Atlante delle Guerre - sesta edizione

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ATLANTE

DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO

Sesta edizione



ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO Sesta edizione Dedicata a tutti coloro che sono morti per raccontarci come vanno le cose

Associazione 46° Parallelo


ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO SESTA EDIZIONE Direttore Responsabile Raffaele Crocco Capo Redattore Federica Ramacci

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In redazione Beatrice Taddei Saltini Daniele Bellesi Hanno collaborato Paolo Affatato Mario Boccia Manu Brabo Fabio Bucciarelli Nicole Corritore Cecilia Dalla Negra Angelo d’Andrea Davide Demichelis Danilo Elia Marina Forti Federico Fossi Emanuele Giordana Ruggero Giuliani Flora Graiff Diego Ibarra Sánchez Rosella Idéo Adel Jabbar Flavio Lotti Enzo Mangini Federica Miglio Razi Mohebi Sohelia Mohebi Enzo Nucci Ilaria Pedrali Alessandro Piccioli Emanuele Profumi Alessandro Rocca Ornella Sangiovanni Pino Scaccia Luciano Scalettari Alessandro Turci Guillem Valle Alessandro Vanoli Roberto Zichittella

Un ringraziamento speciale a: Gabriele Eminente, Direttore Generale Medici Senza Frontiere Italia

Redazione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it

Carlotta Sami, Portavoce Unhcr Italia Riccardo Noury, Portavoce di Amnesty International Marica Di Pierri, Presidente Cdca Estela Carlotto, Presidente Abuelas de Plaza de Mayo Giovanni Scotto, Presidente del corso di laurea Sviluppo economico, cooperazione internazionale, socio-sanitaria e gestione dei conflitti (SECI) Il progetto, Tentativi di Pace, è stato realizzato con la collaborazione di studenti del SECI e del corso di laurea in Scienze Politiche: Nicola Delle Foglie Pietro Fantechi Andrea Francioni Zoe Guerrini Renata Yusupova

Progetto grafico ed impaginazione Daniele Bellesi Progetto grafico della copertina Daniele Bellesi

Foto di copertina "Un guardiano Dinka controlla la sua mandria al campo di Yirol" il 13/02/2014 ©Fabio Bucciarelli www.fabiobucciarelli.com

Testata registrata presso il Tribunale di Trento n° 1389RS del 10 luglio 2009 Tutti i diritti di copyright sono riservati ISSN: 2037-3279 ISBN-13: 978-8866810759 Finito di stampare nel febbraio 2015 Grafiche Garattoni - Rimini


Algeria Ciad Costa d’Avorio Liberia Libia Mali Nigeria Repubblica Centrafricana Repubblica Democratica del Congo Sahara Occidentale Somalia Sudan Sud Sudan

Colombia Haiti

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Afghanistan Cina/Tibet Filippine India Iraq Kashmir Kurdistan Pakistan Thailandia Yemen

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Israele/Palestina Libano Siria

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Cecenia Cipro Georgia Kosovo Ucraina

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Editoriale Raffaele Crocco Saluti Amministratori Introduzione Riccardo Noury Introduzione Gabriele Eminente Introduzione Marica Di Pierri Introduzione Francesca Chiavacci Istruzioni per l’uso La Redazione La situazione Raffaele Crocco In cerca della pace/1 Giovanni Scotto In cerca della pace/2 Flavio Lotti Informazione e guerra Pino Scaccia Vittime di guerra/1 Razi e Sohelia Mohebi Vittime di guerra/2 Ruggero Giuliani Vittime di guerra/3 Enzo Nucci Geografia della guerra Rosella Idéo Non solo guerra Enzo Nucci SPECIALE CoNFLITTI AMBIENTALI Conflitti ambientali/1 Cdca Conflitti ambientali/2 Cdca Conflitti ambientali/3 Cdca Conflitti ambientali/4 Cdca Conflitti ambientali/5 Cdca Africa Diritti umani difficili Amnesty International Un laboratorio per la pace Giovanni Scotto SCHEDE AFRICA Inoltre Burkina Faso - Etiopia - Guinea Bissau - Uganda America Violenza e pena di morte Amnesty International Una terra sempre in bilico Giovanni Scotto SCHEDE AMERICA Inoltre Messico Asia Democrazia e Diritti Amnesty International Troppo facile distribuire le colpe Giovanni Scotto SCHEDE ASIA Inoltre Birmania/Myanmar - Cina/Xinjiang - Corea del Nord/Sud Iran - Kirghizistan Medio Oriente Lo scontro Israele-Palestina Amnesty International Sembra finito l’ordine post-coloniale Giovanni Scotto SCHEDE MEDIO ORIENTE Europa Respingimenti Amnesty International La fragilità dell'Europa Giovanni Scotto SCHEDE EUROPA Inoltre Irlanda del Nord - Nagorno Karabakh - Paesi Baschi SPECIALE SVOLTA ISLAM La vecchia Grande Guerra Adel Jabbar Svolta Islam: tutto come prima Ilaria Pedrali Svolta Islam: una prospettiva storica Alessandro Vanoli Svolta Islam: il glossario Alessandro Vanoli Le missioni Onu Nazioni Unite - I Caschi Blu Raffaele Crocco Vittime di guerra/4 Federico Fossi SPECIALE DONNE E GUERRA Donne e Guerra/1 Carlotta Sami Donne e Guerra/2 Estela Carlotto Donne e Guerra/3 Nicole Corritore Donne e Guerra/4 Mario Boccia La pirateria Alessandro Rocca Le vignette di Kako Flora Graiff Non solo Atlante 46° Parallelo Gruppo di lavoro Fonti Glossario Ringraziamenti

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Indice

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Idea e progetto Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento

Edizione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it In collaborazione con Editrice AAM Terra Nuova S.r.l. Via Ponte di Mezzo, 1 50127 - Firenze Tel. +39 055 3215729 info@aamterranuova.it www.aamterranuova.it

© Guillem Valle / MEMO

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PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO

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PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO


Editoriale

Giorni pieni d’odio e di ingiustizia La disuguaglianza alimenta la guerra

UNHCR/S. Schulman

Il Direttore Raffaele Crocco

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’incertezza è se parlare della tragedia di Ebola, gonfiata dall’incapacità internazionale di capire la portata del problema o se affrontare temi più diretti, per quanto riguarda la guerra. Ad esempio, uno Stato Islamico imposto con il terrore; una guerra in Europa, in Ucraina, dagli odori antichi; un massacro che continua nei Territori Palestinesi. Il Pianeta continua ad avere la febbre e le ragioni che portano a conflitti armati, guerre, scontri, si moltiplicano, esattamente come crescono ingiustizie, differenze sociali, disuguaglianze. Il 2014 si è chiuso con pochi risultati positivi. In estate abbiamo, ad esempio scoperto, che sono 63 i Paesi in via di sviluppo che hanno raggiunto l'obiettivo di debellare la fame cronica e altri sei sono sulla buona strada. Il numero di persone al mondo che rischiano la pelle per mancanza di cibo è quindi sceso a 100milioni di individui. Cifra spaventosa, ma in calo netto e costante. Insomma, una buona cosa, che fa il paio con il rallentare di Ebola nei Paesi africani. Per il resto, c’è poco da stare allegri, meglio dirselo subito. Gli economisti, ad esempio, hanno confermato che il divario fra popolazione ricca e povera continua a crescere, in modo esponenziale. Una cosa, questa, che certamente non fa bene ai rapporti fra esseri umani. Così, dal punto di vista della guerra, il 2014 è degno figlio di quel ’14 che cent’anni prima ha dato la stura al massacro che continua anche oggi. Pensate il caso: nella Prima Guerra Mondiale furono 46 i Paesi coinvolti. Oggi abbiamo 33 Paesi in guerra e una decina sono in pericolo. Contate: le cifre tornano. Per capire come non ci sia respiro, basta fare la cronaca di una giornata qualsiasi. A me è capitato di farlo un po’ prima del 15 agosto 2014. Ve la riporto. “Il consiglio dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea, a Bruxelles, ha accolto con “favore" la decisione di alcuni stati membri di armare i curdi iraqueni che combattono i miliziani dell’Isis, il neo creato califfato musulmano. Intanto, in Iraq, continuano i combattimenti, durissimi, fra i peshmerga curdi e i miliziani islamici. Sul monte Sinjar, la minoranza Yazida resta sotto assedio, trecento i morti accertati. In Ucraina, il Governo di Kiev ha confermato l’incursione di una colonna militare russa sul proprio territorio. L’artiglieria dell'esercito avrebbe distrutto gran parte della colonna di automezzi blindati per il trasporto delle truppe. In Libia gli scontri per il controllo della capitale - Tripoli - continuano da giugno, con le delegazioni straniere in fuga. Intanto, a Gaza tiene a fatica la tregua. Le fazioni radicali israeliane e palestinesi non gradiscono i tentativi di pace in corso, protestano. In Nigeria i miliziani integralisti islamici di Boko Haram - gli stessi che hanno rapito e mai rilasciato centinaia di studentesse due mesi fa - hanno sequestrato "decine di persone" fra le comunità di pescatori nel Nord-Est”. Tutto questo, ve lo garantisco, in un solo, assolato e pigro, giorno d’agosto. È davvero difficile parlar bene dell’anno che è passato.


Saluti

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li appuntamenti nelle scuole sono stati una trentina, quasi tre per ogni mese: partiamo da questo per valutare e valorizzare la partecipazione della Provincia Autonoma di Trento al progetto dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo. Lo stiamo sostenendo con convinzione da subito, da quando sei anni fa uscì per la prima volta. Abbiamo puntato a farne uno strumento utile per gli studenti, per mostrargli il Mondo così come non viene quasi mai raccontato. Lo abbiamo diffuso fra le associazioni per dare a chi fa volontariato, a chi vuole operare a favore degli altri, strumenti di valutazione e analisi. Per questa ragione, continueremo a diffonderlo in modo capillare, organizzando incontri e appuntamenti utili ad informare. Lo scrivevamo già lo scorso anno: il Trentino da sempre vuole avere orecchie ed occhi sul mondo. Da sempre la nostra Provincia vuole sostenere progetti, iniziative pensate per migliorare le condizioni di vita e dei diritti di migliaia di essere umani. Conoscere la guerra significa trovare modi per evitarla. Significa lavorare per creare maggiore giustizia. Partendo da qui, da casa nostra. Sara Ferrari Assessore all'università e ricerca, politiche giovanili, pari opportunità, cooperazione allo sviluppo della Provincia autonoma di Trento

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on si deve desistere mai davanti alla realtà, seppure terribile e nemmeno davanti a ciò che si possa perfino definire ineluttabile. Per questo tante donne e uomini continuano un impegno quasi eroico per la comprensione reciproca, fra i popoli e gli Stati e quindi per la pace. L’ATLANTE è uno dei bei frutti del non arrendersi e ogni anno ripropone in modo originale e con approfondimenti tematici la “grande questione”. Papa Francesco ha affermato recentemente che la terza guerra mondiale è già iniziata. La guerra è intorno a noi e dentro di noi e uno degli elementi indispensabili per costruire culture e politiche di contrasto è “conoscere” saper leggere la realtà, saper interpretare il mondo. L’impressione è che la superficialità, cui siamo stati piegati, impedisca di avere chiaro la portata dei problemi. Se la guerra appare confusa con un video gioco, se la viviamo come virtuale non saremo mai in grado di costruire strumenti atti a renderla inutile nella coscienza collettiva e anzi l’atteggiamento davanti alle difficoltà crescenti e al cospetto dei conflitti crescenti sarà di sostegno alla azione violenta. Violenza come risposta alla violenza per poi scivolare nella violenza come risolutrice delle contraddizioni e delle frustrazioni. Sono passati poco più di 200 anni da quando Carl von Clausewitz scrisse che: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”. Da allora la Prussia divenuta Germania, l’Europa e il mondo intero hanno prodotto laghi di sangue che continuano ad alimentare. Troveremo la forza e la coscienza affinché venga il tempo in cui tutto ciò finisca? Diego Schelfi Presidente Federazione Trentina della Cooperazione

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rmai per la terza volta - come si direbbe formalmente, in nome e per conto dell’Associazione Artigiani del Trentino - mi accingo a scrivere qualche frase con il desiderio di fornire un piccolo ma convinto contributo alla realizzazione, alla pubblicazione ed alla diffusione dell’atlante annuale che state leggendo. Con la velata illusione - o, piuttosto, con la neppure tanto segreta speranza - che queste pagine belle, accattivanti, evocative, dolorose, crudeli ne rappresentino comunque l’ultima edizione. L’ultima edizione di un libro che, una volta giunti alla fine e chiuso, spenga nelle sue righe e faccia tacere per sempre gli echi delle molte guerre - quasi sempre lontane da noi, talvolta poco conosciute, spesso perfino dimenticate - che ogni giorno di più distruggono uomini, cose, speranze in larghe zone del nostro pianeta. Se così fosse, significherebbe mettere la parola fine al tempo di guerra per dare inizio ad un periodo di pace dove - in misura uguale per tutti gli esseri umani - vengano garantiti il rispetto, la dignità, il lavoro, il benessere, i diritti, i doveri. Valori che il nostro mondo artigiano - poggiato non sul denaro o sul potere finanziario ma sul capitale umano rappresentato dalla persona con nome e cognome, e non solo numero di cartellino - ha inseguito in passato, insegue oggi, inseguirà in futuro. E, prima o poi, raggiungerà. Tuttavia sappiamo anche come sia difficile strappare la guerra dalla natura umana e come, al tempo stesso, essa sia una opportunità di cambiamento, di sviluppo, di crescita. Da cui il genere umano è uscito sempre un po’ più temprato e più forte. Mentre mi girano in testa le parole di Benjamin Franklin “non c’è mai stata una guerra buona o una pace cattiva”. Roberto De Laurentis Presidente dell'Associazione Artigiani di Trento


Saluti

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a Provincia di Firenze ha sostenuto con determinazione la pubblicazione e diffusione delle varie edizioni dell'Atlante delle Guerre e dei Conflitti. È stato un impegno condiviso da tutti, Giunta e Consiglio Provinciale, convinti che su questi temi occorra un rinnovato impegno, una mobilitazione generale ed una nuova consapevolezza che superi anche le appartenenze alle diverse famiglie politiche. Viviamo non in tempi di pace ma di profondi e pesanti conflitti e violenza diffusa, con forme ed intensità diverse, in tutte le aree del pianeta. Occorre costruire, a partire dalla scuole, dai giovani, nuove e radicate culture di pace, convivenza e solidarietà. È assolutamente necessario un impegno straordinario per garantire maggiore equità sociale e promuovere e tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali a tutti cittadini del mondo. Andrea Barducci Presidente Provincia di Firenze

Enrico Rossi Presidente Regione Toscana

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onoscere, raccontare, spiegare. È questo il ruolo che i giornalisti e l'informazione si devono riprendere. Che devono riaffermare. Per questo il sindacato delle giornaliste e dei giornalisti della Rai Servizio Pubblico ha voluto dare il proprio sostegno alla nuova edizione dell' "Atlante delle guerre". Papa Francesco ha richiamato tutti noi a un rinnovato impegno a "illuminare le periferie del mondo". E' un richiamo al senso profondo e alla missione della nostra professione, del nostro servizio reso ai cittadini. E' la strada per capire che le ingiustizie, gli attacchi alle libertà, in generale ai valori della democrazia, non restano chiuse all'interno dei confini nazionali. Ma valicano le frontiere. Anche per questo ciò che avviene altrove riguarda tutti noi, riguarda ciascuno di noi. Per far crescere questa sensibilità, svolgono un ruolo decisivo l'informazione e, più in generale, la conoscenza. Lo ha spiegato con forza e chiarezza il premio Nobel per la pace Malala Yousafzai, rivolgendosi all'Assemblea generale delle Nazioni Unite: "Permetteteci di combattere la nostra battaglia contro l'analfabetismo, la povertà e il terrorismo. E permetteteci di 'imbracciare' i nostri libri e le nostre penne. Sono le armi più potenti. Un bambino, un insegnante e un libro possono cambiare il mondo. L'educazione è l'unica soluzione. L'educazione prima di tutto". Vittorio di Trapani Segretario dell'Usigrai

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È

diventato un appuntamento questo con l'Atlante delle guerre e dei conflitti del Mondo, giunto alla sesta edizione. Come ogni anno, anche questo volume ci racconta cosa sta accadendo attorno a noi, ci offre una visione d’insieme dello stato di salute del Pianeta. Sono state troppe le guerre in questo 2014 che si è chiuso. Una su tutte pare destinata a colpirci, quella in Ucraina. Lo scontro, fisicamente vicino, esattamente la stessa distanza che divide Trieste da Palermo, ci costringe ad immaginare nuovamente un’Europa alla vigilia di una guerra. È inquietante che tutto questo avvenga esattamente cent’anni dopo l’inizio di quella Prima Guerra Mondiale che ha cambiato faccia al Pianeta. Come sempre - triste tradizione - sono più di 30 i conflitti raccontati. Un numero spaventoso, che moltiplica la sensazione che ingiustizia, mal distribuzione di ricchezza e risorse, diritti umani negati, siano la fotografia quotidiana della vita di miliardi di esseri umani. Le “vite difficili” di chi abita nel mondo sono raccontate efficacemente nel dossier sui Conflitti Ambientali. Spiegare i legami fra ambiente e guerra è fondamentale per riflettere sulle modalità di uno sviluppo economico che potrebbe rovinarci, portarci alla fine di tutto. Fare attenzione a quanto facciamo, alle decisioni che prendiamo per l’ambiente, diventa allora centrale, come cittadini e come amministratori. Avere informazioni, dati, per meglio capire come agire è passaggio determinante. È proprio questa l’utilità di questo Atlante: mette in fila dati, nozioni, informazioni. Ci fa conoscere il mondo, lasciandoci liberi di scegliere cosa fare per migliorarlo.


Introduzione

Da Srebrenica a Kobane

La vita difficile dei Diritti Umani

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Nel 2015 ricorre il ventesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, il peggior crimine commesso in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Migliaia e migliaia di musulmani bosniaci, tutti maschi in età da combattimento, vennero trucidati in un tempo brevissimo, con metodo e sistema, da parte dell’armata dei serbi di Bosnia. I caschi blu olandesi, abbandonati a sé stessi, lasciarono fare. La sorte di Srebrenica era stata decisa il 24 maggio 1995, in una riunione riservata alle Nazioni Unite coi rappresentanti degli stati membri del Consiglio di sicurezza e dei Paesi che avevano truppe nei Balcani. Quel giorno, il generale Bernard Janvier, comandante delle forze Onu in Bosnia e Croazia, chiese ai diplomatici presenti di lasciare alla loro sorte le “zone protette”. Srebrenica era sotto assedio da due anni. Circondata, fiaccata, venduta, sconfitta. Perché penso a Srebrenica e mi viene in mente Kobane? Kobane sta a Srebrenica perché l’una e l’altra sono il risultato di un fallimento estremo, politico e morale, della comunità internazionale degli stati. Srebrenica poteva e doveva essere salvata due anni prima del genocidio, mentre a Kobane lo Stato islamico neanche avrebbe dovuto arrivarci. Nell’aprile 2012 Amnesty International pubblicò l’ennesimo rapporto sulla Siria, una ricerca sull’irruzione sulla scena del conflitto dei gruppi armati islamisti nella zona di Raqqa. Il rapporto conteneva inquietanti testimonianze sulle conseguenze dell’introduzione della sharia, sulle corti islamiche, sulle sanzioni corporali inflitte ai responsabili di “comportamenti anti-islamici”, sull’asservimento delle donne. Oggi, a oltre due anni di distanza, le rassegne stampa sono piene, per l’ennesima volta, di espressioni come “Sin dal 2012, Amnesty International aveva denunciato…”. Quelle frasi dovrebbero essere completate dall’autocritica: “… ma a noi, nel 2012, tutto questo non interessò”. Già, perché all’epoca il nemico era Bashar al-Assad e per sconfiggerlo era necessario finanziare e rafforzare militarmente i suoi oppositori. Il machiavellico Presidente siriano ha lasciato fare. Il suo obiettivo era indirettamente coincidente: lasciar crescere quello che, agli occhi di chi lo considerava un nemico, si sarebbe rivelato un nemico più grande. Ecco come l’allora Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) si è impiantato in Siria per poi farsi metastasi nell’estate 2014 nel Nord dell’Iraq, passando come una ruspa sopra ogni espressione umana che non fosse arabo sunnita. Per poi puntare indietro, verso Kobane, mentre in Iraq le milizie sciite e le forze armate di Baghdad facevano contro-pulizia etnica nei confronti dei civili sunniti. Quando andrà in stampa questo volume, cui anche quest’anno Amnesty International Italia è orgogliosa di collaborare, la sorte di Kobane sarà stata in parte diversa da quella di Srebrenica. Lo prevedo e, nei momenti in cui non lo prevedo, continuo a sperarlo. Riccardo Noury Portavoce Amnesty International


Introduzione

Azione umanitaria e denuncia

MSF e la testimonianza nelle zone di guerra

Gabriele Eminente Direttore Generale Medici Senza Frontiere Italia

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elle zone di guerra Medici Senza Frontiere (MSF) non si schiera con nessuna delle parti in conflitto ma offre cure mediche solo sulla base dei bisogni della popolazione. Mantenere la nostra neutralità è essenziale per riuscire a raggiungere le persone che hanno più bisogno di soccorso e sono più esposte al rischio di attacchi. I conflitti, siano internazionali o interni, hanno conseguenze drammatiche: la paura della violenza o della persecuzione mette in fuga intere comunità, e chi resta spesso non ha accesso alle cure mediche; inoltre i conflitti, oltre a comportare un aumento delle lesioni da trauma, creano grandi problemi anche a chi ha bisogno di cure mediche di routine, come nel caso di complicazioni nelle gravidanze o malattie croniche come il diabete. È il caso dei pazienti, rifugiati siriani, di cui ci prendiamo cura in Libano nel Dar El Zahra Hospital a Tripoli e in altre quattro cliniche nella valle della Bekaa. Ma l’azione di MSF non si limita al soccorso medico: negli anni abbiamo più volte parlato pubblicamente e denunciato gli atti di violenza, la mancanza di accesso alle cure e le crisi dimenticate di cui siamo stati testimoni diretti perché i principi d’imparzialità e neutralità non sono sinonimo di silenzio. Decidere di testimoniare è però sempre una scelta difficile perché in molti casi una denuncia può compromettere la possibilità di continuare a operare nel Paese in questione. Nel 2005, MSF venne espulsa dall’Etiopia per aver pubblicamente denunciato le deportazioni forzate di parte della popolazione civile. Nel 2009 è la volta del Sudan, dal quale vengono cacciate due sezioni di MSF accusate dal Governo di agire in connivenza con la Corte Penale Internazionale. Nel 2014 abbiamo inoltre deciso di condannare pubblicamente i bombardamenti contro i civili nella Striscia di Gaza, durante l’operazione militare israeliana “Margine Protettivo”, così come l'attacco sferrato il 28 luglio contro l’ospedale di Al Shifa a Gaza City, dove lavora anche un’équipe chirurgica di MSF. Numerose sono state poi le testimonianze dirette degli operatori umanitari impegnati in Iraq riguardo i pesanti bombardamenti e attacchi aerei nelle zone Settentrionali e Centrali del Paese che in estate hanno colpito ospedali e altre strutture mediche. In Sud Sudan, anche nel 2014 siamo stati testimoni dei continui sfollamenti dei civili a causa delle violenze tra gruppi armati. Ad aprile abbiamo denunciato la Missione delle Nazioni Unite nella capitale, Juba, per le pessime condizioni di accoglienza riservate agli sfollati nel campo di Tomping. Sempre quest’anno abbiamo presentato “L’impatto della guerra”, un documentario multimediale che racconta una giornata del conflitto in corso in Siria dalla prospettiva degli operatori umanitari, dei pazienti e dei rifugiati. Dopo quattro anni, la guerra in Siria ha ucciso più di 150mila persone, ha costretto più di nove milioni di persone ad abbandonare la propria casa, un terzo delle quali ha lasciato il Paese. Per quanto sconcertanti, le cifre non riescono a trasmettere la reale portata del conflitto e l’impatto che esso ha sulle vite degli individui. Durante tutto il 2014 abbiamo continuato a richiamare l’attenzione pubblica sulla violenza sistematica dei gruppi armati in Repubblica Centrafricana ai danni della popolazione civile, sempre più intrappolata nel conflitto. Anche noi di MSF siamo stati vittime di continui attacchi, che hanno messo a serio rischio la nostra capacità di proseguire nel fornire cure salvavita in quel Paese. È un dato di fatto che la dinamica dei conflitti degli anni recenti mette sempre più spesso “sotto tiro” l’azione medico-umanitaria, e le organizzazioni, come MSF, che la portano avanti. Per questo motivo abbiamo avviato un’iniziativa, “Medical Care Under Fire”, che intende documentare la crescente difficoltà a portare il nostro soccorso alle popolazioni che ne hanno bisogno. Denunciare violazioni del diritto umanitario e denunciare attacchi al sistema umanitario: sono due aspetti centrali nella nostra azione di testimonianza. Azione indispensabile per continuare a portare il nostro aiuto, come facciamo dal 1971, a chi ne ha più bisogno, anche nei contesti di guerra.


Introduzione

Guerra al pianeta

Conflitti ambientali e giustizia climatica

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uesta sesta edizione dell'Atlante viene pubblicata in un anno cruciale per le politiche ambientali a livello mondiale. A fine 2015 si terrà infatti a Parigi la 21° Conferenza delle Parti Onu sul Clima, per discutere (e verosimilmente siglare) un accordo internazionale sulla riduzione delle emissioni clima-alteranti che rimpiazzi il protocollo di Kyoto e che aiuti a contenere l'ormai irreversibile processo di riscaldamento globale entro i 2° medi di temperatura. Si tratta, dopo il vertice di Copenaghen del 2009, del primo momento in cui nuovamente l'attenzione della comunità internazionale, dei media, dei governi, dei movimenti sociali e dei grandi attori economici si concentrerà su un tema che, nonostante i continui allarmi degli scienziati e nonostante incida sempre più pesantemente sulla vita di milioni di persone in tutto il mondo, latita nell'agenda politica globale: il cambiamento climatico. Dopo i buchi nell'acqua dei vertici Onu di Cancun (2010), Durban (2011), Doha (2012), Varsavia (2013) e Lima (2014), contrassegnati da una generalizzata mancanza di volontà politica per l'adozione di impegni concreti e da un assordante silenzio mediatico, sulla capitale francese sono concentrate le aspettative per il varo di una strategia globale. Il complesso gioco delle parti tra Paesi industrializzati e nuovi colossi economici, Cina e India in testa, assieme all'indisponibilità ad un nuovo accordo di Paesi come Canada, Russia e Giappone minano il cammino per un protocollo vincolante. Da anni la comunità scientifica avverte che il punto di non ritorno è pericolosamente vicino: entro il 2050 sarà necessario abbattere del 70% le emissioni se si vuole evitare l’apocalisse climatica. Lungi dall'essere un tema di pertinenza scientifica, il cambiamento climatico si traduce in un verdetto di condanna per una cospicua parte della popolazione mondiale, soprattutto nei Sud del mondo. Migliaia di comunità vedranno inondati o devastati i propri territori, perderanno i mezzi di sussistenza, saranno costretti a migrare. Secondo l'Unep, saranno 50milioni i profughi del clima solo in Africa entro il 2060 a causa della desertificazione galoppante. Allo stesso tempo anche nei paesi industrializzati le condizioni climatiche instabili e l'aumento degli eventi meteorologici estremi mietono ogni anno un numero crescente di vittime, complici i danni prodotti, in termini di dissesto idrogeologico, dalla cementificazione selvaggia e più in generale da una gestione irresponsabile del territorio. È chiaro che, così posta, la questione del clima riguarda da vicino il campo della giustizia sociale e del rispetto dei diritti umani fondamentali. Come è chiaro che molteplici sono le connessioni tra emissioni di gas serra, strategie per il controllo delle fonti fossili, interessi delle grandi multinazionali petrolifere, conflitti armati, conflittualità sociale sui territori e crescita della povertà. Abbiamo provato a rappresentare tutto questo nell'info-grafica di copertina, dedicata - nell’anno che ci auguriamo possa essere una chiave di volta per la lotta al riscaldamento globale - proprio a giustizia climatica e conflitti.

Marica Di Pierri Presidente Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali


Introduzione

Un lavoro quotidiano per la pace Informazione e cultura, strumenti di libertà

Francesca Chiavacci Presidente ARCI

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a responsabilità di chi racconta la guerra è grande. Può limitarsi ad agitare irrazionalità, paure, odio. Oppure stimolare il pensiero. Può generare abitudine e assuefazione. Oppure mobilitare le coscienze. E oggi quella responsabilità è forse ancora più grande. L'ecosistema delle comunicazioni in cui tutti sono connessi (e spesso sono soli) consente di dedicare alla parola “guerra” tante pagine dei giornali, tante immagini delle televisioni, tante foto e video postate sui social network. Oggi raccontare le guerre e i conflitti è possibile come non mai. Ma il rischio rimane sempre lo stesso: non riuscire ad andare oltre scorci parziali, estremamente parziali. Si resta in superficie, si predilige l'aspetto più spettacolare e/o più violento. Eppure le guerre nel mondo, però, non sono solo quelle di cui abbiamo immagini “spettacolari”. Ce ne sono tante altre: sono quelle che una globalizzazione ingiusta e politiche economiche fondate sul predominio dei più forti sui più deboli producono quotidianamente. Le guerre nel mondo, purtroppo, non sono solo quelle di cui gli organismi sovranazionali sembrano occuparsi, ma i tantissimi conflitti che producono centinaia di migliaia di vittime civili e che, a fatica, si affacciano sul grande circuito mediatico. Per questo occorrono strumenti di conoscenza approfonditi e accurati per tenere aperta la prospettiva sulla visione generale. L’Atlante delle guerre fonda la sua “filosofia di racconto” (anche nella sua impaginazione) su questa considerazione: non ci sono guerre ‘più importanti’ o ‘meno importanti’ oppure 'più giuste' o 'meno giuste'. Le guerre nel mondo sono tutte uguali. Informazione e cultura non si limitano ad agitare, ma si fondano sulla conoscenza e forniscono strumenti di consapevolezza. Conoscere significa poter scegliere, imparare significa acquisire libertà. Per questo con grande piacere sosteniamo anche quest'anno la nuova edizione dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti, che è come sempre accurata, aggiornata e frutto di un lavoro collettivo importante e coraggioso. Lo useremo nella nostra attività quotidiana di associazione che da sempre si è battuta per la pace, per l’affermazione dei diritti umani e della giustizia sociale. Ci sono stati momenti in cui il movimento pacifista ha espresso attraverso grandissime manifestazioni in tutto il mondo il proprio dissenso; oggi siamo in una fase diversa, più complessa: la ricostruzione di un senso collettivo di responsabilità, ritrovare forme collettive di discussione è più difficile, ma come ARCI continuiamo con ostinazione a farlo, nelle reti di cui facciamo parte, insieme a tanti e a tante, nelle nostre attività nel territorio, consapevoli che il pacifismo è uno dei nostri tratti identitari. È proprio in momenti come questo che sono utili strumenti per ragionare e discutere e l’Atlante rappresenta uno di questi strumenti, intorno al quale si possono organizzare momenti di dibattito e di iniziativa politica. Continueremo a distribuirlo e consigliarlo ai tanti formatori che credono ancora nella conoscenza come strumento di uguaglianza e libertà per ragionare su come e quanto oggi la guerra rappresenti uno dei mezzi più importanti (forse il più importante) di affermazione di un sistema economico ingiusto, fondato sul disprezzo delle vite umane. Ci servirà per continuare a dimostrare che non è attraverso la guerra che si affermano “civiltà” e “democrazia”.


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3 liberia

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15 costa d’avorio

guinea bissau colombia

CONFLITTI, MISSIONI ONU, INOLTRE

algeria

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SITUAZIONE A DICEMBRE 2014

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kosovo

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nigeria

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burkina faso

sahara occidentale

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haiti

messico

paesi baschi

irlanda del nord

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INOLTRE 1

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3

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Burkina Faso

Messico

Iran

Etiopia

Birmania Myanmar

Kirghizistan

Guinea Bissau

Cina Xinjiang

Irlanda del Nord

Uganda

Corea Nord Corea Sud

Nagorno Karabakh

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MISSIONI ONU

CONFLITTI

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Istruzioni per l’uso La redazione

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Piccola guida alla lettura della sesta edizione Spiegare le ragioni che ci hanno portato a scrivere, trattare e impaginare in un certo modo argomenti e fatti è una tradizione di questo Atlante e, soprattutto, di questa pagina. Ogni anno ripetiamo cose che chi ci legge da sempre dovrebbe conoscere, chi ci affronta per la prima volta è bene sappia. Quando si parla di guerre, vittime, orrore, diventa essenziale dare la giusta chiave, o almeno quella che secondo noi è la giusta chiave. Come ogni anno ci sono delle novità. Abbiamo deciso di raccontare anche "la pace", o meglio quello che si sta facendo per risolvere conflitti e guerre. Grazie alla collaborazione con l'Università di Firenze è nata una sezione che, in ogni scheda conflitto e per ogni continente, traccia il punto sulle azioni positive in corso. Particolare attenzione poi abbiamo voluto dedicarla al mondo islamico, raccontando non solo ciò che accade, ma cercando anche di spiegarne la complessità. Continuano nel frattempo le collaborazioni con Medici Senza Frontiere e Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali: questo ci consente di raccontare la guerra anche da prospettive differenti, più vicine ai drammi delle persone. Si aggiunge anche la collaborazione con MEMO, gruppo di fotografi davvero incredibile. Il risultato lo vedrete in molte delle foto che accompagnano il volume. Gli altri ci sono tutti, come l’anno scorso. L’elemento principale, in questo libro, resta la forma grafica, la scelta di essere Atlante. Lo ripetiamo: ogni guerra ha esattamente lo stesso spazio, il medesimo numero di pagine. Questo per evitare di dare ad una maggiore importanza rispetto alle altre. È una scelta “politica”, che vuole mettere tutte le guerre allo stesso livello. Così, le schede conflitto sono tutte di 4 pagine, divise rigorosamente per continente, come in un Atlante, appunto. Attenzione: in questo - che è un Atlante particolare - troverete delle schede conflitto, non delle “schede - Paese”. Qui si disegna un profilo geografico ad una guerra e, quindi, vi sono schede che non corrispondono a Stati o Nazioni, ma ad aree di conflitto. È una differenza fondamentale. Per l’uso delle parole, cioè per le definizioni che diamo ad ogni aspetto delle guerre, vi rimandiamo anche quest’anno al Glossario che troverete nelle ultime pagine. Leggetelo, perché è importante per avere un criterio univoco e senza incertezze. Le definizioni che diamo non sono scientifiche, lo scriviamo sempre, ma sono una scelta, fatta dopo giorni di discussione. E danno un indirizzo preciso alla lettura. Vi diciamo, poi, che troverete, sotto le carte geografiche di ogni scheda conflitto, i dati sulla situazione profughi e rifugiati. È stata realizzata in collaborazione con l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu e si aggiunge al tradizionale rapporto sul tema che pubblichiamo, come tradizione, nelle ultime pagine. Siamo un Atlante e quindi concludiamo parlandovi delle carte geografiche. Sono quasi tutte messe a disposizione dalle Nazioni Unite, per questo sono in inglese. Unica eccezione è la Carta di Peters, usata da sempre in questo Atlante. Anche questa è una scelta politica. Buona lettura.

Foto in alto UNHCR/E. Colt


La situazione

Raffaele Crocco

Foto in alto UNHCR/F. Noy

UNHCR/ J.Maitem

Siamo 7miliardi e 200milioni, più o meno. Siamo davvero in tanti, ormai, ad abitare il Pianeta. Bene: pensate che 126milioni di individui - cioè appena l’uno e settantacinque per cento di tutti noi - si mettono in tasca il 56 per cento del reddito mondiale. La foto del Pianeta, della ricchezza del Pianeta, nel 2015 è questa. Viene da dire che non è nemmeno una foto di gruppo, visto che sono sempre “pochi intimi” a guadagnare di più. Le statistiche internazionali raccontano anche che 1miliardo e 300milioni di esseri umani sono nella cosiddetta “povertà estrema”: è il 23 per cento della popolazione complessiva. Brutti numeri, pessime cifre, non c’è dubbio. Il divario fra ricchi e poveri cresce ogni giorno di più, in tutto il mondo, non solo là dove storicamente si considera endemica e irrisolvibile la povertà. Persino gli analisti stanno tagliando stime e valutazioni di progresso. Nel 2014, il Fondo monetario internazionale ha rivisto tutte le previsioni. Se, infatti, dopo anni, l’economia degli Stati Uniti è apparsa in ripresa, Russia, Cina e altri Paesi emergenti hanno frenato bruscamente. In Europa il quadro è tutto fuor che omogeneo. Per una Germania che resta “locomotiva” continentale, ci sono Francia e Italia che annaspano. In Cina la crescita si è fermata sulla soglia del 7 per cento e appare in freno anche nel 2015. Nonostante questo, per la prima volta nell’ultimo secolo Pechino ha battuto gli Stati Uniti su un fronte cruciale, il commercio: 3870 miliardi di dollari, tra esportazioni e importazioni, contro i 3820 degli Usa. Intanto, la Russia, impegnata a mostrare i muscoli per la questione Ucraina e in Asia Centrale, paga pegno alle sanzioni economiche decise da Unione Europea e Stati Uniti. In più, il crollo del prezzo del petrolio non ha certo aiutato Mosca. In caduta libera anche Brasile e Sud Africa. Insomma, mondo fermo, eppure continuiamo a consumare e più consumiamo più alimentiamo la “catena dannata”: ricchezza maldistribuita, ambiente devastato, diritti non rispettati. Non ci credete? Allora sentite. Lo abbiamo già raccontato: ogni anno andiamo in rosso nella contabilità planetaria. Nel 2014 il giorno in cui abbiamo esaurito le risorse dell’anno disposizione, iniziando già a consumare quelle dell’anno successivo, è stato il 9 agosto. Ci arriviamo sempre prima: nel 2007 la Terra è entrata in debito il 26 ottobre. Il problema, seguendo questo dato, è semplice ed evidente. Riequilibrare non è solo una questione sociale e un buon antidoto alle future guerre, è anche pura necessità. In gioco c’è la sopravvivenza, legata - è ovvio - alla possibilità di avere risorse. Siamo poco oculati. La Fao scrive, nel suo ultimo rapporto, che ogni anno sprechiamo circa 1.3miliardi di tonnellate di frutta, ortaggi, prodotti della terra. Finiscono nei cassonetti, invece che nella pancia delle persone. Contemporaneamente, circa 100milioni di esseri umani non hanno assolutamente

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Acqua, cibo e petrolio Si cala un tris sul nostro futuro


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cibo e almeno 800milioni sono a rischio fame, proprio mentre la produzione mondiale agricola cresce dell’1,5 per cento all’anno. Una contraddizione: non è il cibo, come quantità, che manca. È la capacità e volontà di distribuirlo in modo equo che affama il mondo. E se non è la fame a creare ingiustizie e ad armare popoli, ci pensa la sete ad innescare scontri e conflitti. Lo dimostra la storia della Siria. Il Paese nel 2014 ha compiuto quattro anni di guerra durissima, con almeno 200mila morti e più di 2milioni di rifugiati. Ma la fuga era iniziata prima e non per ragioni politiche, di ribellione ad una oligarchia di potere. Nel 2010, l’anno prima del conflitto, almeno 800mila persone se ne erano andate per colpa della siccità e per la totale mancanza di acqua. Il grande Eufrate, infatti, è praticamente prosciugato dalle dighe costruite in Turchia. La somma degli eventi - clima e dighe - ha portato alla disperazione intere comunità. In Asia Centrale, la caduta dell’Unione Sovietica un quarto di secolo fa, ha fatto collassare il bacino del fiume Syr Darya, che bagna Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Kazakistan, prima di arrivare al lago d’Aral. Rimasto senza il gas russo a basso costo, il Kirighizistan prosciuga il fiume per generare energia elettrica. Più a valle, uzbeki e kazaki muoiono letteralmente di sete e le tensioni crescono. Cambiamo Paese: l’Arabia Saudita pompa milioni di barili di petrolio e li esporta. Così riesce a pagare l’import più importante, il cibo. Lo Stato saudita è quasi totalmente dipendente per il cibo. Deve comperare tutto, perché non riesce più a produrre nulla, non ha più acqua da impiegare nell’agricoltura. In termini di “geo equilibrio”, dicono gli esperti, è una situazione esplosiva: petrolio contro cibo, un tavolo da gioco pericoloso. Come uscire dalla situazione? Non certo con equilibrio. La soluzione, per ora, è comperare terra, soprattutto in Africa, dove è fertile, c’è sole e, soprattutto, la questione dei diritti di proprietà è praticamente inesistente. Intere comunità vivono nella medesima Regione da secoli, ma non hanno atti che dimostrino la loro proprietà sulle terre. Così, lo Stato le considera sue e chi governa - spesso in modo assolutamente non democratico - le ritiene una proprietà privata. Risultato, le affitta a poche euro a multinazionali, fondi d’investimento, Governi. La sola Corea del Sud, per dire, gestisce di fatto metà Madagascar. Le comunità originarie vengono cacciate, le terre sfruttate e inquinate. Sono 560milioni gli ettari di terra passati di mano negli ultimi anni e il fenomeno - ricordiamolo, si chiama Land Grabbing, cioè accaparramento di terra - cresce. A crescere è anche la popolazione mondiale, sembra non fermarsi più. Ci saranno due miliardi e mezzo di abitanti in più entro il 2050. Per gli esperti, collegando questo dato al consumo delle risorse, avremo un Pianeta allo sbando. Soprattutto perché ad aumentare di numero saranno - ovvio - i più poveri e proprio nei Paesi più poveri. Un corto circuito mortale, che alimenta guerre, scontri, rabbie esplosive. Nel 2014 gli attentati terroristici censiti sono stati diecimila, nel mondo, con diciottomila morti. La guerra non si è fermata in Siria, si è allargata in Nigeria, Repubblica Centrafricana, Mauritania, Ucraina e in decine di altri luoghi. Una situazione difficile. Ne ha preso atto a metà 2014 il Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki-moon, aprendo l’Assemblea generale. “I fantasmi della Guerra Fredda sono di ritorno e le Primavere arabe sono in gran parte degenerate sotto i nostri occhi in una spirale di impotenza - ha detto - La diplomazia è sulla difensiva, indebolita da coloro che credono nella violenza. La diversità è minacciata da estremisti che insistono per imporre la loro visione a tutti. Il disarmo è considerato come un sogno lontano, sabotato da coloro che traggono profitto da uno stato di guerra perpetuo”. Un sabotaggio, viene da dire, che colpisce anche il rispetto dei diritti individuali, la logica della ridistribuzione equa della ricchezza, la necessità di rispettare il Pianeta su cui viviamo. Tutto questo non è solo un sogno lontano. A guardarlo bene sembra solo un incubo troppo vicino.

UNHCR/H. Caux

UNHCR/L. Addario


In cerca della pace/1 Giovanni Scotto

Foto in alto Andrea Cappellini

Andrea Cappellini

L'immagine del mondo che ci restituiscono i mass-media sembra essere una ininterrotta narrazione di violenza. Guerre e conflitti armati dominano l'attenzione dei decisori politici e dei media: come testimonia il lavoro negli anni di questo Atlante, lo fanno in maniera selettiva. Dare una panoramica di tutti i conflitti armati in corso rende necessario un lavoro assai più profondo di ricerca rispetto al flusso di informazioni quotidiano che riceviamo sulle “aree di crisi”. Ancora più difficile ed elusiva, tuttavia, è la documentazione relativa alle iniziative di pace. Anche grazie ai media sappiamo (o crediamo di sapere) molte cose sulle gesta efferate di una milizia, uno stato aggressore o un gruppo terrorista. Poco o nulla sappiamo invece di chi lavora concretamente per la pace nei contesti di conflitto armato. Nel febbraio 2014, presentando insieme a Raffaele Crocco e a Marika Di Pierri la scorsa edizione dell'Atlante, nel Palazzo della Provincia a Firenze, formulammo un'idea semplice: integrare le informazioni sui fatti di guerra con una breve presentazione di iniziative di pace per ciascuno dei conflitti armati presentati nell'Atlante. Nell'iniziativa abbiamo coinvolto un gruppo di studenti del Corso di Laurea “Sviluppo economico, cooperazione internazionale e gestione dei conflitti” e “Studi Internazionali” dell'Università di Firenze. Oggi sappiamo molto di più sulle possibilità e le dinamiche dei processi di pace rispetto a qualche decennio fa. È importante ricordare alcuni principi fondamentali che sono stati il punto di partenza della nostra ricerca: - in ogni situazione di conflitto armato esistono individui, gruppi e organizzazioni che provano a dare un contributo costruttivo, a fermare la violenza e a trovare vie di uscita dalla guerra. - la guerra è solo l'ultimo atto di un deterioramento progressivo dei rapporti politici e della situazione socio-economica di un Paese; - allo stesso modo, la fine di una guerra non significa la fine del conflitto, ma la sua trasformazione in “qualcos'altro”: molto spesso le transizioni dalla guerra alla pace sono lunghe e complesse, con continui rischi di nuove crisi e violenza, e la necessità di un lavoro di lungo respiro per arrivare a una pace giusta e stabile; - le guerre di oggi sono decise da élites molto piccole, ma coinvolgono in genere tutta la società, e spesso basano la loro forza su appelli all'appartenenza identitaria. Per questo tutta la società è chiamata a dare risposte costruttive ai conflitti. Nelle brevi schede che abbiamo realizzato per ognuna delle guerre in atto abbiamo provato a coprire uno spettro ampio del lavoro di pace. Abbiamo presentato il lavoro diplomatico di stati e organiz-

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Conflitti armati e iniziative di pace: l'importanza di sapere cosa si fa


zazioni internazionali, l'attività di mediazione di organizzazioni della società civile internazionale, il lavoro di associazioni locali in difesa dei diritti umani e per la promozione del dialogo, gli esempi di lotta nonviolenta condotti da popolazioni locali, spesso con l'appoggio di reti di solidarietà internazionali, il lavoro trasformativo nei campi della cultura, dell'arte, della musica e dello sport. Tra le fonti che abbiamo utilizzato per rintracciare le iniziative che presentiamo ricordiamo: Insight on Conflict, che documenta iniziative di pace locali (insightonconflict.org); lo Stockholm International Peace Research Institute (sipri.org); l'Annuario 2014 dei processi di pace, curato da Vicenç Fisas della Scuola per la Cultura di Pace di Barcellona (escolapau.uab.cat); diversi siti di organizzazioni della società civile italiana e internazionale (Operazione Colomba, Un ponte per, il blog indipendente israeliano +972 e altri). Infine, per il livello degli stati e delle organizzazioni internazionali ci siamo rifatti anche alle analisi dell'International Crisis Group. Leggendo le schede sulle proposte di pace tutte insieme, speriamo che sia chiara la ricchezza del lavoro, spesso nascosto, che a livello globale viene svolto per dare risposte costruttive al problema della guerra e della violenza su larga scala. È anche chiaro che nessuno ritiene di possedere una bacchetta magica in grado di fermare le guerre. Dodici anni fa, alla vigilia dell'invasione statunitense in Iraq, si parlò della nascita di una “seconda superpotenza”, la società civile globale, in opposizione ai piani di guerra degli Stati Uniti con i suoi alleati. Il tentativo di fermare quella guerra fallì, e forse ha scoraggiato molti, nel decennio successivo: si era decine di milioni, e non siamo riusciti a fermare l'invasione. Ci auguriamo, con le nostre schede sulle attività di pace, non solo di contribuire alla conoscenza di un aspetto poco noto di risposta ai conflitti, ma anche di incoraggiare tutti a dare risposte nuove alla domanda: cosa è possibile fare, per uscire dalla violenza?

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Andrea Cappellini


In cerca della pace/2 Flavio Lotti

Non è bello pensare alla guerra ma siamo costretti a farlo sempre più spesso. La guerra è spaventosa e preferiamo occuparci d’altro. Anche perché siamo già impegnanti a combattere le nostre piccole/grandi guerre quotidiane e per quelle degli altri non ci resta molto tempo. Eppure le guerre non ci danno pace, ci perseguitano. Dilagano, si moltiplicano, si complicano e ci vengono a cercare con il loro carico di orrore e angosce. Sono le guerre dell’era della globalizzazione e dell’interdipendenza. Non conoscono i confini e non li rispettano. Ci piaccia o meno, presto o tardi, in un modo o in un altro finiscono, come è successo a Parigi, per irrompere nella nostra vita. Eppure continuiamo a fingere di non vedere e di non sapere. E quando Papa Francesco parla di “un mondo in guerra”, di “una vera e propria guerra mondiale combattuta a pezzi” ci piace pensare che stia esagerando. Eppure basterebbe prendere coscienza del posto in cui viviamo, di quello che sta succedendo ai nostri confini meridionali e orientali, per capire che la guerra è alle nostre porte (o forse è già entrata nelle nostre case) e che dobbiamo imparare a fare i conti con questa drammatica realtà se non vogliamo esserne travolti. Ecco perché questo “Atlante” deve entrare in tutte le nostre scuole. Perché abbiamo bisogno di aiutare i nostri giovani e giovanissimi a leggere la realtà, a capire cosa sta succedendo e riconoscere il proprio spazio nel mondo. Questo “Atlante” è un ottimo strumento didattico per iniziare o approfondire un percorso di formazione alla cittadinanza che consenta ai nostri giovani e giovanissimi di acquisire le competenze sociali e civiche necessarie per affrontare responsabilmente le sempre nuove sfide del nostro tempo. Il primo merito di questo “Atlante” è che consente di dare uno sguardo d’insieme a un mondo che spesso ci viene proposto in modo parziale e frammentato. Ricomporre ciò che è frantumato aiuta a vincere la paura della complessità e ne facilita la comprensione. Nell’era dell’interdipendenza, le guerre, ancor più che in passato, tendono a intrecciarsi e globalizzarsi. L’Atlante ci consente di dare un po’ di ordine a un mondo disordinato e di intraprendere un viaggio di orientamento lungo i due concetti cardine dello spazio e del tempo. Tutti i conflitti sono localizzati in uno spazio geografico e hanno una “storia” che gli autori dell’Atlante ricostruiscono andando alle radici del problema. L’Atlante è utile per insegnare la geografia universale a scuola. Ma non solo. In questo “Atlante” i Paesi, i continenti, le città, i fiumi, le montagne, le risorse naturali s’intrecciano con la storia, i popoli, le culture, la politica, le religioni, i diritti in una chiara prospettiva di educazione civile. Così è possibile sviluppare un lavoro interdisciplinare estremamente innovativo e stimolare un percorso di apprendimento integrato. Quest’anno, inoltre, “l’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo” incrocia le commemorazioni del centenario della prima guerra mondiale: un evento spaventoso che ha fatto strage di decine di milioni di persone. Si tratta di una grande occasione per trasformare una lezione di storia in un laboratorio di cittadinanza. Quella che noi ricordiamo come la “Grande Guerra” è stata solo la prima di una lunga e impressionante serie di guerre che sono diventate sempre più grandi e devastanti. Nella prima guerra mondiale affondano inoltre le radici di molti dei problemi e delle crisi del nostro tempo. Dunque, rivangare quella tragedia del passato ha senso soprattutto se aiuta i nostri giovani a fare i

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È nella scuola che si formano i cittadini "liberi" del futuro


conti con il tempo presente e con la necessità impellente di immaginare un futuro diverso da quello che oggi può apparire inevitabile. La ricostruzione degli accadimenti di cento anni fa può essere messa a confronto con la realtà dei nostri giorni sviluppando studi, ricerche e dibattiti che possono ruotare attorno a temi e discipline molto diverse: dalla storia (100 anni di guerre), alla geografia (i luoghi delle guerre di ieri e di oggi), dalla letteratura e dalla poesia alla matematica (i numeri delle guerre, delle armi, delle vittime), dalle scienze alla tecnologia, all’economia, dalla filosofia alla religione fino alla musica. Naturalmente il discorso sulla guerra porta con sé il discorso sulla pace e la necessità di far crescere nelle nuove generazioni (che non hanno mai visto in faccia la guerra) la capacità di immaginarla, di desiderarla, di difenderla e di costruirla laddove non c’è ancora. Uno strumento per promuovere e valorizzare questi percorsi è dato dal programma “Dalla Grande Guerra alla Grande Pace” che si propone di trasformare le nostre scuole e le trincee della prima guerra mondiale in un grande laboratorio della cultura della pace, del dialogo e della fraternità. È la scuola, che insieme al suo territorio, alle associazioni e alle istituzioni locali, si riappropria della funzione di “intellettuale sociale” e s’impegna a generare una nuova cultura. Il programma, che ha preso avvio nel 2014 e si concluderà nel 2018, è una grande occasione per investire sui giovani e sulla loro formazione e chiamarli a fare la propria parte per costruire una nuova società liberata dall’incubo della guerra. “È stata una delle guerre più stupide che si potessero immaginare, a parte che la guerra è sempre stupida; ma quella era particolarmente stupida”.
 Giuseppe Ungaretti

Dalla Grande Guerra alla Grande Pace Programma nazionale di Educazione alla Cittadinanza Democratica 2014-2018 Il centenario della prima guerra mondiale è una grande occasione per promuovere l’educazione alla cittadinanza democratica e riscoprire il grande valore della pace. Lo studio di quella tragedia e delle sue consegue può aiutare i giovani a leggere la realtà dei nostri giorni e ad agire responsabilmente. Con questo spirito, il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i Diritti Umani, la Tavola della pace e la Rivista “San Francesco Patrono d'Italia” curata dai Francescani del Sacro Convento d’Assisi, la Rete nazionale delle scuole per la pace e i diritti umani, in collaborazione con la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, l’Ufficio Scolastico Regionale, il Movi, il Mec e l’Agesci del Friuli Venezia Giulia e l’adesione della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee Legislative delle Regioni e delle Province autonome, hanno deciso di promuovere il Programma nazionale di Educazione alla Cittadinanza Democratica denominato “Dalla Grande Guerra alla Grande Pace”. Il programma, che ha un carattere pluriennale (2014-2018), unisce passato, presente e futuro impegnando gli studenti e gli insegnanti in un percorso di studio, ricerca, elaborazione, azione e comunicazione. Lo studio della prima guerra mondiale si salda con la memoria delle tragedie che sono venute nei cento anni seguenti e con l’analisi della realtà del nostro tempo per poi affrontare la più difficile delle domande: Dobbiamo continuare così? È possibile mettere fine a questi cento anni di guerre e voltare pagina? Cosa dobbiamo fare per inaugurare un’era di pace? Il programma sollecita innanzitutto un lavoro in classe sulle parole: guerra e pace. Due parole, come molte di quelle che usiamo tutti i giorni, che conosciamo poco e male e che dobbiamo rigenerare smontandole e ricostruendole. Anche il metodo è importante. Il programma: • mette al centro gli studenti rendendoli protagonisti sin dalla fase dell’ideazione e di progettazione del percorso didattico; • promuove la collaborazione scuola/territorio, tra i diversi istituti, i comuni, le associazioni, i gruppi di volontariato, giornalisti e mezzi di comunicazione; • prevede l’educazione all’uso critico dei media, all’informazione e alla comunicazione valorizzando la capacità dei giovani di comunicare mediante le nuove tecnologie. Il programma è stato ideato ad Assisi nell’ambito del Meeting nazionale delle scuole per la pace, la fraternità e il dialogo del 14 e 15 aprile 2014 ed è parte integrante del percorso pluriennale “Sui passi di Francesco” avviato nel 2013 in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e la Ricerca - Direzione Generale per lo Studente, l'Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione.

Per partecipare al programma rivolgersi al Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani, via della Viola 1 (06122) Perugia tel. 075/5737266 fax 075/5721234 email info@scuoledipace.it www.lamiascuolaperlapace.it www.cittaperlapace.it


Informazione e guerra Pino Scaccia

È una strage. Continua da anni e non ha risparmiato neppure il 2014. Alla fine di ottobre i reporter uccisi erano già 115, addirittura oltre la già tragica media annuale. Oltretutto, con l’avvento dei social netwok, il bilancio sale a 135 poiché ci sono da considerare anche i venti blogger morti (la gran parte in Siria). È la strage dei testimoni, baluardo dell’opinione pubblica, un prezzo molto caro pagato alla libertà d’informazione. Quest’anno, fra le vittime, ci sono anche due nomi italiani (non succedeva da tempo): Andrea Rocchelli e Simone Camilli, in due teatri infuocati, Ucraina e Gaza, facendo così salire a undici il bilancio dei reporter italiani caduti al fronte. Rocchelli, detto Andy, era un fotoreporter piacentino, aveva solo trent’anni ma aveva già fondato il collettivo Cesura.it e si era da tempo guadagnato i galloni del superprofessionista, soprattutto nei territori dell’Est. Stava, insieme ad altri compagni di viaggio, nel centro dell’inferno ucraino, a Sloviansk, quando una pioggia di granate li ha travolti. “Qualsiasi cosa può raccontare una guerra, anche un sasso”, diceva. Il destino ha voluto che morisse proprio in territorio filorusso dopo aver dedicato un reportage appassionato agli “interiors” sovietici. Simone Camilli, romano, di anni ne aveva pochi di più, trentacinque e si dedicava a un altro fronte bollente, la Striscia, culminato nel videoprogetto “About Gaza”. È stato tradito da una bomba-trappola che i palestinesi cercavano di disinnescare. Sposato con un’olandese, ha lasciato una figlia di tre anni. Anche il padre, Pierluigi, è giornalista, ha detto fra le lacrime: “Sono fiero di lui. Non ho mai avuto il suo coraggio”. Oltre agli “incidenti”, nel 2014 si è aggiunto anche l’orrore targato Isis. Non più solo sangue dunque ma una scellerata propaganda in cui soprattutto i giornalisti sono stati presi di mira e usati per propagandare la loro folle dottrina. Le vittime sono decapitate e mostrate in video accompagnati da progetti farneticanti. “Noi siamo uno Stato quindi ogni attacco contro di noi è un attacco ai musulmani di tutto il mondo” è stato il messaggio lanciato dal sedicente Stato Islamico in Iraq e nel Levante” come didascalia alla fine orrenda di James Foley, un cronista di Boston rapito in Siria, e poi di Steven Joel Sotloff, un reporter ebreo americano sequestrato in Libia. Solo i primi, forse,

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Si rischia sempre più la vita per raccontare l'orrore della guerra


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di una lunga scia di predestinati alla vendetta del boia. Due sacrifici bestiali poiché proprio Foley e Sotloff erano noti per le battaglie contro i regimi di Saddam e Gheddafi. Soprattutto per chi si illude di poter trattare con certe bestie va ricordato che l’Isis molto più di al-Qaeda sta facendo stragi senza appoggiare alcuna rivoluzione ma perseguendo l’idea di uno Stato a se stante attraverso un bagno di sangue per chi non si converte, rapendo bambini, vendendo donne al mercato e cercando di conquistare territori, soprattutto in Siria e in Iraq. Il dramma è che a dieci anni dalla morte di Enzo Baldoni non è cambiato proprio niente. Già, l’Iraq. Cominciata nel 2003, la guerra sembra appena cominciata. Basti pensare che sono già trecento i giornalisti uccisi in Mesopotamia, gli ultimi dieci l’anno scorso, secondi nel bilancio complessivo soltanto a Gaza e alla pari con il Pakistan. L’aspetto più doloroso è rappresentato proprio dalle vittime in guerre “antiche” visto che anche in Afghanistan, nonostante più di tredici anni, anche nel 2014 sono state sei le vittime (quaranta in totale) che si affiancano ai conflitti più recenti, come in Ucraina o in Messico dove i reporter pagano il prezzo della denuncia contro i narcos. Particolarmente efferato il delitto di María del Rosario Fuentes Rubio, giovane medico e giornalista che collaborava con il sito di notizie “Responsabilidad por Tamaulipas”. Rapita e poi torturata è stata anche beffardamente umiliata: nel suo profilo twitter sono state diffuse due foto del suo cadavere. Questo è il rapporto completo dei reporter uccisi nel 2014 secondo l’aggiornatissimo sito svizzero PEC (press emblem campaign). Il dato più allarmante riguarda i delitti impuniti che sono sicuramente oltre il novanta per cento: 16: Gaza - 10: Pakistan, Iraq - 9: Siria - 8: Ucraina, Messico - 6: Afghanistan - 5: Honduras - 4: Brasile, Centroafrica - 3: Filippine, Cambogia, Guinea, Paraguay - 2: Libia, Somalia, Colombia, Bangladesh, Turchia - 1: Libano, Congo, Arabia Saudita, Egitto, Panama, India, Rep.Dominicana, Perù, Nigeria, Salvador, Russia, Yemen, Burma. (115 secondo l’ultimo aggiornamento del 31 ottobre 2014). Numerosi anche i reporter morti in terra straniera: 4 Libano, Palestina - 3: Russia - 2: Canada, Italia, Stati Uniti - 1: Svezia, Germania, Francia, Egitto, Iran. I mesi più insanguinati quelli estivi: diciassette morti a luglio, diciotto ad agosto. Particolarmente cruenta la situazione in Siria dove negli ultimi tre anni sono stati uccisi sessanta giornalisti e una ventina di bloggers. Spaventoso il bilancio totale: 700 uccisi negli ultimi cinque anni, 2000 negli ultimi dieci e addirittura 15mila negli ultimi venti. Ma non ci sono soltanto gli omicidi. Ci sono anche i reporter arrestati, torturati, esiliati e imprigionati. Attualmente ci sono in carcere ben 367 giornalisti: 190 professionisti e quasi altrettanti (175) fra bloggers e netizens. Nettamente in testa per la pratica di mettere dietro le sbarre i dissidenti c’è sempre la Cina con un terzo del totale (104). Questa la classifica completa: 104 Cina - 33 Siria - 32 Eritrea - 27 Vietnam - 20 Iran - 14 Egitto - 9 Etiopia e Uzbeistan - 6 Arabia Saudita - 5 Bahrain e Somalia - 4 Russia e Turchia. Ma praticamente ci sono tutti i Paesi del mondo (esclusa l’Italia) ad avere almeno un reporter in carcere: dagli Stati Uniti a Israele, dalla Libia agli Emirati, dal Kenya alla Corea del Nord. In Italia resta molto alto l’allarme per i cronisti minacciati dalla mafia. Quattordici giornalisti attualmente vivono sotto scorta. Le Regioni sono soprattutto tre dove imperversa la criminalità organizzata: Sicilia, Calabria e Campania. Ma il numero delle intimidazioni è molto più alto e offre alcune clamorose sorprese. Nel 2014 infatti sono stati ben 332 i giornalisti che hanno subito minacce secondo gli ultimissimi dati dell’Ossigeno per l’Informazione. Dal 2006 ad oggi sono stati registrati addirittura 2056 casi di particolare gravità. Ed ecco le sorprese se si analizzano le situazioni regionali. Le vittime più numerose (45) in Campania, seguono Sicilia (43) e Calabria (30), cioè le tre Regioni considerate a più alto rischio mafioso. Nello stesso ambito vanno inserite anche Basilicata (34) e Puglia (31). Ma il dato più eclatante riguarda il Lazio che presenta il maggior numero di casi (addirittura 74, quasi il doppio della Sicilia), seguito dalla Lombardia (42, praticamente alla pari con la Campania) e dal Veneto (31). Poi: Emilia Romagna (19), Toscana (16), Piemonte (12), Friuli Venezia Giulia (11), Abruzzo (10), Liguria (6), Marche (5), Umbria (2) e Trentino (1). La conferma cioè delle infiltrazioni mafiose in ogni zona d’Italia. E segno che non ci sono più territori franchi o cosiddette “isole felici”. Un dato è certo: chiunque denunci i malaffari mette paura. Diceva Anna Politkovskaya: “Il giornalista deve produrre reportage, servizi, interviste. E le lacrime che versa nell’una o nell’altra occasione non interessano, in fondo, nessuno. Descrivi quello che vedi, metti insieme dei fatti e analizzali. Punto e basta. Ma rispetto a ciò che pubblichiamo, molte cose restano fuori”.


Vittime di guerra/1 Razi e Sohelia Mohebi

Mentre il numero dei rifugiati politici sta aumentando, in Europa non esistono tutt’ora istituzioni che riguardano interamente i rifugiati politici e dunque questi ultimi si vedono costretti a rivolgersi alle istituzioni che si occupano degli immigrati. Queste istituzioni finché il rifugiato viene riconosciuto tale hanno i programmi di inserimento del richiedente asilo. Ma in seguito, dopo il riconoscimento dello stato del rifiugiato, non esiste una legge organica che apra una prospettiva adatta per lui, che consenta di riconoscere i suoi diritti e doveri, che lo motivi a procedere in un percorso legittimato dalla legislatura, che prospetti un futuro migliore rispetto alla sua situazione precedente. Una situazione che lo ha costretto a lasciare la sua professionalità, la sua attività politica, sociale e artistica. Ed è a questo punto che si chiede di sé: Cosa significa l‘asilo che è stato concesso? Ogni sua successiva attività dipende dalla risposta a questa domanda. Perché questa risposta e capace di precisare le differenze tra la situazione del rifugiato nel Paese di origine, che e stato costretto ad abbandonare di fronte alla minaccia di morte, e il Paese ospitante. La mancanza di una risposta chiara ed organica porta ad una confusione del pensiero, del tutto incapace di distinguere tra rifugiato politico, immigrato e profugo. E allora impossibilitato a creare mercati e reti che siano utili non solo al Paese ospite ma anche al Paese d’origine e per loro stessi. Con l’obiettivo che l’essere umano viva meglio sulla terra, con la terra, creando reti tra vari punti del mondo.

Schema A. Sintetizzando possiamo spiegare la situazione dei rifugiati politici in Europa Meridionale con questo primo schema. Partendo dal livello medio-alto del Paese di orgine entra nel piu basso livello del Paese ospitante. Dopo il riconoscimento dello stato si trova davanti a tre porte chiuse. 1. Impossibilità di tornare indietro. 2. Accordi di Dublino. 3. Mancanza di una legge per ottenere la cittadinanza.

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I rifugiati politici, cittadini del nulla


In questo momento il Paese dell’asilo divente il Paese dell’esilio. L’unica posizione successiva è una caduta libera nel tombino fatto di vari strati 1. Istituzioni di immigrati 2. Assistenti sociali 3. Caritas Questo tombino si allunga finché il rifugiato politico è utile come oggetto del mercato dei progetti dell’emergenza. In seguito, con l’esaurimento di questo mercato loro vengono esclusi dalla società, diventano indifferenti, vanno a creare veri e propri cimiteri in movimento.

Schema B.

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Questo schema riguarda invece i Paesi Nord Occidentali dell’Europa. Il rifugiato politico esce dal livello medio alto della società d’appartenenza per entrare nel livello piu basso del Paese ospite. La differenza tra schema 1 e 2 sta nella garanzia di sopravvivenza che gli viene assicurata. La mancanza però di quella legge organica sopra descritta, lo conduce ad uno stato di depressione andando a creare un’ulteriore forma di cimiteri in movimento.

Schema C. Questo e lo schema ideale nel quale viene illustrata l’efficacia della legge proposta. Il rifugiato esce dal Paese d’origine sempre dal livello medio alto della società per entrare nel livello più basso del Paese ospitante. Ha bisogno di un tempo adeguato per apprendere la lingua, la cultura, creare reti, rafforzare la sua professionalità confrontandosi con le professionalità del Paese ospitante. Sale in questo modo il livello del capitale sociale del Paese ospite. Una volta ritornato nel suo Paese ha la possibilita di creare una nuova rete, rafforzata grazie al ponte nato nel Paese ospitante, alzando così ulteriormente il livello da cui era partito. In seguito le reti crescono sempre più, formano un circolo di reti composto da entrambi i Paesi, permettono la creazione di mercati che prima non esistevano.


Vittime di guerra/2 Ruggero Giuliani

Da quando nei primi mesi dell’anno, il virus Ebola ha fatto la sua comparsa nella Regione dell’Africa Occidentale, poco meno di 5mila sono stati i decessi registrati e quasi 14mila il numero totale dei casi (confermati, probabili e sospetti) secondo i dati diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms, 29 ottobre 2014). Dalla Guinea, dove l’epidemia è stata confermata per la prima volta il 22 marzo 2014, il virus si è rapidamente diffuso in Liberia, Sierra Leone e, con un’estensione contenuta, in Nigeria, Senegal e Mali. Travalicando il continente Africano, Ebola è persino arrivata negli Stati Uniti e in Europa anche se con una trasmissione localizzata e casi sporadici. Il virus è apparso per la prima volta nel 1976 nella Repubblica Democratica del Congo, ha un’altissima mortalità ed è estremamente contagioso. La malattia ha una breve durata, massimo due settimane, e una sintomatologia che ricorda il colera. Il contagio può avvenire tra malati e personale sanitario, per la mancanza di misure igieniche e di protezione, e tra i familiari del malato attraverso i fluidi corporei. Inoltre, il contatto diretto con i defunti durante i funerali probabilmente ha avuto un ruolo rilevante nella diffusione della malattia nei Paesi colpiti. In mancanza di farmaci e vaccini, la prevenzione si affida al rispetto delle misure igienico-sanitarie, alla capacità di una diagnosi clinica e di laboratorio precoci e all’isolamento dei pazienti e al monitoraggio dei contatti ad alto rischio. La Liberia - un Paese che negli ultimi anni tentava con difficoltà di riprendersi da quattordici anni di guerra civile che ha martoriato intere generazioni - ha registrato finora il numero maggiore di casi, soprattutto a Monrovia, dove Medici Senza Frontiere ha allestito il più grande centro per il trattamento dell’Ebola mai messo in piedi. Del resto, ci troviamo di fronte a uno scenario completamente nuovo rispetto a ciò cui abbiamo assistito nel passato. È un’epidemia aperta che raggiunge zone urbane, non confinata a pochi villaggi come nel passato, e a un numero di casi elevatissimo. L’impatto dell’Ebola sulle relazioni familiari e sociali è devastante perché costringe le persone a mantenere un distacco impensabile nella cultura africana, per la quale il contatto attraverso le strette di mano o l’assistenza ai familiari malati è un obbligo morale. Il non potersi toccare, insieme alla paura generata dai sintomi del virus favoriscono l’estrema diffidenza gli uni verso gli altri e verso le strutture sanitarie mentre cresce la stigmatizzazione verso chi è stato colpito dall’Ebola, anche se è sopravvissuto e ha sconfitto la malattia. Per la cultura africana, inoltre, i funerali sono veri e propri eventi sociali. Il rispetto dovuto ai defunti è molto sentito e c’è l’abitudine di lavarne il corpo in una cerimonia che coinvolge tutta la famiglia e la comunità di appartenenza. Ora invece i cadaveri vengono prelevati e trattati in modo che non possano trasmettere il virus e seppelliti senza rispettare usi millenari. Tutto ciò sta letteralmente cambiando la società dei Paesi colpiti. Gli operatori sanitari che hanno assistito i primi malati sono stati anche i primi ad ammalarsi e morire e continuano a essere le persone più esposte al virus. Il sistema sanitario liberiano si stava avviando, dopo la fine della guerra, verso un lento ma progressivo sviluppo. L’epidemia di Ebola l’ha

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Sempre più difficile portare aiuto dove è necessario


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fatto collassare: molti operatori sanitari sono fuggiti spaventati e le strutture, sia pubbliche che private, hanno chiuso per mancanza di personale. Come conseguenza, le persone che si ammalano per altre malattie comuni come la malaria, endemica nel Paese, non hanno più accesso alle cure. A causa della perdita di fiducia nelle strutture sanitarie, gli stessi malati preferiscono restare a casa e non farsi curare perché temono di morire comunque a causa dell’Ebola. Inoltre, anche chi vorrebbe recarsi presso un ospedale spesso non ha i mezzi per farlo dato le poche ambulanze disponibili. L’Ebola ha colpito al cuore anche le economie dei Paesi coinvolti nella lotta all’epidemia: le aziende straniere hanno interrotto o diminuito all’osso le attività nei Paesi; per paura del contagio, diverse compagnie aeree non volano più sulle capitali e ciò impedisce alle risorse e la manodopera di circolare, il che ha effetti drammatici sull’agricoltura e l’industria. Secondo un allarme lanciato dalla Banca Mondiale, la paura e il panico provocati dal virus potrebbero avere effetti sull’economia anche più devastanti di quelli provocati dall’Ebola in sé e per sé. Le scuole sono chiuse. I prezzi sono aumentati vertiginosamente mettendo a rischio la sicurezza alimentare di molte persone. Il Governo ha concentrato tutte le risorse nei programmi per combattere il virus mentre diversi progetti di sviluppo internazionali sono stati interrotti. Un'altra sfida che il Governo liberiano, e non solo, dovrà affrontare è la questione degli orfani del virus. Si tratta di una dinamica comune ad altre epidemie, come ad esempio quella dell’HIV/AIDS: molti bambini rimangono da soli perché tutti i membri della loro famiglia sono morti e le comunità di appartenenza non li accettano perché temono possano essere portatori del virus. A Monrovia, è stata istituita una prima casa di accoglienza per questi bambini, il cui numero è destinato tristemente ad aumentare. Per questo l’attività di sensibilizzazione è fondamentale: spiegare la malattia aiuta la popolazione a proteggersi, ad assistere i malati in modo sicuro e soprattutto ad accettare i “sopravvissuti”, persone speciali perché ormai immuni al ceppo del virus che hanno contratto e che stanno avendo un ruolo fondamentale nei centri Ebola e al di fuori di essi. È difficile fare previsioni sulla fine dell’epidemia, soprattutto se l’impegno della comunità internazionale non aumenterà in fretta. La lotta contro questa epidemia va ben oltre il controllo del contagio. Mentre migliaia di persone sono morte di Ebola, molte altre stanno morendo per malattie e problemi medici facilmente curabili. Le strutture sanitarie hanno bisogno di supporto per tornare a lavorare e ridurre i tassi di mortalità e le sofferenze causate da altre malattie. La reazione del mondo a questa epidemia senza precedenti resterà impressa nei libri di storia. È una crisi regionale con implicazioni economiche, sociali e di sicurezza che vanno ben oltre le frontiere dei Paesi colpiti. Per la Liberia, in particolare, l’Ebola sta rappresentando un ulteriore fardello sul difficile cammino verso la rinascita. C’è dunque bisogno di uno sforzo massiccio per sostenere la ripresa.


Vittime di guerra/3 Enzo Nucci

“Medici uccisero pazienti, insegnanti uccisero alunni, studenti uccisero i propri compagni, sacerdoti uccisero i propri parrocchiani” scrisse lapidariamente un giornalista per spiegare la lucida follia di massa che infiammò il Rwanda (ufficialmente per cento giorni) a partire dal 6 aprile 1994 ma con lunghe e cruente appendici anche negli anni successivi. A distanza di 21 anni è ancora difficile comprendere fino in fondo i motivi del “genocidio più spaventoso dopo lo sterminio nazista degli ebrei ed i campi della morte cambogiani”, come recita un quadro affisso in uno dei tanti memorial che costellano il Paese delle “mille colline”. “Un olocausto africano” secondo il generale canadese Romeo Dallaire che guidava i caschi blu dell’Onu. Negli archivi televisivi è ancora possibile rintracciare le immagini di caterve di cadaveri (meticolosamente mutilati) che galleggiavano come tronchi d’albero sulle acque rosse di sangue del fiume Akagera fino al lago Vittoria, cento chilometri più a valle. Sul numero delle vittime è però guerra di cifre. Più di un milione e quasi tutti Tutsi, secondo il Governo guidato dal Presidente Paul Kagame, di etnia Tutsi. Sarebbero invece tra 500mila e 800mila i morti complessivi tra Hutu e Tutsi, con una preponderanza di questo gruppo razziale. A sostenerlo sono alcune autorevoli fonti che si rifanno ad un censimento del 1991 secondo cui i Tutsi residenti in Rwanda erano solo 600mila. Queste polemiche non sono secondarie perché soltanto riferirle può costare l’accusa di negazionismo che anche agli stranieri può spalancare le porte del carcere nella dolce nazione delle “mille colline”. Sicuramente il genocidio proseguì nelle foreste della Repubblica Democratica del Congo fino al 1996-’97 ma a parti inverse: migliaia di Hutu furono massacrati dalle truppe Tutsi. Insomma le atrocità furono commesse da entrambe le parti ma è vietato affermarlo. Il Rwanda è il Paese più cristianizzato d’Africa: 65% di cattolici e 15% di protestanti. Insomma la stessa fede religiosa condivisa dalle due etnie maggioritarie non bastò a fermare l’odio. Anzi furono decine i preti coinvolti a vario titolo nelle stragi. Ed anche oggi le divisioni continuano a segnare profondamente la chiesa locale. Lo sterminio del ’94 (preceduto da analoghi tentativi nel 1959 e 1963) fu opera di una élite istruita e moderna che usò tutti gli strumenti a sua disposizione. Insomma niente a che vedere con una guerra tribale, come frettolosamente fu catalogata da una informazione internazionale distratta dalle prime elezioni libere in Sudafrica. Gli assassini erano complici di un sistema criminale e agirono seguendo una logica più volte ripetuta nel corso dei processi: se gli Hutu non sterminavano i Tutsi, sarebbero stati i Tutsi a sterminare gli Hutu. Secondo la tradizione orale (poiché mancano documenti verificabili), gli Hutu (popolo di origine bantu) arrivarono in Rwanda da Sud e Ovest. Poi giunsero i Tutsi (di origine nilotica) da Nord ed Est. Per secoli hanno condiviso lingua, usanze, cultura: si sposavano tra di loro ed era difficile distinguerli dall’aspetto fisico. Gli Hutu

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Rwanda, l'Olocausto Africano non si può dimenticare


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dediti all’agricoltura, i Tutsi all’allevamento. Così questi ultimi divennero sinonimo di élite politica ed economica perché il bestiame è una fonte di reddito più remunerativa rispetto ai frutti della terra. I motivi dello scontro vanno individuati nella pressione demografica in una piccola nazione prevalentemente agricola e la conseguente competizione per le poche risorse a disposizione, con l’aggiunta della politica di segregazione imposta dalle autorità coloniali belghe che alimentò il razzismo latente tra i vari gruppi. Quando il 6 aprile 1994 fu abbattuto con un missile l’aereo che riportava nella capitale Kigali il Presidente Habyarimana, tutto era già pronto per innescare la spirale di violenza anche se la responsabilità dell’attentato non è stata ancora accertata: estremisti Hutu o i Tutsi del Fronte Patriottico Ruandese guidati dall’attuale Presidente Paul Kagame? Le numerose inchieste giudiziarie non hanno dato risposte certe. Determinante inoltre fu il ruolo delle potenze straniere che non hanno mai risparmiato l’aperto appoggio militare alle fazioni in lotta. La Francia infatti forniva al regime Hutu armi e consiglieri, curando anche l’addestramento delle milizie. L’esercito Tutsi (che nella controffensiva conquistò il Paese) era invece supportato da Uganda e Stati Uniti. La missione di assistenza delle Nazioni Unite si rivelò un grande fallimento per l’incapacità di fermare le violenze. La mancanza di chiare regole di ingaggio (conseguenza della inadeguatezza nella gestione politico-militare del conflitto) costrinse i caschi blu ad assistere inermi alle stragi di civili. 12mila tribunali comunitari hanno giudicato dal 2002 al 2012 i responsabili delle violenze: quasi due milioni di casi esaminati da giudici scelti tra la popolazione. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno però criticato l’operato di questi tribunali perché i giudici non erano sufficientemente formati mentre gli accusati non hanno avuto diritto a difensori professionisti. Senza contare che sono rimasti impuniti i crimini compiuti dai militari di Kagame nel ’95, definiti benevolmente “sbavature” nei combattimenti. I processi sono stati finalizzati alla riconciliazione del Paese per ritrovare le ragioni della convivenza. Ma molti gruppi e analisti accusano il Governo di aver fatto solo una operazione di facciata. Insomma la brace dell’odio continua ad ardere sotto la cenere pronta a riaccendere il fuoco della violenza. Oggi il 65% della popolazione è sotto i 35 anni. Metà dei ruandesi ha meno di 15 anni. Questo giovane Paese avanza a passi da gigante. È la terza economia più attrattiva del continente africano. Gli aiuti esteri per la ricostruzione hanno dato impulso alla crescita e rappresentano il 40% del bilancio dello stato. Ma sono stati bene investiti anche per il basso tasso di corruzione che pone il Rwanda al quarto posto tra i meno corrotti in Africa. Tra il ’94 ed il 2012 la percentuale di abitanti che vive sotto la soglia di povertà è passata dal 78% al 45%. Volano le esportazioni di minerali, tè e caffè, tra i migliori al mondo. Gli analisti definiscono il Rwanda una “dittatura dello sviluppo” sul modello di Cina e Singapore. Tutto questo facilita l’afflusso di capitali ed investitori dall’estero. L’obiettivo è trasformare la nazione nel centro nevralgico della Regione dei Grandi Laghi africani. Per questo un quarto del budget statale è stato investito in infrastrutture, tra cui una estesa rete di fibre ottiche che fa del Rwanda un Paese all’avanguardia nelle tecnologie informatiche. La crescita ha favorito essenzialmente le élites urbane. Nelle zone rurali invece la vita resta dura. È una nazione (poco più grande della Sicilia) che con i suoi 11milioni di abitanti è sovra popolata e con un tasso di fertilità altissimo a fronte di una coltivazione intensiva che sta impoverendo la terra. Insomma la bomba demografica e la scarsità di risorse rischia di riaccendere il conflitto. “La dittatura dello sviluppo” ha convinto donatori ed investitori occidentali a chiudere gli occhi di fronte alla deriva autoritaria del regime. In Rwanda c’è un solo partito, quello del Presidente appunto, ed i suoi avversari finiscono regolarmente in prigione o nel peggiore dei casi “spariscono” nel nulla. La libertà di stampa non esiste. Insomma la memoria del genocidio è controllata dai Tutsi che occupano i posti di comando mentre gli Hutu (maggioritari) non hanno un grande peso anche quando occupano posizioni di alto livello. Il conflitto rimane dietro l’angolo.


Geografia della guerra Rosella Idéo

Park Geun Hye, Presidente della Repubblica di Corea (RdC) ha rilanciato il dibattito politico interno e internazionale sull’unificazione con la Repubblica Popolare Democratica di Corea (RpdC) nel gennaio 2014 usando una metafora a effetto: ”l’unificazione è un jackpot”. Ha abbozzato il progetto intorno ai tre principi di “umanità, co-prosperità e integrazione” a Dresda (marzo) e all’Onu (settembre). L’unificazione fa parte del Dna di tutti i coreani dopo la divisione del 1948, ma a breve o medio termine sarebbe possibile realizzarla solo nello sciagurato caso in cui la RpdC implodesse con conseguenze economiche e sociali inimmaginabili. In realtà la successione di Kim Jong Eun al padre, a fine 2011, è avvenuta senza scosse e nel segno della stabilità. A Seoul l’opposizione progressista, ma anche alcuni esponenti di peso del partito conservatore al Governo, tacciano d’inconsistenza la visione di Park. Pyongyang ha rimandato rabbiosamente la proposta al mittente, sostenendo l’intenzione della Presidente di far cadere il regime e “assorbire” la RpdC come lo fu la Germania Est nella Germania Ovest (interpretazione condivisa da alcuni analisti) senza tenere in considerazione l’annosa proposta di confederazione avanzata da decenni dal Nord e gli accordi stretti dalle due Coree negli storici incontri del 2000 e del 2007 fra il padre di Kim Jong Eun e i due Presidenti progressisti, Kim Tae Jung e Rho Moo Hyun (1998-2008). Accordi buttati subito a mare dal predecessore di Park, membro dello stesso partito conservatore. Va sempre ricordato che tra i due stati coreani, nati “con” la guerra fredda, vige ancora ufficialmente l’armistizio del 1953 a conclusione di un atroce conflitto civile e internazionale che ha lasciato sul terreno circa tre milioni di morti fra i soli coreani, dieci milioni di famiglie divise e un Paese in macerie. Le conseguenze di quei tre anni che hanno sconvolto un Paese unito, ma socialmente massacrato da trentacinque anni di colonialismo giapponese, sono ancora presenti. I rapporti fra i due Stati, ufficialmente ancora in guerra, sono stati punteggiati da continui incidenti e dal taglio netto di qualsiasi rapporto fra gli abitanti delle due parti della penisola. Odio e sospetto reciproco hanno continuato ad avvelenare i rapporti fra le due metà del Paese in cui si erano polarizzate ideologie opposte, senza vie di mezzo. La dittatura al Nord e quelle al Sud giustificarono con il paradigma della guerra fredda la violenza (epurazioni torture carcere duro rapimenti e assassinio degli oppositori) contro i propri cittadini. Sia chiaro. Senza la firma della pace non potrà mai esserci unificazione; senza la volontà politica dei grandi non ci potrà mai essere la pace nella penisola. Senza un sistema di sicurezza collettivo in Asia Orientale, percorsa da vecchi e nuovi elementi di tensione, non si può creare un processo di distensione simile a quello iniziato a Helsinki nel 1972 con la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa che ha, in seguito, permesso importanti iniziative diplomatiche: tra cui la

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Coree, qualcuno ci crede L’unificazione è nel dna dei coreani


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riduzione degli armamenti nucleari e l’unificazione della Germania. Va detto che la stampa internazionale parla quasi esclusivamente della dittatura dei Kim, anche perché la RpdC, isolata e oberata di sanzioni, si è riprodotta fino ad oggi sempre uguale a se stessa e perché le patenti violazioni dei diritti umani del regime sono state denunciate dall’Onu con la richiesta di portare i responsabili, Kim Jong Eun in testa, alla Corte Penale Internazionale dell’Aia con l’accusa di crimini contro l’umanità. Occorre che la diplomazia si rimetta in moto al più presto. Si può e si deve fare. A Seoul e Washington si dimenticano le dittature militari di Park Chung Hee (1963-1979), padre dell’attuale Presidente, e di Chun Do Hwan (1980-1988). L’America, che con l’amministrazione Obama ha seguito la politica della “pazienza strategica” con Pyongyang (i.e. del non far nulla), dimentica di essere stata ben conscia della sistematica repressione che il suo alleato compiva contro i suoi cittadini e di aver continuato a fornire aiuti economici e militari alle due giunte dando priorità alle esigenze della guerra fredda. Jimmy Carter fu l’unico dei presidenti americani a far pressioni su Park-padre perché rilasciasse i prigionieri politici e rispettasse i diritti umani e fu criticato sia da alti funzionari del suo governo sia da Park. Chun, salito al potere con un colpo di stato, responsabile dell’eccidio di civili a Kwanju nel 1980, nel 1981 fu il primo Presidente straniero ricevuto da Ronald Reagan. Solo nel 1992 la repubblica del Sud ebbe il suo primo Presidente civile e divenne una democrazia. Come ricorda K.H.S. Moon, studiosa americana della Brookings Institution, il record negativo di Pechino sui diritti umani non ha impedito che gli Usa stabilissero con il grande Paese asiatico relazioni diplomatiche nel 1979 e un dialogo economico e politico proficuo che si è approfondito anche nelle due riunioni internazionali asiatiche (Apec e Asean) del novembre 2014. L’assenza di dialogo con Pyongyang non giova a nessuno; tantomeno ai prigionieri dei gulag. Le esercitazioni militari congiunte che Washington e Seoul mettono in campo ogni anno, con un’esibizione di forza impressionante, giovano ai produttori di armi, ma non alla necessaria distensione intercoreana. Secondo molti analisti la scelta del nucleare e la volontà di mantenerlo sono decisioni razionali del governo nordcoreano per difendersi e non per attaccare Seoul e tantomeno gli Stati Uniti come minaccia la retorica roboante del regime. In entrambi i casi, il piccolo Paese sarebbe raso al suolo. Kim Jong Eun diffida, come il nonno e il padre, anche dei Paesi amici e di possibili complotti all’interno del suo apparatnik, magari con appoggi esterni, per scalzarlo dal potere. Alla fine del 2013 ha passato per le armi, Jang Song Taek, marito della zia paterna, che era l’interlocutore privilegiato di Pechino, accusandolo di aver svenduto preziose materie prime proprio al grande vicino. Per ovviare all’onnipresente presenza cinese e cercare di attenuare le pesanti conseguenze delle accuse formulate dall’Onu sull’obbrobriosa situazione dei diritti umani, la diplomazia “a sorpresa” (come la chiama Moon) della RpdC si è messa in campo a 360 gradi cercando di diversificare i suoi interlocutori e ha raggiunto Seoul, Tokyo, l’Europa, l’Onu, Mosca, Washington e alcuni Paesi africani. Una disponibilità che non va presa come moneta sonante. Il cinismo è di casa sia Nord sia a Sud del 38° parallelo. Papa Francesco nella sua prima fruttuosa visita in Asia Orientale ha cominciato dalla Corea del Sud. Il pontefice, consapevole dell’intricata questione coreana e delle colpe di entrambe le parti, ha invitato i fratelli divisi all’unità senza “vincitori né vinti”. Ai sudcoreani ha ricordato i limiti dello straordinario sviluppo economico: la marginalizzazione dei deboli e degli oppressi. Non avrebbe potuto dire meglio e di più.


Non solo guerra Enzo Nucci

La storia di Ebola ricorda molto da vicino quella dell’Aids, un’altra malattia che non a caso ha fatto la sua comparsa proprio in Africa ed è rimasta ignorata per lungo tempo, almeno fino a quando la comunità gay (principalmente) ha costretto i governi occidentali a fronteggiare l’emergenza. Il risultato è che oggi l’Aids non è incurabile. I pochi casi di occidentali contagiati dal virus hanno avuto una eco enorme sui mezzi di comunicazione di massa. Sono stati passati al setaccio i loro spostamenti, le rotte aeree utilizzate e ricostruiti con maniacale precisione luoghi e persone frequentate, senza tralasciare i particolari. L’incubo del contagio è una minaccia per tutti: nessuno può sentirsi escluso. Le quasi 9mila vittime (a gennaio 2015) registrate in Africa restano invece una massa indistinta, un ragionieristico esercizio di “body count”. Ebola ha bussato alla porta di giornali, radio e televisioni internazionali quando era già emergenza. È diventato argomento degno di attenzione solo quando il contagio ha minacciato le case degli occidentali, focalizzando l’attenzione sugli aspetti più “spettacolari” dell’infezione. Quando a settembre 2014 sono andato a Monrovia (in Liberia) per la Rai, mi sono accorto (ed ho cercato di raccontare al meglio) dell’impatto avuto a livello domestico dal contagio. La chiusura (o il blocco) di quella miriade di piccole attività commerciali e artigianali (che costituiscono l’ossatura dell’economia urbana) ha mandato in tilt la struttura familiare, nucleo sociale fondante della società liberiana. Nelle zone rurali la paura del virus ha fermato la coltivazione dei campi, aggiungendo problemi a problemi. La chiusura (totale o parziale) di porti e aeroporti (ed anche frontiere) ha innescato un aumento indiscriminato dei prezzi dei beni di prima necessità che scarseggiavano nei mercati. Il riso, alimento base delle popolazioni locali, ha raggiunto prezzi stellari, fuori della portata della gente comune. E poi molte medicine (anche le più comuni) sono sparite dalle farmacie. Tutto questo ha alimentato il mercato nero che ha arricchito i soliti noti. Ma la prima battaglia che le autorità locali hanno dovuto sostenere è stata quella di far capire alla gente l’entità del contagio ed i rischi correlati. Nella baraccopoli di West Point abitano 75 mila persone che vivono essenzialmente di pesca. Solo 4 latrine pubbliche funzionanti, donate da sponsor privati. Niente sistema fognario, acqua corrente ed elettricità. Un terreno di coltura ideale per Ebola. Ad agosto il governo aveva deciso di isolare lo slum vietando ingressi ed uscite. Immediata la rivolta costata la vita a tre manifestanti uccisi dalla polizia, perché l’isolamento dello slum avrebbe condannato a morte gli abitanti impossibilitati a pescare e commercializzare il pescato. Lo slogan dei contestatori era: Ebola è una invenzione del governo, l’ennesimo modo per spillare denaro alla

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Informazione e Ebola, quando un pericolo è a lungo sottovalutato


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comunità internazionale. La classe politica liberiana è infatti tra le più corrotte al mondo e la percezione popolare non fa sconti, Per questo il governo ha dovuto sostenere una massiccia campagna di informazione. “Ebola è reale, ebola uccide” è lo slogan ripetuto come un mantra da radio, televisioni, giornali, manifesti stradali, ma è anche il messaggio diffuso da canzoni didattiche che consigliano i comportamenti da tenere per non infettarsi. Poi è stato necessario far capire l’importanza di dichiarare in tempo utile i sintomi del virus e fidarsi dei medici. Poi i sopravvissuti hanno dovuto affrontare l’ostracismo delle famiglie e delle comunità: è lo stigma della malattia. Chi è guarito è infatti considerato ancora un potenziale “untore” ed in contatto con forze malefiche specialmente per le popolazioni delle zone rurali, dove è alto il tasso di analfabetismo e dove è radicata la credenza nei guaritori tradizionali. Tutti aspetti non secondari del contagio che hanno scosso le basi della convivenza, meritevoli di essere raccontati alla comunità internazionale per far capire il difficile contesto d’azione anche dei nostri medici e volontari impegnati sul campo. I giornalisti italiani hanno avuto un bel da fare per spiegare che i migranti che sbarcavano in Sicilia non erano portatori di Ebola: avevano alle spalle lunghi viaggi non compatibili con le tre settimane di incubazione del virus. L’infezione è stata comunque oggetto di speculazione politica anche negli Stati Uniti, dove il presidente Obama ha dovuto rintuzzare gli attacchi dei repubblicani che gli contestavano di sprecare energie e dollari per l’Africa, continente in grado di esportare solo guerre ed epidemie. Le proteste si sono intensificate durante il primo vertice Stati Uniti-Africa tenutosi a Washington, convocato da Obama per la difesa e lo sviluppo degli interessi americani in materia di risorse e sicurezza nel continente. Ma i repubblicani hanno anche accusato il presidente di aver sottostimato la diffusione dell’epidemia negli Usa, “costringendolo” ad abbracciare un’infermiera appena guarita. Se la rete televisiva Cnn di Atlanta si è lanciata in un ardito paragone tra Ebola e Isis, la consorella planetaria Al Jazeera di Doha ha cercato di rassicurare, diffondendo statistiche sul più alto numero di vittime per influenza stagionale. Nella rete internet il solito caos: a fianco di una seria informazione diffusa da autorevoli siti impazzavano le notizie più strane e contraddittorie. I media si sono mediamente soffermati sulla realtà effettuale, senza spiegare che Ebola è il frutto della povertà, della mancanza di strutture igieniche di base, della miseria in cui vivono le disastrate popolazioni di Sierra Leone, Liberia, Guinea, tre Paesi che condividono un difficile passato di sanguinose guerre civili (ancora tutto da dimenticare) ed un impossibile presente dominato da classi politiche rapaci e corrotte, tese all’arricchimento in tempi brevi. Paesi che siedono su un tesoro di pietre preziose e minerali rari, che sono anche la loro condanna per gli appetiti che stuzzicano, in primis delle potenze occidentali e cinesi. Poca o scarsa attenzione è stata data dai media italiani alle responsabilità della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che ha sottovalutato l’epidemia facendo scattare l’allarme in ritardo. Da non sottovalutare i pesanti tagli (dovuti alla crisi mondiale) apportati ai budget dell’Oms, con la conseguenza di fermare le ricerche sul vaccino e di sciogliere i team preposti a studiare il virus, fino al licenziamento di scienziati e personale che avevano acquisito specifiche conoscenze in materia. La diffusione di Ebola è in netto calo, ma questo non significa che sia sparito: fa parte del normale andamento del virus, isolato già nel 1976. Una tregua che dovrebbe consentire ai media di ragionare su un virus che è appoggiato sulla spalla di ciascuno di noi, pronto a ghermire i più deboli.


