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Non più complici ma costruttori di pace Flavio Lotti

Flavio Lotti Non più complici ma costruttori di pace

C’è chi giura che alla fine il presidente Obama resterà con il cerino in mano. E che neanche lui riuscirà a cambiare il corso della storia in Medio Oriente. Tra di loro ci sono i pessimisti e ci sono i cinici. I pessimisti sostengono che tra gli israeliani e i palestinesi c’è oramai troppa sfiducia e troppo rancore e che entrambi i popoli sono troppo divisi al loro interno per poter forgiare la pace. Per i cinici, invece, saranno i fondamentalisti di una parte e dell’altra a far saltare anche questo tentativo e a dimostrare che, dopo decenni di fallimenti, la pace in Terra Santa è semplicemente impossibile. Ma c’è un altro modo di vedere le cose. 1. In Terra Santa si sta consumando una tragedia umana e politica estremamente pericolosa per tutti. La mancata soluzione del conflitto e la continuazione dell’occupazione militare israeliana comporta immani sofferenze, la violazione sistematica dei fondamentali diritti umani dei palestinesi e il progressivo deterioramento delle loro condizioni di vita. Riduce lo spazio per il dialogo, la comprensione reciproca e la ricerca di soluzioni negoziate tra i due popoli. Impedisce di risolvere pacificamente il conflitto mediante la creazione di uno stato palestinese accanto a quello israeliano a causa della continua espansione degli insediamenti israeliani. Alimenta la frustrazione, la disperazione, la rabbia e il desiderio di riscatto tra i palestinesi che finiranno con alimentare nuove manifestazioni di violenza. Costringe il popolo israeliano a vivere in una condizione d’insicurezza e di guerra permanente con tanta parte del mondo arabo che comprime i propri spazi di libertà, di sviluppo e di democrazia. Rappresenta un grande ostacolo alla lotta al terrorismo e al fondamentalismo ed è una fonte continua di instabilità e insicurezza internazionale. Frena lo sviluppo del dialogo interreligioso. Limita la nostra libertà e ci impedisce di costruire la pace nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Costringe da decenni l’Europa e la comunità internazionale a spendere inutilmente una enorme quantità di denaro senza ottenere alcun beneficio. Porta inevitabilmente allo scoppio di nuove guerre e atrocità. 2. Continuare a sperare che israeliani e palestinesi possano risolvere il problema da soli è da irresponsabili. Lo squilibrio tra le parti è troppo grande. Sia sul piano militare che economico e politico. Da una parte c’è uno Stato e dall’altra un popolo senza Stato con un’impressionante differenza di mezzi. E tuttavia neanche il più forte tra i due ha la possibilità di sconfiggere definitivamente l’avversario. Per questo è indispensabile l’intervento di un Terzo. Il Terzo (ancora oggi) assente siamo noi: l’Europa, l’Onu, gli Stati Uniti e lo stesso mondo arabo. 3. Serve una politica nuova. Da decenni il mondo intero auspica la pace in Medio Oriente. Da quando nel 1991 a Madrid, dopo la prima Intifada e la prima guerra del Golfo, si è aperta la prima Conferenza Internazionale di Pace sono passati quasi vent’anni. Da allora si calcola che il mondo abbia speso oltre 12trilioni di dollari per promuovere la pace tra israeliani e palestinesi e ancora oggi spendiamo per questo conflitto oltre due miliardi di dollari l’anno. Uno sforzo economico impressionante che, a giudicare dai risultati, è servito a ben poco. Continuare con la politica degli ultimi vent’anni è dunque da irresponsabili. Per fare la pace in Medio Oriente c’è bisogno urgente di una politica nuova e di un inedito impegno. 4. Serve un piano serio per chiudere il conflitto nel più breve tempo possibile. Per chiuderlo e non per continuare a gestirlo. Dopo due decenni di negoziati inconcludenti, la stessa formula della pace “Due Stati per due popoli” è in pericolo a causa della costruzione di sempre nuovi insediamenti israeliani a Gerusalemme e

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in Cisgiordania. Non serve più un processo di pace: serve un piano di pace. La comunità internazionale deve mettere sul tavolo un piano che consideri le ragioni dei due popoli nel rispetto dei diritti umani, della legalità e del diritto internazionale. E deve essere pronta ad esercitare tutte le pressioni necessarie per persuadere le parti a raggiungere l’accordo. 5. La comunità internazionale deve offrire un futuro migliore ad entrambi i popoli. La pace deve essere fondata sull’effettivo riconoscimento reciproco, sul riconoscimento dell’altro, della sua dignità, dei suoi diritti fondamentali. Entrambi i popoli hanno diritto di godere gli stessi diritti e la stessa dignità. Occorre riconoscere il diritto alla sicurezza dello Stato di Israele e il diritto alla sicurezza umana del popolo palestinese. Gli israeliani invocano la difesa del proprio Stato a partire dalla tragedia dell’Olocausto. I palestinesi invocano il diritto di vivere liberi e sicuri in casa propria. Ciascuno deve essere aiutato ad accettare i compromessi necessari. L’Onu, con il deciso sostegno dell’Unione Europea, si deve assumere la responsabilità di garantire la sicurezza sia d’Israele che della Palestina. In questo senso, l’invio di forze di polizia internazionale sul modello Unifil realizzato nel Sud del Libano risponde al bisogno di sicurezza di entrambi i popoli. La comunità internazionale, con un atto simbolico di grande forza, dovrebbe inoltre decidere di trasferire la sede dell’Onu a Gerusalemme trasformando questa città nella capitale della pace e della riconciliazione, una capitale per i due popoli e i due Stati, una capitale aperta a tutte le religioni e a tutti i popoli. La pace tra israeliani e palestinesi dovrà essere di stimolo alla realizzazione di un accordo regionale basato sulle Risoluzioni dell’Onu e sull’Iniziativa di Pace della Lega Araba che includa la pace tra Israele e Siria, la pace tra Israele e Libano e un piano di denuclearizzazione e disarmo del Medio Oriente. 6. L’Europa ha un grande “interesse” a chiudere al più presto questo conflitto per un almeno sette buone ragioni: perché dobbiamo evitare l’esplosione di un’altra guerra che si preannuncia ancora più crudele e selvaggia delle precedenti; perché solo chiudendo questo conflitto sarà possibile cominciare a chiudere anche gli altri che stanno infiammando il Medio Oriente; perché questo è certamente uno dei modi più efficaci per prevenire e combattere il terrorismo internazionale; perché non possiamo permetterci che questo conflitto si estenda nelle nostre città aumentando le tensioni e l’insicurezza in Europa; perché in questa regione stiamo sprecando tanti soldi da troppo tempo senza ottenere un minimo di risultato; perché dobbiamo saldare il grande debito storico che abbiamo nei confronti degli ebrei e dei palestinesi; per coerenza con i valori che abbiamo posto a fondamento delle nostre democrazie: la libertà, la legalità, la fraternità, l’uguaglianza. Per questo

