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Inoltre Birmania - Cina/Xinjiang - Coree - Iran - Sri Lanka
Inoltre Birmania/Myanmar “Elezioni farsa per un Paese ancora troppo lontano dalla democrazia. E intanto la popolazione Karen continua ad essere oppressa”.
I commentatori politici di tutto il mondo le hanno già battezzate elezioni farsa. Si terranno il prossimo 7 novembre, 20 anni dopo le ultime “legislative” che il Paese ricordi: quelle che furono vinte dal Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi e dal suo partito. E nella farsa c’entra proprio lei, che non potrà partecipare a al voto con la sua Lega nazionale per la democrazia. A determinarlo la legge elettorale che, a grandi linee, nega l’accesso agli ordini religiosi, attivisti democratici e in generale a coloro che hanno partecipato alle manifestazioni o pronunciato parole offensive nei confronti delle autorità, nonché chi ha subito una condanna politica. Non possono, infine, iscriversi ai partiti i dipendenti statali. L’Onu ha fatto i conti e stimato che “grazie” a questa legge saranno 2100 le persone che non potranno partecipare alle elezioni. Una norma che, di fatto, lascia fuori gran parte dei quadri politici della Lega Nazionale per la democrazia: troppe le condanne subite dai suoi. Gli Stati Uniti, L’Europa, l’Onu e le nazioni asiatiche, tutti avevano chiesto libere elezioni e la possibilità per tutti i partiti e le persone di partecipare. Ma ancora la situazione del Paese, lamentano i politici birmani, è troppo lontana dall’interesse internazionale e comunque tutto quello che viene fatto è troppo poco, se si rischia di vedere perpetuare, con queste legislative, una dittatura. Dittatura che affonda le radici nel passato. Nel 1948 il Paese ottiene l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Da quel momento si insedia una giunta militare che reprime ogni tipo di libertà individuale e deporta i civili con origini diverse da quelle birmane. Sono 35 le minoranze del Paese. Inevitabile la nascita di conflitto tra il Governo militare e diversi movimenti separatisti armati dall’altra. Nell’estate del 1988 si registrano gli episodi più violenti di repressione: decine di migliaia di persone si riversarono nelle strade e nelle piazze per protestare contro la politica economica attuata dal Governo. L’esercito spara sulla folla inerme e disarmata, i morti sono centinaia. Una dura repressione che infiammò l’estate di quell’anno e che non impedì al Governo a indire nuove elezioni. Fu in questa occasione che si venne a creare il fronte di opposizione politica che vede in Aung San Suu Kyi la sua esponente più nota e autorevole. Nel maggio del 1990 si tengono le elezioni, i militari perseguitano e intimoriscono, arrestandoli in molti casi, i leader politici e i candidati delle opposizioni. Aung San Suu Kyi è tra queste. Attualmente vive, a quasi venti anni di distanza, agli arresti domiciliari. Alle elezioni del 1990, la Lega Nazionale per la Democrazia ha ottenuto l’80% dei voti, ma il Parlamento non è mai riuscito a riunirsi. Il Governo militare ha continuato con la politica della repressione, soprattutto nei confronti delle minoranze. La popolazione Karen, la più diffusa in Myanmar, è in guerra con quella birmana dal 1949, per la costituzione di uno stato indipendente nel Nord Est del Paese. Solo negli ultimi anni, più di 100mila persone hanno dovuto lasciare il Myanmar e cercare rifugio nei campi profughi dell’Onu in Thailandia.
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Lo Xinjiang, regione autonoma del Nord Est del Paese, è da tempo teatro di violenze e tensioni sociali fra la minoranza musulmana Uiguri (83 milioni di persone) e i cinesi Han, in maggioranza in Cina e in minoranza nello Xinjiang. Gli Uiguri, turcofoni, con i cinesi Han costituiscono, nella regione, la maggioranza della popolazione. Sono 56 i gruppi che vivono nello Xinjiang, tutti ufficialmente riconosciuti dal Governo cinese. Il riconoscimento formale non ha impedito agli Uiguri di denunciare continui e feroci attacchi da parte dei cinesi, con azioni che violano i diritti umani e repressione di ogni forma di espressione culturale. Questo il contesto che alimenta lo scontro. Nell’agosto del 2010 un attentato è costato la vita a sette persone e dodici sono rimaste ferite. il 9 agosto scorso, per la precisione una donna e un uomo uiguri, nella città di Aksu, hanno fatto esplodere una bomba contro una pattuglia di ordine pubblico a composizione mista: polizia e civili (che in questa regione possono affiancare gli agenti). L’azione ha ucciso l’attentatrice e portato all’arresto di quattro uiguri. Sono segni di una tensione che affonda le radici lontano e che raggiunse il culmine nel luglio del 2009. Nella capitale Urumqi, una manifestazione turcofona sfociò in un scontro che uccise 197 persone e ne ferì 1600. Fu una piccola guerra che ha portò al processo di circa 200 persone, con una trentina di condanne a morte e secondo alcuni gruppi umanitari internazionali, 9 di queste condanne sarebbero state eseguite. Altro elemento che contraddistingue questo conflitto è la censura da parte del Governo cinese. Poco dopo gli scontri del 2009, tre webmaster uiguri sono stati condannati fra i 3 e i 10 anni di reclusione per aver messo in pericolo la sicurezza dello Stato attraverso i messaggi veicolati dai loro siti internet. A detta dell’ Associazione degli Uiguri in America (Uaa) che ha denunciato i fatti, i processi si sarebbero svolti a porte chiuse e gli accusati sarebbero stati difesi da avvocati assegnati dalla stessa Corte. Nel luglio precedente, un altro giornalista uiguro, Hairat Niyaz, era stato condannato a
Inoltre Cina - Xinjiang “Uiguri turcofoni discriminati dalla maggioranza Han. Pechino tiene sotto controllo stampa e web per non far conoscere al mondo il dissenso”.
