prevalenza da miliziani non siriani. Il conflitto ha così assunto connotazione internazionale e carattere religioso legando le proprie sorti ai giochi di potere per il controllo delle risorse strategiche. Dal canto suo, l'Isis è ben presto entrato in guerra anche con l’Esercito Siriano Libero accusato di secolarismo, eresia e di essere sostenuto dall’Occidente. La guerra si è così estesa all’Iraq e ha messo in moto un complicato gioco di alleanze internazionali. Il presidente Baššār al-Asad e l’establishment del Partito Ba’th appartengono alla comunità alawita, componente sciita minoritaria in Siria e appoggiata da Iran e Iraq, Paesi a maggioranza sciita che mirano alla creazione di una macroregione estesa fino al Libano. I ribelli, ma sempre più la componente jihadista, sono invece sostenuti dai Paesi a maggioranza sunnita: Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Stati Uniti, Francia e Regno Unito, inizialmente ostili al regime di Baššār al-Asad, hanno ripreso rapporti diplomatici con il Governo siriano in seguito all’avanzata dell’Isis e di Al-Qaeda, in questo modo allontanandosi però anche dall’Esl (Esercito Siriano Libero). Cina e Russia appoggiano il regime siriano. Risorse naturali e concause ambientali hanno assunto un ruolo mutevole a seconda delle fasi del conflitto. Le manifestazioni antigovernative del 2011, di carattere laico e alimentate da istanze democratiche e richieste di maggiore equità sociale ed economica, si inserivano nel contesto delle primavere arabe. Fattore accelerante di queste tensioni furono il riscaldamento globale e l’inaridimento dei terreni agricoli, nell’ambito di un lungo periodo di siccità che ha colpito la Siria tra il 2006 e il 2011, portando un milione e mezzo di contadini a trasferirsi verso i centri urbani. Questi migranti interni, una volta giunti in città, hanno trovato condizioni di vita difficili a causa dell’innalzamento dei prezzi dei generi alimentari e di prima necessità, anch’esso correlato alla siccità e alla crisi agricola. L'aumento del rischio di guerre proporzionato a quello delle temperature, soprattutto nell'Africa subsahariana, è un fenomeno osservato da anni. Anche in Egitto, sempre nel 2011, l’innalzamento dei prezzi dei generi di consumo fu uno dei motivi scatenanti del conflitto. Secondo il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Ipcc) e il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti il cambiamento climatico è un fattore che acuisce le minacce per la sicurezza nazionale e internazionale. Con l’internazionalizzazione del conflitto siriano e l’avanzata della componente jihadista, siccità, cambiamenti climatici e lotta per il controllo delle risorse strategiche hanno inciso invece da un altro punto di vista. L’Isis ha puntato al controllo delle dighe dell’ex mezzaluna fertile, come quella di Tabqa che rifornisce di acqua le maggiori città della Siria e rappresenta la principale fonte di energia per 5milioni di persone. In secondo luogo, il controllo dei campi petroliferi ha significato per l’Isis la produzione e la vendita di 50milioni di barili al giorno in Siria e 30milioni in Iraq. I proventi di queste attività hanno permesso stipendiare i combattenti ingrossandone le fila. Infine, le risorse idriche sono diventate obiettivi militari sempre più importanti per il controllo delle città e delle campagne circostanti. La minaccia di sospendere i rifornimenti idrici, ha caratterizzato l’avanzata dell’Isis in Iraq e in Siria, con gli attacchi agli impianti del Tigri e dell’Eufrate per costringere la popolazione a spostarsi. Questo tipo di minaccia è acuito dalla perdurante siccità che rende ancora più difficile la produzione di generi di prima necessità. Anche questa, tuttavia, non è una novità introdotta dal conflitto siriano ma solo un aspetto meno raccontato. Negli anni ’80, Saddam Hussein utilizzò gli stessi metodi contro i ribelli sciiti mentre i fiumi Tigri ed Eufrate sono sempre stati al centro di conflitti e l’acqua un elemento di ricatto e strategia militare.
1) UNTSO
9) UNOCI
2) UNMOGIP
10) MINUSTAH
3) UNFICYP
11) UNAMID
4) UNDOF
12) MONUSCO
United Nations Military Observer Group in India and Pakistan (Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite in India e Pakistan) United Nations Peacekeeping Force in Cyprus (Forza delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace a Cipro) United Nations Disengagement Observer Force (Osservatori delle Nazioni Unite per il ritiro)
5) UNIFIL
United Nations Interim Force in Lebanon (Forza temporanea delle Nazioni Unite in Libano)
6) MINURSO
United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara (Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale)
United Nations Operation in Côte d’Ivoire (Operazione delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio) United Nations Stabilization Mission in Haiti (Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti) African Union and United Nations Hybrid Operation in Darfur (Operazione Ibrida dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite in Darfur) United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo (Missione di Stabilizzazione della Repubblica Democratica del Congo)
13) UNISFA
United Nations Interim Security Force for Abyei (Missione per la Sicurezza nell’area di Abyei, Sud Sudan)
14) UNMISS
United Nations Mission in the Sud Sudan (Missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan)
7) UNMIK
15) MINUSMA
8) UNMIL
16) MINUSCA
United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (Missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione temporanea del Kosovo) United Nations Mission in Liberia (Missione delle Nazioni Unite in Liberia)
United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali (Missione di stabilizzazione in Mali) United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Central African Republic (Missione di stabilizzazione nella Repubblica Centroafricana)
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United Nations Truce Supervision Organization (Organizzazione delle Nazioni Unite per la Supervisione della Tregua)
Operazioni di pace delle Nazioni Unite Operazioni di pace in corso Missione
Data inizio
Truppe
Osservatori militari
Polizia
Civili internazionali
UNTSO
mag-48
0
150
0
88
UNMOGIP
gen-49
0
44
0
25
UNFICYP
mar-64
861
0
55
33
UNDOF
giu-74
788
0
0
50
UNIFIL
mar-78
10.521
0
0
257
MINURSO
apr-91
26
216
0
84
UNMIK
giu-99
0
8
8
109
UNMIL
set-03
2.626
77
1.179
358
UNOCI
apr-04
4.457
185
1.380
301
MINUSTAH
giu-04
2.368
0
2.382
304
UNAMID
lug-07
14.345
179
2.929
811
MONUSCO
lug-10
16.938
454
1.226
816
UNISFA
giu-11
4.410
135
17
130
UNMISS
giu-11
11,782
185
1.105
787
MINUSMA
mar-13
10.645
39
1.097
585
MINUSCA
apr-14
9.639
164
1.883
518
89.406
1.836
13.261
5.256
Totale:
70
Missione
Civili locali
Volontari ONU
Personale totale
Vittime
Bilancio (US$)
UNTSO
146
0
384
50
74,291,900 (2014-15)
UNMOGIP
47
0
116
11
19,647,100 (2014-15)
UNFICYP
118
0
1.067
183
52,538,500
UNDOF
90
0
928
46
51,706,200
UNIFIL
591
0
11.369
309
506,346,400
MINURSO
157
12
495
15
53,190,000
UNMIK
219
24
368
55
40,031,000
UNMIL
801
183
5.224
196
344,712,200
UNOCI
660
137
7.120
137
402,794,300
MINUSTAH
941
97
6.092
183
380,355,700
UNAMID
2.601
157
21.022
230
1,102,164,700
MONUSCO
2.654
404
22.492
100
1,332,178,600
UNISFA
72
31
4,795
20
268,256,700
UNMISS
1.215
435
15.509
42
1,085,769,200
MINUSMA
661
143
13.170
81
923,305,800
MINUSCA
242
181
12.627
19
814,066,800
11.215
1.804
122.778
1.677
circa $8.27 miliardi
Totale:
Documento preparato dalla sezione Pace e Sicurezza del Dipartimento d’Informazione Pubblica delle Nazioni Unite, in collaborazione con il Dipartimento per le Operazioni di Peacekeeping, la Divisione Finanziaria per il Peacekeeping dell’Ufficio di Pianificazione del Programma, di Bilancio e Contabilità, e del Dipartimento per gli Affari Politici DPI/1634/Rev.178 - March 2016
Nazioni Unite I Caschi Blu Raffaele Crocco
Sono115mila uomini e donne, arrivano da 122 Paesi diversi e cercano di fernare la guerre - o di non farla riesplodere - in 16 aree del Pianeta. Se vogliamo prenderela dalla parte dei numeri, le missioni dei caschi Blu dell’Onu si riassumono così, in questo momento. Vita difficile e contradittoria, la loro. In Africa, alcune missioni sono coinvolte in scandali a sfondo sessuale. Ovunque, le regole d’ingaggio decise dall’Assemblea delle Nazioni e gli interessi delle cosiddette Grandi Potenze, portano gli uomini con la bandiera Onu ad essere impotenti dinnanzi agli eccidi, alle violenze. Di impotenza è buon esempio la missione Minurso, nel Sahara Occidentale. È lì dal 1991, per garantire la fine della guerra fra Saharawi e Marocco e per permettere lo svolgimento del referendum sull’indipendenza del sahara Occidentale. Dopo 25 anni non è accaduto nulla, il Marocco ha inasprito le posizioni, isolando anche la missione. I Saharawi, dal canto loro, minacciano di riprendere le armi. Insomma: un disastro diplomatico, politico e umano. Le polemiche sono spesso feroci. Le missioni costano. Tentare di mantenere la pace, di garantire la sicurezza, ha costi enormi, maggiori che fare la guerra. Questi soldi l'Onu dovrebbe averli dagli Stati che formano l'Assemblea: non è così. O almeno non è sempre così. Molti Paesi pagano in ritardo o non pagano mai, creando situazioni di “ricatto politico” difficili da gestire. Così, far partire una missione, organizzarla, gestirla, diventa un compito titanico, che richiede tempi lunghi e grandi capacità diplomatiche. Vista così, verrebbe da dire: basta, torniamo a casa. Troppo facile., troppo sbagliato. Le missioni Onu restano per milioni di esseri umani l’unica speranza concreta di sopravvivevere, l’unico punto di riferimento. Gli uomini e le donne con il casco blu sono spesso la vera differenza fra la vita e la morte per tanti, troppi. Nel 1988, le forze di pace dell’Onu hanno vinto il Nobel, perché “i giovani di diverse nazionalià, in sintonia con i loro ideali, si fanno carico volontariamente di un compito impegnativo e pericoloso come la pace”. Sul campo, negli ultimi 60 anni sono morti 2.400 peacekeeper. Venivano da 118 differenti Paesi. Sono morti per portare la pace: non dimentichiamoli e non rendiamoli inutili dimenticandoci che l’Onu - con tutti i suoi difetti - è l’unico strumento che abbiamo per tentare di fermare, oggi, la guerra.
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Caschi Blu, polemiche e scandali non devono uccidere la speranza
Vittime di guerra Federico Fossi
Crisi mondiale di rifugiati L'esodo appare infinito
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“Nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra’’ Warsan Shire, poetessa Somalo-Britannica Lo scorso 15 marzo la guerra in Siria è entrata nel suo sesto anno. Questi cinque anni di conflitto violentissimo hanno ridisegnato lo scenario globale delle migrazioni forzate, sfiancando i Paesi limitrofi e mettendo in forte discussione i valori su cui si fonda l’Unione Europea. Le statistiche mostrano picchi di rilevanza drammatica, oltre 250mila civili uccisi e più della metà della popolazione costretta ad abbandonare la propria casa: 5milioni di rifugiati ospitati in Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto; quasi 7milioni sfollati all’interno del Paese. Di questi ultimi, oltre la metà sopravvive a stento in luoghi dai quali in pochi riescono a fuggire e dove gli aiuti umanitari non possono arrivare. La Siria è oggi un Paese quasi irriconoscibile e ci vorranno generazioni per ricostruirlo. L’esodo siriano ha prodotto forti ripercussioni sulle economie dei Paesi limitrofi, e la vita per i siriani in esilio è sempre più difficile. Circa l'86% dei rifugiati che abitano fuori dai campi profughi in Giordania vive al di sotto della soglia di povertà di 3,2 dollari al giorno. In Libano, il 55% dei rifugiati vive in alloggi precari e improvvisati. In tutta la Regione, con il trascinarsi della crisi, le speranze di tornare a casa stanno andando in fumo. I rifugiati diventano sempre più poveri e, pratiche come il lavoro minorile, l’accattonaggio e i matrimoni precoci sono in aumento. La competizione per un posto di lavoro, per la terra, l’acqua, l’alloggio e l’energia all’interno delle comunità ospitanti, già vulnerabili, esercita una continua pressione sulla capacità di queste comunità di far fronte alle necessità dei nuovi arrivati e di sostenerli. I cittadini siriani compongono oggi quasi la metà di tutti i rifugiati e migranti che attraversano il Mediterraneo per cercare protezione in Europa. Un totale di milione di persone nel 2015, 860mila in Grecia, e poco più di 150mila in Italia. Oltre 3700 morti nel Mediterraneo Centrale ed Orientale. Famiglie spezzate dal lutto e dalla sofferenza. Uomini, donne e bambini dispersi in mare e mai recuperati. “Io e mio marito avevamo venduto tutto e avevamo lavorato 15 ore al giorno in Turchia per poterci permettere il viaggio. Il trafficante ha messo 152 di noi su un’imbarcazione. Quando l’abbiamo vista molti di noi volevano tornare indietro, ma ci ha detto che chi se ne fosse andato non avrebbe ricevuto indietro i soldi. Non avevamo scelta. Nel mare abbiamo colpito una roccia, ma il capitano ha detto di non preoccuparsi. L’acqua ha cominciato ad entrare nella barca, ma lui ci ha detto di stare calmi. Noi eravamo nel compartimento inferiore che ha incominciato a riempirsi di acqua. Eravamo troppo stretti per muoverci. Tutti hanno cominciato ad urlare. Io e mio marito siamo stati gli ultimi a uscire vivi dalla barca, lui era riuscito a
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spingermi fuori dalla finestra, ma una volta in acqua, si è tolto il salvagente e l’ha dato ad un’altra donna. Abbiamo nuotato più che potevamo. Dopo parecchie ore, mi ha detto che era troppo stanco per continuare a nuotare e che si sarebbe messo steso a pancia in su a galleggiare per riposarsi. Era buio e non vedevamo nulla. Le onde erano grosse. Lo sentivo che chiamava il mio nome ma poi la voce si è fatta sempre più lontana. Alla fine una barca ha trovato me, ma non hanno mai trovato mio marito.” Storia di: Brandon Stanton - Humans of New York Le immagini e le storie di queste famiglie sconvolgono gli animi per un frammento di tempo troppo breve per essere in grado di contenere anche le soluzioni a questo dramma infinito. La crisi dei rifugiati è arrivata in Europa. È una crisi di rifugiati, non è un fenomeno migratorio: oltre l’80% di chi arriva via mare e prosegue il suo cammino in Europa proviene da Paesi in guerra come la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan. Le migrazioni forzate su scala mondiale provocate da guerre, conflitti e persecuzioni hanno raggiunto i massimi livelli registrati sinora, oltre 60milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case. Mai dalla Seconda Guerra Mondiale si era raggiunta una soglia tale, e i numeri sono in rapida accelerazione. La guerra in Siria rimane la crisi che dà origine al maggior numero di rifugiati e sfollati interni. Ad ogni modo, anche escludendo dal calcolo tale conflitto, la tendenza generale è quella di un aumento delle migrazioni forzate in tutto il mondo. Durano da decenni le condizioni di instabilità e conflitto in Afghanistan, Somalia e in altri Paesi, e ciò implica che milioni di persone provenienti da questi luoghi continuano a spostarsi o – come si verifica sempre più spesso – rimangono confinate per anni nelle periferie della società, nella paralizzante incertezza di essere degli sfollati interni o dei rifugiati a lungo termine. Negli ultimi sei anni, sono scoppiati o si sono riattivati almeno 15 conflitti: otto in Africa (Costa d'Avorio, Repubblica Centrafricana, Libia, Mali, Nord-Est della Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan e quest'anno Burundi); tre in Medio Oriente (Siria, Iraq e Yemen); uno in Europa (Ucraina) e tre in Asia (Kirghizistan, e diverse aree del Myanmar e del Pakistan). Solo poche crisi possono dirsi risolte e la maggior parte di esse continuano a generare nuovi esodi forzati. Nel 2014, ogni giorno 42500 persone in media sono diventate rifugiate, richiedenti asilo o sfollati interni, dato che corrisponde a un aumento di quattro volte in soli quattro anni. In tutto il mondo, una persona ogni 122 è attualmente un rifugiato, uno sfollato interno o un richiedente asilo. Il dato più allarmante è che più della metà dei rifugiati a livello mondiale sono bambini. Un maggior numero di rifugiati bloccati in esilio aumenta di conseguenza la pressione sui Paesi che li accolgono, una situazione che, se non gestita adeguatamente, può portare anche all’aumento del risentimento nei confronti dei rifugiati e favorire la politicizzazione del tema. Nonostante questi rischi, la prima metà del 2015 è stata caratterizzata anche da una straordinaria generosità: considerando i rifugiati sotto il mandato dell’Unhcr, la Turchia è il Paese che, in assoluto, ne ospita il maggior numero al mondo, con 1.84milioni di rifugiati sul suo territorio al 30 giugno. Il Libano, invece, con 209 rifugiati ogni 1.000 abitanti, ospita il maggior numero di rifugiati rispetto alla propria popolazione. L’Etiopia è il Paese che spende di più in rapporto alla dimensione della sua economia, con 469 rifugiati per ogni dollaro del suo Pil (pro capite, a parità del potere d’acquisto). Nel complesso, la maggior parte della responsabilità globale di ospitare i rifugiati continua ad essere sostenuta da Paesi confinanti con le zone di conflitto, molti dei quali sono in via di sviluppo. Quasi 9 rifugiati su 10 (86%) si trovavano in Regioni e Paesi considerati economicamente meno sviluppati. Le migrazioni forzate hanno una grande influenza sui nostri tempi. Toccano le vite di milioni di esseri umani come noi, sia quelli costretti a fuggire che quelli che forniscono loro riparo e protezione. Non c’è mai stato così tanto bisogno di tolleranza, compassione e solidarietà con le persone che hanno perso tutto. L'Europa sta facendo una pessima figura. L'Europa dei cittadini si divide fra chi ha paura, chi teme per la propria sicurezza, e chi si prodiga a dare una mano, per semplice spirito umanitario e di solidarietà. L'Europa dei Governi tentenna, si sfalda, e nel peggiore dei casi innalza barriere, fiaccando arbitrariamente quel principio su cui si fonda la Convenzione di Ginevra del 1951, il principio che garantisce l'accesso al territorio per chiedere protezione internazionale. "È ora di riaffermare i valori su cui è stata costruita l'Europa" ha recentemente affermato Filippo Grandi, nuovo Alto Commissario Onu per i Rifugiati. Vorremmo vedere più programmi di reinsediamento e di ammissione umanitaria, più ricongiungimenti familiari, più sponsorizzazioni private, più visti umanitari, di studio e di lavoro. Questi sono gli strumenti che possono diminuire il traffico di persone, gli spostamenti interni e le pericolose traversate via mare.