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SPECIALE CONFLITTI AMBIENTALI


Conflitti Ambientali/1 Cdca

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Allargare lo sguardo per capire se la guerra può avere confini Raccontare la guerra non è semplice. Si può scegliere di farlo parlando solo della linea del fronte, oppure scrivendo di questo o quel conflitto solo per la durata di un bombardamento, di uno scontro a fuoco. È importante certo, e lo facciamo, ma non basta alla comprensione di quello che realmente accade nel Mondo. L'Atlante è il luogo ideale per allargare lo sguardo sui conflitti, mettere insieme informazioni e approfondimenti, dare continuità al racconto e ampio spazio a chi, come i ricercatori del Centro di Documentazione sui conflitti Ambientali (Cdca) ha aperto una finestra di informazione su un tema fondamentale: le guerre sconosciute per il controllo delle risorse, quelle causate dallo sfruttamento selvaggio delle terre e dai cambiamenti climatici, le storie delle tante comunità in lotta per la sopravvivenza. Grazie a loro, dalla scorsa edizione, abbiamo potuto parlarvi dei 50milioni di profughi ambientali che secondo l'Onu saranno causati, solo in Africa, dai cambiamenti climatici entro il 2060. Le Nazioni Unite sono convinte che nell'intero pianeta, entro il 2050 i profughi ambientali potrebbero superare i 200milioni. Sta succedendo e andava raccontato. Lo facciamo anche in questa edizione, con un nuovo Speciale curato dal Cdca che ci racconta di Palestina e di acqua, di Repubblica Democratica del Congo e di coltan, di Nigeria e di petrolio, di Ucraina e di gas. Di quello che ancora non sappiamo su ambiente, risorse e conflitti. Buona lettura.

La Redazione

Dietro gran parte dei conflitti armati in corso nel mondo si nasconde a ben guardare una lotta per il controllo delle risorse. Ciò accade non solo in Medio Oriente, zona di grande instabilità politica non tanto per le tensioni etniche e religiose quanto per la presenza di enormi riserve di greggio, di grande importanza per i Paesi industrializzati e non soltanto. Scavando dietro la corteccia di ogni guerra è possibile leggere sottotraccia, neppure troppo velatamente, la corsa all'accaparramento di risorse strategiche. Quattro casi emblematici che aiutano a capire le dinamiche sottese alle tensioni geopolitiche in corso nel mondo sono rappresentati dai conflitti in Nigeria, Congo, Palestina e Ucraina, Paesi in cui i focolai di guerra sono alimentati, corredati o approfonditi dalla volontà di controllo di quattro risorse, rispettivamente petrolio, coltan, acqua, gas.

Introduzione Cdca


Conflitti Ambientali/2 Cdca

Il Delta del fiume Niger, esteso per 70mila km2 nell'area del Golfo di Guinea, è una delle zone più popolose d'Africa con 30 mln di abitanti appartenenti a 40 gruppi etnici. Nota nel secolo scorso come “Oil Rivers” per la produzione di olio di palma, la zona ha subito, dalla seconda metà del '900, l'avvio di intense attività petrolifere che hanno reso l'antico soprannome di drammatica attualità. Nel Delta operano le maggiori compagnie petrolifere tra cui Shell, Exxon, Agip-Eni, Elf, Chevron, Total, NNPC. L'economia nigeriana dipende dal petrolio: ogni giorno si estraggono circa 2,5 mln di barili, equivalenti a oltre il 30% del Pil, all'85% dell'export e al 65% delle entrate statali. Nonostante il Paese sia il primo esportatore di petrolio d'Africa, oltre il 60% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. L'economia tradizionale, basata su agricoltura e pesca, è stata distrutta dall'avvento dell'estrazione. Il gas naturale estratto con il greggio viene bruciato a bordo pozzo, per una quantità equivalente al 40% del consumo continentale di gas (circa 2,5 mln di piedi cubici al giorno) con gravissime conseguenze sull'ambientale e sulle emissioni di gas serra. La non redistribuzione dei proventi delle estrazioni e la devastazione ambientale, evidenziata dagli studi realizzati tra gli altri da UNEP e da ERA - Environmental Right Action, hanno determinato un cruento conflitto nell'area del Delta. Dagli anni '60 il Paese è vittima di disordini etno-politici e violenze prodotti dall'intreccio tra potere militare, politico e imprese. La popolazione, deprivata delle condizioni minime di sopravvivenza è stata protagonista di forti proteste. Dal '92 il Mosop, Movimento per la sopravvivenza del Popolo Ogoni, ha condotto una strenue lotta popolare cui aderirono i principali intellettuali nigeriani, tra cui il poeta Ken Saro Wiwa. Le proteste furono duramente represse e nel 1995 Wiwa fu condannato a morte e giustiziato dal governo assieme ad altri 8 attivisti. Le tensioni politiche e gli scontri tra i gruppi etnici hanno portato alla militarizzazione dell'area da parte di forze militari e paramilitari, provocando migliaia di vittime di abusi, rimasti nell'impunità. A metà degli anni 2000 appare il Mend - Movimento di Emancipazione del Delta del Niger, che con azioni di sabotaggio e rapimenti a scopi dimostrativi a danno delle multinazionali petrolifere rivendica riparazione ambientale e redistribuzione della ricchezza prodotta. Anche le attività del Mend sono state duramente represse con massicce operazioni militari. Alla base del conflitto nigeriano c'è evidentemente la tensione sociale causata dallo sfruttamento selvaggio degli idrocarburi: la popolazione vive ancora oggi in un ambiente irreversibilmente contaminato e nella totale privazione di diritti e mezzi di sussistenza. Nel 2011, la Shell è stata denunciata all’Aja per violazione dei principi guida dell’OCSE.

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La storia nera della Nigeria: il petrolio del Delta


Conflitti Ambientali/3 Cdca

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Coltan in Congo: miniere di violenza Nel prezzo di alcune merci c’è un costo non incluso. Non solo costi ambientali ma, come nel caso dell'industria tecnologica, anche un alto costo in termini di vite umane. Molte guerre Africane vengono interpretate come conflitti tribali, ma a guardare bene origine e evoluzioni la realtà è tutt'altra. La Repubblica Democratica del Congo - RDC è da sempre al centro di numerosi conflitti generati dalla corsa all’accaparramento delle risorse di cui è ricca, principalmente foreste e minerali, tra cui oro, diamanti, rame e uranio. Il coltan contiene tantalio - indispensabile per l’industria high-tech, di cui il Paese possiede l’80% delle riserve mondiali - e uranio, utilizzato dall'industria militare e nucleare. Lo sfruttamento del coltan è una delle principali cause della guerra che dal 1998 ha prodotto più di 4 milioni di vittime. Le regioni orientali, in particolare il Kivu, ricchissimo di coltan e prima granaio del Paese, sono teatro di forti tensioni per il controllo delle attività estrattive. I proventi dell’estrazione, utilizzati per finanziare la guerra civile, non sono stati redistribuiti alla popolazione, al contrario molti hanno subito espropriazioni forzate dei terreni da parte di imprese e forze governative. A livello ambientale le attività estrattive hanno causato forte erosione del suolo, degrado delle falde acquifere, uccisione incontrollata di animali selvatici per nutrire i minatori. Infine, l’estrazione del Coltan ha effetti negativi sulla salute dei minatori: l'esposizione non protetta all'uranio ha causato un'elevata incidenza di patologie tumorali. Le multinazionali hanno scatenato in Congo una vera e propria corsa alle miniere che ha generato nuovi scontri con le formazioni di guerriglia, anch’esse interessate al controllo dei giacimenti. È difficile risalire a quali siano le società che acquistano coltan dal Congo. Tra i clienti figurano di certo le compagnie Nokia, Ericsson e Sony. Esiste inoltre un florido mercato nero del minerale, rubato dai guerriglieri e rivenduto attraverso mediatori stranieri. Il traffico di coltan, oro e diamanti, avrebbe fruttato ai guerriglieri del Raggruppamento Congolese per la Democrazia - RCD circa un milione di dollari al mese, impiegati per finanziare la guerra contro il governo di Kinshasa. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha istituito una commissione di inchiesta sul traffico illegale di materie prime dal Congo e sulle connessioni tra attività illecite e conflitto in corso. Secondo l’Onu i destinatari finali delle risorse saccheggiate sono, in ordine, Stati Uniti, Germania, Belgio e Kazakistan. Anche in questo caso, la connessione tra guerra e controllo delle risorse è lampante.


Conflitti Ambientali/4 Cdca

L'area in cui vivono israeliani e palestinesi è caratterizzata da scarsità d’acqua. Le risorse idriche presenti sono essenzialmente rappresentate dal fiume Giordano, con i suoi immissari, e da una falda acquifera sotterranea che attraversa Israele e Cisgiordania. La questione idrica ha avuto un ruolo determinante nell’accentuare il grado di conflittualità nel bacino del Giordano, le cui risorse idriche interessano Israele, Siria, Libano, Giordania e territori palestinesi (Cisgiordania e Striscia di Gaza). Lo stesso progetto di realizzare in Palestina uno Stato nazionale ebraico, portato avanti verso la fine del XIX secolo dal movimento sionista, prevedeva l’acquisto di terre e concessioni idriche a fini agricoli ed idroelettrici. Con la Prima guerra mondiale, in vista dell’ingresso delle truppe britanniche a Gerusalemme, strappata all'esercito ottomano, con la Dichiarazione di Balfour (1917), il Regno Unito si era impegnato a mettere a disposizione del movimento sionista territori palestinesi per costituire un "focolare nazionale". La Conferenza di Parigi (1919-1920), con la spartizione della “Mezzaluna Fertile”, assegnò alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina e l’Iraq, alla Francia quello su Siria e Libano. Dopo la guerra del 1948-1949, Israele incorporò importanti corpi idrici fra i quali il fiume Dan, i laghi di Huleh e di Tiberiade, mentre la Cisgiordania, regione montuosa ricca di acque sotterranee, venne assegnata alla Giordania. Con la Guerra dei sei giorni, combattuta tra il 5 e il 10 giugno del 1967, Israele occupò territori strategici per il controllo delle falde sotterranee includendo la maggior parte delle risorse idriche della regione: le alture del Golan e la valle del Giordano. Rimase escluso il fiume Litani che si trova all'interno dei confini del Libano. Dalla contesa idrica si ritirarono dunque il Libano e la Siria, sufficientemente dotati di acqua, nonché la Giordania, con i trattati sfociati nella pace con Israele del 1994. L’acqua continua oggi a rappresentare un fattore di contesa soprattutto tra Israele e i palestinesi. La costruzione di nuovi pozzi può avvenire solo se autorizzata da parte di Israele, il che costringe i Palestinesi a scavare pozzi “abusivi”. Secondo Human Rights Watch, nel 2011, l’esercito israeliano ha distrutto 89 di questi pozzi. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità il consumo domestico minimo d’acqua dovrebbe essere di 150 litri, nei territori palestinesi non si ha accesso a più di 25-30 litri al giorno. Controllate da Israele, le risorse idriche, che arrivano razionate e a caro prezzo nei territori palestinesi, sono divenute strumento strategico di controllo militare, di violazione di diritti fondamentali del popolo palestinese e di ostacolo allo sviluppo economico. Quest'ultimo dato è confermato dalla Banca Mondiale secondo cui uno dei principali ostacoli allo sviluppo economico palestinese è il limitato accesso alle risorse naturali.

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Popolo palestinese e il diritto all'acqua


Conflitti Ambientali/5 Cdca

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Le strade del gas: il conflitto ucraino Il recente conflitto in Ucraina, inizialmente raccontato come guerra per libertà e democrazia, è in realtà uno scontro geopolitico legato al controllo delle risorse. La guerra per le fonti fossili non ha più soltanto come obiettivo la conquista militare di territori ricchi di giacimenti ma anche e soprattutto il controllo politico strategico delle zone di transito, oltre che di estrazione. L’Ucraina produce pochissimo petrolio mentre ha riserve di gas naturale stimate in circa 1.100 miliardi di metri cubi. Ciò che fa di questo Paese terreno di scontro militare è però il fatto di costituire la principale via di transito dei gasdotti che portano l’80 per cento del gas naturale russo in Europa; si tratta di circa 40.000 chilometri di gasdotti. Nel 2010, l’elezione del presidente filorusso Viktor Yanukovich aveva favorito gli accordi energetici tra Mosca e Kiev, portando alla sigla di un trattato bilaterale che garantiva all’Ucraina prezzi scontati sul gas russo. Nel novembre 2013 Yanukovich rifiuta un accordo per la maggiore integrazione dell'Ucraina nell'UE scatenando forti proteste di piazza. La protesta, chiamata Euromaidan, porta alla caduta di Yanukovich e all’avvicinamento dell'Ucraina all'Unione Europea. Nel marzo 2014, per non perdere la sua influenza in Ucraina, la Russia invade e annette la Crimea, mentre i ribelli separatisti filorussi invadono e prendono il controllo di alcune regioni ad est del Paese. L'Ue e gli Usa annunciano sanzioni contro il Cremlino. Nel giungo 2014 viene eletto il presidente filoeuropeo Porošenko. Nelle regioni occidentali (filoeuropee) Porošenko ottiene tra il 52% e il 67% dei voti mentre soltanto il 30-35% nelle regioni orientali (filo-russe); le elezioni sono state invece boicottate in Crimea e nelle autoproclamate repubbliche di Lugansek e Donesk. Il 27 giugno 2014, viene firmato l'accordo di Associazione tra Ue e Ucraina insieme ai Presidenti di Georgia e Moldavia, ribadendo l'intenzione di entrare nella Nato. Il 14 agosto 2014, il Parlamento ucraino approva una proposta di legge che consente agli operatori stranieri di partecipare alla gestione del sistema dei gasdotti: il sistema dei gasdotti rimane in mano allo Stato, ma investitori da Ue e Usa potranno partecipare alla gestione. A settembre 2014 viene firmato il cessate il fuoco a Minsk tra Mosca e Kiev. Il conflitto Ucraino-Russo ha prodotto dal novembre 2013 al settembre 2014 circa 4.000 vittime, secondo i dati diffusi dall'Onu.

Tutti i Gasdotti che passano per l’Ucraina (da http://archivio.internazionale.it/ 28 febbraio 2014)


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Africa

A cura di Amnesty International

Diritti umani difficili nell'Africa sotto assedio La guerra civile riesplosa in Libia a metà luglio ha causato migliaia di morti e lo sfollamento di oltre 300mila persone, cui devono aggiungersi altre 100mila persone costrette a lasciare il Paese. Nel Paese, hanno continuato a dominare l’assenza di legge e l’impunità totale in favore delle milizie e dei gruppi armati, che hanno commesso crimini di guerra, tra cui uccisioni deliberate e illegali, sequestro e uccisione di ostaggi, torture e attacchi indiscriminati contro obiettivi civili. Le nuove costituzioni adottate in Tunisia ed Egitto hanno introdotto maggiori garanzie per la tutela dei diritti umani. Tuttavia, soprattutto nel secondo Paese, la repressione è fortemente aumentata, anche nei confronti dell’espressione di legittime e pacifiche critiche verso il Governo. Nel corso del 2014, sono state emesse centinaia di condanne a morte, a volte al termine di un solo processo. In Marocco, il parlamento ha abolito l’articolo 475 del codice penale grazie al quale l’autore di uno stupro nei confronti di una minorenne poteva evitare il carcere sposando la sua vittima.

Tuttavia, in questo Paese, la libertà di stampa è rimasta limitata e sono aumentati gli arresti e i procedimenti giudiziari nei confronti di persone accusate di violare od offendere i valori “islamici”. I conflitti interni della Repubblica Centrafricana e del Sud Sudan hanno continuato a provocare ingenti perdite di vite umane e sfollamenti di centinaia di migliaia di civili, mentre in Sudan l’esercito ha inasprito le operazioni militari nei confronti dei ribelli attivi in diverse regioni del Paese, provocando il nuovo sfollamento di mezzo milione di civili. Nella Repubblica Democratica del Congo le Forze alleate democratiche, un gruppo ribelle, ha commesso massacri di civili. La repressione di ogni forma di dissenso è proseguita senza sosta in Etiopia ed Eritrea, mentre in Somalia gli scontri tra l’esercito e il gruppo armato islamista al-Shabaab, e soprattutto gli attacchi e gli attentati di quest’ultima formazione hanno fatto, anche nel 2014, strage di civili. La popolazione civile della Nigeria continua a pagare un prezzo altissimo, soprattutto negli stati settentrionali, nello scontro senza regole tra esercito federale e gruppo armato islamista Boko Haram. Questo gruppo ha continuato a colpire centri abitati, chiese, mercati e scuole e a rapire centinaia di civili, in particolare studentesse. Le forze armate, a loro volta, hanno commesso crimini di guerra, tra cui uccisioni illegali e sparizioni forzate, nel corso delle operazioni milita-


ri. La tortura in tutto il Paese è rimasta diffusa. L’omofobia di stato è risultata in ascesa in diversi Paesi. Se ad agosto la Corte costituzionale ugandese ha annullato, per un vizio di forma, la legge anti-omosessualità firmata all’inizio dell’anno dal Presidente Museveni, in Gambia un emendamento al codice penale ha introdotto la pena dell’ergastolo per omosessualità aggravata. Il Presidente Yahya Jammeh ha dichiarato: “Dobbiamo combattere questi vermi chiamati omosessuali allo stesso modo in cui combattiamo le zanzare che portano la malaria, forse dobbiamo essere ancora più aggressivi”. Nuove leggi per punire l’omosessualità sono o stanno per essere adottate in Nigeria e Ciad. Manifestazioni per la democrazia, le riforme e la fine della discriminazione si sono svolte e sono state duramente represse in numero-

si Paesi, tra cui Mauritania e Burkina Faso. In quest’ultimo Paese, a novembre, vi è stato un colpo di stato militare. In Kenya, un tribunale ha accordato un risarcimento complessivo di circa 880mila euro a 226 residenti degli insediamenti informali di City Cotton e Upendo, nella capitale Nairobi, che il 10 maggio 2013 erano stati demoliti da un gruppo di giovani sotto gli occhi di agenti di polizia armati. La pena di morte è risultata sempre meno applicata e in più Paesi sono stati avviati passi verso l’abolizione. In Nigeria, un uomo è stato rilasciato dal braccio della morte dopo 19 anni. In Sudan, una mobilitazione internazionale ha impedito l’esecuzione di Meriam Ibrahim, condannata per apostasia e adulterio.

A cura di Giovanni Scotto

Un laboratorio per la pace Nell’immaginario europeo, l’Africa rimane il continente che ha bisogno di aiuto, il simbolo del grande Sud del mondo sofferente, che da solo non ce la fa. È da molto tempo che questo stereotipo andrebbe rimesso in discussione, in particolare per quello che riguarda la pace. L'Africa ha “inventato” le commissioni per la verità e la riconciliazione, con la transizione pacifica alla democrazia in Sudafrica negli anni novanta. Dalle lingue dell'Africa Meridionale proviene il termine Ubuntu, una parola che riassume un modo di vedere la vita: l'umanità che possediamo la dobbiamo all'esistenza degli altri e al rapporto con gli altri. Anche grazie alle figure carismatiche di Nelson Mandela e Desmond Tutu, Ubuntu è diventato una parola conosciuta a livello planetario, un contributo africano a una cultura di pace globale. Il continente africano ha vissuto momenti drammatici anche nel 2014 come si può leggere nelle pagine di questo Atlante: dal terrorismo di matrice islamista in Nigeria, alla complessa transizione in Sud Sudan, fino al nodo irrisolto della Somalia. Come testimoniano anche le storie raccolte nelle schede-conflitto, i Paesi africani provano a mettere in campo oggi innumerevoli risposte creative alle tensioni e ai conflitti violenti che attraversano. Molte delle storie che raccontiamo sono di personalità e gruppi della società civile. Può essere utile allora completare questa immagine con alcuni esempi di come in Africa

si sta realizzando una vera e propria “infrastruttura per la pace”, un insieme di istituzioni, competenze e risorse per prevenire, mitigare e porre fine a conflitti violenti nel continente. L’Unione Africana si è dotata già da alcuni anni di un Panel di "eminenti personalità africane", per iniziativa, tra gli altri, dell'ex Segretario Generale Onu Kofi Annan. In ciascuno dei Paesi che oggi attraversano una fase di conflitto violento esistono un gran numero di organizzazioni locali attive dal basso per la prevenzione della violenza, la mediazione e la ricostruzione dei rapporti sociali a medio e lungo termine. È istruttivo consultare il sito “Insight on conflict” (www.insightonconflict. org), che raccoglie indicazioni su attori locali e internazionali attivi per la pace in ogni paese. Nel Niger, per esempio, sono elencate tredici organizzazioni, venti nella Repubblica Centraficana: si tratta di gruppi umanitari locali, di associazioni che rappresentano gli interessi di donne, giovani, contadini, pastori, di attivisti per i diritti umani. Comitati per la pace locali, a livello di villaggio o di quartiere, sono sorti in molti Paesi africani, tra cui il Sud Sudan, la Somalia, il Kenia. In Ghana, un Paese stabile dal punto di vista politico e con un buon livello di protezione dei diritti fondamentali, le istituzioni hanno deciso di predisporre strumenti ad hoc per la gestione dei micro-conflitti locali che regolarmente, in passato, sfociavano in episodi di violenza.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL’ALGERIA RIFUGIATI

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RIFUGIATI ACCOLTI NELL’ALGERIA RIFUGIATI

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Tolleranza zero per l’opposizione

Nessuna tolleranza per l'opposizione e le voci critiche. L'accusa è di Amnesty International che ha denunciato i limiti imposti dal Governo algerino alla libertà di espressione in vista delle elezioni presidenziali. ''Mettere a tacere le critiche e annullare i disordini sociali sono le prime di una serie di violazioni dei diritti umani ha denunciato l'attivista e ricercatrice di Amnesty Nicola Duckworth -. La strategia delle autorità algerine è stata quella di sedare sul nascere qualsiasi tentativo di sfidarle. Stanno dimostrando di non tollerare critiche pubbliche ad alcun livello''. Le autorità algerine, secondo Amnesty, hanno ''in larga misura risposto alle proteste disperdendole con la forza, molestando e arrestando i manifestanti e gli attivisti sindacali''. Oltre ai giornalisti, vittime, secondo l'organizzazione internazionale, di attacchi mirati a loro e ai loro familiari.

Pericolo terrorismo frontiere sigillate

Per contrastare l'infiltrazione del terrorismo di stampo jihadista, l'Algeria ha deciso di sigillare le sue frontiere. L'esecutivo di Algeri ha scelto di far presidiare migliaia di chilometri di deserto anche dalle truppe cammellate. Ad occuparsi della gestione e dello schieramento delle forze in campo è stato incaricato l'esercito e il Capo di stato maggiore dell'Armée national populaire, il generale Ahmed Gaid Salah. Ai suoi uomini il generale ha chiesto di difendere le frontiere nazionali dallo sconfinamento dei terroristi e di combattere anche quel che ancora resta, all'interno dei confini del Paese, del terrorismo che ha insanguinato per un decennio l'Algeria.

Nelle elezioni presidenziali del 17 aprile 2014 Abdelaziz Bouteflika, ha ottenuto il suo quarto mandato. Bouteflika ha sconfitto nettamente gli altri cinque candidati conquistando oltre 8milioni e 300mila voti, cioè quasi l'82% del totale. Un dato giudicato “gonfiato” dagli altri candidati, soprattutto da Ali Benflis, il primo degli sconfitti, il quale ha parlato apertamente di frodi. Nessun ricambio, quindi, ai vertici dello Stato. Bouteflika, 77 anni, al potere dal 1999, ancora non si fa da parte e resta Presidente nonostante le condizioni di salute assai precarie, che nel 2013 lo tennero per mesi lontano dalla vita pubblica. La sua candidatura è stata molto contestata e diversi movimenti politici, fra i quali quelli di ispirazione islamista, hanno deciso di boicottare le elezioni. Nelle settimane precedenti il voto, un movimento di protesta, unito nello slogan Barakat (Basta!) ha contestato la permanenza al potere di Bouteflika sostenendo, in un appello pubblico, la “sua completa incapacità di assumere le responsabilità costituzionali”. Molto alto l'astensionismo. Ha votato solo il 51,7% degli aventi diritto (cinque anni prima i votanti erano stati il 75%). L'astensionismo aveva già caratterizzato le elezioni legislative del 2012 e appare sempre più evidente, agli occhi dei cittadini, la perdita di credibilità della classe politica algerina. A cinquantadue anni dall'indipendenza, l'Algeria appare come un Paese bloccato, sia a livello politico che a livello economico, ancora incapace di esprimere in pieno tutte le sue potenzialità. Restano nei posti di comando uomini espressione della vecchia classe dirigente, prima di tutto perché, dopo il traumatico decennio degli anni Novanta, caratterizzato da un terrorismo e da una violenza eccezionali, gli algerini temono un processo di cambiamento traumatico, che potrebbe sfociare in nuova violenza. Pur non raggiungendo i livelli degli anni Novanta, il terrorismo resta una minaccia, soprattutto per la presenza di gruppi che si sono legati all'Isis. Uno di questi è il gruppo Jund al Khilafah, Soldati del Califfato, responsabile in settembre del rapimento e dell'uccisione del cittadino francese Herve Gourdel, un turista appassionato di montagna. La sua decapitazione è stata filmata dal gruppo terrorista e diffusa in rete come “messaggio di sangue per il Governo francese”. Il gruppo Jund al Khifalah ha annunciato la sua affiliazione all'Isis il 14 settembre 2014. In precedenza gli jihadisti erano parte dell'organizzazione al-Qaeda nel Maghreb Islamico, nata dai

ALGERIA

Generalità Nome completo:

Repubblica democratica popolare di Algeria

Bandiera

43

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo, francese, tamazight (berbero)

Capitale:

Algeri

Popolazione:

Circa 36.300.000

Area:

2.381.740 Kmq

Religioni:

Musulmana sunnita (99%), cristiana ed ebraica (1%)

Moneta:

Dinaro algerino

Principali esportazioni:

Risorse naturali: petrolio, gas naturale, ferro, fosfati, uranio, piombo, zinco Risorse agricole: grano, orzo, avena, uva, olive, cedri, frutta, pecore, bestiame

PIL pro capite:

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gruppi islamisti coinvolti nel decennio di sangue alla fine del secolo scorso. I terroristi di Jund al Khifalah sono particolarmente attivi nella Regione della Kabylia dove, nell'aprile del 2014, hanno assalito un convoglio militare provocando la morte di 11 soldati.


I militanti del gruppo al-Qaeda per il Maghreb islamico mirano ad unire le forze jihadiste della regione nordafricana per combattere contro l’Europa e la presenza occidentale nei Paesi del Ma-

ghreb. L’obiettivo sembra in gran parte fallito per mancanza di fondi, di uomini e anche per l’azione repressiva condotta dall’esercito algerino.

Per cosa si combatte

Profughi nigeriani, tremila espulsi

44

Saranno espulsi dall'Algeria circa tremila profughi. Si tratta di donne e bambini di nazionalità nigeriana che avevano raggiunto il Paese in fuga dalla guerra e dalla povertà. Il Governo algerino li considera "migranti in posizione irregolare e senza lavoro". È stato il primo Ministro nigeriano Brigi Eafini a spiegare in un discorso al Parlamento nigeriano che il 76% dei 3mila profughi sono bambini e il 24% sono donne.

L’Algeria vive un momento relativamente tranquillo. I gruppi terroristi armati che si ricollegano ad al-Qaeda (al-Qaeda per il Maghreb islamico) hanno compiuto azioni meno sanguinose rispetto agli anni precedenti e la loro attività si è concentrata soprattutto nella zona Meridionale del Paese. Resta instabile, in parte, anche la situazione della Cabilia, la Regione montuosa che si estende da Algeri vero l’Est lungo la costa mediterranea. Il terrorismo che minaccia oggi l’Algeria non ha la forza, i numeri e la pericolosità di quello che ha sconvolto il Paese nel corso degli anni Novanta. La data chiave è il 1991, quando il movimento politico Fis (Fronte islamico di Salvezza) vince il primo turno delle elezioni politiche generali. Di fronte alla minaccia islamista a gennaio i militari interrompono il processo elettorale, il Fis viene dichiarato fuori legge e comincia uno scontro sempre più sanguinoso tra i gruppi terroristi di ispirazione islamica radicale e l’esercito algerino. L’organizzazione terroristica dominante è il Gia (Gruppo Islamico Armato), in seguito affiancato dal Gspc (Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento). In Algeria il terrorismo islamico raramente ha preso di mira gli stranieri. Le vittime sono state soprattutto cittadini algerini. Nel decennio di sangue sono stati colpiti intellettuali, scrittori, giornalisti, esponenti della vivace società civile che caratterizza l’ex colonia francese. Numerosi anche gli attacchi contro poliziotti e militari. A migliaia i caduti fra la popolazione civile, sia nei centri urbani che nei villaggi. Tra gli stranieri sono stati colpiti esponenti della chiesa cattolica, da sempre minoritaria ma costantemente a fianco della popolazione musulmana nei momenti difficili del Paese. Vanno ricordate le uccisioni del vescovo

di Orano Pierre Claverie e dei sette monaci trappisti del monastero di Tibherine. Si calcola che in totale le vittime del terrorismo in un decennio siano state circa 100mila. Una via di uscita dal tunnel del terrorismo è stata cercata a partire dal 1999, quando è stato eletto alla presidenza della Repubblica Abdelaziz Bouteflika. Bouteflika ha voluto impegnarsi per la riconciliazione e ha offerto una amnistia ai combattenti islamici in cambio del loro disarmo. Questo processo di

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

Si inizia a dare spazio alle donne: Algeria esempio per l’Africa?

28 ottobre 2014: Il Primo Congresso Internazionale “Per la Cultura della Pace” si apre a Orano sul tema “La parola alle donne” e dura 4 giorni. Organizzato dall’Ong Soufie Alawiya, che attraverso l’educazione lotta contro il fondamentalismo religioso, e dalla Fondazione “Djanet El Arif”, che lavora per lo sviluppo sostenibile nell’area mediterranea, il congresso è stato l’occasione per aprire un vero dibattito religioso sull’immagine della donna nell’Islam. La presenza del consigliere del Presidente della Repubblica e del ministro della Famiglia e delle questioni di genere, nonché quella di 3000 delegati e 54 oratori da tutto il mondo, lo rende il primo evento di una tale scala in un Paese musulmano dedicato alle donne e alla pace. In Algeria la rappresentanza femminile in Parlamento è al 32%, ma rimane forte la tradizione patriarcale e la partecipazione economica delle donne è molto limitata. Basterà questo congresso a renderla un esempio per tutta l’Africa?

Il Coordinamento per il cambiamento e la democrazia (Coordination nationale pour le changement et la démocratie - Cncd) è un movimento di opposizione algerino creato nel 2011 - nel mezzo delle rivolte arabe - durante una riunione ad Algeri. Ne fanno parte sindacati autonomi, organizzazioni per la difesa dei diritti umani, associazioni di studenti ma anche avvocati, insegnanti, collettivi di quartiere, cittadini comuni e intellettuali. L'obiettivo è quello di creare uno spazio aperto e democratico per tutti i cittadini che chiedono un reale cambiamento nella vita politica e sociale dell'Algeria, la difesa dei diritti umani, civili e politici. Nel 2014 ha aderito al Coordinamento anche l'ex primo Ministro algerino Ahmed Benbitour (in carica dal 1999 al 2000) che in una intervista raccolta da Al-Jazeera aveva dichiarato: "il cambiamento è l'unica strada".

45

Coordinamento per il cambiamento e la democrazia

riconciliazione è andato avanti con difficoltà e anche ambiguità. Alcuni gruppi hanno continuato le loro attività terroristiche, ma lentamente la vita degli algerini è tornata a essere più tranquilla, soprattutto nei principali centri urbani. Anche se negli ultimi anni c’è stata una ripresa delle azioni terroristiche anche ad Algeri, per opera dei militanti di al-Qaeda per il Maghreb islamico attentati del dicembre 2007 e dell’agosto 2008. L’Algeria non ha quindi raggiunto una condizione di completa stabilità e sicurezza. A questa condizione si aggiunge un quadro politico assolutamente immobile. Arrivato alla presidenza nel 1999 Bouteflika, rieletto nell’aprile del 2009 (è il terzo mandato consecutivo), ora conta di restare al potere fino al 2014. Quando divenne Presidente, Bouteflika alimentò molte speranze. Promise di ristabilire la pace, la riforma della pubblica amministrazione, della scuola e della giustizia. Assicurò di voler garantire il prestigio della na-

I PROTAGONISTI

zione. Ma i progressi sperati non ci sono stati. O sono stati molto timidi, ben al di sotto delle attese. Come ha scritto il quotidiano indipendente El Watan, Boueflika non ha cose nuove da dire e presenta da un decennio lo stesso programma. Restano perciò irrisolti molti problemi come la corruzione, l’inflazione, la disoccupazione e la crisi degli alloggi, che colpisce soprattutto i giovani. Sulla scena politica non si affacciano uomini nuovi e resta dominante una casta di politici, militari e burocrati che gli algerini definiscono genericamente Le Pouvoir (Il potere). Di fronte a questa immobilità l’Algeria non collassa solo perché galleggia su un mare di petrolio. Grazie alle riserve di idrocarburi l’Algeria negli ultimi anni ha potuto arricchire le sue riserve valutarie (145miliardi di dollari) sfruttando gli aumenti del prezzo del greggio (ma con un calo sensibile nel corso del 2009). Tuttavia questa ricchezza non si è riversata sulla popolazione e la forte dipendenza dalle risorse petrolifere non ha favorito una diversificazione dell’economia. Gli introiti incassati dall’export di gas e petrolio vengono in gran parte utilizzati per l’importazione di alimentari, medicinali e materiali per l’edilizia.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL CIAD RIFUGIATI

48.644

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SUDAN

41.666

SFOLLATI PRESENTI IN CIAD 19.791 RIFUGIATI ACCOLTI NEL CIAD RIFUGIATI

434.479

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SUDAN

352.948

REPUBBLICA CENTROAFRICANA

80.545


A rischio il lago

Negli ultimi 50 anni la superficie del lago Ciad si è ridotta del 90% : da oltre 25mila kmq si è arrivati a 2500 kmq. Le cause sono la desertificazione (dovuta all’innalzamento della temperatura per i cambiamenti climatici), la riduzione delle piogge, la siccità persistente, il prelievo incontrollato delle acque dai fiumi affluenti e dal bacino. È una minaccia per la sopravvivenza di 45milioni di persone che vivono di pesca, agricoltura e allevamento. E purtroppo è un terreno di coltura ideale per la diffusione di bande criminali e del fondamentalismo religioso. È una corsa contro il tempo per fermare la morte del lago Ciad. C’è un progetto quinquennale che prevede interventi per salvare il lago, costo 925milioni di euro. I 4 Paesi che si affacciano sul grande specchio d’acqua si sono impegnati a coprire il 10%, la Banca Africana dello Sviluppo contribuirà con 80milioni. Mentre Germania, Francia, India e Cina sono disposti ad investire, così come la Banca Islamica e il Fondo sovrano del Kuwait.

UNHCR/C. Fohlen

In Ciad le donne impiegano una media di 5 ore al giorno per andare a prendere 50 litri d’acqua ciascuna (10 nel caso delle bambine), attraversando aree pericolose per la presenza di animali selvatici ed il rischio di violenze sessuali. Mancanza di acqua potabile e cattiva alimentazione fanno aumentare i tassi di mortalità, specialmente infantile. Il Paese resta uno dei più poveri al mondo eppure le spese destinate al settore militare sono enormi. Gli Stati Uniti hanno fatto grandi investimenti finanziari e professionali. Il Presidente Obama ha autorizzato a maggio 2014 l’invio di 80 soldati e di un aereo-spia per combattere i terroristi nigeriani di Boko Haram, ormai tracimati in Ciad dove è operativo anche il gruppo al-Qaeda per il Maghreb islamico (Aqim). Ad aprile la forza di pronto intervento dei marines ha addestrato un centinaio di rangers ciadiani per piccole operazioni tattiche, pattugliamento e contrasto di attività illecite. A giugno è stata la volta dei reparti della Us Army Africa con training ai soldati governativi, in particolare nel pronto intervento sanitario-militare. Intanto cresce il numero dei rifugiati che arrivano in Ciad dai Paesi confinanti. Decine di migliaia provengono dalla Nigeria ma al 31 dicembre 2013 (secondo l’Unhcr ovvero l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite) c’erano anche 281mila sudanesi e 79mila centrafricani. Le loro condizioni sono al limite della sopravvivenza. L’esercito di N’Djamena ha fatto parte del contingente multinazionale dell’Unione Africana intervenuto a marzo scorso nella Repubblica Centrafricana per sedare le violenze scoppiate tra cristiani e musulmani. Ma non è stata una bella prova. Il Governo ha infatti ritirato i soldati dopo che questi avevano aperto il fuoco su un gruppo di civili a Bangui uccidendone 30 e ferendone un centinaio. Offeso per le accuse piovute dalle Nazioni Unite (che hanno parlato di spari indiscriminati e senza motivo sulla folla), il Presidente Idriss Déby si è detto indignato per l’apertura di una inchiesta della commissione diritti umani dell’Onu.

CIAD

Generalità Nome completo:

Repubblica del Ciad

Bandiera

47

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese, Arabo

Capitale:

N’Djamena

Popolazione:

11.175.000

Area:

1.284.000 Kmq

Religioni:

Musulmana (53,10%), cristiana (35%), animista (10%)

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

Prodotti agricoli

PIL pro capite:

Us 2.474

“In Ciad sindacalisti, giornalisti, difensori dei diritti umani subiscono arresti arbitrari, minacce, intimidazioni mentre il sistema di giustizia penale è usato per vessare gli oppositori politici” accusa Amnesty International. L’organizzazione per i diritti umani imputa al Governo il reclutamento forzato di bambini-soldato e denuncia le incredibili condizioni di vita nelle carceri dove ai detenuti (uomini, donne e bambini tenuti indiscriminatamente insieme) sono inflitte punizioni crudeli. Prigioni dove mancano, acqua, cibo, medicinali e con rischio altissimo di contagio della tubercolosi.


Il Ciad è al 183° posto su 187 Paesi per l’indice di sviluppo umano. L’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, appena il 9% ha accesso a servizi sanitari adeguati mentre solo il 48% usufruisce dell’acqua potabile. Una situazione sociale esplosiva che con la proliferazione del passaggio di armi (soprattutto leggere) sul proprio territorio ha visto crescere in maniera esponenziale la violenza tra le comunità locali. Il Ciad è una tappa essenziale per l’esportazione di armi verso i Paesi vicini, in particolar modo nella Regione sudanese del Darfur. Resta ancora gravissimo il problema di un milione di mine in circolazione e dei due milioni di ordigni inesplosi che minacciano la vita dei civili.

I conflitti tra le oltre 200 etnie che popolano il Paese sono all’ordine del giorno, una instabilità che torna utile al Governo centrale che sulla filosofia del “divide et impera” basa il suo potere. I confini (specialmente quelli orientali) restano caldi. Qui rapimenti ed attacchi contro i civili sono portati a segno dalle centinaia di milizie stanziate nel Darfur e che facilmente attraversano le frontiere - groviera che separano il Sudan dal Ciad. Ed inoltre sono molto attivi i gruppi interni di resistenza armata che si oppongono al Presidente Déby. E spesso, troppo spesso, questi differenti tipi di violenza si sovrappongono, si uniscono, e si separano alla velocità della luce. A farne le spese la popolazione inerme.

Per cosa si combatte

Decimati gli elefanti

Sono in pericolo gli elefanti del parco nazionale di Zakuma, il più antico del Ciad. I dati della Ong African Parks parlano chiaro: la popolazione di elefanti è passata da 4mila a 450 esemplari in pochi anni. A decimarli è stato il bracconaggio. Secondo un rapporto del Wwf (2013), il bracconaggio, ha ormai raggiunto un giro d'affari di 19miliardi di dollari all'anno. Il prezzo per un chilo di avorio supera i 1500 euro e la domanda è in costante aumento. In occasione del cinquantenario del parco, una tonnellata di avorio sottratta ai bracconieri è stata simbolicamente distrutta, alla presenza del Presidente Idriss Deby.

48

UNHCR/C. Fohlen

La Repubblica del Ciad, situata nell’Africa Centrale e circondata dagli Stati confinanti della Libia, del Sudan, del Camerun, della Nigeria, del Niger e della Repubblica Centraficana è considerata uno dei Paesi più poveri del mondo, attraversato da forti instabilità interne e da conflitti ancora irrisolti. Proprio la vicinanza con molti Paesi dove si combattono guerre violente e sanguinose ha aggravato la crisi interna del Ciad, guidato da un Governo che fatica a gestire i forti flussi di rifugiati in fuga dai conflitti e dalle tensioni interne. Dopo una lunga storia da ex colonia francese, il Ciad è diventato indipendente nel 1960. Una transizione pacifica che sembrava presagire un futuro di stabilità per il Paese che nello stesso anno, il 20 settembre, è entrato ufficialmente a far parte dell’Onu. Il primo Presidente del Ciad, eletto l’11 agosto del 1960, è stato François Tombalbaye che nel dopoguerra aveva fondato uno dei principali partiti ciadiani, il Partito Progressista del Ciad (Ppt). Le speranze del Paese furono presto deluse dal Governo di Tombalbaye, che si trasformò in una guida autoritaria. Solo due anni dopo la sua elezione, il Presidente aveva messo al bando tutti gli altri partiti politici attivi in Ciad e cominciato

una forte repressione contro quelli che considerava oppositori politici. Il malcontento nel Paese cresceva e in più di una occasione il Governo dovette sedare rivolte interne. Tensioni si registravano nel Nord del Paese, abitato da popoli di fede islamica ma anche al Sud dove le popolazioni erano cristiane e animiste. Nel 1966, nel confinante Sudan, venne fondato il Fronte Nazionale per la Liberazione del Ciad (Frolinat). Il gruppo di ribelli imbracciò le armi contro il Governo dando inizio ad una sanguinosa guerra civile, proseguita anche dopo il colpo di stato militare del 13 aprile del 1975, quando Tombalbaye venne ucciso e il generale Félix Malloum, capo della giunta militare, divenne il nuovo capo di Governo. Nell’impossibilità di annientare la guerriglia del Frolinat, nel 1978, Malloum decise di nominare primo Ministro il leader dei ribelli Hissène Habré. La convivenza dei due ai vertici del Paese durò poco. L’anno successivo le forze ribelli del Frolinat e l’esercito di Malloum si scontrarono apertamente nella capitale N’Djamena. Il generale golpista Malloum fu costretto alla fuga ma il Paese scivolò in una crisi interna ancora più profonda. La guerra civile coinvolgeva, oltre al Frolinat, numerose fazioni di ribelli e la situazio-

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

Il dialogo interreligioso per risolvere i conflitti

Hissène Habré

Tra i temi più discussi in Ciad, per costruire una società più umana di diritti, giustizia e pace, emerge il tema "Etica e religione". I rapporti tra le diverse comunità religiose in Africa sono oggi al centro dell'attenzione internazionale anche in considerazione dei recenti atti di violenza e di intolleranza fondamentalista. L'organizzazione non governativa africana Acord e la ong francese di ispirazione cattolica Ccfd - Terre solidaire hanno inaugurato con le associazioni locali un percorso di 10 anni verso una solidarietà più consapevole, attraverso l'approccio dell'empowerment della società civile. Il dialogo interreligioso è fondamentale per ridare vita ad una giustizia sociale e a uno sviluppo. Nella giornata nazionale della coabitazione pacifica, celebrata il 30 gennaio 2014 in Ciad, le preghiere provenienti da comunità cristiane e musulmane si sono unite per scongiurare il settarismo religioso, causa del disordine e delle sofferenze conseguenti, per promuovere un clima di pace che favorisca una serena coabitazione dei diversi popoli e etnie.

(Faya Largeau, 13 agosto 1942)

UNHCR/C. Fohlen

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Nel novembre 2014 si è aperto a N’Djamena il processo per omicidi e torture contro 29 presunti complici dell’ex Presidente ciadiano Hissène Habré, attualmente recluso nel carcere di Dakar, in Senegal, con l’accusa di crimini contro l’umanità. Una occasione storica - secondo il procuratore generale - che tutti aspettano da tempo. Habré si è guadagnato il lugubre soprannome di “Pinochet africano” perché durante il suo Governo (dal 1982 al 1990) migliaia di oppositori furono uccisi barbaramente. Il numero resta ancora sconosciuto ma secondo alcune stime le vittime furono almeno 40mila mentre 200mila le persone torturate. L’ex dittatore è stato al centro di un complesso caso giudiziario. Un primo mandato di arresto internazionale fu emesso dal Belgio nel 2005 ma i giudici del Senegal (dove Habré si era rifugiato) si dichiararono incompetenti e portarono il caso davanti alla Unione Africana. L’organismo panafricano conferì il compito di processarlo al Governo di Dakar che però sospese il procedimento perché sprovvisto dei soldi necessari (che ammontano a 27milioni e mezzo di euro) in attesa di finanziamenti che la comunità internazionale e l’Unione Africana non ha mai fatto arrivare.

ne nel Paese era ormai fuori controllo. L’Onu intervenne e traghettò il Paese alla firma, nell’agosto del 1979, di un trattato di pace l’Accordo di Lagos - che permetteva la formazione di un Governo di transizione che avrebbe dovuto guidare il Paese alle elezioni politiche. A capo di questo Governo il Presidente Goukouni Oueddei, mentre Habré fu nominato ministro della Difesa. Dopo 18 di mesi la situazione era però immutata e gli scontri continuavano ad imperversare. Oueddei riuscì a conquistare il controllo della capitale ma per farlo chiese aiuto alla Libia che inviò le proprie truppe. Ancora grazie alla Libia nel 1983, l’esercito governativo sferrò un nuovo attacco contro le forze di Habré, che ottenne il sostegno delle forze francesi già presenti sul territorio. Nel 1984 la Francia e la Libia siglarono un accordo per ritirare le proprie truppe dal Ciad. Accordo che non fu però rispettato dalla Libia che mantenne i propri soldati nella striscia di Aouzou. Solo nel 1987 Ciad e Libia firmarono un cessate il fuoco, che rimase

I PROTAGONISTI

in vigore fino al 1988. Negli anni Ottanta la stabilità interna del Ciad è minata da una serie di colpi di stato. Nel 1990 un disertore dell’esercito di Habré, Idriss Déby riuscì con un golpe ad instaurare un nuovo Governo, di cui egli stesso divenne Presidente. Negli anni successivi altri tentativi di colpo di stato furono sferrati contro il Governo di Déby che è però tuttora in carica. Il Paese è ancora attraversato da violenti scontri tra le varie anime della guerriglia ciadiana, e l’instabilità è costantemente in aumento nonostante i tentativi del Presidente Déby di siglare trattati di pace con le fazioni ribelli. La situazione si è poi ulteriormente aggravata dal 2003, quando centinaia di rifugiati in fuga dalla Regione sudanese del Darfur, martoriata da un conflitto civile, hanno iniziato ad entrare in Ciad per sfuggire alle violenze. Il 23 dicembre del 2005, il Governo del Ciad ha dichiarato ufficialmente lo stato di guerra contro il Sudan. Alla base della decisione una lunga serie di violenti scontri lungo il confine tra i due Paesi ai danni delle popolazioni che abitano la frontiera. Nel 2010 i due Paesi hanno firmato un accordo di pace.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA COSTA D’AVORIO RIFUGIATI

85.729

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI LIBERIA

52.786

GHANA

9.567

GUINEA

6.493

SFOLLATI PRESENTI NELLA COSTA D’AVORIO 24.000 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA COSTA D’AVORIO RIFUGIATI

2.980


Malnutrizione, è allarme

Circa un terzo della popolazione infantile della Costa d'Avorio è affetta da malnutrizione secondo i dati dell'Unicef, l'Agenzia delle Nazioni Unite per la tutela dell'infanzia. La Costa d'Avorio occupa il 17° posto nella graduatoria mondiale della mortalità infantile ed è tra i Paesi più poveri del continente africano. In Costa d'Avorio la malnutrizione cronica rappresenta ancora una delle maggiori cause di mortalità tra i bambini sotto i 5 anni. Nonostante l'impegno dell’Unicef che sostiene il Governo della Costa d’Avorio con vari interventi volti a migliorare la salute dei bambini e delle donne, puntando in particolare sulle malattie prevenibili e sulla riduzione della malnutrizione, il Paese è ancora molto indietro nelle politiche di assistenza all'infanzia.

UNHCR/H. Caux

Lunghi anni di conflitto hanno lasciato una profonda cicatrice nella Costa d'Avorio, migliaia sono state le vittime e gli ivoriani costretti a fuggire dai combattimenti e ad abbandonare le proprie case. Solo di recente, dal 2011, il Paese sembra aver ricominciato un percorso di crescita economica e sviluppo che resta però, molto faticoso, soprattutto per la popolazione. Molti sono ancora i problemi economici del Paese che nel 2014 hanno portato in piazza anche i militari ivoriani, a Bouaké e Abidjan, per chiedere aumenti di stipendi e il pagamento degli arretrati. Le proteste hanno destato non poca preoccupazione nel Paese e il Governo ha scelto da subito la via della trattativa, ma la situazione resta tesa. Aperture del Governo anche nei confronti di tremila detenuti ivoriani. È stata concessa una "grazia collettiva" a chi era in carcere accusato di reati comuni e considerato in stato di precarietà o vulnerabilità. La misura ha escluso categoricamente le centinaia di ivoriani finiti in carcere negli scontri seguiti alle elezioni del 2010-2011, che hanno causato la morte di oltre tremila persone in cinque mesi. Una vera e propria guerra, quella conclusa quattro anni fa, che si è combattuta fra l'ex Presidente Laurent Gbagbo, che non voleva lasciare la carica dopo aver perso le elezioni, e l'attuale Capo di Stato, Alessane Dramane Ouattara. Oggi Laurent Gbagbo è in carcere all’Aja da tre anni, in attesa dell’apertura (nel luglio 2015) del processo a suo carico per “crimini contro l’umanità”. Il Tribunale Penale Internazionale chiama in causa per le stesse accuse anche la moglie dell'ex Presidente Simone Gbagbo, ma per lei la Costa d'Avorio non ha concesso l'estradizione. Nel 2014 Amnesty International ha lanciato l'allarme affinché la popolazione ivoriana non sia lasciata da sola nella sua richiesta di giustizia per i crimini commessi in quasi un decennio di conflitti. L'organizzazione internazionale per i diritti umani chiede in particolare di non limitare l'accertamento della verità al solo conflitto che ha insanguinato il Paese tra il 2010 e il 2011 ma si impegna a far sì che le indagi-

COSTA D’AVORIO

Generalità Nome completo:

Repubblica della Costa d’Avorio

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese (ufficiale), dioula, baoulé, bété, sénoufo

Capitale:

Yamoussoukro

Popolazione:

19.737.000

Area:

322.460 Kmq

Religioni:

Cristiana, musulmana

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

Prodotti agricoli, diamanti, manganese, nichel, bauxite, oro

PIL pro capite:

Us 1.707

ni siano estese anche agli anni precedenti al 2010, cioè fino al 2002, perché la richiesta di giustizia di migliaia di vittime non resti, ancora una volta, inascoltata. Intanto il Paese nel 2014 ha dovuto affrontare anche l'emergenza Ebola nelle vicine Guinea e Liberia. Per questioni di sicurezza, il Governo ivoriano ha scelto di chiudere anche le frontiere terrestri (dopo aver imposto divieti sui collegamenti aerei con i due Paesi) per impedire all'epidemia di colpire anche il suo territorio.


Le ragioni della guerra in Costa d’Avorio sono da ricercare nel controllo delle ricchezze del territorio, controllo che viene rivendicato dai diversi gruppi dirigenti facendo leva sull’appartenenza ad uno dei 60 diversi gruppi culturali. L’interdizione dalle cariche politiche delle popolazioni a sangue misto ha creato tensioni che non si assopiscono, innestate su un deficit democratico costante nella storia della Costa d’Avorio sin dall’indipendenza. Inoltre, l’economia del Paese, una delle migliori

del continente africano, dipende quasi interamente dall’esportazione delle materie prime e questo scatena da sempre gli interessi delle grandi aziende multinazionali, pronte a finanziare i diversi gruppi pur di assicurarsi - con la presa del potere - il controllo del mercato. Insomma, è un Paese diventato terreno di confronto per interessi esterni, con Francia, Stati Uniti e Cina a contendersi il ruolo di “partner” privilegiato.

Per cosa si combatte

Vittime di guerra, aiuti statali

Il Presidente della Costa d’Avorio Alassane Ouattara ha annunciato la creazione di un fondo di 15milioni di euro per le famiglie delle vittime delle violenze che hanno insanguinato il Paese tra il 2002 e il 2011. L'annuncio è stato fatto dal Capo dello Stato durante una cerimonia della Commissione dialogo, verità e riconciliazione. Mamadou Soromidjo Coulibaly, presidente della Federazione delle vittime della crisi postelettorale, ha giudicato la somma insufficiente a coprire l'indennizzo alle 20mila vittime (secondo i dati della Federazione) di cui 15mila verificate anche dalla Commissione.

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UNHCR/B. Kouame

La Costa d’Avorio ottiene l’indipendenza nel 1960 grazie a uno dei padri della decolonizzazione, Felis Houphpuet-Boigny. Legato sia per il proprio passato politico sia per gli interessi economici alla Francia, Boigny garantisce al suo Paese uno sviluppo economico considerevole. Grazie a un programma di incentivi statali sostenuti anche da Parigi, Boigny porta la Costa d’Avorio a essere il primo esportatore mondiale di cacao e il terzo di caffè. Per 20 anni l’economia del

Paese cresce al ritmo del 10% all’anno, superata solo dall’economia dei grandi Paesi produttori di petrolio e diamanti. Boigny gode di enorme credito politico, cosa che gli permette di governare con pugno di ferro, senza permettere la nascita di partiti politici né, tanto meno, di organizzare elezioni libere. All’inizio degli anni ’80 crolla il prezzo del cacao e del caffè con effetti disastrosi sull’economia del Paese. Il debito estero triplica e cresce la

Quadro generale

A processo l'ex Presidente

La Corte penale internazionale (Cpi) ha deciso di processare Charles Blé Goudé, alleato dell’ex Presidente della Costa d’Avorio Laurent Gbagbo. Charles Blé Goudé, Laurent Gbagbo e sua moglie sono accusati di crimini contro l’umanità per aver fomentato le violenze seguite alle elezioni presidenziali del 2010. Goudé, ex capo del “giovani patrioti”, un movimento sostenitore dell’ex Presidente, è stato arrestato nel gennaio del 2013 in Ghana ed è stato estradato in Costa d’Avorio per poi essere trasferito all’Aja nel marzo di quest’anno.

UNHCR/S. Momodu


TENTATIVI DI PACE

Avis e Ue insieme per i diritti umani

Il 10 settembre 2014 ad Abodo, uno dei quartieri più instabili della capitale ivoriana Abidjan, è stata inaugurata l'iniziativa di pace “Droit aux Droits” (diritti a tutti). Alla cerimonia erano presenti i rappresentanti delle maggiori istituzioni internazionali di tutela dei diritti dell'uomo. L'obbiettivo di questo progetto è quello di creare un clima di pace all'interno del quartiere di Abodo, attraverso la formazione delle organizzazioni della società in tema di diritti dell'uomo e la sensibilizzazione alla partecipazione democratica. Con la creazione di rapporti di collaborazione tra gli attori locali, le istituzioni statali e i leader dei diversi rioni di Abodo, si vuole garantire al quartiere una fitta rete interdipendente volta alla tutela dei diritti fondamentali degli abitanti. Per sensibilizzare la popolazione verranno organizzate delle attività di promozione della partecipazione come laboratori di teatro, trasmissioni radiofoniche, seminari di consultazione giuridica e la proiezione di cortometraggi sui diritti umani.

Simone Gbagbo

Simone Gbagbo, moglie dell'ex Presidente ivoriano Laurent Gbagbo è sotto processo in Costa d'Avorio per il suo ruolo negli scontri e nelle violenze che hanno insanguinato il Paese dopo le elezioni del 2010. Gbagbo è a processo insieme ad altri 82 sostenitori del marito ex Presidente (che intanto è a giudizio all'Aja per crimini contro l'umanità). Simone Gbagbo è inoltre accusata dall'Icc (International Criminal Court) degli stessi crimini del marito ma la Costa d'Avorio non ha mai acconsentito alla sua estradizione. È stata arrestata insieme al marito in un bunker dove i due si erano rifugiati dopo lo scoppio delle protese postelettorali e un tentativo di assalto alla loro residenza nella capitale Abidjan.

UNHCR/F. de Woelmont

criminalità, la stabilità del Governo comincia a vacillare. Boigny, nel 1990, deve affrontare le prime proteste di piazza. Il Presidente risponde al malcontento attraverso la concessione di alcune libertà politiche, tra cui il multipartitismo. Le prime elezioni libere confermano alla guida del Paese il padre della patria. Boigny muore nel 1993 e viene sostituito da Henri Konan Bèdiè, che riesce a migliorare il quadro economico anche grazie a una svalutazione del 50% del franco Cfa, legato a quello francese e ora all’euro. La repressione del dissenso crea un forte malcontento che viene sfruttato, nel 1999, da un gruppo di militari capitanati dal generale Robert Guei, che rovescia Boèdiè e organizza le elezioni presidenziali. Le consultazioni del 2000 si svolgono in un’atmosfera pesantissima, caratterizzata da tentativi di brogli compiuti da Guei e dall’esclusione di Alssane Ouattara, principale candidato dell’opposizione, perché di sangue misto. La

I PROTAGONISTI

decisione scatena la rabbia dei musulmani del Nord. Dalle urne esce vincitore Laurent Gbagbo, principale oppositore di Boigny. Nel 2002 parte dell’esercito si ammutina e tenta di rovesciare il Presidente Gbagbo che resiste e il golpe si trasforma in una vera e propria guerra civile che spacca il Paese in due: il Nord controllato dai ribelli del Fronte Nuovo e il Sud sotto controllo del Governo. La Costa d’Avorio entra in uno stallo politico e istituzionale che paralizza il Paese. Nel 2003 vengono firmati accordi di pace che, tuttavia, rimangono sulla carta. Molti nodi costituzionali rimangono tali, soprattutto quelli che riguardano l’eleggibilità delle popolazioni di sangue misto. Il Paese rimane diviso in due. E i tentativi del Presidente di riprendere il potere sul territorio sotto controllo dei ribelli, manu militari, falliscono anche grazie alla forza di interposizione dell’Onu, 10mila uomini ancora presenti nel Paese, e ai contingenti francesi che controllano la zona di sicurezza al “confine” tra Nord e Sud del Paese. Le elezioni libere vengono continuamente rimandate, fino alle elezioni del novembre 2010 che hanno visto la vittoria di Ouattara.

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(Grand-Bassam, 20 giugno 1949)


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA LIBERIA RIFUGIATI

17.576

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GHANA

5.249

RIFUGIATI ACCOLTI NELLA LIBERIA RIFUGIATI

53.253

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI COSTA D’AVORIO

52.786


Oltre al virus c'è la fame

Nei tre Paesi maggiormente colpiti da Ebola, cioè Liberia, Sierra Leone e Guinea, alla fine del 2014 erano 1milione e 700mila le persone colpite da “insicurezza alimentare”, di cui almeno 200mila per effetto diretto del virus. A denunciarlo l'Organizzazione mondiale per la sanità. Una emergenza preoccupante, destinata a crescere se il virus non dovesse fermarsi. Le previsioni della agenzia dell'Onu, infatti, sono per una crescita a 3milioni di esseri umani in crisi alimentare entro i primi mesi del 2015, con un tasso di aumento esponenziale per ogni mese di espansione della malattia.

UNHCR/G. Gordon

È come una guerra, qualcuno dice peggio di una guerra. La Liberia - uscita dieci anni fa da una guerra civile che ha ucciso 250mila persone, costretto alla fuga milioni di esseri umani e distrutto Stato e economia - rischia di ripiombare nel caos a causa dell’epidema di Ebola. L'allarme lo ha lanciato nell'autunno del 2014 il ministro dell’Informazione liberiano, Lewis Brown, responsabile anche della task force governativa che cerca di contrastare il morbo. Nel Paese il 60% dei mercati è stato chiuso per evitare che l'epidemia si diffonda. Risultato: l'economia è ferma, immobile. A fine anno lo stato di emergenza è stato revocato, ma Brown ha spiegato con parole dure: “Gli ospedali lottano, ma anche gli alberghi e le imprese - ha detto -. Se le cose continuano cosi’, il costo della vita aumenterà. La gente è agitata. Il mondo non può aspettare che la Liberia, la Sierra Leone e la Guinea ricadano in una guerra civile, che potrebbe essere il risultato di questa lentezza nella risposta alla lotta contro l’Ebola”. Una analisi che trova d'accordo gli osservatori internazionali. La Liberia vive in una fragilissima pace da undici anni, dopo le guerre civili che l'hanno devastata fra il 1989 e il 2003. A garantirla è da sempre una missione Onu, ora più che mai impegnata a non far rinascere il caos. Il Paese confina con la Sierra Leone anch’essa teatro di una decennale guerra civile (1991-2001) che ha causato circa 120mila morti - e con la Guinea. Sono i tre Paesi che stanno crollando sotto i colpi dell'epidemia: i morti sarebbero complessivamente più di 3mila, alla fine del 2014, ma sono le economie e le istituzioni ad essere impantanate. La crisi ha evidenziato la fragilità del sistema. La Liberia è cresciuta in termini di Pil del 10% l'anno, prima dell'epidemia. Ma la crescita è nata soprattutto dalla cessione a società straniere di concessioni minerarie e di permessi di disboscamento. Il 65% degli investimenti è finito in questi settori, senza creare però posti di lavoro. Così, non è stata ridistribuita la ricchezza, che è rimasta nelle mani di pochi. Anche i servizi non sono aumentati. Quando è iniziata la crisi Ebola, in Liberia i medici erano solo 120, per 4milioni di cittadini. Le uniche ad essere cresciute sono le città, che si sono riempite in modo disordinato di gente. È da lì che passa e cresce il malcontento, con una sfiducia radicata nel Governo. Insomma, le ripercussioni politiche

LIBERIA

Generalità Nome completo:

Repubblica della Liberia

Bandiera

Lingue principali:

Inglese

Capitale:

Monrovia

Popolazione:

3.994.000

Area:

111.370 Kmq

Religioni:

Cristiana (66%), animista (19%), musulmana (15%)

Moneta:

Dollaro Liberiano

Principali esportazioni:

Cocco, caffè, legname, ferro, bauxite, oro, diamanti

PIL pro capite:

Us 655

sono pesanti e gli interventi intenazionali dovrebbero essere rapidi ed imponenti, proprio per evitare che da Ebola risorgano vecchie contese politiche e riparta lo scontro armato. A fine 2014, era indispensabile allestire al più presto almeno dieci centri di trattamento, con mille posti letto. Un vero e proprio grido d'allarme, che riportava l'eco di quanto detto dalla Presidente Ellen Johnson Sirleaf in settembre. Aveva esortato i connazionali a fare mostra della stessa “resistenza” messa in campo per uscire dalla guerra civile. Il nemico, questa volta, è Ebola.

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Situazione attuale e ultimi sviluppi


volevano reagire all’oppressione, al reclutamento forzato dei bambini soldato e all’assassinio indiscriminato di ogni oppositore. Gli accordi di Accra, che hanno portato all’attuale presidenza, sono stati firmati dalle fazioni ribelli puntando a un rinnovamento del Paese. Per ora tengono, aiutati da una forza multinazionale inviata dall'Onu e a dispetto delle tensioni create dal permanere in molte aeree di gruppi armati pronti a scendere in campo. E il caos nato alla fine del 2013, con l'esplosione dell'epidemia di Ebola, non aiuta certo chi vuole mantenere la pace.

Per cosa si combatte

Donne e società: che fatica

L'organizzazione sociale in Liberia risente delle origini del Paese e, come spesso accade, a subire maggiormente la cosa sono le donne. Tutta la società è patrilineare: L'ideologia portata dai neri americani era patriarcale, legata alla Bibbia, così le donne dovevano occuparsi solo dei figli e della casa. Invece, la suddivisione del lavoro agricolo in base ai sessi ha dato al mondo femminile un discreto potere, anche se non riconosciuto. Lo dimostra, ad esempio, il fatto che è stata istituita la dote che accompagna il matrimonio. Tra i cosiddetti 'civilizzati', sia indigeni sia di discendenza americo-liberiana, il ruolo che hanno le donne nella gestione della casa e della famiglia ha un grande valore. L'istruzione resta appannaggio delle donne di origine americoliberiana.

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Per molti anni, sono stati il controllo del potere e della ricchezza la ragione delle guerre civili in Liberia, alimentate dalle dittature di Samuel Kanyon Doe prima e di Charles Taylor poi, con i colpi di stato che li hanno portati al comando. I due dittatori hanno governato appoggiandosi a pochi elementi dei loro clan familiari, puntando infine allo scontro con gli Stati vicini per impadronirsi di risorse naturali e aumentare la loro ricchezza personale. Lo scontro - quando non è stato con le bande rivali - è stato sempre con chi si opponeva per disperazione, con coloro che

UNHCR/G. Gordon

Già il nome, Liberia, definisce una comunità di “liberi uomini di colore”. E poteva essere una storia di libertà, invece, è stata una vicenda di sangue e di diamanti. Inizia tutto nel 1822, quando in questo territorio si installano i coloni afroamericani sotto il controllo dell’American Colonization Society. Una terra promessa che, tuttavia, doveva essere contesa agli indigeni che lì vivevano. Il nuovo stato aveva l’estensione delle terre controllate dalla comunità dei coloni e da coloro che ne erano stati assimilati. Gran parte della storia della Liberia è un continuo susseguirsi di scontri e tentativi, raramente coronati da successo, di una minoranza civilizzata di dominare una maggioranza considerata per tanti aspetti “inferiore”. Se all’inizio lo scontro è scandito dalla necessità di affermare un principio di civiltà contro un principio di inciviltà, così erano pensati gli uomini che vi abitavano, poi è diventato uno scontro per accaparrarsi i diamanti della vicina Sierra Leone. Negli ultimi vent’anni i focolai di

conflitto hanno più volte ripreso vigore, sfociando in violenze e veri “stermini etnici”. La rivolta del 1989 ha messo fine alla violenta dittatura di Samuel Doe, preparando l’avvento dell’altrettanto sanguinaria era di Charles Taylor. Tra il 1992 e il 2002, con l’intento di conquistare le miniere di diamanti della confinante Sierra Leone, Taylor appoggia il Revolutionary United Front (Ruf) di Foday Sankok. Al potere, Taylor, ci arriva nel 1997 dopo una lunga scia di sangue e di traffici loschi. A Monrovia instaura un regime di terrore. La polizia speciale liberiana, che fa capo direttamente al Presidente, non ha avuto pietà con gli ex oppositori del Movimento Unito di Liberazione (Ulimo): arrestati, torturati e uccisi a centinaia. Mentre il terrore vive a Monrovia, non cessano i conflitti interetnici e le lotte fra fazioni. I membri del Governo appartenenti alla famiglia di Taylor, intanto, non perdono occasione per dimostrare la loro incompetenza nel tentativo di rilanciare un’economia distrutta dalla guerra

Quadro generale

L'ex calciatore ora è senatore

È solo una mini vendetta, ma la rivincita almeno parziale se l'è presa George Weah, ex calciatore liberiano, unico africano ad aver vinto il Pallone d'Oro, nel 1995. Alla fine del 2014, Weah è stato eletto senatore, battendo nettamente un candidato illustre, cioè Robert Sirleaf, figlio dell'attuale Presidente Ellen Johnosn Sirleaf. Proprio la Sirleaf aveva battuto Weah nella corsa alla presidenza nel 2005. Ora, l'ex campione ha vinto con il 78,1% dei consensi, candidandosi con il partito del Cambiamento Democratico.


TENTATIVI DI PACE

Il bivio della pace in Liberia, uno show radiofonico per superarlo

La produzione radio è una componente importante del lavoro Search for Common Ground (Sfcg) in Liberia. È possibile attraverso I programmi avere un impatto positivo sulle persone e sulla loro visione di se stessi, dei vicini e della società. “Today is not tomorrow”, prodotto da Talking Drum Studio dal 2003 al 2013 per 900 episodi, è stata la prima soap opera della Liberia e il più popolare dramma radiofonico del Paese. Il nuovo dramma radio è “Blay-tahnla” - “al crocevia” in lingua Kpelle - che mette in luce temi di attualità, come la tolleranza, il buon governo e la democratizzazione, la gestione delle risorse naturali, la riforma del settore della sicurezza, trasparenza, responsabilità, i diritti umani, la salute. In Blay-tahnla, i personaggi lottano per ricostruirsi una vita dopo aver combattuto una guerra lunga e devastante. I personaggi hanno origini ed esperienze diverse e spesso dopo lunghi viaggi si incontrano “al crocevia”: qui discutono e litigano, crescono e imparano, alla continua ricerca di un terreno comune.

Michel Du Cille

Fotoreporter del Washington Post, vincitore di tre premi Pulitzer, considerato uno dei più bravi fotografi del mondo, Michel du Cille è morto in Liberia nel 2014, stroncato da un infarto mentre documentava la crisi di Ebola. Si trovava nella contea di Bong, a due ore di viaggio dall'ospedale più vicino. Nato in Giamaica, si era trasferito negli Stati Uniti nei primi anni del 1970. Iniziò subito a lavorare come fotografo, facendosi notare. Il primo Pulitzer lo vinse nel 1987, documentando l'eruzione del vulcano Nevado del Ruiz, in Colombia. Due anni dopo, il secondo riconoscimento, per un progetto realizzato dentro un comunità di tossicodipendenti a Miami. Nel 1998 passò al Wasghinton Post, documentado le guerre civili di Sierra Leone e Liberia. Per questo giornale, nel 2008, arrivò al terzo Pulitzer, per un reportage sul centro di recupero Walter Reed Army Medical Center, per i veterani di guerra. Era tornato in Liberia per raccontare la devastazione di Ebola e dare dignità ai troppi che muoiono soli, abbandonati. “Credo che il Mondo debba vedere gli effetti disumani e orribili dell'Ebola”, diceva.

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(Kingston 24/1/1956 - Monrovia 11/12/2014)

UNHCR/G. Gordon

e che vede nel miraggio dei diamanti sierraleonesi una possibilità di rilancio che, però, non si materializza. È così che i vecchi sostenitori abbandonano Taylor che, nel 2003, guadagna l’esilio da “signore della guerra”. Un esilio offerto dalla Nigeria, ma Taylor giura: “Col volere di Dio, tornerò”. I liberiani si augurano, invece, che non torni mai più e che venga condannato per crimini di guerra e contro l’umanità dal Tribunale Internazionale, cosa che avviene nel 2012, con la sentenza a cinquant’anni di carcere. Tutto ciò pone fine ad un era sanguinaria: 200mila morti e un milione di profughi. La Liberia ha vissuto quattordici anni di guerra civile. Ci sono state devastazioni, distruzioni. Intere generazioni che hanno vissuto, convissuto e partecipato alla guerra. Bambini sono stati sottratti alla loro infanzia, per essere spediti nei

I PROTAGONISTI

campi di battaglia, drogati per renderli feroci e incoscienti. Menti e vite sono state distrutte e ora debbono essere ricostruite. Con gli accordi di Accra (2003) nasce il Governo guidato da Jyude Bryant, che regge due anni grazie all’appoggio degli Usa e alla presenza di una forza multinazionale a mandato Onu composta da 15mila caschi blu. Nel 2005 il Paese sembra vedere un po' di luce, con l’elezione della prima donna Presidente in Africa, Ellen Johnson Sirleaf, che nel 2011 riceve prima il Nobel per la Pace e poi viene rieletta per un secondo mandato. Cresce anche l'economia, nel 2013 rientrano dalla Guinea anche gli ultimi rifugiati, fuggiti dalla guerra civile. Contemporaneamente, affronta il problema di accogliere quasi 67mila rifugiati ivoriani, in fuga dalla Costa d’Avorio dopo le violenze seguite alle elezioni del 2010, per le quali l’ex Presidente Laurent Gbagbo è sottoposto al giudizio della Corte Penale Internazionale. Insomma, tutto sembra migliorare, poi il nuovo crollo, determinato dall'epidemia di Ebola.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA LIBIA RIFUGIATI

3.322

SFOLLATI PRESENTI NELLA LIBIA 53.579 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA LIBIA RIFUGIATI

25.561

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SIRIA

16.796


Migranti e rifugiati

Nel caos libico, hanno avuto gioco facile le reti internazionali che facilitano l'emigrazione irregolare verso le sponde mediterranee dell'Europa. Le politiche di “contenimento” attuate dal regime di Gheddafi con l'appoggio italiano ed europeo avevano provocato pesantissime violazioni dei diritti umani dei migranti e dei rifugiati. Una politica alternativa non è ancora in piedi e la Libia è diventata ancora di più un Paese di transito verso il Mediterraneo. Per quasi tutto il 2014 è stata attiva la missione Mare Nostrum, della Marina Militare italiana che ha portato al salvataggio in mare di oltre 150mila persone. Dall'inizio del 2015 sarà sostituita da una missione europea, Triton, in collaborazione con Frontex, l'agenzia Ue di sorveglianza alle frontiere. Le preoccupazioni per nuove violazioni e tragedie in mare non sono affatto diminuite.

© Manu Brabo / MEMO

La fragilità del Paese, manifestatasi dopo la caduta del regime di Muhammar Gheddafi e la sua uccisione il 20 ottobre 2011, si è aggravata nel corso del 2014. Due elezioni, quelle per l'assemblea costituzionale a febbraio e quelle per il parlamento a fine giugno, avrebbero dovuto sbloccare lo stallo politico e istituzionale che ha creato un vuoto di potere riempito dalle milizie che si contendono il Paese. Invece, l'impasse è diventata più profonda. Alle elezioni parlamentari hanno partecipato appena il 18% degli aventi diritto. Il risultato è stato un Governo debolissimo, presieduto da Abdullah al-Thani che ha deciso di lasciare la capitale Tripoli per trasferirsi nella città di Tobruk, vicino al confine con l'Egitto, ritenuta più sicura. Nella capitale, però, esiste un secondo Governo, creato direttamente dai parlamentari del Congresso Generale Nazionale (Gnc) e guidato dal leader islamista Omar al Hassi. La contesa tra i due governi sta di fatto sancendo la spaccatura del Paese tra l'Ovest centrato su Tripoli e l'Est gravitante sulla Regione della Cirenaica. A maggio, l'Onu ha avviato un processo di mediazione tra le parti, culminato in una conferenza internazionale a settembre, che però non ha portato i risultati sperati. I governi postGheddafi non sono stati in grado di disarmare le milizie, regionali, locali, tribali utilissime nella lotta contro le truppe lealiste. Dalla galassia delle milizie, stanno emergendo e si stanno scontrando due fronti principali: uno islamista radicale e uno anti-islamista. Il primo è concentrato attorno alla città di Bengasi e ai kalashnikov della formazione Ansar al-Sharia, guidata da Mohamed al Zehawi, che è riuscito a impadronirsi anche dell'aeroporto internazionale di Tripoli e che ad agosto si è proclamato emiro di Bengasi. Il secondo fronte ruota attorno al generale Khalifa Haftar, già dissidente anti-Gheddafi, fuggito negli Usa nel 1987 e rientrato in Libia allo scoppio delle rivolte del 2011.

LIBIA

Generalità Nome completo:

Stato della Libia

Bandiera

Lingue principali:

Arabo

Capitale:

Tripoli

Popolazione:

6.120.585 (2008)

Area:

1.759.840 Kmq

Religioni:

Musulmana (97%), Cristiani (3%)

Moneta:

Dinaro libico

Principali esportazioni:

Petrolio, gas naturale

PIL pro capite:

Us 11.936

Gli scontri tra le due fazioni, con un fronte fluido che coinvolge le principali città, e una serie di attentati incrociati, hanno lasciato sul campo centinaia di morti. Tra agosto e settembre, inoltre, le posizioni islamiste sono state colpite da una serie di raid aerei probabilmente dell'aviazione degli Emirati Arabi Uniti e di quella egiziana. Secondo le stime dell'Onu, circa 300mila persone sono scappate dalla guerra verso i Paesi vicini, Egitto e Algeria, i cui governi temono l'espansione islamista. L'Egitto ha offerto addestramento militare alle forze anti-islamiste, mentre l'Algeria cerca di trovare una soluzione negoziale.

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Situazione attuale e ultimi sviluppi


La rivolta scoppiata il 17 febbraio 2011, dopo la repressione della manifestazione di protesta contro le “magliette blasfeme”, è diventata in poco tempo una rivoluzione contro il quarantennale regime di Gheddafi che si stava preparando a cedere il Governo a uno dei suoi figli. Archiviata la rivoluzione, con l'intervento internazionale a sostegno dei ribelli, la lotta oggi è per la spartizione del Paese e soprattutto dei proventi petroliferi. La Libia infatti è il decimo Paese al mondo per riserve provate di petrolio. Tuttavia, sottotraccia, c'è il conflitto tra le diverse componenti della società libica, “congelata” dal regime che ne ha saputo usare le divisioni per mantenersi in sella per quattro decenni. La divisione tra islamisti e anti-islamisti, infatti,

non è tanto (o solo) ideologica, quanto piuttosto attinente alle storiche rivalità regionali, tribali e sociali di un Paese bloccato nel suo cammino post-coloniale dalla peculiare forma di governo che Gheddafi aveva escogitato e teorizzato nel suo Libro Verde. La crisi in corso, sottovalutata dai media e da molti governi, rischia però di superare i confini libici e coinvolgere sia i Paesi vicini, sia di nuovo quelli europei, preoccupati della gestione dei pozzi di petrolio, della mancanza di controllo alle frontiere marittime e della possibile vittoria islamista, soprattutto nel caso si creasse un collegamento, finora inesistente sul campo, tra le milizie libiche e l'Isis attivo tra Iraq e Siria.

Per cosa si combatte

Il petrolio

La produzione libica prima della rivoluzione anti-Gheddafi era di circa 1,5milioni di barili al giorno. Un livello ancora non raggiunto, anche se a settembre del 2014 secondo i dati della National Oil Company, la produzione era arrivata a 900mila barili al giorno. Nel corso del 2012 e del 2013, con i danni subiti dalle infrastrutture petrolifere, la produzione di greggio era scesa a poco più di 200mila barili al giorno. Il petrolio pesa per l'80% del Pil libico e per il 97% delle esportazioni. La Libia ha le più grandi riserve petrolifere del continente africano ma uno dei problemi di qualsiasi futuro Governo sarà cercare di ridurre la petro-dipendenza dell'economia del Paese.

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© Manu Brabo / MEMO

La Libia italiana fu una colonia del Regno d’Italia nell’Africa settentrionale, durata dal 1912 al 1947 e, ufficialmente come colonia unica, dal 1934 al 1939. Il primo ministro italiano Giovanni Giolitti, iniziò la conquista della Tripolitania e della Cirenaica il 4 ottobre 1911, inviando a Tripoli contro l’Impero Ottomano 1732 marinai al comando del capitano Umberto Cagni. Oltre centomila soldati italiani riuscirono ad ottenere dalla Turchia quelle Regioni attualmente definibili libiche nel Trattato di Losanna del 18 ottobre 1912, ma solo la Tripolitania fu effettivamente controllata dal Regio esercito italiano sotto la ferrea guida del governatore Giovanni Ameglio. Nell’interno dell’attuale Libia (principalmente nel Fezzan) la guerriglia indigena continuò per anni, ad opera dei turchi e degli arabi di Enver Pascià e di Aziz Bey. L’ascesa al potere del fascismo determinò un inasprirsi della politica italiana nei confronti dei ribelli libici. La lotta proseguiva solo in Cirenaica, dove resisteva ancora il capo senussita della guerriglia, Omar al-Mukhtar. Dotato di un’eccellente visione strategica, con il sostegno delle popolazioni locali, ha impedito per molto tempo agli italiani di riprendere il con-

trollo della provincia. Ma fu ferito e catturato l’11 settembre 1931 durante la battaglia di Uadi Bu Taga in uno scontro a fuoco con collaborazionisti libici. Fu trasferito via mare a Bengasi, dove subì una parvenza di processo ed ebbe un breve colloquio con Graziani. Il 16 settembre venne impiccato in catene nel campo di concentramento di Soluch, davanti a ventimila libici fatti affluire dai vicini lager. La morte di Omar Al-Mukhtar segnò la fine della resistenza libica e la riunificazione delle tre province sotto il comando italiano. Nel 1934 venne proclamato il Governatorato Generale della Libia (coll’unione della Tripolitania e della Cirenaica) e successivamente i cittadini africani potettero godere dello status di “cittadini italiani libici” con tutti i diritti che ne conseguirono. Mussolini dopo il 1934 iniziò una politica favorevole agli Arabi libici, chiamandoli “Musulmani Italiani della Quarta Sponda d’Italia” e costruendo villaggi (con moschee, scuole ed ospedali) ad essi destinati. Il primo governatore fu Italo Balbo, a cui si deve la creazione della Libia attuale sul modello di quella dell’imperatore romano Settimio Severo (nato in Libia).Balbo divise nel 1937 la Libia italiana

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

Un sostegno per il dialogo

Khalifa Belqasim Haftar

Il Centre for Humanitarian Dialogue lavora in Libia da Aprile 2011, per sostenere il dialogo tra le diverse parti politiche intorno agli aspetti controversi nel processo di transizione, tra cui la riconciliazione e il processo costituzionale. Quando le tensioni tra le comunità sono sfociate in conflitti violenti, il Centro ha dato sostegno tecnico ai mediatori libici, soprattutto leader tribali e religiosi (Hukama), impegnati per la loro risoluzione. Il lavoro si concentra in particolare sul Sud della Libia, ad al-Kufra e Sabha. Risultati positivi a Sabha nell'aprile 2012 con un accordo di pace. Nel mese di settembre 2013, il Centro ha convocato una tavola rotonda a Tripoli sul tema "Promoting Stability and Consolidating Peace in Sabha", durante il quale i partecipanti hanno deciso di istituire un Sabha Working Group per promuovere la coesione sociale e l'inclusione. Quando la violenza è scoppiata di nuovo a Sabha ai primi di gennaio 2014, le reti che il Chd aveva stabilito sono state in grado di avviare negoziati che hanno portato a un cessate il fuoco in pochi giorni. L'obiettivo è trasformare questo in un accordo di pace permanente.

Aspirante nuovo uomo forte in Libia, e leader del “fronte” anti-islamista è un ex militare dell'esercito di Gheddafi, fuggito negli Stati Uniti dopo che Gheddafi lo aveva rimosso dal comando per i rovesci subiti dai libici nella guerra con il Chad. Secondo alcune analisi, è molto vicino alla Central Intelligence Agency statunitense. A febbraio 2014 si è reso protagonista di un tentativo di colpo di stato contro l'allora Governo guidato da Ali Zeidan, altro esule in Occidente (Europa) che aveva tentato di rimettere in piedi le istituzioni libiche nel 2013, prima di essere estromesso dalla scena politica principale. Haftar riscuote le simpatie del Presidente (ex militare anche lui) egiziano al-Sisi, ma la sua strategia interna sembra orientata tanto contro gli islamsiti armati di Ansar al Sharia quanto contro il parlamento di Tripoli (ora a Tobruk), in nome di una stabilità del Paese garantita soprattutto dalle forze armate. Il rischio è che si arrivi di nuovo alla creazione di un Governo autoritario anti-caos, capace di ottenere l'appoggio della comunità internazionale. Non prima però di un possibile inasprimento ulteriore della guerra civile in corso.

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(Agedabia, 1943)

© Manu Brabo / MEMO

in quattro province (nel 1939 annesse al Regno d’Italia) ed un territorio sahariano. Il Regno d’Italia dopo la prima guerra mondiale avviò una colonizzazione che ebbe il culmine soprattutto verso la metà degli anni Trenta con un afflusso di coloni provenienti in particolare da Veneto, Sicilia, Calabria e Basilicata. Nel 1939 gli italiani erano il 13% della popolazione, concentrati nella costa intorno a Tripoli e Bengasi. La seconda guerra mondiale devastò la Libia italiana e costrinse i coloni a lasciare in massa le loro proprietà, specialmente nella seconda metà degli anni Quaranta. Nel Trattato di Pace del 1947 l’Italia fu costretta a rinunciare a tutte le sue colonie, compresa la Libia. Il territorio venne diviso in due amministrazioni: Tripolitania e Cirenaica sotto gli inglesi e Fezzan alla Francia. Nel 1951 l’indipendenza. La Libia è il primo Paese africano a liberarsi dal giogo colonialista. Re Idriss I sale al potere. Sarà il primo e l’unico re di Libia. Nel 1969, in settem-

I PROTAGONISTI

bre, il giovane ufficiale Muhammar Gheddafi attua un incruento colpo di stato, insieme ad altri ufficiali. Nel 1975 Gheddafi (abbandonato l’appellativo di colonnello per un più…democratico “fratello leader”) pubblica il Libro Verde, il suo pensiero politico alternativo tra comunismo e liberalismo, una sorta di mix tra socialismo reale e democrazia ateniese, mescolato con gli interessi tribali, gestito dai ‘Comitati popolari’ organismi di base della volontà popolare. Nel frattempo, viene accusato di finanziare i gruppi terroristici internazionali e gli Stati Uniti lo dichiarano nemico numero uno, tentando più volte di ucciderlo, con bombardamenti aerei (1986) e attentati. Negli anni ‘90, dopo la prima guerra del Golfo (1991), inizia un lento avvicinamento all’Europa e agli Stati Uniti, operazione che sfocia nella ripresa delle relazioni diplomatiche con Washington e con la ripresa degli affari con il Vecchio Continente. Nulla sembra turbare il regime, sino alla primavera del 2011, quando le rivolte nel Maghreb danno fiato a una opposizione interna che sembrava sconfitta.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL MALI RIFUGIATI

152.864

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI MAURITANIA

66.393

NIGER

48.928

BURKINA FASO

28.684

SFOLLATI PRESENTI NEL MALI 254.822 RIFUGIATI ACCOLTI NEL MALI RIFUGIATI

14.316

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI MAURITANIA

12.897


© Fabio Bucciarelli / MEMO

Ebola è arrivato

Geograficamente sul confine con Guinea, Sierra Leone e Liberia, insomma con l’epicentro dell’epidemia di Ebola, il Mali ha cercato di dare una pronta riposta all’emergenza sanitaria. In ottobre, dopo la morte di una bambina, la prima vittima maliana del virus, le autorità sanitarie hanno attivato un protocollo d’emergenza. Attualmente circa 40 volontari, tutti parte del personale medico degli ospedali maliani, stanno testando i vaccini. Il Mali, sul piano della prevenzione e dell’intervento sanitario, è in questo momento secondo solo alla Liberia, dove il virus ha colpito con maggior ferocia. © Fabio Bucciarelli / MEMO

Dopo l’operazione militare denominata “Serval”, la Francia ha avviato l’operazione “Barkhane”, che dal 1 agosto 2014 è l’ideale continuazione della prima, ma con scopi aggiornati. Serval era iniziata l’11 gennaio 2013

nel Nord del Mali per contrastare l’ascesa delle milizie islamiche nell’Azawad, lo stato tuareg autoproclamatosi indipendente dal Mali nell’aprile 2012. La Francia aveva deciso in tempi brevissimi di intervenire, per impedire che le milizie integraliste saldassero un "fronte africano largo" e anticipassero lì il califfato nato poi fra Siria e Iraq. Oggi Barkhane è forte di 3mila militari francesi, oltre all’apporto di altri attori regionali: Burkina Faso, Ciad, Niger, Mauritania e naturalmente Mali. L’azione di Serval aveva portato al ritrovato controllo delle principali città del Nord, come Timbuktu, Gao e Kidal, appunto cadute sotto il controllo delle principali sigle islamiste (Ansar Dine, Mujao e Aqmi), ma quando la battaglia si è spostata ulteriormente a Nord, sulle alture degli Ifoghas, è stato necessario mutare tattica militare. L’operazione Barkhane, dal nome delle dune

MALI

Generalità Nome completo:

Repubblica del Mali

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese

Capitale:

Bamako

Popolazione:

14.517.176

Area:

1.240.142 Kmq

Religioni:

Musulmana (80%), animisti (18%) e altre (2%).

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

Us 1.088

di sabbia, quindi ha scopi più marcatamente orientati verso l’antiterrorismo, e prevede di lasciare sempre 1000 militari francesi in Mali e 1200 unità in Ciad; questa seconda operazione dovrebbe rappresentare una forza di pronto intervento in caso di nuove crisi o di offensive su larga scala da parte degli islamisti. A differenza di Serval, Barkhane autorizza inoltre le forze antiterrorismo a varcare i confini del Mali, per condurre operazioni preventive in Ciad e Niger, disponendo, tra l’altro, di 20 elicotteri da combattimento, 200 mezzi leggeri d’assalto, 10 aerei per trasporto truppe, 6 aerei da caccia e 3 droni.


ri settentrionali della Regione di Kidal. Le sigle islamiste attive, originariamente tre (Ansar Dine, Mujao, Aqmi) e oggi salite a cinque (Ima e Signed-in-Blood Battalion) hanno l’intento dichiarato di asservire tutto il Mali alla legge della Shari’a; durante i mesi dell’occupazione del Nord si sono infatti registrati diversi episodi legati a questa interpretazione oltranzista del Corano: come lapidazioni, mutilazioni, distruzione di mausolei considerati iconoclasti. L’operazione Serval prima e l’attuale operazione Barkhane sono quindi servite a respingere l’avanzata islamista congelando la situazione nel Nord. Mentre a Bamako il nuovo Presidente Ibrahim Boubacar Keita e il nuovo Governo di Moussa Mara tentano di promuovere qualche riforma, la situazione nelle Province del Nord rimane critica, non essendo state rimosse le cause profonde che hanno portato alla destabilizzazione del Paese nel 2011.

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La situazione è quella del classico stallo. La Francia - con il suo principale alleato africano, ossia Minusma (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali) ha pianificato e coordinato le operazioni militari per restituire al Mali la perduta integrità territoriale a seguito della proclamazione, nell’aprile 2012, da parte dell’Mnla (Movimento Nazionale per la liberazione dell’Azawad), dell’indipendenza dell’Azawad, una Regione che comprende tutto il territorio tra il Nord del Mali, il Niger e il Sud dell’Algeria. L’Mnla, dopo un valzer di alleanze con le forze islamiste, ha sì firmato il cessate il fuoco con le autorità di Bamako ma si mantiene su una posizione di sostanziale attendismo, senza aver rinunciato alle proprie rivendicazioni territoriali. Esiste infatti una consolidata tradizione di ribellioni Tuareg allo scopo di affrancare l’etnia dal resto della società maliana, e con essa i territo-

Per cosa si combatte

Salvi i manoscritti di Timbuktu

È venuto alla luce solo di recente come gli abitanti di Timbuktu, guidati dai due maggiori librai privati della città, abbiano salvato i preziosi manoscritti conservati nella biblioteca pubblica dall’arrivo degli islamisti. Ricca di testi risalenti addirittura al XIII secolo, Timbuktu è sempre stato il principale centro culturale del Mali e per estensione dell’intero Sahel; i manoscritti, rei d’idolatria nella visione radicale abbracciata dalle sigle islamiste, rischiavano la sorte dei mausolei: ossia la distruzione. Ma oggi sappiamo che prima dell’ingresso delle milizie in città gli abitanti hanno organizzato una rete per spostare i manoscritti dalla principale biblioteca pubblica e nasconderli in case private lontano dal teatro di guerra. L’operazione guidata dal libraio Abdel Kader Haidara ha permesso di salvare circa 285mila manoscritti, nascosti in casse di metallo e fatti arrivare a Bamako via acqua, tramite canoe che hanno disceso il fiume Niger. Solo 200 manoscritti sono stati distrutti dai miliziani una volta giunti in città. © Fabio Bucciarelli / MEMO

Dopo l’intervento del gennaio 2013, la Francia ha mutato strategia nel teatro di guerra maliano. Parigi ha così sostituito all’operazione “Serval” - manovre di guerra classica con mezzi corazzati e aviazione - l’operazione “Barkhane”, più tagliata verso missioni antiterrorismo e di contenimento. Naturalmente permangono serie criticità nel Nord del Mali: il cessate il fuoco formalmente valido sulla carta, regge molto meno alla prova dei fatti. Tra settembre e ottobre 2014 i caschi blu dell’Onu sono stati oggetto d’imboscate mortali nella Regione di Gao. Queste azioni, per giunta, non sono state rivendicate, per cui le autorità non sono in grado di stabilire se gli attacchi giungano da frange dei movimenti islamisti o dal fronte Tuareg. A settembre cinque peacekeepers del Ciad sono stati uccisi in un agguato e due settimane dopo, con le stesse modalità, altri nove militari Onu del Niger hanno patito la medesima sorte. L’Onu ha condannato l’azione ostile richiaman-

do le milizie attive nella zona al rispetto del cessate il fuoco, ma dal punto di vista strategico il messaggio è quanto mai esplicito: il controllo del Nord del Mali è solo parziale e le forze d’interposizione sono appena tollerate, sia dai Tuareg che dai miliziani islamisti. Gao e Kidal sono quindi le zone calde dove si gioca il futuro del Mali e anche la credibilità dell’operazione francese Barkhane, già molto criticata a Bamako, sia per voce del nuovo Presidente Ibrahim Boubacar Keïta, eletto dopo la fine del conflitto, sia dal primo Ministro Moussa Mara. I quasi 8000 soldati effettivi - contando tanto le truppe di Parigi quanto quelle africane - non sembrano infatti avere il controllo del territorio né sembrano in grado di prevenire i giochi di alleanze che islamisti e tuareg alternano ormai da anni. Anzi, accuse e sospetti di corruzione e complicità nel traffico d’ami che interessa la Regione sono spesso all’ordine del giorno, in un teatro che lontano dai riflettori dei media offre

Quadro generale

Islam, 5 i gruppi

Alle storiche tre sigle islamiste attive in Mali (Ansar Dine, Mujao e Aqmi), si sono aggiunti nell’ultimo anno due nuovi gruppi Ima e “Signed-in-Blood Battalion”. Quest’ultimo è guidato da un ex membro di Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb Islamico), l’emiro algerino Mokhtar Belmokhtar che è stato anche la mente del clamoroso attentato alla centrale petrolifera algerina di Aménas nel 2013. Da una costola di Ansar Dine invece è nato, sotto la guida di Alghabass Ag Intalla - un leader etnico Tuareg - l’Ima (Islamic Movement for the Azawad).


TENTATIVI DI PACE

L'empowerment femminile per una società più solidale

L'empowerment delle donne in Mali è divenuto essenziale per attuare lo sviluppo sociale e culturale che il Paese necessita. Questo è il punto di partenza dell'Afip, Association des Femmes pour les Initiatives de Paix, che promuove il ruolo della donna e della non-violenza e moralizza la società attraverso l'insegnamento della cultura della pace. Una chiave per gestire in modo più efficace i conflitti è innalzare il livello di istruzione, per educare al valore della solidarietà tra le associazioni e tra le persone e per costruire una società più solida e unita. La fondatrice e Presidente dell'associazione, Fatoumata Maiga, fa anche parte del “Center for conflict resolution”, incentrato sulla promozione di approcci costruttivi e cooperativi di risoluzione attraverso lo sviluppo di politiche, l'espansione dei valori della democrazia, del buon governo e la promozione del ruolo delle donne nella mediazione e nella costruzione della pace nel Mali.

