ATLANTE
DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO EDIZIONE 2011
ecuador
INOLTRE 1
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4
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Etiopia
Birmania Myanmar
Iran
Madagascar
Cina Xinjiang
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5 liberia
colombia
CONFLITTI, MISSIONI ONU, INOLTRE
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6
3
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9
3
Corea Nord Corea Sud
Sri Lanka
CONFLITTI
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5
1
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3
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23
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25
MINURSO
MINUATAH
7
Ecuador
MISSIONI ONU UNTSO
1
nigeria
guinea bissau
SITUAZIONE AL SETTEMBRE 2010
algeria
paesi baschi sahara occidentale
15
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costa d’avorio
haiti
11
35
UNMOGIP
UNMIK
UNMIS
UNFICYP
MONUC
UNMIT
UNDOF
UNMIL
UNAMID
UNFIL
UNOCI
MINURCAT
Algeria
Sahara Occidentale
Kirghizistan
Ciad
Somalia
Pakistan
Costa d’Avorio
Sudan
Thailandia
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4
1
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filippine
birmania/myanmar
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thailandia
india yemen
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cina/tibet
kashmir
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madagascar
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somalia
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sudan
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corea nord/sud
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madagascar
r. d. congo
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iran iraq
cipro
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uganda
rep. centrafricana
ciad
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kirghizistan
libano
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afghanistan
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cecenia
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cina/xinjiang
siria/israele
georgia
israele/palestina
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turchia
kosovo
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33 304
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34
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Etiopia Eritrea
Uganda
Timor Est
Guinea Bissau
Colombia
Turchia
Liberia
Haiti
Israele Palestina
NIgeria
Afghanistan
Libano
Repubblica Centrafricana
Cina Tibet
Siria Israele
R.D. del Congo
Filippine
Cecenia
India
Cipro
Iraq
Georgia
Yemen
Kosovo
Kashmir
Paesi Baschi
Seconda edizione
Associazione 46° Parallelo
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ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO SECONDA EDIZIONE Direttore Responsabile Raffaele Crocco Capo Redattore Federica Ramacci
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In redazione Barbara Bastianelli Francesco Cavalli Angelo d’Andrea Angela De Rubeis Beatrice Taddei Saltini Daniele Bellesi Hanno collaborato Andrea Baranes Giulia Bondi Pietro Cavallaro Stefano Fantino Angelo Ferrari Franco Fracassi Flavio Lotti Francesca Manfroni Carlo Maria Miele Ettore Mo Michele Nardelli Enzo Nucci Ilaria Pedrali Alessandro Piccioli Amedeo Ricucci Ornella Sangiovanni Luciano Scalettari Roberto Zichittella Progetto grafico ed impaginazione Daniele Bellesi Progetto grafico della copertina Daniele Bellesi Foto di copertina Francesco Cavalli
le as s oc ia zione c ult ura
Redazione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it
Testata registrata presso il Tribunale di Trento n° 1389RS del 10 luglio 2009 Tutti i diritti di copyright sono riservati Finito di stampare nel novembre 2010 Grafiche Garattoni - Rimini
Algeria Ciad Costa d’Avorio Etiopia/Eritrea Guinea Bissau Liberia Nigeria Repubblica Centrafricana Repubblica Democratica del Congo Sahara Occidentale Somalia Sudan Uganda
Colombia Haiti
Afghanistan Cina/Tibet Filippine India Iraq Kashmir Kirghizistan Pakistan Thailandia Timor Est Turchia Yemen
Israele/Palestina Libano Siria/Israele Cecenia Cipro Georgia Kosovo Paesi Baschi
Editoriale Raffaele Crocco Saluti Amministratori Saluti Amministratori Introduzione Flavio Lotti Introduzione Barbara Bastianelli Istruzioni per l’uso Raffaele Crocco La situazione Raffaele Crocco Combattere senza armi/1 Amedeo Ricucci Combattere senza armi/2 Amedeo Ricucci Banche e guerra Andrea Baranes Vittime della guerra/1 Enzo Nucci Vittime della guerra/2 Giulia Bondi Africa Un continente in cerca di futuro Enzo Nucci
Inoltre Etiopia - Madagascar America Latina Un continente che cresce con la Cina e Bolivar Raffaele Crocco Inoltre Ecuador Asia Piccole e grandi guerre per gestire le risorse Franco Fracassi
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Indice
5 6 7 8 9 11 13 15 17 19 21 23 25 26 28 32 36 40 44 48 52 56 60 64 68 72 76 80 83 84 86 90 94 95 96 98 102 106 110 114 118 122 126 130 134 138 142 146 151 152 154 158 162 167 168 170 174 178 182 186 191 192 195 197 199 201 203 206 208 209
Inoltre Birmania - Cina/Xinjiang - Coree - Iran - Sri Lanka Medio Oriente Non più complici ma costruttori di pace Flavio Lotti
Europa Un strano continente menico di se stesso Amedeo Ricucci
Nazioni Unite - I Caschi Blu Raffaele Crocco Le missioni Onu Il controllo delle risorse/1 Stefano Fantino Il controllo delle risorse/2 ASAL Vittime della guerra/3 Ilaria Pedrali I nuovi migranti ASAL La biblioteca di Sarajevo Michele Nardelli Gruppo di lavoro Fonti Ringraziamenti
Idea e progetto Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento
Edizione Editrice AAM Terra Nuova S.r.l. Via Ponte di Mezzo, 1 50127 - Firenze Tel. +39 055 3215729 Fax +39 055 3215793 info@aamterranuova.it www.aamterranuova.it
Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it
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COMUNE DI EMPOLI
In collaborazione con
Editoriale
E adesso c’è una nuova guerra Una ragione in più per “salvare” l’Onu
Il Direttore Raffaele Crocco
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L
e schede dei conflitti, quest’anno, sono 35 in questo Atlante della Guerra e dei Conflitti del Mondo. L’anno scorso ne avevamo una in meno. La fine delle guerre resta una idea astratta, come astratto sembra più il ruolo delle Nazioni Unite, strette fra contraddizioni e mancanze che non danno risposte. Pensateci un attimo: dei quasi 200 Paesi che formano l’Assemblea, un altissimo numero ha governi non democratici a guidarli. Significa che chi siede al Palazzo di Vetro per conto di questi stati, è nominato da chi con diritti umani, democrazia, libertà, rispetto delle leggi e delle norme internazionali ha poco a che fare. Una contraddizione stridente per un organismo che dovrebbe garantire giustizia. Altro pensiero: anche chi siede per conto di governi democraticamente eletti, non viene nominato per volontà popolare, insomma, attraverso un voto. No, va a rappresentare interessi, legittimi ovvio, ma non sempre condivisi. Tutto questo fa capire quanto poca democrazia vi sia nei meccanismi dell’Onu e quanto difficile sia - pur con tutta la buona volontà che spesso c’è - trovare strumenti e logiche di intervento. E questo si traduce in una tragedia per le popolazioni che proprio dai Caschi Blu, dai soldati dell’Onu, dovrebbero essere protette. Troppo spesso, dalla Bosnia, alla Somalia, alle recenti operazioni in Africa, abbiamo saputo che i Caschi Blu dell’Onu sono rimasti fermi, inerti, davanti a massacri e violenze. Le regole d’ingaggio, cioè gli ordini che avevano ricevuto, gli impedivano di intervenire “per evitare di prendere posizione a favore di qualcuno”. Una assurdità dettata dalle convenienze, ogni volta diverse di ogni volta diversi Paesi, che non volevano disturbare alleati, amici, conniventi. Contraddizioni stridenti, lo ripetiamo, eppure è all’Onu che si giocano buona parte dei destini dei cittadini del mondo. Sono le Nazioni Unite che dobbiamo salvaguardare, rilanciare, tenere saldo, per continuare ad avere delle speranze. Perché alla base, a tenerlo vivo, c’è la carta indispensabile per la vita giusta dei popoli: la Dichiarazione dei Diritti Umani. La guerra prospera dove mancano i diritti elementari. Trova nutrimento, fan, istigatori. Trova ragioni per esistere. Tentare di salvaguardare la Dichiarazione e l’Onu significa rendere meno facile la vita a chi pensa alla guerra come uno strumento utile per governare, fare soldi, passare alla storia. Per questo, anche quest’anno, parliamo a lungo dei conflitti che vedono l’Onu impegnata in qualche modo, con tutti i limiti, ad arginare i massacri, a fermare il sangue. Raccontiamo le missioni, pesandole, misurandole in termini di costi e di sacrifici e anche di inutilità. Perché dobbiamo capire e conoscere quello che accade per rifondarlo. Perché dobbiamo credere che sia possibile che gli Stati del Mondo si mettano assieme per fermare la guerra.
Saluti
U
n anno fa parlavamo della vocazione antica del Trentino alla solidarietà. Una tradizione salda, condivisa. Ne parlavamo per salutare la nascita del primo Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, con la speranza che un secondo volume sarebbe uscito più magro, asciutto. Insomma, con meno guerre da raccontare. Non è così. Dodici mesi dopo siamo ancora in un mondo in guerra e continuiamo a vivere in un mondo che non sa di esserlo. Televisioni, radio, giornali, ci parlano quotidianamente solo di pochi, noti conflitti. L’Afghanistan sappiamo cos’è, paghiamo sulla nostra pelle - e su quella dei nostri soldati - la violenza di quella guerra. Contiamo i morti, ma non sappiamo bene se laggiù siamo andati a fare la guerra o a portare la pace. Conosciamo il conflitto fra israeliani e palestinesi e ci disperiamo per un “buco nero” della storia che sembra non avere fine, non trovare soluzione e pace. E poi? Poco altro e quel poco è occasionale. Per questa ragione l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo resta uno strumento importante di conoscenza. Per questo motivo, l’assessorato alla Solidarietà e alla Cooperazione di una Provincia come Trento non può non sostenere un progetto così. In questa terra abbiamo l’Osservatorio per i Balcani, la Fondazione Campana dei Caduti, il Forum per la Pace e centinaia di associazioni e gruppi che quotidianamente lavorano per un mondo migliore. La Provincia non può essere da meno e lavorare con l’informazione, far capire il dramma della guerra raccontandone la storia, l’attualità, gli effetti, è un modo coerente per stare vicino a tutta questa gente. Un modo per far crescere coscienze e opinioni e, magari, per costruire una cultura solida di pace. Lia Giovanazzi Beltrami Assessore alla solidarietà internazionale e alla convivenza - Provincia di Autonoma di Trento
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A
lungo l’insegnamento della storia nelle scuole ha avuto come asse centrale e privilegiato il racconto di avvenimenti politici, militari e istituzionali. Una storia in cui le guerre venivano assunte come elemento di persistenza che marcava i rapporti tra i popoli, segnava col sangue i confini tra gli stati, coagulava attorno all’idea del “nemico” i sentimenti nazionali. Oggi, una nuova didattica della storia, che ha recepito gli orientamenti storiografici più recenti, tende a considerare tutti gli aspetti che riguardano le società umane, ampliando anche a tematiche di tipo sociale, economico, culturale e di vita materiale. In questo cambiamento di paradigma mutano anche le finalità assegnate alla disciplina storia. Se in passato - attraverso la storia di grandi uomini e conflitti - essa aveva soprattutto il compito di plasmare e rafforzare sentimenti patriottici e nazionali, come nel periodo risorgimentale, oggi essa viene indicata sia nei documenti nazionali che internazionali come strumento di formazione culturale, etica e civile del cittadino in una società multiculturale e globale e come mezzo per leggere criticamente la realtà. L’educazione alla pace, alla solidarietà, alla multiculturalità sono dunque parte integrante di questo insegnamento. I Piani di studio provinciali sono fortemente caratterizzati in questa direzione, perché l’idea è che le discipline siano serventi alla formazione del cittadino. E tuttavia, è importante che la cultura della pace e della solidarietà maturi anche attraverso la conoscenza e la riflessione su tutti i conflitti che oggi attraversano il mondo, perché tutti ne siamo coinvolti. Molti alunni che oggi siedono sui banchi delle nostre scuole provengono da realtà dove la guerra è una dimensione del quotidiano. I media ogni giorno ci mostrano immagini di guerre lontane, che entrano nelle nostre case e quindi nelle nostre vite. Uno strumento come L’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo può aiutare i nostri ragazzi ad avere una consapevolezza maggiore, più matura e documentata delle ragioni dei conflitti, delle loro dimensioni, dei luoghi dove questo accade. Luoghi a volte geograficamente lontani, ma in un mondo globalizzato “lontano” si coniuga sempre con “vicino”. Conoscere in modo approfondito e critico il mondo in cui viviamo significa aiutare i ragazzi ad avere opinioni e idee, a maturare convinzioni, a compiere scelte. Pensiamo quindi che sia importante che l’Atlante entri nelle scuole, venga letto, diventi strumento didattico. I ragazzi devono sapere cosa accade attorno a loro e perché accade, perché questo contribuisce a farli diventare donne e uomini responsabili, consapevoli, liberi. E trasformarsi in adulti che siano realmente e consapevolmente “costruttori di pace”, non in modo astratto e sentimentale, ma attraverso comportamenti concreti, impegno, volontà. Marta Dalmaso Assessore all’Istruzione - Provincia di Autonoma di Trento
Saluti
P
er la prima volta la Provincia di Firenze, su stimolo anche della Commissione del Consiglio Provinciale “Cooperazione e Pace“, partecipa direttamente alla realizzazione di questa bella pubblicazione, che fa il punto sui tanti conflitti armati presenti sul nostro pianeta. Nella nostra epoca domina, purtroppo, ancora la cultura della guerra, con una pesante e colpevole rimozione collettiva ed una grave responsabilità del mondo dell’informazione. Troppo spesso siamo “prigionieri“ della cronaca quotidiana e localistica, di un pensiero superficiale, e non facciamo nessun serio approfondimento sulla vera realtà della guerra, sulle enormi violenze e sofferenze, sulla privazione dei più elementari diritti umani, nonché degli enormi costi, sociali e materiali che questa produce. E, inoltre, sulle vere e più profonde ragioni che stanno alla base dei conflitti stessi. La Provincia di Firenze ha una lunga tradizione di impegno sul piano internazionale, che vogliamo rinnovare e rafforzare insieme alla ricca e vitale realtà del nostro territorio provinciale: comuni, università, associazioni di volontariato, gruppi e singoli e cittadini. Siamo convinti, infatti, che sia un dovere delle istituzioni locali - in un mondo globalizzato ed interdipendente - spendersi in prima persona per l’affermazione della pace, dei diritti umani, per la lotta alla povertà ed alle profonde e inaccettabili disuguaglianze sociali ed economiche. Proprio per questo siamo impegnati in attività di cooperazione decentrata, di creazione di gemellaggi e partenariati, cercando così di contribuire a migliorare le relazioni fra i popoli e contribuire ad un diverso e più equo modello di sviluppo internazionale. Lavoreremo, infine, per diffondere questo testo nelle scuole, ritenendolo un buon stimolo ed un valido strumento per far conoscere e sensibilizzare le menti e le coscienze dei nostri ragazzi. Andrea Barducci Presidente - Provincia di Firenze
Rosa Maria Di Giorgi Assessore all’Educazione - Comune di Firenze
È impensabile, in un’epoca in cui i ragazzi hanno a disposizione strumenti informatici per giocare e navigare, che debbano ancora studiare su libri di storia limitati alla condizione geografica e politica del secolo scorso. Colpisce leggere le ragioni della morte e dell’abbandono di bambini, donne e uomini che caratterizzano le dinamiche dei conflitti moderni. Consideriamo l’Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo, un importante strumento di informazione e formazione. Per i giovani, utile a creare una propria coscienza rispetto alla pace e ai disastri della guerra. Per tutti, un mezzo di confronto costruttivo. Queste le basi della proposta che questa Commissione, all’unanimità, ha fatto all’assessore all’Educazione Permanente: favorirne massima diffusione nelle scuole. Susanna Agostini Presidente commissione Pace, Diritti Umani, Solidarietà e Relazioni Internazionali Comune di Firenze
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C
onoscere per non dimenticare. È questo il primo passo per aiutare i nostri giovani a formare la propria coscienza critica, per fare di loro dei cittadini del mondo, costruttori di Pace. Troppo spesso si limita il nostro orizzonte ai ristretti confini del continente in cui viviamo, ignorando o dimenticando presto le piccole e grandi tragedie che non ci colpiscono direttamente, condannate a sopravvivere in poche righe di cronaca sui mezzi d’informazione. L’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo aiuta ad aprire gli occhi, a comprendere come la Pace sia un bene prezioso, difficile da conquistare e da mantenere, consegnandoci l’immagine di popoli e Paesi straziati da conflitti dimenticati. Uno strumento fondamentale di informazione, ma anche un supporto formativo importante per studenti e insegnanti che si vogliano impegnare in un percorso di conoscenza, essenziale per comprendere che l’impegno di ognuno di noi e lo sviluppo di una coscienza consapevole sono i primi passi per costruire un futuro migliore.
Introduzione
Troppi filtri se si parla di guerra Avere più informazione rende liberi
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”
La guerra è un omicidio in grande” scriveva nel 1953 Igino Giordani, uomo politico cattolico, giornalista e scrittore. Il suo libro intitolato “L’inutilità della guerra” è un impressionante atto d’accusa contro la retorica, le menzogne e gli interessi che accompagnano ogni conflitto ovunque si combatta: “Come la peste serve ad appestare, la fame ad affamare, così la guerra serve ad ammazzare”. Punto e basta. Ma cosa sappiamo noi oggi della guerra e delle guerre? Poco o nulla. E quel poco che sappiamo spesso è deformato da una massiccia serie di filtri e specchi che alterano la realtà e ci impediscono di riconoscerla per quello che è. Pochi sanno dare una definizione positiva della pace. Per molti la pace è semplicemente il contrario della guerra. Ma anche la guerra resta una realtà misteriosa. Non sappiamo nemmeno cosa sia diventata, quanto male ci faccia, quante siano le sue vittime dirette e indirette, quanto ci costi realmente, quanti danni riesca a produrre, in che modo stia distruggendo la vita sul pianeta, dove siano le cause e le responsabilità, cosa si stia facendo o cosa si dovrebbe fare per mettervi fine. Basterebbe poco. Una Rai che faccia il suo mestiere di servizio pubblico, un po’ di attenzione dei TG, qualche inchiesta in prima serata, qualche momento di approfondimento per le diverse fasce di età, giornali e giornalisti che non si accontentano di una lettura superficiale degli eventi, che vanno a cercare le storie delle persone dove le bombe arrivano prima della TV. E invece niente. Tranne rare importantissime eccezioni, chi prova a raccontare la guerra in un altro modo, fuori dai binari della propaganda e della retorica militare, chi cerca di avvicinare il dolore degli altri non trova spazio nei grandi mezzi di comunicazione. Per questo abbiamo bisogno di questo Atlante. Perché abbiamo bisogno di capire. Perché conoscere (anche le peggiori verità) ci rende più liberi e responsabili. Perché non possiamo permetterci di vivere ignorando i drammi di chi resta imprigionato nelle fauci del mostro della guerra. Perché se non ci assumiamo in tempo le nostre responsabilità, quel mostro finirà per divorare anche noi. Flavio Lotti Coordinatore nazionale della Tavola della pace
Introduzione
Buona informazione cercasi
Troppe le guerre ignorate dai media nazionali
Barbara Bastianelli Associazione Ilaria Alpi
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S
omalia, Pakistan, Sudan, Yemen, Sri Lanka. Sono solo alcuni dei Paesi che troviamo ancora una volta nella classifica delle crisi dimenticate dai media di Medici Senza Frontiere. Un rapporto che mette in evidenza come alcuni conflitti del mondo non facciano parte della agenda dei media. E proprio sulla mancata attenzione dei media, in particolare della televisione che è nato il Premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi. Nato nel 1995, a pochi mesi dalla morte della giornalista Rai Ilaria Alpi (uccisa il 20 marzo 1994 a Mogadiscio in Somalia) il concorso ha come intento quello di promuovere e accreditare il giornalismo serio e approfondito, ma soprattutto riconoscere il valore dei giornalisti impegnati sui fronti rischiosi come in territori difficili e pericolosi, dove si consumano guerre e conflitti. La pubblicazione di questo Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, che giunge al secondo anno è un importante passo per riportare su carta l’attività documentaristica, storica e didattica che il Premio Ilaria Alpi sta svolgendo dalla sua nascita. Quello che è stato dunque negli anni uno dei lavori sistematici di osservatorio e riflessione verso il mondo che ci circonda del Premio Ilaria Alpi, è diventato un progetto consolidato grazie all’ associazione 46° Parallelo. L’associazione e il Premio Ilaria Alpi non potevano non essere ancora una volta al fianco di un’iniziativa così importante e significativa per orientarsi nel mondo nel quale viviamo. Il lavoro importante che si sta facendo con questo secondo volume, va dunque nella direzione che ci siamo da sempre prefissati raccontare le guerre per cercare e pretendere la pace. Ecco perchè anche su questo volume troverete non fotografie ma “frame”, fermi immagine tratti dai servizi televisivi che hanno partecipato al premio Ilaria Alpi e che oggi sono raccolti e catalogati nel Archivio Ilaria Alpi di Riccione. Fin dalle prime edizioni il premio Ilaria Alpi ha voluto tenere accesa l’attenzione sulle guerre, spesso dimenticate. A Riccione, dove si svolgono le giornate del premio Ilaria Alpi, c’è un appuntamento che è anche l’occasione per cercare di ricordarle, di tenere accesa quell’attenzione mediante il lavoro che tanti giornalisti di anno in anno hanno continuato a svolgere in quei luoghie paesi martoriati. Il nostro intento è sempre stato quello di valorizzare la professione di quei giornalisti che come Ilaria che fanno questo mestiere con l’occhio della telecamera sempre puntato sul mondo e soprattutto come dice Ettore Mo con la suola delle scarpe: andando nei posti, cercando di capire, a fondo, e di raccontare quello che accade. I contesti dei conflitti, i cosiddetti teatri di guerra, spesso sono uno dei terreni dove di più questo tipo di giornalismo, quello che anche Ilaria e Miran facevano, trova il suo ambito più duro di realizzazione. Purtroppo di questi teatri ce ne sono sempre più; dal continente africano all’infinito conflitto mediorientale, dall’America Latina all’Oriente, fino al cuore dell’Europa. Ilaria Alpi, hanno sempre ricordato i suoi genitori Giorgio e Luciana, si definiva una inviata di pace e non di guerra. E noi che a lei ci siamo in questi anni sempre ispirati vorremmo che questo atlante nato per raccontare le guerre diventi uno strumento per costruire la pace. E a Ilaria e a suo padre Giorgio, che ci ha lasciato recentemente, vogliamo dedicare questo nostro lavoro e impegno.
Istruzioni per l’uso Raffaele Crocco
Queste poche righe sono il “libretto di istruzioni” per la lettura di questo Atlante. Le avevamo scritte nella precedente edizione, qui le ripetiamo, aggiungendo dove serve qualcosa, dato che tutto cambia e questa pubblicazione non è da meno. In un libro che parla di guerra, infatti, le parole possono avere più significati, possono essere interpretate, piegate, rielaborate per giustificare, spiegare, convincere. Anche le scelte grafiche, la collocazione di pezzi e articoli possono lasciar spazio a dubbi, domande, possono indicare propensioni politiche o di parte. Per evitare tutto questo, queste righe sono essenziali. Cominciamo. L’elemento principale, in questo libro, è proprio la forma grafica, la scelta di essere Atlante. Come vedrete, ogni guerra ha esattamente lo stesso spazio, il medesimo numero di pagine. Questo per evitare di dare ad una maggiore importanza rispetto alle altre. È una scelta “politica”, che vuole mettere tutte le guerre allo stesso livello. Così, le schede conflitto sono tutte di 4 pagine, divise rigorosamente per continente, come in un Atlante, appunto. Quest’anno, al termine di ogni continente è inserita la scheda Inoltre: lì troverete le situazioni “limite”, quelle che magari non sono ancora sfociate in guerra aperta o che sono in sonno, ma vanno monitorate, controllate costantemente. L’obiettivo è dare una informazione quanto più completa e cercare di limitare eventuali danni che derivano dall’aver scelto di quali guerre o conflitti parlare. Arriviamo, allora, al cuore del problema, cioè quello che intendiamo parlando di Guerre o Conflitti,
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Piccola guida alla lettura di questo Atlante
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in questo volume. Intendiamo, per dare una definizione quasi da dizionario: “situazioni di scontro armato fra stati o popoli, ovvero a confronti armati fra fazioni rivali all’interno di un medesimo Paese. Includiamo in questo elenco i Paesi o i luoghi in cui esiste un latente conflitto, bloccato da una tregua garantita da forze di interposizione internazionali”. Questo è il criterio che abbiamo adottato per stabilire l’elenco alle guerre e dei conflitti in atto. Come sempre, in questi casi, c’è chi lo potrà trovare discutibile, ma un anno di riflessione collettiva ci ha portati ad individuare questo modo di procedere e a questo ci siamo rigorosamente attenuti. Nel volume abbiamo cercato come sempre di utilizzare in modo uniforme e preciso alcune parole di difficile o ambiguo uso. Abbiamo definito Terroristi coloro che usano armi o mettono in atto attentati contro popolazioni inermi, colpendo obiettivi civili deliberatamente. In questo libro, questa è la definizione di terrorista, a prescindere dalle ragioni che lo muovono. Definiamo, invece, Resistenti gruppi o singoli che si oppongono, armati o disarmati, all’occupazione del proprio territorio da parte di forze straniere, colpendo nella loro azione obiettivi prevalentemente militari. Anche in questo caso diamo questa definizione senza entrare nel merito delle ragioni. Ne deriva che in questo volume viene definito Attentato Terroristico ogni attacco compiuto con fini distruttivi o di morte nei confronti di una popolazione inerme e civile al puro scopo di seminare terrore, paura o per esercitare pressioni politiche. Ovvero ogni attacco compiuto contro obiettivi militari, ma che consapevolmente coinvolge anche popolazioni inermi e civili. Gli attacchi di gruppi di resistenti a forze armate regolari in questo libro vengono definite Operazioni di Resistenza o Militari. Da tutto questo nascono alcune altre considerazioni. In questo Atlante, definiamo Forze di Occupazione ogni Forza Armata straniera che occupa, al di là della ragione per cui avviene, un altro Paese per un qualsiasi lasso di tempo. Le Forze di Interposizione Internazionali sono invece Forze Armate, create su mandato dell’Onu o di altre organizzazioni multinazionali e rappresentative, che in presenza di precise regole di ingaggio e combattimento che ne limitano l’uso, si collocano lungo la linea di combattimento per impedire il confronto armato fra due o più contendenti. Questi i punti fondamentali, i criteri per poter affrontare la lettura sapendo le ragioni delle scelte. Altre istruzioni: le foto che trovate in questo Atlante sono in massima parte tratte da video di reporter sparsi in tutto il mondo. Sono quelli che tecnicamente si chiamano “frame”, cioè fermi immagine di un filmato. Per questo, a volte, possono sembrare di qualità strana, magari mosse o sgranate. Le abbiamo volute e scelte per la loro efficacia, per la capacità di raccontare tutto in una sola immagine. Dovrebbe essere tutto. Buona lettura.
La situazione Raffaele Crocco
Si aggirano nel Mondo come una nuova minaccia, un pericolo, come una nuova tragedia. Li chiamano “eco-profughi”. Sono migliaia di donne, anziani, bambini, uomini, costretti a fuggire dalla loro terra perché l’ambiente è diventato ostile. Sul tema, Legambiente ha presentato un dossier interessante. Il titolo è “Profughi ambientali” e spiega che tra il 2007 e il 2008 sono stati circa 80milioni le persone che abbandonato il luogo in cui vivevano a causa di desertificazione, inondazioni e degli effetti del riscaldamento globale. Il loro numero è ormai praticamente uguale a quello di chi fugge dalle guerre. E il dato, continua il dossier, è destinato a crescere, con 135milioni di profughi possibili entro il 2010. Secondo le statistiche più recenti, sono oltre 800milioni le persone che vivono in aree a rischio. Le zone aride e semiaride sono oggi il 40% della Terra, ossia 5,2miliardi di ettari. Ci vivono circa 2miliardi di persone. Gli altri rischi nascono dalle ragioni più varie: i cicloni tropicali, ad esempio, che mettono in pericolo circa 344milioni di donne e uomini. Oppure, le inondazioni, con mezzo miliardo di esseri umani in difficoltà. Il risultato è che in movimento, nei prossimi mesi, ci saranno almeno altri 6milioni di eco profughi, a causa di catastrofi naturali, innalzamento del livello del mare e desertificazione. In questo momento ci sono altri 6milioni di imminenti “ecoprofughi”, che dovranno scappare a causa dell’innalzamento delle temperature: la metà di questo flusso migratorio sarà causata da catastrofi naturali, inondazioni e tempeste, mentre i restanti 3milioni di persone dovranno sfollare per via dell’innalzamento del livello del mare e della desertificazione. La previsione per il futuro, secondo l’Unhcr (Agenzia dell’Onu per i rifugiati), è di 200-250milioni di persone in fuga per “cause
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Desertificazione e Ecoprofughi Vecchie tragedie, nuove guerre
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ambientali” entro il 2050. Di tutti questi, almeno 60milioni arriveranno in Europa dall’africa entro il 2020. Tutto, come sempre, si traduce in dato economico e politico, con equilibri inesistenti e la finanza internazionale che non regge i colpi. Di fatto, la guerra non dichiarata fra Stati Uniti e Cina sta condizionando il Pianeta. La Cina è entrata prepotentemente nei mercati del Sud America, con alleanze e scambi commerciali in forte crescita, il tutto a discapito degli Usa, che lì esportavano e molto. L’industria nord americana fatica a trovare mercati e, soprattutto, paga carissime le materie prime, anche quelle razziate da una Cina che cresce a livelli record, seguita da India, Brasile, Turchia.Le tensioni si traducono in schermaglie diplomatiche - come nel caso delle sanzioni all’Iran per il programma nucleare - e in guerre fatte combattere ad altri, come in Africa per ottenere dazi favorevoli e accesso ai porti. Un caso esemplare è quanto accade in Darfur: l’Onu ha attaccato violentemente la Cina, colpevole di vendere ancora armi al Sudan, a dispetto dell’embargo. Una relazione delle Nazioni Unite afferma che munizioni provenienti dalla Cina sono state rinvenute nella regione del Darfur, devastata dalla guerra iniziata nel 2003, e usate contro i peacekeepers della missione congiunta Onu-Unione africana dispiegata dal 2008 a tutela della popolazione. Il rapporto evidenzia come le forze governative sudanesi abbiano usato, negli ultimi due anni, oltre una decina di serie diverse di munizioni cinesi contro i ribelli del Darfur e che altrettante siano state trovate nei luoghi in cui si sono verificati gli attacchi alle forze Unamid. È solo un esempio di come, ancora nel 2010, le contraddizioni alimentino le ingiustizie e queste creino nuove guerre. Eppure basterebbe poco, per cercare risorse utili a tutti. Ad esempio, il taglio del 5% delle spese militari nella Unione Europea permetterebbe un risparmio di 4miliardi reinvestibili in occupazione, ricerca e istruzione. Ancora: l’Italia, in piena crisi economica come ogni altro Paese e alle prese con tagli finanziari imponenti, ha messo in cantiere l’acquisto di 131 nuovi cacciabombardieri, che costeranno 14miliardi di euro nei prossimi anni. Insomma, le crisi si sommano, crescono e non sono più solo legate al controllo delle risorse, come acqua, petrolio o minerali. Anche l’erosione dei terreni, il riscaldamento dell’aria, l’inquinamento giocano una partita fondamentale nel creare le ragioni della guerra. Senza risorse, senza decisioni radicali, il futuro non pare essere migliore del presente.
Combattere senza armi/1 Amedeo Ricucci
Se provate a cercare informazioni su Wikipedia relative ad un’area di crisi o ad una guerra in corso può capitarvi a volte - soprattutto nelle edizioni in inglese e francese, che sono le più cliccate - di imbattervi in avvisi di questo tipo: “Attenzione, questo articolo provoca una controversia di neutralità”, o anche “Questo articolo ha subito di recente una guerra di edizione nel corso della quale diversi redattori hanno reciprocamente annullato i loro contributi”. È successo ad esempio con la voce Georgia - dopo la guerra-lampo in Ossezia del Nord - capita spesso con la voce Tibet ed è la norma per le questioni più spinose relative alla Palestina. Si tratta in realtà degli effetti collaterali delle guerre mediatiche, quelle cioè che si combattono sui mass media e attraverso i mass media, tradizionali e non, in parallelo alle guerre reali, quelle combattute sui campi di battaglia, nel tentativo di influenzarne l’esito. Più in specifico, le guerre mediatiche puntano ad influenzare l’opinione pubblica internazionale, con un uso accorto dei media a fini di propaganda, in modo da far prevalere il punto di vista di uno dei belligeranti, entità statale o gruppo armato che sia. L’esempio più concreto viene dal Medio Oriente, dove da anni fra israeliani e palestinesi si combatte un’aspra guerra delle parole e delle immagini, che precede, accompagna e segue la guerra vera, di cui per molti versi è diventata più importante. Da queste parti, infatti, anche la storia e la geografia creano polemiche: e così succede che la Cisgiordania dei palestinesi venga chiamata Giudea e Samaria dagli israeliani, mentre la prima guerra, quella del 1947, per gli uni è guerra d’indipendenza e per gli altri è la Naqba, che in arabo vuol dire catastrofe. Gli israeliani poi parlano di insediamenti, per indicare i territori annessi dopo gli accordi di pace, mentre i palestinesi parlano di colonie e territori occupati. E guai a chi sbaglia. Alla guerra delle parole si aggiunge poi la guerra delle immagini, più importante ancora. L’episodio più recente riguarda una foto scattata nel giugno 2010 in occasione dei gravi incidenti sulle navi della Freedom Flotilla che tentava di forzare il blocco navale di Gaza ed è stata bloccata con la forza dalla marina israeliana. I morti furono 19, tutti fra i passeggeri della nave Marmara, e Israele venne accusata di uso eccessivo della forza, per di più contro dei presunti pacifisti. Nella foto in questione, o meglio nella foto originale, si vedono però un soldato israeliano a terra sul ponte della nave Marmara, una pozza di sangue e la mano di un “pacifista” che brandisce un coltello seghettato da sub. Nella foto pubblicata il giorno dopo dalla Reuters, una delle più credibili ed antiche agenzie d’informazione mondiali, il coltello invece non c’è più, per effetto dell’ingrandimento, e la stessa sorte tocca alla pozza di sangue. Immediate furono le proteste degli israeliani, che hanno accusato la Reuters di aver violato una regola fondamentale del foto-giornalismo, l’onestà, producendo un falso clamoroso. Un errore, si è difesa la Reuters, un errore sciagurato ma del tutto non intenzionale. Comunque sia andata, certo è che l’episodio diede una prov-
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Guerre mediatiche e verità camuffate
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videnziale boccata di ossigeno al Governo di Tel Aviv, che aveva gestito malissimo il blizt sulle navi della Freedom Flotilla, attirandosi le critiche di gran parte dell’opinione pubblica internazionale. Il problema è che oggi, rispetto al passato, le guerre non si vincono più sul campo di battaglia. O almeno, non solo. Conta sempre di più l’appoggio dell’opinione pubblica interna ed internazionale, come hanno imparato a loro spese gli americani con la sconfitta in Vietnam. Quella fu una guerra persa non militarmente ma politicamente, perché sia i mass media che l’opinione pubblica mondiale, a cominciare dagli Stati Uniti, a un certo punto si schierarono contro l’intervento in Vietnam e ne chiesero a gran voce la fine. Di quella lezione hanno fatto tesoro eserciti e governi di oggi. Sempre più impegnati sul fronte dei mass media - che creano senso e producono consenso - per legittimare la propria immagine e, soprattutto, per demolire l’immagine del nemico. Il che ha finito per complicare sempre di più il lavoro dei giornalisti e degli altri operatori dell’informazione, che devono fare i salti mortali per distinguere fra verità e propaganda. Da questo punto di vista, la Palestina è una sorta di “laboratorio”, dove sia la guerra delle parole che la guerra delle immagini hanno raggiunto livelli parossistici. L’esempio più clamoroso è forse la querelle che da anni oppone France 2 ad un gruppo di siti web ed associazioni ebraiche della diaspora. L’oggetto del contendere è un famoso reportage diffuso da France 2 il 30 settembre del 2000, vale a dire il giorno dopo l’inizio della seconda Intifada. Si tratta della lunga e agghiacciante sequenza che documenta la morte in diretta del piccolo Mohammed Al Doura, un bambino di 12 anni, che nella striscia di Gaza si ritrova nel bel mezzo di un violento scontro a fuoco fra soldati israeliani e poliziotti palestinesi, e viene ucciso nonostante i disperati tentativi del padre, Jamal, che cerca di proteggerlo con il suo corpo. Anche se manca l’immagine del soldato che spara al bambino, il giornalista di France 2, Charles Enderlin - sulla scorta di tutte le testimonianze raccolte sul posto - ne attribuisce la morte agli israeliani. E l’ipotesi viene confermata, nei giorni successivi, dai generali di Tel Aviv, che si scusano pubblicamente e parlano di un “tragico incidente”. Quelle immagini fecero il giro del mondo, suscitando ovunque sdegno e compassione. Inoltre, contribuirono non poco a creare un’ampia e rinnovata simpatia per la causa dei palestinesi, che all’epoca - nel 2000 i kamikaze non erano ancora diventati un’arma di distruzione di massa - si battevano come Davide contro Golia, coi sassi cioè contro i carri armati. Non a caso, l’immagine del piccolo Mohammed è diventata ben presto l’icona più amata della seconda Intifada, esplosa proprio in quei giorni; ed ha ispirato decine di poster, canzoni, libri e francobolli, con cui si è forgiata la nuova generazione di combattenti, sia a Gaza che in Cisgiordania. Gli israeliani, invece, hanno dichiarato subito una guerra ad oltranza contro quella icona, per circoscriverne l’impatto e limitarne i danni. Hanno cominciato perciò con il negare - prima timidamente e poi con sempre maggior veemenza - che la morte del piccolo Mohammed fosse attribuibile ai soldati di Tsahal; ed hanno finito con il tacciare il reportage di France 2 di essere una volgare messa in scena, una fiction cioè costruita ad arte per infangare l’immagine di Israele, in nome di una precisa strategia di comunicazione a cui i palestinesi - ed i media occidentali che ne sono complici - obbedirebbero da tempo. Tanto accanimento non deve stupire se si riflette sul ruolo e sull’importanza del mezzo televisivo nella società di oggi. Basti ricordare che la caduta del regime di Ceacescu in Romania, nel 1989, venne scatenata dalla scoperta dei finti massacri di Timisoara (e dalla messa in onda di quelle immagini). Anche nelle guerre in ex-Iugoslavia, dal 1991 al 1995, i mass media si sono rivelati un’arma; e decine di massacri - a Vukovar, Srebrenica, Saraievo - sono stati occultati oppure messi in scena con la complicità di fotografi e cameramen. Più di recente, sia la rivoluzione arancione in Ucraina che la rivoluzione delle rose in Georgia devono il loro successo all’abile messa in scena orchestrata dagli spin doctor di turno. E a farne le spese, ancora una volta, è stata l’opinione pubblica, sempre più impotente e incapace di distinguere fra verità e propaganda.
Combattere senza armi/2 Amedeo Ricucci
La notizia è filtrata a metà settembre del 2010 ma la guerra era già scoppiata da diverse settimane: migliaia di computer iraniani, pare più di 30mila,sono stati attaccati da un micidiale super-virus, chiamato Stuxnet, ideato per paralizzare i sistemi di controllo industriale, ma anche i centri di comando militari e le pipeline petrolifere. Il vero bersaglio, in realtà, sarebbero stati i siti nucleari iraniani, in particolare gli impianti di Natanz e la nuova centrale di Busheir, da poco inaugurata. Ma le autorità di Teheran hanno confermato solo l’attacco ad alcuni pc dello staff tecnico, smentendo invece che siano stati intaccati i sistemi vitali delle sue centrali. Secondo diversi esperti internazionali si tratterebbe invece dell’ultimo episodio nella cyber-guerra che gli Stati Uniti e Israele hanno lanciato da anni contro l’Iran, con l’obiettivo di danneggiarne il programma nucleare, che va avanti nonostante l’opposizione degli Stati occidentali e le sanzioni imposte dall’Onu. Quella delle cyber-guerre è l’ultima frontiera in materia di conflitti internazionali: la meno nota all’opinione pubblica internazionale - perché si combatte spesso in segreto - ma forse la più temibile quanto ad effetti collaterali ed a pericoli potenziali. È la guerra che si combatte per la conquista del cyber-spazio, in un’epoca in cui tutte le società dipendono sempre di più da Internet e dai sistemi informatici, diventando perciò sempre più vulnerabili. Non a caso, le principali potenze mondiali sono corse ad attrezzarsi: gli Stati Uniti ad esempio hanno creato un nuovo sottocomando interarmi denominato Cyber Command (Cybercom) con il compito di difendere le reti informatiche americane e attaccare quelle dei Paesi nemici; la Gran Bretagna invece si è dotata di un Centro di cybersicurezza, con relativo reparto operativo; l’Iran infine si vanta di disporre di un cyber-esercito che è secondo al mondo, mentre Israele, Cina, Russia e Corea del Nord, pur facendosi poca pubblicità, sono molto attivi in questo campo e l’hanno già dimostrato. Il primo episodio acclarato di cyber-guerra risale al giugno 1982, quando c’è ancora la Guerra Fredda. Un’enorme esplosione scuote la Siberia e viene registrata da un satellite-spia degli Stati Uniti. Si pensa ad un esperimento nucleare, oppure al lancio di un missile, ma è solo un gasdotto che salta, all’improvviso. La prima ipotesi è ovviamente quella dell’incidente, ma la verità è che la Cia era riuscita a sabotare il sistema di controllo numerico dell’impianto. È il primo caso di utilizzo di una bomba logica, la prima dimostrazione dei danni che si possono causare attraverso le cyber-armi. Da allora, anche se molto spesso non c’è una dichiarazione di guerra ufficiale, l’elenco dei conflitti cibernetici continua ad allungarsi. Nel 1999, in occasione del conflitto in Kosovo, gli
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Si chiama Cyberwar la guerra del futuro
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Stati Uniti riescono in più occasioni a piratare il sistema di difesa aereo della Serbia, in modo da accrescere la potenza distruttiva dei bombardamenti sulle installazioni militari di Belgrado. Nello stesso anno, in Kashmir, un gruppo di hacker pachistani riesce a violare il sito ufficiale del Governo indiano, per denunciare le violenze e le esazioni perpetrate ai danni della popolazione di fede musulmana. Nel 2006, in Libano, durante la guerra “dei 33 giorni” fra Israele e le milizie di Hezbollah, le autorità di Tel Aviv approvano diversi attacchi informatici contro la rete di telecomunicazioni del nemico. Infine, nel 2008, in concomitanza con l’invasione georgiana in Ossezia del Sud, gli hacker russi riescono a bloccare per diversi giorni i siti ufficiali del Governo e dei mass media di Tiblisi, impedendo qualsiasi trasmissione di informazioni. Attenzione, però. Non tutti i virus informatici né tutti i casi di panne dei sistemi di controllo, civili, militari e industriali, sono da annoverare fra gli episodi di cyber-guerra. Molti, troppi specialisti di questo settore tendono invece ad esagerare ed hanno una visione catastrofista che è lunga dall’essere realistica. È il caso di Richard Clarke, un ex-consigliere di Bill Clinton in materia di contro-terrorismo, che ha scritto nel 2010 il libro più aggiornato e più importante in tema di cyber-conflitti: Cyberwar, edizioni Ecco, inedito in Italia. Gli scenari che Clarke ipotizza sono infatti scenari da fantascienza, che alimentano solo il mercato della paura e rischiano inoltre di deformare in chiave sensazionalistica l’approccio alla realtà. Clarke immagina ad esempio, in un capitolo intitolato Cyberwarriors, che degli hacker cinesi riescano in rapida successione a disattivare le reti informatiche del Pentagono, a far esplodere le raffinerie di petrolio, a provocare la collisione di svariati treni, a mandare in tilt i sistemi elettrici e a distruggere i dati delle grandi banche. Uno scenario del genere, ovviamente, è al momento ipotizzabile solo come sceneggiatura per un film di Hollywood. Se non altro perché non ci sono hacker al mondo in grado di paralizzare sistemi informatici così complessi e così protetti. Resta però il problema posto dalla crescente dipendenza delle società post-moderne dall’informatica. Il che trasforma le reti in fibra ottica che coprono oggi il mondo nel campo di battaglia più insidioso e al tempo stesso più promettente. Non va dimenticato a questo proposito che l’onda verde iraniana si è propagata via twitter, nel giugno 2009, riuscendo ad eludere la rigida censura imposta dal regime dei mullah. Allo stesso modo, nel giugno 2010, il Dalai Lama è riuscito a dialogare per un’ora e mezzo in diretta con il pubblico cinese sulla spinosa questione del Tibet, sempre grazie ai social network, by-passando così, senza problemi, il rifiuto cinese a concedergli un visto d’ingresso. Se dunque si può fare politica attraverso le fibre ottiche, ci si può fare anche la guerra. Che della politica, come c’è stato insegnato da Machiavelli, è solo la continuazione, con altri mezzi.
Banche e guerra Andrea Baranes
Senza saperlo molti investono nelle armi
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I canali di finanziamento dell’industria delle armi sono diversi, come mostrato nella Figura 1. Dai prestiti all’emissione di azioni e obbligazioni agli anticipi dei clienti e fornitori.
Figura 1. Fonti di finanziamento per alcune imprese del settore difesa e armamenti Le banche offrono una pluralità di servizi: finanziamenti e linee di credito, mutui, pagamento degli stipendi, garanzie, sostegno alle operazioni di import-export. Grazie alla legge 185/90 ogni anno viene pubblicato l’elenco delle banche coinvolte nell’importexport di sistemi d’arma. Le campagne della società civile hanno portato molti gruppi bancari a dotarsi di linee guida per escludere tali operazioni o selezionare i Paesi e/o le tipologie di armamento “ammissibili”. Malgrado tali impegni volontari, il peso delle nostre banche rimane molto rilevante. La relazione del 2010 vede quale istituto maggiormente coinvolto il gruppo UBI banca tramite la
controllata Banco di Brescia con oltre 1,2 miliardi di euro di operazioni. Seguono Deutsche Bank e gruppo BNP Paribas - BNL con oltre 900 milioni ciascuna, quindi IntesaSanpaolo, Unicredit e via via diverse altre banche italiane e estere. L’intervento del pubblico La Figura 1 evidenzia il peso degli anticipi di clienti e fornitori. È una situazione che rivela la peculiarità dell’industria della difesa dove il pubblico è spesso azionista di riferimento delle imprese, principale finanziatore e acquirente, dando vita a una complessa struttura politica-militare-industriale. Il ruolo dello Stato va anche oltre. Le Agenzie di Credito all’Esportazione - Ace - sono organismi a controllo pubblico creati per sostenere gli investimenti all’estero delle imprese. Quando una compagnia italiana investe all’estero, deve considerare il rischio che la controparte non paghi. È allora possibile stipulare una sorta di contratto di assicurazione con la propria Ace. Anche nel settore delle armi l’intervento delle Ace può essere fondamentale, in particolare riguardo nazioni del Sud ad alto rischio commerciale e politico.
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I mercati finanziari Una ricerca del 2009 ha mostrato come la grande maggioranza dei fondi di investimento italiani aveva nel proprio portafogli dei titoli di imprese dell’industria della difesa, in molti casi anche produttori di armi controverse quali mine antiuomo, bombe a grappolo, o altre. Un fenomeno che riguarda tutti i maggiori gruppi bancari e finanziari italiani, con il gruppo Unicredit in primo piano. Anche in risposta alla richiesta dei risparmiatori, diversi investitori istituzionali hanno avviato un percorso verso una maggiore eticità. Il fondo pensionistico del Governo norvegese, il secondo più grande al mondo, ha escluso dal proprio portafogli alcune compagnie - tra le quali l’italiana Finmeccanica - accusate di essere coinvolte nella produzione di armi “controverse”. Ruolo della finanza e operazioni illegali Circa un quarto dei trasferimenti internazionali di armi riguarda operazioni illecite. Esiste poi un’enorme “zona grigia” di operazioni al limite della legalità o dove le giurisdizioni dei singoli Paesi non riescono ad arrivare. Questo anche grazie ai paradisi fiscali che garantiscono segretezza, anonimato e una scarsa regolamentazione e trasparenza. Diverse situazioni illegali sono legate al contrabbando di materie prime (oro, diamanti, petrolio, legname), com’è avvenuto in molti dei conflitti che hanno colpito l’Africa Sub-Sahariana negli ultimi anni, dall’Angola alla Sierra Leone. In altri casi, il destinatario finale potrebbe essere autorizzato, ma la transizione essere caratterizzata da fenomeni di corruzione, tangenti o per la presenza di intermediari e broker non autorizzati. In tutte queste situazioni la finanza gioca un ruolo di primo piano e possono esistere diversi livelli di illegalità. Spesso i controlli delle banche e delle autorità di vigilanza sono insufficienti per fermare attività sospette, nel pagamento di tangenti o per fenomeni di corruzione. In altri casi alcune banche potrebbero essere coinvolte ancora più direttamente in operazioni illegali, magari tramite filiali offshore. Conclusione Nell’analisi dei rapporti tra finanza e armi ci troviamo di fronte un “doppio segreto”: all’opacità del mondo finanziario si somma l’ancora più impenetrabile segreto militare. Tanto la finanza quanto il commercio di armamenti si muovono inoltre su scala globale, mentre le (deboli) normative sono in massima parte legate allo Stato-Nazione. Nello stesso momento i capitali provengono in buona parte dalle banche, dai fondi di investimento, dai fondi pensione. Diverse esperienze di finanza etica hanno dimostrato che è possibile garantire il non coinvolgimento nell’industria degli armamenti. In questo senso i clienti e i risparmiatori hanno la possibilità di operare delle scelte, di non essere coinvolti in tali mercati, e soprattutto di indirizzare con il proprio comportamento quello del sistema finanziario, diventando motori di un cambiamento radicale nella direzione di una maggiore trasparenza e sostenibilità.
Vittime della guerra/1 Enzo Nucci
Secondo le stime delle Nazioni Unite, sarebbero almeno 3.500 i bambini soldato ancora in armi in Sudan e dintorni, in barba dunque ad ogni principio etico ed alla risoluzione del consiglio di sicurezza dell’Onu che dal 2005 impegna tutti i Paesi a prevenire l’arruolamento dei piccoli e perseguire quanti lo promuovono. Il processo di pace tra Sudan e Ciad ha riaperto le speranze di fermare il fenomeno, anche se molti dubbi permangono. In questa chiave va interpretato l’accordo (che sulla carta possiamo definire “storico”) firmato il 9 giugno 2010 da Camerun, Repubblica Centro Africana, Ciad, Niger, Nigeria e Sudan per mettere fine al reclutamento dei bambini. Il documento è stato sottoscritto da sei dei nove partecipanti all’apposita conferenza regionale tenutasi a N’Djamena, organizzata dal Governo del Ciad e dall’Unicef. Non hanno aderito la Repubblica Democratica del Congo, Liberia e Sierra Leone. Il protocollo impegna i firmatari a “mettere fine ad ogni forma di reclutamento dei bambini nelle forze e nei gruppi armati e a garantire che nessun ragazzo di età inferiore ai 18 anni prenda parte, direttamente o indirettamente, alle ostilità”. Nel 2005 erano 7mila i ragazzi tra i 9 ed i 18 anni impegnati al fronte. Anche le forze governative ciadiane ricorrevano al reclutamento dei ragazzi ma da due anni questa pratica è stata abbandonata. I bambini soldato in Ciad rappresentano una percentuale tra il 5% ed il 7% delle forze ribelli, una cifra mobile perché il numero stesso dei ribelli dipende dalla disponibilità di armi e denaro dei vari leader e dai diversi momenti politici. Tra il 2008 ed il 2010 l’Unicef ha curato la smobilitazione di 820 ragazzi soldato che per 100 giorni hanno frequentato un programma di recupero alla vita civile, con l’avviamento all’alfabetizzazione di base e ad un percorso professionale prima di essere ricondotti nelle famiglie di origine. A N’Djamena sono operativi due centri di orientamento (affidati alla organizzazione non governativa statunitense Care) dove gruppi di 70 ragazzini per volta seguono corsi che dovranno ricondurli a quella fanciullezza che è stata loro negata. Poi dopo il rientro in famiglia, i ragazzi continueranno a usufruire del supporto dell’Unicef che li aiuterà ad avviare attività artigianali o un allevamento con l’acquisto di un piccolo gregge di capre. Tutti i ragazzi smobilizzati in Ciad provengono dalle file dei ribelli, specialmente dello Jem (Justice and Equality Movement) il principale gruppo che si batte per l’indipendenza del Darfur, che arruola in particolare i ragazzi ciadiani delle popolazioni nomadi e nei campi profughi. Ma anche dalle Regioni dove la ribellione ciadiana è molto attiva: Ouddai, Nadi Fira, Dar Sila.
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Nessuno sa salvare i bambini soldato
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A spingere i ragazzi ad imbracciare le armi è un complesso quadro storico, politico, culturale ed economico consolidatosi in 15 anni di guerra. Nella parte orientale del Ciad ed in Sud Sudan per tradizione l’iniziazione del maschio alla vita adulta avviene attraverso il combattimento. Un’usanza che ben si sposa con le affiliazioni tribali in zone economicamente depresse dove le forme di associazione tradizionale di solidarietà claniche o delle comunità trovano un’opportunità di commercializzazione economica. Insomma per una famiglia offrire il proprio figlio al gruppo armato di turno è innanzitutto un motivo di onore perché significa che quel piccolo nucleo è impegnato in prima persona nel conflitto con altre tribù per il controllo del territorio, per la difesa dei vitali corsi d’acqua negli endemici scontri con gli allevatori nomadi o gli agricoltori stanziali. L’orgoglio di avere un figlio combattente procura dunque prestigio sociale e permette così uno scambio di favori all’interno della comunità che può garantire la momentanea fuga dalla povertà grazie ai privilegi ed alle opportunità di cui si può usufruire. Una famiglia può quindi essere ricompensata per una cifra che si aggira tra i mille e i duemila dollari (una tantum) oppure con una maggior quantità di prodotti agricoli elargiti dai ribelli. A convincere i ragazzi a combattere c’è la tradizionale epica dell’Uomo che deve ricorre all’uso della forza per veder trionfare la giustizia. Ma questi ragazzi vengono anche conquistati dai loro reclutatori con computer, telefoni cellulari, videogames ed in qualche caso anche motociclette. Al contrario dei loro “colleghi” e coetanei congolesi, i bambini soldato del Ciad non usano solitamente droghe. La religione islamica viene infatti applicata rigidamente nel codice di disciplina militare ma nel 2009 ci furono 85 ragazzi smobilitati che dichiararono di aver fatto uso di sostanze stupefacenti per sostenere i combattimenti. Nel luglio 2010 sono stato in Ciad per documentare per la rubrica “Agenda del Mondo” del Tg3 questo cammino di speranza. Nessuno dei bambini intervistati ha mai ammesso di aver avuto paura durante gli scontri. La paura è un sentimento sconosciuto secondo la tradizione che individua nel maschio il difensore della tribù. “Sì è vero, puoi morire o restare senza una gamba o un braccio ma anche il tuo nemico corre lo stesso rischio. È come nei videogames: devi essere più veloce e preciso del tuo avversario” mi ha confessato candidamente un bambino di 12 anni alto poco più di un soldo di cacio. Nessuno di loro ama ricordare quello che ha fatto, tutti si scherniscono e ad occhi bassi cercano di evitare lo sguardo dell’intervistatore. Hanno però un’incontenibile voglia di normalità: non vedono l’ora infatti di scappare per dare quattro calci ad un pallone, un gioco vietato sotto le armi. Tra le tante storie che ho raccolto mi ha colpito quella di tre fratellini di 14, 13 e 11 anni che hanno combattuto insieme per due anni. Il più grande è un genio del computer: quando era soldato, riuscì a procurarsene uno dai suoi superiori e da autodidatta ha imparato a usarlo. Il suo tutore mi ha detto che ha enormi capacità come dimostrano alcuni attestati di cui si fregia. Forse potrebbe diventare un programmatore di alto livello. Un medico mi ha detto che è impossibile quantificare i traumi subiti da questi ragazzi. Certamente non è sufficiente il programma di recupero di 100 giorni dell’Unicef: è solo una piccola goccia nell’oceano del bisogno. L’Unicef non ha fondi sufficienti per fare di più: la crisi economica mondiale ha fatto stringere i cordoni della borsa di tutti i Paesi donatori. Alcuni di questi ragazzi cedono di nuovo alla fascinazione delle armi (o al bisogno) e tornano ad arruolarsi. È una piccola percentuale, ci assicurano, ma finché uno solo di questi minorenni lo vedremo imbracciare un fucile dobbiamo ricordarci di avere fallito come comunità internazionale. Al posto di quel bambino potrebbe esserci vostro figlio.
Vittime della guerra/2 Giulia Bondi
Donne e conflitti fra falchi e colombe
Amira Hass è l’unica giornalista ebrea israeliana che vive nei Territori palestinesi. Da quella che definisce “la prigione a cinque stelle” di Ramallah, racconta per il quotidiano “Haaretz” e la rivista “Internazionale” storie di vita sotto l’occupazione. Amira Hass è una scrittrice e giornalista israeliana, conosciuta per i suoi articoli pubblicati sul quotidiano israeliano Ha’aretz. Ha deciso di stabilire la propria residenza nei territori della West Bank e nella striscia di Gaza, condizione che le dà l’opportunità di raccontare i fatti e di osservare da una prospettiva palestinese il conflitto israelo-palestinese. Figlia di due attivisti comunisti ebrei, sopravvissuti all’Olocausto di Bosnia e di Romania, Amira Hass è nata a Gerusalemme. La sua carriera come giornalista ha avuto inizio nel 1989 come membro della redazione di Ha’Aretz e cominciò a scrivere articoli dai territori occupati nel 1991. Attualmente è l’unica corrispondente israeliana dai territori occupati (è stata a Gaza dal 1993 al 1996 e a Ramallah dal 1997 a oggi). Dal 2001 scrive un diario per il settimanale italiano Internazionale.
In che modo la guerra colpisce le donne? Nella realtà di cui mi occupo, gli attacchi israeliani e gli attentati suicidi palestinesi hanno fatto moltissime vittime civili, e le donne sono state tra le più colpite. È una questione anche sociale: negli attentati sugli autobus, per esempio, restano coinvolte soprattutto le classi più basse, donne che tornano dal mercato o portano i figli a scuola. Poi, la società israeliana si è mobilitata immediatamente per assistere le vittime degli attacchi suicidi, grazie a un sistema di servizi sociali più sviluppato. Tra i palestinesi, invece, l’assistenza sociale è basata sulla famiglia e l’enorme peso dei traumi della guerra ricade molto più sulle spalle delle donne. Le donne possono contribuire alla pace? Per me la parola pace ha perso di significato per il modo in cui è stata usata nell’ultimo ventennio. Penso però che le donne possano contribuire al cambiamento sociale. Gli attivisti israeliani contro l’occupazione sono soprattutto donne. Sono una minoranza, ma il loro lavoro serve a ricordare ai palestinesi che non tutti gli israeliani sono coloni o soldati. Cercano di spezzare la separazione tra i due popoli, infrangono la legge per portare le donne e i bambini palestinesi a passare una giornata al mare. Ci sono signore di mezza età che passano giornate intere nei Tribunali militari israeliani, esponendosi in prima persona per mettere pressione ai giudici. Poi c’è Machsom watch: donne che da 10 anni vanno ai checkpoint israeliani, sono testimoni di terribili discriminazioni e le riferiscono, anche tra le mura domestiche. Rendono visibile l’occupazione, mostrano quello che la maggioranza finge di non vedere. C’è un motivo per cui sono soprattutto le donne a impegnarsi? Credo che siano più coraggiose. Ci sono anche uomini impegnati, ma il lavoro volontario, non pagato, è fatto soprattutto da donne. Inoltre ho l’impressione che le donne abbiano meno problemi di leadership: ci sono movimenti femminili di base, con centinaia di attiviste, che non lo fanno né per prestigio né per denaro. Molte sono di classi agiate, professioniste o pensionate, appartengono
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Negli Stati Uniti e in buona parte dell’Europa, oggi, le donne rappresentano circa il 12% delle forze armate. Insomma, negli ultimi decenni sono arrivate anche loro sui campi di battaglia. In molti Paesi possono prestare servizio militare in marina, sugli aerei militari. Spesso portano carri armati o fanno parte delle truppe speciali. Questo ha cambiato la prospettiva. Per secoli, la donna è stata solo ed esclusivamente la “parte debole” del conflitto, la vittima predestinata di truppe d’invasione o di bombe d’artiglieria. È ancora così, sia chiaro. In Africa, Asia, le donne continuano a subire più di alti la violenza della guerra, senza poter nulla per salvarsi. Ma sempre più spesso, altre donne sono autrici delle violenze, nei corpi militari ufficiali o nelle milizie guerrigliere. Proprio per questo tentare di capire il punto di vista femminile sulla guerra è diventato ancora più importante. Perché la visione, ora, è da tutte e due le parti della barricata: quella delle vittime, quella delle carnefici.
a quella che si potrebbe definire l’aristocrazia israeliana. Utilizzano il proprio tempo libero, e i privilegi che tutti abbiamo come membri del popolo dominante, per lottare contro un regime discriminatorio. E tra le palestinesi? Purtroppo al momento non mi pare ci sia una forte mobilitazione tra le donne palestinesi. Quelle che hanno accesso a privilegi li usano per se stesse, e le altre sono semplicemente sopraffatte dalle incombenze quotidiane. A Gaza e nella maggior parte della Cisgiordania, nei campi profughi o nei villaggi, le donne sono molto forti ma non contano abbastanza. Molte, più che in passato, vanno all’università, ma poi mancano opportunità di lavoro. Si vive in una costante emergenza, la parte più debole della società è quella che soffre di più, infatti la condizione femminile sta peggiorando. Nella prima Intifada esisteva un movimento femminista, ora invece, anche se ufficialmente l’Autorità palestinese incoraggia la partecipazione femminile, l’intera società sta regredendo. La religione, dalla quale molti dipendono per trovare conforto, viene interpretata nel modo più restrittivo, che confina le donne a un ruolo tradizionale: sposarsi, curare la casa, fare figli, depilarsi per il proprio uomo. Sono donne forti, ma non riescono ad affermare la propria individualità. Cambierebbe qualcosa se ci fossero più donne al potere? No, per me è più una questione sociale che di genere. Basta pensare che l’assalto più terribile a Gaza fu all’epoca di Tzipi Livni.
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E lei, come donna che vive nei Territori, come viene vista? Dopo 15 anni a Ramallah la mia presenza è diventata normale. Naturalmente posso avere una vita più indipendente rispetto alle palestinesi, e comunque Ramallah è un’elite borghese e cristiana. In un villaggio non potrei mai vivere, senza marito e senza figli sarei considerata troppo strana. Quali sono le soddisfazioni e i problemi che derivano dal suo lavoro di denuncia? Non sono mai soddisfatta, invidio i colleghi che hanno più contatti con le autorità e riescono a fare delle vere inchieste. E, purtroppo, mi sento un po’ una Cassandra: molto prima dello scoppio della seconda Intifada avevo scritto che il processo di pace sarebbe fallito. Significa che la mia analisi è corretta, ma avrei preferito sbagliarmi. Molte persone mi criticano per il mio lavoro, c’è chi mi chiama “kapò” o “Adolf Hitler”, ma non mi importa: ho smesso di leggere i commenti sul sito di Haaretz. Mi dispiace quando i palestinesi non apprezzano il mio lavoro, ma non è per loro che lo faccio. Non si sente stanca di lottare, in una situazione così complicata da sembrare senza speranza? La risposta che posso dare è la stessa che mi diede uno degli attivisti di Solidarnosc quando lo intervistai: “non avremmo mai pensato - mi disse - di poter vedere il crollo del Comunismo e dell’Unione Sovietica nel corso delle nostre vite, ma non legavamo la nostra lotta alla possibilità di successo. Si lotta perché si deve lottare”.
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Un continente in cerca di futuro Il cammino del Sudafrica, definita la locomotiva economica, politica e sociale del continente africano, è stato illuminato per pochi mesi dai preparativi dei campionati mondiali di calcio. Ma già il 4 luglio ovvero una settimana prima che l’arbitro fischiasse il fine partita tra Spagna e Olanda, le strade polverose e malridotte delle township sono tornate ad infiammarsi, proprio come nel maggio del 2008. Nella Regione a vocazione turistica del Western Cape sono ripresi gli attacchi xenofobi contro gli stranieri. Neri contro neri, poveri contro poveri. Nel mirino ci sono gli immigrati provenienti da Somalia, Zimbabwe, Malawi, Mozambico, Nigeria, Paesi da cui scappano per cercare pane e libertà in quella che è denominata la “nazione arcobaleno” per il crogiuolo di culture ed etnie che faticosamente convivono. I disperati abitanti delle periferie (privi di case decenti, scuole, servizi sociali ed assistenza medica) sono delusi dalla lentezza dei cambiamenti promessi e stanchi della corruzione, “un’epidemia che infetta i centri decisionali locali e nazionali, ai livelli alti e bassi “ secon-
do l’analista e docente universitaria Raenette Taljaard. Il Sudafrica, infatti, da solo produce un quarto del reddito dell’intero continente nero eppure la disoccupazione supera il 26% mentre 20milioni di persone (su 48milioni di abitanti) vivono al di sotto della soglia di povertà. Gli immigrati (in maggioranza clandestini) sono tra i due ed i tre milioni: non se ne conosce il numero esatto. Sono tutti disposti a svolgere i lavori più umili e duri (braccianti, minatori) con salari inferiori a quelli previsti dalla legge e senza diritti sindacali. Nasce così la guerra tra poveri con le accuse agli immigrati di “rubare il lavoro”. Eppure una gran parte del miracolo economico sudafricano poggia proprio sulle spalle e la fatica di questa forza lavoro a basso costo e spesso altamente qualificata. Ma basta poco per accendere le township e far scattare la caccia gli stranieri, indifesi capri espiatori della violenza dei delusi. Nadine Gordimer, premio Nobel per la letteratura nel 1991 ed attivista contro l’apartheid, ha spiegato in un’intervista concessami per la Rai che “la presenza degli immigrati in Sudafrica crea un conflitto di interessi con coloro che si ritengono gli unici proprietari dei mezzi di produzione. Mandela ha restituito la libertà anche agli oppressori bianchi liberandoli dai loro sensi di colpa. Ma penso che in realtà il razzismo non sia mai stato sconfitto completamente. Bianchi, neri e meticci non sono in realtà parte di un processo unitario di sviluppo. E negli ultimi anni c’è stata una nuova frattura con l’avanzata della crisi economica”. Parole quanto mai veritiere perché la fragile tregua sociale sottoscritta in vista dei mondiali di calcio è stata spazzata via dal ciclone dello sciopero dei lavoratori dei servizi pubblici in lotta per gli aumenti salariali che nei primi 20 giorni di settembre 2010 ha paralizzato il Paese. Gli enormi investimenti pubblici per la World Cup se hanno contribuito a contenere la recessione economica creando anche 129mila posti di lavoro stagionali ora rischiano di diventare un boomerang per il Governo presieduto da Jacob Zuma, eletto nel 2009 con l’appoggio dei sindacati e dei settori più estremisti dell’African National Congress. Zuma ha fatto grandi promesse all’elettorato più radicale che oggi passa all’incasso. Perché tanta attenzione al Sudafrica? Innanzitutto perché per un cittadino europeo è difficile comprendere la natura di questi rigurgiti xenofobi che rischiano di diventare un’endemica emergenza in un Paese che conta il 90% della popolazione di colore. Poi perché la “nazione arcobaleno” resta il laboratorio politico più in-
moderato delle Corti islamiche al potere per sei mesi nel 2006 prima di essere spazzate via dall’intervento militare degli etiopi, eterodiretto proprio dagli Usa. Alcuni analisti politici statunitensi sottolineano l’errore di fondo di considerare il processo di costruzione dello stato (con l’appoggio al poco rappresentativo Governo di Transizione) come l’unico strumento non militare per contenere l’espansione dei gruppi radicali armati. I nodi stanno venendo drammaticamente al pettine e l’instabilità della Somalia minaccia sia il difficile equilibrio del Corno d’Africa (dove la guerra non dichiarata tra Etiopia ed Eritrea rischia di riesplodere) sia di accendere in Kenya la disputa mai sopita tra la maggioranza cristiana ed una consistente minoranza islamica. Del resto la capacità militare delle milizie Shabaab è dimostrata dall’attentato che l’11 luglio 2010 ha provocato 74 vittime a Kampala, capitale dell’Uganda, tra i frequentatori di un bar intenti ad assistere alla finale dei mondiali di calcio. La Somalia non può più attendere.
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novativo dell’Africa che dal 1994 (ovvero dalla fine della segregazione razziale) ha fatto passi da gigante senza ricorrere a soluzioni violente e liberticide che potevano apparire come una comoda scorciatoia. Il Sudafrica è il Paese meno africano del continente perché è proiettato verso modelli europei e statunitensi ma dove è forte il rischio che l’eredità politica di Mandela vada in fumo. Così come nel 2010 si sono celebrati “per convenzione” i 50 anni dell’indipendenza africana, gli analisti dell’ “Economist Intelligence Unit” (una autorevole pubblicazione consorella del settimanale inglese “The Economist”) hanno designato la Somalia come il peggior Paese al mondo, un triste primato toccato - tra gli altriall’Afghanistan ed al Turkmenistan negli anni scorsi. Gli asettici dati offrono solo una pallida idea della tragedia in corso. Più del 40% della popolazione (secondo la Fao) necessita di aiuti alimentari per sopravvivere. Un bambino su cinque è malnutrito mentre i combattimenti hanno già costretto oltre un milione e mezzo di persone a migrazioni interne. Oltre 500mila di queste vivono in campi profughi di fortuna in condizioni spaventose mentre le organizzazioni internazionali sono in grado di rifornirle solo della metà dell’acqua di quotidianamente necessitano. Si sono rivelati tutti fallimentari i 15 tentativi di mettere in piedi governi in grado di fronteggiare la crisi apertasi nel 1991 con la caduta del regime di Siad Barre. Il fragilissimo Governo Federale di Transizione (appoggiato dalla comunità internazionale) è dilaniato da furibonde lotte intestine ed incapace di fronteggiare l’avanzata degli Shabaab, i radicali islamici, che controllano l’80% del Paese e gran parte della capitale. Gli Stati Uniti sono troppo concentrati nell’accantonare i sanguinosi capitoli rappresentati da Iraq ed Afghanistan ed il massimo dell’impegno è stato quello di aiutare politicamente e militarmente il Governo guidato proprio da un loro ex nemico: il presidente Sharif Ahmed, esponente
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La resa
Fine maggio 2010, Touati Othman, esponente di spicco del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc) affiliato ad al-Qaeda si arrende all’esercito. Othman, alias Athman Abou El Abbas, era membro del consiglio dei saggi, il più importante organo nella gerarchia del Gspc. La maggior parte delle cellule del Gspcsul territorio algerino sono state smantellate. L’8 settembre 2010 i fondatori del Gspc hanno lanciato un appello “ai combattenti ancora attivi invitandoli a deporre le armi”. Una parte della stampa algerina, tuttavia, mette in dubbio l’autenticità di tali appelli in quanto firmati, tra gli altri, da un capo, Hassan Hattab, arresosi nel 2007, condannato senza mai essere comparso in tribunale ma di cui non si sa nulla, neanche in quale prigione possa essere detenuto.
25 luglio 2010, un kamikaze si fa esplodere a bordo di un’autobomba lanciata contro una gendarmeria in un villaggio vicino a Tizi Ouzou, Cabilia: un morto e otto feriti. È solo un episodio, uno dei tanti che per tutto il 2010 hanno scandito la vita quotidiana degli algerini. Nell’agosto 2009, il Presidente della Repubblica, Abdelaziz Bouteflika, aveva dichiarato pubblicamente di aver “teso la mano” agli integralisti islamici attivi nel suo Paese, soprattutto nella regione della Cabilia. Il simbolico gesto presidenziale può aver portato a qualche buon risultato ma non ad una duratura pace se, proprio ai primi di settembre 2010, la stampa algerina diffondeva la notizia che “almeno 88 membri di al-Qaeda sono stati uccisi dall’inizio dell’anno in diverse operazioni dell’esercito”. Il 2 febbraio quattro militari rimangono feriti in una zona a 150 km ad Ovest di Algeri a seguito dell’esplosione di un ordigno artigianale, mentre, la stampa quello stesso giorno dà notizia dell’uccisione di sette membri di gruppi armati integralisti a Charef, 250 km a Sud della capitale. All’inizio di febbraio 2010, la stampa diffonde già un primo “bilancio”: sono almeno quindici i membri dei gruppi armati uccisi nel solo mese di gennaio. Il 20 febbraio, un militare muore e cinque civili rimangono feriti nell’esplosione di due ordigni avvenuta a 50 km ad Est di Algeri. Questo attentato arriva come una vendetta a 48 ore dall’uccisione da parte dell’esercito di due affiliati di “al-Qaeda per il Maghreb Islamico”. Il 24 febbraio il quotidiano francofono El Watan dà notizia dell’uccisione di tre membri della cellula quaedista “El Farouk” durante un’imboscata dell’esercito vicino a Dra Essebt, nella zona di Bouira, 80 km ad Est della capitale. La reazione è presto organizzata: 2 marzo 2010, un gruppo armato attacca coi lanciarazzi una caserma della polizia a Tigzirt. Subito, parte un’operazione di rastrellamento dell’Esercito nella zona. La vendetta arriva il 7 marzo quando la stampa scrive di cinque “terroristi” uccisi dall’esercito in un’imboscata a 70 km ad Est di Algeri. Il 3 aprile sette agenti di sicurezza e un militare vengono
ALGERIA
Generalità Nome completo:
Repubblica democratica popolare di Algeria
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo, francese, tamazight (berbero)
Capitale:
Algeri
Popolazione:
Circa 35 milioni
Area:
2.381.740 Kmq
Religioni:
Musulmana sunnita (99%), cristiana ed ebraica (1%)
Moneta:
Dinaro algerino
Principali esportazioni:
Risorse naturali: petrolio, gas naturale, ferro, fosfati, uranio, piombo, zinco Risorse agricole: grano, orzo, avena, uva, olive, cedri, frutta, pecore, bestiame
PIL pro capite:
Us 7.000
colpiti a morte con due bombe. Le armi non cessano il fuoco verso obiettivi di carattere militare, ma il 25 giugno vengono colpiti da estremisti islamici anche gli invitati ad una festa nuziale ad Est di Algeri. Muoiono cinque persone, una di loro è un bambino di dieci anni.
I militanti del gruppo al-Qaeda per il Maghreb islamico mirano ad unire le forze jihadiste della regione nordafricana per combattere contro l’Europa e la presenza occidentale nei Paesi del Ma-
ghreb. L’obiettivo sembra in gran parte fallito per mancanza di fondi, di uomini e anche per l’azione repressiva condotta dall’esercito algerino.
Per cosa si combatte
Libertà di culto
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Chi pratica una religione diversa dall’Islam è obbligato a costituire un’associazione, non può fare proselitismo e deve celebrare solo in luoghi autorizzati (chiese). Ma i cristiani d’Algeria vivono in diverse zone prive di una chiesa. “È necessario non limitare l’esercizio del culto a luoghi prefissati”, dichiara l’arcivescovo d’Algeria, mons. Ghaleb Bader (febbraio 2010). Il ministro della religione, Bouabdallah Ghlamallah, dichiara: “Non diamo la caccia ai cristiani ma non vogliamo che ci siano delle minoranze religiose che diventino un pretesto per le potenze straniere per entrare negli affari interni del Paese” (febbraio 2010).
