Atlante delle Guerre - ottava edizione

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ATLANTE

DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO

Ottava edizione


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Cina Xinyang

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niger burkina faso

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CONFLITTI, MISSIONI ONU, INOLTRE

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honduras

SITUAZIONE A GIUGNO 2018

messico

bosnia

irlanda del nord

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UNMOGIP

UNMIK

UNMISS

UNFICYP

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MINUSMA

UNDOF

UNAMID

MINUSCA

UNIFIL

MONUSCO

MINUJUSTH

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Sudan del Sud

Thailandia

Costa d’Avorio

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Yemen Arabia Saud.

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Afghanistan

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cina/tibet

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corea nord/sud

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filippine

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Israele Palestina

R.D. del Congo

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Sahara Occidentale

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Pakistan Pashtun



ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO Ottava edizione A tutti coloro che sono costretti a lasciare la propria casa per guerra, fame, ingiustizie. A tutti quelli che rischiano la vita per tentare di trovare un'altra vita.

Associazione 46° Parallelo


ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO OTTAVA EDIZIONE Direttore Responsabile Raffaele Crocco

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In redazione Beatrice Taddei Saltini Daniele Bellesi Alice Pistolesi Giorgia Stefani Hanno collaborato Paolo Affatato Giuliano Battiston Fabio Bucciarelli Camilla Caparrini Marika Di Pierri Danilo Elia Alfredo Falvo Marina Forti Federico Fossi Emanuele Giordana Rosella Idéo Massimiliano Lettieri Flavio Lotti Enzo Mangini Raffaele Masto Riccardo Noury Ilaria Pedrali Andrea Pira Luciano Scalettari Giovanni Scotto TerraProject

Un ringraziamento speciale a: Carlotta Sami, Portavoce Unhcr Italia Riccardo Noury, Portavoce di Amnesty International Marica Di Pierri, Presidente Cdca Giovanni Scotto, Presidente del corso di laurea Sviluppo economico, cooperazione internazionale, socio-sanitaria e gestione dei conflitti (SECI) Il progetto, Tentativi di Pace, è stato realizzato con la collaborazione di studenti del SECI e del corso di laurea in Scienze Politiche: Chiara Bini, Francesca Pugliese, Francesca Zagli, Sofyene Meddourene.

Redazione Associazione 46° Parallelo Via Salita dei Giardini, 2/4 38122 Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it Foto di copertina Relatives escort a Dinka woman suffering from cholera to a specialized medical facility for the cholera patients in Mingkaman on April 26, 2017. ©Fabio Bucciarelli www.fabiobucciarelli.com Testata registrata presso il Tribunale di Trento n° 1389RS del 10 luglio 2009 Tutti i diritti di copyright sono riservati ISSN: 2037-3279 ISBN-13: 978-8866814085 Finito di stampare nel giugno 2018 Grafiche Garattoni - Rimini

Progetto grafico ed impaginazione Daniele Bellesi Progetto grafico della copertina Daniele Bellesi


Ciad Costa d’Avorio Etiopia/Eritrea Libia Mali Niger Nigeria Repubblica Centrafricana Repubblica Democratica del Congo Sahara Occidentale Somalia Sudan Sudan del Sud

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Afghanistan Cina/Tibet Filippine India Iraq Kashmir Kurdistan Myanmar Nagorno Karabakh Pakistan Pashtun Thailandia Yemen/Arabia Saudita

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Editoriale Raffaele Crocco Saluti Amministratori Introduzione Riccardo Noury Introduzione Marica Di Pierri Introduzione Gianluca Mengozzi Istruzioni per l’uso La Redazione La situazione Raffaele Crocco In cerca della pace Flavio Lotti Affari e guerra/Rapporto Sipri Alice Pistolesi Geografia della guerra/1 Rosella Idéo SPECIALE CONFLITTI AMBIENTALI Introduzione Cdca Sahara Cdca Corno d'Africa Cdca Bolivia Cdca Bangladesh Cdca FOTOREPORTAGE Land Grabbing TerraProject Africa Il diritto resta un miraggio Amnesty International La voce alle donne Giovanni Scotto SCHEDE AFRICA Inoltre Algeria - Burkina Faso - Burundi - Camerun - Guinea Bissau - Guinea Conakry - Liberia - Uganda America I passi indietro di un continente Amnesty International La via Crucis dei migranti Giovanni Scotto SCHEDE AMERICA Inoltre Colombia - Honduras - Messico - Venezuela Asia Asia in ginocchio Amnesty International Le conseguenze delle incertezze Giovanni Scotto SCHEDE ASIA Inoltre Cina/Xinyang - Iran- Corea Nord/Corea Sud - Asia post-sovietica Europa Diritti economici: un ricordo Amnesty International In ordine sparso Giovanni Scotto SCHEDE EUROPA Inoltre Bonsia - Irlanda del Nord - Conflitti post-Urss Vicino Oriente I diritti umani non abitano qui Amnesty International Sembra finito l’ordine post-coloniale Giovanni Scotto SCHEDE VICINO ORIENTE Le missioni Onu Nazioni Unite - I Caschi Blu Raffaele Crocco Vittime di guerra Federico Fossi Geografia della guerra/2 La Redazione FOTO REPORTAGE Le miniere di Coltan Alfredo Falvo LE NOSTRE INFOGRAFICHE Introduzione 1 - Missioni Onu 2 - Commercio armi 3 - Acqua e conflitti ambientali 4 - Profughi e conflitti ambientali 5 - Migranti nel Mediterraneo 6 - I muri del mondo 7 - Religioni 8 - Libertà di informazione 9 - Spesa sanitaria 10 - Pirateria Gruppo di lavoro Glossario Fonti Ringraziamenti

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Indice

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© Alfredo Falvo/Contrasto

Edizione

In collaborazione con

Associazione 46° Parallelo Via Salita dei Giardini, 2/4 - 38122 Trento

Associazione 46° Parallelo Via Salita dei Giardini, 2/4 - 38122 Trento info@atlanteguerre.it - www.atlanteguerre.it

Editrice AAM Terra Nuova S.r.l. Via Ponte di Mezzo, 1 - 50127 Firenze Tel. +39 055 3215729 info@aamterranuova.it - www.aamterranuova.it

Con il supporto di

Con la collaborazione di

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Idea e progetto

Con il sostegno di

PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO

In collaborazione con

Con il contributo di


Editoriale

È finito il tempo di credere solo alle cattive notizie

Le cose cambiano anche verso la pace

© Alfredo Falvo/Contrasto

Il Direttore Raffaele Crocco

La foto a pagina seguente è di © Fabio Bucciarelli

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È

vero, sono ancora 34, ma siamo pieni di buone notizie. Le guerre nel Mondo sono più o meno sempre quelle, per quello che sappiamo misurare come Atlante, ma le cose non vanno malissimo. Nel 2018, ad esempio, le due Coree sono tornate vicine, a dispetto degli esperimenti nucleari di Kim, delle minacce di Trump e dell’incapacità del Mondo di reagire. Poi, mentre a livello mondiale registriamo la crescita feroce di profughi e rifugiati, l’Uganda, con le sue contraddizioni, ci ha insegnato con i profughi del Sudan del Sud come accogliere chi scappa dalla guerra e dalle ingiustizie, facendosene carico perché è giusto. Negli Stati Uniti 800mila ragazzi delle scuole medie e superiori sono intanto scesi in strada per dire al loro Governo - abituato a vendere armi in casa e fuori - che non vogliono più sentirsi minacciati da chi con troppa facilità compera fucili e pistole nella bottega sotto casa. Non prendetelo come un eccesso di ottimismo. Queste sono buone notizie vere e nemmeno piccole. Sono le cose che ci fanno capire ad aver ragione quando pensiamo che la guerra - tutte le guerre - è sempre evitabile. Non è un male incurabile e intimamente legato al nostro essere uomini. La guerra - tutte le guerre - è solo la somma di evitabili ingiustizie. La questione è che non ce ne convinciamo e lasciamo che ci vengano raccontate altre storie. Prendete il caso del Vicino Oriente. Impauriti dal cosiddetto Stato Islamico lasciamo tranquillamente che ci raccontino che l’Arabia Saudita è un alleato affidabile. Fingiamo di non sapere delle bombe che, in poco tempo, hanno causato 10mila morti nello Yemen. Non si parla di una guerra che sta uccidendo di fame e malattie 20milioni di individui e si tace del braccio di ferro mortale fra Riad e Teheran per il controllo della Regione. Se poi - come è successo - Usa, Inghilterra e Francia decidono di andare a bombardare la Siria, non reagiamo a chi ci racconta che lo fanno per punire Assad per l’uso delle armi chimiche. Anzi, ci crediamo. Non pensiamo che le bombe possano essere arrivate ora solo perché nel Vicino Oriente si definiscono ruoli, poteri e interessi che escludono sempre più Washington, Londra e Parigi dall’area a favore della Russia e dell’Iran, che potranno ricostruire la Siria distrutta dalla guerra. Un affare da 400miliardi di dollari, dicono gli esperti. Non ci indigniamo per Erdogan che va a bombardare i curdi dopo che li abbiamo usati contro il sedicente Stato Islamico. Non ci arrabbiamo se 8 individui - otto - hanno il 58% della ricchezza mondiale. Non ci stupiamo se l’Italia ha un debito pubblico che pare un pozzo senza fondo, ma poi è dodicesima nella classifica degli eserciti del Mondo. Il nostro problema - nostro, proprio di tutti - è dimenticare che le rivoluzioni iniziano dall’attenzione alle cose che ci circondano. Capire che ogni cosa ci riguarda è la chiave per rispettare gli altri esseri umani, per far diventare i diritti quotidianità, per annullare l’eccesso di differenze. È capire che ogni cosa che ci appare lontana, nel tempo o nello spazio, in realtà ci è vicina che ci fa agire nel modo corretto. Fame, ingiustizie, violenze ci riguardano sempre. E ci riguardano sempre anche le cose buone che, in qualsiasi parte del Pianeta, si riescono a fare per evitarle. Sono cose belle, iniziamo a raccontarle. Magari, alla fine, diventano vere per tutti.


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Saluti

I

l Trentino da sempre vuole avere orecchie ed occhi sul mondo. Questo concetto, semplice nella sua straordinarietà, porta la Provincia autonoma di Trento ad essere uno dei sostenitori più convinti dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo fin dalla prima edizione. In tutti questi anni di collaborazione gli incontri con le scuole del Territorio sono stati moltissimi. La convinzione che infatti coltiviamo è che l’Atlante sia uno strumento fondamentale per capire le ragioni di quello che succede nel mondo, per raccontare la guerra e soprattutto per capirne le cause. Importante quindi la diffusione dello strumento Atlante non solo nelle scuole, ma anche nelle associazioni di volontariato, per consegnare a tutti coloro che vogliono operare a favore degli altri, utili strumenti di analisi. Il nostro impegno si conferma quindi quello di diffondere anche questa ottava edizione in maniera capillare, anche con l’organizzazione di incontri e appuntamenti. Da sempre la Provincia di Trento è impegnata a sostenere tutti quei progetti e quelle iniziative che servono per migliorare le condizioni di vita e i diritti di migliaia di essere umani. Il nostro sostegno all’Atlante si inserisce, con rinnovata convinzione, in questo solco.

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Sara Ferrari Assessore all'università e ricerca, politiche giovanili, pari opportunità, cooperazione allo sviluppo della Provincia autonoma di Trento

L

’amicizia personale tra me e alcuni membri della redazione dell’Atlante è datata a tanti anni fa, quando l’Atlante fu pensato per la prima volta. Quando da Sindaco del Comune di Empoli ho avuto l’opportunità di incrociare la disponibilità di alcuni di questi straordinari giornalisti nel realizzare percorsi formativi nelle scuole sui temi dell’Atlante, ho colto questa opportunità con convinzione ed entusiasmo. Mai come in questo momento abbiamo bisogno di diffondere e rafforzare le conoscenze e le competenze sullo “stato di salute della pace”. Mai come in questo tempo le guerre invisibili e mai raccontate dal mainstream sono il vero scenario di contesto che spiega la nostra quotidianità e le sue contraddizioni. Appartengo a quella generazione cresciuta insieme alla parola “globalizzazione” come sinonimo di speranza, come banco di prova dell’umanità. Oggi purtroppo constatiamo che l’uomo è riuscito più a globalizzare le miserie e le violenze che non i diritti e le opportunità. Ma noi non vogliamo arrenderci di fronte a questo stato delle cose e pensiamo che solo attraverso un’azione profonda e capillare di diffusione della conoscenza si possano scuotere le coscienze e mettere in moto un cambiamento vero in nome del rispetto dei diritti umani. Ecco dietro al piccolo sostegno che abbiamo voluto dare come Amministrazione Comunale all’Atlante delle guerre c’è un sentimento di sincera stima e ringraziamento per chi con passione ed estrema professionalità ogni anno lavora alla sua stesura e un auspicio che presto questo strumento possa non servire più perché vivremo in un mondo di pace. Brenda Barnini Sindaco di Empoli


Introduzione

Non evitiamo i morti, non ci prendiamo cura dei vivi

Le brutte figure della leadership globale

Riccardo Noury Portavoce Amnesty International

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L

e schede regionali che leggerete all’interno di questo volume, tratte dal Rapporto 2017-2018 di Amnesty International (Infinito Edizioni) mostrano una crisi di leadership globale. Non è la prima volta, ma è la volta più grave. I principali leader mondiali, seguiti con entusiastica adesione da figure di secondo piano, hanno portato avanti politiche egoiste, di corto respiro, usando un linguaggio spesso demonizzante, incendiario, xenofobo, misogino. Trump, Putin, Xi, Erdoğan, Sisi, Duterte, Orban… l’elenco potrebbe essere molto più lungo. La principale espressione di leadership globale, o meglio quella che dovrebbe rappresentarla al meglio, ossia il Consiglio di sicurezza, ha relegato sé stessa a un ruolo marginale e irrilevante nell’affrontare le gravissime crisi dei diritti umani (Siria, Yemen, Myanmar, conflitti dell’Africa subsahariana), raramente proponendo soluzioni e spesso aggiungendo problemi. Il 2017 è stato l’anno di vigilia del 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani e la comunità internazionale ha mostrato il peggio di sé. Incapace di evitare i morti e di prendersi cura dei vivi, delegandone il destino a Paesi difficilmente in grado di farsi carico della crisi globale dei rifugiati, rimandando i richiedenti asilo in luoghi di guerra (è il caso degli afgani che a migliaia vengono rimpatriati dall’Unione europea) o firmando accordi con attori statali e non - come nel caso della Libia - per impedire le partenze verso la frontiera europea. Queste brutte figure non devono essere osservate. Da qui il clima di crescente ostilità e anche di criminalizzazione delle Ong, i tentativi da parte di vari Governi di chiuderle o bollarle come agenti nemici. Da qui il crescente numero di giornalisti e blogger perseguitati, intimiditi e uccisi. In questo momento di grande sofferenza, tante persone avvertono per la prima volta o di nuovo un senso di urgenza: mettersi di traverso rispetto a politiche sicuritarie e discriminatorie, scendere in piazza, consapevoli che un “like” è sempre utile ma non basta più. Voglio ricordare le mobilitazioni contro le molestie e la violenza sessuale contro le donne, contro i tentativi di tanti Governi di porre sotto controllo istituzioni e stampa, contro le torture e le sparizioni. In Italia, continua a esserne straordinario esempio la campagna “Verità per Giulio Regeni”. A lui e a Marielle Franco, difensora dei diritti umani assassinata il 14 marzo del 2018, Amnesty International Italia dedica le pagine con cui ha contribuito a questo indispensabile volume.


Introduzione

Questione di giustizia (climatica) Abbiamo dichiarato guerra al Pianeta

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eserti che avanzano. Ghiacciai che si sciolgono. Inondazioni che ingoiano ogni anno chilometri di coste, migliaia di case e altrettante storie di vita. Ed ancora, siccità prolungate, eventi estremi sempre più frequenti, raccolti perduti, economie locali distrutte, immense colonne di nuovi migranti costretti a lasciare le proprie terre per sopravvivere. Non è lo scenario apocalittico di un colossal americano. È la realtà: l'uomo ha dichiarato guerra al pianeta. Ha piegato ai suoi bisogni la natura. Ha sfruttato le risorse naturali in maniera insostenibile. Ha emesso in atmosfera quantità incontrollate di gas clima alteranti. Ha prodotto quantità immense di rifiuti. Ha dato il suo nome ad un'era geologica, l'Antropocene, indicando che nulla, in quest'epoca, è più deleterio e destabilizzante dell'agire umano per gli equilibri della Terra. Ed ora è l'emergenza climatica a dichiarare guerra ai popoli, soprattutto ai più vulnerabili. Il caos climatico non conosce confini. Riguarda ogni angolo del mondo. Eppure condannate a pagare il prezzo più alto sono proprio le popolazioni dei Paesi del Sud del mondo, i meno industrializzati, quelli che meno storicamente hanno contribuito alle emissioni di gas serra. È per questo che i popoli del mondo, i movimenti popolari per la giustizia ambientale, pongono alla base delle proprie rivendicazioni il concetto di giustizia climatica. Chiedendo Giustizia climatica chiedono di avere lo stesso diritto ad essere protetti dalle catastrofi climatiche che hanno i Paesi ricchi. E soprattutto chiedono che questi ultimi smettano di estrarre idrocarburi, di utilizzare processi produttivi ad alto impatto ambientale. In una parola: che si impegnino a rispondere agli allarmi della scienza e ripensino radicalmente il modello economico. Infine, che escano dall'egoismo dell'accumulazione e della corsa al Pil stanziando fondi adeguati per aiutare i Paesi più vulnerabili ad adattarsi ad un caos di cui non hanno colpa. Anche questa, in fondo, è una questione di giustizia. Marica Di Pierri Presidente Cdca Centro Documentazione Conflitti Ambientali


Introduzione

Essere informati è importante per poter agire meglio

Comprendere la realtà per risolvere i conflitti

Gianluca Mengozzi Presidente ARCI Toscana

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L

’Atlante delle Guerre e dei Conflitti è uno strumento prezioso. È stato chiaro fin dal primo momento in cui lo abbiamo avuto tra le mani, ormai qualche anno fa. E sarà ancora più preziosa questa edizione, che esce in un momento così complesso e difficile per il nostro Paese e per tutti coloro che si impegnano quotidianamente nel contrastare le semplificazioni e l’ignoranza sui fenomeni globali alla base della xenofobia e dei populismi. L’Arci Toscana ha subito “adottato” l’Atlante nel vero senso del termine, come nelle scuole si adottano i libri di testo per le necessità educative. L’Atlante ci ha accompagnato nelle tante iniziative di approfondimento e conoscenza che i nostri comitati territoriali portano avanti nelle scuole, nei circoli, nei percorsi di educazione popolare. Questo insostituibile strumento ci ha permesso di dare un senso unitario a due importanti aree di intervento sociale che troppo spesso il terzo settore tratta come distinte: da un lato l’impegno per i diritti dei migranti, la libertà di movimento e l’accoglienza, dall’altro la cooperazione e la solidarietà internazionale e il sostegno a tante realtà di tutti i Sud del Mondo. Con l’aiuto dell’Atlante siamo riusciti a incrociare le informazioni, a dare un senso più compiuto ai fatti e a sottolineare, con dati, circostanze e numeri, come le migrazioni siano prima di tutto legate agli squilibri mondiali, ai conflitti al neocolonialismo. Si sono potuti comprendere meglio nella loro reale portata fenomeni come l’accaparramento delle terre, l’ingerenza delle potenze economiche e militari verso gli stati più poveri, i conflitti su cui nessuna luce si accende, dando una reale alternativa al racconto di un quadro geopolitico che non mette mai al centro le persone e le loro storie. La società civile dei paesi in guerra chiede all’associazionismo Arci di avere voce, di poter raccontare cosa significa vivere all’interno di un conflitto, di poterne approfondire le cause e le conseguenze geopolitiche sulle popolazioni civili. Si tratta di una richiesta a cui abbiamo il dovere di dare una risposta, specie in casi di conflitti del Vicino Oriente che sembrano non poter avere una fine. Le storie di chi in questi Paesi vive ancora e di coloro che invece sono fuggiti sono strumenti potenti per creare empatia e consapevolezza all’interno delle nostre comunità, condizioni essenziali per poter efficacemente contrastare diffidenza e xenofobia. In questa opera di promozione sociale Arci può contare sulla rete degli esperti che elaborano l’Atlante: essi hanno messo a disposizione con generosità e passione le loro preziose competenze nelle tante iniziative organizzate assieme. In un quadro estremamente complesso come quello che stiamo vivendo fare informazione corretta è atto di resistenza alle pulsioni peggiori indotte nella cittadinanza. Per Arci, che fa del pacifismo e della difesa dei diritti umani la propria bandiera, è allora naturale facilitare con tutti i mezzi a disposizione la missione di chi realizza l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti, perché la luce della conoscenza è l’unico strumento a nostra disposizione contro il buio della paura.


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Istruzioni per l’uso La Redazione

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Piccola guida alla lettura della ottava edizione Queste poche righe sono il “solito libretto di istruzioni” per la lettura di questo Atlante. Le abbiamo sempre scritte, qui le ripetiamo, aggiungendo dove serve qualcosa, dato che tutto cambia e questa pubblicazione non è da meno. Pensiamo che in un libro che parla di guerra, le parole possono avere più significati, possano essere interpretate, piegate, rielaborate per giustificare, spiegare, convincere. Questo vale anche per le scelte grafiche, le immagini, il tipo di carte geografiche. È, insomma, un’operazione politica e come tale è giusto spiegarla, per fare in modo che chi legge sappia cosa si trova dinnanzi. Per questa ragione, l’elemento principale, in questo libro, è proprio la forma grafica, la scelta di essere Atlante. Ogni guerra ha esattamente lo stesso spazio delle altre, il medesimo numero di pagine. Questo per evitare di dare a qualcuna una maggiore importanza rispetto alle altre. È una scelta “politica”, che vuole mettere tutte le guerre allo stesso livello. Per la stessa ragione abbiamo scelto di metterle in ordine alfabetico, per continente: un modo per renderle uguali. Uno spazio apposito - guardate in fondo al volume - è poi dedicato all’uso delle parole. Le abbiamo codificate, in modo di avvisare chi ci legge che noi le usiamo in quel modo e solo con quel significato. Ci pare un passaggio fondamentale per evitare ambiguità e interpretazioni sui fatti, che restano l’elemento base su cui lavoriamo. La scelta, se volete, non è scientifica e certamente qualcuno non sarà d’accordo su come usiamo le parole, ma tant’è: almeno stabiliamo un codice comune e condiviso. Ancora: abbiamo scelto la carta di Peters. Anche questa è una scelta politica, per chiarire la nostra visione del Mondo. Le foto che troverete, poi, sono frutto di varie collaborazioni con agenzie e singoli fotografi, che hanno messo a disposizione i loro materiali. Un tempo usavamo molti frame di video: abbiamo cambiato. Infine, troverete anche quest’anno i Tentativi di Pace, per raccontare ciò che di positivo si muove e incontrerete dieci infografiche generali, pensate per raccontarvi le molte cause che portano alle troppe guerre nel Mondo. Ci pare sia tutto. Come sempre, buona lettura. La Redazione


La situazione

Raffaele Crocco

Foto in alto © Alfredo Falvo/Contrasto

© Alfredo Falvo/Contrasto

Dagli anni ’80 ad oggi, solo il 5% delle guerre combattute sul Pianeta sono state fra Stati nazionali. Sono state, cioè, guerre tradizionali, così come le abbiamo conosciute a scuola. Nelle stragrande maggioranza delle situazioni, a combattere sono stati gruppi, fazioni, eserciti rivoluzionari, gente che in qualche modo e per qualche ragione voleva arrivare al potere e al controllo delle risorse. I quasi dieci milioni di morti di questi decenni sono figli di questa guerra. È cambiata la guerra, questo ormai lo sappiamo. È cambiata camminando parallela al cambiamento del mondo. L’indebolimento degli Stati nazionali ha portato alla fine degli scontri classici, della lotta per la conquista territoriale. Ora, i conflitti sono più in linea con un mondo sempre più globale, connesso e privo di confini netti. È stato un cambio rapido, pochi decenni. Forse - lo sostengono alcuni studiosi - l’accelerazione verso il ritorno ad una società di disuguaglianze è determinato proprio dalla incapacità che abbiamo avuto e abbiamo di adeguare il nostro sistema politico alla nuova realtà. Le democrazie sono in flessione, questo è appurato, esattamente come lo sono gli Stati nazionali. Se nei primi anni del millennio c’era chi vantava la presenza di 124 democrazie ufficiali fra i Paesi riconosciuti, oggi questi osservatori ammettono che quelle democrazie sono tali solo nella forma. Nella sostanza viviamo le involuzioni di Turchia, Russia e del blocco dei Paesi ex sovietici che ora fanno parte dell’Unione Europea. La Spagna ha affrontato la crisi dell’autonomia catalana con strumenti repressivi. La Francia del neo Presidente Macron è un Paese al limite dell’idea di “Governo forte” dell’estrema destra. La Germania ha i fascisti in Parlamento. Altrove, si formano sovrastati e sovraeserciti per combattere i Governi centrali. Il risultato è che la politica arranca in cerca di soluzioni e la democrazia resta ferma. Così tendono a crescere i motivi che portano alle guerre. Le ragioni possiamo misurarle con precisione: disuguaglianza economica e assenza di diritti e libertà portano inevitabilmente allo scontro. E portano ad accelerare i fenomeni migratori. Per l’Unhcr, sono 64,5milioni gli uomini e le donne in movimento sul pianeta, uno ogni 113 abitanti. Al dato ufficiale, andrebbe aggiunto il numero di chi lascia la propria terra in cerca di fortuna e di lavoro. Un fenomeno anche questo - appunto - globale, a cui gli Stati rispondono alzano muri di norme o muri reali: 22 quelli attuali. I dati inesorabili spiegano cosa sta accadendo. Per la rivista Forbes Bill Gates, Amancio Ortega, War-

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Senza lavoro e diritti il Pianeta muore ogni giorno


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ren Buffet, Carlos Slim, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Larry Ellison, Michael Bloomberg sono gli otto uomini - uomini badate bene, le donne sono fuori anche da questa classifica - più ricchi del mondo. Il loro patrimonio complessivo è valutato attorno a 426miliardi di dollari, pari alla ricchezza di metà della popolazione mondiale. Per estensione - il dato è di Oxfam - l’1% della popolazione mondiale più ricca controlla il 99% della ricchezza del Pianeta. In queste condizioni è difficile pensare che democrazia e diritti funzionino. Inoltre, il denaro ha ormai raggiunto una dimensione globale vera, è sempre più fuori dal controllo di Banche centrali e Stati. L’evasione fiscale è diventata - in ogni sua forma - parte integrante delle transazioni commerciali e finanziarie, grazie allo spostamento delle operazioni e dei conti in altri territori, al di fuori di ogni confine nazionale. La politica non controlla i flussi economici, non li governa più, facendo saltare ogni forma di rappresentanza dal basso, cioè di democrazia e condivisione. Ancora: fra il 2015 e il 2016 le dieci più grandi multinazionali hanno, tutte assieme, realizzato profitti superiori a quanto raccolto da 180 Paesi del Pianeta. Sette persone su dieci, nel mondo, vivono in luoghi dove la disuguaglianza è cresciuta: tra il 1988 e il 2011 il reddito medio del 10% più povero è aumentato di 65 dollari, meno di 3 dollari l’anno. Invece, il reddito dell’1% più ricco è salito di 11.800 dollari, vale a dire 182 volte tanto. Morale: i ricchi diventano più ricchi, i poveri restano poveri. Sul fronte dei diritti, quelli più elementari, le cose non migliorano. Nonostante la produzione agricola mondiale cresca dell’1,5% annuo, ci sono ancora 830milioni di esseri umani che rischiano la morte per fame. La cosa incredibile è che, nel mondo, abbiamo in contemporanea quasi lo stesso numero di obesi: 703milioni. 850milioni di individui non hanno accesso facile all’acqua, nel senso che hanno il primo pozzo ad almeno mezz’ora di distanza. 600milioni non hanno servizi igienici utilizzabili e questo lo pagano caro - in realtà lo paghiamo tutti - sul fronte della salute, con quasi 300milioni di esseri umani che ogni anno muoiono per malattie legate all’assenza di acqua e di igiene. 212milioni, invece, sono quelli che muoiono a causa della malaria. Due miliardi di persone non ha alcun tipo di acceso a cure mediche. Spesso, poi, l’accesso alle cure è sbarrato dai costi esagerati dei farmaci, protetti da brevetti gelosamente custoditi dalle multinazionali farmaceutiche. In questo quadro, si inseriscono le difficoltà dal punto di vista ambientale. Nel 2017 sono andati distrutti quasi 2milioni di ettari di foresta. Due milioni e mezzo, invece, sono gli ettari di terra perduta all’agricoltura, a causa di desertificazione e erosione dei terreni. La conseguenza è nelle migrazioni interne in crescita, soprattutto in Africa. Le proiezioni dicono che, nel continente africano, nel 2050 avremo città di 60-90milioni di abitanti. Saranno un inferno in terra, senza cibo, senza acqua. Già ora Città del Capo, città simbolo dell’emergente Sud Africa, rischia di rimanere senza acqua entro la fine del 2018. Vi sembra un quadro precario? Lo è. Sullo sfondo resta l’idea di un mondo sempre in rosso, in debito. L’Overshoot Day, cioè il giorno in cui finiscono le risorse che il Pianeta riesce a generare, arriva sempre prima. Nel 2017 è stato il 2 agosto, l’anno prima era stato l’8 agosto. Di fatto, consumiamo 1,6 Pianeti all’anno e entro il 2030 ne consumeremo 2. In realtà è un dato falso, come molte statistiche: a consumare due pianeti - o anche più - saranno sempre i pochi che se lo possono permettere. Gli altri, tutti gli altri, continueranno semplicemente a morire gratis di fame, guerra e malattie. © Alfredo Falvo/Contrasto


In cerca della pace Flavio Lotti

Le guerre del Peloponneso, le guerre persiane, le guerre puniche, le crociate, la guerra dei cent’anni, la guerra dei trent’anni, la guerra dei sei giorni, le guerre civili, la prima e la seconda guerra mondiale, la guerra fredda. A scuola si parla spesso di guerra. Ma sono solo storie di altri tempi. Del presente non c’è traccia. Da Atene e Sparta agli antichi romani, da Alessandro Magno a Napoleone, dalla Grande Guerra alla bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki, tutti i programmi di storia, dalle elementari alle superiori, sono scanditi dalle guerre. Eppure, ben pochi studenti escono dalla scuola sapendo cosa sia realmente la guerra. Imparano che è una specie di “ricorrenza ineliminabile” della storia dell’umanità ma non sanno quasi niente di quanto sia estesa questa tragedia nei nostri giorni. Siria, Afghanistan, Iraq, Isis, Iran, Israele, Gaza, Libia, Corea... A raccontare il presente ci sono solo la televisione e i social network che accendono e spengono i riflettori su questa o quella tragedia al ritmo della cronaca, dell’audience e della propaganda. Ma tutto questo non aiuta a capire cosa stia realmente succedendo, le cause, le implicazioni, le conseguenze. Tutt’al più ci spinge a salire sugli spalti dello stadio mediatico e a fare i tifosi per gli uni o gli altri. In questo modo crescono l’incapacità di capire, l’indifferenza, il senso di insicurezza, le paure, la sfiducia, la rassegnazione e, in ultima analisi, la chiusura al mondo. È il paradosso dei nostri giorni. Viviamo in una realtà sempre più globale e interconnessa ma tendiamo a rinchiuderci in uno spazio sempre più piccolo e angusto. Ci nutriamo quotidianamente di cibo e tecnologie che vengono da ogni parte del mondo ma abbiamo scarsa consapevolezza della realtà glocale con cui, volenti o dolenti, dobbiamo fare i conti.

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Portiamo l’Atlante a scuola per educarci ed educare alla pace


La guerra, anzi, le guerre di cui ci parla accuratamente questo Atlante sono - purtroppo - una parte ineludibile di questa realtà. Una parte importante, che rischia di avere un futuro ben più ampio e drammatico del passato. Conoscerle e capirle non ci renderà solo più consapevoli ma anche più capaci di comprendere cosa succede attorno a noi. E, dunque, più capaci di prendere le decisioni che ci verranno richieste nell’arco della nostra vita. Ecco perché dobbiamo portare l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti a scuola. In tutte le scuole. Le esperienze e sperimentazioni che abbiamo realizzato negli ultimi tre anni1 ci dicono che lo si può usare sin dalla scuola primaria. Non è affatto vero, come spesso si sente dire, che “di queste cose se ne può parlare solo con i più grandi”! L’importante è mettere al centro, per davvero, gli alunni/ studenti e far sì che la scuola divenga un grande laboratorio di ricerca. In questo “catalogo delle guerre contemporanee” c’è un’intera valigia di attrezzi con cui si può intraprendere un grande viaggio nella realtà del nostro tempo. Ci sono innanzitutto strumenti per formare gli insegnanti che devono progettare il percorso didattico di educazione alla cittadinanza, definire gli obiettivi, scegliere gli ambienti di apprendimento, impostare il laboratorio. La lettura dell’Atlante consente di assumere uno sguardo d’insieme e ricomporre un quadro che spesso è frammentato. Ricostruita e visionata la mappa globale si può scegliere il percorso. L’Atlante si presta ad un lavoro interdisciplinare in cui la realtà contemporanea s’intreccia con la storia, la geografia, l’economia, le lingue, la cultura religiosa, le scienze, la matematica, la tecnologia... Dopo aver impostato il progetto, gli insegnanti devono sottoporlo alla prova degli studenti. È uno dei momenti più delicati e importanti del percorso, dal quale dipende il reale coinvolgimento emotivo e cognitivo degli alunni. Si può incominciare con una sintetica introduzione orientativa e problematizzante, facendo un brainstorming per far emergere le conoscenze e i vissuti e suscitare un primo coinvolgimento. Oppure si può partire da un fatto di cronaca o dalla presenza a scuola di uno studente arrivato da un paese in guerra. L’importante è porre l’accento sui problemi più che sui contenuti. Non si tratta di esporre delle conoscenze ma di impostare, con la partecipazione attiva degli studenti, un progetto di ricerca. Molte domande attendono una risposta. Cosa sappiamo delle guerre? Che idea abbiamo della guerra? Quante guerre ci sono oggi nel mondo? Perché ci sono tante guerre? Come si fanno oggi le guerre? Quali sono le armi? Chi le costruisce? Dove? Chi sono le vittime delle guerre? Chi ci guadagna con la guerra? Come nascono le guerre? Come finiscono le guerre? Come si può fermare una guerra? Cosa possiamo fare per fermare le guerre? Chi può fare qualcosa? Cosa dobbiamo fare con chi fugge dalla guerra? E l’Italia che c’entra? L’Atlante delle Guerre e dei Conflitti non potrà rispondere a tutti questi interrogativi ma ci sarà d’aiuto ogni qualvolta ci ritroveremo ad un bivio. Tra le sue pagine ci sono due strumenti particolarmente utili: lo zoom e il setaccio. Lo zoom ci consentirà di restringere o allargare lo guardo andando a fondo di un problema o inquadrandolo in una prospettiva più larga (per esempio la prospettiva glocale). Il setaccio ci permetterà di selezionare le cose più importanti che stiamo cercando, imparando a valutare, distinguere e verificare le informazioni. Ci sono tanti modi per riscoprire l’importanza e il valore della pace. Quelli più efficaci ti allenano a fare i conti con la realtà, anche quando ha il volto più orribile e odioso della guerra. Solo così possiamo imparare ad essere non solo più consapevoli ma anche più responsabili.

Tra il 2014 e il 2018, nel Friuli Venezia Giulia sono stati realizzati molti programmi e progetti di educazione alla cittadinanza e alla pace basati sulla formazione, la ricerca e la sperimentazione del personale docente delle scuole primarie e secondarie che hanno portato all’elaborazione delle “Linee Guida per l’Educazione alla pace e alla cittadinanza glocale” diffuse dal Miur nel settembre 2017: il programma “Dalla Grande Guerra alla Grande Pace”; il programma “La pace si insegna e si impara”; il progetto “Un Atlante per la pace”; il progetto “Please stop the war”; il progetto “Cosa sta succedendo?”. Tutti i programmi e progetti sono stati realizzati grazie alla collaborazione tra il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani, l’Assessorato all’Istruzione della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, l’Ufficio Scolastico Regionale per il Friuli Venezia Giulia, il Coordinamento Regionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani del Friuli Venezia Giulia, la Rete Nazionale delle Scuole per la Pace e i diritti umani e la Tavola della pace. Per info: www.lamiascuolaperlapace.it www.perlapace.it 1


Affari e guerra Alice Pistolesi

Dalla fine della guerra fredda mai la cifra spesa in armi nel mondo era stata così alta. L’ultimo rapporto del Sipri, Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, ci consegna l’immagine di un Pianeta che non accenna ad arrestare la propria corsa al riarmo. La spesa militare mondiale totale è arrivata a 1739 miliardi di dollari nel 2017 con un aumento dell’1,1% rispetto al 2016. Questo incremento non deve comunque stupire e va in una direzione già nota. La spesa militare dal 1999 al 2011 era costantemente aumentata, dal 2012 al 2016 era rimasta invariata per poi tornare ad aumentare nel 2017. La spesa militare nel 2017 ha rappresentato il 2,2% del prodotto interno lordo (PIL) globale ed equivale a 230 dollari a persona. Secondo Nan Tian, ricercatrice del Sipri, “gli aumenti della spesa militare mondiale negli ultimi anni sono stati in gran parte dovuti alla sostanziale crescita delle spese da parte di Paesi in Asia e Oceania e in Medio Oriente, come Cina, India e Arabia Saudita”. Quando si parla di riarmo e di spesa militare per l’Atlante delle guerre è necessario analizzare anche la direzione nella quale vorremmo andassero le cose, ovvero il disarmo. E come sempre merita ricordare che il disarmo da solo non basta per garantirsi la pace. Le guerre si combattono non solo perché si dispone di armi più o meno evolute. Le cause che portano alle guerre stanno nelle ingiustizie sociali, ambientali, economiche. E queste motivazioni portano a combattere, anche senza armi di ultimo modello. Come dimostrano anche i dati del Sipri molti degli Stati oggi in guerra hanno una spesa militare in diminuzione o comunque estremamente bassa rispetto a Paesi nei quali non si combatte apertamente. Il disarmo va quindi inserito come elemento importante in un contesto più ampio, che ha come perno il riequilibrio di risorse, di ricchezze, e il rispetto di diritti fondamentali per costruire la Pace. Chi aumenta e chi taglia Qualche conferma ma anche alcune positive novità. A fronte dei Paesi che continuano ad aumentare il proprio investimento in armi ce ne sono molti che invece vanno in controtendenza. Chi ha aumentato la propria spesa è la Romania

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Rapporto Sipri: il Pianeta è sempre più armato


(del 50% rispetto al 2016), il Gabon (42%), il Benin (41%), il Sudan (35%), il Mali (26%), il Burkina Faso (24%), l’Iraq (22%), Cipro (22%), la Lituania (21%), le Filippine (21%), la Lettonia (21%), la Cambogia (21%), il Venezuela (19%), il Niger (19%) e il Lussemburgo (19%). Molti però anche quelli che diminuiscono la spesa e tra questi ci sono anche alcune sorprese. Tra chi ha compiuto tagli ci sono infatti alcuni Paesi con conflitto aperto. Tra questi il Sudan del Sud che ha diminuito l’investimento del 56% e nonostante questo è attraversata da una delle guerre più sanguinose del momento. La spiegazione, secondo il Sipri, sta nel conflitto stesso, che, portando al peggioramento delle condizioni economiche ha comportato ulteriori riduzioni della spesa militare. Segno meno anche per il Ciad (-33%), altro Paese monitorato dall’Atlante, e per il Myanmar (-28%) che nell’ultimo anno ha esacerbato il conflitto ai danni della popolazione rohingya. E ancora la Repubblica Democratica del Congo (-14%), che ha attraversato nel 2017 uno degli anni più drammatici del proprio conflitto interno. Tra gli Stati con il decremento maggiore ci sono poi anche il Perù (-23%), il Mozambico (-21%), l’Oman (-20%), la Russia (-20%), la Costa d’Avorio (-19%), l’Angola (-16%), la Malesia (-16%), il Burundi (-15%), l’Uganda (-15%), il Brunei (-14%) e la Namibia (-11%). Il caso dell’Angola è emblematico. Per anni il Paese è stato il più grande investitore militare nell’Africa sub-sahariana ma con i tagli è arrivato al terzo posto dietro a Sudan e Sud Africa. Da sottolineare anche il caso della Costa d’Avorio che ha visto nel 2017 il primo decremento dal 2013. Chi traina la spesa Per un’analisi più puntuale è necessario suddividere la (mastodontica) spesa totale tra le macroregioni del Mondo. Il Sipri rileva infatti che la spesa militare regionale totale è diminuita tra il 2016 e il 2017 in Africa (dello 0,5%) e in Europa (del 2,2%). Questa diminuzione interessa l’Africa da tre anni consecutivi, mentre per l’Europa si tratta del primo calo dal 2013. La spesa militare nelle Americhe è rimasta invariata nel 2017. Allora chi traina l’incremento dell’1,1% rilevato dal Sipri? La risposta va cercata in Asia, Oceania e nel Vicino Oriente. Nel continente asiatico la spesa è salita per il ventinovesimo anno consecutivo, questa volta del 3,6%. Per i Paesi del Vicino Oriente per i quali sono disponibili i dati la spesa è cresciuta anche nel 2017 del 6,2%. Da considerare poi quanto pesa la spesa militare sulle tasche dei cittadini. L’onere militare varia infatti ampiamente tra le Regioni e tra i Paesi. Secondo il Sipri gli Stati delle Americhe hanno avuto il minor carico militare nel 2017 con una media dell’1,3% del Pil. La percentuale sale all’1,6% in Europa, all’1,7%, in Asia e Oceania, all’1,8% in Africa ma arriva al 5,2% nel Vicino Oriente.

I maggiori acquirenti La classifica dei Paesi che hanno più investito in armi nel 2017 vede gli Stati Uniti ancora saldamente in testa: le sue spese militari sono infatti rimaste immutate rispetto al 2016 e ammontano a 610 miliardi di dollari. Con questa cifra gli Stati Uniti da soli contribuiscono alla spesa militare globale per il 35%. Al secondo posto la Cina, che ha aumentato le proprie spese militari del 5,6%, arrivando ad investire 228 miliardi di dollari. Il Gigante Asiatico ha confermato quindi la propria linea: sono vent’anni che decide di incrementare la spesa. Al terzo posto l’Arabia Saudita, con un incremento del 9,2% e un investimento di 69,4 miliardi. Rimane nella top five la Russia, nonostante il 2017 sia stato l’anno in cui la Federazione ha deciso di investire il 20% in meno in armi. La spesa del Paese si aggira attorno ai 66,3 miliardi. Infine chiude il gruppo dei cinque l’India che ha incrementato la spesa del 5,5%, per 63,9 miliardi di investimento. L'investimento di Russia, Arabia Saudita e India rappresenta il 60% della spesa militare globale.

Investimenti, l'Italia è al dodicesimo posto

Nato, Europa e la 'minaccia russa'

Per il Sipri l’Italia si attesta nel 2017 al dodicesimo posto tra i maggiori investitori in armi nel Mondo, perdendo una postazione rispetto all’anno precedente. L’Italia ha investito in armi 29,2 miliardi di dollari e ha contribuito per l’1,7% alla spesa globale. La spesa militare ha poi inciso sul Pil nazionale per l’1,7%. La Rete italiana per il Disarmo ha commentato questi dati rilanciando la Campagna globale sulle spese militari (Gcoms), che ribadisce la richiesta di una riduzione della spesa militare con conseguente spostamento di fondi su altre necessità. L’obiettivo della Campagna è infatti quello di “far pressione sui Governi affinché investano denaro in salute, istruzione, posti di lavoro e cambiamenti climatici, oltre che alla costruzione della Pace, piuttosto che nelle spese militari”. La Rete Italiana per il Disarmo sostiene la GCOMS nella richiesta di una riduzione del 10% delle spese militari, a partire da quelle italiane che “sono sbilanciate sulla spesa per il personale e prevedono quasi sei miliardi di euro annui per l’acquisto di nuovi armamenti”.

I 29 Paesi aderenti all’Alleanza Nato hanno investito in spesa militare 900 miliardi di dollari nel 2017. Sette dei 15 maggiori investitori militari del mondo fanno parte del gruppo atlantico. Tra questi troviamo gli Stati Uniti al primo posto, la Francia al sesto, il Regno Unito al settimo, la Germania al nono, l’Italia al dodicesimo, il Canada al quattordicesimo e la Turchia al quindicesimo. Per andare più a fondo i quattro Paesi europei rappresentano il 10% della spesa militare globale del 2017. Il Vecchio Continente non va però in una sola direzione: ci sono Paesi che hanno in questi anni diminuito la spesa e Paesi che invece continuano ad aumentarla. Per fare due esempi: la Francia si attesta ad un -1,9% mentre la Germania sale del 3,5%. Tra il 2016 e il 2017 la spesa militare è aumentata nell’Europa centrale del 12% arrivando a 24,1 miliardi di dollari e nell’Europa Occidentale dell’1,7% attestandosi sui 245 miliardi. L’investimento è invece diminuito del 18% nell’Europa dell’Est, arrivando a 72,9 miliardi. Questo dato deriva principalmente dal notevole calo di investimenti della Russia. Secondo il Sipri sull’aumento dell’investimento in Europa Centrale ha giocato un ruolo importante la ‘minaccia russa’ avvertita da alcuni Paesi dell’area.


Geografia della guerra/1 Rosella Ideo

La Corea del Nord è una bomba a orologeria titola il China Morning Post del 16 dicembre 2017. È la presa d’atto della crisi più grave che si sia verificata nella penisola coreana e nell’area da 64 anni ad oggi. Si teme lo scoppio improvviso di una guerra fra Stati Uniti e Repubblica Popolare Democratica di Corea (Rpdc) che avrebbe un effetto devastante a livello locale con decine di migliaia di morti e pesanti conseguenze sull’equilibrio politico ed economico regionale e globale. È sintomatico che Pechino stia allestendo dei campi profughi al confine Settentrionale con la Rpdc dove ha schierato un altro migliaio di soldati. Ignorando le risoluzioni e le sanzioni sempre più pesanti dell’Onu, il regime di Kim Jonn-un ha continuato ad aumentare e perfezionare il suo arsenale nucleare e missilistico. In luglio e in novembre 2017 ha testato, fra gli altri, due Icbm (Intercontinental Balistic Missiles) con una gittata tale da poter colpire le città del continente americano; in settembre ha compiuto il test sotterraneo di una bomba termonucleare 17 volte più potente di quella di Hiroshima. Manca una sola dimostrazione: la miniaturizzazione delle testate nucleari. È stata una sorpresa. Le agenzie di intelligence americane avevano previsto che Pyongyang avrebbe potuto avere degli Icbm affidabili tra il 2020-2022. La tensione che si crea con la personalizzazione dello scontro verbale fra il Presidente Trump e il leader Kim Jong-un fa temere che basterebbe poco, anche un incidente o l’errata percezione di un attacco convenzionale dall’una o dall’altra parte per scatenare una guerra. Il Presidente liquida i tentativi diplomatici del segretario, di Stato Rex Tillerson, come inutili perdite di tempo. Trump è deciso a smarcarsi dai suoi predecessori e minaccia in settembre all’Onu di “distruggere totalmente” la Corea del Nord (25milioni di abitanti). Vuole lo smantellamento unilaterale della Rpdc. Lo spettro di una nuova guerra di Corea è spaventoso e rammenta una ferita ancora aperta: la guerra di Corea del 1950-1953. In sintesi, la spartizione della penisola tra americani e sovietici al 38° parallelo (nel 1945) e la guerra fredda, hanno creato, contro il volere di tutti i coreani, due stati antitetici che, dalla loro fondazione nel 1948, si sono combattuti e odiati. Finita la guerra, con la firma di un armistizio cui non è mai seguita la pace, il 38° parallelo è diventato un muro impenetrabile. La linea “demilitarizzata”, profonda 4 Km, è in realtà il confine più militarizzato del mondo. Dopo l’intervento armato dell’Onu a guida americana (1950) che ha respinto l’avanzata di Pyongyang al Sud con ogni mezzo (napalm compreso) la Rpdc ha sviluppato una mentalità da assedio permanente e, dalla fine degli anni ’80, il possesso di una forza di dissuasione nucleare si è consolidato come elemento costitutivo e identitario dello Stato stesso. La Corea del Sud (RdC) dopo aver subito regimi altrettanto brutali di quello del fondatore della dinastia rossa, Kim il Song, è riuscita a li-

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Stati Uniti e Corea: Insulti, bombe e tregua olimpica


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berarsi delle dittature (appoggiate dagli Stati Uniti in funzione anticomunista) solo nel 1987 con la promulgazione di una nuova Costituzione. Con un passaggio morbido alla democrazia nel 1992, ha eletto il primo Presidente civile della storia della RdC. Da allora nella Corea democratica si sono alternati Governi conservatori e progressisti. I primi sono rimasti anticomunisti con un odio viscerale verso i nemici del Nord; i secondi, fatte salve le misure di sicurezza contro le provocazioni armate dei nordcoreani, sono stati aperti al dialogo, alla distensione e a una generosa cooperazione economica (1998-2008). Il Presidente attuale Moon Jae-in, è un progressista che ha piena conoscenza dei problemi vissuti dai suoi predecessori con gli Stati Uniti di George W. Bush da un lato e le difficoltà di dialogo con la Rpdc dall’altro. Moon entra in carica subito dopo la destituzione della Presidente Park Geun-hie nel maggio del 2017 e pochi mesi dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Il contesto nazionale e internazionale è ancora più pericoloso di quello in cui hanno operato i suoi predecessori progressisti. Moon vuole riaprire, gestendolo come gli compete, il dialogo intercoreano e frenare Pyongyang senza creare fratture con Washington la cui interferenza pare eccedere persino quella dell’amministrazione Bush, che boicottò il riavvicinamento intercoreano (2002-2003). Non può prescindere dall’alleanza militare con gli Stati Uniti che, con 28.500 militari nella RdC (e circa 40mila nel vicino Giappone) e lo scudo nucleare proteggono il Paese da qualsiasi velleità d’attacco dei vicini a cominciare dalla Rpdc, ma rivendica il suo ruolo di attore principale negli affari coreani. Né può fare a meno di mantenere rapporti di amicizia con Pechino, che incombe sulla penisola con la sua massa critica e la ritrovata e asserita centralità in Asia Orientale. Il boicottaggio delle merci sudcoreane in Cina dopo l’installazione dello scudo antimissile americano (Thaad), deciso dalle precedenti amministrazioni di Obama e Park, è costato al Paese una perdita di 12miliardi di dollari. Con il suo viaggio a Pechino Moon ha ristabilito buone relazioni diplomatiche e commerciali fra i due Paesi. Per il momento il problema Thaad è stato accantonato, ma la Cina e la Russia non ammettono che il potente radar dell’installazione tracci le capacità balistiche del rispettivo sistema missilistico. Pechino non controlla Kim, come Trump sembra credere, né riesce a ipotizzare quale sia la strategia (se esiste) del Presidente Usa. Teme l’intervento “limitato” ipotizzato da Trump e un eventuale cambio di regime nella Rpdc che potrebbe portare un Governo ostile e comunque sotto l’egida americana nel cortile di casa; armi di distruzioni di massa senza controllo perché sparse e nascoste in tutto il territorio, tunnel compresi; l’afflusso di rifugiati che premerebbe alle sue frontiere Settentrionali. Del resto Xi Jing Ping ha assunto una posizione più dura con Pyongyang aderendo a tutte le sanzioni Onu che stanno strangolando la già piccola economia nordcoreana, ma non vuole mettere all’angolo il regime. È la stessa posizione di Putin che ha appoggiato la proposta di buon senso di Xi nota col nome di 'freeze-for-freeze': la sospensione dei test missilistici e nucleari della Rpdc e, in parallelo, la sospensione delle esercitazioni militari congiunte Usa/RdC (con il relativo dispiegamento di un apparato bellico massiccio) che Pyongyang ritiene siano le prove generali per un’invasione. Una volta acclarato che la Rpdc è una potenza nucleare, Kim Jong Un ufficializza, nel discorso di Capodanno 2018, la sua adesione all’invito di Moon che, fin dalla sua elezione, ha cercato di sbloccare il dialogo intercoreano interrotto da un biennio. Kim manderà i suoi atleti alle Olimpiadi invernali che si terranno dal 9 al 25 febbraio a Pyeongchang. Moon ha colto al volo questa finestra di opportunità e ha ottenuto da Trump la sospensione delle esercitazioni militari congiunte per la durata dei giochi. Si tratta di una tregua accettata obtorto collo dalla Casa Bianca che dovrebbe, invece, tenere presente i seguenti parametri per affrontare il complesso dossier coreano. Kim Jong Un è saldamente in sella e ha ottenuto la sua piena legittimazione all’interno della Rpdc completando la strategia difensiva di famiglia e sbarazzandosi, brutalmente, di possibili avversari interni. Kim e i dirigenti nordcoreani non sono irrazionali ma sono pronti a prendere dei rischi calcolati per trattare, da un piano di forza, con gli Stati Uniti. Non vogliono attaccare gli Stati Uniti perché, come hanno dichiarato, non hanno tendenze suicide. Vogliono il riconoscimento diplomatico e la stipulazione di un trattato di pace. La Rpdc non abbandonerà mai il suo progetto nucleare perché diventerebbe vulnerabile a un attacco esterno, come l’Iraq e la Libia. Altro fattore che Washington deve contemplare: un attacco preventivo “limitato” americano legittimerebbe una ritorsione di Pyongyang. Seoul è a una cinquantina di chilometri dalle batterie della Rpdc e potrebbe essere distrutta nel giro di mezz’ora. Senza bisogno dell’atomica.


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SPECIALE CONFLITTI AMBIENTALI Foto in alto © Alfredo Falvo/Contrasto


Conflitti Ambientali Cdca

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Sono milioni i profughi della guerra all'ambiente È difficile oggi parlare di emergenze ambientali globali senza trattare di cambiamenti climatici. L'emergenza costituita dalle alterazioni del clima è composta da un insieme stratificato di fenomeni strettamente connessi, che minacciano ormai la vita di una porzione enorme della popolazione mondiale. Più di tutti i conflitti armati messi assieme. Le crisi idriche sempre più frequenti e diffuse in tutte le Regioni del mondo, comprese Europa e Nordamerica, sono solo un drammatico esempio di un allarme non più ignorabile. Gli scenari disegnati dai report delle grandi organizzazioni internazionali, dalle agenzie dell'Onu alle Ong, contano dai 200milioni al miliardo di profughi ambientali al 2050. Una apocalisse migratoria con cui ogni Paese dovrà fare i conti. Eppure, nonostante gli avvertimenti della comunità scientifica che individua l'unica via per contrastare il global warming in un taglio drastico ed immediato delle emissioni di gas serra, i Governi e le imprese continuano indisturbate a estrarre, bruciare, emettere, smaltire. E poco utile è stato, considerando i risultati raggiunti a quasi tre anni dalla sigla, il famoso Accordo di Parigi. Tutto continua indisturbato sulla via dell'estrattivismo e del capitalismo rapace, businessas-usual, anche se il costo è altissimo in termini sociali ed ambientali. Nel focus che segue abbiamo scelto di raccontare quattro storie che - dall'Africa, all'Asia, alle Americhe - ben rappresentano quanto grande è l'impatto dei cambiamenti climatici sugli equilibri ecologici e, di conseguenza, sulla vita delle persone che da quegli equilibri dipendono. Dallo scioglimento dei ghiacci nella Regione andina all'avanzare del Sahara. Dalla siccità che da decenni ormai affligge l'Africa Orientale al dramma dei profughi climatici del Bangladesh. Quattro storie paradigmatiche, tutt'altro che uniche, da cui emergono scenari inquietanti. L'ambizione è che queste storie possano risuonare come allarmi per le coscienze di ciascuno ed assieme essere monito per il mondo industrializzato, affinché non continui a nascondere la testa sotto la sabbia: il climate change se ne infischia dei confini e, presto o tardi, anche quella sabbia diventerà inospitale e rovente.

Focus a cura di Marica Di Pierri, Cecilia Erba e Marta Rossini


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Nell'ultimo secolo, dal 1920 ad oggi, il deserto del Sahara, il più grande deserto al mondo, è cresciuto del 10%, arrivando a coprire attualmente l'impressionante superficie di 8,6milioni di km quadrati. Nei mesi estivi l'estensione arriva addirittura al 16% in più rispetto ad un secolo fa. Tra le cause, l'estremo calo delle precipitazioni già molto scarse nelle aree desertiche (meno di 25 cm l'anno). Le minori piogge sono dovute in parte a un ciclo naturale, ma per la maggior parte sono imputabili alla tendenza innescata dai cambiamenti climatici. Questi dati allarmanti sono contenuti in uno studio pubblicato sul Journal of Climate e curato dalla Maryland University, secondo cui oltre all'area del Sahara, le precipitazioni sarebbero diminuite nell'intero Golfo di Guinea come nelle aree dei fiumi Niger e Congo. La zona maggiormente minacciata dall'avanzata del deserto è la fascia semi arida del Sahel. Il Sahel attraversa da Est ad Ovest l’Africa, è situato immediatamente a Sud dell'area sahariana e si estende a Sud fino alla savana del Sudan. Si tratta, secondo gli scienziati, di un processo che non si può arrestare e le cui conseguenze sulle popolazioni della Regione saranno sempre più devastanti. La Nigeria è uno dei Paesi più colpiti da questo processo. La desertificazione e il degrado del suolo rappresentano, nelle Regioni Settentrionali della Nigeria, una minaccia per le comunità residenti, dedite soprattutto alla pastorizia e all'agricoltura. Il deserto è da sempre una minaccia frontale per il 40% del territorio del Paese. Con la crescente pressione della desertificazione, aggravata da un periodo di siccità prolungata di circa due decenni e dall'impatto delle attività umane, il fragile ecosistema della zona e le scarsissime risorse idriche sono divenuti elementi di rischio per la sopravvivenza della popolazione. L'avanzare del deserto ha spinto alla migrazione le comunità insediate nelle aree più a Nord, in particolare i pastori, alla ricerca di territori che potessero fornire foraggio alle proprie mandrie. Questo spostamento massiccio ha portato ad aspri conflitti tra i nuovi arrivati ed i pastori già insediati nelle aree più a Sud: i pascoli sono esigui e il bestiame risulta eccessivo per un territorio comunque semiarido e dalle risorse limitate. La migrazione ambientale indotta dalla desertificazione si è tradotta in una competizione per la sopravvivenza con forti conseguenze sulla pace sociale e sulla possibilità di sussistenza per i pastori vecchi e nuovi. Ad oggi, sono molti i progetti di mitigazione della desertificazione promossi nell'area del Sahel nigeriano, mirati a rafforzare la resilienza locale, tra cui il progetto pionieristico noto come Grande Muraglia Verde per il Sahara e il Sahel. La muraglia è un'imponente opera promossa dall'Unione Africana, che mira alla creazione di un mosaico di zone verdi tra Sahel, Nord Africa e Africa Orientale con l'obiettivo di migliorare la vita delle popolazioni

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Sahara e Sahel. Il deserto che avanza e il lago scomparso


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residenti nell'area. Nonostante l'impegno dei Governi locali, che hanno incoraggiato interventi di mitigazione in sinergia con agenzie nazionali, internazionali e organizzazioni locali, l'emergenza legata all'allargarsi a macchia d'olio del terreno infertile resta grave e continua a minacciare la vita di milioni di persone in tutta l'Africa sub-sahariana. Ulteriore esempio, dal valore paradigmatico, della progressiva desertificazione e salinizzazione dei suoli in Africa è fornita dall'infausto destino del lago Ciad, il settimo lago più grande del mondo, che in meno di mezzo secolo ha perso ben il 90% del suo specchio d'acqua. Sono molti gli studi scientifici a lanciare l'allarme sul lago Ciad e le zone umide contigue, che potrebbero completamente scomparire in un lasso di tempo breve se non si adotteranno misure drastiche per invertire la rotta. Dei 30milioni di persone residenti nell'area, si stima che più della metà siano divenuti - a causa della scomparsa del lago - profughi climatici. Nell'insieme le attività economiche tradizionali sono state praticamente spazzate via, i pescatori hanno abbandonato le reti, così come molti contadini hanno dovuto smettere di coltivare, ed oggi tra le attività più diffuse ci sono il commercio e l'artigianato. La scarsità dei mezzi di sostentamento, unito all'altissima concentrazione di persone residenti nell'area e al degrado dei suoli stanno causando forti tensioni sociali e mettendo ad ulteriore rischio la popolazione.

Siccità nel Corno d’Africa: un disastro umanitario L’area del Corno d’Africa comprende principalmente Eritrea, Etiopia, Gibuti e Somalia, e - nelle sue accezioni più estese - anche il territorio del Kenya. Quasi equidistante da equatore e Tropico del Capricorno, ha un’economia ancora fortemente basata sull’agricoltura di sussistenza e sull'allevamento, regolate dall’alternanza delle stagioni. Da 30 anni a questa parte le precipitazioni durante la stagione principale delle piogge, quella tra marzo e maggio, hanno subito un declino costante. Negli ultimi 13 anni, la Regione è stata colpita da siccità quasi tutti gli anni, con crisi particolarmente acute tra il 2009 e il 2011 e dal 2014 a oggi. Le conseguenze sono disastrose: se i piccoli agricoltori e pastori riuscivano a gestire un clima secco per qualche tempo e a riprendersi dalle perdite, il prolungamento delle condizioni siccitose per oltre una decade ha messo in ginocchio le comunità locali, privandole di tutte le fonti di sussistenza. In questo senso, è decisiva la concomitanza di altri fattori di crisi, come la situazione di conflittualità cronica dentro e tra i Paesi della Regione, le ripetute crisi politiche e la presenza di gruppi estremisti e terroristi, che rendono ulteriormente difficile l’accesso alle risorse. L’ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Unocha) riporta, secondo i dati di agosto 2017, che le persone colpite da grave insicurezza alimentare in Kenya, Somalia ed Etiopia, sono arrivate


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a 14,3milioni. L’assenza di raccolti colpisce le comunità agricole e agro-pastorali specialmente in Somalia, in Etiopia Sudoccidentale e in Kenya Nordorientale, mentre i pastori vedono il proprio bestiame, sfiancato dalla mancanza di acqua e cibo, ammalarsi e morire a tassi allarmanti. L’impatto della perdita di animali sulle condizioni di vita è enorme: anche se metà dei capi di bestiame riesce a sopravvivere, si calcola che un nucleo familiare che basa la propria sussistenza sulla pastorizia ci mette almeno tra i due e i quattro anni a riprendersi dal danno. Inoltre, il costo del bestiame è calato vertiginosamente nell’ultimo periodo, e i pastori sono costretti a vendere i pochi animali ancora in salute per compensi sempre più bassi, mentre il prezzo del cibo sta salendo. La mancanza di pascoli, acqua e lavoro sta spingendo sempre più famiglie a spostarsi dal loro luogo di residenza, aumentando inoltre il rischio dello scoppio di conflitti per la gestione delle poche risorse disponibili. Sempre secondo l’Unocha, la siccità e i conflitti hanno costretto a migrare 3,7milioni di persone in Etiopia, Somalia e Kenya, di cui 2,3milioni si sono spostati all’interno del proprio Paese e 1,4milioni sono migrati all’estero. Le cause di questa siccità prolungata sono state studiate in numerose occasioni, per stabilire il collegamento con le emissioni antropiche e i cambiamenti climatici. Se infatti la relazione causa/ effetto tra le attività umane e il riscaldamento globale è stata scientificamente accertata, è più difficile risalire alle fonti scatenanti di eventi meteorologici e climatici a livello locale, poiché le forze che entrano in gioco sono molteplici e ancora non del tutto comprese. Nell’area del Corno d’Africa è evidente la tendenza all’aumento sia delle temperature minime che di quelle massime a partire dal 1950, mentre una serie di studi (raccolti da Carbon Brief) ha approfondito a livello locale la connessione tra le attività umane, le temperature più alte del normale e gli episodi di siccità. La Regione è diventata sempre più arida nel corso dell’ultimo secolo, in concomitanza con il riscaldamento globale e locale e a una velocità mai registrata negli ultimi 2000 anni. Più complicato invece stabilire l’influenza umana sulla diminuzione delle precipitazioni, difficile da separare dalle variabili climatiche naturali, come l’alternanza tra i fenomeni di El Niño e La Niña, anche a causa della quasi totale mancanza di dati sul clima storico in Africa. Se tuttavia non si riesce a concludere in maniera definitiva che l’assenza di piogge sia stata influenzata dall’uomo, è invece sicuro che, in futuro, il riscaldamento globale si declinerà nel Corno d’Africa con tutta una serie di impatti sul clima e quindi sulle popolazioni. Le temperature continueranno ad aumentare nel corso del secolo: secondo le proiezioni dell’Ipcc, nella maggior parte del continente africano le medie supereranno i 4°C di incremento. Per quanto riguarda le precipitazioni, una serie di studi prevede una intensificazione della stagione piovosa breve, mentre durante la stagione piovosa lunga e le stagioni secche le piogge sono destinate a diminuire. In generale, l’area diventerà più secca e i fenomeni climatici più estremi, con l’alternanza di gravi siccità e improvvise bombe d’acqua con conseguenti inondazioni. Questo scenario manda un forte avvertimento: crisi come quella in atto diventeranno sempre più frequenti e intense, l’adozione rapida di adeguate misure di adattamento è cruciale. Come ha più volte ricordato la Ong internazionale Oxfam, le siccità non devono necessariamente tradursi in ca-

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tastrofi. Se il cambiamento del clima gioca un ruolo fondamentale nella diminuzione e distribuzione delle risorse, l’innescarsi di una crisi umanitaria è determinato anche da una serie di altri fattori come le condizioni di povertà cronica, i lenti e inefficaci aiuti internazionali, la crisi dei Governi locali e il prolungarsi dei conflitti armati.

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Cambiamenti climatici e crisi idrica nelle Ande boliviane Uno dei Paesi con la maggiore diversità biologica e climatica sulla Terra, la Bolivia, sta subendo le dure conseguenze dei cambiamenti climatici in termini soprattutto di riduzione delle risorse idriche. La parte Occidentale del territorio boliviano è attraversata dalla catena montuosa delle Ande, divisa in due cordilleras (catena Occidentale e Orientale) che delimitano l’altopiano andino, con un’altezza compresa tra 3500 e 4000 metri. In quest’area si trovano alcune tra le città più popolose del Paese, come la capitale La Paz, ma anche ElAlto, Cochabamba, Oruro, Sucre e Potosí. Per le popolazioni della Regione montuosa i ghiacciai delle Ande costituiscono una risorsa idrica fondamentale soprattutto durante la stagione secca, quando l’acqua di disgelo alimenta i fiumi. Il loro rapido ritiro rischia di innescare una crisi che potrebbe colpire milioni di persone. Negli ultimi 50 anni, i ghiacciai della Bolivia hanno perso infatti circa metà della loro massa. Le cause sono da ricercarsi nel riscaldamento globale, nelle variazioni dei livelli di umidità e nell’alterazione dei trend stagionali di precipitazioni: nello stesso periodo, le temperature sono aumentate in media di 0.1°C ogni dieci anni. L’Ipcc stima che, nel corso dei prossimi decenni, i ghiacciai andini a latitudini intertropicali scompariranno del tutto, mentre le proiezioni delle temperature prevedono un incremento fino a 7.5°C nell’area, che si acuisce con l’aumento dell’altitudine. La siccità che ha colpito La Paz e El Alto tra il 2016 e il 2017, la peggiore degli ultimi 25 anni, è stata in questo senso un anticipo di quello che potrebbe accadere nel prossimo secolo. Le due città sono servite da quattro sistemi idrici, tre dei quali dipendono dalle riserve e dai bacini d’acqua nella Cordillera e sono alimentati per il 72-80% dalle precipitazioni e per il 20-28% direttamente dai ghiacciai circostanti. Questi ultimi sono la principale fonte d’acqua tra maggio e ottobre (inverno australe). Tuttavia, tra il 1983 e il 2006 i due ghiacciai sul monte Tuni-Condoriri hanno perso il 39% della loro area, mentre un altro ghiacciaio, ubicato sulla montagna Chacaltaya, è completamente scomparso. A novembre 2016, dopo un inverno particolarmente secco, le risorse idriche sono arrivate a livelli talmente bassi che il Governo è stato costretto a dichiarare lo stato di emergenza. A La Paz e El Alto l’acqua è stata razionata in oltre 100 quartieri, colpendo circa 400mila persone. La popolazione si è mobilitata per protestare contro le istituzioni, accusate di cattiva gestione delle risorse idriche di fronte a una crisi già preannunciata da tempo. Una rivolta popolare aveva già, nel 2007, portato all’annullamento da parte dell’amministrazione pubblica del contratto con la compagnia privata


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Aguas de Illimani, la controllata locale del gruppo francese Suez, accusata di aver aumentato le tariffe negando di fatto l’accesso all’acqua e al servizio fognario per la maggioranza della popolazione di El Alto, e di essersi rifiutata di espandere la rete idrica ai quartieri più poveri perché non redditizi. La gestione della rete idrica è passata quindi alla compagnia pubblica Epsas, che tuttavia non ha effettuato i necessari investimenti né per trovare nuove riserve d’acqua, né per migliorare le infrastrutture ormai al collasso. Altri motivi di critica verso l’operato del Governo riguardano le scelte che hanno portato a un forte sviluppo dell’industria mineraria, della coltivazione di soia e dell’idroelettrico, tutti settori con un alto dispendio d’acqua, che aumentano lo stress sulle già scarse risorse idriche. I trend futuri non lasciano prevedere nulla di buono. Già nel 2009, la domanda d’acqua di El Alto aveva superato l’offerta. La popolazione è aumentata di almeno il 30% tra il 2001 e il 2012, mentre l’area della città è cresciuta del 144%. Nel corso del prossimo secolo le aree urbane continueranno a crescere, anche in conseguenza dei cambiamenti climatici stessi: la siccità, le inondazioni e i cattivi raccolti spingeranno sempre più persone a trasferirsi in città, aumentando la pressione sulle risorse. Inoltre, se oggi in media gli abitanti di El Alto utilizzano appena 52 litri a persona al giorno, si prevede che già nel 2050 la cifra salirà a 77. Parallelamente, si stima che l’aumento delle temperature nelle aree montuose della Bolivia porterà a una riduzione diretta delle risorse idriche fino al 40% e a una importante diminuzione delle precipitazioni, difficile da quantificare. Di questo passo, nei prossimi decenni la guerra per l’acqua rischia di diventare esplosiva.

Bangladesh, il Paese (quasi) sommerso Il Bangladesh è tra i Paesi maggiormente colpiti dai cambiamenti climatici. La densità della popolazione e gli alti livelli di povertà lo rendono particolarmente vulnerabile agli effetti nefasti del climate change e uno degli hot spot a livello globale per il fenomeno delle migrazioni climatiche. Particolarmente esposto alle inondazioni, a causa del territorio pianeggiante e dall'intensa rete di fiumi presenti, il Bangladesh ha subito negli ultimi anni un processo di progressiva erosione costiera, a causa del rapido innalzamento del livello del mare. Considerando nell'insieme gli scenari climatici delineati dalla Banca Mondiale nel 2013 per la Regione dell'Asia centrale, ad un aumento delle temperature medie di più di 2° corrisponderebbe un innalzamento del livello del mare tra i 60 e gli 80 cm. Se invece, come sembra sempre più probabile a causa degli insufficienti tagli alle emissioni clima alteranti, la temperatura media dovesse toccare aumenti di circa 4°, le acque potrebbero crescere sino a 100-110 cm entro la fine del XXI secolo.

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Numerosi report scientifici hanno disegnato per il Paese situato nel Golfo del Bengala scenari ancor più drammatici, con un incremento del livello del mare tra 0,4 e ben 1,5 metri entro il 2100. Eventi estremi come tempeste, alluvioni e maree - ulteriori ed importanti fattori di fragilità per le zone costiere - potrebbero moltiplicare la loro frequenza e arrivare a colpire il Paese tra le 3 e le 14 volte ogni anno. Particolarmente rilevanti sono gli impatti delle frequenti inondazioni, che erodono le coste causando la salinizzazione dei suoli e rendendo inadatte alle colture zone sempre più vaste. I ricorrenti danni ai raccolti e il grave impatto del clima sulle attività agricole sta contribuendo alla progressiva distruzione delle già fragili economie locali, con pesanti ripercussioni per la sussistenza e l’approvvigionamento idrico della popolazione. Nel solo 2016 in Bangladesh circa 614mila persone sono state sfollate a causa di disastri ambientali. La situazione di maggiore vulnerabilità riguarda le comunità insediate lungo la costa. La più recente alluvione che si è abbattuta su India, Bangladesh e Nepal nell’agosto 2017 ha causato 1.200 morti e lo sfollamento di oltre 40mila persone. La tendenza è tutt'altro che in attenuazione: secondo il dossier 'Turn Down the Heat: Climate Extremes, Regional Impacts, and the case for resilience', diffuso dalla Banca Mondiale, oltre 1,5milioni di persone in Bangladesh saranno colpite dalle inondazioni entro il 2070. Il Bangladesh rappresenta uno dei case studies paradigmatici a dimostrare l'insufficienza degli strumenti preposti a livello internazionale per la tutela di questa nuova e rilevante categoria di profughi. Un precedente di grande importanza ci proviene in tal senso dalla giurisprudenza italiana. Nel marzo 2018 infatti, un cittadino bengalese è stato riconosciuto in Italia come rifugiato ambientale. Il Tribunale de l'Aquila ha cosi scritto una sentenza che farà storia, accogliendo la richiesta di protezione internazionale per ragioni ambientali, nello specifico climatiche. Il richiedente aveva addotto come motivazione per la richiesta l'aver perso il proprio terreno agricolo a seguito di un'alluvione, il che lo aveva portato ad indebitarsi costringendolo a migrare in cerca di nuovi mezzi di sussistenza. Il pronunciamento del giudice fa chiaro riferimento agli scenari climatici che interessano il paese, citando tra l'altro il report Crisi Ambientali e migrazioni forzate, realizzato dal Cdca e dall'Associazione A Sud. In attesa che l'Onu e le organizzazioni internazionali in generale si mettano d'accordo su una definizione condivisa di rifugiato ambientale c'è da augurarsi che la sentenza de l'Aquila sia la prima di una serie di decisioni giudiziarie utili a spingere il diritto a occuparsi delle nuove esigenze di tutela emergenti nella società globalizzata.

Foto in alto © Alfredo Falvo/Contrasto

© Alfredo Falvo/Contrasto


Land Grabbing TerraProject

In basso a sinistra Addis Ababa, Etiopia, marzo 2012 Borsa Merci etiope durante una sessione di negoziazione ad Addis Abeba. L’economia etiope nel panorama africano è una di quelle in più rapida crescita, per quest’anno si attende un’espansione dell’11%. Nonostante questo, la sicurezza alimentare rappresenta ancora una delle principali preoccupazioni.

In basso a destra Dubai, marzo 2013 Agrame, il più grande evento del Medio Oriente dedicato al settore agricolo, organizzato al World Trade Center di Dubai.

Land Inc. è un viaggio attraverso il Brasile, Dubai, Etiopia, Indonesia, Madagascar, Filippine e Ucraina per documentare ciò che alcuni definiscono una forma di neocolonialismo, e altri ritengono invece una possibilità di sviluppo: il land grabbing e i crescenti investimenti nell'agricoltura di stampo industriale. Nel 2009 siamo venuti a conoscenza dell'impatto che la crisi alimentare dell'anno precedente ha avuto sui cambiamenti nelle strategie di investimento di Governi e investitori privati. Paesi che facevano affidamento sulle importazioni per soddisfare la domanda alimentare interna hanno iniziato ad acquisire o affittare terreni fertili in altre nazioni per produrre alimenti da esportare nei propri mercati interni, mentre gli investitori privati hanno visto il cibo e la produzione di biocarburanti come una nuova e fiorente fonte di profitto. Questa corsa per le terre fertili ha avuto una serie di ripercussioni nei Paesi colpiti. Indigeni e contadini sono stati allontanati con la forza dalle proprie terre, perdendo l'accesso alla loro unica fonte di sostentamento. Latifondi monocolturali hanno iniziato a sostituire le piccole produzioni agricole, riducendo la biodiversità delle piante coltivate localmente. E con l'espansione del mercato dei biocarburanti, terra e acqua vengono sfruttati per coltivazioni non alimentari. In molti casi, questo fenomeno ha un notevole impatto ambientale, causando deforestazione, inquinamento e il controllo delle risorse idriche. Land Inc. è una documentazione degli agenti e delle forze coinvolte in questo fenomeno. LIBRO - Il libro è pubblicato da Edizioni Intervalles, in edizione inglese e francese, con il contributo scritto della giornalista Cécile Cazenave, che ha intervistato sette esperti per aiutare a capire le storie dietro questo fenomeno. Curata e ideato da Mónica Santos, include le infografice di Studioburo e una prefazione di José Bové.

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Land Grabbing fenomeno globale


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33 Pagina 32 In alto - Canarana, Brasile, aprile 2012 Una comunità Xingu nel parco nazionale dello Xingum, riserva indigena nella foresta pluviale e amazzonica. Il parco è circondato da campi di soia e mais. La deforestazione illegale e l’impatto ambientale della produzione agricola industriale danneggia quotidianamente questa Regione. In basso a sinistra - Anwassa, Etiopia, marzo 2012 Guardia armata nella compagnia Elfora dall’Arabia Saudita. Sullo sfondo i resti degli sfalci di grano. La compagnia agro industriale Midroc Etiopia è stata costituita nel 1997 attraverso l’acquisto di otto impianti di macellazione e trasformazione della carne. Elfora è impegnata nella produzione di cibo in scatola, prodotti avicoli e diverse colture. In basso a destra - Distretto di Buol, Isola di Sulawesi. Giugno 2013 I resti delle palme da frutto dopo la raccolta dei datteri per produrre olio fuori dalla fabbrica della compagnia Hardaya. Hardaya negli ultimi dieci anni ha occupato 22.700 ettari con la silenziosa collaborazione del Governo indonesiano.

In Alto - Regione di Analamanga, Madagascar, marzo 2013 Raccolta del riso nelle campagne fuori Antananarivo.


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In alto - Gambella, Etiopia, marzo 2012 Lavoratori locali in un campo di riso della Saudi Star a Gambella. Saudi Star, appartenente allo Sceicco Al Almoudi, prevede di spendere fino a 2miliardi per acquistare e sviluppare impianti su 500.000 ettari di terreno in Etiopia nei prossimi anni.

In basso - Regione di Lhorombe, distretto di Lhosy, Madagascar, marzo 2013 Una famiglia di contadini locali ritratti fuori la loro casa. Nella Regione di Lhorombe la compagnia italiana Tozzi Green sta sviluppando un progetto di coltivazione di jatropha su 6.000 ettari di terra.


35 In alto - Siak, Sumatra, Indonesia, giugno 2013 Nel distretto di Siak parte della foresta è stata distrutta per estendere una piantagione di olio di palma. Nella Regione di Riau il 70% delle foreste sono state distrutte per produrre olio di palma.

In basso - Manila, Filippine, aprile 2012 Un deposito nel porto di Manila, il più trafficato del Paese. L’ International Land Coalition (coalizione internazionale della terra) sostiene che nelle Filippine, come in altri Paesi soggetti al landgrabbing, la produzione di cibo e biocarburanti sia utilizzata per l’export verso Paesi che possano fornire mercati più lucrativi. Una corsa al profitto che richiede però allo stato ospitante investimenti e infrastrutture, come strade, linee ferroviarie e porti.


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In alto - Un campo nel distretto di Letychiv’sky, Chmel’nyc’kyj Oblast.. Opere di pulizia delle mietitrebbie utilizzate per la raccolta di una sussidiaria della Nhc Capitals, una grande compagnia di produzione agricola che gestisce più di 4miliardi di dollari di sovvenzioni da parte di università, obbligazioni, fondi pensione statali, fondazioni e uffici di investimenti famigliari. Possiede un fondo di 4miliardi di dollari destinato all’acquisto di terreni agricoli in Europa Orientale. In Ucraina, Nhc controlla e gestisce un portfolio di oltre 450.000 ettari di terreno sottoposti a vincoli di affitto di lungo periodo (15-20 anni).

In basso - San Jose del Monte, Filippine, aprile 2012 Elvira Guradilio, 47 anni, in casa sua. Elvira si è trasferita qui 17 anni fa e si è sistemata in quest’isola. Ora vive producendo cassava, banana, fagioli e citronella. I raccolti subiscono però molti danni a causa dell’intervento della polizia privata della famiglia Araneta. Come altri agricoltori, ricevono minacce di sfratto da parte di un consorzio di investitori privati, come Elly Levin, Israeliana, Merlin pacific dal Canada, SM Land owner, Henry Sy dalla Cina.


37 Lucas Verde do Rio, Brasile, aprile 2012 Un panorama dei campi attorno alla città. 50 anni fa lo stato del Mato Grosso era completamente coperto dalla foresta pluviale. L’agricoltura rappresenta una delle principali ragioni di deforestazione nello stato del Mato Grosso. Lucas do Rio Verde è uno dei centri di produzione della Soja. Una città nata negli anni ’70 come comunità di contadini, grazie al boom agricolo cresce anno dopo anno. La popolazione è aumentata dai 22.000 abitanti del 2001 ai 45.000 del 2010. Il 70% dei proprietari terrieri sono brasiliani, il resto è controllato da compagnie straniere.


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In alto - Cuiaba, Brasile, aprile 2012 Una manifestazione del movimento Sem Terra durante la lotta contro il landgrabbing. Si tratta dell’anniversario della morte di 91 membri del Movimento Sem terra, assassinati da parte della polizia federale in Brasile durante una dimostrazione pacifica.

In basso a destra - Pereyaslav - cittĂ di Khmelnitsky, Regione di Kiev Il mercato della domenica, dove contadini locali provenienti da villaggi vicini arrivano per vendere i propri prodotti. Una contadina del villaggio di Vilitsa possiede due mucche da latte e produce formaggio. Dato che la maggior parte dei contadini dei villaggi non guadagnano abbastanza per sopravvivere, cercano di vendere parte dei propri prodotti per aumentare le proprie entrate. Per ottenere i permessi di vendita, i contadini devono avere documenti relativi agli animali e far controllare quotidianamente il latte commercializzato. Ogni certificazione ha un costo. Una parte del loro profitto deve essere pagato per coprire le spese di alloggio.


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Africa

A cura di Amnesty International

In Africa il diritto resta un miraggio Le violazioni dei diritti umani e gli abusi compiuti nel corso dei conflitti, compresi crimini di diritto internazionale, sono rimasti costantemente impuniti. I tre esecutivi rivali e le centinaia di milizie e gruppi armati presenti in Libia hanno continuato a contendersi il potere e il controllo sul territorio e la gestione delle lucrative rotte del traffico illegale di esseri umani. Gruppi armati e milizie hanno lanciato attacchi indiscriminati contro centri abitati e hanno rapito e detenuto illegalmente centinaia di persone. Fino a 20.000 rifugiati e migranti sono stati trattenuti a tempo indeterminato in strutture di detenzione sovraffollate e in condizioni di totale carenza d’igiene, esposti al rischio di tortura, lavoro forzato e uccisioni illegali per mano delle autorità e delle milizie. Nel fornire assistenza alla guardia costiera libica e alle strutture di detenzione, gli stati dell’Unione europea, in particolare l’Italia, si sono resi complici degli abusi. Il conflitto in corso da quattro anni nel Sudan del Sud ha continuato a provocare intensa sofferenza e perdita di vite umane. Almeno

340.000 persone sono fuggite dall’escalation dei combattimenti nella Regione dell’Equatoria. Dall’inizio del conflitto sono stati sfollati più di 3,9milioni di persone, pari a circa un terzo della popolazione. In Sudan, la situazione umanitaria e della sicurezza negli Stati del Darfur, del Nilo Blu e del Kordofan del Sud è rimasta disastrosa, con diffuse violazioni del diritto internazionale umanitario e delle norme sui diritti umani. Nella Repubblica Centrafricana sono riprese le ostilità, con violazioni dei diritti umani su vasta scala, abusi e crimini di diritto internazionale. Ci sono state nuove segnalazioni di sfruttamento e abusi sessuali da parte delle truppe di peacekeeping delle Nazioni Unite. La situazione dei diritti umani è stata caratterizzata da una violenta repressione nei confronti delle proteste e da attacchi coordinati a oppositori politici, difensori dei diritti umani e organizzazioni della società civile. In almeno 30 Paesi, la libertà degli organi d’informazione è stata ridotta e in oltre 20 le autorità hanno negato il diritto di manifestazione. In Egitto le autorità hanno continuato a limitare il lavoro dei difensori dei diritti umani con una determinazione mai riscontrata prima, con le condanne di 15 giornalisti per imputazioni che si riferivano unicamente ai loro articoli e il blocco di più di 400 siti web, compresi quelli di quotidiani indipendenti e organizzazioni per i diritti umani. Le autorità del Marocco hanno perseguito e


incarcerato molti giornalisti, blogger e attivisti che avevano criticato il Governo o riportato notizie riguardanti violazioni dei diritti umani, corruzione o proteste popolari, come quelle che si sono svolte nella Regione Settentrionale del Rif. In Camerun, nelle Regioni anglofone le forze di sicurezza hanno represso con violenza le proteste. Nel contesto dei disordini seguiti alle elezioni generali, la polizia del Kenya ha sparato proiettili veri provocando almeno 33 morti. In Guinea Equatoriale, la polizia ha arrestato attivisti mentre in Eritrea, migliaia di prigionieri di coscienza e prigionieri politici hanno continuato a rimanere in carcere, in alcuni casi per oltre 10 anni, senza accusa o accesso a un avvocato o ai familiari. In Etiopia, dove lo stato d’emergenza è stato annullato e poi ripristinato, sono proseguite le detenzioni arbitrarie e centinaia di persone sono state arrestate ai sensi della legge antiter-

rorismo, spesso utilizzata per prendere di mira coloro che criticavano il Governo. Tuttavia, non sono mancati segnali di speranza e di progresso, tra cui la progressiva scomparsa della pena capitale nell’Africa subsahariana, la decisione del Gambia di sottoporsi nuovamente alla giurisdizione del Tribunale penale internazionale, la sentenza dell’Alta corte del Kenya di bloccare la programmata chiusura del campo di Dadaab, il più grande campo per rifugiati del mondo, e quelle emesse in Nigeria che hanno stabilito che qualsiasi minaccia di sgombero forzato senza la dovuta notifica agli interessati è da ritenersi illegale e che sia gli sgomberi forzati sia la minaccia di attuarli costituiscono un trattamento crudele, disumano e degradante. Infine, la Corte costituzionale dell’Angola ha sancito l’incostituzionalità della legislazione che si proponeva di ostacolare il lavoro delle organizzazioni della società civile.

A cura di Giovanni Scotto

Una rete di mediatrici per dare voce alle donne nei processi di pace Nel 2017 l’Unione Africana e il Panel of the Wise, la “Rete dei Saggi” formata da personalità politiche di alto prestigio, ha promosso la creazione di un organismo che promuovesse le donne nel ruolo di esperte in mediazione per contribuire a rispondere alle crisi e ai conflitti armati nel continente, e per promuovere l’apporto delle donne e l’attenzione alla dimensione di genere nei processi di transizione dalla guerra alla pace. L’evento di lancio è stato un convegno tenutosi a Constantine, in Algeria, nel dicembre 2017, con la collaborazione del Centro africano di ricerca per la soluzione costruttiva dei conflitti (Accord), un prestigioso think tank sudafricano. Tra le partecipanti al convegno di Constantine

c'era l’ex Presidente della Repubblica Centrafricana Catherine Samba-Panza, che aveva guidato la transizione politica nel suo Paese nel 2014-2015. Nel recente passato figure come Graça Machel, leader politico del Mozambico, e la ex Presidente della Liberia Ellen Johnson-Sirleaf, sono state protagoniste di processi di mediazione ufficiale. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu 1325 chiedeva già nel 2000 adeguato spazio alle donne nei processi di pace. In Africa questo è accaduto solo in parte, e Femwise intende contribuire a dare voce alle donne in ogni fase dei negoziati.


42

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL CIAD RIFUGIATI

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PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SUDAN

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PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SUDAN

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REPUBBLICA CENTROAFRICANA

70.223

NIGERIA

7.777


Un teatro di pace

L’associazione Djamah-Afrik (Gente dell’Africa) è una compagnia teatrale professionale ciadiana che opera nell’area della capitale e nelle zone limitrofe. Organizza e conduce attività creative, formative e di riflessione incentrate sul ruolo del dialogo e sulle possibili azioni di pace in un territorio nel quale diverse etnie e diverse religioni vivono quotidianamente fianco a fianco. La compagnia lavora seguendo una stretta relazione “arte-popolazione-territorio”: non solo le rappresentazioni si svolgono in luoghi pubblici ma soprattutto viene promossa la partecipazione degli abitanti sia agli spettacoli sia ai dibattiti tra gli spettatori e gli attori stessi. In particolare con il progetto ‘Mutations Urbaines’, realizzato tra il 2013 e il 2014 nella capitale N’Djamena, l’associazione ha voluto ampliare il proprio raggio d’azione, organizzando, oltre agli spettacoli pubblici, mostre fotografiche e forum teatrali, ma senza perdere la sua vicinanza alla popolazione, invitandola nuovamente a interagire con gli artisti protagonisti dell’iniziativa ma anche promuovendo il dialogo tra le varie anime delle comunità locali, dai funzionari fino ai leader religiosi. Il Ciad può trasformarsi da teatro di guerra in teatro di pace? © Alfredo Falvo/Contrasto

Il Ciad è nel cuore di una Regione cruciale per la attuale contingenza politica e sociale africana: il Sahel. Il Paese è sotto la minaccia militare e l'influenza ideologica delle svariate formazioni islamiste che operano in questa macroregione: Boko Haram sulla frontiera con la Nigeria, le formazioni che discendono dal vecchio Gia algerino come al-Quaeda per il Maghreb islamico che operano a Sud della Libia e nei vicini Niger e Mali e altre formazioni più piccole presenti nel Sahel. In Ciad non si combatte una vera e propria guerra ma il Paese è intervenuto con proprie truppe militari (che sono risultate le più preparate ed efficaci dal punto di vista bellico) in un contingente militare formato da soldati nigeriani, nigerini, camerunensi e beninesi per fronteggiare Boko Haram che tra il 2016 e il 2017 ha colpito a più riprese, pur senza realizzare attentati clamorosi, il territorio del Ciad. Il Paese, che è tra le nazioni africane appartenenti al club petrolifero, sta affrontando una grave crisi economica, provocata in particolare dal crollo dei prezzi del greggio sui mercati internazionali. Dal punto di vista politico la conferma al potere, per la quinta volta, del Presidente Idriss Deby ha dato stabilità sebbene la sua permanenza nella carica di Capo dello Stato così a lungo collochi il Paese tra le nazioni con una classe politica vecchia, inamovibile, corrotta e anacronistica. Il Paese, dove la mancanza di acqua potabile e un’alimentazione povera contribuiscono ad aumentare i tassi di mortalità specie quella infantile, è uno dei più poveri al mondo eppure le spese destinate al settore militare sono enormi e sono state corroborate dal sostegno di altri Paesi tra cui gli Stati Uniti che lo ritengono un luogo strategico per il controllo dell’islamismo radicale africano. Il Ciad, che si trova tra l’altro a fronteggiare una vasta presenza di profughi dai Paesi confinanti, ha anche un rapporto privilegiato con la Francia il Paese che lo ha colonizzato agli inizi del secolo scorso: un rapporto

CIAD

Generalità Nome completo:

Repubblica del Ciad

Bandiera

43

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese, Arabo

Capitale:

N’Djamena

Popolazione:

12.151.000 (stima 2016)

Area:

1.284.000 Kmq

Religioni:

Musulmana (53,10%), cristiana (35%), animista (10%)

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

Prodotti agricoli, cotone

PIL pro capite:

Us 3.140

così forte che quando in Francia fu instaurato il governo filonazista di Vichy, il Ciad fu la prima colonia che scelse di schierarsi con Charles de Gaulle. Ma questo rapporto privilegiato è anche un rapporto di dipendenza che si è spesso tradotto nell’invio di soldati da Parigi (luglio 2014). Il 2018 è iniziato con proteste e scioperi per il taglio dei salari ai dipendenti statali, la promessa di Debry di indire elezioni parlamentari, la sospensione di 10 partiti politici di opposizione e i continui attacchi di Boko Haram che continua a far strage di civili.


modo nella Regione sudanese del Darfur la cui popolazione è in conflitto con il regime di Khartum. Resta ancora gravissimo il problema di un milione di mine in circolazione e dei due milioni di ordigni inesplosi che minacciano la vita dei civili. I conflitti tra le oltre 200 etnie che popolano il Paese sono all’ordine del giorno, una instabilità che torna utile al Governo centrale che sulla filosofia del “divide et impera” basa il suo potere. I confini (specialmente quelli orientali) restano caldi. Rapimenti e attacchi contro i civili sono portati a segno dalle centinaia di milizie stanziate nel Darfur che facilmente attraversano le frontiere groviera che separano il Sudan dal Ciad. Sono anche molto attivi gruppi interni di resistenza armata che si oppongono al Presidente Deby.

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Se sul territorio del Ciad non si combatte una vera e propria guerra. Questo Paese è sempre in guerra con la povertà e la vita sociale è caratterizzata da violenze, una forte presenza militare a volte anche straniera, infiltrazioni dai Paesi vicini, un alto numero di rifugiati, bande armate. Al 183° posto su 187 Paesi per l’indice di sviluppo umano, l’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, appena il 9% ha accesso a servizi sanitari adeguati mentre solo il 48% usufruisce di acqua potabile. Una situazione sociale esplosiva che con la proliferazione del passaggio di armi (soprattutto leggere) sul proprio territorio ha visto crescere in maniera esponenziale la violenza tra le comunità locali. Il Ciad è una tappa essenziale per l’esportazione di armi verso i Paesi vicini, in particolar

Per cosa si combatte

L’appello del dittatore

L’ex dittatore ciadiano Hisse Habre, rovesciato il 1º dicembre 1990 da Deby, nel 2016 è stato giudicato colpevole di crimini contro l’umanità e condannato all’ergastolo. Un percorso lungo e doloroso che ha richiesto 25 anni di ricorsi, battaglie legali e una sfilata di testimonianze e documenti terribili sul suo operato che gli era valso la nomea di “Pinochet d’Africa”. Considerato dalla Commissione per la verità in Ciad il massimo responsabile della scomparsa di 40mila persone fra il 1982 e il 1990, l’ex dittatore ha ricorso in appello e una nuova sessione giudiziaria si è tenuta nel 2017 a Dakar. Habre contesta la validità della sentenza con cui le Camere africane straordinarie lo hanno condannato alla catena perpetua.

© Alfredo Falvo/Contrasto

La vicinanza con molti Paesi dove si combattono guerre violente e sanguinose ha aggravato la crisi interna del Ciad, guidato da un Governo che negli ultimi anni fatica a gestire i forti flussi di rifugiati in fuga dai conflitti e dalle tensioni interne e regionali. Dopo una lunga storia da ex colonia francese, il Ciad è diventato indipendente nel 1960. Una transizione pacifica che sembrava presagire un futuro di stabilità per il Paese che nello stesso anno, il 20 settembre, è entrato ufficialmente a far parte dell’Onu. Il primo Presidente del Ciad, eletto l’11 agosto del 1960, è stato François Tombalbaye che nel dopoguerra aveva fondato uno dei principali partiti ciadiani, il Partito progressista del Ciad (Ppt). Le speranze del Paese furono presto deluse dal governo di Tombalbaye, che si trasformò in una guida autoritaria. Solo due anni dopo la sua elezione, il Presidente aveva messo al bando tutti gli altri partiti politici attivi in Ciad e cominciato una forte repressione contro quelli che considerava oppositori politici. Il malcontento cresceva e in più di una occasione il Governo dovette sedare rivolte interne. Tensioni si registravano nel Nord, abitato da popoli di fede islamica ma an-

che al Sud con popolazioni cristiane e animiste. Nel 1966, nel confinante Sudan, venne fondato il Fronte Nazionale per la Liberazione del Ciad (Frolinat). Il gruppo di ribelli imbracciò le armi contro il Governo dando inizio ad una sanguinosa guerra civile, proseguita anche dopo il colpo di stato militare del 13 aprile del 1975, quando Tombalbaye venne ucciso e il generale Félix Malloum, capo della giunta militare, divenne il nuovo capo del Governo. Nell’impossibilità di annientare la guerriglia del Frolinat, nel 1978, Malloum decise di nominare premier il leader dei ribelli Hissene Habre. La convivenza dei due ai vertici durò poco. L’anno successivo le forze ribelli del Frolinat e l’esercito di Malloum si scontrarono apertamente nella capitale N’Djamena. Il generale golpista Malloum fu costretto alla fuga ma il Paese scivolò in una crisi interna ancora più profonda. La guerra civile coinvolgeva, oltre al Frolinat, numerose fazioni di ribelli e la situazione era ormai fuori controllo. L’Onu intervenne e traghettò il Ciad alla firma, nell’agosto del 1979, di un trattato di pace l’Accordo di Lagos - che permetteva la formazione di un Governo di transizione che avrebbe

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

Scuole e lavoro per costruire la pace

Idriss Déby

Nel 2014, la Fondazione Italiana Scuole Materne ha finanziato un progetto in Ciad chiamato “l’orto delle mamme”, il cui scopo era quello di costruire circa trenta scuole per l’infanzia volte a garantire l’istruzione dei bambini, ma anche ad impegnare le mamme in attività agricole per il sostentamento della famiglia. All’esterno delle scuole di Mongo, e dei paesi della Provincia, sono stati creati degli orti con sistemi di irrigazione alimentati da pozzi costruiti appositamente. A distanza di quattro anni, il progetto ha dato vita a numerosi orti che sono diventati luogo di produzione e collaborazione. Ogni orto ha una responsabile, scelta tra le mamme dei bambini, che si occupa di assegnare i turni lavorativi alle altre, di coordinare il lavoro e di stabilire i criteri di assegnazione del raccolto. Il tutto è stato reso possibile in gran parte dalla costruzione dei pozzi, che permettono di restringere i tempi di raccolta dell’acqua, e dalle donne che partecipano a questo progetto. Gli orti sono diventati via via più grandi e hanno coinvolto una moltitudine di persone tra cui le madri, i padri e i bambini stessi.