Moussa Mara

Nominato il 5 aprile 2014 dal Presidente Ibrahim Boubacar Keïta nel ruolo di primo Ministro, Moussa Mara a soli 39 anni è diventato uno dei più giovani capi di Governo del Mali . La relativa giovane età e la sua debolezza politica (il partito di Mara ha un solo deputato in parlamento) fanno suppore che il navigato Presidente IBK (sommario perfetto del politico esperto) abbia scelto un primo Ministro debole per aver maggior raggio d’azione politica. Per certo le dichiarazioni del primo Ministro sono sempre in linea con quelle del Presidente, e anzi le superano per drasticità, se è vero che Mara nell’ottobre del 2014 ha criticato con toni severi l’operazione francese Barkhane, rea di scarsa efficacia, includendo nel suo sfogo la stessa politica dell’Onu. Ma a differenza di Ibrahim Boubacar Keïta, il primo Ministro non gode né di grandi amicizie in Francia né di grandi relazioni nella Regione; ecco perché, pur se da Parigi non sono ancora arrivate reazioni alle feroci critiche, è chiaro che il primo Ministro potrebbe rischiare il posto, com’è d’altronde accaduto al suo predecessore - il tecnocrate Oumar Tatam Ly - che dopo aver criticato l’intervento francese è stato rimosso da IBK.

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(Bamako, 2 marzo 1975)

© Fabio Bucciarelli / MEMO

diverse opportunità di traffici illeciti. L’operazione Onu, denominata Minusma (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali) e a guida di un generale del Ruanda, Jean Bosco Kazura, è quindi il bersaglio prediletto di una situazione di caos calmo che, nel medio periodo, potrebbe dare vantaggio alle sigle islamiste. David Gressly, vice del rappresentate del segretario generale, ha condannato gli attacchi ribadendo l’impegno nella regione; un annuncio al quale ha fatto poi seguito la diretta presa di posizione di Ban Ki-moon, che ha denunciato l’accaduto come una “violazione delle leggi internazionali”. Con quest’ultima imboscata sale a 30 il numero delle vittime da quando l’operazione è in corso, ossia dal luglio del 2014. Il Presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, ha comunque annunciato che il suo Paese non

I PROTAGONISTI

rinuncerà a far parte della missione, consapevole della gravità della minaccia islamista per l’intero Sahel. Ma dal punto di vista dei rapporti di forza sul campo, sembra che Mujao abbia stabilito un’alleanza con un gruppo etnico Fulani nella Regione di Gao per dividersi il controllo del territorio e dei traffici ad esso correlati. Altri 50 militari di Bamako, del ricostruito esercito, sono stati uccisi vicino a Menaka - città desertica nel Nord Est del Mali. Certo la forza di Mujao è in crescita sul piano regionale, avendo il gruppo rivendicato anche l’attacco con razzi leggeri alla base Minusma di stanza al confine algerino. Insomma, due nuove operazioni sono in corso, giunte a integrare le precedenti: da parte francese Barkhane sostituisce Serval e dal punto di vista Onu Minusma rimpiazza Afisma, ma quello del Mali rimane - al di là delle sigle - e delle dichiarazioni ufficiali un conflitto aperto per il controllo di un territorio chiave per i destini dell’Africa Occidentale e per la lotta al terrorismo internazionale.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA NIGERIA RIFUGIATI

31.664

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI NIGER

8.385

CAMERUN

7.459

RIFUGIATI ACCOLTI NELLA NIGERIA RIFUGIATI

1.694


500 le donne sequestrate

Che fine fanno le ragazze rapite dai jihadisti di Boko Haram? La risposta viene da Human Rights Watch, in un rapporto diffuso alla fine del 2014. Sarebbero oltre 500 le donne sequestrate a partire dal 2009. Spesso, dice il documento, sono costrette a sposarsi e a convertirsi, subiscono abusi fisici e psicologici. In molti casi, poi, sarebbero state usate in prima linea nei combattimenti lanciati nel Nord-Est del Paese. Il rapporto si intitola Those Terrible Weeks in Their Camp: Boko Haram Violence against Women and Girls in Northeast Nigeria e si basa sulle interviste rilasciate da oltre 46 vittime e testimoni.

© Diego Ibarra Sánchez / MEMO

Tremila morti nel solo 2014, poi rapimenti, violenze, attentati con bambine imbottite di dinamite. Può essere chiamato in un solo modo quello che Boko Haram sta facendo in Nigeria: orrore. La guerra iniziata nel 2009 dall’organizzazione integralista islamica affiliata ad al- Qaeda, nel 2014 è salita di livello, ha avuto una escalation non solo nel pesante numero di morti. Da metà luglio, Abubakar Shekau, leader del gruppo, ha cambiato strategia. Basta incursioni rapide, ma conquista e controllo di interi territori. Ad agosto 2014, con la presa della città di Gwoza nello stato di Borno, ha diffuso un video in cui dichiarava che l’area era “parte del califfato islamico”. Alla fine del 2014, governava su circa tre milioni di persone, tra la Nigeria Nord-Orientale e il vicino Camerun. Proprio il Camerun è militarmente sempre più impegnato nel contrasto a Boko Haram. In autunno 2014, un tentativo di irruzione era stato bloccato con una lunga battaglia, almeno cento i miliziani islamici rimasti sul terreno in quella occasione. A fine dicembre, l’aviazione del Camerun ha bombardato Boko Haram nei propri santuari, in Nigeria. L’esercito camerunse, poi, a differenza del nigeriano appare determinato a combattere. Nella nuova strategia integralista sono diventati centrali i rapimenti di massa. In aprile 2014, circa 200 ragazze liceali sono state rapite a Chibok, nello Stato Nord-Orientale del Borno. Non se ne hanno più notizie. Altre decine sono state sequestrate e sono sparite nei mesi successivi. A fine anno, è iniziata la macabra liturgia delle bambine kamikaze, cioè riempite di esplosivo e mandate in luoghi affollati a mietere vittime. Poche settimane prima, a novembre, un altro attentato sucida aveva ucciso 47 studenti all’interno di un liceo pubblico di Potiskum, nello Stato di Yobe, nel Nord-Est del Paese. Altre 79 persone sono state ferite. L’attentatore si era fatto saltare in aria al mo-

NIGERIA

Generalità Nome completo:

Repubblica Federale di Nigeria

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Inglese (lingua ufficiale)

Capitale:

Abuja

Popolazione:

168.800.000

Area:

923.768 Kmq

Religioni:

Musulmana 50%, cristiana 40%, religioni tradizionali 10%.

Moneta:

Naira

Principali esportazioni:

Petrolio (che costituisce oltre il 90% delle esportazioni), cacao, caucciù

PIL pro capite:

Us 2.600

mento dell’appello del mattino. Un lunga litania di morte e violenza, in un Paese che sembra porre il problema Boko Haram nel gradino più basso delle priorità. Con 180milioni di abitanti, la Nigeria è considerata una delle economie emergenti dell’Africa. Gli islamici sono solo parte della popolazione e la guerra degli integralisti sembra non turbare più di tanto la classe dirigente.


per mille. La “battaglia” per il petrolio, seppure messa in secondo piano dall'escalation terroristica, si continua a combattere, su diversi fronti: uno è quello del contrabbando, che fa “perdere” al Paese miliardi di dollari l’anno. Secondo dati forniti dal Governo di Abuja, circa 150mila barili di greggio al giorno vengono sottratti illegalmente. Secondo il consigliere alla presidenza Patrick Dele Cole, tuttavia, solo il 10% del petrolio rubato viene raffinato e consumato localmente, tutto il resto è venduto sui mercati internazionali. Il Governo reagisce: a fine novembre 2013, una vasta operazione ha portato alla chiusura di 134 raffinerie illegali nella regione del Delta del Niger, negli Stati di Bayelsa, Rivers e Delta.

68

Alla radice delle continue e violente tensioni del gigante africano c'è sempre la stessa, profonda, contraddizione: da un lato l'estesa perdurante povertà di decine di milioni di nigeriani, dall'altro l'enorme ricchezza delle sue riserve di petrolio e gas. Anche il fenomeno - piuttosto recente - dell'estremismo islamico antioccidentale rappresentato da Boko Haram, trova la sua linfa nell'iniqua realtà sociale del Paese. Pur essendo la Nigeria il primo produttore di petrolio del continente africano e l'ottavo al mondo (2,53milioni di barili al giorno), il 70% dei suoi abitanti vive sotto la soglia di povertà, l’aspettativa di vita è di 53 anni, oltre un terzo della popolazione è analfabeta, il 42% non ha accesso all'acqua potabile, e la mortalità infantile sotto i 5 anni è al livello record del 143

Per cosa si combatte

Gli islamici “negano” il califfato

Un gruppo di imam e organizzazioni di musulmani britannici hanno chiesto al primo Ministro britannico in carica, David Cameron, di non utilizzare più la dizione “Stato islamico” a proposito del territorio controllato tra Iraq e Siria dagli estremisti islamici o di quello conquistato da Boko Haram in Nigeria. Usando quelle parole e il termine “califfato”, scrivono, si mettono in cattiva luce i musulmani comuni. I leader islamici britannici hanno dichiarato che “i mezzi di comunicazione, la società civile e i Governi dovrebbero rifiutarsi di legittimare quest’assurda fantasia del califfato accettando o diffondendo questo nome. Proponiamo l’espressione ‘Stato non islamico’ (‘Unislamic state’, Uis) come valida e più precisa alternativa per descrivere questo gruppo e il suo programma”.

© Diego Ibarra Sánchez / MEMO

Disegnato con squadra e compasso. Alla radice di tanti problemi della Nigeria c’è il fatto che per molti aspetti è ancora lo Stato artificiale creato nel 1914 dai colonialisti inglesi. Paese federale, composto di 36 Stati e un territorio (l’area di Abuja, la capitale della Federazione), vi abitano 250 etnie differenti, con tre gruppi dominanti: gli Hausa-Fulani in tutta la parte settentrionale, gli Yoruba nel Sud-Ovest, gli Ibo nel Sud-Est. L’estrema eterogeneità di culture, economie, storia, lingue, realtà climatico-ambientali, religioni (il Nord è islamizzato, il Sud è cristiano-animista) rende difficile la crescita di un forte senso di identità nazionale. La sua storia post coloniale (l’indipendenza è del 1960) è costellata di tensioni e scontri etnici, e addirittura di una guerra di secessione, quella del Biafra, che comportò anche la prima grande crisi umanitaria per la quale si mobilitò l’Occidente, verso la fine degli anni ‘60. I primi 40 anni della sua storia di Paese indipendente sono una catena quasi ininterrotta di colpi di Stato e regimi militari. Fino al 1999, quando per la prima volta i nigeriani hanno potuto vota-

re liberamente, eleggendo alla guida del Paese Olusegun Obasanjo, che ha poi governato la federazione per due mandati. Alle successive elezioni (21 aprile 2007), ha vinto Umaru Yar’Adua, delfino dell’ex Presidente e membro dello stesso partito, il Partito Democratico del Popolo (Pdp). A differenza di Obasanjo, uomo del Sud e cristiano, Yar’Adua era originario dello Stato di Katsina, nell’estremo Nord musulmano. Yar’Adua tuttavia ha sofferto di una lunga malattia che gli ha impedito per diversi mesi, a partire dal novembre 2009, di esercitare le sue funzioni. Il potere, durante tutto il periodo di inabilità del Presidente, è stato gestito dal suo vice, Goodluck Jonathan, che ne ha anche preso ufficialmente le funzioni dal 9 febbraio 2010. Il 5 maggio Yar’Adua è morto e, come previsto dalla Costituzione nigeriana, il giorno successivo Goodluck Jonathan ha giurato come Capo dello Stato. Candidatosi alle elezioni del 16 aprile 2011, le ha vinte a larga maggioranza (59,6% dei consensi, 22milioni di voti). La Nigeria è considerata uno dei giganti africani, insieme al Sud Africa, non tanto per la sua

Quadro generale

Ebola colpisce anche in Nigeria

Sarebbero più di undici casi di Ebola accertati in Nigeria nel 2014. A denunciarlo il ministro della Sanità del Paese, Onyebuchi Chukwu. Almeno tre persone sarebbero morte nell’anno, altre otto sono curate in un reparto speciale di isolamento a Lagos, metropoli con oltre venti milioni di persone e città più popolosa d’Africa. Il bilancio del Governo nigeriano è in pratica confermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Non si sarebbero registrati casi fuori da Lagos, ma le autorità temono che un’infermiera contagiata abbia trasmesso il virus durante un viaggio nell’Est, nella località di Enugu.


TENTATIVI DI PACE

Ragazze rapite, Twitter avverte il mondo

Nnamdi Azikiwe

Nella notte del 14-15 aprile 2014, guerriglieri di Boko Haram hanno rapito 276 studentesse a Chibok nello stato nigeriano di Borno. Dopo oltre 200 giorni le ragazze non sono state rilasciate. L'accaduto è giunto all'opinione pubblica mondiale tramite i social network con l'hastag #BringBackOurGirls. “Bring Back Our Girls” è divenuto slogan della campagna mondiale per chiedere la liberazione delle studentesse rapite, raggiungendo milioni di tweets, grazie soprattutto alle personalità famose che hanno aderito al movimento. Fra queste ultime: Michelle Obama, Hillary Clinton, Papa Francesco, Angelina Jolie, Malala Yousafzai. L'ideatore dell'hastag è l'avvocato nigeriano Ibrahim Musa Adbullahi, che il 23 aprile attraverso il proprio sito twitter è stato il primo ad utilizzarlo. I social network hanno permesso che un crimine contro le donne in un angolo dell'Africa diventasse oggetto di attenzione globale. La richiesta della campagna è precisa: continuare a tenere comizi, chiamare i capi di Governo, diffondere la notizia tra amici, per non dimenticare, per salvare le nostre ragazze, e il loro diritto allo studio.

Considerato uno dei padri del panafricanismo, scrittore e politico nigeriano, è stato il primo Presidente della Nigeria indipendente dal Regno Unito. Era conosciuto come "Zik" ed era nato il 16 novembre 1904 a Zungeru, nel Nord del Paese. Dopo aver studiato alla "Hope Wadell Training Institution", a Calabar, andò negli Stati Uniti, laureandosi nel 1930 alla Lincoln University, in Pennsylvania. Rientrato in Nigeria, iniziò a lavorare nel giornalismo, prima di entrare in politica come co-fondatore del Consiglio nazionale della Nigeria e del Camerun (Ncnc) accanto a Macaulay Herbert nel 1944. Divenne il segretario generale del Consiglio nazionale nel 1946, eletto al Consiglio legislativo della Nigeria l'anno successivo. Nel 1951, divenne il leader dell'opposizione al Governo di Obafemi Awolowo nella Casa di Assemblea della Regione Occidentale. Nel 1952 si trasferì alla Regione Orientale, venne eletto alla carica di Primo Ministro. Il 16 novembre 1960, divenne il governatore generale e nello stesso giorno è diventato il primo nigeriano nominato per la Regina Privy Council. Con la proclamazione di una repubblica nel 1963, divenne il primo Presidente della Nigeria.

69

(Zungeru, 16 novembre 1904 Enugu, 11 maggio 1996)

© Diego Ibarra Sánchez / MEMO

forza economica, quanto per la concentrazione di popolazione - poco più di 175milioni di abitanti in un territorio relativamente piccolo (quasi tre volte l’Italia) - e per le sue riserve di greggio, per le quali si colloca all’ottavo posto fra i produttori mondiali, e si contende il primato africano con l’Angola. È in questi ultimi dieci anni, con l’avvento della democrazia, che sono scoppiate le principali contraddizioni del Paese. Prima delle quali la questione petrolifera: a fronte degli enormi introiti legati alle concessioni per l’estrazione del greggio (che costituiscono il 95% delle esportazioni, l’80% delle entrate fiscali e il 40% del Pil), la grande maggioranza della popolazione nigeriana (il 70%) vive con meno di un euro al giorno ed è proprio il Delta del Niger, l’area petrolifera del

I PROTAGONISTI

Paese, una delle regioni più povere. La seconda grande contraddizione è legata alle tensioni religiose. Gli scontri fra cristiani e musulmani, avvenuti in particolare lungo la fascia di coabitazione nel Centro-Nord del Paese, sono iniziati improvvisamente all’indomani dell’elezione di Obasanjo, intorno al 2000-2001. Da allora vi sono stati ricorrenti crisi che talvolta hanno provocato anche migliaia di vittime. Tensioni che, dopo decenni di pacifica e tollerante convivenza fra cristiani e musulmani, sembrano essere state utilizzate più come elemento strumentale di pressione politica che come reale contrapposizione di fedi. Infine, terzo grave problema, l’inurbazione selvaggia, che ha creato caotiche megalopoli. Prima fra tutte Lagos, capitale commerciale del Paese, che ha ormai superato i 20milioni di abitanti. Smisurate città dove all’estrema povertà delle periferie si somma anche un elevato tasso di criminalità.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA RIFUGIATI

252.865

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CAMEROON

103.892

CIAD

80.545

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

53.385

SFOLLATI PRESENTI NELLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA 894.421 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA RIFUGIATI

14.322

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

10.992


Sono spariti 5milioni di dollari

L’ultimo scandalo della Repubblica Centrafricana vale dieci milioni di dollari, o forse “solo” due e mezzo. Era il mese di marzo del 2014 quando il Presidente angolano, José Eduardo dos Santos donava dieci milioni di dollari al Centrafrica per rinvigorire uno Stato sempre più debole (i dipendenti pubblici non vedevano lo stipendio da mesi). La Presidente Samba-Panza torna a Bangui con 5 milioni di dollari in contanti. La metà però, dopo alterne vicende, sparisce. Lo denuncia la rivista Jeune Afrique a inizio ottobre. In un dibattito all’Assemblea nazionale emerge la richiesta di istituire una Commissione d’inchiesta, ma il Consiglio nazionale di transizione decide che non se ne farà nulla.

UNHCR/S. Phelps

Due le novità più significative per il Centrafrica, nel 2014: l’insediamento della Presidente di transizione, Catherine Samba-Panza, e l’arrivo dei caschi blu delle Nazioni Unite. Il Governo però non ha il controllo della situazione, almeno in buona parte del Paese, e nonostante la presenza dei soldati Onu si sono ancora verificati vari problemi di ordine pubblico, nella capitale, come nelle zone più remote del Paese. Soprattutto nel Nord Est, dove le milizie Seleka hanno posto le loro basi. Il 20 gennaio 2014 il Parlamento elegge l’ex sindaco della capitale, Catherine Samba-Panza, Presidente di transizione della Repubblica Centrafricana. Gli obiettivi principali del suo mandato sono di riportare la pace nel Paese e condurlo ad elezioni nel 2015, senza possibilità di candidarsi al voto. Con l’appoggio della Francia e della comunità internazionale, SambaPanza accetta l’incarico, tentando di mediare fra le parti in conflitto e in particolare fra le milizie Seleka (che si dichiarano di ispirazione islamica) e Antibalaka (nati in gran parte dai comitati di autodifesa, contro le milizie Seleka e per questo identificati con gruppi di ispirazione cristiana). Il Governo ha promosso la mediazione, sfociata nei trattati di pace firmati a Brazzaville, il 23 luglio, dopo tre giorni di trattative, a cui hanno partecipato circa 170 delegati. Viene nominato un nuovo premier, Mahamat Kamoun, primo musulmano a diventare capo del Governo, ma riprendono gli scontri. Il primo, a una settimana esatta dalla firma, a Batangafo, trecento chilometri a Nord della capitale: una ventina le vittime. Con la risoluzione 2134 varata dalle Nazioni Unite il 28 gennaio 2014 e la decisione del Consiglio Europeo del 10 febbraio, si è costituita un’operazione militare di stabilizzazione, che ha lo scopo di riportare la pace nel Paese in vista delle elezioni. La componente europea, denominata Eufor, è di 750 uomini, fra cui una cinquantina di italiani (distaccamento dell’8° reggimento del genio paracadutisti della Folgore). Le Nazioni Unite, con l’Operazione Minusca che

Repubblica

CENTRO AFRICANA

Generalità Nome completo:

Repubblica Centrafricana

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese

Capitale:

Bangui

Popolazione:

4.525.000

Area:

622.984 Kmq

Religioni:

Cristiana (51%), animista (34%), musulmana (15%)

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

Cotone, caffè, minerali, diamanti

PIL pro capite:

Us 851

prende il posto della missione militare africana, Misca, dovrebbero dispiegare 11800 uomini. I militari comunque, al massimo possono dare un contributo a mantenere l’ordine pubblico. La ricostruzione del tessuto politico e il governo del Paese, dipendono dai centrafricani, oltre che dalla comunità internazionale. Da anni in questa terra si combatte una guerra “a bassa intensità”, forse sfuggita di mano agli attori in campo, soprattutto internazionali, interessati in particolare alle ricchezze che custodisce il sottosuolo.


Il Centrafrica è uno dei Paesi più poveri del mondo, nonostante disponga di materie prime in abbondanza. Non si tratta solo del legname delle foreste che ricoprono buona parte del territorio, ma anche di diamanti, oro e petrolio. Beni che fanno gola alle potenze internazionali, le quali non a caso si contendono l’appoggio del Governo locale: Francia, Cina e pare anche l’Iran (interessato all’uranio) sono gli attori principali, che agiscono con l’appoggio locale di Ciad e Sudan. Sono scesi dal Nord Est, che confina con Ciad e Sudan, gli uomini armati che hanno dato origine alle milizie Seleka. Rimproveravano al Presidente Bozizé di non aver rispettato accordi di pace, che prevedevano l’integrazione nell’esercito di alcuni ex combattenti ribelli. Bozizé

poi è fuggito, le milizie Seleka hanno insediato Djotodja sostituito a gennaio da Catherine Samba-Panza. L’unica, fra questi, votata dal Parlamento. Oggi gli uomini della Seleka sono tornati ad occupare le zone da cui provenivano, quel Nord Est del Paese che alcuni vorrebbero rendere autonomo, dividendo la Repubblica Centrafricana. Una divisione religiosa? I musulmani a Nord ed i cristiani nel Centro Sud? Può essere, soprattutto dopo gli scontri degli ultimi anni. In realtà, cristiani e musulmani convivono pacificamente da secoli. Di sicuro l’eventuale divisione del Paese, renderebbe più facile lo sfruttamento delle materie prime. Nel Nord Est della Repubblica Centrafricana, in particolare nella Regione di Birao, vi sono ricchi giacimenti di petrolio.

Per cosa si combatte

Meno di un dollaro per vivere

Repubblica Centrafricana: cinque milioni di abitanti (stimati) allo sbaraglio. Il 60% della popolazione vive con poco più di un dollaro al giorno, la metà è analfabeta. 2,3milioni di bambini vittime della crisi, dei pesanti combattimenti, di violenze e scuole chiuse. Un centrafricano su cinque ha lasciato il suo villaggio, nei mesi scorsi, per fuggire dai combattimenti. 410mila persone non sono ancora tornate. Le riserve di cibo nelle aree rurali sono scese fra il 40 e il 50%, la riserva di pesce del 44% mentre gli animali di allevamento sono diminuiti fino al 77%.

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UNHCR/ L.Culot

Il Centrafrica non ha mai conosciuto una vera democrazia. Provato da decenni di malgoverno e colpi di stato, il Paese non è mai riuscito a risollevarsi. Negli ultimi anni la Repubblica Centrafricana ha anche subito pressioni e instabilità causate dalle vicende politiche degli stati confinanti, Ciad e Sudan, che hanno inciso nella tenuta interna del Paese, totalmente impreparato a ricevere le ondate di profughi in fuga da altri teatri di guerra. L’insicurezza e il pericolo, oltre ad una rete di strade per lo più disastrate, hanno impedito alle agenzie umanitarie di raggiungere le zone colpite dai combattimenti, in particolare nel Nord-Est, e di portare sostegno alla popolazione. La criminalità e il traffico clandestino di diamanti (seconda voce nelle esportazioni del Paese) contribuiscono ad aumentare la già drammatica situazione interna della Repubblica Centraficana. La Repubblica è stata fortemente voluta da Berthelemey Boganda, un prete cattolico leader del Movimento d’Evoluzione Sociale dell’Africa Nera, il primo partito politico del Paese, Boganda ha governato fino al 1959 quando è morto in un misterioso incidente aereo. Suo cugino, David Dacko, nel 1962 ha imposto un regime monocratico. Ha avuto inizio così una

lunga serie di colpi di stato. Il primo, ai danni di Dacko, lo attua il colonnello Jeab Bedel Bokassa, che sospende la costituzione e scioglie il Parlamento. La follia di Bokassa arriva al punto di autoproclamarsi Presidente a vita nel 1972 e Imperatore del risorto Impero Centrafricano nel 1976. Un impero di follia e povertà per la gente. La Francia, ex potenza coloniale, decreta la fine di Bokassa nel 1979 e restaura la presidenza di Dacko, con un altro colpo di stato. Nel 1981 il generale André Kolingba prende il potere. Pressioni internazionali costringono il dittatore a convocare elezioni nel 1993, vince da Ange-Felix Patassè. Il neo Presidente dà vita a una serie di epurazioni negli apparati statali. Promulga una nuova costituzione nel 1994, ma le forti tensioni sociali sfociano in rivolte popolari e violenze interetniche. Nel 1997 vengono firmati gli accordi di pace che portano al dispiegamento di una forza internazionale composta da forze militari di Paesi africani. Poi arriva il turno dell’Onu. Di nuovo alle urne nel 1999, Patassè vince, ma ormai le tensioni sono fuori controllo. Il Paese diventa una sorta di terra di nessuno dove le forze militari e ribelli razziano e rapinano la popolazione. Terreno fertile per un ennesimo colpo di stato,

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

Nuove missioni per la stabilità e la pace internazionale

(Bangassou, 14 marzo 1967) “Boko Haram e Al Qaeda sono sempre più vicini”. Non usa mezzi termini padre Aurelio Gazzera per denunciare il rischio che i fondamentalisti islamici occupino il Centrafrica. Cinquantadue anni, missionario Carmelitano, ha lasciato la sua Cuneo per la Repubblica Centrafricana nel 1992. Dal 2003 vive a Bozoum, una cittadina di 25mila abitanti nel Centro Nord del Paese, fra le zone più colpite dai disordini, oltre alla capitale, Bangui. E non solo negli ultimi due anni, a causa degli scontri fra milizie Seleka ed i gruppi di autodifesa, gli Antibalaka, nel 2007 si era già guadagnato sul campo un appellativo di tutto rispetto: “l’uomo che ha piegato i fucili ai banditi”. Premiato nel 2014 dall’Associazione degli avvocati spagnoli per il suo impegno in favore dei Diritti Umani, padre Aurelio ha presentato anche al Consiglio Onu per i Diritti Umani di Ginevra, l’esperienza di Bozoum, dove un “Comitato di mediazione” dei cittadini è riuscito a supplire alla totale mancanza dello Stato.

73

Padre Aurelio Gazzera

Nella seconda parte dell'anno si sono aperti spazi per una soluzione negoziata del conflitto. Nella scena politica locale la nomina della nuova Presidente Catherine Samba-Panza alla testa di un Governo di transizione ha acceso le speranze di una ricomposizione del quadro politico. Le istituzioni internazionali hanno rafforzato la loro presenza militare e diplomatica. La missione Internazionale di Supporto alla Repubblica Centrafricana (Misca), gestita dalla Comunità Economica degli Stati del Centro Africa (Eccas) con il sostegno delle Nazioni Unite e dell'Unione Africana, è stata trasformata in una vera e propria forza di peacekeeping Onu, operante sotto il cap. VII, la missione Minusca (Missione Multidimensionale Integrata per la Stabilizzazione nella Repubblica centrafricana ). Nel luglio 2014 le parti hanno firmato l' Accordo di Brazzaville per la cessazione delle ostilità, anche grazie alla mediazione del Presidente del Congo Denis Sassou N'Guesso, che prevede elezioni politiche al termine di un periodo di transizione di sei mesi, poi aumentato ad un anno. La prossima tappa necessaria è un accordo tra le fazioni per il disarmo e la trasformazione dei gruppi armati in forze politiche. Nel gennaio del 2015 Bangui ospiterà un “Forum per la riconciliazione nazionale” dove le parti in causa e i mediatori sottoporranno a verifica il processo di pace. La posta in gioco è alta poiché una disgregazione politica dello Stato rappresenterebbe un pericolo di “contagio della crisi” nei Paesi circostanti, oltre che una diffusa instabilità e una seria crisi umanitaria.

UNHCR/B. Ntwari

che porta al potere nel 2003 il generale Francois Bozizé, che poi vince le elezioni nel 2005 ritenute valide dalla Comunità Internazionale. La Repubblica Centrafricana è considerata come uno “Stato fantasma”, secondo un report del 2007 dell’International Crisis Group. Secondo quanto riportato il Paese avrebbe perso completamente la propria capacità istituzionale. Il Centrafrica ha vissuto in una condizione di

I PROTAGONISTI

brutalità continua, sia prima che dopo il raggiungimento dell’indipendenza. Cinquant’anni di regimi autoritari hanno dato vita a uno stato predatore e violento, in cui l’unica possibilità per arrivare al potere e per mantenerlo è stato il ricorso continuo alla violenza. A ciò vanno aggiunte le pressioni esercitate dalla ex potenza coloniale, la Francia, che ha mantenuto legami molto stretti con i vari leader che si sono susseguiti, determinando la caduta o il ritorno di chi poteva dimostrarsi un interlocutore affidabile e garantendosi un altro Paese amico nella Regione, oltre al Ciad.


74

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO RIFUGIATI

499.541

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI UGANDA

155.742

RWANDA

72.988

REPUBBLICA UNITA DELLA TANZANIA

64.569

SFOLLATI PRESENTI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 2.963.799 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO RIFUGIATI

113.362

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI REPUBBLICA CENTRAFRICANA

53.385

RWANDA

43.674

BURUNDI

9.762


Caschi blu, troppi scandali

La Monusco (United Organization Stabilization Mission in the Dr Congo) è la missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione della Repubblica Democratica del Congo. È composta da un contingente multinazionale di 20mila caschi blu che dal 1999 pattugliano il Kivu. I risultati sono scarsi al confronto con i costi stratosferici di un miliardo e mezzo di dollari all’anno. E non mancano le polemiche non solo sulla inefficienza nel difendere dalle violenze la popolazione civile. Alcuni soldati del contingente sono stati accusati in passato di essere coinvolti nei traffici illegali dei preziosi minerali che si estraggono dal sottosuolo. Ma non ha contribuito al loro buon nome neanche la scoperta di un bordello che avevano organizzato. Recentemente i rappresentanti delle chiese locali hanno denunciato il proselitismo nell’ambito dell’islam più radicale condotto da alcuni militari pakistani della forza di pace. Senza dimenticare che il controllo di alcune risorse (come l’acqua) sia all’origine di dispute con la popolazione locale.

© Guillem Valle / MEMO

Purtroppo le cifre reali superano sempre quelle ufficiali che cercano di nascondere e “sopire” le reali dimensioni del conflitto. Tra ottobre e dicembre 2014 nel Nord Kivu sarebbero almeno 250 le vittime degli attacchi condotti contro le comunità locali da parte di non meglio definiti gruppi ribelli. In maggioranza si tratta di donne, bambini, anziani ovvero di chi non ha la possibilità di sfuggire allo tsunami di violenza. Le organizzazioni per i diritti umani parlano di numeri di gran lunga maggiori. Nello stesso periodo sono 88500 gli sfollati in fuga dai villaggi in fiamme. I loro racconti parlano di persone uccise con asce, coltelli, nei modi più brutali per lasciare un segno indelebile nella memoria dei sopravvissuti. Oltre alle Forze Democratiche Alleate (Adf), tra i gruppi armati sono attivi in zona miliziani dell’ex M23, movimento che formalmente ha deposto le armi nel 2013. Molti combattenti sono fuggiti in Rwanda e Uganda e si sono riorganizzati imbracciando di nuovo le armi contro il Governo congolese che non avrebbe mantenuto gli impegni sottoscritti circa il pieno reintegro dei miliziani stessi nelle file dell’esercito regolare e nel mantenimento di questi combattenti nelle zone d’origine. È incredibile la quantità di denunce raccolta dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani sulla totale inerzia dell’esercito governativo e delle forze di sicurezza locali che si distinguono per incapacità nel fermare le violenze sulla popolazione civile. Il Governo centrale è lontano, praticamente assente e c’è la sensazione che la destabilizzazione dell’area sia l’unico obiettivo perseguito da tutte le parti in causa. Il numero complessivo degli sfollati nella Repubblica Democratica del Congo è di 2milioni e 600mila persone. Il Katanga ne conta da solo 600mila ed aumentano giorno dopo giorno. La violenza sessuale è una emergenza. L’Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) afferma che tra gennaio ed ottobre 2014 sono state raccolte 1564 denunce non solo di donne ma anche di uomini e bambini. Ma - mette in guardia l’organismo dell’Onu - la mancanza di accesso

Repubblica DEMOCRATICA DEL

CONGO

Generalità Nome completo:

Repubblica Democratica del Congo

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese, lingala, kiswahili, kikongo, tshiluba

Capitale:

Kinshasa

Popolazione:

72 milioni

Area:

2.34 milioni kmq

Religioni:

Cristiana, musulmana

Moneta:

Franco congolese

Principali esportazioni:

Diamanti, rame, caffè, cobalto, petrolio greggio

PIL pro capite:

US 365

alle aree in cui vivono i superstiti e la paura di molti di denunciare le violenze subìte, fanno ipotizzare che molti casi non vengono segnalati. Le difficoltà logistiche che impediscono la presenza degli operatori nelle aree a rischio mettono in allarme l’Unhcr perché è prevedibile anche un aumento degli attacchi. La missione Monusco è disarmata di fronte a queste recrudescenze anche se conta il contingente più numeroso al mondo dispiegato sul territorio.


Nel Kivu è concentrata tutta la enorme ricchezza del sottosuolo. Per questo banditi, esercito regolare corrotto, gruppi di ribelli dai nomi altisonanti ma dallo scarsissimo rispetto per le popolazioni inermi, si scontrano senza pietà per il controllo dell’estrazione dei preziosi minerali. Rwanda, Burundi e Uganda (Paesi confinanti o che hanno forte influenza politico-economica) hanno dati di export molto superiori alle reali risorse minerarie, grazie al contrabbando che aumenta di mese in mese diretto verso i loro confini. Ovvio che queste nazioni non stanno a guardare né auspicano la pace ma si sono ritagliate un ruolo attivo per rendere instabile la Regione, come dimostra il loro intervento diretto in quella che fu definita la “guerra mondiale

africana” che tra il 1998 ed il 2003 coinvolse in Congo 8 nazioni africane causando quasi 5milioni e mezzo di vittime. Nel 2011 il Presidente Kabila dispose il blocco dell’estrazione per coltan e cassiterite dopo il varo negli Stati Uniti di una legge sulla tracciabilità dei minerali, considerati “insanguinati” proprio come i diamanti perché i gruppi armati li hanno usati per finanziarsi. Ma ovviamente concretamente è rimasta solo una buona intenzione perché qui 12milioni di persone vivono con l’estrazione. Quindi tutto continua come prima, sotto lo sguardo attento dei soldati dell’esercito regolare che non percepiscono stipendio e di quelli ruandesi che qui sono di casa. Ed il contrabbando vola, arricchendo chi lo organizza.

Per cosa si combatte

Lubanga, pena confermata

76

Il Tribunale penale internazionale ha confermato la condanna a 14 anni a Thomas Lubanga per crimini di guerra. Lubanga è stato il leader dell'Unione dei Patrioti Congolesi, una milizia ribelle attiva nell’Est della Repubblica Democratica del Congo. Secondo l’accusa tra il 2002 e il 2003 arruolò con la forza bambini soldato nella Regione dell’Ituri (oltre 3mila minori secondo l'accusa) e ordinò massacri contro le comunità locali. Resterà in carcere fino al 2020.

© Guillem Valle / MEMO

La certezza è che Joseph Kabila, 43 anni, Presidente della Repubblica Democratica del Congo dal 2001, non ha nessuna voglia di lasciare la guida del Paese. Alle spalle pochi risultati concreti ma la sua ingordigia di potere rischia di far precipitare in una ulteriore crisi istituzionale e politica una nazione che storicamente naviga a vista sulle agitate acque dell’instabilità, pronta a cedere alla violenza. L’obiettivo è di allungare il suo secondo mandato presidenziale, l’ultimo consentito dalla costituzione. Le elezioni sono fissate per il prossimo anno ma il Governo (a gennaio 2015) ha avanzato una proposta di legge che subordina il ricorso alle urne ad un censimento completo della popolazione che per le dimensioni del territorio e la complessità dell’operazione potrebbe richiedere mesi se non addirittura anni, allontanando così l’ipotesi delle elezioni. La proposta di legge è stata approvata dal parlamento a larghissima maggioranza (337 a favore, 8 contrari e 24 astenuti) ma la gente è scesa in piazza accogliendo gli inviti della opposizione. E per cinque giorni è stato il caos. Nella

capitale Kinshasa i cortei sono stati repressi con incredibile brutalità dalla polizia che non ha esitato a sparare ad altezza d’uomo. Nel mirino specialmente gli studenti universitari che hanno bloccato con barricate l’ingresso alle facoltà. La protesta si è estesa in altre città: anche qui le forze dell’ordine si sono distinte per l’uso di armi da fuoco. Il bilancio (secondo una organizzazione per la difesa dei diritti umani) sarebbe di 42 morti e centinaia di feriti. Per il Governo invece le vittime sarebbero state solo 15, in maggioranza uccise da guardie private che si opponevano ai saccheggi di negozi e case. “Smettete di uccidere il vostro popolo” ha tuonato l’arcivescovo di Kinshasa che ha puntato il dito contro “alcuni politici che con la polizia seminano desolazione e creano un clima di insicurezza generale”. La Chiesa cattolica ha bocciato sonoramente la revisione della legge elettorale richiamando al rispetto della costituzione. Sulla stessa linea anche la Monusco, la missione delle Nazioni Unite in Congo, e l’Unione Europea. Va comunque sottolineato che il Presidente Joseph Kabi-

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

Gli olandesi cercano soluzioni

L'ONG olandese Cordaid ha diversi progetti attivi in Repubblica Democratica del Congo, fra questi Strengthening Community Leadership, funzionante in sei località nel Sud Kivu. Seppur ufficialmente sia conclusa la guerra in Congo, in molte Province Orientali la sicurezza è minacciata sia da forze esterne che interne. Al fine di costruire la pace e la fiducia reciproca e migliorare la sicurezza, le comunità locali hanno bisogno di essere coinvolte in modo efficace nell’autogoverno locale. Cordaid sostiene ciò attraverso la creazione e il sostentamento di 8 strutture locali ("Chambres de Regards") , ognuna composta da 15 membri, tra cui leader della comunità, donne e rappresentanti di associazioni. Le strutture locali forniscono informazioni sulla situazione della sicurezza, ed insieme producono analisi di contesto per il Sud-Kivu. Inoltre promuovono attività di lobby, in particolare sull'insicurezza intorno alle risorse naturali in Walungu, le elezioni, i conflitti legati alla terra in Kabare e la legge contro la tortura.

Emmanuel de Mérode

45 anni, è il direttore belga del parco nazionale di Virunga, nel Nord Kivu, il più antico d’Africa, fondato nel 1925, famoso in tutto il mondo perché ospita gli ultimi esemplari dei gorilla di montagna. Il 15 aprile 2015 è stato ferito gravemente con tre colpi all’addome in una imboscata tesagli da ignoti a Nord di Goma. È sopravvissuto dopo numerosi interventi chirurgici. de Mérode avrebbe dovuto deporre presso il tribunale di Goma in una inchiesta su Soco International, società britannica titolare di un permesso di sfruttamento petrolifero che coinvolge anche il parco dichiarato patrimonio dell’umanità. In precedenza un dirigente del parco era stato arrestato per 5 giorni da uomini dei servizi segreti congolesi perché si era opposto alla installazione di una antenna telefonica della Soco International, che svolge anche una intensa attività di lobbying nella zona. Ovviamente la società inglese ha condannato l’agguato ed ha anche garantito che il parco non sarà toccato dalle esplorazioni petrolifere.

77

(Carthage - Tunisia, 5 maggio 1970)

© Guillem Valle / MEMO

la gode da sempre dell’appoggio incondizionato della comunità internazionale che gli ha consentito praticamente tutto, almeno fino ad oggi. Queste forti prese di posizione e le proteste di piazza hanno fatto cambiare idea ai senatori che hanno approvato una versione modificata della proposta di legge. A decidere sarà una commissione. È chiaro che il malessere è diffuso. La Repubblica Democratica del Congo è squassata al suo interno da conflitti di vecchia data che non trovano soluzione. Nella Regione del Katanga (una delle aree più ricche di pregiate risorse minerarie) alle tensioni etniche tra i Luba e i Twa, si sono aggiunti gli attacchi contro l’esercito governativo dei Mai Mai Bataka, un gruppo che si batte per la secessione dell’area. Le cifre sono impressionanti. Almeno 600mila sfollati, migliaia di morti,

I PROTAGONISTI

con un indicibile corollario di saccheggi, case bruciate, torture, lavori forzati, reclutamento forzato nei vari gruppi armati, bambini soldato, violenze sessuali. Risulta drammaticamente pleonastica la presenza dei caschi blu dell’Onu che dovrebbero difendere i civili dalle violenze. Altro punto dolente è il Nord Kivu, nella parte Orientale del Paese, funestato da attacchi contro la popolazione civile che si distinguono per la incredibile ferocia. Tutti puntano il dito contro le Forze Democratiche Alleate, un gruppo islamista ugandese attivo dal 1996. Ma spesso vengono loro attribuiti atrocità di cui sono responsabili in realtà una miriade di gruppi in guerra tra loro per il controllo delle risorse minerarie del sottosuolo, appoggiati secondo le convenienze da Uganda e Rwanda, nazioni confinanti. Inutile ricordare ancora una volta la presenza dal 1999 della Monusco, apertamente accusata dai civili di non fare abbastanza per assicurare la protezione.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DEL SAHARA OCCIDENTALE RIFUGIATI

116.452

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI ALGERIA

90.000

MAURITANIA

26.001


Una missione per il referendum

La Missione delle Nazioni Unite Minurso è stata approvata dal Consiglio di Sicurezza il 29 aprile del 1991 con la risoluzione 690. Il suo mandato prevede la supervisione del periodo di transizione seguito al cessate-il-fuoco tra il Marocco e il Fronte Polisario e la preparazione al referendum con cui il popolo del Sahara Occidentale dovrà scegliere tra l'indipendenza o l'integrazione con il Marocco. La sua composizione è cambiata nel corso degli anni (nel settembre del 1991 era composta da 100 osservatori) e l'Italia ne ha fatto parte fin dall'inizio. La Missione è attualmente composta da 503 unità: 226 militari (provenienti da 33 Paesi) e 262 civili. L'Italia contribuisce oggi alla missione con 5 osservatori militari, ufficiali dell'Esercito.

UNHCR/S. Hopper

Il popolo Saharawi aspetta inutilmente da quarant'anni una soluzione pacifica al conflitto che lo contrappone al Marocco. Il 2014 è stato un anno di mobilitazione internazionale per chiedere un'estensione del mandato della missione delle Nazioni Unite Minurso (United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara), istituita nel 1991 con il compito di supervisionare il cessate-il-fuoco tra l'esercito marocchino e il Fronte Polisario e organizzare un referendum che permetta di determinare lo status finale del Sahara Occidentale. La Minurso è l'unica missione "moderna" di peacekeeping dell'Onu a non avere un mandato di vigilanza sulle violazioni dei diritti umani, che nel Sahara Occidentale - occupato dal Marocco nel 1975 - sono sistematiche e ampiamente documentate da numerose organizzazioni internazionali. Nell'aprile del 2014, Amnesty International ha sollecitato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ad ampliare i poteri della Minurso in vista del rinnovo del suo mandato. Senza successo però. La Missione di peacekeeping continuerà ad essere dispiegata nel Sahara Occidentale e nei campi Saharawi del deserto algerino, senza alcun potere di intervento in merito alle violazioni dei diritti umani. "Nell'ultimo anno di mandato della Minurso scrive Amnesty -, le autorità del Marocco hanno continuato a stroncare il dissenso, imponendo limitazioni alla libertà d'informazione, alle proteste pacifiche e alle organizzazioni della società civile. Le manifestazioni sono state costantemente vietate o disperse con la violenza. Amnesty International ha documentato casi di attivisti e manifestanti torturati dalle forze di polizia dopo che avevano manifestato per chiedere alla Minurso di occuparsi di diritti umani. Gli attivisti e i difensori dei diritti umani del Sahara Occidentale - sottolina Amnesty - subiscono numerose vessazioni nell'ambito della loro attività e sono regolarmente sorvegliati dalle forze di sicurezza". La situazione è particolarmente difficile anche nei campi del deserto algerino, dove vivono circa 200mila Saharawi in esilio dal 1975 (fuggiti con l'occupazione marocchina del Sahara Occidentale). I profughi vivono in campi organizzati, sotto il controllo e la gestione del Fronte Polisario, dipen-

SAHARA OCCIDENTALE

Generalità Nome completo:

Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD)

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Hassaniya, spagnolo

Capitale:

El Ayun

Popolazione:

circa 1 milione

Area:

circa 280.000 Kmq

Religioni:

Islamica Sunnita

Moneta:

Dinaro algerino nei campi profughi, Dirham marocchino nei territori occupati

Principali esportazioni:

Fosfati, pesca, petrolio e probabilmente ferro e uranio

PIL pro capite:

n.d.

denti dagli aiuti internazionali e in una delle aree del pianeta, il deserto del Sahara, più inospitali. Stanno aspettando da anni il referendum che potrebbe decidere il loro diritto al ritorno e all'autodeterminazione. Referendum costantemente bloccato e rinviato dal Marocco, che nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite può contare su un alleato di ferro come la Francia, che all'Onu ha potere di veto.


alla "legalità internazionale" e una specifica clausola che riguarda i diritti umani, grazie alla quale l'Ue può, volendo, sospendere unilateralmente il protocollo in caso di violazione. Una opzione ad oggi mai utilizzata. Decisivo in ogni caso è il contributo dell'Europa per il sostentamento dei Saharawi che vivono nei campi di Tindouf. Anche se, purtroppo, gli aiuti umanitari internazionali stanno diminuendo in maniera vistosa e preoccupante, così come l'attenzione internazionale rispetto al dramma vissuto dal popolo Saharawi.

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Il popolo Saharawi è privato del diritto fondamentale e internazionalmente riconosciuto ad avere una terra, su cui vivere in pace e libertà. Il diritto all'autodeterminazione viene negato dal Governo del Marocco, nonostante le numerose risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite. Molto contestato dalle organizzazioni internazionali è l'accordo di partenariato tra Unione Europea e Marocco, ratificato nel 2014, che liberalizza il commercio di prodotti agricoli e di pesca includendo anche il territorio occupato del Sahara Occidentale. Nell'accordo sono stati inseriti richiami alla "sostenibilità ambientale",

Per cosa si combatte

Boicottato il Forum Mondiale dei Diritti Almeno otto organizzazioni Saharawi per i diritti umani hanno boicottato il secondo Forum Mondiale dei Diritti Umani organizzato dal Marocco a Marrakech (dal 27 al 30 novembre 2014). In un comunicato congiunto le Ong scrivono: "il Marocco dovrebbe mostrare una reale volontà politica di rompere con il passato e con le gravi violazioni dei diritti umani commesse nel Sahara Occidentale". I firmatari hanno anche lanciato un appello alle Nazioni Unite e a tutti gli organismi e le personalità partecipanti al Forum per fare pressione sul Governo marocchino "affinché rispetti i suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani". Anche l'Associazione Marocchina per i Diritti Umani (Amdh), il maggiore gruppo del mondo arabo in questo ambito, ha deciso di boicottare il Forum. Un duro colpo all'immagine del Marocco.

UNHCR/S. Hopper

Il Sahara Occidentale comprende le Regioni di Saquia el Hamra al Nord e Rio de Oro al Sud, 284mila Kmq. Confina con il Marocco, l’Algeria, la Mauritania e l’Oceano Atlantico. È uno dei territori più ostili alla vita dell’uomo in tutto il pianeta. Aride distese di rocce e dune di sabbia sono solcate da piccoli wadi (letti di fiumi) nei quali si accumula quel po’ di acqua che non riesce mai a raggiungere il mare a causa della rapida evaporazione. Il Sahara Occidentale, già colonia spagnola, è l’ultima colonia africana ancora in attesa dell’indipendenza: al dominio spagnolo, infatti, nel 1975 si è sostituito quello di Marocco e Mauritania, che hanno invaso il territorio. La maggior parte della popolazione è fuggita in Algeria dove, da allora, vive nei campi profughi. In pratica, la questione del Sahara Occidentale è un caso di decolonizzazione mancata. Il popolo Saharawi è privato dal 1975 del suo diritto all’autodeterminazione. Lo dimostrano le tappe di questo conflitto. Il 6 ottobre 1975, il re del Marocco dà il benestare alla “marcia verde”, attraverso la quale 350mila marocchini avanzano verso il Sahara

Occidentale con l’obiettivo di conquista del territorio. Il 31 Ottobre 1975 inizia l’invasione marocchina nella zona Orientale del Sahara Occidentale. La Spagna intanto si ritira e il 2 novembre Madrid riafferma il proprio supporto all’autodeterminazione della gente Saharawi, allineandosi agli impegni internazionali assunti. Con il ritiro della Spagna, alla fine del 1975 il Polisario (movimento di liberazione che dal 1973 lotta per l’indipendenza) sembra sul punto di guadagnare l’indipendenza. Ma con trattative separate e segrete, Madrid firma un accordo clandestino con il Marocco e la Mauritania. I tre Paesi decidono di spaccare il territorio del Sahara Occidentale fra il Marocco e la Mauritania, evitando di dare l’indipendenza ai Saharawi. Nel 1976 il Fronte Polisario proclama la Rasd, Repubblica Araba Saharawi Democratica, ma l’annessione illegale del territorio dà il via alla guerra fra Marocco e Mauritania, per il controllo del territorio. Decine di migliaia di Saharawi fuggono sotto i bombardamenti al napalm del Marocco. L’aggressione investì sia il Nord che il Sud del

Quadro generale

La politica italiana rilancia la pace

Nel novembre del 2014 una delegazione italiana dell'intergruppo parlamentare di solidarietà con il popolo Saharawi ha visitato i campi nel deserto algerino. Guidata dal senatore Stefano Vaccari (Presidente dell'intergruppo) ha incontrato l’ambasciatore italiano ad Algeri, il Presidente e i ministri della Repubblica Saharawi, ed ha effettuato una visita nei territori liberati e al muro fortificato costruito dal Marocco. Nel 2014 il Parlamento italiano all'unanimità ha approvato una mozione che impegna il Governo "ad adoperarsi per rilanciare la ricerca di una soluzione diplomatica rispettosa dei diritti Saharawi".


TENTATIVI DI PACE

Passi verso la giustizia

Mariem Hassan

Il 9 luglio 2014 a Siviglia, è partita da Plaza de la Encarnaciòn la 19a edizione della “Marcia per la Pace del Sahara Occidentale”, organizzata dalle associazioni per i diritti umani andaluse. Hanno partecipato a tale manifestazione migliaia fra cittadini, politici, rappresentanti di organizzazioni e associazioni per i diritti umani e bambini ed adulti saharawi, sotto lo slogan “L'Andalusia chiede al Marocco di rilasciare i prigionieri politici saharawi e garantire la libertà e l'indipendenza del Sahara Occidentale”. I partecipanti al raduno, che hanno marciato lungo le strade di Siviglia, indossando l'emblema del Fronte Polisario, chiedono la pace. Il rappresentante del Fronte Polisario in Andalusia, Abidine Bachraia, chiede al Governo spagnolo di onorare il suo impegno per la decolonizzazione del Sahara Occidentale, e accusa il Marocco di ostruire il processo, sottolineando che la soluzione passa attraverso l'esercizio da parte del popolo Saharawi del suo diritto all'autodeterminazione. Egli ha esortato la gente marocchina ad impegnarsi nel processo di pace e nel rispetto del diritto, per costruire un Maghreb arabo e prospero.

È la donna che dà voce ai Saharawi nel mondo. La "Voz del Sahara" - la voce del Sahara - simbolo della battaglia di un intero popolo per la libertà e l'autodeterminazione, Mariem Has­san è una cantante dalla lunga carriera artistica, conosciuta e apprezzata in tutto il mondo. La sua vita non è diversa da quella dei Saharawi fuggiti dal Sahara Occidentale con l'occupazione marocchina del 1975. Ha attraversato pienamente il dolore dell'esilio ed ha vissuto nei campi profughi del deserto algerino, dove ha cresciuto 5 figli. Solo nel 2002 si è trasferita definitivamente a Sabadell, vicino a Barcellona. Con la sua musica e la sua voce ha portato in tutto il mondo la tradizione artistica del popolo Saharawi (canta nella lingua Hassania, tipica della sua terra), la lotta e le speranze di libertà. Malata di cancro da lungo tempo, ha pubblicato nel 2012 il suo ultimo album “El Aaiun Egdat”. Nel 2014 ha partecipato al Festival del Cinema del Sahara, una rassegna che si svolge ogni anno nei campi Saharawi del deserto algerino per testimoniare ancora una volta la vicinanza al suo popolo e alle sue lotte per la libertà.

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(Smara, 1958)

UNHCR/D. Alachi

Paese facendo fuggire i Saharawi verso Est, in Algeria appunto, dove è stato concesso loro asilo politico. Il rientro nelle loro terre viene reso ancora più difficile dalla costruzione da parte del Marocco, a partire dal 1980, di un muro elettrificato. È un’impressionante opera militare: bunker, postazioni fortificate, campi minati (mine in gran parte italiane), lungo oltre 2200 Km alto cinque metri fatto di sassi e sabbia; si dice che il suo mantenimento costi al Governo marocchino oltre 1milione di dollari al giorno. Nel 1984, l’Organizzazione degli Stati Africani ammette come Stato membro, la Rasd, espelle il Marocco, nega di fatto valore giuridico agli accordi fra Spagna, Mauritania e Marocco. Nel 1991, dopo 18 anni di guerra, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva il Piano di Pace. Dal 6 settembre 1996 la Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale, Minurso, sorveglia il rispetto del cessate il

I PROTAGONISTI

fuoco e organizza il referendum di autodeterminazione che è rimasto solo sulla carta, a causa dell’opposizione del Marocco. Sempre l’Onu, in una decisione specifica sul Sahara Occidentale, trasmessa da Hans Corell, Segretario Generale Aggiunto per gli Affari Giuridici, al Presidente del Consiglio dichiara: “Gli Accordi di Madrid non hanno significato in alcun modo un trasferimento di sovranità sul territorio, né hanno concesso ad alcuno dei firmatari lo status di potenza amministrante, dato che la Spagna non poteva concederlo unilateralmente. Il trasferimento di potere amministrativo sul territorio nel 1975 non riguarda il suo status internazionale, in quanto territorio non autonomo”. La continuazione dello status quo sta conducendo ad una repressione sempre più brutale nelle zone occupate e ad un ritorno alle ostilità. Molti giovani ed anziani parlano apertamente della necessità, per sbloccare l’impasse, di ricorrere alle armi o ad atti di terrorismo che sino ad oggi non sono stati parte della strategia Saharawi.


82

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA SOMALIA RIFUGIATI

1.121.738

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI KENIA

475.304

ETIOPIA

240.825

YEMEN

230.506

SFOLLATI PRESENTI NELLA SOMALIA 1.133.000 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA SOMALIA RIFUGIATI

2.425


Fare i giornalisti a Mogadiscio

Anche nel 2014 fare il giornalista in Somalia non è stato facile. Il 10 luglio è stato nominato a capo dell’Intelligence il discusso Abdullahi Mohamed Cali Sanbalolshe, ritirato quale ambasciatore somalo a Londra, su consiglio del Foreign Office, per le sue espressioni inappropriate. Per due mesi Sanbalolshe ha fatto il bello e il cattivo tempo a Mogadiscio, chiudendo Radio Shabelle e Sky FM Radio. L’editore Abdimalik Yusuf Mohamud è stato rinchiuso nel carcere centrale di Mogadiscio, assieme al direttore Responsabile Mahamud Mohamed Dahir Arab e al capo del personale Mohamed Abdi Hassan. Il Capo Redattore Mohamed Bashir Hashi, colpevole di aver diffuso su Youtube l’intervista a Fadumo Abdulkadir Hassan, la giornalista di Kasmo Radio (la Radio delle donne) stuprata da Abdicasis Africa, ufficiale della polizia politica, e dal poliziotto Jebril Abdi, è rimasto chiuso nella sede della Polizia Politica, dove è stato pestato e torturato per ottenere da lui accuse contro gli alti vertici di Radio Shabelle e Sky FM. Inoltre sono state chiuse altre due radio: Radio Kulmiye e Radio Simba.

UNHCR/M. Sheik Nor

Sono proseguiti nel 2014 gli attentati di matrice jihadista in Somalia soprattutto dopo l'uccisione del capo del gruppo somalo al Shabaab, noto come 'Godane', rimasto vittima di un raid aereo americano. Nel settembre del 2014 Godane, nome di battaglia di Mukhtar Abu Zubeyr, aveva pubblicamente rivendicato la responsabilità dell'organizzazione al-Shabaab per l'attacco al centro commerciale di Nairobi. Dopo quasi tre decenni di guerra interna, in Somalia si combatte ancora, nonostante le vittorie ottenute dalle truppe del Governo centrale, comunque incapace di garantire stabilità democratica e di portare il Paese verso la normalità. Il neo eletto Presidente Hassan Sheikh Mohamud sembra aspirare al ruolo di dittatore dalla sua stanza di Villa Somalia, lontanissima dai bisogni del suo Paese. I comportamenti degli ultimi tempi sembrano volerlo confermare, con la nomina di capi dell'intelligence che si rendono colpevoli di veri e propri atti di terrore nei confronti della stampa. Ad esempio, Abdullahi Mohamed Cali, che ha fatto chiudere 4 radio a Mogadisco e incarcerato diversi giornalisti e attivisti. O Abdiraham Turyare famoso per essere un giustizialista: basta una maldicenza tra militari per incorrere nella pena di morte. Nel frattempo, non mancano problemi con le truppe ugandesi e burundesi di Amisom, la missione dell'Unione Africana, nata per controllare lo Stato. Sono accusate da Human Rights Watch di stuprare le donne somale sfollate, che si rivolgono alla loro sede per avere cibo e medicinali. Tutte le denunce vengono regolarmente insabbiate. E le donne che denunciano gli stupri vengono trattate da diffamatrici e condannate. Inoltre nel rapporto redatto da Leila Zerrougui, Rappresentante Speciale Onu per l’Infanzia e i Conflitti, si parla di 223 minori arruolati all’interno dell’esercito somalo e della missione di pace con svariati compiti in operazioni militari. Secondo quanto scoperto da Zerrougui, 14 sono i casi comprovati di utilizzo di minori all’interno della missione di pace Amisom con compiti operativi o di supporto logistico. Le Nazioni Unite hanno subito specificato che queste violazioni sono state compiute da una missione di pace

SOMALIA

Generalità Nome completo:

Somalia

Bandiera

83

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Somalo, arabo, italiano, inglese

Capitale:

Mogadiscio

Popolazione:

10.085.000

Area:

637.661 Kmq

Religioni:

Musulmana (99%)

Moneta:

Scellino somalo

Principali esportazioni:

Banane, bestiame, pellame e pelli, mirra, pesce

PIL pro capite:

Us 600

dell’Unione Africana e non dell’Onu, ma le responsabilità rimangono. In questo caos, sono arrivate le accuse dell'Onu al Presidente in carica, per appropriazione di soldi pubblici e per aver comprato il ruolo di Presidente della Repubblica Federale con i soldi del Qatar. Così, la road map del "Un nuovo patto per la Somalia", stilata a Bruxelles il 16 settembre 2013 sembra allontanarsi, nonostante i quasi due miliardi di euro stanziati. Rimane l’obiettivo del 2015 quando è prevista l’approvazione di una nuova Costituzione federale e il 2016, con lo svolgimento delle elezioni.


Controllo del potere, a danno degli altri clan: la ragione della guerra pluridecennale in Somalia è questa. Lo scontro si è poi trasformato in guerra al terrorismo internazionale e islamico. Dal 2012 gli al-Shabaab, “i Giovani”, sono il gruppo islamico più potente e attivo in Somalia. Loro obiettivo principale instaurare nel Paese la sharia, la legge islamica. Le pesanti sconfitte subite nell'agosto del 2011 con la cacciata da Mogadiscio, e nel settembre 2012 dal porto di Kismayo, non hanno fermato il movimento che controlla ancora gran parte delle zone rurali nel Sud del Paese, dove proseguono le lapidazioni

per le adultere e ai ladri vengono amputate le mani. Obiettivo numero due è l’espulsione dalla Somalia dei soldati stranieri, in primis etiopi e kenyoti. Anche per questo motivo sono numerosi gli attentati fuori dai confini, come la strage di Nairobi del centro commerciale Westgate, del 21 settembre 2013 che ha provocato decine di morti e centinaia di feriti. Una guerra civile, quella somala, in atto da oltre 22 anni, trasformata appunto in una lotta al terrorismo e mantenuta viva dallo scontro fra clan. Con l'incapacità delle missioni Onu di tenere sotto controllo il territorio.

Per cosa si combatte

Dal telegiornale nessuna notizia

Nonostante lo stretto legame tra Italia e Somalia, pare che ai tg nazionali non importi nulla o quasi della situazione in corso. In un recente rapporto condotto dall’Osservatorio di Pavia, in collaborazione con Medici Senza Frontiere, pubblicato a settembre 2014, sulla presenza delle crisi umanitarie nei notiziari televisivi italiani, emerge in particolare che quelle del continente africano sono quasi invisibili. La Somalia in particolare ha quella che viene definita una visibilità a singhiozzo, mentre altre come la crisi della Repubblica Centroafricana sono definite invisibili. Tra le dieci crisi con più visibilità, la Somalia occupava solo il decimo posto nel 2013 con 534 notizie, contro le 8301 dell'Iraq. Le dieci più invisibili sono invece tutte africane.

84

UNHCR/K. McKinsey

È il 26 gennaio 1991, con la caduta del dittatore Siad Barre che incomincia il periodo forse più buio della storia della Somalia. Doveva essere la fine di una dittatura, si è trasformata in una guerra di tutti contro tutti, signori della guerra, clan, bande rivali. Il territorio è stato a poco a poco conteso e suddiviso in settori sotto il dominio di tribù senza scrupoli a colpi di Kalashnicov e di Tecniche, l’arma somala per eccellenza, il mitragliatore montato sul cassone aperto del Toyota Pick-Up. Dopo quasi 22 anni però le elezioni del nuovo Presidente hanno aperto uno spiraglio di luce sul futuro di questa terra. Un Paese che fino a ieri di fatto era ancora senza istituzioni, un popolo senza diritti. In realtà non è che prima del 1991 la Somalia avesse conosciuto lunghi periodi di pace. Dalla proclamazione dell’indipendenza del primo luglio 1960, che vede l’unificazione della Somalia, dell’amministrazione fiduciaria italiana (1950-1960) e del Somaliland protettorato britannico, per nove anni aveva visto un Governo della repubblica somala legittimamente eletto. Nel 1969 Siad Barre con un colpo di stato prende il potere ed instaura il suo regime. Nel 1977 Barre muove guerra contro l’Etiopia per la Regione dell’Ogaden, Regione etiope con alta presenza di popolazione somala da sempre rivendicata dalla Somalia. Il regime interno è poco tollerato, gli scontri aumentano e dal 1980 assumono il profilo di una vera e propria guerra

civile. La Regione del Somaliland (ex Somalia britannica unificata nel 1960 nella Repubblica Somala) rivendica una propria autonomia fino ad arrivare alla auto proclamazione d’indipendenza del 18 maggio 1991. Molti oppositori al regime di Siad Barre vengono arrestati ed incarcerati, altri esiliati ed altri scappano di propria iniziativa. Dopo la caduta del regime di Siad Barre e lo scoppio degli scontri interni, la comunità internazionale decise di intervenire con l’invio di una missione Onu, la Unosom. Obiettivo della missione, nota anche come “Restore Hope”, era quello di creare un margine di sicurezza per l’invio di aiuti umanitari per la popolazione civile vittima da sempre dei conflitti somali. Ma la intricata situazione di controllo del territorio da parte dei signori della guerra, principalmente dei due grandi oppositori di quegli anni Ali Madi da una parte e il generale Aidid dall’altra, conducono la missione Onu ad un fallimento simbolicamente identificato con la battaglia di Mogadiscio e l’abbattimento dell’elicottero americano Black Hawk. La Unosom si ritira nei primi mesi del 1994 a due anni dal suo primo invio. Anche l’Italia era presente in Somalia con la missione Ibis che si ritira il 20 marzo 1994, lo stesso giorno in cui vengono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Gli anni successivi sono caratterizzati da una sempre maggiore frammentazione del territo-

Quadro generale

Storie di lotta all'infibulazione

Il suo nome è Safia Abdi Haase, fuggita dalla Somalia alla scoppio della guerra nel 1992, ma prima ancora vittima di infibulazione o circoncisione femminile. Rifugiatasi in Norvegia, Safia ha ricevuto quell’istruzione che gli è stata negata in patria, frequentando scienze infermieristiche ed ottenendo la laurea. Recentemente è diventata la prima donna africana a ricevere l'Ordine reale di Sant'Olav, onorificenza civile statale della Norvegia, per il suo impegno e il suo attivismo, collaborando con il Governo norvegese per un piano d'azione alla lotta nei confronti della pratica dell’infibulazione femminile, purtroppo molto diffusa in Africa.


TENTATIVI DI PACE

Solo chi genera la guerra è disabile nel processo di costruzione della pace

Hawa Abdi Dhiblawe

L'11 settembre a Mogadiscio persone somale con disabilità hanno partecipato ad un dialogo, organizzato dal Somali Disability Empowerment Network (Soden), con il sostegno della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Somalia (Unsom), il cui tema principale era la pace. I conflitti sono i principali fattori di disabilità in Somalia. I partecipanti hanno sottolineato le difficoltà sopportate durante i periodi di guerra, e rilevato come indispensabile un processo perseguito da tutti gli elementi della società civile per una pace duratura ed inclusiva. I presenti hanno chiesto di portare a termine tutti gli atti di conflitto, affinchè sia possibile un futuro migliore. Il messaggio che scaturisce da tale campagna è molto importante: le persone con disabilità possono fare qualcosa di importante per loro e per i propri fratelli. Il Soden è un'organizzazione nonprofit, con sede a Mogadiscio, che assiste gli individui disabili a costruirsi una vita migliore ed indipendente, lontana da povertà, stigmatizzazione ed analfabetismo, attraverso campagne di sensibilizzazione ed integrazione sociale e lo sviluppo di competenze, educazione e fiducia.

Hawa Abdi Diblawe è un medico e attivista per i diritti umani. Nel 2012, è stata candidata al Nobel per la Pace. Negli ultimi 23 anni nel Corridoio di Afgooye, Regione a Nord Ovest di Mogadiscio, oltre 90mila persone hanno trovato un riparo nel campo profughi nato un po’ per caso nel giardino di casa sua. Per lo più donne e bambini in fuga dalla guerra civile. Le due figlie, Deqo e Amina, anch’esse medici ora lavorano e aiutano Hawa. Laureatasi a Kiev, è stata la prima ginecologa in Somalia. Con la guerra del 1991 il suo ambulatorio e la sua casa sono diventati rifugio dai combattimenti in città. Per lei è stato spontaneo dare a tutti un posto dove dormire e sentirsi sicuri. Ben presto anche il giardino è diventato un dormitorio. Da qui è nato il villaggio dei rifugiati. Nel campo di Hawa c’è anche una scuola. Perché l’assenza di istruzione è un’altra piaga della Somalia, ma nonostante le molte difficoltà molti dei bambini del campo ricevono un’istruzione di base. La figlia Deqo si occupa in particolare delle bambine. Per una famiglia somala una femmina è una ricchezza che si può occupare delle casa e degli altri figli più piccoli, mandarla a scuola è sempre secondario.

85

(Xaawo Cabdi, 17 maggio 1947)

UNHCR/T. Mukoya

rio da parte dei sempre crescenti “lord war”. In questi anni la Somalia è anche la vera terra di nessuno, inesistenza di controlli frontalieri, una frammentazione territoriale e clanica gestita dal solo controllo delle armi. Questa situazione consente lo svolgimento di traffici illeciti, rifiuti dispersi in mare e sotterrati nel deserto somalo in cambio di armi, fino alla formazione di veri campi di addestramento della milizia jihadista. Molte le Conferenze di pace messe in atto, ma ogni volta si concludono con un nulla di fatto. Bisogna aspettare il 2004 per vedere, a conclusione della quattordicesima Conferenza di pacificazione, la nomina di un Parlamento di transizione che elegge Presidente Abdullahi Yusuf Ahmed e un Governo Federale di Transizione (Tfg) che dopo un primo periodo di attività da Nairobi, a giugno 2005 entra in Somalia. Moga-

I PROTAGONISTI

discio però è considerata ancora troppo pericolosa e nelle mani dei diversi “lord war” così il Governo di transizione risiede per un periodo a Johwar e poi a Baidoa. Nell’estate 2006 gli scontri iniziati dentro Mogadiscio fra i lord war e le milizie jihadiste somale portano queste ultime, controllate dalle Corti islamiche, a scacciare i signori della guerra e a prendere il controllo della città. Da Mogadiscio poco alla volta le Corti islamiche prendono il controllo di buona parte della zona sud della Somalia fino ad arrivare alle porte di Baidoa, la città di residenza e controllo del Tfg che nel frattempo aveva ottenuto la tutela dell’Onu e l’appoggio militare dell’Etiopia. Da Baidoa riparte l’offensiva governativa che con il determinante intervento dell’esercito etiope e il sostegno dei militari della Regione del Puntland, rispondono al tentativo delle Corti di conquistare Baidoa, con un attacco senza precedenti porta in pochissimo tempo alla conquista di Mogadiscio.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL SUDAN RIFUGIATI

649.331

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CIAD

352.948

SUD SUDAN

208.130

ETIOPIA

33.582

SFOLLATI PRESENTI NEL SUDAN 1.873.300 RIFUGIATI ACCOLTI NEL SUDAN RIFUGIATI

159.857

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI ERITREA

109.640

CIAD

41.666

ETIOPIA

5.108


Ancora violenza contro le donne

La violenza di massa sulle donne è parte quasi integrante della guerra in Darfur. L’ennesimo episodio è stato nella notte fra il 31 ottobre e il 1 novembre 2014. 210 donne, tra cui 79 bambine tra i 10 e 13 anni, sono state violentate nel villaggio di el-Fasher. I responsabili sono i militari di milizie filo governative dell'esercito sudanese, come atto di rappresaglia per la scomparsa di un loro commilitone nell'area. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha immediatamente chiesto di permettere l'accesso in quell'area a un team di osservatori e di raccogliere testimonianze sulle violenze denunciate dalla comunità locale e da media. Il Governo sudanese ha detto no.

UNHCR/ P. Rulashe

L’emergenza Sudan è ancora lì, pare non finire mai. Conflitto nel Darfur, guerra con il Sud Sudan, il Paese è in armi in modo permanente da trent’anni. Eppure, la novità vera del 2014 sembra essere la decisione delle Nazioni Unite di “tagliare” parte della missione di pace che dovrebbe garantire un minimo di sopravvivenza e futuro alla popolazione. La missione Onu risale al 2006, con la risoluzione 1706 del Consiglio di Sicurezza, che aveva dato vita all’operazione Unamid, di supporto alle forze dell’Unione Africana. Erano 20mila inizialmente i caschi blu presenti nel Darfur, territorio del Sudan Occidentale. Nel tempo, si sono ridotti a 16mila. Ora tutto verrà ridefinito, nonostante proprio il 2014 sia stato uno degli anni più duri della guerra. Le organizzazioni internazionali parlano di 300mila morti in dieci anni e due milioni di sfollati. Le persone in fuga sarebbero state 480mila solo nel 2014. Nel Darfur la guerra è iniziata nel 2003. Le tribù non arabe hanno imbracciato le armi contro il Governo arabo di Khartoum, accusandolo di fare politiche discriminatorie. Nel tempo, ai ribelli si sono uniti i gruppi del Kordofan del Sud, formati da combattenti della ex guerra civile rimasti nell’area dopo la secessione del Sud Sudan, nel 2011. Gli scontri sono feroci, per il controllo del territorio e delle risorse. Una grande controffensiva lanciata dal Governo a fine 2014 ha portato alla riconquista di molti territori, colpendo però soprattutto i civili. Sono decine i campi profughi, con migliaia di sfollati che accolgono soprattutto bambini. Sono anche quotidiane le denunce di violazione dei diritti umani, ma proprio nel 2014 la Corte Penale Internazionale ha deciso di archiviare l’inchiesta che vedeva coinvolto, dal 2003 per crimini contro l’umanità, il Presidente Omar Hassan Al-Bashir: la motivazione è nella mancanza di supporto - scrivono i giudici - da parte delle potenze mondiali alla Corte. A questa guerra, si aggiunge il confronto duro, sempre armato, con

SUDAN

Generalità Nome completo:

Repubblica del Sudan

Bandiera

Lingue principali:

Arabo, i diversi gruppi etnici parlano oltre 400 lingue locali, inglese

Capitale:

Khartoum

Popolazione:

37.200.000

Area:

1.886.068 Kmq

Religioni:

Musulmani (60%, predominanti fra arabi e nuba, nelle regioni del Centro-Nord), cattolici (15,5%), arabi cristiani (1%), aderenti a religioni tradizionali (23,5%)

Moneta:

Sterlina sudanese

Principali esportazioni:

Petrolio e prodotti petroliferi, cotone, sesamo, arachidi, gomma arabica, zucchero, bestiame

PIL pro capite:

Us 2.549

il nuovo vicino, il Sud Sudan. Lo scontro è sul controllo di zone di frontiera ricche di petrolio. I confini, definiti con la secessione del 2011, sono ancora contestati, da entrambi i Paesi. Gli scontri armati e le incursioni aeree si susseguono, mantenendo alta la tensione.

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Situazione attuale e ultimi sviluppi


cito di Khartoum. Una repressione che presenta tragiche analogie con quelle del Darfur. La conseguenza di questi conflitti è l'afflusso costante di profughi che, sia dal Nilo azzurro sia dal Sud Kordofan, si sono riversati in Etiopia e soprattutto in Sud Sudan. Una situazione di costante emergenza umanitaria, resa ancora più difficile dallo scoppio del conflitto civile del dicembre 2013 nella nuova Repubblica meridionale. Per la martoriata popolazione dei Nuba, alla guerra si aggiunge l’assenza quasi totale di aiuti umanitari: il Governo sudanese ne ha per lungo tempo negato l’accesso. Solo a ottobre un accordo fra governo e ribelli ha consentito l'apertura di un corridoio umanitario per la vaccinazione dalla poliomielite di 160mila bambini nubiani.

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I conflitti in Darfur, nel Nilo azzurro e nel Sud Kordofan continuano senza sosta. Dimenticati dalla comunità internazionale e anche dai media. In Darfur - dove operano due principali gruppi ribelli: l'Esercito di liberazione del Sudan e il Jem (Movimento per la giustizia e l'uguaglianza) - nel corso del 2013 si sono ripetuti attacchi e nuove fughe di profughi civili. Nella Regione del Nilo azzurro, dov'è attivo l'Spla-N (Esercito popolare di liberazione del Sudan-Nord), è stata soprattutto Amnesty International a denunciare la distruzione di decine di villaggi (con almeno 150mila nuovi sfollati) da parte dei militari regolari sudanesi. Stesso copione sui Monti Nuba (Regione del Sud Kordofan): dal 2011 si susseguono i bombardamenti, i raid aerei, le incursioni dell’eser-

Per cosa si combatte

Chi è gay rischia la vita

Il Sudan è uno dei Paesi al mondo in cui l’omosessualità viene considerata un crimine grave. La legge severissima impone a tutti i cittadini e gli abitanti di denunciare obbligatoriamente alle forze dell'ordine le coppie omosessuali. Chi viene dichiarato omosessuale, viene condannato a pene durissime, che vanno dall'ergastolo, ai lavori forzati, alla pena di morte. Di fatto, la legge dichiara che gli omosessuali sono immondi e le loro pratiche disgustose e che ciò che fanno è un terribile crimine contro l'umanità e la fede. Come il Sudan a livello legislativo sono altri Paesi: Iran, Turchia, Uganda, Yemen, Mauritania, Arabia Saudita, Algeria, Egitto, Camerun e Zimbabwe.

UNHCR/P. Rulashe

La storia tardo coloniale e post-coloniale del Paese africano è stata sempre caratterizzata da conflitti, tensioni e violenze nelle diverse regioni del Paese. Una sequela ininterrotta di guerre civili che ne hanno segnato tutta la storia, tanto che si può affermare che il grande Paese africano non ha mai avuto periodi significativi di pace e stabilità. Dagli anni ‘50 è stato un continuo susseguirsi di colpi di Stato e di giunte militari. Anche l’attuale Presidente, Omar Hassan El Bashir, che guida il Paese dal 1989, è salito al potere con un golpe. Altrettanto costanti nel tempo sono state le tensioni e gli scontri armati fra il Nord del Paese, arabo e islamizzato, e il Sud, africano e cristiano-animista. Solo con la secessione delle Regioni meridionali e la nascita della Repubblica del Sud Sudan, avvenuta il 9 luglio 2011, questo interminabile conflitto si è chiuso, aprendone tuttavia altri, nei territori contesi degli Stati di Abyei, del Sud Kordofan, del Nilo Azzurro, ossia quegli Stati della federazione ai quali il Governo di Khartoum non ha consentito di scegliere attraverso l’autodeterminazione se

rimanere con il Nord o passare nel nuovo Stato della Repubblica del Sud Sudan. La fase bellica più lunga e cruenta è stata sicuramente la guerra combattuta fra il 1983 e il 2003: i gruppi ribelli (guidati dalla più importante delle fazioni, l’Spla-Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese) si sono battuti per ottenere l’indipendenza dal Nord. Quello che non hanno ottenuto le armi, poi, l’ha fatto il petrolio: il bisogno crescente di greggio ha portato la comunità internazionale (Usa e Cina in testa) a moltiplicare le pressioni per il raggiungimento della pace, anche perché la maggior parte dei giacimenti si trovavano nella zona di confine fra il Nord e il Sud del Paese (e ora, con la divisione in due seguita alla secessione, l’85% dei giacimenti è rimasto nel territorio del nuovo Stato, nel Sudan meridionale). La fine del conflitto sudanese, fortemente voluta dai Paesi industrializzati e ottenuta con gli Accordi generali di pace del 2005, ha portato in breve tempo allo sviluppo delle infrastrutture per l’industria estrattiva e all’assegnazione di molte concessioni petrolifere (in gran parte accaparrate dalla Cina), tanto che alla vigilia

Quadro generale

Tempi duri per i cristiani

È stato un anno difficile il 2014 per i cristiani in Sudan, con una nuova ondata di repressione, irruzioni nelle chiese e arresti. Il fatto più clamoroso è accaduto verso la fine dell’anno, quando la polizia ha fatto irruzione in una chiesa evangelica a Nord della capitale. C’è stato l’arresto immediato di 37 persone che stavano pregando, poi hanno iniziato a demolire l’edificio con numerosi bulldozer. Gli arrestati sono stati divisi in tre gruppi e accompagnati in tribunale, dove sono stati multati per disturbo dell’ordine pubblico.


TENTATIVI DI PACE

L'arte può opporsi alla guerra

Nel panorama africano, la musica sudanese ha una importanza notevole, nonostante le difficoltà decennali del Paese, praticamente sempre in guerra e le difficili condizioni di vita. C’è chi tenta di denunciare la situazione sociale: ad esempio Abdel Gadir Salim, famoso musicista, che racconta come vanno le cose attraverso le proprie canzoni, con "un grido alla pace e alla riconciliazione". Protagoniste femminili sono Setona, che vive in Egitto a causa delle forti restrizioni imposte dal regime e Rasha, trasferitasi in Spagna, impegnata a dar voce agli emigranti sudanesi e alle loro condizioni di vita. La vera superstar della musica nubiana è comunque Mahmoud Fadl, maestro delle percussioni e direttore della ensemble nubiana Salamate.

89

Musicisti sudanesi

Il Centro di Arte e Cultura Nabta è un'organizzazione no-profit fondata da sudanesi al Cairo nel 2011 per promuovere la cultura africana contemporanea. Il 25 maggio 2014 il Centro Nabta, ha promosso la campagna ArtVsWar. Una costante situazione di conflitto e un'irresponsabile politica governativa hanno danneggiato la scena culturale. L'obiettivo del progetto: è comparare i costi della guerra con i finanziamenti all'arte in Sudan, denunciando l'eccessiva quantità di denaro spesa per sostenere il sistema bellico; dimostrare che l'arte è una fonte di sviluppo socio-culturale ed economico, e uno strumento alternativo per porre fine ai conflitti; promuovere l'arte, il rispetto per la diversità e il ripudio della guerra. Il sudanese Ahmed Isam è l'ideatore di ArtVsWar. La campagna si sta diffondendo tramite i social media. Egli crea opere in cui dai congegni militari esplode la forza dell'arte: i colori, le note musicali. Citazioni e disegni, ideati sotto l'insegna di questo progetto vengono stampati su T-shirt, poster, tazze, borse ed altro dal mese di giugno, e distribuite tra la comunità sudanese, soprattutto nei campi profughi.

UNHCR/ P. Rulashe

della divisione dei due Stati il petrolio costituiva l’80% delle esportazioni del Paese. Ma con la nascita della Repubblica del Sud Sudan sono sorti nuovi problemi: il grosso dei giacimenti è rimasto nel Sud, ma le infrastrutture sono rimaste al Nord. Inoltre, fra i due Stati si sono dovuti ridiscutere il sistema delle divisioni delle royalties e gli accordi per l’utilizzo da parte del Sud Sudan degli oleodotti che attraversano le Regioni del Nord. Problemi, questi ultimi, che hanno provocato la gran parte delle tensioni e degli scontri armati lungo la frontiera fino al momento in cui sono stati raggiunti gli accordi del marzo 2013. Sul piano internazionale, il Governo sudanese ha da molti anni rapporti non facili con l’Europa e con la gran parte dei Paesi industrializzati occidentali. Con gli Stati Uniti, le relazioni sono

I PROTAGONISTI

state a lungo molto tese, specie dopo il 2001, quando l’intelligence americana appurò che Osama bin Laden era stato protetto a Khartoum per lunghi periodi, e in tutta la prima fase della guerra del Darfur, per le accuse di genocidio da parte americana nei confronti del governo sudanese. I forti contrasti fra Washington e Khartoum si erano attenuati nella fase precedente al referendum per la secessione del Sud, e in tutta la fase seguente fino alla proclamazione dell’indipendenza dello Stato di Juba. Nel 2012 e nei primi mesi del 2013 le tensioni fra i due Paesi sono nuovamente cresciute, in coincidenza con le dispute sul confine fra Nord e Sud Sudan e con la questione del “pedaggio” che Juba doveva pagare a Khartoum per utilizzarne gli oleodotti (lo Stato meridionale ne è privo, perché all'epoca del Sudan unito il greggio estratto nel Sud veniva esportato con pipeline che attraversavano il Nord del Paese).


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL SUD SUDAN RIFUGIATI

114.467

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI ETIOPIA

71.506

UGANDA

22.510

KENYA

19.930

SFOLLATI PRESENTI NEL SUD SUDAN 331.097 RIFUGIATI ACCOLTI NEL SUD SUDAN RIFUGIATI

229.587

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SUDAN

208.130

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

13.933

ETIOPIA

5.890


Dalla parte dei bambini

Il Parlamento di Juba ha adottato nel 2014 la “Carta Africana sui diritti ed il benessere del minore”. Nata nel 1990 ad Addis Abeba per volontà dell’Unione Africana, è uno strumento giuridico di tutela in vigore dal 1999, già adottato da ben 47 dei 54 Paesi africani. In pratica, introduce l’obbligo all’attenzione al benessere dei minori e a varare leggi a loro tutela. Una scelta, questa del Sud Sudan, che potrebbe frenare il frequente uso dei bambini come “arma” nel conflitto del Paese.

© Fabio Bucciarelli / MEMO

L’indipendenza, raggiunta nel 2011, sembra lontanissima. Quasi come la pace, che rimane un sogno per il Sud Sudan, 54mo Stato africano, nonostante l’intermittente accendersi delle speranze. Due i fronti aperti: quello esterno, con il Sudan e quello interno, la guerra civile iniziata nel dicembre 2013. Da questo punto di vista, nel 2014 si sono registrate alcune novità positive. In novembre si sono finalmente incontrati i due leader del lungo conflitto, il Presidente in carica Salva Kiir e il suo ex vice Presidente Riech Machar. Per l’ennesima volta, grazie alla mediazione della Tanzania, Paese amico, hanno entrambi sottoscritto un accordo. La domanda della comunità internazionale è: reggerà? I morti sono stati migliaia, come i civili in fuga. In aprile 2014, ad esempio, ci sono stati almeno 58 morti per l’irruzione di una folla di giovani armati in una struttura dell’Onu. I caschi blu hanno aperto il fuoco, respingendo gli assalitori, che si sono diretti verso un campo adiacente, sempre sotto tutela delle Nazioni unite. Lì c’erano circa 5mila civili della minoranza Nuer. È stata una strage. In un anno, più di 800mila persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case, rinnovando la pessima tradizione dei profughi, caratteristica costante anche della lunga guerra per l'indipendenza. Quasi sei milioni di esseri umani, in 20 anni, furono costretti a lasciare terra e case. Ora, circa 68mila di loro vivono nei campi per sfollati. Si calcola comunque siano quasi 5milioni coloro che subiscono, in qualche modo, le conseguenze del conflitto. Punto nevralgico della lotta resta la citta di Bentiu, nello stato di Unity, ricca di giacimenti petroliferi e conquistata a metà 2014 dai ribelli. Insomma, la tregua appare fragile e alla fine del 2014 già si registrava la ripresa di combattimenti sparsi. Sul fronte esterno, cioè con il Sudan, la “partita petrolio” rimane al centro dello scontro, nonostante gli accordi internazionali che hanno portato alla recente indipendenza.

SUD SUDAN

Generalità Nome completo:

Repubblica del Sudan del Sud

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Inglese (ufficiale), arabo (ufficiale), denka, nuer, zande, bari, shilluk

Capitale:

Juba

Popolazione:

10.625.000

Area:

619.745 Kmq

Religioni:

Cristiana, religioni tradizionali africane, islam

Moneta:

Sterlina sud-sudanese

Principali esportazioni:

Petrolio (98% del budget dello Stato)

PIL pro capite:

Us 1.120

Alcune aree di confine sono ancora contese e Karthoum accusa il Governo Sud sudanese di sostenere i ribelli del Darfur. Juba accusa invece il Sudan di armare i ribelli di Riech Machar, con l’obiettivo di recuperare il controllo delle regioni petrolifere sud sudanesi. Così continuano gli scambi di colpi e le incursioni aeree, con morti - civili - da entrambe le parti. La soluzione sembra lontana, i ricavi derivati dal petrolio fanno gola a tutti. Davvero difficile immaginare che qualcuno si ritiri prima di incassare la propria parte.


amministratori del Paese, a tutti i livelli, devono la propria carica non a competenza o a capacità di gestione politica, ma semplicemente al fatto di essere ex capi del movimento di ribellione. Infine, va sottolineato che il disaccordo fra Kiir e Machar cresceva da tempo, e quest'ultimo aveva reso sempre più esplicita l'intenzione di contrapporsi al presidente in carica alle elezioni del 2015. Nella fase delicatissima che vivrà il Paese nel 2014, avranno un ruolo cruciale le chiese cristiane del Paese: i leader religiosi, fin da subito, hanno denunciato la strumentalizzazione della questione etnica per scopi di potere: "Quello che è accaduto", hanno scritto rivolgendosi all'opinione pubblica, "non deve essere descritto come un conflitto etnico. Vi sono piuttosto contrasti politici tra il Sudan People’s Liberation Movement e i leader politici del Sud Sudan".

Per cosa si combatte

Un corso per la pace

Sono stati avviati in Sud Sudan da ottobre 2014, nella città di Yei, nello Stato del Central Equatoria, corsi di formazione per preparare operatori al dialogo e alla pace. Lo ha promosso la Commissione per la guarigione, pace e riconciliazione nazionale del Sud Sudan (Cnhpr), che riunisce 76 tra uomini di Stato e rappresentanti di tutti i 10 Stati del Sud Sudan, compresi quelli dell’area di Abyei, la Regione rimasta zona franca dopo la separazione dal Sudan. Tra loro, anche 24 donne, rappresentanti di istituzioni. I corsi vogliono superare le cause del conflitto e creare strutture che permettano l’uguaglianza tra i generi: in Sud Sudan le donne sono il 60% della popolazione.

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Alla base del conflitto ci sono divisioni etniche antiche, ma anche l’incapacità del Governo di rispondere ai gravissimi problemi del Sud Sudan. Quanto alle questioni tribali, fin dall'indipendenza era evidente il venir meno del “collante” che aveva tenuto insieme i diversi gruppi: la lotta al comune nemico Khartoum e la forza carismatica di John Garang. La nascita del nuovo Paese ha fatto emergere fin da subito la volontà dei dinka (l'etnia maggioritaria) di mantenere il controllo del potere. Al punto che non pochi membri degli altri gruppi - specie i nuer - hanno vissuto la supremazia dinka in campo militare e amministrativo quasi come una forza di occupazione. Del resto, anche la transizione dello Spla da movimento armato di liberazione a partito politico è tutt'altro che terminata, e molti degli

© Fabio Bucciarelli / MEMO

La Repubblica del Sud Sudan è la più giovane nazione africana. È nata ufficialmente il 9 luglio 2011, quando è stata proclamata a Juba, la capitale, l’indipendenza dal Sudan. È il 54° Stato dell’Africa e il 193° delle Nazioni Unite. La secessione dal regime di Khartoum è stata conquistata col sangue: quasi mezzo secolo di guerre, delle quali l’ultima è durata ben 22 anni: dal 1983 al 2005. Il trattato di pace che ha chiuso il conflitto aveva anche fissato le tappe successive: un periodo di transizione di cinque anni, nei quali il Sud avrebbe goduto di ampia autonomia e il referendum per l’autodeterminazione, svoltosi il 9 gennaio 2011, nel quale il 98,83 per cento dei votanti si è espresso a favore della secessione. Il neonato Paese africano ha la libertà, ma poco altro. È ancora alle prese con le ferite profonde dei decenni di guerra civile che hanno opposto il Nord arabo e musulmano e il Sud, africano e cristiano-animista, non solo per ragioni religiose ed etniche, ma anche per l’iniqua distribuzio-

ne delle ricchezze nazionali e degli investimenti da parte dei governi di Khartoum. Il conflitto, aggravato da prolungate carestie, ha causato due milioni di morti e quattro di rifugiati e sfollati. Ma anche la distruzione quasi totale delle infrastrutture: scuole, strade, ponti, ospedali. Oltre alle enormi carenze dello stato sociale, nella sua breve storia il Sud Sudan ha dovuto affrontare diverse crisi umanitarie. La prima delle quali legata al rientro in massa di 350mila sudsudanesi che durante la guerra erano emigrati nelle regioni del Nord e che sono rientrate in patria con l’indipendenza. Inoltre, nel 2012, erano scoppiati scontri etnici in diverse aree del Paese (proseguiti anche nel 2013), il più grave dei quali aveva provocato migliaia di morti nella Regione del Jonglei, con decine di migliaia di sfollati. Altre emergenze umanitarie si erano verificate nel Sud-Ovest, lungo il confine col Centrafrica a causa delle incursioni del gruppo ribelle del Lra (Esercito

Quadro generale

È emergenza sanitaria

Rimane alto il rischio epidemia in Sud Sudan. A preoccupare sono soprattutto colera e malaria. A fine agosto 2014, i casi di colera censiti dall'Unhcr erano 5300. I medici dicono che il virus è curabile, ma raccontano anche di persone morte lungo le strade, dopo ore di diarrea. Secondo Medici Senza Frontiere la nuova emergenza è la malaria. Nell’Ovest del Paese, le persone curate sono state circa 60mila nel 2014, il triplo rispetto all'anno precedente. Nel reparto pediatrico di Aweil, il 71% dei bambini sono ora ricoverati per malaria.


TENTATIVI DI PACE

La musica per cercare soluzioni

Riek Machar

La musica come mezzo di attivismo politico e sociale. La scena musicale sud-sudanese ha recentemente prodotto due brani musicali che intendono promuovere la pace e lo sviluppo socio-economico del Paese: 'Let’s Stand Together' dei Sud Sudan All Stars; 'Stakal shedit' del trio Jay Family. A maggio 2014 un gruppo di 12 artisti sud-sudanesi, provenienti da diverse etnie, si sono uniti nel progetto Sud Sudan All Stars, il cui ideatore è il 26enne Silver X. Il loro brano esorta i leader politici alla riconciliazione e alla ripresa dei colloqui di Addis Abeba. Il gruppo dancehall reggae Jay Family con 'Stakal shedit' intende incoraggiare i giovani a diventare agricoltori per combattere l'insicurezza alimentare e la disoccupazione che colpiscono il Sud Sudan, sensibilizzandoli sull'importanza dell'agricoltura come strumento di generazione di reddito. Il 16 giugno Jay Family, insieme a Silver X, hanno lanciato a Juba la campagna nazionale denominata “Music Against Hunger ”, che è proseguita con spettacoli gratuiti in settembre nelle città Meridionali di Nimule e Yei, con la speranza di poter promuovere questa iniziativa in tutti i 10 Stati per portare in tutto il Paese un messaggio di pace.

Politico sud sudanese, vice Presidente della Repubblica, aveva questo incarico anche prima dell’indipendenza, nel 2011, quando lo Stato era solo una Regione autonoma all'interno del Sudan. Come il Presidente Salva Kiir Mayardit, anche lui è stato nell'Esercito popolare di liberazione del Sudan. Ora guida i ribelli, in aperto contrasto con il Governo. La comunità internazionale ha più volte tentato di intervenire. I Paesi africani hanno minacciato ritorsioni e Machar è anche accusato - assieme al rivale - di avere arruolato e utilizzato circa 10mila bambini soldato. L’allarme è stato lanciato dalla portavoce per il Sud Sudan dell'Unicef, Fatuma Ibrahim, che lamenta come il reclutamento dei bambini prosegua nonostante le promesse delle parti in guerra. Il Sud Sudan è devastato dallo scorso 15 dicembre dallo scontro tra l'esercito di Kiir e i ribelli di Machar, accusati dal Presidente di voler rovesciare il regime. Da allora centinaia di migliaia di sud sudanesi sono stati sfollati con un peggioramento della situazione umanitaria in un Paese che è già tra i più poveri al mondo.

