ATLANTE
DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO
Terza edizione
georgia
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Etiopia
Corea Nord Corea Sud
Palestina
Messico
India
Nicaragua Costarica
Iran
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cina/tibet
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filippine
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thailandia
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india
yemen
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18 birmania/myanmar
india
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etiopia
sudan
sud sudan
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corea nord/sud
kirghizistan
kashmir
afghanistan
pakistan
libano iraq
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14 timor est
1
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iran
cipro r. d. congo
INOLTRE
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11/13
uganda
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nigeria
5
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rep. centrafricana
costa d’avorio
guinea bissau
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4 liberia
CONFLITTI, MISSIONI ONU, INOLTRE
3 colombia
SITUAZIONE AL SETTEMBRE 2011
2
15
nagorno karabach
5
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libia
algeria
sahara occidentale
16
ciad
haiti
2 nicaragua/costarica
messico
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1
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31 34 8
cecenia
26 3
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siria
israele/palestina
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somalia
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turchia
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4
1
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kosovo
paesi baschi
palestina
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Birmania Myanmar
Kirghizistan
Cipro
MISSIONI ONU
CONFLITTI
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UNTSO
MINURSO
UNMIS
UNMOGIP
UNMIK
UNMIT
UNFICYP
UNMIL
UNAMID
UNDOF
UNOCI
MONUSCO
UNIFIL
MINUSTAH
UNISFA
Algeria
Sahara Occidentale
Pakistan
Ciad
Somalia
Thailandia
Costa d’Avorio
Sudan
Timor Est
Guinea Bissau
Sud Sudan
Turchia
Liberia
Uganda
Yemen
Libia
Colombia
Israele Palestina
NIgeria
Haiti
Libano
Repubblica Centrafricana
Afghanistan
Siria
R.D. del Congo
Cina/Tibet
Cecenia
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Georgia
India
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Kashmir
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guinea bissau
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SITUAZIONE AL SETTEMBRE 2011
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sahara occidentale
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2 nicaragua/costarica
messico
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UNMIK
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UNFICYP
UNMIL
UNAMID
UNDOF
UNOCI
MONUSCO
UNIFIL
MINUSTAH
UNISFA
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Sahara Occidentale
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Costa d’Avorio
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Timor Est
Guinea Bissau
Sud Sudan
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Israele Palestina
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Repubblica Centrafricana
Afghanistan
Siria
R.D. del Congo
Cina/Tibet
Cecenia
Filippine
Georgia
India
Kosovo
Iraq
Nagorno Karabach
Kashmir
Paesi Baschi
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO Terza edizione Dedicata a Vittorio Arrigoni
Associazione 46° Parallelo
ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO TERZA EDIZIONE Direttore Responsabile Raffaele Crocco Capo Redattore Federica Ramacci
assoc iazio ne cultu rale
2
In redazione Beatrice Taddei Saltini Daniele Bellesi
Redazione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it
Hanno collaborato Paolo Affatato Andrea Baranes Barbara Bastianelli Giulia Bondi Pietro Cavallaro Francesco Cavalli Cristian Contini Angelo d’Andrea Angela de Rubeis Elena Dundovich Stefano Fantino Angelo Ferrari Marina Forti Federico Fossi Emanuele Giordana Alessandro Grandi Adel Jabbar Flavio Lotti Enzo Mangini Luisa Morgantini Michele Nardelli Enzo Nucci Ilaria Pedrali Alessandro Piccioli Amedeo Ricucci Alessandro Rocca Ornella Sangiovanni Luciano Scalettari Cristiano Tinazzi Lorenzo Trombetta Roberto Zichittella Un ringraziamento speciale a Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR)
www.atlanteguerre.it
Foto di copertina Guerriglieri per la liberazione della Libia al check-point di Ras Lanuf si preparano per la battaglia contro i soldati di Gheddafi. ©Fabio Bucciarelli / LUZphoto www.fabiobucciarelli.com Testata registrata presso il Tribunale di Trento n° 1389RS del 10 luglio 2009 Tutti i diritti di copyright sono riservati ISSN: 2037-3279 ISBN-13: 978-8888819945 Finito di stampare nel novembre 2011 Grafiche Garattoni - Rimini
Progetto grafico ed impaginazione Daniele Bellesi Progetto grafico della copertina Daniele Bellesi
Algeria Ciad Costa d’Avorio Guinea Bissau Liberia Libia Nigeria Repubblica Centrafricana Repubblica Democratica del Congo Sahara Occidentale Somalia Sudan Sud Sudan Uganda
34 38 42 46 50 54 58 62 66 70 74 78 82 86
Colombia Haiti
94 98
Afghanistan Cina/Tibet Filippine India Iraq Kashmir Pakistan Thailandia Timor Est Turchia Yemen
108 112 116 120 124 128 132 136 140 144 148
Israele/Palestina Libano Siria
160 164 168
Cecenia Georgia Kosovo Nagorno Karabach Paesi Baschi
176 180 184 188 192
Editoriale Raffaele Crocco Saluti Amministratori Introduzione Raffaella Bolini Istruzione per l’uso Raffaele Crocco La situazione Raffaele Crocco Il mondo in movimento Laura Boldrini Il controllo delle risorse/1 Angelo Ferrari Il controllo delle risorse/2 Ass. di Promozione Sociale Ellisso Banche e guerra Andrea Baranes Evoluzione dei conflitti Elena Dundovich Vittime di guerra/1 Luisa Morgantini Vittime di guerra/2 Enzo Nucci Informazione e guerra Amedeo Ricucci Africa Un nuovo Stato per avere speranza Enzo Nucci SCHEDE AFRICA
90 91 92
Inoltre Etiopia America Latina La bussola del Pianeta punta il Sud America Raffaele Crocco SCHEDE AMERICA LATINA
102 104 105 106
Inoltre Messico - Nicaragua/Costarica Inoltre - Messico, fantasmi senza diritti Stefano Fantino Asia Giovani e social media. Il futuro della pace è qui Paolo Affatato SCHEDE ASIA
152 157 158
Inoltre Birmania - Corea del Nord/Sud - India - Iran - Kirghizistan Medio Oriente Cambia lo scenario Signori, arriva la Turchia Adel Jabbar SCHEDE MEDIO ORIENTE
172 173 174
Inoltre Palestina Europa Un’occasione fallita. Le crisi del Mediterraneo Amedeo Ricucci SCHEDE EUROPA
196 197 198 201 203 206 209 210 213 215 217 221 223 225 226 229 233 235 238 241 242 245
Inoltre Cipro SPECIALE SVOLTA ISLAM Le rivolte del mondo islamico Nel mondo islamico è tempo di cambiamento Amedeo Ricucci Egitto - Siria - Tunisia Altri stati coinvolti Che bello Facebook Roberto Zichittella Infografica social network Cristian Contini Al Jazeera, voce araba che sfida i grandi network Amedeo Ricucci In Iran tutti in piazza per sostenere le rivolte Federica Ramacci Quattro piccole storie per un mondo che cambia Giulia Bondi Nazioni Unite - I Caschi Blu Raffaele Crocco Le missioni Onu Vittime di guerra/3 Federico Fossi Vittime di guerra/4 Luciano Scalettari Vittime di guerra/5 Stefano Fantino Riflessioni sulla guerra Michele Nardelli Beni a rischio, il caso Hebron Federica Ramacci Gruppo di lavoro Glossario Fonti Ringraziamenti
3
Indice
5 6 9 11 13 15 17 19 21 23 25 27 29 31 32
Idea e progetto Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento
Edizione Editrice AAM Terra Nuova S.r.l. Via Ponte di Mezzo, 1 50127 - Firenze Tel. +39 055 3215729 Fax +39 055 3215793 info@aamterranuova.it www.aamterranuova.it
Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it
Partner
Con il supporto di
4
www.ilariaalpi.it
Con il patrocinio di
Con il contributo di
CONSIGLIO REGIONALE DEL TRENTINO-ALTO ADIGE
PROVINCIA DI PESARO E URBINO
In collaborazione con
Editoriale
Un Palazzo di vetro sempre più fragile. Sono ambigue le guerre umanitarie
UNHCR/R. Gangale
Il Direttore Raffaele Crocco
5
È
un termometro impazzito quello che ha misurato la temperatura del Mondo, negli ultimi dodici mesi. La colonna di mercurio è arrivata a temperature da febbre alta con le rivoluzioni – lo saranno state davvero? – del mondo arabo e islamico, finite in vittoria o finite nel sangue. Sono continuate le guerre in Africa, gli attentati. È iniziata la guerra in Libia, che doveva essere breve e umanitaria, ed è finita con la morte di Gheddafi. È terribile questa idea della “guerra umanitaria”, della “guerra giusta”. Si è fatta strada negli anni per giustificare interventi armati e partecipazione attiva a conflitti. È diventata, questa idea, la grande maschera che usiamo per spiegare e spiegarci che, a volte, fare la guerra è indispensabile per portare ”pace, giustizia e democrazia”. Così, abbiamo inculcato ai cittadini la convinzione che ci possono essere guerre tollerabili, a cui partecipare. Purché, ovvio, siano lontane, in altri luoghi, magari esotici. Il conflitto in Libia è un buon esempio di questo modo di pensare molto moderno. Tanto moderno da essere condiviso da destra e sinistra: a sdoganarlo, all’inizio degli anni ’90, furono il democratico Bill Clinton e il laburista Tony Blair. L’opinione pubblica si è divisa fra chi riteneva giusto intervenire per bloccare il massacro dei ribelli e dar loro una mano per conquistare la libertà e chi pensava fosse assurdo andare a bombardare Gheddafi, considerato un buon amico pochi giorni prima. Sembra siano pochi coloro che hanno pensato che, forse, non è una soluzione mettere fine ad una guerra con una guerra, uccidere per evitare che si uccida. Contraddizioni, quelle di sempre, le stesse che condizionano la politica internazionale. Le medesime che fanno delle Nazioni Unite uno strumento troppo spesso insufficiente. Lì, al Palazzo di Vetro, a settembre è però successo qualcosa di davvero importante. Abu Mazen, Presidente dell’Autorità Palestinese, è andato a chiedere agli Stati membri dell’Onu che venga riconosciuta l’esistenza dello Stato di Palestina, ammettendolo all’Assemblea Generale. L’idea ha contro Israele, avrà il veto di Stati Uniti e Unione Europea, ma ha nel mondo più appoggi di quanti si creda. E soprattutto ha nel fondo la possibilità di tracciare un cammino verso la pace fra israeliani e palestinesi, mettendo all’angolo le fazioni integraliste degli uni e degli altri, le stesse che da decenni sabotano ogni serio tentativo di dialogo. L’episodio ha in ogni caso rimesso l’Onu al centro delle cose del mondo. Ha ridato respiro ad una istituzione internazionale in permanente difficoltà politica ed economica, ma ancora centrale per chi spera in soluzioni rapide ed eque dei conflitti del Pianeta. Tutto, ancora, passa di lì e la cosa è talmente evidente che le grandi nazioni – o chiunque abbia a cuore solo i propri affari – fanno di tutto per svuotare le Nazioni Unite di ruolo e credibilità. Quella credibilità che, ad esempio, era stata persa nella strage di Srebrenica, il 9 luglio del 1995. Le truppe serbe di Mladic, quel giorno, massacrarono più di 8mila uomini musulmani davanti a 600 Caschi blu olandesi, comandati dal colonnello Thorn Karremans. Gli uomini dell’Onu erano lì per garantire una “zona protetta” alla popolazione bosniaca. Non fecero nulla, in nome delle “regole d’ingaggio” che – dissero – impedivano loro di intervenire. In luglio, quest’anno, un tribunale olandese ha riconosciuto la responsabilità di quei soldati olandesi nel massacro, condannando l’Olanda a risarcire le famiglie di alcune vittime. Sono passati sedici anni, ma un po’ di giustizia è fatta. E un po’ di aria buona – anche in questo caso di credibilità – al mondo è arrivata dai Premi Nobel del 2011. Si chiedeva fosse dato alle donne africane, in parte è stato così. Lo hanno assegnato a due donne africane, Ellen Johnson – Sirleaf e Leymah Gbowee e a una donna yemenita, Tawakkul Karman. Un premio condiviso fra chi condivide la lotta all’ingiustizia e alla corruzione, fra chi si batte da sempre per affermare diritti che sulla carta sono elementari, ma nei fatti non esistono. Le donne di tutto il mondo sanno bene cosa significa vivere con diritti monchi. La speranza è che assegnar loro il Nobel non sia stato solo un modo per farle star buone.
Saluti
S
ono molto felice di questa nuova edizione dell’Atlante, perchè fare corretta informazione è come far germogliare semi di pace. Condivido assieme alla Commissione Consiliare “Cooperazione e Pace“ un deciso impegno a contrastare la cultura della guerra e dei conflitti. E questo possiamo farlo attraverso la realizzazione di politiche di pace e cooperazione decentrata, la promozione dei diritti umani, sociali, politici fondamentali, l’attuazione di politiche che possono farci uscire dalla attuale crisi economico-finanziaria, sociale ambientale che causa un impoverimento crescente e pesanti ed ulteriori disuguaglianze sociali. Queste attività, nelle quali sono coinvolti Enti Locali, comunità locali, associazioni, scuole ed università, le stiamo cercando di realizzare sia nel nostro territorio che nei molti Paesi del sud e del nord del mondo con i quali la Provincia di Firenze ha stretto fecondi relazioni di amicizia, rapporti di partenariato e di gemellaggio. Andrea Barducci Presidente Provincia di Firenze
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L
a Provincia di Siena, ha deciso di sostenere la pubblicazione “L’Atlante delle Guerre e dei Conflitti nel mondo” come un ottimo strumento per veicolare presso il territorio e le scuole, i valori della pace e della non violenza, principi questi fondanti dell’operato intrapreso dalla nostra Amministrazione nel campo della cooperazione e solidarietà internazionale. Ogni giorno, in tante parti del mondo, i conflitti provocano dolore e morte. La guerra è una drammatica realtà che coinvolge migliaia di innocenti e che non aiuta a risolvere i problemi. Molte voci autorevoli hanno cercato di opporsi ai conflitti invocando la via della pace e del dialogo, ma non sono riuscite a cancellarla definitivamente. Gli scontri bellici e l’ intolleranza dell’ uomo non consentono neppure alle normative in vigore e all’Onu di fermarla, perché quando l’odio o gli interessi economici o politici sono troppo elevati è difficile impedire lo scoppio della guerra. L’unico modo per opporsi e bloccare i conflitti è utilizzare la ragione, in quanto se si riflette su cosa questa provoca e quali sono i risultati ottenuti, rapportati al costo in vite umane di innocenti, donne e bambini, si capisce quanto la scelta possa dimostrarsi assurda. Questa pubblicazione è un contributo alla conoscenza, primo passo per intraprendere consapevoli ed efficaci iniziative di pace e solidarietà internazionale. Gabriele Berni Assessore alla Cooperazione Internazionale - Provincia di Siena
O
gni giorno, in tutto il pianeta, si combattono guerre, talvolta neppure dichiarate, di cui spesso l’opinione pubblica europea ed occidentale è all’oscuro e dove raramente si ferma l’interesse dei media. Questo Atlante è una luce su questi conflitti, uno strumento ideato per testimoniare e far conoscere realtà dimenticate. E proprio questo è il grande pregio di un’opera che, trattando un tema così drammatico in maniera oggettiva, spiega soprattutto ai più giovani quanto sia fragile l’equilibrio che mantiene stabile la nostra società e quali responsabilità abbiamo verso il prossimo. Il Trentino-Alto Adige/Südtirol è una terra di confine, che vanta una storia millenaria di convivenza tra popoli di lingua e cultura diversa, ma dove non sono mancati periodi carichi di tensioni e incomprensioni, alternati ad altri di prolifica collaborazione. Oggi proprio la nostra Regione è un modello che viene preso ad esempio da molti, ma quello che ha portato allo Statuto d’Autonomia di cui godiamo non è stato certo un percorso facile. Non sorprende dunque che proprio qui, in un territorio ancora segnato dalle cicatrici della Grande Guerra, abbia trovato sede una associazione che vuole diffondere questo forte messaggio di Pace. Da questa consapevolezza nasce la volontà di contribuire alla diffusione di un testo così importante, per il quale ringrazio in particolar modo Raffaele Crocco, giornalista di grande professionalità ed umanità, e tutti gli autori che, attraverso l’Associazione 46° Parallelo, stanno diffondendo un messaggio di solidarietà di straordinario valore. Marco Depaoli Vicepresidente del Consiglio regionale Trentino Alto Adige
Saluti
A
prire gli occhi sul mondo, per conoscere e imparare a comprendere ciò che accade oltre il tranquillo orizzonte dell’Europa. Nell’epoca della globalizzazione è giusto che i nostri ragazzi siano in grado di confrontarsi con realtà e avvenimenti apparentemente lontani, che finiscono invece per avere riflessi importanti anche sulla nostra vita quotidiana. Basti pensare ai grandi flussi migratori dal sud del mondo, generati da carestie, guerre e situazioni di terribile povertà, per capire come un filo sottile leghi fra loro popoli e nazioni distanti anche migliaia di chilometri. Per questo è importante che i progetti educativi rivolti alle scuole aprano una finestra anche su realtà meno conosciute, su fatti e eventi molto spesso drammatici, sensibilizzando le menti e le coscienze dei ragazzi su un mondo spesso dimenticato, relegato a poche righe sui quotidiani e a una manciata di secondi sulle televisioni. Conoscere per non dimenticare, perché educare alla pace, alla solidarietà e alla multiculturalità è l’unico percorso per costruire un futuro degno di essere vissuto. Rosa Maria Di Giorgi Assessore all’Educazione - Comune di Firenze
C
Chiara Innocenti Assessore alle Politiche Giovanili - Provincia di Pistoia
A
bbiamo accolto con piacere l’invito di aderire alla nuova edizione dell’atlante dei conflitti pensando soprattutto al suo utilizzo nelle scuole. Riteniamo infatti che in un mondo globalizzato la geografia, e in particolare la geografia delle guerre e della povertà sia materia fondamentale. Conoscere i mille motivi che spingono le persone a lasciare la propria terra, fuggendo da situazioni invivibili, portando negli occhi l’orrore di ciò che ha visto, rende più accoglienti i nostri borghi, dove sempre più immigrati ne colorano e rivitalizzano i centri storici. La scuola è il primo luogo di aggregazione e insieme laboratorio di stili di vita. Credo inoltre che l’Atlante sia un valido ausilio anche per tanti amministratori che, come me, si trovano ad affrontare le sfide di un territorio socialmente in continuo mutamento: non possiamo infatti pensare di essere efficaci nelle politiche locali come in quelle nazionali se non abbiamo una visione generale di cosa accade nel mondo e delle ripercussioni che la situazione internazionale avrà nel nostro futuro ed ha già nel nostro presente. Si tratta quindi di un validissimo strumento di conoscenza, che si legge con un interesse crescente, con la speranza di un lieto fine che solo l’intelligenza degli uomini può donarci.
Alessia Morani Assessore alla Pubblica Istruzione, Integrazione interculturale, Cooperazione internazionale, Educazione alla Pace e alla Legalità - Provincia di Pesaro e Urbino
7
onoscere per comprendere. Questo il principio che ha portato la Provincia di Pistoia ad aderire al progetto dal quale è nata questa pubblicazione. Molto spesso, infatti, sentiamo parlare di conflitti nel mondo, ma purtroppo assai raramente se ne parla in maniera corretta, e così si sviluppa un “comune sentire” che non è improntato né alla reale conoscenza, né tanto meno ad una capacità critica di analisi delle cause che portano ai tanti – sempre troppi – conflitti che insanguinano il nostro mondo. L’aspetto della scientificità nell’analisi relativa a questo tema è sicuramente un elemento fondamentale, che risponde ad un dovere etico nei confronti dei nostri giovani: informarli, per consentire loro di scegliere quali risposte dare ai milioni di occhi di donne, bambini ed anziani che ci interrogano da queste pagine. A questo sono improntati i nostri percorsi di politiche giovanili: garantire la libertà. Che non esiste se non c’è consapevolezza e possibilità di scegliere.
Saluti
N
ello sfogliare l’Atlante delle guerre e dei conflitti la percezione che si ha dal primo momento è del distacco tra ciò che “viviamo” e ciò che “succede” intorno. Intorno, perché non è lontano, non è da un’altra parte, ciò che succede è qui in ogni momento. La Storia ci forma e ci determina in ciò che crediamo o in ciò che scegliamo, ma ha una connotazione di passato, di superato, di storia appunto, l’Atlante chiarisce che tutto ciò che i cronisti raccontano sta succedendo ora. Un panorama dettagliato e aggiornato sulle situazioni mondiali e sui conflitti che ogni giorno logorano territori e popoli può renderci soggetti più consapevoli e attivi. Mettere in relazione il nostro quotidiano con la situazione internazionale ci sprona a riflessioni che portano ad una critica costruttiva e dinamica. Riteniamo l’Atlante, uno strumento utile per tutti ma in particolar modo per le nostre scuole. Un progetto importante in cui la Provincia di Arezzo crede. Mirella Ricci Vice Presidente e Assessore alla multiculturalità - Provincia di Arezzo
L
8
’Atlante delle guerre e dei conflitti riporta alla mente l’incipit del libro di James Hillman, “Un terribile amore per la guerra”. Richiamando una scena del film “Patton, generale d’acciaio”, il famoso psicoanalista americano scrive: “Se non entriamo dentro questo amore per la guerra, non riusciremo mai a prevenirla né a parlare in modo sensato di pace e disarmo. Se non spingiamo l’immaginazione dentro lo stato marziale dell’anima, non potremo comprenderne la forza di attrazione”. Ebbene, questo Atlante ci porta, con realismo e in modo documentato, dentro il folle amore dell’uomo per la guerra, ricordandoci questa terribile realtà. Ma, fra le pieghe della follia, si rintraccia l’impegno per la costruzione di nuovi patti sociali pacifici fra persone e popoli che sempre sgorgano dalla irrefrenabile passione per la libertà in nome della quale migliaia di giovani nelle piazze dei paesi arabi del Mediterraneo hanno rovesciato regimi dispotici e cambiato il corso della loro e della nostra storia. A loro dedico queste brevi righe introduttive. Enrico Rossi Presidente Regione Toscana
I
l nostro obiettivo è quello di formare cittadini attivi, consapevoli e plurilingui e di fornire a tutti gli strumenti per concorrere allo sviluppo democratico e civile della nostra societá. In quest´ottica sosteniamo molto volentieri il progetto “Atlante delle Guerre e dei conflitti del mondo” perché siamo convinti sia importante offrire una raccolta critica e completa di informazioni sulla geografia dei conflitti mondiali per promuovere una reale cultura di pace e di nonviolenza. La Provincia autonoma di Bolzano si sta distinguendo in questi ultimi anni per il proprio lavoro di progettazione partecipata nell’ambito delle politiche giovanili e del territorio. Con questo entusiasmo è nata LiberaMente, la piattaforma di discussione fra giovani e la pubblica amministrazione con lo scopo di incrementare la posizione delle nuove generazioni nei dibattiti pubblici sui temi legati in vario modo alla sostenibilità e al futuro della nostra societá. È anche in questa cornice che ci siamo avvicinati, ad esempio, al ‘Meeting 1000 giovani per la pace promosso dalla Tavola per la pace, che si è tenuto a settembre 2011 a Perugia, e abbiamo voluto prender parte assieme a un gruppo di giovani altoatesini alla Marcia della Pace Perugia-Assisi nel suo cinquantesimo anniversario. Siamo convinti che per diffondere la cultura e la pratica della nonviolenza in un contesto di cittadinanza attiva e responsabile, si debbano incrementare azioni di informazione non solo del contesto locale, ma anche di quello globale. Sfruttate al massimo il contenuto di queste pagine come occasione per favorire un dibattito costruttivo da fare assieme! Christian Tommasini Vicepresidente della Provincia Autonoma di Bolzano - Assessore alla cultura italiana
Introduzione
Non chiudiamo le porte
Contro la guerra parliamo all’intelligenza
UNHCR/P. Wiggers
Raffaella Bolini Presidenza Nazionale Arci
9
I
l movimento per la pace ha sempre avuto un andamento ad onde: periodi di grande – spesso immensa – partecipazione e visibilità, in cui si sono rafforzate generazioni intere di attivismo sociale, alternati a lunghi momenti di immersione. In una delle fasi di bassa marea esce questa nuova edizione dell’Atlante, a quasi un decennio dalla manifestazione del 15 febbraio del 2003 e di quei centodieci milioni in tutto il mondo contro la guerra in Iraq che il New York Times definì “la seconda superpotenza mondiale”. In dieci anni il mondo è cambiato, e tanto. È ancora una volta cambiato l’assetto del mondo e questa volta la crisi è in occidente, e nel modello di economia e di società che ha esportato in tutto il pianeta. È crisi economica e finanziaria, è ancor di più crisi sociale ed ecologica, crisi di civilizzazione. Le società europee e nordamericane hanno distribuito in giro per il mondo tanto sfruttamento e guerra, mentre costruivano e difendevano la loro potenza. Ma al contempo hanno sempre prodotto uno straordinario impegno civile per i diritti umani, per il disarmo, contro la guerra, per la solidarietà e la giustizia globale. Oggi sono impegnate a fare i conti con i propri problemi. Ci dibattiamo fra il precariato, la mancanza di lavoro, il furto di futuro per i giovani, la povertà che avanza a grandi passi dentro al ceto medio, la dissoluzione delle garanzie e dei diritti sociali che pensavamo conquistati per sempre. E la solidarietà internazionale sembra a molti apparire come un lusso per i tempi buoni. Qualcosa per cui non c’è spazio, quando i diritti da difendere sono i propri e quando il sud del mondo è a casa nostra. Eppure sono migliaia i gruppi organizzati, le associazioni, gli insegnanti e gli studenti, le parrocchie e i centri sociali che continuano a fare avanti e indietro con il mondo, a raccogliere fondi e a fare campagne, a stringere alleanze con le comunità schiacciate dalle guerre e dai conflitti. Eppure non si contano quelli che ogni momento dell’anno, giorno e notte, agiscono a fianco dei migranti e dei richiedenti asilo. Eppure le rivoluzioni democratiche nel Maghreb hanno ispirato milioni giovani e meno giovani, dando a ciascuno un po’ di coraggio in più, e più fiducia nel cambiamento possibile. La marea costruisce le spiagge, erode le rocce, cambia la faccia delle coste. Anche quando le onde non si vedono e il mare sembra calmo, rimane enorme la sua energia e la sua forza trasformatrice. A quella parte di cittadinanza che non accetta di fronte alla crisi di chiudere le porte in faccia al mondo spetta un compito impegnativo in questi tempi duri: dimostrare che proprio nel mondo sta la soluzione dei problemi di casa nostra. Che nessuno può salvarsi da solo. Bisogna parlare certo alla coscienza della nostra gente, ma c’è bisogno soprattutto di parlare alla intelligenza di ognuno. C’è bisogno di diffondere sapere e conoscenza. Affinare gli strumenti, le proposte, le alternative possibili per passare dalla lotta alla sopravvivenza alla società della convivenza. L’Atlante ci aiuta tanto, in questo impegno per conquistare, uno dopo l’altro, persone e comunità a un progetto di un mondo giusto.
Istruzione per l’uso Raffaele Crocco
Anche quest’anno meglio scrivere qualche breve istruzione per l’uso di questo Atlante. È un passaggio che riteniamo fondamentale, proprio per evitare malintesi in un libro che racconta cose “sensibili”, cioè oggetto di polemica e preconcetti. Iniziamo allora ricordando che le parole possono avere più significati, possono essere interpretate, piegate, rielaborate per giustificare, spiegare, convincere. Anche le scelte grafiche, la collocazione di pezzi e articoli possono lasciar spazio a dubbi, domande, possono indicare propensioni politiche o di parte. Per evitare tutto questo, queste righe sono essenziali. Cominciamo. L’elemento principale, in questo libro, è proprio la forma grafica, la scelta di essere Atlante. Come vedrete, ogni guerra ha esattamente lo stesso spazio, il medesimo numero di pagine. Questo per evitare di dare ad una maggiore importanza rispetto alle altre. È una scelta “politica”, che vuole mettere tutte le guerre allo stesso livello. Così, le schede conflitto sono tutte di 4 pagine, divise rigorosamente per continente, come in un Atlante, appunto. Attenzione: in questo – che è un Atlante particolare – troverete delle schede conflitto, non delle “schede – Paese”. Qui si disegna un profilo geografico ad una guerra e, quindi, vi sono schede che non corrispondono a Stati o Nazioni, ma ad aree di conflitto. È una differenza fondamentale. Quest’anno non daremo in questa pagina le definizioni di Guerra o Conflitto o di altri termini “ambigui” nell’informazione. Vi rimandiamo al Glossario che troverete nelle ultime pagine. Leggetelo, perché è importante per avere un criterio univoco e senza incertezze. Le definizioni che diamo non sono scientifiche, lo ripetiamo sempre, ma sono una scelta, fatta dopo giorni di discussione. E danno un indirizzo preciso alla lettura. Vi diciamo, poi, che troverete, sotto le carte geografiche di ogni scheda conflitto, i dati sulla situazione profughi e rifugiati. È stata realizzata in collaborazione con l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu e si aggiunge al tradizionale rapporto sul tema che pubblichiamo, come tradizione, nelle ultime pagine. Altra avvertenza: il Sud Sudan. Stato nuovo, nato nell’estate del 2011, non avevamo ancora a disposizione una carta geografica. Così abbiamo lavorato sulla vecchia carta del Sudan per com’era sino allo scorso anno, rielaborandola graficamente. Non potevamo, per ora, fare diversamente. Altre istruzioni: le foto che trovate in questo Atlante ci sono state fornite dall’Alto Commissariato dei Rifugiati, altre sono tratte da video di reporter sparsi in tutto il mondo. Sono quelli che tecnicamente si chiamano “frame”, cioè fermi immagine di un filmato. Per questo, a volte, possono sembrare di qualità strana, magari mosse o sgranate. Le abbiamo volute e scelte per la loro efficacia, per la capacità di raccontare tutto in una sola immagine. Un’ultima cosa: le carte geografiche sono quasi tutte messe a disposizione dalle Nazioni Unite, per questo sono in inglese. Dovrebbe essere tutto. Buona lettura.
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Piccola guida alla lettura di questo Atlante
La situazione
Raffaele Crocco
UNHCR/G. Gordon
È vero che si parla di finanza. È vero che la crisi economica mondiale ha investito tutto e tutti, bloccando economie vecchiotte – in Europa e Stati Uniti – e facendo perdere slancio a quelle emergenti – Cina, Brasile –, ad esempio. Tutto questo è vero. Ma se si gratta la superficie, ci si accorge che il problema vero è che ci troviamo a vivere in un Pianeta affamato e assetato. La grande battaglia per il controllo delle risorse, quelle vere come cibo, acqua e minerali, è in pieno svolgimento. Si scatenano lì i conflitti del presente e quelli del futuro. Ce lo raccontano, come spesso accade, i dati, le cifre. Prendiamo il cibo. Nel luglio del 2011 si è scoperto che siamo semplicemente senza riserve. Cosa vuol dire? Che se venisse una grande carestia planetaria, è una teoria, per carità, avremmo cibo solo per 116 giorni, poi stop, fine. In anni di agricoltura moderna, sementi ibride e geneticamente modificate e macchine agricole, sembra incredibile, eppure è così. Perché? Da un lato per la perdita di terre coltivabili dovuta a guerre e a cambiamenti climatici. Dall’altro perché i grandi Paesi industriali hanno scoperto il biocarburante, come alternativa possibile – pur parziale – ai petroli. Hanno dato il via alla caccia ai terreni agricoli necessari per produrlo. Nella sola Africa le multinazionali e i Governi dei Paesi economicamente più forti hanno comperato a prezzi ridicoli terra pari alla superficie della Francia. E quello che viene coltivato lì, cioè cereali, vale a dire l’ossatura del sistema alimentare umano, non si può mangiare, ma solo trasformare in carburante. Ovvio, è solo un pezzo del problema. Ma la fame attanaglia oggi quasi un miliardo di esseri umani, con punte di crisi come quella che vive il Corno d’Africa. La traduzione del tutto è in migliaia di morti e in milioni di profughi che si aggirano per il Pianeta in cerca di cibo e sopravvivenza. Uomini e donne in movimento, che sconvolgono equilibri, che occupano terre e culture, creando conflitti. E i cittadini del mondo non sono solo affamati: sono assetati. L’acqua è sempre più preziosa e più difficile da avere. E chi ce l’ha la difende, armi in pugno. Nel Pianeta, l’85% dell’acqua dolce è consumata dall’11% della popolazione. Anche qui, lo sbilanciamento è mostruoso, con il Nord del Pianeta a consumare troppo. Se si analizza, poi, la distribuzione delle riserve d’acqua nei vari continenti, si scopre che l’America del Sud, con il 6% della popolazione ha il 26% del totale delle risorse idriche mondiali. L’America del Nord e Centrale con l’8% della popolazione, ha il 15% dell’acqua. L’Asia ha il 60% delle persone e il 36% dell’acqua. L’Europa ha il 13% della popolazione e l’8% dell’acqua. Infine l’Africa ha il 13% di uomini e donne e l’11% di risorse idriche.
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Crisi Finanziaria e crisi di cibo Il Pianeta è ancora ammalato
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Acqua e cibo da cercare e controllare stanno creando nuove strategie militari. Stanno contribuendo a far crescere la spesa in armi. Per le sole convenzionali nell’ultimo anno si sono spesi 1.600miliardi di euro nel mondo. Per capirci: è il Pil di un Paese come l’Italia. I migliori venditori sono gli Stati Uniti, con 688miliardi di euro. Poi la Cina con 112miliardi. Dicevamo: si è scoperto il biocarburante. È un’altra traccia da seguire sulla pista dei possibili conflitti. Il mondo industriale e altri, nuovi Paesi come Cina, Brasile, Turchia, Sud Africa hanno bisogno di energia per soddisfare i bisogni di fabbriche e uomini. Ma il modello sin qui usato – fondato su idrocarburi e carbone – è destinato a finire, ad esaurirsi, nonostante le nuove tecniche di estrazione abbiano segnalato giacimenti immensi in Sud America. Nel 2010 il Pianeta ha consumato 13,2 miliardi di tonnellate di energia. Di queste, il 33,2% è stata petrolifera, il 29,6% carbonifera, il 23,8% legata ai gas naturali, il 6,5% è stata idroelettrica, il 5,2% dal nucleare, solo 1,3% è venuta dalle cosiddette fonti rinnovabili. È evidente come, ancora oggi, tutto il sistema sia fondato sull’uso di idrocarburi e carbone, anche se – dicono gli esperti – il picco estrattivo sarà raggiunto entro pochi anni. Così, se da un lato ci si organizza per rendere ancora più redditizio il petrolio e per poterlo estrarre laddove prima era impossibile – ad esempio nell’Antartico – dall’altro si cercano fonti alternative, come l’eolico, il geotermico, il sole, senza però arrivare a risultati soddisfacenti. In questa spirale senza soluzione, chi ha il petrolio cerca ancora di trarre il massimo profitto possibile – anche politico – dalla situazione. Le rivolte nel Maghreb e la guerra di Libia hanno fatto alzare il prezzo del greggio nell’estate del 2011. Un rialzo dovuto non solo alle difficoltà estrattive nate dai conflitti, soprattutto in Libia. A far crescere il costo del barile – dicono gli analisti – è stata la volontà dell’Arabia Saudita di far pagare agli Stati Uniti e all’Europa l’appoggio dato a chi ha fatto cadere Mubarak in Egitto e Ben Alì in Tunisia. Una ritorsione vera e propria. Che paghiamo tutti. Chi ha il petrolio controlla molto del Mondo, anche oggi. Lo sa il Brasile, che progetta di difendere con nuovi sottomarini atomici – i primi in Sud America – i suoi giacimenti sotto il mare. Lo sa la Cina, che ha varato la sua prima portaerei – Shi Lang il nome – per far la voce grossa nel mar di Cina contro Vietnam e Filippine nella rivendicazioni di acque e isole ricche di petrolio. In questo modo, il gioco del controllo del Pianeta resta nelle mani di chi ha le risorse o le può sfruttare. E, sotto traccia, restano integri i pericoli di guerre potenzialmente distruttive. Gli ultimi vent’anni ci hanno abituato a “conflitti locali”, che impegnavano eserciti di piccole dimensioni, in territori comunque definiti. Abbiamo dimenticato che nel Mondo sono lì, nei depositi, pronte ad essere usate, ancora 20.530 testate nucleari. Il dato è di Sipri, la Ong svedese che dal 1966 fotografa lo stato degli armamenti nel Pianeta. Di queste 20.530 testate esistenti, circa 5.000 sono pronte per essere usate in qualsiasi momento. Le potenze nucleari sono quelle note: la Russia, con 11mila testate, di cui 2.400 pronte all’uso. Poi gli Stati Uniti, con 8.500 globali e 2.150 pronte. La Gran Bretagna ne ha 225, con 160 da usare rapidamente. La Francia 300 e 290 pronte. Seguono la Cina, con 240 testate, l’India che ne ha fra le 80 e le 100, il Pakistan con un centinaio e Israele, con le sue 80. Tante. Per decenni, sino agli anni’90, al tempo del confronto fra Stati Uniti e Unione Sovietica, l’attenzione dei pacifisti è rimasta concentrata sugli arsenali nucleari su quello che si chiamava “il pericolo di olocausto” del genere umano. I Trattati internazionali, la caduta del blocco sovietico, la riduzione progressiva degli arsenali statunitensi e russi hanno illuso tutti. Hanno fatto pensare che il peggio fosse passato. Non è vero. Il pericolo è lì. India e Pakistan continuano a sviluppare armi di distruzione, senza aderire ai trattati che ne frenano la proliferazione. E i due Paesi sono in conflitto da decenni, ogni giorno si bombardano con le artiglierie lungo il confine himalayano. Dovessero un giorno decidere di usare le loro testate, anche solo un paio, creerebbero le condizioni per anni di carestie in gran parte dell’Asia e in tutto il Pianeta. È un pericolo concreto, che si aggiunge all’elenco: cibo, acqua, terre, risorse, profughi, desertificazione, cambiamenti climatici. Le ragioni della guerra crescono, apparentemente senza controllo. L’unica cosa che – pochi – sembrano saper controllare sono gli utili, i grandi guadagni, che da queste guerre nascono.
UNHCR/N. Behring
Il mondo in movimento Laura Boldrini UNHCR/F. Noy
UNHCR/F. Noy
Fare previsioni sugli sviluppi politici di un paese o di una intera regione geografica è sempre qualcosa di molto rischioso e farne di giuste è appannaggio di pochi. Riguardo alla cosiddetta primavera araba una sola cosa è finora certa: nel mondo occidentale ha colto tutti alla sprovvista, analisti, politologi e servizi di intelligence. All’interno del mondo arabo invece, il malcontento crescente e la maggior consapevolezza dovuta anche alla rete che ha aperto ulteriori finestre sul mondo, avevano portato alcuni osservatori a scommettere sulla capacità di reazione della popolazione. Ala al-Aswani, autorevole intellettuale e scrittore egiziano nel suo recente libro “La rivoluzione egiziana” racconta di aver sempre saputo che la rivolta sarebbe prima o poi arrivata e di essere stato però “travolto” dalla protesta da lui stesso evocata in tanti precedenti scritti mirati a denunciare corruzione, povertà, mancanza di libertà e umiliazione di un intero popolo. In Tunisia, il 17 dicembre 2010, Mohamed Bouazizi si da fuoco davanti a Sidi Bouziz come gesto estremo di protesta per il sequestro della sua merce. Il giovane certo non poteva immaginare che da quel momento sarebbe partita una ribellione che avrebbe portato milioni di persone a sfilare nelle strade e che tutto questo si sarebbe esteso ben oltre i confini della Tunisia. Un’onda dirompente che non si era mai vista prima. La gente non era più disposta a tacere e a subire, come era avvenuto per decenni. Nei mesi seguenti massicce manifestazioni di piazza inneggianti al cambiamento e alla libertà hanno percorso vari paesi del mondo arabo fino allo Yemen e al Bahrein, anche se con dinamiche, reazioni ed esiti diversi. Nel caso della Libia si è giunti ad un intervento militare della Nato e ad una vera e propria guer-
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Primavera araba, non solo sbarchi È un mondo che cambia
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ra. Oltre 1,3milioni di persone hanno lasciato il Paese e si sono riversate principalmente in Tunisia ed Egitto, Paesi che, nonostante la delicata fase di transizione interna, hanno ottemperato ai loro obblighi internazionali lasciando le frontiere aperte. Erano lavoratori migranti di tante nazionalità che a causa dell’insicurezza in Libia ritornavano a casa. Erano famiglie libiche che non riuscivano più a resistere e varcavano la frontiera alla ricerca di un posto sicuro. Erano rifugiati che non potendo ritornare nel paese d’origine da cui erano precedentemente scappati, si fermavano oltre confine nei campi dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Vista dalla sponda Nord del Mediterraneo la primavera araba sembra purtroppo perdere parte del suo significato più profondo per diventare agli occhi dell’opinione pubblica italiana prevalentemente timore degli sbarchi. Ad alimentare questa paura ha contribuito anche una comunicazione istituzionale alquanto allarmistica che prevedeva “esodi biblici” verso le coste italiane e uno “tsunami umano” che si sarebbe abbattuto sul paese. Gli arrivi via mare vi sono certamenti stati. Circa 50mila persone – migranti e richiedenti asilo – hanno attraversato il Mediterraneo, un flusso fisiologico in presenza di grandi cambiamenti politici che coinvolgono un’intera regione geografica. Un numero consistente ma al contempo esiguo se paragonato all’esodo dalla Libia verso i paesi confinanti. All’inizio dell’anno ad arrivare sulle coste di Lampedusa erano solo tunisini, in prevalenza giovani uomini spinti da motivi economici. Volevano esercitare la loro libertà andando all’estero in cerca di lavoro, nel timore che nel loro paese la disoccupazione, anche nel settore turistico, sarebbe aumentata. L’Italia non era la loro destinazione, ma un ponte per andare in Europa, particolarmente in Francia dove avevano amici e familiari. Tra febbraio e marzo Lampedusa ha vissuto momenti molto difficili dovuti alla presenza prolungata di un grande numero di migranti. Si è arrivati ad avere sei mila tunisini su una popolazione di sei mila residenti. Questo ha creato una situazione insostenibile che si sarebbe potuta evitare se i migranti fossero stati immediatamente trasferiti altrove – come in seguito è accaduto – anziché lasciati sull’isola per settimane. In un tale contesto, il 26 marzo arriva sull’isola la prima imbarcazione di persone in fuga dalla Libia. Questa volta sono famiglie con bambini, uomini giovani e anche donne sole con figli. Nessuno di loro è libico, ma si tratta di persone di diverse nazionalità africane ed asiatiche. Lavoravano in Libia, alcuni da molti anni, oppure erano rifugiati del Corno d’Africa che in questo paese si erano fermati. Avevano lasciato Tripoli ed i suoi dintorni a causa della guerra poichè era diventato troppo pericoloso rimanere, specialmente per i sub-sahariani a rischio di essere scambiati per mercenari reclutati dal regime. Ma purtroppo non tutti coloro che si sono imbarcati dai porti libici hanno raggiunto la sponda nord del Mediterraneo. In mare si è consumata un’altra guerra che ha mietuto almeno 1.500 vittime. Persone di cui non si sa più nulla, tranne che sono partite ma mai arrivate. Come evolverà la primavera araba? Porterà a un reale cambiamento e al consolidamento della democrazia? Quello che sappiamo oggi è che non sarà un percorso semplice né breve. Sappiamo anche che ogni paese è una storia a sé, ma molto dipenderà dalla capacità delle varie classi dirigenti di capitalizzare su quanto accaduto, di recepire le istanze delle piazze e di non deludere riproponendo schemi già noti. Dipenderà anche dal sostegno che i paesi della sponda nord del Mediterraneo sapranno dare a questo processo, spostando la lente dagli sbarchi alla costruzione di un futuro sostenibile.
UNHCR/F. Noy
UNHCR/F. Noy
Il controllo delle risorse/1 Angelo Ferrari
Un pezzo dell’Africa vacilla sotto i colpi della carestia e della siccità, con oltre 12milioni di persone a rischio e, intanto, nel continente nero prosegue la svendita di terre a stati e multinazionali straniere. Una vera e propria guerra della terra, che ha per protagonisti stati come l’Arabia Saudita, gli Emirati, la Corea del Sud, la stessa Italia e non ultima la Cina. Siccità e carestia che hanno messo in ginocchio il Corno d’Africa non dipendono solamente da questioni relative al clima, ma da povertà, mal gestione dei governi, guerre, incuria della terra. Siamo in aeree del mondo dove la sicurezza alimentare dei popoli non è garantita. Gli stati africani cedono le terre agricole a società straniere. Terre che saranno destinate alla produzione di vegetali da trasformare in biocarburanti, oppure alla coltivazione di prodotti da esportare sul mercato internazionale. L’Etiopia – cominciamo da qui il viaggio nella svendita della terra, investita da una carestia senza precedenti – sta attuando un piano avviato dal 2009 che prevede per i prossimi anni la cessione di 35mila chilometri quadrati di terra, una superficie più estesa dell’intera Lombardia, ad aziende straniere che potranno utilizzarle per un periodo compreso tra i 50 e i 99 anni. Lo stesso ministero dell’Agricoltura ha spiegato che la domanda è forte e sono 1.311 le richieste ricevute, la più importante riguarda 300mila ettari, avanzata da una società indiana. Caso emblematico, inoltre, è il progetto Gibe III una mega diga sul fiume Omo. Una costruzione a cui seguiranno canali di irrigazione che muteranno il sistema agricolo tradizionale a beneficio degli investitori stranieri. L’Unesco ha chiesto la sospensione del progetto. La Banca africana per lo sviluppo ha tolto il finanziamento al Governo etiope, come ha fatto la Banca europea degli investimenti. Al loro posto sono arrivati i soldi di Pechino. Proprio la Cina che sta diversificando i suoi interessi in Africa: non solo materie prime in cambio di infrastrutture, ma oggi anche terra coltivabile per soddisfare i bisogni alimentari di Pechino. Nei prossimi 50 anni la Cina investirà 5miliardi di dollari nell’agricoltura in Africa, dove ha siglato più di una trentina di accordi che prevedono l’accesso a terreni fertili in cambio di strade, sistemi di irrigazione, formazione e tecnologia. Il dragone, che conta il 40% dei contadini del mondo, ha solo il 9% delle terre coltivabili. Alla Cina non stanno certo a cuore le sorti delle popolazioni africane, ma l’intenzione di Pechino è quella di delocalizzare la produzione di cibo, un piano è già pronto, ma non solo. La Cina ha un problema interno da risolvere: masse di popolazione rurale che sopravvivono a stento e che possono rappresentare un fattore destabilizzante per l’intero Paese. Non è fantascienza pensare che masse di contadini dagli occhi a mandorla verranno trasferiti in Africa, a scapito della manodopera locale. E già sta accadendo
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Una guerra per la Terra Come si affama un continente
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in Zambia, Uganda, Tanzania e Zimbabwe. E il Sud Africa non è da meno. Il gigante sudafricano, i cui prodotti agricoli già invadono i mercati dell’Africa Australe, ha recentemente avuto in concessione 10milioni di ettari dal Congo Brazzaville per 99 anni. Come al solito il ministero dell’Agricoltura congolese ha smentito, precisando che i tratta di “un contratto di concessione di trent’anni, che riguarda le vecchie aziende agricole di stato abbandonate”. La sostanza, tuttavia, non cambia. Il Congo Brazzaville è un Paese con un enorme potenziale agricolo (solo il 4% delle terre agricole è coltivato) non sfruttato e su cui il Governo investe poco o nulla. Nel 2010 in occasione dei festeggiamenti per i 50 anni di indipendenza del Paese sono stati spesi 35milioni di euro, mentre la cifra del budget nazionale 2010 per il settore agricolo è stata di un decimo, ossia 3,5milioni di euro. Perché proprio l’Africa? Fino ad ora sono state censite oltre 390 acquisizioni di larga scala di terra agricola in 80 Paesi. Solo il 37% degli interventi è mirato alla produzione di cibo, mentre il 35% è destinato alla produzione di agro carburanti. Per la Banca mondiale, è nell’Africa sub sahariana dove si concentra la maggior parte (45%) della terra adatta alla coltivazione non ancora sfruttata. Da qui la caccia alla terra del continente nero. Da aggiungere, inoltre, che sulla terra, nel 2050, vivranno 9miliardi di persone. Per sfamarle tutte, secondo la Fao, sarà necessario produrre almeno il 70% di cibo in più. Crescerà esponenzialmente la classe media e, dunque, ci saranno milioni di cinesi e indiani che avranno maggiori disponibilità economiche e consumeranno di più. Ciò vuol dire aumentare gli allevamenti con conseguente necessità di cereali per l’alimentazione degli animali. E dove si va? In Africa. Dove, è vero la terra non è in vendita, ma può essere “concessa” per 99 anni. E le tariffe per la concessione variano da un dollaro all’anno per ettaro dell’Etiopia ai 13,80 dollari del Camerun. In Senegal o in Mali, nemmeno un dollaro. Insomma tutto risulta essere estremamente conveniente. Se la Cina corre, non sono da meno gli stati del Golfo Persico e l’Arabia Saudita, dove la popolazione raggiungerà i 60milioni di abitanti nel 2030 e le fonti d’acqua sono destinate a finire nel giro di 30 anni. Qui la produzione agricola non è più sostenibile e allora si va in Africa dove tutto è molto più conveniente. L’Arabia Saudita ha festeggiato del 2009 il suo primo raccolto di cereali e riso proprio in Etiopia. Tra i più voraci risulta essere la Corea del Sud, quarto produttore al mondo di mais, ha siglato accordi su circa 2,3milioni di ettari. E la produzione di cibo, fa lo stesso percorso delle materie prime, emigra all’estero e serve a sfamare quella parte di mondo più fortunata, lasciando al proprio destino gli africani. Lo shopping senza regole e con contratti oscuri, rischia di non incidere sullo sviluppo dei paesi africani, non solo per quanto riguarda la sicurezza alimentare ma anche dal punto di vista dell’occupazione. Nel 2010 la Fao ha invitato i governi africani a evitare cessioni massicce di terra. Il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, ha parlato di neocolonialismo e di terza fase della globalizzazione. Gli africani di furto. E intanto lo shopping continua.
UNHCR/Zalmaï
Marzia Lami
UNHCR/H. Caux
Il controllo delle risorse/2 Associazione Elisso
Ad Accra, capitale del Ghana, c’è una laguna. Dal golfo di Guinea risale all’interno della città passando per quartieri come Jamestown, Korle, Usshertown, sino alle zone più centrali. A ridosso della costa l’acqua della laguna è di un colore rosso violaceo, nei canali che percorrono la zona di Agbogbloshie diventa nera ed in alcuni tratti ribolle. Lì accanto c’è uno dei mercati alimentari più grandi della capitale. A lato di questo invece una delle discariche hi-tech più grandi del mondo. L’altro modo di chiamare la discarica di Agbogbloshie in città è Sodoma e Gomorra. È un paesaggio che ha tratti surreali, fatto di plastica, ferro, lamiere e persone, tante. Nell’agosto del 2008, Greenpeace diffuse un rapporto chiamato “Ghana contamination – pericolo chimico nei siti di riciclo e smaltimento dei rifiuti elettronici”. Voleva denunciare il flusso dei raee (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche) che dai Paesi occidentali vanno verso quelli del terzo mondo. I raee sono rifiuti di natura particolare. Hanno al loro interno sostanze tossiche per l’ambiente e l’uomo e non sono biodegradabili, necessitano di un trattamento particolare per lo smaltimento. Paesi come Ghana, Nigeria, Cina e India sono le mete di queste tipologie di rifiuti, come ad esempio monitor, computer, stampanti, grandi e piccoli elettrodomestici, telefoni cellulari. Partono da Stati Uniti, Inghilterra, Spagna, Italia, Olanda come merce di seconda mano, quindi riutilizzabile, invece si tratta semplicemente di rifiuti, quasi sempre tossici. Esiste un regolamento europeo che obbliga i produttori di materiale elettrico ed elettronico ad investire, proporzionalmente alla dimensione dell’azienda, in sistemi di smaltimento di tali rifiuti. Di fatto in Europa solo il 25% (in Usa il 20%) di questi materiali viene avviato allo smaltimento legale. Della percentuale restante non è possibile stabilire la meta finale. In teoria, come alternativa ai forti costi di smaltimento si è creata una via differente: i raee possono anche essere esportati, ma devono essere spediti solo nelle zone dove ci sono impianti in grado di smaltirli e di trattarli. Allora, si è cambiato tutto, al di fuori delle regole: è iniziata la spedizione come apparecchiatura usata e quindi riutilizzabile, evitando i problemi delle dogane e abbattendo i costi. Il problema grande di Agbogbloshie trova la sua dimensione da queste premesse. Sono varie e differenti le colline di rifiuti che dominano il paesaggio, ma da qualche anno a questa parte si moltiplicano quelle dei prodotti hi-tech. E tutto è diventato un vero e proprio “brodo di coltura” per ogni tipo di contaminazione. Questo perché, ad esempio, il piombo, che è presente nelle batterie e nei tubi catodici dei pc, provoca danni al sistema nervoso, al sistema circolatorio, al sistema riproduttivo umano. Invece, il cadmio dei semiconduttori e dei tubi elettronici di vecchio tipo causa danni irre-
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Rifiuti e veleni in nome dell’Hi-Tech
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versibili ai reni e al sistema osseo. Il mercurio, da parte sua, presente negli interruttori, è alla base di danni ingenti al cervello, in particolare al sistema visivo, al coordinamento e al bilanciamento. C’è l’antinomio, usato come agente antifiamma e per produrre un’ampia gamma di leghe metalliche, che causa un avvelenamento simile a quello dell’arsenico. A piccole dosi provoca mal di testa, confusione e depressione. A dosi elevate provoca attacchi di vomito violenti e frequenti e porta alla morte in pochi giorni. Infine, i ritardanti di fiamma bromurati, utilizzati nei rivestimenti plastici e nei circuiti elettrici, si accumulano nell’ambiente provocando danni alla tiroide e interferenze allo sviluppo fetale. Un vero disastro, pagato a caro prezzo da chi vive lì. Ne è un buon esempio la storia di Abdul Rushied, 20 anni. Anche lui, come la maggior parte degli abitanti della zona, viene dal Nord del Paese. La zona Nord del Ghana è di prevalenza musulmana: ha quattro mesi di pioggia e i restanti otto di siccità. Questo rende più difficile coltivare e pascolare, ciò significa che è più difficile mangiare. Così molti emigrano, arrivano come Abdul nella zona della discarica, dove passano la maggior parte del tempo. D’altro canto, trovare un lavoro è un problema. Quindi, riciclare rifiuti nella discarica per due cedi al giorno (l’equivalente di un euro) dalle sei di mattina alle sei di pomeriggio diventa quasi inevitabile. Sono cominciate ad apparire delle chiazze sulla pelle di Rushied, le spese mediche arrivano a 40 cedi per una visita: troppi. Così, lui non ci fa caso e continua a lavorare. Chiazze simili sono apparse ad una ragazza di ventuno anni, Menumatu, che vive nella discarica da un anno; Sagira invece è nata ad Agbogbloshie e una malformazione della pelle di un orecchio è solo un’altra delle tante testimonianze tangibili della tossicità di certi rifiuti.
IL PROGETTO iGARBAGE Il Progetto ‘iGarbage’ è un percorso articolato che abbina alla ricerca, la documentazione fotografica e che si trasformerà in materiale di comunicazione e informazione e in momenti di sensibilizzazione presso le scuole medie e superiori, per spiegare il problema dello smaltimento raee nel mondo. Il percorso che durerà fino a Marzo 2012 si svolgerà coinvolgendo esperti del settore e raccogliendo documenti e testimonianze tra Ghana, Cina, Italia e Svezia dove sono già presenti esperienze di riciclo e smaltimento etico dei prodotti e componenti Hi-Tech.
Banche e guerra Andrea Baranes
Migliaia di morti l’anno. Il 98% civili. Uno su quattro è un bambino. Questo è il bilancio dell’utilizzo delle cluster bombs nel mondo. Le cluster bombs, o bombe a grappolo, sono costituite da un contenitore che viene lanciato da un aereo o da pezzi di artiglieria al suolo. Il contenitore si apre in volo, liberando centinaia di sub-munizioni esplosive. Non tutte però esplodono al contatto con il terreno. Intere Regioni vengono così contaminate anche per decenni da questi ordigni, che possono poi esplodere al minimo contatto o sollecitazione. Per questo le bombe a grappolo sono state spesso equiparate alle mine antipersona. Queste ultime sono oggi proibite in moltissimi Paesi, in particolare quelli che hanno firmato e ratificato il trattato di Ottawa contro le mine antipersona del 1997. Negli ultimi anni è nato un processo internazionale per un analogo trattato riguardante le bombe a grappolo. Capofila è stata la Norvegia che ha proposto nel 2007 il Trattato Internazionale per la messa al bando delle cluster bombs, noto anche come processo di Oslo. L’iniziativa è stata seguita da un ampio schieramento di organizzazioni della società civile che si raccoglie intorno alla Cluster Munition Campaign e in Italia, come parte della rete internazionale, all’iniziativa della Campagna Italiana Contro le Mine. Il processo di Oslo ha portato nel maggio 2008 alla stesura del testo di una convenzione sulle munizioni a grappolo, condiviso e sottoscritto da 108 Paesi. Il primo agosto del 2010, con la ratifica della 30esima Nazione, il Trattato è entrato ufficialmente in vigore. Malgrado questi risultati, molto ancora rimane da fare. Molte tra le maggiori potenze militari del mondo, a partire da Usa, Russia, Cina e altri, non figurano ancora tra gli aderenti. A metà del 2011 ancora 15 Paesi avevano in uso le bombe a grappolo, oltre 30 quelli ufficialmente con capacità produttiva e più di 20 quelli contaminati da questi ordigni. In molti casi le operazioni di bonifica sono ancora lunghe o peggio da iniziare. L’Italia si era impegnata ad essere tra i primi trenta Paesi a ratificare l’accordo di Oslo e permetterne così l’entrata in vigore. La promessa non è stata mantenuta, ma a maggio del 2011 anche il nostro Paese ha ratificato il Trattato. Questo significa non solo impedire la produzione, lo stoccaggio e il commercio delle bombe a grappolo, ma anche distruggere gli stock esistenti e impegnarsi attivamente per la bonifica dei terreni che ne sono ancora infestati. Le organizzazioni che hanno sostenuto la messa al bando delle cluster hanno salutato positivamente la decisione italiana, sottolineando però alcuni pesanti limiti. In primo luogo il Governo non ha ancora stanziato le risorse necessarie per permettere al nostro Paese di fare la sua parte nella bonifica delle zone infestate, un impegno esplicitamente previsto dal Trattato. La legge approvata in Italia, inoltre, vieta la produzione delle cluster ma non il loro finanziamento anche se prevede sanzioni penali per coloro che ne supportano “anche finanziariamente” produzione, commercializzazione e detenzione. Senza una legge specifica può così accadere che una banca italiana continui a finanziare una ditta
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Cluster bombs: vietato produrle ma che bello finanziarle
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straniera che li produce. In linea teorica anche una ditta italiana potrebbe trasferire all’estero la produzione e ricevere inoltre finanziamenti e sostegno economico dalle banche italiane. Altri Paesi si sono mossi in modo diverso. Il Belgio è stata la prima Nazione al mondo ad approvare una legge che proibisce qualunque tipo di finanziamento alla produzione delle bombe a grappolo. La normativa belga rappresenta il primo caso di limiti imposti per legge alle possibilità di investimento finanziario per banche e fondi. Un precedente di enorme importanza, che da una parte conferma i devastanti impatti che possono avere le cluster bombs e dall’altro sottolinea come l’impiego del denaro non sia un’attività neutra. I nostri risparmi, depositati in banca o investiti in un fondo pensione o di investimento, possono avere enormi impatti tanto economici quanto sociali e ambientali, sia in positivo sia in negativo. Irlanda e Lussemburgo hanno già adottato normative analoghe, e diversi altri Paesi stanno lavorando per un’approvazione di leggi che proibiscano il finanziamento delle bombe a grappolo e delle mine antipersona. Secondo un rapporto del 2011 di Ikv, Pax Christi e Netwerk Vlaanderen, ben 39miliardi di dollari in tutto il mondo sono investiti in imprese che producono bombe a grappolo. La maggior parte delle 166 banche e imprese finanziarie coinvolte hanno sede in Paesi che non hanno ratificato il Trattato di Oslo, ma 38 hanno invece sede in Paesi che hanno già aderito, tra cui l’Italia. Tra le banche coinvolte il rapporto cita Bnp Paribas (che controlla la Bnl), Deutsche Bank, Intesa Sanpaolo, Italmobiliare, Rbs e diverse altre. Al momento della ratifica del Trattato, alla Camera dei Deputati sono stati depositati due Ordini del Giorno che chiedono la proibizione di ogni finanziamento delle bombe a grappolo. Le organizzazioni che seguono la questione, e in particolare la Campagna Italiana Contro le Mine in collaborazione con la Rete Italiana per il Disarmo e con l’assistenza della rete di Banca Etica, intendono proseguire la pressione per chiedere che anche il nostro Paese approvi una disegno di legge, presentato nel maggio 2010. La proposta legislativa chiede che si vieti il coinvolgimento delle nostre banche e istituzioni finanziarie nel finanziamento anche indiretto di ordigni messi al bando da Convenzioni Internazionali sottoscritte e ratificate dall’Italia. Nel frattempo sono i singoli clienti e risparmiatori che devono chiedere una piena trasparenza alle banche e ai fondi pensione e di investimento, per fare in modo che i loro risparmi non vadano a finanziare questi micidiali ordigni. Come ha già mostrato negli anni passati la Campagna di pressione alle “banche armate”, un’iniziativa dal basso e partecipata dei cittadini e dei clienti delle banche può dare un contributo decisivo sulla strada di una maggiore sostenibilità e responsabilità del sistema finanziario. Un’iniziativa analoga, oggi, potrebbe fare molto per un mondo libero dalle cluster bombs e da armi indiscriminate responsabili della morte di migliaia di civili.
Evoluzione dei conflitti Elena Dundovich
UNHCR/C. Clark
Vi sono in questo momento in corso nel mondo molte guerre che vedono coinvolti non solo eserciti e soldati, ma uomini disarmati, donne e bambini inermi di fronte alle atrocità commesse. La maggior parte di esse possono essere definite “guerre dimenticate”, ovvero conflitti a cui i mezzi di informazione dedicano scarsa attenzione complice un’opinione pubblica distratta. Nell’analizzare il turbolento contesto internazionale in cui queste guerre hanno luogo è ovvio ricercare una griglia interpretativa nei mutamenti intercorsi dopo il biennio 1989-1991: il crollo dell’Urss e la fine della guerra fredda da un lato, il ritorno a un sistema multipolare, dall’altro, caratterizzato dalla presenza anomala nel decennio seguente di un Impero americano sicuramente più potente degli altri ma non per questo privo di esitazioni. Un’operazione legittima che non esaurisce però di per sé tutti gli interrogativi e non deve far dimenticare che lo scoppio di molti di questi conflitti, si pensi solo a quello arabo-israeliano o a quello afgano, hanno origini ben più antiche. Fatte queste premesse, è facile osservare come proprio nei due decenni che ci separano da quel 1991 siano comparsi fenomeni prima assolutamente o relativamente sconosciuti che sicuramente ci aiutano a comprendere le ragioni di un così forte indice di conflittualità presente nel sistema internazionale attuale: si pensi allo sviluppo demografico, impressionante da quindici anni a questa parte, o alla relativa scarsità di beni di sussistenza come l’acqua che contraddistingue alcune regioni del pianeta. Ed è ancora una volta in questo ventennio che si colloca la genesi di un altro fenomeno fondamentale dell’epoca contemporanea, ovvero la perdita di centralità dello stato. In quello che molti hanno definito come un sistema di “postdemocrazia” gli Stati hanno perso alcune delle loro fondamentali connotazioni tradizionali: la globalizzazione economica ha corroso in gran parte la loro autonomia finanziaria riducendone in politica interna il ruolo di promotori di politiche sociali a favore di un processo di privatizzazione di beni e servizi pubblici prima considerati intoccabile patrimonio comune. Anche sui teatri di guerra il loro protagonismo si è ridotto: da un lato a vantaggio di organizzazioni paramilitari ed eserciti mercenari spesso al soldo dei locali “signori della guerra”; dall’altro sotto gli attacchi, dopo il 2001, di una guerra terroristica transnazionale che ha reso ancora più evidente la loro vulnerabilità; infine, sotto un certo punto di vista, il fenomeno della “destatualizzazione” dei conflitti è confermata anche dalle iniziative militari condotte sotto l’egida dell’ONU per imporre la pace e il rispetto dei diritti umani (Kuwait 1991, Nato in Bosnia Eerzegovina nel 1995, Nato in Kossovo nel 1999) o da coalizioni internazionali non sempre coese (Iraq, Afghanistan e Libia). Tutto ciò mentre sempre più spesso si affiancano a una diplomazia ufficiale ridondante ma spesso in evidente fase di stallo iniziative silenziose ma efficaci di “second track diplomacy” come quella della Comunità di Sant’Egidio di Roma mediatrice durante i negoziati per la pace in Mozambico. Nello stesso modo la cesura degli anni 1989-1991 rappresenta un punto di riferimento ineludibile anche per chi intenda riflettere se e il modo in cui la guerra sia cambiata nell’ultimo ventennio. Una domanda a cui non sempre gli studiosi hanno dato una risposta univoca corresponsabile anche la contemporaneità degli eventi e la difficoltà quindi di accedere alle fonti documentarie. Un dato è però ormai certo: se all’apparenza conflitti della guerra fredda e conflitti postbipolari non sembrano più gli stessi, il confine tra loro non sempre invece è così netto. Così che anche la triade che divide tra guerre di primo (guerra interstatale tradizionale), secondo (guerra nucleare) e terzo tipo (le guerre, spesso “asimmetriche” del periodo postbipolare) non appare sempre del tutto convincente.
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Piccoli eserciti per grandi stragi Come è cambiata la guerra
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Da un punto di vista più generale è ovvio che, soprattutto a una lettura superficiale, il cambiamento radicale del contesto internazionale ha influito profondamente anche sugli scenari di guerra: esauritasi la minaccia dell’olocausto nucleare si è passati a quella di distruzioni limitate che vedono l’impiego non più degli eserciti di massa ma di reparti superspecializzati. Ciò non deve però indurre all’errore di considerare la Guerra Fredda, secondo un’ottica eurocentrica, come una sorta di lunga pace garantita dalla reciproca minaccia nucleare: gli anni dopo il 1945 furono sì caratterizzati dalla preparazione di un grande scontro “simmetrico” tra le due superpotenze, affiancate dai rispettivi blocchi, per una grande guerra generale nucleare che in effetti non fu mai combattuta. Ma proprio in quegli stessi decenni si susseguirono moltissimi conflitti aperti sull’asse Nord-Sud o Sud-Sud causati proprio dalle tensioni provocate dalla Guerra Fredda nella sua dimensione globale. Così che alla fine non deve meravigliare il fatto che, paragonando il periodo bipolare con quello postbipolare, da un punto di vista strettamente numerico i conflitti armati dopo il 1991 siano diminuiti e con loro di conseguenza le spese militari e le vittime di guerra. Senza che tutto ciò abbia minimamente comportato un aumento del senso della sicurezza collettiva: le guerre attuali continuano a essere combattute prevalentemente in quello che una volta era definito il Terzo Mondo ma l’Europa non ne è rimasta indenne dopo il 1991 come dimostrano il caso yugoslavo e quello della Cecenia nonché i ripetuti attacchi del terrorismo transnazionale. E se non vi è più il pericolo di una guerra nucleare generalizzata, scontri attivati da attori regionali deboli ma che posseggono l’arma nucleare non sono inimmaginabili: si pensi al Pakistan, all’India o a Israele, che ne concepiscono il possesso come strumento per autotutelarsi in eventuali conflitti regionali, ma anche all’Iran o alla Corea del Nord che vorrebbero disporne per ricattare la comunità internazionale. Se il generale il grado di conflittualità del sistema internazionale è diminuito rispetto al periodo bipolare, dopo il 1991 le guerre civili con attori substatuali e con vittime civili sono diventate in proporzione più numerose. E poiché molte di queste guerre si svolgono appunto nel Secondo o, soprattutto, nel Terzo Mondo, spesso le forze armate occidentali, per affrontare scontri dell’era postbipolare, sono costrette a confrontarsi con mondi lontani della cui realtà politica, sociale e culturale ancora oggi ben poco capiscono. Esattamente come nel passato, una cosa è certa: la fiducia dell’Occidente nella propria superiorità tecnologica si è mostrata vana e illusoria quanto a risultati. Per quanto le guerre contemporanee siano oggettivamente “asimmetriche” dal punto di vista tecnologico, esse confermano che anche gli eserciti più dotati si rivelano fragilissimi quando, senza “vincere i cuori e le menti”, sono chiamati a consolidare una vittoria sul campo con il controllo o la pacificazione del territorio, come il caso dell’Iraq dopo il 2003 e dell’Afghanistan dimostrano. La natura dei conflitti non sembra dunque essere cambiata, lo sono piuttosto le loro forme e i loro caratteri, un mutamento che per ogni periodo storico e quindi anche per quello post-bipolare, suggerisce di parlare non di “guerra” ma di “guerre”. Il vero cambiamento appare su un altro versante: e cioè che l’erosione dei terreni, il riscaldamento dell’aria, l’inquinamento portano gli Stati, e con essi o al posto di essi i “signori della guerra”, le organizzazioni paramilitari e gli eserciti mercenari, ad accaparrarsi risorse che presto diventeranno fondamentali per la sopravvivenza delle rispettive popolazioni. La guerra, o meglio sarebbe dire “le guerre” dell’oggi e del domani nascono e nasceranno non più, o meglio non soltanto, come nel passato, ispirate da logiche di politica di potenza – l’orgoglio nazionale, la ricerca di materie prime in grado di accrescere lo sviluppo economico e garantire quindi il benessere e il consenso interno – ma dalla disperata ricerca della sopravvivenza stessa.
Vittime della guerra/1 Luisa Morgantini
Alla guerra senza armi L’esempio palestinese
Resistenza popolare nonviolenta e resistenza armata in Palestina sono sempre state presenti nella lotta per la liberazione dall’occupazione militare israeliana. La prima Intifadah, avvenuta dopo la sconfitta dei fedayyin in Libano, è stata un movimento popolare nonviolento. La stessa cosa vale per altri movimenti e lotte di liberazione nazionale o dall’apartheid come in Sudafrica. La lotta militare dell’Anc si accompagnava alle lotte nonviolente di Desdomd Tutu e dei movimenti nelle township. La lotta per i diritti civili di Martin Luther King ha visto negli Usa anche le lotte militari dei Black Panters e così via. In Palestina la resistenza nonviolenta dopo l’occupazione militare del 1967 è stata sempre repressa da parte dei governi israeliani, che usavano per questo l’esercito. Come represse sono state le forme di disobbedienza civile, come il rifiuto di usare carte d’identità israeliane o di pagare le tasse agli occupanti, coltivare gli orti di famiglia, dare lezioni agli studenti e fare esami anche quando le Università venivano chiuse per decreto militare. Lotte messe in atto durante la prima Intifadah, con centinaia e centinaia di insegnanti, professori, agronomi, studenti, picchiati, torturati e portati in carcere, condannati a diversi anni di prigione o tenuti per anni senza processo in detenzione amministrativa. Un esempio, tra un infinità di altri, di disobbedienza civile è stata la lotta del villaggio di Beit Sahour, che si rifiutava di pagare le tasse e aveva restituito le carte d’identità israeliane, non riconoscendo l’autorità dell’occupante. La popolazione di Beit Sahour è stata messa sotto coprifuoco per lungo tempo, gli arresti furono decine. Poi, in ogni casa, per rifarsi delle tasse non pagate i soldati hanno confiscato mobili, auto, strumenti di lavoro, macchine agricole e meccaniche. Vi è una foto di quel periodo, dell’interno di una casa dove era stato confiscato il televisore: il bambino che aveva imposto al padre di non pagare per il riscatto lo aveva disegnato sul muro, per ricordare sempre quello che gli era stato portato via. Gli abitanti di Beit Sahour, fin dalla prima Intifadah hanno invitato, tramite il Centro per le relazioni tra i popoli, gli israeliani a manifestare con loro contro l’occupazione (anche se relazioni tra palestinesi e israeliani per la pace esistevano da lungo tempo). All’invito hanno risposto 70 israeliani che insieme a volontari internazionali tra i quali anche noi dell’ Associazione per la pace e delle Donne in Nero hanno manifestato contro la base militare. Ed anche nella seconda Intifadah, a Beit Sahour palestinesi, israeliani e volontari internazionali hanno fondato il Movimento di Solidarietà Internazionale (Ism). La seconda Intifadah, alla quale ha dato il via la provocatoria occupazione di Sharon della Spianata della Moschea a Gerusalemme, aveva avuto un inizio di resistenza popolare nonviolenta. Poi, la risposta repressiva israeliana alle manifestazioni di protesta, sia nei territori occupati, sia contro i palestinesi di cittadinanza israeliana, insieme alla continua crescita degli insediamenti ed allo stop alla libertà di movimento dei palestinesi, ha visto nascere forme di resistenza armata contro soldati
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Servono esempi, concreti. Servono esperimenti, sul campo. Serve impegno per capire se esiste una alternativa alla guerra. Oggi, il problema vero è sapere se siamo in grado, come comunità internazionale e come sistema Paese, di affrontare i conflitti senza mettere sul tavolo armi, insomma se possiamo fermare la guerra senza fare la guerra. Problema non semplice questo e, allora, abbiamo chiesto una testimonianza a chi, da anni, cerca di risolvere il conflitto con azioni non violente, alternative, in un’area difficile come la Palestina. È una strada da seguire – crediamo – con attenzione.