l’Unione Europea deve rafforzare la propria iniziativa politica e darsi una strategia colmando il divario che esiste tra le “dichiarazioni politiche” e la loro implementazione, tra le parole e i fatti. 7. La strategia di pace dell’Europa deve essere una strategia dall’alto e dal basso. L’Europa non deve agire solo negoziando con i leader dei due popoli ma riconoscendo e sostenendo il ruolo prezioso che viene svolto dalla società civile di entrambe le parti. È soprattutto grazie a loro - persone, gruppi, associazioni e amministrazioni locali - che in tutti questi anni non si è mai interrotta l’azione di difesa e promozione dei diritti umani, di ricostruzione della capacità di ascolto reciproco e di dialogo, di promozione della democrazia e della sicurezza umana. Accanto all’iniziativa diplomatica ci deve dunque essere un forte investimento sulla “diplomazia dei popoli e delle città”: progetti, percorsi e iniziative che possono far leva su una fitta rete di collaborazioni tra società civile ed enti locali, israeliani, palestinesi ed europei. 8. L’Italia, che vanta ottime relazioni sia con Israele che con i palestinesi, può fare molto per rafforzare l’iniziativa dell’Europa e degli Stati Uniti. Ma deve cambiare! Deve smettere di essere di parte e assumere un ruolo attivo, propositivo e progettuale. Deve investire risorse economiche e diplomatiche. Deve darsi una politica di cooperazione adeguata. L’Italia può contare sul consenso della stragrande maggioranza dei propri cittadini e sull’impegno fattivo di un’ampia rete di gruppi, associazioni, Enti Locali e Regioni attiva da oltre vent’anni, ricca di relazioni, competenze, progetti ed esperienze di collaborazione con entrambi i popoli. Per questo deve agire come “sistema Paese”. In conclusione. Invece di iscriverci nella lunga lista dei pessimisti e dei cinici, sarebbe meglio che decidessimo di fare la nostra parte. Sino in fondo. Se siamo onesti con noi stessi dobbiamo ammettere con Barack Obama che non stiamo facendo quello che dovremmo fare. Cosa vogliamo essere? Complici della tragedia o costruttori di pace? Dobbiamo fare tutti la nostra scelta. Ora. Prima che la porta si chiuda nuovamente. Il tempo per scongiurare nuovi orrori si è fatto davvero breve.

Situazione attuale e ultimi sviluppi

L’assedio di Gaza

Nel giugno 2007, dopo la vittoria di Hamas nel conflitto interno con Fatah, Israele ed Egitto impongono un “blocco” sulla Striscia, che impedisce di fatto l’importazione e l’esportazione di tutti i beni, oltre che limitare il movimento delle persone. La misura viene criticata in più occasioni dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite, che parlano di “punizione collettiva” per la popolazione palestinese. Nel giugno 2010, a seguito delle pressioni internazionali successive al raid compiuto contro la nave pacifista Mavi Marmara, il gabinetto di sicurezza di Israele approva una nuova disciplina del blocco, che amplia la lista dei beni ammessi nella enclave. Ma le condizioni della popolazione palestinese restano drammatiche: al momento il reddito pro capite di Gaza è fermo al 60% rispetto al dato del ’94 e quasi una metà della popolazione dipende dagli aiuti Onu. Il 2 settembre 2010 a Washington, dopo quasi due anni di interruzione, vengono ripresi i negoziati diretti tra israeliani e palestinesi. Le trattative, fortemente volute dal Presidente statunitense Barack Obama, nascono tra lo scetticismo generale e rischiano di arenarsi subito, di fronte al rifiuto israeliano di “congelare” le colonie nei Territori occupati. Ma a dividere le due parti sono anche altre questioni-chiave, dai confini del futuro Stato palestinese, fino allo status della città contesa di Gerusalemme. Dall’altra parte l’Anp non sembra disposta a riconoscere la definizione di Israele come “Stato ebraico”, che rischierebbe di compromettere i diritti dei palestinesi con cittadinanza israeliana e il “diritto al ritorno” dei profughi del ’48 (e dei loro discendenti). Ciò nonostante i mediatori statunitensi continuano a ostentare ottimismo e pronosticano la creazione di uno Stato palestinese entro la fine del 2011. Intanto, a distanza di quasi quattro anni dallo scontro armato di Gaza tra Fatah e Hamas, le divisioni

Generalità

Nome completo: Stato di Israele Bandiera

ISRAELE PALESTINA

Lingue principali: Ebraico e Arabo Capitale: Tel Aviv Popolazione: 7.240.000 Area: 22.072 Kmq Religioni: Ebraica (75,6%), musulmana (16,6%), cristiana (1,6%), drusa (1,6%), non classificati (3.9%) Moneta: Nuovo Shekel Principali Prodotti high tech, diaesportazioni: manti, prodotti agricoli PIL pro capite: Us 27.300

Generalità

Nome completo: Autorità Nazionale Palestinese Bandiera

Lingue principali: Arabo Capitale: Ramallah Popolazione: 4.150.000 (2007) Area: Dato non disponibile Religioni: Musulmana, cattolica Moneta: Sterlina egiziana, nuovo siclo israeliano, dinaro giordano Principali Dato non disponibile esportazioni: PIL pro capite: Cisgiordania Us 1.500 Striscia di Gaza Us 670

all’interno del fronte palestinese restano immutate. Finora sono falliti tutti i tentativi di ricomporre la frattura tra le due principali formazioni. In particolare, solo il partito di Abu Mazen ha firmato nell’ottobre del 2009 il documento di “riconciliazione” predisposto con la mediazione dell’Egitto, che è stato invece rifiutato da Hamas. I colloqui tra le due parti, tuttavia, vanno avanti. Dall’intesa tra le varie fazioni palestinesi dipende la sorte di alcune questioni cruciali, come la ricostruzione di Gaza e l’organizzazione di nuove elezioni presidenziali e politiche.