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(Sud Sudan - 1953)

© Fabio Bucciarelli / MEMO

di resistenza del Signore). E, ancora, lungo il confine Nord, per via degli scontri fra l’esercito di Khartoum e i gruppi armati del Sud Kordofan e del Blue Nile, due Regioni le cui popolazioni non hanno potuto votare per l’autodeterminazione, pur avendo combattuto con l’Spla (l’Esercito di liberazione del Sud Sudan) la guerra per l’indipendenza, e scegliere di far parte del nuovo Stato meridionale. Gli scontri dei suoi primi due anni di vita avevano già spinto alla fuga oltre 200mila profughi oltre confine. Quanto alla situazione economica del Paese, dipende totalmente dal petrolio (costituisce il 98% delle entrate delle Stato). L’85% delle riserve di greggio, con la scissione in due del grande Sudan è rimasto al Sud. La capacità di estrazione è di circa 350mila barili al giorno. Ma i soli oleodotti utilizzabili, realizzati prima dell’indipendenza, sono quelli che attraversano il Nord. Il contenzioso sul “diritto di passaggio”,

I PROTAGONISTI

per il quale Khartoum esigeva un prezzo salatissimo, ha portato il Governo del Sud a interrompere le estrazioni, dal gennaio 2012 fino al marzo 2013, quando sono riprese a seguito di un nuovo accordo con Khartoum. Ma quell'anno e più senza introiti del greggio ha precipitato il già poverissimo Paese in una profonda crisi economica, che ha costituito una delle premesse al rigurgito di guerra civile della fine del 2013. Se da un lato la prima metà dell'anno aveva salutato i risultati positivi degli accordi con Khartoum (quello, appunto, sui dazi per l'uso degli oleodotti del Nord; ma anche quello sulla smilitarizzazione del confine per una fascia di 10 km) e della conseguente normalizzazione dei rapporti col governo di Omar El Bashir, sul piano interno il Sud Sudan si è progressivamente avvitato nella crisi politica, sfociata a fine 2013 in scontro armato vero e proprio che ha messo a nudo tutta la fragilità della leadership sudsudanese e degli equilibri tra le diverse etnie, ma anche tra le differenti “anime” dell'Splm (vedi “Gli ultimi sviluppi”).


Inoltre Burkina Faso

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"Verso una apertura democratica. Nel 2015 le elezioni verità".

Un colpo di stato ha trascinato nel caos il Burkina Faso. Alla fine di ottobre 2014 l'esercito ha preso il potere nel Paese, attraversato per giorni da violente manifestazioni di piazza. Le proteste chiedevano un cambiamento ai vertici politici del Burkina Faso, guidato ininterrottamente per 27 anni dal Presidente Blaise Compaoré, determinato a far approvare una riforma costituzionale che ne avrebbe permesso l'ennesima candidatura alle elezioni del 2015. Per impedirlo la folla di manifestanti ha preso d'assalto il Palazzo presidenziale. Per giorni le proteste hanno riempito la capitale Ouagadougou. I manifestanti hanno dato alle fiamme il municipio e la sede del partito al potere, il Congresso per la Democrazia e il Progresso (Cdp). Una mobilitazione che ha costretto Compaoré alle dimissioni, e aperto una grave crisi politica nel Paese. A prendere il potere è stato il colonnello Isaac Zida, 49 anni, che ha sostituito il capo di stato maggiore Traoré. Traoré aveva assunto la responsabilità di Presidente subito dopo le dimissioni di Compaoré ma in migliaia erano nuovamente scesi in piazza chiedendo il suo allontanamento, perché considerato un "fedelissimo" dell'ex Presidente. Preso il potere, il colonnello Isaac Zida ha garantito una veloce transizione democratica e incontrato tutti i leader dell'opposizione politica. Ma l'Unione Africana ha da subito espresso forti preoccupazioni per la situazione in Burkina Faso. Simeon Oyono Esono, capo del Consiglio di pace e sicurezza dell'Ua ha chiesto "alle forze armate di consegnare il potere alle autorità civili e il Consiglio ha deciso che questo trasferimento dovrà avvenire entro due settimane".

Un pressing sui militari che è continuato ininterrottamente nei giorni seguenti. Una delegazione della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale si è recata a Ouagadougou nei primi giorni di novembre e l'opposizione ha minacciato di riportare i cittadini in piazza se non si fosse raggiunta in breve tempo una soluzione politica alla crisi in corso. Alla fine un ampio accordo tra le parti politiche ha portato alla nomina di Michel Kafando come Presidente ad interim che dovrà guidare il Burkina Faso attraverso la fase di transizione. Kafando, 72 anni, ha alle spalle una lunga carriera di diplomatico ed è stato rappresentante del Burkina Faso presso le Nazioni Unite. Il suo mandato si concluderà con l’insediamento del nuovo Capo dello Stato a seguito delle elezioni che si dovrebbero tenere nel novembre del 2015. Intanto, l'ex Presidente Blaise Compaoré si è rifugiato in Marocco dopo essere rimasto per qualche tempo in Costa d'Avorio dove era arrivato subito dopo le dimissioni imposte dalle proteste popolari. Compaorè era salito al potere nel 1987 grazie ad un colpo di stato con cui aveva deposto l'allora Presidente Thomas Sankara (1983-1987), storico leader burkinabé assassinato con un colpo di pistola. Compaorè ha sempre negato il suo coinvolgimento nell'omicidio dell'ex Presidente, ma sono in molti ad essere sicuri ed aver testimoniato che sia stato proprio lui il responsabile dell'omicidio di Thomas Sankara, il Presidente rivoluzionario che voleva un Burkina Faso finalmente libero e indipendente dall'influenza francese.


Inoltre Etiopia "Bene l'economia, male la politica. Il Paese appare ancora bloccato".

indipendenti del sito Zone 9, accusati di aver "istigato" le violente proteste di piazza. Restano dunque totalmente inascoltate le richieste popolari da parte del Governo etiope, che continua intanto a fare affari con investitori stranieri, soprattutto attraverso l'assegnazione di milioni di ettari di terreno agricolo in concessione (nelle precedenti edizioni dell'Atlante abbiamo a lungo parlato del fenomeno del "landgrabbing"). Una politica di svendita che continua a causare lo sfollamento di migliaia di persone, in particolare dalla Regione della Gambella ma non solo. Secondo i piani del Governo almeno 225mila persone nell'arco di tre anni dovrebbero essere sfollate dalla Gambella e reinsediate altrove, in villaggi di nuova costruzione. Il Governo etiope, spiega Amnesty International, ha affermato che il programma della cosiddetta “villaggizzazione” non era legato alla concessione del terreno, "ma faceva parte di un progetto distinto per migliorare l’accesso alle necessità di base e che la maggior parte delle persone era stata reinsediata volontariamente". Tuttavia, sottolinea ancora l'organizzazione internazionale per i diritti umani, "è stato da più parti segnalato che la maggior parte era stata spostata con la forza e che i nuovi “villaggi” erano privi delle tanto promesse strutture, infrastrutture e opportunità di sussistenza".

UNHCR/R. Julliart

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Nonostante un alto tasso di crescita economica, l'Etiopia è ancora un Paese politicamente bloccato. Il nuovo primo Ministro Hailemariam Desalegn, eletto nel 2013, è espressione della netta continuità politica con l'ex premier Meles Zenawi, in carica ininterrottamente dal 1996 al 2012 (anno della sua morte). L'opposizione politica è frammentata e relegata in un angolo da una durissima repressione governativa: molti dei suoi rappresentanti sono stati arrestati arbitrariamente (anche grazie ad una legge "antiterrosimo", approvata nel 2009, che concede ampia discrezionalità su arresti e detenzioni) e le attività dei partiti politici che si oppongono al Governo sono gravemente limitate. In Etiopia, di fatto, il dissenso non è tollerato a nessun livello. Secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti, 75 pubblicazioni sono state chiuse dal regime negli ultimi 20 anni, 7 giornalisti sono tuttora in carcere. Inoltre, denuncia Amnesty International "nel Paese, tortura e altri maltrattamenti sono stati largamente impiegati, in particolare durante gli interrogatori e in detenzione preprocessuale di polizia". Nell'aprile del 2014, l'ennesimo caso di repressione del dissenso in Etiopia. Negli otto campus universitari della Regione di Oromia sono scoppiate violente proteste antigovernative. Il bilancio degli scontri è stato di undici studenti uccisi e almeno altri settanta feriti. Secondo la ricostruzione dell'Associated Press, le manifestazioni sono scoppiate il 28 aprile del 2014 nella Regione di Oromia appunto, dove è attivo un movimento indipendentista (il Fronte di Liberazione Oromo) e si sono velocemente diffuse in diverse città della Regione. La repressione è stata, come sempre, durissima da parte delle autorità etiopi che hanno reagito duramente anche alle proteste antigovernative scoppiate negli stessi giorni nella capitale Addis Abeba: una ventina di appartenenti al partito di opposizione Semayawi sono stati arrestati, così come sei blogger e due giornalisti

UNHCR/L. Padoan


Inoltre Guinea Bissau

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"Instabilità e crisi economica rendono il Paese ancora più povero".

Le elezioni generali, a lungo annunciate e continuamente rimandate dopo il colpo di stato del 2012, si sono tenute tra aprile e maggio del 2014. José Mário Vaz del Partito Africano per l'Indipendenza della Guinea e di Capo Verde (in portoghese Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo Verde, Paigc) è diventato il nuovo Presidente della Guinea Bissau con oltre il 61% dei voti. Lunghe file alle urne e una affluenza pari all'80% degli aventi diritto dimostrano la voglia della popolazione di chiudere un lungo capitolo di conflitti e insicurezze. La sfida, per il nuovo Governo, è soprattutto quella di trovare un compromesso con le forze armate per garantire stabilità al Paese. Esigenza questa che sembra assolutamente primaria, considerando che proprio i militari sono ritenuti i responsabili della trasformazione della Guinea-Bissau in una “narconazione”. Il Paese è infatti un crocevia per i traffici internazionali di droga, dall'America Latina ma anche dall'Asia e dal Marocco verso le grandi piazze europee. I dati raccolti dalle Nazioni Unite dimostrano che almeno il 60% di tutta la cocaina destinata al mercato europeo transita dalla Guinea Bissau (oltre che in altri Paesi, come il Mali) per un valore di circa 18miliardi di dollari. Secondo le stime delle Nazioni Unite inoltre, in media 2200 kg di cocaina arrivano per via aerea ogni notte in Guinea Bissau. Un Paese senza Stato dunque, dove la maggior parte della popolazione vive invece in condizioni di estrema povertà. Il neo eletto Presidente José Mário Vaz, ha promesso di introdurre riforme per ridimensionare lo strapotere dei militari che in campagna elet-

torale avevano invece sostenuto Nuno Gomes Nabiam e che con un intervento deciso del Governo vedrebbero irrimediabilmente intaccati i propri interessi economici. Il futuro politico del Paese dipende dunque dalle scelte del nuovo Governo e resta ancora incerto. Il golpe dell’aprile del 2012 potrebbe non essere l'ultimo per la Guinea Bissau. Il Paese è ancora tra i più poveri al mondo, senza rapporti consolidati con la comunità internazionale. Per la popolazione mancano cibo e medicinali e le organizzazioni criminali controllano gran parte del potere economico. Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) classifica il Paese al 176esimo posto su 186. L'aspettativa di vita è di circa 48 anni, il prodotto interno lordo pro capite è di 1042 dollari. Il tasso di abbandono della scuola primaria è dell'88%. Secondo la Fao inoltre, la Guinea Bissau sta vivendo attualmente un periodo di grave carestia che potrebbe colpire, con effetti devastanti, oltre 200mila persone. A peggiorare la situazione per la popolazione locale, c'è anche l'emergenza Ebola nella vicina Guinea. Il Governo della Guinea Bissau ha deciso la chiusura delle sue frontiere con la Guinea, uno dei Paesi più colpiti dall’epidemia del virus Ebola. Lo ha annunciato il primo Ministro Domingos Simoes Pereira, sottolineando che la decisione è stata presa sulla base delle informazioni fornite all'esecutivo da parte del ministero della Salute e dopo attente valutazioni. A 40 anni di distanza dall'indipendenza dal Portogallo, la Guinea-Bissau resta dunque un Paese instabile e attraversato da periodiche crisi politiche con una lunga storia di conflitti interni e colpi di stato alle spalle.


Inoltre Uganda "Diritti Umani, sogno impossibile. Per i gay rischio ergastolo".

ti ingerenze internazionali. Gli Stati Uniti, ad esempio, sono una presenza forte in Uganda, proprio sul piano militare. Nel settembre 2013, le forze Usa stanziate nel Paese hanno effettuato, insieme a truppe Sud Sudanesi, la loro prima missione militare. Hanno usato droni da combattimento per scovare il nascondiglio di Joseph Kony, uno dei leader Lord’s Resistance Army. Su di lui Washington ha posto una taglia di 5milioni di dollari e il Tribunale Internazionale lo insegue con un mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità. Secondo le notizie a disposizione, Joseph Kony sarebbe rifugiato nella Repubblica Centrafricana, per sfuggire alla caccia che gli sta dando una vera e propria forza multinazionale formata da militari di Uganda, Sud Sudan e Congo. Avrebbe fatto filtrare la voce di voler trattare la resa, ma pochi sono disposti a crederci: difficile che riesca ad ottenere l’amnistia per i crimini che gli sono stati imputati e dopo aver trasformato migliaia di bambini in soldati. Ai problemi militari dell'Uganda vanno sommate le questioni politiche ed economiche e le pessime condizioni di vita della popolazione. Gli aiuti internazionali sono bloccati dalla troppa corruzione.

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Nel 2014 è stata annullata dalla Corte Costituzionale per un vizio formale, la norma anti-gay varata dal Governo ugandese. Si tratta di una delle normative più repressive al mondo: vietava la "promozione" dell'omosessualità, rendeva obbligatoria la denuncia degli omosessuali alla polizia e infliggeva pene durissime che potevano arrivare fino all'ergastolo. L'Alta Corte ugandese l'ha definita incostituzionale perché "l’adozione della legge anti-omosessuali nel dicembre 2013 senza il quorum alla Camera ha violato diversi articoli della Costituzione, non ha rispettato la procedura parlamentare e quindi è nulla". La notizia è stata accolta con grande soddisfazione dalle organizzazioni che difendono i diritti umani, in Uganda e nel mondo, che avevano già vivamente protestato contro l'entrata in vigore della legge (la normativa aveva anche ridotto la possibilità per gli omosessuali di accedere ai servizi sanitari e di prevenzione contro l’Aids). Persino il Presidente statunitense Barack Obama aveva introdotto misure molto severe contro l'Uganda subito dopo l'entrata in vigore della legge, che seppur giudicata incostituzionale per un vizio di forma dalla Corte, lascia però sostanzialmente invariato un quadro legislativo ancora molto repressivo nei confronti degli omosessuali. Una buona notizia per l'Uganda nel 2014 è anche l'inizio del processo, all'Aja, del capo militare dei ribelli ugandesi Dominic Ongwen. Sarà giudicato con l'accusa di crimini di guerra e contro l’umanità dal Tribunale Penale Internazionale. Dominic Ongwen, comandante del Lord’s Resistance Army, ricercato dal 2011, si sarebbe consegnato alle milizie Seleka nella Repubblica Centrafricana all’inizio del 2014 ed è stato poi affidato alla custodia statunitense. L’Uganda ha dato l’ok per il processo. Per un problema che sembra risolto però, ne emergono altri. Le vicende interne dell'Uganda sono infatti strettamente legate a quelle dei Paesi vicini e dei loro conflitti, caratterizzati anche da for-

UNHCR/V. Vick

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QUESTA PROIEZIONE EQUIVALENTE É BASATA SULLA RETE GEOGRAFICA DECIMALE DI ARNO PETERS. ESSA SPOSTA IL MERIDIANO ZERO SULLA LINEA RETTIFICATA DEL CAMBIAMENTO DI DATA - INDICATA CON IL PUNTEGGIO - E SUDDIVIDE LA SUPERFICIE TERRESTRE IN 100 RETTANGOLI LONGITUDINALI DI UGUALE LARGHEZZA E IN 100 RETTANGOLI LATITUDINALI DI UGUALE ALTEZZA. CON QUESTA PROIEZIONE SI OTTENGONO NELLA FASCIA EQUATORIALE RETTANGOLI VERTICALI CHE SI TRASFORMANO, AVVICINANDOSI AI POLI, IN QUADRATI E POI IN RETTANGOLI ORIZZONTALI. LE COORDINATE DELLA NUOVA RETE SI TROVANO AI MARGINI DELLA CARTA ACCANTO ALLE COORDINATE TRADIZIONALI.

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America

A cura di Amnesty International

Violenze e pena di morte buchi neri del Continente L’uccisione, avvenuta a Ferguson, Missouri, il 9 agosto 2014 di Michael Brown, un 18enne privo di armi, da parte dell’agente Darren Wilson ha dato vita a una serie di proteste affrontate dalle forze di polizia in assetto da guerra con uso eccessivo della forza, pallottole di gomma, gas lacrimogeni e altri strumenti per disperdere gli assembramenti, minacce e intimidazioni nei confronti dei giornalisti. Gli Usa sono rimasti l’unico Paese del continente a utilizzare la pena di morte, con oltre 30 esecuzioni nel 2014. Il dibattito sul tema è stato dominato dalla penuria di farmaci per eseguire le condanne a morte, ciò che ha determinato da un lato la sospensione di diverse esecuzioni e dall’altro sofferenze inaudite a condannati a morte, sottoposti a veri e propri esperimenti con farmaci di provenienza incerta e dosi e combinazioni inedite. Nella Carolina del Nord Henry McCollum è stato rilasciato dal braccio della morte dopo aver atteso per 30 anni l’esecuzione. Il centro di detenzione di Guantánamo non ha ancora chiuso e continua a ospitare oltre 150

detenuti. Nel corso dell’anno sono emerse maggiori informazioni sull’uso e sull’impatto letale dei droni statunitensi in Pakistan e Yemen, mentre perdura l’impunità per gli omicidi illegali compiuti dalle forze Usa (e Nato) in Afghanistan. Le autorità Usa non hanno desistito dal tentativo di perseguire sul piano giudiziario Edward Snowden per le rivelazioni sui programmi illegali di sorveglianza delle comunicazioni. La crisi politica esplosa in Venezuela successivamente alla morte del Presidente Hugo Chávez ha dato vita a una forte polarizzazione politica: le forze di polizia hanno fatto ricorso alla forza eccessiva nei confronti di manifestanti pacifici, mentre diverse manifestazioni sono degenerate in atti di violenza. Il medesimo uso eccessivo della forza ha caratterizzato le operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico in Brasile, in occasione delle imponenti manifestazioni che hanno preceduto lo svolgimento dei campionati mondiali di calcio, contro l’aumento dei prezzi dei servizi pubblici, la crisi abitativa e gli asseriti sprechi di denaro nella realizzazione degli impianti e delle infrastrutture per l’evento sportivo. In Colombia, mentre difensori dei diritti umani, attivisti sociali e giornalisti corrono ancora forti rischi per il mero svolgimento del loro lavoro, i negoziati tra Governo e opposizione armata hanno per la prima volta visto le vittime delle violazioni dei diritti umani prendere la parola e testimoniare sui crimini subiti nel corso di decenni di conflitto.


In Messico, l’esercito si è reso responsabile dell’uccisione illegale di 15 persone, tra cui tre minori, fermate all’interno di un deposito di droga, freddate nonostante si fossero già arrese e non costituissero alcuna minaccia. I casi di tortura sono aumentati nell’ultimo decennio del 600%. A ottobre è stata registrata la sparizione di 43 studenti, dopo che la polizia e sconosciuti in borghese avevano assaltato una manifestazione usando anche le armi da fuoco. In una fossa comune nei paraggi sono stati trovati 28 corpi che, al momento in cui scriviamo, non erano stati ancora identificati. Il 2014 ha visto passi avanti per il rispetto dei diritti economici, sociali e culturali delle popolazioni native. Il 30 settembre, dopo decenni di lotta per il riconoscimento dei loro diritti, la comunità nativa Kichwa di Sarayaku ha ricevuto le scuse ufficiali del Governo dell’Ecuador per le violazioni dei diritti umani commesse ai suoi danni. Il 4 ottobre la Corte suprema del Para-

guay ha respinto il ricorso contro la legge 5194 del giugno 2014, che aveva espropriato 14404 ettari di terreno per restituirli alla legittima proprietaria, la comunità Sawhoyamaxa, che li reclamava da 20 anni. Ha fatto registrare progressi anche la lotta all’impunità per le violazioni dei diritti umani commesse durante le giunte militari degli anni Settanta e Ottanta. In Argentina, il 23 ottobre 2014 il tribunale di La Plata ha condannato all'ergastolo 15 ex militari, ufficiali di polizia e funzionari civili per casi di rapimento, tortura e omicidio di decine di oppositori durante la dittatura dal 1976 al 1983. Sempre in Argentina, il 5 agosto Estela Carlotto, fondatrice delle Abuelas de plaza de Mayo, ha riabbracciato suo nipote Guido, nato nel giugno 1978 in un carcere argentino. La madre, Laura Carlotto, venne uccisa e Guido adottato illegalmente. La ricerca di Guido Carlotto e il ripristino della sua reale identità sono durati 36 anni.

A cura di Giovanni Scotto

Una terra sempre in bilico Il subcontinente latino-americano possiede tra gli europei il fascino di un “altrove” oggetto dei nostri desideri. Nel 2014, con la scomparsa di Gabriel Garcia Marquez, l’America Latina ha perso una delle sue voci più conosciute e amate, il capostipite del cosiddetto “realismo magico”. Nei suoi Cent’anni di solitudine, lo scrittore colombiano traspone nel mondo del realismo magico della cittadina di Macondo desideri e problemi dell’America Latina: la guerra civile, i labirinti della violenza, l’importanza della memoria e la catastrofe dell’oblio. Nel romanzo, José Arcadio Secondo Buendía, l’unico sopravvissuto alla mattanza di lavoratori della compagnia bananiera in sciopero, scopre che i suoi concittadini hanno dimenticato il massacro, e che tutti condividono adesso la versione ufficiale delle autorità: i lavoratori hanno sciolto in modo pacifico l’assembramento, a Macondo non è mai successo nulla! Un continente intero appare costantemente in bilico tra guerra e pace, povertà e sviluppo, memoria e oblio. Proprio la Colombia, la patria di “Gabo”, assiste alla fase finale dei negoziati tra Governo e guerriglieri delle Farc, il gruppo armato di ispirazione marxista da decenni in conflitto con lo stato. I negoziati, avviati nel 2012 all’Avana, sono andati avanti nel 2014 senza giungere a conclusione. Le elezioni presidenziali a giugno hanno visto la rielezione di Juan Manuel Santos, che ha puntato molto su un esito positivo del processo di pace: le consultazioni sono state anche

viste come una sorta di referendum sulla scelta di negoziare con le Farc. L’agenda dei negoziati all’Avana, oltre alla fine del conflitto armato, prevede azioni concrete per lo sviluppo delle aree rurali, un processo di reintegrazione degli ex combattenti, provvedimenti ad hoc per la giustizia di transizione, e la lotta al narcotraffico. Le sfide sono complesse: da un lato i guerriglieri delle Farc hanno bisogno di credibili garanzie di sicurezza per disarmare (un processo analogo negli anni ottanta si concluse con migliaia di omicidi di esponenti del partito sorto dal disarmo dei guerriglieri di M-19). Dall’altro, buona parte della società colombiana guarda con sospetto e timore coloro che hanno condotto per decenni una sanguinosa lotta armata. Oggi però le condizioni di contesto sono favorevoli alla chiusura di un accordo: il Paese è in fase di forte crescita economica, e a livello internazionale c’è un sostegno generalizzato per trovare una soluzione pacifica al conflitto. Il 2014 si è chiuso con un cessate il fuoco unilaterale dichiarato dalla Farc. C’è da sperare che sia i protagonisti che la “comunità internazionale” facciano quanto possibile per chiudere una guerra durata molti decenni. Di certo oggi la pace in Colombia non appartiene al mondo del “realismo magico” degli scrittori, ma è a portata di mano dei leader politici.


102

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA COLOMBIA RIFUGIATI

396.635

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI VENEZUELA

204.259

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SFOLLATI PRESENTI NELLA COLOMBIA 5.368.138 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA COLOMBIA RIFUGIATI

224


Un patto per la pace

A fine 2013 è stato lanciato il Pacto Nacional para la Paz: un processo politico al di fuori dei partiti ufficiali, sostenuto da una parte delle organizzazioni più autorevoli della società colombiana impegnate per la costruzione della pace (l'associazione pacifista Redepaz, l'associazione femminista Ruta pacifica de las Mujeres, etc). Si mira a influenzare il Governo e le Farc su alcune prospettive centrali per la realizzazione di una pace reale (riconciliazione post-conflitto, ampliamento democratico, modello economico equo, educazione alla pace), e a coinvolgere la popolazione nella loro realizzazione.

UNHCR/ B. Heger

Il 2014 è stato segnato soprattutto dal dialogo sulle vittime della guerra. Ciò ha rinforzato la proposta di una Comisión de la verdad che si centri principalmente sulla ricostruzione dei fatti a partire dalla testimonianza diretta. Tale proposta, formulata la prima volta nel 2013 dal Governo Santos, è stata finalmente accettata dalle Farc. Entrambe le parti, inoltre, hanno accettato che le vittime partecipino in maniera diretta al processo di pace, più di quanto non fosse stato concesso sino ad ora alla società civile organizzata (che ha partecipato ai Forum nazionali e regionali organizzati dall'Onu e dall'Università Nazionale, dove si è discusso dei punti del processo di pace sviluppando delle proposte consultive inviate all'Avana). In sostanza hanno accettato che alcune delegazioni di vittime, sino a 12 persone, partecipino al tavolo dei negoziati in ognuno degli incontri previsti per la fine degli accordi. Ad Agosto, inoltre, s'è tenuto un Forum che ha visto la partecipazione di circa 1700 vittime di guerra, lo stesso numero che si è registrato nei tre Forum regionali che lo hanno preceduto. Il rincorrersi di voci su un possibile incontro tra l'Eln (2500 soldati) e il Governo, sono state confermate nel 2014: a gennaio inizia ufficialmente la loro fase esplorativa con l'obiettivo di arrivare ad un altro processo di pace. Il Presidente dell'Ecuador, Rafael Correa, ha rivelato che ci sono state già delle conversazioni iniziali sul suo territorio e che si farà garante del processo, un po' come Chavez aveva fatto con le Farc. Anche in questo caso Brasile, Cile, Cuba e Venezuela (oltre che la Norvegia) lo accompagneranno. A luglio dello stesso anno viene reso pubblico un primo accordo parziale tra Eln e Governo Santos, frutto di questi incontri. Nel frattempo è stato scoperto un sistema di intercettazioni, organizzato da una parte delle forze armate, per controllare illegalmente i dialoghi dell'Avana e varie personalità, non solo politiche, implicate nel processo. Ciò rientra in una strategia illegale che si affianca alla lotta condotta dal blocco di potere

COLOMBIA

Generalità Nome completo:

Repubblica della Colombia

Bandiera

103

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Spagnolo

Capitale:

Bogotà

Popolazione:

49 milioni

Area:

1.141.748 Kmq

Religioni:

Cattolica (92%), protestante, animista ed altro (8%).

Moneta:

Peso Colombiano

Principali esportazioni:

Cocaina, caffè, carbone, smeraldi

PIL pro capite:

Us 10.759

politico, economico e militare, che trova nell'ex Presidente, e ormai senatore, Uribe, il proprio portavoce. Attentati e omicidi contro obiettivi sensibili e vicini alle Farc hanno caratterizzato la seconda metà del 2014. Ormai è evidente, insomma, la strategia generale messa in piedi per bloccare il processo di pace. Le elezioni legislative e quelle presidenziali (Marzo-Giugno 2014) hanno confermato il potere a Santos, e al gruppo di partiti che lo appoggiano, ma anche che il potere dei gruppi che contrastano il processo legalmente è ancora rilevante.


una crescita militare delle guerriglie, al sorgere dei gruppi paramilitari, alla crisi e al collasso dello Stato, all'irruzione e alla diffusione del potere del narcotraffico. Dalla metà degli anni '90 il conflitto ha ormai l'attuale conformazione: si instaura una guerra incentrata sul terrore e sulla lotta per l'annientamento totale dell'avversario tra le guerriglie, da una parte, e l'esercito e i paramilitari, dall'altra. I motivi iniziali del conflitto passano in secondo piano rispetto alla vittoria militare e alla conservazione del proprio potere territoriale. Il narcotraffico ha interesse a mantenere lo stato di guerra, congeniale per il proprio commercio, e diventa la fonte economica principale per tutti i settori coinvolti nel conflitto armato.

Per cosa si combatte

Paramilitari ancora in azione

Da quando nel 2012 è nata la Marcha Patriotica, una formazione politica non partitica che rappresenta una parte degli interessi del movimento contadino e studentesco, sta avvenendo una nuova “Guerra sporca” in Colombia. L’azione di paramilitari, apparati dell'esercito ed estrema destra organizzata, dopo neanche due anni, ha causato la morte di 60 militanti e molti sono i casi di chi ha subito minacce o violenze di altro tipo, come l'incarcerazione su basi politiche. La portavoce nazionale, Piedad Cordoba, è stata destituita come parlamentare per via di uno scandalo giudiziario.

104

La complessa dinamica di questa guerra fa della Colombia il Paese che ha il conflitto armato, senza negoziazione, più antico del mondo. In un primo periodo, tra il 1958 e il 1982, proliferano molti tipi di guerriglie che lottano principalmente contro l'enorme ingiustizia rappresentata dalla concentrazione della terra e dalle condizioni di lavoro nelle campagne, ma anche per superare l'oppressione sociale dell'oligarchia politica, che ha nelle proprie mani il potere dello Stato e ha escluso dal sistema politico chiunque rappresenti un'alternativa socialista o democratica. Lo Stato combatte perché ritiene legittima la situazione economica, e democratico il sistema della partecipazione politica. La guerra è ancora marginale. Tra il 1982 e il 1996 assistiamo ad una espansione territoriale e a

UNHCR/ J. Arredondo

L'attuale processo di pace inizia a fine 2012 ed è il frutto di un accordo tra il Governo colombiano e Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia). Questa guerra nasce all'inizio degli anni '60, quando si formano diverse guerriglie comuniste, e i gruppi guerriglieri si moltiplicano negli anni 70 e 80 (se ne contano circa una trentina). In questo periodo, con l'emergere del narcotraffico, cambiano sia attori della guerra che la sua natura politica. Ciò perché, alla fine degli anni '70, si formano dei gruppi paramilitari pagati dall’oligarchia agraria con il beneplacito di una parte della cupola dell'esercito. Inizialmente difendono gli interessi dei grandi proprietari terrieri e dei grandi imprenditori, minacciati dalla guerriglia che impone loro sanzioni e li danneggia estorcendo ingenti somme di denaro attraverso la pratica del sequestro. In seguito questi gruppi vengono assoldati anche dai cartelli del narcotraffico, che diventano un altro potere economico e politico rilevante negli anni '80. Quando Pablo Escobar esercita un dominio enorme e organizza attentati sanguinari che colpiscono tutti

i leader politici che tentano di affermarsi senza scendere a patti con lui. Vengono creati almeno 140 gruppi paramilitari attivi sul territorio, uccisi diversi candidati alla presidenza della Repubblica e sterminato un intero partito politico, la Union Patriotica (Up). La Up è un partito nato dalle Farc: il suo obiettivo dichiarato è di preparare il terreno ad un’eventuale conversione del potere militare delle Farc in potere politico. Ma gran parte della destra del Paese organizza segretamente, una “guerra sporca” per eliminare chi, secondo loro, sostiene la presa del potere da parte delle Farc. Il crimine efferato contro l'Up è definito dall'Onu come un genocidio politico, perché sono circa 5mila le vittime di questa strategia. I paramilitari, quindi, vengono pensati per sostituire l'esercito nelle operazioni più crudeli ed esplicitamente lesive dei diritti umani e dell'habeas corpus. All'inizio degli anni '90, una parte di questi gruppi sigla un accordo di pace, l'unico che la storia del Paese conosce realmente, grazie soprattutto alla creazione di una nuova Costituzione, in parte frutto della mobilitazione politica

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

Comunità di Pace di San José de Apartadó: 17 anni di resistenza non violenta

(Bogotá, 24 ottobre 1962) Ivan Cepeda si è distinto per il coraggio e la coerenza politica. Figlio di Manuel Cepeda, avvocato e politico vicino all'Up assassinato nel '94 da due agenti dello Stato, Iván è rappresentante della Camera dal 2010 per il Polo Democratico (partito di sinistra). È rieletto senatore nelle elezioni legislative del 2014. Una volta eletto ingaggia una battaglia legale conto l'ex Presidente Uribe, accusandolo apertamente di aver aiutato a far nascere le organizzazioni paramilitari, di sostenerne le pratiche, e di aver avuto legami con il narcotraffico. Per questo sta subendo, oltre alle minacce di morte, anche azioni giudiziarie scatenate da Uribe, perché accusato di aver avuto vincoli con le Farc. Ha, inoltre, attivamente appoggiato la rielezione di Santos, dopo aver stabilito un accordo politico che vincolava la rielezione non solo all'impegno di portare a termine il processo di pace, ma anche a sostenere l'approvazione di misure in difesa dei diritti civili e sociali. Portavoce ufficiale del Movice (Movimento delle vittime dei crimini di Stato), si spende da anni contro il sistema di violenza diffuso oltre gli ambiti specifici della guerra (gli abusi sessuali, la brutalità del sistema penitenziario, il saccheggio delle terre, etc).

105

Ivan Cepeda

Situata nel dipartimento di Antioquia nella Colombia Nord-Occidentale, San José de Apartadó si è dichiarata “comunità di pace” il 23 marzo del 1997. A causa della sua posizione strategica rappresenta una zona di interesse per gli attori del conflitto armato. La comunità, dedita principalmente all'agricoltura, vende oggi i propri prodotti attraverso il sistema del commercio equo e solidale. Oltre a vietare la circolazione di qualunque tipo di arma, si impegna a non partecipare alla guerra in modo diretto, a non supportare nessuna delle parti in conflitto e a non permettere il passaggio di contingenti militari sul proprio territorio. La comunità gode dell’appoggio della Diocesi di Apartadó, di Ong ed organizzazioni internazionali; la presenza di osservatori internazionali della società civile rende più difficili gli attacchi dei gruppi militari. Circa 170 membri della comunità sono stati assassinati dai gruppi militari in 17 anni di resistenza nonviolenta. L'obbiettivo è quello di creare zone umanitarie nei vari dipartimenti della Colombia in conflitto con lo scopo di proteggere la popolazione civile.

UNHCR/F. Fontanini

della società organizzata degli anni '80 e della decisione politica di alcuni gruppi armati, come l'Epl (Ejercito popular de liberacion). Dopo di allora sono le Farc e l'Eln, le due più numerose e antiche guerriglie a restare ancor attive, e, dopo il genocidio dell'Up, le prime rinunciano ad una via politica per la soluzione del conflitto. Nonostante l’uccisione nel '93, di Escobar, capo del più importante cartello, il narcotraffico continua ad essere una forza determinante, corrompe regolarmente parti dell'esercito e delle istituzioni colombiane, e convive con la guerriglia che trova nel narcotraffico la sua principale fonte di finanziamento. Così si genera una nuova fase della guerra: le Farc si rafforzano militarmente e i gruppi paramilitari si moltiplicano, anche in modo autonomo dagli antichi padroni del narcotraffico.

I PROTAGONISTI

Nel 2002 Uribe Velez, espressione diretta degli interessi che hanno fatto nascere il paramilitarismo, diventa Presidente della Repubblica. Chiede l’intervento diretto degli Usa e dichiara che in Colombia non esiste alcuna guerra ma solo un problema di terrorismo. Uribe potenzia l'esercito sino a farlo arrivare a mezzo milione di unità, dotandolo di reparti speciali, direttamente addestrati dagli Usa, e di nuova tecnologia bellica. In questi anni le Farc subiscono durissime sconfitte, ma, contemporaneamente, dimostrano di poter resistere nonostante gli enormi sforzi bellici dello Stato. Questa è la ragione che porta Juan Manuel Santos, ex ministro della Difesa di Uribe, a decidere, una volta eletto Presidente della Repubblica nel 2010, di riconoscere l'esistenza del conflitto armato e avviare dei contatti informali con le Farc che, due anni dopo, generano l'attuale processo di pace. Alle spalle, però, dal 1985 ad oggi, si contano circa 6milioni di vittime tra la popolazione civile (tra morti e vittime di violenza).


106

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DA HAITI RIFUGIATI

38.660

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI STATI UNITI D’AMERICA

25.891

CANADA

7.872


Un infarto per l'ex Presidente

L'ex Presidente di Haiti Jean-Claude Duvalier, 63 anni, è morto nell'ottobre del 2014 a Port-au-Prince per un attacco cardiaco. L'ex dittatore haitiano era rimasto al potere dal 1971 al 1986, prendendo (a soli 17 anni) il posto del padre Francois Duvalier che aveva guidato da tiranno il Paese dal 1957 fino alla sua morte. Jean Claude Duvalier, soprannominato "Baby Doc" era stato cacciato da una rivolta popolare e poi tornato ad Haiti nel 2011 dopo 25 anni di esilio in Francia. Così come il padre, è stato accusato di corruzione, oltre che di abusi dei diritti umani e repressione. A suo carico erano stati aperti diversi processi. La sua morte fa calare definitivamente il sipario su una delle pagine più tragiche della storia di Haiti.

UNHCR/ A. M. Casares

Il 2014 si è chiuso, ad Haiti, con una grave crisi politica. Dopo mesi di proteste antigovernative, manifestazioni e scontri, il primo Ministro Laurent Lamothe ha rassegnato le dimissioni il 14 dicembre. Al suo posto, il Presidente Michel Martelly ha nominato, con decreto presidenziale, il dirigente politico Evans Paul. A lui l'incarico di formare il nuovo Governo in un clima di grande tensione. Alla base delle proteste popolari che hanno attraversato il Paese e in particolare la capitale Port-au-Prince, ci sono le accuse di corruzione nei confronti del Governo e del Presidente Michel Martelly, che però ha scelto, a differenza del primo Ministro, di restare saldamente al suo posto. Le opposizioni inoltre, fanno pressione sul Governo per ottenere la liberazione dei leader politici imprigionati durante l'ondata di proteste del mese di ottobre e mai portati davanti ad un giudice per convalidare le accuse e la detenzione. A supportare la polizia haitiana nel contrastare le manifestazioni di piazza sono state le forze di peacekeeping dell'Onu, schierate sull'isola con la Missione Minustah (United Nations Stabilization Mission in Haiti). Un manifestante è stato ucciso durante le proteste di piazza da colpi d'arma da fuoco mentre tentava, insieme ad altri manifestanti, di entrare nel Palazzo presidenziale. Nonostante le dimissioni del primo Ministro la situazione sull'isola resta dunque molto tesa e le proteste sembrano destinate a continuare. Un clima di rivolta dovuto anche al fatto che ad Haiti non si svolgono elezioni dal 2011, quando Martelly vinse con il 60% delle preferenze. Ad esasperare la popolazione c'è anche la gravissima situazione in cui versa il Paese a distanza di cinque anni dal terremoto, che nel 2010 causò la morte di oltre 200mila persone e 1milione e mezzo di sfollati. Secondo i dati diffusi da diverse organizzazioni umanitarie attive nel sostegno alla popolazione, sono circa 85mila gli haitiani che vivono ancora oggi in sistemazioni provvisorie, dove spesso mancano bagni, acqua potabile, luce, gas. Oltre la metà sono bambini.

HAITI

Generalità Nome completo:

Repubblica di Haiti

Bandiera

107

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese

Capitale:

Port-au-Prince

Popolazione:

10.170.000

Area:

27.750 Kmq

Religioni:

Cattolica, chiese protestanti, voodoo

Moneta:

Gourde Haitiano

Principali esportazioni:

Nessuna, solo economia di sussistenza

PIL pro capite:

Us 1.229

Nonostante alcuni passi avanti nella ricostruzione e il contrasto ad una terribile epidemia di colera che sembra oggi sotto controllo, Haiti fatica ancora a rimettersi in moto e resta il Paese più povero dell'emisfero Occidentale. La sua economia, concentrata in gran parte nella zona metropolitana della capitale Port-au-Prince è fragile e dipende ancora quasi completamente dagli aiuti internazionali. Si stima che dal 2010 siano stati spesi oltre 14 miliardi di dollari per la ricostruzione e l'emergenza umanitaria, ma la popolazione di Haiti continua a soffrire.


ormai a rischio di insicurezza alimentare e nutrizionale. L'economia nazionale è in ginocchio e la produzione industriale haitiana è irrisoria. Come cornice alla guerra fra poveri che si scatena in queste condizioni di grave povertà e insicurezza sociale, c’è la forza multinazionale dell’Onu, la Minustah, che ha il compito di stabilizzare l’area. Lavoro sporco e difficile se si considera che dal primo giorno in cui i caschi blu sono arrivati a Haiti la popolazione locale li ha snobbati, considerandoli di fatto come una "forza d'occupazione". Molti, moltissimi, anzi troppi i casi di abusi che hanno visto come protagonisti i soldati Onu.

108

Ad Haiti non si combatte più per le strade come qualche anno fa. Le bande criminali che imperversavano nel Paese sembrano quasi sparite nel nulla. Oggi la guerra che si combatte ad Haiti è un’altra: quella per la sopravvivenza. La politica haitiana non è mai stata in grado di dare soluzioni ai problemi della popolazione, perché sempre assoggettata agli interessi economici delle grandi potenze internazionali. Haiti non ha ancora un Governo stabile e intanto nel Paese si muore di fame, talvolta di sete e spessissimo per banali patologie. Ma si combatte anche per un tozzo di pane e migliaia di haitiani sono

Per cosa si combatte

Unicef, qualcosa va meglio

Nel quinto anniversario del tragico terremoto di Haiti (12 gennaio 2010), l’Unicef ha diffuso un Rapporto dal titolo “La situazione dei bambini e delle donne ad Haiti” in cui evidenzia alcuni passi avanti nella tutela e nelle condizioni di vita degli haitiani, in particolare dei minori. Secondo l'Unicef si registra una diminuzione del tasso di mortalità sotto i cinque anni e della malnutrizione acuta che negli ultimi 10 anni sarebbe stata ridotta della metà (dal 10 al 5%), mentre la malnutrizione cronica è scesa dal 29% al 22% nello stesso periodo. Migliorato nel Paese anche il quadro giuridico per la protezione dei bambini: è stato rafforzato attraverso la promulgazione di leggi e la ratifica di convenzioni. L’Unicef dà notizia anche di una significativa ripresa dell'attività scolastica: più di 1600 tende sono state fornite a 225 scuole colpite dal terremoto per consentire un riavvio rapido delle lezioni dopo il disastro. Oltre 80mila bambini hanno potuto frequentare la scuola in 193 scuole semipermanenti realizzate dopo il terremoto. UNHCR/ Pean

Colonia spagnola, poi francese, indipendente dal 1804 grazie alla prima rivolta di schiavi conclusa con un successo, Haiti ha una storia complessa alle spalle, caratterizzata da continue dittature militari, che sfociano nell’occupazione militare statunitense fra il 1915 e il 1934. In quel periodo, la resistenza semipacifica haitiana trova ispirazione nella propria cultura e nella religione voodoo. Protagonista è la popolazione nera, che ha il proprio leader nel popolare agitatore dottor François ‘Papa Doc’ Duvalier. Gli americani se ne vanno nel 1934, lasciando una economia a pezzi. Molti haitiani emigrano a Santo Domingo, in cerca di lavoro, provocando tensioni razziali ed economiche terminate tragicamente con una pulizia etnica che fa 20mila vittime tra gli haitiani. Agitata sempre dallo scontro fra popolazione mulatta e nera, di fatto l’isola resta dipendente dagli Stati Uniti ed è governata, come un dittatore, da “Doc” Duvalier, fino alla sua morte, nel 1971. Il potere passa allora al figlio Jean-

Claude, chiamato Baby Doc, che tenta una mediazione tra i ‘modernizzatori’ mulatti. Contemporaneamente, elimina con brutalità tutta l’opposizione. Alla crisi politica, si aggiunge all’inizio degli anni ‘80 quella economica. Haiti viene identificata come zona ad alto rischio per l’Aids e il turismo crolla. Poi, un programma statunitense per sconfiggere una malattia dei suini danneggia l’economia rurale, con l’uccisione per errore 1,7milioni di animali. Nel 1986 scoppia la rivolta popolare e Baby Doc Duvalier deve riparare all’estero con la famiglia. Si forma una giunta provvisoria militare. Il luogotenente generale Henri Namphy, confidente di Duvalier, viene nominato Presidente, ma un’organizzazione cattolica si oppone. È guidata da un giovane prete: Jean-Bertrand Aristide. Le elezioni del 1987 vengono vinte a larga maggioranza da Namphy, ma nel giro di un anno un altro colpo di stato porta al potere un altro generale, Prosper Avril. Nel 1990 Avril è costretto a fuggire e sempre nel 1990 alle nuove elezioni

Quadro generale

Il Villaggio della CRI

È stato inaugurato nel 2014 a Port-au-Prince il "Village Haitien Solferino", un insediamento urbano di 53 case. Il progetto è frutto del lavoro della Croce Rossa Italiana e della consorella haitiana ed ha coinvolto per la sua realizzazione, esclusivamente lavoratori haitiani. Il progetto si inserisce in un più ampio programma di aiuti concreti alla popolazione haitiana che prevedono anche la costruzione di un polo industriale per la creazione di posti di lavoro, di una scuola, una biblioteca e altro per i ragazzi e i bambini del quartiere di Croix de Bouquet.


TENTATIVI DI PACE

Centro Sportivo Italiano per Haiti

Dal 27 luglio 2014 è partito un progetto di cooperazione internazionale promosso dal Centro Sportivo Italiano ad Haiti. L'obiettivo della missione è quello di restituire un po' di gioia ai bambini di strada e agli orfani haitiani che, a quattro anni dal disastroso sisma, vivono ancora in condizioni precarie. Sono stati finanziati dei corsi di formazione per dirigenti e allenatori sul territorio con lo scopo di realizzare delle attività ricreative, è stata creata una sede del Csi nella capitale Port Au Prince e per 2-3 anni si effettueranno missioni sul territorio per aiutare i nuovi dirigenti ad entrare nei meccanismi e a gestire appieno la struttura sportiva creata. Nei Paesi in via di sviluppo lo sport rappresenta un incentivo sociale in più, è un'attività che insegna valori, unisce ed è fondamentale per la crescita dei bambini. È possibile prendere parte alle missioni se si è iscritti al Csi, dopo aver seguito un corso di formazione, per poter aiutare questi giovani a crescere con serenità.

Evans Paul

Il nuovo primo Ministro di Haiti è un politico di lungo corso. Ex giornalista, conosciuto nel Paese con il soprannome di K-Plim o The Pen, Evans Paul è stato sindaco di Port-auPrince ed un personaggio di spicco sulla scena haitiana negli anni '90. La sua alleanza politica con Jean Bertrand Aristide - controverso ex Presidente haitiano deposto nel 2004 da una protesta popolare - gli ha permesso di raggiungere la poltrona di primo cittadino della capitale nel 1990. Successivamente però Paul si allontanò politicamente da Aristide e ne divenne, anzi, uno dei critici più duri. Ex presidente del Democratic United Committee e poi leader del Convergence Democratique, Evans Paul ha tentato anche la candidatura alle presidenziali nel 2006, ottenendo solo il 2,5% dei voti. Oggi è alla guida del Governo di Haiti. La sua nomina è stata annunciata via twitter dal Presidente Martelly, mentre nel Paese continua la protesta popolare contro la corruzione politica.

109

(Port-au-Prince - 25 Novembre 1955)

UNHCR/J. Tanner

si candida Aristide, che con lo slogan ‘Lavalas’ porta in massa la gente alle urne. Il successo di Aristide non dura molto: nel 1991 viene destituito da un golpe militare. L’Onu reagisce con un embargo totale, cui fa seguito un intervento militare degli Usa, che costringe i militari a farsi da parte. Nel 1994 Aristide può quindi tornare nel Paese e governare. Ma lo fa in piena crisi economica e in un grave clima di violenza. Alle elezioni legislative del giugno 1995, i candidati da lui sostenuti furono accusati di brogli dall’opposizione. Si arriva alle elezioni presidenziali del 1995, in dicembre, vinte da René Preval. Le violenze nel Paese non finiscono e nel 1996 il Consiglio di sicurezza dell’Onu proroga la propria missione militare sull’isola. Nel gennaio 1999 le cose precipitano, con Preval che destituisce gran parte dei parlamentari.

I PROTAGONISTI

La tensione sale ancora - come la violenza - con le elezioni presidenziali del novembre 2000, vinte dall’ex Presidente Aristide. Il conflitto tra la maggioranza e l’opposizione è violentissimo e non si placa. Nel 2004 i ribelli, formano il Fronte di Resistenza dell’Artibonite, conquistano alcune città e in seguito costringono Aristide a dimettersi e a lasciare il Paese. Spinti dall’opinione pubblica internazionale, il 30 aprile 2004 i Caschi Blu dell’Onu arrivano sull’isola per cercare di riportare l’ordine dopo le violenze seguite alla rivolta popolare che ha contribuito alla cacciata di Aristide. Presidente ad interim viene nominato Boniface Alexandre, e premier Gerard Latortue, con l’impegno a svolgere nuove elezioni legislative entro il 2005. Le elezioni si svolgono nel 2006 e viene eletto Presidente l’agronomo haitiano Réné Garcia Préval. Le ultime elezioni presidenziali nel Paese si sono svolte nel 2011 e la popolazione chiede oggi con ogni mezzo di poter tornare alle urne.


Inoltre Messico

110

"Narcotraffico, politica e violenza. Per i giornalisti una terra impossibile".

Criminalità organizzata, narcotraffico, corruzione profonda della classe politica e delle forze dell'ordine stanno trascinando il Messico in una spirale di violenza sempre più brutale e incontrollata. Ormai tutti i dossier delle organizzazioni che si battono per la difesa dei giornalisti lo segnalano come il Paese più pericoloso per la professione di reporter (insieme alla Siria). Ma la vita in Messico è pericolosa non solo per gli operatori dell'informazione. Nelle grandi città come nelle zone di frontiera (con gli Stati Uniti dove i cartelli del narcotraffico si contendono il controllo del territorio) e negli Stati del Sud del Paese, un tempo paradiso per i turisti. Uccisioni violente, decapitazioni, sparizioni sono ormai una piaga incontrollabile e troppo spesso commesse con la complicità di politici e rappresentanti delle forze dell'ordine. Il 2014 in particolare, sarà ricordato nel Paese per l'incredibile caso dei 43 studenti "desaparecidos" che ha scatenato manifestazioni di protesta in tutto il Messico. Siamo nello Stato di Guerrero, nel Sud-Est del Messico. Nel settembre del 2014 un gruppo di studenti del liceo di Ayotzinapa (storicamente di sinistra e conosciuto per formare docenti attivi politicamente e impegnati nell'organizzare proteste contro la corruzione politica) spariscono senza lasciare traccia. Vittime, secondo la ricostruzione delle autorità messicane, di un agghiacciante patto tra José Luis Abarca, sindaco della città di Iguala (Stato di Guerrero), di sua moglie María de los Ángeles Pineda e dei Guerreros Unidos, braccio armato legato al cartello narcotrafficante Beltran Leyva. Secondo la ricostruzione del Procuratore Generale

José Murillo Karam, gli studenti avrebbero dovuto partecipare nella città di Igualda ad una manifestazione organizzata contro "le pratiche discriminatorie nell'assunzione di nuovi docenti", ma nello stesso giorno era previsto un comizio della moglie del sindaco, i cui fratelli sono esponenti di spicco del gruppo dei Guerreros Unidos. Agli agenti sarebbe stato ordinato, direttamente dal sindaco, di impedire "ad ogni costo" la manifestazione per non "disturbare" l'intervento pubblico della moglie del primo cittadino. La polizia messicana ha addirittura aperto il fuoco su alcuni autobus sui quali viaggiavano i ragazzi, uccidendone tre. Gli altri studenti sarebbero stati presi in consegna dagli agenti e poi venduti alla gang dei Guerreros Unidos, con l'obiettivo di liberarsene. Il 3 ottobre del 2014 viene scoperta vicino ad Iguala, una fossa comune. I resti di uno degli studenti vengono identificati. Nonostante le autorità sostengano di avere ormai ricostruito la dinamica dei fatti, i familiari delle vittime hanno continuato a protestare accusando il Governo e le autorità locali di voler chiudere al più presto una pagina agghiacciante della storia del Messico, emblema dell'incredibile livello di connivenza esistente tra la politica, le autorità votate alla sicurezza dei cittadini e i cartelli del narcotraffico. Un caso, quello dei giovani "desaparecidos", che è solo l'ultimo di una lunga serie di efferati omicidi nella zona di Iguala ma che ha sollevato una ondata di indignazione internazionale costringendo il Governo, sempre silente, ad intervenire. Si tratta della prima vera crisi interna per il Presidente messicano Enrique Peña Nieto: le dimissioni di alcuni politici locali, del capo della polizia e l'arresto del sindaco di Iguala e di sua moglie, difficilmente saranno sufficienti a calmare le proteste dei familiari degli scomparsi, che minacciano di rivolgersi ad organizzazioni internazionali per chiedere giustizia.


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A cura di Amnesty International

Democrazia e Diritti in Asia quasi sconosciuti In Thailandia, nei mesi successivi al colpo di stato militare del 22 maggio vi sono stati centinaia di arresti arbitrari, processi irregolari nelle corti marziali, denunce di tortura e profonde limitazioni alla libertà d’espressione e di manifestazione pacifica, tra cui il divieto di raduni superiori a cinque persone. Centinaia di siti internet sono stati chiusi o bloccati, i mezzi d’informazione sono stati rigorosamente monitorati dai comitati per la censura e sono stati minacciati gli arresti per chiunque intendesse postare opinioni critiche. Un numero senza precedenti di persone è stato incriminato ai sensi della legge sulla lesa maestà, che vieta le offese ai membri della famiglia reale. Dal colpo di stato, quattro persone sono state condannate e altre 10 rinviate a processo. Sintomatico del modus operandi della giunta militare è stata la repressione della benché minima manifestazione di dissenso, come indossare magliette che “promuovono la divisione”, leggere determinati libri o mangiare panini in pubblico come forma simbolica di protesta. Il movimento per la democrazia di Hong Kong

ha dato vita ad ampie proteste da settembre, dopo che il Governo di Pechino ha annunciato le modalità di selezione dei candidati alle elezioni del 2017. In più occasioni, le forze di sicurezza hanno fatto ricorso alla forza eccessiva e ai gas lacrimogeni. In Cina è proseguita la repressione nei confronti delle minoranze, soprattutto di quella uigura culminata nell’esecuzione pubblica di un gruppo di condannati per terrorismo e nella condanna all’ergastolo di un noto intellettuale e punto di riferimento del dissenso uiguro, Ihlan Tohti. Come in precedenza, il Governo di Pechino ha impedito ogni commemorazione in occasione del 25esimo anniversario del massacro di Tienanmen, procedendo ad arresti preventivi. Stessa sorte hanno avuto coloro che hanno espresso, alcuni mesi dopo, solidarietà nei confronti dei manifestanti di Hong Kong. Nel corso dell’anno è aumentato l’export di strumenti di tortura da parte di aziende statali verso Paesi africani e asiatici che la praticano diffusamente. La situazione dei diritti umani nei Paesi dell’ex spazio sovietico in Asia centrale è rimasta grave e priva di monitoraggio internazionale. I servizi segreti dei cinque Paesi hanno collaborato con quelli russi per rimpatriare vicendevolmente presunti oppositori. Nelle carceri dell’Uzbekistan, dove la tortura è una routine, languono decine e decine di prigionieri di coscienza. Lo scandalo della tortura è emerso in tutta la sua ampiezza nelle Filippine, a seguito della scoperta in una stazione di polizia di una “rou-


lette della tortura”, sulla quale erano riportate le tecniche da eseguire a seconda di dove il disco si fosse fermato. Le popolazioni civili hanno continuato a pagare un prezzo elevato al conflitto tra gruppi armati e forze di sicurezza in Afghanistan e in Pakistan. Nel secondo Paese, le leggi sulla blasfemia in vigore da oltre 25 anni hanno determinato nuove condanne ai danni di cristiani e musulmani ahmadi, considerati “infedeli” dalla comunità religiosa maggioritaria. Nelle Maldive, con l’accondiscendenza del Governo, gruppi di vigilantes hanno aperto una vera e propria campagna di intimidazioni e rapimenti, in nome della lotta all’ateismo, di cui hanno fatto le spese molti giornalisti e blogger. In Brunei Darusalaam è stata approvata la legislazione che prevede amputazioni per i ladri e la lapidazione per omosessualità e adulterio. Pur in assenza di dati ufficiali, si ritiene che la pena di morte sia stata applicata massicciamente in Cina, mentre è proseguito lo stillicidio

di impiccagioni in Giappone. In questo Paese, Hakamada Iwao, 78 anni, condannato a morte per omicidio nel 1968 al termine di un processo iniquo è stato rilasciato provvisoriamente nel marzo 2014 in vista di un possibile riesame del caso. Nonostante l’impossibilità di svolgere ricerche indipendenti in Corea del Nord e la difficoltà di accedere a testimonianze dirette e comprovate, le immagini satellitari mostrano la continua estensione dei campi di prigionia, all’interno dei quali si stima vi siano circa 200mila detenuti, in molti casi unicamente a causa della loro parentela o associazione con presunti oppositori. In India, la violenza contro le donne si è rivelata un fenomeno sempre più diffuso e strutturale, non contrastato in modo efficace dalle autorità. La studentessa e attivista pakistana per il diritto all’istruzione Malala Yousafzai e l’attivista indiano per i diritti dei minori Kailash Satyarthi sono stati insigniti del premio Nobel per la pace 2014.

A cura di Giovanni Scotto

Troppo facile distribuire le colpe Uno sguardo frettoloso al continente asiatico può far cedere alla tentazione di leggere con categorie generali l'insieme dei conflitti e delle guerre di oggi: dare la colpa all'islamismo radicale (o peggio, all'Islam in quanto tale) per le tensioni che dallo Xinjiang cinese a Nord arrivano alla Thailandia e alle Filippine a Sud, che attraversano l'Asia centrale, l'Afghanistan e il subcontinente indiano. Dal punto di vista geopolitico, poi, quasi tutto si può spiegare, se si vuole, con l'ascesa del gigante cinese nella competizione planetaria. Se invece cambiamo prospettiva, e proviamo a comprendere e ad analizzare ogni focolaio di conflitto in sé e per sé, e non come manifestazione di un processo astratto e universale, vedremo che molto si muove sottotraccia: prove di riavvicinamento diplomatico tra Cina e Giappone, l'emergere di una figura leader tra gli Uiguri dello Xinjiang, incarcerata dalle autorità cinesi per un reato di opinione e quasi suo malgrado simbolo di una lotta pacifica; le proteste nonviolente ad Hong Kong; il processo di pace ormai ben avviato nelle Filippine. Il potenziale presente in Asia per la ricerca di nuovi modi di affrontare i conflitti è stato ben riassunto, quest'anno, dalle due personalità che hanno ricevuto il premio Nobel per la pace all'indiano Kailash Satyarthi e alla giovanissima pachistana Malala Yousafzai: per un militante contro lo sfruttamento dei bambini, e per una vittima del terrorismo talebano che ha avuto il coraggio di prendere la parola. Satyarthi ha

ricordato al suo Governo e all'opinione pubblica internazionale che uno dei motivi per cui la schiavitù infantile continua a esistere è perché in troppi - anche nel Nord del mondo continuano a guardare dall'altra parte. Malala Yousafzai, incontrando il Presidente Usa Obama, gli ha ricordato l'impatto devastante della guerra condotta con i droni nel suo Paese, che ha provocato molte vittime civili e una profonda radicalizzazione nella società. Entrambi sono attivisti per il cambiamento che hanno sfidato le élites al potere nei rispettivi Paesi, e la cattiva coscienza della “comunità internazionale”. Ad osservarlo da vicino, il vastissimo continente asiatico segnala allora l'importanza di comprendere e analizzare la realtà dei conflitti armati - un conflitto per volta. Se guardiamo con attenzione, scopriremo potenti energie per il cambiamento, spesso già all'opera lontano dai riflettori. Anche dall'esterno si può contribuire al cambiamento identificando i processi in corso di trasformazione costruttiva, facendo emergere nuovi attori al di là del fragore delle armi e della propaganda, valorizzando i possibili sbocchi positivi del conflitto. La stessa Malala ci ricorda che, se vogliamo davvero terminare le guerre, c'è bisogno di investire non in armi e soldati, ma in libri, insegnanti e scuole.


Il conflitto e l’Italia

114

A un costo annuo di quasi 2 milioni di euro al giorno, il contingente italiano autorizzato dal Parlamento per la missione in Afghanistan è di circa 4.200 uomini dislocati soprattutto nell’area occidentale dove l’Italia ha il comando del Regional Command West (RC-W), un’ampia regione (grande quanto il Nord Italia) che comprende le quattro province di Herat, Badghis, Ghowr e Farah. Oltre quaranta soldati italiani sono morti in Afghanistan. Nel 2012 dovrebbe iniziare un primo ritiro dall’unico teatro internazionale per il quale Roma non ha deciso riduzione di fondi e di personale. Scarso resta l’impegno nella ricostruzione civile, sbandierato a parole che poco finanziato nei fatti

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL’AFGHANISTAN RIFUGIATI

2.556.556

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI PAKISTAN

1.615.876

IRAN

814.015

GERMANIA

24.203

SFOLLATI PRESENTI IN AFGHANISTAN 631.286 RIFUGIATI ACCOLTI IN AFGHANISTAN RIFUGIATI

16.863

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI PAKISTAN

16.825


La spartizione del potere

La vicenda che ha opposto il neo Presidente Ashraf Ghani ad Abdullah Abdullah si è conclusa con un accordo che stabilisce una nuova figura istituzionale che consegna al secondo il ruolo di capo dell'esecutivo (executive chief), ruolo relativamente ambiguo che lo equipara a un primo Ministro, figura non prevista dall'ordinamento della Repubblica presidenziale afgana. Se ad Ashraf Ghani, il colto tecnocrate formatosi negli Usa e già ministro di Karzai, è stata dunque consegnata la presidenza e, teoricamente, i pieni poteri, ad Abdullah viene concessa un'ampia capacità di manovra che il nuovo assetto istituzionale non ha ancora ben definito. Con una spartizione, tra i due, sulla scelta dei ministri.

UNHCR/R.Arnold

Entro la fine del 2014 si è andato completando il ritiro del contingente della forza multinazionale della Nato (composta da 50 Paesi) arrivata a un picco di 130mila soldati nel 2011 e a poco meno di 90mila nel 2013, quando è iniziato il ritiro delle truppe straniere (41mila in totale al 3 settembre 2014) aderenti alla missione Isaf. La nuova missione Nato (Resolute support) si deve ancora configurare nei dettagli, rimandati in attesa che il nuovo Governo afgano - entrato in funzione dopo un lungo stallo seguito alle polemiche sul voto presidenziale nell'estate del 2014 - firmasse il 30 settembre l'accordo strategico sulla sicurezza (Bsa, vedi focus) con gli Stati Uniti, dopo l'insediamento di Ashraf Ghani come Presidente. L'insediamento di Ghani e la costruzione del nuovo Governo dell'era postKarzai non sono stati un processo indolore ma il frutto di un accordo tra il nuovo Presidente e Abdullah Abdullah (già sconfitto da Karzai nel 2009 e ora a capo dell'esecutivo di Ghani) che, dopo il ballottaggio, ha preteso una condivisione del potere e la carica di capo dell'esecutivo. Un accordo, benedetto da Stati Uniti e Onu, che, pur ponendo fine a uno stallo istituzionale durato tre mesi, è stato considerato da diversi osservatori il segno di una futura fragilità e un tradimento delle regole della democrazia, conquista sbandierata dalla Nato come contrappeso politico alla sconfitta militare sul campo dove, nella quasi totalità delle aree rurali, i talebani continuano a dominare la scena. Sul piano della pacificazione del Paese il futuro resta incerto, gravato da ombre e timori che al ritiro si associ l'abbandono di un Paese in cui la guerra è tutt'altro che terminata. Il processo di pace, da tutti evocato e invocato, non sembra per ora far passi avanti né l'apertura di un ufficio politico talebano in Qatar nel 2013 ha accelerato la possibilità di colloqui inter-afgani, stimolando semmai un clima di sospetto a Kabul, innescato da trattative dirette tra la cupola talebana e Washington (che hanno ad esempio trattato sui prigionieri di guerra). Il futuro cui si trova davanti il primo Governo dell'era post Karzai è dunque denso di incognite, aggravate da una situazione economica in affanno, un aumento della criminalità comune e dalle ingerenze più o meno velate dei Paesi confinanti (Pakistan e Iran) e non (Arabia Saudita), senza contare che la presenza americana

AFGHANISTAN

Generalità Nome completo:

Repubblica Islamica dell’Afghanistan

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Il pashto e il persiano (dari) sono le lingue ufficiali. C’è inoltre una grande varietà di lingue, la maggior parte di origine persiana o altaica: hazaragi, turcomanno, uzbeco, aimaq e altri

Capitale:

Kabul

Popolazione:

29.820.000

Area:

652.090 Kmq

Religioni:

Musulmana (99%) (74% sunnita, 15% sciita e 10% altro).

Moneta:

Nuovo Afghani

Principali esportazioni:

Smeraldi, uranio, altri minerali, oppio

PIL pro capite:

Us 1.055

costituisce comunque un ostacolo a negoziare con la guerriglia, il cui unico elemento di fragilità è più politico (la frammentazione ideologica del movimento e le diverse agende delle varie fazioni combattenti) che militare.


Per cosa si combatte? È una domanda che molto spesso è stata rivolta dall’opinione pubblica ai Governi dei Paesi impegnati in una guerra (l’ultima in ordine di tempo) che ha ormai superato il decennio e nata come una sorta di vendetta statunitense dopo l’11 settembre. Alcuni analisti hanno proposto la chiave delle risorse, ma l’Afghanistan non ha petrolio e riserve limitate di gas e può essere bypassato da oleodotti e gasdotti che provengono da altrove. Possiede un immenso giacimento di minerali già noto ai sovietici dal rame al carbone - che resta però di difficile estrazione benché, negli ultimi anni, questo mercato sia in espansione e tenuto sotto controllo soprattutto dalla Cina. La chiave geopolitica continua a reggere (territorio di “profondità

strategica” per il Pakistan in caso di guerra con l’India, snodo tra Asia centrale, Medio Oriente e subcontinente indiano) ma molte altre se ne aggiungono: quella ad esempio che un fallimento afgano sarebbe un fallimento per la Nato o il rischio di lasciare che l’Afghanistan diventi una nuova Somalia, buco nero per narcotrafficanti, integralisti, contrabbandieri. Quel che va considerato è che il Paese è in guerra da trent’anni e i motivi per continuare il conflitto continuano a cambiare favorendo la sopravvivenza di eserciti privati e un’abitudine mentale a risolvere i contenziosi con la spada. Non di meno il desiderio di pace è fortissimo tra gli afgani e forse un negoziato potrebbe, dopo sei lustri, trovare terreno fertile anche se si investe troppo poco sulla società civile.

Per cosa si combatte

L'accordo con gli Usa

Dopo un lungo braccio di ferro, il Governo del Presidente Ghani ha firmato il 30 settembre del 2014 l'accordo di partenariato strategico (Bsa/Bilateral Security Agreement) chiudendo così il contenzioso aperto da Karzai che si era rifiutato di firmarlo. L'accordo fissa la permanenza di un contingente statunitense (10-12mila soldati) in Afghanistan per una decina d'anni, la gestione della base di Bagram e l'utilizzo di altre basi militari nel Paese. Garantisce inoltre l'immunità davanti alla legge afgana del personale Usa in servizio. Pakistan, Iran e Talebani hanno duramente criticato l'accordo.

116

UNHCR/R. Arnold

L'Afghanistan è una repubblica islamica presidenziale con una superficie di oltre 650mila km² e una popolazione stimata a circa 30milioni di abitanti. Le lingue ufficiali del Paese sono il Dari e il Pashto, con la presenza di molte lingue minori parlate dalle diverse comunità afgane (uzbeco, turcmeno etc). Dal momento che nel Paese non si effettuano più censimenti accurati da diversi decenni, non vi sono informazioni precise sulla composizione numerica delle varie componenti della popolazione, divisa tra Pashtun, Tagiki, Hazara, Uzbechi, Aimak, Turkmeni, Baluchi e altre minoranze tra cui i nomadi Kuchi. La religione ufficiale è l'Islam (sunniti 80%, sciiti 19%, altro l'1% ). Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, il tasso di mortalità infantile sotto i cinque anni è stimato a 147 morti ogni 1000 nati vivi (era di 209 nel 1990) e resta comunque tra i più elevati al mondo: la decrescita dei valori è avvenuta grazie all'attuazione del pacchetto base di servizi sanitari diffuso dal 2003. L'aspettativa di vita complessiva è cresciuta a 48 anni. Il divario città campagna resta enorme: in queste ultime ad esempio, l'accesso all'acqua potabile è del 39% mentre in zona urbana è del 78%. In compenso una persona su due possiede un telefono cellulare. Ol-

tre 1milione e 200mila persone usano internet. L'economia afgana è largamente dominata dal settore primario, seguito da quello dei servizi e dell'industria ma l’Afghanistan è anche il maggior produttore mondiale di oppio, con circa il 90% della produzione totale del pianeta. Quella legata alla coltivazione del papavero da oppio è un’economia diffusa capillarmente in modo particolare nelle zone Sud-Orientali del Paese e, secondo alcune fonti, equivarrebbe a metà dei proventi derivati dell’export legale. L'eco-

Quadro generale

UNHCR/R. Arnold


TENTATIVI DI PACE

Uno skate per cambiare il Paese

Cos’hanno in comune lo skateboard e l’Afghanistan? Niente, finché qualche anno fa Oliver Perkovich, un ricercatore australiano, arriva a Kabul, e girando con lo skate per le strade della capitale viene circondato dalle facce curiose di tanti ragazzi che quella tavola non l’hanno mai vista. Skateistan nasce così nel 2007 con un obiettivo semplice ma ambizioso: “connettere i giovani vulnerabili all’educazione tramite lo skateboard”. Già il 29 ottobre 2009 apre a Kabul la prima struttura, con uno skatepark ma anche tante aule per l’educazione, e solo 4 anni dopo apre un’altra struttura a Mazar el Sharif, nel Nord del Paese: grande tre volte quella di Kabul , arriva a ospitare addirittura 1000 ragazzi. Infine quest’anno apre il cortile esterno, con nuovi ostacoli per lo skate, ma anche una classe all’aperto e tante aree verdi. Qual è la cosa davvero straordinaria? Il 40% dei ragazzi sono donne, e lo skateboard è divenuto lo sport femminile più praticato in Afghanistan.

Hamid Karzai

Elegante, abile, non estraneo agli affari che il suo potere ha garantito alla famiglia, l'ex Presidente Hamid Karzai, a capo del Paese dal dicembre 2001 dopo la Conferenza di Bonn, nominato Presidente ad interim nel 2002 e poi eletto nel 2004 e nel 2009, è stato assai di più che il “sindaco di Kabul” come lo bollavano i detrattori. Talebani e Americani sono stati la sua ossessione: per mullah Omar era solo un pupazzo, per Washington il grande alleato da osannare o denigrare. Esce di scena con l'aura del nazionalista, attore forse ancora indispensabile per la rete di conoscenze all'estero e la capacità comunque di dialogo anche coi nemici.

UNHCR/R. Arnold

nomia è “drogata” anche da altri fattori: l'aiuto esterno è infatti pari al 90% del Pnl. Secondo l'Ufficio del lavoro di Ginevra (Ilo), gran parte della ricchezza nazionale proviene dal settore economico informale-tradizionale, largamente dominato dall'agricoltura (che occupa il 59% degli afgani) cui si è aggiunto un dinamico settore di nuovi servizi (che occupano il 24,6% degli afgani contro il 12,5% del settore manifatturiero) che è però in contrazione, essendo legato alla presenza straniera. Con un ingresso nel mercato del lavoro di circa 400mila giovani ogni anno, la maggior parte dell'occupazione che il Paese è in grado di offrire è comunque nel settore informale, quello cioè che non fornisce garanzie di futuro e protezioni assicurative. Se dunque il tasso di disoccupazione è relativamente basso (7,1%, ossia circa 823mila persone sopra i 15 anni su una stima di una massa di forza lavoro nel 2012 di 11,5milioni di afgani)

I PROTAGONISTI

la gran parte dei lavoratori è sotto-impiegata o impiegata in lavori precari e saltuari. Sei afgani su dieci, occupati nel settore primario, lavorano in condizioni di mera sussistenza. La forza lavoro del settore manifatturiero è stimata a solo mezzo milione di afgani e tutte le altre occasioni di occupazione, concentrate nelle aree urbane, dipendono sia dall'offerta di lavori precari o stagionali (come avviene nell'edilizia) o da servizi di vario tipo, molti dei quali - quelli che garantiscono un miglior salario - legati alla presenza straniera e alle diverse forme di aiuto che vengono progressivamente meno con la riduzione dell'impegno militare e della cooperazione internazionale. Nonostante gli sforzi nel settore dell'istruzione, il tasso di alfabetizzazione è tra i più bassi del mondo (0,354 Education Index Undp 2011. Italia: 0,965) e colpisce in particolare le donne. L'Afghanistan è infatti ancora compreso nella categoria Least Developed Country (Ldc), Paesi che presentano i più bassi indicatori di sviluppo socio economico nella tabella sullo sviluppo umano dell'Undp.

117

(Karz, 24 dicembre 1957)


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La zona della Cina indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione del Tibet a cui questa scheda è dedicata.

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL TIBET RIFUGIATI

15.065

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI NEPAL

15.000


Superbanca per l’Asia

Nel 2014 a Pechino è stata firmata l’intesa per creare Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib). A firmare, i rappresentanti di 21 Paesi nella Grande Sala del Popolo, sede dell'Assemblea Nazionale del Popolo, il parlamento cinese. La super-banca si occuperà dello sviluppo di strade, collegamenti ferroviari, impianti energetici e di telecomunicazioni nella Regione. I negoziati dovrebbero terminare nel 2015, con la ratifica da parte di tutti i Paesi. Il capitale iniziale sarà di 50miliardi di dollari, quasi interamente versati dalla Cina. Oltre a Pechino, faranno parte dell’Istituto anche India, Kazakistan, Uzbekistan e molti Paesi dell'Asia meridionale e del Sud-Est asiatico, tra cui Bangladesh, Sri Lanka, Nepal, Pakistan, Thailandia, Malaysia, Cambogia e Laos. Erano presenti anche Filippine e Vietnam, che vivono situazioni di tensione con Pechino per le dispute territoriali nel Mare Cinese Meridionale. Assenti, invece, i maggiori alleati degli Stati Uniti nella Regione: Corea del Sud, Australia e Giappone.

Khamoi Tashi: il suicida 132 dal 2009, si chiamava così. Era uno studente di 22 anni. Nel settembre del 2014 ha deciso di auto immolarsi in nome della libertà del Tibet. È successo davanti agli uffici della polizia, nella contea di Tsoe. Della sua morte si è saputo, a fatica, solo un mese più tardi. È un elenco infinito questo delle morti per il Tibet. Il Governo di Pechino continua a ribadire la necessità di “non ingerenza straniera” in quello che resta, a suo modo di vedere, uno scontro interno. Il Dalai Lama, ex capo dello stato tibetano prima dell’occupazione cinese, in esilio da cinque decenni, continua ad essere accusato, dalle autorità cinesi, di fomentare la rivolta e di volere l’indipendenza. In realtà, il Governo tibetano in esilio, guidato dal 2012 da Lobsan Sangay, tenta la strada della mediazione, rivendicando una maggiore autonomia. Pechino non affronta il problema, anzi. L’opera di annientamento della cultura tibetana prosegue, con le deportazioni in massa di intere popolazioni, spostate a forza in nuovi villaggi. Si parla di almeno due milioni di persone traslocate con la forza e costrette ad andare ad abitare nelle case costruite dal Governo centrale. L'obiettivo di Pechino è avere il controllo totale della popolazione, difficile da raggiungere se non è assolutamente stanziale. Nella contea di Zatoe, poi, non si sono ancora placate le proteste che, alla fine del 2013, avevano portato al blocco delle attività minerarie. I tibetani erano scesi in piazza e le autorità avevano lanciato un ultimatum, minacciando repressione e gravi misure contro i contestatori. Cuore della vicenda era la decisione dei tibetani di "bloccare" i cinquecento minatori cinesi inviati da Pechino. Ci furono scontri, con centinaia di feriti e nei mesi successivi si sono aperte le porte del carcere per molti di coloro che avevano partecipato alle manifestazioni. Insomma, anche nel 2014 non vi sono stati segnali di possibili mediazioni. Pechino continua a non riconoscere ruolo ai rappresentanti tibetani, nonostante il Dalai Lama cerchi di restare defilato, ai margini. Il problema tibetano, per altro, pare essere replicato nello Xinjiang, Provincia musul-

CINA TIBET

Generalità Nome completo: Bandiera

Lingue principali:

Cinese mandarino

Capitale:

Pechino

Popolazione:

1.353.000.000

Area:

9.596.960 Kmq

Religioni:

Confuciana, taoista, buddista (95%), cristiana (3,5%), musulmana (1,5%)

Moneta:

Renminbi

Principali esportazioni:

Praticamente tutto nel manifatturiero, più frumento, riso, patate

PIL pro capite:

Us 9.055

Generalità Nome completo:

Tibet

Bandiera

Lingue principali:

Tibetano, Cinese

Capitale:

Lhasa

Popolazione:

3.030.000

Area:

1.228.400 Kmq

Religioni:

Buddista, altre

Moneta:

Renminbi

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

Us 948

Repubblica Popolare Cinese

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

mana che rivendica l’autonomia. Ad alzare ancora la tensione, nella seconda metà del 2014 sono arrivate le proteste degli studenti di Hong Kong, contrari alla legge elettorale che Pechino voleva imporre, con la scelta “centralizzata” dei candidati che dovranno essere eletti nel 2017. Hanno manifestato pacificamente per giorni, armati solo di ombrelli per difendersi dagli spray urticanti della polizia e dal sole. Per il Governo una grana in più da risolvere.


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Strategia militare e interessi economici: in questi due punti la chiave per leggere lo scontro fra Cina e Tibet. Pechino considera vitale il presidio della frontiera con l’India, Paese da sempre considerato rivale. In Tibet, poi, ci sono importanti risorse minerarie e immense riserve d’acqua, quelle che vengono dai tanti fiumi della Regione. Pechino ha sempre voluto il controllo di quell’area. Questa esigenza cinese si scontra naturalmente con la voglia di indipendenza dei

tibetani, che forti di una cultura politico-religiosa radicata e delle tradizioni, rivendicano il loro diritto ad essere uno Stato libero e autonomo. La scelta del Dalai Lama di trovare una soluzione attraverso il dialogo non convince tutti i tibetani. L’ala più radicale del movimento indipendentista chiede all’opinione pubblica mondiale un intervento più duro nei confronti della Cina, da loro considerata Paese occupante.

Per cosa si combatte

Troppo grande la Cina, in ogni senso, per essere sfidata. Troppo potente militarmente, economicamente, per essere davvero infastidita. Così la visione internazionale della questione Tibet rimane la stessa da sempre: è un problema interno. È esattamente ciò che le cancellerie mondiali hanno pensato la mattina del 7 ottobre del 1950, leggendo sulle agenzie stampa o sui dispacci dei servizi segreti che quarantamila soldati dell’Esercito cinese avevano attraversato il fiume Yangtze e occupato tutto il Tibet Orientale e il Kham - che ora è parte di tre Province cinesi - uccidendo ottomila soldati tibetani male armati. Solo sette giorni dopo l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso diventò sovrano del Tibet. Il cuore della controversa questione tibetana è tutto in una frase: è un problema interno. Nessun Paese Occidentale ha mai riconosciuto il Tibet come uno Stato sovrano indipendente. Quindi, in punta di diritto internazionale, Pechino ha ragione nel definire la questione un “problema interno”. I cinesi - coerenti con questa visione - avevano pianificato tutto. Soprattutto avevano saputo cogliere il momento adatto. Il mondo guardava solo alla guerra in Corea, scoppiata all’alba di domenica 25 giugno 1950, con un attacco della Corea del Nord di Kim Il Sung alla Corea del Sud. Gli Stati Uniti intervennero militarmente, subito, chiedendo e ottenendo l’ombrello politico delle Nazioni Unite. In questo clima, l’attacco al Tibet, passò in secondo piano. Formalmente il Tibet era in una

posizione di stallo, nata dall’abbandono dell’India da parte della Gran Bretagna nel 1947. Storicamente, la Regione era stata a lungo indipendente, poi era caduta sotto l’influenza della Cina imperiale, prima di essere messa sotto tiro dalla Russia zarista e dal Regno Unito, che intervenne militarmente nel 1904. Da sempre, però, cultura e autonomia politica erano rimaste salde, tanto da definire una identità nazionale, che aveva nel Dalai Lama il capo di Governo e spirituale. La Cina aveva annunciato l’attacco. Mao, al potere dal 1949, aveva più volte spiegato che voleva una Cina riunita in tutti i suoi territori e questo significava anche il Tibet. Il 1° gennaio 1950 Radio Pechino annunciò che presto il Tibet sarebbe stato liberato dal giogo straniero. Così, l’occupazione avvenne senza quasi proteste, messa ulteriormente in secondo piano dal fatto che i cinesi il 19 ottobre del 1950 intervennero pesantemente nella guerra di Corea appoggiando il Nord con milioni di uomini e mettendo in grave difficoltà gli Stati Uniti. Il 23 maggio 1951 il Dalai Lama firmò il “Trattato di liberazione pacifica” e diventò vice Presidente del comitato permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Il documento permise alla Cina di iniziare la colonizzazione del Tibet. Prima militarizzandolo, poi spingendo i cinesi ad andare nella nuova Regione. Il Tibet intanto rinunciava ad avere una politica estera autonoma, a batter moneta, a stampare francobolli. Le terre venivano ridistribuite, soprattutto nelle

Quadro generale

Anche Macao è in rivolta

Anche Macao nel 2014 ha conosciuto la rivolta. L’Isola, ricordiamolo, è di fatto il casinò più grande del mondo. È lì che i dirigenti politici cinesi vanno per riciclare le tangenti che raccolgono. Regione autonoma, il gioco d’azzardo è libero ed è la principale fonte di reddito, ma non tutti ne beneficiano. Così, guidati da Jason Chao, i cittadini della ex colonia portoghese sono scesi in strada per rivendicare, esattamente come a Hong Kong, che il principio “un Paese, due sistemi” non è davvero rispettato. Gli affari dell’isola sono gestiti soltanto da uomini di Pechino. Così chiedono di avere nel 2019 elezioni davvero libere: la mini costituzione dell’isola non le ha mai previste.


Ilham Tohti

(Artush, 25 ottobre 1969)

Un successore al Dalai Lama

L'attuale Dalai Lama "non sarà l'ultimo”. A dichiaralo ad un giornale Giapponese, l’Asahi Shimbun, lo stesso Tenzin Gyatso, attuale XIV leader del buddismo tibetano e simbolo dell’indipendenza di quel territorio. Il Dalai Lama ha spiegato che “per individuare il successore non saranno usate le procedure legate alle profezie, perché la Cina potrebbe influire. Penso più a un Conclave, simile a quello usato dalla Chiesa cattolica per eleggere il Papa, oppure a delle istruzioni scritte da leggere dopo la morte". Il Dalai ha così smentito le voci secondo cui sarebbe stato lui l’ultimo dei Dalai Lama. Il Nobel per la pace ha anche spiegato di essersi ritirato dalla vita politica, per smussare le polemiche con Pechino. “Il futuro della mia posizione - ha anche dichiarato - è comunque nelle mani del popolo tibetano".

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Si è laureato presso la Northeast Normal University e la Minzu University of China, Pechino. Nel 2006 ha fondato un sito web chiamato, Uyghur online, pubblicando articoli in cinese e uigura. A metà del 2008 le autorità di Pechino decidono di chiudere il sito, con l’accusa di creare legami con gli estremisti della diaspora uigura. Nel marzo del 2009, in una intervista a Radio Free Asia, Tohti attacca la politica del Governo cinese. In pratica, accusa Pechino di favorire le migrazioni di lavoratori e lavoratrici uigura dallo Xinjiang verso altre Regioni della Cina, con l’obiettivo di impoverire la Provincia. Inoltre, critica il governatore cinese, accusandolo di non applicare correttamente la Legge Regionale sull’autonomia etnica. La risposta di Pechino è immediata: dopo pochi giorni, Tohti è arrestato, con l’accusa di separatismo. Il suo caso fa ovviamente rumore, viene chiesta la scarcerazione dalle organizzazioni internazionali, ma non accade nulla. Nel 2014, viene condannato all’ergastolo. Su twitter qualcuno scrive che la Cina aveva creato in Ilham Tohti "un Mandela uiguro". L’Agenzia cinese di notizie respinge il confronto: “mentre Mandela ha predicato la riconciliazione - scrive in una nota - Tohti predica l'odio."

zone del Kham Orientale e nell’Amdo, per non rompere i rapporti con l’aristocrazia. Da quel momento fu tutto un susseguirsi di ribellioni, avvicinamenti pacifici e rotture, spesso alimentate dall’esterno, da altri Paesi. Nel 1959 la prima grande rivolta. Il 10 marzo 1959 il movimento di resistenza tibetano guidò una protesta contro i cinesi. Per reprimerla, Pechino schierò 150mila uomini e unità aeree. Morirono in migliaia nelle strade di Lhasa e in altre città. Il 17 marzo, il Dalai Lama abbandonò la capitale e chiese asilo politico in India, assieme ad almeno 80mila profughi. I morti furono 65mila. Nel 1965 il Tibet venne dichiarato Regione Autonoma, con una annessione di fatto alla Cina. Nel 1968 la Rivoluzione Culturale portò alla distruzione dei monasteri, almeno 6mila e all’uccisione di molti monaci. La resistenza tibetana però non mollava. Nel 1977 e nel 1980 vi furono altre due sollevazioni, anche queste represse duramente da Pechino. Dal 1976, Pechino ha riavviato l’opera di colonizzazione, tanto che

I PROTAGONISTI

in Tibet sono arrivati 7milioni di cinesi, contro i 6milioni di tibetani che ci vivono. L’obiettivo di Pechino, denuncia la resistenza, è cancellare la cultura e l’identità tibetane. Il Dalai Lama ha nel frattempo tentato la via della mediazione, rinunciando a reclamare l’indipendenza, puntando all’autodeterminazione per salvare la cultura del Paese e salvaguardare i diritti umani. Una mediazione proposta nel 1987 tramite gli Stati Uniti è fallita. E come sempre, dopo ogni fallimento, sono ricominciati gli scontri, diventati protesta internazionale a partire dalle Olimpiadi a Pechino nel 2008 e, dal 2009, autoimmolazioni di giovani monaci. Nel 2012 il capo del Governo tibetano in esilio, Lobsan Sangay, ha definito quei gesti di autodistruzione “Un chiaro atto d’accusa alle politiche di repressione del Governo di Pechino”. Circa 3mila tibetani ogni anno scelgono l’esilio, raggiungendo il Nepal o l’India. In 20mila risiedono stabilmente in comunità sparse in Nepal, senza però venga loro riconosciuto - nonostante gli accordi internazionali - lo status di profughi. Il risultato è che, di fatto, sono prigionieri. La ragione è semplice: il Nepal non vuole irritare il grande vicino.


122

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLE FILIPPINE RIFUGIATI

726

SFOLLATI PRESENTI NELLE FILIPPINE 117.369 RIFUGIATI ACCOLTI NELLE FILIPPINE RIFUGIATI

182


Una commissione per la riconciliazione

L’Accordo di pace siglato fra indipendentisti musulmani e Governo centrale prevede una serie di meccanismi per avviare il "processo di normalizzazione". Uno di questi è la Commissione di giustizia transizionale e riconciliazione, presieduta dalla svizzera Mô Bleeker, inviata speciale del Dipartimento Federale degli Affari Esteri svizzero (Dfae). Obiettivo è elaborare il passato e la prevenzione delle atrocità. Mô Bleeker lavorerà con Cecilia Jimenez Damary, rappresentante del Governo filippino, e con Ishak Mastura, rappresentante del Milf. Jonathan Sisson, anch’egli collaboratore del Dfae, che è stato chiamato a fungere da consigliere speciale. La Commissione ha un anno di tempo per presentare alle parti firmatarie dell’Accordo di pace un rapporto accompagnato da raccomandazioni per lo sviluppo di misure di giustizia transizionale e di riconciliazione.

© Guillem Valle / MEMO

Sembra fatta: una delle guerre interne delle Filippine - per altro la più antica guerra indipendentista dell’Asia, vecchia di cinquant’anni - sembra essere finita il 27 marzo 2014, con la sigla a Manila dell’accordo di pace fra il Milf (Moro Islamic Liberation Front) e il Governo Filippino di Benigno Aquino. La questione dell’isola di Mindanao, che i ribelli musulmani volevano indipendente, pare risolta, dopo cinque decenni di guerra e almeno 120mila morti. L’accordo, raggiunto con l’intercessione della Malesia e un gran lavoro diplomatico anche della italianissima Comunità di Sant’Egidio, prevede una larga autonomia per la Regione, che si chiamerà Bangsamoro. Resteranno di competenza del Governo centrale i soli temi legati alla politica estera e alla difesa. Viene fissata anche una road map, che dovrebbe portare a smilitarizzare l’area entro il 2016. In realtà, i problemi restano, così come gli scontri. Nel Mindanao ha base anche il gruppo Abu Sayyaf, legato ad al-Qaeda, da sempre avversario del Fronte Moro e che ora non riconosce alcun valore all’accordo. Anche all’interno del Fronte Moro, poi, c’è chi ritiene l’autonomia un risultato insufficiente e quindi ha deciso di continuare la lotta armata. Così, conflitti a fuoco sono stati registrati continuamente. Due giorni dopo la firma dell’accordo, due campi di addestramento di ribelli dissidenti sono stati attaccati dagli stessi appartenenti al Fronte. Il 29 settembre 2014 è iniziato ufficialmente il disarmo delle forze ribelli, ma il 17 e il 23 ottobre ci sono state nuove battaglie, altri morti. Contemporaneamente, il gruppo Abu Sayyaf ha annunciato di avere in ostaggio due turisti tedeschi - marito e moglie - e chiesto alla Germania un riscatto di 5,6milioni di dollari e la fine di ogni sostegno all'operazione lanciata dagli Stati Uniti contro l'Isis in Siria e Iraq. Sono stati liberati verso la fine di ottobre. Situazione spinosa, insomma, per il Governo di Manila, che puntava alla pace con gli indipendentisti musulmani non tanto per pacifismo, quanto per concentrare gli sforzi militari all’e-

FILIPPINE

Generalità Nome completo:

Repubblica delle Filippine

Bandiera

123

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Filippino, Inglese, Spagnolo, Arabo

Capitale:

Manila

Popolazione:

97.848.000

Area:

300.000 Kmq

Religioni:

Cristiana (91%), musulmana (5%), altre (4%)

Moneta:

Peso Filippino

Principali esportazioni:

Prodotti agricoli, abbigliamento e idraulica

PIL pro capite:

Us 4.380

sterno, per contrastare le rivendicazioni cinesi sulle Isole Spratly. L’arcipelago, ricco di petrolio e gas, è rivendicato anche da Vietnam, Malaysia e Brunei, ma Manila può contare sull’appoggio degli Stati Uniti. Resta aperto anche il secondo conflitto interno al Paese, quello con la guerriglia legata al Partito Comunista delle Filippine (Cpp). Anche qui, lo scontro è decennale, iniziato nel 1968 per promuovere la riforma agraria. Le forze rivoluzionarie hanno visto via, via, assottigliarsi i ranghi. Sarebbero non più di 4mila i guerriglieri ancora in armi: pochi per vincere, ma sufficienti per mantenere alta la tensione.


È il controllo del territorio, cioè delle sue ricchezze, la ragione vera delle guerre che tormentano le Filippine. La prima guerra, ormai da cinquant’anni, è tra maggioranza cristiana e minoranza musulmana, che reclama l’indipendenza. Ad alimentarla c’è la storica, pessima, distribuzione della ricchezza. Il Nord e il Centro dell’Arcipelago sono le aree ricche, a maggioranza cristiana. Il Sud è povero e lì prevalgono i musulmani - sono il 5% della popolazione complessiva - che da sempre accusano la maggioranza cristiana di non aver fatto abbastanza per

distribuire le risorse equamente. La medesima accusa è all’origine del secondo fronte: quello con i gruppi di origine marxista. Una cattiva distribuzione che è ben rappresentata dalla diffusione della popolazione sul territorio: il 60% degli 85milioni di Filippini, infatti, vive in una sola isola, Luzon, dove c’è la capitale. A tutto questo si somma la tensione internazionale, con le frequenti crisi con la Cina, per il controllo di isole ritenute fondamentali sia per il controllo dei traffici via mare, sia per le risorse minerali e petrolifere.

Per cosa si combatte

Dai vescovi “no” alla pena di morte

Qualcuno vorrebbe reintrodurla, i vescovi dicono no. Parliamo di pena di morte, abolita nelle Filippine nel 2006 e che ora alcune lobby nel Paese vorrebbero rivitalizzare. Per la Commissione episcopale per la Pastorale delle carceri (Ecppc) la reintroduzione è ingiustificata. Lo ha dichiarato nel messaggio per l’annuale settimana di sensibilizzazione dedicata dalla Chiesa locale ai carcerati, ricordando che sul patibolo sono finiti anche tanti innocenti. “Essere contro la pena di morte non significa volere lasciare in libertà i criminali, ma togliere la vita a chi è stato condannato ed è stato reso incapace di offendere, significa dare un pessimo insegnamento ai nostri figli”.

124

© Guillem Valle / MEMO

Qualche speranza nel 2014 si è finalmente accesa, dopo le delusioni degli anni precedenti. Già nel 2011 c’era stata l’illusione di una soluzione, con Manila e indipendentisti islamici che sembravano avviati a trovare un’intesa che prevedesse, per i territori a Sud del Paese, una sovranità condivisa e garantita da Hong Kong e Cina. Niente da fare, i negoziati erano saltati, così come erano fallite le trattative con i gruppi marxisti. E la guerra è ripresa. L’elezione nel 2010 di un altro Aquino alla presidenza, Benigno, figlio dell’icona della democrazia, Cory Aquino, aveva dato fiato al Paese asiatico, storicamente travagliato. Prima colonia della Spagna, poi degli Usa, dopo l’indipendenza il Paese venne guidato con mano dittatoriale da Marcos sino al 1986, anno della svolta democratica, con l’elezione della Presidente Cory Aquino. L’arrivo della nuova Presidente portò ad un accordo con i movimenti separatisti musulmani di Mindanao, attivi nel Sud del Paese sin dagli anni ‘50. Venne concessa loro ampia autonomia amministrativa. Questo fermò il conflitto armato con i separatisti. Continuò invece la guerra con il Nuovo esercito del popolo (Npa): nel 1990, la guerriglia riprese, dopo la denuncia della scomparsa di attivisti politici e sindacali della sinistra. Il 26 novembre 1991 un altro pezzo del passato coloniale se ne andò: gli

Usa si ritirarono dalla base di Clark - una delle due esistenti nelle Filippine, l’altra è Subic Bay -, insieme a 6mila effettivi americani. Nel maggio dell’anno dopo, venne eletto alla presidenza Fidel Ramos, ex ministro della Difesa. Nel 1996 parve risolto il problema con i separatisti islamici. Il 30 settembre venne firmato un accordo di pace e Nul Misauri, capo del Fronte di liberazione nazionale moro, diventò Governatore di Mindanao, Regione autonoma enorme. Fu una pace di breve durata. Già nel 2000 i musulmani chiedevano un referendum per l’autodeterminazione, mentre la maggioranza cattolica protestava contro l’accordo non accettandolo. Intanto una serie di scandali per tangenti e corruzione travolgeva la politica. Nell’aprile del 2002 a General Santos, nel Sud del Mindanao, venne dichiarato la stato d’allerta, per l’esplosione di parecchie bombe, con 14 morti, a opera del Milf, il Fronte Islamico di liberazione moro. Era la ripresa della guerra. L’obiettivo dichiarato era creare uno stato musulmano. Lo scontro con i gruppi islamici divenne sempre più duro, ma restava alta la tensione anche con i gruppi guerriglieri di origine marxista, che riprendevano vigore. Nel 2003, Amnesty International denunciò l’uso della tortura su prigionieri politici, membri di gruppi armati e criminali comuni. Accusa

Quadro generale

Rimboschimento da record

3,2 milioni di alberi in una sola ora: è un vero record da Guinness dei primati quello delle Filippine in fatto di rimboschimento, nell’ambito del piano messo a punto per ridurre l’inquinamento. Qualcuno dice che si tratta di un’impresa “pubblicitaria” voluta dal Governo per dimostrare la propria buona volontà. Il record precedente era dell’India, dove erano stati piantati, il 15 agosto 2011, 1,5 milioni di alberi in un’ora.