Formazione e Pace Flavio Lotti
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Please Stop the War! Per questo serve la scuola “Please, Stop the War!”. E’ l'appello di un bambino siriano di 13 anni in fuga dalla guerra. Un appello semplice e diretto, raccolto da un giornalista di Al Jazeera il 2 settembre 2015, a Budapest, mentre la polizia ungherese tentava di bloccare un gruppo di profughi che voleva salire sul treno per andare in Germania. “Vi prego aiutate i siriani” dice Kinan Masalmeh parlando in inglese. "Lo so che la polizia non ama i siriani… in Serbia, in Ungheria, in Macedonia, in Grecia... Ma noi non vogliamo venire in Europa. Vi chiedo solo di fermare la guerra!… Se fermate la guerra noi non veniamo in Europa… Per favore, aiutate i siriani. I siriani hanno bisogno di aiuto adesso! Basta che fermate la guerra… vi chiedo solo quello…” Nelle parole di questo bambino siriano c’è quello che molti non vogliono capire. Se vogliamo risolvere la crisi dei rifugiati dobbiamo andare alla radice del problema e fermare le guerre. Ma come si ferma una guerra? Chi può farlo? Con quali strumenti? Il problema è difficile. Tant’è che molti “responsabili della politica internazionale” ci rinunciano o scaricano su altri la responsabilità di intervenire. Per questo la guerra in Siria continua incessante da più di cinque anni, facendo strage di vite umane, di legalità e di diritti, spargendo odio e violenza in ogni dove. Il problema è difficile ma ineludibile. La guerra non conosce confini. E’ un mostro mutante capace di rigenerarsi e dilagare dappertutto. 100 anni fa, due soli colpi di pistola a Sarajevo bastarono a dare inizio alla Prima Guerra Mondiale e al secolo più violento della storia. Oggi, nell’era della
globalizzazione e dell’interdipendenza, può bastare un clic. Si sa che i problemi difficili spaventano e spesso tendiamo a ignorarli. Eppure non abbiamo alternative. Questo è il tempo in cui dobbiamo imparare a fare cose difficili: fermare la guerra, fare le paci, azzerare la fame, debellare la sete, sradicare la miseria, proteggere il pianeta. Il primo posto da dove cominciare è la scuola e l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti è un ottimo strumento di lavoro. Dopo un anno di sperimentazioni didattiche effettuate in 10 scuole, elementari, medie e superiori, del Friuli Venezia Giulia possiamo tracciare alcune prime indicazioni.
2. Una scuola connessa con il presente sa che per aiutare i nostri ragazzi a conoscere e capire le guerre e i conflitti dei nostri giorni è necessaria una programmazione didattica coerente con gli obiettivi di educazione alla cittadinanza glocale (locale, nazionale, europea, mondiale). 3. Il tema è brutto e difficile, ma ci sono tanti modi per affrontarlo in ogni classe, ad ogni età. Si può partire dalla presenza di un rifugiato in classe o a scuola e avviare un percorso straordinario che consentirà ad ogni studente di conoscere alcune delle principali dinamiche della società contemporanea, sviluppare capacità e consapevolezza critica, rivedere concezioni stereotipate e pregiudiziali della realtà, sentire la costruzione della pace e dei diritti umani come compito di ogni persona. 4. Si può cominciare con la presentazione dell’Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo, una riflessione sulle principali dinamiche della guerra moderna e il confronto storico con la prima guerra mondiale. Ma poi si deve allestire un vero e proprio laboratorio di studio e ricerca centrato sul protagonismo degli studenti, l’educazione all'uso critico dei vecchi e nuovi media e sull’intervento della scuola nel territorio in collegamento con le amministrazioni locali e la società civile. 5. Il percorso didattico si può articolare in tre esercizi: lo studio del problema (il conflitto prescelto) e la costruzione di una mappa concettuale; la ricerca delle soluzioni possibili e il confronto tra le diverse tesi emerse; la presentazione alle famiglie, alle istituzioni locali e alla cittadinanza delle proposte elaborate a scuola. Anche educare è difficile. Ma non per questo ci abbiamo rinunciato. Buon lavoro. “E’ difficile fare le cose difficili: parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco. Bambini, imparate a fare le cose difficili: dare la mano al cieco, cantare per il sordo, liberare gli schiavi che si credono liberi. Gianni Rodari
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1. Non è facile parlare di guerra a scuola. Spesso lo si fa in modo estemporaneo e occasionale. Il più delle volte si preferisce parlare delle guerre del passato, quasi mai si affrontano quelle contemporanee. Le guerre dei nostri giorni entrano ed escono dalla classe con lo stesso ritmo mediatico delle stragi più efferate. Quasi sempre dipende dalla sensibilità e dalla preparazione dell’insegnante.
Svolta Islam Adel Jabbar
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La geopolitica dell’estremismo fondamentalista Islamico Stiamo assistendo ad una militarizzazione del mondo (Si veda Samir Amin, Il capitalismo del nuovo millennio, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2001), iniziata ben prima dell’11 settembre, dove hanno ragione i più forti e chi si piega ai loro interessi. Questo scenario di guerra diffusa, duratura e globale esige un “disarmo delle menti". La violenza, infatti, può essere considerata anche un modo di relazionarsi agli altri in cui si tiene conto solamente del proprio punto di vista e dei propri interessi. Partendo da questo presupposto si può sviluppare una breve riflessione, per cercare di collocare all'interno di una visione complessiva e dentro un percorso storico aspetti contigui che altrimenti sembrerebbero caratterizzare esclusivamente il mondo islamico. Infatti, individuare nella religione islamica la causa di prassi che vengono comunemente definite come fondamentalismo o integralismo può essere insufficiente per comprendere quanto sta avvenendo nelle società musulmane. Parliamo di società e non di istituzioni perché le entità statuali di tutto il mondo islamico sono schierate contro il fondamentalismo e l'integralismo. Le élite governanti, in tanti casi, si trovano su posizioni che possiamo definire sommariamente moderniste. Nell'ambito delle interpretazioni della religione islamica, compaiono forme estremistiche che caratterizzano la visione della pratica religiosa. Ghulu, traducibile come 'estremismo', e ta'assub traducibile come 'fanatismo', rappresentano due concezioni limite nella differenziata galassia dei fondamentalismi "ussuliyun". Qualora poi queste due tendenze vengano a coincidere con particolari momenti storico-politici, possono divenire terreno fertile per la contestazione del potere costituito: ciò è avvenuto in diversi momenti della storia delle società islamiche. Pertanto, possiamo comprendere gli attuali movimenti estremisti di ispirazione islamica considerandoli come: - prodotto dell'impoverimento del pensiero islamico, della dinamicità e complessità che ha caratterizzato soprattutto l'Islam medioevale; - reazione a stili di vita imposti dall'esterno, vissuti in termini di sopraffazione, di assoggettamento e di subalternità. In altri termini, le società musulmane oggi vengono a collocarsi in una condizione periferica sia rispetto al proprio pensiero sia rispetto alle dinamiche caratterizzanti il modello di sviluppo dominante. Pensare alla periferia di una grande città ci dà l'idea di quali possano essere le implicazioni sul vissuto, sull'esperienza, sulla dinamica delle relazioni, sull'impossibilità di accedere ai centri decisionali. La periferia è qui intesa come esproprio della centralità dell'individuo, e a volte anche della sua dignità. Oggi ghulu e ta'assub vengono a coincidere con tale condizione periferica. Va aggiunto che il recupero del passato si presenta sovente in termini mitologici-nostalgici, del tipo: "Quanto grande era la nostra gloria grazie alla nostra fede!"; "Dall'abbandono della fede ci è arrivato il castigo del vivere in condizioni di desolazione e di subalternità". Questo pensiero non fa che accentuare il vissuto periferico, la rottura e la crisi d’identità dell'individuo e della collettività musulmana. Pertanto, oggi l'agire di diversi movimenti politici d’ispirazione islamica è dettato dal tentativo, spesso contraddittorio, di uscire da tale situazione periferica e dalla frattura. È un reagire, più che un agire, perché spesso mancano elementi indispensabili per elaborare e per costruire un progetto di emancipazione politica, sociale, economica e culturale. In effetti alcuni di questi movimenti si
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avvicinano più alla forma della setta mistica-millenaristica, incuranti come sono di sviluppare un linguaggio comprensibile alle masse, di estendere la propria popolarità e di misurarsi in termini concreti. Concludendo è bene ricordare che oggi i diversi fondamentalismi in ambito islamico sono di varia natura. Si va da quelli che usano in modo sistematico le pratiche del terrore a quelli che si distinguono per un utilizzo di una aggressiva retorica identitaria passando per quei settori che fanno uso della violenza nella lotta politica. Per leggere i movimenti politici odierni d’ispirazione islamica caratterizzati da ghulu e ta'assub, è necessario collocarli nell’attuale periodo storico. Ovvero il quadro mondiale caratterizzato da forti frizioni e violenta competizione tra diversi attori che contendono lo spazio per esercitare maggiore egemonia e assicurarsi più area d’influenza. In questo quadro numerose aggregazioni e correnti islamiche tentano di introdursi nello scacchiere, alla ricerca di un ruolo per posizionarsi, quali interlocutori intorno ad eventuali tavole dei vincitori. Ma la storia del ‘900 è piena di amari e tristi esempi in cui diversi settori dell’Islam politico hanno avuto solo la mansione dell’esecutore subalterno di degli interessi altrui, come la collaborazione della Famiglia Hashimita con il Regno Unito durante la prima Grande Guerra in funzione anti-ottomana. Una collaborazione che avrebbe dovuto dare agli arabi un grande regno unito, che invece si sono trovati ad essere divisi in una miriade di entità statuali deboli e poco sovrane. In tale senso va ricordato un altro esempio più recente, quello della guerriglia dell’Afghanistan che è stata forgiata, sostenuta e foraggiata per combattere l’allora Unione Sovietica, e di questa collaborazione ancora subiamo le conseguenze. Diverse vicende storiche dimostrano che un certo Islam e molte correnti fondamentaliste non hanno disdegnato i rapporti con lo schieramento “Occidentale”, anzi non di rado si sono trovati a collaborare attivamente per raggiungere degli obiettivi che interessano maggiormente i grandi della politica internazionale e meno o per nulla gli interessi delle popolazioni musulmane.
Islām Accettazione della relazione d’obbedienza a Dio. Etimologicamente il termine significa “affidare qualcosa a qualcuno”, dunque, dal punto di vista religioso, affidare la propria persona a Dio. Dunque la religione di coloro che accettano questa relazione con Dio (muslimūn: musulmani) e, per estensione, la civiltà e la cultura che da tale religione si sono sviluppate. Corano Dall’arabo Qur’ān, “Recitazione”, Con tale termine si designa la raccolta delle rivelazioni avute dal Profeta Muhammad nel corso della vita. Dal punto di vista di un credente in altre parole, è la parola di Dio in senso assoluto, parola che Muhammad ha solo trasmesso e mai elaborato in alcun modo. Non un “testo sacro” nell’accezione cristiana o ebraica del termine, dunque, ma un testo sacro in quanto diretta e non mediata emanazione di Dio. Proprio da questo, consegue che l’arabo, la lingua in cui il Corano fu tramandato, abbia mantenuto un’importanza fondante nella storia dell’Islam. Il Corano è diviso in centoquattordici capitoli (in arabo chiamate sure) a loro volta divisi in versetti (āyāt). Califfo Dall’arabo Khalīfa, letteralmente “colui che viene dopo”, “successore”. Unica forma legittima - almeno sul piano giuridico ideale - di sovranità nell’islam. È inteso come un mandato pubblico avente lo scopo di applicare e difendere la legge islamica. Jihād Letteralmente “sforzo”, “impegno”. In senso generale lo sforzo di attrazione, persuasione e conversione all’islam. Ha storicamente assunto il senso di peculiare attività militare volta alla conversione ma anche di sforzo interiore sulla via di Dio. Fatwa Parere giuridico accettato come autorevole dalla comunità dei credenti o dai suoi rappresentanti. Si tratta della risposta di un giureconsulto (muftī) a una qualsiasi questione di diritto.