Due popoli e due Stati: questa la soluzione al conflitto israelo-palestinese. Questo l’impegno delle diplomazie internazionali. Dal fronte palestinese si richiede il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati nel corso della “Guerra dei Sei giorni” (compresa Gerusalemme Est, che dovrà diventare capitale del futuro Stato palestinese) e il diritto al ritorno per i profughi del ’48. Precondizione posta per ogni trattativa

Quello israelo-palestinese è un conflitto che dura da oltre mezzo secolo, ancora ben lontano dal trovare una soluzione, nonostante i molteplici tentativi compiuti nel tempo dalla diplomazia internazionale. Momento spartiacque è costituito dalla fine del mandato britannico, al termine della seconda guerra mondiale. È allora, con il ricordo ancora vivo dell’Olocausto nazista nell’opinione pubblica internazionale, che gli sforzi del movimento sionista (nato alla fine dell’Ottocento su iniziativa di Theodor Herzl allo scopo di dare una patria al popolo ebraico) hanno successo. Il 29 novembre 1947 una risoluzione dell’Onu accoglie le rivendicazioni del popolo ebraico, assegnandogli il 73% del territorio dell’ex mandato britannico. La decisione viene respinta dai palestinesi e dai paesi arabi. Egitto, Siria, Transgiordania, Libano e Iraq attaccano il nascente Stato ebraico, che però vince la guerra, ampliando il territorio sotto il suo controllo verso la Galilea a Nord e verso il Negev a Sud. Il 14 maggio 1948 nasce ufficialmente lo Stato d’Israele con la “Dichiarazione d’indipendenza” firmata dal primo ministro David Ben-Gurion. Per i palestinesi si tratta della Nakba (catastrofe): in centinaia di migliaia vengono cacciati dalle proprie case o fuggono, cercando riparo in altri Paesi dell’area mediorientale. Ma questa sarà solo il primo di una lunga serie di conflitti. Nel 1956, dopo la nazionalizzazione da parte del Cairo dello stretto di Suez, Israele attacca l’Egitto conquistando Gaza e il Sinai (da cui poi sarà costretto a ritirarsi). Nel maggio del 1967 il Presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, stringe un patto di difesa con la Giordania, che getta le basi per un attacco allo Stato d’Israele. La reazione di Tel Aviv è immediata: nel giugno del 1967 Israele attacca l’Egitto, poi la Giordania. È la ‘Guerra dei Sei giorni’, che segna la dura sconfitta del mondo arabo, culminata con l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, alture del Golan (tutt’oggi sotto il controllo israeliano) e Sinai (in seguito restituito all’Egitto). In seguito ci saranno altre guerre con i Paesi confinanti con Israele: nel 1973 la guerra dello Yom Kippur contro Egitto e Siria e nell’83 con il Libano. Ma è con la “Guerra dei Sei giorni” che la questione israelo-palestinese entra nell’impasse attuale. Nonostante le pressioni internazionali e le numerose risoluzioni dell’Onu, infatti, Israele non si ritirerà mai più dai territori occupati, e comincerà una lenta e costante campagna di è anche lo stop alla costruzione di colonie, che sono illegali dal punto di vista del diritto internazionale e che continuano a mangiare giorno dopo giorno il territorio palestinese. Dall’altra parte lo Stato ebraico, che ufficialmente rivendica il proprio diritto alla “sicurezza”, ma che nei fatti non sembra aver cambiato le finalità del ‘48, ovvero la realizzazione in Palestina della Grande Israele.

colonizzazione che dura tutt’oggi. Nel 1987 lo stallo nel conflitto dà origine a una sollevazione popolare contro l’occupazione israeliana, nota coma Intifada (“rivolta”), che inizia nel campo profughi di Jabaliyya ma si estende presto a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. La rivolta dura sei anni, durante i quali i palestinesi manifestano protestano con ogni mezzo, dalla disobbedienza civile agli scioperi generali, fino al lancio di pietre contro i militari. La guerriglia si interrompe grazie agli Accordi di Oslo del 1993, con la stretta di mano tra il primo ministro israeliano Itzhak Rabin, e Yasser Arafat, storico leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Quest’ultimo, a nome del popolo palestinese, riconosce lo Stato di Israele e a sua volta Tel Aviv riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese (ruolo che dal 1995 spetterà all’Anp, l’Autorità Nazionale Palestinese). Gli accordi di Oslo si riveleranno però fallimentari e la tensione tornerà alta il 28 settembre del 2000, quando l’allora capo dell’opposizione politica israeliana Ariel Sharon fa una provocatoria passeggiata, con mille uomini armati, sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Un gesto simbolico, compiuto in uno dei luoghi più sacri per i musulmani, con cui si rivendicava la città santa di Gerusalemme come capitale di Israele. È l’inizio della “Seconda Intifada”. Dalla Striscia di Gaza, l’anno successivo, comincia il lancio dei razzi ‘Qassam’ contro Israele. Azione questa che nel corso degli anni porterà Israele

Quadro generale

Gerusalemme

Il 7 giugno del 1967, durante la guerra dei Sei Giorni, le truppe israeliane occuparono la parte orientale di Gerusalemme. Spinti dalla forte emozione gli israeliani rimossero le barriere di separazione interposte tra le due parti della città dopo la prima guerra arabo israeliana in modo da creare di fatto un’unica Gerusalemme ebraica. La Knesset approvò una serie di leggi che estesero il diritto e l’amministrazione israeliani su Gerusalemme Est ampliando i confini municipali di Gerusalemme da 38 kmq a 108 kmq e portando la popolazione della città ad un totale di 263mila persone: 197mila ebrei, 55mila musulmani e 11mila cristiani. La risposta della comunità internazionale alle misure espansionistiche di Israele giunse con ben 5 risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (ris. 242, 252, 267, 465 e la 476) nelle quali si chiedeva ad Israele di “astenersi da atti suscettibili di alterare il carattere geografico, demografico e storico di Gerusalemme”.