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e coloni sul territorio palestinese, condotte da gruppi armati legati principalmente ad al Fatah. Si sono aggiunti anche attacchi suicidi contro la popolazione civile israeliana, messi in atto da Hamas e altre forze islamiche minori. La risposta israeliana è stata feroce: città rioccupate, coprifuoco, arresti, checkpoint, distruzione di alberi, demolizioni di case, distruzioni delle infrastrutture palestinesi, scuole, ministeri, proibizione di passare nelle strade usate dai coloni, dal 2001 al 2003. L’Unione Europea ha calcolato che i progetti di solidarietà internazionale distrutti dall’esercito israeliano, in quella che hanno denominato “Operazione di scudo difensivo”, ammontavano a 330milioni di euro. Ma proprio tra il 2001 e 2003, la resistenza popolare nonviolenta, ha avuto un grande sviluppo: palestinesi, volontari internazionali e israeliani insieme hanno sfidato i check point, ricostruito case, accompagnato contadini a raccogliere le olive, cercato di aprire le strade che impedivano agli abitanti palestinesi di raggiungere il lavoro, gli ospedali, le famiglie. L’appello alla protezione dei civili palestinesi è stato lanciato dalle Ong palestinesi, in primo luogo dal Medical relief, diretto da Mustapha’ Barghouti. Prima ancora di questo appello, le Donne in Nero italiane, hanno chiesto alle donne di andare in Palestina per fare ciò che le Nazioni Unite non facevano: proteggere la popolazione civile palestinese. Per due mesi, a rotazione, a partire dal Novembre 2001, donne italiane sono state nei territori occupati portando avanti azioni non violente di protezione dei civili palestinesi ai check point. A centinaia dalla Francia, dal Belgio, dall’Italia, con Action for Peace, siamo andati e tornati in Palestina per rispondere all’appello delle Ong. Una resistenza popolare nonviolenta prendeva sempre più forma e diventava nei fatti una critica alla deriva militare della Seconda Intifadah. Ma è stato con la costruzione del muro che si è sviluppata la resistenza popolare. Il muro, barriera di sicurezza per le autorità israeliane, e realizzato per impedire attacchi suicidi, è, come espresso dalla sentenza emessa dal Tribunale Internazionale dell’Aja nel luglio 2004, un muro illegale. Sottrae terra e acqua ai palestinesi, dividendo palestinesi da palestinesi e lasciando i villaggi rinchiusi in ghetti. Nei villaggi dove il muro sottrae fino al 65% della terra coltivata, i contadini hanno cominciato a formare dei comitati popolari ed a manifestare contro il furto della loro terra, lo sradicamento di uliveti, limonaie, alberi da frutta. Dall’inizio della sua costruzione nel 2002, le lotte si sono susseguite, hanno iniziato a Tulkarem, a Budros, Jayous, usando creatività come quello di vestirsi da Gandhi, Martin Luther King, Mandela, e metodi diversi, compreso quello di presentare ricorsi contro la confisca delle loro terre alle Corte Penale Israeliana. Ma è con il villaggio di Bili’In, a partire dal 2005 che la protesta popolare nonviolenta si trasforma da lotta spontanea e tattica a visione e strategia politica. Bili’in è diventato il simbolo della resistenza popolare, che nel 2011 si è diffusa in altri villaggi e città. Ciò che rende assolutamente straordinaria la formazione dei Coordinamenti è la partecipazione di israeliani e volontari internazionali. Inoltre, fatto non consueto nella storia della Palestina, c’è una sostanziale autonomia dai partiti politici. Sono di fatto un movimento di contadini, ai quali è impedito di lavorare la terra e che vedono crescere le colonie. Non sono leader intellettuali. Molti sono stati in carcere nel passato, molti sono stati arrestati durante questi ultimi anni, molti feriti, ed anche uccisi. In questi anni anche la dirigenza palestinese sta optando per la resistenza nonviolenta. Ci vuole molto coraggio per lottare in modo nonviolento e resistere alle pressione, alla violenza dei soldati e dei coloni. Quella dei Comitati Popolari è l’espressione più importante, ma sono infinite le forme di lotta, per esempio la Campagna del Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (Bds) o quella della resistenza nonviolenta attraverso la cultura, il teatro ed ogni forma di arte, per impedire la distruzione dell’identità palestinese. Resistenza consapevole come quella del Freedom Theater di Jenin. Il direttore Giulian Meir Khamis, di madre israeliana e padre palestinese, è stato ucciso, ma l’animatore Zakaria Zubeidi, combattente militare di Al Fatah che ha lasciato le armi, ne ha raccolto l’eredità, spiegando al mondo che il Freedom Theater rappresenta la resistenza nonviolenta, l’amore per la vita e la libertà del popolo.
Vittime della guerra/2 Enzo Nucci
I Frame di questo articolo sono tratti dal reportage “Uomini che odiano le donne” andato in onda nel Tg3 del 23 agosto 2010.
Rebecca Lolosoli è una sorridente signora di 48 anni. Ovunque vada (dal Palazzo di Vetro dell’Onu di New York per una conferenza, alle manifestazioni di protesta nelle strade del Kenya dove è nata, o nel quartiere napoletano ad alto tasso camorristico di Scampia per un incontro con gli abitanti) non rinuncia ad indossare abiti coloratissimi e bigiotteria fabbricati dalle donne della comunità da lei fondata. La sua è una storia straordinaria, dai molti primati. Quella di una donna che ha sfidato (e vinto) le ancestrali leggi di un Paese che nei fatti ancora riconosce agli uomini il diritto assoluto di vita e di morte sulle proprie mogli. Rebecca appartiene all’etnia samburu, un gruppo di origine nilotica che abita il Kenya centrosettentrionale, proprio in una delle aree più frequentate dai turisti per indimenticabili safari con elefanti, leoni, giraffe. Come tutte le altre ragazze del suo popolo, a 11 anni subì l’infibulazione, un devastante rituale che si tramanda di madre in figlia per la “salvaguardia del buon nome di famiglia perché una donna non deve provare piacere con il proprio uomo”. A 18 anni fu comprata dal futuro marito per 18 mucche. “Noi siamo un valore per le nostre famiglie perché facciamo dote” spiega Rebecca che però all’epoca si riteneva fortunata per avere incontrato l’uomo che amava. L’illusione durò poco. ”Per i maschi samburu una donna va picchiata anche se non ha colpe perché è utile per la sua buona educazione matrimoniale. Se un marito evita il ricorso alla violenza, saranno amici e parenti ad offrirsi per compiere la scellerata missione ed è quello che accadde. Fui ricoverata in ospedale per le percosse. Io credevo che mio marito mi avrebbe difesa ed invece... Così mi ribellai”. Rebecca chiese il divorzio al consiglio degli anziani del villaggio che lo negò. Lo avrebbe ottenuto solo nel 2010 dallo Stato, prima donna kenyana a vedersi riconosciuto questo beneficio. La tradizione samburu sancisce infatti il diritto di proprietà dei mariti su mogli e figli. Insomma solo l’uomo (a cui è concessa la poligamia) può ripudiare la consorte che non sarà neanche riammessa nella famiglia di origine a meno che non venga restituita la dote, evento molto raro. “Qui c’è più rispetto per gli animali della savana che per gli esseri umani, un rispetto dettato non dall’attenzione per la natura ma dal turismo che alimenta un sistema economico dal quale tutti aspirano a trarre benefici” aggiunge la colorata signora. Proprio sotto gli ignari occhi dei turisti si consuma dunque una tragedia che travolge i soggetti più deboli, ovvero donne e bambini. Così nel 1990 Rebecca Lolosoli fondò la comunità femminile di Umoja che in lingua swahili significa “unità”. Da allora ospita donne che hanno subito abusi, in fuga da matrimoni forzati, vedove ed i loro figli. La Regione Samburu (400 chilometri a Nord di Nairobi) ospita una guarnigione di cinquemila soldati britannici (secondo accordi tra i due Paesi risalenti
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Uomini che odiano le donne La pace viene dalla disobbedienza
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alla proclamazione dell’indipendenza) con il compito ufficiale di addestrare le truppe del Kenya. Appartengono in gran parte alla Brigata dei Gurkha nepalesi, famosi per essere spietati combattenti. Nella zona le violenze sessuali sono purtroppo all’ordine del giorno. Tra il 1970 ed il 2003 sono stati 1.600 i casi accertati di stupro ma la maggioranza delle vittime ha preferito non denunciare: infatti per i mariti e la comunità è un disonore da cancellare soltanto con l’allontanamento delle sventurate e dei loro figli. Anche perché partorire un bambino di sangue misto è considerata una maledizione per la famiglia. Inutili le tante manifestazioni di protesta così come le azioni legali promosse contro i militari inglesi che non hanno mai avuto seguito nei tribunali del Kenya. Queste donne trovano asilo soltanto nella comunità di Umoja. “Una donna sola diventa una preda: nessuno ti rispetta o ti aiuta. Noi donne samburu non godiamo di nessun diritto. Addirittura non possiamo nemmeno mangiare prima che l’uomo abbia finito. Sono le donne a svegliarsi alle 3 del mattino per badare al gregge, a tagliare la legna nei boschi per cucinare. Gli uomini, essendo poligami, passano da una famiglia all’altra e non portano neanche da mangiare. Le famiglie costringono le ragazzine a matrimoni impossibili con uomini anziani. Se una sposa-bambina si rifiuta di avere rapporti con il marito, questi la trascina con la forza nel centro del villaggio, la spoglia davanti a tutti e la violenta sotto gli occhi dei familiari per dimostrare che il matrimonio è stato consumato” spiega con amarezza Rebecca. “Prima di Umoja, alle donne cacciate dai villaggi non restava che prostituirsi o distillare e vendere clandestinamente alcol, finendo continuamente in prigione e subendo gli abusi della polizia. Anche badare ai figli era impossibile. In questa zona circolano animali feroci e molti bambini sono stati mangiati vivi dalle iene mentre dormivano a terra, fuori dalle capanne per combattere il caldo”. Rebecca rievoca l’inizio di questa avventura. “Umoja l’abbiamo fondata in 15, oggi ci sono 60 analoghe comunità sparse sul territorio. Abbiamo dovuto vincere innanzitutto la resistenza delle altre donne che vedevano la vita collettiva come un cattivo esempio per la moralità. Per sostenerci all’inizio avviammo un piccolo commercio di produzione e vendita ai turisti di bracciali, collane e orecchini di perline. Ognuna di noi si tassò per l’equivalente di 3 euro, poi andavamo in giro in cerca di clienti ma gli uomini ci picchiavano e distruggevano i nostri manufatti. Inutile rivolgersi alla polizia che chiedeva soldi per proteggerci. Così capimmo che era necessario restare unite e decidemmo di vivere tutte insieme costruendo il nostro villaggio. I turisti incuriositi cominciarono a visitare le nostre capanne, le vendite aumentarono e la prima comunità arrivò ad ospitare 48 donne. Gli uomini minacciavano di ucciderci e rivendicavano la terra su cui era sorto il villaggio. Noi rispondemmo: ammazzateci pure così il massacro entrerà nella storia. Decidemmo di comprare la terra che allora costava l’equivalente di 2mila euro. Ci riuscimmo grazie alla comprensione di un funzionario pubblico che ci consentì di pagare poco per volta”. Queste donne hanno uno spiccato senso per gli affari. La loro bigiotteria dal 2009 fa parte della collezione di moda della stilista Diane Von Furstenberg ma il successo non le distoglie dal radicamento commerciale sul territorio con la vendita di scope di saggina e pelli di capra nei mercati e la gestione di piccole rivendite di farina, latte e generi di prima necessità. Sono donne maltrattate dalla vita. Nessuna ha potuto liberamente scegliere l’uomo da amare ed anche oggi che ne avrebbero la possibilità preferiscono evitarlo. Troppo dolore e troppe credenze da cancellare. Una ospite di Umoja racconta della sua fuga nella savana con le gemelline appena partorite perché nella cultura samburu avere come primogenite due bambine è considerata una maledizione che porterà il padre alla morte. L’unica soluzione è dunque uccidere le neonate. Queste donne coraggiose si sono prese la loro rivincita assumendo 4 uomini per lavori tradizionalmente femminili. Tutti i bambini vanno a scuola “perché l’educazione è alla base dei buoni comportamenti” spiega un’altra ospite, costretta a fuggire con i suoi 3 piccoli dopo la morte del consorte per la rapacità dei parenti che le rubarono il gregge lasciandola sul lastrico. Oggi Rebecca Lolosoli (che vive in semi clandestinità per le minacce di morte del marito) sogna il grande salto: presentarsi alle elezioni locali del 2012. Anche in questo caso sarebbe la prima candidata donna. Ed allora viva Rebecca for President!
Informazione e guerra Amedeo Ricucci
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Guerra e informazione: Wikileaks Che paura fanno i segreti
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Un nuovo Stato per avere speranza I Frame di questo articolo sono tratti dai servizi dei telegiornali Rai andati in onda nel gennaio 2011 durante la consultazione popolare
La nascita del 54° stato africano è stata travagliata e sanguinosa. Se le parole ed i numeri conservano ancora la forza per descrivere orrore e violenza, ricordiamo che il Sud Sudan ha visto la luce ufficialmente il 9 luglio 2011 dopo due guerre civili (combattute a partire dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1956 fino al 2005, con una sola interruzione dal 1973 al 1983). Due milioni e mezzo di vittime, tre milioni di profughi, migliaia di donne e bambini catturati e venduti come schiavi nel Nord islamico del Paese. È stata la più lunga guerra del Novecento, “la più dura operazione di islamizzazione forzata del secolo scorso” – secondo alcuni analisti – che ha generato per reazione “un corale e coraggiosissimo movimento di resistenza contro il genocidio di un popolo animista e cristiano, profondamente africano”. In pochi scommettevano sulla buona riuscita del referendum (svoltosi tra il 9 e il 15 gennaio del 2011) che ha sancito l’autodeterminazione del Sud di staccarsi dal Nord, così come previsto dagli accordi di pace sottoscritti nel 2005 tra il Governo fondamentalista di Khartoum e l’Eser-
cito Popolare di Liberazione del Sudan (Spla). Il Presidente Omar El-Bashir (dittatore incontrastato del Sudan) non si è risparmiato per mandare tutto all’aria. Dapprima ha infatti tentato di far votare nella consultazione referendaria anche i missiriya, pastori arabi non stanziali che solo stagionalmente attraversano il Sud con le loro mandrie alla ricerca di pascoli. E dopo il plebiscito (nel corso delle trattative per stabilire i confini tra i due stati che includevano anche la ricca zona petrolifera di Abyei) non ha esitato tra il 19 ed il 21 maggio ad invadere ed occupare l’area contesa, mettendola a ferro e fuoco e bombardando i villaggi vicini. L’ Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) ha registrato 96mila profughi mentre l’Spla ha denunciato l’uccisione di 100 civili. Una situazione di crisi gravissima risolta sul filo di lana dalle Nazioni Unite che hanno convinto l’Etiopia a dispiegare un proprio contingente militare come forza di interposizione per il mantenimento della pace nella regione di Abyei, geograficamente appartenente al Sud, in cui sono concentrati i tre quarti delle risorse petrolifere di tutto il Sudan e che è anche la Regione più fertile e ricca di acqua. Ma passata l’euforia di massa per una festa attesa da 56 anni restano i tanti problemi irrisolti. I lunghi e duri anni di conflitto armato non hanno affatto mitigato la tensione tra il Governo di Juba (capitale del Sud Sudan) e quello di Khartoum nonostante le rassicuranti dichiarazioni del neopresidente Salva Kiir e di Omar El-Bashir. La guerra “a bassa intensità” continua infatti nello stato federale del Kordofan meridionale (che appartiene al Nord) dove milizie armate considerate vicine al Sud Sudan si scontrano metodicamente con l’esercito del Nord. La missione dell’Onu in Sudan (Unmis) ha diffuso nel luglio 2011 un rapporto che ipotizza crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nelle settimane precedenti. Secondo l’Unmis, in Kordofan i combattimenti cominciati il 5 giugno hanno provocato oltre 70mila sfollati. Nonostante l’accordo per il cessate il fuoco sottoscritto a inizio luglio, si continuano a registrare crimini e violenze da entrambi le parti in lotta. Ma responsabilità particolari ricadrebbero sulle forze di Khartoum, coinvolte in assassinii mirati di esponenti dell’ etnia nuba e di altre popolazioni non arabe della Regione. Per questo l’Unmis chiede al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la creazione di una commissione di inchiesta sul Kordofan meridionale. I bombardamenti dell’esercito di Khartoum coinvolgono anche gli abitanti dei Monti Nuba, da sempre schierati con l’Spla perché il loro
forgiatasi nella clandestinità e nella guerra. Il controllo dei pozzi di petrolio resta la grande contesa irrisolta che divide il Sud (nel cui territorio insiste il 75% delle risorse) dal Nord (che ha invece sbocchi sul mare e raffinerie per esportare il greggio). La Cina non ha perso tempo e si è affrettata a stabilire salde relazioni diplomatiche con il nuovo stato, solide come quelle che da tempo la uniscono a Khartoum. Pechino chiede il petrolio a Juba, in cambio è pronta a costruire le infrastrutture necessarie per lo sfruttamento dei giacimenti. Intanto con un prestito di 15milioni di dollari senza interessi tiene buono il terribile Presidente-dittatore Bashir. Il Sudan continuerà ancora a lungo a condizionare il Sud Sudan. I suoi migliori alleati sono guerriglia, corruzione, povertà, sottosviluppo, tribalismo, insufficiente rappresentanza politica. Ed in mancanza di radicali cambiamenti non è esclusa un’altra guerra, l’ennesima, la prossima.
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obiettivo è di far parte del Sud Sudan. Centinaia di loro attivisti sono stati arrestati perché impegnati in campagne di scolarizzazione ed in azioni di monitoraggio nel corso delle elezioni di marzo nel Kordofan meridionale. A gettare inoltre benzina sul fuoco, c’è anche l’ipotesi di un coinvolgimento in questi combattimenti del principale gruppo ribelle del Darfur ovvero il Movimento Giustizia e Uguaglianza (Jem). Al proprio interno il Sud Sudan finalmente indipendente deve affrontare alcune importanti sfide. La prima è la convivenza pacifica tra le varie etnie. In particolare la normalizzazione dei rapporti tra le comunità minoritarie e quella maggioritaria dei dinka che occupano i posti più importanti nel governo forti del loro passato militare, poichè sono stati la colonna portante della lotta di liberazione. I molti che invece sono stati costretti all’esilio oggi devono accontentarsi di posti di secondo piano, anche se meglio preparati e con capacità professionali superiori. Secondo Edmund Yakani, promotore del dialogo tra le etnie, “i dinka sono i più influenti nel Paese, un ruolo guardato con sospetto dalla altre comunità e che rischia di acutizzare in alcuni i sentimenti di marginalizzazione. Il maggiore ostacolo all’affermazione di un moderno sistema democratico è quello che impedisce alle persone di sentirsi rappresentate se non da membri dello stesso clan o tribù”. Insomma le contese tribali rischiano di minare le già deboli fondamenta del neonato Sud Sudan. Ed a questo è strettamente connesso il tema della rappresentanza politica. Alcuni degli oltre 20 partiti nati negli ultimi tempi sono schierati contro il governo dell’Spla. Sostengono che una vera democrazia comporterà il rovesciamento del regime di Juba. Ma il limite di questa opposizione è che non riesce a proporre un programma alternativo perché la sua base si fonda proprio sull’appartenenza etnica e l’azione dei dirigenti è purtroppo dettata solo dalla voglia di entrare nella stanza dei bottoni. Frutto malato di questo selvaggio sviluppo politico è la corruzione. Troppi esponenti del Governo (ieri militari, oggi civili) danno per scontato il diritto di avere più degli altri cittadini. La strada è l’appropriazione indebita di fondi pubblici (alimentati dagli aiuti internazionali) ed un vorticoso giro di tangenti che producono livelli di vita scandalosamente elevati alla faccia dei tanti che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. Per rendersene conto basta osservare i lussuosissimi fuoristrada che sfrecciano con i vetri oscurati nelle strade di Juba o recarsi nei ristoranti alla moda (e dai prezzi europei) che animano le notti della capitale, fino a 7 anni fa poco più di un triste villaggio. Il Presidente Salva Kiir ha dichiarato da tempo guerra alla corruzione ma fino ad ora senza alcun risultato apprezzabile. La capacità di promuovere lo sviluppo economico è il banco di prova di questa leadership
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALL’ALGERIA RIFUGIATI
6.689
RIFUGIATI ACCOLTI NELL’ALGERIA RIFUGIATI
94.144
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SAHARA OCCIDENTALE
90.000
Serve austerità
Arriva l’austerità anche in Algeria ed è forte il timore che gli inevitabili sacrifici per la popolazione possano riaccendere la protesta e riportare gli algerini a manifestare nelle strade. Nel 2012 l’Algeria punta alla riduzione del 10,2 % della spesa pubblica e, nello stesso tempo, a prendere delle misure atte a far calare il deficit di bilancio, dopo un anno che ha registrato spese impreviste, quasi tutte mirate a mantenere la calma sociale nel contesto della ‘primavera araba’. La bozza relativa all’anno prossimo prospetta un deficit pari al 25,4 del Pil, contro il 34% stimato per il 2011. Sempre per il 2012 la crescita economica stimata è del 4,7%, contro il 4 stimato per quest’anno, mentre si prevede un lieve aumento dell’inflazione al 4%, contro il 3,5 stimato.
Marzia Lami
Il 23 febbraio 2011, con una ordinanza firmata dal Presidente della Repubblica Abdelaziz Bouteflika, è stato revocato lo stato di emergenza in vigore ininterrottamente in Algeria dal 9 febbraio del 1992. Il provvedimento era stato richiesto a gran voce da alcune forze politiche e dalla stampa indipendente (in primo luogo dal quotidiano El Watan) per ridare un senso di normalità al Paese dopo l’ultimo decennio sanguinoso del secolo scorso. Con l’abolizione dello stato di emergenza il Governo algerino è anche venuto incontro alle richieste del movimento di protesta che, all’inizio del 2011, ha portato nelle strade di Algeri e di altre città migliaia di manifestanti “contagiati” dalle concomitanti rivolte in Tunisia e in Egitto. Nel mese di gennaio la repressione della polizia ha provocato cinque morti. La manifestazione più imponente si è svolta ad Algeri il 12 febbraio 2011, ma non si sono viste nelle strade le masse che sono sfilate nelle città tunisine ed egiziane. Lo schieramento degli uomini della sicurezza è stato imponente. In Algeria il malessere sociale resta diffuso. La popolazione si lamenta per il carovita, per i costi degli alloggi, per la disoccupazione, per l’assenza di prospettive dei giovani. Il sistema politico rimane bloccato. Il Presidente Bouteflika, un uomo della vecchia guardia protagonista della guerra di indipendenza contro i francesi, è in carica dal 1999. Afflitto da problemi di salute mai del tutto chiariti, Bouteflika non intende lasciare il potere. Per placare la rabbia degli algerini, Bouteflika ha promesso la creazione di migliaia di nuovi posti di lavoro e la realizzazione di alloggi popolari. Il Presidente ha anche promesso di emendare la costituzione per rafforzare la democrazia rappresentativa. Dopo l’abolizione dello stato di emergenza, nell’aprile del 2011, si è verificato un grave atto di terrorismo in Kabylia, dove un gruppo armato
ALGERIA
Generalità Nome completo:
Repubblica democratica popolare di Algeria
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo, francese, tamazight (berbero)
Capitale:
Algeri
Popolazione:
Circa 35 milioni
Area:
2.381.740 Kmq
Religioni:
Musulmana sunnita (99%), cristiana ed ebraica (1%)
Moneta:
Dinaro algerino
Principali esportazioni:
Risorse naturali: petrolio, gas naturale, ferro, fosfati, uranio, piombo, zinco Risorse agricole: grano, orzo, avena, uva, olive, cedri, frutta, pecore, bestiame
PIL pro capite:
Us 7.000
ha ucciso 13 militari algerini. Il principale gruppo terroristico attivo in Algeria è l’Aqmi, acronimo di al-Qaeda per il Maghreb Islamico. Si ritiene che il leader del gruppo sia Abdelmalek Droukdal, algerino, ex membro del Fis (Fronte Islamico di Salvezza).
I militanti del gruppo al-Qaeda per il Maghreb islamico mirano ad unire le forze jihadiste della regione nordafricana per combattere contro l’Europa e la presenza occidentale nei Paesi del Ma-
ghreb. L’obiettivo sembra in gran parte fallito per mancanza di fondi, di uomini e anche per l’azione repressiva condotta dall’esercito algerino.
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Tensioni con Tunisi per la pesca
La tensione è salita all’improvviso, nell’anno, fra Algeria e Unisca, soprattutto per questioni legate alle acque territoriali e alla pesca. L’episodio più grave in ottobre, con una fregata della Marina Militare Algerina che ha aperto il fuoco contro un peschereccio tunisino, uccidendo un uomo. Secondo quanto riferito dall’agenzia Tap, il battello si trovava circa un miglio all’interno delle acque territoriali algerine. La fregata ha intimato all’imbarcazione di seguirla per attraccare ad un porto, ma chi era bordo si è rifiutato. Questo il motivo per cui i soldati algerini avrebbero poi aperto il fuoco contro il battello. Sono arrivate subito anche tre imbarcazioni della Guardia Costiera tunisina, ma ogni tentativo di prestare soccorso al marinaio è stato inutile.
Marzia Lami
L’Algeria ha vissuto un 2010 relativamente tranquillo. I gruppi terroristi armati che si ricollegano ad al-Qaeda (al-Qaeda per il Maghreb islamico) hanno compiuto azioni meno sanguinose rispetto agli anni precedenti e la loro attività si è concentrata soprattutto nella zona meridionale del Paese. Resta instabile, in parte, anche la situazione della Cabilia, la regione montuosa che si estende da Algeri vero l’Est lungo la costa mediterranea. Il terrorismo che minaccia oggi l’Algeria non ha la forza, i numeri e la pericolosità di quello che ha sconvolto il Paese nel corso degli anni Novanta. La data chiave è il 1991, quando il movimento politico Fis (Fronte islamico di Salvezza) vince il primo turno delle elezioni politiche generali. Di fronte alla minaccia islamista a gennaio i militari interrompono il processo elettorale, il Fis viene dichiarato fuori legge e comincia uno scontro sempre più sanguinoso tra i gruppi terroristi di ispirazione islamica radicale e l’esercito algerino. L’organizzazione terroristica dominante è il Gia (Gruppo Islamico Armato), in seguito affiancato dal Gspc (Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento). In Algeria il terrorismo islamico raramente ha preso di mira gli stranieri. Le vittime sono state soprattutto cittadini algerini. Nel decennio di sangue sono stati colpiti intellettuali, scrittori, giornalisti, esponenti della vivace società civile che caratterizza l’ex colonia francese. Numerosi anche gli attacchi contro poliziotti e militari. A migliaia i caduti fra la popolazione civile, sia nei centri urbani che nei villaggi. Tra gli stranieri sono stati colpiti esponenti della chiesa cattolica, da sempre minoritaria ma costan-
Per cosa si combatte
temente a fianco della popolazione musulmana nei momenti difficili del Paese. Vanno ricordate le uccisioni del vescovo di Orano Pierre Claverie e dei sette monaci trappisti del monastero di Tibherine. Si calcola che in totale le vittime del terrorismo in un decennio siano state circa 100mila. Una via di uscita dal tunnel del terrorismo è stata cercata a partire dal 1999, quando è stato eletto alla presidenza della Repubblica Abdelaziz Bouteflika. Bouteflika ha voluto impegnarsi per la riconciliazione e ha offerto una amnistia ai combattenti islamici in cambio del loro disarmo. Questo processo di riconciliazione è andato avanti con difficoltà e anche ambiguità. Alcuni gruppi hanno continuato le loro attività terroristiche, ma lentamente la vita degli algerini è tornata a
Quadro generale
Marzia Lami
Abdelaziz Bouteflika (Oujda, 2 marzo 1937)
Marzia Lami
Proteste timide, al-Qaeda rilancia
“Mi sono congratulato con la nostra gente in Libia per la sua vittoria contro il tiranno e faccio appello al popolo d’Algeria a seguire il vostro esempio. I vostri fratelli in Tunisia e in Libia hanno gettato nella pattumiera i loro tiranni: perché non vi ribellate anche voi contro il vostro tiranno?” Con queste parole l’egiziano Ayman Al Zawahiri, 59 anni, considerato il successore di Osama bin Laden alla guida di al-Qaeda, ha incitato il popolo algerino a ribellarsi contro il Governo e il Presidente Abdelaziz Bouteflika. Le parole incendiarie di Al Zawahiri sono contenute in un video di 13 minuti messo in rete nell’ottobre del 2011 e dimostrano come l’Algeria sia ancora considerata un Paese chiave dalla rete internazionale del terrorismo di matrice islamica fondamentalista. Tuttavia la cosiddetta “Primavera Araba” sembra avere contagiato solo in parte la popolazione algerina. In Algeria il malcontento resta diffuso, ma la protesta resta timida.
essere più tranquilla, soprattutto nei principali centri urbani. Anche se negli ultimi anni c’è stata una ripresa delle azioni terroristiche anche ad Algeri, per opera dei militanti di al-Qaeda per il Maghreb islamico attentati del dicembre 2007 e dell’agosto 2008. L’Algeria non ha quindi raggiunto una condizione di completa stabilità e sicurezza. A questa condizione si aggiunge un quadro politico assolutamente immobile. Arrivato alla presidenza nel 1999 Bouteflika, rieletto nell’aprile del 2009 (è il terzo mandato consecutivo), ora conta di restare al potere fino al 2014. Quando divenne presidente, Bouteflika alimentò molte speranze. Promise di ristabilire la pace, la riforma della pubblica amministrazione, della scuola e della giustizia. Assicurò di voler garantire il prestigio della nazione. Ma i progressi sperati non ci sono stati. O sono stati molto timidi, ben al di sotto delle at-
I PROTAGONISTI
tese. Come ha scritto il quotidiano indipendente El Watan, Boueflika non ha cose nuove da dire e presenta da un decennio lo stesso programma. Restano perciò irrisolti molti problemi come la corruzione, l’inflazione, la disoccupazione e la crisi degli alloggi, che colpisce soprattutto i giovani. Sulla scena politica non si affacciano uomini nuovi e resta dominante una casta di politici, militari e burocrati che gli algerini definiscono genericamente Le Pouvoir (Il potere). Di fronte a questa immobilità l’Algeria non collassa solo perché galleggia su un mare di petrolio. Grazie alle riserve di idrocarburi l’Algeria negli ultimi anni ha potuto arricchire le sue riserve valutarie (145miliardi di dollari) sfruttando gli aumenti del prezzo del greggio (ma con un calo sensibile nel corso del 2009). Tuttavia questa ricchezza non si è riversata sulla popolazione e la forte dipendenza dalle risorse petrolifere non ha favorito una diversificazione dell’economia. Gli introiti incassati dall’export di gas e petrolio vengono in gran parte utilizzati per l’importazione di alimentari, medicinali e materiali per l’edilizia.
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Abdelaziz Bouteflika è stato eletto Presidente dell’Algeria il 15 aprile 1999. Rappresenta un uomo della vecchia guardia, legato all’esperienza dell’Armata di liberazione nazionale, il braccio armato del Fln (Fronte di liberazione nazionale), al quale si unì all’età di 19 anni. Dopo la conquista dell’indipendenza, Bouteflika diventa ministro della Gioventù a 25 anni e un anno più tardi passa alla guida del ministero degli Esteri. Resta in carica fino al 1979. Dopo la morte del Presidente Boumédiene cade in disgrazia ed è implicato in una vicenda di corruzione e per sei anni sceglie l’esilio. Ritorna in Algeria nel 1989 e vive con un ruolo defilato il decennio degli “anni di piombo”, segnato dall’offensiva del terrorismo islamico nei confronti della popolazione civile. Nel 1999, in occasione delle elezioni presidenziali, Bouteflika di presenta come candidato indipendente. Viene eletto con il 74% dei suffragi e propone all’Algeria una politica di pacificazione nazionale. Bouteflika è stato rieletto nel 2004 e nel 2009, anche se nel 2005 è stato a lungo ricoverato in un ospedale parigino (si sospetta un cancro allo stomaco). La candidatura per un terzo mandato è stata resa possibile da un discusso emendamento della Costituzione, contestato da diverse forze politiche.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL CIAD RIFUGIATI
53.733
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SUDAN
39.578
CAMERUN
8.492
SFOLLATI PRESENTI IN CIAD 131.000 RIFUGIATI ACCOLTI NEL CIAD RIFUGIATI
347.939
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SUDAN
278.257
REPUBBLICA CENTROAFRICANA
64.428
Il dramma dei rifugiati
I conflitti che coinvolgono i Paesi limitrofi al Ciad continuano a causare movimenti di rifugiati e sfollati. Secondo le ultime stime dell’Unhcr sarebbero oltre 262mila i rifugiati sudanesi del Darfur accampati in 12 campi profughi e più di 180mila sono gli sfollati interni in diverse aree del Paese. Sempre secondo le stime dell’Alto commissariato per i rifugiati negli ultimi mesi 48.000 sfollati interni hanno fatto ritorno ai loro villaggi natali, soprattutto nel Ouaddai e nella Regione di Dar Sila, nonostante la situazione sia ancora molto instabile dal punto di vista della sicurezza e la mancanza pressoché totale di accesso ai servizi essenziali come acqua, salute e istruzione.
Prosegue a strappi l’accidentato percorso di stabilizzazione politica del Ciad. Le zone di confine con il Sudan restano sempre “calde” ed i gruppi di guerriglia molto attivi. Nel febbraio 2010 il Presidente ciadiano Idriss Déby ed il collega sudanese Omar Hassan El Bashir si erano finalmente stretti la mano dopo le annose dispute sulle frontiere comuni, concordando inoltre la fine del reciproco sostegno alla ribellione armata del Paese confinante. Ma appena due mesi dopo (ad aprile) gli scontri tra l’esercito governativo di N’djamena e gruppi ribelli ripresero con violenza: almeno 105 morti nelle Regioni orientali del Ciad. Il problema principale resta l’estrema povertà del Paese. Nel “Global Hunger Index 2011” (l’indice globale della fame, una statistica elaborata da organismi internazionali) il Ciad detiene il tristissimo primato insieme all’Eritrea di “situazione estremamente allarmante”. Ad aggravare la situazione si aggiungono la mancanza di acqua potabile e la scarsa igiene, che sono anche all’origine di una epidemia di colera che ha colpito (i dati sono aggiornati all’agosto 2011) ben 10.314 persone, uccidendone 314. E purtroppo continua a diffondersi. L’epicentro è la zona del Lago Ciad Basin, importantissima area economica dove operano almeno 11milioni di addetti a commercio, pesca e agricoltura provenienti anche da Camerun, Niger e Nigeria. La recente scoperta di ricchi giacimenti petroliferi nella Regione meridionale del ChariBaguirmi ha spalancato le porte alla Cina. La società China National Petroleum Corporation si è assicurata lo sfruttamento del greggio, in cambio il Ciad potrà beneficiare nell’immediato della costruzione di infrastrutture di cui il Paese è carente: strade, ponti, scuole. Il miraggio di un facile arricchimento grazie al petrolio sta paradossalmente già contagiando la popolazione che abbandona la campagna per cercare una occupazione più redditizia nel settore dell’estrazione. C’è il rischio che il Ciad sia attraversato in tempi ravvicinati da grandi turbolenze sociali sotto spinte centripete opposte. Ma sarà anche il
CIAD
Generalità Nome completo:
Repubblica del Ciad
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese, Arabo
Capitale:
N’Djamena
Popolazione:
9.826.419
Area:
1.284.000 Kmq
Religioni:
Musulmana (53,10%), cristiana (35%), animista (10%)
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli
PIL pro capite:
Us 1.519
banco di prova per il Presidente Idriss Déby, arrivato al potere nel 1990 con un colpo di stato e riconfermato il 21 aprile 2011 alla guida del Paese per un quarto mandato presidenziale della durata di 5 anni. Secondo infatti alcuni ottimisti osservatori, lo sviluppo economico che attende il Ciad è destinato inevitabilmente ad aprire la strada alla modernizzazione ed a favorire la spinta verso qualche timida apertura democratica. Fino ad ora il Presidente ha resistito ad ogni tentazione in materia: la perseveranza è necessaria per continuare a sfruttare a proprio vantaggio la ricchezza delle materie prime.
Passato da una condizione di colonia ad un regime autoritario, il Ciad è ancora lontano dal raggiungere una stabilità politica e sociale, resa ancora più difficile dalla violenza che caratterizza l’intera Regione. Secondo il rapporto dell’Unicef 2009 sulle emergenze, sono tre i tipi di violenza che caratterizzano la crisi nel Ciad, soprattutto nella parte Orientale del Paese: i conflitti armati interni tra il Governo del Ciad
e i gruppi di opposizione armata del Paese, gli attacchi contro i civili in prossimità del confine da parte delle milizie stanziate nel Darfur e la violenza interetnica. Spesso, secondo quanto denuncia lo stesso rapporto i tre tipi di violenza finiscono col sovrapporsi e a farne le spese è la popolazione civile, costantemente a rischio e priva di protezione.
Per cosa si combatte
Giornalisti e libertà di stampa
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Ancora difficile la situazione nel Paese per la libertà di stampa. I giornalisti continuano a subire intimidazioni e vessazioni da parte di funzionari di governo, come riporta il Rapporto annuale 2011 di Amnesty International. Una buona notizia è arrivata nei primi mesi del 2011 con la revoca da parte del Governo del Decreto n. 5, che limitava la libertà di espressione e che era stato emanato durante lo stato di emergenza nel 2008. Ad agosto però il Governo ha approvato una nuova legge sui mezzi di comunicazione che introduce pene detentive da uno a due anni e il divieto di pubblicazione fino a tre mesi per chi “incita all’odio razziale, etnico, religioso” o per chi “tollera la violenza”. La Repubblica del Ciad, situata nell’Africa Centrale e circondata dagli Stati confinanti della Libia, del Sudan, del Camerun, della Nigeria, del Niger e della Repubblica Centraficana è considerata uno dei Paesi più poveri del mondo, attraversato da forti instabilità interne e da conflitti ancora irrisolti. Proprio la vicinanza con molti Paesi dove si combattono guerre violente e sanguinose ha aggravato la crisi interna del Ciad, guidato da un Governo che fatica a gestire i forti flussi di rifugiati in fuga dai conflitti e dalle tensioni interne. Dopo una lunga storia da ex colonia francese, il Ciad è diventato indipendente nel 1960. Una transizione pacifica che sembrava presagire un futuro di stabilità per il Paese che nello stesso anno, il 20 settembre, è entrato ufficialmente a far parte dell’Onu. Il primo Presidente del Ciad, eletto l’11 agosto del 1960, è stato François Tombalbaye che nel dopoguerra aveva fondato uno dei principali partiti ciadiani, il Partito Progressista del Ciad (Ppt). Le speranze del Paese furono presto deluse dal Governo di Tombalbaye, che si trasformò in una guida autoritaria. Solo due anni dopo la sua elezione, il Presidente aveva messo al bando tutti gli altri partiti politici attivi in Ciad e cominciato una forte repressione contro quelli che
considerava oppositori politici. Il malcontento nel Paese cresceva e in più di una occasione il Governo dovette sedare rivolte interne. Tensioni si registravano nel Nord del Paese, abitato da popoli di fede islamica ma anche al Sud dove le popolazioni erano cristiane e animiste. Nel 1966, nel confinante Sudan, venne fondato il Fronte Nazionale per la Liberazione del Ciad (Frolinat). Il gruppo di ribelli imbracciò le armi contro il Governo dando inizio ad una sanguinosa guerra civile, proseguita anche dopo il colpo di stato militare del 13 aprile del 1975, quando Tombalbaye venne ucciso e il generale Félix Malloum, capo della giunta militare, divenne il nuovo capo di Governo. Nell’impossibilità di annientare la guerriglia del Frolinat, nel 1978 Malloum decise di nominare primo Ministro il leader dei ribelli Hissène Habré. La convivenza dei due ai vertici del Paese durò poco. L’anno successivo le forze ribelli del Frolinat e l’esercito di Malloum si scontrarono apertamente nella capitale N’Djamena. Il generale golpista Malloum fu costretto alla fuga ma il Paese scivolò in una crisi interna ancora più profonda. La guerra civile coinvolgeva, oltre al Frolinat, numerose fazioni di ribelli e la situazione nel Paese era ormai fuori controllo. L’Onu intervenne e traghettò il Paese alla firma, nell’agosto del 1979, di un trattato di pace l’Accordo di Lagos - che permetteva la forma-
Quadro generale
Idriss Déby (Fada, 1952)
UNHCR/H.Caux
Attacchi a operatori umanitari
Secondo quanto riporta il Rapporto annuale 2011 di Amnesty International, in Ciad e specialmente nella zona orientale del Paese si sono verificati nel corso del 2011 gravi episodi di banditismo e attacchi contro operatori umanitari. In giugno ad esempio, tre operatori della Ong Oxfam sono stati rapiti a Abeché. Due sono stati poi rilasciati lo stesso giorno, ma il terzo è stato trattenuto fino al 15 giugno. Nel luglio del 2011, un veicolo della Croce rossa francese è stato sequestrato da uomini armati nei dintorni del villaggio di Boulala. L’autista e un altro operatore che si trovava sul veicolo al momento dell’agguato sono stati trattenuti e rilasciati più tardi vicino a Moussoro. Un dipendente dell’Icrc, l’agronomo Laurent Maurice, è stato rilasciato a febbraio dopo essere stato rapito e trattenuto per quasi tre mesi.
zione di un Governo di transizione che avrebbe dovuto guidare il Paese alle elezioni politiche. A capo di questo Governo il Presidente Goukouni Oueddei, mentre Habré fu nominato ministro della Difesa. Dopo 18 di mesi la situazione era però immutata e gli scontri continuavano ad imperversare. Queddai riuscì a conquistare il controllo della capitale ma per farlo chiese aiuto alla Libia che inviò nel Paese le proprie truppe. Ancora grazie alla Libia nel 1983, l’esercito governativo sferrò un nuovo attacco contro le forze di Habré, che ottenne il sostegno delle forze francesi già presenti sul territorio. Nel 1984 la Francia e la Libia siglarono un accordo per ritirare le proprie truppe dal Ciad. Accordo che non fu però rispettato dalla Libia che mantenne i propri soldati nella striscia di Aouzou. Solo nel 1987 Ciad e Libia firmarono un cessate il fuoco, che rimase in vigore fino al 1988. Negli anni Ottanta la stabilità interna del Ciad
I PROTAGONISTI
è minata da una serie di colpi di stato. Nel 1990 un disertore dell’esercito di Habré, Idriss Déby riuscì con un golpe ad instaurare un nuovo Governo, di cui egli stesso divenne Presidente. Negli anni successivi altri tentativi di colpo di stato furono sferrati contro il Governo di Déby che è però tuttora in carica. Il Paese è ancora attraversato da violenti scontri tra le varie anime della guerriglia ciadiana, e l’instabilità è costantemente in aumento nonostante i tentativi del Presidente Déby di siglare trattati di pace con le fazioni ribelli. La situazione si è poi ulteriormente aggravata dal 2003, quando centinaia di rifugiati in fuga dalla Regione sudanese del Darfur, martoriata da un conflitto civile, hanno iniziato ad entrare in Ciad per sfuggire alle violenze. Il 23 dicembre del 2005, il Governo del Ciad ha dichiarato ufficialmente lo stato di guerra contro il Sudan. Alla base della decisione una lunga serie di violenti scontri lungo il confine tra i due Paesi ai danni delle popolazioni che abitano la frontiera. Il conflitto tra il Ciad e il Sudan è ancora in corso.
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Il Presidente Idriss Déby è un abile politico passato indenne attraverso molte burrasche. È al potere ininterrottamente dal 1990 e le elezioni di aprile 2011 gli hanno spianato la strada per un altro mandato di cinque anni. La fedeltà alla Francia gli ha assicurato una lunga carriera. Le truppe di Parigi infatti non esitarono ad intervenire in suo favore nel febbraio 2006 quando, trovandosi all’estero, le forze ribelli tentarono per la seconda volta di rovesciarlo con un piano che prevedeva anche l’abbattimento dell’aereo su cui viaggiava. I millecento soldati francesi in servizio stabile in Ciad schiacciarono i rivoltosi. Del resto Déby ha perfezionato il suo addestramento militare proprio studiando in Francia. Prima di diventare un acerrimo nemico del Sudan di Bashir e della Libia guidata da Gheddafi, Idriss Déby sfruttò abilmente il loro aiuto economico e militare alla fine degli anni ’80 per prendere il potere contro l’esercito governativo del suo ex alleato Hissène Habré, Presidente dell’epoca. Lo scaltro Déby non ha esitato a modificare la costituzione nel 2004 per eliminare il limite di due mandati per l’elezione presidenziale. Ora la scoperta del petrolio apre la strada verso la ricchezza. E per un Presidente di appena 60 anni la strada è ancora lunga.
42
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA COSTA D’AVORIO RIFUGIATI
41.758
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI LIBERIA
24.536
SFOLLATI PRESENTI NELLA COSTA D’AVORIO 514.515 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA COSTA D’AVORIO RIFUGIATI
26.218
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI LIBERIA
25.563
Commissione verità e riconciliazione
Il Presidente Alassane Ouattara ha approvato un decreto che istituisce la nascita di una Commissione di Inchiesta sulle violenze post-elettorali che hanno tenuto in scacco il Paese tra il dicembre 2010 e l’aprile 2011. Circa 3.000 persone sono morte e oltre un milione risultano disperse in seguito ai fatti accaduti tra il ballottaggio del 28 novembre 2010 e la cattura (aprile 2011) dell’ex capo di Stato Laurent Gbagbo, che si era rifiutato di riconoscere la vittoria del suo avversario allo scrutino presidenziale. La Commissione si ispira al modello di quella del Sud Africa dopo l’apartheid. La Corte penale internazionale, intanto, ha effettuato ricerche preliminari e potrebbe presto aprire una propria inchiesta sui crimini commessi da entrambe le parti in lotta per il potere.
UNHCR/H. Caux
Alla fine, Laurent Gbagbo, il Presidente uscente che non aveva accettato il responso delle urne nel novembre 2010, ha alzato bandiera bianca. Alassane Ouattara, Presidente riconosciuto vincitore dalla comunità internazionale, ha sferrato l’attacco finale, e ora dovrà gestire la difficile uscita dal lungo e sanguinoso conflitto civile. Una mano fondamentale gli è stata data dagli elicotteri francesi, della missione Licorne, insieme a quelli dell’Onu che hanno martellato le postazioni militari di Gbagbo. Lo scopo: proteggere la popolazione e distruggere le armi pesanti del Presidente uscente. Un intervento che ha suscitato numerose polemiche soprattutto in seno all’Unione Africana. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban ki-Moon, ha difeso le azioni congiunte degli elicotteri Onu e francesi contro il palazzo presidenziale, spiegando che si è trattato di azioni a protezione dei civili e non un attacco contro l’ex Presidente. La Costa d’Avorio rimane un Paese fragile e instabile. I prossimi mesi saranno cruciali. Questa è la conclusione contenuta in un rapporto stilato dall’International Crisis Group, una Ong per la prevenzione dei conflitti. Secondo gli esperti di questa Ong, il neo Presidente della Costa d’Avorio deve adottare “decisioni coraggiose” senza sottovalutare “le minacce che a lungo potrebbero ipotecare la pace”. Prioritari sono i settori della sicurezza, della giustizia, dell’economia e del dialogo politico per attuare un processo di riconciliazione nazionale e di ricostruzione. Ouattara, intanto, si sente forte del sostegno politico ed economico confermatogli dal Presidente Barack Obama, uno dei primi Capo di Stato occidentale che ha ricevuto il suo omologo ivoriano, ma anche della cooperazione bilaterale, rafforzata, conclusa ad Abuja, con il Presidente nigeriano Goodluck Jonathan. La Nigeria, Paese più popoloso dell’intera Africa occidentale, è il primo partner economico della Costa d’Avorio. “Vogliamo sviluppare relazioni diplomatiche molto strette per fare insieme grandi cose per la nostra regione e l’intera Africa”, ha detto Ouattara di ritorno ad Abidjan,
COSTA D’AVORIO
Generalità Nome completo:
Repubblica della Costa d’Avorio
Bandiera
43
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese (ufficiale), dioula, baoulé, bété, sénoufo
Capitale:
Yamoussoukro
Popolazione:
16.600.000
Area:
322.460 Kmq
Religioni:
Cristiana, musulmana
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli, diamanti, manganese, nichel, bauxite, oro
PIL pro capite:
Us 1.510
annunciato anche un incremento degli investimenti bilaterali per rilanciare l’economia ivoriana “al verde” dopo la crisi post-elettorale durata dal 2002 al 2007. Il neo Presidente, inoltre, vuole dare una nuova immagine al Paese e per questo ha chiesto ai suoi ministri di firmare un “codice etico di condotta”, che dovrebbe aiutare a combattere la corruzione e il nepotismo. Oltre che mandare un messaggio rassicurante alla comunità internazionale e agli investitori stranieri.
Sessanta diversi gruppi culturali, risorse infinite: le ragioni della guerra in Costa d’Avorio sono da ricercare nel controllo delle ricchezze del territorio, controllo che viene rivendicato dai diversi gruppi dirigenti facendo leva sull’appartenenza ad un clan. L’interdizione dalle cariche politiche delle popolazioni a sangue misto ha creato tensioni che non si assopiscono, innestate su un deficit democratico costante nella storia della Costa d’Avorio sin dall’indipendenza. Inoltre, l’economia del Paese, una delle migliori
del continente africano, dipende quasi interamente dall’esportazione delle materie prime e questo scatena da sempre gli interessi delle grandi aziende multinazionali, pronte a finanziare i diversi gruppi pur di assicurarsi - con la presa del potere - il controllo del mercato. Insomma, è un Paese diventato terreno di confronto per interessi esterni, con Francia, Stati Uniti e Cina a contendersi il ruolo di “partner” privilegiato.
Per cosa si combatte
di cacao e il terzo di caffè. Per 20 anni l’economia del Paese cresce al ritmo del 10% all’anno, superata solo dall’economia dei grandi Paesi produttori di petrolio e diamanti. Boigny gode di enorme credito politico, cosa che gli permette di governare con pugno di ferro, senza permettere la nascita di partiti politici né, tanto meno, di organizzare elezioni libere. All’inizio degli anni ’80 crolla il prezzo del cacao e del caffè con ef-
Quadro generale
44
UNHCR/H. Caux
La Costa d’Avorio ottiene l’indipendenza nel 1960 grazie a uno dei padri della decolonizzazione, Felis Houphpuet-Boigny. Legato sia per il proprio passato politico sia per gli interessi economici alla Francia, Boigny garantisce al suo Paese uno sviluppo economico considerevole. Grazie a un programma di incentivi statali sostenuti anche da Parigi, Boigny porta la Costa d’Avorio a essere il primo esportatore mondiale
UNHCR/H. Caux
Le sanzioni
Nell’ottobre del 2010 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha prorogato fino all’aprile del 2011 le sanzioni economiche contro la Costa d’Avorio. La risoluzione è stata approvata all’unanimità e motivata dalla “situazione in cui versa a Costa d’Avorio che è una minaccia continua alla pace internazionale”. L’organismo internazionale descrive un Paese spaccato in due: la parte meridionale controllata dal Governo e la parte settentrionale nelle mani dei ribelli. Le sanzioni includono un embargo sulle armi, restrizione negli spostamenti per alcuni cittadini, restrizioni ai movimenti finanziari e sull’importazione dei ‘diamanti sporchi’ il cui traffico ha, sottolinea la risoluzione del Consiglio, contribuito al conflitto che coinvolge anche la vicina Liberia e la Sierra Leone.
Alassane Outtara
(Dimbokro, 1 gennaio 1942)
UNHCR/G. Gordon
Gbagbo e moglie incriminati per reati economici
Sotto sorveglianza dall’aprile 2011 in due distinte località nel Nord del Paese, l’ex Presidente Laurent Gbagbo e suo moglie Simone sono stati incriminati per reati economici e trasferiti in regime di detenzione preventiva. Il procuratore della Repubblica di Abidjan, Simplice Kouadio Koffi, ha spiegato che l’ex capo di Stato, relegato a Korhogo, è accusato di furto aggravato, attentato all’economica nazionale e dirottamento di fondi pubblici. Alla moglie, sotto sorveglianza a Odieenné, sono imputati casi di concussione. Prima della ex coppia presidenziale, altre 41 personalità del loro entourage sono state incriminate per reati economici o attentato alla sicurezza dello Stato e imprigionate nel Nord del Paese. Sono stati formalmente accusati anche una sessantina di militari, 40 dei quali agli arresti a Korhogo e Abidjan. 45
Figlio di un commerciante discendente di Sèkou Oumar Ouattara (1665-1745), fondatore dell’Impero Kong, tra Mali, Burkina Faso e Costa d’Avorio, Alassane Outtara studia economia negli Stati Uniti e lavora prima al Fondo monetario internazionale e poi alla Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale. Nel ‘90 diventa consulente economico del Governo di Felix HouphouetBoigny, nel novembre dello stesso anno ricopre la carica di primo Ministro. Mantiene l’incarico fino al dicembre 1993, assumendo nello stesso anno, per diversi mesi, anche le funzioni di Presidente, a causa di una grave malattia di Boigny. Con l’arrivo al potere di Henri Konan Bèdiè e l’emanazione di leggi nazionalistiche mirate ad escluderlo dalla lotta politica, Ouattara si fa da parte essendogli impedita la candidatura a Presidente avendo ascendenti di parte burkinabè, dunque non totalmente ivoriani. Nel 1995 diventa Presidente dell’Unione dei repubblicani della Costa d’Avorio, ma non gli è permesso candidarsi né dal nuovo regime instaurato dal generale Robert Guèi, né dal Presidente eletto nel 2002 Laurent Gbagbo. Quest’ultima presa di posizione è alle origini delle violente proteste che infiammano il Nord del Paese portando poi alla guerra civile.
fetti disastrosi sull’economia del Paese. Il debito estero triplica e cresce la criminalità, la stabilità del governo comincia a vacillare. Boigny, nel 1990, deve affrontare le prime proteste di piazza. Il Presidente risponde al malcontento attraverso la concessione di alcune libertà politiche, tra cui il multipartitismo. Le prime elezioni libere confermano alla guida del Paese il padre della patria. Boigny muore nel 1993 e viene sostituito da Henri Konan Bèdiè, che riesce a migliorare il quadro economico anche grazie a una svalutazione del 50% del franco Cfa, legato a quello francese e ora all’euro. La repressione del dissenso crea un forte malcontento che viene sfruttato, nel 1999, da un gruppo di militari capitanati dal generale Robert Guei, che rovescia Boèdiè e organizza le elezioni presidenziali. Le consultazioni del 2000 si svolgono in un’atmosfera pesantissima, caratterizzata da tentativi di brogli compiuti da Guei e dall’esclusione di Alssane Ouattara, principale
I PROTAGONISTI
candidato dell’opposizione, perché di sangue misto. La decisione scatena la rabbia dei musulmani del Nord. Dalle urne esce vincitore Laurent Gbagbo, principale oppositore di Boigny. Nel 2002 parte dell’esercito di ammutina e tenta di rovesciare il Presidente Gbagbo che resiste e il golpe si trasforma in una vera e propria guerra civile che spacca il Paese in due: il Nord controllato dai ribelli del Fronte Nuovo e il Sud sotto controllo del Governo. La Costa d’Avorio entra in uno stallo politico e istituzionale che paralizza il Paese. Nel 2003 vengono firmati accordi di pace che, tuttavia, rimangono sulla carta. Molti nodi costituzionali rimangono tali, soprattutto quelli che riguardano l’eleggibilità delle popolazioni di sangue misto. Il Paese rimane diviso in due. E i tentativi del Presidente di riprendere il potere sul territorio sotto controllo dei ribelli, manu militari, falliscono anche grazie alla forza di interposizione dell’Onu, 10mila uomini ancora presenti nel Paese, e ai contingenti francesi che controllano la zona di sicurezza al “confine” tra Nord e Sud del Paese. Le elezioni libere vengono continuamente rimandate, fino alle elezioni del novembre 2010 che hanno visto la vittoria di Ouattara.
46
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA GUINEA BISSAU RIFUGIATI
1.127
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA GUINEA BISSAU RIFUGIATI
7.679
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SENEGAL
7.480
Un grande mercato per la droga
Gli esperti dicono che tutto è cambiato e che i trafficanti colombiani hanno trovato nei Paesi dell’Africa Occidentale il punto di transito di tonnellate di cocaina da vendere in Europa. La Guinea Bissau è diventata così l’hub africano della cocaina. La polvere bianca arriva dalla Colombia, dalla Bolivia, dal Venezuela, dal Brasile con l’ausilio di piccoli aerei Cessna o navi mercantili. Secondo l’agenzia antidroga statunitense, la Dea, le organizzazioni criminali colombiane riescono a trasportare ogni giorno circa una tonnellata di cocaina in Guinea Bissau. Gran parte della cocaina, che non parte alla volta degli Stati Uniti, approda in Africa Occidentale. Il flusso di droga tra i due continenti è iniziato in modo intensivo nel periodo 2004-2005.
La Guinea Bissau rischia di ripiombare nel caos dopo un periodo di apparente normalità. I nostalgici del regime di Joao Bernado Viera continuano a protestare e accusano il primo Ministro Carlos Gomes Junior di non aver fatto luce sugli assassini dell’ex Presidente e dell’ex capo di stato maggiore delle forze armate nel 2009. I dirigenti della protesta, tra cui Cherif Balde e Braima Sori Djalo, chiedono le dimissioni del premier. I nostalgici, nel manifestare, intendono destabilizzare il Governo e preparare il terreno in vista delle prossime elezioni in programma per il 2012. Una situazione, questa, che rischia di far ripiombare il Paese nel caos. Di motivi per manifestare in Guinea Bissau ce ne sarebbero altri e ragionevoli: è l’unico Paese africano soprannominato “narconazione” per via dei traffici di stupefacenti, in cui sono coinvolti, in prima persona, i vertici militari, ma contro questo stato delle cose nessuno protesta. Poi è un Paese in cui la povertà è endemica e i continui rincari dei prodotti come riso, zucchero e carburante, sono altri fattori di malessere sociale ed economico per la maggior parte della popolazione. Dalle elezioni presidenziali del luglio 2009 e dopo l’uccisione, nel marzo dello stesso anno, dell’ex Presidente Viera, la situazione sembrava, infatti, essersi normalizzata. Subito dopo
GUINEA BISSAU
Generalità Nome completo:
Repubblica di Guinea-Bissau
Bandiera
47
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Portoghese
Capitale:
Bissau
Popolazione:
1.345.479
Area:
36.120 Kmq
Religioni:
Animista (45%), musulmana (40%)
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Anacardo
PIL pro capite:
Us 736
il tentato golpe dell’aprile 2010 Malam Bacai Sanhà, Presidente della Guinea Bissau, ha cercato di rassicurare il Paese e la comunità internazionale affermando che la situazione è sotto controllo. Nonostante le rassicurazioni la Guinea Bissau è un Paese dove le forze armate continuano ad interferire pesantemente nella vita politica e sociale, commettendo nella totale impunità gravi violazioni dei diritti umani, uccisioni illegali, torture e altri maltrattamenti, arresti e detenzioni arbitrarie. Particolarmente instabile è la zona di confine con il Senegal dove continuano da anni gli scontri tra frange di ribelli indipendentiste ed esercito regolare.
La Guinea Bissau è un Paese in mano ai signori della droga. Anni di guerra civile non hanno fatto altro che rendere il lavoro dei narcotrafficanti più sicuro e tranquillo. Il Paese è nelle mani di pochi trafficanti di droga, con complicità dirette dell’esercito, e la popolazione è lasciata al suo destino. Qui la principale preoccupazione è quella di fare da ponte, da punto di smistamento del traffico della droga dall’America Latina, ma anche dall’Asia e dal Marocco, alle grandi piazze europee. La popolazione non ha a disposizione
l’acqua e da più di un quindicennio non c’è energia elettrica. Ora il Governo, con il contributo della Banca Mondiale, finanzierà un progetto di 2,5milioni di dollari per iniziare i lavori che dovrebbero garantire la corrente elettrica e l’acqua alla capitale. Militari e dipendenti pubblici non vengono pagati se non due o tre volte l’anno, con la differenza che per i militari spesso si muovono “interventi emergenza” per pagare gli arretrati ed evitare, probabili, colpi di stato. Insomma la Guinea Bissau e la “terra di nessuno”.
Per cosa si combatte
Niente soldi per il Paese
48
La Guinea-Bissau è tra i 20 Paesi più poveri del mondo. A reggere tutto è una agricoltura fragile e una pesca ancora primitiva, pur avendo il Paese ottime risorse minerarie (petrolio, bauxite e fosfati) che non vengono sfruttate. Mancano le infrastrutture e i mezzi finanziari sono scomparsi anche per effetto della guerra civile del 1998-1999. Il debito estero accumulato è di quasi un miliardo di dollari e questo ha messo il Paese sotto tutela, con un programma di interventi strutturali finanziati dal Fondo Monetario Internazionale.
La Guinea Bissau è stata colonia portoghese con il nome di Guinea portoghese sino al 1974 quando ottenne l’indipendenza. Ma è il 1956 l’anno della svolta. Nello stesso anno nasce una realtà che sarà protagonista della storia del Paese fino ai giorni nostri. Si tratta del
Paigc, Partido Africano da Independencia de Guiné e Cabo Verde. Amilcar Cabral, scrittore e fondatore del partito. Ha guidato il Paese verso una rivolta culturale. Il processo, però, viene accompagnato da un periodo di guerriglia interno. Il partito e la guerriglia fanno loro il Paese
Quadro generale
Malam Bacai Sanha
(Dar Salam, 5 maggio del 1947)
Gli europei in fuga dopo l’indipendenza
Il 99% della popolazione della Guinea Bissau è nera, ma lingue e culture sono profondamente diverse. A Nord e a Nord-Est ci sono i Fula (20%) e i Mandinga (13%). I Balanta (30%) e i Papel (7%) abitano invece le Regioni costiere meridionali, mentre al centro e nelle zone costiere settentrionali vivono i Maniaco (14%) e i Mancanza. Presenti, ovviamente, i meticci in un Paese rimasto così a lungo colonia: sono circa l’1% (fra questi c’è anche una piccola minoranza di persone originarie di Capo Verde). Gli europei, soprattutto portoghesi, rappresentano invece solo lo 0,06% della popolazione: ciò è dovuto all’esodo dei coloni dopo l’indipendenza del Paese. in poco tempo, in primo luogo per le caratteristiche del territorio, grandi distese di foreste, e in secondo luogo per il presunto appoggio di Cina, Unione Sovietica e altri stati africani che avrebbero fornito le armi ai guineani. Ma solo il 24 settembre 1973, con la firma di un accordo definitivo, si può dire libera dal Portogallo. Nel novembre dello stesso anno ottiene il riconoscimento ufficiale dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Il governo viene affidato a Luis Cabral, fratello di Amilcar, che rimane al potere fino al 1980 quando un colpo di stato, da parte di Joao Bernardo Vieira, lo spodesta. Vieira rimane a capo del Paese fino al 1998, anno dell’inizio di una sanguinosa guerra civile. Il generale Absumane Manè si ribella alla sua deposizione da capo delle forze armate. La guerra civile dura un anno e pone fine alla dittatura di Vieira. Solo nel 1999, a febbraio, viene firmata la tregua e 11 mesi dopo i cittadini vengono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Governo. Nel 2000 Kumba Lalà viene eletto Presidente. Ma la calma non dura a lungo. Appena tre anni
I PROTAGONISTI
dopo un nuovo colpo di stato porta all’arresto del Presidente considerato incapace di risolvere i problemi del Paese. Nel marzo 2004 si tengono nuove elezioni, ma il Paese non esce dallo stato di confusione in cui è piombato, tanto che nell’ottobre dello stesso anno l’esercito si ammutina. Nel 2005 ancora elezioni e Vieira torna al potere, Il 2 marzo 2009 viene assassinato. Il giorno prima viene ucciso il capo di stato maggiore Tagma Na Wai. Insomma un copione scritto.
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Malam Bacai Sanha è Presidente della Guinea Bissau dal settembre del 2009. È un politico dalla lunga militanza, protagonista nel bene e nel male della storia recente del Paese, caratterizzata troppo spesso da colpi di mano e interventi militari. Membro del Partito africano per l’indipendenza della Guinea e Capo Verde, ricoprì la carica di Presidente dell’Assemblea nazionale del popolo dal 1994 al 1999. In quell’anno, un colpo di mano cacciò il Presidente Joao Bernardo Vieira e per qualche mese Sanha fu Presidente della Repubblica. Alle presidenziali convocate nel novembre del 1999, però, ottenne solo il 28% dei voti, perdendo la corsa. A vincere fu Kumba Ialà, deposto poi con la forza nel 2003. Alle nuove elezioni del 2005 il deposto Ialà, il fuggitivo Vieira e lo stesso Sanha si ritrovarono uno di fronte all’altro e a spuntarla, al ballottaggio, fu Vieirà, rimasto in carica quattro anni, cioè sino al 2009, anno in cui Sanha è riuscito ad arrivare alla presidenza.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA LIBERIA RIFUGIATI
70.129
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI COSTA D’AVORIO
25.563
GHANA
11.585
GUINEA
9.789
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA LIBERIA RIFUGIATI
24.743
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI COSTA D’AVORIO
24.536
Tre donne per la pace
Il Nobel per la Pace è stato assegnato a tre donne: il Presidente della Liberia, Ellen Johnson Sirleaf, la connazionale Leymah Gbowee che lanciò una mobilitazione femminile contro la guerra civile, e l’attivista yemenita per la democrazia Tawakkul Karman. Le tre donne sono state premiate per “la loro battaglia non violenta per la sicurezza delle donne e per i diritti delle donne alla piena partecipazione all’impegno per la costruzione della pace”. La Commissione si è augurata che l’assegnazione del premio alle tre esponenti femminili “aiuti a porre fine all’oppressione delle donne, che ancora esiste in molti Paesi, e a realizzare il grande potenziale che le donne possono rappresentare per la pace e la democrazia”. Elle Johnson Sirleaf, 72 anni e prima donna a essere eletta capo di uno stato africano, era considerata la “laureata più probabile”. Meno atteso, invece, il riconoscimento alla connazionale Leymah Gbowee, pacifista e avvocato, che ha mobilitato le donne africane contro la guerra civile che ha sconvolto per anni la Liberia. Tra le altre iniziative più note dell’attivista, di etnia kplè, nota come la “guerriera della pace”, va ricordato lo “sciopero del sesso”, un’iniziativa che costrinse il regime di Charles Taylor ad ammetterla al tavolo per le trattative per la pace.
UNHCR/G. Gordon
L’11 ottobre del 2011 i liberiani si sono recati alle urne, per la seconda volta dopo la fine della guerra civile nel 2003, per eleggere il nuovo Presidente, la Camera dei rappresentanti, la Camera bassa del Parlamento e metà Senato. Mentre scriviamo è ancora in corso lo spoglio delle schede elettorali e i primi risultati danno in vantaggio la candidata favorita, Ellen Johnson-Sirleaf, insignita nel 2011 del Premio Nobel per la Pace e Presidente uscente. Sarà probabilmente necessario un secondo turno ma qualunque sarà il risultato e gli sviluppi nei mesi futuri, le elezioni rappresentano per il Paese uno snodo cruciale per testare il livello di democratizzazione e di stabilità raggiunto dalla Liberia e per dimostrare ai donatori e agli investitori esteri che il Paese è affidabile. Numerosi gli osservatori internazionali che hanno monitorato il voto. Tra gli altri la Comunità Europea, l’Unione Africana, i rappresentanti del Centro Carter, vari giornalisti nazionali, regionali ed internazionali compreso l’inviato speciale di ’Al Jazeera’. Tutti hanno concordato nell’affermare che nel processo elettorale si sono registrate alcune irregolarità, ma inferiori rispetto alle precedenti elezioni e comunque non tali da inficiare l’esito del voto. Va detto comunque che appena cominciato lo spoglio elettorale l’opposizione liberiana ha invece denunciato ‘’numerosi brogli’’ e “gravi irregolarità” nel voto. Nove partiti dell’opposizione hanno dunque indetto una conferenza stampa durante la quale hanno denunciato la presenza di gravi frodi elettorali che avrebbero compromesso l’esito del voto affermando di possedere prove inconfutabili. Non solo. Le opposizioni hanno accusato gli osservatori internazionali di non aver monitorato correttamente il processo elettorale e chiesto l’annullamento del voto. Il timore è che le accuse di brogli e il tentativo di delegittimare l’esito del voto possano, nei prossimi mesi, far ripiombare il Paese in uno stato di instabilità. Per questo la stessa opposizione ha lanciato un appello alla missione Onu, la Unmil, affinché garantisca la sicurezza e si adoperi per evitare incidenti con
LIBERIA
Generalità Nome completo:
Repubblica della Liberia
Bandiera
Lingue principali:
Inglese
Capitale:
Monrovia
Popolazione:
3.842.000
Area:
111.370 Kmq
Religioni:
Cristiana (66%), animista (19%), musulmana (15%)
Moneta:
Dollaro Liberiano
Principali esportazioni:
Cocco, caffè, legname, ferro, bauxite, oro, diamanti
PIL pro capite:
Us 1.033
la presenza dei suoi militari. Dopo quindici anni di guerra civile la Liberia è dunque un Paese ancora fragile, con un indice di sviluppo umano al 169vesimo posto su 182 stati. Il 44% della popolazione sopra i 15 anni è ancora analfabeta.Il Pil annuo pro capite è di 238 dollari, nonostante sia quasi raddoppiato rispetto al 2003, è tra i più bassi al mondo. La corrente elettrica è una rarità fuori dai principali centri urbani. La polizia è inefficace e corrotta. La magistratura non riesce ad esaminare i casi con tempestività e le carceri sono sovraffollate, soprattutto da detenuti in attesa di giudizio.
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Le dittature di Samuel Kanyon Doe prima e di Charles Taylor poi, con i colpi di stato che li hanno portati al potere, sono la ragione vera della lunga guerra civile liberiana. I due dittatori hanno governato appoggiandosi a pochi elementi dei loro clan familiari, puntando poi allo scontro con gli Stati vicini per impadronirsi di risorse naturali e aumentare la loro ricchezza personale. La sollevazione di gruppi armati è motivata dal bisogno – per larga parte della popolazio-
ne – di reagire all’oppressione, al reclutamento forzato dei bambini soldato e all’assassinio indiscriminato di ogni oppositore. Gli accordi di Accra, che hanno portato all’attuale presidenza, sono stati firmati dalle fazioni ribelli puntando a un rinnovamento del Paese. Per ora tengono, pur con le tensioni create dal permanere in molte aeree della Liberia di gruppi armati pronti a scendere in campo.
Per cosa si combatte
dittatura di Samuel Doe, preparando l’avvento dell’altrettanto sanguinaria era di Charles Taylor. Tra il 1992 e il 2002, con l’intento di conquistare le miniere di diamanti della confinante Sierra Leone, Taylor appoggia il Revolutionary United Front (Ruf) di Foday Sankok. Al potere, Taylor, ci arriva nel 1997 dopo una lunga scia di sangue e di traffici loschi. A Monrovia instaura un regime di terrore. La polizia speciale liberiana, che fa capo direttamente al Presidente, non ha avuto pietà con gli ex oppositori del Movimento Unito di Liberazione (Ulimo): arrestati, torturati e uccisi a centinaia. Mentre il terrore vive a Monrovia, non cessano i conflitti interetnici e le lotte fra fazioni. I membri del governo appartenenti alla famiglia di Taylor, intanto, non perdono occasione per dimostrare la loro incompetenza nel tentativo di rilanciare un’economia distrutta dalla guerra e che vede nel miraggio dei diamanti sierraleonesi una possibilità di rilancio che, però, non si materializza. È così che i vecchi sostenitori abbandonano Taylor che, nel 2003, guadagna l’esilio da “signore della guerra”. Un esilio offerto dalla Nigeria, ma Taylor giura: “Col volere di Dio, tornerò”. I liberiani si augurano, invece, che non torni mai
Quadro generale
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UNHCR/R.Ochlik
Poteva essere una storia di libertà e, invece, è stata una storia di sangue e di diamanti. Già il nome, Liberia, definisce una comunità di “liberi uomini di colore”. Una storia che inizia nel 1822 quando in questo territorio si installano i coloni afroamericani sotto il controllo dell’American Colonization Society. Una terra promessa che, tuttavia, doveva essere contesa agli indigeni che in quel luogo vivevano. Il nuovo stato aveva l’estensione delle terre controllate dalla comunità dei coloni e da coloro che ne erano stati assimilati. Gran parte della storia della Liberia è un continuo susseguirsi di scontri e tentativi, raramente coronati da successo, di una minoranza civilizzata di dominare una maggioranza considerata per tanti aspetti “inferiore”. È stata chiamata Liberia per dargli il carattere di “terra degli uomini liberi”. Uomini liberi che hanno sempre combattuto. Se da principio il tempo è scandito dall’affermare un principio di civiltà contro un principio di inciviltà, così erano pensati gli uomini che vi abitavano, poi è diventato uno scontro per accaparrarsi i diamanti della vicina Sierra Leone. Negli ultimi vent’anni i focolai di conflitto hanno più volte ripreso vigore, sfociando in violenze e veri “stermini etnici”. La rivolta del 1989 ha messo fine alla violenta
Donne contro la violenza
“Vogliamo la pace”. Con questo slogan decine di donne liberiane sono scese in piazza subito dopo le elezioni dell’ottobre 2011 per chiedere la fine delle violenze nel Paese. La manifestazione, organizzata dall’associazione internazionale Women in Peace Building Network (Wipnet), ha attraversato pacificamente le strade della capitale Monrovia, fermandosi in tutte le università e le scuole della città per sensibilizzare le fasce più giovani della popolazione all’impegno per la costruzione della pace e della riconciliazione nel Paese. “Siamo stanche di leggere notizie di attacchi alle persone e alle proprietà. Non vogliamo più la violenza nel nostro Paese. Vogliamo un Paese pacificato non solo durante le elezioni ma anche nei mesi successivi” ha dichiarato alla stampa la portavoce Cecelia Danuworlee che ha esortato ad “impegnarsi per difendere la pace che è stata faticosamente costruita negli ultimi anni”.
Ellen Johnson Sirleaf
(Monrovia, 29 ottobre 1938)
UNHCR/G. Gordon
Il referendum boccia la riforma costituzionale
Non hanno superato la prova referendaria le quattro proposte di emendamenti costituzionali sottoposte a voto popolare il 23 agosto. Nessuno dei quesiti ha ottenuto almeno i due terzi dei “sì”, quorum necessario per l’approvazione delle riforme. Resta dunque convocato per il secondo martedì di ottobre 2011 il primo turno delle elezioni presidenziali e legislative, con il referendum si chiedeva il rinvio. Restano immutati l’obbligo di residenza in patria di un candidato alle presidenziali per almeno 10 anni, il quesito riduceva a 5 gli anni, il tipo di maggioranza richiesto per vincere alle parlamentari, il referendum chiedeva l’adozione della maggioranza semplice e non assoluta. Rimane invariata l’età di pensionamento dei magistrati della Corte suprema (70 anni) e non 75 come chiedeva il quarto referendum. Sono stati 615.703 gli elettori che si sono recati alle urne, cioè il 34,2% dell’elettorato. La maggior parte dei partiti dell’opposizione aveva criticato il referendum, ritenuto troppo vicino alle elezioni, e invitato i liberiani a boicottare il voto.
più e che venga condannato per crimini di guerra e contro l’umanità dal Tribunale Internazionale. Tutto ciò pone fine ad un era sanguinaria: 200mila morti e un milione di profughi. La Liberia ha vissuto quattordici anni di guerra civile. Devastazioni, distruzioni. Generazioni che hanno vissuto, convissuto e partecipato alla guerra. Bambini sottratti alla loro infanzia per
I PROTAGONISTI
essere spediti nei campi di battaglia. Drogati per renderli feroci e incoscienti. Menti e vite distrutte che ora debbono essere ricostruite. Con gli accordi di Accra (2003) nasce il Governo guidato da Jyude Bryant, che regge due anni grazie all’appoggio degli Usa e alla presenza di una forza multinazionale a mandato Onu composta da 15mila caschi blu. Nel 2005 la Liberia comincia a intravedere una nuova luce con l’elezione della prima donna Presidente in Africa, Ellen Johnson Sirleaf. Oggi la sfida si ripete.