L’Algeria ha vissuto un 2010 relativamente tranquillo. I gruppi terroristi armati che si ricollegano ad al-Qaeda (al-Qaeda per il Maghreb islamico) hanno compiuto azioni meno sanguinose rispetto agli anni precedenti e la loro attività si è concentrata soprattutto nella zona meridionale del Paese. Resta instabile, in parte, anche la situazione della Cabilia, la regione montuosa che si estende da Algeri vero l’Est lungo la costa mediterranea. Il terrorismo che minaccia oggi l’Algeria non ha la forza, i numeri e la pericolosità di quello che ha sconvolto il Paese nel corso degli anni Novanta. La data chiave è il 1991, quando il movimento politico Fis (Fronte islamico di Salvezza) vince il primo turno delle elezioni politiche generali. Di fronte alla minaccia islamista a gennaio i militari
interrompono il processo elettorale, il Fis viene dichiarato fuori legge e comincia uno scontro sempre più sanguinoso tra i gruppi terroristi di ispirazione islamica radicale e l’esercito algerino. L’organizzazione terroristica dominante è il Gia (Gruppo Islamico Armato), in seguito affiancato dal Gspc (Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento). In Algeria il terrorismo islamico raramente ha preso di mira gli stranieri. Le vittime sono state soprattutto cittadini algerini. Nel decennio di sangue sono stati colpiti intellettuali, scrittori, giornalisti, esponenti della vivace società civile che caratterizza l’ex colonia francese. Numerosi anche gli attacchi contro poliziotti e militari. A migliaia i caduti fra la popolazione civile, sia nei centri urbani che nei villaggi. Tra gli stranieri sono stati colpiti esponenti della chiesa cattolica, da sempre minoritaria ma costantemente a fianco della popolazione musulmana nei momenti difficili del Paese. Vanno ricordate le uccisioni del vescovo di Orano Pierre Claverie e dei sette monaci trappisti del monastero di Tibherine. Si calcola che in totale le vittime del terrorismo in un decennio siano state circa 100mila. Una via di uscita dal tunnel del terrorismo è stata cercata a partire dal 1999, quando è stato eletto alla presidenza della Repubblica Abdelaziz Bouteflika. Bouteflika ha voluto impegnarsi per la riconciliazione e ha offerto una amnistia ai combattenti islamici in cambio del loro disarmo. Questo processo di riconciliazione è andato avanti con difficoltà e anche ambiguità. Alcuni gruppi hanno continuato le loro attività terroristiche,
Quadro generale
Ferhat Mehenni (Illoula, 5 marzo 1951)
18 anni di emergenza
Human Rights Watch (Hrw) ha definito “molto grave” la situazione dei diritti umani in Algeria, dove da 18 anni è in vigore lo stato d’emergenza e dove permangono pesanti restrizioni imposte alla società civile e alla stampa. “In Algeria”, ha dichiarato a Rabat, Sarah Leah Whitson, direttrice di Hrw per Medio Oriente e Africa del Nord, “sono diminuite le violenze politiche rispetto al 1999, quando il presidente Bouteflika ha preso il potere. Se gli algerini, oggi godono di una maggiore sicurezza fisica, sono invece meno liberi di criticare e contestare le politiche del Governo”. “Le autorità vietano manifestazioni e anche seminari organizzati dai difensori dei diritti umani”, si legge nel Rapporto 2010 dell’associazione pubblicato sul suo sito internet. 31
Ferhat Mehenni, è un cantante e politico originario della Cabilia. È stato uno dei protagonisti della Primavera Berbera (Tafsut) del 1980. Nel 1985 fonda la Lega Algerina dei diritti dell’Uomo. Viene arrestato e condannato per attentato alla sicurezza dello Stato. Torturato nella terribile prigione di Lambèse, scriverà una canzone toccante “Tazuit Lambèse” per raccontare il suo patimento. Nel 1988 Mehenni aiuta a fondare un partito, il Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia. Il 17 gennaio 1994, Mehenni a nome del Movimento Culturale Berbero proclama il berbero “lingua nazionale e ufficiale” (tuttora lo Stato considera il berbero solo una “seconda lingua nazionale”). Nel 2001, dopo la Primavera Nera, fonda il Movimento per l’Autonomia della Cabilia. Ritiene che solo l’attribuzione di un’autonomia regionale alla Cabilia possa risolvere lo stato di tensione col Governo e far terra bruciata attorno ai terroristi. Il 19 giugno 2004 viene assassinato suo figlio, Ameziane, accoltellato in strada a Parigi. Nessun colpevole per la polizia. Durante le esequie funebri, Mehenni canta in cabilo la canzone della Resistenza Italiana “Bella Ciao”.
ma lentamente la vita degli algerini è tornata a essere più tranquilla, soprattutto nei principali centri urbani. Anche se negli ultimi anni c’è stata una ripresa delle azioni terroristiche anche ad Algeri, per opera dei militanti di al-Qaeda per il Maghreb islamico attentati del dicembre 2007 e dell’agosto 2008. L’Algeria non ha quindi raggiunto una condizione di completa stabilità e sicurezza. A questa condizione si aggiunge un quadro politico assolutamente immobile. Arrivato alla presidenza nel 1999 Bouteflika, rieletto nell’aprile del 2009 (è il terzo mandato consecutivo), ora conta di restare al potere fino al 2014. Quando divenne presidente, Bouteflika alimentò molte speranze. Promise di ristabilire la pace, la riforma della pubblica amministrazione, della scuola e della giustizia. Assicurò di voler garantire il prestigio della nazione. Ma i progressi sperati non ci sono stati. O sono stati molto timidi, ben al di sotto delle attese. Come ha scritto il quotidiano indipenden-
I PROTAGONISTI
te El Watan, Boueflika non ha cose nuove da dire e presenta da un decennio lo stesso programma. Restano perciò irrisolti molti problemi come la corruzione, l’inflazione, la disoccupazione e la crisi degli alloggi, che colpisce soprattutto i giovani. Sulla scena politica non si affacciano uomini nuovi e resta dominante una casta di politici, militari e burocrati che gli algerini definiscono genericamente Le Pouvoir (Il potere). Di fronte a questa immobilità l’Algeria non collassa solo perché galleggia su un mare di petrolio. Grazie alle riserve di idrocarburi l’Algeria negli ultimi anni ha potuto arricchire le sue riserve valutarie (145miliardi di dollari) sfruttando gli aumenti del prezzo del greggio (ma con un calo sensibile nel corso del 2009). Tuttavia questa ricchezza non si è riversata sulla popolazione e la forte dipendenza dalle risorse petrolifere non ha favorito una diversificazione dell’economia. Gli introiti incassati dall’export di gas e petrolio vengono in gran parte utilizzati per l’importazione di alimentari, medicinali e materiali per l’edilizia.
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Rapporti con la Libia
Rapporti difficili tra Ciad e Libia. Prima della presa del potere di Déby, Gheddafi ha rivendicato a mano armata i territori settentrionali del suo vicino. Poi il generale ha accantonato le mire espansionistiche per assumere il ruolo di mediatore nella regione, in particolare nel conflitto con il Sudan. Un cambio di strategia che evidenzia il ruolo che Gheddafi intende svolgere: essere il perno di ogni decisione negoziale nell’Africa centrale per consolidare la sua influenza sui paesi confinanti. Ma tutto è solo apparenza: il Governo di Tripoli infatti dopo la firma degli accordi non assicura nessun monitoraggio, indispensabile strumento per garantire il rispetto concreto delle intese. L’obiettivo di Tripoli è aiutare militarmente Déby contro i suoi oppositori ma in realtà nessuno dei due leader si fida dell’altro.
Il generale-presidente Idriss Déby (al potere dal 4 dicembre del 1990) succederà a se stesso alla guida del Ciad per un quarto mandato presidenziale. Le elezioni sono fissate per l’aprile 2011 e saranno precedute da analoghe votazioni politiche e amministrative che nelle intenzioni del padre-padrone dovranno fare da cornice alla sua marcia trionfale verso un nuovo quinquennio di dispotico potere. Déby è il protagonista assoluto della scena politica conquistata con un colpo di stato che rovesciò Hissène Habré. L’opposizione politica è ridotta al silenzio e questo gli consente di gestire con grande abilità (ed a proprio vantaggio) le risorse di uranio e petrolifere del Paese, senza preoccuparsi se l’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e se l’indice di sviluppo umano pone il Ciad al 175° posto su 182 paesi. I guadagni derivanti dal petrolio assicurano introiti medi annuali per 750milioni di euro, una cifra che garantisce di affrontare spese militari di grandi entità. Déby può vantare un successo: la firma nel gennaio 2009 di un accordo con il confinante Sudan per normalizzare le relazioni diplomatiche e la sicurezza alle frontiere. Infatti, proprio l’instabilità dei rapporti con il presidente Omar El-Bashir, è stata all’origine dell’appoggio ai reciproci movimenti ribelli operanti nei due paesi. E così Bashir ha cessato il sostegno ai ciadiani del Fuc (Fronte Unito per il Cambiamento) e Déby si è impegnato a non aiutare gli indipendentisti del Darfur riuniti nello Jem (Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza). I due grandi nemici sono diventati amici. Déby è volato a Khartoum e le frontiere tra di due Paesi sono state riaperte dopo 7 anni di chiusura. È sepolta nella memoria dunque l’offensiva che nel febbraio del 2008 portò i ribelli (sostenuti dal Sudan) a cingere d’assedio il palazzo presidenziale a N’Djamena, la capitale.
CIAD
Generalità Nome completo:
Repubblica del Ciad
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese, Arabo
Capitale:
N’Djamena
Popolazione:
9.826.419
Area:
1.284.000 Kmq
Religioni:
Musulmana (53,10%), cristiana (35%), animista (10%)
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli
PIL pro capite:
Us 1.519
L’intesa sta portando alla smobilitazione dei soldati della Minucart, la missione di pace dell’Onu operante tra Ciad e Centrafrica mentre per il 2011 la protezione dei 250mila rifugiati del Darfur e dei 165mila sfollati ciadiani dovrà essere garantita da soldati ciadiani addestrati dall’Onu e da una forza mista di militari di Sudan e Ciad. Molte agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative che operano nell’area sono scettiche perché giudicano il ritiro delle truppe della Minucart come una seria minaccia alla sicurezza della popolazione civile.
Passato da una condizione di colonia ad un regime autoritario, il Ciad è ancora lontano dal raggiungere una stabilità politica e sociale, resa ancora più difficile dalla violenza che caratterizza l’intera Regione. Secondo il rapporto dell’Unicef 2009 sulle emergenze, sono tre i tipi di violenza che caratterizzano la crisi nel Ciad, soprattutto nella parte Orientale del Paese: i conflitti armati
interni tra il Governo del Ciad e i gruppi di opposizione armata del Paese, gli attacchi contro i civili in prossimità del confine da parte delle milizie stanziate nel Darfur e la violenza interetnica. Spesso, secondo quanto denuncia lo stesso rapporto i tre tipi di violenza finiscono col sovrapporsi e a farne le spese è la popolazione civile, costantemente a rischio e priva di protezione.
Per cosa si combatte
Comunità internazionale
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La comunità internazionale non contribuisce concretamente al processo di pace nella regione. Il Governo di N’Djamena (al di là degli impegni formali) non riesce (o non vuole instaurare) un vero dialogo con le forze ribelli e prendere seriamente in considerazione i grandi problemi economici e sociali che affliggono il Paese. Alla Libia vanno riconosciute le capacità diplomatiche di aver evitato la guerra aperta tra Ciad Sudan ma non bastano solo gli impegni militari a consolidare una fragile pace, che ha magari solo gli aspetti di una tregua temporanea. Proprio per questo la comunità internazionale dovrebbe intervenire per farsi garante di accordi quasi sempre scritti sull’acqua ed edificati sulla sabbia. La questione Darfur deve trovare collocazione nell’agenda degli impegni.
La Repubblica del Ciad, situata nell’Africa Centrale e circondata dagli Stati confinanti della Libia, del Sudan, del Camerun, della Nigeria, del Niger e della Repubblica Centraficana è considerata uno dei Paesi più poveri del mondo, attraversato da forti instabilità interne e da conflitti ancora irrisolti. Proprio la vicinanza con molti Paesi dove si combattono guerre violente e sanguinose ha aggravato la crisi interna del Ciad, guidato da un Governo che fatica a gestire i forti flussi di rifugiati in fuga dai conflitti e dalle tensioni interne. Dopo una lunga storia da ex colonia francese, il Ciad è diventato indipendente nel 1960. Una transizione pacifica che sembrava presagire un futuro di stabilità per il Paese che nello stesso anno, il 20 settembre, è entrato ufficialmente a far parte dell’Onu. Il primo Presidente del Ciad, eletto l’11 agosto del 1960, è stato François Tombalbaye che nel dopoguerra aveva fondato uno dei principali partiti ciadiani, il Partito Progres-
sista del Ciad (Ppt). Le speranze del Paese furono presto deluse dal Governo di Tombalbaye, che si trasformò in una guida autoritaria. Solo due anni dopo la sua elezione, il Presidente aveva messo al bando tutti gli altri partiti politici attivi in Ciad e cominciato una forte repressione contro quelli che considerava oppositori politici. Il malcontento nel Paese cresceva e in più di una occasione il Governo dovette sedare rivolte interne. Tensioni si registravano nel Nord del Paese, abitato da popoli di fede islamica ma anche al Sud dove le popolazioni erano cristiane e animiste. Nel 1966, nel confinante Sudan, venne fondato il Fronte Nazionale per la Liberazione del Ciad (Frolinat). Il gruppo di ribelli imbracciò le armi contro il Governo dando inizio ad una sanguinosa guerra civile, proseguita anche dopo il colpo di stato militare del 13 aprile del 1975, quando Tombalbaye venne ucciso e il generale Félix Malloum, capo della giunta militare, divenne il nuovo capo di Governo.
Quadro generale
Marzio Babille
Marzio Babille è un medico triestino ma la sua vocazione di cittadino del mondo gli è stata trasmessa dalla madre armena. Babille (in passato responsabile dei progetti sanitari in India) è oggi il rappresentante dell’Unicef in Ciad. È impegnato in particolare nei progetti per il recupero alla vita civile dei bambini soldato, un fenomeno ancora molto diffuso nelle aree di confine con il Sudan (Darfur). Sono almeno 800 i ragazzi già passati nei centri dell’ Unicef ma mancano i fondi per garantire un percorso globale di pieno reinserimento nella vita civile di questi minorenni. Il 9 giugno 2010 a N’Djamena sei paesi hanno firmato un accordo per mettere fine al reclutamento dei minori di 18 anni. Marzio Babille sa bene che se non si attuano politiche concrete per dare speranze, lavoro, istruzione e assistenza sanitaria a popolazioni violate non si andrà lontano. Ma un primo passo (costituito almeno da una formale rinuncia al reclutamento) è stato fatto. Questi ragazzi infatti spesso tornano ad arruolarsi volontariamente allettati dal salario “sicuro” elargito dai gruppi ribelli con il quale sostengono le famiglie.
Nell’impossibilità di annientare la guerriglia del Frolinat, nel 1978 Malloum decise di nominare primo ministro il leader dei ribelli Hissène Habré. La convivenza dei due ai vertici del Paese durò poco. L’anno successivo le forze ribelli del Frolinat e l’esercito di Malloum si scontrarono apertamente nella capitale N’Djamena. Il generale golpista Malloum fu costretto alla fuga ma il Paese scivolò in una crisi interna ancora più profonda. La guerra civile coinvolgeva, oltre al Frolinat, numerose fazioni di ribelli e la situazione nel Paese era ormai fuori controllo. L’Onu intervenne e traghettò il Paese alla firma, nell’agosto del 1979, di un trattato di pace - l’Accordo di Lagos - che permetteva la formazione di un Governo di transizione che avrebbe dovuto guidare il Paese alle elezioni politiche. A capo di questo Governo il presidente Goukouni Oueddei, mentre Habré fu nominato ministro della difesa. Dopo 18 di mesi la situazione era però immutata e gli scontri continuavano ad imperversare. Queddai riuscì a conquistare il controllo della capitale ma per farlo chiese aiuto alla Libia che inviò nel Paese le proprie truppe. Ancora grazie alla Libia nel 1983, l’esercito governativo sferrò un nuovo attacco contro le forze di Habré, che ottenne il sostegno delle forze francesi già presenti sul territorio.
I PROTAGONISTI
Nel 1984 la Francia e la Libia siglarono un accordo per ritirare le proprie truppe dal Ciad. Accordo che non fu però rispettato dalla Libia che mantenne i propri soldati nella striscia di Aouzou. Solo nel 1987 Ciad e Libia firmarono un cessate il fuoco, che rimase in vigore fino al 1988. Negli anni Ottanta la stabilità interna del Ciad è minata da una serie di colpi di stato. Nel 1990 un disertore dell’esercito di Habré, Idriss Déby riuscì con un golpe ad instaurare un nuovo Governo, di cui egli stesso divenne Presidente. Negli anni successivi altri tentativi di colpo di stato furono sferrati contro il Governo di Déby che è però tuttora in carica. Il Paese è ancora attraversato da violenti scontri tra le varie anime della guerriglia ciadiana, e l’instabilità è costantemente in aumento nonostante i tentativi del presidente Déby di siglare trattati di pace con le fazioni ribelli. La situazione si è poi ulteriormente aggravata dal 2003, quando centinaia di rifugiati in fuga dalla Regione sudanese del Darfur, martoriata da un conflitto civile, hanno iniziato ad entrare in Ciad per sfuggire alle violenze. Il 23 dicembre del 2005, il Governo del Ciad ha dichiarato ufficialmente lo stato di guerra contro il Sudan. Alla base della decisione una lunga serie di violenti scontri lungo il confine tra i due Paesi ai danni delle popolazioni che abitano la frontiera. Il conflitto tra il Ciad e il Sudan è ancora in corso.
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(Trieste, 15 marzo 1953)
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La missione Unoci
L’Unoci (United Nations Operation in Côte d’Ivoire) è una missione di peacekeeping autorizzata dalle Nazioni Unite il 27 febbraio del 2004. Lo scopo della missione è quello di “facilitare la realizzazione del trattato di pace firmato dai partiti della Costa d’Avorio nel gennaio del 2003” dopo la fine della guerra civile. Come spesso è accaduto per le missioni di pace dell’Onu, il mandato dell’Unoci è stato rinnovato più volte, l’ultima fino al 31 dicembre del 2010. Per garantire il regolare svolgimento delle elezioni di ottobre le Nazioni Unite, con una risoluzione del settembre 2010, hanno deciso di incrementare, temporaneamente, il personale della missione di 500 unità. Degli oltre 8mila soldati presenti, circa 4mila sono francesi, gli altri provengono da 41 Paesi diversi. Durante la missione 21 peacekeepers e 4 funzionari dell’Onu sono morti in conflitti a fuoco.
Nella storia della Costa d’Avorio entra di prepotenza il Giappone. Le elezioni (31 ottobre 2010), annunciate mentre scriviamo, si sono tenute grazie all’intervento di Tokyo che ha donato tutto il necessario per lo svolgimento della tornata elettorale: 25mila urne, 50mila cabine e 50mila kit elettorali. La Costa d’Avorio esce da una vera e propria guerra civile, terminata solo nel 2007 grazie alla mediazione del Presidente del Burkina Faso, Blaise Campaoré e a un accordo di pace firmato dai contendenti a Ougadougou. Elezioni che, tuttavia, non sono state prive di tensione e mentre esce questo Atlante potrebbero essersi tradotte in un ennesimo conflitto armato tra i contendenti. Una nuova guerra che potrebbe avere conseguenze per l’economia del Paese piuttosto incerta vista l’instabilità politica. La Costa d’Avorio è divisa tra un Nord dove
COSTA D’AVORIO
Generalità Nome completo:
Repubblica della Costa d’Avorio
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese (ufficiale), dioula, baoulé, bété, sénoufo
Capitale:
Yamoussoukro
Popolazione:
16.600.000
Area:
322.460 Kmq
Religioni:
Cristiana, musulmana
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli, diamanti, manganese, nichel, bauxite, oro
PIL pro capite:
Us 1.510
prevalgono politicamente gli uomini delle Forze Nuove (Fn), che vogliono il controllo politico totale, e in un Sud, dove c’è un Governo provvisorio, quello di Guillaume Soro, che è anche segretario delle Fn che con Laurent Gbagbo, il cui mandato presidenziale è scaduto nel 2005, intende giungere ad una possibile intesa. Gli aventi diritto al voto sono 5,3milioni di persone su una popolazione di 21milioni di abitanti, di cui il 51% non è ancora in grado di leggere e scrivere.
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Sessanta diversi gruppi culturali, risorse infinite: le ragioni della guerra in Costa d’Avorio sono da ricercare nel controllo delle ricchezze del territorio, controllo che viene rivendicato dai diversi gruppi dirigenti facendo leva sull’appartenenza ad un clan. L’interdizione dalle cariche politiche delle popolazioni a sangue misto ha creato tensioni che non si assopiscono, innestate su un deficit democratico costante nella storia della Costa d’Avorio sin dall’indipendenza. Inoltre, l’economia del Paese, una delle migliori
del continente africano, dipende quasi interamente dall’esportazione delle materie prime e questo scatena da sempre gli interessi delle grandi aziende multinazionali, pronte a finanziare i diversi gruppi pur di assicurarsi - con la presa del potere - il controllo del mercato. Insomma, è un Paese diventato terreno di confronto per interessi esterni, con Francia, Stati Uniti e Cina a contendersi il ruolo di “partner” privilegiato.
Per cosa si combatte
La Costa d’Avorio ottiene l’indipendenza nel 1960 grazie a uno dei padri della decolonizzazione, Felis Houphpuet-Boigny. Legato sia per il proprio passato politico sia per gli interessi economici alla Francia, Boigny garantisce al suo Paese uno sviluppo economico considerevole. Grazie a un programma di incentivi statali sostenuti anche da Parigi. Boigny porta la Costa d’Avorio a essere il primo esportatore mondiale di cacao e il terzo di caffè. Per 20 anni l’economia del Paese cresce al ritmo del 10% all’anno, superata
solo dall’economia dei grandi Paesi produttori di petrolio e diamanti. Boigny gode di enorme credito politico, cosa che gli permette di governare con pugno di ferro, senza permettere la nascita di partiti politici né, tanto meno, di organizzare elezioni libere. All’inizio degli anni ’80 crolla il prezzo del cacao e del caffè con effetti sull’economia del Paese. Il debito estero triplica e cresce la criminalità, la stabilità del Governo comincia a vacillare. Boigny, nel 1990, deve affrontare le prime proteste di piazza. Il Presidente risponde al
Quadro generale
Le sanzioni
Nell’ottobre del 2010 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha prorogato fino all’aprile del 2011 le sanzioni economiche contro la Costa d’Avorio. La risoluzione è stata approvata all’unanimità e motivata dalla “situazione in cui versa la Costa d’Avorio che è una minaccia continua alla pace internazionale”. L’organismo internazionale descrive un Paese spaccato in due: la parte meridionale controllata dal Governo e la parte settentrionale nelle mani dei ribelli. Le sanzioni includono un embargo sule armi, restrizione negli spostamenti per alcuni cittadini, restrizioni ai movimenti finanziari e sull’importazione dei ‘diamanti sporchi’ il cui traffico ha, sottolinea la risoluzione del Consiglio, contribuito al conflitto che coinvolge anche la vicina Liberia e la Sierra Leone.
Guillaume Kigbafori Soro
(Ferkessédougou, 8 maggio 1972)
Cacao: l’oro nero della Costa d’Avorio
La Costa d’Avorio è il principale produttore mondiale di cacao. Il Paese copre da solo circa un terzo della produzione mondiale ma la gestione di questa enorme ricchezza non è cosa semplice per il Governo ivoriano. Secondo quanto denunciato da diverse organizzazioni umanitarie nei campi di raccolta del cacao vengono impiegati migliaia di bambini, sfruttati in tutte le fasi della produzione. A risolvere del tutto il problema non è bastata la nascita di un circuito di commercio alternativo, sottoposto a controlli rigidi per garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori. Buona parte della produzione di cacao, e di altre materie prime come caffè e cotone inoltre, viene contrabbandata nei Paesi limitrofi per evitare i dazi governativi, con il risultato che il Paese non riesce ancora a beneficiare delle enormi potenzialità della produzione ed esportazione del cacao.
malcontento attraverso la concessione di alcune libertà politiche, tra cui il multipartitismo. Le prime elezioni libere confermano alla giuda del Paese il padre della patria. Boigny muore nel 1993 e viene sostituito da Henri Konan Bédié, che riesce a migliorare il quadro economico anche grazie a una svalutazione del 50% del franco Cfa, legato a quello francese e ora all’euro. La repressione del dissenso crea un forte malcontento che viene sfruttato, nel 1999, da un gruppo di militari capitanati dal generale Robert Guei, che rovescia Boédié e organizza le elezioni presidenziali. Le consultazioni del 2000 si svolgono in un’atmosfera pesantissima, caratterizzata da tentativi di brogli compiuti da Guei e dall’esclusione di Alassane Ouattara, principale candidato dell’opposizione, perché di sangue misto. Uno dei suoi genitori, infatti, proviene dal Burkina Faso. La decisione scatena la rabbia dei musulmani del Nord. Dalle urne esce vincitore Laurent Gbagbo, principale oppositore di Boigny. Nel 2002 parte
I PROTAGONISTI
dell’esercito si ammutina e tenta di rovesciare il Presidente. Gbagbo resiste e il golpe si trasforma in una vera e propria guerra civile che spacca il Paese in due: il Nord controllato dai ribelli del Fronte Nuovo e il Sud sotto il controllo del Governo. La Costa d’Avorio entra in uno stallo politico e istituzionale che paralizza il Paese. Nel 2003 vengono firmati accordi di pace che, tuttavia, rimangono sulla carta. Molti nodi costituzionali rimangono tali, soprattutto quelli che riguardano l’eleggibilità delle popolazioni di sangue misto. Il Paese rimane diviso in due. E i tentativi del Presidente di riprendere il potere sul territorio sotto il controllo dei ribelli, manu militari, falliscono anche grazie alla forza di interposizione dell’Onu, 10mila uomini ancora presenti nel Paese, e ai contingenti francesi che controllano la zona di sicurezza al “confine” tra il Nord e il Sud del Paese. Le elezioni libere vengono continuamente rimandate proprio per l’instabilità del Paese. Nuovi accordi vengono firmati a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, il 4 marzo del 2007. Accordi che aprono la via all’organizzazione delle elezioni presidenziali e politiche.
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Guillaume Kigbafori Soro dal marzo del 2007 è il primo ministro della Costa d’Avorio ed è stato uno dei leader della rivolta contro l’attuale presidente Laurent Gbagbo. Nel settembre del 2002, durante il tentativo di colpo di stato degenerato in una vera e propria guerra civile, Soro era alla guida del Movimento Patriottico della Costa d’Avorio (MPCI) e nel dicembre dello stesso anno l’MPCI si è unito ad altri due gruppi ribelli formando le Forze Nuove della Coste d’Avorio di cui è diventato segretario generale. Le Forze Nuove controllano il 60% del territorio della Costa d’Avorio. Con la firma di un accordo di pace nel 2003, Soro viene nominato ministro delle comunicazioni del Governo di riconciliazione di Gbagbo, ma questo non garantisce all’esecutivo la stabilità politica. Soro viene allontanato dal Governo nel 2004 con l’accusa di voler boicottare l’esecutivo e reintegrato nello stesso anno. Il 28 dicembre del 2005 viene nominato ministro del Programma per la Ricostruzione del Governo di Charles Konan Banny e dal 2007 viene nominato primo ministro.
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Il coinvolgimento nel “buco nero” somalo
Etiopia ed Eritrea hanno continuato, in un certo senso, la loro guerra in un territorio “terzo”: la Somalia. Dal 2005 fino al 2009, mentre l’Etiopia appoggiava militarmente in modo massiccio il Governo di transizione somalo, l’Eritrea sosteneva il movimento ribelle degli estremisti musulmani, prima fornendo armi alle cosiddette Corti islamiche, poi agli Shabab. L’Onu ha documentato ripetutamente negli ultimi anni le violazioni all’embargo sulle armi alla Somalia da parte dell’Eritrea, al punto che dalla fine del 2009 ha imposto sanzioni all’Asmara con l’accusa - nella risoluzione votata dal Consiglio di Sicurezza - di voler «destabilizzare o rovesciare il Governo federale di transizione della Somalia».
Nel coacervo del Corno d’Africa
Non solo Iraq, Afghanistan, Medioriente. L’Est Africa è ormai considerato una delle aree di grande instabilità del pianeta: innanzitutto per la guerra civile somala che dura da 20 anni, ma anche per le situazioni delicate e a rischio di altri Paesi, come Sudan, Uganda, e dello stesso Kenya che soltanto due anni fa ha vissuto una stagione di violenze in occasione delle ultime elezioni. In questo scacchiere, è fortemente destabilizzante la serie di tensioni innescate da un lato dall’Eritrea con i Paesi confinanti (l’ultima è nata dall’occupazione militare di un’area contesa con Gibuti, dalla quale l’Onu ha già chiesto il ritiro), dall’altro dai movimenti di guerriglia (nelle regioni Oromo e Ogaden) intestina all’Etiopia. Nel 2010 si sono avute avvisaglie di ribellione - seppure in forma ancora embrionale - anche in Eritrea.
Le conseguenze della guerra perdurano ancora oggi. Dal punto di vista economico e sociale entrambi i Paesi hanno pagato un pesante prezzo in termini di vittime e invalidi, ma anche di grave crisi economica, ristagno produttivo, deficit agricolo. La più colpita, naturalmente, è stata l’Eritrea, messa veramente in ginocchio dal conflitto. Il Paese è piombato a livelli di povertà e di emergenza umanitaria senza precedenti e che continuano a peggiorare. Una vera e propria fame permanente, aggravata anche dal forte isolamento del Paese rispetto alla comunità internazionale e ai rapporti - piuttosto ostili - con tutti gli Stati confinanti. L’Eritrea, da Paese-faro del riscatto africano dei primi anni ‘90, è divenuto uno dei Paesi per i quali con maggior frequenza le agenzie dell’Onu lanciano appelli a causa del susseguirsi di emergenze alimentari gravi. I tre quarti della popolazione vive sotto la soglia di povertà. L’Etiopia ha saputo reagire meglio alla crisi del dopo-guerra. Oggi presenta aree che hanno mostrato significativi segnali di sviluppo (l’area della capitale, Addis Abeba, e il Tigrai) e altre, specie le Regioni del Sud e dell’Ovest, che presentano ancora situazioni di povertà ed emergenza idricoalimentare drammatiche. Dal punto di vista politico l’Etiopia, sul piano internazionale, all’inizio del 2009 ha ritirato le sue truppe dal territorio somalo. Sul piano interno, verso la fine dello stesso 2009 si è riacutizzata la ribellione armata dei gruppi Oromo e del Fronte di liberazione dell’Ogaden (formato prevalentemente da guerriglieri di etnia somala). Infine, nel maggio 2010, alle elezioni presidenziali e parlamentari, il Premier Meles Zenawi e il suo partito (l’Fprde) hanno ottenuto una schiacciante vittoria che ha consentito al Primo ministro etiope Generalità
ETIOPIA ERITREA
Generalità Nome completo:
Stato di Eritrea
Bandiera
Lingue principali:
Tigrino, Afar, Tigré, Kumana, Arabo
Capitale:
Asmara
Popolazione:
5.800.000
Repubblica Federale Democratica d’Etiopia
Area:
117.600 Kmq
Religioni:
Cristiani copti (48%), cattolici e protestanti (5%), musulmani (45%), fedeli a religioni tradizionali (2%)
Amarico, Tigrino, Oromo
Moneta:
Nakfa
Capitale:
Addis Abeba
Popolazione:
85.800.000
Principali esportazioni:
Bestiame, sorgo, prodotti tessili e manifatturieri
PIL pro capite:
Us 700
Nome completo: Bandiera
Lingue principali:
Area:
1.104.300 Kmq
Religioni:
Chiesa ortodossa etiopica (50,6%), protestante (10,1%), cattolica (0,9%), musulmana (32,8%), religioni tradizionali animiste (5,6%)
Moneta:
Birr
Principali esportazioni:
Caffé, pelli grezze, kat (erba che masticata dà effetti leggermente psicotropi), oro
PIL pro capite:
Us 898
di ottenere il quarto mandato consecutivo. Gli altri gruppi politici, come nelle elezioni precedenti, hanno denunciato brogli e violenze nei confronti degli oppositori. Anche gli stessi osservatori dell’Ue hanno criticato lo svolgimento e la correttezza del processo elettorale. Quanto all’Eritrea, considerata ormai un vero e proprio Stato-prigione, nel Rapporto annuale di Reporters sans frontières, sia nel 2009 che nel 2010 è risultata il Paese al mondo con la minore libertà di stampa, all’ultimo posto nella classifica.
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
parte dà ragione alle sue rivendicazioni), ma non dall’Etiopia. Un rifiuto, quello etiopico, che si protrae da anni. La situazione perciò è di fatto tuttora congelata, anche per l’inerzia dei caschi blu che non hanno mai dato seguito alla demarcazione fisica del nuovo confine, com’era previsto dal loro mandato. Dal luglio 2009, poi, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha votato all’unanimità il ritiro delle forze di pace, su richiesta del Governo dell’Asmara. Le stesse Nazioni Unite, poco dopo (nel dicembre 2009) hanno imposto sanzioni contro l’Eritrea per il suo sostegno - specie attraverso l’invio di materiale bellico - agli estremisti islamici somali (i gruppi che vanno sotto il nome di “Shabab”) che combattono il Governo di transizione di Mogadiscio. Ancora oggi non ci sono comunicazioni, né rapporti commerciali, né relazioni diplomatiche fra i due Paesi.
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La disputa sui confini che aveva cagionato il ricorso alle armi, non è mai stata risolta. Accettato da entrambe le parti il “cessate il fuoco” voluto dall’Oua (Organizzazione per l’Unità Africana), i due Governi avevano anche accolto la proposta delle Nazioni Unite di rimettersi alla decisione della Corte permanente di Arbitrato dell’Aja per la demarcazione della contestata linea di confine, e la definizione del tracciato fu affidata a una commissione di esperti internazionali col compito di studiare la storia delle linee di confine fin dall’epoca coloniale della conquista italiana, mentre una missione di mantenimento della pace dei caschi blu (denominata Unmee, Missione ONU per Etiopia ed Eritrea) doveva tenere sotto controllo la fascia di frontiera per evitare nuovi scontri e tracciare materialmente la nuova frontiera. La linea di demarcazione indicata dal team di esperti nel 2002 è stata accettata dall’Eritrea (e in gran
Per cosa si combatte
Da governo a dittatura
Il settembre del 2001 segna il momento di svolta autoritaria del regime eritreo. A seguito della diffusione di una lettera aperta che criticava la scelta della guerra e la carenza di democrazia, sono scattate le epurazioni: in pochi giorni sono finiti in carcere gli 11 firmatari del documento, di fatto tutta la nascente opposizione politica. Quasi contemporaneamente sono stati chiusi tutti i mezzi d’informazione che si erano espressi in modo critico verso il Governo e arrestati 9. Della quasi totalità delle persone finite in carcere non si è saputo più nulla. Le condizioni del Paese sono tali che gli eritrei fuggono a migliaia ogni anno e cercano asilo politico all’estero. A scappare, con ogni mezzo e a rischio di morire lungo la traversata del Sahara, sono soprattutto i giovani, che oltre lo spettro della fame vogliono lasciarsi alle spalle anche quello di un servizio militare durissimo e dalla durata spesso imprecisata (talvolta anche di 10-15 anni).
UNHCR / P. Wiggers
Sono passati più di dieci anni da quando è scoppiato il confitto fra Etiopia ed Eritrea, e nove dal “cessate il fuoco” che ha pressoché congelato il conflitto. Nonostante ciò, i rapporti fra i due Paesi, durante tutto questo tempo, sono rimasti molto tesi, e in alcune fasi si è sfiorato la ripresa di una guerra aperta. Un conflitto per molti aspetti incomprensibile. I due attuali Governi, sia etiope che eritreo, sono “figli” della guerra di liberazione dalla dittatura di Menghistu Hailé Mariam, il ”terrore rosso”, come veniva chiamato. La leadership attuale etiope, guidata dal primo ministro Meles Zenawi, è costituita nella sua ossatura dai capi del Fronte rivoluzionario democratico del popolo etiopico, tanto quanto quella eritrea, le cui principali figure politiche provengono dal Fronte popolare di liberazione eritrea, primo fra tutti Isaias Afewerki, Presi-
dente del Paese fin dalla sua nascita (1993). La lunga e sanguinosa guerra di liberazione aveva portato alla cacciata del dittatore Menghistu e alla vittoria nel maggio 1991. Finita la guerra, si erano formati fin da subito due Governi provvisori e di comune accordo si era giunti presto (nell’aprile 1993) al referendum col quale il 99,8% degli eritrei avevano scelto l’indipendenza dall’Etiopia. Antiche ragioni storiche e culturali (specie legate all’epoca della colonizzazione italiana) facevano sì che gli eritrei avessero consolidato una forte identità nazionale, che i decenni di dominio dell’imperatore Hailé Selassié e poi del regime repressivo di Menghistu non avevano nemmeno scalfito. Dopo la pacifica divisione dell’ex grande Etiopia nei due Stati sovrani, i due Paesi avevano mantenuto rapporti eccellenti di collaborazione e di
Quadro generale
Isaias Afewerki
(Asmara, 2 febbraio 1945)
UNHCR / F. Courbet
Democrazia e repressione
Anche l’Etiopia dal punto di vista della vita democratica presenta enormi problemi. Il Governo è dominato dai leader del Tigrai, la Regione a Nord dell’Etiopia che aveva guidato anche la guerriglia contro Menghistu. Con le ultime elezioni, il partito di Zenawi ha addirittura conquistato tutti i seggi in Parlamento, tranne due. Il Paese vede attivi ben due movimenti di guerriglia, indipendentisti: il movimento della popolazione Oromo e quello dei somali dell’Ogaden, verso i quali l’esercito conduce una repressione durissima. In tutte le tornate elettorali il regime è stato accusato di violazioni e brogli: nel 2002, come pure nel 2005 e nelle ultime del 2010. Dura è stata di nuovo la reazione del Governo, con una forte limitazione della libertà di stampa, l’arresto di giornalisti, le azioni intimidatorie nei confronti dei principali oppositori politici. mutue relazioni. Contemporaneamente, la pace finalmente raggiunta, dopo decenni di guerriglia e di sanguinarie repressioni che avevano portato la popolazione etiope e quella eritrea agli ultimi posti nelle classifiche dello sviluppo umano e della povertà, stava consentendo di avviare una crescita economica lusinghiera. Per l’Eritrea addirittura stupefacente, con ritmi di crescita del PIL oltre il 7%. Poi, inaspettatamente, fra il 1997 e 1998, sono cominciate le frizioni fra i due Paesi “cugini”: un’escalation cominciata da dispute intorno ai dazi doganali e agli accessi commerciali ai porti (l’Etiopia non ha accessi al mare e sino al 1998 aveva utilizzato i porti dell’Eritrea per l’importexport), e proseguita con crescenti tensioni fra i due eserciti ai confini. Proprio la disputa sui confini è la stata la causa dichiarata della guerra. La contesa su alcune città e località di confine ha condotto l’Eritrea,
I PROTAGONISTI
dopo l’ennesimo episodio nel quale alcuni suoi soldati erano stati uccisi in una fascia di territorio considerata propria dagli etiopi, a dichiarare guerra al Paese vicino. Un conflitto avvenuto in due fasi, la prima nel 1998 e la seconda nel 2000. Data l’enorme differenza di forze in campo - basti pensare allo squilibrio di popolazione fra i due Paesi, l’Etiopia ha oggi oltre 85milioni di abitanti, l’Eritrea poco più di 5 e mezzo - quest’ultima ha subito pesantissime sconfitte, specie nella seconda fase della guerra. Nelle alture desertiche dell’altopiano e nelle impervie montagne che dividono i due Paesi, se da un lato l’Etiopia ha perduto centinaia di migliaia di soldati mandati ripetutamente all’assalto degli avamposti eritrei, dall’altro il piccolo esercito dell’Asmara, una volta rotta la linea difensiva del fronte, ha subito perdite ingentissime di uomini quando l’esercito etiopico ha dilagato all’interno del suo territorio. La guerra nel giugno del 2000 si è fermata per un “cessate il fuoco” richiesto dall’Onu e accettato da entrambi i contendenti.
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Isaias Afewerki, già leader dell’Fple, è stato il primo Presidente dell’Eritrea indipendente. Considerato uomo di idee politiche fortemente socialiste - ispirate soprattutto al maoismo cinese era salito al potere all’indomani della liberazione del Paese a presiedere il Governo di transizione. Considerato un uomo illuminato e di grande carisma, aveva all’inizio degli anni ‘90 un enorme seguito popolare. Gli esiti del referendum, peraltro, ne avevano anche rafforzato il consenso politico. Ha guidato l’Eritrea, senza una reale opposizione politica, fino all’epoca del conflitto con L’Etiopia. Il dopo-guerra ha segnato, però, una svolta. È iniziata una rapida involuzione politica che ha portato presto il Governo a trasformarsi sempre più in regime, e Isaias Afewerki in dittatore. Oggi l’Eritrea è uno Stato poliziesco, dove controlli, perquisizioni e arresti arbitrari sono all’ordine del giorno. Quella del Presidente Afewerki e della stretta oligarchia che lo circonda è un’involuzione autoritaria che ha pochi precedenti persino nel Continente africano, incurante della miseria a cui ha ridotto la sua stessa gente e del totale isolamento internazionale. Anche l’Italia negli ultimi anni ha fortemente raffreddato i rapporti col Paese del Corno d’Africa.
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Nell’aprile del 2010 un tentativo di colpo di stato da parte di un gruppo di militari ha riportato la Guinea Bissau in una situazione di grave instabilità interna dopo un periodo di apparente calma. Dalle elezioni presidenziali del luglio 2009 e dopo l’uccisione, nel marzo dello stesso anno, dell’ex presidente Joao Bernardo Vieira, la situazione sembrava infatti essersi normalizzata. Subito dopo il tentato golpe, Malam Bacai Sanhá, presidente della Guinea Bissau ha cercato di rassicurare il Paese e la comunità internazionale affermando che la situazione è sotto controllo. “Va tutto bene” ha detto, ma il rischio di ripiombare nel caos è reale per un Paese dove - spiega Amnesty International nel suo Rapporto Annuale 2010 - le forze armate continuano ad interferire pesantemente nella vita politica e sociale, commettendo nella totale impunità gravi violazioni dei diritti umani, uccisioni il-
GUINEA BISSAU
Generalità Nome completo:
Repubblica di Guinea-Bissau
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Portoghese
Capitale:
Bissau
Popolazione:
1.345.479
Area:
36.120 Kmq
Religioni:
Animista (45%), musulmana (40%)
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Anacardo
PIL pro capite:
Us 736
legali, torture e altri maltrattamenti, arresti e detenzioni arbitrarie. Particolarmente instabile è la zona di confine con il Senegal dove continuano da anni gli scontri tra frange di ribelli indipendentisti ed esercito regolare. È la regione della Casamance, dove la popolazione locale è costretta a vivere sotto la costante minaccia di questo annoso conflitto, delle incursione dei ribelli del Movimento delle Forze Democratiche della Casamance (Mfdc) o dei bombardamenti dell’esercito. A peggiorare la situazione la presenza massiccia di mine sul territorio.
Un Paese in mano ai signori della droga. Anni di guerra civile sono base e conseguenza di questa situazione. La Guinea Bissau è un narcostato, nel senso che è uno Stato in mano a pochi trafficanti, dall’altra parte c’è tutto il resto della popolazione. Qui, la principale preoccupazione è quella di fare da ponte, da punto di smistamento del traffico della droga dall’America Latina (ma anche dall’Asia e dal Marocco) alle grandi piazze europee. La popolazione non ha a disposi-
zione l’acqua, da più di un quindicennio non c’è l’energia elettrica, le istituzioni sono, di fatto, inesistenti. Militari e dipendenti pubblici non vengono pagati se non due o tre volte l’anno, con la differenza che per i militari spesso si muovono “interventi d’emergenza” per pagare gli arretrati ed evitare, probabili, colpi di stato. In questa “terra di nessuno” il traffico di droga trova particolare favore.
Per cosa si combatte
Guinea Bissau e Gambia contro il narcotraffico
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I Governi di Gambia e Guinea Bissau hanno recentemente sottoscritto numerosi accordi grazie ai quali è stato possibile contrastare in maniera più efficace la piaga del narcotraffico che soprattutto per la Guinea Bissau rappresenta un enorme ostacolo per la stabilizzazione e la crescita. Gli accordi prevedono lo scambio di informazioni sensibili tra i due Paesi che hanno anche sollecitato l’Ecowas, l’organismo che riunisce i 15 Stati dell’Africa dell’Ovest, ad assumere un ruolo più di guida e coordinamento nel contrasto al narcotraffico.
La Guinea Bissau è stata colonia portoghese con il nome di Guinea portoghese sino al 1974 quando ottenne l’indipendenza. Ma è il 1956 l’anno di svolta. Il 1956 è oltre che l’inizio della fine della colonizzazione anche la nascita di una realtà che sarà protagonista nel Paese sino ai giorni nostri. Stiamo parlando del Paigc (Partido Africano da Independencia da Guiné e Cabo Verde). Amilcar Cabral scrittore e fondatore del
partito guidò il Paese verso una rivolta culturale. Il processo venne, però, significativamente accompagnato da un periodo di guerriglia interno. Il partito e la sua guerriglia si imposero velocemente nel Paese, in primo luogo per le caratteristiche fisiche del territorio (grandi quantità di giungle) e in secondo luogo per il presunto appoggio di Cina, Unione Sovietica e altri Stati africani che avrebbero fornito le armi
Quadro generale
Amílcar Cabral
(Bafatá, 12 settembre 1924 Conakry, 20 gennaio 1973)
Talibé, i piccoli mendicanti
Il 70% dei Talibé, i piccoli mendicanti che chiedono l’elemosina nelle strade di Dakar, sono minori guineani, piccoli studenti delle scuole coraniche sfruttati dai cosiddetti marabutti (dotti islamici) che hanno creato un vero e proprio traffico di bambini. Secondo quanto spiega l’Unicef, le famiglie della Guinea Bissau mandano i figli a studiare nelle scuole coraniche in Senegal perché lo considerano un Paese più laico ma questo ha permesso, nel corso degli anni, lo sfruttamento di questi bambini. Non solo come mendicanti ma anche come braccianti agricoli nei loro terreni.
ai guineiani. Si dovrà attendere sino al 1973 per la firma d’accordo definitivo. Il 24 settembre la Guinea poteva dirsi libera dal Portogallo. Nel novembre dello stesso anno si ottenne il riconoscimento ufficiale da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il Governo del Paese venne affidato a Luis Cabral, fratello di Amilcar che rimase al potere sino al 1980 quando con un colpo di stato Joao Bernardo Vieira (primo ministro del Governo Luis Cabral) si mise al timone della Giunea Bissau. Vieira istituì un Governo provvisorio che mantenne il potere, con un consiglio rivoluzionario, fino al 1984, anno in cui fu ricostituita l’Assemblea Nazionale. “Nino” (così veniva chiamato Vieira) rimase al potere sino al 1998, anno che segna l’inizio di una sanguinosa guerra civile. Era giugno quando il generale Absumane Manè si ribellò alla sua deposizione da capo delle forze armate. Un anno di sanguinosa guerra che portò alla fine della dittatura di Vieira. Si dovette attendere sino al febbraio del 1999 per la firma della tregua, mentre 11 mesi dopo, successivo periodo
I PROTAGONISTI
di Governo provvisorio, i cittadini vennero chiamati a eleggere un nuovo Governo: si andava al voto. Nel 2000 Kumba Ialá fu eletto Presidente. Ma la tranquillità non durò a lungo. Appena tre anni dopo un nuovo colpo di stato portò all’arresto del Presidente considerato incapace di risolvere i problemi del Paese. Nel marzo del 2004 si tennero nuove elezioni legislative. Ma il Paese non uscì dal suo stato di agitazione, tanto che nell’ottobre dello stesso anno si assistette ad un ammutinamento dell’esercito e successiva morte del capo delle forze armate. Nel 2005 le ultime elezioni e Vieira di nuovo al potere. Ma l’anno cruciale è stato il 2009. Il 2 marzo viene assassinato Vieira. Ma non per caso. Il giorno prima, infatti, veniva altresì assassinato il capo dello Stato Maggiore Tagma Na Wai, ucciso da un ordigno dinamitardo piazzato dentro un palazzo nel quale il capo si riuniva con altri militari. Nemico acerrimo del Presidente “Nino”, Na Wai, fu uno dei fautori (faceva parte della giunta militare) della caduta del suo regime negli anni ’90. A parlare del legame dei due omicidi (i militari di Na Wai avrebbero sequestrato e ucciso Vieira) è un funzionario del blocco dell’Africa Occidentale (Ecomas) che lo conferma all’agenzia giornalistica Reuters, appena 24 ore dopo la morte di Vieira.
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Amílcar Cabral è considerato il padre dell’indipendenza della Guinea Bissau. Durante i suoi studi a Lisbona conosce un gruppo di militanti con i quali coltiva le sue idee anti coloniali. Tornato nella Guinea Bissau fonda con Luiz Cabral, suo fratellastro e futuro Presidente della Repubblica di Guinea Bissau, il Paigc (Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo Verde), organizzazione clandestina che si batte contro l’esercito portoghese per l’indipendenza della Guinea Bissau, che Amílcar Cabral non vedrà mai. Venne infatti assassinato il 20 gennaio 1973 a Conakry, solo sei mesi prima dell’indipendenza della GuineaBissau.
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Verso le elezioni
Nell’ottobre del 2011 si terranno in Liberia le seconde elezioni dalla fine della guerra civile nel 2003. Tra i candidati la favorita è senza dubbio l’attuale presidente Ellen Johnson Sirleaf, che può vantare l’appoggio della comunità internazionale e in particolare del segretario di stato Usa Hillary Clinton. Tra i papabili c’è però anche l’ex calciatore George Weah che già nel 2005 ottenne un ottimo risultato al primo turno delle presidenziali ma perse al ballottaggio. Da segnalare è anche il Senatore Prince Yormie Johnson. Candidato per il partito National Union for Democratic Progress, è un ex-signore della guerra accusato di diversi massacri e di crimini contro l’umanità.
Si candiderà per un nuovo mandato alla guida della Liberia la Presidente uscente Ellen Johnson Sirleaf, nonostante la Commissione per la Verità e la Riconciliazione l’abbia accusata di aver sostenuto finanziariamente alcune delle fazioni armate negli anni della guerra civili, raccomandando la sua interdizione dai pubblici uffici per almeno 30 anni. “Le accuse rivolte contro di me sono motivate politicamente pertanto non ritengo di dovermi fare da parte”, scrive il Presidente in una nota inviata in Parlamento, in cui annuncia la sua prossima candidatura per lo scrutinio dell’ottobre 2011. Nella lista dei nomi contenuta nel rapporto della Commissione, reso pubblico nel 2009, figura anche quello dell’ex presidente Charles Taylor, attualmente sotto processo all’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella vicina Sierra Leone e di alcuni ministri dall’attuale Governo di Monrovia. La Sirleaf aveva già ammesso in passato di aver incontrato e consegnato fondi a Taylor ne-
LIBERIA
Generalità Nome completo:
Repubblica della Liberia
Bandiera
Lingue principali:
Inglese
Capitale:
Monrovia
Popolazione:
3.842.000
Area:
111.370 Kmq
Religioni:
Cristiana (66%), animista (19%), musulmana (15%)
Moneta:
Dollaro Liberiano
Principali esportazioni:
Cocco, caffè, legname, ferro, bauxite, oro, diamanti
PIL pro capite:
Us 1.033
gli anni ’80, mentre quest’ultimo si preparava a rovesciare l’allora presidente Samuel Doe. Intanto, alla fine del 2009, la presidente Johnson-Sirleaf ha ufficialmente chiuso il programma di disarmo e riabilitazione e reintegro che, partito nel 2003, ha permesso di disarmare 101mila ex combattenti e il reintegro di altri 90mila. La stessa Presidente ha promulgato una legge, approvata da Camera e Senato dopo un iter di due anni, sulla libertà di informazione. La Liberia è dunque il primo Paese dell’Africa occidentale ad avere una legge che garantisce ai cittadini il diritto ad essere informati.
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Le dittature di Samuel Kanyon Doe prima e di Charles Taylor poi, con i colpi di stato che li hanno portati al potere, sono la ragione vera della lunga guerra civile liberiana. I due dittatori hanno governato appoggiandosi a pochi elementi dei loro clan familiari, puntando poi allo scontro con gli Stati vicini per impadronirsi di risorse naturali e aumentare la loro ricchezza personale. La sollevazione dei gruppi armati è motivata dal bisogno - per larga parte della popolazio-
ne - di reagire all’oppressione, al reclutamento forzato dei bambini soldato e all’assassinio indiscriminato di ogni oppositore. Gli accordi di Accra, che hanno portato all’attuale presidenza, sono stati firmati dalle fazioni ribelli puntando ad un rinnovamento del Paese. Per ora tengono, pur con le tensioni create dal permanere in molte aree della Liberia di gruppi armati pronti a scendere in campo.
Per cosa si combatte
La presenza internazionale
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Nonostante gli innegabili passi avanti fatti dal Paese negli ultimi anni, la presenza internazionale sul territorio della Liberia è ancora molto vasta. Le Nazioni Unite sono rappresentate non solo dalla Missione di peacekeeping (UNMIL), ma anche da ben 16 agenzie specializzate, programmi per la povertà e l’infanzia e da rappresentanti della Banca Mondiale. La missioni UNMIL è dislocata in Liberia dal settembre del 2003 con lo scopo di monitorare e sostenere gli accordi per il cessate il fuoco. Il mandato di UNMIL scade il 30 settembre del 2011, nel corso della missione 88 peacekeepers hanno perso la vita.
Poteva essere una storia di libertà e, invece, è stata una storia di sangue e diamanti. Già il suo nome, Liberia, definisce una comunità di “liberi uomini di colore”. Una storia che inizia nel 1822 quando in questo territorio si installano i coloni afroamericani sotto il controllo dell’American Colonization Society. Una terra promessa che, tuttavia, doveva essere contesa agli indigeni che in quel luogo vivevano. Il nuovo stato aveva l’estensione delle terre controllate dalla comunità dei coloni e da coloro che ne erano stati assimilati. Gran parte della storia della Liberia è un continuo susseguirsi di scontri e tentativi, raramente coronati da successo, di una minoranza civilizzata di dominare una maggioranza considerata per tanti aspetti “inferiore”. È stata chiamata Liberia per dargli il carattere di “terra degli uomini liberi”. Uomini liberi che hanno sempre combattuto. Se da principio il tempo è scandito dall’affermare un principio di civiltà contro un principio di inciviltà, così erano pensati gli uomini che vi abitavano, poi è diventato uno scontro per accaparrarsi i diamanti della vicina Sierra Leone. Negli ultimi vent’anni i focolai di conflitto hanno più volte ripreso vigore, sfociando in violenze e veri “stermini etnici”. La rivolta del 1989 ha messo fine alla violenta dit-
tatura di Samuel Doe (capo della Armed Forces of Liberia), preparando l’avvento dell’altrettanto sanguinaria era di Charles Taylor, capo del National Patriotic Front of Liberia. Tra il 1992 e il 2002, con l’intento di conquistare le miniere di diamanti della confinante Sierra Leone, Taylor appoggia il Revolutionary United Front (Ruf) di Foday Sankoh. Al potere, Taylor, ci arriva nel 1997 dopo una lunga scia di sangue e di traffici loschi. A Monrovia instaura un regime di terrore. La polizia speciale liberiana, che fa capo direttamente al Presidente, non ha avuto pietà con gli ex oppositori del Movimento Unito di Liberazione (Ulimo): arrestati, torturati e uccisi a centinaia. Mentre il terrore vive a Monrovia, non cessano i conflitti interetnici e le lotte tra fazioni. I membri del Governo appartenenti alla famiglia di Taylor, intanto, presenti nel Governo, non perdono occasione per dimostrare la loro incompetenza nel tentativo di rilanciare un’economia distrutta dalla guerra e che vede nel miraggio dei diamanti sierraleonesi una possibilità di rilancio che, però, non si materializza. È così che i vecchi sostenitori abbandonano Taylor che, nel 2003, guadagna l’esilio da “signore della guerra”. Un esilio offerto dalla Nigeria, ma Taylor giura: “Col volere di Dio, tornerò”. I
Quadro generale
Una popolazione giovane
In Liberia gran parte della popolazione è composta da giovani. Il 43,6% della popolazione è composto dai ragazzi fino ai quattordici anni (maschi 765.662, femmine 751.134), il 52,8% da persone dai quattordici ai sessantaquattro anni (maschi 896.206, femmine 940.985) e per il restante 3,7 supera i sessantacinque anni. Il ruolo ‘cruciale’ della popolazione giovane per il futuro della Liberia è stato più volte ribadito dalla stessa presidente Ellen Johnson Sirleaf e sarà fondamentale anche in occasione delle prossime elezioni.
Charles Ghankay Taylor
(Arthington, 28 gennaio 1948)
Commissione Verità e Riconciliazione
Il 20 luglio 2009 il Parlamento della Liberia ha ricevuto il rapporto finale della Commissione verità e riconciliazione. La Commissione è stata creata il 12 maggio 2005 per indagare le origini e le responsabilità della guerra civile che tra il 1989 e il 2003 ha insanguinato il Paese. La Commissione è stata presieduta da Jerome Verdier, avvocato liberiano attivista dei diritti umani. Il rapporto, 370 pagine, ha stabilito che le cause principali della guerra civile sono state la povertà, l’accentramento del potere, le profonde diseguaglianze sociali ed economiche, la corruzione del sistema politico e giudiziario e, infine, le divisioni etniche. Per superare questi problemi la Commissione ritiene necessario processare le persone sospettate di aver commesso crimini e ingiustizie e impedirgli di partecipare alla vita politica del Paese. Il testo presenta una lista di 94 soggetti, tra individui e istituzioni, che dovrebbero essere ulteriormente indagati per crimini economici. La lista comprende 54 aziende private, 19 rappresentanti di multinazionali e istituzioni statali e 21 singole persone. Il rapporto pone come priorità la lotta all’impunità, “come condizione imprescindibile per la promozione della giustizia” e invita il Governo a dare un seguito alle sue raccomandazioni. Per quanto riguarda il processo di riconciliazione la Commissione ha raccomandato l’organizzazione di un forum che faciliti la condivisione tra le vittime e i colpevoli delle esperienze vissute. Un punto, questo, rispecchia un’esigenza stabilita dall’accordo di pace di Accra che nel 2003 ha messo fine alla guerra civile. Tra le raccomandazioni della Commissione, infine, c’è la richiesta di amnistia per i bambini coinvolti nella guerra. Per le donne e i bambini sono anche previste delle compensazioni per i danni subiti.
liberiani si augurano, invece, che non torni più e che venga condannato per crimini di guerra e contro l’umanità dal Tribunale Internazionale. Tutto ciò pone fine a un’era sanguinaria: 200mila morti e un milione di profughi. La Liberia ha vissuto quattordici anni di guerra civile. Devastazioni, distruzioni. Generazioni che hanno vissuto, convissuto e partecipato alla guerra.
I PROTAGONISTI
Bambini sottratti alla loro infanzia per essere spediti nei campi di battaglia. Drogati per renderli feroci e incoscienti. Menti e vite distrutte che ora debbono essere ricostruite. Con gli accordi di Accra (2003) nasce il Governo guidato da Jyude Bryant, che regge due anni grazie all’appoggio degli Usa e alla presenza di una forza multinazionale a mandato Onu composta da 15mila caschi blu. Nel 2005 la Liberia comincia a intravedere una nuova luce con l’elezioni della prima donna Presidente in Africa. Ellen Johnson Sirleaf.
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Charles Ghankay Taylor è un politico liberiano, Presidente della Liberia dal 1997 al 2003. Salito al potere nel 1997 Taylor ha Governo la Liberia come un dittatore, promulgando tra l’altro lo Strategic Commodity Act con il quale si è garantito la facoltà di gestire “personalmente e direttamente” tutte le risorse dello Stato. Prima di diventare Presidente è stato un signore della guerra durante il conflitto liberiano degli anni ‘90. Per per la sua attività di trafficante d’armi a favore dei ribelli armati in Sierra Leone, venne spiccato contro di lui un ordine d’arresto dal Tribunale Speciale di quel Paese e in seguito ad una rivolta popolare, nel 2003, fu costretto a fuggire in Nigeria dove ha ottenuto asilo politico. Dal 2008 la Corte Speciale dell’Aja lo sta processando con l’accusa di crimini di guerra e delitti contro l’umanità per il ruolo avuto nella guerra civile combattuta in Sierra Leone dal 1991 al 2001, che causò circa 200 mila morti e diverse migliaia di mutilati. Secondo l’accusa, l’ex Presidente ha armato i ribelli del Fronte rivoluzionario unito (Ruf) per ottenere in cambio il controllo delle risorse della Sierra Leone.
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Economia
La Nigeria in cifre presenta una situazione pesantissima, tanto da farne un Paese dei paradossi. Pur essendo fra l’ottavo e il nono posto fra i maggiori produttori di greggio al mondo, importa la quasi totalità dei carburanti di cui ha bisogno perché le tre raffinerie del Paese sono quasi sempre ferme per guasti e manutenzione. E pur presentando un Pil pro capite abbastanza elevato rispetto a tanti Paesi africani (2.400 dollari l’anno), il 70% dei nigeriani vive sotto la soglia di povertà. Negli ultimi anni il Prodotto nazionale lordo cresce con ritmi paragonabile a quelli di India, Cina e Brasile (8,1% nel 2009, 7,2% nel primo semestre del 2010), ma nonostante questo il Nord del Paese e la Regione del Delta (quella petrolifera) rimangono profondamente sottosviluppate e arretrate. In particolare il SudEst, proprio a causa dei decenni di sfruttamento del territorio dell’industria petrolifera, presenta livelli altissimi di inquinamento ambientale, al punto che l’agricoltura è stata quasi totalmente azzerata. L’aspettativa di vita nel Paese è di 45 anni, una delle più basse del mondo, quasi un terzo della popolazione è analfabeta, il 70% non ha accesso a servizi sanitari adeguati e il 53% non ha acqua potabile. Infine, la mortalità infantile sotto i cinque anni è al livello record del 185 per mille.
La situazione di costante instabilità e insicurezza della Regione del Delta ha portato negli ultimi anni a una riduzione d’interesse e d’investimento di alcune compagnie petrolifere. Inoltre, nei momenti di più intensa attività di guerriglia dei gruppi ribelli vi sono state anche soste forzate di alcuni impianti d’estrazione, per cui la media produttiva degli ultimi anni è risultata ridotta del 30% rispetto al potenziale. Tutto ciò ha comportato una minore crescita dell’attività estrattiva in Nigeria rispetto all’Angola, al punto che è riuscita addirittura a superarla nella classifica del greggio estratto in un anno. Quanto all’attività dei ribelli, nel 2009, di fronte al forte intervento repressivo del Governo il Mend aveva dichiarato all’inizio dell’estate una tregua unilaterale di alcuni mesi. In realtà, la strategia messa in atto proprio dal presidente Yar’Adua e dal suo vice Jonathan prevedeva, accanto all’intervento repressivo, anche l’offerta di amnistia a chi avesse deposto le armi. Durante il periodo della tregua unilaterale del Mend è maturata anche la sorta di accordo tra il Governo e alcuni dei leader principali del movimento ribelle - primo fra tutti Henry Okah, già arrestato e incarcerato fin dal 2008 - che ha portato, verso la fine del 2009, alla resa di diverse migliaia di ribelli. Nel corso del 2010, poi, si è avuto nuovamente qualche episodio di attacchi da parte di aderenti al Mend, forse dovuti anche al mancato sblocco dei fondi promessi per la reintegrazione degli ex ribelli nella vita civile. Infine, è ancora in Parlamento la grande riforma del settore petrolifero che dovrebbe modernizzare il sistema, fissare nuovi criteri per le concessioni e le royalties, migliorare la trasparenza di un comparto cronicamente caratterizzato dalla corruzione e dalla malversazione di denaro. Tra le altre cose, la nuova legge dovrebbe garantire il 10% degli introiti delle royalties a beneficio delle popolazioni locali del Delta del Niger. In attesa della riforma complessiva, il Governo ha varato, sempre nel 2010, la miniriforma della compagnia petrolifera nazionale. Infine, è stata varata un’altra norma di riassetto del sistema bancario, con l’obiettivo di ridare fiducia alla struttura del credito nigeriano. La riforma ha portato alla creazione di un’agenzia governativa federale che ha il compito di “ripulire” i bilanci delle banche dai cosiddetti “titoli tossici” e di risanare il sistema che negli ultimi tempi era stato tenuto in piedi da forti iniezioni di liquidità per evitare il collasso di diverse banche.
NIGERIA
Generalità Nome completo:
Repubblica Federale di Nigeria
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Inglese (lingua ufficiale)
Capitale:
Abuja
Popolazione:
154.400.000
Area:
923.768 Kmq
Religioni:
Negli Stati del Nord la popolazione è per la quasi totalità islamica; nel Centro-Sud c’è una larga maggioranza cristiana (in prevalenza protestante/evangelica), ma c’è anche una forte presenza di sette d’importazione americana e della rinascenza africana. Islam 50%, cristianesimo 40% (di cui oltre un terzo cattolicesimo), religioni tradizionali 10%.
Moneta:
Naira
Principali esportazioni:
Petrolio (che costituisce oltre il 90% delle esportazioni), cacao, caucciù
PIL pro capite:
Us 2.400
au, e in particolare la città di Jos, dove sono avvenuti ripetuti episodi di violenze che hanno provocato in totale, poco meno di un migliaio di morti. La ribellione armata dell’area Sud-Orientale del Delta del Niger, invece, si è sempre caratterizzata come una forma di guerriglia/terrorismo che aveva tradizionalmente lo scopo principale dell’estorsione. Dal 2006, tuttavia, la situazione era piuttosto cambiata con la comparsa della nuova formazione ribelle del Mend (Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger), che fin dalla sua nascita aveva dato una connotazione molto più ideologica alla propria causa, dichiarando di voler ingaggiare nei confronti delle compagnie petrolifere straniere una guerra che si sarebbe conclusa solo con la loro cacciata e la fine dello sfruttamento delle popolazioni locali azione e della devastazione ambientale del Delta del Niger.
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Il problema numero uno della Nigeria è sempre l’estrema povertà in cui versa la stragrande maggioranza della popolazione, almeno il 70%, a fronte della piccola oligarchia di ricchissimi, costituita da alti vertici dell’esercito (fino al 1999 la Nigeria è stata governata da un susseguirsi di giunte militari, spesso golpiste), esponenti del mondo politico e una ristretta oligarchia di businessman. La povertà diffusa, in ultima analisi, è la radice dei frequenti scoppi di violenza dalle apparenti motivazioni “religiose” nel Centro-Nord del Paese come pure la guerriglia e gli atti di terrorismo che caratterizzano la regione petrolifera del Delta del Niger. Riguardo agli scontri di “matrice” religiosa - che negli anni precedenti erano avvenuti soprattutto a Kano e nelle città di “coabitazione” fra cristiani e musulmani - nel 2009 e 2010 sembra che il loro epicentro sia la Regione del Plate-
Per cosa si combatte
L’Eni in Nigeria
La presenza dell’Eni in Nigeria e in particolare nel Delta è piuttosto significativa. La sua attività estrattiva si aggira intorno ai 150mila barili di greggio al giorno. Significativi anche i problemi attraversati in questi ultimi anni dalla la compagnia petrolifera italiana nel Paese africano. Dopo l’epoca dei sabotaggi e dei sequestri di persona, che avevano colpito l’Eni come le altre compagnie presenti nel Delta, era arrivata la grana dell’inchiesta ministeriale voluta nel 2007 dal Governo Prodi per accertare eventuali responsabilità della Compagnia rispetto all’inquinamento della regione petrolifera. Dell’indagine non si è saputo più nulla, ma nel frattempo è scoppiato un altro problema: l’Eni è finita sotto accusa negli Stati Uniti per presunto versamento di tangenti a funzionari nigeriani in cambio di appalti di estrazione. Questa volta l’Eni ha preferito pagare in fretta la salatissima multa (365milioni di dollari) per chiudere la vicenda ed evitare il processo penale. Anche due altre società, una americana e una francese, hanno seguito lo stesso percorso: pagata la multa hanno evitato il tribunale.
UNICEF/NYHQ2009-0449/Gangale
La Nigeria per molti aspetti è ancora lo Stato artificiale creato nel 1914 dai colonialisti inglesi. Paese federale, composto di 36 Stati e un territorio (l’area di Abuja, la capitale federale), vi abitano 250 etnie differenti, con tre gruppi dominanti: gli Hausa-Fulani in tutta la parte settentrionale, gli Yoruba nel Sud-Ovest, gli Ibo nel Sud-Est. L’estrema eterogeneità di culture, economie, storia, lingue, realtà climatico ambientali, religioni (il Nord è islamizzato in larghissima parte, il Sud è prevalentemente cristiano) rende difficile la crescita di un forte senso di identità nazionale. La sua storia post coloniale (l’indipendenza è stata ottenuta nel 1960) è costellata di tensioni e scontri etnici, e addirittura di una guerra di secessione, quella del Biafra, che comportò anche la prima grande crisi umanitaria per la quale si mobilitò l’Occidente, verso la fine degli anni ‘60. I primi 40 anni della sua storia di Paese indipendente sono stati caratterizzati da una catena
pressoché continua di colpi di stato e di regimi militari. Fino al 1999, quando per la prima volta, i nigeriani hanno potuto esprimere liberamente il voto, eleggendo alla guida del Paese Olusegun Obasanjo, che ha poi governato la federazione per due mandati. Alle successive elezioni, tenutesi il 21 aprile 2007, ha vinto invece Umaru Yar’Adua, delfino dell’ex Presidente. A differenza di Obasanjo, uomo del Sud della Nigeria e cristiano, Yar’Adua era originario dello Stato di Katsina, nell’estremo Nord, musulmano. Yar’Adua tuttavia ha sofferto di una lunga malattia che gli ha impedito per diversi mesi, a partire dal novembre 2009, di esercitare le sue funzioni. Il potere, durante tutto il periodo di inabilità del Presidente, è stato gestito dal suo vice, Goodluck Jonathan, che ne ha anche preso ufficialmente le funzioni dal 9 febbraio 2010 con l’avallo del voto del Parlamento. Nel marzo 2010 Jonathan ha sciolto e rinnovato in larga misura l’esecutivo.
Quadro generale
Goodluck Jonathan (Otueke, 20 novembre 1957)
Bambini avvelenati dal piombo
Sono già 400 i casi accertati, ma le stime fanno temere cifre ben più elevate. Quattrocento bambini morti per avvelenamento da piombo, nello Stato nigeriano di Zamfara. L’emergenza è scoppiata nella primavera del 2010, ma i primi dati - frutto del lavoro sul campo dei team dell’Oms e di Medici Senza Frontiere giunti sul posto - parlano di avvelenamento di massa che ha colpito nel modo più tragico le fasce più vulnerabili della popolazione: bambini e donne incinte. La causa sarebbe l’estrazione effettuata con metodi “artigianali” dell’oro da vecchie miniere abbandonate presenti nella zona, già pesantemente contaminate dal piombo utilizzato nel lavoro di estrazione del passato. Ben più elevato il numero dei contaminati: si parla di oltre 18mila persone.
Il 5 maggio Yar’Adua è morto e, come previsto dalla Costituzione nigeriana, il giorno successivo Goodluck Jonathan ha giurato come Capo dello Stato. Rimarrà in carica fino alle prossime elezioni presidenziali, previste per maggio 2011. La Nigeria è considerata uno dei giganti africani, insieme al Sud Africa, non tanto per la sua forza economica, quanto per la concentrazione di popolazione (oltre 150 milioni di persone in un territorio relativamente piccolo) e per le sue riserve di greggio, per le quali si colloca fra l’ottavo e il nono posto fra i produttori mondiali e si contende il primato in Africa con l’Angola. È in questi ultimi dieci anni, con l’avvento della democrazia, che sono scoppiate le principali contraddizioni del Paese. Prima delle quali la questione petrolifera: a fronte degli enormi introiti legati alle concessioni per l’estrazione del greggio (che costituiscono più del 90% delle esportazioni), la popolazione nigeriana è in condizioni di grave povertà - il 70% vive con meno di un euro al giorno - e, paradossalmente, è proprio la gente del Delta del Niger, l’area petrolifera del Paese, ad essere fra le più povere.
I PROTAGONISTI
La seconda grande contraddizione è legata alle tensioni religiose. Gli scontri fra cristiani e musulmani, avvenuti in particolare lungo la fascia di coabitazione nel Centro-Nord del Paese, sono iniziati improvvisamente all’indomani dell’elezione del primo Presidente votato democraticamente, intorno al 2000-2001. Da allora vi sono stati ricorrenti momenti di forte tensione che hanno provocato in alcuni casi anche migliaia di vittime. Tensioni religiose che, dopo decenni di pacifica e tollerante convivenza fra cristiani e musulmani, sembrano essere state utilizzate più come elemento strumentale di pressione politica che come reale scontro di fedi. Fra il 2008 e il 2010 questi scontri fra cristiani e musulmani sono avvenuti principalmente nello Stato del Plateau, e in particolare nella città di Jos, nell’area centro-settentrionale della federazione nigeriana. Scontri molto violenti che hanno provocato centinaia di vittime e migliaia di feriti. Il terzo grande problema del Paese è l’inurbazione selvaggia, che ha creato enormi caotiche megalopoli. Prima fra tutte Lagos, capitale commerciale della Nigeria, che si stima sia ormai intorno ai 20 milioni di abitanti. Problema che non riguarda solo l’estrema povertà delle periferie urbane, ma anche i livelli di criminalità cresciuti a livelli preoccupanti.
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Cristiano, originario del Delta del Niger, doveva avere un ruolo da comprimario: vice del presidente Yar’Adua, musulmano del Nord, garante nel mandato 2007-2011 - e forse anche nel successivo - della regola non scritta che vuole in Nigeria un’alternanza di un Presidente cristiano (del Sud) e di uno musulmano (del Nord) ogni due mandati, con un vice dell’altro credo e dell’altra parte del Paese. Invece, Goodluck Jonathan il 6 maggio 2010 si è ritrovato Presidente. Quel patto non scritto di fatto è saltato, con la morte di Yar’Adua. Il punto è che Jonathan ha presto smentito chi pensava che la rottura degli equilibri potesse durare soltanto fino all’elezione del prossimo maggio 2011: infatti, ha già annunciato la sua volontà di candidarsi. Annuncio che ha messo in subbuglio il partito di maggioranza, il Pdp (Partito democratico popolare), quello del primo Presidente eletto democraticamente (Olusegun Obasanjo, nel 1999) e anche quello di Yar’Adua. Ora il braccio di ferro è tutto interno al Pdp, che deve avallare o meno la candidatura di Jonathan. È già noto, peraltro, chi sarà il più temibile avversario politico alle elezioni del 2011: Ibrahim Babangida, “vecchia conoscenza” del potere nigeriano. Oggi potentissimo e ricchissimo, è stato a capo della dittatura militare fra il 1985 e il 1993.
UNICEF/NYHQ2009-0463/Gangale
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Crimini di guerra
Continuano, davanti alla Corte penale internazionale (Icc), i processi per crimini di guerra commessi nella Repubblica Centrafricana. È in attesa di cominciare quello a carico di Jean Pierre Bemba, ex vice Presidente della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), accusato di omicidio, stupro e saccheggio. Fuggito dal suo Paese nel 2007 è stato arrestato nel maggio del 2008. Secondo le accuse i reati sono stati commessi nella Rdc e nella Repubblica Centraficana dal suo gruppo armato, tra il 2002 e il 2003. Con una prima sentenza l’Icc ha autorizzato il suo rilascio in attesa del processo a condizione di trovare un Paese disposto ad ospitarlo, ma nessuno Stato si è offerto. L’inizio del processo era previsto per il 14 luglio del 2010 ma è stato posticipato.
Repubblica
CENTRO AFRICANA
Generalità Nome completo:
Repubblica Centrafricana
Bandiera
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UNICEF/NYHQ2007-0127/Pirozzi
Sconcerto e stupore per la decisione delle Nazioni Unite di ritirare la forza di pace Minucart dalla Repubblica Centrafricana. Una decisione che mette a rischio il processo elettorale nel Paese. Elezioni, prima fissate per il 24 ottobre 2010 e poi rinviate, che dovrebbero arrivare in un momento in cui la Repubblica Centrafricana si trova a essere il crocevia delle attività di diversi gruppi ribelli tra i quali i temibili ribelli ugandesi del Lords Resistence Army ormai diventati il terrore in tutta la regione che va dalla Repubblica Centrafricana all’Uganda, passando per il Sud Sudan e per la Repubblica Democratica del Congo. Ai ribelli ugandesi si aggiungono una serie di sigle locali che a vario titolo rivendicano qualcosa, vari gruppi di banditi molto ben organizzati e, per finire, i gruppi ribelli del Darfur che in diverse occasioni si sono rifugiati proprio nel territorio centrafricano per sfuggire all’esercito sudanese. Dopo la decisione delle Nazioni Unite il Governo di Bangui ha valutato l’ipotesi di spostare le elezioni al 23 gennaio 2011 nella speranza di un ripensamento dell’Onu. La Repubblica Centrafricana, infatti,
UNHCR / F. Noy
Lingue principali:
Francese
Capitale:
Bangui
Popolazione:
3.683.538
Area:
622.984 Kmq
Religioni:
Cristiana (51%), animista (34%), musulmana (15%)
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Cotone, caffè, minerali, diamanti
PIL pro capite:
Us 1.128
non è in grado con le proprie forze di garantire la sicurezza dei seggi e degli elettori. Uno spiraglio aperto lo ha lasciato il Segretario Generale dell’On, Ban ki-Moon, che ha affermato che si “potrebbe costituire una nuova forza di pace di almeno 1000 uomini per garantire la sicurezza del Paese e nel contempo addestrare e armare l’esercito centrafricano”. Il tempo passa e la Minucart ha già fatto rientrare tutti gli uomini posizionati nelle zone critiche del Paese. Gli episodi di violenza, ora, si stanno moltiplicando nel Sud.
La Repubblica Centrafricana non ha mai conosciuto una vera democrazia. Provata da decenni di malgoverno e colpi di stato il Paese non è mai riuscito a risollevarsi. Negli ultimi anni la Repubblica Centrafricana ha dovuto poi subire le pressioni e l’instabilità causate dalle vicende politiche degli stati confinanti, dal Ciad al Sudan che hanno innegabilmente inciso nella tenuta interna del Paese, totalmente impreparato a ricevere le ondate di profughi in fuga da altri teatri di guerra. L’insicurezza e il pericolo, oltre
ad una rete inesistente di strade per lo più disastrate, hanno impedito alle agenzie umanitarie di raggiungere le zone colpite dai combattimenti, in particolare nel Nord-Est, e di portare sostegno alle popolazioni. Non da ultimo la criminalità fuori controllo e il traffico clandestino di diamanti (è la seconda voce nelle esportazioni del Paese) contribuiscono ad aumentare la già drammatica situazione interna della Repubblica Centraficana.
Per cosa si combatte
L’odissea infinita dei profughi
Sono ancora decine di migliaia gli sfollati e i profughi della Repubblica Centrafricana. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha iniziato nelle scorse settimane il trasferimento di migliaia di persone in campi allestiti dalla stessa agenzia nelle aree di confine con il vicino Ciad, dove i rifugiati arrivano fuggendo dal conflitto armato che imperversa nel Nord del Paese. Critica la situazione anche lungo il confine congolese, dove sono migliaia i profughi in arrivo dalla Repubblica Centrafricana per sfuggire agli attacchi dei gruppi armati (soprattutto i ribelli ugandesi dell’Lra) e dove l’Unhcr ha allestito nuovi campi di accoglienza.