Marwan Barghouti (Kobar, 6 giugno 1959)

Pur essendo in prigione dal 2002, Marwan Bin Khatib Barghouti viene considerato come una delle figure più influenti della scena politica palestinese. Nato nel ’59 nel villaggio di Kobar, presso Ramallah, a 15 anni già milita nelle fila di Fatah. Ma è solo nel 1987, con lo scoppio della prima intifada, che Barghouti si afferma come uno dei principali leader palestinesi. Quello stesso anno, viene arrestato e deportato in Giordania, dove resta fino alla firma degli Accordi di Oslo, nel ‘93. Nel 1996 viene eletto nel parlamento palestinese e si distingue per le sue campagne contro la corruzione, entrando in contrasto con Yasser Arafat. Con la seconda intifada si accresce la popolarità di Barghouti, che nel frattempo ricopre un ruolo rilevante all’interno delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa, accusate di diversi attacchi compiuti contro Israele. Viene arrestato nell’aprile 2002 a Ramallah e nel 2004 viene condannato a cinque ergastoli. Ma anche dal carcere continua a sostenere la legittimità della resistenza a Israele, pur condannando gli attacchi contro i civili. Barghouti viene indicato da molti come il solo in grado di attrarre i consensi delle diverse anime della società palestinese e ricostituire l’unità.

Colonie Il termine della moratoria israeliana, il 26 settembre 2010, ha riportato l’attenzione sulle colonie ebraiche in Cisgiordania, illegali in base al diritto internazionale, e ha messo a rischio i negoziati appena riavviati. Ma anche durante i dieci mesi di “congelamento” le ruspe israeliane non si sono mai fermate. Il decreto voluto dal primo ministro Benjamin Netanyahu nel novembre 2009 infatti riguardava solo le “nuove costruzioni” e ha sempre escluso Gerusalemme Est. Stando ai dati ufficiali del Governo di Tel Aviv, il calo di costruzioni nei primi mesi del 2010 non ha superato il 10% rispetto all’anno precedente. Nel frattempo Israele ha continuato anche ad annettersi terra palestinese, mediante l’estensione degli insediamenti e sviluppando il tracciato della “barriera di sicurezza”, che ricade all’interno dei Territori occupati. E adesso si attende un vero e proprio boom delle costruzioni. Netanyahu ha annunciato una colonizzazione “al rallentatore”, con non più di 1500 nuove unità abitative per anno. Ma secondo l’ong Peace Now i lavori riguarderanno almeno 13mila nuovi alloggi.

ad intervenire più volte nella Striscia al fine di “indebolire la resistenza palestinese”. Con la motivazione di difendersi dagli attentati kamikaze palestinesi sul proprio territorio, Israele nel 2002 prende la decisione di costruire una “barriera di sicurezza” in Cisgiordania, che di fatto sottrae ulteriore territori ai palestinesi. La costruzione, ribattezzata “muro dell’apartheid”, viene condannata anche dalla Corte internazionale di giustizia. Nel frattempo si rafforzano le tensioni anche all’interno del fronte palestinese, alimentate dalla vittoria a sorpresa di Hamas alle elezioni politiche del gennaio 2006, ai danni di Fatah. Gli scontri armati tra le due principali fazioni palestinesi raggiungono il culmine nel giugno 2007 a Gaza, quando si rischia una vera e propria guerra civile. Hamas ha la meglio, dando vita così a una separazione di fatto dei territori palestinesi, con una Striscia di Gaza controllata dal movimento islamico e una Cisgiordania governata da Fatah. Sempre nel giugno 2007, con lo scopo dichiarato di contrastare Hamas, Egitto e Israele impongono un blocco economico su Gaza, che dura tuttora. Al termine del 2008 Tel Aviv avvia anche una vera e propria campagna militare contro la Striscia, durata 17 giorni e nota come “Operazione Piombo fuso”. Il bilancio finale dei raid israeliani di 1305 morti palestinesi e di 5450 feriti. Intanto, diverse organizzazioni non governative tentano di rompere simbolicamente l’assedio e di portare aiuti alla popolazione palestinese. La spedizione più nota è quella della “Freedom Flotilla”, nel maggio 2010, che viene attaccata dalla marina israeliana e si conclude con la morte di nove attivisti turchi.