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Hadīth Letteralmente e in senso generale ”detto”, “narrazione”. Come vocabolo tecnico fa riferimento alle narrazioni concernenti Muhammad e, in quanto tali, dotate di valore giuridico e religioso. Le raccolte di hadīth costituiscono la seconda fonte normativa del mondo islamico dopo il Corano. Imām Da una radice che significa “dirigersi verso”, “precedere”, colui che presiede alla preghiera e dunque, spesso, colui che guida una moschea. Per esteso designa anche la guida politico-amministrativa. In questo senso è stato usato nei secoli come sinonimo di califfo. Sharī‘a La legge religiosa. Non si tratta della cosiddetta “legge coranica” come spesso viene banalizzato a livello giornalistico, ma di un più complesso insieme normativo e giuridico composto da Corano, Sunna (cioè l’insieme degli hadīth), e pronunciamenti legali di coloro che sono riconosciuti dalla comunità come dottori della legge. Umma La comunità dei credenti. Sunniti Coloro che seguono la sunna. Storicamente coloro che ritenevano che la successione del Profeta dovesse essere rimessa alla votazione della comunità islamica e per questa via ai suoi rappresentanti competenti. Loro è ancora oggi la stragrande maggioranza dei musulmani, circa il novanta per cento. Sciiti Gli sciiti (dall’arabo shī‘a, “fazione”, “partito”) sono coloro che, contrariamente all’idea sunnita, ritengono che la successione di Muhammad dovesse essere assicurata per consanguineità alla famiglia del Profeta e che vedono in ‘Alī il loro imām. La loro sconfitta politica e militare (fissata idealmente nell’anno 680, con la sconfitta del figlio di ‘Alī, Husayn, nella battaglia di Karbalā) fu il punto di partenza per un’elaborazione di un’idea di islam considerevolmente diversa da quella sunnita, a partire dalla convinzione che il messaggio islamico originario sia stato tradito dai governanti dell’impero musulmano e sia conservato invece dagli imam sciiti. Oltre che in Iran, dove lo sciismo ha la maggioranza assoluta, esso è presente, tra gli altri Paesi, anche, in Iraq, nel Bahrain, in Yemen e in Libano.
Glossario Islam Alessandro Vanoli
I disegni e la pace Flora Graiff
Ritorna Kako e parla di Pace La speranza può essere un fumetto
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È un ragazzo attento Kako. In questi anni lo avevamo scoperto. Ogni volta partecipava all'Atlante - è successo due volte - dimostrandoci di essere "sul pezzo". Quest'anno la conferma ce l'ha voluta dare raccontando a modo suo di barche in mari difficili o in partenza da terre che non avevano speranza. Spiegandoci che però la speranza c'è, ci insegue, la portiamo ovunque andiamo. Non lo conosciamo personalmente, ma l'autrice, Flora Graiff, ci ha detto che Kako oltre ad essere attento è un tipo ottimista. Per questo crede che la Pace sia la strada giusta e per questo una colomba lo accompagna sempre. Kako sembra guardare all'orrore con gli occhi di chi sa che si può uscirne. Dobbiamo solo volerlo. Magari fermandoci a guardare il mare.
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Foto Reportage Fabio Bucciarelli
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The Dream, i sogni dei migranti in fuga dall’orrore Quello che mi piace di Fabio Bucciarelli, del suo modo di pensare alla fotografia, è la capacità che ha di immaginare cosa c’è oltre la foto, un po’ dopo. Lui ha fotografato guerre, dopo guerre, fuggitivi, case, cose. Ha raccontato con le immagini quello che accade nel mondo. Sin qui, niente di diverso da tanti altri. La differenza sta nel come ha sempre voluto mettere assieme tutto questo. Cerco di spiegarmi: Fabio - se ne renda conto o meno, non ho mai avuto modo di chiederglielo seriamente - appartiene al non numeroso gruppo di persone che pensa alla guerra non come causa delle tragedie, ma come conseguenza. È il punto di arrivo di tante vicende, tutte orribili e sbagliate, che conducono all’inevitabile: la guerra, appunto. The Dream è in qualche modo il progetto che dà forma a questo modo di vedere le cose, di dare un ruolo alla fotografia e al fotografo. Le foto che vedrete in queste pagine di quel progetto sono solo una parte, ma lo raccontano in modo significativo. Dovete pensare che racchiudono gli ultimi cinque anni di Bucciarelli. Un periodo lungo, utile per lavorare all’idea di un racconto che mettesse le persone - con le loro tragedie, emozioni, paure, abbandoni - al centro di tutto. Ne è nato un reportage fatto di immagini corali, di grande respiro, assemblate a fotografie di particolari, oggetti, piccole cose. E a raccordare tutto è lo scontro fra il sogno degli individui di poter raggiunger luoghi tranquilli, di poter crescere i figli in pace, di lavorare e prosperare e la dura realtà dei campi d’accoglienza, delle tendopoli, della morte in mare. Come ogni reportage, anche questo segue i tempi del viaggio. E questi tempi sono scanditi dal modo di assemblare, di mettere insieme le immagini, di legarle per farle diventare - e ce ne vuole - una unica grande immagine. Nel mezzo, ci sono le foto stenopeiche, create con la Pinolina, una macchina unica, costruita ad hoc. Appaiono sfocate, distanti, ma danno senso e ritmo a ciò che si vede. The Dream è tutto questo. È un libro. La tiratura sarà limitata a mille copie, con 180 pagine dove si alternano immagini in bianco e nero, dittici, montaggi ed immagini a colori. Cento copie di The Dream saranno Special Edition, distribuite dentro una ”book vest" realizzata dai rifugiati ospitati nel pikpa camp dell’isola di Lesbos, con i giubbotti salvagente utilizzati per raggiungere l’Europa. Ogni book vest è unica e irripetibile, un prodotto che suggella la collaborazione tra Bucciarelli e i protagonisti di queste storie. Il libro è acquistabile sul sito: thedream.fabiobucciarelli.com/the-book. Il direttore Raffaele Crocco
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Gruppo di lavoro
IL DIRETTORE
HANNO SCRITTO E FOTOGRAFATO
Raffaele Crocco Giornalista RAI, collabora con le trasmissioni Est Ovet e Mediterraneo. Ha lavorato per alcuni anni come inviato in zone di guerra. Ha fondato la rivista Maiz - A Sud dell’informazione - ed è stato tra i fondatori Peacereporter. È l’autore del libro “Il CHE dopo il CHE”. Ha ideato e dirige questo Atlante.
Manu Brabo (Spagna 1981) è un fotogiornalista freelance interessato ai conflitti sociali. Dal 2007 Manu dedica il suo lavoro alle insurrezioni politiche, rivoluzioni e guerre in paesi dimenticati come Haiti, Honduras, Kosovo, Libia, Egitto, Siria e Ucraina. Durante gli ultimi 4 anni, ha collaborato con diverse agenzie come EPA e Associated Press ed i suoi reportages sono stati pubblicati dai più importanti magazines e quotidiani internazionali. Manu ha ricevuto il Prix Bayeux-Calvados ed il POYi, oltre che il premio Pulitzer per la fotografia per la copertura della guerra civile siriana. Co-fondatore della cooperativa MeMo.
IN REDAZIONE Beatrice Taddei Saltini È tra le fondatrici di 46° Parallelo. Ha collaborato a reportages dall’America Latina. Per questo Atlante si occupa dell’editing, dei rapporti con la Redazione e della distribuzione.
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Daniele Bellesi Diplomato al Liceo Artistico, ha frequentato per diversi anni la Facoltà di Architettura. Si è poi dedicato alla libera professione come grafico e consulente per la comunicazione. Ha lavorato molto anche nel mondo dell’associazionismo e del volontariato. È vicepresidente dell’Associazione Un Tempio per la Pace di Firenze (dialogo inteculturale e interreligioso) e ha fondato insieme a altri l’Associazione 46° Parallelo. Alice Pistolesi Giornalista, laureata in Studi Internazionali all’Università di Pisa con una tesi sulle autonomie in Messico. Per scrivere e per documentare ha viaggiato nei Balcani, in Palestina, Saharawi, Cipro, Birmania e Libano. È membro dell’associazione Lilliput, impegnata in temi che riguardano diritti umani e ambiente.
Fabio Bucciarelli Prima di diventare fotoreporter Fabio Bucciarelli si è laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni nel 2006 presso il Politecnico di Torino. Durante gli studi universitari ha frequentato la Universidad Politecnica di Valencia dove si è specializzato nello studio delle immagini digitali. Dal 2009 si dedica completamente alla fotografia e comincia a lavorare come fotografo di staff per l’agenzia LaPresse/Ap. Ha vinto diversi premi internazionali ed il suo lavoro è stato pubblicato dal New York Time, Stern, The Times, The Guardian, The Wall Street Journal, LA Times, Foreign Policy, The Telegraph, Vanity Fair, La Repubblica, La Stampa, Le Monde. Negli ultimi anni ha documentato i più grandi conflitti mondiali soffermandosi sugli effetti della guerra sulla popolazione civile. Recentemente ha affiancato alla fotografia il giornalismo scritto. Nel 2012 ha pubblicato il libro ‘L’Odore della Guerra’ sul conflitto libico. Co-fondatore della cooperativa MeMo. Angelo D’Andrea Angelo d’Andrea, giornalista pubblicista, laureato in Comunicazione a Roma , dal 2005 è funzionario dell’Agenzia delle Entrate addetto alle Relazioni Esterne e Rapporti con la Stampa per il Veneto e il Trentino. Sta seguendo il tema dei “paradisi fiscali”. Ha collaborato ad un’inchiesta su “massoneria e finanza” per la Rizzoli. Per l’Atlante cura le schede Kosovo, Turchia e Cipro nonchè la versione radio e podcast di tutti i contenuti. Marica Di Pierri Attivista dell'associazione A Sud e giornalista, si occupa da anni di tematiche ambientali e sociali. Dirige ed è tra i fondatori del Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali di Roma attraverso cui porta avanti
Federico Fossi M.Sc. in assitenza umanitaria e sviluppo presso lo University College Dublin, da oltre dieci anni lavora nella comunicazione per il settore no-profit ed in particolare in ambito di cooperazione internazionale e rifugiati. Si è occupato di programmi europei di integrazione nel quadro dell’iniziativa comunitaria EQUAL. Dal 2008 lavora nell’ufficio stampa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Flora Graiff Disegnatrice, pittrice, restauratrice, autrice di radiodrammi e programmi Rai, ed anche editore di libri di pregio. Il suo nome è legato soprattutto al personaggio Kako, il protagonista della strip di sua creazione lanciato nel 1988 da Linus. Nata a Merano, vive e lavora fra la sua città e Trento. Diego Ibarra Sánchez (Spagna 1982) è un fotogiornalista con base in Libano. Interpreta la fotografia come un mezzo per relazionarsi con il mondo, in grado di suscitare consapevolezza e pensiero critico. Ha trascorso quattro anni in Pakistan, diventando un punto di riferimento per grandi testate internazionali come il The New York Times e Der Spiegel. Da diversi anni sta lavorando su un progetto personale sulla poliomielite. Co-fondatore della cooperativa MeMo. Adel Jabbar È sociologo ricercatore nell’ambito dei processi migratori e comunicazione interculturale. Ha insegnato sociologia delle culture e delle migrazioni all’Università Ca’ Foscari di Venezia e Comunicazione interculturale all’università di Torino. Libero docente incaricato nell’ambito della sociologia dell’immigrazione in diverse università italiane. Svolge attività di consulenza e formazione per enti locali e realtà associazionistiche. Sui temi relativi all’area arabo-islamica ha pubblicato molti interventi. Flavio Lotti È Coordinatore nazionale della Tavola della Pace, l’organismo che dal 1996 organizza la Marcia per la pace Perugia-Assisi. È Direttore del Coordinamento Nazionale Enti Locali
per la pace e i diritti umani, un’associazione fondata nel 1986 che riunisce oltre 700 Comuni, Province e Regioni italiane. Riccardo Noury È il portavoce e direttore dell’Ufficio comunicazione di Amnesty International Italia, associazione di cui fa parte dal 1980. Ha curato i libri “Non sopportiamo la tortura” (Rizzoli 2000) e “Poesie da Guantánamo” (Edizioni Gruppo Abele, 2008) ed è autore o coautore di altre pubblicazioni. Ha un blog plurisettimanale sui diritti umani “Le persone e la dignità” sul Corriere della Sera e un blog settimanale sulle rivolte in Medio Oriente e Africa del Nord sul Fatto Quotidiano. Enzo Nucci Corrispondente della Rai da Nairobi per l’Africa sub-sahariana dal 2006. Napoletano, è in Rai dal 1988 dove ha lavorato come cronista nella redazione regionale del Lazio prima di passare al Tg3 nel 1994. È stato inviato di cronaca nazionale e di esteri. Ha seguito i conflitti nella ex Jugoslavia, Kosovo, Afghanistan, Iraq e la rivolta in Albania. Ha vinto numerosi premi giornalistici tra cui il “Testimone di Pace” di Ovada e il premio Andrea Barbato di Mantova. Ilaria Pedrali Giornalista professionista, ha vissuto e lavorato a Gerusalemme come corrispondente per le Edizioni Terrasanta e gestendo il Franciscan Multimedia Center. Ha lavorato a Mediaset, e scritto su vari quotidiani nazionali, siti internet, web tv occupandosi di cultura, esteri, cronaca. Ama il Medio Oriente, viaggiare, ed è molto curiosa. Da qualche tempo ha iniziato a studiare l’arabo. Guillem Valle (Spagna 1983) comincia ad occuparsi di fotografia a 14 anni, durante un viaggio-studio a Sarajevo. Da allora non ha mai abbandonato la sua passione ed ha lavorato in diverse paesi come il Libano, la Libia e la Siria. Ha vissuto diversi anni in Tailandia, documentando i conflitti dimenticati nel sud-est asiatico, lavorando per il The New York Times, il The Guardian ed il Wall Street Journal. Gullem ha vinto diversi premi fotografici come il World Press Photo e il Best of Photojournalism. Oggi sta lavorando su un progetto a lungo termine sulle nazioni non riconosciute come Stato. Co-fondatore della cooperativa MeMo.
Alessandro Vanoli Ha insegnato presso l’Università di Bologna e l’Università Statale di Milano. Si occupa di storia mediterranea e di rapporti tra mondo cristiano e mondo musulmano. Ha insegnato arabo classico e svolto ricerca in numerose università straniere in Europa, Africa e America. Si occupa di divulgazione e organizzazione di eventi culturali collaborando, tra glia ltri, con Torino Spiritualità, le Edizioni del Mulino e la RAI. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Andare per l’Italia araba (Il Mulino 2014), La Sicilia Musulmana (Il Mulino 2012), La Reconquista (Il Mulino 2009) Giovanni Scotto È docente di Sociologia dei processi culturali all'Università di Firenze. Insegna Tecniche della mediazione e della democrazia partecipativa e International Conflict Transformation. È Presidente del corso di laurea Sviluppo economico, cooperazione internazionale, socio-sanitaria e gestione dei conflitti (SECI) e direttore scientifico del Laboratorio FORMA MENTIS al PIN di Prato.