quindici anni di reclusione, sempre per delitti contro la sicurezza dello Stato. Aveva pubblicato sul suo blog “messaggi” atti a provocare gli scontri che hanno infiammato la piazza. Anche a lui è stata negata la possibilità di scegliere un avvocato difensore, mentre ha potuto avere colloqui con un solo familiare (denuncia di Amnesty International). Intanto, ad un anno dagli scontri, la lunga mano dello Stato si fa sentire anche attraverso l’istallazione, in ogni punto della capitale, di 40mila telecamere “di controllo” dotate di gusci anti sommossa. Ma è la politica ad offrire, quest’anno, spunti interessanti. A dicembre, infatti, lo Xinjiang ha promulgato una legge (la prima della storia) per l’educazione all’unità etnica. La legge, dichiarano i promotori: “rende obbligatorio per tutti i cittadini di lavorare a favore dell’ unità nazionale e contro la secessione. Essa stabilisce che è vietato per tutti gli individui e le organizzazioni proferire discorsi dannosi per l’unità etnica e raccogliere, fornire, produrre e diffondere materiale di quel tipo”. Nessun segno, quindi, porta a pensare che le cose possano migliorare. Intanto Human Rights Watch ha segnalato 43 casi accertati di dissidenti scomparsi.
Inoltre Corea del Nord-Sud “Quarantasei marinai del Sud morti nel Mar Giallo sono la nuova sfida tra due Paesi nemici che rappresentano un solo popolo”.
Aprile 2010: abrogato l’accordo di non aggressione tra le due Coree. Attraverso una nota consegnata alla stampa, il Governo di Pyongyang (centro commerciale e culturale nonché capitale della Corea del Nord) annuncia che interromperà ogni tipo di rapporto con Seul e la Corea del Sud. A scatenare la tensione un incidente diplomatico nel Mare Giallo. La cronaca al 26 marzo 2010 racconta dell’affondamento del Cheonan: si tratta di una corvetta colpita dall’esercito del Nord: morti 46 marinai sudcoreani. A scatenare l’offensiva il presunto attraversamento della Northern Limit Line, il confine nel Mar Giallo a Ovest della penisola coreana. Seul dice per bocca del suo ministero della Difesa che l’attraversamento non è avvenuto ma al Nord l’opinione non è condivisa. Il 25 aprile dall’esercito nordista giunge una dichiarazione: «Si tratta di una provocazione deliberata per scatenare un altro conflitto militare nel Mare Giallo e spingere così a una fase di guerra». Dal questo lato della Corea la corvetta ha certamente sconfinato le acque territoriali. L’affondamento del Cheonan è stato l’incidente più grave avvenuto nella frontiera marittima tra i due Paesi dopo la fine della guerra di Corea (1950-1953). Seul incassa le accuse ma non resta a guardare: annuncia la sospensione di ogni rapporto oltre a chiedere scuse ufficiali per quanto avvenuto. A poco meno di un mese dall’incidente i fronti si ribaltano con Pyongyang che annuncia l’espulsione di tutto il personale sudcoreano impiegato nella regione industriale di Kaesong e bandisce navi e aerei da acque e cieli territoriali. Ma questi non sono i provvedimenti più drastici. Sempre da Pyongyang viene data comunicazione che: «I colloqui con il Sud non verranno ripresi fino al 2013 (anno nel quale terminerà il mandato del presidente Lee Myung-Bak’s) e se ci saranno rapporti sarà la legge marziale a gestirli». Inoltre «Il Nord metterà in atto misure militari concrete per difendere le sue acque, come ha già chiarito, e la Corea del Sud sarà ritenuta pienamente responsabile delle relative conseguenze». Insomma una brutta situazione. A fine settembre del 2010 le due parti si vedono ma senza successo. Non accadeva da tre anni che i rappresentanti militari delle due Coree si incontrassero, ma nulla di fatto: Pyongyang ha rifiutato di scusarsi con Seul e tutto è saltato. Si legge in una nota stampa diffusa dal ministero della Difesa sudcoreano: «Le parti sono rimaste ferme nelle rispettive posizioni di partenza, senza riuscire a trovare punti di intesa, e non è stata fissata alcuna data per ulteriori colloqui». Seul: «ha chiesto con forza che la Corea del Nord ammettesse le proprie responsabilità nell’affondamento della corvetta Cheonan, offrendo le proprie scuse e punendo i responsabili dell’attacco. Fermando, poi, immediatamente le minacce militari e i comportamenti aggressivi all’altezza dei confini marittimi». Ma la delegazione di Pyongyang rifiuta ogni responsabilità e ribadisce che l’indagine svolta sull’incidente non è da considerarsi valida visto che condotta da «una commissione controllata da Seul». Nulla di fatto, in conclusione. Intanto la Corea del Nord si appresta ad effettuare un importante passaggio di testimone. Sarà, infatti, Kim Jongun, 28 anni e terzogenito del supremo nordcoreano Kim Jong-il, meglio noto come “caro leader”, a guidare Pyongyang verso il futuro. Kim Jong-un è già stato nominato generale.
