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Un strano continente menico di se stesso Amedeo Ricucci
Europa
Amedeo Ricucci Uno strano continente nemico di se stesso
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Sarà pure un paradosso ma l’Europa è molto spesso la peggior nemica di se stessa. Come se non bastassero infatti gli egoismi, lo sciovinismo e le rivalità fra gli Stati membri - che di fatto ne indeboliscono le proiezioni sulla scena politica internazionale - anche il processo di costruzione della “casa comune” procede fra troppi scossoni e contraddizioni, senza che riesca ad emergere un progetto di Unione chiaro e condiviso. Certo, va riconosciuto agli Stati nazionali del XX secolo di aver vissuto in pace fra loro per un lungo periodo, dopo il 1945 e due guerre mondiali. Ma è anche vero che questa pace si è accompagnata ad una netta divisione fra Est ed Ovest del continente, con la guerra fredda fra questi due mondi contrapposti: il mondo del capitalismo e quello del socialismo. Crollato il mondo del socialismo e ritrovata l’unità del continente, sono ricominciati i conflitti e le guerre, da quelle nella ex-Iugoslavia a quelle nel Caucaso. In questo contesto, ha fatto molto discutere la sentenza con cui il 22 luglio 2010 la Corte Internazionale dell’Aja ha riconosciuto in pratica l’indipendenza del Kosovo, che si era auto-proclamato Repubblica nel febbraio 2008, nonostante la decisa opposizione della Serbia, appoggiata dalla Russia. Il motivo delle polemiche è presto detto. Stabilendo che nessuna legge proibiva questa dichiarazione unilaterale di sovranità nazionale - ergo,legittimandola - il massimo organo giudiziario dell’Onu ha ridato fiato ai diversi micro-nazionalismi sparsi per l’Europa, creando un precedente pericoloso, che potrebbe determinare un effetto domino. È il caso ad esempio di Cipro, dove la comunità turca potrebbe impugnare proprio questa sentenza per chiedere il riconoscimento della Repubblica Turca di Cipro del Nord, anch’essa auto-proclamata dopo l’intervento militare di Ankara nell’isola, nel lontano 1974. Ma è una sentenza che potrebbe avere riflessi anche su Catalogna, Corsica e nei Paesi Baschi, per non parlare di Abkazia e Ossezia del Sud, nonchè a catena in tutte le realtà regionali in cui da tempo soffia il vento dell’indipendentismo, sia pure a fasi alterne. Eppure, nella vicenda del Kosovo la Ue non è stata in grado di trovare una posizione unitaria né tanto meno è stata in grado di frenare la pronta ed entusiastica adesione degli Usa alle ambizioni kosovare - fin dai tempi dell’intervento militare della Nato, nel 1999 - e questo pur trattandosi di una questione tutta interna all’Europa. D’altronde, non bisogna dimenticare che alcuni paesi europei, Germania in testa, vanno ritenuti in un certo senso corresponsabili nel processo di disgregazione violenta della exIugoslavia, nella prima metà degli anni ’90, per avere riconosciuto troppo in fretta e troppo alla leggera il distacco e l’indipendenza di Slovenia e Croazia, da cui presero il via le drammatiche guerre balcaniche di fine secolo. Insomma, l’Europa è un soggetto politico ancora debole, che spesso e volentieri non riesce a scegliere e a decidere sui conflitti in corso, perché paralizzata dagli interessi contrapposti dei suoi stati-membri più forti. E di conseguenza, la Ue si ritrova a non avere le idee chiare su quello che vuole essere e su come vuole preservare l’identità dell’Unione e degli Stati membri. Chiarissima è invece la posizione della Russia, che della Ue resta un interlocutore privilegiato e che nella vicenda del Kosovo ha sempre avuto una sola voce, di netto rifiuto rispetto alle pretese indipendentiste. La Russia d’altra parte è una Repubblica federale e come tale - visto anche la delicata situazione in Cecenia - non poteva esprimersi diversamente; salvo poi appoggiare senza riserve la dichiarazione di indipendenza di Abkazia e Ossezia del Sud, con
motivazioni del tutto opposte. Ma la realpolitik è fatta anche di queste (apparenti) contraddizioni, che rientrano a pieno titolo nella strategia di una grande potenza. Altrettanto chiara è la posizione del Cremlino sugli altri dossier critici del suo confronto con l’Europa: l’allargamento della Nato ad Est e la guerra del gas. Entrambe le questioni vanno inquadrate nell’aspro confronto che va avanti da ormai un decennio per la conquista dello spazio geo-politico dell’Europa dell’Est che apparteneva al blocco comunista. Mosca continua a ritenere quest’area come facente parte del suo “tradizionale spazio di influenza”. E per questo si oppone, o quantomeno cerca di contrastare l’allargamento della Nato a questi Paesi, Ucraina in testa. Per l’Europa invece lo spazio ad Est del Danubio è stato, dopo la dissoluzione dell’Urss nel 1991, un enorme mercato che si apriva e da conquistare. L’allargamento della Nato ad Est si inserisce in questa strategia più vasta di espansione commerciale, industriale e finanziaria, oltre che nel tentativo di contenere la potenza militare di Mosca, che resta ancora oggi ragguardevole e può rappresentare, almeno potenzialmente, un pericolo. Anche le polemiche del 2008-2009 sulla ventilata installazione di nuovi sistemi missilistici della Nato sul territorio della Repubblica ceca - decisione poi rientrata - va letta come un episodio di questa guerra fredda. Così come vi rientra la guerra del gas che Mosca combatte ormai da qualche anno con Ucraina, Bielorussia, Georgia ed altre ex-repubbliche sovietiche, mentre la Ue cerca faticosamente di far da paciere. Il contenzioso in realtà è complesso. Il Cremlino infatti sa bene di avere il coltello dalla parte del manico visto che tutta l’Europa, sia quella occidentale che quella orientale, dipende dalle forniture energetiche che vengono dalla Siberia. Può perciò permettersi di usare il gas metano (ed il petrolio) come un’arma micidiale, ordinando alla Gazprom - il colosso russo dell’energia - di aprire o chiudere il rubinetto a seconda delle convenienze politiche del momento. A farne le spese sono soprattutto gli expaesi satelliti, la cui dipendenza energetica è schiacciante e che ai tempi dell’Urss pagavano un prezzo “politico”, molto basso, che Mosca non è più disposta ad accordare. L’ultima guerra del gas ha coinvolto la Bielorussia, nel giugno 2010, quando la mancata adesione di Minsk all’unione doganale con Russia e Kazakhstan ha spinto il Cremlino a chiudere di colpo e senza preavviso i rubinetti del gas metano, col pretesto di un debito non onorato. Immediato c’è stato poi l’effetto a catena, perché a restare senza gas è stata anche la Lituania, mentre Polonia e Germania sono state “salvate” solo grazie all’attivazione di forniture alternative, sempre russe. Il problema vero, infatti, è che le guerre del gas fanno sempre più di una vittima, visto che i Paesi di transito dei gasdotti sono tanti
e quindi le ritorsioni contro un Paese finiscono per avere ripercussioni anche sugli altri. Da ciò l’interesse e le paure della Ue, che segue questo dossier con molta attenzione, pur sapendo che l’unico modo di sottrarsi a queste guerre del gas è diversificare quanto più possibile le fonti di approvvigionamento, in modo da ridurre la propria dipendenza da un solo fornitore. Per finire, non è ancora una guerra ma rischia di diventarla quella che alcuni stati hanno deciso di lanciare contro l’immigrazione clandestina, in nome di un’idea dell’Europa più simile ad una “fortezza” che ad uno spazio di libertà e democrazia. Gli ultimi a farne le spese sono stati i rom, nell’estate 2010: il Governo francese ha deciso infatti di rispedirli a casa, in Romania e Bulgaria, in barba al principio della libera circolazione dei cittadini che pure vige nei paesi della Ue. Politiche analoghe, soprattutto nei confronti dei migranti che vengono dal Sud del mondo - percepiti come una “minaccia” per l’ordine pubblico - sono state adottate da altri stati membri dell’Unione Europea. Non sarà una guerra ma è certamente una vergogna.
La zona della Russia indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione della Cecenia a cui questa scheda è dedicata.
Situazione attuale e ultimi sviluppi Chi ha ucciso Anna?