Idriss Deby, l’inossidabile padre padrone del Ciad, è in carica dal 1° dicembre del 1990 quando alla testa del Movimento patriottico di salvezza attuò un colpo di stato contro il dittatore Hissene Habre. Da allora, il Presidente non ha mai lasciato il potere riuscendo a sopravvivere a diverse ribellioni interne e tentativi di golpe. Accusato di brogli, intrighi e anche di assassinio di alcuni nemici interni, Habre ha anzi allargato il suo potere e ha distribuito cariche alla sua vasta famiglia allargata dai cui membri potrebbe venire un altro tentativo di spodestarlo. Sotto la sua guida il Paese ha visto una certa stabilità ma anche un sistema di vasta corruzione. Negli ultimi anni di potere Idriss Deby ha fortemente potenziato il dispositivo bellico del Paese facendone una delle principali forze della Regione. Figlio di un allevatore appartenente al gruppo etnico degli Zaghawa, Deby è di formazione militare. Allievo dell’ Accademia Militare di N'Djamena, ha completato il suo addestramento in Francia e, nella Regione, è uno dei capi di stato più decisamente filo-francese. A gennaio 2018, mentre il Paese era attraversato da scioperi e proteste, ha promesso per l’anno in corso elezioni parlamentari che non si tengono da anni.

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(Fada, 18 giugno 1952)

© Alfredo Falvo/Contrasto

dovuto guidare il Paese a elezioni politiche. A capo di questo Governo il Presidente Goukouni Oueddei, mentre Habre fu nominato ministro della Difesa. Dopo 18 di mesi la situazione era però immutata e gli scontri continuavano ad imperversare. Oueddei riuscì a conquistare il controllo della capitale ma per farlo chiese aiuto alla Libia che inviò le proprie truppe. Ancora grazie alla Libia nel 1983, l’esercito governativo sferrò un nuovo attacco contro le forze di Habre, che ottenne il sostegno delle forze francesi già presenti sul territorio. Nel 1984 la Francia e la Libia siglarono un accordo per ritirare le proprie truppe dal Ciad. Accordo che non fu però rispettato dalla Libia che mantenne i propri soldati nella striscia di Aouzou. Solo nel 1987 Ciad e Libia firmano un cessate il fuoco, che rimase in vigore fino al 1988. Negli anni Ottanta la sta-

I PROTAGONISTI

bilità interna del Ciad è minata da una serie di colpi di stato. Nel 1990 un disertore dell’esercito di Habre, Idriss Deby riuscì con un golpe ad instaurare un nuovo Governo, di cui egli stesso divenne Presidente. Negli anni successivi altri tentativi di colpo di stato furono sferrati contro il Governo di Deby che è però tuttora in carica. Il Paese è ancora attraversato da violenti scontri tra le varie anime della guerriglia ciadiana, e l’instabilità è costantemente in aumento nonostante i tentativi di Deby di siglare trattati di pace con le fazioni ribelli. La situazione si è poi ulteriormente aggravata dal 2003, quando centinaia di rifugiati in fuga dal Darfur, martoriato da un conflitto civile, hanno iniziato ad entrare in Ciad per sfuggire alle violenze. Il 23 dicembre del 2005, il Governo del Ciad ha dichiarato ufficialmente lo stato di guerra contro il Sudan. Alla base della decisione una lunga serie di violenti scontri lungo il confine tra i due Paesi ai danni delle popolazioni che abitano la frontiera. Nel 2010 i due Paesi hanno firmato un accordo di pace.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA COSTA D’AVORIO RIFUGIATI

46.813

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI LIBERIA

18.552

GHANA

6.453

ITALIA

5.805

SFOLLATI PRESENTI NELLA COSTA D’AVORIO RIFUGIATI ACCOLTI NELLA COSTA D’AVORIO RIFUGIATI

1.399


S’è abbassata la bandiera della missione Onu

Dopo oltre 13 anni si è conclusa la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite per la Costa d’Avorio, denominata Unoci. La conclusione ufficiale è avvenuta il 30 giugno 2017. Era cominciata due anni dopo l’inizio della crisi, il 27 febbraio 2004, su mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu (risoluzione n. 1528). Il responsabile dell’Unoci, Aïchatou Mindaoudou, nell’occasione della chiusura ufficiale, ha definito la cerimonia "l’espressione di una missione di successo".

UNHCR/H. Caux

Lunghi anni di conflitto hanno lasciato una profonda cicatrice nella Costa d'Avorio, migliaia sono state le vittime e gli ivoriani costretti a fuggire dai combattimenti e ad abbandonare le proprie case. Solo dal 2011 il Paese ha ricominciato un percorso di crescita e sviluppo che resta però, molto faticoso, soprattutto per la popolazione. Molti sono ancora i problemi economici e sociali del Paese. Quasi la metà della popolazione (il 46%) vive sotto la soglia di povertà, e la Costa d’Avorio si trova al 171° posto nella scala dello sviluppo umano delle Nazioni Unite. Gli indicatori sono quelli di uno Stato povero: la mortalità infantile (sotto i 5 anni) è al 92,8/1.000, la speranza di vita di soli 59 anni, il 60% degli abitanti al di sopra dei 15 anni è analfabeta, meno di quarto della popolazione totale ha accesso a servizi sanitari adeguati e poco meno di uno su cinque all’acqua potabile. Inoltre, è un Paese ancora succube dello strapotere militare: nel 2014 il tardato pagamento degli stipendi aveva portato a una serie di episodi di ammutinamento tali da far temere una nuova guerra civile. Il Governo, dimostrando una preoccupante debolezza, scelse subito la via della trattativa e negoziò con i capi dei rivoltosi. Nuovi episodi di ammutinamento si sono ripetuti nella prima metà del 2017. In questa occasione, tuttavia, il presidente Alessane Ouattara ha destituito i capi della polizia e della gendarmeria, anche se dall’altro lato ha pagato gli stipendi arretrati e promesso un miglioramento delle condizioni di lavoro. Ora il Paese si appresta a entrare nella Terza Repubblica: il 30 ottobre 2016, è stata approvata tramite referendum la nuova Costituzione. Si è espresso a favore il 93% dei votanti (ma l’affluenza alle urne è stata solo del 42%). La nuova Carta entrerà in vigore nel 2020, lo stesso anno in cui si dovranno svolgere anche le elezioni presidenziali. Un referendum che, peraltro, non ha mancato di suscitare tensioni e proteste: le opposizioni l’hanno boicottato, e denunciato brogli dopo il

COSTA D’AVORIO

Generalità Nome completo:

Repubblica della Costa d’Avorio

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese (ufficiale), dioula, baoulé, bété, sénoufo

Capitale:

Yamoussoukro

Popolazione:

24.850.000

Area:

322.460 Kmq

Religioni:

Cristiana, musulmana

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

Cacao, caffè, legname, petrolio, cotone, banane, ananas, olio di palma, pesce, diamanti, manganese, nichel, bauxite, oro

PIL pro capite:

Us 1.705 (3.950 a parità di potere d’acquisto)

suo svolgimento. Secondo il presidente Ouattara, invece, la nuova costituzione consentirà alla Costa d’Avorio di chiudere il capitolo dell’instabilità, dopo un decennio di conflitti. Di sicuro il nuovo testo dà al Governo e al Presidente maggiori poteri (ad esempio, prevede che un terzo dei senatori - la Camera Alta - sia di nomina presidenziale).


Le ragioni della guerra in Costa d’Avorio sono da ricercare nel controllo delle ricchezze del territorio, controllo che negli anni della guerra civile è stato conteso fra diversi leader e comandanti militari, anche facendo leva sull’appartenenza a uno dei 60 diversi gruppi etnici e culturali. L’interdizione dalle cariche politiche delle popolazioni a sangue misto aveva innescato le tensioni, sfociate poi in conflitto aperto, che solo con il varo della nuova Costituzione (che entrerà in vigore nel 2020) si possono considerare superate: il famoso e famigerato articolo 35 della vecchia Carta fondamentale - noto come quello della “ivorianità” - che richiedeva la cittadinanza non solo del candidato alla pre-

sidenza della Repubblica ma anche quella del padre e della madre, è stato modificato nella condizione che almeno uno dei genitori sia originario della Costa d’Avorio. Inoltre, l’economia del Paese, una delle migliori del continente africano (la crescita del Pil nel 2017 è stata del 7,6%), dipende quasi interamente dall’esportazione delle materie prime e questo scatena da sempre gli interessi delle grandi aziende multinazionali, pronte a finanziare i diversi gruppi pur di assicurarsi, con la presa del potere, il controllo del mercato. Insomma, è un Paese diventato terreno di confronto per interessi esterni, con Francia, Stati Uniti e Cina a contendersi il ruolo di “partner” privilegiato.

Per cosa si combatte

I primi produttori mangiano poco cioccolato

È uno dei paradossi della Costa d’Avorio: il maggiore produttore al mondo di cacao (con una quota del 41%) consuma poco cioccolato. Il motivo? I costi esorbitanti, per il reddito medio del Paese africano, del prodotto lavorato. Perciò, nel 2017, un ivoriano ha mangiato in media 500 grammi di cioccolato a fronte dei 3,6 chili di un francese. Prezzi così elevati si spiegano facilmente: in Costa d’Avorio viene lavorato solo un terzo della materia prima. Tutto il resto viene esportato. Per cui il cioccolato, perlopiù, viene realizzato nei Paesi ricchi e torna, a prezzi proibitivi, nel Paese d’origine. Il Governo, però, si è posto l’obiettivo di arrivare entro il 2020 a trasformare all’interno dei propri confini il 50% del cacao prodotto.

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UNHCR/H. Caux

La Costa d’Avorio ottiene l’indipendenza nel 1960 grazie a uno dei padri della decolonizzazione, Felis Houphpuet-Boigny. Legato sia per il proprio passato politico sia per gli interessi economici alla Francia, Boigny garantisce al suo Paese uno sviluppo economico considerevole. Grazie a un programma di incentivi statali sostenuti anche da Parigi, Boigny porta la Costa d’Avorio a essere il primo esportatore mondiale di cacao e il terzo di caffè. Per 20 anni l’economia del Paese cresce al ritmo del 10% all’anno, superata solo dall’economia dei grandi Paesi produttori di petrolio e diamanti. Boigny gode di enorme credito politico, cosa che gli permette di governare con pugno di ferro, senza permettere la nascita di partiti politici né, tanto meno, di organizzare elezioni libere. All’inizio degli anni ‘80 crollano il prezzo del cacao e del caffè con effetti disastrosi sull’economia del Paese. Il debito estero triplica e cresce la criminalità, la stabilità del Governo comincia a vacillare. Boigny, nel 1990, deve affrontare le prime proteste di piazza. Il Presidente risponde al malcontento attraverso la concessione di alcune libertà politiche, tra cui il multipartitismo. Le prime elezioni libere confermano alla guida del Paese il padre della patria. Boigny muore nel 1993 e viene sostituito da Henri Konan Bédié, che riesce

a migliorare il quadro economico anche grazie a una svalutazione del 50% del franco Cfa, legato a quello francese e ora all’euro. La repressione del dissenso crea un forte malcontento che viene sfruttato, nel 1999, da un gruppo di militari capitanati dal generale Robert Guei, che rovescia Bédié e organizza le elezioni presidenziali. Le consultazioni del 2000 si svolgono in un’atmosfera pesantissima, caratterizzata da tentativi di brogli compiuti da Guei e dall’esclusione di Alessane Ouattara, principale candidato dell’opposizione, perché di sangue misto. La decisione scatena la rabbia dei musulmani del Nord. Dalle urne esce vincitore Laurent Gbagbo, principale oppositore di Boigny. Nel 2002 parte dell’esercito si ammutina e tenta di rovesciare il Presidente Gbagbo che resiste e il golpe si trasforma in una vera e propria guerra civile che spacca il Paese in due: il Nord controllato dai ribelli del Fronte Nuovo e il Sud sotto controllo del Governo. La Costa d’Avorio entra in uno stallo politico e istituzionale che paralizza il Paese. Nel 2003 vengono firmati accordi di pace che, tuttavia, rimangono sulla carta. Molti nodi costituzionali rimangono tali, soprattutto quelli che riguardano l’eleggibilità delle popolazioni di sangue misto (risolto solo nel 2017, con l’approvazione del Parlamento e poi

Quadro generale

Il cacao mette a rischio la foresta

La produzione di cacao sta incidendo pesantemente sulla deforestazione dell’Africa Occidentale. Non solo in Costa d’Avorio, che è il primo produttore, ma anche nei Paesi vicini. La foresta pluviale dell’Occidente africano dal 1960 a oggi si è ridotta dell’80%. La colpa, ovviamente, non è soltanto della produzione illegale di cacao. Ma anche questa sta contribuendo. Secondo una denuncia della Ong Mighty Earth, documentata attraverso un Rapporto, parte del cacao verrebbe prodotto in zone protette e verrebbe venduto anche ai grandi nomi dell’industria mondiale del cioccolato.


TENTATIVI DI PACE

Dopo il disastro ambientale, un futuro sostenibile

(Gagnoa - Regione di Gôh, 31 maggio 1945) È il 10 aprile 2011 quando Laurent Gbagbo viene catturato, insieme alla moglie Simone, nella sua residenza di Abidjan dalle forze di opposizione guidate dall’attuale Presidente Alessane Ouattara, coadiuvate dalle forze speciali francesi. Di fatto è l’atto finale di una serie di rigurgiti della guerra civile che ha insanguinato la Costa d’Avorio fin dal 2002. Gbagbo è stato in seguito consegnato alla Corte Penale Internazionale, dove è ancora in corso il processo per crimini contro l'umanità. Il Tribunale aveva chiamato in causa per le stesse accuse anche la moglie dell'ex Presidente, Simone Gbagbo, ma in seguito l’ha assolta. In Patria sono state 82 le persone finite sotto processo con le stesse accuse. Tra loro, Charles Blé Goudé, alleato di Gbagbo. Goudé era l’ex capo dei “Giovani Patrioti”. È stato nel gennaio del 2013 in Ghana, poi estradato in Costa d’Avorio e infine trasferito all’Aja.

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Laurent Gbagbo

L'area urbana di Abidjan è una delle zone più inquinate, soprattutto dopo il 2006, anno in cui sono stati scaricati sulla costa ingenti rifiuti tossici da una nave di una nota società olandese. Da allora la Costa d'Avorio ha posto la salute ambientale e la sana gestione delle risorse naturali e dei rifiuti al centro della sua visione per lo sviluppo sostenibile. Ad Abidjan è stato avviato un progetto in collaborazione con la società italiana Remedia per la gestione dei rifiuti elettronici nell'area. Il progetto, denominato Ewit (E-Waste Implementation Toolkit), è stato assegnato nel 2014 dalla Commissione Europea e ha ricevuto finanziamenti dal programma di ricerca e innovazione di Horizon2020. Ewit contribuisce a definire le azioni necessarie per implementare sistemi di gestione dei rifiuti nelle aree urbane africane, migliorando la protezione dell'ambiente e della salute delle comunità locali e creando nuovi posti di lavoro. Nel periodo 2018-2020 si prevede lo sviluppo di una catena di approvvigionamento per quanto riguarda i rifiuti elettronici, che si baserà sul principio di Extended Producer Responsibility, una strategia concepita per promuovere l'integrazione dei costi ambientali nel prezzo di mercato dei beni, con l'obiettivo primario di aumentare il grado di recupero del prodotto e ridurre al minimo l'impatto ambientale di materiali di scarto.

tramite referendum della nuova Costituzione). Il Paese rimane diviso in due. E i tentativi del Presidente di riprendere il potere sul territorio sotto controllo dei ribelli, manu militari, falliscono anche grazie alla forza di interposizione dell’Onu, forte di 10mila uomini, e ai contingenti francesi che controllano la zona di sicurezza al “confine” tra Nord e Sud del Paese. Le elezioni libere vengono continuamente rimandate, fino alle elezioni del novembre 2010 che hanno visto la vittoria di Ouattara. Il presidente ottiene poi una seconda vittoria nelle elezioni del 2015, e dovrà lasciare la guida del Paese nel 2020: anche la nuova Carta fondamentale, come la precedente, prevede infatti il limite dei due mandati per la carica di Capo dello Stato. La prossima tornata elettorale, anche per questo motivo, segna il momento di una delicata transizione verso nuove leadership. Tutte le figure chiave della politica ivoriana, per ragioni di età o di ineleggibilità (o nel caso di Lau-

I PROTAGONISTI

rent Gbagbo per le pendenze con la giustizia internazionale, visto che nel 2018 è ancora in corso il processo per crimini contro l’umanità davanti alla Corte Penale Internazionale). Sul piano economico-sociale un’ultima questione appare delicata e cruciale per il Paese: quella del cacao, di cui la Costa d’Avorio è il primo produttore al mondo. Il controllo della materia prima fu una delle ragioni della guerra civile che ha insanguinato il Paese dal 2002 al 2011, e periodicamente le forti oscillazioni del prezzo causano forti ripercussioni sull’economia dello Stato africano. Nel corso del 2017, ad esempio il calo del 30% del valore del cacao aveva comportato pesanti problemi alle entrate fiscali del Paese come pure agli agricoltori, dato che il prezzo minimo garantito era passato in pochi mesi da 1.100 a 700 Fca (cioè 1,17 dollari). Nei primi mesi del 2018 il cacao si è fortemente rivalutato (33% circa), ma il rincaro, almeno per il momento, non si tradurrà in migliori condizioni per gli agricoltori ivoriani, dato che il prezzo viene fissato anticipatamente sulla produzione dell’anno.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL ERITREA RIFUGIATI

459.430

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI ETIOPIA

165.548

SUDAN

103.176

GERMANIA

30.020

SFOLLATI PRESENTI IN ERITREA RIFUGIATI ACCOLTI NEL ERITREA RIFUGIATI

2.342

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SOMALIA

2.244 -


Dalla fine della guerra fra Etiopia ed Eritrea, nel 2000, fra i due Paesi c’è stato solo un immutato stallo, per 17 anni, con ricorrenti minacce di nuovi conflitti, tensioni, completa assenza di rapporti e di comunicazione. E d’altro canto, l’immobilismo e l’arroccamento nelle posizioni ha caratterizzato anche i due Governi fino all’inizio del 2018. In Eritrea, per ora, non si scorgono segnali significativi di cambiamento: il regime di Isaias Afewerki semmai ha inasprito ulteriormente la repressione e il controllo poliziesco del territorio. In Etiopia, viceversa, è avvenuta una svolta, con l’avvento al potere il 2 aprile 2018 del nuovo primo Ministro, Abiy Ahmed Ali, e della sua compagine di Governo. In pochi mesi il neo nominato Premier ha dato una scossa sia alla politica interna che estera dello Stato federale africano. I primi atti sono stati, da un lato, liberare molti dei prigionieri politici della guerriglia armata degli oromo - l’etnia più numerosa ma anche più repressa ed emarginata del Paese - cercando di aprire un dialogo anche con le frange più oltranziste della ribellione. Dall’altro, ha da subito affrontato la “questione eritrea”, dapprima gli inviti alla distensione verso l’Asmara, poi, rompendo gli indugi, con le dichiarazioni del 5 giugno 2018 secondo le quali “l’Etiopia accetta quanto stabilito dalla Commissione internazionale sui confini nel 2003” e si appresta a ritirare le sue truppe da Badme e dalla piana circostante la città commerciale che dal 1998 sono al centro della disputa territoriale con l’Eritrea. Non solo. Ha revocato lo stato d’emergenza, che perdurava all’interno dell’Etiopia da febbraio 2018, quando l’allora primo Ministro Hailemariam Desalegn aveva rassegnato le dimissioni, di fronte alle profonde e crescenti divisioni all’interno Generalità dell’Eprdf, il Fronte democratico Nome completo: Stato di Eritrea rivoluzionario del popolo etiope, al potere dalla caduta di Menghistu. Bandiera Infine, Abiy ha annunciato profonde riforme in un ambito molto delicato della struttura di potere del Paese: la polizia e la magistratura. InsomLingue principali: Le lingue ufficiali: tigrinma, la leadership politica sembra ya, arabo, inglese. Altre aver trovato nuova linfa e l’energia lingue: afar, beni amer, per avviare decisi cambiamenti. La kumana, saho, tigré strada da percorrere, tuttavia, resta Capitale: Asmara tanta. Non solo per arrivare a una Popolazione: 6.100.000 democrazia matura (non va dimenArea: 1117.600 Kmq ticato che ad ogni elezione si sono Religioni: Cristiani copti (48%), ripetute le azioni repressive verso musulmani (45%), catla stampa e la società civile, come tolici (3%), protestanti pure i frequenti arresti degli oppo(2%), altre religioni sitori politici), ma anche per affrontradizionali (2%) tare l’endemica povertà. Ancora a Moneta: Nakfa metà del 2017, l’arrivo di una nuova Principali Oro, bestiame, sorgo, carestia aveva messo in allarme le esportazioni: tessili, cibo, prodotti agenzie umanitarie per lo stato di manifatturieri, altri emergenza alimentare che coinvolminerali geva 8,5milioni di etiopi (poco meno PIL pro capite: Us 1.022 dell’8% della popolazione).

ETIOPIA ERITREA

Generalità Nome completo:

Repubblica Federale Democratica di Etiopia

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Le lingue ufficiali per tutta la federazione sono: amarico, inglese, arabo; quelle ufficiali regionali: oromo, tigrino; altre lingue (parlate da almeno il 3% della popolazione) somalo, sidamo

Capitale:

Addis Abeba

Popolazione:

106.000.000

Area:

1.104.300 Kmq

Religioni:

Copto ortodossi 43%, musulmani (33,5%), protestanti 18,6%, cattolici (0,8%), seguaci delle religioni tradizionali 4,1%

Moneta:

Birr

Principali esportazioni:

caffè, verdure, fiori recisi, chat (pianta le cui foglie sono blandamente allucinogene), oro, prodotti in pelle, carni, animali vivi, semi oleosi

PIL pro capite:

Us 760


Quella fra Etiopia ed Eritrea è stata spesso definita “una guerra per un pugno di pietre”. Il conflitto scoppiato nel maggio 1998, infatti, fu causato da un piccolo fazzoletto di territorio desertico intorno alle cittadine di Badme e Shiraro, di circa 400 kmq, che secondo il Governo di Asmara era compreso nel confine coloniale eritreo, ma che nell’interpretazione del Governo etiopico ne era invece al di fuori. In breve, la guerra diventa totale, lungo tutta la frontiera fra i due Paesi. Si svolge per lo più nelle montagne semiaride che fanno da confine. Gli scontri crescono d’intensità, nel corso del 1998 e per tutto il 1999. Alla guerra guerreggiata s’accompagnano le azioni di ritorsione, pagate ovviamente dalla popolazione civile: ad esempio, i tanti

eritrei che vivono in Etiopia e gli etiopi (non altrettanti) residenti in Eritrea vengono espulsi in poche ore dalle rispettive autorità. I rapporti di forza fra i due Paesi del Corno d’Africa sono ben lungi dall’essere equilibrati. Il gigante etiopico, che ha un esercito numericamente 20 volte quello eritreo, riprende in breve tempo la piana di Badme e progressivamente (ma con un costo di vite umane impressionante) conquista aree di territorio eritreo. Nella primavera del 2000 le forze armate etiopiche sfondano il fronte: occupano le città eritree di Barentu e Tesseney. Con la mediazione delle Nazioni Unite si arriva a un cessate il fuoco, firmato ad Algeri. Le armi tacciono, ma ad una vera a propria pace, da allora, non si è mai arrivati.

Per cosa si combatte

Etiopia, la diga della discordia

In sigla la Gerd significa Grande Diga Etiopica della Rinascita. Un progetto colossale, che ha portato polemiche e tensioni colossali. La Gerd, in via di realizzazione sul Nilo Blu, a pochi chilometri dal confine sudanese, è prossima al completamento: entro la fine del 2018 sono previsti i primi test per la produzione di energia elettrica. L’impianto, a pieno regime, potrà produrre 6mila megawatt di potenza. Ma come si sa, le acque del Nilo sono vitali per tutti i Paesi che il grande fiume attraversa, innanzitutto l’Egitto. Nel 2015 Etiopia, Sudan e lo stesso Egitto avevano firmato una “Dichiarazione di principi” con la quale i tre Paesi s’erano impegnati a raggiungere l’accordo sulla valutazione d’impatto ambientale della diga prima che andasse in funzione. Un accordo che è ben lontano dall’essere raggiunto. Punta i piedi soprattutto il Cairo, che vuole garanzie sul fatto che non si riduca la quantità d’acqua che arriva sul suo territorio.

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UNHCR/J. Ose

Una guerra lunga esattamente due anni (maggio 1998 - maggio 2000), quella fra Etiopia ed Eritrea. Terminata nel momento in cui l’esercito etiopico, rompendo la linea difensiva eritrea e conquistando le importanti città di Barentu e Tesseney, avrebbe dilagato, probabilmente fino all’Asmara. Ufficialmente il conflitto finisce con la firma delle parti all’accordo di Algeri, con il quale, oltre a deporre le armi, i due Governi s’impegnano ad accettare la dislocazione dei caschi blu lungo la fascia di rispetto che divide i due eserciti. L’accordo prevede anche l’insediamento di tre commissioni internazionali: la prima deve decidere sui confini, la seconda quantificare i danni di guerra, alla terza tocca il compito di investigare sulle cause del conflitto. Il bilancio della guerra è tragico: 100mila le vittime, molti di più i feriti e i mutilati. Ma devastanti sono anche le conseguenze sociali ed economiche. Se la grande e popolosa Etiopia viene duramente segnata dal conflitto, l’Eritrea ne esce devastata: la piccola e giovane nazione, che fino al 1998 aveva tassi di crescita invidiabili, dopo il conflitto è in ginocchio. La popolazione si ritrova alla fame e non si solleverà più, fino ai nostri giorni, da uno stato di povertà talora estremo. Nel 2003, poi, la Commissione per i confini stabilisce che l’area contesa è effet-

tivamente all’interno dei confini coloniali eritrei. L’Etiopia, però, non accetta il verdetto internazionale. Lo farà un anno più tardi, ma in concreto il ridisegno della linea di frontiera non viene attuato. Peraltro, nel 2005, la Corte di Giustizia dell’Aja dà invece ragione all’Etiopia riguardo all’aggressione subita: decreta che l’Eritrea lanciando all’attacco le sue truppe aveva violato la legge internazionale e che l’azione non poteva essere giustificata come autodifesa. Negli anni seguenti la questione del confine rimane irrisolta, le frontiere fra i due Paesi sigillate, gli scambi commerciali azzerati. Intanto, a metà del 2008, viene votato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu il ritiro delle forze di interposizione di pace. Nei dieci anni successivi, fino all’inizio del 2018, i rapporti - o meglio i non rapporti - fra i due Paesi rimangono pressoché immutati. L’unico episodio ostile avviene nella primavera del 2012: unità militari etiopiche attaccano alcune postazioni eritree, con la motivazione, secondo Addis Abeba, che si trattasse di campi per l’addestramento di gruppi terroristici. Uno stallo di non-guerra e non-pace che sembra sbloccarsi nel 2018 con l’impegno dichiarato da nuovo primo Ministro Abiy Ahmed Ali di accettare le decisioni del 2003 della Commissione internazionale sui confini e

Quadro generale

Eritrea, un popolo in fuga

Arruolamento forzato e servizio militare a vita, detenzioni arbitrarie, povertà estrema, disoccupazione, sistematiche gravi violazioni dei diritti umani: questi i motivi che hanno trasformato gli eritrei in un popolo di migranti, o di aspiranti tali. In un modo o nell’altro sono oltre 300mila quelli che hanno oltrepassato i confini, il 6% circa della popolazione. Molti di loro sono finiti nelle mani spietate dei trafficanti di esseri umani nel Sinai e in Libia, molti hanno perso la vita nel deserto o nel Mediterraneo. Nessuna popolazione come quella eritrea si dimostra disposta a ogni rischio pur di fuggire dal Paese e dal regime poliziesco di Isaias Afewerki. Una dittatura, quella eritrea, sempre più chiusa e isolata, vicina al Shabab somali.


TENTATIVI DI PACE

L’agricoltura motore dello sviluppo sostenibile

Abiy Ahmed Ali

L’economia dell’Eritrea si basa in larga parte sul settore primario. Circa il 70% della popolazione eritrea è, infatti, legato per reddito e occupazione all’agricoltura di sussistenza. Nel novembre del 2017 la Banca africana di sviluppo (Afdb) ha approvato la sua strategia in Eritrea per il periodo 2017-2019, che mira a supportare una crescita inclusiva e sostenibile del Paese attraverso lo sviluppo agricolo e infrastrutturale. Tale strategia è delineata nell’Interim Country Strategy Paper (I-Csp) e prevede investimenti per migliorare l’accesso agli input e alla tecnologia agricola, e quindi per il perfezionamento della produzione, della produttività e della commercializzazione dei prodotti agricoli. Prevede, inoltre, strategie per lo sviluppo delle competenze e dell’imprenditoria nell’agricoltura, la creazione di posti di lavoro e l’aumento dei redditi, in particolare per le donne, i giovani delle Regioni più povere. Il piano dell’Afdb include temi trasversali chiave come il miglioramento della governance, la riduzione delle disparità di genere, lo sviluppo di competenze e l'adattamento ai cambiamenti climatici.

Una laurea in ingegneria informatica conseguita durante il militare, una specializzazione in Crittografia in Sudafrica, ma anche un Master in Amministrazione pubblica nel 2011 e un altro in Amministrazione e leadership politica due anni dopo. Infine, nel 2017, un’altra specializzazione in “Risoluzione dei conflitti etnico religiosi in Etiopia”. Questo l’invidiabile curriculum di studi dell’“uomo nuovo” di Addis Abeba: Abiy Ahmed Ali, che dal 2 aprile 2018 è stato nominato, a soli 41 anni, primo Ministro dell’Etiopia dal Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf). Ma Abiy ha alle spalle anche una carriera nell’esercito (fino al grado di colonnello) e nei servizi di sicurezza, nonché la presidenza del movimento politico oromo, la sua appartenenza etnica per metà (l’altra metà è amara, essendo figlio di coppia mista). Abiy è il primo oromo a ottenere la carica più importante del Paese. Una nomina, la sua, che fin dai primi mesi di guida del Paese sembra portare aria nuova: mano tesa all’Eritrea, apertura di dialogo con la ribellione oromo, l’annuncio di profonde riforme per la polizia e la magistratura. Abiy è soprannominato Abiyot, che in amarico vuol dire “rivoluzione”. Se il buongiorno si vede dal mattino.

UNHCR/J. Ose

di voler riconsegnare la città contesa di Badme all’Eritrea. Potrebbe così chiudersi la ventennale diatriba fra i due Paesi. Una diatriba che al suo scatenarsi, col conflitto iniziato nel 1998, era del tutto inattesa e imprevedibile: le leadership politiche dei due Paesi avevano combattuto fianco a fianco la guerra di liberazione contro il dittatore Menghistu Hailè Mariàm, e dopo la conquista di Addis Abeba il neonato Governo etiopico aveva favorito e accompagnato l’iter del referendum che aveva portato nel 1991 all’indipendenza dell’Eritrea e alla nascita del suo Stato nazionale. Fino al 1998 i due Paesi avevano cooperato in perfetta sintonia, fino appunto alla contesa per il possesso della piana di Badme. Da allora, la storia dei due Paesi ha seguito strade profondamente diverse. Ciò che ha continuato ad accomunarle è stato soltanto la gestione autoritaria del potere: entrambe a partito unico, entrambi i Governi pronti a incarcerare qualsiasi oppositore e voce critica all’interno del Paese, entrambi

I PROTAGONISTI

spietati nello stroncare la libertà di stampa. Per il resto, invece, l’Eritrea è sprofondata nella crisi economica e sociale, fino ai dati attuali, secondo i quali la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, la speranza di vita non supera i 65 anni, l’85% degli eritrei non ha servizi sanitari adeguati e soltanto il 53% ha accesso all’acqua potabile. La riprova della drammatica situazione dell’Eritrea è il costante flusso migratorio che perdura dalla fine della guerra. Oramai il 6% della popolazione ha cercato scampo nella fuga all’estero. L’Etiopia, invece, si è gradualmente risollevata, per arrivare di recente a tassi crescita intorno al 10% annuo. Se sul piano politico il Paese è ben lontano dall’essere una vera democrazia, su quello economico il Paese è ormai considerato il terzo “gigante” africano (dopo Sudafrica e Nigeria). L’Etiopia rimane ancora un Paese povero (il 30% della popolazione è sotto la soglia di povertà), con forti tensioni etniche e vaste sacche di sottosviluppo, due terzi degli abitanti privi di servizi sanitari adeguati e la metà analfabeta; ma seppure a macchia di leopardo il Paese mostra segni di dinamismo e di crescita economica e tecnologica.

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(Beshasha, 15 agosto 1976)


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA LIBIA RIFUGIATI

8.836

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI REGNO UNITO

1.368 -

SFOLLATI PRESENTI NELLA LIBIA 174.510 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA LIBIA RIFUGIATI

9.310

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI PALESTINA

5.379

IRAQ

2.475 -


Migranti, l’Italia denunciata

L’Italia è stata denunciata, l’8 maggio 2018, alla Cedu, la Corte europea per i diritti dell'uomo, per aver respinto un gruppo di migranti in Libia, dove alcuni di loro hanno poi subito torture e violazioni dei diritti umani. Un analogo precedente ricorso era stato fatto nel 2012, e aveva portato alla condanna del nostro Paese. La denuncia è stata presentata dall’Associazione studi giuridici sull'immigrazione (Asgi) e dalla Global Legal Action Network per conto di 17 profughi nigeriani, sopravvissuti al naufragio nel Mediterraneo del 6 novembre 2017 di un gommone che portava tra 130 e 150 persone. L'accusa al Governo italiano è di essere corresponsabile delle gravi violazioni messe in atto nelle azioni delle navi italiane e libiche che, in questo caso, hanno portato al respingimento dei migranti in Libia. Diversi dei 47 migranti recuperati dai libici hanno raccontato di essere stati rinchiusi per un mese in condizioni di sovraffollamento, con poco cibo e acqua, picchiati tre o quattro volte a settimana con corde e tubi. Due sono stati rivenduti a una banda che li ha torturati con l'elettroshock per ottenere un riscatto dai familiari. All'intervento del 6 novembre 2017 aveva partecipato nel coordinamento a distanza anche il centro di Roma della Guardia costiera italiana. © Fabio Bucciarelli

La fragilità del Paese, manifestatasi dopo la caduta del regime di Muhammar Gheddafi e la sua uccisione il 20 ottobre 2011, si è aggravata nel corso della guerra civile, che ormai perdura dalla primavera del 2011. I governi post-Gheddafi non sono stati in grado di disarmare le milizie, regionali, locali, tribali, utilissime nella lotta contro le truppe lealiste. La situazione politica e istituzionale è in stallo: a Tripoli c’è il debole Governo di transizione guidato da Fayez al Sarraj (riconosciuto da Europa e Stati Uniti); nell’Est c’è l’altro Governo, con sede a Tobruk, che controlla di fatto la parte Orientale del Paese (grosso modo la Cirenaica), avvalendosi soprattutto della forza militare fedele al generale Khalifa Haftar, già dissidente anti-Gheddafi fuggito negli Usa nel 1987 e rientrato in Libia allo scoppio delle rivolte del 2011. Ma la Libia oggi non è solo questo: in molte aree il territorio è controllato dalla galassia delle milizie armate e dai gruppi dell’estremismo islamico, fra cui l’Isis. In questo fosco quadro, il nuovo inviato speciale dell’Onu (da agosto 2017) Ghassan Salamé, ha presentato appena insediato nell’incarico un nuovo piano per pacificare il Paese, in vista della fine del mandato di al Serraj a dicembre 2017. Il piano prevede di avviare un tavolo nazionale di dialogo e di trattative fra le diverse forze e fazioni del Paese per arrivare entro il 2018 a un referendum costituzionale e alle elezioni. Nel marzo 2018, un’ulteriore novità (e complicazione della già complicata realtà libica): l’annuncio che al voto intende presentarsi Saif al Islam Gheddafi, uno dei figli di Muhammar, già alla guida del movimento Libya al Ghad durante l’ultima fase del regime del padre. Gheddafi junior ufficialmente è detenuto dal novembre 2011 dalla Brigata Abu Bakr al Siddiq di Zintan, nell’Ovest del Paese, ma in realtà vi sono notizie di contatti con Haftar in vista di un’alleanza politica che potrebbe cambiare profondamente il quadro politico. Sul versante sociale e umanitario, infine, la Libia versa in situazioni sempre più difficili. Da un lato si assiste al drammatico

LIBIA

Generalità Nome completo:

Stato della Libia

Bandiera

Lingue principali:

Arabo

Capitale:

Tripoli

Popolazione:

6.700.000

Area:

1.759.840 Kmq

Religioni:

Musulmana (97%), Cristiani (3%)

Moneta:

Dinaro libico

Principali esportazioni:

Greggio, prodotti petroliferi raffinati, gas naturale, prodotti chimici

PIL pro capite:

Us 5.600

impoverimento della popolazione (il dinaro ha ormai dimezzato il suo valore), dall’altro c’è la situazione dei migranti - che rappresentano il 12% degli abitanti del Paese - sottoposti a violazioni e abusi di ogni genere. L’ultimo Rapporto dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu, pubblicato ai primi di aprile 2018, parla di persone ridotte in schiavitù e di condizioni di violenza estrema, di totale impunità delle milizie armate e di ricorso sistematico alla tortura, come pure di detenzioni illegali e arbitrarie che colpiscono migliaia di persone, sia libici che migranti.

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Situazione attuale e ultimi sviluppi


non è tanto (o solo) ideologica, quanto piuttosto attinente alle storiche rivalità regionali, tribali e sociali di un Paese bloccato nel suo cammino post-coloniale dalla peculiare forma di governo che Gheddafi aveva escogitato e teorizzato nel suo Libro Verde. L’uomo forte, al momento, continua a essere il settantacinquenne generale Khalifa Haftar, sia sul piano militare che su quello delle alleanze. A livello internazionale, Haftar può contare sul solido appoggio di Mosca e su quello del Presidente egiziano Al Sisi, mentre all’interno della Libia il generale - che pure agisce sotto l’egida del Governo (non riconosciuto dall’Occidente) di Tobruk - ha saputo attuare una serie di alleanze con diverse delle tribù più rilevanti, compresa quella dei Warfalla, la più numerosa nel Paese.

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La rivolta scoppiata il 17 febbraio 2011, dopo la repressione della manifestazione di protesta contro le “magliette blasfeme”, è diventata in poco tempo una rivoluzione contro il quarantennale regime di Gheddafi che si stava preparando a cedere il Governo a uno dei suoi figli. Archiviata la rivoluzione, con l'intervento internazionale a sostegno dei ribelli, la lotta oggi è per la spartizione del Paese e soprattutto dei proventi petroliferi. La Libia infatti, fino al 2011, era stata il decimo Paese al mondo per riserve provate di petrolio, e il primo in Africa. Tuttavia, sottotraccia, c'è il conflitto tra le diverse componenti della società libica, “congelata” dal regime che ne ha saputo usare le divisioni per mantenersi in sella per quattro decenni. La divisione tra islamisti e anti-islamisti, infatti,

Per cosa si combatte

L’avvocata che denunciò l’accordo Italia-Libia

Azza Maghur è senza dubbio l’avvocata più famosa della Libia. Figlia di un ex ministro degli Esteri e ambasciatore della Libia all‘Onu, vive fra Tripoli e il Canada e si occupa da anni di diritti umani, e lo fa in uno dei Paesi dove sono più violati al mondo. Subito dopo la firma dell’accordo sui flussi migratori fra Italia e Libia - siglato il 2 febbraio 2017 - Maghur con altri cinque ex politici e giuristi libici, ha presentato ricorso in tribunale contro il memorandum d’intesa tra Tripoli e Roma siglato dal Presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni e dal Premier del Governo di unità nazionale libico (Gna) Fayez al Sarraj. L’accordo, che riprendeva quello del 2008, era nato con l’intento di fermare il flusso di migranti attraverso il mar Mediterraneo. Secondo Azza Maghur e gli altri firmatari del ricorso, però, l’intesa è illegittima e incostituzionale. Il 22 marzo 2017 l’istanza è stata accolta dalla Corte d’Appello di Tripoli e il Memorandum è stato sospeso, in attesa del processo. © Fabio Bucciarelli

La Libia italiana fu una colonia del Regno d’Italia nell’Africa Settentrionale, dal 1912 al 1947. Il primo Ministro italiano Giovanni Giolitti iniziò la conquista della Tripolitania e della Cirenaica il 4 ottobre 1911, inviando a Tripoli contro l’Impero Ottomano 1.732 marinai al comando del capitano Umberto Cagni. Oltre centomila soldati italiani riuscirono a ottenere dalla Turchia quelle Regioni attualmente definibili libiche nel Trattato di Losanna del 18 ottobre 1912, ma solo la Tripolitania fu effettivamente controllata dal Regio esercito italiano sotto la ferrea guida del governatore Giovanni Ameglio. Nell’interno dell’attuale Libia (principalmente nel Fezzan) la guerriglia indigena continuò per anni, a opera dei turchi e degli arabi di Enver Pascia e di Aziz Bey. L’ascesa al potere del fascismo determinò un inasprirsi della politica italiana nei confronti dei ribelli libici. La lotta proseguiva solo in Cirenaica, dove resisteva ancora il capo senussita della guerriglia, Omar al-Mukhtar. Dotato di un’eccellente visione strategica, con il sostegno delle popolazioni locali, ha impedito per molto tempo agli italiani di riprendere il controllo della Provincia. Ma fu ferito e catturato l’11 settem-

bre 1931 durante la battaglia di Uadi Bu Taga in uno scontro a fuoco con collaborazionisti libici. Fu trasferito via mare a Bengasi, dove subì una parvenza di processo ed ebbe un breve colloquio con Graziani. Il 16 settembre venne impiccato in catene nel campo di concentramento di Soluch, davanti a ventimila libici fatti affluire dai vicini lager. La morte di Omar Al-Mukhtar segnò la fine della resistenza libica e la riunificazione delle tre Province sotto il comando italiano. Nel 1934 venne proclamato il Governatorato Generale della Libia (coll’unione della Tripolitania e della Cirenaica) e successivamente i cittadini africani potettero godere dello status di “cittadini italiani libici” con tutti i diritti che ne conseguirono. Mussolini dopo il 1934 iniziò una politica favorevole agli arabi libici, chiamandoli “Musulmani Italiani della Quarta Sponda d’Italia” e costruendo villaggi (con moschee, scuole e ospedali) a essi destinati. Il primo governatore fu Italo Balbo, a cui si deve la creazione della Libia attuale sul modello di quella dell’imperatore romano Settimio Severo (nato in Libia). Balbo divise nel 1937 la Libia italiana in quattro Province (nel 1939 annesse al Regno d’Italia) e un terri-

Quadro generale

La produzione di petrolio cresce, ma non troppo

La produzione libica prima della rivoluzione anti-Gheddafi era di circa 1,6milioni di barili al giorno. Un livello a cui il Paese africano, ancora nei primi mesi del 2018, è ben lontano: la stima è che si aggiri intorno al milione. Comunque, una considerevole ripresa, se si considera che nel corso del 2012 e del 2013 la produzione era scesa intorno ai 200mila barili/giorno. Non è cambiato, tuttavia, il “peso” del petrolio sul Pil libico (l'80%) e sulle esportazioni (il 97%). La Libia ha le più grandi riserve petrolifere del continente africano, ma uno dei problemi di qualsiasi futuro Governo sarà cercare di ridurre la petrodipendenza della sua economia.


TENTATIVI DI PACE

Diritti umani al centro del processo di riconciliazione Dopo la guerra civile in Libia, dal 2011 le Nazioni Unite hanno avviato una missione di supporto in territorio libico denominata “The United Nations support mission in Libya” (Unsmil) sotto il patrocinio del dipartimento degli affari politici. L’obiettivo principale era quello di garantire l’ordine all’interno del Paese al fine di attuare una transizione democratica per la popolazione e istituire delle leggi. Il ruolo di questa missione è cambiato col tempo come sono cambiate le esigenze, si è cominciato a dare maggiore attenzione alla promozione e alla protezione dei diritti umani. Nel 2018 viene annunciato un nuovo programma denominato “The humanitarian response plan”, un ambizioso progetto che porta la popolazione al centro degli interessi. Il proposito è quello di proteggere i diritti di tutte le persone senza distinzione oltre che fornire un ambiente dove le persone possano dialogare e autorealizzarsi insieme. Importanti finanziamenti saranno erogati a settori quali l’agricoltura locale, il settore idrico e l’istituzione scolastica. Il progetto avrà durata fin quando non saranno raggiunti gli obiettivi prefissati.

Khalifa Belqasim Haftar Aspirante nuovo “uomo forte” in Libia, e leader del “fronte” anti-islamista è un ex militare dell'esercito di Gheddafi, fuggito negli Stati Uniti dopo che il leader libico lo aveva rimosso dal comando per i rovesci subiti dall’esercito nella guerra con il Ciad. Secondo alcune analisi, è molto vicino alla Cia statunitense. A febbraio 2014 si è reso protagonista di un tentativo di colpo di Stato contro l'allora Governo guidato da Ali Zeidan (altro ex esule in Europa rientrato dopo il 2011). Haftar riscuote le simpatie del Presidente egiziano al-Sisi, ma ha saputo anche allargare le relazioni politiche e diplomatiche verso la Russia e la Francia, i due attori più attivi (insieme all’Italia, peraltro) nello scacchiere libico. Con una serie di successi militari, specie nei confronti del Governo filo islamista Tripoli/ Tobruk, è riuscito a consolidare il controllo su un’ampia area di territorio che oramai coincide grosso modo con la Cirenaica. Di fatto, Haftar si propone come l’uomo in grado di ridare al Paese la stabilità, garantita ovviamente dalle armi piuttosto che dal consenso politico.

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(Agedabia, 1943)

© Fabio Bucciarelli

torio sahariano. Il Regno d’Italia dopo la Prima guerra mondiale avviò una colonizzazione che ebbe il culmine soprattutto verso la metà degli anni Trenta con un afflusso di coloni provenienti in particolare da Veneto, Sicilia, Calabria e Basilicata. Nel 1939 gli italiani erano il 13% della popolazione, concentrati nella costa intorno a Tripoli e Bengasi. La Seconda guerra mondiale devastò la Libia italiana e costrinse i coloni a lasciare in massa le loro proprietà, specialmente nella seconda metà degli anni Quaranta. Nel Trattato di Pace del 1947 l’Italia fu costretta a rinunciare a tutte le sue colonie, compreso il Paese Nordafricano. Il territorio venne diviso in due amministrazioni: Tripolitania e Cirenaica sotto gli inglesi e Fezzan alla Francia. Nel 1951 l’indipendenza. La Libia è il primo Paese africano a liberarsi dal giogo colonialista. Re Idriss I sale al potere. Sarà il primo e unico re di Libia. Nel 1969, in settembre, il giovane ufficiale Muhammar Gheddafi attua un incruento colpo di Stato,

I PROTAGONISTI

insieme ad altri ufficiali. Nel 1975 Gheddafi (abbandonato l’appellativo di colonnello per un più democratico “fratello leader”) pubblica il Libro Verde, il suo pensiero politico alternativo tra comunismo e liberalismo, una sorta di mix tra socialismo reale e democrazia ateniese, mescolato con gli interessi tribali, gestito dai “Comitati popolari”, una forma di organizzazione per esprimere la volontà della base. Nel frattempo, Gheddafi viene accusato di finanziare i gruppi terroristici internazionali e gli Stati Uniti lo dichiarano nemico numero uno, tentando più volte di ucciderlo, con bombardamenti aerei (1986) e attentati. Negli anni ‘90, dopo la prima guerra del Golfo (1991), inizia un lento avvicinamento all’Europa e agli Stati Uniti, operazione che sfocia nella ripresa delle relazioni diplomatiche con Washington e con la ripresa degli affari con il Vecchio Continente, mentre nel contempo il dittatore veste sempre più di frequente il ruolo di interprete e difensore dei diritti e dello sviluppo del continente africano. Nulla sembra turbare il regime, sino alla primavera del 2011, quando le rivolte nel Maghreb danno fiato a una opposizione interna che sembrava sconfitta.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL MALI RIFUGIATI

156.428

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI NIGER

60.154

MAURITANIA

46.644

BURKINA FASO

32.017

SFOLLATI PRESENTI NEL MALI 36.690 RIFUGIATI ACCOLTI NEL MALI RIFUGIATI

17.512

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI MAURITANIA

15.298 -


Cancellare la cultura degli infedeli

I 16 mausolei di Timbuctu sono una delle poche testimonianze della città del Mali Settentrionale che, fino al XVI secolo, era stato un fiorente punto d’incontro tra la cultura araba e quella africana, e rappresentano oggi uno dei siti archeologici più celebri del Paese. Nel 1988 sono stati dichiarati dall’Unesco ‘Patrimonio dell’Umanità’, ma nel corso del 2012, alcuni di essi sono stati gravemente danneggiati dal gruppo islamico Ansar Dine (difensori della fede) che, dopo aver preso il controllo della città, ha tentato di cancellarne la memoria, ritenendo i mausolei simbolo d’idolatria e dunque d’infedeltà all’Islam. L’Unesco tuttavia, approfittando dell’allontanamento dei guerriglieri integralisti, ha avviato la ricostruzione dei mausolei nel 2014, avvalendosi dell’apporto di manodopera dei lavoratori locali e del supporto logistico di Minusma, la Missione Onu in Mali. A luglio 2015, con la conclusione dei lavori, i mausolei sono stati riportati all’antica magnificenza, rappresentando una piccola vittoria della cultura contro l’estremismo integralista.

© Fabio Bucciarelli

Il Mali è un Paese che continua ad essere in guerra. Il conflitto è iniziato nel 2012 con la dichiarazione di secessione del cosiddetto Azawad, il territorio desertico del Nord e poi con la successiva invasione del Nord da parte di forze islamiste appoggiate da formazioni autoctone. Da allora la guerra non è mai terminata e il Mali è praticamente un Paese spaccato a metà. La situazione di violenza - insieme ai cambiamenti climatici, a una crescente popolazione giovanile, alla mancanza di posti di lavoro, e l’urbanizzazione non controllata - sta provocando un aumento della migrazione e del traffico di esseri umani. Nel gennaio 2017 i Governi di Niger, Burkina Faso e Mali hanno firmato un accordo per la creazione di una forza multinazionale di lotta al terrorismo nella zona di LiptakoGourma, alla frontiera tra i tre Paesi. Intanto prosegue in Mali l’operazione militare a conduzione francese denominata Barkhane. Succeduta a Serval, operazione del 2013, ha lo scopo di contrastare l’ascesa delle milizie islamiche nell’Azawad, lo stato tuareg autoproclamatosi indipendente dal Mali nell’aprile 2012. L’operazione si svolge con la compartecipazione di Burkina Faso, Ciad, Niger, Mauritania e naturalmente Mali. A differenza di Serval, Barkhane autorizza le forze antiterrorismo a varcare i confini del Mali, per condurre operazioni preventive in Ciad e Niger. La missione è stata incrementata nel mese di marzo 2017. Il Governo del Presidente Ibrahim Boubacar Keita (a dicembre 2017 si è dimesso il premier Abdoulaye Idrissa Maïga rimpiazzato con Soumeylou Boubèye Maïga, stretto alleato del Capo di Stato) è impegnato nel tentativo di raggiungere la pace con i gruppi armati di matrice araba e tuareg del Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma). Gli accordi dovranno essere sottoposti a referendum costituzionale, in un clima però molto complesso. Le popolazioni locali restano sotto il controllo del Cma, mentre da Gao a Timbuctù a Kidal si moltiplicano le incursioni dei gruppi

MALI

Generalità Nome completo:

Repubblica del Mali

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese

Capitale:

Bamako

Popolazione:

17.420.000 (stima 2016)

Area:

1.240.142 Kmq

Religioni:

Musulmana (80%), animisti (18%) e altre (2%).

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

Le poche esportazioni sono prodotti agricoli del Sud.

PIL pro capite:

Us 1.488

terroristici, che approfittano dell’assenza dello Stato. L’esercito maliano è impegnato anche a Kidal, la città al confine con il Niger e l’Algeria controllata dai ribelli e sotto il controllo della Minusma, la missione di pace delle Nazioni Unite. Ad aggravare il bilancio, il rapimento nel luglio 2017 di sei ostaggi per opera di Nusrat al-Islam wal Muslimeen, la ‘filiale’ di al-Qaeda nel Mali. Ma i problemi non sono solo della periferia: secondo le Nazioni Unite, l’insicurezza in Mali “continua a infuriare e sta progressivamente muovendosi verso il centro del Paese”.


puntano all’affrancamento dal resto della società maliana. Le sigle islamiste attive, originariamente tre (Ansar Dine, Mujao, Aqmi) e oggi frastagliate in molte altre formazioni, hanno l’intento dichiarato di asservire tutto il Mali alla legge della Sharia; durante i mesi dell’occupazione del Nord si sono infatti registrati diversi episodi legati a questa interpretazione oltranzista del Corano: come lapidazioni, mutilazioni, distruzione di mausolei considerati iconoclasti. L’operazione Serval prima e l’attuale operazione Barkhane sono quindi servite a respingere l’avanzata islamista congelando la situazione nel Nord. Mentre a Bamako il Presidente Ibrahim Boubacar Keita tenta di promuovere qualche riforma, la situazione nelle Province del Nord rimane critica.

Per cosa si combatte

Un esercito di cinque Paesi

Nel febbraio 2018 a Bruxelles i donatori internazionali hanno promesso oltre 400milioni di euro per aiutare cinque Paesi del Sahel, tra cui il Mali (con Burkina Faso, Ciad, Mauritania e Niger) a creare una forza anti-terrorismo (5.000 soldati) per garantire “sicurezza e sviluppo” contro i gruppi jihadisti della Regione. La sola Unione europea ha messo a disposizione 100milioni gli euro per sostenere “l’operatività della G5 Sahel Joint Force”, autorizzata dall’ Unione africana nell’aprile 2017 e che, nel giugno seguente, l’Onu ha rafforzato con l’adozione di una risoluzione ad hoc, la 2359, del Consiglio di sicurezza.

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Gli islamisti delle formazioni jihadiste del Nord combattono per rendere sempre più incontrollabile e instabile la grande parte Settentrionale del Paese mentre la Francia - con il suo principale alleato africano, ossia Minusma (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali) - combatte per restituire la perduta integrità territoriale a seguito della proclamazione, nell’aprile 2012, da parte dell’Mnla (Movimento Nazionale per la liberazione dell’Azawad), dell’indipendenza dell’Azawad, Regione che comprende il territorio tra il Nord del Mali, il Niger e il Sud dell’Algeria. L’Mnla, dopo un valzer di alleanze con le forze islamiste, ha sì firmato il cessate il fuoco con le autorità di Bamako ma si mantiene su una posizione di sostanziale attendismo, senza aver rinunciato alle proprie rivendicazioni, derivate da una consolidata tradizione di ribellioni tuareg che

© Fabio Bucciarelli

Diventato indipendente dalla Francia il 22 settembre 1960 il Mali, con circa 18milioni di abitanti su un vasto territorio in gran parte desertico, è abitato da diversi gruppi etnici tra cui i bambara (34,1%), i fulani/peul (14,75), i sarakole (10,8%), i senufo (10,5%), i dogon (8,9%), i malinke (8,7%), i tuareg (0,9%) e altri (6,1%). La popolazione - musulmana oltre l’80% - è concentrata per più del 40% in aree urbane. L’analfabetismo supera il 65% del totale della popolazione in un Paese dove il tasso medio di fertilità è di 6 figli per donna, la mortalità infantile sotto i cinque anni resta di quasi 10 bambini su mille e la una speranza media di vita è di 60 anni. L’accesso a servizi sanitari adeguati è del 24,7% mentre è migliorato l’accesso all’acqua potabile (77%). Il 47% della popolazione vive sotto la soglia nazionale di povertà e l’Indice di sviluppo umano pone il Paese al 175° posto. Ricco di risorse naturali (oro, fosfati, caolino, sale, calcari, uranio, gesso, granito) ha giacimenti di bauxite, ferro, stagno e rame non ancora sfruttati. Il suo debito estero è 4,30miliardi

di dollari. È in questo quadro che la guerra è andata a incidere peggiorando le condizioni di vita di vasti settori della popolazione e peggiorando la sicurezza soprattutto nelle aree del Paese dove si combatte più aspramente e dove si registra la presenza di campi minati. Situazione fotografata da un rapporto uscito nel febbraio 2018 e realizzato dalla Missione Onu (Minusma) e dall’Alto Commissariato per i diritti umani (Ohchr), che evidenzia la preoccupante situazione dei diritti umani e la diffusa violenza nel Paese: «Nel Nord e Centro del Mali i civili continuano a vivere in un clima di perdurante instabilità e di mancanza di rispetto dei diritti umani, mentre i gruppi armati collegati ad alQaeda nel Maghreb islamico hanno realizzato numerosi attacchi contro obiettivi militari, riuscendo a spingersi più a sud». Ciò rende difficoltosa l’attuazione degli accordi di pace tra il Governo e gli ex ribelli tuareg siglati nel giugno 2015 ad Algeri. Negli ultimi mesi i caschi blu dell’Onu e i militari francesi o governativi sono stati oggetto d’imboscate mortali nella

Quadro generale


Il Mali punta sui giovani

TENTATIVI DI PACE

Lo scorso gennaio molti giovani si sono riversati nelle piazze per denunciare e protestare contro la crescente disoccupazione. Tra gli organizzatori delle numerose manifestazioni ci sono i ragazzi del Movimento dei Disoccupati Maliani (Modem). Il Modem aveva tenuto, lo scorso settembre, una riunione sui risultati dell’Apej (Agence pour la Promotion de l'Emploi des Jeunes) con l’intento di far emergere la voglia di lavorare dei giovani maliani. La Apej si è dimostrata essere una struttura di riferimento per i molti disoccupati. L’Agenzia mira a contribuire alla creazione di posti di lavoro per uomini e donne, di età compresa tra i 15 e i 40 anni, facilitando il loro accesso al mercato del lavoro e del credito. Gli obiettivi dell’agenzia sono quelli di agevolare l'accesso dei giovani senza qualifiche al mercato del lavoro, di sviluppare l'imprenditoria e di promuovere investimenti occupazionali nelle aree rurali e urbane. Per svolgere questa missione, l'Apej si è impegnata ad accompagnare l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro attraverso corsi di formazione e stage che consentono di acquisire numerose esperienze e competenze professionali.

I Tuareg sono spesso chiamati anche “uomini blu” soprannome che deriva dal colore degli abiti tradizionali che indossano - una lunga djalabba che li copre fino ai piedi e un turbante che avvolge loro il capo - e che lasciano sulla loro pelle una leggera patina color indaco, appunto. Di fatto i Tuareg sono una delle popolazioni più importanti del deserto del Sahara. Sono un popolo berbero e nomade che spesso in Mali come in Niger, ma anche in Algeria vengono trattati come una minoranza con pochi diritti. Il nomadismo è sempre stato un pretesto per non costruire loro scuole e ospedali. Da queste discriminazioni in Mali, ma anche in Niger, sono spesso scoppiate rivolte o addirittura vere e proprie guerre. Nel 2012 l’occupazione islamista del Nord del Mali è subentrata proprio grazie all’ennesima protesta delle popolazioni del Nord che culminò con la dichiarazione di indipendenza dell’Azawad. I Tuareg sono di religione islamica ma nelle loro tradizioni vi sono ancora forti influenze del vecchio animismo.

© Fabio Bucciarelli

Regione di Gao e di Timbouktou. Queste azioni ultimamente non vengono più rivendicate, per cui le autorità non sono in grado di stabilire se gli attacchi giungano da frange dei movimenti islamisti o dal fronte tuareg. Di fatto questo è il segno che le due formazioni della guerriglia nel Nord potrebbero essere tornate a compiere operazioni congiunte e organizzate. L’Onu, il Governo, la Francia condannano queste azioni ma dal punto di vista strategico il messaggio è quanto mai esplicito: il controllo del Nord del Mali è solo parziale e le forze d’interposizione sono appena tollerate, sia dai Tuareg sia dai miliziani islamisti. Gao, Kidal, Timbuctu restano le zone calde dove si gioca il futuro del Mali e anche la credibilità dell’operazione francese Barkhane, già molto criticata a Bamako anche dal Presidente Ibrahim Boubacar Keïta, eletto dopo la fine del conflitto. I quasi 8000 soldati effettivi - contando tanto le truppe di Parigi quanto quelle africane - non sembrano infatti avere il controllo del territorio né sembrano in grado di prevenire i giochi di alleanze che islamisti e

I PROTAGONISTI

Tuareg alternano ormai da anni. Anzi, accuse e sospetti di corruzione e complicità nel traffico d’armi che interessa la Regione sono spesso all’ordine del giorno, in un teatro che lontano dai riflettori dei media offre diverse opportunità di traffici illeciti. L’operazione Onu, denominata Minusma (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali) è il bersaglio prediletto di una situazione di caos calmo che, nel medio periodo, potrebbe dare vantaggio alle sigle islamiste. L’Onu ha ribadito il proprio impegno nella Regione e lo ha fatto con un annuncio dell’ex Segretario Generale Ban Ki-moon, che ha denunciato le operazioni jihadiste come una “violazione delle leggi internazionali”. Nonostante gli annunci però il terrorismo nel Nord non sembra affatto in declino. Anzi questo ha avuto la forza di colpire anche al Sud, a Bamako. Oltre all’attentato all’Hotel Radisson Blue del novembre del 2015 c’è stato un nuovo attacco nella capitale nel novembre del 2017 a una struttura turistica. Questi attacchi sembrano avere una sorta di coordinamento con quelli compiuti a Gran Bassam, in Costa D’Avorio e con quelli avvenuti nella capitale del Burkina Faso Ouagadougou.

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I mitici Tuareg


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL NIGER RIFUGIATI

1.235

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SFOLLATI PRESENTI NEL NIGER 121.391 RIFUGIATI ACCOLTI NEL NIGER RIFUGIATI

166.093

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI NIGERIA

105.501

MALI

60.154 -


L'incrocio verso il Mediterraneo

La rotta Mediterranea è quel percorso che porta migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana sulla frontiera tra Niger e Libia. Da qui ai migranti resta da entrare in Libia, attraversarla e, dalle sponde sul Mediterraneo, spiccare l’ultimo balzo verso l’Europa. Di fatto la rotta, fino ad Agadez, è un insieme di piste che confluiscono in questa città dove i migranti spendono gli ultimi soldi (guadagnati con il lavoro, al soldo di bande di trafficanti, durante l’attraversamento di alcuni Paesi del continente) poiché devono pagarsi cibo, vestiti, ricovero. In sostanza i migranti hanno sostituito, come forma di economia, ciò che un tempo erano i turisti.

nationalinterest.org

L’Europa ha “scoperto” l’importanza strategica del Niger negli ultimi anni. Due i motivi: il fatto che nel Nord, in pieno deserto, ci sono le principali riserve mondiali di uranio e il fatto che geograficamente il Paese è al centro della cosiddetta rotta mediterranea seguita dai migranti che sbarcano in Europa. La Francia ha storicamente i diritti di sfruttamento dell’uranio indispensabile per la sua politica energetica fondata su decine di centrali nucleari, mentre gli Stati europei nel loro complesso (e l’Italia in primo luogo) hanno deciso di fermare in Niger almeno parte del flusso migratorio che attraversa il Mediterraneo. Non a caso, la missione militare italiana annunciata il 13 dicembre 2017 è nata da un accordo tra Italia-Francia-Germania ed è, come è stata definita ufficialmente, “il primo sviluppo di una concreta strategia di difesa europea”. Scopo della missione: combattere il traffico di migranti diretto in Libia e addestrare forze armate e di polizia locali. La missione servirebbe anche al controllo di un’area strategica al confine con la Libia, operando dalla base avanzata francese di Madama. La missione è stata annunciata al termine del G5 Sahel, un incontro che si è tenuto a Parigi tra i Capi di Stato e di Governo di Francia, Germania e Italia e quelli dei cinque Paesi del Sahel: Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger, ma il governo di Niamey per due volte ne ha fermato la preparazione affermando che il suo Paese non ne era a conoscenza. Il ruolo dei militari italiani (470 soldati dotati di 120 veicoli) era comunque stato previsto accanto alle altre presenze armate straniere nel Paese. Gli Stati Uniti schierano gruppi di forze speciali e droni, mentre la Francia ha nel Sahel 3.500 uomini che dovrebbero arrivare nel 2018 a 5mila.

NIGER

Generalità Nome completo:

Repubblica del Niger

Bandiera

63

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese

Capitale:

Niamey

Popolazione:

20.100.000 (stima 2016)

Area:

1.267.000 Kmq

Religioni:

Musulmani (73%) animisti (15%) altro (12%)

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

Uranio e prodotti agricoli

PIL pro capite:

Us 1.180

Il Paese continua anche ad essere investito sulla frontiera a sud tra Nigeria e Ciad dalle atrocità del gruppo integralista islamico Boko Haram. Centinaia le morti, decine di migliaia i rifugiati e gli sfollati. Nella Regione di Diffa, al confine con la Nigeria, l’Unhcr stimava la presenza di quasi 500mila sfollati in fuga dalle violenze del gruppo terroristico. In Niger sono ancora attivi anche gruppi legati ad al-Qaeda nel Maghreb islamico e altri affiliati all’autoproclamato Stato Islamico, collegati a quelli presenti nel vicino Mali.


In Niger infine sono attivi anche gruppi legati ad al-Qaeda nel Maghreb islamico e altri affiliati all’autoproclamato Stato Islamico, collegati a quelli presenti nel vicino Mali. Queste formazioni si finanziano anche con il contrabbando di varie merci, soprattutto sigarette, droga, armi che passano attraverso le piste del grande deserto del Nord. Un altro grande business che finisce per finanziare queste formazioni è il traffico dei migranti. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, nel 2016 le vie carovaniere tra Niger e Libia sono state attraversate da 330mila migranti, che hanno pagato fino a quattromila euro per essere trasportati lungo la rotta, somme che finiscono per alimentare, paradossalmente, il magro Pil di questo Paese.

Per cosa si combatte

Braccio di ferro per l'uranio

In Niger, nel remoto deserto del Nord, c’è una delle più importanti riserve di uranio del Pianeta. Fino agli anni Novanta quei giacimenti sono stati sfruttati quasi in regime di monopolio dalla Francia che, dopo l’indipendenza, impose al Niger un contratto quarantennale con la propria multinazionale di produzione di energia atomica, Areva. Quelle forniture consentirono alla Francia di sviluppare la propria politica energetica che si fonda su oltre cinquanta centrali nucleari. Oggi ad Arlit - il sito dei giacimenti - sono entrate anche imprese cinesi e canadesi ma il grosso della produzione è rimasto nelle mani della Francia che, vista la presenza in quei deserti delle numerose formazioni jihadiste, ha praticamente militarizzato la Regione.

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Formalmente in Niger non c’è una guerra convenzionale, ma - come accade in molti altri Paesi africani - i motivi di tensione sono molti e cosiddetti conflitti di bassa intensità coinvolgono la popolazione. Sulla frontiera Sud l’esercito nigerino combatte, assieme alle truppe nigeriane, ciadiane, camerunensi e beninesi, una guerra contro i miliziani di Boko Haram. È una guerra difficile e asimmetrica perché Boko Haram - la formazione islamista presente in diverse Nazioni - schiera bambini, kamikaze, donne di fronte ai quali le attrezzature belliche dell’esercito sono inefficaci. In Niger poi è endemico il conflitto tra popolazioni del Nord di origine araba, ma anche tuareg e altre etnie del deserto, e le popolazioni del Sud, nere, animiste o cristiane.

atlasweb.it

Stato indipendente dal 1960 dopo la colonizzazione francese, il Niger è uno dei Paesi più poveri del mondo, dove la speranza di vita è bassissima per gli uomini e con qualche anno in più regalato alle donne. Gli indicatori sociali di accesso all’istruzione e alla sanità e i dati sanitari di mortalità infantile sono tra i più bassi dell’intero Pianeta: in un Paese dove la media è di 6,4 figli per ogni madre, la mortalità infantile (sotto i 5 anni) è altissima (95,5/1.000) e la speranza di vita media è di poco più di 55 anni. L’analfabetismo è dell’80,9%, l’accesso a servizi sanitari adeguati è del 10,9% e l’accesso all’acqua potabile è disponibile solo per sei abitanti su dieci. Anche dal punto di vista ecologico il Niger è uno dei Paesi maggiormente colpiti dai cambiamenti climatici, con il deserto che avanza inesorabilmente e strappa territorio utile per l’agricoltura. L’economia è una classica economia di sussistenza che utilizza per produrre energia la legna con il risultato che ogni anno vengono tagliati alberi che favoriscono l’avanzata del deserto. Gli abitanti sono circa venti milioni e

vivono per lo più nelle campagne (il tasso di urbanizzazione è del 19,3%) ma solo il 30% ha la luce elettrica. Questa percentuale aumenta drasticamente man mano che si procede verso Nord, cioè verso il deserto. Il Niger è un Paese dove solo il 20% della popolazione ha la possibilità di connettersi ad internet e dove la povertà e le disuguaglianze toccano in special modo le Regioni rurali e quelle desertiche. Il 48,9% della popolazione vive sotto la soglia nazionale di povertà e l’Indice di sviluppo umano mette il Paese al 187° posto: il penultimo. Le risorse naturali sono importanti: uranio soprattutto ma anche carbone, minerali di ferro, stagno, fosfati, oro, molibdeno, gesso, sale, petrolio. L’agricoltura produce legumi, cotone, arachidi, miglio, sorgo, cassava, riso e l’allevamento bovini, ovini, cammelli, asini, cavalli, pollame. Le esportazioni (1,18 miliardi di dollari nel 2017) riguardano uranio, bestiame, legumi, cipolle. Il debito estero ammonta a 3,09 miliardi di dollari. Il Niger è una delle cinque nazioni che formano una nuova forza regionale per combattere

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

Contro la povertà si punta sulla terra

Il progetto “Terra e Pace” è stato avviato nel 2016 da Cospe Onlus con lo scopo di aiutare il Niger, uno dei Paesi più poveri al mondo, a sviluppare alcuni settori cruciali come l’agricoltura e l’allevamento. La strategia d’azione prevede tre assi d’intervento interconnessi tra loro: il miglioramento delle capacità dei produttori e degli allevatori tramite pratiche agro-ecologiche, la strutturazione delle organizzazioni contadine, il sostegno agli attori locali per salvaguardare determinate zone a rischio ambientale. L’obiettivo generale è quello di contribuire al miglioramento della situazione socioeconomica delle popolazioni rurali, nella Regione di Tahoua, adottando politiche di tutela e di gestione sostenibile e pacifica delle risorse naturali. Oltre a Cospe, molti altri attori locali cooperano per dare vita a questo progetto, della durata di tre anni circa. Tra le organizzazioni che ne fanno parte si possono menzionare Africa70, Cnpfpn (Coordination National Plate Forme Paysanne Niger) e molte altre. Il finanziamento è ad opera del ministero degli Affari Esteri Italiano.

Il parlamento italiano ha approvato a fine legislatura nel gennaio del 2018 una missione militare in Niger, nell’ambito delle operazioni del G5 (Mali, Ciad, Burkina Faso, Niger, Mauritania) nel Sahel. In Niger dovrebbero essere mandati 470 soldati di cui 120 nel primo semestre del 2018. La missione però è in “stallo”, come ha scritto il Corriere della Sera, perché “per la seconda volta il Governo di Niamey dice no all’arrivo dei soldati italiani da impiegare contro l’immigrazione clandestina e il terrorismo. Nonostante la squadra di 40 specialisti inviati in Africa dopo l’approvazione della delibera di palazzo Chigi”. La missione ha sollevato polemiche: “L’invio di militari - ha scritto Nigrizia - non potrà arrestare il fenomeno e i migranti - che fuggono da guerre, povertà e cambiamenti climatici - verranno sospinti verso nuove rotte, anch’esse complicate, rischiose e costose… le migrazioni (e il terrorismo) hanno radici nell’oppressione e nel degrado del tessuto economico e sociale. Lì occorre intervenire, favorendo governi e istituzioni democratici, e capaci di dare dignità ai popoli e stabilità ai Paesi”.

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L’Italia in Niger

travelmedicine.it/niger

militanti islamisti nella Regione del Sahel (le altre nazioni sono: Burkina Faso, Ciad, Mali e Mauritania; assieme formano il “G5”). Come gli altri stati aderenti al progetto, anche il Niger si è impegnato a finanziarne l’organizzazione con 10milioni di euro, anche se gran parte del costo delle operazioni militari in capo all’organismo regionale vengono finanziate dagli Stati europei, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea anche per limitare i flussi migratori. Sempre sul fronte militare, il 2017 ha visto in marzo il Niger dichiarare lo stato di emergenza nelle zone Occidentali confinanti con il Mali, dopo attacchi attribuiti a militanti vicini al Movimento per l’Unità e la Jihad in Africa Occidentale. Il sistema politico è attualmente quello di un “Governo di transizione”, nominato da una giunta militare che ha rovesciato Tandja Mamadou nel 2010. Nel 2011 Mahamadou Issou-

I PROTAGONISTI

fou viene eletto Presidente e nel marzo 2016 rieletto a Capo dello Stato in un ballottaggio boicottato dai sostenitori di Hama Amadou, un suo ex alleato che nel 2014 è fuggito in Francia dove vive in esilio per sfuggire all’arresto per traffico di neonati. La corte d’appello di Niamey nel 2017 lo ha condannato a un anno di carcere, giudicandolo in abstentia. Mahamadou Issoufou, ha ricoperto anche la carica di primo Ministro. Si è presentato come candidato in ogni elezione presidenziale successiva al 1993 ed è stato infine rieletto nel 2011 e ancora cinque anni dopo. Già leader del Partito Nigerino per la Democrazia e il Socialismo (Pnds-Tarayya, partito a indirizzo socialdemocratico) fino alla sua elezione come Presidente del Niger nel 2011, è stato anche il principale leader dell'opposizione durante la presidenza di Tandja Mamadou (1999 - 2010), il sesto capo di stato del Niger. Nel febbraio 2010, in seguito a una crisi politica scatenata dal suo tentativo di rimanere al potere, Tandja Mamadou è stato deposto con un golpe militare.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA NIGERIA RIFUGIATI

229.311

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI NIGER

105.501

CAMERUN

88.706

ITALIA

14.247

SFOLLATI PRESENTI NEL NIGERIA 2.219.272 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA NIGERIA RIFUGIATI

1.367

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI -


L'inferno del Delta

II Delta del Niger è la foce del grande omonimo fiume Niger: un’area grande circa un terzo dell’Italia abitata da circa venti milioni di persone di venti etnie diverse. In questa vasta area il fiume si apre in una serie di canali per gettarsi nel Golfo di Guinea e crea una enorme palude coperta da mangrovie attraversata da enormi quantità di acqua dolce. La collocazione geografica e le condizioni climatiche equatoriali, fanno del Delta del Niger un eco-sistema unico al mondo, una sorta di potenziale paradiso naturale. La scoperta, nel 1956 da parte della Shell, di ricchi giacimenti di greggio (è presente anche l’italiana Eni) hanno trasformato questo paradiso in uno dei luoghi più inquinati del mondo con fasci di oleodotti che attraversano canali e foreste in superficie, alte ciminiere che bruciano il gas flering, prodotto dell’estrazione del greggio, perdite, boicottaggi, furti, guerre per vendere clandestinamente il greggio. Questa situazione ha reso il Delta una delle Regioni più violente e incontrollabili dell’intera federazione ma di fatto (e forse proprio per questo) la ricchezza della Nigeria proviene quasi interamente da questa regione.

guardian.ng

Sono almeno tre i grandi nodi e i focolai di tensione e, in alcuni casi, di una guerra permanente che attanagliano il Paese: il gruppo islamista Boko Haram, il Delta del Niger e infine il Biafra con rinnovate richieste di indipendenza gravide di sviluppi conflittuali. Indebolito ma ancora in grado di seminare terrore il gruppo terrorista islamico Boko Haram continua ad essere l’elemento di maggiore instabilità della Federazione nigeriana insieme alle formazioni guerrigliere e alle bande della malavita del Delta del Niger. Nel mese di dicembre 2016 l’esercito è riuscito a cacciare i miliziani di Boko Haram fuori dal “Campo zero”, la loro ultima roccaforte della foresta di Sambisa. Ma nonostante l’annuncio di vittoria del Presidente Muhammadu Buhari, attentati e attacchi non sono mancati. La Nigeria è anzi il Paese che ha subito il maggior numero di attacchi nella regione sia nel 2016 sia nel 2017, quasi la metà dei quali sono appunto avvenuti nel grande Paese con capitale Abuja. Fino a poco tempo fa Boko Haram controllava un’area di vaste dimensioni, mentre oggi il movimento, fedele al cosiddetto Stato islamico di Al Baghdadi, ha perso terreno anche se non si può certo dire sconfitto. Inoltre sarebbe ricomparso, con alcuni video, lo storico leader Abubakar Shekau che era stato dato per morto. Ma assieme a lui c’è adesso anche un altro leader - Mohamed Al Barnawi - nominato direttamente, pare, dal capo dell’autoproclamato Stato Islamico, Abu Bakr al Baghdadi. Scontri si sono verificati sia nel Borno sia nei Paesi confinanti, in particolare Camerun, Niger e Ciad. Boko Haram, nella sua guerra jihadista, ha ucciso circa 20mila persone e costretto all’esilio più di due milioni di persone. Nel Delta del Niger è invece comparsa una nuova formazione che ha sostituito il vecchio Mend (Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger) che si chiama “I Vendicatori del Delta”. Sembra essere meno attiva ma ha pur sempre realizzato qualche sequestro e qualche attacco alle postazioni petrolifere delle imprese internazionali. A tutto ciò va aggiunto un ulteriore motivo di tensione che

NIGERIA

Generalità Nome completo:

Repubblica Federale di Nigeria

Bandiera

67

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Inglese (lingua ufficiale), hausa, pidgin

Capitale:

Abuja

Popolazione:

189.800.000 (stima 2016)

Area:

923.768 Kmq

Religioni:

Musulmana 50%, cristiana 40%, religioni tradizionali 10%.

Moneta:

Naira

Principali esportazioni:

Petrolio che costituisce il 90% delle esportazioni, cacao, caucciu, olio di palma

PIL pro capite:

Us 6.230

deriva dalle rinnovate richieste di indipendenza da parte della Regione del Biafra per la quale, nel lontano 1967, scoppiò una delle più sanguinose guerre africane del Novecento. Fu proprio una foto sulla rivista Life di un bambino biafrano con lo stomaco rigonfio per la fame a inaugurare un nuovo tipo di giornalismo che aveva al centro drammi umanitari. Il 2018 si è aperto con un aumento dell’inflazione (15,1%) e, a febbraio, col rapimento di oltre cento 100 studentesse da parte di Boko Haram nello stato di Yobe.


il resto è venduto sui mercati internazionali. Il Governo federale lancia periodiche operazioni contro la produzione, il commercio e la raffinazione illegale del greggio che avviene soprattutto negli stati di Bayelsa, Rivers, Delta. Quanto a Boko Haram, benché il Presidente Buhari abbia ripetutamente affermato che il gruppo jihadista è stato sconfitto, attacchi e vittime segnalano che il 2017 è stato peggiore del 2016. Gli analisti della BBC Monitoring sostengono infatti che la Nigeria è il Paese che ha subito il maggior numero di attacchi sia nel 2016 sia nel 2017, in gran parte nello Stato del Borno, dove Boko Haram è nato. Nel 2017 gli islamisti del gruppo avrebbero realizzato 150 attacchi, di cui 109 in Nigeria, 32 in Camerun, 7 in Niger e 2 in Ciad.

Per cosa si combatte

Il pericolo Boko Haram

Boko Haram è una formazione nata nei primi anni duemila a Maiduguri, capitale dello stato di Borno, il più nordorientale della Nigeria. Il suo fondatore, Mohamed Yusuf, volle creare un gruppo che ai tempi non praticava il terrorismo ma aveva come obiettivo quello di criticare il lassismo, sul piano religioso, della classe politica, della polizia e dell’esercito. Si trattava in sostanza di un gruppo dell’estremismo islamico che però divenne, per la virulenza delle critiche, un problema per l’establishment politico del Nord. Mohamed Yusuf, nel 2009, durante una rivolta, venne arrestato e ucciso in carcere. Da quel momento Boko Haram ha preso la deriva del terrorismo sotto la guida di uno degli allievi di Mohamed Yusuf, Abubakar Shekau. Boko Haram significa, in lingua hausa, l’educazione Occidentale è peccaminosa, e di conseguenza questa organizzazione prende di mira in particolare i giovani e le scuole. Oggi Boko Haram è tornata a praticare il “terrorismo puro” senza velleità di formare uno stato islamico.

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Alla radice delle continue e violente tensioni del gigante africano c’è sempre la stessa, profonda, contraddizione: da un lato l’estesa perdurante povertà di decine di milioni di nigeriani, dall’altro l’enorme ricchezza delle sue riserve di petrolio e gas. Anche il fenomeno - piuttosto recente - dell’estremismo islamico antioccidentale rappresentato da Boko Haram, trova la sua linfa nell’iniqua realtà sociale del Paese. La “battaglia” per il petrolio, seppure messa in secondo piano dall’escalation terroristica, si continua a combattere, su diversi fronti: uno è quello del contrabbando, che fa “perdere” al Paese miliardi di dollari l’anno. Secondo dati forniti dal Governo di Abuja, circa 150mila barili di greggio al giorno vengono sottratti illegalmente. Tuttavia, solo il 10% del petrolio rubato viene raffinato e consumato localmente, tutto

tpi.it

La Nigeria è una federazione di stati creata nel 1914 dai colonialisti inglesi che, alla fine dell’era coloniale, ne hanno disegnato i confini secondo i propri interessi. Di fatto hanno creato una sorta di “mostro” sociale, economico e politico avendo riunito all’interno della stessa nazione il Nord povero, semidesertico, abitato da hausa e fulani nomadi, dediti alla pastorizia e tutti storicamente di religione musulmana, e un Sud densamente popolato da popolazioni stanziali appartenenti a due etnie principali, Yoruba e Igbo, di religione cristiana. Pur essendo il primo produttore di petrolio del continente africano e l’ottavo al mondo (2,53milioni di barili al giorno), la Nigeria è un Paese povero e - come spesso si dice - la sua ricchezza si è trasformata in una sorta di maledizione: il 70% dei suoi abitanti infatti vive sotto la soglia di povertà, l’aspettativa di vita è di 53 anni, oltre un terzo della popolazione è analfabeta, il 42% non ha accesso all’acqua potabile, e la mortalità infantile sotto i 5 anni è al livello record del 143 per mille. Eppure il Paese è ricco di risorse naturali: petrolio e prodotti petroliferi (che contano per il

95% dell’export) gas naturale, stagno, materiali di ferro, carbone, calcari, niobio, piombo, zinco. In agricoltura ha un buon terreno per il cacao, arachidi, olio di palma, mais, riso, sorgo, miglio, cassava, yam e caucciù, un bene che nel 2017 ha reso alla Nigeria oltre 40miliardi di dollari. Il Paese alleva ed esporta bestiame, ovini, caprini, maiali. La vendita di animali vivi gli ha reso l’anno scorso oltre 35miliardi di dollari. La Federazione Nigeriana è composta da 36 Stati e un territorio (l’area di Abuja, capitale della federazione) abitati da 250 etnie differenti con tre gruppi dominanti: gli Hausa-Fulani in tutta la parte Settentrionale, gli Yoruba nel Sudovest, gli Ibo nel Sudest. L’estrema eterogeneità di culture, economie, storia, lingue, realtà climaticoambientali, religioni, rende difficile la crescita di un forte senso di identità nazionale. I primi 40 anni della sua storia di Paese indipendente sono una catena quasi ininterrotta di colpi di stato e regimi militari. Fino al 1999, quando per la prima volta i nigeriani hanno potuto votare liberamente, eleggendo alla guida del Paese Olusegun Obasanjo, che ha poi governato la Federazione

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

La riforestazione: un impegno per il futuro

Con 130mila soldati attivi in prima linea, 32mila riservisti e circa 80mila paramilitari che possono essere mobilitati in caso di necessità, il Nigerian Army (Na) è la maggior componente delle forze armate nigeriane responsabile per le operazioni di guerra terrestre. Viene considerata una delle forze militari meglio equipaggiate dell’intero continente africano. Il suo motto è "Victory is from God alone". Governato dal Consiglio dell'esercito nigeriano, ha avuto ed ha, come molto spesso in Africa, anche un ruolo politico la cui forza è dovuta proprio alla sua potenza numerica. Si fa carico di sfide alla sicurezza della Nazione e in particolare di combattere Boko Haram anche con presidi davanti alle scuole a sostegno della polizia che, come è stato ordinato dal Governo nel gennaio 2018, deve proteggere tutti gli istituti che si trovano nelle zone dov’è presente l’organizzazione islamista. Tukur Yusuf Buratai è il generale a capo dello stato maggiore della Difesa. È stato nominato nel luglio del 2015 dal Presidente Muhammadu Buhari.

69

Nigerian Army

La Nigeria vanta la più grande economia dell'Africa, anche se sta affrontando una diffusa deforestazione guidata dal rapido sviluppo urbano e dalla crescita della popolazione. Recentemente il Paese ha promesso di riforestare 4milioni d’ettari di terre degradate, aderendo all’African Forest Landscape Restoration Initiative (Afr100): un progetto che vede la partecipazione di 26 Paesi africani e che promette di riqualificare oltre 100milioni di ettari disboscati entro il 2030. Per il continente africano la riqualifica e la riconversione delle terre è una sfida di vitale importanza di fronte ai cambiamenti climatici, che gioverebbe al Pianeta e alle persone. Oltre tre quarti delle terre del Paese sono coltivate, per questo motivo i cambiamenti climatici sono una minaccia per il futuro di grande preoccupazione. La sola desertificazione nella Regione di Sahel, in Nigeria, minaccia il sostentamento di 40milioni di persone che vivono nelle zone rurali. L’impegno della Nigeria per il ripristino del paesaggio forestale, si inserisce nel disegno di dare nuova produttività alla terra, ripristinare l'integrità ecologica e allo stesso tempo a migliorare il benessere umano.

TerrAfrica Partnership

per due mandati. La Nigeria è considerata uno dei giganti africani, insieme al Sud Africa, non tanto per la sua forza economica, quanto per la concentrazione di popolazione - circa 190milioni di abitanti in un territorio relativamente piccolo (quasi tre volte l’Italia) - e per le sue riserve di greggio, per le quali si colloca all’ottavo posto fra i produttori mondiali, e si contende il primato africano con l’Angola. È in questi ultimi venti anni, con l’avvento della democrazia, che sono scoppiate le principali contraddizioni del Paese. Prima delle quali la questione petrolifera: a fronte degli enormi introiti legati alle concessioni per l’estrazione del greggio (che costituiscono il maggior bene esportato, l’80% delle entrate fiscali e il 40% del Pil), la grande maggioranza della popolazione nigeriana (il 70%) vive con meno di un euro al giorno ed è proprio il Delta del Niger, l’area petrolifera del Paese, una delle Regioni più povere.

I PROTAGONISTI

La seconda grande contraddizione è legata alle tensioni religiose. Gli scontri fra cristiani e musulmani, avvenuti in particolare lungo la fascia di coabitazione nel Centro-Nord del Paese, sono iniziati improvvisamente all’indomani dell’elezione di Obasanjo, intorno al 2000-2001. Da allora vi sono state ricorrenti crisi che talvolta hanno provocato anche migliaia di vittime. Tensioni che, dopo decenni di pacifica e tollerante convivenza fra cristiani e musulmani, sembrano essere state utilizzate più come elemento strumentale di pressione politica che come reale contrapposizione di fedi. Infine, terzo grave problema, l’inurbamento selvaggio, che ha creato caotiche megalopoli. Prima fra tutte Lagos, capitale economica e commerciale del Paese, che ha ormai superato i 20milioni di abitanti. La popolazione urbana, che nel 2017 sfiorava ormai il 50% del totale degli abitanti, vive in enormi città dove all’estrema povertà delle periferie si somma anche un elevato tasso di criminalità. Si deve aggiungere il problema degli sfollati: solo nel Nord, a causa di Boko Haram, sarebbero circa 1milione e 800mila.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA RIFUGIATI

490.892

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CAMERUN

283.602

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

102.489

CIAD

70.223

SFOLLATI PRESENTI NELLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA 411.785 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA RIFUGIATI

12.115

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SUD SUDAN

4.912

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

4.708

SUDAN

2.114


Le promesse non mantenute del Mondo

La crisi della Repubblica Centrafricana è dovuta anche alle pesanti responsabilità della comunità internazionale. Ad esempio, per rimanere ai fatti più recenti, nel novembre 2016, nel corso di una conferenza promossa dall’Unione Europea a Bruxelles, la stessa Ue insieme al vicesegretario generale dell’Onu Felix Moloua, al vicepresidente della Banca Mondiale Jan Eliasson, e ai rappresentanti di 80 Paesi, organizzazioni e agenzie internazionali avevano garantito pieno sostegno al Governo di Bangui centrafricano. Impegnandosi a implementare i programmi del Governo centrafricano per la pace e la riconciliazione, a promuovere lo sviluppo e la ripresa economica. Ebbene, solo il 30% di quanto promesso è arrivato dai donatori. E per il 2018 le cose vanno ancora peggio: dei 180,1milioni di dollari richiesti dall’Unhcr ad aprile ne erano stati raccolti solo 2,4, ossia l’1,5% dell’intera cifra.

UNHCR/D. Timme

Il Centrafrica vive ormai il quinto anno di guerra civile da quando, nel 2013, i ribelli del gruppo Seleka (che dichiarano di ispirarsi all’islam) hanno conquistato la capitale e costretto alla fuga l’allora Presidente François Bozizé. Cinque anni nei quali, nonostante i 13mila caschi blu presenti, il Paese è rimasto fondamentalmente un campo di battaglia fra milizie, gruppi armati e bande di malviventi che nel tempo si sono moltiplicati. Il Governo controlla a malapena buona parte del territorio - ma non tutto - della capitale. Accanto all’esercito governativo (debolissimo) e ai soldati della missione Onu Minusca, sul terreno si muovono i cosiddetti gruppi Antibalaka (sedicenti cristiani), mentre le milizie di Seleka si sono spostate nelle aree Nord Orientali del Paese, delle quali continuano a mantenere il controllo. Alla guida dello Stato, dal 30 marzo 2016, c’è il Presidente - eletto al secondo turno nel mese di febbraio - FaustinArchange Touadéra, prendendo il testimone da Catherine Samba-Panza, l’ex sindaca di Bangui che era stata posta alla presidenza di transizione nel gennaio del 2014. Touadéra non è riuscito né a riportare la pace nel Paese né ad avviare una reale smilitarizzazione dei gruppi armati. E neppure a migliorare le condizioni disperate di una popolazione, già poverissima da ben prima del 2013. Secondo i critici, l’attuale Presidente sarebbe stato incapace di elaborare e realizzare una efficace strategia per uscire da una crisi sempre più drammatica. L’ultimo grido d’allarme, nel gennaio 2018, viene dalla la Croce Rossa Internazionale (Cri). L’organismo umanitario ha denunciato una situazione in ulteriore peggioramento: oltre metà della popolazione ha bisogno urgente di aiuti internazionali. L’appello della Cri è l’ultimo di una serie lanciati dalle Ong e dai missionari presenti nel Paese. Una situazione che, peraltro, non si può considerare venga descritta in tutta la sua gravità, perché vi sono intere zone del Centrafrica inaccessibili agli stessi volontari e cooperanti (nella seconda metà del 2017 diverse organizzazioni umanitarie sono state costrette a lasciare il Paese per l’estrema in-

Repubblica

CENTRO AFRICANA

Generalità Nome completo:

Repubblica Centrafricana

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese (ufficiale), sango (lingua franca e nazionale), gbaya, banda

Capitale:

Bangui

Popolazione:

5.700.000 (stima gennaio 2018)

Area:

622.984 Kmq

Religioni:

Cristiane 51%; religioni tradizionali e animiste 34%; musulmana 15%

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

Caffè, cotone, diamanti, legname, minerali, oro

PIL pro capite:

Us 337 (700 Us a parità di potere di acquisto)

sicurezza nella quale si trovavano a operare). Secondo gli ultimi dati (fine 2017) forniti dall’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu, a causa della realtà indiscriminata di violenze, i profughi interni e i rifugiati centrafricani nei Paesi vicini hanno superato il milione e 200mila (esattamente 688.700 sfollati e 542.380 rifugiati), su un totale 5,7milioni di abitanti.


poi era fuggito, le milizie Seleka avevano insediato Michel Djotodia, in seguito sostituito (a gennaio 2014) da Catherine Samba-Panza (l’unica, fra questi, votata dal Parlamento). Oggi gli uomini della Seleka sono tornati a occupare le zone da cui provenivano, quel NordEst del Paese che alcuni vorrebbero rendere autonomo, dividendo lo Stato africano. Opzione mai nemmeno presa in considerazione dalla comunità internazionale, come pure dal Governo eletto nel 2016. Va detto che in Centrafrica cristiani, musulmani e aderenti alle religioni tradizionali hanno convissuto pacificamente da secoli. Di sicuro l’eventuale divisione del Paese renderebbe più facile lo sfruttamento delle materie prime. Nel Nord-Est della Repubblica Centrafricana, in particolare nella Regione di Birao, vi sono ricchi giacimenti di petrolio.

Per cosa si combatte

Lo stupro come arma di guerra

"Gli abusi sessuali nei confronti delle donne dello schieramento rivale sono stati tollerati, ordinati, e in alcuni casi anche commessi dagli stessi comandanti". È uno dei passaggi conclusivi dello studio pubblicato nell’ottobre 2017 da Human Rights Wacth (Hrw), intitolato “Dicevano che siamo le loro schiave”, sulle violenze sessuali perpetrate in Centrafrica dai gruppi armati. A conferma che il conflitto in corso nel Paese africano è senza esclusione di colpi. Anche lo stupro, come in altre guerre del Continente nero, è stato ed è usato come arma di guerra. L’indagine di Hrw sottolinea che "i responsabili di questi efferati crimini di guerra sono tutti liberi, alcuni anche in posizioni di potere, e non pagheranno mai per il male commesso". Nello Stato centrafricano il clima di impunità rimane pressoché totale. Per questo, secondo l’organizzazione di tutela dei diritti umani, è più che mai urgente rendere operativa quanto prima una Corte penale speciale che persegua i crimini di guerra e contro l’umanità.

72

Nella classifica dell’Onu sullo sviluppo umano, il Centrafrica risulta essere il Paese più povero del mondo (al 188° posto). Eppure, dispone di ingenti materie prime, sia del suolo che del sottosuolo. Non solo il legname delle foreste che ricoprono buona parte del territorio, ma anche diamanti, oro, petrolio, uranio. Beni che fanno gola alle potenze internazionali, le quali non a caso si contendono l’appoggio del Governo locale: Francia e Cina, ma anche l’Iran (interessato all’uranio) sono gli attori principali, che agiscono con l’appoggio locale di Ciad e Sudan. Sono scesi dal Nord-Est, che confina con Ciad e Sudan, gli uomini armati che hanno dato origine alle milizie Seleka. Allora, nel 2013, la ragione dichiarata era la rivolta contro il Presidente François Bozizé, accusato di non aver rispettato accordi di pace che prevedevano l’integrazione nell’esercito degli ex combattenti ribelli. Bozizé

UNHCR/D. Mbaiorem

Il Centrafrica non ha mai conosciuto una vera democrazia. Provato da decenni di malgoverno e colpi di Stato, il Paese non è mai riuscito a risollevarsi. Negli ultimi anni il Paese africano ha anche subito pressioni e instabilità causate dalle vicende politiche degli stati confinanti, Ciad e Sudan, che hanno inciso nella sua tenuta interna, totalmente impreparato a ricevere le ondate di profughi in fuga da altri teatri di guerra. L’insicurezza e il pericolo, oltre a una rete di strade per lo più disastrate, hanno impedito alle agenzie umanitarie di raggiungere le zone colpite dai combattimenti, in particolare nel NordEst, e di portare sostegno alla popolazione. La criminalità e il traffico clandestino di diamanti (seconda voce nelle esportazioni del Paese) contribuiscono ad aumentare la già drammatica situazione interna del Centrafrica. La Repubblica è stata fortemente voluta da Berthelemey Boganda, un prete cattolico, leader del Movimento d’Evoluzione Sociale dell’Africa Nera, il primo partito politico del Paese. Boganda ha governato fino al 1959 quando è morto

in un misterioso incidente aereo. Suo cugino, David Dacko, nel 1962 ha imposto un regime monocratico. Ha avuto inizio così una lunga serie di colpi di Stato. Il primo, ai danni di Dacko, lo attua il colonnello Jeab Bedel Bokassa, che sospende la costituzione e scioglie il Parlamento. La follia di Bokassa arriva al punto di autoproclamarsi Presidente a vita nel 1972 e Imperatore del risorto Impero Centrafricano nel 1976. Un impero di follia, e povertà per la gente. La Francia, ex potenza coloniale, decreta la fine di Bokassa nel 1979 e restaura la presidenza di Dacko, con un altro golpe. Nel 1981 il generale Andre Kolingba prende il potere. Pressioni internazionali costringono il dittatore a convocare elezioni nel 1993, vinte da Ange-Félix Patassé. Il neo Presidente dà vita a una serie di epurazioni negli apparati statali. Promulga una nuova costituzione nel 1994, ma le forti tensioni sociali sfociano in rivolte popolari e violenze interetniche. Nel 1997 vengono firmati gli accordi di pace

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

Un accordo per la riconciliazione

Padre Aurelio Gazzera

Dopo numerosi anni di guerra civile e di tensioni interne, il 20 giugno 2017, le autorità della Repubblica Centrafricana hanno firmato un importante accordo politico che rappresenta un passo verso la pacificazione della Nazione. Grazie alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio, molto attiva nel Paese, l’accordo è stato sottoscritto da tutti i rappresentanti dei vari gruppi politico-militari del Paese e dagli inviati del Presidente Touadéra. Al suo interno vengono discussi principalmente tre punti riguardanti gli ambiti politico, della sicurezza, economico, umanitario e sociale. Nel primo punto è previsto il cessate il fuoco, il rispetto dell’integrità territoriale dello stato, il riconoscimento di tutti i gruppi politico-militari, la loro cooperazione per la riconciliazione e l’accettazione dei risultati delle elezioni presidenziali del 2016. Nel secondo punto, riguardante la sicurezza, si garantisce la libera circolazione dei beni, delle persone e il ristabilimento dell’autorità dello stato su tutto il territorio nazionale. Nel terzo punto è annunciata un’opera di ricostruzione e il tentativo di protezione delle Ong nazionali e internazionali a livello economico, umanitario e sociale.