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attività di ricerca, formazione e documentazione sui conflitti ambientali. Autrice di saggi e articoli, collabora con periodici, quotidiani, testate televisive e radiofoniche e riviste specializzate.
COLLABORATORI Paolo Affatato Paolo Affatato, giornalista e saggista, è responsabile della redazione “Asia” nell’agenzia di stampa vaticana Fides. Socio di Lettera22, associazione fra giornalisti specializzata in politica estera e cultura, nel 2011 ne è stato eletto presidente. Autore di servizi e reportage su diverse realtà dell’Asia, ha curato con Emanuele Giordana “Il Dio della guerra” (Guerini 2002); “A Oriente del Profeta” (ObarraO 2005), sull’islam asiatico; “Geopolitica dello tsunami” (ObarraO 2005). Ha partecipato a diversi numeri della collana di studi asiatici Asia Maior, contribuendo, fra gli ultimi testi, a “L’Asia del grande gioco” (2008), “Crisi globali, crisi locali e nuovi equilibri in Asia” (2009), “L’Asia di Obama e della crisi economica globale” (2010). Mario Boccia Mario Boccia è un fotografo e giornalista specializzato in reportage di attualità internazionale. Dal 1991 si occupa dell’area balcanica, pubblicando su testate italiane ed europee. È stato corrispondente e inviato de “il Manifesto” da Sarajevo, Belgrado, Pristina e Skopje. Sue foto sono state utilizzate da ONG e Agenzie delle Nazioni Unite (UNHCR, COOPERAZIONE ITALIANA, ICS, OXFAM-Italia, etc.). Dalla sua fondazione, sostiene la Cooperativa agricola “insieme” di Bratunac: http://coopinsieme.com/ Nicole Corritore Giornalista e addetta stampa, lavora a Osservatorio Balcani e Caucaso (www.balcanicaucaso.org) dal 2001. Tra il 1992 e il 2000 ha operato in Croazia e Bosnia Erzegovina in progetti di cooperazione internazionale e decentrata, dedicati allo sviluppo locale e ai giovani. Tra il 1996 e il 2000 ha collaborato con diverse testate giornalistiche e network radiofonici italiani su temi relativi ai paesi dell'ex Jugoslavia. Dal 1992 al 1996 ha collaborato con la redazione esteri di Radio Popolare network. Parla fluentemente serbo, croato e bosniaco. Cecilia Dalla Negra Firenze 1984. Giornalista, studia Scienze Politiche all'Università La Sapienza di Roma. Nel contesto mediorientale ha approfondito in particolare la questione palestinese e le dinamiche di genere. In passato ha lavorato come freelance per diverse testate, ed è stata assistente di Luisa Morgantini, ex vice presidente del Parlamento Europeo. Per Osservatorio Iraq si occupa anche di Tunisia, donne e movimenti femminili.
Davide Demichelis Giornalista e documentarista, ha lavorato per la RAI e ha realizzato film e reportage da varie zone del mondo. Tra le pellicole da ricordare "Radici. Dall'altra faccia delle migrazioni". Per RAI 3 ha condotto Nanuk, prove di avventura. Danilo Elia Giornalista e scrittore, si occupa di spazio post-sovietico per East e Meridiani e collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. Tra i suoi libri "La bizarra impresa in Fiat 500 da Bari a Pechino" (Vivalda editori) e "Intorno al mare" (Mursia editore). Marina Forti Marina Forti è nata a Milano, dove ha cominciato a lavorare a Radio Popolare. Giornalista professionista, dal 1983 è al quotidiano Il Manifesto, dove si è occupata di attualità internazionale, immigrazione e ambiente. Già caposervizio esteri, da inviata ha viaggiato a lungo in Iran, nel sub-continente indiano e nel sud-est asiatico. Per la rubrica “terraterra” ha avuto nel 1999 il premio “giornalista del mese”, noto come Premiolino. Con il libro La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel sud del mondo (Feltrinelli 2004) ha ricevuto il premio Elsa Morante per la comunicazione 2004. Emanuele Giordana Emanuele Giordana, cofondatore e sino al 2010 direttore di Lettera22 è stato docente di cultura indonesiana all’IsMEO di Milano e è vicepresidente dell’Osservatorio “Asia Maior”. Ha pubblicato con G. Corradi “La scommessa indonesiana” e curato le collettanee “Il Dio della guerra”, “A Oriente del profeta”, “Geopolitica dello tsunami”, “Tibet, lotta e compassione sul Tetto del mondo”. Nel 2007 è uscito per Editori Riuniti “Afghanistan: il crocevia della guerra alle porte dell’Asia” e nel 2010 per ObarraO “Diario da Kabul”. Editorialista di “Terra” è stato tra i conduttori di Radiotremondo e Radio3Rai. È portavoce della piattafroma “Afgana”. Ruggero Giuliani È stato coordinatore medico per Medici Senza Frontiere a Monrovia, nel più grande Centro di trattamento per l'Ebola mai costruito. Rosella Idéo Ha insegnato storia moderna dell’Asia Orientale e Storia Politica e Diplomatica dell’Asia Orientale nelle università statali di Milano, Roma, Trieste. Borsista all’ISPI di Milano, borsista al Salzburg Seminar in American
Studies, visiting scholar all’Università di California, Berkeley. Membro fondatore dell’AISTUGIA (Associazione Italiana di Studi Giapponesi) e di Asia Major (1989-2006); membro fondatore ed ex vicepresidente di Asia Maior (2006-2010). Ha pubblicato numerosi saggi sulle relazioni internazionali in Asia Orientale con particolare riferimento al Giappone e alla Corea contemporanea e una monografia: Corea una modernizzazione mancata (EUT,2000). Intervistata come esperta da radio italiane ed estere, giornali e televisione. Enzo Mangini Giornalista professionista dal 2001 specialista di temi di politica internazionale, fa parte dell’associazione indipendente di giornalisti Lettera22, attraverso cui collabora con Il Fatto Quotidiano online, il Riformista, Terra. Ha lavorato per il quotidiano Il Manifesto e per il settimanale Carta, dove ha ricoperto anche la carica di direttore responsabile. Dall’aprile 2010 è corrispondente in Italia di Vreme, settimanale indipendente di Belgrado, Serbia. Razi e Sohelia Mohebi Sono due cittadini afghani che vivono a Trento assieme al loro figlio. Razi e Soheila sono un uomo e una donna di cultura, due registi. Vorrebbero poter vivere della loro arte, vorrebbero non dover abbandonare questa loro passione. Vorrebbero, che l’asilo politico - status che condividono e in qualche modo subiscono - permettesse loro di essere cittadini attivi e partecipi alla vita della comunità e non semplicemente persone in fuga da accogliere. Questa difficoltà non riguarda solo loro, ma è condizione comune di migliaia di persone. Partiamo dalla loro storia per provare a discutere della condizione in cui sono costretti a vivere decine di migliaia di richiedenti asilo in Italia. Alessandro Piccioli Giornalista e fotoreporter. Da freelance ha realizzato reportage dall’Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Corsica, Iraq, Palestina, Siria, Egitto. Collabora con diverse testate e svolge attività autorale in Rai. Emanuele Profumi Giornalista free lance e ricercatore in filosofia politica. Formatosi in giornalismo presso "Il Manifesto" nel 1998, da quel momento ha scritto per varie testate (La Nuova Ecologia, Carta, Micromega, Le Monde diplomatique, etc). Si occupa di movimenti sociali e di America del Sud. Sta per pubblicare un libro
sul processo di pace in Colombia ("Tessendo speranza. La Colombia alternativa e il suo processo di pace"), e ha pubblicato "Il Passo del gigante. Viaggio per comprendere il Brasile di Lula" (Aracne, 2012). Attivo anche nel campo dell'arte. Federica Ramacci Giornalista. Scrive di politica italiana e internazionale per diverse testate. È inviata alla Camera dei Deputati per l’agenzia di stampa “Nove Colonne”. Ha realizzato reportages, inchieste e interviste in Italia, America Latina, Europa e Nord Africa. Alessandro Rocca Giornalista pubblicista e fotografo freelance, è regista e autore di numerosi documentari e reportages trasmessi da Rai Uno (Speciale Tg1 e A sua immagine), Rai Due (Tg2 Dossier), Rai Tre, Skytg24, Rai News24, La7 (Effetto Reale).
“1994”, Chiarelettere Editore. Da settembre 2007 coordina, insieme ad Alberto Laggia, il laboratorio di giornalismo sociale “La voce di chi non ha voce” organizzato dalla Scuola di Giornalismo “A. Chiodi” di Mestre. Alessandro Turci e Federica Miglio Sono due documentaristi e reporter, Collaborano stabilmente con RAI 3, Aspenia, il Foglio e Tempi, e hanno viaggiato come inviati speciali e freelance per Africa, Asia, Americhe e Medioriente. Roberto Zichittella Giornalista professionista, scrive per Famiglia Cristiana, collabora con Pagina99 e il sito di Articolo21. È tra i conduttori di Radio3Mondo, la trasmissione della Rai dedicata all'attualità internazionale. Ha realizzato per Radio 3 alcuni audiodocumentari da varie parti del mondo.
Pino Scaccia Inviato storico della Rai e poi redattore capo degli speciali del Tg1, ha seguito i più importanti avvenimenti degli ultimi vent’anni: dalla prima guerra del Golfo al conflitto serbo-croato, dalla disgregazione dell’ex Unione Sovietica alle guerre in Afghanistan e in Iraq fino all’ultima rivolta in Libia. Ha vinto numerosi premi e ha pubblicato sei libri: “Armir, sulle tracce di un esercito perduto”, “Sequestro di persona”, “Kabul, la città che non c’è”, “La Torre di Babele” , “Lettere dal Don” e “Shabab - la rivolta in Libia vista da vicino”. È molto attivo sul web dove gestisce numerosi blog. Luciano Scalettari È inviato speciale di Famiglia Cristiana. Si occupa prevalentemente di attualità africana (ha effettuato spedizioni in una trentina di Paesi dell’Africa subsahariana) e di giornalismo d’inchiesta. Nel 2000 e nel 2006 ha vinto il Premio Giornalistico Saint Vincent. Ha pubblicato, tra l’altro: 2002 (con B. Carazzolo e A. Chiara) Ilaria Alpi, un omicidio al crocevia dei traffici), B&C. 2004 La lista del console - Ruanda, 100 giorni un milione di morti, Ed. Paoline-Focsiv. 2010 (con Luigi Grimaldi)
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Ornella Sangiovanni Giornalista specializzata in questioni del mondo arabo, segue l’Iraq da circa 20 anni, con particolare attenzione per la politica e le questioni energetiche. Si è occupata a lungo delle sanzioni internazionali imposte al Paese in seguito all’invasione del Kuwait dell’agosto 1990.
Fotografie Le fotografie di quest’anno sono di giornalisti dell'Atlante, di amici fotografi oppure tratte dall’archivio dell’Alto Commissariato dei Rifugiati UNHCR. È stato fondamentale il contributo dei fotografi di MEMO. In alcuni casi abbiamo usato, invece, fotografie trovate su internet. Siamo ovviamente disponibili a regolare eventuali spettanze agli aventi diritto che non sia stato possibile contattare.
Cartografia Nell'edizione di quest'anno, come avrete ormai capito, non ci sono schede conflitto. Abbiamo quindi impiegato una cartografia generale, ispirata sempre alla Proiezione di Peters.
Ai nostri lettori. Per correggere un testo occorrono molti occhi. Noi abbiamo cercato di fare il nostro meglio. Laddove ci fosse sfuggito qualche refuso o errore ce ne scusiamo.
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Fonti Organismi internazionali e istituzioni Unesco Unicef Oms Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) Africa-Union Nazioni Unite Ministero degli Esteri Ministero della Difesa Central Intelligence Agency Banca Mondiale Caritas United Nations Peacekeeping Force in Cyprus The Millennium Development Goals - Onu Istituto del Commercio con l’Estero Croce Rossa Italiana Informazione, giornali e istituti di ricerca Pagine della Difesa Africa News Misna Nigrizia Reuters Osservatorio Iraq Osservatorio dei Balcani Wikipedia Corriere della Sera La Repubblica La Stampa Valori Peacerporter Ansa Apcom Agimondo Agi Adnkronos Associated Press Afp Euronews Famiglia Cristiana Limes Guerre & Pace
Global Geografia Peace Link Balcanicaucaso.org Banchearmate.it Crbm.org Crisigroup.org (Europe Report N°213, 20/9/11) B.H. Editorial, 24/7/2011 Libero-news.it Italiatibet.org Chinadaily.com Ilsole24ore.com Panorama.it Asianews.it Instablog.org Filosofia.org Nuovacolombia.net Colombiareports.com Agoramagazine.it Manilanews.net Iljournal.it Bbc.co.uk Asiantribune.com Bangkokpost.com It.euronews.net Iltempo.it Intopic.it/estero/thailandia/ geopoliticamente.wordpress.com Organizzazioni non governative Amnesty International Emergency Medici Senza Frontiere Reporters Sans Fronteres Unimondo Amani Club di Roma Elisso Cdca - Centro Documentazione Conflitti Ambientali Icc - Commercial Crime Services
Glossario
Terroristi Tutti coloro che usano armi o mettono in atto attentati contro popolazioni inermi, colpendo obiettivi civili deliberatamente. In questo libro, questa è la definizione di terrorista, a prescindere dalle ragioni che lo muovono. Ne deriva che in questo volume viene definito Attentato Terroristico ogni attacco compiuto con fini distruttivi o di morte nei confronti di una popolazione inerme e civile al puro scopo di seminare terrore, paura o per esercitare pressioni politiche. Ovvero ogni attacco compiuto contro obiettivi militari, ma che consapevolmente coinvolge anche popolazioni inermi e civili. Resistenti Gruppi o singoli che si oppongono, armati o disarmati, all’occupazione del proprio territorio da parte di forze straniere, colpendo nella loro azione obiettivi prevalentemente militari. Anche in questo caso diamo questa definizione senza entrare nel merito delle ragioni. Gli attacchi di gruppi di resistenti a forze armate regolari in questo libro vengono definite Operazioni di Resistenza o Militari. Forze di Occupazione Ogni Forza Armata straniera che occupa, al di là della ragione per cui avviene, un altro Paese per un qualsiasi lasso di tempo. Forze di Interposizione Internazionali Sono invece Forze Armate, create su mandato dell’Onu o di altre organizzazioni multinazionali e rappresentative, che in presenza di precise regole di ingaggio e combattimento che ne limitano l’uso, si collocano lungo la linea di combattimento per impedire il confronto armato fra due o più contendenti. Le definizioni seguenti sono quelle ufficiali definite e riportate dall’UNCHR nei loro documenti e rapporti e a cui noi ci rifacciamo Profugo Termine generico che indica chi lascia il proprio Paese a causa di guerre, persecuzioni o catastrofi naturali.