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UNHCR / F.NOY
Storia di schiavi, colpi di stato e imperatori. Questa è la Repubblica Centrafricana. Una terra abitata da tempi antichissimi: vari ritrovamenti testimoniano l’esistenza di antiche civiltà anteriori alla nascita dell’impero egizio. Terra contesa tra vari sultanati che utilizzavano l’attuale Repubblica Centrafricana come una grande riserva di schiavi, dalla quale venivano trasportati e venduti nel Nord Africa attraver-
so il Sahara, soprattutto al mercato de Il Cairo. La nascita della Repubblica è stata fortemente voluta da Berthelemy Boganda, un prete cattolico leader del Movimento d’Evoluzione Sociale dell’Africa Nera, il primo partito politico del Paese. Boganda governa fino al 1959 quando muore in un misterioso incidente aereo. Gli succede suo cugino David Dacko che nel 1962
Quadro generale
UNICEF/NYHQ2008-1506/Holtz
François Bozizé Yangouvonda
(Mouila, 14 ottobre 1946)
UNHCR / M. Baiwong
Violazioni di forze governative e gruppi armati Nella Repubblica Centrafricana i civili sono vittime sia delle forze governative che dei gruppi armati. La denuncia è di Amnesty International che nel suo Rapporto annuale 2010 parla di una situazione ormai fuori controllo soprattutto nelle province del Nord del Paese: Ouham, Ouham-Pende, Vakaga, Nana-Gribizi e Bamingui-Bangoran. La situazione di violenza incontrollata rende quasi impossibile il lavoro delle organizzazioni umanitarie che faticano a fornire il bilancio esatto di morti e feriti causati del conflitto. Alcune delle vittime, spiega Amnesty nel Rapporto, sono state prese di mira perché sospettate di appoggiare i gruppi rivali, altre sono finite nel mirino per aver semplicemente criticato le parti coinvolte nel conflitto. La guerra non risparmia gli operatori umanitari: ne è stato ucciso uno della Croce rossa in giugno e altri due della Cooperazione Internazionale.
impone un regime monocratico. Inizia una lunga storia di colpi di stato. Il primo ai danni di Dacko è del colonnello Jeab Bedel Bokassa, che sospende la costituzione e scioglie il Parlamento. La follia di Bokassa arriva al punto di autoproclamarsi Presidente a vita nel 1972 e imperatore del risorto Impero Centrafricano nel 1976. Un impero di follia e povertà per la gente. La Francia, ex potenza coloniale, decreta la fine di Bokassa nel 1979 e restaura la presidenza di Dacko, con un altro colpo di stato. Nel 1981 il generale Andrè Kolimba prende il potere. Pressioni internazionali costringono il dittatore a convocare elezioni nel 1993 che vengono vinte da Ange-Felix Patassè. Il neo Presidente dà vita a una serie di epurazioni negli apparati statali. Promulga una nuo-
I PROTAGONISTI
va Costituzione nel 1994, ma le forti tensioni sociali sfociano in rivolte popolari e violenze interetniche. Nel 1997 vengono firmati gli accordi di pace che portano al dispiegamento di una forza di interposizione composta da forze militari di Paesi africani. Poi arriva il turno dell’Onu. Di nuovo alle urne nel 1999, Patassè vince, ma ormai le tensioni sono fuori controllo. Il Paese diventa una sorta di terra di nessuno dove le forze militari e ribelli razziano e rapinano la popolazione. Terreno fertile per un ennesimo colpo di stato, nel 2003, che porta al potere il generale Fracois Bozizè, che poi vince le elezioni nel 2005 ritenute valide dalla Comunità Internazionale. Patassè, nel frattempo, è riparato in Togo. Oggi è pronto a rientrare per ripresentarsi alle elezioni. Il Paese, nonostante la povertà estrema, è ricco di diamanti, uranio, oro e ferro. Ma l’industria mineraria è poco sviluppata.
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François Bozizé Yangouvonda è il Presidente della Repubblica Centrafricana. Sale al potere nel marzo del 2003 al comando di un colpo di stato contro l’allora presidente Ange-Félix Patassé. Nel 2005 vince le elezioni presidenziali ottenendo al primo turno la maggioranza relativa (il 43%) e quella assoluta nel secondo (64,6%). Le elezioni sono state ritenute valide dalla Comunità Internazionale. Personaggio di spicco della vita politica della Repubblica Centrafricana, Bozizé è stato brigadier generale del dittatore Bokassa e nominato ministro della Difesa dal successore David Dacko nel 1979. Ancora durante la dittatura di Kolingba (1981-1993) venne nominato ministro delle comunicazioni. Per lunghi anni, durante la presidenza Patassè, la sua lealtà non fu mai messa in discussione tanto da diventare Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate. Il colpo di stato del 2003 fu possibile, secondo le accuse dello stesso Patassè, grazie all’appoggio fornito a Bozizé dal Governo del Ciad. François Bozizè e l’ex presidente Ange-Félix Patassè sono entrambi candidati alle prossime elezioni presidenziali che dovrebbero svolgersi all’inizio del 2011.
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Stupri di massa
Il ricorso allo stupro di massa come strumento di pulizia etnica è prassi comune sia per i soldati governativi che le truppe ribelli. A settembre scorso l’Onu ha accertato che almeno 303 civili sono stati violentati (alcuni molte volte) durante gli attacchi sferrati da 200 uomini armati nell’Est del Congo tra il 30 luglio ed il 2 agosto 2010. Tra le vittime 235 donne, 52 bambine, 13 uomini e 3 bambini “ma - avverte il rapporto - il numero delle vittime potrebbe essere maggiore mentre l’entità e la violenza di questi stupri di massa superano l’immaginabile”. Durante queste violenze sono state bruciate 932 case, saccheggiati 42 negozi mentre 116 persone sono state fatte prigioniere e ridotte in schiavitù. L’Onu ha chiesto al Governo di Kinshasa di assistere le vittime e perseguire i responsabili.
Il presidente Joseph Kabila, riconfermato nelle elezioni del 2006 con l’appoggio della Comunità Internazionale, si è recentemente soffermato sui cinque flagelli che bloccano lo sviluppo del Paese: corruzione, concussione, intolleranza, indisciplina, imbrogli finanziari. Un duro colpo alla credibilità delle quattro priorità da lui stesso individuate che prevedevano elezioni generali per il 27 novembre 2011; l’avvio di riforme strutturali per esercito, polizia, giustizia, scuola; riabilitazione delle strutture; rivoluzione morale. Così come resta una chimera il piano quinquennale (2008-2012) che includeva cinque settori di intervento: infrastrutture, nuovi posti di lavoro, educazione, acqua, energia elettrica. Le fredde cifre parlano di un Paese posizionato al 162° posto (su 183) nella classifica delle nazioni più corrotte. Nel 2009 le previsioni di crescita economica sono scese dal 5% all’ 1, 5% mentre due terzi dei 71milioni di abitanti sono sottoalimentati nonostante ci siano ben 80milioni di ettari di terre coltivabili, di cui solo il 10% è sfruttato. Come è stato più volte ribadito, la maledizione della Repubblica Democratica del Congo è proprio la sua immensa ricchezza: cobalto, uranio, diamanti, oro, legno. Questa immensa fortuna stuzzica tanti, troppi appetiti da parte delle multinazionali e dei Paesi confinanti (in primo luogo Ruanda e Uganda), di gruppi di pseudo ribelli al servizio di signori della guerra pronti a passare al servizio del miglior offerente. Insomma la Repubblica Democratica del Congo è squassata da guerre e conflitti per il controllo delle risorse, come accertato anche dall’Onu. Non è casuale la presenza nella zona Orientale del Paese (la più ricca) - secondo stime delle Nazioni Unite - di almeno 8 diversi gruppi di ribelli, alcuni di questi guidati da guaritori tradizionali o da mistici invasati dediti al cannibalismo rituale come i famigerati Mai-
Repubblica DEMOCRATICA DEL
CONGO
Generalità Nome completo:
Repubblica Democratica del Congo
Bandiera
61
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese, lingala, kiswahili, kikongo, tshiluba
Capitale:
Kinshasa
Popolazione:
62.6 milioni
Area:
2.34 milioni kmq
Religioni:
Cristiana, musulmana
Moneta:
Franco congolese
Principali esportazioni:
Diamanti, rame, caffè, cobalto, petrolio greggio
PIL pro capite:
US 140
Mai. In questo fosco quadro c’è da registrare il fallimento della Monusco, la forza di pace delle Nazioni Unite con la missione di stabilizzare il Paese, che è anche la più consistente al mondo, presente da 10 anni e costosa: 3,5miliardi di dollari dal luglio 2009 a maggio 2010. I caschi blu non sono riusciti a fermare la guerra né le violenze sui civili inermi. Ed ora il Governo di Joseph Kabila, giunto al potere con il viatico dell’Occidente, vuole che se ne vada.
pagnie e dei singoli individui, responsabili di avere alimentato il conflitto attraverso lo sfruttamento delle risorse, che sono anche la principale fonte di finanziamento dei gruppi armati ribelli, i quali controllano i giacimenti e utilizzano i proventi della vendita dei minerali per pagare i soldati e acquistare nuove armi. “Le grandi multinazionali minerarie - si legge nel rapporto dell’Onu - sono state il motore del conflitto ancora in corso, e hanno preparato il terreno per le attività illegali e criminali di estrazione nella Repubblica Democratica del Congo. I Governi dei Paesi dove hanno sede gli individui, le compagnie e le istituzioni finanziarie, coinvolte nelle attività, dovrebbero assumere la loro parte di responsabilità, anche cambiando la propria legislazione nazionale e investigando”.
Per cosa si combatte
La storia della Repubblica Democratica del Congo, dei suoi violenti e infiniti conflitti e delle sue drammatiche crisi umanitarie, è legata alla lotta per il controllo delle sue immense risorse naturali. Una lotta che inizia nel 1885 con la colonizzazione belga, quando i primi giacimenti di diamanti vennero scoperti e che continua ancora oggi. Il 30 giugno 1960, è Patrice Lumumba a diventare il primo ministro della neonata Repubblica Democratica del Congo. Protagonista della lotta per l’indipendenza dal Belgio, Lumumba mirava ad un affrancamento completo dall’ex potenza coloniale
che manteneva ancora molti suoi soldati nei quadri dell’esercito congolese. Lumumba venne sequestrato e ucciso dalle truppe dell’esercito rimaste fedeli, dopo un ammutinamento, al capo di stato maggiore Joseph Mobutu. Dopo aver riorganizzato l’esercito, Msobutu capeggia nel 1965 il colpo di stato contro Joseph Kasavubu, primo Presidente della nuova Repubblica, instaurando un lungo regime autoritario a partito unico. Mobutu cambia il nome del Paese in Zaire e il suo in Mobutu Sese Seko. La corruzione e le violenze dilagano e in piena guerra fredda, Mobutu si guadagna
Quadro generale
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Il Congo è uno dei Paesi più ricchi di risorse naturali di tutto il continente africano. Dispone di vasti giacimenti di coltan e cassiterite, ampiamente utilizzati nell’industria informatica e della telefonia mobile; giacimenti di diamanti, di rame, uranio, cobalto, zinco, stagno, argento, tungsteno, alluminio. La maggior parte di queste immense ricchezze si trova nelle Regioni investite dai conflitti più violenti: il Nord Kivu, il Sud Kivu e il Katanga. Il legame tra i conflitti in corso e lo sfruttamento di queste risorse è stato accertato dall’Onu che, prima nel maggio del 2001 e poi nell’ottobre del 2002, ha pubblicato due dossier nei quali si accusano le multinazionali Occidentali attive sul territorio congolese di sfruttare le risorse “favorendo il prosieguo della guerra”. Nei due rapporti viene stilata una lista dettagliata delle com-
I gruppi armati
L’Onu ha individuato i seguenti gruppi ribelli attivi nelle aree orientali di Nord Kivu, Sud Kivu e Katanga: Fdlr (Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda) il cui leader Laurent Nkunda è in arresto in Ruanda; Mai-Mai (una milizia popolare nata per l’autodifesa dalle invasioni ruandesi); Cndp (Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo); Fplc (Forze Patriottiche per la Liberazione del Congo); Adf/Nalu (Forze Democratiche Alleate/Esercito Nazionale di liberazione dell’Uganda) di cui fanno parte militanti islamici ed ex militari del dittatore Idi Amin Dada; Lra (Esercito di Resistenza del Signore) il cui leader Joseph Kony è ricercato dalla Corte Penale Internazionale per le violenze commesse dalle sue milizie in Uganda e Rd Congo; Frpi/Fpjc (Forza di Resistenza Patriottica in Ituri/Fronte Popolare per la Giustizia in Congo). JeanClaude Baraka, il loro capo, è stato arrestato di recente; Enyele: gruppo operante nella provincia dell’Equatore e guidato da Ondjani Mangbama, un guaritore tradizionale, arrestato a maggio.
Joseph Kabila Kabange
Laurent-Désiré Kabila, padre dell’attuale presidente Joseph, non piaceva per niente ad Ernesto Che Guevara, arrivato nel 1965 in Congo per sostenere il movimento marxista schierato con i sostenitori di Lumumba. “Troppo dedito a champagne e donnine” appuntava nel suo diario rimproverandogli scarso fervore ideologico. Non mancano dubbi sulla legittima discendenza di Joseph Kabila, così come da molte parti si ipotizza che ad armare i sicari che uccisero Laurent-Désiré sia stato proprio lui per succedergli nella carica di capo dello Stato. Joseph grazie a questa parentela “pesante” ha avuto la strada spianata. Con una educazione militare di alto livello ricevuta in Cina, è diventato Presidente giovanissimo ad appena 29 anni. Ha sventato colpi di stato organizzati dai fedeli del vecchio dittatore Mobutu ed ha varato una costituzione su misura per lui abbassando l’età minima per il candidato alla presidenza da 35 a 30 anni appena pochi giorni prima che li compisse. La Comunità Internazionale lo ha appoggiato nelle elezioni presidenziali del 2006 contro Jean-Pierre Bemba, ricco uomo d’affari arrestato due anni dopo su mandato della Corte Penale Internazionale per le violenze commesse dalle sue milizie.
l’appoggio internazionale degli Stati Uniti e di molti Governi Occidentali, combattendo contro la vicina Angola, sostenuta dall’Unione Sovietica. Nel 1994, un’ondata di migliaia di profughi disperati, ruandesi e burundesi, scappa dal vicino Ruanda dove è in corso il genocidio e si rifugia nella Regione congolese del Kivu. Il Paese è ulteriormente destabilizzato e si creano le condizioni ideali per una nuova sollevazione dei ribelli contro Mobutu. Nel 1996, capeggiati da Laurent Kabila e armati da Uganda e Ruanda i ribelli occupano la capitale, Kinshasa e insediano lo stesso Kabila come Presidente. Lo Zaire torna ad essere Repubblica Democratica del Congo e Mobutu fugge in Marocco dove morirà, lasciandosi alle spalle un Paese ridotto al collasso economico e investito da un conflitto senza precedenti che coinvolge Paesi vicini e che, per la vastità del territorio coinvolto e il numero impressionante di vittime è stato ribattezzato ‘Guerra Mondiale Africana’. Il nuovo Governo non è diverso dal precedente e gli stessi Paesi che avevano contribuito a designare Kabila, decidono di rovesciarlo sostenendo le azioni di gruppi ribelli in un Paese ormai completamente destabilizzato. Nel 1998 esplode la guerra civile, ancora in corso nella Repubblica Democratica del
I PROTAGONISTI
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(Sud-Kivu, 4 giugno 1971)
Congo. Sul campo si combattono da una parte le truppe di Ruanda, Burundi e Uganda a sostegno dei ribelli tutsi del Raggruppamento Congolese per la Democrazia (Rcd) e del Movimento di Liberazione del Congo (Mic); dall’altra le truppe di Zimbabwe, Namibia e Angola che combattono a fianco del presidente Kabila. Nel gennaio del 2001 Laurent Kabila viene assassinato, ma gli scontri continuano. Al suo posto viene designato il figlio Joseph Kabila, che imposta da subito i negoziati per arrivare alla firma degli accordi di pace nel 2003. Si insedia così un nuovo Governo di transizione che mette fine alle ostilità e che porta al ritiro degli eserciti stranieri alleati del Governo: Angola, Namibia e Zimbabwe e di quelli che sostenevano i ribelli: Ruanda e Uganda.
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Una via del riscatto delle donne saharawi
Il progetto è destinato a donne e ragazze dei campi Saharawi, massimo 15 persone, per la creazione di piccoli oggetti e collane. Lo scopo è di insegnare ad un gruppo di donne dei campi Saharawi le tecniche base di ceramica consentendo di recuperare le tradizioni decorative artistiche e culturali, produrre oggetti d’artigianato tipici e creare una piccola fonte di guadagno. Dopo una prima breve fase di insegnamento le donne sono autonome, conoscono l’intero processo produttivo dalle materie prime all’oggetto finito; hanno già prodotto le medaglie ed altri oggetti per la decima edizione della “maratona nel deserto” svoltasi nel febbraio 2010. La lavorazione utilizza una tecnica di cottura artigianale con forno “raku” ricavato da un bidone e mediante un cannello a gas termoretraibile, per evitare la costante energia elettrica necessaria. Il progetto costa 12.000 euro compreso materiale e 3 viaggi nei campi profughi degli istruttori. Se il progetto avrà buon esito e potrà diffondersi i frutti saranno copiosi per la debolissima economia saharawi.
Dopo trent’anni e in attesa di un referendum voluto dalla Comunità Internazionale, ma mai arrivato, il conflitto non è ancora terminato. Per l’Onu, il caso del Sahara Occidentale, deve essere risolto in conformità al principio dell’autodeterminazione. Le soluzioni contrarie a questo principio hanno provocato, fino ad ora, enormi perdite umane e materiali sia per la popolazione saharawi sia per la popolazione marocchina. Nel maggio 2005 gravi scontri fra le forze di sicurezza marocchine e dimostranti saharawi danno inizio alla “seconda intifada saharawi”. La Commissione per i Diritti Umani dell’Onu (Hcdh) ha dichiarato nel 2006, a seguito dell’invio di una delegazione nei Territori Occupati e nei campi di rifugiati di Tindouf, che le viola-
SAHARA OCCIDENTALE
Generalità Nome completo:
Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD)
Bandiera 65
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Hassaniya, spagnolo
Capitale:
El Ayun
Popolazione:
circa 1 milione
Area:
circa 280.000 Kmq
Religioni:
Islamica Sunnita
Moneta:
Dinaro algerino nei campi profughi, Dirham marocchino nei territori occupati
Principali esportazioni:
Fosfati, pesca, petrolio e probabilmente ferro e uranio
PIL pro capite:
n.d.
zioni dei diritti umani nei confronti del Popolo Saharawi sono diretta conseguenza dal mancato riconoscimento del suo diritto fondamentale all’autodeterminazione, come sostenuto in più occasioni dalle Nazioni Unite. Nel rapporto si sottolinea che il Consiglio di Sicurezza e il Segretariato Generale, devono essere appoggiati e sostenuti dalla Comunità Internazionale nel cercare un soluzione politica, giusta e definitiva al conflitto ancora in corso.
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Il Popolo Saharawi è privato del diritto fondamentale e internazionalmente riconosciuto ad avere una terra, su cui vivere in pace e libertà. Il diritto all’autodeterminazione viene negato dal Governo del Marocco, nonostante le numerose risoluzioni di condanna dell’Onu e nonostante Hans Corel, Segretario per gli Affari Giuridici dell’Onu abbia giudicato “illegale” lo sfruttamento delle risorse naturali del Sahara Occidentale, costituite da grandi quantità di fosfati e abbondantissimi banchi di pesce. Molte Nazioni europee considerano illegale
l’estensione al Sahara Occidentale degli accordi sulla pesca, approvati nel 2006 tra il Parlamento Europeo e il Marocco. Fortunatamente le contraddizioni europee non si applicano al campo umanitario, dove il contributo dell’Unione Europea è decisivo per il sostentamento dei rifugiati. Anche se, purtroppo, gli aiuti umanitari internazionali stanno diminuendo in maniera vistosa e preoccupante. Ad esempio, anche l’Italia, per il 2010 ha ridotto da 7milioni a solo 300mila euro la propria assistenza.
Per cosa si combatte
Il Sahara Occidentale comprende le Regioni di Saquia el Hamra al Nord e Rio de Oro al Sud, 284mila Kmq. Confina con il Marocco, l’Algeria, la Mauritania e l’Oceano Atlantico. È uno dei territori più ostili alla vita dell’uomo in tutto il pianeta. Aride distese di rocce e dune di sabbia sono solcate da piccoli wadi (letti di fiumi) nei quali si accumula quel po’ di acqua che non riesce mai a raggiungere il mare a causa della rapida evaporazione. Il Sahara Occidentale, già colonia spagnola, è l’ultima colonia africana ancora in attesa dell’indipendenza: al dominio spagnolo, infatti, nel 1975 si è sostituito quello di Marocco e Mauritania, che hanno invaso il territorio. La maggior parte della popolazione è fuggita in Algeria dove, da allora, vive nei campi profughi. In pratica, la questione del Sahara Occidentale è un caso di decolonizzazione mancata. Il popolo Saharawi è privato dal 1975 del suo diritto all’autodeterminazione. Lo dimostrano le tappe di questo conflitto. Il 6 ottobre 1975, il re del Marocco dà il benestare alla “marcia verde”, attraverso la quale 350mila marocchini avanzano verso il Sahara Occidentale con l’obiettivo di conquista del territorio. Il 31 Ottobre 1975 inizia l’invasione marocchina nella zona Orientale del Sahara
Occidentale. La Spagna intanto si ritira e il 2 novembre Madrid riafferma il proprio supporto all’autodeterminazione della gente Saharawi, allineandosi agli impegni internazionali assunti. Con il ritiro della Spagna, alla fine del 1975 il Polisario (movimento di liberazione che dal 1973 lotta per l’indipendenza) sembra sul punto di guadagnare l’indipendenza. Ma con trattative separate e segrete, Madrid firma un accordo clandestino con il Marocco e la Mauritania. I tre Paesi decidono di spaccare il territorio del Sahara Occidentale fra il Marocco e la Mauritania, evitando di dare l’indipendenza ai Saharawi. Nel 1976 il Fronte Polisario proclama la Rasd, Repubblica Araba Saharawi Democratica, ma l’annessione illegale del territorio dà il via alla guerra fra Marocco e Mauritania, per il controllo del territorio. Decine di migliaia di Saharawi fuggono sotto i bombardamenti al napalm del Marocco. L’aggressione investì sia il Nord che il Sud del Paese facendo fuggire i Saharawi verso Est, in Algeria appunto, dove è stato concesso loro asilo politico. Il rientro nelle loro terre viene reso ancora più difficile dalla costruzione da parte del Marocco, a partire dal 1980, di un muro elettrificato. È un’impressionante opera militare: bunker, postazioni fortificate, campi minati
Quadro generale
La sahara marathon La sahara marathon è una manifestazione sportiva internazionale di solidarietà con il Popolo Saharawi ed è giunta quest’anno alla decima edizione. Promossa dal Comitato Sportivo Saharawi e organizzata da volontari provenienti da diverse nazioni, la Saharamarathon comprende oltre alla maratona classica le distanze di 21 Km - 10 Km - 5 Km e la corsa dei bambini. Ha come obiettivo la promozione dell’attività sportiva tra i giovani Saharawi, il finanziamento di progetti umanitari e la sensibilizzazione del mondo sul conflitto dimenticato; in quel territorio vivono oltre duecentomila profughi Saharawi. Il percorso unisce simbolicamente tre campi profughi: Smara, Auserd, El Ayoun. Nelle tendopoli, camminando, non sei mai solo: i bambini ti chiedono da dove vieni, le persone si intrattengono a parlare e ti offrono il tè, che è un segno dell’ospitalità del Popolo Saharawi. È cortesia berne almeno tre bicchieri: il primo è amaro come la vita, il secondo dolce come l’amore, il terzo soave come la morte. La maratona si svolge ogni anno a fine febbraio in occasione dell’anniversario della proclamazione della Rasd. Si parte da Roma o da Rimini con l’Air Algerie, i partecipanti sono ospitati in gruppi di 4 o 5 da famiglie Saharawi, nelle loro tende. Si dorme e si consumano i pasti con loro. I giorni seguenti la maratona sono dedicati ad incontri e visite.
Mahfud Ali Beiba
(1953 - Tindouf, 2 luglio 2010)
Indipendence Flotilla
La spedizione ha lo scopo di accendere i riflettori sull’occupazione marocchina dei territori saharawi. Un gruppo di navi, soprannominato “Indipendence Flotilla”, lascerà nelle prossime settimane le isole Canarie per dirigersi verso le coste del Sahara Occidentale. Gli organizzatori hanno intenzione di protestare contro l’occupazione marocchina del Paese e le condizioni di vita della popolazione saharawi. La spedizione ha lasciato Las Palmas e dovrebbe arrivare a Al Aaiun il 14 Novembre. Sul viaggio vigileranno le forze di sicurezza spagnole. “Siamo nella fase iniziale del progetto - ha dichiarato Isabel Galeote, portavoce dell’Ong Observatorio para los Derechos Humanos en Sáhara Occidental - ma abbiamo già ricevuto molte richieste di partecipazione sia da cittadini che da giornali e televisioni”. Il Sahara Occidentale è uno Stato riconosciuto dall’Unione Africana, ma non dalle Nazioni Unite che lo inseriscono nella lista degli Stati non indipendenti. Controllato dall’esercito marocchino fin dal 1976, da anni attende un referendum per deciderne l’indipendenza. Dopo l’annessione Rabat è stata espulsa dall’Unione Africana e ha visto deteriorarsi sempre più i rapporti con la Spagna e la Francia. Non ultimo il caso di Aminatou Haidar, attivista sahrawi a cui il Marocco ha concesso di tornare in patria solo dopo 32 giorni di sciopero della fame.
(mine in gran parte italiane), lungo oltre 2200 Km alto cinque metri fatto di sassi e sabbia; si dice che il suo mantenimento costi al Governo marocchino oltre 1milione di dollari al giorno. Nel 1984, l’Organizzazione degli Stati Africani ammette come Stato membro, la Rasd, espelle il Marocco, nega di fatto valore giuridico agli accordi fra Spagna, Mauritania e Marocco. Nel 1991, dopo 18 anni di guerra, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva il Piano di Pace. Dal 6 settembre 1996 la Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale, Minurso, sorveglia il rispetto del cessate il fuoco e organizza il referendum di autodeterminazione che è rimasto solo sulla carta, a causa dell’opposizione del Marocco.
I PROTAGONISTI
Sempre l’Onu, in una decisione specifica sul Sahara Occidentale, trasmessa da Hans Corell, Segretario Generale Aggiunto per gli Affari Giuridici, al Presidente del Consiglio dichiara: “Gli Accordi di Madrid non hanno significato in alcun modo un trasferimento di sovranità sul territorio, né hanno concesso ad alcuno dei firmatari lo status di potenza amministrante, dato che la Spagna non poteva concederlo unilateralmente. Il trasferimento di potere amministrativo sul territorio nel 1975 non riguarda il suo status internazionale, in quanto territorio non autonomo”. La continuazione dello status quo sta conducendo ad una repressione sempre più brutale nelle zone occupate e ad un ritorno alle ostilità. Molti giovani ed anziani parlano apertamente della necessità, per sbloccare l’empasse, di ricorrere alle armi o ad atti di terrorismo che sino ad oggi non sono stati parte della strategia Saharawi.
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Il 2 luglio 2010, per crisi cardiaca, è morto a El Aiun nella sua modesta tenda nei campi profughi di Tindouf (Algeria). Dal Popolo Saharawi è considerato un eroe indimenticabile, uno strenuo combattente (senza armi) per la difesa dell’indipendenza Saharawi, uno dei più intelligenti e semplici rappresentanti di questo piccolo popolo. “Vedo il futuro con molto ottimismo” era solito dire; ma anche “In nessun momento la causa dovrà sparire con la scomparsa degli uomini”. Era nato 57 anni fa a El Aiun, oggi nei Territori Occupati; era sposato e padre di tre figlie. Al momento della morte era Presidente del Parlamento. È stato co-fondatore tra le altre cose e primo Segretario Generale del Polisario, ha occupato alte cariche di Governo. Da primo Ministro della Rasd era capo delegazione nelle negoziazioni col Marocco alle Nazioni Unite: uomo onesto e negoziatore saggio. Era considerato uno dei più eminenti politici africani degli ultimi decenni (veniva paragonato a Nelson Mandela). Non è mai appartenuto all’ala militare del Polisario e il suo prestigio e la sua autorità erano riconosciuti da tutti.
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I pirati somali
Sono circa 30mila le imbarcazioni che ogni anno attraversano il Golfo di Aden e 406 gli attacchi di pirateria avvenuti nel 2009. Sono i dati dell’Organizzazione Marittima Internazionale che denuncia anche il fatto che i pirati colpiscono prevalentemente sulla costa Orientale dell’Africa. Sono 30 le navi da guerra della flotta dell’Unione Europea e di altri Paesi che pattugliano quest’area dell’Oceano Indiano proprio per proteggere le navi di passaggio dagli attacchi pirati. Delle migliaia di navi attaccate negli ultimi anni molte sono state catturate insieme ai loro equipaggi. Per il loro rilascio i pirati somali hanno poi preteso il pagamento di un riscatto. Una contropartita a cui mai vi hanno rinunciato anche a costo di tenere in ostaggio nave e marittimi per mesi. Anche una nave italiana ha vissuto questa esperienza. Si tratta del rimorchiatore italiano Buccaneer. La nave venne catturata nel golfo di Aden l’11 aprile 2009 e rilasciata solo il 9 agosto dello stesso anno. A bordo vi erano 16 marittimi dei quali 10 italiani. Ufficialmente la nave venne liberata grazie ad un laborioso lavoro diplomatico. Per molti invece, compreso i pirati, venne pagato un riscatto milionario. La Farnesina e la compagnia proprietaria del Battello hanno sempre smentito che sia stato pagato un riscatto. I dati, forniti dalla World Peace Foundation, parlano di un affare, quello piratesco, di 100milioni di dollari solo nell’ultimo anno.
Sul piano militare l’esercito etiope continua a mantenere una presenza a Mogadiscio. Ma questa situazione contribuisce ad alimentare tensione e motivi di scontro. L’Etiopia è da sempre considerato lo stato nemico numero uno per la Somalia per via della regione dell’Ogaden. Anche l’esercito americano interviene direttamente nel conflitto a sostegno dei governativi perché teme una islamizzazione somala e un controllo jihadista nella regione che possa alimentare anche le basi internazionali di alQaeda. L’Unione Africana approva l’invio di una missione chiamata Amisom (African Mission to Somalia) incaricata di controllare la capitale dal ritorno delle milizie islamiche. I primi ad inviare un proprio contingente in Somalia sono gli ugandesi, arriveranno poi i burundesi e lasceranno invece il territorio somalo i militari etiopi. Alla fine del 2008, il 29 dicembre, il presidente Abdullahi Yusuf Ahamed rassegna le sue dimissioni motivandole con l’impossibilità di portare la Somalia in una fase di pacificazione ed accordo tra le parti e criticando inoltre la Comunità Internazionale per il mancato sostegno economico, senza il quale non sarebbe stato possibile formare un esercito in grado di fronteggiare le Corti Islamiche e gli altri gruppi che si contendono il potere. Viene sostituito da Sheikh Sharif Sheikh Ahmed eletto capo del Governo Federale di Transizione il 31 gennaio 2009, leader di una fazione moderata dell’Unione delle Corti Islamiche. Poco dopo Omar Abdirashid Ali Shermarke diviene primo ministro. La storia dell’ultimo anno non porta grandi cambiamenti se non un aumento di attentati, attacchi, scontri con un aumento crescente del numero delle vittime molte fra i civili. Il controllo del territorio è sempre più nelle mani di Al Shabab e degli altri gruppi islamisti. La stessa Mogadiscio è solo parzialmente sotto il controllo militare del Tfg e del contingente Amisom. Nel settembre 2010 si dimette Shermarke dopo mesi di polemica con il Presidente e altri gruppi clanici in parlamento tolgono il loro appoggio politico a Sheikh Sharif Sheikh Ahmed che rinforza la richiesta d’intervento della Comunità Internazionale contro i diversi gruppi fondamentalisti denunciando la volontà di questi di costituire in Somalia una importante base di al-Qaeda.
SOMALIA
Generalità Nome completo:
Somalia
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Somalo, arabo, italiano, inglese
Capitale:
Mogadiscio
Popolazione:
10.700.000
Area:
637.661 Kmq
Religioni:
Musulmana (99%)
Moneta:
Scellino somalo
Principali esportazioni:
Banane, bestiame, pellame e pelli, mirra, pesce
PIL pro capite:
Us 600
L’eterno conflitto che si combatte in Somalia è certamente influenzato anche dalla forte instabilità che caratterizza l’intera Regione del Corno D’Africa. La vicina Etiopia, guidata da un Governo cristiano e circondata da Paesi musulmani, non ha esitato ad invadere la Somalia. Le truppe etiopi sono entrate a Mogadiscio nel 2006 per contrastare le Corti Islamiche ed evitare la nascita di uno Stato islamico in Somalia. Gli stessi Stati Uniti hanno bombardato più volte il territorio somalo considerato da Washington una base ideale per i terroristi islamici. A
questo va aggiunto il dramma di quella che molti definiscono come una vera e propria “economia di guerra” e che è costantemente alimentata da gruppi armati e potentati locali che da una simile instabilità, ormai al limite del collasso, traggono enormi profitti grazie anche a traffici illegali di armi e rifiuti. Un Paese caratterizzato da una drammatica frammentazione politica, economica e sociale, subita prima di tutto dalla popolazione civile somala, stremata da quella che l’Onu continua a definire come “la peggiore crisi umanitaria al mondo”.
Per cosa si combatte
L’unico Paese al mondo che da quasi 20 anni vive in una situazione di conflitto continuo e senza una vera autorità nazionale che abbia il controllo del territorio, quel Paese è la Somalia. Volendo datare un inizio a questa situazione di conflitto permanente dobbiamo rifarci alla caduta del dittatore Siad Barre, destituito il 26 gennaio 1991. Quella che doveva essere la fine di un regime dittatoriale si è trasformata presto in una guerra fra le più lunghe e cruente dell’Africa. Per la presa del potere, i diversi clan somali si sono contesi e suddivisi il territorio e il controllo su di esso a colpi di Kalashnikov e di Tecnica, l’arma somala per eccellenza, il mitragliatore montato sul cassone aperto del Toyota Pick-Up. In realtà non è che prima del 1991 la Somalia avesse conosciuto lunghi periodi di pace. Dalla proclamazione dell’indipendenza del primo luglio 1960, che vede l’unificazione della Somalia dell’amministrazione fiduciaria italiana (19501960) e del Somaliland protettorato britannico, per nove anni aveva visto un Governo della Repubblica Somala legittimamente eletto. Nel 1969 Siad Barre con un colpo di stato pren-
de il potere ed instaura il suo regime. Nel 1977 Barre muove guerra contro l’Etiopia per la regione dell’Ogaden, regione etiope con alta presenza di popolazione somala da sempre rivendicata dalla Somalia. Il regime interno è poco tollerato, gli scontri aumentano e dal 1980 assumono il profilo di una vera e propria guerra civile. La regione del Somaliland (ex Somalia britannica unificata nel 1960 nella Repubblica Somala) rivendica una propria autonomia fino ad arrivare alla autoproclamazione d’indipendenza del 18 maggio 1991. Molti oppositori al regime di Siad Barre vengono arrestati ed incarcerati, altri esiliati ed altri scappano di propria iniziativa. Dopo la caduta del regime di Siad Barre e lo scoppio degli scontri interni, la Comunità Internazionale decise di intervenire con l’invio di una missione Onu, la Unosom. Obiettivo della missione, nota anche come “Retore Hope”, era quello di creare un margine di sicurezza per l’invio di aiuti umanitari per la popolazione civile vittima da sempre dei conflitti somali. Ma la districata situazione di controllo del territorio da parte dei signori della guerra, principalmente dei due grandi oppositori di quegli anni, Ali
Quadro generale
I Clan somali
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In Somalia esiste una ampia omogeneità etnica. La grande maggioranza della popolazione infatti è di etnia somala. Tuttavia all’interno del popolo somalo la suddivisione clanica è di grande importanza. È sufficiente pensare che la composizione dei diversi parlamenti espressi nel tempo dai molteplici processi di pace, sono sempre stati composti su base dei clan di appartenenza. Anche nella vita politica e nel controllo territoriale l’appartenenza clanica è di grande importanza. I clan, di identità familiare, sono patrilineari e spesso sono suddivisi in sotto-clan e sotto-sotto-clan. La società somala è etnicamente endogamica. I matrimoni possono diventare occasione di alleanza fra gruppi di sotto-clan diversi o anche proprio fra clan differenti. I principale clan somali sono: Darod, Dir, Hawiye, Isaaq, Rahanweyn, Meheri
Sheikh Sharif Sheikh Ahmed
È il 7° Presidente della Somalia eletto il 31 gennaio 2009 dopo le dimissioni di Abdullahi Yusuf Ahamed. Durante il periodo di controllo di Mogadiscio da parte delle Corti Islamiche, Sheikh Ahmed ne incarnava l’anima più moderata come capo della Unione delle Corti Islamiche (Icu). Parla il somalo e l’arabo. È un Abgal, sottoclan di uno dei clan più numerosi della Somalia, quello Hawiye. Dopo gli studi all’estero e il suo rientro in Somalia, Ahmed viene coinvolto nell’Unione delle Corti Islamiche e viene eletto a capo di un piccolo tribunale locale a Jowhar. Fra i suoi più stretti amici e alleati c’è lo sceicco Hassan Dahir Aweys, uno dei fondatori dell’Unione (Icu) e Aden Hashi Farah “Eyrow” che ha combattuto in Afghanistan nel 2001 e che secondo Washington ha collegamenti con al-Qaeda. Il 28 dicembre 2006, dopo solo sei mesi di potere delle Corti Islamiche a Mogadiscio, l’esercito etiope con il Tfg conquista Mogadiscio. Ahmed fugge in Kenya dove rimane sotto la protezione delle autorità. Rilasciato a febbraio 2007 raggiunge altri componenti dell’Unione delle Corti in Yemen. Partecipa ai lavori della conferenza di pace di Gibuti a inizio 2009 dal quale esce eletto Presidente il giorno 31 gennaio.
Madi da una parte e il generale Aidid dall’altra, conducono la missione Onu ad un fallimento simbolicamente identificato con la battaglia di Mogadiscio e l’abbattimento dell’elicottero americano Black Hawk. La Unosom si ritira nei primi mesi del 1994 a due anni dal suo primo invio. Anche l’Italia era presente in Somalia con la missione Ibis che si ritira il 20 marzo 1994, lo stesso giorno in cui vengono barbaramente assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Gli anni successivi sono caratterizzati da una sempre maggiore frammentazione del territorio da parte dei sempre crescenti “lord war”. In questi anni la Somalia è anche la vera terra di nessuno, inesistenza di controlli frontalieri, una frammentazione territoriale e clanica gestita dal solo controllo delle armi. Questa situazione consente lo svolgimento di traffici illeciti, rifiuti dispersi in mare e sotterrati nel deserto somalo in cambio di armi, fino alla formazione di veri campi di addestramento della milizia jihadista. Intanto i diversi clan e i molti signori della guerra, sollecitati dalla Comunità Internazionale e dall’Unione Africana, si incontrano cercando di trovare l’accordo. Molte le conferenze di pace messe in atto, ma ogni volta si concludono con un nulla di fatto. Bisogna aspettare il 2004 per vedere, a conclusione della quattordicesima conferenza di pacificazione, la nomina di un Parlamento di Transizione che elegge presidente Abdullahi Yusuf Ahmed e un Governo Federale di Transizione (Tfg) che dopo un primo periodo di attività da Nairobi, a giugno 2005 entra in Somalia. Mogadiscio però è considerata ancora troppo pericolosa e nelle mani dei diversi “lord war” così il Governo di Transizione risiede per un periodo a Johwar e poi a Baidoa.
I PROTAGONISTI
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(Shabeellaha Dhexe, 25 luglio 1964)
Nell’estate 2006 gli scontri iniziati dentro Mogadiscio fra i lord war e le milizie jihadiste somale portano queste ultime, controllate dalle Corti Islamiche, a scacciare i signori della guerra e a prendere il controllo della città. Da Mogadiscio poco alla volta le Corti Islamiche prendono il controllo di buona parte della zona Sud della Somalia fino ad arrivare alle porte di Baidoa, la città di residenza e controllo del Tfg che nel frattempo aveva ottenuto la tutela dell’Onu e l’appoggio militare dell’Etiopia. Da Baidoa riparte l’offensiva governativa che con il determinante intervento dell’esercito etiope e il sostegno dei militari della regione del Puntland, rispondono al tentativo delle Corti di conquistare Baidoa, con un attacco senza precedenti che porta in pochissimo tempo alla conquista di Mogadiscio. Il Tfg ottiene così ufficialmente il controllo di Mogadiscio, ma nei fatti ha inizio un lungo periodo, che sussiste ancora oggi, di continui attentati da parte dei fondamentalisti islamici, attacchi ai palazzi della Presidenza e del Governo. Numerose le vittime civili e decine di migliaia gli sfollati. La situazione umanitaria è di vera emergenza.
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Per i profughi nulla è cambiato
Il campo-sfollati di Nyala, nel Darfur, continua ad essere il più grande del mondo. E le condizioni di vita di questi come di tutti gli altri profughi darfuriani continuano ad essere spaventose. Mentre si trascinano stancamente le trattative di pace, la realtà della popolazione civile resta di miseria e violenza quotidiana. Nei soli due mesi di maggio e giugno 2010 vi sono stati oltre 800 morti, in Darfur. In luglio nuovi scontri fra esercito governativo e ribelli del Jem (il maggiore gruppo ribelle) hanno provocato altre centinaia di vittime. La situazione rimane esplosiva. Non solo per le condizioni estreme in cui vive la gente, ma anche perché sia il regime sudanese che i ribelli mettono in atto una strategia di pressione, fatta di reti spionistiche, infiltrazioni nei campi e intimidazioni verso i leader degli sfollati sospettati di contiguità coi ribelli o di collaborazionismo col Governo di Khartoum.
In questa fase storica, nonostante le tante tensioni e le contraddizioni irrisolte che attanagliano questo enorme Paese, sono in vigore diversi accordi di pace: quello fra Governo e Slpm (Sud-Sudan) siglato nel 2005; quello con il Fronte dell’Est, il raggruppamento delle fazioni ribelli del Sudan Orientale, firmato nel 2006. Quanto al Darfur, dopo il cessate-il-fuoco sottoscritto col Governo dal maggiore gruppo ribelle politico-militare (nello stesso 2006), sono continuate le trattative - a singhiozzo - anche con gli altri gruppi armati. I colloqui di pace sono in corso a Doha, nel Qatar. L’ultima novità, nel maggio 2010, è stata l’abbandono del tavolo delle trattative da parte del Jem (Movimento Giustizia e Libertà). La situazione rimane molto instabile. Nel corso del 2010 ci sono stati più di un migliaio di morti dovuti a scontri e scaramucce fra etnie rivali e fazioni armate. Le elezioni - previste dagli accordi di pace, ma svoltesi nell’aprile 2010 con molti mesi di ritardo sui tempi fissati - hanno confermato il Presidente del Governo centrale Omar Hassan El Bashir (che ha vinto col 69% dei voti) e anche il Presidente della regione semiautonoma del Sud Sudan, Salva Kiir, col 93% dei consensi. Il Paese, attraverso questa prima elezione multipartitica da 24 anni, oltre ai presidenti, ha eletto i membri dei Parlamenti (centrale e del Sud) e 25 governatori. Peraltro, non sono mancate le contestazioni del voto con accuse di brogli elettorali e intimidazioni nei confronti dell’opposizione. Le associazioni per la tutela dei diritti umani hanno segnalato episodi ripetuti di brutale repressione, violenze verso gli oppositori politici e arresti nei confronti di numerosi giornalisti. Nel luglio del 2010 la Corte Penale Internazionale ha spiccato un secondo mandato di arresto nei confronti di El Bashir (dopo quello emesso l’anno precedente, nel marzo 2009). Si tratta dell’unico caso al mondo di un Presidente in carica (e rieletto) incriminato per genocidio, gravi violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e contro l’umanità. Ora il Paese si prepara all’appuntamento più delicato: il referendum, fissato per gennaio
SUDAN
Generalità Nome completo:
Repubblica del Sudan
Bandiera
Lingue principali:
Arabo, i diversi gruppi etnici parlano oltre 400 lingue locali, inglese
Capitale:
Khartoum
Popolazione:
42.000.000
Area:
2.505.810 Kmq
Religioni:
Musulmani (60%, predominanti fra arabi e nuba, nelle regioni del Centro-Nord), cattolici (15,5%), arabi cristiani (1%), aderenti a religioni tradizionali (23,5%)
Moneta:
Sterlina sudanese
Principali esportazioni:
Petrolio e prodotti petroliferi, cotone, sesamo, arachidi, gomma arabica, zucchero, bestiame
PIL pro capite:
Us 2.309
2011, col quale le regioni meridionali del Paese devono decidere se rimanere federate al resto del Paese o realizzare la secessione. L’approssimarsi del voto, com’era prevedibile, sta facendo crescere la tensione nel grande Paese africano.
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
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I diversi focolai di guerra civile che hanno ripetutamente scosso il Sudan e impoverito tremendamente la sua popolazione (oltre l’80% vive sotto la soglia di povertà) hanno avuto origini diverse: il conflitto Nord-Sud si è acceso nel 1983 per via della decisione del Governo centrale di imporre la sharia anche nelle Regioni non islamizzate nel Paese. Quella lunga guerra poi si è via via trasformata in un conflitto per le risorse, prima fra tutte il
petrolio. Gli altri episodi di ribellione armata (nel Darfur, nei Nuba, nell’Est Sudan) sono nati invece soprattutto per le condizioni di emarginazione e di estrema povertà in cui queste Regioni “dimenticate” si sono sempre trovate a vivere. I gruppi ribelli chiedono sviluppo, investimenti, maggiore autonomia dal Governo centrale, e di non essere esclusi dalla ricca “torta” dei proventi derivanti dalle concessioni petrolifere.
Per cosa si combatte
Il Darfur, che si trova nella parte Occidentale dell’immenso Sudan (è il secondo Paese del continente africano per dimensione), è ormai da anni una delle aree di crisi più acuta del pianeta. La questione scoppia nel febbraio del 2003: il Governo arabo e islamico di Khartoum (la capitale) stava in quel momento tentando di definire l’accordo di pace con l’Splm, il Movimento di Liberazione del popolo sudanese, dopo quasi 20 anni di guerra civile fra Nord e Sud Sudan. È in quei frangenti che nel Darfur - l’area più povera del poverissimo Sudan - prende l’avvio un movimento di ribellione armata che chiedeva attenzione da parte del Governo centrale dopo decenni di trascuratezza, marginalizzazione e sottosviluppo. L’accendersi della ribellione è però l’occasione da parte del Governo guidato da Hassan El Bashir non solo di scatenare una violenta repressione verso le popolazioni non arabe e indigene della Regione, ma anche di armare i gruppi nomadi di origine araba, divenuti noti poi col nome di Janjaweed, innescando una feroce serie di scontri e scorribande fra questi guerrieri nomadi a cavallo e le popolazioni non arabe e stanziali. È l’inizio di una guerra civile fra le più sanguinose e violente vissute in Africa: in un paio d’anni sono centinaia i villaggi bruciati e rasi al suolo,
con gli abitanti costretti a fuggire, a espatriare verso i campi profughi del Ciad o ad accamparsi negli smisurati campi sfollati interno allo stesso Darfur. La stima è che il conflitto abbia provocato oltre 300mila vittime e 3milioni di profughi (dei quali 200mila rifugiati in Ciad e il resto nei campi sfollati all’interno del territorio sudanese), su una popolazione totale della regione di 8milioni di abitanti. L’elenco delle violazioni dei diritti umani commesse in Darfur è impressionante: massacri, stupri sistematici, vessazioni di ogni genere, incursioni nei campi sfollati, eccidi indiscriminati di civili. Il sistema utilizzato è di fatto il medesimo della precedente guerra ventennale con la popolazione africana del Sud del Paese: affiancare alla usuale repressione dell’esercito l’azione di gruppi paramilitari che lo stesso Governo ha armato, allo scopo di creare una sorta di azione a tenaglia. Le azioni di guerra e gli scontri sono andati avanti intensamente fino a maggio 2006, quando la principale fazione ribelle (Slm/a, Movimento per la liberazione del Sudan) sottoscrisse col Governo un accordo di pace. Da allora continua il conflitto “a bassa intensità”, a fasi alterne fra riprese delle trattative di pace e nuovi momenti di tensione. L’emergenza umanitaria, invece, è rimasta costantemente drammatica: in Darfur vi sono an-
Quadro generale
Il referendum. E poi?
Nel Sud Sudan tutti attendono la fatidica data: in gennaio 2011 si vota per rimanere uniti al Nord o per la secessione. E tutti sanno, in Sudan come nella Comunità Internazionale, che con ogni probabilità vinceranno i separatisti. Nessuno sa invece cosa accadrà dal giorno dopo. Il Governo centrale e quello del Sud non sono nemmeno riusciti a stabilire quale sarebbe la linea di frontiera. E non è difficile immaginare la ragione: la maggior parte dei pozzi di greggio - attuali e futuri - si trova nell’area a cavallo tra Nord e Sud. Per cui ci sono molte aree contese, tra cui l’intero Stato di Abyei. Inoltre, manca un accordo chiaro sulla gestione delle risorse petrolifere. Quindi? Secondo gli osservatori il rischio di un nuovo conflitto è alto. Anche per il fatto che in quest’ultimo paio d’anni il Governo transitorio del Sud Sudan si è prodigato a riempire gli arsenali.
Hassan El Bashir
(Hosh Bannaga, 1 gennaio 1944)
Dopo una guerra
Cosa resta del Sudan? La domanda non è retorica, riguardo a questo martoriato Paese. Sommando le vittime stimate dei diversi conflitti civili sudanesi si arriva all’impressionante cifra di 2milioni e mezzo di morti. Tra profughi e sfollati si superano i 6milioni, molti dei quali vivono ormai da dieci, quindici o più anni da “rifugiati permanenti” in Ciad, Kenya, Etiopia e, in misura minore, negli altri Paesi confinanti. A causa delle guerre, specie di quella ventennale fra Nord e Sud, è stata perduta di fatto un’intera generazione. I dati sulla povertà sono catastrofici: l’analfabetismo è al 30%, la mortalità infantile sotto i 5 anni al 91 per mille, un terzo della popolazione ha accesso ai servizi sanitari, il 30% della popolazione non può usufruire di acqua potabile. La disoccupazione, infine, è al 19%.
cora i campi sfollati più grandi del mondo e il Programma Alimentare Mondiale dell’Onu, dal 2006 in poi, ha continuato a indicare la crisi del Darfur come la più grave del pianeta, insieme a quella somala. Quest’ultima fase di guerra civile del resto va ad aggiungersi a una storia tardo coloniale e post-coloniale del Paese africano nella quale la stabilità e la pace non ci sono mai state. Dagli anni ‘50 è stato un continuo susseguirsi di colpi di stato e di giunte militari. Anche l’attuale presidente, Omar El Bashir, che guida il Paese dal 1989, è salito al potere con un golpe. Altrettanto costanti nel tempo sono state le tensioni e gli scontri armati fra il Nord del Paese arabo e islamizzato e il Sud africano e cristiano-animista. La fase bellica più lunga e cruenta è stata sicuramente la guerra combattuta fra il 1983 e il 2003: per 20 anni diversi gruppi ribelli (guidati dalla più importante delle fazioni, l’SplaEsercito di Liberazione del Popolo Sudanese) si sono battuti per ottenere l’indipendenza dal Nord. Quello che non hanno ottenuto le armi, poi, l’ha fatto il petrolio: il bisogno crescente di greggio ha portato la Comunità Internazionale
I PROTAGONISTI
(Stati Uniti in testa) a moltiplicare le pressioni per il raggiungimento della pace, anche perché la maggior parte dei giacimenti si trova nella zona di confine fra le regioni a prevalenza arabo-musulmana e il Sud del Paese. La trattativa più lunga, infatti, nell’ambito dell’accordo di pace fra Nord e Sud Sudan, è stata quella sulla divisione dei proventi derivanti dalle concessioni petrolifere. L’accordo del 2003 ha previsto tuttavia anche una serie di tappe verso la democratizzazione del Paese. Tappe che, pur fra molte tensioni, ritardi e difficoltà, sono state finora rispettate: nell’aprile 2010 si sono svolte - come previsto - le elezioni, le prime multipartitiche dal 1986. Nel gennaio 2011 è fissato il referendum, nel quale la popolazione del Sud Sudan dovrà scegliere fra il rimanere parte dello Stato federale del Sudan o l’indipendenza totale. Due sono i fattori che stanno trasformando profondamente gli equilibri politici ed economici del Paese negli ultimi anni: da un lato lo sviluppo vertiginoso della sua industria petrolifera (il greggio costituisce ormai l’80% delle esportazioni); dall’altro il fatto che la Cina si è accaparrata la gran parte del petrolio estratto, diventando ormai da qualche anno il primo partner commerciale del Sudan.
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In barba ai mandati di cattura del Tribunale Penale Internazionale (Tpi) Hassan El Bashir si appresta a governare per altri 5 anni. Ha vinto le (dubbie) elezioni dell’aprile 2010 col 69% dei voti, con punte di consenso dell’85% in alcune regioni del Nord. El Bashir è a capo del Sudan dal 1989, quando conquistò il potere con un golpe. Ha governato da sempre col pugno di ferro, arrestando gli oppositori e spegnendo nel sangue le rivolte scoppiate negli anni nel Paese, compreso il Darfur. Nel marzo 2009, però, proprio per i fatti del Darfur, El Bashir è stato incriminato dal Tpi per crimini di guerra e contro l’umanità. Nel luglio 2010 il Tribunale ha spiccato un secondo mandato di cattura per genocidio. Nonostante ciò il Presidente sudanese continua a godere dell’appoggio di Cina, Russia e di molti Paesi africani. Le accuse del Tpi parlano di prove della responsabilità diretta nel massacro di 35mila persone, oltre alla lunga lista di violazioni dei diritti umani. Ma i suoi “difensori” - Cina in testa, primo partner commerciale del Sudan e acquirente del suo petrolio - parlano di “gestione politica” della Corte Internazionale, che accusa il Governo sudanese ma ignora i crimini commessi dai Paesi occidentali in Iraq e in Afghanistan.
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Violenza contro le donne
La violenza di genere in Uganda ha raggiunto un livello di grave allarme. A denunciarlo è Amnesty International che parla di un picco di violenze, anche domestiche, contro le donne e di una generalizzata impunità dei responsabili. La situazione non sembra migliorare nonostante la recente approvazione da parte del parlamento di un progetto di legge che rende illegali le mutilazioni genitali femminili stabilendo pene per i responsabili e misure di protezione per le vittime.
Nonostante i notevoli passi avanti, sia in termini economici che di stabilità interna, l’Uganda deve ancora affrontare molti problemi politici e di sicurezza interna. Nel suo Rapporto annuale del 2010, Amnesty International definisce “scarsi” i progressi del Paese nell’attuazione degli accordi raggiunti nell’ambito del processo di pace del 2008 e nonostante una situazione generalmente definita “calma”, a preoccupare è la stabilità politica dell’intera regione (legata soprattutto al destino di altri Paesi: Repubblica Democratica del Congo, Sudan e Repubblica Centrafricana) e soprattutto l’inadeguatezza delle autorità ugandesi nell’indagare e perseguire le gravi violazioni dei diritti umani, commesse durante i vent’anni di guerra civile scatenata dai ribelli dell’Lra (Lord’s Resistance Army o Esercito di Resistenza del Signore), che continuano ancora oggi a terrorizzare le popolazioni dei Paesi vicini. Nel mese di ottobre del 2010, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha denunciato l’inasprimento della ‘’campagna di terrore’’ da parte dei ribelli ugandesi del Lord’s Resistance Army contro i civili nella Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo (Rdc) e Sud Sudan. I dati diffusi dall’Unhcr sono drammatici. Dal dicembre 2008, e nonostante gli accordi raggiunti per il processo di pace, il Lra ha assassinato 2mila persone, ne ha rapite oltre 2600 e ha causato 400mila sfollati. Solo nel 2010 i ribelli dell’Esercito del Signore hanno sferrato oltre 240 attacchi mortali. Almeno 344 persone sono state uccise. Si tratta soprattutto di civili inermi sottoposti ad atrocità di ogni tipo. Una scia di sangue che non si è interrotta neanche con l’intervento della Corte Penale Internazionale che ha spiccato quattro mandati di cattura internazionale contro alcuni ribelli dell’Lra, compreso il sanguinario leader Joseph Kony. In una situazione già così drammatica le autorità ugandesi devono affrontare anche il rischio rappresentato dal terrorismo di matrice isla-
UGANDA
Generalità Nome completo:
Repubblica di Uganda
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Inglese, Swahili
Capitale:
Kampala
Popolazione:
25.800.000
Area:
241.040 Kmq
Religioni:
Cattolica, protestante, animista, musulmana
Moneta:
Scellino Ugandese
Principali esportazioni:
Quasi nulle, se si eccettua il caffè
PIL pro capite:
Us 1.501
mica. Nel luglio del 2010 un duplice attentato nella capitale Kampala ha causato la morte di 74 persone e il ferimento di decine di altre. Una delle bombe è esplosa nell’Ethiopian Village, un ristorante etiope in un quartiere meridionale della città. L’altro, in cui hanno perso la vita la maggior parte delle vittime, ha colpito il Lugogo Rugby Club, nella parte orientale della capitale. Secondo il Governo l’attacco sarebbe opera delle milizie islamiche radicali somale al-Shabaab, che già in passato avevano minacciato di colpire l’Uganda come rappresaglia per la partecipazione di truppe ugandesi alla forza di pace dell’Unione Africana a Mogadiscio.
Le ragioni dello scontro in Uganda non sono chiare. Certo, come sempre alla base c’è la volontà di controllare le risorse del Paese. Joseph Kony, capo dell’Lra sostiene però di aver preso le armi per difendere i diritti della popolazione Acholi, che abita i distretti settentrionali dell’Ugana. Ipotesi, questa, in netta contraddi-
zione con i fatti: sino ad oggi, le peggiori atrocità commesse dai ribelli hanno avuto proprio gli Acholi come vittime. Di fatto, appoggiato a lungo dal Sudan, Kony sta combattendo da vent’anni, mettendo in ginocchio l’economia ugandese e facendo colassare le strutture sociali e istituzionali.
Per cosa si combatte
Gli investimenti libici
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“La Libia sarà il più importante investitore estero in Uganda”. A dichiararlo è stato l’ambasciatore libico a Kampala Abdalla Bujeldain. Tripoli è già al secondo posto tra gli investitori in Uganda con 375 milioni di dollari in otto società, tra cui Uganda Telecom, National Housing Corporation, Soluble Coffee Plant, Tropical Bank, lake Victoria Hotel e Tamoil East Africa. Scopo dell’interesse libico in Uganda è, come ha spiegato lo stesso ambasciatore, “la costruzione di un continente africano economicamente solido”.
Il destino dell’Uganda è simile a quello di molti altri Paesi africani: indipendenza, colpi di stato, guerre e nuovamente pace. Negli anni Cinquanta inizia il processo di democratizzazione che sfocia il 9 ottobre del 1962 nell’indipendenza. La Costituzione prevedeva un sistema semifederale, con sufficiente spazio per le elite poli-
tiche tradizionali. Ma gli equilibri si rompono rapidamente. La convivenza tra il re del Buganda, primo Presidente del Paese, e il suo primo ministro Milton Obote, un “lango” del Nord, dura poco. Nel 1996 Obote prende d’assalto il palazzo presidenziale. Inizia così una lunga serie di colpi di stato, di atrocità e di conflitti
Quadro generale
Esercito di Resistenza del Signore
Un sussidio per i più poveri
Nonostante le difficoltà economiche il Governo ugandese ha deciso di garantire, a partire dal 2011, un sussidio mensile per i cittadini che versano in una situazione di estrema povertà. Il provvedimento è solo l’inizio di un programma di sostegno alla popolazione in cinque anni per il quale il Governo ha stanziato 64milioni di dollari. Il direttore del dipartimento per la Protezione sociale del ministero per il Genere, il Lavoro e lo Sviluppo, George Bekunda, ha spiegato in conferenza stampa che oltre 600mila persone appartenenti a 95mila nuclei familiari beneficeranno del sussidio. L’assegno sarà garantito agli ultra sessantacinquenni e alle famiglie più vulnerabili, con orfani o disabili a carico. 79
L’Esercito di Resistenza del Signore (o Lord’s Resistance Army - LRA), costituito nel 1987, è un gruppo di guerriglieri di matrice cristiana, che opera nel Nord dell’Uganda, in alcune parti del Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo. Il leader del gruppo è Joseph Kony (nella foto), che si proclama il “portavoce” di Dio. Lo scopo dichiarato del gruppo ribelle - che dall’anno della sua costituzione imperversa in Uganda e nei Paesi limitrofi compiendo atrocità di ogni tipo: omicidi sommari, saccheggi, stupri, abusi su minori, utilizzo di bambini soldato, mutilazioni - è quello di istituire uno stato teocratico secondo i dettami dei dieci comandamenti. Nel 2005 la Corte Penale Internazionale ha spiccato diversi mandati d’arresto, a carico di Kony e di tre comandanti, ma non sono stati attuati dal Governo ugandese né dai governi regionali. Il 12 novembre 2006 Kony ha incontrato un rappresentante dell’Onu per gli affari umanitari. Al termine dell’incontro Kony ha dichiarato all’agenzia Reuters: “Non abbiamo nessun bambino. Abbiamo solo combattenti”.
etnici. Idi Amin Dada, capo di stato maggiore dell’esercito di Obote, consolida sua posizione, che poi Usa contro lo stesso Presidente. Nel 1971 prende il potere e governa con mano pesante e con un utilizzo spietato dell’esercito. Il dittatore Amin teme il predominio degli alcholi e dei langi nell’esercito e così da vita a una delle più sanguinarie persecuzioni con uccisioni di massa. Nazionalizza le attività commerciali britanniche ed espelle la popolazione asiatica. Cresce, contemporaneamente, la tensione tra Uganda e Tanzania, rea di aver ospitato Obote e alla fine degli anni ’70 inizia la guerra ugandese-tanzaniana. Nel 1979 i tanzaniani, anche con il sostegno dell’Esercito di liberazione nazionale dell’Uganda (Unla), prendono la capitale Kampala e nel 1980 torna al potere Obote. Di nuovo vendette e atrocità. Yoweri Museveni, attuale Presidente dell’Uganda, fonda l’Esercito di resistenza nazionale (Nra) e inizia la guerriglia. Obote risponde con uccisioni di massa.
I PROTAGONISTI
La Croce Rossa, nel 1983, denuncia l’uccisione di 300mila persone. Tre anni di scontri che sfociano nella presa del potere da parte di Museveni. È del 1995 l’approvazione di una nuova Costituzione che rinvia al 2001 il passaggio al multipartitismo, avvenuto grazie a una consultazione referendaria nel 2005. Museveni viene eletto nel 1996, rieletto nel 2001. Nonostante il potere sia saldo nelle sue mani, il Presidente ugandese deve fare fronte a vent’anni di guerra civile combattuta contro Lra (Esercito del Signore) guidato dalla follia di Joseph Kony, che ha come obiettivo quello di prendere il potere e governare secondo i dieci comandamenti. Museveni interviene nella guerra della Repubblica democratica del Congo, nel 1996, prima a fianco di Laurent Desiré Kabila, in chiave anti Mobutu, e poi dal 1998 al 2003 appoggiando i gruppi ribelli del Paese. Grazie a una riforma costituzionale del 2005, Museveni viene rieletto per la terza volta nel 2006, anno in cui avvia i negoziati di pace con l’Lra. Alcune tensioni tra gli eserciti di Uganda e Repubblica democratica del Congo (Rdc) si sono registrate nel mese di dicembre 2009 nella località di Beni, nel Nord Kivu (Rdc), città al confine tra i due Paesi.
Inoltre Etiopia
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“Ogaden, Somaliland, Gibuti: i nomi di una guerra infinita per un Paese che è stato Impero”.
Il 10 settembre 2010 Radio Garowe dà la notizia che un gruppo di ribelli appartenenti al Fronte di liberazione nazionale dell’Ogaden (Onlf) è sbarcato lungo le coste del Somaliland, regione del Nord-Ovest della Somalia (autoproclamatasi indipendente all’inizio degli anni ‘90 e rimasta fuori dalla guerra civile somala). In 200, secondo le dichiarazioni del ministro dell’Interno della regione somala, i ribelli si sarebbero spostati in una zona collinare interna al confine tra Somalia, Eritrea e Gibuti. Dei 200 nessuna notizia. Così come nessuna ulteriore velina è stata inviata al mondo rispetto ai 100 soldati etiopi (esercito regolare) uccisi dagli stessi ribelli dell’Ogaden nell’ottobre del 2009. Allora la notizia non venne smentita nemmeno dal Governo uffiliale. È silenzio. Il silenzio può dirsi, infatti, la parola d’ordine di questa rivoluzione dei ribelli che chiede l’indipendenza da 20 anni e che dal 2007 ha alzato il tiro in una costante escalation di violenza. In questo contesto si alimenta un conflitto interno che mette a dura prova i civili con la costante e sistematica violazione dei diritti umani da parte di entrambe le parti: esercito regolare e ribelli. Nell’agosto del 2009 le autorità etiopi sospendono le attività di 42 organizzazioni non governative che lavorano nel Sud del Paese perché sospettate di ostacolare lo sviluppo del Paese. Nessuno però ha mai chiarito quali siano queste Ong (tra di loro Medici Senza Frontiere). Il vero problema è il coinvolgimento di queste associazioni nella denuncia delle violazioni dei diritti umani diventate all’ordine del giorno in Etiopia. Infatti la popolazione si ritrova a vivere in condizioni molto difficili soprattutto a causa delle guerre che il Paese porta avanti da ormai
trent’ anni. Il conflitto con l’Eritrea inizia nel 1952 quando l’Imperatore etiope Hailé Selassié la priva di ogni autonomia relegandola al ruolo di semplice provincia. Comincia così a crescere un forte movimento di resistenza nazionale che avrebbe condotto nei successivi decenni ad una lotta armata per l’indipendenza degenerata nel 1997 a causa del rifiuto dell’Eritrea di adottare il birr, la moneta etiope, e a causa della lotta per una esigua striscia di terra. Il conflitto con la Somalia, invece, affonda le sue radici nel 1954 quando con un accordo anglo etiope la Regione dell’Ogaden (di etnia somala situata nella parte orientale dell’Etiopia) passa interamente sotto la sovranità dell’ Etiopia, ma in seguito viene rivendicata da Siad Barre che si lancia nel progetto della Grande Somalia. Dopo continue guerriglie che provocano migliaia di vittime, nel 2007 gli scontri fanno registrare una nuova impennata di violenza con il Governo etiope deciso a spazzare via il Fronte di Liberazione Nazionale dell’Ogaden. Per tagliargli i rifornimenti l’esercito colpisce deliberatamente i civili, distruggendo villaggi e raccolti, uccidendo il bestiame ed eliminando chiunque sia sospettato di sostenere i ribelli costringendo migliaia di persone ad emigrare in Somalia. Da sottolineare che la genesi di queste guerre è stata facilitata anche dall’ instabile situazione politica che il Paese ha vissuto dopo la liberazione, per mano inglese, dal dominio italiano che ha permesso ad Hailé Selassié di prendere il potere che manterrà fino al settembre del 1974 quando il Derg, una giunta militare, lo depone creando un regime dittatoriale filosovietico con a capo Haile Mariam Menghistu. Viene costretto alla fuga nella primavera del 1991 quando i ribelli del Fronte Democratico entrano vittoriosamente nella capitale. Tre anni dopo viene eletta un’Assemblea Costituente. Nel 1995 le prime elezioni politiche fanno Primo Ministro Meles Zenawi.
Inoltre Madagascar “Rifiuta le mediazioni il Presidente che ha conquistato il potere mettendosi a capo dell’esercito”.
protagonisti della presa del potere del 2009 e l’ammutinamento della classe militare. Si tratta di dimissioni forzate che vennero viste con molta preoccupazione, annunciatrici, a detta degli analisti politici, di un golpe nel Paese. Intanto andavano avanti le manifestazioni di dissenso contro il potere vigente. E dire che gli accordi si erano presi. Lo scorso novembre, infatti, ad Addis Abeba si parlò di condivisione del potere. In quell’occasione si riunirono i quattro principali leader politici del Paese e un mediatore dell’Onu e si stabilì che sino alle elezioni (fine 2010) Rajoelina sarebbe stato affiancato, al potere, da due co-presidenti rappresentanti di altri paritti politici. Il Presidente golpista dovette fare buon viso a cattivo gioco visto che qualora non fosse arrivato all’accordo sarebbero andati in fumo 630milioni di euro di sostegno economico. Ma a giochi fatti nemmeno l’accordo è servito a fermarlo. Oggi, il Paese è tagliato fuori dagli scambi commericali, gli aiuti esteri sono scemati e il Madagascar è isolato su ogni fronte. Gli Stati Uniti lo hanno escluso dal African Growth and Opportunities Act (Agoa), e anche in Europa si sta pensando a misure simili. Il Madagascar non ha mai conosciuto una stabilità politica, motivo principale della povertà del Paese. Lo stesso Marc Ravalomanana era salito al potere nel 2001 dopo elezioni, che lo vedevano contrapposto al Presidente in carica Didier Ratsiraka, sfociate in scontri armati. Ad uscirne vittorioso fu Ravalomanana e Ratsiraka venne esiliato.
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Non c’è pace per il Madagascar. Protagonista in negativo della politica del Paese rimane il discutibile Andry Rajoelina che nel 2009 messosi a capo dell’esercito prese possesso del Governo con l’aiuto dei militari, costringendo alla fuga l’ex presidente Marc Ravalomanana. Si formò allora un nuovo Governo la quale legittimità non è mai stata riconosciuta dalle organizzazioni internazionali quali l’Onu, l’Unione Africana o l’Unione Europea. Da due anni ormai il Madagascar è attraversato da una profonda crisi. Nel marzo di quest’anno la giustizia della capitale, Antanarrivo (prima del golpe Rajoelina ne era sindaco), ha sentenziato l’ergastolo per Ravalomanana, responsabile, secondo l’accusa, della morte di trenta manifestanti nel corso degli scontri che rovesciarono il potere e lo costrinsero alla fuga in Sud Africa. Nonostante il Sud Africa si sia posto a capo delle trattative per arrivare alla pace la situazione non è migliorata. Anzi le azioni dell’Ua hanno scatenato ulteriormente le reazioni di Rajoelina. Al Presidente e ad altri 108 esponenti politici, infatti, l’Ua ha rifiutato i visti e congelato i beni in loro possesso (in banche straniere) decretando di fatto il loro isolamento diplomatico. La decisione dell’Unione è diretta conseguenza del rifiuto di Rajoelina di creare un nuovo Governo con il partito di opposizione negando l’accesso al potere dei tre ex presidenti che avrebbero, a parere dell’Ua, dovuto prender parte all’esecutivo. In questo modo, infatti si è registrata la mancata attuazione degli Accordi di Maputo atti a risolvere la crisi politica nazionale. L’ex presidente Ravalomanana, accusato di alto tradimento, ha dichiarato, che “le reazioni di Rajoelina dimostrano che le sanzioni stanno avendo il loro effetto. Intanto l’Ua sospende il Madagascar. La situazione continua ad essere tesa. Ad aprile, infatti, un nuovo avvenimento ha scosso la vita politica del Paese: Noël Rakotonandrasana, il ministro delle Forze armate del Madagascar viene destituito. Rakotonandrasana è considerato un fedelissimo di Andry Rajoelina tra i
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QUESTA PROIEZIONE EQUIVALENTE É BASATA SULLA RETE GEOGRAFICA DECIMALE DI ARNO PETERS. ESSA SPOSTA IL MERIDIANO ZERO SULLA LINEA RETTIFICATA DEL CAMBIAMENTO DI DATA - INDICATA CON IL PUNTEGGIO - E SUDDIVIDE LA SUPERFICIE TERRESTRE IN 100 RETTANGOLI LONGITUDINALI DI UGUALE LARGHEZZA E IN 100 RETTANGOLI LATITUDINALI DI UGUALE ALTEZZA. CON QUESTA PROIEZIONE SI OTTENGONO NELLA FASCIA EQUATORIALE RETTANGOLI VERTICALI CHE SI TRASFORMANO, AVVICINANDOSI AI POLI, IN QUADRATI E POI IN RETTANGOLI ORIZZONTALI. LE COORDINATE DELLA NUOVA RETE SI TROVANO AI MARGINI DELLA CARTA ACCANTO ALLE COORDINATE TRADIZIONALI.
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America Latina
Raffaele Crocco
Un continente che cresce con la Cina e Bolivar Bisogna ammettere che un piccolo brivido è corso lungo la schiena. La notizia del tentato golpe in Ecuador, il 30 settembre del 2010, ha portato per qualche ora indietro orologi e calendari, facendoci ripiombare negli anni in cui la democrazia era un frutto proibito a Sud del Texas. Qualche ora, tutto è durato solo qualche ora. Il Presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, ha respinto il tentativo di colpo di mano messo in piedi da parte dell’opposizione e dalla Polizia. L’esercito è rimasto fedele al Capo dello Stato, così come il Parlamento e tutto è rientrato. Segno che il cammino del Sud America, dopo i lunghi decenni delle dittature, è tracciato ed è chiaro, condiviso, forte. Il laboratorio Latino Americano funziona, magari con qualche contraddizione, con passaggi più o meno a vuoto, ma va avanti. In Brasile le elezioni del post Lula hanno dimostrato che la semina c’è stata ed è stata positiva, che il Brasile può e vuole essere democratico, tentando di mettere fine alla miseria senza impaurire imprenditori e conservatori. Argentina e Cile stanno uscendo
dalle rispettive crisi economiche e in Venezuela l’inarrestabile Chavez ha subito il primo ridimensionamento elettorale, cosa probabilmente utile alla democrazia del Paese. Le novità vere, però, nel 2010 sono arrivate dal “cambiamento internazionale” del continente, che ha deciso di non essere più il “giardino di casa” degli Stati Uniti. Colombia a parte - unico Paese rimasto legato agli Usa - il Sud America si è affrancato e il fenomeno pare irreversibile. I segnali sono precisi. Proviamo a leggerli. Partiamo da un numero: 400. Tanti sono gli accordi commerciali sottoscritti da Paesi del Sud America con la Cina negli ultimi tempi. Un numero altissimo, che da un lato porta a rapporti privilegiati fra i due mondi, dall’altro rappresenta una vera e propria sfida lanciata da Pechino a Washington, che sull’area vorrebbe mantenere il controllo. La Cina cresce in modo vertiginoso, ha bisogno di risorse e ha fame, perché un miliardo e duecentomilioni di bocche affamate sono difficili da accontentare. Il Sud America ha prodotti agricoli e petrolio, minerali, tutte cose che servono. Così, ora, il 3.8% di tutte le importazioni cinesi provengono proprio dal Sud America, con il picco del 13.1% delle importazioni di materie prime. Brasile, Messico, Cile, Argentina e Venezuela sono i principali partner commerciali della Cina, che è al terzo posto tra i clienti mondiali del Brasile e al quarto tra quelli dell’Argentina. L’economia, quindi, spinge il cambiamento, porta allo spostamento dell’asse nei rapporti internazionali. Sul piano della politica, invece, sono Venezuela, Bolivia ed Ecuador a tracciare la rotta, cioè i tre Paesi che più di altri si riconoscono nel progetto Bolivariano di un Sud America unito. Tutti naturalmente giocano la carta del controllo delle risorse, che sono tante, soprattutto se si parla di petrolio. Chavez, dal Venezuela, dice chiaramente di voler ridistribuire i proventi della vendita del petrolio. Il suo Paese è il più grande produttore del Sud America, con 87miliardi di barili l’anno dei 117miliardi prodotti dall’intero continente. I soldi che vengo dai pozzi, dice, non devono andare nelle tasche dei petrolieri nord americani, ma devono sollevare dalla miseria i venezuelani. La contraddizione di tutto questo è nel fatto che il petrolio venezuelano finisce ancora negli Stati Uniti, che sono il miglior cliente del Paese. Lui tira diritto e spaventa Washington. La sua idea - datata 2006 - di farsi pagare il petrolio in Euro e non più in dollari ha creato il panico negli Usa, dato che il cambio fra la moneta statunitense e quella europea è del tutto sfavorevole alla prima.
fe doganali e punta a creare una moneta unica - sul modello dell’Euro - entro il 2019. L’Unasur, mette assieme dodici stati dell’America del Sud, con Panama e Messico come osservatori. Lavora, fra le altre cose, alla proposta del Brasile di creare un South American Defense Council, cioè il Consiglio di Difesa dell’America Latina. Il Gruppo di Rio è invece un forum politico creato nel 1986, ed arrivato a mettere a confronto ben 22 Paesi dell’America Latina. Certo molto, moltissimo ancora non va. La Bolivia resta uno dei Paesi più poveri del mondo, battuta da Haiti, altro Paese del continente che pare dimenticato. Le oligarchie ancora imperano in Colombia, Guatemala, Honduras. E dove non sono i latifondisti a bloccare la democrazia, ci pensano i narcotrafficanti, in grado di controllare pezzi della politica e della polizia, come hanno dimostrato in Messico. Eppure, tutto si muove e cambia in Sud America. Tutto corre verso un miglioramento. Forse è solo un illusione. Ma crederci fa bene a tutto il Pianeta.