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Dopo l’acqua, il petrolio

L’acqua non sembra esser più l’unico bene bramato da Israele! Secondo studi della compagnia statunitense Noble Energy, le acque libanesi che si estendono dalla città di Tripoli nel Nord alla città di Sidone a Sud, con le sue estensioni nelle acque territoriali palestinesi, custodiscono grandi quantità di petrolio e di gas, stimato in più di 8 miliardi di barili (nelle sole acque libanesi). Non appena il segreto petrolifero è diventato di dominio pubblico Israele ha cominciato a sottolineare che tutti i giacimenti scoperti, ed in particolare i campi Tamar e Leviathan scoperti ultimamente nelle acque prospicienti le coste palestinesi, sono esclusivamente di sua proprietà, sebbene le carte nautiche dimostrino che un terzo del Leviathan si trova all’interno delle acque libanesi. Potremmo dire che il Libano vive due vite parallele che purtroppo si concatenano inevitabilmente. Da una parte c’è quella istituzionale propria del Paese e del suo Governo che dopo oltre un anno dalle elezioni legislative, svoltesi il 7 giugno 2009, sembrerebbe essere entrato, sebbene tra molte contraddizioni, in una fase di relativa stabilità. Le consultazioni, le prime dopo la fine della presenza militare siriana (l’esercito di Damasco ha lasciato il Paese nel 2005), hanno confermato la maggioranza filooccidentale “14 marzo” guidato dal “Movimento del Futuro” del sunnita Saad Hariri. All’opposizione, la coalizione filo-iraniana e filo-siriana “8 marzo” formata dai due maggiori partiti sciiti “Amal” ed “Hezbollah” dello sceicco Nasrallah. L’unità nazionale, in un Paese di fazioni religiose, è stata la priorità di Hariri che, l’11 dicembre scorso, ha creato un Governo di unità nazionale composto da 30 ministeri. Seppur relativa, la stabilità del Governo ha apportato notevoli benefici anche all’economia. Nel 2008 il Libano è stato uno dei 7 Paesi al mondo con la Borsa in espansione (del 51%), poi, nel 2009 ha fatto il record di presenze turistiche degli ultimi trent’anni e ha prodotto un incremento del Pil del 7%. Sembrerebbe tutto andare per il meglio, ma qui subentra la “seconda vita” di cui si parlava. È quella condizionata dai cosiddetti “agenti esterni”, come Iran, Siria e Israele. Agenti che prendono il Libano come mero pretesto per imporre la propria autorità nell’area portando l’instabilità nel Paese dei Cedri “dall’esterno”. Lo fa Teheran foraggiando e fomentando Hezbollah contro le forze sunnite libanesi. Benché dal 7 maggio 2008 la situazione a Beirut sembrava essersi stabilizzata, il 24 agosto scorso uno scontro a fuoco tra Hezbollah e un gruppo sunnita ha causato la morte di almeno tre persone ed il ferimento di altre 10. Benché considerato “estemporaneo”, lo scontro mantiene alta la tensione. Lo fa Israele proseguendo la sua pressione sul confine Sud, dove sono dislocate ancora le forze Unifil, creando

Generalità

Nome completo: Repubblica Libanese Bandiera

Lingue principali: Arabo, francese Capitale: Beirut Popolazione: 4.000.000 Area: 10.452 Kmq Religioni: Musulmana (sunnita, sciita), cristiana Moneta: Lira libanese Principali Gioielli, apparecchiaesportazioni: ture elettriche, prodotti metallurgici, chimici, alimentari PIL pro capite: Us 6.681

situazioni di tensione, alle volte veramente inutili: è il caso dello scontro avvenuto lo scorso 3 agosto lungo la “linea blu” di demarcazione fra i due Paesi. Il motivo? Lo sradicamento di un albero. Secondo Beirut l’albero era in territorio libanese, per Tel Aviv si trovava in territorio israeliano. Resta il fatto che un albero non può giustificare la morte dei tre soldati libanesi e del soldato israeliano, tante le vittime dello scontro. Quel che bisogna capire è quale delle “due vite” prevarrà e segnerà il destino del Libano.

La presenza di basi operative della resistenza palestinese ha fatto da sempre del Libano uno degli obiettivi di Israele. Le tensioni tra i due Paesi sono poi costantemente cresciute a causa della contrapposizione tra Israele e il movimento sciita degli Hezbollah, che ha stabilito nel Sud del Paese le sue basi operative. Secondo Israele è l’Iran, che non ha mai riconosciuto l’esistenza dello Stato israeliano, a sostenere economicamente il movimento di Hezbollah fiancheggiato anche dal Governo siriano, in conflitto con Israele per la sovranità sulle Alture del Golan. Effettivamente la situazione nell’area sembra essere ora più che mai soggetta agli sviluppi politici tra l’Iran sciita e l’Occidente. Una siCon la dissoluzione dell’Impero Ottomano, la Società delle Nazioni affidò alla Francia il controllo della Grande Siria, incluse le cinque Province che oggi formano il Libano. La Conferenza di Sanremo, dell’aprile del 1920, ne definirà i compiti ed i limiti. Benché la ratifica di questo passaggio di consegna avverrà solo tre anni dopo, già nel 1920 la Francia dichiarò lo Stato del Grande Libano indipendente. Uno Stato composto da vari enclavi etnici: uno in Siria con una grande comunità in maggioranza cristiano maronita e l’altro a maggioranza musulmana e drusa con capitale Beirut. Solo 6 anni dopo il Libano diventerà una Repubblica, definitivamente separata dalla Siria, anche se ancora sotto il comune mandato francese. Nel 1943 il Governo libanese abolirà il mandato francese dichiarando la propria indipendenza. Bisognerà aspettare la fine della seconda guerra mondiale per assistere al ritiro definitivo delle truppe francesi dal nuovo Stato indipendente. Nel 1948, dopo la risoluzione dell’Onu 181 con la quale si “ripartiva” il territorio palestinese in seguito alla nascita dello Stato ebraico, anche il Libano aderì alla guerra della Lega Araba contro Israele non invadendo però mai il neonato Stato. Dopo la sconfitta araba, Israele e Libano sti-

tuazione di stallo che però potrebbe tramutarsi in un conflitto nell’intera area mediorientale, come ha anche minacciosamente preannunciato il Presidente iraniano Ahmadinejad con un una telefonata lo scorso febbraio al Presidente siriano Assad. Il Presidente iraniano avrebbe detto che “qualora il regime sionista ripeterà i suoi errori e darà inizio a un’operazione militare, gli stati regionali devono essere uniti nel respingerlo con forza e nell’eliminarlo una volta per tutte”; egli avrebbe aggiunto che l’Iran “resterà al fianco dei Paesi della regione, compresi la Siria, il Libano e la Palestina”. Dichiarazioni “propagandistiche” che rafforzano e rassicurano Hezbollah e che meritano di non essere sottovalutate. pularono un armistizio ma, a tutt’oggi, mai un trattato di pace. Conseguenza di questa guerra, furono 100mila profughi palestinesi ai quali se ne aggiunsero altri dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967. Profughi che decenni più tardi saranno la causa, secondo il Governo israeliano, dell’invasione del Libano. L’operazione militare “Pace in Galilea” parte il 6 giugno del 1982 ed è

Tribunale Speciale per il Libano (Tsl)

Dopo l’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, avvenuta 14 febbraio 2005, le Nazioni Unite hanno deciso di formare un tribunale speciale per far luce sull’assassinio. All’Aja, dal marzo del 2009, il Tribunale speciale per il Libano presieduto dal giurista italiano Antonio Cassese, è al lavoro per trovare entro cinque anni i responsabili dell’assassinio. Molti i dubbi, anche tra autorevoli esperti di geopolitica, sul vero fine del Tribunale visto che per altri assassinii eccellenti (ad esempi: John Kennedy, Olof Palme, Aldo Moro, la Signora Bhutto) l’Onu non hanno mai pensato di istituire una commissione di inchiesta internazionale. Il rischio reale è che il Tribunale, con la sua sentenza, diventi un mero mezzo politico ed ago della bilancia negli equilibri

del Paese dei Cedri.