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Tre dei nonni del Presidente della Liberia, Ellen Johnson Sirleaf, erano indigeni, il quarto era un tedesco che sposò una donna del mercato rurale. L’attuale Presidente si è diplomata al College of West Africa (Monrovia), una scuola superiore della Chiesa Metodista Unita, laureandosi in materie economiche negli Usa. Tornata in Liberia dopo il periodo alla Harvard, la Sirleaf diventa Assistant Minister delle Finanze sotto l’amministrazione di William Tolbert. Nel 1980, Tolbert viene rovesciato e ucciso dal sergente dell’esercito Samuel Doe, e lei costretta all’esilio in Kenya ove lavora alla Citibank. Torna il Liberia nel 1985 per partecipare alle elezioni al Senato, ma, dopo aver accusato il regime di Doe, viene condannata a 10 anni di prigione. Scarcerata poco dopo si trasferisce a Washington. Ritorna nel Paese natale nel 1997 dove lavora alla Banca Mondiale e alla Citibank Africa. Nel 1997 partecipa alle elezioni presidenziali contro Taylor ma raggiunge solo il 10% dei voti. Ci riprova nel 2005 e questa volta vince al ballottaggio diventando la prima donna africana Presidente. Osservatori indipendenti, internazionali, regionali e nazionale, dichiarano che il voto è stato libero, corretto e trasparente.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA LIBIA RIFUGIATI
2.309
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA LIBIA RIFUGIATI
7.923
La fratellanza senussita
Muhammad Ali Ibn al-Senussi (1787-1859), nato in Algeria e definito come ‘Il grande Senussi’, trasformò gli insegnamenti teorici di Shaykh Ahmad Bin Idris, fondatore della confraternita Tariqa Muhammadiya (e avverso ai particolarismi regionali e tribali della Regione in nome dell’unita dell’Umma islamica), in organizzazioni religioso-politiche. Al-Senussi a sua volta fondò l’ordine sufi della fratellanza senussita, ponendo così le basi della Libia moderna. I senussiti erano militanti attivi e missionari che predicavano la fratellanza e l’unità aldilà delle diversità etniche e tribali. I discendenti di Senussi resistettero all’occupazione coloniale francese prima e poi a quella italiana. Sayyid Muhammad Ali Ibn Idris, nipote del Grande Senussi, guidò la resistenza contro gli italiani e nel 1951 diventò il primo re di Libia. Forse è solo con la Senussia di re Idris I che le diversità tribali si sono in qualche modo attenuate.
Il 20 ottobre 2011 la notizia: Gheddafi è morto, ucciso dai ribelli mentre tentava di fuggire da Sirte, la sua città natale. Si chiude così la guerra civile che ha insanguinato la Libia per quasi nove mesi e coinvolto la Nato in un’operazione aerea e navale decisa sì dall’Onu, con la risoluzione 1973, ma da subito contestata e difficile. La morte di Gheddafi scrive la parola fine ad un regime controverso, durato 42 anni. Lo scontro era iniziato il 15 febbraio 2011, con una manifestazione dei familiari delle vittime del carcere di Abu Salim di Tripoli (1270 persone uccise in seguito ad una esecuzione di massa nel 1996), degenerata in battaglia. La Cirenaica diventa l’epicentro della rivolta. Bengasi, Tobruq, Derna, Al Beida, Ajdabiya sono le città nelle quali vengono prese d’assalto caserme e basi militari rimaste fedeli al regime. L’esercito resta con Gheddafi e si arriva inevitabilmente alla guerra civile. Da una parte ci sono le tribù dell’Est, raggruppate sotto l’ombrello del Consiglio Nazionale Transitorio di Bengasi, che rappresenta chi si ribella a Tripoli. Dall’altra ci sono la Tripolitania e il Fezzan. Nello scontro, sanguinoso, si inseriscono anche questioni etniche e linguistiche, come quelle dei berberi dello Djebel Nafusa e si rompono gli equilibri politici e tribali che il Colonnello Gheddafi aveva tenuto in piedi sin dalla presa del potere nel 1969. Il risultato è che nelle battaglie restano sul terreno migliaia di morti, molti dei quali civili che fuggono. Così, il 19 Marzo 2011, a seguito della Risoluzione Onu 1973, la Nato interviene. Ufficialmente per difendere i civili, nella realtà come supporto alle forze ribelli. Lo scontro si protrae per mesi, con momenti di stallo e improvvisi avanzamenti. Poi, il 21 agosto i ribelli annunciano di aver preso Tripoli. In realtà, si combatte ancora, con gruppi di cecchini e sacche di lealisti sparsi per la città, soprattutto a Sud Ovest. Il culmine è la battaglia di Bab el Azizia, il cuore del potere del Colonnello Gheddafi, espugnata dai ribelli dopo tre ore e mezza di combattimenti il 23 pomeriggio. I giorni seguenti i combattimenti toccano il quartiere lealista e ultimo baluardo della resistenza dei fedelissimi di Gheddafi, Abu Salim. Il 26 agosto circa duecento cadaveri vengono ritrovati nell’ospedale di Abu Salim, parte di loro lealisti, abbandonati dal personale medico durante gli scontri. Il 28 altro massacro, questa volta ad opera lealista: 170 cadaveri, molti dei quali carbonizzati, nel quartiere di Khallat el Furjan, poco distante da una delle sedi della 32 Brigata Khamis. Sirte, Bani Walid e Sabha rimangono sotto il controllo delle truppe fedeli al vecchio governo, mentre Gheddafi continua a farsi sentire con messaggi audio mandati in onda da una tv siriana. I combattimenti toccano anche la popolazione nera ancora presente in Libia, accusata dai ribelli di essere al soldo di Gheddafi e di fornire mercenari. Sono numerosi i casi di ar-
LIBIA
Generalità Nome completo:
Repubblica di Libia
Bandiera
Lingue principali:
Arabo
Capitale:
Tripoli
Popolazione:
6.120.585 (2008)
Area:
1.759.840 Kmq
Religioni:
Musulmana (97%), Cristiani (3%)
Moneta:
Dinaro libico
Principali esportazioni:
Petrolio, gas naturale
PIL pro capite:
Us 13.805
resti arbitrari e omicidi, tanto che il Presidente dell’Unione Africana, Jean Ping, invita il Cnt, il Governo provvisorio, a tenere sotto controllo la situazione, evitando stragi. In ottobre iniziano a manifestarsi le prime frizioni all’interno del Governo provvisorio. La presenza jihadista è forte, tanto che il generale Abdel Hakim Belhadj viene nominato comandate della piazza di Tripoli. Belhadj si chiama in realtà al Hasadi, ed è un ex terrorista ed ex detenuto a Guantanamo. Si convoca comunque il primo incontro internazionale con Francia, Inghilterra e Italia, per discutere della ricostruzione. Il tutto mentre prosegue la caccia a Gheddafi, conclusa con la sua cattura e l’uccisione.
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Si è combattuto per il controllo del potere, in Libia, nel 2011, con la volontà di abbattere un regime fondato sull’appartenenza tribale e sul clan famigliare. La famiglia Gheddafi controllava direttamente o attraverso amici, l’intera macchina economica della Libia, soprattutto per quanto riguarda il petrolio. E decideva con chi fare affari in modo rigido. Il meccanismo si
è rotto e ora l’intero pacchetto del controllo dei giacimenti – prima in buona parte italiani – verrà riduscusso, con nuove alleanze internazionali alle porte. Francia e Inghilterra, grandi sponsor della rivoluzione, saranno in prima fila, a discapito dell’Italia, forse troppo amica del Colonnello in passato.
Per cosa si combatte
Il Cnt
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Il Consiglio Nazionale di Transizione è l’organo politico che si è contrapposto nel 2011 al Governo di Gheddafi. È composto da 31 membri, ma le facce più note sono quelle di Mustafah Abdel Jalil, Presidente, Mahmud Jibril, primo Ministro ad Interim, Hafiz Goga, portavoce nonché vicepresidente, Omar al-Hariri, responsabile delle questioni militari. Al suo interno sono diverse le anime: dai filo occidentali, ai liberisti, con una discreta presenza di simpatizzanti dell’islamismo radicale, abbastanza potenti da far nominare il generale Abdel Hakim Belhadj, ex terrorista ed ex detenuto a Guantanamo, comandante del Tripoli Military Council. Frizioni tra diversi gruppi del Cnt e tra le milizie delle varie città hanno incominciato a manifestarsi poche settimane dopo la presa della capitale. Tra i compiti del Cnt quello di organizzare libere elezioni una costituente. Il Consiglio è affiancato da un Consiglio militare composto da 15 alti ufficiali.
UNHCR/A.Branthwaite
Ex colonia italiana, la Libia, come entità statale, è un’invenzione recente, legata proprio al dominio italiano nella prima metà del ‘900. La presenza italiana in quella che allora si chiamava Tripolitania risale all’800, ma il primo studio pratico di un piano di occupazione fu sviluppato solo nel 1885, in corrispondenza con quella di Beilul e Massaua in Eritrea. È nel 1911, con la Guerra Italo-Turca (28 settembre 1911-18 ottobre 1912), che inizia il dominio italiano sulla regione. Il 18 ottobre 1912 le due potenze siglano, attraverso il Trattato di Losanna, il passaggio della Regione (Cirenaica
e Tripolitania) dall’Impero Ottomano a Roma. Nasce la Libia italiana. Ma la popolazione autoctona da subito filo da torcere ai soldati italiani: leader della resistenza è Omar al Mukhtar. Nel 1931 la svolta: al Mukhtar viene arrestato. Dopo un processo farsa, il 16 di settembre dello stesso anno il vecchio ribelle libico viene impiccato poco fuori Bengasi. Tre anni dopo, nel 1934, viene istituito il Governatorato Generale della Libia (Tripolitania e Cirenaica). Primo governatore è Italo Balbo. Nel 1937 la Libia italiana viene divisa in quattro province: Tripoli, Misurata, Derna e Bengasi. Il Fezzan è compre-
Quadro generale
Muammar Gheddafi (Sirte, 7 giugno 1942 – 20 ottobre 2011)
Eni, una presenza importante
L’Eni è presente in Libia dal 1959 ed è l’azienda petrolifera più importante nel Paese. Nel 2010 la compagnia italiana è stata il primo operatore internazionale di idrocarburi con una produzione di 522mila barili al giorno. GreenStream, il gasdotto lungo 520 chilometri che collega Mellitah, sulla costa libica, con la Sicilia, nel 2010 ha importato dal Paese africano circa nove miliardi di metri cubi di gas naturale. Le controllate Eni, come Snamprogetti e Saipem, hanno inoltre realizzato numerosi progetti, tra i quali le raffinerie di Zawiyah e di Ras Lanuf, l’impianto di ammoniaca e quello per la liquefazione del gas naturale di Brega, l’impianto per il recupero dei condensati di Bu Attifel e le piattaforme per lo sviluppo del campo di Bouri. Il gasdotto e le attività di estrazione sono però ferme da febbraio 2011. Nel giugno 2008 Eni e la società Noc (National Oil Company, società petrolifera pubblica) hanno firmato sei contratti con durata fino al 2042 per le produzioni ad olio e al 2047 per quelle a gas. I contratti in corso, quindi, non dovrebbero essere rivisti con le nuove istituzioni del Cnt. Rimangono dubbi su quando la produzione di petrolio tornerà ai livelli preguerra. Secondo diversi analisti, ci vorranno alcuni anni.
so nel ‘Territorio Militare del Sud’. Durante la II Guerra Mondiale il territorio viene occupato dalle truppe alleate: è il 1943. Con il Trattato di Pace del 1947, il Paese viene diviso in due amministrazioni: Tripolitania e Cirenaica sotto gli inglesi e Fezzan alla Francia. Nel 1951 arriva l’indipendenza. La Libia è il primo Paese africano a liberarsi dal giogo colonialista. Re Idriss I sale al potere. Sarà il primo e l’unico re di Libia. Nel 1969, in settembre, infatti, il giovane ufficiale Muhammar Gheddafi attua un incruento colpo di stato, insieme ad altri ufficiali. In quello stesso anno, Gheddafi allontana gli inglesi dal Paese, chiudendo tutte le loro basi militari. L’anno successivo, confisca i beni ai tanti italiani che ancora sono in Libia e li caccia, aprendo un lungo contenzioso sui danni portati dal colonialismo italiano.
I PROTAGONISTI
Nel 1975 Gheddafi pubblica il Libro Verde, il suo pensiero politico alternativo tra comunismo e liberalismo, una sorta di mix tra socialismo reale e democrazia ateniese, mescolato con gli interessi tribali, gestito dai ‘Comitati popolari’ organismi di base della volontà popolare. Nel frattempo, viene accusato di finanziare i gruppi terroristici internazionali e gli Stati Uniti lo dichiarano nemico numero uno, tentando più volte di ucciderlo, con bombardamenti aerei (1986) e attentati. Lui, continua ad arrestare e far sparire gli oppositori, inseguendoli e uccidendoli anche all’estero. Negli anni ‘90, dopo la prima guerra del Golfo (1991), inizia un lento avvicinamento all’Europa e agli Stati Uniti, operazione che sfocia nella ripresa delle relazioni diplomatiche con Washington e con la ripresa degli affari con il Vecchio Continente. Nulla sembra turbare il regime, sino alla primavera del 2011, quando le rivolte popolare di Egitto, Tunisia e altri Paesi islamici danno fiato ad una opposizione interna che sembrava sconfitta.
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È stato per quarantadue anni il padre – padrone della Libia, per lungo tempo spauracchio del mondo occidentale, considerato finanziatore di movimenti rivoluzionari e terroristici. È arrivato al potere nel 1969, a soli 27 anni, con un golpe contro la monarchia filo-occidentale del re Sayyid Hasan I di Libia. È capitano dell’esercito e, una volta al potere, diventa colonnello, in memoria del suo idolo: l’egiziano Nasser. Cacciati gli italiani ancora residenti, il colonnello da vita ad una repubblica, in cui vengono aboliti i partiti e ridotte le libertà. A guidarne il cammino è il Libro verde del 1975. È il periodo del finanziamento ai gruppi eversivi di tutto il mondo. Nel 1979 rinuncia ad ogni carica pubblica e mantiene il titolo di Guida della Rivoluzione, rimanendo padrone della Libia. Negli anni ’80 rivede le relazioni internazionali, riavvicinandosi ai Paesi europei e agli Usa. Pur restando personaggio controverso, ottiene credito internazionale, soprattutto per le posizioni prese durante le due guerre del Golfo. Nella primavera del 2011 reprime le rivolte che nascono in Libia sull’onda di quanto accade negli altri Paesi islamici. È l’inizio della fine, con una lunga guerra civile che si conclude con la cattura e l’uccisione vicino alla città natale il 20 ottobre 2011.
UNHRC/ A. Duclos
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA NIGERIA RIFUGIATI
15.642
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA NIGERIA RIFUGIATI
8.747
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI LIBERIA
5.316
Paese dei paradossi
La Nigeria in cifre presenta una situazione pesantissima, tanto da farne un Paese dei paradossi. Pur essendo all’ottavo posto fra i maggiori produttori di greggio al mondo, importa la quasi totalità dei carburanti di cui ha bisogno. E pur presentando un Pil pro capite abbastanza elevato rispetto a tanti Paesi africani (2.400 dollari l’anno), sette nigeriani su dieci vivono sotto la soglia di povertà. Nonostante i tassi di crescita elevati, fra il 2003 e il 2010 sempre intorno al 7%, il Nord del Paese e la Regione del Delta (quella petrolifera) rimangono profondamente sottosviluppate e arretrate. Se, quindi, la povertà da sconfiggere resta il problema numero uno per il Governo di Gooluck Jonathan, ci sono altre tre priorità da affrontare con urgenza: il livello elevato della violenza, sia del terrorismo che della microcriminalità; la necessità di promuovere sviluppo che si diversifichi dalla estrema dipendenza dagli idrocarburi; la lotta alla corruzione e la riforma profonda della macchina dello Stato, cronicamente inceppata e mal funzionante. L’aspettativa di vita nel Paese è di 45 anni, una delle più basse del mondo, quasi un terzo della popolazione è analfabeta, il 70% non ha accesso a servizi sanitari adeguati e il 53% non ha acqua potabile. Infine, la mortalità infantile sotto i cinque anni è al livello record del 185 per mille.
Il 2011 è stato costellato dagli episodi di violenza, a partire dalle bombe associate agli scontri fra cristiani e musulmani a Jos del Natale 2010 (80 morti e centinaia di feriti), fino alla sanguinosa autobomba guidata da un giovane kamikaze fatta esplodere contro la sede Onu di Abuja, la capitale federale del Paese, un attentato costato 23 morti e 76 feriti e rivendicato dal gruppo estremista islamico Boko Haram. Anche le elezioni, vinte da Goodluck Jonathan nell’aprile scorso, sono state seguite da violenti scontri in diversi Stati della Nigeria con un bilancio finale di oltre 500 morti. Ma lo stillicidio della violenza, degli attentati, dei sequestri di persona fra i dipendenti delle compagnie petrolifere nella zona petrolifera del Delta, è stato una costante durante tutto l’ultimo anno. Nel corso del 2011, poi, si è avuta la comparsa di un nuovo gruppo armato, la Forza di Liberazione del Delta del Niger (Ndlf) che sembra in qualche modo cercare di rimpiazzare il Mend (Movimento di Liberazione del Delta del Niger), scioltosi dopo l’accordo sull’amnistia a fine 2009. Il nuovo gruppo ribelle potrebbe essere nato proprio in conseguenza di quell’amnistia che, se da un lato aveva trovato una sistemazione ai livelli medio alti dell’organizzazione, aveva abbandonata a se stessa la truppa. La principale preoccupazione delle autorità nigeriane in fatto di sicurezza però viene dal gruppo estremista islamico Boko Haram. Su posizioni ideologiche vicine a quelle di al-Qaeda (anche se molto più legati alle vicende nigeriane e privi di un vera “agenda internazionale”), gli affiliati di Boko Haram sembrano non avere (almeno per ora) molto seguito fra i musulmani – tradizionalmente su posizioni molto più moderate – della Nigeria settentrionale. Il gruppo (il cui significato del nome, in arabohausa, è “educazione occidentale vietata”) ha le proprie basi nello Stato Nord-orientale del Borno e nella sua capitale Maiduguri, dove il Boko Haram ha anche messo a segno una serie di attentati (tre bombe) nel giorno di Pasqua in una stazione degli autobus e in un hotel della città. Si batte – come hanno sostenuto suoi portavoce nelle rivendicazioni – contro «la violazione dei diritti dei musulmani e l’indifferenza nei confronti dei crimini commessi dal Governo contro le popolazioni nigeriane del Nord». Un fenomeno preoccupante anche per il crescere quantitativo e tecnologico delle armi di cui è dotato e per la possibilità che diventi “testa di ponte” per l’ingresso nel Paese del terrorismo islamico più strutturato.
NIGERIA
Generalità Nome completo:
Repubblica Federale di Nigeria
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Inglese (lingua ufficiale)
Capitale:
Abuja
Popolazione:
154.400.000
Area:
923.768 Kmq
Religioni:
Negli Stati del Nord la popolazione è per la quasi totalità islamica; nel Centro-Sud c’è una larga maggioranza cristiana (in prevalenza protestante/evangelica), ma c’è anche una forte presenza di sette d’importazione americana e della rinascenza africana. Islam 50%, cristianesimo 40% (di cui oltre un terzo cattolicesimo), religioni tradizionali 10%.
Moneta:
Naira
Principali esportazioni:
Petrolio (che costituisce oltre il 90% delle esportazioni), cacao, caucciù
PIL pro capite:
Us 2.400
Stato nella regione centrale del Plateau) – il 2011 ha portato alla ribalta una nuova formazione terroristica, la Boko Haram, espresssione di un Islam estremistico e improntata a intransigenti posizioni antioccidentali, che ha messo a segno diversi sanguinosi attentati. Riguardo, invece, alla ribellione armata dell’area Sud-orientale del Delta del Niger, la trattativa fra il Mend (Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger) e il Governo federale che ha portato all’amnistia nel 2009 per tutti gli appartenenti al gruppo armato, ha ridotto notevolmente i livelli di violenza nel Delta (anche se nel 2011 ha fatto la sua comparsa una nuova sigla di ribelli, la Forza di Liberazione del Delta del Niger, Ndlf) e permesso un aumento della produzione di greggio da 1,6 a 2,1milioni di barili.
Per cosa si combatte
La Nigeria per molti aspetti è ancora lo Stato artificiale creato nel 1914 dai colonialisti inglesi. Paese federale, composto di 36 Stati e un territorio (l’area di Abuja, la capitale federale), vi abitano 250 etnie differenti, con tre gruppi dominanti: gli Hausa-Fulani in tutta la parte settentrionale, gli Yoruba nel Sud-Ovest, gli Ibo nel Sud-Est. L’estrema eterogeneità di culture, economie, storia, lingue, realtà climatico-ambientali, religioni (il Nord è islamizzato in larghissima parte, il Sud è prevalentemente cristiano) rende difficile la crescita di un forte senso di identità nazionale. La sua storia post coloniale (l’indipendenza è stata ottenuta nel 1960) è costellata di tensioni e scontri etnici, e addirittura di una guerra di secessione, quella del Biafra, che comportò anche la prima grande crisi umanitaria per la quale si mobilitò l’Occidente, verso la fine degli anni ‘60. I primi 40 anni della sua storia di Paese indipendente sono stati caratterizzati da una catena pressoché continua di colpi di Stato e di regimi
militari. Fino al 1999, quando per la prima volta, i nigeriani hanno potuto esprimere liberamente il voto, eleggendo alla guida del Paese Olusegun Obasanjo, che ha poi governato la federazione per due mandati. Alle successive elezioni, tenutesi il 21 aprile 2007, ha vinto invece Umaru Yar’Adua, delfino dell’ex Presidente e membro dello stesso partito, il Partito Democratico del Popolo (Pdp). A differenza di Obasanjo, uomo del Sud della Nigeria e cristiano, Yar’Adua era originario dello Stato di Katsina, nell’estremo Nord, musulmano. Yar’Adua tuttavia ha sofferto di una lunga malattia che gli ha impedito per diversi mesi, a partire dal novembre 2009, di esercitare le sue funzioni. Il potere, durante tutto il periodo di inabilità del Presidente, è stato gestito dal suo vice, Goodluck Jonathan, che ne ha anche preso ufficialmente le funzioni dal 9 febbraio 2010 con l’avallo del voto del Parlamento. Nel marzo 2010 Jonathan ha sciolto e rinnovato
Quadro generale
60
Il problema numero uno della Nigeria è sempre l’estrema povertà in cui versa la stragrande maggioranza della popolazione, almeno il 70%, a fronte della piccola oligarchia di ricchissimi, costituita da alti vertici dell’esercito (fino al 1999 la Nigeria è stata governata da un susseguirsi di giunte militari, spesso golpiste), esponenti del mondo politico e una ristretta oligarchia di businessman. La povertà diffusa, in ultima analisi, è la radice dei frequenti scoppi di violenza dalle apparenti motivazioni “religiose” nel Centro-nord del Paese come pure la guerriglia e gli atti di terrorismo che caratterizzano la regione petrolifera del Delta del Niger. Riguardo agli scontri di “matrice” religiosa – che tra il 2000 e il 2010 erano avvenuti soprattutto nell’area di Kano (città di coabitazione fra cristiani e musulmani) e di Jos (capitale dello
Una bella maxitangente
Un gigantesco caso di corruzione internazionale. Il consorzio Tskj, guidato dall’americana Halliburton e composto da altre tre multinazionali – la Jgc (Giappone), la Technip (Francia) e la nostra Eni (attraverso la controllata Snamprogetti Olanda) – secondo la pubblica accusa nigeriana avrebbe versato 182milioni di dollari in tangenti, nell’arco di una decina di anni, per corrompere politici e funzionari nigeriani per aggiudicarsi l’autorizzazione a costruire impianti di liquefazione di gas. Un’enorme massa di denaro, che però sarebbe poca cosa rispetto agli introiti previsti, se l’operazione fosse andata in porto: tra 6-7 miliardi di dollari. Un’accusa che però non approderà mai a un’aula giudiziaria: le quattro multinazionali hanno deciso di chiudere la faccenda con un accordo extragiudiziale. La cifra per i danni allo Stato nigeriano pagata dalla sola Saipem alla Procura federale di Abuja sarebbe di 32,5milioni di dollari, fra risarcimento e spese legali.
Goodluck Jonathan (Otueke, 20 novembre 1957)
La maledizione del petrolio
La radice di molti dei mali nigeriani è riconducibile, direttamente o indirettamente, alla maledizione di galleggiare su un mare di petrolio. I disequilibri sociali ed economici, la corruzione, i movimenti separatisti, la guerriglia, tutti questi problemi – e molti altri – dipendono dal gigantesco giro di denaro legato all’industria petrolifera e al regime delle concessioni e dei diritti. Gli Stati del Delta del Niger, dal punto di vista degli introiti fiscali, sono tra i più ricchi della federazione, grazie all’accordo che consente di trattenere per sé il 13% delle entrate derivate dal petrolio e dalle altre risorse naturali estratte nel territorio. Il greggio, del resto, “vale” l’80% delle entrate fiscali di tutto il Paese. Ecco perché la corsa alle cariche politiche scatena appetiti tanto voraci: ottenere un seggio – al Parlamento federale come pure dello Stato del Delta – significa avere l’accesso a queste ingenti risorse. È un po’ come ottenere le chiavi della cassaforte del Paese. in larga misura l’esecutivo. Il 5 maggio Yar’Adua è morto e, come previsto dalla Costituzione nigeriana, il giorno successivo Goodluck Jonathan ha giurato come Capo dello Stato. Candidatosi alle elezioni del 16 aprile 2011, le ha vinte a larghissima maggioranza (59,6% dei consensi, 22milioni di voti in cifre assolute), sconfiggendo il principale sfidante Muhammadu Buhari, già generale golpista dell’esercito, fermatosi al 32,3% di preferenze (12milioni di voti). La Nigeria è considerata uno dei giganti africani, insieme al Sud Africa, non tanto per la sua forza economica, quanto per la concentrazione di popolazione (quasi 160milioni di persone in un territorio relativamente piccolo) e per le sue riserve di greggio, per le quali si colloca all’ottavo posto fra i produttori mondiali, e si contende il primato africano con l’Angola. È in questi ultimi dieci anni, con l’avvento della democrazia, che sono scoppiate le principali contraddizioni del Paese. Prima delle quali la questione petrolifera: a fronte degli enormi introiti legati alle concessioni per l’estrazione del
I PROTAGONISTI
greggio (che costituiscono più del 90% delle esportazioni, l’80% delle entrate fiscali e il 40% del Pil), la popolazione nigeriana è in condizioni di grave povertà – il 70% vive con meno di un euro al giorno – e, paradossalmente, è proprio la gente del Delta del Niger, l’area petrolifera del Paese, ad essere fra le più povere. La seconda grande contraddizione è legata alle tensioni religiose. Gli scontri fra cristiani e musulmani, avvenuti in particolare lungo la fascia di coabitazione nel Centro-Nord del Paese, sono iniziati improvvisamente all’indomani dell’elezione del primo Presidente votato democraticamente, intorno al 2000-2001. Fra il 2008 e il 2011 questi scontri fra cristiani e musulmani sono avvenuti principalmente nello Stato del Plateau, e in particolare nella città di Jos, nell’area centrosettentrionale della federazione nigeriana. Scontri molto violenti che hanno provocato centinaia di vittime e migliaia di feriti. Infine, il terzo grande problema del Paese è l’inurbazione selvaggia, che ha creato enormi caotiche megalopoli. Prima fra tutte Lagos, capitale commerciale della Nigeria, che si stima sia ormai intorno ai 20 milioni di abitanti. Problema che non riguarda solo l’estrema povertà delle periferie urbane, ma anche i livelli di criminalità cresciuti a livelli preoccupanti.
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Entrato in politica per caso dopo aver abbandonato l’insegnamento della sua specializzazione (veterinaria), divenuto poi Governatore per caso (da vice, aveva preso il posto del governatore di Bayelsa costretto a dimettersi per corruzione), infine Presidente per caso (era salito alla guida del Paese, ancora dal ruolo di vice, alla morte di Yar’Adua), con l’elezione dell’aprile 2011 Goodluck Jonathan si trova ora per la prima volta al potere per investitura diretta degli elettori. Cristiano, originario del Delta del Niger (Bayelsa), 54 anni, Goodluck è di un’etnia minoritaria, gli Ijaw, ed è il primo uomo della regione petrolifera a raggiungere la presidenza. Ha vinto la battaglia interna al Pdp e poi le elezioni nonostante che la sua candidatura avesse violato la regola (non scritta ma di consuetudine) che vuole in Nigeria un’alternanza di un presidente cristiano (del Sud) e di uno musulmano (del Nord) ogni due elezioni: dopo l’unico mandato di Presidenza di Yar’Adua, l’attuale presidente avrebbe dovuto essere ancora musulmano del Nord. Invece, Goodluck Jonathan alla fine ce l’ha fatta, e con un risultato al di là delle attese. Gli osservatori internazionali hanno definito l’ultima elezione «la più corretta in Nigeria degli ultimi 20 anni». Un uomo fortunato, come indica il suo nome.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA RIFUGIATI
164.905
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CAMEROON
89.927
CIAD
69.428
SFOLLATI PRESENTI NELLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA 192.529 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA RIFUGIATI
21.574
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
15.300
Diamanti insanguinati
Occhi puntati sui diamanti provenienti dalla Repubblica Centrafricana: è la richiesta giunta all’Antwerp World Diamond Centre (Awdc) dalla Repubblica Democratica del Congo, attualmente a capo del Kimberley Process, il sistema di certificazione applicabile ai diamanti grezzi che garantisce meccanismi di controllo dell’import/export, in modo da isolare pietre che potrebbero provenire da zone di conflitto. La richiesta è motivata dall’aumento di incidenti tra gruppi di ribelli nella zona, in particolare nella regione produttrice di Bria. L’Awdc ha risposto all’invito ad una maggiore vigilanza incrementando il controllo sulle importazioni di diamanti provenienti da quest’area sulla base dei lavori del gruppo di lavoro del Kimberley Process che inizierà nell’immediato a raccogliere informazioni. L’obiettivo è limitare le possibilità di riciclaggio di denaro sporco, utilizzato per acquistare diamanti “insanguinati”, smerciati per incrementare l’acquisto di armi.
UNHCR/V. Ndakass
Alla fine Francois Bozizé è stato eletto Presidente della Repubblica Centrafricana. La commissione elettorale annuncia il risultato elettorale senza alcuna esitazione. L’opposizione insorge e dice che il voto è irregolare. Sorpresa? Nessuna. Tutto ciò rientra nella storia di un Paese che ha vissuto di colpi di stato. Niente di nuovo. Questi i risultati: Bozizé 66,08% dei suffragi. Nel 2005 si era fatto eleggere dopo essere salito al potere con un colpo di stato. L’opposizione fa ricorso, ovviamente tutti rigettati dalla Corte Costituzionale. L’ex Presidente Ange-Felix Patassè, rovesciato proprio da Bozizé, è arrivato al secondo posto con il 20,10%. Il suo portavoce ha affermato che “questi risultati non corrispondono per nulla alla volontà del popolo”. Insomma, è quello che accade in tutti i paesi africani e la Costa d’Avorio lo insegna benissimo. Ma ora il problema è il futuro. La realtà centrafricana è quella di un paese di 5milioni di abitanti, particolarmente povero: 159esimo su 169 paesi secondo l’ultimo indice di sviluppo del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Pnud). Ma a questo si aggiunge un clima di conflitto permanete, nonostante gli sforzi per la riconciliazione. Il Nord e l’Est del Paese vivono nell’insicurezza. L’opposizione è disunita e incapace di rappresentare le legittime aspettative della popolazione. Il programma elettorale di Bozizé, invece, era molto semplice e si esprimeva in una frase il cui merito era quello di essere chiara: “Io o il caos”. Ma non solo, il golpista sta già preparandosi a modificare la Costituzione, che prevede solo due mandati, ma lui con il sarcasmo che gli è proprio dice: “Se il popolo mi obbliga a rimanere, sì, sono un militare, cioè al servizio del popolo”. Ma il popolo sta da un’altra parte. Le tensioni sociali nel Paese sono diventate insostenibili. Si moltiplicano le rivendicazioni salariali che non sono limitate ai pensionati dell’esercito e della gendarmeria, ma si estendono anche agli insegnanti dell’Università di Bangui che chiedono una rivalutazione dei loro stipendi. Il ministro
Repubblica
CENTRO AFRICANA
Generalità Nome completo:
Repubblica Centrafricana
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese
Capitale:
Bangui
Popolazione:
3.683.538
Area:
622.984 Kmq
Religioni:
Cristiana (51%), animista (34%), musulmana (15%)
Moneta:
Franco CFA
Principali esportazioni:
Cotone, caffè, minerali, diamanti
PIL pro capite:
Us 1.128
dell’Istruzione pubblica, Jean Wilibiro Sacko, ha fatto sapere agli insegnanti che le casse dello Stato sono vuote. Protestano gli insegnati e protestano gli studenti contro la soppressione della Commissione nazionale che attribuiva le borse di studio. Se a ciò si aggiungono le proteste politiche la Repubblica Centrafricana è una vera e propria polveriera, uno stato fantasma, strangolato dalle pressioni e dall’instabilità dei vicini, come il Ciad e il Sudan che hanno, inevitabilmente inciso sulla tenuta interna del Paese.
ad una rete inesistente di strade per lo più disastrate, hanno impedito alle agenzie umanitarie di raggiungere le zone colpite dai combattimenti, in particolare nel Nord-Est, e di portare sostegno alle popolazioni. Non da ultimo la criminalità fuori controllo e il traffico clandestino di diamanti (è la seconda voce nelle esportazioni del Paese) contribuiscono ad aumentare la già drammatica situazione interna della Repubblica Centraficana.
Per cosa si combatte
Traffico di fauna Una vera piaga
Il traffico di fauna selvaggia è una delle piaghe della Repubblica Centrafricana. Così il Governo tenta di arginare il fenomeno anche con l’aiuto di associazioni e gruppi di volontari. Nel 2011 la collaborazione con la Last Great Ape Organisation (Laga) ha portato all’individuazione e all’arresto di numerosi trafficanti, anche di spicco, che facevano parte di una organizzazione dedita al commercio di parti di animali. Sequestrati avorio, gusci di tartaruga e pelli di animali. L’operazione è scattata contemporaneamente in più Paesi africani e nella sola repubblica Centrafricana ha portato al sequestro di 7 pelli di leopardo, 2 di leone e di due zanne di elefante. Si presumono che le pelli fossero dirette in Europa. Nello stesso giorno sono stati individuati 30kg di avorio nella cittadina di Omesso.
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La Repubblica Centrafricana non ha mai conosciuto una vera democrazia. Provata da decenni di malgoverno e colpi di stato il Paese non è mai riuscito a risollevarsi. Negli ultimi anni la Repubblica Centrafricana ha dovuto poi subire le pressioni e l’instabilità causate dalle vicende politiche degli stati confinanti, dal Ciad al Sudan che hanno innegabilmente inciso nella tenuta interna del Paese, totalmente impreparato a ricevere le ondate di profughi in fuga da altri teatri di guerra. L’insicurezza e il pericolo, oltre
UNHCR/Zalmaï
Storia di schiavi, colpi di stato e imperatori. Questa è la Repubblica Centrafricana. Una terra abitata da tempi antichissimi: vari ritrovamenti testimoniano l’esistenza di antiche civiltà anteriori alla nascita dell’impero egizio. Terra contesa tra vari sultanati che utilizzavano l’attuale Repubblica Centrafricana come una grande riserva di schiavi, dalla quale venivano trasportati e venduti nel Nord Africa attraverso il Sahara, soprattutto al mercato de Il Cairo. La nascita della Repubblica è stata fortemente voluta da Berthelemey Boganda, un prete cattolico leader del Movimento d’Evoluzione Sociale dell’Africa Nera, il primo partito politico del Paese, Boganda governa fino al 1959 quando muore in un misterioso incidente aereo. Gli succede suo cugino David Dacko che nel 1962 impone un regime monocratico. Inizia una lunga storia di colpi di stato. Il primo ai danni di Dacko è del colonnello Jeab Bedel Bokassa, che sospende la costituzione e scioglie il Parlamento. La follia di Bokassa arriva al punto di
autoproclamarsi Presidente a vita nel 1972 e imperatore del risorto Impero Centrafricano nel 1976. Un impero di follia e povertà per la gente. La Francia, ex potenza coloniale, decreta la fine di Bokassa nel 1979 e restaura la presidenza di Dacko, con un altro colpo di stato. Nel 1981 il generale Andrè Kolimba prende il potere. Pressioni internazionali costringono il dittatore a convocare elezioni nel 1993 che vengono vinte da Ange-Felix Patassè. Il neo presidente dà vita a una serie di epurazioni negli apparati statali. Promulga una nuova costituzione nel 1994, ma le forti tensioni sociali sfociano in rivolte popolari e violenze interetniche. Nel 1997 vengono firmati gli accordi di pace che portano al dispiegamento di una forza internazionale composta da forze militari di Paesi africani. Poi arriva il turno dell’Onu. Di nuovo alle urne nel 1999, Patassè vince, ma ormai le tensioni sono fuori controllo. Il Paese diventa una sorta di terra di nessuno dove le forze militari e ribelli razziano e rapinano la popolazione. Terreno fer-
Quadro generale
François Bozizé Yangouvonda
(Mouila, 14 ottobre 1946)
Il colera uccide ancora
Uccide ancora molto il colera nella Regione della Repubblica Centrafricana. A denunciarlo l’Unicef, che chiede di intensificare gli sforzi per combattere le epidemie. Quest’anno ci sono stati più di 85mila casi di colera, che hanno provocato la morte di 2.466 persone. Per le dimensioni e la pericolosità dei focolai, la Regione si trova ad affrontare una delle più grandi epidemie della sua storia. Il tasso di mortalità - compreso tra il 2,3% e il 4,7% - è inaccettabilmente alto e può raggiungere picchi molto alti in alcuni distretti (per esempio in Camerun va dall’1% al 22%). I bambini sono più vulnerabili al colera poiché si disidratano più velocemente e i bambini malnutriti sono particolarmente a rischio. Le epidemie si sono diffuse soprattutto in tre aree frontaliere: il bacino del fiume Congo, appunto fra Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo e Congo, il bacino del lago Ciad, fra Ciad, Camerun, Nigeria e Niger e il lago Tanganica, tra Repubblica Democratica del Congo e Burundi.
tile per un ennesimo colpo di stato, nel 2003, che porta al potere il generale Francois Bozizé, che poi vince le elezioni nel 2005 ritenute valide dalla Comunità Internazionale. Insomma la Repubblica Centrafricana è considerata come uno “Stato fantasma”, secondo un report del 2007 dell’International Crisis Group. Secondo quanto riportato il Paese avrebbe perso completamente la propria capacità istituzionale. Il Paese ha vissuto in una condizione di brutalità continua, sia prima che dopo il raggiungimento dell’indipendenza. Cinquanta anni di regimi autoritari hanno dato vita a uno stato predatore e violento, in cui l’unica possibilità per arrivare al potere e per mantenerlo è stato il ricorso continuo alla violenza. A ciò vanno aggiunte le pressioni esercitate dalla ex potenza coloniale, la Francia, che ha mantenuto legami molto stretti con i vari leader che si sono susseguiti,
I PROTAGONISTI
determinando la caduta o il ritorno di chi poteva dimostrarsi un interlocutore affidabile e creando un altro “pays-garnison” nella Regione, oltre al Ciad. Proprio la fragilità interna ha reso la Repubblica Centrafricana una periferia della periferia per Paesi vicini come il Ciad, il quale controlla strettamente le iniziative prese a Bangui. Solo un esempio: il finanziamento per la presa del potere di Bozizè nel 2003. Un colpo di stato regionale visti i numerosi contributi arrivati dai paesi vicini come il Congo Brazzaville e la Repubblica democratica del Congo e grazie al tacito consenso di Sudan, Libia e Francia. La lotta per il potere segue questa via: ribellione, potere, ribellione, Un apparato statale corrotto, incapace di porre freno alla bulimia dei corrotti, e una redistribuzione delle risorse guidata da interessi clientelari, portano alla nascita di movimenti ribelli che, una volta arrivati al potere, generano nuove tensioni e si comportano esattamente come coloro che hanno combattuto. Così si origina una nuova spirale di violenza. E la Repubblica Centrafricana incarna perfettamente questo schema.
65
François Bozizé Yangouvonda è il presidente della Repubblica Centrafricana. Sale al potere nel marzo del 2003 al comando di un colpo di stato contro l’allora presidente Ange-Félix Patassé. Nel 2005 vince le elezioni presidenziali ottenendo al primo turno la maggioranza relativa (il 43%) e quella assoluta nel secondo (64,6%). Le elezioni sono state ritenute valide dalla comunità internazionale. Personaggio di spicco della vita politica della Repubblica Centrafricana, Bozizé è stato brigadier generale del dittatore Bokassa e nominato ministro della Difesa dal successore David Dacko nel 1979. Ancora durante la dittatura di Kolingba (1981-1993) venne nominato ministro delle comunicazioni. Per lunghi anni, durante la presidenza Patassé, la sua lealtà non fu mai messa in discussione tanto da diventare Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate. Il colpo di stato del 2003 fu possibile, secondo le accuse dello stesso Patassé, grazie all’appoggio fornito a Bozizé dal governo del Ciad. François Bozize e l’ex presidente Ange-Félix Patassé erano entrambi candidati alle elezioni presidenziali che si sono svolte all’inizio del 2011.
UNHCR/F. Noy
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO RIFUGIATI
476.693
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CONGO
124.244
UGANDA
81.804
REPUBBLICA UNITA DELLA TANZANIA
60.186
SFOLLATI PRESENTI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 1.721.382 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO RIFUGIATI
166.336
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI Angola
79.617
Ruanda
69.836
Burundi
12.845
La fame
Tre organismi internazionali (lo statunitense International Food Policy Research Institute, il tedesco Welthungerhilfe e l’Ong anglo – irlandese Concern) redigono ogni anno un rapporto sulla fame nel mondo che integra quello della Fao. 122 i Paesi analizzati, di questi 26 hanno ancora livelli di fame allarmante o estremamente allarmante e ben 19 sono africani. La Repubblica Democratica del Congo presenta la situazione peggiore. Vanta il triste primato di essere stato l’unico Paese al mondo a passare da “allarmante” a “estremamente allarmante” con l’indice globale della fame (Ghi, Global Hunger Index) che è aumentato del 63% rispetto al 1990. Il Ghi prende in considerazione 3 parametri: la percentuale di persone denutrite, la percentuale di bambini sottopeso in età compresa tra i 0 e 5 anni ed il tasso di mortalità infantile.
UNHCR/S. Schulman
Pesantissimo clima politico in vista delle elezioni presidenziali e parlamentari di fine 2011. Manifestazioni represse con la violenza, giornalisti picchiati, emittenti radio-televisive dell’opposizione bruciate, sedi di partiti politici devastate e morti sono stati il corollario di una campagna elettorale senza esclusioni di colpi. La “Rete Pace per il Congo”, promossa dai missionari che operano nel Paese, ha denunciato che “il problema di fondo è l’uomo politico congolese. Tutti i politici, di qualsiasi schieramento, sembrano ignorare le basi del processo elettorale. Mentre hanno applaudito l’avvento della democrazia, nello stesso tempo si sono radicati in una deprecabile intolleranza politica”. Gli iscritti alle liste elettorali sono cresciuti di ben 7milioni. Voteranno infatti 32milioni di congolesi rispetto ai 25 delle presidenziali del 2006. L’aumento è dovuto alle registrazioni di massa verificatesi nelle zone (Nord Kivu, Katanga e Maniema) tradizionalmente favorevoli al Presidente uscente (e quasi certamente riconfermato) Joseph Kabila, “figlio d’arte” di Laurent Kabila, ucciso in circostanze misteriose, leader della guerriglia contro Mobutu. Joseph Kabila ha infatti preparato una revisione della legge elettorale su misura per lui e che lo incoronerà Presidente per un altro mandato, sotto gli occhi impotenti degli 11 candidati dell’opposizione. Intanto il Paese (potenzialmente tra i più ricchi al mondo per risorse naturali) continua ad essere in balia di bande armate, spesso al soldo di Paesi confinanti ma con solidi interessi in Congo. In Sud Kivu spuntano come funghi gruppi di guerriglia mentre è in corso una lotta intestina tra le varie fazioni dei Maj Maj, formazioni para-religiose nate con il compito di autodifesa delle popolazioni rurali. Il diffuso clima “predatorio” non risparmia le truppe governative, accusate di orrendi crimini, che impongono tangenti ai villaggi e garantiscono la sicurezza delle miniere ai migliori offerenti. Mentre nell’ombra è molto attivo Laurent Nkunda, l’ex leader ribelle tutsi del Cndp (Consiglio
Repubblica DEMOCRATICA DEL
CONGO
Generalità Nome completo:
Repubblica Democratica del Congo
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese, lingala, kiswahili, kikongo, tshiluba
Capitale:
Kinshasa
Popolazione:
62.6 milioni
Area:
2.34 milioni kmq
Religioni:
Cristiana, musulmana
Moneta:
Franco congolese
Principali esportazioni:
Diamanti, rame, caffè, cobalto, petrolio greggio
PIL pro capite:
US 140
Nazionale di Difesa del Popolo) che nel 2008 conquistò il Nord Kivu. Da due anni è in Ruanda. L’uomo che sconfisse Kabila potrebbe tornare di nuovo in campo in Nord Kivu per compattare le diverse fazioni del suo gruppo. Quando fu arrestato, i suoi uomini furono integrati nell’esercito regolare ma da tempo sono in corso molte diserzioni. Il futuro della Repubblica Democratica del Congo resta oscuro.
delle compagnie e dei singoli individui, responsabili di avere alimentato il conflitto attraverso lo sfruttamento delle risorse, che sono anche la principale fonte di finanziamento dei gruppi armati ribelli, i quali controllano i giacimenti e utilizzano i proventi della vendita dei minerali per pagare i soldati e acquistare nuove armi. “Le grandi multinazionali minerarie - si legge nel rapporto dell’Onu - sono state il motore del conflitto ancora in corso, e hanno preparato il terreno per le attività illegali e criminali di estrazione nella Repubblica Democratica del Congo. I Governi dei Paesi dove hanno sede gli individui, le compagnie e le istituzioni finanziarie, coinvolte nelle attività, dovrebbero assumere la loro parte di responsabilità, anche cambiando la propria legislazione nazionale e investigando”.
Per cosa si combatte
La storia della Repubblica Democratica del Congo, dei suoi violenti e infiniti conflitti e delle sue drammatiche crisi umanitarie, è legata alla lotta per il controllo delle sue immense risorse naturali. Una lotta che inizia nel 1885 con la colonizzazione belga, quando i primi giacimenti di diamanti vennero scoperti e che continua ancora oggi. Il 30 giugno 1960, è Patrice Lumumba a diventare il primo ministro della neonata Repubblica Democratica del Congo. Protagonista della lotta per l’indipendenza dal Belgio, Lumumba mirava ad un affrancamento completo dall’ex potenza coloniale che manteneva ancora molti suoi soldati nei quadri dell’esercito congolese. Lumumba venne sequestrato e ucciso dalle truppe dell’esercito rimaste fedeli, dopo un ammutinamento, al capo di stato maggiore Joseph Mobutu. Dopo aver riorganizzato l’esercito, Msobutu capeggia nel 1965 il colpo di stato contro Joseph Kasavubu, primo Presidente
della nuova Repubblica, instaurando un lungo regime autoritario a partito unico. Mobutu cambia il nome del Paese in Zaire e il suo in Mobutu Sese Seko. La corruzione e le violenze dilagano e in piena guerra fredda, Mobutu si guadagna l’appoggio internazionale degli Stati Uniti e di molti Governi Occidentali, combattendo contro la vicina Angola, sostenuta dall’Unione Sovietica. Nel 1994, un’ondata di migliaia di profughi disperati, ruandesi e burundesi, scappa dal vicino Ruanda dove è in corso il genocidio e si rifugia nella Regione congolese del Kivu. Il Paese è ulteriormente destabilizzato e si creano le condizioni ideali per una nuova sollevazione dei ribelli contro Mobutu. Nel 1996, capeggiati da Laurent Kabila e armati da Uganda e Ruanda i ribelli occupano la capitale, Kinshasa e insediano lo stesso Kabila come Presidente. Lo Zaire torna ad essere Repubblica Democratica del Congo e Mobutu fugge in Marocco dove
Quadro generale
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Il Congo è uno dei Paesi più ricchi di risorse naturali di tutto il continente africano. Dispone di vasti giacimenti di coltan e cassiterite, ampiamente utilizzati nell’industria informatica e della telefonia mobile; giacimenti di diamanti, di rame, uranio, cobalto, zinco, stagno, argento, tungsteno, alluminio. La maggior parte di queste immense ricchezze si trova nelle Regioni investite dai conflitti più violenti: il Nord Kivu, il Sud Kivu e il Katanga. Il legame tra i conflitti in corso e lo sfruttamento di queste risorse è stato accertato dall’Onu che, prima nel maggio del 2001 e poi nell’ottobre del 2002, ha pubblicato due dossier nei quali si accusano le multinazionali Occidentali attive sul territorio congolese di sfruttare le risorse “favorendo il prosieguo della guerra”. Nei due rapporti viene stilata una lista dettagliata
Diritti umani calpestati
I diritti umani continuano ad essere regolarmente calpestati nella Repubblica Democratica del Congo. Un rapporto delle Nazioni Unite del marzo 2011 denuncia gli abusi commessi dall’esercito governativo di Kinshasa e dai vari gruppi armati sulla popolazione civile inerme. In particolare il rapporto si sofferma sulle violenze sessuali di cui sono vittime non solo le donne ma anche uomini e bambini. Dal gennaio del 2009 sono 3.878 gli ex ribelli coinvolti nel programma di smobilitazione promosso dalla Monusco, la missione delle Nazioni Unite nella Rdc. Il 4 maggio 2011 è cominciato il processo a Stoccarda, in Germania, contro i leaders delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (Fdlr), un gruppo armato creato dopo il genocidio in Ruanda da alcuni leader hutu. La formazione ha combattuto anche per il Presidente Kabila ed è ancora attiva nell’Est della Rdc dove controlla il traffico di minerali (coltan, cassiterite).
Laurent Nkunda (2 febbraio 1967)
UNHCR/S. Schulman
Congo e balcanizzazione
Nella storia coloniale si sono utilizzati due metodi per sottrarre territori ad altri imperi o stati indipendenti. Uno è la “balcanizzazione” che consiste nel sostituire uno stato grande o medio con una serie di stati più piccoli, influenzabili dalle potenze straniere. L’altro è la leva finanziaria per sorreggere “l’elefante malato” (l’impero in crisi come quello Ottomano verso la fine del diciannovesimo secolo). Secondo invece la rivista congolese “Dialogue” si è giunti ad una nuova formula definita “elefalkan” che “unisce i vantaggi della balcanizzazione a quelli dell’elefante malato, evitandone i rischi”. Nei primi due casi chi gestiva il potere aveva l’onere di proteggere i propri cittadini (o le popolazioni indigene nel caso coloniale) e mantenere l’ordine con costi diretti o indiretti che ricadevano sul colonizzatore. Nella Rdc invece le aree (come il Kivu nel Nord Est) sono sottratte al controllo del potere centrale permettendo a interessi privati lo sfruttamento dei giacimenti di coltan mentre le popolazioni locali sono anche vittime dei diversi gruppi armati. Insomma secondo la rivista, per comprendere le ragioni dell’instabilità occorre analizzare gli interessi economici locali e stranieri. “Parlare di balcanizzazione significa evocare secessioni territoriali e questioni nazionalistiche. In Rdc i pericoli invece provengono da congolesi o stranieri al servizio del capitale” conclude amara l’analisi della rivista.
morirà, lasciandosi alle spalle un Paese ridotto al collasso economico e investito da un conflitto senza precedenti che coinvolge Paesi vicini e che, per la vastità del territorio coinvolto e il numero impressionante di vittime è stato ribattezzato ‘Guerra Mondiale Africana’. Il nuovo Governo non è diverso dal precedente e gli stessi Paesi che avevano contribuito a designare Kabila, decidono di rovesciarlo sostenendo le azioni di gruppi ribelli in un Paese ormai completamente destabilizzato. Nel 1998 esplode la guerra civile, ancora in corso nella Repubblica Democratica del Congo.
I PROTAGONISTI
Sul campo si combattono da una parte le truppe di Ruanda, Burundi e Uganda a sostegno dei ribelli tutsi del Raggruppamento Congolese per la Democrazia (Rcd) e del Movimento di Liberazione del Congo (Mic); dall’altra le truppe di Zimbabwe, Namibia e Angola che combattono a fianco del presidente Kabila. Nel gennaio del 2001 Laurent Kabila viene assassinato, ma gli scontri continuano. Al suo posto viene designato il figlio Joseph Kabila, che imposta da subito i negoziati per arrivare alla firma degli accordi di pace nel 2003. Si insedia così un nuovo Governo di transizione che mette fine alle ostilità e che porta al ritiro degli eserciti stranieri alleati del Governo: Angola, Namibia e Zimbabwe e di quelli che sostenevano i ribelli: Ruanda e Uganda.
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Ai giornalisti che lo andavano ad intervistare quando era alla guida del suo esercito personale, il generale Laurent Nkunda amava mostrare la piastrina d’oro che portava al collo con la scritta “Ribelli per Cristo”. L’ex studente di psicologia (dedicatosi anima e corpo alla causa militare dei tutsi) si presentava infatti come un devoto cristiano pentecostale. Una supposta fede religiosa che non gli ha comunque impedito di arruolare bambini tra le sue fila e non lo ha messo al riparo dalle indagini della Corte Penale Internazionale dell’Aja che lo accusa di crimini di guerra. Il 22 gennaio 2009 le truppe del Cndp (Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo) da lui guidate furono sconfitte in un attacco congiunto degli eserciti governativi di Ruanda e Repubblica Democratica del Congo, per la prima volta alleati dopo anni di feroce guerra. Sembrava la fine della lunga luna di miele che ha unito con un perverso e sanguinario patto d’acciaio Nkunda con il Presidente ruandese Paul Kagame. Invece si è trattata di una mossa tattica di Kagame che ha concesso comodi arresti domiciliari al suo amico Nkunda nel sicuro territorio del Ruanda ed ha rigettato ogni richiesta del Congo di estradizione. Ed ora Nkunda potrebbe ritrovare un ruolo di primo piano.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DEL SAHARA OCCIDENTALE RIFUGIATI
116.415
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI ALGERIA
90.000
MAURITANIA
26.000
Pesca contesa
Rischia di finire davanti alla Corte di giustizia europea l’accordo sulla pesca sottoscritto tra l’Unione Europea e il Marocco, un protocollo in base al quale l’Ue paga al governo di Rabat oltre 36milioni di euro per pescare nella acque marocchine, incluse quelle del Sahara occidentale. In base al diritto internazionale i proventi della pesca dovrebbero andare a beneficio di tutte le popolazioni interessate, compreso il popolo Saharawi. Un gruppo di 74 eurodeputati, guidati dal liberaldemocratico britannico Andrew Duff, ha presentato una risoluzione con cui si chiede alla Corte di Giustizia dell’Ue di stabilire se l’intesa vìoli o no i trattati dell’Unione Europea e il diritto internazionale.“Il prolungamento dell’accordo sulla pesca con il Marocco – ha spiegato Duff in una nota – genera un’incertezza sulla sua legalità sia sostanziale che procedurale. Il Parlamento europeo ha il dovere di sapere se gli obblighi Ue e del diritto internazionale sono pienamente rispettati’’.
UNHCR/S. Hopper
La delegazione Saharawi, che ha preso parte alle negoziazioni informali con il Marocco, tenute dal 19 al 21 luglio scorsi a Manhasset (New York), non nasconde il suo malessere dopo il prevedibile insuccesso di questo ottavo round. Alcuni esperti della questione Saharawi non si fanno la minima illusione sui progressi che potrebbero aprire la via verso una soluzione giusta e onorevole del conflitto. I saharawi attendono da parte delle Nazioni Unite il valore legale internazionale come è stato fatto con Timor-Est (un caso simile al problema del Sahara occidentale), antica colonia portoghese annessa all’Indonesia, che ha raggiunto l’indipendenza in seguito ad un referendum di autodeterminazione accettato dalla vecchia potenza coloniale, il Portogallo, e il Governo indonesiano. La ricerca di una soluzione di questo conflitto, vecchio più di tre decenni è stato complicato dalle ambizioni geostrategiche della Francia rispetto alla costa Ovest dell’Africa. Forte del sostegno incondizionato della Francia che non esiterà ad usare il suo diritto di veto al Consiglio di sicurezza per bloccare tutte le soluzioni conformi alla legalità internazionale nel caso del Sahara occidentale, esattamente come agiscono gli Stati Uniti nei confronti di Israele, il Marocco è stato inflessibile a Manhasset. Il rappresentate personale del Segretario generale dell’Onu, M. Christopher Ross, è ottimista fin tanto che il dialogo rimane aperto. Nel suo comunicato ha valorizzato gli aspetti positivi: il “Clima di lavoro e l’accettazione da parte delle due delegazioni di riprendere i negoziati il prossimo settembre per trovare una soluzione giusta, durevole e mutualmente accettabile nel rispetto del diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi”. Il problema agli occhi del Rappresentante del Fronte Polisario all’Onu M. Ahmed Boukhari è che i marocchini hanno fatto di tutto per orientare il dibattito su: “Questioni secondarie che sono certamente importanti (le visite delle famiglie saharawi tra Al Ayounee Tindouf, lo sminamento delle zone controllate dal Fronte Polisario, etc.), allo scopo di evitare la questione del referendum di autodeterminazione”. Dietro l’intransigenza marocchina vi è la Francia, mentre, come ha detto Boukhari: “L’Onu è giunto alla conclusione che per fare avanzare le negoziazioni, il responso del popolo è inevitabile”. La stampa e gli osservatori internazionali del fronte Polisario, hanno chiesto la cessazione della repressione contro i cittadini saharawi, la liberazione dei detenuti politici nelle carceri marocchine e il libero accesso ai territori alle Ong. È da sottolineare nuovamente che
SAHARA OCCIDENTALE
Generalità Nome completo:
Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD)
Bandiera 71
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Hassaniya, spagnolo
Capitale:
El Ayun
Popolazione:
circa 1 milione
Area:
circa 280.000 Kmq
Religioni:
Islamica Sunnita
Moneta:
Dinaro algerino nei campi profughi, Dirham marocchino nei territori occupati
Principali esportazioni:
Fosfati, pesca, petrolio e probabilmente ferro e uranio
PIL pro capite:
n.d.
le Nazioni Unite auspicano più che mai una soluzione che garantisca il diritto all’autodeterminazione del Sahara occidentale, mentre il Marocco rimane determinato a bloccare gli sforzi in corso, temendo l’esito del risultato di una consultazione democratica saharawi. La comunità internazionale è chiamata a prendere tutte le misure per fare rispettare i principi di legalità e giustizia nei confronti del Sahara occidentale.
72
Il Popolo Saharawi è privato del diritto fondamentale e internazionalmente riconosciuto ad avere una terra, su cui vivere in pace e libertà. Il diritto all’autodeterminazione viene negato dal Governo del Marocco, nonostante le numerose risoluzioni di condanna dell’Onu e nonostante Hans Corel, Segretario per gli Affari Giuridici dell’Onu abbia giudicato “illegale” lo sfruttamento delle risorse naturali del Sahara Occidentale, costituite da grandi quantità di fosfati e abbondantissimi banchi di pesce. Molte Nazioni europee considerano illegale
l’estensione al Sahara Occidentale degli accordi sulla pesca, approvati nel 2006 tra il Parlamento Europeo e il Marocco. Fortunatamente le contraddizioni europee non si applicano al campo umanitario, dove il contributo dell’Unione Europea è decisivo per il sostentamento dei rifugiati. Anche se, purtroppo, gli aiuti umanitari internazionali stanno diminuendo in maniera vistosa e preoccupante. Ad esempio, anche l’Italia, per il 2010 ha ridotto da 7milioni a solo 300mila euro la propria assistenza.
Per cosa si combatte
Il Sahara Occidentale comprende le Regioni di Saquia el Hamra al Nord e Rio de Oro al Sud, 284mila Kmq. Confina con il Marocco, l’Algeria, la Mauritania e l’Oceano Atlantico. È uno dei territori più ostili alla vita dell’uomo in tutto il pianeta. Aride distese di rocce e dune di sabbia sono solcate da piccoli wadi (letti di fiumi) nei quali si accumula quel po’ di acqua che non riesce mai a raggiungere il mare a causa della rapida evaporazione. Il Sahara Occidentale, già colonia spagnola, è l’ultima colonia africana ancora in attesa dell’indipendenza: al dominio spagnolo, infatti, nel 1975 si è sostituito quello di Marocco e Mauritania, che hanno invaso il territorio. La maggior parte della popolazione è fuggita in Algeria dove, da allora, vive nei campi profughi. In pratica, la questione del Sahara Occidentale è un caso di decolonizzazione mancata. Il popolo Saharawi è privato dal 1975 del suo diritto all’autodeterminazione. Lo dimostrano le tappe di questo conflitto. Il 6 ottobre 1975, il re del Marocco dà il bene-
stare alla “marcia verde”, attraverso la quale 350mila marocchini avanzano verso il Sahara Occidentale con l’obiettivo di conquista del territorio. Il 31 Ottobre 1975 inizia l’invasione marocchina nella zona Orientale del Sahara Occidentale. La Spagna intanto si ritira e il 2 novembre Madrid riafferma il proprio supporto all’autodeterminazione della gente Saharawi, allineandosi agli impegni internazionali assunti. Con il ritiro della Spagna, alla fine del 1975 il Polisario (movimento di liberazione che dal 1973 lotta per l’indipendenza) sembra sul punto di guadagnare l’indipendenza. Ma con trattative separate e segrete, Madrid firma un accordo clandestino con il Marocco e la Mauritania. I tre Paesi decidono di spaccare il territorio del Sahara Occidentale fra il Marocco e la Mauritania, evitando di dare l’indipendenza ai Saharawi. Nel 1976 il Fronte Polisario proclama la Rasd, Repubblica Araba Saharawi Democratica, ma l’annessione illegale del territorio dà il via alla guerra fra Marocco e Mauritania, per il controllo del territorio. Decine di migliaia di Saharawi
Quadro generale
UNHCR / P. Mateu
Tregua finita
“Il nostro movimento riprenderà presto le armi a causa del fallimento delle trattative con il Marocco sul futuro del Sahara occidentale”. Non lasciano molto spazio alla speranza di una soluzione pacifica del conflitto le dichiarazioni che il leader del Fronte Polisario Mohammed Abdelaziz ha rilasciato, nel settembre del 2011, al giornale arabo “Al-Quds al-Arabi”. Abdelaziz si è detto convinto che se non si arriverà in tempi brevi all’autodeterminazione del popolo Saharawi attraverso un referendum, “la soluzione militare è ormai quella che sta emergendo”. Il leader del movimento indipendentista non ha risparmiato dure critiche alla comunità internazionale e in particolare al governo spagnolo che viene accusato di avere “assunto posizioni favorevoli al Marocco”.
UNHCR/ S. Hopper
Brahim Dahane (1965)
UNHCR/S. Hopper
Calcio e violenza
Anche una semplice partita di calcio può diventare la scintilla che fa riesplodere le violenze. È accaduto nel settembre 2011 a Dakhla, 1.800 km a Sud di Rabat, città simbolo del Sahara Occidentale occupato, dove al fischio finale di un incontro tra la squadra marocchina di Casablanca ‘Chabab Al-Mohammadia’ e quella locale del ‘Moulodia’ sono scoppiati disordini tra i tifosi locali e le forze dell’ordine. Gli scontri sono poi degenerati in violenze che hanno interessato diverse zone della città e per molte ore. Sette persone sono rimaste uccise, tra cui due agenti, venti sono stati i feriti e numerosi i danni, i negozi e le automobili dati alle fiamme. Il ministro dell’Interno marocchino, Taieb Cherkaoui, ha ordinato l’apertura di una inchiesta sulla vicenda. 73
Brahim Dahane è attivista, Presidente dell’Associazione Saharawi delle Vittime di Gravi Violazioni dei Diritti Umani (Asvdh), bandita dal Marocco. Nato nel 1965, vive ad El Aaiun, nei territori del Sahara Occidentale occupati. Nel 1987, dopo aver partecipato alle manifestazioni di accoglienza della Minurso viene rapito dalle forze di sicurezza marocchine e detenuto in centri di detenzione segreti. Dopo 4 anni viene liberato senza conoscere la ragione dell’arresto. Viene nuovamente arrestato nel 2005. Amnesty International, Human Rights Watch, ed altre avviano una campagna per la liberazione di Dahane, che avviene 2006. Nel 2009, viene ancora arrestato e rilasciato il 14 aprile 2011. Nel 2009 ha ricevuto il Premio Anger per i diritti umani. La Commissione Internazionale dei Giuristi ha motivato il premio riconoscendogli un coraggio incrollabile. Il 16 novembre era però in carcere, tanto che a ricevere il premio a Stoccolma si è recata la sorella Aicha. Nel giugno del 2011 intervistato da Pat Patford, spiega ”C’è il Fronte Polisario che vuole l’indipendenza e i Saharawi credono nel Polisario. Poi c’è il diritto internazionale, la base giuridica che è dalla nostra parte… Il nostro è un Paese offeso dalle armi. Soprattutto è un Paese offeso dal silenzio”.
fuggono sotto i bombardamenti al napalm del Marocco. L’aggressione investì sia il Nord che il Sud del Paese facendo fuggire i Saharawi verso Est, in Algeria appunto, dove è stato concesso loro asilo politico. Il rientro nelle loro terre viene reso ancora più difficile dalla costruzione da parte del Marocco, a partire dal 1980, di un muro elettrificato. È un’impressionante opera militare: bunker, postazioni fortificate, campi minati (mine in gran parte italiane), lungo oltre 2200 Km alto cinque metri fatto di sassi e sabbia; si dice che il suo mantenimento costi al Governo marocchino oltre 1milione di dollari al giorno. Nel 1984, l’Organizzazione degli Stati Africani ammette come Stato membro, la Rasd, espelle il Marocco, nega di fatto valore giuridico agli accordi fra Spagna, Mauritania e Marocco. Nel 1991, dopo 18 anni di guerra, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva il Piano di Pace. Dal 6 settembre 1996 la Missione delle Nazioni
I PROTAGONISTI
Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale, Minurso, sorveglia il rispetto del cessate il fuoco e organizza il referendum di autodeterminazione che è rimasto solo sulla carta, a causa dell’opposizione del Marocco. Sempre l’Onu, in una decisione specifica sul Sahara Occidentale, trasmessa da Hans Corell, Segretario Generale Aggiunto per gli Affari Giuridici, al Presidente del Consiglio dichiara: “Gli Accordi di Madrid non hanno significato in alcun modo un trasferimento di sovranità sul territorio, né hanno concesso ad alcuno dei firmatari lo status di potenza amministrante, dato che la Spagna non poteva concederlo unilateralmente. Il trasferimento di potere amministrativo sul territorio nel 1975 non riguarda il suo status internazionale, in quanto territorio non autonomo”. La continuazione dello status quo sta conducendo ad una repressione sempre più brutale nelle zone occupate e ad un ritorno alle ostilità. Molti giovani ed anziani parlano apertamente della necessità, per sbloccare l’empasse, di ricorrere alle armi o ad atti di terrorismo che sino ad oggi non sono stati parte della strategia Saharawi.
74
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA SOMALIA RIFUGIATI
770.154
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI KENIA
351.773
YEMEN
179.845
ETIOPIA
81.247
SFOLLATI PRESENTI NELLA SOMALIA 1.463.780 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA SOMALIA RIFUGIATI
1.937
Erdogan in Somalia
Nell’agosto del 2011, il primo Ministro turco Recep Tayyip Erdogan si è recato in visita ufficiale in Somalia per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale sulla grave crisi umanitaria che il Paese sta affrontando. In occasione della visita, durante la quale il primo Ministro turco era accompagnato dalla moglie e da alcuni rappresentanti del suo Governo, ha annunciato anche l’apertura di una sede diplomatica nella capitale somala Mogadiscio. Non solo. Il leader turco ha anche dato notizia dell’avvio di una serie di progetti finalizzati alla costruzione di scuole, pozzi e di una strada di collegamento tra l’aeroporto e la capitale. Erdogan ha anche visitato alcuni campi profughi e incontrato gli sfollati. In Somalia circa la metà della popolazione dipende quasi esclusivamente dagli aiuti internazionali. Il Governo turco è uno degli attori internazionali che più si è speso per aiutare le popolazioni somale colpite dalla più grave carestia degli ultimi vent’anni e per aprire nuovi sbocchi commerciali al proprio Paese.
L’attentato kamikaze del 4 ottobre 2011 a Mogadiscio, nel quale hanno perso la vita oltre cento persone, dimostra la capacità degli al-Shabaab di colpire il centro della capitale somala, seppur ora si trovi sotto il controllo del Governo di transizione. Del rinnovato pericolo ha dato conferma il portavoce del gruppo terroristico - che ha rivendicato l’attentato - Ali Mohamud Rage: «Promettiamo che gli attacchi al nemico diventeranno di routine e aumenteranno di giorno in giorno». La promessa è stata mantenuta appena 2 mesi dopo che i militari della forza di pace dell’Unione africana, (i 9mila burundesi e ugandesi dell’Amisom) e le forze del Governo di transizione somalo erano riusciti a cacciarli da Mogadiscio a cannonate. La capitale somala era sotto il controllo dei miliziani da più di due anni. Gli islamisti sono una forza con la quale il fragile governo federale non ha intenzione di dialogare, ne di giungere ad accordi di qualsiasi tipo. Il Governo Federale di Transizione (Tfg), seppur riconosciuto a livello internazionale, deve la sua sopravvivenza al ruolo di stabilizzazione delle forze dell’Unione Africana, sostenute dall’Onu. La legittimità politica del Governo federale però è osteggiata da molti somali, e non solo da coloro che hanno legami con i gruppi ribelli. Il Governo federale controlla oltre alla capitale alcune zone limitate nel Sud e nel Centro della Somalia. Gli al-Shabab (il cui nome per estero è Harakat Al-Shabab al-Mujahideen) hanno unito tra loro diversi gruppi, con l’obiettivo di rovesciare il Governo transitorio. Ma l’agenzia dell’Onu ‘Irin’ ritiene che sia fondamentale dialogare con gli al-Shabaab per il futuro della Somalia. Laura Hammond, docente presso il Dipartimento di Studi per lo sviluppo alla Scuola di studi orientali e africani (Soas) di Londra sostiene che la sola possibilità per tentare di rispondere all’emergenza nel Sud, e probabilmente per il futuro politico della Somalia, sia parlare con gli al-Shabaab. Gli Shabaab infatti, continuano ad avere il controllo militare del Sud della Somalia, contano su uno zoccolo duro di almeno 3mila uomini, per la gran parte ragazzi poco più che adolescenti, votati alla creazione di una nazione islamica retta dalla shari’a (la legge coranica). Secondo le informazioni raccolte dall’antiterrorsimo internazionale, la loro principale fonte di finanziamento sono i traffici di droga e armi. Ma il movimento ha anche una certa contiguità con i pirati del Golfo di Aden. La grave crisi umanitaria che sta colpendo il corno d’Africa potrebbe però minarne il potere. Anche se le opinioni in tal senso sono discordanti. Alcuni giornalisti locali e osservatori indipendenti ritengono che la carestia e la fuga in massa dalle zone sotto il loro controllo (in particolare le regioni di Shabelle e di Bakool) stiano minando la credibilità dei miliziani. In molti si
SOMALIA
Generalità Nome completo:
Somalia
Bandiera
75
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Somalo, arabo, italiano, inglese
Capitale:
Mogadiscio
Popolazione:
10.700.000
Area:
637.661 Kmq
Religioni:
Musulmana (99%)
Moneta:
Scellino somalo
Principali esportazioni:
Banane, bestiame, pellame e pelli, mirra, pesce
PIL pro capite:
Us 600
chiedono come mai l’impatto più duro della carestia sia soprattutto nella zone in mano loro. Lo scenario potrebbe ulteriormente complicarsi. Domenica 16 ottobre 2011 truppe keniote sono entrate in territorio somalo. Il Kenya rivendica il diritto a difendersi dai somali che fanno irruzione sul suo territorio per sequestrare stranieri. La risposta dei fondamentalisti di al-Shabaab è arrivata puntuale, con la minaccia di portare la guerra nelle città Kenyote. L’invasione della Somalia è avvenuta con una quarantina di blindati, truppe e alcuni carri armati.
L’eterno conflitto che si combatte in Somalia è certamente influenzato anche dalla forte instabilità che caratterizza l’intera Regione del Corno D’Africa. La vicina Etiopia, guidata da un Governo cristiano e circondata da Paesi musulmani, non ha esitato ad invadere la Somalia. Le truppe etiopi sono entrate a Mogadiscio nel 2006 per contrastare le Corti Islamiche ed evitare la nascita di uno Stato islamico in Somalia. Gli stessi Stati Uniti hanno bombardato più volte il territorio somalo considerato da Washington una base ideale per i terroristi islamici. A que-
sto va aggiunto il dramma di quella che molti definiscono come una vera e propria “economia di guerra” e che è costantemente alimentata da gruppi armati e potentati locali che da una simile instabilità, ormai al limite del collasso, traggono enormi profitti grazie anche a traffici illegali di armi e rifiuti. Un Paese caratterizzato da una drammatica frammentazione politica, economica e sociale, subita prima di tutto dalla popolazione civile somala, stremata da quella che l’Onu continua a definire come “la peggiore crisi umanitaria al mondo”.
Per cosa si combatte
presenza di popolazione somala, da sempre rivendicata dalla Somalia. Il regime interno è poco tollerato, gli scontri aumentano e dal 1980 assumono il profilo di una vera e propria guerra civile. La Regione del Somaliland rivendica una propria autonomia fino ad arrivare alla autoproclamazione d’indipendenza del 18 maggio 1991. Molti oppositori al regime di Siad Barre vengono arrestati ed incarcerati, altri esiliati ed altri scappano. Dopo la caduta del regime di Siad Barre e l’inizio degli scontri interni, la comunità internazionale decide di intervenire con l’invio di una missione Onu, la Unosom. Obiettivo della missione, nota come “Restore Hope”, è quello di creare un margine di sicurezza per l’invio di aiuti umanitari per la popolazione civile, vittima da sempre dei conflitti somali. Ma la difficile situazione sul territorio, creata dai signori della guerra, Ali Madi da una parte e il generale Aidid dall’altra, portano la missione Onu al fallimento, simbolicamente identificato con la battaglia di Mogadiscio e l’abbattimento dell’elicottero americano Black Hawk. La Unosom si ritira nei primi mesi del 1994 a due anni dal suo primo invio. Anche l’Italia era presente in Somalia con la missione Ibis, che si ritira il 20 marzo 1994, lo stesso giorno in cui vengono barbaramente assassinati Ilaria Alpi e
Quadro generale
76
UNHCR/R. Gangale
È il 26 gennaio 1991, con la caduta del dittatore Siad Barre incomincia il periodo forse più buio della storia della Somalia. Doveva essere la fine di una dittatura, si è trasformata in una guerra di tutti contro tutti, signori della guerra, clan, bande rivali. Il territorio è stato a poco a poco conteso e suddiviso in settori sotto il dominio di tribù senza scrupoli a colpi di kalashnikov e di tecniche, l’arma somala per eccellenza, il mitragliatore montato sul cassone aperto del Toyota Pick-Up. Da oltre 20 anni la Somalia naviga a vista: un Paese senza stato, un popolo senza diritti, un Paese che da vent’anni esiste solo sulle carte geografiche. Solo violenza, attentati e povertà all’ordine del giorno, dove la vita di un uomo può valere poche decine di dollari americani. In realtà non è che prima del 1991 la Somalia avesse conosciuto lunghi periodi di pace. Dalla proclamazione dell’indipendenza del primo luglio 1960, che vede l’unificazione della Somalia dell’amministrazione fiduciaria italiana (19501960) e del Somaliland protettorato britannico, solo per nove anni aveva visto un Governo legittimamente eletto. Nel 1969 Siad Barre con un colpo di stato prende il potere ed instaura il suo regime. Nel 1977 Barre muove guerra contro l’Etiopia per la Regione dell’Ogaden, territorio etiope con alta
Shirin Ramzanali Fazel È una delle prime scrittrici del movimento conosciuto come letteratura italiana della migrazione. È nata a Mogadiscio da madre somala e padre pachistano e dopo aver studiato in scuole italiane in Somalia, si è trasferita con tutta la famiglia in Italia nei primi anni ‘70, anche se ha vissuto molti anni della sua vita tra l’ Africa e il Medioriente. Ha collaborato con diverse associazioni di solidarietà a donne africane e nel ‘94 ha pubblicato il romanzo Lontano da Mogadiscio per Datanews. “Il libro Lontano da Mogadiscio ancora mi commuove” ha spiegato lei stessa “Io vedevo emozioni, non pensavo assolutamente ad un libro. Vedevo le immagini orribili in tv della guerra appena scoppiata, lo speaker che diceva che Mogadiscio, la mia città, era stata rasa al suolo, che non c’era più. Poi ricordo che tutti parlavano di Somalia associandola solo alla guerra, libri di giornalisti occidentali per lo più. Nessuno faceva una operazione diversa” ed è così che, spiega “ho cominciato a scrivere per dare sfogo alla rabbia che tenevo dentro”.