Nel 2011 aveva deciso di aprire un blog. All’inizio - confessa lui stesso - non vi scriveva con molta regolarità. Poi è arrivato il 2013, la guerra fra Seleka e Antibalaka, lo sprofondare della Repubblica Centrafricana nell’ennesima profonda crisi. Nel tempo il blog di padre Aurelio Gazzera, 56 anni, è diventato un punto di riferimento. Una sorta di “diario del conflitto” del carmelitano di origine ligure (dal 2003 missionario nel Centro-Nord del Centrafrica, nella cittadina di Bozoum), ma ancor più uno spaccato quotidiano della sua attività di pacificazione e soprattutto della tragica sofferenza della popolazione. Il blog, ora edito in 7 lingue, a marzo 2018 ha raggiunto 373.268 visualizzazioni. E padre Aurelio ha deciso di farne un libro: “Coraggio. Bisogna dare battaglia perché Dio conceda vittoria” (editrice Salinzucca). In Centrafrica - e non solo - si è guadagnato l’appellativo di “uomo che ha piegato i fucili ai guerriglieri”. Premiato nel 2014 dall’Associazione degli avvocati spagnoli per il suo impegno in favore dei diritti umani, padre Aurelio ha presentato al Consiglio Onu per i Diritti Umani di Ginevra, l’esperienza di Bozoum, dove un “Comitato di mediazione” dei cittadini è riuscito a supplire all’assenza dello Stato.

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(Cuneo, 27 maggio 1962)

santegidio.org

che portano al dispiegamento di una forza internazionale composta da forze militari di Paesi africani. Poi arriva il turno dell’Onu. Di nuovo alle urne nel 1999, Patassé vince, ma ormai le tensioni sono fuori controllo. Il Paese diventa una sorta di terra di nessuno dove le forze militari e i ribelli razziano e rapinano la popolazione. Terreno fertile per un ennesimo colpo di Stato, che in effetti porta al potere nel 2003 il generale François Bozizé, che poi vince le elezioni nel 2005 (ritenute valide dalla comunità internazionale). La Repubblica Centrafricana è considerata come uno “Stato fantasma”, secondo i report dell’International Crisis Group: il Paese avreb-

I PROTAGONISTI

be perso completamente la propria capacità istituzionale. Il Centrafrica ha vissuto in una condizione di brutalità continua, sia prima che dopo il raggiungimento dell’indipendenza. Cinquant’anni di regimi autoritari hanno dato vita a uno Stato predatore e violento, in cui l’unica possibilità per arrivare al potere e per mantenerlo è stato il ricorso continuo alla forza. A ciò vanno aggiunte le pressioni esercitate dalla ex potenza coloniale, la Francia, che ha mantenuto legami molto stretti con i vari leader che si sono susseguiti, determinando la caduta o il ritorno di chi poteva dimostrarsi un interlocutore affidabile e garantendosi un altro Paese amico nella Regione, oltre al Ciad. Il risultato di tutto ciò è che il 70% della popolazione vive al di sotto del livello di povertà e la condizione di emergenza umanitaria (ora particolarmente drammatica) è una costante.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO RIFUGIATI

537.473

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI UGANDA

205.363

RUANDA

73.147

BURUNDI

57.055

SFOLLATI PRESENTI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 2.232.900 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO RIFUGIATI

451.956

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI RUANDA

245.052

REPUBBLICA CENTRO AFRICANA

102.052

SUD SUDAN

66.672


Intanto Kabila vara la legge più importante

A mandato ampiamente scaduto (da ormai 15 mesi) e nel pieno del ciclone delle polemiche per il reiterato rinvio delle elezioni, Joseph Kabila ha promulgato la legge più importante della sua presidenza e più strategica per il Paese: il “code minier” (codice minerario). Una nuova norma che rischia di essere una bomba per gli interessi (fortissimi) delle multinazionali straniere in RD Congo: prevede un forte aumento di tasse sulle “sostanze strategiche” (che passano dal 2 al 10%) e anche una imposta del 50% sui cosiddetti “superprofitti” (ricavi ottenuti con prezzi superiori del 25% rispetto agli studi di fattibilità bancaria). Non solo. Il nuovo codice ha abolito la clausola che assicurava la stabilità dei contratti per 10 anni.

© Alfredo Falvo/Contrasto

Lo scontro più duro in atto è quello con i cattolici (che peraltro costituiscono la confessione religiosa più forte, 40% circa della popolazione). Nel corso del 2017 e anche nei primi mesi del 2018, lo scontro con la Chiesa è diventato sempre più palese e forte e l’arcivescovo di Kinshasa, Laurent Monsengwo Pasinya, è divenuto di fatto il più temibile oppositore di Kabila. Esercito e polizia, specie nei primi mesi del 2018, sono arrivati a fare irruzione nelle chiese durante le celebrazioni e hanno stroncato con la violenza diverse manifestazioni pacifiche. Senza contare alcuni episodi di sparizioni e uccisioni di preti che si erano distinti per le posizioni anti governative. La repressione per altro non riguarda soltanto la Chiesa: anche i due maggiori movimenti della società civile, Lucha (sigla che sta per Lotta per il cambiamento) e Filimbi (che significa “fiammifero” in lingua lingala) ne hanno pagato pesanti conseguenze. In questo quadro quanto mai difficile la missione delle Nazioni Unite, la Monusco, è stata prorogata - la decisione è del 27 marzo 2018 - per un altro anno. Il quadro dei conflitti regionali non è meno fosco: nelle Regioni del Nord e Sud Kivu continuano i conflitti “tutti contro tutti” fra l’esercito e il centinaio di bande armate e gruppi ribelli; nella Regione di Kinshasa si ripetono gli scontri fra i soldati e i militanti della setta misticopolitica Bundu dia Kongo; nella nuova Provincia di Tanganyika e nell’Alto Katanga sono riprese le tensioni e le violenze fra le etnie luba e i twa (popolo pigmeo). La situazione peggiore è quella del Kasai: il conflitto esploso a partire dall’estate del 2016 fra i militari governativi e le milizie del gruppo Kamwina Nsapu ha provocato centinaia di vittime e ha infiammato l’intera Regione. L’emergenza umanitaria risultante da tutti questi focolai di conflitto è drammatica: la situazione, a marzo 2018, è di 2,2milioni di bambini gravemente malnutriti, 13,1milioni di persone bisognose di aiuti per sopravvivere e oltre 4mi-

Repubblica DEMOCRATICA DEL

CONGO

Generalità Nome completo:

Repubblica Democratica del Congo

Bandiera

75

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese, lingala, swahili, kikongo, tshiluba

Capitale:

Kinshasa

Popolazione:

84 milioni

Area:

2.345.410 kmq

Religioni:

Cristiana, musulmana

Moneta:

Franco congolese

Principali esportazioni:

Diamanti, oro, coltan, rame, cobalto, greggio, caffè, legnami pregiati e prodotti lavorati

PIL pro capite:

US 510

lioni di civili sfollati a causa del conflitto. Nel solo Kasai il bilancio è di un milione e mezzo di profughi e di 400mila bambini esposti a grave rischio fame e malattie. L’Unicef ha denunciato che nel corso del 2017 vi sono stati 800 casi di abuso sessuale e il reclutamento di circa 3mila bambini soldato da parte delle milizie. Nei soli primi tre mesi del 2018 60mila congolesi hanno passato il confine con l’Uganda per fuggire alle violenze.


seph Kabila) che non se ne vuole andare nonostante abbia concluso il secondo e ultimo (per la Costituzione congolese) mandato, dall’altro una serie di sanguinosi conflitti Regionali nelle aree Orientali (Ituri, Nord Kivu, Sud Kivu, Tanganyika, Katanga) e nella vasta Regione del Kasai. Senza contare la repressione e le violenze delle tante bande armate e dell’esercito governativo, le più recenti delle quali contro le manifestazioni pacifiche dei cattolici che chiedono le elezioni, procrastinate dal dicembre del 2016. Focolai di guerriglia che, peraltro, si sono intensificati proprio da quando il voto è stato (più volte) rinviato. È tutt’altro che fantasioso ipotizzare che l’alta tensione creata in vaste zone del Paese sia parte di una strategia che ha proprio lo scopo di rendere impraticabili le condizioni per il voto.

Per cosa si combatte

Il colossale sequestro di “legno rosso”

Un sequestro mai visto prima, quello messo in atto dalle autorità dello Zambia: 499 camion sono stati fermati, nell’agosto 2017, al confine con la RD Congo. Perché? Contenevano il cosiddetto “legno rosso”, così chiamato perché una volta tagliato assume una colorazione rosso sangue. Così è emerso lo scandalo del traffico illegale di questo legname pregiato, che finisce perlopiù in Cina, dove viene impiegato per la fabbricazione di mobili di lusso. Un’attività illegale (è una specie arborea protetta) che, si stima, porta all’abbattimento di 150 alberi alla settimana nella sola RD Congo. Un traffico di cui si ha notizia fin dal 2009, ma in Zambia. La novità, ora acclarata, è che avviene anche in RD Congo. Curioso (e inquietante) è che i 499 camion sono di proprietà dell’esercito congolese.

76

La RD Congo è una ininterrotta serie di conflitti - nazionali, regionali, locali - che perdura dal 1994 in poi (ma anche prima, durante tutti gli anni del regime di Mobutu, dal 1965 al 1997, i focolai di scontri e i tentativi insurrezionali erano stati frequenti). Alla base pressoché di tutte le guerre intestine c’è l’accaparramento e il controllo delle ingentissime ricchezze del Paese, considerato “uno scandalo geologico” per la concentrazione di minerali preziosi nel sottosuolo e di risorse naturali del suolo. Diamanti, coltan, oro, cobalto, rame, niobio, ma anche legnami pregiati, la seconda foresta più estesa del Pianeta, la vastità delle terre coltivabili: un patrimonio immenso che da sempre scatena gli appetiti internazionali e le lotte di potere interne. Questa nuova fase di tensioni e conflitti vede protagonista da un lato un Presidente (Jo-

© Alfredo Falvo/Contrasto

Una certezza c’è. Joseph Kabila, 46 anni, ha tutta l’intenzione di perpetuare lo stile dei suoi predecessori congolesi e di tanti altri colleghi africani: rimanere al potere a tutti i costi. Mobutu Sese Seko ha tenuto la Presidenza per 32 anni, ed è stato scalzato solo con la forza delle armi da Desiré Laurent Kabila, padre di Joseph, il quale a sua volta è uscito di scena solo per una congiura (mai chiarita) che lo ha ucciso. Kabila junior, così, si è trovato nel 2001 Presidente a neanche 30 anni. Lui perlomeno per due volte si è sottoposto al giudizio del voto: ha vinto la tornata elettorale del 2006 e poi quella del 2011. Ma ora che la Costituzione congolese gli vieta il terzo mandato, ha fatto e continua a fare di tutto per non lasciare il potere. Nel gennaio 2015 Kabila aveva fatto presentare dal Governo una legge per subordinare il voto a un censimento completo della popolazione che per le dimensioni del territorio e la complessità dell’operazione avrebbe richiesto tempi lunghissimi, incompatibili con la scadenza prevista per le elezioni. La norma era stata approvata dal Parlamento a larghissima maggioranza (337

a favore, 8 contrari e 24 astenuti), ma vi fu la reazione popolare e delle opposizioni: giorni di manifestazioni, repressione e decine di vittime. Nel novembre 2015, poi, all’approssimarsi della fine del suo secondo mandato, ha rinviato le elezioni locali e provinciali per aprire un tavolo di “dialogo politico nazionale” con lo scopo - a suo dire - di mettere a punto un nuovo calendario elettorale e di aggiornare le liste degli aventi diritto. Poi ha provato a modificare la Costituzione in modo da potersi candidare ancora. Le nuove proteste popolari (ancora duramente represse), la forte opposizione interna e il “no” della comunità internazionale lo hanno costretto alla trattativa, al termine della quale avrebbe dovuto rimanere al potere, in regime di transizione, per un altro anno, fissando il voto alla fine del 2017. Ma anche questo termine è passato. La Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni), che indipendente sembra sempre meno, il 5 novembre 2017 ha annunciato la fissazione del voto per il 23 dicembre 2018, con un ulteriore slittamento di un anno. La tensione cresce di pari passo con la re-

Quadro generale

“Kabila vattene” anche allo stadio

In questo anno e mezzo di regime di prorogatio nel quale Joseph Kabila ha continuato a restare in sella, persino in alcuni stadi di calcio si sono sentiti slogan che inneggiano alle elezioni e che invitano il Presidente uscente ad andarsene. È accaduto durante le partite della squadra “Tout Puissant Mazembe” (già campione d’Africa). Ma questo è comprensibile: il Presidente è Moïse Katumbi, il più gettonato candidato alle elezioni. Ma la stessa cosa si è ripetuta anche durante un incontro, nello Stadio dei Martiri di Kinshasa, fra la Nazionale congolese e quella centrafricana: dagli spalti gli 80mila spettatori intonavano “Kabila, non dimenticarlo. Il tuo mandato è finito”.


TENTATIVI DI PACE

La capoeira per aiutare i bambini soldato

A causa del conflitto armato, migliaia di bambini e ragazzi hanno perso i loro genitori, sono stati reclutati nell’esercito e nelle milizie e sono, in generale, vittime di violenza. Nel 2015 con il supporto dell’Ambasciata Brasiliana a Kinshasa, in collaborazione con l’Unicef e la Ong internazionale AmadeMondiale, è nato il progetto “Capoeira for Peace” destinato agli ex bambini soldato che si trovano ad affrontare il trauma del reinserimento nella società civile. La capoeira è un’arte marziale brasiliana caratterizzata da movimenti nonviolenti: combina tecniche di combattimento con la danza, il gioco e la musica. Oggi viene praticata nei vari centri che nel Paese accolgono gli ex bambini soldato: la musica “gingado” viene usata come strumento psicosociale per ridurre la violenza, rafforzare la coesione sociale e combattere le disuguaglianze di genere. Uno studio realizzato dall’Unicef rivela che circa il 70% dei bambini destinatari del progetto dichiara di sentirsi meglio e che l’80% considera la capoeira un importante strumento per affrontare lo stress e i traumi del passato.

Moïse Katumbi Chapwe D’Agnano

Il principale avversario di Joseph Kabila, nonché candidato forte alle prossime elezioni è (o meglio è stato) per metà italiano. Porta anche il cognome di D’Agnano e ha vissuto parte della sua vita a San Vito dei Normanni, nel brindisino. Fino alla primavera del 2017 aveva la doppia cittadinanza: congolese e italiana. Ma questo gli avrebbe impedito di candidarsi alla presidenza - cosa che ha annunciato nel 2016 e confermato nel gennaio del 2018 - per cui ha rinunciato all’inizio del 2017 a quella italiana. Katumbi, imprenditore originario del Katanga, è il classico self-made man, uno degli uomini più ricchi del Paese. È stato anche Governatore della Regione katanghese dal 2007 al 2015. Appena ha annunciato di volersi candidare, è subito stato messo sotto inchiesta dalla magistratura per una vicenda immobiliare e più di recente per la questione della doppia cittadinanza. Dato che aveva anche subito tre attentati in pochi anni (l’ultimo nel gennaio 2016), Katumbi ha deciso per ora di rimanere all’estero e vive tra il Sudafrica e il Belgio. Diversi partiti dell’opposizione si stanno concentrando sul suo nome per esprimere una candidatura unitaria.

© Alfredo Falvo/Contrasto

pressione. La Chiesa cattolica sembra ormai essere la principale forza di protesta contro le tattiche dilatorie del Presidente uscente. Ma nel contempo si moltiplicano i focolai di guerra interna al Paese e vi sono ormai intere aree fuori controllo e in piena emergenza umanitaria. Secondo diversi osservatori (ma la prima a lanciare l’accusa è la stessa Chiesa congolese) sarebbe questa la nuova strategia per impedire le elezioni: renderle impraticabili per lo stato di tensione e la situazione di disordini e violenze generalizzate. Uno schema che in passato è stato ampiamente utilizzato dal dittatore Mobutu che, quando non riusciva a comprare gli oppositori, manovrava i moti di ribellione e le sommosse per far intervenire l’esercito o per evitare il voto. D’altro canto, la RD Congo deve molto del suo attuale sfacelo al vecchio dittatore, fuggito dal Paese nel novembre del 1997: per oltre trent’anni Mobutu ha depredato sistematicamente le risorse del Paese e le casse dello Stato, ha

I PROTAGONISTI

accumulato una immensa fortuna personale, lasciando andare alla totale distruzione le infrastrutture, il sistema scolastico e sanitario. Nel 1997, il popolo congolese usciva dal mobutismo profondamente impoverito, e non solo dal punto di vista economico. Gli anni seguenti sono stati ancora peggiori. L’arrivo di Kabila padre al potere ha significato un solo anno di pace. Poi, la rottura dell’alleanza con il Ruanda e l’Uganda ha innescato il conflitto congolese (1998-2003), considerato la prima “guerra mondiale” africana, per il coinvolgimento di otto diversi eserciti e le interferenze di molti Paesi e multinazionali occidentali. La RD Congo è rimasta a lungo divisa in quattro macroregioni, riunificate solo con la fine del conflitto. Costato - secondo le stime - da 4 a 5,5milioni di vittime. Da allora, per la verità, e per tutto il periodo della presidenza di Kabila figlio, la pace vera e propria non è mai tornata: a fasi alterne nel Katanga, nelle Regioni dell’Alto e Basso Kivu e nell’Ituri, nelle quattro Province del Kasai (cioè, di fatto in tutti i territori più ricchi di materie prime), gli scontri, la violenza indiscriminata, i cosiddetti conflitti “a bassa tensione” e su scala locali sono stati una costante.

77

(Kashobwe, Alto Katanga, 28 dicembre 1964)


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL SAHARA OCCIDENTALE RIFUGIATI

116.649

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI ALGERIA

90.000

MAURITANIA

26.001 -

SFOLLATI PRESENTI NEL SAHARA OCCIDENTALE RIFUGIATI ACCOLTI NEL SAHARA OCCIDENTALE RIFUGIATI

-

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI -


Una missione "ridotta"

La Minurso (Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale) è la missione di pace delle Nazioni Unite nel Sahara Occidentale. La missione viene rinnovata ogni anno nel mese di aprile. Avviata nel 1991, ha tra i suoi compiti quello di controllare il rispetto del cessate il fuoco tra le parti in lotta, supervisionare il rilascio di tutti i prigionieri di guerra e implementare il programma di rimpatrio. La Minurso è però una missione atipica: è infatti l’unica che non estende le sue competenze in materia di controllo delle violazioni e rispetto dei diritti umani.

Camilla Caparrini

Nuovi colloqui di pace in terra neutra, piccoli successi diplomatici per il Fronte Polisario e una forte determinazione del Popolo Saharawi. Questi gli aspetti innovativi di una questione in stallo da oltre quarant’anni. Nel mese di febbraio 2018 sono iniziati a Berlino i nuovi colloqui di pace tra Marocco e la Repubblica Araba Democratica Saharawi. L’invito ai colloqui è arrivato ai rappresentanti della diplomazia marocchina, algerina, mauritana e della Rasd, da Horst Koehler, inviato speciale dell’Onu per il Sahara.I nuovi colloqui in Germania, terra da sempre neutrale rispetto al conflitto, arrivano dopo un periodo di alta tensione tre le due fazioni. Lo stesso Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, si era dichiarato “preoccupato per la crescita di ostilità” e aveva invitato le parti a “evitare una pericolosa escalation della tensione con conseguenze irreversibili”. Come si nota almeno dal 2014, infatti, una parte dei Saharawi non è più disposta ad aspettare inerme lo sblocco della situazione. “L’esercito Saharawi è pronto a combattere ha dichiarato Abdullahi Lehbib, ministro della Difesa del Fronte Polisario in una lettera alla comunità internazionale - per il diritto all’indipendenza e all’autodeterminazione, visto che viviamo sotto occupazione o come rifugiati da oltre 42 anni”. Dopo anni di stasi, le tensioni tra le due fazioni, avevano avuto un picco nel gennaio 2018, quando il Polisario aveva rioccupato alcune postazioni nella zona di Guerguerat, nel Sud Ovest del Sahara Occidentale. La mossa del Fronte sanciva la protesta Saharawi contro l’utilizzo di una strada da parte del Marocco, in violazione dell’accordo per il cessate il fuoco, e contestava l’immobilismo delle Nazioni Unite. I colloqui (gli ultimi diretti tra le due parti in conflitto risalgono al 1997) puntano alla ripresa dell’attività diplomatica per scongiurare lo scontro armato. A sancirne l’importanza anche Brahim Ghali, neopresidente della Rasd che li ha definiti come l’ultima possibilità per una soluzione pacifica del conflitto. Tra i passi che portano alla fine dello stallo si inseriscono anche due vittorie diplomatiche Saharawi: dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Ue (Cjue) in merito all’accordo di pesca tra Unione Europea e Marocco, all’invio di una delegazione di pace a Laayoune e l’istituzione di una missione di sorveglianza dei diritti civili e umani nei territori del Sa-

SAHARA OCCIDENTALE

Generalità Nome completo:

Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD)

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo, berbero, spagnolo

Capitale:

El Aaiún

Popolazione:

584.000 nei Territori Occupati (stima 2016) 200.000 profughi nel deserto algerino

Area:

circa 266.000 Kmq

Religioni:

Islamica Sunnita

Moneta:

Dinaro algerino nei campi profughi, Dirham marocchino nei territori occupati

Principali esportazioni:

Fosfati, pesca, petrolio e probabilmente ferro e uranio

PIL pro capite:

n.d.

hara Occidentale, stabilita dall’Unione Africana durante il meeting di Addis Abeba. Un riconoscimento importante quello dell’Alleanza Africana e forse inaspettato. Il 31 gennaio 2017, infatti, l’Unione aveva riammesso il Marocco tra i sui membri, uscito nel 1984 a causa proprio della questione del Sahara Occidentale.


Dal 1975 il popolo Saharawi attende di beneficiare del diritto fondamentale, internazionalmente riconosciuto, dell’autodeterminazione. Nonostante le numerose risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite, la terra non è stata ancora liberata dal Governo del Marocco, che l’ ha occupata illegalmente da quando gli spagnoli hanno lasciato la vecchia colonia. Per questo il Sahara Occidentale si può considerare l’ultima colonia africana ancora in attesa dell’indipendenza. Dal 6 settembre 1991 è attiva la missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale, Minurso, incaricata di sorvegliare il rispetto del cessate il fuoco e organizzare il referendum di autodeterminazione, che però

non si è ancora realizzato. Oggi la popolazione è ancora divisa tra chi vive nei campi profughi nel deserto algerino e chi abita nei cosiddetti ‘Territori Occupati’. Entrambe le condizioni sono drammatiche. Nel deserto per le condizioni climatiche, l’isolamento e per gli aiuti umanitari che diminuiscono ogni anno di più. Nei Territori Occupati, invece il problema è la violenza, la discriminazione subita dal popolo Saharawi, la disoccupazione, la censura. Le due popolazioni, inoltre, sono divise da un muro lungo oltre duemila chilometri, costruito dal Marocco a partire dal 1980. La terrificante opera militare si compone di bunker, postazioni fortificate, campi minati. La recinzione, elettrificata e alta cinque metri, è fatta di sassi e sabbia.

80

Camilla Caparrini

Il Sahara Occidentale confina con il Marocco, l’Algeria, la Mauritania e l’Oceano Atlantico ed è composto dalle Regioni di Saquia el Hamra al Nord e Rio de Oro al Sud. Ex colonia spagnola, si può considerare come l’ultimo territorio africano ancora in attesa dell’indipendenza: dopo la Spagna sono stati infatti Marocco e Mauritania ad invaderne il territorio. Dal 1975, anno dell’occupazione, in molti sono fuggiti nel deserto algerino, e lì vivono ancora oggi, organizzati in campi profughi, dipendenti dagli aiuti internazionali. Queste le tappe principali del conflitto. Il 6 ottobre 1975, il re del Marocco dà il via libera alla “marcia verde”, attraverso la quale 350mila marocchini avanzano verso il Sahara Occidentale con l’obiettivo di conquista del territorio. Il 31 ottobre 1975 inizia l’invasione marocchina nella zona Orientale del Sahara Occidentale. La Spagna intanto si ritira e il 2 novembre Madrid riafferma il proprio supporto all’autodeterminazione del popolo Saharawi, allineandosi agli impegni internazionali assunti. Con il ritiro della Spagna, alla fine del 1975 il Fronte Polisario sembra sul punto di guadagnare l’indipendenza, ma con trattative separate e segrete, Madrid firma un accordo clandestino con il Marocco e la Mauritania. I tre Paesi decidono di spaccare il territorio del Sahara Occidentale fra il Marocco e la Mauritania, evitando

di dare l’indipendenza ai Saharawi. Nel 1976 il Fronte Polisario proclama la Rasd, Repubblica Araba Saharawi Democratica, ma l’annessione illegale del territorio dà il via alla guerra fra Marocco e Mauritania, per il controllo del territorio. Decine di migliaia di Saharawi fuggono sotto i bombardamenti al napalm del Marocco. L’aggressione investì sia il Nord che il Sud del Paese facendo fuggire i Saharawi verso Est, in Algeria appunto, dove è stato concesso loro asilo politico. Il rientro nelle loro terre viene reso ancora più difficile dalla costruzione da parte del Marocco, a partire dal 1980, di un muro elettrificato. La fortificazione divide ancora oggi le famiglie che abitano i Territori Occupati, da quelle del deserto algerino. Alcune di queste hanno potuto incontrarsi in pochissime occasioni organizzate e scortate dalle Nazioni Unite. Nel 1984, l’Organizzazione degli Stati Africani ammette come Stato membro, la Rasd, espelle il Marocco, nega di fatto valore giuridico agli accordi fra Spagna, Mauritania e Marocco. Nel 1991, dopo 18 anni di guerra, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva il Piano di Pace. Dal 6 settembre 1996 la Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale, Minurso, sorveglia il rispetto del cessate il fuoco e organizza il referendum di autodeterminazione che è rimasto solo sulla carta. Il

Per cosa si combatte

Giornalisti e clandestini

L’agenzia di stampa del Sahara Occidentale, Equipe Media, è nata nel 2009 con l’intento di “rompere il blocco informativo che l’occupazione marocchina ha prodotto”. Nei territori occupati del Sahara Occidentale l’informazione non è libera. Per questo gli attivisti di Equipe Media sono spesso gli unici testimoni di quello che succede. L’agenzia stampa è composta da un gruppo amatoriale di giornalisti, fotografi, video maker, tecnici e da una formazione di volontari. Il lavoro di tutti è clandestino. Equipe Media si è data tre compiti: dare importanza alla resistenza pacifica, ribattere alla propaganda marocchina, fornire bollettini informativi in varie lingue. Equipe Media ha l’appoggio dell’Unione Africana, e ovviamente della Rasd. Human Right Watch, Reporter senza frontiere, Amnesty International e Fondazione Kennedy la valutano una fonte attendibile e rilanciano le loro notizie

Quadro generale

Niente accordo con la UE

L’accordo di liberalizzazione economica stabilito nel 2012 tra Marocco e Unione Europea non è applicabile al Sahara Occidentale. L’accordo prevedeva misure di liberalizzazione reciproche per i prodotti agricoli e della pesca ma, regolando lo sfruttamento delle risorse naturali del territorio del Sahara Occidentale, de facto sotto il controllo marocchino, costituiva un danno per i suoi abitanti e i loro diritti fondamentali. La Corte di giustizia dell’Unione Europea (Cgue) si è espressa in questa direzione con la sentenza del 21 dicembre 2016, che non interveniva però sulla pesca. L’accordo sulla pesca è stato comunque dichiarato nullo da un parere della Corte di giustizia europea, reso noto il 10 gennaio 2018.


TENTATIVI DI PACE

Il destino dei Saharawi nelle mani tedesche

Il Frente Popular de Liberación de Saguía el Hamra y Río de Oro (Fronte di Liberazione Popolare di Saguia el Hamra e del Río de Oro) è l’organizzazione militare e politica che si batte per l’autodeterminazione del popolo Saharawi. L’organizzazione, fondata nel 1973, ha come antenato il movimento indipendentista Saharawi, l’Harakat al-Tahrir, che aveva già combattuto contro gli spagnoli ottenendo un grande seguito popolare. Per tentare di assicurarsi un riconoscimento internazionale il Fronte Polisario proclamò formalmente il 27 febbraio del 1976 la nascita della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi. La Repubblica dei Saharawi fa parte dell’Unione Africana (Ua) ma non dell’Onu, che l’ha inclusa nella lista dei territori non autonomi. La Repubblica ha un Presidente, che è il segretario del Fronte e un Governo in esilio, guidato da un primo Ministro. Il Governo svolge le proprie funzioni dai campi profughi del deserto algerino, dove tutti i ministri risiedono. Nel 2016 è morto Mohamed Abdelaziz, uno dei fondatori del Fronte e Presidente della Rasd dal 1978, ovvero per otto mandati consecutivi. Al suo posto è stato eletto Brahim Ghali.

81

Il Fronte Polisario

Ad agosto 2017 l’ex Presidente della Repubblica tedesca Horst Koehler, è stato nominato inviato delle Nazioni Unite per il Sahara Occidentale, sostituendo il diplomatico statunitense Christopher Ross. Con il suo viaggio in Marocco a ottobre Koehler ha inteso dare un impulso alla soluzione della “questione Saharawi”. Il suo viaggio aveva lo scopo di avviare dei colloqui con il ministro degli Esteri marocchino Nasser Bourita e, successivamente, di visitare i campi profughi presenti nella Provincia algerina di Tindouf, dove vivono circa duecentomila rifugiati Saharawi, per verificare le loro condizioni attuali, per approfondire le sue conoscenze riguardo il conflitto e ascoltare tutte le parti in causa. La missione di pace Minurso, avviata nel 1991 dall’Onu, non è mai riuscita a far accordare Rabat e il Fronte Polisario, che rivendica l’indipendenza del Sahara Occidentale. In seguito a una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza sono stati riavviati i negoziati e la missione è stata prolungata di un altro anno, per scongiurare la possibilità di una riapertura del conflitto armato tra le due parti. All’avvio del suo mandato, Koehler ha coinvolto anche l’Unione europea e l’Unione africana nei colloqui, una scelta criticata dal Governo marocchino. L’Ue ha dato un segnale importante di attenzione verso i Saharawi a febbraio, con la decisione della Corte di Giustizia di considerare illegittimo lo sfruttamento da parte del Marocco dei banchi di pesca nelle acque territoriali del Sahara Occidentale.

Camilla Caparrini

referendum è stato costantemente bloccato e rinviato dal Marocco, che nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite può contare su un alleato di ferro come la Francia e del suo potere di veto. Intanto le violazioni dei diritti umani nel Sahara Occidentale sono sistematiche e ampiamente documentate da numerose organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International. La situazione è particolarmente difficile anche nei campi del deserto algerino, che ospitano ad oggi circa 200mila Saharawi, in esilio dal 1975. I profughi Saharawi dipendono dagli aiuti internazionali e abitano in una delle aree più inospitali del pianeta. I campi, sotto il controllo e la gestione del Fronte Polisario, sono organizzati in wilaya (Regioni) e in daira (Province). Qui

I PROTAGONISTI

spesso manca l’acqua corrente e l’elettricità sia nelle tende che nelle più moderne case costruite con mattoni di sabbia, sempre esposte a crolli durante il periodo delle piogge. E proprio per questa inospitalità la popolazione Saharawi soffre di svariate malattie, dovute soprattutto al clima. Tra le principali si riscontrano asma e patologie respiratorie di varia natura e problemi agli occhi. Inoltre tra la popolazione locale si registra una delle percentuali di prevalenza di celiachia più alte al mondo: 5,6% contro la media dell’1% degli altri Paesi. La motivazione si può riscontrare propri negli aiuti internazionali: il popolo Saharawi non aveva infatti nella propria dieta il frumento, che invece ha iniziato ad assumente in quantità massiccia con gli arrivi dall’Occidente. Decisivo è stato ed è tuttora il contributo dell’Europa per il sostentamento dei Saharawi che vivono nei campi di Tindouf, anche se gli aiuti umanitari internazionali stanno diminuendo in maniera vistosa e preoccupante.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA SOMALIA RIFUGIATI

1.012.323

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI KENIA

324.448

YEMEN

255.121

ETIOPIA

242.014

SFOLLATI PRESENTI NELLA SOMALIA 1.562.554 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA SOMALIA RIFUGIATI

11.574

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI YEMEN

8.297

ETIOPIA

3.060 -


Anche in Kenya muro anti immigrati

L’idea è di una barriera lungo i 700 km di confine fra i due Paesi: il Kenya ha cominciato da tempo (la recinzione ha avuto il via nel 2014), ma finora i lavori sono andati piuttosto a rilento. Ne sono stati realizzati poco più di 5 km. Il motivo dichiarato dalle autorità di Nairobi è di fermare l’infiltrazione terroristica degli al-Shabab (che perpetrarono i sanguinosi attacchi al centro commerciale Westgate della capitale kenyana nel 2013 e quello all’università di Garissa nel 2015), ma naturalmente il “muro” fermerà anche il flusso costante di profughi. In Kenya, all’inizio del 2018, i somali - ufficialmente registrati nel Paese - erano oltre 313.000, dei quali 235.000 concentrati nell’immenso campo profughi di Dadab, non lontano dal confine. Il Governo di Nairobi ha già più volte annunciato di volerlo chiudere, ma ha finora procrastinato la decisione per l’enorme difficoltà di trovare una nuova collocazione a un numero così ingente di rifugiati. Dadab è probabilmente il campo più grande del mondo.

UNHCR/B. Bannon

La Somalia rimane ancora a fondo scala in tutti i rapporti e gli indici sullo “stato di salute” dei Paesi del Pianeta. Continua, dal lontano 1991, la guerra civile, che in questi ultimi anni non vede più contrapporsi i signori della guerra ma oppone il Governo federale di transizione agli alShabab, l’organizzazione degli estremisti islamici. Non si ferma, poi, l’esodo di profughi all’estero e i movimenti di popolazione all’interno del Paese. Inoltre, nel corso del 2017, una nuova carestia ha portato il Paese a una situazione di emergenza quale non conosceva da molti anni. Reduce dalla crisi umanitaria del 2011, che aveva ucciso 250 mila persone, la siccità del 2017 ha fatto crescere a 6,2milioni di persone - su una popolazione totale di 12,3milioni di abitanti - il numero di coloro che necessitano di aiuto umanitario, di cui circa la metà ha bisogno di un intervento d’emergenza a causa della situazione di insicurezza alimentare. I bambini, come sempre, pagano il prezzo più alto: i malnutriti sono 388.000 e il tasso di mortalità infantile sotto i 5 anni è salito al 13,7% (è il terzo Paese nella classifica mondiale). Secondo i dati della Fao, in Somalia le enormi perdite di bestiame causate dalla siccità hanno comportato, fra il 2016 e il 2017 un impatto negativo, specie nelle Regioni Settentrionali e Centrali del Paese, che ha fatto impennare dal 3 a quasi il 30% della popolazione di queste aree (circa 1,8 milioni) in grave insicurezza alimentare. La situazione all’inizio del 2018 è migliorata: la percentuale si è dimezzata. Ma rimane comunque molto grave. Dal dicembre 2017 è scoppiata una nuova epidemia di colera (la precedente era avvenuta nei primi mesi dello stesso anno) in quattro delle Regioni Centro-Meridionali della Somalia: in tre mesi ha colpito poco meno di duemila persone. La Somalia è il tipico caso di Paese dove la sinergia perniciosa di guerra e cambiamenti climatici produce i suoi effetti più devastanti. Sul versante politico, le elezioni del febbraio 2017 hanno portato alla guida del Paese Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo. Il

SOMALIA

Generalità Nome completo:

Somalia

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Somalo, arabo, italiano, inglese

Capitale:

Mogadiscio

Popolazione:

12.300.000

Area:

637.661 Kmq

Religioni:

Musulmana (99%)

Moneta:

Scellino somalo

Principali esportazioni:

Banane, bestiame, pellame e pelli, mirra, pesce, carbone, materiale ferroso da riciclo

PIL pro capite:

Us 591

nuovo Presidente si trova a gestire la pesante eredità di un Paese che non ha risolto nessuno dei gravi problemi che lo attanagliano: oltre alla grave crisi umanitaria, deve fronteggiare una guerra civile che perdura da quasi trent’anni. Nonostante le vittorie ottenute dalle truppe dell’Amisom (la missione militare dell’Unione Africana) insieme a quelle dell’esercito regolare somalo, ampie zone del territorio sono ancora sotto il controllo degli al-Shabab, e si susseguono, specie a Mogadiscio, gli attentati terroristici del gruppo estremista islamico.


Controllo del potere, a danno degli altri clan: le ragioni che hanno scatenato la guerra pluridecennale in Somalia è questa. Lo scontro, nel tempo, si è poi trasformato progressivamente in conflitto a matrice religiosa: dapprima, all’inizio degli anni 2000, con la nascita delle Corti islamiche e poi con l’affermarsi del gruppo degli al-Shabab. È dal 2012 che la formazione estremista islamica (affiliata ad al-Qaeda) è la realtà paramilitare e terroristica più potente e attiva in Somalia. Loro obiettivo principale è instaurare nel Paese la shari'a, la legge islamica. Le sconfitte subite dagli scontri con la missione dell’Unione Africana (UA) Amisom e con l’esercito regolare come pure dagli attacchi dei droni americani hanno indebolito ma non fermato il movimento che

controlla ancora vaste zone rurali nel Sud del Paese (dove viene applicata la shari'a: proseguono le lapidazioni per le adultere, le amputazioni delle mani ai ladri e le fustigazioni in pubblico). Di fronte alle sconfitte militari, peraltro, gli al-Shabab adottano da tempo la tattica di ritirarsi in aree più remote del Paese, infiltrando i propri miliziani tra la popolazione civile e nelle città, e intensificando le azioni terroristiche. Nel novembre del 2017 è stato annunciato il progressivo disimpegno dei 22mila militari dell’Amisom presenti nel Paese: è previsto che entro il 2020 la missione dell’UA (iniziata nel 2007) abbia termine. Se così fosse, gli osservatori temono che la guerra civile possa riprendere in tutta la sua violenza e il Paese torni fuori controllo.

Per cosa si combatte

Mamma li turchi

Recep Tayyip Erdogan, il capo di Stato della Turchia, è stato il primo Presidente non africano a mettere piede a Mogadiscio dopo la caduta di Siad Barre (1991). Non è un caso. La Turchia ha una presenza sempre più massiccia e strategica in Somalia: ha investito in infrastrutture civili, ma anche militari (ha speso 50miliardi di dollari per realizzare una base nella quale si addestrano i soldati somali). Il Governo di Ankara è anche tra i maggiori finanziatori di quello somalo, come pure dell’aiuto umanitario al Paese africano. E la compagnia aerea nazionale turca da tempo effettua voli regolari su Mogadiscio (è stata la prima non africana ad atterrarvi). Turchia attivissima, insomma, ma non sola nel manifestare un inedito interesse per il Paese del Corno d’Africa. Fra i “nuovi attori” c’è il Qatar, ad esempio, che ha stanziato 200milioni di dollari a favore del Governo somalo, per infrastrutture e programmi educativi. Quanto agli Emirati Arabi, si sono stabiliti con una presenza militare in Somaliland, l’ex Somalia britannica.

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UNHCR/J.Björgvinsson

È il 26 gennaio 1991. Con la caduta del dittatore Siad Barre incomincia il periodo forse più buio della storia della Somalia. Doveva essere la fine di una dittatura, si è trasformata in una guerra di tutti contro tutti, signori della guerra, clan, bande rivali. Il Paese è stato a poco a poco conteso e suddiviso in fazzoletti di territorio sotto il dominio di tribù senza scrupoli a colpi di kalashnikov e di “tecniche”, l’arma somala per eccellenza, il mitragliatore montato sul cassone aperto del Toyota pick-up. Dopo 27 anni, però, le elezioni del nuovo Presidente Farmajo hanno aperto uno spiraglio di speranza sul futuro di questa terra. Un Paese che fino a ieri di fatto era ancora senza istituzioni, con un popolo senza diritti. In realtà, nemmeno prima del 1991 la Somalia aveva conosciuto lunghi periodi di pace. Dalla proclamazione dell’indipendenza del primo luglio 1960 (che costituisce il momento di unificazione della Somalia, prima divisa fra il Centro-Sud sotto l’amministrazione fiduciaria italiana - 1950-1960 - e, nel Nord, il Somaliland britannico) il Paese per nove anni aveva visto un Governo della Repubblica somala legittimamente eletto. Nel 1969 Siad Barre con un colpo di Stato prende il potere e instaura il suo regime. Nel 1977

Barre muove guerra contro l’Etiopia per conquistare l’Ogaden, la Regione etiope con un’alta presenza di popolazione somala da sempre rivendicata dalla Somalia. Il regime interno, sempre più dispotico, è poco tollerato, gli scontri aumentano e negli anni ‘80 assumono il profilo di una guerra civile. La Regione del Somaliland rivendica la propria autonomia fino ad arrivare all’auto proclamazione dell’indipendenza del 18 maggio 1991. Molti oppositori al regime di Siad Barre vengono arrestati e incarcerati, altri fuggono dal Paese. Dopo la caduta del regime (1991) e lo scoppio degli scontri interni, la comunità internazionale decide di intervenire con l’invio di una missione Onu, chiamata Unosom. Obiettivo della missione, nota anche come “Restore Hope”, era quello di creare un margine di sicurezza per l’invio di aiuti umanitari per la popolazione civile vittima da sempre dei conflitti somali. Ma l’intricata situazione di controllo del territorio da parte dei signori della guerra, principalmente dei due grandi oppositori di quegli anni, Ali Mahdi da una parte e il generale Mohamed Farah Aidid dall’altra, conducono la missione internazionale a un totale fallimento. Unosom si ritira nei primi mesi del 1994 a meno di due anni dal suo pri-

Quadro generale

L’attentato più sanguinoso

Qualcuno l’ha definito l’11 settembre della Somalia. In realtà era il 14 ottobre 2017: nella capitale somala è stato messo in atto l’attentato terroristico più sanguinoso: 512 vittime, una carneficina realizzata con due autobomba, lungo la frequentatissima arteria stradale fra Jidka e Afgoye, poco fuori Mogadiscio, chiamata la “strada degli ambulanti”. Un attentato attribuito agli al-Shabab e avvenuto a soli due giorni dalla visita a Mogadiscio dei vertici del comando americano per l’Africa. Due giorni dopo la strage, nelle stesse ore ci arrivava la delegazione militare statunitense, il ministro della Difesa e il capo delle Forze armate somali si sono dimessi. Al tragico avvenimento, in Europa, non è stata dedicata che qualche “breve”.


TENTATIVI DI PACE

Un locale per reinventarsi la Somalia

Il Posh Treats è un locale notturno, aperto nel 2015 da Manar Moalin, una ragazza che all’età di 7 anni è scappata dalla Somalia a causa della guerra. Due anni dopo il ritorno di sua madre a Mogadiscio, Manar decise di tornare, sulla base delle aspettative di cambiamento che condivideva con la madre. Il locale può essere considerato un’oasi di pace, resa possibile dai ragazzi della diaspora, che al suo interno fumano il narghilè e ballano la musica locale somala. L’attività dei ragazzi della diaspora è considerata molto importante per ridare a questa terra la vita che aveva perso 25 anni fa. Il Posh Treats comprende una sala biliardo, una palestra, un parrucchiere, un barbiere, una guest house, uno spazio concerti e delle sale per fumare il narghilè. Nonostante questa iniziativa sia un piccolo passo avanti per migliorare la vita sociale in Somalia, la popolazione deve far fronte ad una diffusa corruzione e ad un Governo debole e compromesso, incapace di eliminare il terrorismo, che continua a mietere vittime. Tuttavia, dice Manar “noi somali dobbiamo iniziare a cambiare lo stato delle cose con coraggio, dimostrando che vogliamo un futuro di pace e sviluppo”.

Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo È Presidente della Somalia dal 16 febbraio 2017. Una vittoria, la sua, del tutto inaspettata. È stato eletto dal Parlamento somalo con 184 voti, battendo il capo di Stato uscente Hassan Sheikh Mohamud (97 preferenze) e Sharif Sheikh Ahmed (45 preferenze), già Presidente dal 2009 al 2012. Farmajo - che deve il suo soprannome al termine italiano “formaggio” - oltre al passaporto somalo ha anche quello americano. In passato (1985-1989) era stato ambasciatore della Somalia negli Stati Uniti, e più di recente, tra l’ottobre 2010 e il giugno 2011 aveva ricoperto la carica di Primo ministro, proprio sotto la guida di Sharif Sheikh Ahmed. Un’elezione, quella di Farmajo, che è stata salutata con manifestazioni di giubilo dalla popolazione, che non ha dimenticato le riforme attuate nel breve periodo in cui aveva guidato il governo. La sua azione, allora, si era caratterizzata soprattutto per la lotta alla corruzione e l’impegno per la sicurezza del Paese. Il suo Governo durò poco. Fu costretto a dimettersi da una combine fra l’allora capo dello Stato Sheikh Ahmed e il Presidente del Parlamento Sharif Hassan. Alla notizia della rinuncia al mandato di Farmajo scoppiarono proteste di piazza in molte città della Somalia e in diverse capitali estere, fra cui Roma.

UNHCR/J Björgvinsson

mo invio. Anche l’Italia era presente in Somalia con la missione Ibis che si conclude il 20 marzo 1994, lo stesso giorno in cui vengono assassinati, a Mogadiscio, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Gli anni successivi sono caratterizzati da una progressiva frammentazione del territorio da parte dei sempre crescenti “lord war”. In questi anni la Somalia diventa la vera terra di nessuno, caratterizzata da inesistenza di controlli frontalieri, una frammentazione territoriale e clanica gestita dal solo controllo delle armi. Una situazione che consente lo svolgimento di traffici illeciti, rifiuti dispersi in mare e sotterrati nel deserto somalo in cambio di armi, traffico di droga e di esseri umani, fino alla formazione di veri campi di addestramento della milizia jihadista. Molte le trattative di pace messe in atto, ma concluse ogni volta con un nulla di fatto. Occorre attendere il 2004 per vedere, a conclusione della 14a Conferenza di pacificazione, la nomina di un Parlamento di transizione che elegge Presidente Abdullahi Yusuf Ahmed

I PROTAGONISTI

e un Governo Federale di Transizione (Tfg) che, dopo un primo periodo di attività da Nairobi, a giugno 2005 entra in Somalia. Mogadiscio però è considerata ancora troppo pericolosa e nelle mani dei diversi “lord war”, così il Governo di transizione risiede per un periodo a Johwar e poi a Baidoa. Nell’estate 2006 gli scontri iniziati dentro Mogadiscio fra i lord war e l’Unione delle Corti Islamiche (le milizie jihadiste somale antesignane degli al-Shabab) portano queste ultime a scacciare i signori della guerra e a conquistare la capitale. Da Mogadiscio poco alla volta le Corti islamiche prendono il controllo di buona parte della zona Sud della Somalia fino ad arrivare alle porte di Baidoa, la città di residenza del Tfg, che nel frattempo aveva ottenuto la tutela dell’Onu e l’appoggio militare dell’Etiopia. Da Baidoa riparte l’offensiva governativa che con il determinante intervento dell’esercito etiope e il sostegno dei militari della Regione autonoma del Puntland, rispondono al tentativo delle Corti di conquistare Baidoa e con un attacco senza precedenti porta in pochissimo tempo alla riconquista di Mogadiscio da parte del Presidente Abdullahi Yusuf.

85

(Mogadiscio, 5 maggio 1962)


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL SUDAN RIFUGIATI

650.640

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CIAD

312.468

SUDAN DEL SUD

241.510

ETIOPIA

39.896

SFOLLATI PRESENTI NEL SUDAN 2.225.557 RIFUGIATI ACCOLTI NEL SUDAN RIFUGIATI

421.466

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SUDAN DEL SUD

297.168

ERITREA

103.176

CIAD

8.502


Nucleare Sudanese

Il Sudan si avvia sulla strada del nucleare, grazie ad accordi siglati con Russia e Cina. L’idea non è di ieri ma ha cominciato a prendere forma nel 2017. Poi, nel marzo del 2018 a Mosca, è stato definito l’accordo per la costruzione del primo impianto per la produzione di energia nucleare a scopi civili nel Paese africano. Il programma del Governo di Khartum prevede la produzione entro il 2030 di 5mila megawatt di energia attraverso impianti nucleari. L’accordo siglato in Russia prevede l’inizio dei lavori entro la metà del 2019 con la messa in funzione della centrale nell’arco di un anno e mezzo e cioè entro il 2020. Da li, in dieci anni, si dovrebbe raggiungere l’obiettivo dei 5mila megawatt.

arabpress.eu

Il Sudan è l’unico Paese al mondo con tre guerre in corso all’interno dei suoi confini e una guerra (quella con l’attuale Sudan del Sud) terminata da meno di un decennio con la perdita di quasi un quarto del territorio di quello che era il più grande Paese del continente africano. I tre conflitti in corso in Sudan sono quelli del Darfur, quello del Sud Kordofan (Monti Nuba) e quello del Nilo Azzurro. Il teatro del combattimento per tutti è la frontiera Sud del Paese oltre la quale c’è, appunto, il Sudan del Sud. Tutti questi movimenti guerriglieri avevano combattuto a fianco dello Spla, il movimento che poi ha ottenuto la secessione e ha dato vita al Sudan del Sud. L’esito di quella guerra ha però lasciato i loro territori nel Nord, cioè sotto Khartum. La guerra dunque è continuata e continua nella quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica internazionale e delle principali cancellerie Occidentali. La conseguenza di questi conflitti è l’afflusso costante di profughi che, sia dal Nilo azzurro sia dal Sud Kordofan, si sono riversati in Etiopia e soprattutto in Sudan del Sud. Una situazione di costante emergenza umanitaria, resa ancora più difficile dallo scoppio del conflitto civile del dicembre 2013 nel Sudan del Sud. Su un altro fronte, il Sudan poi è anche l’unico Paese al mondo con un Presidente sul quale pende un mandato di cattura della Corte Internazionale dell’Aja per genocidio e crimini contro l’umanità commessi in uno dei tre teatri di guerra del Paese, il Darfur. L’arresto di Omar al Bachir non è mai avvenuto perché non tutti i Paesi riconoscono la Corte Internazionale dell’Aja. Nonostante il mandato di cattura, Omar al Bachir ha potuto svolgere una intensa attività diplomatica viaggiando in diversi Paesi in Africa e altrove. All’inizio dell’anno ha svolto una visita ufficiale in Russia ed ha concluso importanti accordi anche nel settore delle armi e della cooperazione militare. Nel corso degli ultimi mesi poi sono arrivati segnali di distensione anche dagli Stati Uniti che si sono detti disposti a rimuovere parte delle sanzioni economiche che gravavano sul Sudan.

SUDAN

Generalità Nome completo:

Repubblica del Sudan

Bandiera

Lingue principali:

Arabo, i diversi gruppi etnici parlano oltre 400 lingue locali, inglese

Capitale:

Khartoum

Popolazione:

32.894.000 (stima 2016)

Area:

1.886.068 Kmq

Religioni:

Araba con minoranze cristiane e animiste

Moneta:

Sterlina sudanese

Principali esportazioni:

Petrolio, cotone, sesamo, arachidi, gomma arabica, zucchero, bestiame

PIL pro capite:

Us 3.100

L’annuncio della Casa Bianca è arrivato, dopo anni di tensioni, per i progressi fatti dal Paese contro il terrorismo. Le sanzioni erano state imposte nel 1997 per il sostegno alla rete di Osama bin Laden e poi rinnovate per altri motivi legati al rispetto dei diritti umani. Il regime Sudanese negli ultimi mesi deve fare fronte ad una forte crisi economica derivata dalla scomparsa dei proventi delle vendite petrolifere dato che i principali giacimenti di greggio sono passati, con la secessione, al Sudan del Sud.

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Situazione attuale e ultimi sviluppi


di un nuovo Stato. Nella Regione del Nilo azzurro è attivo lo Spla-N (Esercito popolare di liberazione del Sudan-Nord) anch’esso con obiettivo la separazione da Khartum. Anche nel caso del Nilo Azzurro è stata soprattutto Amnesty International a denunciare la distruzione di decine di villaggi, con la fuga di almeno 150mila nuovi sfollati. Stesso copione sui Monti Nuba (Regione del Sud Kordofan) dove si susseguono bombardamenti, raid aerei, incursioni dell’esercito di Khartum. Una repressione che presenta tragiche analogie con quelle del Darfur. Per la martoriata popolazione dei Nuba, alla guerra si aggiunge l’assenza quasi totale di aiuti umanitari: il Governo Sudanese nega praticamente l’accesso a tutte le agenzie umanitarie.

Per cosa si combatte

La protesta del pane

Le recenti riforme economiche del Governo Sudanese, in linea con le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale, hanno avuto effetti devastanti per la popolazione del Sudan. Nel tentativo di far fronte alla crisi economica originatasi con la secessione SudSudanese, Khartum ha messo mano al bilancio con misure draconiane. Uno degli effetti è stato il raddoppio del prezzo del pane, che costa il 100% in più da quando il Governo ha eliminato le sovvenzioni. Il prezzo di una pagnotta di pane è salito da 0,5 sterline Sudanesi a una sterlina, secondo l’Unione Panificatori Sudanese, cosa dovuta agli aumenti del prezzo della farina innescato dai tagli. Le “proteste del pane” del gennaio 2018, con vittime e arresti, hanno visto anche l’intervento delle ambasciate europee che hanno fatto pressione per la liberazione degli incarcerati. Ottenendola in marzo.

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Dei tre conflitti in corso in Sudan quello che è riuscito a superare maggiormente la “cortina di silenzio” dei media è stato quello del Darfur. Nel settembre del 2016 è stato pubblicato un rapporto di Amnesty International secondo il quale il Governo di Khartum avrebbe sferrato almeno trenta attacchi nella zona del Jebel Marra, in Darfur, utilizzando agenti chimici. In questi bombardamenti, che avevano come obiettivo i ribelli del Sudan Liberation Army di Abdel Wahid, sarebbero morte duecento persone. Il rapporto si basa su decine di testimonianze e sull’analisi di immagini satellitari. In Darfur operano due principali gruppi ribelli: l’Esercito di liberazione del Sudan e il Jem (Movimento per la giustizia e l’uguaglianza). Entrambi hanno come obiettivo finale la secessione e la nascita

news.vice.com

La storia tardo coloniale e post-coloniale del Paese africano è stata sempre caratterizzata da conflitti, tensioni e violenze nelle diverse regioni Sudanesi. Una sequela ininterrotta di guerre civili che ne hanno segnato tutta la storia, tanto che si può affermare che il grande Paese africano non ha mai avuto periodi significativi di pace e stabilità. Dagli anni Cinquanta è stato un continuo susseguirsi di colpi di stato e di giunte militari. Anche l’attuale Presidente, Omar Hassan El Bashir, che guida il Paese dal 1989, è salito al potere con un golpe. Altrettanto costanti nel tempo sono state le tensioni e gli scontri armati fra il Nord del Paese, arabo e islamizzato, e il Sud, africano e cristiano-animista. Solo con la secessione delle Regioni Meridionali e la nascita della Repubblica del Sudan del Sud, avvenuta il 9 luglio 2011, questo interminabile conflitto si è chiuso, aprendone tuttavia altri, nei territori contesi degli stati di Abyei, del Sud Kordofan, del Nilo Azzurro, ossia quegli stati della federazione ai quali il Governo di Khartum non ha consentito di scegliere attraverso l’autodeterminazione se rimanere con il Nord o passare nel nuovo Stato della Repubblica del Sudan del

Sud. La fase bellica più lunga e cruenta è stata sicuramente la guerra combattuta fra il 1983 e il 2003: i gruppi ribelli (guidati dalla più importante delle fazioni, lo Spla - Esercito di liberazione del popolo Sudanese) si sono battuti per ottenere l’indipendenza dal Nord. Quello che non hanno ottenuto con le armi, poi, l’ha fatto il petrolio: il bisogno crescente di greggio ha portato la comunità internazionale (Usa e Cina in testa) a moltiplicare le pressioni per il raggiungimento della pace, anche perché la maggior parte dei giacimenti si trovano nella zona di confine fra il Nord e il Sud del Paese (e ora, con la divisione in due seguita alla secessione, l’85% dei giacimenti è rimasto nel territorio del nuovo Stato, nel Sudan Meridionale). La fine del conflitto Sudanese, fortemente voluta dai Paesi industrializzati e ottenuta con gli Accordi generali di pace del 2005, ha portato in breve tempo allo sviluppo delle infrastrutture per l’industria estrattiva e all’assegnazione di molte concessioni petrolifere (in gran parte accaparrate dalla Cina), tanto che alla vigilia della divisione dei due stati il petrolio costituiva l’80% delle esportazioni del Paese. Ma, con la nascita della

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

Wash, un rimedio contro la siccità

Molti, troppi i Sudanesi che si trovano quotidianamente faccia a faccia con la violenza dei conflitti armati. Il Paese conta circa due milioni di sfollati e le condizioni di vita, per molti di loro, sono davvero complesse. L’organizzazione Sudia (Sudanese Development Initiative), fondata nel 1996, si impegna a far giungere a quante più persone possibili le informazioni diramate da giornali e media. L’obiettivo è far conoscere gli avvenimenti che riguardano la nazione. Sudia si occupa continuamente della creazione di progetti di pace partendo da una chiara interpretazione dei problemi locali. Attua programmi improntati sul dialogo e sulla riconciliazione per risolvere gli scontri che possono svilupparsi, ad esempio, nella zona Ovest del Paese, lungo il confine con il Ciad, dove vivono diverse popolazioni. Ascoltare in presa diretta le persone principalmente interessate dai conflitti può rivelarsi utile per comprendere le esatte dinamiche dei problemi e quindi agire nella maniera migliore. Con questo progetto si vuole stabilire relazioni con partner nazionali e internazionali che possano fornire aiuti concreti alla popolazione in condizioni di maggior bisogno.

oxfamamerica.org

Repubblica del Sudan del Sud sono sorti nuovi problemi: il grosso dei giacimenti è rimasto nel Sud, ma le infrastrutture sono rimaste al Nord. Inoltre, fra i due Stati si sono dovuti ridiscutere il sistema delle divisioni delle royalties e gli accordi per l’utilizzo da parte del Sudan del Sud degli oleodotti che attraversano le regioni del Nord. Problemi, questi ultimi, che hanno provocato la gran parte delle tensioni e degli scontri armati lungo la frontiera fino al momento in cui sono stati raggiunti gli accordi del marzo 2013. Sul piano internazionale, il Governo Sudanese ha da molti anni rapporti non facili con l’Europa e con la gran parte dei Paesi industrializzati Occidentali. Con gli Stati Uniti, le relazioni sono state a lungo molto tese, specie dopo il 2001, quando l’intelligence americana appurò che Osama bin Laden era stato protetto a Khartum per lunghi periodi, e in tutta la prima fase della guerra del Darfur, per le accuse di genocidio da parte americana nei confronti del governo Su-

I PROTAGONISTI

danese. I forti contrasti fra Washington e Khartum si erano attenuati nella fase precedente al referendum per la secessione del Sud, e in tutta la fase seguente fino alla proclamazione dell’indipendenza dello stato con capitale Juba. Nel 2012 e nei primi mesi del 2013 le tensioni fra i due Paesi sono nuovamente cresciute, in coincidenza con le dispute sul confine fra Nord e Sudan del Sud e con la questione del “pedaggio” che Juba doveva pagare a Khartum per utilizzarne gli oleodotti (lo Stato Meridionale ne è privo, perché all’epoca del Sudan unito il greggio estratto nel Sud veniva esportato con pipeline che attraversavano il Nord del Paese). Sul piano sociale, al netto della sofferenza nelle aree di conflitto e tra la popolazione sfollata, il Sudan ha indicatori migliori di altri Paesi con cui confina: il tasso di fertilità e di 3,57 figli per donna, la popolazione urbana è al 34,2%, la mortalità infantile (sotto i 5 anni) di 70 su 1.000 (nel Ciad è quasi il doppio), la speranza di vita è di 64,4 anni (contro i 50 del Ciad) e il tasso di analfabetismo (sopra i 15 anni) è “solo” del 24%. L’accesso a servizi sanitari adeguati è al 23,6% e l’accesso all’acqua potabile al 55,5%.

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Informazione e peacebuilding per i cittadini

Il Sudan è un Paese estremamente instabile sia dal punto di vista politico che da quello umanitario. In particolare la Regione del Darfur è una delle più colpite dalla povertà a causa delle ricorrenti crisi di siccità e carestie, causate dal cambiamento climatico e dalle ricorrenti guerre civili che provocano migliaia di sfollati. Il Sudan è un Paese essenzialmente arido e l’intensificarsi del processo di desertificazione porta alla progressiva scomparsa delle fonti d’acqua, con conseguenti emergenze di siccità che si manifestano con sempre più violenza. Oxfam Italia lavora nel Paese dal 2009 implementando programmi che aiutano a dare una risposta immediata all’emergenza umanitaria in corso e sul lungo termine vuole migliorare le capacità di resilienza delle comunità pastorali e degli sfollati. Oxfam è considerata una Ong leader nella realizzazione di attività Wash (Water, Sanitation, Hygiene), che prevedono la tempestiva fornitura di acqua potabile in contesti di emergenza, attraverso la costruzione di pozzi e la distribuzione di appositi kit di emergenza (taniche per il trasporto di acqua, bustine potabilizzanti, saponette) e la creazione di servizi igienico-sanitari adeguati, con la costruzione per esempio di latrine all’interno dei campi sfollati.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL SUDAN DEL SUD RIFUGIATI

1.436.719

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI UGANDA

639.007

ETIOPIA

338.774

SUDAN

297.168

SFOLLATI PRESENTI NEL SUDAN DEL SUD 1.853.924 RIFUGIATI ACCOLTI NEL SUDAN DEL SUD RIFUGIATI

262.560

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SUDAN

241.510

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

14.476

ETIOPIA

4.691


Il Dio Nilo

Il Nilo è il più grande fiume africano; lo è per lunghezza e anche per portata d’acqua. Scorre per 6.853 chilometri e all’altezza di Khartum le acque del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro si uniscono per attraversare il più grande deserto del mondo. Una sfida che solo questo grande corso d’acqua riesce a vincere sfociando nel Mar Mediterraneo. Ha una portata d’acqua di 2.830 metri cubi al secondo e un bacino idrografico di 3.254.555 chilometri quadrati. Otto i Paesi che fanno parte del suo bacino: Burundi, Ruanda, Tanzania, Kenya, Uganda, Sudan, Sudan del Sud ed Egitto. Chi ha sempre copiosamente usato della sua portata d’acqua e del limo che straripa con essa e che rende fertile il terreno è l’Egitto. Si può dire che il Nilo ha reso possibile la civiltà dei faraoni e che oggi l’Egitto, chiunque ci sia al potere, non può rinunciare a questa ricchezza che ora è minacciata principalmente da un Paese africano tra i più dinamici del continente, l’Etiopia, che sul Nilo Azzurro ha costruito una grande diga che dovrebbe fornire elettricità a tutto il Paese e ad alcune delle nazioni vicine. La Diga della Rinascita ha portato Etiopia e Egitto a dure dichiarazioni al punto che il Cairo ha minacciato azioni di guerra contro Addis Abeba. Poi la cosa è stata parzialmente composta, ma un accordo vero tra i Paesi del bacino del Nilo è ancora da venire. I due Sudan si trovano nel mezzo del contenzioso.

Gli ultimi sviluppi in Sudan del Sud sono praticamente dei “non-sviluppi”. La comunità internazionale e le parti in conflitto sul territorio non sono state in grado di avviare nuove trattative di pace per ottenere almeno un cessate il fuoco su tutto il territorio anche se nel maggio 2017 il Presidente Salva Kiir aveva dichiarato un “cessate-il-fuoco” unilaterale e l’apertura di un “dialogo nazionale”. Benché sia stata siglata nel dicembre 2017 dalle due controparti, la tregua non si è però mai realizzata. Nel frattempo il Sudan del Sud ha collezionato una serie di record negativi: il maggior utilizzo di bambini soldato nel conflitto, un altissimo numero, sempre in crescita, di profughi e rifugiati nei Paesi confinanti e di sfollati interni. Infine, nella lista dei Paesi sulla base del livello di corruzione percepita nel settore pubblico che viene resa nota ogni anno da Transparency International, il Sudan del Sud figura al 179° posto (su 180 Paesi) lasciandosi alle spalle solo la Somalia. Le relazioni internazionali sono difficili: nel gennaio 2018, l’ambasciatrice americana all’Onu, Nikki Haley, ha fatto delle dichiarazioni molto forti sul Presidente Sudsudanese Salva Kiir, considerato da Washington un alleato “incompetente” per quel che riguarda un futuro di pace nell’area. La Haley ha aggiunto che ogni tentativo per alleviare le sofferenze del popolo Sudsudanese non sortiscono risultati proprio a causa della sua leadership: “Il peggio - ha detto - è che stiamo fallendo, non nonostante la leadership politica Sudsudanese, ma proprio a causa sua”. Un mese dopo, un’inchiesta delle Nazioni Unite indicava che oltre 40 soldati dell’esercito Sudsudanese erano sospettati di aver perpetrato crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei “diffusi e sistematici attacchi contro i civili nella Regione (...) responsabilità dei singoli individui al comando”. Tra i criminali rientrerebbero otto Generali ma

SUDAN DEL SUD

Generalità Nome completo:

Repubblica del Sudan del Sud

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Inglese (ufficiale), arabo (ufficiale), denka, nuer, zande, bari, shilluk

Capitale:

Juba

Popolazione:

13.941.000 (stima 2016)

Area:

619.745 Kmq

Religioni:

Cristiana, religioni tradizionali africane, islam

Moneta:

Sterlina sud-sudanese

Principali esportazioni:

Petrolio (98% del budget dello Stato)

PIL pro capite:

Us 1.490

anche tre Governatori. La situazione interna è sempre sull’orlo del collasso: gli allarmanti livelli di fame e malnutrizione nel Paese dicono che 4,8milioni di persone hanno estremo bisogno di aiuti alimentari e oltre 1,8milioni sono a un passo dalla carestia mentre il numero dei rifugiati Sudsudanesi in Uganda supera il milione e un altro milione è sfollato in Sudan, Etiopia, Kenya, Repubblica Centrafricana e Repubblica Democratica del Congo. © Fabio Bucciarelli


di Khartoum che lo trasportavano. Oggi il Sudan del Sud rischia di essere una bolla di petrolio in mezzo all’Africa. Ci vogliono terminali, investimenti, attrezzature, tecnologie per sfruttare quella enorme ricchezza. Chi li metterà a disposizione? Questa è la principale posta in gioco economica della guerra. Gli interessi delle potenze regionali (Uganda, Kenya, Sudan) si scontrano e si confrontano su questo tema e, in molti casi, cercano di influenzare l’esito del conflitto. L’altra grande questione in gioco è l’acqua del grande fiume Nilo sul quale si gioca una partita tra tutte le potenze affacciate sul suo bacino a cominciare dall’Etiopia che ha costruito la grande Diga della Rinascita sul Nilo Azzurro che modificherà la portata d’acqua verso l’Egitto, Paese che non può rinunciare alla preziosa acqua che, dai tempi dei faraoni, alimenta le civiltà che si sono succedute in questa regione.

Per cosa si combatte

L'arma dello stupro

Migliaia di persone nel Sudan del Sud hanno subito violenza sessuale dall’inizio del conflitto. A confermarlo un rapporto di Amnesty International dal titolo “Non rimanere in silenzio. Le sopravvissute alla violenza sessuale in Sud Sudan chiedono giustizia e riparazione”. Lo studio rileva che il metodo della violenza di massa è stato usato da tutte le parti in conflitto. Nella maggior parte dei casi descritti uomini dinka hanno attaccato donne nuer e uomini nuer hanno attaccato donne dinka. Ma ci sono stati persino casi, in cui uomini nuer favorevoli al Governo hanno stuprato donne della loro stessa etnia sospettandole di parteggiare per l’opposizione, o in cui le forze governative hanno preso di mira donne di etnia diversa dalla nuer. In alcuni casi, gli aggressori hanno ucciso le donne dopo averle stuprate. Alla violenza non sono sfuggiti gli uomini: alcuni sono stati stuprati, altri castrati o torturati con aghi infilati nei testicoli.

92

Il Sudan del Sud è nato con un referendum nel 2011 e solo due anni dopo, nel dicembre del 2013, è piombato in una guerra civile che contrappone la fazione del Presidente Salva Kiir e quella del suo ex vice-Presidente Riek Machar. Gli scontri hanno una forte componente etnica attivata dagli stessi leader: Salva Kiir è un dinka mentre Riek Machar è un nuer. Dinka e Nuer sono le principali etnie del Paese ed entrambe avevano combattuto un lungo conflitto con il Nord del Paese dove ci sono popolazioni completamente diverse, di matrice araba e di religione musulmana. Il Sudan del Sud è lo stato più giovane del mondo e per questo motivo la sua collocazione negli equilibri internazionali e regionali è ancora tutta da definire. Quando il Sudan era unito la principale ricchezza, cioè il greggio, aveva uno sbocco, il terminale di Port Sudan sul Mar Rosso e gli oleodotti del regime

© Fabio Bucciarelli

Nato con un referendum nel 2011 e solo due anni dopo travolto dalla guerra civile, il Paese ha molti conti in sospeso: quelli interni stravolti dal conflitto tra fazioni e quelli che riguardano la questione dei propri confini con il vicino del nord, il Sudan, ma anche con l’Uganda dove sono in discussione frontiere e possesso dei siti petroliferi. Tutti nodi gravidi di tensione e di possibili nuovi conflitti. La sua giovane memoria è già piena di orrori. La secessione del Sudan del Sud dal regime di Khartum è stata conquistata col sangue: quasi mezzo secolo di guerre, delle quali l’ultima è durata ben 22 anni, dal 1983 al 2005. Il trattato di pace che ha chiuso il conflitto aveva anche fissato le tappe successive: un periodo di transizione di cinque anni, nei quali il Sud avrebbe goduto di ampia autonomia e il referendum per l’autodeterminazione, svoltosi il 9 gennaio 2011, nel quale il 98,83% dei votanti si è espresso a favore della secessione. Ma il neonato Paese africano oggi ha la libertà, ma poco altro. Ha una guerra interna ed è ancora alle prese con le ferite profonde dei decenni di guerra

civile che hanno opposto il Nord arabo e musulmano e il Sud, africano e cristiano-animista, non solo per ragioni religiose ed etniche, ma anche per l’iniqua distribuzione delle ricchezze nazionali e degli investimenti da parte dei governi di Khartum. Quel conflitto, aggravato da prolungate carestie, ha causato due milioni di morti e quattro di rifugiati e sfollati. Ma anche la distruzione quasi totale delle infrastrutture: scuole, strade, ponti, ospedali. Oltre alle enormi carenze dello stato sociale, nella sua breve storia il Sudan del Sud ha dovuto affrontare diverse crisi umanitarie. La prima delle quali legata al rientro in massa di 350mila sudsudanesi che durante la guerra erano emigrati nelle Regioni del Nord e che sono rientrate in patria con l’indipendenza. Inoltre, nel 2012, erano scoppiati scontri etnici in diverse aree del Paese (proseguiti anche nel 2013), il più grave dei quali aveva provocato migliaia di morti nella regione del Jonglei, con decine di migliaia di sfollati. Altre emergenze umanitarie si erano verificate nel Sudovest, lungo il confine col Centrafrica a causa delle incursioni del gruppo

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

Le ragazze scout del Sudan del Sud

Il 15 marzo 2018, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato una risoluzione che rinnova di un anno la missione di pace nel Paese, che conta 17mila caschi blu. Nel contempo il CdS ha minacciato anche di imporre un embargo sulle armi “qualora fosse necessario”, una frase che ha suscitato diverse polemiche. La risoluzione, redatta dagli Stati Uniti, sottolinea che il Consiglio di sicurezza è pronto a “valutare tutte le dovute misure”, compreso un embargo sulle armi, per privare i belligeranti dei mezzi per continuare a combattere. Sulla frase che è sembrata a molti un equilibrismo diplomatico, Nigrizia ha scritto in un suo editoriale: “Qualora fosse necessario! Ma quale situazione al mondo, se non il Sudan del Sud, avrebbe maggior bisogno di un silenzio unilaterale delle armi?” La missione delle Nazioni Unite in Sudan del Sud (Unmiss) è stata istituita l'8 luglio 2011 dalla risoluzione 1996 del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

93

Una difficile missione Onu

Il Sudan del Sud è il Paese più giovane al mondo, nato nel 2011 dopo una lunga e violenta secessione dal Sudan. È tutt’oggi un Paese estremamente instabile in cui i diritti umani della popolazione vengono calpestati quotidianamente. In un Paese dilaniato dalla guerra, l’Associazione Sudsudanese delle Ragazze Scout ha promosso un progetto chiamato “Pronto soccorso, pace e riconciliazione” che aiuta ad accrescere la consapevolezza e la leadership delle giovani donne scout. All’interno del gruppo le ragazze imparano a sostenersi a vicenda e a supportare le numerose vittime di stupro, ad affrontare il trauma di vivere in un Paese in conflitto, apprendono tecniche di costruzione della pace. Le ragazze vengono educate alla mediazione dei conflitti e incoraggiate a ricordare alle loro famiglie l’importanza del dialogo. Ogni volta che riescono a trovare fondi sufficienti, le giovani donne scout organizzano eventi pubblici pensati per far sentire le loro voci. Vogliono che il Governo ascolti il loro messaggio di pace e le loro richieste di porre fine alla guerra. Sostenere le donne e le ragazze e amplificare le loro voci, soprattutto come parte di un dialogo nazionale inclusivo, è fondamentale per costruire una Nazione pacifica.

© Fabio Bucciarelli

ribelle del Lra (Esercito di resistenza del Signore). E, ancora, lungo il confine Nord, per via degli scontri fra l’esercito di Khartum e i gruppi armati del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro, due Regioni le cui popolazioni non hanno potuto votare per l’autodeterminazione, pur avendo combattuto con lo Spla (l’Esercito di liberazione del Sudan del Sud) la guerra per l’indipendenza, e scegliere di far parte del nuovo stato meridionale. Gli scontri dei suoi primi due anni di vita avevano già spinto alla fuga oltre 200mila profughi oltre confine. Quanto alla situazione economica del Paese, dipende totalmente dal petrolio (costituisce il 98% delle entrate delle Stato). L’85% delle riserve di greggio, con la scissione in due del grande Sudan è rimasto al sud e la capacità di estrazione è di circa 350mila barili al giorno. Ma i soli oleodotti utilizzabili, realizzati prima dell’indipendenza, sono quelli che attraversano il nord. Il contenzioso sul “diritto di passaggio”, per il quale Khartum esigeva un prezzo salatissi-

I PROTAGONISTI

mo, ha portato il Governo del Sud a interrompere le estrazioni, dal gennaio 2012 fino al marzo 2013, quando sono riprese a seguito di un nuovo accordo con Khartum. Ma quell’anno, senza più gli introiti del greggio, ha precipitato il già poverissimo Paese in una profonda crisi economica, che ha costituito una delle premesse al rigurgito di guerra civile della fine del 2013. La questione da allora non è mai stata regolata definitivamente e gli indicatori sociali ne sono lo specchio. Il Sudan del Sud, che ha una crescita demografica annua del 3,83% (stima del 2017) e un tasso di fertilità per donna di 5 figli, ha una speranza di vita di soli 56 anni e una mortalità infantile (sotto i 5 anni) di 92,6 bambini ogni mille nascite. L’analfabetismo (sopra i 15 anni) è del 69% mentre solo 5 bambini su cento hanno completato le scuole primarie. Anche la prevalenza dell’Hiv è alta e arrivava (stime del 2016) al 2,7%. L’accesso a servizi sanitari adeguati è bassissimo e cioè a meno del 7% della popolazione mentre l’accesso all’acqua potabile è solo del 58,7% il che significa che quasi la metà della popolazione Sudsudanese beve acqua contaminata.


Inoltre Algeria "Una democrazia imbalsamata".

Sembra ormai una democrazia imbalsamata, quella algerina. Le ultime elezioni legislative (non presidenziali, previste nel 2019) hanno confermato la maggioranza relativa al Fronte di Liberazione Nazionale (Fln), il partito del Presidente Abdelaziz Bouteflika, col 35% dei voti (in forte flessione), seguito dal Raggruppamento Nazionale Democratico (Rnd) col 22% (con consensi quasi raddoppiati). I partiti islamisti, invece, non hanno ottenuto crescite significative. Fln e Rnd, quindi, restano saldamente in sella, con la maggioranza assoluta dei seggi. Ma la vera novità di quest’ultima tornata elettorale è stata la cifra record del “partito dell’astensione”: 15milioni di aventi diritto su 23 non si sono recati alle urne (il 64% del totale), a cui vanno aggiunte 1,7milioni di schede bianche e nulle. Una disaffezione e una rassegnata protesta quanto meno preoccupante. Nonostante la consistente perdita di voti, tuttavia, l’Fln non sembra in grado di reagire con un ricambio politico: ad aprile 2018 i vertici del partito hanno chiesto all’ultraottantenne Bouteflika di accettare la candidatura per il 2019 al quinto mandato presidenziale, nonostante le precarie condizioni di salute in cui si trova dopo l’ictus che lo ha colpito nel 2013. A livello economico il Paese non vive un bel momento. Il prezzo basso del petrolio - da cui l’Algeria dipende in maniera vitale - sta creando non pochi problemi, e il rischio è di una ulteriore crescita del malcontento popolare. L’altro grande problema è costituito dalla minaccia di infiltrazioni terroristiche, soprattutto per la presenza di gruppi che possono sfruttare vuoti istituzionali, l’assenza di leadership forti e contrasti tra le varie milizie. Nonostante gli sforzi del Governo per contrastare il terrorismo, la situazione rimane molto precaria. Pericoli arrivano anche da gruppi armati di ribelli e terroristi che operano ai confini Meridionali del Paese. Ancora nei primi mesi del 2018, l'Algeria ha rinforzato le sue difese con migliaia di soldati ai confini con la Tunisia e la Libia, proprio per prevenire incursioni jihadiste. Difese che, comunque, sono insufficienti, dati gli oltre seimila chilometri di frontiera da proteggere.

TENTATIVI DI PACE - In spiaggia col bikini

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Lo scorso luglio nella città balneare di Annaba, in Algeria, circa 3mila donne hanno preso d’assalto la spiaggia indossando il bikini. I bikini non sono vietati in Algeria, ma c'è un'immensa pressione sociale a non indossarli. La presenza dei cosiddetti “fondamentalisti moralizzatori” sui litorali, che intimidiscono e minacciano le bagnanti musulmane che indossano il costume da bagno è diventata ormai un’emergenza in Algeria e in diversi Paesi del Maghreb. Sulle spiagge di Annaba in particolare si era sviluppata l’estate scorsa una preoccupante denuncia social da parte di alcuni uomini, che avevano utilizzato Facebook per segnalare la presenza sulla spiaggia di donne in bikini alle autorità. In risposta a questi episodi e alle continue pressioni, per tutto il mese di luglio, su gruppi privati di Facebook sono state organizzate numerose proteste che hanno portato poi molte donne a riversarsi sulle spiagge per difendere il loro diritto di vestirsi con qualunque costume da bagno esse preferiscano. Questa operazione è stata definita dalle stesse attiviste la “rivolta del bikini”.

Inoltre Burkina Faso "Al confine è allarme jihad".

Dal 2015 l’area Settentrionale del Burkina Faso, al confine con Mali e Niger, è teatro di attacchi jihadisti. Nel dicembre 2016 la città di Nassoumbou è stata colpita da un attacco islamista che ha ucciso 12 militari burkinabé e che è stato rivendicato dal gruppo Ansarul Islam, guidato da un predicatore burkinabé di nome Malam Dicko. La formazione è la stessa che nella notte tra il 27 e il 28 febbraio aveva assalito due commissariati nella Provincia burkinabé di Soum. A rendere tutto più difficile ci sono stati anche di recente alcuni attentati jihadisti nella capitale Ouagadougou, che vanno a sommarsi alle tensioni prodotte da quelli avvenuti sulla frontiera con il Mali. Nel mese di marzo 2018 un attentato all’ambasciata francese, compiuto da un commando di quattro persone, ha ucciso diverse decine di civili e ne ha ferite una novantina. In precedenza, il 15 gennaio del 2016, un sanguinoso attacco in un hotel di Ouagadogou aveva provocato 29 morti. Un gruppo di jihadisti aveva preso il controllo l’hotel Splendid, che si trova nel quartiere finanziario della capitale del Burkina Faso. La carneficina poi è stata rivendicata da Al Mourabitoun, un movimento armato affiliato ad al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Il Paese dal 2014, quando una sollevazione popolare contro una modifica costituzionale ha costretto Blaise Compaorè al potere da 27 anni a andarsene, vive una fase turbolenta. Ci sono stati una serie di colpi e contro-colpi di stato ma alla fine il Presidente Roch Marc Christian Kaboré, regolarmente eletto il 29 dicembre 2015, sta cercando di riavviare il Paese. L’ultimo scossone di questa fase di instabilità si è verificato nell’ottobre del 2016 quando il Governo aveva denunciato un tentativo di colpo di stato. Secondo il ministero dell’Interno, il golpe sarebbe dovuto avvenire l’8 ottobre e sarebbe stato organizzato da una trentina di ex guardie fedeli all’ex Presidente Blaise Compaoré.

TENTATIVI DI PACE - Il valore dell’acqua Il Burkina Faso è uno dei Paesi dell’Africa a soffrire maggiormente gli effetti del cronico deficit idrico, con conseguenti ripercussioni sulla capacità produttiva agricola. L’accesso all’acqua e al cibo rappresentano uno dei principali problemi per la sopravvivenza della popolazione e costringono prevalentemente le donne a lunghi spostamenti per l'approvvigionamento idrico. Molte Ong di cooperazione, come Abba, Lvia, Acra, contribuiscono alla sicurezza alimentare e ad assicurare accesso all’acqua promuovendo soprattutto il protagonismo femminile. Nonostante in Burkina Faso il 95% della popolazione femminile sia coinvolta in lavori di tipo agricolo, le donne possiedono scarsa rappresentatività all’interno delle organizzazioni contadine, e hanno limitate possibilità di accesso al credito per dare avvio alle proprie attività economiche. Molti interventi si propongono di mettere al centro dei processi di sviluppo rurale la figura della donna, attraverso modelli agro-ecologici partecipativi in zone ad elevato rischio di desertificazione. Il ruolo della donna, se valorizzato, può infatti diventare il punto di partenza per migliorare le condizioni di tutta la comunità.


“Una casa senza capo può essere violata da chiunque. Ecco perché vi chiedo di rispettare il Presidente Nkurunziza. In Burundi, non potremmo avere di meglio”. Parola del segretario generale del partito di Governo, Evariste Ndayishimiye. Così ha annunciato la nomina del Presidente Pierre Nkurunziza a “guida suprema ed eterna” della formazione politica Cndd-Fdd, ossia il “Consiglio nazionale per la difesa della democrazia-Forze per la difesa della democrazia”. La “guida suprema ed eterna” è a capo del Paese per il terzo mandato, in barba alla Costituzione burundese. D’altro canto, che Nkurunziza intendesse diventare Presidente a vita appariva già chiaro non solo dalla feroce repressione che ha messo in atto fin dall’annuncio di volersi candidare per la terza volta nel 2015 contro gli oppositori e i giornalisti, ma anche dalla decisione di indire un referendum di modifica della Costituzione che gli consentirebbe di guidare il Paese per altri due settennati, fino al 2034. Il referendum, che si è svolto il 17 maggio 2018 (ma è stato boicottato dall’opposizione), ha approvato la riforma col 73,2% dei voti. A sorpresa, nel corso della successiva cerimonia di promulgazione della nuova Carta, Nkurunziza ha annunciato di non volersi candidare alle prossime elezioni del 2020. Sarà vero? I fatti, finora, dicono che il Presidente burundese dal 2015 sta governando sul sangue: il Tribunale Penale Internazionale (Tpi) ha avviato il 25 novembre 2017 un procedimento nei suoi confronti per crimini contro l’umanità. Le accuse, nei confronti suoi, delle forze dell’ordine e delle milizie armate Imbonerakure (il movimento giovanile del suo partito), sono di responsabilità nell’uccisione di 1.200 persone, di detenzioni illegali, di pratica della tortura su vasta scala, di aver provocato la fuga di 400mila profughi. Nkurunziza ha tentato di evitare il procedimento penale internazionale uscendo dal Tpi nell’ottobre 2017. Inutilmente. L’indagine è stata ritenuta giuridicamente fondata perché all’epoca dei fatti il Burundi ne faceva parte. Oltre alla crisi politica, Il Burundi deve fronteggiare la lotta armata di ben 5 movimenti di guerriglia, e si sta inabissando in una crisi economica e finanziaria profonda, anche per l’embargo impostogli dall’Unione Europea. Il risultato è che il 77,7% dei burundesi vive sotto la soglia di povertà. Secondo l’ultimo “Rapporto sulla felicità” dell'Onu, del 20 marzo 2018, il popolo più infelice del pianeta è quello burundese. Ne ha ben donde.

Inoltre Burundi

Boko Haram da un lato, la ribellione degli anglofoni dall’altro. Il Camerun si trova da tempo a dover fronteggiare due gravi crisi: la prima nell’estremo Nord del Paese, dove il gruppo terrorista, affiliato al Califfato dell’Isis (nato e cresciuto nello Stato nigeriano del Borno) ha sconfinato, creato basi e reclutato adepti nella Regione più Settentrionale del Camerun. Dal 2014 le forze armate camerunensi hanno lanciato reiterate offensive contro i miliziani del gruppo estremista islamico e nel corso del 2017 e 2018 hanno operato in modo sempre più coordinato i militari dei quattro Paesi affacciati sul bacino del Lago Ciad - lo stesso Camerun, Nigeria, Niger e Ciad - in operazioni a tenaglia che hanno ottenuto discreti successi contro il gruppo armato. La guerra a Boko Haram ha però gravemente peggiorato le condizioni di vita della popolazione: l’azzeramento dei commerci transfrontalieri con la Nigeria ha aggravato la crisi alimentare, anche per l’ingente presenza di profughi: oltre 340mila fra sfollati interni e rifugiati nigeriani. La lotta contro i miliziani islamisti, peraltro, ha portato a pesanti eccessi da parte delle forze armate del Camerun: esecuzioni sommarie, detenzioni arbitrarie, gravi violazioni dei diritti umani che hanno colpito in modo indiscriminato anche la popolazione civile. Il secondo fronte che sta creando crescenti preoccupazioni al Presidente Paul Biya (al potere da 35 anni) è quello della rivolta degli anglofoni del Paese, che rappresenta il 20% della popolazione del Camerun e occupa in prevalenza la Regione Sudoccidentale al confine con la Nigeria. Le storiche tensioni degli anglofoni con il Governo centrale sono diventate conflitto aperto nell’autunno del 2016, dopo che aveva tentato di imporre il francese nella Regione anglofona. Da allora è stata una escalation, che ha portato il movimento di protesta a proclamare il 1° ottobre 2017 l’indipendenza della Regione sotto il nome di Ambazonia. Da allora si ripetono violente azioni repressive dell’esercito e arresti dei leader del movimento. Il Presidente Biya ha cercato di abbassare la tensione con provvedimenti di decentramento dei poteri, ma per ora gli scontri continuano e si stanno moltiplicando i gruppi armati dell’anglofonia che rivendicano la secessione.

Inoltre Camerun

"Una guida eterna contro la Costituzione".

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"Guerra latente contro integralisti e anglofoni".


Inoltre Guinea Bissau "Il narcotraffico passa di qui".

La Guinea Bissau è un turbolento Paese dell'Africa Occidentale con una storia costellata da colpi di stato fin dalla indipendenza, ottenuta nel 1973 dopo che nel Paese colonizzatore, il Portogallo, scoppiò la Rivoluzione dei Garofani e finì la dittatura di Salazar. I rivolgimenti al potere sono stati incessanti fino ai giorni nostri. Nel marzo 2009 alcuni militari uccidevano il Presidente Vieira, dopo che un attentato aveva ucciso il capo di stato maggiore dell'esercito. Il Presidente dell'assemblea nazionale Raimundo Pereira venne nominato temporaneamente capo di Stato. In settembre diventava Presidente Malam Bacai Sanhá; dopo la sua morte avvenuta nel dicembre del 2012, Pereira ritornava ad essere capo di Stato ad interim, ma veniva deposto con un golpe poche settimane dopo. Nel 2014 veniva eletto Presidente José Mario Vaz. La Guinea Bissau è tra i venti Paesi più poveri del mondo e una economia basata sull'agricoltura e sulla pesca. Il principale prodotto d'esportazione è l'anacardo. Ci sono anche interessanti risorse minerarie - petrolio, bauxite e fosfati - che però a causa della totale mancanza di infrastrutture non vengono sfruttate. La guerra civile e i continui colpi di stato hanno praticamente penalizzato l'economia al punto che questo piccolo Paese - 1,5milioni di abitanti e 36mila Km2 - ha quasi un miliardo di dollari di debito estero. La conformazione geografica e la cronica instabilità politica hanno reso la Guinea Bissau un Paese ideale per il narcotraffico. È accertato che sia una sorta di hub africano per l'arrivo di droga dall'America Latina e lo smistamento verso l'Europa attraverso le rotte sahariane. Il fatto che davanti alle coste del Paese ci sia un vasto arcipelago di isole, le Bijagos, alcune completamente disabitate favorisce l'arrivo di carichi clandestini di droga. Lo Stato è troppo debole, e spesso infiltrato, corrotto o connivente, per fronteggiare questo business che finisce per penalizzare lo sviluppo economico del Paese.

TENTATIVI DI PACE - Una cooperazione transnazionale per combattere i trafficanti

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La Guinea Bissau è un Paese in cui il Governo ha un controllo limitato sul territorio, e la cui economia è dominata in buona parte dal narcotraffico. Il Paese ha inserito tra i suoi obiettivi di sviluppo la lotta al traffico illecito di stupefacenti. Dopo 9 anni in cui era stata lanciata l’iniziativa West African Coast (Waci), un progetto congiunto tra le Nazioni Unite e la Ecowas - Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale - per combattere il narcotraffico in diverse Regioni dell’Africa Occidentale si è rafforzata la cooperazione tra Guinea Bissau e i Paesi vicini (Liberia, Sierra Leone, Costa d’Avorio) e i risultati di contrasto alla criminalità ottenuti in particolare con le unità transnazionali di criminalità (Tcu) sono incoraggianti.

Inoltre Guinea Conakry "Scioperi e proteste alimentano l'instabilità".

Il nome ufficiale di questo Paese è Repubblica di Guinea ma è più noto come Guinea Conakry, dal nome della capitale. Negli ultimi mesi, dopo le elezioni municipali del febbraio 2018 (rinviate per 8 anni essendo previste nel 2010), è piombato in un periodo di instabilità a causa di una serie di proteste e di scioperi. Le proteste sono avvenute perché i risultati delle elezioni sono stati resi pubblici con grande ritardo e la popolazione e alcuni settori della società civile hanno subodorato brogli. Gli scioperi invece sono stati proclamati da diverse categorie di lavoratori ma soprattutto dagli insegnanti per ottenere gli stipendi arretrati e aumenti consistenti. Ma non si tratta solo di una mera questione economica. Sono in molti infatti a ritenere che dietro queste rivendicazioni e proteste ci sia un forte malcontento della popolazione per l’operato del Presidente Alpha Condè, al potere dal 2010 quando si svolsero le prime elezioni libere di questo Paese. Due anni prima era morto il vecchio dittatore Lansana Contè al quale era succeduto un turbolento periodo di violenze e colpi di stato. Le condizioni socio economiche non aiutano. In questo Paese di 13milioni di abitanti, il 47% della popolazione vive sotto la soglia di povertà (indice di sviluppo umano: 0,355 - 178° su 187 Paesi) e vi convivono diverse comunità ( peul 32,1%, malinké 29,8%, soussou 19,8%, guerze 6,2%, kissi 4,7%, toma 2,8% e altri gruppi minori 4,6%). La mortalità infantile (prima dei 5 anni) è molto alta (130/1.000) e l’analfabetismo ha percentuali importanti arrivando quasi al 70%. Mentre l’accesso all’acqua potabile raggiunge quasi l’80% della popolazione, quello ai servizi sanitari riguarda solo il 20. Come in molti Paesi africani, si tratta di una condizione sociale che può aiutare la nascita di conflitti violenti anche se questo Paese ha in realtà grandi ricchezze nel sottosuolo, dalla bauxite (possiede le più grandi miniere del pianeta) a oro, diamanti, uranio.

TENTATIVI DI PACE - Gli Errants della Guinea Conakry La Federazione Italiana Persone Senza Dimora (fio.Psd) ha sviluppato un progetto che prenderà in considerazione il problema degli “errants”, cosi vengono chiamati i senzatetto nella Guinea Conakry, con l'obiettivo di reintegrarli all’interno della comunità. Quello degli erranti è un fenomeno complesso che in Guinea ancora non trova risposta: si tratta di persone che presentano molto spesso problemi di salute mentale, sono vulnerabili e spesso senza identità. In una situazione di impoverimento generale queste persone sono costantemente emarginate e stigmatizzate. Anche nell'ambito delle varie misure di assistenza, rischiano di essere totalmente ignorati o ricondotti, superficialmente, nei soli protocolli di chi soffre di salute mentale. Nel corso del 2017, con il coinvolgimento di partner locali, è stata condotta una piccola indagine per capire meglio la realtà di questa gente, del loro background familiare e di ogni relazione con altre persone, per programmare una sessione di formazione che porti a un intervento di supporto e reintegrazione. L’obiettivo del corso di formazione è far emergere quali siano le cause sociali, economiche e di salute che portano una persona a diventare un senzatetto, portando ad una comprensione più profonda e complessa del fenomeno ed eliminando l’idea dell'impossibilità di cura e di presa in carico dei soggetti erranti. In questo contesto, un gruppo di medici e operatori sanitari, ha costruito un modello di assistenza che va oltre la semplice medicalizzazione e rompe di fatto lo stigma che li mette ai margini come irrecuperabili, attraverso la realizzazione dei primi progetti abitativi e l'inserimento istantaneo in una struttura di protezione


Ora tocca a George Weah. L’ex stella del calcio (unico africano a vincere il Pallone d’oro) ha raggiunto anche in politica un risultato di grande successo: dal gennaio 2018 è il 25° Presidente della Liberia, il suo Paese d’origine, dov’è tornato nel 2005, appena tre anni dopo aver smesso la carriera europea di calciatore. Difficile dire se sarà anche un capo di Stato da “pallone d’oro”. Il compito che ha davanti a sé è di quelli da far tremare le vene ai polsi: la Liberia è un Paese ancora poverissimo e proviene da 15 anni di guerra civile e dal flagello dell’epidemia di ebola, sconfitta solo nel settembre del 2015. I dati sono impietosi: il 63,8% dei liberiani vive sotto la soglia di povertà, la mortalità infantile al di sotto dei 5 anni è al 69,9 per 1.000; la speranza di vita è di soli 63,3 anni; un quarto della popolazione (circa 4,6milioni) non ha accesso all’acqua potabile e soltanto il 16,9% gode di servizi sanitari adeguati. Poco più di metà degli abitanti è analfabeta. Weah succede ai due mandati di presidenza dell’economista Ellen Johnson-Sirleaf che, fra molte luci e qualche ombra, ha avuto comunque il grande merito di aver traghettato un Paese con un’infinita storia di colpi di stato, dittature e guerre civili a uno Stato pacificato, capace di elezioni democratiche e in crescita economica. Tant’è che l’ex Presidente, nel 2011, è stata insignita del Premio Nobel per la Pace. Va anche detto che la vera capacità di tenuta della pace in Liberia si misurerà sotto la presidenza di Weah: il 30 marzo 2018, infatti, si è completato il ritiro della missione di pace dei caschi blu. Solo ora, quindi, il Paese non è più sotto la tutela Onu. King George, com’era chiamato da stella del calcio, fin dal suo insediamento, il 22 gennaio scorso, ha dovuto misurarsi con le enormi difficoltà in cui versa ancora il Paese. Il primo problema è stato trovare in tre mesi una sessantina di milioni di euro per far funzionare la macchina dello Stato. Le casse infatti erano vuote. Presto dovrà cercare di mettere in pratica il suo ambizioso programma, i cui cardini sono la lotta alla povertà e alla corruzione, la formazione dei giovani, il miglioramento del welfare, la creazione delle condizioni per gli investimenti stranieri.