Richiedente asilo Colui che è fuori dal proprio Paese e inoltra, in un altro stato, una domanda di asilo per il riconoscimento dello status di rifugiato. La sua domanda viene poi esaminata dalle autorità di quel paese. Fino al momento della decisione in merito alla domanda, egli è un richiedente asilo (asylum-seeker). Rifugiato Il rifugiato (refugee) è colui che è costretto a lasciare il proprio Paese a causa di conflitti armati o di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. A differenza del migrante, egli non ha scelta: non può tornare nel proprio Paese perché teme di subire persecuzioni o per la sua stessa vita. Sfollato Spesso usato come traduzione dell’espressione inglese Internally displaced person (Idp). Per sfollato si intende colui che abbandona la propria abitazione per gli stessi motivi del rifugiato, ma non oltrepassa un confine internazionale, restando dunque all’interno del proprio Paese. In altri contesti, si parla genericamente di sfollato come di chi fugge anche a causa di catastrofi naturali. Migrante Termine generico che indica chi sceglie di lasciare il proprio Paese per stabilirsi, temporaneamente o definitivamente, in un altro Paese. Tale decisione, che ha carattere volontario anche se spesso è indotta da misere condizioni di vita, dipende generalmente da ragioni economiche ed avviene cioè quando una persona cerca in un altro Paese un lavoro e migliori condizioni di vita. Migrante irregolare Chi, per qualsiasi ragione, entra irregolarmente in un altro Paese. In maniera piuttosto impropria queste persone vengono spesso chiamate ‘clandestini’ in Italia. A causa della mancanza di validi documenti di viaggio, molte persone in fuga da guerre e persecuzioni giungono in modo irregolare in un altro Paese, nel quale poi inoltrano domanda d’asilo. Extracomunitario Persona non cittadina di uno dei ventisette Paesi che attualmente compongono l’Unione Europea, ad esempio uno svizzero.
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Guerre e conflitti Situazioni di scontro armato fra stati o popoli, ovvero a confronti armati fra fazioni rivali all’interno di un medesimo Paese. Includiamo in questo elenco i Paesi o i luoghi in cui esiste un latente conflitto, bloccato da una tregua garantita da forze di interposizione internazionali.
Altri saluti Devo confessarlo: quest'anno è stata durissima chiudere l'Atlante. Il budget, già piccolo, si è dimezzato, tenere in piedi il progetto è sempre più complicato. Tant'è ce l'abbiamo fatta. I ringraziamenti principali, quindi, vanno alla redazione, che davvero lavora senza mollare e senza farmi mollare. Un abbraccio quindi a Daniele Bellesi e a Beatrice Taddei Saltini. Dal 2008 lavoriamo assieme a questa idea e mi pare importante essere ancora assieme. È andata altrove, invece, Federica Ramacci. È stata per sei anni la colonna vera - vi garantisco non è un modo di dire - su cui poggiare ogni parte di questo Atlante. Ha scelto di lasciarci per nuove avventure e ci è mancata davvero tanto. L'abbraccio è fortissimo. A darci una mano sono arrivati in due: Alice Pistolesi, che ha lavorato nella redazione e Andrea Tommasi, che si è caricato sulle spalle praticamente tutto il sito. Penso sia bello avere la certezza di poter contare su "ricambi generazionali". Ci regala la sensazione che il progetto proseguirà. Raffaele Crocco
INFOGRAFICA ATLANTE MISSIONI ONU
hanno trovato la morte
prestando servizio per le
negli ultimi
Missione mag-48
Data inizio 0
Truppe 150
Osservatori militari
55
0
0
Polizia
33
25
88
Civili internazionali
Operazioni di pace in corso UNTSO 0 50
44
257
0
0
0 84
861 0
0
109
mar-64 788 0
gen-49
10.521 8
UNFICYP mar-78
giu-74
8
216
UNMOGIP
UNIFIL
UNDOF
0 301
358
26 1.179
giu-99 77
apr-91 2.626
UNMIK set-03 2.382
1.380
MINURSO UNMIL 0
185 304
2.368 816
811
4.457 2.929
giu-04 179
apr-04 14.345
MINUSTAH lug-07
UNOCI UNAMID 130
17 585
787
1.226 1.105 518
454
1.097 5.256
135
1.883
4.410 39
185
13.261
16.938 11.782 164
giu-11 10.645 1.836
lug-10
9.639
UNISFA mar-13
giu-11
89.406
MONUSCO
MINUSMA
UNMISS apr-14
Missione 146
Civili locali 0
Volontari ONU 384
Personale totale 50
Vittime
52.538.500
19.647.100 (2014-15)
74.291.900 (2014-15)
Bilancio (US$)
Totale:
MINUSCA
UNTSO 11
51.706.200
183 46
53.190.000
506.346.400
116 928 15
309
1.067
0 495
11.369
0
0
40.031.000
0
90 12
344.712.200
47
591 55
118
UNDOF 157
196
UNFICYP UNIFIL 368
UNMOGIP
MINURSO 5.224
402.794.300
24
380.355.700
183
137
219 7.120
801 137
1.332.178.600
1.102.164.700
UNMIL 660
183
UNMIK UNOCI
230
268.256.700
100
1.085.769.200
6.092
20
923.305.800
22.492
42
814.066.800
21.022 4.795
81
97
15.509
19
157 31
13.170
404 435
12.627
941
72
143
2.601
1.215
181
circa $8.27 miliardi
2.654
UNISFA 661
1.677
MONUSCO UNMISS 242
122.778
MINUSTAH
MINUSMA
1.804
UNAMID
MINUSCA
11.215
Totale:
Le Missioni di Pace sono supportate da
193 STATI MEMBRI
che contribuiscono con personale, equipaggiamento e fondi
122.778
Paesi che contribuiscono con truppe, polizia e personale militare
PERSONALE SUL CAMPO
124
FONTE DEI DATI
ONU DATI 27 febbraio 2016
FOCUS
Premio Nobel per la Pace
La prima missione
La prima operazione armata di peacekeeping è stata la Prima Forza di Emergenza delle Nazioni Unite (UNEF 1) dispiegata nel 1956 per affrontare la crisi di Suez. L’Operazione ONU in Congo (ONUC) del 1960, è stata la prima su larga scala, con circa 20.000 soldati.
Nel 1988, le forze di pace delle Nazioni Unite hanno vinto il premio Nobel per la Pace: in quell’occasione Il Comitato per il Nobel ha ricordato in particolare “i giovani di diverse nazionalità.... che, in sintonia con i propri ideali, si fanno carico volontariamente di un compito impegnativo e pericoloso, in nome della pace”.
Sono sedici le missioni Onu attive. La più datata è la Untso che risale al 1948 e che si occupa di vigilare sul rispetto dei trattati di pace stipulati tra Israele, Egitto, Giordania e Siria e dal 1967 del mantenimento del cessate il fuoco. La più giovane è invece la Minusca attivata nell’aprile del 2014 e che riguarda la protezione della Repubblica Centrafricana nel momento di transizione democratica. Le missioni che coinvolgono il maggior numero di persone tra militari, civili ed internazionali sono la Unifil al confine tra Libano e Israele, la Unamid che ha come protagonista la questione del Darfur, la Monusco dedicata al Congo, la Unmiss sul Sud Susdan e la Minusma, avviata nel 2013 in Mali. In questo contesto sono ancora molti gli Stati che non prendono parte e non contribuiscono a livello finanziario alle missioni.
PEACEKEEPER provenienti da
3500 NAZIONI UNITE 118 60ANNI PAESI
NUMERO DI DECESSI
Più di
I PAESI CON MISSIONE ONU
Missione attive Missioni terminate Mai nessuna missione
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
UN
ELENCO DELLE MISSIONE ATTIVE
1) UNTSO
United Nations Truce Supervision Organization (Organizzazione delle Nazioni Unite per la Supervisione della Tregua)
2) UNMOGIP
3) UNFICYP
United Nations Military Observer Group in India and Pakistan (Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite in India e Pakistan)
4) UNDOF
United Nations Peacekeeping Force in Cyprus (Forza delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace a Cipro)
5) UNIFIL
United Nations Disengagement Observer Force (Osservatori delle Nazioni Unite per il ritiro)
United Nations Interim Force in Lebanon (Forza temporanea delle Nazioni Unite in Libano)
6) MINURSO
7) UNMIK
United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara (Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale)
8) UNMIL
United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (Missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione temporanea del Kosovo)
9) UNOCI
United Nations Mission in Liberia (Missione delle Nazioni Unite in Liberia)
United Nations Operation in Côte d’Ivoire (Operazione delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio)
10) MINUSTAH
11) UNAMID
United Nations Stabilization Mission in Haiti (Missione di stabilizzazione ad Haiti)
African Union and United Nations Hybrid Operation in Darfur (Operazione Ibrida dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite in Darfur)
12) MONUSCO
United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republica of the Congo (Missione di Stabilizzazione della Repubblica Democratica del Congo)
13) UNISFA
United Nations Interim Security Force for Abyei (Missione per la Sicurezza nell’area di Abyei, Sud Sudan)
14) UNMISS
United Nations Mission in the Sud Sudan (Missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan)
15) MINUSMA
16) MINUSCA
United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali (Missione di Stabilizzazione in Mali)
United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic (Missione di Stabilizzazione della Repubblica Centro Africana)
Tavola 1
1000 aziende
il valore annuale delle loro vendite supera gli
Prodotte da
di piccole armi e armi leggere.
di dollari.
100 Paesi, 8,5 miliardi
in quasi
875 milioni
In circolazione, vi sono
12 miliardi di pallottole.
Ogni anno, si producono
100 miliardi all'anno.
Il giro d'affari, almeno quello noto, si stima sia di oltre
di feriti ogni anno.
500.000 morti e diversi milioni
Il commercio privo di regole e spesso segreto in armi e munizioni produce almeno
navi da guerra.
270
elicotteri d'attacco e
1.904
aerei da combattimento,
8.930
sistemi d'artiglieria di grande calibro,
37.291
veicoli blindati,
18.175
carri armati,
15.730
Negli arsenali di Cina, Francia, India, Regno Unito, Russia e Usa vi sono
Arsenali
Dopo alcuni anni di stasi l'import militare è aumentato. Stati Uniti, Russia, Cina, Germania, Francia sono i maggiori esportatori di armi nel mondo. I più grandi importatori sono invece India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti e Pakistan. Nell'Africa subsahariana finisce il 42% delle armi vendute dai Paesi Occidentali. Non si ferma infatti la vendita da parte dell’Occidente in cambio di petrolio, gas, risorse minerarie e naturali, terra, controllo politico dell'area. Il numero delle testate attive è ancora molto elevato: la loro capacità di devastazione è aumentata di pari passo allo sviluppo tecnologico. Secondo l’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, al di fuori del possibile utilizzo bellico, le atomiche non hanno mai smesso di rappresentare un pericolo
DATI 2015
Indexmundi, Banchearmate, Sipri
1.50 - 3.60 3.60 - 5.70
0.73 - 1.10 1.10 - 1.50
0.00 - 0.36 0.36 - 0.73
PERCENTUALI PIL PER SPESE MILITARI
9 8 6 6 5 5 5 4 4 4
7.90 - 10.00
5.70 - 7.90
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
2012 2012 2012 2011 2013 2011 2012 2012 2012 2012
Tavola 2
1- Oman 2 - Arabia Saudita 3 - Israele 4 - Emirati Arabi Uniti 5 - Azerbaigian 6 - Afghanistan 7 - Giordania 8 - Algeria 9 - Russia 10 - Stati Uniti
Paese
INFOGRAFICA ATLANTE COMMERCIO ARMI
Spese militari % del PIL
FONTE DEI DATI
Anno di stima
INFOGRAFICA L’ATLANTE DELLA PIRATERIA FONTE DEI DATI
ICC INTERNATIONAL MARITIME BUREAU
N E
Dirottato
Indonesia
Rotte marine
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
Navi sospette
ASSALTATE
203 NAVI
DIROTTATE
15NAVI
ostaggio
Sono i membri dell’equipaggio presi in
271
Nigeria
Attacchi tentati
Con armi da fuoco
Attacchi effettivi
RELAZIONE PER IL PERIODO DI 1 GENNAIO 31 DICEMBRE 2015
Se la situazione nel Corno d’Africa è migliorata lo stesso non si può dire di altre aree, in primis la Nigeria. Il Piracy Reporting Centre dell'Imb ha registrato infatti 246 incidenti nel 2015, uno in più rispetto al 2014. I rapimenti sono raddoppiati da nove del 2014 a 19 del 2015, tutti frutto di cinque attacchi al largo della Nigeria. Gli assalti registrati in Africa Occidentale, soprattutto nel golfo di Guinea, rappresentano circa il 20% di tutti gli attacchi in mare a livello internazionale. Ma è nel Sud-Est asiatico che si concentrano la maggior parte degli incidenti in mare. In Vietnam gli incidenti sono saliti da 7 a 27. In Bangladesh questo tipo di attacchi sono scesi da 21 del 2014 a 11 del 2015. Anche in Cina sono stati registrati incidenti tra i quali si segnalano tre furti di combustibile diesel da petroliere al largo di Tianjin, più un tentativo fallito.
LA NIGERIA La Nigeria è un punto nevralgico per la pirateria violenta. Molti attacchi qui non vengono denunciati. Nove le navi abbordate.
LA SOMALIA
registrati in
di tutti gli assalti in mare vengono
Nessun attacco somalo nel 2015. L'Imb ritiene l'area ancora ad alto rischio.
20% Guinea
Africa Occidentale particolarmente
nel golfo di
O S
Tavola 3
Centro di Documentazione Conflitti Ambiantali
CDCA
A CURA DEL
FOCUS
50.000+ 40.000-49.999 30.000-39.999 20.000-29.999 10.000-19.999 0-9.999 No Data
No Data
5.000+ 5.000+ 4.000-4.999 4.000-4.999 3.000-3.999 3.000-3.999 2.000-2.999 2.000-2.999 1.000-1.999 1.000-1.999 0-999 No Data 0-999
10.000+ 8.000-9.999 6.000-7.999 4.000-5.999 2.000-3.999 0-1.999 No Data
CARBONE
GAS
PETROLIO
RISERVE STIMATE DI PETROLIO, GAS E CARBONE PER SINGOLO STATO
Alcune delle zone o Paesi in cui il conflitto armato è strettamente legato al controllo delle risorse ambientali: Nigeria, Ucraina, Kuwait, Iraq, Libia, India-Pakistan
Conflitti armati
Bank of America USA
JP Morgan Chase USA
Royal Bank of Scotland UK
Citigroup USA
BNP Paribas Francia
Deutsche Bank Germania
Lukoil Russia
ENI Italia
Royal Dutch Shell Olanda
Chevron USA
British Petroleum UK
Fonte: TNI – Transnational Institute
FOCUS
Amazzonia e Delta del Niger sono le due zone con maggiori riserve di idrocarburi in America Latina e in Africa. In Nord America sono capillarmente diffuse tecniche estrattive non convenzionali e devastanti come il fracking. In Europa e India le concessioni estrattive sono sempre più numerose, in terra e in mare. In queste zone i movimenti di resistenza alle attività estrattive sono molto forti. Fonte: www.ejatlas.org
Alcune regioni del mondo con alta concentrazione di conflitti ambientali legati allo sfruttamento delle fonti fossili
CONNESSIONI TRA BANCHE E MULTINAZIONALI DEL PETROLIO - 2
Total Francia
Exxon Mobil USA
di persone dovranno essere evacuate entro il 2050. In tutto il continente il 40% della popolazione che risiede entro 60 km dalla costa sarà sfollata dall’innalzamento dei mari. Fonti: UNHCR / OIM / UNEP / Internal Displacement Monitoring Centre
15 milioni
Solo in Bangladesh
IN ASIA
di profughi climatici entro il 2060 per la desertificazione.