L’Iran vive forti tensioni interne nel 2010 per l’affermarsi del movimento nonviolento l’Ondaverde. Salito alla ribalta dei media di tutto il mondo, il movimento porta in piazza migliaia di persone. In testa ai cortei centinaia di donne, perché l’Ondaverde appare come il movimento delle ragazze che si battono per rivoluzionare la condizione femminile in Iran e nell’Islam. Il regime, però, non apprezza e reprime. L’11 febbraio del 2010 il momento più violento. A Teheran si celebra la festa della rivoluzione islamica. Alla vigilia della manifestazione l’opposizione giura che: “ci riprenderemo la piazza” e i leader che “puniranno coloro che hanno tradito la rivoluzione”. Uno scenario che non promette nulla di buono, che matura dopo mesi di scontri. Nel dicembre precedente, nel corso della festa dell’Ashura (commemorazione l’assassinio nell’anno 680 del terzo imam, Hossein, nipote del profeta Maometto), gli scontri di piazza avevano portato alla morte di una quindicina di persone per mano della polizia. Allora la ‘festa’ era stata anticipata da amare e profetiche dichiarazioni dell’ l’ayatollah Khamenei: “I nemici della Repubblica islamica sono come schiuma sull’acqua e saranno eliminati agli occhi della nazione”. L’Ashura provoca anche un arresto eccellente, quello di Ebrahim Yazdi, imponente voce critica del regime, vice-premier e ministro degli Esteri nel primo governo dopo la rivoluzione del 1979 e dirigente del Movimento per la Liberazione dell’Iran. Morti, feriti e scontri si susseguono. La Comunità internazionale non perde occasione per condannare la sanguinosa e violenta repressione messa in atto dal presidente iraniano Ahmadinejad e dal suo governo. Ma la ribalta, Theran, l’ha conquistata anche per il lungo braccio di ferro sul nucleare. Il governo ribadisce la volontà di costruire centrali per l’energia elettrica, ma il sospetto dei Paesi occidentali, Stati Uniti e Israele in testa, è che sia solo una copertura per produrre armi atomiche. Scartata l’ipotesi, pur minacciata, di una soluzione militare - troppo costosa - gli Stati Uniti e la Unione Europea hanno puntato
Inoltre Iran “L’opposizione stroncata dalla repressione del Governo Islamico. Sul piano internazionale è scontro per le centrali nucleari”.
su un embargo economico, formalmente voluto dall’Onu per convincere l’Iran a non sviluppare il proprio programma. Cina e Russia hanno aderito e l’Ue ha inasprito unilateralmente le misure. Ma Teheran ha trovato fuori dall’Occidente molti e potenti amici interessati ad essere presenti, come acquirenti e come investitori. Le sanzioni dell’Onu contemplano poi solo misure contro banche e imprese presumibilmente coinvolte nel programma nucleare iraniano,contro le forniture di armi e le imprese legate ai pasdaran. Così nulla si può imputare alle società petrolifere di India, Cina, Russia e Turchia che continuano a operare nel paese. L’Iran sta facilitando proprio le imprese di questi Paesi e Mosca e Pechino hanno firmato accordi di cooperazione energetica. La Turchia, dal canto suo, si è proposta come potenziale mediatore globale sulla questione, assieme al Brasile. Il sorprendente boom economico turco non è certo un sottoprodotto dell’embargo contro l’Iran: una quota importante è dovuto proprio al fiorire di export e accordi con Teheran, che trova in questo modo ‘sponde’ diplomatiche sufficienti per proseguire nello sviluppo del nucleare e contemporaneamente sta sperimentando nuovi vettori per missili a largo raggio. La vera minaccia viene da Israele, che si sente in pericolo. Il governo di Gerusalemme ha più volte detto di essere pronto a bombardare le centrali iraniane: una promessa che molti temono possa diventare realtà.