Università Nazionale Somala
Fondata nel 1969 nella capitale Mogadiscio, l’Università nazionale somala (Uns), non è mai stata ufficialmente sciolta nonostante abbia cessato le sue attività nel 1991 in seguito allo scoppio della guerra civile. I docenti, tutti italiani, furono costretti al rimpatrio. L’Università era nata in seguito ad un accordo tra il ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e il Governo somalo e poiché la lingua somala era ancora orale e non scritta le lezioni dell’Università si tenevano in lingua italiano. Tra i primi corsi di laurea attivati presso l’Università c’erano economia, giurisprudenza, agraria, chimica, medicina, ingegneria e geologia. Nel 1986, il Governo somalo chiese all’Università di Padova di organizzare una Facoltà di Scienze che attivasse anche i corsi in matematica, fisica e biologia.
Miran Hrovatin. Gli anni successivi sono caratterizzati da una sempre maggiore frammentazione del territorio da parte dei sempre crescenti “lord war”. In questi anni la Somalia è anche la vera terra di nessuno: inesistenza di controlli frontalieri, una frammentazione territoriale e clanica gestita dal solo controllo delle armi. Questa situazione consente il fiorire di traffici illeciti, rifiuti dispersi in mare e sotterrati nel deserto somalo in cambio di armi, fino alla formazione di veri campi di addestramento della milizia jihadista (che fanno riferimento al Jihad, cioè integralista islamica). Intanto i diversi clan e i molti signori della guerra, sollecitati dalla comunità internazionale e dall’Unione Africana, si incontrano cercando di trovare l’accordo. Molte le conferenze di pace convocate, ma ogni volta si concludono con un nulla di fatto. Bisogna aspettare il 2004 per vedere, a conclusione della quattordicesima conferenza di pacificazione, la nomina di un parlamento di transizione, che elegge Presidente Abdullahi Yusuf Ahmed e un Governo Federale di Transizione (Tfg), che dopo un primo periodo di attività da Nairobi, a giugno 2005 entra in
I PROTAGONISTI
Somalia. Mogadiscio però è considerata ancora troppo pericolosa e nelle mani dei diversi “lord war”, così il Governo di transizione risiede per un periodo a Johwar e poi a Baidoa. Nell’estate 2006 gli scontri iniziati a Mogadiscio fra i lord war e le milizie jihadiste somale portano queste ultime, controllate dalle Corti islamiche, a scacciare i signori della guerra e a prendere il controllo della città. Da Mogadiscio poco alla volta le Corti Islamiche prendono il controllo di buona parte della zona Sud della Somalia fino ad arrivare alle porte di Baidoa, la città di residenza e controllo del Tfg che nel frattempo aveva ottenuto la tutela dell’Onu e l’appoggio militare dell’Etiopia. Da Baidoa riparte l’offensiva governativa, che con il determinante intervento dell’esercito etiope e il sostegno dei militari della Regione del Puntland, rispondono al tentativo delle Corti di conquistare Baidoa, con un attacco senza precedenti porta in pochissimo tempo alla conquista di Mogadiscio. Il Tfg ottiene così ufficialmente il controllo di Mogadiscio, ma nei fatti ha inizio un lungo periodo - che dura ancora oggi - di continui attentati da parte dei fondamentalisti islamici, attacchi ai palazzi della presidenza e del Governo. Numerose le vittime civili e decine di migliaia gli sfollati. La situazione umanitaria è di vera emergenza.
77
(Mogadiscio, 1959)
UNHCR/E. Hockstein
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL SUDAN RIFUGIATI
387.288
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CIAD
278.257
ETIOPIA
25.238
KENIA
20.528
SFOLLATI PRESENTI NEL SUDAN 1.624.100 RIFUGIATI ACCOLTI NEL SUDAN RIFUGIATI
178.308
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI ERITREA
103.798
CIAD
39.578
REPEPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
20.980
Per i profughi nulla è cambiato
Il campo-sfollati di Nyala, nel Darfur, continua ad essere tra i più grandi del mondo. Precisamente il secondo, per numero di profughi, superato nell’infelice primato da quello di Dadaab, in Kenya, che accoglie il fiume di somali che fuggono dalla carestia. Le condizioni di vita di questi come di tutti gli altri profughi darfuriani continuano ad essere spaventose. Mentre si alternano stancamente trattative di pace e nuove esplosioni del conflitto, la realtà della popolazione civile resta di miseria e violenza quotidiana. Nei primi mesi del 2011 nuovi focolai di scontri hanno provocato la fuga di altre migliaia di sfollati. La situazione rimane estremamente delicata. Non solo per le condizioni estreme in cui vive la gente, ma anche perché sia il regime sudanese che i ribelli mettono in atto una strategia di pressione, fatta di reti spionistiche, infiltrazioni nei campi e intimidazioni verso i leader degli sfollati sospettati di contiguità coi ribelli o di collaborazionismo col Governo di Khartoum.
UNHCR/H. Caux
Il 2011 è stato di nuovo un anno di guerra, in Sudan. Diversi i focolai di conflitto. Nell’Ovest un rilevante aumento di scontri nel Darfur, che ha avuto per conseguenza la fuga di decine di migliaia di nuovi sfollati. Negli Stati confinanti col neonato Sud Sudan, ad Abyei, nel Sud Kordofan e nel Nilo Azzurro – tutti e tre abitati da gruppi etnici favorevoli all’unione con la nuova Repubblica, ma esclusi dalle consultazioni e costretti a rimanere col Nord – sono scoppiati in sequenza combattimenti sanguinosi: a maggio ad Abyei, a giugno nel Sud Kordofan, e a partire da agosto anche nel Nilo Azzurro. Raid aerei, bombardamenti e azioni dei caccia dell’esercito di Khartoum hanno raso al suolo decine di villaggi e costretto alla fuga decine di migliaia di persone. La ragione di questi nuovi combattimenti è reprimere la volontà di queste popolazioni di rivendicare l’annessione al Sud Sudan. Azioni di guerra che finora non hanno suscitato alcuna reazione da parte della comunità internazionale: di fronte al rischio di scatenare un conflitto totale che faccia saltare il fragile equilibrio creatosi con l’indipendenza del Sud, lo stesso Consiglio di Sicurezza dell’Onu sembra far finta di non vedere. Dal canto suo, il Presidente El Bashir procede nell’annunciato progetto di cambiare la Costituzione per adottarne una completamente islamica. Dopo la secessione delle Regioni a maggioranza cristiana e animista, «il 98% della popolazione è musulmana», ha detto il Presidente sudanese, « e la nuova Costituzione dovrà riflettere questa realtà» ponendo l’Islam come religione ufficiale e la sharia come fonte della legge. Un disegno, quello di El Bashir, che renderebbe ancora più conflittuale il rapporto con le minoranze non musulmane rimaste a vivere nel Nord Sudan. Intanto, il Presidente sudanese resta incriminato da parte del Tribunale Penale Internazio-
SUDAN
Generalità Nome completo:
Repubblica del Sudan
Bandiera
Lingue principali:
Arabo, i diversi gruppi etnici parlano oltre 400 lingue locali, inglese
Capitale:
Khartoum
Popolazione:
30.894.000
Area:
1.886.068 Kmq
Religioni:
Musulmani (60%, predominanti fra arabi e nuba, nelle regioni del Centro-Nord), cattolici (15,5%), arabi cristiani (1%), aderenti a religioni tradizionali (23,5%)
Moneta:
Sterlina sudanese
Principali esportazioni:
Petrolio e prodotti petroliferi, cotone, sesamo, arachidi, gomma arabica, zucchero, bestiame
PIL pro capite:
Us 2.309
nale (sono stati spiccati nei suoi confronti due mandati di arresto, nel marzo 2009 e nel luglio 2010, rimasti finora ineseguiti) per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, gravi violazioni dei diritti umani nei confronti della popolazione del Darfur.
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
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Il Governo sudanese ha estremo bisogno di bloccare sul nascere qualsiasi nuova rivendicazione di indipendenza o autonomia. Nel periodo a cavallo della secessione del Sud, Khartoum ha reagito con rinnovata durezza a qualsiasi accenno di ribellione o contestazione dell’autorità centrale. È il caso del Darfur, dove non c’era stata alcuna rilevante novità, sul fronte bellico, che giustificasse i nuovi attacchi dell’esercito governativo. Oppure quello dei Monti Nuba, dove la dura repressione messa in atto nella seconda metà del 2011 ha avuto lo scopo di stroncare qualsiasi velleità dei Nubiani di vo-
lersi annettere ai secessionisti. L’altra cruciale ragione dei combattimenti – che riguarda invece gli Stati della federazione del Nord a ridosso del confine col nuovo Paese secessionista – è il petrolio. Quel 15% dei giacimenti rimasti in mano al Governo di Omar Hassan El Bashir si trovano nelle Regioni di Abyei, del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro, tutti e tre abitati da popolazioni che avevano combattuto a fianco dell’Splm contro Khartoum e che avrebbero dovuto avere una propria consultazione per decidere se restare col Nord o passare col Sud Sudan.
Per cosa si combatte
Il Darfur, che si trova nella parte occidentale del Sudan, è ormai da anni una delle aree di crisi più acuta del pianeta. La questione è scoppiata nel febbraio del 2003: il Governo arabo e islamico di Khartoum (la capitale) stava in quel momento tentando di trattare la fine del ventennale conflitto con l’Splm, il Movimento di Liberazione del popolo sudanese. È in quei frangenti che nel Darfur – l’area più povera del poverissimo Sudan – prende l’avvio un movimento di ribellione armata che chiedeva attenzione da parte del Governo centrale dopo decenni di trascuratezza, marginalizzazione e sottosviluppo. L’accendersi della ribellione è però l’occasione da parte del Governo guidato da Hassan El Bashir non solo di scatenare una violenta repressione verso le popolazioni non arabe e indigene della Regione, ma anche di armare i gruppi nomadi di origine araba, divenuti noti poi col nome di Janjaweed, innescando una feroce serie di scontri e scorribande fra questi guerrieri nomadi a cavallo e le popolazioni non arabe e stanziali. È l’inizio di una guerra civile fra le più sanguinose e violente vissute in Africa: in un paio d’anni sono centinaia i villaggi bruciati e rasi al suolo, con gli abitanti costretti a fuggire, a espatriare verso i campi profughi del Ciad o ad accamparsi negli smisurati campi sfollati
interni allo stesso Darfur. La stima è che il conflitto abbia provocato oltre 300mila vittime e 3milioni di profughi (dei quali 200mila rifugiati in Ciad e il resto nei campi sfollati all’interno del territorio sudanese), su una popolazione totale della regione di 8milioni di abitanti. L’elenco delle violazioni dei diritti umani commesse in Darfur è impressionante: massacri, stupri sistematici, incursioni nei campi sfollati, eccidi indiscriminati di civili. Il sistema utilizzato è di fatto il medesimo della guerra con la popolazione africana del Sud del Paese: affiancare alla usuale repressione dell’esercito l’azione di gruppi paramilitari che lo stesso Governo ha armato, allo scopo di creare una sorta di azione a tenaglia. Le azioni di guerra e gli scontri sono andati avanti intensamente fino a maggio 2006, quando la principale fazione ribelle (Slm/a, Movimento per la liberazione del Sudan) sottoscrisse col Governo un accordo di pace. Da allora continua il conflitto “a bassa intensità”, a fasi alterne fra riprese delle trattative di pace e nuovi momenti di tensione. Una forte recrudescenza degli scontri si è avuta nella prima metà del 2011, in un periodo nel quale l’attenzione internazionale era tutta rivolta al referendum per la secessione del Sud dal Nord Sudan e si preparava, poi, la proclamazione del’indipendenza del Sud, avvenuta
Quadro generale
UNHCR/H.Caux
Il “nodo” di Abyei
In base agli accordi di pace del 2005, in concomitanza col referendum in Sud Sudan (il 9 gennaio 2011), gli abitanti della Regione di Abyei avrebbero dovuto tenere una consultazione per decidere se unirsi al Sud o restare col Nord. La gente di Abyei è in grande maggioranza d’etnia ngok, un sottogruppo dei dinka (popolazione del Sud Sudan). L’esito del voto sembrava quindi scontato: a favore dell’annessione al Sud. Ma con l’avvicinarsi del referendum, il Pcn (Partito del Congresso Nazionale) di El Bashir cominciò a esigere che anche i pastori nomadi dell’etnia missiriya avessero diritto di partecipare al voto. I missiriya hanno sempre avuto una presenza stagionale ad Abyei, ma la loro terra d’origine è il Sud Kordofan, da dove provengono ogni anno con le mandrie. Khartoum arrivò a porre la condizione in modo ultimativo: o votano anche i missiriya, o niente referendum. Rinviare tutte le consultazioni sarebbe stato impensabile: la gente del Sud Sudan non voleva saperne di attendere ancora. Così è saltata solo quella per Abyei. Una consultazione che difficilmente si farà: nel mese di maggio l’esercito di Khartoum ha invaso Abyei e la reazione dell’Splm sudsudanese ha comportato duri scontri e la fuga di migliaia di civili fino al “cessate il fuoco” che ha congelato la guerra. Ma anche le rivendicazioni e la programmata consultazione. Così, fino a data da destinarsi, il petrolio di Abyei, abbondante e di ottima qualità, resta al Nord.
Hassan El Bashir
(Hosh Bannaga, 1 gennaio 1944)
Dopo la guerra
Cosa resta del Sudan? La domanda non è retorica, riguardo a questo martoriato Paese. Sommando le vittime stimate dei diversi conflitti civili sudanesi si arriva all’impressionante cifra di 2milioni e mezzo di morti. Tra profughi e sfollati si superano i 6milioni, molti dei quali vivono ormai da dieci, quindici o più anni da “rifugiati permanenti” in Ciad, Kenya, Etiopia e, in misura minore, negli altri Paesi confinanti. A causa delle guerre, specie di quella ventennale fra Nord e Sud, è stata perduta di fatto un’intera generazione. I dati sulla povertà (gli ultimi disponibili, prima della secessione del Sud Sudan) sono catastrofici: l’analfabetismo è al 30%, la mortalità infantile sotto i 5 anni al 91 per mille, solo un terzo della popolazione ha accesso ai servizi sanitari, il 30% non può usufruire di acqua potabile. La disoccupazione è al 19%.
il 9 luglio 2011. La crisi umanitaria, invece, è rimasta costantemente drammatica: in Darfur vi sono ancora alcuni dei campi sfollati più grandi del mondo e il Programma alimentare mondiale dell’Onu, dal 2006 in poi, ha continuato a indicare la crisi del Darfur come la più grave del pianeta, insieme a quella somala. Quest’ultima fase di guerra civile del resto va ad aggiungersi a una storia tardo coloniale e post-coloniale del Paese africano nella quale la stabilità e la pace non ci sono mai state. Dagli anni ‘50 è stato un continuo susseguirsi di colpi di Stato e di giunte militari. Anche l’attuale Presidente, Omar Hassan El Bashir, che guida il Paese dal 1989, è salito al potere con un golpe. Altrettanto costanti nel tempo sono state le tensioni e gli scontri armati fra il Nord del Paese arabo e islamizzato e il Sud africano e cristiano-animista. Solo con la secessione delle regioni meridionali e la nascita della Repubblica del Sud Sudan, avvenuta il 9 luglio 2011, questo interminabile conflitto si è chiuso, aprendone tuttavia altri, nei territori contesi degli Stati di Abyei, del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro. La fase bellica più lunga e cruenta è stata sicuramente la guerra combat-
I PROTAGONISTI
tuta fra il 1983 e il 2003: i gruppi ribelli (guidati dalla più importante delle fazioni, l’Spla-Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese) si sono battuti per ottenere l’indipendenza dal Nord. Quello che non hanno ottenuto le armi, poi, l’ha fatto il petrolio: il bisogno crescente di greggio ha portato la comunità internazionale (Stati Uniti in testa) a moltiplicare le pressioni per il raggiungimento della pace, anche perché la maggior parte dei giacimenti si trovavano nella zona di confine fra il Nord e il Sud del Paese. La fine del conflitto sudanese, fortemente voluta dai Paesi industrializzati e ottenuta con gli Accordi generali di pace del 2005, ha portato in breve tempo allo sviluppo delle infrastrutture per l’industria estrattiva e all’assegnazione di molte concessioni petrolifere (in gran parte accaparrate dalla Cina), tanto che alla vigilia della divisione dei due Stati il petrolio costituiva l’80% delle esportazioni del Paese. Ma con la nascita della Repubblica del Sud Sudan sono sorti nuovi problemi: il grosso dei giacimenti è rimasto nel Sud, ma le infrastrutture sono rimaste al Nord; inoltre, fra i due Stati si sono dovuti ridiscutere il sistema delle divisioni delle royalties e gli accordi per l’utilizzo da parte del Sud Sudan degli oleodotti che attraversano le Regioni del Nord.
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In barba ai mandati di cattura del Tribunale penale internazionale (Tpi) Omar Hassan El Bashir continua tranquillamente a governare il Sudan. Ha vinto le (dubbie) elezioni dell’aprile 2010 col 69% dei voti, con punte di consenso dell’85% in alcune Regioni del Nord. El Bashir guida il Paese dal 1989, quando conquistò il potere con un golpe. Ha governato da sempre col pugno di ferro, arrestando gli oppositori e spegnendo nel sangue le rivolte scoppiate negli anni nel Paese. Nel marzo 2009, però, in relazione a quanto accaduto nel Darfur, il Presidente sudanese è stato incriminato dal Tpi per diversi gravissimi reati, compresi genocidio e crimini contro l’umanità. Nel luglio 2010 il Tribunale ha spiccato un secondo mandato di cattura per genocidio. Ma nonostante ciò il Presidente sudanese continua a godere dell’appoggio di Cina, Russia e di molti Paesi africani. Le accuse del Tpi parlano di prove della responsabilità diretta nel massacro di 35mila persone, oltre alla lunga lista di violazioni dei diritti umani. Ma i suoi “difensori” – Cina in testa, primo partner commerciale – parlano di “gestione politica” della Corte internazionale, che accusa il governo sudanese ma ignora i crimini commessi dai Paesi occidentali in altri contesti, come ad esempio in Iraq e in Afghanistan.
UNHCR/E.Denholm
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Sanità, i dati peggiori al mondo
Sette persone su 10 in Sud Sudan sono analfabete. È uno dei dati emblematici del Paese: decenni di schiavizzazione e una guerra ventennale hanno mantenuto la sua popolazione in una condizione di estrema povertà e ignoranza con cui ora il Governo dovrà fare i conti. Prima ancora delle strutture, si dovrà formare la classe docente, insufficiente per numero e per preparazione. Ma è sul versante medico-sanitario che il Sud Sudan ha gli indicatori peggiori. La percentuale di mortalità materna, ad esempio, è la più alta al mondo: secondo i dati Onu, una donna su sette rischia di morire a causa del parto o per complicazioni legate alla gravidanza. Quasi la metà dei bambini sotto i 5 anni (il 48%) è malnutrito. Solo uno su quattro è vaccinato contro il morbillo, e appena il 5% dei parti è seguito da staff sanitari specialistici. Al momento dell’indipendenza, il sistema sanitario sudsudanese poteva contare su 39 medici locali. Ospedali e centri di salute, per ora, si reggono su Ong e agenzie internazionali.
Molte sono le questioni aperte col Governo di Khartoum, per il neonato Governo sudsudanese. Ad esempio, la definizione delle frontiere della regione dell’Abyei, che fa da cuscinetto fra i due Paesi, una fra le più ricche di petrolio e dunque contesa tra il Nord e il Sud. Il suo status amministrativo doveva essere determinato attraverso un referendum previsto lo scorso gennaio, contestualmente a quello sull’autodeterminazione del Sud, ma è stato rinviato per il disaccordo emerso in seno alla Commissione elettorale su chi avesse diritto di voto. Nel maggio 2011, poi, Abyei è stato teatro di duri scontri fra i due eserciti e il “cessate il fuoco” è stato stabilito il 21 giugno 2011, insieme a un accordo che prevede la sostituzione del Commissario della sua amministrazione municipale. Il nuovo amministratore dovrà essere scelto dall’Splm, ma con l’approvazione del National congress party del Presidente sudanese El Bashir. Resta molto delicata la questione delle risorse petrolifere. Con 500mila barili estratti ogni giorno, il Sudan è il terzo maggiore produttore di petrolio del continente dopo Nigeria e Angola. Circa l’85% delle riserve di greggio si trovano nel sottosuolo del Sud, ma l’oleodotto e le raffinerie sono gestiti dal Nord, che ha anche lo sbocco al mare (il Sud ha avviato un progetto per la realizzazione di un proprio oleodotto che dovrebbe arrivare all’oceano Indiano attraversando il Kenya). Tra le tante urgenze con cui nasce il Sud Sudan, quella sanitaria resta la primo posto: il Paese ha bisogno di 1.066 assistenti medici, e può contare oggi soltanto su 39 medici locali in tutto il Paese, dei quali 20 lavorano in cliniche private. La Comunità Internazionale ha riconosciuto l’urgenza di dedicare maggiori risorse al settore medico-sanitario poiché rappresenta un fattore fondamentale per la crescita economica e sociale del Paese. Ma non c’è solo questo, naturalmente. È quanto mai urgente per il Paese dotarsi di un piano di sviluppo, realizzare una serie di infrastrutture essenziali per far crescere la produzione e i commerci, riavviare l’intero sistema scolastico azzerato dal ventennio di guerra. E poi smilitarizzare il Paese (tutti
SUD SUDAN
Generalità Nome completo:
Repubblica del Sudan del Sud
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Inglese, arabo e lingue nilo-sahariane
Capitale:
Giuba
Popolazione:
8.260.490
Area:
619.745 Kmq
Religioni:
Animista, cristiana
Moneta:
Sterlina sud-sudanese
Principali esportazioni:
n.d
PIL pro capite:
n.d.
sono armati dai tempi del conflitto), creare una vera classe politica e dirigenziale che vada a sostituire gradualmente quella attuale, formata fondamentalmente dalla gerarchia militare dell’Splm. E, ancora, cominciare a tessere relazioni con i vicini africani, ma anche con i Paesi industrializzati (finora sono stati soprattutto gli statunitensi a sostenere la nascita del nuovo Stato, anche con forti iniezioni di finanziamenti, oltre che di protezione politica). Insomma, al di là del grande entusiasmo per l’ottenuta indipendenza, ora i leader sudsudanesi hanno l’immane compito di costruire un intero Paese.
ne dello Stato. Una fetta che la leadership attuale non sembra disposta a concedere. Già nei cinque anni intercorsi fra gli accordi di pace (2005) e la secessione, in molte aree del Sud Sudan ci sono stati scontri, aggressioni, vere e proprie battaglie di carattere etnico, talora con esiti drammatici in termini di vittime e di sfollati. L’ultimo sanguinoso episodio risale all’agosto 2011, ad indipendenza già proclamata, quando una serie di violenti combattimenti fra l’etnia Murle e l’etnia dei Lou Nuer ha provocato 600 vittime e un migliaio di feriti. Secondo gli osservatori è questa la prima vera sfida che il Sud Sudan deve vincere: trasformare un territorio in una nazione della quale tutti i gruppi tribali si sentano parte.
Per cosa si combatte
«Abbiamo lottato e creduto e oggi il nostro sogno di una patria libera diventa realtà». Ovunque, nella capitale Juba, in quella mattina tanto attesa campeggiava la scritta su enormi manifesti. Con la città addobbata a festa, piena di bandiere, striscioni, foto del Presidente Salva Kiir Mayardit e del padre della patria John Garang (morto in un incidente aereo nel 2005, poco dopo gli accordi di pace), il 9 luglio 2011 è stata proclamata la nascita della Repubblica del Sud Sudan, 54° Stato dell’Africa e 193° Paese membro delle Nazioni Unite. Intorno a mezzogiorno, alla presenza del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e delle delegazioni estere, il Presidente del Parlamento James Wanni Igga ha dato voce alla proclamazione ufficiale: «Noi, rappresentanti democraticamente eletti, sulla base della volontà del popolo del Sud Sudan e del referendum sull’autodeterminazione, proclamiamo il Sud Sudan una nazione indipendente e sovrana». Un boato di applausi seguiti da danze e cori, urla e canti hanno risposto alle parole di Igga. Subito dopo la bandiera del nuovo Stato è sta-
ta issata sul pennone montato al centro della spianata dedicata a John Garang. Infine, ha prestato giuramento come primo Presidente della nuova nazione Salva Kiir, e, come suo primo atto ufficiale, ha firmato la Costituzione transitoria sulla quale si reggerà il Paese per i prossimi quattro anni. «Finalmente liberi», era la frase che si sentiva di più. Ed era anche il titolo a piena pagina del “Southern Eye”, quotidiano di Juba. Formalmente, il 9 luglio 2011, il nuovo Stato ha visto la luce. Per la seconda volta, dopo l’Eritrea, attraverso un analogo percorso con il referendum per l’autodeterminazione col quale si staccò dall’Etiopia nel 1993, sono stati mutati gli inviolabili confini post-coloniali stabiliti in Africa. Una nuova nazione fortemente desiderata, ma tutta da costruire. La Repubblica del Sud Sudan – questo il nome scelto per il Paese – nasce “nudo”: poverissimo, indigente, senza strutture governative e amministrative, senza infrastrutture (in tutto il territorio ci sono sì e no 50 chilometri di strade asfaltate), senza medici e
Quadro generale
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Finora, la coesione fra le diverse etnie del Sud è stata mantenuta dal nemico esterno: gli “arabi del Nord”, il “regime schiavista di Khartoum”, i “musulmani che vogliono imporre la loro religione e la loro legge”. Il cemento sociale e politico per decenni è stato l’anelito alla liberazione e al raggiungimento di uno Stato indipendente. Adesso, però, i nodi vengono al pettine. Il Paese è abitato da diverse etnie, ma quelle maggioritarie, i dinka seguiti dai nuer, hanno fino ad ora monopolizzato la leadership, ritenendosi l’anima storica dei movimenti di ribellione nonché artefici del percorso verso l’indipendenza. Gli altri gruppi etnici, tuttavia, cominciano a rivendicare la propria fetta di potere, in politica come pure nelle amministrazioni e nella gestio-
Monsignor Cesare Mazzolari, una vita per il Sud Sudan
Missionario comboniano e poi vescovo della diocesi di Rumbek, monsignor Cesare Mazzolari era arrivato nel Sudan meridionale nel 1981. Non ha più lasciato il Paese. Per 30 anni ha condiviso con i sudsudanesi le conseguenze della guerra (compreso un breve sequestro di persona, subito nel 1994), diventando per tutti, cattolici e non, un punto di riferimento costante. Nella sua azione ha privilegiato i più poveri, offrendo aiuti, piani di sviluppo, assistenza sanitaria. E istruzione di base: convinto assertore dell’importanza della formazione, oggi le scuole della sua diocesi istruiscono 50mila giovani. Il 9 luglio 2011, dopo le feste per l’indipendenza, nella sede dei comboniani di Juba, aveva detto: «È un sogno che si avvera. Siamo agli inizi di una nuova storia. Ora il mondo intero dovrà impegnarsi a far sì che il domani di questa nuova nazione sia migliore del suo martoriato passato». Non ha fatto in tempo a vedere la realizzazione di quel sogno. È morto per un infarto il 16 luglio successivo.
John Garang
(Bor, 23 giugno 1945 – New Site, 30 luglio 2005)
Land grabbing alla sudanese
Tra il 2007 e il 2010, in Sud Sudan, 2,6 milioni di ettari di terreni sono stati affittati da società e Governi stranieri o da singoli uomini d’affari. È uno dei Paesi dove il cosiddetto fenomeno del “land grabbing” (traducibile come “accaparramento della terra”) è negli ultimi anni più vistoso. Si tratta del 9% delle terre coltivabili del Sud Sudan (mentre le terre ad uso agricolo della popolazione locale non supera l’1%). È una porzione di territorio che equivale all’intero Rwanda.
personale sanitario. Senza una vera classe politica e dirigente. Sul neonato Sud Sudan pesano ancora le ferite profonde inferte da decenni di guerra civile. Quella più lunga e sanguinosa, scoppiata nel 1983, ha causato la morte di circa due milioni di persone, quattro milioni di sfollati, la distruzione quasi totale di scuole, strade, ponti, ospedali, e l’esodo all’estero della maggior parte della classe intellettuale. Le conseguenze del conflitto continuano a riflettersi negli indicatori della salute, tra i peggiori del pianeta: ad esempio, la percentuale di mortalità materna è la più alta al mondo. La più che ventennale guerra civile che ha portato poi agli accordi di pace del 2005 e all’indipendenza è stata solo l’ultimo dei conflitti che hanno coinvolto i sudsudanesi: in realtà si può parlare di quasi mezzo secolo di guerre, inframmezzate da brevi periodi di pace, spesso risultato di colpi di Stato e dittature militari. L’ultimo conflitto si è originato dalla ribellione del Sud (cristiano-animista e abitato da etnie africane) all’imposizione della sharia da parte del Nord arabo e islamico. Il Sud ha rifiutato la politica dei partiti islamisti del Nord e le sue
I PROTAGONISTI
imposizioni. Ma quella ribellione affondava le radici in un più antico desiderio di libertà e di emancipazione dalla condizione di schiavizzazione che il Nord aveva imposto fin dall’indipendenza del Paese, e anche prima, sotto il dominio britannico. Non solo. All’origine della nascita dei movimenti armati di liberazione c’era anche il problema della distribuzione iniqua delle ricchezze nazionali. Nel gennaio 2005 la guerra civile si è conclusa con la firma dell’accordo di pace (denominato Cpa, Comprehensive Peace Agreement) che ha incorporato i combattenti dell’Spla (Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese) e il suo braccio politico, l’Splm, all’interno di un governo di unità nazionale. Sulla base dell’accordo è stato programmato il referendum per l’autodeterminazione del Sud Sudan, che si è tenuto dal 9 al 15 gennaio 2011. I risultati ufficiali hanno confermato che il 98,83% dei circa quattro milioni di votanti al referendum si è espresso a favore dell’indipendenza dal Nord. Lo stesso giorno, nel corso di una cerimonia ufficiale insieme a Salva Kiir, Presidente dell’allora Regione semiautonoma del Sud Sudan, il Presidente sudanese Omar Hassan El Bashir, accettando pubblicamente il risultato del voto, aveva dato formalmente il via libera alla formazione del nuovo Stato, nato poi il 9 luglio.
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Nella capitale, Juba, gli è stato dedicato un mausoleo, all’interno del quale è stato sepolto. Oggi è considerato da tutti, in Sud Sudan, il padre della patria. John Garang è stato la guida indiscussa dell’Splm, l’Esercito di Liberazione Popolare del Sud Sudan, in tutto il periodo della guerra, dal 1983 al 2005. Di etnia dinka, nato in una famiglia povera nei pressi di Bor (regione dell’Alto Nilo, oggi Stato di Jonglei), aveva studiato Economia ed Economia agricola dell’Africa orientale. Entrato poi nell’esercito sudanese, nel 1983 era stato mandato a sedare una rivolta proprio nella sua Regione d’origine. Anziché attaccare i ribelli si unì a loro e in breve tempo divenne il capo carismatico della ribellione contro Khartoum. Garang tuttavia non era mai stato un assertore della secessione, ma il suo progetto politico era quello di arrivare a un Sudan federale nel quale il Sud avesse una forte autonomia. Fu lui a gestire la lunga trattativa che portò agli Accordi del 2005. Firmò la pace, ma non ne vide i frutti: il 30 luglio 2005 l’elicottero su cui viaggiava precipitò.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALL’UGANDA RIFUGIATI
6.441
SFOLLATI PRESENTI NELL’UGANDA 125.598 RIFUGIATI ACCOLTI NELL’UGANDA RIFUGIATI
135.801
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
81.804
SUDAN
19.383
RWANDA
12.590
Processo all’ex comandante
Si è aperto il primo processo a un ex comandante del movimento di ribelli, l’Lra, che operano nel Nord Uganda, Si tratta del colonnello Thomas Kwoyelo, che dovrà rispondere di 53 capi di imputazione, dal sequestro di persona ai crimini sessuali passando per le brutalità commesse nei confronti della popolazione civile negli ultimi due decenni. Kwoyelo, 39 anni, è stato catturato nel 2009 dall’esercito ugandese nella Repubblica democratica del Congo, in compagnia di altri signori della guerra dell’Lra. È il primo capo dei ribelli a comparire davanti alla Divisione internazionale del crimine, un tribunale speciale dipendente dall’Alta corte e creato nel 2009 dal Governo ugandese a seguito della ratifica della Convenzione di Ginevra.
Con il 68% dei consensi, ma con forti sospetti di irregolarità, il Presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, rimane al potere per la quarta volta e per altri cinque anni. Museveni è al potere dal 1986 e rientrerà presto nella schiera dei leader più longevi dell’Africa. Un voto, tuttavia, che secondo le opposizioni rimane macchiato dai brogli. Secondo le denunce di attivisti e osservatori, i partiti e i candidati ugandesi hanno utilizzato una quantità di denaro senza precedenti per influenzare l’esito elettorale. ActionAid lancia una vibrata denuncia: “Un così alto tasso di corruzione non ha precedenti in Uganda. Museveni è sotto pressione per un massiccio pagamento da 2,7milioni di dollari ai membri del parlamento, elargito poche settimane prima delle lezioni e al di fuori di ogni procedura legale. Il nuovo Governo deve immediatamente restituire il denaro utilizzato per lo sviluppo di scuole e ospedali. Il giusto utilizzo delle risorse pubbliche è fondamentale in un Paese povero come l’Uganda e la decisione di distribuire una grossa quantità di denaro ai parlamentari è solo un esempio dell’indifferenza e dell’egoismo degli attuali leader”. Museveni, inoltre, è diventato il primo Presidente di un Uganda petrolifero. La scoperta, infatti, di giacimenti per un valore di due miliardi e mezzo di barili, modifica profondamente le prospettive economiche del Paese africano. Gli analisti internazionali concordano nel definire ”positivo” l’impatto che le nuove scoperte potranno avere su una popolazione di 33milioni di persone, l’80% delle quali dipende dall’agricoltura e di cui un terzo vive con meno di un dollaro al giorno. Gli effetti del petrolio, tuttavia, non si sono fatti ancora sentire. Il tasso d’inflazione è salito dal 18,8% al 21,4% tra luglio e agosto 2011. L’aumento generale dei prezzi è legato alla continua svalutazione della moneta locale, lo scellino, e i rincari sul prezzo del petrolio, dei generi alimentari e dei beni di prima necessità. Una situazione esplosiva. Nell’aprile 2011, per protestare per il caro vita e la mancanza di protezioni sociali, centinaia di persone hanno aderito alle proposta di andare a lavorare a piedi, senza quindi usare il costoso servizio pubblico. La manifestazione è stata repressa brutalmente per volere del Governo. Una repressione che è costata la vita a 10 persone. Nel mese di agosto è stata repressa brutalmente una manifestazione, indetta dalle opposizioni, per ricordare le vittime del mese di aprile. Il Governo giustifica i rincari dando la
UGANDA
Generalità Nome completo:
Repubblica di Uganda
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Inglese, Swahili
Capitale:
Kampala
Popolazione:
25.800.000
Area:
241.040 Kmq
Religioni:
Cattolica, protestante, animista, musulmana
Moneta:
Scellino Ugandese
Principali esportazioni:
Quasi nulle, se si eccettua il caffè
PIL pro capite:
Us 1.501
colpa all’aumento del costo del petrolio, che l’Uganda deve importare attraverso il Kenya, e la siccità che ha colpito la Regione. Di rimando l’opposizione fa notare che il Governo si è, però, rifiutato di togliere le tasse sui prodotti petroliferi, innescando così un inflazione alta e l’aumento del costo di produzione e distribuzione dei prodotti locali. A ciò si deve aggiungere il fatto che l’Uganda è ancora alle prese con la repressione dei ribelli del Lord’s Resistence Army (Lra), duri a morire, che ha inasprito la sua campagna di terrore contro i civili nella Repubblica Centrafricana, nella Repubblica democratica del Congo e in Sud Sudan.
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Le ragioni, al di là di quelle economiche, dello scontro in Uganda non sono chiare. Certo, come sempre alla base c’è la volontà di controllare le risorse del Paese. E la scoperta del petrolio potrebbe diventare un ulteriore motivo di conflitto. Il petrolio sta suscitando grandi appetiti e gli attivisti ugandesi per la giustizia ambientale contestano gli accordi per la suddivisione della produzione, i cui dettagli non sono stati resi noti, firmati da Kampala con le aziende stranie-
re, le royalties corrisposte allo stato ugandese, secondo gli attivisti, sarebbero troppo basse e troppo compiacenti le normative di sicurezza e ambientali. In questo scenario, tutto dipenderà da come verranno utilizzati i proventi del petrolio. Se, cioè, costituiranno un vero motore per lo sviluppo, oppure andranno a soddisfare gli appetiti di pochi, innescando una spirale di proteste e violenze.
Per cosa si combatte
Il destino dell’Uganda è simile a quello di molti altri Paesi africani: indipendenza, colpi di stato, guerre e nuovamente pace e poi ancora disordini. Negli anni Cinquanta inizia il processo di democratizzazione che sfocia il 9 ottobre del 1962 nell’indipendenza. La Costituzione preve-
deva un sistema semifederale, con sufficiente spazio per le elite politiche tradizionali. Ma gli equilibri si rompono rapidamente. La convivenza tra il re del Buganda, primo Presidente del Paese, e il suo primo Ministro, Milton Obote, un “lango” del Nord, dura poco. Nel 1996 Obote
Quadro generale
I dati della tragedia
Per la prima volta esiste un sito online per avere un quadro attendibile delle violenze attribuite ai ribelli ugandesi dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra). Il portale è gestito da The Resolve, un’organizzazione non governativa in prima fila nello spingere il Congresso americano ad approvare una legge che prevede il sostegno politico ed economico di Washington ai paesi africani minacciati dall’Lra. All’indirizzo www.LRACrisiTracker.theResolve.org è possibile visionare mappe interattive che mostrano le località dove si sono verificati i più recenti agguati dei ribelli. Gli aggiornamenti sono pubblicati sulla base di dati delle Nazioni Unite, segnalazioni di Ong e resoconti giornalistici. L’area coperta dalle mappe coincide con quella dove opera l’Lra, estesa dalla Repubblica democratica del Congo al Sud Sudan e alla Repubblica Centrafricana. Stando ai dati del sito, dal dicembre 2009 i ribelli ugandesi hanno ucciso 944 civili ed effettuato 1.723 rapimenti.
Yoweri Museveni (Ntungamo, 1944))
I bambini sono ancora vittime
Resta drammatica la situazione umanitaria in Uganda. Secondo fonti dell’Onu, oltre 30.000 minori sono stati strappati dalle loro famiglie ed arruolati a forza o ridotti in schiavitù dall’inizio della guerra contro la Lord’s Resistance Army. Oltre 40.000 sarebbero invece i pendolari nella notte, che approfittano dell’oscurità per allontanarsi dalle zone di conflitto, per evitare anche di essere sequestrati. I conflitti hanno inoltre provocato circa 1milione di profughi con l’insorgere di situazioni di emergenza sanitaria. Lo conferma l’Unicef: malaria, infezioni respiratorie e diarrea rimangono la principale causa di morte per bambini con meno di 5 anni. 20mila bambini all’anno continuano a contrarre l’Hiv dalle proprie madri. Quasi la metà dei due milioni di orfani dell’Uganda sono stati causati dall’Aids. prende d’assalto il palazzo presidenziale. Inizia così una lunga serie di colpi di stato, di atrocità e di conflitti etnici. Idi Amin Dada, capo di stato maggiore dell’esercito di Obote, consolida la sua posizione, che poi usa contro lo stesso Presidente. Nel 1971 prende il potere e governa con mano pesante e con un utilizzo spietato dell’esercito. Il dittatore Amin teme il predominio degli acholi e dei lango nell’esercito e così da vita a una delle più sanguinarie persecuzioni con uccisioni di massa. Nazionalizza le attività commerciali britanniche ed espelle la popolazione asiatica. Cresce, contemporaneamente, la tensione tra Uganda e Tanzania, rea di aver ospitato Obote e alla fine degli anni ’70 inizia la guerra ugandese-tanzaniana. Nel 1979 i tanzaniani, anche con il sostegno dell’Esercito di liberazione nazionale dell’Uganda (Unla), prendono la capitale Kampala e nel 1980 torna al potere Obote. Di nuovo vendette e atrocità. Yo-
I PROTAGONISTI
weri Museveni, attuale Presidente dell’Uganda, fonda l’Esercito di Resistenza Nazionale (Nra) e inizia la guerriglia. Obote risponde con uccisioni di massa. Tre anni di scontri che sfociano nella presa del potere da parte di Museveni. È del 1995 l’approvazione di una nuova Costituzione che rinvia al 2001 il passaggio al multipartitismo, avvenuto grazie a una consultazione referendaria nel 2005. Museveni viene eletto nel 1996, rieletto nel 2001. Nonostante il potere sia saldo nelle sue mani, il Presidente ugandese deve far fronte a vent’anni di guerra civile combattuta contro l’Lra guidato dalla follia di Joseph Kony, che ha come obiettivo quello di prendere il potere e governare secondo i dieci comandamenti. Musevani interviene nella guerra della Repubblica democratica del Congo, nel 1996, prima a fianco di Laurent Desirè kabila, in chiave anti Mobutu, e poi dal 1998 al 2003 appoggiando i gruppi ribelli del Paese. Grazie a una riforma costituzionale del 2005, Museveni vieni rieletto per la terza volta nel 2006, anno in cui avvia i negoziati di pace con l’Lra, e poi, per la quarta volta, nel 2011.
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Originario di una famiglia di allevatori del regno di Ankole appartenente all’etnia Hima, Yower Museveni frequenta la Mbarara High School e Ntare School. Nel 1970 si laurea in Scienze politiche, giuridiche ed economiche presso l’Università di Dar es Salaam (Tanzania). Lo stesso anno entra nell’intelligence del governo di Milton Obote. L’avvento della dittatura di Idi Amin lo costringe a trascorrere in esilio in Tanzania gli anni dal 1971 al 1980. Nel 1979 diviene ministro della Difesa del Governo di transizione, poi combatte contro il Governo di Obote e nel 1986 conquista la capitale Kampala e diventa presidente. Museveni inizia un processo di privatizzazioni delle aziende statali e di riduzione della spesa pubblica. Durante il suo mandato rallenta la diffusione dell’Aids, mentre negli anni Ottanta l’Uganda aveva uno dei più elevati tassi di infezione. Nel maggio del 1996 si svolgono le prime elezioni democratiche dell’era Musevani, vince con il 75,5% dei voti. Cosa che si ripete nelle elezioni del 2001, 60% delle preferenze. Nel novembre del 2005 annuncia l’intenzione di candidarsi per le presidenziali del 2006, dopo una modifica costituzionale per il terzo mandato. Il 23 febbraio 2006 ottiene il 59,28% dei voti. Nel 2011 viene confermato al potere per la quarta volta.
Inoltre Etiopia “Si rievocano vecchi nemici per far dimenticare i problemi interni del Paese”.
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La carestia che flagella la sua popolazione delle Regioni meridionali, nell’Ogaden somalo; la dura opposizione – politica e armata – delle popolazioni di etnia oromo; l’arretratezza di ampie aree del Paese che lo confinano al 171° posto su 182 nella classifica sull’indice di sviluppo umano: i problemi che assillano il primo Ministro etiopico Meles Zenawi non sono pochi né da poco. Così, quando le questioni interne rischiano di far alzare troppo la tensione politica e dare troppo spazio alle opposizioni politiche, lui ricorre al vecchio sistema: rievoca il vecchio «nemico eritreo» e comincia l’ennesima “guerre delle parole” che ormai i due Paesi combattono da un decennio, da quando si è chiusa con il trattato di Algeri la guerra vera, combattuta tra il 1998 e il 2000 con un bilancio stimato di 80-100mila morti. Anche nel 2011 il copione si è ripetuto. All’inizio di aprile, in un intervento davanti al Parlamento, Zenawi ha dichiarato: «Noi dobbiamo aiutare il popolo eritreo a rovesciare il regime dittatoriale», ossia il Governo guidato fin dall’indipendenza del Paese (1993) da Isaias Afewerki. Il primo Ministro etiopico ha rovesciato sul vicino eritreo la responsabilità di quasi tutti i guai del suo Paese: l’ha accusato di voler destabilizzare l’Etiopia armando la mano dei terroristi che negli ultimi anni hanno più volte colpito con attentati la capitale Addis Abeba; di sostenere i gruppi ribelli del Fronte di Liberazione Oromo (Olf), quelli del Fronte Nazionale di Liberazione dell’Ogaden (Onlf), e anche i movimenti degli estremisti islamici somali, notoriamente antietiopici. La risposta eritrea è arrivata qualche settimaUNHCR/N.Behring
UNHCR/P. Wiggers
na dopo, nell’ambito di un incontro dell’Unione Africana (Ua). L’ambasciatore eritreo presso l’Ua ha respinto le minacce di Meles Zenawi, e ha colto l’occasione per denunciare ancora una volta l’occupazione illegale da parte dell’Etiopia della città di Badme, la città contesa che fu all’origine della disputa sui confini e della guerra tra i due Paesi. Città che il successivo arbitrato internazionale aveva in effetti assegnato all’Eritrea, ma che l’Etiopia non ha smesso di occupare illegalmente. D’altro canto il “nemico esterno” fa bene a entrambi i Governi, sia etiopico che eritreo: all’occorrenza la “guerra delle parole” distrae le rispettive opinioni pubbliche dalle spinose questioni interne e ricompatta la coesione nazionale di fronte all’odiato nemico-ex amico. Serve al Presidente eritreo Afewerki per far dimenticare alla popolazione la privazione della libertà e la fame che vaste fasce di popolazione soffrono; serve al primo Ministro etiopico Zenawi per mantenere il controllo poliziesco sull’opposizione politica, la censura sulla libertà di stampa, la scarsa libertà di accesso a internet. Il Paese, tuttavia, non risolve i propri problemi di arretratezza. Anzi, i forti aumenti dei prezzi dei generi alimentari hanno reso più difficile la situazione dei più poveri e il massiccio ricorso all’affitto di terreni agricoli a società e investitori stranieri non aiuta certo gli etiopi a superare il problema della fame. Infine, l’alta inflazione, intorno al 25%, riduce il potere d’acquisto. Una realtà di povertà che è diventata drammatica per la gente del Sud, nelle Regioni dell’Ogaden somalo, colpite da siccità e carestia. Ne sono coinvolti circa 4,8milioni di etiopi. Nonostante questa folla di problemi, Zenawi non rinuncia alle grandi opere: dopo la diga Gibe III, contestatissima dentro e fuori dall’Etiopia per l’impatto sull’ambiente e sulle popolazioni della valle dell’Omo, a fine marzo 2011 Zenawi ha annunciato la costruzione della “Diga del Millennio” sul Nilo Azzurro, affidata anche questa come la Gibe III all’impresa italiana Salini.
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UNHCR/J. Björgvinsson
Raffaele Crocco
La bussola del Pianeta punta il Sud America Gli analisti fissano una data: il 2020, poco meno di nove anni da oggi. Per quell’epoca, il Brasile estrarrà e venderà più petrolio dell’Iran, attualmente terzo produttore mondiale. La Colombia, dal canto suo, supererà la Libia, mentre già ora ad avere le più importanti riserve petrolifere del Pianeta non è, come si è sempre pensato, l’Arabia Saudita, con 264miliardi di barili, ma il Venezuela, che arriva a 296miliardi di barili grazie alla scoperta di nuovi giacimenti nella Regione del fiume Orinoco. Traducendo questi dati, si giunge ad una conclusione: l’asse energetico mondiale – se resterà legato agli idrocarburi ed è la cosa più probabile nei prossimi decenni – si sposterà. Non saranno più i Paesi Arabi il polo d’attrazione, ma il Sud America. E la cosa diventa intrigante. Questo cambiamento d’orizzonte non è frutto di un miracolo. Più banalmente, le nuove tecnologie consentono di sfruttare in modo economicamente competitivo riserve di petrolio e gas naturale che sino a pochi anni fa sembravano irraggiungibili o non convenienti. Ora ci si può arrivare e questo ha cambiato le cose. Una ana-
lista texana, Amy Myers Jaffe, ha scritto sul tema un interessante articolo, pubblicato dalla rivista Foreign Policy. Sostiene che questa rivoluzione energetica comporterà una secca perdita di centralità strategica da parte del Medio Oriente. I Governi di quell’area perderanno il potere di decidere il prezzo del greggio. Questo li renderà deboli sul piano internazionale e su quello interno: non potranno più contare sugli aumenti del barile per placare l’instabilità sociale dovuta alla crescita demografica. Il ragionamento è interessante e decisamente attuale. Di fatto, in questo scenario al centro degli interessi per l’energia – quindi con grande potere di attrazione e di attenzione – ci sarà il Sud America. E il Brasile – chi lo avrebbe immaginato solo 15 anni fa? – rafforzerà la propria immagine di Paese emergente. Tanto emergente da avere in costruzione alcuni sottomarini nucleari per difendere le proprie riserve petrolifere offshore. In pochi anni, il volto del Sud America è cambiato radicalmente. Messe faticosamente alle spalle le dittature, la società latinoamericana ha iniziato a costruire un futuro, anche se contraddittorio. La spinta di Hugo Chavez dal Venezuela – arrivato al governo in modo contraddittorio, ma con l’appoggio popolare e capace di scavalcare le oligarchie storiche che bloccavano il Paese – è stata fondamentale per far capire ai Sud americani che il cambiamento era possibile e il successivo affermarsi – Paese dopo Paese – degli schieramenti di sinistra o di centrosinistra ha ridato slancio a società ed economia. Restano le situazioni drammatiche, rappresentate da una cattiva distribuzione della ricchezza, dai diritti delle popolazioni indigene non rispettati, dalle oligarchie ancora padrone di intere Regioni e dal narcotraffico che comanda, ma il continente si è mosso, veloce ed efficace. Con qualche frenata, ovvio. La crisi internazionale iniziata nel 2008 ha avuto – come ovunque – effetti pesanti. L’inflazione media è salita al 7,8%, alta davvero, facendo lievitare i prezzi, senza che i salari minimi aumentassero di conseguenza. La crescita dei prezzi al consumo ha costretto le banche centrali ad intervenire per rafforzare le monete locali, frenando inevitabilmente le esportazioni, soprattutto di materie prime, la vera ricchezza di tutti i Paesi del continente. La locomotiva Sud americana, però, tira. Ed è una meraviglia. Con numeri impressionanti, su cui raramente si riflette. Ad esempio: l’America del Sud ha una popolazione di 360milioni di persone, con un Pil di 970.000milioni di dollari,
UNHCR/P. Smith
mie e delle coscienze. Dagli anni ’50 alle soglie dei ‘90 gli Usa hanno sostenuto dittature e giunte militari. Ufficialmente lo hanno fatto per “contrastare il comunismo” dilagante nella grande partita contro la vecchie e ormai sepolta Urss. In realtà, quei governi militari erano utili per sostenere oligarchie compiacenti e ottenere tariffe doganali favorevoli all’export e buoni prezzi sulle materie prime. Il faticoso e lento ritorno alle democrazie, ha reso i Paesi del Sud America nuovamente sovrani e liberi di scegliere. Così, sono saltate le vecchie alleanze economiche, le antiche sudditanze e ci sono stati accordi prima non immaginabili. Colombia e Messico sono però lì a dimostrare che ancora molto c’è da fare. Bolivia e Ecuador fanno ancora fatica a trovare soluzioni ai problemi di una popolazione andina dimenticata per secoli e, quindi, messa ai margini. Il Centro America appare ancora confuso e incapace di trovare vie economiche e sociali che consolidino democrazie ancora troppo fragili e con troppo sangue alle spalle. Ma il Sud America continua a camminare. Meglio di prima, più saldo. E il mondo prima o poi se ne accorgerà.
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in crescita. Il continente è una delle principali riserve d’acqua dolce e di biodiversità del pianeta. La conseguenza è una produzione di alimenti ed energia che fa gola a molti: non è un caso che la Cina stia da tempo tentando di trasformarsi nel principale “socio d’affari” dei Paesi del continente, sostituendo gli Stati Uniti. È l’acqua dolce la vera ricchezza, al di là di quanto raccontato prima sulle riserve di idrocarburi. Il Sud America ha la terza falda acquifera più grande del mondo, quella di Guaranì, divisa tra Brasile, Argentina e Uruguay. Molti scienziati sostengano finisca addirittura in Patagonia. Tradotto in cifre, significa che l’America del Sud, con il sei per cento della popolazione mondiale ha il 26% delle risorse idriche planetarie. Un “disavanzo” che rende il continente appetibile e invidiato da chi, invece, ha bisogno di acqua, come l’Africa (13% della popolazione mondiale, 11% di acqua) o l’Europa (13% di popolazione, 8% di acqua). L’acqua sarà un altro punto di forza o, forse, un altro punto di contrasto internazionale da affrontare in futuro. Teoricamente, però, il mercato interno è enorme e il potenziale economico complessivo è tale da far diventare il Sud America la quinta potenza mondiale. E – piaccia o meno – la consapevolezza di questa potenzialità sta crescendo nella classe dirigente e nella popolazione. Lo spiega bene ciò che accade al Brasile. Uscito da anni di dittature militari o di “democrazie controllate”, dal tempo della presidenza Lula – fine anni ‘90 – ad oggi si è trasformato in una potenza regionale, con cui tutti fanno i conti. Per questa ragione, è tra i fondatori del Bric, l’organizzazione creata con Russia, India e Cina per essere alternativa al G8. Per chi si occupa di analisi geopolitica, la presenza del Brasile in questo “patto a cinque” per contrastare le scelte economiche del G8 è il dato più significativo del decennio. Marca la distanza che il Paese nello specifico, ma tutto il continente in generale, ha preso dagli Stati Uniti, per decenni veri “padroni” delle econo-
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA COLOMBIA RIFUGIATI
395.577
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI VENEZUELA
201.467
EQUADOR
120.403
STATI UNITI D’AMERICA
25.607
SFOLLATI PRESENTI NELLA COLOMBIA 3.672.054 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA COLOMBIA RIFUGIATI
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Diritti calpestati
In Colombia la situazione è difficile anche sul piano sindacale. I diritti dei lavoratori sono frequentemente calpestati e in questo collaborano spesso anche società europee. Lo dimostrano i fatti dell’estate 2011, con lo sciopero a Puerto Gaitán, nel dipartimento del Meta, contro la multinazionale spagnola Cepsa, accusata di non rispettare i diritti dei lavoratori. Centinaia di affiliati, attivisti e famigliari della Uso (Unione Sindacale Operaia, settore petrolchimico) hanno subito minacce di morte, sempre in coincidenza con le mobilitazioni. Purtroppo, in Colombia minacce di questo genere hanno fondamento, fanno paura. Il Paese ha il record mondiale di sindacalisti uccisi ogni anno. Solo nei primi sei mesi del 2011 ne sono stati assassinati 20; secondo la Cut, la confederazione sindacale colombiana, “in Colombia si commette il 60% degli omicidi di sindacalisti in tutto il mondo”. Per il sindacato colombiano, il terrorismo di Stato, dal 1986 è responsabile di un bilancio terrificante: “2778 sindacalisti assassinati, 196 sparizioni forzate ed oltre 1196 fatti di violenza, che costituiscono un genocidio contro il movimento sindacale colombiano”.
Se sul fronte militare lo scontro resta durissimo – con quasi 5mila morti l’anno –, sul piano politico per la Colombia è iniziata una nuova stagione. Nel maggio del 2011, infatti, per la prima volta in quasi settant’anni di guerra interna, un Presidente ha riconosciuto l’esistenza di un conflitto armato. La dichiarazione di Juan Manuel Santos è stata una vera e propria rivoluzione, perché riconosce uno status diverso sia alle vittime della guerra – sino ad oggi considerate vittime della criminalità comune e quindi senza possibilità di riparazione economica da parte dello Stato – sia ai guerriglieri, che cessano di essere – come è stato sino ad oggi – semplici terroristi. La presa di posizione di Santos ha scosso l’oligarchia colombiana, assolutamente contraria a questo tipo di riconoscimento. Sul piano delle trattative, però, poco o nulla si è mosso. Il Presidente ha continuato la sua campagna militare contro le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) e contro l’Eln (Esercito di Liberazione Nazionale). Nel dicembre 2010 due leader dell’Eln sono stati catturati. Uno di loro, Nilson Albín Terán Ferreira, è stato preso in Venezuela, in un’azione congiunta con l’esercito venezuelano: segno dei buoni rapporti fra Santos e Chávez, Presidente a Caracas. Nel 2011, il governo di Bogotá ha anche respinto al mittente le proposte di tregua avanzate da Farc e Eln. Così sono continuate le azioni di sabotaggio alle infrastrutture, i rapimenti di cittadini stranieri. E sono continuati gli scontri anche tra le due formazioni rivoluzionarie, da sempre in contrasto fra loro. I due gruppi sono molto presenti sul territorio colombiano. Le Farc controllano almeno 250 municipi e gli scontri con l’esercito sono costati, nell’ultimo anno, 700 morti e 1.700 feriti fra i militari e almeno 3.500 morti fra i ribelli. L’Eln è in Arauca, Chocó, Risaralda e Antioquia, ma solo in Cauca e nel Nariño ci sono scontri con l’esercito regolare. Non ci sono combattimenti
COLOMBIA
Generalità Nome completo:
Repubblica della Colombia
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Spagnolo
Capitale:
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Popolazione:
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Area:
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Religioni:
Cattolica (92%), protestante, animista ed altro (8%).
Moneta:
Peso Colombiano
Principali esportazioni:
Cocaina, caffè, carbone, smeraldi
PIL pro capite:
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con le Farc, per effetto di un cessate il fuoco deciso lo scorso anno, che ha portato anche ad alcune azioni congiunte. Ma la tregua non ha retto in Arauca, regione di frontiera, piena di coltivazioni di coca. Qui la battaglia è ricominciata, lasciando sul campo molti morti fra i civili. Farc e Eln si combattano soprattutto per avere pieno controllo del territorio, obiettivo che condividono con i narcotrafficanti, altra piaga colombiana sempre presente ed in grado di condizionare la vita politica del Paese.
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È sempre la cattiva distribuzione della ricchezza la base della guerra infinita in Colombia. Il denaro, le risorse sono legate all’agricoltura e da lì arriva la gestione del potere. Non a caso, l’oligarchia del Paese è sostanzialmente agraria. Il 4% dei proprietari controllano il 67% dei terreni produttivi. In Colombia, poi, il reddito è distribuito in modo drammaticamente iniquo. Il Prodotto Interno Lordo è uno dei più alti del Sud America, con quasi 330.000milioni di dollari, ma il 49% dei colombiani vive sotto la soglia di povertà. Oggi la guerra civile viene combattuta soprat-
tutto per il controllo o la distruzione delle vaste aree trasformate per la coltivazione della coca, vera ricchezza nazionale. Secondo le stime del Governo, i gruppi della guerriglia potevano contare sino a qualche tempo fa su 750milioni di introiti annui dal controllo del narcotraffico, cifra superata – sempre per le stesse ragioni – solo dagli incassi realizzati dei cartelli della droga di Medellín e di Cali. Proprio il narcotraffico è l’altra grande ragione di conflitto interno, con intere zone del Paese contese fra Governo, Farc, Eln e grandi organizzazioni di trafficanti.
Per cosa si combatte
Per ora nessuna mediazione sembra funzionare e le battaglie del 2011, come gli scontri dell’anno precedente, sono lì a dimostrarlo. Sessant’anni di guerra interna, combattuta da narcotrafficanti, formazioni guerrigliere e esercito, stanno facendo della Colombia una terra dal destino incerto. In questi decenni ci sono stati presidenti conservatori e riformisti. Sono nati ben 36 diversi gruppi guerriglieri, fra cui le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) comandante per quasi 6 decenni da Manuel Marulanda, detto Tirofijo, morto nel 2007, poi l’Eln, cioè l’Esercito di Liberazione Nazionale e l’M-19, per citare le formazioni più famose. Si sono formati gruppi paramilitari – come il Mas (Morte ai Sequestratori) – pagati dall’oligarchia agraria. Possiamo collocare una data di inizio più recente del conflitto: il 6 novembre 1985. Quel giorno, 35 guerriglieri dell’M-19 occuparono il palazzo di Giustizia di Bogotà. L’intervento dell’esercito provocò un massacro: oltre ai guerriglieri, morirono altre 53 persone, tra magistrati e civili. Di fatto, in Colombia il Governo centrale perde quel giorno il controllo del territorio. E se da un lato è la guerriglia ad assumerlo, dall’altro sono i narcotrafficanti, proprio a partire dalla metà degli anni ‘80, a proporsi come alternativa allo Stato. La guerra interna diventò così a tre – Stato, Guerriglia, Narcotraffico – con migliaia di morti. Vennero censiti
almeno 140 gruppi paramilitari attivi sul territorio, quasi tutti finanziati dai narcotrafficanti. Il Presidente liberale César Gaviria, nel giugno del 1991 diede il via a Caracas a una serie di incontri con i rappresentanti della guerriglia, con l’obiettivo di raggiungere la pace. Il processo di pace non decollò, nonostante la nuova e più democratica Costituzione. Il Governo iniziò allora una “guerra totale” contro organizzazioni civili, gruppi ribelli e narcotraffico. Pablo Escobar Gaviria – capo del cartello di Medellín, potente organizzazione di narcotrafficanti – evaso intorno alla metà del 1992, ricominciò le azioni armate. In tutta risposta apparì, nel ‘93, il Pepes (Persecutori di Pablo Escobar), che uccise trenta esponenti del cartello in due mesi e distrusse varie proprietà di Escobar, ucciso a sua volta il 2 dicembre dalla polizia a Medellín. Farc e Eln iniziarono una serie di attacchi a centrali elettriche, impianti industriali, caserme, avviando la strategia dei rapimenti. Il Governo tentò da parte sua un attacco a fondo al narcotraffico, pur nelle contraddizioni che nascevano dalla corruzione di parte della politica. Fu un periodo durissimo. Nel 1995, vennero aperti 600 procedimenti contro le forze di sicurezza, in relazione a 1.338 casi di assassinio, tortura o sparizione. All’inizio del 1997, si stima che almeno un milione di colombiani fossero stati espulsi dalle loro abitazioni nelle zone di conflitto. Nell’ago-
Quadro generale
Pericolo mine
Inevitabile tornare a parlare di mine, riferendosi al conflitto colombiano. Anche se è poco noto, la Colombia è il Paese al mondo con il più alto numero di vittime, causate dagli ordigni anti uomo. Dal ‘90 a oggi i morti fra i civili sono stati almeno 1.150, fra loro moltissimi bambini. Quasi un terzo del territorio è minato: circa 659 municipalità. In molte zone, le mine sono state collocate dalle Farc per proteggere i campi di coca. In altre zone è stato l’Eln a minare il terreno, come azione terroristica contro l’esercito. Organizzato in piccoli nuclei, collegati da una rete di appoggio, l’Eln ha il 60% delle proprie azioni di guerriglia antigovernativa proprio nel preparare campi minati. Una strategia pericolosa per tutti coloro che vivono nelle regioni frequentate dalla guerriglia.
UNHCR/P. Smit
(Bogotà, 3 febbraio 1929 Santander, 15 febbraio 1966) Guerrigliero, sacerdote, rivoluzionario, precursore della teologia della Liberazione: Camilo Torres Restrepo inizia l’attività da giovane, fondando un giornale studentesco di denuncia mentre frequenta la facoltà di Diritto. In quegli anni tenta anche di creare un sindacato dei lustrascarpe, senza riuscirci. Diventa sacerdote nel 1954 e professore di sociologia all’Università Nazionale di Colombia. Inizia lì a promuovere una teologia della rivoluzione per salvare diseredati e oppressi. Idee che gli fanno perdere la cattedra. Nel 1965 entra in contatto clandestinamente con il rivoluzionario Fabio Vasquez Castano, leader dell’Eln, movimento fondato appena l’anno precedente. Senza rinunciare al sacerdozio, ma lasciando la diocesi dove lavora, fonda il settimanale Fronte Unito. Nel novembre di quello stesso 1965 decide di unirsi all’Eln. Va in montagna e prepara il Proclama per il Popolo Colombiano, in cui invita alla sollevazione. Muore nel febbraio del 1966, durante il primo scontro armato a cui partecipa. Restano molti scritti e una frase, diventata simbolo per molti latino americani. “È dovere di tutti i cristiani essere rivoluzionari. Ed è dovere di tutti i rivoluzionari fare la rivoluzione”.
Stuprate sei donne ogni ora
489.687 donne colombiane hanno ufficialmente subito violenza sessuale dal 2001 al 2009: una media di 6 donne ogni ora e più dell’80% degli stupri è imputabile all’Esercito o ai paramilitari di Stato. È l’agghiacciante denuncia della Ong internazionale Oxfam, resa pubblica nell’estate del 2011. I dati per altro – dicono gli esperti – sono sottostimati, perché la paura convince molte vittime a tacere e, quindi, la quasi totalità dei criminali resta impunita. D’altro canto, è alto il numero delle donne assassinate dopo aver sporto denuncia. Le cifre, dicono i rappresentanti della Ong, dimostrano che vi è un uso sistematico della violenza sessuale come pratica di terrorismo di Stato, usata per far fuggire intere popolazioni da aree ritenute interessanti dal punto di vista economico. A dimostrarlo, fra l’altro, è la testimonianza di Carmen Rincón, ex paramilitare. Ha raccontato che il capo della sua formazione, Hernán Giraldo alias ‘El Patrón’, ha violentato almeno 50 bambine al di sotto dei 15 anni, portate alle feste nelle quali Giraldo selezionava le sue vittime. Quelle che non gli piacevano venivano cedute ai sottoposti e alla truppa. sto del 2000 il presidente Pastrana lanciò, in accordo con gli Stati Uniti, il Piano Colombia. Vennero addestrati tre battaglioni antidroga, con l’obiettivo di distruggere 60mila ettari di coltivazioni di coca e tagliare la forza economica di guerriglia e narcotraffico. Le Farc nel febbraio 2002 sequestrarono alcuni esponenti politici, nel tentativo di influenzare le elezioni e ottenere uno scambio di prigionieri. Fra loro c’era la candidata alla presidenza Ingrid Betancourt, che sarà rilasciata solo dopo sei anni, nel luglio del 2008. Si moltiplicarono anche gli attentati. Il 4 maggio 2002 morirono 117 persone, tra cui almeno 40 bambini, per i colpi di mortaio sparati contro la chiesa di Bojaya. Nello stesso anno, salì alla Presidenza l’indipendente Uribe Velez, che chiese l’intervento diretto degli Usa nella lotta alla guerriglia e al narcotraffico. Il mese dopo, un contingente militare statunitense arrivò nella provincia di Arauca: fu il primo coinvolgimento diretto nella guerra civile colombiana. Nell’ottobre 2003 Luis Eduardo Garzón, candidato del Polo Democratico Indipendente (Idp),
I PROTAGONISTI
vinse le elezioni per il sindaco di Bogotà, la carica politica più importante del Paese dopo la Presidenza della Repubblica. Fu una sorpresa: per la prima volta un partito di sinistra si affermava. Passi avanti che non fermarono la guerriglia: divennero 1.500, in quegli anni, gli ostaggi tenuti prigionieri. Dal 2006 si tentò l’ennesimo processo di pace. Almeno 20mila paramilitari deposero le armi, in cambio di un’amnistia, del reintegro sociale e di uno stipendio per 24 mesi. Parte della guerriglia, però, continuava la lotta armata, con sequestri e azioni contro obiettivi militari e governativi. Nel 2010 la guerra – con l’arrivo al ministero della Difesa prima e alla Presidenza poi, di Juan Manuel Santos – diventa anzi più dura e le possibilità di trattativa si allontanano. Santos, appena eletto, annuncia un Terza Via di sviluppo per il Paese, detta di Accordo di Unità Nazionale, ancorata al centrosinistra. Il dialogo con Farc e Eln, però, non si è avviato. A funzionare sembra essere invece la pace siglata da Santos e Hugo Chávez, presidente del Venezuela, per mettere fine ad anni di crisi alla frontiera. Una pace che tiene. La collaborazione nella cattura del leader dell’Eln, Ferreira, sembra confermarlo.
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Camilo Torres Restrepo
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DA HAITI RIFUGIATI
25.892
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI STATI UNITI D’AMERICA
18.487
Jacmel
È la città che meglio ha reagito al sisma e al suo post. A Sud dell’isola, Jacmel è considerata il centro culturale del Paese. Famosa in tutti i caraibi la sua scuola di musica che oltre ad essere uno dei pochissimi fiori all’occhiello del Paese riesce anche ad avere uno scopo educativo, evitando che i giovani si perdano per le strade della criminalità che è facile attrattiva laddove abbonda la povertà. Turisticamente sfruttabile Jacmel è considerata anche la via principale per una eventuale rinascita turistica del Paese. Contornata da meravigliose e tranquille spiagge bianche, l’area è bagnata da un mare stupendo. In passato la spiaggia principale della città ha ospitato il più grande festival reggae dei caraibi a cui hanno partecipato cantanti di fama internazionale. In quell’occasione non è stato battuto, ma solo per poco, il record mondiale di presenza su una spiaggia di tamburi che suonavano insieme.
Alessandro Grandi
La tanto sperata ricostruzione che gli haitiani si attendevano dalla comunità internazionale dopo le promesse fatte in seguito al terribile terremoto che ha colpito l’isola nel gennaio 2010, non si è ancora vista. La popolazione non ha ottenuto grandi benefici dall’enorme quantità di denaro che è piovuta nel Paese e ancora oggi le polemiche sul dopo-terremoto non si placano. Nella capitale, ma anche nel resto del Paese, manca praticamente tutto e in parte sono ancora presenti le macerie delle case andate distrutte durante il sisma. Così come sono ben visibili ancora oggi gli accampamenti degli sfollati, cresciuti come funghi nelle piazze di Port au Prince, che sono divenuti una spina nel fianco per il povero sindaco della città, incapace di gestire una situazione a dire la verità complicatissima. Non è andata certo meglio al neo Presidente Michel Martelly, conosciuto come Sweet Michy, popolare cantante di musica haitiana che si è aggiudicato la poltrona presidenziale a maggio. Da lui finora grandi promesse e poco altro per un Paese che ha necessità estrema di tutto. Nonostante i dollari Usa arrivati, però, ad Haiti non è cambiato nulla da un anno a questa parte. Solo le piccole e medie associazioni umanitarie, quelle che gestiscono direttamente i flussi di denaro che gli giungono, già presenti sull’isola o arrivate dopo il sisma, sono riuscite a mettere in piedi una buona parte dei progetti che si erano prefissate. Ma è ancora troppo poco e il tempo passa velocemente. Non solo. Nel 2010 il Paese è stato flagellato da una forte siccità con conseguente mancanza di produzione agricola che ha mandato al collasso il sistema di alcune aree del Paese, e contribuito ad un accentramento della forza lavoro nelle città, soprattutto nella capitale Port au Prince. Ma la vera sorpresa del 2011 sono stati i vari dispacci diffusi da Wikileaks che confermano, se ancora ce ne fosse stato bisogno, l’assoluta mancanza di volontà delle grandi potenze straniere di stabilizzare la situazione politico sociale nell’isola. Cables passati sottotraccia e che sono stati ignorati dalla stampa internazionale. Ma cables importanti che diventano tasselli determinanti nella strana storia dell’esilio dell’ex Pre-
HAITI
Generalità Nome completo:
Repubblica di Haiti
Bandiera
99
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Francese
Capitale:
Port-au-Prince
Popolazione:
8.528.000
Area:
27.750 Kmq
Religioni:
Cattolica, chiese protestanti, voodoo
Moneta:
Gourde Haitiano
Principali esportazioni:
Nessuna, solo economia di sussistenza
PIL pro capite:
Us 1.791
sidente Jean Bertrande Aristide, e che in parte potrebbero anche riguardare il Vaticano, che non ha mai considerato con rispetto l’ex prete salesiano prestato alla politica e considerato uno dei Presidenti più amati dalla popolazione. E intanto dal 2004 è sempre presente la Minustah, la missione di Peacekeeping dell’Onu che avrebbe dovuto garantire sicurezza al Paese. Anch’essa è stata interessata dai dispacci di Wikileaks che hanno svelato il pensiero dell’ambasciatrice Usa Janet Sanderson: “La missione Minustah è uno strumento indispensabile per realizzare i fondamentali interessi politici degli Stati Uniti in Haiti”.
combatte anche per un tozzo di pane. La produzione industriale haitiana è irrisoria e i campi ormai sono stati abbandonati dalla stragrande maggioranza dei contadini che hanno preferito l’emancipazione nelle città inseguendo a modo loro un piccolo american dream. Come cornice alla guerra fra poveri che si scatena per un tozzo di pane c’è la forza multinazionale dell’Onu, la Minustah, che ha il compito di stabilizzare l’area. Lavoro sporco e difficile se si considera che dal primo giorno in cui i caschi blu sono arrivati a Haiti la popolazione locale li ha snobbati. Molti, moltissimi, anzi troppi i casi di abusi che hanno visto come protagonisti negativi i soldati Onu.
Per cosa si combatte
Gravidanze a rischio
Sono decine le donne che hanno perso la vita durante il periodo della gravidanza. Rapporti di Human Right Watch hanno evidenziato infatti, la quasi totale impossibilità da parte delle donne di raggiungere adeguati servizi sanitari. Hrw è stata esplicita nei suoi rapporti: in Haiti mancano anche le informazioni riguardo allo sfruttamento da parte della popolazione (soprattutto le donne) dell’assistenza sanitaria gratuita. Addirittura oggi per gli haitiani è diventato uno scoglio insormontabile anche il pagamento di un biglietto per raggiungere una struttura ospedaliera. Per queste ragioni molte donne sono costrette a partorire per strada, nelle tendopoli e alcune anche nel fango. Innumerevoli le donne che hanno abbandonato l’attività agricola per cercare di partorire in strutture ospedaliere presenti nelle città.