50 milioni
IN AFRICA
di profughi ambientali entro il 2050
200/250 milioni
di sfollati interni per disastri naturali nel 2012
32,4 milioni
di profughi ambientali attualmente nel mondo
50 milioni
A LIVELLO GLOBALE
PROFUGHI AMBIENTALI E CLIMATICI
2000
4000
6000
8000
ROYAL DUTCH SHELL BP -British Petroleum CHEVRON GAZPROM TOTAL SINOPEC CHINA PETROLEUM PETROBRAS ROSNEFT ENI
BHP BILLITON AUSTRALIA 67,7
11° 17° 18° 21° 25° 29°
30° 34° 39° 44°
ITALIA
152,7
142,6
141,2
445,3
227,9
164,6
211,8
379,2
451,4
14,8
6,9
12,8
10,9
10,9
11,2
39
21,4
23,6
16,4
21,1
32,6
151
186,6
229,4
319,2
228,4
239,1
397,2
253,8
305,7
357,5
386,9
346,8
(mld USD)
182,3
90,9
70
86,8
94,7
149,8
88,8
227,2
148,8
234,1
202
422,3
Profitti Assets Valore di (mld USD) (mld USD) mercato
Tavola 4
RUSSIA
BRASILE
CHINA
FRANCIA
RUSSIA
USA
UK
OLANDA
328,5
394 PETROCHINA
CINA
EXXON MOBIL USA
Ricavi
(mld USD)
10°
Paese 6°
Posto in Impresa classifica
Tra le maggiori 50 compagnie al mondo 12 sono multinazionali dell’estrazione, lavorazione e trasporto di idrocarburi. Fonte: Forbes, GLOBAL 2000, 2014
CONNESSIONI TRA BANCHE E MULTINAZIONALI DEL PETROLIO - 1
Fonte: UE Commission/PBL, Trends in global CO2 emissions: 2013 Report
0
LEGENDA (milioni di tonnellate di Co2)
PAESI CON MAGGIORI EMISSIONI DI CO2
Paesi firmatari del Protocollo che non l'hanno ratificato Altri membri dell'UNFCCC che non sono parte del protocollo
Paesi che hanno assunto impegni vincolanti per il primo periodo ma non per il secondo Paesi senza impegni vincolanti Paesi con impegni vincolanti nel primo periodo che si sono ritirati dal protocollo
10000
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
Paesi che hanno assunto impegni vincolanti per il secondo periodo (2012-2020)
Fonte: Kyoto Protocol
Paesi che hanno firmato e/o ratificato il protocollo di Kyoto
PROTOCOLLO DI KYOTO
Da 8000 a 10000 - Cina Da 4000 a 60000 - Stati Uniti d'America Da 3000 a 4000 - Unione Europea a 27 Da 2000 a 3000 - India Da 1000 a 2000 - Giappone, Russia Meno di 1000 - Sud Corea, Canada, Indonesia, Messico, Brasile, Arabia Saudita, Australia, Iran, Sud Africa, Ucraina, Taiwan, Thailandia
Il legame tra conflitti armati e controllo delle risorse naturali è evidente in molti degli attuali scenari di guerra; non è un caso che le zone più instabili e più controllate dal punto di vista militare posseggano ingenti quantità di risorse o siano snodi strategici per il loro trasporto. La tipologia di risorse più emblematica da questo punto di vista è rappresentata dalle fonti energetiche fossili. Ancora - purtroppo - indispensabili al sistema produttivo, con riserve sempre più limitate, il controllo di questo tipo di risorsa è in cima alle preoccupazioni di multinazionali, Governi, organismi internazionali. Dall’altro lato, le fonti fossili sono scarsamente redistributive dal punto di vista economico ma fortemente impattanti dal punto di vista ambientale e contribuiscono in misura determinante ai cambiamenti climatici. Perciò i movimenti e le comunità che lottano contro questi impatti chiedendo una transizione energetica low carbon parlano di “giustizia climatica”. L’obiettivo è sottolineare che il cambiamento climatico non è soltanto una questione ambientale ma anche una questione di giustizia sociale ed economica.
INFOGRAFICA - FONTI FOSSILI ATLANTE CONFLITTI AMBIENTALI
INFOGRAFICA ATLANTE LAND GRABBING
SENEGAL
FONTE DEI DATI
37%
Colture speculative
21%
Colture alimentari
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
In Senegal i contadini dell'area di Fanaye e di Ndiael, nel Nord Est, si oppongono ai progetti di agricoltura per biocarburanti e patate dolci messi in piedi da investitori italiani. 45mila ettari di terra sono stati acquisiti e solo 1500 utilizzati. Ma i contadini non hanno più accesso ai loro campi. Dal 2011 lottano per migliorare le cose, due morti negli incidenti.
RESISTENZE: ESEMPI
Investitori di tutto il mondo stanno arrivando anche in Europa. Aziende straniere controllano circa il 70% delle superfici agricole della Germania. Lo stesso accade in Romania, Bulgaria, Estonia, Lituania e Ungheria.
ESEMPI DI LAND GRABBING
Paesi impegnati in larga scala nella vendita dei terreni agricoli Paesi investitori Paesi colpiti dal land grabbing, ma anche impegnati in land grabbing all'estero
Accaparramento delle terre
BANCA MONDIALE, OXFAM, CDCA E ALTRE DATI 2015
EUROPA
TIPOLOGIA DI UTILIZZO DELLE TERRE
21%
Usi misti
Biocarburanti
21%
Il land grabbing descrive una nuova tendenza alimentata dalla crisi alimentare e finanziaria del 2008 e consiste nell’acquisto o l’affitto di terre per una produzione alimentare esternalizzata. Gli investitori ai quali viene fornita in concessione sfruttano i terreni per cinquanta o cento anni, cambiando lo scenario del territorio, convertendolo alla produzione di monocolture, che non nutre e danneggia il Paese. La corsa alla terra da tempo non riguarda più solo Africa, Asia e America Latina. Gli investitori sono arrivati anche in Europa, dove grande aziende straniere controllano vaste superfici di Germania, Romania, Bulgaria, Estonia, Lituania e Ungheria. Il Libano è uno dei sfruttatori dei terreni dell'Europa dell'Est. In questo modo il vicino Oriente e l'Africa orientale vengono rifornite di tonnellate di carne e cereali.
56 milioni di ettari acquistati
200 milioni di ettari venduti o affittati a lungo termine per altre fonti
70%
del business riguarda l’Africa Affitti per 25/99 anni da un minimo
ECCO CHI SI ACCAPARRA LE TERRE NEL MONDO Fondi di investimento Nord Americani ed Europei
Società e Governi del Golfo Persico
Società e Governi Asiatici
di euro l’ettaro.
ad un massimo di
90centesimi 8euro Fonte Banca Mondiale
Fondi di investimento di Cina, India, Giappone, Corea del Sud
Tavola 5
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 Totale
Numero di mesi in un anno
0.54 0.12 0.12 0.35 0.33 0.30 0.33 0.47 0.59 0.40 0.40 0.30 1.78 6.04
Bassa carenza di acqua
4.98 0.81 0.19 0.05 0.01 0 0 0 0 0 0 0 0 6.04
5.22 0.66 0.13 0.03 0.001 0 0 0 0 0 0 0 0 6.04
2.07 0.31 0.37 0.37 0.59 0.55 0.27 0.21 0.29 0.30 0.12 0.09 0.50 6.04
Miliardi di persone in funzione della bassa, moderata, significativa o grave carenza di acqua per mese in un anno
6.04 4.26 3.95 3.55 3.15 2.56 2.09 1.76 1.46 1.13 0.78 0.66 0.54
6.04 3.97 3.66 3.28 2.91 2.32 1.78 1.50 1.30 1.01 0.71 0.59 0.50
Miliardi di persone Miliardi di persone che devono che devono affrontare la affrontare la moderata o peggiore moderata o peggiore carenza d'acqua nel carenza d'acqua nel Moderata Significativa Grave corso di almeno n corso di almeno n carenza di carenza di carenza di mesi all'anno mesi all'anno acqua acqua acqua
Tabella sulla carenza di acqua per numero di persone e periodi dell’anno.
Nel 2014 l'organizzazione britannica "WaterAid" ha calcolato che: • un bambino su 15 muore a causa di malattie contratte dall'acqua, • 748 milioni di persone nel mondo vivono senza acqua potabile, • 2,5 miliardi persone nel mondo vivono senza servizi igienici, • 1.400 bambini muoiono ogni giorno a causa dell'acqua non potabile e dell'assenza di servizi igienici. Fonte: www.wateraid.org
DATI E STATISTICHE Il World Water Development Report dell'Unesco nel 2003 indica che nei prossimi 20 anni la quantità procapite d'acqua disponibile diminuirà del 30%. Il 40% della popolazione mondiale non ha acqua dolce per uso igienico-sanitario. Oltre 2,2milioni di persone sono morte nel 2000 per malattie causate dall'acqua inquinata. Fonte: www.unesdoc.unesco.org
FOCUS
vivono in Messico
90 milioni
vivono in Nigeria
110 milioni
vivono in Pakistan (di cui l'85% sono nel bacino dell'Indo)
120 milioni
vivono negli Stati Uniti (per lo più in Stati Occidentali come la California e stati del sud come il Texas e la Florida)
130 milioni
vivono in Bangladesh
130 milioni
vivono in Cina
0,9 miliardi
vive in India
1,0 miliardi
Circa il della popolazione mondiale (4,0 miliardi di persone) vive in condizioni di grave scarsità d'acqua almeno 1 mese dell'anno. Di queste:
66%
71%
Circa il della popolazione mondiale (4,3 miliardi di persone) vive in condizioni di moderata scarsità d'acqua almeno 1 mese all'anno.
POPOLAZIONE MONDIALE E CONSUMO DI ACQUA
FOCUS
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
GUERRA PER L’ACQUA Secondo il parere dell'IPCC International Panel on Climate Change, la corsa all'accaparramento di risorse idriche e la loro iniqua distribuzione è alla base di molti conflitti attuali e del rischio di quelli futuri. Il fabbisogno minimo d'acqua giornaliero di 20 litri. Circa un miliardo di persone vive con soltanto 5 litri giornalieri d'acqua a disposizione. Medio Oriente, Cina, India, Asia Centrale e Africa Centrale e Orientale sono le aree del Pianeta che soffrono la maggiore scarsità d'acqua.
Tavola 6
SOS riscaldamento globale La percentuale della popolazione mondiale che vive in zone limitrofe a bacini idrici vivrà una nuova o aggravata situazione di scarsità d'acqua : con il riscaldamento globale si prevede un aumento da 8% a 2 ° C al 13% a 5 ° C Fonte: Report IPCC 2014
Þ Progetti di sviluppo: le risorse idriche sono oggetto di contesa all'interno di progetti di sviluppo contestati dalla popolazione
Þ Obiettivo militare: le risorse idriche sono bersaglio di azioni militari
Þ Terrorismo: le risorse idriche sono obiettivi strategici o strumenti di violenza o coercizione da parte di attori non statali
Þ Strumento politico: le risorse idriche vengono utilizzate come strumento di contrattazione politica internazionale
Þ Strumento militare: le risorse idriche sono utilizzate come arma nelle situazioni di conflitto
Il World's Water individua diverse categorie di conflitti legati alla distribuzione di risorse idriche. Conflitti in atto dal 2011 ad oggi:
600-1000 1000-1200 1200-1300 1,240 global average 1300-1500 1500-1800 1800-2100 2100-2500
Water footprint pro capite, m3 per anno
Questo grafico è stato progettato da US infrastructure e mostra una mappa dell’impronta idrica e del consumo nazionale per Paese, in base ai dati pubblicati nel libro “Globalization of Water by Hoekstra and Chapagain (2008)”.
Centro di Documentazione Conflitti Ambiantali
CDCA
A CURA DEL
Sta nella gestione della risorsa idrica la chiave per ridurre il gap alimentare globale. A dirlo gli scienziati dell’Istituto di Potsdam che hanno studiato come produrre più cibo utilizzando la stessa quantità di acqua. Dall’analisi emerge che la produzione potrebbe aumentare del 40% ottimizzando l’uso dell’acqua piovana e con metodi di irrigazione più efficienti. Con questo risultato si potrebbe così arrivare alla cifra stabilita dall’Onu per sradicare la fame nel mondo. Questo incremento inciderebbe sulle regioni in cui l’acqua scarseggia come la Cina, l’Australia, la parte occidentale degli Stati Uniti, il Messico e l’Africa meridionale. Acqua e lavoro, inoltre, sono strettamente collegati: secondo uno studio dell’Onu pubblicato in occasione della Giornata mondiale dell'acqua poco più di tre posti di lavoro su quattro al mondo dipendono direttamente dalla risorsa idrica.
INFOGRAFICA - ACQUA ATLANTE CONFLITTI AMBIENTALI
INFOGRAFICA ATLANTE MURI DEL MONDO
J
J Stati Uniti–Messico, muro di Tijuana
Anno di costruzione: 1991 Lunghezza: 190 chilometri Motivo: arginare un’eventuale nuova invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, dopo la guerra del golfo
K Kuwait–Iraq
Anno di costruzione: 1994 Lunghezza: 1.000 chilometri Motivo: impedire l’arrivo negli Stati Uniti dei migranti irregolari messicani e bloccare il traffico di droga
L
P
M
FONTE DEI DATI
Caleidos, Indexmundi, Onu DATI 2015
B
C E
D
O I F K
H
G
S R
L Ceuta e Melilla–Marocco
occidentale, Berm
M Marocco–Sahara
Anno di costruzione: 1990 Lunghezza: 8,2 chilometri e 12 chilometri Motivo: bloccare l’immigrazione irregolare dal Marocco nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla
N
Un muro di divisione tra Ungheria e Serbia è solo l’ultimo di una lunga serie di barriere fisiche che ancora oggi dividono il mondo. Sono sedici le divisioni attive, di cui nove costruite nel nuovo millennio. Le barriere hanno come comune denominatore quello di bloccare i flussi migratori e ‘le infiltrazioni’ in genere. Molti stati giustificano la loro creazione con motivazioni di sicurezza, dal terrorismo, dai trafficanti di droga e armi. Nella realtà le divisioni servono a bloccare la circolazione delle persone, ad effettuare controlli più serrati. In molti casi il muro è circondato da mine antiuomo o da altre tipologie di ‘protezione’. Frequenti gli incidenti, anche mortali, che avvengono nelle prossimità delle divisioni.