A giugno del 2010 la Corte Suprema russa, accogliendo una richiesta avanzata dalla Procura di Mosca, ha annullato la sentenza di assoluzione per le tre persone accusate dell’omicidio della giornalista Anna Politkovskaia, uccisa nell’ottobre del 2006. Il processo dunque dovrà essere riaperto, con una nuova istruttoria. Qualche mese prima, in febbraio, una corte militare integrata da giudici popolari aveva infatti assolto l’ex dirigente della polizia moscovita Serghei Khadzhikurbanov, accusato di essere l’organizzatore del delitto - per conto di un mandante non ancora identificato - ed i fratelli ceceni Dzhabrail e Ibragim Makhmudov, che avevano pedinato la giornalista fino alla sua abitazione, dove poi era stata uccisa. La decisione della giuria aveva provocato lo sdegno e la delusione sia dei familiari che dei colleghi della Politkovskaja, famosa per le sue critiche aperte all’allora presidente Vladimir Putin e per le sue denunce della violazione dei diritti umani in Cecenia. Anche la sentenza di primo grado, comunque, nonostante la condanna dei tre imputati, era stata criticata: netta infatti era stata l’impressione che i tre condannati fossero solo “pesci piccoli”, in una rete di responsabilità ben più pesanti ed altolocate. La speranza è che il nuovo processo riesca ad aprire una breccia nel muro di omertà che circonda il caso. Dodici ribelli islamici e sei poliziotti sono rimasti uccisi il 29 agosto 2010 nel corso di un attacco armato nel villaggio natale del Presidente ceceno Ramzan Kadyrov, che era in visita alla sua famiglia. Due mesi prima, il 30 giugno, un kamikaze si era fatto esplodere a Grozny, all’entrata di un parco dov’era in corso un concerto cui assisteva il presidente Kadyrov. Il 5 febbraio, invece, cinque militari erano rimasti uccisi sulle montagne a Sud di Grozny, vittime di un’imboscata. I tre episodi sono emblematici dell’instabilità che ancora oggi regna in Cecenia, a più di un anno di distanza dalla fine del Regime Speciale Anti-terrorismo (Kto), proclamata in pompa magna dal Cremlino il 16 aprile 2009, e con cui si era ufficialmente chiusa l’ultima campagna militare russa in quella che, per storia, cultura e religione, è senza dubbio la più indomita e la più problematica - a livello di sicurezza - fra le repubbliche e le entità statali caucasiche. In realtà, diversi sono i segnali che lasciano pensare ad una recrudescenza del fenomeno terroristico in Cecenia, anche se la sua matrice si fa più confusa e denota una carica sempre meno nazionalistica. Più preoccupante ancora, per il Governo di Mosca, è l’estensione ormai innegabile di questo fenomeno all’intero Caucaso settentrionale. Lo dimostra l’attentato kamikaze che il 9 settembre 2010 ha fatto sedici morti in un mercato di Vladikavkaz, la capitale dell’Ossezia del Nord. E lo conferma la lunga scia di attentati, uccisioni e sequestri registrati negli ultimi due anni sia in Inguscezia che in Dagestan, le altre due Repubbliche contagiate da questa guerra a bassa intensità. Il Cremlino ha dimostrato di voler reagire, creando nella primavera del 2010 un nuovo distretto federale per il Caucaso del Nord e affidandone l’amministrazione a un giovane funzionario civile, Alexandre Khloponine, già governatore della regione di Krasnoyark. La speranza di Mosca è che Khloponine riesca ad imprimere un nuovo slancio economico alla regione, rimuovendo
Generalità
Nome completo: Repubblica Cecena Bandiera
Lingue principali: Russo, Ceceno Capitale: Groznyj Popolazione: 1.103.686 Area: 15.500 Kmq Religioni: Musulmana sunnita Moneta: Rublo, nahar Principali Petrolio esportazioni: PIL pro capite: n.d.
così alla radice le cause - prima fra tutte: la corruzione - che generano il malcontento popolare e rallentano la lotta al terrorismo. Nato in Cecenia e poi sviluppatosi nelle altre repubbliche caucasiche, il terrorismo islamico ha comunque più volte dimostrato di poter tranquillamente allungare la sua mano fino a Mosca. Lo dimostra il duplice attentato alla metropolitana del 29 marzo 2010, costato la vita a 40 cittadini moscoviti, vittime di due donne kamikaze. Qualche mese prima, il 27 novembre 2009, c’era stato l’attentato con esplosivo che aveva provocato il deragliamento del treno Nevskij Express da Mosca a San Pietroburgo, causando 27 vittime.
Il conflitto che oppone la Grande Russia - prima zarista, poi sovietica ed ora di Putin - alla piccola Repubblica caucasica della Cecenia dura più o meno da duecento anni, sia pure a fasi alterne, ed è assai probabile che si riproponga. E questo per il semplice fatto che l’annessione di questa regione allo spazio d’influenza russo non è mai stata accettata dai fieri popoli montanari che la abitano: non a caso, la prima guerra santa contro i russi è del 1839 e tutti i grandi condottieri ceceni dell’epoca - dallo sceicco Mansur all’imam Shamil - hanno costruito la loro leggenda e la loro popolarità sulla resistenza ad oltranza alle forze di occupazione inviate da Mosca, in nome dell’indipendenza. L’epoca sovietica aggiunse solo nuove ferite e nuova acrimonia: accusati di aver collaborato con i nazisti, i ceceni non godettero infatti di buona fama, ai tempi di Stalin, e già nel 1944 si rivoltarono; in seguito cercarono di opporsi alla collettivizzazione forzata delle loro terre, al punto che Stalin ne ordinò la deportazione di massa in Kazakhstan, così come fece con altri popoli caucasici; solo l’ascesa al potere di Krusciov permise ai ceceni di rientrare in patria, costretti però a convivere con i russi che ne avevano preso il posto e che rappresentavano ormai il 30% della popolazione. Non c’è dunque da stupirsi se il movimento irredentista ceceno abbia rialzato la testa sul finire degli anni ’80, quando l’Urss comincia ad implodere; e se poi nel 1991, prima ancora della dissoluzione dell’Urss, viene proclamata a Grozny prima una Repubblica di Cecenia separata dall’Inguscezia e qualche mese dopo la Repubblica islamica indipendente di Iskheria. È bastato questo per scatenare il risentimento russo, sfociato poi nelle due guerre del 1994-1996 e del 1999-2000. La prima guerra cecena scoppia l’11 dicembre 1994 con l’offensiva a sorpresa ordinata da Boris Yeltsin, all’epoca Presidente della Federazione Russa, in difesa della minoranza russa perseguitata nella nuova Repubblica islamica d’Iskeria, già Repubblica autonoma di Cecenia e Inguscezia, dichiaratasi indipendente nel 1991. Questo blitzkrieg fu la più importante operazione militare condotta dall’Armata Rossa dai tempi della guerra in Afghanistan. Ma nonostante la sproporzione delle forze in campo, i russi non riescono a prevalere e sono costrette ad accettare un accordo di pace umiliante, firmato il 31 agosto 1996: con tale accordo la Cecenia mantiene la sua autonomia, suggellata dall’introduzione della sharia, la legge islamica, mentre i negoziati sull’indipendenza vengono rinviati sine die. In due anni di guerra, comunque, i morti sono almeno 40mila ed i profughi 250mila. Molto più breve fu la seconda guerra cecena, che scoppia il 1° ottobre 1999 e dura fino al 1° febbraio 2000, quando le truppe dell’Armata Russa occupano Grozny, dopo averla rasa al suolo. Controversi però restano ancora oggi i motivi che portarono alla guerra: è vero infatti che l’intervento russo venne ufficialmente scatenato da una serie di attentati organizzati dai ribelli ceceni in territorio russo, con una lunga scia di morti - 240 solo a Mosca, nel 1999 - ma secondo molti analisti la guerra fu una prova di forza voluta dal primo ministro Vladimir Putin per guadagnarsi una facile popolarità e preparare la propria ascesa al potere. In ogni caso l’occupazione militare russa non riesce ad aver ragione della guerriglia cecena, che non solo obbliga l’Armata Russa a pagare un pesante tributo di sangue ma riesce anche a portare il terrorismo in casa del nemico, con un escalation di azioni spettacolari: dal sequestro degli spettatori del Teatro Dubrovka nell’ottobre 2002 - i morti furono 130, uccisi nel blizt delle forze speciali russe - al sequestro degli scolari della scuola di Beslan, in Ossezia del Nord, dove i morti furono più di 300. Insomma, finita la guerra guerreggiata, è iniziata una lunga guerra a bassa intensità, che si protrae fino ad oggi.
