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Vittime della guerra/2 Giulia Bondi

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Vittime della guerra/2

Giulia Bondi

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Amira Hass è una scrittrice e giornalista israeliana, conosciuta per i suoi articoli pubblicati sul quotidiano israeliano Ha’aretz. Ha deciso di stabilire la propria residenza nei territori della West Bank e nella striscia di Gaza, condizione che le dà l’opportunità di raccontare i fatti e di osservare da una prospettiva palestinese il conflitto israelo-palestinese. Figlia di due attivisti comunisti ebrei, sopravvissuti all’Olocausto di Bosnia e di Romania, Amira Hass è nata a Gerusalemme. La sua carriera come giornalista ha avuto inizio nel 1989 come membro della redazione di Ha’Aretz e cominciò a scrivere articoli dai territori occupati nel 1991. Attualmente è l’unica corrispondente israeliana dai territori occupati (è stata a Gaza dal 1993 al 1996 e a Ramallah dal 1997 a oggi). Dal 2001 scrive un diario per il settimanale italiano Internazionale.

Donne e conflitti fra falchi e colombe

Negli Stati Uniti e in buona parte dell’Europa, oggi, le donne rappresentano circa il 12% delle forze armate. Insomma, negli ultimi decenni sono arrivate anche loro sui campi di battaglia. In molti Paesi possono prestare servizio militare in marina, sugli aerei militari. Spesso portano carri armati o fanno parte delle truppe speciali. Questo ha cambiato la prospettiva. Per secoli, la donna è stata solo ed esclusivamente la “parte debole” del conflitto, la vittima predestinata di truppe d’invasione o di bombe d’artiglieria. È ancora così, sia chiaro. In Africa, Asia, le donne continuano a subire più di alti la violenza della guerra, senza poter nulla per salvarsi. Ma sempre più spesso, altre donne sono autrici delle violenze, nei corpi militari ufficiali o nelle milizie guerrigliere. Proprio per questo tentare di capire il punto di vista femminile sulla guerra è diventato ancora più importante. Perché la visione, ora, è da tutte e due le parti della barricata: quella delle vittime, quella delle carnefici.

Amira Hass è l’unica giornalista ebrea israeliana che vive nei Territori palestinesi. Da quella che definisce “la prigione a cinque stelle” di Ramallah, racconta per il quotidiano “Haaretz” e la rivista “Internazionale” storie di vita sotto l’occupazione.

In che modo la guerra colpisce le donne?

Nella realtà di cui mi occupo, gli attacchi israeliani e gli attentati suicidi palestinesi hanno fatto moltissime vittime civili, e le donne sono state tra le più colpite. È una questione anche sociale: negli attentati sugli autobus, per esempio, restano coinvolte soprattutto le classi più basse, donne che tornano dal mercato o portano i figli a scuola. Poi, la società israeliana si è mobilitata immediatamente per assistere le vittime degli attacchi suicidi, grazie a un sistema di servizi sociali più sviluppato. Tra i palestinesi, invece, l’assistenza sociale è basata sulla famiglia e l’enorme peso dei traumi della guerra ricade molto più sulle spalle delle donne.

Le donne possono contribuire alla pace?

Per me la parola pace ha perso di significato per il modo in cui è stata usata nell’ultimo ventennio. Penso però che le donne possano contribuire al cambiamento sociale. Gli attivisti israeliani contro l’occupazione sono soprattutto donne. Sono una minoranza, ma il loro lavoro serve a ricordare ai palestinesi che non tutti gli israeliani sono coloni o soldati. Cercano di spezzare la separazione tra i due popoli, infrangono la legge per portare le donne e i bambini palestinesi a passare una giornata al mare. Ci sono signore di mezza età che passano giornate intere nei Tribunali militari israeliani, esponendosi in prima persona per mettere pressione ai giudici. Poi c’è Machsom watch: donne che da 10 anni vanno ai checkpoint israeliani, sono testimoni di terribili discriminazioni e le riferiscono, anche tra le mura domestiche. Rendono visibile l’occupazione, mostrano quello che la maggioranza finge di non vedere.

C’è un motivo per cui sono soprattutto le donne a impegnarsi?

Credo che siano più coraggiose. Ci sono anche uomini impegnati, ma il lavoro volontario, non pagato, è fatto soprattutto da donne. Inoltre ho l’impressione che le donne abbiano meno problemi di leadership: ci sono movimenti femminili di base, con centinaia di attiviste, che non lo fanno né per prestigio né per denaro. Molte sono di classi agiate, professioniste o pensionate, appartengono

a quella che si potrebbe definire l’aristocrazia israeliana. Utilizzano il proprio tempo libero, e i privilegi che tutti abbiamo come membri del popolo dominante, per lottare contro un regime discriminatorio.

E tra le palestinesi?

Purtroppo al momento non mi pare ci sia una forte mobilitazione tra le donne palestinesi. Quelle che hanno accesso a privilegi li usano per se stesse, e le altre sono semplicemente sopraffatte dalle incombenze quotidiane. A Gaza e nella maggior parte della Cisgiordania, nei campi profughi o nei villaggi, le donne sono molto forti ma non contano abbastanza. Molte, più che in passato, vanno all’università, ma poi mancano opportunità di lavoro. Si vive in una costante emergenza, la parte più debole della società è quella che soffre di più, infatti la condizione femminile sta peggiorando. Nella prima Intifada esisteva un movimento femminista, ora invece, anche se ufficialmente l’Autorità palestinese incoraggia la partecipazione femminile, l’intera società sta regredendo. La religione, dalla quale molti dipendono per trovare conforto, viene interpretata nel modo più restrittivo, che confina le donne a un ruolo tradizionale: sposarsi, curare la casa, fare figli, depilarsi per il proprio uomo. Sono donne forti, ma non riescono ad affermare la propria individualità.

Cambierebbe qualcosa se ci fossero più donne al potere?

No, per me è più una questione sociale che di genere. Basta pensare che l’assalto più terribile a Gaza fu all’epoca di Tzipi Livni.

E lei, come donna che vive nei Territori, come viene vista?

Dopo 15 anni a Ramallah la mia presenza è diventata normale. Naturalmente posso avere una vita più indipendente rispetto alle palestinesi, e comunque Ramallah è un’elite borghese e cristiana. In un villaggio non potrei mai vivere, senza marito e senza figli sarei considerata troppo strana.

Quali sono le soddisfazioni e i problemi che derivano dal suo lavoro di denuncia?

Non sono mai soddisfatta, invidio i colleghi che hanno più contatti con le autorità e riescono a fare delle vere inchieste. E, purtroppo, mi sento un po’ una Cassandra: molto prima dello scoppio della seconda Intifada avevo scritto che il processo di pace sarebbe fallito. Significa che la mia analisi è corretta, ma avrei preferito sbagliarmi. Molte persone mi criticano per il mio lavoro, c’è chi mi chiama “kapò” o “Adolf Hitler”, ma non mi importa: ho smesso di leggere i commenti sul sito di Haaretz. Mi dispiace quando i palestinesi non apprezzano il mio lavoro, ma non è per loro che lo faccio.

Non si sente stanca di lottare, in una situazione così complicata da sembrare senza speranza?

La risposta che posso dare è la stessa che mi diede uno degli attivisti di Solidarnosc quando lo intervistai: “non avremmo mai pensato - mi disse - di poter vedere il crollo del Comunismo e dell’Unione Sovietica nel corso delle nostre vite, ma non legavamo la nostra lotta alla possibilità di successo. Si lotta perché si deve lottare”.

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