Quadro generale

Michel Suleiman (Amchit, 21 novembre 1948)

Michel Suleiman, classe 1948, è dal 25 maggio 2008 il Presidente del Libano. Dodicesimo Presidente dall’indipendenza nel 1943, e il terzo dopo la fine della guerra civile nel 1990. Una carica apparentemente normale ma in un Paese come il Libano essere Presidente e per di più cristiano maronita ha un significato ed un peso ben specifico. Per raggiungere infatti un “Governo nazionale” in una realtà politico-sociale divisa dalle religioni, il credo di una figura come Suleiman risulta strategica. Ex Capo di Stato Maggiore dell’esercito, Suleiman ha sempre dimostrato la sua imparzialità se finalizzata al bene del Paese. Sotto la sua guida l’esercito è rimasto unito e neutrale durante le tensioni seguite all’uccisione dell’ex primo ministro Rafik Hariri. Suleiman non è intervenuto durante le manifestazioni antisiriane che hanno portato al ritiro delle truppe di Damasco, né ha contestato il ruolo di Hezbollah durante la guerra con Israele nel 2006. Soprattutto è rimasto neutrale nella contrapposizione interna tra filoccidentali e filo siriani. La sua elezione ha permesso il dialogo tra le parti e la creazione di un Governo di unità nazionale.

Fare la pace conviene… economicamente Troppo spesso si pensa che la guerra sia il più grande business. Quale effetto economico avrebbe invece potuto avere la pace sull’intero Medio Oriente, dall’Egitto, passando per Israele e Libano, fino ad arrivare in Turchia? Quale effetto abbia avuto la situazione contraria, ovvero la guerra, lo ha calcolato lo Strategic Foresight Group, un istituto di ricerca con sede in India: il costo del conflitto in Medio Oriente tra il 1991 e il 2010 ammonta a circa 12trilioni di dollari. Se nello stesso periodo ci fosse stata la pace, il solo Libano avrebbe oggi 100 miliardi in più in cassa ed un Pil medio pro capite di 11mila dollari invece che di 5600. A conti fatti la pace sembra essere un business ben più redditizio!

finalizzata a sradicare dal Sud del Libano la presenza armata palestinese. In realtà, quella che si può chiamare prima guerra israelo-libanese, arrivò fino a Beirut dove aveva sede l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Per impedire la prosecuzione di spargimento di sangue, intervenne la diplomazia internazionale che sgomberò la dirigenza dell’Olp (rifugiatasi a Tunisi) e riversò nei Paesi limitrofi molte unità armate palestinesi. Una situazione che lasciò la popolazione civile nei campi profughi priva di alcuna protezione. Questo porterà al drammatico massacro nei campi-profughi di Sabra e Shatila, da unità cristiane guidate da Elie Hobeika, lasciate agire dalle truppe israeliane, comandate da Ariel Sharon, di stanzia nell’area coinvolta. Negli anni a seguire, il Libano dovrà affrontare i delicati equilibri interni tra le diverse etnie. Sicuramente una di queste realtà, gli Hezbollah, musulmani sciiti vicini a Damasco e Teheran, cambieranno, anni dopo, le sorti del Libano. È il 12 luglio del 2006 quando miliziani di Hezbollah attaccano una pattuglia dell’esercito israeliano nel Sud del Libano uccidendo tre soldati e rapendone due. Israele reagisce con la forza, avviando un’offensiva contro il Libano per “neutralizzare l’apparato militare di Hezbollah”. Al massiccio attacco aereo non corrisponderà però quello di terra che porterà l’esercito israeliano, dopo un mese, ad un avanzamento di pochi chilometri. La resistenza di Hezbollah, infatti, dimostrerà la propria efficacia, contrattaccando il territorio israeliano con lanci di migliaia di missili. L’11 agosto, un mese dopo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite interverrà con una risoluzione (la 1701), che troverà il voto unanime dei Paesi membri, chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità tra le parti, il ritiro di Israele dal Libano meridionale e l’interposizione delle truppe regolari libanesi e dell’Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) in una zona cuscinetto “libera - come si legge - da ogni personale armato che non sia quello delle Nazioni Unite e delle forze armate regolari libanesi”. Sul fronte interno intanto si riaccende lo scontro religioso. Per quindici anni, fino al 1990, Beirut aveva assistito allo scontro tra musulmani e cristiani. Dal maggio del 2008 lo scontro è tra sunniti e sciiti. Da una parte l’opposizione sciita di Hezbollah, dall’altra la maggioranza sunnita del premier Haririr. Il 7 maggio, con la decisione del Governo del premier sunnita Fuad Siniora, di considerare “illegale” la rete telefonica alternativa di Hezbollah nel Sud del Paese e nella periferia meridionale di Beirut (sua tradizionale roccaforte), la situazione precipita. Alla fine dei violenti scontri, il bilancio sarà di almeno 61 morti e 198 feriti.

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Se la pace corre via web

Se lo stato di guerra tra Siria e Israele impedisce ai cittadini dei due Paesi di incontrarsi di persona, ora la riconciliazione potrebbe passare via web. Onemideast. org è un sito che riunisce blogger, giornalisti e accademici siriani e israeliani che vogliono trovare un modo per superare l’impasse che ha bloccato i negoziati di pace. Internet si conferma così uno spazio unico nel suo genere per il potenziale confronto tra società civili, con la speranza che laddove ha fallito la diplomazia possa nascere un dialogo costruttivo. In homepage vengono proposte due liste di “Venti obiezioni alla pace”, di cui una stilata dal punto di vista israeliano e l’altra da quello siriano. Accanto ad ogni annotazione c’è uno spazio in cui la controparte può inserire le sue osservazioni.