Tutti i muri del mondo in ordine cronologico B Ungheria–Serbia Anno di costruzione: 2015 Lunghezza: 175 chilometri Motivo: respingere i migranti provenienti dai Balcani
C Bulgaria–Turchia Anno di costruzione: 2014 Lunghezza: 30 chilometri Motivo: arginare i flussi migratori provenienti da Est
D Arabia Saudita–Yemen Anno di costruzione: 2013 Lunghezza: 1.800 chilometri Motivo: impedire presunte infiltrazioni terroristiche
E Grecia–Turchia (fossato) Anno di costruzione: 2011 Lunghezza: 120 chilometri, larghezza 30 metri, profondità 7 metri Motivo: fermare il flusso di migranti clandestini entrati dalla Turchia
F Israele–Egitto Anno di costruzione: 2010 Lunghezza: 230 chilometri Motivo: contrastare terrorismo e immigrazione irregolare
G Iran–Pakistan Anno di costruzione: 2007 Lunghezza: 700 chilometri Motivo: proteggere il confine dalle infiltrazioni dei trafficanti di droga e dei gruppi armati sunniti
H Zimbabwe–Botswuana Anno di costruzione: 2003 Lunghezza: 482 chilometri Motivo: la motivazione ufficiale è contenere i contagi tra il bestiame ed evitare lo sconfinamento delle mandrie, ma in realtà la motivazione sembrerebbe essere quella di impedire l’arrivo di migranti irregolari
I Israele–Palestina Anno di costruzione: 2002 Lunghezza: 730 chilometri Motivo: impedire l’entrata in Israele dei palestinesi, prevenire attacchi terroristici
Anno di costruzione: 1989 Lunghezza: 2720 chilometri Motivo: difendere il territorio marocchino dal movimento indipendentista Fronte Polisario
Q
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
Stati con un muro all’interno o al confine
I PAESI CON MURI
Stati senza muri
N India–Bangladesh
Anno di costruzione: 1989 Lunghezza: 4.053 chilometri Motivo: fermare il flusso di immigrati provenienti dal Bangladesh, bloccare traffici illegali e bloccare infiltrazioni terroristiche
O Cipro zona greca zona turca, Linea Verde
Anno di costruzione: 1974 Lunghezza: 300 chilometri Motivo: il muro corrisponde alla linea del cessate il fuoco voluto dall’Onu in seguito al conflitto che divise l’isola
P Irlanda, Belfast cattolica Belfast protestante, Peace Lines
Anno di costruzione: 1969 Lunghezza: 13 chilometri Motivo: separare i cattolici e i protestanti dell’Irlanda del Nord
Q Corea del Nord–Corea del Sud
Anno di costruzione: 1953 Lunghezza: 4 chilometri Motivo: la divisione delle due Coree in seguito alla guerra del 1953
Line of Control
R India–Pakistan, LOC,
Anno di costruzione: 1947 Lunghezza: 550 chilometri Motivo: dividere la Regione del Kashmir in due zone, quella sotto il controllo indiano e quella sotto il controllo pachistano
Durand Line
S Pakistan–Afghanistan,
Anno si costruzione: 1893 Lunghezza: 2.460 Motivo: chiudere i contenziosi territoriali tra i due stati che risalgono all’epoca coloniale
Tavola 7
DATI 2015
Treccani, Scuolanet
FONTE DEI DATI
6%
Sikh
0,36%
16%
Altri
0,22%
Ebraismo
Nota: il totale è superiore al 100% a causa degli arrotondamenti e per il fatto che per ogni gruppo sono state utilizzate stime al limite superiore.
Non religiosi (secolari, agnostici, atei) 1.1 miliardi
Induismo 900 milioni
14%
Buddismo 376 milioni diffuso prevalentemente in Israele, Usa e Paesi dell’ex Unione Sovietica. Si registrano comunità ebraiche 6% Religione ovunque nel mondo. tradizionale cinese Numero di fedeli: 14.000.000, 394 milioni suddivisi in askenaziti (ebrei della Mitteleuropa), 6% sefarditi (ebrei della Spagna) Religioni indigene e mizrahi (ebrei dei Paesi del mondo arabo).
Ebraismo:
diffuso prevalentemente nei Paesi del Medio Oriente e Nord Africa. La presenza più massiccia si registra in Indonesia. Numero di fedeli: 1.500.000.000, suddivisi in sunniti (80%) e sciiti, con le relative minoranze.
Islam:
diffuso prevalentemente in Europa, Americhe, Africa Subsahariana, Oceania Numero di fedeli: 2.100.000.000, suddivisi in 5 correnti: Cattolici 1.100.000.000; Protestanti 480.000.000; Ortodossi 225.000.000; Anglicani 73.000.000; Orientali (Nestoriane e Neofista ecc.) 72.000.000. Esistono inoltre altre 56 Chiese e 175 sette (Geova, Mormoni, ecc.).
Cristianesimo:
Religioni abramitiche
Islam 1.5 miliardi
21%
Cristianesimo 2.1 miliardi
33%
FOCUS
Secondo l’istituto di ricerca americano Pew Research Center nel giro di 35 anni il numero dei musulmani sorpasserà quello dei cattolici. Secondo le loro proiezioni tutte le religioni, tranne il buddismo, subiranno incrementi di fedeli.
Religioni in crescita
La religione con il maggior numero di fedeli rimane il cristianesimo con 2,1miliardi di persone. A seguire l’Islam con 1,5miliardi di cui l’80% appartengono ai sunniti e il 20% sono sciiti o di altre minoranze. L’ebraismo è per numero la terza religione con 14milioni di fedeli. Rispetto alle altre confessioni religiose ancora oggi l’ebraismo subisce la diaspora: ci sono infatti comunità sparse un po’ ovunque nel mondo. Considerando il numero di fedeli seguono poi l’induismo, il buddhismo, il taoismo, il confucianesimo, lo scintoismo e i culti tribali e animistici diffusi prevalentemente in Africa. C’è poi una fetta di popolazione mondiale che non professa alcuna fede, gli atei superano infatti il miliardo e rappresentano per numero la ‘terza religione’mondiale.
INFOGRAFICA ATLANTE DELLE RELIGIONI
Atei:
Ebraismo Buddismo Induismo Scintoisco
Induismo:
Altre religioni
Nel mondo ci sono anche 1.070.000.000 di atei, che non professano alcuna fede.
Islam Sunniti Sciiti
Tavola 8
diffusi prevalentemente in Africa Numero di seguaci: 405.000.000
Culti tribali e animistici:
diffuso prevalentemente in Giappone Numero di seguaci: 100.000.000
Scintoismo:
diffuso prevalentemente in Cina Numero di seguaci: 237.000.000
Confucianesimo:
diffuso prevalentemente in Cina Numero di seguaci 400.000.000
Taoismo:
diffuso prevalentemente nei Paesi dell’Asia dell’Est. Numero di seguaci: 576.000.000
Buddhismo:
diffuso prevalentemente in India. Numero di seguaci: 1.000.000.000, suddivisi in Visnuismo (580 milioni), Sivaismo (220 milioni) e altre 1256 sette varie (200 milioni).
Cristianesimo Cattolici Anglicani e Protestanti Ortodossi
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
INFOGRAFICA ATLANTE LIBERTA’ STAMPA
7.52 7.75 8.24 9.22 9.47 10.06 10.85 10.99 11.18 11.19 11.20 11.47 11.62 11.66 11.98 12.26 12.50 12.71 13.61 13.85 13.87 15.50 15.94 16.52 17.03 17.11 17.67 18.12 18.20 18.54 18.80 19.87 19.95 20.00 20.55 20.69 21.02 21.15 22.06 22.32 22.39 22.91 23.00 23.37 23.66 23.79 23.85 24.16 24.41 24.52 24.83 24.90 25.08 25.25 25.27 #56 Papua New Guinea #57 Argentina #58 Croatia #59 Malawi #60 Republic of Korea #61 Japan #62 Guyana #63 Dominican Republic #64 Madagascar #65 Hungary #66 Bosnia/Herzegovina #67 Serbia #68 Mauritius #69 Georgia #70 Hong Kong #71 Senegal #72 Republic of Moldova #73 Italy #74 Nicaragua #75 United Rep. Tanzania #76 Cyprus North #77 Lesotho #78 Armenia #79 Sierra Leone #80 Togo #81 Guinea-Bissau #82 Albania #83 Panama #84 Benin #85 Mozambique #86 Côte d'Ivoire #87 Kosovo #88 Kyrgyzstan #89 Liberia #90 Kuwait
25.87 26.11 26.12 26.41 26.55 26.95 27.21 27.31 27.43 27.44 27.51 27.66 27.69 27.70 27.76 27.77 27.85 27.94 27.94 28.09 28.33 28.36 28.43 28.47 28.50 28.70 28.77 28.98 29.24 29.98 30.45 30.63 30.69 30.78 30.84
I Paesi più pericolosi per i reporter I Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti sono la Siria (177esimo posto), dietro la Cina (176), e davanti ai fanalini di coda: Turkmenistan (178), Corea del Nord (179) ed Eritrea (180). Iraq compare alla 156esima posizione e la Nigeria alla 111esima. Questi ultimi due Paesi hanno visto quest’anno la comparsa di «buchi neri dell’informazione», si legge nel rapporto.
FONTE DEI DATI
Reports senza frontiere DATI 2015
Indice grado di libertà
L'indice riflette il grado di libertà di cui godono giornalisti, agenzie di stampa e cittadini nel mondo e tiene conto delle le azioni intraprese dalle autorità per rispettare e assicurare il rispetto di tale libertà. Si basa su un questionario inviato alle organizzazioni partner di Rsf, alla rete di 150 corrispondenti, a giornalisti, ricercatori, giuristi e attivisti per i diritti umani. A ogni paese viene assegnato un punteggio e una posizione nella classifica finale. Si tratta di indicatori complemen tari che, insieme, valutano lo stato della libertà di stampa. Le domande seguono sei criteri generali. Utilizzando un sistema ponderato, a ogni paese viene assegnato un punteggio tra 0 e 100 per ognuno. Questi punteggi vengono poi utilizzati per calcolare il punteggio finale di ognuno dei paesi.
#91 Greece #92 Peru #93 Fiji #94 Bolivia #95 Gabon #96 Seychelles #97 Uganda #98 Lebanon #99 Brazil #100 Kenya #101 Israel #102 Guinea #103 Timor-Leste #104 Bhutan #105 Nepal #106 Bulgaria #107 Republic of the Congo #108 Ecuador #109 Paraguay #110 Central African #111 Nigeria #112 Maldives #113 Zambia #114 Montenegro #115 Qatar
31.01 31.21 31.28 31.29 31.38 31.55 31.65 31.81 31.93 32.07 32.09 32.56 32.63 32.65 32.71 32.91 33.00 33.65 33.74 33.84 34.09 34.32 34.35 34.63 35.35
Situazione critica per i giornalisti in molte aree del mondo. Secondo la classifica sulla libertà di stampa che Reporter senza Frontiere pubblica ogni anno, nelle ragioni della scarsa libertà di informazione c’è l’incremento delle tendenze autoritarie di Governi come Egitto e Turchia o in alcune parti di Europa, come la Polonia o ancora la Libia, il Burundi e in Yemen. Anche le legislazioni hanno registrato un marcato abbassamento. Molte sono state, infatti, le leggi adottate per penalizzare i giornalisti. La crescita dell’auto-censura è la conseguenza di questa situazione. Ogni continente ha visto il suo declino: in America la situazione più instabile si ha in Messico, dove ci sono stati molti omicidi e intimidazioni. Anche in Europa e nei Balcani la crisi è evidente, a causa della crescita dell’influenza di movimenti estremisti e governi ultraconservatori.
#1 Finland #2 Norway #3 Denmark #4 Netherlands #5 Sweden #6 New Zealand #7 Austria #8 Canada #9 Jamaica #10 Estonia #11 Ireland #12 Germany #13 Czech Republic #14 Slovakia #15 Belgium #16 Costa Rica #17 Namibia #18 Poland #19 Luxembourg #20 Switzerland #21 Iceland #22 Ghana #23 Uruguay #24 Cyprus #25 Australia #26 Portugal #27 Liechtenstein #28 Latvia #29 Suriname #30 Belize #31 Lithuania #32 Andorra #33 Spain #34 United Kingdom #35 Slovenia #36 Cape Verde #37 Eastern Caribbean #38 France #39 South Africa #40 Samoa #41 Trinidad and Tobago #42 Botswana #43 Chile #44 Tonga #45 El Salvador #46 Burkina Faso #47 Niger #48 Malta #49 United States #50 Comoros #51 Taiwan #52 Romania #53 Haiti #54 Mongolia #55 Mauritania
Sensibilmente problematica
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
LA SITUAZIONE
Difficile
38.04 38.68 38.83 39.08 39.10 39.19 39.19 39.27 39.63 40.07 40.17 40.49 40.61 40.75 40.99 41.01 41.19 41.83 42.07 42.08 42.93 42.95 43.29 43.69 44.16 44.31 44.50 44.97 45.87 45.99 47.28 47.76 47.98 50.17 50.46 53.46 56.57 58.41 58.69 59.41 60.28 61.14 66.23 66.36 70.21 71.04 71.25 72.31 72.32 72.34 72.63 73.55 77.29 80.83 83.25 84.86
Estremamente grave
#125 South Sudan #126 Tunisia #127 Oman #128 Colombia #129 Ukraine #130 Morocco #131 Zimbabwe #132 Honduras #133 Cameroon #134 Thailand #135 Chad #136 India #137 Venezuela #138 Indonesia #139 Cambodia #140 Palestine #141 Philippines #142 Ethiopia #143 Jordan #144 Myanmar #145 Burundi #146 Bangladesh #147 Malaysia #148 Mexico #149 Turkey #150 D. R. of The Congo #151 Gambia #152 Russian Federation #153 Singapore #154 Libya #155 Swaziland #156 Iraq #157 Belarus #158 Egypt #159 Pakistan #160 Kazakhstan #161 Rwanda #162 Azerbaijan #163 Bahrain #164 Saudi Arabia #165 Sri Lanka #166 Uzbekistan #167 Equatorial Guinea #168 Yemen #169 Cuba #170 Djibouti #171 Lao People's D. R. #172 Somalia #173 Islamic Republic of Iran #174 Sudan #175 Vietnam #176 China #177 Syrian Arab Republic #178 Turkmenistan #179 D. People's R. of Korea #180 Eritrea
Buona
36.19 36.26 36.33 36.63 36.73 36.76 37.44 37.84 37.92
Abbastanza buona
#116 Tajikistan #117 Macedonia #118 Mali #119 Algeria #120 United Arab Emirates #121 Brunei Darussalam #122 Afghanistan #123 Angola #124 Guatemala
Tavola 9
DATI 2015
donne al giorno muoiono, nel Mondo, per cause legate alla gravidanza e al parto.
830
di donne ha subìto violenza sessuale e abusi nei 5 paesi nei quali si sono consumate alcune fra le più gravi crisi umanitarie degli ultimi anni dal Congo alla Bosnia, dalla Sierra Leone al Rwanda, al Kosovo.
1milione
le donne e bambine costrette a fuggire da casa per guerre, persecuzioni e violenze.
100/140milioni
di donne e bambine rifugiate nel mondo.
20milioni
della popolazione mondiale di rifugiati è costituita da donne e bambine.
55%
FOCUS
÷
Si calcola che nel Mondo, ogni giorno, le donne impieghino 200milioni di ore nella sola raccolta dell'acqua.
Il lavoro principale
In Sudafrica, considerato Paese a economia emergente, le donne ogni giorno per andare a prendere l'acqua percorrono una distanza equivalente a 16 volte la circonferenza della luna.
Come sulla luna
Ratifica della Convenzione per la eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne.
RISOLUZIONE CEDAW
ONU - UNHCR - OMS - UE - UNICEF
FONTE DEI DATI
Più della metà della popolazione mondiale di rifugiati è costituita da donne e bambine. Milioni sono infatti le donne costrette a fuggire da casa per guerre, persecuzioni e violenze. Così come sono milioni le donne che ogni giorno subiscono violenza, anche nei Paesi considerati più civilizzati. Soprattutto sulle rotte migranti, ad esempio in quella balcanica o in quella per raggiungere gli Stati Uniti, il problema degli abusi sulle donne è pressante. Si continua poi a morire di parto in particolare nei Paesi che hanno subìto le più gravi crisi umanitarie. Ma le donne non sono solo vittime, in molti Paesi possono combattere in prima linea negli eserciti ufficiali di molti stati. In molte parti del mondo sono poi grandi camminatrici, si stima infatti che se si considera la quantità di ore impiegate sia la raccolta dell’acqua l’occupazione principale di molte.