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In Ecuador il presidente Correa è andato nella stessa direzione. Ha costretto le multinazionali a pagare dei diritti molto più alti per lo sfruttamento dei giacimenti andini. Un colpo che non è stato gradito. In Ecuador, poi, si è scatenata una bagarre diplomatica che ha rischiato di portare ad un guerra con la Colombia. L’esercito colombiano, infatti, ha ucciso in territorio ecuadoriano il numero due delle Farc, cosa che ha portato ad una crisi grave fra i due Paesi, con una guerra sfiorata. E di crisi diplomatica dobbiamo parlare anche per la Bolivia, però direttamente nei confronti degli Stati Uniti. Il presidente Evo Morales, primo indigeno sud americano ad essere eletto, ha espulso l’ambasciatore degli Usa, accusandolo di fomentare, finanziare e ispirare i governatori delle regioni meridionali del Paese, istigandoli a chiedere l’indipendenza. Parliamo delle zone nelle regioni di Beni, Pando, Santa Cruz e Tarija, le più ricche del Paese, esattamente dove si trovano i ricchi giacimenti di gas naturale che fanno gola a molti. Il programma di Governo di Morales, basato sulla ridistribuzione della ricchezza, sull’emancipazione della popolazione più povera, non piace all’oligarchia boliviana, che tenta di tutto per ridimensionare il Presidente. Tutti, però, tirano diritto, vanno per la loro strada. I governi del continente puntano, magari in modo diverso, seguendo strade differenti, a migliorare le condizioni di vita dei loro cittadini, ad abbassare le soglie di povertà e ad alzare quelle di tutela sociale. Ci riescono ed è un risultato che solo dieci anni fa sembrava impossibile da raggiungere. A garantire tutto restano le tante organizzazioni nate per migliorare il rapporto fra gli Stati. Mercosur, Unasur e Gruppo di Rio continuano a traghettare il continente verso condizioni economiche e politiche migliori. Almeno ci provano. Il Mercosur , cioè il grande mercato comune organizzato da Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Venezuela continua ad abolire le tarif-
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La Unasud
La recente crisi diplomatica fra Colombia e Venezuela ha coinvolto la Unasud cioè l’Unione delle Nazioni Sudamericane, le cui sigle ufficiali sono 3, quante le lingue ufficiali del continente: Unasur (Unión de Naciones Suramericanas), Unasul (União de Nações Sul-Americanas), Uzan (Unie van Zuid-Amerikaanse Naties). È una Comunità politica ed economica costituita il 23 maggio 2008, sul modello dell’Unione Europea, con il trattato di Brasilia ed ha sostituito la vecchia organizzazione, la Csn (Comunità delle Nazioni del SudAmerica) creata a Cusco, in Perù, nel 2004. È formata da 12 Paesi, che si sono impegnati inoltre a eliminare tutti i dazi doganali per i prodotti comuni entro il 2014, a creare un Parlamento comune, una moneta comune e un passaporto unico entro il 2019 e a coordinare le politiche in campo agricolo, diplomatico, energetico, scientifico, culturale e sociale
È tornata ad essere fronte militare aperto la Colombia. Esercito e Farc (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) hanno lanciato continue offensive nel 2010, riprendendo uno scontro che sembrava sopito dalla voglia di trovare accordi. Non è così. Il nuovo Presidente colombiano, Juan Manuel Santos, ha vinto le elezioni il 30 maggio del 2010 annunciando una Terza Via di sviluppo per il Paese, detta di Accordo di Unità Nazionale, ancorata al centrosinistra. Il dialogo con le Farc, però, non si è avviato. Santos ha anzi annunciato di voler seguire la linea dura e sono ricominciati gli scontri. In settembre le battaglie più significative. Il 3 settembre, in un combattimento nei pressi di San Miguel, sono stati uccisi 8 agenti di polizia. Il 20 settembre, invece, 22 miliziani delle Farc sono stati uccisi. Ma il colpo più importante il Governo lo ha messo a segno il 23 settembre, al culmine di una offensiva denominata Fortaleza II, che ha visto impegnati 600 uomini e la forza aerea. Nella zona della Macarena, nel distretto del Meta, è stato ucciso Víctor Julio Suárez Rojas, capo militare delle Farc. La conferma è arrivata dai ministri degli Interni Germán Vargas e della Difesa, Rodrigo Rivera. Con lui dovrebbe essere morto anche Carlos Antonio Lozada, altro uomo chiave della guerriglia, capo di tutte le infiltrazioni delle Farc nell’esercito e negli apparati di Governo. Di questo non c’è però conferma. Sul piano politico internazionale, il presidente Santos ha cercato di gestire la partita dei rifugiati colombiani in Ecuador. Il Governo di Quito ritiene indispensabile che la Colombia si faccia carico delle migliaia di persone che sono fuggite oltre confine per effetto degli scontri fra esercito e Farc. Inoltre, nelle relazioni fra i due Paesi pesa ancora il bombardamento del 1 marzo 2008: nel tentativo di colpire i leader delle Farc, l’aviazione colombiana bombardò Angostura, città dell’Ecuador, causando 26 morti fra i civili. Altra grana è nei rapporti con il Venezuela, sempre più tesi. Durante gli otto anni di Governo di Alvaro Uribe, Bogotà aveva accusato il Presidente venezuelano Hugo Chavez di proteggere i guerriglieri delle Farc, di dare loro rifugio.
COLOMBIA
Generalità Nome completo:
Repubblica della Colombia
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Spagnolo
Capitale:
Bogotà
Popolazione:
45.900.000
Area:
1.141.748 Kmq
Religioni:
Cattolica (92%), protestante, animista ed altro (8%).
Moneta:
Peso Colombiano
Principali esportazioni:
Cocaina, caffè, carbone, smeraldi
PIL pro capite:
Us 7.560,5
La tensione fra i due Paesi è diventata tale da sfiorare una guerra, soprattutto dopo che la Colombia nel 2009 aveva concesso agli Stati Uniti una base militare per la lotta al narcotraffico, vera piaga del Paese. Nell’agosto del 2010 Hugo Chávez e Juan Manuel Santos hanno formalmente detto basta alle ostilità, firmando una accordo di pace e fratellanza fra Venezuela e Colombia in nome degli ideali bolivariani di un Sud America unito. L’unica incertezza è capire se l’attuale pace durerà davvero.
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Non è certo il controllo delle materie prime a spiegare le ragioni di una guerra interna vecchia mezzo secolo. La Colombia è dilaniata dal problema della distribuzione della ricchezza, che viene soprattutto dall’agricoltura e dalla gestione del potere. Non a caso, l’oligarchia del Paese è sostanzialmente agraria. Il 4% dei proprietari controllano il 67% dei terreni produttivi colombiani. In Colombia, poi, il reddito è distribuito in modo drammaticamente iniquo. Il Prodotto Interno Lordo è uno dei più alti del Sud America, con quasi 330000milioni di dollari, ma il 49% dei colombiani vive sotto la soglia di povertà.
Oggi la guerra civile viene combattuta soprattutto per il controllo o la distruzione delle vaste aree trasformate per la coltivazione della coca, vera ricchezza nazionale. Secondo le stime del Governo, i gruppi della guerriglia potevano contare sino a qualche tempo fa su 750milioni di introiti annui dal controllo del narcotraffico, cifra superata - sempre per le stesse ragioni - solo dagli incassi realizzati dei cartelli della droga di Medellín e di Cali. Proprio il narcotraffico è l’altra grande ragione di conflitto interno, con intere zone del Paese contese fra Governo, Farc e grandi organizzazioni di trafficanti.
Per cosa si combatte
Gli scontri del 2010 sono figli di più di sessant’anni di guerra interna, combattuta da narcotrafficanti, formazioni guerrigliere e esercito. In questi decenni ci sono stati presidenti conservatori e riformisti. Sono nati ben 36 diversi gruppi guerriglieri, fra cui le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) comandante per quasi 6 decenni da Manuel Marulanda, detto Tiro Fijo, morto nel 2007, poi l’Eln, cioè l’Esercito di Liberazione Nazionale e l’M-19, per citare le formazioni più famose. Si sono formati gruppi paramilitari - come il Mas (Morte ai sequestratori) - pagati dall’oligarchia agraria. Possiamo collocare una data di inizio più recente del conflitto: il 6 novembre 1985. Quel giorno, 35 guerriglieri dell’M-19 occuparono il palazzo di Giustizia di Bogotà. L’intervento dell’esercito provocò un massacro: oltre ai guerriglieri, morirono altre 53 persone, tra magistrati e civili. Di fatto, in Colombia il Governo centrale perde quel giorno il controllo del territorio. E se da un lato è la guerriglia ad assumerlo, dall’altro sono i narcotrafficanti, proprio a partire dalla metà degli anni ‘80, a proporsi come alternativa allo Stato. La guerra interna diventò così a tre - Stato, Guerriglia, Narcotraffico - con migliaia di morti. Vennero censiti almeno 140 gruppi paramilitari attivi sul territorio, quasi tutti finanziati dai narcotrafficanti.
Il Presidente liberale Cesar Gaviria, nel giugno del 1991 diede il via a Caracas a una serie di incontri con i rappresentanti della guerriglia, con l’obiettivo di raggiungere la pace. Il processo di pace non decollò, nonostante la nuova e più democratica Costituzione. Il Governo iniziò allora una “guerra totale” contro organizzazioni civili, gruppi ribelli e narcotraffico. Pablo Escobar Gaviria - capo del cartello di Medellín, potente organizzazione di narcotrafficanti - evaso intorno alla metà del 1992, ricominciò le azioni armate. In tutta risposta apparì, nel ‘93, il Pepes (Persecutori di Pablo Escobar), che uccise trenta esponenti del cartello in due mesi e distrusse varie proprietà di Escobar, ucciso a sua volta il 2 dicembre dalla polizia a Medellín. Farc e Eln iniziarono una serie di attacchi a centrali elettriche, impianti industriali, caserme iniziando la strategia dei rapimenti. Il Governo tentò da parte sua un attacco a fondo al narcotraffico, pur nelle contraddizioni che nascevano dalla corruzione di parte della politica. È un periodo durissimo. Nel 1995, vengono aperti 600 procedimenti contro le forze di sicurezza, in relazione a 1.338 casi di assassinio, tortura o sparizione. All’inizio del 1997, si stima che almeno un milione di colombiani fossero stati espulsi dalle loro abitazioni nelle zone di conflitto Nell’agosto del 2000 il presidente Pastrana
Quadro generale
Il dramma delle mine
Passano gli anni e il problema non solo resta, ma cresce. Parliamo di mine, perché poco conosciuto è il dramma che la Colombia vive. Le mine anti uomo sono disseminate in almeno 659 municipalità. A minare i terreni sono le Farc per proteggere le coltivazioni di coca. Delle 4.575 persone colpite dal 1990 a oggi, per l’Osservatorio per le mine almeno 1.600 erano civili e 476 erano bambini. I morti sono stati 1.125, dato questo che fa della Colombia il Paese al mondo con il maggior numero di vittime per mine anti-uomo, con dati statistici spesso ben al di sopra di Afghanistan e Cambogia.
Juan Manuel Santos
Giornalista, economista, politico, Juan Manuel Santos è diventato Presidente della Colombia nell’agosto del 2010, dopo un lungo percorso politico. Un destino quasi segnato, il suo, dato che la famiglia è tra le più importanti di Bogotà e che un prozio, Eduardo Santos Montejo è stato già Presidente del Paese. Lui, ha studiato negli Stati Uniti e nel 1972, tornato in Colombia, si è iscritto all’Ordine ei produttori di Caffé ed è diventato vicedirettore del giornale di famiglia “El Tiempo” Nel 1991 diventa senatore con il Partito Liberale. Nel 2002 fonda il Partito Sociale di Unità Nazionale (il Partito della U). Nel 2006 diventa Ministro delle Difesa nel secondo Governo Uribe e inizia una lotta feroce contro le Farc, ottenendo risultati sino ad allora inattesi sul piano militare. Due le operazioni più famose: Fenix, in cui viene ucciso il comandante Raul Reyes e l’Operazione Scacco, che porta alla liberazione - dopo anni di prigionia - di Ingrid Betancourt. Il 20 giugno 2010, nella seconda tornata elettorale per le elezioni presidenziali colombiane, ha sconfitto il candidato del partito verde Antanas Mockus, raccogliendo circa 9milioni di voti, cioè il 69% dei consensi. Ha assunto la carica di Presidente della Colombia il 7 agosto 2010.
Tombe sospette
La denuncia dell’Onu è forte: ci potrebbe essere stata violazione dei diritti umani: a dimostrarlo un gruppo di tombe anonime senza nome di cui le Nazioni Unite vogliono sapere qualcosa in più. A denunciare tutto è la rappresentanza di Bogotà dell’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani, che nel cimitero del municipio di La Macarena, nel Sud del Paese, ha trovato le tombe di 446 persone indicate solo come ”NN”. Secondo l’esercito sarebbero morte ”nel corso di combattimenti” tra il 2002 e lo scorso giugno tra guerriglieri e militari ma, stando alle denunce, potrebbero essere state vittima di esecuzioni sommarie. In un comunicato, l’Onu ha espresso ”preoccupazione” in merito, ed ha chiesto di ”poter ricevere nuove informazioni che possano chiarire”, tale situazione. Per i denuncianti, infatti, gli NN ”morti in combattimento”, potrebbero avere a che vedere con le presunte operazioni dei militari che uccidevano persone innocenti, per lo più emarginati, sostenendo poi che erano guerriglieri.
lanciò, in accordo con gli Stati Uniti, il Piano Colombia. Vennero addestrati tre battaglioni antidroga, con l’obiettivo di distruggere 60mila ettari di coltivazioni di coca e tagliare la forza economica di guerriglia e narcotraffico. Gli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle di New York rafforzarono il Piano e si interruppe ogni possibile dialogo con i guerriglieri, che rispondono. Le Farc nel febbraio 2002 sequestrarono alcuni esponenti politici, nel tentativo di influenzare le elezioni e ottenere uno scambio di prigionieri. Fra loro c’era la candidata alla presidenza Ingrid Betancourt, che sarà rilasciata solo dopo sei anni, nel luglio del 2008. Si moltiplicarono anche gli attentati. Il 4 maggio 2002 morirono 117 persone, tra cui almeno 40 bambini, per i colpi di mortaio sparati contro la chiesa di Bojaya. Nello stesso anno, sale alla presidenza l’indipendente Uribe Velez, che chiede l’intervento diretto degli Usa nella lotta alla guerriglia e
I PROTAGONISTI
al narcotraffico. Il mese dopo, un contingente militare statunitense arrivò nella provincia di Arauca: fu il primo coinvolgimento diretto nella guerra civile colombiana. Nell’ottobre 2003 Luis Eduardo Garzón, candidato del Polo Democratico Indipendente (Idp), vinse le elezioni per il sindaco di Bogotà, la carica politica più importante del Paese dopo la presidenza della Repubblica. È una sorpresa: per la prima volta un partito di sinistra si afferma. Passi avanti che non fermano la guerriglia: divennero 1.500, in quegli anni, gli ostaggi tenuti prigionieri. Dal 2006 si tenta l’ennesimo processo di pace. Almeno 20mila paramilitari depongono le armi, in cambio di un’amnistia, del reintegro sociale e di uno stipendio per 24 mesi. Una scelta, questa, che scatena le organizzazioni di pace, che dicono: “chi ha commesso atrocità deve pagare”. Intanto, la guerriglia continua la lotta armata, con sequestri e azioni contro obiettivi militari e governativi. La guerra, con l’arrivo al ministero della difesa prima e alla presidenza poi, di Juan Manuel Santos, diventa anzi più dura e le possibilità di trattativa si allontanano.
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(Bogotà, 10 agosto 1951)
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Port au Prince la capitale fantasma
A distanza di mesi dal terremoto che ha devastato il Paese nel 2010, la ricostruzione nella capitale non è mai neanche cominciata. La denuncia è delle Nazioni Unite secondo cui ad oggi solo il 2% dei detriti è stato rimosso dalla città che versa più o meno nelle stesse condizioni in cui si di trovava subito dopo il sisma che ha distrutto numerosi edifici della capitali, tra cui i quattro ospedali, il palazzo presidenziale e la sede del Parlamento.
Corruzione dilagante, violenza, instabilità sociale e aiuti umanitari che tardano ad arrivare costringono ancora oggi Haiti in una condizione di grave crisi. Peggiorata notevolmente a causa del devastante terremoto che ha colpito l’isola nel gennaio del 2010. A distanza di un anno da quell’evento, che causò la morte di oltre 300.000 persone e danni materiali incalcolabili, Haiti è ancora nel pieno di una profonda crisi umanitaria. Proprio questa situazione di continua emergenza ha convinto le Nazioni Unite a prorogare di un altro anno il mandato della missione di peacekeeping dislocata sull’isola. Il capo della missione (Minustah), Edmond Mulet, ha reso noto nel mese di settembre 2010 che il Governo haitiano ha ricevuto meno del 20% dei 9,9 miliardi di dollari di aiuti promessi dalla comunità internazionale. Mulet ha inoltre lanciato un allarme sicurezza avvertendo che 1,3 milioni di haitiani continuano a sopravvivere in 1.300 tendopoli o in accampamenti di case fatiscenti e che ‘’il rischio di malessere sociale è reale’’. Secondo il capo delle missione Onu dunque i 2000 uomini della Minustah e i circa 3000 uomini della polizia difficilmente riusciranno a tenere sotto controllo una situazione che rischia di esplodere, soprattutto in vista delle elezioni legislative e presidenziali di novembre 2010 a cui partecipano oltre 60 partiti politici. Intanto, ad aprile del 2010, si sono svolte sull’isola le elezioni per il rinnovo di un terzo del Senato, in un clima di relativa calma e l’Assemblea nazionale di Haiti ha predisposto l’avvio di una serie di riforme che dovrebbero aiutare il Paese a riprendersi. In ottobre c’è stato anche una ulteriore svolta politica con il cambio al vertice della presidenza del consiglio. L’Assemblea Nazionale ha sfiduciato il primo ministro Michèle D. Pierre-Louis e una settimana dopo, il parlamento ha designato Jean-Max Bellerive
HAITI
Generalità Nome completo:
Repubblica di Haiti
Bandiera
91
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese
Capitale:
Port-au-Prince
Popolazione:
8.528.000
Area:
27.750 Kmq
Religioni:
Cattolica, chiese protestanti, voodoo
Moneta:
Gourde Haitiano
Principali esportazioni:
Nessuna, solo economia di sussistenza
PIL pro capite:
Us 1.791
quale nuovo primo ministro. Alla guida del Paese c’è ancora Réné Garcia Préval, eletto nel 2006, fra pesanti accuse di brogli. Ma i politici haitiani hanno dimostrato negli anni di gestire a fatica un Paese che è stato costretto a subire una crisi dopo l’altra, un evento drammatico dopo l’altro. Il futuro di Haiti sembra tutto in salita, minato soprattutto da una povertà ormai dilagante: oltre il 56% degli haitiani vive con meno di un dollaro Usa al giorno e i diritti umani fondamentali sono negati alla maggioranza della popolazione.
Il Paese è tra i più poveri del mondo. L’agricoltura è a livelli di pura sussistenza, l’industria è limitata e dal sottosuolo di ricava solo un po’ di bauxite e quantitativi di oro e argento lontani dallo scatenare guerre. Le ragioni del lungo, perenne, conflitto haitiano, quindi, non sono economiche, ma sociali e politiche. La lunga dittatura dei Duvalier ha creato una frattura nel Paese, fra la parte mulatta - discendente dalla borghesia francese
che governava l’isola. - e quella nera - discendente dagli schiavi africani che guidarono la rivolta per l’indipendenza e che grazie a Duvalier hanno trovato affermazione. Negli anni ‘90, a queste motivazioni storiche, si è aggiunta una crisi economica che non ha trovato soluzione, allargando la forbice fra la popolazione povera e quella più ricca. Circa il 50% degli haitiani non ha un lavoro fisso, i due terzi sbarcano il lunario lavorando nei campi. Lo scontro è inevitabile.
Per cosa si combatte
Allarme colera
92
Le drammatiche condizioni di indigenza in cui è costretta a vivere la popolazione haitiana ha favorito l’esplosione di una epidemia di colera. Nel mese di ottobre del 2010 sono state centinaia, e in pochi giorni, le vittime di questa terribile malattia che ha già contagiato più di mille persone. I volontari della Croce Rossa Italiana (Cri) si sono immediatamente mobilitati per distribuire acqua potabile: 30 mila litri sono stati prodotti nelle ultime ore e messi a disposizione della popolazione. Il ministro della salute di Haiti, Alex Larsen, ha confermato la presenza dell’epidemia del ‘’tipo più pericoloso’’.
Colonia spagnola, poi francese, indipendente dal 1804 grazie alla prima rivolta di schiavi conclusa con un successo, Haiti ha una storia complessa alle spalle, caratterizzata da continue dittature militari, che sfociano nell’occupazione militare statunitense fra il 1915 e il 1934. In quel periodo, la resistenza semipacifica haitiana trova ispirazione nella propria cultura e nella religione voodoo. Protagonista è la popolazione nera, che ha il proprio leader nel popolare agitatore dottor François ‘Papa Doc’ Duvalier. Gli americani se ne vanno nel 1934, lasciando una economia a pezzi. Molti haitiani emigrano a Santo Domingo, in cerca di lavoro, provocando tensioni razziali ed economiche terminate tragicamente con una pulizia etnica che fa 20 mila vittime tra gli haitiani. Agitata sempre dallo scontro fra popolazione mulatta e nera, di fatto l’isola resta dipendente dagli Stati Uniti ed è governata, come un dittatore, da “Doc” Duvalier, fino alla sua morte, nel 1971. Il potere passa allora al figlio JeanClaude, chiamato Baby Doc, che tenta una mediazione tra i ‘modernizzatori’ mulatti. Contemporaneamente, elimina con brutalità tutta l’opposizione. Alla crisi politica, si aggiunge all’inizio degli anni ‘80 quella economica. Haiti viene identificata come zona ad alto rischio per
l’Aids e il turismo crolla. Poi, un programma statunitense per sconfiggere una malattia dei suini danneggia l’economia rurale, con l’uccisione per errore 1,7 milioni di animali. Nel 1986 scoppia la rivolta popolare e Baby Doc Duvalier deve riparare all’estero con la famiglia. Si forma una giunta provvisoria militare. Il luogotenente generale Henri Namphy, confidente di Duvalier, viene nominato Presidente, ma un’organizzazione cattolica si oppone. È guidata da un giovane prete: Jean-Bertrand Aristide.
Quadro generale
René Garcia Préval
(17 gennaio 1943)
La portaerei Cavour
Ha scatenato non poche polemiche la decisione dell’Italia di inviare ad Haiti la nave cargo ‘Cavour’ per portare aiuti alla popolazione dopo il terremoto che ha devastato l’isola. La Cavour, con a bordo 882 militari di tutte le forze armate, ha lasciato il porto di La Spezia il 19 gennaio 2010 ed ha raggiunto Port au Prince in soli 11 giorni di navigazione effettuando una sosta nel porto brasiliano di Fortaleza, dove sono stati imbarcati 13 medici, 14 infermieri e due elicotteri da trasporto. Proprio la tappa brasiliana è stata fortemente criticata da molti, che hanno visto in questa operazione finalità più commerciali che umanitarie. La portaerei Cavour, considerata un gioiello della marina militare, ha comunque trasportato ad Haiti oltre 12 tonnellate di generi alimentari e 36 tonnellate di acqua potabile, mentre 176 tonnellate di medicinali sono stati forniti ai centri sanitari locali.
Le elezioni del 1987 vengono vinte a larga maggioranza da Namphy, ma nel giro di un anno un altro colpo di stato porta al potere un altro generale, Prosper Avril. Nel 1990 Avril è costretto a fuggire e sempre nel 1990 alle nuove elezioni si candida Aristide, che con lo slogan ‘Lavalas’ porta in massa la gente alle urne. Il successo di Aristide non dura molto: nel 1991 viene destituito da un golpe militare. L’Onu reagisce con un embargo totale, cui fa seguito un intervento militare degli Usa, che costringe i militari a farsi da parte. Nel 1994 Aristide può quindi tornare nel Paese e governare. Ma lo fa in piena crisi economica e in un grave clima di violenza. Alle elezioni legislative del giugno 1995, i candidati da lui sostenuti furono accusati di brogli dall’opposizione. Si arriva alle elezioni presidenziali del 1995, in dicembre, vinte da René Preval. Le violenze nel Paese non finiscono e nel 1996
I PROTAGONISTI
il Consiglio di sicurezza dell’Onu proroga la propria missione militare sull’isola. Nel gennaio 1999 le cose precipitano, con Preval che destituisce gran parte dei parlamentari. La tensione sale ancora - come la violenza - con le elezioni presidenziali del novembre 2000, vinte dall’ex presidente Aristide. Il conflitto tra la maggioranza e l’opposizione è violentissimo e non si placa. Nel 2004 i ribelli, formano il Fronte di Resistenza dell’Artibonite, conquistano alcune città e in seguito costringono Aristide a dimettersi e a lasciare il Paese. Spinti dall’opinione pubblica internazionale, il 30 aprile 2004 i Caschi Blu dell’Onu arrivano sull’isola per cercare di riportare l’ordine dopo le violenze seguite alla rivolta popolare che ha contribuito alla cacciata di Aristide. Presidente ad interim veniva nominato Boniface Alexandre, e premier Gerard Latortue, con l’impegno a svolgere nuove elezioni legislative entro il 2005. Le elezioni si svolgono nel 2006 e viene eletto Presidente l’agronomo haitiano Réné Garcia Préval.
93
René Garcia Préval è il Presidente della Repubblica di Haiti dal maggio del 2006. Delfino dell’ex presidente Aristide e protagonista della vita politica del Paese per molti anni, Préval è già stato Presidente dal 7 febbraio 1996 al 7 febbraio del 2001 ed è stato inoltre Primo Ministro dal febbraio all’ottobre 1991. Appena rieletto nel 2006, Préval ha promesso di occuparsi di quelle riforme sociali necessarie al miglioramento delle drammatiche condizioni di vita della popolazione haitiana. Riforme che ancora oggi tardano ad arrivare. Nel 2008 Préval ha dovuto far fronte ad una esplosione di violenza del Paese. Le proteste contro il carovita e l’aumento dei prezzi dei generi alimentari ha spinto migliaia di persone a scendere in strada e i “caschi blu” dell’Onu, peraltro malvisti dalla popolazione haitiana, ad intervenire per riportare la calma. L’insofferenza popolare è ancora oggi a livelli altissimi e la classe politica haitiana, Presidente in testa si è dimostrata ad oggi inadeguata a far fronte alle tante emergenze che affliggono il Paese.
Inoltre Ecuador “Un golpe fallito e la crisi con la Colombia per un Paese in cerca di identità”.
94
30 settembre 2010: sventato golpe in Ecuador. Queste poche righe, poche parole, aprono telegiornali e giornali di mezzo mondo. L’Ecuador e il mondo si svegliano nella rivolta. L’opposizione politica al Governo di Rafael Correa, il Presidente in carica, assieme ad alcuni settori delle forze dell’ordine, tentano il colpo di stato. Falliscono in poche ore. Gli scontri maggiori avvengono proprio davanti al palazzo presidenziale. Ferito ad un piede, Correa, verrà tenuto in ostaggio in un ospedale da un gruppo di agenti rivoltosi. Viene liberato con un raid. Secondo il portavoce della Croce rossa, Fernando Gandarillas, almeno 50 sono le persone rimaste ferite nell’azione. Al termine della giornata, quando l’ordine è stato ristabilito, il Correa pronuncia queste parole: “Oggi è un giorno triste per il Paese. È probabilmente uno dei giorni più tristi della mia vita, ma sicuramente il più triste per il mio Governo”. Sempre lui, individua e pubblicamente accusa gli organizzatori del golpe. Si tratterebbe di alcuni rappresentanti dell’opposizione, tra i quali l’ex Presidente e colonnello Lucio Gutierrez che, dalla sue residenza a Brasilia, ha ovviamente subito smentito. Il giorno dopo si contano i morti, i feriti e si cerca di tirar fuori dal cilindro qualche nome: due agenti morti, 37 persone ferite. Il 2 ottobre l’Agi da Quito batte la notizia: “C’è l’esercito a pattugliare le principali città dell’Ecuador dopo l’arresto, ieri, di tre colonnelli della polizia accusati di aver tentato di uccidere il presidente Rafael Correa durante la rivolta dei poliziotti. Resta in vigore lo stato d’emergenza. (...) Il capo della polizia, il generale Freddy Martinez, si è dimesso. Secondo la stampa locale, i tre arrestati saUNHCR/B. Heger
rebbero i colonnelli Manuel Rivadeneira, Julio Cesar Cueva e Marcelo Echeverria”. In seguito i tre colonnelli sono stati portati davanti ad un tribunale e messi agli arresti. Un momento difficile, insomma, arrivato al termine di un anno complicato. L’Ecuador ha infatti vissuto le tensioni per i problemi dei profughi dalla confinante Colombia. È dello scorso 22 settembre l’incontro tra Colombia ed Ecuador, a margine dell’Assemblea generale dell’Onu tenutasi a New York. Sono 135mila i colombiani fuggiti in Ecuador dalle violenze tra guerriglia e forze armate. La situazione non è delle più semplici, vista la rottura dei rapporti diplomatici avvenuta nel marzo del 2008 a causa di un brutto fatto: un’operazione militare contro le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) condotta dall’esercito colombiano in territorio ecuadoriano, che ha portato alla morte di 26 persone. A complicare i rapporti tra i due l’apertura di un procedimento penale nei confronti del Presidente colombiano Juan Manuel Santos (ministro della Difesa, all’epoca dei fatti) da parte dell’Ecuador. L’accusa: violata la sovranità territoriale del Paese. Ma le cose potrebbero migliorare rapidamente, la mediazione fra i due Capi di Stato sembra funzionare, tanto che Correa si è impegnato a “ristabilire le relazioni diplomatiche con la Colombia entro il 2010” e procedere, entro dicembre dello stesso anno, alla nomina dei rispettivi ambasciatori, ultimo atto della ripresa formale delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi sudamericani.
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Piccole e grandi guerre per gestire le risorse Biskek, Kirghizia. 24 marzo 2005. Il centro della città è attraversato da quindicimila manifestanti, tutti con una sciarpa rosa al collo e un tulipano giallo in mano. Solo undici giorni prima si son tenute le elezioni parlamentari. La folla protesta contro il presidente Askar Akajev, accusato di averle truccate. Il giovane Edil Baisalov marcia alla testa del corteo. È felice. Edil ha studiato negli Stati Uniti grazie a una borsa di studio concessa dal Governo di Washington. Adesso lavora per il National Democratic Institute, presieduto dall’ex segretario di Stato Madaleine Albright. Ufficialmente Edil aveva il compito di reclutare osservatori indipendenti per monitorare le elezioni. In realtà reclutava giovani per la rivoluzione. Una rivoluzione pacifica, ma pur sempre la rivoluzione. La storia politica di Edil è cominciata nel dicembre dell’anno prima. Baisalov era stato inviato in Ucraina per seguire i retroscena della rivoluzione arancione ed imparare. Delle sei settimane passate a Kiev ha conservato un ricordo stupendo. «Sono stato laggiù un mese e mezzo per
conto del National Democratic Institute. Dagli ucraini ho imparato tantissimo. Erano veramente organizzati. Questa è una sciarpa arancione, poi c’è il cappelletto, la maglietta, e perfino l’impermeabile e l’ombrello. Avevano veramente pensato a tutto. Ed è quello che faremo pure noi. Questa volta il colore è il rosa», aveva raccontato Edil appena tornato dall’Ucraina. La rivoluzione vincerà. Il 4 aprile Akajev si dimetterà, lasciando dopo quindici anni il potere. Tre episodi sono sufficienti a spiegare che cosa è accaduto in questo remoto Paese, che si estende all’estremità settentrionale della catena himalayana, tra Cina e Kazakistan. 13 gennaio, periferia settentrionale di Biskek. Sede della Coalizione per la democrazia. Edil tiene un discorso davanti a una quarantina di ragazzi: «Il Presidente americano Bush ha detto: “Tutti coloro che vivono oppressi dalla tirannia non saranno mai dimenticati dagli Stati Uniti”. L’America è dalla nostra parte». Al termine del discorso viene proiettato un filmato, gentilmente donato da «un simpatizzante americano», dal titolo “Come rovesciare un dittatore”, ovvero la storia del movimento serbo Otpor, quello che ha costretto alle dimissioni il Presidente serbo Slobodan Milosevic. Subito dopo prende la parola una ragazza. Mentre parla viene distribuito un manuale. Sulla copertina c’è scritto “Dalla dittatura alla democrazia”. Il libro è edito dalla Freedom House, un’associazione con sede a New York che si occupa di libertà e democrazia nel mondo. «Questa è un’arma potentissima. Spiega come si fa a rovesciare un regime dittatoriale senza violenza», racconta. 14 marzo. Quindici chilometri a Sud di Biskek. Ai piedi del monte Tian Shan, che raggiunge i 4.800 metri, oltre una palizzata verde sorge un campo di golf a nove buche. La sede del club è costituita da una casa di legno, stile baita di montagna spartana. Al centro della stanza principale un tavolo rotondo, intorno al quale sono riunite tre persone: Mike Stone, 52 anni, ex giornalista ora a capo della Freedom House kirghiza; Brian Kemple, 48 anni, in Kighizia da quindici, gestisce l’ufficio locale di Usaid, l’agenzia statunitense per lo sviluppo; David Greer, avvocato, 42 anni, è qui per insegnare ai Kirghizi i pro e i contro dell’economia di mercato. I tre rappresentano le principali organizzazioni statunitensi che operano in questo Paese. La discussione è animata. Pare che il Governo abbia tagliato l’elettricità alla tipografia gestita da Stone, dove vengono stampati i manuali distribuiti nel corso della riunione della Coalizione per la democrazia. Le elezioni si sono
Muro di Berlino controllavano direttamente o indirettamente i due terzi delle risorse energetiche mondiali. Due le direttive di questa guerra: strappare alla concorrenza Paesi ricchi di risorse oppure prendere il controllo di quegli Stati e di quelle aree che rappresentano il futuro energetico. Una guerra combattuta senza quartiere, per procura o in prima persona, anche con l’utilizzo del terrorismo. È la guerra che vi stiamo raccontando. È la vera guerra di al-Qaeda. L’Asia è sconvolta da piccole e grandi guerre e da frequenti azioni di gruppi terroristi. Per capire quello che sta accadendo bisogna capire quali sono gli interessi in gioco. Ci sono le potenze mondiali (Usa, Russia e Cina), quelle regionali (India, Pakistan e Indonesia, Iran) e i poteri nazionali (Birmania, Filippine, Uzbekistan, Thailandia). Ciascuno di questi soggetti si batte per acquisire maggior potere, muovendo delle pedine più piccole. In mezzo oltre tre miliardi e settecento milioni di persone inermi (quattro volte e mezzo la popolazione europea). Vittime di una violenza spesso incomprensibile e spesso attribuita a dispute etniche o contrasti religiosi. Un grande gioco, nel quale i servizi segreti di troppi Paesi la fanno da padrone. E che i media, per loro colpa, non raccontano o raccontano male.
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concluse la sera prima, con l’ennesima affermazione plebiscitaria di Akajev. Kemple e Greer hanno paura che il Presidente si getti tra le braccia di Mosca. La guerra in Afghanistan è cominciata cinque mesi prima, e Washington non si può permettere di perdere il controllo della Kirghizia. La sera stessa Stone sarà al ministero degli Esteri kirghizo (terzo episodio). Ad attenderlo all’entrata il ministro Askar Aimatov. Stone, Aimatov e tutti gli altri presenti sono in attesa di una telefonata da Washington, che non tarda ad arrivare. «Buon giorno da Washington. Sono John McCain. Sono indignato della chiusura forzata dell’unica tipografia indipendente del Paese, Questo controllo dell’informazione è un residuo della vecchia società sovietica, e non ha ragione di esistere in una società libera». Segue ramanzina di oltre un’ora. Dieci giorni dopo gli studenti, con il loro manuale “Dalla dittatura alla democrazia” in tasca, assaltano il palazzo presidenziale, costringendo Akajev e il suo Governo alle dimissioni. Gli Stati Uniti, da soli, consumano il 30% delle risorse energetiche mondiali. Se si considera l’Occidente nel suo complesso, la cifra sale fino al 60%. La fine della guerra fredda ha segnato la supremazia politica, militare ed economica degli Stati Uniti sul resto del mondo. Supremazia che però ha bisogno di costante rifornimento energetico. Le risorse energetiche primarie, ovvero petrolio, gas e uranio, stanno raggiungendo o hanno già raggiunto il picco di produzione. In altre parole, l’offerta si sta restringendo. Inoltre, va considerato anche lo sviluppo economico dell’Europa dell’Est, della Russia, e soprattutto di India e Cina. Sviluppo che riduce la fetta di energia disponibile per Washington. A partire dagli anni Novanta l’energia è quindi diventata il terreno di scontro principale tra le grandi potenze economiche e politiche del pianeta. Da una parte Stati Uniti e Gran Bretagna, dall’altra la Cina, e ultimamente anche l’India. In mezzo, Europa e Russia, che fino al crollo del
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Droga
L’invasione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati ha fatto del Paese asiatico il maggior esportatore di droga al mondo. In base all’ultimo rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per la lotta alla droga (Unodc), in Afghanistan viene coltivato il 92% dell’oppio mondiale. Inoltre, il Paese è anche divenuto il principale esportatore di hashish, superando il Marocco. Grazie a una politica repressiva dei talebani, nel 2001 la produzione di oppio aveva raggiunto il suo minimo storico. Due anni dopo l’invasione la produzione ha ricominciato a crescere. In più, in Afghanistan per la prima volta si è iniziato a raffinare l’oppio in eroina. Oggi il 60% della droga trafficata nel mondo viene dall’Afghanistan.
Più di 4700 morti fra i soldati della coalizione in nove anni di guerra, 31 dei quali italiani: gli ultimi sono stati nell’ottobre del 2010 4 alpini che scortavano un convoglio. La guerra in Afghanistan resta un grande “buco nero”, capace di divorare eserciti, senza mai dare la vittoria. Così, l’attualità del conflitto iniziato nel 2001 per volontà del Presidente statunitense George W. Bush all’indomani degli attentati alle Torri gemelle di New York, è identica alla storia: una guerra simile ad un pantano. Se ne è accorto l’attuale Presidente nordamericano, Obama, che ha annunciato il ritiro delle truppe a partire dall’estate del 2011. Se la strategia sarà confermata, torneranno nei loro paesi ben 160mila uomini - 100mila più o meno sono statunitensi - lasciando al Governo afghano il compito di modernizzare il Paese. La realtà, è che la missione appare impossibile. Il Presidente afghano Karzai, recentemente rieletto, ma inseguito dalle accuse di brogli, controlla di fatto solo le aree delle grandi città: Kabul, Kandahar, Herat. I Talebani, che nel 2001 governavano il Paese ed inizialmente furono costretti ad arretrate lungo il confine con il Pakistan dall’offensiva occidentale, non si sono mai arresi e anzi hanno riguadagnato terreno. Negli ultimi dodici mesi, poi, l’annuncio del ritiro delle truppe alleate li ha rafforzati. Sanno di dover semplicemente resistere sino a quando l’ultimo soldato straniero avrà lasciato l’Afghanistan e così hanno ripreso a dettare legge e condizioni. Il primo effetto politico di questa situazione è nel riavvicinamento di molti signori della guerra, cioè capi clan, che controllano il loro territorio e stanno scegliendo di allearsi con i talebani per il futuro, isolando sempre più il Governo centrale. Per questa ragione, a dispetto dell’annunciato ritiro, la scelta strategica delle Forze Nato è di una offensiva costante contro i Talebani. I combattimenti sono quotidiani nelle Province di Paktia, Khost e Nangarhar, a Oriente, oltre a quelle di Ghazni, Zabul e Uruzgan. Si combatte anche nei distretti di Helmand, Kandahar, Farah
AFGHANISTAN
Generalità Nome completo:
Repubblica Islamica dell’Afghanistan
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Il pashto e il persiano (dari) sono le lingue ufficiali. C’è inoltre una grande varietà di lingue, la maggior parte di origine persiana o altaica: hazaragi, turcomanno, uzbeco, aimaq e altri
Capitale:
Kabul
Popolazione:
32.254.372
Area:
652.090 Kmq
Religioni:
Musulmana (99%) (74% sunnita, 15% sciita e 10% altro).
Moneta:
Nuovo Afghani
Principali esportazioni:
Smeraldi, uranio, altri minerali, oppio
PIL pro capite:
Us 1.310
ed Herat. In quest’ultima Provincia è stanziato il contingente italiano, formato da quattro corpi operativi delle forze speciali, che intervengono in battaglia a fianco delle truppe statunitensi e da una compagnia di fanteria, che opera nel pattugliamento a lungo raggio.
l’Asia Centrale al Pakistan e all’India. Detto questo, non mancano le risorse minerarie. Recentemente sono stati scoperti buoni giacimenti di uranio ed è da sempre una buona riserva di smeraldi. Da non dimenticare, poi, che l’Afghanistan è il maggior produttore mondiale di oppio e anche se nessuno lo ammetterà, è un mercato - questo - che fa gola a molti. Poi, ci sono osservatori che sostengono che in Afghanistan, oggi, si combattono contemporaneamente molte guerre, per coprire gli interessi di potenze più o meno grandi. Una specie di gigantesco ring, che serve a far sfogare tutti.
Per cosa si combatte
Terra di passaggio in Asia, luogo di controllo delle grandi vie di comunicazione: è la posizione geografica ad aver fatto dell’Afghanistan un Paese in guerra permanente. A questo, cioè al dato geografico, si aggiunge la storia di un popolo sempre diviso fra clan. Così, l’Afghanistan è stato nelle mire dei grandi imperi da sempre, non ultimo quello inglese, che nel XIX secolo tentò, senza successo, di sottometterlo. È sempre stato terra indipendente, che però alla fine della seconda guerra mondiale deve cercare una strada per rimanere in equilibrio fra Usa e Unione Sovietica. Un equilibrismo che fallisce dinnanzi alle scelte internazionali. L’appoggio sempre più pieno degli Usa al vicino Pakistan, convince la dirigenza afghana ad avvicinarsi all’Urss, inviando sempre più afghani a studiare a Mosca. Una serie di golpe e contro golpe, negli anni ’60 e ’70, portano a spodestare il re Zahir - nel 1973 - e a creare una Repubblica sempre più filosovietica. L’ennesimo colpo di stato, nel dicembre del 1979, porta all’invasione del Paese da parte dell’Armata Rossa di Mosca. Inizia una durissima guerra fra le truppe sovietiche e governative da un lato e mujaheddin - combattenti per la
fede - dall’altro, appoggiati da musulmani fondamentalisti di tutto il mondo. Nel gennaio 1987 arriva un primo cessate il fuoco. Sei anni dopo il ritiro delle truppe sovietiche. È una disfatta, che spinge l’Urss sull’orlo del collasso. Nel Paese inizia un lungo periodo di scontro fra fazioni armate, fondamentalmente fra mujaheddin tagiki, uzbeki, hazari, pashtun. Nel 1995 nasce il gruppo armato dei Taliban (“studiosi del Corano”) nel Sud dell’Afghanistan, appoggiati da Pakistan, Arabia Saudita e Stati Uniti. Nel 1996 i Taliban entrano a Kabul. Mohammed Omar Akhunzada - il Mullah Omar - è il loro capo, nominato “comandante dei credenti” (amir ol-momumin). Nel Nord tentano di resistere, creando nel 1997 il Fronte Islamico Nazionale Unito per la Salvezza dell’Afghanistan, conosciuto come Alleanza del Nord (An) o Fronte Unico. Lo formano uzbechi, hazari e tagichi. I Taliban, intanto, cambiano il Paese: le donne spariscono dalla scena pubblica e dalle scuole. Musica, teatro, canto, tutto viene vietato. Nel 2001, l’11 settembre, c’è l’attacco alle Torri Gemelle, a New York e al Pentagono. Gli Stati Uniti accusano subito al-Qaeda, organizzazio-
Quadro generale
100
Le cose vanno distinte, in questo Paese. Molti - signori della guerra, talebani, le truppe di Karzai - combattano, ognuno a modo loro semplicemente, per mantenere il controllo - a dispetto degli altri - del territorio, cioè per governare casa loro. Gli eserciti stranieri, invece, sono lì per ragioni differenti e spesso poco nobili. L’Afghanistan è da sempre ambito dalle potenze militari, per la posizione chiave dal punto di vista geografico: chi controlla l’Afghanistan, controlla l’Asia. Il riferimento, oggi, è ai gasdotti che lo attraversano e alle vie commerciali - sottoforma di strade e ferrovie - che attraversandolo collegano tutta
Ahmad Shah Massoud
(9 gennaio 1953 - 9 settembre 2001)
Le mine
Quattromila anni: è il tempo stimato dagli esperti per bonificare completamente l’Afghanistan dalle mine. Un vero flagello quello degli ordigni anti uomo lasciati in ricordo dalle troppe guerre degli ultimi 30 anni. Per la Ong Halo Trust, della Gran Bretagna, l’invasione sovietica sparpagliò almeno 640mila mine. Sono sostanzialmente ordigni anti uomo e anticarro. A queste si sono aggiunti tutti gli ordigni, come le cluster bomb, sganciate dagli Usa appena iniziata la guerra contro il regime taliban: solo nel periodo 2001 - 2002 pare ne siano state sganciate 250mila. Il risultato è che in trent’anni, 400mila afgani - quasi tutti civili sono rimasti uccisi o mutilati dalle mine. ne terroristica guidata dal saudita Osama bin Laden, ex mujaheddin che vive in Afghanistan con i suoi uomini, protetto dai Taliban. Il Consiglio degli anziani, da Kabul chiede a bin Laden di andarsene volontariamente e annuncia, però, la Guerra Santa (jihad) in caso di attacco americano. Attacco che inizia il 7 ottobre 2001, con bombardamenti aerei. La campagna viene chiamata dal presidente George W. Bush prima “Giustizia Infinita”, poi “Libertà Duratura”. Si forma una coalizione internazionale con Regno Unito, Australia e Canada, appoggiata dalla Unione Europea e della Nato (inclusa la Turchia), Cina, Russia, Israele, India, Arabia Saudita e Pakistan, ex alleato dei taliban. L’azione dei bombardieri consente all’Alleanza del Nord di recuperare due terzi del Paese e di entrare a Kabul il 13 novembre 2001. Mentre i Taliban sono in rotta, a Bonn viene convocata la Conferenza Interafghana. Viene creata una amministrazione, con a capo il pashtun filomonarchico Hamid Karzai. Si formano una Loya Jirga (Assemblea) d’Emergenza, una Autorità di transizione e una Loya Jirga Costituzionale, assistite da una Forza di sicurezza internazionale dell’Onu, il tutto per preparare - entro due anni
I PROTAGONISTI
e mezzo - le elezioni generali. Il 22 dicembre assume il potere Karzai. Gli scontri nel Paese continuano, con parte del territorio controllato da potenti signori della guerra sostenuti dagli Stati Uniti e la resistenza Taliban che non demorde. Nell’agosto del 2003 la Nato lancia una missione di pace. È la prima volta che l’Alleanza Atlantica varca i confini europei. Il 3 novembre 2004 Karzai vince con il 55% dei voti le prime elezioni presidenziali, ma i problemi continuano. A combattere contro il Governo dl presidente Karzai e la coalizione che lo sostiene è un arcipelago composito. Si tratta, nei fatti, di una da alleanza formata da ex combattenti del Jihad antisovietico come lo Jamiat Jaishal Muslemeen (Jjm, guidato da Maulwi Muhamad Ishaq Manzoora o lo Hizb-e Islami di Gulbudin Hekmatyar. Ci sono poi i Taliban del Mullah Omar, diverse frazioni e gruppi che hanno come referenti al-Qaeda, ex comandanti mujihaidin autonomi come Sayyed Muhammad Akbar Agha da Kandahar. Un mondo in lotta, che restringe il potere di Karzai sempre più alle sole grandi città. Il Presidente, per altro, viene rieletto nel 2009, nonostante da più parti si avanzino dubbi sulla regolarità del voto. E l’anno dopo, il Presidente statunitense Obama annuncia il ritiro delle truppe entro l’estate del 2011.
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Ahmad Shah Massoud in Afghanistan è un eroe nazionale. Le gigantografie dei suoi ritratti campeggiano nelle principali piazze di Kabul. Massud è l’uomo che ha battuto l’Armata Rossa, Massud è l’uomo che ha resistito da solo all’orda talebana. Massud è il martire dell’11 settembre. Massud nasce nell’alta valle del Panshir. Il padre di etnia tagika è un alto ufficiale dell’esercito. Il giovane Ahmad può quindi permettersi di frequentare il liceo francese a Kabul e successivamente la facoltà di architettura. Nella seconda metà degli anni Settanta, quando i comunisti prendono il potere, Massud si trasferisce in Pakistan, da dove tornerà nel 1978 per dare vita alla guerriglia prima anticomunista e poi antisovietica. La conoscenza delle tattiche di guerriglia e l’aiuto militare della Cia fanno del “Leone del Panshir” un guerrigliero invincibile. Battuti i sovietici e i comunisti scatena insieme al nemico Gulbuddin Hekmatyar una guerra civile che devasta Kabul. Nel 1996 l’invasione dei talebani lo costringe a ritirarsi nella valle del Panshir. Massud muore il 9 settembre 2001 (all’età di 48 anni) per mano di due estremisti islamici fattisi passare per giornalisti televisivi.
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La zona dell’India indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione del Tibet a cui questa scheda è dedicata.
Il cuore dell’Asia
È fondamentale conoscere il Tibet dal punto di vista geografico, per comprendere le ragioni dello scontro con la Cina. Comunemente conosciuto come “il Tetto del Mondo”, il Tibet è davvero il cuore dell’Asia. È a Nord dell’India, del Nepal, del Buthan e della Birmania, a Ovest della Cina e a Sud del Turkestan orientale. Ha una superficie di 2.5milioni di chilometri quadrati, come due terzi dell’India. Ha un’altitudine media di 3650 metri sopra il livello del mare e molte delle sue montagne - tra cui l’Everest superano gli 8000 metri. L’altopiano tibetano è il più alto e il più esteso del mondo. Gli fanno corona a Sud la catena dell’Himalaya e a Nord le montagne dell’Altyn Tagh e del Gangkar Chogley Namgyal. A occidente si fonde con le cime del Karakorum mentre a oriente scende in modo graduale verso le vette del Minyak Gangkar e del Khawakarpo.
Sono arrivati in trecento, da tutto il mondo, a Bylakuppe. Laggiù, nello stato indiano del Karnataka, dal 26 al 30 agosto del 2010 i delegati del popolo tibetano in esilio hanno partecipato alla prima Assemblea Generale Tibetana. A organizzarla il Parlamento Tibetano in esilio, in agenda temi fondamentali come la riforma della linea politica del Governo Tibetano, la salvaguardia della democrazia, la promozione dell’istruzione e della cultura, soprattutto tra le nuove generazioni, il sostentamento economico degli insediamenti e lo status dei tibetani residenti all’estero. Tutti temi essenziali, mentre resta alta la tensione con la Cina e la richiesta di maggiore autonomia - tramontata per ora l’ipotesi di indipendenza - rimane lettera morta. La linea politica resta quella di un confronto senza violenza con le forze di occupazione. Il Presidente del Parlamento Tibetano, Pempa Tsering, ha confermato che i delegati si sono espressi a larga maggioranza a favore della Via di Mezzo formulata dal Dalai Lama. L’assemblea, all’unanimità, ha espresso la sua totale fiducia nel leader tibetano al quale ha chiesto di non abbandonare la carica ma di continuare a svolgere il ruolo di guida spirituale e temporale. In realtà, il Dalai Lama ha di fatto annunciato il proprio ritiro. “Verrà il momento in cui lascerò ogni responsabilità di Governo” - ha dichiarato -, “nella nostra democrazia, la mia presenza non è indispensabile”. Tenzin Gyatso ha spiegato anche che è già uno stato di fatto il trasferimento dei suoi poteri e delle responsabilità di Governo al primo Ministro. Ha ricordato ogni decisione viene presa con il Kalon Tripa è il titolo del premier - e che d’ora in avanti i documenti più importanti del Governo Tibetano saranno firmati dal primo Ministro. Un cambiamento profondo, che vuole avvicinare regole e usi dei tibetani alle democrazie occidentale. Un adeguamento solo teorico, dato che il Tibet resta un territorio occupato dalla Cina, che non ammette trattative sull’indipendenza. Il pellegrinare nel mondo del Dalai Lama è l’unico
CINA TIBET
Generalità Nome completo:
Repubblica Popolare Cinese
Bandiera
103
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Cinese mandarino
Capitale:
Pechino
Popolazione:
1.330.503.000
Area:
9.596.960 Kmq
Religioni:
Confuciana, taoista, buddista (95%), cristiana (3,5%), musulmana (1,5%)
Moneta:
Renminbi
Principali esportazioni:
Praticamente tutto nel manifatturiero, più frumento, riso, patate
PIL pro capite:
Us 5.963
modo per ricordare l’occupazione. La situazione in Tibet, non cambia. C’è - dicono gli osservatori - una maggiore rassegnazione proprio da parte dei tibetani, diventati minoranza in casa loro. I cinesi hanno fatto del Tibet un territorio loro, portando milioni di Han a vivere là. Non si sentono più minacciati e sembrano quindi più tolleranti verso alcune necessità dei tibetani, permettendo scritte bilingue sui cartelli stradali e consentendo una maggiore libertà di culto.
rivendicano il loro diritto ad essere uno Stato libero e autonomo. La scelta del Dalai Lama di trovare una soluzione attraverso il dialogo non convince tutti i tibetani. L’ala più radicale del movimento indipendentista chiede all’opinione pubblica mondiale un intervento più duro nei confronti della Cina, da loro considerata Paese occupante. Idea, questa, che si scontra con la realtà politica internazionale: molti Paesi, al di là delle dichiarazioni di principio, non hanno mai riconosciuto il Tibet come Stato sovrano e, quindi, continuano a considerare la vicenda come un problema interno alla Cina.
Per cosa si combatte
“È solo un problema interno”. Hanno pensato a questo le cancellerie di Stati Uniti ed Europa la mattina del 7 ottobre del 1950, leggendo sulle agenzie stampa o sui dispacci dei servizi segreti che quarantamila soldati dell’Esercito cinese avevano attraversato il fiume Yangtze e occupato tutto il Tibet orientale e il Kham - che ora è parte di tre province cinesi - uccidendo ottomila soldati tibetani male armati. Solo sette giorni dopo l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso diventò sovrano del Tibet Il cuore della controversa questione tibetana è tutto il quella frase: è un problema interno. Nessuno lo ricorda più, ma nessun Paese occidentale ha mai riconosciuto il Tibet come uno Stato sovrano indipendente. E non uno dei tanti governi europei o Nord americani che si sono succeduti in 59 anni di occupazione del territorio, dichiarando sempre quanto fosse giusta la fine della militarizzazione del Tibet da parte cinese, ha mai mosso un passo verso il riconoscimento della sovranità. Quindi, in punta di diritto internazionale, Pechino ha ragione nel definire la questione un “pro-
blema interno”. I cinesi - coerenti con questa visione - avevano pianificato tutto. Soprattutto avevano saputo cogliere il momento adatto. Il mondo guardava solo alla guerra in Corea, scoppiata all’alba di domenica 25 giugno 1950, con un attacco della Corea del Nord di Kim Il Sung alla Corea del Sud. Gli Stati Uniti intervennero militarmente, subito, chiedendo e ottenendo l’ombrello politico delle Nazioni Unite. In questo clima, l’attacco al Tibet, pianificato da tempo, passò in secondo piano. Formalmente il Tibet era in una posizione di stallo, nata dall’abbandono dell’India da parte della Gran Bretagna nel 1947. Storicamente, la regione era stata a lungo indipendente, poi era caduta sotto l’influenza della Cina imperiale, prima di essere messa sotto tiro dalla Russia zarista e dal Regno Unito, che intervenne militarmente nel 1904. Da sempre, però, cultura e autonomia politica erano rimaste salde, tanto da definire una identità nazionale, che aveva nel Dalai Lama il capo di Governo e spirituale. La Cina aveva annunciato l’attacco. Mao, al potere dal 1949, aveva
Quadro generale
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Si fondono interessi strategici e una rivendicazione storica nello scontro fra Tibet e Cina. I cinesi da secoli rivendicano quel territorio e lo considerano essenziale dal punto di vista militare. Grazie al Tibet si presidia meglio la frontiera con l’India. Dal punto di vista economico, dalla regione si controllano enormi riserve d’acqua che vengono dai tanti fiumi e vi sono buone risorse minerarie. Queste esigenze cinesi - simile a quelle che nei secoli hanno tentato di controllare l’area - si scontrano naturalmente con la voglia di indipendenza dei tibetani, che forti di una cultura politico-religiosa radicata e delle tradizioni
Discarica nucleare
L’esistenza di scorie nucleari in Tibet è stata denunciata dal Dalai Lama nel 1992. Recentemente la Cina ne ha ammesso l’esistenza. Il 19 luglio 1995, l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha infatti dichiarato che, nella Prefettura autonoma tibetana di Haibei, vicino alle rive del lago Kokonor, il più grande lago dell’altopiano tibetano, vi è “una discarica di venti metri quadrati utilizzata per il deposito di materiale radioattivo”. In quell’area si troverebbe anche un centro nucleare segreto, chiamato Fabbrica 211. Una dottoressa dell’ospedale di Chabcha, Tashi Dolma, ha recentemente denunciato la morte per cancro di sette giovani nomadi che pascolavano il bestiame nella zona: si sono ammalati e i loro globuli bianchi erano aumentati a livelli incontrollabili.
Gedhun Choekyi Nyima
(Maggio 1989)
I dati dell’occupazione
Secondo dati degli osservatori internazionali, oltre un milione di tibetani sono morti a causa dell’occupazione del 1950. Il 90% del patrimonio artistico e architettonico tibetano, inclusi circa seimila monumenti tra templi, monasteri e stupa, è stato distrutto. La Cina ha poi canalizzato verso Pechino le enormi ricchezze naturali del Tibet, favorendo solo la classe dirigente e gli imprenditori cinesi. Lo scarico dei rifiuti nucleari e la massiccia deforestazione hanno compromesso l’ambiente e il fragile ecosistema del Paese. In Tibet sono di stanza 500.000 soldati della Repubblica Popolare.
più volte spiegato che voleva un Cina riunita in tutti i suoi territori e questo significava anche il Tibet. Il 1° gennaio 1950 Radio Pechino annunciò che presto il Tibet sarebbe stato liberato dal giogo straniero. Così, l’occupazione avvenne senza quasi proteste, messa ulteriormente in secondo piano dal fatto che i cinesi il 19 ottobre del 1950 intervennero pesantemente nella guerra di Corea appoggiando il Nord con milioni di uomini e mettendo in grave difficoltà gli Stati Uniti. Il 23 maggio 1951 il Dalai Lama firmò il “Trattato di liberazione pacifica” e diventò vice presidente del comitato permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Il documento permise alla Cina di iniziare la colonizzazione del Tibet. Prima militarizzandolo, poi spingendo i cinesi ad andare nella nuova regione. Il Tibet intanto rinunciava ad avere una politica estera autonoma, a batter moneta, a stampare francobolli. Le terre venivano ridistribuite, soprattutto nelle zone del Kham orientale e nell’Amdo, per non rompere i rapporti con l’aristocrazia. Da quel momento fu tutto un susseguirsi di ribellioni, avvicinamenti pacifici e rotture, spesso alimentate dall’esterno, da altri Paesi. Nel 1959
I PROTAGONISTI
la prima grande rivolta. Il 10 marzo 1959 il movimento di resistenza tibetano guidò una protesta contro i cinesi. Per reprimerla, Pechino schierò 150.000 uomini e di unità aeree. Morirono in migliaia nelle strade di Lhasa e in altre città. Il 17 marzo, il Dalai Lama abbandonò la capitale e chiese asilo politico in India, assieme ad almeno 80mila profughi. I morti pare furono 65mila. Nel 1965 il Tibet venne dichiarato Regione Autonoma, con una annessione di fatto alla Cina. Nel 1968 la Rivoluzione Culturale portò alla distruzione dei monasteri, almeno 6mila e all’uccisione di molti monaci. La resistenza tibetana però non mollava. Nel 1977 e nel 1980 vi furono altre due sollevazioni, anche queste represse duramente da Pechino. Dal 1976, Pechino ha riavviato l’opera di colonizzazione, tanto che in Tibet sono arrivati 7milioni di cinesi, contro i 6milioni di tibetani che ci vivono. L’obiettivo di Pechino, denuncia la resistenza, è cancellare la cultura e l’identità tibetane. Il Dalai Lama, con il suo Governo in esilio in India, ha nel frattempo tentato la via della mediazione, rinunciando a reclamare l’indipendenza, puntando all’autodeterminazione per salvare la cultura del Paese e salvaguardare i diritti umani. Un mediazione proposta nel 1987 tramite gli Stati Uniti è fallita. E come sempre, dopo ogni fallimento, sono ricominciati gli scontri.
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Gedhun Choekyi Nyima, 11° Panchen Lama del Tibet, ha compiuto 21 anni nel maggio del 2010. È stato rapito dalle autorità cinesi, assieme ai suoi genitori, il 14 maggio 1995, a sei anni. A nulla sono valse le proteste di organizzazioni e governi, negli anni: è sempre prigioniero. Perché? La spiegazione è nella figura del Panchen Lama. Il nome si può tradurre come “grande erudito”. Come il Dalai Lama è considerato una reincarnazione del Buddha ed è subordinato solo al Dalai Lama. Non esercitava mai alcun potere civile. Questo permise al 10° Panchen Lama di continuare a vivere in Tibet e di esercitare la propria funzione dopo l’occupazione cinese e la fuga del Dalai. Alla morte, il successore è stato però rapito e suo posto, le autorità della Repubblica Popolare Cinese hanno designato un altro ragazzo, Gyaltsen Norbu, che cresce e studia a Pechino sotto lo sguardo vigile degli organi del partito.
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Un arcipelago per tanti popoli
Sono davvero molti i popoli che vivono nelle Filippine, differenziati spesso solo dalla lingua. La differenza religiosa, infatti, riguarda esclusivamente la minoranza mussulmana nell’isola di Mindanao. Notevole anche la presenza di diversi gruppi tribali, tutti numericamente poco significativi, che si caratterizzano per non aver subito l’influenza della cultura cristiana né musulmana. E da segnalare la massiccia presenza di meticci, cioè discendenti dagli spagnoli e di cinesi. Ecco comunque i dieci gruppi etnici più numerosi Bisaya (20.160.000) Tagalog (13.928.000) Ilocani (9.527.000) Hiliganon (8.068.000) Bicolani (3.504.000) Waray-Waray (3.426.000) Kapampangan (2.667.000) Ispanofilippini (2.575.000) Albay Bicolani (2.155.000) Panggasinan (1.637.000)
Il doppio fronte della guerra interna alla Filippine è sempre aperto. Da un lato lo scontro con gli indipendentisti del Fronte Islamico di Liberazione Moro (Milf), dall’altro la guerra con il Nuovo Esercito del Popolo (Npa) di matrice comunista, continuano a far pagar prezzi alti in termini di vite umane. Nell’autunno dello scorso anno, Il Npa è tornato all’offensiva, con almeno 21 morti nella capitale Manila in vari attentati durante l’anno. In aprile in un agguato un gruppo di ribelli aveva aperto il fuoco e fatto esplodere una mina al passaggio di un veicolo della polizia ad Est della capitale Manila, uccidendo quattro agenti e ferendone cinque. Da quel momento è stato un continuo seguirsi di attentati, attacchi e azioni di polizia. Nei confronti del Milf e degli indipendentisti islamici c’è invece un doppio binario. Il neo presidente Benigni Aquino III - eletto in giugno - ha fatto ripartire le trattative di pace con risultati scadenti, così sono continuate le offensive militari. Per le trattative, il ministro degli Esteri della Malaysia è stato chiamato a fare da mediatore, senza risultato. Il Milf vuole trattare solo sulla base della cosiddetta “sovranità condivisa”, che prevede un unico stato con un Governo autonomo nel Sud islamico. Una ipotesi che può diventare realtà solo con una revisione della Costituzione e quindi con l’intervento del Parlamento filippino, poco disponibile ad una decisione di questo tipo. Così il Milf e il gruppo Abu Sayyaf - legato ad al-Qaeda - continuano a lottare per arrivare a creare uno stato islamico indipendente a Mindanao e nelle isole meridionali delle Filippine. Finito il Ramadan, la offensiva del Governo si è concentrata sull’arcipelago di Sulu, con l’impiego della marina militare per stanare i ribelli.
FILIPPINE
Generalità Nome completo:
Repubblica delle Filippine
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Filippino, Inglese, Spagnolo, Arabo
Capitale:
Manila
Popolazione:
93.000.000
Area:
300.000 Kmq
Religioni:
Cristiana (91%), musulmana (5%), altre (4%)
Moneta:
Peso Filippino
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli, abbigliamento e idraulica
PIL pro capite:
Us 4.923
Nel mirino soprattutto gli uomini di Abu Sayaff, gruppo nato negli anni Novanta per creare uno stato islamico nell’arcipelago del Pacifico e, dicono gli osservatori, degenerato poi diventando un normale gruppo criminale, dedito soprattutto ai rapimenti e alle estorsioni. A comandare la missione del Governo è il generale Benjamin Mohammad Dolorfino, comandate del distaccamento militare di Mindanao Ovest, che ha dichiarato che concentrerà le forze contro il gruppo di Sulu, forte di circa 200 uomini e contro quello di Basilau, che ne conta solo cento.
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Lo scontro principale, nelle Filippine, è tra maggioranza cristiana e minoranza mussulmana, che reclama l’indipendenza. E nel fondo di tutto questo c’è la pessima distribuzione della ricchezza, in termini sociali e territoriali. Il Nord e il Centro dell’Arcipelago sono, appunto, le aree a maggioranza cristiana e sono le zone più ricche rispetto al Sud, a prevalenza mussulmana. Gli islamici - che sono il 5% della popolazione
complessiva - da sempre accusano la maggioranza cristiana di non aver fatto abbastanza per distribuire le risorse equamente. Lo stesso, ma in senso non religioso e con obiettivi differenti, fanno i gruppi di origine marxista. Una cattiva distribuzione che è ben rappresentata dalla diffusione della popolazione sul territorio: il 60% degli 85milioni di Filippini, infatti, vive in una sola isola, Luzon, dove c’è la capitale.
Per cosa si combatte
L’elezione di un altro Aquino alla presidenza, Benigno, figlio dell’icona della democrazia Filippina, Cory Aquino, ha portato speranze nel Paese asiatico, ma la situazione resta difficile e complessa, come è la storia delle Filippine, passate attraverso una lunga colonizzazione e una altrettanto lunga dittatura. Prima colonia della Spagna, poi degli Usa, dopo l’indipendenza il Paese è stato guidato con mano dittatoriale da Marcos sino al 1986, anno in cui inizia la vita democratica delle Filippine, con l’elezione della presidente Cory Aquino. L’arrivo della nuova Presidente portò ad un accordo con i movimenti separatisti musulmani di Mindanao, attivi nel Sud del Paese sin dagli anni ‘50. Venne concessa loro ampia autonomia amministrativa. Questo fermò il conflitto armato con i separatisti. Continuò invece la guerra con il Nuovo Esercito del Popolo: nel 1990, la guerriglia riprese, dopo la denuncia della scomparsa di attivisti politici e sindacali della sinistra. Il 26 novembre 1991 un altro pezzo del passato coloniale se ne andò: gli Usa si ritirarono dalla base di Clark - una delle due esistenti nelle Filippine, l’altra è Subic Bay -, ritirando 6mila effettivi americani. Nel maggio dell’anno dopo venne eletto alla presidenza Fidel Ramos, ex ministro della Difesa. Venne lanciata una campagna contro il crimine che portò al licen-
ziamento del 2% dei poliziotti e alla denuncia per associazione a delinquere di un altro 5%. Contemporaneamente, la guerriglia comunista del Npa perdeva forza a causa delle divisioni interne e di un’amnistia accordata ai suoi membri dal Governo. Nel 1996 parve risolto anche il problema con i separatisti islamici. Il 30 settembre venne firmato un accordo di pace e Nul Misauri, capo del Fronte di Liberazione Nazionale Moro, diventò governatore di Mindanao, regione autonoma enorme. Fu una pace di breve durata. Già nel 2000 i musulmani chiedevano un referendum per l’autodeterminazione, mentre la maggioranza cattolica protestava contro l’accordo non accettandolo. Intanto una serie di scandali per tangenti e corruzione travolgeva la politica. Nell’aprile del 2002 a General Santos, nel Sud del Mindanao, venne dichiarato la stato d’allerta, per l’esplosione di parecchie bombe, con 14 morti, a opera del Milf, il Fronte Islamico di Liberazione Moro. È la ripresa ella guerra. In giugno gli Usa accusarono i leader del gruppo Abu Sayyaf, legato ad al-Qaeda di aver rapito e ucciso due statunitensi. In ottobre, il gruppo mette a segno una serie di attentati contro grandi magazzini e una chiesa, con 8 morti e 170 feriti. L’obiettivo dichiarato è creare uno stato musulmano. Lo scontro con i gruppi isla-
Quadro generale
In nome del Re
Interessante scoprire da dove viene il nome Filippine. Deriva dal nome del re Filippo II di Spagna. Durante i suoi viaggi esplorativi lungo l’arcipelago, l’esploratore e navigatore spagnolo Ruy Lopez de Villalobos le chiamò la prima volta chiamandole las Islas Filipinas, cioè le Isole Filippine. Inizialmente il suo riferimento geografico era solo alle isole di Leyte e Samar, mentre il resto le altre isole avevano nomi differenti. Solo più tardi, il termine Filipinas arrivò ad identificare l’intero arcipelago. Durante la rivoluzione filippina, il Paese si chiamò República Filipina (Repubblica Filippina). Poi, dopo la guerra ispano - americana del 1898 e con l’arrivo degli Stati Uniti la denominazione Filippine iniziò ad apparire sempre più spesso e venne utilizzata come nome ufficiale.
Benigno Simeon “Noynoy” Cojuangco Aquino III
(Manila, 8 febbraio 1960)
La guerra dei nomi
In Asia, come nel resto del mondo, le rivalità geografiche, le rivendicazioni di possesso passano anche attraverso i nomi. Ad esempio, quello che per Pechino è il mar Cinese Meridionale, per Hanoi è il Mare Orientale, le Paracel sono le Hoang Sa per Hanoi e le Xisha per Pechino, le Spratly vengono chiamate Truong Sa dal Vietnam e Nansha dalla Cina. Proprio queste isole sono rivendicate anche dalle Filippine, che hanno compiuto passi formali presso il Governo cinese e l’Onu. L’arcipelago è formato da circa 600 fra atolli corallini e isole, La maggiore è Itu Aba, di appena 0,36 chilometri quadrati di superficie. Nessuna delle isole è abitata in modo permanente. Nel sottosuolo, però, ci sono petrolio e gas naturale, in più l’arcipelago è giusto sulle rotte di navigazione più importanti dell’area. Dal gennaio la Repubblica Popolare di Cina occupa le Paracel, che i francesi avevano annesso all’Indocina nel ’32, e non vuole mollarle. Il Vietnam resta la rivale più agguerrita, nonostante i proclami di amicizia e gli accordi sul confine di terra siglati nel 2009 con Pechino. La nuova assertività, anche marittima, di Pechino pesa. Ma i sei sottomarini che, in base a un accordo di dicembre 2009, Hanoi ha comperato dalla Russia, fanno pensare che il Vietnam non voglia proprio lasciar perdere.
mici divenne sempre più duro, ma restava alta la tensione anche i gruppi guerriglieri di origine marxista. Nel gennaio 2003, il partito comunista si assunse la responsabilità dell’omicidio di un suo ex dirigente, Romulo Kintanar, attribuendolo al suo braccio armato, il Nuovo Esercito del Popolo (Npa). Nel 2003, Amnesty International denunciò l’uso della tortura su prigionieri politici, membri di gruppi armati e criminali comuni. Accusa che venne respinta dal Governo. Nel marzo del 2004, venne sventato un attentato simile a quello che aveva colpito Madrid l’11 marzo. Vennero arrestati quattro membri di Abu Sayyaf con 36 chili di esplosivo confiscati. Uno di loro si dichiarò responsabile dell’attentato che il 27
I PROTAGONISTI
febbraio di quell’anno costò la vita a 100 persone sul SuperFerry 14. Gli arrestati svelarono di essere stati addestrati dalla rete terroristica Jemaah Islamiah, legata ad al-Qaeda, progettavano attentati contro treni e negozi a Manila, città con dieci milioni di abitanti. Nel 2004, la Norvegia mediò un accordo fra Nuovo Esercito del Popolo e Governo. L’anno successivo, dopo negoziati di pace in Malaysia, indipendentisti musulmani e Governo annunciarono un accordo sulle terre ancestrali di cui i ribelli rivendicavano la proprietà da trent’anni. Tregue che non durarono. Un nuovo tentativo di tregua è saltata nel 2010 e sono ripresi i combattimenti. Si calcola che dal 1971 a oggi siano stati più di 150mila i filippini morti tra Mindanao e l’arcipelago di Sulu, nello scontro per l’indipendenza e oltre 50mila gli sfollati. Il conflitto con la guerriglia del Npa, invece, avrebbe procurato almeno 40mila morti, a partire dal 1969.
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Benigno Simeon “Noynoy” Cojuangco Aquino III , è il 15mo Presidente delle Filippine. Soprattutto, però, è il figlio della donna che ha rappresentato la nascita della democrazia nell’arcipelago asiatico, cioè Corazon Aquino, morta nel 2009 a 76 anni. Alla ribalta il 50enne benigno è salito la prima volta proprio durante la presidenza della madre, nel 1987. Rimase, infatti, coinvolto in un tentativo di golpe di alcuni militari. Venne ferito da cinque proiettili e uno gli è rimasto nel collo, come ricordo del fatto. Laureato in economia, dal 1988 fa parte del Partito Liberale, di cui è stato anche segretario. Prima della elezione, è stato uno dei maggiori oppositori della presidente Gloria Macapagal - Arroyo, che ha accusato di violazione dei diritti umani. Ha accettato la candidatura alla presidenza nel 2009, 40 giorni dopo la morte della madre dichiarando di “accettare le istruzioni dei miei genitori e di voler proseguire la lotta per il bene del Paese”. Ha vinto battendo largamente gli avversari e appena insediato ha tentato di aprire una trattativa di pace con gli indipendentisti islamici del Sud. Finora senza risultati.
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Danni economici
La guerriglia naxalita arreca molti danni all’economia indiana. La cosiddetta area naxalita occupa circa il 40% del Paese e un terzo della popolazione indiana. Inoltre, in quelll’area si trovano ricche miniere di ferro e di carbone. Come se non bastasse, la guerriglia naxalita attacca in continuazione le linee ferroviarie, le centrali elettriche e le principali vie di comunicazione. Negli ultimi anni sono tante le aziende che straniere che hanno abbandonato l’area e ancora di più i possibili investimenti persi. L’India è un Paese in piena espansione economica. E se l’economia non ha ancora raggiunto livelli di sviluppo paragonabili a quella cinese è dovuto soprattutto alle tre regioni interne in cui è in corso una guerriglia (Kashmir, Nord-Est ed Est), e in particolare le zone dove operano i naxaliti, che abbiamo visto essere dal punto di vista economico strategicamente più importanti delle altre.
L’India è la più popolosa democrazia del pianeta. Una democrazia impregnata di nazionalismi di ogni tipo, a partire da quello indù. Una democrazia dove la violenza è all’ordine del giorno, sia nei confronti delle minoranze religiose (musulmani in Kashmir), sia di quelle etniche (popoli che vivono nel Nord-Est del Paese), sia nei confronti dei poveri contadini delle regioni centro-Sud orientali (naxaliti). In questo momento all’interno del territorio sono in corso tre guerre, combattute da una parte con lo strumento della guerriglia e del terrorismo, dall’altra con la repressione dell’esercito. Negli ultimi due anni la guerriglia maoista naxalita ha deciso di giocare la carta delle pubbliche relazioni e dell’opinione pubblica. L’autorevole centro studi geostrategici con base in Texas, Stratfor, sostiene che i naxaliti “hanno trovato la strada per mettere in difficoltà il Governo di Nuova Delhi”. Il potere nazionalista indù ha grosse difficoltà a contenere movimenti di opinione e campagne mediatiche. E così, “i naxaliti hanno fatto nascere diverse organizzazioni universitarie a Nuova Delhi e nelle altre capitali regionali, il cui scopo è accattivarsi le simpatie degli studenti e mostrare un volto non violento del movimento”. A quanto pare la mossa ha avuto successo, perché il giornali indiani hanno cominciato a parlare di loro in termini non sempre ostili. I naxalisti sono un movimento marxista maoista, diviso in una settantina di gruppi e organizzazioni diverse, che si batte (a loro detta) per ottenere una riforma agraria e per dare maggiori diritti ai contadini. Nel Nord-Est, invece, ogni anno è uguale all’altro. Una legge dello Stato indiano autorizza ad applicare nei sette Stati che si trovano incastrati tra Bhutan, Bangladesh, Myanmar e Cina “l’uso indiscriminato della forza e arresti senza mandato” in nome del mantenimento dell’ordine pubblico. “Nessun processo o altre azioni
INDIA
Generalità Nome completo:
Repubblica dell’India
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Hindi, inglese e altre 21 lingue
Capitale:
Nuova Delhi
Popolazione:
1.147.995.904
Area:
3.287.594 Kmq
Religioni:
Induista (80,45%), musulmana (13,43%), cristiana (2,34%), sikh (1,87%), buddista (0,77%)
Moneta:
Rupia
Principali esportazioni:
Tessuti, gioielli, prodotti dell’ingegneria e software
PIL pro capite:
Us 2.563[5]
legali contro le forze di sicurezza” macchiatesi di reati “possono essere intraprese senza il permesso del Governo”. E tutto questo avviene quotidianamente fin dal 1971 negli Stati di Arunachal Pradesh, Manipur, Meghalaya, Mizoram, Negaland, Tripura e Assam. In quest’area le minoranze etniche buddhiste, che lottano per l’indipendenza, vengono discriminate, anche nella professione della loro religione.
sull’Oceano Pacifico e che la maggior parte del commercio arriva via mare da Africa, Medio Oriente ed Europa. Inoltre, la Cina è un Paese prima nemico e oggi concorrente dell’India (anche se negli ultimi anni le relazioni tra i due Stati sono molto migliorate). In altre parole, Pechino ha bisogno di porti sicuro per le sue merci e per le risorse energetiche di cui ha bisogno. La guerriglia nel Nord-Est del Paese, invece, combatte per l’indipendenza di quegli Stati dell’Unione indiana e delle etnie che ci abitano. Anche in questo caso, però, c’è dietro la mano della Cina. Le ragioni sono le stesse che per i naxaliti. In questo caso, però, ci sono altri due Paesi che finanziano la guerriglia: il Bangladesh e Myanmar. Entrambi strettissimi alleati della Cina.