Va detto però che negli ultimi dieci anni un lungo processo, politico e militare, ha segnato la fine del sogno irredentista ceceno e la restaurazione di un ordine costituzionale filo-russo. Tutto ciò grazie soprattutto all’ascesa di un clan forte e prestigioso, che ha scelto di abbandonare la lotta armata e si è schierato dalla parte del Cremlino: il clan dei Kadyrov. Già gran mufti di Grozny, Akhmad Kadyrov viene eletto capo del Governo nel 2000 e diventa Presidente della Cecenia nell’ottobre 2003, carica che occupa fino al maggio 2004, quando viene ucciso in un attentato allo stadio di Grozny. Al suo posto subentra il figlio Ramzan, famoso per i suoi metodi brutali, che viene confermato Presidente nel 2007 e regna tuttora, con pieni poteri. È la milizia dei Kadyrov che viene incaricata, negli ultimi anni, di fare la “guerra sporca”, in nome di
Quadro generale
Ramzan Kadyrov (Tsenteroi, 5 ottobre 1976)
L’ultima delle sue “sparate”, a metà agosto 2010, è stata la richiesta al Parlamento ceceno di non essere più chiamato Presidente ma semplicemente capo. E questo perché Ramzan Kadyrov, il leader ceceno, ha maturato la convinzione che la Federazione russa di presidenti ne debba avere uno solo, quello del Cremlino. L’alternativa propostagli dai suoi zelanti funzionari non era certo politically correct: padre della nazione stride infatti con la sua età, appena 34 anni, e ancor di più con il fatto che i russi hanno fatto di tutto in questi anni per evitare che la Cecenia si consideri una nazione. In ogni caso, Kadyrov resta in sella. È stato lui a neutralizzare e costringere alla resa i più importanti gruppi di ribelli indipendentisti e a volere la completa ricostruzione di Grozny e della Cecenia. Resta da capire se l’innegabile consenso di cui oggi gode sia frutto dell’ammirazione dei suoi concittadini oppure della paura che suscitano i suoi sgherri. Da anni, sia Human Rigths Watch che altri organismi internazionali fra cui l’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani denunciano l’uso sistematico della tortura da parte delle forze di sicurezza. Inoltre, la rinnovata attività dei gruppi ribelli è un segnale che la pace vera in Cecenia è ancora lontana.
Oro nero È vero, la Cecenia è relativamente ricca sia di petrolio che di gas metano. Ma troppo spesso si tende a sovrastimare l’importanza che questi giacimenti avrebbero avuto nella genesi e poi nella dinamica del conflitto che ha opposto negli ultimi vent’anni Grozny a Mosca. Basti pensare a tal proposito che, dei 500milioni di tonnellate di petrolio che la Federazione russa estrae ogni anno, solo 1,5 viene dal Caucaso del Nord. Il che vuol dire che la Cecenia ha un’importanza strategica risibile, da questo punto di vista, rispetto all’area del Mar Caspio oppure alla regione del Mar Artico. Non è dunque all’economia in sé ma alla geo-politica che bisogna guardare per poter decifrare i conflitti in corso. Più che al controllo delle risorse il Cremlino è interessato alla Cecenia e al Caucaso come regione strategica per il transito dell’oro nero che si estrae nell’area del Mar Caspio. Sul tracciato dei gasdotti e degli oleodotti che andranno al Mar Nero si gioca da anni un’accesa guerra “per procura” fra Stati Uniti e Russia.
una progressiva “cecenizzazione” del conflitto, perseguita da Mosca con caparbietà: ne consegue un’alternanza di bastone e carota, con ripetute amnistie per i ribelli che scelgono di abbandonare la lotta armata e una spietata caccia all’uomo per stanare gli irriducibili. I risultati sono notevoli, se è vero che decine di capi-clan e signori della guerra vengono neutralizzati: a fine febbraio del 2008, secondo il vice-ministro degli interni russo, Arkady Edelev, restavano in Cecenia meno di 500 “terroristi” abbarbicati sulle montagne, fra cui una cinquantina di mercenari arabi; e chi raggiunge oggi le montagne per unirsi a loro, secondo diverse organizzazioni umanitarie, lo fa non più per motivi ideologici o religiosi, quanto per motivi personali, per vendicarsi cioè di un torto subito. È merito invece delle forze speciali russe e delle loro taglie ma non dei Kadyrovsty l’eliminazione di tutti i grandi leader della guerriglia cecena: nel marzo 2002 viene ucciso, probabilmente avvelenato, il comandante Ibn al Khattab, l’uomo di al-Qaeda in Cecenia; l’8 marzo 2005 viene ucciso il Presidente indipendentista Aslan Maskadov; il 10 luglio 2006 è il turno infine del comandante Shamil Bassaiev, sulla cui testa i russi avevano messo una taglia di 10milioni di dollari. L’ascesa dei Kadyrov è andata comunque di pari passo con il graduale disimpegno dell’Armata Russa: dei 100mila uomini impiegati in Cecenia all’epoca delle due guerre, ne restavano nel 2005 meno di 25mila, schierati peraltro solo in appoggio alle forze cecene del Ministero degli Interni; il rimpiazzo è stato completato nel 2009, con la fine del Kto, ed oggi restano poche migliaia di soldati russi in Cecenia, acquartierati nelle loro caserme-fortezze di Gudermes, Kankalia e Kashali. Passi da gigante ha fatto anche il programma di ricostruzione varato dal Governo filo-russo. La città di Grozny, ridotta dopo le due Guerre ad un cumulo di macerie, appare oggi in pieno boom: c’è un nuovo aeroporto, nuove autostrade e un centro sfavillante di negozi e attività economiche. È vero poi che secondo l’Onu il 60% della popolazione continua a vivere al di sotto della soglia di povertà, ma la situazione appare in netto miglioramento, grazie ai massicci investimenti che arrivano da Mosca. In cambio la popolazione cecena ha deciso, almeno apparentemente, di piegarsi al realismo :una nuova costituzione filo-russa è stata votata a larga maggioranza nel 2003; e con le elezioni parlamentari del 2005 è stata completata una complessa ma efficace divisione dei poteri fra Mosca e Grozny.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Le rivelazioni di un ex generale
Furono elementi della resistenza turco-cipriota, addestrati dai militari di Ankara, e non greco-ciprioti a dare alle fiamme, nel 1964, la moschea di Bayraktar a Nicosia, la capitale di Cipro. A svelare la verità, a quasi 50 anni da quegli avvenimenti, è stato il generale dell’esercito turco in pensione Sabri Yirmibesoglu in un’intervista alla tv privata Haberturk a fine settembre 2010. Lo scopo dell’attentato - ha detto l’ex generale - era quello di fomentare ulteriormente i forti dissidi tra le due comunità che portarono a sanguinosi episodi di violenza. Yirmibesoglu ha affermato che ai tempi dei conflitti interetnici a Cipro era per i turchi “una regola compiere atti di sabotaggio che sembrassero opera del nemico”.
Lapost da Wikimedia Commons Nel settembre 2008, sotto l’egida dell’Onu, il Presidente greco-cipriota della Repubblica di Cipro, Dimitris Christofias, e l’allora Presidente turco-cipriota della cosiddetta Repubblica Turca di Cipro Nord, Mehmet Ali Talat, avviarono colloqui per giungere alla riunificazione dell’Isola che, dal 1974, è divisa in due: il Nord è amministrato dai turchi e riceve sostegno politico-economico da Ankara (Turchia), il Sud è sotto l’amministrazione dei ciprioti di etnia greca che fanno riferimento ad Atene, e nel mezzo c’è l’Onu con una presenza, anche se non massiccia, di caschi blu, per evitare scontri. Fino alla fine del 2009 i colloqui tra le parti lasciavano sperare in un accordo di riunificazione, ma nel corso del 2010 i contatti si sono attenuati e, in ultimo, non hanno portato ai risultati attesi. Oggi, negli ambienti della diplomazia internazionale si è concordi nell’osservare che la “questione cipriota” rimane del tutto irrisolta e bloccata. Neanche l’arrivo nell’aprile del 2010 di un nuovo Presidente di origine turca, Dervis Eroglu, (leader del Partito di Unità Nazionale) a capo della cosiddetta Repubblica di Cipro Nord, ha smosso le acque stagnanti del negoziato. Anzi. Rispetto al suo predecessore, Eroglu ha visione e obiettivi differenti. Se l’ex-presidente di Cipro Nord, Mehmet Ali Talat, era un sostenitore dell’unificazione e di più stretti rapporti con l’Unione Europea, Dervis Eroglu è fautore, invece, della creazione di due Stati con due organizzazioni differenti. E così, il 9 settembre 2010, il ministro degli Esteri greco in visita a Nicosia (capitale di Cipro), invitava ancora una volta la Turchia, e senza mezze parole, a ritirare le sue truppe dal Nord.
Generalità
Nome completo: Repubblica di Cipro; Repubblica Turca di Cipro Nord Bandiera
Lingue principali: Greco, Turco Capitale: Nicosia Popolazione: 792.604 Area: 9.250 Kmq (di cui 3.355 Kmq all’interno della Repubblica Turca di Cipro Nord) Religioni: Cristiana ortodossa, musulmana Moneta: Euro nella Repubblica di Cipro. Nuova lira turca, nella Repubblica Turca di Cipro Nord Principali Prodotti agricoli tipici esportazioni: come olive e limoni, tessuti e calzature PIL pro capite: Us 16.000 Repubblica di Cipro Us 5.600 Cipro del Nord Sottolineando che “la situazione cipriota è una questione di occupazione e invasione” dimostrava che ancora non si erano ridefiniti in positivo i termini del dissidio nella relazione tra Atene e Ankara.