INFOGRAFICA ATLANTE DONNE E GUERRA
Tavola 10
Tra questi Australia, Nuova Zelanda, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Italia, Germania, Norvegia, Israele, Serbia, Svezia, Svizzera e Stati Uniti.
Negli eserciti di alcuni Paesi alle donne è permesso combattere in prima linea
AFRICA Eritrea, Libia.
EUROPA Danimarca, Italia, Finlandia, Francia, Irlanda, Norvegia, Polonia, Russia, Serbia, Svezia, Turchia, Ucraina, Regno Unito.
MEDIO ORIENTE Israele, Siria.
AMERICHE Stati Uniti, Canada, Messico.
ASIA-PACIFICO Afghanistan, Australia, Nepal, Nuova Zelanda, Sri Lanka, Thailandia, Pakistan, Corea del Sud, Giappone.
Ecco una lista di alcuni Paesi dove le donne possono arruolarsi nelle forze amate
Stati che hanno ratificato Stati solo firmatari Nessuna azione
LO STATO DELLA RATIFICA
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
INFOGRAFICA ATLANTE DIRITTI INFANZIA
150 milioni al mondo i bambini con lavori a rischio
69
milioni nell’Africa Subsahariana
44
milioni in Asia
FONTE DEI DATI
Indexmundi, Onu DATI 2015
110
1/5
le ragazze che hanno subito violenze sessuali
milioni
120
i bambini di strada
milioni
A ventisei anni dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza il tasso di mortalità infantile è dimezzato. A dirlo il Direttore dell'Unicef, Anthony Lake. Nonostante questo il mondo rimane in molte aree ingiusto, soprattutto per i più piccoli. Bambini e adolescenti sotto i diciotto anni sono la quasi metà dei poveri del mondo. Quasi 250 milioni di bambini vivono in zone distrutte dalle guerre e almeno 200mila hanno rischiato la vita per raggiungere un posto sicuro nell’ultimo anno. Secondo Unicef, i bambini delle famiglie più povere hanno quasi il doppio delle probabilità di morire prima del quinto compleanno. Una larga parte dei bambini in condizione di povertà soffre di ritardi nella crescita a causa della malnutrizione cronica.
84 milioni di adolescenti hanno subito violenza fisica, sessuale o psicologica
20 milioni di bambini vittime di sfruttamento sessuale e trafficati per altre finalità
250 mila i bambini soldato
degli omicidi mondiali hanno come vittima una bambina o un bambino
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
NATALITA’ E MORTALITA’ NEL MONDO
Alta natalità e alta mortalità Alta natalità, media o bassa mortalità Bassa natalità o bassa mortalità
Natalità e mortalità per continente
Tasso di natalità 1970 - 2010
20 10 9 12 10 10 12
10 6 8 8 12 8 8
Tasso di mortalità 1970 - 2010
(1970-2010, proiezioni, tasso per mille abitanti)
Aree
47 35 16 34 16 24 31
35 20 13 19 11 17 21
Africa America Latina Africa Settentrionale Asia Europa Oceania Media Mondo
Incremento naturale per continente
Aree
2,8 2,5 0,7 2,3 0,6 1,4 1,9
1970
2,5 1,4 0,5 1,2 -0,2 0,9 1,2
2010
(1970-2010, proiezioni, tasso per cento abitanti)
Africa America Latina Africa Settentrionale Asia Europa Oceania Media Mondo
Tavola 11
DATI 2016
Banca Mondiale
FONTE DEI DATI
dei bambini non va alle elementari
1 su 11
degli adolescenti non va a scuola
1 su 5
di loro non avranno mai accesso alla scuola
milioni
25
i bambini senza accesso alla scuola
milioni
121
N° 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
PAESE RPD Corea Lettonia Estonia Lituania Azerbaigian Polonia Tagikistan Georgia Cuba Armenia
DATI DATA 100.00 2008 99.90 2011 99.86 2011 99.82 2011 99.79 2014 99.76 2013 99.75 2013 99.75 2013 99.75 2012 99.74 2011
Tabella dati Alfabetizzazione (%)
Ancora una larga fetta degli adulti in tutto il mondo non è in grado di leggere o scrivere. Di questi due terzi sono donne. Accedere all’istruzione per le donne continua ad essere un problema. La scarsa alfabetizzazione porta inevitabilmente alla discriminazione sul mercato del lavoro, in più parti del mondo. La Banca Mondiale ha stabilito di investire 2,5miliardi di dollari in progetti dedicati all'istruzione di ragazze adolescenti dei Paesi in via di sviluppo. Il contributo dà sostegno all’iniziativa "LetGirlsLearn" lanciata nel 2015 dalla first lady americana Michelle Obama. Secondo uno studio della World Bank, per ogni anno a scuola una bambina nel mondo in via di sviluppo aumenta del 18% i suoi redditi nell'arco della vita.
INFOGRAFICA ATLANTE SCOLARIZZAZIONE 82.28 - 91.48
56.76 - 71.50
94.62 - 97.96
91.48 - 94.62
> 99.39
97.96 - 99.39
Tavola 12
I 5 PAESI MENO ALFABETIZZATI NELL’ULTIMO SECOLO 1 - Burkina Faso 8.69 % nel 1975 2 - Mali 9.43 % nel 1976 3 - Ciad 10.89 % nel 1993 4 - Niger 14.38 % nel 2001 5 - Benin 16.48 % nel 1979
Analfabetismo (%)
71.50 - 82.28
< 56.76
ALFABETIZZAZIONE (%)
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
INFOGRAFICA ATLANTE SPESA SANITARIA FONTE DEI DATI
Banca Mondiale DATI 2013
PAESE Tuvalu Stati Uniti Isole Marshall Paesi Bassi Micronesia Sierra Leone Moldavia Francia Lesotho Svizzera
DATI 19.72 17.10 16.53 12.89 12.59 11.84 11.80 11.66 11.48 11.47
Tabella dati 2013 Spesa sanitaria (% del PIL)
Secondo il “World HealthStatistics”, la fonte ufficiale delle informazioni sullo stato di salute della popolazione mondiale, nel 2015 emergono progressi incoraggianti, ma ci sono ancora ampi divari tra e all’interno dei Paesi. Le principali cause della morte di bambini di età inferiore ai 5 anni sono rappresentate dalle complicazioni alla nascita pretermine, la polmonite, l’asfissia alla nascita e la diarrea. Si è dimezzato, tra il 1990 e il 2013, il numero di donne morte a causa di complicazioni durante la gravidanza e il parto. Il tasso di mortalità materna è sceso. Tuttavia tredici Paesi con alcuni dei più alti tassi al mondo hanno fatto pochi progressi. Per quanto riguarda l’obiettivo di bloccare la propagazione dell’Hiv entro il 2015 e di cominciare a invertirne la tendenza attuale, si è passati da 3,4milioni di nuovi casi di infezione segnalati nel 2001 a 2,1milioni del 2015.
I dati sulla spesa sanitaria forniscono le cifre su quanto un Paese investe in percentuale del PIL. Spese per la salute sono ampiamente definite come le attività svolte sia da istituzioni o individui attraverso l'applicazione delle conoscenze mediche, paramediche, e/o infermieristiche e la tecnologia, il cui scopo principale è quello di promuovere, ripristinare o mantenere la salute dei cittadini.
N° 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
4.82 - 5.72
7.28 - 8.75
6.54 - 7.28
> 9.87
8.75 - 9.87
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
< 3.81
5.72 - 6.54
SPESA SANITARIA (% DEL PIL)
3.81 - 4.82
La Spesa sanitaria più bassa (% del PIL)
I 5 RECORD NEGATIVI: 1 - Timor Est 0.72 % nel 2011 2 - Iraq 0.81 % nel 2000 3 - Sudan del Sud 1.35 % nel 2011 4 - Repubblica Democratica del Congo 1.45 % nel 2000 5 - Birmania 1.77 % nel 2013
Tavola 13
DATI 2015
IL CASO ISIS
Vari santuari sufi vicino a Tripoli (video diffuso a marzo, ma la distruzione non si sa a quando risalga)
2015: Libia
Raqqa, distruzione Statue leonine (gennaio) Palmira (da maggio in avanti), distruzione arco di Trionfo Romano, Tempio di Bel, torri funerarie – Patrimonio Unesco
2015: Siria
Mura di Ninive (gennaio) Museo archeologico di Mosul con le opere provenienti da Hatra (città assira) ivi conservate (febbraio) Moschea Khudr a Mosul (sciita) Nimrud, città assira del XIII secolo (marzo). Distrutte le rovine Rovine di Hatra (marzo) – Patrimonio Unesco Rovine assire di Dur-Sharrukin (marzo) Chiesa Verde di Tikrit (tra i più antichi monumenti della cristianità in Medio Oriente) Dur Sarrukin, (odierna Khorsabad), capitale dell’impero assiro, famosa per i rilievi in pietra
2015: Iraq
Moschea di Al-Arbahin
2014: Iraq – Tikrit
Mausoleo sciita di Fathi al-Kahen (con 40 tombe dell’era Omayyade dell’VIII secolo) Tomba del profeta Daniele (presunta) Tomba profeta Giona (con annessa moschea) Tomba profeta Jirjis Santuario dell’Imam Awn al-Din
2014: Iraq – Mosul
Beni artistici distrutti dall’Isis
Tripoli •
Tal Afar • • Mosul Raqqa • • Tikrit Palmira •
E’ difficile ipotizzare il danno economico portato dalla distruzione di siti millenari da parte dell’Isis. Quello che pare certo è che il commercio di reperti porta nelle casse del cosidetto Califfato denaro da investire nella guerriglia. A questo proposito, è del dicembre 2015 la proposta dell’Italia di istituire veri e propri 'caschi blu della cultura", per proteggere il patrimonio artistico e culturale dell'umanità. Il Consiglio esecutivo Unesco ha approvato la richiesta di creare dei meccanismi per utilizzare una forza internazionale dedicata e lavorare in sede Onu per includere la componente culturale nelle missioni di pace. La risoluzione italiana, cofirmata da 53 Paesi, era sostenuta dai membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
INFOGRAFICA ATLANTE BENI DISTRUTTI
Tavola 14
26 febbraio 2015 Viene fatta saltare la moschea Khudr a Mosul. Fra gli altri luoghi santi sciiti distrutti dai jihadisti, anche la moschea Al-Qubba Husseiniya a Mosul, la moschea Jawad Husseiniya e il mausoleo di Saad bin Aqil Husseiniya a Tal Afar. Sotto la furia distruttrice del cosidetto Califfato sono caduti anche luoghi venerati sunniti, come il mausoleo sufi di Ahmed al-Rifai e la cosiddetta Tomba della Fanciulla (Qabr al-Bint) a Mosul.
Moschee e santuari islamici
Stati non colpiti dalla furia dell’Isis
Stati interessati dalle distruzioni dell’Isis
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
INFOGRAFICA LE STRADE DEI MIGRANTI
FOCUS
122
7.600.000 sfollati 3.880.000 rifugiati
In Siria
FONTE DEI DATI
FRONTEX - VIMINALE - UNHCR - CIR DATI 2016
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
Sbarchi: nel 2016 24mila arrivi a fine febbraio
Cerchiamo di capire come si dividono i profughi, da dove vengono e dove vanno una volta arrivati in Italia. Ad esempio sono circa 53mila i migranti sbarcati in Italia dall’1 gennaio al giugno del 2016. È un trend in crescita, rispetto alle statistiche del 2015, quando in un anno arrivarono in Italia più o meno 155mila persone.
Nel 2015, gli scafisti arrestati nello stesso periodo sono stati 222, mentre non si registrano arresti contro i mandanti nazionali e internazionali del traffico: 0 assoluto.
Per l’Italia, la Sicilia resta la principale regione di sbarco, seguita da Calabria e Puglia. L’accordo siglato da Unione Europea e Turchia all’inizio del 2016, ha di fatto rimesso il Mediterraneo al centro delle rotte migratorie. Nel 2015 la predominanza era, infatti, stata per la rotta Balcanica. I barconi partono in prevalenza dalla Libia, seguita dall’Egitto. Gli immigrati ospitati nelle strutture italiane alla fine del 2015 erano circa 90mila, di cui 77mila adulti ed il resto minori. La Sicilia ne ospita il (20%); seguono Lazio (11%), Lombardia (9%), Puglia e Campania (7%), Calabria, Emilia Romagna e Piemonte (6%), Toscana (5%). Le altre Regioni italiane ospitano percentuali minori di uomini, donne e bambini.
Rotta Balcani occidentali
Rotta Mediterraneo orientale
Rotta confini orientali
Isole Canarie
Più della metà sono bambini
è un rifugiato
pianeta su
abitante del
1
nel 2015 nel mondo
migranti forzati
59.500.000
Il nuovo rapporto annuale dell'UNHCR dice che sono alla fine del 2015 sono poco meno di 60milioni le persone che, nel mondo, sono costrette a fuggire dalle loro case. Per capirci: alla fine del 2013 erano 51,2milioni, dieci anni fa erano 37,5milioni di dieci anni fa. In tutto il mondo, una persona ogni 122 è attualmente un rifugiato, uno sfollato interno o un richiedente asilo. Il 51% sono giovani al di sotto dei 18 anni, il 53% per cento, invece, viene da appena tre Paesi: Siria (3.880.000 alla fine del 2014). Afghanistan (2.590.000) e la Somalia (1,1milioni). Sono le Regioni in via di sviluppo a dare invece accoglienza all'86% dei rifugiati del mondo. Il Pakistan, con 1milione e 600mila rifugiati afghani resta il principale Paese ospitante.
Pochi sanno che, in realtà, la grande porta d’ingresso di chi vuole immigrare nell’Unione Europea sono gli aeroporti internazionali. La maggioranza degli stranieri che oggi vivono nella UE illegalmente, originariamente erano entrati in uno dei Paesi comunitari con regolari documenti di viaggio e con visti che non sono stati rinnovati.
Le principali rotte migratorie verso l'UE / terra e mare Rotta africana Occidentale Rotta Mediterraneo Occidentale Rotta Mediterraneo centrale Rotta Puglia e Calabria Percorso circolare dall'Albania alla Grecia Rotta Balcani Occidentali Rotta Mediterraneo Orientale Rotta confini Orientali Spazio Schengen Paesi associati Schengen I dati sono riferiti al periodo Gennaio - Aprile 2016
Rotta circolare Albania e Grecia
Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio marzo 2016
213 Rotta Puglia e Calabria
Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio aprile 2016
1350 112447 157019 Rotta Mediterraneo centrale
Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel genniao aprile 2016
1408 27147
Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio marzo 2016
Rotta Mediterraneo occidentale
162
Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio marzo 2016
Rotta africana occidentale
Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio aprile 2016
I tre maggiori paesi di migranti: Vietnam 36 Turchia 30 Afghanistan 29
Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio marzo 2016
I tre maggiori paesi di migranti: Siria 76741 Afghanistan 39285 Iraq 24907
Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio marzo 2016
Inclusi nella rotta Mediterraneo Centrale
I tre maggiori paesi di migranti: Non specificato 102331 Afghanistan 3106 Pakistan 2007
I tre maggiori paesi di migranti: Nigeria 4204 Gambia 2903 Costa d’Avorio 2296
I tre maggiori paesi di migranti: Albania 1344 Macedonia 2 Serbia 1
I tre maggiori paesi di migranti: Guinea 593 Camerun 184 Costa d’Avorio 150
I tre maggiori paesi di migranti: Guinea 65 Costa d’Avorio 55 Camerun 17
Tavola 15