Per cosa si combatte
Il movimento naxalita indiano e la relativa guerriglia e la guerriglia del Nord-Est hanno origini lontane. Nascono difatti quando gli inglesi lasciarono l’India, e gli Stati del Nord-Est rifiutarono l’invito dell’allora Presidente indiano Nehru ad entrare nell’Unione indiana. La guerriglia è stata in origine particolarmente attiva in Assam, Nagaland, Manipur e Mizoram dove, alleati del gruppo indipendentista di Angami Zapu Phizo, agiva come squadra di guastatori per la Naga Army secondo il motto: “Il potere politico scaturisce dalla canna del fucile”. Finanziati e addestrati prima dal Pakistan orientale (l’attuale Bangladesh) e poi dalla Cina, col tempo hanno cambiato di segno per diventare ufficialmente i difensori dei diritti dei poveri e delle caste basse nelle zone rurali. La rivoluzione armata naxalita aveva però registrato una forte battuta sotto la presidenza di Indira Gandhi, quando il Governo mise al bando i gruppi rivoluzionari e ne ordinò l’eliminazione. Il movimento di ispirazione maoista, sconfitto ma non morto, si riorganizzò ai principi degli anni Ottanta nella cittadina di Naxalbari, nel lo Stato di Darjeeling. La cittadina da cui il movi-
Quadro generale
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Il movimento naxalita ha una grossa spinta ideologica e sociale. Ma come avviene in tante altri parti del mondo viene appoggiato da forze esterne al movimento che sono mosse da altri interessi. I naxaliti possiedono un esercito di circa 7.000 soldati ben equipaggiati, oltre a una serie di piccole organizzazioni terroriste. Tutto questo è reso possibile dagli aiuti che arrivano dall’estero. In particolare dal partito maoista nepalese (che porta avanti una guerriglia da oltre trent’anni), il partito maoista bhutanese, quello dello Sri Lanka e la Cina (che peraltro è il principale sostenitore anche dei maoisti nepalesi e bhutanesi). La Cina ha bisogno di allargare il suo controllo sui territori che si affacciano sull’Oceano Indiano per pure ragioni commerciali, visto che il Paese si affaccia solo
Muppala Lakshman Rao
Gurkha
Una delle etnie che più si battono contro il Governo centrale di Nuova Delhi è quella Gurkha, un’etnia di origine nepalese che vive nello Stato di Assam. Il popolo Gurkha è famoso in tutto il mondo per aver costituito un corpo speciale all’interno delle forze armate britanniche: il Royal Gurkha Riflemen. I Gurkha sono considerati grandi guerrieri. Li si potrebbe quasi definire i “samurai” del Nord-Est indiano, abilissimi nell’uso del pugnale. Cominciarono ad arruolarsi come volontari nell’esercito della Compagnia britannica delle Indie orientali a partire alla conclusione della guerra anglo-nepalese (1812-1815). La repressione in Assam ha portato alla nascita del Gtf (Forza delle Tigri Gurkha), che conduce da anni una sanguinosa guerriglia contro le forze di occupazione hindu. Una guerriglia letale quella dei Gurkha, abilissimi nelle imboscate, nei colpi di mano e nella lotta corpo a corpo.
mento prende nome e in cui troneggia ancora un busto di Charu Mazumdar, padre ideologico dei moderni guerriglieri maoisti e filosofo “dell’annientamento selettivo”. I naxaliti si proponevano di instaurare il Governo del popolo e fornirono appoggio alle rivendicazioni dei contadini e dei gruppi tribali degli Stati in cui operano. In pochi anni, complici povertà e privilegi dei ricchi duri a morire nelle zone rurali, presero piede un po’ dappertutto. Soprattutto nel misero Stato di Bihar, dove i naxaliti contrastarono efficacemente i temibili eserciti dei latifondisti e si batterono contro i privilegi di casta. Arrivarono a fondare un Governo parallelo che in pochi anni, con azioni armate e con i suoi “tribunali istantanei”, eliminò qualche migliaio di “sfruttatori della classe contadina”. Altrettanto accadde ai movimenti naxaliti in Orissa e nel confinante Madhya Pradesh. Nel 2004 il salto di qualità. Il Maoist Communist Centre of India (Mcc) e il Communist Party of India People’s War (noto anche come People’s Guerriglia Group o Pwg) si sono uniti dando vita
I PROTAGONISTI
al Communist Party of India-Maoist (Cpi-M), superando divisioni ideologiche e conflitti interni. La nuova formazione, di cui è stato eletto segretario generale Muppala Laxman Rao, detto Ganapathi, ha pubblicato un manifesto ideologico contenuto in cinque punti. Negli Stati del Nord-Est, invece, agiscono prevalentemente due organizzazioni armate: il Fronte unito di liberazione dell’Assam (Ulfa) e il Fronte democratico nazionale del Bodoland (Ndfb). La guerriglia iniziò nel 1971, in seguito alla separazione tra il Pakistan occidentale e il Pakistan orientale. Il nuovo Bangladesh abbandonò al suo destino le etnie non indù delle regioni indiane circostanti. E queste per trovare sicurezza si affidarono alla neonata guerriglia. Da allora nulla è cambiato. Anche se a partire dal 2004 il Nord-Est ha il suo martire, in nome del quale combattere. Una trentaduenne del Manipur (Thangjam Manorama Devi) venne accusata senza prove di aver appoggiato i separatisti. In carcere Manorama venne stuprata e poi uccisa durante l’interrogatorio. La terribile vicenda di Manorama fece scendere in strada migliaia di contadini e studenti per chiedere delle leggi razziali. Da allora il movimento separatista ha ripreso vigore.
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Muppala Lakshman Rao, detto Ganapathi è il segretario generale del Partito comunista maoista indiano. La sua leadership è stata ufficializzata nel congresso di rifondazione del partito, il 14 ottobre 2004, con la fusione di due tronconi del movimento dei naxaliti, il Maoist Communist Centre of India (Mcc) e il Communist Party of India People’s War (anche conosciuto come People’s War Group e spesso abbreviato in Pwg). Ganapathi intende portare l’India verso una nuova rivoluzione democratica “contro l’imperialismo, il feudalesimo e il capitalismo burocratico”. Nato nel villaggio di Beerpur, nello Stato dell’Andhra Pradesh, Ganapathi ha lavorato come insegnante liceale, finché non ha incontrato il leader maoista Nalla Adi Reddy. Incontro che lo ha spinto ad entrare nel movimento naxalita. Egli ha dichiarato nel corso di un’intervista: “Mi piacerebbe riuscire a fare qualcosa di simile alla Lunga marcia di Mao anche qui in India. Sono certo che un’impresa del genere porterebbe questo Paese a cambiare. Non ne possiamo più del neocolonialismo dell’Occidente, e nemmeno del sistema parlamentare, che, i fatti dimostrano, essere un sistema fallimentare”.
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Il petrolio
Sono una dozzina i contratti firmati finora dal Governo di Baghdad con diverse compagnie petrolifere internazionali (fra queste l’Eni) per lo sviluppo di altrettanti giacimenti, situati per lo più nel Sud, dove è concentrato il grosso della ricchezza. L’obiettivo, ambizioso secondo diversi esperti, è aumentare la produzione di greggio da 2,4milioni di barili al giorno a 12milioni entro il 2017. Sono contratti “di servizio”, dove la compagnia straniera viene pagata per il lavoro fatto, e non partecipa agli utili della produzione, e hanno una durata di 20 anni. A operare saranno joint venture in cui l’Iraq mantiene una quota di minoranza. Fra le compagnie che hanno concluso gli accordi solo una è americana: la ExxonMobil. A fare la parte del leone sono state la malese Petronas, e i cinesi di Cnpc.
Il 14 dicembre 2008, dopo molti mesi di faticosi negoziati, Iraq e Stati Uniti firmano lo Status of Forces Agreement (Sofa), che stabilisce il ritiro delle truppe Usa dalle città e dai centri abitati entro il 30 giugno 2009 e il loro ritiro totale entro fine 2011. Nel febbraio 2009, il nuovo Presidente Usa Barack Obama annuncia che le operazioni “da combattimento” in Iraq si concluderanno entro il 31 agosto 2010. La scadenza viene rispettata. Nel Paese rimangono circa 50mila soldati statunitensi, con compiti prevalenti di addestramento delle forze di sicurezza irachene. Fino al ritiro totale entro il 2011. Ma la stabilità in Iraq è ancora lontana. Se la violenza è diminuita (relativamente), in campo politico i progressi sono davvero pochi. Le elezioni legislative che si sono tenute il 7 marzo 2010 hanno visto vincere di strettissima misura Iraqiya, alle-
IRAQ
Generalità Nome completo:
Repubblica Irachena
Bandiera
115
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo, curdo
Capitale:
Baghdad
Popolazione:
27.102.912
Area:
437.072 Kmq
Religioni:
Musulmana
Moneta:
Dinar iracheno
Principali esportazioni:
Petrolio
PIL pro capite:
Us 3.400
anza di forze nazionaliste guidata dall’ex primo Ministro Iyad Allawi. Ma a oltre cinque mesi dal voto, non c’è ancora un Governo. Nessuna delle maggiori formazioni politiche ha da sola i 163 seggi che occorrono per votare la fiducia in Parlamento, e i negoziati per le alleanze segnano il passo. Maliki, il premier uscente, la cui coalizione ha solo due seggi in meno della lista di Allawi, vuole a tutti i costi un secondo mandato. Iraqiya insiste sul proprio “diritto elettorale e costituzionale” a formare il Governo. E l’impasse nella quale si trova il Paese fa temere per il suo futuro.
116
L’invasione dell’Iraq del marzo 2003 e il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, con la successiva occupazione guidata dagli Stati Uniti, hanno messo in moto una serie di dinamiche che hanno destabilizzato il Paese. Il controllo delle sue ricchezze, in particolare quella petrolifera, e la questione di una decentralizzazione estrema (definita federalismo) che oppone i kurdi al Governo centrale di Baghdad,
restano nodi irrisolti - strettamente legati - che potrebbero deflagrare in un conflitto. Lo scontro, tuttora in atto, è fra quelle forze politiche che vogliono un forte Governo centrale, che gestisca anche le risorse del Paese a cominciare dal petrolio, e quelle che perseguono un progetto che mira a dare i poteri alle Regioni federali.
Per cosa si combatte
L’Iraq, Paese di storia e cultura millenarie, è oggi noto soprattutto per le sue vicende recenti. Un tempo parte dell’Impero Ottomano, diventa, nel 1920, uno Stato - una monarchia sotto mandato britannico, per decisione della Società delle Nazioni, finita la Prima Guerra Mondiale. Nel 1932 l’indipendenza. Il 14 luglio 1958 un colpo di Stato nazionalista rovescia la monarchia. Ma il Governo di Abdul Karim Qasim durerà poco. Nel 1963, l’8 febbraio, un altro golpe - guidato dal Ba’ath, partito nazionalista arabo, secondo alcune fonti con l’appoggio della Cia. Qasim viene ucciso, e si scatena una repressione sanguinosa, in particolare contro i comunisti. Abdul Salam Arif, Presidente della Repubblica, presto estromette i ba’athisti e diventa primo Ministro. Il 17 luglio 1968 il Ba’ath torna al potere - con un altro colpo di Stato, che instaura il regime del partito unico. Inizia l’ascesa di Saddam Hussein, numero due del generale Ahmad Hasan al Bakr, di cui prende il posto, il 16 luglio 1979, diventando Presidente dell’Iraq. Nel febbraio dello stesso anno (1979), in Iran la Rivoluzione Islamica guidata dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini rovescia il regime dello Scià. L’Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, perdono un alleato strategico nell’area, ma gli eventi inquietano anche il vicino Iraq, dove il regime laico, dominato dai sunniti, ne teme la
possibile influenza, visto che nel Paese gli sciiti sono maggioranza, come in Iran. Il 22 settembre 1980 Saddam attacca l’Iran. Inizia una guerra sanguinosa che si concluderà con un cessate il fuoco il 20 agosto 1988 - senza vincitori né vinti, e con centinaia di migliaia di morti: le stime vanno da 500.000 a un milione (cifre precise non ce ne sono), di cui almeno 300.000 iraniani. L’Occidente - Stati Uniti in testa - si schiera con Baghdad. Finita la guerra, l’Iraq è in una situazione economica disastrosa, con un debito enorme (fra 60 e 80 miliardi di dollari) verso i Paesi arabi del Golfo, che ne hanno finanziato l’avventura militare. Nel luglio 1990, Saddam accusa il Kuwait di abbassare il prezzo del petrolio per indebolire l’economia irachena. Il 2 agosto invade l’emirato. Il 6 agosto le Nazioni Unite impongono un embargo che metterà in ginocchio il Paese: l’obiettivo iniziale è costringere Baghdad a ritirarsi dal Kuwait. Ma incombe anche l’azione militare, in base al Capitolo VII della Carta dell’Onu, che autorizza l’uso della forza per le minacce alla pace internazionale. L’Operazione Desert Storm inizia il 17 gennaio 1991: l’Iraq viene attaccato da una coalizione di 34 Paesi. Il 3 marzo 1991 Baghdad accetta il cessate il fuoco. Le sanzioni vengono mantenute, nonostante il ritiro dal Kuwait. Perché vengano tolte l’Iraq dovrà dimostrare di non
Quadro generale
Il Sofa
Firmato a fine 2008 dal governo di Baghdad con l’amministrazione di George W. Bush, dopo mesi di negoziati, lo Status of Forces Agreement (SOFA) è un accordo bilaterale sulla presenza militare statunitense in Iraq, sulla falsariga dei numerosi accordi con i Paesi stranieri in cui gli Stati Uniti tengono loro truppe. E’ importante soprattutto per il calendario del ritiro delle forze Usa, sostanzialmente imposto ai negoziatori statunitensi dal governo di Baghdad. Due le date: 30 giugno 2009, ritiro dai centri abitati, e 31 dicembre 2011 - quando tutti i soldati statunitensi dovranno aver lasciato l’Iraq. A queste, per decisione del nuovo presidente Usa Barack Obama, si è aggiunta il 31 agosto 2010, fine delle operazioni “di combattimento”. In Iraq restano fino al 2011 meno di 50.000 soldati americani.
Muqtada al Sadr Muqtada al Sadr torna a essere l’ago della bilancia nella politica irachena. Giovane esponente religioso sciita senza particolari credenziali, deve il suo prestigio al fatto di venire da una famiglia influente - che ha avuto due “martiri” sotto il regime ba’athista. Il padre, Mohammed Sadiq al Sadr, fu assassinato a Najaf nel febbraio 1999 da alcuni sicari, mentre un parente, Muhammad Baqir al Sadr, era stato giustiziato nel 1980. Dopo l’invasione dell’Iraq del 2003, Muqtada è stato coerente nel suo atteggiamento contro l’occupazione, con cui ha sempre rifiutato di collaborare. Il suo Esercito del Mahdi, accusato di violenze contro gli arabi sunniti fra il 2006 e il 2007, è stato sciolto e sostituito da un’organizzazione a carattere sociale sul modello degli Hezbollah libanesi. Sadr, che da qualche anno vive in Iran dove studia per diventare ayatollah, è tuttavia anche un politico accorto e pragmatico, con un movimento che ha una vera base popolare fra gli sciiti iracheni. Forte dei 40 seggi conquistati in Parlamento alle elezioni del 7 marzo 2010, il suo appoggio al premier Nuri al Maliki, che vuole a tutti i costi un secondo mandato, si è rivelato decisivo, come già era avvenuto nel 2006.
possedere più “armi di distruzione di massa” (nucleari, chimiche, biologiche). Inizia un regime di ispezioni internazionali, sotto il controllo delle Nazioni Unite. L’embargo devasta il Paese, già distrutto da una guerra, colpendo in particolare donne, bambini, e anziani. E di fatto rafforza il regime. Il programma dell’Onu “Oil for Food”, che dal 1997 tenta di alleviare la drammatica crisi umanitaria, si rivela del tutto inadeguato. Ma fra Iraq e Stati Uniti il braccio di ferro continua: obiettivo di Washington è il “cambio di regime”. Dopo l’11 settembre 2001, il presidente George W. Bush decide di rovesciare Saddam, con il pretesto delle “armi di distruzione di massa”. Agli ispettori dell’Onu viene impedito di completare il loro lavoro di verifica. Pur in assenza di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzi l’azione militare (Francia, Russia, e Cina, tre dei membri permanenti, sono contrari), Stati Uniti e Gran Bretagna decidono di invadere il Paese. Il 20 marzo 2003 inizia l’Operazione Iraqi Freedom. Il 9 aprile i carri armati americani entrano a Baghdad. Deposto il regime di Saddam, il 1° maggio 2003, Bush jr, a bordo della portaerei Abramo Lincoln, sotto uno striscione che dice “Missione compiuta”, dichiara concluse le “operazioni di combattimento”. In Iraq si insedia un’amministrazione civile di occupazione a guida statunitense-britannica la Coalition Provisional Authority. Che presto tuttavia deve fare i conti con una guerriglia efficace e variegata, che la cattura di Saddam (14 dicembre 2003) non scalfisce minimamente. Il rapido precipitare degli eventi convince Washington ad accelerare il “passaggio di consegne” agli iracheni. A fine giugno 2004 la Cpa viene sciolta, e l’Iraq riacquista la sua “sovrani-
I PROTAGONISTI
tà”. Con un Governo a interim guidato da Iyad Allawi (fra i leader dell’opposizione in esilio), in attesa di elezioni. L’Iraq di fatto è ancora un Paese occupato: a legittimare la presenza delle truppe straniere (dal luglio 2003 c’è anche un contingente italiano) è una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, poi prorogata annualmente, che autorizza la cosiddetta “Forza multinazionale” - sotto comando statunitense. Le prime elezioni si tengono il 30 gennaio 2005: un “Governo di Transizione” ha il compito di redigere la nuova Costituzione. Che viene approvata, di stretta misura, in un referendum popolare il 15 ottobre 2005. Il 15 dicembre 2005 gli iracheni tornano a votare. Ma per il Governo bisognerà aspettare il maggio 2006: il nuovo esecutivo guidato da Nuri al Maliki è una coalizione fra partiti sciiti (religiosi) e kurdi - i due gruppi perseguitati dal regime di Saddam. L’ex Presidente iracheno, condannato a morte da un Tribunale speciale, viene giustiziato il 30 dicembre 2006. Il 22 febbraio 2006 un attentato contro la moschea al Askariya di Samarra (luogo assai venerato dagli sciiti) innesca un ciclo sanguinoso di violenze confessionali fra sunniti e sciiti. Migliaia di iracheni di entrambe le confessioni sono costretti a lasciare le proprie case per salvarsi la vita. Molti diventano sfollati interni, molti altri se ne vanno, soprattutto in Siria e in Giordania. Fra loro, moltissimi sunniti e cristiani, in gran parte della classe media professionale. Gli americani non sanno più che fare. Dal gennaio 2007 il presidente Bush jr. avvia una nuova strategia irachena: la cosiddetta “surge”, basata sull’aumento della presenza militare, che raggiungerà un picco di quasi 170mila uomini. Ma il fattore decisivo per la diminuzione della violenza (che pur resta elevata) sono i cosiddetti “Consigli del Risveglio”: formazioni tribali sunnite alleatesi con le truppe Usa per combattere “al-Qaeda in Iraq”.
117
(Najaf, 12 agosto 1973)
118
Come leggere le Mappe
Nella Mappa Onu, qui sopra, troverete solamente indicato lo Jammu and Kashmir poichè si tratta dell’antico nome dell’intera area contesa da India, Pakistan e Cina. La Mappa, qui a destra, indica invece la spartizione di fatto dei territori da parte dei suddetti Stati, con diversa denominazione, mai riconosciuta a livello internazionale.
Terrorismo in India
18 dicembre 2001, un commando di estremisti islamici irrompe nel parlamento indiano a Nuova Delhi. Il bilancio è di 13 morti. L’attacco è rivendicato da una sedicente sigla terrorista che combatte per l’indipendenza del Kashmir. 25 novembre 2008, un commando di terroristi pachistani attacca l’hotel Taj Mahal e il centro ebraico di Mumbai, in India. Dopo 62 ore di battaglia i morti sono 195. Nuova Delhi accusa i servizi segreti pachistani di aver progettato l’operazione. Tra questi due attacchi in India sono avvenute centinaia di azioni del terrorismo islamico. Tutti attacchi rivendicati in nome dell’indipendenza del Kashmir.
Per raccontare di cosa accade in Kashmir dobbiamo spostarci altrove. A Kabul, nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2010. Un commando paramilitare irrompe nel City Center. Il bilancio è di nove morti (tra cui un agente dei servizi segreti italiani) e ventinove feriti. Qualche anno prima, a Herat, in Afghanistan occidentale, il 7 maggio 2006. Una bomba esplode davanti a un caffé: due morti. In entrambi i casi la colpa viene attribuita ai talebani. In realtà, l’inchiesta sull’attentato del 2006 scoprirà che a piazzare l’ordigno è stato un agente dell’Isi (il servizio segreto pachistano), il cui scopo fallito era far saltare in aria il consolato indiano che si trova a pochi metri dal caffé. Emergerà anche che ad aprire il fuoco nell’edificio della capitale nel 2010 era stata una squadra militare pachistana, con lo scopo di colpire una centrale di spionaggio indiana. Questo attacco non è altro che l’ultimo di una serie infinita di operazioni militari contro bersagli indiani in Afghanistan. E sì, perché la guerra tra India e Pakistan per il controllo della regione del Kashmir si sta oggi combattendo in Afghanistan, in territorio neutrale. Nuova Delhi cerca di prendere il controllo del Paese per stringere il Pakistan in una morsa, il Pakistan cerca di opporsi a questo disegno, anche perché considera l’Afghanistan alla stregua di una colonia. “La guerra in Kashmir sta all’Asia Meridionale come il conflitto arabo-israeliano sta al Medio Oriente”. Una sintesi perfetta. A pronunciare la frase, un agente dei servizi segreti russi esperto di India. Stesso più o meno l’anno di inizio del conflitto (1947 il Kashmir, 1948 l’arabo-israeliano), stessa la religione di una delle due parti in causa (l’islam), stesso il potenziale destabilizzante per l’intera regione e anche per il pianeta intero, stessa la complessità della rete di attori protagonisti del conflitto, stessa la presenza Generalità Nome completo:
Jammu e Kashmir
Bandiera
Lingue principali:
Hindi, Inglese
Capitale:
Jammu e Srinagar (rispettivamente capitali invernale ed estiva dello Jammu e Kashmere)
Popolazione:
11.729.000
Area:
101.387 Kmq
Religioni:
Musulmana ma nella regione Jammu prevale la hindu e in quella del Ladakh quella buddhista
Moneta:
Rupia
Principali esportazioni:
Non disponibili
PIL pro capite:
n.d.
KASHMIR
Generalità Nome completo:
Azad Kashmir
Bandiera
119
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Kashmiri, Urdu, Hindko, Mirpuri, Pahari, Gojri
Capitale:
Muzaffarabad
Popolazione:
3.965.999
Area:
13.297 Kmq
Religioni:
Buddista, musulmana, induista, sikh
Moneta:
Rupia
Principali esportazioni:
Non disponibili
PIL pro capite:
n.d.
del terrorismo. Una guerra, dunque, che alterna scontri tra eserciti, pogrom nei confronti della religione del nemico e campagne di terrorismo. Ed è proprio quest’ultimo punto ad essere il più controverso. Le organizzazioni terroristiche in Pakistan sono tutte di carattere religioso e al tempo stesso controllate da una parte del potere attraverso una parte delle forze armate e una parte dell’Isi. Questi gruppi organizzano attentati in India, ma anche in Pakistan, contro il loro stesso governo. Pratica, questa degli auto attentati, adottata talvolta anche dai servizi segreti indiani.
Il Kashmir è una regione montagnosa che si divide tra tre Paesi: India, Pakistan e Cina. Non ha particolari risorse minerarie, né agricole, non vi sorgono complessi industriali significativi. Insomma, al contrario di quanto solitamente avviene, la guerra non ha nulla a che fare con l’economia o il controllo delle risorse. È probabilmente l’unico vero conflitto politico, etnico e religioso. In quel triangolo di Himalaya ai piedi del K2 si combatte in nome di Allah o di Shiva, si combatte perché l’esercito indiano è troppo repressivo o per far cessare le bombe ai mercati piazzate da fanatici islamici, si combatte perché
il Pakistan lo si combatte da oltre sessant’anni o perché l’India è un nemico da sconfiggere, si combatte perché si ha paura che l’avversario usi prima o poi la bomba atomica in suo possesso, si combatte perché è l’Arabia Saudita che te lo chiede o perché la Russia ha paura dell’espansionismo pachistano e la Cina di quello indiano, si combatte per tenere a bada il crescente nazionalismo interno ai due Paesi, si combatte perché si è sempre fatto così, perché ben quattro generazioni sono nate e cresciute in questa guerra e la guerra e l’odio sono lo stato naturale delle cose.
Per cosa si combatte
120
UNHCR/B.Baloc
Una posizione strategica che rende la Regione appetibile per troppi Paesi. Poi, scontri di tipo religioso e culturale fra gruppi differenti. Sono queste le ragioni che portano il Kashmir ad essere teatro di una sanguinosa guerra da decenni. Non a caso, il territorio è stato spartito negli anni dai tre grandi Paesi vicini: India, Pakistan e Cina. Di fatto si tratta di un’area amministrata da tre diversi Governi: l’India si è impossessata dei territori dello Jammu, della Vallata del Kashmir e del
Ladakh (tutti e tre questi territori prendono l’unico nome di “Jammu e Kashmir” e hanno un’estensione pari a 81.954 kmq); il Pakistan dell’Azad Kashmir e dei Territori del Nord, cioè il Gilgit ed il Baltistan (97.547 kmq); la Cina dell’Aksai Chin e del Shaksgam (42.735 kmq). Si tratta di suddivisioni che non hanno mai ottenuto un riconoscimento ufficiale, elemento che aggrava ulteriormente la situazione e che alimenta la guerra per il controllo del Kashmir. A combatterla sono soprattutto
Quadro generale
UNHCR/T.Irwin
Syed Ali Shah Geelani
Syed Ali Shah Geelani è il più importante leader politico del movimento indipendentista del Jammmu e Kashmir. Egli è fondatore e presidente del partito Jamaat-e-Islami Jammu and Kashmir. Geelani pensa che la questione del Kashmir si possa risolvere in maniera pacifica, e non attraverso la guerra e il terrorismo. È anche convinto che non potrà mai esserci una pacifica soluzione del conflitto finché l’India non fermerà le violazioni dei diritti umani nella regione. La sua è una visione politica pragmatica. Geelani si rende conto che il Kashmir non sarà mai uno Stato autonomo. “Ammesso che India e Pakistan accettassero una soluzione del genere, la Cina non darà mai il benestare”, ha sostenuto più volte nel corso di interviste. Egli quindi lotta perché il Jammu e Kashmir diventi uno Stato federato pachistano. Nemico giurato dell’ex Presidente Pervez Musharraf, Geelani ha instaurato buoni rapporti con l’attuale Presidente Asif Ali Zardari. Geelani ha 81 anni ed è malato di cancro ai reni. Bisognoso di cure all’estero, il visto gli è stato rifiutato dagli Stati Uniti, mentre l’India ha permesso che si curasse a Mumbai.
Il ruolo della Cina
La Cina gioca un ruolo fondamentale nei delicati equilibri tra India e Pakistan per il Kashmir. Da una parte Pechino appoggia Islamabad perché combatte il comune avversario indiano, dall’altra ha paura di fomentare troppo l’irredentismo islamico. La popolazione della regione autonoma del Sinkiang, al confine occidentale della Cina, è musulmana. Gli Uiguri (così si chiama quel popolo) hanno fatto nascere un vero e proprio movimento indipendentista, aiutati dai gruppi terroristi pachistani che combattono in Kashmir. La Cina, dunque, negli ultimi anni si sta avvicinando all’India, sia con scambi commerciali, sia militari che d’intelligence. Inoltre, Pechino riceve buona parte dei suoi fabbisogni petroliferi dall’Iran. Petrolio che attualmente arriva in Cina via mare, mentre sarebbe molto più economico e rapido farlo arrivare via terra, attraverso il Pakistan. Evidente, quindi, la doppia partita diplomatica giocata dalla potente Cina, che confina per oltre 500 chilometri con il Kashmir.
India e Pakistan dato che rivendicano la sovranità sull’intera Regione mentre la Cina si “accontenta”solo della porzione che occupa attualmente. È nel 1947 che si gettarono le basi per lo scontro. Dopo la dissoluzione dell’India britannica, si scatenarono violenti scontri, soprattutto nello Jammu, che portarono al massacro di migliaia di musulmani. Nei distretto di Gilgit scoppiarono rivolte per ottenere l’annessione al Pakistan, alla quale però si oppose il maragià Hari Singh che, preoccupato dall’avanzare dei combattenti islamici, chiese la protezione dell’India, con cui firmò un trattato di adesione. L’intervento indiano portò al conflitto con il Pakistan. La guerra si concluse nel 1949, grazie alla mediazione delle Nazioni Unite, che decisero di creare un confine provvisorio chiamato “linea di controllo”. Nello stesso anno l’Azad Kashmir si conferì una Costituzione e creò un Parlamento; al suo Governo, legato a quello Pakistano, venne affidata
I PROTAGONISTI
l’amministrazione di Gilgit, del Baltistan e dei Territori del Nord. Nel 1954 il Jammu e Kashmir vennero annessi all’India, ma i contrasti tra induisti e musulmani continuarono cruenti. Annessioni coatte e scontri religiosi portarono, nel 1965, allo scoppio di una nuova guerra con il Pakistan, terminata un anno dopo con un nulla di fatto, dato che i due eserciti si ritirarono verso le posizioni che occupavano prima dei combattimenti. Nel 1974 il Pakistan non riconobbe l’accordo con il quale il Jammu e Kashmir veniva inserito nell’Unione Indiana. La conseguenza fu che le tensioni tra la comunità induista e musulmana si impennarono. La componente islamica iniziò a rivendicare il diritto alla separazione, con durissimi scontri con l’esercito indiano. La situazione peggiorò ulteriormente nel 1999, quando l’India annunciò la ripresa degli esperimenti nucleari e il Pakistan rispose con i suoi primi test atomici. Il Pakistan invase i territori indiani, scatenando la breve ma intensa guerra del Kargil, terminata grazie alla mediazione degli Usa.
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(Zoorimunz, 29 settembre 1929)
UNHCR/B.Baloch
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Venti di guerra
I venti di guerra che partono dalla valle di Fergana soffiano anche in Tagikistan. Il 19 settembre 2010 una ventina di soldati dell’esercito regolare tagiko sono stati uccisi nell’Est del Paese, nel corso di violenti scontri con i guerriglieri islamici capitanati dal comandante Mullo Abdullo Rakhimov, legato al MIU. Nell’area interessata, la valle di Rasht, l’esercito era impegnato da settimane nel tentativo di catturare 25 militanti di al-Qaeda fuggiti a fine agosto dalla prigione centrale di Dushambé. Non è la prima volta che il fondamentalismo islamico mette piede in Tagikistan. Già negli anni ’70 operava in clandestinità il Partito Islamico di Rinascita, che fomentò diverse ribellioni contro il regime sovietico. E alla data dell’Indipendenza, nel 1991, dopo lo scioglimento dell’Urss, il Tagikistan è teatro di una vera e propria guerra civile fra i gruppi islamici ed il regime del nuovo presidente, Emomali Rahmonov. Questo conflitto provocherà decine di migliaia di morti e durerà fino al 1997, quando viene firmato un Trattato di Pace. In realtà, molti guerriglieri non fecero altro che traslocare nel confinante Afghanistan, da dove però sono rientrati nel 2009, pronti a riprendere la jihad con l’intento dichiarato di rovesciare il Governo di Rahmonov. UNHCR/ S.Schulman
Il 6 e 7 aprile 2010 le strade di Biskek, la capitale del Kirghizistan, si sono riempite di manifestanti reclamanti a gran voce le dimissioni del presidente Kurmanbesh Bakiyev, in carica dal 2005, accusato di autoritarismo. I violenti scontri con le forze dell’ordine hanno fatto almeno 80 morti e un migliaio di feriti. Dopo una settimana di caos, con l’assalto al Parlamento, alla presidenza e alla tv di stato, un golpe bianco ha portato al potere una donna, l’ex ministro degli Esteri divenuto leader dell’opposizione, Roza Otunbayeva, che ha subito promesso di avviare una transizione pacifica alla democrazia. Il 27 giugno si è tenuto un referendum, che ha sancito la trasformazione del Kirghizistan in una Repubblica parlamentare e non più presidenziale. La Otunbayeva ha giurato come Presidente della Repubblica il 13 luglio e in qualità di capo del Governo ad interim si è impegnata ad indire nuove elezioni per il mese di ottobre 2011. A tutti questi avvenimenti è stato appioppata, un po’ troppo sbrigativamente, l’etichetta di “rivoluzione kirghiza”. Sarebbe la terza rivoluzione nel giro di 20 anni, considerando la rivoluzione di seta che portò il Kirghizistan all’indipendenza, nel 1991, dopo la dissoluzione dell’Urss, e la rivoluzione dei tulipani, che nel 2005 sancì definitivamente il passaggio all’epoca post-comunista, con le dimissioni del presidente Akayev e l’ascesa al potere di Bakiyev. In realtà, i moti di piazza dell’aprile 2010 e i drastici mutamenti politici che ad essi sono seguiti sono solo il capitolo più recente nel lungo processo di destabilizzazione subito dal Kirghizistan alla fine della Guerra Fredda. La prova sta nei violenti scontri interetnici fra kirghizi e uzbeki che hanno funestato il Sud del Paese e in particolare la regione di Osh fra l’11 e il 15 giugno 2010, con un bilancio stimato in almeno 2000 morti e un flusso di 100mila profughi spinti oltre frontiera, in Uzbekistan. È vero infatti che in questi scontri ha giocato certamente un ruolo il clan dell’ex-presidente Bakiyev, deposto due mesi prima, rifugiatosi poi in Kazakistan e smanioso di rientrare nel gioco politico. Ma è vero anche che la contrapposizione fra la maggioranza kirghiza
Kirghizistan
Generalità Nome completo:
Repubblica del Kirghizistan
Bandiera
123
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Kirghizo, russo
Capitale:
Bishkek
Popolazione:
5.000.000 circa
Area:
198.500 Kmq
Religioni:
Musulmana sunnnita, minoranze cristiane
Moneta:
Som kirghizo
Principali esportazioni:
Gas naturale, oro, mercurio, uranio, carni, lana , cotone
PIL pro capite:
Us 2.184
(che rappresenta il 65% della popolazione) e la minoranza uzbeka (15%) è un problema politico che si trascina da tempo. Ancor più preoccupante è il fatto che nessuna delle due potenze che si contendono l’egemonia in Asia centrale, Russia e Stati Uniti, si sia decisa ad intervenire per evitare questo ultimo bagno di sangue, con l’invio di una forza multinazionale di interposizione. Il risultato è che nel Sud la convivenza fra kirghizi e uzbeki permane assai difficile, con la possibilità (non così remota) che le violenze si allarghino anche alla minoranza degli uiguri, che rappresentano attualmente il 5% della popolazione.
124
Russia e Stati Uniti da anni si contendono il Kirghizistan a suon di dollari camuffati da aiuti economici, per motivi squisitamente geopolitici. Gli Stati Uniti, infatti, fin dal 2002 hanno ottenuto il permesso di stanziare 2000 soldati nella base militare di Ganci, vicino Biskek, che è diventata con gli anni un importante centro di transito per le operazioni della Nato in Afghanistan. La Russia dal canto suo, che pure mantiene una sua base militare non lontana, a Kant - residuato dell’epoca sovietica - non ha mai nascosto di essere ostile a quella che giudica una sfacciata ingerenza americana nel proprio spazio d’influenza. E aveva promesso al presidente Bakiyev aiuti economici per più di due miliardi di dollari se la base di Ganci fosse stata chiusa. Immediato è stato il “rilancio” degli Usa, con una escalation di promesse economiche e di intrighi diplomatici che hanno finito per minare la stabilità del Governo, fino a diventare una concausa nella caduta precipitosa del regime di Bakiyev. Secondo alcuni analisti, la nomina a Presidente ad interim di Roza Otunbayeva - che è stata per tre anni ambasciatore negli Usa e poi in Gran Bretagna - va interpretata come una vittoria sia pur temporanea degli americani nel complicato Great Game che si combatte in Asia Centrale. Ma la partita è ancora aperta. Anche la contrapposizione fra kirghizi e uzbeki ha radici politiche, e ben poco o nulla di etnico. La sua spiegazione va cercata infatti nella scelta fatta da Stalin negli anni ‘30 di smembrare il vecchio Turkestan e creare dal nulla cinque nuove Repubbliche in Asia Centrale - Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan, Kazakhistan - cercando poi di dotarle di una certa omogeneità, fondata su criteri prevalentemente etnici. Tale scelta avrebbe anche avuto una sua logica se si fosse riuscito a distribuire la popolazione di conseguenza, superando cioè la compresenza e il meticciato etnico che contraddistingueva, ieri come oggi, diverse aree geografiche e in particolare la Valle di Fergana, che è stata divisa fra Uzbekistan e Kirghizistan. Il risultato invece è stato che 700mila uzbeki si sono ritrovati a essere cittadini del Kirghizistan, con l’aggravante che in alcune città del Sud rappresentano il gruppo etnico più numeroso: ad Osh sono il 49% della popolazione, contro il 39% rappresentato dai kirghizi; a Jalalabad sono il 43% e nel distretto di Aravan addirittura il 59%. Più che su basi etniche, la vera contrapposizione in Kirghizistan si è creata fra il Sud agricolo e il Nord industriale: il primo saldamente in mano agli uzbeki, grandi commercianti, il secondo in mano invece ai kirghizi e ai russi, che detenevano le leve dell’amministrazione pubblica e quindi il potere. La convivenza non è mai stata pacifica, ma almeno in apparenza si è mantenuta nei binari dell’ordine pubblico, senza violenti scontri di piazza, fino al 1989-1990, quando la crisi dell’Urss è apparsa irreversibile
ed è cominciato a profilarsi la possibilità di un cambio di regime. È all’epoca che si segnalano le prime manifestazioni di piazza della minoranza uzbeka, capeggiata da un proprio movimento nazionalista, e i primi scontri con la maggioranza kirghiza, fedele al presidente Askar Akayev, intellettuale di prestigio ed esponente di spicco della corrente liberal del Partito comunista locale, saldamente al potere.
Per cosa si combatte
UNHCR / S. Schulman
Eppure, all’inizio degli anni ‘90 fa il Kirghizistan passava per essere “la Svizzera” dell’Asia Centrale. Grazie all’abilità del suo carismatico Presidente, Akayev, era riuscito infatti a superare senza spargimenti di sangue la difficile transizione che in breve tempo aveva portato sia alla dissoluzione dell’Urss che alla proclamazione dell’indipendenza, il 31 agosto 1991. Le riforme economiche ed istituzionali promosse da Akayev avevano inoltre contribuito a creare un quadro di promettente democrazia, che non aveva paragoni nella regione, se si considera che sia in Uzbekistan che in Tagikistan la fine dell’Urss non aveva comportato alcun cambiamento sostanziale nello status quo, lasciando il potere saldamente nelle mani della nomenklatura. E invece, nel giro di qualche anno, anche il Kirghizistan subisce la classica involuzione autoritaria tipica dei regimi presidenziali. Con una serie di revisioni costituzionali poi approvate con dei referendum farsa - nel 1993, nel 1996 e nel 2003 - Akayev accentua infatti il centralismo amministrativo, rafforzando i poteri del capo dello Stato. Allo stesso tempo viene imposta una forte restrizione delle libertà politiche, parlamentari e personali, al punto che sia la scelta dei candidati alle elezioni che dei giudici e degli alti funzionari pubblici diventa una delle tante prerogative del Presidente (e del suo clan). Non è perciò casuale se le elezioni locali
Quadro generale
UNHCR/ S.Schulman
Movimento islamico dell’Uzbekistan
La valle di Fergana
Il cuore economico, culturale e sociale dell’Asia Centrale batte certamente nell’antica valle di Fergana: un’oasi di verde pianeggiante coltivata a cotone, attraversata dal fiume Syr Darya e incassata fra le steppe desertiche e le montagne. Solo qui c’è acqua in abbondanza e una terra fertile; col risultato che da secoli la valle di Fergana vanta una densità abitativa inusuale per questa regione e una ricchezza di vita che non ha pari. “Chi controlla la valle di Fergana - si diceva non a caso nei secoli del Great Game - controlla tutta l’Asia Centrale”. Un insegnamento che Stalin pensò bene di non sottovalutare, quando decise di smembrare l’antico Turkestan, creando dal nulla cinque nuove repubbliche in Asia Centrale. La valle di Fergana finì così per essere orrendamente smembrata fra Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan, senza alcun rispetto per la continuità territoriale e con l’unica logica di affidarne il controllo a più guardiani. Il che non ha impedito al radicalismo islamico di attecchire da queste parti e di crescere con forza, fino a diventare un punto di riferimento per la regione.
del 2002 verranno fortemente contestate, per via dei brogli evidenti, con la dura repressione delle proteste popolari. Ancora più contestate saranno le elezioni parlamentari del marzo 2005, e in questo caso le proteste sono talmente violente da spingere il presidente Akayev a fuggire in Russia e subito dopo a rassegnare le dimissioni. È la cosiddetta “rivoluzione dei tulipani”, che a dispetto dell’entusiasmo con cui è stata accolta in Occidente - al pari delle altre rivoluzioni soft che si sono verificate negli stessi anni avvenute in Georgia e Ucraina - in realtà è stata solo l’occasione per un avvicendamento interno allo stesso gruppo di potere. Con l’unica differenza che mentre Akayev, originario del Nord, rappresentava soprattutto gli interessi della maggioranza kirghiza, il suo successore Bakiyev, originario del Sud, ha avuto il soste-
I PROTAGONISTI
gno della minoranza uzbeka, in cerca di riscatto sociale. È difficile capire se la transizione alla democrazia avviata dal nuovo presidente Otunbayeva potrà ora compiersi fino in fondo e, soprattutto, se i nuovi assetti politici e istituzionali che il Kirghizistan si darà riusciranno a convogliare su binari pacifici le rivalità etniche ormai esacerbate fra maggioranza kirghiza e minoranza uzbeka. Molto dipende dagli esiti del complicato Great Game che Russia e Stati Uniti stanno giocando in tutta l’Asia Centrale. C’è innanzitutto da vedere come evolverà la situazione in Afghanistan, soprattutto in caso di partenza delle truppe Usa e della Nato. E non bisogna poi dimenticare la stretta interdipendenza che ancora oggi, per motivi etnici e non solo, lega il destino del Kirghizistan a quello dell’Uzbekistan e al Tagikistan: col risultato che anche un battito di farfalla dall’altra parte della frontiera rischia, da queste parti, di provocare un terremoto.
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Si chiama Miu, Movimento islamico dell’Uzbekistan (di cui Tohir Yo’Idosh è uno dei fondatori) ed è diventato lo spauracchio di molti governi centro-asiatici, costretti a confrontarsi con il pericolo dell’islam più radicale, quello che predica la Jihad armata e sogna l’instaurazione di un nuovo califfato. Fondato nel 1997 nella valle di Fergana, il Miu ha costruito la sua popolarità sulla feroce repressione subita. Per anni, infatti, come testimoniano Amnesty International e Human Rights Watch, l’unica risposta del regime uzbeko alla sfida lanciata dal Miu è stata la repressione brutale, che ha portato alla chiusura di centinaia di moschee e all’arresto (con torture) di decine di migliaia di cittadini colpevoli solo di essere musulmani. L’attentato dell’11 settembre alle Twin Towers ha finito inoltre per dare una “copertura” politica alla repressione di Karimov, garantendogli la benedizione e l’appoggio degli Usa. Il risultato è che gli abitanti della valle di Fergana hanno aderito in massa al Miu Ed oggi i militanti del Miu combattono in Afghanistan, Pakistan, Cecenia, addirittura in Yemen. Cellule del Miu sono nate poi in Tagikistan e in Kirghizistan, sfruttando il malcontento della minoranza uzbeka.
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Terrorismo in Pakistan
In Pakistan ci sono 43 gruppi di terroristi islamici. Alcuni di questi si battono per l’indipendenza del Kashmir dall’India, altri per l’indipendenza delle aree tribali (al confine con l’Afghanistan) dal Pakistan, altri ancora per l’indipendenza del Beluchistan sempre dal Pakistan, una nutrita pattuglia di sigle, invece, lotta per avere uno Stato confessionale islamico. Il gruppo più influente è l’Esercito dei Giusti (Lashkar-e-Taiba o Let). Molto influenti anche Jamaatud-Dawa (JuD), Sipah-e-Sahaba, Jaish-e-Muhammad, Harkatul Jihad al-Islami, Harkatul Mujahideen, Hizbut Tahrir e Lashkar-e-Jhangvi.
UNHCR/B.Baloch
“Gli Stati Uniti stanno facendo un gioco al massacro con il Pakistan. Vogliono ripetere l’esperienza jugoslava e irachena. In altre parole, Washington vuole disintegrare il Pakistan in tanti piccoli Stati. È il loro modo per neutralizzare un Paese pericoloso per i loro interessi”. L’agente della National Security Agency (Nsa), che ha rilasciato questa dichiarazione a chi scrive, per anni si è occupato dello spionaggio in Asia Meridionale. “È vero, il Pakistan sta deflagrando. Se nessuno aiuterà Islamabad il Paese esploderà il mille pezzi”, ha confermato il generale Alain Lamballe, responsabile del Pakistan per conto dei servizi segreti francesi. Il Pakistan è sull’orlo della guerra civile. Il Governo contro se stesso, l’esercito contro se stesso, i servizi segreti (Inter Services Intelligence o Isi) contro se stessi. Gli unici che combattono contro un nemico diverso sono i terroristi. Gli attentati si susseguono a un ritmo di uno a settimana. Il Governo ha paura di prendere posizione. Gli stessi Paesi amici una volta si schierano a fianco del presidente Asif Ali Zardari, la volta successiva utilizzano l’organizzazione terrorista di turno per propri fini strategici. Le forze armate e i servizi segreti cercano di reprimere come possono il terrorismo e l’estremismo islamico, mentre alcuni loro colleghi aiutano le stesse forze per cercare di ottenere il controllo dell’Afghanistan, considerato da Islamabad né più né che una colonia. A tutto questo va aggiunta la presenza di una numerosissima comunità sciita, la seconda nel mondo con oltre trenta milioni di fedeli. Gli estremisti sciiti e sunniti si odiano più di quanto questi odino gli infedeli cristiani. Dietro gli sciiti c’è l’Iran, che vorrebbe approfittare della dissoluzione del Pakistan per annettersi l’enorme Stato (a maggioranza sciita) del Baluchistan. Se il Pakistan vuole sopravvivere devono accadere due cose: il Governo deve decidere da che parte stare e devono finire le lotte intestine. In altre parole, o il Pakistan appoggia totalmente la
PAKISTAN
Generalità Nome completo:
Repubblica Islamica del Pakistan
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Inglese, urdu, punjabi, sindi, pashto, baluchi
Capitale:
Islamabad
Popolazione:
155.694.740
Area:
803.940 Kmq
Religioni:
Musulmana (95%), in maggioranza sunniti; cristiana (2%), indù (1,6%)
Moneta:
Rupia pakistana
Principali esportazioni:
Tessuti, cotone, pesce, frutta
PIL pro capite:
Us 2.653
linea dell’estremismo islamico oppure si schiera realmente con l’Occidente e cerca di trovare una soluzione negoziale con l’India, con cui è da sessantatre anni in guerra permanente. L’ex candidata alla Presidenza Benazir Bhutto aveva scelto di combattere l’ala militare ed estremista del potere. Non a caso è stata assassinata. Oggi Presidente è il vedovo della Bhutto, Asif Ali Zardari, che ha dichiarato di voler seguire le orme della sua defunta consorte.
zione di un’autostrada e di una ferrovia che portano a Nord, verso la catena montuosa del Karakoam (Himalaya), oltre la quale c’è la Cina. In altre parole, il Pakistan sta diventando il porto commerciale dell’alleata Cina, e questo dà fastidio a molti. Infine c’è l’elemento religioso. Il Pakistan è a maggioranza musulmano sunnita, ma nel Paese vive anche una minoranza sciita di trenta milioni di fedeli, che fanno del Pakistan il seconda Paese sciita al mondo dopo l’Iran. La guerra religiosa in atto nel Paese vede da una parte i sunniti appoggiati dall’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo dall’altra gli sciiti appoggiati, appunto, dall’Iran. Entrambi fanno leva sul vicino conflitto afgano, entrambi usano le moschee come arma di propaganda, entrambi usano il terrorismo come arma, entrambi puntano alla dissoluzione del Paese, entrambi gli schieramenti sono appoggiati da una parte del Governo pachistano, da una parte delle forze armate e da una parte dei servizi segreti. Contro i due contendenti il resto del Governo, delle forze armate e dei servizi segreti, ovvero quelli che vogliono un Pakistan unito, e possibilmente laico.
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Il Pakistan è un Paese chiave per il commercio internazionale e per l’industria petrolifera. Eccetto l’Iran e l’unico Paese che confina con l’Asia centrale che si affaccia sull’Oceano Indiano. Nel sottosuolo di Turkmenistan, Kazakistan e Uzbekistan si trovano le più vaste riserve al mondo di gas e ricchissimi giacimenti di petrolio. Per far uscire gli oleodotti dalla regione ci sono tre strade possibili: il Caucaso a Ovest, la Russia a Nord, l’Oceano Indiano a Sud. Il Caucaso è scosso da continui conflitti, quindi poco sicuro. La Russia è antagonista di quell’Occidente che sta cercando di sottrargli proprio le risorse dell’Asia centrale. Per accedere all’Oceano Indiano bisogna passare o attraverso l’odiato Iran oppure via Afghanistan e Pakistan. Ovviamente l’Occidente sceglie quest’ultima strada. Il Pakistan è anche importante per le rotte commerciali a causa della sua posizione geografica strategica. Nel Baluchistan si sta finendo di ultimare il porto di Gwadar, il più grande dell’Oceano Indiano. È qui che scaricherebbero il loro greggio le petroliere provenienti dal Golfo Persico, è qui che scaricherebbero i loro container le navi provenienti dall’Africa, e dall’Europa. Il Governo pachistano sta ultimando la costru-
Per cosa si combatte
I talebani
I talebani sono gli studenti delle scuole coraniche che i wahhabiti (il credo religioso islamico praticato in Arabia Saudita) hanno edificato e finanziato in Pakistan. Inoltre, i talebani appartengono all’etnia pashtun, presente nel Pakistan occidentale e meridionale e nell’Afghanistan meridionale, orientale e centrale. Il pensiero dei talebani, estremamente rigido ed arcaico, è stato descritto come “un’innovativa combinazione di shari’a e pashtunwali”, il codice d’onore dei pashtun, ispirandosi all’interpretazione dell’islam dell’estremismo sunnita indiano deobandi, che enfatizza la solidarietà, l’austerità e la famiglia (saldamente gestita dagli uomini). Oltre a voler riconquistare l’Afghanistan, i talebani compiono azioni militari all’interno del Pakistan per destabilizzare il Paese e portare all’indipendenza delle regioni del Waziristan e del Beluchistan.
UNHCR / H. Caux
È un vero e proprio terremoto politico e sociale quello che oggi attraversa il Pakistan, la “Terra dei puri”. Generalmente trascurato dalle cronache giornalistiche, questo Paese, alle prese con una profonda instabilità interna che ha radici molto antiche, è invece uno dei protagonisti assoluti del moderno scacchiere politico internazionale. Situato nel cuore dell’Asia meridionale, il Pakistan nasce ufficialmente il 14 agosto 1947. Fino ad allora aveva fatto parte dell’India britannica poi divisa in due diversi Stati: il Pakistan, a maggioranza
musulmana, e l’India, a maggioranza indù. Dall’indipendenza, il Pakistan è sempre stato in conflitto con l’India per il controllo del territorio del Kashmir ma questa non è l’unica causa di destabilizzazione per il Paese. La sua stessa struttura di federazione, suddivisa in 4 Province, 2 Territori e 107 Distretti con una composizione etnica estremamente frastagliata, ne fanno un territorio di difficile gestione, dove convivono una parte meridionale organizzata in modo più moderno ed una settentrionale profondamente tribale e attraversata da
Quadro generale
Benazir Bhutto
(Karachi, 21 giugno 1953 Rawalpindi, 27 dicembre 2007) UNHCR/ M. Pearson
antiche spinte indipendentiste. Epicentro della crisi interna che sta portando al collasso il Pakistan è il territorio di frontiera con l’Afghanistan e l’Iran, da Nord a Sud. L’area più instabile è quella della Provincia del Belucistan, nel Pakistan occidentale, abitata dai beluci, popolazioni tribali, dedite alla pastorizia e alla coltivazione della terra che vivono anche nell’Ovest dell’Iran e nell’estremo Sud dell’Afghanistan. Nel Belucistan dagli anni ‘70 imperversa la guerriglia indipendentista di gruppi ribelli che si battono per l’autonomia della Regione, ricchissima di risorse naturali e per questo annessa con la forza nel 1947 al territorio pakistano. Il conflitto è iniziato già negli anni ’50 ma il picco più violento è stato nel 1973 con un’insurrezione delle tribù beluci più agguerrite, Marri e Bugtì. Gli scontri infuriarono per quattro anni e la rivolta fu soffocata nel sangue dall’esercito pakistano, anche grazie all’utilizzo di armi fornite dal confinante Iran. Negli anni ’80 e ’90 il Movimento Beluci, stremato dalla repressione pakistana ha interrotto la lotta armata per imboccare, senza risultati, la strada della lotta politica. Nel 2000 alcuni gruppi di beluci hanno dato vita all’Esercito di liberazione del Balucistan, e ripreso la guerriglia a cui il Governo pakistano ha risposto con l’utilizzo massiccio di esercito e aviazione. Una repressione divenuta ancora più vio-
I PROTAGONISTI
lenta dopo gli attacchi alle torri gemelle del 2001. Con l’inizio della campagna militare nel vicino Afghanistan la guerra contro gli indipendentisti del Belucistan è finita col mescolarsi a quella contro i terroristi islamici di al-Qaeda nascosti nell’Afghanistan meridionale. Nel 2004 l’allora Presidente del Pakistan, il generale Musharraf diede il via libera alla formazione di un comitato parlamentare che avrebbe dovuto rappresentare le istanze dei beluci, ma il gesto fu soltanto formale e il conflitto fra esercito e guerriglieri non si interruppe. Tra il 2005 e il 2006 la repressione dell’esercito pakistano si è concentrata nei distretti di Dera Bugti e Kholu, considerati i più ribelli. I militari pakistani sono riusciti ad assestare un colpo durissimo alla guerriglia beluci uccidendo, nell’agosto 2006, il capo dei guerriglieri, l’ottantenne Nawab Akbar Bugti. Un altro fronte interno di conflitto per il Pakistan è quello del distretto del Waziristan, una zona impervia e montuosa del Nord Ovest del Pakistan, divisa in 2 parti: Nord Waziristan e Sud Waziristan. Regione di frontiera a cavallo con il tumultuoso Afghanistan, il Waziristan è dal 2004 nel mirino dell’esercito pakistano - perché nascondiglio prediletto per i Taliban in fuga dall’Afghanistan - anche sulla spinta delle pressioni americane che chiedono a Islamabad un maggiore controllo della Regione. Dal 2004 sotto i bombardamenti dell’esercito pachistano e statunitense sono morti migliaia di waziri, sia guerriglieri che civili.
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È stata l’unica donna a ricoprire la carica di primo ministro in un Paese islamico. Figlia del premier che ha cercato di affrancare il Pakistan dagli Stati Uniti prima di essere deposto da un colpo di Stato, e nipote di una delle figure chiave del movimento indipendentista pachistano, Benazir Bhutto è stata per anni il punto di riferimento di quanti si battono per un Pakistan non allineato e laico. Ha studiato ad Harvard e Oxford. Dopo l’esecuzione del padre da parte del dittatore Muhammad Zia-ul-Haq, è prima agli arresti domiciliari e poi in esilio nel Regno Unito, dove diviene leader del Partito del popolo pachistano (Ppp), già presieduto dal padre. Morto Zia torna in patria, dove sarà premier dal 1988 al 1990 e dal 1993 al 1996. Costretta all’esilio in seguito al colpo di Stato del generale Pervez Musharraf, la Bhutto ritorna in Pakistan nel 2007. Il giorno del suo arrivo a Karachi (18 ottobre) un camion situato lungo il percorso del suo corteo esplode, causando 138, ma lei resta illesa. Lei accusa dell’attentato Musharraf, che la mette agli arresti domiciliari. Liberata grazie alle pressioni Usa, Benazir Bhutto viene assassinata da un attacco suicida lanciato durante un suo comizio il 27 dicembre dello stesso anno, all’età di 54 anni.
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Povero il Re
Bhumibol Adulyadej, re della Thailandia, è il sovrano più ricco del mondo. Una riconferma la sua, dato che per la rivista statunitense “Forbes” si era aggiudicato il titolo già lo scorso anno. Anche lui, però, come gli altri Re, ha risentito della crisi economica internazionale. Secondo la rivista, infatti, il suo patrimonio si aggira nel 2010 attorno ai 30miliardi di dollari, ben cinque in meno dell’ anno passato . In totale i 15 sovrani più ricchi del mondo hanno perso 22miliardi di dollari nell’arco degli ultimi 12 mesi. Per il sovrano thialandese, la perdita è dovuta alla svalutazione di proprietà e azioni controllate da ‘Crown Property Bureau’, il gruppo che cura gli investimenti della corona.
Ci si va in vacanza, almeno ci vanno molti, ma in Thailandia non c’è pace. Il conflitto fra Governo centrale e le tre province del Sud musulmano, Yala, Narathiwat e Pattani, prosegue, lasciando una scia di morti. In agosto 2010 si sono registrati una serie di attacchi dei separatisti contro persone legate alle formazioni paramilitari finanziate dal Governo di Bangkok: cinque i morti, il bilancio finale, tra cui un bambino di soli cinque anni. Si aggiungono ai 4500 morti causati negli 8mila attacchi del conflitto separatista iniziato nel gennaio del 2004. I musulmani della Thailandia, appena il 4% della popolazione, sono tutti concentrati in quelle terre e vogliono l’indipendenza. Difficile trovare una soluzione. Nel 2009 il generale a riposo Ekkachai Srivilas, direttore dell’Ufficio per la pace e la governance dell’Istituto Re Prajadhipok, aveva proposto un approccio diverso alla crisi, per evitare le spese e gli sforzi che si pagano per dispiegare 60mila soldati nel Sud. Il Governo aveva respinto l’idea, e l’estate del 2009 era stata una continua offensiva per rastrellare tutti i villaggi della regione per fare terra bruciata intorno ai pejuang, i miliziani del Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn). Una scelta coerente con la decisione di attaccare i ribelli per distruggerli, senza cercare mediazioni Sul fronte politico, poi, a Bangkok continua il braccio di ferro con le Camicie Rosse, i fedelissimi dell’ex premier Thaksin Shinawatra,
THAILANDIA
Generalità Nome completo:
Regno di Thailandia
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Thai
Capitale:
Bangkok o Krung Thep in thai
Popolazione:
64.200.000
Area:
514.000 Kmq
Religioni:
Buddista (95%), musulmana (4.6%), cattolica (0.75%)
Moneta:
Baht Thailandese
Principali esportazioni:
Tapioca, riso, caucciù, ananas, stagno
PIL pro capite:
Us 8.368
mandato in esilio nel 2008. In maggio 2010 una manifestazione per chiedere il ritorno in patria del politico si è conclusa con 91 morti. In settembre una nuova protesta, con diecimila manifestanti, ha creato tensioni. I dimostranti hanno infatti sfidato lo stato di emergenza in vigore dalla primavera precedente. Hanno bloccato il traffico, grazie ad una rete di nastri rossi sospesi a mezz’altezza e hanno occupato la zona dello shopping. Si sono dispersi senza incidenti.
La guerra interna alla Thailandia nasce dalle differenze e nella voglia di autonomia di una delle parti. I musulmani sono una minoranza relativamente piccola nel Paese, solo il 4,6% della popolazione, ma sono concentrati tutti nella stessa area e, soprattutto, hanno avuto una lunga storia di indipendenza dalla Thailandia. La situazione internazionale, poi, con lo scon-
tro in atto fra mondo cosiddetto occidentale e terrorismo islamico, ha riacceso le speranze di indipendenza dei musulmani, portandole sotto la bandiera pan islamica. Lo scontro politico interno, poi, rende più debole il Governo centrale, lasciando maggior spazio alle iniziative politicomilitari degli indipendentisti del Sud.
Per cosa si combatte
Muore anche la stampa
132
Gli scontri fra camicie Rosse e forze dell’ordine nel maggio del 2010 hanno causato decine di morti. Fra loro anche un fotografo italiano Fabio Polenghi, di 45 anni. È stato colpito mortalmente nell’assalto dell’esercito all’accampamento delle camicie rosse, nella zona di Saladeng, a circa un chilometro dal centro del campo degli oppositori. È stato colpito al torace e all’addome. Un gruppo di colleghi l’ha caricato su una motocicletta ma la corsa verso l’ospedale è stata vana. Free lance dal 2004, aveva lavorato per la moda e per l’attualità. Un amico: “Era uno di quelli che trovavi ovunque ci fosse qualcosa da documentare”
Gli ultimi bilanci parlano di 4450 morti in ottomila attacchi militari a partire dal 2004, anno di inizio dello scontro. È il bilancio della guerra oscura e sconosciuta che in Thailandia si sta combattendo da anni in tre province meridionali a maggioranza musulmana: Yala, Narathiwat e Pattani, a poche centinaia di chilometri dalle più famose spiagge thailandesi. Dopo cinque anni di insurrezione, nelle province meridionali al confine con la Malaysia la situazione è davvero drammatica. Nella regione c’erano già trascorsi indipendentisti. La nuova fase di violenza è però cominciata nel gennaio del 2004, per opera di non meglio identificati gruppi indipendentisti radicali. Il picco della crisi è stato nel 2007 e di lì il livello dello scontro armato fra esercito e indipendentisti si è alzato. Narathiwat, Yala e Pattani sono province abitate in maggioranza da musulmani di lingua malese. Corrispondono al territorio di un sultanato annesso all’inizio del secolo scorso all’allora regno del Siam, dopo un accordo con gli inglesi, veri padroni dell’area in quegli anni. C’è una storia differente, quindi, a giustificare le richieste di indipendenza. Le realtà, però, è che anche per gli osservatori stranieri si tratta di una guerriglia poco conosciuta. Il movimento ribelle si chiama “Combattenti per la liberazione di Pattani”, ma non ha né un simbolo né un
leader riconosciuto. Totalmente ignoto anche l’obiettivo reale della guerra scatenata cinque anni fa: non è chiaro se vogliano solo una maggiore autonomia, l’indipendenza o una unione con la Malaysia. Nella regione, la stragrande maggioranza degli abitanti sono musulmani, di etnia e lingua malay, da sempre i thailandesi la percepiscono come pericolosa. I pochi buddisti che ci vivono tendono a lavorare per conto del Governo, diventando dal 2004 facile obiettivo dei ribelli, che da sempre colpiscono soprattutto gli insegnanti, i “volti” del Governo di Bangkok, che rappresentano da soli l’11 percento delle vittime. Vanno a lavorare scortati dall’esercito e nemmeno questo ferma le imboscate. Una situazione che sembra diventata ingovernabile. L’esercito, protetto dallo stato di emergenza dichiarato nel 2005 dal Governo, ha scontri sporadici con i ribelli, ma tiene sotto pressione la popolazione della regione, che reagisce radicalizzando lo scontro e appoggiando apertamente la ribellione e condividendo il risentimento verso Bangkok. Ad alimentare questo sentimento sono le ingiustizie create dallo stato di emergenza. In caso di violenza, esercito e autorità statali vengono assolte, nelle violenze non mai è chiaro chi sia il responsabile. Non sono solo imboscate e
Quadro generale
Quarantacinque anni, 27° Primo Ministro della storia thailandese, Abhisit Vejjajiva è per molti solo un politico di bell’aspetto. Per altri, è la mano politica dei militari. Comunque sia, da quando è al potere, cioè dal 15 dicembre 2008, ha mostrato di non aver paura di comandare, magari con decisioni discutibili. Laureato in economia, formatosi a Eton e Oxford, è figlio di una coppia di medici emigrata in Inghilterra. Leader dei democratici, non è mai riuscito a farsi amare dalla gente comune. E questo è un problema che sconta nei confronti degli avversari politici. Al potere grazie a una sentenza della Corte Costituzionale e a un ribaltone parlamentare, viene da molti considerato un usurpatore. Per molto tempo, però, ha lavorato per sanare are le divisioni del Paese, cercando di placare le proteste delle Camicie Gialle Monarchiche e delle Camicie Rosse dell’opposizione senza spargimenti di sangue. Tutto questo sino al maggio del 2010, quando ha usato il pugno di ferro contro gli oppositori, proclamando lo Stato d’emergenza e schierando l’esercito, con il risultato di 91 morti per le strade.
La politica interna
La guerra indipendista con gli islamici è parte del problema thailandese, Paese che ha conquistato la ribalta internazionale molto più per i problemi politici. Vediamo di ricordare perché? Nel dicembre 2007 e il Partito del Potere Popolare (Ppp), si aggiudica 233 dei 480 seggi del Parlamento thailandese. Nel febbraio 2008 si insedia il nuovo Governo di coalizione guidato da Samak Sundaravej. Nel settembre 2008 Samak è costretto alle dimissioni con l’accusa di aver accettato un compenso in denaro per alcune apparizioni televisive; gli succede alla guida del Governo Somchai Wongsawat, ex ufficiale e cognato di Thaksin. Dal mese di agosto il Paese è preda di una grave crisi politica e sociale, con il partito d’opposizione, l’Alleanza del Popolo per la Democrazia (Pad), che chiede insistentemente le dimissioni del Governo Somchai. A novembre gli oppositori occupano gli aeroporti, per costringere il Governo ad andarsene. Poi, alla fine di novembre del 2008 la Corte Costituzionale riconosce l’esistenza di brogli nelle elezioni del dicembre 2007 e ordina lo scioglimento dei partiti di Governo e l’interdizione per cinque anni dei suoi leader dalla vita politica. Ma la rabbia continua e le manifestazioni nel 2010 riprendono, con decine di morti. 133
Abhisit Vejjajiva
(Newcastle upon Tyne, 3 agosto 1964)
vendette reciproche tra musulmani e buddisti, o tra ribelli e “collaborazionisti”: attentati come quello della moschea di Narathiwat vengono attribuiti genericamente a paramilitari o teste calde all’interno delle forze armate. In realtà, anche le organizzazioni internazionali hanno denunciato le violenze, i soprusi. Un recente rapporto di Human Rights Watch ha spiegato che, per effetto delle leggi speciali thailandesi che prevedono la carcerazione preventiva senza mandato per 37 giorni, e di un regolamento del generale Viroj - comandante dell’area - che vieta visite dei familiari per i primi tre giorni di detenzione, migliaia di musulmani, maschi, di tutte le età sono stati arrestati e torturati dall’esercito. Secondo l’organizzazione, che ha sentito le testimonianze di molti medici e avvocati di ex detenuti, vengono torturati soprattutto nei primi giorni di detenzione nelle basi locali dell’esercito. Poi, sono trasferiti alla prigione militare di Ingkhayuthboriharn, nella provincia di Pattani.
I PROTAGONISTI
I sistemi di tortura adottati sono: pestaggi con bastoni e spranghe, elettroshock, strangolamento, affogamento, soffocamento con buste di plastica, nudità forzata, esposizione a temperature estreme. È crisi dura, quindi. Per molti esperti, il movimento ribelle ha chiare origini locali. Per gli analisti internazionali, i rivoltosi - nel frattempo raccolti sono la sigla Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn) - sono da collegare alla rete di alQaeda. È questo parere la Cia statunitense, che da sempre collabora con l’esercito nel quadro della lotta al terrorismo internazionale. A rafforzare questa opinione è arrivato, nel giugno 2009, un rapporto dell’International Crisis Group, che ha denunciato l’uso della retorica della jihad mondiale nelle scuole delle tre province, al fine di reclutare nuovi combattenti. Il primo ministro thailandese Abhisit, il cui Partito democratico è forte proprio nel Sud, ha reagito promettendo un piano di sviluppo e integrazione per la regione, storicamente trascurata da Bangkok. Una decisione, questa, che non basta, dato che anche se raggiungesse l’effetto voluto, dovranno passare diversi anni. Intanto le violenze continuano.
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Disastro ecologico
Nel novembre del 2009 una catastrofe ecologica ha colpito la già provata economia timorese. Una falla in un oleodotto australiano, che ha riversato in mare centinaia di barili di greggio ogni giorno, ha messo in grave crisi i pescatori dell’isola e l’intero ecostistema di un oceano tra i più incontaminati al mondo. Secondo numerose organizzazioni ambientaliste, Wwf in testa, l’incidente avrà effetti negativi di lunga durata sull’ambiente.
UNHCR/N.Ng
La situazione politica e sociale a Timor Est è più stabile ma ancora fragile. Con questa motivazione le Nazioni Unite hanno deciso, nel febbraio del 2010, di prolungare il mandato della missione Unmit (United Nations Integrated Mission in Timor Leste) che resterà sull’isola fino al febbraio del 2011. Lo scopo è quello di sostenere il Governo e le autorità di Timor Est nella difficile battaglia per la riconciliazione nazionale, dopo gli anni di feroce occupazione indonesiana dell’isola, e aiutare le autorità nella gestione di gravissime emergenze come la povertà estrema che colpisce la maggioranza della popolazione dell’isola, la disoccupazione e il dramma dei profughi. La strada è ancora lunga ma alcuni passi avanti sono stati fatti. Il 9 ottobre del 2009 si sono svolte sull’isola le elezioni municipali che hanno coinvolto 442 villaggi (sucos). La campagna elettorale, partita il 30 settembre e conclusasi il 6 ottobre, si è svolta in modo generalmente pacifico e senza scontri, con una larghissima partecipazione popolare che ha toccato il 67,75%. Le elezioni hanno registrato anche un incremento nella elezione di donne come capo villaggio, passate da 7 a 11. All’inizio del 2010, Mari Alkatiri, segretario generale del Fretilin (Frente Revolucionaria de Timor Leste Indipendente), movimento simbolo della lotta per l’indipendenza di Timor e principale partito d’opposizione al Governo, ha lanciato un appello affinché gli anni dal 2010 al 2020 siano una “decade di pace, stabilità e sviluppo” per la nazione. Un appello condiviso e rilanciato anche dal presidente Ramos-Horta e dal primo Ministro Xanana Gusmão. Nonostante questi segnali, certamente positivi, sono ancora le condizioni di indigenza della popolazione a preoccupare le autorità locali
TIMOR EST
Generalità Nome completo:
Timor Est
Bandiera
Lingue principali:
Tetum, portoghese
Capitale:
Dili
Popolazione:
947.000
Area:
15.007 Kmq
Religioni:
Cattolica (90%), musulmana (5%), protestante (3%)
Moneta:
Dollaro statunitense e dollaro australiano
Principali esportazioni:
Legname, caffè, petrolio e gas
PIL pro capite:
Us 1.813
e a costringere Timor Est in una condizione di dipendenza dagli aiuti della comunità internazionale. Per il Governo è ancora difficile gestire i tumulti causati dalla miseria e dalle tensioni sociali mai del tutto sopite. Nel 2008 un gruppo di militari ribelli ha tentato un colpo di stato con un doppio attentato contro l’attuale presidente Jose Ramos-Horta - che è rimasto gravemente ferito ma è sopravvissuto - e contro il premier Xanana Gusmão, rimasto invece illeso. Una situazione di relativa calma dunque ma che non basta ancora a garantire la stabilità a Timor Est.
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Scopo della lotta della popolazione timorese è sempre stato il raggiungimento dell’indipendenza e dell’autodeterminazione. Un’autonomia ostacolata dai forti interessi internazionali in un’area strategica per le rotte commerciali e resa difficile anche oggi dalle tensioni interne
tra i diversi gruppi etnici che popolano Timor Est (78% timoresi, 20% indonesiani, 2% cinesi). Nonostante l’indipendenza formalmente conquistata nel 2002, Timor Est è ancora un Paese poverissimo, instabile e di fatto dipendente dal sostegno della comunità internazionale.
Per cosa si combatte
Il petrolio del mare di Timor
Unica speranza di ripresa per l’economia di Timor Est sono le enormi risorse petrolifere nascoste nel suo mare (è una delle più grandi riserve di petrolio al mondo). Nel 2006 Timor Est e l’Australia (il principale Paese donatore di Timor) hanno sottoscritto un accordo per lo sfruttamento delle risorse del mare che li separa e che prevede la suddivisione tra i due stati, al 50%, dei proventi ricavati dall’estrazione di petrolio e gas in quel tratto di mare che separa i due Paesi. Nonostante questo l’economia di Timor Est continua a dipendere quasi del tutto dagli aiuti internazionali.
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UNHCR/N.Ng
Timor Est, è la nazione più giovane del pianeta. È composta dalla metà orientale dell’isola di Timor, dalle isole di Atauro e di Jaco e dalla provincia di Oecussi-Ambeno, una enclave situata nella parte occidentale dell’isola, Timor Ovest, che fa parte invece dell’Indonesia. Timor ha subito centinaia di anni di colonizzazione europea, da parte dei portoghesi, che arrivarono sull’isola nel XVI secolo, e dagli olandesi. L’instabilità politica e sociale dell’isola di Timor comincia proprio a causa della convivenza forzata sul territorio delle due potenze coloniali, che causò anni di sanguinosi conflitti, risolti soltanto nel 1859, con il Patto di Lisbona che sancì la suddivisione di Timor Est in due parti: quella orientale andò al Portogallo e quella occidentale all’Olanda. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, a causa della sua posizione strategica nel Sud Est asiatico, Timor venne occupata dalle forze australiane che temevano potesse diventare una base militare giapponese. Nel febbraio del 1942 il Giappone occupò effettivamente Timor, cancellando l’assetto territoriale stabilito dal Patto di Lisbona e trasformando l’intera isola in un’unica Regione sotto l’influenza politico-militare del Giappone. Alcune centinaia di militari australiani però non deposero le armi e scelsero di continuare a combattere contro i giapponesi, sostenuti anche dalla popolazione timorese, che per questo pagò un prezzo altissimo. Quando nel 1943,
l’Australia decise il ritiro completo dall’isola di Timor, la rappresaglia dell’esercito giapponese contro la popolazione fu terribile. Si stima che le vittime delle violenze furono tra le 40mila e le 60mila. Dopo la fine della seconda guerra mondiale la parte orientale dell’isola tornò sotto il dominio portoghese mentre nel 1949 la parte occidentale, dopo il ritiro dell’Olanda, fu definitivamente annessa all’Indonesia. Un primo spiraglio verso l’indipendenza del Paese arrivò nel 1974 quando, in seguito alla ‘Rivoluzione dei Garofani’, il Portogallo cominciò ad allentare gradualmente il controllo sulle colonie in Asia e Africa, permettendo la formazione di partiti politici legalizzati a Timor Est. Nacque la “Frente Revolucionaria de Timor-Leste Indipendente”, detto Fretilin, destinato a diventare il movimento simbolo della lotta per l’indipendenza di Timor Est. Nel 1975 si tennero le prime elezioni politiche. Il Fretilin vinse con il 55% dei voti e dichiarò unilateralmente l’indipendenza dell’isola dal Portogallo. Lungi dall’essere un nuovo inizio per il popolo timorese, la dichiarazione d’indipendenza diede il via ad uno dei capitoli più sanguinosi della difficile storia di Timor Est. Il 7 Dicembre 1975 l’esercito indonesiano del dittatore Suharto, invase Timor Est occupando subito la capitale Dili e tutte le principali città del Paese. Nel 1976 Jakarta fa di Timor Est la sua ventisettesima Provincia. Iniziano gli scontri tra il Fretilin
Quadro generale
Kay Rala Xanana Gusmão
(Manatuto, 20 giugno 1946)
UNHCR/N.Ng
I rifugiati dell’Oceania
Il 5 luglio del 2010 Julia Gillard, primo ministro australiano, ha proposto la costruzione di un grande centro di raccolta per tutti i rifugiati dell’Oceania proprio a Timor Est. Il primo ministro timorese Xanana Gusmao ha dichiarato che la proposta ‘sarà valutata’ ma nulla è stato ancora deciso dalle autorità locali. La proposta dell’Australia, uno dei paesi con la legislazione più rigida in materia di immigrazione, ha scatenato numerose polemiche, considerando che Timor Est è il Paese più povero del mondo e che difficilmente sarebbe in grado di gestire una emergenza simile. Secondo i dati diffusi dall’Unhcr alla fine del 2009, i rifugiati presenti in Oceania sono 38200.
e l’esercito indonesiano, nell’indifferenza della comunità internazionale, mentre Stati Uniti e Australia riconoscono ufficialmente e subito l’occupazione indonesiana di Timor Est. Per 24 anni l’esercito e le milizie filo indonesiane imperversarono sull’isola accanendosi contro la popolazione. Più di 250mila timoresi furono uccisi, praticamente un terzo degli abitanti. Il 12 novembre del 1991 un gruppo di 200 soldati indonesiani trucidò almeno 250 timoresi riuniti per il funerale di un militante indipendentista nella città di Dili. Il cosiddetto ‘massacro di Dili’ venne filmato da due giornalisti americani, che diffusero le immagini permettendo al mondo intero di conoscere il dramma del popolo di Timor Est. Le immagini del massacro provocarono manifestazioni in tutto il mondo e, almeno, la condanna delle Nazioni Unite. Caduto il dittatore Suharto, il nuovo presidente Habibie, decise nel 1998, di dare un segnale di distensione alla comunità internazionale rendendosi disponibile
I PROTAGONISTI
a concedere uno statuto speciale a Timor Est. L’Onu si occupò di organizzare un referendum per l’autodeterminazione dell’isola, indetto il 30 agosto del 1999. La partecipazione al voto fu massiccia, il 98,6% della popolazione si recò alle urne. Gli indipendentisti vinsero con il 78,5% dei consensi ma ancora prima che i risultati venissero resi pubblici, l’esercito indonesiano e le milizie paramilitari filo-indonesiane si scatenarono contro la popolazione. I timoresi venivano uccisi sommariamente, decapitati. In migliaia furono deportati a Timor Ovest, nella parte indonesiana dell’isola. L’Onu inviò a Timor Est una forza multinazionale di pace, la Interfet (International Force East Timor). Solo il 20 ottobre il parlamento indonesiano ratificò i risultati del referendum e decise il ritiro dell’esercito. Nell’aprile del 2002 i timoresi si recano di nuovo alle urne per eleggere il primo Presidente della storia di Timor Est: Xanana Gusmão, leader storico della guerra d’indipendenza. Nel mese di maggio del 2002 viene ufficialmente proclamata l’indipendenza della Repubblica democratica di Timor Est.