Inoltre Liberia

Se è lontano, per gli ugandesi, il ricordo delle guerre civili (quella contro il dittatore Idi Amin Dada, finita nel 1986 e costata 300mila morti; e quella contro il Lord Resistance Army, conclusasi nel 2003 con una stima di altre 100mila vittime), è un sogno anche quello di vivere in una vera democrazia. Nel febbraio 2016 Yoweri Museveni - il leader, all’epoca, del National Resistance Army che sconfisse Idi Amin - ha vinto ancora una volta le elezioni, così che dopo 30 anni di potere se n’è garantito altri cinque, con la possibilità di rimanere alla guida del Paese fino al 2031, come prevede la riforma della Costituzione da lui stesso voluta. Una vittoria in apparenza netta nei numeri (60% dei consensi, contro il 35% dell’eterno rivale Kizza Besigye), ma in realtà inficiata da tante ombre. La campagna elettorale è stata costellata da intimidazioni e vere e proprie aggressioni contro Besigye e il suo partito, l’Fdc (Forum for Democratic Change), e lo stesso oppositore è stato più volte arrestato e rilasciato, persino nelle ore del voto. Inoltre, l’Fdc ha denunciato brogli e agli scrutatori del partito è stato impedito con la forza l’annunciato conteggio parallelo dei voti. Anche gli osservatori internazionali presenti e le organizzazioni della società civile hanno parlato di elezioni non credibili e ben lungi dall’essere libere. Museveni, forte dell’appoggio statunitense e dei Paesi Occidentali (anche per il suo impegno contro il terrorismo islamico), non se ne cura, e prosegue sulla sua strada anche in fatto di negazione dei diritti civili. Ad esempio, la legislazione contro gli omosessuali è fra le più repressive del mondo e la polizia è considerata uno degli esempi negativi in fatto di violenze e brutalità. Molto preoccupante, nel Paese, è il fenomeno dell’accaparramento delle terre: sia come fenomeno di land grabbing (23 contratti di vendita o concessione di licenza per un totale di 227milioni di ettari di territorio); sia a favore dell’industria estrattiva dei minerali, con frequenti episodi di corruzione e malversazione di fondi. Nel contempo, questo Paese delle luci e delle ombre, è anche uno fra quelli che ha ottenuto negli ultimi anni i migliori risultati in tema di sviluppo, lotta alla povertà e miglioramento degli standard sanitari. Ed è ormai considerato il Paese più “accogliente” d’Africa: in Uganda hanno trovato rifugio più di un milione di sudsudanesi, che sono andati ad aggiungersi al milione e mezzo di rifugiati provenienti da Rd Congo, Burundi e Somalia. Su una popolazione appena sopra i 40milioni.

Inoltre Uganda

"Via i Caschi Blu. Ora tocca a Weah".

TENTATIVI DI PACE - Una riconciliazione "modello Sud Africa" “Kevin- will my people find peace?” è un documentario che parla di Kevin Doris Ejon, una reporter ugandese che ha avuto la possibilità di incontrare ed intervistare Joseph Kony, il leader dei ribelli della Lord’s Resistance Army. Per oltre un ventennio dalla fine degli anni ottanta, la Lra ha seminato morte e terrore nel Nord Uganda. I registi, Merghetti e Mensa, hanno voluto evidenziare il ruolo delle donne nella formazione del processo di pace. Il film si apre con una carrellata di foto in bianco e nero scattate dalla stessa Kevin, mentre la voce in sottofondo descrive i tratti salienti del conflitto ugandese. L’unica soluzione che propone la giornalista, è quella per gli ugandesi di comprendere il fatto che sono tutti vittime di questa tragedia e che insieme possono mobilitarsi per risolvere la situazione. All’interno del documentario scaturisce una proposta, proveniente da una delle intervistate, ovvero la creazione di una commissione per la riconciliazione e la verità sullo stampo di quella Sudafricana. Il processo di riconciliazione e perdono dovrebbe essere costante e quotidiano.

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"La vera democrazia è ancora lontana".



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COPYRIGHT BY AKADEMISCHE VERLAGSANSTALT, FL-9490 VADUZ, AEULESTRASSE 56 CARTOGRAFIA: FRANZ HUBER, MĂœNCHEN d i

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QUESTA PROIEZIONE EQUIVALENTE É BASATA SULLA RETE GEOGRAFICA DECIMALE DI ARNO PETERS. ESSA SPOSTA IL MERIDIANO ZERO SULLA LINEA RETTIFICATA DEL CAMBIAMENTO DI DATA - INDICATA CON IL PUNTEGGIO - E SUDDIVIDE LA SUPERFICIE TERRESTRE IN 100 RETTANGOLI LONGITUDINALI DI UGUALE LARGHEZZA E IN 100 RETTANGOLI LATITUDINALI DI UGUALE ALTEZZA. CON QUESTA PROIEZIONE SI OTTENGONO NELLA FASCIA EQUATORIALE RETTANGOLI VERTICALI CHE SI TRASFORMANO, AVVICINANDOSI AI POLI, IN QUADRATI E POI IN RETTANGOLI ORIZZONTALI. LE COORDINATE DELLA NUOVA RETE SI TROVANO AI MARGINI DELLA CARTA ACCANTO ALLE COORDINATE TRADIZIONALI.

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America

A cura di Amnesty International

I troppi passi indietro di tutto un Continente Discriminazione e disuguaglianza sono rimaste la norma nell’intero Continente. La Regione ha continuato a essere devastata da elevati livelli di violenza, con ondate di uccisioni, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie. I difensori dei diritti umani hanno affrontato un aumento del grado di violenza nei loro confronti. L’impunità è rimasta dilagante. Moltissime persone hanno abbandonato le case per sfuggire alla repressione, alla violenza, alla discriminazione e alla povertà. Molte hanno subìto ulteriori abusi mentre erano in viaggio o tentavano di raggiungere altri Paesi della Regione. Le popolazioni native hanno affrontato discriminazioni e hanno continuato a vedersi negare i diritti economici, sociali e culturali, compresi i loro diritti alla terra e a un consenso libero, anticipato e informato in merito alla realizzazione di progetti che avevano ripercussioni sulle loro vite. I Governi della Regione, nella quale sono in vigore alcune delle legislazioni più restrittive nei confronti dell’aborto, hanno fatto scarsi progressi nella tutela dei diritti di donne e ragazze e delle persone Lgbti. In Colombia, nonostan-

te le opportunità offerte dall’accordo di pace, molte sue parti sono rimaste inapplicate. I civili hanno continuato a essere le principali vittime del conflitto, specialmente i popoli nativi, le persone di origine afroamericana e le comunità contadine, oltre che i difensori dei diritti umani. Negli Usa, il Presidente Trump non ha perso tempo a mettere in atto la sua retorica contraria ai diritti, intrisa di discriminazione e xenofobia, minacciando gravi passi indietro in tema di libertà civili e giustizia, tra l’altro con la firma di una serie di ordini esecutivi repressivi, che hanno indebolito i diritti umani di milioni di persone, sia all’interno degli Usa sia all’estero, compresi quello divenuto poi noto come “Muslim ban” e quello relativo al piano per la costruzione di un muro lungo il confine degli Usa con il Messico. Il Venezuela ha affrontato la peggiore crisi dei diritti umani della sua storia moderna. Invece di combattere la crisi alimentare e sanitaria, le autorità hanno messo in atto una premeditata politica di violenta repressione delle proteste, facendo ricorso all’uso eccessivo e illegale della forza contro le manifestazioni - non poche delle quali degenerate in atti di violenza - provocando la morte di almeno 120 persone. La crisi dei diritti umani è proseguita anche in Messico, esacerbata dall’aumento dei tassi di violenza e di omicidi, compreso un numero record di uccisioni di giornalisti, 12 nel 2017, il più alto numero dal 2000. Tortura e sparizioni sono rimasti prassi diffuse e sono stati compiuti impunemente dalle forze di


sicurezza. Le autorità brasiliane hanno ignorato una sempre più acuta crisi dei diritti umani di cui loro stesse sono state artefici. Nella città di Rio de Janeiro, l’impennata di violenza ha portato a un’ondata di uccisioni illegali compiute dalla polizia, con percentuali sempre più alte di uccisioni e altre violazioni dei diritti umani anche in altre località del Paese. Nel caotico, sovraffollato e pericoloso sistema penitenziario del Brasile sono morti almeno 120 reclusi, nel contesto dei disordini verificatisi a gennaio. L’Honduras è rimasto uno dei Paesi della Regione più pericolosi per i difensori dei diritti umani e in particolare per quanti sono impegnati nella tutela della terra, del territorio e dell’ambiente. Sono stati presi di mira sia da attori statali che non statali, sottoposti a campagne diffamatorie finalizzate a screditare il loro lavoro e hanno dovuto regolarmente affrontare intimidazioni, minacce e attacchi. Sono stati compiuti scarsi progressi nelle indagini relative all’uccisione,

nel marzo 2016, della leader nativa e ambientalista Berta Cáceres. Dal suo omicidio, diversi altri attivisti impegnati nella tutela dell’ambiente e dei diritti umani sono stati al centro di vessazioni e minacce. Ma alla progressiva privazione dei diritti non è corrisposto il disimpegno. Tra i vari esempi, ci sono state le manifestazioni di massa a sostegno dell’attivista Santiago Maldonado, trovato morto dopo essere scomparso nel contesto di una manifestazione segnata dalla violenza della polizia in una comunità mapuche in Argentina, e l’imponente mobilitazione sociale di “Ni una menos” (Non una di meno), un movimento di denuncia del fenomeno dei femminicidi e della violenza contro donne e ragazze, attivo in varie parti della Regione. Negli Usa, una gran parte della società civile e l’opposizione politica si sono mobilitate contro alcune delle decisioni e delle politiche che minacciavano i diritti umani, adottate dall’amministrazione Trump.

A cura di Giovanni Scotto

Americhe: le via crucis di milioni di migranti Da circa un decennio un flusso di migranti si sposta dai Paesi violenti e impoveriti dell’America Centrale attraverso il Messico con la speranza di raggiungere gli Stati Uniti per entrarvi senza documenti o chiedere asilo. Si spostano in gruppo soprattutto le persone più vulnerabili, donne sole con bambini piccoli, anziani, gay, persone che facilmente potrebbero essere vittime di violenza in territorio messicano. Dal 2014 gli Stati Uniti hanno iniziato a pagare il Messico per rafforzare i controlli alle frontiere, e i migranti hanno iniziato a essere sistematicamente deportati nei loro Paesi di origine dalla polizia messicana, spesso senza la verifica del loro diritto a un asilo. Per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema

delle migrazioni, Pueblo Sin Fronteras organizza dal 2010 nel periodo pasquale la “Via Crucis dei migranti”: fino a mille persone attraversano il Messico per arrivare alla frontiera con gli Usa. Durante la carovana del 2018, 150 migranti sono arrivati a Tijuana per chiedere asilo. Trump ha dichiarato che si tratta di un attacco deliberato alla sovranità degli Usa: Organizzazioni come Juventud 2000 o il centro di accoglienza Hermanos en el Camino a Ixtepec (Stato di Oaxaca) . A Tijuana, alla frontiera con gli Usa, il Comitato Strategico di aiuto umanitario raduna diverse organizzazioni laiche e religiose che offrono assistenza ai migranti. Il rischio di essere vittime di violenze e rapimenti è molto alto.


102

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DA HAITI RIFUGIATI

29.684

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI STATI UNITI D'AMERICA

18.484

CANADA

6.774

FRANCIA

3.444

SFOLLATI PRESENTI IN HAITI RIFUGIATI ACCOLTI IN HAITI RIFUGIATI

5

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI -


In piazza contro le tasse

Nel settembre 2017 migliaia di haitiani sono scesi in piazza al grido “no agli aumenti delle tasse”. Una finanziaria impopolare aveva previsto anche l’aumento dell’aliquota su tabacco, alcol e passaporti. Haiti resta il Paese più povero dell’emisfero Occidentale. Sta ancora subendo i danni dell’uragano Matthew che si è abbattuto sull’isola nel 2016 uccidendo mille persone, lasciandone 14mila in necessità di aiuti umanitari. La manifestazione è stata pacifica, al contrario delle precedenti che hanno visto barricate date alle fiamme, traffico bloccato, scontri con la polizia che è ricorsa all’uso di lacrimogeni.

UNHCR/ A. M. Casares

È ancora un Paese in ginocchio, meno scosso dalla violenza politica rispetto ad un tempo, ma certamente insicuro, socialmente instabile e incapace di diventare autonomo dopo il devastante terremoto del 2010: morirono quasi 30mila persone. Ad Haiti la missione Onu - la Minujusth, circa 1300 agenti di polizia internazionali, insieme a 350 civili, aiuteranno il Paese fino a metà 2019 a riformare il sistema giudiziario - resta un punto fermo, così come lo sono le tante Ong arrivate da tutto il mondo, dopo il terremoto, per tentare una ricostruzione. Ma è proprio sul fronte degli aiuti internazionali che il Paese trova ostacoli. Nel 2017 è scoppiato lo scandalo sugli abusi sessuali, che ha travolto l'organizzazione inglese Oxfam. Ci sono stati grande clamore, titoli su tutta la stampa e grandi scuse da parte della Ong, che ha ammesso di aver sbagliato. Non è bastato: il Presidente Jovenel Moise, eletto nel 2017, ha rincarato la dose. “Oxfam è solo la punta dell’iceberg”, ha dichiarato. “Ci sono altre Ong nella stessa situazione”. I fatti gli hanno dato ragione. Plan International, ente britannico specializzato nell'aiutare i bambini, ha confermato sei casi di abusi sessuali e sfruttamento di minori, avvenuti tra il 1° luglio 2016 e il 30 giugno 2017. Anche il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha ammesso che 21 dipendenti sono stati licenziati o hanno dato le dimissioni dal 2015 per avere pagato prostitute. Intanto, la situazione della popolazione resta critica, il Paese è in assoluto tra i più poveri del mondo. Sui taxi collettivi di Port-au-Prince, la capitale, campeggiano le scritte "Dieu ne nous abandonne pas", “Dio ci ha abbandonati”. Il 60% della popolazione haitiana vive proprio nella capitale, dove il traffico non si spegne mai e dove tutto è mercato permanente, elemosina continua. Tre milioni di persone, ancora oggi, vivono sotto le tende.

HAITI

Generalità Nome completo:

Repubblica di Haiti

Bandiera

103

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese

Capitale:

Port-au-Prince

Popolazione:

10.371.000 (2012)

Area:

27.750 Kmq

Religioni:

Cattolica, chiese protestanti, voodoo

Moneta:

Gourde Haitiano

Principali esportazioni:

Nessuna, solo economia di sussistenza

PIL pro capite:

Us 1.229

L’economia non parte. Il patrimonio boschivo, una volta rigoglioso, è stato ridotto al 2% dell’intera superficie. Nelle zone più povere della capitale, come Martissant, risultano malnutriti il 5% dei bambini sotto i 5 anni. A Cité Soleil il tasso supera il 7%. L’agricoltura è incapace di soddisfare le esigenze della popolazione e il poco denaro circolante deriva dagli aiuti internazionali, distribuiti e gestiti dalle moltissime Ong impegnate sul territorio. A proliferare, però, è la corruzione, diventata ormai intollerabile. Le proteste in strada stanno tornando protagoniste e più di un osservatore teme un “ritorno al passato.


Le ragioni della latente guerra interna sono semplici: si lotta per sopravvivere. Il Paese è tra i più poveri del mondo. L’agricoltura è a livelli di pura sussistenza, l’industria è limitata e dal sottosuolo si ricava solo un po’ di bauxite e quantitativi di oro e argento lontani dallo scatenare guerre. Le ragioni del lungo, perenne, conflitto haitiano, quindi, non sono economiche, ma sociali e politiche. La lunga dittatura dei Duvalier ha creato una frattura nel Paese, fra la parte mulatta - discendente dalla borghesia francese che

governava l’isola - e quella nera - discendente dagli schiavi africani che guidarono la rivolta per l’indipendenza - e che grazie a Duvalier hanno trovato affermazione. Negli anni ‘90, a queste motivazioni storiche, si è aggiunta una crisi economica che non ha trovato soluzione, allargando la forbice fra la popolazione povera e quella più ricca. Circa il 50% degli haitiani non ha un lavoro fisso, i due terzi sbarcano il lunario lavorando nei campi. Lo scontro diventa quasi inevitabile.

Per cosa si combatte

104

haitiadvocacy.org

Colonia spagnola, poi francese, indipendente dal 1804 grazie alla prima rivolta di schiavi conclusa con un successo, Haiti ha una storia complessa alle spalle, caratterizzata da continue dittature militari, che sfociano nell’occupazione militare statunitense fra il 1915 e il 1934. In quel periodo, la resistenza semipacifica haitiana trova ispirazione nella propria cultura e nella religione voodoo. Protagonista è la popolazione nera, che ha il proprio leader nel popolare agitatore dottor François ‘Papa Doc’ Duvalier. Gli americani se ne vanno nel 1934, lasciando una economia a pezzi. Molti haitiani emigrano a Santo Domingo, in cerca di lavoro, provocando tensioni razziali ed economiche terminate tragicamente con una pulizia etnica che fa 20mila vittime tra gli haitiani. Agitata sempre dallo scontro fra popolazione mulatta e nera, di fatto l’isola resta dipendente dagli Stati Uniti ed è governata, dal dittatore, da “Doc” Duvalier, fino alla sua morte, nel 1971. Il potere passa allora al figlio Jean-Claude, chiamato Baby Doc, che tenta una mediazione tra i ‘modernizzatori’ mulatti. Contemporaneamente, elimina con brutalità tutta l’opposizione. Alla crisi politica, si aggiunge all’inizio degli anni ‘80 quella economica. Haiti viene identificata come zona ad alto rischio per l’Aids e il turismo crolla. Poi, un programma statunitense per sconfiggere una

malattia dei suini danneggia l’economia rurale, con l’uccisione per errore 1,7milioni di animali. Nel 1986 scoppia la rivolta popolare e Baby Doc Duvalier deve riparare all’estero con la famiglia. Si forma una giunta provvisoria militare. Il luogotenente generale Henri Namphy, confidente di Duvalier, viene nominato Presidente, ma un’organizzazione cattolica si oppone. È guidata da un giovane prete: Jean-Bertrand Aristide. Le elezioni del 1987 vengono vinte a larga maggioranza da Namphy, ma nel giro di un anno un altro colpo di stato porta al potere un altro generale, Prosper Avril. Nel 1990 Avril è costretto a fuggire e sempre nel 1990 alle nuove elezioni si candida Aristide, che con lo slogan ‘Lavalas’ porta in massa la gente alle urne. Il successo di Aristide non dura molto: nel 1991 viene destituito da un golpe militare. L’Onu reagisce con un embargo totale, cui fa seguito un intervento militare degli Usa, che costringe i militari a farsi da parte. Nel 1994 Aristide può quindi tornare nel Paese e governare. Ma lo fa in piena crisi economica e in un grave clima di violenza. Alle elezioni legislative del giugno 1995, i candidati da lui sostenuti furono accusati di brogli dall’opposizione. Si arriva alle elezioni presidenziali del 1995, in dicembre, vinte da René Preval. Le violenze nel Paese non finiscono e nel 1996 il Consiglio di sicurezza dell’Onu pro-

Quadro generale

Due lingue che separano

Sono due le lingue di Haiti: il creolo e il francese. Esiste un rapporto sociale fra le due lingue. Il 90% della popolazione parlava solo il creolo, che è una mescola fra francese, spagnolo, portoghese, inglese e lingue africane. Il rimanente 10% parlava il francese. Solo un abitante su venti, però, parlava entrambe le lingue, il che rendeva separate “in casa” le classi sociali dell’isola, con una maggioranza monolingue e una piccola élite bilingue.


TENTATIVI DI PACE

Le Nazioni Unite ai tempi del colera

Jovenel Moise

Nel 2016, dopo anni di silenzi e smentite, il Segretario Generale dell’Onu ha pubblicamente chiesto scusa agli abitanti di Haiti, dove dal 2004 era presente la missione Minustah, i cui soldati - seppur involontariamente- sembra abbiano infettato le acque di un fiume con il batterio del colera. Un ruolo di primo piano in questa vicenda è stato svolto dal Bureau des Avocats Internationaux e dall’Institute for Democracy and Justice in Haiti, due organizzazioni locali di difesa dei diritti umani che hanno denunciato l’accaduto. Per la prima volta le Nazioni Unite hanno anche deciso di indennizzare il danno con uno stanziamento di 400milioni di dollari per combattere la malattia e risarcire le vittime. Nel 2017, con la risoluzione 2350 del Consiglio di Sicurezza Onu, è stata avviata una nuova missione denominata United Nations Mission for Justice Support In Haiti (Minujusth), della durata di un massimo di due anni. L’intento è di rispondere a esigenze concrete della cittadinanza, contribuendo alla stabilizzazione dello stato di diritto, fornendo supporto alla polizia nazionale haitiana ed effettuando un monitoraggio del rispetto dei diritti umani nel Paese.

È il 42mo Presidente haitiano, eletto nel febbraio 2017. Nato da una famiglia borghese - il padre è un commerciante, la madre una sarta - si è trasferito con i parenti nella capitale nel 1974. Qui ha frequentato la scuola nazionale Don Durélin, il liceo Toussaint Louverture e il centro culturale del collegio Canado-Haitien. Ha poi studiato scienze politiche all’Università Quisqueya, lasciando la capitale subito dopo per trasferirsi da Port-de-Paix e sviluppare aree agricole. Nel frattempo ha sposato una compagna di classe, Martine Marie Etienne Joseph. Come imprenditore ha successo. La carriera politica inizia nel 2010. Nel 2015, il Presidente Michel Martelly lo indica come candidato presidenziale dell’Haitian Tèt Kale Party (Phtk). Lui punta all’agricoltura bio per rilanciare il Paese, con istruzione gratuita come la sanità, stato di diritto e posti di lavoro. Alle elezioni prende il 32,8% dei voti al primo turno, qualificandosi per il ballottaggio con la seconda classificata, Jude Célestin. Ci sono però contestazioni, viene accusato di brogli e le proteste in piazza sono violente. Si arriva così al novembre 2017, con nuove elezioni e la proclamazione di Moise vincitore. L’affluenza al voto è del 21%.

minujusth.unmissions.org

roga la propria missione militare sull’isola. Nel gennaio 1999 le cose precipitano, con Preval che destituisce gran parte dei parlamentari. La tensione sale ancora - come la violenza - con le elezioni presidenziali del novembre 2000, vinte dall’ex Presidente Aristide. Il conflitto tra la maggioranza e l’opposizione è violentissimo e non si placa. Nel 2004 i ribelli, formano il Fronte di Resistenza dell’Artibonite, conquistano alcune città e in seguito costringono Aristide a dimettersi e a lasciare il Paese. Nello stesso anno, la comunità internazionale decide di intervenire, inviando una missione Onu, la Minustah, la missione di Peacekeeping dell’Onu che avrebbe dovuto garantire sicurezza al Paese. In realtà, qualche anno dopo, nel 2011, il caso dei cables rivelati dall’agenzia di stampa Wikileaks mostrano quale fosse il pensiero di Washington rispetto all’intervento. L’ambasciatrice Usa Janet Sanderson scriveva: “La missione Minustah è uno strumento indispensabile per realizzare i fondamentali interessi politici degli Stati Uni-

I PROTAGONISTI

ti in Haiti”. Nel 2010, in gennaio, arriva il devastante terremoto che uccide quasi 300mila persone, distrugge praticamente l’isola e la rende un immenso campo profughi. Gli haitiani sperano nelle promesse fatte a caldo dalla comunità internazionale, ma restano delusi. Così come deludente si rivela il neo Presidente Michel Martelly, conosciuto come Sweet Michy, popolare cantante di musica haitiana, che promette un grande rilancio e a maggio 2010 viene eletto. Il rilancio non ci sarà. In compenso, emergeranno - siamo al 2011 - vari cable diffusi da Wikileaks. Confermano, se ancora ce ne fosse stato bisogno, l’assoluta mancanza di volontà delle grandi potenze straniere di stabilizzare la situazione politico sociale nell’isola. Cable passati sottotraccia e che sono stati ignorati dalla stampa internazionale. Ma cable importanti che diventano tasselli determinanti nella strana storia dell’esilio dell’ex Presidente Jean Bertrande Aristide, e che in parte potrebbero anche riguardare il Vaticano, che non ha mai considerato con rispetto l’ex prete salesiano prestato alla politica e considerato uno dei presidenti più amati dalla popolazione.

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(Trou-du-Nord - 26 giugno 1968)


Inoltre Colombia

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"Colombia, una pace difficile dopo l’Accordo de l’Avana".

È una pace difficile quella della Colombia. La sessantennale guerra fra potere centrale e forze rivoluzionarie - Farc in testa - è teoricamente archiviata. La pace, siglata all’Avana nel giugno del 2016, ha messo fine ad un vero e proprio massacro, costato 250mila morti, 50mila dispersi poco meno di 7milioni di sfollati. Le armi, però, ancora non tacciono e troppi gruppi - ribelli ex Farc, narcotrafficanti, ex paramilitari - hanno approfittato del limbo del dopo guerra per impossessarsi di interi territori e controllarli. Per i colombiani tutto resta complicato e sembra quasi non credano alla fine della guerra. Già all’indomani dell’accordo dell’Avana un referendum popolare bloccò l’intesa. Le elezioni del marzo del 2018 sembra abbiano confermato lo stato di insicurezza. A vincerle è stato un vecchio politico, Uribe, già durissimo Presidente della Repubblica, che ha detto quello che i colombiani volevano sentirsi dire: non diventeremo un Paese socialista. La paura nasce - e viene alimentata dalle oligarchie agricole che controllano il Paese - dalla vicinanza con il turbolento Venezuela di Maduro. L’arrivo in politica delle Farc, che con un trucco linguistico hanno mantenuto il nome, pur diventando un partito, ha fatto il resto. Il neo partito degli ex guerriglieri ha preso appena lo 0.4% dei voti. Anche in una realtà politica estremamente frazionata come quella colombiana è niente. Grazie alle norme dell’accordo di pace, però, 10 ex rivoluzionari sono entrati comunque in Parlamento, anche se non hanno superato la soglia del 3% previsto dalla legge elettorale. A non piacere a molti è il fatto che gli ex rivoluzionari andranno all’Assemblea legislativa senza passare per i Tribunali della Giustizia speciale per la Pace. Sono organismi creati per esaminare le posizioni degli ex combattenti e valutare la gravità dei reati che hanno commesso durante la guerra. I dieci deputati e senatori eletti non avranno nulla a che fare con questi Tribunali e, quindi, nulla si saprà di ciò che hanno fatto. Saranno lì, a fare opposizione. In qualche modo - dicono gli analisti internazionali - la cosa funzionerà. Saranno comunque un freno alle voglie sempre eccessive dell’oligarchia latifondista. Ma il ricordo di cinque decenni di guerra, con centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati, pesa nella memoria di chi ha subito tutto. Per di più, resta aperta la questione dei territori lasciati liberi dalle Farc, con il loro ritiro e rioccupati dai narcotrafficanti o da bande ribelli, che li hanno chiusi a chiunque. Una vicenda, questa, estremamente pericolosa. All’inizio del 2018 intere aree di confine erano sigillate. A farne le spese, a Mataje, lungo la frontiera dell’Equador, sono stati Javier Ortega, 36 anni, giornalista, Paulo Rivas, 45, fotoreporter e Efrain Segarra, 60, il loro autista. Lavoravano per il quotidiano El Comercio di Quito, capitale dell’Equador. Dovevano constatare gli effetti dell’attentato a un commissariato di polizia, assaltato da un gruppo che ha disertato dalle Farc. Sono stati catturati e uccisi. La responsabilità di quanto accaduto e della insicurezza in quelle aree viene imputata agli ex guerriglieri, che evidentemente non hanno alcuna base popolare. Ed è una stroncatura anche per il Presidente Santos, premio Nobel per la Pace alquanto incompreso a casa sua. Il suo partito - moderato - è arrivato appena al 12% terzo dietro anche ai socialdemocratici. Quello che ha fatto non è evidentemente sufficiente. Ha chiuso la guerra, ma ha lasciato aperti i troppi problemi di un Paese ancora pesantemente in mano ai latifondisti, ai narcos e alla corruzione.

TENTATIVI DI PACE - Le Farc hanno chiesto perdono a Papa Francesco L’8 settembre 2017 Papa Francesco si è recato in Colombia per un incontro con gli ex membri della guerriglia colombiana, in cui l’ex Leader della Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) ha chiesto perdono per tutti gli atti di violenza e sofferenza che lui e il suo gruppo hanno causato al popolo colombiano. Il Papa, in seguito, ha fatto tappa a Villavicencio, una delle zone più colpite dalla violenza guerrigliera, e ha chiesto alle vittime del conflitto di perdonare i propri aggressori perché senza un compromesso sincero, la riconciliazione non potrebbe funzionare. Il Pontefice si è, inoltre, dedicato ad ascoltare le testimonianze degli attori del conflitto armato, tra cui quella di Deisy Sanchez Rey, che fu reclutata dai gruppi paramilitari di autodifesa e che, attualmente, si occupa di aiutare le vittime di violenza. Alla fine dell’incontro, il papa ha piantato un albero, vicino ad una croce edificata in onore degli oltre ottomilioni di vittime del conflitto colombiano, come simbolo di riconciliazione.


È un Paese che davvero non trova pace l’Honduras. Ancora una volta, le elezioni presidenziali sono state l’occasione per un golpe messo a segno con la complicità degli Stati Uniti e degli altri Paesi del continente. Novembre 2017: si vota per la presidenza. La Costituzione vieta la rielezione del Presidente, ma l’uscente Juan Orlando Hernandez del Partido Nacional, di destra, si ricandida. Era già successo nel 2009 quando Manuel Zelaya aveva proposto al popolo di modificare l'articolo che proibiva la rielezione attraverso un referendum. Zelaya era però uomo di sinistra, di quella sinistra progressista che in quegli anni stava rilanciando il Latino America e ridistribuendo con maggiore equità ricchezza e diritti. Il referendum venne bloccato da un golpe, che costrinse Zelaya ad andarsene. Nel 2017 è stata la destra a riprovarci, in modo diverso: Hernandez nel 2015 aveva chiesto alla Corte Suprema - che controlla completamente - di cancellare la norma che impediva la ricandidatura. Missione compiuta e così si è ripresentato al voto. Nonostante questo, il 26 novembre 2017 il candidato d'opposizione, Salvador Nasralla, della coalizione Alianza de Oposición contra la Dictadura, di sinistra, era in testa nello spoglio delle schede elettorali che arrivavano da tutte le Regioni del Paese. Stranamente, però, tutto taceva, i risultati venivano tenuti nel cassetto. All’improvviso, tre giorni dopo il voto, il sistema si è misteriosamente bloccato per 24 ore. Quando si è ripreso, il vincitore è risultato Juan Orlando Hernandez. La risposta popolare è stata durissima: proteste ovunque. Altrettanto dura è stata la repressione. Per dieci giorni c’è stato il coprifuoco, tutto l'Honduras è stato obbligato a chiudersi in casa dalle 18 alle 6. La protesta, però, è continuata, con la gente che ogni notte, alle 22, dalle finestre batteva sulle pentole per gridare la rabbia e rivendicare il diritto alla democrazia. Più di trenta persone sono state uccise e ottocento arrestate. L'Oea, l'Organizzazione degli Stati Americani, osservatore elettorale, non ha riconosciuto il risultato delle elezioni, dichiarando che non possono considerarsi legittime. Inutile: il 22 dicembre il Tribunale supremo elettorale, vicino al Partido Nacional, ha dichiarato vincitore Hernandez, che il 27 gennaio 2018 ha prestato giuramento come Presidente, riconosciuto prima dagli Usa e poi da altri Paesi Sudamericani. La situazione nel Paese resta critica. I testimoni raccontano di una latente repressione del dissenso e dell’intenzione di Hernandez di instaurare un regime duraturo. “Stiamo aspettando la reazione popolare e l’atteggiamento del dittatore, che ha già annunciato un’altra vittoria per il 2022 - scrivono sui social alcuni oppositori -. Non vogliamo avanzare giudizi. I fatti sono imprevedibili. Qui, molte volte il “piombo galleggia e il tappo di sughero affonda”, accade l’incredibile.

Inoltre Honduras

Sei sacerdoti uccisi nell’ultimo anno: sono la punta dell’iceberg formato da migliaia di morti e scomparsi in quella che ormai è una vera e propria guerra interna, combattuta in Messico dai narcos fra di loro e contro gli apparati dello Stato, per il controllo del territorio. Il Messico - dicono gli osservatori - ha bisogno di uscire dalla violenza generata dai cartelli della droga e dagli squadroni paramilitari. Negli ultimi dieci anni i morti provocati da questa “guerra interna” sarebbero stati almeno 100mila. Nella maggioranza si tratta di civili. Nel 2017, sono state settanta le persone ammazzate ogni giorno, per un totale di 25.339 omicidi. È stato il più violento nella storia del Paese, superando il record stabilito nel 2011. I dati ufficiosi parlano anche di 27mila persone scomparse fra il 2016 e il 2017. Moltissimi gli stranieri che spariscono, apparentemente per ragioni legate ad estorsioni. Non lasciano tracce, come denuncia Amnesty International. Il problema è che il giro d’affari del commercio di droga ha raggiunto i 300miliardi di dollari l’anno. Il contrasto allo stesso costa il doppio, senza portare a risultati. Cifre che impoveriscono un Paese dalle immense potenzialità, sempre inespresse. A peggiorare cose e conti c’è poi la piaga della corruzione, figlia endemica del narcotraffico. Le bustarelle sono diventate uno strumento amministrativo ordinario, tanto potente da condizionare anche le sentenze penali: il 98% degli omicidi in Messico resta impunito. Una partita difficile, resa complessa anche dalla scarsa credibilità delle istituzioni. Nel luglio del 2018 i messicani voteranno per eleggere il nuovo Presidente. Dovrà sostituire Henrique Peña Nieto, apparso sei anni prima come l’uomo che avrebbe potuto varare le riforme con l’appoggio della maggioranza delle forze politiche. È stato un fallimento. Nel frattempo, sul piano internazionale, il Paese - considerato da molti un punto di riferimento per l’intera America Latina - deve fare i conti con il rinnovo del Nafta (Trattato di Libero commercio con Usa e Canada) e con le politiche del Presidente Trump, deciso a implementare il muro fra Stati Uniti e Messico. La nota positiva viene dall’economia, considerata dagli analisti stabile e con un buon andamento dei consumi interni, degli investimenti e delle esportazioni. Il deficit è fermo all’1,9% e il debito pubblico è del 47%. L’inflazione, nel 2017, è stata attorno al 6% e la crescita del PIL si è attestata al 2,1%. Il sistema bancario tiene, con un tasso di capitalizzazione elevato riserve internazionali di 173miliardi di Usd.

Inoltre Messico "Messico, la guerra fra bande provoca 70 morti al giorno".

TENTATIVI DI PACE - Piccole azioni per la pace: mura(les) senza confini Il Progetto “Walls of Connection” è stato sviluppato a livello globale da MasterPeace, un’organizzazione non-governativa presente in quarantacinque Paesi che invita ad utilizzare il proprio talento e le proprie energie per prevenire i conflitti e costruire la pace, attraverso lo sport, la musica, l’arte e il dialogo. Il progetto è nato dalla volontà di trasformare tutti i muri e le pareti che sono state costruite in giro per il mondo, per separare comunità, città e Paesi, in “mura di connessione” per la pace, l’unità, l’equità e l’integrazione di tutte le persone. Le collettività vengono invitate a partecipare insieme alla creazione

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"Troppi morti per difendere la democrazia che non c’è".


di murales sulle pareti che creano divisioni all’interno e tra le loro comunità. “Walls of Connection”, “Muros sin Fronteras” in spagnolo, ha riunito persone di diverse società in tutto il mondo e le ha aiutate a trasformare i loro quartieri in luoghi più vivaci, più piacevoli e vivibili. La creazione dei murales si è, inoltre, dimostrata un mezzo efficace per favorire la socializzazione e l’integrazione. In Messico il progetto ha portato alla creazione di vari murales a Città del Messico, nell’edizione del 2016, ed a Ciudad Juárez, nel 2017, tristemente famosa per l’alto numero di omicidi e femminicidi.

Inoltre Venezuela

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"Venezuela, una crisi alimentata da altri Paesi".

Il metro della crisi venezuelana è soprattutto nei dati dell’Unhcr, l’agenza delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi. Al gennaio 2018, veniva definito di “dimensioni enormi” l’esodo di cittadini venezuelani che, in cerca di cibo, cure mediche e prospettive di vita migliore, superavano i confini di Stato per andare nei Paesi vicini. Nella sola Colombia, si parla - a quella data - di 550mila persone. Una vera e propria fuga, una marea di esseri umani che raggiungono poi Perù, Cile, Brasile ed Equador e formata - in parte - anche da colombiani andati in Venezuela negli anni passati e ora costretti a tornare a casa. La crisi economica iniziata nel 2013 ha raggiunto picchi impensabili. L’inflazione 2018 è stimata nel 160mila per cento. Mancano cibo, generi di prima necessità, materiali da costruzione. Un Paese inchiodato, insomma, che deve affrontare la crisi economica nel pieno di uno scontro politico-sociale durissimo. Il Presidente Maduro - erede del modello sociale fondato da Hugo Chavez - ha forzato più di una volta la Costituzione. L’obiettivo è resistere agli attacchi che le vecchie oligarchie petrolifere e terriere hanno portato al Governo subito dopo la morte dell’ex leader. Forzature che hanno, però, scatenato l’opposizione internazionale e interna. Le manifestazioni dell’aprile 2017, durissime, hanno lasciato sul terreno 128 persone e conseguenze internazionali pesanti. La Corte Internazionale per i Diritti Umani, infatti, ha deciso di indagare su quanto accaduto, ipotizzando abusi verso manifestanti ed esponenti dell’opposizione. Nello specifico, il Tribunale esaminerà i casi in cui la polizia ha utilizzato una “forza eccessiva” per reprimere le manifestazioni e “i gravi abusi verso i detenuti”. Contemporaneamente, parte della comunità internazionale - guidata dagli Usa e dall’Europa - ha annunciato e applicato dure sanzioni economiche, con l’obiettivo di rovesciare il Governo. Altri Paesi, Cuba in testa, si sono schierati, invece, a fianco di Maduro, offrendo una sponda al Presidente e al progetto bolivariano-socialista del Governo. La crisi sociale rischia comunque di esplodere in vera e propria guerra interna da un giorno all’altro. Opposizione e Governo sembrano intenzionati a non mollare la presa, fra elezioni rinviate, assemblee costituenti non accettate e risultati elettorali stravolti. In mezzo ci sono appunto i venezuelani ridotti ormai alla miseria, nonostante navighino sul più consistente giacimento petrolifero del continente. Per far fronte almeno alle difficoltà e aggirare le sanzioni, il Governo ha lanciato sul mercato internazionale una criptovaluta, il 'Petro'. È una moneta digitale garantita dal petrolio. L’operazione prevede l’emissione di cento milioni di 'petro-token', ciascuno garantito da un barile di greggio, per un valore totale che nelle stime del Governo di Caracas sarà pari a 6miliardi di dollari. Tanti i dubbi sull’operazione. La reale copertura di greggio sarebbe insufficiente, perché parte del petrolio viene estratto da una joint venture e quindi non è completamente a disposizione del Governo. Inoltre, il Tesoro statunitense ha messo in chiaro che qualsiasi acquisto di 'Petro' sarà considerato alla stregua di una violazione delle sanzioni imposte da Stati Uniti ed Europa.

TENTATIVI DI PACE - La cooperazione tra imprese per l’uguaglianza di genere nel mondo del lavoro. Il 2 novembre 2017 a Caracas, l'Alleanza imprenditoriale venezuelana per la leadership femminile (Alianza Venezolana de Empresas para el Liderazgo de las Mujeres, Avem), con il suo primo forum annuale, ha aperto per la prima volta uno spazio di discussione di alto livello sulla leadership e l'empowerment delle donne nel Paese. L'evento, dal titolo “Desafíos para el liderazgo femenino en el ámbito empresarial en Venezuela” ("Le sfide per la leadership delle donne in ambito imprenditoriale in Venezuela"), è stato organizzato in collaborazione con il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp). L’obiettivo del forum è stato quello di fornire informazioni sugli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030, al fine di promuovere l’integrazione dell’Agenda e in particolare dell’Obiettivo 5 “Raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze” nelle azioni e nei piani di lavoro proposti da Avem. L’Alleanza è nata lo scorso anno con l’obiettivo di promuovere la discussione e l’adozione di politiche aziendali che favoriscano l'uguaglianza e l'emancipazione delle donne.


ASIA ELENCO DEI PAESI IN CONFLITTO Afghanistan Cina/Tibet Filippine India

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Asia

A cura di Amnesty International

Guerre e violenze: Asia in ginocchio In Iraq la coalizione internazionale a guida Usa ha concentrato i suoi sforzi nella battaglia contro il gruppo "Stato Islamico". Nella battaglia di Mosul le forze irachene e della coalizione hanno lanciato una serie di attacchi indiscriminati che hanno causato centinaia di morti tra i civili. Il gruppo "Stato Islamico" ha sfollato con la forza migliaia di civili, usandoli come scudi umani e uccidendo chi tentava lasciare la città. Il conflitto armato in corso nello Yemen dal 2015 tra una coalizione a guida saudita e le forze ribelli huthi ha dato luogo alla peggiore crisi umanitaria del mondo. La coalizione, anche grazie a forniture di armi da Paesi Occidentali, Italia inclusa, ha bombardato centri abitati e infrastrutture civili provocando oltre 5mila vittime civili. Il conflitto ha devastato il sistema idrico, quello scolastico e quello sanitario. Le forze ribelli huthi hanno bombardato la città di Ta’iz e lanciato attacchi con artiglieria pesante oltre il confine con l’Arabia Saudita. Le Nazioni Unite hanno documentato che all’incirca 2mila donne e bambini yazidi erano ancora prigionieri del gruppo "Stato Islamico", ridotti in schiavitù

e regolarmente sottoposti a stupri, percosse e altre forme di tortura. Il 2017 è stato caratterizzato da crimini contro l’umanità commessi dall’esercito di Myanmar contro la minoranza rohingya: i militari hanno bruciato interi villaggi, ucciso adulti e bambini e stuprato donne e ragazze. Più di 655mila rohingya sono fuggiti in Bangladesh. La situazione in Afghanistan ha continuato a deteriorarsi, il controllo sul territorio da parte dei talebani non è mai stato così forte dal 2001 a oggi. Ciò non ha impedito ai Paesi europei di proseguire a rimpatriare migliaia di richiedenti asilo afgani. L’illegalità e la violenza sono aumentate ulteriormente nelle Filippine. La “guerra alla droga” del Presidente Duterte ha portato a uccisioni di massa, soprattutto di persone appartenenti a gruppi poveri ed emarginati, inclusi minori. Una battaglia durata cinque mesi tra l’esercito e un’alleanza di milizie collegate al gruppo "Stato Islamico" a Marawi ha causato lo sfollamento di centinaia di migliaia di civili, decine di morti e la distruzione di case e infrastrutture. La repressione del dissenso è stata ovunque sistematica: dal giro di vite senza precedenti contro la libertà d’espressione in Cina, all’intolleranza del dissenso in Cambogia e Thailandia e nelle Repubbliche asiatiche dell’ex Urss, in molti Paesi lo spazio a disposizione della società civile si è assai ridotto. Nel 2017 la Turchia ha continuato ad accanirsi contro decine di migliaia di persone percepite come critiche verso il Governo. Circa 150 giornalisti sono rimasti a languire in prigio-


ne con accuse pretestuose. A giugno è stato arrestato Taner Kılıç, Presidente di Amnesty International Turchia. A luglio, altri 10 difensori dei diritti umani, tra cui İdil Eser, direttrice della stessa associazione, sono stati arrestati mentre partecipavano a un seminario. Alla fine dell’anno tutti erano sotto processo per inesistenti “reati di terrorismo”, col rischio di subire condanne fino a 15 anni di reclusione. In Iran, le autorità hanno incarcerato decine di persone che avevano espresso pacificamente opinioni critiche, tra cui attivisti per i diritti delle donne e delle minoranze, ambientalisti, sindacalisti, avvocati e altri che cercavano di ottenere verità, giustizia e riparazione per le esecuzioni di massa avvenute nel corso degli anni Ottanta. In Bahrein, il Governo ha arrestato difensori dei diritti umani e oppositori e ha sottoposto altri a divieti di viaggio o revocato loro la nazionalità, ha sciolto il quotidiano indipendente al-Wasat e il partito politico d’opposizione Waad ed è ri-

corso all’uso non necessario ed eccessivo della forza per disperdere le manifestazioni in varie località del Paese. I cittadini della Corea del Nord hanno continuato a subire gravi violazioni dei diritti umani, equivalenti a crimini contro l’umanità. Fino a 120mila persone hanno continuato a essere detenute nei campi di prigionia politica e sottoposte a lavoro forzato, tortura e altri maltrattamenti. Le autorità del Bangladesh e del Pakistan non sono state in grado di proteggere giornalisti, blogger, società civile e attivisti, che hanno subìto costanti vessazioni, intimidazioni, minacce, campagne diffamatorie e attacchi da parte di attori non statali. La Cina è rimasta il primo Paese al mondo per numero di esecuzioni, nonostante i dati sulla pena capitale abbiano continuato a essere classificati come segreti di stato, seguita da Iran, Iraq e Arabia Saudita. La Mongolia è diventata il 105° Paese al mondo ad abolire la pena di morte per tutti i reati.

A cura di Giovanni Scotto

Le conseguenze inattese dell’incertezza La presidenza Trump ha inaugurato un periodo di profonda incertezza a livello globale, nei contenuti delle politiche del nuovo inquilino della Casa Bianca, ma anche nel modo caotico e imprevedibile in cui sembra muoversi. In Asia, questa nuova fase nella politica estera statunitense ha prodotto alcune rilevanti novità. La più importante è stata senz’altro l’avvicinamento tra le due Coree, prima con gli incontri informali nel corso delle Olimpiadi invernali, poi con l’incontro tra i leader del Sud e del Nord a Panmunjon che ha prodotto notevoli risultati diplomatici, con la prospettiva della fine del

programma nucleare di Pjongjang e l’obiettivo finale di un trattato di pace tra i due Paesi, ancora tecnicamente in guerra. A maggio si è anche tenuto un incontro trilaterale tra rappresentanti di Cina, Corea del Sud e Giappone. In questo caso i contenuti diplomatici sono meno appariscenti: tuttavia è chiara l’intenzione di questi Paesi di perseguire una politica di buon vicinato nel momento in cui il grande rivale di Pechino - e alleato di Giappone e Corea del Sud - sta attuando comportamenti e decisioni imprevedibili.


Il conflitto e l’Italia

112

A un costo annuo di quasi 2 milioni di euro al giorno, il contingente italiano autorizzato dal Parlamento per la missione in Afghanistan è di circa 4.200 uomini dislocati soprattutto nell’area occidentale dove l’Italia ha il comando del Regional Command West (RC-W), un’ampia regione (grande quanto il Nord Italia) che comprende le quattro province di Herat, Badghis, Ghowr e Farah. Oltre quaranta soldati italiani sono morti in Afghanistan. Nel 2012 dovrebbe iniziare un primo ritiro dall’unico teatro internazionale per il quale Roma non ha deciso riduzione di fondi e di personale. Scarso resta l’impegno nella ricostruzione civile, sbandierato a parole che poco finanziato nei fatti

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL’AFGHANISTAN RIFUGIATI

2.501.445

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI PAKISTAN

1.352.160

IRAN

951.142

GERMANIA

46.292

SFOLLATI PRESENTI IN AFGHANISTAN 1.797.551 RIFUGIATI ACCOLTI IN AFGHANISTAN RIFUGIATI

59.771

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI PAKISTAN

59.737 -


Sempre più vittime civili

Unama è la missione delle Nazioni Unite a Kabul. Il suo ruolo è in realtà abbastanza secondario e molto dipende da chi ne è a capo. Non di meno svolge, tra l’altro, un lavoro fondamentale: stila ogni anno un rapporto sulle vittime civili, documento fondamentale per capire come sta andando una guerra non più sotto i riflettori ma in realtà sempre più portatrice di morte. Nel 2009, nel periodo gennaio settembre le vittime erano state 4.732 (1.918 morti e 2.814 feriti). Tra gennaio e settembre 2017 il bilancio era già di 8.019 (2.640 morti e 5.379 feriti) e cioè quasi a pari con le vittime dello stesso periodo nel 2014 (8.034). Ogni anno dunque morti e feriti aumentano rispetto a quello appena trascorso.

UNHCR / J. Tanner

Il 2018 è iniziato con due attacchi violentissimi in gennaio nella capitale rivendicati dai talebani: il primo all’Hotel Intercontinental, residenza di molti stranieri in visita, che si è concluso dopo 15 ore di assedio con un bilancio di 22 morti. Il secondo, l’esplosione di un’ambulanza che portava esplosivo e che ha ucciso oltre 100 persone nel pieno centro della città. Questi fatti sembrano segnare un’escalation già iniziata con numerosi attacchi stragisti nel 2017, la maggior parte dei quali era però stata rivendicata dal sedicente Stato Islamico (in agosto, 77 vittime in due attentati a moschee sciite a Kabul ed Herat; in ottobre 67 vittime in due attentati a moschee sciite a Kabul e nella Provincia di Ghor; in dicembre 41 morti in un attentato a un centro culturale sciita nella capitale), la cui presenza in Afghanistan data ormai da anni anche se la sua forza militare è ostacolata non solo da esercito afgano e alleati ma dagli stessi talebani. L’incidente più grave del 2017 (150 morti) è avvenuto nella capitale ma non è stato invece mai rivendicato. L’aumento degli attentati e soprattutto l’aumento delle vittime civili sembra indicare una rincorsa tra i gruppi guerriglieri per dimostrare qual è il più forte ma le stragi vengono messe in relazione anche con motivazioni diverse: da una parte la messa in mora del Pakistan da parte dell’amministrazione Trump, che ha usato parole durissime contro Islamabad e ha cancellato due terzi degli aiuti finanziari alla Difesa del Paese dei Puri. Dall’altra potrebbe trattarsi di una dimostrazione di forza (in pieno inverno e cioè non nel momento più propizio ai combattimenti per via di freddo e neve) proprio per rispondere alla nuova strategia americana delineata da Trump nel 2017. Trump, favorevole al ritiro dei soldati Usa in campagna elettorale, ha invece aumentato il loro numero (portandolo da 11 a 15mila unità), dato luce verde a maggiori attività di bombardamento da parte della Cia (che prima era autorizzata a farlo solo in Pakistan), richiesto un aumento delle truppe Nato e aumentato i raid aerei che, secondo dati del Pentagono, nel 2017 sono più che triplicati rispetto agli anni precedenti. Nel febbraio 2017 i talebani hanno scritto una lettera aperta ai cittadini americani proponendo colloqui a due con gli Usa. A se-

AFGHANISTAN

Generalità Nome completo:

Repubblica Islamica dell’Afghanistan

Bandiera

113

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Il pashto e il persiano (dari) sono le lingue ufficiali. C’è inoltre una grande varietà di lingue, la maggior parte di origine persiana o altaica: hazaragi, turcomanno, uzbeco, aimaq e altri

Capitale:

Kabul

Popolazione:

29.820.000

Area:

652.090 Kmq

Religioni:

Musulmana (99%) (74% sunnita, 15% sciita e 10% altro).

Moneta:

Nuovo Afghani

Principali esportazioni:

Smeraldi, uranio, altri minerali, oppio

PIL pro capite:

Us 1.055

guito della lettera - che ha però visto un rifiuto dell’Amministrazione - il Governo afgano ha fatto alla guerriglia aperture senza precedenti riconoscendole un ruolo politico, concedendo l’apertura di un loro ufficio a Kabul, e proponendo colloqui diretti interafgani.


È una domanda che molto spesso è stata rivolta dall’opinione pubblica ai Governi dei Paesi impegnati in una guerra afgana (l’ultima in ordine di tempo) che ha ormai superato tre lustri e nata come una sorta di vendetta statunitense dopo l’11 settembre 2001. Alcuni analisti hanno proposto la chiave delle risorse, ma l’Afghanistan non ha petrolio e riserve limitate di gas e può essere bypassato da oleodotti e gasdotti che provengono da altrove. Possiede un immenso giacimento di minerali già noto ai sovietici dal rame al carbone - che resta però di difficile estrazione benché, negli ultimi anni, questo mercato sia in espansione e tenuto sotto controllo soprattutto dalla Cina. La chiave geopolitica continua a reggere (territorio di “profondità

strategica” per il Pakistan in caso di guerra con l’India, snodo tra Asia centrale, Medio Oriente e Subcontinente indiano) ma molte altre se ne aggiungono: quella ad esempio secondo cui gli americani, il vero dominus della politica afgana, non intendano mollare il controllo sulle basi aeree afgane per poter controllare l’Iran e il confine Sud dell’ex Urss. Karzai si era opposto all’accordo sulle basi poi accettato dal Governo Ghani-Abdullah. Non di meno il desiderio di pace è fortissimo tra gli afgani e un negoziato - per ora in stallo - potrebbe, dopo tanti anni, trovare terreno fertile anche se attualmente i segnali restano negativi. L’Italia nel 2017 era, con 1000 soldati, il secondo contingente Nato più numeroso.

Per cosa si combatte

Il lavoro di Save the Children

Save the Children è una delle tante organizzazioni non governative che ancora lavorano in Afghanistan, utilizzando sia staff locale sia personale internazionale. Si occupa in particolare, come recita il suo logo, di infanzia. Uno dei suoi uffici - quello nella città orientale di Jalalabad - è stato attaccato agli inizi del 2018 da guerriglieri che hanno rivendicato l’azione attraverso i canali informativi del sedicente Stato islamico. Mentre sono rari i casi in cui le Ong internazionali sono state attaccate dai talebani, figurano invece negli obiettivi strategici del sedicente Stato islamico.

114

UNHCR/R.Arnold

L’ultima guerra afgana iniziata dopo l’attacco alle Torri gemelle di New York nel 2001 ha conosciuto alti e bassi e un diverso tasso di intensità ma è ancora in corso e sta anzi conoscendo una escalation militare che si traduce, ogni anno, in un costante aumento delle vittime civili. Il piccolo Paese chiamato anche il “crocevia dell’Asia” è praticamente il centro di un conflitto locale, regionale e internazionale dall’invasione sovietica del 1979 conclusasi dieci anni dopo, nel 1989, e diventata il manifesto dell’ultimo grande conflitto della Guerra fredda tra Usa e Urss in un Paese che, nell’Ottocento, era stato il centro del Grande Gioco (Great Game) tra Russia zarista e Impero britannico per il controllo dell’Asia Centrale e dei valichi che portano nel Subcontinente indiano. Da ormai più di 17 anni l’ultimo conflitto vede contrapposto il Governo di Kabul e il movimento dei talebani, di ispirazione islamica e fedeli alla scuola di pensiero deobandi, un gruppo guidato da mullah Omar e, attualmente, da mullah Akhundzada. Il movimento talebano, di ispirazione nazionalista e che combatte per l’istituzione di un emirato islamico, è in parte sostenuto dal Pakistan e finanziato da attori molto diversi e variabili: dai pachistani agli iraniani, dai cinesi ai sauditi. Il Governo di

Kabul, retto dal Presidente Ashraf Ghani, è invece appoggiato dagli Stati Uniti, presenti nel Paese con circa 15mila soldati, e dalla Nato che, oltre a parte del contingente americano (6.941 soldati), ha una forza di 13.576 uomini (maggio 2017), inquadrati dal 2015 nella missione Resolute support che ha sostituito la missione Isaf, conclusasi nel 2014. Il Governo afgano, nato da contestate elezioni nel 2014, può contare su

Quadro generale

UNHCR/R.Arnold


TENTATIVI DI PACE

La lotta contro la violenza alle donne

Tutte le Regioni dell’Afghanistan sono teatro di continue violazioni di diritti umani fondamentali delle donne, che includono la prostituzione coatta, i matrimoni precoci e forzati e i delitti d’onore. Questi esempi dimostrano che la legittimazione di tali atti non avviene solo all’interno delle mura domestiche, ma anche nel contesto sociale esterno ad esse. #Maipiùsole è una campagna di crowdfunding, avviata dalla Cisda Onlus, che mira a lottare contro la violenza sulle donne, tentando di promuovere il loro empowerment sociale, economico e legale, la diffusione dei diritti umani attraverso l’educazione alla legalità e il rafforzamento del sistema di giustizia. Il progetto, che prevede la prosecuzione delle attività del centro legale di Jalalabad, si prefigge di fornire gratuitamente assistenza legale, psicologica e sanitaria e, parallelamente, dare vita a corsi di formazione in materia di diritti umani che consistono in tirocini per i giovani laureati, o nella formazione degli studenti di giurisprudenza.

Atta Muhammad Nur (Mazar-i Sharif, 1964)

UNHCR/R. Arnold

115

Il manifesto del grado di pericolosa litigiosità nel Governo afgano è una vicenda che da mesi oppone la presidenza al Governatorato di Balkh. In Afghanistan i governatori provinciali non sono eletti ma scelti direttamente dal Presidente Ghani in accordo non sempre facilissimo col capo dell’esecutivo Abdullah Abdullah. Ad un certo momento Ghani ha deciso la destituzione del governatore di Balkh, Atta Mohammad Noor del Jamiat-e Islami, che ha rifiutato di lasciare il suo posto e che intenderebbe candidarsi alle prossime elezioni. Atta, considerato uno degli uomini più ricchi e potenti dell’Afghanistan e che è sostenuto da una milizia privata, è un vecchio combattente mujahedin dell’epoca della guerra contro Mosca ed è un buon alleato dell’ex generale Dostum, leader uzbeco che - proprio per limitarne il potere personale - è stato esiliato in Turchia dal Governo. Atta Mohammad Noor, che gode di un certo consenso a Balkh, è l’esempio classico del “signore della guerra” che non intende prendere ordini da nessuno.

una forza di circa 175mila soldati inquadrati nel Afghan National Army (Ana) e circa 150mila uomini nelle forze di polizia. Il budget delle forze armate è garantito da fondi internazionali. Il livello di scontro tra guerriglia, forze di sicurezza e alleati Nato è elevato in quasi tutte le aree del Paese ma soprattutto nell’area Sudorientale e, più recentemente, anche nel Nord. La guerriglia è attiva soprattutto nelle campagne e, secondo un’inchiesta della Bbc, vedrebbe i talebani controllare completamente solo il 3% del territorio (contro il 30% dell’esercito) che avrebbero comunque una notevole influenza in vaste aree del Paese dove la presenza militare governativa resta sotto schiaffo. A partire dal 2015 si è iniziata a far sentire anche la presenza del sedicente Stato islamico che vorrebbe fare dell’Afghanistan una parte del progetto del “Grande Khorasan”, un’area amministrativa che dovrebbe comprendere anche parti dell’Iran e del Pakistan. Il sedicente Stato islamico - come anche i talebani - è presente soprattutto con

I PROTAGONISTI

attentati stragisti nelle città (soprattutto contro la comunità sciita) ma non è in grado di controllare se non una minima parte del territorio. Il 13 aprile del 2017 gli Stati Uniti hanno sganciato una bomba da 11 tonnellate di esplosivo, la Gbu-43/B, o Moab - “mother of all bombs”-, nella Provincia del Nangarhar proprio per colpire i santuari del sedicente Stato islamico. Un ulteriore elemento di destabilizzazione si deve al rientro forzato dall’Europa e dal Pakistan di migranti e richiedenti asilo rimpatriati spesso obtorto collo. Dal punto di vista del negoziato di pace le bocce sono completamente ferme. I talebani continuano a ribadire che non negozieranno finché le truppe straniere resteranno in Afghanistan e continuano a rifiutare le proposte di pace avanzate dall’Alto consiglio di pace, istituito dal Governo. Il Presidente Trump, nel gennaio del 2018, dopo i grandi attentati avvenuti a Kabul, ha detto che gli americani non intendono più negoziare con la guerriglia anche se il Governo, pur usando toni duri, ha lasciato aperto uno spiraglio. I talebani hanno un ufficio politico a Doha, in Qatar, e sono stati invitati da 200 religiosi afgani ad aprirne uno anche a Kabul.


116

La zona della Cina indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione del Tibet a cui questa scheda è dedicata.

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL TIBET RIFUGIATI

13.534

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI NEPAL

13.509 -

SFOLLATI PRESENTI IN TIBET RIFUGIATI ACCOLTI IN TIBET RIFUGIATI

-

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI -


L'Europa si schiera con il Tibet

Lo scorso 18 gennaio il Parlamento europeo, riunito in seduta plenaria a Strasburgo, ha approvato a maggioranza una risoluzione che esorta la Cina a rispettare i diritti costituzionali dei tibetani. Il testo fa particolare riferimento al caso di Tashi Wangchuck, attivista per i diritti civili che rischia una condanna a 15 anni carcere con l'accusa di separatismo per essersi fatto promotore dell'utilizzo della lingua tibetana. Altra menzione è quella del monaco Choeky, incarcerato nel 2015 per aver reso omaggio al Dalai Lama nel giorno del compleanno della guida spirituale tibetana. Per entrambi viene chiesta la scarcerazione immediata.

La Cina continua a non allentare la presa sul Tibet occupato nel 1950. La concomitanza del 19esimo congresso del Partito comunista cinese nell'ottobre 2017 è stata occasione per stringere ulteriormente i controlli sulla Regione autonoma, chiusa ai turisti cinesi durante i giorni dei lavori del conclave rosso che ha cementato il potere e il ruolo del Presidente Xi Jinping, salito al Governo nel 2012. Negli ultimi anni comunque la questione tibetana sembra essere passata in secondo piano nella gestione delle periferie rispetto alle tensioni nello Xinjiang, allo sviluppo di un movimento “localista” e filo indipendentista a Hong Kong e al cambio di Governo a Taiwan, non più sotto la guida dei nazionalisti che dal 2008 si erano riavvicinati alla Repubblica popolare, ma dai progressisti democratici su posizioni autonomiste. Nel mese di aprile ad alzare la tensione ha contribuito la visita a Tawang del XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, fuggito dal Tibet nel 1959 dopo il fallimento della rivolta armata contro le forze militari cinesi. Tawang si trova nell'Arunachal Pradesh, un'area contesa con l'India che la Cina considera un'estensione del Tibet. Lo stesso Dalai Lama ha dovuto smentire il sospetto cinese che la visita sia stata in realtà una forma di pressione diplomatica indiana su Pechino. Il Governo di Delhi ha comunque cercato di non innervosire ulteriormente la dirigenza cinese. Tant'è che una circolare dei primi dell'anno, secondo quanto riferito dalla stampa locale, avrebbe intimato ai funzionari governativi di non partecipare ad appuntamenti pubblici che prevedono la presenza del leader spirituale tibetano. Il Governo cinese ha inoltre accentuato la pressione sui grandi marchi globali. A gennaio la catena di hotel Marriott è stata costretta a scusarsi per aver inserito in un modulo il Tibet e Taiwan come stati indipendenti. Lo stesso ha dovuto fare Mercedes Benz, per aver citato una frase del Dalai Lama in uno spot. Intanto la resistenza tibetana continua sotto forma di autoimmolazioni. Dal 2009 sono già 153 i tibetani che hanno

CINA TIBET

Generalità Nome completo: Bandiera

Lingue principali:

Cinese mandarino

Capitale:

Pechino

Popolazione:

1.353.000.000

Area:

9.596.960 Kmq

Religioni:

Confuciana, taoista, buddista (95%), cristiana (3,5%), musulmana (1,5%)

Moneta:

Renminbi

Principali esportazioni:

Praticamente tutto nel manifatturiero, più frumento, riso, patate

PIL pro capite:

Us 9.055

Generalità Nome completo:

Tibet

Bandiera

Lingue principali:

Tibetano, Cinese

Capitale:

Lhasa

Popolazione:

3.030.000

Area:

1.228.400 Kmq

Religioni:

Buddista, altre

Moneta:

Renminbi

Principali esportazioni:

Prodotti agricoli e dell'allevamento, piccola manifattura

PIL pro capite:

Us 948

Repubblica Popolare Cinese

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

scelto di darsi fuoco per protesta contro l'occupazione cinese e per chiedere il ritorno del Dalai Lama dall'esilio in India. Quanto al leader spirituale, nel tentativo di non irritare Pechino, che lo considera un pericoloso separatista, continua a rimarcare la richiesta di autonomia e non di indipendenza dalla Repubblica popolare. Lo scorso marzo Tenzin Gyatso ha avanzato l'idea di forma nelle relazioni tra Lhasa e Pechino che ricalchi almeno nello spirito quello dell'Unione Europea.


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Strategia militare e interessi economici: in questi due punti la chiave per leggere lo scontro fra Cina e Tibet che dura ormai da diversi decenni. Pechino infatti considera vitale il presidio della frontiera con l’India, Paese da sempre considerato rivale. In Tibet, poi, ci sono importanti risorse minerarie e immense riserve d’acqua, quelle che vengono dai tanti fiumi della Regione. Pechino ha sempre voluto il controllo di quell’area e la rivendica come un’appartenenza storica. Questa esigenza cinese si scontra naturalmente con la voglia di indipendenza dei tibetani, che forti di una cultura politico-religiosa radicata con forti legami con una tradizione secolare,

rivendicano il loro diritto ad essere uno Stato libero e autonomo. La scelta del Dalai Lama di trovare una soluzione attraverso il dialogo - e la stessa richiesta di autonomia anziché di indipendenza - non convince tutti i tibetani. L’ala più radicale del movimento indipendentista chiede all’opinione pubblica mondiale un intervento più duro nei confronti della Cina, da loro considerata, a tutti gli effetti, un Paese occupante. La tensione si riflette sulla politica internazionale degli stati nei confronti della questione tibetana che, per i cinesi, semplicemente non esiste. Sollevarla, dagli anni Cinquanta del secolo scorso in avanti, significa entrare in urto con Pechino.

Per cosa si combatte

Troppo grande la Cina, in ogni senso, per essere sfidata. Troppo potente militarmente, economicamente, per essere davvero infastidita. Così la visione internazionale della questione Tibet rimane la stessa da sempre: è un problema interno. È esattamente ciò che le cancellerie mondiali hanno pensato la mattina del 7 ottobre del 1950, leggendo sulle agenzie stampa o sui dispacci dei servizi segreti che quarantamila soldati dell’Esercito cinese avevano attraversato il fiume Yangtze e occupato tutto il Tibet Orientale e il Kham - che ora è parte di tre Province cinesi - uccidendo ottomila soldati tibetani male armati. Solo sette giorni dopo l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso diventò sovrano del Tibet. Il cuore della controversa questione tibetana è tutto in una frase: è un problema interno. Nessun Paese Occidentale ha mai riconosciuto il Tibet come uno stato sovrano indipendente. Quindi, in punta di diritto internazionale, Pechino ha ragione nel definire la questione un “problema interno”. I cinesi - coerenti con questa visione - avevano pianificato tutto. Soprattutto avevano saputo cogliere il momento adatto. Il mondo guardava solo alla guerra in Corea, scoppiata all’alba di domenica 25 giugno 1950, con un attacco della Corea del Nord di Kim Il Sung

alla Corea del Sud. Gli Stati Uniti intervennero militarmente, subito, chiedendo e ottenendo l’ombrello politico delle Nazioni Unite. In questo clima, l’attacco al Tibet, passò in secondo piano. Formalmente il Tibet era in una posizione di stallo, nata dall’abbandono dell’India da parte della Gran Bretagna nel 1947. Storicamente, la Regione era stata a lungo indipendente, poi era caduta sotto l’influenza della Cina imperiale, prima di essere messa sotto tiro dalla Russia zarista e dal Regno Unito, che intervenne militarmente nel 1904. Da sempre, però, cultura e autonomia politica erano rimaste salde, tanto da definire una identità nazionale, che aveva nel Dalai Lama un Capo di Governo e spirituale. La Cina aveva annunciato l’attacco. Mao, al potere dal 1949, aveva più volte spiegato che voleva una Cina riunita in tutti i suoi territori e questo significava anche il Tibet. Il 1° gennaio 1950 Radio Pechino annunciò che presto il Tibet sarebbe stato liberato dal giogo straniero. Così, l’occupazione avvenne senza quasi proteste, messa ulteriormente in secondo piano dal fatto che i cinesi il 19 ottobre del 1950 intervennero pesantemente nella guerra di Corea appoggiando il Nord con milioni di uomini e mettendo in grave difficoltà gli Stati Uniti. Il 23 maggio 1951

Quadro generale

Dieci anni dopo le Olimpiadi

Nel 2018 cade il decimo anniversario della rivolta che nel 2008 portò nuovamente la causa tibetana all'attenzione del mondo, nell'anno in cui la Cina era intenzionata a celebrare la propria ascesa globale con le Olimpiadi di Pechino. Le manifestazioni non interessarono soltanto il Tibet propriamente detto e le Regioni più ampie della cultura tibetana, ma provarono a disturbare il passaggio della fiaccola olimpica in giro per il mondo. Secondo le stime dell'amministrazione centrale tibetana almeno 227 tibetani morirono nella rivolta, di questi 107 per ferite d'arma da fuoco. Gli arresti furono almeno 7mila e 510 le condanne, spesso senza un regolare processo.

I mastini tibetani come status symbol A suo modo la parabola dei mastini tibetani, raccontata anche dalla stessa stampa cinese, è un simbolo dell'approccio cinese al Tibet. I do-khy, cani molossoidi sono diventati uno status symbol per la nuova borghesia cinese, tanto da diventare oggetto di una sorta di bolla speculativa. Da cane pastore a mite animale da cortile. E non sono mancati incroci con altre razze, come i terranova o i sanbernardo, per alimentare il mercato. Una moda che racconta come i cinesi stiano poco a poco uccidendo la diversità culturale tibetana, appiattendo tutto ai modelli in voga nelle grandi città della Cina continentale.


TENTATIVI DI PACE

Ora tocca alle donne tibetane

Ilham Tohti

Per “dare forma compiuta alla visione del Dalai Lama, che configura il contributo attivo delle donne tibetane alla leadership globale del XXI secolo”, lo scorso anno, il Kashag, il Governo tibetano in esilio, ha convocato la Prima Conferenza sull’Empowerment delle donne tibetane. La Conferenza si è tenuta a Dharamsala dal 21 al 23 febbraio 2017 ed ha visto la partecipazione di circa trecento donne e uomini provenienti dall’ambiente sociale, politico e religioso. Durante i tre giorni di incontri è stata presentata la revisione della politica sull’empowerment delle donne, istituita nel 2008 e aggiornata in sette punti (donne e diritti umani, educazione, salute, economia, governance e leadership, società, violenza di genere e sessuale), al fine di garantire la piena partecipazione e il contributo delle donne nella società tibetana. Il lavoro di revisione è stato affidato ad una commissione composta quasi interamente da donne selezionate tra gli alti funzionari dell’Amministrazione Centrale Tibetana e la nuova politica è stata adottata in seguito a consultazioni e delibere con donne di ogni ceto sociale.

Lobsang Sangay è il primo Ministro e capo del Governo tibetano in esilio a Dharamsala, in India, sede ormai ufficiale del Governo tibetano in esilio e che in quella località del Nord dell’India ha eletto domicilio. A marzo 2016 Lobsang Sangay è stato eletto per un secondo mandato di cinque anni, dopo le prime elezioni nel 2011, quando prese il ruolo di leader politico tibetano, lasciando al Dalai Lama quello diß guida spirituale. Nato nel 1968 in un campo profughi, è stato il primo non religioso ad arrivare al vertice del Governo tibetano nella sua storia nazionale e come diaspora all’estero. L'elezione è stata rivendicata come una prova di democrazia contrapposta all'autoritarismo cinese. Educato ad Harvard, docente di diritto, Sangay si è più volte espresso per riaprire il dialogo con i cinesi e per arrivare all'autonomia del Tibet. La rielezione due anni fa ha però lasciato alcuni strascichi polemici, che nascondono una lotta di potere tra le varie anime della comunità, che stanno costando a Sangya accuse di centralizzazione del potere e di atteggiamenti narcisisti.

119

(Darjeeling, India, 5 settembre 1968)

il Dalai Lama firmò il “Trattato di liberazione pacifica” e diventò vice Presidente del comitato permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Il documento permise alla Cina di iniziare la colonizzazione del Tibet. Prima militarizzandolo, poi spingendo i cinesi ad andare nella nuova Regione. Il Tibet intanto rinunciava ad avere una politica estera autonoma, a batter moneta, a stampare francobolli. Le terre venivano ridistribuite, soprattutto nelle zone del Kham Orientale e nell’Amdo, per non rompere i rapporti con l’aristocrazia. Da quel momento fu tutto un susseguirsi di ribellioni, avvicinamenti pacifici e rotture, spesso alimentate dall’esterno, da altri Paesi. Nel 1959 la prima grande rivolta. Il 10 marzo 1959 il movimento di resistenza tibetano guidò una protesta contro i cinesi. Per reprimerla, Pechino schierò 150mila uomini e unità aeree. Morirono in migliaia nelle strade di Lhasa e in altre città. Il 17 marzo, il Dalai Lama abbandonò la capitale e chiese asilo politico in India, assieme ad almeno 80mila

I PROTAGONISTI

profughi. I morti furono 65mila. Nel 1965 il Tibet venne dichiarato Regione Autonoma, con una annessione di fatto alla Cina. Nel 1968 la Rivoluzione Culturale portò alla distruzione dei monasteri, almeno 6mila, e all’uccisione di molti monaci. La resistenza tibetana però non mollava. Nel 1977 e nel 1980 vi furono altre due sollevazioni, anche queste represse duramente da Pechino. Dal 1976, Pechino ha riavviato l’opera di colonizzazione, tanto che in Tibet sono arrivati 7milioni di cinesi, contro i 6milioni di tibetani che ci vivono. L’obiettivo di Pechino, denuncia la resistenza, è cancellare la cultura e l’identità tibetane. Il Dalai Lama ha nel frattempo tentato la via della mediazione, rinunciando a reclamare l’indipendenza, puntando all’autodeterminazione per salvare la cultura del Paese e salvaguardare i diritti umani. Una mediazione proposta nel 1987 tramite gli Stati Uniti è fallita. E come sempre, dopo ogni fallimento, sono ricominciati gli scontri, diventati protesta internazionale a partire dalle Olimpiadi a Pechino nel 2008 e, dal 2009, autoimmolazioni di giovani monaci. Nel 2012 il capo del Governo tibetano in esilio, Lobsan Sangay, ha definito quei gesti “autodistruzione”.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLE FILIPPINE RIFUGIATI

434

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SFOLLATI PRESENTI NELLE FILIPPINE 87.418 RIFUGIATI ACCOLTI NELLE FILIPPINE RIFUGIATI

408

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI -


Due donne nel mirino

Due donne, impegnate in politica e nella magistratura, hanno stigmatizzato le politiche del Presidente Duterte, irrispettose dei diritti umani, e hanno pagato a caro prezzo il loro coraggio nel difendere lo stato di diritto. La senatrice Leila de Lima è stata arrestata il 23 febbraio 2017 con l’accusa di narcotraffico, e rischia una pena che può arrivare all’ergastolo. Nell’agosto del 2016 Leila De Lima aveva denunciato le responsabilità istituzionali delle uccisioni di massa promosse già oltre 10 anni fa nella città di Davao dall'allora sindaco Duterte. Ora, secondo i legali, è stata incastrata con prove costruite ed è in carcere da innocente. Accanto a lei Maria Lourdes Sereno, prima donna a capo della Corte Suprema del Paese e invisa al Presidente filippino, ora affronta un impeachment secondo lei motivato politicamente: “Rassegnandomi - ha detto - incoraggerei quanti vogliono una magistratura sottomessa”.

Nelle Filippine del Sud vige la legge marziale: a dicembre 2017 il Congresso ne ha approvato l’estensione, nella Regione di Mindanao, fino alla fine del 2018, come richiesto dal Presidente Rodrigo Duterte. La legge marziale era stata dichiarata il 23 maggio 2017, giorno in cui il gruppo "Maute", affiliato al cosidetto Stato Islamico aveva preso con le armi la città di Marawi nel Nord dell’isola di Mindanao. Il periodo iniziale di legge marziale, limitato a 60 giorni come previsto dalla Costituzione del Paese, è stato prorogato prima fino alla fine del 2017, poi per tutto l'anno successivo. Le Forze armate filippine hanno liberato la città di Marawi dopo cinque mesi di assedio, che ha fatto più di 1100 morti e provocato un’estesa distruzione nella città che, prima del conflitto, aveva una popolazione di circa 200mila abitanti, tutti sfollati da ricollocare. L’attacco a Marawi ha messo a nudo le falle nell’intelligence filippina, su un’isola da anni fortemente militarizzata. L’azione dei terroristi, infatti, è stata pianificata nei minimi dettagli, ammassando munizioni e viveri per una lunga resistenza, perfino scavando cunicoli sotterranei. Dopo tale clamoroso scacco, il Governo ha promosso l’estensione della legge marziale, sostenendo che la situazione di crisi non è finita e che l'esercito ha bisogno di tempo per debellare i gruppi militanti terroristi. Occorre una piena inclusione delle comunità islamiche nella società filippina, strappandole al circolo vizioso dell’emarginazione e della povertà, che le consegnano nelle mani dei jihadisti. In questo momento storico un passo determinante può essere l’approvazione della Bangsamoro Basic Law, la legge che istituisce una nuova Regione autonoma musulmana. Il Congresso filippino è chiamato a riesaminarla, dopo la bocciatura subita in passato, nell’ultimo tratto della presidenza di Benigno Aquino jr, a dicembre del 2015. Da allora la pace a Mindanao è sembrata allontanarsi e il tessuto sociale sfibrarsi. Dopo la liberazione di Marawi è iniziata una sorta di “battaglia delle idee” nelle Filippine del Sud: estremismo violento contro la costruzione della

FILIPPINE

Generalità Nome completo:

Repubblica delle Filippine

Bandiera

121

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Tagalog, inglese

Capitale:

Manila

Popolazione:

101.000.000 (censimento 2015)

Area:

300.000 Kmq

Religioni:

Cattolicesimo (80%), protestantesimo (10%), islam (6%), buddisti (1%), altre (3%)

Moneta:

Peso Filippino

Principali esportazioni:

Circuiti elettronici, computer, carpenteria in legno

PIL pro capite:

Us 2.951

pace; il radicalismo islamico contro il dialogo e la convivenza. Secondo gli osservatori, per vincere questa competizione, urge che, soprattutto nelle aree a maggioranza musulmana, le più povere della nazione, il Governo lavori alacremente per l’istruzione, l’occupazione, lo sviluppo economico, lo sradicamento della povertà, la costruzione di strade e ospedali. Solo così sarà possibile indebolire l’influenza dei gruppi radicali sulla popolazione musulmana di Mindanao.


Sono due i fronti di conflitto aperti da decenni nelle Filippine: il primo vede l'esercito governativo impegnato con i movimenti islamici, il secondo con la guerriglia di ispirazione maoista. Sul primo versante, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso si è attivato sull'isola di Mindanao, nelle Filippine Meridionali, il Fronte Nazionale di Liberazione Moro (Mnlf), ben presto affiancato dal Fronte Islamico di Liberazione Moro (Milf), staccatosi dal Mnlf, entrambi combattenti per l'autonomia (o a volte per la secessione). In un conflitto che in 50 anni ha fatto oltre 150mila morti, accanto a gruppi guerriglieri che negli anni sono scesi a patti con Manila, negoziando la creazione della Regione Autonoma di Mindanao Musulmana, sono nati altri gruppi fondamentalisti islamici come Abu

Sayyaf (“Il brando di Dio”) che ha scelto metodi terroristici per rivendicare l'indipendenza. Su questo terreno già fervido di violenza, si è innestata negli ultimi anni la presenza del sedicente Stato Islamico, balzata agli onori della cronaca nel 2017 con la presa della città di Marawi, organizzata dal gruppo filippino “Maute”, proclamatosi fedele al califfato. Sul versante della guerriglia comunista, a partire dagli anni Novanta, il “Nuovo Esercito Popolare” (Npa), collegato al Partito Comunista delle Filippine, ha promosso una ribellione armata nell’area Centrale e Meridionale dell’arcipelago, portando avanti una ideologia di stampo marxista. Il conflitto con l'esercito regolare ha fatto oltre 40mila vittime.

Per cosa si combatte

Le Filippine sono una nazione segnata oggi, nel bene e nel male, dalla ingombrante presenza del suo nuovo leader, il Presidente Rodrigo Duterte. Eletto a maggio 2016, dopo due anni di Governo il Presidente si è guadagnato la notorietà internazionale soprattutto grazie a una campagna generale di “guerra contro la droga” da lui avviata e condotta dalla polizia con metodi poco ortodossi, grazie all'ausilio di veri e propri “squadroni della morte” che hanno promosso omicidi in massa di spacciatori di droga e tossicodipendenti. In un rapporto del gennaio 2017 intitolato “Se sei povero vieni ucciso”, Amnesty International aveva denunciato come la polizia filippina avesse ucciso, o avesse pagato per uccidere, migliaia di presunti autori di crimini di droga in un’ondata di esecuzioni extragiudiziali equiparabili a crimini contro l’umanità. La campagna di esecuzioni extragiudiziali, che ha oltrepassato 10mila vittime, ha generato clamore e indignazione a livello internazionale, denunciata dalle Ong che tutelano i diritti umani. Anche nelle Filippine un forum di organizzazioni della società civile filippina ha lanciato l’allarme sull’urgenza di “difendere la

democrazia e i diritti umani, contro le migliaia di assassini extragiudiziali, l'impunità e segni incombenti di ascesa dell'autoritarismo”. Il problema della diffusione della droga nella nazione, si nota, più che un problema criminale, “è una questione di salute pubblica ed è frutto anche della povertà”. Il forum, che include molte associazioni cristiane, chiede “indagini imparziali sulle uccisioni ed il perseguimento dei killer, garantendo così lo stato di diritto”, ritenendo il Presidente Duterte responsabile per le migliaia di esecuzioni, che includono l’omicidio di oltre 60 minorenni. Proprio l'esecuzione del 17enne Kian de los Santos, registrata da una telecamera, ha fatto sì che Duterte fosse denunciato davanti alla Corte Penale Internazionale: “Le responsabilità non ricadono solo su chi preme il grilletto ma anche su chi ordina o incoraggia uccisioni e altri crimini contro l'umanità”, ha scritto Amnesty International. Quando la Corte dell’Aja ha annunciato l’avvio di indagini preliminari per crimini contro l’umanità nei confronti del Presidente Rodrigo Duterte, per “esecuzioni extragiudiziarie e omicidi di massa” compiuti almeno dal primo luglio 2016, Duterte

Quadro generale

Emigrazione, risorsa nazionale

122

Gli Overseas Filipino Workers (Ofw), i “lavoratori filippini d’oltremare”, sono gli emigrati filippini che lavorano all'estero: un esercito di oltre 10milioni di persone, presenti in oltre 193 Paesi del mondo. Uno strutturato programma di emigrazione promosso dal Governo filippino, incoraggia l’emigrazione giovandosi delle rimesse per sostenere l’economia nazionale. Circa 5mila filippini lasciano il Paese ogni giorno in cerca di lavoro. Cinque milioni sono negli Stati Uniti, due milioni in Medio Oriente; in Italia se ne calcolano un milione, così come in Giappone. Secondo la Banca Mondiale le Filippine, dopo Cina e India, sono al terzo posto tra le nazioni recipienti di rimesse al mondo. Alti, però, i costi sociali di queste politiche: le famiglie si dividono e bambini filippini crescono senza la presenza fisica e la guida dei genitori, affidati ai nonni o ad altri parenti. I migranti sono anche preda dei trafficanti di esseri umani o delle reti del jihadismo.

Il divorzio è ancora illegale

Nel 2018, le Filippine sono l’unico Paese del mondo, insieme al Vaticano, in cui il divorzio è ancora illegale. Ma forse ancora per poco. Il Congresso ha recentemente approvato in terza lettura un disegno di legge a favore del divorzio. Il testo di legge dovrebbe passare all’esame del Senato nell'estate 2018 e se sarà approvato, la nazione legalizzerà la rottura del matrimonio, sempre che Duterte non si rifiuti di firmare la legge. La Chiesa cattolica ha promosso un campagna per fermare l’approvazione della legge. Più dell’80% degli abitanti delle Filippine si definisce cattolico ma, secondo i sondaggi, i cittadini sono favorevoli al divorzio.


TENTATIVI DI PACE

Un paradiso per la Pace

(Maasin, Filippine, 28 marzo 1945) Le sfuriate pubbliche, gli epiteti irrispettosi rivolti a chi lo critica, l'aria tronfia da sceriffo sembrano giovargli. E nemmeno lo scacco subito a Marawi, dove un manipolo di jihadisti ha occupato un capoluogo di provincia, ha intaccato il suo granitico consenso: dopo due anni di presidenza, Rodrigo Duterte, eletto a maggio 2016, resta saldamente a capo della Repubblica delle Filippine e i suoi concittadini continuano a tributargli un alto gradimento. Anzi, la sua fama di “giustiziere” e la figura di leader “tutto d'un pezzo” lo rendono, nell'opinione pubblica, l'uomo giusto per contrastare la minaccia terrorista e il “comandante in capo” capace di garantire la sicurezza alla nazione, rispetto alla guerriglia ma anche per eliminare la criminalità comune. Non per nulla il suo soprannome è “il Giustiziere”. Nella sua lunga esperienza politica come sindaco della città di Davao, Rodrigo Duterte, eletto Presidente delle Filippine a maggio del 2016, aveva già dato ampiamente prova di essere un leader che esercita il potere con atteggiamento repressivo. Questa fama è stata poi del tutto confermata.

123

Rodrigo Duterte

In prossimità del Lago Taal, a 60 km da Manila, tra gli edifici e le strade di Tagaytay si respira una profonda pace. “Pace” è il nome della prima cittadella del Movimento dei Focolari in Asia, nata nel 1982 dalla volontà di Chiara Lubich, che desiderò che proprio lì crescesse una delle cittadelle, un luogo in cui poter vivere insieme e in armonia. Tra le molte opere che qui hanno visto la luce va segnalata la realizzazione di una scuola per il dialogo tra le grandi religioni dell’Asia, rivolta in particolar modo a musulmani, buddhisti, indù e scintoisti. Ogni anno convergono in questa zona, per sperimentare la gioia della convivenza, giovani da tutto il mondo e di ogni religione. La cittadella ha negli anni assunto anche uno spiccato profilo di promozione sociale, con particolare attenzione alle necessità sanitarie delle fasce più povere della popolazione. È migliorata la qualità di vita di migliaia di persone, non solo in ambito medico, ma anche in quello umano e spirituale. Attualmente nella cittadella hanno particolare rilievo le aziende che aderiscono al progetto per un’economia di comunione, le attività dei volontari ospedalieri in diverse strutture sanitarie pubbliche e varie iniziative a livello educativo. A Tagaytay le esperienze di dialogo e condivisione crescono e si moltiplicano ogni giorno verso una pace sempre più globale.

ha annunciato il ritiro delle Filippine dal trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale. Se le questioni di sicurezza e legalità hanno catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica, non di meno in questo campo ha destato preoccupazione il risveglio del jihadismo nelle Filippine del Sud, rinnovato dalla presenza del cosidetto Stato Islamico. L’intenzione di organizzare una presenza stabile e un mini-califfato a Mindanao è il disegno del cosidetto Stato Islamico apparso chiaro al Governo di Manila con la clamorosa occupazione della città di Marawi, a maggio del 2017. Era evidente che l'attacco sferrato alla città non è stata un'azione improvvisata, bensì frutto di una preparazione avviata da circa quattro anni, con il reclutamento e l'addestramento militare di giovani musulmani filippini. Quello presente oggi nell'arcipelago, è dunque un mix di vecchi e nuovi jihadisti, difficile da contrastare sia per il loro capillare radicamento nelle piccole comunità locali (che ha

I PROTAGONISTI

sempre costituito un fattore di protezione e difesa), sia per la configurazione del territorio, caratterizzato da fitte foreste o piccole isole dove spostarsi continuamente. Il fenomeno dei nuovi teenagers ammaliati dalle sirene del califfato infatti, si innesta sull'irredentismo islamico storicamente presente nelle Filippine Meridionali. In quest'area la comunità musulmana rivendica un “diritto di precedenza”, esistendo fin dal secolo XIII, quando l'islam giunse nel Sudest asiatico sulle rotte dei mercanti arabi, due secoli prima dell'arrivo dei colonizzatori spagnoli che cristianizzarono le isole. A livello economico, invece, per affrontare il nodo della povertà e dell’indigenza, nell’ottica di dare una spinta allo sviluppo, il Governo ha avviato un programma di grandi progetti infrastrutturali. In una Nazione con un’economia pienamente immersa nel boom asiatico, con tassi di crescita sempre intorno al 6% annuo (6.7% nel 2017) e un’inflazione inferiore al 4%, gli investimenti pubblici e l’innalzamento del tetto di spesa statale - nel segno delle promesse populiste della campagna elettorale - potrebbe far esplodere il debito nazionale incrementando la corruzione di vasta scala.


124

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL'INDIA RIFUGIATI

7.291

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI STATI UNITI D'AMERICA

4.515

CANADA

1.144 -

SFOLLATI PRESENTI IN INDIA RIFUGIATI ACCOLTI IN INDIA RIFUGIATI

197.851

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI CINA

110.098

SRI LANKA

63.162

MYANMAR

15.561


L'India Paese dei diseguali

Almeno due studi recenti lo confermano: la concentrazione del reddito in India è cresciuta a livelli record negli ultimi trent'anni. Oggi l'1% di indiani assorbe il 22% del reddito prodotto nel Paese, contro il 6% nel 1980; è un livello addirittura superiore a quello degli anni 1930 (allora era il 21%), osservano gli economisti Lucas Chancel e Thomas Piketty (in Indian income inequality, 1922-2014: From British Raj to Billionaire Raj?, World Inequality Lab, 2017). In altre parole, dopo trent'anni di liberalizzazione, la quota di ricchezza nelle mani dell'1% al top non è mai stata così alta: si tratta di un'élite di circa 800mila persone, in un Paese di un miliardo e 200milioni di abitanti. Oggi il 10% più ricco controlla il 56% della ricchezza prodotta. Giunge a conclusioni analoghe Oxfam, organizzazione non governativa contro la povertà, nel rapporto Reward work, not wealth, pubblicato nel gennaio 2018. Vi si legge che l'anno scorso la metà più povera della popolazione, cioè 670milioni di indiani, ha visto aumentare la propria ricchezza di appena uno per cento mentre l'1% più ricco ha intascato il 73% della ricchezza generata nel Paese. Questo fa dell'India oggi uno dei Paesi più diseguali al mondo.

Relegato dai media indiani a poche notizie di cronaca, e ignorato dal resto del mondo, un conflitto armato a bassa intensità coinvolge un'ampia Regione dell'India rurale. Attraversa le zone montagnose più remote di sei o sette Stati Centro-Settentrionali (Bengala Occidentale, Bihar, Jharkhand, Odisha, Chhattisgarh e Andhra Pradesh, con propaggini in Madhya Pradesh); oppone la polizia e i corpi speciali delle forze di sicurezza indiane a diverse formazioni armate di ispirazione maoista, genericamente indicati come naxaliti. Ma rischia di fare terra bruciata di ogni attivismo della società civile. Nel 2016 il conflitto ha fatto 430 morti, di cui 130 civili, 66 uomini delle forze di sicurezza e 244 militanti maoisti (sono dati del South Asia Terrorism Portal), e il 2017 registra una ulteriore recrudescenza. Siamo lontano dal picco di 1180 morti del 2010; ma il numero delle vittime, sceso a 367 nel 2012, da allora ha ripreso a crescere in modo costante. Il Governo indiano ha risposto in termini per lo più militari alla sfida del movimento naxalita, e ne parla come di una “guerra al terrorismo”; a farne le spese però è in primo luogo la popolazione civile, e soprattutto gli adivasi (nativi) che abitano quelle montagne. Gruppi locali per i diritti umani denunciano da anni arresti arbitrari, abusi e torture nei confronti di persone accusate di sostenere i maoisti. Nella Regione Bastar del Chhattisgarh, cuore del conflitto, nel corso del 2016 diversi cronisti di giornali locali sono stati arrestati, sempre con l'accusa di fiancheggiare il movimento ribelle. La giornalista Malini Subramaniam ha subito raid di polizia e interrogatori notturni; la ricercatrice e scrittrice Bela Bhatia, nota per il suo lavoro con le donne native, è stata costretta a lasciare la Regione. Così anche la sociologa e attivista Nandini Sundar, che nel maggio 2016 aveva partecipato a un sopralluogo nella Regione Bastar con altri osservatori: nel loro rapporto descrivono una popolazione civile presa tra due fuochi. Gli avvocati del Jagdalpur Legal Aid Group, che fornisce aiuto legale gratuito agli abitanti dei villaggi, hanno denunciato di essere stati attaccati da “vigilantes”. La presenza di “vigilantes” è allarmante: ricorda il Salwa Judum, organizzazione paramilitare armata dalla polizia nel decennio scorso per contrastare i ribelli, e responsabile di violenze atroci. Nei primi mesi del 2016 in effetti è comparsa nella Regione Bastar una nuova organizzazione che si pretende di “autodifesa”, sostenuta da imprenditori e notabili locali. Nell'aprile 2016 il settimanale India Today ha raccolto dichiarazioni di dirigenti della polizia che ammettono di sostenere questo gruppo: un

INDIA

Generalità Nome completo:

Repubblica dell’India

Bandiera

125

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Hindi, inglese e altre 21 lingue

Capitale:

Nuova Delhi

Popolazione:

1.210.193.422 (censimento 2011)

Area:

3.287.594 Kmq

Religioni:

Induista (80,45%), musulmana (13,43%), cristiana (2,34%), sikh (1,87%), buddista (0,77%)

Moneta:

Rupia

Principali esportazioni:

Prodotti petroliferi, tessile-abbigliamento, gioielleria, software, prodotti dell'ingegneria, chimica, pelletteria

PIL pro capite:

Us 1.852 (Us 7.173 a Parità potere d'acquisto)

ufficiale l'ha candidamente definito “la guerriglia dello stato” contro i maoisti. Il circolo vizioso di repressione e rivolta continua, lasciando irrisolte le profonde ingiustizie che alimentano il conflitto.


to negli ultimi due decenni. I maoisti dicono di difendere gli adivasi: è questo che dà loro tanta attrattiva agli occhi di popolazioni che dello Stato hanno visto solo il volto violento. Lo Stato lotta per riprendere il controllo di ampie zone rurali dove i ribelli hanno stabilito la propria influenza. In diverse occasioni le autorità hanno usato gruppi paramilitari non ufficiali per intimidire e controllare la popolazione. Le grandi imprese minerarie e industriali sono coinvolte, sia perché sono la spinta a espropriare e occupare terre e foreste; sia perché sono state spesso sospettate di pagare gruppi maoisti per proteggere le proprie attività. Intanto, la “lotta al terrorismo” interno è l'alibi per mantenere intere Regioni dell'India rurale ostaggio di un ciclo vizioso di esclusione, rivolta, repressione.

La rivolta armata che serpeggia nell'India Centro Orientale si inscrive in un quadro economico e sociale di polarizzazione crescente. Le diseguaglianze sono cresciute più negli ultimi trent'anni di liberalizzazione economica che nel mezzo secolo precedente. Negli ultimi vent'anni l'India si è imposta tra le “economie emergenti”, con una crescita economica intorno al 9% annuo tra il 2002 e il 2012: questa si è fondata in buona parte sull'espansione dei servizi e sullo sfruttamento delle materie prime minerarie di cui il Paese è ricco. La crescita è drasticamente rallentata negli ultimi due anni. Ma soprattutto, non si è tradotta in un investimento pubblico nello sviluppo umano. Intanto l'investimento nell'agricoltura declina e milioni di persone abbandonano la terra per tentare la sorte nelle grandi città, andando a ingrossare gli slum urbani. Negli ultimi decenni l'India ha visto sorgere numerosi movimenti popolari: movimenti di resistenza pacifica come nella valle di Narmada, dove quasi mezzo milione di persone nell'arco di vent'anni è stato sloggiato da una serie di grandi dighe; movimenti contro l'esproprio di terre e contro le zone economiche speciali; movimenti

di lavoratori dell'industria. Il movimento maoista armato è un caso a sé (e non ha avuto grandi contatti con altri movimenti di resistenza popolare). È composto da diverse sigle, ma tutte chiamate naxaliti da una famosa rivolta avvenuta nel 1967 nel villaggio di Naxalbari, nel Bengala Occidentale, guidata da un partito maoista e schiantata dalla repressione negli anni '70. Il movimento attuale, che ne riprende l'ispirazione, è emerso negli anni '90 sulla spinta di alcune sigle eredi del vecchio partito: in Andhra Pradesh il People's War Group (Gruppo della guerra di popolo), in Bihar il Maoist Coordination Centre, e alcuni altri. Nel 2004 queste sigle si sono fuse nel Cpi-maoist, Partito comunista indiano-maoista (subito messo fuorilegge), ed è allora che il conflitto è entrato nella fase calda. A differenza degli anni '60, questa volta i militanti - foot soldiers - sono per lo più "tribali", anche se la leadership sono persone istruite e di casta alta. La carta geografica aiuta a spiegare. Oggi il Cpi-maoist è presente in una Regione rurale e montagnosa tra il Bengala Occidentale, il Bihar, il Jharkhand, l'Odisha e il Chhattisgarh nella

126

I partiti della galassia naxalita affermano di battersi per i diritti delle masse rurali, per sviluppare "zone liberate", e in ultima istanza per instaurare in India la dittatura del proletariato. Denunciano lo Stato che espropria terre e foreste togliendole ai nativi per darle in concessione a grandi multinazionali che sfruttano le risorse naturali. I giovani adivasi (nativi) che si uniscono alla guerriglia combattono per la terra, le foreste, e per avere giustizia e rispetto. La popolazione rurale dell'India, e in particolare adivasi e fuoricasta, è stata sistematicamente emarginata nell'India moderna e ha sempre avuto poco o nessun accesso a sanità, scuola, stato sociale, infrastrutture di sviluppo agricolo. Milioni di adivasi sono stati espropriati delle loro terre per realizzare grandi progetti, dighe, miniere, acciaierie: e l'esproprio si è intensifica-

Per cosa si combatte

I violenti "difensori delle mucche"

Si autodefiniscono “difensori delle mucche”, e hanno instaurato un clima di paura tra le minoranze in India. Sono bande di picchiatori che proclamano di voler difendere le mucche, animale sacro nella tradizione hindu. Da quando l'India è governata dal primo Ministro Narendra Modi, esponente di un partito (il Bjp, Partito nazionale indiano) fondato sull'ideologia identitaria chiamata hindutva, della “supremazia hindu”, diversi Stati indiani hanno emanato leggi che vietano l'uccisione di mucche e perfino il commercio di bovini (anche se la Corte suprema ha poi invalidato alcuni dei divieti più estremi). Da allora i “difensori delle mucche” sono responsabili di decine di attacchi letali contro persone che accusano di aver comprato, venduto o ucciso mucche, o consumato carne bovina. Nel solo 2017 (fino a novembre) si contano almeno 38 attacchi in cui 10 persone sono state uccise. Le vittime sono allevatori e commercianti di bovini (quasi sempre musulmani), o addetti a scuoiare e trattare il pellame (di solito dalit, cioè fuoricasta, “intoccabili”).