100
Fortunatamente oggi ad Haiti non si combatte più per le strade come qualche anno fa. Non è tornata la calma e le violenze sono comunque all’ordine del giorno, ma le bande criminali che imperversavano nel Paese sembrano quasi sparite nel nulla. Oggi la guerra che si combatte ad Haiti è un’altra: quella per la sopravvivenza. Il sisma del gennaio 2010 ha affossato un Paese già dilaniato da una povertà estrema. La politica haitiana non è mai stata in grado di dare soluzioni ai problemi della gente, perché sempre assoggettata ai poteri forti e agli interessi economici delle grandi potenze internazionali. E intanto si muore di fame, talvolta di sete e spessissimo per banali patologie come la diarrea. Ma si
Alessandro Grandi
Colonia spagnola, poi francese, indipendente dal 1804 grazie alla prima rivolta di schiavi conclusa con un successo, Haiti ha una storia complessa alle spalle, caratterizzata da continue dittature militari, che sfociano nell’occupazione militare statunitense fra il 1915 e il 1934. In quel periodo, la resistenza semipacifica haitiana trova ispirazione nella propria cultura e nella religione voodoo. Protagonista è la popolazione nera, che ha il proprio leader nel popolare agitatore dottor François ‘Papa Doc’ Duvalier. Gli americani se ne vanno nel 1934, lasciando una economia a pezzi. Molti haitiani emigrano a Santo Domingo, in cerca di lavoro, provocando tensioni razziali ed economiche terminate tragicamente con una pulizia etnica che fa 20 mila vittime tra gli haitiani. Agitata sempre dallo scontro fra popolazione mulatta e nera, di fatto l’isola resta dipendente dagli Stati Uniti ed è governata, come un dittatore, da “Doc” Duvalier, fino alla sua morte, nel 1971. Il potere passa allora al figlio Jean-
Claude, chiamato Baby Doc, che tenta una mediazione tra i ‘modernizzatori’ mulatti. Contemporaneamente, elimina con brutalità tutta l’opposizione. Alla crisi politica, si aggiunge all’inizio degli anni ‘80 quella economica. Haiti viene identificata come zona ad alto rischio per l’Aids e il turismo crolla. Poi, un programma statunitense per sconfiggere una malattia dei suini danneggia l’economia rurale, con l’uccisione per errore 1,7milioni di animali. Nel 1986 scoppia la rivolta popolare e Baby Doc Duvalier deve riparare all’estero con la famiglia. Si forma una giunta provvisoria militare. Il luogotenente generale Henri Namphy, confidente di Duvalier, viene nominato Presidente, ma un’organizzazione cattolica si oppone. È guidata da un giovane
Quadro generale
Michel Martelly (12 February 1961)
Alessandro Grandi
La barriera corallina
Più dell’85% della barriera corallina haitiana è scomparsa, morta, distrutta dall’attività umana. Un angolo di paradiso subacqueo che la natura ha impiegato millenni per costruire e che l’uomo ha dilaniato in pochissimi anni. Causa principale di questo danno irreparabile è dovuto alla pesca intensiva, ma anche ai cambiamenti climatici. D’altronde il Paese è alla fame e poco importa lo stato di salute della barriera corallina. Gli esperti del settore, allarmati dalla morte biologica della barriera haitiana, sostengono che nelle acque del Paese ci sia stato il peggiore sfruttamento da pesca del mondo intero. Alcune associazioni stanno cercando fondi per finanziare la conservazione dell’ambiente marino. Ma è la politica che se ne deve far carico, acconsentendo alla creazione di un parco marino e a far rispettare i divieti di pesca.
prete: Jean-Bertrand Aristide. Le elezioni del 1987 vengono vinte a larga maggioranza da Namphy, ma nel giro di un anno un altro colpo di stato porta al potere un altro generale, Prosper Avril. Nel 1990 Avril è costretto a fuggire e sempre nel 1990 alle nuove elezioni si candida Aristide, che con lo slogan ‘Lavalas’ porta in massa la gente alle urne. Il successo di Aristide non dura molto: nel 1991 viene destituito da un golpe militare. L’Onu reagisce con un embargo totale, cui fa seguito un intervento militare degli Usa, che costringe i militari a farsi da parte. Nel 1994 Aristide può quindi tornare nel Paese e governare. Ma lo fa in piena crisi economica e in un grave clima di violenza. Alle elezioni legislative del giugno 1995, i candidati da lui sostenuti furono accusati di brogli dall’opposizione. Si arriva alle elezioni presidenziali del 1995, in dicembre, vinte da René Preval.
I PROTAGONISTI
Le violenze nel Paese non finiscono e nel 1996 il Consiglio di sicurezza dell’Onu proroga la propria missione militare sull’isola. Nel gennaio 1999 le cose precipitano, con Preval che destituisce gran parte dei parlamentari. La tensione sale ancora – come la violenza – con le elezioni presidenziali del novembre 2000, vinte dall’ex presidente Aristide. Il conflitto tra la maggioranza e l’opposizione è violentissimo e non si placa. Nel 2004 i ribelli, formano il Fronte di Resistenza dell’Artibonite, conquistano alcune città e in seguito costringono Aristide a dimettersi e a lasciare il Paese. Spinti dall’opinione pubblica internazionale, il 30 aprile 2004 i Caschi Blu dell’Onu arrivano sull’isola per cercare di riportare l’ordine dopo le violenze seguite alla rivolta popolare che ha contribuito alla cacciata di Aristide. Presidente ad interim veniva nominato Boniface Alexandre, e premier Gerard Latortue, con l’impegno a svolgere nuove elezioni legislative entro il 2005. Le elezioni si svolgono nel 2006 e viene eletto Presidente l’agronomo haitiano Réné Garcia Préval.
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Il Presidente Michel Martelly è un personaggio un po’ fuori dagli schemi. Musicista e compositore amato e stimato in tutto il Paese, è conosciuto fra la popolazione con il vezzeggiativo di “Sweet Micky” per il suo dolce modo di interpretare le canzoni. Lui è considerato il numero uno del genere Kompas, la tipica musica del paese cantata in creolo. Negli anni Novanta Sweet Micky fu uno dei più accesi sostenitori della di dittatura militare. Criticabili le frequentazioni del neo Presidente che è legato da amicizia con l’ex capo della polizia di Port au Prince, Michel Francois, condannato per crimini contro l’umanità. Da più parti la sua candidatura e la sua vittoria elettorale sono state viste con molti sospetti e hanno attirato dubbi politico sociali sulla sua capacità di gestione di un Paese. Che Haiti sia un Paese tanto strano quanto straordinario lo si evince dal fatto che la corsa per le presidenziali avrebbe potuto vedere come protagonisti due musicisti: Sweet Micky e Wyclef Jean, cantante haitiano trapiantato negli Usa che gode di fama e successo internazionale.
Inoltre Messico
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“Una guerra non convenzionale combattuta da narcos e milizie private”.
Nel corso dell’ultimo anno nulla è cambiato sul fronte messicano. Il Paese è attraversato da Nord a Sud dalla tremenda guerra non convenzionale fra gli apparati della sicurezza nazionale e gli eserciti privati al soldo dei cartelli della droga. Sono decine di migliaia le vittime di questo conflitto e ogni giorno aumentano sempre più. Addirittura nel corso dell’ultimo anno le varie organizzazioni criminali che controllano tutti i traffici illeciti del Paese hanno ampliato la loro zona d’influenza andando a occupare sedi di là dai confini messicani, come ad esempio in Guatemala, considerato dagli analisti un Paese nelle mani dei Narcos. L’area Nord del Messico è quella maggiormente influenzata e colpita dalle attività criminali. E la violenza non fornisce allo stato attuale segnali di cessazione. Addirittura nel corso dell’ultimo anno, in città come Ciudad Juárez e Chihuahua sono stati chiusi migliaia di esercizi commerciali e molti appartamenti sono stati abbandonati per via dell’insicurezza generale che regna nella zona Nord. Non c’è pace nell’area e ad oggi le istituzioni messicane non sono state in grado di placare la situazione. Tremenda anche la condizione che vivono gli operatori dell’informazione, troppo spesso colpiti dalla furia cieca della violenza dei narcos. Alcuni sono riusciti a scappare e a chiedere asilo negli Usa, altri, come i Marcela Yarce e Rocio Gonzalez Trapaga, giornaliste d’inchiesta, sono state brutalmente uccise e i loro corpi, nudi, sono stati fatti ritrovare in un parco della Capitale Città del Messico: l’ennesima sfida della criminalità allo Stato centrale.
Secondo la Fondazione Messicana per la libertà d’espressione dall’anno 2000 a oggi sono 83 i cronisti uccisi dalla criminalità. Anche le rotte dei migranti in parte sono cambiate per via dell’intenso pattugliamento delle forze Usa lungo tutto il confine. Nel 2011 nell’area desertica che separa Usa e Messico sono stati ritrovati senza vita molti corpi di migranti. E un numero sempre maggiore è previsto per i prossimi anni. L’azione di destabilizzazione della sicurezza in Messico passa anche dall’economia. I cartelli, posto l’accento sul fatto che mai e poi mai abbandoneranno la violenza, stanno diversificando le loro attività. La polizia dello stato di Michoacan, infatti, nel settembre 2011 ha scoperto che le coltivazioni di avocado, il prodotto principe dello Stato, sono state oggetto delle morbose attenzioni dei cartelli. Secondo le indagini effettuate dagli inquirenti quasi tutti gli imprenditori legati alla produzione di avocado sono stati taglieggiati e di conseguenza costretti a pagare il pizzo. Risultato? Un aumento spropositato (più del doppio) del prezzo di questo frutto che non manca mai sulle tavole messicane. Non è certo positiva la situazione a Sud del Paese. Nel Chiapas, ad esempio, gli indios del movimento zapatista sono spesso attaccati dalle forze paramilitari colluse con le istituzioni statali. A far gola ai potenti di turno sono i terreni su cui vivono gli indios e che vorrebbero per loro per poterli vendere alle grandi multinazionali o ai piccoli latifondisti locali. In ogni caso si sono registrati molti fermi senza motivazioni legali da parte delle forze di sicurezza del Chiapas. Arresti indiscriminati e violenze sono all’ordine del giorno nelle comunità zapatiste. Non solo. L’area che non è distante dal confine con il Guatemala, da tempo è diventata zona di passaggio di migranti senza documenti. Inoltre, secondo le attività di investigazione sembra che i cartelli che comandano al Nord si stiano specializzando nel traffico di esseri umani che arrivano dai Paesi poveri del Centro e Sudamerica.
Inoltre Nicaragua/Costarica “Guerra di invasione nel Centro America per colpa delle mappe di Google”.
piccola concessione. Non è stata cambiata nessuna legge, un sentenza dice, semplicemente, che l’articolo 147 della Costituzione relativo ai limiti dei mandati di Governo “non si applica al caso Ortega”. Tra le altre cose la rielezione di Ortega sarà possibile con appena il 35% delle preferenze al primo turno a patto che superi di 5 punti il suo concorrente. Dall’altra parte del confine c’è il Costarica. Un Paese che dal 1948 ha deciso di non avere più un esercito. Si tratta di poco più di 50mila chilometri quadrati che si tocca a Nord con il Nicaragua, a Est con il mare dei Caraibi e Panama, mentre i lati Sud e Ovest sono bagnati dal Pacifico. La scelta di non avere un esercito da più di 60 anni inorgoglisce il Paese ma non impedisce alla stessa popolazione di sentirsi insicura in casa propria. Il 46% degli abitanti del Paese ha più paura dei saccheggi che della disoccupazione. Nessuno può dargli torto, solo nei primi mesi del 2010 sono stati commessi più di 230 omicidi per non parlare della crisi economica e della povertà diffusa. Uno scossone, sul fronte internazionale, arriva nel settembre del 2010 quando nel mare costaricano prendono casa settemila soldati statunitensi, cinquanta navi da guerra della Marina Usa, 200 elicotteri, 10 aerei. L’“occupazione” militare è effetto di un accordo tra il Paese e gli Usa stilato nel 1998 e che vede i due Paesi uniti nella lotta contro il traffico degli stupefacenti. Non tutti i costaricani hanno gradito. Ad ogni modo, tornando alla guerra per il confine, la situazione è ancora in stallo. Sulle due sponde due Paesi diversi tra di loro, con forze e logiche diverse. Marzia Lami
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Novembre 2020. Le agenzie internazionali battono una notizia che ha dell’inverosimile: Il Nicaragua invade il Costarica: colpa di google. Sarebbe stata tutta colpa di un’errata mappatura di google a spingere il Governo guidato da Daniel Ortega a invadere il Paese di Laura Chinchilla, leader ambientalista. Le mappe “digitali” avrebbero segnato erroneamente i confini tanto da spingere il Nicaragua all’invasione del confine. Ma una volta svelato l’errore nessun passo indietro. L’occupazione del territorio è rimasta. Si tratta della zona del lago di San Juan nel quale le truppe del Nicaragua, guidate da Edén Pastora, comandante, (dotate delle indicazioni geografiche di google maps), hanno ammainato bandiera del Costarica e issato quella nicaraguense. Hanno, inoltre, bonificato il fiume e scaricato rifiuti in territorio costaricano. Dopo l’invasione Carlos Roversi, vicecancelliere del Costarica ha chiesto al colosso informatico la rettifica evidenziando come la frontiera ufficiale e quella indicata on line fossero differenti. L’errore è stato riconosciuto ma è valso a poco visto che la tensione tra i due Paesi non si è sciolta. Ma per meglio comprendere la particolarità di questa invasione bisogna conoscere un po’ di geografia e di politica dei due Paesi presi singolarmente. Il Nicaragua è una repubblica democratica rappresentativa. Con oltre 130 chilometri quadrati di superficie è il più grande Paese dell’America centrale. Con il Costarica confina a Sud, mentre a Nord tocca l’Honduras e poi c’è l’esposizione ai mari del Pacifico e dei Caraibi. È guidato da due mandati (dal 1985 al 1990; dal 2007 a quest’anno) da Daniel Ortega (sandinista, ossia appartenente al movimento rivoluzionario e partito politico di ispirazione marxista,) e si appresta ad essere rieletto per il terzo mandato violando la Costituzione del Paese che impone il limite a due mandati. Ma Ortega, vicino a Chàvez, si è appellato al potere supremo che è nel popolo, e nel suo volere, ottenendo dalla Corte Suprema, a maggioranza sandinista, una
Marzia Lami
Messico, fantasmi senza diritti Migliaia di migranti vittime della malavita 104
Migliaia di persone, sospese tra la speranza e la paura. In un Messico da anni preda di conflitti civili interni, dominato dai narcos e oppresso da una corruzione dilagante che non risparmia le forze dell’ordine, si consuma la tragica e tormentata storia dei tanti migranti che, dal centro America, attraversano la federazione messicana per trovare, magari negli Stati Uniti d’America, la possibilità di un riscatto o anche solo il ricongiungimento con la propria famiglia. Rotta cruciale intermedia per il traffico di sostanze illecite, il Messico ha geograficamente anche il ruolo di filtro per l’immigrazione centro-americana, rendendola, di fatto, soggetta agli interessi e agli attacchi dei cartelli di narcos, spesso con la complicità silente degli organi federali. Violenze, massacri, stupri, violazioni dei diritti umani, e uno status di clandestinità che ha spesso impedito le denunce e le rivendicazioni, facendone, ancora una volta un luogo di impunità. Le poche voci a sostegno dei migranti, senza diritti e spesso invisibili, sono state quelle isolate di alcune organizzazioni per i diritti umani e di alcuni coraggiosi sacerdoti, che hanno cercato di organizzare aiuti concreti per chi inizia questi veri e propri viaggi della speranza. Padre Alejandro Solalinde, sacerdote cattolico, è uno di questi: dirige il centro rifugiati “Hermanos en el camino” di Ixtepec, nello stato di Oaxaca, un luogo dove i migranti trovano cibo, cure mediche, la possibilità di lavarsi, riposarsi, informazioni riguardanti il viaggio e assistenza legale. E che non ha incontrato, invece, i favori di chi su questa grande crisi umanitaria riesce da tempo a lucrare e che ha più volte minacciato il sacerdote, vittima di diverse intimidazioni. Quello dei migranti è da tempo un grande business. Rapporti di Amnesty International, del Wola (Washington Office on Latin America) e del Prodh (Centro Miguel Agustin per i diritti umani) sottolineano i grandi rischi per i migranti sulle strade che portano verso gli Stati Uniti. Il ritrovamento dello scorso anno in un capannone di 72 corpi massacrati probabilmente dai Los Zetas, un gruppo paramilitare, rappresenta solo un esempio tra tanti. Rapiti anche a gruppi di cento, diventano l’obiettivo di organizzazioni criminali che estorcono ai familiari, che vivono già negli Stati Uniti o in Canada, anche 2.500 dollari per ogni persona. La Commissione nazionale per i diritti umani (Cndh), secondo quanto riportato dal Wola nel rapporto “A dangerous travel through Mexico”, parla per il periodo che va da settembre 2008 a febbraio 2009 di quasi 10mila migranti rapiti nelle strade del Messico. Si stima che più del 90% dei rapimenti sia opera di criminali messicani. Un affare che si accosta a quello del traffico di droga, portando diversi milioni nelle tasche dei narcos grazie al ricatto ai familiari. E i numeri annui parlano di un grande flusso che passa nella federazione: secondo le autorità circa 171mila sono i migranti che attraversano il confine meridionale del Messico; il 95% proviene da Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua. E si spinge in zone aspre, lontano dai posti di controllo del Governo Federale. Le tecniche di avvistamento da parte delle gang criminali sono molto facili: i viaggi disperati, la poca conoscenza del luogo tradiscono spesso i migranti, sorpresi nei pressi dei binari ferroviari e facilmente ricondotti con la forza in vere e proprie strutture di detenzione, dove male alimentati attendono la loro sorte. Grave la situazione delle donne che, sempre stando ai dati riportati dal Wola in sei casi su dieci subiscono violenza sessuale. E in molti casi sono obbligate a prostituirsi per conto del cartello. Come nel caso di Solalinde, molti altri tentativi di dare un aiuto ai migranti e contrapporsi ai cartelli ha attirato minacce e intimidazioni. Nel 2009 la Chiesa cattolica ha aperto in Chiapas un centro di aiuto per i migranti. Costretto a chiudere dopo poco a causa di continui attacchi criminali che terminavano con i rapimenti dei migranti ospitati dal centro. La diretta responsabilità dei gruppi criminali nei rapimenti e nelle violenze contro i migranti non lascia però in secondo piano “la partecipazione delle autorità messicane in diversi casi che rivelano la complicità degli stessi con le gang criminali”. Rapporti del Cndh citati dal Wola parlano di almeno un centinaio di casi in cui i migranti tenuti in ostaggio erano consapevoli dei contatti tra forze di polizia e narcos. Nel 2008 anche Jorge Bustamante, relatore per le Nazioni unite, dopo la visita in Messico parlò di estrema tolleranza governativa verso questi reati, sottolineando come “la migrazione transnazionale continuasse ad essere un business, orchestrato dai gruppi coinvolti nel traffico di droga, ma con la collaborazione delle autorità locali, municipali, statali e federali”. Le strade per chi vuole denunciare sono molto dure: lo status di migranti, senza diritti, rende restie le persone a esporsi. Tuttavia la crescente pressione di associazioni di difesa dei diritti umani ha spronato l’esecutivo messicano a prendere visione di svariati report che potranno migliorare la situazione dei migranti, garantendone i diritti. A cominciare da un capillare lavoro di segnalazione per capire l’enorme portata del problema: in circa due anni, secondo dati Cndh, solo 2 persone hanno ricevuto una condanna su140 casi. Un fallimento giudiziario dietro cui si annida la mancata volontà di perseguire questi crimini. Ci sono voluti diversi massacri per avere una inversione di rotta e incrementare il coordinamento di polizia per evitare gli abusi verso i migranti, trovando strumenti legali per la denuncia delle violenze. Tra questi la possibilità di assistenza senza il previo riconoscimento dello status legale. Tre gli aspetti chiave di una riforma: assicurare più credibilità alle forze di polizia combattendo la corruzione che la rende tra gli apparati meno affidabili del Paese; includere come aspetto costituente dei cartelli criminali il traffico di essere umani per poterlo perseguire; e infine frenare l’impunità che rende di fatto infinita la catena di violenze e violazioni dei diritti umani.
ASIA ELENCO DEI PAESI IN CONFLITTO
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Giovani e social media Il futuro della pace è qui È il continente dei giovani, pronti a diventare protagonisti assoluti dello sviluppo, dell’economia e della cultura; pronti a cambiare i regimi, a rivendicare diritti e libertà, a lanciare la sfida delle nuove tecnologie per conquistarsi spazi di futuro: l’Asia è il continente dell’oggi ma anche, tanto più, del domani. L’oggi si chiama Cina e India, colossi demografici, politici ed economici, potenze sempre più forti sulla scena internazionale. Il domani è assicurato dalla popolazione di adolescenti e di giovani più estesa al mondo: oltre 940milioni fra i 10 e i 24 anni (fonte: Banca Mondiale 2007). Una “legione” che, nell’ultimo quinquennio, ha mostrato vitalità e forza di mobilitazione non comuni, capaci di incidere a fondo nelle società. Una premessa: l’Asia non è solo il continente più vasto, con il 60% della popolazione mondiale (oltre 4miliardi di persone), ma è anche la macroarea con le più evidenti disparità, segnata da un pluralismo che investe ogni livello, da quello geografico a quello economico. Si va da “mini-nazioni” di circa 300mila abitanti (come Brunei e Maldive) fino a colossi che superano
il miliardo di persone (Cina e India). Vi si trovano alcune fra le nazioni più povere del mondo (Nepal, Bangladesh, Birmania, Corea del Nord) accanto a Paesi ricchi ed evoluti. Ma su un aspetto, quello demografico, i trend sembrano concordare, nel segnare un’inarrestabile crescita che ha toccato, in special modo, la popolazione adolescenziale e giovanile, compresa nella fascia fra i 10 e i 24 anni. Va detto che l’Asia ha vissuto, negli ultimi trent’anni, radicali trasformazioni sociali, economiche, demografiche e culturali che hanno avuto un’influenza decisiva sulle nuove generazioni, cresciute in un’epoca-post coloniale e immerse, fin dal primo istante di vita, nell’era della globalizzazione. Che siano in Paesi in via di sviluppo, come Vietnam o Timor Est, dove la popolazione giovanile tocca il 60% del totale; in Paesi avanzati come Giappone e Corea del Sud; in Paesi islamici come Pakistan e Indonesia o in nazioni dalle grandi disuguaglianze, come Cina e India: sta di fatto che i giovani asiatici intendono mordere il futuro e determinarlo a prescindere dalla volontà dei loro governanti, appartenenti, in larga maggioranza dei casi, alle vecchie generazioni. I mezzi per aggredire il domani sono, fondamentalmente, l’istruzione e le nuove tecnologie. E se l’accesso all’istruzione – pur sancito come diritto in larga parte delle nazioni asiatiche – resta ancora un miraggio, mutilato dai pesanti condizionamenti imposti dalla povertà, i “social media” hanno invece mostrato straordinaria efficacia come strumenti per condizionare la vita politica, economica, culturale di un Paese. Sono, cioè, i mezzi con cui i giovani tornano a essere “significativi”, riescono ad influire sulle élites dominanti, trovano finalmente spazi per esprimere idee e rivendicare valori come legalità e trasparenza. Per determinare, dunque, gli orientamenti e le sorti delle rispettive nazioni. I movimenti giovanili in Asia hanno avuto uno sviluppo sorprendente e, negli ultimi anni, hanno mostrato un fermento che ha dato risultati impensabili, anche in stati con regimi repressivi e brutali. In Asia meridionale la popolazione giovanile ha avuto il potere di “cambiare l’agenda di governo”: in Pakistan riportando a galla l’urgenza della legalità e dei diritti umani, per contrastare i movimenti islamici estremisti; in India segnalando la grande battaglia contro la corruzione, che ha trovato un leader carismatico nell’ultrasettantenne Anna Hazare, ma che ha fatto breccia soprattutto fra gli under 25. Poco più a Nord, nel piccolo Nepal, i giovani hanno accelerato la svolta democratica che ha segnato la fine del regno induista e la nascita
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mentre i leader dei movimenti giovanili sono i più temuti da Pechino. In Paesi come Corea del Sud e Giappone, dove la tecnologia informa la vita individuale e collettiva, il binomio “giovani e social media” è un fattore che incide profondamente sul costume, sulla società, sulla cultura e gli attori politici ne hanno preso atto ormai da un pezzo. Forti nel numero, aperti nelle idee, pieni di entusiasmo e di speranze, nonché di una sana “voglia di protagonismo”: sono loro, i giovani asiatici, gli autentici agenti di cambiamento che si affacciano sulla scena mondiale e non intendono tornare nell’ombra. Sono loro, dunque, che nei prossimi decenni, potranno avere voce in capitolo e dire una parola – nel 99% dei casi una parola di pace – sui piccoli e grandi conflitti che ancora percorrono in lungo e in largo il continente asiatico.
107
della democrazia sulle vette dell’Himalaya. Spostandosi nel Sudest, in Birmania – dove la giunta militare non esita a usare il pugno di ferro – studenti e giovani hanno animato il coraggioso movimento della società civile che, a settembre 2011, ha indotto il Governo a fermare i lavori della diga di Myitsone, mega-progetto sul fiume Irrawaddy che aveva fomentato la nuova guerra contro le minoranze etniche kachin. Al di là del confine, in Thailandia, la colorata stagione di protesta – fra “giubbe rosse” e “camicie gialle” – che ha caratterizzato la scena politica negli ultimi anni è una stagione dai tratti e dai leader essenzialmente giovanili. Nella piccola Cambogia, il tam tam dei “social media” sta radunando le forze sane del Paese per opporsi al progetto di una legge draconiana che vuole penalizzare associazioni e Ong, voci libere e indipendenti. In Malaysia, stato improntato a una legislazione islamica piuttosto rigorosa, è nato dalle menti di giovani avvocati, poco più che ventenni, il movimento “Bersih 2.0” (che significa “pulizia”), vero, nuovo elemento, fautore della trasparenza, destinato a scompaginare i rigidi schemi della politica nazionale. Così come la piccola Singapore – ancora governata in modo autoritario – nelle ultime elezioni presidenziali ha scoperto che i giovani, tramite i social network, possono e vogliono partecipare sempre più alla vita politica. Indonesia e Filippine non sono da meno: nello stato islamico più popoloso al mondo l’Associazione degli Studenti Musulmani ha imboccato con decisione la strada del dialogo e della convivenza con le componenti non islamiche della società: una scelta di peso che garantisce il futuro del pluralismo. E nelle cattolicissime Filippine – dove già la seconda “rivoluzione non violenta” del 2001 correva tramite gli Sms – i social media sono ormai un elemento tipico del tessuto connettivo della società. Nel quadrante dell’Asia orientale la situazione non cambia. Nel 2010 il Governo cinese ha oscurato oltre 1,3milioni di siti web, aperti da giovani desiderosi di libertà e allergici alla censura; ma ogni giorno ne nascono di nuovi,
Il conflitto e l’Italia
108
A un costo annuo di quasi 2 milioni di euro al giorno, il contingente italiano autorizzato dal Parlamento per la missione in Afghanistan è di circa 4.200 uomini dislocati soprattutto nell’area occidentale dove l’Italia ha il comando del Regional Command West (RC-W), un’ampia regione (grande quanto il Nord Italia) che comprende le quattro province di Herat, Badghis, Ghowr e Farah. Oltre quaranta soldati italiani sono morti in Afghanistan. Nel 2012 dovrebbe iniziare un primo ritiro dall’unico teatro internazionale per il quale Roma non ha deciso riduzione di fondi e di personale. Scarso resta l’impegno nella ricostruzione civile, sbandierato a parole che poco finanziato nei fatti
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALL’AFGHANISTAN RIFUGIATI
3.054.709
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI PAKISTAN
1.899.842
IRAN
1.027.577
GERMANIA
30.404
SFOLLATI PRESENTI IN AFGHANISTAN 351.907 RIFUGIATI ACCOLTI IN AFGHANISTAN RIFUGIATI
6.434
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI PAKISTAN
6.398
Un mondo tanti mondi
Difficile capire quanti siano gli abitanti dell’Afghanistan: le continue guerre bloccano i censimenti da decenni. Il risultato è che non ci sono informazioni precise sulla composizione etnica della popolazione. Esistono comunque delle stime, fatte ad esempio dai comandi militari alleati e usati per tentare di governare il Paese. La popolazione sarebbe suddivisa in Hazara, 38%, Pashtun, 25%, Tagiki, 19%, Uzbechi, 9%, Turkmeni, 5%, Aimak, 1% e Baluchi, 1%. Le lingue parlate sono invece il Pasto, 35%, il Dari, una forma di persiano, 50%. Il resto sono altri dialetti
UNHCR/R.Arnold
Col ritiro di 650 soldati americani nel luglio del 2010, la guerra afgana entra in una nuova fase. L’Amministrazione americana, che dopo l’uccisione di bin Laden in Pakistan nel maggio 2011, ha in un certo senso dichiarata conclusa la fase chiave dell’intervento (la caccia al capo di al-Qaeda), vorrebbe ridurre gli effettivi nel Paese asiatico, anche per problemi di budget, da 102mila a 69mila nei prossimi dodici mesi. Ma non avrebbe in mente di lasciare il Paese prima del 2024, ossia 12 anni dopo il “paletto” del 2014, data entro cui la sovranità militare sull’Afghanistan dovrebbe passare agli afgani. Sul piano militare il 2011 ha visto in luglio la fine della direzione delle operazioni di IsafNato, la forza di stabilizzazione forte di circa 140mila unità, del generale David Petraeus (ora a capo della Cia), teorico della controinsurrezione con bombardamenti mirati, operativi “selettivi” nella ricerca dei capi guerriglieri e attività d’appoggio all’esercito afgano di milizie civili armate. I risultati in termini di sicurezza restano relativi mentre i talebani hanno risposto con un incremento dell’attività (anche loro attraverso “omicidi mirati”) a partire dalla primavera. Il nodo delle vittime civili è rimasto uno dei temi caldi del 2011. Il rapporto 2010 di Afghanistan Rights Monitor si attestano 5.691 incidenti che hanno coinvolto civili, di cui 2.421 con conseguenze letali (il 63% da attribuire alla guerriglia; 217 vittime per i bombardamenti aerei). Secondo la missione Onu in Afghanistan (Unama) il numero totale di vittime civili nei primi sei mesi del 2011 è di 1.271 morti (1.997 i feriti). Il 76% del totale viene attribuito a elementi anti governativi con una crescita del 53% dal 2009, mentre 386 morti sono attribuite all’attività delle forze pro-governative (12%), in decrescita del 30% rispetto al 2009 (con un decremento del 64% di morti e feriti causati da attacchi aerei). Sul piano politico da segnalare due elementi: le polemiche seguite alle elezioni parlamentari del settembre 2010 con un lungo braccio di ferro tra esecutivo, candidati e magistratura conclusosi con l’estromissione di nove persone dalla Wolesi Jirga (Camera bassa). La preparazione
AFGHANISTAN
Generalità Nome completo:
Repubblica Islamica dell’Afghanistan
Bandiera
109
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Il pashto e il persiano (dari) sono le lingue ufficiali. C’è inoltre una grande varietà di lingue, la maggior parte di origine persiana o altaica: hazaragi, turcomanno, uzbeco, aimaq e altri
Capitale:
Kabul
Popolazione:
32.254.372
Area:
652.090 Kmq
Religioni:
Musulmana (99%) (74% sunnita, 15% sciita e 10% altro).
Moneta:
Nuovo Afghani
Principali esportazioni:
Smeraldi, uranio, altri minerali, oppio
PIL pro capite:
Us 1.310
per fine 2011 di “Bonn2”, il summit internazionale a dieci anni da quello che seguì la caduta dei talebani. Scarsi i progressi sul fronte del negoziato di pace affidato a un Alto consiglio di pace (Hpc), creato nel 2010, molto criticato per il profilo poco specchiato dei suoi membri.
È una domanda che molto spesso è stata rivolta dall’opinione pubblica ai Governi dei Paesi impegnati in una guerra (l’ultima in ordine di tempo) che ha ormai superato il decennio e nata come una sorta di vendetta statunitense dopo l’11 settembre. Alcuni analisti hanno proposto la chiave delle risorse, ma l’Afghanistan non ha petrolio e riserve limitate di gas e può essere bypassato da oleodotti e gasdotti che provengono da altrove. Possiede un immenso giacimento di minerali già noto ai sovietici – dal rame al carbone – che resta però di difficile estrazione benché, negli ultimi anni, questo mercato sia in espansione e tenuto sotto controllo soprattutto dalla Cina. La chiave geopolitica continua a reggere (territorio di “profondità strategica” per il Pakistan in caso di guerra con
l’India, snodo tra Asia centrale, Medio Oriente e subcontinente indiano) ma molte altre se ne aggiungono: quella ad esempio che un fallimento afgano sarebbe un fallimento per la Nato o il rischio di lasciare che l’Afghanistan diventi una nuova Somalia, buco nero per narcotrafficanti, integralisti, contrabbandieri. Quel che va considerato è che il Paese è in guerra da trent’anni e i motivi per continuare il conflitto continuano a cambiare favorendo la sopravvivenza di eserciti privati e un’abitudine mentale a risolvere i contenziosi con la spada. Non di meno il desiderio di pace è fortissimo tra gli afgani e forse un negoziato potrebbe, dopo sei lustri, trovare terreno fertile anche se si investe troppo poco sulla società civile.
Per cosa si combatte
Terra di passaggio, luogo di controllo delle grandi vie di comunicazione: è la posizione geografica ad aver spesso fatto dell’Afghanistan un Paese conteso. Così, l’Afghanistan è stato nelle mire dei grandi imperi da sempre, non ultimo quello britannico, che nel XIX secolo tentò, senza successo, di sottometterlo territorialmente ma che alla fine riuscì a farlo entrare, seppur con difficoltà nella sua sfera di influenza. Le cose cambiano nel XX secolo quando un grande spirito di riforma, incarnato da re Amanullah (in seguito esiliato in Italia e morto in Svizzera) si associa a una politica autonoma e anti britannica. La posizione geografica del Paese obbliga l’Afghanistan a una difficile convivenza col Pakistan nato nel 1947 e con le regole della Guerra fredda nelle quali si barcamena con un certo successo e un discreto equilibrio fino agli anni Settanta, ultima epoca pacifica del Paese – divenuto una repubblica nel 1973 – che, nel 1979, viene invaso da Mosca che teme un eccesso di
ingerenza americana nell’area e che vi ha investito denaro e collaborazione approfittando delle tensioni col Pakistan, sostenuto dagli Stati uniti. Inizia una durissima guerra fra le truppe sovietiche e governative da un lato e i mujaheddin – combattenti per la fede – appoggiati dagli americani, dal Pakistan e dall’Arabia saudita. Dieci anni dopo l’Armata rossa si ritira e l’ultimo governo filosovietico di Najibullah collassa anni dopo, privato dell’appoggio di Mosca che ha ormai definitivamente abbandonato il Paese. La sconfitta di Najibullah apre una fase di scontro fra fazioni armate etnicamente connotate e sostenute da diversi Paesi stranieri. Nel 1995 nasce nel Sud del Paese il gruppo armato dei talebani (da talib, “studente di religione”) che, rinforzato dai giovani afgani rifugiati in Pakistan, riconquista l’Afghanistan partendo dall’Est e dal Sud e riuscendo a entrare a Kabul nel 1996, vincendo la resistenza dei mujaheddin di cui resta un unico bastione nel Nordest sotto
Quadro generale
Il conflitto e l’Italia
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A un costo annuo di quasi 2milioni di euro al giorno, il contingente italiano autorizzato dal Parlamento per la missione in Afghanistan è di circa 4.200 uomini dislocati soprattutto nell’area occidentale dove l’Italia ha il comando del Regional Command West (RC-W), un’ampia regione (grande quanto il Nord Italia) che comprende le quattro province di Herat, Badghis, Ghowr e Farah. Oltre quaranta soldati italiani sono morti in Afghanistan. Nel 2012 dovrebbe iniziare un primo ritiro dall’unico teatro internazionale per il quale Roma non ha deciso riduzione di fondi e di personale. Scarso resta l’impegno nella ricostruzione civile, sbandierato a parole e poco finanziato nei fatti.
Ahmed Wali Karzai (Karz (Kandahar) 1961– 12 luglio 2011)
UNHCR/R. Arnold
Guerra, oppio e mazzette
In un’inchiesta dell’americano “The Nation” (diventata la traccia di un dossier del Congresso americano) si spiega che “...ufficiali dell’esercito Usa a Kabul stimano che almeno il 10% di ciò che il Pentagono spende in contratti logistici consista in pagamenti agli insorti”. Un esempio? La Ncl Holdings, retta da Hamed Wardak, figlio dell’attuale ministro della Difesa, registrata nel 2007 negli Usa, lavora in Afghanistan e, assieme a un’altra mezza dozzina di elette, si divide contratti (un giro da 2miliardi di dollari l’anno) per garantire il trasporto di tutti i rifornimenti – dal cibo alle armi – sino alla base Usa di Bagram e nel resto del Paese. Di fronte al 10% di 2miliardi in mazzette semilegali ai talebani per far transitare le merci nelle aree a rischio, i proventi dell’oppio alla guerriglia (tra i 100 e i 200milioni l’anno) impallidiscono. Il paradosso è che si pagano i nemici cui si fa la guerra. 111
Il fratellastro del Presidente Hamid Karzai è stato una delle vittime eccellenti del 2011. Ucciso per motivi non ancora accertati da un “suo” comandante (in Afghanistan si contano decine di piccoli eserciti privati), sull’attentato si sono fatte diverse ipotesi: la nuova strategia talebana di omicidi mirati ma anche un regolamento di conti per questioni di proprietà o di traffico di stupefacenti, un’accusa che, come molte altre (di essere stato sul libro paga della Cia ad esempio) sono rimbalzate sul conto di Ahmed Wali soprattutto sulla stampa americana. Eminenza grigia del Presidente, mediatore tra i capi locali della provincia di Kandahar e negoziatore con i talebani, di lui si è detto di tutto. È stato accusato di legami col narcotraffico e di aver sfruttato con abilità la sua posizione per aumentare prestigio, ricchezza e proprietà. Dopo un lungo periodo negli Stati uniti, tornato in Afghanistan dopo la caduta dei talebani nel 2001, era stato eletto a capo del Consiglio provinciale di Kandahar ed era sopravvissuto a numerosi attentati.
il comando di Ahmad Shah Massud. I talebani, che alla fine del XX secolo hanno in mano il 90% del Paese e che sono comandati da mullah Omar, guida militare, spirituale e di governo, istituiscono un emirato e impongono uno stile di vita oscurantista e neotradizionalista ispirandosi più che a una rilettura del Corano, alla rigida applicazione del pashtunwali, il codice di comportamento dei pashtun, di cui sono espressione. Inaspriscono i divieti, in particolare alle donne, e sprofondano il Paese in una sorta di medioevo islamico. La scelta di ospitare bin Laden si rivela però il loro più grave errore e, dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York del 2001, una “coalizione di volenterosi” capeggiati dagli Usa attracca il Paese mettendo in fuga bin Laden e Omar e decretando la fine dell’emirato. I bombardamenti alleati consentono così a una nuova coalizione di ex mujaheddin – l’Alleanza del Nord – di riconquistare gran parte del Paese e di entrare a Kabul il 13 novembre 2001. Mentre i talebani sono in rotta, a Bonn viene convocata una Conferenza internazionale. Viene cre-
I PROTAGONISTI
ata una amministrazione, con a capo il pashtun filoamericano Hamid Karzai, appoggiato dal vecchio re che fa ritorno in Afghanistan. Si formano una Loya Jirga (Assemblea) d’Emergenza, un’Autorità di transizione e una Loya Jirga Costituzionale, assistite da una Forza di sicurezza internazionale dell’Onu, il tutto per preparare – entro due anni e mezzo – le elezioni generali. Il 22 dicembre assume il potere Karzai. La gestione della sicurezza (Isaf, International Security Assistance Force, istituita nel 2001), passa nel 2003 alla Nato (è la prima volta che l’Alleanza Atlantica varca i confini europei) che sottovaluta la riorganizzazione dei talebani in Pakistan. Il loro ritorno sulla scena coglie la Nato di sorpresa e la guerra ricomincia. Intanto nel 2004 Karzai vince le prime elezioni presidenziali e nel 2010 viene riconfermato seppur a prezzo di un suffragio poco trasparente e oscurato da brogli e compra vendita di voti. Scenario che si ripete alle ultime elezioni parlamentari sempre nel 2010. Mentre notizie vaghe si mischiano a smentite e indiscrezioni su un possibile processo di pace, nel luglio 2011 inizia un primo ritiro delle truppe americane da completarsi, teoricamente, nel 2014.
112
La zona della Cina indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione del Tibet a cui questa scheda è dedicata.
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL TIBET RIFUGIATI
15.082
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI NEPAL
15.000
In agosto l’ennesima vittima: Tsewang Norbu, un monaco di 29 anni del monastero di Tawu Nyatso, nella contea di Daofu, nel Tibet Orientale, si è dato fuoco sulla strada per Pechino, gridando slogan per la liberazione del Tibet e La notizia ha iniziato a diffondersi per il ritorno del Dalai Lama. a metà del 2011: la Cina starebbe L’ennesimo morto in una situazione difficile. limitando il numero di visti turistici Pechino continua ad avere mano pesante in Tiper coloro che vogliono recarsi bet. La reazione al suicidio è stata immediata: in Tibet. Questo in vista del 60° il monastero è stato circondato da un migliaio anniversario di quella che per di soldati. Linee telefoniche, acqua e elettricità Pechino è la “pacifica liberazione” sono state tagliate. del territorio tibetano e per Intanto, quanto annunciato dal Dalai Lama nel i tibetani l’inizio dell’occupazione. 2010 è accaduto: ha rinunciato al potere temA denunciarlo sono state porale, di Governo, passando la mano al primo numerose agenzie di viaggio cinesi Ministro. Si chiama Lobsay Sangay e nel giore straniere, confermando quanto no di insediamento ha lanciato un attacco alla sostenuto dall’organizzazione Cina, denunciando come i tibetani siano divenumanitaria International Campaign tati cittadini di serie B nella loro stessa terra. for Tibet, secondo la quale la Un discorso che ha irritato Pechino, come rabRegione autonoma del Tibet e in bia, nella capitale cinese, ha scatenato la visiparticolare la capitale Lhasa, sono ta del Dalai Lama a Washington, al Presidente in un “virtuale assedio”. Obama. In termini economici – sostengono Un atto ufficiale, un riconoscimento, che i cinele agenzie – si è trattato si hanno giudicato inopportuno e contrario agli di un danno enorme, dato l’alto “interessi interni del Paese”. numero di turisti che il Tibet Il Presidente americano – da parte sua – ha richiama ogni anno. spiegato di non sostenere l’indipendenza del Tibet dalla Cina, ma di essere ‘’preoccupato’’ per la sopravvivenGeneralità za dell’‘’originale cultura’’ tibetaNome completo: Tibet na. Bandiera La buona notizia è che sono comunque ripresi colloqui fra Pechino e Governo Tibetano in esilio. Dal 2002 i negoziati sono stati aperti e chiusi diverse volte, sino Lingue principali: Tibetano, Cinese al 2008 dopo le Olimpiadi e la vioCapitale: Lhasa lenta repressione dei moti tibetani di marzo dello stesso anno. Popolazione: 2.670.000 La posizione del Governo tibetano Area: 1.228.400 Kmq in esilio sembra chiara: rinuncia Religioni: Buddista, altre alla richiesta di indipendenza, con Moneta: Renminbi però una forte autonomia religiosa Principali n.d. e culturale. esportazioni: Il Dalai Lama, per dare un segnaPIL pro capite: Us 948 le preciso in questa direzione, ha
Visti limitati
Lucia Sonzogni
CINA TIBET
Generalità Nome completo:
Repubblica Popolare Cinese
Bandiera
113
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Cinese mandarino
Capitale:
Pechino
Popolazione:
1.330.503.000
Area:
9.596.960 Kmq
Religioni:
Confuciana, taoista, buddista (95%), cristiana (3,5%), musulmana (1,5%)
Moneta:
Renminbi
Principali esportazioni:
Praticamente tutto nel manifatturiero, più frumento, riso, patate
PIL pro capite:
Us 5.963
appunto rinunciato ad essere anche “capo politico” dei tibetani, ma chiede di rientrare nel Paese da cui è fuggito nel 1959. La Cina respinge l’ipotesi, soprattutto teme e non vuole il rientro del Dalai Lama, che viene accusato di secondi fini e di tramare contro “l’unità della nazione cinese”. Così, non si fermano né le rivolte, né gli arresti e la repressione.
Il presidio della frontiera con l’India – Paese da sempre considerato rivale – e il controllo diretto di buone risorse minerarie e immense riserve d’acqua, quelle che vengono dai tanti fiumi della Regione: da questi motivi, fusi con una rivendicazione storica, nasce lo scontro fra Cina e Tibet. Pechino ha sempre voluto il controllo di quella area. Questa esigenza cinese si scontra naturalmente con la voglia di indipendenza dei tibetani, che forti di una cultura politico-religiosa radicata e delle tradizioni rivendicano il loro diritto ad essere uno Stato libero e autonomo.
La scelta del Dalai Lama di trovare una soluzione attraverso il dialogo non convince tutti i tibetani. L’ala più radicale del movimento indipendentista chiede all’opinione pubblica mondiale un intervento più duro nei confronti della Cina, da loro considerata Paese occupante. Idea, questa, che si scontra con la realtà politica internazionale: molti Paesi, al di là delle dichiarazioni di principio, non hanno mai riconosciuto il Tibet come Stato sovrano e, quindi, continuano a considerare la vicenda come un problema interno alla Cina.
Per cosa si combatte
Più soldi ai militari
L’Esercito cinese – Esercito di Liberazione Popolare (Pla), questo il nome – è sterminato: ma quanto guadagnano i militari? Nel 2010 il loro stipendio medio mensile è stato di 5.373 yuan, pari a più o meno 620 euro. Non altissimo, ma nemmeno basso, se si considera che un operaio può guadagnare fra gli 80 e i 160 euro mensili, mentre un direttore di negozio ne porta a casa fra i 400 e i 600. Lo stipendio dei militari è aumentato del 2,61% rispetto al piano quinquennale precedente, cioè al periodo 2001 – 2005. Nonostante l’aumento, una indagine del ministero della Difesa ha rivelato come i famigliari dei quadri militari vivano problemi legati al basso tasso di occupazione del coniuge e ai grossi costi per i trasferimenti.
114
Lucia Sonzogni
Ci sono stati migliaia di morti, proteste in piazza in tutto il mondo – non ultime quelle del 2008 in vista delle Olimpiadi di Pechino – colloqui di pace falliti, ma il pensiero delle cancellerie internazionali sembra essere rimasto sempre quello: “È solo un problema interno”. È la medesima cosa che hanno pensato la mattina del 7 ottobre del 1950, leggendo sulle agenzie stampa o sui dispacci dei servizi segreti che quarantamila soldati dell’Esercito cinese avevano attraversato il fiume Yangtze e occupato tutto il Tibet orientale e il Kham – che ora è parte di tre Province cinesi – uccidendo ottomila soldati tibetani male armati. Solo sette giorni dopo l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso diventò sovrano del Tibet. Il cuore della controversa questione tibetana è tutto il quella frase: è un problema interno. Nessuno lo ricorda più, ma nessun Paese occidentale ha mai riconosciuto il Tibet come uno Stato sovrano indipendente. E non uno dei tanti governi europei o Nord americani che si sono succeduti in 59 anni di occupazione del territorio, dichiarando sempre quanto fosse giusta la fine della militarizzazione del Tibet da parte cinese, ha mai mosso un passo verso il riconoscimento della sovranità. Quindi, in punta di diritto internazionale, Pechino ha ragione nel definire la questione un “pro-
blema interno”. I cinesi – coerenti con questa visione – avevano pianificato tutto. Soprattutto avevano saputo cogliere il momento adatto. Il mondo guardava solo alla guerra in Corea, scoppiata all’alba di domenica 25 giugno 1950, con un attacco della Corea del Nord di Kim Il Sung alla Corea del Sud. Gli Stati Uniti intervennero militarmente, subito, chiedendo e ottenendo l’ombrello politico delle Nazioni Unite. In questo clima, l’attacco al Tibet, pianificato da tempo, passò in secondo piano. Formalmente il Tibet era in una posizione di stallo, nata dall’abbandono dell’India da parte della Gran Bretagna nel 1947. Storicamente, la regione era stata a lungo indipendente, poi era caduta sotto l’influenza della Cina imperiale, prima di essere messa sotto tiro dalla Russia zarista e dal Regno Unito, che intervenne militarmente nel 1904. Da sempre, però, cultura e autonomia politica erano rimaste salde, tanto da definire una identità nazionale, che aveva nel Dalai Lama il capo di Governo e spirituale. La Cina aveva annunciato l’attacco. Mao, al potere dal 1949, aveva più volte spiegato che voleva una Cina riunita in tutti i suoi territori e questo significava anche il Tibet. Il 1° gennaio 1950 Radio Pechino annunciò che presto il Tibet sarebbe stato liberato dal giogo straniero.
Quadro generale
Lucia Sonzogni
Lobsang Sangay (Darjeeling, 1968)
Lucia Sonzogni
Ogni giorno 5.000 casi di divorzio
Ogni giorno ci sono 5mila divorzi in Cina. A rivelarlo il ministero degli Affari Civili, che ha reso noto come nel primo trimestre del 2011 vi siano stati complessivamente 465mila casi di divorzio . Una crescita esponenziale, del 17% rispetto allo stesso periodo del 2010. La valutazione ministeriale è che il matrimonio in Cina è entrato in una “fase di incertezza” . La principale causa sembra essere la minore comunicazione tra moglie e marito e l’aumento delle relazioni extraconiugali, dovute ad una maggiore indipendenza economica sia degli uomini, che delle donne. Così, l’occupazione avvenne senza quasi proteste, messa ulteriormente in secondo piano dal fatto che i cinesi il 19 ottobre del 1950 intervennero pesantemente nella guerra di Corea appoggiando il Nord con milioni di uomini e mettendo in grave difficoltà gli Stati Uniti. Il 23 maggio 1951 il Dalai Lama firmò il “Trattato di liberazione pacifica” e diventò vice Presidente del comitato permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Il documento permise alla Cina di iniziare la colonizzazione del Tibet. Prima militarizzandolo, poi spingendo i cinesi ad andare nella nuova Regione. Il Tibet intanto rinunciava ad avere una politica estera autonoma, a batter moneta, a stampare francobolli. Le terre venivano ridistribuite, soprattutto nelle zone del Kham orientale e nell’Amdo, per non rompere i rapporti con l’aristocrazia. Da quel momento fu tutto un susseguirsi di ribellioni, avvicinamenti pacifici e rotture, spesso alimentate dall’esterno, da altri Paesi. Nel 1959 la prima grande rivolta. Il 10 marzo 1959 il movimento di resistenza tibetano guidò una protesta
I PROTAGONISTI
contro i cinesi. Per reprimerla, Pechino schierò 150mila uomini e unità aeree. Morirono in migliaia nelle strade di Lhasa e in altre città. Il 17 marzo, il Dalai Lama abbandonò la capitale e chiese asilo politico in India, assieme ad almeno 80mila profughi. I morti pare furono 65mila. Nel 1965 il Tibet venne dichiarato Regione Autonoma, con una annessione di fatto alla Cina. Nel 1968 la Rivoluzione Culturale portò alla distruzione dei monasteri, almeno 6mila e all’uccisione di molti monaci. La resistenza tibetana però non mollava. Nel 1977 e nel 1980 vi furono altre due sollevazioni, anche queste represse duramente da Pechino. Dal 1976, Pechino ha riavviato l’opera di colonizzazione, tanto che in Tibet sono arrivati 7milioni di cinesi, contro i 6milioni di tibetani che ci vivono. L’obiettivo di Pechino, denuncia la resistenza, è cancellare la cultura e l’identità tibetane. Il Dalai Lama, con il suo Governo in esilio in India, ha nel frattempo tentato la via della mediazione, rinunciando a reclamare l’indipendenza, puntando all’autodeterminazione per salvare la cultura del Paese e salvaguardare i diritti umani. Un mediazione proposta nel 1987 tramite gli Stati Uniti è fallita. E come sempre, dopo ogni fallimento, sono ricominciati gli scontri.
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Ha 43 anni e il 27 aprile del 2011 è stato eletto Kalon Tripa, ovvero primo Ministro del Tibet. È lui l’uomo nuovo, la novità annunciata già nel 2010 dal Dalai Lama, quando disse che avrebbe rinunciato al potere temporale, per dar forza alla trattativa con Pechino per l’autonomia del Tibet. Eletto con il 55% dei voti dell’Assemblea che rappresenta il tibetani in esilio, Sangay è primo Ministro dall’8 agosto del 2011, giorno della solenne cerimonia di insediamento. Davanti al Dalai Lama e al primo Ministro uscente, Samdhong Rinpoche, oltre che a migliaia di spettatori e invitati, Sangay ha prestato solenne giuramento di fedeltà alla Carta Costituzionale tibetana. La cerimonia è stata nel tempio principale di Dharamsala, alle ore 9.09.09, numero che la tradizione tibetana collega all’auspicio di longevità. Lui, da sempre professore di Diritto, nel primo discorso ufficiale ha voluto parlar chiaro, spiegando che la sua nomina è in frutto dei sacrifici e dell’impegno di generazioni di tibetani dentro e fuori il Tibet e che il Dalai Lama ha voluto così dare potere a tutti i tibetani. Una scelta, ha aggiunto rivolto ai “duri” del governo di Pechino, che dimostra come la leadership tibetana, lungi dall’indebolirsi, sia destinata a crescere e a diventare più forte con il passare degli anni: “Siamo qui per rimanerci”, ha concluso.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLE FILIPPINE RIFUGIATI
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SFOLLATI PRESENTI NELLE FILIPPINE 139.509 RIFUGIATI ACCOLTI NELLE FILIPPINE RIFUGIATI
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Isole contese
Diplomatici e militari continuano a definirlo il “Gran gioco” in Estremo Oriente: è la partita – ormai eterna – per il controllo di alcune isole del Mar Cinese e dell’area a Nord del Giappone. Si parla degli arcipelaghi Spratly, Senkaku-Diaoyu e Curili. Se nel terzo caso – cioè le quattro isole delle Curili – lo scontro è fra Giappone, che le considera parte integrante del proprio territorio, e Russia, che le ha occupate nel 1945, per gli altri arcipelaghi i protagonisti sono sempre gli stessi: Filippine, Cina, Taiwan, Vietnam, Malaysia e Brunei. In gioco ci sono interessi strategici – per il controllo del traffico marittimo – ed economici – per via delle risorse di idrocarburi e la pesca. Un ruolo lo giocano anche gli Stati Uniti, che si sono dichiarati dalla parte delle Filippine. Pechino, cerca una soluzione negoziata con Manila. Nell’agosto del 2011, il Capo dello Stato cinese, Hu Jintao, ha sostenuto di voler applicare la “Dichiarazione d’azione delle varie parti del Mar del Sud” – documento siglato dai Paesi dell’area – trasformando il Mar del Sud in un mare pacifico, d’amicizia e di cooperazione. Un’apertura che il presidente filippino, Benigno Aquino III, ha accolto con favore, auspicando che il problema del Mar del Sud possa essere risolto al più presto.
Aldo Bernardi
L’ultimo fatto di sangue nel luglio 2011: sette soldati filippini sono stati uccisi dai militanti islamici del Milf, in uno scontro nel Sud del Paese. È ancora difficile la situazione nelle Filippine. In un Paese apparentemente calmo, restano aperti i due fronti di guerra interni, contro i separatisti del Fronte islamico di liberazione moro (Milf) e contro il Nuovo esercito del popolo (Npa) di matrice comunista: il prezzo, in termini di vite umane, è sempre alto. Sempre in luglio, altri 21 militari sono rimasti feriti in una battaglia contro una settantina di ribelli, a Patikul, sull’isola di Jolo. Il comando militare ha chiesto rinforzi e mezzi per evacuare i feriti. Per tentare di risolvere il problema almeno con i separatisti islamici, il presidente Benigno Aquino ha riavviato le trattative di pace, iniziate ufficialmente nel 2007, ma spesso interrotte. In agosto 2011 un primo incontro segreto è stato all’aeroporto di Tokio, con il leader separatista Al Haj Murad Ebrahim. Il Milf – la cui ala militare, il Bangsamore islamic armed forces (Biaf), è costituita da circa 10mila mujaheddin – avrebbe messo sul tavolo la rinuncia all’indipendenza, puntando sul riconoscimento di una sovranità condivisa, come tra Hong Kong e la Cina. Ma non tutti sembrano accettare questa idea. Uno dei comandanti indipendentisti, Amiril Umra Kato, ha rifiutato il progetto e creato un gruppo ribelle autonomo nel dicembre 2010. Espulso dal Milf, Kato ha più volte fatto sapere che non ostacolerà l’attuale processo di pace. Ma Manila non si fida, vuole certezze, che per ora non ci sono. Certezze che non ci sono nemmeno nei confronti del Nuovo esercito del popolo – non risultano trattative aperte con questo gruppo – e che servirebbero al Governo per affrontare anche un terzo fronte politico – militare: quello per il controllo delle isole Spratly, da settant’anni contese da Cina, Taiwan, Vietnam, Malaysia, Brunei e, appunto Filippine. Sono 750 isole coralline, fondamentali dal punto di vista strategico per i traffici nel Mar Cinese Orien-
FILIPPINE
Generalità Nome completo:
Repubblica delle Filippine
Bandiera
117
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Filippino, Inglese, Spagnolo, Arabo
Capitale:
Manila
Popolazione:
93.000.000
Area:
300.000 Kmq
Religioni:
Cristiana (91%), musulmana (5%), altre (4%)
Moneta:
Peso Filippino
Principali esportazioni:
Prodotti agricoli, abbigliamento e idraulica
PIL pro capite:
Us 4.923
tale, importanti per la pesca e, soprattutto, interessanti per il petrolio e gas naturale che sembrano essere nel sottosuolo. La crisi è sempre dietro l’angolo, pronta ad esplodere, come nel marzo 2011, quando una nave filippina che faceva rilevamenti geologici è stata avvicinata da due motovedette cinesi. Manila ha risposto inviando due aerei da guerra. Gli Stati Uniti si sono affrettati a dare il loro appoggio diplomatico a Manila, affermando i diritti delle Filippine sull’area e creando tensioni con Pechino. La partita – parte di una specie di “risiko” infinito in Asia – resta aperta.
Fatta salva la crisi internazionale, con le tensioni politico-militari soprattutto con la Cina per il controllo delle isole Spratly e Paracel, lo scontro principale, nelle Filippine, è tra maggioranza cristiana e minoranza musulmana, che reclama l’indipendenza. E nel fondo di tutto questo c’è la pessima distribuzione della ricchezza, in termini sociali e territoriali. Il Nord e il Centro dell’Arcipelago sono, appunto, le aree a maggioranza cristiana e sono le zone più ricche rispetto al Sud, a prevalenza musulmana. Gli islamici –
che sono il 5% della popolazione complessiva – da sempre accusano la maggioranza cristiana di non aver fatto abbastanza per distribuire le risorse equamente. Lo stesso, ma in senso non religioso e con obiettivi differenti, fanno i gruppi di origine marxista. Una cattiva distribuzione che è ben rappresentata dalla diffusione della popolazione sul territorio: il 60% degli 85 milioni di Filippini, infatti, vive in una sola isola, Luzon, dove c’è la capitale.
Per cosa si combatte
Tra mare e vulcani
L’arcipelago delle Filippine è formato da ben 7.107 isole, di cui solo 2.000 abitate. Il dato è fondamentale per capire la storia del Paese, da sempre diviso e difficile da governare in modo unitario. Luzon e Mindanao sono le isole più grandi, tanto da rappresentare il 66% della superficie del Paese. La vita di tutti è condizionata quindi dal mare e poi dall’attività sismica, praticamente incessante. Ci sono ben 37 vulcani, tutti attivi, con continue scosse. L’attività vulcanica ha però reso la terra più fertile, tanto da contare oltre 10mila tipi di alberi, arbusti e felci; le specie vegetali più diffuse sono le palme e il bambù. Un terzo del territorio è occupato da foreste.
118
Aldo Bernardi
Nelle Filippine la situazione resta complessa. Se il confronto con i musulmani del Milf sembra avviato a una soluzione – dopo anni di fallimenti nonostante i tentativi di mediazione della Malaysia –, con i rivoluzionari del Npa sembra non vi sia dialogo aperto. Eppure l’elezione lo scorso anno di un altro Aquino alla presidenza, Benigno, figlio dell’icona della democrazia, Cory Aquino, aveva acceso speranze nel Paese asiatico, storicamente travagliato. Prima colonia della Spagna, poi degli Usa, dopo l’indipendenza il Paese venne guidato con mano dittatoriale da Marcos sino al 1986, anno della svolta democratica, con l’elezione della presidente Cory Aquino. L’arrivo della nuova Presidente portò ad un accordo con i movimenti separatisti musulmani di Mindanao, attivi nel Sud del Paese sin dagli anni ‘50. Venne concessa loro ampia autonomia amministrativa. Questo fermò il conflitto armato con i separatisti. Continuò invece la guerra con il Nuovo esercito del popolo (Npa): nel 1990, la guerriglia riprese, dopo la denuncia della scomparsa di attivisti politici e sindacali della sinistra. Il 26 novembre 1991 un altro pezzo del passato coloniale se ne andò: gli Usa si ritirarono dalla base di Clark – una delle due esistenti nelle Filippine, l’altra è Subic Bay –, insieme a 6mila effettivi americani. Nel maggio dell’anno dopo, venne eletto alla presidenza Fidel Ramos, ex ministro della Difesa. Nel 1996 parve risolto il problema con i separatisti isla-
mici. Il 30 settembre venne firmato un accordo di pace e Nul Misauri, capo del Fronte di liberazione nazionale moro, diventò governatore di Mindanao, regione autonoma enorme. Fu una pace di breve durata. Già nel 2000 i musulmani chiedevano un referendum per l’autodeterminazione, mentre la maggioranza cattolica protestava contro l’accordo non accettandolo. Intanto una serie di scandali per tangenti e corruzione travolgeva la politica. Nell’aprile del 2002 a General Santos, nel Sud del Mindanao, venne dichiarato la stato d’allerta, per l’esplosione di parecchie bombe, con 14 morti, a opera del Milf, il Fronte Islamico di liberazione moro. Era la ripresa della guerra. L’obiettivo dichiarato era creare uno stato musulmano. Lo scontro con i gruppi islamici divenne sempre più duro, ma restava alta la tensione anche i gruppi guerriglieri di origine marxista, che riprendevano vigore. Nel 2003, Amnesty International denunciò l’uso della tortura su prigionieri politici, membri di gruppi armati e criminali comuni. Accusa che venne respinta dal Governo. Nel marzo del 2004, venne sventato un attentato simile a quello che aveva colpito Madrid l’11 marzo. Vennero arrestati quattro membri di Abu Sayyaf con 36 chili di esplosivo confiscati. Uno di loro si dichiarò responsabile dell’attentato che il 27 febbraio di quell’anno costò la vita a 100 persone sul SuperFerry 14. Gli arrestati, che sve-
Quadro generale
Ferdinand Edralin Marcos
La storia recente delle Filippine gira nel bene e nel male attorno alla vita di un uomo: Ferdinand Edralin Marcos. È stato presidente delle Filippine per 21 anni, dal 1965 al 1986, trasformando la carica in una dittatura che ha condizionato pesantemente il Paese. Laureato in giurisprudenza, accusato nel 1939 dell’omicidio di un rivale politico e poi assolto nel 1940, Marcos entrò presto in Parlamento. Sposato con Imelda – da sempre e per sempre la sua più fidata consigliera – nel 1965 divenne Presidente, dando vita ad una vera e propria dittatura. Guerriglia comunista e lotta separatista musulmana iniziarono nel 1972. La legge marziale fu applicata per 9 anni, con una feroce repressione di tutti gli oppositori: il più importante fra loro, Benigno Aquino, padre dell’attuale presidente, venne ucciso nel 1983. Gli eccessi di Marcos divennero intollerabili, anche per l’Esercito che lo sosteneva. La fine arrivò con le elezioni del 1986, quando Cory Aquino, moglie di Benigno, si candidò alla presidenza. A Marcos – con Imelda – non rimase che la via dell’esilio. Morì alle Hawaii e ora il corpo riposa in patria. Suo figlio Ferdinad Jr e la figlia Imee sono attivissimi in politica.
Un paradiso fiscale che non piace all’Ocse
Una delle maggiori fonti di ricchezza per le Filippine è essere ancora considerate un paradiso fiscale. Per l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo europei, il Paese è ancora nella lista grigia dei centri finanziari internazionali free tax. A formare questa lista, almeno sino al giugno di quest’anno, erano anche Belize, Isole Cook, Liberia, Isole Marshall, Montserrat, Nauru, Niue, Panama, Vanatu, Brunei, Costa Rica, Guatemala e Uruguay. Anche lo Stato Italiano, col Decreto ministeriale 04/05/1999, ha inserito le Filippine tra gli Stati o Territori aventi un regime fiscale privilegiato, ponendo quindi limitazioni fiscali ai rapporti economico-commerciali che si intrattengono tra le aziende italiane e le imprese filippine.
larono di essere stati addestrati dalla rete terroristica Jemaah Islamiah, legata ad al-Qaeda, progettavano attentati contro treni e negozi a Manila, città con dieci milioni di abitanti. Nel 2004, la Norvegia mediò un accordo fra Nuovo esercito del popolo e Governo. L’anno successivo, dopo negoziati di pace in Malaysia, indipendentisti musulmani e Governo annunciarono un accordo sulle terre ancestrali di cui i ribelli rivendicavano la proprietà da trent’anni. Tregue che non durarono. Nel 2010 sono ripresi i combattimenti. Si calcola che dal 1971 a oggi siano stati più di 150mila i filippini morti tra Mindanao e l’arcipelago di Sulu, nello scontro per l’indipendenza e oltre 50mila gli sfollati. Il conflitto con la guerriglia del Npa, invece, avrebbe procurato almeno 40mila morti, a partire dal 1969. Il doppio fronte della guerra interna alla Filippine è sempre aperto. Da un lato lo scontro con gli indipendentisti del Milf, dall’altro la guerra con Npa di matrice comunista, continuano a far pagar prezzi alti in termini di vite umane. Il neo presidente Benigno Aquino III – eletto in giugno – ha fatto ripartire le trattative di pace con risultati scadenti, così
I PROTAGONISTI
sono continuate le offensive militari. Per le trattative, il ministro degli Esteri della Malaysia è stato chiamato a fare da mediatore, senza risultato. Il Milf vuole trattare solo sulla base della cosiddetta “sovranità condivisa”, che prevede un unico stato con un Governo autonomo nel Sud islamico. Una ipotesi che può diventare realtà solo con una revisione della Costituzione e quindi con l’intervento del Parlamento filippino, poco disponibile a una decisione di questo tipo. Così il Milf e il gruppo Abu Sayyaf – legato ad al-Qaeda – continuano a lottare per arrivare a creare uno stato islamico indipendente a Mindanao e nelle isole meridionali delle Filippine. Finito il ramadan, la offensiva del Governo si è concentrata sull’arcipelago di Sulu, con l’impiego della marina militare per stanare i ribelli. Nel mirino soprattutto gli uomini di Abu Sayaff, gruppo nato negli anni Novanta per creare uno stato islamico nell’arcipelago del Pacifico e, dicono gli osservatori, degenerato poi diventando un normale gruppo criminale, dedito soprattutto ai rapimenti e alle estorsioni. A comandare la missione del Governo è il generale Benjamin Mohammad Dolorfino, comandante del distaccamento militare di Mindanao Ovest, che ha dichiarato che concentrerà le forze contro il gruppo di Sulu, forte di circa 200 uomini e contro quello di Basilau, che ne conta solo cento.
119
(Sarrat, 11 settembre 1917 Honolulu 21 aprile 1989)
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALL’INDIA RIFUGIATI
17.769
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI STATI UNITI D’AMERICA
7.842
CANADA
5.954
RIFUGIATI ACCOLTI NELL’INDIA RIFUGIATI
184.821
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI CINA
100.003
SRI LANKA
69.998
AFGHANISTAN
9.094
40milioni di armi
In India ci sono 40milioni di piccole armi e di queste solo il 15% ha una regolare licenza. È quanto emerge da un rapporto sulla “Violenza armata in India” presentato a Nuova Delhi nel 2011 e promosso dalle Nazioni Unite in occasione della Giornata Internazionale della Pace. Nonostante la grande quantità di armi e la presenza di un conflitto armato nel Nord e nel Nord Est del Paese, negli ultimi dieci anni il tasso di crimini legato all’uso di armi da fuoco si sarebbe dimezzato. Il rapporto, compilato sulla base di dati della polizia e referti medici nei 28 stati indiani, mostra che la città di Meerut, nello stato di Uttar Pradesh, è la città più ‘’violenta’’ dell’India. Preoccupa anche il traffico di armi provenienti da Paesi vicini come Afghanistan, Pakistan e Sri Lanka.
Una guerra strisciante percorre l’India rurale. Non fa notizia, fuori dall’Asia meridionale, e anche nei grandi media nazionali indiani appaiono solo occasionali notizie di encounter, “scontri a fuoco”, tra le forze di sicurezza e i maoisti in qualche remoto villaggio, oppure notizie di attacchi a pattuglie di polizia. Solo eventi maggiori arrivano a “bucare lo schermo”: come quando, il 6 aprile 2010, in una foresta del montagnoso del Chhattisgarh, stato dell’India centrale, 75 paramilitari sono stati uccisi dai ribelli in un’imboscata. Nell’ultimo anno è tornata la routine: lo stillicidio di pattuglie attaccate, scontri, morti, arresti. Nel marzo 2011 alcuni attivisti per i diritti umani hanno lanciato un allarme: parlavano di villaggi bruciati per rappresaglia, sempre in quelle foreste del Chhattisgarh. Si è trattato di un’operazione di polizia durata cinque giorni, ha mobilitato 350 uomini di un corpo di élite, il battaglione Cobra, e squadre dei commandos Koya, una milizia di “polizia ausiliaria” reclutata tra “maoisti pentiti” e giovani tribali (così nel vocabolario politico indiano sono definite le minoranze native). Il bilancio è stato di tre villaggi in fiamme, tre abitanti uccisi, tre donne violentate, tre paramilitari morti. La rivolta armata di ispirazione maoista diffusa nelle zone più remote dell’India rurale è il più grave conflitto oggi presente nel Paese: per estensione, perché coinvolge decine di distretti in almeno cinque Stati, e per intensità, benché il trend sia in calo: dopo un picco di 1.180 morti nel 2010 (e 998 nel 2009), il South Asia Terrorist Portal registra 480 morti (di cui 199 civili) in atti di violenza legati all’insurrezione maoista nel 2011 (fino al 4 settembre). Nel settembre 2009 il Governo centrale ha lanciato un’offensiva “massiccia e coordinata” mobilitando circa 60mila uomini della Central Reserve Police Force (forze paramilitari federali, con corpi speciali antiguerriglia, non l’esercito regolare) insieme alla polizia dei diversi stati. Chiamata Green Hunt, “Caccia Verde”, doveva segnare l’affondo finale contro la guerriglia. Invece è culminata in un disastro: quell’attacco nell’aprile 2010 in Chhattisgarh è stato la più
INDIA
Generalità Nome completo:
Repubblica dell’India
Bandiera
121
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Hindi, inglese e altre 21 lingue
Capitale:
Nuova Delhi
Popolazione:
1.147.995.904
Area:
3.287.594 Kmq
Religioni:
Induista (80,45%), musulmana (13,43%), cristiana (2,34%), sikh (1,87%), buddista (0,77%)
Moneta:
Rupia
Principali esportazioni:
Tessuti, gioielli, prodotti dell’ingegneria e software
PIL pro capite:
Us 2.563
grave disfatta per le forze di sicurezza indiane dall’inizio dell’insurrezione. Da allora le forze di sicurezza sono sulla difensiva. E nel luglio 2011, la Corte Suprema ha dichiarato illegale la pratica delle autorità di reclutare giovani indigeni nei villaggi per combattere contro i maoisti sotto il nome di “polizia ausiliaria”: sul terreno intanto il conflitto strisciante continua.
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I giovani “tribali” che si uniscono alla guerriglia combattono per una cosa molto semplice: la terra. I quadri maoisti dicono cose molto appealing per gli abitanti di villaggi rurali: denunciano lo stato che vuole dare le terre comuni alle multinazionali per aprire miniere e fabbriche, parlano di difendere le risorse naturali e la terra degli adivasi. La popolazione rurale dell’India, e in particolare quella indigena, è stata negletta per decenni: nella povertà più assoluta, esclusa dai benefici dello “sviluppo”, termine che nel linguaggio dello Stato indiano indica sanità, scuola, i servizi di uno stato sociale, infrastrutture per lo sviluppo agricolo. Ma forse ormai il punto non è che c’è “troppo poco sviluppo”, scrive Aditya Nigan, ricercatore dell’autorevole Centre for the Study of Developing Societies di New Delhi: “Oggi il problema è proprio lo sviluppo, che arriva sotto forma di grandi progetti, miniere, acciaierie o dighe, quindi grandi requisizioni di terre, foreste abbattute, e masse di persone costrette a lasciare tutto e sfollare”. Il nesso dei poteri locali – funzionari locali, polizia, politici e imprenditori forestali o coloni agricoli alleati per sfruttare e angariare la gente senza potere – ha accelerato lo sfruttamento delle terre adivasi. “È questo che dà ai maoisti tanta attrattiva agli occhi di persone che dello Stato hanno visto solo il volto violento”,
sostiene Nigam: “lo Stato ha aperto la guerra contro gli adivasi. E loro, i maoisti, hanno alzato lo scontro: la guerra metaforica è diventata letterale”. Dall’altra parte, lo Stato lotta semplicemente per riprendere il controllo del territorio, delle ampie zone che per i maoisti sono “zone liberate”, off limits per le forze dell’ordine. Mentre il mondo delle grandi imprese fa il tifo: l’agenzia Bloomberg stima che progetti industriali e minerari per un valore di 80miliardi di dollari siano bloccati a causa dell’insurrezione maoista; la stima sembra esagerata ma non c’è dubbio che il conflitto abbia un impatto economico. Soprattutto, è l’alibi per continuare a lasciare intere regioni dell’India rurale al margine della cittadinanza. La spirale di ribellione e repressione militare è un circolo vizioso. Ipotesi di trattativa finora sono cadute nel nulla. Il ministro dell’Interno P. Chidambaram, fautore della risposta militare, ha però ammesso nei primi mesi del 2011 che la situazione è di stallo. Del resto proprio l’offensiva Green Hunt (del 20092010) ha mostrato l’inadeguatezza di una risposta puramente militare al movimento maoista, a detta dell’Institute for Conflict Management di New Delhi: perfino gli esperti di antiterrorismo riconoscono che non c’è soluzione di forza a un conflitto che ha le sue radici nelle grandi diseguaglianze e ingiustizie dell’India rurale.