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Xanana Gusmão, nome completo Kay Rala Xanana Gusmão, (Manatuto, 20 giugno 1946), è il primo ministro di Timor-Est. Per la popolazione timorese e’ una vera e propria leggenda. Ha guidato per anni la guerriglia armata contro l’esercito dell’Indonesia. Per questo e’ stato arrestato e ha passato piu’ di sei anni in una prigione indonesiana. E’ stato liberato il 7 settembre del 1999, solo qualche giorno dopo il referendum per l’indipendenza di Timor Est. Presidente della Repubblica di Timor Est dal 20 maggio 2002 al 20 maggio 2007 si e’ sempre dichiarato favorevole ad una amnistia per i miliziani indonesiani che dopo il referendum si accanirono contro la popolazione timorese. Questa sua posizione lo ha portato a scontrarsi politicamente, in piu’ di una occasione, con il Fretilin (Frente Revolucionaria de Timor Leste Indipendente), movimento simbolo della lotta per l’indipendenza di Timor Est e principale partito d’opposizione nel Paese.
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Genocidio o grande catastrofe?
L’Armenia sostiene che tra il 1915 e il 1917 sia stato compiuto dall’Impero Ottomano un vero e proprio “genocidio” contro un milione e mezzo di armeni. Definizione da sempre respinta da Ankara secondo cui i morti armeni in quel periodo furono al massimo tra i 300mila e i 500mila e, comunque, causati non da uno sterminio premeditato, ma da una guerra civile che fece anche migliaia di vittime turche. Obama ha definito i massacri “una delle peggiori atrocita” del ventesimo secolo, in linea con l’espressione armena “Meds Yeghern”, la “grande catastrofe”. Le relazioni tra i due confinanti Turchia-Armenia non possono dirsi normalizzate.
Altopiano anatolico orientale, lago Van e alto bacino dei fiumi Tigri ed Eufrate, in corrispondenza del confine Turchia-Siria-Iraq (Sud) e Turchia-Iran (Est), insiste tuttora su questo territorio e sulla popolazione civile residente, una decisa azione militare che contrappone l’Esercito turco agli armati del Pkk, Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Nell’estate 2009, il Pkk aveva accordato al Governo turco una tregua unilaterale nell’attesa che il suo leader, Abdullah Ocalan, detenuto nell’isola di Imraly, nel mar di Marmara, si pronunciasse sul da farsi. Allo stesso tempo, il premier turco Tayyp Erdogan parlò di un progetto chiamato “apertura democratica” per arrivare alla soluzione pacifica del conflitto. Ma a maggio 2010, le parti prendono atto dell’impossibilità del dialogo. Da allora, una lunga cronaca di guerra continua. Il mese di luglio è uno dei più sanguinosi dell’anno. Fonti militari di Ankara fanno sapere che “46 ribelli curdi sono stati uccisi nell’ultimo mese, mentre negli ultimi sei mesi sono stati in totale 187 gli uccisi in combattimento”. Intanto, il settimanale tedesco Der Spiegel denuncia il 12 agosto l’uso di armi chimiche da parte dell’esercito. Il 15 agosto il canale satellitare curdo Roj Tv che trasmette dalla Danimarca manda a ripetizione video per celebrare quel 15 agosto 1984, quando partì la campagna militare del Pkk per l’indipendenza. E in questo clima di tensione, il 21 e 22 agosto, si apre la Conferenza della Società Democratica a Diyarbakir per far arrivare al Governo una
TURCHIA
Generalità Nome completo:
Repubblica di Turchia
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Turco
Capitale:
Ankara
Popolazione:
75.586.100 abitanti
Area:
783.562 Kmq
Religioni:
Maggioranza mussulmana sciita e sunnita, minoranza cristiana e altre fedi
Moneta:
Nuova lira turca
Principali esportazioni:
Tessile, alimentare, ferro e acciaio. Più del 50% di tutte le merci vanno in Ue
PIL pro capite:
13,920 dollari
proposta di pace da parte dei curdi non militanti del Pkk. Faruk Balikçi, Presidente dell’Ordine dei giornalisti del Sud Est dichara scettico: “I giornalisti turchi non sono stati capaci di capire i curdi. In Turchia ci sono giornali indipendenti come Taraf o la stampa di sinistra che vogliono la pace, ma sono un’esigua minoranza. Nella parte Ovest del Paese non ci si interroga più sul perché del conflitto.”
L’area a Sud Est della Turchia è suddivisa in 12 province e fa riferimento alla città di Diyarbakir. È la “terra dei Curdi”, da sempre spartita tra Turchia, Iran, Siria e Iraq. Il Pkk, nato nel 1984, ha l’obiettivo fondare uno Stato (Kurdistan) gestendo direttamente le risorse, prima fra tutte, il petrolio. Dal punto di vista turco, (e dal punto di vista dell’Ue e degli Usa) i curdi del Pkk sono “terroristi” aderenti ad un’organizzazione
fuorilegge. Ma nelle famiglie curde era vietato parlare curdo, ascoltare musica in curdo, usare nomi curdi. L’accusa di “trasgressione” era sufficiente per essere torturato, mandato in esilio o essere condannato a morte. Questo fa parlare i curdi di “colonialismo” turco. Nel conflitto in corso dal 1984 nel Sud-Est dell’Anatolia, secondo l’esercito turco, vi sono stati almeno 45 mila morti.
Per cosa si combatte
Delitti d’onore
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I “delitti d’onore” sono ancora una piaga che affligge la Turchia, nonostante il Governo di Ankara negli ultimi tempi abbia inasprito le pene per i responsabili di questo reato. Stando a un recente rapporto ufficiale, in Turchia almeno una donna a settimana è vittima di un delitto d’onore. Inoltre - secondo dati del Direttorato generale sulla condizione femminile - il 42% delle donne in Turchia è vittima di violenze fisiche e sessuali.
Il 12 settembre 2010, il 58% degli elettori turchi vota “si” al referendum indetto per accettare o respingere la riforma della Costituzione riguardante, soprattutto, la riorganizzazione della magistratura e nuovi diritti civili. Il Pkk, in posizione di “difesa passiva” dalla metà di agosto e fino al 20 settembre 2010 per dimostrare, facendo tacere le armi, il loro rispetto del Ramadan (mese di digiuno per i mussulmani,) comunicava che il referendum è “un’iniziativa senza sincera volontà di creare una Costituzione veramente democratica”. Tuttavia, le associazioni della società civile riunitesi il 21 e 22 agosto alla Conferenza della Società Democratica di Diyarbakir avevano indicato proprio la riforma della Costituzione come uno dei punti fondamentali per raggiungere la pace. In ogni caso, per la Turchia è un momento storico. La Costituzione redatta nel 1982 (due anni dopo il colpo di Stato dei militari del 1980) viene, dunque, emendata riguardo a 26 articoli: riorganizzata la magistratura, riformati i rapporti tra giustizia civile e militare, ma anche i diritti civili e la protezione di donne, minori e anziani. Il premier Tayyip Erdogan ha sostenuto che questa riforma, anche se parziale, era necessaria per democratizzare di più il Paese. Per le opposizioni, invece, questa riforma voluta dal Partito di Erdogan al Governo (il Partito per la Giustizia
e lo Sviluppo - Adalet ve Kalkinma Partisi, Akp) sarebbe solo l’ultima dimostrazione di un tentativo di “golpe strisciante”, teso a limitare fortemente il potere della magistratura (sottoponendola al controllo dell’esecutivo) e a ridurre ancor più l’influenza nella vita sociale e politica delle forze armate. Istituzioni, quella della magistratura e dell’esercito, entrambe considerate dalla Costituzione e dall’elite laico-burocratica turca come i custodi e garanti della laicità del Paese contro ogni tentazione di deriva islamica. L’opposizione ritiene che l’Akp di Erdogan, (avendo forti radici islamiche) se vincerà alle elezioni politiche del 2011, avrebbe nuove possibilità per islamizzare il Paese. Il Commissario all’allargamento della Ue, Stefan Fuele, ha espresso soddisfazione per la vittoria dei “si”. Il processo attuativo delle riforme verrà seguito, ha detto, con “attenzione”, senza perdere di vista altre “priorita che riguardano il campo dei diritti fondamentali come la libertà di espressione e la libertà religiosa”. Anche il presidente Barack Obama ha espresso il suo compiacimento con uno degli alleati chiave degli Usa. Senza entrare nel merito della questione dei referendum, il capo della Casa Bianca ha commentato che l’alta affluenza alle urne è una prova della “vitalità della democrazia turca”. Ma cosa cambia esattamente, dopo il “si” del
Quadro generale
Abdullah Öcalan (Ömerli, 4 aprile 1948)
Quando i bambini tirano sassi
Nel 2010 l’Ue ha sollecitato Ankara a riformare la legge minorile - conosciuta come “la legge per i bambini che tirano sassi” - in base alla quale centinaia di minori, la quasi totalità curdi, negli anni scorsi sono stati incarcerati e condannati a pesanti pene detentive. Da luglio 2010, in base ad una nuova legge approvata dal Parlamento, i minori che prendono parte a manifestazioni di protesta a favore del Pkk tirando pietre contro le forze dell’ordine non saranno più incriminati “per attività terroristiche” e saranno giudicati da appositi tribunali per minori e non da tribunali penali.
12 settembre 2010? Vediamo. Diritto alla privacy: le modifiche tendono a proteggere le informazioni personali che potranno essere ottenute solo con il permesso dell’interessato. Libertà di movimento: il diritto di una persona di recarsi all’estero sarà limitato solo a causa di processo penale o per ordine del giudice. Diritti dei minori: le modifiche migliorano la protezione dei bambini nei casi di abusi e violenze. Poi, i lavoratori potranno appartenere a più di un sindacato. L’emendamento all’art. 84 della Costituzione, invece, impedirà l’espulsione di un deputato dal Parlamento nel caso un giudice consideri le sue azioni come base legale per mettere al bando un partito politico. La riforma costituzionale darà, inoltre, agli impiegati statali il diritto a contratti di lavoro collettivi e a fare ricorso contro azioni disciplinari ritenute ingiustificate. La Corte Costituzionale sarà ora composta da 17 giudici (e non più da 11) e potrà giudicare i massimi gradi militari. Mentre i membri del Consiglio Supremo dei Giudici e dei Procuratori diventeranno 22 effettivi con 12 sostituti. Ma cruciale è stata la riforma degli articoli riguardanti l’esercito: dal 12 settembre
I PROTAGONISTI
2010, i tribunali civili, e non più quelli militari, potranno processare membri delle forze armate accusati di reati contro la sicurezza dello Stato o la Costituzione. D’altro canto, i civili non potranno essere processati da tribunali militari. Per un quadro generale della Turchia, bisogna sapere che l’Esercito è custode ultimo dei principi stabiliti da Mustafa Kemal Ataturk, fondatore della Repubblica nel 1923 sul modello dello Stato laico europeo.Vantando un ruolo di garante costituzionale, l’Esercito è intervenuto nella dinamica parlamentare con ben tre colpi di stato (1960, 1971, 1980) volti, ufficialmente, a ristabilire i principi del Kemalismo ma in realtà intento a far ordine reprimendo l’opposizione sindacale e politica. Le Forze Armate controllavano (fino a 2003) le dinamiche politiche attraverso l’Mgk (Consiglio di Sicurezza Nazionale), le cui “raccomandazion” erano quasi delle prescrizioni per le istituzioni politiche. Per questo, il 23 luglio 2010, la notizia dell’apertura di un’inchiesta interna all’esercito per accertare l’esistenza di eventuali collusioni tra alcuni membri delle forze armate e il Pkk, ha creato scompiglio. Mentre, solo qualche giorno prima, il 19 luglio, un tribunale di Istanbul incriminava formalmente 196 persone sulla scia delle indagini su Ergenekon, una presunta organizzazione segreta nazionalista che avrebbe tentato di rovesciare il Governo.
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Abdullah Öcalan, detto Apo è il leader del Pkk. Catturato a Nairobi nel 1999, è stato condannato all’ ergastolo nel 2002. Dopo aver frequentato il liceo statale di una piccola città di provincia, si iscrisse alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Ankara. Negli ani ’70, Öcalan si arruolò nel servizio civile a Diyarbakır. Öcalan divenne un membro attivo della Associazione Democratica Culturale Dell’Est, un’associazione promotrice di diritti per il popolo curdo. Nel 1978 fondò il Pkk. Nel 1984 iniziò una campagna di conflitto armato. Circa 30.000 persone vennero uccise dal Pkk tra il 1984 e il 2003. Il 26 agosto 2010, un rappresentante del Governo turco ha ammesso per la prima volta che funzionari statali hanno avuto contatti in carcere con Ocalan infrangendo così un tabù quasi trentennale. Ufficialmente il Governo di Ankara ha sempre respinto le richieste da parte dei ribelli curdi per cercare una soluzione alla cosiddetta “questione curda”. Ma in vista dell’importantissimo voto referendario del 12 settembre, il Governo ha cercato di guadagnarsi anche le simpatie dei curdi, questo è l’interpretazione dei fatti da parte delle forze di opposizione.
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UNHCR/ P. Marion
C’è voluto il fallito attentato del 25 dicembre 2009 su un volo Delta da Amsterdam a Detroit per ricordare ai governi e alle opinioni pubbliche occidentali che lo Yemen resta uno dei Paesi più instabili del mondo, teatro di almeno tre conflitti interni “a bassa intensità” - che però si protraggono da anni - e ricettacolo inoltre di jihadisti e qaedisti delle più svariate nazionalità, che proprio in questa estrema propaggine della penisola Arabica, patria della Regina di Saba ma anche di Osama bin Laden, trovano ospitalità, fondi e nuove prospettive di arruolamento. Jihadista infatti, addestrato per un mese in una base di al-Qaeda a Sanaa, era il ventitreenne nigeriano Umar Faruk Abdulmutallab, salito a bordo del volo 253 della Delta Airlines con 80 grammi di nitroglicerina e un detonatore nelle mutande. Solo la sua imperizia ha impedito l’innesco della bomba, salvando così la vita ai 278 passeggeri e costringendo il presidente Barack Obama a cercare di corsa lo Yemen sulle carte geografiche, per inserirlo - o meglio re-inserirlo - nella black list dei Paesi da tenere sotto controllo, perché in grado di minacciare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Dal gennaio 2010 lo Yemen è diventato così il terzo “fronte” nella lotta al terrorismo internazionale, dopo l’Afghanistan e l’Iraq. Un fronte reso ancora più caldo per via della sua collocazione geografica strategica: il golfo
YEMEN
Generalità Nome completo:
Repubblica Unita dello Yemen
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo
Capitale:
San‘a’
Popolazione:
20.975.000 (2005)
Area:
527.970 Kmq
Religioni:
Musulmana
Moneta:
Riyal yemenita
Principali esportazioni:
Petrolio, gas naturale, caffé e cotone
PIL pro capite:
Us 2.410
di Aden si trova infatti a poche miglia dalle coste somale, nello stesso specchio di mare cioè dove operano le bande di pirati che tanti problemi hanno creato negli ultimi anni alle marine mercantili occidentali; e nella stessa area operano inoltre gli shabab, i giovani fondamentalisti islamici che hanno preso il potere in molte città della Somalia, mantengono stretti legami con la rete di Osama Bin Laden e rischiano di destabilizzare tutto il Corno d’Africa. Lo Yemen rappresenta da questo punto di vista un alleato prezioso, per gli Stati Uniti, senza il cui appoggio la lotta al terrorismo internazionale difficilmente potrà essere vinta.
velocità con cui le carceri di Sanaa si riempiono di militanti di al-Qaeda, altrettanto velocemente si svuotano. Una fuga di massa si verifica ad esempio nel febbraio 2006, quando 23 miliziani di a-lQaeda, tutti di primo piano, riescono ad evadere. Ed è questo l’inizio di una nuova fase, che vede i jihadisti impiantarsi sempre più saldamente nelle province del Sud, con rapporti di contiguità se non di alleanza tattica con la guerriglia separatista, che continua a battersi per l’indipendenza. Allo stesso tempo, al-Qaeda nella penisola Arabica non smette di colpire, appena può, il nemico americano e i suoi più stretti alleati: nel 2008 ci sono stati due attacchi suicidi all’ambasciata Usa cui vanno aggiunti diversi attacchi contro obiettivi “occidentali”. Nell’autunno 2009, inoltre, l’Arabia Saudita ha denunciato l’infiltrazione di elementi legati ad al-Qaeda provenienti dal Nord dello Yemen, a conferma del fatto che la rete del terrore che fa capo ad Osama bin Laden ha nello Yemen il suo principale caposaldo, con una capacità di azione ad ampio raggio e una rete di protezioni tribali che sarà difficile smantellare, nonostante l’impegno degli Stati Uniti, che nel corso del 2010 hanno bombardato a più riprese con i loro droni presunte basi di al-Qaeda in Yemen. L’ultima battaglia fra l’esercito yemenita e i miliziani di al-Qaeda è del 24 agosto 2010, nella città di Loder, nel Sud, ed ha fatto decine di morti da ambo le parti.
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In realtà, sono più di dieci anni che al-Qaeda opera in Yemen, sia pure con alterne fortune. Il suo battesimo del fuoco è datato 2000, con lo spettacolare attacco alla portaerei americana Cole, che fece 17 morti fra i marines. Ma i primi nuclei jihadisti risalgono già ai primi anni ’90, con il rientro dei mujahideen che avevano combattuto in Afghanistan, al fianco di Osama bin Laden. Con essi il Presidente yemenita Ali Abdullah Saleh ha mantenuto a lungo un rapporto strumentale, pronto cioè a utilizzarne la potenza di fuoco e le capacità organizzative per risolvere i suoi problemi interni, salvo poi fare marcia indietro e dar loro la caccia quando l’alleato americano lo imponeva. È infatti provato che le milizie di al-Qaeda sono state utilizzate senza tanti problemi dal Governo yemenita già nella seconda metà degli anni ’90, per contrastare la secessione nelle province del Sud tentata dai ribelli del “Southern Mobility Movement”. Altrettanto disinvolto è però il voltafaccia del presidente Saleh dopo l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2000, quando gli americani scoprono la consistenza della rete terroristica di bin Laden in terra yemenita. È solo a quel punto che la caccia ai militanti di al-Qaeda diventa anche a Sanaa una priorità nazionale, resa ancora più pressante dal numero cospicuo di kamikaze yemeniti che vanno ad immolarsi in Iraq dopo il 2003, per combattere gli americani. Il paradosso è che, con la stessa
Per cosa si combatte
Arabia (in)Felix
Fino al 1990 lo Yemen del Nord si chiamava Repubblica Araba dello Yemen. Il suo territorio coincideva grosso modo con quella che gli storici dell’antichità chiamavano Arabia Felix, erede del mitico regno della Regina di Saba. In origine cristianizzata, la regione venne poi islamizzata e diventò ben presto il rifugio degli sciiti zaidisti, le cui dinastie rimasero al potere fino all’indipendenza, ottenuta dopo la fine dell’impero Ottomano, alla fine della I guerra mondiale. Nel 1962 un colpo di stato repubblicano segna l’ingresso dello Yemen nell’era moderna, con la costruzione di uno Stato arabo moderato, schierato sempre con l’Occidente nella lunga Guerra fredda. Completamente diverso il destino dello Yemen del Sud. L’autonomia di questa regione risale innanzitutto al X secolo, con l’affrancamento dalla dinastia zaidista del Nord e la creazione di diversi staterelli locali, che finirono però successivamente nell’orbita delle potenze coloniali occidentali. Diventato così prima colonia e poi protettorato della Gran Bretagna, lo Yemen del Sud acquistò la sua indipendenza nel 1967, dopo quattro anni di guerra di liberazione, e prese il nome di Repubblica Democratica Popolare dello Yemen, comunista e filosovietica.
UNHCR/Mainer
Il problema vero è che lo Yemen resta un’entità statale assai poco stabile, per non dire effimera. Anche se nel 2010 si è celebrato il ventennale dell’unificazione fra il Nord e il Sud del Paese, che sono rimasti separati dal 1967 al 1990, per via della Guerra fredda. La riconciliazione nazio-
nale, in effetti, è ancora lontana: Sanaa e Aden restano separate dai lutti e dagli strascichi della guerra civile, oltre che dalle discriminazioni economiche e sociali di cui il Sud tuttora soffre. Il risultato è che il vento della secessione continua a soffiare, contrastato da una feroce
Quadro generale
Nasir Abdel Karim Al Wuhayshi (1976)
UNHCR/ L. Chedrawi
Una società che resta feudale
In Yemen persiste una struttura sociale di tipo feudale, fondata sulle caste. Ci sono sostanzialmente due ordini: quello superiore, cui appartengono i sayyid (i signori), che discendono dal profeta Maometto, i qadi (i giudici) e gli sceicchi, che sono a capo delle varie tribù; quello inferiore, composto invece dagli artigiani, dai servi e dagli akhadm, di pelle scura, che sono in pratica i discendenti degli antichi schiavi neri. Gran parte dei sayyid sono sciiti, e molti appartengono al clan degli Al Houti. La loro rivalità con il Governo centrale dipende dal fatto che gli Houti si ritengono gli unici legittimati a guidare il Paese e non riconoscono perciò l’autorità del presidente Saleh, considerato di razza inferiore.
repressione del Governo centrale, che ovviamente finisce per esasperare la situazione. In questo quadro già problematico si inserisce la presenza di al-Qaeda: il suo leader yemenita, Nasir Al Wuhayshi, ha più volte negli anni recenti manifestato il suo appoggio alle istanze secessioniste portate avanti dal Southern Mobility Movement; e non va poi dimenticato che l’attuale leader del Smm, Tareq al-Fadhlii, è stato uno dei luogotenenti di Bin Laden in Afghanistan. Quanto basta, insomma, per rendere il Sud dello Yemen una polveriera pronta ad esplodere, anche se per ora i dirigenti del Smm lavorano per arrivare a una “insurrezione civile”, ma disdegnano - almeno a parole - la lotta armata. Un secondo “fronte” è aperto nel Nord, al confine con l’Arabia saudita, con la minoranza sciita che fa capo al clan degli Al Houti. Si tratta di sciiti della setta zaidita, che non riconoscono alcuna legittimità al Governo centrale del pre-
I PROTAGONISTI
sidente Saleh, contro il quale sono in guerra aperta dal 2004. Il loro leader, il predicatore Hussein Al Houti è stato ucciso in un raid aereo del dicembre 2009. Secondo l’Onu, il conflitto ha già fatto decine di migliaia di vittime e provocato un flusso di almeno 50mila rifugiati, costretti ad abbandonare le loro case. Le autorità di Sanaa accusano l’Iran di fomentare la rivolta, per spingere al potere la minoranza sciita, che in Yemen rappresenta il 40-45% della popolazione. Certo è che le province del Nord - in particolare quella di Saada - sono off limits per l’esercito di Sanaa e sono saldamente in mano ai ribelli: una secessione di fatto, che ha provocato nel dicembre 2009 l’intrevento armato dell’Arabia Saudita, che lamenta l’insicurezza di questa frontiera, troppo permeabile dai miliziani di al-Qaeda. Dall’11 febbraio 2010 è scattata una tregua, anche se più volte violata da entrambe le parti, e questo se non altro ha posto fine alle operazioni militari su larga scala. Il 25 agosto 2010, a Doha, in Qatar, sono iniziati infine i primi colloqui di pace diretti fra le due parti.
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Secondo tutte le fonti, il leader riconosciuto di al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) è l’ex luogotenente di Osama bin Laden in Afghanistan, Nasir Abdel Karim Al Wuhayshi. Arrestato dagli iraniani dopo la sua fuga da Kandahar nel 2001, è rimasto per diversi anni nelle prigioni yemenite, da cui è riuscito a evadere nel febbraio 2006. A consacrarne la leadership di Aqap a partire dal 2009, è stato lo stesso numero due di al-Qaeda, Ayman Al Zahawiri, con un videomessaggio. Il leader spirituale di Aqap resta invece l’imam di origini americane Anwar Al Awlaki. Nato nel New Mexico, dove suo padre insegnava all’università, Al Awlaki è diventato uno dei predicatori islamici più radicali degli Stati Uniti. Dopo l’attacco alle Torri gemelle, e proprio in virtù delle sue frequentazioni con almeno due degli attentatori, è costretto a lasciare gli Stati Uniti per Londra e poi per lo Yemen. Sarebbe lui la guida spirituale che ha istruito Nidal Malik Hassan, l’ufficiale americano di fede islamica che il 5 novembre 2008 ha massacrato 13 persone nella base militare di Fort Hood. E sarebbe stato sempre Al Awlaki il mentore del nigeriano Umar Faruk Abdulmutallab, l’attentatore fallito sul volo Delta Airways del 25 dicembre 2009.
Inoltre Birmania/Myanmar
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“Elezioni farsa per un Paese ancora troppo lontano dalla democrazia. E intanto la popolazione Karen continua ad essere oppressa”. I commentatori politici di tutto il mondo le hanno già battezzate elezioni farsa. Si terranno il prossimo 7 novembre, 20 anni dopo le ultime “legislative” che il Paese ricordi: quelle che furono vinte dal Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi e dal suo partito. E nella farsa c’entra proprio lei, che non potrà partecipare a al voto con la sua Lega nazionale per la democrazia. A determinarlo la legge elettorale che, a grandi linee, nega l’accesso agli ordini religiosi, attivisti democratici e in generale a coloro che hanno partecipato alle manifestazioni o pronunciato parole offensive nei confronti delle autorità, nonché chi ha subito una condanna politica. Non possono, infine, iscriversi ai partiti i dipendenti statali. L’Onu ha fatto i conti e stimato che “grazie” a questa legge saranno 2100 le persone che non potranno partecipare alle elezioni. Una norma che, di fatto, lascia fuori gran parte dei quadri politici della Lega Nazionale per la democrazia: troppe le condanne subite dai suoi. Gli Stati Uniti, L’Europa, l’Onu e le nazioni asiatiche, tutti avevano chiesto libere elezioni e la possibilità per tutti i partiti e le persone di partecipare. Ma ancora la situazione del Paese, lamentano i politici birmani, è troppo lontana dall’interesse internazionale e comunque tutto quello che viene fatto è troppo poco, se si rischia di vedere perpetuare, con queste legislative, una dittatura. Dittatura che affonda le radici nel passato. Nel 1948 il Paese ottiene l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Da quel momento si insedia una giunta militare che reprime ogni tipo di libertà individuale e deporta i civili con origini diverse da quelle birmane. Sono 35 le minoranze del Paese. Inevitabile la nascita di conflitto tra il
Governo militare e diversi movimenti separatisti armati dall’altra. Nell’estate del 1988 si registrano gli episodi più violenti di repressione: decine di migliaia di persone si riversarono nelle strade e nelle piazze per protestare contro la politica economica attuata dal Governo. L’esercito spara sulla folla inerme e disarmata, i morti sono centinaia. Una dura repressione che infiammò l’estate di quell’anno e che non impedì al Governo a indire nuove elezioni. Fu in questa occasione che si venne a creare il fronte di opposizione politica che vede in Aung San Suu Kyi la sua esponente più nota e autorevole. Nel maggio del 1990 si tengono le elezioni, i militari perseguitano e intimoriscono, arrestandoli in molti casi, i leader politici e i candidati delle opposizioni. Aung San Suu Kyi è tra queste. Attualmente vive, a quasi venti anni di distanza, agli arresti domiciliari. Alle elezioni del 1990, la Lega Nazionale per la Democrazia ha ottenuto l’80% dei voti, ma il Parlamento non è mai riuscito a riunirsi. Il Governo militare ha continuato con la politica della repressione, soprattutto nei confronti delle minoranze. La popolazione Karen, la più diffusa in Myanmar, è in guerra con quella birmana dal 1949, per la costituzione di uno stato indipendente nel Nord Est del Paese. Solo negli ultimi anni, più di 100mila persone hanno dovuto lasciare il Myanmar e cercare rifugio nei campi profughi dell’Onu in Thailandia.
Inoltre Cina - Xinjiang “Uiguri turcofoni discriminati dalla maggioranza Han. Pechino tiene sotto controllo stampa e web per non far conoscere al mondo il dissenso”. quindici anni di reclusione, sempre per delitti contro la sicurezza dello Stato. Aveva pubblicato sul suo blog “messaggi” atti a provocare gli scontri che hanno infiammato la piazza. Anche a lui è stata negata la possibilità di scegliere un avvocato difensore, mentre ha potuto avere colloqui con un solo familiare (denuncia di Amnesty International). Intanto, ad un anno dagli scontri, la lunga mano dello Stato si fa sentire anche attraverso l’istallazione, in ogni punto della capitale, di 40mila telecamere “di controllo” dotate di gusci anti sommossa. Ma è la politica ad offrire, quest’anno, spunti interessanti. A dicembre, infatti, lo Xinjiang ha promulgato una legge (la prima della storia) per l’educazione all’unità etnica. La legge, dichiarano i promotori: “rende obbligatorio per tutti i cittadini di lavorare a favore dell’ unità nazionale e contro la secessione. Essa stabilisce che è vietato per tutti gli individui e le organizzazioni proferire discorsi dannosi per l’unità etnica e raccogliere, fornire, produrre e diffondere materiale di quel tipo”. Nessun segno, quindi, porta a pensare che le cose possano migliorare. Intanto Human Rights Watch ha segnalato 43 casi accertati di dissidenti scomparsi.
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Lo Xinjiang, regione autonoma del Nord Est del Paese, è da tempo teatro di violenze e tensioni sociali fra la minoranza musulmana Uiguri (83 milioni di persone) e i cinesi Han, in maggioranza in Cina e in minoranza nello Xinjiang. Gli Uiguri, turcofoni, con i cinesi Han costituiscono, nella regione, la maggioranza della popolazione. Sono 56 i gruppi che vivono nello Xinjiang, tutti ufficialmente riconosciuti dal Governo cinese. Il riconoscimento formale non ha impedito agli Uiguri di denunciare continui e feroci attacchi da parte dei cinesi, con azioni che violano i diritti umani e repressione di ogni forma di espressione culturale. Questo il contesto che alimenta lo scontro. Nell’agosto del 2010 un attentato è costato la vita a sette persone e dodici sono rimaste ferite. il 9 agosto scorso, per la precisione una donna e un uomo uiguri, nella città di Aksu, hanno fatto esplodere una bomba contro una pattuglia di ordine pubblico a composizione mista: polizia e civili (che in questa regione possono affiancare gli agenti). L’azione ha ucciso l’attentatrice e portato all’arresto di quattro uiguri. Sono segni di una tensione che affonda le radici lontano e che raggiunse il culmine nel luglio del 2009. Nella capitale Urumqi, una manifestazione turcofona sfociò in un scontro che uccise 197 persone e ne ferì 1600. Fu una piccola guerra che ha portò al processo di circa 200 persone, con una trentina di condanne a morte e secondo alcuni gruppi umanitari internazionali, 9 di queste condanne sarebbero state eseguite. Altro elemento che contraddistingue questo conflitto è la censura da parte del Governo cinese. Poco dopo gli scontri del 2009, tre webmaster uiguri sono stati condannati fra i 3 e i 10 anni di reclusione per aver messo in pericolo la sicurezza dello Stato attraverso i messaggi veicolati dai loro siti internet. A detta dell’ Associazione degli Uiguri in America (Uaa) che ha denunciato i fatti, i processi si sarebbero svolti a porte chiuse e gli accusati sarebbero stati difesi da avvocati assegnati dalla stessa Corte. Nel luglio precedente, un altro giornalista uiguro, Hairat Niyaz, era stato condannato a
Inoltre Corea del Nord-Sud
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“Quarantasei marinai del Sud morti nel Mar Giallo sono la nuova sfida tra due Paesi nemici che rappresentano un solo popolo”. Aprile 2010: abrogato l’accordo di non aggressione tra le due Coree. Attraverso una nota consegnata alla stampa, il Governo di Pyongyang (centro commerciale e culturale nonché capitale della Corea del Nord) annuncia che interromperà ogni tipo di rapporto con Seul e la Corea del Sud. A scatenare la tensione un incidente diplomatico nel Mare Giallo. La cronaca al 26 marzo 2010 racconta dell’affondamento del Cheonan: si tratta di una corvetta colpita dall’esercito del Nord: morti 46 marinai sudcoreani. A scatenare l’offensiva il presunto attraversamento della Northern Limit Line, il confine nel Mar Giallo a Ovest della penisola coreana. Seul dice per bocca del suo ministero della Difesa che l’attraversamento non è avvenuto ma al Nord l’opinione non è condivisa. Il 25 aprile dall’esercito nordista giunge una dichiarazione: «Si tratta di una provocazione deliberata per scatenare un altro conflitto militare nel Mare Giallo e spingere così a una fase di guerra». Dal questo lato della Corea la corvetta ha certamente sconfinato le acque territoriali. L’affondamento del Cheonan è stato l’incidente più grave avvenuto nella frontiera marittima tra i due Paesi dopo la fine della guerra di Corea (1950-1953). Seul incassa le accuse ma non resta a guardare: annuncia la sospensione di ogni rapporto oltre a chiedere scuse ufficiali per quanto avvenuto. A poco meno di un mese dall’incidente i fronti si ribaltano con Pyongyang che annuncia l’espulsione di tutto il personale sudcoreano impiegato nella regione industriale di Kaesong e bandisce navi e aerei da acque e cieli territoriali. Ma questi non sono i provvedimenti più drasti-
ci. Sempre da Pyongyang viene data comunicazione che: «I colloqui con il Sud non verranno ripresi fino al 2013 (anno nel quale terminerà il mandato del presidente Lee Myung-Bak’s) e se ci saranno rapporti sarà la legge marziale a gestirli». Inoltre «Il Nord metterà in atto misure militari concrete per difendere le sue acque, come ha già chiarito, e la Corea del Sud sarà ritenuta pienamente responsabile delle relative conseguenze». Insomma una brutta situazione. A fine settembre del 2010 le due parti si vedono ma senza successo. Non accadeva da tre anni che i rappresentanti militari delle due Coree si incontrassero, ma nulla di fatto: Pyongyang ha rifiutato di scusarsi con Seul e tutto è saltato. Si legge in una nota stampa diffusa dal ministero della Difesa sudcoreano: «Le parti sono rimaste ferme nelle rispettive posizioni di partenza, senza riuscire a trovare punti di intesa, e non è stata fissata alcuna data per ulteriori colloqui». Seul: «ha chiesto con forza che la Corea del Nord ammettesse le proprie responsabilità nell’affondamento della corvetta Cheonan, offrendo le proprie scuse e punendo i responsabili dell’attacco. Fermando, poi, immediatamente le minacce militari e i comportamenti aggressivi all’altezza dei confini marittimi». Ma la delegazione di Pyongyang rifiuta ogni responsabilità e ribadisce che l’indagine svolta sull’incidente non è da considerarsi valida visto che condotta da «una commissione controllata da Seul». Nulla di fatto, in conclusione. Intanto la Corea del Nord si appresta ad effettuare un importante passaggio di testimone. Sarà, infatti, Kim Jongun, 28 anni e terzogenito del supremo nordcoreano Kim Jong-il, meglio noto come “caro leader”, a guidare Pyongyang verso il futuro. Kim Jong-un è già stato nominato generale.
Inoltre Iran “L’opposizione stroncata dalla repressione del Governo Islamico. Sul piano internazionale è scontro per le centrali nucleari”. su un embargo economico, formalmente voluto dall’Onu per convincere l’Iran a non sviluppare il proprio programma. Cina e Russia hanno aderito e l’Ue ha inasprito unilateralmente le misure. Ma Teheran ha trovato fuori dall’Occidente molti e potenti amici interessati ad essere presenti, come acquirenti e come investitori. Le sanzioni dell’Onu contemplano poi solo misure contro banche e imprese presumibilmente coinvolte nel programma nucleare iraniano,contro le forniture di armi e le imprese legate ai pasdaran. Così nulla si può imputare alle società petrolifere di India, Cina, Russia e Turchia che continuano a operare nel paese. L’Iran sta facilitando proprio le imprese di questi Paesi e Mosca e Pechino hanno firmato accordi di cooperazione energetica. La Turchia, dal canto suo, si è proposta come potenziale mediatore globale sulla questione, assieme al Brasile. Il sorprendente boom economico turco non è certo un sottoprodotto dell’embargo contro l’Iran: una quota importante è dovuto proprio al fiorire di export e accordi con Teheran, che trova in questo modo ‘sponde’ diplomatiche sufficienti per proseguire nello sviluppo del nucleare e contemporaneamente sta sperimentando nuovi vettori per missili a largo raggio. La vera minaccia viene da Israele, che si sente in pericolo. Il governo di Gerusalemme ha più volte detto di essere pronto a bombardare le centrali iraniane: una promessa che molti temono possa diventare realtà.
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L’Iran vive forti tensioni interne nel 2010 per l’affermarsi del movimento nonviolento l’Ondaverde. Salito alla ribalta dei media di tutto il mondo, il movimento porta in piazza migliaia di persone. In testa ai cortei centinaia di donne, perché l’Ondaverde appare come il movimento delle ragazze che si battono per rivoluzionare la condizione femminile in Iran e nell’Islam. Il regime, però, non apprezza e reprime. L’11 febbraio del 2010 il momento più violento. A Teheran si celebra la festa della rivoluzione islamica. Alla vigilia della manifestazione l’opposizione giura che: “ci riprenderemo la piazza” e i leader che “puniranno coloro che hanno tradito la rivoluzione”. Uno scenario che non promette nulla di buono, che matura dopo mesi di scontri. Nel dicembre precedente, nel corso della festa dell’Ashura (commemorazione l’assassinio nell’anno 680 del terzo imam, Hossein, nipote del profeta Maometto), gli scontri di piazza avevano portato alla morte di una quindicina di persone per mano della polizia. Allora la ‘festa’ era stata anticipata da amare e profetiche dichiarazioni dell’ l’ayatollah Khamenei: “I nemici della Repubblica islamica sono come schiuma sull’acqua e saranno eliminati agli occhi della nazione”. L’Ashura provoca anche un arresto eccellente, quello di Ebrahim Yazdi, imponente voce critica del regime, vice-premier e ministro degli Esteri nel primo governo dopo la rivoluzione del 1979 e dirigente del Movimento per la Liberazione dell’Iran. Morti, feriti e scontri si susseguono. La Comunità internazionale non perde occasione per condannare la sanguinosa e violenta repressione messa in atto dal presidente iraniano Ahmadinejad e dal suo governo. Ma la ribalta, Theran, l’ha conquistata anche per il lungo braccio di ferro sul nucleare. Il governo ribadisce la volontà di costruire centrali per l’energia elettrica, ma il sospetto dei Paesi occidentali, Stati Uniti e Israele in testa, è che sia solo una copertura per produrre armi atomiche. Scartata l’ipotesi, pur minacciata, di una soluzione militare - troppo costosa - gli Stati Uniti e la Unione Europea hanno puntato
Inoltre Sri Lanka
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“I Tamil si sono arresi, la guerra è finita. Per il Paese si tratta ora di ricostruire riallacciando rapporti con l’India”. Il più che ventennale conflitto viene considerato militarmente concluso dal maggio 2009, quando il presidente Mahinda Rajapaksa, dichiara ufficialmente sconfitta l’insurrezione dei Tamil e annuncia l’uccisione del leader Velupillai Prabhakaran e di gran parte dello stato maggiore Tamil. Lo scontro armato era riesploso nella prima metà del 2008. In dicembre dello stesso anno, l’offensiva dell’esercito portava alla riconquista della parte settentrionale della penisola di Jaffna. I ribelli non riescono a tenere il fronte sul piano militare e si scindono su quello politico. Le parti non accettano richieste di tregua o cessate il fuoco, così gli scontri continuano, con bombardamenti, attentati e attacchi suicidi. Gli sfollati nei territori dell’Est sono migliaia. La fine arriva, appunto, il 17 maggio 2009, con la resa dei Tamil. È guerra fra popoli diversi, fra religioni differenti, fra culture, quella che ha devastato l’isola di Sri Lanka per decenni. Ovvio, si trattava di controllo del potere, in un Paese strategico per la posizione geografica. Ma la realtà è che la maggioranza Cingalese buddista - non ha mai concepito o tollerato le richieste di indipendenza e autodeterminazione della minoranza Tamil, induista. Dopo l’indipendenza del 1948 e aver tagliato i ponti definitivamente dal Regno Unito nei primi anni’70, la maggioranza cingalese varò un costituzione 1972 l’anno - che introduceva il buddismo come religione di Stato e aboliva l’articolo 29 della Costituzione precedente, che garantiva i diritti delle minoranze. Questo l’avvio della guerra, a cui si aggiunsero gli interessi indiani nel proteggere parte della popolazione Tamil di origine continentale e di mantenere un controllo terri-
toriale sullo Sri Lanka. La stessa ragione ha spinto gli Stati Uniti ad intervenire, nel tentativo di garantirsi basi militari importanti in chiave anti cinese. È stata una guerra durissima quella nello Sri Lanka. Durata più di due decenni, secondo le stime internazionali ha causato almeno 65mila morti. Tante vittime, quindi, sia delle violenze fra esercito e guerriglieri, sia per gli scontri feroci interni agli stessi gruppi ribelli. Non sono mancati gli abusi, gli eccessi denunciati dalle organizzazioni internazionali. Nel biennio ‘96 ‘97 il culmine, con la denuncia dell’arresto da parte della polizia e della successiva scomparsa di 600 persone, 400 delle quali ritrovate in una fossa comune due anni più tardi nella città settentrionale di Chemmani. La guerra ha anche portato all’incapacità di agire nelle situazioni di emergenza, che sono state tante. Questo ha causato altre vittime. Come per il maremoto del dicembre 2004, che fece 30mila vittime e più di 5600 dispersi. La costa orientale, da Jaffna fino alle spiagge del Sud, fu devastata. I distretti di Muttur e Trincomalee vennero distrutti. Il cataclisma portò una tregua nei combattimenti, ma l’intervento dei soccorsi e della ricostruzione furono inevitabilmente rallentati dai problemi del Paese. Gli attori Il conflitto dello Sri Lanka ha avuto sempre anche attori esterni. Il principale, l’India, impegnata a difendere gli interessi dei Tamil di origine indiana, soprattutto per evitare sollevazioni e problemi sul proprio territorio. Tra il 1987 e il 1990, l’India ha inviato sull’isola, a Jaffna, un contingente di forze di pace, denominato Indian Peace Keeping Force (Ipkf), in aiuto delle forze armate cingalesi. Pare sia questa la ragione dell’attentato che, nel 1991, uccise Rajiv Gandhi durante un comizio elettorale in Tamil Nadu. Poi, gli Stati Uniti: ufficialmente hanno sempre dichiarato di essere contro la divisione dello Sri Lanka e il terrorismo. Contemporaneamente hanno accreditato l’Ltte, utilizzando ad esempio la Norvegia per mediare fra le parti.
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Medio Oriente
Flavio Lotti
Non più complici ma costruttori di pace C’è chi giura che alla fine il presidente Obama resterà con il cerino in mano. E che neanche lui riuscirà a cambiare il corso della storia in Medio Oriente. Tra di loro ci sono i pessimisti e ci sono i cinici. I pessimisti sostengono che tra gli israeliani e i palestinesi c’è oramai troppa sfiducia e troppo rancore e che entrambi i popoli sono troppo divisi al loro interno per poter forgiare la pace. Per i cinici, invece, saranno i fondamentalisti di una parte e dell’altra a far saltare anche questo tentativo e a dimostrare che, dopo decenni di fallimenti, la pace in Terra Santa è semplicemente impossibile. Ma c’è un altro modo di vedere le cose. 1. In Terra Santa si sta consumando una tragedia umana e politica estremamente pericolosa per tutti. La mancata soluzione del conflitto e la continuazione dell’occupazione militare israeliana comporta immani sofferenze, la violazione sistematica dei fondamentali diritti umani dei palestinesi e il progressivo deterioramento delle loro condizioni di vita. Riduce lo spazio per il dialogo, la comprensione reciproca e la ricerca di soluzioni negoziate tra i due popoli.
Impedisce di risolvere pacificamente il conflitto mediante la creazione di uno stato palestinese accanto a quello israeliano a causa della continua espansione degli insediamenti israeliani. Alimenta la frustrazione, la disperazione, la rabbia e il desiderio di riscatto tra i palestinesi che finiranno con alimentare nuove manifestazioni di violenza. Costringe il popolo israeliano a vivere in una condizione d’insicurezza e di guerra permanente con tanta parte del mondo arabo che comprime i propri spazi di libertà, di sviluppo e di democrazia. Rappresenta un grande ostacolo alla lotta al terrorismo e al fondamentalismo ed è una fonte continua di instabilità e insicurezza internazionale. Frena lo sviluppo del dialogo interreligioso. Limita la nostra libertà e ci impedisce di costruire la pace nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Costringe da decenni l’Europa e la comunità internazionale a spendere inutilmente una enorme quantità di denaro senza ottenere alcun beneficio. Porta inevitabilmente allo scoppio di nuove guerre e atrocità. 2. Continuare a sperare che israeliani e palestinesi possano risolvere il problema da soli è da irresponsabili. Lo squilibrio tra le parti è troppo grande. Sia sul piano militare che economico e politico. Da una parte c’è uno Stato e dall’altra un popolo senza Stato con un’impressionante differenza di mezzi. E tuttavia neanche il più forte tra i due ha la possibilità di sconfiggere definitivamente l’avversario. Per questo è indispensabile l’intervento di un Terzo. Il Terzo (ancora oggi) assente siamo noi: l’Europa, l’Onu, gli Stati Uniti e lo stesso mondo arabo. 3. Serve una politica nuova. Da decenni il mondo intero auspica la pace in Medio Oriente. Da quando nel 1991 a Madrid, dopo la prima Intifada e la prima guerra del Golfo, si è aperta la prima Conferenza Internazionale di Pace sono passati quasi vent’anni. Da allora si calcola che il mondo abbia speso oltre 12trilioni di dollari per promuovere la pace tra israeliani e palestinesi e ancora oggi spendiamo per questo conflitto oltre due miliardi di dollari l’anno. Uno sforzo economico impressionante che, a giudicare dai risultati, è servito a ben poco. Continuare con la politica degli ultimi vent’anni è dunque da irresponsabili. Per fare la pace in Medio Oriente c’è bisogno urgente di una politica nuova e di un inedito impegno. 4. Serve un piano serio per chiudere il conflitto nel più breve tempo possibile. Per chiuderlo e non per continuare a gestirlo. Dopo due decenni di negoziati inconcludenti, la stessa formula della pace “Due Stati per due popoli” è in pericolo a causa della costruzione di sempre nuovi insediamenti israeliani a Gerusalemme e
l’Unione Europea deve rafforzare la propria iniziativa politica e darsi una strategia colmando il divario che esiste tra le “dichiarazioni politiche” e la loro implementazione, tra le parole e i fatti. 7. La strategia di pace dell’Europa deve essere una strategia dall’alto e dal basso. L’Europa non deve agire solo negoziando con i leader dei due popoli ma riconoscendo e sostenendo il ruolo prezioso che viene svolto dalla società civile di entrambe le parti. È soprattutto grazie a loro - persone, gruppi, associazioni e amministrazioni locali - che in tutti questi anni non si è mai interrotta l’azione di difesa e promozione dei diritti umani, di ricostruzione della capacità di ascolto reciproco e di dialogo, di promozione della democrazia e della sicurezza umana. Accanto all’iniziativa diplomatica ci deve dunque essere un forte investimento sulla “diplomazia dei popoli e delle città”: progetti, percorsi e iniziative che possono far leva su una fitta rete di collaborazioni tra società civile ed enti locali, israeliani, palestinesi ed europei. 8. L’Italia, che vanta ottime relazioni sia con Israele che con i palestinesi, può fare molto per rafforzare l’iniziativa dell’Europa e degli Stati Uniti. Ma deve cambiare! Deve smettere di essere di parte e assumere un ruolo attivo, propositivo e progettuale. Deve investire risorse economiche e diplomatiche. Deve darsi una politica di cooperazione adeguata. L’Italia può contare sul consenso della stragrande maggioranza dei propri cittadini e sull’impegno fattivo di un’ampia rete di gruppi, associazioni, Enti Locali e Regioni attiva da oltre vent’anni, ricca di relazioni, competenze, progetti ed esperienze di collaborazione con entrambi i popoli. Per questo deve agire come “sistema Paese”. In conclusione. Invece di iscriverci nella lunga lista dei pessimisti e dei cinici, sarebbe meglio che decidessimo di fare la nostra parte. Sino in fondo. Se siamo onesti con noi stessi dobbiamo ammettere con Barack Obama che non stiamo facendo quello che dovremmo fare. Cosa vogliamo essere? Complici della tragedia o costruttori di pace? Dobbiamo fare tutti la nostra scelta. Ora. Prima che la porta si chiuda nuovamente. Il tempo per scongiurare nuovi orrori si è fatto davvero breve.
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in Cisgiordania. Non serve più un processo di pace: serve un piano di pace. La comunità internazionale deve mettere sul tavolo un piano che consideri le ragioni dei due popoli nel rispetto dei diritti umani, della legalità e del diritto internazionale. E deve essere pronta ad esercitare tutte le pressioni necessarie per persuadere le parti a raggiungere l’accordo. 5. La comunità internazionale deve offrire un futuro migliore ad entrambi i popoli. La pace deve essere fondata sull’effettivo riconoscimento reciproco, sul riconoscimento dell’altro, della sua dignità, dei suoi diritti fondamentali. Entrambi i popoli hanno diritto di godere gli stessi diritti e la stessa dignità. Occorre riconoscere il diritto alla sicurezza dello Stato di Israele e il diritto alla sicurezza umana del popolo palestinese. Gli israeliani invocano la difesa del proprio Stato a partire dalla tragedia dell’Olocausto. I palestinesi invocano il diritto di vivere liberi e sicuri in casa propria. Ciascuno deve essere aiutato ad accettare i compromessi necessari. L’Onu, con il deciso sostegno dell’Unione Europea, si deve assumere la responsabilità di garantire la sicurezza sia d’Israele che della Palestina. In questo senso, l’invio di forze di polizia internazionale sul modello Unifil realizzato nel Sud del Libano risponde al bisogno di sicurezza di entrambi i popoli. La comunità internazionale, con un atto simbolico di grande forza, dovrebbe inoltre decidere di trasferire la sede dell’Onu a Gerusalemme trasformando questa città nella capitale della pace e della riconciliazione, una capitale per i due popoli e i due Stati, una capitale aperta a tutte le religioni e a tutti i popoli. La pace tra israeliani e palestinesi dovrà essere di stimolo alla realizzazione di un accordo regionale basato sulle Risoluzioni dell’Onu e sull’Iniziativa di Pace della Lega Araba che includa la pace tra Israele e Siria, la pace tra Israele e Libano e un piano di denuclearizzazione e disarmo del Medio Oriente. 6. L’Europa ha un grande “interesse” a chiudere al più presto questo conflitto per un almeno sette buone ragioni: perché dobbiamo evitare l’esplosione di un’altra guerra che si preannuncia ancora più crudele e selvaggia delle precedenti; perché solo chiudendo questo conflitto sarà possibile cominciare a chiudere anche gli altri che stanno infiammando il Medio Oriente; perché questo è certamente uno dei modi più efficaci per prevenire e combattere il terrorismo internazionale; perché non possiamo permetterci che questo conflitto si estenda nelle nostre città aumentando le tensioni e l’insicurezza in Europa; perché in questa regione stiamo sprecando tanti soldi da troppo tempo senza ottenere un minimo di risultato; perché dobbiamo saldare il grande debito storico che abbiamo nei confronti degli ebrei e dei palestinesi; per coerenza con i valori che abbiamo posto a fondamento delle nostre democrazie: la libertà, la legalità, la fraternità, l’uguaglianza. Per questo
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L’assedio di Gaza
Nel giugno 2007, dopo la vittoria di Hamas nel conflitto interno con Fatah, Israele ed Egitto impongono un “blocco” sulla Striscia, che impedisce di fatto l’importazione e l’esportazione di tutti i beni, oltre che limitare il movimento delle persone. La misura viene criticata in più occasioni dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite, che parlano di “punizione collettiva” per la popolazione palestinese. Nel giugno 2010, a seguito delle pressioni internazionali successive al raid compiuto contro la nave pacifista Mavi Marmara, il gabinetto di sicurezza di Israele approva una nuova disciplina del blocco, che amplia la lista dei beni ammessi nella enclave. Ma le condizioni della popolazione palestinese restano drammatiche: al momento il reddito pro capite di Gaza è fermo al 60% rispetto al dato del ’94 e quasi una metà della popolazione dipende dagli aiuti Onu.
Il 2 settembre 2010 a Washington, dopo quasi due anni di interruzione, vengono ripresi i negoziati diretti tra israeliani e palestinesi. Le trattative, fortemente volute dal Presidente statunitense Barack Obama, nascono tra lo scetticismo generale e rischiano di arenarsi subito, di fronte al rifiuto israeliano di “congelare” le colonie nei Territori occupati. Ma a dividere le due parti sono anche altre questioni-chiave, dai confini del futuro Stato palestinese, fino allo status della città contesa di Gerusalemme. Dall’altra parte l’Anp non sembra disposta a riconoscere la definizione di Israele come “Stato ebraico”, che rischierebbe di compromettere i diritti dei palestinesi con cittadinanza israeliana e il “diritto al ritorno” dei profughi del ’48 (e dei loro discendenti). Ciò nonostante i mediatori statunitensi continuano a ostentare ottimismo e pronosticano la creazione di uno Stato palestinese entro la fine del 2011. Intanto, a distanza di quasi quattro anni dallo scontro armato di Gaza tra Fatah e Hamas, le divisioni
ISRAELE PALESTINA
Generalità Nome completo:
Stato di Israele
Bandiera
Generalità
Lingue principali:
Ebraico e Arabo
Capitale:
Tel Aviv
Popolazione:
7.240.000
Area:
22.072 Kmq
Religioni:
Ebraica (75,6%), musulmana (16,6%), cristiana (1,6%), drusa (1,6%), non classificati (3.9%)
Lingue principali:
Arabo
Moneta:
Nuovo Shekel
Capitale:
Ramallah
Principali esportazioni:
Prodotti high tech, diamanti, prodotti agricoli
Popolazione:
4.150.000 (2007)
PIL pro capite:
Us 27.300
Area:
Dato non disponibile
Religioni:
Musulmana, cattolica
Moneta:
Sterlina egiziana, nuovo siclo israeliano, dinaro giordano
Principali esportazioni:
Dato non disponibile
PIL pro capite:
Cisgiordania Us 1.500 Striscia di Gaza Us 670
Nome completo:
Autorità Nazionale Palestinese
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
all’interno del fronte palestinese restano immutate. Finora sono falliti tutti i tentativi di ricomporre la frattura tra le due principali formazioni. In particolare, solo il partito di Abu Mazen ha firmato nell’ottobre del 2009 il documento di “riconciliazione” predisposto con la mediazione dell’Egitto, che è stato invece rifiutato da Hamas. I colloqui tra le due parti, tuttavia, vanno avanti. Dall’intesa tra le varie fazioni palestinesi dipende la sorte di alcune questioni cruciali, come la ricostruzione di Gaza e l’organizzazione di nuove elezioni presidenziali e politiche.
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Due popoli e due Stati: questa la soluzione al conflitto israelo-palestinese. Questo l’impegno delle diplomazie internazionali. Dal fronte palestinese si richiede il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati nel corso della “Guerra dei Sei giorni” (compresa Gerusalemme Est, che dovrà diventare capitale del futuro Stato palestinese) e il diritto al ritorno per i profughi del ’48. Precondizione posta per ogni trattativa
è anche lo stop alla costruzione di colonie, che sono illegali dal punto di vista del diritto internazionale e che continuano a mangiare giorno dopo giorno il territorio palestinese. Dall’altra parte lo Stato ebraico, che ufficialmente rivendica il proprio diritto alla “sicurezza”, ma che nei fatti non sembra aver cambiato le finalità del ‘48, ovvero la realizzazione in Palestina della Grande Israele.
Per cosa si combatte
Quello israelo-palestinese è un conflitto che dura da oltre mezzo secolo, ancora ben lontano dal trovare una soluzione, nonostante i molteplici tentativi compiuti nel tempo dalla diplomazia internazionale. Momento spartiacque è costituito dalla fine del mandato britannico, al termine della seconda guerra mondiale. È allora, con il ricordo ancora vivo dell’Olocausto nazista nell’opinione pubblica internazionale, che gli sforzi del movimento sionista (nato alla fine dell’Ottocento su iniziativa di Theodor Herzl allo scopo di dare una patria al popolo ebraico) hanno successo. Il 29 novembre 1947 una risoluzione dell’Onu accoglie le rivendicazioni del popolo ebraico, assegnandogli il 73% del territorio dell’ex mandato britannico. La decisione viene respinta dai palestinesi e dai paesi arabi. Egitto, Siria, Transgiordania, Libano e Iraq attaccano il nascente Stato ebraico, che però vince la guerra, ampliando il territorio sotto il suo controllo verso la Galilea a Nord e verso il Negev a Sud. Il 14 maggio 1948 nasce ufficialmente lo Stato d’Israele con la “Dichiarazione d’indipendenza” firmata dal primo ministro David Ben-Gurion. Per i palestinesi si tratta della Nakba (catastrofe): in centinaia di migliaia vengono cacciati dalle proprie case o fuggono, cercando riparo in altri Paesi dell’area mediorientale. Ma questa sarà solo il primo di una lunga serie di conflitti. Nel 1956, dopo la nazionalizzazione da parte del Cairo dello stretto di Suez, Israele attacca l’Egitto conquistando Gaza e il Sinai (da cui poi sarà costretto a ritirarsi). Nel maggio del 1967 il Presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, stringe un patto di difesa con la Giordania, che getta le basi per un attacco allo Stato d’Israele. La reazione di Tel Aviv è immediata: nel giugno del 1967 Israele attacca l’Egitto, poi la Giordania. È la ‘Guerra dei Sei giorni’, che segna la dura sconfitta del mondo arabo, culminata con l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, alture del Golan (tutt’oggi sotto il controllo israeliano) e Sinai (in seguito restituito all’Egitto). In seguito ci saranno altre guerre con i Paesi confinanti con Israele: nel 1973 la guerra dello Yom Kippur contro Egitto e Siria e nell’83 con il Libano. Ma è con la “Guerra dei Sei giorni” che la questione israelo-palestinese entra nell’impasse attuale. Nonostante le pressioni internazionali e le numerose risoluzioni dell’Onu, infatti, Israele non si ritirerà mai più dai territori occupati, e comincerà una lenta e costante campagna di
colonizzazione che dura tutt’oggi. Nel 1987 lo stallo nel conflitto dà origine a una sollevazione popolare contro l’occupazione israeliana, nota coma Intifada (“rivolta”), che inizia nel campo profughi di Jabaliyya ma si estende presto a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. La rivolta dura sei anni, durante i quali i palestinesi manifestano protestano con ogni mezzo, dalla disobbedienza civile agli scioperi generali, fino al lancio di pietre contro i militari. La guerriglia si interrompe grazie agli Accordi di Oslo del 1993, con la stretta di mano tra il primo ministro israeliano Itzhak Rabin, e Yasser Arafat, storico leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Quest’ultimo, a nome del popolo palestinese, riconosce lo Stato di Israele e a sua volta Tel Aviv riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese (ruolo che dal 1995 spetterà all’Anp, l’Autorità Nazionale Palestinese). Gli accordi di Oslo si riveleranno però fallimentari e la tensione tornerà alta il 28 settembre del 2000, quando l’allora capo dell’opposizione politica israeliana Ariel Sharon fa una provocatoria passeggiata, con mille uomini armati, sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Un gesto simbolico, compiuto in uno dei luoghi più sacri per i musulmani, con cui si rivendicava la città santa di Gerusalemme come capitale di Israele. È l’inizio della “Seconda Intifada”. Dalla Striscia di Gaza, l’anno successivo, comincia il lancio dei razzi ‘Qassam’ contro Israele. Azione questa che nel corso degli anni porterà Israele
Quadro generale
Gerusalemme
Il 7 giugno del 1967, durante la guerra dei Sei Giorni, le truppe israeliane occuparono la parte orientale di Gerusalemme. Spinti dalla forte emozione gli israeliani rimossero le barriere di separazione interposte tra le due parti della città dopo la prima guerra arabo israeliana in modo da creare di fatto un’unica Gerusalemme ebraica. La Knesset approvò una serie di leggi che estesero il diritto e l’amministrazione israeliani su Gerusalemme Est ampliando i confini municipali di Gerusalemme da 38 kmq a 108 kmq e portando la popolazione della città ad un totale di 263mila persone: 197mila ebrei, 55mila musulmani e 11mila cristiani. La risposta della comunità internazionale alle misure espansionistiche di Israele giunse con ben 5 risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (ris. 242, 252, 267, 465 e la 476) nelle quali si chiedeva ad Israele di “astenersi da atti suscettibili di alterare il carattere geografico, demografico e storico di Gerusalemme”.
Marwan Barghouti (Kobar, 6 giugno 1959)
Colonie
Il termine della moratoria israeliana, il 26 settembre 2010, ha riportato l’attenzione sulle colonie ebraiche in Cisgiordania, illegali in base al diritto internazionale, e ha messo a rischio i negoziati appena riavviati. Ma anche durante i dieci mesi di “congelamento” le ruspe israeliane non si sono mai fermate. Il decreto voluto dal primo ministro Benjamin Netanyahu nel novembre 2009 infatti riguardava solo le “nuove costruzioni” e ha sempre escluso Gerusalemme Est. Stando ai dati ufficiali del Governo di Tel Aviv, il calo di costruzioni nei primi mesi del 2010 non ha superato il 10% rispetto all’anno precedente. Nel frattempo Israele ha continuato anche ad annettersi terra palestinese, mediante l’estensione degli insediamenti e sviluppando il tracciato della “barriera di sicurezza”, che ricade all’interno dei Territori occupati. E adesso si attende un vero e proprio boom delle costruzioni. Netanyahu ha annunciato una colonizzazione “al rallentatore”, con non più di 1500 nuove unità abitative per anno. Ma secondo l’ong Peace Now i lavori riguarderanno almeno 13mila nuovi alloggi.
ad intervenire più volte nella Striscia al fine di “indebolire la resistenza palestinese”. Con la motivazione di difendersi dagli attentati kamikaze palestinesi sul proprio territorio, Israele nel 2002 prende la decisione di costruire una “barriera di sicurezza” in Cisgiordania, che di fatto sottrae ulteriore territori ai palestinesi. La costruzione, ribattezzata “muro dell’apartheid”, viene condannata anche dalla Corte internazionale di giustizia. Nel frattempo si rafforzano le tensioni anche all’interno del fronte palestinese, alimentate dalla vittoria a sorpresa di Hamas alle elezioni politiche del gennaio 2006, ai danni di Fatah. Gli scontri armati tra le due principali fazioni palestinesi raggiungono il culmine nel giugno 2007 a Gaza, quando si rischia
I PROTAGONISTI
una vera e propria guerra civile. Hamas ha la meglio, dando vita così a una separazione di fatto dei territori palestinesi, con una Striscia di Gaza controllata dal movimento islamico e una Cisgiordania governata da Fatah. Sempre nel giugno 2007, con lo scopo dichiarato di contrastare Hamas, Egitto e Israele impongono un blocco economico su Gaza, che dura tuttora. Al termine del 2008 Tel Aviv avvia anche una vera e propria campagna militare contro la Striscia, durata 17 giorni e nota come “Operazione Piombo fuso”. Il bilancio finale dei raid israeliani di 1305 morti palestinesi e di 5450 feriti. Intanto, diverse organizzazioni non governative tentano di rompere simbolicamente l’assedio e di portare aiuti alla popolazione palestinese. La spedizione più nota è quella della “Freedom Flotilla”, nel maggio 2010, che viene attaccata dalla marina israeliana e si conclude con la morte di nove attivisti turchi.
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Pur essendo in prigione dal 2002, Marwan Bin Khatib Barghouti viene considerato come una delle figure più influenti della scena politica palestinese. Nato nel ’59 nel villaggio di Kobar, presso Ramallah, a 15 anni già milita nelle fila di Fatah. Ma è solo nel 1987, con lo scoppio della prima intifada, che Barghouti si afferma come uno dei principali leader palestinesi. Quello stesso anno, viene arrestato e deportato in Giordania, dove resta fino alla firma degli Accordi di Oslo, nel ‘93. Nel 1996 viene eletto nel parlamento palestinese e si distingue per le sue campagne contro la corruzione, entrando in contrasto con Yasser Arafat. Con la seconda intifada si accresce la popolarità di Barghouti, che nel frattempo ricopre un ruolo rilevante all’interno delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa, accusate di diversi attacchi compiuti contro Israele. Viene arrestato nell’aprile 2002 a Ramallah e nel 2004 viene condannato a cinque ergastoli. Ma anche dal carcere continua a sostenere la legittimità della resistenza a Israele, pur condannando gli attacchi contro i civili. Barghouti viene indicato da molti come il solo in grado di attrarre i consensi delle diverse anime della società palestinese e ricostituire l’unità.
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Dopo l’acqua, il petrolio
L’acqua non sembra esser più l’unico bene bramato da Israele! Secondo studi della compagnia statunitense Noble Energy, le acque libanesi che si estendono dalla città di Tripoli nel Nord alla città di Sidone a Sud, con le sue estensioni nelle acque territoriali palestinesi, custodiscono grandi quantità di petrolio e di gas, stimato in più di 8 miliardi di barili (nelle sole acque libanesi). Non appena il segreto petrolifero è diventato di dominio pubblico Israele ha cominciato a sottolineare che tutti i giacimenti scoperti, ed in particolare i campi Tamar e Leviathan scoperti ultimamente nelle acque prospicienti le coste palestinesi, sono esclusivamente di sua proprietà, sebbene le carte nautiche dimostrino che un terzo del Leviathan si trova all’interno delle acque libanesi.
Potremmo dire che il Libano vive due vite parallele che purtroppo si concatenano inevitabilmente. Da una parte c’è quella istituzionale propria del Paese e del suo Governo che dopo oltre un anno dalle elezioni legislative, svoltesi il 7 giugno 2009, sembrerebbe essere entrato, sebbene tra molte contraddizioni, in una fase di relativa stabilità. Le consultazioni, le prime dopo la fine della presenza militare siriana (l’esercito di Damasco ha lasciato il Paese nel 2005), hanno confermato la maggioranza filooccidentale “14 marzo” guidato dal “Movimento del Futuro” del sunnita Saad Hariri. All’opposizione, la coalizione filo-iraniana e filo-siriana “8 marzo” formata dai due maggiori partiti sciiti “Amal” ed “Hezbollah” dello sceicco Nasrallah. L’unità nazionale, in un Paese di fazioni religiose, è stata la priorità di Hariri che, l’11 dicembre scorso, ha creato un Governo di unità nazionale composto da 30 ministeri. Seppur relativa, la stabilità del Governo ha apportato notevoli benefici anche all’economia. Nel 2008 il Libano è stato uno dei 7 Paesi al mondo con la Borsa in espansione (del 51%), poi, nel 2009 ha fatto il record di presenze turistiche degli ultimi trent’anni e ha prodotto un incremento del Pil del 7%. Sembrerebbe tutto andare per il meglio, ma qui subentra la “seconda vita” di cui si parlava. È quella condizionata dai cosiddetti “agenti esterni”, come Iran, Siria e Israele. Agenti che prendono il Libano come mero pretesto per imporre la propria autorità nell’area portando l’instabilità nel Paese dei Cedri “dall’esterno”. Lo fa Teheran foraggiando e fomentando Hezbollah contro le forze sunnite libanesi. Benché dal 7 maggio 2008 la situazione a Beirut sembrava essersi stabilizzata, il 24 agosto scorso uno scontro a fuoco tra Hezbollah e un gruppo sunnita ha causato la morte di almeno tre persone ed il ferimento di altre 10. Benché considerato “estemporaneo”, lo scontro mantiene alta la tensione. Lo fa Israele proseguendo la sua pressione sul confine Sud, dove sono dislocate ancora le forze Unifil, creando
LIBANO
Generalità Nome completo:
Repubblica Libanese
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo, francese
Capitale:
Beirut
Popolazione:
4.000.000
Area:
10.452 Kmq
Religioni:
Musulmana (sunnita, sciita), cristiana
Moneta:
Lira libanese
Principali esportazioni:
Gioielli, apparecchiature elettriche, prodotti metallurgici, chimici, alimentari
PIL pro capite:
Us 6.681
situazioni di tensione, alle volte veramente inutili: è il caso dello scontro avvenuto lo scorso 3 agosto lungo la “linea blu” di demarcazione fra i due Paesi. Il motivo? Lo sradicamento di un albero. Secondo Beirut l’albero era in territorio libanese, per Tel Aviv si trovava in territorio israeliano. Resta il fatto che un albero non può giustificare la morte dei tre soldati libanesi e del soldato israeliano, tante le vittime dello scontro. Quel che bisogna capire è quale delle “due vite” prevarrà e segnerà il destino del Libano.
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La presenza di basi operative della resistenza palestinese ha fatto da sempre del Libano uno degli obiettivi di Israele. Le tensioni tra i due Paesi sono poi costantemente cresciute a causa della contrapposizione tra Israele e il movimento sciita degli Hezbollah, che ha stabilito nel Sud del Paese le sue basi operative. Secondo Israele è l’Iran, che non ha mai riconosciuto l’esistenza dello Stato israeliano, a sostenere economicamente il movimento di Hezbollah fiancheggiato anche dal Governo siriano, in conflitto con Israele per la sovranità sulle Alture del Golan. Effettivamente la situazione nell’area sembra essere ora più che mai soggetta agli sviluppi politici tra l’Iran sciita e l’Occidente. Una si-
tuazione di stallo che però potrebbe tramutarsi in un conflitto nell’intera area mediorientale, come ha anche minacciosamente preannunciato il Presidente iraniano Ahmadinejad con un una telefonata lo scorso febbraio al Presidente siriano Assad. Il Presidente iraniano avrebbe detto che “qualora il regime sionista ripeterà i suoi errori e darà inizio a un’operazione militare, gli stati regionali devono essere uniti nel respingerlo con forza e nell’eliminarlo una volta per tutte”; egli avrebbe aggiunto che l’Iran “resterà al fianco dei Paesi della regione, compresi la Siria, il Libano e la Palestina”. Dichiarazioni “propagandistiche” che rafforzano e rassicurano Hezbollah e che meritano di non essere sottovalutate.
Per cosa si combatte
Con la dissoluzione dell’Impero Ottomano, la Società delle Nazioni affidò alla Francia il controllo della Grande Siria, incluse le cinque Province che oggi formano il Libano. La Conferenza di Sanremo, dell’aprile del 1920, ne definirà i compiti ed i limiti. Benché la ratifica di questo passaggio di consegna avverrà solo tre anni dopo, già nel 1920 la Francia dichiarò lo Stato del Grande Libano indipendente. Uno Stato composto da vari enclavi etnici: uno in Siria con una grande comunità in maggioranza cristiano maronita e l’altro a maggioranza musulmana e drusa con capitale Beirut. Solo 6 anni dopo il Libano diventerà una Repubblica, definitivamente separata dalla Siria, anche se ancora sotto il comune mandato francese. Nel 1943 il Governo libanese abolirà il mandato francese dichiarando la propria indipendenza. Bisognerà aspettare la fine della seconda guerra mondiale per assistere al ritiro definitivo delle truppe francesi dal nuovo Stato indipendente. Nel 1948, dopo la risoluzione dell’Onu 181 con la quale si “ripartiva” il territorio palestinese in seguito alla nascita dello Stato ebraico, anche il Libano aderì alla guerra della Lega Araba contro Israele non invadendo però mai il neonato Stato. Dopo la sconfitta araba, Israele e Libano sti-
pularono un armistizio ma, a tutt’oggi, mai un trattato di pace. Conseguenza di questa guerra, furono 100mila profughi palestinesi ai quali se ne aggiunsero altri dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967. Profughi che decenni più tardi saranno la causa, secondo il Governo israeliano, dell’invasione del Libano. L’operazione militare “Pace in Galilea” parte il 6 giugno del 1982 ed è
Quadro generale
Tribunale Speciale per il Libano (Tsl)
Dopo l’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, avvenuta 14 febbraio 2005, le Nazioni Unite hanno deciso di formare un tribunale speciale per far luce sull’assassinio. All’Aja, dal marzo del 2009, il Tribunale speciale per il Libano presieduto dal giurista italiano Antonio Cassese, è al lavoro per trovare entro cinque anni i responsabili dell’assassinio. Molti i dubbi, anche tra autorevoli esperti di geopolitica, sul vero fine del Tribunale visto che per altri assassinii eccellenti (ad esempi: John Kennedy, Olof Palme, Aldo Moro, la Signora Bhutto) l’Onu non hanno mai pensato di istituire una commissione di inchiesta internazionale. Il rischio reale è che il Tribunale, con la sua sentenza, diventi un mero mezzo politico ed ago della bilancia negli equilibri del Paese dei Cedri.
Michel Suleiman
Michel Suleiman, classe 1948, è dal 25 maggio 2008 il Presidente del Libano. Dodicesimo Presidente dall’indipendenza nel 1943, e il terzo dopo la fine della guerra civile nel 1990. Una carica apparentemente normale ma in un Paese come il Libano essere Presidente e per di più cristiano maronita ha un significato ed un peso ben specifico. Per raggiungere infatti un “Governo nazionale” in una realtà politico-sociale divisa dalle religioni, il credo di una figura come Suleiman risulta strategica. Ex Capo di Stato Maggiore dell’esercito, Suleiman ha sempre dimostrato la sua imparzialità se finalizzata al bene del Paese. Sotto la sua guida l’esercito è rimasto unito e neutrale durante le tensioni seguite all’uccisione dell’ex primo ministro Rafik Hariri. Suleiman non è intervenuto durante le manifestazioni antisiriane che hanno portato al ritiro delle truppe di Damasco, né ha contestato il ruolo di Hezbollah durante la guerra con Israele nel 2006. Soprattutto è rimasto neutrale nella contrapposizione interna tra filoccidentali e filo siriani. La sua elezione ha permesso il dialogo tra le parti e la creazione di un Governo di unità nazionale.
Fare la pace conviene… economicamente
Troppo spesso si pensa che la guerra sia il più grande business. Quale effetto economico avrebbe invece potuto avere la pace sull’intero Medio Oriente, dall’Egitto, passando per Israele e Libano, fino ad arrivare in Turchia? Quale effetto abbia avuto la situazione contraria, ovvero la guerra, lo ha calcolato lo Strategic Foresight Group, un istituto di ricerca con sede in India: il costo del conflitto in Medio Oriente tra il 1991 e il 2010 ammonta a circa 12trilioni di dollari. Se nello stesso periodo ci fosse stata la pace, il solo Libano avrebbe oggi 100 miliardi in più in cassa ed un Pil medio pro capite di 11mila dollari invece che di 5600. A conti fatti la pace sembra essere un business ben più redditizio!
finalizzata a sradicare dal Sud del Libano la presenza armata palestinese. In realtà, quella che si può chiamare prima guerra israelo-libanese, arrivò fino a Beirut dove aveva sede l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Per impedire la prosecuzione di spargimento di sangue, intervenne la diplomazia internazionale che sgomberò la dirigenza dell’Olp (rifugiatasi a Tunisi) e riversò nei Paesi limitrofi molte unità armate palestinesi. Una situazione che lasciò la popolazione civile nei campi profughi priva di alcuna protezione. Questo porterà al drammatico massacro nei campi-profughi di Sabra e Shatila, da unità cristiane guidate da Elie Hobeika, lasciate agire dalle truppe israeliane, comandate da Ariel Sharon, di stanzia nell’area coinvolta. Negli anni a seguire, il Libano dovrà affrontare i delicati equilibri interni tra le diverse etnie. Sicuramente una di queste realtà, gli Hezbollah, musulmani sciiti vicini a Damasco e Teheran, cambieranno, anni dopo, le sorti del Libano. È il 12 luglio del 2006 quando miliziani di Hezbollah attaccano una pattuglia dell’esercito israeliano nel Sud del Libano uccidendo tre soldati e rapendone due. Israele reagisce con la forza, avviando un’offensiva contro il Libano per “neutralizzare l’apparato militare di Hezbol-
I PROTAGONISTI
lah”. Al massiccio attacco aereo non corrisponderà però quello di terra che porterà l’esercito israeliano, dopo un mese, ad un avanzamento di pochi chilometri. La resistenza di Hezbollah, infatti, dimostrerà la propria efficacia, contrattaccando il territorio israeliano con lanci di migliaia di missili. L’11 agosto, un mese dopo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite interverrà con una risoluzione (la 1701), che troverà il voto unanime dei Paesi membri, chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità tra le parti, il ritiro di Israele dal Libano meridionale e l’interposizione delle truppe regolari libanesi e dell’Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) in una zona cuscinetto “libera - come si legge - da ogni personale armato che non sia quello delle Nazioni Unite e delle forze armate regolari libanesi”. Sul fronte interno intanto si riaccende lo scontro religioso. Per quindici anni, fino al 1990, Beirut aveva assistito allo scontro tra musulmani e cristiani. Dal maggio del 2008 lo scontro è tra sunniti e sciiti. Da una parte l’opposizione sciita di Hezbollah, dall’altra la maggioranza sunnita del premier Haririr. Il 7 maggio, con la decisione del Governo del premier sunnita Fuad Siniora, di considerare “illegale” la rete telefonica alternativa di Hezbollah nel Sud del Paese e nella periferia meridionale di Beirut (sua tradizionale roccaforte), la situazione precipita. Alla fine dei violenti scontri, il bilancio sarà di almeno 61 morti e 198 feriti.