Quadro generale

Chi ha ucciso Gauri Lankesh

L'hanno aspettata davanti a casa sua, a Bangalore, e l'hanno freddata a colpi d'arma da fuoco. Così, una sera del settembre 2017, ignoti killer hanno ucciso Gauri Lankesh, giornalista. La notizia ha suscitato impressione e proteste in tutta l'India. Lankesh, 55 anni, dirigeva un settimanale in lingua kannada, Lankesh Patrike. Era nota per le opinioni critiche verso il Governo di Narendra Modi. Nel febbraio 2018 la polizia ha fermato alcuni uomini riconducibili a un gruppo estremista hindu, che avrebbero confessato il loro coinvolgimento nell'uccisione. Se confermato, si tratterà degli esecutori materiali.


TENTATIVI DI PACE

A scuola in bici per la pace

Il progetto “A scuola in bicicletta: abbattiamo gli ostacoli!” messo in atto dalla Onlus Missione Calcutta, mira ad agevolare i bambini della Regione di Nuta, i cui abitanti sono principalmente persone in situazioni estreme di povertà, che lavorano a giornata in base alle stagioni. Nonostante tutti i bambini della Regione abbiano la possibilità di frequentare la scuola dell’obbligo gratuitamente, non tutti pensano alle difficoltà che comporta raggiungere gli istituti scolastici che, solitamente, si trovano dai 4 ai 12 km di distanza dai loro villaggi rurali. Le uniche possibilità che hanno per arrivare a scuola sono a piedi, oppure su autobus sovraffollati che impiegano molto tempo sia all’andata che al ritorno. Grazie al progetto, nel 2017, 21 bambine e 32 bambini hanno avuto la possibilità di andare a scuola in bici. Le 53 biciclette, messe a disposizione grazie al sostegno di Geko spa e ad una raccolta fondi, sono un incentivo per i ragazzi a frequentare le lezioni e a terminare il proprio percorso scolastico, permettendo loro di arrivare più in fretta e risparmiare energia necessaria per studiare dopo la scuola.

Per oltre trent'anni, un collettivo di giuristi e avvocati ha cercato di destreggiarsi nel sistema legale indiano per difendere i diritti dei più vulnerabili: abitanti degli slum, lavoratori sfruttati, migranti, rifugiati, bambini e donne sole, minoranze etniche o religiose. Poco a poco il Human Rights Law Network è diventato un punto di riferimento "per combattere l'oppressione, lo sfruttamento e la discriminazione contro ogni gruppo o individuo sulla base di casta, genere, età, disabilità, religione, lingua, gruppo etnico, orientamento sessuale, o status sociale ed economico". Nel 2017 Colin Gonsalves, avvocato presso la Corte suprema indiana e fondatore del Human Right Law Network, è stato insignito del Right Livelihood Award, detto anche il "Nobel alternativo". Il premio arriva "mentre l'India attraversa tempi bui e gli attivisti per i diritti umani sono sotto assedio", ha commentato Gonsalves. Tra le vittorie legali più importanti segnate da Gonsalves e dal Human Right Law Network c'è la sentenza del 2001 soprannominata del “diritto al cibo”, che ha sancito il diritto al pranzo gratuito per gli scolari delle scuole elementari pubbliche e il diritto ad acquistare riso a prezzo sovvenzionato per oltre 400milioni di indiani sotto la “soglia di povertà”.

Regione Centro-Orientale, con propaggini in Andhra Pradesh e Maharashtra. Ebbene: la mappa delle "zone affette da estremismo di sinistra", secondo la definizione ufficiale, coincide largamente con la Regione chiamata "tribal belt", dove prevale la popolazione indigena ("tribali", o adivasi, gli "abitanti originari"): una minoranza di oltre 90milioni di persone e la parte più povera e marginale della società. Questa mappa coincide anche con la "mineral belt", dove si trova buona parte degli ingenti giacimenti di minerali dell'India: il 70% del carbone del Paese, il 56% del ferro, il 60% della bauxite, oltre a uranio, rame, oro e altri minerali. L'espansione di miniere, poli siderurgici e zone industriali speciali ha esasperato la pressione su terre e foreste abitate dalle popolazioni ai margini. In questo senso, la rivolta armata nelle remote montagne dell'India è un lato oscuro dell'economia globalizzata. Lo Stato ha dato una risposta principalmente militare al movimento naxalita. Da inizio millennio i successivi Governi hanno creato scuole di anti-guerriglia e mobilitato i corpi paramilitari: la Central Reserve Police Force (che ha creato i corpi speciali CoBra), la Border Security Force, oltre a decine i migliaia di poliziotti dei singoli

I PROTAGONISTI

Stati coinvolti. Le zone più sensibili sono di fatto militarizzate; le forze di sicurezza hanno esteso l'uso di mezzi elettronici di sorveglianza. Hanno anche fomentato una guerra sporca condotta da milizie irregolari sostenute e armate dallo Stato: il caso più noto è quello del Salwa Judum, creato nel 2005 in Chhattisgarh, dove ha seminato il terrore nei villaggi nativi. Tra il 2005 e il 2008 più di 600 villaggi erano rasi al suolo e almeno 350mila persone costrette a sfollare. Dopo le denunce di attivisti per i diritti umani, nel 2008 una sentenza della Corte Suprema ha dichiarato illegale il Salwa Judum. Nel 2014 l'amministrazione guidata dal primo Ministro Narendra Modi ha ulteriormente rafforzato gli effettivi delle forze di sicurezza. Il movimento naxalita però era già in declino: e più che alle azioni militari, ciò si deve alle operazioni di intelligence che in quegli anni hanno portato all'uccisione o all'arresto di molti suoi dirigenti. Nel 2011 l'uccisione di uno dei più noti membri del Politburo maoista, Koteswara Rao alias Kishenji, aveva messo fine all'ultimo tentativo di dialogo politico, avviato dal Governo del Bengala Occidentale. Tra il 2010 e il 2016 almeno 84 quadri dirigenti maoisti sono stati uccisi, 391 arrestati, e circa 200 si sono arresi (secondo il South Asia Terrorism Portal). Molti militanti hanno accettato gli incentivi a deporre le armi.

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Human Rights Law Network


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL’IRAQ RIFUGIATI

316.030

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA

86.045

GIORDANIA

33.118

TURCHIA

30.398

SFOLLATI PRESENTI NELL’IRAQ 3.604.285 RIFUGIATI ACCOLTI NELL’IRAQ RIFUGIATI

261.888

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SIRIA

230.836

TURCHIA

15.692

PALESTINA

7.703


Società civili in movimento

Le faglie della politica irachena arrivano fino alla società civile e complicano il lavoro di quelle organizzazioni che da anni cercano di costruire un’alternativa. Per questo, a dicembre 2017, una settantina di attivisti di varie organizzazioni irachene e kurdo-irachene si sono dati appuntamento a Suleymaniya. Obiettivo della riunione consolidare la collaborazione e le campagne comuni tra l’Iraq Social Forum e il Kurdistan Social Forum, nato nel 2016, che proprio nel 2017 ha tenuto il suo primo evento pubblico ad Erbil. Tra i temi delle campagne, partecipazione delle donne, difesa delle minoranze, tutela delle risorse idriche, a partire dal fiume Tigri.

UNHCR/H. Caux

Nella infinita transizione irachena, il 2017 potrebbe essere ricordato come un anno chiave. La sconfitta militare del sedicente Stato Islamico ha infatti aperto la possibilità di una progressiva normalizzazione della vita del Paese, anche se rimangono forti tensioni tra la varie componenti religiose ed etniche, che si intrecciano con le più ampie crisi regionali. L’anno era iniziato con una serie di attentati con autobomba e kamikaze in varie città del Paese, come Baghdad, Samarra e Najaf: parte della strategia dell’Isis per contrastare la pressione militare attorno a Mosul, la più importante tra le città controllate dall’autoproclamato Califfato (alla diga di Mosul è presente un contingente militare italiano). Il 10 luglio la città è alla fine stata riconquistata dall’esercito iracheno appoggiato dalle milizie sciite, costituite fin dalla metà del 2014 per contrastare l’Isis. All’inizio di dicembre, il primo Ministro Al-Abadi ha annunciato la sconfitta dell’Isis. Nello stesso periodo, l’Onu ha rilevato che i precedenti mesi di ottobre e novembre erano stati i meno sanguinosi degli ultimi cinque anni. Dopo la sconfitta dell’Isis, il grande ayatollah Al-Sistani, massima autorità sciita, ha invitato le milizie sciite a smobilitare. Un segnale incoraggiante per la futura stabilità del Paese e per il ruolo delle forze armate nazionali, ma un segnale che deve ancora tradursi in realtà. Per molti iracheni, una data cruciale è stata il 9 settembre, quando nello stadio di Bassora 65mila persone hanno assistito all’amichevole di calcio tra Iraq e resto del mondo: era da 14 anni che la Fifa non autorizzava partite amichevoli nel Paese. Nonostante questi motivi di pacato ottimismo, la situazione nel Paese rimane molto fragile, specialmente nelle relazioni tra il Governo centrale e la Regione autonoma del Kurdistan iracheno. Il referendum con cui il 25 settembre è stata votata l’indipendenza del Kurdistan iracheno, ha portato il Paese sull’orlo di una nuova guerra interna. Le forze militari kurde hanno poi scelto la ritirata di fronte all’esercito iracheno, lasciando la Regione petrolifera contesa ed etnicamente mista di Kirkuk. Altro motivo di preoccupazione è la rivalità tra Iran e Arabia Saudita che rischia di

IRAQ

Generalità Nome completo:

Repubblica Irachena

Bandiera

129

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo (75-80%) Kurdo (15-20%) Altre lingue: Siriaco, Armeno e Turkmeno (fino a 5%)

Capitale:

Baghdad

Popolazione:

39.200.000 circa

Area:

437.072 Kmq

Religioni:

Sciiti (64-69%), sunniti (29-34%), Cristiani (1%), Altri (1-4%)

Moneta:

Dinar iracheno

Principali esportazioni:

Petrolio

PIL pro capite:

Us 17.000

trasformare il Paese in un nuovo, e più esplosivo, terreno di confronto tra i due. Il 25 febbraio per la prima volta dal 1990, un ministro degli Esteri saudita ha compiuto una visita ufficiale a Baghdad. A ottobre il primo Ministro Al-Abadi ha ricambiato la visita e tra i due Paesi è stato creato un Consiglio che ha il compito di incrementare la cooperazione bilaterale in vari settori. Il possibile aumento dell’influenza saudita è guardato con sospetto da Teheran.


130

Gli effetti destabilizzanti dell’invasione del marzo 2003 e del rovesciamento del regime sono stati amplificati dallo sconvolgimento degli equilibri cui il Medio Oriente ha assistito negli ultimi anni, in particolare dal conflitto nella vicina Siria. Stretto fra due vicini ingombranti, Iran e Turchia, l’Iraq post-americano, dove è forte l’influenza di Teheran, e dove non c’è mai stato un reale processo di riconciliazione nazio-nale, vede le sue diverse componenti influenzate da quelle stesse parti esterne impegnate nel conflitto siriano (in primo luogo Iran, Arabia Saudita, e Turchia). L’uscita di scena del Governo di Nouri al-Maliki e la sconfitta del sedicente

Stato Islamico almeno sul piano militare più classico, potrebbero aprire nuove possibilità di ricostruzione e finalmente avviare il processo di riconciliazione nazionale mancato negli ultimi quindici anni. Lo stato iracheno, per quanto fragile, ha dimostrato una certa capacità di adattamento e finora il tanto temuto smembramento del Paese non c’è stato. Le linee di frattura interne, tuttavia, rimangono molto marcate e il futuro del Paese dipende anche dall’esito del più ampio scontro politico e militare tra sciiti e sunniti, ovvero Iran e Arabia Saudita, di cui l’Iraq rischia di essere uno dei prossimi campi di battaglia.

Per cosa si combatte

Già parte dell’Impero Ottomano, poi sotto mandato britannico (1920), nel 1932 conquista l’indipendenza. Nel luglio 1958 un golpe rovescia la monarchia. Un secondo, nel febbraio 1963, porta al potere il Ba’ath, partito nazionalista arabo. Presto estromessi, i ba’athisti tornano il 17 luglio 1968, instaurando il regime del partito unico. Nel settembre 1980, Saddam Hussein, Presidente dal luglio 1979, attacca l’Iran, dove a febbraio la Rivoluzione Islamica dell’Ayatollah Khomeini ha rovesciato lo Scià. Inizia una guerra sanguinosa; l’Occidente si schiera con Baghdad. Finito il conflitto (agosto 1988), l’Iraq è al disastro, debitore verso i Paesi del Golfo, che ne hanno finanziato l’avventura militare. Il 2 agosto 1990, Saddam invade il Kuwait, accusato di abbassare il prezzo del petrolio per indebolire l’economia irachena. Il 6 agosto embargo dell’Onu, per costringere Baghdad a ritirarsi. 17 gennaio 1991, la Guerra del Golfo: una coalizione di 34 Paesi autorizzata dal Consiglio di Sicurezza attacca l’Iraq. Il 3 marzo il cessate il fuoco: ma le sanzioni restano finché l’Onu non certificherà che l’Iraq non possiede più “armi di distruzione di massa”. L’embargo devasta il Paese, rafforzando il regime di Saddam, che Washington vuole rimuo-

vere. Il pretesto sono le “armi di distruzione di massa”: il 20 marzo 2003 Stati Uniti e Gran Bretagna invadono l’Iraq, anche senza l’ok del Consiglio di Sicurezza. Baghdad cade il 9 aprile. L’occupazione del Paese è presto avallata dall’Onu. A fine giugno 2004 si insedia un Governo a interim guidato da Iyad Allawi, mentre l’Onu legittima la “Forza multinazionale”, sotto comando Usa, il cui mandato sarà prorogato annualmente. Il 30 gennaio 2005 prime elezioni per un “Governo di transizione”. Il 15 ottobre è approvata la nuova Costituzione, il 15 dicembre gli irache-

Quadro generale

Alberi per Bassora

Nel 2017 ne sono stati piantati quasi un milione. L’obiettivo, però, è molto più ambizioso: 16milioni di nuovi alberi da piantare nella Provincia di Bassora, nel Sud dell’Iraq, per contribuire a combattere i cambiamenti climatici e l’innalzamento della temperatura media. Ormai d’estate a Bassora capita spesso di arrivare oltre i 50 gradi centigradi. È un progetto partito dal basso, dal sindacato degli ingegneri ambientali, seguendo l’esempio di progetti simili specialmente negli stati del Golfo. Alcune centinaia di volontari e circa 15mila sostenitori, soprattutto online, hanno contribuito in modo determinante all’avvio positivo della prima campagna Million tree for Basra.


TENTATIVI DI PACE

Al-Amal per "donne, pace e sicurezza"

Sui media Occidentali l’Iraq compare ormai molto poco, solo in occasione degli attentati più sanguinosi. Per avere accesso a informazioni indipendenti e di qualità, una risorsa essenziale è Niqash (www.niqash.org). Un progetto nato nel 2004, avviato l’anno successivo e sostenuto da Mict, Media in Cooperation and Transition, una Ong con sede a Berlino e ramificazioni in Iraq, appunto, oltre che in Tunisia, Egitto e Sudan del Sud. Il coordinamento editoriale è in Germania, ma gli articoli sono scritti da giornalisti, attivisti, artisti locali, con un punto di vista spesso originale. Niqash è in inglese, arabo e kurdo, e oltre alla politica, dedica ampio spazio alla società e all’economia del Paese.

ni tornano a votare. Nel maggio 2006 il nuovo Governo guidato da Nuri al Maliki: coalizione di partiti sciiti (religiosi) e kurdi. Saddam, catturato nel dicembre 2003, viene giustiziato tre anni dopo. Nel febbraio 2006 un attentato contro la moschea sciita di Samarra innesca una guerra civile fra sunniti e sciiti. La presenza militare Usa intanto sale a quasi 170mila uomini. Il 14 dicembre 2008 Stati Uniti e Iraq firmano lo Status of Forces Agreement: tutte le truppe Usa si ritireranno entro fine 2011. Le elezioni legislative del marzo 2010 vengono vinte di strettissima misura dall’alleanza nazionalista dell’ex premier Allawi, ma il nuovo Governo nasce (incompleto) solo a dicembre, e a guidarlo sarà di nuovo Maliki, riuscito a unificare gli sciiti. La fase post-americana parte tuttavia con una grave crisi politica. Un mandato di arresto per “terrorismo” contro Tariq al Hashimi, uno dei vicepresidenti della Repubblica, innesca un ciclo di violenza incontrollata che insanguina il Paese.

I PROTAGONISTI

Presto l’instabilità politica diventa paralisi. I sunniti iracheni si sentono sempre più emarginati dal Governo del premier Maliki (sciita), che continua ad accentrare poteri e controlla l’intero apparato di sicurezza. Dal dicembre 2012 la protesta, inizialmente pacifica, fa pensare a una “primavera” irachena. Ma la repressione delle forze governative in pochi mesi incendia le zone sunnite, dove inizia la rivolta armata. In mezzo a una violenza che non dà tregua, si tengono prima elezioni provinciali, quindi politiche. A vincere queste ultime (30 aprile) è di nuovo la coalizione di Maliki, che mira a un terzo mandato. Ma ad Anbar in molte zone non si è potuto votare: la città di Falluja e parte di Ramadi, capitale della Provincia, sono ormai controllate dai jihadisti del sedicente Stato Islamico. L'Isis espande progressivamente la propria area di influenza, fino ad arrivare a occupare Mosul, seconda città del Paese, nel giugno del 2014, spingendosi anche in altre province a maggioranza sunnita. I successivi tre anni sono quelli di una lenta riconquista del territorio perso e l'esercito iracheno viene affiancato da milizie locali sciite, oltre che dai peshmerga kurdi che proteggono la Regione autonoma del Kurdistan. Mosul viene ripresa il 10 luglio 2017.

131

Niqash

Sono molte le organizzazioni non-governative, locali e internazionali, che lavorano in Iraq contro la discriminazione e la violenza, per la promozione dei diritti umani, dell’uguaglianza di genere, della tolleranza e della pace. L’associazione irachena Al-Amal è stata tra le prime a lavorare per l’implementazione della Risoluzione 1325 delle Nazioni Unite su “Donne, Pace e Sicurezza”. Sono anni che i suoi volontari si impegnano per il dialogo sull’ineguaglianza di genere, sull’influenza che hanno i gruppi armati, ma anche i social media sui diritti delle donne, sull’assenza di protezione e di meccanismi di segnalazione per gli episodi di violenza sessuale e di genere. Con il progetto “Women against violence” (2013-2016), in collaborazione con l’Ong olandese Pax, Al-Amal si è impegnata per fornire alle donne irachene alcuni strumenti per essere protagoniste attive delle loro vite: sono stati offerti corsi di formazione al computer, lezioni di inglese, corsi di formazione sulla non-violenza e sulla costruzione della pace all’interno della società. Inoltre è stata incoraggiata la partecipazione delle donne nelle forze di polizia e sono state organizzate campagne pubbliche sulle questioni di genere.


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Come leggere le Mappe

Nella Mappa Onu, qui sopra, troverete solamente indicato lo Jammu and Kashmir poichè si tratta dell’antico nome dell’intera area contesa da India, Pakistan e Cina. La Mappa, qui a destra, indica invece la spartizione di fatto dei territori da parte dei suddetti Stati, con diversa denominazione, mai riconosciuta a livello internazionale.


Situazione attuale e ultimi sviluppi

Cresce la tensione tra India e Pakistan a proposito del Kashmir, il territorio all'estremo NordOvest del Subcontinente indiano conteso dalle due potenze atomiche. È una guerra di parole e di artiglierie. I due Paesi si accusano reciprocamente di terrorismo, spionaggio, violazioni Nel corso del 2016, tra India e dei diritti umani. In una escalation retorica, Pakistan rischia di scoppiare anche nel febbraio 2018 il premier pachistano Shahid la guerra dell'acqua. Il rischio Khaqan Abbasi ha dichiarato al parlamento di è diventato concreto quando il Islamabad che “il Kashmir diventerà Pakistan”. Governo di New Delhi, guidato dal Sul piano militare, negli ultimi due anni si sono nazionalista Narendra Modi, ha moltiplicati gli scambi di fuoco tra i due eserciti sospeso unilateralmente i colloqui sia lungo la “Linea di Controllo” (Loc), la frontiedella Commissione permanente ra di fatto tra il Kashmir sotto sovranità indiadell'Indo, in protesta per quello che na e quello controllato dal Pakistan, sia anche ha definito “il terrorismo sponso- lungo la frontiera internazionale tra i due Paesi rizzato dal Pakistan”. La Commis- nel Jammu. Nel febbraio 2018 l'esercito indiano sione permanente è un organismo ha denunciato che le sue postazioni sono state istituito dall'Indus Water Treaty, colpite con granate e perfino piccoli razzi, e ha Trattato sull'acqua dell'Indo, che promesso una “risposta appropriata”. regola la suddivisione dell'acqua La prima vittima dell'escalation è la popolazione dell'Indo e dei suoi affluenti, i civile: per tutto l'inverno 2017-18 parecchie cencinque fiumi che nascono sulla tinaia di persone sul lato indiano della Linea di catena himalayana in territorio in- Controllo sono sfollate dai loro villaggi. Anche diano e scorrono verso il Pakistan. l'infiltrazione di guerriglieri “jihadisti” dal terriIl trattato permette all'India di torio sotto controllo pachistano a quello govertrattenere circa il 20% dell'acqua nato dall'India è ripresa negli ultimi tre anni. per l'irrigazione, la generazione In questa “non guerra e non pace”, il conto delle di corrente e altri usi domestici e vittime ha ripreso a salire. Il South Asia Terroriindustriali, secondo precise regole. sm Portal (Satp, centro di studi sulla sicurezza Negoziato con la mediazione della con sede a New Delhi) nel 2016 ha registrato Banca Mondiale e ratificato da 267 morti dovuti al conflitto, di cui 14 civili, 88 India e Pakistan nel 1960. La mi- uomini delle forze di sicurezza indiane e 165 naccia indiana è poi rientrata dopo insorti. I dati per il 2017 sono ancora parziali, un arbitrato della Banca Mondiale: ma sembrano in aumento. La Jammu&Kashmir ma ha segnato un passo inedito Coalition of Civil Society (federazione di gruppi nell'escalation tra i due Paesi. per i diritti umani nel Kashmir sotto sovranità indiana) fa un computo decisamente più alto: 451 morti nel 2017 tra civili, Generalità militari e ribelli. Resta ancora lontaNome completo: Jammu e Kashmir no il picco di 4.500 morti nel 2001, Bandiera ma il trend è allarmante. Il 2017 ha visto intensificarsi le proteste di studenti nella capitale Srinagar e in altre città della valle (cioè del Jammu&Kashmir sotto sovraniLingue principali: Urdu (lingua ufficiale), tà indiana). Coinvolgono principalKashmiri, Hindi, Inglese mente giovanissimi, le generazioni Capitale: Jammu e Srinagar cresciute nel conflitto, armati per lo (rispettivamente capitali più di sassi. La polizia ha risposto invernale ed estiva dello con brutalità, spesso con proiettili Jammu e Kashmir) di gomma. Un'ondata di proteste, Popolazione: 12.500.000 spesso violente, era cominciata Area: 222.236 Kmq nel luglio del 2016 dopo i funerali di Burhan Muzaffar Wani, comanReligioni: Musulmana (nel Kashmir), hindu (prevalente dante della milizia jihadista Hizb-ul nel Jammu) e buddista Mojaheddin ucciso dalle forze di si(in Ladakh) curezza; le autorità militari hanno riMoneta: Rupia indiana sposto con il coprifuoco e centinaia di arresti. Intanto il dialogo politico Principali Frutta e prodotti agricosegna un’impasse. Nel 2017 il Goesportazioni: li, lane, tessuti ricamati, pietre lavorate verno di New Delhi ha nominato un “interlocutore” incaricato di avviare PIL pro capite: Us 1.800

KASHMIR

La contesa dell'acqua

Generalità Nome completo:

Azad Jammu e Kashmir

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Bandiera

Lingue principali:

Urdu (lingua ufficiale), Mirpuri, Pahari, Gojri, Hindko, Punjabi, Pashto

Capitale:

Muzaffarabad

Popolazione:

4.045.000

Area:

13.297 Kmq

Religioni:

Musulmana

Moneta:

Rupia pachistana

Principali esportazioni:

Legname, prodotti agricoli

PIL pro capite:

Us 1.750

colloqui con le forze nazionaliste del Kashmir, la Conferenza per la libertà (Hurriyat Conference) e la Conferenza nazionale (più moderata). In novembre però il primo Ministro indiano Narendra Modi ha escluso anche solo l'ipotesi di ripristinare la piena autonomia del Kashmir nel quadro della Costituzione indiana: il dialogo sembra finito prima di cominciare. Pochi giorni dopo la Hurriyet Conference ha declinato l'invito ai colloqui. Anche se le forze moderate di ogni parte ripetono che la pace verrà solo con il dialogo, le premesse non sono incoraggianti.


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Le parti in causa sono tre: l'India, il Pakistan, e gli abitanti del Kashmir. Per India e Pakistan si tratta di una contesa territoriale: per il Kashmir hanno combattuto due guerre dichiarate (nel 1948-49 e nel 1965) e una non dichiarata (nell’estate del 1999), oltre a una lunga “guerra per procura” condotta da guerriglieri infiltrati dal territorio sotto controllo pachistano, detto Azad (“libero”) Kashmir, a quello sotto controllo indiano. Non è un mistero che questi guerriglieri siano sostenuti, armati e finanziati dai servizi di intelligence del Pakistan, anche se Islamabad dichiara di dare ai musulmani del Kashmir solo “sostegno morale e politico”. Dal punto di vista del Pakistan, in Kashmir una potenza occupante (l'India) nega libertà e autodeterminazione alla popolazione musulmana occupata, che si rivolgerebbe “naturalmente” al Pakistan per protezione. Dal punto di vista dell'India invece una potenza straniera (il Pakistan) foraggia una ribellione e infiltra terroristi armati per destabilizzare il territorio. Dall'inizio di questo secolo tra India e Pakistan si sono alternati momenti di escalation e di relativa calma. Nel 2002 le due potenze atomiche hanno schierato i rispettivi eserciti in stato di massima allerta; tra il 2005 e il 2008 hanno avviato il più promettente ci-

clo di negoziati dal 1947, e per la prima volta sono state aperte alcune vie di comunicazione attraverso la “linea di controllo”, frontiera di fatto tra i rispettivi territori. Nel dicembre 2008 l'attacco terroristico organizzato a Mumbai dal gruppo jihadista Lashkar-e-Taiba (che ha base in Pakistan) ha bruscamente riportato il gelo. Benché nell’agosto 2011 siano ripresi i contatti bilaterali, le relazioni restano fredde, mentre sul terreno dal 2014 si registrano frequenti scontri di frontiera tra i due eserciti. Da parte loro, le forze nazionaliste del Kashmir restano divise su questioni strategiche. Per alcuni “autodeterminazione” significa optare per l'unione al Pakistan; per altri significa invece l'opzione dell’indipendenza, rifiutata però sia da New Delhi che da Islamabad. Dopo vent'anni di conflitto, gran parte delle forze nazionaliste opterebbero più realisticamente per un regime di autonomia nel quadro della costituzione indiana. La prima rivendicazione comune a tutti i kashmiri però è revocare le leggi speciali che garantiscono impunità alle forze armate (Armed Forces Special Power Act, o Afspa, e Public Safety Act, Psa), mettere fine alla militarizzazione della vita quotidiana, e fare luce su esecuzioni extragiudiziarie, torture, stupri.

Per cosa si combatte

Il conflitto del Kashmir è una delle crisi regionali più prolungate del Subcontinente indiano. È un conflitto allo stesso tempo interno (all’India) e tra Stati (India e Pakistan): e questo fa della verdeggiante vallata del Kashmir, tra i ghiacciai himalayani all'incrocio tra India, Pakistan e Cina, una polveriera con implicazioni regionali. La questione del Kashmir è una delle eredità della Spartizione del 1947, quando dalla vecchia India britannica sono nate due Nazioni, il Pakistan musulmano e l’India multireligiosa benché a maggioranza hindu. Il principato di Jammu e Kashmir (che includeva Jammu, Kashmir, Ladakh e i territori di Gilgit e Baltistan) fantasticò di restare indipendente ma infine optò per l’India, con un atto formale che ne fece uno Stato dell’Unione indiana con ampia autonomia. La decisione del locale maharaja Hari Singh (hindu) con l’accordo dei notabili nazionalisti guidati da Sheikh Abdullah (musulmano) fu sgradita ai dirigenti pachistani, che cercarono di annettere il Kashmir: ne è risultata la prima guerra tra India e Pakistan, 1948-49. La linea di cessate-il-fuoco negoziata con la mediazione delle Nazioni Unite è diventata il confine di fatto (Linea di Controllo, Loc): a Ovest il settore sotto controllo pachistano (circa un terzo del territorio originario), a Est la parte sotto sovranità indiana (con doppia capitale a Srinagar e Jammu). Una zona di ghiacciai all’estremo Nord è stata ceduta dal Pakistan alla Cina nel 1962. Le risoluzioni delle Nazioni unite del 1948 e ‘49 chiedevano al Pakistan di ritirare le proprie forze dal territorio occupato e sollecitavano un referendum perché i kashmiri decidessero del

proprio futuro. Il Pakistan non si ritirò, e l’India se ne fece una scusa per non indire mai il plebiscito. La Linea di Controllo è diventata così un confine di fatto, sancito nel 1972 dagli Accordi di Simla (al termine di una nuova guerra tra India e Pakistan, che segnò la nascita del Bangladesh). Il periodo post indipendenza ha visto un crescente attrito tra le classi dirigenti kashmire e il Governo centrale dell’Unione indiana, che ha eroso il regime di autonomia del Jammu & Kashmir. La disaffezione è esplosa nel 1989 in una protesta civile che ha coinvolto un ampio fronte sociale e politico, dall’Università ai sindacati ai partiti nazionalisti. Alla fine di quell’anno le prime azioni armate hanno segnato l'inizio di una ribellione separatista. L’escalation è stata inesorabile. Il primo gruppo armato, Jammu & Kashmir Liberation Front (Jklf), ispirato a idee di lotta di popolo, è stato presto sbaragliato e il suo leader Yasin Malik arrestato; nel ‘94 il Jklf ha rinunciato alla lotta armata. Intanto però erano entrati in scena gruppi più agguerriti: il Hizb-ul Mojaheddin, braccio armato del partito conservatore (e filopachistano) Jamiat Islami, a sua volta scavalcato da altre sigle (Jaish-e Mohammad, Lashkar-e-Taiba e altre). Erano i primi anni Novanta: in Kashmir confluivano armi e combattenti dall’Afghanistan, formati al jihad (guerra santa, in senso politicomilitare) contro l'Unione Sovietica e sostenuti dal Isi, il servizio di intelligence militare pachistano. Con loro è arrivato in Kashmir un islam ultraortodosso estraneo alla tradizione locale. È arrivato anche il terrore: attentati contro civili, bombe nei mercati, rappresaglie. Gli hindu del

Quadro generale

La democrazia dal basso

Il Pakistan-India People’s Forum for Peace and Democracy si è costituito nel 1994 a Lahore (Pakistan) per iniziativa di organizzazioni della società civile dei due Paesi. Dopo la sua ultima Convention, tenuta in febbraio 2018 a Bhubaneshwar (India), il Forum ha diffuso un documento per denunciare “il deteriorarsi delle relazioni” tra New Delhi e Islamabad, gli incidenti di frontiera, la crescente retorica belligerante dei rispettivi eserciti. Osserva con allarme che la situazione in Kashmir è drasticamente peggiorata e le autorità continuano a privilegiare un approccio militare. Denuncia anche la violenza crescente verso le minoranze in entrambi i Paesi. Il Forum afferma che “quella del Kashmir è questione centrale alla normalizzazione delle relazioni tra India e Pakistan”.

Il “Corridoio” della discordia

Il “Corridoio economico Cina Pakistan”, o Cpec, è un progetto da 46miliardi di dollari per unire la città di Kashgar, nella Provincia del Xinjiang nella Cina Occidentale, con il porto pachistano di Gwadar, sul mare arabico, con una rete di autostrade, ferrovie, oleodotti, elettrodotti, cavi di fibra ottica e zone economiche speciali. Il progetto però suscita proteste in Gilgit-Baltistan, territorio montagnoso all'estremo Nord del Pakistan, unico varco di terra tra Cina e Pakistan e quindi passaggio obbligato del “Corridoio”. Gli abitanti residenti locali temono di essere esclusi dai benefici del progetto. Il Gilgit-Baltistan era parte del principato di Jammu&Kashmir; dal 1949 fa parte del territorio controllato dal Pakistan, di cui però non ne fa parte ufficialmente: non è citato dalla Costituzione, il suo assetto istituzionale è ambiguo, i suoi cittadini non hanno i diritti della cittadinanza pakistana. La contesa del Kashmir dunque riverbera anche sui progetti di sviluppo economico della Regione.


TENTATIVI DI PACE

Una Ong per ricostruire

La notte del 23 febbraio del 1991 decine di soldati dell'esercito indiano hanno circondato Kunan e Poshpora, villaggi gemelli del Kashmir. Hanno fatto irruzione nelle case, trascinato via gli uomini e violentato oltre cinquanta donne, dalle ragazzine di 13 anni alle nonne di 60. Avevano voluto così umiliare e “punire” la popolazione civile, sospettata di simpatizzare con i ribelli. Il caso di Kunan Poshpora è tornato alla ribalta molti anni dopo grazie a un gruppo di studentesse, avvocate e attiviste per i diritti umani, giovani e agguerrite. Riunite presso la Jammu & Kashmir Coalition of Civil Society, coalizione di gruppi per i diritti umani, nel 2013 hanno fatto circolare una petizione. Sono andate a cercare le sopravvissute e hanno raccolto le loro testimonianze. Infine nell'aprile 2013, ben 22 anni dopo i fatti, cinquanta donne hanno depositato una Public Interest Litigation (querela “per interesse pubblico”) che ha costretto la magistratura a riaprire il caso. Ancora però nessuno è stato perseguito per quello stupro di massa. Né sono mai stati perseguiti in giustizia i tanti casi di stupro, uccisioni extragiudiziarie, arresti illegali degli ultimi trent'anni. Naturalmente nessuna legge, neppure d'emergenza, legittima lo stupro commesso da soldati in servizio: per questo le autorità militari negano che il fatto sia mai avvenuto.

UNHCR/M.Cierna

Kashmir sono in gran parte fuggiti. Il Governo centrale ha mandato esercito e corpi paramilitari a contrastare i ribelli, la valle è stata militarizzata. È stata una guerra largamente manovrata dai servizi segreti, ma è la popolazione del Kashmir che ha pagato il prezzo più alto. Tra il 1988 e il 2016 sono morte tra 45mila e centomila persone (la più bassa è la stima del South Asia Terrorism Portal, l'altra è della Conferenza per la libertà, la All Parties Hurriyat Conference, cartello di forze nazionaliste); gran parte dei morti sono civili. Il conflitto inoltre ha travolto forze sociali e politiche, sindacati, gruppi per i diritti umani. Dai primi anni Duemila la violenza è andata calando. Ma il conflitto ha lasciato una scia di ingiustizie e abusi mai riparati. Nel 2010 il Kashmir ha visto un'ondata di proteste inedita, una intifada urbana che ha coinvolto giovanissimi armati di sassi: chiedevano la revoca delle leggi speciali che garantiscono impunità all'esercito. Le forze di sicurezza hanno risposto sparando;

I PROTAGONISTI

un centinaio di giovani sono rimasti uccisi, centinaia arrestati. Nel 2012 il Governo ha concesso un'amnistia. Quell'anno è stato in assoluto il meno sanguinoso da un ventennio, con 117 morti relativi al conflitto. Poi però la tendenza si è invertita. Nel 2013 ha suscitato rabbia e proteste in Kashmir l'impiccagione di Afzal Guru, esponente kashmiro condannato a morte per l'attacco del 2001 al parlamento indiano (dopo un processo molto contestato da intellettuali e attivisti per i diritti umani). Gruppi armati come il Hizb-ul Mojaheddin hanno ripreso a reclutare; l'infiltrazione di guerriglieri e armi dal territorio pachistano è ripresa. Nella valle del Kashmir la disillusione è palpabile. Le promesse di pace e benessere non si sono realizzate o non per tutti. Le leggi speciali restano in vigore, e New Delhi non sembra disposta a ripristinare l'autonomia del Jammu&Kashmir. La pace nella valle del Kashmir dipende sia dalle relazioni tra India e Pakistan, sia dalla capacità dell’India di trovare un assetto democratico condiviso con le forze sociali e politiche di questo territorio. Ma senza garantire giustizia e revocare le leggi d'eccezione questo sarà molto difficile.

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Kunan Poshpora

Chinar Kashmir è un'organizzazione non governativa con base operativa in Kashmir attiva nel territorio dal 2004. Forte è la sua presenza sia in campo sociale che in campo umanitario; dopo aver iniziato come centro di accoglienza per i bambini orfani, con il tempo la sua funzione si è estesa sempre di più, cominciando ad integrare una fornitura di assistenza sanitaria gratuita e fornendo aiuti umanitari nelle zone del Paese colpite da catastrofi naturali. È proprio durante la grave alluvione del 2014 nella Regione dello Srinagar che Chinar Kashmir si è presa l’incarico di ricostruire le abitazioni e gli edifici danneggiati dall'acqua oltre che di collaborare al recupero e al soccorso dei feriti. La partecipazione dell'Ong alle operazioni di assistenza umanitaria in occasione di calamità naturali non è nuova: va ricordata anche la forte presenza esercitata dopo il terremoto del 2005 che aveva colpito la zone dell'Uri, dove Chinar Kashmir è intervenuta prontamente fornendo forza lavoro per la costruzione di rifugi per gli sfollati e beni di prima necessità quali acqua e cibo.


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Come leggere le mappe

La mappa, qui sopra, indica il territorio turco. Qui a destra riportiamo la mappa del territorio transnazionale abitato dai curdi.


Cambio generazionale

Il 19 maggio 2017, Nawshirwan Mustafa, leader del movimento Cambiamento, la principale forza laica di opposizione nel Kurdistan iracheno, è morto dopo una lunga malattia. Il 3 ottobre, a Berlino, è morto Jalal Talabani, probabilmente il più rispettato politico curdoiracheno. E il Presidente del Governo regionale, Massoud Barzani, ha annunciato le sue dimissioni (da tempo chieste dalle opposizioni). Tre fatti che segnalano un possibile cambio generazionale ai vertici della politica del Kurdistan iracheno. Un cambio, però, che almeno per il momento non sembra intaccare i modi della gestione del potere, spesso clientelare e poco trasparente. Anzi, l’emersione di una nuova generazione di leader potrebbe aprire nuove fratture in un contesto già molto fragile.

© Fabio Bucciarelli

Al centro del “grande gioco” mediorientale, i Curdi hanno vissuto un anno durissimo. In Siria, ai combattimenti contro l’Isis ormai sulla via della sconfitta e a quelli contro le truppe del Governo di Damasco, si sono aggiunte le incursioni corazzate dell’esercito turco, che sta colpendo nell’indifferenza generale, la Regione di Afrin. Il Governo di Ankara ha aumentato la pressione militare verso i territori curdi della Siria, il Rojava, e allo stesso tempo sta lavorando perché cessi il sostegno militare statunitense ai combattenti curdi. In Turchia le cose non vanno meglio. Il Governo di Erdogan ha esteso la repressione contro attivisti per i diritti umani, giornalisti e oppositori in genere: in una Turchia meno democratica è difficile vedere all’orizzonte un qualche progresso per i diritti dei curdi. In Iraq, l’evento dell’anno 2017 è stato il referendum per l’indipendenza, organizzato dal Governo autonomo del Kurdistan iracheno per il 25 settembre e vinto a stragrande maggioranza dal sì. Un sì, però, destinato a non modificare granché nell’immediato, anzi. Il referendum si è rivelato un boomerang politico e ha accentuato la tensione tra il Governo regionale e quello centrale di Baghdad. Il braccio di ferro ha rischiato di far scoppiare una guerra aperta tra esercito iracheno e peshmerga curdi, che hanno poi deciso di ritirarsi da una parte consistente del territorio che era stato sottratto all’Isis, comprese aree attorno a Mosul e soprattutto a Kirkuk, fondamentale snodo petrolifero. La reazione del Governo federale iracheno, che ha anche bloccato i confini della Regione curda e il suo spazio aereo, ha reso evidente che la sostenibilità di un eventuale stato curdoiracheno è tutt’altro che garantita. Lo strappo del referendum ha accentuato la crisi interna del Governo regionale curdo-iracheno: le elezioni che avrebbero dovuto svolgersi a novembre, sono state rinviate di otto mesi;

KURDISTAN

Generalità Nome completo:

Kurdistan

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Kurmanji, Sorani e molti sotto dialetti

Capitale:

n.d.

Popolazione:

Circa 40.000.000

Area:

Circa 500.000 Kmq

Religioni:

Maggioranza musulmana sunnita

Moneta:

n.d.

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

n.d.

il parlamento regionale, sospeso per quasi due anni, è tornato a riunirsi, ma la spaccatura tra il Governo e le opposizioni si è manifestata in tutta la sua profondità. L’economia va male, soprattutto dopo la riduzione delle entrate petrolifere. A dicembre, manifestazioni di piazza contro il Governo, per protestare contro il ritardo dei pagamenti degli impiegati pubblici e contro la corruzione, sono state represse duramente, con decine di arresti e ampio uso di lacrimogeni.


fondamentali sono ancora oggi negati, nonostante le battaglie di numerose organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch, e delle stesse istituzioni europee: la Commissione contro il Razzismo e l’Intolleranza del Consiglio d’Europa, ha più volte sottolineato come in Turchia non siano garantiti ai curdi diritti basilari quali quello di espressione, assemblea e associazione. I Governi di Iran, Turchia, Siria e dell’Iraq di Saddam Hussein, hanno sempre cercato - seppure in modi diversi e in fasi diverse - di negare la stessa esistenza di questo popolo tentando di cancellarne la cultura, la storia, la lingua e attuando repressioni a volte ferocissime. Nessuno dei Paesi coinvolti vuole rinunciare alle risorse naturali, a partire dal petrolio, di cui è ricco il Kurdistan.

Per cosa si combatte

Le spese militari turche

Nel 2017 la Turchia ha aumentato il suo bilancio della difesa di quasi il 50%. Da 7,9miliardi di dollari nel 2016, Ankara ha speso in armamenti 11miliardi e mezzo nel 2017. Altri 5miliardi di dollari saranno aggiunti nel 2018, confermando una tendenza all’aumento delle spese militari ormai avviata da oltre dieci anni. Per sostenere questo aumento, il Governo di Erdogan ha aumentato alcune tasse, che finanziano il Fondo per il supporto alle industrie della difesa. Tra altre voci per il ministero della Difesa, la spesa militare turca si avvicina ai 18miliardi di dollari e Erdogan punta ad arrivare a 25miliardi entro i prossimi cinque anni. Obiettivo ambizioso e costoso che si affianca a quello di rendere la Turchia autosufficiente per le proprie forniture militari, al momento per metà importate da altri Paesi.

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Quella del popolo curdo è una lotta su più fronti per l’autodeterminazione, l’autonomia e il riconoscimento della propria identità e dei diritti civili e politici all’interno dei diversi Stati in cui si trovano a vivere. Circa 30-40 milioni di curdi (ma i dati non sono molto attendibili) vivono in una Regione in gran parte montagnosa, nel cuore del Medio Oriente, divisi tra Armenia, Iran, Iraq, Siria e Turchia. Sono il quarto più numeroso gruppo etnico del Medio Oriente, ma non hanno mai avuto un loro Stato nazionale. Il Kurdistan, letteralmente “Paese dei Curdi”, è una vasta area geografica di circa 500mila kmq. Si tratta della Regione corrispondente alla parte Settentrionale e Nord-Orientale dell’antica Mesopotamia. Il popolo curdo - di origine indoiraniana - ha la sua lingua, cultura e organizzazione politica ma la sua identità e le libertà

© Fabio Bucciarelli

Con la fine della Prima Guerra Mondiale sembrò possibile la nascita di uno Stato curdo indipendente. A prevederlo era il Trattato di Sévres, firmato il 10 agosto 1920, che stabiliva la creazione di un Kurdistan autonomo nell’Anatolia Orientale. Il Trattato non venne però rispettato, a pesare fu soprattutto la forza della nascente Repubblica turca. Di fatto, il successivo Trattato di Losanna, firmato nel 1923 da Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone, Grecia, Romania cancellò il trattato di Sévres e i territori abitati dal popolo curdo vennero spartiti tra Turchia, Siria, Iran ed Iraq. Oltre 25milioni di curdi furono dispersi, per la maggior parte, in questi quattro Stati. In Iraq, vivono circa 7milioni di curdi, in gran parte nella Regione autonoma del Kurdistan, che copre circa 85mila kmq - per i curdi Basur-Kürdistan, cioè Kurdistan del Sud - ma abitano anche in altre città: Kirkuk, Mosul e la capitale Baghdad. Il Partito Democratico del Kurdistan (Pdk) guidato da Mustafa Barzani si è opposto al regime di Saddam Hussein che ha adottato repressioni brutali contro i curdi: armi chimiche, arresti, uccisioni, sparizioni e deporta-

zioni forzate. In Iraq i due maggiori partiti curdi, il Pdk e il Puk (Unione Patriotica del Kurdistan) si contendono il dominio del territorio e delle sue risorse, anche se forze politiche sganciate dalle due tradizionali sono ormai parte integrante del panorama politico curdo-iracheno. In Iran vivono circa 12milioni di curdi, musulmani sunniti, in un’area di 140mila kmq chiamata Rojhelat Kurdistan, cioè Est Kurdistan. Con lo scoppio della rivoluzione Khomeinista (1979) i curdi iraniani riuniti attorno al Pdki (Partito democratico del Kurdistan Iraniano) fondato da Abdul Rahman Ghassemlou, hanno lottato per ottenere una loro forma di autonomia all’interno dello Stato. Il potere sciita ha dato il via ad una dura repressione che ha causato circa 10mila morti. In Siria, i curdi vivono in gran parte nella Regione chiamata Rojava, situata a Nord Est del Paese in un’area di circa 40mila kmq abitata da 3milioni di persone. Fino all’inizio della guerra civile nel 2011, i curdi non avevano alcun riconoscimento da parte del Governo di Damasco che ha invece cominciato a concedere ampi margini di autonomia al Pyd, il principale partito curdo siriano,

Quadro generale

Intanto in Iran

L’Iran ha nel suo territorio qualcosa come 12milioni di curdi. Solo in Turchia ne vivono di più. Il Presidente Hassan Rouhani ha più volte sottolineato come l’Iran negli ultimi anni abbia sostenuto i curdi in Siria e in Iraq, ma Teheran si è opposta al referendum per l’indipendenza dei curdi iracheni, temendo ripercussioni sulla sua situazione interna. La situazione curda è stata anche al centro della visita di Erdogan in Iran a ottobre del 2017. Nonostante le parole di Rouhani, i curdi come altre minoranze in Iran subiscono una sistematica discriminazione, che rende tesa la situazione.


TENTATIVI DI PACE

Lo sport per diffondere pace e non-violenza

L’organizzazione non governativa “Erbil Marathon Organization for Sport and Peace” si impegna dal 2015 nell’organizzazione di corse e maratone nel capoluogo del Kurdistan iracheno, alle quali sono invitati a partecipare, insieme alla società civile, rappresentanti delle organizzazioni internazionali governative e non, rappresentanti del sistema scolastico e universitario e "ogni altro gruppo informale", che voglia dimostrare la propria solidarietà al popolo curdo. Nel 2017 la Maratona di Erbil ha contato circa 20mila partecipanti. Nelle parole degli organizzatori, è "un evento sportivo internazionale con il fine di dimostrare pace, amore e non-violenza in Iraq e di informare il mondo che, qui, è presente una comunità forte che si impegna per la pace, la non-violenza e la giustizia nel proprio paese e che è supportata da una vasta gamma di partner internazionali". Una prova di come, in contesti di violenza e conflitto, lo spirito di solidarietà possa prevalere sulla paura ed essere fonte di forti manifestazioni di pace e speranza.

Il Partito dell’Unità Democratica (PYD) è il riferimento politico per i curdi siriani. Nato nel 2003, si è costituito nello stesso periodo delle Unità di Difesa del Popolo, le YPG. Il PYD si è riunito all’Assemblea del popolo del Kurdistan occidentale e ha formato con altri sedici partiti curdi l’Assemblea nazionale curda della Siria (ENKS). Dalle due realtà si è costituito poi l’Alto Consiglio Curdo che nel 2013 ha ricevuto legittimazione internazionale ed è stato invitato a partecipare alla Conferenza di Ginevra, insieme a Stati Uniti, Russia, Unione Europea e alle forze dell’opposizione siriana. Nel corso del 2017 nelle regioni della Siria del Nord si sono svolte nel prime elezioni regionali e municipali. Alle regionali è andato a votare il 69% degli aventi diritto e la coalizione che aveva a capo il Pyd ha ottenuto il 90,75% dei consensi. Si trattava della seconda tornata elettorale che coinvolge il Rojava e i territorio curdo-siriani, dopo le elezioni municipali del settembre 2017 e prima delle parlamentari previste per il 2018.

© Fabio Bucciarelli

con l’aggravarsi del conflitto. In territorio turco si trova la gran parte dell’area del Kurdistan, circa 250mila kmq. Ci vivono 12milioni di curdi che chiamano la Regione Bakur-Kurdistan, cioè Nord-Kurdistan. Ai curdi in Turchia non è riconosciuto nessun diritto, la politica del Governo di Ankara è quella di negare la loro stessa esistenza. Nel 1979 il leader curdo Abdullah Ocalan fonda con altri il Pkk, Partito dei lavoratori curdi, organizzazione politica e militare che comincia la sua lotta armata contro il Governo turco per ottenere il riconoscimento dell’identità del popolo curdo. La reazione della Turchia è stata ed è ancora oggi durissima: perquisizioni forzate, distruzione di villaggi, arresti ingiustificati e torture. Dal 15 febbraio del 1999 Ocalan è l’unico detenuto nell’isola prigione di Imrali: era stato condannato a morte dalla Turchia, ma la condanna è stata trasformata in ergastolo nel 2002, quando la Turchia ha abolito la pena di morte. Tra la fine degli anni Novanta e la metà

I PROTAGONISTI

dei Duemila, una serie di piccole concessioni del Governo turco e diversi cessate il fuoco dichiarati dal Pkk avevano fatto sperare in una possibile pace. La speranza si è affievolita a partire dal 2010 ed è tramontata dopo lo scoppio della guerra in Siria e l’avanzata dello Stato Islamico in Siria e in Iraq. A partire dal 2013, le milizie dell’Isis hanno iniziato le loro avanzate contro le zone curde della Siria, venendo respinte dalle forze curde dell’Ypg. Tra il settembre del 2014 e il gennaio del 2015, è stata combattuta la battaglia per Kobane: la Turchia si è rifiutata di attaccare le forze dell’Isis che minacciavano di conquistare la città curda e non ha aperto il confine alle decine di migliaia di profughi che cercavano di lasciare la zona degli scontri. Tanto in Siria quanto in Iraq, le milizie curde sono state in prima linea nelle offensive dirette a riconquistare il territorio controllato dall’Isis. A ottobre del 2017 le milizie curde assieme ad altre forze del Syria Democratic Forces (Sdf) sono riuscite a riconquistare Raqqa, la “capitale” dell’IS. Il rafforzamento della posizione curda nel Rojava e la sempre maggiore autonomia della Regione hanno spinto il Governo turco a intervenire militarmente.

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Curdi siriani e il Partito dell’Unità Democratica


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL MYANMAR RIFUGIATI

490.289

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI BANGLADESH

276.198

THAILANDIA

102.633

MALESIA

87.036

SFOLLATI PRESENTI NEL MYANMAR 375.016 RIFUGIATI ACCOLTI NEL MYANMAR RIFUGIATI

-

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI -


Un anziano uomo forte

Il generale Min Aung Hlaing è il più anziano militare birmano e l’uomo forte del Myanmar. È il vero responsabile della politica di difesa, sia interna sia esterna, di un Paese che si era sperato si fosse liberato della tutela militare. Tatmadaw, l’esercito birmano, ha per altro riformato la Costituzione garantendosi la possibilità di esautorare l’esecutivo in caso di grave minaccia alla stabilità dell’Unione. Con un tale potere costituzionale e con la presenza di suoi membri in parlamento ciò equivale alla possibilità di ribaltare il piatto senza infrangere la legge. La debolezza del Governo civile e lo strapotere di Tatmadaw e di Min Aung Hlaing sono uno degli elementi di freno al processo negoziale. Gli alti gradi birmani sono però colpiti da sanzioni: la Ue impedisce loro l’acquisto di armi e, dopo la vicenda rohingya, è stato ripristinato per loro il divieto di viaggiare in Europa.

Camilla Caparrini

Al netto di una lunga storia che oppone il Governo centrale e la comunità dominante - i Bamar - alle minoranze del Paese che si sentono discriminate, il fronte interno birmano si è caratterizzato, nel corso del 2017, per un’oscura vicenda che ha visto un esodo in gran parte forzato dei Rohingya, una popolazione di lingua bengali, musulmana e cui non viene riconosciuta la cittadinanza. A partire dall’agosto, quando il gruppo armato islamista Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army) ha attaccato alcuni check point militari, l’esercito birmano come già in passato - ha dato la stura a una repressione senza precedenti: incendiando villaggi, uccidendo, stuprando e costringendo alla fuga centinaia di migliaia di persone oltre il confine segnato dal fiume Naf che divide lo stato birmano del Rakhine dal Bangladesh (secondo l’Unhcr i profughi erano oltre 688mila nel febbraio 2018). La legge sulla cittadinanza del Myanmar, varata durante la dittatura militare nel 1982, riconosce 135 nazionalità e tre categorie di cittadini: cittadini propriamente detti, associati o naturalizzati. Ma i rohingya non sono riconosciuti in nessuna delle categorie. La Commissione Annan, che ha concluso i suoi lavori nel 2017, ha raccomandato una revisione della legge. Non di meno un accordo tra Dacca e Naypyidaw ha stabilito i termini per un rimpatrio per i rohingya rifugiatisi in Bangladesh da iniziare nel 2018 anche se organizzazioni come Amnesty e Human Rights Watch hanno sollevato dubbi sulle condizioni in cui il rimpatrio potrebbe avvenire. Per la vicenda rohingya sono state usate parole molto pesanti: genocidio (dal premier della Malaysia) pulizia etnica da manuale (dalle Nazioni Unite) apartheid (Amnesty) ma in realtà il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, frenato da Mosca e Pechino (uno dei miglior alleati attuali del Myanmar), non ha mai preso una posizione sufficiente sia a fermare le stragi e l’esodo sia a garantire il ritorno. Sul fronte delle minoranze armate, il Governo ha in piedi l’iniziativa di una Conferenza di pace dell’Unione (Unione Peace Conference) che si riunisce ogni sei mesi. Nell’ultima, tenutasi nel gennaio del 2018, sono state sollevate perplessità sull’andamento del processo negoziale

MYANMAR

Generalità Nome completo:

Repubblica dell'Unione del Myanmar

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Birmano (ufficiale). Kachin, Kayah, Karen, Chin, Mon, Rakhine, Shan (riconosciute)

Capitale:

Naypyidaw

Popolazione:

53.582.855

Area:

676.577 Kmq

Religioni:

Buddismo theravada 87,9%, Cristianesimo 6,2%, Islam 4,3%, Altri 1,6%

Moneta:

Kyat

Principali esportazioni:

Petrolio, gas, prodotti agricoli, legname

PIL pro capite:

Us 1.374

visto che diversi gruppi non hanno sottoscritto l’accordo di cessate il fuoco (National Ceasefire Agreement) anche se alcuni di loro hanno partecipato a vari incontri. La vicenda dei rohingya, che ha dimostrato la forza dell’esercito, e la permanenza di importanti contingenti militari nelle zone a rischio, sono tra gli elementi che frenano il processo negoziale che si sperava avrebbe ricevuto una spinta con l’avvento del nuovo Governo democratico.


La maggior parte dei gruppi armati birmani ha combattuto per secedere o avere uno status riconosciuto di autonomia con larghi poteri. È questo anche il caso dei Rohingya le cui formazioni di rappresentanza politica sono soprattutto all’estero. Il gruppo Arsa, erede di movimenti autonomisti precedenti, non chiede la secessione dal Myanmar ma una larga autonomia e ha giustificato gli attacchi dell’agosto 2017 come un’azione difensiva dovuta a una manovra di accerchiamento dell’esercito. La versione governativa è invece che si tratta di un gruppo terroristico, finanziato dall’estero che mira al sovvertimento dell’ordine nazionale costituendo quindi una grave minaccia per il Paese. Quanto agli altri conflitti, la loro storia inizia

subito dopo la proclamazione dell’indipendenza e continua con alti e bassi, tregue e cessate il fuoco con conseguenti violazioni e migliaia di sfollati interni o profughi oltre frontiera. Dopo il 1990 una serie di tregue sono state violate dall’esercito birmano e gli scontri sono ripresi soprattutto con le comunità Kachin e Shan e altri gruppi minori. Nel 2012 i negoziati sono ripresi e il Governo civile nato dalle elezioni del 2015 si è impegnato per rafforzare il processo deludendo però le aspettative. Un aggiornamento della situazione intermittente dei conflitti nelle aree periferiche, sui quali l’informazione è molto scarsa e l’accesso a fonti indipendenti molto difficile, si può seguire sul sito Myanmar Peace Monitor (http://mmpeacemonitor.org).

Per cosa si combatte

Un monaco ultranazionalista

Ashin Wirathu, il più noto monaco ultranazionalista, ha avuto l’onore della copertina di Time magazine nel 2013. È tra le figure che più hanno promosso lo scontro nel Rakhine e soprattutto il pogrom dei rohingya nel 2012: i suoi discorsi infiammano le folle e predispongono il terreno fertile per un radicalismo anti musulmano venato di razzismo. Il suo gruppo, Ma Ba Tha, è stato ufficialmente sciolto dalle autorità a capo della comunità buddista birmana (che fu protagonista della lotta contro la dittatura) ma è risorto con altri nomi come la Buddha Dhamma Parahita Foundation. Ottimo il suo rapporto con i militari anche se ora deve accontentarsi di un ruolo defilato di secondo piano. Nel 2003 è già finito in carcere per incitamento all'odio anche se poi è stato rilasciato nel 2010.

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Camilla Caparrini

La storia del Myanmar, culla del buddismo e sede di prestigiose opere d’arte che ne fanno una della maggiori attrazioni turistiche dell’area, affonda le radici della sua millenaria civiltà nelle prime aree abitate lungo le sponde del fiume Irrawaddy. È però soltanto nel IX secolo che fanno la loro comparsa i Bamar, la comunità che dominerà il territorio dalla capitale Pagan, oggi Bagan, centro storico di diverse monarchie birmane. La storia recente del Paese è invece caratterizzata dall’inclusione di Burma- Birmania, come il Myanmar era chiamato, nel grande spazio coloniale gestito dal Raj britannico. Nei primi mesi del 1886 l’intera Birmania diventa una Provincia dell’India britannica e nel 1887 diventa sede di un vice governatorato che solo nel 1937 passa direttamente a un’amministrazione separata, sotto l’egida diretta del Burma office di Londra (segretariato di Stato per l’India e la Birmania). La lotta per l’indipendenza, che come altrove sfrutterà le vicende legate alla Seconda guerra mondiale con l’invasione giapponese del Sudest asiatico con lo slogan “L’Asia agli asiatici”, si concluderà nel 1948. Con un colpo di stato nel 1962 - e così fino al 2011 - il Paese conosce però

l’inizio della sua stagione più buia, dominata da un potere militare che reprime ogni forma di ribellione politica e sindacale e il cui simbolo di resistenza diventa Aung San Suu Kyi, reclusa agli arresti domiciliari. Nel 1990 si tengono elezioni che vengono vinte clamorosamente dalla Lega Nazionale per la Democrazia ma i militari ignorano il risultato. Le cose cominciano a cambiare con la nuova Costituzione del 2008 - sottoposta a referendum - che, pur essendo molto favorevole al potere militare, apre la strada a elezioni che si tengono nel 2010. Infine nel 2011 i militari passano la mano a un Governo civile anche se si tratta di un esecutivo nato da brogli e sotto l’egida di Tatmadaw, l’esercito birmano. Nel 2015 si sono alla fine tenute libere elezioni che hanno visto la vittoria a stragrande maggioranza della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi. Pur avendo la maggioranza dei seggi e potendo quindi formare il Governo (2016) il nuovo esecutivo deve fare i conti con un parlamento che resta in parte sotto il controllo dei militari che si sono costituzionalmente garantiti 56 seggi dei 224 (ossia il 25%) alla Camera alta o Camera delle nazionalità (Amyotha Hluttaw). Alla Camera bassa invece (Pyithu

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

In soccorso dei Rohingya

(Yangon, 19 giugno 1945)

Aung San Suu Ky, consigliere di Stato dell’Unione e ministro degli Esteri, è di fatto la leader del Paese. La carica le consente un ruolo importante ma non la presidenza perché a capo dello Stato non può esserci chi ha vincoli di matrimonio con stranieri (il marito è morto alcuni anni fa). Premio Nobel per la pace, icona della lotta per i diritti e la democrazia, si è questa volta schizzata di fango un’immagine che pareva inossidabile. La vicenda dei rohingya le è valsa una condanna unanime da personaggi politici, Nobel, semplici cittadini, organizzazioni della società civile. Nessuno si aspettava il suo silenzio e la totale assenza di una presa di posizione, almeno a parole, su una strage e un esodo consumatisi prima in anni e poi in pochi mesi. Si è mossa con estrema cautela facendo passi anche importanti (come l’istituzione della Commissione Annan) ma insufficienti. Chi l’accusa di consentire un genocidio non la ritiene giustificabile. Chi la giustifica sostiene che, ricattata dall’establishment militare, non aveva scelta. Da qui la decisione di sacrificare un milione di rohingya per salvare 50milioni di birmani.

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Aung San Suu Ky

I Rohingya sono considerati una delle minoranze più perseguitate al mondo e la situazione umanitaria in Myanmar è diventata negli ultimi mesi catastrofica: oltre 650mila Rohingya sono stati costretti a lasciare le loro case e a fuggire in Bangladesh, dove hanno trovato rifugio nei campi di accoglienza di Cox’s Bazar. I Rohingya rimasti in Myanmar sono invece stati ammassati in fatiscenti campi profughi in condizioni igienico-sanitarie disastrose. Secondo le stime, 1milione di Rohingya che vivono in Myanmar sono stati vittime per anni di persecuzioni e gravi violazioni dei diritti umani da parte delle autorità. Si parla di uccisioni, di stupri, di una vera e propria pulizia etnica mirata a distruggere il popolo dei Rohingya. Per mitigare questa emergenza è intervenuta la nave Phoenix della Ong internazionale Moas - Migrant Offshore Aid Station - organizzazione impegnata nel soccorso in mare dei migranti. La Phoenix, utilizzata fino allo scorso settembre nel Mediterraneo, è ora in Bangladesh a supporto della prima Moas Aid Station, una clinica medica a Shamlapur, dove arrivano ogni giorno centinaia di Rohingya in cerca di aiuto e cure. L’obiettivo è quello di fornire assistenza medica primaria e di mettere a disposizione dei profughi bagni e strutture igieniche. Poiché inoltre i livelli di vaccinazione nello Stato del Rakhine Settentrionale sono molto bassi, Unicef e Oms hanno lanciato in questi mesi una campagna di vaccinazioni per tutti i bambini Rohingya che vivono nei campi per rifugiati allestiti sul confine tra Myanmar e Bangladesh.

Camilla Caparrini

Hluttaw), i rappresentanti dell'esercito hanno diritto a 110 seggi su 440 (sempre il 25%). I rappresentanti delle forze armate non vengono eletti ma nominati. Il capo dello Stato attuale è Htin Kyaw, primo Presidente civile della storia del Myanmar. Aung San Suu Kyi, non potendo essere Presidente, è consigliere di Stato, una carica che equivale alla premiership. È inoltre titolare degli Esteri. I militari hanno però negoziato tre dei portafogli chiave dell’esecutivo e hanno ottenuto i dicasteri di Difesa, Interno e Frontiere. I militari detengono anche parte del potere economico locale di un Paese povero e con un’ineguale distribuzione della ricchezza ma ricco di energia, legname, minerali pregiati.

I PROTAGONISTI

Il Myanmar ha un’economia fragile condizionata dalla presenza di due potenti vicini: India e Cina. Sono loro di fatto, soprattutto i cinesi, a dettare le regole del gioco con grandi investimenti e finanziamenti (gasdotti, poli logistici, viabilità, infrastrutture) ma garantendo in cambio anche un solido appoggio in sede internazionale. Anche l’India, grande Paese affamato di energia, gioca la sua partita ed è sempre stata disposta a chiudere un occhio sulle violazioni latenti della dittatura militare e adesso del neonato Governo civile. Come la Cina, non ha voluto prendere posizione sulla vicenda rohingya ma in compenso il premier Narendra Modi ha fatto sapere che avrebbe espulso dal suo Paese tutti i rohingya clandestini. Il Myanmar fa parte dell’Asean dal 1997. Frizioni si sono registrate con Indonesia e Malaysia sulla questione rohingya e dove molti profughi hanno cercato e trovato rifugio.


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Come leggere la mappa

La mappa, qui sopra, indica il territorio dell'Azerbaijan. La selezione indica la parte riferita ai confini del Nagorno Karabakh.


Si cerca la pace sociale

Uno degli ostacoli al processo di pace è la sfiducia tra le parti, il sospetto reciproco creato da decenni di conflitto e stallo negoziale. Per promuovere canali di comunicazione e comprensione, l'Unione Europea ha dato vita alla European Partnership for the Peaceful Settlement of the Conflict over Nagorno-Karabakh (Epnk). Grazie alle attività sul campo di cinque organizzazioni della società civile, l'iniziativa - inaugurata nel maggio 2016 e in corso fino all'aprile 2019 - favorisce il dialogo, alla ricerca di un terreno comune per il processo di riconciliazione sociale tra armeni e azeri. Alla base, la convinzione che la pace politicodiplomatica, dall'alto al basso, vada accompagnata dalla pace sociale, dal basso all'alto.

Il 2017 è stato un anno complicato per il Nagorno-Karabakh, il territorio conteso tra Armenia e Azerbaigian dal 1988, quando la Regione (Oblast) autonoma del Nagorno-Karabakh ha chiesto al Soviet supremo di Mosca il trasferimento dalla Repubblica sovietica azera a quella armena. Un anno di transizione cruciale, il 2017, perché ha fatto seguito ai cruenti scontri dell'aprile 2016, i più drammatici dal cessate il fuoco del 1994, il precario accordo che ha congelato per anni la situazione dal punto di vista diplomatico, senza scongiurare sporadici scontri a fuoco e il rischio di una guerra regionale. Alla luce degli avvenimenti del 2016, di intermittenti frizioni militari del 2017, della crescente polarizzazione delle posizioni diplomatiche di Baku (Azerbaigian) e Yerevan (Armenia) e del radicalizzarsi delle rispettive opinioni pubbliche interne, nel 2017 il gruppo di Minsk - l'organismo dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) che ha il mandato di favorire il negoziato - ha avuto un compito particolarmente difficile. Istituito nel 1994, composto da 9 Paesi e co-diretto dal 1997 da Stati Uniti, Francia e Russia, nell'ottobre 2017 il gruppo di Minsk è riuscito a ottenere un incontro tra i Presidenti di Armenia e Azerbaigian. Dopo aver discusso a Ginevra, l’armeno Serzh Sargsyan e l’azero Ilham Aliyev hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta in cui si impegnano a continuare i colloqui e ad assumere iniziative per ridurre la tensione. Un segnale positivo, ma che non va sopravvalutato. La storia del “conflitto-congelato” per il Nagorno-Karabakh e la cronaca più recente dimostrano infatti quanto sia difficile trovare spiragli per un vero dialogo: nel maggio e nel giugno 2016 i due Presidenti si sono incontrati due volte, ma non ne è scaturito alcun avanzamento negoziale. Oltre alla reciproca sfiducia personale tra i due Presidenti, rimangono inevase le grandi questioni che dividono l'Armenia dall'Azerbaigian, riconducibili alla contraddizione tra due principi chiave del diritto internazionale: l'in-

NAGORNO KARABAKH

Generalità Nome completo:

Repubblica del Nagorno-Karabakh o Repubblica di Artsakh

Bandiera

145

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Armeno

Capitale:

Stepanakert

Popolazione:

Circa 150.000

Area:

114.458 Kmq

Religioni:

Cristiana, musulmana

Moneta:

Dram armeno, dram di Artsakh

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

n.d.

tegrità territoriale, rivendicata dall'Azerbaigian che chiede la restituzione del territorio sottrattogli militarmente dall'Armenia per difendere i separatisti del Nagorno-Karabakh, e il diritto all'autodeterminazione, invocato dalla popolazione che vive nell'enclave, la quale ha espresso la decisione unilaterale di unirsi all'Armenia, che da parte sua difende gli interessi dei separatisti armeni. È intorno a questi due principi, diversamente interpretati a seconda del periodo storico e del contesto geopolitico, che si articola il più lungo conflitto nei territori dell'ex Unione Sovietica.


Nel Nagorno-Karabakh si combatte per il controllo di un territorio piuttosto circoscritto, non particolarmente ricco ma collocato in un'area strategica, incastonato tra le montagne del Caucaso Meridionale, in una Regione sempre più centrale nel connettere l'Europa all'Asia e nelle rotte della distribuzione energetica. Il conflitto tra la maggioranza armena e la minoranza azera che abitano nell'ex Regione autonoma del Nagorno-Karabakh ha radici antiche ed ha assunto forme diverse nel corso del tempo. L'implosione dell'Unione sovietica, con la nascita nel 1991 delle Repubbliche indipendenti dell'Armenia e dell'Azerbaigian, ha alimentato nuovamente lo scontro, già esplosivo da quando, nel 1988, i cittadini armeni del NagornoKarabakh - preoccupati anche per la politica di "azerizzazione" forzata dell’allora Presidente

del Soviet centrale dell’Azerbaigian, Heydar Aliyev, padre dell’attuale Presidente - hanno avallato con un referendum la decisione del parlamento di entrare nell’orbita armena. La guerra combattuta tra il 1991 e il 1994 ha causato circa 25mila vittime, mentre più di 700mila azeri e 400mila armeni hanno dovuto abbandonare le proprie case. La situazione è in stallo dal 16 maggio 1994, quando è stato raggiunto un cessate il fuoco, che non ha però impedito la ripresa delle ostilità militari negli anni successivi e che non soddisfa del tutto né Yerevan né, tanto meno, Baku. Da allora, e in particolare dal 2008, i due Paesi si accusano reciprocamente e con regolarità di oltrepassare la "linea di contatto", l’area altamente militarizzata, lunga circa 200 chilometri, che li divide.

Per cosa si combatte

A dispetto della dichiarazione congiunta rilasciata in occasione dell'incontro dell'ottobre 2017 a Ginevra, nel corso del 2017 entrambi i Presidenti hanno alzato i toni, anche per assecondare i sentimenti delle rispettive opinioni pubbliche interne. I mediatori internazionali sono preoccupati per l'orientamento bellicista che prevale all'interno dei due Paesi. Sia in Armenia sia in Azerbaigian, una parte della popolazione invoca con sempre maggior convinzione il ricorso a una soluzione finale, di tipo militare, che metta fine al prolungato stallo negoziale. Per molti, non si tratta di un’opzione tra le altre, ma di una necessità urgente. Una convinzione ancora più diffusa dopo gli scontri militari dell'aprile 2016, che hanno permesso all’Azerbaigian di conquistare due importanti alture nel territorio del Nagorno-Karabakh. Conquiste che hanno alimentato la fiducia nella soluzione militare e diffuso un patriottismo esasperato. Baku insiste in particolare sul riconoscimento da parte degli attori internazionali della validità giuridica delle proprie rivendicazioni, invocando la condanna dell’Armenia per aver non solo

occupato, ma “annesso” i territori azeri. Azione per la quale chiede, in modo più o meno esplicito, sanzioni simili a quelle comminate alla Russia per l’annessione della Crimea. Allo stesso tempo, l’Azerbaigian ha ampliato il proprio arsenale, acquistando armi da Russia, Israele, Pakistan e dalla Turchia, che rimane un alleato strategico importante, così come lo è la Russia per l’Armenia, sebbene Yerevan sia insoddisfatta dell’equilibrismo tenuto da Mosca nel conflitto. All’enfasi con cui Baku capitalizza i successi militari ottenuti nel 2016, Yerevan risponde con un’ulteriore rafforzamento militare delle proprie posizioni lungo la “linea di contatto” e con la progressiva militarizzazione della società, la quale d’altronde sembra compatta nel negare come irrealistica e pericolosa l’ipotesi di restituire all’Azerbaigian i 7 distretti azeri che, oltre al Nagorno-Karabakh, l’Armenia controlla dal 1994 (5 totalmente, 2 solo in parte). Sul piano negoziale, le differenze restano notevoli, non solo sugli obiettivi ultimi, ma sul metodo per raggiungerli. L'Armenia non intende sedersi al tavolo negoziale prima di rice-

Quadro generale

Un Presidente provisorio

146

Bako Sahakyan, nato il 30 agosto del 1960 a Stepanakert, è il "Presidente transitorio" della Repubblica dell'Artsakh, come gli armeni chiamano il Nagorno-Karabakh. Il suo status di Presidente transitorio è stato deciso nel febbraio 2017 da un referendum: più del 90% della popolazione ha avallato un emendamento costituzionale che attribuisce maggiori poteri al Presidente e consente a Bako Sahakyan, eletto nel 2007 e di nuovo nel 2012, di candidarsi nuovamente alle elezioni del 2020. La classe politica dell'Artsakh intendeva rafforzare le prerogative del Parlamento, avvicinando l'architettura istituzionale della Repubblica di Artsakh a quella armena, ma il conflitto dell'aprile 2016 ha ribaltato la prospettiva, dando vita a una Repubblica presidenziale.


TENTATIVI DI PACE

L'Osce punta all'autogoverno

Il conflitto sullo status del Nagorno-Karabakh è al centro delle attenzioni dell'Osce, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa che, dal 1992 ad oggi, opera per una soluzione negoziata attraverso una struttura di lavoro denominata gruppo di Minsk. Formalmente c’è un accordo di principio su alcuni temi: una soluzione al conflitto deve prevedere il ritorno di alcuni territori sotto il pieno controllo azero, l’autogoverno della popolazione del Nagorno-Karabach, e una garanzia di sicurezza internazionale. Nella pratica il processo negoziale però si trova in stallo da molti anni. Sotto il patrocinio della presidenza austriaca dell'Osce si è tenuto il 17 ottobre 2017 un incontro fra i Capi di Stato di Azerbaigian e Armenia. Entrambi si sono impegnati a proseguire nelle misure di “costruzione della fiducia” e nei negoziati per una soluzione definitiva al conflitto. Ad aprile 2018 l’Osce, presente sul campo con pochi osservatori, ha iniziato il monitoraggio della “linea di contatto”: un piccolo passo avanti.

Vladimir Putin

"Non possiamo prenderci la responsabilità e rimanere risucchiati in questo conflitto, che potrebbe trascinarsi per molti anni". Così nel 2004 Vladimir Putin giustificava l'equilibrismo della Russia, il più influente attore nel conflitto tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh e uno dei tre Paesi - insieme a Stati Uniti e Francia - a guidare il gruppo di Minsk. Il Presidente russo intende rimanere l'attore più importante, ma senza imporre risoluzioni e condividendo la responsabilità della gestione del conflitto con la comunità internazionale. Una posizione che scontenta tutti. Nel 2016, è stato criticato da Baku per aver forzato la mano sul cessate il fuoco, e da Yerevan per non aver rispettato l'accordo bilaterale che prevede il sostegno di Mosca. I Governi di Armenia e Azerbaigian ritengono che Putin si preoccupi di tutelare gli interessi russi e di espanderne l’influenza nel Caucaso Meridionale, più che di trovare soluzioni consensuali. Il fatto che la Russia venda armi a entrambi gli attori aumenta il sospetto e fa di Putin un mediatore necessario, ma inaffidabile.

147

(San Pietroburgo, 7 ottobre 1952)

vere garanzie sullo status giuridico finale del Nagorno-Karabakh, e si sente minacciata dalla crescente postura muscolare di Baku. L'Azerbaigian invece ha fretta di scongelare la situazione di stallo, che rischia di istituzionalizzare un equilibrio lesivo dei propri interessi e contrario, sostiene Baku, al diritto internazionale. Non è un caso che il Governo azero ricordi spesso le passate risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che descrivono i territori contesi come occupati. Oltre alla sfiducia reciproca, pesa la sfiducia nei mediatori. Agli occhi di Baku e Yerevan, anche la Russia, il principale e più influente attore internazionale e regionale, non è un mediatore disinteressato. Senza un mediatore percepito come neutrale e affidabile, il conflitto non può che intensificarsi, perché mancano veri e propri canali di comunicazione tra i due Presidenti, tra i due governi, tra le leadership militari nella zona di conflitto. Inoltre, le due parti sono ancora lontane dall’affrontare le

I PROTAGONISTI

questioni più spinose. Il ritorno sotto il controllo di Baku dei sette distretti azeri attualmente controllati dall’Armenia, che li considera come “territori liberati”, oltre che come una sorta di “cintura di sicurezza”; lo status che dovrà avere in futuro il Nagorno-Karabakh, ora abitato pressoché esclusivamente dagli armeni, ma in passato anche dalla comunità azera; il rientro nelle proprie case dei profughi costretti ad abbandonarle durante gli anni Novanta. Per ora, le posizioni sul futuro assetto rimangono inconciliabili: Baku vuole un Nagorno-Karabakh autonomo, dentro i propri confini, ma il Presidente armeno Sargsyan sostiene che non permetterà mai che l'enclave torni sotto il controllo azero; Yerevan insiste sull'indipendenza del NagornoKarabakh, che chiama con il suo vecchio nome armeno, Artsakh, come eventuale preludio all'annessione, mentre Baku risponde che non permetterà la nascita di uno Stato armeno nel territorio azero. La soluzione passa per un vero processo di pace. E per scelte coraggiose: le concessioni reciproche che potrebbero favorire la stabilità sul lungo termine non possono che essere impopolari, sia in Azerbaigian sia in Armenia.


148

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL PAKISTAN RIFUGIATI

105.428

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI AFGHANISTAN

59.737

ITALIA

13.412

REGNO UNITO

6.814

SFOLLATI PRESENTI NEL PAKISTAN 448.956 RIFUGIATI ACCOLTI NEL PAKISTAN RIFUGIATI

1.352.560

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI AFGHANISTAN

1.352.160 -


Elezioni nel 2018

Shahid Khaqan Abbasi, classe 1958, è un premier di transizione che ha assunto l’incarico nell’agosto del 2017 dopo le dimissioni di Nawaz Sharif. Suo compito è portare il Paese a elezioni nel 2018. Nato a Karachi, nel Sindh, è membro dell’attuale partito di Governo, la Muslim League - la formazione di centrodestra fondata da Nawaz Sharif nel 1988 - ed è stato più volte deputato (è considerato uno dei più ricchi ) e ministro. I suoi detrattori dicono che il suo ruolo è in realtà quello di far calmare le acque per aprire nuovamente i giochi alla famiglia di Nawaz Sharif.

UNHCR/S.Phelps

Accusato di essere un Paese che “mente” e che ha abusato della pazienza degli Stati Uniti, il Pakistan si è visto tagliare, nel bilancio federale americano 2019, circa 2miliardi di dollari di fondi destinati all’assistenza militare, ridotti a 80milioni. Altri 256, in aiuti allo sviluppo, sono invece rimasti in budget ma il taglio, pesante sul piano finanziario, risulta ancora più pesante sul piano politico. Islamabad è accusata di combattere il terrorismo con una mano e di sostenerlo con l’altra. Il cuore del problema è la guerra afgana e le responsabilità legate sia all'ospitalità concessa in territorio pachistano ai talebani afgani, sia ai legami storici dei servizi con la Rete Haqqani, il gruppo filoqaedista più radicale e stragista alleato al movimento talebano di mullah Akhundzada. I pachistani, attraverso i servizi segreti, manterrebbero rapporti stretti col movimento per poter controllare quanto avviene in Afghanistan, un territorio che, nella concezione militare del Paese dei Puri, costituisce la retrovia fondamentale in caso di guerra con l’India (la cosiddetta “profondità strategica”). I pachistani hanno effettivamente sempre cercato di condizionare l’andamento della guerra e un eventuale processo di pace per essere certi di poter domani contare su un Governo amico a Kabul e i rapporti tra servizi e gruppi islamisti (non solo talebani) sono ormai una certezza. Non di meno, il controllo di Islamabad sui talebani è relativo: se è pur vero che l’ospitalità a Quetta o a Peshawar delle shure (consigli) talebani è un’arma di ricatto, è anche vero che sia il movimento in sé, sia i vari comandi talebani godono di una discreta autonomia decisionale, in una rete disomogenea e difficile da controllare e quindi da eterodirigere. Il partner più affidabile della politica estera pachistana resta la Cina che ha spinto Islamabad a prendere un’iniziativa di “pulizia” nel Waziristan dove sono presenti gruppi radicali dello Xinjang. Pechino ritiene Islamabad un partner importante e finanzia progetti di grandi infra-

PAKISTAN

Generalità Nome completo:

Repubblica Islamica del Pakistan

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Urdu, inglese (lingue ufficiali), punjabi, sindhi, pashto, beluci

Capitale:

Islamabad

Popolazione:

207.000.000 (censimento 2017)

Area:

796.095 Kmq

Religioni:

Musulmana

Moneta:

Rupia pakistana

Principali esportazioni:

Tessile lavorato (50%), cotone, cereali, cuoio

PIL pro capite:

Us 1.629

strutture che legano sempre più il Paese all’economia cinese. Il fronte interno, dopo che il premier Nawaz Sharif ha dovuto lasciare la sua poltrona nel 2017 in seguito a uno scandalo che ha travolto la sua famiglia (Panama Papers), vede attualmente al Governo Shahid Khaqan Abbasi che entro l’anno dovrebbe organizzare elezioni parlamentari. A capo dell’esercito, potente attore militare, politico ed economico, siede il generalel Qamar Javed Bajwa (2016).


Il Pakistan è sostanzialmente in guerra su due fronti. Il primo, con l’India, è il fronte conteso del Kashmir (vedi la voce Kashmir), il secondo è un fronte interno che vede opporsi al Governo “apostata” di Islamabad numerosi gruppi jihadisti tra cui spicca il Tehreek e-Taleban Pakistan, un cappello che riunisce molte sigle alcune delle quali con simpatie qaediste, altre con legami con il sedicente Stato Islamico, altre ancora con un’agenda prettamente nazionale. I gruppi sono attivi soprattutto nell’area della Provincia della frontiera del Khyber Pakhtunkhwa dove si trovano sette agenzie tribali abitate da pathan (pashtun) e dove il potere e il controllo del

Governo è abbastanza limitato. I servizi segreti pachistani (Inter-Services Intelligence o Isi) sono stati accusati di aver sempre flirtato con i gruppi settari o stragisti per sfruttarne politicamente l’operato ma, negli ultimi anni, la cosa sembra essere sfuggita di mano. In Waziristan, una delle agenzie tribali, il Governo ha combattuto una vera e propria guerra (Operazione Zarb e Azb iniziata nel 2014) e l’esercito è in costante allerta non solo nella Provincia della frontiera ma anche nel Belucistan, nel Sindh e nello stesso Punjab. Gli attentati sono all’ordine del giorno.

Per cosa si combatte

Lo scandalo presidenziale

Nawaz Sharif, nato a Lahore, la capitale del Punjab, nel 1949, è un politico navigato che è stato più volte premier e da sempre alla guida di uno dei partiti più potenti del Paese, la Lega Musulmana da lui fondata ed eterna rivale del Partito Popolare. Ha conosciuto l’esilio, una condanna all’ergastolo e molte difficoltà (tra cui l’accusa di legami con gruppi estremisti) da cui è sempre riuscito a districarsi. Ma dopo essere stato coinvolto in uno scandalo che ha travolto l’interna famiglia del premier, ha dovuto dimettersi. Non è chiaro se anche questa volta riuscirà politicamente a resuscitare perché l’affaire Panama Papers ha visto denunciare lui e la sua famiglia nel 2017 per lavaggio di denaro e guadagni illeciti costringendolo, dopo non poca resistenza, ad abbandonare lo scranno del primo Ministro.

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UNHCR/T.Irwin

Nato dalle ceneri del Raj britannico e dalla Partition del 1947, la Repubblica islamica del Pakistan - il Paese dei Puri - è amministrativamente divisa in cinque province, due territori federali e un territorio autonomo. La sua storia ha risentito non poco del tragico parto trigemino avvenuto nel ‘47 e costato, nei trasferimenti dall’una all’altra Regione, centinaia di migliaia di vittime: il Pakistan venne scorporato dall’India su pressioni della Lega musulmana e associato a una Regione Orientale che comprendeva parte del Bengala a migliaia di chilometri di distanza. Alla lunga le frizioni tra le due Regioni sfociarono in una guerra e, nel 1971, nella secessione del Pakistan Orientale che, appoggiato dall’India, divenne Bangladesh. Dopo la morte di Ali Jinnah, il leader della Lega Musulmana e il creatore del Pakistan, il Paese ha conosciuto lunghi periodi in cui a Governi eletti si sono alternate dittature militari, la più oscura delle quali - governata da Zia ul Haq - sceglieva una deriva fortemente religiosa. Oltre alla guerra afgana, il Pakistan - che ha un esercito di oltre 600mila uomini, 500mila riservisti e dispone di un arsenale atomico - è impegnato in una sorta di guerra non dichiarata con l’India, sia per il controllo del Kashmir, sia per i continui incidenti di frontiera col grande cugi-

no. Le incursioni di gruppi jihadisti pachistani in India sono in parte diminuiti, ma le formazioni per l’Azad Kashmir restano attivi e colpiscono anche fuori dall’area contesa. L’esercito indiano dal canto suo (un milione e mezzo di effettivi e altrettanti riservisti oltre all’arma nucleare) risponde con un atteggiamento duro e aggressivo né il Governo di Narendra Modi, leader di un partito nazionalista indù, sembra intenzionato a fare passi verso un negoziato di pace. I pachistani hanno anche un fronte aperto in Arabia Saudita, Paese che ha chiesto a Islamabad l’invio di truppe combattenti in Yemen. La richiesta è stata cortesemente rifiutata ma il Pakistan, che dipende anche dagli aiuti sauditi, non ha potuto rifiutare di mandare soldati a Riad in

Quadro generale

UNHCR/S.Phelps


TENTATIVI DI PACE

Un percorso scolastico per le ragazze

Qamar Javed Bajwa

Care International è un'organizzazione internazionale non-profit fondata nel 1945 il cui scopo è lottare contro la povertà. È attiva in quasi tutto il mondo e conduce studi sulla situazione economico-sociale dei Paesi. Nel 2002 uno studio condotto in Pakistan ha rivelato come le cause di povertà nella Regione siano riconducibili alla marginalizzazione di molti cittadini e la disparità di trattamento in base al genere, alla religione, al ceto e alla comunità di provenienza; creando così un Paese frammentato e diviso. Dal 2005 Care ha una sede in Pakistan, operativa nella salvaguardia e nel raggiungimento della parità di diritti fra uomini e donne pakistane. In particolare, l’organizzazione offre il suo aiuto alle esigenze di donne e ragazze, una categoria che ha un potere decisionale e una mobilità limitati all'interno del Paese. Uno dei maggiori successi è rappresentato dall'organizzazione di un "secondary school accelerated learning program" che è riuscito a fornire alle bambine e alle ragazze del luogo uno spazio dove poter imparare e relazionarsi con gli altri, oltre che seguire un percorso scolastico di recupero accelerato.

Qamar Javed Bajwa è il decimo capo di Stato Maggiore delle forze armate pachistane. Nato a Karachi con studi all’Accademia militare, ha sostituito Raheel Sharif, l’uomo che ha iniziato e diretto l’Operazione Arb e Azb, una delle maggiori operazioni anti terrorismo della storia recente del Paese. Bajwa è un generale 4 stelle classe 1960 che viene da una famiglia di militari. Il suo ruolo all’interno del Paese è quello di un consulente ineludibile. Ha fama di democratico e tiene un profilo basso contrariamente a molti suoi predecessori. Non di meno è stato molto criticato nel 2017 - a un anno dalla sua nomina per non aver mandato l’esercito a fermare una protesta di islamisti - che per settimane ha bloccato un crocevia stradale di Islamabad pretendendo le dimissioni di un ministro nonostante le indicazioni della magistratura della capitale.

UNHCR/S.Phelps

nome di una collaborazione fra forze armate per la formazione e il sostegno all’esercito saudita. L’esercito rimane uno degli attori fondamentali della politica e dell’economia pachistana benché ormai la stagione delle dittature militari sia alle spalle. Nel 2017 però il Governo eletto ha visto una crescente crisi politica che ha portato alle dimissioni del premier Nawaz Sharif, leader della Pakistan Muslim League, vecchio e navigato politico locale, accusato di traffici finanziari illeciti. Attualmente il Governo è retto da Shahid Khaqan Abbasi (il Presidente è Mamnoon Hussain dal 2013 ma il suo potere è limitato), ex ministro del Petrolio e che ha preso il posto di Nawaz Sharif nell’agosto del 2017 dopo le dimissioni del suo predecessore che si rifiutava di far conoscere l’ammontare dei suoi beni. Le prossime elezioni sono in agenda per luglio 2018 con in palio 342 seggi all’Assemblea nazionale. Oltre alla Lega di Nawaz

I PROTAGONISTI

Sharif, importanti contendenti sono il Pakistan People's Party della famiglia Bhutto, il Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti) di Imran Khan, l’Awami National Party (partito secolare e di sinistra) e una serie di partiti minori di forte e spesso rigida ispirazione islamica in un Paese dove la religione continua a giocare un ruolo fortissimo. In politica estera il Pakistan è uno dei più importanti alleati della Cina nell’Asia Meridionale e ha un'alleanza con gli Stati Uniti che conosce alti e bassi. Le rivalità con l’India sono sempre all’ordine del giorno e le relazioni sono in una perenne fase di stallo. L’economia del Paese è caratterizzata da un sistema bloccato in mano a poche famiglie e ai militari mentre nelle campagne è ancora forte la presenza di grandi proprietari terrieri. Il Pakistan è membro tra l’altro delle Nazioni Unite, del Commonwealth, dell'Organizzazione di Shanghai per la cooperazione (Sco), del protocollo di Kyoto, della Banca Asiatica d'Investimento per le Infrastrutture, del G20 per i Paesi in via di sviluppo. È membro fondatore dell'Organizzazione della cooperazione islamica (Oci) e del Saarc.

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(Karachi, 11 novembre 1960)


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA THAILANDIA RIFUGIATI

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PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SFOLLATI PRESENTI NELLA THAILANDIA RIFUGIATI ACCOLTI NELLA THAILANDIA RIFUGIATI

106.447

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI MYANMAR

102.633

PAKISTAN

1.825 -


Una dinastia al tramonto

Condanna a cinque anni di carcere per negligenza nella gestione di un programma di sussidi ai coltivatori di riso, promosso quando era al Governo: con tale verdetto emesso a settembre del 2017 la Corte suprema della Thailandia ha decretato la fine dell'avventura politica dell’ex premier tailandese Yingluck Shinawatra, destituita con un golpe militare nel 2014. I giudici hanno emesso un mandato di arresto ma l’ex primo Ministro è fuggita a Dubai, in una delle proprietà di suo fratello, il magnate Thaksin Shinawatra. Yingluck aveva assunto l’incarico nel 2011 dopo le elezioni generali. Sorte simile, la sua, a quella di suo fratello Thaksin, politico e imprenditore, leader del partito populista “Thai Rak Thai”, eletto primo Ministro nel 2001. Accusato di corruzione e abuso di potere, è stato deposto dopo 5 anni di governo dal colpo di stato del 2006.

UNHCR/R. Arnold

Il conflitto che vede impegnato l'esercito regolare tailandese con i gruppi separatisti nel Sud della Thailandia prosegue intenso, sebbene lontano dai riflettori, e non si sta esaurendo. La volontà di avviare negoziati è debole e da ambo le parti prevale l'approccio violento. Gli insorti hanno compiuto numerosi attacchi contro obiettivi militari e civili, utilizzando tattiche sempre più brutali e sofisticate per i loro attentati. Secondo il programma Deep South Watch, promosso dalla Prince of Songkla University di Pattani, nell'omonima Provincia Meridionale thai, tra il 2017 e la fine di marzo 2018, sono stati oltre 600 gli attentati organizzati nelle Province del Sud, con oltre 200 morti. A partire dal 2004, le vittime del conflitto sono oltre 7mila. Di contro, dal 2005 restano in vigore nelle Province di Pattani, Yala e Narathiwat la legge marziale e un decreto di emergenza che conferiscono ai militari il potere di arrestare e detenere i cittadini senza processo, dando la stura a flagranti abusi dei diritti umani. Le trattative tra l’attuale Governo militare tailandese e i gruppi separatisti, di etnia malay e di religione islamica, sono sospese e la proposta di istituire nel Sud una “zona di sicurezza” come progetto pilota in cui sperimentare una tregua è rimasta lettera morta. Il leader della giunta militare e primo Ministro tailandese Prayuth Chan-Ocha ha confermato di non voler intavolare alcun dialogo con gli insorti, definendo “irragionevoli” le richieste dei gruppi armati e affermando che essi non rappresentano gli interessi della maggior parte dei tailandesi del Meridione. Negli ultimi quindici anni i Governi tailandesi hanno utilizzato nel Sud il pugno duro e la repressione, attirandosi l'ostilità di gran parte della popolazione musulmana, che pure poteva non essere incline a sostenere l’insurrezione. Dopo il colpo di stato del maggio 2014, la giunta militare ha sospeso i negoziati di pace, pur mantenendo contatti con i rappresentanti della rivolta, che risiedono nella vicina Malaysia. Inoltre, a livello politico la forte spinta centralistica del regime militare al potere a

THAILANDIA

Generalità Nome completo:

Regno di Thailandia

Bandiera

153

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Thai

Capitale:

Bangkok o Krung Thep in thai

Popolazione:

69.000.000

Area:

514.000 Kmq

Religioni:

Buddista (95%), musulmana (4.6%), cattolica (0.75%)

Moneta:

Baht Thailandese

Principali esportazioni:

Computer, circuiti elettronici, petrolio

PIL pro capite:

Us 16.300

Bangkok non lascia spazio al progetto di decentramento delle funzioni politiche o amministrative in altre zone della Thailandia, troncando sul nascere ogni speranza di autonomia. Sul piano culturale, poi, il Governo militare promuove una identità tailandese ancorata a una visione nazionalistica che ha come elementi cardine la religione buddista e la monarchia. Il Governo non riconosce l’organizzazione Majlis Syura Patani (Mara Patani), che raccoglie sei fazioni separatiste del Sud, come controparte, né ammette la presenza di mediatori internazionali.


no riacceso le speranze e la lotta di indipendenza, mentre nelle tre Province Meridionali di Pattani, Yala e Narathiwat imperversa la violenza e vige la legge marziale. Accanto alla violenza nel Sud, va registrato, a livello nazionale, l'alto indice di conflittualità politica che negli anni scorsi ha generato quasi una guerra civile tra i gruppi di potere, fra oligarchie e partiti politici. Per domare la conflittualità sociale e politica e restituire al Paese la stabilità che non facesse sprofondare l'economia e il turismo, l'esercito non ha avuto esitazione a compiere diversi colpi di stato, con il benestare del Re. L’ultimo, del 2014, ha portato al potere Prayuth Chan-Ocha, che ha introdotto nel Paese il Governo più autoritario degli ultimi anni.

154

La Nazione è attraversata dall’insurrezione armata nelle Province Meridionali: la rivolta separatista ha origine nella Provincia a prevalenza malese e islamica di Pattani (al confine con la Malaysia) e si è allargata alle vicine Province di Yala e Narathiwat, coinvolgendo in parte anche la quarta Provincia “musulmana” di Songkhla. Il conflitto nasce dalle differenze etniche, culturali ed economiche, supportate dal fattore religioso, che alimentano un desiderio di autonomia. Nel Sud è infatti concentrata la minoranza musulmana di etnia malay presente in Thailandia. L'attività dei gruppi separatisti si registra da secoli ma la fase più violenta del conflitto ha preso il via nel 2004. Gruppi armati musulmani, sfruttando l'opportunità offerta dal risveglio dell'islamismo sulla scena internazionale, han-

Per cosa si combatte

Miliardario e democratico

C'è un volto nuovo sulla scena politica tailandese: è Thanathorn Juangroongruangkit, il rampollo di una famiglia miliardaria di Bangkok, leader dell'industria dei ricambi per auto. Invece di restare a curare gli interessi finanziari di famiglia, il 39enne leader ha scelto di tuffarsi in politica facendo suoi “gli ideali e le esigenze di libertà dei giovani thai”. “Combatterò fino alla morte per la democrazia”, ha annunciato il carismatico fondatore del “Future Forward Party” (Il partito del futuro). In un Paese in cui il regime militare oppressivo bandisce e arresta dissidenti, attivisti, giornalisti e critici, i giovani ne ammirano il coraggio di aver rispolverato termini come “democrazia”, “libertà” e “responsabilità politica”. A lui guardano con fiducia le nuove generazioni tailandesi.