TENTATIVI DI PACE

Riconciliazione, i mediatori esterni aiutano

A Mindanao, nel marzo 2014, dopo trattative durate diversi anni, è entrato in vigore l'”Accordo quadro per il Bangsamoro”, che pone le basi per un ritorno duraturo alla pace dopo decenni di conflitto armato tra forze governative e il Fronte di Liberazione Islamico Moro (Milf). La presenza di attori della società civile internazionale ha contribuito a stabilizzare il processo, prevenire il ricorso alla violenza e gestire gli incidenti. La missione internazionale di monitoraggio, coordinata dalla Malesia, nel 2014 ha ridotto gli effettivi. Mindanao è un esempio di come la transizione dalla guerra alla pace possa essere facilitata dalla presenza di mediatori esterni, con il contributo della società civile. L'ong internazionale Nonviolent Peaceforce ha una presenza continua sul terreno con compiti di monitoraggio e mediazione dietro le quinte. Np è un attore riconosciuto dal Governo e dai mediatori internazionali, e svolge un importante ruolo di prevenzione nel caso di tensioni e scontri a livello locale, come nei comuni di Isulan ed Esperanza.

Mô Bleeker, cittadina svizzera, ha studiato antropologia, teologia, giornalismo e comunicazione sociale presso l'Università di Friburgo. Ha conseguito anche un diploma post-laurea all’Istituto di alti studi internazionali e dello sviluppo di Ginevra. Lavora sin dal 1982 in organizzazioni impegnate nel processo di transizione dalla guerra alla pace in Centro America, Colombia, Balcani, Sud e Sud Est Asiatico, Asia centrale, Africa del Nord e Africa Occidentale. Una lunga esperienza, che la porta nel 2003 ad assumere l’incarico di Swiss Peacebuilding per il Dipartimento federale degli affari esteri (Dfae), con sede in Guatemala. Dal 2004 in poi, ha lavorato come consulente senior del Dfae, con il compito di rielaborare il passato e prevenire nuovi genocidi. Nel 2011, è stata nominata capo della task force del Dfae. Ora, è responsabile del processo di pace e riconciliazione nelle Filippine.

125

Mô Bleeker

© Guillem Valle / MEMO

che venne respinta dal Governo. Nel marzo del 2004, fu sventato un attentato simile a quello che aveva colpito Madrid l’11 marzo. Vennero arrestati quattro membri di Abu Sayyaf con 36 chili di esplosivo confiscati. Uno di loro si dichiarò responsabile dell’attentato che il 27 febbraio di quell’anno costò la vita a 100 persone sul SuperFerry 14. Gli arrestati, che svelarono di essere stati addestrati dalla rete terroristica Jemaah Islamiah, legata ad al-Qaeda, progettavano attentati contro treni e negozi a Manila, città con dieci milioni di abitanti. Nel 2004, la Norvegia mediò un accordo fra Nuovo esercito del popolo e Governo. L’anno successivo, dopo negoziati di pace in Malaysia, indipendentisti musulmani e Governo annunciarono un accordo sulle terre ancestrali di cui i ribelli rivendicavano la proprietà da trent’anni. Tregue che non durarono. Nel 2010 sono ripre-

I PROTAGONISTI

si i combattimenti. Si calcola che dal 1971 ad oggi siano stati più di 150mila i filippini morti tra Mindanao e l’arcipelago di Sulu, nello scontro per l’indipendenza e oltre 50mila gli sfollati. Il conflitto con la guerriglia del Npa, invece, avrebbe procurato almeno 40mila morti, a partire dal 1969. Nel Nord del Paese, gli attacchi a convogli e postazioni militari sono continui, nonostante la crisi vissuta dal movimento negli ultimi anni. I combattenti sono stimati attorno ai 4mila, numero ridotto rispetto ai 20mila che si stimavano negli anni ’80, ma comunque considerevole. Un tentativo di negoziato è fallito nel 2011, interrotto dal rifiuto del Governo di liberare i militanti detenuti. E se la tensione resta alta anche dal punto di vista sociale, con le fasce deboli della popolazione che chiedono una migliore distribuzione della ricchezza, il doppio fronte della guerra interna delle Filippine è costato caro, in termini di vite umane e di possibilità di sviluppo. Ora si spera le cose cambino, ma sono i “falchi” di tutte le fazioni a preoccupare.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL’INDIA RIFUGIATI

11.042

RIFUGIATI ACCOLTI NELL’INDIA RIFUGIATI

188.395

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI CINA

100.003

SRI LANKA

65.674

AFGHANISTAN

11.122


Un Paese diseguale

L'ultimo decennio è stato un periodo di rapida crescita per l'economia indiana, ma di altrettanto rapida crescita delle diseguaglianze sociali. Il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) mette l'India al 135esimo posto (su 187 Paesi) del suo Indice di Sviluppo Umano 2014. La Banca Mondiale stima che il 32% degli indiani viva sotto la soglia di povertà, che definisce come la possibilità di spendere 1,25 dollari al giorno. Dal 2005 il Governo indiano definisce soglia di povertà la spesa di 27 rupie al giorno in aree rurali e 33 in aree urbane (77 rupie fanno un euro), e stima che il 21% degli indiani sia sotto, ma l'attuale Governo sta valutando di portare la soglia rispettivamente a 32 e 47 rupie al giorno.

Nell'agosto 2014 il Governo di New Delhi ha annunciato l'invio di 10 battaglioni delle forze paramilitari nello stato di Chhattisgarh, per rafforzare la sicurezza in questa Regione montagnosa dell'India Centrale. Poco dopo trafiletti nella stampa indiana hanno dato notizia dell'arrivo in Chhattisgarh di un primo contingente di 2mila uomini del Battaglione Naga (unità paramilitare reclutata nel Nord-Est dell'India presso la minoranza etnica naga). Sono segnali di una escalation nel conflitto interno che coinvolge un'ampia Regione dell'India rurale a cavallo tra cinque o sei stati Centro-Orientali (Andhra Pradesh, Chhattisgharh, Orissa, Jharkhand, Bengala Occidentale, propaggini del Madhya Pradesh). Si stima che tra 70 e 90mila effettivi delle forze paramilitari indiane siano impegnati nelle "operazioni di sicurezza" - in effetti una vera e propria guerra interna - contro il movimento armato di ispirazione maoista genericamente chiamato naxalita. Il Governo del neo-eletto primo Ministro Narendra Modi, insediato in giugno, ha adottato una linea dura contro il Left-wing extremism, "estremismo di sinistra", per usare il linguaggio ufficiale. Il ministro dell'Interno federale Rajnath Singh ha annunciato una "nuova dottrina anti-maoista", presentata a metà settembre. Secondo le nuove linee guida non ci saranno nuovi negoziati con i maoisti, se non dopo che avranno deposto le armi. Saranno invece rafforzate le truppe sul terreno e rafforzate le scuole di guerra antiguerriglia: in particolare 10mila uomini andranno nella Regione Bastar, nel Chhattisgarh Meridionale, una zona di montagne e miniere grande circa come il Belgio, teatro nell'ultimo decennio delle fasi più sanguinose del conflitto, che resta il fronte principale di quella che il Governo definisce "guerra al terrorismo". Il ministro Singh ha fatto il suo annuncio dopo un'informativa dall'Intelligence Bureau (il servizio segreto) secondo cui il movimento maoista è in declino ("ma ci sono segni di ripresa", pare abbia detto il ministro), riferisce la stampa indiana. Il numero di vittime legate al conflitto è in effetti calato, dopo un picco di 1180 morti nel 2010: nel 2013 il South Asia Terrorism Portal contava 421 vittime (in lieve aumento però

INDIA

Generalità Nome completo:

Repubblica dell’India

Bandiera

127

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Hindi, inglese e altre 21 lingue

Capitale:

Nuova Delhi

Popolazione:

1.237.000.000

Area:

3.287.594 Kmq

Religioni:

Induista (80,45%), musulmana (13,43%), cristiana (2,34%), sikh (1,87%), buddista (0,77%)

Moneta:

Rupia

Principali esportazioni:

Tessuti, gioielli, prodotti dell’ingegneria e software

PIL pro capite:

Us 3.843

rispetto alle 367 del 2012), e fino a tutto settembre 2014 ne contava 264 (di cui 112 civili, 69 forze di sicurezza, 83 maoisti). Nell'ottobre 2014 il portavoce del Cpi-Maoist nella Regione Bastar ha confermato che il movimento è in difficoltà. Il Governo però annuncia una guerra senza quartiere. Restano sullo sfondo le profonde ingiustizie che alimentano il conflitto nell'India rurale.


I partiti della galassia naxalita affermano di battersi per i diritti delle masse rurali, per sviluppare "zone liberate", e in ultima istanza per instaurare in India la dittatura del proletariato. Denunciano lo Stato che espropria terre e foreste togliendole ai nativi per darle in concessione a grandi multinazionali che sfruttano le risorse naturali. I giovani adivasi (nativi) che si uniscono alla guerriglia combattono per la terra, le foreste, e per avere giustizia e rispetto. La popolazione rurale dell'India è stata lasciata nella povertà, con poco o nessun accesso a sanità, scuola, stato sociale, infrastrutture di sviluppo agricolo. Lo 'sviluppo' casomai è arrivato sotto forma di esproprio di terre per realizzare grandi progetti,

dighe, miniere, acciaierie. I maoisti dicono di difenderli: è questo che dà loro tanta attrattiva. Dall'altra parte, lo Stato lotta per riprendere il controllo di ampie zone dove i ribelli trovano santuario, off limits per le forze dell'ordine. Anche le grandi imprese sono coinvolte: tra le rivelazioni diffuse da Wikileaks nell'estate 2012, una diceva che Essar, grande gruppo industriale indiano, pagava una "tassa per la protezione" ai gruppi maoisti perché non attaccassero i suoi impianti. L'azienda ha smentito con forza, ma è opinione diffusa che pagare per la protezione sia una pratica comune. Intanto, il conflitto è l'alibi per continuare a lasciare intere Regioni dell'India rurale nel ciclo vizioso di esclusione, sfruttamento, repressione.

Per cosa si combatte

Dai primi anni 2000 l'India si è imposta nella narrativa mondiale come una "storia di successo" dell'economia globale: grande nazione democratica, "economia emergente" che siede tra i G20, potenza atomica con un indiscusso ruolo di potenza regionale. In questi termini è descritta anche l'ultima svolta politica del Paese, incarnata nel suo primo Ministro Narendra Modi, che ha conquistato la maggioranza assoluta alle elezioni legislative 2014. Leader del Partito Nazionale Indiano (Bjp), ultranazionalista e liberista, Modi è una figura politica controversa. Ha promesso un Governo business-friendly, un esecutivo piccolo ed efficiente, meno burocrazia, misure per attirare nel Paese gli investimenti necessari a creare crescita e lavoro. Il fatto è che negli ultimi anni l'economia indiana è rallentata in modo allarmante. Nel primo decennio dei 2000 il Prodotto interno lordo del Paese cresceva in media intorno al 9%. La classe media urbana è cresciuta in modo spettacolare - insieme alle disparità interne. Dal 2011 però la crescita è rallentata al 4,7%, sono crol-

lati gli investimenti e la crescita industriale: dal 15% nel 2010 allo 0,1% del marzo 2014. In questo clima Modi ha stravinto, puntando a privatizzare settori strategici e a espandere attività minerarie e grandi poli industriali. Ed è proprio qui che la "storia di successo" dell'economia globale incontra la guerriglia interna. Un'occhiata alla carta geografica può aiutare. La rivolta armata di ispirazione maoista coinvolge una Regione compresa tra la parte rurale del Bengala Occidentale e del Bihar, nella piana del Gange, al Jharkhand, Orissa, Chhattisgarh nella Regione Centro-Orientale, con propaggini in Andhra Pradesh e Maharashtra. La mappa delle "zone affette da insurrezione maoista" coincide quasi alla perfezione con la Regione chiamata "tribal belt", dove prevale la popolazione indigena: una minoranza di oltre 90milioni di persone, la più povera e marginale della società indiana. Questa Regione a sua volta coincide con la "mineral belt", i territori montagnosi dove si concentrano l'80% del ferro, il 90% della bauxite, uranio, carbone, rame, oro e altri minerali. La mappa dei giacimenti minerari e quella delle

Quadro generale

Cannoni: record di spesa militare

128

Il Consiglio per le acquisizioni della difesa indiano ha approvato nell'ottobre 2014 una notevole serie di acquisti militari: spenderà 13miliardi di dollari per 12 aerei caccia Dornier, 362 veicoli da combattimento, e 6 sottomarini di fabbricazione indigena. Comprerà inoltre da Israele oltre 8mila missili Spike (missili guidati anti-carro) e oltre 300 lanciamissili, un accordo commerciale che da solo vale 525milioni di dollari. "La sicurezza nazionale è una priorità per il Governo", ha detto il ministro della Difesa Arun Jaitley, che è anche ministro delle Finanze. L'India è in assoluto il più grande importatore di armi al mondo, secondo il Sipri di Stoccolma: da sola conta per il 14% delle importazioni mondiali di armamenti, seguita da Cina e Pakistan con circa il 5% ciascuno.

Cala (un po') la malnutrizione

Un terzo dei bambini indiani sotto i 5 anni è sottopeso, rivela un'indagine condotta dal Governo indiano in collaborazione con l'Unicef, e per quanto paradossale bisogna rallegrarsi: è il livello di malnutrizione infantile più basso degli ultimi 25 anni. Infatti la proporzione di bambini indiani sottopeso è scesa dal 45,1 % nel 2005-6 (anno dell'ultimo censimento completo sulla salute delle famiglie) al 30,7% nel 2013-14. L'India continua ad avere il maggior numero di bambini sottopeso al mondo, e il 70% dei bambini sono anemici.


TENTATIVI DI PACE

Infanzia e educazione per uno sviluppo pacifico

I bambini schiavizzati rimangono spesso invisibili, privati del diritto all'istruzione, all'infanzia e alla libertà: questi principi fondamentali devono essere garantiti e la globalizzazione della conoscenza è il primo passo per coinvolgere l'azione globale a sostenere un cambiamento. L'attivista Indiano Kailash Satyarthi ha condiviso con la giovane pakistata Malala Yousafzay il premio Nobel per la pace 2014. Satyarthi è il fondatore dell'organizzazione Bachpan Bachao Andolan, che tramite azioni concrete e dimostrazioni pacifiche, mira a salvare l'infanzia combattendo contro lo sfruttamento minorile. L'organizzazione è impegnata a sensibilizzare l'opinione pubblica indiana e internazionale sul tema del lavoro dei bambini. Con il suo impegno Satyarthi, è riuscito reintegrare socialmente, dal mondo della schiavitù lavorativa, circa 80mila minori.

Narendra Modi

Oggi è osannato come uomo del cambiamento, ma ancora all'inizio del 2014 l'attuale premier indiano, Narendra Modi, era al bando: gli Usa gli negavano il visto, perché considerato responsabile delle terribili violenze avvenute nel 2002 nello stato Occidentale del Gujarat, di cui allora era il capo del Governo. Oltre mille musulmani furono uccisi, quartieri bruciati, donne violentate. Le forze di polizia rimasero a guardare. Più tardi varie indagini documentarono responsabilità di funzionari e dirigenti politici. Modi fu accusato almeno di negligenza, forse di complicità. Ciò non gli impedì di vincere un secondo mandato in Gujarat. Nessun tribunale lo ha mai toccato; nel dicembre 2013 la magistratura ha rifiutato di processarlo, per insufficienza di prove. Per molti Narendra Modi resta l'esponente più estremo di un partito (il Bjp, Partito Nazionale Indiano) fondato su un'ideologia identitaria chiamata hindutva, supremazia della cultura hindu. Altri però vedono in Modi il leader che ha fatto del Gujarat uno degli stati più prosperi del Paese. Così, messo in sordina il nazionalismo hindu, oggi Modi si presenta come governante pragmatico e business friendly. E agli occhi del mondo le vecchie macchie sono lavate.

129

(Vadnagar, 17 settembre 1950)

popolazioni native si sovrappongono: è questa la radice del conflitto. I protagonisti sono diversi, ma tutti chiamati naxaliti da una famosa rivolta avvenuta nel 1967 nel villaggio di Naxalbari, nel Bengala Occidentale, contro lo sfruttamento agrario; guidato da un Partito comunista maoista, quel movimento fu duramente schiacciato negli anni '70. Il conflitto attuale, che ne riprende l'ispirazione, è cominciato negli anni '90 sulla spinta di alcune sigle eredi del vecchio partito: in Andhra Pradesh il People's War Group (Gruppo della guerra di popolo) e in Bihar il Maoist Coordination Centre e altri. Nel 2004 le sigle citate si sono fuse nel Cpi-maoist, Partito comunista maoista (messo fuorilegge), ed è cominciata allora una fase calda del conflitto. Questa volta i militanti - foot soldiers - sono per lo più «tribali», anche se la leadership sono persone istruite e di casta alta. Oggi il Cpi-maoist è presente in ampie zone del Chhattisgarh, Jharkhand,

I PROTAGONISTI

Orissa, Bihar; altre sigle sono presenti in zone limitrofe. Lo Stato ha dato una risposta principalmente militare, creando scuole di anti-guerriglia e mobilitando i corpi paramilitari: la Central Reserve Police Force (che ha creato i corpi speciali CoBra), la Border Security Force. Ha anche armato milizie irregolari: come la Salwa Judum creata a Chhattisgarh nel 2005, che ha seminato il terrore nei villaggi nativi con raid, incendi, stupri, uccisioni, costringendo 350mila persone a sfollare . Nel 2009 il Governo ha lanciato una «operazione interstatale coordinata» nota come Green Hunt, "Caccia verde". Secondo gli esperti del South Asia Terrorism Portal però negli ultimi anni i “successi” dello Stato sono stati dovuti piuttosto a operazioni mirate di intelligence e agli incentivi per deporre le armi. La guerra però continua. La popolazione rurale continua a sopportarne il peso maggiore, mentre attivisti sociali, gandhiani, sindacalisti, avvocati dei diritti umani, sono spesso nel mirino sia dei maoisti che delle forze governative.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL’IRAQ RIFUGIATI

401.417

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SIRIA

146.200

GIORDANIA

55.509

IRAN

43.268

SFOLLATI PRESENTI NELL’IRAQ 954.128 RIFUGIATI ACCOLTI NELL’IRAQ RIFUGIATI

246.298

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SIRIA

212.809

TURCHIA

15.496

PALESTINA

9.992


Non solo Isis

Il ruolo del sedicente stato islamico nella presa di Mosul è stato esagerato? Questa l’opinione di Munqith Dagher, per il quale i jihadisti non sarebbero più del 20% del totale delle forze sul campo. E gli altri? Secondo Dagher, che dirige un quotato istituto di ricerche e sondaggi a Baghdad, una parte notevole l’avrebbero avuta ex ba’athisti, capi tribù locali, ed ex ufficiali dell’esercito iracheno. Non è l’unico a pensarla così. Funzionari dell’intelligence Usa, coperti dall’anonimato, parlano del ruolo di fedelissimi dell’ex regime ba’athista, fra cui ufficiali dei servizi segreti e soldati della Guardia repubblicana, appartenenti agli “Esercito degli uomini dell’ordine di Naqshbandi” - uno dei gruppi più attivi nella resistenza contro le forze di occupazione Usa, che farebbe capo all’ex vice Presidente iracheno Izzat al Douri. Secondo un membro del partito Ba’ath iracheno, 14 diverse fazioni, fra cui i ba’athisti, sarebbero state coinvolte nella presa della Provincia di Ninive a giugno.

UNHCR/L. Veide

10 giugno 2014: Mosul, la seconda città irachena, cade in mano all’Isis. La disfatta dell’esercito governativo è totale: i soldati abbandonano armi e postazioni, di fronte all’assalto dei jihadisti, alleati con tribù locali. Il governatore Athil al Nujaifi fugge nella Regione kurda, come 500mila degli abitanti della Provincia di Ninive. Occupati l’aeroporto e installazioni militari, incendiate stazioni di polizia. L’avanzata dell’Isis non si ferma: dopo Tikrit, la Provincia di Diyala, nell’Est, non lontano da Baghdad. Altri 40mila fuggono da Tikrit e Samarra, mentre si combatte per il controllo della raffineria di Baji, la maggiore del Paese. Isis e alleati occupano i posti di confine con Siria e Giordania: il Governo di Baghdad non ha più il controllo delle sue frontiere a Ovest. Cade anche Tal Afar, città strategica fra Mosul e il confine con la Siria. Dal 5 al 22 giugno l’Onu stima in oltre 757 le vittime civili nelle Province di Ninive, Diyala e Salahuddin. A Baghdad il premier Maliki respinge le richieste di un Governo di unità nazionale, nonostante la gravità della crisi. I sunniti chiedono che si faccia da parte, ma ormai anche Stati Uniti e Iran hanno deciso di scaricarlo. Il nuovo Parlamento, insediatosi il 1° luglio, elegge Presidente della Repubblica il kurdo Fuad Mas’um, che affida l’incarico di formare il Governo a Haider al Abadi. Maliki alla fine rinuncia. Il nuovo esecutivo ottiene la fiducia del Parlamento l’8 settembre, ma è poco più che un reimpasto rispetto al precedente. Elogiato come “inclusivo” da Washington, in realtà è sostenuto dalle stesse forze che hanno dominato l’Iraq del dopo-Saddam. I kurdi accettano di farne parte con riserve - e dietro forti pressioni americane. Intanto l’avanzata dell’Isis nel Nord continua, e travolge non solo l’esercito iracheno ma anche i Peshmerga kurdi. Con la presa di tre enclavi kurde nel Nord, ai primi di agosto, i jihadisti sono a mezz’ora di auto da Irbil, capitale della Regione kurda. Arriva la svolta degli Stati

IRAQ

Generalità Nome completo:

Repubblica Irachena

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo, curdo

Capitale:

Baghdad

Popolazione:

33,42 milioni (2013)

Area:

437.072 Kmq

Religioni:

Musulmana (sciita, sunnita); minoranze: cristiani, yazidi, sabei

Moneta:

Dinar iracheno

Principali esportazioni:

Petrolio

PIL pro capite:

Us 6.669

Uniti: il 7 agosto il Presidente Obama autorizza attacchi aerei “mirati” sull’Iraq. Segue l’invio di “consiglieri militari” a sostegno delle forze irachene, mentre Washington inizia a lavorare a un’”ampia coalizione” contro l’Isis, allargata ai Paesi del Medio Oriente (esclusi Siria e Iran). I jihadisti avanzano anche nell’Ovest: con il controllo della maggior parte della valle dell’Eufrate, sono ormai quasi alle porte da Baghdad. Si teme per la capitale irachena, nonostante i bombardamenti aerei continuino. Ma i loro effetti sono limitati, è costretto ad ammettere il Pentagono.


sicurezza), alienando la componente sunnita, in particolare nell’Ovest e nel Nord-Ovest, preparando così il terreno all’avanzata dell’Isis. La situazione attuale, molto fluida e con parti notevoli del Paese fuori dal controllo del Governo centrale, suscita seri dubbi sulla possibilità che l’Iraq possa mantenere la sua integrità territoriale. In ogni caso, le sue sorti dipendono ormai da come si evolverà la situazione regionale, in particolare dagli esiti del conflitto in Siria, nonché dall’atteggiamento di Tehran, alleata di Damasco, ma attualmente impegnata nei negoziati con Stati Uniti e Unione Europea sul proprio dossier nucleare.

132

Gli effetti destabilizzanti dell’invasione del marzo 2003 e del rovesciamento del regime sono stati amplificati dallo sconvolgimento degli equilibri cui il Medio Oriente ha assistito negli ultimi anni - in particolare dal conflitto nella vicina Siria. Stretto fra due vicini ingombranti, Iran e Turchia, l’Iraq post-americano, dove è forte l’influenza di Tehran, e dove non c’è mai stato un processo di riconciliazione nazionale, vede le sue diverse componenti influenzate da quelle stesse parti esterne impegnate nel conflitto siriano (in primo luogo Iran, Arabia saudita, e Turchia). Il Governo del premier Nuri Al Maliki, in particolare, ha contribuito in modo determinante all’instabilità politica (con ricadute dirette sulla

Per cosa si combatte

I kurdi verso l’indipendenza?

“L’Iraq esiste solo nella mente di chi sta alla Casa Bianca”: queste le parole di Masrur Barzani, capo dei servizi di intelligence della Regione kurda, nonché figlio del suo Presidente, Mas’ud Barzani. Indipendenza per il Kurdistan? La cosa certa è che il vuoto politico seguito all’avanzata dell’Isis nel Nord-Ovest del Paese ha consentito ai kurdi di espandere le loro rivendicazioni territoriali. E di passare ai fatti - prendendosi Kirkuk, città da sempre oggetto di contesa con Baghdad, nonché importante centro petrolifero, oltre a due giacimenti che insieme producono 400mila barili al giorno di greggio. Secondo il premier del Kurdistan, Nechirvan Barzani, è molto difficile che l’Iraq possa tornare alla situazione precedente l’avanzata dell’Isis. Intanto la Regione kurda ha iniziato a esportare il suo petrolio, e a pompare quello di Kirkuk nel suo oleodotto - fra le proteste di Baghdad.

© Fabio Bucciarelli / MEMO

Già parte dell’Impero Ottomano, poi sotto mandato britannico (1920), nel 1932 l’indipendenza. Nel luglio 1958 un golpe rovescia la monarchia. Un secondo, nel febbraio 1963, porta al potere il Ba’ath, partito nazionalista arabo. Presto estromessi, i ba’athisti tornano il 17 luglio 1968, instaurando il regime del partito unico. Nel settembre 1980, Saddam Hussein, Presidente dal luglio 1979, attacca l’Iran, dove a febbraio la Rivoluzione Islamica dell’Ayatollah Khomeini ha rovesciato lo Scià. Inizia una guerra sanguinosa; l’Occidente si schiera con Baghdad. Finito il conflitto (agosto 1988), l’Iraq è al disastro, debitore verso i Paesi del Golfo, che ne hanno finanziato l’avventura militare. Il 2 agosto 1990, Saddam invade il Kuwait, accusato di abbassare il prezzo del petrolio per indebolire l’economia irachena. Il 6 agosto embargo dell’Onu, per costringere Baghdad a ritirarsi. 17 gennaio 1991, la Guerra del Golfo: una coalizione di 34 Paesi autorizzata dal Consiglio di Sicurezza attacca l’Iraq. Il 3 marzo il cessate il fuoco: ma le sanzioni restano finché l’Onu non

certificherà che l’Iraq non possiede più “armi di distruzione di massa”. L’embargo devasta il Paese, rafforzando il regime di Saddam, che Washington vuole rimuovere. Il pretesto sono le “armi di distruzione di massa”: il 20 marzo 2003 Stati Uniti e Gran Bretagna invadono l’Iraq, anche senza l’Ok del Consiglio di Sicurezza. Baghdad cade il 9 aprile. L’occupazione del Paese è presto avallata dall’Onu. Ma il precipitare degli eventi spinge Washington a “restituire la sovranità” agli iracheni. A fine giugno 2004 si insedia un Governo a interim guidato da Iyad Allawi, mentre l’Onu legittima la “Forza multinazionale”, sotto comando Usa, il cui mandato sarà prorogato annualmente. Il 30 gennaio 2005 prime elezioni per un “Governo di transizione”. Il 15 ottobre è approvata la nuova Costituzione, il 15 dicembre gli iracheni tornano a votare. Nel maggio 2006 il nuovo Governo guidato da Nuri al Maliki: coalizione di partiti sciiti (religiosi) e kurdi. Saddam, catturato nel dicembre 2003, viene giustiziato tre anni dopo.

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

La soluzione è ancora troppo lontana

A dieci anni dall'invasione di Stati Uniti e Regno Unito, le speranze di una pacificazione nel Paese si sono allontanate. Allo stesso tempo, è bene ricordare le molte iniziative locali che, in una situazione di conflitto violento, continuano a impegnarsi per costruire una società irachena democratica e dove i diritti umani vengano rispettati. La Rete La'Onf (nonviolenza in arabo), attiva dalla metà degli anni duemila anche grazie al sostegno della organizzazione italiana Un Ponte per, raccoglie circa un centinaio di organizzazioni locali irachene. A ottobre e novembre, con il sostegno di Un Ponte Per, una delegazione della società civile irachena ha incontrato organizzazioni e istituzioni europee, e ha potuto portare la voce di un ”altro Iraq”. Della delegazione facevano parte attivisti di diversa provenienza e origine etnica e religiosa. A Ginevra gli attivisti hanno seguito la Universal Periodic Review dell'Onu sulla situazione dei diritti umani nel Paese, documentando violazioni e abusi governativi.

Haider al Abadi

Lo sciita “moderato” che dovrebbe riuscire a tenere insieme un Iraq ostaggio di conflitti etnici e confessionali, con una parte consistente del territorio fuori dal controllo del Governo centrale, fra i bombardamenti della “coalizione”, è un ingegnere elettrico che ha vissuto a lungo in Gran Bretagna. Nato nel 1952 a Baghdad, si laurea nel 1975, poi va a Manchester per un dottorato. In esilio perché membro di al Da”wa, partito religioso sciita di opposizione al regime di Saddam, fa il consulente industriale. Rientrato nel 2003, è ministro delle Comunicazioni nel primo “Governo” nominato dalle autorità occupanti nel settembre 2003. Deputato dal 2006, presiede varie commissioni parlamentari, fra cui l’Economia e le Finanze. A differenza del suo predecessore, e compagno di partito, Nuri al Maliki, parla un inglese fluente, e capisce meglio l’Occidente, dicono alcuni diplomatici occidentali. Ma le sue posizioni politiche non sono molto diverse - come la sua base, radicata per lo più fra gli sciiti del Sud. Sulla lotta all’Isis si è espresso in termini inequivocabili. “Bombardateli”, aveva detto rivolto agli Stati Uniti ancor prima di ricevere l’incarico, “o chiederemo all’Iran di farlo”.

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(Baghdad, 25 April 1952)

© Fabio Bucciarelli / MEMO

Nel febbraio 2006 un attentato contro la moschea sciita di Samarra innesca una guerra civile fra sunniti e sciiti. La presenza militare Usa intanto sale a quasi 170mila uomini. Il 14 dicembre 2008 Stati Uniti e Iraq firmano lo Status of Forces Agreement : tutte le truppe Usa si ritireranno entro fine 2011. Le elezioni legislative del marzo 2010 vengono vinte di strettissima misura dall’alleanza nazionalista dell’ex premier Allawi, ma il nuovo Governo nasce (incompleto) solo a dicembre, e a guidarlo sarà di nuovo Maliki, riuscito a unificare gli sciiti. Il 18 dicembre 2011 gli ultimi soldati Usa lasciano l’Iraq. La fase post-americana parte tuttavia con una grave crisi politica. Un mandato di arresto per “terrorismo” contro Tariq al Hashimi, uno dei vicepresidenti della Repubblica, innesca un ciclo di violenza incontrollata che insan-

I PROTAGONISTI

guina il Paese. Presto l’instabilità politica diventa paralisi. I sunniti iracheni si sentono sempre più emarginati dal Governo del premier Maliki (sciita), che continua ad accentrare poteri e controlla l’intero apparato di sicurezza. Dal dicembre 2012 la protesta, inizialmente pacifica, fa pensare a una “primavera araba” irachena. Ma la repressione delle forze governative in pochi mesi incendia le zone sunnite, dove inizia la rivolta armata. Nella Provincia di Anbar, in particolare, esponenti politici e religiosi invitano i rivoltosi a imitare i “fratelli siriani”, e a rovesciare il Governo di Baghdad. In mezzo a una violenza che non dà tregua, si tengono prima elezioni provinciali, quindi politiche. A vincere queste ultime (30 aprile) è di nuovo la coalizione di Maliki, che mira a un terzo mandato. Ma ad Anbar in molte zone non si è potuto votare: la città di Falluja e parte di Ramadi, capitale della Provincia, sono ormai controllate dai jihadisti del sedicente stato islamico.


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Come leggere le Mappe

Nella Mappa Onu, qui sopra, troverete solamente indicato lo Jammu and Kashmir poichè si tratta dell’antico nome dell’intera area contesa da India, Pakistan e Cina. La Mappa, qui a destra, indica invece la spartizione di fatto dei territori da parte dei suddetti Stati, con diversa denominazione, mai riconosciuta a livello internazionale.


Situazione attuale e ultimi sviluppi

La violenza torna in primo piano in Kashmir, il territorio all'estremo Nord-Ovest del subcontinente indiano, teatro di una rivolta nazionalista interna e allo stesso tempo conteso tra India e Pakistan. Nei primi mesi del 2014 si sono moltiplicati gli scontri lungo la Linea di Controllo, la frontiera Si chiama Loc, acronimo di Line di fatto che separa lo stato di Jammu e Kashof Control, "Linea di Controllo". mir, sotto sovranità indiana, dai territori di Azad Separa la Regione del Kashmir Kashmir, Gilgit e Baltistan sotto il controllo del sotto sovranità indiana da quella Pakistan. Sono ripresi di intensità gli scontri tra sotto il controllo del Pakistan: era truppe indiane e miliziani armati provenienti dal la linea su cui erano assestati i territorio controllato dal Pakistan, secondo un rispettivi eserciti al momento del trend ventennale. cessate-il-fuoco che nel 1949, con Nel corso dell'estate però sono avvenuti anche la mediazione dell'Onu, mise fine numerosi scontri tra i due eserciti, in violazione alla prima guerra tra i due Paesi del cessate-il-fuoco concordato nel 2003. È la da poco indipendenti; è monitorato più grave escalation da un decennio, e mentre da una missione Onu. Non è una India e Pakistan si accusano a vicenda di violare frontiera internazionale ricono- gli accordi, la popolazione civile è la prima vitsciuta, perché resta oggetto di tima: all'inizio di ottobre nel Kashmir indiano si rivendicazione. È stata sancita però contavano ormai oltre 1500 sfollati, in fuga dai come confine di fatto nel 1972, villaggi prossimi alla frontiera per sottrarsi agli con gli Accordi di Simla (alla fine scambi di fuoco. di una nuova guerra tra Pakistan A quanto pare neppure l'inondazione del sete India che segnò la nascita del tembre 2014, che ha fatto oltre 500 morti e Bangladesh). La Loc resta permea- lasciato un milione di senza tetto, è bastata bile all'infiltrazione di combattenti a sospendere le ostilità: nonostante le buone armati (dal lato pakistano a quello parole sull'emergenza umanitaria, la tensione indiano), ma per la popolazione resta alta. civile è una barriera insormontabile Il bollettino delle vittime ha ripreso a salire. Seche separa villaggi e famiglie. Tra i condo il South Asia Terrorism Portal 181 persodue lati non funzionano le normali ne sono rimaste uccise nel 2013 (di cui 20 civili, connessioni telefoniche e solo in 61 uomini delle forze di sicurezza indiane e 100 rarissime occasioni si sono avute guerriglieri). visite e ricongiungimenti familiari. Nel 2014 si contano 134 morti fino al 26 ottobre (19 civili, 33 delle forze di sicurezza, 82 guerriglieri). Siamo ancora lontano dal picco di 4500 morti nel 2001, o anche dagli oltre mille del 2006; ma se da allora il Generalità numero delle vittime era in calo Nome completo: Jammu e Kashmir costante (il 2012, con 117 morti, è Bandiera stato in assoluto l'anno meno sanguinoso dal 1990), ora la tendenza è invertita. Da un lato, preoccupa l'evidente ripresa di attività di formazioni come Lingue principali: Hindi, Inglese Hizb-ul-Mojaheddin o Lashkar-e Capitale: Jammu e Srinagar Taiba, organizzazioni "jihadiste" che (rispettivamente capitali hanno base in Pakistan. invernale ed estiva dello Nell'establishment di sicurezza inJammu e Kashmir) diano è convinzione diffusa che il Popolazione: 12.500.000 ritiro delle forze della Nato dall'AfArea: 222.236 Kmq ghanistan entro la fine del 2014 porterà queste organizzazioni a riReligioni: Musulmana ma nella lanciare le loro attività sul 'fronte' regione Jammu prevale la hindu e in quella del del Kashmir. Ladakh quella buddhista Un video circolato nel giugno 2014 Moneta: Rupia conferma i timori: dirigenti di al-Qaeda fanno appello ai musulmani del Principali Frutta, lane di cacheKashmir a unirsi alla «guerra santa» mire, tessuti ricamati, esportazioni: pietre lavorate globale come i 'fratelli' in Siria e in Iraq. Il video promette che «una PIL pro capite: n.d.

KASHMIR

La Linea di Controllo

Generalità Nome completo:

Azad Jammu e Kashmir

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Bandiera

Lingue principali:

Kashmiri, Urdu, Hindko, Mirpuri, Pahari, Gojri

Capitale:

Muzaffarabad

Popolazione:

4.500.000

Area:

13.297 Kmq

Religioni:

Buddista, musulmana, induista, sikh

Moneta:

Rupia

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

n.d.

carovana» di «eroici martiri» dall'Afghanistan arriverà a «liberare il Kashmir». È la prima volta che al-Qaeda si rivolge in particolare al Kashmir. D'altra parte, anche il dialogo politico interno è bloccato. In Jammu e Kashmir restano in vigore le leggi d'emergenza che danno poteri speciali alle forze di sicurezza, la Armed Forces Special Power Act (Afspa) e la Public Safety Act (Psa), le maggiori fonti di abuso verso la popolazione civile. Come sempre, vere vittime dello scontro sono le persone disarmate.


nel giugno 2013; il Pakistan guarda con sospetto il governo insediato a New Delhi nel maggio 2014, guidato dal nazionalista hindu Narendra Modi. Le forze nazionaliste del Kashmir restano divise su questioni strategiche fondamentali. Gli indipendentisti rivendicano il referendum per l’autodeterminazione raccomandato da una risoluzione dell’Onu nel 1948: ma per alcuni "autodeterminazione" significa scegliere tra India e Pakistan; per altri include l'opzione dell’indipendenza, rifiutata sia da New Delhi che da Islamabad. La prima rivendicazione comune però è revocare le leggi speciali, mettere fine alla militarizzazione della vita quotidiana e all'impunità delle forze di sicurezza, fare luce su esecuzioni extragiudiziarie, torture, stupri, o la scomparsa di migliaia di persone. Mentre una generazione cresciuta nel conflitto rivendica libertà ma non si aspetta nulla da un dialogo che si trascina da troppi anni: terreno fertile per nuovi cicli di rivolta.

Per cosa si combatte

Il conflitto del Kashmir è una delle crisi regionali più prolungate del subcontinente indiano. È un conflitto allo stesso tempo interno (all’India) e tra stati (India e Pakistan): e questo fa del verdeggiante Kashmir, circondato da ghiacciai himalayani là dove si toccano India, Pakistan e Cina, una polveriera con implicazioni regionali. Il Kashmir è una delle eredità irrisolte della Spartizione del 1947, quando dalla vecchia India britannica sono nate due nazioni separate, il Pakistan musulmano e l’India multireligiosa e secolare benché a maggioranza hindu. Il principato di Jammu e Kashmir (che includeva Jammu, Kashmir e Ladakh e i territori di Gilgit e Baltistan) fantasticò di restare indipendente ma infine optò per l’India, con un atto formale che ne fece uno stato dell’Unione indiana in un quadro di ampia autonomia. La decisione presa dal locale maharaja Hari Singh (hindu) con l’accordo dei notabili nazionalisti guidati da Sheikh

Abdullah (musulmano) fu sgradita ai dirigenti pakistani, che rivendicavano il Kashmir. La disputa è sfociata nel 1948 nella prima guerra tra India e Pakistan. La linea di cessate-il-fuoco negoziata nel 1949 con la mediazione delle Nazioni Unite è diventata il confine di fatto ("Linea di Controllo", Loc): a Ovest il settore sotto controllo pakistano (circa un terzo del territorio originario), a Est la parte sotto sovranità indiana (capitali Srinagar e Jammu). Una zona di ghiacciai all’estremo Nord (10% del territorio originario) è stata ceduta dal Pakistan alla Cina nel 1962. Le risoluzioni delle Nazioni unite del 1948 e ‘49 chiesero al Pakistan di ritirare le proprie forze dal territorio occupato e sollecitavano un referendum perché i kashmiri potessero decidere il proprio futuro. Il Pakistan non si ritirò, e l’India se ne fece una scusa per non indire mai il plebiscito. Il periodo post indipendenza ha visto un crescente attrito tra le classi dirigenti kashmire

Quadro generale

136

Le parti in causa sono almeno tre: l'India, il Pakistan, e gli abitanti del Kashmir. Per India e Pakistan si tratta di una contesa territoriale: per il Kashmir hanno combattuto due guerre dichiarate (nel 1948-49 e nel 1965) e una non dichiarata (nell’estate del 1999), oltre a una lunga "proxy war" condotta da guerriglieri infiltrati dal Pakistan nel territorio sotto controllo indiano (Islamabad dichiara di dare ai musulmani del Kashmir solo "sostegno morale e politico"). Dall'inizio di questo secolo si sono alternati momenti di escalation e di relativa calma. Nel 2002 le due potenze atomiche hanno schierato i rispettivi eserciti in stato di massima allerta; tra il 2005 e il 2008 hanno avviato il ciclo di dialogo più promettente dal 1947. Nel dicembre 2008 l'attacco terroristico a Mumbai, organizzato dal gruppo jihadista Lashkar-e-Taiba (che ha base in Pakistan), ha riportato il gelo: e benché nell’agosto 2011 siano ripresi i contatti bilaterali, le relazioni restano fredde. L'India diffida del premier pakistano Nawaz Sharif, insediato

Il fronte di guerra più alto del mondo

I simboli contano: il primo Ministro indiano Narendra Modi ha celebrato la festività hindu di Diwali, nell'ottobre 2014, con una visita lampo sul ghiacciaio di Siachen, dove truppe indiane fronteggiano quelle pakistane a 6700 metri di altezza. Il Siachen, tra la catena del Karakorum e il Ladak, alla confluenza tra India, Pakistan e Cina, è il più alto fronte di guerra al mondo. La posizione inaccessibile (e non strategica) ne aveva fatto una terra di nessuno. Finché nel 1984 l'esercito indiano ha cominciato a trasferirvi uomini e attrezzature con un ponte aereo, e ha costruito postazioni lungo il presumibile tracciato della Linea di Controllo che qui segna il confine di fatto tra India e Pakistan. L'esercito pakistano ha risposto facendo altrettanto. Mantenere truppe e attrezzature a quell'altezza è un costo enorme, di denaro (oltre un miliardo di dollari annuo solo dal lato indiano) e di energia: gran parte delle vittime qui non sono dovute a combattimenti ma a gelo e malattie in quelle temperature tra 40 e 50 gradi sotto zero. In passato molti, sia in India che in Pakistan, hanno proposto di smilitarizzare il Siachen: non serve neppure essere pacifisti, basta una valutazione sui costi e l'importanza strategica. Ma il sospetto reciproco finora lo ha impedito.


TENTATIVI DI PACE

Un progetto del Dalai Lama per gestire i conflitti

Cosa succede quando un disastro naturale colpisce una delle Regioni a più alta densità di militari nel subcontinente indiano? Ci si potrebbe aspettare che uomini e logistica siano messi a frutto in una emergenza umanitaria. Il caso del Kashmir dice il contrario. Nel settembre 2014 l'estremo Nord Ovest del subcontinente indiano è stata colpito da alluvioni disastrose. Nel Jammu e Kashmir piogge torrenziali hanno fatto straripare il fiume Jelhum, uno dei cinque affluenti dell'Indo che scendono dalla catena himalayana, allagando la capitale estiva Srinagar. L'intera valle del Kashmir è stata devastata da straripamenti e frane, così come i confinanti territori di Azad Kashmir e Gilgit-Baltistan (sotto controllo pakistano); l'alluvione ha colpito anche più a valle, nella Provincia pakistana del Punjab. Il bilancio a tutto settembre era di almeno 564 morti (284 metà nel Kashmir indiano, 280 in Pakistan) e di un milione di senzatetto. Nel Jammu e Kashmir in particolare almeno 180mila abitazioni sono distrutte o danneggiate, e nella sola Srinagar in ottobre almeno 50mila persone affrontavano i primi freddi di stagione in ripari di fortuna, per lo più moschee o templi.

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Disastri naturali

“Donne in sicurezza, gestione dei conflitti e Pace” (Wiscomp) è un progetto lanciato a Delhi dalla Fondazione per le Responsabilità Universali del Dalai Lama, che intende promuovere la sensibilità di genere e il rafforzamento del ruolo della donna nei settori di pace, sicurezza e affari internazionali, oltre ad occuparsi di gestione dei conflitti e educazione al peacebuilding. Wiscomp interviene per facilitare la costruzione di rapporti pacifici a livello di politiche e di relazioni in aree di conflitto del Sud asiatico, tra India, Pakistan, Nepal e Afghanistan, con una particolare attenzione dedicata al Kashmir. Workshop ed eventi, oltre a fornire uno spazio per l'incontro tra responsabili politici, attivisti per la pace e accademici, incoraggiano giovani e donne ad impegnarsi nella prevenzione dei conflitti e nella costruzione di fiducia fra etnie, religioni e classi sociali. Educare alla pace è di vitale importanza per gestire senza violenza i conflitti e per consentire maggiore consapevolezza ai giovani nell'accettare le differenze.

e il Governo centrale dell’Unione indiana, che ha via via eroso il regime di autonomia del Jammu & Kashmir. La disaffezione è esplosa nel 1989 in una protesta civile che ha coinvolto un ampio schieramento sociale e politico, dall’Università ai sindacati ai partiti nazionalisti. Alla fine di quell’anno risalgono anche le prime azioni armate contro obiettivi governativi a Srinagar: era l'inizio di una ribellione separatista ha raggiunto nei momenti peggiori l’intensità di una guerra civile. La risposta dello stato centrale indiano è stata dura, e l’escalation inesorabile. Il primo gruppo armato, Jammu & Kashmir Liberation Front (Jklf), è stato presto sbaragliato: erano giovani con idee di lotta di popolo, il loro leader Yasin Malik fu arrestato e nel ‘94 il Jklf ha rinunciato alla lotta armata. Altri protagonisti avevano però preso il sopravvento: il Hizb-ul Mojaheddin, braccio armato del partito conservatore (e filopakistano) Jamiat Islami, a sua volta scavalcato da altre sigle (Jaish-e Mohammad, Lashkar-e-Taiba

I PROTAGONISTI

e altre). Erano i primi anni ‘90 e in Kashmir confluivano armi e combattenti provenienti dall’Afghanistan, formati alla jihad ("guerra santa", in senso politico-militare) contro l'Unione sovietica, e sostenuti dal Isi, il servizio di intelligence militare pakistano. Con loro è arrivato in Kashmir un islam di stampo taleban estraneo alla tradizione sufi locale. È arrivato anche il terrore: attentati contro civili, bombe nei mercati, rappresaglie. Gli hindu del Kashmir, i pandit, sono in gran parte fuggiti. Il Governo centrale ha mandato esercito e corpi paramilitari a contrastare i ribelli, la valle è stata militarizzata. È una guerra largamente manovrata da servizi segreti, ma è la popolazione del Kashmir che ha pagato il prezzo più alto: tra 50 e 80mila persone sono morte dal 1989, in gran parte civili. Senza contare migliaia di desaparecidos e una scia di ingiustizie e abusi che hanno travolto le forze sociali, sindacati, forze politiche, gruppi per i diritti umani. Per questo, la pace in Kashmir dipende sia dalle relazioni tra India e Pakistan, sia dalla capacità dell’India di trovare un assetto democratico condiviso con le forze sociali e politiche di questo territorio.


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Come leggere le mappe

La mappa, qui sopra, indica il territorio turco. Qui a destra riportiamo la mappa del territorio transnazionale abitato dai curdi.

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA TURCHIA RIFUGIATI

66.607

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA

24.449

IRAQ

15.496

FRANCIA

10.867

RIFUGIATI ACCOLTI NELLA TURCHIA RIFUGIATI

609.938

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SIRIA

585.601

IRAQ

13.467


Il campo di Domiz

È letteralmente una città di rifugiati. Il campo profughi di Domiz si trova nei pressi della città di Dohuk, nella Regione autonoma del Kurdistan iracheno. Sostenuto dal Governo regionale e dalle organizzazioni umanitarie (soprattutto l'Unhcr), il campo ospita circa 60mila rifugiati del conflitto siriano e iracheno (prevalentemente curdi ma non solo). Alcuni dei profughi vivono nelle fatiscenti tendopoli del campo dall'inizio del conflitto in Siria, quando la Regione era considerata un posto sicuro dove rifugiarsi. Oggi Domiz è diventata la loro casa, nell'attesa di una soluzione che sembra non arrivare e nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale, che non ha mai discusso un piano di reale sostegno ai profughi dei conflitti siriano e iracheno.

© Fabio Bucciarelli / MEMO

La "questione curda" è tornata prepotentemente all'attenzione delle cronache giornalistiche nell'ultimo anno, legandosi a doppio filo al futuro dei conflitti in Siria e Iraq. La città di Kobane nel Kurdistan siriano (Nord della Siria), al confine con la Turchia, è diventata un simbolo mondiale di lotta per la libertà contro i miliziani dell'Is (Stato Islamico), che l'hanno tenuta per mesi sotto assedio. A difenderla strenuamente i combattenti curdi delle Ypg e delle Ypj (le milizie curde composte la prima da donne e uomini e la seconda da sole donne). All'inizio di gennaio i combattenti dello Stato Islamico, che avevano conquistato diversi quartieri della città, issando la loro bandiera nera sulla collina strategica di Tel Shahir, si sono ritirati. La città è stata "liberata" dai curdi che per realizzare questa impresa, hanno potuto contare non solo sull'appoggio dell'opinione pubblica internazionale ma soprattutto sulla copertura dei bombardamenti aerei della coalizione antiIs a guida Usa e sul supporto dei peshmerga curdi iracheni e di alcuni combattenti dell'esercito libero siriano. Nessun coinvolgimento invece da parte della Turchia, accusata di avere sostenuto e garantito supporto logistico ai miliziani dell'Is. Ankara, da decenni impegnata nella repressione dei diritti politici e civili dei curdi che vivono in Turchia, vede come il fumo negli occhi il rafforzarsi dell'esperimento di autonomia curda del Rojava (vedi focus), nel Kurdistan siriano. Kobane è uno dei tre Cantoni (oltre a Cizire ed Efrin) in cui la Regione del Rojava è stata divisa dai curdi all'inizio del 2014. L'avanzata dell'Is in Siria e Iraq ha portato i curdi siriani, legati al Pkk e i peshmerga della Regione autonoma del Kurdistan iracheno a fare fronte unico contro gli jihadisti, superando seppur temporaneamente, antiche divisioni. I peshmerga, dopo la rovinosa ritirata dell'esercito iracheno davanti all'avanzata dell'Is a Mosul, sono diventati il cavallo su cui puntare per l'Occidente. La coalizione internazionale a gui-

KURDISTAN

Generalità Nome completo:

Kurdistan

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Kurmanji, Sorani e molti sotto dialetti

Capitale:

n.d.

Popolazione:

Circa 40.000.000

Area:

Circa 500.000 Kmq

Religioni:

Maggioranza mussulmana sunnita

Moneta:

n.d.

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

n.d.

da Usa li supporta e li arma (compreso il Governo italiano) e i bombardamenti aerei sono stati decisivi nella riconquista da parte dei peshmerga, di Sinjar, a Ovest di Mosul, dove i miliziani dell'Is avevano costretto alla fuga migliaia di Yazidi, una minoranza "braccata" dagli jihadisti con uccisioni di massa, sequestri e riduzione in schiavitù. Nel Nord del Kurdistan iracheno, intorno ad Erbil continuano a rifugiarsi i profughi del conflitto siriano. In particolare il campo di Domiz, a 15 chilometri dalla città curda di Dohuk è uno dei più popolosi campi profughi iracheni.


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Quella del popolo curdo è una lotta per l’autodeterminazione, l’autonomia e il riconoscimento della propria identità e dei diritti civili e politici all’interno degli Stati nazionali. La repressione a cui vengono sottoposti è da sempre durissima. I Governi di Iran, Turchia, Siria e dell’Iraq di Saddam Hussein, hanno sempre cercato di negare la stessa esistenza di questo popolo tentando di cancellarne la cultura, la

storia, la lingua e negando a volte anche il diritto ad un documento d’identità. Torture, processi sommari, incarcerazioni, repressione violenta fanno parte della storia - passata e attuale - di questo popolo che abita un territorio ricco di petrolio e di risorse naturali (il 70% del petrolio dell’Iraq si trova nel Kurdistan iracheno) a cui gli Stati nazionali non hanno alcuna intenzione di rinunciare.

Per cosa si combatte

Il Kurdistan, letteralmente “Paese dei Curdi”, è una vasta area geografica di circa 500mila kmq divisa tra Turchia, Iraq, Siria ed Iran ed abitata a maggioranza dalla popolazione di etnia curda. Si tratta della Regione corrispondente alla parte Settentrionale e Nord-Orientale dell’antica Mesopotamia. Il popolo curdo - di origine indoiraniana - ha la sua lingua, cultura e organizzazione politica ma la sua identità e le libertà fondamentali sono ancora oggi negati. La ricchezza - di petrolio e risorse naturali - del territorio del Kurdistan è senza dubbio una delle principali ragioni per cui la Turchia, la Siria e l'Iran rifiutano a questo popolo il riconoscimento dei più basilari diritti civili e politici, negando di fatto la sua stessa esistenza. Tale negazione ha inizio sotto l’impero Ottomano e continua ancora oggi, nonostante le battaglie di numerose organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch, e delle stesse istituzioni europee: la Commissione contro il Razzismo e l’Intolleranza del Consiglio d’Europa, ha più volte sottolineato come in Turchia non siano garantiti ai curdi diritti basilari quali quello di espressione, assemblea e associazione. In realtà, con la fine della Prima Guerra Mondiale sembrava davvero possibile la nascita di uno Stato curdo indipendente. A prevederlo era il Trattato di Sévres, firmato il 10 agosto 1920, che stabiliva, nell'Anatolia Orientale, la creazione appunto, di un Kurdistan autonomo. Il Trattato non venne però rispettato, a pesare fu soprattutto la forza della nascente Repubblica

turca. Di fatto, il successivo Trattato di Losanna, firmato nel 1923 da Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone, Grecia, Romania cancellò il trattato di Sèvres e i territori abitati dal popolo curdo vennero spartiti tra Turchia, Siria, Iran ed Iraq. Oltre 25milioni di curdi furono dispersi, per la maggior parte, in queste quattro nazioni. Oggi i curdi nel mondo sono circa 45milioni, trasformati di fatto in quattro minoranze e, nel corso degli anni, costretti a subire violenti tentativi di assimilazione in tutti e quattro i Paesi. In Iraq, vivono circa 7milioni di curdi, in gran parte nella Regione autonoma del Kurdistan, che copre circa 85mila Kmq - per i curdi BasurKürdistan, cioè Kurdistan del Sud - ma abitano

Quadro generale

In Iran Curdi impiccati

Continuano le violazioni dei diritti civili e politici della minoranza curda in Iran. Secondo Human Rights Watch “decine di condannati per accuse collegate al terrorismo, inclusi molti curdi iraniani e baluchi sono nel braccio della morte a seguito di processi pieni di violazioni ai diritti alla difesa”. Solo nel mese di dicembre, l’Iran ha impiccato 64 persone di cui 11 erano curdi. Secondo fonti curde, il numero delle esecuzioni è aumentato sotto il nuovo Governo del Presidente Rouhani. Il Rapporto diffuso da Human Rights Watch ha inoltre denunciato che la magistratura iraniana ha continuato a permettere l’esecuzione di detenuti condannati per "moharebeh" (inimicizia a dio) nonostante il codice penale richieda esplicitamente di rivedere e commutare le condanne a morte.

© Fabio Bucciarelli / MEMO

© Fabio Bucciarelli / MEMO


TENTATIVI DI PACE

Una indipendenza di fatto

È la Regione a maggioranza curda nel Nord e Nord-Est della Siria (Kurdistan Occidentale). Non è ufficialmente riconosciuta come autonoma da parte del Governo della Repubblica araba siriana, che ha però concesso ai curdi ampi spazi di autodeterminazione, negati prima dell'inizio della rivoluzione nel 2011. Nel mezzo della sanguinosa guerra civile in Siria, i curdi hanno fatto nascere nel Rojava un esperimento di federalismo democratico che implica l' autosufficienza, il localismo e il pluralismo politico. "Una confederazione di Curdi, Arabi, Siriaci, Aramaici, Turkmeni, Armeni, e Ceceni", come si legge nella Costituzione del Rojava. "Nell'approvare tale Carta - si legge ancora nel testo -, noi adottiamo un sistema politico ed amministrativo civile basato su un contratto sociale che riconcili il ricco mosaico della Siria attraverso una fase di transizione che dalla dittatura, dalla guerra civile e dalle distruzioni porti ad una nuova società democratica in cui siano preservate la vita civile e la giustizia sociale".

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Rojava

L'implosione dell'Iraq e della Siria e l'ascesa dell'islamismo nella Regione ha portato all'improvviso la questione kurda in cima all'agenda della diplomazia internazionale. Le tradizionali rivalità che affliggevano la comunità kurda ed i partiti sorti nei diversi Paesi per rappresentarne gli interessi non sono scomparse. Tuttavia, la guerra e le profonde trasformazioni politiche nell'area hanno aperto ai kurdi spazi politici prima impensabili: i Peshmerga si sono trovati in prima linea, alleati di fatto con Usa, contro la minaccia islamista. Nel Nord della Siria (Rojava) i territori a maggioranza kurda hanno conquistato un'indipendenza di fatto. Qui la forza politica di riferimento è il Partito di Unione Democratica (Pyd), ala siriana del Pkk. L'esperienza della Rojava ha acquistato notorietà durante la battaglia contro l'Isis per il controllo di Kobane: i Kurdi siriani hanno rivendicato la realizzazione di un esperimento democratico, con pari diritti per le donne (peraltro anche impegnate nei combattimenti). Nel dicembre del 2014 una delegazione internazionale in visita alla Regione testimoniava di aver visto all'opera “strutture genuinamente democratiche”, che possono diventare il punto di riferimento per un futuro diverso in Siria e in Medio Oriente.

© Fabio Bucciarelli / MEMO

anche in altre città: Kirkuk, Mosul e la capitale Baghdad. Il Partito Democratico del Kurdistan (Pdk) guidato da Mustafa Barzani si è opposto al regime di Saddam Hussein che ha adottato repressioni brutali contro i curdi: armi chimiche, arresti, uccisioni, sparizioni e deportazioni forzate. In Iraq i due maggiori partiti curdi, il Pdk e il Puk (Unione Patriotica del Kurdistan) di Jalal Talabani, si contendono il dominio del territorio. In Iran vivono circa 12milioni di curdi, musulmani sunniti, in un’area di 140mila kmq chiamata Rojhelat Kurdistan, cioè Est Kurdistan. Con lo scoppio della rivoluzione Komeinista (1979) i curdi iraniani riuniti attorno al Pdki (Partito democratico del Kurdistan Iraniano) fondato da Abdul Rahman Ghassemlou, hanno lottato per ottenere una loro forma di autonomia all’interno dello Stato. Il potere sciita ha dato il via ad una dura repressione che ha causato circa 10mila morti. In Siria, i curdi vivono in gran parte nel-

I PROTAGONISTI

la Regione chiamata Rojava, situata a Nord Est del Paese in un’area di circa 40mila kmq abitata da 3 milioni di curdi. Fino all’inizio della guerra civile nel 2011, i curdi non avevano alcun riconoscimento da parte del governo di Damasco che ha invece cominciato a concedere ampi margini di autonomia al Pyd, il principale partito curdo siriano, con l’aggravarsi del conflitto. In territorio turco si trova la gran parte dell’area del Kurdistan, circa 250mila kmq. Ci vivono 12milioni di curdi che chiamano la regione Bakur- Kurdistan, cioè Nord-Kurdistan. Ai curdi in Turchia non è riconosciuto nessun diritto, la politica del governo di Ankara è quella di negare la loro stessa esistenza. Nel 1979 il leader curdo Abdullah Ocalan fonda con altri il Pkk, Partito dei lavoratori curdi, organizzazione politica e militare che comincia la sua lotta armata contro il governo turco per ottenere il riconoscimento dell’identità del popolo curdo. La reazione della Turchia è stata ed è ancora oggi durissima: perquisizioni forzate, distruzione di villaggi, arresti ingiustificati e torture.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL PAKISTAN RIFUGIATI

48.867

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI AFGHANISTAN

16.825

CANADA

10.641

REGNO UNITO

5.297

SFOLLATI PRESENTI NEL PAKISTAN 747.498 RIFUGIATI ACCOLTI NEL PAKISTAN RIFUGIATI

1.616.507

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI AFGHANISTAN

1.615.876


Lo Stato Islamico cerca reclute

Lo Stato Islamico (Is), la formazione jihadista che opera in Iraq, ha distribuito opuscoli a Peshawar e nelle Province pakistane al confine con l'Afghanistan, invitando al reclutamento e facendo appello alla popolazione locale per sostenere la creazione di un califfato islamico. La notizia ha creato preoccupazione nella società civile pakistana, soprattutto tra le organizzazioni che difendono i diritti umani. Si chiede quindi al Governo di bloccare la diffusione della propaganda dell’Is. Di fronte al pericolo di infezione dell’ideologia dell’Is nella società pakistana, avvocati a attivisti spiegano che “il Paese vive già una situazione a rischio per la presenza di gruppi estremisti e terroristi”. Organizzazioni e movimenti della società civile si sono coalizzati per contrastare “l’ideologia di morte”, portando nel campo della cultura e dell’editoria una visione basata su valori come il rispetto della dignità e dei diritti umani.

© Diego Ibarra Sánchez / MEMO

Il Pakistan di Nawaz Sharif si ritrova imbrigliato in tensioni politiche e instabilità sociale che mettono a repentaglio le riforme e il risanamento dell'economia, punti su cui il premier eletto a maggio 2013 aveva incentrato il suo programma elettorale. In quell’anno, per la prima volta nella storia del Paese, due Governi eletti democraticamente si sono alternati alla guida della nazione. L’amministrazione del Ppp (il Pakistan Peoples Party), ha ceduto il potere a quella guidata dalla Pml-N (Pakistan Muslim League - Nawaz), mentre ad Asif Ali Zardari, primo Presidente democraticamente eletto della Repubblica islamica del Pakistan è subentrato Mamnoon Hussain. Sharif, politico e uomo d'affari già noto sulla scena per precedenti esperienze di Governo (1990-93 e 1996-99), si è ritrovato ben presto nel bel mezzo di una crisi politica, sociale e istituzionale che ha paralizzato la nazione. In primis, la questione di come contenere la minaccia terroristica dei gruppi talebani pakistani ha generato forte contrapposizione fra il Governo Sharif, fautore di una soluzione negoziale, e l'establishment militare, propenso al “pugno di ferro”. Nella seconda metà del 2014 il Governo ha poi dovuto fronteggiare una imponente e prolungata protesta di piazza, lanciata da movimenti e partiti che chiedevano nuove elezioni. Di fronte a uno stallo politico durato alcuni mesi, condito da scontri di piazza e dalla morte di tre manifestanti, il Paese si è ritrovato nuovamente sull'orlo dell'autoritarismo. Il dissenso popolare è guidato dall'ex stella del cricket Imran Khan (del “Pakistan Thareek-eInsaf”) e dal mullah Tahirul Qadri (leader del “Pakistani Awami Thareek”), che già avevano contestato la vittoria democratica di Sharif, accusandolo di brogli elettorali. Con il blocco della vita pubblica, la popolazione pakistana ha visto passare in secondo piano le fondamentali questioni economiche, come mancanza di elettricità, inflazione, disoccupazione, corruzione, mentre la nazione, resta attraversata da una pesante crisi energetica. Sul versante esterno, restano intanto burrascosi i rapporti con il vici-

PAKISTAN

Generalità Nome completo:

Repubblica Islamica del Pakistan

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Inglese, urdu, punjabi, sindi, pashto, baluchi

Capitale:

Islamabad

Popolazione:

179.200.000

Area:

803.940 Kmq

Religioni:

Musulmana (95%), in maggioranza sunniti; cristiana (2%), indù (1,6%)

Moneta:

Rupia pakistana

Principali esportazioni:

Tessuti, cotone, pesce, frutta

PIL pro capite:

Us 3.056

no Afghanistan, pur essendo questo un ambito dove Sharif ha profuso grandi sforzi nel tentativo di riavviare i colloqui di pace fra Kabul e gli insorti, sostenendo la stabilizzazione del Paese. Quanto mai ardua anche la via di normalizzare i rapporti con l'India - dopo l'elezione del leader nazionalista Narendra Modi - e le tensioni ricorrenti nell'area contesa del Kashmir. C'è infine la crescente violenza che colpisce le minoranze cristiane e indù.


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Il Pakistan è oggi il “centro nevralgico di alQaeda” - dicono gli analisti del Pentagono - ed è un Paese chiave per la lotta al terrorismo internazionale. Inoltre, per il commercio internazionale e l’industria petrolifera, lo Stato resta al centro di interessi (e dunque di conflitti) strategici, geopolitici ed economici di vasta portata. Tanto che, pur essendo nell’orbita dell’alleanza atlantica (gli Usa finanziano programmi di cooperazione militare e civile), perfino la Cina ci ha messo gli occhi sopra: Pechino ha avviato una serie di investimenti e progetti di cooperazione economica, solida base per costruire una amicizia politica e diplomatica. Il Pakistan, d’altro canto, affacciandosi sull’Oceano Indiano, è la strada privilegiata per far passare gli oleodotti che trasportano il greggio dai Paesi dell’Asia centrale: Turkmenistan, Kazakistan e Uzbekistan, che detengono le più vaste riserve al mondo di gas e petrolio. Per questo, attorno alla Regione centroasiatica (appena uscita dall’orbita russa) e al quadrante afgano-pakistano, si celebra oggi il nuovo “Grande gioco” (espressione usata nel sec. XIX) delle potenze mondiali, in Occidente e in Oriente, per accaparrarsi alleanza politiche e dunque sicuro approvvigionamento di risorse energetiche. Sullo scacchiere pakistano si preannuncia l’ennesimo confronto fra i due colossi mondiali, Stati Uniti e Cina, interessati ad estendere la loro influen-

za politica in una Regione di grande importanza strategica. Ma in Pakistan vi sono anche tensioni di natura religiosa. Il Pakistan è uno stato a maggioranza musulmano sunnita, ma nel Paese vive anche una minoranza sciita di trenta milioni di fedeli, che fanno del Pakistan la seconda nazione sciita al mondo dopo l’Iran. Il conflitto religioso in atto nel Paese vede da una parte i sunniti appoggiati dall’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo, dall’altra gli sciiti appoggiati dall’Iran. Entrambi i fronti fanno leva sul vicino conflitto afgano, entrambi usano le moschee come luoghi di propaganda e indottrinamento, entrambi coprono o favoriscono organizzazioni terroristiche, entrambi cercano di silenziare le voci dell’islam moderato e delle minoranze religiose. Proprio le minoranze religiose (soprattutto cristiani, indù e ahmadi) sono spesso nel mirino di attacchi di massa: l’ultimo anno ha visto un aumento della violenza. Entrambi gli schieramenti trovano appoggi in partiti politici, in membri del Governo pakistano, in settori delle forze armate e dei servizi segreti. In mezzo a queste tensioni, a cercare di governarle e depotenziarle, il resto del Governo, delle forze armate e dei servizi segreti, ovvero quanti vogliono costruire un Pakistan unito, laico e democratico, rispettoso della legalità e dei diritti umani.

Per cosa si combatte

Tensioni vecchie e nuove, fra democrazia e struttura feudale, fra modernizzazione e tribalismo, fra lobby militari e forze islamiste: il Pakistan, la “Terra dei puri”, è alle prese con una profonda instabilità interna che ha radici molto antiche. Il Paese, considerato dalle cronache giornalistiche solo in casi clamorosi, come l’uccisione di Osama bin Laden, è invece uno dei protagonisti assoluti dello scacchiere politico internazionale. Situato nel cuore dell’Asia Meridionale, il Pakistan nasce ufficialmente il 14 agosto 1947. Fino ad allora aveva fatto parte dell’India britannica, poi divisa in due diversi Stati: il Pakistan, a maggioranza musulmana, e l’India, a maggioranza indù. Dall’indipendenza, il Pakistan è sempre stato in conflitto con l’India per il controllo del territorio del Kashmir ma questa non è l’unica causa di destabilizzazione per il Paese. La sua stessa struttura di federazione, suddivisa in 4 Province, 2 Territori e 107 Distretti, con una composizione etnica estremamente frastagliata, ne fanno un territorio di difficile gestione, diviso tra una parte meridionale, organizzata in modo più moderno, e una parte settentrionale, profondamente tribale e attraversata da antiche spinte indipendentiste. A livello sociale e culturale, la nazione resta ancorata alla antica struttura feudale, che informa le dinamiche economiche, le relazioni e l’intero tessuto sociale, spaccato fra élites che detengono il potere economico e politico e masse di diseredati, ridotte in stato servile. Inoltre,

negli equilibri sociali e politici, hanno sempre contato molto i militari, che rappresentano uno dei “poteri forti”, sempre presenti nei momentichiave della storia nazionale: leader militari, fra l’altro, hanno governato direttamente il Paese tramite un golpe, come nel caso del dittatore Zia-ul-Haq (negli anni ‘80) e, più di recente, del generale Pervez Musharraf (dal 2000 al 2008). L’altro elemento che caratterizza fortemente, sin dall’origine, la storia e la società pakistana è l’islam, nelle sue diverse forme e declinazioni: dopo l’Indonesia, il Paese è il secondo stato al mondo per numero di fedeli musulmani (il 95% su 180milioni). Benché il fondatore della patria, il leader musulmano Ali Jinnah, abbia voluto disegnare una nazione laica e democratica - così rappresentata nella Costituzione - negli anni successivi i movimenti e i partiti islamici integralisti hanno condizionato in modo sempre più incisivo la politica, la società, il sistema giudiziario e l’istruzione pubblica. Gli islamisti, soprattutto sotto il governo di Zia-ulHaq, hanno ottenuto, in cambio dell’appoggio politico al dittatore, provvedimenti legislativi filo-islamici che hanno mutato il volto della nazione, penalizzando i diritti umani e libertà individuali. Il tasso di conflittualità è altissimo. Il Paese vive forti tensioni interne: la crisi nella Provincia del Belucistan dura dagli anni ’70; gruppi islamisti, con scuole di pensiero diverse, cercano di imporre la loro visione; sono sempre vive le tensioni fra componenti etniche e triba-

Quadro generale

In lotta contro la polio

È una campagna di prevenzione sanitaria che spesso trova opposizione nella mentalità tribale e settaria dei gruppi talebani: la vaccinazione contro la poliomielite ha coinvolto, in un anno, 850mila bambini minori di 5 anni, specialmente nella Provincia pakistana del Beluchistan, vasta Regione dell’Asia del Sud, politicamente suddivisa tra Iran, Afghanistan e Pakistan. L’iniziativa è stata intrapresa perché dall’inizio del 2014 in Pakistan sono stati registrati 166 casi di poliomielite. Secondo l’ufficio locale dell’Unicef, a intralciare le operazioni sanitarie nelle zone contagiate sono stati problemi culturali che hanno generato atti di violenza contro gli operatori sanitari. Il Pakistan è uno dei tre Paesi del mondo, insieme a Nigeria e Afghanistan, dove la polio è endemica e i più colpiti sono i minori di 5 anni.

Morire per “blasfemia”

Anche se si configura in tutto il mondo come reato di opinione, punibile con pochi anni di reclusione, la “blasfemia” continua a mietere vittime in Pakistan. Il reato è codificato in un articolo del Codice penale che prevede l’ergastolo o la pena di morte per il vilipendio all’islam, al Corano e al profeta Maometto. Secondo i dati della rete di Ong pakistane “Awaze-Haq Itehad”, 1438 persone sono state accusate di blasfemia tra il 1987 e l’ottobre 2014. Le minoranze religiose - meno del 4% della popolazione pakistana costituiscono il 50% degli accusati di blasfemia (501 ahmadi, 182 cristiani, 26 indù, 10 vittime di cui non è accertato il credo). A partire dal 1990, 60 persone sono state vittime di esecuzioni extragiudiziali, per accuse di blasfemia: 32 erano di minoranze religiose e 28 musulmani. 20 sono stati uccisi dai poliziotti o mentre erano in custodia, 19 uccisi in attacchi della folla.


TENTATIVI DI PACE

Un nobel per tutti i bambini senza una voce

L'attentato alla sua vita non è stato sufficiente a fermarla, Malala ha continuato la sua campagna per i diritti all'istruzione delle donne e di tutti bambini del mondo. Nell'ottobre del 2014 le viene assegnato il premio Nobel per la pace insieme all'attivista indiano Kailash Satyarthi, diventando così la più giovane vincitrice del premio. Nel discorso tenuto alla premiazione, Malala ha sottolineato l'importanza che ha questo premio Nobel vinto insieme a Satyarthi, una persona proveniente da un Paese storicamente contrapposto e con credo religioso differente. Questo premio è una dedica a tutti i bambini per i quali ogni giorno lotta e che tuttora non riescono ad andare a scuola. Per Malala il Nobel non è che l'inizio, anzi è un’iniezione di coraggio e fiducia da parte di migliaia di persone a non fermarsi, continuando a lottare affinché sia rispettato il diritto di ogni bambino, indipendentemente dal genere, di ricevere un' istruzione adeguata.

Malala Yousafzai Per la prima volta nella storia il Nobel per la Pace è stato assegnato a un cittadino pakistano. Nel 2014 è stata Malala Yousafzai a riceverlo, insieme con l’attivista indiano Kailash Satyarthi. La motivazione del Premio recita: “I bambini devono poter andare a scuola e non essere sfruttati per denaro. Nei Paesi più poveri del mondo, il 60% della popolazione ha meno di 25 anni d’età ed è un prerequisito per lo sviluppo pacifico del mondo che i diritti dei bambini e dei giovani siano rispettati”. La ragazza è divenuta celebre per essersi opposta ai talebani, promuovendo, sin dall’età di 12 anni, il diritto allo studio per le donne nella valle dello Swat (Pakistan del Nord) e curando un blog sulla Bbc. Divenuta, per questo, obiettivo dei militanti, nell’ottobre 2012 è stata vittima di un attentato rivendicato dai talebani. Ferita alla testa e al torace, è stata trasferita a Londra e si è miracolosamente ripresa. Oggi è la persona più giovane di sempre ad aver ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Malala prosegue la sua continua campagna in difesa del diritto all’istruzione, portata avanti nelle sedi internazionali come la Nazioni Unite. Dopo il riconoscimento ottenuto, è tornato in auge in Pakistan il dibattito pubblico su temi come i diritti delle donne.

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(Mingora, 12 luglio 1997)

© Diego Ibarra Sánchez / MEMO

li diverse della società, evidenti, ad esempio, nelle stragi della città di Karachi. Ma il Pakistan subisce anche forti pressioni esterne: la comunità internazionale si è fatta più presente, con programmi di cooperazione strategica ed economica, da quando il Paese è divenuto un hub per il terrorismo internazionale. Un fattore che da decenni crea instabilità è l’insorgenza nella Provincia del Belucistan, nel Pakistan Occidentale, abitata dai beluci, popolazioni tribali, dedite alla pastorizia e alla coltivazione della terra che vivono anche nell’Ovest dell’Iran e nell’estremo Sud dell’Afghanistan. Nel Belucistan dagli anni ‘70 imperversa la guerriglia indipendentista di gruppi ribelli che si battono per l’autonomia della Regione, ricchissima di risorse naturali e per questo annessa con la forza nel 1947 al territorio pakistano. Negli anni ’80 e ’90 il movimento dei beluci ha interrotto la lotta armata per imboccare, senza risultati, la strada della lotta politica. Ma nel 2000 alcuni gruppi di beluci hanno dato vita all’Esercito di

I PROTAGONISTI

liberazione del Belucistan, riattivando la guerriglia a cui il Governo pakistano ha risposto con il “pugno di ferro”. Dopo gli attacchi alle Torri gemelle del 2001, con l’inizio della campagna militare in Afghanistan, la guerra contro gli indipendentisti del Belucistan è finita col mescolarsi a quella contro i terroristi islamici di al-Qaeda. Proprio sull’area di confine si sono concentrate le attenzioni di intelligence delle forze pakistane (e americane), impegnate nella guerra al terrorismo e nella caccia ai leader militanti, in particolare sul distretto del Waziristan. Le pressioni americane, però, risultano indigeste a larghi settori islamici della società: ne deriva un ulteriore aumento delle tensioni e dell’instabilità interna. La scena politica pakistana di oggi, mutevole, frastagliata e rissosa, è specchio di un Paese diviso, attraversato da fermenti e ideologie contrastanti, spaccato fra un’oligarchia di ricchi e il 60% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà. Un Paese in cui il posizionamento strategico internazionale è continuamente in discussione. Un Paese in cui risulta sempre più difficile governare spinte centrifughe e pulsioni radicali di carattere politico, sociale e religioso.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA THAILANDIA RIFUGIATI

222

RIFUGIATI ACCOLTI NELLA THAILANDIA RIFUGIATI

136.499

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI MYANMAR

135.476


Troppi i morti sulle strade

Ventiseimila in un anno, precisamente nel 2010: questo il numero di morti sulle strade Thailandesi. Davvero troppi, il Paese è al terzo posto nella tragica classifica mondiale stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sui morti da incidenti stradali pro capite. Sono 38,1 ogni 100mila abitanti, ovvero 118 ogni 100mila veicoli. Una cifra che ha convinto il Governo ad intervenire con una campagna di sensibilizzazione. I risultati, ad oggi, sembrano deludenti.

© Guillem Valle / MEMO

Un golpe, il numero 19 dal 1932. Una guerra arrivata a seimila morti dal 2004. È stato un anno orribile il 2014 per la Thailandia. Il colpo di stato militare è datato 22 maggio. Il capo di Stato maggiore Prayuth Chan-ocha ha annunciato che i militari avevano preso il potere "per ripristinare l'ordine e spingere per il raggiungimento di riforme politiche". Pochi giorni prima, la premier Yingluck Shinawatra, era stata dichiarata deposta e accusata di abuso di potere dalla Corte Costituzionale. Una mossa che aveva confermato una crisi politica iniziata nel 2013, con le proteste in piazza, lo scioglimento del Parlamento e l’annuncio di nuove elezioni, poi sempre rinviate. Così, l’esercito è intervenuto, nel silenzio del Re, l’anziano Bhumibol Adulyadej sempre più lontano dalla realtà del Paese. La reazione dei sostenitori di Shinawatra - intanto tenuta agli arresti -, le cosiddette Camice Rosse, è stata immediata, con l’annuncio di azioni di rappresaglia e la denuncia del golpe alla comunità internazionale. Il nuovo Governo ha oscurato alcune televisioni e sospeso la costituzione. Sullo sfondo resta l’annuncio di nuove elezioni, ma il capo dell’esecutivo, Chan-ocha è una figura inquietante. Sessant’anni, ex capo delle guardie della regina, è capo del reale esercito dal 2010. È anche presidente della Tmb Bank, The thai military bank, interamente controllata dall’esercito. Nei giorni successivi al colpo di Stato ha composto una canzone, che inneggiava al ritorno del sorriso in Thailandia ed ha moltiplicato le apparizioni televisive. Pochi giorni dopo il golpe, ha deciso di riprendere lo scontro con la Cambogia: ha espulso 250mila lavoratori, caricandoli su camion militari e portandoli oltre confine. Lo stesso ha fatto con sans papier birmani, scatenando le proteste delle associazioni umanitarie e per i diritti civili, che per altro denunciano anche torture e incarcerazioni arbitrarie ai danni degli oppositori . Intanto nelle Provincie di Pattani, Narathiwat, Yala, Songkhla e Satun, nel Sud, dove vivono

THAILANDIA

Generalità Nome completo:

Regno di Thailandia

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Thai

Capitale:

Bangkok o Krung Thep in thai

Popolazione:

66.790.000

Area:

514.000 Kmq

Religioni:

Buddista (95%), musulmana (4.6%), cattolica (0.75%)

Moneta:

Baht Thailandese

Principali esportazioni:

Tapioca, riso, caucciù, ananas, stagno

PIL pro capite:

Us 9.503

quasi 2milioni di persone, la guerra continua. La minoranza Malay, che ha una propria cultura, una propria tradizione e anche una propria lingua, lo Yawi, rivendica l’autonomia armi in pugno. Il Governo liquida la questione come “criminalità comune”, ma dal 2004 i morti sono stati almeno 6mila. Gli indipendentisti sono divisi in almeno 20 diverse fazioni, senza un coordinamento o un unico leader. Chiedono maggiore autonomia, alcuni vorrebbero l’annessione alla Malesia. Richieste confuse e non unitarie. Intanto, sono i morti a moltiplicarsi.


Due i fronti aperti, da decenni. C’è il problema politico, con i continui colpi di stato messi a segno dall’esercito, con il benestare del Re, utili a regolare i conti fra i gruppi di potere, fra oligarchie. Poi, la guerra interna, nel Sud, che nasce dalle differenze culturali, economiche e dalla voglia di autonomia di una delle parti. I musulmani sono una minoranza relativamente

piccola nel Paese, solo il 4,6% della popolazione, ma sono concentrati tutti nella stessa area e, soprattutto, hanno avuto una lunga storia di indipendenza. La situazione internazionale, con lo scontro in atto fra mondo cosiddetto occidentale e terrorismo islamico, ha riacceso le loro speranze di indipendenza, portandole sotto la bandiera pan-islamica.

Per cosa si combatte

Impronte digitali alla frontiera

Gli uffici thailandesi per il controllo dell’immigrazione puntano a dotarsi entro pochi anni di scanner di impronte digitali. Saranno utilizzati per raccogliere e catalogare le impronte digitali di tutti gli stranieri che abbiano intenzione di entrare nel territorio thailandese. Il bilancio dell’operazione è di 324 milioni di bath, circa 8,3milioni euro, ma la spesa non è ancora stata approvata dal Governo. L’obiettivo è agevolare i controlli per individuare i criminali già conosciuti alle autorità thailandesi e all’Interpol. Verranno utilizzati in ogni punto di ingresso del Paese e questo impedirà a molti criminali di entrare nel territorio thailandese per sfuggire alla giustizia di altri Paesi e di commettere altri reati in Thailandia.

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© Guillem Valle / MEMO

Viene definito - e in fondo si definisce - il “Paese del Sorriso”, ma c’è davvero poco da stare allegri in Thailandia. Le contraddizioni sono evidenti, così come la ripresa di scontri che parevano finiti. È il caso del confronto duro, con la Cambogia. Nel 2012, accettando la mediazione internazionale, Thailandia e Cambogia hanno messo fine allo scontro armato che le vedeva impegnate dal 1962 per il controllo della zona di confine vicino al tempio di Preah Vihear, inserito tra i beni patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Gli scontri, in cinquant’anni, erano stati ripetuti. L’ultimo - proprio nell’aprile del 2012, poco prima della sigla dell’intesa - con 18 morti. Con la firma della pace, i militari al confine sono stati sostituiti da normali poliziotti, ma il rimpatrio forzato dei lavoratori cambogiani, deciso dal nuovo Governo nel 2014, potrebbe riaccendere la miccia. Anche lo scontro politico interno, che pareva terminato dopo i 91 morti e duemila feriti del 2009, è destinato a riprendere. Il golpe del 2014 contrappone nuovamente i popolari delle Camicie Rosse agli aristocratici delle Camicie Gialle e il confronto si annuncia durissimo. C’è poi la guerra con gli indipendentisti a macinare morte nelle tre Province Meridionali a maggioranza musulmana, nonostante Yala, Narathiwat e Pattani, si trovino a poche centinaia di chilometri dalle più famose spiagge thailandesi, ai confini con la Malaysia. L’apparato militare thailandese è sottoposto ad uno sforzo continuo, con costi spaventosi. Nel 2009 il generale a riposo Ekkachai Srivilas, direttore dell’Ufficio

per la Pace e la Governance dell’Istituto Re Prajadhipok, aveva proposto un approccio diverso alla crisi, proprio per evitare le spese e gli sforzi che si pagano per dispiegare 60mila soldati nel Sud. Il Governo aveva respinto l’idea e l’estate del 2009 era stata una continua offensiva per rastrellare tutti i villaggi della Regione e fare terra bruciata intorno ai pejuang, i miliziani del Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn). Una scelta coerente con la decisione di attaccare i ribelli per distruggerli, senza cercare mediazioni. Quindi si combatte. Il picco dello scontro era stato nel 2007, ma non è mai cessato. Narathiwat, Yala e Pattani sono Province abitate

Quadro generale

Schiavi dei gamberetti

In Thailandia migliaia di persone sarebbero comprate e rivendute come schiave per lavorare nella flotta da pesca e rifornire di gamberetti le grandi catene di distribuzione occidentali: Walmart, Carrefour, Costco e Tesco. A scoprirlo, il giornale inglese The Guardian, che ha condotto una inchiesta durata sei mesi. In pratica - questa la scoperta - la più grande industria produttrice mondiale di gamberetti, la thailandese Charoen Pokphand Foods (CP Foods), compra il mangime a base di pesce con cui nutre i suoi gamberetti d'allevamento da fornitori che utilizzano schiavi sui loro pescherecci. Alcuni fuggitivi hanno raccontato di turni di lavoro di 20 ore, di anfetamine per tenerli svegli, percosse, torture e persino omicidi. Quindi migranti birmani hanno raccontato di essere stati venduti a 250 sterline l’uno, più o meno 300 euro l’uno.


TENTATIVI DI PACE

Il People’s College: cosa ne rimarrà dopo il colpo di stato?

(Nakhon Ratchasima, 21 marzo 1954) Sessant’anni, comandante in capo del Reale Esercito Thailandese, il generale Prayuth Chan-ocha ha guidato il colpo di Stato militare del 22 maggio 2014. Due giorni prima aveva assunto il comando del Consiglio Nazionale per il Mantenimento della Pace e dell'Ordine, la giunta militare che ha preso in mano il Paese dopo il colpo di Stato. Il 23 maggio si è auto-proclamato primo Ministro ad interim della Thailandia e il 21 agosto 2014 è stato eletto primo Ministro dal nuovo parlamento nominato dalla giunta e composto principalmente da militari. Prayuth, che prima di compierlo aveva ripetutamente escluso un colpo di Stato mentre il Paese era in preda a prolungate proteste anti-governative, è anche presidente della Banca delle Forze Armate, istituto di credito piuttosto potente nel Paese. Ora, zittita l’opposizione e incarcerati molti leader politici, ogni venerdì tiene discorsi televisivi dal tono nazionalistico, in cui si propone come un padre severo ma intenzionato a "restituire la felicità alla Thailandia", eliminando la corruzione e rimettendo in moto l'economia. Il generale e ora premier ha delineato una road map in tre fasi - riconciliazione nazionale, formazione di un nuovo Governo ed elezioni a fine 2015 -, procedendo nel frattempo al riassetto istituzionale.

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Prayuth Chan-Ocha

In questi dieci anni di conflitto nel Sud del Paese si è risposto anche con iniziative di pace, e tra queste rimangono in primo piano quelle riguardanti l’educazione: il People’s College, nato nel 2010 da un gruppo di giovani musulmani, ha educato giovani locali in materie che spaziano dalla storia della Regione stessa fino agli studi sui conflitti e alle tecniche di costruzione di pace. L’aiuto è venuto da tutto il mondo: la fondazione tedesca Berghof, che da anni lavora per la trasformazione dei conflitti, ha aiutato a sviluppare il curriculum per il primo corso, mentre la fondazione giapponese per la pace Sasakawa è stata la principale finanziatrice. Purtroppo, dopo il colpo di stato dell’esercito del 22 maggio scorso, il progetto è adesso in fase di stallo. Questi giovani dovevano diventare portatori del cambiamento nella loro stessa Regione, ma i germogli non hanno avuto né il tempo né il terreno giusto per fiorire. Quale sarà il loro futuro? E quello del People’s College?

© Guillem Valle / MEMO

in maggioranza da musulmani di lingua malese. Corrispondono al territorio di un sultanato annesso all’inizio del secolo scorso all’allora regno del Siam, dopo un accordo con gli inglesi, veri padroni dell’area in quegli anni. Una guerra, quindi, che ha ragioni storiche, ma che non trova spiegazioni vere nel presente. Per gli analisti internazionali, i rivoltosi - nel frattempo raccolti sono la sigla Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn) - sono da collegare alla rete di al-Qaeda. È di questo parere la Cia statunitense, che da sempre collabora con l’esercito nel quadro della lotta al terrorismo internazionale. A rafforzare questa opinione è arrivato, nel giugno 2009, un rapporto dell’International Crisis Group, che ha denunciato l’uso della retorica della jihad mondiale nelle scuole delle tre Province, al fine di reclutare nuovi combattenti. Rimane invece ignoto l’obiettivo reale della guer-

I PROTAGONISTI

ra scatenata nel 2004: non è chiaro se vogliano solo una maggiore autonomia, l’indipendenza o una unione con la Malaysia. Il dato certo è che nella Regione la stragrande maggioranza degli abitanti sono musulmani, di etnia e lingua malay. Da sempre i thailandesi li vivono come un pericolo. I pochi buddhisti della zona tendono a lavorare per conto del Governo e dal 2004 sono un facile obiettivo dei ribelli, che colpiscono soprattutto gli insegnanti, considerati i portavoce del Governo di Bangkok, che rappresentano da soli l’11% delle vittime. Vanno a lavorare scortati dall’esercito e nemmeno questo ferma le imboscate. Una situazione drammatica, anche dal punto di vista dei diritti umani. Un rapporto di Human Rights Watch ha spiegato come per effetto delle leggi speciali thailandesi, che prevedono la carcerazione preventiva senza mandato per 37 giorni, e di un regolamento del generale Viroj - comandante dell’area - che vieta visite dei familiari per i primi tre giorni di detenzione, migliaia di musulmani, maschi, di tutte le età siano stati arrestati e torturati dall’esercito.


150

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLO YEMEN RIFUGIATI

2.428

SFOLLATI PRESENTI NELLO YEMEN 306.614 RIFUGIATI ACCOLTI NELLO YEMEN RIFUGIATI

241.288

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SOMALIA

230.506

ETIOPIA

5.740


Raduno in tv per al-Qaeda

A mostrarlo al mondo è stato, nell’aprile del 2014, un video della Cnn: un raduno di jihadisti di al-Qaeda, in quello che la tv di Atlanta ha definito "il più vasto e apparentemente pericoloso assembramento di terroristi islamici degli ultimi anni". Cia e Fbi hanno dichiarato di non saperne nulla. Il filmato - preso in carico dagli analisti dell’intelligence - mostra Nasir al-Wuhayshi che arringa i militanti, totalmente incuranti della possibilità di essere colpiti da un drone. AlWuhayshi, numero due di al-Qaeda nel mondo e capo di al-Qaeda nella penisola arabica, ha detto in passato di voler attaccare di nuovo gli Stati Uniti.

UNHCR/H. Macleod

È scontro feroce, ormai, tutti contro tutti, indipendentisti contro Governo centrale, sunniti contro sciiti. La guerra nello Yemen cresce, drammaticamente. Ennesimo atto proprio l’ultimo giorno del 2014, il 31 dicembre: a Ibb un attentato suicida contro sostenitori della milizia sciita ha causato 49 morti e 70 feriti. Le vittime erano legate al gruppo sciita Ansaruallah. L’attentatore, vestito da donna, ha colpito nel pieno di una cerimonia religiosa. Non c’è stata rivendicazione, ma lo Yemen è il vero santuario di al-Qaeda, che qui ha le proprie basi principali. L’organizzazione si sta inserendo nello scontro storico fra maggioranza sunnita - il 60% della popolazione - e minoranza sciita. Questa ultima minoranza sembra prendere il sopravvento, dal punto di vista militare. Il 21 settembre del 2014, i ribelli sciiti Houthi hanno di fatto preso il controllo della capitale, costringendo il Presidente Abd Rabbo Mansour Hadi a cambiare primo Ministro. L’incarico è stato dato a Khaled Mahfouz Bahah. Inutile intanto la mediazione dell'inviato dell'Onu Jamal Benomar: l'accordo per il cessate il fuoco sottoscritto dalle parti il 19 settembre non ha avuto seguito, così come la proposta di costruire uno Stato federale. Intanto, continuano a muoversi anche i secessionisti del Sud, sunniti, guidati dal movimento Herak e legati alle tradizioni tribali. A fine 2014, hanno chiesto al Governo di ritirare militari e impiegati statali dalle Regioni dello Yemen Meridionale e hanno ordinato a tutte le compagnie petrolifere straniere di fermare immediatamente le esportazioni di petrolio e gas. L’obiettivo pare essere il ritorno a due Stati diversi, esattamente come era prima del 1990. Solo che la nascita sul mar Rosso di uno stato sciita, legato quindi all’Iran, spaventa i Paesi del Golfo, che

YEMEN

Generalità Nome completo:

Repubblica Unita dello Yemen

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo

Capitale:

Sanaa

Popolazione:

24.000.000

Area:

527.970 Kmq

Religioni:

Musulmana

Moneta:

Riyal yemenita

Principali esportazioni:

Petrolio, gas naturale, caffé e cotone

PIL pro capite:

Us 2.251

cercano dal punto di vista diplomatico di far pressioni sugli Stati Uniti, per convincerli ad intervenire e tenere unito il Paese. In questo gioco si inserisce, appunto, al-Qaeda, organizzazione sunnita. In aprile 2014 ha organizzato un grande raduno di militanti. Poi, ha iniziato una grande offensiva nel Sud Ovest del Paese, conquistando il controllo di alcuni territori. Il caos potrebbe avere ripercussioni anche sulla produzione del petrolio. Il Paese ha riserve stimate pari a circa tre miliardi di barili, che vengono estratti soprattutto nella zona Settentrionale di Marib-Jawf, mentre il resto proviene da Masila, nel Sud-Est.


Dal 2000 le ragioni della guerra nello Yemen sono sempre le stesse: la lotta al terrorismo. A questo si aggiungono le tensioni interne - riemerse con forza nel 2011 nel contesto delle proteste popolari in tutto il mondo islamico - fra Governo centrale e Clan, spesso legati alla tradizione e poco

propensi ad accettare cambiamenti nel modo di vivere. Vi è poi il ruolo degli Stati Uniti, militarmente presenti - e non da tutti accettati - proprio per contrastare al-Qaeda. Sostanzialmente, quindi, si combatte per il controllo del Governo centrale.

Per cosa si combatte

La rotta dei migranti

Almeno 70 migranti - di origine etiope sarebbero morti, nell’autunno del 2014, nel naufragio di un barcone all’ingresso del Mar Rosso, al largo del porto di Al-Makha. È solo un episodio noto dei tanti che, si teme, segnano una delle rotte più battute da chi fugge dall’Africa verso l’Europa in cerca di una speranza. Le organizzazioni internazionali segnalano decine di migliaia di passaggi di uomini, donne, anziani e bambini che viaggiano per tentare di raggiungere lo Yemen e da lì l'Arabia Saudita e il resto dei Paesi del Golfo. Almeno 500mila sarebbero riusciti a raggiungere la costa negli ultimi cinque anni.