La posizione geografica (70 km dalla Turchia, 100 km dalla costa del Vicino Oriente, 500 km dall’Egitto), attribuisce alla terza isola per estensione del Mar Mediterraneo orientale un valore strategico molto elevato. Le basi militari di Akrotiri e Dhekelia sono sotto controllo degli anglo americani che da qui possono controllare il Medio Oriente e il confine meridionale della Russia. I principali capi dell’isola e il Monte Olimpo (m. 1951) hanno un uso militare di
spionaggio e sono disseminati di antenne. C’è in ballo anche il controllo di riserve petrolifere: nel giugno 2009, il ministro dell’Industria grecocipriota Antonis Paschalides aveva annunciato che il Governo di Nicosia sarebbe andato avanti con il proprio programma di sondaggi petroliferi offshore nel Mediterraneo, al largo di Israele. La Turchia aveva definito quelle attività una “provocazione” e aveva inviato navi da guerra.
Anja Leidel da Wikimedia Commons
Kükedi Tamás da Wikimedia Commons Dal punto di vista geografico, Cipro è situata nel continente dell’Asia. Fino al 1960 Cipro fu colonia britannica. Il 16 agosto di quell’anno, dopo decenni di lotta politica ed armata, venne fondata la “Repubblica di Cipro”, indipendente ma “protetta”, non soltanto dalla Gran Bretagna, ma anche da Grecia e Turchia. Il nuovo stato divenne membro dell’Onu un mese più tardi. La Repubblica era retta da una Costituzione che bilanciava gli interessi delle due comunità etniche locali: quella greco-cipriota, che rappresenta ancora oggi la maggioranza della popolazione, e quella turco-cipriota. Se il Presidente era un esponente di origine greco-cipriota, con funzioni di capo di stato e di Governo, il vicepresidente doveva essere un turco-cipriota con diritto di veto. Il Governo era composto da sette ministri greco-ciprioti e tre turco-ciprioti; il Parlamento da 35 membri greco-ciprioti e 15 turcociprioti. Per fare le leggi era necessario ottenere la maggioranza all’interno di entrambi i gruppi. La neo Repubblica di Cipro, così istituzionalizzata, non entrò mai veramente in funzione perché mai si arrivò ad un programma politico comune tra greci e turchi dell’isola. Gli uni guardavano ad Atene, gli altri ad Ankara. Il 30 novembre 1963 l’arcivescono Makarios III, nominato primo Presidente di Cipro, tentò di modificare la Costituzione. Il Governo di Ankara
Quadro generale
Dervis Eroglu (Famagosta, 1938)
Dervis Eroglu, Presidente della Repubblica Turca di Cipro Nord, è stato Primo Ministro dal 1985 al 1994 e dal 1996 al 2004, leader del Partito di Unità Nazionale. Dopo gli studi di Medicina all’Università di Istanbul, presto entra a far parte del neo-costituito Parlamento di Cipro Nord, e riceve l’incarico di Ministro dell’Educazione, Cultura, Gioventù e Sport già nel biennio 1976-1977. Nel 2004 perde le elezioni presidenziali contro Mehmet Ali Talat. Il 21 Novembre 2005, Eroglu rassegna le dimissioni come leader del Partito di Unità Nazionale ma viene rieletto in carica nel Novembre 2008. Il 18 Aprile 2010 conquista lo scranno di Presidente della Repubblica di Cipro Nord. DervisEroglu è sposato e ha quattro figli.
Matthias Kabel da Wikimedia Commons
Arte profanata e rubata Dopo l’invasione turca del 1974, molti luoghi sacri per gli ortodossi e i cattolici sono stati “profanati” nella parte Nord di Cipro. La basilica gotica di San Francesco a Famagosta è trasformata oggi in una birreria-pizzeria. La vicina chiesa cattolica fondata dai Cavalieri di San Giovanni è ora una discoteca. Nella chiesetta di San Eufimiano, a Lisi, il pavimento è stato distrutto e gli affreschi millenari dell’abside staccati e rubati. Tuttavia, presto una serie di antichi pezzi d’arte di Cipro, trafugati nel 1974 e rivenduti sul mercato clandestino, torneranno in patria: antiche icone, parti di mosaici e affreschi bizantini sono stati rinvenuti dalla polizia tedesca in due appartamenti a Monaco di proprietà di Aydin Dikmen, discusso collezionista e mercante d’arte turco-cipriota.
non glielo permise. Il 21 dicembre Makarios III ripudiò il Trattato di Garanzia che legava Grecia, Turchia e Gran Bretagna nell’amministrazione di Cipro. Cominciarono scontri armati tra le due comunità che andarono avanti per una settimana. Vi furono fughe di civili da quei villaggi dove greci e turchi avevano vissuto fino ad allora in rapporti di buon vicinato. Il 4 marzo 1964, con la Risoluzione n. 186 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, veniva istituita la missione Unficyp. Nel 1974, per contrastare il tentativo di un colpo di stato da parte dei greci sull’Isola, e d’altra parte, con la motivazione di proteggere la propria minoranza turca, il Governo di Ankara inviò il proprio esercito a Cipro e ne occupò il Nord. Fu ovviamente guerra tra le parti: oltre 7mila morti e quasi 2mila dispersi da entrambe le parti, circa 160mila greco-ciprioti costretti a lasciare le loro case e a rifugiarsi nel Sud dell’isola, circa 40mila turco-ciprioti dovettero spostarsi al Nord. Nicosia, la capitale, venne tagliata in due da un muro. L’Onu ottenne il “cessare il fuoco” il 16 agosto 1974. Da allora, Cipro è di fatto divisa in due zone distinte e separate. Al Sud, i greci della Repubblica di Cipro, Paese riconosciuto dalle diplomazie mondiali e divenuto nel 2004 membro dell’Unione Europea. Al Nord, per un terzo del territorio dell’isola, si estende invece la “Repubblica Turca di Cipro Nord” che non fa parte della zona doganale e fiscale europea (anche se i suoi cittadini vengono considerati di fatto cittadini dell’Ue) ed è riconosciuta come Stato, ovviamente, soltanto dalla Turchia. Oggi, gli uomini in forza all’Unficyp controllano una zona cuscinetto lunga 180 km e di un’ampiezza variabile dai 20 metri ai 7 km. Una “linea verde” che taglia in due la capitale Nicosia dove fino al marzo 2007 esisteva anche un vero e proprio muro divisorio tra la parte greca e la parte turca della città. Nella notte del 9 marzo 2007 è stato aperto dai greci, come “segnale di pace”, un valico importante, quello della zona commerciale di Ledra Street, un valico che di fatto fa “cadere” il muro intero, anche se in alcuni tratti del suo percorso cittadino non è stato abbattuto.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Il Caucaso
Ai tempi dell’Unione Sovietica, in particolare negli anni 1937-1938, per ordine di Stalin molte di queste popolazioni vennero deportate in massa in Siberia, e questo ha ulteriormente contribuito ad alimentare l’odio per i russi. Delle sette Repubbliche autonome che compongono il Caucaso settentrionale e fanno parte oggi della Federazione Russa ben quattro presentano gravi problemi di sicurezza interna, dovuti alla presenza di gruppi armati che si oppongono al potere centrali ed hanno legami diretti o indiretti con il terrorismo di matrice islamica: la Cecenia, il Daghestan, l’Inguscezia e l’Ossezia del Nord. L’ultimo episodio grave risale al 9 settembre 2010: un’autobomba fa una strage nel mercato centrale di Vladikavkaz, capitale dell’Ossezia, causando 16 morti e oltre 100 feriti. Più grave ancora è la penetrazione massiccia, negli ultimi anni, del fondamentalismo islamico di impronta wahabita, che dalla Cecenia si è propagato alle altre repubbliche caucasiche. Non è più tranquilla la situazione nel Caucaso meridionale, del Sud, dove - oltre ai conflitti interni alla Georgia - non va dimenticata l’annosa questione del Nagorno-Karaback, che ha già comportato una sanguinosa guerra fra Armenia e Azerbaijan, fra il 1992 e il 1994 e che ancora non è risolta. Anche il georgiano più famoso al mondo è finito tra le vittime del conflitto che oppone da anni il Governo di Tblisi a quello di Mosca. Il 25 giugno 2010, infatti, le autorità georgiane hanno fatto rimuovere in fretta e furia la gigantesca statua di Josiph Stalin che troneggiava nella piazza centrale di Gori, sua città natale. Eppure il monumento era sopravvissuto sia al processo di de-stalinizzazione avviato da Krusciov negli anni ’50, alla morte del dittatore, sia alla furia iconoclasta del 1991, quando l’Urss venne disciolta e la Georgia riacquistò la sua indipendenza. Non subì un graffio nemmeno durante la sciagurata guerra-lampo dell’agosto 2008, quando i tank russi occuparono Gori e vennero poi bloccati alle porte di Tblisi grazie alla tregua strappata dal Presidente francese Sarkozy a nome della Ue. Comunque, questo è l’ultimo atto nello scontro tra i due Paesi. E forse va messo in relazione con l’ultimo pronunciamento del Parlamento Europeo, che il 20 maggio si è di nuovo espresso sul conflitto fra Russia e Georgia, senza dare soddisfazione né agli uni né agli altri. La Ue attribuisce infatti alla Georgia la responsabilità di aver scatenato la guerra-lampo dell’agosto 2008, anche se ribadisce il suo sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale della Georgia, condannando perciò la secessione dell’Abkazia e dell’Ossezia del Sud, che hanno dichiarato unilateralmente la loro indipendenza. La Georgia avrebbe preferito che la Ue parlasse esplicitamente di queste due regioni come di “territori occupati”, con riferimento alle truppe russe che vi stazionano e ne controllano di fatto le frontiere. Ma la Ue si è limitata a constatare che l’attuale status quo non è una situazione accettabile, perché c’è il rischio permanente di una nuova escalation militare e di nuovi scontri armati, ed ha quindi auspicato che le due parti si adoperino con ogni mezzo per giungere ad una pacifica soluzione del contenzioso, nel rispetto degli interessi e dei diritti delle popolazioni coinvolte. In realtà,
Generalità
Nome completo: Georgia Bandiera
Lingue principali: Georgiano Capitale: Tbilisi Popolazione: 4.989.000 Area: 69.510 Kmq Religioni: Ortodossa georgiana (76%), musulmana (9.9%), ortodossa russa (3%), armena apostolica (4.9%), cattolica (2%), altre (3.2%) Moneta: Lari georgiano Principali Metalli ferrosi e non, esportazioni: alcuni prodotti agricoli, vino PIL pro capite: Us 3.586 quella della Ue è una sentenza per troppi aspetti salomonica, che non imprime alcuna svolta al conflitto russo-georgiano. E se è vero che l’indipendenza di Abkazia ed Ossezia del Sud è stata riconosciuta finora solo dalla Russia e da pochissimi altri Stati, è vero anche che il pronunciamento della Corte Internazionale dell’Aja, il 22 luglio 2010, a favore dell’indipendenza del Kosovo crea un precedente che le autorità di Tbilisi non possono non temere.