UNHCR / J. Wreford Il 4 febbraio il Primo Ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, si è detto pronto ad accettare una mediazione per permettere un rilancio delle trattative con la Siria, congelate da oltre un anno. Sarà “pace o guerra totale”, aveva minacciato il giorno precedente il ministro degli Esteri siriano Walid Mouallem. In effetti, gli ultimi sviluppi, sembrano dimostrare che la risoluzione dei conflitti che animano questa regione debba passare proprio per Damasco. Dopo la battuta d’arresto subita dai negoziati bilaterali avviati nel maggio del 2008 con la mediazione della Turchia a causa dell’imponente offensiva militare condotta da Tel Aviv nella Striscia di Gaza, il giovane ra’is siriano Bashar al-Assad è uscito rafforzato dall’isolamento vissuto durante l’era Bush, quando il suo Paese figurava nell’asse del “male”. Nel frattempo gli equilibri internazionali sono decisamente ruotati a favore di Damasco e oggi l’erede della famiglia Assad ha più di un asso in mano: dal suo ruolo nel conflitto israelo-palestinese all’arma dei rifugiati iracheni, dall’influenza sulla politica interna libanese a quella che potrebbe esercitare sul dossier iraniano. E il fine, che è quello di essere il cardine dei futuri assetti politici della regione, giustifica i mezzi: tenere aperte tutte le opzioni, dagli Stati Uniti all’Unione Europea, dall’Iran ai Paesi vicini, Turchia e Arabia Saudita in primis. È per questo che ora Israele vede il suo vicino con uno sguardo diverso. Innanzitutto un processo di pace potrebbe portare la Siria ad allontanarsi dall’Iran, con inevitabili ripercussioni anche nei rapporti con Hezbollah e Hamas, alleati tradizionali di Damasco e Teheran nella grande partita mediorientale. Rispetto al passato, Israele ritiene infatti che sia il regime degli Ayatollah il vero pericolo per la sua sopravvivenza nella regione e molti analisti si dicono convinti che l’avvio di nuovi negoziati tra Siria e Israele contribuirebbe a smorzare le tensioni nell’inquieta regione mediorientale, senza contare che in un contesto di pace Damasco potrebbe diventare meno di-

SIRIA ISRAELE

Generalità

Nome completo: Repubblica araba di Siria Bandiera

Lingue principali: Arabo, Curdo, Armeno, Aramaico e Francese Capitale: Damasco Popolazione: 20.178.485 (più 40 mila persone residenti nella parte delle alture del Golan occupate da Israele) Area: 185.180 Kmq Religioni: Islamica (90%, di cui 74% sunniti e 16% altre confessioni), cristiana (10%) Moneta: Lira siriana Principali Petrolio, prodotti petroesportazioni: liferi, minerali, frutta e verdura, cotone, tessili, carne e grano PIL pro capite: Us 5.000

pendente dall’Iran. Qualora infatti si riuscisse a coinvolgere la Siria in un dialogo proficuo e privo di tensioni con Tel Aviv, anche la ricerca di soluzioni della questione israelo-palestinese e della crisi irachena otterrebbe nuovo vigore.

La storia dei negoziati tra Damasco e Tel Aviv è caratterizzata fin dal 1967 da una serie di opportunità di pace mancate, principalmente per ragioni territoriali e strategiche. La questione delle Alture del Golan (in arabo Hadbat AlJawlan e in ebraico Ramat ha-Golan) resta infatti il principale ostacolo nel processo di pace tra i due Paesi, rappresentando ancora oggi un territorio ‘sospeso’ tra Israele, Siria e Libano. Contrafforte meridionale della catena montuosa dell’Antilibano, questo altopiano di formazione vulcanica e ricoperto di rocce basaltiche si estende per poco meno di 1800 chilometri quadrati. Nonostante le sue ridotte dimensioni, topografia e posizione geografica gli conferiscono un alto valore strategico, partendo dalle vette del monte Ash-Shaykh/Hermon (2814 m.), punto di osservazione privilegiato della regione per controllare entrambi i versanti. I rilievi dell’altipiano dominano a Nord-Ovest la valle della Hula e a Sud-Ovest la piana del lago di Tiberiade, mentre a Est controllano la pianura che scende fino a Damasco, distante appena Un lembo di terra stretto tra pendii e sassi che in soli sei giorni è diventato uno dei teatri più importanti della grande partita mediorientale. Nel giugno del 1967, durante quella che fu poi chiamata la “Guerra dei sei giorni”, le forze armate israeliane occuparono vaste porzioni di territorio appartenenti ai Paesi arabi confinanti, tra cui le Alture del Golan strappate alla Siria. Ricche di risorse idriche e situate in una posizione dall’alto valore strategico, anche nel più antico passato le alture hanno rappresentato per le popolazioni dell’area l’ultimo baluardo difensivo contro l’avanzata cristiana. Nonostante il silenzio delle armi degli ultimi

sessanta chilometri. Ma l’importanza strategica del Golan non è data solo dalla sua posizione geografica e dalla sua conformazione naturale, ma soprattutto dalla presenza di falde acquifere e di piccoli e medi corsi d’acqua che dalla linea di cresta scendono verso Ovest a bagnare la piana della Hula e a ingrossare il Giordano: i piccoli torrenti Gilbon, Zavitan, Yahudiyya, Daliyot, Mehushim, Samakh, e Roqad e i fiumi Dan (245 mmc/a), Baniyas (121 mmc/a) e Yarmuk (450 mmc/a). Questa ricchezza di risorse idriche fanno delle Alture un vero e proprio serbatoio, i cui rubinetti sono oggi fermamente in mano israeliana. Damasco rivendica la propria sovranità sulla sorgente del fiume Baniyas, così come sul tratto finale dello Yarmuk (entrambi affluenti del Giordano) e sugli altri piccoli torrenti che attraversano l’altopiano da Est ad Ovest. La Siria ha inoltre espresso le sue velleità di controllo della riva orientale del lago di Tiberiade che per Israele, assieme al Giordano, rappresenta oggi un terzo delle risorse idriche dell’intero Stato ebraico. decenni, fili spinati, trincee, bunker e campi minati continuano a essere la testimonianza di una contesa che supera la dimensione territoriale per diventare il simbolo di una guerra infinita tra Israele e i suoi vicini. Il primo vero scontro tra Damasco e Tel Aviv risale al primo conflitto arabo-israeliano del 1948-49, quando la disfatta del male addestrato esercito siriano fu limitata proprio grazie alla barriera naturale rappresentata dall’altopiano. Dopo la firma dell’armistizio (siglato il 20 luglio 1949) e per i successivi vent’anni, Damasco rimane comunque in posizione di superiorità rispetto alle nuove colonie israeliane costruite proprio