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(Amchit, 21 novembre 1948)
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Se la pace corre via web
Se lo stato di guerra tra Siria e Israele impedisce ai cittadini dei due Paesi di incontrarsi di persona, ora la riconciliazione potrebbe passare via web. Onemideast. org è un sito che riunisce blogger, giornalisti e accademici siriani e israeliani che vogliono trovare un modo per superare l’impasse che ha bloccato i negoziati di pace. Internet si conferma così uno spazio unico nel suo genere per il potenziale confronto tra società civili, con la speranza che laddove ha fallito la diplomazia possa nascere un dialogo costruttivo. In homepage vengono proposte due liste di “Venti obiezioni alla pace”, di cui una stilata dal punto di vista israeliano e l’altra da quello siriano. Accanto ad ogni annotazione c’è uno spazio in cui la controparte può inserire le sue osservazioni.
UNHCR / J. Wreford
Il 4 febbraio il Primo Ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, si è detto pronto ad accettare una mediazione per permettere un rilancio delle trattative con la Siria, congelate da oltre un anno. Sarà “pace o guerra totale”, aveva minacciato il giorno precedente il ministro degli Esteri siriano Walid Mouallem. In effetti, gli ultimi sviluppi, sembrano dimostrare che la risoluzione dei conflitti che animano questa regione debba passare proprio per Damasco. Dopo la battuta d’arresto subita dai negoziati bilaterali avviati nel maggio del 2008 con la mediazione della Turchia a causa dell’imponente offensiva militare condotta da Tel Aviv nella Striscia di Gaza, il giovane ra’is siriano Bashar al-Assad è uscito rafforzato dall’isolamento vissuto durante l’era Bush, quando il suo Paese figurava nell’asse del “male”. Nel frattempo gli equilibri internazionali sono decisamente ruotati a favore di Damasco e oggi l’erede della famiglia Assad ha più di un asso in mano: dal suo ruolo nel conflitto israelo-palestinese all’arma dei rifugiati iracheni, dall’influenza sulla politica interna libanese a quella che potrebbe esercitare sul dossier iraniano. E il fine, che è quello di essere il cardine dei futuri assetti politici della regione, giustifica i mezzi: tenere aperte tutte le opzioni, dagli Stati Uniti all’Unione Europea, dall’Iran ai Paesi vicini, Turchia e Arabia Saudita in primis. È per questo che ora Israele vede il suo vicino con uno sguardo diverso. Innanzitutto un processo di pace potrebbe portare la Siria ad allontanarsi dall’Iran, con inevitabili ripercussioni anche nei rapporti con Hezbollah e Hamas, alleati tradizionali di Damasco e Teheran nella grande partita mediorientale. Rispetto al passato, Israele ritiene infatti che sia il regime degli Ayatollah il vero pericolo per la sua sopravvivenza nella regione e molti analisti si dicono convinti che l’avvio di nuovi negoziati tra Siria e Israele contribuirebbe a smorzare le tensioni nell’inquieta regione mediorientale, senza contare che in un contesto di pace Damasco potrebbe diventare meno di-
SIRIA ISRAELE
Generalità Nome completo:
Repubblica araba di Siria
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo, Curdo, Armeno, Aramaico e Francese
Capitale:
Damasco
Popolazione:
20.178.485 (più 40 mila persone residenti nella parte delle alture del Golan occupate da Israele)
Area:
185.180 Kmq
Religioni:
Islamica (90%, di cui 74% sunniti e 16% altre confessioni), cristiana (10%)
Moneta:
Lira siriana
Principali esportazioni:
Petrolio, prodotti petroliferi, minerali, frutta e verdura, cotone, tessili, carne e grano
PIL pro capite:
Us 5.000
pendente dall’Iran. Qualora infatti si riuscisse a coinvolgere la Siria in un dialogo proficuo e privo di tensioni con Tel Aviv, anche la ricerca di soluzioni della questione israelo-palestinese e della crisi irachena otterrebbe nuovo vigore.
sessanta chilometri. Ma l’importanza strategica del Golan non è data solo dalla sua posizione geografica e dalla sua conformazione naturale, ma soprattutto dalla presenza di falde acquifere e di piccoli e medi corsi d’acqua che dalla linea di cresta scendono verso Ovest a bagnare la piana della Hula e a ingrossare il Giordano: i piccoli torrenti Gilbon, Zavitan, Yahudiyya, Daliyot, Mehushim, Samakh, e Roqad e i fiumi Dan (245 mmc/a), Baniyas (121 mmc/a) e Yarmuk (450 mmc/a). Questa ricchezza di risorse idriche fanno delle Alture un vero e proprio serbatoio, i cui rubinetti sono oggi fermamente in mano israeliana. Damasco rivendica la propria sovranità sulla sorgente del fiume Baniyas, così come sul tratto finale dello Yarmuk (entrambi affluenti del Giordano) e sugli altri piccoli torrenti che attraversano l’altopiano da Est ad Ovest. La Siria ha inoltre espresso le sue velleità di controllo della riva orientale del lago di Tiberiade che per Israele, assieme al Giordano, rappresenta oggi un terzo delle risorse idriche dell’intero Stato ebraico.
164
La storia dei negoziati tra Damasco e Tel Aviv è caratterizzata fin dal 1967 da una serie di opportunità di pace mancate, principalmente per ragioni territoriali e strategiche. La questione delle Alture del Golan (in arabo Hadbat AlJawlan e in ebraico Ramat ha-Golan) resta infatti il principale ostacolo nel processo di pace tra i due Paesi, rappresentando ancora oggi un territorio ‘sospeso’ tra Israele, Siria e Libano. Contrafforte meridionale della catena montuosa dell’Antilibano, questo altopiano di formazione vulcanica e ricoperto di rocce basaltiche si estende per poco meno di 1800 chilometri quadrati. Nonostante le sue ridotte dimensioni, topografia e posizione geografica gli conferiscono un alto valore strategico, partendo dalle vette del monte Ash-Shaykh/Hermon (2814 m.), punto di osservazione privilegiato della regione per controllare entrambi i versanti. I rilievi dell’altipiano dominano a Nord-Ovest la valle della Hula e a Sud-Ovest la piana del lago di Tiberiade, mentre a Est controllano la pianura che scende fino a Damasco, distante appena
Per cosa si combatte
L’acqua che manca alla Siria
Il 7 settembre, Olivier de Schutter, inviato speciale delle Nazioni Unite per il diritto al cibo, ha concluso la sua missione in Siria, svelando una tragedia silenziosa, ma che sta affliggendo oltre 1,3milioni di persone, colpite da una siccità che dura da quattro anni. Due e forse anche tre milioni di siriani sarebbero precipitati in una condizione di “estrema povertà”. A giugno la Fao aveva annunciato che l’emergenza sembrava conclusa con l’arrivo delle piogge, ma le precipitazioni sono state ingenerose, i raccolti insufficienti e i capi di bestiame decimati. E le risorse idriche, già scarse, sembrano essere state colpite in modo permanente. Schutter ha inoltre sottolineato che il Syrian drought appeal non ha ricevuto abbastanza denaro e che questi tipi di aiuto sono “politicizzati”, con il risultato che l’Onu ha ricevuto solo il 34% del totale dei fondi richiesti.
UNHCR / L. Boldrini
Un lembo di terra stretto tra pendii e sassi che in soli sei giorni è diventato uno dei teatri più importanti della grande partita mediorientale. Nel giugno del 1967, durante quella che fu poi chiamata la “Guerra dei sei giorni”, le forze armate israeliane occuparono vaste porzioni di territorio appartenenti ai Paesi arabi confinanti, tra cui le Alture del Golan strappate alla Siria. Ricche di risorse idriche e situate in una posizione dall’alto valore strategico, anche nel più antico passato le alture hanno rappresentato per le popolazioni dell’area l’ultimo baluardo difensivo contro l’avanzata cristiana. Nonostante il silenzio delle armi degli ultimi
decenni, fili spinati, trincee, bunker e campi minati continuano a essere la testimonianza di una contesa che supera la dimensione territoriale per diventare il simbolo di una guerra infinita tra Israele e i suoi vicini. Il primo vero scontro tra Damasco e Tel Aviv risale al primo conflitto arabo-israeliano del 1948-49, quando la disfatta del male addestrato esercito siriano fu limitata proprio grazie alla barriera naturale rappresentata dall’altopiano. Dopo la firma dell’armistizio (siglato il 20 luglio 1949) e per i successivi vent’anni, Damasco rimane comunque in posizione di superiorità rispetto alle nuove colonie israeliane costruite proprio
Quadro generale
Robert Stephen Ford UNHCR
Le mele della concordia
Questa primavera le mele coltivate sulle Alture del Golan hanno preso la via della Siria. In conformità con le direttive del Governo israeliano e la richiesta della Croce Rossa Internazionale, per sette settimane consecutive, più di 30 camion, con un carico di circa 10mila tonnellate di frutta, hanno attraversato uno dei confini più contesi del mondo, sotto gli occhi vigili dell’esercito di Tel Aviv e dei soldati delle Nazioni Unite. Scortate sui mezzi della Croce Rossa, le mele sono giunte a Damasco attraverso il passaggio della città fantasma di Kuneitra, con la benedizione dei ministri degli Esteri dei due Paesi. Al di là del valore simbolico di questa operazione, la vendita della frutta coltivata sulle Alture rappresenta ancora una delle poche forme di sostentamento degli oltre 18mila Drusi che popolano l’altopiano. 165
Il corteggiamento dell’amministrazione guidata da Barack Obama alla Siria ha raggiunto il suo apice con la nomina del nuovo ambasciatore, Robert Ford, che dovrebbe colmare il vuoto creatosi nel 2005 in segno di protesta contro il presunto coinvolgimento di Damasco nell’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri. Ma a sei mesi dall’annuncio alcuni senatori americani sembrano ancora titubanti nell’avallare la nuova politica mediorientale inaugurata dal nuovo inquilino della Casa Bianca, quanto meno per quanto riguarda la Siria. Parla arabo, vanta una carriera di 25 anni in Medio Oriente ed è stato anche nel ‘pantano iracheno’ fino al 2006. La normalizzazione dei rapporti diplomatici tra i due Paesi non risolve immediatamente le grandi questioni che dividono l’America e la Siria, ma potrebbe segnare l’inizio di un nuovo approccio di Washington nei confronti di Damasco. Se il Senato statunitense dovesse pronunciare il tanto atteso ‘sì’, Ford avrebbe l’arduo compito di provare a sfilacciare l’alleanza storica che lega la Siria all’Iran, fissando il ‘prezzo’ per la definitiva transizione di Damasco. Ma il futuro ambasciatore sembra aver tutte le carte in regola per affrontare quest’ardua missione.
al di sotto dei pendii occidentali delle alture e della riva orientale del lago di Tiberiade. Tutto cambia nel giugno del 1967, una data che rappresenta uno vero e proprio spartiacque nella storia mediorientale. La “Guerra dei sei giorni” inizia con il massiccio attacco lanciato il 6 ottobre dalle truppe siriane che colgono di sorpresa l’esercito isriaeliano. Grazie al cessate il fuoco imposto dall’allora segretario di Stato americano Henry Kissinger, Israele recupera terreno fino a sfiorare il cuore del Paese, arrestando i suoi uomini ad appena quaranta chilometri da Damasco. All’armistizio del 25 ottobre segue una lunga guerra d’attrito che si protrae fino al 31 maggio del 1974, quando entra in vigore un nuovo cessate il fuoco sulla stessa linea del 1967. Israele mantiene le posizioni, mentre la Siria recupera un quarto del territorio occupato da Tel Aviv, più alcune zone simbolicamente importanti come la cittadina di Kuneitra. Tra i due belligeranti viene istituita una fascia di sicurezza affidata al pieno controllo dei caschi blu
I PROTAGONISTI
dell’Onu, presente con la missione Undof (United nations disengagement observe force). Cinque più tardi, il 14 dicembre 1981, la Knesset israeliana approva la legge con cui le Alture del Golan da “zona militare di guerra” diventavano parte integrante dello Stato ebraico. Lungi dal riconoscere quest’annessione, ancora oggi la posizione siriana resta più o meno ancorata alle rivendicazioni espresse alla fine degli anni Settanta: un accordo di pace sotto la condizione di un completo ritiro di Israele dall’altopiano. Da parte sua Israele considera la sua presenza sul Golan vitale per la propria sicurezza nazionale e postpone un eventuale ritiro in cambio di precise garanzie da parte siriana e internazionale, che vanno dalla completa smilitarizzazione del territorio compreso tra le Alture e i sobborghi di Damasco alla riduzione su scala globale delle forze armate siriane, fino alla creazione di una forza d’interposizione internazionale dotata di reali poteri dissuasivi e di metodi di risposta concreti in caso di aggressione. Al di là delle dichiarazioni formali, sul piatto delle trattative continua a esserci la gestione delle risorse idriche e la presenza di stazioni radar israeliane sul monte Ash-Shaykh/Hermon.
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Europa
Amedeo Ricucci
Uno strano continente nemico di se stesso Sarà pure un paradosso ma l’Europa è molto spesso la peggior nemica di se stessa. Come se non bastassero infatti gli egoismi, lo sciovinismo e le rivalità fra gli Stati membri - che di fatto ne indeboliscono le proiezioni sulla scena politica internazionale - anche il processo di costruzione della “casa comune” procede fra troppi scossoni e contraddizioni, senza che riesca ad emergere un progetto di Unione chiaro e condiviso. Certo, va riconosciuto agli Stati nazionali del XX secolo di aver vissuto in pace fra loro per un lungo periodo, dopo il 1945 e due guerre mondiali. Ma è anche vero che questa pace si è accompagnata ad una netta divisione fra Est ed Ovest del continente, con la guerra fredda fra questi due mondi contrapposti: il mondo del capitalismo e quello del socialismo. Crollato il mondo del socialismo e ritrovata l’unità del continente, sono ricominciati i conflitti e le guerre, da quelle nella ex-Iugoslavia a quelle nel Caucaso. In questo contesto, ha fatto molto discutere la sentenza con cui il 22 luglio 2010 la Corte Internazionale dell’Aja ha riconosciuto in
pratica l’indipendenza del Kosovo, che si era auto-proclamato Repubblica nel febbraio 2008, nonostante la decisa opposizione della Serbia, appoggiata dalla Russia. Il motivo delle polemiche è presto detto. Stabilendo che nessuna legge proibiva questa dichiarazione unilaterale di sovranità nazionale - ergo,legittimandola - il massimo organo giudiziario dell’Onu ha ridato fiato ai diversi micro-nazionalismi sparsi per l’Europa, creando un precedente pericoloso, che potrebbe determinare un effetto domino. È il caso ad esempio di Cipro, dove la comunità turca potrebbe impugnare proprio questa sentenza per chiedere il riconoscimento della Repubblica Turca di Cipro del Nord, anch’essa auto-proclamata dopo l’intervento militare di Ankara nell’isola, nel lontano 1974. Ma è una sentenza che potrebbe avere riflessi anche su Catalogna, Corsica e nei Paesi Baschi, per non parlare di Abkazia e Ossezia del Sud, nonchè a catena in tutte le realtà regionali in cui da tempo soffia il vento dell’indipendentismo, sia pure a fasi alterne. Eppure, nella vicenda del Kosovo la Ue non è stata in grado di trovare una posizione unitaria né tanto meno è stata in grado di frenare la pronta ed entusiastica adesione degli Usa alle ambizioni kosovare - fin dai tempi dell’intervento militare della Nato, nel 1999 - e questo pur trattandosi di una questione tutta interna all’Europa. D’altronde, non bisogna dimenticare che alcuni paesi europei, Germania in testa, vanno ritenuti in un certo senso corresponsabili nel processo di disgregazione violenta della exIugoslavia, nella prima metà degli anni ’90, per avere riconosciuto troppo in fretta e troppo alla leggera il distacco e l’indipendenza di Slovenia e Croazia, da cui presero il via le drammatiche guerre balcaniche di fine secolo. Insomma, l’Europa è un soggetto politico ancora debole, che spesso e volentieri non riesce a scegliere e a decidere sui conflitti in corso, perché paralizzata dagli interessi contrapposti dei suoi stati-membri più forti. E di conseguenza, la Ue si ritrova a non avere le idee chiare su quello che vuole essere e su come vuole preservare l’identità dell’Unione e degli Stati membri. Chiarissima è invece la posizione della Russia, che della Ue resta un interlocutore privilegiato e che nella vicenda del Kosovo ha sempre avuto una sola voce, di netto rifiuto rispetto alle pretese indipendentiste. La Russia d’altra parte è una Repubblica federale e come tale - visto anche la delicata situazione in Cecenia - non poteva esprimersi diversamente; salvo poi appoggiare senza riserve la dichiarazione di indipendenza di Abkazia e Ossezia del Sud, con
e quindi le ritorsioni contro un Paese finiscono per avere ripercussioni anche sugli altri. Da ciò l’interesse e le paure della Ue, che segue questo dossier con molta attenzione, pur sapendo che l’unico modo di sottrarsi a queste guerre del gas è diversificare quanto più possibile le fonti di approvvigionamento, in modo da ridurre la propria dipendenza da un solo fornitore. Per finire, non è ancora una guerra ma rischia di diventarla quella che alcuni stati hanno deciso di lanciare contro l’immigrazione clandestina, in nome di un’idea dell’Europa più simile ad una “fortezza” che ad uno spazio di libertà e democrazia. Gli ultimi a farne le spese sono stati i rom, nell’estate 2010: il Governo francese ha deciso infatti di rispedirli a casa, in Romania e Bulgaria, in barba al principio della libera circolazione dei cittadini che pure vige nei paesi della Ue. Politiche analoghe, soprattutto nei confronti dei migranti che vengono dal Sud del mondo - percepiti come una “minaccia” per l’ordine pubblico - sono state adottate da altri stati membri dell’Unione Europea. Non sarà una guerra ma è certamente una vergogna.
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motivazioni del tutto opposte. Ma la realpolitik è fatta anche di queste (apparenti) contraddizioni, che rientrano a pieno titolo nella strategia di una grande potenza. Altrettanto chiara è la posizione del Cremlino sugli altri dossier critici del suo confronto con l’Europa: l’allargamento della Nato ad Est e la guerra del gas. Entrambe le questioni vanno inquadrate nell’aspro confronto che va avanti da ormai un decennio per la conquista dello spazio geo-politico dell’Europa dell’Est che apparteneva al blocco comunista. Mosca continua a ritenere quest’area come facente parte del suo “tradizionale spazio di influenza”. E per questo si oppone, o quantomeno cerca di contrastare l’allargamento della Nato a questi Paesi, Ucraina in testa. Per l’Europa invece lo spazio ad Est del Danubio è stato, dopo la dissoluzione dell’Urss nel 1991, un enorme mercato che si apriva e da conquistare. L’allargamento della Nato ad Est si inserisce in questa strategia più vasta di espansione commerciale, industriale e finanziaria, oltre che nel tentativo di contenere la potenza militare di Mosca, che resta ancora oggi ragguardevole e può rappresentare, almeno potenzialmente, un pericolo. Anche le polemiche del 2008-2009 sulla ventilata installazione di nuovi sistemi missilistici della Nato sul territorio della Repubblica ceca - decisione poi rientrata - va letta come un episodio di questa guerra fredda. Così come vi rientra la guerra del gas che Mosca combatte ormai da qualche anno con Ucraina, Bielorussia, Georgia ed altre ex-repubbliche sovietiche, mentre la Ue cerca faticosamente di far da paciere. Il contenzioso in realtà è complesso. Il Cremlino infatti sa bene di avere il coltello dalla parte del manico visto che tutta l’Europa, sia quella occidentale che quella orientale, dipende dalle forniture energetiche che vengono dalla Siberia. Può perciò permettersi di usare il gas metano (ed il petrolio) come un’arma micidiale, ordinando alla Gazprom - il colosso russo dell’energia - di aprire o chiudere il rubinetto a seconda delle convenienze politiche del momento. A farne le spese sono soprattutto gli expaesi satelliti, la cui dipendenza energetica è schiacciante e che ai tempi dell’Urss pagavano un prezzo “politico”, molto basso, che Mosca non è più disposta ad accordare. L’ultima guerra del gas ha coinvolto la Bielorussia, nel giugno 2010, quando la mancata adesione di Minsk all’unione doganale con Russia e Kazakhstan ha spinto il Cremlino a chiudere di colpo e senza preavviso i rubinetti del gas metano, col pretesto di un debito non onorato. Immediato c’è stato poi l’effetto a catena, perché a restare senza gas è stata anche la Lituania, mentre Polonia e Germania sono state “salvate” solo grazie all’attivazione di forniture alternative, sempre russe. Il problema vero, infatti, è che le guerre del gas fanno sempre più di una vittima, visto che i Paesi di transito dei gasdotti sono tanti
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La zona della Russia indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione della Cecenia a cui questa scheda è dedicata.
Chi ha ucciso Anna?
A giugno del 2010 la Corte Suprema russa, accogliendo una richiesta avanzata dalla Procura di Mosca, ha annullato la sentenza di assoluzione per le tre persone accusate dell’omicidio della giornalista Anna Politkovskaia, uccisa nell’ottobre del 2006. Il processo dunque dovrà essere riaperto, con una nuova istruttoria. Qualche mese prima, in febbraio, una corte militare integrata da giudici popolari aveva infatti assolto l’ex dirigente della polizia moscovita Serghei Khadzhikurbanov, accusato di essere l’organizzatore del delitto per conto di un mandante non ancora identificato - ed i fratelli ceceni Dzhabrail e Ibragim Makhmudov, che avevano pedinato la giornalista fino alla sua abitazione, dove poi era stata uccisa. La decisione della giuria aveva provocato lo sdegno e la delusione sia dei familiari che dei colleghi della Politkovskaja, famosa per le sue critiche aperte all’allora presidente Vladimir Putin e per le sue denunce della violazione dei diritti umani in Cecenia. Anche la sentenza di primo grado, comunque, nonostante la condanna dei tre imputati, era stata criticata: netta infatti era stata l’impressione che i tre condannati fossero solo “pesci piccoli”, in una rete di responsabilità ben più pesanti ed altolocate. La speranza è che il nuovo processo riesca ad aprire una breccia nel muro di omertà che circonda il caso.
Dodici ribelli islamici e sei poliziotti sono rimasti uccisi il 29 agosto 2010 nel corso di un attacco armato nel villaggio natale del Presidente ceceno Ramzan Kadyrov, che era in visita alla sua famiglia. Due mesi prima, il 30 giugno, un kamikaze si era fatto esplodere a Grozny, all’entrata di un parco dov’era in corso un concerto cui assisteva il presidente Kadyrov. Il 5 febbraio, invece, cinque militari erano rimasti uccisi sulle montagne a Sud di Grozny, vittime di un’imboscata. I tre episodi sono emblematici dell’instabilità che ancora oggi regna in Cecenia, a più di un anno di distanza dalla fine del Regime Speciale Anti-terrorismo (Kto), proclamata in pompa magna dal Cremlino il 16 aprile 2009, e con cui si era ufficialmente chiusa l’ultima campagna militare russa in quella che, per storia, cultura e religione, è senza dubbio la più indomita e la più problematica - a livello di sicurezza - fra le repubbliche e le entità statali caucasiche. In realtà, diversi sono i segnali che lasciano pensare ad una recrudescenza del fenomeno terroristico in Cecenia, anche se la sua matrice si fa più confusa e denota una carica sempre meno nazionalistica. Più preoccupante ancora, per il Governo di Mosca, è l’estensione ormai innegabile di questo fenomeno all’intero Caucaso settentrionale. Lo dimostra l’attentato kamikaze che il 9 settembre 2010 ha fatto sedici morti in un mercato di Vladikavkaz, la capitale dell’Ossezia del Nord. E lo conferma la lunga scia di attentati, uccisioni e sequestri registrati negli ultimi due anni sia in Inguscezia che in Dagestan, le altre due Repubbliche contagiate da questa guerra a bassa intensità. Il Cremlino ha dimostrato di voler reagire, creando nella primavera del 2010 un nuovo distretto federale per il Caucaso del Nord e affidandone l’amministrazione a un giovane funzionario civile, Alexandre Khloponine, già governatore della regione di Krasnoyark. La speranza di Mosca è che Khloponine riesca ad imprimere un nuovo slancio economico alla regione, rimuovendo
CECENIA
Generalità Nome completo:
Repubblica Cecena
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Russo, Ceceno
Capitale:
Groznyj
Popolazione:
1.103.686
Area:
15.500 Kmq
Religioni:
Musulmana sunnita
Moneta:
Rublo, nahar
Principali esportazioni:
Petrolio
PIL pro capite:
n.d.
così alla radice le cause - prima fra tutte: la corruzione - che generano il malcontento popolare e rallentano la lotta al terrorismo. Nato in Cecenia e poi sviluppatosi nelle altre repubbliche caucasiche, il terrorismo islamico ha comunque più volte dimostrato di poter tranquillamente allungare la sua mano fino a Mosca. Lo dimostra il duplice attentato alla metropolitana del 29 marzo 2010, costato la vita a 40 cittadini moscoviti, vittime di due donne kamikaze. Qualche mese prima, il 27 novembre 2009, c’era stato l’attentato con esplosivo che aveva provocato il deragliamento del treno Nevskij Express da Mosca a San Pietroburgo, causando 27 vittime.
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Il conflitto che oppone la Grande Russia - prima zarista, poi sovietica ed ora di Putin - alla piccola Repubblica caucasica della Cecenia dura più o meno da duecento anni, sia pure a fasi alterne, ed è assai probabile che si riproponga. E questo per il semplice fatto che l’annessione di questa regione allo spazio d’influenza russo non è mai stata accettata dai fieri popoli montanari che la abitano: non a caso, la prima guerra santa contro i russi è del 1839 e tutti i grandi condottieri ceceni dell’epoca - dallo sceicco Mansur all’imam Shamil - hanno costruito la loro leggenda e la loro popolarità sulla resistenza ad oltranza alle forze di occupazione inviate da Mosca, in nome dell’indipendenza. L’epoca sovietica aggiunse solo nuove ferite e nuova acrimonia: accusati di aver collaborato con i nazisti, i ceceni non godettero infatti di buona fama, ai tempi di Stalin, e già nel 1944 si rivoltarono; in seguito cercarono di opporsi alla collettivizzazione forzata delle loro terre, al punto che Stalin ne ordinò la deportazione di massa in Kazakhstan, così come fece con altri popoli caucasici; solo l’ascesa al potere di Krusciov permise ai ceceni di rientrare in patria, costretti però a convivere con i russi che ne avevano preso il posto e che rappresentavano ormai il 30% della popolazione. Non c’è dunque da stupirsi se il movimento irredentista ceceno abbia rialzato la testa sul finire degli anni ’80, quando l’Urss comincia ad implodere; e se poi nel 1991, prima ancora della dissoluzione dell’Urss, viene proclamata a Grozny prima una Repubblica di Cecenia separata dall’Inguscezia e qualche mese dopo la Repubblica islamica indipendente di Iskheria. È bastato questo per scatenare il risentimento russo, sfociato poi nelle due guerre del 1994-1996 e del 1999-2000. La prima guerra cecena scoppia l’11 dicembre 1994 con l’offensiva a sorpresa ordinata da Boris Yeltsin, all’epoca Presidente della Federazione Russa, in difesa della minoranza russa perseguitata nella nuova Repubblica islamica d’Iskeria, già Repubblica autonoma di Cecenia e Inguscezia, dichiaratasi indipendente nel 1991. Questo blitzkrieg fu la più importante operazione militare condotta dall’Armata Rossa dai tempi della guerra in Afghanistan. Ma nonostante la sproporzione delle forze in campo, i russi non riescono a prevalere e sono costrette ad accettare un accordo di pace umiliante, firmato il 31 agosto 1996: con tale accordo la Cecenia mantiene la sua autonomia, suggellata dall’introduzione della sharia, la legge islamica, mentre i negoziati sull’indipendenza vengono rinviati sine die. In due anni di guerra, comunque, i morti sono almeno 40mila ed i profughi 250mila. Molto più breve fu la seconda guerra cecena, che scoppia il 1° ottobre 1999 e dura fino al 1° febbraio 2000, quando le truppe dell’Armata Russa occupano Grozny, dopo averla rasa al suolo. Controversi però restano ancora oggi i
motivi che portarono alla guerra: è vero infatti che l’intervento russo venne ufficialmente scatenato da una serie di attentati organizzati dai ribelli ceceni in territorio russo, con una lunga scia di morti - 240 solo a Mosca, nel 1999 - ma secondo molti analisti la guerra fu una prova di forza voluta dal primo ministro Vladimir Putin per guadagnarsi una facile popolarità e preparare la propria ascesa al potere. In ogni caso l’occupazione militare russa non riesce ad aver ragione della guerriglia cecena, che non solo obbliga l’Armata Russa a pagare un pesante tributo di sangue ma riesce anche a portare il terrorismo in casa del nemico, con un escalation di azioni spettacolari: dal sequestro degli spettatori del Teatro Dubrovka nell’ottobre 2002 - i morti furono 130, uccisi nel blizt delle forze speciali russe - al sequestro degli scolari della scuola di Beslan, in Ossezia del Nord, dove i morti furono più di 300. Insomma, finita la guerra guerreggiata, è iniziata una lunga guerra a bassa intensità, che si protrae fino ad oggi.
Per cosa si combatte
Va detto però che negli ultimi dieci anni un lungo processo, politico e militare, ha segnato la fine del sogno irredentista ceceno e la restaurazione di un ordine costituzionale filo-russo. Tutto ciò grazie soprattutto all’ascesa di un clan forte e prestigioso, che ha scelto di abbandonare la lotta armata e si è schierato dalla parte del Cremlino: il clan dei Kadyrov. Già gran mufti di Grozny, Akhmad Kadyrov viene eletto capo del Governo nel 2000 e diventa Presidente della Cecenia nell’ottobre 2003, carica che occupa fino al maggio 2004, quando viene ucciso in un attentato allo stadio di Grozny. Al suo posto subentra il figlio Ramzan, famoso per i suoi metodi brutali, che viene confermato Presidente nel 2007 e regna tuttora, con pieni poteri. È la milizia dei Kadyrov che viene incaricata, negli ultimi anni, di fare la “guerra sporca”, in nome di
Quadro generale
(Tsenteroi, 5 ottobre 1976) L’ultima delle sue “sparate”, a metà agosto 2010, è stata la richiesta al Parlamento ceceno di non essere più chiamato Presidente ma semplicemente capo. E questo perché Ramzan Kadyrov, il leader ceceno, ha maturato la convinzione che la Federazione russa di presidenti ne debba avere uno solo, quello del Cremlino. L’alternativa propostagli dai suoi zelanti funzionari non era certo politically correct: padre della nazione stride infatti con la sua età, appena 34 anni, e ancor di più con il fatto che i russi hanno fatto di tutto in questi anni per evitare che la Cecenia si consideri una nazione. In ogni caso, Kadyrov resta in sella. È stato lui a neutralizzare e costringere alla resa i più importanti gruppi di ribelli indipendentisti e a volere la completa ricostruzione di Grozny e della Cecenia. Resta da capire se l’innegabile consenso di cui oggi gode sia frutto dell’ammirazione dei suoi concittadini oppure della paura che suscitano i suoi sgherri. Da anni, sia Human Rigths Watch che altri organismi internazionali fra cui l’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani denunciano l’uso sistematico della tortura da parte delle forze di sicurezza. Inoltre, la rinnovata attività dei gruppi ribelli è un segnale che la pace vera in Cecenia è ancora lontana.
Oro nero
È vero, la Cecenia è relativamente ricca sia di petrolio che di gas metano. Ma troppo spesso si tende a sovrastimare l’importanza che questi giacimenti avrebbero avuto nella genesi e poi nella dinamica del conflitto che ha opposto negli ultimi vent’anni Grozny a Mosca. Basti pensare a tal proposito che, dei 500milioni di tonnellate di petrolio che la Federazione russa estrae ogni anno, solo 1,5 viene dal Caucaso del Nord. Il che vuol dire che la Cecenia ha un’importanza strategica risibile, da questo punto di vista, rispetto all’area del Mar Caspio oppure alla regione del Mar Artico. Non è dunque all’economia in sé ma alla geo-politica che bisogna guardare per poter decifrare i conflitti in corso. Più che al controllo delle risorse il Cremlino è interessato alla Cecenia e al Caucaso come regione strategica per il transito dell’oro nero che si estrae nell’area del Mar Caspio. Sul tracciato dei gasdotti e degli oleodotti che andranno al Mar Nero si gioca da anni un’accesa guerra “per procura” fra Stati Uniti e Russia. una progressiva “cecenizzazione” del conflitto, perseguita da Mosca con caparbietà: ne consegue un’alternanza di bastone e carota, con ripetute amnistie per i ribelli che scelgono di abbandonare la lotta armata e una spietata caccia all’uomo per stanare gli irriducibili. I risultati sono notevoli, se è vero che decine di capi-clan e signori della guerra vengono neutralizzati: a fine febbraio del 2008, secondo il vice-ministro degli interni russo, Arkady Edelev, restavano in Cecenia meno di 500 “terroristi” abbarbicati sulle montagne, fra cui una cinquantina di mercenari arabi; e chi raggiunge oggi le montagne per unirsi a loro, secondo diverse organizzazioni umanitarie, lo fa non più per motivi ideologici o religiosi, quanto per motivi personali, per vendicarsi cioè di un torto subito. È merito invece delle forze speciali russe e delle loro taglie ma non dei Kadyrovsty l’eliminazione di tutti i grandi leader della guerriglia cecena: nel marzo 2002 viene ucciso, probabilmente avvelenato, il comandante Ibn al Khattab, l’uomo di al-Qaeda in Cecenia; l’8 marzo 2005 viene ucciso il Presidente indipendentista Aslan Maskadov; il 10 luglio 2006 è il turno infine del comandante Shamil Bassaiev, sulla cui testa i russi avevano
I PROTAGONISTI
messo una taglia di 10milioni di dollari. L’ascesa dei Kadyrov è andata comunque di pari passo con il graduale disimpegno dell’Armata Russa: dei 100mila uomini impiegati in Cecenia all’epoca delle due guerre, ne restavano nel 2005 meno di 25mila, schierati peraltro solo in appoggio alle forze cecene del Ministero degli Interni; il rimpiazzo è stato completato nel 2009, con la fine del Kto, ed oggi restano poche migliaia di soldati russi in Cecenia, acquartierati nelle loro caserme-fortezze di Gudermes, Kankalia e Kashali. Passi da gigante ha fatto anche il programma di ricostruzione varato dal Governo filo-russo. La città di Grozny, ridotta dopo le due Guerre ad un cumulo di macerie, appare oggi in pieno boom: c’è un nuovo aeroporto, nuove autostrade e un centro sfavillante di negozi e attività economiche. È vero poi che secondo l’Onu il 60% della popolazione continua a vivere al di sotto della soglia di povertà, ma la situazione appare in netto miglioramento, grazie ai massicci investimenti che arrivano da Mosca. In cambio la popolazione cecena ha deciso, almeno apparentemente, di piegarsi al realismo :una nuova costituzione filo-russa è stata votata a larga maggioranza nel 2003; e con le elezioni parlamentari del 2005 è stata completata una complessa ma efficace divisione dei poteri fra Mosca e Grozny.
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Ramzan Kadyrov
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Le rivelazioni di un ex generale
Furono elementi della resistenza turco-cipriota, addestrati dai militari di Ankara, e non greco-ciprioti a dare alle fiamme, nel 1964, la moschea di Bayraktar a Nicosia, la capitale di Cipro. A svelare la verità, a quasi 50 anni da quegli avvenimenti, è stato il generale dell’esercito turco in pensione Sabri Yirmibesoglu in un’intervista alla tv privata Haberturk a fine settembre 2010. Lo scopo dell’attentato - ha detto l’ex generale - era quello di fomentare ulteriormente i forti dissidi tra le due comunità che portarono a sanguinosi episodi di violenza. Yirmibesoglu ha affermato che ai tempi dei conflitti interetnici a Cipro era per i turchi “una regola compiere atti di sabotaggio che sembrassero opera del nemico”.
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Nel settembre 2008, sotto l’egida dell’Onu, il Presidente greco-cipriota della Repubblica di Cipro, Dimitris Christofias, e l’allora Presidente turco-cipriota della cosiddetta Repubblica Turca di Cipro Nord, Mehmet Ali Talat, avviarono colloqui per giungere alla riunificazione dell’Isola che, dal 1974, è divisa in due: il Nord è amministrato dai turchi e riceve sostegno politico-economico da Ankara (Turchia), il Sud è sotto l’amministrazione dei ciprioti di etnia greca che fanno riferimento ad Atene, e nel mezzo c’è l’Onu con una presenza, anche se non massiccia, di caschi blu, per evitare scontri. Fino alla fine del 2009 i colloqui tra le parti lasciavano sperare in un accordo di riunificazione, ma nel corso del 2010 i contatti si sono attenuati e, in ultimo, non hanno portato ai risultati attesi. Oggi, negli ambienti della diplomazia internazionale si è concordi nell’osservare che la “questione cipriota” rimane del tutto irrisolta e bloccata. Neanche l’arrivo nell’aprile del 2010 di un nuovo Presidente di origine turca, Dervis Eroglu, (leader del Partito di Unità Nazionale) a capo della cosiddetta Repubblica di Cipro Nord, ha smosso le acque stagnanti del negoziato. Anzi. Rispetto al suo predecessore, Eroglu ha visione e obiettivi differenti. Se l’ex-presidente di Cipro Nord, Mehmet Ali Talat, era un sostenitore dell’unificazione e di più stretti rapporti con l’Unione Europea, Dervis Eroglu è fautore, invece, della creazione di due Stati con due organizzazioni differenti. E così, il 9 settembre 2010, il ministro degli Esteri greco in visita a Nicosia (capitale di Cipro), invitava ancora una volta la Turchia, e senza mezze parole, a ritirare le sue truppe dal Nord.
CIPRO
Generalità Nome completo:
Repubblica di Cipro; Repubblica Turca di Cipro Nord
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Greco, Turco
Capitale:
Nicosia
Popolazione:
792.604
Area:
9.250 Kmq (di cui 3.355 Kmq all’interno della Repubblica Turca di Cipro Nord)
Religioni:
Cristiana ortodossa, musulmana
Moneta:
Euro nella Repubblica di Cipro. Nuova lira turca, nella Repubblica Turca di Cipro Nord
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli tipici come olive e limoni, tessuti e calzature
PIL pro capite:
Us 16.000 Repubblica di Cipro Us 5.600 Cipro del Nord
Sottolineando che “la situazione cipriota è una questione di occupazione e invasione” dimostrava che ancora non si erano ridefiniti in positivo i termini del dissidio nella relazione tra Atene e Ankara.
La posizione geografica (70 km dalla Turchia, 100 km dalla costa del Vicino Oriente, 500 km dall’Egitto), attribuisce alla terza isola per estensione del Mar Mediterraneo orientale un valore strategico molto elevato. Le basi militari di Akrotiri e Dhekelia sono sotto controllo degli anglo americani che da qui possono controllare il Medio Oriente e il confine meridionale della Russia. I principali capi dell’isola e il Monte Olimpo (m. 1951) hanno un uso militare di
spionaggio e sono disseminati di antenne. C’è in ballo anche il controllo di riserve petrolifere: nel giugno 2009, il ministro dell’Industria grecocipriota Antonis Paschalides aveva annunciato che il Governo di Nicosia sarebbe andato avanti con il proprio programma di sondaggi petroliferi offshore nel Mediterraneo, al largo di Israele. La Turchia aveva definito quelle attività una “provocazione” e aveva inviato navi da guerra.
Per cosa si combatte
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Dal punto di vista geografico, Cipro è situata nel continente dell’Asia. Fino al 1960 Cipro fu colonia britannica. Il 16 agosto di quell’anno, dopo decenni di lotta politica ed armata, venne fondata la “Repubblica di Cipro”, indipendente ma “protetta”, non soltanto dalla Gran Bretagna, ma anche da Grecia e Turchia. Il nuovo stato divenne membro dell’Onu un mese più tardi. La Repubblica era retta da una Costituzione che bilanciava gli interessi delle due comunità etniche locali: quella greco-cipriota, che rappresenta ancora oggi la maggioranza della popolazione, e quella turco-cipriota. Se il Presidente era un esponente di origine greco-cipriota, con funzioni di capo di stato e di Governo, il vicepresidente doveva essere un turco-cipriota con diritto di veto. Il Governo era composto da sette ministri greco-ciprioti e tre turco-ciprioti; il Parlamento da 35 membri greco-ciprioti e 15 turcociprioti. Per fare le leggi era necessario ottenere la maggioranza all’interno di entrambi i gruppi. La neo Repubblica di Cipro, così istituzionalizzata, non entrò mai veramente in funzione perché mai si arrivò ad un programma politico comune tra greci e turchi dell’isola. Gli uni guardavano ad Atene, gli altri ad Ankara. Il 30 novembre 1963 l’arcivescono Makarios III, nominato primo Presidente di Cipro, tentò di modificare la Costituzione. Il Governo di Ankara
Quadro generale
Dervis Eroglu
(Famagosta, 1938)
Matthias Kabel da Wikimedia Commons
Arte profanata e rubata
Dopo l’invasione turca del 1974, molti luoghi sacri per gli ortodossi e i cattolici sono stati “profanati” nella parte Nord di Cipro. La basilica gotica di San Francesco a Famagosta è trasformata oggi in una birreria-pizzeria. La vicina chiesa cattolica fondata dai Cavalieri di San Giovanni è ora una discoteca. Nella chiesetta di San Eufimiano, a Lisi, il pavimento è stato distrutto e gli affreschi millenari dell’abside staccati e rubati. Tuttavia, presto una serie di antichi pezzi d’arte di Cipro, trafugati nel 1974 e rivenduti sul mercato clandestino, torneranno in patria: antiche icone, parti di mosaici e affreschi bizantini sono stati rinvenuti dalla polizia tedesca in due appartamenti a Monaco di proprietà di Aydin Dikmen, discusso collezionista e mercante d’arte turco-cipriota. 177
Dervis Eroglu, Presidente della Repubblica Turca di Cipro Nord, è stato Primo Ministro dal 1985 al 1994 e dal 1996 al 2004, leader del Partito di Unità Nazionale. Dopo gli studi di Medicina all’Università di Istanbul, presto entra a far parte del neo-costituito Parlamento di Cipro Nord, e riceve l’incarico di Ministro dell’Educazione, Cultura, Gioventù e Sport già nel biennio 1976-1977. Nel 2004 perde le elezioni presidenziali contro Mehmet Ali Talat. Il 21 Novembre 2005, Eroglu rassegna le dimissioni come leader del Partito di Unità Nazionale ma viene rieletto in carica nel Novembre 2008. Il 18 Aprile 2010 conquista lo scranno di Presidente della Repubblica di Cipro Nord. DervisEroglu è sposato e ha quattro figli.
non glielo permise. Il 21 dicembre Makarios III ripudiò il Trattato di Garanzia che legava Grecia, Turchia e Gran Bretagna nell’amministrazione di Cipro. Cominciarono scontri armati tra le due comunità che andarono avanti per una settimana. Vi furono fughe di civili da quei villaggi dove greci e turchi avevano vissuto fino ad allora in rapporti di buon vicinato. Il 4 marzo 1964, con la Risoluzione n. 186 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, veniva istituita la missione Unficyp. Nel 1974, per contrastare il tentativo di un colpo di stato da parte dei greci sull’Isola, e d’altra parte, con la motivazione di proteggere la propria minoranza turca, il Governo di Ankara inviò il proprio esercito a Cipro e ne occupò il Nord. Fu ovviamente guerra tra le parti: oltre 7mila morti e quasi 2mila dispersi da entrambe le parti, circa 160mila greco-ciprioti costretti a lasciare le loro case e a rifugiarsi nel Sud dell’isola, circa 40mila turco-ciprioti dovettero spostarsi al Nord. Nicosia, la capitale, venne tagliata in due
I PROTAGONISTI
da un muro. L’Onu ottenne il “cessare il fuoco” il 16 agosto 1974. Da allora, Cipro è di fatto divisa in due zone distinte e separate. Al Sud, i greci della Repubblica di Cipro, Paese riconosciuto dalle diplomazie mondiali e divenuto nel 2004 membro dell’Unione Europea. Al Nord, per un terzo del territorio dell’isola, si estende invece la “Repubblica Turca di Cipro Nord” che non fa parte della zona doganale e fiscale europea (anche se i suoi cittadini vengono considerati di fatto cittadini dell’Ue) ed è riconosciuta come Stato, ovviamente, soltanto dalla Turchia. Oggi, gli uomini in forza all’Unficyp controllano una zona cuscinetto lunga 180 km e di un’ampiezza variabile dai 20 metri ai 7 km. Una “linea verde” che taglia in due la capitale Nicosia dove fino al marzo 2007 esisteva anche un vero e proprio muro divisorio tra la parte greca e la parte turca della città. Nella notte del 9 marzo 2007 è stato aperto dai greci, come “segnale di pace”, un valico importante, quello della zona commerciale di Ledra Street, un valico che di fatto fa “cadere” il muro intero, anche se in alcuni tratti del suo percorso cittadino non è stato abbattuto.
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Il Caucaso
Ai tempi dell’Unione Sovietica, in particolare negli anni 1937-1938, per ordine di Stalin molte di queste popolazioni vennero deportate in massa in Siberia, e questo ha ulteriormente contribuito ad alimentare l’odio per i russi. Delle sette Repubbliche autonome che compongono il Caucaso settentrionale e fanno parte oggi della Federazione Russa ben quattro presentano gravi problemi di sicurezza interna, dovuti alla presenza di gruppi armati che si oppongono al potere centrali ed hanno legami diretti o indiretti con il terrorismo di matrice islamica: la Cecenia, il Daghestan, l’Inguscezia e l’Ossezia del Nord. L’ultimo episodio grave risale al 9 settembre 2010: un’autobomba fa una strage nel mercato centrale di Vladikavkaz, capitale dell’Ossezia, causando 16 morti e oltre 100 feriti. Più grave ancora è la penetrazione massiccia, negli ultimi anni, del fondamentalismo islamico di impronta wahabita, che dalla Cecenia si è propagato alle altre repubbliche caucasiche. Non è più tranquilla la situazione nel Caucaso meridionale, del Sud, dove - oltre ai conflitti interni alla Georgia - non va dimenticata l’annosa questione del Nagorno-Karaback, che ha già comportato una sanguinosa guerra fra Armenia e Azerbaijan, fra il 1992 e il 1994 e che ancora non è risolta.
Anche il georgiano più famoso al mondo è finito tra le vittime del conflitto che oppone da anni il Governo di Tblisi a quello di Mosca. Il 25 giugno 2010, infatti, le autorità georgiane hanno fatto rimuovere in fretta e furia la gigantesca statua di Josiph Stalin che troneggiava nella piazza centrale di Gori, sua città natale. Eppure il monumento era sopravvissuto sia al processo di de-stalinizzazione avviato da Krusciov negli anni ’50, alla morte del dittatore, sia alla furia iconoclasta del 1991, quando l’Urss venne disciolta e la Georgia riacquistò la sua indipendenza. Non subì un graffio nemmeno durante la sciagurata guerra-lampo dell’agosto 2008, quando i tank russi occuparono Gori e vennero poi bloccati alle porte di Tblisi grazie alla tregua strappata dal Presidente francese Sarkozy a nome della Ue. Comunque, questo è l’ultimo atto nello scontro tra i due Paesi. E forse va messo in relazione con l’ultimo pronunciamento del Parlamento Europeo, che il 20 maggio si è di nuovo espresso sul conflitto fra Russia e Georgia, senza dare soddisfazione né agli uni né agli altri. La Ue attribuisce infatti alla Georgia la responsabilità di aver scatenato la guerra-lampo dell’agosto 2008, anche se ribadisce il suo sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale della Georgia, condannando perciò la secessione dell’Abkazia e dell’Ossezia del Sud, che hanno dichiarato unilateralmente la loro indipendenza. La Georgia avrebbe preferito che la Ue parlasse esplicitamente di queste due regioni come di “territori occupati”, con riferimento alle truppe russe che vi stazionano e ne controllano di fatto le frontiere. Ma la Ue si è limitata a constatare che l’attuale status quo non è una situazione accettabile, perché c’è il rischio permanente di una nuova escalation militare e di nuovi scontri armati, ed ha quindi auspicato che le due parti si adoperino con ogni mezzo per giungere ad una pacifica soluzione del contenzioso, nel rispetto degli interessi e dei diritti delle popolazioni coinvolte. In realtà,
GEORGIA
Generalità Nome completo:
Georgia
Bandiera
179
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Georgiano
Capitale:
Tbilisi
Popolazione:
4.989.000
Area:
69.510 Kmq
Religioni:
Ortodossa georgiana (76%), musulmana (9.9%), ortodossa russa (3%), armena apostolica (4.9%), cattolica (2%), altre (3.2%)
Moneta:
Lari georgiano
Principali esportazioni:
Metalli ferrosi e non, alcuni prodotti agricoli, vino
PIL pro capite:
Us 3.586
quella della Ue è una sentenza per troppi aspetti salomonica, che non imprime alcuna svolta al conflitto russo-georgiano. E se è vero che l’indipendenza di Abkazia ed Ossezia del Sud è stata riconosciuta finora solo dalla Russia e da pochissimi altri Stati, è vero anche che il pronunciamento della Corte Internazionale dell’Aja, il 22 luglio 2010, a favore dell’indipendenza del Kosovo crea un precedente che le autorità di Tbilisi non possono non temere.
180
Fra le 15 Repubbliche dell’ex Unione Sovietica la Georgia è forse quella che, in termini di integrità territoriale e stabilità politica interna, ha pagato il prezzo più alto da quando l’Urss si è disintegrata, nel 1991. Ma è vero anche che è stato un georgiano, Iosif Vissarionovic Stalin, a creare buona parte dei problemi etnici che la nuova Repubblica della Georgia - indipendente dal 9 marzo 1991 - si è trovata a dover gestire, finora con scarsi successi. Fu Stalin, infatti, a permettere nel 1931 che la sua Georgia si annettesse il Principato di Abkhazia, la regione costiera situata a Nord, sul Mar Nero, che da secoli godeva di un’ampia autonomia all’interno dell’Impero ottomano, favorendo negli anni successivi da un lato l’immigrazione della popolazione georgiana e dall’altro l’uso della lingua georgiana al posto della lingua locale. E fu sempre Stalin ad acconsentire che l’Ossezia, altra regione frontaliera fra Russia e Georgia, venisse divisa fra un Nord integrato nella Federazione Russa e un Sud annesso alla Georgia, senza tener conto degli inevitabili dissapori che questa divisone avrebbe creato, vista l‘omogeneità etnica e linguistica delle due regioni. Non è dunque per caso se, già con i primi fermenti politici che porteranno alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, in entrambe le regioni si manifestano fortissime tentazioni separatiste. E subito dopo la dichiarazione d’indipendenza della Georgia, è proprio l’Abkhazia, il 23 luglio 1992, a dichiarare unilateralmente la sua indipendenza. In Ossezia, invece, il soviet supremo locale vota nel 1989 l’unificazione con l’Ossezia del Nord. Ma il giorno dopo il parlamento georgiano revoca questa decisione e abolisce lo statuto di ampia autonomia che era stata fino ad allora accordato alla regione. La prima guerra con l’Ossezia inizia proprio nel gennaio 1991, quando le forze armate georgiane entrano in Ossezia per riprendere il controllo della situazione. Dopo un anno e mezzo di pesanti scontri - ed un referendum popolare con cui gli osseti scelgono l’indipendenza - una tregua viene firmata, il 26 giugno 1992, dal nuovo Presidente georgiano Eduard Shervadnadze e dal nuovo Presidente russo Boris Yeltsin. Si tratta di un accordo secondo cui la Russia riconosce l’intangibilità della frontiera internazionalmente definita. Con un secondo referendum popolare, nel novembre 2006, la popolazione dell’Ossezia del Sud, a stragrande maggioranza (92%) conferma però la sua volontà secessionista. In Abkhazia la Prima guerra scoppia subito dopo la dichiarazione unilaterale d’indipendenza, nel luglio 1992. In agosto tremila soldati georgiani entrano nella regione e dopo aspri combattimenti occupano Sukumi, la capitale. Centinaia di volontari, provenienti dalla Russia e dalle ex repubbliche sovietiche - fra cui il famoso leader ceceno Shamil Basaiev - accorrono in aiuto delle milizie separatiste, finché la situazione sul terreno non viene rovesciata e si arriva ad una
tregua, firmata il 27 luglio 1993. Una pace precaria regna nelle due repubbliche secessioniste fino al 2004, quando la “rivoluzione delle rose” e l’ascesa al potere in Georgia del nuovo leader, Mickail Saakasvili, gettano nuova benzina sul fuoco del nazionalismo georgiano, rinfocolando la speranza di poter riprendere il controllo sulle due regioni ribelli. A tale scopo, la Georgia procede ad un massiccio riarmo: le spese per armamenti dal 2004 in poi crescono a ritmi vertiginosi, fino a sfiorare il 10% del PIL, una vera e propria follia per un Paese povero, che dipende dalle importazioni dall’estero, in particolare dalla Russia. Nasce così la guerra-lampo lanciata dalla Georgia con esiti disastrosi nella notte fra il 7 e l’8 agosto 2008. La reazione russa è infatti immediata e sproporzionata - come stabilirà un rapporto del parlamento Europeo - e in una sola settimana di combattimenti la guerra farà 2mila morti, almeno 5mila feriti e 300mila sfollati, quasi tutti georgiani. La tregua firmata il 16 agosto su iniziativa della Ue congela inoltre una situazione decisamente favorevole ai separatisti, tant’è che - forti dell’appoggio russo - sia l’Abkazia che l’Ossezia del Sud dichiarano unilateralmente la propria indipendenza, nel settembre 2008.
Per cosa si combatte
Il problema vero è che l’entità statale georgiana risulta troppo debole di fronte alla molteplicità di interessi etnici e di spinte regionalistiche che dilaniano il suo territorio. A questo si aggiunge la pressione della Russia, che in nome della difesa delle minoranze a lei legate, per storia e per lingua, continua a ritenere la Georgia parte integrante della sua tradizione zona d’influenza. Mosca d’altronde non ha mai digerito la cosiddetta rivoluzione delle rose che nel novembre 2003 ha portato al potere a Tblisi l’attuale pre-
Quadro generale
Mickail Saakashvili (Tbilisi, 21 dicembre 1967)
La vetrina olimpica
Le Olimpiadi Invernali del 2014 si svolgeranno a Soci, la più nota fra le località turistiche sulla sponda russa del Mar Nero. È qui che dai tempi dell’Unione Sovietica hanno la loro dacia i membri più autorevoli della nomenklatura ed è qui che si sono sempre tenuti gli incontri politici e diplomatici più delicati nella storia russa. Soci però si trova a meno di 50 km di distanza dalla frontiera con l’Abkazia e ai piedi del Caucaso, in una regione cioè che mai come in questo periodo si caratterizza per l’alta conflittualità. Da qui l’attenzione maniacale con cui le autorità del Cremlino seguono i preparativi per le Olimpiadi: sarà infatti una vetrina speciale, in mondo-visione. Per ora, il vero problema è la catastrofe ecologica che si rischia a causa dei lavori di costruzione degli impianti olimpici. Dalle centinaia di cantieri che sono stati avviati vengono estratti infatti, tutti i giorni, tonnellate di rifiuti speciali che vengono ammassati lì dove capita, in mancanza di inceneritori. Finora, però, le diverse proteste dei cittadini e delle associazioni ambientaliste sono state completamente ignorate con la scusa che il tempo stringe e bisogna al più presto ultimare i lavori.
sidente, Mickhail Saakashvili, considerato troppo filo-americano rispetto al suo predecessore, Eduard Shervardnaze. E da allora ha ingaggiato con le autorità georgiane una complicatissima partita a scacchi, di cui la guerra-lampo dell’agosto 2008 è solo una delle tante mosse, la più audace. Nel gennaio 2006, ad esempio, Mosca chiude senza preavviso i rubinetti del gas siberiano che rifornisce Tblisi; e nell’aprile dello stesso anno blocca le importazioni di vino georgiano. Le autorità di Tblisi replicano intensificando il dialogo con Bruxelles, per un ingresso ufficiale della Georgia nella Nato. Russia e Georgia si danno inoltre battaglia nella cosiddetta guerra dei gasdotti: Tblisi aderisce infatti e viene coinvolta nel tracciato del gasdotto Nabucco, che
I PROTAGONISTI
porterà in Europa gas e petrolio del Mar Caspio senza passare dal territorio russo; mentre Mosca vara in risposta due progetti di gasdotti alternativi, Northstream e Southstream, che escludono dal loro tracciato l’uno l’Ucraina e l’altro la Georgia. Per molti versi, vista la disparità delle forze in campo, sembra di assistere al confronto fra Davide e Golia. Non è casuale se in vista delle prossime scadenze elettorali - le politiche nel 2011 e le presidenziali nel 2012 - diverse forze di opposizione hanno deciso di riavvicinarsi a Mosca, auspicando che si instauri un dialogo, finalmente, per porre fine all’insostenibile contenzioso attuale. È però difficile che ci sia una svolta finchè le truppe dell’Armata Russa continueranno ad occupare il territorio dell’Abkazia e dell’Ossezia del Sud, che tutti i georgiani, di qualsiasi orientamento politico, continuano a considerare parte integrante del territorio nazionale.
181
Pare ci sia lo zampino dei consiglieri militari americani sono più di 100 e lavorano da anni nell’addestramento delle forze armate georgiane - nella scelta di Mickail Saakashvili di scatenare nell’agosto 2008 la guerra, rivelatasi poi disastrosa, contro l’Ossezia del Sud. Al Presidente georgiano sarebbero però arrivate informazioni errate, sia sulla dislocazione che sulla capacità di reazione dell’Armata Russa, il cui intervento ha subito sbaragliato le truppe di Tblisi. Eletto per la prima volta nel 2004, a soli 33 anni, Sakashvili ha improntato la sua presidenza all’insegna del filo-americanismo e dell’odio contro i russi. Da qui la scelta nel 2006 di accelerare le procedura per l’ingresso della Georgia nella Nato, la partecipazione poi della Georgia alle guerre americane in Iraq e in Afghanistan, e la scelta di campo netta della Georgia nella “guerra dei gasdotti” che si combatte nel Caucaso. Nel 2005 è sfuggito miracolosamente ad un attentato. Nel 2008 è stato rieletto Presidente, ma con solo il 53% dei consensi (nel 2004 ebbe il 96%). Alle amministrative del 30 maggio 2010 il suo partito ha ottenuto di nuovo la maggioranza assoluta dei voti, con una percentuale superiore al 55%. Nel 2012 non potrà più ripresentarsi. Ed è aperta la corsa per la sua successione.
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Militari convertiti
I militari italiani della Kfor in servizio al monastero ortodosso di Decani si legano fortemente a tale luogo di culto al punto che alcuni di loro si convertono alla religione ortodossa. “Questo monastero esercita una forza inspiegabile. Alcuni miei amici si sono convertiti alla religione ortodossa in questo monastero, dopo essere stati in servizio per un anno nel contingente Kfor. Posso capirlo, poiché si tratta di un luogo particolare, sacro nel vero senso della parola”, sono le parole di un militare riportate dal quotidiano di Belgrado, Kurir, in una recente inchiesta. Il Kosovo è costellato di innumerevoli monasteri del cristianesimo ortodosso. Molti di questi sono tutelati dall’Unesco.
Il 17 febbraio 2008 il Kosovo è dichiarato unilateralmente “uno stato indipendente, sovrano e democratico”. La Serbia non riconosce la dichiarazione di indipendenza e continua a considerare il Paese come una sua Provincia. Da questa data, comincia un lungo periodo di tensioni politiche e scontri armati che ancora oggi non conoscono durature soluzioni. La presenza dei militari Onu con “Kfor” e la presenza delle missioni civili Onu denominata “Unmik” e dell’Unione Europea denominata “Eulex”, riescono a tenere sotto controllo le ostilità reciproche tra le comunità serbe e albanesi. In particolare è nel Nord del Kosovo nella città di Mitrovica (proprio al confine tra Serbia e Kosovo) che si coagulano e poi esplodono periodicamente gli scontri e gli attriti più violenti, spesso sanguinosi. Il 22 luglio 2010 la Corte di giustizia dell’Aja ha pronuciato un verdetto molto importante: “la dichiarazione di indipendenza del Kosovo non ha violato la legge generale internazionale”. Serbi delusi, albanesi in festa. “La Corte di giustizia ha dimostrato ancora una volta di essere contro la Serbia”, tuona alla sua gente Radenko Nadelkovic, capo dell’amministrazione locale serba a Mitrovica Nord. La decisione della Corte arrivava alla fine di un periodo già caldo. Già l’11 giungo tre serbi rimangono feriti in conseguenza di una aggressione subita ad opera di un gruppo di albanesi a Mitrovica. Il 2 luglio un migliaio di serbi si radunano nella parte Nord della città per protestare contro l’apertura nel loro settore di un ufficio in rappresentanza del Governo centrale di Pristina. Qualcuno lancia una bomba nella folla: un manifestante serbo ucciso e undici feriti. Reazioni di sdegno e condanna da ogni parte politica. Il Presidente serbo Boris Tadic convoca il Consiglio di Sicurezza Nazionale. Successivamente, il ministro dell’interno kosovaro, Bajram Rexhepi, annuncia l’invio di unità speciali di polizia nel Nord del Kosovo per ripristinare ordine e legalità. Il
KOSOVO
Generalità Nome completo:
Repubblica del Kosovo
Bandiera
183
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Albanese, Serbo
Capitale:
Prishtina/Priština
Popolazione:
Stime recenti parlano di 2.130.000 abitanti
Area:
10.887 Kmq
Religioni:
Musulmana, ortodossa, cattolica
Moneta:
Euro (moneta parallela al dinaro serbo al Nord)
Principali esportazioni:
Minerali e metalli non lavorati, prodotti manifatturieri
PIL pro capite:
Us 1,612
10 luglio, Tadic (Serbia) parla di “aperta dichiarazione di guerra”. Segnali di distensione e pace arrivano solo il 10 settembre 2010. L’Assemblea Generale dell’Onu approva per acclamazione, senza esprimere un voto, un testo che saluta positivamente l’impegno della Ue a far dialogare Serbia e Kosovo. Pare che la Serbia, anche se ancora molto restia, non possa non arrivare ad un riconoscimento del Kosovo indipendente, se vuole entrare in Ue.
Al centro della “questione kosovara” c’è il mantenimento dell’indipendenza nazionale conquistata nel 2008. Le autorità di Pristina vogliono l’integrità del territorio kosovaro e quindi, come possibilità della risoluzione del conflitto con la Serbia, hanno escluso ogni ipotesi di trattativa che preveda scambi di territorio o una autono-
mia soltanto del Nord del Kosovo. I kosovari di etnia albanese combattono a Mitrovica e accettano di vivere in una situazione blindata e tesa anche per evitare di cedere un territorio, quello del Nord, già riconosciuto come parte dello Stato kosovaro.
Per cosa si combatte
Religioni
184
La principale religione in Kosovo è quella islamica di rito sunnita, scelta da quasi tutti gli albanesi e da altre minoranze presenti sul territorio, come anche dalla comunità rom. La popolazione di lingua serba invece è cristiana ortodossa. Esistono comunità di cattolici mentre i protestanti sono presenti in piccole comunità nella sola capitale Pristina.
Due giorni dopo la dicharazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, due posti di controllo alla nuova frontiera Kosovo-Serbia vengono presi d’assalto da una folla di serbi contrari all’indipendenza/secessione. Arrivano le truppe della Kfor, la forza di pace della Nato in Kosovo, per riportare l’ordine. A seguito dell’Indipendenza la Nato ha riaffermato che Kfor resterà in Kosovo sulla base del mandato della risoluzione dell’Onu n. 1244. La risoluzione 1244 era stata emanata il 10 giugno 1999 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a conclusione di una campagna militare di bombardamenti aerei della Nato durata 78 giorni. L’Onu autorizzava l’istituzione in Kosovo di due misioni, una civile (United Nations Interim in Kosovo - Unmik) e l’altra militare (Kosovo Force - Kfor). Il Kosovo doveva considerarsi ancora parte della Repubblica Federale della Jugoslavia ma sottoposta ad amministrazione civile e militare internazionale provvisoria. Culla della fede e della civiltà serba secondo la testimonianza secolare dei suggestivi monasteri ortodossi che l’arricchiscono, terra albanese secondo le tradizioni illiriche e le leggi della demografia, il Kosovo è da lungo tempo un territorio conteso. Ecco le date storiche che ne hanno contrassegnato il destino, dal Medio Evo fino alla Jugoslavia socialista. XII secolo: il Kosovo cuore del nascente impero serbo fondato dalla dinastia dei Nemanjic. Apogeo della civiltà ortodossa nei Balcani.
1389: battaglia di Kosovo Poljie, la Serbia immola il suo esercito di fronte agli invasori turchi. Comincia la dominazione ottomana sui Balcani del Sud e nel Kosovo l’equilibrio etnico si sposta gradualmente a favore degli albanesi e dei musulmani. 1913: il regno di Serbia (indipendente dal 1878) reincorpora il Kosovo quale sua provincia alla fine delle guerre balcaniche. 1946: il regime comunista di Tito crea la Federazione socialista jugoslava. Il Kosovo resta provincia serba. Sanguinose repressioni anti albanesi alla fine degli anni ‘40, tensioni fra Tito e il despota albanese stalinista Enver Hoxha, accusato di sobillare il separatismo di Pristina. 1963: il regime di Tito si ammorbidisce, cambia la Costituzione e crea la provincia autonoma di Kosovo e Metohija, entro i confini della Repubblica di Serbia. 1974: Tito allarga gli spazi di autonomia per gli albanesi del Kosovo, che acquisiscono un po’ per volta un ruolo predominante a livello locale sulla comunità serba, minoranza all’epoca ancora numerosa. Il leader serbo Slobodan Milosevic altera gli spazi di autonomia già concessi da Tito e instaura il diretto controllo della Serbia. Già agli inizi degli anni ’80 il Kosovo fu teatro di continue rivolte interne miranti a boicottare il Governo centrale jugoslavo. A tali rivolte, il Governo jugoslavo rispose con dure repressioni
Quadro generale
L’economia
L’economia è ancora prevalentemente basata sui servizi in gran parte indotti dalla presenza internazionale. Il 94% delle imprese sono di piccole dimensioni. Il settore agricolo contribuisce per il 30% circa al PIL e per il 18% alle esportazioni. Il Kosovo può contare sulla disponibilità di molte materie prime: lignite, piombo, zinco, ferro, nickel, manganese. Tuttavia, l’industria mineraria non è altamente qualificata. Un ruolo di freno allo sviluppo è giocato dall’economia sommersa illegale e dall’economia parallela (strutture produttive tramite le quali la Serbia mantiene un’influenza sul Paese).
Lamberto Zannier
(Fagagna, Udine, 15 giugno 1954)
Tratta di esseri umani
Il Kosovo è al tempo stesso Paese di origine, di transito e di destinazione nei traffici di donne e minori, in particolare per ciò che concerne la prostituzione forzata. Lo afferma il Dipartimento di stato americano che sottolinea come la gran parte delle donne vittime della prostituzione forzata proviene dall’Europa orientale, fra l’altro, Moldova, Albania, Bulgaria e Serbia. “Donne e bambini kosovari vengono forzati alla prostituzione sia in Kosovo sia in altri paesi europei”, afferma il rapporto secondo il quale, inoltre, più di 300 bambini, sopratutto di etnia rom, sono stati obbligati a mendicare in Kosovo. Il Governo del Kosovo - secondo il documento Usa - non garantisce le norme minime per eliminare il traffico di esseri umani dal quale è interessato. 185
Lamberto Zannier è attualmente Rappresentate speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite in Kosovo, capo della missione civile Unmik. È stato nominato nel giugno 2008. Laureato in legge all’Università di Trieste, Zannier ha lavorato per 30 anni come diplomatico di alto livello per l’Italia. Come Direttore del Centro Prevenzione Conflitti dell’Ocse di Vienna è stato a capo di più di 20 missioni civili. Dal 200 al 2002 è stato Rappresentante Permanente per l’Italia del Consiglio Esecutivo dell’Organizzazione per la Proibizione delle armi chimiche all’Aja.
di polizia. L’accordo di Pace di Dayton del 21 novembre 1995, ponendo una fine alla guerra nella vicina Bosnia-Erzegovina, non affrontava la “questione kosovara”. La linea pacifista di Ibrahim Rugova, leader della Lega Democratica del Kosovo, viene abbandonata a favore della lotta armata. Prendeva spazio l’Esercito di Liberazione del Kosovo, Uck, una formazione paramilitare. Nel 1997 le istituzioni statali collassavano. Nessuna autorità più poteva controllare i valichi e i confini. Tra Albania e Kosovo viaggiavano indisturbati ingenti quantità di armi per l’Uck. Gruppi estremisti islamici arrivavano in Albania e in Kosovo. Gli Stati Uniti temevano fortemente ciò che accadeva in quegli anni in Kosovo. Con la Conferenza di Rambouillet del 6 febbraio 1999 i ministri degli Esteri di Italia, Francia, Russia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti d’Ame-
I PROTAGONISTI
rica cercano di riportare la pace nel Kosovo, reinstaurare l’autogoverno della provincia e garantire il diritto ad ognuno di ritornare alla propria terra. La Conferenza fallisce. Di lì a poco, partono i bombardamenti Nato dei “78 giorni” del 1999. Oggi, il Kosovo ha una Costituzione Repubblicana (in vigore dal 15 giugno 2008) su modello europeo. Essa prevede uno stato laico “neutrale nelle questioni delle credenze religiose” (art 8) e pacifico nel “creare relazioni di buon vicinato e di cooperazione con tutti i paesi limitrofi”. A riconoscere il Kosovo come stato indipendente e sovrano sono 70 Paesi in tutto il mondo. Gli Usa hanno subito riconosciuto il Kosovo indipendente ma non la Russia che sta dalla parte della Serbia. Ventidue stati membri della Ue, tra cui l’Italia, hanno riconosciuto il Kosovo indipendente ma non la Spagna, la Grecia, la Romania, la Slovacchia e l’isola di Cipro. Questi cinque Paesi temono che il Kosovo rappresenti un precedente per rivendicazioni autonomiste che esistono al loro interno. Il Kosovo è il 186° membro del Fondo monetario internazionale.
186
La zona della Spagna indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione dei Paesi Baschi a cui questa scheda è dedicata.
L’Albero di Guernica (Gernikako Arbola)
Il Gernikako Arbola (albero di Guernica in basco) è un quercia che simboleggia la libertà del popolo basco. Già dal 1512, sotto la quercia della città di Guernica nella provincia di Biscaglia, i rappresentanti dei villaggi tenevano la propria assemblea e la città e il suo albero assunsero un significato sempre più simbolico nel corso degli anni. L’Albero di Guernica è sopravvissuto miracolosamente al bombardamento del 1937 (ad opera di tedeschi e franchisti) e si racconta che le truppe falangiste entrate nella città, non riuscirono ad abbattere l’albero, simbolo del nazionalismo basco, grazie ai volontari che lo impedirono. Ancora oggi, per insediarsi ufficialmente, il lehendakari giura come da tradizione sotto l’albero di Guernica.
Il 5 settembre 2010, con un video diffuso dalla Bbc, l’organizzazione separatista basca dell’Eta ha annunciato una nuova tregua. Il gruppo ha dichiarato di voler rinunciare “a commettere nuove azioni armate” nella sua campagna per l’indipendenza e di voler comunque raggiungere l’obiettivo ma “avviando un processo democratico”. Nel video i militanti dell’Eta, incappucciati e irriconoscibili, si sono rivolti “ai cittadini baschi perché continuino la lotta, ciascuno nel proprio settore” per “abbattere il muro del rifiuto e realizzare passi irreversibili lungo la strada della libertà”. Nel video i separatisti si sono rivolti anche alla comunità internazionale affinché compia ogni sforzo “per trovare una soluzione giusta e democratica a questo secolare conflitto politico”. L’annuncio della tregua arriva dopo anni difficili per l’organizzazione basca e non è stata una sorpresa. L’azione congiunta franco-spagnola ha portato a numerosi arresti eccellenti in territorio francese, tra cui alcuni dei ricercati considerati responsabili degli ultimi attentati dell’Eta in Spagna (quelli del luglio 2009 a Maiorca e Burgos). Poche ore prima di annunciare la tregua inoltre, il quotidiano basco Gara aveva pubblicato un documento di Batasuna che esortava l’Eta a proclamare un cessate il fuoco “permanente” sotto supervisione internazionale. Quella annunciata il 5 settembre è la terza tregua dell’Eta (dopo quelle del 1998 e del 2006) e ha suscitato forte scetticismo da parte dei vertici politici spagnoli che chiedono invece il completo e definitivo disarmo dell’organizzazione ed il suo scioglimento. Il ministro dell’Interno Alfredo Perez Rubalcaba, si è detto convinto che l’annuncio sia solo un tentativo di legittimare il braccio politico dell’Eta, Batasuna, in vista delle elezioni municipali nei Paesi Baschi del 2011.
PAESI BASCHI
Generalità Nome completo:
Comunità autonoma dei Paesi Baschi
Bandiera
187
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Euskara, spagnolo
Capitale:
Vitoria-Gasteiz
Popolazione:
2.157.112
Area:
7.234 Kmq
Religioni: Moneta:
Euro
Principali esportazioni:
n.d.
PIL pro capite:
Us 1.310
Intanto non si fermano gli arresti eccellenti da parte della polizia spagnola. In settembre, dopo l’annuncio della tregua, sono state fermate nei Paesi Baschi almeno sette persone legate ad Askapena, una organizzazione considerata vicina all’Eta e attiva a livello internazionale. L’accusa è quella di aver intrecciato relazioni internazionali con alcune organizzazioni terroristiche latinoamericane, incluse le Farc colombiane. Cresce anche la collaborazione tra le autorità spagnole e quelle francesi dopo che gli ultimi arresti hanno spinto i membri dell’Eta a spostare i centri operativi dell’organizzazione al di là dei Pirenei.
“Euskal Herria è il Paese dei baschi. Noi, che lottiamo con tutte le armi di cui disponiamo per la libertà del nostro popolo, preferiamo dire che Euskal Herria è il Paese dell´euskara, la nostra lingua. La nostra lingua nella nostra terra. Libera”. Così l’organizzazione armata Eta ha spiegato in una lettera lo scopo della sua quarantennale lotta armata: l’indipendenza e l’autodeterminazione di Euskal Herria. Il termine Euskal Herria non si riferisce alle tre province che compongono la Comunità autonoma
dei Paesi Baschi spagnoli ma, letteralmente, al “popolo che parla la lingua basca” e al territorio dove esso risiede. La Comunità autonoma dei Paesi Baschi è dunque solo una delle Regioni che compongono Euskal Herria. Le altre sono la spagnola Navarra (Nafarroa in basco) e tre Province sotto amministrazione francese: Lapurdi, Nafarroa Beherea e Zuberoa. La parte spagnola dei Paesi Baschi è nota come Hegoalde (‘parte Sud’ in basco), quella francese come Iparralde (‘parte Nord’ in basco).
Per cosa si combatte
Quello tra il Governo spagnolo e l’organizzazione separatista basca Euskadi Ta Askatasuna (Terra Basca e Libertà), conosciuta con l’acronimo di Eta, è un conflitto che dura da decenni nonostante i tentativi di negoziato tra le parti. L’Eta viene fondata nel 1959 da un gruppo di giovani studenti nazionalisti con lo scopo di combattere per l’indipendenza dei Paesi Baschi. L’organizzazione nasce dunque in piena dittatura franchista e in un contesto politico di forte repressione che aveva limitato fino ad annullarla l’azione del principale partito politico della Regione, il Partito nazionalista Basco (Pnv), fondato nel 1895 da Sabino Arana (disegnatore della bandiera basca, la Ikurriña) per garantire ai baschi una rappresentanza politica nel parlamento di Madrid. Il nazionalismo e la repressione franchista sono i due elementi chiave per comprendere la nascita e l’evoluzione dell’Eta, il cui simbolo è un serpente che si avvolge attorno ad un’ascia - a rappresentare l’astuzia e la violenza - e il cui motto è ‘Bietan jarrai’, ‘perseguire entrambi’, dunque la lotta politica e quella armata. Le radici del nazionalismo e della spiccata tendenza indipendentista del popolo basco vanno ricercate nella storia peculiare di
questo popolo antichissimo e della sua lingua, l’euskara (parlato oggi da circa 700mila persone), di cui sono ancora ignote le radici etimologiche ma che rappresenta ancora oggi per i baschi, e molto più del territorio stesso, il fulcro della identità collettiva. Anche sotto la dominazione di popoli stranieri i baschi riuscirono sempre a mantenere una certa autonomia. Una autonomia che fu invece negata totalmente con la dittatura di Franco. Ancora prima dell’insediamento del regime, durante la guerra civile spagnola, l’aviazione falangista di Franco, supportata da aerei tedeschi della Legione Condor, bombardò e rase al suolo la città di Guernica, considerata storicamente dai Baschi come simbolo di libertà. Con la dittatura franchista l’insegnamento e l’uso dell’euskara furono vietati e criminalizzati, i libri pubblicati in lingua basca bruciati, i nomi in basco furono banditi e quelli già in uso furono tradotti in spagnolo. Con la morte di Franco nel 1975 e la nascita della Costituzione spagnola del 1978 ai Paesi baschi viene assegnato lo status di Comunità Autonoma, con ampi margini di autonomia amministrativa ma non la totale indipendenza politica e il diritto all’autodeterminazione del popolo basco,
Quadro generale
Le lotte intestine
188
Ad indebolire l’organizzazione separatista, oltre agli arresti compiuti dalle autorità spagnole e francesi, sono state senza dubbio le lotte interne. Alcuni tra gli ex membri dell’Eta, detenuti eccellenti nelle carceri dei Paesi baschi, hanno recentemente preso le distanze dalla lotta armata scelta dall’organizzazione e con una lettera hanno sottolineato la necessità di un processo pacifico per arrivare all’indipendenza. A firmare la lettere otto detenuti tra cui Joseba Urrusolo Sistiaga, ritenuto il numero tre dell’Eta quando fu arrestato in Francia nel 1997; Carmen Guisasola, altra leader storica del gruppo e Rafael Caride Simon, autore materiale dell’attentato a un ipermercato di Barcellona costato la vita a 21 persone. Nella lettera si chiedeva a tutti i detenuti baschi di prendere le distanze dalla scelta di usare la violenza armata.