UNHCR/J. Redfern

L'attuale situazione sociale, politica ed economica della Thailandia non può prescindere dal golpe militare del 2014 che ha segnato l’ascesa al potere del generale Prayuth Chan-Ocha, a capo di una giunta militare che ha estromesso dal potere la Premier Yingluck Shinawatra. Sorella dell’ex primo Ministro Thaksin e prima donna a capo di un esecutivo nella storia del Paese. È stata esautorata in seguito alle condanne per corruzione e conflitto d’interessi. La giunta, presentatasi al popolo per guidare un regime di transizione, con l'obiettivo di porre fine all’instabilità politica degli ultimi anni e consegnare al popolo una nuova Carta costituzionale, in realtà, ha instaurato una dittatura militare e ha rinviato di continuo il voto per eleggere un nuovo parlamento e restaurare la democrazia. Promulgata la nuova Costituzione (la ventesima nella storia nazionale) nell'aprile 2017, il Governo ha promesso nuove elezioni, senza ancora fissare una data certa, che potrebbe essere nel 2019. Nel frattempo con la morte dello storico sovrano Bhumibol Adulyadej, è salito al trono il figlio Vajiralongkorn, figura che aggiunge una variabile di imprevedibilità nei delicati rapporti

tra politici e militari. Infatti, dopo aver venerato lungo sette decenni il vecchio re Bhumibol come figura paterna e divina allo stesso tempo, monarca raramente messo in discussione (non solo per timore della severa legge di lesa maestà), ma molto amato dal popolo, il trono passa a suo figlio, figura controversa, pur se considerato sempre da entrambi i genitori, unico e legittimo erede. Non è ancora chiaro quanto la profonda differenza tra i due sovrani influenzerà il futuro sociale e politico del Paese e se rappresenterà un’incognita. Sancita la successione, la Nazione è tornata a una vita normale, in una società spaccata dalle forti disparità tra ricchi e poveri, dalla divisione tra i ceti urbani e le popolazioni rurali: il confronto si era esacerbato fino al punto di paralizzare l’attività politica nazionale, con tanto di guerriglia urbana, favorendo quel golpe militare che, in un primo momento salutato con soddisfazione dalla popolazione, ha poi visto gradualmente crescere un atteggiamento distaccato della società verso i generali al potere. Il regime ha voluto disinnescare il rischio di nuove rivolte popolari pro-Shinawatra. L’estromissione di entrambi i fratelli Shinawa-

Quadro generale

L'immagine del nuovo re

È iniziata ufficialmente la circolazione di banconote e monete con l'immagine del nuovo re, il 65enne Maha Vajiralongkorn o Rama X. Il Paese ha sostituito la valuta che in precedenza riportava l'immagine del defunto re Bhumibol Adulyadejo o Rama IX, padre di Vajiralongkorn, monarca amatissimo dalla popolazione e commemorato con oltre un anno di lutto. Asceso al trono il 13 ottobre 2016 ma incoronato solo nel 2018, come decimo sovrano della dinastia Chakri, Maha Vajiralongkorn è asceso al trono in un regno dove il re e la sua famiglia sono figure rispettate: l'offesa alla sua dignità viene punita con pene che possono arrivare a 15 anni di detenzione per il reato di “lesa maestà”.


TENTATIVI DI PACE

La discriminazione di genere crea conflitti

Non solo turismo. Dietro spiagge dorate e mare cristallino si nasconde la realtà di un Paese dove gli abusi dei diritti umani sono all'ordine del giorno: da molti anni lo denuncia Junya Yimprasert, attivista tailandese che gira il mondo per raccontare il “lato oscuro” della Thailandia, quello della politica che censura ogni dissenso, quello del mondo del lavoro che impone condizioni disumane. In esilio dal 2010, la donna è un’attivista per i diritti dei lavoratori che continua anche da espatriata la campagna per la giustizia. Il regime militare - spiega - ha gradualmente soppresso l’esercizio dei diritti civili, dichiarando illegali gli assembramenti di più di cinque persone, e costringendo i dissidenti all’esilio o al carcere. Secondo la Yimprasert, i generali al potere, che hanno occupato i gangli vitali della Nazione, dal Parlamento alla magistratura, non hanno nessuna intenzione di restaurare la democrazia. Per loro “l’esercito è la democrazia”. La donna auspica una forte pressione economica e politica della comunità internazionale e una imponente sollevazione popolare interna al Paese.

UNHCR/D. Lom

tra, in ogni caso, lascia l’opposizione orfana dei suoi leader storici, dunque molto indebolita. La nuova Costituzione, inoltre, conferisce all’apparato militare un potere maggiore nelle mani dei militari stessi, che si avviano a ritagliarsi spazi di azione determinanti anche dopo il voto per il nuovo Parlamento. Al fine di garantire la stabilità politica nel Paese, infatti, qualunque sia il Governo eletto, la Carta prevede la presenza di una quota fissa di militari in Parlamento e nei dicasteri chiave dell'esecutivo. In tal modo l'esercito si garantisce il pieno controllo della Nazione e tiene saldamente in mano le leve dell’economia, agitando lo spettro del conflitto sociale che era culminato con 91 morti e duemila feriti nel 2009. Ne fanno comunque le spese i diritti umani: Amnesty International ha denunciato sparizioni sospette e torture nei confronti di attivisti che hanno manifestato o promosso il ritorno alla democrazia. Secondo il sito web

I PROTAGONISTI

di informazione indipendente PrachaThai, sono diffusi i casi di abusi dei diritti umani soprattutto su attivisti e studenti che hanno indetto sporadiche manifestazioni in piazza (come per la riforma del settore energetico), in una generale compressione delle libertà individuali e sociali. Resta sullo sfondo la guerra con gli indipendentisti musulmani nelle tre Province Meridionali: anche questa sollevazione, che si registra a poca distanza dalle spiagge più rinomate e turisticamente appetibili, legittima il budget destinato alle spese militari e la vasta mobilitazione dell’esercito. L'approccio repressivo nel Sud del Paese, basato sul pretesto di combattere i separatisti musulmani, non è storia recente, ma si era riattivato proprio in seguito all’incoronazione di re Bhumibol, con l’uccisione di centinaia di persone e la distruzione del villaggio di Dusun Nyor, già nel 1948. La presenza della minoranza musulmana nel Sud della Thailandia viene tutt’ora presentata e usata come strumento politico per legittimare il potere dell’esercito, senza che si sia registrato alcun tentativo di Bangkok di instaurare un dialogo.

155

Junya Yimprasert

La discriminazione di genere è largamente diffusa in Thailandia, il compito della fondazione Pratthanadee è quello di dare voce e importanza a chi spesso non viene ascoltato. Nel 2000 Enrique Cuan fonda a Bangkok l'organizzazione non governativa Pratthanadee con lo scopo di insegnare inglese alle donne e alle ragazze provenienti dall'Isaan, una Regione del Nord-Est, al confine con Cambogia e Laos, tra le zone più povere del Paese. La creazione di un ambiente di apprendimeno sicuro favorisce l'empowerment per le donne affinché possano rivendicare i loro diritti ed emanciparsi in una società che tende ad escluderle. Negli anni seguenti la fondazione ha avviato attività educative nella Regione da cui molte donne provenivano. Nel 2016 viene alla luce il loro progetto più ambizioso, "The Better Me Program": Pratthanadee rivolge una particolare attenzione all'orientamento professionale e di vita delle donne di queste Regioni marginali, offrendo inoltre corsi di formazione gratuiti orientati allo sviluppo delle proprie attitudini grazie al lavoro di personale volontario preparato. L'educazione in un ambiente sicuro dà a queste donne la possibilità di dialogare liberamente, ampliare le conoscenze e accrescere la propria autostima.


156

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLO YEMEN RIFUGIATI

18.452

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SOMALIA

8.297

GIBUTI

3.777

ETIOPIA

1.423

SFOLLATI PRESENTI NELLO YEMEN 2.025.060 RIFUGIATI ACCOLTI NELLO YEMEN RIFUGIATI

269.783

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SOMALIA

255.121

ETIOPIA

5.877

IRAQ

3.381


L’Oman tenta di mediare

L'Oman, unica monarchia Medio Orientale a non partecipare alla coalizione contro lo Yemen, ha presentato fin dai primi mesi di guerra un piano di tregua in 7 punti ad Iran e Arabia Saudita, nel tentativo di far tacere le armi. Il documento proponeva: - il ritiro delle forze houthi e delle forze fedeli allo scomparso Presidente Ali Abdullah Saleh da tutte le città yemenite e la riconsegna di armamenti e munizioni sequestrate all'esercito yemenita; - il reinsediamento del Presidente Abd Rabbo Mansour Hadi; - la convocazione di elezioni parlamentari e presidenziali anticipate; - un accordo firmato da tutte le parti yemenite; -la conversione di Ansarullah (le forze ribelli yemenite) in un partito politico; - una conferenza di aiuti internazionali a cui partecipino gli Stati donatori; - ingresso dello Yemen nel Consiglio di Cooperazione del Golfo.

È uno scontro feroce. Da una parte la coalizione militare sunnita, guidata dall’Arabia Saudita. Dall’altra un gruppo armato houthi, sciita, che si è ribellato. In mezzo ci sono i protagonisti involontari di ogni guerra: i civili, la popolazione senz’armi. Nel 2018 si è entrati nel quarto anno di guerra fra Yemen e Arabia Saudita. Secondo l’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite, dal marzo 2015 al gennaio 2018, in Yemen sono stati uccisi almeno 5974 civili e ne sono stati feriti altri 9493. A questi numeri si aggiungono oltre 20milioni di persone, ossia l’80% della popolazione, a cui servono aiuti umanitari. A denunciarlo è l’Ufficio per il coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite (Ocha). I casi di colera sono almeno un milione. Gli sfollati sarebbero più di due milioni. La situazione rischia di diventare spaventosa. Lo raccontano le storie che vengono raccolte quotidianamente dalle organizzazioni internazionali. Nel gennaio 2018 - ad esempio - un attacco aereo della coalizione sunnita ha centrato l’abitazione della famiglia Naji ad al-Rakab, nella Provincia Meridionale di Ta’iz. È stata una strage. Secondo Amnesty International, l’abitazione era ad almeno tre chilometri da qualsiasi obiettivo militare e in quel momento nella zona non c’erano combattenti. La bomba - si è scoperto in seguito - era di fabbricazione americana, venduta nonostante vi siano leggi internazionali che vietano la cessione di armi

YEMEN ARABIA

Generalità Nome completo:

Repubblica Unita dello Yemen

Bandiera

157

Situazione attuale e ultimi sviluppi

UNHCR/P. Rubio Larrauri

Generalità Nome completo:

Regno dell'Arabia Saudita

Bandiera

Lingue principali:

Arabo

Capitale:

Riad

Popolazione:

31.500.000

Area:

2.149.690 Kmq

Religioni:

Musulmana sunnita

Moneta:

Riyal saudita

Principali esportazioni:

Petrolio

PIL pro capite:

Us 21.100

Lingue principali:

Arabo

Capitale:

Sana'a

Popolazione:

24.000.000

Area:

527.970 Kmq

Religioni:

Musulmana

Moneta:

Riyal yemenita

Principali esportazioni:

Petrolio, gas naturale, caffé e cotone

PIL pro capite:

Us 2.251

a Paesi in guerra. Una violazione, questa, che anche l’Italia pratica costantemente. Gli houthi e le forze anti-houthi colpiscono le abitazioni civili con ogni tipo di arma. In più, nella capitale Sana’a e in altre zone sotto il loro controllo, gli houthi e i loro alleati sono responsabili di arresti arbitrari e imprigionamenti di dissidenti. Le sparizioni sono centinaia. A peggiorare il quadro è stata l’uccisione, nel dicembre del 2017, dell’ex Presidente Ali Abdullah Saleh, ammazzato dai ribelli houthi - con cui era alleato sino a qualche settimana prima - mentre tentava di lasciare la capitale Sana’a.


Lo Yemen è in una posizione strategica fondamentale. Controlla mezzo stretto di Bab el Mandeb, che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden ed è quindi una via commerciale fondamentale, soprattutto per il petrolio. Inoltre, lo Yemen è considerato uno “Stato fallito”. È diventato per questo il terreno di scontro fra le due

potenze regionali: Arabia Saudita e Iran. Non è la prima volta che sauditi e iraniani si confrontano direttamente per mantenere l’influenza in un Paese del Golfo. Lo dimostra l’invasione saudita del Bahrein nel marzo del 2011, durante le proteste della maggioranza sciita contro la monarchia appoggiata dall’Arabia Saudita.

Per cosa si combatte

Il ruolo degli Usa

Nei primi mesi del 2018, il New York Times ha scoperto quale appoggio militare gli Stati Uniti abbiano fornito all’Arabia Saudita nel conflitto. Nonostante Washington abbia per anni cercato di prendere le distanze dal conflitto yemenita - imbarazzante test sull’inadeguatezza dell’esercito saudita, nonostante l’ingente acquisto di armi in Europa e Stati Uniti - alla fine del 2017 una dozzina di Berretti Verdi statunitensi sono andati oltre all’assistenza in volo, alla condivisione di intelligence e di logistica, dichiarata dal Pentagono come solo sostegno a Riad. Si sono piazzati con gli uomini dell’intelligence proprio a Ajran, lungo il confine. Lì hanno addestrato i border patrol sauditi e raccolto dati sui movimenti delle armi houthi. Si ignora se abbiano anche passato la frontiera.

158

UNHCR/L. Chedrawi

La guerra fra Yemen e Arabia Saudita è iniziata ufficialmente nella notte fra il 24 e il 25 marzo 2015, quando alcuni aerei dell’Arabia Saudita e di altri Paesi arabi hanno bombardato le postazioni in Yemen dei ribelli sciiti houthi. Questi ultimi, nei mesi precedenti avevano preso il controllo della capitale Sana’a e dell’area Ovest del Paese. Il tutto era accaduto al termine di lunghi anni di crisi interna. Lo Yemen è il Paese più povero del Medio Oriente. A Nord confina con l’Arabia Saudita, a Oriente con l’Oman. Dal 1962 e fino al 1990 sono esistiti due stati yemeniti: a Nord la Repubblica Araba dello Yemen, governata in maniera autoritaria da Ali Abdullah Saleh, a Sud la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen, governata da un regime marxista. Dopo l’unificazione, le tensioni sono rimaste, con grandi spinte separatiste del Sud. Tra il 2011 e l’inizio del 2012 vi era stato un forte cambiamento politico. Ali Abdullah Saleh, il capo da oltre trent’anni, aveva lasciato il potere. La cosiddetta “Primavera Araba” era arrivata anche lì, guidata proprio dagli Houthi e dagli Islah, vicini ai Fratelli Musulmani. A sostituire Saleh era stato Abdel Rabbo Monsour Hadi, con una elezione riconosciuta dai Paesi arabi e dall’Occidente. In realtà, Saleh era rimasto vicino al potere, controllando funzionari e militari. Da lì aveva stretto una alleanza con gli Houthi per rimuovere Hadi. Un’alleanza apparsa innaturale: Saleh aveva a lungo perseguitato gli Houthi. L’avanzata del gruppo sciita era stata inarresta-

bile. Hadi era stato costretto alla fuga nei primi mesi del 2015. L’influenza dei ribelli - addestrati dalla Guardia Rivoluzionaria Iraniana secondo fonti interne a Teheran - è cresciuta, arrivando a controllare praticamente tutto il Paese. L’intervento dell’Arabia Saudita era iniziato a quel punto, con bombardamenti massicci. Ufficialmente Riad rispondeva così alle minacce avanzate dagli Houthi, che promettevano di invadere l’Arabia Saudita e di occuparla sino a Riad. In realtà, la ragione della guerra era politica e strategica: per Riad avere al confine Sud una forte popolazione sciita rappresenta una

Quadro generale

UNHCR/P. Rubio Larrauri


TENTATIVI DI PACE

Stop alla fornitura di armi

'Abd Rabbih Manṣūr Hādī

Nella fornitura di armi e ordigni esplosivi da guerra ad uno degli Stati più potenti del Medio Oriente l'Italia è in prima fila: in Sardegna la Rwm - del gruppo tedesco Rheinmetall - fabbrica armi destinate all’Arabia Saudita, dispositivi che sono impiegati e continueranno ad esserlo anche contro civili yemeniti, vittime di una guerra che dura da troppi anni nella disattenzione generale. Diverse Ong hanno puntato i riflettori sul caso, come Amnesty International che ha organizzato una campagna di raccolta firme per chiedere al Governo italiano di interrompere questa pratica non conforme né al diritto interno né a quello internazionale. Insiste l'Ong che l’esportazione di queste armi costituisce una violazione sostanziale del “Trattato sul commercio delle armi” creando così un commercio di armi senza regole. A supporto di questa tesi c'è il rapporto delle Nazioni Unite sul conflitto dello Yemen dove nella classificazione degli ordigni usati figura l'utilizzo per almeno due anni di bombe prodotte dalla Rwm. In Germania ci sono state diverse proteste anche durante l’assemblea degli azionisti della Rheinmetall, ad aprile 2018.

Il Maresciallo di campo Hadi è ancora oggi il Presidente riconosciuto - almeno dalla comunità internazionale - dello Yemen. Alla presidenza era arrivato con le elezioni del 2012. È stato deposto con un colpo di stato il 22 gennaio 2015, a seguito della rivolta degli houthi. Militare di carriera e politico, è un islamico sunnita, corrente maggioritaria nello Yemen. Laureato nel 1964, nel 1994 è diventato vicepresidente della Repubblica. Dal 4 giugno al 23 settembre 2011 è stato Presidente ad interim, sostituendo 'Alī 'Abd Allāh Ṣāleḥ ricoverato per cure mediche in Arabia Saudita, dopo un attentato al palazzo presidenziale nel corso della rivolta del 2011. Nel 2012 è diventato Presidente subentrando a Saleh per effetto della rivolta popolare. Costretto alle dimissioni il 22 gennaio 2015 dalla ribellione houthi, è fuggito e da allora ha sempre rivendicato la presidenza, affermando l'illegittimità delle dimissioni. Il 6 marzo 2015 ha proclamato Aden nuova capitale del Paese.

UNHCR/P. Rubio Larrauri

minaccia alla propria sicurezza nazionale. La paura dei sauditi è che la presenza, al confine Sud, di un Paese sciita possa convincere alla ribellione le popolazioni sciite della zona Orientale del Paese. L’Arabia Saudita ha allora creato una alleanza di Stati sunniti per combattere lo Yemen, trovando l’appoggio dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo e dell’Egitto, tornato a politiche interventiste con il Presidente al Sisi. Secondo l’agenzia Reuters, a bombardare il territorio yemenita sono stati per lungo tempo velivoli di Egitto, Marocco, Giordania, Sudan, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, e Bahrain. Ma la contrapposizione a due, nel tempo, ha visto aggregarsi un terzo attore, con interessi propri: gli Emirati Arabi Uniti, almeno all’inizio del conflitto formalmente alleati all’Arabia Sau-

I PROTAGONISTI

dita. Con Riad condividono la volontà di tenere a freno le ambizioni di Teheran e dei ribelli yemeniti. Ma le ambizioni di Dubai si scontrano con l’Arabia Saudita. Gli Emirati sostengono i separatisti Meridionali con obiettivi precisi: indebolire i Fratelli Musulmani, rappresentati dal partito Islah. Contrastare Al-Qaeda. Creare una propria area di influenza nel Sud dello Yemen. Le alleanze sono saltate definitivamente nel 2018, con gli scontri fra sauditi e emiratini nella zona Sud dello Yemen. A complicare ulteriormente la situazione, è la presenza - storicamente forte - di al-Qaeda (Aqap, chiamata anche al-Qaeda in Yemen), che controlla alcuni territori nel Sud del Paese. È attualmente la divisione più potente di tutta al-Qaeda, autorizzata a compiere attacchi terroristici all’estero, anche in Occidente. Si oppone a tutti: al Presidente Hadi, che aveva collaborato con gli Stati Uniti per attaccare l’organizzazione. Ai ribelli Houthi, che sono sciiti. Infine si oppone all’Isis yemenita, che attacca le moschee di Sana’a frequentate da sciiti.

159

(Abyan, 1 settembre 1945)


Inoltre Cina/Xinyang "Gli eterni problemi della minoranza turca".

Generalità Nome completo:

Xinjiang

Lingue principali:

Uiguro, cinese,

Capitale:

Urumqi

Popolazione:

21.800.000

Area:

1.600.000 Kmq

Religioni:

Musulmana

Moneta:

Renminbi cinese

Principali esportazioni:

n.p.

160

PIL pro capite: Us ????? 40mila rmb

Nel luglio 2017 Dolkum Isa, segretario generale del Congresso mondiale uiguro, avrebbe dovuto tenere una conferenza stampa al Senato italiano. Prima dell'appuntamento l'attivista per i diritti civili è stato però fermato e portato in Questura a Roma. Il caso è stata una prova della forza di Pechino e dell'influenza che riesce a esercitare anche fuori dai confini della Repubblica Popolare nell’ostacolare e reprimere gli oppositori. La polizia italiana ha infatti agito in base a una segnalazione dell'Interpol, oggi presieduta dall'alto funzionario cinese Meng Hongwei. Il Congresso mondiale uiguro è la rappresentanza politica della minoranza turcofona e musulmana che abita lo Xinjiang, Regione all'estremo Occidente della Repubblica Popolare. Il Governo cinese accusa l'organizzazione di fomentare il separatismo. Nell'ultimo anno la Regione autonoma si è trasformata in uno stato di polizia. Per rafforzare il controllo, denuncia Human Rights Watch, Pechino ha iniziato a raccogliere campioni di dna, impronte digitali, scansioni dell'iride e altri dati biometrici dei residenti tra i 12 e i 65 anni. Almeno 120mila uiguri sono stati rinchiusi in campi di riabilitazione, secondo i dati riferiti all'emittente statunitense Radio Free Asia da un funzionario locale di Kashgar, capitale culturale del Turkestan Orientale. La Regione è inoltre diventata il banco di prova per il nuovo sistema di riconoscimento facciale, ideato per intercettare e riconoscere possibili sospetti fino a una distanza di 300 metri. Centro della campagna “colpire duro“ lanciata dal Governo contro i fondamentalisti islamici, alimentata dal rischio del ritorno in Cina di militanti che hanno combattuto in Siria, lo Xinjiang è oggi una delle zone più militarizzate al mondo. Ai primi di febbraio il ministro per la Pubblica sicurezza, Zhao Kezhi, ha messo in guardia dal rischio che attacchi possano verificarsi fuori dalla Regione autonoma dello Xinjiang e colpire nelle Province Meridionali. Nell'ultimo anno sono comunque diminuiti attacchi e incidenti, compiuti in gran parte all'arma bianca e i cui dettagli non sono mai chiariti dalle autorità (e spesso risolti con esecuzioni extragiudiziarie). Lo Xinjiang è per Pechino un problema: dagli anni Ottanta del secolo scorso - e ancora di più dalla caduta dell'Unione Sovietica con la nascita delle Repubbliche Centroasiatiche - anche tra gli uiguri si è diffusa l'aspettativa per la creazione di uno stato autonomo del Turkestan Orientale. Le politiche di assimilazione e sinizzazione portate avanti dal Governo centrale, accompagnate da programmi di sviluppo economico del quale hanno beneficiato soprattutto gli immigrati han, gruppo maggioritario in Cina, hanno contribuito ad alimentare le tensioni socio-economiche. Gli han sono percepiti alla stregua di colonizzatori. L'autonomia della quale in teoria dovrebbe godere la Regione non è attuata. È una storia che viene da lontano anche se esplosa di recente. Nel luglio del 2009 il mondo si accorse di colpo della questione uigura. Urumqi, capoluogo dello Xinjiang, diventa teatro di una rivolta che farà 197 morti. L'allora Presidente cinese Hu Jintao in Italia per partecipare al vertice del G8 dell'Aquila, è costretto a tornare di corsa in Cina. Le violenze tra uiguri, la popolazione turcofona musulmana della Regione, e gli han hanno origine nel Guangdong, la Provincia costiera, motore della crescita cinese. Il presunto stupro di una ragazza nei dormitori di una fabbrica di giocattoli, del quale sono accusati alcuni operai uiguri, scatena gli scontri nell'impianto. La notizia si diffonde sui social e le versioni discordanti su quanto accaduto sono la scintilla per le violenze settarie che infiammano Urumqi, cui il Governo risponde con il pugno duro. Gli scontri sono il risultato di pregiudizi e incomprensioni tra le due comunità. Gli han considerano gli uiguri scansafatiche e delinquenti mentre gli han sono percepiti dagli uiguri come colonizzatori. Le rivendicazioni autonomiste e separatiste affondano radici nel collasso dell'ex Unione Sovietica, quando l'indipendenza delle Repubbliche Centroasiatiche infonde speranza anche negli uiguri, una delle 55 minoranze nazionali riconosciute dal Governo centrale. Dopo gli hui si tratta del gruppo di fede islamica più numeroso. Vantano radici nell'Asia centrale e con kazachi, uzbechi, kirghizi e tartari condividono l'ideale panturco. È nella prima metà del Novecento che inizia a delinearsi un'identità nazionale. La


TENTATIVI DI PACE - Una repressione silenziosa Il 28 febbraio 2018 a Washington D.C. si è tenuta la conferenza “Uyghur Religious Freedom and Cultural Values Under Siege”, organizzata dal Congresso mondiale degli Uiguri in collaborazione con il Progetto diritti umani degli Uiguri, l’Associazione Americana degli Uiguri e con l’Organizzazione delle nazioni e dei popoli non rappresentati (Unpo), per discutere della situazione dei diritti umani nello Xinjiang. La campagna di repressione che il Governo cinese porta avanti nella Regione è recentemente sfociata nell’istituzione della “Integrated Joint Operations Platform”, un sistema di sorveglianza di massa per monitorare e incriminare le minoranze etniche. Dall’aprile 2016 migliaia di Uiguri e di membri delle altre minoranze, accusati di essere “politicamente inaffidabili” e di sostenere posizioni estremiste, sono stati incarcerati o trasferiti in centri che la Cina ha definito “campi di rieducazione politica”. Le autorità affermano che la campagna sia necessaria per il “mantenimento della stabilità” e che sia diretta agli “elementi terroristici”, ma in pratica coinvolge chiunque sia sospettato di slealtà politica e chi esprime, anche pacificamente, la propria identità religiosa e culturale.

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Regione oggi identificata con la Regione autonoma dello Xinjiang, istituita nel 1955, fu conquistata dalla dinastia mancese dei Qing soltanto nel 1759. Il pieno controllo cinese arriva soltanto con la nascita della Repubblica Popolare nel 1949. L'avventura del condottiero musulmano Yaqub Beg che nel 1869 diede vita all'emirato della Kashgaria, regno militare-islamico crollato nel 1877, mise in evidenza la debolezza dell'ultima dinastia. Altro riferimento per l'irredentismo uiguro è la seconda Repubblica indipendente del Turkestan Orientale, sostenuta dai sovietici prima di essere annessa alla Cina comunista. La presenza di Pechino si è radicata attraverso l'immigrazione di cinesi han nella Regione e, dal 1954, sfruttando le cosiddette bingtuan. Si tratta di unità di soldati-agricoltori studiate con l'intento di consolidare la presenza del Governo nelle aree periferiche e allo stesso tempo fornire terreni ai reduci della guerra civile contro i nazionalisti del Kuomintang di Chang Kai-shek. Con il tempo si sono trasformate in veri e propri colossi industriali, con un fatturato pari a 20miliardi di dollari. Lo sviluppo dello Xinjiang è stato accompagnato da accuse di discriminazione nei confronti degli uiguri e di marginalizzazione a favore degli han, selezionati per i posti dirigenziali. A questo si accompagna la stretta cinese sulle tradizioni. Per arginare quello che ritiene fondamentalismo, l'apparato repressivo ha militarizzato l'area arrivando a imporre divieti selettivi sul digiuno durante il mese del Ramadan, restrizioni all'uso del velo e sulle barbe e alla libertà religiosa in generale. Il risentimento socio-economico ha trovato come catalizzatore la riscoperta dell'islam dopo il periodo delle Rivoluzione culturale. Un'ondata di proteste contro il controllo cinese risale agli anni Novanta del secolo scorso. Nel decennio precedente la promozione della religione prima affidata all'Associazione dei musulmani cinesi, di provata fedeltà governativa, fu di fatto presa in mano da madrase autonome con una visione politica dell'islam contrapposta allo Stato centrale. Gli scontri del 1997 a Yining, o Ghulja in uiguro, furono il culmine di una serie di episodi a bassa intensità. A scatenare la violenza fu l'esecuzione di 30 presunti separatisti. In quegli anni prenderà forma l'East Turkestan Independence Movement, i cui legami vanno ricercati nella galassia jihadista pachistana e afgana. L'Etim è lo spauracchio ancora additato da Pechino ogni qual volta si sono verificati attacchi o azioni di sabotaggio. Sanzionato come gruppo terroristico dal Dipartimento di Stato Usa dopo gli attacchi dell'11 settembre, il movimento è stato superato da una nuova sigla il Turkestan Islamic Party, gravitante nella galassia di al-Qaeda. Il Tip ha rivendicato l'incidente del 28 ottobre 2013, quando, pochi giorni prima del Plenum del Partito comunista, un suv è piombato sulla folla di visitatori davanti all'ingresso della Città proibita a Pechino, facendo cinque morti. L'accaduto segna uno spartiacque. Se fino al 2008, anno delle Olimpiadi di Pechino, le azioni erano frutto di scarsa organizzazione, dal 2013 aumentano di intensità portandosi fuori dai confini dello Xinjiang e addirittura della Cina. È il caso dell'autobomba all'ingresso dell'ambasciata cinese di Biskek, capitale del Kirghizistan seguendo le indicazioni del leader di jihadista Ayman al Zawahiri.


Inoltre Iran

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"Il futuro adesso torna incerto".

Camilla Caparrini

Nei primi mesi del 2018 sull'Iran grava un'atmosfera cupa. Le tensioni geopolitiche creano un generale senso di incertezza e si sommano a difficoltà interne, conflitti sociali, una crisi valutaria in gran parte speculativa, una sorda lotta di potere ai vertici dello stato. Con i suoi quasi 80milioni di abitanti, una popolazione giovane (due terzi degli iraniani hanno meno di 30 anni), istruita e ben connessa con il mondo globale, l'Iran è potenzialmente un Paese benestante; possiede tra i maggiori giacimenti di petrolio e di gas naturale del Pianeta e una discreta capacità industriale, è un Paese dalla cultura antica e un crocevia di scambi tra il Medio Oriente e l'Asia Centrale. Ma le promesse di sviluppo stentano a realizzarsi e molti iraniani paventano il ritorno di tempi bui. Sembra lontano l'ottimismo suscitato dall'accordo sul nucleare, il "Joint comprehensive plan of action”, o Jcpoa. Firmato il 14 luglio 2015 da Teheran e sei potenze mondiali, l'accordo è il risultato di quasi due anni di negoziati tra l'Iran e Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania con l'Unione europea. Entrato in vigore formalmente nel gennaio 2016, l'accordo nucleare ha messo fine a un lungo isolamento internazionale dell'Iran. È utile ricordare che il Jcpoa ha imposto una drastica limitazione al programma atomico iraniano. In base all'accordo, Teheran ha rinunciato ad arricchire uranio oltre il 3,5% necessario ai suoi reattori elettronucleari e accettato un regime di controlli internazionali che non ha eguali per severità. Secondo numerosi esperti, l'accordo ha allontanato di 10 o 15 anni il momento in cui l'Iran potrebbe costruire una bomba atomica qualora ne avesse la volontà (cosa che Teheran ha sempre negato). Il Jcpoa non è un trattato internazionale (quindi non è stato ratificato dai parlamenti) ma è diventato vincolante per i Paesi firmatari quando il Consiglio di Sicurezza dell'Onu lo ha fatto proprio approvandolo. Da allora l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea, l'organismo Onu che veglia sulla sicurezza nucleare e il rispetto del Trattato di non proliferazione atomica, a cui l'Iran aderisce) ha constatato che Teheran ha tenuto fede a tutti i suoi obblighi. In contropartita, le potenze Occidentali e l'Onu si sono impegnate a revocare le sanzioni che colpivano merci, persone, istituzioni e banche legate a possibili usi bellici del nucleare, e che di fatto avevano bloccato l'intera economia iraniana. Le sanzioni internazionali relative al nucleare sono state in effetti revocate e l'Iran ha ripreso l'export di petrolio (gli idrocarburi sono la principale fonte di reddito dello Stato iraniano); gli Stati Uniti però mantengono altre sanzioni bilaterali e, soprattutto, continuano a bandire le banche iraniane dal sistema finanziario americano: e questo è un forte deterrente anche per le banche e le grandi imprese europee, che rischiano di vedersi penalizzate dagli Usa se lavorano con Teheran. Eppure, ai termini degli accordi Washington doveva rinunciare a ogni pressione contro gli investimenti terzi in Iran. Insomma, per l'Iran i benefici dell'accordo hanno tardato a materializzarsi. E l'insediamento del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel gennaio 2017 ha fatto crollare ogni residuo ottimismo. Trump è tornato a descrivere l'Iran come una minaccia, una “dittatura corrotta”, uno Stato “che protegge il terrorismo”, segnando un ritorno alla vecchia atmosfera di sospetto e accuse. In particolare ha subito minacciato di stracciare l'accordo sul nucleare, che ha definito “terribile”: così distruggendo del tutto l'eredità del suo predecessore Barak Obama. Nel suo primo anno alla Casa Bianca Trump aveva certificato controvoglia al Congresso l'aderenza dell'Iran agli accordi (adempimento che si ripete ogni tre mesi), ma nei primi mesi del 2018 ha chiarito di non voler più avallare l'accordo con l'Iran. Argomento che ha scatenato tensioni non solo con Teheran ma anche con i partner europei. E, nel dichiarato intento di “salvare” l'accordo, i tre firmatari europei hanno dapprima proposto di sanzionare l'Iran per il suo programma missilistico e il suo ruolo “destabilizzante” in Medio Oriente (materie che non rientrano nel Jcpoa). Strategia contestata da numerosi esperti e respinta in sede Ue da Italia e Austria, convinte che nuove sanzioni non avrebbero placato l'ostilità del Presidente Trump, mentre avrebbero distrutto la fiducia costruita con l'Iran, “punito” nonostante abbia rispetCamilla Caparrini


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tato gli impegni. Quanto all'Alto rappresentante Ue per la politica estera, Federica Mogherini, ha ribadito che il Jcpoa “non è un accordo bilaterale (...) e non è facoltà di nessun singolo Paese mettervi fine”. Infine, l’8 maggio, in diretta tv dalla Casa Bianca il Presidente degli Stati Uniti ha detto chiaramente che il suo Paese si ritirava dall'accordo, dando il via libera alla reintroduzione in 90 giorni delle sanzioni che erano state congelate con l'accordo siglato a Vienna nel 2015 tra l'Iran, il P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite - Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti - più la Germania) e l'Unione europea. Così, appena usciti da anni di isolamento e sanzioni gli iraniani vedono tornare tempi bui. L'accordo sul nucleare aveva suscitato aspettative enormi nel Paese: la speranza che finito l'isolamento, cadute le sanzioni, le attività economiche sarebbero rifiorite e un clima internazionale più disteso avrebbe favorito anche nuove aperture interne. Oggi il disappunto è palpabile. Pur restando una rara oasi di stabilità nella Regione, l'Iran si sente circondato. Le tensioni con l'Arabia Saudita e di Israele hanno raggiunto livelli di guardia. La guerra siriana incombe: l'Iran rivendica di essere l'unico Paese che ha combattuto sul terreno per fermare il sedicente Stato Islamico e impedire che le milizie del Califfo arrivassero a Baghdad, e lo ha fatto a prezzo di gravi perdite, le stime oscillano tra 2000 e 2500 morti, tra iraniani e afghani, che l'Iran onora come “difensori della patria” che hanno combattuto “per impedire ai terroristi di Daesh [l'Isis] di entrare in Iran”. Eventualità per nulla remota, come hanno dimostrato gli attentati al parlamento iraniano e al mausoleo dell'imam Khomeini nel giugno scorso. Tutte queste incertezze pesano sulla quotidianità degli iraniani: il crollo del valore del rial, la mancanza di investimenti e di lavoro, sono mali resi più acuti dall'inasprirsi della tensione internazionale. Alla fine del 2017 molte città iraniane hanno visto un'ondata di disordini che ha colto di sorpresa sia i commentatori sia le autorità. Cominciata con una manifestazione contro il carovita, promossa a quanto pare dalle forze conservatrici per mettere in difficoltà il Presidente Rohani, in breve la protesta è sfuggita di mano a chi voleva cavalcarla. Ha coinvolto soprattutto città di provincia e ha mobilitato gli strati più modesti della società contro la mancanza di prospettive e di lavoro, le diseguaglianze, i privilegi. Quei disordini dovrebbero dire ai dirigenti iraniani qualcosa sulla rabbia profonda che percorre il Paese, e che non è rappresentata da nessuno schieramento politico organizzato. L'Iran oggi è un Paese dove le campagne si svuotano, anche per la siccità che lo attanaglia da oltre un decennio, mentre le periferie urbane si riempiono di persone in cerca di lavoro. La disoccupazione è stimata intorno al 12% (dal Fondo Monetario internazionale), ma è opinione comune che sia più alta e che sfiori il 40% tra i giovani, che stentano a trovare un lavoro adeguato al titolo di studio. Molti sognano di emigrare; altri ripiegano nell'economia informale, che secondo stime del ministero del Lavoro assorbe circa 6milioni di persone (su una forza lavoro di 23milioni). Il Governo di Rohani è riuscito a tenere sotto controllo l'inflazione (toccava il 40% alla fine del mandato di Ahmadi Nejad, ora è stabilizzata intorno al 10%), ma non a rilanciare l'economia e soprattutto a offrire prospettive ai giovani iraniani. TENTATIVI DI PACE - Un museo contro la guerra Diffondere una “cultura di pace” documentando le conseguenze devastanti della guerra è l'obiettivo che si è prefissato il Museo della Pace di Teheran, aperto nel 2007. In particolare, il Museo illustra gli effetti devastanti delle armi chimiche, ricordano l’uso che se ne fece contro gli iraniani durante la guerra con l’Irak tra il 1980 e il 1988. La valorizzazione delle testimonianze delle vittime è la caratteristica distintiva del Museo, e si ispira direttamente al lavoro del Museo della pace di Hiroshima, che documenta le sofferenze causate dalla bomba atomica statunitense che distrusse la città nel 1945. La biblioteca del Museo accoglie, oltre alle pubblicazioni, molte testimonianze orali di veterani e vittime della guerra. Il Museo fa parte della rete “International network of museums for peace” che promuove la cultura alla pace. Negli ultimi anni, in collaborazione con la fondazione Berghof, di Berlino, ha sviluppato un programma di formazione di educatori e insegnanti nel campo dell’educazione alla pace. Nell’estate del 2017 ha ospitato una Summer School su Giovani, dialogo e costruzione della pace. Camilla Caparrini

Camilla Caparrini


Inoltre Corea Nord Corea Sud "Qualcosa si muove verso la riunificazione".

Mesi e mesi di incontri, dichiarazioni ufficiali che si rincorrono e incidenti diplomatici. Il presidente Kim Jong Un, rivolgendosi alla comunità internazionale, varie volte ha affrontato la questione della completa denuclearizzazione della penisola coreana. Apparentemente l'operazione dovrebbe consistere nello spostare le armi nucleari e distruggere le infrastrutture usate per costruirle. Per le Potenze Occidentali “denuclearizzazione” significa che il Governo di Pyongyang è tenuto alla consegna di tutto l'arsenale nucleare e dei missili. Ma il Governo Nord coreano in più di un'occasione ha fatto capire che il disarmo passa anche attraverso una riduzione delle truppe statunitensi in territorio sudcoreano e la rimozione del cosiddetto “ombrello nucleare” americano su Corea del Sud e Giappone. Le due Coree sono formalmente in guerra dal 1950. Dalle trattative attuali sembra essere stata completamente esclusa la questione dei diritti umani, sistematicamente violati da decenni in Corea del Nord. I rapporti rischiano di apparire schizofrenici. Il 5 marzo 2018, in un incontro con il capo dell’ufficio di sicurezza nazionale sudcoreana Chung Eui-yong, Kim Jong-un per primo ha espresso il desiderio di incontrare il presidente americano Donald Trump. E a segnare una auspicabile svolta è stato l’annuncio del 21 aprile 2018: "Da oggi la Repubblica popolare di Corea cessa i test nucleari e il lancio di missili balistici intercontinentali e chiuderà il sito di test atomici nel nord del Paese". Ne è seguita una girandola di affermazioni di giubilo, seguite da frettolose retromarce. Gli Stati Uniti hanno attivato un sistema antimissilistico in Corea del Sud, progettato per intercettare missili balistici a breve e media gittata. Dal 1998 la Corea del Nord è stato l’unico Paese al mondo a condurre test di armi nucleari, rivendicando gli stessi diritti esercitati da superpotenze nucleari come Russia e Stati Uniti. Nessuno dei vertici tra Nord e Sud (del 2000 e 2007) ha frenato la corsa agli armamenti.

TENTATIVI DI PACE - Il muro potrebbe crollare

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Negli scorsi mesi si sono susseguiti diversi eventi storici nel rapporto tra le due Coree. Lo scorso febbraio si sono svolte le Olimpiadi Invernali Pyeongchang, al Sud, che hanno dato avvio al processo di riconciliazione tra le due Coree. La decisione principale è stata quella di permettere agli atleti di entrambi i Paesi di sfilare insieme nella cerimonia di apertura, e di organizzare una squadra di hockey femminile che comprendesse atlete di entrambi i Paesi. La mascotte selezionata per i giochi olimpici è stata la tigre bianca che, nella mitologia coreana, simboleggia la protezione degli ospiti, e che in quest’occasione era volta a proteggere gli atleti e il pubblico provenienti da diverse parti del mondo. Durante i giochi, si sono svolti colloqui militari tra i due Paesi, organizzati in concomitanza della visita dei delegati Nordcoreani in Corea del Sud. La linea di comunicazione tra i due eserciti è stata riaperta nel mese di gennaio. Ad aprile, infine, è avvenuto lo storico incontro tra i due leader, il Nordcoreano Kim Jong-un e il Sudcoreano Moon Jae-in.


Dall'indipendenza all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso, con il collasso dell'Unione Sovietica, lo sfruttamento dello risorse idriche è stato un dei nodi irrisolti tra le cinque Repubbliche Centro Asiatiche del Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan. A metà marzo 2018 il vertice di Astana tra i leader di questi Paesi ha allontanato lo spettro di un conflitto sulle risorse. Kazkhstan e Kirghizistan hanno problemi con l'acqua, Kirghizistan e Tagikistan di elettricità e accusano gli uzbechi di sfruttare i loro fiumi. Questi ultimi a loro volta contestano la costruzione di dighe e altri progetti idroelettrici kirghizi e kazachi. All'interno dei singoli Stati, con la Regione considerata una dei serbatoi di reclutamento dello jihadismo, il 2017 ha riservato sviluppi differenti. L'Uzbekistan, il più popoloso dei cosiddetti “Stan” ha visto il primo anno di mandato effettivo del Presidente Shavkat Mirizyaev, eletto a settembre, prendendo il posto del predecessore Islam Karimov, al potere dall'indipendenza dell'Unione Sovietica nel 1991. Il mandato si è aperto con la speranza di aperture democratiche, che ha creato attese per il 2018. A luglio è stata arrestata e posta sotto processo Gulnara Karimova, figlia del defunto Presidente Karimov, accusata di frode e corruzione. Il Kazakhstan di Nursultan Nazarbayev ha rivisto a settembre del 2011 la propria dottrina militare. Il Paese dichiara di non avere nemici, ma Astana teme l'aggressività russa come accaduto in Ucraina. Nel Paese cresce il nazionalismo, alimentato anche dalla pretesa di un'unità etnica costruita a tavolino dopo l'indipendenza. Anche un processo come quello della latinizzazione dell'alfabeto è percepito a Mosca come sospetto, una mossa in chiave anti-russi. A differenza dell'Uzbekistan, le elezioni in Kirghizistan non hanno dato molte speranze, nonostante il Paese goda di un sistema democratico più o meno solido. Ciò che manca è la stabilità, per via delle crescenti tensioni politiche, alimentate anche da due rivoluzioni, nel 2005 e nel 2010. La tutela dei diritti umani continua a essere a rischio. Un voto in stile sovietico in Turkmenistan ha invece confermato con il 97% dei consensi il Presidente uscente Gurbanguly Berdymukhamedov. Il Paese rischia tuttavia rivolte a causa del taglio dei sussidi. Quanto al Tagikistan, l'ex Repubblica Sovietica ha rafforzato le misure repressive contro quello che ritiene il pericolo islamista, intensificando i controlli sui credenti e sugli studenti all'estero. In vista delle legislative del 2020 è stato approvato un emendamento che porta l'età per la candidatura al Presidente da 35 a 30, favorendo il sindaco

Kazakhstan

Generalità Nome completo:

Repubblica del Kazakhstan

Lingue principali:

Kazako, russo

Capitale:

Astana

Popolazione:

18.500.000

Area:

2.700.000 Kmq

Religioni:

Islam, cristianesimo

Moneta:

Tenge

Principali esportazioni:

Petrolio

PIL pro capite: Us 7.500

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Inoltre Asia Post-sovietica: un mosaico da decifrare


Kirghizistan

Generalità Nome completo:

Repubblica del Kirghizistan

Lingue principali:

Kirghizo, russo

Capitale:

Bishkek

Popolazione:

5.334.223

Area:

199.945 Kmq

Religioni:

Musulmana sunnita, cristianesimo

Moneta:

Som

Principali esportazioni:

Gas naturale, oro, mercurio, uranio, carni, lana , cotone

166

PIL pro capite: Us 1.077

Uzbekistan

Generalità Nome completo:

Repubblica dell'Uzbekistan

Lingue principali:

Uzbeko, russo, tagico

Capitale:

Tashkent

Popolazione:

29.748.859

Area:

447.400 Kmq

Religioni:

Musulmana

Moneta:

Som uzbeko

Principali esportazioni:

Gas naturale, rame , cotone

PIL pro capite: Us 2.110

di Dushanbe, nonché figlio dell'attuale capo di Stato, Rustam Emomali. Ragioni di politica interna sono a detta di molti analisti alla base delle preoccupazioni per la sicurezza che dipingono le ex Repubbliche Sovietiche dell'Asia centrale. La tesi presuppone che il pericolo jihadista venga sfruttato per contenere spinte dal basso alimentate dalla povertà, dalla precarietà economica legata anche all'andamento del prezzo del petrolio e del rublo, nonché alla successione al potere. Il rischio radicalizzazione è però reale, alimentato dalla ricerca di nuove opportunità economiche e dall'impossibilità a professare la propria fede. Paesi come il Tagikistan, il Turkmenistan e il Kirghizistan rischiano di dover fronteggiare miliziani di ritorno da altri conflitti, in particolare modo dall'Afghanistan. I Paesi dell'Asia Centrale, data la loro condizione geografica, si trovano inoltre coinvolti nel progetto cinese di ricostruzione della via della Seta. La Belt and Road Initiative lanciata nel 2013 dal Presidente Xi Jinping per costruire una rete commerciale e logistica tra Asia ed Europa, potrebbe tuttavia entrare in conflitto con l'Unione economica euroasiatica, voluta da Mosca nel 2015, con l'intento di creare un'unione doganale nello spazio ex-sovietico, che orienti questi Paesi verso la Russia. Le due Potenze hanno obiettivi divergenti e assieme agli investimenti potrebbero alimentare l'instabilità. I cinque “stan” dell’Asia orientale post sovietica sono culturalmente e etnicamente disomogenei. Stati indipendenti dal 1991, avevano gravitato prima nell’area russo zarista e poi dell’Urss. In epoca zarista l'Asia centrale era stata divisa dall'Impero in due Governatorati, lasciando autonomi l'emirato di Bukhara e il canato di Khiva. È soltanto nel 1936, con l’Urss, che i cinque stan hanno assunto il loro attuali confini. Il Kazakhstan è il più grande e secondo per popolazione. Sin dal 1991 è guidato dall'ex numero uno del locale Partito comunista, Nursultan Nazarbayev, rieletto senza soluzione di


Turkmenistan

Generalità Repubblica del Turkmenistan

Lingue principali:

Turcomanno russo

Capitale:

Ashgabat

Popolazione:

5.351.277

Area:

488.100 Kmq

Religioni:

Musulmana, cristianesimo ortodosso

Moneta:

Manat

Principali esportazioni:

Polimeri, propilene, petrolio e prodotti petroliferi, filati di cotone e tessu-

PIL pro capite: Us 6.389

Tagikistan

Generalità Nome completo:

Repubblica del Tagikistan

Lingue principali:

Tagico, uzbeko e russo

Capitale:

Dushanbe

Popolazione:

8.468.555

Area:

143.100 Kmq

Religioni:

Musulmana sunnita

Moneta:

Somoni tagico

Principali esportazioni:

Alluminio e cotone

PIL pro capite: Us 795

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continuità nel corso degli ultimi 27 anni, l'ultima volta nel 2015. Benché accusato di reprimere le opposizioni, è forte dei traguardi in economia, la più grande dell'area. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, il Kazakhstan ha conosciuto una massiccia emigrazione di cittadini sovietici spediti nel Paese per favorire i programmi di sviluppo rurale: circa due milioni di persone, in gran parte russi. Con l'indipendenza un gran numero di appartenenti alle minoranze non musulmane ha lasciato il Paese, un processo - unito al ritorno di kazaki espatriati - che ha rimescolato il quadro demografico della Repubblica, intenta a creare una propria identità nazionale. Le tensioni sociali non sono tuttavia sopite, come dimostra la repressione degli scioperi del 2011 nella città di Zhanaozen (almeno 16 morti). Così come il Kazakhstan anche l'Uzbekistan dall'indipendenza ha in pratica conosciuto un unico Presidente, il segretario del locale Partito comunista, Islam Karimov. La nascita di una Repubblica socialista risale al 1924, dopo i tentativi di resistenza all'Armata Rossa. Sotto l'Urss la Repubblica si è caratterizzata per l'estensiva coltura del cotone, che ha depauperato le risorse idriche, portando alla quasi scomparsa del lago di Aral. Risale invece al 2005 quello che è passato alla storia come il “massacro di Andjian”. Nel maggio di 13 anni fa le forze di sicurezza furono inviate nella città, nell'Est del Paese, per reprimere i manifestanti che protestavano contro la corruzione e l'ingiustizia. I morti furono centinaia, ma a distanza di un decennio non se ne conosce ancora il numero corretto. Il Kirghizistan, dal 1936, con il nome di Repubblica Socialista Sovietica Chirghisa, è stato una repubblica federata dell’Urss al 1991. Il Khanato (o canato) era stato occupato nel 1876 dall’Impero Russo che iniziava così il lungo periodo egemonico russo. La più forte ribellione avvenne nel 1916, repressa nel sangue. L’oppressione russa dunque continuò, e fu nel 1918 che iniziò l’era dei Soviet. Per il Kirghizistan, un’età di scolarizzazione e alfabetizzazione di massa, e di forte industrializzazione connessa all’urbanizzazione del territorio, arido e selvaggio. Ciò continuò per tutto il Novecento, nonostante la forte repressione di movimenti contrari al regime, ma nacquero dei movimenti culturali clandestini. Contemporaneamente, iniziò un periodo di conflitto etnico con la minoranza uzbeka dell’oblast di Osh. I conflitti etnici non si fermarono nemmeno con l’indipendenza. Venne eletto come primo Presidente Askar Akayev, che rimase al potere fino al 2005 quando si dovette dimettere in seguito a violente proteste contro il suo potere, corrotto e autoritario (la cosiddetta Rivoluzione dei Tulipani). Fu eletto allora Kurmanbek Bakiyev con la speranza di un cambiamento. Ma, per gli oppositori, la speranza fu vana: ritenuto un semi-dittatore si arrivò a violente manifestazioni di piazza, continue proteste che arrivarono al culmine nell’aprile del 2010 quando ci furono 75 morti negli scontri. E la rivolta ancor oggi cova sotto la cenere, soprattutto a Sud. Travagliato è invece il percorso dell'ultimo quarto di secolo del Tagikistan. Il Paese continua a essere dipendente dalla Russia. Dall'indipendenza è stato teatro di una guerra civile, conclusasi nel 1997, che ha visto fronteggiarsi fazioni regionali. Nel 2010 le forze governative hanno dovuto fronteggiare i signori della valle di Rasht e ancora i gruppi del Gorno-Badakshan. Nel 2015 poi, alti ufficiali attaccarono il ministero della Difesa. Un episodio preso a pretesto dal presidente Emomali Rahamon per attaccare l'opposizione. Sulle orme del suo predecessore, Saparmyrat Niyazov, al potere dall'inizio degli anni Novanta, anche Kurbanguly Berdymukhamedov in carica dal 2007, ha rafforzato il culto della sua personalità, facendosi assegnare il titolo di Arkadag, padre della Patria ed estendendo il limite di mandati presidenziali da cinque a sette anni.

Nome completo:



EUROPA ELENCO DEI PAESI IN CONFLITTO

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Europa

A cura di Amnesty International

I diritti economici diventano un ricordo In tutto il Continente milioni di persone hanno subìto l’erosione dei loro diritti economici, sociali e culturali, con una diminuzione della tutela sociale e l’aumento delle diseguaglianze e di una discriminazione sistemica. Gli Stati hanno ripetutamente ignorato le loro responsabilità in materia di protezione di rifugiati e migranti. Nella seconda metà dell’anno, il numero di arrivi irregolari di rifugiati e migranti nell’Unione Europea è diminuito sensibilmente, in gran parte in conseguenza di accordi di cooperazione con le autorità libiche, coi quali i Governi europei, in particolare quello italiano, hanno fatto finta di non vedere o hanno addirittura contribuito a perpetrare gli abusi subiti da chi era intrappolato nel Paese. L’accordo sull’immigrazione tra Unione Europea e Turchia del marzo 2016 è rimasto in vigore e ha continuato a limitare l’accesso al territorio e all’asilo in Europa. Nel corso del 2017, questo accordo ha lasciato migliaia di persone in condizioni di vita squallide, in luoghi sovraffollati e pericolosi nelle isole greche, con mesi di attesa davanti a sé perché le loro domande di asilo fossero esa-

minate. Rispetto al 2016, gli arrivi sulle isole greche sono diminuiti drasticamente. Usando gli aiuti, il commercio e altre leve, i Governi europei hanno incoraggiato e sostenuto i Paesi di transito, anche quelli in cui sono state documentate violazioni diffuse e sistematiche nei confronti di rifugiati e migranti, affinché attuassero misure più severe di controllo alle frontiere, senza adeguate garanzie per i diritti umani. Queste politiche hanno intrappolato migliaia di rifugiati e migranti in Paesi in cui non avevano una protezione adeguata e in cui sono stati esposti a gravi violazioni dei diritti umani. Le Ong che nella prima metà del 2017 avevano effettuato più salvataggi nel Mediterraneo Centrale rispetto a tutti gli altri, sono state screditate e attaccate da commentatori pubblici e politici, hanno subìto limitazioni alle loro attività, con un nuovo codice di condotta imposto dalle autorità italiane e sono state al centro di inchieste giudiziarie i cui esiti sono tuttora ignoti. Soprattutto nell’Europa Orientale è prevalsa una retorica ostile ai diritti umani, che spesso ha portato alla repressione nei confronti dei difensori dei diritti umani, degli oppositori politici, dei movimenti di protesta, degli attivisti anticorruzione e delle minoranze sessuali. Questa retorica ha trovato la sua espressione legislativa in Ungheria, con l’adozione di una legge simile a quella russa del 2012 che, a tutti gli effetti, ha stigmatizzato le Ong che ricevevano fondi dall’estero. La libertà di espressione è stata sottoposta a limitazioni arbitrarie in Rus-


sia, dove durante le massicce proteste contro la corruzione che si sono tenute a marzo in tutto il Paese la polizia ha fatto uso eccessivo della forza e ha arrestato centinaia di manifestanti in gran parte pacifici nella capitale Mosca e oltre un migliaio in tutto il Paese. A giugno, centinaia di persone sono state nuovamente arrestate durante le proteste anticorruzione che si sono tenute in tutto il Paese. In Germania, Francia, Polonia e Spagna, i Governi hanno risposto alle assemblee pubbliche contro le politiche restrittive o le violazioni dei diritti umani con la chiusura di spazi pubblici, l’uso eccessivo della forza da parte della polizia, la sorveglianza e la minaccia di sanzioni amministrative e penali. Il Governo francese ha continuato a ricorrere a misure d’emergenza per vietare assemblee pubbliche e a limitare la libertà di movimento per impedire alle persone di partecipare alle manifestazioni. A ottobre, le forze di sicurezza spagnole, a cui era stato ordinato d’impedire lo

svolgimento del referendum sull’indipendenza catalana, hanno fatto uso non necessario e sproporzionato della forza contro i manifestanti, ferendone centinaia. Violenti attentati hanno provocato morti e feriti in diversi luoghi, tra cui Barcellona, Bruxelles, Londra, Manchester, Parigi, Stoccolma, San Pietroburgo e varie località della Turchia. In risposta, i Governi hanno continuato ad applicare una serie di misure antiterrorismo che hanno limitato in modo sproporzionato i diritti delle persone, in nome della sicurezza. Nell’Europa Orientale, le persone Lgbti hanno subìto crescenti abusi e discriminazioni, tra cui violenze, arresti arbitrari e detenzioni. In Russia, la “legge sulla propaganda omosessuale” ha continuato a essere applicata, nonostante sia stata dichiarata discriminatoria dalla Corte europea dei diritti umani. Ad aprile è emerso che le autorità cecene stavano detenendo in segreto e arbitrariamente, torturando e uccidendo uomini omosessuali.

A cura di Giovanni Scotto

Europa: in ordine sparso sull’abolizione del nucleare Il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari è il risultato di una complessa alchimia diplomatica che ha visto attive le Nazioni Unite, la società civile internazionale (con la Campagna ICan che per questo ha ricevuto il premio Nobel per la pace) e il ruolo attivo di alcuni Stati. In Europa le posizioni sul trattato sono le più diverse. I Paesi dell’Unione europea hanno mostrato orientamenti differenti sul trattato. Tutti i Paesi membri della Nato continuano per adesso ad opporsi. È nell’Unione europea che le posizioni sono più distanti. Le due potenze nucleari - Francia e Regno Unito - naturalmente hanno rifiutato non solo di firmare il trattato, ma anche di partecipare alla discussione che ha portato alla sua stesura, cosa che ha fatto invece l’Olanda. L’Austria, invece, è stata decisiva nel percorso

che ha portato alla stesura del trattato. Ad oggi (maggio 2018), oltre alla Santa Sede, solo l’Austria ha ratificato il trattato tra i Paesi europei; l’Irlanda, San Marino e Lichtenstein lo hanno firmato. Ma il prossimo futuro potrebbe riservare qualche sorpresa, soprattutto all’interno dell’Unione europea. Nel 2016 proprio il Parlamento europeo aveva approvato il percorso verso il trattato. Gli attori della società civile impegnati nella campagna Ican sono forti in Germania e nei Paesi scandinavi; in Italia, nella passata legislatura 240 parlamentari si erano impegnati per l’accesso dell’Italia al trattato. Nella nuova legislatura, un Governo lontano dalla tradizionale incondizionata fedeltà atlantica potrebbe decidere di firmare il trattato per rimarcare la propria differenza.


172


Uno schiaffo alla povertà

A gennaio 2018 è stato pomposamente inaugurato il complesso sciistico di Veduchi, a un’ottantina di chilometri da Groznyj. Si tratta di un progetto multimilionario, che a regime offrirà 19 piste da sci e un resort di lusso tra le montagne del Caucaso, grazie a un finanziamento di oltre 300milioni di euro da parte della banca pubblica di investimenti russa Veb. Tra gli investitori c’è anche il magnate delle costruzioni ceceno Ruslan Baisarov. All’inaugurazione era presente anche Kadyrov, che ha parlato di un “grandioso evento politico ed economico”. Difficile immaginare che, in una delle Regioni più povere della Federazione Russa, con meno di un milione e mezzo di abitanti, in molti possano permettersi vacanze sulla neve. Veduchi rientra però in una serie di grandi progetti urbanistici. Una specie di whitewashing portato avanti da Kadyrov per cancellare ogni traccia della guerra dalla faccia della Cecenia. Un processo largamente finanziato con soldi dei contribuenti russi. Si stima che Mosca abbia speso finora miliardi di euro nella ricostruzione.

UNHCR/T. Makeeva

Se la Cecenia è tristemente balzata agli onori della cronaca nel 2017 non è per un motivo direttamente legato al conflitto. Anche se, in ultima analisi, questa nuova tragedia che affligge una parte della popolazione affonda le proprie radici in un regime che di quella guerra è figlio. Segnalazioni di gravi violenze contro appartenenti della comunità Lgbt cecena circolavano tra attivisti e associazioni internazionali. È stato nel 2017 che le notizie (e le conferme) di rapimenti, torture e uccisioni di gay e lesbiche da parte della polizia cecena hanno riempito le pagine dei giornali occidentali. L’evento più grave, riportato inizialmente dal quotidiano indipendente russo Novaya Gazeta ad aprile, risale a due mesi prima, quando un centinaio di uomini sono stati prelevati in diverse città cecene dalla polizia locale e detenuti, solo sulla base di sospetti sul loro orientamento sessuale, in almeno due prigioni segrete nella città di Argun e nel villaggio di Tsotsi-Yurt. Associazioni Lgbt e per la difesa dei diritti umani citando testimoni oculari - hanno parlato di campi di concentramento per omosessuali. Sempre secondo Novaya Gazeta si sarebbero verificati almeno tre casi di esecuzioni sommarie. Al primo episodio di febbraio sarebbe poi seguita un’altra ondata di arresti di massa. La risposta alle reazioni internazionali è stata persino più inquietante delle scarse notizie che trapelavano dalla Repubblica. Citato dal New York Times, il portavoce del Presidente ceceno Ramzan Kadyrov, Alvi Karimov, ha negato ogni accusa dicendo che "Non è possibile arrestare o reprimere persone che semplicemente non esistono in Cecenia. Se gente di questo tipo esistesse nella Repubblica, la polizia non avrebbe bisogno di fare niente contro di loro perché i loro stessi parenti li manderebbero in qualche posto da cui non c’è ritorno". Il riferimento ai delitti d’onore è particolarmente inquietante perché alcune testimonianze rilasciate a Radio Liberty, riferiscono di almeno due casi di omosessuali rilasciati dalla polizia dietro condizione che fossero i parenti stessi a ucciderli. Il regime di Kadyrov, responsabile della repressio-

CECENIA

Generalità Nome completo:

Repubblica Cecena

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Russo, Ceceno

Capitale:

Groznyj

Popolazione:

1.269.000

Area:

15.500 Kmq

Religioni:

Musulmana sunnita

Moneta:

Rublo, nahar

Principali esportazioni:

Petrolio

PIL pro capite:

n.d.

ne antigay, è ormai da anni impegnato nella costruzione di un’immagine “pulita” della Cecenia. Un’immagine basata su un’interpretazione tradizionale dell’identità cecena che, contrariamente a quanto continuano ad affermare le autorità, lascia sempre più ampi spazi al fondamentalismo religioso. Secondo le stime ufficiali, sarebbero almeno 800 i foreign fighters che dalla Repubblica si sono uniti alle fila di Daesh. Ma, secondo molti osservatori, sarebbero molti di più. Sul fronte della ribellione, si registra una calma latente. L’episodio più grave è accaduto a marzo 2017, quando sei soldati della Guardia Nazionale russa e altrettanti miliziani ceceni sono morti durante un attacco dei ribelli a una base militare governativa.


La Cecenia di oggi non è più quel focolaio di guerriglia indipendentista dei decenni passati. Non più di qualche centinaio di combattenti resterebbe nascosto tra le montagne. Si tratta di stime difficili da verificare, anche considerando il numero di coloro che si sono aggiunti alle fila del così detto Stato Islamico per combattere in Siria e Iraq. Che, peraltro, potrebbero costituire un problema se e quando faranno ritorno in Cecenia. L’ultimo duro colpo all’irredentismo ceceno è stato inferto con la morte dell’autoproclamato emiro del Caucaso, nonché capo della “resistenza”, Doku Umarov, ucciso dalle forze speciali russe nel 2013. Questo, comunque, non ha impedito anche negli anni recenti il verificarsi di episodi di guerriglia. Il più eclatante dei quali, nel dicembre 2014, causò una vera e propria battaglia per le

strade di Groznyj, lasciando a terra 19 uomini, 10 delle forze di sicurezza russe e 9 ribelli, oltre 28 feriti. Lo scontro che si protrasse per ore intorno alla “Casa della stampa”, seguì un attacco a un posto di blocco rivendicato dall’Emirato del Caucaso, un movimento jihadista che si ispira a Daesh. Dopo la morte di Umarov, sarebbero succeduti alla guida dell’emirato Aliaskhab Kebekov, ucciso ad aprile 2015, e Magomed Suleymanov, ucciso nell’agosto dello stesso anno. Del movimento non si hanno più segni di attività da allora. Gli ultimi episodi hanno mostrato un separatismo ceceno fortemente indebolito e disorganizzato, ma pur sempre pronto a colpire. Un separatismo fortemente islamizzato, il cui obiettivo non è più (soltanto) Mosca, ma lo stesso Governo ceceno che ne è la proiezione.

Per cosa si combatte

Il dramma delle vedove

Sono centinaia i combattenti partiti dalla Cecenia per unirsi alle fila del sedicente Stato Islamico. Molti di loro hanno portato con sé le mogli, e a volte anche i figli. Ora che l’Isis ha perso quasi completamente il proprio territorio, si pensa che molti di loro faranno ritorno. Ma le mogli e i figli di tutti coloro che hanno perso la vita in battaglia si trovano ora bloccati lontano da casa. Centinaia di donne e bambini ceceni che molto probabilmente non riusciranno mai a tornare a casa. Alcuni dei parenti rimasti in Cecenia, molto spesso coraggiose e disperate madri, hanno rotto il silenzio. Hanno formato un gruppo di autoascolto che conta più di 800 membri. Le madri passano le loro giornate agli arrivi dell’aeroporto di Groznyj, mostrando le foto degli scomparsi, sperando che qualcuno di ritorno dalla Siria li riconosca. Qualcuna di loro è riuscita a rintracciare le proprie figlie e i nipoti. Addirittura anche a rivederli, in Siria, con il benestare dello Stato Islamico. Che però non ha mai consentito a nessuna delle vedove di partire.

174

UNHCR/T. Makeeva

La Cecenia è legata da sempre a doppio filo alla Russia. La sua è una storia fatta di periodiche ribellioni al potere centrale, sin da quando, nel 1873, entrò a far parte dell’Impero russo. A seguito della Rivoluzione d’Ottobre fu inglobata insieme all’Inguscezia nell’Unione Sovietica con il nome di Repubblica autonoma socialista sovietica Ceceno-inguscia. La Seconda guerra mondiale offrì ai ceceni la prima occasione per insorgere contro Mosca, sperando di poter approfittare del fianco aperto lasciato dall’Armata Rossa, impegnata sul fronte. L’obiettivo era già da allora la completa indipendenza. Per questo i ceceni furono accusati da Stalin di aver collaborato con i nazisti e subirono una durissima repressione subito dopo la fine della guerra. Deportazioni di massa decimarono la popolazione, con l’obiettivo di sopire le spinte di rivolta russificando la Regione. L’episodio più grave si verificò il 23 febbraio del 1944 ed è ricordato come “Operazione Lenticchia”, dall’assonanza del nome russo del legume, chechevitsa, con quello della popolazione. In una sola notte mezzo milione di ceceni e ingusci furono deportati in Khazakistan dai militari dell’Nkvd, il predecessore del Kgb. Molti di loro morirono nel viaggio, altri furono uccisi perché opposero

resistenza. I sopravvissuti poterono tornare nelle loro terre solo alla fine degli anni 50, dopo la destalinizzazione. Fu l’implosione dell’Unione Sovietica a dare nuovo impulso alle spinte indipendentiste, che sfociarono immediatamente in una guerra con Mosca. L’allora Presidente ceceno Džokhar Dudaev dichiarò unilateralmente l’indipendenza dalla Russia nel 1991, sull’onda di molte altre Repubbliche Sovietiche. La risposta russa non fu subito muscolare. Una legge voluta da Boris Eltsin e approvata dalla Duma nel 1992 concedeva larga autonomia a 86 entità territoriali dalla forte caratterizzazione etnica all’interno della neonata Federazione Russa. La Cecenia, però, non ritirò mai la propria dichiarazione di indipendenza e la trattativa si arenò. Eltsin ordinò di impedire la secessione, inviando nel 1994 40mila soldati nella Regione. Aveva inizio la prima, sanguinosa guerra cecena. I russi erano demotivati, mal equipaggiati e indeboliti da una catena di comando inadeguata e corrotta. Subirono una serie di sconfitte iniziali, ma grazie alla forza soverchiante presero il controllo della capitale Groznyj a febbraio del 1995. Un anno dopo, nell’aprile del 1996, il Presidente ceceno Dudaev fu ucciso durante un’operazione coordinata dall’intelligence

Quadro generale

Mondiali 2018 occasione mancata

Per il campionato del mondo di calcio del 2018 in Russia, la Cecenia non ha ospitato nessuna partita, ma è stata il ritiro per almeno una squadra partecipante. È stata la nazionale egiziana a scegliere Groznyj tra una decina di località per alloggiare la propria squadra. La notizia aveva subito fatto rizzare le antenne alle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Human Rights Watch aveva espressamente chiesto alla Federazione internazionale di rivedere la decisione e applicare il proprio regolamento sul rispetto dei diritti umani, recentemente approvato. La stessa Fifa aveva infatti precedentemente preso posizione contro le purghe antigay e le intimidazioni a danno dei giornalisti in Cecenia, parlando di “episodi in forte contraddizione con i valori della Fifa che, come organizzazione, condanniamo fermamente”.


TENTATIVI DI PACE

Il rischioso mestiere dell'attivista

Dal 1994 ad oggi sono molti gli attivisti che hanno perso la vita in Cecenia. I controlli alle Ong e alle associazioni umanitarie sono sempre più serrati e dal 2006 ad oggi per poter svolgere le proprie attività sul territorio ceceno è obbligatorio chiedere il consenso da parte delle autorità della Federazione Russa. Nel 2017 è avvenuta una serie di crimini omofobici, con diverse decine di rapimenti, torture e omicidi. Le autorità non hanno avviato nessuna indagine. Il giornale Novaya Gazeta e la comunità Lgbt russa si sono impegnati a documentare le violenze e a mettere in salvo un centinaio di persone in pericolo. Nel febbraio 2018 è stato arrestato l'attivista ceceno per i diritti umani Oyub Titiev. Memorial, l'organizzazione che Titiev rappresenta in Cecenia, fornisce assistenza alle vittime di gravi violazioni dei diritti umani. La detenzione di Titiev - accusato di possesso di droga dalle autorità - ha provocato una forte reazione a livello internazionale, con proteste di organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International. Il movimento per la difesa dei diritti umani in Cecenia, nonostante tutto, continua a restistere.

Oyub Titiyev (1957)

UNHCR/T. Makeeva

militare russa, che impiegò due missili a guida laser lanciati da un aereo per colpire la località segreta in cui si trovava. La morte del leader indipendentista favorì il successivo cessate il fuoco siglato da Eltsin e gli altri leader ceceni, cessate il fuoco che portò poi al trattato di pace che pose fine alla prima guerra cecena. Era l’agosto del 1996. Le prime elezioni del dopoguerra portarono alla presidenza il comandante delle forze ribelli, Aslan Maskhadov. Ma il consenso di cui godeva non fu mai tale da scalzare il potere di capiclan e signori della guerra che in molte zone costituivano l’unica autorità presente. È probabilmente questa la ragione alla base di una nuova escalation che portò il conflitto a divampare nuovamente nel 1999. Il casus belli fu offerto da alcune incursioni dei ribelli ceceni nella Repubblica del Daghestan, col probabile intento di fomentare le locali istanze separatiste, insieme a una serie di attentati con esplosivi in diverse città russe, compresa Mosca. La seconda guerra cecena ebbe inizio con una

I PROTAGONISTI

serie di bombardamenti aerei, finché le truppe russe non entrarono nuovamente nella Repubblica ad ottobre del 1999. Meglio addestrati e attrezzati rispetto a otto anni prima, i militari di Mosca presero velocemente il controllo di tutta la Regione. Il risultato fu però una devastazione di enormi proporzioni, che porto alla totale distruzione di Groznyj. Si può dire che da allora le forze militari russe non abbiano mai più lasciato la Cecenia. Gli anni che sono seguiti hanno visto un progressivo abbandono della guerriglia da parte dei miliziani e una netta pacificazione della Repubblica. Il merito, se di merito si può parlare, è in gran parte ascrivibile alla salita al potere di Ramzan Kadyrov, saldamente alla guida della Cecenia dal 2004. Forte alleato di Putin, Kadyrov è succeduto al padre, ucciso in un attentato nello stadio di Groznyj. A lui il Cremlino affida di fatto il lavoro sporco: sue sono le forze speciali che negli ultimi anni hanno condotto una spietata caccia all’ultimo miliziano, calpestando sistematicamente diritti civili e umani, facendo spesso ricorso alla ritorsione nei confronti delle famiglie dei combattenti e trasformando la Cecenia in un feudo in cui la legge è sostituita dalla parola del “re”, come Kadyrov viene chiamato.

175

Oyub Titiyev è a capo della sede cecena del Centro per diritti umani Memorial, una delle Ong più attive in Russia contro gli abusi delle autorità nei confronti dei cittadini. Titiyev, 60 anni, è stato arrestato a gennaio 2018 con l’accusa di possesso di droga. Gli sarebbero stati trovati addosso durante una perquisizione 180 grammi di marijuana. Sono però in molti a sostenere si tratti di un’accusa fittizia dovuta alla sua attività. Titiyev aveva assunto l’ufficio subito dopo l’assassinio di Natalia Estemirova. Dal momento che né i suoi assassini né i mandanti dell’omicidio sono mai stati assicurati alla giustizia, Memorial aveva deciso di continuare a seguire i casi di violazione dei diritti umani in Cecenia attraverso un “gruppo mobile” di volontari provenienti da altre parti della Russia. Il gruppo di Titiyev ha in questi anni seguito numerosi casi locali, fino alla Corte dei diritti umani di Strasburgo. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, ha detto che con l’arresto di Titiyev “continua la preoccupante tendenza di arresti, attacchi e intimidazioni contro giornalisti e difensori dei diritti umani” in Cecenia.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DA CIPRO RIFUGIATI

2

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SFOLLATI PRESENTI IN CIPRO RIFUGIATI ACCOLTI IN CIPRO RIFUGIATI

8.484

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SIRIA

4.263

PALESTINA

1.909 -


Un solo villaggio con due popoli

Esiste un solo villaggio a Cipro dove grecociprioti e turcociprioti vivono fianco a fianco. Si chiama Pyla e l’unico motivo per cui i due gruppi etnici continuano a viverci insieme è che si trova nella zona cuscinetto delle Nazioni Unite che separa la Repubblica di Cipro dalla Repubblica turca di Cipro Nord (Trnc). Se le Nazioni Unite si ritirassero, le cose si metterebbero davvero male. Potrebbe succedere. L’Unficyp (la forza di peacekeeping delle Nazioni Unite a Cipro) ha più di cinquant’anni nel 2018, e la pazienza sta finendo. L’ex segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon aveva avvertito nel 2011 che “il protrarsi della presenza dell’Unficyp sull’isola non va dato per scontato”. Il segretario generale in carica, António Guterres, ha dichiarato esplicitamente che non si può andare avanti così per sempre.

Camilla Caparrini

Sembrava fossero arrivati gli anni buoni: nulla da fare. La pace fra greci e turchi, a Cipro, resta una chimera. La riunificazione dell’isola sembrava sul punto di realizzarsi nel 2017, dopo mesi di colloqui e trattive in Svizzera, a Crans-Montana. La conferenza avrebbe dovuto concludersi con successo. Il Presidente Nicos Anastasiades della Repubblica di Cipro e il Presidente Mustafa Akinci, della autoproclamata repubblica Turca, erano molto vicini a un accordo e sembrava che le due comunità dell’isola fossero entrambe disposte a votare a favore. Il referendum popolare viene considerato indispensabile per la ratifica di qualunque accordo. L’idea era di andare verso una Repubblica federale, riconosciuta dalle parti e dalla comunità internazionale. Invece tutto è fallito a pochi metri dal traguardo. Ad affossare le speranze - dopo quattro anni di lavoro e negoziati - è stata la Turchia, dicono gli osservatori. Al largo della costa cipriota sono stati trovati giacimenti di gas naturale, valutati in circa 50miliardi di dollari. Le riserve non potranno essere sfruttate sino a quando non ci sarà un accordo. La Turchia qualche mira su quel gas ce l’ha. In più Erdoğan - il Presidente turco - ha bisogno di tenere alto il proprio consenso in Patria, mantenendo viva la mobilitazione dei propri sostenitori, infiammando l’opinione pubblica con cause nazionalistiche. Cipro, da questo punto di vista, è perfetta. Così la Turchia si è rifiutata di rinunciare al suo diritto d’intervenire sull’isola ai sensi dell’accordo del 1960 e di ritirare i 35mila soldati che mantiene di stanza nella Repubblica Turca di Cipro Nord. Per questo l’accordo è naufragato. Un gioco pericoloso. Di fatto, dal 1964 la pace è garantita dalla presenza della Unficyp, la forza Caschi Blu delle Nazioni Unite. Nel 2018 il segretario dell’Onu, Antonio Guterres, ha detto in modo molto chiaro che la pa-

CIPRO

Generalità Nome completo:

Repubblica di Cipro; Repubblica Turca di Cipro Nord

Bandiera 177

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Greco, Turco

Capitale:

Nicosia

Popolazione:

1.129.000

Area:

9.250 Kmq (di cui 3.355 Kmq all’interno della Repubblica Turca di Cipro Nord)

Religioni:

Cristiana ortodossa, musulmana

Moneta:

Euro nella Repubblica di Cipro. Nuova lira turca, nella Repubblica Turca di Cipro Nord

Principali esportazioni:

Prodotti agricoli tipici come olive e limoni, tessuti e calzature

PIL pro capite:

Us 26.794 Repubblica di Cipro Us 5.600 Cipro del Nord

zienza è finita e che le nazioni Unite potrebbero ritirare la propria missione. Una eventualità, questa, che potrebbe avere gravissime conseguenze.


Soprattutto per ragioni nazionalistiche, che alimentano sull’isola lo scontro sempre latente fra Grecia e Turchia, di fatto alleate nella Nato, ma mai amiche. Poi, la posizione geografica (70 km dalla Turchia, 100 km dalla costa del Vicino Oriente, 500 km dall’Egitto), che attribuisce alla terza isola per estensione del Mar Mediterraneo Orientale un valore strategico molto elevato. Le basi militari di Akrotiri e Dhekelia sono

sotto controllo degli anglo americani che da qui possono controllare il Medio Oriente e il confine Meridionale della Russia. I principali capi dell’isola e il Monte Olimpo (m. 1951) hanno un uso militare di spionaggio e sono disseminati di antenne. Ora c’è in ballo anche il controllo di riserve petrolifere e di gas, recentemente scoperte.

Per cosa si combatte

Allarme migrazione

Il fenomeno migratorio del Mediterraneo ha ovviamente interessato anche Cipro. Gli arrivi sono costantemente aumentati, soprattutto per effetto della guerra in Siria. Il numero di persone richiedenti asilo a Cipro è stato di 1.887 persone nel 2014, 2.108 nel 2015, 2.871 nel 2016 e 4.499 nel 2017. Secondo le organizzazioni umanitarie, però, il sistema di accoglienza nazionale si è dimostrato inadeguato. Dal 2018, a seguito di un cambiamento di politica da parte del Servizio di asilo cipriota, il centro di accoglienza di Kofinou, l'unico presente sull'isola, non accetta più richiedenti asilo di sesso maschile. Il risultato è che, a parte le 265 persone ospitate a Kofinou e 130 minori non accompagnati che risiedono in rifugi speciali, la stragrande maggioranza dei richiedenti vive fuori dal centro, senza alloggi e assistenza finanziaria

178

Camilla Caparrini

Cipro è europea dal punto di vista politico e storico. Se dovessimo collocarla geograficamente, infatti, dovrebbe appartenere al continente asiatico. Nella sua storia recente, però, dopo le dominazioni veneziane e turche, l’isola è stata fino al 1960 Cipro colonia britannica. Il 16 agosto di quell’anno, dopo decenni di lotta politica ed armata, venne fondata la “Repubblica di Cipro”, indipendente ma “protetta”, non soltanto dalla Gran Bretagna, ma anche da Grecia e Turchia. Il nuovo Stato divenne membro dell’Onu un mese più tardi. La Repubblica era retta da una Costituzione che bilanciava gli interessi delle due comunità etniche locali: quella greco-cipriota, che rappresenta ancora oggi la maggioranza della popolazione, e quella turco-cipriota. Se il Presidente era un esponente di origine greco-cipriota, con funzioni di Capo di Stato e di Governo, il vice-Presidente doveva essere un turco-cipriota con diritto di veto. Il Governo era composto da sette ministri greco-ciprioti e tre turco-ciprioti; il Parlamento da 35 membri greco-ciprioti e 15 turco-ciprioti. Per fare le leggi era necessario ottenere la maggioranza all’interno di entrambi i gruppi. La neo Repubblica di Cipro, così istituzionalizzata, non entrò mai veramente in funzione perché mai si arrivò ad un programma politico comune tra greci e turchi dell’isola. Gli uni guardavano ad Atene, gli altri ad Ankara.

Il 30 novembre 1963 l’arcivescovo Makarios III, nominato primo Presidente di Cipro, tentò di modificare la Costituzione. Il Governo di Ankara non glielo permise. Il 21 dicembre Makarios III ripudiò il Trattato di Garanzia che legava Grecia, Turchia e Gran Bretagna nell’amministrazione di Cipro. Cominciarono scontri armati tra le due comunità che andarono avanti per una settimana. Vi furono fughe di civili da quei villaggi dove greci e turchi avevano vissuto fino ad allora in rapporti di buon vicinato.

Quadro generale

Camilla Caparrini


TENTATIVI DI PACE

“Imagine”: l’antirazzismo nelle scuole

È un giornalista turco-cipriota, attivista nel movimento degli obiettori di coscienza. Nel 2012 è stato condannato e incarcerato come obiettore di coscienza, perché si è rifiutato di partecipare alle esercitazioni militari annuali obbligatorie nella parte Settentrionale di Cipro, da 40 anni sotto occupazione delle forze armate di Ankara. Dal 2009 Kanatli si è sempre rifiutato di partecipare alle esercitazioni annuali condotte congiuntamente nella parte Nord dell'isola dalle forze turche e da quelle turco-cipriote. Murat è apparso per la prima volta in tribunale a causa di questo "crimine" nel giugno 2011. Il suo caso è stato valutato anche dalla Corte Costituzionale e lui ha affrontato numerosi rinvii e processi. Alla fine è stato giudicato da un tribunale militare, che ha stabilito che il diritto all'obiezione di coscienza non è regolato dal diritto interno nella Repubblica Turca di Cipro. Il tribunale ha così emesso una sentenza, condannandolo a pagare 500 lire turche, con 10 giorni di carcere se non si fosse provveduto al pagamento della sanzione. Cosa che è accaduta: al rifiuto di pagare la penalità, Kanatli è stato mandato a scontare i 10 giorni di prigione.

179

Murat Kanatli

Nel 2016 a Nicosia è stato avviato il programma educativo “Imagine”, realizzato dall’Associazione per la ricerca e il dialogo storico (Ahdr) e dalla Casa della cooperazione (Home for Cooperation, H4C), con il supporto della Forza di Peacekeeping delle Nazioni Unite a Cipro. Il programma vuole promuovere l’antirazzismo e la pace, coinvolgendo insieme i bambini della comunità grecocipriota e di quella turco-cipriota delle scuole primarie e secondarie. Sono due i momenti-chiave del programma: in un primo tempo, formatori esperti incontrano i gruppi di partecipanti nelle loro scuole e facilitano attività sull’antirazzismo, lavorando sugli stereotipi, l’estremismo e l’intolleranza; successivamente, i gruppi delle due comunità di studenti si incontrano e insieme partecipano ad attività sportive e workshops educativi. Nel corso dell’anno scolastico 20162017, il programma ha visto la partecipazione di centosessanta bambini tra i nove e i dodici anni e, completata la fase pilota con successo, è rimasto attivo per l’anno scolastico 2017-2018, ampliandosi fino a raggiungere scuole in tutta l’area dell’isola e coinvolgendo oltre duemilacinquecento studenti.

Camilla Caparrini

Il 4 marzo 1964, con la Risoluzione n.186 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, veniva istituita la missione Unficyp. Nel 1974, per contrastare il tentativo di un colpo di stato da parte dei greci sull’isola, e d’altra parte, con la motivazione di proteggere la propria minoranza turca, il Governo di Ankara inviò il proprio esercito a Cipro e ne occupò il Nord. Fu ovviamente guerra tra le parti: oltre 7mila morti e quasi 2mila dispersi da entrambe le parti, circa 160mila greco-ciprioti costretti a lasciare le loro case e a rifugiarsi nel Sud dell’isola, circa 40mila turco-ciprioti dovettero spostarsi al Nord. Nicosia, la capitale, venne tagliata in due da un muro. L’Onu ottenne il “cessare il fuoco” il 16 agosto 1974. Da allora, Cipro è di fatto divisa in due zone distinte e separate. Al Sud, i greci della Repubblica di Cipro, Paese riconosciuto

I PROTAGONISTI

dalle diplomazie mondiali e divenuto nel 2004 membro dell’Unione Europea. Al Nord, per un terzo del territorio dell’isola, si estende invece la “Repubblica Turca di Cipro Nord” che non fa parte della zona doganale e fiscale europea (anche se i suoi cittadini vengono considerati di fatto cittadini dell’Ue) ed è riconosciuta come Stato, ovviamente, soltanto dalla Turchia. Oggi, gli uomini in forza all’Unficyp controllano una zona cuscinetto lunga 180 km e di un’ampiezza variabile dai 20 metri ai 7 km. Una “linea verde” che taglia in due la capitale Nicosia dove fino al marzo 2007 esisteva anche un vero e proprio muro divisorio tra la parte greca e la parte turca della città. Nella notte del 9 marzo 2007 è stato aperto dai greci, come “segnale di pace”, un valico importante, quello della zona commerciale di Ledra Street, un valico che di fatto fa “cadere” il muro intero, anche se in alcuni tratti del suo percorso cittadino non è stato abbattuto. Nello stesso anno iniziavano i primi tentativi di dialogo fra le parti, sempre risultati inutili.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA GEORGIA RIFUGIATI

6.403

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI FRANCIA

3.011 -

SFOLLATI PRESENTI IN GEORGIA 272.765 RIFUGIATI ACCOLTI IN GEORGIA RIFUGIATI

2.125

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI -


Mkhedrioni torna alla ribalta

L’ombra di Mkhedrioni continua a spandersi sulla Georgia. Il gruppo paramilitare, fuorilegge dal 1995, torna a occupare le pagine di cronaca nera. L’ultimo episodio riguarda Dodo Gugeshashvili, personaggio di spicco dell’organizzazione, è stata oggetto di una sparatoria nella sua casa di Tbilisi. Ferita al petto, è sopravvissuta. È andata peggio a suo figlio Nodar che è morto nell’agguato. Mkhedrioni fu fondato nel 1989 sull’onda del movimento per l’indipendenza dall’Urss, ed ebbe un ruolo fondamentale nel colpo di stato del 1992, che portò alla deposizione dell’allora Presidente Zviad Gamsakhurdia. Il gruppo divenne famoso per i crimini di guerra e i saccheggi. Prese poi parte alle guerre in Abkhazia e in Ossezia del Sud. Messo al bando, fu in parte ricostituito nel partito politico “Unione dei patrioti”, il cui fondatore, Badri Zarandia, fu ucciso nel 2003.

UNHCR/Y. Mechitov

L’1 luglio 2016 è entrato finalmente in vigore l’Accordo di Associazione della Georgia con l’Unione europea. Secondo la Commissione, questo è stato possibile grazie ai risultati raggiunti dal Paese caucasico nel campo della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani e delle libertà fondamentali. L’Accordo, nello spirito della politica di allargamento dell’Ue, dovrebbe spingere la Georgia a ulteriori - e difficili - riforme nel campo della sicurezza, dell’economia e del commercio, e nella governance. Alcuni degli effetti dell’Accordo sono già visibili, soprattutto in campo economico. La Deep and Comprehensive Free Trade Area (Dcfta), l’area di libero scambio che consegue alla firma dell’Accordo, ha portato a un aumento del 16% delle esportazioni georgiane verso l’Ue nel 2015. Detto questo, il sistema politico georgiano rimane in transizione. Nonostante gli anni trascorsi dalla Rivoluzione delle Rose nel 2003 e gli indiscutibili passi avanti, Freedom House colloca la Georgia nel gruppo dei Paesi parzialmente liberi, insieme a Paesi come Azerbaigian e Ucraina. Dal 2006 il Paese ha avviato un processo di pre-adesione all'Alleanza Atlantica, che negli ultimi anni ha intensificato la cooperazione militare con Tbilisi. A seguito della guerra in Ossezia del Sud del 2008, l'Ue ha dispiegato una missione di monitoraggio (European Monitoring Mission, EuMM) in Georgia per contribuire al ristabilimento e alla normalizzazione dell'area, all'osservazione e al rispetto dei diritti umani e alla tenuta dell'accordo Russia-Georgia del 2008. Dal novembre 2013 Giorgi Margvelashvili è succeduto a Saakashvili alla presidenza del Paese. Margvelashvili appartiene al partito “Sogno georgiano”, costituito dal miliardario Bidzina Ivanishvili. Il suo mandato è quinquennale. Il riconoscimento dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud da parte della Russia come stati indipendenti ha provocato forti manifestazioni antirusse nella capitale, Tbilisi, e sparso il timore di una volontà russa di annettere le due Regioni negli ultimi anni. L’annessione della Crimea nel 2014, poi, ha sollevato nel Paese

GEORGIA

Generalità Nome completo:

Repubblica della Georgia

Bandiera

181

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Georgiano (lingua ufficiale) 71%, russo 9%, armeno 7%, azero 6%

Capitale:

Tbilisi

Popolazione:

4.935.880

Area:

69.700 Kmq

Religioni:

Cristiano-ortodossa 83,9%, musulmana 9,9%, armeno-gregoriana 3,9&, cattolica 0,8%, altre 0,8%, nessuna 0,7%

Moneta:

Lari georgiano

Principali esportazioni:

Metalli ferrosi, noci, vino

PIL pro capite:

Us 5.842

nuove preoccupazioni. Per fortuna però, finora, la situazione nei due Territori è rimasta su un livello di tensione decisamente basso. Gli unici episodi degni di nota riguardano alcune piccole manifestazioni antirusse al confine con l’Ossezia del Sud, nel 2015, dopo che i militari russi (che occupano la Regione) avevano installato recinzioni di filo spinato e cartelli che indicavano il confine.


Nei mesi di giugno e luglio 2008 aumentarono le tensioni e si registrarono esplosioni e scambi a fuoco sia in Abkhazia che in Ossezia del Sud. Nell'agosto dello stesso anno ebbe inizio un'operazione militare georgiana di ampia scala contro la città di Tskhinvali, in Ossezia del Sud. Si originò un conflitto armato che coinvolse la Russia. Dopo la firma del cessate il fuoco il 15 agosto 2008, la Russia riconobbe formalmente l'indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud. Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch o la Missione europea incaricata di indagare cause e responsabilità del conflitto ravvisarono in tutte le parti coinvolte (forze georgiane, russe e dell'Ossezia del Sud) violazioni dei diritti umani. Abkhazia e Ossezia del Sud, sono

oggi Regioni de facto indipendenti, reclamate come proprie da Tbilisi, la cui posizione è appoggiata da tutti gli Stati membri dell’Ue e dalla Nato, oltre che dalle stesse Nazioni Unite. Il conflitto, di fatto rimasto congelato dal ritiro delle truppe russe dall’Ossezia del Sud, continua a condizionare i rapporti internazionali della Georgia, specialmente con la Russia. L’Ossezia del Sud è abitata da una forte maggioranza di popolazione di etnia e lingua osseta (di origine iraniana e religione russo-ortodossa), a differenza dell’Abkhazia che ha una composizione etnicodemografica più variegata. Dall’inizio del conflitto, comunque, le popolazioni georgiane residenti hanno abbandonato le due Regioni, aumentando la componente entica non georgiana.

Per cosa si combatte

Un altro Stato non riconosciuto

L’Abkhazia, a Nord della Georgia e affacciata sul Mar Nero, è uno Stato de facto non riconosciuto dalla maggioranza dei membri delle Nazioni unite. All’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica, con l’indipendenza della Georgia, le tensioni etniche nella Regione esplosero in tutto il loro vigore, causando la guerra del 1992-93, da cui l’esercito georgiano uscì sconfitto. Lo status dell’Abkhazia è rimasto in un limbo sin da allora, salvo un riaccendersi della crisi a livello diplomatico con il riconoscimento dell’indipendenza da parte della Russia, nel 2008. Per il Governo di Tbilisi si tratta ancora formalmente di territorio georgiano, seppur dotato di una ampia autonomia. L’Abkhazia riconosce Sukhumi come propria capitale e Raul Khajimba come legittimo Presidente.

182

UNHCR/C. Bruguera

La Georgia è uno stato transcaucasico, a Est del Mar Nero. Repubblica dell'Unione sovietica fino al 1991, confina a Nord con la Russia, a Sud con la Turchia e l'Armenia, a Est con l'Azerbaijan e a Ovest con il Mar Nero. La Georgia ha un territorio prevalentemente montuoso, dominato dalla Catena del Caucaso. La geografia del Paese, a cavallo dell'istmo che si estende tra il Mar Nero e il Mar Caspio, ne ha fatto un territorio di collegamento tra l'Europa e l'Asia e di estrema importanza strategica nell’arco della storia. Il 28 ottobre 1990 si tennero le prime elezioni multipartitiche, seguite il 31 marzo da un referendum per l'indipendenza, approvata dal 98,9% dei votanti. L'indipendenza formale dall'Urss venne dichiarata il 9 aprile 1991. Immediatamente dopo la conquista dell’indipendenza, il Paese ha sofferto un periodo di turbolenze politiche ed economiche. Gli anni della transizione alla democrazia e all'economia di mercato sono stati accompagnati da tassi di crescita lenti e sanguinosi conflitti interni con le Regioni separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud. In risposta a una nuova legge che rendeva la lingua georgiana obbligatoria in tutti gli organi di stato, la neo-costituita Assemblea Popolare dell'Ossezia del Sud, nel gennaio 1992, dichia-

rò con un referendum la propria indipendenza esprimendo anche la volontà di entrare a far parte della Federazione Russa. Ne seguì un conflitto fra i georgiani e i ribelli della Regione autonoma che si concluse, sempre nel 1992, con una tregua. L’accordo alla base del cessate il fuoco prevedeva la dislocazione in zona di un contingente di "forze miste per il sostegno alla pace" composto da soldati provenienti dalla Russia, dall'Ossezia del Nord e dalla Georgia. Dal 1991 al 1993 un conflitto ancora più grave infiammò l’Abkhazia. Si giunse ad un accordo di pace solo nel 1994, dopo che la Georgia accettò di entrare a far parte della Comunità Stati Indipendenti (Csi) e acconsentì alla presenza di basi russe sul proprio territorio. L'accordo stipulato a Mosca il 14 maggio del 1994, prevedeva un cessate il fuoco, la dislocazione di un contingente di pace della Csi, e un impegno delle parti a risolvere pacificamente il conflitto. In pratica, le forze di pace includevano solo soldati russi, per la maggior parte provenienti dalle basi già presenti in Abkhazia e Georgia. In seguito, fu stabilita la presenza di una missione di osservatori delle Nazioni Unite (Unomig), con il compito di controllarne l’operato. Ossezia del Sud e Abkhazia sono da allora dalle Regioni de facto indipendenti, membri, insieme alla Transnistria

Quadro generale

Ossezia del Sud caso aperto

Con la Rivoluzione delle rose si fa solitamente iniziare il nuovo corso post sovietico della Georgia. Le imponenti manifestazioni del 2003 a seguito della rielezione a Presidente di Eduard Shevardnadze, accusato di brogli, sfociarono in un vero moto rivoluzionario contro la classe politica al potere fino ad allora. Più di venti ininterrotti giorni di proteste portarono alle dimissioni di Shevardnadze che fu sostituito ad interim da Nino Burjanadze. L’anno successivo, allo scadere effettivo del mandato presidenziale, le nuove elezioni diedero il via all’era Saakashvili. Secondo molte fonti, la Rivoluzione delle rose fu pesantemente influenzata e sostenuta dalle Potenze Occidentali, Stati Uniti in testa. Un ruolo determinante nelle giornate di protesta fu svolto, per la prima volta, anche dai media indipendenti del Paese.


TENTATIVI DI PACE

Le indagini della Corte penale internazionale

Kakha Kaladze

L’organizzazione non-governativa Human Rights Information and Documentation Centre (Hridc) si dedica alla protezione e alla promozione dei diritti umani in Georgia: si impegna nel monitoraggio e nella documentazione dello stato dei diritti umani nel Paese e lavora per il rafforzamento dello Stato di diritto, per il rispetto della libertà di stampa e di espressione, per la giustizia di transizione, il rafforzamento dei processi democratici e la promozione dell’uguaglianza e dell’inclusione sociale. Lo scorso febbraio lo Human Rights Centre ha lanciato il “Monitoring of 2018 Presidential Elections and Icc Investigation in Georgia”. Il progetto prevede il monitoraggio delle elezioni presidenziali del 2018 nelle zone maggiormente colpite dal conflitto della Regione Shida Kartli e nelle zone abitate dalle minoranze etniche delle Regioni Kvemo Kartli e Kakheti. Include, inoltre, l’aiuto legale per le vittime del conflitto dell’agosto 2008, la denuncia dei loro problemi e bisogni e il supporto alle indagini della Corte penale internazionale in materia di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, avviate nel Paese nel gennaio 2016.