L’acqua che manca alla Siria

Il 7 settembre, Olivier de Schutter, inviato speciale delle Nazioni Unite per il diritto al cibo, ha concluso la sua missione in Siria, svelando una tragedia silenziosa, ma che sta affliggendo oltre 1,3milioni di persone, colpite da una siccità che dura da quattro anni. Due e forse anche tre milioni di siriani sarebbero precipitati in una condizione di “estrema povertà”. A giugno la Fao aveva annunciato che l’emergenza sembrava conclusa con l’arrivo delle piogge, ma le precipitazioni sono state ingenerose, i raccolti insufficienti e i capi di bestiame decimati. E le risorse idriche, già scarse, sembrano essere state colpite in modo permanente. Schutter ha inoltre sottolineato che il Syrian drought appeal non ha ricevuto abbastanza denaro e che questi tipi di aiuto sono “politicizzati”, con il risultato che l’Onu ha ricevuto solo il 34% del totale dei

fondi richiesti.

UNHCR / L. Boldrini

Quadro generale

Robert Stephen Ford

Il corteggiamento dell’amministrazione guidata da Barack Obama alla Siria ha raggiunto il suo apice con la nomina del nuovo ambasciatore, Robert Ford, che dovrebbe colmare il vuoto creatosi nel 2005 in segno di protesta contro il presunto coinvolgimento di Damasco nell’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri. Ma a sei mesi dall’annuncio alcuni senatori americani sembrano ancora titubanti nell’avallare la nuova politica mediorientale inaugurata dal nuovo inquilino della Casa Bianca, quanto meno per quanto riguarda la Siria. Parla arabo, vanta una carriera di 25 anni in Medio Oriente ed è stato anche nel ‘pantano iracheno’ fino al 2006. La normalizzazione dei rapporti diplomatici tra i due Paesi non risolve immediatamente le grandi questioni che dividono l’America e la Siria, ma potrebbe segnare l’inizio di un nuovo approccio di Washington nei confronti di Damasco. Se il Senato statunitense dovesse pronunciare il tanto atteso ‘sì’, Ford avrebbe l’arduo compito di provare a sfilacciare l’alleanza storica che lega la Siria all’Iran, fissando il ‘prezzo’ per la definitiva transizione di Damasco. Ma il futuro ambasciatore sembra aver tutte le carte in regola per affrontare quest’ardua missione.

UNHCR

Le mele della concordia Questa primavera le mele coltivate sulle Alture del Golan hanno preso la via della Siria. In conformità con le direttive del Governo israeliano e la richiesta della Croce Rossa Internazionale, per sette settimane consecutive, più di 30 camion, con un carico di circa 10mila tonnellate di frutta, hanno attraversato uno dei confini più contesi del mondo, sotto gli occhi vigili dell’esercito di Tel Aviv e dei soldati delle Nazioni Unite. Scortate sui mezzi della Croce Rossa, le mele sono giunte a Damasco attraverso il passaggio della città fantasma di Kuneitra, con la benedizione dei ministri degli Esteri dei due Paesi. Al di là del valore simbolico di questa operazione, la vendita della frutta coltivata sulle Alture rappresenta ancora una delle poche forme di sostentamento degli oltre 18mila Drusi che popolano l’altopiano.

al di sotto dei pendii occidentali delle alture e della riva orientale del lago di Tiberiade. Tutto cambia nel giugno del 1967, una data che rappresenta uno vero e proprio spartiacque nella storia mediorientale. La “Guerra dei sei giorni” inizia con il massiccio attacco lanciato il 6 ottobre dalle truppe siriane che colgono di sorpresa l’esercito isriaeliano. Grazie al cessate il fuoco imposto dall’allora segretario di Stato americano Henry Kissinger, Israele recupera terreno fino a sfiorare il cuore del Paese, arrestando i suoi uomini ad appena quaranta chilometri da Damasco. All’armistizio del 25 ottobre segue una lunga guerra d’attrito che si protrae fino al 31 maggio del 1974, quando entra in vigore un nuovo cessate il fuoco sulla stessa linea del 1967. Israele mantiene le posizioni, mentre la Siria recupera un quarto del territorio occupato da Tel Aviv, più alcune zone simbolicamente importanti come la cittadina di Kuneitra. Tra i due belligeranti viene istituita una fascia di sicurezza affidata al pieno controllo dei caschi blu dell’Onu, presente con la missione Undof (United nations disengagement observe force). Cinque più tardi, il 14 dicembre 1981, la Knesset israeliana approva la legge con cui le Alture del Golan da “zona militare di guerra” diventavano parte integrante dello Stato ebraico. Lungi dal riconoscere quest’annessione, ancora oggi la posizione siriana resta più o meno ancorata alle rivendicazioni espresse alla fine degli anni Settanta: un accordo di pace sotto la condizione di un completo ritiro di Israele dall’altopiano. Da parte sua Israele considera la sua presenza sul Golan vitale per la propria sicurezza nazionale e postpone un eventuale ritiro in cambio di precise garanzie da parte siriana e internazionale, che vanno dalla completa smilitarizzazione del territorio compreso tra le Alture e i sobborghi di Damasco alla riduzione su scala globale delle forze armate siriane, fino alla creazione di una forza d’interposizione internazionale dotata di reali poteri dissuasivi e di metodi di risposta concreti in caso di aggressione. Al di là delle dichiarazioni formali, sul piatto delle trattative continua a esserci la gestione delle risorse idriche e la presenza di stazioni radar israeliane sul monte Ash-Shaykh/Hermon.

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