Fra le 15 Repubbliche dell’ex Unione Sovietica la Georgia è forse quella che, in termini di integrità territoriale e stabilità politica interna, ha pagato il prezzo più alto da quando l’Urss si è disintegrata, nel 1991. Ma è vero anche che è stato un georgiano, Iosif Vissarionovic Stalin, a creare buona parte dei problemi etnici che la nuova Repubblica della Georgia - indipendente dal 9 marzo 1991 - si è trovata a dover gestire, finora con scarsi successi. Fu Stalin, infatti, a permettere nel 1931 che la sua Georgia si annettesse il Principato di Abkhazia, la regione costiera situata a Nord, sul Mar Nero, che da secoli godeva di un’ampia autonomia all’interno dell’Impero ottomano, favorendo negli anni successivi da un lato l’immigrazione della popolazione georgiana e dall’altro l’uso della lingua georgiana al posto della lingua locale. E fu sempre Stalin ad acconsentire che l’Ossezia, altra regione frontaliera fra Russia e Georgia, venisse divisa fra un Nord integrato nella Federazione Russa e un Sud annesso alla Georgia, senza tener conto degli inevitabili dissapori che questa divisone avrebbe creato, vista l‘omogeneità etnica e linguistica delle due regioni. Non è dunque per caso se, già con i primi fermenti politici che porteranno alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, in entrambe le regioni si manifestano fortissime tentazioni separatiste. E subito dopo la dichiarazione d’indipendenza della Georgia, è proprio l’Abkhazia, il 23 luglio 1992, a dichiarare unilateralmente la sua indipendenza. In Ossezia, invece, il soviet supremo locale vota nel 1989 l’unificazione con l’Ossezia del Nord. Ma il giorno dopo il parlamento georgiano revoca questa decisione e abolisce lo statuto di ampia autonomia che era stata fino ad allora accordato alla regione. La prima guerra con l’Ossezia inizia proprio nel gennaio 1991, quando le forze armate georgiane entrano in Ossezia per riprendere il controllo della situazione. Dopo un anno e mezzo di pesanti scontri - ed un referendum popolare con cui gli osseti scelgono l’indipendenza - una tregua viene firmata, il 26 giugno 1992, dal nuovo Presidente georgiano Eduard Shervadnadze e dal nuovo Presidente russo Boris Yeltsin. Si tratta di un accordo secondo cui la Russia riconosce l’intangibilità della frontiera internazionalmente definita. Con un secondo referendum popolare, nel novembre 2006, la popolazione dell’Ossezia del Sud, a stragrande maggioranza (92%) conferma però la sua volontà secessionista. In Abkhazia la Prima guerra scoppia subito dopo la dichiarazione unilaterale d’indipendenza, nel luglio 1992. In agosto tremila soldati georgiani entrano nella regione e dopo aspri combattimenti occupano Sukumi, la capitale. Centinaia di volontari, provenienti dalla Russia e dalle ex repubbliche sovietiche - fra cui il famoso leader ceceno Shamil Basaiev - accorrono in aiuto delle milizie separatiste, finché la situazione sul terreno non viene rovesciata e si arriva ad una tregua, firmata il 27 luglio 1993. Una pace precaria regna nelle due repubbliche secessioniste fino al 2004, quando la “rivoluzione delle rose” e l’ascesa al potere in Georgia del nuovo leader, Mickail Saakasvili, gettano nuova benzina sul fuoco del nazionalismo georgiano, rinfocolando la speranza di poter riprendere il controllo sulle due regioni ribelli. A tale scopo, la Georgia procede ad un massiccio riarmo: le spese per armamenti dal 2004 in poi crescono a ritmi vertiginosi, fino a sfiorare il 10% del PIL, una vera e propria follia per un Paese povero, che dipende dalle importazioni dall’estero, in particolare dalla Russia. Nasce così la guerra-lampo lanciata dalla Georgia con esiti disastrosi nella notte fra il 7 e l’8 agosto 2008. La reazione russa è infatti immediata e sproporzionata - come stabilirà un rapporto del parlamento Europeo - e in una sola settimana di combattimenti la guerra farà 2mila morti, almeno 5mila feriti e 300mila sfollati, quasi tutti georgiani. La tregua firmata il 16 agosto su iniziativa della Ue congela inoltre una situazione decisamente favorevole ai separatisti, tant’è che - forti dell’appoggio russo - sia l’Abkazia che l’Ossezia del Sud dichiarano unilateralmente la propria indipendenza, nel settembre 2008.
Il problema vero è che l’entità statale georgiana risulta troppo debole di fronte alla molteplicità di interessi etnici e di spinte regionalistiche che dilaniano il suo territorio. A questo si aggiunge la pressione della Russia, che in nome della difesa delle minoranze a lei legate, per storia e per lingua, continua a ritenere la Georgia parte integrante della sua tradizione zona d’influenza. Mosca d’altronde non ha mai digerito la cosiddetta rivoluzione delle rose che nel novembre 2003 ha portato al potere a Tblisi l’attuale pre-
Quadro generale
Mickail Saakashvili (Tbilisi, 21 dicembre 1967)
Pare ci sia lo zampino dei consiglieri militari americani - sono più di 100 e lavorano da anni nell’addestramento delle forze armate georgiane - nella scelta di Mickail Saakashvili di scatenare nell’agosto 2008 la guerra, rivelatasi poi disastrosa, contro l’Ossezia del Sud. Al Presidente georgiano sarebbero però arrivate informazioni errate, sia sulla dislocazione che sulla capacità di reazione dell’Armata Russa, il cui intervento ha subito sbaragliato le truppe di Tblisi. Eletto per la prima volta nel 2004, a soli 33 anni, Sakashvili ha improntato la sua presidenza all’insegna del filo-americanismo e dell’odio contro i russi. Da qui la scelta nel 2006 di accelerare le procedura per l’ingresso della Georgia nella Nato, la partecipazione poi della Georgia alle guerre americane in Iraq e in Afghanistan, e la scelta di campo netta della Georgia nella “guerra dei gasdotti” che si combatte nel Caucaso. Nel 2005 è sfuggito miracolosamente ad un attentato. Nel 2008 è stato rieletto Presidente, ma con solo il 53% dei consensi (nel 2004 ebbe il 96%). Alle amministrative del 30 maggio 2010 il suo partito ha ottenuto di nuovo la maggioranza assoluta dei voti, con una percentuale superiore al 55%. Nel 2012 non potrà più ripresentarsi. Ed è aperta la corsa per la sua successione.