Francisco Javier López Álvarez
Francisco Javier López Álvarez, meglio noto come Patxi Lopez, è il Presidente del Governo basco (lehendakari) e segretario generale del Partido Socialista di EuskadiEuskadiko Ezkerra (Pse-Ee). È stato eletto nel 2009 grazie ad un accordo con il Partido Popular (Ppe), la terza forza politica uscita dalle elezioni (dopo Partito Nazionalista Basco e il Partito Socialista di Euskadi). Il patto politico tra Pse e Ppe, impensabile fino a qualche anno fa, ha escluso per la prima volta nella storia del Paese il Pnv dal Governo basco, così come la sinistra indipendentista. Il 5 maggio del 2009 Lopez ha giurato, come da tradizione, sotto l’Albero di Guernica. Alla fine del 2009 ha affermato che “l’Eta è ormai prossima alla fine”.
Lo strano caso dell’asse Eta-Farc
Sta scatenando non poche tensioni tra Spagna e Venezuela la testimonianza di due militanti dell’Eta, Juan Caelos Besance e Xavier Atristain. Arrestati di recente i due hanno dichiarato di essere stati addestrati in Venezuela. Il premier spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero ha chiesto spiegazioni a Hugo Chavez e la massima collaborazione di Caracas nelle indagini sui presunti addestramenti in Venezuela di membri dell’Eta, partite anche in seguito ad un documento diffuso da un giudice della Udienza Nazionale che accusa direttamente il governo venezuelano di cooperare con Eta e Farc. Netta la presa di distanza di Hugo Chavez che ha parlato di un “piano orchestrato contro il Venezuela”. “Tutto questo è come un’orchestra - ha detto Chavez -. Da un lato c‘è l’udienza ‘reale’ spagnola, dall’altro Washington. È tutto orchestrato”.
che è invece, ancora oggi, lo scopo dichiarato della lotta armata dell’Eta e del programma politico del partito basco Herri Batasuna, considerato il braccio politico dell’organizzazione. Batasuna nasce nell’aprile del 1978 con l’obiettivo di creare uno stato socialista indipendente. Viene dichiarato illegale in Spagna nel marzo del 2003 e considerato una vera e propria organizzazione terroristica dagli Stati Uniti. È il giudice della Audiencia Nacional, Baltazar Garzón a mettere fuori legge il partito basco Batasuna sequestrandone i beni e impedendone l’azione politica. Non solo. Dopo la messa al bando di Batasuna, Garzón comincia una battaglia durissima contro le formazioni della ‘sinistra abertzale’, l’insieme dei partiti e delle associazioni indipendentiste basche accusate di avere legami con l’organizzazione separatista. Il primo omicidio dell’Eta risale al 1968, quando venne uccisa la guardia civile José Pardines. Nel 1973 l’organizzazione separatista uccide, con una bomba piazzata sotto l’automobile, l’ammiraglio Luis Carrero Blanco, designato da Francisco Franco come suo successore. Da allora le vittime di attentati e omicidi mirati
I PROTAGONISTI
compiuti dall’Eta sono state oltre 800, 2000 i feriti. Nel mirino dell’organizzazione armata obiettivi militari e civili oltre a singoli rappresentanti politici, sia del Pnv che del Partito Popolare (Ppe) e del Partito Socialista (Psoe). Le modalità sempre le stesse: potenti ordigni fatti esplodere dopo una chiamata di avvertimento che però non ha evitato vittime civili. Ne muoiono 17 in un ristorante di Torrejon nel 1985, 21 in un centro commerciale di Barcellona nel 1987, 11 davanti alla sede della Guardia Civil di Saragozza nel 1991. Nel 1992 fallisce il primo tentativo di negoziato, ad Algeri, tra il Governo spagnolo e l’Eta. Un fallimento che porta ad arresti eccellenti da parte delle autorità spagnole e ad una nuova raffica di attentati e omicidi da parte dell’organizzazione separatista. Nel 1998 l’Eta dichiara la prima tregua della sua storia, durante il Governo di Aznar, che regge fino al dicembre del 1999. Il 23 marzo 2006, l’organizzazione dichiara una nuovo cessate il fuoco che apre la strada ad un tentativo, fallito, di dialogo con il Governo di Josè Luis Rodriguez Zapatero. La tregua si interrompe con un nuovo attentato. Il 30 dicembre del 2006 un furgone-bomba esplode in un parcheggio dell’aeroporto Barajas di Madrid. L’attentato rivendicato dall’Eta fa due morti e 19 feriti e Zapatero annuncia la fine del dialogo con l’Eta.
189
(Portugalete, Vizcaya, 4 ottobre 1959)
Nazioni Unite I Caschi Blu Raffaele Crocco
Sono stati 179 in un anno i morti nelle missioni delle Nazioni Unite
Qui sotto una Cartina che fotografa lo stato delle Missioni Onu sparse nel nostro pianeta.
L’aggiornamento è al 31 maggio 2010. Parliamo delle missioni che le Nazioni Unite hanno in giro per il mondo, per tentare di riportare la pace o per garantire tregue ed armistizi. Il dibattito sull’utilità di queste operazioni è aperto e non sempre benevolo. Quello che si mette in discussione è soprattutto la capacità dell’Onu di intervenire efficacemente, per tempo ed in modo equilibrato là dove serve. Impresa non facile, dato che a decidere dove e come andare, insomma dove mandare soldati, è il Consiglio di Sicurezza, che spesso è condizionato dagli interessi specifici di ciascuno dei propri componenti, permanenti o meno. In più, la ratifica spetta all’Assemblea generale, luogo la cui composizione - pensate solo alle differenze di regime che vi sono rappresentate, con delegati di governi democratici seduti accanto a quelli di dittature - inevitabilmente porta a contraddizioni. A questi problemi di non facile soluzione, si aggiungono due questioni. La prima è che le missioni vengono assemblate - una volta decise - sulla base delle disponibilità di soldati, che vengono messi a disposizione o da singole nazioni o da alleanze o organizzazioni transnazionali, come la Nato o l’Unione Europea. La seconda è nelle regole d’ingaggio, cioè nelle regole che i militari impegnati in missione devono rispettare. Compito, questo, titanico, perché determina non solo la possibilità di difesa del singolo militare se attaccato, ma anche la sua possibilità di intervenire se vede, ad esempio, un civile uccidere un altro civile. I disastri della guerra in Bosnia, nella seconda metà degli anni ’90, questo paradosso lo hanno raccontato in modo drammatico, con migliaia di morti. Infine, le missioni costano, tanto come vedrete dallo schema e l’Onu i soldi li riceve dagli Stati dell’Assemblea, che non sempre pagano e mai rispettando i tempi. Insomma, le Nazioni Unite sono una grande organizzazione con le mani legate, impotente, forse vecchia. Eppure, è il meglio che l’uomo abbia mai messo in campo per tentare di mantenere la pace nel mondo. Ed lì, all’Onu, che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo ha trovato forma e, almeno formalmente, è diventata la base della nostra convivenza. È forse la cosa migliore che abbiamo mai pensato, come esseri umani. Per questa ragione le Nazioni Unite vanno difese.
191
Onu, missioni di Pace Costi di guerra
Le missioni Onu
Breve cronistoria delle missioni La storia delle missioni dell’Onu dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi è la linea rossa della mancata pace che il Mondo ha vissuto in questi decenni. Non a caso, la prima di queste operazioni è del 1948, con l’invio di osservatori militari su di fronte ancora oggi aperto e pericoloso per gli equilibri politici internazionali: la prima guerra fra Israele e i Paesi Arabi, all’indomani della nascita dello stato israeliano. Nel 1949, seconda missione, per garantire la tregua nella prima guerra fra India e Pakistan. Poi, una lunga pausa, fino al 1964, con l’invio dei Caschi Blu a Cipro, per il conflitto fra Grecia e Turchia. Sono gli anni ’90, però, quelli che vedono il moltiplicarsi delle missioni e degli interventi. Sono anche gli anni in cui i limiti strutturali delle missioni, con la loro scarsa possibilità-capacità d’intervento, vengono più a galla. Nella ex Jugoslavia, in Bosnia, fra il 1992 e il 1995 le truppe dell’Onu dovrebbero garantire la protezione della popolazione civile: le stragi compiute sotto gli occhi dei soldati con il casco blu sono fra le pagine più vergognose del secolo. Negli stessi anni, un’operazione in Somalia voluta per appoggiare gli aiuti umanitari si rivela un fiasco, con soldati dell’Onu coinvolti in violenze e torture. Nel 1999 è il Kosovo a diventare palcoscenico per una missione di pace, che dura tutt’ora. Poi, ci sono Timor Est, il Sudan e tutte le innumerevoli missioni in Africa. Dal 1945 sono migliaia gli uomini che l’Onu ha impegnato in ogni angolo del Pianeta. E sembra non bastino mai.
1948
Supervisione della tregua tra Paesi arabi e il nuovo Stato di Israele tramite osservatori militari dell’United Nations Truce Supervision Organization (UNTSO).
1949
Supervisione della tregua tra India e Pakistan tramite osservatori dell’United Nations Observer Military Group in India and Pakistan (UNMOGIP).
1964
Controllo della linea di demarcazione tra la zona greca e quella turca di Cipro tramite i Caschi Blu dell’United Nations Peace-Keeping Force in Cyprus (UNFICYP).
1974
Controllo della zona smilitarizzata tra Israele e Siria tramite i Caschi Blu dell’United Nations Disengagement Observer Force (UNDOF).
1978
Supervisione del ritiro delle forze israeliane dal Libano meridionale tramite i Caschi Blu dell’United Nations Interim Force in Lebanon (UNIFIL). Rafforzata dopo la crisi dell’estate 2006.
1989-1997
Supervisione della tregua tra le forze governative angolane e l’UNITA tramite i Caschi Blu dell’United Nations Angola Verification
Mission (UNAVEM I, II, III).
1991-2003
Controllo della zona smilitarizzata tra il Kuwait e l’Iraq tramite osservatori militari dell’United Nations Iraq-Kuwait Observation Mission (UNIKOM).
1991-1995
Supervisione del processo di pace dopo la guerra civile nel Salvador tramite gli Observadores de las Naciones Unidas en El Salvador (ONUSAL).
1991
Supervisione del cessate il fuoco tra l’esercito marocchino e il Fronte Polisario tramite osservatori e Caschi Blu della Misión de las Naciones Unidas para el Referendum en el Sáhara Occidental (MINURSO).
1992-1993
Assistenza per il ripristino della pace e per la riorganizzazione politica e statale della Cambogia tramite i Caschi Blu e le forze ausiliarie dell’United Nations Transitional Authority in Cambodia (UNTAC).
1992-1995
Protezione della popolazione civile nella Bosnia-Erzegovina tramite i Caschi Blu dell’United Nations Protection Force (UNPROFOR).
1992-1995
Supervisione della tregua e protezione per
gli aiuti umanitari in Somalia tramite i Caschi Blu dell’United Nations Operations in Somalia (UNOSOM I e II).
1992-1994
Supervisione del processo di pace tra le truppe governative e la RENAMO dopo la guerra civile in Mozambico tramite i Caschi Blu dell’United Nations Operations in Mozambique (UNOMOZ).
1993
Supervisione del cessate il fuoco tra le truppe governative e i nazionalisti dell’Abhasia tramite osservatori e Caschi Blu dell’United Nations Observer Mission in Georgia (UNOMIG).
1994
Controllo del ritiro delle strutture amministrative e delle truppe libiche dalla Striscia di Aouzou, territorio della Repubblica del Ciad, nel rispetto della delibera della Corte internazionale di giustizia, tramite i Caschi Blu dell’United Nations Aouzou Strip Observer Group (UNASOG).
1994-2000
Supervisione della tregua tra Governo e opposizione armata in Tagikistan tramite osservatori dell’United Nations Mission of Observer in Tajikistan (UNMOT).
1995-1999
Sorveglianza dei confini tra la Repubblica di Macedonia, la Repubblica federale di
1995-2002
Supervisione del processo di pace in BosniaErzegovina tramite osservatori e Caschi Blu dell’United Nations Missions in Bosnia and Herzegovina (UNMIBH).
1997-1999
Supervisione del processo di pace e della smilitarizzazione delle truppe dell’UNITA tramite i Caschi Blu dell’United Nations Mission in Angola (MONUA).
1997-2000
Assistenza al Governo haitiano per l’addestramento delle forze di polizia tramite istruttori dell’United Nations Civilian Mission in Haiti (MIPONUH).
1998
Assistenza alle forze di polizia croate per il reinsediamento dei profughi nella regione del Danubio e per il rispetto degli accordi di pace di Dayton tramite i Caschi Blu della Croazia-United Nations Civilian Police Support Group, che sostituisce la missione dell’United Nations Transitional Administration for Eastern Slavonia, Baranja and Western Sirmium (UNTAES; 1996-98).
1999
Gestione dell’amministrazione civile, politica e militare e assistenza nella ricostruzione
e nel ristabilimento di condizioni di pace e di dialogo tramite i Caschi Blu dell’United Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK).
1999-2005
Supervisione della tregua tra le truppe governative e quelle del Fronte Rivoluzionario Unito (Fru) tramite i Caschi Blu dell’United Nation Mission in Sierra Leone (UNAMSIL).
1999
Supervisione della tregua tra forze governative e ribelli e protezione degli aiuti umanitari tramite i Caschi Blu dell’United Nations Mission in the Democratic Republic of the Congo (MONUC).
1999-2002
Supervisione della riorganizzazione civile e politica e gestione straordinaria dell’intero territorio di Timor Est tramite l’United Nations Transitional Administration in East Timor (UNTAET).
2000
Supervisione della tregua stabilita in giugno tra Etiopia ed Eritrea dopo due anni di combattimento tramite l’United Nations Mission in Ethiopia and Eritrea (UNMEE).
2003
Supervisione del cessate il fuoco e della riorganizzazione civile e politica, addestramento della polizia nazionale, assistenza umanitaria e promozione dei diritti umani
tramite l’United Nations Mission in Liberia (UNMIL).
2004-2006
Sostegno al processo di pace e di riconciliazione tramite l’United Nations Operation in Burundi (ONUB).
2004
Supervisione della tregua sottoscritta nel gennaio 2003 tramite l’United Nations Operation in Côte d’Ivoire (UNOCI).
2005
Supervisione degli accordi di pace sottoscritti nel gennaio 2005 tra il Governo del Sudan e l’Esercito Popolare di Liberazione sudanese, assistenza umanitaria e promozione dei diritti umani tramite l’United Nations Mission in Sudan (UNMIS).
2007
Supervisione degli accordi di pace sottoscritti nel maggio 2006 tra il Governo del Sudan e il Movimento di liberazione del Sudan, assistenza umanitaria e promozione dei diritti umani tramite l’African Union/ United Nations Hybrid Operations in Darfur (UNAMID).
193
Iugoslavia e l’Albania tramite osservatori e Caschi Blu dell’United Nations Preventive Deployment Force (UNPREDEP).
Operazioni di pace delle Nazioni Unite Operazioni di pace in corso Missione
Truppe
Osservatori militari
Polizia
Civili internazionali
UNTSO
maggio 1948
0
154
0
88
UNMOGIP
gennaio 1949
0
44
0
23
UNFICYP
marzo 1964
858
0
68
30
UNDOF
giugno 1974
1.041
0
0
39
UNIFIL
marzo 1978
12.067
0
0
319
MINURSO
aprile 1991
20
213
6
93
UNMIK
giugno 1999
0
8
8
146
MONUC
novembre 1999
18.877
713
1.206
991
UNMIL
settembre 2003
7.983
127
1.319
441
UNOCI
aprile 2004
7.189
195
1.147
401
MINUSTAH
giugno 2004
8.454
0
2.462
471
UNMIS
marzo 2005
9.435
479
697
862
UNMIT
agosto 2006
0
33
1.497
362
UNAMID
luglio 2007
17.060
238
4.789
1.134
19.315**
240**
6.432**
1.579**
Settembre 2007
2.918
23
208
421
Totale:
85.902
2.227
13.407
5.831
MINURCAT
Missione
194
Data inizio
Civili locali
Volontari ONU
Personale totale
Vittime
Bilancio (US$)
UNTSO
121
0
363
50
66,704,800 (2010-11)
UNMOGIP
47
0
114
11
16,146,000 (2010-11)
UNFICYP
114
0
1.080
180
54,412,700
UNDOF
105
0
1.185
43
45,029,700
UNIFIL
657
0
13.043
287
589,799,200
MINURSO
161
20
513
15
53,527,600
UNMIK
277
26
465
54
46,809,000
MONUC
2.749
638
25.174
160
1,346, 584,600
UNMIL
989
215
11.074
144
560,978,700
UNOCI
697
292
9.921
66
491,774,100
MINUSTAH
1.235
203
12.825
158
611,751,200
UNMIS
2.631
395
14.449
54
958,350,200
UNMIT
902
172
2.966
8
205,939,400
2.557
429
26.207
63
3.455**
548**
-
567
157
4.294
6
690,753,100
13.809
2.547
123.723
1,299
circa $ 7.87miliardi*
UNAMID MINURCAT Totale:
1,598,942,200
Missione conclusa nel 2009: UNOMIG United Nations Observer Mission in Georgia (Missione degli Osservatori delle Nazioni Unite in Georgia) (agosto 1993 - giugno 2009) * I bilanci includono le specifiche per il conto di sostegno per le operazioni di pace e per la Base Logistica ONU a Brindisi (Italia). (http://www.un.org/News/ Press/docs/2009/ga10841.doc.htm) ** Personale autorizzato NOTA: UNTSO e UNMOGIP sono finanziate dal bilancio biennale regolare delle Nazioni Unite. I costi per le Nazioni Unite delle altre operazioni in corso sono finanziati dai loro rispettivi bilanci sulla base di valutazioni legalmente vincolanti per tutti gli stati membri. Per queste missioni i dati di bilancio si riferiscono solitamente al periodo di un anno (07/09—06/10), salvo indicazione diversa. Per informazioni sulle missioni politiche vedi documento DPI/2166/Rev.74 consultabile su internet: http://www.un.org/Depts/dpko/dpko/ppbm.pdf. Documento preparato dalla sezione Pace e Sicurezza del Dipartimento d’Informazione Pubblica delle Nazioni Unite, in collaborazione con il Dipartimento per le Operazioni di Peacekeeping, la Divisione Finanziaria per il Peacekeeping dell’Ufficio di Pianificazione del Programma, di Bilancio e Contabilità, e del Dipartimento per gli Affari Politici - DPI/1634/Rev.99 - ottobre 2009
Il controllo delle risorse/1 Stefano Fantino
Da anni delineare i conflitti internazionali significa spesso confrontarsi con la realtà dell’accesso all’acqua, bene primario la cui scarsità e mala gestione è potenzialmente foriera di scontri diplomatici e non. «Troppo spesso dove c’è necessità di acqua, troviamo, invece, delle armi». Così nel 2008, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon esprimeva la certezza che dietro a molte tensioni internazionali si celasse una situazione in cui la penuria di risorse idriche sarebbe stata capace di mutare una crisi in un conflitto armato. Una guerra per l’acqua. Evento che, a essere sinceri, raramente è occorso nella storia, tanto meno in tempi recenti. Bisogna, infatti, tornare indietro 4500 anni per parlare, nell’antica Mesopotamia, di una guerra dichiaratamente intrapresa per l’acqua, eventualità mai più verificatasi successivamente sul pianeta. Eppure conflitti per il controllo dell’acqua sono sempre stati presenti, a maggior ragione lo sono ora, in una fase storica dove l’accesso alle risorse acquifere è sempre più difficile, con una stima, approssimata, di quasi un miliardo di persone senza sicuro approvvigionamento di acqua potabile . Si combatte per le risorse idriche, ma ufficialmente non è questo l’oggetto del contendere: l’acqua rimane sempre una causa latente, sottesa a conflitti più ampi, spesso capace di scorrere sotto traccia ma potenzialmente in grado di esplodere in tutta la sua virulenza. L’importanza di avere accesso all’acqua ha prodotto localmente miriadi di conflitti che sebbene contestualizzati in specifiche aree risentono tutti del comune problema originario: una gestione storicamente deleteria delle risorse idriche, acuita non solo dalla diminuzione dell’acqua in sé ma dalla sua particolare importanza e insostituibilità per plurimi utilizzi, siano essi agricoli, industriali o di mera sussistenza fisica. E ulteriormente aggravata da un approccio unilaterale e poco cooperativo alla risoluzione dei problemi che spesso coinvolgono più Stati. Infatti, per poter tratteggiare una prima distinzione tra conflitti per l’acqua è utile ricordare come spesso la localizzazione fisica delle risorse idriche abbiano giocato a favore delle tensioni tra più parti: circa il 40% della popolazione vive in bacini acquiferi che condividono uno o più confini internazionali. Ben si comprende come nel 1967 a far esplodere la “guerra dei 6 giorni” nel vicino Oriente abbia contribuito una presa di posizione di Siria e Giordania riguardo l’acqua. L’ Headwater Diversion Plan prevedeva la costruzione di una diga lungo il fiume Giordano per deviarne il corso, di fatto sottraendo a Israele parte delle risorse idriche. Tuttora quei territori vivono uno stato di tensione con gli israeliani in possesso, grazie ai territori occupati, di gran parte delle
195
I futuri conflitti saranno per l’acqua
196
risorse di acque, in perenne conflitto con le pretese di Libano e Siria. Situazione analoga in cui versano quelle di Tigri ed Eufrate, fiumi che nascono in territorio turco e ancora fonte di discordia tra Turchia, Siria e Iraq. Detto questo non stupisce che grandi bacini come quello del Nilo, del Mekong, del Gange, costituiscano seri punti di attrito, peraltro localizzati in luoghi come Asia e Africa che detengono il poco felice primato di zone ritenute potenziali fucine di conflitti per l’acqua, in un futuro prossimo. Tuttavia è necessario affiancare a questi conflitti su scala internazionale altre tipologie critiche: i conflitti locali e nazionali. Laddove internazionalmente non l’acqua in sé, ma la mancata cooperazione e le prese di posizioni unilaterali sulle risorse idriche sono il casus belli, in questi contesti è l’allocazione stessa dell’acqua a provocare tensioni, capaci spesso di sfociare in vere e proprie rivolte. Quando all’interno dello stesso Stato il privilegio accordato ad un gruppo solleva la protesta di altri gruppi etnici. Oppure quando nella contesa sono compresi cittadini da un lato e autorità statale dall’altro, come lo scontro tra indigeni e industria tessile nel Messico. Oppure come il caso della Bolivia dove nel 2000 si è verificata la cosiddetta “Rivolta per l’acqua”. La Banca Mondiale aveva di fatto concluso un accordo con il Governo del Paese, concedendo a una multinazionale californiana, la gestione dell’intero sistema dell’acqua potabile della città di Cochambamba, con prevedibile aumento dei costi. La protesta di migliaia di persone, e le conseguenti repressioni, ha portato in piazza e agli occhi del mondo una delle nuove frontiere su cui i conflitti si giocheranno nei prossimi anni: la privatizzazione dell’acqua. Rimane però il conflitto su larga scala, tra diversi stati quello più temuto. A creare zone potenzialmente ad alto rischio e tutt’oggi oggetto di accesa disputa ci ha pensato anche la recente storia geopolitica. Il caso dell’Asia centrale è in questo senso emblematico. Il bacino del lago d’Aral rimane decisivo per le ex repubbliche sovietiche del Kazakistan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan, e Uzbekistan, in un territorio la cui scarsezza di acqua ha provocato recentemente un picco di mortalità infantile e inibito la crescita economica degli Stati interessati. La mancanza di un unico attore come l’ex Urss ha di fatto creato una situazione in cui una azione diplomatica rapida è necessaria per evitare che una cattiva gestione (l’acqua era stata sfruttata per irrigare i campi di cotone) diventi focolaio di uno scontro armato. Situazione non distante da quella del Nilo, in Africa: un report delle Nazioni Unite ha predetto che l’acqua, nei prossimi 25 anni potrebbe essere la più grande causa di conflitto. Il bacino del Nilo è un’area importante e l’avvertimento nel 1991 del Cairo a Sudan ed Etiopia, Paesi dove scorre il fiume, di voler proteggere l’accesso alle acque del fiume, sebbene l’85% della portata del Nilo si origini nella stessa Etiopia. Un famoso studio della Oregon State University ha messo in luce quali sono e saranno i bacini idrografici a rischio, scenari di conflitti attuali e futuri. Secondo lo studio sono individuabili quattro bacini dove sono attualmente in atto controversie (area del Giordano, del Nilo, lago di Aral, fiumi Tigri ed Eufrate), numero che salirà a diciassette in un futuro prossimo, comprendendo i 5 continenti e più di 50 nazioni. Le aree individuate sono caratterizzate da alta densità di popolazione e scarso reddito, reciproca diffidenza o inimicizia, grandi progetti di sviluppo senza alcun trattato che tuteli l’uso delle acque. Lo scoppio di un conflitto sarebbe figlio di un progetto portato avanti unilateralmente o di un cambio politico repentino che, in assenza di concordati sulle acque, potrebbe di fatto portare a una situazione di tensione non controllabile. La volontà politica è essenziale per superare queste situazioni ed evitarne di peggiori: il compito importante di stati che vivono a ridosso dello stesso bacino è quello di valutare l’enorme importanza che deriverebbe da una co-gestione delle politiche idriche. Aldilà delle paventate guerre, molti sottolineano come migliaia siano stati negli anni i trattati di collaborazione che le hanno prevenute. Una strada da continuare a battere evitando azioni unilaterali, puntando alla cooperazione transnazionale che sfrutti i bacini in maniera migliore di quanto fatto finora, facendo della politica per l’acqua uno dei punti chiave non solo delle rivendicazioni, ma anche dei progetti di futuro dell’intero pianeta..
Il controllo delle risorse/2 ASAL
Obiettivo del Millennio Libero accesso all’acqua
197
Uno dei traguardi compresi nel 7° Obiettivo del Millennio è di dimezzare entro il 2015 la percentuale di popolazione senza accesso all’acqua e ai servizi igienici rispetto ai livelli del 1990. Nel 1990 il 77% della popolazione mondiale usava una fonte migliorata di acqua potabile, con enormi disparità a livello regionale: dal 71% nel complesso dei Paesi in via di sviluppo (addirittura solo il 49% nell’Africa sub-Sahariana) al 99% dei Paesi sviluppati. Da allora molti progressi sono stati fatti, ma ancora oggi il 13% della popolazione mondiale, pari a 884milioni di persone, non utilizza una fonte migliorata di acqua potabile. Di questi, 743milioni vivono in aree rurali. Nei Paesi in via di sviluppo, complessivamente l’84% della popolazione Usa
FONTI MIGLIORATE FONTI NON MIGLIORATE
ACQUA CORRENTE • Acqua corrente in tubature domestiche o esterne alla casa ALTRE FONTI MIGLIORATE • Fontane o rubinetti pubblici • Pozzi trivellati • Pozzi coperti • Sorgenti protette • Acqua piovana FONTI NON MIGLIORATE • Pozzi scoperti • Sorgenti non protette • Serbatoi, taniche o bidoni venduti a domicilio • Autocisterne • Specchi d’acqua • Acqua in bottiglia
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una fonte migliorata di acqua potabile ma con forti disparità tra città e campagne. A livello mondiale, il 37% delle persone che ancora non utilizzano una fonte migliorata di acqua potabile vivono nell’Africa sub-sahariana. Se continuerà la tendenza in atto, buona parte dei Paesi in via di sviluppo raggiungerà, o forse supererà entro il 2015 il traguardo sull’acqua potabile. Già oggi Africa del Nord, America Latina e Carabi, Asia Orientale e Sud Est Asiatico ci sono riusciti. In buona parte dell’Africa sub-Sahariana e dell’Oceania, invece, i progressi ottenuti ancora non sono soddisfacenti. L’accesso all’acqua potabile è misurato attraverso l’Indicatore del Millennio: percentuale della popolazione che Usa una fonte migliorata di acqua potabile. Il Programma Congiunto di Monitoraggio (Jmp) tra l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) e l’Unicef per l’Acqua e i Servizi Igienico-Sanitari è lo strumento ufficiale delle Nazioni Unite creato per monitorare i progressi nel raggiungimento di questo traguardo Il Jmp definisce fonti di acqua potabile migliorate quelle fonti che, per loro natura, costruzione o mediante interventi attivi, sono protette dalla contaminazione, in particolare da quella da escrementi. Dal 2008, il sistema di classificazione delle fonti è stato raffinato, per permettere di distinguere l’acqua corrente (all’interno o all’esterno dell’abitazione) dalle altre fonti migliorate di acqua potabile.
ASAL L’ASAL è una ONG di Cooperazione e di Educazione allo Sviluppo che realizza progetti di respiro nazionale e internazionale nei settori dell’informazione, della formazione e della sensibilizzazione sul territorio e svolge un ruolo significativo nel settore dell’editoria dello sviluppo. Da sempre impegnata per la tutela dei Diritti Umani ha accolto le nuove sfide poste dal fenomeno migratorio con attività di Accoglienza e Intercultura. Sul fronte dello Sviluppo Sostenibile l’ASAL è da sempre impegnata per la tutela dell’ambiente, negli ultimi anni, in particolare, sui temi dell’Agricoltura sostenibile, le Energie alternative e il Consumo critico. Sul fronte della formazione realizza corsi e laboratori sulle tematiche dello Sviluppo e dell’Educazione alla Mondialità per studenti, giovani, operatori, educatori e insegnanti. Distribuisce in Italia la Carta di Peters, ed elabora diversi materiali didattici basati su di essa, quale strumento indispensabile per una corretta visione del mondo, sulla linea del rispetto fondamentale dei diritti di ogni popolo, per educare alla Mondialità e all’Intercultura.
Vittime della guerra/3 Ilaria Pedrali
Mai, dalla metà degli anni Novanta, nel mondo tante persone sono state costrette ad abbandonare il proprio Paese d’origine. Alla fine del 2009 erano 43,3milioni di esseri umani. Fuggono dalle guerre, dalle violenze, dalle persecuzioni, dalle carestie. A fornire questo dato è il “Global Trends 2009”, il rapporto statistico annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). Di questi 43milioni di persone, oltre un milione in più del 2008 fanno parte rifugiati, rimpatriati, apolidi, sfollati. Due terzi dei 15,2 milioni di rifugiati, dato che è rimasto stabile se confrontato con quello del 2008, sono assisiti dall’Unhcr mentre gli altri 4,8milioni sono profughi palestinesi che rientrano nelle competenze dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati che opera in Cisgiordania, nella striscia di Gaza e negli altri Paesi del Vicino Oriente. E se il numero di persone costrette a fuggire è il più alto degli ultimi venti anni, il 2009 è stato l’anno peggiore per i rimpatri volontari: solo 251mila rifugiati sono rientrati nelle loro case, mentre la media degli ultimi anni si assestava sul milione di rimpatri. Questo perché i conflitti di vecchia data, come quello del Sud Sudan o dell’Iraq stanno vivendo una situazione stagnante, così come non si vedono all’orizzonte soluzioni di pace per l’Afghanistan, la Somalia o la Repubblica Democratica del Congo. Negli ultimi 16 anni il numero di richieste di reinsediamento da parte di Unhcr è cresciuto a dismisura, toccando la cifra di 128mila richieste nel solo anno: un dato che mai era stato registrato in questo arco di tempo. Mediante questo meccanismo i rifugiati ospitati in un Paese d’asilo, generalmente in via di sviluppo, vengono trasferiti in uno stato industrializzato. Il reinsediamento, non è solo una responsabilità internazionale o un meccanismo di ripartizione, ma uno strumento di protezione fondamentale. Solo così si può fornire protezione ai rifugiati che non possono rientrare nel loro Paese o che nel Paese d’asilo vedono messi a rischio i diritti fondamentali della persona, quali la vita, la libertà, la sicurezza, la salute. Nel mondo ci sono oltre 26milioni di persone, di cui 10,4milioni di rifugiati e oltre 15milioni di sfollati, che nel 2009 hanno ricevuto l’assistenza delle Nazioni Unite. Le crisi umanitarie e le tragiche situazioni politiche di alcuni Paesi non solo hanno sradicato milioni di donne, uomini, ragazzi e ragazze, ma hanno impedito il ritorno dei profughi e degli sfollati interni. Ma chi sono, da dove vengono e dove si rifugiano tutte queste persone che si trovano costrette a scappare? Più della metà di loro versa in una situazione di esilio protratto ormai da molti anni, anche più di cinque: non possono tornare a casa a causa dei continui conflitti, ma molto più spes-
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Profughi, quaranta milioni costretti a lasciare la propria casa
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so perché il trauma subito dalle persecuzioni e dalle torture di cui sono stati vittima non riesce a essere superato. Circa l’80% dei rifugiati proviene dalle aree urbane dei paesi in via di sviluppo, soprattutto in Asia e in Medio Oriente. È la prima volta, dal 2007, che i profughi in aree urbane sono quasi il doppio di quelli nei campi. Ciò si deve per lo più al fatto che molti iracheni hanno cercato rifugio in zone abitate della Giordania, del Libano e della Siria. Solo nell’Africa subsahariana, che ospita un quinto di tutti i profughi, sei rifugiati su dieci vivono nei campi Complessivamente è il Pakistan ad accogliere il numero più alto: 1,7milioni di rifugiati. A seguire l’Iran con 1,1milione e la Siria, dove le fonti governative dichiarano 1.05milioni di persone. La vicinanza di questi Paesi con zone calde di conflitto fa sì che quasi la metà dei profughi di tutto il mondo che ricevono assistenza da Unhcr sia composta da afgani, quasi tre milioni di persone, e iracheni, 1,8milioni. I primi trovano ospitalità in 71 diversi Paesi nel mondo, mentre la maggior parte degli iracheni si rifugia nei paesi vicini. Tante sono le donne e le ragazze, che costituiscono la metà di tutti gli sfollati e ex rifugiati e il 47% dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Di questi ultimi, il 41% ha meno di 18 anni. Oltre 18700 domande sono state presentate da bambini non accompagnati in 71 diversi Paesi del mondo. Mai una cifra così alta negli ultimi quattro anni. Di questi, quasi 8mila si sono visti riconoscere lo status di rifugiato o gli è stata garantita una forma diversa di protezione. A fine 2009, secondo il rapporto Unchr le richieste di asilo o per l’ottenimento dello status di rifugiato erano più di 922mila, un milione in più dell’anno precedente. E se sono gli Stati Uniti d’America ad aver accolto il maggior numero di richieste, 80mila, è il Sudafrica il Paese dove sono state inoltrate oltre un quarto delle richieste totali. Il rapporto Unhcr rileva che dal 2008 il numero complessivo dei rifugiati è rimasto stabile,ma a crescere in misura del 4% sono gli sfollati: oltre 27milioni di persone alla fine del 2009, provenienti per lo più da Pakistan Somalia e Repubblica Democratica del Congo. In Medio Oriente, dove la situazione sfugge in parte alle statistiche per mancanza di cifre affidabili, si è fatta una stima al ribasso sul numero di profughi presenti in Giordania e in Siria provenienti per lo più dall’Iraq. A compensare questo dato, però, ci sono oltre 30mila rifugiati somali in Yemen che in qualche modo pareggiano le stime riviste. In Europa la popolazione rifugiata rimane stabile e si assesta su 1,6milioni di persone. L’Italia accoglie 55mila profughi e il dato è in costante diminuzione: c’è un solo rifugiato ogni mille abitanti. Un dato che contrasta non poco con i numeri degli altri Paesi dell’Unione Europea. In Germania ne sono ospitati 600mila, nel Regno Unito 270mila, in Francia 200mila. Le politiche restrittive adottate in Italia in fatto di immigrazione hanno fatto da deterrente nei confronti delle richieste di asilo. Essendo sempre più difficile ottenere lo status di rifugiato le domande presentate nel 2009 sono quasi la metà delle oltre 30mila del 2008. A dare conforto di fronte a queste cifre spaventose è il fatto che negli ultimi 10 anni un milione e trecentomila rifugiati hanno ottenuto la cittadinanza del Paese ospitante, più della metà dei quali negli Stati Uniti. La Tanzania ha garantito la naturalizzazione a 155mila profughi del Burundi: un importante passo in avanti per questa popolazione che vive in esilio dal 1972. Anche il Belgio ha reso cittadini 2,2mila rifugiati, 730 l’Irlanda, 400 l’Armenia e 730 la Russia. Quello dell’integrazione locale è un processo molto lungo e complicato che comprende distinte ma collegate questioni legali, economiche e socio-culturali. E in molti paesi la legislazione non permette di naturalizzare i rifugiati o i richiedenti asilo. Nel mondo, oggi, vivono 43,3milioni di esseri umani che hanno lasciato la loro terra in cerca di una speranza per il futuro. Non si può far finta che non esistano.
I nuovi migranti ASAL
Arrivano da tutto il mondo i nuovi cittadini europei
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INTRO La gran parte dei migranti presenti in Italia (53,6%) è di origine Est-europea, seguono gli africani (22,4%), gli asiatici (15,8%) e gli americani (8,1%). Negli ultimi anni risulta fortemente attenuato il policentrismo delle provenienze, da sempre caratteristica dell’immigrazione italiana. Nonostante la crisi economica ed occupazionale che ha investito l’Italia, il numero di immigrati continua a crescere: l’aumento annuo nel 2008 è stato di 458644 residenti, il 13,5% in più rispetto all’anno precedente. Tra cittadini stranieri residenti e presenze regolari non ancora registrate
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all’anagrafe, si calcolano circa 4,5milioni di persone, ovvero il 7,2% dell’intera popolazione. Nella fascia d’età tra gli 0 e i 39 anni il tasso raggiunge il 10%. A livello territoriale il Nord ospita il 62,1% dei residenti stranieri, il Centro 25,1% e il Meridione solo il 12,8%.
PRINCIPALI PAESI PRESENZE DI PROVENIENZA
%
Romania
796.477
20,5
PAESI DI PROVENIENZA Complessivamente si può affermare che in Italia esiste da sempre una presenza straniera molto varia dal punto di vista delle nazionalità d’origine, ma se fino al 2000 la comunità più grande era quella marocchina, già nel 2005 le comunità rumena, albanese e ucraina si sono triplicate fino a rappresentare più di un terzo degli immigrati. Il dinamismo e la varietà della popolazione straniera è da ricondurre principalmente alla sua evoluzione demografica da una parte e alla domanda di occupazione del Paese dall’altra. Gli sbarchi, invece, influiscono in misura veramente minima sul totale di immigrati, rappresentano infatti meno dell’1% della presenza regolare. Il contrasto dei flussi irregolari ha però monopolizzato l’attenzione dei media e le decisioni politiche tanto che si registra una crescente confusione tra immigrati “clandestini”, irregolari, richiedenti asilo e persone aventi diritto alla protezione umanitaria.
Albania
441.396
11,3
Marocco
403.592
10,4
Cina
170.265
4,4
Ucraina
153.998
4,0
Filippine
113.686
2,9
Tunisia
100.112
2,6
Polonia
99.389
2,6
India
91.855
2,4
Moldavia
89.424
2,3
IL PANORAMA DELL’IMMIGRAZIONE NELL’UNIONE EUROPEA Il 2008 è stato il primo anno in cui l’Italia, per incidenza degli stranieri residenti sul totale della popolazione, si è collocata al di sopra della media europea e, seppure ancora lontana dalla Germania e specialmente dalla Spagna (con incidenze rispettivamente dell’8,2% e dell’11,7%), ha superato la Gran Bretagna (6,3%). Tra i 200milioni di migranti nel mondo, il continente europeo si conferma dunque come l’area di maggiore presenza ospitandone circa un terzo del totale. Solo nell’Ue gli immigrati sono 38,1milioni, con un’incidenza del 6,2% sui residenti: più di un terzo proviene da altri Stati membri (36,7%), ma ormai si rischia di considerare “stranieri” anche i comunitari, dei quali gli italiani costituiscono in diversi paesi una parte cospicua. L’immigrazione continua a essere uno dei temi caldi e gli organismi dell’Unione Europea si sono occupati in prevalenza del controllo dei flussi e dei rimpatri, mentre è rimasto in sordina l’obiettivo della convivenza nella diversità.
Macedonia
89.066
2,3
Ecuador
80.070
2,1
Perù
77.629
2,0
Egitto
74.599
1,9
Sri Lanka
68.738
1,8
Senegal
67.510
1,7
Bangladesh
65.529
1,7
Serbia
57.826
1,5
Pakistan
55.371
1,4
Nigeria
44.544
1,1
TOTALE
3.141.076
80,9
La Biblioteca di Sarajevo Michele Nardelli
Palos è oggi un piccolo borgo dell’Andalusia che supera di poco gli ottomila abitanti. Non era un grande centro portuale neppure il 3 agosto 1492, quando da lì salparono tre caravelle dirette verso le Indie. Il caso volle che finissero altrove e la storia prese un altro corso. I libri ne parlano. Quel che accadde il giorno prima, il 2 agosto, non trova talvolta nemmeno menzione nei libri di testo. Eppure anche in quella circostanza la storia prese una piega drammaticamente diversa. Perché la decisione di Isabella e Ferdinando di cacciare gli ebrei e i musulmani dalla Spagna rappresentò la fine di una delle più interessanti vicende di intreccio culturale che il vecchio continente avesse mai conosciuto: il califfato di al-Andalus e l’esperienza delle città-stato che ne era seguita. Il tutto era iniziato nel 755 dC con l’arrivo nella penisola iberica di Abd al-Rahman, erede della dinastia degli Omayyadi, che unificò le popolazioni arabe già presenti nella parte meridionale della Spagna e costituì quella straordinaria esperienza di tolleranza nella quale convissero pacificamente e per più di sette secoli musulmani, ebrei e cristiani. E alla quale dobbiamo la traduzione di Aristotele e di Platone, le nuove frontiere della conoscenza scientifica, la poetica delle canzoni d’amore… e dell’altro ancora. Finirono le traduzioni che facevano della biblioteca del califfo a Cordoba, ricca di quattrocentomila volumi manoscritti, la più grande mai conosciuta, nonostante fosse solo una delle settanta che arricchivano quella città. Finì la raffinatezza irripetibile dei palazzi e dei giardini più belli dell’Alhambra. Si concluse quella koinè culturale che si nutriva di conoscenza, di ascolto e di saggezza sincretica. Nel suo volgere altrove lo sguardo, Europa rinnegò le sue stesse origini fenicie. La frattura fra oriente e occidente divenne sempre più profonda. Fino a diventare “scontro di civiltà”. Dall’editto di espulsione degli ebrei “ L’Inquisizione ha scoperto molti colpevoli, come è noto, e dagli stessi inquisitori, oltre che da numerosi fedeli, religiosi e secolari, siamo informati che sussiste un grave pericolo per i cristiani a causa dell’attività, della conversazione e della comunicazione che [i cristiani] mantengono con gli ebrei. [Gli ebrei infatti] dimostrano di essere sempre all’opera per sovvertire e sottrarre i cristiani alla nostra santa fede cattolica, per attirarli con ogni mezzo e pervertirli al loro credo, istruendoli nelle cerimonie e nell’osservanza della loro legge…
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Guerre moderne, scontro di civiltà Quando l’Europa guardò altrove
Per questo motivo, e per mettere fine a una così grande vergogna e ingiuria alla fede e alla religione cristiana, poiché ogni giorno diventa sempre più evidente che i suddetti ebrei perseverano nel loro pessimo e malvagio progetto dovunque vivano e conversino [con i cristiani], [noi dobbiamo] cacciare i suddetti ebrei dai nostri regni così che non ci sia più occasione di offesa alla nostra fede ”. Toledo, 31 marzo 1492
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Un’altra storia Gli ebrei portarono nella diaspora da Sefarad (così chiamavano la Spagna) le chiavi delle loro case, la loro lingua ovvero il vernacolo castigliano che chiamavano ladino, l’abilità nel tradurre e nella diplomazia, i libri delle sacre scritture della loro cultura. Approdarono ovunque, anche a Sarajevo, terra d’asilo e tollerante, quasi a riecheggiare quel che al-Andalus aveva portato con sé nei secoli precedenti. Tanto che nel 1463 (ventinove anni prima dell’espulsione da Sefarad) il sultano Maometto II emanò per quelle terre un ben diverso editto, redatto in un piccolo villaggio a poca distanza da Mostar da cui prese il nome. È l’Editto di Blagaj, uno straordinario documento di tolleranza religiosa che venne consegnato ai francescani bosniaci come dichiarazione di salvaguardia nella professione della loro fede e di tutela dei loro luoghi di culto. Dall’Editto di Blagaj “Io, Sultano Mehmet-Kahn, informo il mondo intero che coloro i quali possiedono questo editto imperiale, i francescani bosniaci, sono nei miei favori per cui io dispongo: - fate che nessuno infastidisca o disturbi né loro, né le loro chiese; - permettete loro di vivere in pace nel mio Impero; - lasciate stare al sicuro coloro che presso di loro sono rifugiati; - permettete loro di tornare e di sistemare i loro monasteri senza timore in ogni Paese del mio Impero. Né la mia Altezza Reale, né i miei Visir, né il personale alle mie dipendenze, né la mia servitù e nessuno dei cittadini del mio Impero potrà insultarli o infastidirli. Non permettete a nessuno di attaccarli, insultarli, né di attentare alle loro vite, proprietà o chiese. Se loro ospiteranno qualcuno proveniente da fuori e lo introdurrà nel mio Paese ne hanno la mia autorizzazione. Poiché ho così disposto, ho graziosamente emesso questo editto imperiale e ufficialmente assumo l’impegno. Nel nome del creatore della terra e del cielo, colui che nutre tutte le creature, nel nome dei sette Musafs e del nostro grande Profeta e nel nome della spada che io impugno che nessuno si comporti diversamente da ciò che ho scritto fin tanto che mi saranno fedeli e obbedienti alla mia volontà”. Blagaj, 28 maggio 1463 Come già nella penisola iberica, anche qui l’Islam si caratterizzava per interpretazioni sincretiche avendo le proprie radici nell’eresia Bogomila, cresciuta in Bosnia e in Bulgaria intorno all’anno mille. Così le chiese cristiane crescevano accanto alle moschee e alle sinagoghe. Talvolta le une s’intrecciavano con le altre, se ne possono vedere ancor oggi le tracce. E Sarajevo divenne col tempo la “Gerusalemme dei Balcani”. Intrecci europei Nel dicembre 1910 ci fu il censimento nell’impero austroungarico, quel vasto Paese dove l’inno all’imperatore veniva cantato in dodici lingue diverse. A Vienna come a Trento, a Budapest come a Sarajevo, quel censimento si fondava sulla “Umgangssprache”, cioè sulla lingua parlata in famiglia. Ne venne fuori che il 13,4% della popolazione di Sarajevo aveva come lingua madre lo spagnolo, l’antico castigliano dei loro avi della Terra promessa di Sefarad. Erano gli ebrei “sefarditi”, una componente importante di quella città già allora simbolo di cosmopolitismo. Si andava costruendo l’Europa dalle tante radici culturali. Una storia che nemmeno l’olocausto riuscì a cancellare, tant’è vero che furono i musulmani di quella città a difendere durante l’occupazione nazista (gran parte della Bosnia negli anni ’40 del Novecento era sotto il regime ustaša di Ante Pavelic) gli antichi manoscritti che gli ebrei sefarditi
1492 - 1992, cinquecento anni dopo… La Miljacka non è il fiume degli smeraldi. Il colore delle sue acque è raramente verde o azzurro. Non evoca fantastiche figure femminili. Ciò nonostante lo scorrere delle sue acque accompagna la storia europea. Perché il Novecento europeo nasce e muove lungo questo fiume. È sul ponte latino, uno dei ventidue che l’attraversano nella città, che il 28 giugno 1914 venne assassinato l’erede al trono dell’Impero Austro Ungarico Francesco Ferdinando, pretesto o detonatore della Grande Guerra. Ed è sempre sulla Miljacka, in un altro ponte allora denominato Vrbanja, che il 5 aprile 1992, nel corso di una marcia che ostinatamente si opponeva alla guerra e che raccolse centomila persone in un ultimo disperato tentativo di far prevalere la civiltà sulla barbarie, che vennero assassinate Suada e Olga. Quel giorno ebbe inizio il lungo assedio della città di Sarajevo. Da questa parte del mare, guardavamo distrattamente la tragedia che si consumava in quella città, senza capire che ad essere assediata era la storia, la cultura, un’idea dell’Europa, la civiltà. Decisi di prendermi la mia parte di responsabilità e così quei luoghi divennero un tratto importante della mia esistenza. Lungo quel fiume, ho spesso pensato alla “neve nera” - per usare l’immagine di Kemal Bakaršic ripresa in un recente articolo di Azra Nuhefendic - che pioveva in quell’agosto del 1992 quando la “Vijecnica”, com’era chiamata dagli abitanti la vecchia biblioteca nazionale di Sarajevo, andò in fumo e con essa un milione e mezzo di volumi, 155 mila esemplari rari, 478 manoscritti. Rimasero solo lo scheletro dell’edificio in stile moresco e dieci tonnellate di cenere. “Ho visto Werther seduto sul recinto del cimitero distrutto. Quasimodo dondolante sul minareto di una moschea. Raskolnikov e Marsault sussurravano, per giorni, nella mia cantina…”: in quella cenere che cadeva dal cielo le anime dei personaggi della letteratura girovagavano per la città, come scrisse Goran Simic. “Tutta la città fu coperta da brandelli di carta bruciata. Le pagine fragili volavano in aria, cadendo come neve nera. Afferrandola. per un attimo era possibile leggere un frammento di testo, che un istante dopo si trasformava davanti ai tuoi occhi in cenere”. (Kemal Bakaršic) Completarono così quel lavoro di distruzione della storia che tre mesi prima avevano iniziato con il bombardamento dell’Istituto Orientale di Sarajevo, questa volta nei pressi del ponte Drvenjia, che conteneva migliaia di testi antichissimi e manoscritti in lingua araba, in farsi ed in ebraico. Fine della storia. La barbarie aveva vinto. Insieme ai libri e ai manoscritti, bruciarono la storia e la cultura di una città che nella sua essenza rappresentava l’idea di un’Europa dalle radici plurali. Del resto era proprio questo l’obiettivo degli assedianti. Le granate, le bombe incendiarie, non cadevano a caso, miravano i simboli. Le guerre moderne non hanno come obiettivo la distruzione dell’esercito nemico, con il quale spesso ci si intende e si fanno affari, ma contro la popolazione civile, la storia, la cultura, le città. Con l’assedio di Sarajevo si parlò di “urbicidio”: la volontà non era di prendere una città della quale non sapevano che farsene, ma di tenerla sotto scacco di fronte al mondo intero per sfiancarne la resistenza ed il messaggio. Così le biblioteche sono diventate obiettivi strategici perché, come i libri, gli edifici, le opere d’arte ci parlano della complessità, degli intrecci, di identità in continuo divenire. I sacerdoti della purezza identitaria sono come i cultori dello scontro di civiltà, non sopportano i sincretismi. Coltivano le fratture della storia, agitano la Battaglia di Lepanto, fanno leva sulla paura e fomentano il rancore. L’altra strada ci interroga invece sulle nostre radici comuni, sul “pane” che - come ha scritto Enzo Bianchi nella prefazione dell’ultimo libro di Predrag Matvejevic - per essere “nostro” dev’essere condiviso. Altrimenti cessa di essere pane, assume le sembianze dello scontro di civiltà in nome del quale l’acqua, le sementi, il petrolio... diventano beni privati anziché comuni. Per questo vale la pena studiare Fernand Braudel, per ripartire da lì, da dove si è interrotta la fertile comunicazione di sapere e di pensiero fra Occidente e Oriente attraverso il Mediterraneo.
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si erano portati dalla Spagna. Si salvarono dalla barbarie e nel secondo dopoguerra vennero gelosamente conservati nell’Istituto Orientale e nella Biblioteca Nazionale di Sarajevo, sulle rive della Miljacka.
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Gruppo di lavoro
Andrea Baranes Andrea Baranes lavora come responsabile delle campagne su istituzioni finanziarie private per la CRBM. Collabora con la Fondazione Culturale Responsabilità Etica, gruppo Banca Etica, per ricerche sui temi della finanza e dell’economia. È autore di diverse pubblicazioni relative ai temi della finanza e del commercio internazionali e collabora con riviste specializzate nel settore economico e della sostenibilità, quali “Valori” e “Altreconomia”. È direttore del sito di informazione “Osservatorio Finanza”. È attualmente membro del Consiglio Direttivo della rete internazionale della società civile BankTrack, e, in Italia, è membro del Comitato Etico di Etica Sgr, società di gestione del risparmio del gruppo Banca Etica. Barbara Bastianelli Giornalista, lavora al Premio Ilaria Alpi e si occupa del concorso giornalistico televisivo oltre a dirigere l’Archivio Ilaria Alpi. Dopo aver lavorato per diversi anni nelle testate giornalistiche locali, ha iniziato ad occuparsi di comunicazione, curando diversi uffici stampa. Ha seguito il Premio Ilaria Alpi fin dalla sua nascita, diventando nel 2007 vice presidente dell’Associazione Ilaria Alpi che l’ha ideato. Ha collaborato alla stesura dei volumi curati dal Premio Ilaria Alpi: L’informazione Deviata (Baldini e Castoldi, 2003), Le periferie dell’Informazione (Paoline, 2006) e Giornalismi & Mafie (Ega, 2008), Africa e Media (Ega, 2009) e Carte False (Verdenero, Ed.Ambiente, 2009). Ha curato insieme ad Angelo Ferrari il volume: Informazione e lavoro (Paoline, 2007). Daniele Bellesi Diplomato al Liceo Artistico, ha frequentato per diversi anni la Facoltà di Architettura. Si è poi dedicato alla libera professione come grafico e consulente per la comunicazione. Ha lavorato molto anche nel mondo dell’associazionismo e del volontariato. È vicepresidente dell’Associazione Un Tempio per la Pace di Firenze (dialogo inteculturale e interreligioso) e ha fondato insieme agli altri l’associazione 46° Parallelo. Giulia Bondi Giornalista, collabora con Terre, Il mucchio e l’ufficio stampa del Comune di Modena. Suoi lavori sono apparsi su L’Espresso, Peacereporter, Protestantesimo (Rai). Ha pubblicato “Ritorno a Montefiorino”, storia della Resistenza a Modena scritta con Ermanno Gorrieri (Il Mulino, 2005) e “Io sono di Braida” su un
quartiere di periferia di Sassuolo (Mo). Nel 2006 ha vinto il Premio Ilaria Alpi. Pietro Cavallaro Siciliano e fiero delle sue origini, vive a Riccione da oltre 50 anni. Ha svolto il ruolo di difensore civico ricoperto per 11 anni al quale la città lo ha chiamato. In questo ufficio ha promosso due convegni a carattere nazionale. Ha ricoperto più volte la carica di presidente di varie associazioni che lo ha condotto ad interessarsi fattivamente con passione e partecipazione di emergenze umanitarie quali le drammatiche necessità dell’Albania in seguito alla caduta del regime o più recentemente a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica al diritto all’indipendenza del popolo Saharawi il cui territorio si trova sotto occupazione del Marocco. Francesco Cavalli Direttore generale di Icaro Communication, network di comunicazione riminese comprendente Radio Icaro, IcaroTV, Newsrimini. it e Bottega Video produzioni. Direttore del Premio Giornalistico televisivo Ilaria Alpi del quale ne è uno dei fondatori. Impegnato anche nel no-profit è vicepresidente della ONG Amani onlus. Raffaele Crocco Giornalista RAI, ha lavorato per alcuni anni come inviato in zone di guerra. Ha fondato la rivista Maiz - A Sud dell’informazione - ed è stato tra i fondatori Peacereporter. È l’autore del libro “Il CHE dopo il CHE”. Ha ideato e dirige questo Atlante. Angelo D’Andrea Angelo d’Andrea ha 34 anni, giornalista pubblicista, laureato in Comunicazione a Roma , dal 2005 è funzionario dell’Agenzia delle Entrate addetto alle Relazioni Esterne e Rapporti con la Stampa per il Veneto e il Trentino. Sta seguendo il tema dei “paradisi fiscali”. Ha collaborato ad un’inchiesta su “massoneria e finanza” per la Rizzoli. Per l’Atlante cura le schede Kosovo, Turchia e Cipro nonchè la versione radio e podcast di tutti i contenuti. Angela de Rubeis Angela de Rubeis redattrice del sito www. ilariaalpi.it e collaboratrice del premio ilaria alpi dal 2006. Laureata in scienze della comunicazione a bologna e specializzata in comunicazione di massa, ha collaborato alla stesura del libro informazione e lavoro (Paoli-
Stefano Fantino Giornalista pubblicista, è redattore di Libera Informazione, Osservatorio nazionale sull’informazione per la legalità e contro le mafie, e collaboratore del mensile Narcomafie. È stato co-autore del libro “Giornalismi e Mafie. Alla ricerca dell’informazione perduta” (Ega, 2008). Angelo Ferrari Angelo Ferrari, corrispondente dell’Agenzia Italia dall’Africa Centrale, da anni si occupa di problematiche relative al Sud del mondo e in particolare all’Africa, dove ha seguito le più grandi tragedie del continente: dalla guerra del Rwanda a quella della Somalia, dalla Repubblica democratica del Congo alla Sierra Leone. Tra i suoi libri ricordiamo Hakuna Matata, la globalizzazione galoppa mentre l’Africa muore (2002), Amahoro (Pace) tredici anni di viaggi in Africa (2003), Sogni, le speranze dei bambini africani (2006) e Africa gialla, l’invasione economica cinese nel continente africano (2008). Franco Fracassi Regista e sceneggiatore, ha lavorato per 16 anni come giornalista e fotoreporter, per testate italiane e internazionali, come “Avvenimenti” e l’Associated Press. Ha seguito i conflitti in Bosnia, Croazia, Kosovo, Sri Lanka, Angola e Iraq. Ha scritto libri d’inchiesta, tra i quali quello sull’assassinio in Somalia della giornalista italiana Ilaria Alpi e del cameraman Miran Hrovatin (“Ilaria Alpi”). Come fotografo ha partecipato a tre edizioni del World Press Photo e da quattro anni produce, scrive e dirige documentari per la Telemaco, tra cui “Zero, inchiesta sull’11 settembre”. Flavio Lotti È Coordinatore nazionale della Tavola della Pace, l’organismo che dal 1996 organizza la Marcia per la pace Perugia-Assisi. E’ Direttore del Coordinamento Nazionale Enti Locali per la pace e i diritti umani, un’associazione fondata nel 1986 che riunisce oltre 700 Comuni, Province e Regioni italiane. Francesca Manfroni Nata nel 1979, laureata in Scienze Politiche e in Lingua e Cultura Araba all’Istituto per l’Africa e l’Oriente (IsIAO). Collabora con diverse agenzie e testate, tra cui il sito Osservatorio Iraq.
Carlo Maria Miele Nato nel 1977, laureato in Scienze internazionali presso l’Orientale di Napoli. Diploma di giornalismo presso la Luiss-Guido Carli di Roma. Giornalista professionista dal 2006, collabora con diverse testate (Manifesto, Carta, Diario e Repubblica). Dal 2006 è redattore del sito di informazione Osservatorio Iraq. Michele Nardelli Lavora nella ricerca-azione sui temi della mondialità, della cooperazione internazionale e dell’elaborazione dei conflitti. All’impegno politico lungo i sentieri originali dell’agire locale e del pensare globale, s’intrecciano le prime esperienze di cooperazione di comunità. Viaggiatore inquieto dell’Europa di mezzo, è fra i fondatori si Osservatorio Balcani e Caucaso. Dal novembre 2008 è Consigliere regionale del Trentino Alto Adige – Sud Tirolo e Consigliere della Provincia Autonoma di Trento. Dal 2009 è presidente del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani. Enzo Nucci Corrispondente della Rai da Nairobi per l’Africa sub-sahariana dal 2006. Napoletano, 53 anni, è in Rai dal 1988 dove ha lavorato come cronista nella redazione regionale del Lazio prima di passare al Tg3 nel 1994. È stato inviato di cronaca nazionale e di esteri. Ha seguito i conflitti nella ex Jugoslavia, Kosovo, Afghanistan, Iraq e la rivolta in Albania. Ha vinto numerosi premi giornalistici tra cui il “Testimone di Pace” di Ovada e il premio Andrea Barbato di Mantova. Ilaria Pedrali Giornalista professionista, ha vissuto e lavorato a Gerusalemme come corrispondente per le Edizioni Terrasanta e gestendo il Franciscan Multimedia Center. Ha lavorato a Mediaset, e scritto su vari quotidiani nazionali, siti internet, web tv occupandosi di cultura, esteri, cronaca. Ama il Medio Oriente, viaggiare, ed è molto curiosa. Da qualche tempo ha iniziato a studiare l’arabo. Alessandro Piccioli Giornalista e fotoreporter. Da freelance ha realizzato reportage dall’Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Corsica, Iraq, Palestina, Siria, Egitto. Collabora con diverse testate e svolge attività autorale in Rai. Federica Ramacci Giornalista. Scrive di politica italiana e inter-
nazionale per diverse testate. È inviata alla Camera dei Deputati per l’agenzia di stampa “Nove Colonne”. Ha realizzato reportages, inchieste e interviste in Italia, America Latina, Europa e Nord Africa. Amedeo Ricucci Giornalista RAI, ha seguito come inviato speciale i più importanti conflitti degli ultimi vent’anni. Ha ottenuto diversi riconoscimenti nazionali e internazionali, fra cui il Premio Ilaria Alpi (2000). Ha scritto il libro La guerra in diretta. Il volto nascosto dell’informazione televisiva (Pendragon, 2004) Ornella Sangiovanni Giornalista specializzata in questioni del mondo arabo, segue l’Iraq da circa 20 anni, e si è occupata a lungo delle sanzioni internazionali imposte al Paese dopo l’invasione del Kuwait del 1990. Collaboratrice di quotidiani, settimanali, e periodici, dal 2004 lavora per il sito Osservatorio Iraq. Luciano Scalettari Quarantanove anni, è inviato speciale di Famiglia Cristiana. Si occupa prevalentemente di attualità africana (ha effettuato spedizioni in una trentina di Paesi dell’Africa subsahariana) e di giornalismo d’inchiesta. Nel 2000 e nel 2006 ha vinto il Premio Giornalistico Saint Vincent. Ha pubblicato, tra l’altro: 2002 (con B. Carazzolo e A. Chiara) Ilaria Alpi, un omicidio al crocevia dei traffici), B&C. 2004 La lista del console - Ruanda, 100 giorni un milione di morti, Ed. Paoline-Focsiv. 2010 (con Luigi Grimaldi) “1994”, Chiarelettere Editore. Da settembre 2007 coordina, insieme ad Alberto Laggia, il laboratorio di giornalismo sociale “La voce di chi non ha voce” organizzato dalla Scuola di Giornalismo “A. Chiodi” di Mestre. Beatrice Taddei Saltini È tra le fondatrici di 46° Parallelo. Ha collaborato a reportages dall’America Latina. Per questo Atlante si occupa dell’editing, dei rapporti con la Redazione e della distribuzione. Roberto ZIchittella È giornalista, inviato del settimanale Famiglia Cristiana per il quale si occupa di varia attualità. Collabora assiduamente con il quotidiano Il Riformista, scrivendo soprattutto di esteri e per le pagine domenicali “Ombra”. Ha fatto radio (Radio Città Futura, Radio2 Rai) e gli piacerebbe farne ancora.
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ne, 2007) e della collana “I taccuini del premio ilaria alpi. Oggi lavora al settimanale il Ponte di Rimini.
Fonti
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Organismi internazionali e istituzioni Unesco Unicef Oms Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) Africa-Union Nazioni Unite Ministero degli Esteri Ministero della Difesa Central Intelligence Agency Banca Mondiale Caritas United Nations Peacekeeping Force in Cyprus The Millennium Development Goals - Onu Istituto del Commercio con l’Estero Informazione, giornali e istituti di ricerca Pagine della Difesa Africa News Misna Nigrizia Reuters Osservatorio Iraq Osservatorio dei Balcani Wikipedia Corriere della Sera La Repubblica La Stampa Valori Peacerporter Ansa Apcom Agimondo Famiglia Cristiana Limes Guerre & Pace Global Geografia Peace Link Balcanicaucaso.org Banchearmate.it Crbm.org Organizzazioni non governative Amnesty International Emergency Medici Senza Frontiere Reporters Sans Fronteres Unimondo Amani
Fotografie Le fotografia dell’Atlante sono generalmente Frame tratti dall’archivio del Premio Ilaria Alpi tranne quelle fornite dall’archivio Unhcr per le schede Timor Est, Etiopia, Kashmir, Kirghizistan, Ecuador, Yemen, Pakistan, Siria e Repubblica Centrafricana (di cui viene riportato anche il nome del fotografo accanto alla foto). Per le Filippine le foto sono state gentilmente fornite dal fotografo Aldo Bernardi. Le foto della Cina sono di Claudio Cardelli, Presidente Associazione Italia Tibet. Le foto dell’articolo sulla Biblioteca di Sarajevo sono di Michele Nardelli. Le fotografie dell’articolo sui bambini soldato sono di Enzo Nucci. Le foto della scheda Sahara Occidentale sono di Francesco Cavalli. In alcuni casi e per i personaggi abbiamo usato fotografie trovate su internet. Per le foto di Cipro abbiamo usato delle immagine tratte del sito Wikimedia Commons. org: abbiamo riportato l’auotre accanto alla foto.
Cartografia Per la cartografia abbiamo fatto riferimento a quella ufficiale dell’Onu: sia per le mappe delle Missioni Onu, sia per le mappe dei singoli Paesi. Dal sito dell’Università del Texas abbiamo usato invece le mappe dei seguenti Paesi: Colombia, Cecenia, Kosovo, Paesi Baschi, Cina, Turchia, Libano, India, Filippine e Algeria. Le mappe degli articoli Asal sono gentilmente offerte dall’Associazione stessa. Per le Mappe dei continenti abbiamo usato la stessa mappa di Peters (i cui diritti sono gestiti dall’Asal) che troverete nella sua forma completa nella terza di copertina.
Autori delle schede Di seguito riportiamo gli autori delle schede conflitto (in corsivo gli Inoltre). Francesco Cavalli - Somalia Raffele Crocco - Colombia, Cina-Tibet, Filippine, Thailandia, Afghanistan Angelo D’Andra - Turchia, Cipro, Kosovo Angelo Ferrari - Repubblica Centrafricana, Costa D’Avorio, Liberia, Uganda Franco Fracassi - Pakistan, Kashmir, India-Naxaliti Francesca Manfroni - Siria-Israele Carlo Maria Miele - Israele-Palestina Enzo Nucci - Ciad, Repubblica Democratica del Congo Alessandro Piccioli - Libano Federica Ramacci - Haiti, Paesi Baschi, Timor Est Luciano Scalettari - Sudan, Etiopia-Eritrea, Nigeria Amedeo Ricucci - Kirghizistan, Cecenia, Georgia Ornella Sangiovanni - Iraq Roberto Zichittella - Algeria Angela de Rubeis - Birmania, Ecuador, Iran, Coree, Cina (Regione dello Xinjiang), Sri Lanka, Etiopia (Regioni del Sud), Madagascar Redazione - Guinea Bissau
Ai nostri lettori. Per correggere un testo occorrono molti occhi. Noi abbiamo cercato di fare il nostro meglio. Laddove ci fosse sfuggito qualche refuso o errore ce ne scusiamo.
È infinito l’elenco di chi voglio ringraziare. Parto, ovvio, da tutti quelli che in questo anno, dopo la prima uscita dell’Atlante, ci hanno incoraggiato, consigliato e stimolato. Wanda Chiodi, Sara Ferrari e Fabio Rossetti, a Trento, hanno aiutato più di quanto loro stessi credano. Carlo Basani è stato un’altra volta fondamentale, come Giorgio Fracalossi. Laura Strada mi ha consentito di trovare tempo e modo di lavorare al libro e di questo le sarò sempre grato. Lillo Gullo mi ha aiutato con idee e critiche sempre intelligenti. Un pensiero va alle pubbliche ammnistrazioni che anche quest’anno hanno reso possibile la pubblicazione dell’Atlante e la sua diffusione. A questo punto, i ringraziamenti, come lo scorso anno, vanno a tutti quelli che in questo Atlante hanno scritto e sono tantissimi, come vedete dalla gerenza: hanno aderito con entusiasmo all’idea e ci si sono buttati da grandi professionisti, senza chiedere nulla. Hanno portato nel libro molto, hanno dibattuto, discusso. Quando ci penso, davvero non so cosa dire loro: sono stati grandi. Come grandi sono Federica Ramacci, Daniele Bellesi e Beatrice Taddei Saltini che si caricano sulle spalle molto di questo peso, coordinando la redazione, la segreteria, facendo editing, grafica, correzione. Senza loro tre, non ci sarebbe l’Atlante. Infine, ringrazio i tanti amici che sono su Facebook come fan dell’Atlante e i molti che sono venuti alle conferenze in giro per l’Italia. Spero di vederli e rivederli presto. Raffaele Crocco
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Ringraziamenti
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Libri e riviste per l’ecologia della mente UN MENSILE PER CAMBIARE SE STESSI ED IL PIANETA 33 anni di pubblicazione, 100 pagine in carta riciclata, oltre 21 mila copie mensili, 8 mila abbonati. Questi sono i numeri di Terra Nuova, il mensile che dal 1977 costituisce uno strumento insostituibile di controinformazione sulle tematiche di alimentazione e medicina naturale, agricoltura biologica e biodinamica, maternità e infanzia, bioedilizia, ecoturismo, consumo critico, energie rinnovabili, pace, ricerca interiore, finanza etica e più in generale ambiente ed ecologia. Da sempre punto di riferimento del mondo del naturale e delle buone pratiche per uno stile di vita solidale e a basso impatto ambientale, Terra Nuova si è fatta promotrice già negli anni ‘80 del movimento dell’agricoltura biologica, più tardi della Rete italiana degli ecovillaggi e oggi del movimento del cohousing. Come ulteriore approfondimento dei contenuti della rivista, Terra Nuova Edizioni pubblica un ricco e variegato catalogo che a oggi conta più di 70 titoli (per scaricare il catalogo aggiornato www.terranuovalibri.it) e il portale (www.terranuovaedizioni.it) collegato a ben 6 siti tematici: www.mappabioedilizia.it, www.mappasalute.it, www.ecovillaggi.it, www.cohousingitalia.it, www.mappaecoturismo.it, www. negoziobio.info. Il mensile Terra Nuova non è distribuito in edicola: si trova in vendita nei centri di alimentazione naturale, nelle librerie specializzate e nelle Botteghe del mondo. Ci si può abbonare singolarmente o come gruppo d’acquisto solidale. Per visionare un numero della rivista è sufficiente chiamare la redazione (055 3215729 int. 2) e chiedere una copia omaggio oppure sfogliare il numero in visione online sul sito www.terranuovaedizioni.it alla voce copia omaggio.
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UN ESTRATTO DAL CATALOGO 2010 IL MIO ORTO BIOLOGICO Come coltivare l’orto con i suggerimenti del metodo biologico, dell’agricoltura sinergica e della permacultura evitando l’uso di pesticidi e concimi chimici di E. Accorsi e F. Beldì cm 14,5 x 21 pp. 220 - euro 18,00 RISVEGLIARE IL CUORE BAMBINO Come stimolare la crescita felice del bambino attraverso il dialogo, il gioco e la natura e riscoprire, da adulti, una profonda connessione con il mondo di Carla Hannaford cm 15 x 21 pp. 200 - euro 14,00 L’UNICO MONDO CHE ABBIAMO Dalle parole del maestro zen Thich Nhat Hanh, la pace e l’ecologia secondo l’etica buddhista di Thich Nhat Hanh cm 11,5 x 16,5 pp. 200 - euro 13,00
MANUALE DI SOPRAVVIVENZA ALLA FINE DEL PETROLIO Riflessioni, consigli e ricette per fare a meno dell’oro nero di Albert K. Bates cm 19 x 23,4 pp. 256 - euro 18,00 COHOUSING E CONDOMINI SOLIDALI Guida pratica alle nuove forme di vicinato e vita in comune con allegato il Dvd “Vivere in cohousing” a cura di Matthieu Lietaert cm 15 x 21 pp. 144 + DVD - euro 18,00 VIVERE SENZA SOLDI La sorprendente esperienza di una donna che da undici anni ha eliminato del tutto il denaro dalla propria vita di Heidemarie Schwermer pp. 184 - euro 13,00 AUTOCOSTRUZIONE DI UN PANNELLO SOLARE TERMICO Manuale pratico e agevole, per l’autocostruzione di un pannello solare termico
idoneo alla produzione di acqua calda di Lucio Sciamanna cm 15,5 x 18 pp. 120 - euro 12,00 AUTOCOSTRUZIONE DEI PANNELLI FOTOVOLTAICI Manuale pratico con Dvd per realizzare un impianto fotovoltaico di tipo domestico di Lucio Sciamanna cm 15,5 x 18 pp. 64 + DVD - euro 12,00 PULIRE AL NATURALE Ricette semplici ed ecologiche per avere casa e bucato puliti senza utilizzare prodotti tossici e inquinanti Associazione Uomini Casalinghi cm 11,5 x 16,5 pp. 240 - euro 10,00 INTRODUZIONE ALLA PERMACULTURA L’arte di coniugare i saperi di discipline diverse
ALIMENTAZIONE E MENOPAUSA Tutti i segreti per vivere la menopausa con naturalezza e in sintonia con il proprio corpo attraverso un’alimentazione sana ed equilibrata di Paolo Giordo cm 19 x 19 pp. 120 - euro 14,00 GUIDA AI RIMEDI NATURALI Come riconoscere e utilizzare i più efficaci preparati a base di argilla, propoli e piante medicinali per curarsi senza ricorrere ai farmaci di sintesi di Silvia Moro cm 15 x 21 pp. 195- euro 12,00 FACCIAMO IL PANE Manuale pratico con oltre 50 ricette per imparare a fare il pane con il lievito naturale di Annalisa De Luca cm 15 x 21 pp. 128 - euro 10,00 BIORICETTARIO 250 ricette di cucina naturale suddivise per stagione per apprendere e praticare un’alimentazione sana e naturale di Pino Zammataro cm 15 x 21 pp. 240 - euro 12,00
cm 15 x 21 pp. 224 - euro 13,00 CURARSI CON IL CIBO Prevenire e curare i disturbi più comuni con l’alimentazione di Catia Trevisani cm 15 x 21 pp. 296 - euro 15,00 MESTRUAZIONI La forza di guarigione del ciclo mestruale dal menarca alla menopausa di Alexandra Pope cm 15 x 21 pp. 240 - euro 15,00 L’ANIMALE RITROVATO Considerati carne da macello, c’è chi ha provato a salvarli dal loro destino. 18 storie vere di animali ritrovati a cura di Progetto Vivere Vegan cm 15 x 21 pp. 200 - euro 11,00 DENTI & SALUTE Un metodo rivoluzionario che mette in luce il legame tra denti, corpo e psiche di Michel Montaud cm 15 x 21 pp. 200 - euro 13,00 ABC dell’alimentazione NATURALE Una guida indispensabile per compiere i primi passi nel mondo degli alimenti biologici e imparare a utilizzarli per il proprio benessere di Giuliana Lomazzi cm 15 x 21 pp. 144 - euro 13,00
LE ERBE IN CUCINA La descrizione delle proprietà curative delle più comuni piante spontanee in un comodo poster a colori di Cristina Michieli pieghevole cm 20 x 84 euro 3,60
NATURALMENTE BIMBO Manuale pratico per la salute e il benessere del bambino da 0 a 3 anni, con menù e ricette settimanali per lo svezzamento a cura della redazione cm 15 x 21 pp. 176 - euro 13,00
QUANDOBEVI IL TÈ, STAI BEVENDO NUVOLE I discorsi di uno dei massimi insegnanti del Buddhismo impegnato di Thich Nhat Hanh
SVEZZAMENTO SECONDO NATURA Come e quando introdurre alimenti sani e biologici nella dieta del tuo bambino, evitando il cibo industriale e
preconfezionato di Michela Trevisan cm 15 x 21 pp. 200 - euro 13,00 QUESTA VOLTA PARLIAMO DI UOMINI Tutto ciò che gli uomini non sanno di se stessi e che le donne farebbero bene a conoscere di Barry Durdant-Hollamby cm 15 x 21 pp. 195- euro 12,00 IL LIBRO DI PIETRO Attraverso gli occhi di un contadino, una preziosa raccolta di memorie che ci regala il ricordo più autentico della civiltà contadina a cura di Jenny Bawtree cm 16,5 x 23,5 pp. 216 - euro 15,00 L’ARMA DEL VERO AMORE L’appassionata autobiografia di una delle più attive collaboratrici di Thich Nhat Hanh, dagli anni della guerra in Vietnam fino alla nascita e fioritura di Plum Village di Sister Chan Khong cm 15 x 21 pp. 310 - euro 14,00 CUCINARE I LEGUMI 100 ricette alla portata di tutti per riscoprire il sapore e il valore nutrizionale dei legumi di Rosanna Passione cm 19 x 19 pp. 120 - euro 12,00 Cerca i libri di Terra Nuova Edizioni nelle migliori librerie, nei negozi di alimenti biologici o richiedili direttamente a: Editrice Aam Terra Nuova Via Ponte di Mezzo, 1 50122 Firenze tel 055 3215729 libri@aamterranuova.it Puoi consultare il catalogo completo e ordinare i nostri libri anche su www.terranuovalibri.it
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per progettare un orto in armonia con la natura di Bill Mollison e Reny Mia Slay cm 21 x 29,7 pp. 240 - euro 20,0