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UNHCR/J.Zocherman

Il nuovo Presidente, Abde Rabbo Mansur Hadi, non ha cambiato la realtà. Lo Yemen, nato nel 1990 dall’unione fra Nord e il Sud, resta fragile. La riconciliazione nazionale, in effetti, è ancora lontana: Sanaa e Aden restano separate dai lutti e dagli strascichi della guerra civile, oltre che dalle discriminazioni economiche e sociali di cui il Sud tuttora soffre. Il risultato è che il vento della secessione continua a soffiare, contrastato da una feroce repressione del Governo centrale, che ovviamente finisce per esasperare la situazione. In questo quadro già problematico si inserisce la presenza di al-Qaeda che appoggia le istanze secessioniste portate avanti dal Southern Mobilty Movement (Smm). Un secondo “fronte” è aperto nel Nord, al confine con l’Arabia Saudita, con la minoranza sciita che fa capo al clan degli Al Houti. Si tratta di sciiti della setta zaidita, che non riconoscono alcuna legittimità al Governo centrale. Il loro leader, il predicatore Hussein al Houti, è stato ucciso in un raid aereo del dicembre 2009. Secondo l’Onu, il conflitto ha già fatto decine di migliaia di vittime e provocato un flusso di almeno 50mila rifugiati, costretti ad abbandonare le loro case. Le autorità di Sanaa accusano l’Iran di fomentare la rivolta, per spingere al potere la minoranza sciita, che in Yemen rappresenta il 40-45% della popolazione. Certo è che le Province del Nord - in particolare quella di Saada - sono off limits per l’esercito di Sanaa e sono saldamente in mano ai ribelli: una secessione di fatto, che ha provocato nel

dicembre 2009 l’intervento armato dell’Arabia Saudita, che lamenta l’insicurezza di questa frontiera, troppo permeabile dai miliziani di alQaeda. A questo va sommato il quadro internazionale, con il ruolo degli Stati Uniti. Attaccati da al-Qaeda del 2000, con l’assalto alla portaerei Cole e la morte di 17 marines, gli Usa hanno raggiunto accordi con il Governo yemenita e ampliato la loro presenza militare, mettendo fine al rapporto ambiguo che l’ex Presidente Saleh ha mantenuto per anni con l’organizzazione. È, ad esempio, provato che le milizie di al-Qaeda sono state utilizzate senza tanti problemi dal Governo yemenita già nella seconda metà degli anni ’90, per contrastare la secessione nelle Province del Sud tentata dai ribelli del “Southern Mobility Movement”. Altrettanto disinvolto è stato però il voltafaccia dell’ex capo di Stato dopo l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2000, quando gli americani scoprirono la consistenza della rete terroristica di bin Laden in terra yemenita. A quel punto la caccia ai militanti di al-Qaeda diventò anche a Sanaa una priorità nazionale, resa ancora più pressante dal numero cospicuo di kamikaze yemeniti che si sono immolati in Iraq dopo il 2003, per combattere gli americani. Il paradosso è che, con la stessa velocità con cui le carceri di Sanaa si sono riempite di militanti di al-Qaeda, altrettanto velocemente si sono svuotate. Una fuga di massa si verificò ad esempio nel febbraio 2006, quando 23 miliziani di al-Qaeda, tutti di primo piano, evasero. Ed è

Quadro generale

Traffico di uomini, affari d’oro

Il business del traffico di uomini, in Yemen, vale dai 200 ai 1000 dollari per migrante. Lo rendono noto le testimonianze raccolte dalle organizzazioni internazionali sul giro di soldi del trufficking e dello smuggling (traffico e tratta). Alcuni trafficanti hanno ammesso di essere arrivati a guadagnare 13mila dollari, alzando il prezzo stabilito una volta arrivati alle frontiere e sfruttando la complicità delle forze militari. Il guadagno viene dal trasporto, dallo scavalcamento dei checkpoint e anche dal cibo venduto a chi vuole fare il viaggio. Altra fonte di guadagno è rivendere i migranti fuggiti dai campi di detenzione a chi li detiene. Una testimone ha raccontato di un amico scappato da un campo e intercettato dai soldati vicino la città di Haradh. Mentre alcuni gli offrivano da mangiare e da bere, gli altri facevano delle chiamate: poco dopo è arrivata un’auto con due uomini, che hanno pagato i soldati e ricondotto l'uomo nel campo.


TENTATIVI DI PACE

Una conferenza per la partecipazione delle donne

Khaled Mahfouz Bahah

Il 2014 si era aperto nel segno della speranza, con la fine della Conferenza Nazionale di Dialogo (Cnd) promossa dall'Onu a gennaio, che aveva aperto la partecipazione alla transizione politica anche ad attori civili, prevedendo tra l'altro la quota del 30% per le donne nelle future istituzioni elettive. La Conferenza aveva dato però solo indicazioni vaghe sulla transizione e soprattutto sulla futura struttura federale del Paese. Il processo è entrato definitivamente in crisi quando gli Huthi hanno attaccato il Presidente Hadi, rifiutando il progetto di federazione di sei Regioni proposta dal Governo. La vaghezza dei documenti finali della Cnd è diventata la pietra di inciampo del processo. Gli Huthi hanno preso il controllo della capitale Sana'a a settembre. Poco dopo l'Onu ha mediato un “Accordo per la pace e la condivisione del potere”, che però non si è tradotto in un processo di pacificazione credibile. Il successo degli Huthi rischia di portare il Paese allo scontro settario. Ma in Yemen le comunità sciita (Zaydi) e sunnita (Shafai), hanno convissuto insieme pacificamente per secoli. Le potenze regionali, Arabia Saudita e Iran, possono contribuire a non esacerbare la situazione.

49anni, ex ambasciatore dello Yemen all’Onu, ex ministro del Petrolio, Khaled Mahfouz Bahah è politico esperto. Nell’autunno del 2014 è stato chiamato a guidare un Governo di unità nazionale, nel tentativo di ricomporre una situazione disastrosa, nata da un lato per le questioni aperte con la minoranza sciita, dall’altro per le ambizioni scissioniste del Sud tribale. A dispetto delle difficoltà, con la capitale praticamente in mano alle milizie sciite, il Governo di unità nazionale ha regolarmente giurato a novembre, nonostante le proteste dei ribelli sciiti del movimento Al-Houthi. Il nuovo Governo è formato da 35 persone. Nonostante il loro disaccordo con la composizione del nuovo Governo, i ministri vicini al movimento Al-Houthi e il Congresso Generale del Popolo, guidati dall'ex Presidente Ali Abdullah Saleh, hanno partecipato alla cerimonia di inaugurazione. Un segnale incoraggiante per Bahah, che ha ripetuto di avere, come compito principale, quello di ristabilire ordine e sicurezza in un Paese ormai spaccato e preda delle varie fazioni armate.

UNHCR/ J. Björgvinsson

questo l’inizio di una nuova fase, che vide i jihadisti impiantarsi sempre più saldamente nelle Province del Sud, con rapporti di contiguità se non di alleanza tattica con la guerriglia separatista, che continua a battersi per l’indipendenza. Allo stesso tempo, al-Qaeda nella penisola Arabica non smette di colpire, appena può, il nemico americano e i suoi più stretti alleati: nel 2008 vi furono due attacchi suicidi all’ambasciata Usa cui vanno aggiunti diversi attacchi contro obiettivi “occidentali”. Nell’autunno 2009, inoltre, l’Arabia Saudita ha denunciato l’infiltrazione di elementi legati ad al-Qaeda provenienti dal Nord dello Yemen, a conferma del fatto che la rete del terrore che faceva capo ad Osama bin Laden ha nello Yemen il suo principale caposaldo, con una capacità di azione ad ampio raggio ed una rete di protezioni tribali che sarà difficile smantellare, nonostante nel 2010 ci sia da registrare una grande battaglia fra l’esercito yemenita e i miliziani di al-Qaeda,

I PROTAGONISTI

nella città di Loder, nel Sud, con decine di morti da ambo le parti. Tutto cambia nel 2011, con il crollo del Presidente Saleh. Lo scontro con gli oppositori era diventato incandescente. Il 3 giugno un bombardamento di artiglieria semi-distrusse il palazzo presidenziale. Saleh, ferito, riparò in Arabia Saudita, ma al rientro le proteste ricominciarono, portando il bilancio a 700 morti. In un discorso alla tv di stato, il 25 settembre, Saleh promise nuove elezioni a breve, per avviare un processo di transizione dei poteri. Ma la piazza reclamava, armi alla mano, le sue dimissioni immediate. Inoltre voleva processarlo per la repressione feroce e per tutti gli altri crimini commessi nei suoi 33 anni di potere più o meno assoluto. I battaglioni della Guardia Repubblicana, guidati da suo figlio Ahmed, non lo hanno salvato da una contestazione ormai estesa a tutte le tribù e a tutto o il Paese e che gli ha fatto perdere in sei mesi anche l’appoggio dei suoi storici protettori, la Monarchia saudita e il Governo degli Stati Uniti. Nel 2012 il cambio, con l’elezione di Hadi, fedelissimo di Saleh. Nulla è davvero cambiato e le tensioni nel Paese restano.

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(Yemen 1965)


Inoltre Birmania/Myanmar

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"Scontri tra buddisti e musulmani. La democrazia sembra sempre lontana".

Dopo mezzo secolo di dittatura militare il Myanmar sembrava davvero pronto per aprirsi al mondo e superare gli anni bui della dittatura, grazie ad un deciso processo di riforme intrapreso dal Presidente Thein Sein e alla liberazione del Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, avvenuta nel 2010 dopo vent'anni di lotte, arresti e reclusioni. Negli ultimi mesi però la situazione sembra di nuovo precipitare e la tensione nel Paese è tornata alta, con le forze di polizia che in molte occasioni sono tornate a schierarsi nelle strade. In particolare, sono state registrate forti tensioni, violenze e scontri tra buddisti e musulmani a Mandalay, la seconda città del Paese. Il bilancio è di diversi morti e feriti. Preoccupante anche la situazione nel Myanmar Occidentale teatro invece di scontri contro la minoranza etnica dei Rohingya. Altre venti persone sono rimaste uccise negli scontri a fuoco tra gruppi ribelli avvenuti nel Nord-Est del Paese, al confine con la Cina. A scatenare le violenze la decisione del Consiglio federale delle nazionalità unite (rappresentante di undici gruppi ribelli di diversi etnie) di inviare una lettera al Presidente Thein Sein in cui si chiedeva di negoziare un accordo per una unione federale che secondo i ribelli garantirebbe maggiore stabilità al Paese ponendo finalmente fine alle violenze e agli scontri settari (in Myanmar si contano oltre 100 minoranze etniche, tra queste i musulmani rappresentano circa il 4%). Ma non ci sono solo le differenze etniche a rendere instabile il Paese. I giovani chiedono da tempo a gran voce, maggiore libertà e maggiori

garanzie a tutela dei diritti civili e politici. Alla fine del 2014, la capitale Rangoon e tutto il Paese sono stati attraversati da proteste studentesche. I giovani sono scesi in piazza contro la nuova legge per l'educazione che, secondo gli studenti, vieta loro qualunque tipo di attività politica e pone limiti evidenti alla libertà accademica. Il Governo ha accusato gli studenti di subire la manipolazione di non meglio precisati gruppi che hanno l'unico scopo di destabilizzare il Paese. In ogni caso, l'appuntamento cruciale, a seguito del quale si capirà se il Paese è davvero pronto per un cambiamento, è rappresentato dalle elezioni del novembre 2015. Nonostante la liberazione di Aung San Suu Kyi, sarà molto improbabile vedere questa donna simbolo della lotta per la libertà di un intero popolo sedere finalmente alla guida del Paese. Non sono solo le forti preoccupazioni di brogli elettorali ma anche alcune norme della Costituzione che sembrano appositamente scritte per impedire alla Premio Nobel di candidarsi alla prossima tornata elettorale. Secondo l’articolo 59 della Carta, infatti, in Myanmar è vietata la candidatura alla presidenza a chiunque abbia sposato stranieri o abbia avuto figli da questi ultimi. Il marito di Aung San Suu Kyi, era britannico e le ha dato due figli, entrambi cittadini britannici. Va detto che il Presidente Thein Sein ha creato un comitato per la revisione della Costituzione e che questa norma potrebbe sparire se la maggioranza dei politici accettassero la sfida di vedere candidata un simbolo internazionale di impegno e libertà. Nessuno potrà vietare comunque, almeno speriamo, alla Premio Nobel di sostenere il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (Nld) in campagna elettorale.


Inoltre Cina-Xinjiang "Attentati e morte. Cresce la tensione tra Pechino e indipendentisti islamici".

un suv è esploso causando la morte di altre persone). La condanna a vita per l'intellettuale Ilham Tohti ha provocato forti proteste non solo nello Xinjang ma anche nella comunità internazionale. Critiche molto dure sono state rivolte al Governo cinese da Stati Uniti e Unione Europea. La Ue ha definito la sentenza "completamente ingiustificata" e ha chiesto "l'immediato e incondizionato rilascio" del professore Ilham Tohti. Giudizi che Pechino ha rispedito al mittente esprimendo "forte insoddisfazione" e accusando l'Unione Europa di interferire negli affari interni del Paese. Quella contro l'intellettuale Ilham Tohti non è stata l'unica sentenza a sollevare le proteste internazionali. Nel mese di dicembre 2014, un Tribunale cinese ha emesso una condanna a morte per otto persone nello Xinjiang accusate di aver compiuto attentati terroristici nella Regione. La repressione del Governo cinese nella Regione ha subito forti critiche anche da parte delle organizzazioni internazionali come Human Rights Watch che denuncia nei suoi Rapporti anche molti casi di dissidenti scomparsi. Nel Paese dal 2009, Pechino ha imposto un regime speciale di controllo da parte della polizia e dell'esercito cinese.

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Lo Xinjang, Regione autonoma del Nord Est della Cina, è da tempo teatro di violenze e tensioni sociali tra la minoranza musulmana degli Uiguri, turcofona, e i cinesi del gruppo etnico Han. Gli Uiguri (costituiti da 56 gruppi diversi) sono ufficialmente riconosciuti dal Governo di Pechino ma questo non impedisce i continui e feroci attacchi a cui sono sottoposti da parte dei cinesi, violazioni dei diritti umani e repressione di ogni forma di espressione culturale o religiosa. La minoranza Uiguri denuncia inoltre di essere completamente esclusa da ogni piano di sviluppo economico della Regione, i cui benefici sarebbero destinati dal Governo di Pechino, unicamente agli immigrati Han, che negli ultimi decenni sono diventati la porzione maggioritaria della popolazione. Dal 2009 gli scontri e gli attentati si susseguono senza sosta, con la minoranza Uiguri che lotta con l'obiettivo dichiarato di ottenere l'indipendenza da Pechino. Il 2014 è stato un anno particolarmente teso nella Regione. Scontri e attacchi esplosivi hanno causato morti e feriti. Un primo attacco terroristico, alla fine del 2014, ha causato la morte di quindici persone e ne ha ferite altre 14. Oltre quaranta sono state invece le vittime degli scontri etnici nel mese di settembre. Scontri che sono stati accompagnati anche in questo caso da una serie di esplosioni (quattro per la precisione): la prima di fronte ad un negozio, poi in un mercato all'aperto e infine nei pressi di due stazioni di polizia, nella contea di Luntai. Probabilmente gli scontri e le esplosioni sono da collegare alla condanna all'ergostolo inflitta dal Governo cinese ad uno degli intellettuali più conosciuti di etnia uigura, Ilham Tohti, un professore universitario (della Minzu University, l'Università delle Minoranze di Pechino) accusato di "separatismo" e di essere stato la "mente" di alcuni attacchi terroristici (uno nel marzo del 2014 contro la stazione ferroviaria di Kunming che ha provocato 29 morti e più di 150 feriti; l'altro nell'ottobre del 2013 quando


Inoltre Corea del Nord-Sud

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"I negoziati per la riunificazione non decollano. Nel Nord oppositori torturati e uccisi".

Ancora tensioni tra la Corea del Nord e la confinante Corea del Sud nonostante i tentativi di negoziato impostati da anni ma che non hanno mai portato ad una soluzione condivisa e duratura delle ostilità in corso tra i due Paesi. Tecnicamente ancora in guerra dopo la fine del conflitto (1950-1953), le due Coree non hanno mai firmato un accordo di pace. Esiste solo un armistizio che rappresenta una temporanea cessazione delle ostilità ma non garantisce per la futura sicurezza della Regione. Il confine tra i due Paesi, il 38simo parallelo, è il più protetto e militarizzato del mondo con 250 chilometri di mine, armi pesanti, filo spinato e rivelatori di movimento. La miccia dell’ostilità tra Seul e Pyongyang si riaccende a intervalli regolari, con lanci di missili e provocatorie esercitazioni militari. Nel 2014, a sorpresa, il leader Nordcoreano Kim Jong-un ha affermato di voler impostare dei "colloqui" con il suo omologo Sudcoreano Park Geun-hye, sottolineando la necessità di un "grande cambiamento" nelle relazioni NordSud. Nel suo discorso di inizio anno, trasmesso in diretta tv, Kim Jong-un ha spiegato che Pyongyang "metterà in atto ogni possibile sforzo" per portare avanti dialogo e cooperazione con Seul (che hanno già sottoscritto diversi accordi di cooperazione economica). Intanto però, l'apertura di Pyong-Yang arriva dopo anni di tensioni che nel 2013 hanno preoccupato non poco la comunità internazionale. Nell'anno del 60simo anniversario della firma dell’armistizio del 1953, l’improvvisa escalation di tensione tra i due Paesi ha fatto temere ancora una volta per il peggio anche se molti analisti ritengono ormai poco probabile un re-

ale attacco missilistico da parte di Pyongyang e sono portati a interpretare i continui allarmi e ultimatum lanciati dal regime Nordcoreano come una semplice provocazione. A pesare però è anche la sostanziale incapacità degli altri attori coinvolti - Stati Uniti in primis - di impostare trattative che possano portare a una soluzione negoziata e definitiva del conflitto. Gli Usa non hanno mai acconsentito, nonostante le numerose richieste della Corea del Nord, di sedersi ad un tavolo di negoziato bilaterale preferendo le trattative a sei - con Russia, Cina, Giappone e le due Coree - che nonostante i tentativi in corso da anni non hanno mai portato né ad una soluzione duratura del conflitto né ad un qualche significativo passo avanti. Resta inoltre in primo piano la questione delle violazioni dei diritti umani in Corea del Nord. A ribadirlo è stata la Commissione dell’Onu incaricata di condurre un’inchiesta su questo tema. Centomila le persone contrarie al regime di Kim Jong Un che sarebbero rinchiuse in campi di prigionia. Così Michael Kirby, Presidente della commissione delle Nazioni Unite: “Le testimonianze individuali che emergono dalle audizioni pubbliche non rappresentano casi isolati. Sono rappresentativi di modelli su larga scala che costituirebbero violazioni sistematiche e macroscopiche dei diritti umani”. Nel documento dell’Onu si legge che i prigionieri politici vengono sottoposti a torture paragonabili a quelle inflitte in passato dal regime nazista alle persone rinchiuse nei campi di concentramento. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu può chiedere al Tribunale dell’Aja di investigare sugli abusi della Corea del Nord anche se quest’ultima non ha ratificato lo Statuto di Roma che istituiva la Corte Penale Internazionale.


Inoltre Iran "Continua il disgelo con gli Usa ed il califfato diventa il nemico".

“per fermare l’avanzata dell’Is verso Baghdad”. Alcune settimane fa, a seguito della liberazione della città irachena di Amerli, a maggioranza sciita, Zakani ha inoltre fatto riferimento alla crisi in corso nello Yemen (vedi scheda) sottolineando che anche “lo Yemen si sta trasformando in un nuovo terreno di battaglia contro l’Is” ed ha annunciato che “Sanàa presto entrerà nell’orbita iraniana”. La Repubblica islamica dell'Iran, pur intervenendo nei teatri mediorientali, ha sempre rifiutato una collaborazione diretta con la "coalizione" internazionale a guida Usa nelle operazioni militari contro lo Stato islamico, considerandole un "stratagemma" per mantenere la presenza militare statunitense nella Regione. L'Iran continua dunque ad essere protagonista della scena internazionale e le organizzazioni a difesa dei diritti umani continuano a segnalare le violazioni dei diritti umani nel Paese, nonostante il cambio di Governo, oggi in mano al riformista Hassan Rouhani. In un lungo Rapporto sulle violazioni dei diritti umani nel mondo, Human Rights Watch sottolinea come nel Paese non ci siano stati miglioramenti significativi in materia di diritti umani nel primo anno del Presidente Hassan Rouhani. “Elementi repressivi all’interno delle forze di sicurezza, dell’intelligence e della magistratura hanno mantenuto ampi poteri e continuano ad essere i principali responsabili della violazione dei diritti" si legge nel Dossier.

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Continua l'apparente disgelo tra Stati Uniti e Iran sulla questione nucleare. Secondo quanto dichiarato da fonti diplomatiche statunitensi Washington e Teheran sarebbero ormai vicini ad un accordo sul nucleare che permetterebbe da una parte alla Repubblica islamica dell'Iran di mantenere la propria tecnologia per l'arricchimento dell'uranio (a scopi civili) e dall'altro una sorta di limite allo sviluppo di capacità tecniche per la produzione di armi nucleari. Secondo i diplomatici Usa si tratta di un compromesso che garantirebbe entrambe le parti e che sarebbe in grado di porre finalmente fine ad una diatriba tra l'Iran e la comunità internazionale che va avanti da anni senza trovare soluzione. L'accordo finale, che tutti sperano possa essere raggiunto quanto prima, dovrebbe assicurare definitivamente che l'Iran non si doterà di armi nucleari e comporterebbe la cancellazione delle pesanti sanzioni economiche imposte negli anni a Teheran dalla comunità internazionale. Sanzioni che hanno acuito nel Paese l'insicurezza alimentare e la crisi economica. Intanto l'Iran continua ad essere uno degli attori principali dello scacchiere internazionale anche nei conflitti in Iraq e Siria. Teheran è scesa, unilateralmente, in campo nella battaglia contro l'Is. Di fatto il Governo iraniano ad oggi è l'unico Paese ad avere inviato sul terreno i propri uomini, il corpo d'élite dei Pasdaran, a combattere fisicamente lo Stato islamico. “Le Brigate al-Quds sono attive in Iraq, Siria e Libano e sono in azione contro le milizie dello Stato Islamico”. La notizia dunque è stata confermata ufficialmente da Ali Zakani, ritenuto vicino alla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Si tratta di un deputato iraniano, nonché ex comandante dei paramilitari basij (le milizie che nei giorni delle rivolte popolari del 2009 furono inviati dal regime a reprimere le piazze). In un discorso tenuto in pubblico a Mashad, nell’Iran Nordorientale, Zakani ha definito “vitale” l’intervento in Iraq del comandante delle Brigate al-Quds, il generale Qasem Soleimani,


Inoltre Kirghizistan

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"Una scelta precisa, tornare con Mosca. Ma la Cina non vuole mollare la presa".

Di fatto, è iniziata nel 2014 la lunga manovra di riavvicinamento a Mosca. Il Kirghizistan, dopo la rivoluzione del 2005 e i tentativi di affrancarsi dalla politica egemone dell’orso russo, sta tornando a casa. Il segnale più evidente nel giugno 2014: gli Stati Uniti chiudono la base aerea di Manas, vicino a Bichkek. Il Governo non ha rinnovato il contratto con l’amministrazione statunitense, proprio per rimarcare il riavvicinamento a Mosca, dopo la firma dell’Unione Economica Euroasiatica con Bielorussia e Kazakistan: il Kirghizistan punta ad entrare in quella organizzazione. Per gli Stati Uniti è stato un brutto colpo. Ufficialmente quella di Bichkek è stata la principale base per il transito dei militari Usa verso l’Afghanistan. Strategicamente, era un avamposto piazzato nel cuore dell’Asia, nel pieno dell’area che per Putin e i nazionalisti russi è “il cortile di casa”. I segnali di un riposizionamento, per altro, erano arrivati chiari fin dall’inizio dell’anno e proprio sul piano militare. In maggio, ad esempio, con la supervisione diretta di Putin e dei capi di stato di Bielorussia, Tagikistan, Armenia e proprio Kirghizistan, le forze armate di Mosca hanno proceduto a manovre militari, con lancio di missili balistici, a corto e lungo raggio, nel Nord del Paese. La partita, però, appare ancora più complicata. C’è un altro attore in scena ed è la Cina, poco disposta a lasciare il Kirghizistan ai russi. Il territorio cinese confina con il Kirghizistan per quasi 1000 chilometri. Pechino ha da sempre chiara l’importanza strategica del territorio, soprattutto per bloccare i fermenti autonomistici delle proprie Regioni islamiche, cioè lo

Xinjiang. Per Pechino è fondamentale che tutta l’Asia Centrale resti neutrale in caso di conflitto con Mosca. Inoltre, sarebbe comodo che il Kirghizistan si trasformasse in una specie di deposito merci per il made in Cina e che le miniere del Paese diventassero patrimonio cinese. Attorno alle miniere si giocano alcune delle più importanti partite di potere del Kirghizistan, rigorosamente diviso per clan. Ne è buon esempio quanto accade alla miniera d’oro di Kumtor, controllata dalla multinazionale canadese Centerra e dal Governo kighizo. La miniera vale da sola il 12% del Pil nazionale. La società canadese ha recentemente denunciato di essere al centro di continue estorsioni da parte delle forze politiche kirghise che - divise in clan direttamente o indirettamente arricchiti grazie agli accordi firmati dallo Stato con la compagnia mineraria, - a ogni cambio di Governo richiedono di trattare nuovamente i patti. Per costringere la società canadese a trattare, nel 2011 il Governo minacciò di nazionalizzare le miniere. Alla multinazionale non rimase che cedere, concedendo ai clan maggiori introiti, che, per altro, non sono certo stati ridistribuiti fra la popolazione.


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Medio Oriente

Andrea Cappellini

A cura di Amnesty International

Lo scontro Israele-Palestina uccide i diritti umani L’operazione israeliana contro la Striscia di Gaza, denominata Margine protettivo, durata dall’8 luglio al 26 agosto, ha causato la morte di quasi 2200 palestinesi (in maggior parte civili), la distruzione parziale o totale di oltre 50mila abitazioni e lo sfollamento di circa un quarto della popolazione. Sono morti anche 66 soldati israeliani. Da Gaza, nel corso dei 50 giorni di conflitto, sono stati lanciati in direzione d’Israele oltre 3500 razzi, che hanno causato sei vittime tra la popolazione civile. Almeno 25 palestinesi accusati di spionaggio nei confronti di Israele sono stati messi a morte al termine di processo sommari. È continuato l’ampliamento degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi occupati, con l’annuncio di ulteriori espropri di terreni. A partire dal giugno 2014, il gruppo armato denominato Stato islamico (precedentemente Stato islamico dell’Iraq e del Levante) ha occupato parti sempre più ampie dell’Iraq, portando avanti una pulizia etnica e religiosa di dimensioni storiche nei confronti delle popolazioni non arabe e non sunnite (sono stati uccisi an-

UNHCR/E. Dorfman

che arabi sunniti contrari al gruppo armato). Ne hanno fatto le spese i civili delle minoranze religiose come i cristiani e gli yazidi, così come i curdi. Numerose sono state le uccisioni di massa, in particolare nei villaggi di Qiniveh e Kocho, il 3 e il 15 agosto, quando sono state uccise centinaia di persone: gruppi di uomini e ragazzi, anche di soli 12 anni, sono stati rastrellati, portati via e uccisi. Ostaggi stranieri e locali sono stati trucidati. A loro volta, le forze di sicurezza irachene e le milizie sciite loro alleate hanno portato avanti azioni e attacchi di rappresaglia, contro civili e detenuti sunniti ritenuti sostenitori dello Stato islamico unicamente a causa della loro affiliazione religiosa. Le milizie hanno eseguito centinaia di rapimenti, in abitazioni, luoghi di lavoro e posti di blocco. In alcuni casi, le vittime sono state uccise nonostante il pagamento di riscatti da parte dei familiari. Molti sono stati ritrovati morti, di solito colpiti alla nuca e ammanettati. Lo Stato islamico avrebbe catturato migliaia di ragazze e donne yazide, trasferendole in Siria. In quest’ultimo Paese, mentre l’attenzione internazionale si è concentrata sui crimini commessi dallo Stato islamico, è proseguita l’offensiva militare da parte delle forze del Presidente Bashar al-Assad, così come la detenzione in isolamento di migliaia di prigionieri e non sono stati registrati passi avanti rispetto al sequestro, da parte dei gruppi armati d’opposizione, di alcune decine di civili siriani e di altre nazionalità. La situazione dei rifugiati siriani nei Pa-


esi confinanti si è rivelata sempre più precaria. In Iran, la nuova presidenza di Hassan Rouhani, se ha favorito la progressiva normalizzazione dei rapporti con la comunità internazionale e la riapertura di dossier sospesi, non ha mantenuto gli impegni in tema di riforme e miglioramento dei diritti umani. Al contrario, la pena di morte è stata utilizzata in modo sempre più massiccio con una media di almeno due esecuzioni al giorno (minorenni al momento del reato inclusi), sono stati registrati casi di tortura nelle prigioni e sono proseguiti gli arresti di attivisti per i diritti umani e di studenti universitari. Le autorità delle monarchie del Golfo persico hanno continuato a impedire, in alcuni casi ina-

sprendo la legislazione repressiva, ogni forma di dissenso. In Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Kuwait sono stati aperti nuovi procedimenti giudiziari per offese alle istituzioni e per vilipendio delle figure religiose. In Qatar, Paese assegnatario dei campionati mondiali di calcio del 2022, è finalmente emersa alla luce la condizione di sfruttamento lavoratori di migliaia di migranti assoldati per la costruzione degli impianti e delle infrastrutture sportive. Le organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato condizioni di lavoro subumane, con turni di lavoro estenuanti, mancato pagamento dei compenti e privazione della libertà personale a causa del sistema dello “sponsor”.

A cura di Giovanni Scotto

Sembra finito l’ordine post-coloniale Con le vittorie militari dell'Isis e il collasso dello Stato siriano, l'intero Medio Oriente sembra avviarsi inesorabilmente verso la fine dell'ordine post-coloniale risalente al secondo dopoguerra, quando le potenze europee e le Nazioni Unite avevano messo le basi per la partizione degli stati della Regione e la nascita di Israele. Oggi il Medio Oriente coglie i frutti avvelenati dell'avventura bellica statunitense in Iraq di dodici anni fa, e della nuova rivalità regionale tra Iran e sciiti da un lato, Arabia Saudita e sunniti, dall'altro, con la crisi dei vecchi stati e delle loro oligarchie e con l'ascesa impressionante dell'islamismo radicale. La crisi delle élites arabe della Regione era stata già testimoniata dalle “primavere arabe” di tre anni fa. Quei movimenti sociali di rivolta e democratizzazione sono spesso stati riassorbiti dai nuovi assetti di potere, come in Egitto, o sono stati travolti dalle escalation militari e dagli interventi armati stranieri. In questo scenario, il conflitto tra Palestina e Israele rimane acuto, come testimonia la nuova cruenta guerra a Gaza, ma non sembra più essere il cuore della questione medio-orientale. In un contesto deteriorato le diplomazie tradizionali sembrano aver perso il senso dell'orientamento. Gli Stati Uniti, per lungo tempo l'attore decisivo della Regione, non hanno più una linea strategica chiara, in particolare nei confronti della Siria, dell'Iran e del tradizionale alleato saudita. Nella Siria dilaniata dalla guerra civile e dall'ascesa del “califfato” islamista, gli sforzi per una mediazione complessiva del

conflitto si sono dimostrati vani nel 2014. L'Iraq, con i successi del califfato, è un Paese ridotto a brandelli. È per questo che, nell'impotenza delle diplomazie, occorre volgere lo sguardo a ciò che si muove in quelle società martoriate. Sono processi sotterranei, in buona parte invisibili ai mass media, ma che nel medio-lungo termine possono portare a risultati inattesi e cambiamenti profondi. Nei Territori palestinesi occupati si sperimentano con successo forme di protesta e resistenza nonviolenta contro l'occupazione israeliana, in alternativa allo status quo e all'escalation bellica. Dal nostro Paese, l'organizzazione non governativa Un ponte per... ha costruito rapporti di partenariato e assistenza umanitaria con l'Iraq fin dai primi anni novanta, e lavora oggi con gli embrioni di società civile che nelle diverse aree e comunità religiose del Paese cercano alternative alla violenza settaria. Sembra quasi paradossale che anche la diplomazia ufficiale delle Nazioni Unite abbia scelto, nel teatro di guerra siriano, la via di un approccio “locale” al negoziato, provando a raggiungere tregue circoscritte tra i diversi attori della guerra civile per dare respiro alle sofferenze dei civili e che potrebbero forse preludere a un processo di pacificazione più esteso. Non sarà una risposta immediata a chi come l'Isis punta sull'escalation e la diffusione del terrore, ma può essere l'inizio per trovare una via d'uscita dal caos medio-orientale. L'alternativa sembra essere la guerra di tutti contro tutti.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA PALESTINA* RIFUGIATI

96.044

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI EGITTO

70.026

IRAQ

9.992

*4,8 milioni di rifugiati e sfollati palestinesi rientrano nel mandato dell’UNRWA e non vengono pertanto considerati in questa tabella. RIFUGIATI ORIGINATI DA ISRAELE RIFUGIATI

1.043

RIFUGIATI ACCOLTI IN ISRAELE RIFUGIATI

48.325

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI ERITREA

34.988

SUDAN

12.926


Pericolo boicottaggio

È il gennaio del 2014 quando lo “Yedioth Ahronoth”, il quotidiano di stampo conservatore più venduto in Israele, titola: “100 leader dell’economia mettono in guardia Israele dal boicottaggio”. A firmare l’articolo i più importanti imprenditori, manager e uomini d’affari israeliani, che lanciano un appello pubblico al Governo. “Dobbiamo raggiungere un accordo con i palestinesi”, scrivono, “perché il mondo sta perdendo la pazienza”. Il riferimento è alla campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (Bds) contro Israele, lanciata nel 2005 da numerose associazioni della società civile palestinese e diffuso in ambito internazionale. Si pensa possano essere molte le personalità che decideranno di aderire alla campagna, così come le aziende, i centri di ricerca e i fondi pensionistici internazionali che interromperanno i rapporti con le colonie israeliane - illegali secondo il diritto internazionale - e la vendita di beni prodotti al loro interno.

Il 2014 era stato proclamato “Anno di solidarietà con il popolo palestinese” dall’Assemblea generale dell’Onu, che aveva incoraggiato gli Stati ad organizzare iniziative di sensibilizzazione e si era assunta la responsabilità di risolvere la questione israelo-palestinese “ai sensi della legittimità internazionale”. Ma l’anno ha visto svolgersi soprattutto nuove operazioni militari nei Territori occupati della Cisgiordania e Gaza. Sono stati i mesi dell’estate 2014 i più intensi per l’area: il 9 giugno Reuven Rivlin, esponente del partito nazionalista di destra “Likud”, viene eletto 10° Presidente dello Stato di Israele. Poche ore dopo, nella notte tra il 12 e il 13 giugno, tre adolescenti israeliani - Gilad Shaer, Naftali Frenkel e Eyal Ifrach - spariscono nei pressi della colonia di Gush Etzion (Betlemme). Tel Aviv accusa Hamas del rapimento e, per trovare i tre ragazzi, lancia l’operazione militare “Brother’s Keeper” nei Territori occupati. Nei raid vengono impiegati oltre 3mila soldati: nel giro di poche ore vengono arrestati centinaia di palestinesi e 12 vengono uccisi. Tra le vittime anche il giovane Mohammed Abu Khdeir, sequestrato da alcuni cittadini israeliani a Gerusalemme e bruciato vivo come forma di ritorsione. Mentre monta la protesta, i due principali partiti palestinesi, al-Fatah e Hamas, firmano un accordo di riconciliazione per la formazione di un Governo di unità nazionale, atteso dal 2007. Pochi giorni dopo Israele lancia l’operazione militare “Barriera protettiva” sulla Striscia di Gaza che, superando le precedenti per ampiezza e gravità, causa 2200 vittime palestinesi e milioni di dollari di danni. Le vittime tra i soldati israeliani sono 72. A Gerusalemme e Tel Aviv tornano in piazza dopo anni i movimenti pacifisti e della sinistra israeliana per chiedere la fine delle ostilità. La tregua verrà dichiarata il 26 agosto, e a settembre al Cairo viene siglato l’accordo tra Hamas e al-Fatah che riconsegna all’Anp il controllo della Striscia. Nel corso del 2014 è proseGeneralità Nome completo:

Stato di Israele

ISRAELE PALESTINA

Generalità Nome completo: Bandiera

Lingue principali:

Arabo

Capitale:

Ramallah

Popolazione:

4.150.000 (2007)

Area:

n.d.

Religioni:

Musulmana, cattolica

Moneta:

Sterlina egiziana, nuovo Shekel israeliano, dinaro giordano

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

Cisgiordania Us 1.500 Striscia di Gaza Us 670

Bandiera

Lingue principali:

Ebraico e Arabo

Capitale:

Tel Aviv

Popolazione:

7.900.000

Area:

22.072 Kmq

Religioni:

Ebraica (75,6%), musulmana (16,6%), cristiana (1,6%), drusa (1,6%), non classificati (3.9%)

Moneta:

Nuovo Shekel

Principali esportazioni:

Prodotti high tech, diamanti, prodotti agricoli

PIL pro capite:

Us 33.878

Autorità Nazionale Palestinese

163

Situazione attuale e ultimi sviluppi

guita l’attività di colonizzazione israeliana, che si è concentrata in modo particolare nell’area di Gerusalemme Est, per la quale è stato di recente approvato un piano per la costruzione di altre 2200 unità abitative, che vanno ad aggiungersi alle 12 colonie che già circondano la città e la separano dal resto della Cisgiordania. A livello internazionale, la Svezia è stato il primo Paese europeo a riconoscere lo Stato di Palestina, già ammesso all'Onu come Stato osservatore nonmembro nel 2012, in seguito all’iniziativa intrapresa dal Presidente Mahmoud Abbas.


164

Due popoli e due Stati: rimane questa la soluzione al conflitto israelo-palestinese perseguita dalle diplomazie internazionali. Da parte palestinese si chiede il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati nel 1967 (compresa Gerusalemme Est indicata come capitale del futuro Stato Palestinese), il diritto al ritorno per i profughi e lo stop alla costruzione di colonie

israeliane, illegali per il diritto internazionale, che minano la continuità territoriale e il controllo delle risorse del futuro Stato. Da parte israeliana, ufficialmente si rivendica il diritto alla propria "sicurezza", ma di fatto si perseguono gli obiettivi del 1948, ovvero la realizzazione in Palestina di uno Stato ebraico esteso dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

Per cosa si combatte

Il conflitto israelo-palestinese dura da oltre 60 anni. Momento spartiacque è la fine del mandato britannico, al termine della seconda guerra mondiale. È allora, con il ricordo ancora vivo della Shoah nazista nell’opinione pubblica internazionale, che hanno successo gli sforzi del movimento sionista, nato alla fine dell’Ottocento su iniziativa di Theodor Herzl per dare una patria agli ebrei. Il 29 novembre 1947 una risoluzione dell’Onu accoglie le rivendicazioni del popolo ebraico, assegnandogli il 73% del territorio dell’ex mandato britannico. La decisione viene respinta dai palestinesi e dai Paesi arabi. Egitto, Siria, Transgiordania, Libano e Iraq attaccano il nascente Stato, che però vince la guerra, ampliando il territorio sotto il suo controllo verso la Galilea a Nord e verso il Negev a Sud. Il 14 maggio 1948 nasce ufficialmente lo Stato d’Israele con la “Dichiarazione d’indipendenza” firmata dal primo Ministro David BenGurion. Per i palestinesi si tratta della Nakba (catastrofe): in centinaia di migliaia vengono cacciati dalle proprie case o fuggono, cercando riparo in altri Paesi vicini. Nel 1956, dopo la nazionalizzazione da parte del Cairo del canale di Suez, Israele attacca l’Egitto conquistando Gaza e il Sinai (da cui poi sarà costretto a ritirarsi). Nel maggio del 1967 il Presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, stringe con la Giordania un patto di difesa, che getta le basi per un attacco allo Stato d’Israele. La reazione di Tel Aviv è immediata: nel giugno del 1967 Israele attacca l’Egitto, poi la Giordania e la Siria. È la ‘Guerra dei Sei giorni’, che segna la dura sconfitta degli arabi, e l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, alture del Golan (tutt’oggi sotto controllo israeliano) e Sinai (restituito all’Egitto nel 1979). In seguito ci saranno altre guerre: nel 1973 la guerra dello Yom Kippur contro Egitto e Siria e nell’83 con il Libano. È con la “Guerra dei Sei giorni” che la questione israelo-palestinese entra nell’impasse attuale. Nonostante le pressioni internazionali e le numerose risoluzioni dell’Onu, infatti, Israele non si è ancora ritirata dai Territori occupati, e ha cominciato una lenta e costante campagna di colonizzazione che prosegue tuttora. Nel 1987 lo stallo nel conflitto dà origine a una sollevazione popolare contro l’occupazione israeliana, nota coma Intifada (“rivolta”), che inizia nel campo profughi di Jabaliyya ma si estende presto a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. La rivolta dura sei anni, durante i quali i palestinesi manifestano e protestano

con ogni mezzo, dalla disobbedienza civile agli scioperi generali, fino al lancio di pietre contro i militari. La guerriglia si interrompe grazie agli Accordi di Oslo del 1993, con la stretta di mano tra il primo Ministro israeliano Itzhak Rabin, e Yasser Arafat, storico leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Quest’ultimo, a nome del popolo palestinese, riconosce lo Stato di Israele e a sua volta Tel Aviv riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese (ruolo che dal 1995 spetterà all’Anp, l’Autorità Nazionale Palestinese). Gli accordi di Oslo si riveleranno però fallimentari e la tensione tornerà alta il 28 settembre del 2000, quando l’allora capo dell’opposizione politica israeliana Ariel Sharon fa una provocatoria passeggiata, con mille uomini armati,

Quadro generale

Foto sotto di Andrea Cappellini

Accuse di razzismo

Maltrattamenti, denunce, episodi di razzismo: tra il 2013 e il 2014 è esplosa in Israele la protesta di migranti e richiedenti asilo arrivati da Sudan ed Eritrea. È il 16 dicembre del 2013 quando una lunga marcia di esseri umani muove a piedi dal centro detentivo di Holot (Negev) verso Gerusalemme. Nel settembre del 2014 l’Alta Corte israeliana ha ordinato la chiusura del centro di Holot perché “ogni essere umano ha diritto alla dignità. E anche gli infiltrati sono esseri umani”.


TENTATIVI DI PACE

Si afferma la resistenza non armata

L’immagine dei palestinesi del campo profughi di Yarmouk, a Damasco, in fila per il cibo tra le macerie delle loro case, è diventata il simbolo della disperazione prodotta dalla guerra. Eppure è proprio da lì, da quell’angolo di Siria assediato dal conflitto che rappresenta anche la tragedia del popolo palestinese e della sua diaspora, che è arrivato un messaggio di vita e di speranza capace di fare il giro del mondo nell’inverno del 2014. Un video che diventa virale sul web in pochissimo tempo mostra un pianoforte un po’ acciaccato, pitturato di bianco, sul lato la bandiera palestinese. Seduto davanti alla tastiera Ahmad Ayham, costruttore di strumenti musicali, palestinese nato e cresciuto a Yarmouk, che tra le macerie del suo campo comincia a suonare. Per strada, tra le sirene delle ambulanze e i rumori delle armi, si alza la sua musica. “Volevo fare qualcosa per il campo a cui appartengo. Qualcosa che potesse viaggiare...mandare un messaggio dalla nostra umanità alla vostra”, ha spiegato in seguito il ragazzo, oggi conosciuto come “il pianista di Yarmouk”.

165

Ahmad Ayham

La resistenza popolare non armata nei Territori Occupati palestinesi è una realtà già affermata. Nata come un'esperienza circoscritta, a metà degli anni 2000, in particolare nei villaggi di Bil'in e Na'alin, si è moltiplicata ed è promossa oggi da un Comitato di coordinamento per la lotta popolare. Sono gruppi locali che devono mettere in discussione non solo le politiche dell'occupazione militare israeliana, ma anche la politica interna del mondo palestinese, caratterizzata da divisioni, corruzione, e per un verso da un radicalismo senza prospettive, per l'altro dalla corruzione e dalla dipendenza dai donatori internazionali. Tra le forme di azione dei comitati di resistenza, oltre alle manifestazioni settimanali contro il muro di separazione, vanno ricordate la fondazione simbolica di insediamenti (come Bab Al Shams ad est di Gerusalemme), il piantare alberi di olivo su terreni a rischio di confisca, e il ricorso a forme di resistenza creativa, come le proteste contro l'occupazione travestiti da extraterrestri di Avatar. Intorno alla resistenza nonviolenta si è creata una rete di solidarietà internazionale, e la presenza costante attivisti israeliani e di persone provenienti dall'estero è stata uno degli elementi per il successo di molte proteste. Nel dicembre del 2014 in occasione di una delle manifestazioni di protesta, repressa dalle forze militari israeliane, perdeva la vita Ziad Abu Ein, ministro dell'ANP incaricato di tenere i collegamenti con i comitati di protesta.

Andrea Cappellini

sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Un gesto simbolico, compiuto in uno dei luoghi più sacri per i musulmani, con cui si rivendicava Gerusalemme come capitale “indivisa” di Israele. È l’inizio della “Seconda Intifada”. Dalla Striscia di Gaza, l’anno successivo, comincia il lancio dei razzi ‘Qassam’ contro Israele. Azione questa che nel corso degli anni porterà Israele ad intervenire più volte nella Striscia al fine di “indebolire la resistenza palestinese”. Con la motivazione di difendersi dagli attentati suicidi palestinesi, Israele nel 2002 prende la decisione di costruire una “barriera di sicurezza” in Cisgiordania, che di fatto sottrae ulteriori territori ai palestinesi, grazie a un tracciato che non segue la Linea verde del 1967 ma entra profondamente in Cisgiordania e circonda alcune delle più popolose colonie, diventate nel frattempo

I PROTAGONISTI

piccole città. La struttura, ribattezzata “muro dell’apartheid”, viene condannata anche dalla Corte internazionale di giustizia. Nel frattempo si rafforzano le tensioni anche nel fronte palestinese, alimentate dalla vittoria di Hamas alle elezioni politiche del gennaio 2006. Gli scontri armati tra le due principali fazioni palestinesi raggiungono il culmine nel giugno 2007 a Gaza, quando si rischia una vera e propria guerra civile. Hamas ha la meglio, dando vita così a una separazione di fatto dei territori palestinesi, con la Striscia di Gaza controllata dal movimento islamico e la Cisgiordania governata da alFatah, che controlla l’Anp. Sempre nel giugno 2007, con lo scopo dichiarato di contrastare Hamas, Egitto e Israele impongono un assedio totale su Gaza, tuttora in vigore. Al termine del 2008 Tel Aviv avvia anche una campagna militare contro la Striscia, durata 17 giorni e nota come “Operazione Piombo fuso”. Il bilancio finale dei raid israeliani è di 1305 morti palestinesi e di 5450 feriti.


166

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL LIBANO RIFUGIATI

3.824

RIFUGIATI ACCOLTI NEL LIBANO RIFUGIATI

856.546

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SIRIA

851.284


Brigate Abdullah Azzam

Le Brigate Abdullah Azzam sono un gruppo legato alla galassia di al-Qaeda e all'estremismo sunnita. Dopo la scomparsa del leader, il saudita Majid al-Majid, morto in un carcere libanese il 4 gennaio, la formazione ha intensificato i suoi attacchi contro obiettivi iraniani e di Hezbollah in Libano. Le Brigate considerano il Partito di Dio responsabile della morte di al-Majid, ed hanno promesso che “il progetto di colpire l'Iran e il suo partito continuerà”. Le Brigate prendono il nome dallo sceicco salafita palestinese Abdullah Azzam, morto nel 1990. Il primo attentato rivendicato dal gruppo risale al 2004 a Taba, nell'Egitto Settentrionale. Nel 2005, viene attaccata una nave militare Usa nel porto di Aqaba, in Giordania, e nel 2010 la petroliera giapponese M. Star nello Stretto di Hormuz. Nel febbraio del 2014, il gruppo ha attaccato l'Istituto di cultura iraniano e l'ambasciata del Quwait, nella zona Sud di Beirut. Tre mesi prima era stata la volta dell'ambasciata iraniana a Beirut.

UNHCR/L. Addario

L’offensiva dello Stato Islamico nel Nord del Libano, sembra dover aprire degli scenari già visti purtroppo in Iraq dove il settarismo dei miliziani dell’Isis ha preso di mira i diversi gruppi etnici e religiosi. Allo stesso modo, ai cristiani sparsi nei villaggi della Bekaa (NordEst del 
Libano) toccherebbe la sorte dei loro confratelli iracheni di Mosul, mentre gli sciiti che nella Valle sono la maggioranza, in quanto “infedeli” e, soprattutto in quanto sostenitori degli Hezbollah, non potrebbero aspettarsi alcuna clemenza. I sunniti dell’Isis infatti sono avversi al Partito di Dio, prima di tutto in quanto sciita e poi per la sua partecipazione alla guerra in Siria a fianco del regime di Assad. In realtà lo scontro tra Isis e Hezbollah è cominciato con quella lunga serie di attentati messi a segno dagli jihadisti tra l’ottobre del 2013 e il marzo del 2014 nella banlieue Sud di Beirut. Hezbollah sembra aver recepito appieno il rischio che corre il Paese dei Cedri. Non è un caso infatti che siano stati i vertici del Partito di Dio a permettere all’esercito libanese di tornare a presidiare il confine Nord con la Siria al fine di stroncare il traffico di miliziani jihadisti e di armi (vista anche la conquista della Regione limitrofa siriana del Qalamoun). Ma il fatto più interessante, in questa drammatica situazione, è come il pericolo dell’Isis possa diventare un’occasione per riavvicinare le tante facce del Libano che da decenni si fronteggiano. La dimostrazione, o meglio lo spiraglio, arriva dallo stesso Partito di Dio. Gli Hezbollah infatti stanno reclutando giovani cristiani, drusi e sunniti nell'Est del Paese al fine di combattere contro i jihadisti dello Stato islamico. Il Partito di Dio propone ai giovani del Nord e dell'Ovest della Valle della Bekaa di arruolarsi nelle 'Brigate della Resistenza' offrendo armi ed addestramento. "Il nostro destino è comune e dobbiamo combattere insieme" è lo slogan che gli sciiti stanno usando per convincere i seguaci di altre fedi a combattere con loro. Un’occasione, seppur remota, per quell’unità nazionale da troppo

LIBANO

Generalità Nome completo:

Repubblica Libanese

Bandiera

167

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo, francese

Capitale:

Beirut

Popolazione:

4.400.000

Area:

10.452 Kmq

Religioni:

Musulmana (sunnita, sciita), cristiana

Moneta:

Lira libanese

Principali esportazioni:

Gioielli, apparecchiature elettriche, prodotti metallurgici, chimici, alimentari

PIL pro capite:

Us 15.587

tempo assente in Libano. Divisione ben rappresentata dalla politica del Paese. Dallo scadere del mandato, il 25 maggio 2014, del Presidente Michel Suleiman, il Parlamento di Beirut non è riuscito a trovare un accordo per la nomina di un suo successore. Già pochi giorni dopo le dimissioni di Suleiman il Parlamento aveva deciso di prorogare la legislatura di 17 mesi, che quindi sarebbe dovuta scadere il 20 novembre scorso. Ciò non è avvenuto e si ipotizza, viste le “circostanze eccezionali”, di prorogare la legislatura di altri due anni e sette mesi.


novembre scorso). Il fragile Paese che, secondo le ipotesi più pessimistiche circolanti tra gli analisti di Beirut, oltre a rappresentare un “soft target” a causa delle ben note divisioni settarie che lo attraversano e ne minano la sopravvivenza, offrirebbe al Califfo uno sbocco sul Mediterraneo che ancora non possiede. I gruppi jihadisti hanno scatenato l’offensiva nel Nord del Libano avendo due obbiettivi ben precisi: rompere l’accerchiamento della Provincia di Arsal, la più colpita dallo sconfinamento del conflitto siriano in Libano e seminare la discordia nei ranghi dell’esercito libanese composto da sciiti e sunniti. Per il momento l’esercito sembra tenere.

168

La presenza di basi operative della resistenza palestinese ha fatto da sempre del Libano uno degli obiettivi di Israele. Le tensioni tra i due Paesi sono poi costantemente cresciute a causa della contrapposizione tra Israele e il movimento sciita degli Hezbollah, che ha stabilito nel Sud del Paese le sue basi operative. Secondo Israele è l’Iran a sostenere economicamente il movimento di Hezbollah fiancheggiato anche dal Governo siriano, in conflitto con Israele per la sovranità sulle Alture del Golan. Ma un nuovo fronte più caldo si è aperto in Libano. Dopo Siria ed Iraq infatti, il Paese dei Cedri sembra essere diventato il terzo fronte della nuova conquista islamica, guidata dal Califfo Al Baghdadi (dato per morto durante combattimenti a metà

Per cosa si combatte

Rifugiati e depressi

Un rapporto del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, intitolato “Analisi della situazione dei giovani in Libano colpiti dalla crisi siriana” descrive le difficili condizioni di vita dei rifugiati siriani in Libano. Secondo il rapporto, il 41% dei giovani siriani, così come dei libanesi che vivono nelle zone che ospitano i profughi, ha pensieri di suicidio e il 53% non si sente al sicuro. La situazione si fa più grave per le giovani rifugiate, per le quali la molestia o lo sfruttamento sessuale sono all'ordine del giorno. Quelle che non sono assertive o sottomesse a richieste inopportune di “favori” non sono autorizzate a riposare o non ricevono acqua potabile mentre lavorano, a volte per più di 15 ore consecutive. La crisi umanitaria ha prodotto nelle zone del Libano dove è più forte la presenza di profughi siriani fenomeni collaterali come abbandono scolastico o matrimoni combinati in cambio di denaro o anche solo di cibo. La situazione è aggravata dal fatto che il 66% delle donne rifugiate di età compresa tra i 15 e i 18 anni non ha alcuna conoscenza dei metodi di contraccezione e quindi il tasso di natalità è altissimo. I profughi siriani in Libano sono oltre un milione e 185mila. UNHCR/L. Addario

Con la dissoluzione dell’Impero Ottomano, la Società delle Nazioni affidò alla Francia il controllo della Grande Siria, incluse le cinque Provincie che oggi formano il Libano. La Conferenza di Sanremo, dell’aprile del 1920, ne definirà i compiti ed i limiti. Già nel 1920 la Francia dichiarò lo Stato del Grande Libano indipendente. Uno Stato composito, con un enclave in Siria a maggioranza cristiano maronita e una a maggioranza musulmana e drusa con capitale Beirut. Solo 6 anni dopo il Libano diventerà una Repubblica, definitivamente separata dalla Siria, anche se ancora sotto il comune mandato francese. Nel 1943 il Governo libanese abolirà il mandato francese dichiarando la propria indipendenza. Bisognerà aspettare la fine della seconda guerra mondiale per assistere al ritiro definitivo delle truppe francesi dal nuovo Stato indipendente. Nel 1948, dopo la risoluzione dell’Onu

181 con la quale si “ripartiva” il territorio palestinese in seguito alla nascita dello Stato ebraico, anche il Libano aderì alla guerra della Lega Araba contro Israele non invadendo però mai il neonato Stato. Dopo la sconfitta araba, Israele e Libano stipularono un armistizio ma, a tutt’oggi, mai un trattato di pace. Conseguenza di questa guerra, furono 100mila profughi palestinesi ai quali se ne aggiunsero altri dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967. Profughi che decenni più tardi saranno la causa, secondo il Governo israeliano, dell’invasione del Libano. L’operazione militare “Pace in Galilea” parte il 6 giugno del 1982 ed è finalizzata a sradicare dal Sud del Libano la presenza armata palestinese. In realtà, quella che si può chiamare prima guerra israelo-libanese, arrivò fino a Beirut dove aveva sede l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Per impedire la prosecuzione di spargimento di

Quadro generale


TENTATIVI DI PACE

Operazione Colomba: mediazione Libano Siria

I volontari di Operazione Colomba mantengono una presenza di pace in Libano, e hanno la loro sede in un garage nel Paese di Tel Abbas. In questo villaggio vivono all'incirca 5000 persone tra cristiani ortodossi e musulmani sunniti. Operazione Colomba lavora alla mediazione tra le comunità libanesi e i profughi siriani presenti nella zona, e basa la sua azione principalmente sull'ascolto delle persone, facendo visita ai profughi ma anche ai libanesi spaventati dalla presenza di Isis nel territorio. Ascoltare non è mai banale né scontato perché spesso le persone vengono ignorate, cosi i volontari di Operazione Colomba cercano di dar loro voce, per esempio denunciando i casi di crimini più gravi all'Unhcr. L'organizzazione propone alla comunità internazionale la creazione di aree di sicurezza, smilitarizzate, dove i profughi siriani possano ritornare a vivere.

Sirajuddin Zureiqat

UNHCR/L. Addario

sangue, intervenne la diplomazia internazionale che sgomberò la dirigenza dell’Olp (rifugiatasi a Tunisi) e riversò nei Paesi limitrofi molte unità armate palestinesi. Una situazione che lasciò la popolazione civile nei campi profughi priva di protezione. Questo porterà al drammatico massacro nei campiprofughi di Sabra e Shatila, da unità cristiane guidate da Elie Hobeika, lasciate agire dalle truppe israeliane, comandate da Ariel Sharon, di stanza nell’area coinvolta. Negli anni a seguire, il Libano affronterà problemi di equilibri interni, con gli Hezbollah, musulmani sciiti vicini a Damasco e Teheran, determinanti. È il 12 luglio del 2006 quando miliziani di Hezbollah attaccano una pattuglia dell’esercito israeliano nel Sud del Libano, uccidendo tre soldati e rapendone due. Israele reagisce con la forza, avviando un’offensiva contro il Libano per “neutralizzare l’apparato militare di Hezbollah”. Al massiccio attacco aereo non corrisponderà però un successo a terra, con l’esercito israelia-

I PROTAGONISTI

no in grado di avanzare solo di pochi chilometri in un mese. La resistenza di Hezbollah, infatti, dimostrerà la propria efficacia, contrattaccando il territorio israeliano con lanci di migliaia di missili. L’11 agosto, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite interverrà con una risoluzione (la 1701), che troverà il voto unanime dei Paesi membri, chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità, il ritiro di Israele dal Libano Meridionale e l’interposizione delle truppe regolari libanesi e dell’Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) in una zona cuscinetto “libera - come si legge - da ogni personale armato che non sia quello delle Nazioni Unite e delle forze armate regolari libanesi”. Sul fronte interno intanto si riaccende lo scontro religioso. Per quindici anni, fino al 1990, Beirut aveva assistito allo scontro tra musulmani e cristiani. Dal maggio del 2008 lo scontro è tra sunniti e sciiti. Naturalmente l’esplodere delle rivolte in Siria ha acuito la preoccupazione e la tensione nel Paese dei Cedri che ora deve guardarsi dai pericoli che vengono da oltreconfine: da una parte Israele che non ha mai rinunciato alle tanto preziose acque del fiume Litani; dall’altra la Siria da cui arriva l’avanzata di miliziani dell’Isis (lo Stato Islamico).

169

È Sirajuddin Zureiqat, ventenne, il nuovo emiro delle Brigate Abdullah Azzam, la principale organizzazione jihadista attiva in Libano e la prima a essere incaricata da al-Qaeda di condurre attentati nel Paese dei Cedri. In lui sono riposte le speranze di rilancio del gruppo, che negli ultimi mesi ha subito diversi colpi. Oltre all'uccisione del precedente emiro, il saudita Majed alMajed, pluriricercato dagli Stati Uniti, dall'Arabia Saudita e dall'Iran, ad indebolire le Brigate Abdullah Azzam sono stati anche l'arresto del suo ideologo Jamal Daftardar e dell'esperto nell'uso di esplosivi Bilal Kayed. Inizialmente noto come portavoce della cellula Hussein Bin Ali delle Brigate, Zureiqat divide i jihadisti tra chi lo considera esperto e saggio, e chi ritiene che abbia fatto molti errori durante il suo mandato. Poco più che ventenne e originario di Beirut, Zureiqat oggi vive tra Zabadani e Qalamoun.


170

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA SIRIA RIFUGIATI

2.468.369

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI LIBANO

851.284

TURCHIA

585.601

GIORDANIA

585.304

SFOLLATI PRESENTI NELLA SIRIA 6.520.800 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA SIRIA RIFUGIATI

149.292

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI IRAQ

146.200


Giornalisti, 390 i morti

Sono 390 i giornalisti e gli altri operatori dell'informazione uccisi in Siria dall'inizio della rivoluzione, a marzo 2011. È il bilancio degli attivisti della Rete siriana per i diritti umani, secondo i quali solo nel mese di gennaio sei giornalisti sono stati uccisi nel Paese, altri 12 sono stati arrestati o rapiti e due sono stati feriti. Il bilancio dello scorso mese comprende due giornalisti uccisi dal regime, il reporter giapponese Kenji Goto Jogo ucciso dagli jihadisti dello Stato islamico (Is), un altro reporter ucciso dal Fronte di Jabhat al-Nusra (gruppo legato ad al-Qaeda) e due da altri gruppi armati.

© Manu Brabo / MEMO

Oltre 3milioni di rifugiati, 6,5milioni di sfollati, 76mila persone uccise soltanto nel 2014. È il bilancio drammatico e sempre provvisorio di quattro lunghi anni di guerra in Siria. Una guerra che sembra destinata a non trovare una soluzione politica a breve termine. La situazione sul campo di battaglia, al contrario, è sempre più complicata. Lo schieramento che si oppone al regime di Bashar al-Asad è sempre più ostaggio di gruppi integralisti che niente hanno a che a fare con i principi di libertà e giustizia che avevano ispirato inizialmente la rivoluzione siriana. Tra questi si è imposto lo Stato islamico (Is), il cui scopo dichiarato è quello di creare un califfato islamico nel Nord della Siria e in Iraq. Oggi la popolazione civile siriana si trova schiacciata tra i pesanti bombardamenti del regime di Asad, quelli della "coalizione" anti-Is a guida Usa, gli attacchi dei numerosi gruppi ribelli attivi sul territorio, gli scontri a fuoco e il terrorismo dello Stato islamico. Le Nazioni Unite nel mese di agosto hanno stimato che il numero totale delle persone uccise dall'inizio del conflitto è arrivato a 191mila, ma gli attivisti per i diritti umani sostengono che il numero reale è probabilmente molto più alto. Più della metà della popolazione siriana è oggi rifugiata e sfollata. Un dramma che non è mai stato in cima alla lista delle priorità della comunità internazionale. Oggi preoccupata soprattutto dall'avanzata dell'Is. Lo Stato islamico controlla ormai 250mila kmq di territorio tra la Siria e l'Iraq. Dall'agosto del 2014 la "coalizione" ha compiuto centinaia di raid, uccidendo almeno 6mila jihadisti (secondo i dati della Cia ce ne sarebbero circa 30-40mila) e un numero imprecisato di civili. L'offensiva non ha però costretto alla ritirata i miliziani dello Stato islamico, che hanno rinunciato solo all'1% del territorio sotto il loro controllo. E possono contare invece sull'arrivo costante di nuovi combattenti. Sarebbero più di mille i volontari che ogni mese varcano il confine della Turchia per unirsi ai miliziani dello Stato islamico. La "coalizione" non è inoltre riuscita a eliminare neanche uno dei leader dello Stato islamico, mentre gli jihadisti hanno conquistato

SIRIA

Generalità Nome completo:

Repubblica araba di Siria

Bandiera

171

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo, Curdo, Armeno, Aramaico e Francese

Capitale:

Damasco

Popolazione:

20.410.000

Area:

185.180 Kmq

Religioni:

Islamica (90%, di cui 74% sunniti e 16% altre confessioni), cristiana (10%)

Moneta:

Lira siriana

Principali esportazioni:

Petrolio, prodotti petroliferi, minerali, frutta e verdura, cotone, tessili, carne e grano

PIL pro capite:

Us 5.000

ampi spazi nei media internazionali sfruttando mediaticamente l'efferatezza dei crimini compiuti contro i civili e i prigionieri. L'uccisione di uno degli ostaggi in particolare, un pilota giordano arso vivo in una gabbia, ha provocato la dura reazione di Amman, alleata degli Usa, che ha intensificato i raid aerei e starebbe pianificando un intervento di terra contro l'Is. Oggi, a combattere gli jihadisti sul territorio ci sono soltanto i Pasdaran iraniani.


Quella che oggi insanguina il territorio siriano è una guerra del "tutti contro tutti". Negli ultimi due anni lo scenario sul campo di battaglia è mutato più volte: l'Esercito libero siriano è ormai disintegrato in tante sigle diverse ed ha generato nel tempo due dei gruppi di opposizione ad Assad più forti e pericolosi: Jabhat al-Nusra legato ad al-Qaeda e l'Isis che oggi combatte con l'unico scopo di creare un califfato islamico nella Regione. I curdi continuano a combattere per il territorio

nel Nord della Siria che hanno cominciato a gestire in semi-autonomia nel corso degli ultimi tre anni, mentre il Presidente Bashar al-Asad non sembra intenzionato a fare alcun passo indietro. Sullo sfondo resta la forte ingerenza di grandi potenze: Usa, Qatar, Arabia Saudita e Turchia, anti-Assad e, seppur con molte ambiguità, antiIsis; Iran, Russia e Cina a sostegno del regime. Nel mezzo, come sempre, la stremata popolazione civile siriana.

Per cosa si combatte

Sigillo di proprietà

Lo Stato Islamico avrebbe messo il proprio logo sulle razioni alimentari inviate dalle Nazioni Unite in Siria. A dimostrarlo sono alcune fotografie circolate sui social media e per le quali il Programma Alimentare Mondiale (Pam) si è detto "estremamente preoccupato". "Il Pam condanna la manipolazione degli aiuti alimentari che sono disperatamente necessari in Siria. Esortiamo tutte le parti in conflitto a rispettare i principi umanitari e consentire ai lavoratori umanitari, inclusi i nostri partner, di fornire il cibo alle famiglie più vulnerabili", ha detto Muhannad Hadi, coordinatore Onu per l'emergenza in Siria. Mentre si cerca di verificare l'autenticità delle immagini, secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, l'Isis ha preso il controllo dell'edificio che ospita la sede della Croce Rossa araba nella cittadina di al-Mayadin della Provincia di Dier al Zour nell'Est della Siria.

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© Manu Brabo / MEMO

La conosciamo come Siria, un tempo era anche Soria, parola scomparsa: ne resta traccia nel gatto soriano. Per secoli terra d’imperi, l’ultimo quello turco sino al 1918, poi protettorato francese, il Paese è indipendente dal maggio del 1945. Per dieci giorni, quell’anno, il popolo siriano manifestò a Damasco per chiedere la libertà. I francesi reagirono bombardando, poi, su pressione inglese, la comunità internazionale riconobbe l’indipendenza, ufficializzata l’1 gennaio 1946. È l’inizio di un periodo di instabilità politica. Nel 1948 la sconfitta nella Prima Guerra arabo-israeliana dà il via al primo di 13 colpi di stato. Nel mezzo c’è la fallimentare esperienza dell’unione con l’Egitto nella Repubblica Araba Unita (1958). Nel 1963 l’ennesimo golpe porta al potere il partito laico Ba’th. Il partito gestisce tutto, da subito. Continuano, però i colpi di stato, accompagnati dalle sconfitte militari: nella terza Guerra araboisraeliana, quella dei Sei Giorni, nel 1967, la Siria perde il controllo delle Alture del Golan, occupate da allora da Israele. Nel 1970 la “Rivoluzione Correttiva Siriana” mette sulla poltrona di capo dello Stato Hafiz al-Assad. Governerà per trent’anni, con mano durissima, reprimendo ogni forma di opposizione e - per i servizi segreti di molti Paesi - alimentando il terrorismo inter-

nazionale. Nel 1982, al culmine di un’insurrezione islamica, Assad bombarda la città di Hama per reprimere la rivolta della comunità musulmana sunnita. Il New York Times parla di almeno 10mila cittadini siriani uccisi, 40mila, di cui 1000 soldati, i morti invece per il Comitato Siriano per i Diritti Umani. Negli stessi anni, alimentando la guerra civile, Damasco arriva a fare del Libano un protettorato. Assad controlla tutto, governa con mano dura.

Quadro generale

© Manu Brabo / MEMO


TENTATIVI DI PACE

Solo accordi a livello locale

Sono oltre 40 i Paesi che partecipano alla "coalizione" contro lo Stato Islamico a guida Usa. A schierarsi quasi immediatamente con la Casa Bianca è stata Londra, dopo la decapitazione del cooperante scozzese David Haines. Il Governo di David Cameron appoggia gli Usa con aerei Tornado e velivoli per la sorveglianza. In prima linea anche la Francia. Molti Paesi hanno scelto invece di non intervenire direttamente, soprattutto perché la coalizione non ha legittimità internazionale e non ha avuto il via libera del Consiglio di Sicurezza. Ma tutti hanno dato un contributo in armi o aiuti umanitari. Chi bombarda: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Australia, Giordania, Bahrein, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti (che hanno però ritirato i propri aerei alla fine del 2014). Chi fornisce equipaggiamento militare: Italia, Germania, Ungheria, Belgio, Canada. Chi invia aiuti umanitari: Spagna, Svezia, Giappone, Kwait.

173

La coalizione anti-Is

Nella catastrofica guerra in Siria, lo spazio per le iniziative di pace sembra essere minimo. Per ridurre le sofferenze dei civili sono stati negoziati a più riprese cessate il fuoco a livello locale, allo scopo di fornire aiuti alle popolazioni civili esauste. Nel campo profughi palestinese di Yarmouk a Sud di Damasco, per mesi sotto assedio, a fine 2013 le persone hanno iniziato a morire di fame. Abdullah Al Khatib, giovane palestinese di Yarmouk che lavora per l'organizzazione locale Basma, ha contribuito a mediare un cessate il fuoco, che a febbraio 2014 ha permesso all'Unrwa di entrare nel campo a portare aiuti. Poco prima il Consiglio di Sicurezza aveva approvato all'unanimità la risoluzione 2139, in cui si richiedeva alle parti in conflitto di permettere l'apertura di corridoi umanitari. Nel corso del 2014 ci sono stati circa cinquanta tregue locali. Anche Staffan de Mistura, rappresentante speciale dell'Onu dal luglio 2014, ha puntato le sue carte in questa fase sulla realizzazione di accordi a livello locale. In particolare alla fine del 2014 era impegnato a mediare un “congelamento delle ostilità” nella città di Aleppo, divisa in due dalla guerra civile.

© Manu Brabo / MEMO

La sua famiglia fa parte della minoranza alauita, propaggine sciita in un Paese che è a grande maggioranza di Islam sunnita - ¾ della popolazione - e in parte curdo. Questo genera continui contrasti, soffocati dalla macchina statale: Assad controlla i servizi segreti, l’esercito, la polizia. Non esistono partiti d’opposizione e la stampa non è libera. L’apice si raggiunge con il passaggio “ereditario” del potere: nel 2000 Hafiz muore e gli succede il figlio Bashar. Le speranze di una apertura democratica dello stato siriano cadono rapidamente: il neo Presidente nomina nei posti che contano i famigliari. Il fratello minore, Maher al-Assad, è al comando della IV Divisione dell’Esercito, mentre il cognato Assef Shawkat, è Capo di Stato maggiore. Ruoli chiave, che si rivelano essenziali al Presidente con l’avvio della rivolta del 2011, desti-

I PROTAGONISTI

nata a trasformarsi in guerra civile. In febbraio, sull’onda delle tante proteste nei Paesi musulmani, anche in Siria iniziano timide proteste. Chiedono maggiore libertà e una distribuzione più equa della ricchezza. La repressione è immediata e subito ci sono centinaia di morti e migliaia di arresti. L’opposizione si organizza, crea un Governo provvisorio che raggruppa tutte le fazioni. Nel giugno del 2011, Damasco mette in campo artiglieria e aviazione e la rivolta diventa guerra civile. I rivoltosi possono contare sull’appoggio di Lega Araba, Unione Europea e Stati Uniti. Russia e Cina, invece, inviano armi al governo di Assad, opponendo il veto ad ogni risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Uno scontro internazionale che, nei fatti, alimenta la guerra civile, causando migliaia di profughi in fuga verso Turchia, Giordania, Kurdistan Iracheno e Libano. Più di un milione e mezzo gli sfollati all’interno del Paese. E così, in guerra, si arriva al 2012.



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Europa

A cura di Amnesty International

Respingimenti, condanna per Grecia e Italia La ricerca della verità e della giustizia per la collaborazione di numerosi Paesi europei ai programmi di detenzione illegale e di rendition ha fatto alcuni passi avanti con la decisione della Corte d’appello del Regno Unito, nell’ottobre 2014, di consentire l’apertura del processo per la rendition in Libia di due cittadini libici nel 2004 e successivamente torturati, grazie alla collaborazione tra servizi segreti libici e britannici. Ancora più rilevante è stata la sentenza con cui a luglio la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Polonia per la violazione dell’articolo 3 (relativo al divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali nei confronti di due cittadini stranieri transitati per un carcere segreto del Paese diretto dai servizi segreti statunitensi. Sempre a proposito di giustizia europea, va segnalata la sentenza "Sharifi e altri contro Italia e Grecia" del 21 ottobre 2014, con cui la Corte europea dei diritti umani ha condannato Italia e Grecia per aver violato, attraverso la prassi del

respingimento collettivo, i diritti umani di quattro richiedenti asilo dell'Afghanistan, rimandati dal porto di Ancona verso la Grecia nonostante il rischio che essi potessero essere ulteriormente rinviati verso il Paese di origine. La Corte ha stabilito che l’applicazione rigorosa del regolamento di Dublino può dar luogo a espulsioni collettive. Le politiche e le prassi degli stati europei - tra cui Spagna, Grecia, Bulgaria e Cipro - sono state al centro delle campagne delle organizzazioni per i diritti umani. Se da un lato l’operazione italiana Mare nostrum ha costituito un esempio virtuoso di ricerca e soccorso in mare con l’obiettivo prioritario di salvare vite umane, con l’operazione Triton, l’Unione europea non ha saputo mettere in piedi un’azione altrettanto efficace per condividere le responsabilità e gli oneri della ricerca e del soccorso in mare di persone in fuga dalla guerra, dalla tortura e dalla fame. La progressiva chiusura della frontiera terrestre orientale e l’assenza di canali di accesso legali e sicuri hanno spinto decine di migliaia di persone ad attraversare il Mediterraneo e l’Egeo, mettendo a rischio le loro vite - e in almeno 3mila casi perdendole - intraprendendo viaggi su imbarcazioni sempre più stipate e insicure, gestite da gruppi criminali. La libertà d’espressione è risultata ulteriormente compromessa in Russia, dove leggi e prassi sempre più restrittive hanno via via ridotto al silenzio organizzazioni della società civile e media indipendenti. L’Azerbaigian ha continuato a


evitare ogni critica per le violazioni dei diritti umani e il numero dei prigionieri di coscienza nelle carceri del Paese è salito a 21. Il conflitto dell’Ucraina ha provocato oltre 2mila vittime, soprattutto nella Regione Orientale del Paese dove tanto i gruppi separatisti filorussi armati e sostenuti da Mosca quanto l’esercito regolare di Kiev e le milizie sue alleate hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani, in alcuni casi equiparabili a crimini di guerra. In numerosi Paesi europei è proseguita la discriminazione nei confronti dei rom, con atti di violenza da parte di attori non statali nell’Europa Orientale e sgomberi a ripetizione in Italia e soprattutto in Francia. Il 25 settembre 2014 la Commissione europea ha deciso d'iniziare una procedura d'infrazione contro la Repubblica Ceca a causa delle politiche educative discriminatorie nei confronti dei rom, perpetrata attraverso l'assegnazione delle alunne e degli alunni rom a scuole monoetniche o la loro de-

stinazione a scuole o classi con programmi per persone con lieve disabilità mentale. In Grecia sono emersi i legami tra il gruppo di estrema destra Alba dorata e le forze di polizia, all’interno delle quali è presente una duratura cultura fatta di impunità, razzismo e violenza endemica, che si esprime anche attraverso l'uso della forza contro i manifestanti e i maltrattamenti ai danni di migranti e rifugiati. Maltrattamenti nei confronti di manifestanti sono stati rilevati anche in Italia e Spagna. A fronte dell’aumento dei casi di violenza omofobica e transfobica in molti Paesi, sia l’Unione europea che i suoi stati membri non hanno colmato i vuoti legislativi che consentirebbero, attraverso il pieno riconoscimento delle motivazioni omofobiche e transfobiche tra quelle che ispirano i crimini dell’odio, di contrastare seriamente la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere.

A cura di Giovanni Scotto

La fragilità dell'Europa Con la guerra in Ucraina la violenza bellica si è ripresentata sul continente europeo. L'Unione Europea non ha brillato per protagonismo sulla scena internazionale, ed è assai divisa soprattutto nel rapporto con la Russia. Inoltre, la crisi ucraina ha mostrato anche l'incapacità dell'Ue di comprendere le reazioni degli altri alle proprie scelte politiche: l'Unione è rimasta in un certo senso prigioniera di un’immagine idealizzata di se stessa come portatrice di stabilità e sviluppo, ed è quindi stata incapace di porsi il problema di possibili ripercussioni negative della sua politica di accordi di associazione con i Paesi, come l’Ucraina, che si trovano “a metà strada” tra Ue e Occidente da un lato, e Russia dall’altro. Mentre la politica europea ha condannato l’ingerenza russa e gli attacchi dei ribelli in aree civili, il Governo ucraino gode di sostanziale credito nelle capitali occidentali, e le responsabilità delle forze armate di Kiev sono passate in buona parte sotto silenzio. L'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), che aveva svolto un ruolo importante in Europa Orientale negli anni novanta, è tornata ad essere al centro dell'attività diplomatica. Sotto la presidenza svizzera, l'Osce è riuscita a mediare a settembre un primo cessate il fuoco tra ribelli filo-russi e Governo dell'Ucraina, che però non è riuscito ad avviare un processo duraturo di pacificazione. A dicembre, il Presidente austriaco Heinz Fischer si è dichiarato contrario a un inasprimento delle sanzioni contro la Russia, chiedendo una solu-

zione politica alla guerra civile ucraina. Il conflitto armato in Ucraina ha mostrato che, come vent’anni fa in ex Jugoslavia, la pace in Europa non può essere considerata un risultato raggiunto una volta per sempre. Il ruolo di mediazione di un’organizzazione come l’Osce la voce dei Paesi tradizionalmente neutrali (Svizzera, Austria), continua ad avere grande importanza. Sul piano delle politiche di pace, a livello comunitario un evento importante ha segnato il 2014: la nascita dello European Institute for Peace, un organismo indipendente in grado di dare supporto all'Unione Europea nei processi di pace, promuovendo attività di mediazione e dialogo informale. Presidente dell'Eip è stato nominato Staffan de Mistura, diplomatico italosvedese attualmente incaricato speciale Onu per la Siria. In Italia, la legge finanziaria 2014 ha previsto per il triennio 2014-16 un finanziamento di 9milioni di euro complessivi per l’istituzione di un contingente di corpi civili di pace, per formare e inviare 500 giovani volontari in azioni di pace non governative in aree di conflitto, o in aree di emergenza ambientale. Lo stanziamento era previsto in un emendamento approvato del deputato Giulio Marcon. La speranza è che in questo modo il nostro Paese inizi a colmare il divario con altre realtà europee in cui gli interventi civili di pace sono già una realtà consolidata. Purtroppo il 2014 è passato senza che i progetti venissero avviati.


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Politkovskaja, ecco i colpevoli

Alla fine del 2014, la giuria popolare di un Tribunale di Mosca ha dichiarato colpevoli cinque uomini per l’omicidio di Anna Politkovskaja, la giornalista russa uccisa il 7 ottobre 2006. Sono i fratelli ceceni Rustam, Ibragim e Dzhabrail Makhmudov, il loro zio Lom-Ali Gaitukayev e l’ex dirigente della polizia moscovita Serghiei Khadzhikurbanov. Sono stati considerati colpevoli di avere, a vario titolo, organizzato ed eseguito il delitto. Gli avvocati della difesa hanno annunciato che presenteranno ricorso. La decisione è arrivata a 8 anni dall’omicidio e dopo tre processi burla. Da ricordare che in un processo stralcio, l’ex poliziotto Dmitri Pavliucenkov era stato condannato a 11 anni di carcere duro per aver pedinato la vittima, e fornito l’arma al killer in cambio di 150mila dollari. Politkovskaja lavorava per Novaja Gazeta e aveva spesso attaccato l’esercito russo e il Presidente Putin per violazione dei diritti umani nella guerra in Cecenia.

È davvero una guerra che pare infinita quella della Cecenia. A vent’anni dalla prima invasione russa, cova ancora sotto traccia, proprio mentre il Governo centrale e la Russia - la grande avversaria dei separatisti - proclamano di avere tutto sotto controllo. I fatti del 2014 sembrano raccontare altre storie. Il 4 dicembre, ad esempio, una vera e proprio battaglia ha insanguinato Grozny, la capitale. Il bilancio finale è stato di 19 morti, 10 uomini delle forze di sicurezza e nove ribelli ceceni e di 28 feriti. Lo scontro si è concentrato per qualche ora attorno ad un posto di blocco, poi si è spostato alla “casa della Stampa” e in una scuola. L'attacco è stato rivendicato dal movimento islamista "Emirato del Caucaso" e i miliziani, in un video, hanno detto di obbedire ad un nuovo capo, lo sceicco Ali Abu Mouhammad. L’annuncio sembra confermare la morte del capo storico dei miliziani islamici ceceni, Doku Umarov. L’uomo era stato dato più volte per morto, ma nel marzo 2014 la voce è parsa più consistente. Da Londra, l’ex emissario dei separatisti ceceni, Ahmed Zakaev, aveva raccontato alla stampa che Umarov era morto a causa di una cancrena, sviluppatasi da una piaga diabetica. Si era scatenata - aveva aggiunto - la lotta per la successione e per questo la morte non era stata ufficializzata. L’attacco di fine dicembre 2014, comunque, dimostra che pur a ranghi ridotti, il separatismo ceceno è sempre pronto a colpire, anche se non sono più i russi gli avversari, ma il Governo che sostengono. Il movimento, per altro, si è sempre più islamizzato. Combattenti ceceni sono sicuramente in Siria, arruolati nel sedicente califfato. In ottobre del 2014, sempre a Grozny, 5 poliziotti sono stati uccisi e altri 12 sono rimasti feriti per un attentato kamikaze di chiaro stampo integralista. L’attentatore si chiamava Apti

CECENIA

Generalità Nome completo:

Repubblica Cecena

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Russo, Ceceno

Capitale:

Groznyj

Popolazione:

1.269.000

Area:

15.500 Kmq

Religioni:

Musulmana sunnita

Moneta:

Rublo, nahar

Principali esportazioni:

Petrolio

PIL pro capite:

n.d.

Mudarov, un diciassettenne della capitale, sparito da casa da mesi. Insomma, la tensione resta e le reazioni del Governo ceceno continuano ad essere durissime. Poche ore dopo l’attacco di dicembre, il Presidente Ramzan Kadyrov ha annunciato che le famiglie dei membri del gruppo armato sarebbero state espulse dal Paese e le loro case demolite. Di lì a poco, almeno nove case sono state date alle fiamme da sconosciuti in cinque città della Cecenia. La cosa è stata denunciata da alcune organizzazioni per i diritti umani: i rappresentanti sono stati minacciati e il Presidente, sui social media, ha scritto che queste organizzazioni stavano aiutando e finanziando i terroristi.


180

Parte dell’impero russo dal 1783, anche se con periodiche ribellioni (Imamato del Caucaso), Cecenia ed Inguscezia furono inglobate nella Repubblica Autonoma Socialista Sovietica Ceceno-Inguscia alla nascita dell’Unione Sovietica. Durante la Seconda guerra mondiale, i ceceni insorsero contro i russi sperando di approfittare dell’impegno dell’esercito sovietico su altri fronti per ottenere l’indipendenza, ma una volta che l’Armata Rossa ebbe ricacciato le truppe nemiche, Stalin ordinò una durissima punizione, accusando i ceceni di aver collaborato con i nazisti (non ci sono però prove storicamente valide a sostegno dell’accusa). Il 23 febbraio 1944 con l’Operazione Lentil in una sola notte mezzo milione di cittadini ceceni vennero deportati dal Governo centrale sovietico nella Repubblica sovietica del Kazakhstan. Qui i ceceni vennero isolati e le famiglie disperse nel tentativo di “decaucasizzare” i ribelli. Fu loro concesso di ritornare alla loro Regione d’origine solo nel 1957. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica in Cecenia nacque un movimento indipendentista che entrò in conflitto con la Russia, non disposta a riconoscere la secessione della Cecenia. Tra i motivi dell’opposizione russa vi sono anche la produzione petrolifera locale e soprattutto il passaggio sul territorio ceceno di oleodotti e gasdotti. Džokhar Dudaev, il Presidente nazionalista della Repubblica cecena, dichiarò l’indipendenza della nazione dalla Russia nel 1991. Nella sua campagna elettorale presidenziale del 1990 Boris Eltsin aveva promesso di riconoscere le richieste di autonomia amministrativa e fiscale dei governi federati, spesso disegnati su base etnica in epoca sovietica e il 31 marzo 1992 la Duma (presieduta da Ruslan Khasbulatov, un ceceno) approvò una legge in tal senso, in base alla quale Eltsin e Khasbulatov firmarono il Trattato della Federazione (Russa), che definiva la divisione dei poteri fra i due livelli di Governo, con 86 degli 88 territori interessati. Il Tatarstan firmò nella primavera del 1994, mentre nel caso della Cecenia, che rifiutava di ritirare la dichiarazione di indipendenza, nessuna delle due parti tentò seriamente di trattare. Nel 1994 il Presidente russo Boris Eltsin inviò 40mila soldati nella Repubblica per impedirne la secessione dando avvio alla prima guerra cecena. Le truppe russe, mal equipaggiate e poco motivate, subirono sconfitte anche notevoli ad opera dei ribelli ceceni. I russi riuscirono a prendere il controllo di Groznyj, la capitale, solo nel febbraio del 1995, e a uccidere Dudaev il 21 aprile 1996 lanciando intenzionalmente un missile sul luogo in cui si trovava con una operazione gestita dalla intelligence militare centrale. A fine agosto 1996 Eltsin si accordò con i leader ceceni per un cessate il fuoco a Chasavjurt, in Daghestan, che portò nel 1997 alla firma di un trattato di pace. Alla fine della prima guerra russo-cecena (1991-96) venne eletto come primo Presidente della Cecenia Aslan Maskha-

dov, il comandante delle forze ribelli che firmò con il generale Aleksandr Lebed la tregua con le forze armate russe. Tuttavia una grave crisi economica, le continue azioni terroristiche di Shamil Basayev e la perdurante presenza di signori della guerra, che in varie zone sostituivano completamente l’autorità governativa, ridimensionarono fortemente la figura del comandante Maskhadov. Il conflitto tornò a divampare nel 1999, dando inizio alla seconda guerra cecena. Nell’agosto 1999, Shamil Basayev decideva di allargare lo spettro del conflitto al vicino Daghestan. Le truppe russe invasero la Cecenia nell’ottobre 1999, radendo al suolo la capitale Groznyj. La maggior parte della Cecenia è attualmente sotto il controllo dei militari federali russi. La causa indipendentista Cecena ha perso l’interesse presso i media, soprattutto a partire dal 2007, anno al quale risale l’ultimo atto rivendicato dal movimento indipendentista.

Per cosa si combatte

Va detto che oggi del sogno irredentista ceceno resta ben poco. Sotto il comando dell’auto-proclamato nuovo Emiro del Caucaso, Doku Umarov, resterebbero infatti - secondo le stime del vice-ministro degli Interni russi, Arkady Edelev - meno di 500 terroristi abbarbicati sulle montagne, fra cui una cinquantina di mercenari arabi. La maggioranza di questi combattenti, inoltre, sarebbe spinta a scegliere la guerriglia non da considerazioni ideologiche o da motivi religiosi,

Quadro generale

Beslan, strage senza risposte

Chiedono giustizia, i famigliari. Nel 2014 è stato celebrato il decennale dalla strage di Beslan, nell’Ossezia del Nord. Tra l’1 e il 3 settembre 2004, 334 persone - tra cui 186 bambini - morirono per un’azione terroristica dei separatisti ceceni. Un gruppo armato fece irruzione nella scuola , sequestrando 1200 persone. I terroristi risposero al tentativo d’irruzione dell’esercito russo facendo esplodere due bombe all’interno dell’edificio, uccidendo più di trecento persone e ferendone altre 700. Le domande senza risposta, dicono ora i famigliari, sono ancora troppe.


TENTATIVI DI PACE

Cecenia: ciò che pare e ciò che è

Ramzan Kadyrov ci prova: invita personaggi famosi per promuovere il Paese e usa regolarmente Twitter nel tentativo di far apparire la Cecenia come uno Stato tranquillo. Il quadro reale, però, mostra una dilagante corruzione e persistenti violazioni dei diritti umani: tortura, arresti arbitrari e minacce non risparmiano i “criminali” (né i loro avvocati). In un simile contesto, le denunce e il giornalismo investigativo possono contribuire ad una effettiva normalizzazione. A tal proposito Amnesty International continua a riportare le violazioni dei diritti e non manca di rendere omaggio ad Anna Politkovskaya, giornalista della Novoya Gazeta uccisa nel 2006. Oggi è Elena Milashina a sostituirla. Lavora per lo stesso giornale - che continua a mantenere l'indipendenza a fronte delle leggi russe che cercano di smorzare la libertà di stampa dal 2011- ed ha il compito di monitorare la situazione: “vivono ancora sotto un regime totalitario, ma nessuno ne parla o ne scrive. L'informazione è l'unica cosa che possa cambiare la loro situazione”.

Doku Umarov

Nato il 13 aprile 1964 nel villaggio di Kharsenoj, in Cecenia e dato per morto per una cancrena nel 2014, Doku Umarov ha scritto un impressionante elenco di colpi terroristici. In diverse occasioni, attraverso la diffusione di videocassette, ha rivendicato alcuni dei più spettacolari attentati in Russia, come la bomba sul treno Nevskij Ekspress nel 2009, le esplosioni nella metropolitana di Mosca nel 2010, l’attentato all'aeroporto moscovita di Domodedovo nel 2011. Nella struttura armata del separatismo ceceno è entrato nel 1990, all’alba della dissoluzione dell’Unione Sovietica. È diventato presto uno dei “capi militari” più prestigiosi. Tra il 2006-2007, è stato "Presidente” dell’Ičkeria, la Cecenia secessionista, in contrapposizione all’uomo del Cremlino, Ramzan Kadyrov, capo della Cecenia "ufficiale” filo-russa. Nel settembre 2007 è diventato "emiro” del cosiddetto Emirato Caucasico, dichiarato dalla Procura generale della Federazione Russa organizzazione terroristica.

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(Kharsenoi, 13 aprile 1964 7 settembre 2013)

quanto piuttosto da motivi personali, per vendicarsi cioè di un torto subito. Dietro questo mutamento epocale c’è sia la stanchezza - in Cecenia si combatte ormai da 20 anni - che l’eliminazione progressiva di tutti i grandi leader della guerriglia: dal Presidente Dzokhar Dudaev, ucciso nel 1996, al suo successore Aslan Maskhadov, ucciso nel 2005, fino al comandante Shamil Basayev, ucciso nel 2006. Ma a far suonare la campana a morto per la guerriglia cecena è stata soprattutto l’ascesa di un clan forte e prestigioso, che ha scelto di abbandonare la lotta armata e si è schierato dalla parte del Cremlino: il clan dei Kadyrov. Già gran Mufti di Grozny, Akhmad Kadyrov viene eletto capo del Governo nel 2000 e diventa Pre-

I PROTAGONISTI

sidente della Cecenia nell’ottobre 2003, carica che occupa fino al maggio 2004, quando viene ucciso in un attentato allo stadio di Grozny. Al suo posto è subentrato il figlio Ramzan, famoso per i suoi metodi brutali, che viene confermato Presidente nel 2007 e regna tuttora, con pieni poteri. È la milizia dei Kadyrov che viene incaricata, negli ultimi anni, di fare la “guerra sporca”, in nome di una progressiva cecenizzazione del conflitto, perseguita da Mosca con caparbietà: ne consegue un’alternanza di bastone e carota, con ripetute amnistie per i ribelli che scelgono di abbandonare la lotta armata e una spietata caccia all’uomo per stanare gli irriducibili. Se i risultati ci sono, insomma, restano contradditori. Per imporre la sua pace, Ramzan Kadyrov ha ridotto infatti a carta straccia i diritti umani più elementari, come denunciano da anni tutte le organizzazioni internazionali.


182

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DA CIPRO RIFUGIATI

10

RIFUGIATI ACCOLTI A CIPRO RIFUGIATI

3.883


Caccia inglesi contro l’Isis

I caccia inglesi della Royal Air Force (Raf) partono dalla base militare di Akrotiri, sulla costa meridionale di Cipro per missioni in Oriente contro il sedicente Stato islamico (Is). La base costituisce un territorio sottoposto alla diretta sovranità britannica. Sull’isola di Cipro esiste un'altra base britannica: Dhekelia. Nel complesso, sono presenti circa 2500 soldati inglesi. Nel 2014, un accordo storico è stato raggiunto fra Cipro e Gran Bretagna: sono state abolite tutte le restrizioni che impedivano lo sviluppo dei terreni agricoli, di proprietà cipriota, all'interno delle aree britanniche. Il 78% del territorio delle basi (circa 200 km quadrati) rientrano ora nel piano regolatore urbanistico dell'isola.

L’isola è pacificata ma sempre “separata” al suo interno a causa della divisione etnica e politica tra ciprioti di origine greca e ciprioti di origine turca, una divisione che riflette le sempre tese relazioni diplomatiche tra Cipro, Turchia e Grecia. Ancora non risolta, dunque, è la questione della “riunificazione”. Dal 1974 Cipro non costituisce uno Stato unitario. Al Sud, infatti, vivono i greci della Repubblica di Cipro, Paese riconosciuto dalle diplomazie mondiali e divenuto nel 2004 membro dell’Unione Europea. Al Nord, su circa il 38% del territorio, vige la Repubblica Turca di Cipro Nord che non fa parte della zona doganale e fiscale europea (anche se i suoi cittadini vengono considerati di fatto cittadini dell’Ue) ed è riconosciuta soltanto dalla Turchia. La “riunificazione” è un tema di sempre scottante attualità. Ancora ad ottobre 2014, il Presidente cipriota Nicos Anastasiades e il leader turco-cipriota Dervis Eroglu hanno tentato nuovamente la via del dialogo grazie alla mediazione dell'ex ministro degli Esteri norvegese, Espen Barth Eide, nominato ad agosto 2014 consigliere speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Ma anche stavolta, un nulla di fatto. L'8 ottobre, infatti, la Repubblica di Cipro decideva di ritirarsi dai negoziati in segno di protesta contro i “comportamenti provocatori” della Turchia. Di quali provocazioni si trattava? La Turchia aveva annunciato di voler condurre ricerche sismiche al largo della costa Meridionale dell'Isola, proprio in quel Blocco 3 della Zona Economica Esclusiva del Mediterraneo dove il Governo di Nicosia, avendone la piena sovranità e competenza, aveva già concesso al consorzio italo-coreano Eni-Kogas di iniziare le trivellazioni per l'estrazione di gas naturale. E così, dopo alcune consultazioni con il Governo di Atene al fine di "coordinare azioni di contrasto alla minaccia turca", Cipro ha preso la sua decisione: tentare di bloccare il processo di adesione della Turchia all'Unione Europea. Intanto, la nave turca Barbaros entrava all'interno

CIPRO

Generalità Nome completo:

Repubblica di Cipro; Repubblica Turca di Cipro Nord

Bandiera 183

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Greco, Turco

Capitale:

Nicosia

Popolazione:

1.129.000

Area:

9.250 Kmq (di cui 3.355 Kmq all’interno della Repubblica Turca di Cipro Nord)

Religioni:

Cristiana ortodossa, musulmana

Moneta:

Euro nella Repubblica di Cipro. Nuova lira turca, nella Repubblica Turca di Cipro Nord

Principali esportazioni:

Prodotti agricoli tipici come olive e limoni, tessuti e calzature

PIL pro capite:

Us 26.794 Repubblica di Cipro Us 5.600 Cipro del Nord

delle acque riservate a Nicosia. La Turchia non riconosce il diritto alla Repubblica di Cipro di avviare lo sfruttamento dei giacimenti gassiferi off-shore, lo considera un arricchimento “unilaterale” e a danno dei propri interessi sull'Isola.