La vetrina olimpica Le Olimpiadi Invernali del 2014 si svolgeranno a Soci, la più nota fra le località turistiche sulla sponda russa del Mar Nero. È qui che dai tempi dell’Unione Sovietica hanno la loro dacia i membri più autorevoli della nomenklatura ed è qui che si sono sempre tenuti gli incontri politici e diplomatici più delicati nella storia russa. Soci però si trova a meno di 50 km di distanza dalla frontiera con l’Abkazia e ai piedi del Caucaso, in una regione cioè che mai come in questo periodo si caratterizza per l’alta conflittualità. Da qui l’attenzione maniacale con cui le autorità del Cremlino seguono i preparativi per le Olimpiadi: sarà infatti una vetrina speciale, in mondo-visione. Per ora, il vero problema è la catastrofe ecologica che si rischia a causa dei lavori di costruzione degli impianti olimpici. Dalle centinaia di cantieri che sono stati avviati vengono estratti infatti, tutti i giorni, tonnellate di rifiuti speciali che vengono ammassati lì dove capita, in mancanza di inceneritori. Finora, però, le diverse proteste dei cittadini e delle associazioni ambientaliste sono state completamente ignorate con la scusa che il tempo stringe e bisogna al più presto ultimare i lavori.
sidente, Mickhail Saakashvili, considerato troppo filo-americano rispetto al suo predecessore, Eduard Shervardnaze. E da allora ha ingaggiato con le autorità georgiane una complicatissima partita a scacchi, di cui la guerra-lampo dell’agosto 2008 è solo una delle tante mosse, la più audace. Nel gennaio 2006, ad esempio, Mosca chiude senza preavviso i rubinetti del gas siberiano che rifornisce Tblisi; e nell’aprile dello stesso anno blocca le importazioni di vino georgiano. Le autorità di Tblisi replicano intensificando il dialogo con Bruxelles, per un ingresso ufficiale della Georgia nella Nato. Russia e Georgia si danno inoltre battaglia nella cosiddetta guerra dei gasdotti: Tblisi aderisce infatti e viene coinvolta nel tracciato del gasdotto Nabucco, che porterà in Europa gas e petrolio del Mar Caspio senza passare dal territorio russo; mentre Mosca vara in risposta due progetti di gasdotti alternativi, Northstream e Southstream, che escludono dal loro tracciato l’uno l’Ucraina e l’altro la Georgia. Per molti versi, vista la disparità delle forze in campo, sembra di assistere al confronto fra Davide e Golia. Non è casuale se in vista delle prossime scadenze elettorali - le politiche nel 2011 e le presidenziali nel 2012 - diverse forze di opposizione hanno deciso di riavvicinarsi a Mosca, auspicando che si instauri un dialogo, finalmente, per porre fine all’insostenibile contenzioso attuale. È però difficile che ci sia una svolta finchè le truppe dell’Armata Russa continueranno ad occupare il territorio dell’Abkazia e dell’Ossezia del Sud, che tutti i georgiani, di qualsiasi orientamento politico, continuano a considerare parte integrante del territorio nazionale.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Militari convertiti
I militari italiani della Kfor in servizio al monastero ortodosso di Decani si legano fortemente a tale luogo di culto al punto che alcuni di loro si convertono alla religione ortodossa. “Questo monastero esercita una forza inspiegabile. Alcuni miei amici si sono convertiti alla religione ortodossa in questo monastero, dopo essere stati in servizio per un anno nel contingente Kfor. Posso capirlo, poiché si tratta di un luogo particolare, sacro nel vero senso della parola”, sono le parole di un militare riportate dal quotidiano di Belgrado, Kurir, in una recente inchiesta. Il Kosovo è costellato di innumerevoli monasteri del cristianesimo ortodosso. Molti di questi sono tutelati dall’Unesco. Il 17 febbraio 2008 il Kosovo è dichiarato unilateralmente “uno stato indipendente, sovrano e democratico”. La Serbia non riconosce la dichiarazione di indipendenza e continua a considerare il Paese come una sua Provincia. Da questa data, comincia un lungo periodo di tensioni politiche e scontri armati che ancora oggi non conoscono durature soluzioni. La presenza dei militari Onu con “Kfor” e la presenza delle missioni civili Onu denominata “Unmik” e dell’Unione Europea denominata “Eulex”, riescono a tenere sotto controllo le ostilità reciproche tra le comunità serbe e albanesi. In particolare è nel Nord del Kosovo nella città di Mitrovica (proprio al confine tra Serbia e Kosovo) che si coagulano e poi esplodono periodicamente gli scontri e gli attriti più violenti, spesso sanguinosi. Il 22 luglio 2010 la Corte di giustizia dell’Aja ha pronuciato un verdetto molto importante: “la dichiarazione di indipendenza del Kosovo non ha violato la legge generale internazionale”. Serbi delusi, albanesi in festa. “La Corte di giustizia ha dimostrato ancora una volta di essere contro la Serbia”, tuona alla sua gente Radenko Nadelkovic, capo dell’amministrazione locale serba a Mitrovica Nord. La decisione della Corte arrivava alla fine di un periodo già caldo. Già l’11 giungo tre serbi rimangono feriti in conseguenza di una aggressione subita ad opera di un gruppo di albanesi a Mitrovica. Il 2 luglio un migliaio di serbi si radunano nella parte Nord della città per protestare contro l’apertura nel loro settore di un ufficio in rappresentanza del Governo centrale di Pristina. Qualcuno lancia una bomba nella folla: un manifestante serbo ucciso e undici feriti. Reazioni di sdegno e condanna da ogni parte politica. Il Presidente serbo Boris Tadic convoca il Consiglio di Sicurezza Nazionale. Successivamente, il ministro dell’interno kosovaro, Bajram Rexhepi, annuncia l’invio di unità speciali di polizia nel Nord del Kosovo per ripristinare ordine e legalità. Il
Generalità
Nome completo: Repubblica del Kosovo Bandiera
Lingue principali: Albanese, Serbo Capitale: Prishtina/Priština Popolazione: Stime recenti parlano di 2.130.000 abitanti Area: 10.887 Kmq Religioni: Musulmana, ortodossa, cattolica Moneta: Euro (moneta parallela al dinaro serbo al Nord) Principali Minerali e metalli non esportazioni: lavorati, prodotti manifatturieri PIL pro capite: Us 1,612
10 luglio, Tadic (Serbia) parla di “aperta dichiarazione di guerra”. Segnali di distensione e pace arrivano solo il 10 settembre 2010. L’Assemblea Generale dell’Onu approva per acclamazione, senza esprimere un voto, un testo che saluta positivamente l’impegno della Ue a far dialogare Serbia e Kosovo. Pare che la Serbia, anche se ancora molto restia, non possa non arrivare ad un riconoscimento del Kosovo indipendente, se vuole entrare in Ue.
Al centro della “questione kosovara” c’è il mantenimento dell’indipendenza nazionale conquistata nel 2008. Le autorità di Pristina vogliono l’integrità del territorio kosovaro e quindi, come possibilità della risoluzione del conflitto con la Serbia, hanno escluso ogni ipotesi di trattativa che preveda scambi di territorio o una autonoDue giorni dopo la dicharazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, due posti di controllo alla nuova frontiera Kosovo-Serbia vengono presi d’assalto da una folla di serbi contrari all’indipendenza/secessione. Arrivano le truppe della Kfor, la forza di pace della Nato in Kosovo, per riportare l’ordine. A seguito dell’Indipendenza la Nato ha riaffermato che Kfor resterà in Kosovo sulla base del mandato della risoluzione dell’Onu n. 1244. La risoluzione 1244 era stata emanata il 10 giugno 1999 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a conclusione di una campagna militare di bombardamenti aerei della Nato durata 78 giorni. L’Onu autorizzava l’istituzione in Kosovo di due misioni, una civile (United Nations Interim in Kosovo - Unmik) e l’altra militare (Kosovo Force - Kfor). Il Kosovo doveva considerarsi ancora parte della Repubblica Federale della Jugoslavia ma sottoposta ad amministrazione civile e militare internazionale provvisoria. Culla della fede e della civiltà serba secondo la testimonianza secolare dei suggestivi monasteri ortodossi che l’arricchiscono, terra albanese secondo le tradizioni illiriche e le leggi della demografia, il Kosovo è da lungo tempo un territorio conteso. Ecco le date storiche che ne hanno contrassegnato il destino, dal Medio Evo fino alla Jugoslavia socialista. XII secolo: il Kosovo cuore del nascente impero serbo fondato dalla dinastia dei Nemanjic. Apogeo della civiltà ortodossa nei Balcani.
mia soltanto del Nord del Kosovo. I kosovari di etnia albanese combattono a Mitrovica e accettano di vivere in una situazione blindata e tesa anche per evitare di cedere un territorio, quello del Nord, già riconosciuto come parte dello Stato kosovaro. 1389: battaglia di Kosovo Poljie, la Serbia immola il suo esercito di fronte agli invasori turchi. Comincia la dominazione ottomana sui Balcani del Sud e nel Kosovo l’equilibrio etnico si sposta gradualmente a favore degli albanesi e dei musulmani. 1913: il regno di Serbia (indipendente dal 1878) reincorpora il Kosovo quale sua provincia alla fine delle guerre balcaniche. 1946: il regime comunista di Tito crea la Federazione socialista jugoslava. Il Kosovo resta provincia serba. Sanguinose repressioni anti albanesi alla fine degli anni ‘40, tensioni fra Tito e il despota albanese stalinista Enver Hoxha, accusato di sobillare il separatismo di Pristina. 1963: il regime di Tito si ammorbidisce, cambia la Costituzione e crea la provincia autonoma di Kosovo e Metohija, entro i confini della Repubblica di Serbia. 1974: Tito allarga gli spazi di autonomia per gli albanesi del Kosovo, che acquisiscono un po’ per volta un ruolo predominante a livello locale sulla comunità serba, minoranza all’epoca ancora numerosa. Il leader serbo Slobodan Milosevic altera gli spazi di autonomia già concessi da Tito e instaura il diretto controllo della Serbia. Già agli inizi degli anni ’80 il Kosovo fu teatro di continue rivolte interne miranti a boicottare il Governo centrale jugoslavo. A tali rivolte, il Governo jugoslavo rispose con dure repressioni
Religioni
La principale religione in Kosovo è quella islamica di rito sunnita, scelta da quasi tutti gli albanesi e da altre minoranze presenti sul territorio, come anche dalla comunità rom. La popolazione di lingua serba invece è cristiana ortodossa. Esistono comunità di cattolici mentre i protestanti sono presenti in piccole comunità nella
sola capitale Pristina.