Per cosa si combatte
La rivolta armata maoista è “la maggiore minaccia alla sicurezza interna” dell’India, ha detto qualche anno fa il primo Ministro indiano Manmohan Singh. Nel maggio del 2011, rivolto a un’audience di ispettori di polizia nella capitale New Delhi, si è spinto oltre: “Se non controlliamo il movimento maoista, dovremo dire addio all’ambizione del nostro Paese di sostenere un tasso di crescita del 10 o 11% annuo”, ha detto. Le sue parole possono stupire un osservatore esterno: una guerra interna? L’India, Paese di 1 miliardo e 210milioni di abitanti (al censimento del 2011), spesso celebrata come la più popolosa democrazia al mondo, negli ultimi anni ha fatto notizia piuttosto per il suo ingresso tra le “economie emergenti”. Nell’ultimo decennio il Prodotto Interno Lordo è cresciuto intorno all’8% annuo. Crescono export, produzione industriale, consumi, immobiliare, mercato azionario, investimenti. Molto di questa crescita sta nelle information technologies, il “terziario avanzato globale” degli ingegneri di software e dei call centre, ma si moltiplicano anche i grandi investimenti in miniere, acciaierie, poli industriali. Grandi città come Mumbai, New Delhi, Kolkata (Calcutta) hanno ormai l’aspetto moderno di metropoli globali. La classe media è in espansione. Eppure, la “nazione emergente” dell’Asia meridionale è percorsa da un conflitto interno. La rivolta armata di ispirazione maoista è una realtà, anche se la sua ampiezza è oggetto di discussione. È una guerra strisciante che coinvolge un’ampia fascia di territorio attraver-
so diversi stati: dalla parte rurale del Bengala occidentale al poverissimo Bihar, nella piana del Gange, al Jharkhand, l’Orissa, il Chhattisgarh nella Regione centro-orientale, con propaggini in Andhra Pradesh e Maharashtra. In ciascuno di questi Stati sono coinvolte zone più o meno ampie ma sempre rurali e montagnose. Ed è proprio la carta geografica a spiegare. La mappa delle “zone affette da insurrezione maoista” infatti coincide quasi alla perfezione con la remota Regione chiamata “tribal belt”, dove prevale la popolazione indigena (i “tribali”, o adivasi, parola indiana che significa “abitanti originari”): sono una minoranza consistente, 90milioni di persone, ma restano la parte più povera e marginale della popolazione indiana. Questa Regione a sua volta coincide con la “mi-
Quadro generale
Primavera indiana
Esiste il rischio di una rivolta popolare in stile egiziano in India? No secondo il premier indiano Manmohan Singh che nel corso di una conferenza stampa ha assicurato: “Non c’è motivo di ritenere che quanto avvenuto in Egitto o in altri Paesi arabi possa accadere anche in India. Diamo il benvenuto alla nascita della democrazia in ogni parte del mondo” ha detto il primo Ministro, secondo cui l’India resterà immune dalle proteste perché è “una democrazia funzionante” dove i “media sono liberi di criticare l’esecutivo”. Secondo alcuni analisti indiani, le rivolte nei Paesi arabi potrebbero influenzare i gruppi separatisti del Kashmir o contagiare le popolazioni delle zone dove sono attivi i ribelli maoisti.
Binayak Sen
(Bengali, 4 gennaio 1950)
Unicef, 61milioni di bambini malnutriti
Secondo l’Unicef, in India il 20% dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione acuta. Più di un terzo dei bambini del mondo che soffrono la fame vivono in India. Il 43% di bambini indiani sotto i cinque anni è sottopeso e il 48% (ovvero 61milioni di bambini) sono rachitici a causa della malnutrizione cronica. La malnutrizione è notevolmente più elevata nelle zone rurali rispetto a quelle urbane. La percentuale dei bambini gravemente sottopeso è quasi cinque volte superiore tra i bambini le cui madri non hanno accesso all’istruzione, ed è molto più comune nei bambini che hanno madri a loro volta denutrite.
neral belt”, i territori montagnosi, ove si trova la gran parte delle ricchezze minerarie indiane, solo in parte sfruttate: l’80% del ferro, il 90% della bauxite, uranio, carbone, rame, oro e quant’altro. Le mappa dei giacimenti minerari e quella delle popolazioni native si sovrappongono, ed è questa la radice del conflitto nelle retrovie rurali dell’India. La corsa a estrarre quelle risorse minerarie (e a creare raffinerie e poli industriali), accelerata nell’ultimo decennio, ha esasperato la pressione su terre e foreste abitate da “tribali” e popolazioni ai margini, accelerato l’esproprio, inasprito vecchie ingiustizie. I protagonisti del conflitto armato sono diversi, anche se tutti indicati come “naxaliti”. Il nome si deve alla rivolta nel villaggio di Naxalbari, nelle campagne del Bengala occidentale, nel 1967: era una rivolta contadina contro un sistema di sfruttamento agrario per molti aspetti ancora feudale, ed è stato l’episodio iniziale di un movimento di lotta armata guidata da un Partito Comunista Maoista. Lo scontro è stato violento: nei primi anni ‘70 il movimento maoista era di fatto finito, schiacciato dalle forze di sicurezza e spiazzato dai cambiamenti sociali. Solo alla fine degli anni ‘70, passato lo stato d’Emergenza proclamato da Indira Gandhi nel
I PROTAGONISTI
‘75, il movimento ha cominciato a riorganizzarsi. Ma questi sono ormai lontani antefatti. Il conflitto attuale è cominciato tra la fine anni ‘90 e i primi anni 2000, con la lotta armata lanciata in Andhra Pradesh dal Peoples War Group (“Gruppo della guerra di popolo”) e in Bihar dal Maoist Coordination Centre e un Partito maoista (Cpi-m-party unity), sigle che nel 2004 si sono fuse dando vita al Cpi-maoist, Partito Comunista Maoista, ovviamente illegale. A differenza che negli anni ‘60, il corpo dei militanti – i foot soldiers, soldati semplici – sono per lo più “tribali”, anche se la leadership è composta da persone istruite e di casta alta, per lo più brahmini. Dopo una forte offensiva delle forze speciali in Andhra Pradesh, tra il ‘99 e il 2000 la guerriglia maoista si è spostata verso Nord. Oggi il Cpi-maoist è presente in ampie zone del Chhattisgarh, Jharkhand, Bihar. Altre sigle sono presenti in zone limitrofe. Un caso a sé è il Bengala occidentale, dove gli epigoni dei naxaliti nell’ultimo decennio hanno cercato di egemonizzare proteste di massa contro la requisizione di terre da destinare a “zone economiche speciali” industriali: qui la controparte al Governo era un Fronte delle sinistre guidato dal Partito Comunista Indiano, al potere dal lontano ‘77 e artefice allora di una profonda riforma agraria. Paradossale che proprio la requisizione di terre gli sia costato una sonora sconfitta elettorale del maggio 2011.
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Bimayak Sen, medico pediatra, è una figura nota in Chhattisgarh, dove si era stabilito nel 1981. Aveva fondato una clinica gratuita per gli operai delle miniere, si è dedicato all’assistenza sanitaria per la popolazione rurale più povera. Sen presiede la sezione locale (ed è vicepresidente nazionale) della Peoples Union for Civil Liberties (Unione popolare per le libertà civili), organizzazione per i diritti sociali e civili fondata in India negli anni ‘70. In quella veste aveva criticato la decisione del Governo locale di creare e armare una milizia irregolare usata nella guerra contro i ribelli maoisti. Nel maggio del 2007 Sen è stato arrestato e accusato di «fiancheggiare» il Partito maoista illegale. Dopo due anni di galera preventiva, nel maggio 2009 era stato scarcerato in attesa di giudizio, dopo che a suo favore si erano mobilitati intellettuali, accademici, 22 premi Nobel e organizzazioni per i diritti umani indiane e internazionali. Il 24 dicembre 2010 un tribunale lo ha però condannato a vita per «cospirazione criminale» e «sedizione». La sentenza ha fatto scandalo, e lo scorso aprile (2011) la Corte suprema federale ha disposto la scarcerazione di Binayak Sen, giudicando che lo stato di Chhattisgarh non aveva portato prove convincenti a suo carico.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALL’IRAQ RIFUGIATI
1.683.579
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SIRIA
1.000.000
GIORDANIA
450.000
GERMANIA
50.432
SFOLLATI PRESENTI NELL’IRAQ 1.343.568 RIFUGIATI ACCOLTI NELL’IRAQ RIFUGIATI
34.655
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI TURCHIA
15.606
PALESTINA
10.798
IRAN
7.989
Diritti umani negati
Una situazione critica, che continua a deteriorarsi. Dai rapporti periodici delle Nazioni Unite, di Amnesty International, Human Rights Watch, e anche del Dipartimento di Stato Usa, emerge un quadro preoccupante – di violenze contro i cittadini, abusi e torture nelle carceri, omicidi impuniti, assenza dello Stato di diritto. Grave la situazione delle donne – in particolare nella Regione del Kurdistan, dove sono diffusi “delitto d’onore” e mutilazione genitale. Sotto attacco l’informazione, in particolare quella indipendente, e i suoi operatori: giornalisti, fotografi, cameraman, che spesso pagano con la vita il solo fatto di voler fare il proprio lavoro. Mentre i loro killer restano impuniti. Come denunciano regolarmente Reporters sans frontières e il Committee to Protect Journalists.
UNHCR/H. Caux
A meno di tre mesi dalla data prevista per il ritiro totale delle truppe statunitensi (31 dicembre), l’Iraq resta un Paese politicamente instabile, dove la sicurezza è tuttora assai precaria. Irrisolto il nodo del “power sharing” - la condivisione del potere prevista dal cosiddetto “accordo di Irbil”, che aveva finalmente consentito la nascita del Governo, nel dicembre 2010, a nove mesi dalle elezioni legislative del marzo dello stesso anno, che avevano visto la vittoria, sia pur di strettissima misura, di Iraqiya, la coalizione nazionalista dell’ex premier Iyad Allawi. L’esecutivo, rimasto in mano al premier Nuri al Maliki, è tuttora incompleto: i ministeri di Interni e Difesa, ancora scoperti, sono gestiti a interim dallo stesso Maliki. Pesanti le ripercussioni sulla sicurezza – con attentati periodici che colpiscono non solo la capitale, Baghdad, facendo numerose vittime. Allawi, dal canto suo, continua a ribadire che l’unica via di uscita dalla crisi politica sarebbero elezioni anticipate. Irrisolti anche i contrasti fra il Governo centrale di Baghdad e quello della Regione del Kurdistan – primo fra tutti quello sulla gestione delle risorse (leggi: petrolio). Intanto i venti della “primavera araba” sono arrivati anche in Iraq, sia pure in tono minore (per ora). Da febbraio manifestazioni di protesta si susseguono ogni venerdì a Baghdad e anche nella Regione kurda, in particolare a Sulaimaniya. Giovani, sindacalisti, donne, intellettuali, giornalisti, esponenti di organizzazioni non governative e semplici cittadini scendono in piazza organizzandosi attraverso i social media (Facebook e Twitter), e iniziano a chiedere conto al potere. Il futuro della presenza militare Usa è un altro punto interrogativo. I circa 46mila militari a
IRAQ
Generalità Nome completo:
Repubblica Irachena
Bandiera
125
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo, curdo
Capitale:
Baghdad
Popolazione:
27.102.912
Area:
437.072 Kmq
Religioni:
Musulmana
Moneta:
Dinar iracheno
Principali esportazioni:
Petrolio
PIL pro capite:
Us 3.400
stelle e strisce rimasti nel Paese, ufficialmente per addestrare le forze irachene, dovrebbero andarsene entro fine anno. A meno che il Governo di Baghdad non negozi un nuovo accordo con gli Stati Uniti. Si parla genericamente di “addestratori” – che rimarrebbero dal 2012, ma certezze finora non ce ne sono, a cominciare dai numeri. Stretto fra due vicini ingombranti – Iran e Turchia – e con la crisi siriana alle porte, in una Regione che ha visto sconvolti i precedenti equilibri ma ancora non ne ha trovati di nuovi, l’Iraq che sia avvia a diventare “post-americano” sta entrando in una nuova fase densa di incognite.
L’invasione del marzo 2003 e il rovesciamento del regime di Saddam Hussein hanno messo in moto una serie di dinamiche destabilizzanti, fra cui la spartizione del potere in base a logiche etnico-confessionali (modello libanese). Il controllo delle ricchezze del Paese, in particolare
quella petrolifera, e una decentralizzazione assai spinta (definita federalismo) che oppone i kurdi al Governo centrale di Baghdad, restano nodi irrisolti – e strettamente legati – che rischiano di deflagrare in un conflitto.
Per cosa si combatte
126
UNHCR/H. Caux
Già Provincia dell’Impero Ottomano, nel 1920, finita la Prima Guerra mondiale, diventa una monarchia sotto mandato britannico. Nel 1932 l’indipendenza. Il 14 luglio 1958 un colpo di Stato nazionalista rovescia la monarchia. L’8 febbraio 1963 il governo di Abdul Karim Qasim viene a sua volta rovesciato da un golpe del Ba’ath, partito nazionalista arabo. Abdul Salam Arif, presidente della Repubblica, presto estromette i ba’athisti e diventa primo Ministro. Il 17 luglio 1968 un altro colpo di Stato riporta al potere il Ba’ath, che instaura il regime del partito unico. Saddam Hussein, vice del generale Ahmad Hasan al Bakr, diventa Presidente il 16 luglio 1979. Il 22 settembre 1980 Saddam attacca l’Iran, dove nel febbraio 1979 la Rivoluzione Islamica guidata dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini ha rovesciato il regime dello Scià. Inizia così una guerra sanguinosa che vede l’Occidente – Stati Uniti in testa – schierarsi con Baghdad. Alla fine della guerra (20 agosto 1988), l’Iraq è in una situazione economica disastrosa, con un debito fra i 60 e gli 80miliardi di dollari verso i Paesi arabi del Golfo, che ne hanno finanziato l’avventura militare. Nel luglio 1990, Saddam accusa il Kuwait di abbassare il prezzo del petrolio per indebolire l’economia irachena. Il 2 agosto invade l’emirato. Il 6 agosto le Nazioni Unite impongono un embargo, per costringere Baghdad a ritirarsi. Il Consiglio di Sicurezza inoltre autorizza l’uso della forza, sulla base del Capitolo VII della Carta dell’Onu (minacce alla pace internazionale). La Guerra
del Golfo (Operazione Desert Storm) inizia il 17 gennaio 1991 e vede l’Iraq attaccato da una coalizione di 34 Paesi. Il 3 marzo 1991 Baghdad accetta il cessate il fuoco. Ma perché vengano tolte le sanzioni, un regime di ispezioni internazionali dovrà certificare che l’Iraq non possiede più “armi di distruzione di massa” (nucleari, chimiche, biologiche). L’embargo devasta il Paese, colpendo in particolare le fasce più vulnerabili della popolazione. E rafforza il regime di Saddam - che Washington tuttavia ora vuole togliere di mezzo. Dopo l’11 settembre, il Presidente George W. Bush ritiene che sia arrivato il momento giusto: il pretesto sono le “armi di distruzione di massa”. Stati Uniti e Gran Bretagna decidono di invadere il Paese, malgrado il Consiglio di Sicurezza non abbia autorizzato l’azione militare per l‘opposizione di Francia, Russia, e Cina. Il 20 marzo 2003 inizia l’Operazione Iraqi Freedom. Il 9 aprile i carri armati americani entrano a Baghdad. Deposto il regime, il 1 maggio 2003, Bush jr, dichiara concluse le “operazioni di combattimento”, sulla portaerei Abramo Lincoln, sotto uno striscione che dice “Missione compiuta”. In Iraq si insedia la Coalition Provisional Authority guidata da Paul Bremer, il “proconsole americano” che riferisce direttamente al Pentagono (che ha emarginato il Dipartimento di Stato). Ma il rapido precipitare degli eventi – una guerriglia efficace, che colpisce anche obiettivi di alto profilo (come la sede delle Nazioni Unite a Baghdad il 19 agosto 2003) – convince Washington a restituire la
Quadro generale
Il petrolio
Una dozzina di contratti già firmati con compagnie internazionali, fra queste l’Eni, per lo sviluppo di altrettanti giacimenti. E un altro round di gare d’appalto – il quarto – nel marzo 2012. L’obiettivo – ambizioso del Governo di Baghdad è aumentare la produzione di greggio a 12milioni di barili al giorno entro il 2017, dai 2,8milioni attuali. Quelli conclusi sono contratti “di servizio”, della durata di 20 anni, dove la compagnia straniera non partecipa agli utili della produzione, come avviene invece con i cosiddetti Production Sharing Agreement. A operare sono joint venture, in cui l’Iraq mantiene una quota di minoranza, attraverso le società di Stato che fanno capo al ministero del Petrolio. Una sola compagnia americana fra quelle che si sono aggiudicate i contratti: la ExxonMobil. La parte del leone l’hanno fatta finora i cinesi di Cnpc e i malesi di Petronas.
Nuri al Maliki
UNHCR/H. Caux
(Abu Gharaq, 20 giugno 1950)
Kurdi contro Baghdad
Ha un suo Parlamento e un suo Governo. La Regione del Kurdistan, nel Nord Iraq, composta dalle tre Province di Irbil, Dohuk, e Sulaimaniya, è di fatto autonoma – nell’ambito di un Iraq “federale”, come precisa la Costituzione. Baghdad e Irbil (sede del Governo regionale, il Krg) questioni in sospeso ne hanno parecchie, e non riescono a risolverle, nonostante i periodici round di negoziati, che vanno avanti da anni. Senza arrivare a un accordo. Nodi principali: la gestione delle risorse, prima fra tutte il petrolio, e i cosiddetti “territori contesi” – zone abitate in maggioranza da kurdi, fuori dai confini dell’attuale regione autonoma, che il Krg vorrebbe annettere al proprio territorio. Un nome su tutti: Kirkuk – città abitata da kurdi, arabi, e turcomanni, al centro di una Regione assai ricca di petrolio, che molti considerano la scintilla che potrebbe innescare il prossimo conflitto.
“sovranità” agli iracheni. A fine giugno 2004 il passaggio di consegne a un governo a interim guidato da Iyad Allawi, uno dei leader dell’opposizione irachena in esilio, in attesa di elezioni. L’Iraq resta tuttavia un Paese occupato, con la cosiddetta “Forza multinazionale” – sotto comando statunitense – legittimata da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, poi prorogata annualmente. Il 30 gennaio 2005 le prime elezioni per un “Governo di transizione”. Il 15 ottobre viene approvata, di stretta misura, una nuova Costituzione, in un referendum popolare. Il 15 dicembre 2005 gli iracheni tornano a votare, ma bisognerà aspettare il maggio 2006 per il nuovo Governo “di unità nazionale” guidato da Nuri al Maliki: una coalizione fra partiti sciiti (religiosi) e kurdi – i due gruppi perseguitati dal regime di Saddam. L’ex Presidente iracheno, catturato il 14 dicembre 2003, e condannato a morte da un Tribunale speciale, viene giustiziato il 30 dicembre 2006. Il 22 febbraio 2006 un attentato contro la moschea sciita al Askariya di Samarra innesca un ciclo sanguinoso di
I PROTAGONISTI
violenze fra sunniti e sciiti, che assume presto il carattere di vera e propria guerra civile. Gli americani non sanno più che fare. Dal gennaio 2007 il Presidente Bush jr. avvia la cosiddetta “surge”: una nuova strategia affidata al generale David Petraeus, e basata sull’aumento della presenza militare, in particolare a Baghdad. Il numero dei militari statunitensi arriva a quasi 170mila. Il 14 dicembre 2008, dopo mesi di faticosi negoziati, Stati Uniti e Iraq firmano lo Status of Forces Agreement (Sofa), che stabilisce il ritiro delle truppe Usa dai centri abitati entro il 30 giugno 2009 e il loro ritiro totale entro fine 2011. Nel febbraio 2009, il nuovo Presidente Barack Obama annuncia che le operazioni “da combattimento” in Iraq si concluderanno entro il 31 agosto 2010. Le elezioni legislative del 7 marzo 2010 vedono vincere di strettissima misura Iraqiya, alleanza nazionalista guidata dall’ex primo Ministro Iyad Allawi, il quale tuttavia non riesce a formare il Governo. È ancora una volta Nuri al Maliki, che è riuscito a unificare le forze sciite in una coalizione di maggioranza, a guidare l’esecutivo, che nasce solo nel dicembre 2010 – e con parecchi ministeri affidati a interim. Fra questi Difesa, Interni, e Sicurezza Nazionale, che Maliki tiene per sé, in attesa di nominare i ministri.
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Alla guida del Paese dal maggio 2006. Nuri al Maliki, il primo Ministro iracheno, è uno dei tanti politici tornati dall’esilio dopo la caduta del regime di Saddam Hussein. Da giovane entra nelle fila di al Da’wa, il più antico partito religioso sciita, diventandone uno dei leader. Laureato in letteratura araba all’Università di Hilla, lascia l’Iraq nel 1979, rifugiandosi in Iran e poi in Siria. Rientrato nel 2003, inizialmente assume un basso profilo, come numero due di Ibrahim al Ja’afari, il leader di al Da’wa che guida il “Governo di transizione” nel 2005 – al quale viene preferito allorché si tratta di scegliere il nuovo premier, dopo le elezioni del dicembre 2005. Giudicato agli inizi una figura debole, rivela in seguito fermezza e una considerevole abilità politica, che gli permette di avere la meglio sul rivale storico, Iyad Allawi, nonostante la vittoria di quest’ultimo alle elezioni legislative del marzo 2010. Favorevole a concentrare il potere nelle mani del governo centrale, secondo molti incarna “l’uomo forte” di cui l’Iraq non può fare a meno. Altri, anche nella sua stessa coalizione, ne criticano le tendenze autoritarie – e c’è chi parla di “nuova dittatura”.
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Come leggere le Mappe
Nella Mappa Onu, qui sopra, troverete solamente indicato lo Jammu and Kashmir poichè si tratta dell’antico nome dell’intera area contesa da India, Pakistan e Cina. La Mappa, qui a destra, indica invece la spartizione di fatto dei territori da parte dei suddetti Stati, con diversa denominazione, mai riconosciuta a livello internazionale.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Nell’ultimo scorcio del 2011 il Kashmir sembra profondamente mutato, per la prima volta da quando nel 1989 è cominciata una insurrezione separatista in questo territorio conteso tra India e Pakistan. Un segnale è che il trend della violenza è in calo, dopo vent’anni di rivolta armata diventata una “guerra a bassa intensità” Li hanno chiamati i «figli del concombattuta da milizie infiltrate dal territorio flitto». Sono loro che hanno dato pakistano. A tutto agosto 2011 il South Asia una svolta inaspettata alla realtà Terrorism Portal registra 146 morti (di cui 32 del conflitto in Kashmir. Sono poco civili) in episodi di attacchi armati e/o attentati. più che ventenni, a volte adoleIn tutto il 2010 ne aveva registrati 375 (di cui scenti. Sono cresciuti negli anni 36 civili), ma ancora nel 2006 i morti supera‘90, nel momento peggiore del vano il migliaio. Il drastico calo nella militanza conflitto nella valle del Kashmir, armata è confermato dai comandi militari. Il 23 quando il movimento separatista maggio 2011 il comandante delle forze indiane di massa era stato ormai spiazzato in Kashmir diceva a un quotidiano locale che dalle milizie «jihadi» manovrate la scorsa primavera “non ci sono stati episodai servizi. Hanno conosciuto solo di di infiltrazione”. In giugno la stampa locale guerra, repressione, esecuzioni riferiva che presto forze indiane e pakistane extragiudiziarie, raid notturni. Non cominceranno pattugliamenti comuni lungo la hanno mai visto le loro città senza Linea di Controllo (il confine di fatto che taglia i sacchi di sabbia dei paramilitari, il Kashmir). Il 31 agosto uno scontro di frontiera i posti di blocco, le umilianti perè costato la vita a tre soldati pakistani, con una quisizioni. Finché si sono rivoltati: scia di accuse reciproche: ma è stato il primo in modo spontaneo, all’uscita dalle incidente dell’anno, in passato erano routine. scuole, lanciando pietre contro Un secondo segnale è l’appello di un influente le forze di sicurezza – che hanno leader separatista, Syed Ali Shah Geelani, alla risposto come se avessero di fronlotta pacifica. Geelani è l’82enne capo della te dei terroristi: 112 ragazzi sono Jamiat Islami del Jammu e Kashmir, un partito stati uccisi. L’intifada di Srinagar religioso che nell’89, con il suo braccio armato ha spiazzato le autorità indiane Hizb-ul Mojaheddin, è stato tra i protagonisti ma anche i leader nazionalisti dell’insurrezione anti-indiana; nel 2003, quando kashmiri, dai più moderati ai più il Governo di New Delhi ha avviato colloqui con oltranzisti: tutti scavalcati da quei la dirigenza nazionalista kashmira, Geelani guigiovani che non vedono futuro, e dava il fronte che rifiutava il dialogo. Ora però non aspettano nulla da un dialogo lancia segnali distensivi: “La nostra lotta (...) che si trascina da troppi anni. sarà pacifica”, ha dichiarato il 22 aprile 2011. L’evento che ha trasformato la scena in Kashmir è stato, nell’estate 2010 tutto interGeneralità no. Protagonisti sono stati dei ragazzi, giovanissimi e disarmati, che Nome completo: Jammu e Kashmir hanno cominciato ad affrontare le Bandiera forze di sicurezza lanciando sassi. Queste hanno reagito in modo brutale. L’11 giugno un ragazzo di 17 anni è rimasto ucciso. Non ci sono state scuse né inchieste. Sono seLingue principali: Hindi, Inglese guite altre dimostrazioni, altri morti Capitale: Jammu e Srinagar e quindi altre proteste. Le proteste (rispettivamente capitali dichiaravano un solo obiettivo: invernale ed estiva dello l’abrogazione delle «leggi nere», i Jammu e Kashmere) poteri speciali delle Forze armate Popolazione: 11.729.000 autorizzate a fermare, perquisire, Area: 101.387 Kmq arrestare e anche sparare individui sospetti. All’inizio di luglio il capo Religioni: Musulmana ma nella regione Jammu prevale del Governo di Jammu e Kashmir la hindu e in quella del – Omar Abdullah che aveva susciLadakh quella buddhista tato tante speranze, quando è stato Moneta: Rupia eletto nel 2009 – ha chiesto rinforzi a New Delhi, e l’esercito indiano Principali n.d. esportazioni: è tornato a dispiegarsi in Kashmir per la prima volta da parecchi anni. PIL pro capite: n.d.
KASHMIR
I “figli del conflitto”
Generalità Nome completo:
Azad Kashmir
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Bandiera
Lingue principali:
Kashmiri, Urdu, Hindko, Mirpuri, Pahari, Gojri
Capitale:
Muzaffarabad
Popolazione:
3.965.999
Area:
13.297 Kmq
Religioni:
Buddista, musulmana, induista, sikh
Moneta:
Rupia
Principali esportazioni:
n.d.
PIL pro capite:
n.d.
Quell’estate sono morti 112 giovani manifestanti (non compaiono tra le vittime del conflitto: non rientrano nella categoria di vittime di scontro armato). Il Governo di Jammu e Kashmir si è ostinato ad accusare “forze esterne”, allusione al Pakistan, di manovrare i ragazzi per impedire la normalizzazione in Kashmir. Solo a distanza di un anno il chief minister Abdullah ha compiuto un gesto distensivo: il 29 agosto 2011 ha annunciato l’amnistia per quanti sono stati arrestati durante la “rivolta delle pietre”. Ne beneficeranno circa 1.200 persone. Se i segnali di cambiamento porteranno la pace, è presto per dire.
130
Per India e Pakistan il Kashmir è una contesa territoriale (vedi “il background storico”): e sebbene da entrambe le parti ci siano stati tentativi coraggiosi di formulare ipotesi di compromesso (ad esempio riconoscere la “Linea di controllo”, attuale confine di fatto, come una frontiera internazionale aperta), questi sono per ora rimasti vani. La pace in Kashmir dipende da un lato dalle alterne relazioni bilaterali tra India e Pakistan, dall’altro dalla capacità dell’India di trovare un assetto democratico e consensuale con le forze sociali e politiche del Kashmir. Sul piano delle relazioni bilaterali, è un momento di impasse. Dieci anni fa i due Paesi sembravano a un passo dalla guerra: dopo l’attacco di un commando suicida al parlamento di New Delhi, nel dicembre 2001, l’India ha schierato il suo esercito lungo la frontiera con il Pakistan, che ha fatto altrettanto, e per un lungo anno le due potenze nucleari del subcontinente sono rimaste in massima allerta. Poi la tensione si è allentata, soprattutto sotto la pressione degli Stati Uniti, preoccupati dell’escalation tra due suoi alleati in un Regione così delicata. Nel 2003 il Governo indiano ha proclamato sconfitta la guerriglia jihadi e offerto il dialogo alla dirigenza nazionalista del Kashmir. Tra il 2005 e il novembre 2008 tra India e Pakistan è cominciato il ciclo di dialogo finora più promettente dal 1947: come misura di «fiducia reciproca» era perfino ripreso il servizio di autobus tra il Kashmir indiano e la parte occupata dal Pakistan, per la prima volta da decenni. Nel dicembre 2008 gli attacchi terroristici a Mumbai hanno riportato il gelo. Poi c’è stato l’attacco all’ambasciata indiana a Kabul, nel febbraio 2010; attribuito ai Taleban, sono emerse prove del coinvolgimento del Isi, il servizio di intelligence militare pakistano: a riprova che la competizione tra India e Pakistan si gioca anche in Afghanistan. I contatti tra New Delhi e Islamabad sono ripresi solo nell’agosto 2011 con un incontro tra ministri degli Esteri, e senza entusiasmo. Sul piano interno, il dialogo avviato nel 2003 ha fatto emergere tutte le divisioni
nella leadership kashmira. La All Party Hurriyat Conference («Conferenza della libertà»), cartello delle forze nazionaliste del Kashmir formato nel 1993, era già allora discorde su questioni strategiche fondamentali: dall’obiettivo (indipendenza, annessione al Pakistan?) alle forme di lotta (pacifica? armata?). Gli indipendentisti rivendicano il referendum per l’autodeterminazione, raccomandato da una risoluzione dell’Onu nel 1948. Ma per alcuni “autodeterminazione” significa scegliere tra India e Pakistan, per altri include una terza opzione, l’indipendenza – esclusa però sia a New Delhi sia a Islamabad. Intanto, la militarizzazione del territorio resta. Il numero di soldati dispiegati nella Valle è solo leggermente calato, il Kashmir continua a sentirsi sotto occupazione. E la “rivolta delle pietre” nel 2010 ha riportato il conflitto alla sua origine: un movimento popolare per maggiori libertà politiche e per i diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione indiana a ogni cittadino.
Il conflitto del Kashmir è una delle crisi regionali più prolungate del subcontinente indiano. È un conflitto allo stesso tempo interno (all’India) e tra stati (India e Pakistan): e questa duplice natura fa della verdeggiante vallata del Kashmir, circondata da ghiacciai himalayani là dove si toccano India, Pakistan e Cina, una polveriera con implicazioni regionali che riverberano fino all’Afghanistan. Il conflitto interno è esploso alla fine degli anni ‘80, quando un movimento di protesta nello stato indiano di Jammu e Kashmir è sfociato in una ribellione armata che ha raggiunto nei momenti peggiori l’intensità di una guerra civile. Questa però è alimentata dalla contesa territoriale tra le due potenze nucleari del subcontinente indiano: India e Pakistan hanno combattuto per
il Kashmir due guerre dichiarate (nel 1948-49 e nel 1965) e una non dichiarata (nell’estate del 1999), accompagnata da una lunga «proxy war», guerra “di prossimità” per interposti guerriglieri infiltrati dal Pakistan, accusa l’India - Islamabad ha sempre respinto l’accusa, dichiarando di dare ai fratelli del Kashmir solo “sostegno morale e politico”. Il conflitto del Kashmir è uno dei problemi irrisolti della Spartizione del 1947, quando dalla vecchia India britannica sono nate due nazioni separate, il Pakistan musulmano e l’India multireligiosa e secolare benché a maggioranza indù. Il principato di Jammu e Kashmir (che includeva i territori di Jammu, Kashmir e Ladakh) fantasticò di restare indipendente ma infine optò per l’India, con un atto formale che ne fece uno stato dell’Unione in-
Per cosa si combatte
Il profilo
L’odierno stato di Jammu & Kashmir (come già l’antico principato dallo stesso nome) include tre territori distinti. La valle del Kashmir a maggioranza musulmana è l’oggetto di contesa tra India e Pakistan, ma lo stato include anche il Jammu, a maggioranza hindu, e il Ladakh a maggioranza buddhista. Oggi l’intero stato fa poco più di 10milioni di abitanti, di cui 5,4milioni nel Kashmir (il 54% della popolazione), 4,4milioni nel Jammu e poco meno di 250mila nel Ladakh. Il territorio sotto controllo pakistano, chiamato Azad (“libero”) Kashmir, ha all’incirca 400mila abitanti.
UNHCR/T. Irwin
Quadro generale
Parveena Ahangar
UNHCR/B.Baloch
diana in un quadro di ampia autonomia. La decisione presa dal locale maharaja Hari Singh (indù) con l’accordo dei notabili nazionalisti guidati da Sheikh Abdullah (musulmano) fu sgradita ai dirigenti pakistani, che rivendicavano il Kashmir, a popolazione in maggioranza musulmana. La disputa è sfociata nel 1948 nella prima guerra tra India e Pakistan. La linea di cessate-il-fuoco negoziata con la mediazione delle Nazioni unite nel 1949 è da allora il confine di fatto: a Ovest il settore sotto controllo pakistano (circa un terzo del territorio, capitale Muzaffarabad) a Est la parte sotto sovranità indiana (circa il 60% del territorio originale, capitali Srinagar e Jammu). Una piccola parte di ghiacciai all’estremo Nord (10%) è occupato dalla Cina dal 1962. Le risoluzioni delle Nazioni Unite del 1948 e ‘49 chiesero al Pakistan di ritirare le proprie forze dal territorio occupato e sollecitavano un referendum perché i kashmiri potessero decidere del proprio futuro. Il Pakistan non si ritirò, resta in quello che chiama Azad (“libero”) Kashmir; l’India se ne fece una scusa per non indire mai il plebiscito. Il periodo post indipendenza ha visto un crescente attrito tra le classi dirigenti kashmire e il Governo centrale dell’Unione indiana, che ha via via eroso il regime di autonomia del Jammu e Kashmir. La disaffezione è esplosa nel 1989 in una protesta civile ha coinvolto un ampio schieramento sociale e politico, dall’Università ai sindacati ai partiti nazionalisti. Alla fine di quell’anno risalgono le prime azioni armate contro obiettivi governativi a Srinagar: l’insurrezione
I PROTAGONISTI
era cominciata. La risposta dello stato centrale indiano è stata dura, e l’escalation inesorabile. Il primo gruppo armato, Jammu e Kashmir Liberation Front (Jklf), è stato presto sbaragliato: erano giovani con idee di lotta di popolo, il loro leader Yasin Malik fu presto arrestato e nel ‘94 il Jklf ha rinunciato alla lotta armata. Ma ormai altri protagonisti avevano preso il sopravvento: il Hizb-ul Mojaheddin, braccio armato del partito conservatore (e filopakistano) Jamiat Islami, a sua volta scavalcato da altre sigle (Jaish-e Mohammad, Lashkar-e-Taiba). Erano i primi anni ‘90 e in Kashmir confluivano armi e combattenti provenienti dall’Afghanistan formati alla jihad, la “guerra santa” (nella sua accezione politico-militare), e sostenuti dal Isi, il servizio di intelligence militare pakistano. La lotta di “liberazione nazionale” era così diventata la guerra di una comunità religiosa. E con i combattenti «stranieri» è arrivato un islam di stampo taleban estraneo alla tradizione sufi del Kashmir. È arrivato anche il terrore: attentati contro civili, bombe nei mercati, rappresaglie. Gli hindù del Kashmir, i pandit, sono stati costretti a fuggire. Il Governo centrale ha mandato l’esercito e corpi paramilitari a contrastare i ribelli, la valle è stata militarizzata. È stata una guerra largamente manovrata da servizi segreti, ma è la popolazione del Kashmir che ha pagato il prezzo più alto: tra 50 e 80mila persone sono morte dal 1989 al 2010, in gran parte civili. Senza contare migliaia di desaparecidos e una scia di ingiustizie e violazioni dei diritti umani: la guerra ha travolto le forze sociali, sindacati, forze politiche, gruppi per i diritti umani. E questo è il problema di oggi.
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Una notte di agosto, nel 1990, la polizia ha bussato a casa di Parveena Ahangar, nel popolare quartiere di Dobhi Mohallah a Srinagar. «Cercavano militants», ribelli armati, «e hanno preso mio figlio per interrogarlo». Aveva 16 anni. Da quella notte la signora Ahangar ha seguito ogni possibile traccia per ritrovare il suo ragazzo: comandi di polizia, tribunali, ospedali, comandi dell’esercito, uffici governativi. Invano. Suo figlio era scomparso. Ma era solo uno dei tanti: le organizzazioni per i diritti umani parlano di 5, forse 6mila scomparsi, prelevati di solito dalla polizia, talvolta dai ribelli. Così nel 1995, con altre trecento persone come lei, Parveena Ahangar ha formato l’Associazione dei genitori delle persone scomparse, che ora presiede. Hanno un solo obiettivo, dice: rintracciare figli o mariti scomparsi. In primo luogo, costringere il governo ad ammetterne l’esistenza. «Devono dire dove sono i nostri figli». L’Associazione ha raccolto testimonianze di padri, madri, «mezze vedove» - così sono chiamate le donne il cui marito è scomparso, forse morto, ma chissà. Aiuta a contattare avvocati ed esperti di diritti umani, a scrivere petizioni, organizzare dimostrazioni.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL PAKISTAN RIFUGIATI
39.982
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CANADA
14.526
GERMANIA
7.078
AFGHANISTAN
6.398
SFOLLATI PRESENTI NEL PAKISTAN 952.035 RIFUGIATI ACCOLTI NEL PAKISTAN RIFUGIATI
1.900.621
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI AFGHANISTAN
1.899.842
L’anno nero per le minoranze religiose
Non hanno vita facile in Pakistan le minoranze religiose (cristiani e indù), compresse dall’integralismo islamico e poco tutelate dal Governo centrale del Pakistan People Party, condizionato dai partiti islamici estremisti. Il 2011 è stato un “anno nero”: un commando terroristico ha ucciso il cristiano Shahbaz Bhatti, ministro federale per le Minoranze religiose, che chiedeva una revisione della “legge sulla blasfemia”. La legge, eredità del Codice penale emanato dal dittatore Zia-ul-Haq, prevede l’ergastolo o la morte per chi offende il nome del Profeta Maometto o il Corano. Ma viene usata in modo strumentale per colpire i non-musulmani. Anche Salman Taseer, governatore musulmano della provincia del Punjab, è stato ucciso dalla sua guardia del corpo per aver difeso Asia Bibi, una donna cristiana condannata a morte per blasfemia. Silenziate le voci critiche, le minoranze sono meno protette e più esposte alla violenza.
UNHCR/H. Caux
Caos nella politica interna, crescita dell’integralismo islamico e del terrorismo, ristagno nell’economia, crisi nelle relazioni con gli Usa: il Pakistan di oggi si confronta con una matassa intricata di sfide. Al governo, il Pakistan People Party del Presidente Ali Zardari e del Premier Raza Gilani sembra aver smarrito i tratti di partito popolare e laico, democratico. Il terrorismo non dà tregua (oltre 10mila vittime in un anno) mentre i gruppi estremisti islamici condizionano pesantemente la politica, la società, la magistratura e il sistema educativo. La situazione economica generale ha subito un drastico calo all’indomani delle poderose alluvioni dell’agosto 2010, che hanno lasciato uno strascico di povertà ed emarginazione, malcontento. Sul piano internazionale, le relazioni fra Stati Uniti e Pakistan sono ai minimi storici. L’alleanza fra i due Paesi, punto di riferimento per le questioni geopolitiche internazionali, vacilla. A far da detonatore, il caso dell’uccisione di Osama bin Laden, il leader di al-Qaeda eliminato in un raid delle forze speciali americane ad Abbottabad, cittadina nel Punjab. Gli Usa – questa l’accusa – hanno agito senza avvisare il Governo pakistano. Seguono reciproche recriminazioni e crisi diplomatica sfiorata, anche per altri due “incidenti”: il caso del collaboratore della Cia Raymond Davis, che uccide due civili e se la cava con un risarcimento alle famiglie delle vittime; la morte del giornalista pakistano Saleem Shahzad, che aveva denunciato collusioni fra i servizi segreti pakistani (Isi) e gruppi terroristi: versione, questa, suffragata dagli Usa. L’ostilità fra i due Paesi culmina con il clamoroso annuncio di taglio degli aiuti della cooperazione Usa per oltre 800milioni di dollari. Potenza nucleare determinante per stabilizzare il quadrante afgano, il Pakistan si ritrova ad essere una democrazia solo formale, ancora dominato da logiche feudali: dilaniato da conflitti intestini, lacerato dalla presenza di oltre 40
PAKISTAN
Generalità Nome completo:
Repubblica Islamica del Pakistan
Bandiera
133
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Inglese, urdu, punjabi, sindi, pashto, baluchi
Capitale:
Islamabad
Popolazione:
155.694.740
Area:
803.940 Kmq
Religioni:
Musulmana (95%), in maggioranza sunniti; cristiana (2%), indù (1,6%)
Moneta:
Rupia pakistana
Principali esportazioni:
Tessuti, cotone, pesce, frutta
PIL pro capite:
Us 2.653
gruppi terroristi, sottomesso dall’ingombrante dell’esercito, pronto alla possibilità di un golpe militare. A questo si aggiungono i rapporti difficili (e la tensione in Kashmir) con la vicina India. Il Pakistan resta dunque un’incognita negli equilibri asiatici e la sua implosione potrebbe avere conseguenze disastrose. Per questo la comunità internazionale prosegue nei programmi di cooperazione politica e finanziaria, cercando di garantirne la stabilità
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Il Pakistan è oggi il “centro nevralgico di alQaeda” – dicono gli analisti del Pentagono – ed è un Paese chiave per la lotta al terrorismo internazionale. Inoltre, per il commercio internazionale e l’industria petrolifera, lo Stato resta al centro di interessi (e dunque di conflitti) strategici, geopolitici ed economici di vasta portata. Tanto che, pur essendo nell’orbita dell’alleanza atlantica (gli Usa finanziano programmi di cooperazione militare e civile), perfino la Cina ci ha messo gli occhi sopra: Pechino ha avviato una serie di investimenti e progetti di cooperazione economica, solida base per costruire una amicizia politica e diplomatica. Il Pakistan, d’altrocanto, affacciandosi sull’Oceano Indiano, è la strada privilegiata per far passare gli oleodotti che trasportano il greggio dai Paesi dell’Asia centrale: Turkmenistan, Kazakistan e Uzbekistan, che detengono le più vaste riserve al mondo di gas e petrolio. Per questo, attorno alla Regione centroasiatica (appena uscita dall’orbita russa) e al quadrante afgano-pakistano, si celebra oggi il nuovo “Grande gioco” (espressione usata nel sec. XIX) delle potenze mondiali, in Occidente e in Oriente, per accaparrarsi alleanza politiche e dunque sicuro approvvigionamento di risorse energetiche. Sullo scacchiere pakistano si preannuncia l’ennesimo confronto fra i due colossi mondiali, Stati Uniti e Cina, interessati ad estendere la loro influenza politica in una regione di grande importanza strategica. Ma in Pakistan vi sono anche tensioni di natura religiosa. Il Pakistan è uno stato a maggioranza musulmano sunnita, ma nel Paese vive anche una minoranza sciita di trenta milioni di fedeli, che fanno del Pakistan la seconda nazione sciita al mondo dopo l’Iran. Il conflitto religioso in atto nel Paese vede da una parte i
sunniti appoggiati dall’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo, dall’altra gli sciiti appoggiati dall’Iran. Entrambi i fronti fanno leva sul vicino conflitto afgano, entrambi usano le moschee come luoghi di propaganda e indottrinamento, entrambi coprono o favoriscono organizzazioni terroristiche, entrambi cercano di silenziare le voci dell’islam moderato e delle minoranze religiose. Proprio le minoranze religiose (soprattutto cristiani, indù e ahmadi) sono spesso nel mirino di attacchi di massa: l’ultimo anno ha visto un aumento della violenza. Entrambi gli schieramenti trovano appoggi in partiti politici, in membri del Governo pakistano, in settori delle forze armate e dei servizi segreti. In mezzo a queste tensioni, a cercare di governarle e depotenziarle, il resto del Governo, delle forze armate e dei servizi segreti, ovvero quanti vogliono costruire un Pakistan unito, laico e democratico, rispettoso della legalità e dei diritti umani.
Tensioni vecchie e nuove, fra democrazia e struttura feudale, fra modernizzazione e tribalismo, fra lobby militari e forze islamiste: il Pakistan, la “Terra dei puri”, è alle prese con una profonda instabilità interna che ha radici molto antiche. Il Paese, considerato dalle cronache giornalistiche solo in casi clamorosi, come l’uccisione di Osama bin Laden, è invece uno dei protagonisti assoluti dello scacchiere politico internazionale. Situato nel cuore dell’Asia meridionale, il Pakistan nasce ufficialmente il 14 agosto 1947. Fino ad allora aveva fatto parte dell’India britannica, poi divisa in due diversi Stati: il Pakistan, a maggioranza musulmana, e l’India, a maggioranza indù. Dall’indipendenza, il Pakistan è sempre stato in conflitto con l’India per il controllo del territorio del Kashmir ma questa non è l’unica causa di destabilizzazione per il Paese. La sua stessa struttura di federazione, suddivisa in 4 Province, 2 Territori e 107 Distretti, con una composizione etnica estremamente frastagliata, ne fanno un territorio di difficile gestione, diviso tra una parte meridionale, organizzata in modo più moderno, e una
parte settentrionale, profondamente tribale e attraversata da antiche spinte indipendentiste. A livello sociale e culturale, la nazione resta ancorata alla antica struttura feudale, che informa le dinamiche economiche, le relazioni e l’intero tessuto sociale, spaccato fra élites che detengono il potere economico e politico e masse di diseredati, ridotte in stato servile. Inoltre, negli equilibri sociali e politici, hanno sempre contato molto i militari, che rappresentano uno dei “poteri forti”, sempre presenti nei momentichiave della storia nazionale: leader militari, fra l’altro, hanno governato direttamente il Paese tramite un golpe, come nel caso del dittatore Zia-ul-Haq (negli anni ‘80) e, più di recente, del generale Pervez Musharraf (dal 2000 al 2008). L’altro elemento che caratterizza fortemente, sin dall’origine, la storia e la società pakistana è l’islam, nelle sue diverse forme e declinazioni: dopo l’Indonesia, il Paese è il secondo stato al mondo per numero di fedeli musulmani (il 95% su 180milioni). Benché il fondatore della patria, il leader musulmano Ali Jinnah, abbia voluto disegnare una nazione laica e demo-
Per cosa si combatte
UNHCR/M. Pearson
Quadro generale
Al-Qaeda decapitata Dopo la morte di Osama bin Laden, scompare anche Atiyah Abd al-Rahman (detto Al Libi), 35enne leader nato in Libia e divenuto il naturale successore operativo di Osama. Al Libi è stato eliminato ad agosto 2011 da un drone, aereo senza pilota. Arrestato ed estradato in Usa anche l’altro leader militante Younis al-Mauritani. Resta in vita il medico egiziano Ayman Al-Zawahiri, ora il dirigente di al-Qaeda più alto in grado. Il cuore pulsante di al-Qaeda, decapitata e indebolita, resta in Pakistan. La rete non è del tutto debellata, perché giovani militanti restano in molte nazioni a maggioranza islamica. Gli Usa intendono uccidere al più presto venti capi sopravvissuti a Osama.
UNHCR/A. Fazzina
(10 marzo 1957- 2 maggio 2011) Il mito di Osama bin Laden è finito. Lo “sceicco del terrore”, responsabile delle stragi dell’11 settembre, viene ucciso il 2 maggio 2011 dalle forze speciale americane ad Abbottabad, a Nord di Islamabad. Osama si nascondeva in circostanze che destano sospetti sulla copertura garantita dai servizi segreti pakistani (Isi). La morte di bin Laden è un successo nella lotta al terrorismo internazionale, soprattutto per la forza simbolica del personaggio. Nato nel 1957 da una ricca famiglia dell’Arabia Saudita, Osama sposa ben presto l’Islam “wahabita”, interpretazione restrittiva del credo di Maometto. Ne deriva una “guerra santa” globale: nel 1979 fonda al-Qaeda (“la base”) e si unisce ai mujaheddin afgani per combattere le truppe sovietiche occupanti. Nel 1980 sposta l’obiettivo contro gli Stati Uniti e la sua stessa patria (ritenendo la monarchia regnante “poco islamica”) che lo priva della cittadinanza. Negli anni ’90 realizza attentati di vaste proporzioni: in Somalia (1993), uccidendo 18 soldati americani, e nel 1998 contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania. Fino al tragico attentato delle Torri Gemelle (2001), che scatena la “guerra al terrore”, in cui Osama è l’obiettivo n. 1.
È una delle fazioni più brutali della galassia talebana: la rete “Haqqani”, organizzazione ideologicamente molto vicina al-Qaeda, si è imposta come nuova realtà terroristica operante in Pakistan e Afganistan. Forte di duemila militanti, con base nelle aree tribali del Pakistan, nel 2011 ha perso Haji Mali Khan, considerato la “mente” del gruppo, catturato dalla Nato-Isaf. Secondo gli analisti, l’agenda politica del gruppo approva la partecipazione di Islamabad al tavolo negoziale fra Kabul, le forze internazionali e i talebani, per stabilizzare il quadrante afgano-pakistano. Per questo gli Usa hanno accusato i servizi segreti di Islamabad di aver stretto con Haqqani un “matrimonio d’interesse”. Martin Dempsey, nuovo capo di stato maggiore Usa in Afganistan, ha concordato: senza il Pakistan non c’è soluzione nella Regione. cratica – così rappresentata nella Costituzione – negli anni successivi i movimenti e i partiti islamici integralisti hanno condizionato in modo sempre più incisivo la politica, la società, il sistema giudiziario e l’istruzione pubblica. Gli islamisti, soprattutto sotto il governo di Zia-ulHaq, hanno ottenuto, in cambio dell’appoggio politico al dittatore, provvedimenti legislativi filo-islamici che hanno mutato il volto della nazione, penalizzando i diritti umani e libertà individuali. Il tasso di conflittualità è altissimo. Il Paese vive forti tensioni interne: la crisi nella Provincia del Belucistan dura dagli anni ’70; gruppi islamisti, con scuole di pensiero diverse, cercano di imporre la loro visione; sono sempre vive le tensioni fra componenti etniche e tribali diverse della società, evidenti, ad esempio, nelle stragi della città di Karachi. Ma il Pakistan subisce anche forti pressioni esterne: la comunità internazionale si è fatta più presente, con programmi di cooperazione strategica ed economica, da quando il Paese è divenuto un hub per il terrorismo internazionale. Un fattore che da decenni crea instabilità è l’insorgenza nella Provincia del Belucistan, nel Pakistan occidentale, abitata dai beluci, popolazioni tribali, dedite alla pastorizia e alla coltivazione della terra che vivono anche nell’Ovest dell’Iran e nell’estremo Sud dell’Afghanistan. Nel Belucistan dagli anni ‘70 imperversa la guerriglia
I PROTAGONISTI
indipendentista di gruppi ribelli che si battono per l’autonomia della Regione, ricchissima di risorse naturali e per questo annessa con la forza nel 1947 al territorio pakistano. Negli anni ’80 e ’90 il movimento dei Beluci ha interrotto la lotta armata per imboccare, senza risultati, la strada della lotta politica. Ma nel 2000 alcuni gruppi di beluci hanno dato vita all’Esercito di liberazione del Balucistan, riattivando la guerriglia a cui il Governo pakistano ha risposto con il “pugno di ferro”. Dopo gli attacchi alle Torri gemelle del 2001, con l’inizio della campagna militare in Afghanistan, la guerra contro gli indipendentisti del Belucistan è finita col mescolarsi a quella contro i terroristi islamici di AlQaeda. Proprio sull’area di confine con si sono concentrate le attenzioni di intelligence delle forze pakistane (e americane), impegnate nella guerra al terrorismo e nella caccia ai leader militanti, in particolare sul distretto del Waziristan. Le pressioni americane, però, risultano indigeste a larghi settori islamici della società: ne deriva un ulteriore aumento delle tensioni e dell’instabilità interna. La scena politica pakistana di oggi, mutevole, frastagliata e rissosa, è specchio di un paese diviso, attraversato da fermenti e ideologie contrastanti, spaccato fra un’oligarchia di ricchi e il 60% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà. Un paese in cui il posizionamento strategico internazionale è continuamente in discussione. Un paese in cui risulta sempre più difficile governare spinte centrifughe e pulsioni radicali di carattere politico, sociale e religioso.
135
Osama bin Laden
La rete “Haqqani”, leader fra i talebani
136
Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA THAILANDIA RIFUGIATI
356
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA THAILANDIA RIFUGIATI
96.675
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI MYANMAR
95.718
Care case
A dispetto della crisi internazionale, il mercato immobiliare in Thailandia sta conoscendo un vero e proprio boom. Ad acquistare sono soprattutto gli stranieri – quindi, quasi sempre, seconde case – specialmente nelle zone più turistiche, come l’ isola di Phuket, con le zone di Patong Beach, Kamala, Karon, Kata, Il numero complessivo delle abitazioni in tutto il Paese è triplicato in meno di vent’anni. La crescita del valore degli immobili, in termini di aumento di prezzi di acquisto, è del 25% – 30% annuo. Tutto questo nonostante la legge sia abbastanza restrittiva, ad esempio, nell’acquisto dei terreni, che devono essere comunque per il 51% in mano a thailandesi. Resta comunque, quella immobiliare, una corsa davvero folle, alimentata soprattutto da russi, europei, australiani e indiani.
UNHCR/J. Redfern
Non conosce pace la Thailandia, sotto la superficie serena del paradiso turistico. Il dato più importante dell’anno è comunque politico, con la nomina – in agosto – della prima donna a primo Ministro. Yingluck Shinawatra diventa capo dell’esecutivo grazie alla vittoria elettorale del Puea Thai, il partito che lei stessa guida. Un accordo con quattro altri partiti le consente di raggiungere la maggioranza di 299 seggi parlamentari su 500. A sorpresa, nella lista dei ministri non ci sono appartenenti alle Camicie Rosse, il movimento che per anni ha sostenuto anche con proteste in piazza il fratello di Yingluck, Thaksin Shinawatra, ex capo del Governo, deposto dai militari con un golpe nel 2006. Una scelta, questa, dettata dalla voglia di mediare con esercito e monarchia e ritrovare un equilibrio politico in Thailandia. Equilibrio reso necessario dagli eventi, anche militari, che hanno portato alle elezioni di luglio 2011 e a questa nomina. Nel febbraio 2011, infatti, è per breve tempo ripreso lo scontro militare con la Cambogia per il controllo delle rovine dell’antico tempio khmer di Preah Vihear, assegnate nel 1962 alla Cambogia dalla Corte Internazionale di Giustizia, ma da sempre rivendicate dalla Thailandia. Cinque i morti, con decine di feriti e 15mila sfollati dopo giorni di cannoneggiamenti e mitragliamenti. La partita si è chiusa con la richiesta della Corte Internazionale di ritirare le truppe e tornare alla normalità, ma in Thailandia l’azione è stata la scusa per far dimettere il giovane premier Abhisit Vejjajiva, che aveva perduto ormai l’appoggio dei “Gialli” – gli aristocratici che si contrap-
THAILANDIA
Generalità Nome completo:
Regno di Thailandia
Bandiera
137
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Thai
Capitale:
Bangkok o Krung Thep in thai
Popolazione:
64.200.000
Area:
514.000 Kmq
Religioni:
Buddista (95%), musulmana (4.6%), cattolica (0.75%)
Moneta:
Baht Thailandese
Principali esportazioni:
Tapioca, riso, caucciù, ananas, stagno
PIL pro capite:
Us 8.368
pongono alle Camicie Rosse – e dell’Esercito. Voci ben informate sostengono che lo scontro con la Cambogia sia stato creato ad arte per indebolire Vejjajiva e costringerlo alle dimissioni, come è avvenuto. Nel frattempo, proseguono gli scontri con gli indipendentisti musulmani nelle province del Sud: Yala, Narathiwat e Pattani. Tra gennaio e febbraio una serie di attacchi dei separatisti ha provocato almeno una decina di morti fra militari e civili. Si aggiungono ai circa 4.400 morti causati dal conflitto a partire dal 2004.
La guerra interna alla Thailandia nasce dalle differenze e nella voglia di autonomia di una delle parti. I musulmani sono una minoranza relativamente piccola nel Paese, solo il 4,6% della popolazione, ma sono concentrati tutti nella stessa area e, soprattutto, hanno avuto una lunga storia di indipendenza dalla Thailandia. La situazione internazionale, con lo scon-
tro in atto fra mondo cosiddetto occidentale e terrorismo islamico, ha riacceso le speranze di indipendenza dei musulmani, portandole sotto la bandiera pan-islamica. Lo scontro politico interno, poi, ha reso più debole il Governo centrale e alimentato tensioni sociali, soprattutto nella capitale.
Per cosa si combatte
138
UNHCR/R. Arnold
Bilancio sempre pesante, in termini di vite umane, quello dello scontro in atto in Thailandia. Se da un lato sembra terminato il conflitto politico che contrapponeva i popolari delle Camicie Rosse agli aristocratici delle Camicie Gialle, contrapposizione che ha causato centinaia di morti solo nell’aprile – maggio del 2010, alte rimangono la tensione e il livello di scontro con i separatisti delle tre province meridionali a maggioranza musulmana: Yala, Narathiwat e Pattani, a poche centinaia di chilometri dalle più famose spiagge thailandesi, ai confini con la Malaysia. I morti, in ormai sette anni di conflitto, sono fra i 4.400 e i 4.600. L’apparato militare thailandese è sottoposto ad uno sforzo continuo, con costi spaventosi. Nel 2009 il generale a riposo Ekkachai Srivilas, direttore dell’Ufficio per la Pace e la Governance dell’Istituto Re Prajadhipok, aveva proposto un approccio diverso alla crisi, proprio per evitare le spese e gli sforzi che si pagano per dispiegare 60mila soldati nel Sud. Il Governo aveva respinto l’idea, e l’estate del 2009 era stata una continua offensiva per rastrellare tutti i villaggi della regione per fare terra bruciata intorno ai pejuang, i miliziani del Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn). Una scelta coerente con la decisione di attaccare i ribelli per distruggerli, senza cercare mediazioni. Quindi si combatte. Il picco dello scontro è stato nel 2007, ma non è mai cessato. Narathiwat, Yala e Pattani sono province abitate in mag-
gioranza da musulmani di lingua malese. Corrispondono al territorio di un sultanato annesso all’inizio del secolo scorso all’allora regno del Siam, dopo un accordo con gli inglesi, veri padroni dell’area in quegli anni. C’è una storia differente, quindi, a giustificare le richieste di indipendenza. Le realtà, però, è che anche per gli osservatori stranieri si tratta di una guerriglia poco conosciuta. Il movimento ribelle si chiama “Combattenti per la liberazione di Pattani”, ma non ha né un simbolo né un leader riconosciuto. Totalmente ignoto anche l’obiettivo reale della guerra scatenata nel 2004: non è chiaro se vogliano solo una maggiore autonomia, l’indipendenza o una unione con la Malaysia. Resta il fatto che nella regione la stragrande maggioranza degli abitanti sono musulmani, di etnia e lingua malay. Da sempre i thailandesi li vivono come un pericolo. I pochi buddhisti della zona tendono a lavorare per conto del Governo e dal 2004 sono un facile obiettivo dei ribelli, che da sempre colpiscono soprattutto gli insegnanti, i “volti” del Governo di Bangkok, che rappresentano da soli l’11 percento delle vittime. Vanno a lavorare scortati dall’esercito e nemmeno questo ferma le imboscate. Una situazione che sembra diventata ingovernabile. L’esercito, protetto dallo stato di emergenza dichiarato nel 2005 dal Governo, ha scontri sporadici con i ribelli, ma tiene sotto pressione la popolazione della regione, che reagisce radicalizzando lo scontro, appoggiando
Quadro generale
Neonati in vendita
Brutta storia davvero quella scoperta nella primavera del 2011 dalla polizia thailandese: una organizzazione criminale gestita da cinesi di Taiwan e birmani costringeva le immigrate vietnamite in Thailandia a partorire figli che, poi, venivano venduti. L’organizzazione lavorava via internet, ricevendo ordini per e-mail. L’operazione per smantellarla è scattata dopo la denuncia di alcune donne, che hanno scritto all’ambasciata vietnamita di Bangkok. Tredici le “mamme” messe al sicuro, in case protette o in ospedale. Il responsabile dell’inchiesta, il General Maggiore Manu Mekmok, ha spiegato come funzionava la struttura: “Nove di queste donne – ha spiegato – hanno ammesso di avere accettato volontariamente questo lavoro, perchè gli erano stati promessi 5mila dollari per ogni neonato. Quattro hanno affermato di essere state ingannate e violentate”.
Yingluck Shinawatra (San Kamphaeng, 21 giugno 1967)
UNHCR/K. McKinsey
Gli elefanti per aiutare i disabili
È un esperimento, ma pare funzioni. In Thailandia si tenta una terapia per chi soffre di autismo con gli elefanti. Cosa non nuova, questa dell’uso degli animali, ma mai si era tentato con mammiferi così grandi. Nua Un e Prathida sono due femmine d’elefante che da qualche tempo stanno aiutando alcuni bambini autistici nella provincia del Lampang, nel Nord del Paese asiatico. A suggerire l’utilizzo degli elefanti è stato Nuntanee Satiansukpong, capo del dipartimento di terapia occupazionale presso la Chaing Mai University. Per Nuntanee, l’elefante è in grado di coinvolgere maggiormente tutti i sensi, sia per le caratteristiche stesse dell’animale, sia per la sua capacità di interazione con gli uomini. Soddisfatto il responsabile del progetto, Wittaya Khem-nguad, che sostiene sia possibile vedere miglioramenti già dopo poche settimane di terapia. Prudente la valutazione di Rebecca Johnson, direttrice del Centro di Ricerca per l’Interazione tra Uomo e Animale presso l’Università del Missouri: servono maggiori studi, dice.
apertamente la ribellione e condividendo il risentimento verso Bangkok. Ad alimentare questo sentimento sono le ingiustizie create dallo stato di emergenza. In caso di violenza, esercito e autorità statali vengono assolte, non è mai chiaro chi sia il responsabile. Anche le organizzazioni internazionali hanno denunciato le violenze, i soprusi. Un rapporto di Human Rights Watch ha spiegato come per effetto delle leggi speciali thailandesi, che prevedono la carcerazione preventiva senza mandato per 37 giorni, e di un regolamento del generale Viroj - comandante dell’area - che vieta visite dei familiari per i primi tre giorni di detenzione, migliaia di musulmani, maschi, di tutte le età siano stati arrestati e torturati dall’esercito. Secondo l’organizzazione, che ha sentito le testimonianze di molti medici e avvocati di ex
I PROTAGONISTI
detenuti, vengono torturati soprattutto nei primi giorni di detenzione nelle basi locali dell’esercito. Poi, sono trasferiti alla prigione militare di Ingkhayuthboriharn, nella provincia di Pattani. I sistemi di tortura adottati sono: pestaggi con bastoni e spranghe, elettroshock, strangolamento, affogamento, soffocamento con buste di plastica, nudità forzata, esposizione a temperature estreme. È crisi dura, quindi. Per molti esperti, il movimento ribelle ha chiare origini locali. Per gli analisti internazionali, i rivoltosi – nel frattempo raccolti sono la sigla Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn) – sono da collegare alla rete di al-Qaeda. È di questo parere la Cia statunitense, che da sempre collabora con l’esercito nel quadro della lotta al terrorismo internazionale. A rafforzare questa opinione è arrivato, nel giugno 2009, un rapporto dell’International Crisis Group, che ha denunciato l’uso della retorica della jihad mondiale nelle scuole delle tre province, al fine di reclutare nuovi combattenti.
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Laureata in scienze politiche, donna d’affari, Yingluck Shinawatra è la prima donna in Thailandia ad assumere la carica di primo Ministro. È per altro sorella di Thaksin, il primo Ministro in esilio volontario a Dubai, dopo il colpo di stato che lo ha destituito nel 2006 ed è erede di una famiglia di grandi tradizioni politiche. Lei, alla carica di primo Ministro è arrivata vincendo le elezioni del luglio 2011, alla testa del partito Pheu Thai, che ha conquistato 265 dei 500 seggi parlamentari. Una vittoria forse inattesa, per una donna che non si era mai dedicata alla politica fino alla campagna elettorale del 2011. Amministratore Delegato di Advanced Info Service (Ais), il più grande operatore di telefonia mobile del Paese, è anche AD della società SC Asset Company, l’azienda immobiliare di famiglia. In molti dietro la vittoria di Yingluck intravedono l’ombra del fratello Thaksin. Lei ammette di avere imparato tanto da lui, ma pare intenzionata a lavorare autonomamente per ridare tranquillità al Paese dopo anni di tensione, trovando un equilibrio nel rapporto con la Monarchia e con l’esercito: la scelta di non nominare fra i suoi ministri membri delle Camicie Rosse che l’hanno sostenuta in piazza pare un segnale chiaro in questa direzione.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DA TIMOR EST RIFUGIATI
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RIFUGIATI ACCOLTI IN TIMOR EST RIFUGIATI
1
Nuova polizia
La Polizia Nazionale di Timor-Est (Pntl) è l’unica forza di polizia presente a Timor Est. È nata nel 2002 nell’ambito del mandato della missione Onu Untaet (United Nations Transitional Administration in East Timor) ed è diventata operativa nel 2002, con la dichiarazione di indipendenza di Timor Est. Nonostante nel 2003, i caschi blu dell’Onu abbiano provveduto al trasferimento dei poteri con il corpo di polizia, fino al 2010 è stato attivo sull’isola il programma dell’Onu per l’addestramento del Pntl, il Timor Leste Police Development Program. Nel suo Rapporto annuale 2011, Amnesty International, pur sottolineando che i meccanismi disciplinari interni al Pntl sono stati rafforzati, ha denunciato violazioni dei diritti umani commesse da poliziotti e personale militare, compresi maltrattamenti e uso eccessivo della forza.
UNHCR/N. Ng
Aprile 2012 è la data fissata per le prossime elezioni politiche a Timor Est. L’appuntamento è fondamentale per il Paese, non solo perché si sceglierà il nuovo Presidente e i membri del Parlamento (in giugno), ma perché sarà l’occasione per testare la reale stabilità politica e sociale di questa giovane democrazia. In vista dell’appuntamento elettorale, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato la risoluzione 1969 del 2011, con la quale si impegna l’Unmit (United Nations Integrated Mission in East Timor), nell’ambito del suo attuale mandato, a preparare, supportare e monitorare le consultazione politiche, accompagnando l’intero processo elettorale. Con la risoluzione dunque si rinnova anche il mandato della missione Onu per un altro anno, col fine dichiarato di continuare a sostenere il governo di Timor Est nel suo difficile percorso di riforma delle istituzioni del Paese, di lotta alla povertà e soprattutto di riconciliazione nazionale. Il timore è che in occasione delle elezioni presidenziali del 2012 possano esplodere nuovamente violenze e tumulti nel Paese, attraversato da forti tensioni sociali e afflitto da un tasso di povertà altissimo e da una pressoché totale dipendenza economica dagli aiuti internazionali. Già nel 2008 un gruppo di militari ribelli aveva tentato un colpo di stato con un doppio attentato contro il Presidente Jose Ramos-Horta – che è rimasto gravemente ferito ma è sopravvissuto – e contro il premier Xanana Gusmão, rimasto invece illeso. In occasione delle elezioni amministrative del 2009 – che hanno coinvolto 442 villaggi (sucos) – la campagna elettorale si è invece svolta in modo generalmente pacifico e senza scontri, con una larghissima partecipazione popolare che ha toccato il 67,75%. Un precedente incoraggiante secondo gli osservatori, anche se la strada verso una reale stabilità del Paese appare ancora lunga e piena
TIMOR EST
Generalità Nome completo:
Timor Est
Bandiera
Lingue principali:
Tetum, portoghese
Capitale:
Dili
Popolazione:
947.000
Area:
15.007 Kmq
Religioni:
Cattolica (90%), musulmana (5%), protestante (3%)
Moneta:
Dollaro statunitense e dollaro australiano
Principali esportazioni:
Legname, caffè, petrolio e gas
PIL pro capite:
Us 1.813
di ostacoli. “La realtà è che siamo un Paese post-conflitto, abbiamo una vasta fascia di popolazione giovane disoccupata e molti conflitti sociali da risolvere, conflitti che sono il risultato diretto della nostra storia”. A dichiaralo è stato Jose Teixeira, portavoce del Fretilin (Frente Revolucionaria de Timor Leste Indipendente), il movimento simbolo della lotta per l’indipendenza di Timor Est e oggi il principale partito d’opposizione al Governo, che aggiunge: “Abbiamo fatto molti passi avanti ma il percorso non è concluso”.
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Scopo della lotta della popolazione timorese è sempre stato il raggiungimento dell’indipendenza e dell’autodeterminazione. Un’autonomia ostacolata dai forti interessi internazionali in un’area strategica per le rotte commerciali e resa difficile anche oggi dalle tensioni interne
tra i diversi gruppi etnici che popolano Timor Est (78% timoresi, 20% indonesiani, 2% cinesi). Nonostante l’indipendenza formalmente conquistata nel 2002, Timor Est è ancora un Paese poverissimo, instabile e di fatto dipendente dal sostegno della comunità internazionale.
Per cosa si combatte
142
UNHCR/N. Ng
Timor Est è composta dalla metà orientale dell’isola di Timor, dalle isole di Atauro e di Jaco e dalla Provincia di Oecussi-Ambeno, una enclave situata nella parte occidentale dell’isola, Timor Ovest, che fa parte invece dell’Indonesia. Timor ha subito centinaia di anni di colonizzazione europea, da parte dei portoghesi, che arrivarono sull’isola nel XVI secolo, e dagli olandesi. L’instabilità politica e sociale dell’isola di Timor comincia proprio a causa della convivenza forzata sul territorio delle due potenze coloniali, che causò anni di sanguinosi conflitti, risolti soltanto nel 1859, con il Patto di Lisbona che sancì la suddivisione di Timor Est in due parti: quella orientale andò al Portogallo e quella occidentale all’Olanda. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, a causa della sua posizione strategica nel Sud Est asiatico, Timor venne occupata dalle forze australiane che temevano potesse diventare una base militare giapponese. Nel febbraio del 1942 il Giappone occupò effettivamente Timor, cancellando l’assetto territoriale stabilito dal Patto di Lisbona e trasformando l’intera isola in un’unica Regione sotto l’influenza politico-militare del Giappone. Alcune centinaia di militari australiani però non deposero le armi e scelsero di continuare a combattere contro i giapponesi, sostenuti anche dalla popolazione timorese, che per questo pagò un prezzo altissimo. Quando nel 1943,
l’Australia decise il ritiro completo dall’isola di Timor, la rappresaglia dell’esercito giapponese contro la popolazione fu terribile. Si stima che le vittime delle violenze furono tra le 40mila e le 60mila. Dopo la fine della seconda guerra mondiale la parte orientale dell’isola tornò sotto il dominio portoghese mentre nel 1949 la parte occidentale, dopo il ritiro dell’Olanda, fu definitivamente annessa all’Indonesia. Un primo spiraglio verso l’indipendenza del Paese arrivò nel 1974 quando, in seguito alla ‘Rivoluzione dei Garofani’, il Portogallo cominciò ad allentare gradualmente il controllo sulle colonie in Asia e Africa, permettendo la formazione di partiti politici legalizzati a Timor Est. Nacque la “Frente Revolucionaria de Timor-Leste Indipendente”, detto Fretilin, destinato a diventare il movimento simbolo della lotta per l’indipendenza di Timor Est. Nel 1975 si tennero le prime elezioni politiche. Il Fretilin vinse con il 55% dei voti e dichiarò unilateralmente l’indipendenza dell’isola dal Portogallo. Lungi dall’essere un nuovo inizio per il popolo timorese, la dichiarazione d’indipendenza diede il via ad uno dei capitoli più sanguinosi della difficile storia di Timor Est. Il 7 Dicembre 1975 l’esercito indonesiano del dittatore Suharto, invase Timor Est occupando subito la capitale Dili e tutte le principali città del Paese. Nel 1976 Jakarta fa di Timor Est la sua ventisettesima Provincia. Iniziano gli scontri tra il Fretilin
Quadro generale
Effetto Wikileaks
Lo tsunami Wikileaks non ha risparmiato Timor Est. I dispacci diplomatici dell’ambasciata americana a Dili sono stati resi noti dalla stampa locale e contengono giudizi poco lusinghieri sulle Istituzioni del Paese. Il Parlamento di Timor Est sarebbe “corrotto e inefficiente”, il primo Ministro Xanana Gusmao ha “problemi con l’alcol che stanno compromettendo i suoi rapporti con i colleghi” e l’ex primo Ministro Mari Alkatiri sarebbe un “arrogante” a detta del Presidente Jose Ramos-Horta. Ma lo stesso Presidente non viene risparmiato dalle rivelazioni di Wikileaks che ha diffuso anche alcuni dispacci in cui si riporta il giudizio di un funzionario del Vaticano ad un diplomatico statunitense: “RamosHorta ha cominciato con tutte le più buone intenzioni ma il premio Nobel gli ha dato alla testa”.
Mari Alkatiri
(26 novembre 1949)
UNHCR/N. Ng
Diritti umani e riconciliazione
Molto poco è stato fatto fino ad oggi dalle autorità di Timor Est per affrontare le gravissime violazioni dei diritti umani che ebbero luogo nel Paese durante l’occupazione indonesiana (1975-1999). Amnesty International, nel suo rapporto annuale 2011, dà notizia della firma di un protocollo di intesa tra l’ufficio del difensore civico per i diritti umani e la giustizia di Timor Est e la commissione nazionale indonesiana per i diritti umani sull’applicazione delle raccomandazioni della Commissione congiunta di verità e amicizia tra Indonesia e Timor Est (Commission of Truth and Friendship – Ctf) e della Commissione per il recepimento, la verità e la riconciliazione (Commission for Reception, Truth and Reconciliation – Cavr). Il contenuto del protocollo non è stato reso noto ma dovrebbe essere finalizzato alla realizzazione di un programma nazionale di riparazione e di un Istituito per la memoria.
e l’esercito indonesiano, nell’indifferenza della comunità internazionale, mentre Stati Uniti e Australia riconoscono ufficialmente e subito l’occupazione indonesiana di Timor Est. Per 24 anni l’esercito e le milizie filo indonesiane imperversarono sull’isola accanendosi contro la popolazione. Più di 250mila timoresi furono uccisi, praticamente un terzo degli abitanti. Il 12 novembre del 1991 un gruppo di 200 soldati indonesiani trucidò almeno 250 timoresi riuniti per il funerale di un militante indipendentista nella città di Dili. Il cosiddetto ‘massacro di Dili’ venne filmato da due giornalisti americani, che diffusero le immagini permettendo al mondo intero di conoscere il dramma del popolo di Timor Est. Le immagini del massacro provocarono manifestazioni in tutto il mondo e, almeno, la condanna delle Nazioni Unite. Caduto il dittatore Suharto, il nuovo Presidente Habibie, decise nel 1998, di dare un segnale di distensione alla comunità internazionale rendendosi disponibile
I PROTAGONISTI
a concedere uno statuto speciale a Timor Est. L’Onu si occupò di organizzare un referendum per l’autodeterminazione dell’isola, indetto il 30 agosto del 1999. La partecipazione al voto fu massiccia, il 98,6% della popolazione si recò alle urne. Gli indipendentisti vinsero con il 78,5% dei consensi ma ancora prima che i risultati venissero resi pubblici, l’esercito indonesiano e le milizie paramilitari filo-indonesiane si scatenarono contro la popolazione. I timoresi venivano uccisi sommariamente, decapitati. In migliaia furono deportati a Timor Ovest, nella parte indonesiana dell’isola. L’Onu inviò a Timor Est una forza multinazionale di pace, la Interfet (International Force East Timor). Solo il 20 ottobre il parlamento indonesiano ratificò i risultati del referendum e decise il ritiro dell’esercito. Nell’aprile del 2002 i timoresi si recano di nuovo alle urne per eleggere il primo Presidente della storia di Timor Est: Xanana Gusmão, leader storico della guerra d’indipendenza. Nel mese di maggio del 2002 viene ufficialmente proclamata l’indipendenza della Repubblica democratica di Timor Est.