184

Ma come è nata l'ostilità tra greci e turchi di Cipro? Il 16 agosto1960, al termine della colonizzazione britannica, veniva fondata la Repubblica di Cipro. Un mese più tardi, il nuovo stato diventava membro dell’Onu. Ma nel 1963 iniziarono i problemi: i greci, da una parte e i turchi, dall’altra, vennero alle armi. Ciascuna delle due comunità voleva stabilire il proprio dominio sull’Isola. Solo grazie all’Onu si fermarono le violenze: il 4 marzo 1964 il Consi-

glio di Sicurezza delle Nazioni Unite emanava la Risoluzione n. 186 con la quale istituiva la missione Unficyp (United Nations Peacekeeping Force in Cyprus). Tale missione è ancora in corso e può contare su 858 Caschi Blu. Ventimila sono invece i soldati turchi ancora di stanza a Nord della Linea verde e nella minuscola enclave di Kokkina che si trova in territorio greco, a Nord-Ovest dell'isola.

Per cosa si combatte

Cipro è la terza isola del Mar Mediterraneo per estensione, è situata 70 km a sud della Turchia e a soli 200 Km dalla costa della Siria e del Libano. Ha una superficie complessiva di 9250 km² di cui il 59% sotto il controllo effettivo della Repubblica di Cipro, mentre la zona turcocipriota al Nord copre circa il 36% del territorio. Due piccole aree, Akrotiri e Dhekelia appartengono al Regno Unito come basi militari sovrane. La cima più alta dell'isola è il monte Olimpo (1953 metri) che sorge nella catena montuosa di Troodos. “Mesaria” è la fertile pianura centrale dell’isola. L’Isola venne divisa dopo l’invasione militare della sua area settentrionale da parte della Turchia nell’estate del 1974. Ma come si era arrivato a questa invasione? Nel 1955 a Cipro si era formato un movimento di guerriglia, l’Eoka (Ethniki Organosis Kyprion Agoniston, Organizzazione Nazionale dei Combattenti Ciprioti), a sostegno del progetto, già esistente da decenni, di annettere Cipro alla Grecia. Era il progetto Enosis (unione, annessione). Intanto, nel 1960, Cipro cessò di essere colonia britannica e fu proclamata indipendente sulla base del Trattato di Zurigo e Londra stipulato tra Turchia, Grecia e Regno Unito, alla presenza del leader greco-cipriota, l’arcivesco-

vo Makarios III, e di quello turco-cipriota, Fazıl Küçük. In base a quell'intesa fu elaborata una Costituzione. Ma nel 1967 in Grecia si instaurò una dittatura militare detta “dei colonnelli”. L’Enosis, l’idea dell’annessione di Cipro, tornò viva. Durante la campagna presidenziale per le elezioni del 1968, il Presidente cipriota Makarios III disse che l'Enosis era impossibile mentre l’indipendenza dell’isola era l’unica strada. Così nel 1974, i fautori dell’Enosis formarono l’Eoka B e con l’appoggio del governo militare della Grecia e della Cia americana organizzarono un colpo di Stato per cacciare Makarios III. A questo punto, le forze armate della vicina Turchia sbarcarono a Nord di Cipro per impedire che i greco-ciprioti conquistassero tutta l’Isola e la annettessero alla Grecia. A Cipro viveva già al tempo una nutrita comunità turca. Fino al 1974, le comunità greco e turco cipriote avevano convissuto in pace. Nel 1983 venne proclamata la Repubblica turca di Cipro del Nord (Rtcn) riconosciuta come stato legale solo dalla Turchia. La Repubblica di Cipro invece è riconosciuto a livello internazionale. Cipro è divisa in sei distretti amministrativi: Distretto di Famagusta, Distretto di Kyrenia, Distretto di Larnaca, Distretto di Limassol, Distretto di

Quadro generale

L’obiettore finisce in carcere

Murat Kanatli, un giornalista turco-cipriota, è stato condannato e incarcerato come obiettore di coscienza in quanto si è rifiutato di partecipare alle esercitazioni militari annuali obbligatorie nella parte settentrionale di Cipro, da 40 anni sotto occupazione delle forze armate di Ankara. Dal 2009 Kanatli si è sempre rifiutato di partecipare alle esercitazioni annuali condotte congiuntamente nella parte Nord dell'isola dalle forze turche e da quelle turco-cipriote. Il comitato direttivo dell'Unione dei Giornalisti di Cipro a Nicosia ha condannato l'arresto.

Terre occupate nodo da sciogliere

A maggio 2014, la sentenza della Corte europea dei diritti umani ha confermato una giurisprudenza già radicata sulla questione cipriota: i titoli di proprietà - fondiaria o immobiliare - delle terre occupate e confiscate dall'autorità turca nel 1974 e passate dal 1982 sotto l'amministrazione dell'autoproclamata Repubblica turca di Cipro Nord restano in capo ai proprietari “originari”. I grecociprioti che furono costretti a fuggire a Sud a causa dell'invasione turca e che per questo persero le loro proprietà restano, dunque, anche a distanza di 40 anni, gli unici legittimi titolari. I risarcimenti per i profughi greco-ciprioti (ben 175mila persone) e l'eventuale restituzione delle proprietà saranno i nodi più complessi da sciogliere.


TENTATIVI DI PACE

Negoziati e indecisioni

A febbraio sono ripresi i negoziati tra i ciprioti greci e turchi, alimentando la speranza di una veloce e definitiva soluzione al conflitto sotto gli auspici della comunità internazionale. Purtroppo finora si è concluso poco: si discute se sia preferibile il federalismo o il presidenzialismo a rotazione; si accusa di non voler affrontare punti importanti quali il territorio; si denuncia il trattamento nei confronti di una parte - i turchi - che si sente una minoranza non tutelata; viene richiesto un maggior coinvolgimento dell'Europa ma poi ci si tira indietro. La scoperta di gas naturale costituisce paradossalmente l'ennesimo ostacolo ad un accordo i cui benefici andrebbero a vantaggio di tutti. Il quadro che ci troviamo davanti è una spartizione di fatto che, come fa notare l'International Crisis Group, rappresenta un'ipotesi anche nelle menti di alcuni ciprioti greci: forse l'indipendenza di entrambe le parti potrebbe essere una soluzione.

Nikos Anastasiades (Limassol, 27 settembre 1946)

Dervis Eroglu (Famagosta, 1938)

È nato nel 1938 a Famagusta. È il Presidente della Repubblica turca di Cipro Nord. È stato primo Ministro dal 1985 al 1994 e dal 1996 al 2004.

Nicosia, Distretto di Paphos. L’11 novembre 2002 il Segretario Generale dell’Onu, Kofi Annan, presentava un piano particolareggiato per una sistemazione complessiva della questione cipriota (il cosiddetto Annan I). Tenendo conto delle reazioni delle due parti, il piano fu rivisto il 10 dicembre 2002 (Annan II) e il 26 febbraio 2003 (Annan III). Il Segretario Generale propose alle parti di sottoporre l’Annan III a due separati referendum, uno per comunità, da effettuarsi simultaneamente. Ma il tutto è rimasto sulla carta. Nel gennaio 2004, il Segretario Generale Kofi Annan riprese i negoziati. Vennero redatti altri due piani: Annan IV e Annan V. I ciprioti vennero quindi chiamati a votare sull’Annan V il 24 aprile 2004, a distanza di appena pochi giorni dall’adesione della Repubblica di Cipro all’Ue. Ma gli elettori greco-ciprioti respinsero con ampia maggioranza il piano con il 75,8% dei voti. Al contrario, il 64,9% degli elettori turco-ciprioti lo approvarono. Dato lo stallo della situazione e i delicati equilibri politici interni, l’Onu continua a lasciare sull’isola la missione United Nations Peacekeeping Force in Cyprus (Unficyp). I caschi blu vennero inviati a Cipro già nel 1964,

I PROTAGONISTI

per porre termine alle continue violenze tra le comunità greco-cipriota e turco-cipriota. Dal 1964 presidiano la “Linea Verde”, quell’area di circa 350 km2 che fa da cuscinetto tra il Nord turco e il Sud greco, dividendo in due anche la capitale Nicosia. Il termine “Linea Verde” (ma anche “Linea Attila”) ha origine dalla linea che nel 1964 il generale Peter Young, comandante delle forze britanniche sull’isola, disegnò (con una matita verde) sulla mappa di Nicosia allo scopo di separare i quartieri greci e turchi della capitale. Dall’aprile del 2003 è possibile attraversare la “Linea Verde”. Nel 2008 è stato aperto il primo passaggio all'interno del centro storico della capitale, in Ledra Street. Tuttavia, per quanto riguarda gli spostamenti Nord-Sud c'è da considerare questo: il governo di Nicosia considera qualunque ingresso da Nord, che non avvenga attraverso la frontiera internazionale, come “immigrazione clandestina”. Chi vive, lavora, studia a Nord e volesse raggiungere il Sud dell'Isola deve essere accompagnato da un cittadino turco-cipriota che faccia da garante. D'altra parte, chi vuole raggiungere Cipro Nord con voli di linea diretti a Kyrenia deve prima atterrare in Turchia, unico Paese che riconosce il diritto di transito nei propri cieli agli aerei verso la Repubblica turca di Cipro del Nord.

185

È nato a Limisso il 27 settembre 1946. Dal 2013 è Presidente della Repubblica di Cipro, leader del partito cristianoconservatore Disy (membro del Partito Popolare Europeo), è un avvocato formatosi all'Università di Londra.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA GEORGIA RIFUGIATI

6.772

SFOLLATI PRESENTI NELLA GEORGIA 257.611 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA GEORGIA RIFUGIATI

847


Uno Stato di fatto

L’Abkhazia, a Nord della Georgia e affacciata sul Mar nero, è uno Stato de facto non riconosciuto dalla maggioranza dei membri delle Nazioni Unite. All’indomani della dissoluzione dell’Unione sovietica, con l’indipendenza della Georgia, le tensioni etniche nella Regione esplosero in tutto il loro vigore, causando la guerra del 1992-93, da cui l’esercito georgiano uscì sconfitto. Lo status dell’Abkhazia è rimasto in un limbo sin da allora, salvo un riaccendersi della crisi a livello diplomatico con il riconoscimento dell’indipendenza da parte della Russia, nel 2008. Per il Governo di Tbilisi si tratta ancora formalmente di territorio georgiano, seppur dotato di una ampia autonomia. L’Abkhazia riconosce Sukhumi come propria capitale e Raul Khajimba come legittimo Presidente.

Freedom House colloca la Georgia nel gruppo dei Paesi parzialmente liberi, insieme Turchia e Bosnia. Nel 2004, l'Ue ha inaugurato la Politica di vicinato, come alternativa alla piena membership nell'Unione, con l'obiettivo di stabilizzare le aree ai confini dell'Europa ed evitare nuove divisioni con i vicini dell'Ue allargata. La Georgia rientra nella dimensione Orientale della Politica di vicinato, insieme ad altri 5 Paesi dell'ex Urss e del Caucaso Meridionale: Bielorussia, Moldavia, Ucraina, Armenia e Azerbaijan. Dal 2006 il Paese ha avviato un processo di pre-adesione all'Alleanza Atlantica. A seguito della guerra in Ossezia del Sud del 2008, l'Ue ha dispiegato una missione di monitoraggio (European Monitoring Mission, Eumm) in Georgia per contribuire al ristabilimento e alla normalizzazione dell'area, all'osservazione e al rispetto dei diritti umani e alla tenuta dell'accordo Russia-Georgia del 2008. Nel gennaio 2013 la Georgia ha presentato la domanda ufficiale di ingresso nella Comunità europea dell’Energia. Dall'ottobre 2013 Giorgi Margvelashvili è succeduto a Saakashvili alla presidenza del Paese. Margvelashvili appartiene al partito “Sogno georgiano”, costituito dal miliardario Bidzina Ivanishvili. A giugno 2014 è stato firmato un importante Accordo di Associazione con l'Ue che include anche un accordo di Libero scambio (Deep and Comprehensive Free Trade Area, Dcfta) che rafforza i legami economici e politici dell'Ue con la Georgia. A oggi, la Georgia è membro delle Nazioni Unite, del Consiglio d’Europa, dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce). Il riconoscimento dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud da parte della Russia come stati indipendenti ha provocato forti manifestazioni antirusse nella capitale, Tbilisi, e sparso il timore di una volontà russa di annettere le due Regioni. La recente annessione della Crimea da parte della Russia ha sollevato nel Paese nuove preoccupazioni sul possibile verificarsi di una simile iniziativa nei due stati de facto.

GEORGIA

Generalità Nome completo:

Repubblica Georgiana

Bandiera

187

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Georgiano

Capitale:

Tbilisi

Popolazione:

4.512.000

Area:

69.510 Kmq

Religioni:

Ortodossa georgiana (76%), musulmana (9.9%), ortodossa russa (3%), armena apostolica (4.9%), cattolica (2%), altre (3.2%)

Moneta:

Lari georgiano

Principali esportazioni:

Metalli ferrosi e non, alcuni prodotti agricoli, vino

PIL pro capite:

Us 5.842

L'economia della Georgia ruota tradizionalmente intorno alla coltivazione del cedro, della frutta, del tè e della vite, e allo sfruttamento delle miniere di manganese e rame. La Georgia importa la quasi totalità dei beni di consumo dalla Russia e ricava ingenti entrate dalle rimesse degli emigranti. Oggi è in espansione il mercato energetico legato allo sfruttamento delle risorse idroelettriche e al passaggio sul territorio georgiano del gasdotto Trans-Adriatico.


Nei mesi di giugno e luglio 2008 aumentarono le tensioni e si registrarono esplosioni e scambi a fuoco sia in Abkhazia che in Ossezia del Sud. Nell'agosto dello stesso anno ebbe inizio un'operazione militare georgiana di ampia scala contro la città di Tskhinvali, in Ossezia del Sud. Si originò un conflitto armato che coinvolse la Russia. Dopo la firma del cessate il fuoco il 15 agosto 2008, la Russia riconobbe formalmente l'indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud. Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch o la Missione europea incaricata di indagare cause e responsabilità del conflitto ravvisarono in tutte le parti coinvolte (forze georgiane, russe e dell'Ossezia del Sud) violazioni dei diritti umani. Abkhazia e Ossezia del Sud, oggi Regioni de fac-

to indipendenti, sono reclamate come proprie da Tbilisi, la cui posizione è appoggiata da tutti gli stati membri dell’Ue e dall’Alleanza Atlantica, oltre che dalle stesse Nazioni Unite. Il conflitto, di fatto rimasto congelato dal ritiro delle truppe russe dall’Ossezia del Sud, continua a condizionare i rapporti internazionali della Georgia, specialmente con la Russia. L’Ossezia del Sud è abitata da una forte maggioranza di popolazione di etnia e lingua osseta (di origine iraniana e religione russo-ortodossa), a differenza dell’Abkhazia che ha una composizione etnico-demografica più variegata. Dall’inizio del conflitto, comunque, le popolazioni georgiane residenti hanno abbandonato le due Regioni, aumentando la componente etnica non georgiana.

Per cosa si combatte

La Georgia è uno stato transcaucasico, a Est del Mar Nero. Repubblica dell'Unione Sovietica fino al 1991, confina a Nord con la Russia, a Sud con la Turchia e l'Armenia, a Est con l'Azerbaijan e a Ovest con il Mar Nero. La Georgia ha un territorio prevalentemente montuoso, dominato dalla Catena del Caucaso. La geografia del Paese, a cavallo dell'istmo che si estende tra il Mar Nero e il Mar Caspio, ne ha fatto un territorio di collegamento tra l'Europa e l'Asia e di estrema importanza strategica nell’arco della storia. Il 28 ottobre 1990 si tennero le prime elezioni multipartitiche, seguite il 31 marzo da un referendum per l'indipendenza, approvata dal 98,9% dei votanti. L'indipendenza formale dall'Urss venne dichiarata il 9 aprile 1991. Immediatamente dopo la conquista dell’indipendenza, il Paese ha sofferto un periodo di turbolenze politiche ed economiche. Gli anni della transizione alla democrazia e all'economia di mercato sono stati accompagnati da tassi di crescita lenti e sanguinosi conflitti interni con le Regioni separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud. In risposta a una nuova legge che rendeva la

lingua georgiana obbligatoria in tutti gli organi di stato, la neo-costituita Assemblea Popolare dell'Ossezia del Sud, nel gennaio 1992, dichiarò con un referendum la propria indipendenza esprimendo anche la volontà di entrare a far parte della Federazione Russa. Ne seguì un conflitto fra i georgiani e i ribelli della Regione autonoma che si concluse, sempre nel 1992, con una tregua. L’accordo alla base del cessate il fuoco prevedeva la dislocazione in zona di un contingente di "forze miste per il sostegno alla pace" composto da soldati provenienti dalla Russia, dall'Ossezia del Nord e dalla Georgia. Dal 1991 al 1993 un conflitto ancora più grave infiammò l’Abkhazia. Si giunse ad un accordo di pace solo nel 1994, dopo che la Georgia accettò di entrare a far parte della Comunità Stati Indipendenti (Csi) e acconsentì alla presenza di basi russe sul proprio territorio. L'accordo stipulato a Mosca il 14 maggio del 1994, prevedeva un cessate il fuoco, la dislocazione di un contingente di pace della Csi, e un impegno delle parti a risolvere pacificamente il conflitto. In pratica, le forze di pace includevano solo soldati russi, per la maggior parte provenienti dalle basi già

Quadro generale

L'influenza occidentale

188

Con la Rivoluzione delle rose si fa solitamente iniziare il nuovo corso post sovietico della Georgia. Le imponenti manifestazioni del 2003 a seguito della rielezione a Presidente di Eduard Shevardnadze, accusato di brogli, sfociarono in un vero moto rivoluzionario contro la classe politica al potere fino ad allora. Più di venti ininterrotti giorni di proteste portarono alle dimissioni di Shevardnadze che fu sostituito ad interim da Nino Burjanadze. L’anno successivo, allo scadere effettivo del mandato presidenziale, le nuove elezioni diedero il via all’era Saakashvili. Secondo molte fonti, la Rivoluzione delle rose fu pesantemente influenzata e sostenuta dalle potenze occidentali, Stati Uniti in testa. Un ruolo determinante nelle giornate di protesta fu svolto, per la prima volta, anche dai media indipendenti del Paese.

Ossezia del Sud caso aperto

Anche l’Ossezia del Sud è, a seguito della guerra del 2008, uno stato indipendente de facto, privo del riconoscimento della maggioranza della comunità internazionale. È una piccola fetta di territorio di appena 4mila chilometri quadrati, a Sud della repubblica autonoma dell’Ossezia del Nord, nella Federazione russa ed è composto per lo più da villaggi. Le rivendicazioni di indipendenza risalgono anche in questo caso all’indomani della dissoluzione dell’Urss, ma sono rimaste latenti fino allo scoppio del conflitto russo-georgiano del 2008. In quell’occasione l’esercito russo intervenne respingendo i militari georgiani e ponendosi a garanzia delle rivendicazioni ossete.


TENTATIVI DI PACE

Georgia: l'importanza degli attori internazionali

(Tbilisi, 21 dicembre 1967)

Mikheil Saakashvili è stato per quasi dieci anni la faccia della Georgia. Dopo aver dato un’impronta fortemente filo Occidentale al Paese e averne caratterizzato la politica internazionale in senso anti russo, è stato sconfitto alle elezioni parlamentari del 2012 e indagato dalla procura generale per frode elettorale e abuso di potere. La presidenza di Saakashvili ha a lungo goduto del favore dei Paesi Occidentali per lo sforzo di riforma e rinnovamento, per la lotta alla corruzione e per la politica di avvicinamento all’Alleanza atlantica. Nato in una famiglia di intellettuali, sposato con la linguista olandese Sandra Roelofs e fluente in inglese e francese, Saakashvili incarna l’immagine del politico riformatore post sovietico che piace all’Occidente. Nonostante questo, il suo decennio non è privo di ombre. Negli anni si sono intensificate le accuse di autoritarismo e repressione delle opposizioni, che hanno raggiunto il culmine con l’uso della forza contro le manifestazioni antigovernative del 2007. Nel luglio del 2014 la procura di Tbilisi ha avviato un processo a carico di Saakashvili con l’accusa di abuso di potere in relazione ai fatti del 2007, emettendo un mandato d’arresto.

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Mikheil Saakashvili

Georgia, Abkhazia, Ossezia del Sud, Russia: il conflitto prosegue irrisolto, e le tensioni permangono: contro i velati desideri di Vladimir Putin, la Georgia si avvicina all'Unione Europea firmando l'accordo di associazione e la Nato le promette cooperazione; in Abkhazia vince le elezioni Raul Khadzhimba, il quale cerca maggiori contatti con la Russia. L'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, con l'ausilio dell'Eumm (European Union Monitoring Mission in Georgia), presidia il progetto “Incident Prevention and Response Mechanisms”, creato a seguito della guerra del 2008. Si tratta di una consultazione permanente che coinvolge Abkhazia, Georgia, Russia, Nazioni Unite e Unione Europea allo scopo di prevenire gli incidenti di frontiera, e dimostra l'importanza del dialogo nella prevenzione di una possibile escalation, contribuendo alla stabilità regionale. L'incontro di ottobre, riporta l'Osce, si è concluso in un clima costruttivo, con la speranza che l'appuntamento di dicembre sia altrettanto proficuo.

presenti in Abkhazia e Georgia. In seguito, fu stabilita la presenza di una missione di osservatori delle Nazioni Unite (Unomig), con il compito di controllarne l’operato. Ossezia del Sud e Abkhazia sono da allora delle Regioni de facto indipendenti, membri, insieme alla Transnistria e al Nagorno-Karabakh, della Comunità per la democrazia e il diritto delle nazioni, un’organizzazione internazionale che riunisce territori dell’ex-Urss a riconoscimento limitato. I primi anni della Georgia indipendente avevano visto al potere l'ex-ministro degli Esteri dell'Unione Sovietica, Eduard Shevardnadze. Nel 2003, dopo che Shevardnadze aveva vinto ancora una volta le elezioni politiche, in un contesto di tensioni e accuse di brogli, corruzione

I PROTAGONISTI

e nepotismo, montò la protesta popolare. Shevardnadze diede le sue dimissioni il 23 novembre di fronte all'estendersi delle manifestazioni. La Rivoluzione delle rose, così fu chiamato il movimento di protesta, avvenne senza spargimento di sangue e rappresentò un momento di speranza democratica non solo per la Georgia, ma anche per le altre repubbliche caucasiche dell'ex Unione sovietica. Con le dimissioni di Shevardnadze salì alla presidenza del Paese Mikheil Saakashvili. La sua guida della Georgia, ininterrotta fino al 2013, si tradusse in una vigorosa sterzata verso alleanze con gli Stati uniti e l'Europa, oltre che in una chiara politica di avvicinamento alla Nato. Si è trattato di un decennio che ha caratterizzato la vita recente del Paese e che ha visto anche il tragico episodio della guerra del 2008. Dal 2013 è Presidente Giorgi Margvelashvili, un accademico non allineato con nessun partito e solo recentemente prestato alla politica.


190

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL KOSOVO (+ SERBIA) RIFUGIATI

48.693

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI FRANCIA

11.738

GERMANIA

8.410

MONTENEGRO

6.967

SFOLLATI PRESENTI NEL KOSOVO (+ SERBIA) 227.495 RIFUGIATI ACCOLTI NEL KOSOVO (+ SERBIA) RIFUGIATI

57.083

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI CROAZIA

41.762

BOSNIA & HERZEGOVINA

15.296

Non essendo stato ancora riconosciuto il Kosovo i dati sono riferiti all’intera Serbia


La missione non piace più

La fiducia nella missione europea Eulex è crollata: il principale quotidiano di Pristina, Koha Ditore ha pubblicato alcune lettere firmate da un pubblico ministero inglese, Maria Bamieh, in cui si denuncia la corruzione di alcuni alti ufficiali di Eulex i quali avrebbero accettato tangenti da sospetti criminali per affossare e insabbiare processi. Nel Progress Report 2014, la Commissione Europea che valuta i passi avanti fatti dal Kosovo per l'adesione all'Unione ha scritto: “c'è stato qualche progresso nel settore giudiziario. Il Kosovo ha iniziato ad affrontare alcune delle priorità, ma rimangono gravi preoccupazioni per quanto riguarda l'indipendenza, responsabilità, imparzialità ed efficienza di giudici e pubblici ministeri”.

Resta difficile la convivenza tra serbi e albanesi, soprattutto nel Nord del Paese. Bastano piccoli episodi dal valore fortemente simbolico a far riesplodere la tensione con manifestazioni di piazza, spesso risolte in disordini. A Kosovska Mitrovica (307500 abitanti), duri scontri hanno contrapposto manifestanti kosovari di origine albanese alla polizia. Una ventina i feriti per una violenza scaturita da una iniziativa serba che avrebbe dovuto rappresentare un motivo di distensione: sostituire una barricata di cemento con un “giardino della pace”. E invece, anche fiori e piante hanno riacceso la rivalità interetnica. “Come capo del Governo, ho accolto con favore la rimozione della barricata ad opera della comunità serba, sperando fosse un segno di maturità civica. Purtroppo sono bastate solo poche ore perché io e il popolo del Kosovo rimanessimo delusi per l'atto vergognoso del ripristino della barricata sul fiume Ibar", ha detto Hashim Thaci, capo del Governo di Pristina. Dopo la rimozione della barricata di cemento, il sindaco del settore serbo (Nord) di Mitrovica, Goran Rakic aveva annunciato di voler mettere “fiori al posto delle pietre”. Ma i fiori hanno mantenuto la stessa funzione delle pietre: impedire la libera circolazione automobilistica lungo il fiume Ibar, che segna il confine tra il settore serbo e quello albanese della città. Secondo Rakic si dovrebbe attraversare il ponte unicamente a piedi. Senza la mediazione dell'Ue sembra che un dialogo non possa esserci tra serbi e albanesi. E, nel 2015, sarà proprio il nuovo capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, a tentare di normalizzare i rapporti tra Belgrado e Pristina. Un dialogo sospeso dal febbraio 2014, in attesa di vedere quali equilibri si sarebbero formati dopo le elezioni politiche in Serbia (a marzo) e poi in Kosovo (a giugno). Ma anche dopo le elezioni la situazione in Kosovo è rima-

KOSOVO

Generalità Nome completo:

Repubblica del Kosovo

Bandiera

191

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Albanese, Serbo

Capitale:

Prishtina/Priština

Popolazione:

Stime recenti parlano di 2.130.000 abitanti

Area:

10.887 Kmq

Religioni:

Musulmana, ortodossa, cattolica

Moneta:

Euro (moneta parallela al dinaro serbo al Nord)

Principali esportazioni:

Minerali e metalli non lavorati, prodotti manifatturieri

PIL pro capite:

Us 1,612

sta fortemente instabile. Nel dettaglio, le elezioni di giugno 2014 in Kosovo hanno confermano il Partito democratico del Kosovo (Pdk) di Hashim Thaci come prima forza del Paese con il 30,38%. Seconda la Lega democratica del Kosovo (Ldk) di Isa Mustafa con il 25,24%, seguita da: Autodeterminazione di Albin Kurti al 13,59%, Alleanza per il futuro del Kosovo (Aak) di Ramush Haradinaj con il 9,54%, Lista Srpska (minoranza serba) con il 5,22% e Nisma di Fatmir Limaj col 5,15%.


192

Al centro della “questione kosovara” c’è il mantenimento dell’indipendenza nazionale ("pavaresia") conquistata il 17 febbraio 2008. La Serbia continua a considerare il Kosovo sotto la propria amministrazione alla luce degli articoli 108-117 della sua Costituzione del 2006: al Kosovo è riconosciuto il solo status di Provincia Autonoma. Già ai tempi della Jugoslavia di Tito, il Kosovo godeva di una grande autonomia politica ed amministrativa. Nonostante gli albanesi fossero la stragrande maggioranza della popolazione del Kosovo, nel marzo 1989 il Presidente della Serbia, Slobodan Milošević, revocò gran parte dell’autonomia territoriale: la

lingua albanese non fu più lingua co-ufficiale accanto al serbo-croato, le scuole autonome di lingua albanese vennero chiuse, i funzionari amministrativi e gli insegnanti albanesi vennero sostituiti con serbi o persone ritenute fedeli alla Serbia. Grazie alla Lega democratica del Kosovo (Ldk) di Ibrahim Rugova si adottò per anni una resistenza non violenta, poi prese il sopravvento la lotta armata indipendentista guidata dall'Uck (Esercito di Liberazione del Kosovo). Si scatenò la guerra tra serbi e albanesi del Kosovo che deposero le armi solo dopo i “78 giorni” di bombardamenti Nato.

Per cosa si combatte

Il Kosovo si trova nella parte Sud-Ovest della Penisola Balcanica e presenta un territorio prevalentemente montuoso con i Monti Šar a Sud e Sud-Est e la Gjeravica, a Sud-Ovest (con la cima più elevata, 2656 metri). È ricco di fiumi e di laghi e notevoli sono le cascate del fiume Drin, alte 25 metri, e le Cascate Mirusha. Il Kosovo non ha sbocco sul mare e confina con l’Albania (per 111,7 km), con la Macedonia (per 158,7 km), con il Montenegro (per 78,6 km) e con la Serbia (per 351,6 km). Il Kosovo indipendente dal 17 febbraio 2008 è una Repubblica Parlamentare rappresentativa, su base multietnica e comunitaria. La sua Amministrazione Pubblica è affidata all’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), la missione delle Nazioni Unite nata il 10 giugno 1999 con la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Dal 2008, dopo la dichiarazione d’indipendenza, molte delle funzioni svolte dalla missione Unmik avrebbero dovuto essere trasferite alla missione Eulex, (European Union Rule of Law Mission in Kosovo) istituita dall'Unione Europea per accompagnare il Kosovo nel processo di istituzione delle strutture statali (polizia, magistratura, dogana, ecc.). Tuttavia, il passaggio di consegne tra le due missioni non è ancora stato attuato. La

missione Eulex è stata prorogata ad aprile 2014 per almeno un altro anno. Capo dello Stato è la signora Atifete Jahjaga nominata nell’aprile 2011. Il Governo del Kosovo é composto da 17 ministri. Secondo la Costituzione, almeno

Quadro generale

Sì ai processi ai leader Uck

Leader dell'Uck, l'Esercito di Liberazione del Kosovo, potranno essere processati per crimini contro l'umanità - omicidio e pulizia etnica - commessi dopo giugno 1999 ma non per il reato di traffico d'organi a danno dei prigionieri serbi. Queste le conclusioni presentate nel 2014 da Clint Williamson, procuratore capo dalla Task Force di Eulex incaricata di indagare sulle pesanti accuse portate dal senatore svizzero Dick Marty in un discusso rapporto del 2011 nel quale si additava lo stesso premier kosovaro Hashim Thaci (ex capo Uck) come personaggio coinvolto nei terribili fatti degli espianti illegali.

Il Kosovo esiste per 107 paesi

Nel 2014, il Togo ha riconosciuto l'indipendenza del Kosovo. In ambito Onu, sono 107 su 193 gli stati che hanno accettato il Kosovo sovrano. All’interno dell’Unione Europea, invece, dei 28 Stati membri, 23 hanno riconosciuto l’indipendenza kosovara, Italia compresa, mentre Spagna, Grecia, Romania, Cipro e Slovacchia non lo hanno fatto. Insieme a Serbia, Russia e Cina, anche il Vaticano non ha relazioni diplomatiche ufficiali con il Kosovo.


TENTATIVI DI PACE

Kosovo: la normalizzazione e l'integrazione

In un quadro di lenta normalizzazione delle relazioni tra il Kosovo e la Serbia, possiamo assistere anche ad un progressivo avvicinamento di entrambi i Paesi alle istituzioni europee. In particolare, ad aprile il Kosovo ha adottato la legge di ratifica per l'accordo internazionale con l'unione Europea sull'Eulex (European Union Rule of Law Mission in Kosovo), e il Consiglio Europeo ha deciso l'estensione del mandato fino al 14 giugno 2016. Nella prima parte dell'anno nessun progresso diplomatico è stato possibile perché il Kosovo è rimasto senza Governo. Big Deal, un progetto congiunto di organizzazioni non governative serbe e kosovare, ha sottolineato che solo 4 degli undici accordi formalmente raggiunti nel dialogo diplomatico tra Kosovo e Serbia sono stati effettivamente messi in pratica.

Gabriele Meucci Gabriele Meucci è stato nominato nell’ottobre del 2014 capo di Eulex, la missione dell'Unione europea sullo stato di diritto in Kosovo. Ha preso il posto del tedesco Bernd Borchardt. Laureato in Giurisprudenza nel 1988, con una tesi dal titolo “Condizione giuridica del prigioniero di guerra nel diritto internazionale”, ha iniziato la carriera diplomatica presso il ministero degli Affari Esteri. Nel 1995 è stato console d’Italia a Spalato in Croazia ed è stato poi promosso primo segretario di legazione. È rimasto a Spalato fino all’aprile 1999, assistendo alla guerra in Croazia, alla distruzione della Bosnia, alle decisive operazioni militari croate della primaveraestate 1995, fino alla pace di Dayton e al lento stabilizzarsi della Regione con il declino dell’autocrazia del Presidente croato Tudjman. Dal 1999 al 2001 è stato primo segretario nel settore commerciale in Canada, a Ottawa, vivendo da vicino l’euforia del boom tecnologico. Nel 2001 è andato a Tirana, come consigliere commerciale. Poi, dal 2006 al 2009 è stato ambasciatore d'Italia in Montenegro.

193

(Milano - 1963)

3 ministri del Governo devono provenire dalle minoranze etniche (almeno 2 devono appartenere alla Minoranza serba). Anche all’interno del Parlamento kosovaro è prevista una composizione che garantisca la presenza ai gruppi etnici minoritari. Il Parlamento è composto, infatti, da 120 deputati eletti secondo il seguente sistema: 100 per voto diretto secondo il sistema proporzionale, un minimo di 10 seggi sono garantiti alla minoranza serba e 10 alle altre minoranze presenti nel territorio tra Rom, Ashkali, ed Egiziani, 3 seggi a Bosniaci, 2 ai Turchi e 1 ai Gorani. I deputati durano in carica 4 anni. Dal 1999, il Kosovo è composto da sette distretti amministrativi: Mitrovica/Kosovska Mitrovica, Prishtina/Priština, Gjilani/Gnjilane, Peja/Peć, Gjakova/Đakovica, Prizreni/Prizren, Ferizaji/Uroševac. L'unica università del Kosovo è l'Università di Pristina che attualmente si divide in due unità: una in lingua albanese, con sede a Pristina e 17 facoltà attive, e l'altra, in

I PROTAGONISTI

lingua serba ed affiliata all’Unione delle Università Serbe, con sede principale a Kosovska Mitrovica, con 10 facoltà. La Corte Suprema è la massima Autorità Giudiziaria. La Costituzione prevede anche un Consiglio Giudiziario del Kosovo che propone al Presidente i candidati a giudice procuratore ed è responsabile della carriera e dei procedimenti disciplinari dei giudici. Almeno il 15% della Corte Suprema e delle Corti Distrettuali devono essere formate da rappresentanti delle minoranze. La formazione e lo sviluppo del sistema giudiziario del Kosovo sono attualmente sostenuti dalla missione Eulex. Il Kosovo ha una tra le economie meno sviluppate d'Europa, non autosufficiente, fortemente dipendente dalle importazioni. Secondo il Rapporto della Banca Mondiale “Doing Business” del 2012, a livello globale, il Kosovo è 96° su 189 paesi in esame e nel 2014 é previsto che arrivi al 86°. Gli aspetti fiscali si sono semplificati, ma restano ancora diversi piccoli impedimenti nel contesto normativo e giuridico rappresentati da: complessità dell’iter burocratico, problemi doganali, presenza di infrastrutture moderate ed un'offerta di energia elettrica stabile.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2013 uscito nel giugno 2014 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL'UCRAINA RIFUGIATI

5.172

RIFUGIATI ACCOLTI NELL'UCRAINA RIFUGIATI

2.968


Referendum contestato

Il referendum tenutosi in Crimea il 16 marzo è un argomento che divide chi è a favore e chi contrario all’annessione russa della penisola. Se per molti è stato una dimostrazione del volere popolare col suo 97% di voti favorevoli, per altri si è trattato di una “caricatura della democrazia”. Il referendum è stato indetto in tempi rapidissimi, senza fornire agli elettori alcuna possibilità di esprimere una volontà informata. La campagna referendaria non è praticamente esistita, se non sotto forma di propaganda per l’indipendenza. Il voto si è svolto senza il controllo di osservatori internazionali, in seggi pieni di gente armata, senza cabine elettorali e senza l’uso di liste elettorali. Anche i quesiti lasciavano poca scelta: mancava la possibilità di mantenere lo status attuale della Crimea come Regione autonoma dell’Ucraina.

L’improvvisa marcia indietro dell’ex Presidente Viktor Janukovič sulla strada per l’Europa alla fine del 2013 ha acceso la scintilla della rivoluzione di EuroMaidan. Le proteste nate dalla decisione del Presidente ucraino di non firmare l’Accordo di associazione con l’Unione europea hanno portato migliaia di persone ad occupare la piazza, giorno e notte. I moti hanno preso il nome dalla centrale Maidan Nazaležnosti (piazza Indipendenza) di Kiev e dalla voglia di Europa degli ucraini. Le manifestazioni sono andate avanti per settimane, nonostante i tentativi della polizia antisommossa di rimuovere le barricate, e il freddo pungente dell’inverno di Kiev. Fino al culmine di fine febbraio, quando 84 manifestanti sono morti sotto i colpi dei cecchini. Il bilancio definitivo di oltre tre mesi di EuroMaidan è stato di 103 morti tra i manifestanti e 13 tra i poliziotti. Il risultato, la fuga in Russia di Janukovič e la formazione di un nuovo Governo. È qui che ha avuto inizio la seconda fase della crisi ucraina del 2014. In risposta alla formazione del nuovo Governo e alla svolta filoeuropea di Kiev, la Russia - con un’operazione di maskirovka (guerra sotto copertura) - ha preso possesso delle strutture strategiche in Crimea, appoggiato l’organizzazione di un discutibile referendum sull’indipendenza e annesso la penisola nel Mar Nero alla Federazione, tutto in meno di un mese. Oltre alla presenza militare della flotta del Mar Nero, che sarebbe stata messa in discussione da un eventuale futuro ingresso dell’Ucraina nella Nato, le ragioni a favore dell’annessione riguardano la storia recente. La Crimea, a maggioranza di etnia e lingua russa, fu “ceduta” all’Ucraina solo nel 1954 per volere di Nikita Kruščëv, quando i confini interni dell’Urss erano poco più che segni sulla carta. L’annessione, formalizzata il 21 marzo, non è stata riconosciuta dalla comunità internazionale e la Crimea, di fatto sotto il controllo della Russia, resta formalmente un territorio conteso. L’ondata filorussa, e anti Maidan, si è espansa oltre la Crimea, investendo anche le regioni dell’Est comprese nel bacino del Donets, il

UCRAINA

Generalità Nome completo:

Ucraina

Bandiera

195

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Ucraino e russo

Capitale:

Kiev

Popolazione:

45.706.000

Area:

579.330 Kmq (compresa la Crimea)

Religioni:

Prevalenza russo ortodossa, presenza greco cattolica più altre minoranze

Moneta:

Gryvnia (UAH)

Principali esportazioni:

Materie prime fossili, industria pesante

PIL pro capite:

Us 2,978

cosiddetto Donbass. Anche lì uomini armati di provenienza non soltanto locale hanno preso il controllo delle istituzioni, indetto un referendum sul modello della Crimea e dichiarato l’indipendenza di due nuove entità, le repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk (le città capoluogo delle due regioni più grandi del Donbass), unite nello stato di Novorossija. Il Governo centrale ha risposto nel mese di aprile con un’operazione militare per la riconquista del territorio, tuttora in corso.


196

Le truppe governative hanno sferrato l’attacco ai miliziani separatisti per riprendere il controllo di una grossa fetta di territorio sfuggita a Kiev e per evitare il ripetersi di quanto successo in Crimea. Di contro, i separatisti affermano di combattere per la libertà del Donbass, a grossa componente etnica russa e russofona, contro quella che definiscono un’occupazione militare. Il fattore etnico e linguistico gioca sicuramente un ruolo nella guerra, ma non spiega tutto. Le Regioni di Donetsk e Luhansk non sono infatti le sole Regioni dell’Ucraina ad avere una forte presenza di abitanti russofoni e di etnia russa. Del resto non è facile pesare il supporto popolare di cui godono le autoproclamate autorità separatiste. D’altro canto, se il supporto della

Russia non è stato diretto e deciso come in Crimea (e lo si capisce anche dal trascinarsi della guerra da mesi) è difficile negare che ci sia stato e che Mosca abbia un interesse diretto, quantomeno a mantenere l’instabilità nella Regione. Almeno fino all’estate, i vertici politicomilitari delle repubbliche di Donetsk e Luhansk erano occupati da cittadini russi che solo in un secondo tempo hanno lasciato il posto a leader locali. Non è azzardato dire che l’Ucraina, e la Regione del Donbass, sono diventate terreno di un gioco geopolitico più vasto che va ben oltre i confini nazionali, e vede in discussione gli interessi non solo ucraini e russi, ma anche europei e statunitensi.

Per cosa si combatte

La guerra in Donbass ha causato finora oltre 3mila vittime tra civili e militari, ma potrebbe essere una stima per difetto. Dal mese di settembre, una fragile tregua ha comportato un congelamento della situazione sul campo, ma non ha fermato gli scontri tra le forze combattenti né l’uso di artiglieri sulle zone abitate. Il Presidente Petro Porošenko, votato nelle elezioni presidenziali anticipate di maggio a larga maggioranza, ha fatto del piano di pace il suo cavallo di battaglia, anche contro le pressioni di una parte politica nazionalista che non vede di buon occhio scendere a patti con i separatisti. Per questo, la stampa ucraina ha parlato di una “colomba” Porošenko, in antagonismo al “falco” Arseny Jatsenjuk, primo Ministro e leader del primo partito del Paese. Il piano di pace è stato elaborato durante gli incontri informali del cosiddetto gruppo di contatto trilaterale a Minsk dove, con la mediazione del Presidente bielorusso Aljaksandr Lukašenka, i rappresentanti di Ucraina, Russia e dei territori separatisti, hanno concordato una tregua dei combattimenti. Il parlamento ucraino, nel frattempo, per favorire il dialogo di pace ha varato una legge transitoria che pre-

vede un periodo di tre anni per la ricostruzione dell’apparato amministrativo e democratico nelle Regioni sotto il controllo dei separatisti, con l’indizione di elezioni locali sotto il monitoraggio di Kiev. Per tutta risposta le autorità delle repubbliche di Donetsk e Luhansk hanno indetto delle loro elezioni in totale autonomia tenutesi il 2 novembre, i cui risultati non hanno avuto il riconoscimento di alcun organismo internazionale. A un anno dall’inizio della rivoluzione di EuroMaidan e dopo un conflitto ancora lontano dal sedarsi, l’Ucraina è un Paese a pezzi, ma che sta lottando per rimettersi in piedi. Il Governo e il Presidente ad interim formatosi all’indomani della fuga di Janukovič hanno traghettato il Paese verso le elezioni presidenziali di maggio, da cui è uscito vincitore Porošenko, e quelle parlamentari di ottobre, che hanno rinnovato la Verkhovna Rada, l’assemblea nazionale. Il vecchio partito delle Regioni, che per anni aveva appoggiato Janukovič, è stato spazzato via e nuove forze politiche si sono affacciate in parlamento. Il temuto pericolo neonazista - ventilato da molte parti a seguito del ruolo determinante avuto nelle manifestazioni di piazza da

Quadro generale

Separatismi e nazionalismi

Le Regioni separatiste nell’Est dell’Ucraina hanno dato vita a due entità autonome chiamate repubbliche popolari di Donetsk (Dnr) e Luhansk (Lnr), a loro volta unite nella Novorossija, letteralmente, Nuova Russia. Novorossija prende il suo nome dalla Regione storica dell’Impero russo, in parte coincidente con l’attuale territorio, ma con cui ha davvero poco a che fare. Alla sua fondazione ha preso parte il discusso ideologo russo Alexander Dugin, famoso per le sue idee di estrema destra, e consigliere di Putin. Novorossija si ispira alla tradizione russa e ai principi della religione ortodossa che vede come culto di riferimento, ma fa anche suoi alcuni principi del marxismoleninismo come la collettivizzazione delle terre e la nazionalizzazione delle industrie.

L'importanza dell'estrema destra

Svoboda e Praviy Sektor hanno svolto un ruolo determinante durante la rivoluzione. Il primo è un partito politico che, fino a prima delle ultime elezioni, godeva di un buon elettorato nelle Regioni Occidentali. È un partito di estrema destra, ultranazionalista il cui leader, Oleh Tyahnybok, si è distinto in passato per espressioni razziste, antisemite e persino negazioniste. Praviy Sektor è una formazione ancora più estremista, divenuta partito politico dopo EuroMaidan. I suoi membri usano un look militare e amano rifarsi spesso all’iconografia nazista. Loro in particolare sono stati accusati di aver agitato la piazza e portato gli scontri con la polizia a un livello di guerriglia urbana, con l’uso di molotov e armi.


TENTATIVI DI PACE

Troppe le occasioni perdute

(Bolhrad, 26 settembre 1965) Il “re del cioccolato”, è l’attuale Presidente dell’Ucraina, eletto al primo turno con il 54,7% dei voti. Deve il suo soprannome all’attività che per prima lo ha reso uno degli uomini più ricchi del Paese, l’industria dolciaria “Roshen”. Ma Porošenko non fa solo cioccolatini, possiede tra le altre cose l’emittente televisiva Kanal 5 e il giornale Korrespondent. Non è nemmeno nuovo alla politica, avendo ricoperto già l’incarico di ministro del Commercio con Janukovič e degli Esteri con Viktor Juščenko, il personaggio chiave della “Rivoluzione arancione” del 2005. Oltre a godere di un vasto consenso popolare e della stima internazionale, è anche in ottimi rapporti con gli uomini più ricchi e potenti dell’Ucraina. Come l’oligarca Viktor Pinčuk, genero dell’ex Presidente filorusso Leonid Kučma (quest’ultimo, rappresentante dell’Ucraina agli incontri del gruppo di contatto a Minsk per la pace in Donbass). Porošenko, con la sua elezione, è riuscito in qualcosa mai visto prima: unire, almeno graficamente nella mappa dei risultati elettorali, l’Ucraina solitamente spaccata in due lungo la linea del Dnipro. Per molti, un risultato dovuto alla mancanza di validi concorrenti.

197

Petro Porošenko

Gli attori più importanti del conflitto non hanno voluto o saputo cogliere le opportunità negoziali che si sono presentate negli ultimi mesi. L'Osce ha inviato a marzo una missione di osservatori civili, con compiti di monitoraggio. Ad aprile, Usa, Ue, Russia e Ucraina si sono riuniti a Ginevra, affermando di voler “de-escalare” la crisi. Il documento sottoscritto, però, non è stato tradotto in passi concreti. A settembre, il “Gruppo di contatto trilaterale” (Osce, Russia, Ucraina) ha negoziato a settembre a Minsk un nuovo cessate il fuoco, anche con il coinvolgimento dei ribelli pro-russi. L'accordo prevedeva la fine delle azioni armate, la creazione di una zona smilitarizzata di 30 km, il ritiro di mercenari e stranieri, e il monitoraggio dell'Osce. La tregua ha poi subito continue violazioni da entrambe le parti, anche con l'uccisione di un operatore della Croce Rossa internazionale. La guerra si è di nuovo acutizzata alla fine dell'anno. Dal punto di vista geopolitico, una soluzione per uscire dalla guerra è stata indicata da John Mersheimer in Foreign Affairs: un'Ucraina che stia a metà tra Ue e Russia. Fino a oggi né i contendenti all'interno del Paese, né i loro alleati sembrano intenzionati a percorrere questa strada.

forze estremiste di destra - si è sgonfiato con il flop dei partiti ultranazionalisti Svoboda e Praviy Sektor, che non hanno neanche superato la soglia di sbarramento del 5% per accedere al parlamento. Senza la Crimea e con le Regioni dell’Est - industrializzate e ricche di materie prime - sottratte al controllo del governo, quel che resta dell’Ucraina ha intrapreso con decisione la strada europea. Una profonda crisi economica, il crollo della valuta e i costi della guerra la rendono una strada tutta in salita. Intano il governo ha firmato il fatidico Accordo di associazione con l’Unione europea, da cui tutto aveva avuto inizio, il 27 giugno, voltando - forse per sempre - le spalle alla sorella Russia. Il dibattito interno sulla ricostruzione dello stato democratico si è nel frattempo spostato dalla

I PROTAGONISTI

classe politica nazionale all’intero apparato burocratico statale. Anni di governi cleptocratici hanno favorito una corruzione endemica a ogni livello. Combatterla è diventato lo slogan di pressoché tutti i partiti. Un grande passo, la cui efficacia e opportunità è tutta da verificare, è stato fatto il 16 settembre con l’adozione da parte della Rada della legge sulla ljustratsija, o lustrazione. Si tratta di uno strumento legislativo, già usato in altri Paesi ex comunisti, per ripulire le amministrazioni statali a tutti i livelli dai funzionari che si sono resi complici del passato regime. Non da ultimo va ricordato il ruolo dell’Ucraina come importante snodo energetico sulle rotte del gas russo verso l’Europa. Il rischio di una sospensione delle forniture russe, a causa del colossale debito accumulato dall’Ucraina, è stato fugato da un accordo raggiunto a fine ottobre grazie alle garanzie prestate dall’Unione europea.


Inoltre Irlanda del Nord

198

"Reggono pace e disarmo ma la tensione resta alta".

Nonostante la fine del conflitto, i negoziati di pace e il disarmo dell'Ira (Irish Republican Army), è ancora alta la tensione in Irlanda del Nord. Nel dicembre del 2014 le autorità del Paese hanno aumentato le misure di sicurezza prima del Natale per timore di possibili attacchi da parte di alcune fazioni - che seppur isolate anche dagli ex combattenti dell'Ira - hanno scelto di continuare la lotta armata. Nello stesso periodo del 2013 due ordigni erano stati fatti esplodere in zone commerciali e molto frequentate di Belfast. Nessuna vittima ma molta preoccupazione da parte delle autorità che hanno scelto di allestire posti di blocco nelle principali strade di Belfast per contrastare il ripetersi delle violenze dell'anno precedente. D'altra parte le tensioni ancora esistenti nel Paese sono lo specchio di un percorso politico e di riconciliazione, che coinvolge diversi attori, non del tutto completo e con molti nodi ancora da sciogliere. Nel dicembre del 2014 Irlanda e Gran Bretagna hanno rischiato uno scontro alla Corte europea per i diritti umani su un caso di tortura che coinvolse le truppe di Londra negli anni del conflitto in Irlanda del Nord. Come ha scritto il quotidiano britannico The Guardian, il Governo di Dublino ha chiesto ai giudici di rivedere una sentenza riguardante 14 sospetti che vennero sottoposti a violenze e maltrattamenti durante la loro detenzione senza processo nel 1971. Nel 1978 la Corte aveva già ammonito la Gran Bretagna per il trattamento definito ''disumano e degradante'' riservato ai prigionieri ma non arrivò mai a dichiarare le truppe britanniche colpevoli di tortura. Questioni aperte, retaggio di un passato non

ancora dimenticato che continua a dividere il Paese e la capitale Belfast resta l'epicentro delle tensioni. Ancora a dicembre sembrava sull'orlo di sfasciarsi il Governo di unità nazionale cattolico-protestante e gli accordi di pace, che avevano messo fine ad un conflitto decennale, si erano indeboliti pericolosamente. Al centro delle dispute ci sono ancora oggi questioni simboliche - ma molto sentite - riguardanti l'esposizione delle bandiere di una o dell'altra parte nei luoghi pubblici a Belfast e le parate che si svolgono fra aprile e agosto in Irlanda del Nord e che sono motivo di tensione e talvolta di scontri anche molto violenti tra unionisti e repubblicani. Alla fine, dopo 11 settimane di colloqui (a cui hanno partecipato anche il primo Ministro britannico David Cameron e quello Irlandese Enda Kenny) culminati con 30 ore di negoziati nel palazzo dell'Assemblea Nordirlandese di Stormont, i leader politici dell'Irlanda del Nord hanno raggiunto un accordo salvando il Governo di unità cattolico-protestante. A pesare anche la promessa di Londra di stanziare un miliardo di sterline in investimenti all'Irlanda del Nord. Continua intanto il lavoro della Commissione parlamentare per l'Irlanda del Nord, che conduce una inchiesta sulle cosiddette 'lettere di immunità' concesse ad ex militanti dell'Ira dopo gli accordi di pace nell'Ulster. La Commissione ha chiamato a testimoniare anche l'ex premier laburista Tony Blair. Le indagini si concentrano su un "programma" organizzato dall'ultimo Governo laburista, su richiesta del partito Sinn Fein, e in base al quale 200 lettere vennero inviate a nordirlandesi in fuga, in cui veniva assicurato loro che non erano ricercati attivamente dalle autorità britanniche. Un caso in particolare ha sollevato polemiche e perplessità: John Downey, presunto attentatore dell'Ira ad Hyde Park nel 1982 fu scagionato perché in possesso di una delle lettere, che gli era stata inviata per errore.


Inoltre Nagorno Karabakh "Cessate il fuoco fragile tra Armenia e Azerbaijan".

secoli abitata da armeni cristiani e turchi azeri e finita sotto il dominio dell'impero russo nel XIX secolo. In epoca sovietica è stata assegnata all'Azerbaijan nonostante la maggioranza della popolazione sia di etnia armena e con il crollo dell'Urss è scoppiato un grave conflitto conclusosi nel maggio del 1994 con la firma del cessate-il-fuoco. Quella per il NagornoKarabakh è stata la prima e la più sanguinosa fra le guerre prodottesi nello spazio territoriale dell’ex-Unione Sovietica: in quasi sei anni di conflitto oltre agli oltre 30mila morti, sono stati più di un milione i profughi costretti a lasciare la loro terra: 400mila gli armeni costretti a lasciare l’Azerbaijan e 800mila gli azeri costretti a lasciare l’Armenia e il Nagorno-Karabakh. Il cessate-il-fuoco "congela" la situazione creatasi sul terreno: il Nagorno-Karabakh si ritrova perciò sotto il totale controllo delle truppe armene e delle milizie loro alleate, che occupano inoltre il 9% del territorio circostante, appartenente in realtà all’Azerbaijan, compreso il famoso corridoio di Lachin, che mette in comunicazione l’Armenia con questa sua enclave. Il conflitto sembra sempre sull'orlo di riaccendersi, la situazione resta in continua evoluzione, e con esiti ancora incerti.

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Continuano le violazioni del cessate-il-fuoco (siglato nel 1994) tra Armenia e Azerbaijan per il controllo dell'autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh. Alla fine del 2014 la tensione è tornata altissima in questo lembo di terra nel Caucaso Meridionale quando un elicottero militare Mi-29 armeno è stato abbattuto dalle truppe azere, causando la morte dei tre membri dell'equipaggio. Il portavoce del ministero della Difesa armeno, Artsrun Ovannisian, ha immediatamente reagito minacciando "conseguenze molto pesanti" per gli azeri e chiarendo che una escalation di violenze in questo territorio - in cui tra il 1988 e il 1994 si è combattuta una sanguinosa guerra che è costata la vita a circa 30mila persone - è sempre dietro l'angolo. Il segretario generale dell'Osce (Organization for Security and Co-operation in Europe), Lamberto Zannier, ha sottolineato "il rischio che il conflitto si aggravi", ma i Governi armeno e azero non rinunciano al braccio di ferro, ai rancori e alle accuse che ormai caratterizzano questo conflitto solo apparentemente "congelato". Sul grave episodio le versioni dei due Paesi sono opposte. Baku sostiene che l'elicottero abbattuto stesse attaccando una sua unità militare ed ha addirittura insignito di una medaglia al valore il soldato che ha abbattutto il velivolo. Il Governo armeno invece ha definito "ridicola" la versione dell'Azerbaijan accusando i soldati azeri di aver abbattuto un elicottero che era impegnato in una semplice esercitazione oltre ad aver "continuato a sparare dove è caduto non permettendo ai soccorritori di avvicinarsi ai membri dell'equipaggio". Già prima di questo grave episodio, nell'ottobre del 2014, le forze armene avevano ucciso un soldato azero nell'ultimo scontro (di una lunga serie) registrato al confine con il Nagorno Karabakh. "Il sergente Akhmed Tural, 24 anni, è stato ucciso in una sparatoria con forze nemiche, durante una violazione del cessate il fuoco il 9 ottobre", ha riferito in un comunicato il ministero della Difesa azero. Il Nagorno-Karabakh è una terra di mezzo da


Inoltre Paesi Baschi

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"La questione dei prigionieri politici ostacola la soluzione del conflitto".

Il 2015 si è aperto nei Paesi Baschi con una imponente manifestazione a Bilbao per chiedere la fine della dispersione carceraria dei prigionieri politici baschi. Sono state più di 80mila le persone scese in strada per partecipare al corteo promosso dalla sigla Sare, la rete di solidarietà con i prigionieri politici baschi nata nel 2014 e attorno a cui si sono raccolti numerosi cittadini che chiedono il superamento di uno dei principali ostacoli ad una soluzione definitiva del conflitto, a più di tre anni di distanza dalla decisione dell'Eta di rinunciare alla lotta armata. Chiedono un cambio nella politica penitenziaria adottata da Madrid e Parigi nei confronti dei detenuti baschi. In particolare la fine dell'isolamento per alcuni prigionieri e della dispersione in istituti molto lontani dai luoghi di residenza. "Siamo coscienti che la sofferenza derivata da tanti anni di scontro rimane sulla pelle di chi ne ha sofferto le conseguenze - scrivono i militanti di Sare - però mentre qui scompaiono le cause di nuove sofferenze, persiste e si aggrava il dolore di migliaia di persone: le detenute e i detenuti baschi, i loro cari e loro famiglie". Ad oggi sono 463 i prigionieri politici baschi detenuti in 44 prigioni in territorio spagnolo e francese. Tra loro anche casi di lungo isolamento come quello di Jon Enparantza, avvocato dell'Eta che vive da più di dieci mesi in una condizione di isolamento totale. Ogni settimana a San Sebastian le madri dei detenuti baschi organizzano una manifestazione per protestare contro le condizioni di detenzione dei loro cari, giudicate troppo dure. A pesare in modo particolare è appunto lo strumento della dispersio-

ne carceraria, utilizzato dai Governi di Madrid e Parigi per evitare qualunque tipo di contatto tra i detenuti baschi. Da quindici anni nei Paesi Baschi è attiva Mirentxin, una rete popolare di trasporto solidale, che grazie all'utilizzo di furgoncini permette ad alcuni familiari di fare visita ai loro cari nelle lontane prigioni dove vengono detenuti. La tensione sociale e politica resta dunque alta nella Regione dove all'inizio di gennaio 2015 il Governo di Madrid ha condotto una maxioperazione che ha portato all'arresto di almeno sedici persone - in maggioranza avvocati poi rilasciati dalle autorità - legate al movimento indipendentista basco. La retata della Guardia Civil ha coinvolto le città di Bilbao, Hernani (bastione dell'indipendentismo basco a pochi chilometri da San Sebastian) e Pamplona. Gli arrestati sono tutti accusati di “appartenenza ad organizzazione terroristica”. Tra i fermati anche Amaia Izko, Haizea Ziluaga, Eukene Jauregi, tre avvocati che nella mattinata in cui ha avuto luogo la retata, avrebbero dovuto difendere 35 militanti della sinistra indipendentista basca imputati nel processo contro l’organizzazione giovanile Segi. Nel corso dell’operazione è stata perquisita anche la sede del sindacato basco Lab a Bilbao. Immediata la risposta della popolazione. Una imponente manifestazione in supporto degli avvocati arrestati si è tenuta a San Sebastian. Almeno 30mila le persone scese in strada. Alla testa della marcia erano presenti gli avvocati rilasciati, i portavoce dei sindacati Ela e Lab, i partiti politici dell'izquierda abertzale (la sinistra indipendentista basca) oltre ad alcune delegazioni estere, tra cui esponenti della sinistra indipendentista catalana.


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SPECIALE SVOLTA ISLAM


Svolta Islam Adel Jabbar

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La vecchia Grande Guerra e le altre guerre nel Medio Oriente L’area del Vicino Oriente (comunamente e erroneamente chiamato Medio Oriente) è stata uno degli scenari principali della Grande Guerra. L’intervento dell’Impero Ottomano - che al tempo controllava quei territori a fianco dell’Impero Austro-ungarico e della Germania (gli Imperi centrali) - determinò enormi cambiamenti che ridisegnarono nuovi asseti statuali e nuove aree di influenze. All’interno dell’establishment ottomano c’erano tre orientamenti riguardanti la scelta che avrebbe dovuto prendere l’impero relativamente alla propria collocazione nella guerra: la neutralità, l’adesione allo schieramento delle Potenze Alleate (sostenuta da esponenti con esperienze di studio in Francia e Gran Bretagna). Entrambe le posizioni erano minoritarie mentre la terza posizione maggioritaria, era quella propensa a far parte delle Potenze Centrali. L’autorità ottomana scelse di aderire a questo ultimo schieramento. Su tale scelta pesò l’elite che si era formata nelle accademie militari di Berlino. Inoltre l’Impero ottomano aveva dei forti conflitti sia con la Francia che aveva occupato le Province ottomane del Maghreb Alarabi (Algeria, Tunisia e in parte Marocco) che con La Gran Bretagna che occupò L’Egitto. Si tengano in considerazione anche la relazioni storicamente conflittuali con il vicino Impero Russo. Jihad Ottomano e Rivolta Araba Nel momento della partecipazione dell’autorità ottomana alla guerra il Sultano di Istanbul dichiarò al-Jihad contro gli alleati. Diverse fasce della popolazione araba aderirono ai proclami del Sultano volenti o nolenti. Si verificarono anche manifestazioni di disobbedienza, soprattutto nell’area siriana, causate dai tentativi di turchizzazione coercitiva della popolazione araba perpetrata dal governatore turco Jamal Pasha. Serpeggiava un sentimento nazionalista arabo anti turco, utilizzato poi dagli inglesi al fine di tessere l'alleanza con Asharif Hussien e i suoi figli Faysale e Abdullah, che portò il 5 giugno 1916 alla rivoluzione araba, sulla base della promessa dell’autorità britannica, mai mantenuta, di creare un grande regno arabo nei territori del Vicino Oriente. Ciò causò una divisione tra chi aveva scelto di schierarsi con gli alleati e chi invece era rimasto a fianco degli ottomani. Alla fine della guerra gli arabi dovettero confrontarsi con una deludente realtà, frutto di giochi decisi da altri e che rispecchiavano gli interessi e le prospettive delle potenze vincitrici: la Francia e la Gran Bretagna. Gli arabi non poterono che rassegnarsi a questo progetto, che li riportò a diverse entità statuali, divise per area di influenza: Giordania, Iraq e Palestina per l’Inghilterra, Siria e Libano per la Francia. Si tratta di entità nate deboli e tali rimaste, dove permane da sempre l’instabilità che ancora oggi rappresenta la caratteristica prevalente. In definitiva, guardando a quanto sta accadendo oggi in quell’area, crediamo che non sia azzardato affermare che la Grande Guerra in qualche modo continui a svolgersi nel Vicino Oriente. Lo Scenario Attuale Da lunghi anni lo scenario del cosiddetto Medio Oriente è teatro di raccapriccianti eventi che stanno stravolgendo drammaticamente la vita di milioni di persone. Moltitudini in fuga costrette ad abbandonare le proprie case, masse in cammino per sfuggire al terrore, donne e bambini alla ricerca di qualche riparo, sequestri, rapimenti, scene di morte e di violenza perpetrate da varie formazioni


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e da numerosi gruppi fanatico-criminali. Sono immagini che spesso - mi riferisco in particolare agli episodi tragici di pulizia confessionale, nella città di Mossul nel Nord dell'Iraq - vengono lette in base a interpretazioni identitarie - religiose, che sostengono che i musulmani, in quanto maggioranza, siano i responsabili della persecuzione nei confronti dei cristiani e di altre componenti della popolazione come Yazidi o Ezid. Questo genere di spiegazione che di fatto semplifica una realtà nebulosa quanto fluida, rischia di trascurare aspetti fondamentali per comprendere il quadro complessivo dell'area e l'influenza della dinamica geopolitica mondiale attuale. Anzitutto credo sia importante tenere presente alcuni elementi relativi alle vicende irachene e anche a quelle siriane: l'Iraq e la Siria si trovano in situazioni in cui è assente qualsiasi autorità centrale e i rispettivi territori sono di fatto spartiti tra diversi gruppi armati che operano in totale autonomia-anarchia, imponendo in modo arbitrario il proprio potere. In queste condizioni non risulta che ci sia un disegno che rappresenti una maggioranza che ha come obiettivo la cacciata di un determinato gruppo. Anzi, si è in presenza di una frantumazione linguistica, confessionale, religiosa, tribale e territoriale difficile da comporre in un progetto o in una visione collettiva. Nel contesto attuale mediorientale si è di fronte, fondamentalmente, ad un conflitto intra-islamico tra la Turchia, la repubblica islamica dell'Iran e il regno dell'Arabia Saudita, che da una parte perseguono il mantenimento della propria posizione e dall'altra operano il tentativo di estendere le proprie influenze. Da notare che anche la lettura che tende a accreditare la causa di questa frattura


tra Arabia Saudita e Iran alla divergenza dottrinale tra la maggioranza sunnita e la corrente minoritaria sciita rischia di essere parziale e poco chiarificatrice, nel momento in cui anche la politica della Turchia sunnita diverge da quella saudita o da quella egiziana. Inoltre nel Medio Oriente, oggi, agiscono troppi attori (grandi, medi, piccoli e piccolissimi) ed ognuno sta cercando di giocare le proprie carte, a volte in alleanza dichiarata con altri attori e a volte in modo sottoterraneo ma in funzione di qualche "padrino". In questo quadro va ricordato che la Federazione Russa e gli Stati Uniti hanno a disposizione dei giocatori locali che si muovono sulla scacchiera in funzione degli interessi degli uni o degli altri. Ma in tutto ciò che peso hanno certe interpretazioni dell'insegnamento coranico? Il pensiero islamico negli ultimi decenni, sotto i diversi regimi oppressivi e in varie circostanze, ha perso gran parte della sua vitalità e si è inaridito, tranne qualche eccezione. Un pensiero rimasto ai margini del dibattito pubblico e del confronto intellettuale, che non ha più saputo rinnovarsi e attrezzarsi per affrontare le sfide poste dalla dinamica storica e dai cambiamenti socio-culturali. Tale situazione ha favorito particolarmente la diffusione di una pratica rituale dogmatica, attenta spesso agli aspetti esteriori della tradizione religiosa. Tale interpretazione è portata avanti da una miriade di gruppi eterogenei e spesso in divergenza rispetto a chi propone la vera o la più corretta visione. Intanto però molti di questi gruppi si trovano consapevolmente o meno partecipi in un gioco di cui non sono che delle pedine. È un gioco orripilante dove il prezzo più alto viene pagato da milioni di persone che si trovano a vivere in una scacchiera contesa. Di fronte a ciò credo che i musulmani debbano riprendere il lavoro di ricerca e rinnovamento attingendo in parte dal pensiero riformista risalente alla fine del 1800 (che è stato caratterizzato da interessanti riflessioni su questioni sensibili come il rapporto tra politica e religione, le condizioni della donna e altri temi), per tornare a porre le basi di un pensiero islamico in grado di parlare in un mondo plurale e soprattutto in difesa della dignità di ogni persona. Su questo punto si dovrebbe riflettere approfonditamente al fine di individuare dei percorsi per comprendere meglio le dinamiche all’interno della società araba e quindi trovare delle modalità più adeguate a ricostruire dei corpi intermedi capaci di diffondere una vera cultura di cittadinanza e di partecipazione, che vadano oltre le appartenenze primarie quali clan familiari, tribù e identità confessionali.

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Infine crediamo che nel mondo arabo si sia aperto finalmente uno spazio per un dibattito in cui sono protagonisti soggetti che rappresentano svariati orientamenti. Ciò è una novità assoluta, negli ultimi cinquanta anni, che inaugura un percorso irreversibile di cambiamenti e di innovazione, che tuttavia restano legati e dipenderanno dai giochi della geopolitica internazionale.


Svolta Islam: tutto come prima

L’Arabia Saudita, in prima linea a fianco degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo di stampo islamista, non ha ancora visto attecchire il germe delle cosiddette Primavere Arabe, ma vive nel terrore che prima o poi anche nel Paese arrivi il giorno in cui si dovranno fare i conti con le proteste di piazza. Per questo motivo i Saud, la famiglia che dal 1926 regna in Arabia Saudita, hanno instaurato un vero e proprio clima di caccia alle streghe, incarcerando chiunque cerchi di opporsi al regno. Manifestazioni, libertà di stampa, petizioni contro il Governo sono considerati un crimine e ogni giorno sono decine le persone che finiscono dietro le sbarre. Che siano giornalisti, blogger, attivisti, avvocati poco importa. Le pene sono molto severe, come nel caso capitato al blogger Fadhel alManashef, condannato a 15 anni di carcere, 26mila dollari di multa e al divieto di viaggiare per 15 anni successivi alla scarcerazione. L’accusa a suo carico è quella di aver diffamato il regno. Sono in molti ad aver subito la sorte di Fadhel, nonostante l’Arabia Saudita sia tra i firmatari della Carta Araba per i diritti umani, in cui l’articolo 32 garantisce libertà di espressione e opinione. Solo sulla carta però, perché accanto a questa libertà, sono state approvate una serie di leggi che limitano le libertà individuali. Come quella della messa al bando di 50 nomi da dare ai neonati, che non sarebbero consoni al Paese perché di origine non islamica, oppure legati alla monarchia o ancora dalla dubbia interpretazione. Anche la cultura non è stata esente da critiche e da censure: oltre 10mila libri, tutti inneggianti alle libertà, sono stati ritirati dalla fiera internazionale del libro, tra i quali c’erano quelli del poeta palestinese Mahmoud Darwish, che istigherebbe alla violenza. Lo scorso anno è stata approvata la nuova legge antiterrorismo che prevede l’arresto e il processo immediato a chiunque sia sorpreso a minare lo stato e la società. Negli ultimi mesi Riyad sta usando il pugno di ferro contro i sudditi che si recano in Siria a combattere nelle formazioni jihadiste o che le sostengono all’interno del regno. Le condanne a morte hanno subito una forte impennata, e nel solo mese di agosto, proprio mentre il sedicente califfato, estendeva la sua espansione, si sono registrate 26 decapitazioni. La riforma della giustizia, promessa nel 2007, non è mai arrivata e a fronte di un aumento, da parte dei regnanti, di preoccupazioni di un ritorno del terrorismo jihadista sono state messe in atto condanne ed esecuzioni capitali, e in alcuni casi programmi di riabilitazione per jihadisti. Un altro nodo spinoso del Paese è la questione femminile. Periodicamente le donne indicono manifestazioni di protesta contro il divieto di guidare. Quest’anno, in occasione della festa della donna, un gruppo di 10 attiviste ha presentato una petizione al Regno affinché vengano concesse misure che ne proteggano i diritti. Le restrizioni a cui sono sottoposte le donne in Arabia Saudita, nonostante quello che dicono i regnanti, non sono basate sui principi del Corano e sugli insegnamenti religiosi, oltre a non poter guidare e a non poter camminare da sole per strada, hanno bisogno di un tutore maschio anche per ottenere i documenti di identità e per sottoporsi a interventi chirurgici. Anche queste istanze di libertà portate avanti dalla popolazione femminile rientrano sotto il campo di applicazione della legge antiterrorismo perché in qualche modo minano la tranquillità dello Stato e la società.

ARABIA SAUDITA

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Per il mondo arabo il 2014 non è stato un anno tranquillo. A incombere su ogni Paese la minaccia del sedicente califfato, insieme a una sistematica violazione dei diritti umani nei confronti di chi manifesta contro i vari governi. Segno che la transizione verso la democrazia è un processo ancora tutto da costruire. Gli Stati Uniti hanno lanciato la lotta al terrorismo jihadista contando sull’appoggio delle monarchie del Golfo e dell’Egitto, che si sono distinti negli ultimi anni per una ferma condanna dell’islamismo radicale. In Egitto, dopo che lo scorso anno è stato deposto Mohamed Morsi, primo Presidente democraticamente eletto dell’era post Mubarak, è salito al potere il generale Al-Sisi ed è partita una caccia sistematica ai Fratelli Musulmani. In Tunisia le elezioni politiche hanno visto la vittoria del partito laico, in cui figurano molti elementi legati al regime di Ben Ali. In Giordania la monarchia riesce a mantenere una certa sicurezza nel Paese. La Turchia ha eletto Erdogan suo Presidente e la deriva islamista è sempre più presente nel Governo. Arabia Saudita ed Emirati sono in prima linea al fianco degli Stati Uniti, in Bahrein le proteste antigovernative sfociano sistematicamente in scontri con la polizia. Quello della repressione violenta da parte delle forze di sicurezza è il filo rosso che unisce tutti questi Paesi da quattro anni a questa parte. E se da un lato le istituzioni sono di stampo più o meno laico, si assiste a una crescente componente filo-jihadista tra le popolazioni. Sono migliaia i cittadini dei vari Paesi che si sono arruolati tra le fila dell’esercito del califfo Al-Baghdadi.


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BAHRAIN

EGITTO

Il terzo anniversario delle rivolte in Bahrein è stato segnato da una serie di scontri e una raffica di arresti. Dal 2011 anche il minuscolo Stato della Penisola arabica si è sollevato contro una dinastia che regna da circa due secoli. Proteste e sit in hanno da allora preso una piega settaria, contrapponendo sunniti a sciiti. La dinastia sunnita degli Al Kahlifa ha sempre represso ogni forma di manifestazione di dissenso che arrivava dal popolo a maggioranza sciita. Questi ultimi denunciano soprusi e vessazioni da parte della casa reale, e il Governo accusa i sunniti all’opposizione di agire per conto di Teheran. Da quando sono scoppiate le proteste è stata imposta la legge marziale, e il Governo ha emanato una serie di leggi liberticide che hanno portato in carcere minorenni, blogger, giornalisti, avvocati, attivisti e medici che soccorrevano i manifestanti feriti. Il Bahrein si piazza al secondo posto tra le nazioni arabe per numero di prigionieri politici: quasi tremila a fronte di una popolazione di 1,2milioni di persone, sparsi nei venti penitenziari del regno di 750 km quadrati di superficie e raddoppiati dopo il 2011. La vita dei prigionieri politici in carcere è costellata di torture e abusi, i minorenni sono messi in cella con gli adulti e molti di loro hanno meno di 13 anni, quando la legge del Paese proibirebbe di mettere in prigione i minori di 15 anni nel caso di condanna penale. I morti sono stati centinaia. Il popolo è stanco di chiedere riforme che non arrivano mai e deluso dalla mancata realizzazione della sua ambizione di avviare un dialogo nazionale che porti a una reale democrazia. Nel 2013 sembrava si aprisse uno spiraglio nel dialogo tra Governo e opposizione, naufragato di fronte ai continui stop dovuti alla stretta repressiva della capitale Manama. Sono state messe sul tavolo le riforme istituzionali per garantire una maggiore rappresentanza e partecipazione dei cittadini del regno, che è diventato una monarchia costituzionale dal 2002. Va ricordato come il Bahrein sia uno dei punti più strategici per gli Stati Uniti, che qui hanno la V Flotta della Marina Militare, e che vedono nel piccolo regno l’ultimo bastione dell’Occidente contro l’Iran. Inoltre il Bahrein è tra i membri della Coalizione capeggiata da Barack Obama per combattere i terroristi dello Stato Islamico. Un impegno contro il terrorismo che suona più come una mossa per compiacere agli alleati americani, dato che tra i capi dei miliziani del sedicente califfato figurano numerosi cittadini del regno. A denunciare le istituzioni bahreinite di essere “incubatori ideologici” per jihadisti sunniti è l’attivista e direttore del Centro per i Diritti Umani nel Golfo, Nabil Rajab, che è finito in manette per un tweet definito oltraggioso alle istituzioni nazionali. A sostegno della sua tesi un video che circola in rete in cui si vede un ex tenente appartenente a una famiglia molto vicina alla monarchia che esorta i sunniti a unirsi ai miliziani del califfato. Il personaggio in questione è anche il cugino di un noto predicatore sunnita ritenuto consigliere del califfo AlBaghdadi. A novembre 2014 ci saranno le elezioni politiche, e il principale gruppo sciita del Paese, il movimento al Wefaq, che alle scorse elezioni si era aggiudicato 23 seggi, aveva deciso di boicottarle sostenendo la necessità di riforme costituzionali e politiche. A un giorno da questo annuncio la dinastia degli AlKahlifa ha deciso di proibirgli l'attività politica per tre mesi. Il motivo risiederebbe nell’accusa di violazione delle norme sull'associazionismo e di fomentare disordini.

Dal golpe militare del luglio 2013 che ha deposto il Presidente Mohammed Morsi, vincitore delle prime elezioni libere dell’era post Mubarak, l’Egitto ha represso ogni forma di dissenso. E l’ha fatto in maniera assai brutale. I principali obiettivi delle repressioni sono gli esponenti della Fratellanza Musulmana, dapprima espulsi dal Governo e da ogni partecipazione alla vita politica del Paese, e successivamente messi in carcere insieme ai loro simpatizzanti. Si stima che siano oltre 15mila gli arrestati e 1400 i morti dal 3 luglio 2013 e le loro pene vanno dai 10 ai 15 anni di reclusione. Anche l’ex Presidente Morsi è in cella, e con lui tutta la leadership del movimento islamico egiziano, a cui sono stati confiscati beni mobili e immobili. A loro sono state inflitte pene pesantissime, tra cui decine di condanne a morte che hanno suscitato lo sdegno internazionale. Tra gli arrestati anche i leader delle proteste del 2011 e il blogger Alaa Abdel Fatah, che subisce periodiche condanne e rilasci su cauzione e alcuni giornalisti di alJazeera, accusati di essere sostenitori o affiliati dei Fratelli Musulmani. A maggio 2014 il generale Abdel Fattah Al Sisi è stato eletto Presidente con il 95% dei voti, una percentuale che ricorda molto quelle dell’epoca di Hosni Mubarak. 30 ministri, di cui 4 donne, che hanno l’obiettivo di garantire la sicurezza e rilanciare il Paese a partire dall’economia. Tra le novità del primo Governo dell’era Al Sisi è l’assenza del ministero dell’Informazione, quel ministero che da sempre era sinonimo di mancanza di libertà di informazione. A vigilare sui media è stato preposto un ente indipendente nominato dal Parlamento. Ciononostante le repressioni del dissenso e della libertà di pensiero non si sono fatte attendere. È stata mantenuta una legge promossa lo scorso novembre dalla giunta militare, detta legge “anti-protesta”, che vieta a più di 10 persone di riunirsi in manifestazioni non autorizzate, e dà il potere alla polizia di interromperle con


cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Una normativa che ha messo in allarme le organizzazioni per la tutela dei diritti umani di tutto il mondo. Per protestare contro queste misure di repressione, nell’autunno 2014 è iniziata la cosiddetta “battaglia degli stomaci vuoti”, uno sciopero della fame portato avanti da 140 persone dentro e fuori le carceri per attirare l’attenzione del mondo sulla problematica dei prigionieri politici. A indire lo sciopero sono stati sette partiti politici egiziani, a cui hanno partecipato anche sostenitori della Fratellanza Musulmana e il Partito della costituzione del premio Nobel El Baradei. Amnesty International appoggia la protesta e ha pubblicato un appello per il rilascio dei prigionieri politici. Un comportamento, quello egiziano, che finora è stato poco biasimato dalla comunità internazionale che si trova molto più impegnata a fronteggiare la minaccia del cosidetto Stato islamico. L’Egitto, con la sua neonata avversità a ogni forma di islamismo, è in prima linea a combattere il sedicente califfato e i focolai estremisti nel Sinai. Inoltre, alla fine dell’estate si è reso protagonista della mediazione per raggiungere una tregua a Gaza. Tutte mosse che hanno suscitato il plauso degli Stati Uniti. Washington ha sbloccato, in segno di riconoscenza, gli 1,3miliardi di dollari bloccati un anno prima per la mancata attuazione delle riforme democratiche promesse da Al Sisi, e ha inviato 10 elicotteri Apache alle forze armate egiziane per affrontare la minaccia jihadista.

EMITATI ARABI UNITI 207

La lotta per contrastare l’espansione del sedicente Stato Islamico ha messo in secondo piano, almeno agli occhi dei media, i fatti interni emiratini. I primi aerei della coalizione capeggiata dagli Stati Uniti per fronteggiare l’avanzata del sedicente stato islamico sono partiti dalle basi degli Emirati. Non solo, quella degli Emirati è una delle più moderne forze aeree del mondo e tra le più impegnate militarmente, insieme agli Stati Uniti e all'Egitto, nel giro di vite sugli islamisti anche in Libia. Insieme agli altri Paesi dell'area del Golfo, considerano quella dei gruppi armati jihadisti, come una sfida cruciale per le loro fiorenti economie basate sul petrolio e per le rispettive monarchie, rimaste prevalentemente integre nel corso delle rivolte degli ultimi quattro anni. Nell’ultimo anno il Paese ha introdotto una serie di norme che dimostrano un crescente interesse nel comparto militare. È diventata obbligatoria la leva militare per i cittadini maschi dai 18 ai 30 anni. La norma prevede che il servizio militare duri nove mesi per coloro che sono in possesso di un diploma di scuola superiore, mentre i non diplomati rimarranno a disposizione dell'Esercito per un periodo di due anni. Per quanto riguarda le donne, invece, queste potranno accedere solo su base volontaria, rimanendo però vincolate all'approvazione o meno degli uomini della famiglia, i cosiddetti guardiani. Secondo gli organi ufficiali di stampa la leva obbligatoria servirà a rinsaldare il legame con la Patria, ad affermare e instillare i valori di lealtà, appartenenza e sacrificio, a restituire allo stato quello che lo stato ha fatto e fa per ogni individuo e a formare i giovani emiratini. L’introduzione del servizio militare arriva dopo che il Paese si è posizionato al nono posto nella classifica degli importatori di armi e di strumentazioni militari. Un equipaggiamento di tutto rispetto in vista della lotta al sedicente califfato, ma soprattutto una precauzione nei confronti di un eventuale rinvigorimento delle proteste popolari. Da quando l’onda lunga delle cosiddette primavere arabe ha travolto i vari Stati del Medio Oriente e del mondo arabo, le proteste contro l’apparato governativo negli Emirati si sono svolte sul web. Numerosi in questi anni sono gli attivisti finiti dietro le sbarre per aver manifestato il loro dissenso. E nel 2013 il Governo ha introdotto una serie di modifiche alla legge contro il crimine informatico, che puniscono chiunque derida le istituzioni, suonando come un altro duro colpo alla libertà di espressione. Per i trasgressori è previsto il carcere. Anche chiunque parli di diritti umani non è ben visto da Dubai. A febbraio è stata vietato all’organizzazione internazionale Human Rights Watch di tenere una conferenza stampa per illustrare il rapporto sulle violazioni dei diritti umani nello Stato del Golfo. Un chiaro segnale di come la libertà di espressione nel Paese sia messa a dura prova. Human Rights Watch ha, a pochi mesi di distanza, presentato un rapporto in cui denuncia anche le condizioni di lavoro a cui sono costretti i lavoratori asiatici negli Emirati. Provengono per lo più da zone di profonda miseria e difficoltà, e accettano ogni tipo di lavoro per una speranza di futuro. Secondo il rapporto molte lavoratrici domestiche migranti nel Paese sono sottomesse a violenze e vengono trattate come schiave: i salari non vengono loro pagati, gli orari di lavoro sono estenuanti e le condizioni di vita sono quelle dell’isolamento e della reclusione forzata.


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GIORDANIA

MAROCCO

La Giordania continua a considerarsi un Paese sicuro ed è uscita quasi indenne dalla cosiddetta Primavera araba. Amman ha reagito alle proteste che periodicamente anche in Giordania hanno luogo dal 2011 attuando una serie di riforme di facciata, tra cui emendamenti della Costituzione, creazione di una Corte Costituzionale e nuove elezioni parlamentari e municipali. Una delle sfide che il regno ashemita si è trovato a fronteggiare è l’emergenza profughi. L’Unhcr ha stimato che sono quasi 600mila i siriani registrati nel Paese, che hanno provocato un aumento della popolazione del 10%, gravando per circa 3miliardi di dollari sull’economia nazionale. Molti vivono nei campi profughi, altri nei centri urbani. Questo fenomeno costringe re Abdallah II a dipendere sempre di più dagli aiuti esterni, primi fra tutti quelli degli Stati Uniti e delle petrolmonarchie del Golfo, che colgono l’occasione per fare pressioni di tipo politico e ideologico a loro vantaggio. Una situazione che causa malcontento nella popolazione e che non fa che aumentare la vulnerabilità del Paese. La guerra su Gaza dell’estate 2014 ha fatto scoppiare numerose proteste che chiedevano l’espulsione dell’ambasciatore israeliano, mettendo a rischio le buone relazioni con Israele, sancite da un trattato di pace del 1994. La Giordania è considerata uno stato cuscinetto per la sicurezza di Israele e per le speranze di pace nell’area. Un’altra sfida che va affrontata è quella dell’espansione del sedicente Stato Islamico. Il Paese ha compiuto una scelta controcorrente nei confronti della Fratellanza Musulmana, autorizzandola a entrare a far parte della vita del regno. Cosa che non è avvenuta in altri Governi della Regione, che si sono trovati a fare i conti con ulteriori proteste e disordini. Una mossa, quella del re giordano, che implicitamente indebolisce la Fratellanza, la quale si trova a poter far leva solo sulle istanze populiste senza opporsi direttamente alla monarchia. A trarre vantaggio da questa situazione sono i salatifi, che negli anni si sono trasformati in una forza radicale e violenta, tanto che molti di loro, oltre mille, sono impegnati nella guerra siriana contro il regime di Bashar al Assad. Lo scorso aprile nella città di Maan, a Sud del Paese, si sono verificati scontri e proteste con lanci di bombe carta e pietre contro caserme e edifici governativi. Il bilancio è stato di un morto e alcuni feriti. Questa zona è considerata una fucina del salafismo jihadista, a causa della mancata integrazione con il resto del Paese. La disoccupazione endemica è sopra il 30%, e il malcontento nei confronti delle politiche economiche unito alla mancanza di servizi la rende una polveriera pronta a esplodere. Nel 2013 l’università di Maan fu teatro di scontri dove morirono 4 persone, e lo scorso giugno 13 persone sono state accusate di terrorismo. Il quadro che si compone è dunque quello di un Paese che rimane sul filo del rasoio, e si teme che basti davvero poco perché possa piombare nel disordine. A vantaggio della stabilità del regno ashemita, a favore del re, c’è la componente della frattura tra la popolazione, che impedisce una reale forma di solida opposizione. In Giordania oltre il 40% della popolazione è di origine palestinese, mentre i nativi giordani sono di origine tribale e beduina. A ciò si aggiungono le divisioni tra le varie componenti tribali e tra islamisti e moderati. Re Abdallah, mettendo in atto una politica di concessioni e riforme mirate, finora ha saputo contenere i fattori di rischio e rimanere ben solido al comando della scena politica del Paese.

Il 30 luglio 2014 re Mohammed VI ha festeggiato 15 anni alla guida del Regno. Una sovranità, il makhzen marocchino, incentrata su democrazia e modernità, almeno a suo dire. Sono state, infatti, queste, le parole chiave che nel corso degli anni hanno fatto sì che si costruisse l’immagine monarchica. Di fatto, però, una reale transizione verso la democrazia non si è mai avuta e sono numerosi i casi in cui si riscontra questa triste verità. Una delle forme della repressione del dissenso è il carcere per i rapper che cantano la vita difficile delle banlieu, la corruzione, la facilità di accesso alla droga e all’alcool nonostante i ferrei divieti dell’islam che nel Paese è religione di stato. In una parola, i rapper marocchini cantano il malessere della gioventù, che ha visto tradite molte delle istanze nate durante le prime proteste nel Regno. Non c’è stata una vera e propria Primavera nel Paese, dal momento che l’astuta politica reale ha fatto schierare il re dalla parte dei manifestanti per chiedere al Governo un cambiamento. Dal 2011 i marocchini chiedono riforme reali sui temi economici e sociali, invocano riforme costituzionali, lotta alla corruzione, maggiore libertà di espressione e la liberazione dei prigionieri politici. Dopo la crisi di governo provocata dall’uscita della coalizione del partito Istiqal, a ottobre 2013 è stato formato un nuovo esecutivo di centro-destra, composto dagli islamisti di Giustizia e Sviluppo, dai conservatori del Movimento Popolare (Mp) e dal Rassemblement National des Indépendents (Rni). Gli obiettivi del Benkirane-bis sono la ricerca della stabilità politica e la promozione di riforme utili allo sviluppo socio-economico del Paese. Sono state varate alcune riforme, che tuttavia non tengono conto della complessità delle rivendicazioni, e per questo definite di facciata. È stato aumentato il salario minimo dei funzionari pubblici e anche i dipendenti del settore privato hanno visto un aumento del 10% dei loro salari. I sindacati sono, però, scesi in


piazza, accusando il Governo di minare gli standard di vita della popolazione marocchina attraverso il taglio di sussidi e tramite la pianificazione di una riforma del sistema pensionistico che andrebbe a colpire i risparmi e i salari dei lavoratori. Il regno del Marocco è messo sotto pressione da parte dei finanziatori internazionali affinché tagli la spesa pubblica per regolare le finanze statali. È stato anche previsto di regolarizzare entro il 2014 tutti i clandestini presenti nel Paese. Una decisione voluta da Re Mohammed VI dopo le critiche sollevate dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani in seguito all’ondata di episodi di violenza e discriminazione verificatasi in Marocco contro gli immigrati. Dall’africa subsahariana sono migliaia i migranti che entrano in Marocco per poter raggiungere l’enclave di Melilla, primo avamposto europeo in terra d’Africa. Tutto questo ha portato con sé una crescita del malcontento sociale nei confronti del sedicente Stato islamico, il Marocco apporta sostegno attivo agli Emirati Arabi Uniti nella loro lotta contro l’Isis, un impegno che già lo ha visto determinante nella neutralizzazione della succursale magrebina di al-Qaeda Aqmi, ma ha declinato l’invito degli Stati Uniti a unirsi alla coalizione contro l’Isis. Sul fronte interno, il Governo ha proposto una legge che renderebbe reato la decisione di unirsi a gruppi armati o di addestrarsi in zone di conflitto, in una mossa mirata all’incriminazione di circa 2mila islamisti marocchini sospettati di essersi recati in Siria e Iraq per combattere.

TUNISIA 209

Il 26 ottobre le elezioni politiche in Tunisia hanno decretato la vittoria del partito laico, che ha sconfitto in modo quasi clamoroso gli islamisti di Ennahda, dati per favoriti e vincitori delle precedenti elezioni con il 37% dei voti. Alla vigilia del voto il Paese della rivoluzione dei Gelsomini, culla dei fermenti che hanno attraversato i confini determinando il Nuovo Medio Oriente, era alle prese con una situazione di profonda crisi economica, con alti tassi di disoccupazione e un aumento dell’emigrazione, soprattutto tra i giovani. In Tunisia dominano la corruzione diffusa, la mancanza di servizi e l’inefficienza dell’amministrazione statale. C’è un divario enorme tra le città e le campagne, dove le condizioni di vita restano precarie e le aspettative di benessere e democrazia suscitate dalla cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini sono state deluse più che altrove. La repressione nei confronti del dissenso è sempre stata molto forte, unita all’impunità concessa agli uomini del vecchio regime e alle forze di sicurezza che durante i giorni della rivolta spararono sulle folle. Nonostante questo, il periodo in cui ha governato Ennahda è stato considerato solo una fase di passaggio. I tunisini, infatti, hanno preferito rifugiarsi nel passato, scegliendo nel segreto delle urne gli uomini del vecchio regime di Ben Ali. Il partito laico Nida Tunis ha battuto Ennahda sebbene non abbia raggiunto una maggioranza parlamentare che gli permetta di governare da solo. La transizione dalla dittatura alla libertà iniziata nel 2011, con la cacciata del Presidente Ben Ali oggi in esilio, aveva portato a eleggere nelle prime elezioni libere un partito di stampo islamista, Ennahda, un tempo fuorilegge. Durante questo Governo in Tunisia non si sono verificati gesti di particolare libertà di espressione: sono decine le persone finite in manette per aver manifestato il proprio dissenso e sono stati assassinati due esponenti dell’opposizione da militanti islamisti. Ennahda è stato costretto a lasciare il potere in seguito a una nuova ondata di proteste e dopo una crisi politica che si trascinava da tempo. È seguito un Governo tecnico che sembrava aver dato il via a libertà di tipo economico, stringendo accordi con l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale, e rinnovando le concessioni minerarie per quella che è la vera ricchezza del Paese: i fosfati, di cui la Tunisia possiede le più grandi miniere al mondo. Le accuse a carico di Ennahda, oltre a quelle di aver frenato la crescita del Paese e di aver affossato l’economia, erano quelle di non aver fatto abbastanza per limitare la minaccia jihadista. Si stima che tra le fila dell’esercito del califfato ci siano almeno 4mila tunisini, la nazione più rappresentata. La stesura e la ratifica della nuova Costituzione, lo scorso gennaio, ha segnato solo una timida apertura verso le libertà, nonostante sia considerata un modello di laicità per tutto il mondo arabo. Non sarebbe corretto affermare che il voto che ha sancito la vittoria degli uomini di Ben Ali al Parlamento significhi un ritorno alla dittatura, piuttosto sembra ci sia un interesse a far andare il Paese verso una forma di democrazia non troppo democratica. Le elezioni del 26 ottobre sono sembrate più che altro delle consultazioni pro o contro Ennahda più che vere e proprie elezioni politiche. Se ci sarà un vero cambiamento e in quale direzione andrà la Tunisia si potrà sapere, però, solo con i risultati delle elezioni presidenziali di fine novembre, le prime con scrutinio diretto.