Quadro generale
L’economia
L’economia è ancora prevalentemente basata sui servizi in gran parte indotti dalla presenza internazionale. Il 94% delle imprese sono di piccole dimensioni. Il settore agricolo contribuisce per il 30% circa al PIL e per il 18% alle esportazioni. Il Kosovo può contare sulla disponibilità di molte materie prime: lignite, piombo, zinco, ferro, nickel, manganese. Tuttavia, l’industria mineraria non è altamente qualificata. Un ruolo di freno allo sviluppo è giocato dall’economia sommersa illegale e dall’economia parallela (strutture produttive tramite le quali la Serbia mantiene un’influenza sul Paese).
Lamberto Zannier (Fagagna, Udine, 15 giugno 1954)
Lamberto Zannier è attualmente Rappresentate speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite in Kosovo, capo della missione civile Unmik. È stato nominato nel giugno 2008. Laureato in legge all’Università di Trieste, Zannier ha lavorato per 30 anni come diplomatico di alto livello per l’Italia. Come Direttore del Centro Prevenzione Conflitti dell’Ocse di Vienna è stato a capo di più di 20 missioni civili. Dal 200 al 2002 è stato Rappresentante Permanente per l’Italia del Consiglio Esecutivo dell’Organizzazione per la Proibizione delle armi chimiche all’Aja.
Tratta di esseri umani Il Kosovo è al tempo stesso Paese di origine, di transito e di destinazione nei traffici di donne e minori, in particolare per ciò che concerne la prostituzione forzata. Lo afferma il Dipartimento di stato americano che sottolinea come la gran parte delle donne vittime della prostituzione forzata proviene dall’Europa orientale, fra l’altro, Moldova, Albania, Bulgaria e Serbia. “Donne e bambini kosovari vengono forzati alla prostituzione sia in Kosovo sia in altri paesi europei”, afferma il rapporto secondo il quale, inoltre, più di 300 bambini, sopratutto di etnia rom, sono stati obbligati a mendicare in Kosovo. Il Governo del Kosovo - secondo il documento Usa - non garantisce le norme minime per eliminare il traffico di esseri umani dal quale è interessato.
di polizia. L’accordo di Pace di Dayton del 21 novembre 1995, ponendo una fine alla guerra nella vicina Bosnia-Erzegovina, non affrontava la “questione kosovara”. La linea pacifista di Ibrahim Rugova, leader della Lega Democratica del Kosovo, viene abbandonata a favore della lotta armata. Prendeva spazio l’Esercito di Liberazione del Kosovo, Uck, una formazione paramilitare. Nel 1997 le istituzioni statali collassavano. Nessuna autorità più poteva controllare i valichi e i confini. Tra Albania e Kosovo viaggiavano indisturbati ingenti quantità di armi per l’Uck. Gruppi estremisti islamici arrivavano in Albania e in Kosovo. Gli Stati Uniti temevano fortemente ciò che accadeva in quegli anni in Kosovo. Con la Conferenza di Rambouillet del 6 febbraio 1999 i ministri degli Esteri di Italia, Francia, Russia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America cercano di riportare la pace nel Kosovo, reinstaurare l’autogoverno della provincia e garantire il diritto ad ognuno di ritornare alla propria terra. La Conferenza fallisce. Di lì a poco, partono i bombardamenti Nato dei “78 giorni” del 1999. Oggi, il Kosovo ha una Costituzione Repubblicana (in vigore dal 15 giugno 2008) su modello europeo. Essa prevede uno stato laico “neutrale nelle questioni delle credenze religiose” (art 8) e pacifico nel “creare relazioni di buon vicinato e di cooperazione con tutti i paesi limitrofi”. A riconoscere il Kosovo come stato indipendente e sovrano sono 70 Paesi in tutto il mondo. Gli Usa hanno subito riconosciuto il Kosovo indipendente ma non la Russia che sta dalla parte della Serbia. Ventidue stati membri della Ue, tra cui l’Italia, hanno riconosciuto il Kosovo indipendente ma non la Spagna, la Grecia, la Romania, la Slovacchia e l’isola di Cipro. Questi cinque Paesi temono che il Kosovo rappresenti un precedente per rivendicazioni autonomiste che esistono al loro interno. Il Kosovo è il 186° membro del Fondo monetario internazionale.
La zona della Spagna indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione dei Paesi Baschi a cui questa scheda è dedicata.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
L’Albero di Guernica (Gernikako Arbola)
Il Gernikako Arbola (albero di Guernica in basco) è un quercia che simboleggia la libertà del popolo basco. Già dal 1512, sotto la quercia della città di Guernica nella provincia di Biscaglia, i rappresentanti dei villaggi tenevano la propria assemblea e la città e il suo albero assunsero un significato sempre più simbolico nel corso degli anni. L’Albero di Guernica è sopravvissuto miracolosamente al bombardamento del 1937 (ad opera di tedeschi e franchisti) e si racconta che le truppe falangiste entrate nella città, non riuscirono ad abbattere l’albero, simbolo del nazionalismo basco, grazie ai volontari che lo impedirono. Ancora oggi, per insediarsi ufficialmente, il lehendakari giura come da tradizione sotto l’albero di Guernica. Il 5 settembre 2010, con un video diffuso dalla Bbc, l’organizzazione separatista basca dell’Eta ha annunciato una nuova tregua. Il gruppo ha dichiarato di voler rinunciare “a commettere nuove azioni armate” nella sua campagna per l’indipendenza e di voler comunque raggiungere l’obiettivo ma “avviando un processo democratico”. Nel video i militanti dell’Eta, incappucciati e irriconoscibili, si sono rivolti “ai cittadini baschi perché continuino la lotta, ciascuno nel proprio settore” per “abbattere il muro del rifiuto e realizzare passi irreversibili lungo la strada della libertà”. Nel video i separatisti si sono rivolti anche alla comunità internazionale affinché compia ogni sforzo “per trovare una soluzione giusta e democratica a questo secolare conflitto politico”. L’annuncio della tregua arriva dopo anni difficili per l’organizzazione basca e non è stata una sorpresa. L’azione congiunta franco-spagnola ha portato a numerosi arresti eccellenti in territorio francese, tra cui alcuni dei ricercati considerati responsabili degli ultimi attentati dell’Eta in Spagna (quelli del luglio 2009 a Maiorca e Burgos). Poche ore prima di annunciare la tregua inoltre, il quotidiano basco Gara aveva pubblicato un documento di Batasuna che esortava l’Eta a proclamare un cessate il fuoco “permanente” sotto supervisione internazionale. Quella annunciata il 5 settembre è la terza tregua dell’Eta (dopo quelle del 1998 e del 2006) e ha suscitato forte scetticismo da parte dei vertici politici spagnoli che chiedono invece il completo e definitivo disarmo dell’organizzazione ed il suo scioglimento. Il ministro dell’Interno Alfredo Perez Rubalcaba, si è detto convinto che l’annuncio sia solo un tentativo di legittimare il braccio politico dell’Eta, Batasuna, in vista delle elezioni municipali nei Paesi Baschi del 2011.
PAESI BASCHI
Generalità
Nome completo: Comunità autonoma dei Paesi Baschi Bandiera
Lingue principali: Euskara, spagnolo Capitale: Vitoria-Gasteiz Popolazione: 2.157.112 Area: 7.234 Kmq Religioni: Moneta: Euro Principali n.d. esportazioni: PIL pro capite: Us 1.310
Intanto non si fermano gli arresti eccellenti da parte della polizia spagnola. In settembre, dopo l’annuncio della tregua, sono state fermate nei Paesi Baschi almeno sette persone legate ad Askapena, una organizzazione considerata vicina all’Eta e attiva a livello internazionale. L’accusa è quella di aver intrecciato relazioni internazionali con alcune organizzazioni terroristiche latinoamericane, incluse le Farc colombiane. Cresce anche la collaborazione tra le autorità spagnole e quelle francesi dopo che gli ultimi arresti hanno spinto i membri dell’Eta a spostare i centri operativi dell’organizzazione al di là dei Pirenei.