143
Marí bim Amude Alkatiri è stato il primo premier di Timor Est. Prima di entrare in politica ha vissuto in esilio durante l’occupazione indonesiana dell’isola. È tornato nel Paese solo nel 1999, per votare il referendum per l’autodeterminazione dell’isola. È stato uno dei fondatori e segretario generale del Fretilin (Frente Revolucionaria de Timor Leste Indipendente). Nel maggio del 2002, quando le Nazioni Unite hanno trasferito la sovranità dell’isola al parlamento e al Governo eletti per la prima volta a Timor Est, Alkatiri, in qualità di segretario generale del Fretilin, che aveva ricevuto la maggioranza dei voti alle elezioni, è stato nominato primo Ministro. È stato costretto a lasciare l’incarico nel 2006, in seguito ai tumulti esplosi sull’isola che hanno rischiato di trasformarsi in una vera e propria guerra civile. Nel giugno del 2006, il Presidente Xanana Gusmao ne ha chiesto e ottenuto le dimissioni. Alkatiri è stato accusato dai suoi avversari di essersi servito di squadre paramilitari per minacciare e uccidere gli oppositori politici.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA TURCHIA RIFUGIATI
146.794
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA
97.908
IRAQ
15.606
FRANCIA
11.009
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA TURCHIA RIFUGIATI
10.032
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI IRAQ
5.277
Beni rimborsati
Agosto 2011 - Il premier turco Tayip Erdogan firma un decreto per la restituzione delle proprietà recensite nel 1936 e poi confiscate alle fondazioni religiose dallo Stato. Saranno resi i monasteri e le parrocchie mai riconosciuti come enti giuridici, e se alienati o ceduti a terzi sarà stabilito un congruo compenso a risarcire i legittimi proprietari. Secondo un primo calcolo, un migliaio di immobili tornerà ai cristiani greco-ortodossi, un centinaio agli armeni, diversi altri ai caldei cattolici e agli ebrei. Nulla tornerà invece ai cattolici latini, perché questi non comparivano tra le minoranze religiose indicate nel Trattato di Losanna del 1923, che sanciva il riconoscimento della Repubblica turca proclamata da Kemal Ataturk. Se i cattolici in Turchia a tutt’oggi non hanno riconoscimento giuridico, il decreto fa ben sperare.
UNHCR/M. Depardon
Le ultime notizie sono della terza settimana di ottobre, con gli attacchi dell’esercito turco ai campi curdi in Iraq. L’altopiano anatolico orientale, lago Van e alto bacino dei fiumi Tigri ed Eufrate, in corrispondenza del confine TurchiaSiria-Iraq (Sud) e Turchia-Iran (Est), sono ancora il teatro del confronto fra Esercito turco e Pkk, Partito dei Lavoratori Curdi. Ancora a fine settembre 2011, il Pkk lancia un attacco ad una piccola stazione di polizia nel Sud-Est della Turchia (villaggio di Pervari, provincia di Siirt) uccidendo cinque poliziotti e ferendone una decina. Il 20 settembre un’auto esplode nel centro di Ankara causando tre morti e decine di feriti. Un’organizzazione curda, quella dei Tak (i Falchi per la libertà del Kurdistan, vedi focus), ne rivendica la matrice. Nell’estate 2011, gli attacchi del Pkk si sono moltiplicati. A luglio, si attua “l’imboscata di Silvan”, un attacco del Pkk ai militari turchi che risalta nelle cronache come la più sanguinosa azione di guerriglia dal 2008. Il 17 agosto, il Pkk uccide altri 12 soldati nel distretto di Hakkari. La Turchia riprende i raid aerei nel nord dell’Iraq. Il 23 agosto 2011, l’Esercito annuncia l’uccisione di quasi cento guerriglieri Pkk. Le operazioni sono state ufficialmente considerate una “rappresaglia”. A seguito di questi fatti, il quotidiano panarabo al Hayat, citando fonti dei servizi di sicurezza di Ankara, faceva sapere – il 30 agosto – che il Pkk avrebbe attaccato dalla Siria. Subito alcuni osservatori ipotizzavano: la Siria è tornata ad appoggiare i curdi perché vuole “vendicarsi” di Ankara che aveva espresso dissenso per la repressione dei manifestanti anti-Assad. Di fatto, dalla metà degli anni ‘80 e fino al 1998, il Pkk aveva operato in Siria col beneplacito delle autorità locali in funzione anti-turca. Ma poi con gli accordi di Adana del 1998-99, la Siria aveva accettato di non appoggiare più il Pkk e di espellere tutti i suoi membri. Gli accordi di Adana non sono stati aboliti. Tuttora, l’esercito turco può penetrare in territorio siriano alla
TURCHIA
Generalità Nome completo:
Repubblica di Turchia
Bandiera
145
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Turco
Capitale:
Ankara
Popolazione:
78.785.548 abitanti
Area:
783.562 Kmq
Religioni:
Maggioranza mussulmana sciita e sunnita, minoranza cristiana e altre fedi
Moneta:
Nuova lira turca
Principali esportazioni:
Tessile, alimentare, ferro e acciaio. Più del 50% di tutte le merci vanno in Ue
PIL pro capite:
13,920 dollari
caccia di miliziani del Pkk. Il 15 luglio 2011, il premier turco Erdogan boccia una richiesta di “autonomia democratica” fatta dal Dtk (Congresso della società democratica). Erdogan dichiara alla stampa: “Se vogliono la pace, devono deporre le armi”. Alle elezioni politiche del 12 giugno 2011, il Premier è stato confermato. Il suo partito conservatore, Akp (Adalet ve Kalkinma Partisi, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) ha ottenuto il 50,3% dei voti.
Il Pkk, nato nel 1984, ha l’obiettivo di fondare uno Stato dei curdi (Kurdistan). La Turchia si oppone a questo progetto. Dal punto di vista turco, (e dal punto di vista dell’Ue e degli Usa) i curdi del Pkk sono “terroristi” aderenti ad un’organizzazione fuorilegge. Dal punto di vista curdo, il “terrorismo” del Pkk non è altro che una lotta armata legittima, necessaria e conseguente
al “genocidio culturale” ai danni della nazione curda in Turchia. Genocidio denunciato anche dal Dtk (Congresso della società democratica), un partito politico che punta a creare “un sistema di autogoverno della gente nella propria regione”. Un “modello di Kurdistan democratico e autonomo”, al momento, fuori discussione per Ankara.
Per cosa si combatte
Gay discriminati
Giugno 2011, Amnesty International denuncia che in Turchia dichiarazioni omofobiche di rappresentanti dello Stato alimentano le discriminazioni a danno dei gay, le quali andrebbero contrastate anche attraverso le previste riforme costituzionali. Nel marzo 2010 Aliye Kavaf, ministra di Stato turca responsabile degli Affari femminili e della famiglia, sostenne che l’omosessualità è “un disturbo biologico, una malattia” e come tale “deve essere curato”. Nel 2011, l’organizzazione per i diritti umani ha raccolto testimonianze e documentazione da cui emergono discriminazioni da parte di funzionari di Sanità, Scuola, Edilizia pubblica e nei posti di lavoro, in assenza di norme che le impediscano. Tuttavia, la Turchia garantisce agli omosessuali più garanzie di altri paesi musulmani.
Corsa alle armi 146
La Turchia spende nel 2011 in armamenti quasi cinque miliardi di dollari, la cifra più alta nella storia del Paese. Acquistati un centinaio di aerei Joint Strike Fighter (Jfss), di sottomarini e di elicotteri, destinati a far lievitare sensibilmente la spesa. La situazione economica del Paese lo permette. Negli ultimi anni la Turchia ha speso annualmente poco più di 4 miliardi di euro per le commesse militari. Parte dell’aumento è compensato da un parallelo aumento dell’export dell’industria nazionale della difesa. Il suo settore più importante dal punto di vista dell’export è quello dei produttori di veicoli corazzati. L’area a Sud Est della Turchia è suddivisa in 12 Province e fa riferimento alla città di Diyarbakir. È la “terra dei Curdi”, o meglio, è solo una parte di quel “Kurdistan” storico che sopravvive nella cultura e nella memoria della popolazione locale senza essersi mai costituito in vero e proprio Stato, essendo, la “terra dei Curdi”, da sempre spartita tra Turchia, Iran, Siria e Iraq. I Curdi e i Turchi che risiedono nell’area del confine Sud
Est della Turchia vivono in un contesto politico non pacificato. Da una parte i Governi della Repubblica, dall’altra il Pkk (Partito dei lavoratoti curdi). Dal 1984 il Pkk si batte con le armi per la costituzione di uno Stato indipendente curdo. Nell’aprile del 2002 il Pkk dichiara una tregua unilaterale, a tre anni di distanza dall’arresto del suo leader Abdhullah Ocalan. Il 15 novembre 2003 il movimento indipendentista curdo rinun-
Quadro generale
Leyla Zana
(Silvan, provincia di Diyarbakir 3 maggio 1961)
Non solo Pkk. Il Tak sigla paravento
Quella dei Tak è considerata una sotto-sigla affiliata al Pkk. I Falchi sono in genere incaricati dei lavori più “sporchi” come l’attentato kamikaze che aveva già colpito Istanbul il 31 ottobre 2010 causando 32 feriti, tra cui 15 agenti di polizia, nella centralissima piazza Taksim. Secondo diversi osservatori turchi e occidentali, il Tak non sarebbe altro che una “sigla paravento” per compiere azioni terroristiche che potrebbero suscitare la riprovazione non solo dei turchi, ma anche della comunità internazionale. Il Pkk, che considera i Tak come schegge impazzite, nega qualsiasi coinvolgimento nell’attentato di Ankara. In una e-mail inviata all’agenzia filocurda Firat News, il Tak scrive: “non è che l’inizio”
cia al separatismo, ma per ragioni di auto-difesa non disarma. Il primo giugno 2004 il ricostituito Pkk annuncia la ripresa delle ostilità. Il Pkk continua ad essere considerato movimento terroristico dagli Usa, dall’Unione europea, dalla Siria, dal Canada, dall’Iran e dall’Australia. Il 26 giugno 2011, Abdullah Ocalan fa giungere ai vertici della Turchia, oltre a moniti bellicosi da “500mila morti”, anche dettagliate proposte di pace: il leader in prigione pensa a tre “protocolli” per risolvere la “questione curda”. Il primo protocollo si concentra sui “principi di una soluzione democratica per la questione curda della Turchia”, in pratica sulla nuova Costituzione che il premier Recep Tayyip Erdogan intende varare concordandola con tutte le forze di opposizione e della società. Il secondo protocollo riguarda i principi di una “pace giusta tra lo Stato e la società” ed il terzo prospetta “un rapido piano di azione per stabilire la pace in un modo democratico ed equo”. I protocolli chiedono anche una fine dell’isolamento in cui è tenuto Ocalan, catturato nel 1999. Lo stesso Ocalan aveva dichiarato: “Abbiamo due vie:
I PROTAGONISTI
una soluzione democratico-costituzionale o una guerra civile rivoluzionaria” in cui “il governo arresterà 300mila persone, non 300, e 500mila persone moriranno, non 50mila’’. Il riferimento, implicito, è alla stima di 40/45 mila morti causati in 27 anni dal conflitto Turchia-Pkk. Intanto, la Turchia fa registrare nel 2011 la più forte progressione al mondo, in termini di Pil, più di Cina e Argentina. Nel segnalare la notizia, il sito del quotidiano turco Hurriyet sottolineava che “la Turchia è diventata l’economia con la crescita economica più veloce ed il solo paese al mondo con un tasso di incremento a due cifre”. Già nel 2010, dopo il periodo critico di fine 2008 e 2009, l’economia turca era stata una delle tre più veloci al mondo con un tasso di crescita dell’8,9%, inferiore solo a quello di Cina e Argentina. In termini di Parità del potere di acquisto (Ppp), la Turchia è la 16° economia mondiale con l’aspirazione ad entrare fra le prime dieci nel 2023, anno del centenario della sua fondazione (ma l’obiettivo viene spostato al 2050 da uno studio di Goldman Sach’s). Nel maggio 2011 la Commissione europea ha visto al rialzo dal 4,5 al 6,1% le previsioni di crescita della Turchia per il 2011 a fronte di un 1,8 pronosticato per l’intera Ue. Negli ultimi otto anni, il reddito pro capite turco è triplicato.
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Prima donna curda ad entrare nel Parlamento turco nel 1991 poi condannata a 15 anni di prigione per terrorismo e separatismo ne scontò 10, dal 1994 al 2004. Da allora Leyla è divenuta la paladina della causa curda, due volte candidata al Premio Nobel e vincitrice del premio Sakharov per i diritti umani. Il 12 giugno 2011 è stata rieletta nel Parlamento di Ankara.
UNHCR/M. Depardon
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLO YEMEN RIFUGIATI
2.076
SFOLLATI PRESENTI NELLO YEMEN 220.994 RIFUGIATI ACCOLTI NELLO YEMEN RIFUGIATI
190.092
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SOMALIA
179.845
Clan e Tribù
In Yemen persiste una struttura sociale di tipo feudale, fondata sulle caste. Ci sono sostanzialmente due ordini: quello superiore, cui appartengono i sayyid (i signori), che discendono dal profeta Maometto, i qadi (i giudici) e gli sceicchi, che sono a capo delle varie tribù; quello inferiore, composto invece dagli artigiani, dai servi e dagli akhadm, di pelle scura, che sono in pratica i discendenti degli antichi schiavi neri. Gran parte dei sayyid sono sciiti, e molti appartengono al clan degli Al Houti. La loro rivalità con il Governo centrale dipende dal fatto che gli Houti si ritengono gli unici legittimati a guidare il Paese e non riconoscono perciò l’autorità del Presidente Saleh, considerato di razza inferiore.
UNHCR/J. Björgvinsson
Forse non è arrivato ancora al capolinea, il Presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, ma ormai ci sono pochi dubbi sul fatto che la sua ora sia definitivamente suonata. È riuscito infatti a sopravvivere solo fisicamente, e per miracolo, all’attacco armato che il 3 giugno ha semidistrutto il suo palazzo presidenziale. Ma non è una caso se il suo rientro a Sana’a, dopo i tre mesi di convalescenza passati in Arabia Saudita, è stato salutato da una recrudescenza di violenza, che ha fatto un altro centinaio di morti, portando il bilancio delle dure proteste di piazza – che vanno avanti da gennaio – ad oltre 600/700 morti. In un discorso alla tv di stato, il 25 settembre, Saleh ha promesso nuove elezioni a breve, per avviare un processo di transizione dei poteri. Ma la piazza reclama, armi alla mano, le sue dimissioni immediate. Inoltre vuole processarlo per la repressione feroce che ha ordinato in questi ultimi sei mesi e per tutti gli altri crimini commessi nei suoi 33 anni di potere più o meno assoluto. E non saranno certo i battaglioni della Guardia Repubblicana, guidati da suo figlio Ahmed, a salvare Saleh da una contestazione che è ormai estesa a tutte le tribù e a tutto o il Paese e che gli ha fatto perdere in sei mesi anche l’appoggio dei suoi storici protettori, la Monarchia saudita e il Governo degli Stati Uniti. La fine politica di Saleh era già stata decretata in maggio, quando il Consiglio di Cooperazione del Golfo – che riunisce i maggiori Paesi della Regione – si era offerto di mediare nella crisi yemenita ed aveva elaborato un Piano di pace, accettando però la richiesta principale della piazza (e dei partiti di opposizione), vale a dire la dipartita anticipata del Presidente. Saleh si era invece arroccato sulle sue posizioni, ostinandosi nel voler essere il regista della transizione, e questo aveva impresso una improvvisa e violenta accelerazione alla contestazione delle piazza, trasformatasi ben presto in guerra civile aperta, anche all’interno dell’esercito, con la Guardia Repubblicana schierata dalla parte del Presidente ed altri reparti schierati con il generale dissidente Ali Mohsen al-Ahmar, passato nei ranghi degli oppositori ed appoggiato da numerose milizie tribali. A Saleh, insomma, non restano più alleati. An-
YEMEN
Generalità Nome completo:
Repubblica Unita dello Yemen
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo
Capitale:
San‘a’
Popolazione:
20.975.000 (2005)
Area:
527.970 Kmq
Religioni:
Musulmana
Moneta:
Riyal yemenita
Principali esportazioni:
Petrolio, gas naturale, caffé e cotone
PIL pro capite:
Us 2.410
che perché gli Stati Uniti hanno espresso a viva voce la loro preoccupazione rispetto ad un’ulteriore destabilizzazione di quest’area per loro strategica, che già è minata da diversi conflitti e dove la presenza di al-Qaeda non è affatto trascurabile. È solo come baluardo contro gli integralisti islamici che il Dipartimento di Stato aveva “adottato” Saleh, nei decenni scorsi, chiudendo un occhio, anzi due, sulla corruzione e il nepotismo che hanno sempre contraddistinto il suo governo. Venuto meno anche questo velo, il re si è ritrovato nudo. Nudo e solo. Per la sua caduta è questione di settimane, al massimo di qualche mese.
150
Per gli Usa lo Yemen e il Corno d’Africa restano cruciali nella lotta al terrorismo. E infatti il 1° ottobre 2011 un drone americano è riuscito a centrare l’auto su cui viaggiava il leader spirituale di al-Qaeda nella Penisola arabica (Aqap), l’imam Anwar Al Awlaki. Dieci giorni prima, il 22 settembre, due raid americani ad Al Mahfad, nel Sud, avevano ucciso 10 presunti qaedisti, tra cui il numero due della rete terroristica, Said al-Shehri. La paura degli Usa è infatti che la guerra civile, e il conseguente vuoto di potere a Sana’a, possano favorire la penetrazione di al-Qaeda in quest’area, convogliando magari da queste parti anche i gruppi che prima operavano in Somalia. Non a caso, fra il 2010 e il 2011 i droni statunitensi hanno compiuto almeno sei operazioni sul territorio yemenita, e tutti con esiti positivi. In realtà, sono più di dieci anni che al-Qaeda opera in Yemen, sia pure con alterne fortune. Il suo battesimo del fuoco è datato 2000, con lo spettacolare attacco alla portaerei americana Cole, che fece 17 morti fra i marines. Ma i primi nuclei jihadisti risalgono già ai primi anni ’90, con il rientro dei mujahidden che avevano combattuto in Afghanistan, al fianco di Osama bin Laden. Con essi il Presidente yemenita Ali Abd Allah Saleh ha mantenuto a lungo un rapporto strumentale, pronto cioè ad utilizzarne la potenza di fuoco e le capacità organizzative per risolvere i suoi problemi interni, salvo poi fare marcia indietro e dar loro la caccia quando l’alleato americano lo imponeva. È infatti provato che le milizie di al-Qaeda sono state utilizzate senza tanti problemi dal Governo yemenita già nella seconda metà degli anni ’90, per contrastare la secessione nelle province del Sud tentata dai ribelli del “Southern Mobility Movement”. Altrettanto disinvolto è però il voltafaccia del Presidente Saleh dopo l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2000, quando gli americani scoprono la consistenza della rete terroristica di bin Laden in terra yemenita. È solo a quel punto che la caccia ai militanti di al-Qaeda diventa anche a Sanaa una priorità nazionale, resa ancora più pressante dal numero cospicuo di kamikaze yemeniti che vanno ad immolarsi in Iraq dopo il 2003, per combattere gli americani. Il paradosso è che, con la stessa velocità con cui le carceri di Sanaa si sono riempite di militanti di al-Qaeda, altrettanto velocemente si
sono svuotate. Una fuga di massa si verifica ad esempio nel febbraio 2006, quando 23 miliziani di al-Qaeda, tutti di primo piano, riescono ad evadere. Ed è questo l’inizio di una nuova fase, che vede i jihadisti impiantarsi sempre più saldamente nelle province del Sud, con rapporti di contiguità se non di alleanza tattica con la guerriglia separatista, che continua a battersi per l’indipendenza. Allo stesso tempo, al-Qaeda nella penisola Arabica non smette di colpire, appena può, il nemico americano e i suoi più stretti alleati: nel 2008 ci sono stati due attacchi suicidi all’ambasciata Usa cui vanno aggiunti diversi attacchi contro obiettivi “occidentali”. Nell’autunno 2009, inoltre, l’Arabia Saudita ha denunciato l’infiltrazione di elementi legati ad al-Qaeda provenienti dal Nord dello Yemen, a conferma del fatto che la rete del terrore che fa capo ad Osama bin Laden ha nello Yemen il suo principale caposaldo, con una capacità di azione ad ampio raggio ed una rete di protezioni tribali che sarà difficile smantellare, nonostante l’impegno degli Stati Uniti, che nel corso del 2010 hanno bombardato a più riprese con i loro droni presunte basi di al-Qaeda in Yemen. L’ultima battaglia fra l’esercito yemenita e i miliziani di al-Qaeda è del 24 agosto 2010, nella città di Loder, nel Sud, ed ha fatto decine di morti da ambo le parti.
Per cosa si combatte
Il problema vero è che lo Yemen resta un’entità statale assai poco stabile, per non dire effimera. Anche se nel 2010 si è celebrato il ventennale dell’unificazione fra il Nord e il Sud del Paese, che sono rimasti separati dal 1967 al 1990, per via della Guerra Fredda. La riconciliazione nazionale, in effetti, è ancora lontana: Sanaa e Aden restano separate dai lutti e dagli strascichi della guerra civile, oltre che dalle discriminazioni economiche e sociali
di cui il Sud tuttora soffre. Il risultato è che il vento della secessione continua a soffiare, contrastato da una feroce repressione del Governo centrale, che ovviamente finisce per esasperare la situazione. In questo quadro già problematico si inserisce la presenza di al-Qaeda: il suo leader yemenita, Nasir Al Wuhayshi, ha più volte negli anni recenti manifestato il suo appoggio alle istanze secessioniste portate avanti dal Southern Mo-
Quadro generale
UNHCR/L. Chedrawi
Ali Abdallah Saleh (al-Ahmar, 21 marzo 1946)
UNHCR/B. Bannon
al-Qaeda in Yemen
Secondo tutte le fonti, il leader riconosciuto di al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) è l’ex luogotenente di Osama bin Laden in Afghanistan Nasir Abdel Karim Al Wuhayshi. Arrestato dagli iraniani dopo la sua fuga da Kandahar nel 2001, Al Wuhayshi è rimasto per diversi anni nelle prigioni yemenite, da cui è riuscito ad evadere assieme ad altri 22 miliziani di al-Qaeda nel febbraio 2006. Il leader spirituale di Aqap era invece l’imam di origini americane Anwar Al Awlaki. Nato nel New Mexico, dove suo padre insegnava all’università, Al Awlaki era diventato uno dei predicatori islamici più radicali degli Stati Uniti. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, e proprio in virtù delle sue frequentazioni con almeno due degli attentatori, era stato costretto a lasciare gli Stati Uniti per Londra e poi per lo Yemen. Un drone americano ha centrato l’auto su cui viaggiava, il 1° ottobre 2011, assieme ad un altro cittadino Usa, l’ideologo Samir Khan, direttore della rivista Inspire, considerato il megafono di al-Qaeda in inglese. Questo assassinio mirato ha scatenato non poche polemiche, perché entrambi “i targhet” erano cittadini americani.
bilty Movement; e non va poi dimenticato che l’attuale leader del Smm, Tareq al-Fadhlii, è stato uno dei luogotenenti di bin Laden in Afghanistan. Quanto basta, insomma, per rendere il Sud dello Yemen una polveriera pronta ad esplodere, anche se per ora i dirigenti del Smm lavorano per arrivare ad una “insurrezione civile”, ma disdegnano – almeno a parole – la lotta armata. Un secondo “fronte” è aperto nel Nord, al confine con l’Arabia Saudita, con la minoranza sciita che fa capo al clan degli Al Houti. Si tratta di sciiti della setta zaidita, che non riconoscono alcuna legittimità al Governo centrale del Pre-
I PROTAGONISTI
sidente Saleh, contro il quale sono in guerra aperta dal 2004. Il loro leader, il predicatore Hussein al Houti è stato ucciso in un raid aereo del dicembre 2009. Secondo l’Onu, il conflitto ha già fatto decine di migliaia di vittime e provocato un flusso di almeno 50mila rifugiati, costretti ad abbandonare le loro case. Le autorità di Sanaa accusano l’Iran di fomentare la rivolta, per spingere al potere la minoranza sciita, che in Yemen rappresenta il 40-45% della popolazione. Certo è che le province del Nord – in particolare quella di Saada – sono off limits per l’esercito di Sanaa e sono saldamente in mano ai ribelli: una secessione di fatto, che ha provocato nel dicembre 2009 l’intervento armato dell’Arabia Saudita, che lamenta l’insicurezza di questa frontiera, troppo permeabile dai miliziani di alQaeda.
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È rimasto abbarbicato al potere nonostante il 13 giugno abbiano attaccato a colpi di mortaio la moschea in cui pregava, all’interno del palazzo presidenziale, facendo 11 morti e 124 feriti. E non l’hanno convinto a mollare nemmeno i suoi amici sauditi, che l’hanno accolto a Riad per farsi curare dalle gravi ferite riportate in quell’attacco e avrebbero preferito che lì restasse, in esilio. D’altra parte, il curriculum di Ali Abdallah Saleh parla da solo: è al potere da 33 anni, prima come Presidente dello Yemen del Nord (dal 1978 al 1990), poi come Presidente dello Yemen unificato (dal 1990 fino ad oggi). E il suo Governo è stato un concentrato dei vizi comuni a tutti i raìs arabi: corruzione, nepotismo e disprezzo per i diritti civili. Quando parte la contestazione, il 27 gennaio 2011, sulla scorta delle rivolte in Tunisia ed Egitto, Saleh decide di reprimerla senza mezze misure, nonostante i venerdì di preghiera si trasformino a Sana’a in Venerdì della Collera e nonostante la piazza dell’unità venga ribattezzata, a furor di popolo, in Piazza del Cambiamento. La repressione tocca l’apice il 18 marzo, con i cecchini che sparano sulla folla, facendo 52 morti e centinaia di feriti. Quella stessa sera viene proclamato lo Stato d’Emergenza. E per Saleh è l’inizio della fine.
Inoltre Birmania/Myanmar “Liberata Aung San Suu Kyi dalla giunta militare, il mondo guarda alla farsa del ritorno alla democrazia”.
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“Parlerò con chiunque voglia lavorare per il bene del Paese e per la democrazia, anche se la riconciliazione nazionale significa riconoscere che vi sono differenze. Non nutro ostilità nei confronti del governo per avermi tenuta prigioniera per tanto tempo: gli ufficiali della sicurezza mi hanno trattato bene; chiedo loro di trattare bene anche il popolo birmano”. È il 14 novembre 2010 Aung San Suu Kyi, liberata appena un giorno prima, pronuncia il suo primo discorso. Finiscono così 20 anni di reclusione per la donna che vinse le elezioni del 1990, ma non potè mai governare. La liberazione del premio Nobel per la pace ha suscitato negli analisti di politica internazionale più di una interpretazione, più di una perplessità. Perchè? Il timore è che i passi in avanti fatti dal governo legittimo siano in realtà passetti di facciata realizzati per ammorbidire l’opinione pubblica internazionale (che si è mobilitata per la causa di San Suu Kyi) e spingere la stessa comunità a revocare le sanzioni economiche internazionali che di fatto hanno isolato la Birmania dalla politica economica del mondo, legandola a quattro mani con la Cina che in questo periodo ha fatto grandi affari nei territori birmani. Le azioni di facciata, tra l’altro non sono nuove al Paese. Ne sono un esempio le elezioni del 7 novembre 2010 che portarono alla nascita del nuovo governo con la vittoria del partito dell’Unione della solidarietà e sviluppo sostenuto dalla ex giunta militare al potere da più di 50 anni. Il partito filo governativo ottenne l’80% dei consensi, ma dalle stesse lezioni vennero esclusi i sostenitori della Lega nazionale per la democrazia con la legge-pretesto che non poUNHCR/G.M.B.Akash
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tevano prendere parte alle elezioni coloro macchiati da vari “precedenti” ed escludendo, di fatto, tutti i sostenitori e gli attivisti del partito di San Suu Kyi. La faccia pulita della democrazia ha dato i suoi frutti. In gennaio la comunità internazionale parla della possibilità di ridurre se non, addirittura, eliminare le restrizioni economiche verso il regime. Ma la cautela rimane d’obbligo visto che tutti si sono resi conto che poco o niente è cambiato nel Paese. Il fulcro della decisione in questo caso girerebbe intorno a un’altra questione: a chi giovano le restrizioni? Chi ne soffre di più? Il popolo oppure il regime militare? E cosa assai importante, se si continua con la politica della restrizione non si lascia ancora più spazio alla Cina che in questi ultimi 20 anni ha fatto della Birmania (ricco di gas, oro, giada, tungsteno, legno, etc..) terreno di grossi investimenti? Intanto, il governo birmano fa un ulteriore passo avanti e in maggio annuncia “l’amnistia collettiva per 17mila detenuti”. In realtà si tratta della riduzione della pena di un anno. Una soluzione che Human Rights Watch ha definito uno “schiaffo. Una risposta patetica agli appelli internazionali”. Bisogna ricordare che il numero delle persone detenute nelle prigioni del Paese è sconosciuto mentre oltre 2000 sarebbero i prigionieri politici. Intanto si consuma un altro effetto del “processo democratico”. I paesi che in questi 20 anni hanno accolto i profughi birmani chiedono il conto. Un ulteriore dato per comprendere la geografia dei cambiamenti in terra di Birmania ci viene dato dal Rapporto dell’ufficio antidroga delle Nazioni Unite che indica per il 2010 un incremento del 20% della coltivazione di oppio e di un +76% del raccolto rispetto al 2009. Il 92% di questa produzione si concentra nella regione orientale dello Shan, in mano ai ribelli ostili al governo. I ribelli birmani usano l’oppio per finanziare l’acquisto delle armi e della guerriglia. Cosa succederà quando tutti questi soldi entreranno nel circolo vizioso della guerra? É un caso che questa aumento spropositato sia coinciso con le elezioni farsa?
Inoltre Corea del Nord-Sud “Nemmeno gli affari avvicinano i Paesi fratelli divisi ormai da sei decenni”.
dei negoziati a sei senza precondizioni. Nel corso delle trattative, i nordcoreani saranno pronti a risolvere la questione della moratoria sui test e sulla produzione di missili e armi nucleari”. Ma Seul teme che il caro leader possa chiudere i rubinetti a suo piacimento in caso di tensione tra le due parti. In poche parole teme di dipendere troppo dallo storico nemico. Ma il 28 aprile l’ex Presidente americano Jimmy Carter, mediatore internazionale, annuncia al mondo che Kim Jong-il si rende disponibile a incontrare il Presidente della Corea del Sud, Lee MyungBak, per parlare del programma nucleare e di altre questioni per regolare il rapporto tra i due stati. Una sollecitazione che Seul non accoglie, con le autorità che annunciano di non voler incontrare né Carter né tantomeno Kim Jongil. Poco più di un mese dopo sarà la Corea del Nord a interrompere le trattative con la Corea del Sud annunciando una vera e propria rappresaglia contro quella che viene definita una guerra psicologica di Seul contro Pyongyang. Una storia che pare non avere fine. Intanto la Corea del Sud si è aggiudicata le olimpiadi invernali del 2018. Arriveranno 1.53miliardi di dollari dal comitato organizzatore, ai quali si aggiungeranno 6.3miliardi di dollari per la realizzazione di infrastrutture compresa una linea ferroviaria ad alta velocità. Naturalmente questa mossa ha alzato la popolarità di Lee MyungBak che nell’ultimo anno aveva alzato le tasse: ora 230mila posti di lavoro verranno assegnati. E per una notizia buona, una cattiva: il rapporto annuale di “Nessuno tocchi Caino” vede la Corea del Nord terza al mondo per numero di esecuzioni capitali con 60 uccisioni.
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Tecnicamente ancora in guerra, dal lontano 1953, quello lungo le due Coree continua ad essere il confine più protetto e militarizzato del mondo. 250 chilometri di mine, armi pesanti, filo spinato e rivelatori di movimento. Dalla fine della Seconda guerra mondiale ciascuna delle due parti rivendica la sua autorità sulla totalità della penisola coreana. Il risultato è uno stato di agitazione perenne tra il Nord (Pyongyang) e il Sud (Seul). Ed è sulla Northern Limin Line (Nll) linea di confine marittima che si consuma l’ennesimo scontro/pretesto lo scorso novembre. Semplificando: il Nord spara una raffica di tre colpi e il Sud risponde. A breve arriva la risposta del Nord che parla di esercitazioni e di esplosivo per lavori edili. Il Sud si oppone alla versione ufficiale di Pyongyang. Insomma una storia che si ripete sempre uguale a se stessa e che non accenna a risolversi. In questo quadro stagno, però, è accaduto qualcosa che potrebbe aiutare a smuovere le acque. E, come spesso accade, la strada della risoluzione passa attraverso un accordo economico che coinvolge parti importanti dello scacchiere, economico e politico, internazionale. Il 24 agosto, in Siberia, il Presidente russo Dimitri Medvedev ha incontrato il leader della Corea del Nord Kim Jong-il per discutere della possibilità di costruire un gasdotto che colleghi la Russia con la Corea del Sud, passando per il Nord del Paese. Si tratterebbe di un’infrastruttura di 1.100 chilometri, 10miliardi di metri cubi di gas all’anno. Quantitativi allettanti ma che non riescono, da soli, a far chiudere gli occhi su alcune questioni lasciate in sospeso. In primo luogo la situazione di stallo che dal 2008 c’è tra Corea del Nord e resto del mondo rispetto ai test nucleari in atto nel Paese. In cambio di questo affare, infatti, Kim Jong-il sarebbe disposto a discutere la sospensione del programma nucleare e a mettersi al tavolo delle trattative con le grandi sei: Usa, Russia, Cina, Giappone e le due Coree. Alla fine dell’incontro una portavoce Natalya Timakova ha dichiarato alla stampa: “Kim Jong-il ha dichiarato di essere pronto a ritornare al tavolo
Inoltre India
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“Stremati da fame e alluvioni nell’Assam i separatisti chiedono al Governo di fare la pace”.
La notizia è arrivata nel gennaio del 2011. Dopo trent’anni di guerra che ha causato più di quindicimila morti, i ribelli separatisti del Fronte unito di liberazione dell’Assam (Ulfa) hanno ufficialmente dichiarato di essere pronti ad aprire un tavolo di negoziato con il Governo indiano. L’Ulfa ha preso le armi nel 1979 con lo scopo dichiarato di ottenere l’indipendenza dello stato dell’Assam dal Governo federale indiano, accusato dai ribelli di sfruttare le risorse naturali della ricchissima Regione, petrolio in particolare, costringendo invece i suoi abitanti a vivere in condizioni di povertà estrema. Una situazione difficile quella della popolazione, resa ancora più drammatica nel 2011 da una violenta alluvione che ha colpito lo Stato dell’Assam costringendo 75mila persone ad abbandonare le proprie case. Ad annunciare l’intenzione di tentare una soluzione politica al conflitto è stato Arabinda Rajkhowa, leader politico dei guerriglieri indipendentisti del Fronte unito per la liberazione dell’Assam che ha inviato una lettera al governatore dello stato indiano Tarun Gogoi annunciando ufficialmente la volontà di incontrare le autorità locali e avviare un dialogo di pace. La scelta di cercare una soluzione politica al conflitto arriva dopo alcuni anni in cui si è registrata una diminuzione degli scontri diretti tra i ribelli e le forze governative. In particolare nel 2008 e poi nel 2009, quando le attività militari dell’Ulfa sono cessate quasi del tutto. Restano comunque aperte molte incognite sul futuro del conflitto. In primo luogo il fatto che restano ancora attivi nello stato dell’Assam e più in generale nel
Nord Est dell’India alcuni gruppi ribelli minori, come il Fronte nazionale democratico del Bodoland (Ndfb), che nel corso del 2011 ha messo a segno diversi atti di violenza a sfondo etnico nella Regione. Un’altra incognita dipende dalla situazione di altri Paesi vicini all’India come il Bangladesh, dove sono dislocate la maggior parte delle basi del Fronte unito di liberazione dell’Assam o il Pakistan, accusato (in particolare i suoi servizi segreti) di armare, addestrare e finanziare i ribelli dell’Ulfa. Se anche l’annuncio dell’Ulfa decretasse davvero la fine del conflitto nell’Assam, il prezzo pagato dalle popolazioni civili assamesi è stato altissimo. Migliaia sono stati i morti causati dagli attacchi contro le forze di sicurezza indiane, gli attentati contro stazioni, treni e strutture petrolifere e soprattutto una campagna sanguinosa contro i lavoratori immigrati indiani che, secondo l’Ulfa, sarebbero coloni mandati nell’Assam dal Governo di Nuova Delhi. Le popolazioni civili hanno dovuto inoltre subire anche gravissimi abusi e ritorsioni da parte delle forze armate indiane che si sono rese responsabili di gravi violazioni dei diritti umani ai danni dei civili, dagli arresti sommari alle torture.
Inoltre Iran “Finita l’Onda verde è la questione nucleare a tenere accesi i riflettori sul Paese”.
Nella preoccupazione generale, intorno al 20 agosto si è consumata un’altra pagina di questa storia infinita. Fereydun Abbassi Davan, capo del programma nucleare iraniano, ha dichiarato di voler trasportare i macchinari dell’arricchimento dell’uranio da Natanz (complesso nucleare) ad un bunker sotterraneo nella città di Qom. Un trasferimento che a detta di Fereydun Abbassi Davan sarebbe un atto dovuto per “difendere il materiale nucleare da attacchi di Israele e Stati Uniti” ma che nella realtà voleva essere un’ulteriore deviazione dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’energia nucleare (Aiea). Intanto la Russia cerca di riallacciare i rapporti tra Iran e resto del mondo, interrotti nel gennaio dello stesso anno. Il 29 agosto del 2011 si apre uno spiraglio… ma con remore. Aiea si sente dire dall’Iran che: “Sì, collaboreremo ma non per tutto”. Sarà lo stesso Fereydun Abbassi Davan a dichiarare alle agenzie di stampa internazionali le sue intenzioni, ossia quelle di andare incontro all’Aiea anche se con qualche riserva. In breve Fereydun Abbassi Davan dice che collaborerà con l’Agenzia ma non in tutti i casi sollevati. A suo parere sarebbe necessario porre un limite per evitare che i Paesi ostili continuino a tirar fuori altre questioni e documenti falsi. Può dirsi un passo in avanti visto che a giugno l’Iran aveva detto dell’Aiea: “Sono un branco di marionette”. Intanto per il novembre 2011 è prevista l’entrata in funzione di Bushehr. Il primo impianto nucleare iraniano in grado di produrre energia elettrica che sarà collegato alla rete elettrica nazionale.
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Continua ad essere il nucleare la questione che lega l’Iran al resto del mondo. Soprattutto adesso che, negli ultimi 12 mesi, si sono spente le luci sull’Onda verde e la rivoluzione culturale dei giovani e delle donne iraniane. Se è vero che il 2009/2010 è stato l’anno della rivoluzione di piazza, delle ribellioni, della richiesta a gran voce dei diritti civili; è altrettanto vero che dopo la “primavera” del febbraio 2010 qualcosa si è spento. È il movimento ad essersi spento. Niente più: “ci riprenderemo la piazza”. Niente più: “puniremo coloro che hanno tradito la rivoluzione”. Di quella forza rimane poca cosa. La notizia dell’arresto di 10 manifestanti, attivisti, nel febbraio durante una manifestazione (non autorizzata) di solidarietà nei confronti della ribellione egiziana. L’arresto ai domiciliari dei leader dell’opposizione Mirhossein Mousavi e Medhi Karoubi (dei due, inoltre, giornali e media non potranno più pubblicare news. A stabilirlo un documento prodotto dal ministero della Cultura il 18 agosto). Ma è l’affaire dell’armamento nucleare dell’Iran a prendersi la scena di quest’ultimo anno. Da una parte c’è chi crede nelle buone intenzioni del Paese dall’altro chi teme la pericolosità e la possibilità che lo stesso si stia armando con una bomba nucleare. Nel gennaio 2011 si interrompono le trattative, con l’Iran che insiste sul suo diritto di sviluppare proprie tecnologie nucleari. Principali nemici: Israele e Stati Uniti. Il punto di tensione più alto si è raggiunto in giugno quando il Paese guidato da Mahmoud Ahmadinejad ha dichiarato di voler triplicare la sua capacità di arricchimento dell’uranio sino ad arrivare alla quota del 20%. Una dichiarazione che ha non solo preoccupato la comunità internazionale ma fatto pensare che, in realtà, le intenzioni dell’Iran fossero quelle di arrivare a quota 90%, diventando così in grado di costruire una bomba atomica. Dall’altra parte l’Iran rispondeva alle accuse dicendo che le loro tecnologie nucleari sarebbero state applicate nel campo medico.
Inoltre Kirghizistan “Situazione che si normalizza con il nuovo Governo ma ci sono ancora 60mila sfollati lontani dalle case”.
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Si sta lentamente normalizzando la situazione in Kirghizistan, ad un anno di distanza dai drammatici scontri di piazza che, nel giugno 2010, portarono alla cacciata del presidente filo-russo Kurmanbech Kakiyev ed all’instaurazione di una democrazia parlamentare, più vicina agli Stati Uniti. La crisi fece più di 400 vittime e costrinse alla fuga 375mila persone, anche in conseguenze delle violenze interetniche fra maggioranza kirghiza e minoranza uzbeka scoppiate nei mesi successivi nel Sud del Paese, soprattutto a Osh e Jalalabad, col pretesto della cacciata di Bakiyev. Al momento, secondo la denuncia fatta il 10 giugno 2011 dall’Unhcr, ci sarebbero ancora 60mila sfollati che non sono riusciti a rientrare nelle loro aree di origine e restano perciò sradicati, in varie località del Kirghizistan oppure all’estero. “Per tornare alla normalità – ha sottolineato l’Unhcr – servono miglioramenti sia nelle condizioni di sicurezza che nell’economia”. Per fortuna, però, le tensioni interetniche non sono più così acute, anche grazie al lavoro di pacificazione avviato dal nuovo Governo insediatosi a Bishkek a Natale del 2010 e presieduto da Almazbek Atambayev. La fiducia inoltre di cui gode all’estero il Presidente della Repubblica, Rosa Otunbayeva, già ministro degli Esteri sotto Bakayev e passata poi nei ranghi dell’opposizione, è un ulteriore elemento che depone a favore di una possibile, graduale ma sostanziale democratizzazione di questo Paese, che resta il più povero fra le tre ex Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, assieme a Uzbekistan e Tagikistan. Va detto al proposito che tutti e tre questi nuoUNHCR/S.Schulman
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vi Stati emersi dopo la dissoluzione dell’Urss, nel 1991, hanno sofferto (e soffrono tuttora) del Grande Gioco diplomatico con cui Stati Uniti, Russia e Cina si contendono da anni quest’area, considerata l’ombelico del mondo, in quanto snodo cruciale di oleodotti e gasdotti preziosi per le forniture energetiche. Ne fanno fede i dispacci pubblicati a fine 2010 dai cyberwarrior di Wikileaks, in cui l’ambasciatrice americana a Bishkek, Tatiana Gfoeller, riferisce diligentemente sui vari comitati di affari che hanno in mano le redini del Kirghizistan e su come le grandi potenze si ingegnino ad oliarli, per promuovere i propri interessi. “È come fare affari nello Yukon del XIX secolo”, pare si sia detto ad una cena cui partecipava anche il principe Andrea d’Inghilterra, per nulla stupito dell’estensione raggiunta dalla corruzione in questa Regione. A dispetto però del suo appeal strategico, il Kirghizistan resta un Paese povero di risorse, dove il Pil per abitante supera appena gli 11mila dollari. L’unica vera ricchezza è l’acqua, concentrata nel bacino del Toktogul, e diventata non a caso, negli ultimi anni, l’arma impropria con cui le autorità di Bishkek cercano di ottenere dei vantaggi commerciali negli scambi con i vicini. A luglio 2011 è però fallito un accordo con il Kazakhistan, che in cambio di acqua potrebbe dare gas e petrolio. Secondo un rapporto pubblicato a luglio dal Programma Ambientale delle Nazioni Unite c’è il rischio concreto che il contenzioso sull’acqua possa esacerbare le tensioni fra i Paesi della Regione, funestata dalla siccità. Ancora un elemento di instabilità, insomma, che favorisce il Grande Gioco ma che rischia di ritardare il processo di democratizzazione e di sviluppo di queste giovani Repubbliche.
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Cambia lo scenario Signori, arriva la Turchia Durante la lunga storia del conflitto nel vicino Oriente si è assistito ad una serie di sequenze di fatti cruenti e drammatici che hanno reso sempre più aggrovigliata la situazione e in un certo senso perfino irrisolvibile. Le visioni delle parti per ovvie ragioni rimangono distanti: il Governo israeliano rimane ancorato ad una rigida dottrina della sicurezza ed è condizionato
dai movimenti estremisti dei coloni, ciò di fatto, vanifica molti tentativi di mediazione, la parte palestinese divisa politicamente e geograficamente è ancora più debole e tale debolezza si trasforma in una estrema fragilità nel momento in cui gli Usa ( che dovrebbero svolgere il ruolo mediatore nel presunto processo di pace) parteggiano, senza se e senza ma, a favore di un solo contendente, ossia Israele. Inoltre, a mio parere, gli schemi con cui vengono ipotizzate le varie e molteplici “Road Maps” atti a spartire terre (che nel caso dei palestinesi non hanno ormai tanto da concedere) e a definire potenziali confini non rispondono più alla realtà concreta. Basta dare uno sguardo ai territori palestinesi della West Bank per constatare quanto tale area sia frantumata dalla presenza di numerose colonie israeliane. In questo quadro diventa assolutamente difficile se non impossibile qualsiasi esercizio di sovranità da parte palestinese in un ipotetico futuro stato. Infine, le numerose risoluzioni, che condannano le politiche israeliane nei confronti della popolazione palestinese emanate dall’Assemblea delle Nazioni unite, dal Consiglio di sicurezza, dal Consiglio per i diritti umani, dal Tribunale dell’Aja e le numerose dichiarazioni di diversi organismi che si occupano dei diritti dell’uomo, non hanno scalfito minimamente l’atteggiamento dei Governi di Israele e nemmeno hanno inciso sulle posizioni degli Usa e dell’Ue, che rimangono sostanzialmente accondiscendenti con la politica israeliana. Quindi, continuare a richiamarsi a questi riferimenti pur necessari rischia di diventare solo esercizio di evocazione storica e in alcuni casi una mera retorica. Vale a dire che, come sovente accade, rendere praticabili i riferimenti di diritto, in questo caso di natura internazionale, dipende molto dai rapporti di forza in campo e dagli interessi in gioco. Perciò non risulta fino ad oggi che ci sia un segnale da parte dell’unica
super potenza e dei suoi alleati atto a trovare una possibile, giusta e pacifica soluzione del conflitto israelo-palestinese. A prova di ciò la minaccia degli Usa e di alcuni i suoi alleati di votare contro la richiesta di ammissione della Palestina come Paese membro delle Nazioni Unite.
In questo scenario sarebbe auspicabile tratteggiare dei nuovi percorsi in cui confluiscono diverse esperienze di convivenza e sensibilità non violente, presenti già sia nell’ambito isra-
eliano che palestinese, al fine di elaborare una prospettiva comune per inseguire un modello di coesistenza basato sul pluralismo, sull’uguaglianza di tutti i cittadini, sulla laicità e la democrazia. Questa prospettiva richiede tanto coraggio e grande determinazione per la quale le società civili in Europa, e non solo, possono dare un contributo utile e necessario.
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Scenario e cambiamento. Nello scenario attuale si ravvisano due fatti determinanti: 1- L’affacciarsi della Turchia nell’arena del Vicino Oriente sta cambiando sensibilmente lo scenario politico. Una significativa conseguenza di questo cambiamento è la presa di distanza dell’attuale compagine governativa in Turchia da Isreale, storico alleato nella zona, e l’avvicinamento alla parte palestinese. Ciò sta permettendo alla Turchia di giocare una ruolo molto dinamico e da protagonista nella vasta area del mondo arabo. Questo nuovo attivismo andrebbe tenuto in debita considerazione in ogni analisi, per la sua importanza negli equilibri geopolitici attuali e futuri. 2- Gli inaspettati stravolgimenti che stanno scuotendo molti dei Paesi dell’area araba avranno certamente serie conseguenze sulle dinamiche politiche e sui rapporti di forza compreso il conflitto Israelo-palestinese.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA PALESTINA RIFUGIATI
93.323
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI EGITTO
70.026
IRAQ
10.798
RIFUGIATI ORIGINATI DA ISRAELE RIFUGIATI
1.301
RIFUGIATI ACCOLTI IN ISRAELE RIFUGIATI
35.471
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI ERITREA
16.997
SUDAN
8.137
La lotta di Bil’in
Bil’in è un villaggio palestinese della Cisgiordania, a 12 chilometri da Ramallah, con una popolazione di poco meno di 2 mila persone. Dal gennaio del 2005, il villaggio è diventato il simbolo della protesta popolare nonviolenta contro l’occupazione israeliana e contro la costruzione del Muro di separazione, che avrebbe dovuto isolare Bil’in dal resto della Cisgiordania e dai campi coltivati dai suoi abitanti. Ci sono state proteste settimanali, con grande eco in tutto il mondo e la partecipazione di attivisti pacifisti israeliani e internazionali. Il 22 giugno del 2011 l’Alta Corte israeliana ha accolto un ricorso degli abitanti di Bil’in e ordinato la rimodulazione del tracciato del Muro, già modificato altre due volte in passato perché, secondo la Corte, non era stato disegnato per ragioni di sicurezza ma con l’obiettivo di offrire spazio all’espansione di una vicina colonia. In attesa del nuovo tracciato, la lotta creativa e nonviolenta degli abitanti di Bil’in va avanti.
L’insieme di sollevazioni popolari noto come Primavera araba ha cambiato, da gennaio 2011 in poi, il contesto geopolitico del conflitto israelo-palestinese. Le proteste sociali scoppiate in Israele a luglio hanno anche minato la posizione del governo israeliano. Il 4 maggio 2011 al Cairo, è stato firmato l’accordo di riconciliazione nazionale tra le principali forze politiche palestinesi, a partire da Fatah e Hamas. Ci sono voluti quattro anni di trattative, spesso segrete, per arrivare alla firma. L’accordo, elaborato dai mediatori egiziani e rivelatosi quasi subito alquanto fragile per le diffidenze reciproche tra i partiti palestinesi, prevede elezioni politiche nel giro di un anno e negoziati inter-palestinesi per la formazione di un nuovo governo di unità nazionale. L’accordo è stato criticato da Israele perché considerato un cedimento dell’Anp alle più dure posizioni di Hamas, il partito di ispirazione religiosa che dal 2007 controlla la Striscia di Gaza. Nella Striscia il 15 aprile 2011 è stato ucciso, dopo un breve sequestro condotto da un gruppo armato salafita, l’attivista e reporter italiano Vittorio Arrigoni. Dopo alcuni incontri bilaterali, il negoziato diretto tra israeliani e palestinesi, avviato il 4 settembre 2010 per la pressione del presidente statunitense Barack Obama, è entrato nuovamente in una fase di stallo. A dividere le parti, oltre al rifiuto israeliano di bloccare l’espansione delle colonie nei Territori occupati, ci sono le questioni di fondo, dai confini del futuro stato palestinese, al riconoscimento del «diritto al ritorno» dei profughi del 1948 e dei loro discendenti, fino allo status di Gerusalemme, città rivendicata come capitale da entrambe le parti. Pesa anche l’indisponibilità dell’Anp a riconoGeneralità Nome completo:
Stato di Israele
ISRAELE PALESTINA
Generalità Nome completo: Bandiera
Lingue principali:
Arabo
Capitale:
Ramallah
Popolazione:
4.150.000 (2007)
Area:
Dato non disponibile
Religioni:
Musulmana, cattolica
Moneta:
Sterlina egiziana, nuovo siclo israeliano, dinaro giordano
Principali esportazioni:
n.d.
PIL pro capite:
Cisgiordania Us 1.500 Striscia di Gaza Us 670
Bandiera
Lingue principali:
Ebraico e Arabo
Capitale:
Tel Aviv
Popolazione:
7.240.000
Area:
22.072 Kmq
Religioni:
Ebraica (75,6%), musulmana (16,6%), cristiana (1,6%), drusa (1,6%), non classificati (3.9%)
Moneta:
Nuovo Shekel
Principali esportazioni:
Prodotti high tech, diamanti, prodotti agricoli
PIL pro capite:
Us 27.300
Autorità Nazionale Palestinese
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
scere Israele come “Stato ebraico”, nonché quella di alcune forze politiche minori palestinesi ad accettare il diritto di Israele a esistere. Nel mese di agosto sono ripresi il lancio di razzi da parte di gruppi armati palestinesi della Striscia di Gaza contro il territorio israeliano e i raid aerei israeliani sulla Striscia. Il 20 settembre l’Autorità Nazionale Palestinese ha presentato all’Onu la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina e contestualmente la sua ammissione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
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Due popoli e due Stati: rimane questa la soluzione al conflitto israelo-palestinese perseguita dalle diplomazie internazionali. Da parte palestinese si chiede il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati nella “Guerra dei Sei giorni” del 1967 (compresa Gerusalemme Est, indicata come capitale del futuro Stato palestinese) e il diritto al ritorno per i profughi del ’48. Precondizione per ogni trattativa è anche lo stop alla costruzione di colonie, illegali se-
condo il diritto internazionale e che con la loro espansione minano la continuità territoriale e il controllo delle risorse naturali del futuro stato. Da parte israeliana, ufficialmente si rivendica il diritto alla propria “sicurezza”, ma di fatto sembra che ancora si perseguano gli obiettivi “massimi” del 1948, ovvero la realizzazione in Palestina di uno stato ebraico esteso dal fiume Giordano al mar Mediterraneo.
Per cosa si combatte
Il conflitto israelo-palestinese dura da oltre 60 anni, ancora ben lontano da una soluzione. Momento spartiacque è la fine del mandato britannico, al termine della seconda guerra mondiale. È allora, con il ricordo ancora vivo della Shoah nazista nell’opinione pubblica internazionale, che hanno successo gli sforzi del movimento sionista, nato alla fine dell’Ottocento su iniziativa di Theodor Herzl per dare una patria agli ebrei. Il 29 novembre 1947 una risoluzione dell’Onu accoglie le rivendicazioni del popolo ebraico, assegnandogli il 73% del territorio dell’ex mandato britannico. La decisione viene respinta dai palestinesi e dai paesi arabi. Egitto, Siria, Transgiordania, Libano e Iraq attaccano il nascente Stato, che però vince la guerra, ampliando il territorio sotto il suo controllo verso la Galilea a Nord e verso il Negev a Sud. Il 14 maggio 1948 nasce ufficialmente lo Stato d’Israele con la “Dichiarazione d’indipendenza” firmata dal primo ministro David Ben-Gurion. Per i palestinesi si tratta della Nakba (catastrofe): in centinaia di migliaia vengono cacciati dalle proprie case o fuggono, cercando riparo in altri Paesi vicini. Sarà solo il primo di una lunga serie di conflitti. Nel 1956, dopo la nazionalizzazione da parte del Cairo del canale di Suez, Israele attacca l’Egitto conquistando Gaza e il Sinai (da cui poi sarà costretto a ritirarsi). Nel maggio del 1967 il Presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, stringe con la Giordania un patto di difesa, che getta le basi per un attacco allo Stato d’Israele. La reazione di Tel Aviv è immediata: nel giugno del 1967 Israele attacca l’Egitto, poi la Giordania e la Siria. È la ‘Guerra dei Sei giorni’, che segna la dura sconfitta degli arabi, e l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, alture del Golan (tutt’oggi sotto controllo israeliano) e Sinai (restituito all’Egitto nel 1979). In seguito ci saranno altre guerre con i Paesi confinanti con Israele: nel 1973 la guerra dello Yom Kippur contro Egitto e Siria e nell’83 con il Libano. È con la “Guerra dei Sei giorni” che la questione israelo-palestinese entra nell’impasse attuale. Nonostante le pressioni internazionali e le numerose risoluzioni dell’Onu, infatti, Israele non si è ancora ritirata dai Territori occupati, e ha cominciato una lenta e costante campagna di colonizzazione che prosegue tutt’ora. Nel 1987 lo stallo nel conflitto dà origine a una sollevazione popolare contro l’occupazio-
ne israeliana, nota coma Intifada (“rivolta”), che inizia nel campo profughi di Jabaliyya ma si estende presto a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. La rivolta dura sei anni, durante i quali i palestinesi manifestano e protestano con ogni mezzo, dalla disobbedienza civile agli scioperi generali, fino al lancio di pietre contro i militari. La guerriglia si interrompe grazie agli Accordi di Oslo del 1993, con la stretta di mano tra il primo ministro israeliano Itzhak Rabin, e Yasser Arafat, storico leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Quest’ultimo, a nome del popolo palestinese, riconosce lo Stato di Israele e a sua volta Tel Aviv riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese (ruolo che dal 1995 spetterà all’Anp, l’Autorità Nazionale Palestinese). Gli accordi di Oslo si riveleranno però fallimentari e la tensione tornerà alta il 28 settembre del 2000, quando l’allora capo dell’opposizione politica israeliana Ariel Sharon fa una provocatoria passeggiata, con mille uomini armati, sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Un gesto simbolico, compiuto in uno dei luoghi più sacri per i musulmani, con cui si rivendicava Gerusalemme come capitale “indivisa” di Israele. È l’inizio della “Seconda Intifada”. Dalla Striscia di Gaza, l’anno successivo, comincia il lancio dei razzi ‘Qassam’ contro Israele. Azione questa che nel corso degli anni porterà Israele ad intervenire più volte nella Striscia al fine di “indebolire la resistenza palestinese”. Con la motivazione di difendersi dagli
Quadro generale
Gerusalemme
Il 7 giugno del 1967, durante la guerra dei Sei Giorni, le truppe israeliane occuparono la parte orientale di Gerusalemme. Spinti dalla forte emozione gli israeliani rimossero le barriere di separazione interposte tra le due parti della città dopo la prima guerra arabo israeliana in modo da creare di fatto un’unica Gerusalemme ebraica. La Knesset approvò una serie di leggi che estesero il diritto e l’amministrazione israeliani su Gerusalemme Est ampliando i confini municipali di Gerusalemme da 38 kmq a 108 kmq e portando la popolazione della città ad un totale di 263mila persone: 197mila ebrei, 55mila musulmani e 11mila cristiani. La risposta della comunità internazionale alle misure espansionistiche di Israele giunse con ben 5 risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (ris. 242, 252, 267, 465 e la 476) nelle quali si chiedeva ad Israele di “astenersi da atti suscettibili di alterare il carattere geografico, demografico e storico di Gerusalemme”.
Parents Circle (associazione)
L’acqua unico elemento per il confronto
Gli Accordi di Oslo hanno elencato le questioni da demandare ai negoziati per lo status finale dei territori palestinesi: Gerusalemme, sicurezza e rifugiati, terra, confini e acqua. La Joint Water Commission è in pratica, anche nei momenti di gelo dei negoziati, l’unico organismo israelo-palestinese che ha continuato a funzionare. La maggior parte delle risorse idriche della regione cade in territorio palestinese o ha origine nei vicini paesi arabi. Eppure il prelievo di acqua è largamente in mani israeliane. Secondo i dati del Palestinian Hydrology Group, Israele preleva il 58,3% dell’acqua del fiume Giordano, il 70% della portata della Falda acquifera orientale (teoricamente tutta palestinese) e il 90% delle Falde Settentrionale e Occidentale. Ai palestinesi di Gaza e Cisgiordania, rimane complessivamente il 10% delle risorse idriche presenti nel territorio dell’ex mandato britannico. Il consumo medio quotidiano per persona in Israele è di 350 litri al giorno; nei territori palestinesi è tra i 30 e i 76 litri al giorno.
attentati suicidi palestinesi, Israele nel 2002 prende la decisione di costruire una “barriera di sicurezza” in Cisgiordania, che di fatto sottrae ulteriori territori ai palestinesi, grazie a un tracciato che non segue la linea Linea verde del 1967 ma entra profondamente in Cisgiordania e circonda alcune delle più popolose colonie, diventate nel frattempo piccole città. La struttura, ribattezzata “muro dell’apartheid”, viene condannata anche dalla Corte internazionale di giustizia. Nel frattempo si rafforzano le tensioni anche nel fronte palestinese, alimentate dalla vittoria di Hamas alle elezioni politiche del gennaio 2006. Gli scontri armati tra le due principali fazioni palestinesi raggiungono il culmine nel giugno 2007 a Gaza, quando si rischia una vera e propria guerra civile. Hamas ha la meglio, dando vita così a una separazione di fatto dei territori palestinesi, con la Striscia di
I PROTAGONISTI
Gaza controllata dal movimento islamico e la Cisgiordania governata da Fatah, che controlla l’Anp. Sempre nel giugno 2007, con lo scopo dichiarato di contrastare Hamas, Egitto e Israele impongono un blocco economico su Gaza, che dura tuttora, solo parzialmente attenuato. Al termine del 2008 Tel Aviv avvia anche una campagna militare contro la Striscia, durata 17 giorni e nota come “Operazione Piombo fuso”. Il bilancio finale dei raid israeliani di 1305 morti palestinesi e di 5.450 feriti. Intanto, diverse organizzazioni non governative tentano di rompere simbolicamente l’assedio e di portare aiuti alla popolazione palestinese. La spedizione più nota è quella della “Freedom Flotilla”, nel maggio 2010, che viene attaccata dalla marina israeliana e si conclude con la morte di nove attivisti turchi. A giugno 2011 una nuova Freedom Flotilla, intitolata all’attivista italiano Vittorio Arrigoni, non è riuscita a salpare dai porti greci dove si era riunita a causa della pressione del governo israeliano e dei sabotaggi condotti presumibilmente dai suoi servizi di intelligence.
163
Fondata nel 1995, l’associazione Parents Circle – Family Forum è composta e gestita da israeliani e palestinesi che hanno subito un lutto nel corso degli anni a causa del conflitto. Indipendentemente dalle ragioni politiche delle parti e dalle circostanze di ciascuna perdita, il loro lavoro è incentrato sul tema della riconciliazione e della trasformazione del dolore per la morte di una persona cara in un’occasione di conoscenza del «nemico», elaborazione del lutto e di una percezione condivisa di un destino comune. L’idea è quella di iniziare una operazione di riconciliazione «dal basso», prima e oltre l’eventuale pace decisa dai governi e dalla comunità internazionale. I membri dell’associazione, tutti colpiti nei loro affetti, tengono conferenze in Israele, nei Territori palestinesi e in tutto il mondo. L’associazione ha ricevuto molti premi internazionali per il suo impegno a favore della pace. Il più recente è il Gwanju Prize for Human Rights, ricevuto il 18 maggio 2011 in Corea del sud. Il Parents Circle conduce molti progetti di riconciliazione e costruzione di una «narrazione condivisa del conflitto» in diverse città israeliane e palestinesi e coinvolge circa 500 famiglie.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL LIBANO RIFUGIATI
15.869
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA
12.514
RIFUGIATI ACCOLTI NEL LIBANO RIFUGIATI
8.063
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI IRAQ
7.630
Processo al Premier
Dopo sei anni dall’attentato all’ex premier Rafiq Hariri, arrivano dalla magistratura libanese i mandati d’arresto per quattro dirigenti di Hezbollah. Queste le tappe che hanno portato alle incriminazioni: - 14 febbraio 2005: un’autobomba uccide a Beirut l’ex premier libanese, Rafiq Hariri, insieme ad altre 22 persone. L’attentato porta al ritiro delle truppe siriane dal Libano dopo 29 anni. - 16 giugno 2005: Parte un’inchiesta internazionale sull’omicidio di Hariri. - 1 marzo 2009: il Tribunale speciale per il Libano (Tsl), istituito all’Aja, avvia le indagini sull’assassinio. Due mesi più tardi, la Corte ordina il rilascio di quattro generali libanesi pro-siriani, detenuti dal 2005, per mancanza di prove. - 12 gennaio 2011: dieci ministri legati ad Hezbollah e ai loro alleati si dimettono per protesta contro il Tsl, facendo cadere il Governo di Saad Hariri. - 17 gennaio 2011: il procuratore dell’Onu presenta, ufficiosamente, l’atto d’accusa, puntando il dito contro membri di Hezbollah. - 30 giugno 2011: la magistratura libanese, sulla base delle conclusioni della procura internazionale, emette i mandati d’arresto nei confronti di quattro dirigenti del movimento sciita filo-iraniano
UNHCR/A. Branthwaite
Il conflitto, in stallo da anni, sembra prossimo in realtà a nuovi sviluppi. Si inserisce appieno infatti in quella che è stata definita la “primavera araba”: da una parte i cambiamenti che avvengono intorno ai due Paesi, dall’altra quel che, conseguentemente o attualmente, avviene al loro interno. Andiamo con ordine: il Libano assiste alla rivolta siriana ed al vacillare del Presidente Bashar Assad, con un possibile cambio di strategie da parte di Hezbollah (che si troverebbe amputato di una mano importante sia in politica interna che estera). Forte della fallimentare invasione israeliana del 2006, dalla quale il “Partito di Dio” è uscito rafforzato, potrebbe tentare nuovamente di far precipitare la situazione e portare allo scontro Israele. Una mossa che potrebbe apparire suicida, capace però di chiamare in campo altre forze internazionali molto più consistenti, allargando così il conflitto all’intera area. Da parte sua Israele, guardando fuori dai suoi confini, assiste agli sviluppi della primavera araba inciampando a volte in errori strategici e diplomatici. Due gli esempi degni di nota: il primo riguarda l’assalto in acque internazionali alla nave di aiuti umanitari della Freedom Flottiglia (in navigazione verso Gaza) nel quale sono morti otto pacifisti turchi uccisi dai corpi speciali Israeliani. Ankara ha condannato l’azione ma Tel Aviv ha giustificato l’azione rivendicando il suo diritto a difendersi. La Turchia, un tempo alleata di Israele, ha ritirato gli ambasciatori e ormai considera Israele un potenziale nemico. Lo stesso, ma forse con maggiori conseguenze, è avvenuto l’agosto scorso con l’Egitto quando Israele, avviata la rappresaglia su Gaza dopo gli attentati del Sinai, ha ucciso per sbaglio quattro soldati di frontiera egiziani. La mancanza di immediate scuse, ha scatenato duri scontri a Il Cairo dove è stata assaltata l’ambasciata israeliana. Solo a quel punto Israele si è scusato. Il problema, e per questo forse in Egitto ha avuto maggiori conseguenze, è che il potente vicino
LIBANO
Generalità Nome completo:
Repubblica Libanese
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo, francese
Capitale:
Beirut
Popolazione:
4.000.000
Area:
10.452 Kmq
Religioni:
Musulmana (sunnita, sciita), cristiana
Moneta:
Lira libanese
Principali esportazioni:
Gioielli, apparecchiature elettriche, prodotti metallurgici, chimici, alimentari
PIL pro capite:
Us 6.681
sta cercando di definire quale strada intraprendere, se quella democratica o quella integralista. Ma il vento di democrazia e giustizia che soffia sull’intero Mediterraneo è arrivato anche dentro Israele. L’estate di Tel Aviv ha visto migliaia di giovani protestare per la politica economica del Governo. Netanyau, secondo un sondaggio del quotidiano israeliano Haaretz, in due mesi avrebbe visto scendere i suoi consensi dal 50% al 32%. Due instabilità dunque che potrebbero ben presto assistere ad un’evoluzione della situazione.
La presenza di basi operative della resistenza palestinese ha fatto da sempre del Libano uno degli obiettivi di Israele. Le tensioni tra i due Paesi sono poi costantemente cresciute a causa della contrapposizione tra Israele e il movimento sciita degli Hezbollah, che ha stabilito nel Sud del Paese le sue basi operative. Secondo Israele è l’Iran, che non ha mai riconosciuto l’esistenza dello Stato israeliano, a sostenere economicamente il movimento di Hezbollah fiancheggiato anche dal Governo siriano, in conflitto con Israele per la sovranità sulle Alture del Golan. In realtà sia quest’ultime sia il Sud del Libano custodiscono un elemento fondamentale per la sopravvivenza e la stabilità di Israele: l’acqua. Sulle Alture del Golan si trova
la sorgente del fiume Giordano mentre nel Sud del Libano scorre il fiume Litani. Due risorse idriche che in un territorio come quello del Vicino Oriente risultano sicuramente strategiche. Se nelle parole possiamo trovare il significato delle cose, l’operazione “Litani” del 1978 aveva un obiettivo ben preciso. Ma il problema principale è che purtroppo il Libano subisce da decenni lo scontro tra potenze più grandi di lui: da una parte la Siria e l’Iran, che trovano negli Hezbollah alleati interni al Paese dei Cedri pronti a combattere Tel Aviv, dall’altra Israele diviso tra le sue esigenze di approvvigionamento idrico e le sue necessità di difendere i propri confini.
Per cosa si combatte
Hezbollah al Governo
Dalla morte di Rafik Hariri, avvenuto il 14 febbraio del 2005, ad oggi, le cose sono sicuramente cambiate in Libano. Due i governi nell’arco di sei anni, che hanno visto, nel primo prevalere una maggioranza guidata dal figlio di Rafik, Saad, filo occidentale e anti siriana, nel secondo un Governo di Unità nazionale con al suo interno anche Hezbollah. Il 12 gennaio 2011 però le cose cambiano. I ministri Hezbollah, contrariati dalle accuse rivoltegli dal Tribunale che indagava sull’assassinio di Rafik Hariri, si dimettono provocando la caduta del governo. Dopo quasi cinque mesi di complesse trattative, a metà giugno scorso il premier incaricato Najib Miqati ha sciolto la riserva e ha diffuso la lista dei componenti del suo governo, da molti già definito a “trazione Hezbollah”: su 30 ministri, 19 sono esponenti del Partito di Dio sciita o suoi alleati. Un cambiamento importante in un Paese che si colloca all’interno di uno scacchiere mediorientale quanto mai instabile.
166
UNHCR/C. Clark
Con la dissoluzione dell’Impero Ottomano, la Società delle Nazioni affidò alla Francia il controllo della Grande Siria, incluse le cinque Provincie che oggi formano il Libano. La Conferenza di Sanremo, dell’aprile del 1920, ne definirà i compiti ed i limiti. Benché la ratifica di questo passaggio di consegna avverrà solo tre anni dopo, già nel 1920 la Francia dichiarò lo Stato del Grande Libano indipendente. Uno Stato composto da vari enclavi etnici: uno in Siria con una grande comunità in maggioranza cristiano maronita e l’altro a maggioranza musulmana e drusa con capitale Beirut. Solo 6 anni dopo il Libano diventerà una Repubblica, definitivamente separata dalla Siria, anche se ancora sotto il comune mandato francese. Nel 1943 il Governo libanese abolirà il mandato francese dichiarando la propria indipendenza. Bisognerà aspettare la fine della seconda guerra mondiale per assistere al ritiro definitivo delle truppe francesi dal nuovo Stato indipendente. Nel 1948, dopo la risoluzione dell’Onu 181 con la quale si “ripartiva” il territorio palestinese in seguito alla nascita dello Stato ebraico, anche il Libano aderì alla guerra della Lega Araba contro Israele non invadendo però mai il neonato Stato.
Dopo la sconfitta araba, Israele e Libano stipularono un armistizio ma, a tutt’oggi, mai un trattato di pace. Conseguenza di questa guerra, furono 100mila profughi palestinesi ai quali se ne aggiunsero altri dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967. Profughi che decenni più tardi saranno la causa, secondo il Governo israeliano, di due invasione del Libano da parte dell’esercito di Tel Aviv. La prima nel 1978, denominata “operazione
Quadro generale
UNHCR/A. Branthwaite
Saad Hariri
UNHCR/A. Branthwaite
(Riyad, 18 aprile 1970)
Nuovi giacimenti, nuova crisi
A destabilizzare l’area c’è dallo scorso anno anche il petrolio. La scoperta di due giganteschi giacimenti, Tamar e Leviathan, nelle acque davanti le coste israelo-libanesi è diventata motivo di ulteriori tensioni tra i due Paesi e non solo. Israele, che l’anno scorso aveva rivendicato la sovranità sui due giacimenti, ha stipulato un accordo con Cipro per la definizione dei confini marittimi. Il Libano da parte sua ha chiesto aiuto alle Nazioni Unite, senza ancora una risposta, per definire i confini. Ad aggravare la situazione è arrivata la Turchia che, in risposta all’accordo tra Israele e Cipro, ha minacciato la parte greco-cipriota dichiarando di avere il diritto di bloccare ogni accordo marittimo con le nazioni vicine. Una questione che inciderà sicuramente sulla stabilità dell’area.
Litani”, volta a stroncare, secondo Israele, le attività dell’Olp lungo il confine. La seconda, sempre per lo stesso motivo ed iniziata il 6 giugno del 1982, è l’operazione “Pace in Galilea”. In realtà,quest’ultima, che si può chiamare prima guerra israelo-libanese, arrivò fino a Beirut dove aveva sede l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Per impedire la prosecuzione di spargimento di sangue, intervenne la diplomazia internazionale che sgomberò la dirigenza dell’Olp (rifugiatasi a Tunisi) e riversò nei Paesi limitrofi molte unità armate palestinesi. Una situazione che lasciò la popolazione civile nei campi profughi priva di alcuna protezione. Questo porterà al drammatico massacro nei campi-profughi di Sabra e Shatila, da unità cristiane guidate da Elie Hobeika, lasciate agire dalle truppe israeliane, comandate da Ariel Sharon, di stanzia nell’area coinvolta. Negli anni a seguire, il Libano dovrà affrontare i delicati equilibri interni tra le diverse etnie. Sicuramente una di queste realtà, gli Hezbollah, musulmani sciiti vicini a Damasco e Teheran, cambieranno, anni dopo, le sorti del Libano. È il 12 luglio del 2006 quando miliziani di Hez-
I PROTAGONISTI
bollah attaccano una pattuglia dell’esercito israeliano nel Sud del Libano uccidendo tre soldati e rapendone due. Israele reagisce con la forza, avviando un’offensiva contro il Libano per “neutralizzare l’apparato militare di Hezbollah”. Al massiccio attacco aereo non corrisponderà però quello di terra che porterà l’esercito israeliano, dopo un mese, ad un avanzamento di pochi chilometri. La resistenza di Hezbollah, infatti, dimostrerà la propria efficacia, contrattaccando il territorio israeliano con lanci di migliaia di missili. L’11 agosto, un mese dopo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite interverrà con una risoluzione (la 1701), che troverà il voto unanime dei Paesi membri, chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità tra le parti, il ritiro di Israele dal Libano meridionale e l’interposizione delle truppe regolari libanesi e dell’Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) in una zona cuscinetto “libera – come si legge – da ogni personale armato che non sia quello delle Nazioni Unite e delle forze armate regolari libanesi”. Da allora fino ai giorni nostri la situazione al confine è rimasta tesissima con saltuari scontri tra le parti provocati a volte anche da futili motivi. Un esempio: per l’abbattimento di un albero, il 3 agosto 2010, scaturì un conflitto a fuoco tra l’esercito israeliano e quello libanese provocando la morte di quattro soldati.