Inoltre Sri Lanka “I Tamil si sono arresi, la guerra è finita. Per il Paese si tratta ora di ricostruire riallacciando rapporti con l’India”.
Il più che ventennale conflitto viene considerato militarmente concluso dal maggio 2009, quando il presidente Mahinda Rajapaksa, dichiara ufficialmente sconfitta l’insurrezione dei Tamil e annuncia l’uccisione del leader Velupillai Prabhakaran e di gran parte dello stato maggiore Tamil. Lo scontro armato era riesploso nella prima metà del 2008. In dicembre dello stesso anno, l’offensiva dell’esercito portava alla riconquista della parte settentrionale della penisola di Jaffna. I ribelli non riescono a tenere il fronte sul piano militare e si scindono su quello politico. Le parti non accettano richieste di tregua o cessate il fuoco, così gli scontri continuano, con bombardamenti, attentati e attacchi suicidi. Gli sfollati nei territori dell’Est sono migliaia. La fine arriva, appunto, il 17 maggio 2009, con la resa dei Tamil. È guerra fra popoli diversi, fra religioni differenti, fra culture, quella che ha devastato l’isola di Sri Lanka per decenni. Ovvio, si trattava di controllo del potere, in un Paese strategico per la posizione geografica. Ma la realtà è che la maggioranza Cingalese - buddista - non ha mai concepito o tollerato le richieste di indipendenza e autodeterminazione della minoranza Tamil, induista. Dopo l’indipendenza del 1948 e aver tagliato i ponti definitivamente dal Regno Unito nei primi anni’70, la maggioranza cingalese varò un costituzione - 1972 l’anno - che introduceva il buddismo come religione di Stato e aboliva l’articolo 29 della Costituzione precedente, che garantiva i diritti delle minoranze. Questo l’avvio della guerra, a cui si aggiunsero gli interessi indiani nel proteggere parte della popolazione Tamil di origine continentale e di mantenere un controllo territoriale sullo Sri Lanka. La stessa ragione ha spinto gli Stati Uniti ad intervenire, nel tentativo di garantirsi basi militari importanti in chiave anti cinese. È stata una guerra durissima quella nello Sri Lanka. Durata più di due decenni, secondo le stime internazionali ha causato almeno 65mila morti. Tante vittime, quindi, sia delle violenze fra esercito e guerriglieri, sia per gli scontri feroci interni agli stessi gruppi ribelli. Non sono mancati gli abusi, gli eccessi denunciati dalle organizzazioni internazionali. Nel biennio ‘96 - ‘97 il culmine, con la denuncia dell’arresto da parte della polizia e della successiva scomparsa di 600 persone, 400 delle quali ritrovate in una fossa comune due anni più tardi nella città settentrionale di Chemmani. La guerra ha anche portato all’incapacità di agire nelle situazioni di emergenza, che sono state tante. Questo ha causato altre vittime. Come per il maremoto del dicembre 2004, che fece 30mila vittime e più di 5600 dispersi. La costa orientale, da Jaffna fino alle spiagge del Sud, fu devastata. I distretti di Muttur e Trincomalee vennero distrutti. Il cataclisma portò una tregua nei combattimenti, ma l’intervento dei soccorsi e della ricostruzione furono inevitabilmente rallentati dai problemi del Paese.
Gli attori
Il conflitto dello Sri Lanka ha avuto sempre anche attori esterni. Il principale, l’India, impegnata a difendere gli interessi dei Tamil di origine indiana, soprattutto per evitare sollevazioni e problemi sul proprio territorio. Tra il 1987 e il 1990, l’India ha inviato sull’isola, a Jaffna, un contingente di forze di pace, denominato Indian Peace Keeping Force (Ipkf), in aiuto delle forze armate cingalesi. Pare sia questa la ragione dell’attentato che, nel 1991, uccise Rajiv Gandhi durante un comizio elettorale in Tamil Nadu. Poi, gli Stati Uniti: ufficialmente hanno sempre dichiarato di essere contro la divisione dello Sri Lanka e il terrorismo. Contemporaneamente hanno accreditato l’Ltte, utilizzando ad esempio la Norvegia per mediare fra le parti.