Kakha Kaladze, il georgiano ex difensore del Milan, è da ottobre 2017 sindaco di Tbilisi, la capitale del Paese. L’ex calciatore era rientrato in Georgia nel 2012, proprio per intraprendere la carriera politica. L’elezione a Primo cittadino è arrivata al primo turno con il 51,13% dei voti, nelle fila del partito del Presidente, “Sogno georgiano”. Kaladze è stato la stella georgiana che ha brillato di più in assoluto nel firmamento del calcio internazionale. Facile immaginare come sia riuscito a catalizzare i voti di chi vede in lui la personificazione del sogno georgiano, quello di un ragazzo nato nella profonda provincia, spinto dalla passione per lo sport, che è arrivato a giocare ai massimi livelli. Ma quello che sembra convincere gli analisti, oltre che gli elettori, è la sobrietà e serietà mostrata in campagna elettorale. Il suo programma è tutto incentrato sullo sviluppo sostenibile della città, incremento del turismo e miglioramento della qualità della vita. Quello del sindaco della capitale è un incarico di rilievo nazionale. La città infatti raccoglie i due terzi di tutta la popolazione georgiana e produce la metà del Pil nazionale.

183

(Samtredia, 27 febbraio 1978)

UNHCR/Y. Mechitov

e al Nagorno-Karabakh, della Comunità per la democrazia e il diritto delle nazioni, un’organizzazione internazionale che riunisce territori dell’ex-Urss a riconoscimento limitato. I primi anni della Georgia indipendente avevano visto al potere l'ex-ministro degli Esteri dell'Unione Sovietica, Eduard Shevardnadze. Nel 2003, dopo che Shevardnadze aveva vinto ancora una volta le elezioni politiche, in un contesto di tensioni e accuse di brogli, corruzione e nepotismo, montò la protesta popolare. Shevardnadze diede le sue dimissioni il 23 novembre di fronte all'estendersi delle manifestazioni. La Rivoluzione delle rose, così fu chiamato il movimento di protesta, avvenne senza spargimento di sangue e rappresentò un momento di

I PROTAGONISTI

speranza democratica non solo per la Georgia, ma anche per le altre repubbliche caucasiche dell'ex Unione sovietica. Con le dimissioni di Shevardnadze salì alla presidenza del Paese Mikheil Saakashvili. La sua guida della Georgia, ininterrotta fino al 2013, si tradusse in una vigorosa sterzata verso alleanze con gli Stati uniti e l'Europa, oltre che in una chiara politica di avvicinamento alla Nato. Si è trattato di un decennio che ha caratterizzato la vita recente del Paese e che ha visto anche il tragico episodio della guerra del 2008. Dal 2013 è Presidente Giorgi Margvelashvili, un accademico non allineato con nessun partito e solo recentemente prestato alla politica. Il suo mandato scade a novembre 2018. A oggi, la Georgia è membro delle Nazioni Unite, del Consiglio d’Europa, dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce).


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL KOSOVO (+ SERBIA) RIFUGIATI

36.933

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI FRANCIA

13.154

GERMANIA

9.189

SVIZZERA

2.976

SFOLLATI PRESENTI NEL KOSOVO (+ SERBIA) 219.633 RIFUGIATI ACCOLTI NEL KOSOVO (+ SERBIA) RIFUGIATI

36.522

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI CROAZIA

20.334

BOSNIA & HERZEGOVINA

9.080

Non essendo stato ancora riconosciuto il Kosovo i dati sono riferiti all’intera Serbia


Il simbolo delle divisioni

Il ponte di Mitrovica è l’icona delle divisioni e delle contraddizioni del Kosovo. Una modesta struttura in cemento e ferro che rappresenta l’unico collegamento tra le due parti della città, a Nord e Sud del fiume Ibra, abitate dalle comunità serba e albanese. Elemento di unione e divisione allo stesso tempo, è stato usato come checkpoint durante gli anni più caldi è tuttora chiuso al traffico dei veicoli. Il solo modo per andare da una parte all’altra della città è a piedi. La sua apertura, voluta dal Sud albanese come segno concreto di unione, è fortemente osteggiata dal Nord serbo che la vede come un gesto di espansione verso il proprio territorio. La sua momentanea apertura nel 2010 scatenò i più violenti scontri dalla fine delle ostilità.

Il 2018, l’anno del decennale dell’indipendenza, si è aperto nel peggiore dei modi. L’omicidio il 16 gennaio di Oliver Ivanović, leader della minoranza serba, ha ricordato a chiunque stesse cercando di dimenticarlo che le ferite in Kosovo non si sono ancora rimarginate. E, per giunta, che c’è qualcuno che fa di tutto per farle riaprire. Freddato con cinque colpi di pistola sparati da un killer incappucciato mentre usciva di casa a Mitrovica Nord, Ivanović era stato condannato da un tribunale Eulex a 9 anni per crimini di guerra. Sentenza poi annullata da una corte di Pristina, che aveva disposto un nuovo processo. Il suo assassinio ha avuto come primo risultato uno stop ai negoziati tra Pristina e Belgrado. Ma il timore più grande è che possa far salire nuovamente la tensione interetnica. Un timore mai superato, come hanno dimostrato i violenti scontri scoppiati a Mitrovica nel 2014. Esattamente un mese dopo l’omicidio di Ivanović, il Kosovo ha festeggiato il suo decimo compleanno. Tra i regali, il 166° riconoscimento da parte di un membro delle Nazioni Unite, l’isola di Barbados. Ma restano tra i Paesi che non riconoscono la sua indipendenza ancora nomi ingombranti, tra cui i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Russia e Cina e membri dell’Unione Europea, come la Spagna. Dopo dieci anni, il Kosovo è ancora un quasi Stato. Con gran parte delle proprie istituzioni commissariate dalla comunità internazionale, che ha anche mostrato tutti i propri limiti; senza un esercito e senza che i suoi cittadini abbiano la possibilità di viaggiare liberamente in Europa, ultimo tra i Paesi Balcanici; con un passato che ha sempre più l’aspetto di un eterno presente, una criminalità e una corruzione dilaganti, e una disoccupazione giovanile al 50%, fonte di una diaspora che non sembra mai finire. La classe al potere dà forse l’immagine più lampante delle mille contraddizioni in cui è intrappolato il Kosovo: tutte e tre le principali cariche dello Stato sono coperte da ex combattenti dell’Uçk, personaggi sospettati di gravi crimini. Il Presidente, Hashim Thaçi, è stato indicato

KOSOVO

Generalità Nome completo:

Repubblica del Kosovo

Bandiera

185

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Albanese, Serbo

Capitale:

Prishtina/Priština

Popolazione:

Stime recenti parlano di 2.130.000 abitanti

Area:

10.887 Kmq

Religioni:

Musulmana, ortodossa, cattolica

Moneta:

Euro (moneta parallela al dinaro serbo al Nord)

Principali esportazioni:

Minerali e metalli non lavorati, prodotti manifatturieri

PIL pro capite:

Us 1,612

dai servizi segreti tedeschi come a capo di una rete di traffico di armi, stupefacenti e organi. Il capo del Governo, Ramush Haradinaj, nome di battaglia “Rambo”, è stato processato dal tribunale dell’Aja per omicidio, saccheggio e devastazione. Assolto, il Tribunale non mancò di notare il clima di intimidazione che regnava tra i testimoni. E infine, il Presidente del parlamento Kadri Veseli, ex capo del servizio segreto kosovaro, Shik, ritenuto molto vicino ai primi due ai tempi dell’Uçk.


La conquista dell’indipendenza da parte del Kosovo, il 17 febbraio 2008, non ha sopito la “questione kosovara”. La Costituzione serba del 2006, nel preambolo, dichiara infatti il Kosovo parte integrante del territorio dello Stato, riconoscendogli lo status di Provincia autonoma. Il mantenimento dell’indipendenza nazionale è quindi tuttora una questione all’ordine del giorno a Prishtina. Già ai tempi della Jugoslavia, il Kosovo godeva di ampia autonomia politica e amministrativa, dovuta alla sua composizione etnica a larghissima maggioranza albanese. Le cose cambiarono quando, nel marzo 1989, l’allora Presidente della Serbia, Slobodan Milošević, revocò gran parte dell’autonomia territoriale, eliminò l’albanese come seconda lingua ufficiale accanto al serbo-croato e chiuse le scuole di

lingua albanese. La Provincia subì una serbificazione della classe dirigente: i funzionari, gli insegnanti e gli amministratori locali vennero sostituiti con serbi o con persone comunque allineate a Belgrado. La popolazione albanese e i suoi leader, primo fra tutti Ibrahim Rugova, a capo della Lega democratica del Kosovo, Ldk, scelsero l’opposizione pacifica, dichiarando l’indipendenza unilateralmente nel 1990. Fu la fine della guerra di Bosnia-Erzegovina a scatenare l’escalation, forse perché liberando risorse militari dal fronte, la Serbia diede inizio alla pulizia etnica. Anche dal lato kosovaro si sollevarono le armi. Alla guida della lotta armata si pose l’Esercito di liberazione del Kosovo, Uçk. Fu l’intervento della Nato a porre fine alla guerriglia e alla pulizia etnica.

Per cosa si combatte

La forma di Stato scelta dal Kosovo alla sua indipendenza, il 17 febbraio 2008, è la Repubblica parlamentare monocamerale. Gli organi dello Stato e le loro funzioni sono regolate dalla Costituzione, che ha però trovato compimento solo con degli accordi di Bruxelles del 2013 sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo. La rappresentanza delle minoranze etnico-linguistiche è garantita da una norma costituzionale che riserva una quota dei seggi a rappresentanti della comunità serba più altri dieci per le restanti minoranze. Un’ulteriore garanzia è data dal sistema elettorale multipartitico. L’amministrazione pubblica e la costruzione dell’impianto legislativo sono tuttora sotto la diretta competenza della missione Eulex (European Union Rulke of Law Mission in Kosovo) dell’Unione europea, insieme all’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), la missione nata nel 1999 con la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In realtà, dall’indipendenza del 2008, le funzioni dell’Unmik avrebbero dovuto essere trasferite a Eulex. La transizione, però, si è rivelata più complessa del previsto e non ha ancora trovato compimento. La missione Eulex,

che era stata prevista per un periodo limitato, continua a operare sulla base di ripetute proroghe. Nel corso degli anni, la missione Eulex è stata oggetto di critiche per la scarsa efficacia del suo operato, soprattutto in campo giudiziario, e accuse di corruzione. Nel 2009 una violenta protesta guidata da un gruppo di cittadini kosovari causò l’incendio di numerose auto e l’arresto di 21 persone. Nel 2014, le accuse di corruzione raggiunsero i massimi livelli, tanto da causare l’intervento dell’Ue, che istituì una commissione d’inchiesta. Al termine dei lavori, nel 2015, la commissione non rilevò responsabilità della missione, affermando però che il problema della corruzione in Kosovo è presente. Nel 2017 un nuovo scandalo ha investito il giudice capo della missione, l’inglese Malcom Simmons, che si è dimesso. Dal 2016 il Presidente del Kosovo è Hashim Thaçi, già primo Ministro e ministro degli Esteri. A capo del Governo c’è Ramush Haradinaj, leader del partito Alleanza per il futuro del Kosovo (Aak). L’attuale Governo è composto da 25 ministeri, una parte dei quali retti da rappresentati delle minoranze serba, bosgnacca e turca. Il parlamento è composto da 120 deputati. Di questi, 100 seggi

Quadro generale

Un riconoscimento difficile

186

Nel gennaio del 2018 l’isola di Barbados è stato l’ultimo Paese a riconoscere ufficialmente il Kosovo. Sono così 166 su 193 i membri Onu a dare legittimità al Kosovo indipendente. Il Suriname è stato invece l’unico Paese a ritirare il riconoscimento, nel 2017, prima della visita in Russia del suo ministro degli Esteri. All’interno dell’Unione Europea, invece, solo 23 su 28 membri hanno dato riconoscimento al Paese. Tra loro c’è l’Italia, ma hanno detto no, per esempio, la Spagna. A guidare la decisione di Madrid, certamente la paura di analogie con le istanze indipendentiste della Catalogna. Anche Grecia, Romania, Cipro e Slovacchia non hanno voluto riconoscere il Kosovo. Ma i rifiuti più pesanti sono quelli arrivati da Cina e Russia, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

La Spagna dice no

La Spagna non ne vuole proprio sapere del Kosovo. Non solo è il più grande Paese membro dell'Unione europea a non averne riconosciuto l'indipendenza, ma è anche quello che si oppone più fermamente a qualunque forma di avvicinamento di Prishtina all'Ue. Questo è almeno quello che appare da un documento non ufficiale presentato da Madrid alla vigilia della presentazione al Parlamento europeo della Strategia per l'allargamento WB6, il piano rivolto ai sei Paesi dei Balcani Occidentali, Albania, Bosnia, Kosovo, Macedonia, Montenegro, e Serbia. Secondo il documento, la Commissione dovrebbe distinguere nettamente tra il processo di allargamento e la più ampia strategia europea per la Regione.


TENTATIVI DI PACE

Un trattato tra speranze e disillusioni

(Skënderaj, 24 aprile 1968) Hashim Thaçi è il 49enne Presidente del Kosovo dal 2016. È un ex combattente dell’Uçk che avrebbe avuto il compito di reperire fonti di finanziamento per la lotta armata. Un rapporto dei servizi segreti tedeschi, Bnd, lo colloca al vertice di un’organizzazione criminale attiva negli anni 90 nel traffico di armi e droga. L’organizzazione avrebbe avuto rapporti con la mafia albanese. Thaçi sarebbe stato il mandante di diversi omicidi. Un rapporto del Consiglio d’Europa del 2010 si spinge perfino oltre, individuandolo come capo di un’organizzazione chiamata “Gruppo di Drenica” che avrebbe trafficato organi umani verso la fine degli anni 90. Secondo il documento, conosciuto col nome di “Rapporto Marty”, dal nome dell’esperto svizzero che lo ha stilato, molti servizi segreti Occidentali, inclusi quelli italiani, sarebbero stati al corrente delle attività criminali di Thaçi. Delle accuse inquietanti parla in un suo libro anche l’ex procuratore capo del Tribunale Penale Internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia, Carla del Ponte, citando il caso della “Casa gialla”, un edificio alla periferia di Burrel, in Albania, dove alcuni componenti dell’Uçk avrebbero eseguito l’asportazione degli organi da vendere in Occidente. Le indagini condotte da Eulex non hanno però portato ad alcun risultato.

187

Hashim Thaçi

Il dialogo tra Serbia e Kosovo è “in coma”, come titolava l’Economist nell’agosto 2017, o è addirittura defunto, stando alle dichiarazioni di Albin Kurti, leader politico kosovaro? A febbraio, l’Unione Europea ha reso noto un ambizioso piano per l’allargamento nei Balcani Occidentali, fissando nel 2025 la data di accesso di Serbia e Montenegro. Uno dei requisiti principali per entrare nel club europeo è aver risolto le dispute con i propri vicini. E a marzo il Parlamento del Kosovo ha ratificato l’accordo per la demarcazione della frontiera con il Montenegro, nonostante le proteste delle opposizioni: un altro passo in direzione di una normalizzazione delle relazioni con i vicini. Ma nella assai più complessa partita per un trattato di pace tra Kosovo e Serbia, il Governo di Pristina sa di poter mettere il bastone tra le ruote a quello di Belgrado, che aspira a un ingresso celere nell’Unione. A dieci anni dalla dichiarazione di indipendenza, in buona parte della cittadinanza si sta facendo strada la rassegnazione. Tra i giovani kosovari , che formano il 70% della popolazione, è emersa una nuova generazione di artisti e musicisti, che provano a reinventare una realtà dove la divisione e la guerra del passato è ancora ben viva. E qualche politico, come Behgjet Pacolli, spera in un trattato di pace con Belgrado già nel 2018.

sono assegnati con voto diretto proporzionale, almeno 10 seggi sono garantiti alla comunità serba a 10 distribuiti tra le altre minoranze presenti sul territorio tra rom, bosgnacchi, turchi, ecc. La legislatura dura quattro anni. Il territorio è suddiviso in sette distretti amministrativi: Ferizaji/Uroševac, Gjakova/Ðakovica, Gjilanit/ Gnjilanski, Mitrovica/Kosovska Mitrovica, Peja/ Peć, Prishtina/Priština e Prizreni/Prizren. Le municipalità sono 48. La suddivisione amministrativa, effettuata dall’Unmik da ultimo nel 2000, cercando di calibrarla sulla distribuzione etnica della popolazione, è stata contestata dalla Serbia, senza effetto. Il Kosovo ha una sola università, divisa in due diverse unità: quella di lingua albanese che ha sede a Prishtina e conta 17 facoltà, e quella in lingua serba con sede a Kosovska Mitrovica, che conta 10 facoltà e fa parte dell’unione delle università serbe. La massima autorità giudiziaria è la Corte suprema. L’indipendenza della magistratura, prevista dalla costituzione, è garantita dal Consiglio giu-

I PROTAGONISTI

diziario del Kosovo, che propone al Presidente la nomina dei procuratori e svolge il ruolo di organo disciplinare della magistratura. Almeno il 15% dei componenti della Corte Suprema e dei tribunali distrettuali devono appartenere alle minoranze etniche. Sull’implementazione del sistema giudiziario è competente la missione Eulex. L’economia del Kosovo è una tra le meno sviluppate d’Europa. Il fabbisogno interno dipende completamente dalle importazioni. Passi avanti si stanno comunque facendo. Dal punto di vista della facilità di creare impresa, secondo la classifica Doing business della Banca Mondiale, il Kosovo ha fatto un balzo in avanti, classificandosi 40° nel 2017 su 190 Paesi. Nel 2012 era 96°. Il risultato è frutto della semplificazione fiscale e nell’accesso al credito, ma resta ancora molto da fare sul fronte della burocrazie dei permessi, sullo stato delle infrastrutture, sull’accesso alle reti e sul fronte doganale. Dal punto di vista demografico, il continuo calo della popolazione iniziato negli anni 90 ha subito un’inversione di tendenza nel 2011, anno dell’ultimo censimento, da quando il numero dei residenti ha ripreso a crescere.


188

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA UCRAINA RIFUGIATI

239.075

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI FEDERAZIONE RUSSA

226.232

ITALIA

3.720

STATI UNITI D'AMERICA

1.573

SFOLLATI PRESENTI NELLA UCRAINA 1.800.000 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA UCRAINA RIFUGIATI

3.302

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI AFGHANISTAN

1.497 -


La scomoda Anticorruzione

L’Ufficio nazionale anticorruzione, Nabu, dà fastidio al potere. Il suo operato è stato infatti oggetto nel 2017 di uno scontro istituzionale ad altissimo livello. A mettere in discussione il Nabu è stato il procuratore generale nazionale Yuriy Lutsenko, che ha rilevato un eccesso di potere dell’ufficio (che avrebbe usato agenti sotto copertura per smascherare casi di corruzione ad alto livello). Successivamente, è stata presentata al parlamento una proposta di legge per limitare l’indipendenza del Nabu dal Governo. L’autore della proposta è stato l’ex primo Ministro, alleato di Porošenko, Arseniy Yatsenyuk. Il polverone sollevato attorno al Nabu, è apparso subito come un tentativo di delegittimarne l’operato. Le reazioni internazionali - soprattutto da parte del Fondo Monetario Internazionale, che ha espresso preoccupazione per le sorti della lotta alla corruzione in Ucraina - e della società civile hanno costretto il parlamento a ritirare il progetto di legge.

Massimiliano Lettieri

Il Presidente Petro Porošenko, che ha fatto della pace il suo cavallo di battaglia, si trova a quattro anni dallo scoppio della guerra a fronteggiare un costante calo del gradimento. In parte è dovuto ai risultati nulli sul percorso verso la pace. Percorso elaborato durante gli incontri informali del cosiddetto gruppo di contatto trilaterale a Minsk dove, con la mediazione del Presidente bielorusso Aljaksandr Lukašenka, i rappresentanti di Ucraina, Russia e dei territori separatisti, hanno concordato la tregua dei combattimenti. Ma il piano che avrebbe dovuto portare alla ricostruzione dell’apparato amministrativo e democratico nelle Regioni sotto il controllo dei separatisti, con l’indizione di elezioni locali sotto il monitoraggio di Kiev, è rimasto finora sulla carta. Nel frattempo, le autoproclamate Repubbliche di Donetsk e Luhansk hanno continuato il loro lento percorso di distacco da Kiev: dal 2016 la valuta utilizzata è il rublo russo, il sistema bancario si è disconnesso da quello ucraino mentre a febbraio 2018 è avvenuto anche il distacco delle reti telefoniche. A quattro anni dalla rivoluzione della dignità, com’è ormai ricordata l’esperienza di EuroMaidan, l’Ucraina è ancora alle prese con i problemi di sempre. Una corruzione pervasiva a ogni livello della società, una scarsissima fiducia nella classe politica, uno strapotere degli oligarchi e una crisi economica che stritola non solo le classi più basse ma anche la fragile classe media. Il dibattito sulla ricostruzione dello stato democratico si è nel frattempo spostato dalla classe politica nazionale all’intero apparato burocratico statale. Anni di Governi cleptocratici hanno favorito una corruzione endemica a ogni livello. Combatterla è diventato lo slogan di pressoché tutti i partiti, ma questo non ha impedito alle

UCRAINA

Generalità Nome completo:

Ucraina

Bandiera

189

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Ucraino e russo

Capitale:

Kiev

Popolazione:

45.706.000

Area:

579.330 Kmq (compresa la Crimea)

Religioni:

Prevalenza russo ortodossa, presenza greco cattolica più altre minoranze

Moneta:

Gryvnia (UAH)

Principali esportazioni:

Materie prime fossili, industria pesante

PIL pro capite:

Us 2,978

riforme più importanti di restare invischiate nel pantano della politica di Kiev. La dimostrazione più evidente è stato lo scontro di poteri avvenuto verso la fine del 2017 intorno a quella che sembrava la migliore promessa del nuovo corso ucraino, l’Ufficio anticorruzione nazionale (Nabu), un organismo snello e indipendente creato all’indomani della Maidan. Un episodio che ha mostrato a tutti come la strada della lotta alla corruzione in Ucraina sia ancora irta di ostacoli.


in Crimea (e lo si capisce anche dal trascinarsi del conflitto da quattro anni) è difficile negare che ci sia stato e che Mosca abbia un interesse diretto, quantomeno a mantenere l’instabilità nella Regione. Del resto, almeno all’inizio della “ribellione” dell’Est, i vertici politico-militari delle Repubbliche di Donetsk e Luhansk erano occupati da cittadini russi che solo in un secondo tempo hanno lasciato il posto a leader locali, la cui autonomia da Mosca è tutta da dimostrare. Non è azzardato dire che l’Ucraina, e la Regione del Donbass, sono diventate terreno di un gioco geopolitico più vasto che va ben oltre i confini nazionali, e vede in discussione gli interessi non solo ucraini e russi, ma anche europei e statunitensi.

190

Le truppe governative hanno sferrato l’attacco ai miliziani separatisti per riprendere il controllo di una grossa fetta di territorio sfuggita a Kiev e per evitare il ripetersi di quanto successo in Crimea nel 2014. Di contro, i separatisti affermano di combattere per la libertà del Donbass, a grossa componente etnica russa e russofona, contro quella che definiscono un’occupazione militare. Il fattore etnico e linguistico gioca sicuramente un ruolo nella guerra, ma non spiega tutto. Le Regioni di Donetsk e Luhansk non sono infatti le sole Regioni dell’Ucraina ad avere una forte presenza di abitanti russofoni e di etnia russa. Del resto non è facile pesare il supporto popolare di cui godono le autoproclamate autorità separatiste. D’altro canto, se l’intervento della Russia non è stato diretto e deciso come

Per cosa si combatte

La spina Crimea

Il referendum tenutosi in Crimea nel 2014 è un argomento che divide chi è a favore e chi contrario all’annessione russa della Penisola. Se per molti è stato una dimostrazione del volere popolare col suo 97% di voti favorevoli, per altri si è trattato di una “caricatura della democrazia”. Il referendum è stato indetto in tempi rapidissimi, senza fornire agli elettori alcuna possibilità di esprimere una volontà informata. La campagna referendaria non è praticamente esistita, se non sotto forma di propaganda per l’indipendenza. Il voto si è svolto senza il controllo di osservatori internazionali, in seggi pieni di gente armata, senza cabine elettorali e senza l’uso di liste elettorali. Anche i quesiti lasciavano poca scelta: mancava la possibilità di mantenere lo status attuale della Crimea come Regione autonoma dell’Ucraina.

Massimiliano Lettieri

La guerra in Donbass ha causato finora oltre 10mila vittime tra civili e militari, ma potrebbe essere una stima per difetto. Dal 2015, una tregua ha comportato un congelamento della situazione sul campo, ma non ha fermato gli scontri tra le forze combattenti né l’uso di artiglieria, anche su zone abitate. Tutto ha avuto inizio con l’improvvisa marcia indietro dell’ex Presidente Viktor Janukovič sulla strada per l’Europa alla fine del 2013, che accese la scintilla della rivoluzione di EuroMaidan. Le proteste nate dalla decisione del Presidente ucraino di non firmare l’Accordo di associazione con l’Unione europea hanno portato migliaia di persone ad occupare la piazza, giorno e notte. I moti hanno preso il nome dalla centrale Maidan Nazaležnosti (piazza Indipendenza) di Kiev e dalla voglia di Europa degli ucraini. Le manifestazioni sono andate avanti per settimane, nonostante i tentativi della polizia antisommossa di rimuovere le barricate, e il freddo pungente dell’inverno di Kiev. Fino al culmine di fine febbraio, quando 84 manifestanti sono morti sotto i colpi dei cecchini. Il bilancio definitivo di oltre tre mesi di EuroMaidan è stato di 103 morti tra

i manifestanti e 13 tra i poliziotti. Il risultato, la fuga in Russia di Janukovič e la formazione di un nuovo Governo. È qui che ha avuto inizio la seconda fase della crisi ucraina del 2014. In risposta alla formazione del nuovo Governo e alla svolta filoeuropea di Kiev, la Russia - con un’operazione di maskirovka (guerra sotto copertura) - ha preso possesso delle strutture strategiche in Crimea, appoggiato l’organizzazione di un discutibile referendum sull’indipendenza e annesso la Penisola nel Mar Nero alla Federazione, tutto in meno di una mese. Oltre alla presenza militare della flotta del Mar Nero, che sarebbe stata messa in discussione da un eventuale futuro ingresso dell’Ucraina nella Nato, le ragioni a favore dell’annessione riguardano la storia recente. La Crimea, a maggioranza di etnia e lingua russa, fu “ceduta” all’Ucraina solo nel 1954 per volere di Nikita Kruščëv, quando i confini interni dell’Urss erano poco più che segni sulla carta. L’annessione, formalizzata il 21 marzo, non è stata riconosciuta dalla comunità internazionale e la Crimea, di fatto sotto il controllo della Russia, resta for-

Quadro generale

Allarme sfollati

L’Ucraina è il Paese con il maggior numero di sfollati dopo la Siria. Si conta che siano almeno 1,5milioni le persone che hanno dovuto lasciare le proprie case. I Paesi europei non riconoscono agli ucraini la possibilità di chiedere lo status di rifugiati di guerra, dal momento che le zone interessate dal conflitto ricoprono solo un’area minima del territorio e che il resto del Paese offre sufficienti possibilità di trovare rifugio. Restano però immutati tutti i disagi e le difficoltà cui i sfollati vanno incontro, dalla difficoltà di trovare un nuovo lavoro a quello dell’alloggio; sia perché l’Ucraina si è trovata del tutto impreparata e priva delle risorse economiche e strutturali par far fronte a un fenomeno di tali dimensioni.


TENTATIVI DI PACE

Si punta sulla società civile

(Tbilisi, 21 dicembre 1967) Quando si nomina Mikheil Saakashvilisi è alla Georgia che si pensa, non all’Ucraina. Dopo essere stato sconfitto alle elezioni parlamentari del 2012 e aver dovuto lasciare la Georgia inseguito da un ordine d’arresto per frode elettorale e abuso di potere, Miša - com’è conosciuto per antonomasia - ha avuto la sua seconda chance in Ucraina. Per il suo supporto alla Maidan, Petro Porošenko lo ha nominato Governatore della Regione di Odessa nel 2015, conferendogli la cittadinanza ucraina. Il matrimonio politico con Porošenko, però, è durato poco. Appena un anno dopo dall’inizio del suo mandato, Miša si è dimesso accusando il Presidente ucraino di essere a capo di un sistema di corruzione. Mentre era in viaggio negli Stati Uniti, nel 2017, Porošenko gli ha revocato la cittadinanza. Dopo essere riuscito a rientrare in Ucraina forzando un posto di frontiera, ha subito un primo tentativo di arresto da Kiev a dicembre del 2017. Arresto fallito nuovamente per l’intervento di centinaia di suoi sostenitori che lo hanno letteralmente strappato dalle mani degli agenti speciali. Condannato e arrestato nuovamente, è stato deportato in Polonia, ultimo Paese in cui aveva fatto ingresso, a febbraio 2018.

191

Mikheil Saakashvilisi

Nonviolence International (Ni) è una rete internazionale di attivisti che promuovono l’uso dell’azione nonviolenta e, in Ucraina, fornisce aiuto per affrontare le ferite del conflitto che ha diviso il Paese attraverso il dialogo e l’educazione. Con tale obiettivo, in collaborazione con il Partenariato globale per la prevenzione del conflitto armato (Gppac), l’organizzazione fornisce supporto agli attivisti ucraini in una strategia di trasformazione di lungo termine, con l’introduzione dell’educazione alla pace nell’educazione scolastica e in quella non formale; offre corsi sulla prevenzione e la trasformazione dei conflitti, facilitando, ad esempio, lo sviluppo di pratiche di dialogo all’interno delle comunità, a livello internazionale e regionale; si impegna inoltre nella valorizzazione dell’impatto sociale e dell’influenza politica che hanno le organizzazioni impegnate nella costruzione della pace. Negli ultimi anni, la società civile in Ucraina è divenuta una forza potente: secondo alcune ricerche, i gruppi della società civile hanno una credibilità maggiore di quella delle istituzioni governative e religiose. Coinvolgere i suoi membri nel processo di pace ha, quindi, un’importanza fondamentale.

Massimiliano Lettieri

malmente un territorio conteso. L’ondata filorussa, e anti Maidan, si è espansa oltre la Crimea, investendo anche le Regioni dell’Est comprese nel bacino del Don, il cosiddetto Donbass. Anche lì uomini armati di provenienza non soltanto locale hanno preso il controllo delle istituzioni, indetto un referendum sul modello della Crimea e dichiarato l’indipendenza di due nuove entità, le Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk (le città capoluogo delle due Regioni più grandi del Donbass). Il Governo centrale ha risposto con un’operazione militare per la riconquista del territorio che si è cristallizzata nell’attuale guerra a bassa intensità attorno alla linea di frizione stabilita dagli accordi di Minsk. Senza la Crimea e con le Regioni dell’Est - indu-

I PROTAGONISTI

strializzate e ricche di materie prime - sottratte al controllo del Governo, quel che resta dell’Ucraina ha intrapreso con decisione la strada europea. Nel 2014 il Governo ha firmato il fatidico Accordo di associazione con l’Unione europea, da cui tutto aveva avuto inizio, il 27 giugno, voltando - forse per sempre - le spalle alla Russia. Nel 2016 è poi arrivata la firma dell’accordo per la Deep and Comprehensive Free Trade Area (Dcfta), l’area di libero scambio conseguente all’Accordo di associazione, che dovrebbe dare nuovo impulso all’economia attraverso gli scambi commerciali con l’Unione europea. Resta ancora aperto il nodo dello status giuridico da dare ai territori separatisti del Donbass nel caso in cui il percorso di pace dovesse andare avanti, così come quello dell’eventuale amnistia ai guerriglieri, argomento di cui le forze più nazionaliste non vogliono neanche sentir parlare. Ma, va detto, sono nodi ancora molto lontani dall’arrivare al pettine.


Inoltre Bosnia "In Bosnia Erzegovina la pace ancora non c'è".

Il 2017 si può considerare per la Bosnia Erzegovina l’anno della giustizia. Il 22 novembre il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia ha condannato il generale Ratko Mladić, all’ergastolo. Dopo un processo durato cinque anni, l’assise lo ha riconosciuto colpevole di dieci capi di imputazione su undici, tra cui di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Oltre a Mladic il Tribunale dell’Aja ha concretizzato negli anni 161 incriminazioni (tra serbi, croati, musulmani bosniaci e albanesi del Kosovo), 123 arresti e 83 condanne. Dopo un conflitto come quello che ha attraversato la Bosnia la giustizia è molto ma non è comunque tutto. Il Paese non è stato interessato da grandi cambiamenti nella situazione politica (si attendono le elezioni parlamentari dell’ottobre 2018) ed economica. La Bosnia è ancora uno degli Stati con il tasso di emigrazione più alto nell’Unione Europea: quasi un bosniaco su due vive all’estero. Molti elementi nel Paese continuano ad alimentare le divisioni interne e la difesa delle tradizioni religiose dei singoli gruppi: dalla grande forza dei partiti nazionalisti, ad un sistema scolastico sempre più basato sulla segregazione nel quale i bambini croato-bosniaci e bosgnacchi frequentano classi diverse nello stesso edificio. Ad alimentare le divisioni anche le dispute di confine da dirimere con gli Stati confinanti, riguardo le quali le tre comunità del Paese bosgnacchi, serbo-bosniaci e croato-bosniaci hanno opinioni differenti. Un esempio è la demarcazione del confine tra Bosnia e Serbia in tre aree contese lungo il fiume Drina, ma si può citare anche la disputa della penisola di Pelješac, dove la Croazia ha intenzione di costruire un ponte sopra lo stretto corridoio di mare della Bosnia Erzegovina. Un ulteriore elemento è poi quello della migrazione. Dalla fine del 2017 il Paese ha visto un crescente afflusso di persone in fuga dai conflitti in corso nel Vicino Oriente. I migranti, rimasti bloccati nel 2015 nella cosiddetta rotta balcanica, hanno infatti trovato una via di fuga nelle frontiere non controllate tra Bosnia e Croazia.

TENTATIVI DI PACE - I giovani per il dialogo fra i "Popoli costituenti "

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Dal 1997, lo Youth Communication Centre (Ycc) di Banja Luka lavora per rafforzare l’impegno civico tra i giovani, con attività di volontariato e di costruzione della pace e attraverso il lavoro con i media. L’organizzazione mira allo sviluppo e al rafforzamento dei principi e dei valori democratici, con il fine ultimo di migliorare la qualità della vita dei giovani. Il progetto “Divided Past Joint Future”, sviluppato dallo Youth Communication Centre in collaborazione con diverse organizzazioni partner dei Balcani Occidentali, è attivo dal 2016 ed ha tra i suoi obiettivi la prevenzione della radicalizzazione, l’incoraggiamento del dialogo interetnico nei Balcani Occidentali e in Turchia, la promozione della ricostruzione sociale e il rafforzamento della cooperazione nella Regione. Nel contempo le organizzazioni impegnate nel progetto lavorano per riconoscere il ruolo e le capacità che hanno i gruppi della società civile nella costruzione della pace e nella riconciliazione, per aumentarne la credibilità e la partecipazione civile.


Vent’anni dopo, si sta tornando indietro. Nel 2018 si sono festeggiati i vent’anni dagli Accordi di Pasqua che misero fine ai Troubles, i “Guai” come da queste parti chiamano i trent’anni di guerra fra partigiani della Gran Bretagna - protestanti e appoggiati dalla Regina - e patrioti unionisti - cattolici che chiedevano l’Unione al resto dell’Irlanda. Erano costati 4mila morti e decine di migliaia di incarcerazioni. C’è stato poco da festeggiare, in una tensione crescente e fra riconciliazioni che non ci sono mai state. A rendere di nuovo tesa la situazione è stata la Brexit, il referendum inglese che nel 2017 ha chiesto e ottenuto di far uscire il Regno Unito dall’Unione Europea. La politica interna immediatamente è entrata in una fase disastrosa. Ad inizio 2018, da un anno mancava il Governo, con i negoziati fra partiti a saltare uno dopo l’altro. Proprio per effetto della Brexit, a dominare la scena non più i moderati che avevano portato alla pace di vent’anni prima, ma i “duri” di Sinn Fein da un lato e del Democratic Unionist Party (Dup) dall’altro. Proprio il Dup - partito dei partigiani della Corona - ha conquistato un potere inatteso nel 2017. La premier britannica Theresa May ha indetto elezioni anticipate, nella speranza di rafforzarsi in Parlamento. Calcolo sbagliato: la sua maggioranza si è indebolita, arrivando a dipendere proprio dai dieci parlamentari del Dup, che quindi hanno avuto un potere quasi illimitato. Immediata la richiesta di opporsi a qualsiasi accordo con l’Unione Europea sulla Brexit se dovesse essere messa in gioco la “britannicità” del Nord Irlanda. È una richiesta pesante, per la Premier. Bruxelles, Londra e Dublino hanno visioni divergenti. Se, infatti, concordano sull’idea di non tornare a controlli di frontiera simili a quelli di vent’anni prima, sul “come” sono distanti anni luce. L’Unione Europea insiste nel dire che per evitare controlli ai 499 chilometri di frontiera - e quindi tensioni sociali e politiche - l’Irlanda del Nord deve continuare a far parte dell'Unione doganale. Il Dup si oppone, rendendosi conto che questa scelta allontanerebbe Belfast da Londra e l’avvicinerebbe a Dublino. La scelta sarà determinante per il futuro dell’Irlanda del Nord, che ne frattempo si sente trattata ancora una volta - lo dicono gli osservatori - come un danno collaterale. Intanto si misurano i possibili danni economici. Sono 35mila, ogni giorno, i frontalieri, l’agricoltura del Nord vive grazie al rapporto con il Sud, che lavora i prodotti. Il 31% dell’export nordirlandese va all’Irlanda e il 27 dell’import nordirlandese viene dal Sud. Vuol dire il transito, ogni anno, di un milione di Tir, un milione e mezzo di furgoni, 12milioni e mezzo di auto. Numeri importanti e la violenza torna a far paura. Nella seconda metà del 2017, a Belfast si sono fatti risentire i paramilitari lealisti, intimidendo alcune famiglie cattoliche. Qui e là sono state ritrovate rudimentali bombe, tutte disinnescate senza causare vittime. Forse i “Guai” non sono ancora finiti in Irlanda del Nord.

Inoltre Irlanda del Nord "In Irlanda del Nord la Brexit provoca “Guai".

L’accordo del Venerdì Santo del 1998, che ha sancito la fine della violenza in Irlanda del Nord tra unionisti e repubblicani, ha costruito con il tempo legami forti tra il Nord e il Sud dell’Isola. La frontiera con la Repubblica di Irlanda era un tempo presidiata da basi militari, torri di vedetta e posti di blocco: oggi a malapena se ne riconoscono i segni sul territorio. Accesso alla doppia cittadinanza per tutti coloro che lo vogliono, libera circolazione tra Nord e Sud e l’istituzione di un comitato ministeriale Nord-Sud sono elementi fondamentali dell’accordo; l’Unione Europea è un’istituzione di riferimento importante per il quadro politico che ne è derivato. Il referendum del 2017 che ha visto la vittoria di chi chiedeva l’uscita dall’Europa ha cambiato i riferimenti della pace irlandese. Con la Brexit il Governo britannico ha modificato unilateralmente i patti del Venerdì Santo. A Londra i sostenitori della Brexit non sembrano essersi preoccupati molto per l’impatto della decisione sull’Irlanda del Nord. Tra le voci critiche sulla Brexit e i suoi effetti sull’Isola verde c’è Corrymeela, la più antica organizzazione attiva per il dialogo e la riconciliazione tra le comunità cattolica e protestante. Corrymeela è stata fondata oltre mezzo secolo fa da Ray Davey, (sacerdote che come prigioniero di guerra assistette alla devastazione di Dresda), continua a essere un centro di educazione e azione per la pace in Irlanda del Nord.

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TENTATIVI DI PACE - Irlanda del Nord: i dilemmi della Brexit


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Inoltre Conflitti post-Urss

Qualcuno li definisce “conflitti congelati”, ma sarebbe più opportuno paragonarli a vulcani, con esplosioni improvvise e, poi, lunghi periodi di attività continua, sotterranea, a bassa intensità. In confronto ai sanguinosi conflitti in Siria, Iraq, Afghanistan, quelli nei territori dell’ex Unione sovietica - Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud e Nagorno-Karabakh - provocano poche vittime, ma dall’inizio degli anni Novanta continuano a produrre forte instabilità. E possono riaccendersi facilmente, anche per “effetto mimetico”, a causa di nuovi scontri militari, come quello in Ucraina. Nella primavera e nell’estate del 2014, con l’annessione della Crimea da parte della Russia e la guerra nel Donbas, la comunità internazionale è tornata a ricordarsi di questi “vulcani” che, non a caso, puntellano la zona di cerniera tra l’Europa e l’Asia, tra l’Unione Europea e la Federazione Russa. Nei quattro conflitti citati e in quello ucraino, Mosca gioca un ruolo centrale, con metodi diversi a seconda dei casi. Nel caso della Crimea e della guerra nel Donbas, Mosca per la prima volta ha alimentato in modo diretto il conflitto secessionista, finendo per annettersi parte di un Paese confinante, l’Ucraina. Nel caso degli altri quattro conflitti, invece, ha preferito mantenere una sorta di instabilità controllata, così da poter assumere ruoli diversi, quello di principale attore esterno e mediatore nei conflitti e allo stesso tempo, grazie al coinvolgimento militare, economico e diplomatico nei territori secessionisti, di parte in causa. L’obiettivo è unico: assicurarsi che lo spazio post-sovietico sia la propria sfera di influenza euroasiatica. Dal 2011/2012 è il principale obiettivo della politica estera russa, ma si tratta di un orientamento riconducibile almeno agli anni Duemila, quando Mosca decide che è arrivato il momento di contenere l’espansionismo della Nato, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Per la Russia, la crescente influenza Occidentale nella cintura ex-sovietica è una minaccia ai propri “interessi privilegiati”, la prova che Washington intende conservare a tutti i costi l’assetto unipolare successivo alla fine della Guerra fredda, a cui intende sostituire un multipolarismo che riconosca a Mosca lo status di centro di potere autonomo, egemone nella sfera euroasiatica. La politica della sfera di influenza, l’idea che la sicurezza di Mosca corrisponda al controllo delle politiche interne ed esterne dei Paesi confinanti, nati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, nasce negli anni Novanta. Ma Mosca deve aspettare


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la prima metà degli anni Duemila, dopo aver consolidato il proprio assetto economico e politico, per poter dispiegare risorse significative nell’area del “vicino lontano”, reagendo a quello che considera il progressivo assedio della Nato e dell’Unione Europea. Prima di allora, nei primi anni Novanta, Mosca punta ad affermare la propria area di influenza in Eurasia usando i conflitti di natura etnica e politica in Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud e Nagorno-Karabakh - Regioni che rivendicano l’indipendenza rispetto a Moldova (Transnistria), Georgia (Abkhazia, Ossezia del Sud) e Azerbaigian (Nagorno-Karabakh) - come l’occasione per influire sugli sviluppi domestici ed esterni dei Paesi coinvolti. Con due obiettivi prioritari: contenere i rischi dell’allargamento del conflitto e assicurarsi il quasi-monopolio come garante degli accordi per il cessate il fuoco. Un risultato conservato ancora oggi e, dal 2014, condizionato dalla guerra in Ucraina. In Abkhazia - la Regione georgiana sul Mar Nero che nel 1992 si è militarmente rivoltata contro Tbilisi per ottenere l’indipendenza dalla Georgia, contro cui ha combattuto fino al cessate il fuoco del maggio 1994, dichiarando l’indipendenza nel 1999, pagata con un embargo internazionale - Mosca esercita una forte influenza, anche grazie a un accordo di partnership strategica firmato nel 2014, condannato da Tbilisi come preludio all’annessione. Ma in Abkhazia, la cui rivendicazione di indipendenza è sostenuta da Mosca, la Russia sconta la diffidenza di buona parte della leadership politica locale, che guarda con sospetto alle mire russe. In Ossezia del Sud, la Regione del Caucaso georgiano che si dichiara Repubblica autonoma dai primi anni Novanta, e che nel 2008 ha ottenuto il sostegno russo nella guerra contro Tbilisi che ha coinvolto anche l’Abkhazia, oltre che nella richiesta di indipendenza, l’influenza è ancora più forte. In seguito al conflitto ucraino, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud hanno consolidato i rapporti con Mosca. Ma mentre l’Abkhazia è scettica sull’adesione alla Federazione Russa, preferendo quell’indipendenza che la comunità internazionale è restia a concederle, l’Ossezia del Sud auspica la piena integrazione, che Mosca però non vuole concedere, per mantenere leve di controllo sulla Georgia, che dopo il caso ucraino spinge per una maggiore integrazione euroatlantica. Per ora, la situazione appare irrisolvibile: Abkhazia e Ossezia del Sud non intendono “tornare” sotto il controllo della Georgia, ma Mosca non vuole rischiare l’annessione, soprattutto in un momento in cui la comunità internazionale, dopo il caso ucraino, torna a sottolineare l’importanza dell’integrità territoriale degli Stati sovrani, dopo il “cedimento” sul Kosovo, a cui è stata riconosciuta l’indipendenza dalla Serbia. A causa della prossimità geografica, il conflitto in Ucraina ha avuto profonde ripercussioni nella confinante Moldova. La Transnistria, l’autoproclamata Repubblica moldova che rivendica l’indipendenza da Chisinau, ha accolto l’annessione russa della Crimea con soddisfazione, nella speranza che potesse preludere all’annessione nella Federazione Russa della Transnistria, che pure mantiene significativi legami economici con l’Unione Europea. Ma come nel caso dell’Ossezia del Sud, Mosca, pur mantenendo canali privilegiati con la leadership della Transnistria, preferisce mantenere lo status quo, per non rinunciare alla possibilità di influenzare la Moldova, ancora incerta se guardare all’Europa o alla Russia, come dimostra il conflittuale quadro politico interno emerso nel 2017. Quanto al Nagorno-Karabakh (a cui dedichiamo un’apposita scheda), Regione contesa tra Armenia e Azerbaigian, il protagonismo militare russo in Ucraina ha confermato i timori dei due Paesi nei confronti di Mosca, percepita come un mediatore necessario ma inaffidabile. Nella sfera post-sovietica, la Russia continua dunque a perseguire una politica di lungo respiro, inaugurata da tempo, che ruota intorno all’obiettivo di diventare un “naturale centro di aggregazione” in Eurasia. La sua presenza ha però avuto l’effetto contrario, consolidando le esistenti spaccature, compromettendo l’integrità territoriale e la sovranità di Moldova, Georgia e Azerbaigian. A partire dal 2008, con la guerra contro la Georgia in Abkhazia e Ossezia del Sud, e nel 2014 con l’annessione della Crimea e con la guerra nel Donbas, Mosca ha rafforzato la propria presenza nel Caucaso e nel Mar Nero, località geograficamente cruciali. Risultati importanti, ma ottenuti al prezzo di una crescente militarizzazione della sua politica estera e di un’area già altamente instabile.


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Vicino Oriente

© Fabio Bucciarelli

A cura di Amnesty International

I diritti umani non abitano qui In Siria le forze governative siriane hanno mantenuto lunghi assedi su aree civili, privando circa 400mila persone dell’assistenza medica e di altri beni e servizi essenziali, oltre che degli aiuti umanitari, mentre erano sottoposte a ripetuti raid aerei, lanci d’artiglieria pesante e altri attacchi. Anche i gruppi armati d’opposizione si sono resi responsabili dell’assedio di migliaia di civili e hanno lanciato razzi e colpi di mortaio sui quartieri controllati dal Governo, causando morti e feriti. Migliaia di civili hanno affrontato le gravi conseguenze dello sfollamento forzato seguito agli accordi di “riconciliazione”, raggiunti tra la seconda metà del 2016 e i primi mesi del 2017. Tra il 2011 e il 2017, le persone sfollate internamente al territorio siriano erano 6,5milioni. Le persone fuggite durante il 2017 dalla Siria sono state oltre 500mila, cifra che ha portato il numero totale di rifugiati siriani ad almeno cinque milioni. Le forze governative siriane, affiancate nelle offensive via terra dai combattenti iraniani e di Hezbollah, oltre che dai raid aerei russi, hanno riconquistato zone in precedenza controllate da vari gruppi arma-

ti. Nel farlo, hanno causato morti e feriti tra i civili, nel corso dei loro attacchi indiscriminati e di altri attacchi diretti contro la popolazione e obiettivi civili, come abitazioni, ospedali e strutture sanitarie. Il gruppo Stato Islamico ha perso il controllo del governatorato di Raqqa, al culmine di una campagna militare condotta dalle Forze democratiche siriane, nelle cui file erano schierati curdi siriani e gruppi armati arabi, e dalle forze della coalizione a guida statunitense. Lo Stato Islamico ha impedito agli abitanti di fuggire dalla città e utilizzato i civili come scudi umani, prendendo deliberatamente di mira la popolazione civile e lanciando attacchi indiscriminati, che hanno provocato morti e feriti tra i civili. Anche i raid aerei della coalizione hanno provocato centinaia di vittime civili. Il 2017 ha segnato il 50° anniversario dall’occupazione dei Territori Palestinesi da parte d’Israele e il 10° del blocco illegale sulla Striscia di Gaza. Le autorità israeliane hanno intensificato l’espansione degli insediamenti dei coloni e delle relative infrastrutture in tutto il territorio della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e hanno effettuato numerose demolizioni di proprietà palestinesi, sgomberando con la forza oltre 660 persone. Molte delle demolizioni hanno colpito le comunità beduine e pastorizie. Il blocco aereo, marittimo e terrestre imposto da Israele sulla Striscia di Gaza ha perpetuato restrizioni al transito di persone e merci da e verso l’area e sottoposto di fatto a punizione


collettiva la popolazione di circa due milioni abitanti di Gaza. Insieme alla chiusura quasi totale del valico di Rafah da parte dell’Egitto, il blocco di Gaza ha determinato una crisi umanitaria caratterizzata da frequenti tagli nell’erogazione dell’elettricità con conseguenze sulla fornitura di acqua potabile e sui servizi igienici e difficoltà d’accesso ai servizi sanitari. Le autorità israeliane hanno impedito l’ingresso in Israele o nei Territori Palestinesi Occupati a chiunque avesse prestato il proprio sostegno o collaborato con organizzazioni che avevano lanciato o appoggiato una dichiarazione che era stata da loro ritenuta un invito a boicottare Israele o le entità israeliane, compresi gli insediamenti dei coloni; hanno inoltre preso di mira Ong palestinesi e israeliane impegnate nella difesa dei diritti umani, mediante vessazioni e campagne finalizzate a screditare il loro lavoro, e hanno schierato forze armate che hanno sparato proiettili di metallo ricoperti di gomma e

munizioni vere contro manifestanti palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, uccidendone almeno 20 e ferendone migliaia. Lo Stato di Palestina ha adottato una legge sui reati informatici, che permette la detenzione arbitraria di giornalisti, informatori e altre persone che criticano online le autorità. La legge inoltre prevedeva pene detentive e fino a 25 anni di lavori forzati per chi veniva ritenuto aver disturbato “l’ordine pubblico”, “l’unità nazionale” e “la pace sociale”. Ai sensi della nuova legge sono stati incriminati diversi giornalisti e difensori dei diritti umani palestinesi. Nella Striscia di Gaza Hamas ha continuato ad applicare la pena di morte. Tra gli sviluppi positivi, vanno segnalate le modifiche legislative entrate in vigore in Giordania e Libano, in base alle quali gli stupratori non potranno più evitare di essere perseguiti o di beneficiare di pene ridotte se sposeranno la loro vittima.

A cura di Giovanni Scotto

Sembra finito l’ordine post-coloniale Le tensioni e i conflitti che attraversano la Regione sono apparentemente cristallizzati, e sembra che nella situazione medio-orientale nulla cambi mai, se non in peggio. È utile quindi puntare i riflettori sugli eventi che rimettono in discussione assetti e abitudini di pensiero consolidate. È il caso delle elezioni in Iraq, che hanno portato alla vittoria nell’aprile 2018 il cartello elettorale Sairoon (In marcia), un’inedita alleanza tra una forza politica di sinistra, il partito comunista iracheno, e il partito del leader religioso sciita Moktada al-Sadr. In passato al-Sadr aveva guidato due rivolte armate contro gli Stati Uniti a capo di una milizia; oggi ha deciso di allearsi con una forza laica, rinunciare alla violenza politica, arrivando a citare l’esempio di Gandhi in un suo comizio. Al-Sadr vuole un Iraq libero dalle influenze straniere, e si oppone non solo agli Usa ma anche all’influenza di Teheran. Sairoon ha vinto le elezioni con un ampio distacco dalla lista di Amiri, vicina alle milizie

sciite filo-Iraniane, e dalla terza lista dell’attuale Presidente Al-Abadi, che sperava di vincere capitalizzando sulla sua vittoria militare contro Daesh (Isis) Tra i leader del partito comunista c’è Jassim AlHelfi, sostenitore della giustizia sociale e fautore dei metodi nonviolenti della lotta politica. L’affermazione elettorale ha le sue radici nelle lotte della società civile contro la corruzione e il privilegio. Gli attivisti iracheni, nel corso degli anni, hanno trovato attenzione e sostegno in partner della società civile internazionale tra cui, in Italia, Un ponte per. Se si consoliderà l’ascesa di questa nuova forza, ci sarà da sperare per l’Iraq in un futuro di maggiore giustizia e democrazia. L’unificazione di forze politiche così diverse può essere un segnale per tanti Paesi della Regione: democrazia, partecipazione e maggiore giustizia sociale possono essere obiettivi realistici anche in Medio Oriente.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA PALESTINA RIFUGIATI

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PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI EGITTO

70.027

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7.703

LIBIA

5.379

RIFUGIATI ORIGINATI DA ISRAELE RIFUGIATI

495

RIFUGIATI ACCOLTI IN ISRAELE RIFUGIATI

32.946

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI ERITREA

27.812

SUDAN

4.647


Il Terzo Tempio della discordia

Il progetto della costruzione del Terzo Tempio, l’edificio più sacro per l’ebraismo là dove oggi ci sono le moschee di Al Aqsa e la Cupola della Roccia, va avanti da una trentina di anni da un gruppo di rabbini riuniti in un’associazione chiamata Istituto del Terzo Tempio. Negli ultimi anni l’associazione è sempre più influente, anche presso la Knesset, e il riacutizzarsi delle tensioni dell’estate 2017, dopo che è stato toccato il delicato equilibrio dello status quo, sembra dire che i tempi per la costruzione potrebbero avvicinarsi. Parte dei preziosi arredi sarebbe già pronta. Inoltre tutto oggi nella città moderna sembra andare nella direzione di un aumento massiccio di pellegrinaggi degli ebrei, che ogni anno dovrebbero recarsi a Gerusalemme. Quando verrà compiuta la costruzione del Terzo Tempio, secondo Israele, gli ebrei pellegrini saranno ancora di più. In programma c’è anche la costruzione di una funivia che porti direttamente in cima a quello che nella Bibbia è chiamato il monte Moria.

La decisione di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme da parte del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, con il conseguente riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, ha scatenato una serie di proteste e di malcontento nei territori palestinesi. Che fare con Gerusalemme capitale? Annettere tutti i palestinesi che vivono a Gerusalemme Est, dando loro la cittadinanza israeliana? Sarebbe una soluzione, ma Israele non la prende in considerazione, anche perché questo significherebbe uno squilibrio demografico che depone a favore degli arabi. Il gesto americano ha gettato nuova benzina sul fuoco, essendo un riconoscimento unilaterale, che va a violare i principi degli Accordi di Oslo, ormai morti e sepolti. Inoltre dimostra come gli Stati Uniti nell’era Trump abbiano adottato una linea filoisraeliana come non mai, e la soluzione dei Due Stati diventa ogni giorno una chimera. Di fronte al “no” palestinese di accettare Gerusalemme come capitale indivisibile dello Stato di Israele, Trump, su consiglio del suo ambasciatore all’Onu Nikky Alley, ha deciso di congelare ogni aiuto che gli Stati Uniti danno ai palestinesi mediante le agenzie delle Nazioni Unite, se non accetteranno i negoziati su Gerusalemme. Inoltre, la data simbolo in cui gli Usa hanno deciso di spostare la loro ambasciata, il 14 maggio 2018, coincide con i 70 anni della nascita dello Stato di Israele. Una decisione, quella di scegliere proprio il 14 maggio, che è stata definita dall’Anp (Autorità Nazionale Palestinese) una “provocazione”. Hamas ha parlato di una “dichiarazione di guerra nei confronti della nazione araba e musulmana”. Una situazione che si inserisce nel delicato contesto in cui Gerusalemme è precipitata. L’estate scorsa un attentato ha scosso la città: tre assalitori hanno sparato a dei poliziotti israeliani che presidiavano uno degli accessi alla Generalità Nome completo:

Stato di Israele

Bandiera

Lingue principali:

Ebraico e Arabo

Capitale:

Tel Aviv

Popolazione:

8.800.000 (al 2018)

Area:

22.072 Kmq

Religioni:

Ebraica (75,6%), musulmana (16,6%), cristiana (1,6%), drusa (1,6%), non classificati (3.9%)

Moneta:

Nuovo Shekel

Principali esportazioni:

Agricoltura, farmaceutica, chimica, software e tecnologia militare, diamanti

PIL pro capite:

Us 44.019

ISRAELE PALESTINA

Generalità Nome completo:

Autorità Nazionale Palestinese

Bandiera

201

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo

Capitale:

Ramallah

Popolazione:

4.550.000 (2018)

Area:

6.220 Kmq

Religioni:

Musulmana, cristiana

Moneta:

Sterlina egiziana, nuovo Shekel israeliano, dinaro giordano

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

Us 2.867

Spianata delle Moschee, proprio in un venerdì di preghiera. Due agenti sono morti. Durissima la reazione di Israele che ha disposto una serie di misure che andavano a intaccare lo status quo della Città Vecchia. Il premier Netanyahu ha invocato per gli attentatori la pena di morte. E dopo l’uccisione di due coloni in Cisgiordania è tornata prepotente alla Knesset la discussione sulla pena di morte per i terroristi. A sostenere la legge in particolare il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, mentre sono critiche le opposizioni e l’intelligence interna che teme effetti controproducenti.


costruzione di colonie israeliane, illegali per il diritto internazionale, che minano la continuità territoriale e il controllo delle risorse del futuro Stato. Ma dal canto suo Israele, in nome della “sicurezza” per il suo popolo, prosegue nella realizzazione degli obiettivi del 1948, gli stessi che hanno portato alla prima guerra arabo-israeliana dopo la creazione dello Stato di Israele: e cioè la costituzione di uno Stato ebraico che vada dal fiume Giordano fino al Mar Mediterraneo. Un progetto meglio noto come la Grande Israele di cui si parla anche nella Bibbia. Quello stesso territorio che i palestinesi, Olp e Hamas insieme, rivendicano come Palestina. Ufficialmente non esiste un confine riconosciuto a livello internazionale tra Israele e Palestina.

202

Quella che viene considerata la “madre di tutte le guerre” ha in nuce il basilare concetto del territorio e della sua amministrazione. Non si tratta, dunque, di una disputa a carattere religioso, anche se a fronteggiarsi sono gli israeliani, prevalentemente ebrei, e i palestinesi, per lo più musulmani. L’unica soluzione al conflitto che le diplomazie internazionali da anni perseguono è quella dei due Popoli e due Stati, ed è considerata l’unica in grado di garantire la pace. Ma un accordo in tal senso è assai complicato poiché le parti in causa non la vedono allo stesso modo. Da parte palestinese si chiede il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati nel 1967 (compresa Gerusalemme Est indicata come capitale del futuro Stato Palestinese), il diritto al ritorno per i profughi e lo stop alla

Per cosa si combatte

La tortura è quotidiana

Tortura e detenzione amministrativa sono due delle piaghe peggiori delle carceri israeliane. Secondo le statistiche dell’Associazione di sostegno ai prigionieri e per i diritti umani, il numero totale di prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane supera i 7000, di cui 450 sono detenuti amministrativi. Una prassi vietata dal diritto internazionale, ma che Israele sempre più spesso sostituisce a regolari procedimenti penali. E stando a quanto descrive Amnesty International nel suo rapporto annuale, sarebbero numerose le esecuzioni extragiudiziali e le torture ai prigionieri palestinesi, in aggiunta a una serie di misure, sia in Israele che nei Territori Palestinesi Occupati, per colpire i difensori dei diritti umani che criticano la continua occupazione israeliana.

© Fabio Bucciarelli

Alla base del conflitto, che dura ormai da 70 anni, c’è il progetto sionista di dare una patria agli ebrei, soprattutto a quelli della diaspora. La dichiarazione di Balfour, che nel 1917 sancisce che il Governo di Londra dichiara di appoggiare una “Patria nazionale ebraica in Palestina”, diede la spinta decisiva alla formazione dello Stato di Israele, che avvenne 30 anni dopo, nel 1947. In particolare è il passaggio in cui la dichiarazione recita “Il Governo di sua maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”. Al termine della seconda guerra mondiale, dopo che gli ebrei uscirono dalla tragedia dell’Olocausto, nel 1947 una risoluzione dell’Onu accoglie le rivendicazioni del popolo ebraico, assegnandogli il 73% del territorio dell’ex mandato britannico, preludio alla costituzione dello Stato di Israele che avvenne l’anno seguente. Una decisione che portò gli

Stati arabi a muovere guerra al nascente Stato di Israele. Palestinesi, Egitto, Siria, Transgiordania, Libano e Iraq subirono una pesante sconfitta e Israele ampliò la sua sovranità anche sulla Galilea a Nord e verso il Negev a Sud. Per i palestinesi il 14 maggio 1948 è il giorno della nakba, cioè della catastrofe che si abbatte sul loro popolo, costretto ad abbandonare le proprie case e rifugiarsi nei campi profughi. Alla prima guerra arabo israeliana ne seguirono altre: nel 1956 quella contro l’Egitto in seguito alla nazionalizzazione del canale di Suez, la terribile guerra dei Sei Giorni nel 1967, che portò all’occupazione militare di Gerusalemme Est, di Gaza, del Sinai e del Golan, e poi nel 1973 la guerra del Kippur. Ma è proprio la guerra del 1967 a incrinare forse in maniera definitiva le possibilità di una pace duratura e a gettare le basi di quella situazione che ancora oggi domina le recrudescenze violente che periodicamente sfociano. I palestinesi, insieme alla comunità internazionale, fanno pressione su Israele affinché si ritorni ai confini precedenti al 1967, richiesta che lo Stato Ebraico rimanda al mittente. L’altro grande problema, che impedisce

Quadro generale

La contesa del gas

Anche il controllo dei giacimenti di gas naturale rientra nel conflitto. I giacimenti Leviathan e Tamar, con i loro tre miliardi e mezzo di metri cubi di metano, oltre a rendere Israele da importatore a esportatore, possono garantire gas a basso costo allo Stato Ebraico per almeno cento anni, ma si trovano nelle acque territoriali al largo della Striscia di Gaza, fino al confine con il Libano. I palestinesi ne rivendicano la proprietà. Proprio il gas potrebbe dare il via a una nuova guerra, tra Israele e Libano, in aggiunta al conflitto con i palestinesi, per la questione della gestione e del controllo delle risorse. Questa querelle si trascina da anni. Già Arafat a proposito dei giacimenti in questione disse: “Sono un dono di Dio”.


TENTATIVI DI PACE

Un abbraccio per due popoli

Machsom in lingua ebraica è un concetto che indica una barriera, un limite. E Machsom Watch è un gruppo di donne israeliane che monitorano quanto avviene ai check point che separano Israele dai Territori Palestinesi, e come vengono espletate le operazioni di controllo sui palestinesi da parte dell’esercito israeliano, affinché vengano rispettati i diritti umani e civili della popolazione palestinese in possesso del permesso di ingresso in Israele. L’associazione, di volontariato, è nata nel 2001, dopo la seconda Intifada. Ne fanno parte solo donne, critiche nei confronti della politica che Israele adotta verso i palestinesi. Con le loro osservazioni, i loro rapporti, i loro video, le loro foto e i loro tour intendono influenzare l’opinione pubblica in Israele e in tutto il mondo, per far conoscere le impossibili condizioni che affrontano i palestinesi sotto l'occupazione israeliana. Una situazione che intacca anche il tessuto sociale israeliano e il valore della democrazia. Il lavoro di Machsom Watch è anche volto a sostenere il diritto dei palestinesi a muoversi liberamente nella loro terra.

203

Machsom Watch

Il movimento femminista Women Wage Peace, fondato da donne israeliane e palestinesi, ha organizzato una marcia per la pace, tenutasi l’8 ottobre 2017. Il punto d’incontro è stato il deserto vicino al Mar Rosso, luogo che ha permesso alle manifestanti di non essere sottoposte a controlli di sicurezza né perquisizioni. Al momento del ritrovo, le donne si sono salutate abbracciandosi, sottolineando l’atteggiamento di fiducia reciproca. Il culmine della manifestazione si è svolto in una grande tenda che loro stesse hanno chiamato “Tenda di Hager e Sarah”, le due mogli del profeta Abramo, che rappresentano rispettivamente la madre dei musulmani e la madre degli ebrei. Diecimila ebree e musulmane hanno ballato insieme sotto le note della musica Orientale, strette l’una all’altra, come simbolo di protesta contro ulteriori spargimenti di sangue, che le hanno portate a perdere molti dei loro cari durante il conflitto. La referente del movimento, Shazarhel, ha portato con sé le sue due figlie di sette e quattro anni, dimostrando loro che l’atteggiamento materno delle donne palestinesi ha lo stesso sapore di quello delle donne ebree.

© Fabio Bucciarelli

la realizzazione di uno Stato Palestinese, è l’estrema frammentazione del territorio, sul quale le colonie ebraiche si espandono a macchia di leopardo rendendo praticamente impossibile un collegamento omogeneo tra le varie regioni palestinesi. Da allora a oggi due grandi rivolte palestinesi, nel 1987 e nel 2000, note come prima e seconda Intifada, in seguito alla quale si cominciò a costruire il muro di separazione tra Israele e i Territori Palestinesi, condannato anche dalla Corte Internazionale di Giustizia. Negli ultimi anni qualche tentativo di bollare le violenze che periodicamente esplodono come una nuova intifada, ma il popolo palestinese sembra non aver più né la forza né la voglia di combattere. Complice anche una leadership frammentata e corrotta. Qualche tentativo di pace è stato fatto, su tutti gli Accordi di Oslo del 1993, siglati tra il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) Yasser

I PROTAGONISTI

Arafat, che riconosce lo Stato di Israele, e il primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin, che a sua volta riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese (ruolo che dal 1995 spetterà all’Anp, l’Autorità Nazionale Palestinese). Un processo di pace che naufraga definitivamente con gli ultimi sviluppi seguiti alla presidenza Trump in America, ma che viene messo a dura prova già durante la seconda Intifada e nel 2005 quando il primo Ministro israeliano Ariel Sharon decise il ritiro unilaterale di Israele della Striscia di Gaza. A questo seguì due anni dopo l’affermazione a Gaza del movimento islamico palestinese Hamas, che uscì vittorioso dalle elezioni politiche del 2006, e cacciò l’Olp dalla Striscia. Da allora Gaza è isolata e Israele più volte lancia offensive militari per indebolire e sconfiggere Hamas. È stato così nel 2009, con l’Operazione Piombo Fuso, nel 2012 con l’operazione Colonna di Nuvole e nel 2014 con l’operazione Margine di Protezione. Tutte guerre lampo che si sono risolte con un numero altissimo di perdite civili palestinesi, tra cui molti bambini, e quasi nessuna vittima israeliana.


204

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL LIBANO RIFUGIATI

4.740

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SFOLLATI PRESENTI NEL LIBANO RIFUGIATI ACCOLTI NEL LIBANO RIFUGIATI

1.012.969

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SIRIA

1.005.503

IRAQ

6.454 -


La guerra del gas

Petrolio e gas potrebbero essere i pretesti per una nuova guerra con Israele. L’italiana Eni ha recentemente firmato con il Governo libanese due contratti per l’esplorazione e la produzione di gas offshore nei blocchi 4 e 9, nell’area di mare al largo del Libano rivendicata anche da Israele, Cipro Nord e Cipro. Israele sostiene che il blocco 9 sia sotto la sua sovranità. Di fronte a tale affermazione il premier libanese Michel Aoun ha dichiarato che Beirut condurrà un’offensiva diplomatica e che è disposto a far qualsiasi cosa per proseguire l’estrazione di idrocarburi al largo delle sue coste. Dello stesso avviso Hezbollah, che ha condannato le dichiarazioni israeliane e si è detto pronto a reagire e a proteggere le risorse del Libano.

UNHCR/A.Branthwaite

A determinare il delicato momento politico che il Libano ha vissuto nell’autunno 2017 sono state le dimissioni annunciate del premier Saad Hariri, mentre si trovava in Arabia Saudita. Era stato convocato con urgenza dal Governo di Riad e Hariri è andato in Arabia Saudita senza scorta e senza collaboratori. Aleggiò il sospetto che fosse stato sequestrato dai sauditi, poi sono stati in molti a credere che Hariri sia stato costretto al gesto dal principe saudita Mohammed in Salman e dal ministro degli Affari del Golfo. Se non l’avesse fatto sarebbe stato arrestato. Le dimissioni in seguito sono state ritirate, ma hanno fatto temere il peggio per il Paese dei Cedri. A essere considerato da più parti il garante dell’unità nazionale del Paese è il Presidente Michel Aoun, che gode dell’appoggio sia degli esponenti delle chiese cristiane presenti in Libano, sia della componente musulmana del Paese grazie al fatto di considerare Hazbollah come un “attore positivo” in questa fase storica del Libano. È lui, infatti, ad aver evitato il peggio e il ritorno dei fantasmi della guerra civile, rifiutando le dimissioni di Hariri poiché presentate - caso unico nella storia - fuori dai confini nazionali. Ma la situazione di rischio è tutt’altro che rientrata, dal momento che a innalzare la tensione in Libano ci ha pensato Israele, che non tollera ormai più il filoiraniano Hezbollah e il suo sempre maggiore consenso, cresciuto anche a causa della debolezza politica di Hariri. Il 10 febbraio un caccia israeliano è stato abbattuto dai sistemi di difesa siriani - con alcuni frammenti di missile caduti nel villaggio libanese di Kaoukaba - dopo aver bombardato 12 obiettivi militari in Siria, violando lo spazio aereo libanese. Primo caso dal 1982. Questo ha determinato la condanna da parte di Beirut, che va ad aggiungersi alle crescenti tensioni al confine Meridionale del Paese. A ciò si unisca il fatto che Hezbollah, che Israele vede come il fumo negli occhi, ha accresciuto anche la sua potenza militare ed è sempre più am-

LIBANO

Generalità Nome completo:

Repubblica Libanese

Bandiera

205

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo, francese

Capitale:

Beirut

Popolazione:

6.007.000 (al 2016)

Area:

10.452 Kmq

Religioni:

Musulmana (sunnita, sciita), cristiana

Moneta:

Lira libanese

Principali esportazioni:

Gioielli, apparecchiature elettriche, prodotti metallurgici, chimici, alimentari

PIL pro capite:

Us 7.914 (2016)

massato al confine. Tel Aviv stima che il Partito di Dio sia in possesso di 150mila razzi a corto, medio e lungo raggio, e sarebbe in grado di lanciare tra i 1500 e i 200 missili nel corso di una guerra, oltre a poter contare su 50mila uomini pronti a combattere. Se il Libano diventasse il teatro delle operazioni belliche tra Israele e Iran sarebbe una situazione preoccupante anche per l’Italia, poiché il conflitto si combatterebbe a Sud del fiume Litani, dove l’Italia ha schierato i caschi blu che compongono la missione dell’Onu in Libano Meridionale.


pessimistiche circolanti tra gli analisti di Beirut, oltre a rappresentare un “soft target” a causa delle ben note divisioni settarie che lo attraversano e ne minano la sopravvivenza, offrirebbe allo Stato Islamico uno sbocco sul Mediterraneo che ancora non possiede. I gruppi jihadisti hanno scatenato l’offensiva nel Nord del Libano avendo due obbiettivi ben precisi: rompere l’accerchiamento della Provincia di Arsal, la più colpita dallo sconfinamento del conflitto siriano in Libano e seminare la discordia nei ranghi dell’esercito libanese composto da sciiti e sunniti. Nell’estate 2017 l’esercito libanese ha lanciato un’offensiva militare con l’appoggio degli Stati Uniti, per liberare la frontiera con la Siria dai miliziani dell’Isis.

Per cosa si combatte

Un nuovo muro segna il confine

C’è anche un altro muro a creare problemi nell’area, oltre a quello del confine fra Israele e la Cisgiordania. È il muro che Israele ha deciso di costruire al confine con il Libano, lungo quella Linea Blu, che provvisoriamente divide i due Paesi. Beirut la considera una demarcazione temporanea, adottata dopo il ritiro delle truppe israeliane dal Sud del Libano nel 2000. Tel Aviv sostiene che il muro sia costruito in territorio israeliano, per proteggere i civili dello stato ebraico dalle aggressioni da parte di Hezbollah. Il Consiglio superiore della difesa libanese lo ritiene invece una “violazione della sovranità nazionale libanese e della risoluzione dell’Onu 1701”. La stessa risoluzione che mise fine alla guerra del 2006. Inoltre Beirut ritiene che il muro sia la preparazione da parte di Israele di un ampio attacco militare.

206

La presenza di basi operative della resistenza palestinese ha fatto da sempre del Libano uno degli obiettivi di Israele. Le tensioni tra i due Paesi sono poi costantemente cresciute a causa della contrapposizione tra Israele e il movimento sciita degli Hezbollah, che ha stabilito nel Sud del Paese le sue basi operative. Secondo Israele è l’Iran a sostenere economicamente il movimento di Hezbollah fiancheggiato anche dal Governo siriano, in conflitto con Israele per la sovranità sulle Alture del Golan. Ma un nuovo fronte più caldo si è aperto in Libano. Dopo Siria ed Iraq infatti, il Paese dei Cedri sembra essere diventato il terzo fronte della nuova conquista islamica, guidata dal sedicente Califfo Al Baghdadi, più volte dato per morto. Il fragile Paese dei Cedri che, secondo le ipotesi più

UNHCR/A.Branthwaite

Esempio di democrazia confessionale che riesce a reggere delicati equilibri in maniera esemplare per l’area il Libano è tornato sulla scena internazionale, a causa del riacutizzarsi delle tensioni tra Israele e Iran. Ma per capire cosa sta accadendo bisogna guardare alla genesi del Paese dei Cedri. Con la dissoluzione dell’Impero Ottomano, la Società delle Nazioni affidò alla Francia il controllo della Grande Siria, incluse le cinque Provincie che oggi formano il Libano. La Conferenza di Sanremo, dell’aprile del 1920, ne definirà i compiti e i limiti. Già nel 1920 la Francia dichiarò lo Stato del Grande Libano indipendente. Uno Stato composito, con un’enclave in Siria a maggioranza cristiano maronita e una a maggioranza musulmana e drusa con capitale Beirut. Solo 6 anni dopo il Libano diventerà una Repubblica, definitivamente separata dalla Siria, anche se ancora sotto il comune mandato francese. Nel 1943 il Governo libanese abolirà il mandato francese dichiarando la propria indipendenza. Bisognerà aspettare la fine della seconda guerra mondiale per assistere al ritiro definitivo delle truppe francesi dal

nuovo Stato indipendente. Nel 1948, dopo la risoluzione dell’Onu 181 con la quale si “ripartiva” il territorio palestinese in seguito alla nascita dello Stato ebraico, anche il Libano aderì alla guerra della Lega Araba contro Israele non invadendo però mai il neonato Stato. Dopo la sconfitta araba, Israele e Libano stipularono un armistizio ma, a tutt’oggi, mai un trattato di pace. Conseguenza di questa guerra, furono 100mila profughi palestinesi ai quali se ne aggiunsero altri dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967. Profughi che decenni più tardi saranno la causa, secondo il Governo israeliano, dell’invasione del Libano. L’operazione militare “Pace in Galilea” parte il 6 giugno del 1982 ed è finalizzata a sradicare dal Sud del Libano la presenza armata palestinese. In realtà, quella che si può chiamare prima guerra israelo-libanese, arrivò fino a Beirut dove aveva sede l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Per impedire la prosecuzione di spargimento di sangue, intervenne la diplomazia internazionale che sgomberò la dirigenza dell’Olp (rifugiatasi a Tunisi) e riversò nei Paesi limitrofi molte unità

Quadro generale

Le fattorie della discordia

Le Fattorie di Sheb’a si estendono su 25 km quadrati di superficie, sulle pendici Orientali del monte Hermon, punto di incontro tra Siria, Libano e Israele. Si tratta di 14 fattorie occupate da coloni israeliani. L’area è al centro di una controversia internazionale dal 1967, con la Guerra dei Sei Giorni. E proprio le fattorie di Sheb’a furono il casus belli della guerra tra Libano e Israele del 2006, la prima guerra non vinta dallo stato ebraico. Secondo Hezbollah e Beirut sono parte del Libano. Lo sostiene anche la Siria. Israele la considera parte del Golan, e la amministra in regime di occupazione militare, violando la risoluzione numero 425 dell’Onu.


TENTATIVI DI PACE

Un calcio al pallone per tornare alla normalità

Nel 2015, i militari italiani del contingente Unifil hanno costruito un campo da calcetto per i bambini ed i ragazzi di Jinnata, un villaggio di 2000 abitanti situato al Nord-Est della città di Tiro. Il progetto è stato reso possibile grazie anche alla supervisione di specialisti del Multinational Cimic Group, con i fondi italiani stanziati per la cooperazione civile e militare. Il capitano del contingente, Marco Di Lorenzo, ha rivelato che questo progetto è stato sostenuto sia dalle autorità locali che dalle organizzazioni Onu presenti sul territorio, che si occupano d’istruzione e di ricostruzione del tessuto sociale. Non si trattava solamente di promuovere il valore sportivo, bensì di mettere a disposizione uno spazio per l’aggregazione sociale, in un luogo in cui i ragazzi non avevano niente. Inoltre, grazie ai militari italiani, sono stati attivati degli specifici corsi di calcio e di educazione fisica per la popolazione locale di diverse Municipalità.

Fondazione Adyan

UNHCR/C.Lau

armate palestinesi. Una situazione che lasciò la popolazione civile nei campi profughi priva di protezione. Questo porterà al drammatico massacro nei campi-profughi di Sabra e Shatila, da parte di unità cristiane guidate da Elie Hobeika, lasciate agire dalle truppe israeliane, comandate da Ariel Sharon, di stanza nell’area coinvolta. Negli anni a seguire, il Libano affronterà problemi di equilibri interni, con gli Hezbollah, musulmani sciiti vicini a Damasco e Teheran, determinanti. È il 12 luglio del 2006 quando miliziani di Hezbollah attaccano una pattuglia dell’esercito israeliano nel Sud del Libano, uccidendo tre soldati e rapendone due. Israele reagisce con la forza, avviando un’offensiva contro il Libano per “neutralizzare l’apparato militare di Hezbollah”. Al massiccio attacco aereo non corrisponderà però un successo a terra, con l’esercito israeliano in grado di avanzare solo di pochi chilometri in un mese. La resistenza di Hezbollah, infatti, dimostrerà la propria efficacia, contrattaccando il territorio israeliano con

I PROTAGONISTI

lanci di migliaia di missili. L’11 agosto, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite interverrà con una risoluzione (la 1701), che troverà il voto unanime dei Paesi Membri, chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità, il ritiro di Israele dal Libano Meridionale e l’interposizione delle truppe regolari libanesi e dell’Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) in una zona cuscinetto “libera - come si legge - da ogni personale armato che non sia quello delle Nazioni Unite e delle forze armate regolari libanesi”. Sul fronte interno intanto si riaccende lo scontro religioso. Per quindici anni, fino al 1990, Beirut aveva assistito allo scontro tra musulmani e cristiani. Dal maggio del 2008 lo scontro è tra sunniti e sciiti, e la contrapposizione è tra uno schieramento filo-saudita, guidato da Hariri, e uno filo-iraniano capeggiato da Hezbollah. A ciò si aggiunga che l’esplodere delle rivolte in Siria ha acuito la preoccupazione e la tensione nel Paese dei Cedri che ha dovuto guardarsi dai pericoli che vengono da oltreconfine. Intanto nel 2018 sono previste le prime elezioni legislative dal 2009, continuamente rimandate per via delle tensioni tra i vari schieramenti politico confessionali aggravatisi con la guerra civile siriana.

207

La Fondazione Adyan si è aggiudicata il Premio Niwano per la Pace, considerato una sorta di “Nobel delle religioni”, con la motivazione di essere l’unico antidoto all’Isis. L’organizzazione è nata nel 2006 come risposta al clima pesante di contrapposizione riesploso nel Paese dei Cedri dopo l’assassinio dell’allora premier Rafiq Hariri. A fondarla cinque personalità appartenenti a diverse denominazioni religiose e con differenti competenze professionali, Fadi Daou, Nayla Tabbara, Mireille Matar, Tony Sawma e Samar Halwany. La Fondazione Adyan in 10 anni ha raccolto oltre 3mila membri e ha aiutato 35mila persone in 29 Paesi, per lo più in Libano e Vicino Oriente. Scopo dell’associazione è quello di “rafforzare la coesistenza tra gruppi diversi e creare contesti e basi per la solidarietà e la coesistenza tra fedi differenti”. Dal 2013 la Fondazione Adyan ha avviato in Libano e in Siria il progetto “Building Resilience and Reconciliation” mirato specificamente alle vittime del conflitto. Un progetto che, tramite la ricostruzione di edifici favorisce il processo di pace e di riconciliazione fra le persone colpite dalla guerra.


208

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2016 uscito nel giugno 2017 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo Paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA SIRIA RIFUGIATI

5.524.377

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI TURCHIA

2.823.987

LIBANO

1.005.503

GIORDANIA

648.836

SFOLLATI PRESENTI NELLA SIRIA 6.325.978 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA SIRIA RIFUGIATI

19.809

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI IRAQ

16.879

AFGHANISTAN

1.186 -


La Turchia attacca Afrin

Afrin è un’enclave curda in Siria, controllata dalle forze curde Pyd-Ypg che la Turchia ritiene una formazione terroristica. Ad Afrin, dopo essere stata a lungo annunciata, si è scatenata l’offensiva di Erdogan contro i curdi, aprendo l’ennesimo fronte nella crisi siriana. A metà gennaio 2018 le truppe di Ankara hanno cominciato l’operazione “Ramoscello d’Ulivo”, con il chiaro intento di prendere il potere in questa zona nel Nord Ovest della Siria, spezzando la continuità territoriale sotto il controllo dei curdi nel Nord della Siria. Ai raid e ai bombardamenti è seguita l’operazione di terra. Ingenti le perdite tra i civili, stimate in migliaia. Ma Damasco che, a sorpresa, è intervenuta a sostegno dei curdi, sembra stia in parte aprendo al riconoscimento dell’autogestione curda nell’enclave di Afrin.

© Fabio Bucciarelli

Sebbene il Presidente siriano Bashar al Assad e il Presidente russo Vladimir Putin abbiano dichiarato che la guerra in Siria è finita, il conflitto dopo sette anni è entrato nella sua seconda fase, tanto che si può parlare di seconda guerra siriana. Una guerra scoppiata quando ancora, di fatto, non si è conclusa la prima. A muoverla la Turchia, contro le milizie curda dell’Ypg. Nel frattempo, però, anche la guerra contro il Presidente Bashar al Assad non si ferma. E con essa i massacri nei confronti dei civili. Uno dei più feroci è avvenuto nel febbraio 2018 nel Ghouta Orientale, alla periferia di Damasco. In tutto vivono 400mila persone e si tratta di una zona densamente popolata da ribelli e jihadisti, dove l’esercito fedele ad Assad e l’alleato russo hanno compiuto un’offensiva per liberare una delle ultime sacche ribelli in città. Proprio il Ghouta è una delle zone da cui nel 2011 era partita la rivolta verso Assad. Vengono proposte tregue per l’evacuazione dei civili, che da ambo le parti vengono sistematicamente violate. Dalla fine dell’assedio di Aleppo, nel 2016, massacri di questo genere ai danni dei civili si sono verificati molte altre volte. La comunità internazionale ha accusato Assad di condurre gli attacchi utilizzando armi chimiche. Accusa, che il Presidente respinge al mittente. Moltissime le stragi di bambini, a Khan Sheikhoun quella più tristemente famosa, dove un rapporto dell’Onu ha riconosciuto la colpevolezza di Assad nell’uso di armi chimiche. Nel frattempo ha cominciato a circolare la notizia, diffusa da ambienti dell’Onu, che dietro le armi chimiche ci sia lo zampino della Corea del Nord, che avrebbe spedito forniture al Governo siriano da poter utilizzare per la produzione di armi chimiche. Intanto i colloqui di pace, nati sotto una cattiva stella, subiscono continue battute d’arresto. Dopo gli incontri di Ginevra, di Astana e di Vienna, conclusisi con un nulla di fatto, si sono svolti i colloqui di Sochi, fortemente voluti dalla Russia con l'appoggio di Iran e Turchia, ma boicottati dall'opposizione siriana e dai curdi. Sullo sfondo lo scambio di accuse tra le superpotenze,

SIRIA

Generalità Nome completo:

Repubblica araba di Siria

Bandiera

209

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo, Curdo, Armeno, Aramaico e Francese

Capitale:

Damasco

Popolazione:

18.906.907 (al 2017)

Area:

185.180 Kmq

Religioni:

Islamica (90%, di cui 74% sunniti e 16% altre confessioni), cristiana (10%)

Moneta:

Lira siriana

Principali esportazioni:

Petrolio, prodotti petroliferi, minerali, frutta e verdura, cotone, tessili, carne e grano

PIL pro capite:

Us 1.535 (al 2015)

Usa e Russia, e a livello regionale tra Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele, che finora ha giocato in difesa della propria sopravvivenza più che per estendere la propria influenza in una Regione che le è ostile. Tuttavia l’inizio del 2018 e i sospetti incidenti nei cieli siriani, con l’abbattimento di un F16 israeliano da parte della contraerea di Damasco, non lasciano presagire nulla di buono. Un cessate il fuoco per la Siria e per il suo popolo è ancora molto lontano.


Quella che oggi insanguina il territorio siriano è una guerra del “tutti contro tutti”. L’Esercito siriano libero è ormai disintegrato in tante sigle diverse e oltre ai ribelli si devono fare i conti anche con i miliziani dell’Isis. Poi ci sono i curdi che combattono per uno Stato indipendente, anche se le cose ultimamente sembrano andare nelle direzione opposta e il vero nemico per loro non è Damasco ma la Turchia. Le ragioni di questa guerra che va avanti da oltre sette anni e ha mietuto un numero impressionante di vittime e generato un altrettanto spaventosa ondata di profughi e sfollati vanno oltre le istanze di riforme e democrazia che hanno caratterizzato le prime proteste. La Siria, infatti, prima della guerra e pur con tutte le sue contraddizioni rap-

presentava un unicum nella Regione, un Paese moderno e all’avanguardia. E sebbene il regime di Assad fosse l’antitesi della democrazia, la Siria poteva definirsi laica e progressista. Una situazione che dava fastidio ai Paesi vicini, soprattutto alle petromonarchie del Golfo, con le quali si instaurava uno scontro anche di tipo confessionale abbracciando loro l’islam sunnita e appartenendo Assad alla minoranza alawita che è sciita. Nella guerra siriana, quindi le ingerenze straniere sono sempre state assai presenti: Usa, Qatar, Arabia Saudita e Turchia, hanno agito in chiave anti-Assad e, seppur con molte ambiguità, anti-Isis. Mentre Iran, Russia e Cina sostengono Damasco. In mezzo, a morire e a essere portati allo stremo, ci sono i civili.

Per cosa si combatte

Il pericolo armi chimiche

Da quando è scoppiata la guerra civile siriana l'Onu ha ricevuto almeno 16 denunce di utilizzo di armi chimiche: di questi episodi solo sette sono stati effettivamente sottoposti a indagine e in quattro casi è stata accertata la presenza di gas sarin. Verificare la paternità di chi abbia usato le armi chimiche, se l’esercito di Assad o i ribelli, è un’impresa quasi impossibile, anche perché i magazzini di stoccaggio sono posizionati sia in aree sotto controllo governativo che ribelle. Nel 2017, il 4 aprile, almeno 70 persone sono morte, tra cui molti bambini, in un attacco sferrato a Khan Sheykhun. Gran parte della Comunità Internazionale ritenne Assad responsabile e il Presidente Usa Donald Trump lanciò una serie di missili nella base da cui partirono i raid. Mesi dopo un rapporto dell’Onu confermò le responsabilità di Assad nell’attacco.

210

© Fabio Bucciarelli

Tutto ebbe inizio nel marzo 2011, sull’onda lunga delle cosiddette primavere islamiche che hanno cominciato a sconvolgere il Vicino Oriente e andavano disegnando assetti mai visti prima. Le proteste iniziarono nella città Meridionale di Dera’a, dopo che alcuni ragazzi che avevano imbrattato i muri di una scuola con alcune scritte contro il Presidente Bashar Al Assad, erano stati arrestati. Partì una serie di proteste, che il regime di Damasco soffocò, ma solo nel luglio 2011 nacque la prima formazione ufficiale dei ribelli, l’Esercito siriano libero che man mano ha perso potere e influenza, lasciando spazio alle infiltrazioni islamiste che perpetrano attentati terroristici. Fino ad allora era prematuro parlare di guerra civile. Va notato che in Siria le opposizioni al regime non hanno mai rappresentato un fronte unito. A loro sostegno c’è la Lega Araba, l’Unione Europea e gli Stati Uniti, mentre Russia e Cina appoggiano Assad e oppongono il veto a ogni risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ma la storia della Siria viene da molto lontano e la sua indipendenza dal protettorato francese affonda le sue radici nel 1945, dopo che il Paese è stato per secoli una terra di imperi e di dominazioni straniere, prima sot-

to i turchi e poi sotto i francesi. Proprio i francesi reagirono alle istanze indipendentiste con le bombe, anche se poi dovettero arrendersi di fronte al riconoscimento da parte della comunità internazionale. Un’indipendenza che non è andata di pari passo con la stabilità politica. Si sono succeduti una serie di colpi di Stato e di guerre, la più eclatante fu quella dei Sei Giorni con Israele. Nel 1970 arrivò la “Rivoluzione Correttiva Siriana” che portò al potere Hafiz al-Assad. Al Governo per 30 anni, con mano durissima e repressione di ogni dissenso, Assad contribuisce a far considerare la Siria uno Stato Canaglia da molti Paesi. Nel 1982, al culmine di un’insurrezione islamica, Assad bombarda la città di Hama per reprimere la rivolta della comunità musulmana sunnita. Il New York Times parla di almeno 10mila cittadini siriani uccisi, 40mila, di cui 1000 soldati, i morti invece per il Comitato Siriano per i Diritti Umani. Negli stessi anni, alimentando la guerra civile, Damasco arriva a fare del Libano un Protettorato. Assad controlla tutto, governa con mano dura. Alla sua morte, nel 2000, gli è successo il figlio Bashar, dal momento che il designato figlio Basil morì in un incidente d’auto nel 1994. Il potere degli Assad si estende inin-

Quadro generale

L'oasi assediata

In arabo la parola Ghouta significa “Oasi”. Il Ghouta Orientale è quella porzione di terre coltivate che circondano Damasco. Sotto assedio per cinque anni da tre fazioni jihadiste legate a doppio filo con al-Qaeda - Faylaq al Rahman, Tahrir al Sham e Jaysh al Islam - è diventato “l’inferno in Terra” per usare la definizione che ha dato l’Onu. Un assedio che ha tenuto sotto scacco 400mila persone, quelle rimaste da una popolazione di oltre 2milioni e mezzo di persone. Dal 2014 i ribelli qui asserragliati hanno lanciato in media 100 razzi al giorno su Damasco. Con l’offensiva che l’esercito regolare siriano ha compiuto a partire dal febbraio 2018 il Ghouta è definitivamente precipitato nella devastazione più totale.


TENTATIVI DI PACE

Solo accordi a livello locale

Quello che per anni è stato conosciuto come il Fronte Al Nusra, o Jabhat al Nusra, è l’espressione più compiuta della fluida evoluzione del conflitto siriano. Gruppo armato salafita, composto da mujaheddin armati siriani, è parte del blocco sunnita che si oppone ad Assad e deriva da al-Qaeda, di cui era la filiale siriana, ha più volte cambiato nome nel corso di questi anni. Al Nusra è attivo dal 2012 e dopo essersi discostato dal al-Qaeda di cui era formalmente affiliato, il gruppo venne rinominato Jabhat Fatah al Sham. Persa la cruenta battaglia di Aleppo, dove agiva come un esercito, e poi confinato nella Regione di Idlib, il gruppo si sciolse e si unì all’ala più radicale del gruppo Ahrar al Sham. Insieme diedero vita all’organizzazione Hayat Tahrir al Sham. Tante diciture, ma un unico comune denominatore: la violenza, che spesso si è tradotta in violenti bombardamenti diretti contro i quartieri governativi e residenziali, soprattutto di Damasco dove il gruppo opera con cellule clandestine, provocando migliaia di vittime tra i civili. Il suo leader è l’emiro Abu Muhammad al-Jawlani.

211

Fronte Al Nusra

“Un Edubus per i bimbi di Mafraq” è un progetto, avviato dall’associazione italiana Vento di Terra nel novembre 2016, che si prefigge di garantire un supporto di tipo educativo, didattico e di socializzazione dei bambini siriani rifugiati in Giordania. Il flusso migratorio proveniente dalla Siria ha avuto un forte impatto su alcune Province giordane, in particolare su quella di Mafraq, con conseguente sovraccarico dei servizi, aumento del costo degli alloggi e incremento della disoccupazione. Le ricerche hanno dimostrato che la maggior parte dei bambini siriani soffrono di traumi da guerra. L’istituzione di questa unità mobile permetterà di prendere contatto con i bambini più sofferenti e inserirli in percorsi terapeutici realizzati dal centro di Mafraq, sostenuti dalla Ong Jordan Relief Organisation. L’Edubus sarà composto da personale qualificato e si metterà a disposizione per attività educative e di consulenza familiare nella zona degli accampamenti temporanei della Provincia e sarà a disposizione cinque giorni alla settimana, con la possibilità di spostarsi a seconda delle esigenze. Il progetto coinvolgerà soprattutto i bambini e le proprie madri, sia giordani della Provincia che profughi siriani presenti nella città.

© Fabio Bucciarelli

terrottamente sulla Siria dal 1971, e la democrazia è una chimera. Il neo Presidente Bashar nomina nei posti che contano i famigliari. Il fratello minore, Maher al-Assad, è al comando della IV Divisione dell’Esercito, mentre il cognato Assef Shawkat, è Capo di Stato maggiore. Ruoli chiave, che si rivelano essenziali al Presidente con l’avvio della rivolta del 2011, destinata a trasformarsi in guerra civile. Parallelamente alla formazione dell’Esercito Siriano Libero, che oggi riveste un ruolo marginale ed è stato sostituito dai jihadisti, Damasco mette in campo artiglieria e aviazione e la rivolta diventa guerra civile che culmina all’inizio del 2012 nell’assedio di Baba Amr, un quartiere della città di Homs, nel centro della Siria, ritenuto una roccaforte dei ribelli. All’esercito siriano libero, in quell’occasione, si affranca il Fronte Al Nusra, nato da Al-Qaeda, composto da fondamentalisti sunniti che vedo-

I PROTAGONISTI

no nel rovesciamento di Assad la possibilità di instaurare uno stato islamico in Siria. L’esercito di Assad compie offensive in maniera regolare e gli insorti si frammentano in gruppi laici e islamisti. La coalizione tra Esercito siriano libero e Al Nusra si spacca nel 2014, aggiungendo nuovi elementi di tensione per la popolazione civile. La guerriglia arriva prima ad Aleppo e poi a Damasco. In particolare Aleppo vive un assedio che distrugge la vita e l’economia della città. Dopo 4 anni Assad, appoggiato dai russi, riconquista la città, capitale economica della Siria. Il Paese oggi è diviso in quattro grandi zone, che man mano che il conflitto evolve variano i loro confini: la parte controllata da Assad, quella controllata dai curdi, quella controllata dai ribelli e quella controllata dal cosiddetto Stato Islamico. La popolazione, che prima della guerra era di circa 23milioni di persone, secondo gli ultimi dati non arriva ai 19milioni. Oltre ai morti, che gli ultimi dati ufficiali stimano in circa mezzo milione, ci sono almeno 11milioni di sfollati e oltre 13milioni di persone che necessitano di assistenza umanitaria.


1) UNTSO

9) UNAMID

2) UNMOGIP

10) MONUSCO

212

United Nations Truce Supervision Organization (Organizzazione delle Nazioni Unite per la Supervisione della Tregua) United Nations Military Observer Group in India and Pakistan (Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite in India e Pakistan)

3) UNFICYP

United Nations Peacekeeping Force in Cyprus (Forza delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace a Cipro)

4) UNDOF

United Nations Disengagement Observer Force (Osservatori delle Nazioni Unite per il ritiro)

5) UNIFIL

United Nations Interim Force in Lebanon (Forza temporanea delle Nazioni Unite in Libano)

6) MINURSO

United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara (Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale)

7) UNMIK

United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (Missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione temporanea del Kosovo)

8) UNMIL

United Nations Mission in Liberia (Missione delle Nazioni Unite in Liberia) completata il 30 marzo 2018.