“Euskal Herria è il Paese dei baschi. Noi, che lottiamo con tutte le armi di cui disponiamo per la libertà del nostro popolo, preferiamo dire che Euskal Herria è il Paese dell´euskara, la nostra lingua. La nostra lingua nella nostra terra. Libera”. Così l’organizzazione armata Eta ha spiegato in una lettera lo scopo della sua quarantennale lotta armata: l’indipendenza e l’autodeterminazione di Euskal Herria. Il termine Euskal Herria non si riferisce alle tre province che compongono la Comunità autonoma Quello tra il Governo spagnolo e l’organizzazione separatista basca Euskadi Ta Askatasuna (Terra Basca e Libertà), conosciuta con l’acronimo di Eta, è un conflitto che dura da decenni nonostante i tentativi di negoziato tra le parti. L’Eta viene fondata nel 1959 da un gruppo di giovani studenti nazionalisti con lo scopo di combattere per l’indipendenza dei Paesi Baschi. L’organizzazione nasce dunque in piena dittatura franchista e in un contesto politico di forte repressione che aveva limitato fino ad annullarla l’azione del principale partito politico della Regione, il Partito nazionalista Basco (Pnv), fondato nel 1895 da Sabino Arana (disegnatore della bandiera basca, la Ikurriña) per garantire ai baschi una rappresentanza politica nel parlamento di Madrid. Il nazionalismo e la repressione franchista sono i due elementi chiave per comprendere la nascita e l’evoluzione dell’Eta, il cui simbolo è un serpente che si avvolge attorno ad un’ascia - a rappresentare l’astuzia e la violenza - e il cui motto è ‘Bietan jarrai’, ‘perseguire entrambi’, dunque la lotta politica e quella armata. Le radici del nazionalismo e della spiccata tendenza indipendentista del popolo basco vanno ricercate nella storia peculiare di
dei Paesi Baschi spagnoli ma, letteralmente, al “popolo che parla la lingua basca” e al territorio dove esso risiede. La Comunità autonoma dei Paesi Baschi è dunque solo una delle Regioni che compongono Euskal Herria. Le altre sono la spagnola Navarra (Nafarroa in basco) e tre Province sotto amministrazione francese: Lapurdi, Nafarroa Beherea e Zuberoa. La parte spagnola dei Paesi Baschi è nota come Hegoalde (‘parte Sud’ in basco), quella francese come Iparralde (‘parte Nord’ in basco). questo popolo antichissimo e della sua lingua, l’euskara (parlato oggi da circa 700mila persone), di cui sono ancora ignote le radici etimologiche ma che rappresenta ancora oggi per i baschi, e molto più del territorio stesso, il fulcro della identità collettiva. Anche sotto la dominazione di popoli stranieri i baschi riuscirono sempre a mantenere una certa autonomia. Una autonomia che fu invece negata totalmente con la dittatura di Franco. Ancora prima dell’insediamento del regime, durante la guerra civile spagnola, l’aviazione falangista di Franco, supportata da aerei tedeschi della Legione Condor, bombardò e rase al suolo la città di Guernica, considerata storicamente dai Baschi come simbolo di libertà. Con la dittatura franchista l’insegnamento e l’uso dell’euskara furono vietati e criminalizzati, i libri pubblicati in lingua basca bruciati, i nomi in basco furono banditi e quelli già in uso furono tradotti in spagnolo. Con la morte di Franco nel 1975 e la nascita della Costituzione spagnola del 1978 ai Paesi baschi viene assegnato lo status di Comunità Autonoma, con ampi margini di autonomia amministrativa ma non la totale indipendenza politica e il diritto all’autodeterminazione del popolo basco,
Le lotte intestine
Ad indebolire l’organizzazione separatista, oltre agli arresti compiuti dalle autorità spagnole e francesi, sono state senza dubbio le lotte interne. Alcuni tra gli ex membri dell’Eta, detenuti eccellenti nelle carceri dei Paesi baschi, hanno recentemente preso le distanze dalla lotta armata scelta dall’organizzazione e con una lettera hanno sottolineato la necessità di un processo pacifico per arrivare all’indipendenza. A firmare la lettere otto detenuti tra cui Joseba Urrusolo Sistiaga, ritenuto il numero tre dell’Eta quando fu arrestato in Francia nel 1997; Carmen Guisasola, altra leader storica del gruppo e Rafael Caride Simon, autore materiale dell’attentato a un ipermercato di Barcellona costato la vita a 21 persone. Nella lettera si chiedeva a tutti i detenuti baschi di prendere le distanze dalla
scelta di usare la violenza armata.
Quadro generale
Francisco Javier López Álvarez (Portugalete, Vizcaya, 4 ottobre 1959)
Francisco Javier López Álvarez, meglio noto come Patxi Lopez, è il Presidente del Governo basco (lehendakari) e segretario generale del Partido Socialista di EuskadiEuskadiko Ezkerra (Pse-Ee). È stato eletto nel 2009 grazie ad un accordo con il Partido Popular (Ppe), la terza forza politica uscita dalle elezioni (dopo Partito Nazionalista Basco e il Partito Socialista di Euskadi). Il patto politico tra Pse e Ppe, impensabile fino a qualche anno fa, ha escluso per la prima volta nella storia del Paese il Pnv dal Governo basco, così come la sinistra indipendentista. Il 5 maggio del 2009 Lopez ha giurato, come da tradizione, sotto l’Albero di Guernica. Alla fine del 2009 ha affermato che “l’Eta è ormai prossima alla fine”.
Lo strano caso dell’asse Eta-Farc Sta scatenando non poche tensioni tra Spagna e Venezuela la testimonianza di due militanti dell’Eta, Juan Caelos Besance e Xavier Atristain. Arrestati di recente i due hanno dichiarato di essere stati addestrati in Venezuela. Il premier spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero ha chiesto spiegazioni a Hugo Chavez e la massima collaborazione di Caracas nelle indagini sui presunti addestramenti in Venezuela di membri dell’Eta, partite anche in seguito ad un documento diffuso da un giudice della Udienza Nazionale che accusa direttamente il governo venezuelano di cooperare con Eta e Farc. Netta la presa di distanza di Hugo Chavez che ha parlato di un “piano orchestrato contro il Venezuela”. “Tutto questo è come un’orchestra - ha detto Chavez -. Da un lato c‘è l’udienza ‘reale’ spagnola, dall’altro Washington. È tutto orchestrato”.
che è invece, ancora oggi, lo scopo dichiarato della lotta armata dell’Eta e del programma politico del partito basco Herri Batasuna, considerato il braccio politico dell’organizzazione. Batasuna nasce nell’aprile del 1978 con l’obiettivo di creare uno stato socialista indipendente. Viene dichiarato illegale in Spagna nel marzo del 2003 e considerato una vera e propria organizzazione terroristica dagli Stati Uniti. È il giudice della Audiencia Nacional, Baltazar Garzón a mettere fuori legge il partito basco Batasuna sequestrandone i beni e impedendone l’azione politica. Non solo. Dopo la messa al bando di Batasuna, Garzón comincia una battaglia durissima contro le formazioni della ‘sinistra abertzale’, l’insieme dei partiti e delle associazioni indipendentiste basche accusate di avere legami con l’organizzazione separatista. Il primo omicidio dell’Eta risale al 1968, quando venne uccisa la guardia civile José Pardines. Nel 1973 l’organizzazione separatista uccide, con una bomba piazzata sotto l’automobile, l’ammiraglio Luis Carrero Blanco, designato da Francisco Franco come suo successore. Da allora le vittime di attentati e omicidi mirati compiuti dall’Eta sono state oltre 800, 2000 i feriti. Nel mirino dell’organizzazione armata obiettivi militari e civili oltre a singoli rappresentanti politici, sia del Pnv che del Partito Popolare (Ppe) e del Partito Socialista (Psoe). Le modalità sempre le stesse: potenti ordigni fatti esplodere dopo una chiamata di avvertimento che però non ha evitato vittime civili. Ne muoiono 17 in un ristorante di Torrejon nel 1985, 21 in un centro commerciale di Barcellona nel 1987, 11 davanti alla sede della Guardia Civil di Saragozza nel 1991. Nel 1992 fallisce il primo tentativo di negoziato, ad Algeri, tra il Governo spagnolo e l’Eta. Un fallimento che porta ad arresti eccellenti da parte delle autorità spagnole e ad una nuova raffica di attentati e omicidi da parte dell’organizzazione separatista. Nel 1998 l’Eta dichiara la prima tregua della sua storia, durante il Governo di Aznar, che regge fino al dicembre del 1999. Il 23 marzo 2006, l’organizzazione dichiara una nuovo cessate il fuoco che apre la strada ad un tentativo, fallito, di dialogo con il Governo di Josè Luis Rodriguez Zapatero. La tregua si interrompe con un nuovo attentato. Il 30 dicembre del 2006 un furgone-bomba esplode in un parcheggio dell’aeroporto Barajas di Madrid. L’attentato rivendicato dall’Eta fa due morti e 19 feriti e Zapatero annuncia la fine del dialogo con l’Eta.