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TURCHIA

Il 10 agosto 2014 Recep Tayyp Erdogan è diventato il nuovo Presidente della Turchia. È uscito vincitore al primo turno dalle prime elezioni a suffragio universale della storia del Paese con il 51,8% dei voti. Simbolicamente, subito dopo la vittoria, Erdogan si è recato a Istanbul per pregare nella moschea di Eyup Sultan, costruita per volere di Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli. In questa moschea i sultani ottomani si proclamavano nuovi signori dell'Impero. L’affluenza alle urne ha superato il 76%. Erdogan era il superfavorito già dai sondaggi pre-elettorali. Venerato dai suoi sostenitori e odiato dai detrattori per la sua deriva autoritaria e islamista, alla guida della Turchia da 11 anni, Erdogan è il leader turco più a lungo in sella dai tempi del fondatore della Repubblica, Mustafa Kemal Ataturk. In occasione del primo anniversario delle proteste id Gezi Park, Erdogan ha ordinato alle forze di sicurezza di impedire manifestazioni al parco Gezi e a piazza Taksim. Il 31 maggio 2013 un gruppo di ecologisti ha dato il via a una delle manifestazioni, finita nel sangue, che rimarrà nella storia del Paese per protestare contro l’abbattimento di 600 alberi e lasciare spazio a un centro commerciale - pretesto per manifestare il dissenso nei confronti del Governo e del premier. Da allora le manifestazioni di piazza non sono mai del tutto terminate, mentre il Governo è stato coinvolto da diversi scandali, dimissioni di ministri e strane storie di intercettazioni telefoniche. Nonostante tutto questo, Erdogan, cavallo di razza dell'islamista e conservatore partito Akp ha sbaragliato i suoi concorrenti. Il Paese sta vivendo una pericolosa deriva islamista e autoritaria, con il Presidente che ha il potere di controllare il parlamento, il potere giudiziario, i grandi mass media, la polizia, l'esercito e i servizi segreti, e dominare l'economia. Il Partito Repubblicano del Popolo, all’opposizione, ha dichiarato che la Turchia è il Paese dove è stato licenziato il più alto numero di giornalisti sotto la pressione del Governo. Nel corso degli ultimi 12 anni sarebbero 1863 i giornalisti che hanno perso il lavoro perché non graditi alle stanze del potere. Il 90% di loro è stato licenziato dopo che Erdogan ha cominciato il suo terzo mandato da premier nel 2011, e ora che al Presidente spetta anche il controllo dei media la situazione non può che peggiorare. Lo scorso settembre sono arrivate le condanne per 35 tifosi della squadre di calcio del Besiktas, del Fenerbache e del Galatasaray, protagonisti di feroci faide in passato e uniti nell’organizzazione della contestazione a Gezi Park. Per loro l’accusa è quella di aver preso l’occasione delle manifestazioni popolari per un’azione di forza. Con il ruolo ambiguo di Erdogan nei confronti della lotta ai miliziani dell’Isis, e con la negazione dell’appoggio ai curdi nella battaglia di Kobane in Siria, una nuova ondata di proteste si è riversata per le strade delle principali città della Turchia. Prontamente le forze di sicurezza hanno represso le manifestazioni provocando la morte di almeno 30 persone. Molte centinaia le persone finite in cella, tra cui 102 minorenni. In alcune zone del Paese è stato addirittura imposto il coprifuoco, dopo che la polizia ha fatto ricorso ai cannoni ad acqua per disperdere i manifestanti. A preoccupare Ankara è il possibile rafforzamento della componente curda, e c’è anche chi accusa il Paese di essere indirettamente schierato a favore del califfato. Si stima che il sedicente Stato Islamico abbia reclutato in Turchia almeno 3mila combattenti.


Svolta Islam Alessandro Vanoli

L’islam vanta 1436 anni e conta più o meno un miliardo di persone sparse per l’intero globo. È difficile scriverne la storia in un solo libro, figurarsi in poche pagine. Quello che si può fare con un po’ più di modestia è mostrarne alcune prospettive, alcune chiavi di lettura, lasciando al lettore interessato di proseguire da solo approfondendo. Mi spiego meglio: definire cosa l’islam davvero sia non è poi così scontato: una religione, ovviamente, ma anche una cultura, il comun denominatore di varie forme sociali e la matrice storica (più o meno idealizzata) dei Paesi a maggioranza musulmana. Questi elementi spesso convivono o sono percepiti come parte dello stesso insieme, ma per noi, che dobbiamo provare semplicemente a orientarci, questa complessità potrà esserci utile. Partiamo allora da ciò che forse è più evidente. L’Islam è una religione, rivelata al profeta Muhammad nella Penisola Arabica, attorno alla metà VII secolo d.C. Una religione che si inserisce consapevolmente nel solco dei precedenti monoteismi ebraico e cristiano, affermando il loro superamento, proclamando l’assoluta unicità di Dio, Allah, e definendo i fondamenti culturali e giuridici che la nuova comunità di credenti avrebbe dovuto seguire da quel momento. Tale religione percepisce il suo momento d’origine (e l’inizio del suo calendario) nello “spostamento” (hijra) di Muhammad da Mecca a Medina avvenuto nel 622 e considera come propria rivelazione l’insieme dei messaggi ricevuti da Allah tramite Muhammad e fissati per iscritto nel Corano dopo la morte del Profeta (632). Come tutte le religioni, il messaggio divino originario è stato seguito da un secolare lavoro di approfondimento e interpretazione; sono nate così differenti scuole giuridiche e sono state prodotte opere che integravano la dottrina giuridica e religiosa: vite del Profeta, testi esegetici e soprattutto

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Islam: una prospettiva storica per capire cosa accade


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raccolte di hadīth, cioè di detti e fatti attribuiti a Muhammad e che dovevano servire da modello per la condotta dei musulmani (e che di fatto costituiscono la seconda fonte normativa dell’islam). Vi sono state scissioni, come quella tra sunniti e sciiti, vi sono state tendenze mistiche, interpretazioni più o meno rigoriste, forme di religiosità popolare e altro ancora: vi sono stati e vi sono infiniti modi di essere musulmani, così come esistono infiniti modi di vivere la fede cristiana. Naturalmente questa storia può essere guardata anche dal punto di vista della cultura che l’espansione della religione islamica contribuì a diffondere. Anche in questo caso il punto di partenza è la rivelazione. La lingua del Corano era l’arabo: per i credenti questa era ed è, prima ancora che la lingua del profeta, direttamente la parola di Allah. In questa lingua Dio aveva parlato agli uomini e in questa lingua erano le sue leggi. Comprensibile insomma che letteratura, poesia, giurisprudenza, linguaggio amministrativo e le altre forme comunicative nate dopo la rivelazione si siano espresse per lo più in arabo coranico. Così mentre il mondo dell’islam si espandeva inglobando culture e lingue diverse, l’arabo contribuì a mantenere una notevole unità culturale e sociale. A tale unità contribuirono anche altri elementi: la condivisione del calendario lunare e dei cicli festivi (come ad esempio quelli, fondamentali, legati al mese di Ramadān), l’uso sociale di spazi pubblici religiosi come le moschee, e profani come l’hammām (il bagno pubblico) o il mercato. E tale unità riuscì ad affermarsi accanto alle ovvie - e profonde - differenze geografiche e a alle tante differenti intemperie della storia. E proprio questo ci conduce a un altro punto di vista possibile. Si guarda spesso all’islam, infatti, come a una civiltà nel senso tanto sociale che politico. Meglio sarebbe anzi parlarne al plurale, perché, malgrado ogni idealismo politico, non si trattò che per poco tempo di una storia unitaria. All’inizio, dopo la morte di Muhammad, vi era solo un piccolo nucleo di credenti già in espansione militare. I credenti si diedero una guida politica che sostituisse il profeta sul piano militare e politico, il califfo. Seguirono due grandi dinastie califfali, Omayyadi e ‘Abbasidi, che segnarono l’età dell’espansione dell’islam e il suo trionfo culturale e politico. Ma già attorno al X secolo questo mondo vide il moltiplicatasi di una serie di esperienze più autonome e culturalmente differenziate: califfati concorrenti, dinastie sciite al potere in vaste Regioni, e governatori sempre più autonomi nelle loro Regioni. L’invasione mongola (secolo XIII) contribuì notevolmente ad accelerare questo processo di frammentazione politica lasciando all’antico califfato un valore ormai solo nominale. L’età moderna vide sorgere nuove grandi dinastie islamiche (culturalmente sempre più lontane dall’antica matrice araba): gli Ottomani nel Levante e in Africa Settentrionale, I Safavidi in Persia e i Mughal in India. Questi tre furono, assieme ovviamente a quello cinese e russo, tra i più grandi imperi di età moderna ed è un peccato che la nostra scuola ancora non riesca a raccontare questa storia globale. L’islam coprì insomma un mondo che andava dall’Atlantico sino quasi all’Estremo Oriente. Culture e lingue diverse si intrecciarono nei secoli con la tradizione islamica, adattandola alle proprie Regioni e alle proprie sensibilità. Tra queste culture c’è anche la nostra. La storia dell’islam si intrecciò a quella dell’Europa quasi da subito, ma fu a partire dal XVIII secolo che la spinta europea sul mondo islamico cominciò a diventare sempre più pressante. E non si trattava solo di un problema militare o economico. L’imperialismo europeo portò nel mondo islamico la convinzione della necessità di un rinnovamento dello Stato e della società. Agli inizi del XIX secolo tutto stava rapidamente cambiando: la pretesa califfale dei sultani turchi era ormai in crisi, la sovranità


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degli shah persiani profondamente trasformata, e gran parte dei territori islamici si stavano smembrando sotto l’influsso del controllo Occidentale. Salvo poche eccezioni, le loro frontiere - a volte le loro stesse identità - furono inventate di sana pianta, tracciate sulle carte con linee rette (si pensi ai confini dell’Algeria e del Marocco), come se ne trovano spesso in America ma mai in Europa. Così, a partire dal secolo XIX, l’idea di comunità islamica (umma) e quella di patria-nazione (watan) cominciarono a coesistere. Ognuna delle due incarnava un particolare tipo di lealtà: la prima nei confronti di coloro che condividevano una realtà storica nella comune condizione di musulmani, la seconda verso i compatrioti, identificabili nel fondamentale rapporto tra etnicità e territorio. Questa seconda idea si sarebbe poi sviluppata nel secolo XX in una esplicita tendenza nazionalista, in cui, sempre secondo l’esempio europeo, le nuove élites arabe si sarebbero sforzate di togliere alla religione il suo ruolo di principio organizzatore della società, sostituendolo con elementi di matrice europea, quali il nazionalismo e la secolarizzazione. La nascita, in un certo senso forzata, di queste nuove identità politiche all’interno di un diverso corpo sociale e culturale non è avvenuta senza profonde lacerazioni. All’idea di una nazione di stampo occidentale doveva infatti corrispondere un’idea di popolo e di storia condivisa che, ovviamente, non faceva parte, della storia islamica. Fu anche l’inizio però di una tensione persistente che non avrebbe più abbandonato il pensiero politico di quei Paesi: da una parte l’identità islamica, araba per lingua e cultura, dall’altra una recuperata identità antica (ad esempio l’età “faraonica” per l’Egitto) che conduceva verso un patriottismo di tipo occidentale. Poi vennero le guerre mondiali e la decolonizzazione, e con essa una sempre più forte spinta nei singoli Paesi islamici a farsi nazione. La rinascita dell’islam, che si è delineata a partire dagli anni Sessanta, non si è espressa solo nelle forme definite dai gruppi più radicali. Malgrado la relativa resistenza di molti Stati, il nuovo fermento islamico si è manifestato, ad esempio, attraverso produzioni artistiche (cinema, letteratura, etc.) dimostrazioni e attività universitarie, maggiore interesse per l’attività e le usanze religiose. Così sempre di più sono stati i politici che hanno cominciato - spesso dopo decenni di socialismo e nazionalismo più o meno “laici” - a fare diretto riferimento alla religione. È vero che - al di là dell’Iran successivo alla rivoluzione - la maggior parte dei Paesi a maggioranza islamica ha vissuto sino ad oggi un compromesso per cui, in un sistema almeno formalmente


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costituzionale, l’islam è religione ufficiale o religione del capo dello stato; è vero anche però che tale compromesso vede la religione guadagnare oggi sempre più spazio. Naturalmente è impossibile qualsiasi discorso generico: il rapporto dei musulmani con la loro “islamicità” varia in funzione del contesto e delle tradizioni culturali di ciascun Paese, oltre che dell’impatto della modernità sull’assetto del loro mondo. Così, se da un lato la politica ufficiale ha sempre più recuperato un’attenzione al fatto religioso, dall’altra l’islam è diventato il punto di partenza per molte riflessioni contemporanee legate a istanze sociali e alle analisi politiche post coloniali. Non solo, l’affermazione e l’imposizione di forme politiche “occidentali” nel mondo a maggioranza musulmana, ha prodotto un conseguente e complesso dibattito sul ruolo dell’islam in questo processo. Il progressivo aumento della partecipazione politica, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa come i giornali o internet, stanno consentendo l’affermazione di un islam socializzato. Ma anche e mai come in questo caso il discorso è plurale come plurali sono le società del mondo islamico: nei Paesi a maggioranza musulmana e tra i sempre più numerosi musulmani d’occidente vi sono coloro che guardano all’islam come laboratorio democratico, vi sono coloro che lo vivono in senso radicalizzato in chiave anti-occidentale, vi sono coloro che lo rifiutano, vi sono coloro che lo mettono in discussione interrogandosi sul ruolo dei diritti umani o della bioetica, e tanto altro ancora. È una scoperta da poco se volete: giunti al secondo decennio di questo complicato secolo l’islam è complesso e vario come il resto del mondo.

Andrea Cappellini


Alessandro Vanoli

Corano Dall’arabo Qur’ān, “Recitazione”, Con tale termine si designa la raccolta delle rivelazioni avute dal Profeta Muhammad nel corso della vita. Dal punto di vista di un credente in altre parole, è la parola di Dio in senso assoluto, parola che Muhammad ha solo trasmesso e mai elaborato in alcun modo. Non un “testo sacro” nell’accezione cristiana o ebraica del termine, dunque, ma un testo sacro in quanto diretta e non mediata emanazione di Dio. Proprio da questo, consegue che l’arabo, la lingua in cui il Corano fu tramandato, abbia mantenuto un’importanza fondante nella storia dell’Islam. Il Corano è diviso in centoquattordici capitoli (in arabo chiamate sure) a loro volta divisi in versetti (āyāt). Califfo Dall’arabo Khalīfa, letteralmente “colui che viene dopo, “successore”. Unica forma legittima - almeno sul piano giuridico ideale - di sovranità nell’islam. È inteso come un mandato pubblico avente lo scopo di applicare e difendere la legge islamica. Jihād Letteralmente “sforzo”, “impegno”. In senso generale lo sforzo di attrazione, persuasione e conversione all’islam. Ha storicamente assunto il senso di peculiare attività militare volta alla conversione ma anche di sforzo interiore sulla via di Dio. Fatwa Parere giuridico accettato come autorevole dalla comunità dei credenti o dai suoi rappresentanti. Si tratta della risposta di un giureconsulto (muftī) a una qualsiasi questione di diritto Hadīth Letteralmente e in senso generale ”detto”, “narrazione”. Come vocabolo tecnico fa riferimento alle narrazioni concernenti Muhammad e, in quanto tali, dotate di valore giuridico e religioso. Le raccolte di hadīth costituiscono la seconda fonte normativa del mondo islamico dopo il Corano. Imām Da una radice che significa “dirigersi verso”, “precedere”, colui che presiede alla preghiera e dunque, spesso, colui che guida una moschea. Per esteso designa anche la guida politico-amministrativa. In questo senso è stato usato nei secoli come sinonimo di califfo. Sharī‘a La legge religiosa. Non si tratta della cosiddetta “legge coranica” come spesso viene banalizzato a livello giornalistico, ma di un più complesso insieme normativo e giuridico composto da Corano, Sunna (cioè l’insieme degli hadīth), e pronunciamenti legali di coloro che sono riconosciuti dalla comunità come dottori della legge. Umma La comunità dei credenti. Sunniti Coloro che seguono la sunna. Storicamente coloro che ritenevano che la successione del Profeta dovesse essere rimessa alla votazione della comunità islamica e per questa via ai suoi rappresentanti competenti. Loro è ancora oggi la stragrande maggioranza dei musulmani, circa il novanta per cento. Sciiti Gli sciiti (dall’arabo shī‘a, “fazione”, “partito”) sono coloro che, contrariamente all’idea sunnita, ritengono che la successione di Muhammad dovesse essere assicurata per consanguineità alla famiglia del Profeta e che vedono in ‘Alī il loro imām. La loro sconfitta politica e militare (fissata idealmente nell’anno 680, con la sconfitta del figlio di ‘Alī, Husayn, nella battaglia di Karbalā) fu il punto di partenza per un’elaborazione di un’idea di islam considerevolmente diversa da quella sunnita, a partire dalla convinzione che il messaggio islamico originario sia stato tradito dai governanti dell’impero musulmano e sia conservato invece dagli imam sciiti. Oltre che in Iran, dove lo sciismo ha la maggioranza assoluta, esso è presente, tra gli altri Paesi, anche, in Iraq, nel Bahrain, in Yemen e in Libano.

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Glossario Islam

Islām Accettazione della relazione d’obbedienza a Dio. Etimologicamente il termine significa “affidare qualcosa a qualcuno”, dunque, dal punto di vista religioso, affidare la propria persona a Dio. Dunque la religione di coloro che accettano questa relazione con Dio (muslimūn: musulmani) e, per estensione, la civiltà e la cultura che da tale religione si sono sviluppate.


1) UNTSO

9) UNOCI

2) UNMOGIP

10) MINUSTAH

3) UNFICYP

11) UNAMID

4) UNDOF

12) MONUSCO

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United Nations Truce Supervision Organization (Organizzazione delle Nazioni Unite per la Supervisione della Tregua) United Nations Military Observer Group in India and Pakistan (Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite in India e Pakistan) United Nations Peacekeeping Force in Cyprus (Forza delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace a Cipro) United Nations Disengagement Observer Force (Osservatori delle Nazioni Unite per il ritiro)

5) UNIFIL

United Nations Interim Force in Lebanon (Forza temporanea delle Nazioni Unite in Libano)

6) MINURSO

United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara (Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale)

United Nations Operation in Côte d’Ivoire (Operazione delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio) United Nations Stabilization Mission in Haiti (Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti) African Union and United Nations Hybrid Operation in Darfur (Operazione Ibrida dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite in Darfur) United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo (Missione di Stabilizzazione della Repubblica Democratica del Congo)

13) UNISFA

United Nations Interim Security Force for Abyei (Missione per la Sicurezza nell’area di Abyei, Sud Sudan)

14) UNMISS

United Nations Mission in the Sud Sudan (Missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan)

7) UNMIK

15) MINUSMA

8) UNMIL

16) MINUSCA

United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (Missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione temporanea del Kosovo United Nations Mission in Liberia (Missione delle Nazioni Unite in Liberia)

United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali (Missione di stabilizzazione in Mali) United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission nella Repubblica Centroafricana (Missione di stabilizzazione nella Repubblica Centroafricana)


Nazioni Unite I Caschi Blu Raffaele Crocco

Ci aiuta il web a ricordare. Le guerre sono troppe, 33, nel 2014, nel mondo. Sappiamo, più o meno tutti, degli ormai sessant’anni di terrore in Palestina e in Israele. Ma i massacri sono anche in Nigeria, Siria, Centrafrica, Sudan e Sud Sudan, dove la guerra - ci hanno detto - è finita nel 2012. Probabilmente non lo hanno raccontato ai Nuba, popolo fiero, che vive però in una zona sbagliata, che tutti vogliono. Così, nel silenzio quasi totale, qualcuno viene massacrato, ogni giorno, dalle bande filogovernative di Karthoum. Questa è, in fondo, una piccola lista di impotenza internazionale. Il mondo, nemmeno rappresentato dall’Onu, non riesce a frenare le guerre. Lo ha ammesso il segretario generale Ban Ki-moon, all’Assemblea Generale. “La diplomazia è sulla difensiva - ha spiegato - indebolita da coloro che credono nella violenza. La diversità è minacciata da estremisti che insistono per imporre la loro visione a tutti”. In mezzo a questa palude, si muovono come fantasmi 16 missioni di Peacekeeping. Più di centomila uomini indossano il Casco Blu delle Nazioni Unite e tentano di mettere fine ad una qualche guerra in un qualche posto del Pianeta. Ci riescono? Verrebbe da dire raramente, ma noi che siamo al caldo, nella sicurezza della poltrona di casa, non ci rendiamo nemmeno lontanamente conto di cosa significa in questo momento, per milioni di persone, sapere di avere i Caschi Blu accanto. Con i difetti e i limiti immensi di quelle missioni, per un numero immenso di esseri umani sapere che c’è l’Onu è la differenza fra sperare nel futuro e lasciarsi morire per la disperazione. Pensiamoci bene prima di definirle inutili, allora. Possiamo tentare di cambiarle, renderle più efficaci. Ma fare il gioco di chi vuole campo libero per massacrare meglio, quello no. Fidatevi, non è proprio il caso. Qui sotto una Cartina che fotografa lo stato delle Missioni Onu sparse nel nostro pianeta. UNAMA in Afghanistan, non contemplata nei nostri schemi, è una missione di carattere politico, diretta e sostenuta dal Dipartimento delle Operazioni di Pace delle Nazioni Unite.

217

Missioni Onu, missioni impossibili La diplomazia vive anni difficili


Operazioni di pace delle Nazioni Unite Operazioni di pace in corso Missione

Data inizio

Truppe

Osservatori militari

Polizia

Civili internazionali

UNTSO

mag-48

0

156

0

88

UNMOGIP

gen-49

0

42

0

21

UNFICYP

mar-64

854

0

65

37

UNDOF

giu-74

926

0

0

53

UNIFIL

mar-78

10.319

0

0

278

MINURSO

apr-91

26

191

4

87

UNMIK

giu-99

0

8

7

111

UNMIL

set-03

4.434

104

1.410

402

UNOCI

apr-04

6.933

186

1.442

349

MINUSTAH

giu-04

4.975

0

2.449

343

UNAMID

lug-07

12.656

299

3.041

1.022

MONUSCO

lug-10

19.503

455

1.090

937

UNISFA

giu-11

3.913

124

24

116

UNMISS

giu-11

10.348

146

929

841

MINUSMA

mar-13

8.204

0

1.014

504

MINUSCA

apr-14

6.551

30

1.054

82

89.642

1.741

12.529

5.271

Totale:

218

Missione

Civili locali

Volontari ONU

Personale totale

Vittime

Bilancio (US$)

UNTSO

135

0

379

50

74,291,900 (2014-15)

UNMOGIP

47

0

110

11

19,647,100 (2014-15)

UNFICYP

111

0

1.067

181

59,072,800

UNDOF

107

0

1.086

46

64,110,900

UNIFIL

603

0

11.200

306

509,554,400

MINURSO

165

13

486

15

55,990,080

UNMIK

210

26

362

55

42,971,600

UNMIL

858

192

7.400

186

427,319,800

UNOCI

701

144

9.755

119

493,570,300

MINUSTAH

1.168

128

9.063

176

500,080,500

UNAMID

2.914

306

20.238

207

639,654,200

MONUSCO

2.722

472

25.179

78

1,398,475,300

UNISFA

70

22

4.269

17

318,925,200

UNMISS

1.364

394

14.022

30

580,830,400

MINUSMA

439

103

10.264

29

830,701,700

MINUSCA

86

13

7.816

2

253.424.400

11.700

1.813

122.696

1.508

circa $7.06 miliardi

Totale:

Documento preparato dalla sezione Pace e Sicurezza del Dipartimento d’Informazione Pubblica delle Nazioni Unite, in collaborazione con il Dipartimento per le Operazioni di Peacekeeping, la Divisione Finanziaria per il Peacekeeping dell’Ufficio di Pianificazione del Programma, di Bilancio e Contabilità, e del Dipartimento per gli Affari Politici DPI/1634/Rev.149 - October 2013


Vittime di guerra/4 Federico Fossi

Foto in alto UNHCR/T.Irwin

UNHCR/P. Smith

Sebbene il numero dei conflitti armati nel mondo abbia subito una riduzione dai tempi della Guerra Fredda, per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale il numero di persone che quei conflitti hanno costretto alla fuga ha superato i 50milioni. Secondo i dati raccolti dall’Università di Uppsala e dal Peace Research Institute di Oslo, nel 2013 ci sono stati nel mondo 33 conflitti armati, un numero che cade nel raggio di oscillazione degli ultimi dodici anni (tra i 31 e i 38) e che è ben al di sotto del picco massimo di 52 conflitti registrato poco dopo la fine della Guerra Fredda. Tuttavia, l’efferatezza della guerra che infuria in ampie aree del Medio Oriente e dell’Africa oltre che in altre zone del pianeta ha costretto a fuggire dalle proprie case un numero di persone che è paragonabile alla popolazione di un Paese di medio/grandi dimensioni come la Colombia o la Spagna, il Sud Africa o la Corea del Sud. Il totale di oltre 51.2milioni di migranti forzati a livello mondiale costituisce un numero enorme di persone bisognose di aiuto, con implicazioni che si ripercuotono sia sull’entità degli aiuti dei Paesi donatori, che sulle possibilità di assorbimento e la capacità di accoglienza dei Paesi più prossimi alle aree di crisi umanitaria. Sono proprio questi i Paesi che si fanno maggiormente carico dei costi economici, sociali e umani dell’assistenza ai rifugiati. Sono le Regioni in via di sviluppo, dove sono più diffuse le crisi umanitarie, che danno accoglienza all’86% dei rifugiati del mondo. I sei milioni di persone in fuga in più dell’anno precedente sono dovuti principalmente alla guerra in Siria, che ad oggi ha costretto oltre 3.7milioni di persone a diventare rifugiati e altri 6,5milioni sfollati interni. I siriani rappresentano il 23% della popolazione di competenza dell’UNHCR (46.3milioni di persone, in base ai dati aggiornati alla prima metà del 2014). Essi detengono oggi il triste record della più ampia popolazione di rifugiati del pianeta, un primato che per oltre trent’anni è appartenuto ai rifugiati afghani. Fino a due anni fa la Siria non risultava neanche fra i primi 30 Paesi di origine dei rifugiati. I 2.7milioni di rifugiati afghani nel mondo rimangono la più grande popolazione di rifugiati di lunga data di cui si occupa l’UNHCR, con un picco che raggiunse i 6milioni nel 1990/91. Dopo Siria e Afghanistan, i principali Paesi di origine dei rifugiati sono Somalia (1.1milioni), Sudan (670.000), Sud Sudan (509.000), la Repubblica Democratica del Congo (493.000), Myanmar (480.000) e Iraq (426.000). Il Pakistan, che ospita 1.6milioni di rifugiati afghani, rimane il principale Paese ospitante in termini assoluti. Altri Stati con una popolazione numerosa di rifugiati sono Libano (1.1milioni), Iran (982.000), Turchia (824.000), Giordania (737.000), Etiopia (588.000), Kenya (537.000) e Ciad (455.000). Facendo un confronto tra il numero di rifugiati

219

Guerre e migrazioni forzate In fuga 50 milioni di esseri umani


220

e la popolazione di un Paese o la sua economia, possiamo contestualizzare il contributo dei Paesi ospitanti: in proporzione alla popolazione nazionale ad esempio, il Libano ne ha accolto il numero più elevato, con 257 rifugiati ogni 1.000 abitanti. In soli tre anni e mezzo di conflitto siriano, il Libano è passato dal sessantanovesimo al secondo Paese di accoglienza di rifugiati nel mondo con una popolazione aumentata di un quarto del suo totale a causa dell’afflusso di donne, bambini e uomini in fuga dalla guerra siriana. Segue la Giordania, con 114 rifugiati ogni 1.000 abitanti. Qui un recente studio dell’UNHCR ha evidenziato come due terzi dei rifugiati siriani stiano vivendo al di sotto del livello nazionale di povertà e una famiglia di rifugiati su sei si trova in stato di estrema povertà, con meno di 40$ a persona al mese. La situazione è particolarmente preoccupante per i più vulnerabili, come le donne capo famiglia e gli anziani. Con solo 12 rifugiati ogni 1.000 abitanti la Svezia è l’unico, fra i cosiddetti Paesi industrializzati, a rientrare fra i primi 10 Paesi per incidenza del numero di rifugiati sulla popolazione autoctona. Il rapporto tra la popolazione di rifugiati ospitati in un Paese e il suo livello di reddito medio può rappresentare un indicatore dell’onere connesso all’accoglienza dei rifugiati. In proporzione all’economia, gli oneri maggiori sono sostenuti dall’Etiopia, a causa dell’elevato numero di rifugiati provenienti dal Sud Sudan, e dal Pakistan. Nel corso del 2013 i conflitti e le persecuzioni hanno costretto una media di 32.200 persone al giorno ad abbandonare le proprie case e cercare rifugio altrove, che fosse all’interno dei confini del proprio Paese o in altri Stati. La metà della popolazione dei rifugiati è rappresentata da bambini e ragazzi di età inferiore ai 18 anni. Si tratta del dato più elevato dell’ultimo decennio. La prima metà del 2014 ha registrato anche uno spostamento della distribuzione regionale della popolazione di rifugiati. Fino al 2013, la Regione che ospitava il maggior numero di rifugiati era l’Asia. Come conseguenza della crisi in Siria, il Medioriente e il Nord Africa sono diventate oggi le Regioni che accolgono il numero più ampio di rifugiati. La crisi mediorientale, in particolare, si è estesa dalla Siria all’Iraq, con oltre 1.8milioni di persone costrette alla fuga, mentre in Africa nuove crisi di rifugiati si sono sommate a quelle della Repubblica Centrafricana e del Sud Sudan. Da quando nel maggio 2013 è stato dichiarato lo stato di emergenza nel Nord-Est della Nigeria, si stima che 153.000 persone siano fuggite nei Paesi limitrofi. 51.2milioni di migranti forzati a livello mondiale costituiscono un numero enorme di vicende umane che la violenza della guerra ha bruscamente deviato verso un’esistenza dura e complessa. Il personale umanitario può costituire un palliativo, ma le soluzioni politiche sono di vitale importanza. Senza di queste, i livelli preoccupanti raggiunti dai conflitti e le sofferenze di massa che si riflettono in queste cifre sono destinati a continuare. UNHCR/A. Jain

UNHCR/G. Dubourthoumieu

UNHCR/J.Maitem


221

SPECIALE DONNE E GUERRA


Donne e Guerra/1 Carlotta Sami

222

Annientare le donne per distruggere le società In molte società, le donne e le ragazze devono affrontare rischi specifici legati alla loro condizione di genere e hanno meno probabilità rispetto agli uomini e ai ragazzi di avere accesso ai diritti. In situazioni di fuga da guerre e persecuzioni questi rischi, in particolare la discriminazione e la violenza sessuale e di genere, si aggravano. Nei contesti di guerra l’attacco nei confronti di donne e bambine può essere ormai considerata una strategia: le donne sono il motore delle comunità in cui vivono. Annientandole si crea immediatamente una spaccatura, una menomazione dalla quale è difficilissimo riprendersi. È per questo che in modi sempre più cruenti e diversificati la violenza contro le donne nei conflitti è operata in modo sistematico e mai casuale o irrazionale. Circa il 50% della popolazione mondiale di rifugiati è costituita da donne e bambine. Private della protezione della loro casa ed in molti casi della loro stessa famiglia, le donne rifugiate sono particolarmente vulnerabili. Spesso devono affrontare lunghi viaggi per cercare rifugio fuori dal proprio Paese e, anche quando sembrano aver trovato un luogo apparentemente sicuro, devono sopportare indifferenza, molestie e abusi sessuali. Le donne rifugiate affrontano tutto questo mentre sono madri, insegnanti e capofamiglia. Le rifugiate si lasciano dietro padri, mariti e fratelli che combattono in guerra, che perdono la vita o vengono imprigionati. Mentre scappano in una zona di guerra rischiano lo stupro o altre violenze da parte dei combattenti. Nei conflitti più recenti lo stupro è stato deliberatamente e strategicamente usato come arma di guerra, al fine di affermare la pulizia etnica. La sofferenza causata dallo stupro non finisce con la cessazione della violenza. Le donne sopportano per la vita il trauma psicologico. A volte vengono rifiutate dalle stesse famiglie e dalla comunità, debbono sostenere gravidanze non volute o si ammalano di malattie che si trasmettono per vie sessuali. Negli ultimi anni, l'Unhcr ha sviluppato una serie di programmi speciali per fare in modo che, mentre cercano di ricostruire la propria vita, le donne rifugiate abbiano pari accesso a protezione, beni e servizi di prima necessità, come nel caso dei progetti di assistenza medica e psicosociale per le donne che hanno subito violenza. Le donne rifugiate rappresentano quasi sempre l’unica speranza di sopravvivenza per i figli, proprio nel periodo in cui sono meno in grado di sopportare questo peso da sole. Ogni giorno è una sfida. Oltre a fornire i beni di prima necessità, l’Unhcr cerca di coinvolgere direttamente le donne nella gestione dei programmi di assistenza. Purtroppo la partecipazione delle donne a queste attività può

UNHCR/M. Sheik Nor


UNHCR/E. Byun

essere ostacolata da atteggiamenti culturali, da mancanza di capacità o scarsa stima personale. L’Unhcr organizza per le donne rifugiate corsi di alfabetizzazione e di formazione di base, oltre a lezioni di economia elementare, al duplice scopo di coinvolgere le rifugiate nell’esecuzione dei programmi di assistenza e di fornire loro la possibilità di lavorare una volta tornate a casa. Quando una donna ha studiato e lavora reinveste il 90% di ciò che guadagna nella sua famiglia e nella sua comunità. Ed è facile trovarne le prove viventi, ovunque si incontrino comunità di rifugiati. Come Dalida, poco più di 20 anni. La incontro in Ottobre all’Ainkawa Mall, un palazzo in costruzione alla periferia di Erbil, Kurdistan Iracheno. È scappata a Luglio con tutta la famiglia quando i miliziani dell’Isis sono arrivati a Mosul. Sta studiando senza sosta perchè, appena arrivata, ha verificato all’Università di Erbil se fosse possibile sotenere quell’ultimo esame che la separa dalla laurea in psicologia: donna, cristiana e psicologa. Mosul non può più essere la sua città. L’indomani, ad Erbil, Dalida sarà all’università e prenderà la sua laurea in Psicologia. Scherzo con lei dicendole che le sue competenze sono preziose ora, in questo mall. Lei sorride e mi racconta che deve darsi da fare per aiutare la famiglia che ha perso tutto. Ora vivono in un container ma spera che con il suo lavoro potrà presto trovare una casa in affitto per tutti. Ha cominciato a lavorare come receptionist in un albergo poco distante dal Mall, in futuro, chissà, potrà lavorare come psicologa. Sono oltre 20milioni le donne come Dalida che cercano asilo nel mondo, ognuna di loro potenzialmente ha un ruolo fondamentale nel portare pace, ricostruzione, tolleranza e benessere ovunque si troveranno a vivere: credere in loro è non solo un dovere ma una grande opportunità per il mondo intero.

223

UNHCR/M. Pearson


Donne e Guerra/2 Estela Carlotto

224

Le Nonne in lotta per l'Identità e contro l'Impunità Las Abuelas tuvimos una doble tarea: buscar dos generaciones, nuestros hijos y nuestros nietos, completando las tres generaciones necesarias para que una transmisión se cumpla. El terror no nos paralizó e inventamos hacer público lo que se pretendía privado y oculto. Buscamos 500 nietos y a pesar de que las personas que los apropiaron se empeñaron en borrar sus huellas, pudimos ubicar a 116 nietos y lograr su restitución de identidad y la recuperación de los vínculos familiares, haciendo uso de las leyes, a partir de la democracia, a través de las instituciones del Estado. Cumplimos 37 años de lucha exigiendo verdad y justicia, sembrando y construyendo memoria. Hoy vivimos un presente en el que nuestro trabajo es reconocido por el conjunto de la sociedad. Para nosotras, la mayor reparación es encontrar a nuestros nietos, que conozcan su historia y se les restituya su identidad. Los hechos atroces del pasado, si no son resueltos, siguen perpetrándose. Esto es lo que ocurre con nuestros nietos. Hasta tanto no sean liberados de la mentira, es como si continuaran secuestrados, y sus familiares seguimos en la incertidumbre de tener un ser querido que ni siquiera conoce su nombre real y quiénes fueron sus padres. Siempre hemos reclamado, junto al resto de los organismos de derechos humanos, verdad y justicia. Tarea que continuamos haciendo para que nunca más la sociedad argentina vea violados sus derechos más fundamentales. Podemos decir que fuimos ganando en comprensión, en amistad, en apoyos, en manos extendidas y en brazos acogedores. Avanzamos por el camino de la Justicia, concientes del deber que tiene de llegar a la verdad pero también castigar a los culpables de los crímenes y dar reparación a las víctimas.

Le Nonne di Plaza de Mayo avevano un doppio compito: cercare due generazioni, i nostri figli e i nostri nipoti, completando le tre generazioni necessarie affinché un passaggio si compia. Il terrore non ci ha paralizzate e siamo riuscite a far diventare pubblico ciò che si voleva tenere privato e nascosto. Cerchiamo 500 nipoti e anche se le persone che se ne sono impadronite hanno cercato di cancellare le loro tracce, siamo riuscite ad individuare 116 nipoti e a restituire loro la propria identità e i legami familiari, utilizzando le leggi, partendo dalla democrazia, attraverso le istituzioni dello Stato. Lottiamo da 37 anni, pretendendo verità e giustizia, seminando e costruendo memoria. Oggi viviamo un presente in cui il nostro lavoro è riconosciuto dalla società intera. Per noi, il risarcimento più grande è ritrovare i nostri nipoti, far sì che conoscano la loro storia e restituire loro la propria identità. Le cose atroci accadute nel passato, se non vengono risolte, continuano a ripetersi. Questo è quello che accade con i nostri nipoti. Finché non sono liberi dalle menzogne è come se continuassero ad essere sequestrati, e noi, i loro familiari viviamo nel dubbio di avere un nostro caro che non conosce nemmeno il suo vero nome e chi erano i suoi genitori. Abbiamo sempre preteso, insieme alle organizzazioni per i diritti umani, verità e giustizia. E continuiamo a farlo perché mai più la società argentina debba vedere violati i suoi diritti fondamentali. Possiamo dire di aver guadagnato in compresione, amicizia, sostegno, mani tese e braccia accoglienti. Andiamo avanti nel cammino della Giustizia, coscienti del dovere che abbiamo di arrivare alla verità ma anche quello di punire i colpevoli dei crimini e riscattare le vittime. Con il ripristino della democrazia, abbiamo as-

Estela B. De Carlotto Presidente Abuelas de Plaza de Mayo

L'Associazione Civile "Abuelas de Plaza de Mayo" è una organizzazione non governativa che ha come obiettivo fondamentale quello di localizzare e restituire alle famiglie legittime tutti i bambini - figli dei "desaparecidos" - sequestrati e spariti durante la dittatura militare argentina (1976-1983). Furono 30mila i "desaparecidos" vittime della repressione politica, detenuti in campi di concentramento e in centri di detenzione clandestini, torturati e infine assassinati segretamente, con l'occultamento delle salme in fosse comuni o gettati ancora vivi in mare con i cosiddetti voli della morte. I loro bambini, rubati come "bottino di guerra" furono registrati come figli legittimi dagli stessi membri delle forze repressive, abbandonati, venduti o lasciati in istituti come creature senza nome. Le Nonne, madri dei "desaparecidos", sono riuscite a ritrovare 116 nipoti, tra cui Ignacio, nipote di Estela Carlotto.

Traduzione a cura della Redazione


sistito a decisioni positive e incoraggianti, come la costituzione della Conadep (Commissone Nazionale per le Persone Scomparse) e il processo a carico dei Comandanti della Prima Giunta Militare. Purtroppo sono state approvate due leggi dell'impunità: la legge del Punto Finale e quella dell'Obbedienza Dovuta. Nonostante le nostre proteste, le nostre richieste e il nostro impegno, è stata garantita per quasi due decenni l'impunità di sequestratori, torturatori e assassini, e siamo state obbligate a convivere con loro. Ma non ci siamo mai rassegnate, abbiamo continuato a lottare. Ci dicevano "basta", di smettere di protestare, che quello di cui parlavamo era il "passato", che "ciò che è accaduto non può essere cambiato" e che dovevamo "guardare al futuro". In nessun modo lo abbiamo accettato e siamo sempre state convinte che un Paese che dimentica, è un Paese che ripete la storia. E nel mezzo c'erano i nostri nipoti, che nel frattempo crescevano. E per loro abbiamo ottenuto che si creasse per legge una Banca Nazionale dei Dati Genetici, per poterli identificare. E per loro siamo riuscite ad inserire nella Convenzione Internazionale sui Diritti del Bambino, tre articoli relativi alla identità e dopo, la creazione della Commissione Nazionale per il Diritto alla Identità, l'organismo che nello Stato argentino ha il compito di vegliare sul rispetto di questi diritti. Nel 2005 la Corte Suprema di Giustizia della Nazione ha dichiarato "costituzionalmente inammissibili" le leggi dell'Obbedienza Dovuta e del Punto Finale. Da quel momento viviamo una fase storica. Ai colpevoli di genocidio è stata tolta l'impunità. Gli assassini - e anche i loro complici - devono confrontarsi con la Giustizia. I torturatori della Esma che buttavano i nostri figli vivi in mare e quelli di Campo de Mayo (il più grande presidio militare del Paese) stanno subendo processi e condanne. Le Nonne di Plaza de Mayo sono riuscite a provare alla società che esisteva un piano sistematico per il sequestro di bambini. Sono "delitti contro l'umanità, perpetrati mediante la pratica sistematica e generalizzata di sottrazione, sequestro e occultamento di minori". Tutto questo ha avuto ripercussioni nel modo in cui i giudici si sono posti di fronte a tali crimini. E i processi per violazione dei diritti umani si sono trasformati non solo in uno strumento per ottenere giustizia per i crimini commessi più di trent'anni fa; ma anche in un elemento fondamentale per la revisione e la ricostruzione collettiva della storia del nostro Paese. Ognuna delle condanne arrivate negli ultimi anni, tanto per i responsabili dei diversi centri clandestini di detenzione che per chi si è impadronito dei bambini, ha contribuito alla ricostruzione dello stato di diritto in Argentina. Non c'è alcuna possibilità che la democrazia possa essere costruita sulla menzogna e l'occultamento, così come è impossibile che chiunque cresca e sia felice senza conoscere la sua vera identità. Noi Nonne di Plaza de Mayo lo sappiamo con certezza perché ad ogni ritrovamento vediamo fiorire nei nostri nipoti la felicità e la fiducia che dà loro il sapere chi sono davvero. La verità è riparatrice e per essa continueremo a lottare sempre.

225

Con la vuelta de la democracia vivimos instancias positivas y alentadoras, como la conformación de la Conadep (Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas) y el juicio a los Comandantes de la Primera Junta Militar. Lamentablemente se sancionaron dos leyes de impunidad: Punto Final y Obediencia Debida. A pesar de nuestras marchas, ruegos y vigilias, se garantizó por casi dos décadas la impunidad de secuestradores, torturadores y asesinos, y fuimos obligadas a convivir con ellos. Pero no nos resignamos, seguimos luchando. Nos decían “basta”, que no reclamáramos más, que eso era “el pasado” y “lo que pasó ya está”, y que había “que mirar al futuro”. De ninguna manera lo aceptamos y siempre mantuvimos la convicción de que un país que olvida, es un país que repite la historia. Y en el medio estaban nuestros nietos, que iban creciendo. Y por ellos logramos que por ley se creara un Banco Nacional de Datos Genéticos, para identificarlos. Y por ellos logramos incluir en la Convención Internacional sobre los Derechos del Niño tres artículos relativos a la identidad, y posteriormente la creación de la Comisión Nacional por el Derecho a la Identidad, el organismo que desde el Estado argentino se encarga de velar por esos derechos. En el año 2005 la Suprema Corte de Justicia de la Nación declaró “constitucionalmente intolerables” las leyes de Obediencia Debida y Punto Final. Desde entonces vivimos una etapa histórica. A los genocidas y apropiadores se les terminó la impunidad. Los asesinos -y ahora también sus cómplices civiles- tienen que enfrentarse a la justicia. Los torturadores de la ESMA que tiraban a nuestros hijos vivos al mar y los de Campo de Mayo (la más grande guarnición militar del país) están siendo juzgados y condenados. Las Abuelas también probamos a la sociedad que existió un plan sistemático de robo de bebés. Son “delitos de lesa humanidad, implementados mediante una práctica sistemática y generalizada de sustracción, retención y ocultamiento de menores de edad”. Todo esto ha repercutido en la visión de los jueces sobre estos crímenes. Y los juicios por delitos de lesa humanidad se han convertido no sólo en una herramienta para conseguir justicia por los crímenes cometidos hace más de treinta años; sino también en un elemento fundamental a la hora de revisar y reconstruir colectivamente la historia de nuestro país. Cada una de las condenas que se sucedieron en los últimos años, tanto a los responsables de distintos centros clandestinos de detención como a los apropiadores de bebés, ha contribuido a la reconstrucción del estado de derecho en Argentina. No hay posibilidad de que la democracia se construya sobre la mentira y el ocultamiento, así como tampoco es posible que alguien se desarrolle y sea feliz desconociendo su verdadera identidad. Las Abuelas lo sabemos con certeza porque en cada restitución vemos florecer en nuestros nietos la felicidad y la seguridad que les otorga saber quiénes son. La verdad es reparadora y por ella seguiremos luchando siempre.


Donne e Guerra/3 Nicole Corritore

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Anche le marmellate servono per ricostruire il mondo Donne, Lamponi e Pace. Sono le tre parole che accomunano la storia di una cooperativa agricola nata nel 2003 a Bratunac, nel territorio di Srebrenica, una delle zone dove la guerra in Bosnia del '92-'95 ha mostrato uno dei suoi volti più feroci. Un luogo della Bosnia Orientale, sulla riva Occidentale della Drina e al confine con la Serbia, dove invece oggi donne - un tempo profughe o sfollate - sono tornate a vivere e coltivano gomito a gomito frutti di bosco. Si tratta di un progetto di riconciliazione al femminile: donne che attraverso il lavoro e superando le divisioni etno-nazionali imposte dalla guerra hanno cominciato a parlarsi, ascoltarsi reciprocamente, accogliere il dolore dell'altro senza rinchiudersi nel proprio. A distanza di più di un decennio dalla fondazione, i prodotti della Cooperativa "Insieme-Zajedno" si vendono anche in Italia, sebbene la strada per arrivare fin qui sia stata tutta in salita. Innanzitutto a causa delle devastanti conseguenze del conflitto: furono centomila i morti, in maggioranza civili, e 2milioni e duecentomila le persone che lasciarono il Paese durante la guerra o dovettero sfollare in altre zone della Bosnia Erzegovina dove la loro nazionalità era maggioranza. Quindi più di metà della popolazione bosniaca fu costretta ad abbandonare le proprie case. Il Paese si è trovato inoltre con pesanti devastazioni strutturali e un tessuto economico inesistente. Con la fine del conflitto la comunità internazionale avviò programmi di ricostruzione e progetti a sostegno del rientro di profughi e sfollati nelle zone di residenza pre-guerra. Un rientro però reso molto difficile, oltre che dalle devastazioni strutturali e dalla mancanza di fonti di sostentamento economico, dalla divisione in zone "monoetniche" della Bosnia: la guerra aveva infatti creato la frammentazione a macchia di leopardo in territori a maggioranza croato-bosniaca, serbo-bosniaca e bosgnacca (bosniaco musulmani), dove il rientro delle minoranze veniva osteggiato. In gran parte del Paese era stata perpetrata pulizia etnica ma è Srebrenica a segnare nella Storia una delle pagine più nere: nonostante fosse stata dichiarata area protetta dall'Onu, nel luglio del '95 in pochi giorni le truppe serbo-bosniache la invasero e uccisero e occultarono in fosse comuni migliaia di bosgnacchi, tra i quali anche minorenni, mentre donne e bambini vennero forzati a sfollare. Ciò che avvenne è stato definito “genocidio” - e non più "semplice" pulizia etnica - dal Tribunale Internazionale per i crimini di guerra dell'Aja nel 2004. Per i bosniaci musulmani rientrare a vivere a Srebrenica voleva dire superare paura e dolore provocate dall'esodo forzato e dalla perdita di familiari e parenti, in un luogo dove erano rimasti a vivere anche i responsabili di quei crimini. È proprio nella zona di Srebrenica che parte, agli inizi degli anni duemila, la sfida di Rada Žarković attualmente a capo della Cooperativa - assieme all'amico Skender Hot. Entrambi pacifisti, fin dallo


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scoppio del conflitto in Croazia nel '91 erano stati attivi nella rete delle associazioni dei vari Paesi dei Balcani che si battevano contro la guerra. Rada entrò così in contatto con la società civile italiana, divenendo volontaria per l'Ics. L'Ics, Consorzio Italiano di Solidarietà, era nato in Italia nel 1993 allo scopo di coordinare decine di gruppi, associazioni, enti locali, ong che dall'inizio della guerra nei Balcani si erano spesi in interventi di solidarietà e aiuto alle popolazioni della ex-Jugoslavia. All'inizio degli anni duemila Ics, come tante altre organizzazioni, dovette contrarre le attività per la forte diminuzione dei fondi. Rada, che assieme a Skender nel 2001 lavoravano presso la sede di Sarajevo del Consorzio, non si diede per vinta e decise di lavorare nella zona di Bratunac e Srebrenica dove il rientro di profughi e sfollati era stato pressoché nullo. Con il coinvolgimento di soggetti della società civile bosniaca, fece un'approfondita ricerca per capire come sostenere il processo di ritorno. Emerse che prima della guerra quella era una delle zone di maggior raccolta di piccoli frutti, soprattutto lamponi, di tutta la ex-Jugoslavia. Dopo aver riscontrato che il mercato, sia locale che estero, offriva un buon margine per i prodotti derivati dalla lavorazione di questi frutti, Rada, Skender e altri 10 soci decisero di fondare Zajedno-Insieme. Un nome, in italiano e bosniaco, che rispecchia le basi su cui si poggia il progetto: forti relazioni intessute nel decennio precedente con realtà del movimento solidale italiano, esistenti tutt'oggi. Dal 2003 in poi sono state molte le difficoltà da superare: crediti bancari e donazioni da ottenere per l'acquisto della struttura, dei macchinari di filtro e pulizia dei frutti, della catena di refrigerazione, dei mezzi di trasporto. Al contempo la cooperativa si è scontrata con un'amministrazione locale - siamo in Republika Srpska, una delle due Entità in cui è divisa la Bosnia Erzegovina, abitata al 90% da serbo-bosniaci - poco disponibile a cooperare e sostenere il progetto. Nonostante si trattasse di un'iniziativa di sviluppo economico, con un portato positivo per l'intera comunità locale, disturbava la composizione etno-nazionale mista della cooperativa. Ma grazie al sostegno economico ed organizzativo proveniente dall'Italia e grazie alle lavoratrici e ai lavoratori della cooperativa che hanno creduto fermamente nel progetto, Zajedno-Insieme ce l'ha fatta. Oggi sono oltre 500 le famiglie associate coinvolte nella produzione di frutti surgelati, marmellate e succhi e, dal 2013, alcuni prodotti hanno superato i confini del Paese: i cosiddetti “Frutti di Pace”, cioè confetture e nettari di frutta di lamponi, more e mirtillo nero, vengono distribuiti in Italia da Alce Nero per Coop-Italia, Altromercato e Mio Bio. Intanto la Bosnia Erzegovina, nonostante la guerra sia finita quasi vent'anni fa, si trova in totale stallo sociale, politico ed economico: le divisioni etno-nazionali continuano ad essere usate da una classe politica inefficiente e affaristica per mantenere lo status quo, la disoccupazione giovanile è al 49% e un milione di profughi non sono mai tornati e vivono sparsi in Paesi dell'Unione europea ed extra europei. La riuscita del progetto di Rada, forse sta anche nel valore fondante della cooperativa, come si legge sul sito della cooperativa alla voce "Lamponi di pace": "Questo è il nome che abbiamo scelto per definire in una breve frase l’idea originaria (...) siamo convinti che la Cooperativa e tutte le azioni svolte nel programma “Lamponi di Pace” non siano soltanto un’iniziativa di cooperazione allo sviluppo, ma rappresentino una sorta di percorso riabilitativo, una chiave per sgretolare il muro di odio, diffidenza e tensione fra le parti in conflitto, una delle strade possibili verso la riconciliazione nel dopoguerra". Piccoli frutti di pace raccolti dalle mani di donne, spesso vedove con figli a carico, in famiglie dove la componente maschile è stata quasi totalmente spazzata via, che sono riuscite a ricostruire la convivenza e a rendere possibile un futuro, laddove sembrava impossibile.


Donne e Guerra/4 Mario Boccia

Sei foto di donne per raccontare come si resiste alla violenza Troppo spesso le donne in guerra sono descritte solo come vittime. Lo sono certamente, ma nell’esperienza avuta nei conflitti balcanici di fine secolo, le ricordo anche come protagoniste di un’irriducibile opposizione alla guerra e alla cultura etno-nazionalista. Da quando esiste la guerra, le donne sono considerate bottino da razziare a beneficio dei guerrieri vincitori. Oggetti di stupro, spontaneo o pianificato che sia. Nei Paesi dell’ex-Jugoslavia, ho incontrato molte donne che si sono opposte alla violenza e non si piegano a interpretare il ruolo di vittime. Uscendo dal copione assegnato, sono finite ai margini della cronaca. Come se resistere alla guerra fosse Storia minore. Queste foto sono per loro.

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“La ragazza che corre” sotto i bombardamenti a Sarajevo, non fa pena. Esprime rabbia e determinazione, piuttosto che paura. Per questo diventa simbolo di resistenza, anche di genere. Le “donne in nero” sono la pratica del pacifismo in tutti i suoi aspetti: protesta politica, aiuto a profughi e disertori, sfida agli sputi e insulti presi in piazza. Tra di loro non ci sono discriminanti etno-nazionaliste. La “fioraia di Markale” è la sintesi di un’idea moderna di diritto di cittadinanza. La espose con chiarezza, rispondendo “sono nata a Sarajevo” alla domanda su quale fosse la sua etnia e “Svieciara”, quando le chiesi come si chiamava, lasciando intendere che fosse un nome proprio (invece significava “fioraia”). Nel parco di Tuzla, “la madre di Alem” mi raccontò la storia del figlio e dei suoi amici, seppelliti insieme, come avevano vissuto. Non divisi tra i cimiteri delle diverse religioni. Nel viso di “Amra M.” c’è speranza per il futuro, il giorno che ricevette il diploma di computer, nella Sarajevo assediata. La stessa serenità che c’è oggi tra le “donne della cooperativa agricola Insieme” di Bratunac (vicino Srebrenica). Provare a distinguere tra serbe e musulmane è come continuare a commettere un crimine di guerra. La foto non aiuta in questo, piuttosto si dissocia.


In basso - “Le donne in nero” (Belgrado, febbraio1992) Belgrado - 1992: ogni settimana le Donne in Nero manifestano contro la guerra davanti al parlamento federale a Belgrado. Poi aiutano i profughi, i disertori, le vittime, senza distinzioni “etniche”.

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In alto - “La ragazza che corre” (Sarajevo, ottobre1993) Sarajevo - 1993: la ragazza corre mentre cadono granate sulla via Maresciallo Tito, in centro cittá. Lo fa per rabbia, non per paura. La sua corsa ricorda quella di Anna Magnani in “Roma cittá aperta”.


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In alto - “La fioraia di Markale” (Sarajevo, marzo1994) Sarajevo - 1994: quando l’intervistai, la fioraia che vendeva fiori di carta non volle definire la sua identita su base etnica. Colpita mentre andava al lavoro, non è sopravvissuta alla guerra.

In basso - “La madre di Alem” (Tuzla, luglio 1995) Tuzla - 1995: la madre di Alem, uno dei 72 ragazzi e ragazze uccisi da una granata sparata dai nazionalisti serbo-bosniaci il 25 maggio 1995, giorno della festa della gioventú. Sono sepolti insieme.


In basso - “Donne della cooperativa agricola INSIEME” (Bratunac, giugno 2010) Bratunac - 2010: operaie della cooperativa agricola INSIEME in pausa caffè. Impossibile distinguerle tra serbe e musulmane. Sono donne che lavorano insieme, a volte amiche, nate in Bosnia Erzegovina.

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In alto - “Amra M.” (Sarajevo, gennaio 1995) Sarajevo - 1995: consegna dei diplomi ai ragazzi che hanno frequentato un corso di computer in piena guerra. Chiedo ad Amra M. perché lo ha fatto: “perché l’informatica é il linguaggio del futuro”.


La Pirateria/1 Alessandro Rocca

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La Pirateria mondiale non abita più in Somalia Il rapporto degli ultimi sei mesi rilasciato dall'International Maritime Bureau, principale banca dati sui pirati e punto di riferimento in caso di attacchi, ha diffuso le statistiche parziali per il 2014. Sono 116 gli attacchi pirata, ventidue in meno che nello stesso periodo dell'anno scorso. Due i marittimi uccisi, duecento quelli presi in ostaggio, dieci navi sequestrate e settantotto assalite. A protezione di navi, mercantili e aiuti umanitari, nonostante la diminuzione degli incidenti, l’operazione dell’Unione Europea denominata “Atalanta”, in essere dal 2008, è stata estesa fino al 2016. Anche l'imbarco di guardie armate private a bordo, ha avuto una proroga almeno fino alla fine del 2014. Le guardie armate sui mercantili hanno fatto notevolmente diminuire gli attacchi, ma la vera ragione del declino della pirateria a livello mondiale è stata il calo degli attacchi al largo del Golfo di Aden e della Somalia. L'Italia assume per la terza volta il comando dell'operazione antipirateria dell'Unione Europea mettendo anche a disposizione per la caccia ai pirati i "Predator", velivoli senza pilota dell'Aeronautica militare. Base di partenza Gibuti. Missione principale di questi aerei quella di garantire la sicurezza delle navi in transito nel golfo di Aden e dei mercantili del World Food Program che trasportano cibo e aiuti umanitari in Somalia. Il velivolo raccoglie informazioni, effettua ricognizioni e sorveglia sia il mare aperto sia le coste che l'entroterra dove operano i pirati. Altro compito dei Predator quello di monitorare le forze dispiegate nel Corno D'Africa e tempestivamente mandare informazioni se la loro sicurezza fosse minacciata. Fanno parte dell’operazione il cacciatorpediniere Andrea Doria (sede del comando), una fregata olandese, una spagnola e una rifornitrice di squadra tedesca. Lo staff è internazionale: 34 ufficiali e sottufficiali appartenenti a 12 differenti nazioni (Belgio, Croazia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Olanda, Portogallo, Romania, Serbia e Spagna). È in questo contesto che un importante capo pirata somalo, ricercato a livello internazionale, è stato arrestato a Mogadiscio. Si tratta di Mohamed Garfanji, considerato uno dei più potenti pirati somali, catturato il 19 agosto 2014 in compagnia di diverse guardie del corpo armate, secondo fonti di sicurezza somale e straniere. Non è certo se Garfanji abbia o meno beneficiato di un’amnistia, proposta a inizio 2013 ai pirati dal Presidente Hassan Cheikh Mohamoud, che non era però stata pensata per i loro leader. Garfanji è anche l’autore della spettacolare cattura nel 2010 della


petroliera sudcoreana Samho Dream, del suo equipaggio e del suo carico di greggio, che furono liberati in cambio di un riscatto di ben nove milioni di dollari. Secondo i dati diffusi da Dryad Maritime, la pirateria continua comunque in altre zone del mondo con livelli costanti e in alcuni casi anche in crescita. La situazione più preoccupante è in Africa Occidentale dove i pirati hanno portato a termine il 19% degli attacchi a livello mondiale. I pirati del delta del Niger hanno effettuato 31 dei 51 attacchi nella Regione, prendendo 49 persone in ostaggio e sequestrandone 36, i numeri più alti dal 2008. Hanno agito al largo delle acque del Gabon, Costa D’Avorio e Togo e sono legati ad almeno cinque dei sette sequestri riportati in queste Regioni. Il Golfo di Aden e la Somalia dunque non sono più l'epicentro per le attività dei pirati almeno dalla metà del 2013. L'emergenza è molto alta nel golfo di Guinea come abbiamo visto e in Asia, dove la lotta è molto più difficile che in altri scenari. Nelle acque della Malesia, si sono verificati due sequestri di mercantili con i relativi 27 membri dell’equipaggio. Le imbarcazioni sono state saccheggiate ed il carico rubato. Infine il Regional Cooperation Agreement on Combating Piracy and Armed Robbery against Ships in Asia (Recaap), il centro regionale anti pirateria di Singapore, ha riportato un trend preoccupante nei primi mesi del 2014 rispetto a quello degli ultimi anni. Nel primo semestre sono aumentati gli attacchi nel Sud della Cina, anche dal punto di vista della violenza. Nell'Oceano Indiano, invece, gli assalti sono diminuiti, con diciotto episodi di pirateria e cinquantacinque furti armati a bordo, ed era dal 2010 che non si registravano numeri cosi bassi. Tra i motivi alla base di questo calo ci potrebbe essere la strategia anti pirateria messa in campo dall'Indonesia, che sembra particolarmente efficace.


I disegni e la pace Flora Graiff

Ritorna Kako e parla di Pace La speranza può essere un fumetto Con noi quel dolce, impertinente e contestatore di Kako c’era già stato. Due anni fa aveva accompagnato, con cinque splendide tavole, i rapporti che Amnesty dedica ad ognuno dei continenti di questo Atlante. Quest’anno ci ha fatto un regalo, tornando con altre cinque tavole. Se l’altra volta raccontava la guerra reinterpretandone i simboli, il linguaggio, ora è risalito su questo pazzo carrozzone per parlarci di Pace. Non credo che Flora Graiff, l’autrice, abbia faticato molto a fargli capire che proprio questo ci si aspettava da lui. Raccontare la pace è cosa complicatissima. Nell’Atlante ci proviamo, da quest’anno, spiegando cosa si fa nel mondo per trovare accordi, deporre armi. Kako, con l’aiuto di Flora, ha deciso di spiegarcelo a modo suo ed è efficacissimo. Sono segni belli, chiari, anche dolci quelli che traccia. E fra tanto parlare di morte e fughe, il suo esserci ci da un po’ di respiro, ci fa pensare al futuro.


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Non solo Atlante Associazione 46° Parallelo

Il 2014 è stato l'anno delle celebrazioni del centenario della Prima Guerra Mondiale. Scoppiata nell'estate del 1914 e conclusa alla fine del 1918, la Grande Guerra ha coinvolto 23 Paesi, tra cui l'Italia, e causato oltre 16milioni di morti e 20milioni di feriti. Da allora molte altre guerre sono state combattute e ancora oggi nel mondo se ne contano ogni anno più trenta, in Africa, Europa, Asia, Americhe e Medio Oriente. Forse le ragioni per cui le guerre si combattono nel mondo non sono mai cambiate: gli interessi economici, il potere, il controllo delle risorse, le manovre geopolitiche. A cambiare nel tempo sono state le vittime - ieri i militari oggi soprattutto i civili - le armi, le strategie. Nel tentativo di raccontare, come sempre cerchiamo di fare, i danni delle guerre, la Redazione dell'Atlante ha promosso la Mostra "First Global War 1914-2014", che nel centenario della Prima Guerra Mondiale tenta di parlare del passato e del presente, attraverso una rilettura dei conflitti più recenti che insanguinano il Pianeta. Il cuore della Mostra sono 55 fotografie di alcuni dei migliori fotoreporter internazionali, vincitori

di Premi Pulitzer, World Press Photo e Robert Capa Gold Medal. Sono Fabio Bucciarelli, Manu Brabo, José Colon, Diego Ibarra e Guillem Valle, fondatori di MeMo (http://memo-mag.com/it/) un innovativo magazine digitale che offre una informazione indipendente su conflitti e crisi umanitarie, con particolare attenzione ai diritti umani e alle sofferenze dei civili. La Mostra è arricchita da pannelli informativi e infografiche curate dalla Redazione dell'Atlante e dai video di Medici Senza Frontiere. Il risultato è un percorso di conoscenza che attraverso informazioni, fotografie ed effetti sonori guida il visitatore fin dentro i campi di battaglia, raccontando i numeri, la storia, le ragioni e le conseguenze delle tante guerre di cui così poco conosciamo. Il progetto "First Global War 19142014" è curato dal direttore dell'Atlante Raffele Crocco in collaborazione con il Museo Storico del Tentino e MeMo Magazine. La Mostra è stata inaugurata alle Gallerie Piedicastello di Trento il 19 dicembre del 2014 dove resterà aperta gratuitamente ai visitatori fino al 2 giugno 2015 (per info www.museostorico.it).

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First Global War 1914 - 2014 Una mostra per raccontare la guerra


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Gruppo di lavoro

Paolo Affatato Paolo Affatato, giornalista e saggista, è responsabile della redazione “Asia” nell’agenzia di stampa vaticana Fides. Socio di Lettera22, associazione fra giornalisti specializzata in politica estera e cultura, nel 2011 ne è stato eletto presidente. Autore di servizi e reportage su diverse realtà dell’Asia, ha curato con Emanuele Giordana “Il Dio della guerra” (Guerini 2002); “A Oriente del Profeta” (ObarraO 2005), sull’islam asiatico; “Geopolitica dello tsunami” (ObarraO 2005). Ha partecipato a diversi numeri della collana di studi asiatici Asia Maior, contribuendo, fra gli ultimi testi, a “L’Asia del grande gioco” (2008), “Crisi globali, crisi locali e nuovi equilibri in Asia” (2009), “L’Asia di Obama e della crisi economica globale” (2010).

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Daniele Bellesi Diplomato al Liceo Artistico, ha frequentato per diversi anni la Facoltà di Architettura. Si è poi dedicato alla libera professione come grafico e consulente per la comunicazione. Ha lavorato molto anche nel mondo dell’associazionismo e del volontariato. È vicepresidente dell’Associazione Un Tempio per la Pace di Firenze (dialogo inteculturale e interreligioso) e ha fondato insieme a altri l’Associazione 46° Parallelo.

Manu Brabo (Spagna 1981) è un fotogiornalista freelance interessato ai conflitti sociali. Dal 2007 Manu dedica il suo lavoro alle insurrezioni politiche, rivoluzioni e guerre in paesi dimenticati come Haiti, Honduras, Kosovo, Libia, Egitto, Siria e Ucraina. Durante gli ultimi 4 anni, ha collaborato con diverse agenzie come EPA e Associated Press ed i suoi reportages sono stati pubblicati dai più importanti magazines e quotidiani internazionali. Manu ha ricevuto il Prix Bayeux-Calvados ed il POYi, oltre che il premio Pulitzer per la fotografia per la copertura della guerra civile siriana. Co-fondatore della cooperativa MeMo.

Mario Boccia Mario Boccia è un fotografo e giornalista specializzato in reportage di attualità internazionale. Dal 1991 si occupa dell’area balcanica, pubblicando su testate italiane ed europee. E’ stato corrispondente e inviato de “il Manifesto” da Sarajevo, Belgrado, Pristina e Skopje. Sue foto sono state utilizzate da ONG e Agenzie delle Nazioni Unite (UNHCR,

COOPERAZIONE ITALIANA, ICS, OXFAMItalia, etc.). Dalla sua fondazione, sostiene la Cooperativa agricola “insieme” di Bratunac: http://coop-insieme.com/

Fabio Bucciarelli Prima di diventare fotoreporter Fabio Bucciarelli si è laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni nel 2006 presso il Politecnico di Torino. Durante gli studi universitari ha frequentato la Universidad Politecnica di Valencia dove si è specializzato nello studio delle immagini digitali. Dal 2009 si dedica completamente alla fotografia e comincia a lavorare come fotografo di staff per l’agenzia LaPresse/Ap. Ha vinto diversi premi internazionali ed il suo lavoro è stato pubblicato dal New York Time, Stern, The Times, The Guardian, The Wall Street Journal, LA Times, Foreign Policy, The Telegraph, Vanity Fair, La Repubblica, La Stampa, Le Monde. Negli ultimi anni ha documentato i più grandi conflitti mondiali soffermandosi sugli effetti della guerra sulla popolazione civile. Recentemente ha affiancato alla fotografia il giornalismo scritto. Nel 2012 ha pubblicato il libro ‘L’Odore della Guerra’ sul conflitto libico. Co-fondatore della cooperativa MeMo.

Estela Carlotto È una attivista argentina per i diritti umani e Presidente della Associazione "Abuelas de Plaza de Mayo". Ha ricevuto numerosi riconoscimenti per il suo impegno tra cui il Premio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e il Premio Félix Houphouët-Boigny che le è stato assegnato dall'Unesco.

Nicole Corritore Giornalista e addetta stampa, lavora a Osservatorio Balcani e Caucaso (www.balcanicaucaso.org) dal 2001. Tra il 1992 e il 2000 ha operato in Croazia e Bosnia Erzegovina in progetti di cooperazione internazionale e decentrata, dedicati allo sviluppo locale e ai giovani. Tra il 1996 e il 2000 ha collaborato con diverse testate giornalistiche e network radiofonici italiani su temi relativi ai paesi dell'ex Jugoslavia. Dal 1992 al 1996 ha collaborato con la redazione esteri di Radio Popolare network. Parla fluentemente serbo, croato e bosniaco.

Raffaele Crocco Giornalista RAI, ha lavorato per alcuni anni


Cecilia Dalla Negra Firenze 1984. Giornalista, studia Scienze Politiche all'Università La Sapienza di Roma. Nel contesto mediorientale ha approfondito in particolare la questione palestinese e le dinamiche di genere. In passato ha lavorato come freelance per diverse testate, ed è stata assistente di Luisa Morgantini, ex vice presidente del Parlamento Europeo. Per Osservatorio Iraq si occupa anche di Tunisia, donne e movimenti femminili.

Angelo D’Andrea Angelo d’Andrea, giornalista pubblicista, laureato in Comunicazione a Roma , dal 2005 è funzionario dell’Agenzia delle Entrate addetto alle Relazioni Esterne e Rapporti con la Stampa per il Veneto e il Trentino. Sta seguendo il tema dei “paradisi fiscali”. Ha collaborato ad un’inchiesta su “massoneria e finanza” per la Rizzoli. Per l’Atlante cura le schede Kosovo, Turchia e Cipro nonchè la versione radio e podcast di tutti i contenuti.

Davide Demichelis Giornalista e documentarista, ha lavorato per la RAI e ha realizzato film e reportage da varie zone del mondo. Tra le pellicole da ricordare "Radici. Dall'altra faccia delle migrazioni". Per RAI 3 ha condotto Nanuk, prove di avventura.

Marica Di Pierri Attivista dell'associazione A Sud e giornalista, si occupa da anni di tematiche ambientali e sociali. Dirige ed è tra i fondatori del Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali di Roma attraverso cui porta avanti attività di ricerca, formazione e documentazione sui conflitti ambientali. Autrice di saggi e articoli, collabora con periodici, quotidiani, testate televisive e radiofoniche e riviste specializzate.

Danilo Elia Giornalista e scrittore, si occupa di spazio post-sovietico per East e Meridiani e collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. Tra i suoi libri "La bizarra impresa in Fiat 500 da

Bari a Pechino" (Vivalda editori) e "Intorno al mare" (Mursia editore).

Marina Forti Marina Forti è nata a Milano, dove ha cominciato a lavorare a Radio Popolare. Giornalista professionista, dal 1983 è al quotidiano Il Manifesto, dove si è occupata di attualità internazionale, immigrazione e ambiente. Già caposervizio esteri, da inviata ha viaggiato a lungo in Iran, nel sub-continente indiano e nel sud-est asiatico. Per la rubrica “terraterra” ha avuto nel 1999 il premio “giornalista del mese”, noto come Premiolino. Con il libro La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel sud del mondo (Feltrinelli 2004) ha ricevuto il premio Elsa Morante per la comunicazione 2004.

Federico Fossi M.Sc. in assitenza umanitaria e sviluppo presso lo University College Dublin, da oltre dieci anni lavora nella comunicazione per il settore no-profit ed in particolare in ambito di cooperazione internazionale e rifugiati. Si è occupato di programmi europei di integrazione nel quadro dell’iniziativa comunitaria EQUAL. Dal 2008 lavora nell’ufficio stampa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).

Emanuele Giordana Emanuele Giordana, cofondatore e sino al 2010 direttore di Lettera22 è stato docente di cultura indonesiana all’IsMEO di Milano e è vicepresidente dell’Osservatorio “Asia Maior”. Ha pubblicato con G. Corradi “La scommessa indonesiana” e curato le collettanee “Il Dio della guerra”, “A Oriente del profeta”, “Geopolitica dello tsunami”, “Tibet, lotta e compassione sul Tetto del mondo”. Nel 2007 è uscito per Editori Riuniti “Afghanistan: il crocevia della guerra alle porte dell’Asia” e nel 2010 per ObarraO “Diario da Kabul”. Editorialista di “Terra” è stato tra i conduttori di Radiotremondo e Radio3Rai. È portavoce della piattafroma “Afgana”.

Ruggero Giuliani È stato coordinatore medico per Medici Senza Frontiere a Monrovia, nel più grande Centro di trattamento per l'Ebola mai costruito.

Flora Graiff Disegnatrice, pittrice, restauratrice, autrice di radiodrammi e programmi Rai, ed anche editore di libri di pregio. Il suo nome è legato soprattutto al personaggio Kako, il protagonista della strip di sua creazione lanciato nel 1988 da Linus. Nata a Merano, vive e lavora fra la sua città e Trento.

Diego Ibarra Sánchez (Spagna 1982) è un fotogiornalista con base in Libano. Interpreta la fotografia come un mezzo per relazionarsi con il mondo, in grado di suscitare consapevolezza e pensiero critico. Ha trascorso quattro anni in Pakistan, diventando un punto di riferimento per grandi testate internazionali come il The New York Times e Der Spiegel. Da diversi anni sta lavorando su un progetto personale sulla poliomielite. Cofondatore della cooperativa MeMo.

Rosella Idéo Ha insegnato storia moderna dell’Asia Orientale e Storia Politica e Diplomatica dell’Asia Orientale nelle università statali di Milano, Roma, Trieste. Borsista all’ISPI di Milano, borsista al Salzburg Seminar in American Studies, visiting scholar all’Università di California, Berkeley. Membro fondatore dell’AISTUGIA (Associazione Italiana di Studi Giapponesi) e di Asia Major (1989-2006); membro fondatore ed ex vicepresidente di Asia Maior (2006-2010). Ha pubblicato numerosi saggi sulle relazioni internazionali in Asia Orientale con particolare riferimento al Giappone e alla Corea contemporanea e una monografia: Corea una modernizzazione mancata (EUT,2000). Intervistata come esperta da radio italiane ed estere, giornali e televisione.

Adel Jabbar È sociologo ricercatore nell’ambito dei processi migratori e comunicazione interculturale. Ha insegnato sociologia delle culture e delle migrazioni all’Università Ca’ Foscari di Venezia e Comunicazione interculturale all’università di Torino. Libero docente incaricato nell’ambito della sociologia dell’immigrazione in diverse università italiane. Svolge attività di consulenza e formazione per enti locali e realtà associazionistiche. Sui temi relativi all’area araboislamica ha pubblicato molti interventi.

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come inviato in zone di guerra. Ha fondato la rivista Maiz - A Sud dell’informazione - ed è stato tra i fondatori Peacereporter. È l’autore del libro “Il CHE dopo il CHE”. Ha ideato e dirige questo Atlante.


Flavio Lotti È Coordinatore nazionale della Tavola della Pace, l’organismo che dal 1996 organizza la Marcia per la pace Perugia-Assisi. È Direttore del Coordinamento Nazionale Enti Locali per la pace e i diritti umani, un’associazione fondata nel 1986 che riunisce oltre 700 Comuni, Province e Regioni italiane.

Enzo Mangini Giornalista professionista dal 2001 specialista di temi di politica internazionale, fa parte dell’associazione indipendente di giornalisti Lettera22, attraverso cui collabora con Il Fatto Quotidiano online, il Riformista, Terra. Ha lavorato per il quotidiano Il Manifesto e per il settimanale Carta, dove ha ricoperto anche la carica di direttore responsabile. Dall’aprile 2010 è corrispondente in Italia di Vreme, settimanale indipendente di Belgrado, Serbia.

Razi e Sohelia Mohebi Sono due cittadini afghani che vivono a Trento assieme al loro figlio. Razi e Soheila sono un uomo e una donna di cultura, due registi. Vorrebbero poter vivere della loro arte, vorrebbero non dover abbandonare questa loro passione. Vorrebbero, che l’asilo politico - status che condividono e in qualche modo subiscono - permettesse loro di essere cittadini attivi e partecipi alla vita della comunità e non semplicemente persone in fuga da accogliere. Questa difficoltà non riguarda solo loro, ma è condizione comune di migliaia di persone. Partiamo dalla loro storia per provare a discutere della condizione in cui sono costretti a vivere decine di migliaia di richiedenti asilo in Italia.

Riccardo Noury È il portavoce e direttore dell’Ufficio comunicazione di Amnesty International Italia, associazione di cui fa parte dal 1980. Ha curato i libri “Non sopportiamo la tortura” (Rizzoli 2000) e “Poesie da Guantánamo” (Edizioni Gruppo Abele, 2008) ed è autore o coautore di altre pubblicazioni. Ha un blog plurisettimanale sui diritti umani “Le persone e la dignità” sul Corriere della Sera e un blog settimanale sulle rivolte in Medio Oriente e Africa del Nord sul Fatto Quotidiano.

Enzo Nucci Corrispondente della Rai da Nairobi per l’Africa sub-sahariana dal 2006. Napoletano, è in Rai dal 1988 dove ha lavorato come cronista nella redazione regionale del Lazio prima di passare al Tg3 nel 1994. È stato inviato di cronaca nazionale e di esteri. Ha seguito i conflitti nella ex Jugoslavia, Kosovo, Afghanistan, Iraq e la rivolta in Albania. Ha vinto numerosi premi giornalistici tra cui il “Testimone di Pace” di Ovada e il premio Andrea Barbato di Mantova.

Ilaria Pedrali Giornalista professionista, ha vissuto e lavorato a Gerusalemme come corrispondente per le Edizioni Terrasanta e gestendo il Franciscan Multimedia Center. Ha lavorato a Mediaset, e scritto su vari quotidiani nazionali, siti internet, web tv occupandosi di cultura, esteri, cronaca. Ama il Medio Oriente, viaggiare, ed è molto curiosa. Da qualche tempo ha iniziato a studiare l’arabo.

Alessandro Piccioli Giornalista e fotoreporter. Da freelance ha realizzato reportage dall’Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Corsica, Iraq, Palestina, Siria, Egitto. Collabora con diverse testate e svolge attività autorale in Rai.

Emanuele Profumi Giornalista free lance e ricercatore in filosofia politica. Formatosi in giornalismo presso "Il Manifesto" nel 1998, da quel momento ha scritto per varie testate (La Nuova Ecologia, Carta, Micromega, Le Monde diplomatique, etc). Si occupa di movimenti sociali e di America del Sud. Sta per pubblicare un libro sul processo di pace in Colombia ("Tessendo speranza. La Colombia alternativa e il suo processo di pace"), e ha pubblicato "Il Passo del gigante. Viaggio per comprendere il Brasile di Lula" (Aracne, 2012). Attivo anche nel campo dell'arte.

Federica Ramacci Giornalista. Scrive di politica italiana e internazionale per diverse testate. È inviata alla Camera dei Deputati per l’agenzia di stampa “Nove Colonne”. Ha realizzato reportages, inchieste e interviste in Italia, America Latina, Europa e Nord Africa.

Alessandro Rocca Giornalista pubblicista e fotografo freelance, è regista e autore di numerosi documentari e reportages trasmessi da Rai Uno (Speciale Tg1 e A sua immagine), Rai Due (Tg2 Dossier), Rai Tre, Skytg24, Rai News24, La7 (Effetto Reale).

Carlotta Sami Carlotta Sami, da più di quindici anni lavora nell’ambito delle relazioni internazionali, dei diritti umani e degli interventi umanitari. Direttrice generale di Amnesty International in Italia dal 2012 alla fine del 2013, da Gennaio 2014 è capo ufficio stampa con incarico di portavoce per il Sud Europa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, UNHCR. Direttrice dei programmi e portavoce di Save the Children Italia dal 2003 al 2008, si è anche occupata per l’organizzazione di emergenze umanitarie, sino al 2012, coordinandone la comunicazione a livello globale. Ha cominciato la sua carriera nei Territori Palestinesi nel 1998 dove ha collaborato con l’Ufficio tecnico della Cooperazione Italiana a Gerusalemme e con numerose organizzazioni italiane e internazionali. Nel 1998, si è Dottorata in Teoria generale del Diritto, dopo la Laurea in Giurisprudenza, all’Università Statale di Milano. Sposata e mamma di una bambina di 6 anni.

Ornella Sangiovanni Giornalista specializzata in questioni del mondo arabo, segue l’Iraq da circa 20 anni, con particolare attenzione per la politica e le questioni energetiche. Si è occupata a lungo delle sanzioni internazionali imposte al Paese in seguito all’invasione del Kuwait dell’agosto 1990.

Luciano Scalettari È inviato speciale di Famiglia Cristiana. Si occupa prevalentemente di attualità africana (ha effettuato spedizioni in una trentina di Paesi dell’Africa subsahariana) e di giornalismo d’inchiesta. Nel 2000 e nel 2006 ha vinto il Premio Giornalistico Saint Vincent. Ha pubblicato, tra l’altro: 2002 (con B. Carazzolo e A. Chiara) Ilaria Alpi, un omicidio al crocevia dei traffici), B&C. 2004 La lista del console - Ruanda, 100 giorni un milione di morti, Ed. Paoline-Focsiv. 2010 (con Luigi Grimaldi) “1994”, Chiarelettere Editore. Da settembre 2007 coordina, insieme ad Alberto Laggia, il


Beatrice Taddei Saltini È tra le fondatrici di 46° Parallelo. Ha collaborato a reportages dall’America Latina. Per questo Atlante si occupa dell’editing, dei rapporti con la Redazione e della distribuzione.

Pino Scaccia Inviato storico della Rai e poi redattore capo degli speciali del Tg1, ha seguito i più importanti avvenimenti degli ultimi vent’anni: dalla prima guerra del Golfo al conflitto serbo-croato, dalla disgregazione dell’ex Unione Sovietica alle guerre in Afghanistan e in Iraq fino all’ultima rivolta in Libia. Ha vinto numerosi premi e ha pubblicato sei libri: “Armir, sulle tracce di un esercito perduto”, “Sequestro di persona”, “Kabul, la città che non c’è”, “La Torre di Babele” , “Lettere dal Don” e “Shabab - la rivolta in Libia vista da vicino”. È molto attivo sul web dove gestisce numerosi blog.

Giovanni Scotto È docente di Sociologia dei processi culturali all'Università di Firenze. Insegna Tecniche della mediazione e della democrazia partecipativa e International Conflict Transformation. È Presidente del corso di laurea Sviluppo economico, cooperazione internazionale, socio-sanitaria e gestione dei conflitti (SECI) e direttore scientifico del Laboratorio FORMA MENTIS al PIN di Prato.

Alessandro Turci e Federica Miglio Sono due documentaristi e reporter, Collaborano stabilmente con RAI 3, Aspenia, il Foglio e Tempi, e hanno viaggiato come inviati speciali e freelance per Africa, Asia, Americhe e Medioriente.

Guillem Valle (Spagna 1983) comincia ad occuparsi di fotografia a 14 anni, durante un viaggio-studio a Sarajevo. Da allora non ha mai abbandonato la sua passione ed ha lavorato in diverse paesi come il Libano, la Libia e la Siria. Ha vissuto diversi anni in Tailandia, documentando i conflitti dimenticati nel sud-est asiatico, lavorando per il The New York Times, il The

Guardian ed il Wall Street Journal. Gullem ha vinto diversi premi fotografici come il World Press Photo e il Best of Photojournalism. Oggi sta lavorando su un progetto a lungo termine sulle nazioni non riconosciute come Stato. Cofondatore della cooperativa MeMo.

Alessandro Vanoli Ha insegnato presso l’Università di Bologna e l’Università Statale di Milano. Si occupa di storia mediterranea e di rapporti tra mondo cristiano e mondo musulmano. Ha insegnato arabo classico e svolto ricerca in numerose università straniere in Europa, Africa e America. Si occupa di divulgazione e organizzazione di eventi culturali collaborando, tra glia ltri, con Torino Spiritualità, le Edizioni del Mulino e la RAI. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Andare per l’Italia araba (Il Mulino 2014), La Sicilia Musulmana (Il Mulino 2012), La Reconquista (Il Mulino 2009)

Roberto Zichittella Giornalista professionista, scrive per Famiglia Cristiana, collabora con Pagina99 e il sito di Articolo21. È tra i conduttori di Radio3Mondo, la trasmissione della Rai dedicata all'attualità internazionale. Ha realizzato per Radio 3 alcuni audiodocumentari da varie parti del mondo.

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laboratorio di giornalismo sociale “La voce di chi non ha voce” organizzato dalla Scuola di Giornalismo “A. Chiodi” di Mestre.


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Fonti

Fotografie

Organismi internazionali e istituzioni Unesco Unicef Oms Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) Africa-Union Nazioni Unite Ministero degli Esteri Ministero della Difesa Central Intelligence Agency Banca Mondiale Caritas United Nations Peacekeeping Force in Cyprus The Millennium Development Goals - Onu Istituto del Commercio con l’Estero Croce Rossa Italiana

Le fotografie di quest’anno riportano l’autore. In alcuni casi giornalisti, fotografi oppure tratte dall’archivio dell’Alto Commissariato dei Rifugiati UNHCR. È stato fondamentale il contributo dei fotografi di MEMO. In alcuni casi abbiamo usato, invece, fotografie trovate su internet. Siamo ovviamente disponibili a regolare eventuali spettanze agli aventi diritto che non sia stato possibile contattare.

Informazione, giornali e istituti di ricerca Pagine della Difesa Africa News Misna Nigrizia Reuters Osservatorio Iraq Osservatorio dei Balcani Wikipedia Corriere della Sera La Repubblica La Stampa Valori Peacerporter Ansa Apcom Agimondo Agi Adnkronos Associated Press Afp Euronews Famiglia Cristiana Limes Guerre & Pace Global Geografia Peace Link Balcanicaucaso.org Banchearmate.it Crbm.org Crisigroup.org (Europe Report N°213, 20/9/11) B.H. Editorial, 24/7/2011 Libero-news.it Italiatibet.org Chinadaily.com Ilsole24ore.com Panorama.it Asianews.it Instablog.org Filosofia.org Nuovacolombia.net Colombiareports.com Agoramagazine.it Manilanews.net Iljournal.it Bbc.co.uk

Autori delle schede

Cartografia Per la cartografia delle schede conflitto abbiamo fatto riferimento a quella ufficiale dell’Onu tranne alcune riprese dal sito dell’Università del Texas: Colombia, Cecenia, Cina, Turchia, India, Filippine e Algeria. Le carte tematiche basate sulla cartografia di Peters sono state gentilmente offerte dall’Ong Asal. Per le mappe dei continenti abbiamo usato la stessa Carta di Peters (in Italia iniziativa esclusiva Asal) che troverete nella sua forma completa nella terza di copertina.

Di seguito riportiamo gli autori delle schede conflitto (in corsivo gli Inoltre). Paolo Affatato - Pakistan Raffaele Crocco - Cina/Tibet, Filippine, Thailandia Cecilia Dalla Negra - Israele/Palestina Angelo D’Andrea - Kosovo, Cipro Davide Demichelis - Repubblica Centrafricana Danilo Elia - Georgia, Ucraina Marina Forti - India, Kashmir Emanuele Giordana - Afghanistan Enzo Mangini - Libia Federica Miglio e Alessandro Turci - Mali Enzo Nucci - Ciad, Repubblica Democratica del Congo Alessandro Piccioli - Libano Emanuele Profumi - Colombia Federica Ramacci - Haiti, Sahara Occidentale, Kurdistan Alessandro Rocca - Somalia Ornella Sangiovanni - Iraq Roberto Zichittella - Algeria Redazione - Liberia, Yemen, Siria, Costa D’Avorio, Sudan, Sud Sudan, Nigeria, Cecenia Gli Inoltre: Burkina Faso, Etiopia, Guinea Bissau, Uganda, Messico, Birmania, Corea Nord/Sud, Iran, Xinjang, Kirghizistan, Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Nagorno Karabach Schede Speciale Svolta Islam Ilaria Pedrali - Arabia Saudita, Bahrain, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Marocco, Tunisia, Turchia Ai nostri lettori. Per correggere un testo occorrono molti occhi. Noi abbiamo cercato di fare il nostro meglio. Laddove ci fosse sfuggito qualche refuso o errore ce ne scusiamo.

Asiantribune.com Bangkokpost.com It.euronews.net Iltempo.it Intopic.it/estero/thailandia/ geopoliticamente.wordpress.com Organizzazioni non governative Amnesty International Emergency

Medici Senza Frontiere Reporters Sans Fronteres Unimondo Amani Club di Roma Elisso Cdca - Centro Documentazione Conflitti Ambientali Icc - Commercial Crime Services


Glossario

Terroristi Tutti coloro che usano armi o mettono in atto attentati contro popolazioni inermi, colpendo obiettivi civili deliberatamente. In questo libro, questa è la definizione di terrorista, a prescindere dalle ragioni che lo muovono. Ne deriva che in questo volume viene definito Attentato Terroristico ogni attacco compiuto con fini distruttivi o di morte nei confronti di una popolazione inerme e civile al puro scopo di seminare terrore, paura o per esercitare pressioni politiche. Ovvero ogni attacco compiuto contro obiettivi militari, ma che consapevolmente coinvolge anche popolazioni inermi e civili. Resistenti Gruppi o singoli che si oppongono, armati o disarmati, all’occupazione del proprio territorio da parte di forze straniere, colpendo nella loro azione obiettivi prevalentemente militari. Anche in questo caso diamo questa definizione senza entrare nel merito delle ragioni. Gli attacchi di gruppi di resistenti a forze armate regolari in questo libro vengono definite Operazioni di Resistenza o Militari. Forze di Occupazione Ogni Forza Armata straniera che occupa, al di là della ragione per cui avviene, un altro Paese per un qualsiasi lasso di tempo. Forze di Interposizione Internazionali Sono invece Forze Armate, create su mandato dell’Onu o di altre organizzazioni multinazionali e rappresentative, che in presenza di precise regole di ingaggio e combattimento che ne limitano l’uso, si collocano lungo la linea di combattimento per impedire il confronto armato fra due o più contendenti. Le definizioni seguenti sono quelle ufficiali definite e riportate dall’UNCHR nei loro documenti e rapporti e a cui noi ci rifacciamo Profugo Termine generico che indica chi lascia il proprio paese a causa di guerre, persecuzioni o catastrofi naturali.

Richiedente asilo Colui che è fuori dal proprio paese e inoltra, in un altro stato, una domanda di asilo per il riconoscimento dello status di rifugiato. La sua domanda viene poi esaminata dalle autorità di quel paese. Fino al momento della decisione in merito alla domanda, egli è un richiedente asilo (asylum-seeker). Rifugiato Il rifugiato (refugee) è colui che è costretto a lasciare il proprio paese a causa di conflitti armati o di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. A differenza del migrante, egli non ha scelta: non può tornare nel proprio paese perché teme di subire persecuzioni o per la sua stessa vita. Sfollato Spesso usato come traduzione dell’espressione inglese Internally displaced person (Idp). Per sfollato si intende colui che abbandona la propria abitazione per gli stessi motivi del rifugiato, ma non oltrepassa un confine internazionale, restando dunque all’interno del proprio paese. In altri contesti, si parla genericamente di sfollato come di chi fugge anche a causa di catastrofi naturali. Migrante Termine generico che indica chi sceglie di lasciare il proprio paese per stabilirsi, temporaneamente o definitivamente, in un altro paese. Tale decisione, che ha carattere volontario anche se spesso è indotta da misere condizioni di vita, dipende generalmente da ragioni economiche ed avviene cioè quando una persona cerca in un altro paese un lavoro e migliori condizioni di vita. Migrante irregolare Chi, per qualsiasi ragione, entra irregolarmente in un altro paese. In maniera piuttosto impropria queste persone vengono spesso chiamate ‘clandestini’ in Italia. A causa della mancanza di validi documenti di viaggio, molte persone in fuga da guerre e persecuzioni giungono in modo irregolare in un altro paese, nel quale poi inoltrano domanda d’asilo. Extracomunitario Persona non cittadina di uno dei ventisette paesi che attualmente compongono l’Unione Europea, ad esempio uno svizzero.

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Guerre e conflitti Situazioni di scontro armato fra stati o popoli, ovvero a confronti armati fra fazioni rivali all’interno di un medesimo Paese. Includiamo in questo elenco i Paesi o i luoghi in cui esiste un latente conflitto, bloccato da una tregua garantita da forze di interposizione internazionali.



Altri saluti Comincio segnalando un arrivo: MeMo. Sono una banda di fotografi internazionali bravissimi, che hanno inventato una rivista digitale da urlo (andate a vederla www.memo-mag.com) e che ci hanno dato la quasi totalità delle immagini che vedete. Senza di loro l’Atlante sarebbe stato molto, ma molto più povero. Salutarli qui è il minimo che possa fare. A loro aggiungo, per i saluti, gli sponsor che anche quest’anno hanno deciso di restare con noi. Parlo dell’Associazione Artigiani di Trento, della Federazione delle Cooperative Trentine e di Chianti Banca. Senza di loro non saremmo usciti per questa sesta volta. I soldi, per altro, ce li hanno dati anche l’Assessorato alla cooperazione internazionale della Provincia Autonoma di Trento, la Provincia di Firenze, la Regione Toscana. Sono finanziamenti essenziali, questi per pagare i volumi, i materiali e le decine di incontri che facciamo, gratuitamente o quasi, in giro per il Paese. Come sempre, qui a questo punto, voglio le tante organizzazioni che credono in questo progetto tanto da essersi fidate. Unhcr, Medici Senza Frontiere, Amnesty International, Cdca, Asal. Sono gruppi fatti da donne e uomini che lavorano bene, con passione. Come cerchiamo di fare noi.

Ringraziamenti Sono sei anni, ormai, che affronto l’imbarazzo dei ringraziamenti. Mettere in piedi l’Atlante è operazione - vi garantisco - complessa, fatta di tante piccole azioni quotidiane, di insistenze e, almeno un po’, di arrabbiature. Niente, però, si potrebbe fare se non ci fossero persone che danno una mano semplicemente perché ci credono. E allora, dire grazie a Sara Ferrari, che da sempre ci sostiene, è il minimo che possa fare. Con lei, Stefano Fusi e la moglie Jill, che hanno reso possibile l’idea di realizzare questo volume in inglese, rendendolo un po’ più “Atlante”. Poi, Fabio Bucciarelli, un amico fidato con cui confrontarsi, sapendo di avere risposte sincere e, soprattutto, rispetto degli impegni presi: grazie davvero. Maurizio Del Bufalo e gli amici del Festival del Cinema per i diritti umani di Napoli sono diventati una specie di “isola” a cui approdare quando serve prender aria buona. La lista si allunga con Giuliano Andreolli, Laura Strada e Fulvio Dal Ri, Paolo Burli, Giorgio Fracalossi, Francesco Cavalli, Luciano Scalettari e Alex Rocca. Non dimentico tutti i collaboratori, che hanno la pazienza di scrivere e di sopportare le richieste. Infine, il professor Scotto di Firenze con i suoi studenti e Flora Graiff, che anche quest’anno ci ha regalato la sua fantasia. Mi restano per ultimi, ma così ho più tempo, Daniele Bellesi, Federica Ramacci e Beatrice Taddei Saltini, dal 2009 il gruppo di lavoro “ristretto” di questa pazzia. Mi volto e vi vedo comunque ancora tutti e tre lì. Cosa dirvi? Grazie. Raffaele Crocco


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