African Union and United Nations Hybrid Operation in Darfur (Operazione Ibrida dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite in Darfur) United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo (Missione di Stabilizzazione della Repubblica Democratica del Congo)

11) UNISFA

United Nations Interim Security Force for Abyei (Missione per la Sicurezza nell’area di Abyei, Sudan del Sud)

12) UNMISS

United Nations Mission in the Sud Sudan (Missione delle Nazioni Unite in Sudan del Sud)

13) MINUSMA

United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali (Missione di stabilizzazione in Mali)

14) MINUSCA

United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission nella Repubblica Centroafricana (Missione di stabilizzazione nella Repubblica Centroafricana)

15) MINUJUSTH

United Nations Mission for Justice Support in Haiti (Missione delle Nazioni Unite per il Supporto alla Giustizia in Haiti)


Nazioni Unite I Caschi Blu Raffaele Crocco

Sempre troppe le guerre nel Mondo. Sono 34 all’inizio del 2018, numero quasi stabile. Così come sono sostanzialmente stabili le Missioni delle Nazioni Unite. Nel 2018 sono 15, con 106mila persone impegnate, fra militari e civili e quasi 7miliardi di dollari stanziati. Tante gente impegnata, tanti soldi investiti, eppure le missioni sembrano escluse dal Mondo, paiono muoversi in un limbo sconosciuto. Agiscono spesso in angoli del Mondo che ignoriamo o che almeno ignoriamo siano in una sorta di guerra. Prendete Cipro: dal 1964 i Caschi Blu sono lì ad impedire che la violenza riprenda. Qualcuno li ricorda davvero? Eppure Cipro è parte dell’Unione Europea. Andiamo a Ovest, sempre in area più o meno Mediterranea. Dal 1991 nel Sahara Occidentale una missione dell’Onu garantisce da un lato che l’esercito del Marocco e il Polisario dei Saharawi non riprendano a spararsi, dall’altro per dare il via al referendum che dovrebbe portare alla nascita di uno Stato Saharawi indipendente. Non è stato fatto nulla, la consultazione non c’è stata, i campi profughi sono pieni un popolo in esilio che la comunità internazionale ha dimenticato. I limiti dell’Onu e dei suoi Caschi Blu sono in queste storie. Gli orrori sono nella cronaca di violenze, stupri, indecisioni, vigliaccherie, che hanno caratterizzato alcune missioni. Le incertezze sono in un futuro sempre più oscuro, con i grandi finanziatori dell’Onu – ad esempio gli Stati Uniti – pronti a ricattare le Nazioni Unite e a non dare più soldi se le politiche dell’Assemblea non sono conformi ai propri interessi. Eppure, per milioni di persone nel Mondo quei Caschi Blu, quegli uomini in divisa sono l’unica speranza, l’unica possibilità. Sono spesso la differenza tra vivere e morire. Pensiamoci bene ogni volta che diciamo che l’Onu è diventato inutile o che le missioni sono un costo senza senso. Per noi che guerra, fame e ingiustizie le vediamo – per ora – in tv è facile parlare. Per milioni di persone, vedere un Casco Blu arrivare significa ritrovare una speranza.

213

Caschi Blu, missioni impossibili in un Mondo che non li ama più


Operazioni di pace delle Nazioni Unite Operazioni di pace in corso Missione

Data inizio

Truppe

Osservatori militari

Polizia

Civili internazionali

UNTSO

maggio 1948

0

152

0

79

UNMOGIP

gennaioi 1949

0

44

0

24

UNFICYP

marzo 1964

836

0

68

35

UNDOF

giugno 1974

940

0

0

46

UNIFIL

marzo 1978

10.287

0

0

239

MINURSO

aprile 1991

20

200

2

73

UNMIK

giugno 1999

UNMIL***

settembre 2003

UNAMID

0

8

10

95

404

11

306

219

luglio 2007

11.005

152

2.731

728

MONUSCO

luglio 2010

15.350

323

1.351

766

UNISFA

giugno 2011

4.293

122

37

130

UNMISS

luglio 2011

12.409

172

1.559

844

MINUSMA

marzo 2013

11.299

32

1.725

641

MINUSCA

aprile 2014

10.246

152

2.020

652

MINUJUSTH*

ottobre 2017

0

0

1.199

N/A

77.089

1.368

11.008

4.571

Totale:

214

Missione

Civili locali

Volontari ONU

Personale totale

Vittime

Bilancio (US$)

UNTSO

143

0

374

51

68.949.400 (2016-17)

UNMOGIP

47

0

115

11

21.134.800 (2016-17)

UNFICYP

115

0

1.106

183

54.651.200

UNDOF

81

0

1.117

49

57.653.700

UNIFIL

586

0

11.317

312

483.000.000

MINURSO

154

14

470

16

52.519.000

UNMIK

216

23

352

55

37.898.200

UNMIL***

412

116

1.481

201

110.052.800

UNAMID

2.145

121

17.174

260

486.000.000

MONUSCO

2.336

369

20.688

144

1.141.848.100

UNISFA

81

32

4.802

24

266.700.000

UNMISS

1.363

405

17.140

51

1.071.000.000

MINUSMA

710

152

14.926

155

1.048.000.000

MINUSCA

491

230

14.076

59

882.800.000

MINUJUSTH

N/A

1

1.200

0

25.000.000

Totale:

8.890

1.463

106.338

1.571

circa $6.80 miliardi**

Documento preparato dalla sezione Pace e Sicurezza del Dipartimento d’Informazione Pubblica delle Nazioni Unite, in collaborazione con il Dipartimento per le Operazioni di Peacekeeping, la Divisione Finanziaria per il Peacekeeping dell’Ufficio di Pianificazione del Programma, di Bilancio e Contabilità, e del Dipartimento per gli Affari Politici DPI/1634/Rev.200 - Gennaio 2018

*MINUSTAH closed on 15 October 2017. MINUJUSTH opened on 16 October 2017. **This amount finances 14 of the 16 United Nations peacekeeping missions, supports logistics for the African Union Mission in Somalia (AMISOM) through the United Nations Support Office in Somalia (UNSOS), and provides support, technology and logistics to all peace operations through global service centres in Brindisi (Italy) and Valencia (Spain) and a regional service centre in Entebbe (Uganda). ***Completata il 30 marzo 2018.


Vittime di guerra Federico Fossi

Foto in alto UNHCR/T.Irwin

UNHCR/A. McConnell

Ogni tre secondi una persona nel mondo è costretta ad abbandonare la propria casa, meno del tempo necessario per leggere questa frase. Non è per niente facile concepire la vastità di questo dramma globale. Allora prendiamo il Regno Unito e immaginiamo che la sua popolazione fosse stata interamente costretta a fuggire dalla violenza, i due terzi spostandosi entro i confini nazionali ed il rimanente terzo riversandosi nei Paesi limitrofi. Il popolo dei rifugiati e degli sfollati, composto da 65.6milioni di persone, equivale infatti alla ventunesima Nazione al mondo per ampiezza della propria popolazione. In media, dunque, 1 persona ogni 113 nel mondo è costretta ad abbandonare la propria casa. Non è scontato o immediato provare empatia nei confronti delle vittime di una tragedia così diffusa ma nella maggior parte dei casi così lontana da noi. Di questo dramma globale vediamo solo una parte molto residuale, quella rappresentata da chi arriva in Europa. L’84% delle persone in fuga viene ospitata nei Paesi a medio e basso reddito, che quasi sempre corrispondono ai Paesi confinanti alle aree di crisi umanitaria. Perché la speranza dei rifugiati è quella di tornare a casa il più presto possibile, non appena le condizioni di sicurezza permettano un rientro al riparo da guerre e persecuzioni. Questo non sempre è possibile. Due terzi dei rifugiati a livello globale si trovano in condizione di esilio protratto, definizione che si applica quando almeno 25 mila persone si trovano in esilio in un Paese terzo per oltre cinque anni. Nessuno sceglie di essere rifugiato. I 65,6milioni di persone in fuga sono costituiti da tre componenti principali. La prima è quella dei 22,5milioni di rifugiati, il valore più alto mai registrato. Di questi, oltre la metà sono in fuga da soli tre Paesi: la Siria, l’Afghanistan ed il Sudan del Sud. Se il conflitto in Siria rimane la principale causa di origine di rifugiati (ad oggi oltre 5,6 milioni), nel 2016 (anno a cui si riferiscono le statistiche del Global Trends report 2017 di UNHCR) va evidenziata la disastrosa interruzione del processo di pace in Sudan del Sud che ha contribuito alla fuga di 739.900 persone (diventate, oggi, 2.4milioni). La seconda componente della nazione invisibile delle persone in fuga è rappresentata da coloro che risultano sfollati all’interno del proprio Paese: 40.3milioni di persone alla fine del 2016. Gli spostamenti forzati all’interno di Siria, Iraq e Colombia sono stati i più significativi, sebbene tale problema sia presente ovunque e rappresenti quasi i due terzi delle migrazioni forzate a livello globale. La terza componente sono i richiedenti asilo, persone fuggite dal proprio paese e attualmente alla ricerca di protezione internazionale come rifugiati. Alla fine del 2016 il numero di richiedenti asilo a livello mondiale era di 2,8 milioni. Abbiamo evidenziato la sproporzione che caratterizza l’accoglienza dei rifugiati a livello glo-

215

Ogni tre secondi c'è chi deve fuggire da casa propria


216

bale. I Paesi meno sviluppati, come Camerun, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenya, Sudan e Uganda ospitano 4.9milioni di rifugiati, il 28% del loro numero totale. Questi Paesi si trovano già in gravi difficoltà, devono fare i conti con ostacoli strutturali alla crescita economica e allo sviluppo e chiaramente hanno meno risorse per rispondere ai bisogni delle persone che cercano protezione. Da questo enorme squilibrio derivano diverse osservazioni: la continua mancanza di consenso internazionale in materia di rifugiati e la vicinanza di molti Paesi poveri alle Regioni in conflitto, tra le altre. Emerge altresì la necessità dei Paesi e delle comunità ospitanti di ricevere risorse e sostegno, senza i quali c’è il rischio che possano crearsi situazioni di instabilità, con conseguenze sulle operazioni umanitarie o sui flussi migratori secondari. La Siria è ancora il Paese con il numero più alto di persone costrette alla fuga: 12milioni di individui (quasi due terzi della popolazione) sfollati all’interno del Paese o fuggiti all’estero come rifugiati o richiedenti asilo. Lasciando da parte la situazione dei palestinesi rifugiati di lunga data, colombiani (7,7milioni, principalmente sfollati all’interno del Paese) e afghani (4,7milioni) rappresentano anche quest’anno, rispettivamente, la seconda e la terza popolazione di migranti forzati più vasta, seguiti da iracheni (4,2milioni) e Sud sudanesi (il cui numero ha raggiunto i 3,3milioni alla fine del 2016, seguendo un tasso di incremento maggiore rispetto a qualsiasi altra popolazione del mondo). I bambini, che costituiscono la metà dei rifugiati del mondo, continuano a sopportare sofferenze sproporzionate, soprattutto a causa della loro situazione di maggiore vulnerabilità. Nel 2016 le richieste di asilo presentate da bambini non accompagnati o separati dai loro genitori sono state 75.000. Un numero che rappresenta probabilmente una sottostima della situazione reale. Allo stesso tempo, il numero più elevato di rifugiati e sfollati interni che sono ritornati a casa, insieme ad altre soluzioni come il reinsediamento in Paesi terzi, mostrano che, per alcuni, il 2016 ha portato prospettive di miglioramento della propria condizione. Circa 37 Paesi hanno ammesso un totale di 189.300 rifugiati ai propri programmi di reinsediamento. Circa mezzo milione di altri rifugiati hanno potuto fare ritorno nei loro Paesi di origine e circa 6,5milioni di sfollati interni sono tornati nelle loro zone - anche se molti lo hanno fatto in situazioni non ideali - restando quindi in condizioni di incertezza. Inoltre, l’UNHCR stima che, alla fine del 2016, almeno 10milioni di persone risultavano prive di nazionalità o a rischio apolidia. Tuttavia, i dati raccolti dai Governi e comunicati all’UNHCR riferivano soltanto di 3,2milioni di persone senza nazionalità in 75 Paesi. Dietro questi numeri ci sono storie di individui. Nessuno di loro ha scelto di abbandonare tutto quello che aveva costruito. Se il sentimento di empatia non è automatico, è invece disgustosamente egoista ogni forma di ostilità nei confronti di questi uomini, donne e bambini che non chiedono altro che protezione. Il mio lavoro mi permette di incontrare ragazzi e ragazze rifugiate, di conoscere le loro sofferenze ed i loro successi. Qualche mese fa un ragazzo afghano che conosco da anni e che oggi è diventato un buon amico, passando accanto ad un Tir parcheggiato si è fermato e mi ha fatto vedere il punto esatto in cui si era nascosto, dieci anni prima, per entrare in Italia dalla Grecia, proprio sotto il guidatore, accanto al motore. Sebbene conoscessi la sua storia a memoria mi sono venuti i brividi. Perché Syed non è più un estraneo per me ed è stato come vedere un cugino, un parente o un qualsiasi caro amico rischiare la vita in maniera così assurda per veder poi accolta la sua richiesta di protezione. La prospettiva cambia se cambiamo noi, se decidiamo di non ascoltare la retorica della paura e ci affidiamo al nostro buon senso. UNHCR/S.Baltagiannis


Geografia della guerra/2 La Redazione

Un trattato difensivo creato in un determinato periodo storico (il secondo dopoguerra) e con una funzione precisa (difendersi dall’Unione Sovietica). Da quando la Nato è stata concepita ad oggi molto è cambiato. Le questioni aperte sono legate alla storia del Trattato, quindi al suo ieri, e a quelle che riguardano l’oggi e il domani dell’Alleanza Atlantica: dall’espansione ad Est con conseguente modifica della struttura originaria, ai rapporti con Russia e Turchia, alla questione dei finanziamenti, all’utilizzo dell’articolo 5, fino alle voci di chi si oppone alla Nato stessa. Merita però brevemente accennare anche il problema della leadership all’interno dell’Alleanza e della sua mancanza di democraticità decisionale. Il Trattato istitutivo non prevede alcun meccanismo di controllo e sanzione verso i propri partner. Questo in un contesto in cui, secondo molti osservatori, gli Stati Uniti negli ultimi dieci anni hanno dimostrato la totale incapacità di affermare la propria leadership. Una polemica al centro soprattutto di organizzazioni della società civile. La Nato appare quindi oggi un’organizzazione strategica militare, ufficialmente con scopi difensivi, priva però di una guida e di una forma di controllo interno democratico. Se da una parte non c’è o c’è poca ‘compattezza Atlantica’, in altri casi però questa non manca. È questo il caso del boicottaggio in massa di tutto il gruppo Nato (ad eccezione dei Paesi Bassi) al dibattito sul nucleare e poi della non adesione al Trattato di messa al bando delle armi nucleari. Articolo 5 e investimenti Il cuore del Trattato Atlantico sta nella clausola di difesa collettiva riportata nell’articolo 5. Il testo ha due interpretazioni: se da un lato si stabilisce che un attacco contro uno Stato Membro sarà considerato come un attacco contro tutti, dall’altro c’è da tenere conto che l’uso della forza militare costituisce solo un’opzione e che ogni alleato “assisterà la parte o le parti attaccate, intraprendendo immediatamente l’azione che giudicherà necessaria”. Il Trattato fa esplicito riferimento all’esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall’art.51 dello Statuto delle Nazioni Unite. Fino ad oggi l’articolo 5 è stato richiamato sono nel caso dell’invasione dell’Afghanistan in seguito all’attacco terroristico dell’11 settembre 2011 a New York. Ha segnato così un cambiamento epocale rispetto all’impegno territoriale tradizionale della Nato, sottolineandone una sorta di “sconfinamento”. L’allora presidente George Bush fece appello al testo atlantico per dar vita ad una missione collettiva di reazione all’attacco subito da un Paese aderente al Patto Atlantico. Per le novità riguardanti il fronte finanziamenti è invece necessario cambiare presidente. Donald Trump ha più volte ‘battuto cassa’ per i finanziamenti all’Alleanza Atlantica, ribadendo

217

Nato, l’alleanza che cerca identità e intanto cresce la spesa militare


la necessità di raggiungere l’obiettivo del 2% di Pil per tutti gli Stati membri. Soglia che quasi nessuno raggiunge. Nel 2017 23 Stati sui 29 appartenenti all’Alleanza non raggiungevano la quota prevista. I cinque migliori alleati del 2016 erano Usa (3,61%, pari a 664 miliardi di dollari), Grecia (2,36%, 4,6 miliardi), Estonia (2,18%, mezzo miliardo), Regno Unito (2,17%, 56,8 miliardi) e Polonia (2,01%, 12,7 miliardi). L’Italia spendeva nel 2016 l’1,1% del Pil per la Difesa, pari a circa 20 miliardi di euro. Per arrivare al 2% dovrebbe aumentare gli stanziamenti a circa 37 miliardi, quindi praticamente raddoppiare. Ma la politica di Trump sulla Nato non è lineare, visto che in campagna elettorale l’aveva definita un’alleanza obsoleta. Inoltre il Presidente non ha esplicitamente espresso sostegno all’interpretazione estensiva dell’articolo 5 del Trattato istitutivo. L’espansione a Est Negli anni la Nato ha in più occasioni confermato la propria politica delle porte aperte arrivando a contare 29 Stati membri. L’atto che sancì la volontà di allargamento è conosciuto come dichiarazione di Bucarest. L’allargamento ad Est iniziò nel 1999 con l’adesione di Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca. Un altro passo in questa direzione venne compiuto nel 2004 con l’inclusione di Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia, Bulgaria e Romania. Tredici anni dopo la caduta dell’Urss il numero di Stati membri passava da 16 a 26, e i nuovi arrivati erano tutti Paesi dell’Europa Orientale o Centrale. Gli ultimi passi ad Est sono poi stati compiuti nei Balcani con Croazia e l’Albania, entrati nel 2009 e con il Montenegro nel 2017. L’espansione ad Est della Nato ha creato più di un malumore con la Russia. Sembra infatti lontana anni luce la promessa fatta da Bush Senior a Gorbacev quando assicurava che l’Alleanza non si sarebbe allargata a Est. La paura di accerchiamento della Russia è diventata sempre più realtà, soprattutto da quando si è iniziato a parlare anche di Ucraina e Georgia come futuri membri, due Stati direttamente confinanti con la Russia. Il Consiglio Nato-Russia, il tavolo di dialogo creato nel 1997, ha subito più di una battuta d’arresto. La prima nel 2008 con l’azione militare russa in Georgia e la seconda nel 2014 dopo l’annessione della Crimea. Ma i canali del dialogo politico e della comunicazione militare sono stati tenuti aperti. Oltre alle ‘divergenze’ sulla guerra in Ucraina, il sito web della Nato riporta le altre ragioni di attrito verso la Russia: “provocatorie attività militari vicino ai confini della Nato che si estendono dal Mar Baltico al Mar Nero; retorica nucleare irresponsabile e aggressiva, così come i rischi posti dal suo intervento militare e dal sostegno al regime in Siria”. Ma la Russia non è il solo problema per la Nato. Un membro più che scomodo è infatti la Turchia di Erdogan, che soprattutto nel conflitto siriano ha condotto e conduce un ruolo ampliamente criticato da tutti gli osservatori internazionali ai danni della popolazione curda e non solo.

I membri e le missioni Nato

Cenni storici e organizzazione

Gli Stati membri dell’alleanza sono 29: Albania, Belgio, Bulgaria, Canada, Croazia, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Montenegro, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Stati Uniti, Turchia, Ungheria. 12 sono invece i Paesi Membri associati: Armenia, Austria, Azerbaijan, Bosnia Erzegovina, ex Repubblica iugoslava di Macedonia, Finlandia, Georgia, Moldova, Serbia, Svezia, Svizzera, Ucraina, mentre 4 (Algeria, Giordania, Israele, Marocco) sono i membri associati del Mediterraneo. L’ultimo ingresso tra i Paesi membri è stato quello del Montenegro nel 2017. Nel 2018 sono circa 18mila i militari impegnati in missioni Nato in tutto il mondo. Le missioni attive si trovano in Afghanistan, Kosovo e nel Mediterraneo. La Nato sostiene poi l’Unione Africana e conduce missioni di polizia aerea su richiesta dei propri alleati. Inoltre, l’Alleanza è attiva nella questione migratoria in Europa e dispone di missili Patriot e di velivoli Awacs dispiegati in Turchia. Sul sito ufficiale della Nato l’organizzazione descrive la propria attività in Afganistan come una missione non di combattimento ma che fornisce formazione, consulenza e assistenza alle forze e alle istituzioni di sicurezza afghane.

La Nato, ovvero l’Organizzazione del Patto dell’Atlantico del Nord (in inglese, North Atlantic Treaty Organization), è un organismo internazionale creato per difendere le nazioni occidentali contro la minaccia rappresentata dall’ex Unione Sovietica. La Nato nasce il 4 aprile 1949 a Washington. All’inizio il patto era solo tra dieci paesi dell’Europa (Belgio, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda Portogallo) e due paesi americani (Canada e Usa). Oggi gli aderenti sono ventinove. L’organizzazione politica della Nato è composta dal Consiglio del Nord Atlantico (North Atlantic Council, Nac), dall’Assemblea parlamentare (Parliamentary Assembly) e dal Segretario generale (Secretary General, Nato Sg). Il segretario proviene da uno dei Paesi membri europei, presiede il Consiglio e rappresenta la Nato a livello internazionale. Jens Stoltenberg è l’attuale segretario generale. I rappresentanti si incontrano a Bruxelles e le decisioni in sede di consiglio e assemblea vengono prese all’unanimità. La Nato dispone poi di una organizzazione militare, articolata in vari comandi con sedi nei diversi Paesi membri.


Risorse e schiavitù Alfredo Falvo

Dramma del Coltan: siamo tutti un po' responsabili La prima volta che sentii parlare di Coltan fu in un documentario sul Congo, in televisione. Ne parlarono brevemente e quando dissero che veniva utilizzato per i telefoni cellulari di ultima generazione e la playstation trovai il contrasto inverosimile. Quello tra la dura vita dei minatori congolesi e i nostri figli che si divertono con i videogiochi davanti ad uno schermo. Decisi così di approfondire l’argomento e di recarmi là di persona, per vedere e per documentare. Kisengo, il primo posto al mondo dove fu trovato il Coltan, è un villaggio nella foresta dove vivono circa 20.000 minatori senza un sistema fognario, elettricità o acqua potabile. I 160 chilometri che separano il villaggio dal posto più vicino si percorrono in otto ore di jeep, viste le condizioni. Queste sono le parole di Alfredo Falvo, fotografo toscano rappresentato dall’agenzia fotogiornalistica Contrasto. Falvo ha lavorato in Congo per diversi anni, anche con il supporto di Unicef Italia, dove oltre al Coltan ha documentato la vita dei bambini soldato, quella dei bambini di strada di Kinshasa e la triste realtà delle vittime di abusi sessuali.

219

Fotografie di © Alfredo Falvo/Contrasto





223






228


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La guerra e non causa: I Teffetto L A S S A DEGLI 10 infografiche per capirlo O GUIDAN

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22

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Dieci infografiche per mettere su mappa alcuni fenomeni mondiali e per raccontare come sta andando il mondo, facendo emergere le cause che portano alle guerre. Uno strumento immediato che ci consente di affrontare le ragioni di quello che avviene nel Pianeta, che localizzano e fanno il punto sui conflitti in corso. Anche per questa edizione la scelta è stata quella di lavorare molto sulla grafica per spostare i ragionamenti dagli ‘effetti’ alle ‘cause’. La convinzione che abbiamo avuto e che confermiamo dopo anni di raccolta dati, informazioni, esperienze è che la guerra sia sempre più ‘effetto’ e sempre meno ‘causa’. Il principio che sta alla base è che il conflitto armato sia sempre evitabile. Se si lavora per eliminare le cause che portano alla scelta della violenza, a partire dalle disuguaglianze sociali, la guerra non ci sarà. Da qui la necessità di capire e approfondire queste cause tramite uno strumento che unisce alla geografia del mondo, la matematica dei dati. Nelle pagine che seguono trovate le infografiche dell’ottava edizione realizzate con dati aggiornati e provenienti da fonti attendibili, organizzazioni internazionali, organizzazioni non governative e realtà che a vario titolo lavorano quotidianamente su questi temi. Due infografiche sono dedicate ai conflitti ambientali in corso nel Pianeta e sono realizzate con la collaborazione del Centro di Documentazione dei Conflitti Ambientali. In una si mettono su mappa le guerre e gli scontri in corso per le fonti fossili, mentre nell’altra si affronta il tema dei conflitti che hanno come protagonista l’acqua, sottolineando chi ne consuma e spreca di più e chi invece tuttora vive con meno di cinque litri di acqua al giorno. Un altro tema che approda su mappa è il land grabbing, ovvero l’accaparramento di terre ad opera di aziende o Governi di altri Paesi senza il consenso delle comunità che ci abitano o che le utilizzano. Un fenomeno tanto diffuso quanto poco controllato e controllabile. Un filone di infografiche riguarda poi alcuni diritti fondamentali: il diritto all’istruzione, quello alla sanità e all’informazione. Su mappa si fa il punto sull’alfabetizzazione del Pianeta: dove i bambini vanno o non vanno scuola, fino a quale età e con quale grado di scolarizzazione. Ovvero: si impara solo a scrivere e fare di conto o il livello di istruzione è maggiore? E ancora: quanto gli Stati investono in spesa sanitaria, dove ci si cura di più e in maniera migliore? Per dare una panoramica sull’informazione riportiamo invece la mappa redatta da Reporter senza frontiere, la ong che ogni anno fornisce un quadro aggiornato sugli Stati più o meno liberi di informare ed informarsi. Un’altra infografica riguarda i muri che ancora oggi dividono il mondo: dove si trovano, quando e perché sono stati costruiti. E ancora l’atlante delle religioni per mettere a fuoco dove si professa cosa, oltre alla mappa che fa il punto sul commercio delle armi nel Pianeta e sulla diffusione della pirateria. In un’altra mappa sono poi riportate le missioni Onu attive nel Pianeta specificando dove si trovano e il loro mandato. Per finire una infografica dedicata alle rotte, ai percorsi, che portano i migranti dall’Africa e dall’Asia a raggiungere l’Europa.

229

La Redazione

16


INFOGRAFICA ATLANTE MISSIONI ONU

0

Truppe

44

152

Osservatori militari 0

0

Polizia 79

Civili internazionali

940

836

200

0

0

0

2

0

0

68

73

239

46

35

404

0 152

11

8 2.731

306

10 728

219

95

Bilancio (US$)

154

586

81

115

121

116

23

14

0

0

0

17.174

1.481

352

470

11.317

1.117

1.106

260

201

55

16

312

49

183

266.700.000

1.141.848.100

486.000.000

110.052.800

37.898.200

52.519.000

483.000.000

57.653.700

54.651.200

UNIFIL MINURSO UNMIK UNMIL

1.071.000.000

Le Missioni di Pace sono supportate da

193 STATI MEMBRI

660

LA MISSIONE PIÙ GRANDE È IN

16,215 1,441 4,145 Staff civile:

Polizia:

Osservatori militari:

Truppe:

RD CONGO

che inviano personale, equipaggiamento e fondi

[Monusco]

22,461}

forze autorizzate

106.338

Paesi che contribuiscono con truppe, polizia e personale militare

PERSONALE SUL CAMPO

128

FONTE DEI DATI

ONU DATI 31 dicembre 2017

230

Data inizio

0

marzo 1964

20

10.287

11.005

luglio 2007 766

Vittime

21.134.800 (2016-17)

68.949.400 (2016-17)

216

24

144

UNISFA

882.800.00

1.048.000.000 25.000.000

51 59

circa $6.80 miliardi

155 0

17.140 14.076

1.571

14.926 1.200

152 230

106.338

405

1

710 491

1.463

1.363

N/A

UNMISS

8.890

MINUSMA MINUSCA MINUJUSTH* Totale:

*MINUSTAH closed on 15 October 2017. MINUJUSTH opened on 16 October 2017.

FOCUS

AEREOPLANI

ELICOTTERI

DRONI - UUAV

unarmed, unmanned aerial vehicle

NAVI VEICOLI

CLINICHE MEDICHE

Scandali, inefficenza e notevoli costi

Recenti casi di “scandali”, come l’epidemia di colera scatenatasi ad Haiti nel 2010, che ha causato la morte di oltre 300.000 persone o gli episodi di abusi sessuali in Repubblica Centrafricana, sommati ad alti livelli di inefficienza e notevoli costi, stanno alimentando il dibattito circa la necessità di riformare il mondo delle operazioni di Peacekeeping.

54 158 26 7 14,000 310

UN'OPERAZIONE GLOBALE DI LOGISTICA

Sono quindici le missioni Onu attive. La più datata è la UNTSO che risale al 1948 e si occupa di vigilare sul rispetto dei trattati di pace stipulati tra Israele, Egitto, Giordania e Siria e dal 1967 del mantenimento del cessate il fuoco. La più giovane è invece la MINUJUSTH di ottobre 2017, avviata ad Haiti per sostituire la MINUSTAH, particolarmente problematica. Le missioni che coinvolgono il maggior numero di persone tra militari, civili ed internazionali sono la MONUSCO in Congo, la UNAMID in Darfur, la UNMISS attiva in Sudan del Sud, MINUSMA in Mali e MINUSCA in Repubblica Centrafricana. Nonostante gli accordi internazionali, molti Stati non contribuiscono al sostentamento delle missioni. La UNMIL invece è terminata con il 30 marzo 2018.

hanno trovato la morte

prestando servizio per le

Missione

gennaio 1949

maggio 1948

UNFICYP

aprile 1991

marzo 1978

giugno 1974

settembre 2003

giugno 1999

130 844

37 641

1.351 1.559

323

1.725

122 32

172 652

4.293 12.409 2.020 N/A

15.350

11.299 152 1.199

giugno 2011 marzo 2013

luglio 2011 10.246 0

luglio 2010

MINUSMA

UNMISS aprile 2014 0

UNISFA

MINUSCA ottobre 2017

51

4.571

11

11.008

374

1.368

115

Personale totale

77.089

Missione 0

412

4.802

20.688

0

Volontari ONU

2.145 32

369

47

143

Civili locali

UNAMID 81

2.346

UNDOF

MONUSCO

UNFICYP

UNMOGIP

UNTSO

Totale:

MINUJUSTH*

MONUSCO

UNAMID

UNMIL

UNMIK

MINURSO

UNIFIL

UNDOF

24

UNMOGIP

UNTSO

Operazioni di pace in corso

PAESI

PEACEKEEPER provenienti da

3700 NAZIONI UNITE 118 dal1948

Oltre

I PAESI CON MISSIONE ONU

Missione attive Missioni terminate Mai nessuna missione

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO

UN

1) UNTSO

ELENCO DELLE MISSIONE ATTIVE

2) UNMOGIP

United Nations Truce Supervision Organization (Organizzazione delle Nazioni Unite per la Supervisione della Tregua)

3) UNFICYP

United Nations Military Observer Group in India and Pakistan (Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite in India e Pakistan)

4) UNDOF

United Nations Peacekeeping Force in Cyprus (Forza delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace a Cipro)

5) UNIFIL

United Nations Disengagement Observer Force (Osservatori delle Nazioni Unite per il ritiro)

6) MINURSO

United Nations Interim Force in Lebanon (Forza temporanea delle Nazioni Unite in Libano)

7) UNMIK

United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara (Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale)

8) UNMIL

United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (Missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione temporanea del Kosovo)

9) UNAMID

United Nations Mission in Liberia (Missione delle Nazioni Unite in Liberia)

10) MONUSCO

African Union and United Nations Hybrid Operation in Darfur (Operazione Ibrida dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite in Darfur)

11) UNISFA

United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republica of the Congo (Missione di Stabilizzazione della Repubblica Democratica del Congo)

12) UNMISS

United Nations Interim Security Force for Abyei (Missione per la Sicurezza nell’area di Abyei, Sudan del Sud)

13) MINUSMA

United Nations Mission in the Sud Sudan (Missione delle Nazioni Unite in Sudan del Sud)

14) MINUSCA

United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali (Missione di Stabilizzazione in Mali)

15) MINUJUSTH

United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic (Missione di Stabilizzazione della Repubblica Centro Africana)

United Nations Mission for Justice Support in Haiti (Missione delle Nazioni Unite per il Supporto alla Giustizia in Haiti)


PAESE

STATI UNITI RUSSIA CINA INDIA REGNO UNITO FRANCIA GERMANIA TURCHIA COREA DEL SUD GIAPPONE ISRAELE ITALIA

PERSONALE ATTIVO

1.430.000 766.000 2.285.000 1.325.000 205.330 228.656 183.000 410.500 640.000 247.746 176.500 320.000

CLASSIFICA GENERALE

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12

FORZE AEREE

CARRI ARMATI

8.352 13.683 7.506 15.000 3.082 8.484 9.150 2.788 250 3.569 1.785 80-100 407 908 225 423 1.203 300 408 710 0 3.657 989 0 2.346 1.393 0 767 1.595 0 3.870 680 80-200 600 795 0

TESTATE NUCLEARI

I PAESI PIÙ MILITARIZZZATI NEL MONDO

all'anno, mentre quello legale supera i

2/10miliardi $ 91,3miliardi $

non sono in zone di guerra. Il MERCATO NERO di armi di piccolo calibro è stimato tra

morti all’anno. Circa

508.000 430.000

Il commercio in armi e munizioni al di fuori delle leggi è la causa di

10 1 1 2 1 1 0 0 0 1 0 2

PORTA AEREI

72 63 69 17 11 10 4 14 14 16 14 6

611.186.000.000 76.600.000.000 126.000.000.000 46.000.000.000 53.600.000.000 43.000.000.000 45.000.000.000 18.185.000.000 33.700 000.000 49.100.000.000 15.000.000.000 34.000.000.000

231

FOCUS

Nelle «guerre moderne» si fa un ampio uso dei droni. I droni sono aeromobili a pilotaggio remoto o APR. Sono velivoli senza pilota a bordo. Il loro volo è controllato da terra. Negli ultimi 15 anni gli Usa hanno guidato la proliferazione dei droni per scopi militari. Le amministrazioni che si sono susseguite li hanno utilizzati anche in scenari, come quelli di Pakistan, Somalia, Yemen e Libia, dove non vi sono teatri di guerra ufficiali, ma vengono svolte operazioni antiterrorismo. Le operazioni sono state condotte direttamente dalla Cia o da altre agenzie di intelligence. (DATI ESQUIRE 2017)

La Guerra dei Droni

3.00 - 3.99 4.00 - 4.99

1.60 - 1.99 2.00 - 2.99

0.00 - 0.99 1.00 - 1.50

PERCENTUALI PIL PER SPESE MILITARI

BUSINESS INSIDERS, SMALL ARMS SURVEY AMNESTY INTERNATIONAL, SIPRI DATI 2017

FONTE DEI DATI

16,75 10,41 7,00 6,66 6,47 5,78 5,32 4,84 4,75 4,45

>10.00

5.00 - 9.99

Non disp.

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO

2016 2016 2016 2016 2016 2016 2016 2016 2016 2016

di dollari, 2.3% PIL mondiale

1.676miliardi

nel 2016 è stata di

SPESA MILITARE MONDIALE

% SPESE MILITARI http://visuals.sipri.org/

1- Oman 2 - Arabia Saudita 3 - Rep. Dem. Congo 4 - Algeria 5 - Kuwait 6 - Israele 7 - Russia 8 - Iraq 9 - Barhain 10 - Giordania

Paese

Si sta assistendo in questi anni ad un aumento generale nella spesa militare. Stati uniti, Russia, Cina, Francia e Germania coprono quasi il 74% del volume totale delle esportazioni. India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Cina e Algeria i principali importatori. L’86% va verso il Medio Oriente. Non si riduce infatti la vendita da parte dell’Occidente in cambio di petrolio, gas, risorse minerarie e naturali, terra, controllo politico dell’area. Ancora numerose le testate attive e pronte all’uso. Con lo sviluppo tecnologico, cresce la potenza degli ordigni non atomici e aumenta l’uso di armi controllate a distanza.

MEZZI SOTTOMARINI

Spese militari % del PIL

INFOGRAFICA ATLANTE COMMERCIO ARMI

BUDGET

Anno di stima


ACQUA E CAMBIAMENTI CLIMATICI ATLANTE CONFLITTI AMBIENTALI

Tokyo Tianjin Rio de Janeiro New York Jakarta Surabaya Shenzhen Buenos Aires Cuttack Quezon City

SICUREZZA ALIMENTARE E SICCITÀ: I NUMERI Dal 1900

oltre 2miliardi

hanno subito gli effetti della siccità

oltre 11milioni

di persone morte a causa della siccità

84% degli impatti della siccità nai paesi in via di sviluppo ricade sull’agricoltura

23 paesi

hanno vissuto crisi alimentari a causa di eventi climatici estremi nel 2017

39milioni

A CURA DEL

CDCA

GHIACCIAI, RISORSE IDRICHE E INNALZAMENTO MARI

t Il 69% delle riserve di acqua dolce globali si trova nelle calotte polari, nei ghiacciai e nelle nevi perenni (Fonte: www.usgs.gov) t Il livello dei mari sta aumentando sempre più velocemente, a causa dello scioglimento più rapido del previsto dei ghiacci della Groenlandia e dell’Antartide. Se questa tendenza continua, entro il 2100 i mari si innalzeranno in media di 65 cm (Fonte: www.nasa.gov) t I ghiacciai in via di scioglimento rappresentano la principale fonte di approvvigionamento idrico per almeno 200milioni di persone, che rischiano di rimanere senz’acqua Fonte: www.ipsnews.net

600-1000 1000-1200

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO

1800-2100 2100-2500

Fonte: World Water Exchange 2016

Water footprint pro capite, m3 per anno

1300-1500 1500-1800

REGIONI DEL MONDO COLPITE DA SICCITA'

Regioni colpite tra il 2010 e oggi da gravi siccità legate ai cambiamenti climatici. Fonte: WRI – World research insistute

Canada (primavera/estate 2015): innalzamento temperature invernali e riduzione della copertura nevosa, con conseguente disastro agricolo nella provincia di Alberta.

Russia (luglio 2010): temperature medie record, danneggiato il 32% del raccolto cerealicolo.

Italia (2017): crollo precipitazioni (-30%), innalzamento temperature medie con conseguenti incendi, distruzione dei raccolti, crisi idrica nazionale.

Indonesia (2015): stagione secca caratterizzata da temperature record e assenza di precipitazioni, diffusione di incendi. Gravi impatti sanitari sulla popolazione.

Tibet (2009): scioglimento delle nevi e dei ghiacci, peggiore siccità degli ultimi 30 anni. Morte di più di 13000 capi di bestiame

Penisola Iberica (estate 2017): assenza di precipitazioni con aumento incendi, riduzione dei bacini idrici e ingenti danni all’agricoltura

Sud Africa (2017): peggiore siccità mai registrata, crisi idrica a Città del Capo con rischio per l'approvvigionamento di acqua potabile

Siria (2007-2010): siccità prolungata e riduzione dei raccolti agricoli. Tra le cause dello scoppio del conflitto siriano

California (2014): riduzione delle precipitazioni e innalzamento temperature con conseguente siccità (la peggiore degli ultimi 1200 anni), alto numero di incendi devastanti e oltre $2miliardi di danni

Corno d’Africa colpito da siccità sempre più gravi negli ultimi 12 anni. Nel 2009, assenza di precipitazioni e calo dei raccolti del 45% in Kenya rispetto all'anno precedente.

Bolivia (novembre 2016): assenza di precipitazioni e ritiro dei ghiacciai andini conseguente crisi idrica. Stato d'emergenza a La Paz e Palo Alto

Washington State, USA (maggio 2015): innalzamento temperature invernali, riduzione precipitazioni nevose. Dichiarazione stato di emergenza.

1200-1300 1,240 global average

Centro Documentazione Conflitti Ambientali

232

Þ Þ Þ Þ Þ Þ Þ Þ Þ Þ

con di persone direttamente colpite

2/3

dei quali in AFRICA

FOCUS

Negli ultimi sette anni, il World Economic Forum ha incluso nel proprio rapporto annuale la crisi idrica tra le cinque emergenze a livello globale (global risk) che avranno impatti più gravi e preoccupanti nel prossimo decennio. Nella top five si sono avvicendate diverse altre questioni collegate in qualche modo all’acqua, come gli eventi meteorologici estremi, i disastri naturali, il fallimento delle misure di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, le migrazioni forzate, la crisi alimentare, l’estrema volatilità dei prezzi agricoli ed energetici. Nel 2015 nella classifica del WEF la crisi idrica è arrivata ad occupare il primo posto, seguita dalla diffusione di malattie infettive, dalle armi di distruzione di massa e da conflitti tra Stati con conseguenze a livello regionale. (www.weforum.org) Nello scenario attuale, con il fattore aggravante costituito dai cambiamenti climatici, le risorse idriche sono e saranno tra gli elementi cui riservare massima attenzione e tutela.

FOCUS CITTA' A RISCHIO PER INNALZAMENTO MARI

Shanghai Hanoi Haora Khulna Shantou Calcutta Mumbai Hong Kong Dhaka Osaka

Classifica delle 20 città maggiormente a rischio per via dall’innalzamento del livello dei mari entro fine secolo (scenario business-as-usual, con il trend attuale delle emissioni) Fonte: www.climatecentral.org Þ Þ Þ Þ Þ Þ Þ Þ Þ Þ

MAPPA VULNERABILITÀ MONDIALE PER LA DESERTIFICAZIONE

tra l'1% e il 3% delle terre emerse

oggi sono colpite da siccità estrema saranno il 30% alla fine del secolo aumentando da 10 a 30 volte

Fonti: FAO, FSIN, IPCC

India (2016): 330milioni di persone esposte a stress idrico. 60.000 lavoratori agricoli spinti al suicidio dalla perdita dei raccolti negli ultimi 30 anni.


Centro Documentazione Conflitti Ambientali

CDCA

A CURA DEL

FOCUS

Fonte: World Bank

65milioni

In INDIA tra il 1947 e il 2005

80milioni

In CINA tra il 1950 e il 2015

15milioni

Dalla metà degli anni 2000 i profughi all’anno sono

MIGRAZIONI CAUSATE DA PROGETTI DI SVILUPPO

PRINCIPALI CAUSE: U mega dighe U grandi eventi U land grabbing U monocolture U deforestazione

di persone coinvolte in migrazioni forzate causate da circa 1.000 progetti finanziati dalla Banca Mondiale. Fonti: International Consortium of Investigative Journalism

Decennio 2004-2014 3milioni

Zone a rischio siccità estrema e insucurezza alimentare: Etiopia Sud-Orientale Kenya Orientale Africa Occidentale e Sahel Fonte: CRED / Global Report on Food Crises 2018

Zone piu colpite da disastri naturali connessi ai cambiamenti climatici: Þ CINA Þ FILIPPINE Þ INDONESIA Þ USA

90% disastri naturali degli ultimi 20 anni, matrice climatica

ZONE A RISCHIO DI DISASTRI NATURALI DOVUTI AL CLIMATE CHANGE

di profughi ambientali (secondo Oim/UNHCR)

200-250milioni

233

Fonti: Oim / Unhcr / Ipbes-ONU / World Bank / Internal displacing Monitoring Agency

di dover abbandonare la propria casa rispetto al 1975

60% di probabilità in più

Oggi le persone hanno il

69%

di cui il per ragioni ambientali (19,2)

di sfollati a livello globale

27,8milioni

NEL 2015

a rischio sfollamento per ragioni ambientali

1 persona ogni 50

(stime più pessimistiche)

fino a

700milioni - 1miliardo

Da

STIME AL 2050

PROFUGHI AMBIENTALI

FOCUS

l numero di cittadini che subiranno le conseguenze delle piene raggiungerà le 780mila unità (+123% rispetto ad oggi). Fonte: Rivista Climate

I danni per le inondazioni in Europa potrebbero arrivare a 17miliardi di euro all’anno, qualora le temperature medie dovessero salire di 3 gradi centigradi a fine secolo (scenario attuale).

CAMBIAMENTI CLIMATICI IN EUROPA

Le migrazioni per ragioni ambientali e climatiche rappresentano ormai una delle emergenze a livello globale, Già nel 2001 il World Disaster Report denunciava che gli sfollati a causa di ragioni legate al degrado ambientale superavano a livello numerico gli sfollati causati dai conflitti armati. Di fronte all'aggravarsi degli scenari climatici tale tendenza rischia di divenire ogni anno più drammatica. A ciò si aggiunge l'altro gruppo di cause alla base delle migrazioni ambientali: i progetti di sviluppo, che portano sempre piu persone, soprattutto nelle zone rurali, a lasciare le loro terre a causa dell'implementazione di progetti contaminanti o mega infrastrutture che ne mettono a rischio i mezzi di sussistenza. A questa evidenza non corrispondono adeguate risposte dal punto di vista politico né dal punto di vista dell'adeguamento degli strumenti internazionale di protezione. Attualmente infatti la Convenzione di Ginevra del 1951 concede lo status di rifugiato solo a chi è perseguitato per razza, religione, cittadinanza, appartenenza a gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche.

PROFUGHI AMBIENTALI E CLIMATICI ATLANTE CONFLITTI AMBIENTALI

Sud dell’Iraq Afghanistan Africa Sub-Sahariana Asia Meridionale sono le zone più a rischio per le migrazioni legate agli effetti dei cambiamenti climatici. Fonte: Studio IPBES 2018 (ONU)

ZONE A RISCHIO PER LE MIGRAZIONI AMBIENTALI

EMERGENZA CONTINUA 22milioni di rifugiati climatici all’anno a livello globale già tra il 2008 e il 2016 Fonte: World Bank / IPCC/ Oxfam

20% il rischio di aumento di fame e malnutrizione a causa del climate change

86milioni di "profughi ambientali" si sposteranno nell'Africa sub-sahariana 40milioni in Asia meridionale 17milioni in America Latina (circa il 2,8% della popolazione totale delle tre Regioni)

Nel 2050 143milioni di profughi interni a causa delle conseguenze dei cambiamenti climatici

MIGRANTI E CLIMA

FOCUS

Fonte: KVDP Wikimedia

La mappa dei disastri naturali causati e/o aggravati dal riscaldamento globale e i luoghi dove si avranno migranti ambientali

AREE ESPOSTE A: TORNADI DESERTIFICAZIONE O SICCITÀ PICCOLE ISOLE E DELTA SOGGETTE A CLIMI ESTREMI O GRANDI ONDE (qualche isola potrebbe essere completamente sommersa)

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO


INFOGRAFICA LE STRADE DEI MIGRANTI

FOCUS

113

6.600.000 sfollati 5.563.521 rifugiati

In Siria

FONTE DEI DATI

FRONTEX - VIMINALE - UNHCR - CIR DATI 2017

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO

Sbarchi: nel 2017 sono 119.369 i migranti arrivati

I migranti arrivati sulle nostre coste nel 2017 sono stati 119.369. Dal 1 gennaio al 12 febbraio 4.731. I numeri sono in calo rispetto allo stesso periodo del 2016. Nel 2015 i dati riportavano 181.436 persone sbarcate sulle nostre coste. Tra questi i minori 2016: 25.846, 2017: 15.731, 2018: 407. La Sicilia si conferma la principale regione per numero di sbarchi, seguita da Calabria e Puglia. I flussi migratori attraverso il Mediterraneo appaiono in diminuzione, complici gli accordi stipulati dal Governo italiano con la Libia e quelli firmati dall’Unione Europea con la Turchia, che hanno ridotto il volume della rotta Balcanica.

Al 31 dicembre 2017 gli immigrati (adulti e bambini) ospitati in strutture di accoglienza in Italia erano 182.537

I migranti sono divisi per Regione, in rapporto alla popolazione residente. In Lombardia sono il 14%, seguono Campania e Lazio 9%, Sicilia 8%, Piemonte, Emilia – Romagna, Veneto, Toscana, e Puglia 7%.

Rotta circolare Albania e Grecia

Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel genniao dicembre 2017

Rotta Balcani Occidentali

I tre maggiori Paesi di migranti: Siria 16.129 Iraq 7.125 Afghanistan 4.005

Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio dicembre 2017

Rotta Mediterraneo Orientale

I tre maggiori Paesi di migranti: Vietnam 249 Ucraina 105 Federazione Russa 68

Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio novembre 2017

Rotta confini Orientali

234

Rotta Puglia e Calabria

Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio novembre 2017

I tre maggiori Paesi di migranti: Pakistan 4.243 Afghanistan 3.349 Iraq 932

Isole Canarie

Il 51% di loro sono bambini

è coinvolto

pianeta su

abitante del

1

nel 2018 nel mondo

migranti forzati

65.600.000

Come arrivano, da dove vengono e quanti sono i migranti che raggiungono l'Europa dopo un viaggio infernale? Chi sono e dove vogliono andare i profughi che cercano una vita migliore, migliore di quella che hanno lasciato dietro le spalle? La mappa dei migranti mostra i numeri, i luoghi di provenienza e le rotte seguite dai disperati. La povertà porta la gente a spostarsi. La miseria è spesso alimentata dalle guerre. Le guerre sono alimentate dai venditori di morte, che hanno base nei Paesi di approdo dei richiedenti asilo. È un circolo vizioso e il flusso non si ferma. La popolazione totale dell’Africa crescerà dagli attuali 1,2 a 2.5miliardi entro il 2050. Per contro, nello stesso periodo, Paesi europei come la Germania e l’Italia vedranno le proprie popolazioni diminuire rispettivamente da 81 a 79milioni e da 60 a 55milioni di individui.

Pochi sanno che, in realtà, la grande porta d’ingresso di chi vuole immigrare nell’Unione Europea sono gli aeroporti internazionali. La maggioranza degli stranieri che oggi vivono nella UE illegalmente, originariamente erano entrati in uno dei Paesi comunitari con regolari documenti di viaggio e con visti che non sono stati rinnovati.

Le principali rotte migratorie verso l'UE / terra e mare Rotta africana Occidentale Rotta Mediterraneo Occidentale Rotta Mediterraneo centrale Rotta Puglia e Calabria Percorso circolare dall'Albania alla Grecia Rotta Balcani Occidentali Rotta Mediterraneo Orientale Rotta confini Orientali Spazio Schengen Paesi associati Schengen I dati sono riferiti al periodo Gennaio - Dicembre 2017

Rotta Mediterraneo Centrale

Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio dicembre 2017

I tre maggiori Paesi di migranti: Albania 6.007 Afghanistan 18 Siria 18

751 Rotta Mediterraneo Occidentale

Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio dicembre 2017

Inclusi nella rotta Mediterraneo Centrale

6173 11857 41720

Rotta africana Occidentale

Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio dicembre 2017

I tre maggiori Paesi di migranti: Nigeria 18.163 Guinea 9.713 Costa d’Avorio 9.506

399 21390 119046

Numero di persone che hanno raggiunto l'Europa nel gennaio novembre 2017

I tre maggiori Paesi di migranti: Marocco 4.813 Algeria 4.208 Costa d’Avorio 3.163

I tre maggiori Paesi di migranti: Senegal 189 Marocco 87 Non specificato 51


DATI 2017

Caleidos, Indexmundi, Onu

FONTE DEI DATI

Anno di costruzione: 2007 Lunghezza: 700 chilometri Motivo: proteggere il confine dalle infiltrazioni dei trafficanti di droga e dei gruppi armati sunniti

Iran - Pakistan

Anno di costruzione: 2010 Lunghezza: 230 chilometri Motivo: contrastare terrorismo e immigrazione irregolare

Israele - Egitto

Anno di costruzione: 2011 Lunghezza: 120 chilometri, larghezza 30 metri, profondità 7 metri Motivo: fermare il flusso di migranti clandestini entrati dalla Turchia

Grecia - Turchia (fossato)

Anno di costruzione: 2013 Lunghezza: 1.800 chilometri Motivo: impedire presunte infiltrazioni terroristiche

Arabia Saudita - Yemen

Anno di costruzione: 2014 Lunghezza: 30 chilometri Motivo: arginare i flussi migratori provenienti da Est

Bulgaria - Turchia

Anno di costruzione: 2015 Lunghezza: 175 chilometri Motivo: respingere i migranti provenienti dai Balcani

Ungheria - Serbia

Anno di costruzione: 2017 Lunghezza: 500 chilometri Motivo: sicurezza da terrorismo- sorveglianza

Turchia - Siria

Anno di costruzione: 2017 Lunghezza: 700 chilometri Motivo: sicurezza

Kenya - Somalia

Anno di costruzione: 2018 Lunghezza: 200 chilometri Motivo: respingere i migranti

Norvegia - Russia

Anno di costruzione: 2016-2019 Lunghezza: 130 chilometri Motivo: sicurezza

Tutti i muri del mondo in ordine cronologico Estonia - Russia

235

Anno di costruzione: 1991 Lunghezza: 190 chilometri Motivo: arginare un’eventuale nuova invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, dopo la guerra del golfo

Kuwait - Iraq

Anno di costruzione: 1994 Lunghezza: 1.000 chilometri Motivo: impedire l’arrivo negli Stati Uniti dei migranti irregolari messicani e bloccare il traffico di droga

Stati Uniti - Messico muro di Tijuana

Anno di costruzione: 2002 Lunghezza: 730 chilometri Motivo: impedire l’entrata in Israele dei palestinesi, prevenire attacchi terroristici

Israele - Palestina

Anno di costruzione: 2003 Lunghezza: 482 chilometri Motivo: la motivazione ufficiale è contenere i contagi tra il bestiame ed evitare lo sconfinamento delle mandrie, ma in realtà la motivazione sembrerebbe essere quella di impedire l’arrivo di migranti irregolari

Zimbabwe - Botswuana

Anno di costruzione: 1989 Lunghezza: 4.053 chilometri Motivo: fermare il flusso di immigrati provenienti dal Bangladesh, bloccare traffici illegali e bloccare infiltrazioni terroristiche

India - Bangladesh

Anno di costruzione: 1989 Lunghezza: 2720 chilometri Motivo: difendere il territorio marocchino dal movimento indipendentista Fronte Polisario

Marocco - Sahara occidentale, Berm

Anno di costruzione: 1990 Lunghezza: 8,2 chilometri e 12 chilometri Motivo: bloccare l’immigrazione irregolare dal Marocco nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla

Ceuta e Melilla Marocco

In un mondo che almeno da tre decenni si definisce “liberista” e predica la libera circolazione di merci e denari, sono sempre più numerosi i muri che vengono alzati. Sono diventati 22 quelli in essere sul Pianeta, con alcuni - nel nord Europa - costruiti per tenere lontano il nemico, in questo caso la Russia. Gli altri, quasi tutti, sono stati creati per bloccare le migrazioni e le infiltrazioni. Insomma, gli Stati giustificano la creazione di barriere con ragioni di sicurezza, contro il terrorismo, per bloccare trafficanti di armi e droga. In realtà, servono solo a bloccare – in ogni direzione – la libera circolazione degli esseri umani. Ai muri vengono spesso aggiunte mine e altri sistemi di sicurezza. Sistemi che fanno aumentare, ogni anno, il numero di incidenti e morti.

INFOGRAFICA ATLANTE MURI DEL MONDO

Anno di costruzione: 1893 Lunghezza: 2.460 Motivo: chiudere i contenziosi territoriali tra i due stati che risalgono all’epoca coloniale

Pakistan - Afghanistan Durand Line

Anno di costruzione: 1947 Lunghezza: 550 chilometri Motivo: dividere la Regione del Kashmir in due zone, quella sotto il controllo indiano e quella sotto il controllo pachistano

India - Pakistan, LOC Line of Control

Anno di costruzione: 1953 Lunghezza: 4 chilometri Motivo: la divisione delle due Coree in seguito alla guerra del 1953

Corea del Nord - Corea del Sud

Anno di costruzione: 1969 Lunghezza: 13 chilometri Motivo: separare i cattolici e i protestanti dell’Irlanda del Nord

Irlanda Belfast cattolica Belfast protestante Peace Lines

Anno di costruzione: 1974 Lunghezza: 300 chilometri Motivo: il muro corrisponde alla linea del cessate il fuoco voluto dall’Onu in seguito al conflitto che divise l’isola

Cipro zona greca - zona turca Linea Verde

Stati senza muri

Stati con un muro all’interno o al confine

I PAESI CON MURI

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO


INFOGRAFICA ATLANTE DELLE RELIGIONI

33% Cristianesimo

FONTE DEI DATI

Treccani DATI 2017

236

0,22%

Ebraismo

Altri

21%

Islam

FOCUS

Religioni in crescita

Secondo l’istituto di ricerca americano Pew Research Center nel giro di 35 anni il numero dei musulmani sorpasserà quello dei cattolici. Secondo le loro proiezioni tutte le religioni, tranne il buddismo, subiranno incrementi di fedeli.

Il cristianesimo si conferma la religione con il più alto numero di fedeli al mondo con 2,2miliardi di devoti. La seconda religione in termini numerici, e in forte crescita, è l’islam con 1,8miliardi di credenti. Improprio forse metterla in classifica ma una fetta di popolazione mondiale consistente è rappresentata dagli atei: 1 miliardo e 70milioni di persone dichiarano di non professare alcuna fede. Terza religione propriamente detta è l’induismo con 1,1milardi di fedeli. Seguono il buddismo, il taoismo, il confucianesimo e lo scintoismo. L’ebraismo, la religione monoteista che insieme a cristianesimo e islam si basa sul testo sacro della Bibbia, conta 14milioni di fedeli sparsi, a causa della diaspora e a differenze delle altre religioni, in comunità di tutto il Mondo. Infine migliaia sono le persone, prevalentemente in Africa, fedeli a culti tribali e animistici.

RELIGIONI ABRAMITICHE Cristianesimo: diffuso prevalentemente in Europa, Americhe, Africa Subsahariana, Oceania Numero di fedeli: 2.200.000.000, suddivisi in 5 correnti: Cattolici 1.100.000.000; Protestanti 480.000.000; Ortodossi 225.000.000; Anglicani 73.000.000; Orientali (Nestoriane e Neofista ecc.) 72.000.000. Esistono inoltre altre 56 Chiese e 175 sette (Geova, Mormoni, ecc.).

Islam:

6%

Buddismo

diffuso prevalentemente nei Paesi del Medio Oriente e Nord Africa. La presenza più massiccia si registra in Indonesia. 0,36% Numero di fedeli: 1.800.000.000, Sikh suddivisi in sunniti (90%) e sciiti, con le relative minoranze.

Ebraismo: diffuso prevalentemente in Israele, Usa e Paesi dell’ex Unione Sovietica. 6% Si registrano comunità ebraiche Religione ovunque nel mondo. tradizionale cinese Numero di fedeli: 14.000.000, suddivisi in askenaziti 6% Religioni indigene (ebrei della Mitteleuropa), sefarditi (ebrei della Spagna) e mizrahi (ebrei dei Paesi del mondo arabo).

14%

Induismo

16%

Non religiosi (secolari, agnostici, atei)

Nota: il totale è superiore al 100% a causa degli arrotondamenti e per il fatto che per ogni gruppo sono state utilizzate stime al limite superiore.

Cristianesimo Cattolici Anglicani e Protestanti Ortodossi

Islam Sunniti Sciiti

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO

Ebraismo Buddismo Induismo Scintoisco

ATEI

Nel mondo ci sono anche 1.070.000.000 di atei, che non professano alcuna fede.

ALTRE RELIGIONI

Induismo:

diffuso prevalentemente in India. Numero di seguaci: 1.100.000.000, suddivisi in Visnuismo (580milioni), Sivaismo (220milioni) e altre 1256 sette varie (200milioni).

Buddhismo:

diffuso prevalentemente nei Paesi dell’Asia dell’Est. Numero di seguaci: 488.000.000

Taoismo:

diffuso prevalentemente in Cina Numero di seguaci 400.000.000

Confucianesimo:

diffuso prevalentemente in Cina Numero di seguaci: 237.000.000

Scintoismo:

diffuso prevalentemente in Giappone Numero di seguaci: 100.000.000

Culti tribali e animistici:

diffusi prevalentemente in Africa Numero di seguaci: 405.000.000


1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55

DATI 2017

Reporters sans Frontiéres

FONTE DEI DATI

Norway Sweden Finland Denmark Netherlands Costa Rica Switzerland Jamaica Belgium Iceland Austria Estonia New Zealand Ireland Luxembourg Germany Slovakia Portugal Australia Suriname Samoa Canada Czech Republic Namibia Uruguay Ghana Cape Verde Latvia Spain Cyprus South Africa Liechtenstein Chile Trinidad and Tobago Andorra Lithuania Slovenia OECS France United Kingdom Belize Burkina Faso United States Comoros Taiwan Romania Malta Botswana Tonga Argentina Papua New Guinea Italy Haiti Poland Mauritania

7,60 8,27 8,92 10,36 11,28 11,93 12,13 12,73 12,75 13,03 13,47 13,55 13,98 14,08 14,72 14,97 15,51 15,77 16,02 16,07 16,41 16,53 16,91 17,08 17,43 17,95 18,02 18,62 18,69 19,79 20,12 20,31 20,53 20,62 21,03 21,37 21,70 22,10 22,24 22,26 23,43 23,85 23,88 24,33 24,37 24,46 24,76 24,93 24,97 25,07 25,07 26,26 26,36 26,47 26,49

56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89

Mauritius Madagascar Senegal Dominican Republic Guyana Niger El Salvador South Korea Georgia Bosnia and Herzegovina Serbia Fiji Lesotho Mongolia Malawi Hungary Japan Hong Kong Croatia Cyprus North Albania Guinea-Bissau Benin Armenia Moldova Ivory Coast Kosovo Tanzania Bhutan Sierra Leone Togo Seychelles Greece Kyrgyzstan

26,67 26,71 26,72 26,76 26,80 27,21 27,24 27,61 27,76 27,83 28,05 28,64 28,78 28,95 28,97 29,01 29,44 29,46 29,59 29,88 29,92 30,09 30,32 30,38 30,41 30,42 30,45 30,65 30,73 30,73 30,75 30,86 30,89 30,92

FOCUS

237

L'indice riflette il grado di libertà di cui godono giornalisti, agenzie di stampa e cittadini nel mondo e tiene conto delle le azioni intraprese dalle autorità per rispettare e assicurare il rispetto di tale libertà. Si basa su un questionario inviato alle organizzazioni partner di Rsf, alla rete di 150 corrispondenti, a giornalisti, ricercatori, giuristi e attivisti per i diritti umani. A ogni Paese viene assegnato un punteggio e una posizione nella classifica finale. Si tratta di indicatori complementari che, insieme, valutano lo stato della libertà di stampa. Le domande seguono sei criteri generali. Utilizzando un sistema ponderato, a ogni Paese viene assegnato un punteggio tra 0 e 100 per ognuno. Questi punteggi vengono poi utilizzati per calcolare il punteggio finale di ognuno dei Paesi.

Indice grado di libertà

I Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti sono la Siria (177esimo posto), dietro la Cina (176), e davanti ai fanalini di coda: Turkmenistan (178), Eritrea (179) ed Corea del Nord (180). Iraq compare alla 158esima posizione e la Nigeria alla 122esima.

I Paesi più pericolosi per i reporter

90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114

Peru Israel Nicaragua Mozambique Liberia Kenya Panama Tunisia East Timor Lebanon Nepal Guinea Ukraine Brazil Kuwait Ecuador Montenegro Bolivia Gabon Bulgaria Paraguay Macedonia Uganda Central African Republic Zambia

30,98 31,01 31,01 31,05 31,12 31,12 32,12 32,22 32,82 33,01 33,02 33,15 33,19 33,58 33,61 33,64 33,65 33,88 34,83 35,01 35,64 35,74 35,94 36,12 36,48

La libertà di stampa è un diritto che ogni Stato di diritto, assieme agli organi d'informazione (giornali, radio, televisioni, provider internet) dovrebbe garantire ai cittadini ed alle loro associazioni. La cosa, ben scritta anche nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, non funziona proprio così. Ci sono ancora Paesi in cui i giornalisti che si oppongono ai regimi vengono incarcerati o uccisi: Cina, Turchia, Arabia Saudita, per citarne alcuni. Nella stessa Europa le cose non vanno benissimo. In Italia sono decine i giornalisti sotto scorta e protezione. Nel 2017, in ottobre, Jan Kuciak, giornalista slovacco, è stato ucciso a colpi di pistola, per una indagine su Governo e mafia. In estate a Malta, un'autobomba si era portata via a Daphne Caruana Galizia, reporter investigativa specializzata in corruzione.

INFOGRAFICA ATLANTE LIBERTA’ STAMPA

115 116 117 118 119 120 121 122 123 124

Congo Mali Maldives Guatemala United Arab Emirates Afghanistan Chad Nigeria Qatar Indonesia

36,73 38,27 39,30 39,33 39,39 39,46 39,66 39,69 39,83 39,93

40,42 40,46 41,08 41,44 41,47 41,59 41,82 42,07 42,42 42,83 42,90 42,94 42,94 43,24 43,55 43,75 44,34 44,69 46,70 46,89 48,16 48,36 48,97 49,45 50,27 50,34 51,10 51,27 52,43 52,67 52,98 53,72 54,01 54,03 54,11 55,78 55,78 56,40 56,81 58,88 65,12 65,80 65,95 66,02 66,11 66,41 66,47 70,54 71,75 73,56 73,96 77,66 81,49 84,19 84,24 84,98

Estremamente grave

Abbastanza buona

Angola Oman Philippines Zimbabwe Colombia Cameroon Myanmar Cambodia Morocco Algeria Palestine India Venezuela Jordan Pakistan Honduras Sri Lanka Thailand Gambia Malaysia South Sudan Bangladesh Mexico Russian Federation Tajikistan Ethiopia Singapore Swaziland Belarus Dem. Rep. Of The Congo Turkey Brunei Darussalam Kazakhstan Iraq Rwanda Burundi Egypt Azerbaijan Libya Bahrain Islamic Republic of Iran Yemen Somalia Saudi Arabia Uzbekistan Lao People's Dem. Rep. Equatorial Guinea Djibouti Cuba Sudan Vietnam China Syrian Arab Republic Turkmenistan Eritrea Dem. People's Repu.Korea

Difficile

Buona

125 126 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 143 144 145 146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 158 159 160 161 162 163 164 165 166 167 168 169 170 171 172 173 174 175 176 177 178 179 180

Sensibilmente problematica

LA SITUAZIONE

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO


INFOGRAFICA ATLANTE SPESA SANITARIA FONTE DEI DATI

% PIL 17.14 16.54 11.93 11.66 11.54 11.38 11.30 11.21 11.09 11.06

Tabella dati 2014 Spesa sanitaria (% del PIL) PAESE Stati Uniti Tuvalu Svezia Svizzera Francia Malawi Germania Austria Sierra Leone Cuba

6.00 - 7.00

5.00 - 6.00

8.00 - 9.00

7.00 - 8.00

> 10.50

9.00 - 10.50

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO

<4

37%

bambini con meno di 5 anni muoiono ogni anno di diarrea Il tasso di mortalità neonatale è del

361MILA

Difficile nascere

di persone condividono latrine con altre famimglie

di persone non hanno servizi igienici

4,4MILIARDI 600MILIONI

di persone hanno acqua potabile a più di mezz’ora da casa

di persone non hanno acqua in casa

2,1MILIARDI 884MILIONI

La salute dipende dall’igiene

4.00 - 5.00

SPESA SANITARIA (% DEL PIL)

Unicef, Oms, World Health Organization DATI 2017

238

La mortalità materna

216

donne ogni

100MILA nati vivi

N° 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Le agenzie internazionali spiegano che la spesa sanitaria è in crescita ovunque. E’ previsto un aumento della spesa sanitaria globale a un tasso annuale del +4,1% nel periodo 2017-2021, rispetto alla crescita del +1,3% nel 2012-2016. Entro il 2020 si potrebbero raggiungere gli 8,7 trilioni di dollari (migliaia di miliardi). Le disuguaglianze non scompariranno e la spesa sanitaria pro capite sarà ancora molto variabile: nel 2021 si passerà da 11.356 dollari negli Stati Uniti ad appena 53 dollari per il Pakistan. Anche se non è affatto scontato, ricorda un report della società Deloitte, che a una maggiore spesa corrispondano migliori risultati. Caso esemplare gli Stati Uniti, che spendono per la sanità il 16,9% del Pil, restando però al di sotto della media Ocse per aspettativa di vita.

I dati sulla spesa sanitaria forniscono le cifre su quanto un Paese investe in percentuale del PIL. Spese per la salute sono ampiamente definite come le attività svolte sia da istituzioni o individui attraverso l'applicazione delle conoscenze mediche, paramediche, e/o infermieristiche e la tecnologia, il cui scopo principale è quello di promuovere, ripristinare o mantenere la salute dei cittadini. Le previsioni sono di un aumento della spesa sanitaria globale del 4,1% annuo fino al 2021.

212MILIONI

di persone soffrono di malaria


DEGLI ASSALTI

GUIDANO LA GRADUATORIA

INDONESIA 43 NIGERIA 33

38 NAVI DA CARICO 29 PETROLIERE 23 PORTA CONTAINER

TIPI DI NAVI PIÙ ASSALTATE

O S

N E

239

Venezuela

12

Filippine

22

Nigeria

33

Bangladesh

11

Indonesia

43

Le seguenti cinque località hanno contribuito al 67% del totale di 180 incidenti segnalati nel periodo preso in esame

I LUOGHI A MAGGIOR RISCHIO

Nigeria

Indonesia

Rotte marine

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO

FERITI MORTI

6 3

136 NAVI ABBORDATE 180 NAVI ASSALTATE

ostaggio

Sono i membri dell’equipaggio presi in

166

Navi sospette

Attacchi effettivi Con armi da fuoco

Dirottato

Attacchi tentati

RELAZIONE PER IL PERIODO DI 1 GENNAIO 31 DICEMBRE 2017

ICC INTERNATIONAL MARITIME BUREAU

FONTE DEI DATI

Nel 2017 si è segnato il minimo storico, negli ultimi vent’anni, di attacchi di pirateria nel Mondo. Sono stati 180, in calo rispetto ai 191 del 2016. Nel corso 2017, sono state assaltate 136 navi, 22 tentativi di attacco sono falliti, 16 navi sono state incendiate e 6 navi sono state dirottate. Nel 2016, il totale degli incidenti era stato 191, con 150 navi assaltate e 151 persone prese in ostaggio. Anche la distribuzione geografica ha registrato un cambiamento. L’Indonesia, il più grande Stato-arcipelago del mondo, ha visto un decremento. Situazione inversa nelle Filippine e nel Bangladesh. Il Golfo di Guinea, al largo della costa africana occidentale, è stato un altro luogo in cui gli attacchi si sono intensificati.

INFOGRAFICA L’ATLANTE DELLA PIRATERIA


Gruppo di lavoro

IL DIRETTORE

HANNO SCRITTO E FOTOGRAFATO

Raffaele Crocco Giornalista RAI, collabora con le trasmissioni Est Ovet e Mediterraneo. Ha lavorato per alcuni anni come inviato in zone di guerra. Ha fondato la rivista Maiz - A Sud dell’informazione - ed è stato tra i fondatori Peacereporter. È l’autore del libro “Il CHE dopo il CHE”. Ha ideato e dirige questo Atlante.

Paolo Affatato Giornalista e saggista, è responsabile della redazione “Asia” nell’agenzia di stampa vaticana “Fides”. Socio di “Lettera22”, associazione fra giornalisti specializzata in politica estera, ha curato con Emanuele Giordana “Il Dio della guerra”, “A Oriente del Profeta”, “Geopolitica dello tsunami”. Per la collana di studi asiatici Asia Maior, ha contribuito a “L’Asia del grande gioco” (2008), “Crisi globali, crisi locali e nuovi equilibri in Asia” (2009), “L’Asia di Obama e della crisi economica globale” (2010). Ha collaborato alle collettanee “A Oriente del Califfo” e “Sconfinate” (Rosenberg&sellier 2017-2018).

IN REDAZIONE

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Beatrice Taddei Saltini È tra le fondatrici di 46° Parallelo. Ha collaborato a reportages dall’America Latina. Per questo Atlante si occupa dell’editing, dei rapporti con la Redazione e della distribuzione. Daniele Bellesi Diplomato al Liceo Artistico, ha frequentato per diversi anni la Facoltà di Architettura. Si è poi dedicato alla libera professione come grafico e consulente per la comunicazione. Ha lavorato molto anche nel mondo dell’associazionismo e del volontariato. È vice-presidente dell’Associazione Un Tempio per la Pace di Firenze (dialogo inteculturale e interreligioso) e ha fondato insieme a altri l’Associazione 46° Parallelo. Da subito ideatore e grafico dell'Atlante e del sito ad esso collegato www.atlanteguerre.it. Per l'associazione cura anche la parte grafica di tutte le mostre e le iniziattive che vengono realizzate. Alice Pistolesi Giornalista, laureata in Studi Internazionali all’Università di Pisa, viaggia per scrivere e per documentare. Fa parte di associazioni che si occupano di diritti umani, ambiente e migrazioni, con le quali organizza eventi di sensibilizzazione. E’ impegnata in progetti di educazione alla mondializzazione e alla Pace nelle scuole. E’ redattrice del sito www.atlanteguerre.it dove pubblica ogni settimana dossier tematici di approfondimento su temi globali e reportage. Giorgia Stefani Nata a Trento, dove vive, è laureata in scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Collabora stabilmente con l'Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo nell'ambito di progettazione e gestione e negli incontri con le scuole. Ha viaggiato e svolto ricerche universitarie in Guatemala e Nuova Zelanda.

Giuliano Battiston Giornalista e ricercatore, scrive per quotidiani e riviste tra cui L'Espresso, il manifesto, il venerdì di Repubblica, gli asini, Ispionline. Dal 2010 cura il programma del Salone dell'editoria sociale. Si occupa di globalizzazione, politica internazionale, islamismo armato e Afghanistan. Il suo ultimo libro è “La sinistra che verrà. Le parole chiave per cambiare” (con G. Marcon, minimum fax). Per le edizioni dell’Asino ha pubblicato i libri “Arcipelago jihad. Lo stato islamico e il ritorno di al-Qaeda” e due libri-intervista: “Zygmunt Bauman. Modernità e globalizzazione” e “Per un'altra globalizzazione”. Fabio Bucciarelli Prima di diventare fotoreporter Fabio Bucciarelli si è laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni nel 2006 presso il Politecnico di Torino. Durante gli studi universitari ha frequentato la Universidad Politecnica di Valencia dove si è specializzato nello studio delle immagini digitali. Dal 2009 si dedica completamente alla fotografia e comincia a lavorare come fotografo di staff per l’agenzia LaPresse/Ap. Ha vinto diversi premi internazionali ed il suo lavoro è stato pubblicato dal New York Time, Stern, The Times, The Guardian, The Wall Street Journal, LA Times, Foreign Policy, The Telegraph, Vanity Fair, La Repubblica, La Stampa, Le Monde. Negli ultimi anni ha documentato i più grandi conflitti mondiali soffermandosi sugli effetti della guerra sulla popolazione civile. Recentemente ha affiancato alla fotografia il giornalismo scritto. Nel 2012 ha pubblicato il libro ‘L’Odore della Guerra’ sul conflitto libico. Co-fondatore della cooperativa MeMo. Camilla Caparrini Viaggiatrice incallita, ha da sempre preferito muoversi verso parti del mondo fuori dalle


Marica Di Pierri Attivista dell'associazione A Sud e giornalista, si occupa da anni di tematiche ambientali e sociali. Dirige ed è tra i fondatori del Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali di Roma attraverso cui porta avanti attività di ricerca, formazione e documentazione sui conflitti ambientali. Autrice di saggi e articoli, collabora con periodici, quotidiani, testate televisive e radiofoniche e riviste specializzate. Danilo Elia Giornalista e scrittore, si occupa di spazio post-sovietico per East e Meridiani e collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. Tra i suoi libri "La bizarra impresa in Fiat 500 da Bari a Pechino" (Vivalda editori) e "Intorno al mare" (Mursia editore). Alfredo Falvo È nato a Chianciano Terme nel 1972. Nel 1998 si trasferisce a New York per studiare fotografia presso l'International Center of Photography. Nel 2000 torna in Italia. Le sue fotografie sono state esposte in Europa e negli Stati Uniti, oltre che in festival. Nel 2007 Stockmans pubblica il suo primo libro, Lost Angels, reportage fotografico su Skid Row, il quartiere dei senzatetto di Los Angeles. Collabora dal 2006 con Contrasto. Marina Forti Marina Forti è nata a Milano, dove ha cominciato a lavorare a Radio Popolare. Giornalista professionista, dal 1983 è al quotidiano Il Manifesto, dove si è occupata di attualità internazionale, immigrazione e ambiente. Già caposervizio esteri, da inviata ha viaggiato a lungo in Iran, nel sub-continente indiano e nel sud-est asiatico. Per la rubrica “terraterra” ha avuto nel 1999 il premio “giornalista del mese”, noto come Premiolino. Con il libro "La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel sud del mondo" (Feltrinelli 2004) ha ricevuto il premio Elsa Morante per la comunicazione 2004. Federico Fossi M.Sc. in assitenza umanitaria e sviluppo

presso lo University College Dublin, da oltre dieci anni lavora nella comunicazione per il settore no-profit ed in particolare in ambito di cooperazione internazionale e rifugiati. Si è occupato di programmi europei di integrazione nel quadro dell’iniziativa comunitaria EQUAL. Dal 2008 lavora nell’ufficio stampa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Emanuele Giordana Giornalista, saggista e scrittore è stato docente di Cultura indonesiana e attualmente insegna giornalismo alla Scuola della Fondazione Basso di Roma e all’Ispi di Milano. Cofondatore dell'Associazione giornalistica "Lettera22", già direttore di “Ecoradio” (2011) e del mensile ecologista "Terra" (2012), è presidente dell'associazione “Afgana” e, dal 2018, direttore editoriale del sito atlanteguerre.it. Tra i suoi libri più recenti, “Viaggio all’Eden” e la curatela di “Sconfinate. Terre di confine e storie di frontiera”. Cura il blog “Great Game”. Rosella Idéo Ha insegnato storia moderna dell’Asia Orientale e Storia Politica e Diplomatica dell’Asia Orientale nelle università statali di Milano, Roma, Trieste. Borsista all’Ispi di Milano, borsista al Salzburg Seminar in American Studies, visiting scholar all’Università di California, Berkeley. Membro fondatore dell’Aistugia (Associazione Italiana di Studi Giapponesi) e di Asia Major (1989-2006); membro fondatore ed ex vicepresidente di Asia Maior (2006-2010). Ha pubblicato numerosi saggi sulle relazioni internazionali in Asia Orientale con particolare riferimento al Giappone e alla Corea contemporanea e una monografia: Corea una modernizzazione mancata (EUT,2000). Intervistata come esperta da radio italiane ed estere, giornali e televisione. Flavio Lotti È Coordinatore nazionale della Tavola della Pace, l’organismo che dal 1996 organizza la Marcia per la pace Perugia-Assisi. È Direttore del Coordinamento Nazionale Enti Locali per la pace e i diritti umani, un’associazione fondata nel 1986 che riunisce oltre 700 Comuni, Province e Regioni italiane. Enzo Mangini Giornalista professionista dal 2001 specialista di temi di politica internazionale, fa parte dell’associazione indipendente di giornalisti Lettera22, attraverso cui collabora con Il Fatto Quotidiano online, il Riformista, Terra. Ha lavorato per il quotidiano Il Manifesto e per

il settimanale Carta, dove ha ricoperto anche la carica di direttore responsabile. Dall’aprile 2010 è corrispondente in Italia di Vreme, settimanale indipendente di Belgrado, Serbia. Raffaele Masto Giornalista, inviato di Radio Popolare. Ha seguito soprattutto le crisi e i conflitti in Africa. Ha scritto diversi libri di successo in Italia e all'estero. "Io, Safiya" (Sperling & Kupfer 2006), è stato venduto in sedici paesi. Gli ultimi saggi sono per Mondadori , “Buongiorno Africa” che dà il titolo al suo blog, e “Califfato Nero” per Laterza, uscito nel 2017. Riccardo Noury È il portavoce e direttore dell’Ufficio comunicazione di Amnesty International Italia, associazione di cui fa parte dal 1980. Ha curato i libri “Non sopportiamo la tortura” (Rizzoli 2000) e “Poesie da Guantánamo” (Edizioni Gruppo Abele, 2008) ed è autore o coautore di altre pubblicazioni. Ha un blog plurisettimanale sui diritti umani “Le persone e la dignità” sul Corriere della Sera e un blog settimanale sulle rivolte in Medio Oriente e Africa del Nord sul Fatto Quotidiano. Ilaria Pedrali Giornalista professionista, ha vissuto e lavorato a Gerusalemme come corrispondente per le Edizioni Terrasanta e gestendo il Franciscan Multimedia Center. Ha lavorato a Mediaset, e scritto su vari quotidiani nazionali, siti internet, web tv occupandosi di cultura, esteri, cronaca. Ama il Medio Oriente, viaggiare, ed è molto curiosa. Da qualche tempo ha iniziato a studiare l’arabo. Andrea Pira Giornalista e sinologo si occupa principalmente di Cina e Asia Orientale. Dal 2009 fa parte della redazione di China Files e dal 2012 è tra i soci di Lettera22. Sha scritto per numerose testate italiane e segue il China Desk di MF-Milano Finanza, quotidiano per il quale si occupa anche di finanza pubblica e società a partecipazione statale. Luciano Scalettari È inviato speciale di Famiglia Cristiana. Si occupa prevalentemente di attualità africana (ha effettuato spedizioni in una trentina di Paesi dell’Africa subsahariana) e di giornalismo d’inchiesta. Nel 2000 e nel 2006 ha vinto il Premio Giornalistico Saint Vincent. Ha pubblicato, tra l’altro: 2002 (con B. Carazzolo e A. Chiara) "Ilaria Alpi, un omicidio al crocevia

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rotte turistiche per cogliere attraverso la sua macchina fotografica gli aspetti più intimi e poetici di mondi lontani dal nostro quotidiano. Nel corso degli ultimi anni ha fatto del cammino in solitaria una vera e propria filosofia di vita allontanandosi sempre più dalla vita di ufficio e cittadina.


dei traffici", B&C. 2004 "La lista del console - Ruanda, 100 giorni un milione di morti", Ed. Paoline-Focsiv. 2010 (con Luigi Grimaldi) “1994”, Chiarelettere Editore. Da settembre 2007 coordina, insieme ad Alberto Laggia, il laboratorio di giornalismo sociale “La voce di chi non ha voce” organizzato dalla Scuola di Giornalismo “A. Chiodi” di Mestre.

REDAZIONE WWW.ATLANTEGUERRE.IT DIRETTORE RESPONSABILE Raffaele Crocco DIRETTORE EDITORIALE

Giovanni Scotto È docente di Sociologia dei processi culturali all'Università di Firenze. Insegna Tecniche della mediazione e della democrazia partecipativa e International Conflict Transformation. È Presidente del corso di laurea Sviluppo economico, cooperazione internazionale, socio-sanitaria e gestione dei conflitti (SECI) e direttore scientifico del Laboratorio FORMA MENTIS al PIN di Prato. TerraProject TerraProject è un collettivo di fotografia documentaria fondato nel 2006 a Firenze da Michele Borzoni, Simone Donati, Pietro Paolini e Rocco Rorandelli. Prima realtà in Italia a sviluppare lavori di gruppo, TerraProject ha innovato il linguaggio della fotografia autoriale elaborando uno stile collettivo unico nel suo genere, in cui le individualità dei singoli si fondono, esaltando i reciproci talenti e arrivando a comunicare livelli molteplici di complessità. Da oltre 10 anni TerraProject collabora con le principali riviste italiane e internazionali, agenzie non governative, ong, fondazioni, aziende commerciali e il mercato fine art. I suoi fotografi hanno ottenuto prestigiosi riconoscimenti internazionali, mentre i lavori personali e di gruppo sono stati esposti presso gallerie e festival in tutto il mondo.

Emanuele Giordana IN REDAZIONE Andrea Tomasi Autore de "Pesticidi, siamo alla frutta" (docufilm sugli effetti dei fitofarmaci su ambiente e salute). È coautore de libro "La farfalla avvelenata" e della videonchiesta "Veleni in paradiso". Alice Pistolesi COLLABORATORI Lucia Frigo Studentessa di Giurisprudenza all'Università degli Studi di Trento, collabora con Atlante Delle Guerre in qualità di social media manager e occasionalmente di columnist per il sito. Si interessa in particolare di diritto dei conflitti armati, di diritto umanitario e controterrorismo. Ama viaggiare per informarsi e informare, e nel suo percorso di studio di diritto Europeo e transnazionale ha recentemente vissuto in Irlanda del Nord. In passato, ha partecipato a molte iniziative di cittadinanza attiva, legalità e antimafia. Elia Gerola Studente di Studi Internazionali presso l'Università di Trento collabora con ww.atlanteguerre.it curandone i social media, la comunicazione online e scrivendo qualche pezzo. È attivo in vari progetti di cittadinanza attiva e per studiare la politica internazionale ha viaggiato tra New York, Strasburgo e Groningen, dove ha svolto l'Erasmus. Tra i suoi interessi di ricerca principali vi sono gli effetti del cambiamento climatico, l'Unione Europea e la prospettiva di una Global Democracy. Ama riflettere sul passato, il presente, ed il futuro correndo, ascoltando musica e stringendo nuove amicizie. Edvard Cucek È nato a Banja Luka , Bosnia ed Erzegovina. Ha dovuto lasciare il proprio Paese nel’ago-

sto del 1995. Vive in Italia dal 2004, prima in alto Adige e dal 2006 in Trentino. Sposato e padre di due figlie. Consigliere nel direttivo dell'associazione "Progetto Prijedor", volontario nel associazione "Gruppo BosniaMori", scrive per Atlante delle Guerre e Osservatorio sui Balcani e Caucaso. Collabora e traduce per diversi movimenti ed associazioni non governative soprattutto della Bosnia ed Erzegovina nella loro battaglia contro i revisionismi della storia e contro le politiche e i movimenti nazi-fascisti spesso in avanzata. Scrive per combattere qualsiasi tipo di pregiudizi, se esistono anche i pregiudizi positivi, riguardanti l'area dei cosiddetti "Balcani”. Teresa di Mauro Cresciuta in una piccola frazione Toscana, ha frequentato il liceo Linguistico. Ha svolto volontariato in un'associazione locale e nel 2014 ha trascorso due mesi in Australia, con l'associazione Intercultura. La curiosità e l'interesse per il sociale, l'hanno portata ad iscriversi al corso in "Sviluppo e cooperazione Internazionale" all'universitá di Bologna; qui ha svolto anche un corso di formazione dedicato alle tecniche di apprendimento. Attualmente si trova in Armenia con il programma Erasmus. Claudia Poscia Avvocato da 10 anni, specializzata in diritti civili, si occupa di richiedenti asilo e in particolare di vittime di tratta. Da circa un anno è presidente di Ali Aperte, una associazione di volontariato che aiuta i richiedenti asilo. Dopo la laurea in giurisprudenza ha conseguito un master in relazioni internazionali alla SIOI di Roma ed effettuato uno stage alle Nazioni Unite . Appassionata da sempre di diritti umani è stata a lungo attivista di Amnesty International.


Glossario

Terroristi Tutti coloro che usano armi o mettono in atto attentati contro popolazioni inermi, colpendo obiettivi civili deliberatamente. In questo libro, questa è la definizione di terrorista, a prescindere dalle ragioni che lo muovono. Ne deriva che in questo volume viene definito Attentato Terroristico ogni attacco compiuto con fini distruttivi o di morte nei confronti di una popolazione inerme e civile al puro scopo di seminare terrore, paura o per esercitare pressioni politiche. Ovvero ogni attacco compiuto contro obiettivi militari, ma che consapevolmente coinvolge anche popolazioni inermi e civili. Resistenti Gruppi o singoli che si oppongono, armati o disarmati, all’occupazione del proprio territorio da parte di forze straniere, colpendo nella loro azione obiettivi prevalentemente militari. Anche in questo caso diamo questa definizione senza entrare nel merito delle ragioni. Gli attacchi di gruppi di resistenti a forze armate regolari in questo libro vengono definite Operazioni di Resistenza o Militari. Forze di Occupazione Ogni Forza Armata straniera che occupa, al di là della ragione per cui avviene, un altro Paese per un qualsiasi lasso di tempo. Forze di Interposizione Internazionali Sono invece Forze Armate, create su mandato dell’Onu o di altre organizzazioni multinazionali e rappresentative, che in presenza di precise regole di ingaggio e combattimento che ne limitano l’uso, si collocano lungo la linea di combattimento per impedire il confronto armato fra due o più contendenti. Le definizioni seguenti sono quelle ufficiali definite e riportate dall’UNCHR nei loro documenti e rapporti e a cui noi ci rifacciamo Profugo Termine generico che indica chi lascia il proprio paese a causa di guerre, persecuzioni o catastrofi naturali.

Richiedente asilo Colui che è fuori dal proprio paese e inoltra, in un altro stato, una domanda di asilo per il riconoscimento dello status di rifugiato. La sua domanda viene poi esaminata dalle autorità di quel paese. Fino al momento della decisione in merito alla domanda, egli è un richiedente asilo (asylum-seeker). Rifugiato Il rifugiato (refugee) è un termine giuridico che indica chi è fuggito o è stato espulso dal suo Paese originario a causa di discriminazioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, per le sue opinioni politiche, o a causa di una guerra, e trova ospitalità in un Paese straniero che riconosce legalmente il suo status. Sfollato Spesso usato come traduzione dell’espressione inglese Internally displaced person (Idp). Per sfollato si intende colui che abbandona la propria abitazione per gli stessi motivi del rifugiato, ma non oltrepassa un confine internazionale, restando dunque all’interno del proprio paese. In altri contesti, si parla genericamente di sfollato come di chi fugge anche a causa di catastrofi naturali. Migrante Termine generico che indica chi sceglie di lasciare il proprio paese per stabilirsi, temporaneamente o definitivamente, in un altro paese. Tale decisione, che ha carattere volontario anche se spesso è indotta da misere condizioni di vita, dipende generalmente da ragioni economiche ed avviene cioè quando una persona cerca in un altro paese un lavoro e migliori condizioni di vita. Migrante irregolare Chi, per qualsiasi ragione, entra irregolarmente in un altro paese. In maniera piuttosto impropria queste persone vengono spesso chiamate ‘clandestini’ in Italia. A causa della mancanza di validi documenti di viaggio, molte persone in fuga da guerre e persecuzioni giungono in modo irregolare in un altro paese, nel quale poi inoltrano domanda d’asilo. Extracomunitario Persona non cittadina di uno dei ventisette paesi che attualmente compongono l’Unione Europea, ad esempio uno svizzero.

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Guerre e conflitti Situazioni di scontro armato fra stati o popoli, ovvero a confronti armati fra fazioni rivali all’interno di un medesimo Paese. Includiamo in questo elenco i Paesi o i luoghi in cui esiste un latente conflitto, bloccato da una tregua garantita da forze di interposizione internazionali.


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Fonti

Fotografie

Organismi internazionali e istituzioni Unesco Unicef Oms Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) Africa-Union Nazioni Unite Ministero degli Esteri Ministero della Difesa Central Intelligence Agency Banca Mondiale Caritas United Nations Peacekeeping Force in Cyprus The Millennium Development Goals - Onu Istituto del Commercio con l’Estero Croce Rossa Italiana

Le fotografie di quest’anno riportano l’autore. In alcuni casi giornalisti, fotografi oppure tratte dall’archivio dell’Alto Commissariato dei Rifugiati UNHCR. È stato fondamentale il contributo dei fotografi Fabio Bucciarelli, autore anche della copertina, Alfredo Falvo e TerraProject. Un ringraziamento anche a Massimiliano Lettieri e Camilla Caparrini. In alcuni casi abbiamo usato, invece, fotografie trovate su internet. Siamo ovviamente disponibili a regolare eventuali spettanze agli aventi diritto che non sia stato possibile contattare.

Informazione, giornali e istituti di ricerca Pagine della Difesa Africa News Misna Nigrizia Reuters Osservatorio Iraq Osservatorio dei Balcani Wikipedia Corriere della Sera La Repubblica La Stampa Valori Peacerporter Ansa Apcom Agimondo Agi Adnkronos Associated Press Afp Euronews Famiglia Cristiana Limes Guerre & Pace Global Geografia Peace Link Balcanicaucaso.org Banchearmate.it Crbm.org Crisigroup.org (Europe Report N°213, 20/9/11) B.H. Editorial, 24/7/2011 Libero-news.it Italiatibet.org Chinadaily.com Ilsole24ore.com Panorama.it Asianews.it Instablog.org Filosofia.org Nuovacolombia.net Colombiareports.com Agoramagazine.it Manilanews.net Iljournal.it Bbc.co.uk

Cartografia Per la cartografia delle schede conflitto abbiamo fatto riferimento a quella ufficiale dell’Onu tranne alcune riprese dal sito dell’Università del Texas: Colombia, Cecenia, Cina, Turchia, India, Filippine e Algeria. Le carte tematiche basate sulla cartografia di Peters sono state gentilmente offerte dall’Ong Asal. Per le mappe dei continenti abbiamo usato la stessa Carta di Peters (in Italia iniziativa esclusiva Asal) che troverete nella sua forma completa nella terza di copertina.

Autori delle schede Di seguito riportiamo gli autori delle schede conflitto. Paolo Affatato - Filippine, Thailandia Giuliano Battiston - Nagorno Karabakh Raffaele Crocco - Haiti, Cipro, Yemen/Arabia Saudita Danilo Elia - Cecenia, Georgia, Kosovo, Ucraina Marina Forti - India, Kashmir Emanuele Giordana - Afghanistan, Pakistan, Myanmar Enzo Mangini - Iraq, Kurdistan Raffaele Masto - Ciad, Mali, Niger, Nigeria, Sudan, Sud Sudan Ilaria Pedrali - Israele/Palestina, Libano, Siria Alice Pistolesi - Sahara Occidentale Andrea Pira - Cina/Tibet Luciano Scalettari - Costa d'Avorio, Etiopia/Eritrea, Libia, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Somalia Gli Inoltre sono a cura di autori vari

Ai nostri lettori. Per correggere un testo occorrono molti occhi. Noi abbiamo cercato di fare il nostro meglio. Laddove ci fosse sfuggito qualche refuso o errore ce ne scusiamo.

Asiantribune.com Bangkokpost.com It.euronews.net Iltempo.it Intopic.it/estero/thailandia/ geopoliticamente.wordpress.com iraqicivilsociety.org Organizzazioni non governative Amnesty International

Emergency Medici Senza Frontiere Reporters Sans Fronteres Unimondo Amani Club di Roma Elisso Cdca - Centro Documentazione Conflitti Ambientali Icc - Commercial Crime Services


I saluti Bene, siamo ai saluti. È sempre una strana cosa scriverli ed è davvero la cosa che scrivo alla fine, quando tutto è concluso. Portare a termine questo lavoro è sempre impegnativo, sembra sempre mancare tutto, a partire dai soldi. Alla fine, invece, si arriva in fondo e quest’anno la soddisfazione è di aver visto arrivare facce nuove e idee nuove. Voglio iniziare da loro: Lucia Frigo, Elia Gerola e Teresa Di Mauro. Sono tre ragazzi dell’Università, si sono avvicinati al progetto e lo stanno aiutando a crescere con idee e entusiasmo. Mi piace pensare che il futuro – questo futuro – potrebbe essere presto loro. Altri studenti sono quelli del professor Scotto, che seguono la parte che dedichiamo ai Tentativi di pace. Sono bravi, seri e capaci: volete di più? Poi ci sono i portatori d’acqua veri, Alice Pistolesi e Andrea Tomasi, che si fanno carico del sito e non solo: se non ci fossero, non saremmo qui. Voglio abbracciare Emanuele Giordana, diventato l’uomo d’ordine di molte cose. Con lui siamo ormai una strana coppia. Giorgia Stefani è quella che permette a questa macchina di funzionare e il fatto stesso di reggermi nei momenti bui è motivo di riconoscenza eterna. Ci sono poi i due grandi vecchi del progetto Daniele Bellesi e Beatrice Taddei Saltini, caratteri diversi, teste diverse, ma la stessa capacità di pensare lucidamente alle cose e di stimolare gli altri. Se ci riuscite, per favore, non mollate. Infine, Fabio Bucciarelli, il nostro uomo immagine visto che le copertine sono sue e la scelta delle foto principali anche. Che lui sia ancora così legato a questo progetto è una delle cose che mi fan capire che forse stiamo facendo qualcosa di buono.

Altri ringraziamenti Terminata la parte di redazione, voglio ringraziare chi crede in noi da sempre e ci aiuta. E sono Carlo Basani, Sara Ferrari, Giusy e Fiamma, lo staff di Acav di Trento, Arci Toscana più o meno tutto, così come la Cgil Toscana, Flavio Lotti, Luciano Scalettari, Giovanni Scotto. Non voglio dimenticare Montura, che da quest’anno è entrata nel progetto per sostenerlo e la Cassa Rurale di Trento, che nel progetto c’è da quando è nato e resiste con noi. Raffaele Crocco


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QUESTA PROIEZIONE EQUIVALENTE É BASATA SULLA RETE GEOGRAFICA DECIMALE DI ARNO PETERS. ESSA SPOSTA IL MERIDIANO ZERO SULLA LINEA RETTIFICATA DEL CAMBIAMENTO DI DATA - INDICATA CON IL PUNTEGGIO - E SUDDIVIDE LA SUPERFICIE TERRESTRE IN 100 RETTANGOLI LONGITUDINALI DI UGUALE LARGHEZZA E IN 100 RETTANGOLI LATITUDINALI DI UGUALE ALTEZZA. CON QUESTA PROIEZIONE SI OTTENGONO NELLA FASCIA EQUATORIALE RETTANGOLI VERTICALI CHE SI TRASFORMANO, AVVICINANDOSI AI POLI, IN QUADRATI E POI IN RETTANGOLI ORIZZONTALI. LE COORDINATE DELLA NUOVA RETE SI TROVANO AI MARGINI DELLA CARTA ACCANTO ALLE COORDINATE TRADIZIONALI.

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Via dei Monti di Pietralata 16, Roma, www.arci.it


ISBN-13: 978-8866814085

9

788866 814085 € 20,00


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