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Saad Hariri ha guidato il Governo del Libano dal 2009 al gennaio del 2011. Figlio di Rafiq Hariri, l’ex primo Ministro libanese assassinato nel 2005, dalla morte del padre è a capo della coalizione sunnita Movimento Futuro. Alle elezioni del giugno 2009 si è presentato con una coalizione, denominata 14 marzo di orientamento filo-occidentale e antisiriano, che vedeva alleate le Forze Libanesi di Samir Geagea e il Partito Socialista Progressista di Walid Jumblatt. Hariri vinse le elezioni e ricevette dal Presidente Michel Suleiman il compito di formare il nuovo Governo, dove sono entrati anche il partito Hezbollah e il Movimento Patriottico Libero di Michel Aoun. Il nuovo Governo ha ottenuto un’ampia fiducia dal parlamento libanese (122 voti su 128). Un Governo, quello formato da Saad Hariri, che ha avuto però vita breve. La decisione di collaborare con il Tribunale speciale per il Libano, istituito per fare luce sull’assassinio del padre Rafiq Hariri, ha determinato una crisi di Governo. Saad hariri è considerato un uomo politico, vicino all’Occidente. Dopo la morte del padre ha ereditato 4,1miliardi di dollari e secondo la rivista statunitense Forbes è il 522° uomo più ricco del mondo con un patrimonio netto di 1,4miliardi di dollari.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA SIRIA RIFUGIATI
18.452
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA
10.518
RIFUGIATI ACCOLTI NELLA SIRIA RIFUGIATI
1.005.472
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI IRAQ
1.000.000
La Berlino del Medio Oriente
Villaggio alawita abitato da circa 2mila persona di origine siriana, Ghajar viene considerato la Berlino del Medio Oriente. La parte Nord è in territorio libanese, il Sud è nel territorio del Golan. Diviso in due dalla Linea Blu di demarcazione tra Libano e Israele e al centro di un’annosa contesa tra Beirut, Damasco e Israele, è uno dei luoghi più sensibili posti sul confine tra i tre Stati. Dalla fine della seconda guerra con il Libano, del 2006, Israele controlla anche la parte settentrionale. I residenti, da Nord a Sud nonostante abbiano un passaporto israeliano, si oppongono a qualsiasi divisione e si considerano siriani. Il consiglio di Difesa israeliano ha deciso il 17 novembre il ritiro dalla parte nord di Ghajar, ma i residenti non ci stanno e vogliono invece che Ghajar rientri in una discussione più ampia riguardante le sorti del Golan occupato.
UNHCR/B. Diab
Il 2011 è stato un anno di massima allerta anche per la questione relativa alle alture del Golan. È, infatti, tornato a infiammarsi il fronte del conflitto tra Siria e Israele. All’inizio dell’estate, con il cadere delle due ricorrenze più nefaste per il popolo palestinese, la Nakba e la Naksa, una serie di proteste ha investito il confine tra i due Stati causando morti e feriti. Era dai tempi della Guerra del Kippur che non si registravano manifestazioni di violenza così marcate. A maggio, per le commemorazioni della Nakba, sulle Alture del Golan centinaia di profughi palestinesi e cittadini siriani hanno infranto le barricate sulla linea dell’armistizio e hanno raggiunto il villaggio druso di Majdal Shams, ora sotto controllo israeliano. La stessa cosa si è verificata a inizio giugno, nei giorni della commemorazione della Naqsa, anche se i manifestanti, dispersi dai lacrimogeni dell’esercito israeliano non sono riusciti a oltrepassare i reticolati che corrono lungo la linea dell’armistizio. Entrambe le proteste sono finite in un bagno di sangue, con decine di morti e centinaia di feriti. Annosa, come ogni conflitto che ha a che vedere con Israele, rimane la questione del ritorno dei profughi palestinesi dopo la guerra del 1967, così come prende vigore anche la protesta dei 18mila drusi nei confronti dell’esercito israeliano. Nell’animare e riaccendere il fronte popolare ha giocato un grande ruolo la Primavera Araba, che ha reso Israele sempre più isolato nella scacchiera mediorientale. L’ossessione israeliana per la sicurezza ha spinto l’esercito a piantare ulteriori mine sul terreno dei territori cuscinetto delle Alture del Golan. Insieme all’ingaggio di tiratori scelti e all’adozione da parte dei militari dei dispositivi “Scream” e “Bomba Skunk”, già utilizzati per disperdere le manifestazioni dei comitati popolari in Cisgiordania, che lasciano i manifestanti in preda a nausea e vertigini. E in previsione della richiesta di riconoscimento all’Onu dello Stato Palestinese, per scongiurare nuove manifestazioni, all’inizio di luglio hanno
SIRIA
Generalità Nome completo:
Repubblica araba di Siria
Bandiera
169
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Arabo, Curdo, Armeno, Aramaico e Francese
Capitale:
Damasco
Popolazione:
20.178.485 (più 40mila persone residenti nella parte delle alture del Golan occupate da Israele)
Area:
185.180 Kmq
Religioni:
Islamica (90%, di cui 74% sunniti e 16% altre confessioni), cristiana (10%)
Moneta:
Lira siriana
Principali esportazioni:
Petrolio, prodotti petroliferi, minerali, frutta e verdura, cotone, tessili, carne e grano
PIL pro capite:
Us 5.000
preso avvio i lavori per la costruzione di una barriera di cemento alta 8 metri e lunga 4 chilometri che separa il villaggio di Majdal Shams, occupato da Israele, dai sobborghi di al-Oude e Ain al-Tinah, in territorio siriano.
sessanta chilometri. Ma l’importanza strategica del Golan non è data solo dalla sua posizione geografica e dalla sua conformazione naturale, ma soprattutto dalla presenza di falde acquifere e di piccoli e medi corsi d’acqua che dalla linea di cresta scendono verso Ovest a bagnare la piana della Hula e a ingrossare il Giordano: i piccoli torrenti Gilbon, Zavitan, Yahudiyya, Daliyot, Mehushim, Samakh, e Roqad e i fiumi Dan (245 mmc/a), Baniyas (121 mmc/a) e Yarmuk (450 mmc/a). Questa ricchezza di risorse idriche fanno delle Alture un vero e proprio serbatoio, i cui rubinetti sono oggi fermamente in mano israeliana. Damasco rivendica la propria sovranità sulla sorgente del fiume Baniyas, così come sul tratto finale dello Yarmuk (entrambi affluenti del Giordano) e sugli altri piccoli torrenti che attraversano l’altopiano da Est ad Ovest. La Siria ha inoltre espresso le sue velleità di controllo della riva orientale del lago di Tiberiade che per Israele, assieme al Giordano, rappresenta oggi un terzo delle risorse idriche dell’intero Stato ebraico.
170
La storia dei negoziati tra Damasco e Tel Aviv è caratterizzata fin dal 1967 da una serie di opportunità di pace mancate, principalmente per ragioni territoriali e strategiche. La questione delle Alture del Golan (in arabo Hadbat AlJawlan e in ebraico Ramat ha-Golan) resta infatti il principale ostacolo nel processo di pace tra i due Paesi, rappresentando ancora oggi un territorio ‘sospeso’ tra Israele, Siria e Libano. Contrafforte meridionale della catena montuosa dell’Antilibano, questo altopiano di formazione vulcanica e ricoperto di rocce basaltiche si estende per poco meno di 1800 chilometri quadrati. Nonostante le sue ridotte dimensioni, topografia e posizione geografica gli conferiscono un alto valore strategico, partendo dalle vette del monte Ash-Shaykh/Hermon (2814 m.), punto di osservazione privilegiato della regione per controllare entrambi i versanti. I rilievi dell’altipiano dominano a Nord-Ovest la valle della Hula e a Sud-Ovest la piana del lago di Tiberiade, mentre a Est controllano la pianura che scende fino a Damasco, distante appena
Per cosa si combatte
Visita alle famiglie
Dopo oltre 40 anni di occupazione israeliana, quasi 700 residenti delle alture del Golan, hanno ottenuto i permessi per visitare le loro famiglie in Siria. È accaduto a settembre 2010. Erano soprattutto anziani e tra loro circa 200 donne. Hanno partecipato a una visita di cinque giorni in Siria, attraversando quel confine non confine, normalmente impossibile da oltrepassare, che separa uno stesso popolo. Per molti di loro era la prima volta che mettevano piede in Siria. Il passaggio di cittadini drusi del Golan verso la Siria viene concesso da Israele per motivi di studio e per i pellegrinaggi ai santuari drusi siriani. Nel caso di matrimoni tra residenti dei due lati del confine controllato dall’Onu, gli sposi del Golan possono recarsi in Siria, senza più tornare dalle loro famiglie. Gran parte dei residenti nei territori occupati illegalmente da Israele nel 1967 e annessi di fatto allo Stato ebraico nel 1981 non hanno mai accettato il passaporto israeliano, risultando di fatto dei residenti temporanei.
UNHCR/B. Diab
Un lembo di terra stretto tra pendii e sassi che in soli sei giorni è diventato uno dei teatri più importanti della grande partita mediorientale. Nel giugno del 1967, durante quella che fu poi chiamata la “Guerra dei sei giorni”, le forze armate israeliane occuparono vaste porzioni di territorio appartenenti ai Paesi arabi confinanti, tra cui le Alture del Golan strappate alla Siria. Ricche di risorse idriche e situate in una posizione dall’alto valore strategico, anche nel più antico passato le alture hanno rappresentato per le popolazioni dell’area l’ultimo baluardo difensivo contro l’avanzata cristiana. Nonostante il silenzio delle armi degli ultimi decenni, fili spinati, trincee, bunker e campi minati continuano a essere la testimonianza di una contesa che supera la dimensione ter-
ritoriale per diventare il simbolo di una guerra infinita tra Israele e i suoi vicini. Il primo vero scontro tra Damasco e Tel Aviv risale al primo conflitto arabo-israeliano del 1948-49, quando la disfatta del male addestrato esercito siriano fu limitata proprio grazie alla barriera naturale rappresentata dall’altopiano. Dopo la firma dell’armistizio (siglato il 20 luglio 1949) e per i successivi vent’anni, Damasco rimane comunque in posizione di superiorità rispetto alle nuove colonie israeliane costruite proprio al di sotto dei pendii occidentali delle alture e della riva orientale del lago di Tiberiade. Tutto cambia nel giugno del 1967, una data che rappresenta uno vero e proprio spartiacque nella storia mediorientale. La “Guerra dei sei giorni” inizia con il massiccio attacco lanciato
Quadro generale
Taiseer Maray
UNHCR/B. Diab
Sul Golan, il più grande impianto eolico
70 turbine per una potenza complessiva di 155 Mw, investimento complessivo di circa 400milioni di dollari, termine dei lavori fine 2012. Sono i numeri del più grande impianto eolico di tutto il Medio Oriente, che Israele ha deciso di costruire nella zona Nord delle alture del Golan, tra Massadeh e Majdal Shams. Vi parteciperà il gigante statunitense dell’energia Aes Corp e a costruirlo sarà la società pubblica israeliana Multimatrix. Il premier israeliano Benyamin Netaniahu, mediante la firma di un decreto, ha dichiarato l’iniziativa “progetto nazionale”. L’impianto contribuirà a colmare in parte la carenza di potenza di generazione elettrica di Israele e avrà l’obiettivo di triplicare l’energia del vento nel prossimo decennio. La Multimatrix e la Aes attendono di ricevere l’autorizzazione dell’esercito israeliano per aggiungere in futuro altre turbine in modo da arrivare a produrre 200 Mw.
il 6 ottobre dalle truppe siriane che colgono di sorpresa l’esercito isriaeliano. Grazie al cessate il fuoco imposto dall’allora segretario di Stato americano Henry Kissinger, Israele recupera terreno fino a sfiorare il cuore del Paese, arrestando i suoi uomini ad appena quaranta chilometri da Damasco. All’armistizio del 25 ottobre segue una lunga guerra d’attrito che si protrae fino al 31 maggio del 1974, quando entra in vigore un nuovo cessate il fuoco sulla stessa linea del 1967. Israele mantiene le posizioni, mentre la Siria recupera un quarto del territorio occupato da Tel Aviv, più alcune zone simbolicamente importanti come la cittadina di Kuneitra. Tra i due belligeranti viene istituita una fascia di sicurezza affidata al pieno controllo dei caschi blu dell’Onu, presente con la missione Undof (United nations disengagement observe force). Cinque più tardi, il 14 dicembre 1981, la Knes-
I PROTAGONISTI
set israeliana approva la legge con cui le Alture del Golan da “zona militare di guerra” diventavano parte integrante dello Stato ebraico. Lungi dal riconoscere quest’annessione, ancora oggi la posizione siriana resta più o meno ancorata alle rivendicazioni espresse alla fine degli anni Settanta: un accordo di pace sotto la condizione di un completo ritiro di Israele dall’altopiano. Da parte sua Israele considera la sua presenza sul Golan vitale per la propria sicurezza nazionale e postpone un eventuale ritiro in cambio di precise garanzie da parte siriana e internazionale, che vanno dalla completa smilitarizzazione del territorio compreso tra le Alture e i sobborghi di Damasco alla riduzione su scala globale delle forze armate siriane, fino alla creazione di una forza d’interposizione internazionale dotata di reali poteri dissuasivi e di metodi di risposta concreti in caso di aggressione. Al di là delle dichiarazioni formali, sul piatto delle trattative continua a esserci la gestione delle risorse idriche e la presenza di stazioni radar israeliane sul monte Ash-Shaykh/Hermon.
171
Biologo, druso, siriano, sposato e padre di due figli. È Taiseer Maray, fondatore dell’organizzazione no-profit “Golan per lo sviluppo”, nata nel 1991. Obiettivo dell’associazione è la costruzione di una società democratica moderna sulle alture dal Golan come metodo per resistere all’occupazione. Maray, dopo il dottorato ha lavorato studiato alla Ucla Medical School e al Rigshospital di Copenhagen. Ha fatto parte della Golan Academic Association per la città di Majdal Shams, del consiglio degli studenti arabi di Haifa e del comitato di sostegno alle vittime libanesi della guerra per l’invasione israeliana del 1982-83. Con la sua associazione ha costruito un ambulatorio medico e una scuola. Fornisce servizi sanitari in tutta l’area e offre una vasta gamma di attività educative e culturali, come l’asilo, i laboratori teatrali e musicali. Monitora l’evoluzione degli insediamenti israeliani e promuove istituzioni di sviluppo integrato. Ciò che preme a Taiseer Maray attraverso la sua associazione è la salvaguardia dell’identità siriana, soprattutto tra i giovani che vengono risucchiati da un sistema scolastico che insegna loro a sentirsi diversi dagli altri arabi perché di religione drusa.
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Quali sono le strategie politiche di Hamas e dell’Anp, le due formazioni che in Palestina controllano rispettivamente la Striscia di Gaza e la Cisgiordania? A settembre, Abu Mazen si è recato al Palazzo di Vetro per chiedere il riconoscimento dello Stato di Palestina. Un momento enfatizzato e accolto positivamente sia dall’opinione pubblica palestinese che dalla maggioranza dei media internazionali. Hamas ha dovuto improvvisamente gestire una inaspettata crescita di consenso a favore del suo rivale politico ed ha tentato di cavalcare lo scetticismo che molti osservatori, anche palestinesi, hanno mostrato nei confronti della iniziativa del leader di Fatah, definendola priva di “un reale peso politico” e mettendo in guardia, in piu’ di una occasione, dalle conseguenze negative, che la richiesta di riconoscimento di uno Stato palestinese avrebbe, ad esempio, per il futuro dei rifugiati che rischierebbero di perdere la propria rappresentanza internazionale (attualmente in mano all’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, riconosciuta dall’Onu). Ovviamente c’è anche una motivazione tutta politica per la quale Hamas osteggia l’iniziativa internazionale di Abu Mazen. Una vittoria, seppur parziale della delegazione palestinese al Palazzo di Vetro, porterebbe con sÈ un aumento di consensi per l’ormai logorata immagine di Abu Mazen e più in generale per tutto il partito di Fatah, fiaccato da corruzione e divisioni interne. In ogni caso dopo l’iniziativa di Abu Mazen e il suo discorso all’Onu, la Palestina non sembra uscita più forte dal Palazzo di Vetro. A distanza di un mese dalla richiesta di riconoscimento di uno Stato di Palestina, un altro importante evento ha scosso la scena politica palestinese. Improvvisamente, avviene qualcosa che molti in Israele non speravano più: il caporale Gilad Shalit, rapito da Hamas il 25 giugno del 2006, dopo cinque anni è stato liberato. In cambio Ha-
Inoltre Palestina “Il riconoscimento delle Nazioni Unite tappa essenziale per trovare la pace”.
mas, che ha in consegna il soldato, ha ottenuto il rilascio, ed è solo una prima ondata, di 477 detenuti palestinesi, tra cui 27 donne. Altri 550 palestinesi, come previsto dall’accordo, usciranno dalle carceri israeliane entro fine anno. Il portavoce di Hamas, Saleh Barhhum ha annunciato, intervistato da Al-Jazeera: “Già ora possiamo dire che la prima fase dello scambio di prigionieri con Israele è stata completata con successo, siamo fiduciosi perché abbiamo avuto ampie rassicurazioni, non credo che gli israeliani possano oggi permettersi di non rispettare gli accordi”. L’accordo per la liberazione dei prigionieri palestinesi È da molti osservatori interpretata come una vittoria politica di Hamas. “Un risultato nazionale” l’ha definito il leader dell’organizzazione islamica Khaled Meshaal. A Gaza migliaia di palestinesi sono scesi in piazza per festeggiare il ritorno dei detenuti e attendere il loro arrivo. Sul piano interno palestinese dunque l’accordoShalit ridefinisce i rapporti di forza tra Hamas e Fatah. La richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina da un lato e la liberazione dei detenuti dall’altro, dimostrano il permanere, a livello politico e del controllo territoriale, di “due Palestine”. Quanto alla necessita’ di un dialogo nazionale e alla formazione di un Governo di unità, gli ostacoli da superare non riguardano solo le linee programmatiche, ma anche, soprattutto le divisioni interne tra le diverse “anime” di Hamas e di Fatah.
EUROPA ELENCO DEI PAESI IN CONFLITTO
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I I I I I I I I
Europa
Amedeo Ricucci
Un’occasione fallita le crisi del Mediterraneo Alla fine l’euro-zona ce l’ha fatta. E sia pure a fatica, quello che a tutt’oggi resta il fiore all’occhiello dell’Unione Europea – vale a dire l’euro, in quanto moneta comune – è stato salvato, nonostante la recessione economica, dai ripetuti attacchi della speculazione che hanno via via colpito gli Stati membri più deboli, dalla Grecia all’Italia, passando per Irlanda, Spagna e Portogallo. Questo vuol dire molto probabilmente che nel quadro delle dinamiche geopolitiche mondiale l’Europa continuerà ad avere un ruolo da protagonista, come nel passato. Ma il problema vero è capire se questa Ue sia all’altezza dei tumultuosi cambiamenti in corso e delle sfide globali che la attendono. Manca un’anima, ancora, manca un Popolo, e manca una Costituzione materiale su cui tracciare una direzione di marcia comune, su cui provare ad aggregare gli altri attori della politica internazionale. Da questo punto di vista, non depone certo a favore il balbettio penoso di cui sia l’Unione che i diversi Stati membri hanno dato prova quando sono esplose all’inizio del 2011 sull’altra sponda del Mediterraneo le prime rivoluzioni arabe.
E non solo perché ci si è attardati con un balletto indecente – e in nome di una concezione vetusta e manichea della lotta al terrorismo internazionale – a difendere despoti corrotti che la Storia stava finalmente spazzando via. Quel che è peggio ancora è che a fronte del primo flusso di profughi in fuga – i primi 5mila affluiti a Lampedusa – si è lasciato che a parlare fossero gli interessi egoistici dei singoli Stati, dimostrando una inadeguatezza culturale – prima ancora che politica – che non giova certo alla sicurezza e all’ordine sociale tanto nel Nord che nel Sud del Mediterraneo. L’Italia in quel frangente è stata lasciata da sola a gestire l’accoglienza, mentre Francia e Germania sigillavano le loro frontiere e gli altri Paesi voltavano gli occhi dall’altra parte. Triste spettacolo. E dire che la Tunisia si è accollata l’accoglienza di oltre 300mila profughi in fuga dalla guerra in Libia, senza isterie e senza bisogno di costruire campi di concentramento. Se non bastasse, c’è stata poi l’improvvida avventura militare promossa in marzo proprio in Libia. Dove l’Unione Europea – e l’Italia – si sono lasciate trascinare dal protagonismo francese e inglese, salvo poi chiedere l’ombrello della Nato, senza però mai avere un’idea chiara e precisa del perché si dovesse scatenare quella guerra. Anche in questo caso l’Europa ha agito in ordine sparso, con buona pace del Rappresentante unico per la politica estera e la sicurezza, la signora Catherine Ashton, che dal giorno del suo insediamento, nel 2007, in seguito al Trattato di Lisbona, continua a collezionare brutte figure. È sempre la stessa storia. Tutte le volte che l’Europa potrebbe e dovrebbe esprimersi in maniera unitaria, per far sentire
UNHCR/R. Chalasani
tenti di accettare lo status quo ma promuova il cambiamento. Per alcuni versi ci aveva già provato il Presidente francese Sarkozy, quando nel luglio del 2008 aveva lanciato l’Unione del Mediterraneo. L’idea era buona, ma la sorreggeva una visione ancora neo-coloniale, come spesso capita con le iniziative francesi. E in ogni caso la crisi economica mondiale, scoppiata di lì a poco, aveva subito affossato il progetto, relegandolo in un cassetto dal quale non è più riuscito. La Ue potrebbe riprenderlo e rilanciarlo oggi, alla luce delle grandi trasformazioni in corso in tutto il Nord Africa. È la nostra ultima spiaggia. A meno di non voler credere che l’Europa sia un’isola, che si possa tenere al riparo dai sommovimenti che scuotono oggi il mondo. In altri tempi furono le legioni ad imporre la pax romana sul Mare Nostrum. Ma quei tempi sono finiti per sempre. E non si può certo pensare di ridurre i flussi migratori ad un problema di ordine pubblico.
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la sua voce sullo scacchiere internazionale, si ritrova invece a fare da ruota di scorta dei suoi stati-membri più forti, che non vogliono rinunciare ad un ruolo nazionale, oppure dell’alleato d’oltre oceano, gli Stati Uniti. L’unico risultato ottenuto in Libia, per ora, è quello di avere aperto un nuovo fronte di guerra, le cui ferite rischiano di trascinarsi a lungo, come nei Balcani, aumentando perciò la lista dei problemi sul tappeto e quindi le aree di instabilità alla periferia del Vecchio Continente. Quello che serve, in realtà, è un nuovo patto fra Europa ed Africa. Credere infatti che i processi migratori in atto – e le nuove dinamiche politiche e sociali da cui scaturiscono, nel Nord Africa così come nell’Africa sub-sahariana – possano essere ostacolati, compressi o deviati sulla base dei nostri presunti interessi nazionali è solo una pia illusione, che serve al massimo per strategie elettorali di bassa lega. C’è bisogno invece di un’Europa che sia in grado di progettare un proprio futuro comune basato sull’inclusione sociale: il che vuol dire provare a regolare gli inevitabili flussi migratori che ci riguarderanno nel prossimo futuro, con spirito di sacrificio, sapendo cioè che bisognerà comunque cambiare le nostre consuetudini e saperle adattare alla nuova situazione. Non c’è alternativa, se si vuole ancora coniugare la democrazia con lo sviluppo economico e sociale. Allo stesso tempo, però, serve che l’Europa, almeno per quanto riguarda i suoi Paesi a vocazione mediterranea, si impegni seriamente in una prospettiva di partenariato equo e solidale con i Paesi della sponda Sud. È tempo ormai che dagli accordi bilaterali, finora prevalenti, si passi ad un disegno multilaterale della Ue, con l’obiettivo dichiarato di superare le pregiudiziali che su entrambe le sponde l’hanno finora frenato. Ma questa nuova Europa che guarda a Sud, all’altra sponda del Mare Nostrum, non può che essere un’Europa politica, in grado di parlare una lingua unica e comune, che non si accon-
UNHCR/H. J. Davies
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Sci di guerra
Sarà che gli sport estremi vanno di moda – così come il turismo di guerra – ma l’idea di Valdimir Putin di trasformare il Caucaso Settentrionale nella più grande stazione sciistica al mondo è decisamente azzardata. Eppure, il Governo russo l’ha approvata, il 14 ottobre 2010, ed è già stato creato l’ente preposto, il Nothern Caucasus Resort, che ha già cominciato a lavorare, vista l’imminenza delle Olimpiadi invernali che la Russia ospiterà nel 2014, a Soci. Nel progetto, però, sono tagliate fuori sia la Cecenia che l’Inguscezia, forse perché queste due Repubbliche non vengono considerate abbastanza “sicure”. La cosa non dev’essere piaciuta a Ramzan Kadyrov, che aveva sempre parlato del suo Paese come della Svizzera del Caucaso, dichiarandosi pronto ad accogliere migliaia di turisti occidentali. Sarà quindi per una questione di puntiglio che il Presidente ceceno ha deciso di rilanciare, annunciando a sua volta, nel giorno dell’insediamento per il suo secondo mandato, che investirà 350milioni di euro, per costruire una stazione di sci per gli amanti degli sport estremi.
UNHCR/T. Makeeva
UNHCR/T. Makeeva
Stando alla parata di stelle che l’11 maggio ha inaugurato il nuovo e scintillante stadio di Grozny – c’erano Maradona, Figo, Barthez, Baresi, Bobo Vieri e Costacurta, fra gli altri – per qualsiasi tifoso di calcio ceceno c’era solo da fregarsi le mani e godersi lo spettacolo. Che l’evento sia però riuscito a portare acqua al mulino del padre-padrone di questa turbolenta Repubblica autonoma del Caucaso russo, Ramzan Kadyrov – contribuendo così al successo della sua campagna “Via i segni di guerra dalla Cecenia” promossa con grande dispendio di risorse già da qualche anno – beh, questa è tutta un’altra storia. Sì, perché da queste parti la guerra continua e non c’è lifting di Grozny o eventi speciali che possano camuffarla. È una guerra ora a bassa intensità, uno stillicidio inarrestabile di attentati dinamitardi, imboscate, blitz e assassini mirati, che si allunga però di settimana in settimana e finisce perciò per ridicolizzare la dichiarazione con cui, il 16 aprile 2009, le autorità russe hanno abolito il regime Speciale Anti-Terrorismo (Kto), provando così a scrivere la parola fine sulla II Guerra cecena, scoppiata nel 1999. E, se questo non bastasse, ci sono poi le operazioni militari in grande stile, quelle che la guerriglia separatista – sia pure decimata – è ancora in grado di organizzare, anche al di fuori della Cecenia: l’ultima è stato l’attacco suicida all’aeroporto di Domodedovo, a Mosca, il 24 gennaio 2011, che ha fatto 36 morti e più di 150 feriti. Tre mesi prima, il 19 ottobre, un gruppo di ri-
CECENIA
Generalità Nome completo:
Repubblica Cecena
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Russo, Ceceno
Capitale:
Groznyj
Popolazione:
1.103.686
Area:
15.500 Kmq
Religioni:
Musulmana sunnita
Moneta:
Rublo, nahar
Principali esportazioni:
Petrolio
PIL pro capite:
n.d.
belli era riuscito ad attaccare la sede del Parlamento a Grozny, in pieno centro, probabilmente per prendere in ostaggio dei deputati, facendo 8 morti e una ventina di feriti; mentre in Daghestan come in Inguscezia i gruppi armati che sono più o meno direttamente legati all’emiro ceceno del Caucaso Doku Umarov rappresentano ormai un fattore di instabilità permanente, che mette a dura prova l’autorità di Mosca e dei suoi rappresentanti locali. Insomma, la popolazione cecena potrà anche essersi divertita allo stadio, l’11 maggio, ma sapendo bene che era solo una farsa: come i tre gol fatti segnare al presidente Kadyrov, l’ultimo dei quali dribblando addirittura Diego Armando Maradona.
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Il conflitto che oppone la Grande Russia – prima zarista, poi sovietica ed ora di Putin&Medvedev – alla piccola Repubblica della Cecenia dura più o meno da duecento anni, sia pure a fasi alterne. L’annessione infatti di questa Regione allo spazio d’influenza russo non è mai stata accettata dal popolo ceceno, fiero e combattente: non a caso, la prima Guerra Santa contro i russi è del 1839 e tutti i grandi condottieri ceceni dei secoli scorsi – dallo sceicco Mansur all’imam Shamil – hanno costruito la loro leggenda e la loro popolarità sulla resistenza ad oltranza alle forze di occupazione inviate da Mosca. Da questa prospettiva, l’epoca sovietica ha aggiunto solo nuove ferite e nuova acrimonia. Accusati di aver collaborato con i nazisti, i ceceni non godettero infatti di buona fama, ai tempi di Stalin, e già nel 1944 si rivoltarono. In seguito cercarono di opporsi alla collettivizzazione forzata delle loro terre, al punto che Stalin ne ordinò la deportazione di massa in Kazakhistan, così come fece con altri popoli caucasici. Solo l’ascesa al potere di Krusciov permise ai ceceni di rientrare in patria, costretti però a convivere con i russi che ne avevano preso il posto e che rappresentavano ormai il 30% della popolazione. Non c’è dunque da stupirsi se il Movimento Irredentista Ceceno abbia rialzato la testa sul finire degli anni ‘80, quando l’Urss comincia ad implodere; e se poi, nel 1991, prima ancora della dissoluzione dell’Urss, viene proclamata a Grozny la Repubblica Islamica Cecena di Iskheria, indipendente da Mosca. È bastato questo per scatenare il risentimento russo, sfociato poi nelle due guerre del 1994-1996 e del 1999-2000. La prima guerra cecena scoppia l’11 dicembre 1994 con l’offensiva a sorpresa ordinata da Boris Yeltsin, all’epoca Presidente della Federazione Russa, con il pretesto di voler difendere la minoranza russa perseguitata nella nuova Repubblica. Ma nonostante la sproporzione delle forze in campo, i russi non riescono a prevalere e sono costretti ad accettare un accordo di pace umiliante, firmato il 31 agosto 1996: con tale accordo la Cecenia mantiene la sua autonomia, suggellata dall’introduzione della sharia, e la Russia accetta di negoziare l’indipendenza, anche se in un futuro non meglio precisato. Meno incerto è il pesante bilancio dei due anni di guerra: i morti sono almeno 40mila e i profughi 250mila.
Molto più breve fu la seconda guerra cecena, che scoppia il 1° ottobre 1999 e dura fino al 1° febbraio 2000, quando le truppe dell’Armata Rossa occupano Grozny, dopo averla rasa al suolo. Controversi restano ancora oggi i motivi che portarono alla guerra: è vero infatti che l’intervento russo venne ufficialmente scatenato da una serie di attentati organizzati dai ribelli ceceni in territorio russo, con una lunga scia di morti – 240 solo a Mosca, nel 1999 – ma secondo molti analisti la guerra fu una prova di forza voluta dal primo Ministro Vladimir Putin per guadagnarsi una facile popolarità e preparare la propria ascesa al potere. In ogni caso l’occupazione militare russa non riesce ad aver ragione della guerriglia cecena, che non solo obbliga l’Armata Rossa a pagare un pesante tributo di sangue ma riesce anche a portare il terrorismo in casa del nemico, con un’escalation di azioni spettacolari: dal sequestro degli spettatori del Teatro Dubrovka nell’ottobre 2002 – i morti furono 130, uccisi nel blitz delle forze speciali russe – al sequestro degli scolari della scuola di Beslan, in Ossezia del Nord, dove i morti furono più di 300. Dalla guerra aperta si è passati insomma ad una guerra asimmetrica, che si protrae fino ad oggi. In ogni caso, dei 100mila uomini impiegati dall’Armata Rossa in Cecenia all’epoca delle due guerre, ne sono rimasti ormai, con la fine del Kto, solo poche migliaia, dislocati nelle casermefortezze di Gudermes, Kankalia e Kashali.
Va detto che oggi del sogno irredentista ceceno resta ben poco. Sotto il comando dell’autoproclamato nuovo Emiro del Caucaso, Doku Umarov, resterebbero infatti – secondo le stime del vice-ministro degli Interni russi, Arkady Edelev – meno di 500 terroristi abbarbicati sulle montagne, fra cui una cinquantina di mercenari arabi. La maggioranza di questi combattenti, inoltre, sarebbe spinta a scegliere la guerriglia non da considerazioni ideologiche o da motivi religiosi, quanto piuttosto da motivi personali,
per vendicarsi cioè di un torto subito. Dietro questo mutamento epocale c’è sia la stanchezza – in Cecenia si combatte ormai da 20 anni – che l’eliminazione progressiva di tutti i grandi leader della guerriglia: dal Presidente Dzokhar Dudaev, ucciso nel 1996 con un missile guidato via laser mentre parlava al telefonino, al suo successore Aslan Maskhadov, ucciso nel 2005, fino al comandante Shamil Basayev, ucciso nel 2006. Ma a far suonare la campana a morto per la guerriglia cecena è stata soprat-
Per cosa si combatte
Il killer di Anna
È stato arrestato nella casa dei suoi genitori in Cecenia, il 31 maggio 2011, Rustan Makhmudov, accusato di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio della famosa giornalista russa Anna Politkovskaja, freddata a colpi di pistola nell’ascensore della sua casa di Mosca, il 7 ottobre 2006. I fratelli di Rustan, Ibrahim e Dzabrail, che erano stati accusati di complicità nell’omicidio ed erano già stati arrestati, sono stati già scagionati e rilasciati nel febbraio 2009, per mancanza di prove. La Corte Suprema russa aveva però annullato quella sentenza ed ora si attendono gli esiti di una seconda inchiesta. Malgrado le apparenze, l’arresto del presunto killer della Politkovskaja difficilmente farà fare dei passi avanti nelle indagini. Come hanno ribadito nell’occasione i figli della giornalista, il caso sarà risolto solo quando i mandanti dell’omicidio verranno individuati e puniti.
UNHCR/T. Bolstad
Quadro generale
Doku Umarov
(Kharsenoi, 13 aprile 1964)
UNHCR/T. Makeeva
Omicidio eccellente
Ha fatto scalpore l’omicidio a Mosca, il 10 giugno 2011, con quattro colpi di pistola alla testa, dell’ex colonnello dell’Armata Rossa Yurij Budanov. La sua figura è stata infatti al centro di uno dei più clamorosi casi giudiziari degli ultimi anni, di cui si era occupata più volte anche Anna Politkovskaja. Nel marzo del 2000 Budanov, che comandava un’unità corazzata in Cecenia, sequestrò, violentò, torturò ed uccise una ragazza di 18 anni, Elsa Kungayeva, con l’accusa – dimostratasi poi infondata – di aver sparato contro i tank russi. Il processo andò avanti per più di due anni e alla fine Budanov, diventatò l’eroe dei gruppi della destra ultra-nazionalista russa, venne condannato a soli 10 anni di carcere e solo per omicidio. Qualche anno dopo, il tribunale militare gli concesse un ulteriore sconto di pena, che consentì a Budanov di uscire di prigione nel gennaio 2009. Due anni dopo la sua esecuzione. È probabile che il killer di Budanov sia venuto dalla Cecenia – per vendetta – ma non è da escludere che si sia voluto tappare la bocca a un personaggio ingombrante, che sapeva troppo sulle malefatte dell’Armata Rossa nel Caucaso.
tutto l’ascesa di un clan forte e prestigioso, che ha scelto di abbandonare la lotta armata e si è schierato dalla parte del Cremlino: il clan dei Kadyrov. Già gran Mufti di Grozny, Akhmad Kadyrov viene eletto capo del Governo nel 2000 e diventa Presidente della Cecenia nell’ottobre 2003, carica che occupa fino al maggio 2004, quando viene ucciso in un attentato allo stadio di Grozny. Al suo posto è subentrato il figlio Ramzan, famoso per i suoi metodi brutali, che viene confermato presidente nel 2007 e regna tuttora, con pieni poteri. È la milizia dei Kadyrov che viene incaricata,
I PROTAGONISTI
negli ultimi anni, di fare la “guerra sporca”, in nome di una progressiva cecenizzazione del conflitto, perseguita da Mosca con caparbietà: ne consegue un’alternanza di bastone e carota, con ripetute amnistie per i ribelli che scelgono di abbandonare la lotta armata e una spietata caccia all’uomo per stanare gli irriducibili. Se i risultati ci sono, insomma, restano contradditori. Per imporre la sua pace, Ramzan Kadyrov ha ridotto infatti a carta straccia i diritti umani più elementari, come denunciano da anni Memorial e tutte le organizzazioni internazionali. Governando così, finisce inoltre per buttare altra benzina sul fuoco del risentimento e dell’odio che stanno alla base della questione cecena. Alle lunghe, perciò, il rimedio rischia di essere peggiore del male.
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In foto compare sempre con una lunga barba da wahabbita, ma in realtà Doku Umarov, classe 1964, già quinto Presidente della Repubblica cecena di Iskeria, dal 2007 auto-proclamatosi Emiro del Caucaso, cerca soprattutto di nascondere le ferite alla mascella (e non solo) inflittegli dai russi, che lo considerano da anni il loro nemico numero uno. Lui d’altronde, fin dal suo insediamento ai vertici della guerriglia cecena, ha sempre dichiarato di voler estendere il conflitto “a tutto il Caucaso e alla Russia intera”, firmando le azioni militari più spettacolari e sanguinose, dall’attentato alla metropolitana di Mosca (29 marzo 2010) all’attacco suicida all’aeroporto di Mosca (24 gennaio 2011). Come ritorsione, i russi e i miliziani di Kadyrov gli hanno sterminato l’intera famiglia. Umarov non ha però dalla sua la totalità dei guerriglieri ceceni. La sua proclamazione dell’Emirato del Caucaso venne ad esempio bocciata da Ahmed Zakayev, che un tempo era il suo mentore ed oggi è uno dei leader della diaspora cecena in Europa. E con Zakayev si sono poi schierati diversi comandanti, fra cui Arsayev e Murayev. È anche nel tentativo di superare questi dissapori che nel 2010 Umarov recede dalla carica, nominando nuovo Emiro Aslambek Vadalov. Dopo qualche giorno, però, ci ripensa e si riprende il trono.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DALLA GEORGIA RIFUGIATI
10.640
SFOLLATI PRESENTI NELLA GEORGIA 359.716 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA GEORGIA RIFUGIATI
639
La Guerra dei Film
Passa ormai dal grande schermo l’ultima frontiera della guerra mediatica che dall’agosto 2008 vede coinvolte Russia e Georgia. Dopo essersi confrontati sulla Rete e nei canali all-news, gli info-guerrieri che furoreggiano da entrambe le parti della barricata hanno deciso infatti di puntare sui film. Il primo è stato Olympus Inferno, una pellicola di produzione russa che racconta la guerra dei 5 giorni e che è stata trasmessa dal primo canale di Mosca in prima serata nella primavera del 2009. Com’era ovvio, in questo film sono i soldati georgiani a fare la parte dei cattivi, mentre gli ossetini del Sud (e i soldati russi) fanno la parte degli aggrediti, cioè dei buoni. Immediata è stata la risposta di Tblisi, affidata peraltro a una produzione hollywoodiana, con una star del cinema come Andy Garcia nei panni del Presidente Sakashvili. Il film si intitola “5 days of August” ed è uscito nelle sale e in Dvd nell’agosto 2011. Inutile aggiungere chi sono i buoni e chi i cattivi. Nelle guerre medianiche il copione è sempre lo stesso, anche se a parti invertite.
UNHCR /Y. Mechitov
La tregua militare regge, tant’è che il territorio georgiano è l’unico in tutto il Caucaso che nel 2011 non ha fatto registrare fatti di sangue inerenti ai suoi conflitti congelati. Eppure, la guerra non è finita. E prosegue su altri fronti. È vero infatti che l’accordo in Sei Punti che il 12 agosto 2008 pose fine alla guerra-lampo di cinque giorni fra Russia e Georgia ha di fatto bloccato il conflitto nelle regioni contese dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, ma è altrettanto vero che le due repubbliche secessioniste sono riuscite sotto diversi aspetti a consolidare la loro discussa “sovranità”, il che ne aumenta sempre di più il distacco da Tblisi. Nel settembre 2008, quando in tutta fretta dichiararono unilateralmente la loro indipendenza, Sukhumi e e Tskhinvali avevano dalla loro solo la Russia di Putin; oggi invece vantano qualche riconoscimento in più, anche se di poco peso - Venezuela, Nicaragua, Nuaru e Vanuatu – e soprattutto hanno una costituzione vera, istituzioni più consolidate e una prassi statuale che potrebbe diventare anche permanente, come insegna la vicenda del Kosovo. Vanno in questa direzione sia il divieto di utilizzo della moneta georgiana, il Lari, sancito dal governo dell’Ossezia del Sud il 17 febbraio scorso; sia l’emissione quest’anno di più di 17mila nuovi “passaporti” abkhazi da parte delle autorità di Sukhumi. Inoltre, la linea di demarcazione amministrativa fra queste due regioni e il resto del territorio georgiano si sta trasformando sempre di più in un vero e proprio “confine di stato”, con tutta una serie di conseguenze: si riducono infatti e vengono militarizzati i punti di attraversamento, al punto che in Ossezia è stato introdotto addirittura il reato di “attraversamento illegale”. Naturalmente, l’isolamento internazionale favorisce la dipendenza da Mosca, sia economica che politica, delle due repubbliche secessioniste. In Ossezia del Sud si parla ormai apertamente della riunificazione con i “fratelli” del Nord, all’interno della Federazione russa: ipotesi che il Cremlino non ha escluso, anche se i tempi non sarebbero brevi. In Abkhazia, invece,
GEORGIA
Generalità Nome completo:
Georgia
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Georgiano
Capitale:
Tbilisi
Popolazione:
4.989.000
Area:
69.510 Kmq
Religioni:
Ortodossa georgiana (76%), musulmana (9.9%), ortodossa russa (3%), armena apostolica (4.9%), cattolica (2%), altre (3.2%)
Moneta:
Lari georgiano
Principali esportazioni:
Metalli ferrosi e non, alcuni prodotti agricoli, vino
PIL pro capite:
Us 3.586
le autorità sono costrette a barcamenarsi fra il desiderio di un’indipendenza reale e la necessità di attrarre capitali russi per risollevare le sorti della regione, prostrata dalla lunga guerra con Tblisi. Non fanno infine progressi i negoziati in corso a Ginevra sotto l’egida di Osce, Onu e Unione Europea: per il momento ci si limita ad affrontare problemi pratici, rimandando sine die la definizione di uno status internazionalmente riconosciuto per questi territori contesi.
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Fra le 15 Repubbliche che componevano l’ex Unione Sovietica, la Georgia è quella che in termini di integrità territoriale e di stabilità politica interna ha pagato il prezzo più alto da quando l’Urss si è disintegrata, nel 1991. Ma è vero anche che è stato un georgiano, Iosif Vissarionovič Stalin, a creare buona parte dei problemi etnici che la nuova Repubblica della Georgia – indipendente dal 9 marzo 1991 – si è trovata a dover gestire, finora con scarsi successi. Fu Stalin, infatti, a permettere nel 1931 che la sua Georgia si annettesse il Principato di Abkhazia, la regione costiera situata a Nord, sul Mar Nero, che da secoli godeva di un’ampia autonomia all’interno dell’Impero ottomano, favorendo negli anni successivi da un lato l’immigrazione della popolazione georgiana e dall’altro l’uso della lingua georgiana al posto della lingua locale. E fu sempre Stalin ad acconsentire che l’Ossezia, altra Regione frontaliera fra Russia e Georgia, venisse divisa fra un Nord integrato nella Federazione Russa e un Sud annesso alla Georgia, senza tener conto degli inevitabili dissapori che questa divisone avrebbe creato, vista l‘omogeneità etnica e linguistica delle due Regioni. Non è dunque per caso se, già con i primi fermenti politici che porteranno alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, in entrambe le Regioni si manifestano fortissime tentazioni separatiste, a dispetto dell’esiguità dei territori in ballo: l’Abkhazia è infatti un fazzoletto di terra di appena 8mila chilometri quadrati, su cui vivono oggi poco più di 200mila abitanti; l’Ossezia del Sud è ancora più piccola, con meno di 70mila abitanti sparsi su 4mila chilometri quadrati. Sta di fatto che, subito dopo la dichiarazione d’indipendenza della Georgia, è proprio l’Abkhazia, il 23 luglio 1992, a dichiarare unilateralmente la sua indipendenza. In Ossezia, invece, il soviet supremo locale vota nel 1989 l’unificazione con l’Ossezia del Nord. Ma il giorno dopo il Parlamento georgiano revoca questa decisione e abolisce lo statuto di ampia autonomia che era stata fino ad allora accordato alla Regione. La prima guerra con l’Ossezia inizia proprio nel gennaio 1991, quando le forze armate georgiane entrano in Ossezia per riprendere il controllo della situazione. Dopo un anno e mezzo di pesanti scontri – ed un referendum popolare con cui gli osseti scelgono l’indipendenza – una tregua viene firmata, il 26 giugno 1992, dal nuovo Presidente georgiano Eduard Shervadnadze e dal nuovo Presidente russo Boris Yeltsin. Si tratta di un accordo secondo cui la Russia riconosce l’intangibilità della frontiera internazionalmente definita. Con un secondo referendum popolare, nel novembre 2006, la popolazione dell’Ossezia del Sud, a stragrande maggioranza (92%) conferma però la sua volontà secessionista. In Abkhazia la prima guerra scoppia subito dopo la dichiarazione unilaterale d’indipendenza, nel luglio 1992. In agosto tremila soldati georgiani
entrano nella Regione e dopo aspri combattimenti occupano Sukumi, la capitale. Centinaia di volontari, provenienti dalla Russia e dalle ex Repubbliche sovietiche – fra cui il famoso leader ceceno Shamil Basaiev – accorrono in aiuto delle milizie separatiste, finché la situazione sul terreno non viene rovesciata e si arriva ad una tregua, firmata il 27 luglio 1993. Una pace precaria regna nelle due Repubbliche secessioniste fino al 2004, quando la Rivoluzione delle Rose e l’ascesa al potere in Georgia del nuovo leader, Mickail Saakasvili, gettano nuova benzina sul fuoco del nazionalismo georgiano, rinfocolando la speranza di poter riprendere il controllo sulle due Regioni ribelli. A tale scopo, la Georgia procede ad un massiccio riarmo: le spese per armamenti dal 2004 in poi crescono a ritmi vertiginosi, fino a sfiorare il 10% del Pil, una vera e propria follia per un Paese povero, che dipende dalle importazioni dall’estero, in particolare dalla Russia. Nasce così la guerra-lampo lanciata dalla Georgia con esiti disastrosi nella notte fra il 7 e l’8 agosto 2008. La reazione russa è infatti immediata e sproporzionata – come stabilirà un rapporto del Parlamento Europeo – e in soli cinque giorni di combattimenti la guerra farà 850 morti e 100mila sfollati, quasi tutti georgiani. La tregua firmata il 12 agosto su iniziativa della Ue congela inoltre una situazione decisamente favorevole ai separatisti, tant’è che – forti dell’appoggio russo – sia l’Abkazia che l’Ossezia del Sud dichiarano unilateralmente la propria indipendenza, nel settembre 2008.
Per cosa si combatte
Il Caucaso
Fin dai tempi dell’Impero Zarista, il Caucaso rappresenta il tallone d’Achille dell’espansionismo russo. Ai tempi dell’Unione Sovietica poi, in particolare negli anni 1937-1938, per ordine di Stalin molte di queste popolazioni vennero deportate in massa in Siberia, e questo ha ulteriormente contribuito ad alimentare l’odio per i russi. Delle sette Repubbliche autonome che compongono il Caucaso settentrionale e fanno parte oggi della Federazione Russa ben quattro presentano gravi problemi di sicurezza interna, dovuti alla presenza di gruppi armati che si oppongono al potere centrale ed hanno legami diretti o indiretti con il terrorismo di matrice islamica: la Cecenia, il Daghestan, l’Inguscezia e l’Ossezia del Nord. Non è più tranquilla la situazione nel Caucaso meridionale, del Sud, dove – oltre ai conflitti interni alla Georgia – non va dimenticata l’annosa questione del NagornoKaraback, che vede contrapposti l’Armenia e l’Azerbaijan.
UNHCR / Y. Mechitov
Il problema vero è che l’entità statale georgiana risulta troppo debole di fronte alla molteplicità di interessi etnici e di spinte regionalistiche che dilaniano il suo territorio. A questo si aggiunge la pressione della Russia, che in nome
Quadro generale
Mikhail Saakashvili (Tbilisi, 21 dicembre 1967)
250mila sfollati in cerca di un futuro
Sono quasi 250mila – su una popolazione di appena 5milioni – gli sfollati in Georgia dopo i conflitti degli anni ‘90 e la guerra del 2008. Molti di loro non hanno alcuna possibilità di rientrare nelle proprie abitazioni – perché sono state distrutte oppure si trovano in zone interessate dalla pulizia etnica – e solo pochi sono riusciti a trovare un lavoro, costretti perciò ad un accesso limitato per quanto riguarda l’assistenza sanitaria e la previdenza sociale. Non a caso, in occasione del terzo anniversario della guerra russo-georgiana, Amnesty International ha pubblicato un rapporto in cui si accusa esplicitamente il Governo di Tblisi di non fare abbastanza per alleviare la sorte di questa fetta non trascurabile di popolazione. Amnesty denuncia in particolare gli sgomberi forzati avviati nella capitale della Georgia nel luglio 2011, oltre ai mille già effettuati solo nell’ ultimo anno. “Le persone sradicate da una guerra – ha scritto Amnesty – hanno bisogno di ambienti stabili per ricostruirsi una vita”.
della difesa delle minoranze a lei legate, per storia e per lingua, continua a ritenere la Georgia parte integrante della sua tradizionale zona d’influenza. Mosca d’altronde non ha mai digerito la cosiddetta Rivoluzione delle Rose che nel novembre 2003 ha portato al potere a Tblisi l’attuale Presidente, Mikhail Saakashvili, considerato troppo filo-americano rispetto al suo predecessore, Eduard Shervardnaze. E da allora ha ingaggiato con le autorità georgiane una complicatissima partita a scacchi, di cui la guerra-lampo dell’agosto 2008 è solo una delle tante mosse, la più audace. Nel gennaio 2006, ad esempio, Mosca chiude senza preavviso i rubinetti del gas siberiano che rifornisce Tblisi; e nell’aprile dello stesso anno blocca le impor-
I PROTAGONISTI
tazioni di vino georgiano. Le autorità di Tblisi replicano intensificando il dialogo con Bruxelles, per un ingresso ufficiale della Georgia nella Nato. Russia e Georgia si danno inoltre battaglia nella cosiddetta Guerra dei Gasdotti: Tblisi aderisce infatti e viene coinvolta nel tracciato del gasdotto Nabucco, che porterà in Europa gas e petrolio del Mar Caspio senza passare dal territorio russo; mentre Mosca vara in risposta due progetti di gasdotti alternativi, Northstream e Southstream, che escludono dal loro tracciato l’uno l’Ucraina e l’altro la Georgia. Per molti versi, vista la disparità delle forze in campo, sembra di assistere al confronto fra Davide e Golia. Non è casuale se in vista delle prossime scadenze elettorali – le parlamentari nel 2012 e le presidenziali nel 2013 – diverse forze di opposizione hanno deciso di riavvicinarsi a Mosca, auspicando che si instauri un dialogo, che ponga fine all’insostenibile contenzioso attuale.
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Per lui è iniziato ormai il conto alla rovescia, visto che alle elezioni Presidenziali del 2013 non potrà più ricandidarsi, essendo già al secondo mandato. Ma i partiti di opposizione, che lo osteggiano ferocemente da anni, appaiono oggi più che mai divisi e ancora alla ricerca di un candidato che possa eguagliarne l’energia, la verve e il carisma. Va detto in effetti che, nei suoi 8 anni di presidenza, Mikhail Sakashvili ha marcato profondamente la vita politica della Georgia, nel bene e nel male, guidando per di più il Paese in alcuni passaggi storici delicatissimi: dalla Rivoluzione delle Rose del 2003, che lo vide fra i protagonisti in piazza, alla guerra lampo contro la Russia, nell’agosto 2008, che lo vide invece sul banco degli imputati, con l’accusa di scatenata e, soprattutto, di averla malamente persa. Il suo dunque è un bilancio controverso. È vero infatti che con Saakashvili la giovane democrazia georgiana ha fatto dei passi avanti – soprattutto se si tiene conto di quanto succede nel resto del Caucaso – ma è vero anche che in tema di diritti umani e civili l’attuale Presidente georgiano si è attirato spesso delle critiche, anche degli organismi internazionali, per l’uso troppo spregiudicato del proprio potere.
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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees
I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2010 uscito nel giugno 2011 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.
RIFUGIATI ORIGINATI DAL KOSOVO (+ SERBIA) RIFUGIATI
183.289
PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA
122.340
MONTENEGRO
10.948
FRANCIA
9.985
SFOLLATI PRESENTI NEL KOSOVO (+ SERBIA) 228.442 RIFUGIATI ACCOLTI NEL KOSOVO (+ SERBIA) RIFUGIATI
73.608
PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI CROAZIA
52.483
HERZEGOVINA
21.047
Non essendo stato ancora riconosciuto il Kosovo i dati sono riferiti all’intera Serbia
Troppi dispersi
A 16 anni dalla fine dei conflitti armati nella ex Jugoslavia, 13.714 persone risultano ancora disperse, secondo l’Ufficio regionale del Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc). Sul numero totale dei dispersi, 9.548 si riferiscono alla guerra in BosniaErzegovina (1992-1995), 2.355 a quella in Croazia (1991-1995) e 1.811 al conflitto armato in Kosovo (1998-1999). Nell’ultimo anno nei Balcani occidentali è stata fatta luce sulla sorte di sole 970 persone.
Estate 2011, scoppia la “crisi della frontiera”. La tensione tra serbi e albanesi al Nord del Paese, nell’area della città di Mitrovica, è costante. A fine luglio 2011, sembrava che la “normale” tensione non dovesse trasformarsi in scontro aperto. D’altronde, la Serbia aveva da poco arrestato Goran Hadzic (responsabile di crimini di guerra verso croati e non-serbi durante la guerra dei Balcani 1991-1995) e si preparava ad estradarlo al Tribunale Penale dell’Aja. Se la Serbia voleva aderire all’Ue, aveva finalmente preso la strada giusta. E invece, la situazione precipita. A fine luglio 2011, forze speciali kosovare vengono inviate a Nord, ai valichi doganali di Jarinje e Brnjak. Missione: non far passare le merci della Serbia. Motivo? Anche la Serbia aveva messo il blocco ai prodotti “made in Kosovo”. Alla frontiera, i soldati kosovari si scontrano con i serbi. Sia Eulex (la missione dell’Ue in Kosovo) sia Kfor (i soldati Nato) vengono colti di sorpresa. Il valico di Jarinje è dato alle fiamme. Occupato il valico di Brnjak. Si spara, si minaccia, si danno ultimatum, da una parte e dall’altra. Il 31 luglio, dopo una sedutafiume di undici ore, il parlamento di Belgrado accusa Pristina di aver provocato le violenze per tentare di “cambiare la situazione sul terreno ricorrendo alla forza”. L’Alto rappresentante della politica estera e di sicurezza dell’Ue, Catherine Ashton, invia sul posto Robert Cooper, mediatore diplomatico, con il compito di risolvere la crisi. Il 5 agosto le Parti raggiungono una tregua. Kfor riprende il controllo dei valichi di frontiera che vengono ribattezzati “zone di sicurezza militare”. Il 2 settembre, le Parti concordano il riconoscimento di nuovi timbri doganali con la dicitura “Kosovo Customs” (Dogane del Kosovo), senza alcun simbolo che possa evocare uno stato sovrano e indipendente. “Questi accordi non si riferiscono in alcun modo allo status del Kosovo. I timbri e la documentazione doganale avranno un carattere neutrale, e nessun doganiere kosovaro potrà prestare servizio ai due posti di frontiera di Jarinje e Brnjak”, lo ha dichiarato il capo della delegazione serba ai negoziati con Pristina, Borko Stefanovic, di rientro a Belgrado. “L’accordo sui timbri doganali rappresenta un reciproco riconoscimento fra la Repubblica del Kosovo e la Repubblica di Serbia”, dichiara all’opposto Edita Tahiri, capo della delegazione kosovara ai negoziati con la Serbia. Sembrerebbe tutto risolto e invece i serbi montano barricate alla Dogana. L’Agenzia di stampa
KOSOVO
Generalità Nome completo:
Repubblica del Kosovo
Bandiera
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Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Albanese, Serbo
Capitale:
Prishtina/Priština
Popolazione:
Stime recenti parlano di 2.130.000 abitanti
Area:
10.887 Kmq
Religioni:
Musulmana, ortodossa, cattolica
Moneta:
Euro (moneta parallela al dinaro serbo al Nord)
Principali esportazioni:
Minerali e metalli non lavorati, prodotti manifatturieri
PIL pro capite:
Us 1,612
Ansa batte, il 28 settembre: “Nel nord del Kosovo resta alta la tensione […] I valichi di Jarinje e Brnjak bloccati da giorni dalle proteste e dalle barricate della popolazione serba, contraria alla presa di controllo delle due postazioni da parte di poliziotti e doganieri kosovari albanesi. […] Gravi scontri Nato contro serbi a Jarinje, con un bilancio di undici feriti (sette serbi e quattro militari della Kfor). Il mediatore europeo Robert Cooper ha annunciato la sospensione dei colloqui di pace.”
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Al centro della “questione kosovara” c’è il mantenimento dell’indipendenza nazionale conquistata nel 2008. I Serbi non vogliono riconoscere un’entità statuale agli albanesi del Kosovo. Gli albanesi del Kosovo non vogliono essere amministrati da Belgrado. Il primo Ministro kosovaro Hashim Thaci ha chiarito le “linee rosse”
di Pristina nei confronti di Belgrado: il rispetto della Costituzione del Kosovo e la risoluzione dell’Assemblea sull’integrità territoriale del Paese. Per il Kosovo si tratta di questioni “fuori discussione”, questioni del tutto discutibili, invece, per Serbia.
Per cosa si combatte
Ancora fragile il sistema democratico del Paese. Il 31 gennaio 2011 vengono diffusi i risultati delle Elezioni Legislative tenute il 12 dicembre 2010 e ripetute, il 9 e il 23 gennaio, a causa dei brogli e delle irregolarità registrate in sei località di voto. Si trattava della prima prova di democrazia elettorale da quando era stata proclamata l’indipendenza nel 2008. Per l’European Network of Election Monitoring Organization (Enemo) “le serie violazioni delle procedure sembrano essere nei fatti accettate e non c’è stato alcun tentativo del personale presente nei seggi di fermare i comportamenti irregolari.” Il Partito Democratico del Kosovo (Pdk) del premier Hashim Thaci vince le elezioni con il 32,1% dei voti e 34 seggi in Parlamento (sul totale di 120). Hashim Thaci arrivava allo scontro elettorale con un’accusa pesantissima mossa da Dick Marty, senatore svizzero, davanti all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (16 dicembre 2010). Nel Rapporto Marty, Hashim Thaci veniva indicato come l’organizzatore di crimini efferati, tra cui l’espianto di organi a vittime serbe e albanesi, durante e dopo la guerra del 1999. Il Partito di Thaci vince comunque le elezioni. Al secondo posto la Lega Democratica del Kosovo (Ldk) guidato dal sindaco di Pristina Isa Mustafa con il 24,6% dei voti. A seguire, il movimento Vetevendosje (Autodeterminazione) con il 12,6%. Hashim Thaci si conferma primo Ministro, Behgjet Pacolli, influente uomo d’affari e capo
dell’Akr (Alleanza per un Nuovo Kosovo) viene nominato Presidente del Kosovo. Quest’ultimo dura in carica da fine febbraio ai primi di aprile 2011. L’asse Thaci-Pacolli si spacca e c’è una svolta epocale. Nuovo Presidente del Kosovo diventa una donna, giovane e determinata: Atifete Jahjaga. Sempre “caldo” il Nord del Paese. Kosovska Mitrovica: la città dove scorre il fiume Ibar, è divisa in due parti: a Sud risiede la comunità albanese, a Nord la comunità serba. A inizio anno, Eulex (la missione dell’UE in Kosovo) aveva dichiarato il Nord del Paese a maggioranza serba, e in particolare la parte Nord di Kosovska Mitrovica, “zona pericolosa” per il suo personale, dopo alcune aggressioni a quattro esponenti della missione europea e a un rappresentante dell’Osce. Erano state impartite nuove regole d’ingaggio e il personale era stato avvertito di prestare particolare attenzione nel Nord, badando a essere continuamente reperibili. Il 17 febbraio 2008 il Kosovo è dichiarato unilateralmente “uno stato indipendente, sovrano e democratico”. La Serbia non riconosce la dichiarazione di indipendenza. A seguito dell’Indipendenza la Nato ha riaffermato che Kfor resterà in Kosovo sulla base del mandato della risoluzione dell’Onu n. 1244. La risoluzione 1244 era stata emanata il 10 giugno 1999 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a conclusione di una campagna militare di bombardamenti aerei della Nato durata 78 giorni.
Quadro generale
Un patrimonio distrutto
Almeno 1.700 siti culturali e religiosi, alcuni dei quali patrimonio mondiale dell’Unesco, sono stati distrutti o seriamente danneggiati durante le guerre nella ex Jugoslavia degli anni novanta, nei bombardamenti Nato del 1999 e nei sanguinosi scontri interetnici del 2004 in Kosovo. Il dato è stato diffuso dai media, alla vigilia di un vertice in programma in Serbia fra i Presidenti dei Paesi dei Balcani, sotto l’egida dell’Unesco e del Consiglio d’Europa, il cui titolo è “Arte moderna e riconciliazione nel Sudest Europa”. Nei 78 giorni di bombardamenti Nato sulla Serbia di Slobodan Milosevic nella primavera ‘99, almeno 175 monumenti furono danneggiati o distrutti del tutto, 23 monasteri medievali e numerose chiese ortodosse e moschee islamiche in Kosovo subirono danni rilevanti. Notevoli danni subirono in particolare i centri storici di importanti città kosovare quali Djakovica, Pec e Prizren.
Atifete Jahjaga
(Djakova , 20 aprile 1975)
A.A.A. riconciliazione cercasi
Giustizia La Serbia ha chiesto all’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), l’apertura di un’inchiesta sul traffico di organi umani avvenuto in Kosovo alla fine degli anni novanta. Le accuse sono contenute nel “rapporto Marty” del gennaio 2011: i capi dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) tra cui l’attuale premier kosovaro Hashim Thaci, avrebbero organizzato crimini di guerra. Riconciliazione Goran Hadzic, l’ultimo criminale di guerra serbo, è stato arrestato “non su pressioni della comunità internazionale ma per la nostra volontà e la nostra coscienza di portare a termine i nostri impegni con il Tribunale penale dell’Aja”. Lo ha detto il 20 luglio 2011 il Presidente serbo Boris Tadic in una conferenza stampa a Belgrado sottolineando l’importanza della “riconciliazione” per la pace nei Balcani.
L’Onu autorizzava l’istituzione in Kosovo di due missioni, una civile (United Nations Interim in Kosovo – Unmik) e l’altra militare (Kosovo Force – Kfor). Il Kosovo doveva considerarsi ancora parte della Repubblica Federale della Jugoslavia ma sottoposta ad amministrazione civile e militare internazionale provvisoria. Dal 1912 al 1989 il Kosovo ha avuto una larga autonomia nell’ambito della Jugoslavia fino a che il leader serbo Slobodan Milosevic ne alterò lo status instaurando il diretto controllo della Serbia. I kosovari di etnia albanese si opposero a tale cambiamento. Già agli inizi degli anni ’80 il Kosovo fu teatro di continue rivolte interne miranti a boicottare il governo centrale jugoslavo. A tali rivolte, il Governo jugoslavo rispose con dure repressioni di polizia. L’accordo di Pace di Dayton del 21 novembre
I PROTAGONISTI
1995, ponendo una fine alla guerra nella vicina Bosnia-Erzegovina, non affrontava la “questione kosovara”. La linea pacifista di Ibrahim Rugova, leader della Lega Democratica del Kosovo, viene abbandonata a favore della lotta armata. Prendeva spazio l’Esercito di Liberazione del Kosovo, Uck, una formazione paramilitare. Nel 1997 le istituzioni statali collassavano. Nessuna autorità più poteva controllare i valichi e i confini. Tra Albania e Kosovo viaggiavano indisturbati ingenti quantità di armi per l’Uck. Gruppi estremisti islamici arrivavano in Albania e in Kosovo. Gli Stati Uniti temevano fortemente ciò che accadeva in quegli anni in Kosovo. Con la Conferenza di Rambouillet del 6 febbraio 1999 i ministri degli Esteri di Italia, Francia, Russia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America cercano di riportare la pace nel Kosovo, reinstaurare l’autogoverno della Provincia e garantire il diritto ad ognuno di ritornare alla propria terra. La Conferenza fallisce. Di lì a poco, partono i bombardamenti Nato dei “78 giorni” del 1999.
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Atifete Jahjaga si è laureata in Legge all’Università di Pristina nel 2000. Ha poi continuato gli studi a Manchester, in Inghilterra, dove ha conseguito nel 2007 un master in “police management and criminal justice”. Ha cominciato a lavorare nella polizia del Kosovo come semplice agente, per divenire poi investigatore e raggiungere la posizione di vice-capo del corpo. Jahjaga ha seguito corsi di addestramento allo European Security Center “George Marshall” in Germania e nella “Fbi National Academy” del Dipartimento di Giustizia negli Usa. Atifete Jahjaga è sposata con un medico, non ha figli.
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L’operazione “anello”
A scatenare la guerra aperta fra azeri e armeni, furono, tra il 1988 e il 1991, decine di scontri armati e soprattutto pogrom, scatenati dagli uni e dagli altri: ad Askeran, Sumghait, Baku, con decine di morti e migliaia di persone costrette a lasciare negozi e proprietà. Di portata più ampia, sul piano militare, fu invece l’Operazione Anello, lanciata dai militari armeni con il sostegno delle unità speciali (Omon) della polizia sovietica, allo scopo di deportare in massa la popolazione armena residente nella regione di Chahumian e schiacciarne così in nuce qualsiasi velleità di unificazione con la madre-patria. Concepita male e gestita ancora peggio, l’Operazione fallì ed anzi si rivelò un boomerang per gli azeri. La coraggiosa resistenza dei locali attirò infatti centinaia di volontari armeni sia dall’Armenia che dall’estero, rafforzando da un lato il convincimento che bisognasse combattere per affermare i propri diritti e conquistando dall’altro, alla causa armeno, il sostegno di buona parte della comunità internazionale.
Si è concluso senza accordi il vertice del 25 giugno a Kazan, in Russia, fra il Presidente dell’Armenia, Serzh Sargsyian, e quello dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, per tentare una soluzione pacifica del contenzioso armato che dal 1988 divide i due Paesi sul Nagorno-Karabakh. Svanisce perciò, almeno per il momento, la road map in 14 punti cui lavora da anni la comunità internazionale, attraverso la mediazione russa e il cosiddetto “gruppo di Minsk” creato già nel 1992 dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), per dare uno status condiviso a questa piccola enclave armena situata in territorio azero, che è stata teatro di un lungo e sanguinoso conflitto, al momento “congelato”, e si è auto-proclamatasi indipendente nel 1992, anche se nessuno Stato l’ha mai riconosciuta tranne l’Armenia. Il rischio è possa venir vanificato il lento ma promettente processo di pacificazione faticosamente avviato negli anni scorsi: in particolare con i primi impegni sottoscritti a Mosca nel 2008, con l’accordo sullo scambio dei prigionieri sottoscritto ad Astrakan il 27 ottobre 2010 e, infine, con la dichiarazione congiunta di Astana del 2 dicembre 2010, in cui sia Sargsyan che Aliyev si sono impegnati ad una soluzione del conflitto che si basi sul rispetto del diritto internazionale e della carta dell’Onu. Il timore vero però è che i venti di guerra possano riprendere a soffiare, causando un nuovo conflitto, magari su larga scala. A lanciare l’allarme l’8 febbraio è stato l’International Crisis Group (Icg), che ha puntato il dito sia contro il massiccio riarmo dell’Azerbaijan, sia contro l’aumento delle scaramucce lungo la “linea di contatto” che vede schierati i soldati azeri e quelli armeni. “Un ulteriore deterioramento delle condizioni di sicurezza – ha concluso il rapporto dell’ Icg – rischia di rendere molto più difficile un accordo di pace”. Certo, non può che suscitare inquietudini il fatto che le spese militari dell’Azerbaijan siano cresciute nell’ultimo anno del 45%, passando nel 2011 a 3,1 miliardi di dollari su un budget statale complessivo di 15,9. E preoccupano anche le violazioni ormai sistematiche della tregua in vigore dal 1994: secondo l’Icg i morti sarebbero almeno una trentina l’anno, mentre le violazioni accertate dall’Onu sono più di 700 solo negli ultimi sei mesi del 2010, con uno
NAGORNO KARABACH
Generalità Nome completo:
Repubblica del Nagorno-Karabakh
Bandiera
189
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Armeno
Capitale:
Stepanakert
Popolazione:
138.000
Area:
11.458 Kmq
Religioni:
Musulmana, Cristiana
Moneta:
Dram armeno
Principali esportazioni:
Petrolio, Gas naturale
PIL pro capite:
n.d.
strascico interminabile di accuse reciproche, che hanno fatto ovviamente salire la febbre bellica, alimentata dalla solita retorica nazionalista, di entrambe le parti. In realtà non è chiaro se le autorità di Baku e di Yerevan siano veramente coscienti delle conseguenze cui può portare questa escalation; ed è anche possibile – come fanno rilevare alcuni analisti – che “più si parla di guerra e meno la si fa”, nel senso che le minacce di ricorso alle armi servono soprattutto ad alzare il prezzo del negoziato, cui nessuno dei contendenti può sottrarsi, lo voglia o meno. Certo è che il 2011 si chiude fra i timori più che fra le speranze.
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Sulla carta geografica il Nagorno-Karabakh è solo un piccolo puntino a forma di fagiolo incastonato fra le vecchie montagne del Caucaso meridionale. Eppure, questo fazzoletto di terra aspra e inospitale è l’oggetto di una storica contesa fra la maggioranza armena e la minoranza azera che lo abitano. È così da secoli, ma è soprattutto dopo la I Guerra Mondiale e poi durante l’era sovietica che gli odi sono diventati steccati, sempre più insormontabili, creati ad arte e sfruttati dalle grandi potenze per questioni di interesse. Nel 1919, ad esempio, le potenze alleate riconobbero la sovranità azera sul Karabakh, abbagliate dal miraggio dei giacimenti di petrolio scoperti nella regione di Baku. Già nel 1920, però, quando la Transacaucasia venne conquistata dall’Armata Rossa, Stalin pensò bene di assegnare la Regione all’Armenia, nella speranza di allargare il consenso del nuovo regime comunista. Cambiò però idea dopo qualche anno, per ingraziarsi il favore dei turchi, tradizionali alleati degli azeri, col risultato che nel 1923 viene ufficialmente creata la Regione autonoma del Nagorno-Karabakh, all’interno della Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaijan. La progressiva decomposizione del blocco socialista, alla fine degli anni ’80, fa riemergere le rivalità fra azeri e armeni, con scontri di piazza, incidenti e veri e propri pogrom scatenati contro le minoranze nelle rispettive zone di influenza. Il 26 febbraio 1988 un milione di persone scende in piazza a Yerevan, capitale dell’Armenia, per chiedere l’annessione del Nagorno-Karabakh, dopo che il parlamento dell’enclave si era espresso a favore, il 20 febbraio 1988. Un referendum popolare conferma qualche mese dopo questa scelta, per certi versi inevitabile, alla luce della politica di “azerizzazione” forzata che era stata portata avanti per anni nella regione dall’allora presidente del Soviet Centrale dell’Azerbaijan, Heydar Aliyev, padre dell’attuale presidente. La situazione precipita poi nel 1991, quando sia l’Armenia che l’Azerbaijan si rendono indipendenti da Mosca e sono perciò liberi di darsi battaglia a tutto campo per il controllo dell’enclave, grazie anche alle armi che affluiscono da Mosca, verso entrambi i belligeranti. Quella per il Nagorno-Karabakh è stata da questo punto di vista la prima e la più sanguinosa fra le guerre prodottesi nello spazio territoriale dell’exUnione Sovietica: in quasi sei anni di conflitto i morti sono stati infatti almeno 30mila e più di un milione i profughi costretti a lasciare la loro terra: 400mila gli armeni costretti a lasciare l’Azerbaijan e 800mila gli azeri costretti a lasciare l’Armenia e il Nagorno-Karabakh. Un cessate-il-fuoco viene raggiunto solo il 16 maggio del 1994, congelando la situazione creatasi sul terreno: il Nagorno-Karabakh si ritrova perciò sotto il totale controllo delle truppe armene e delle milizie loro alleate, che occupano inoltre
il 9% del territorio circostante, appartenente in realtà all’Azerbaijan, compreso il famoso corridoio di Lachin, che mette in comunicazione l’Armenia con questa sua enclave. Da allora, il conflitto è “congelato”, anche se in realtà la terminologia cara agli analisti e ai diplomatici finisce per sorvolare sullo stillicidio di vite causato negli ultimi quindici anni dalle sistematiche violazioni alla tregua, né tiene conto del fatto che ci sono tutti i giorni 70mila soldati dell’una e dell’altra parte che si fronteggiano armi in pugno in trincee d’altri tempi, che distano spesso non più di un centinaio di metri, lungo quella che resta l’unica “linea di contatto” ed è lunga 200 chilometri. Né sono “congelati “ gli stati d’animo con cui in Nagorno-Karabakh, così come in Armenia e Azerbaijan, si continua ad alimentare la catena di odio e risentimento reciproco, su cui sembra ormai forgiata l’identità nazionale dei due popoli, e che spiega le difficoltà nel trovare una soluzione negoziata e duratura. Ha più senso perciò parlare di conflitto “protratto”, come ha suggerito di recente l’Osce perché la situazione resta in continua evoluzione, e con esiti ancora incerti.
Per cosa si combatte
Non è una questione di poco conto, perché l’irrilevanza sulla carta geografica del NagornoKarabakh è solo apparente. Il conflitto che per-
Quadro generale
Un terremoto etnico
Alle ore 11.41 del 7 dicembre 1988 un terremoto di magnitudo 6,9 secondo la scala Richter colpisce le città di Gyumri e Spitak, in Armenia, causando più di 25mila morti e 15mila feriti. La catastrofe è tale che per la prima volta le autorità sovietiche accettano l’aiuto della comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti. Sul posto, invece, il peggioramento delle relazioni fra armeni e azeri è arrivato a un punto di non ritorno, che non favorisce la solidarietà né facilita i soccorsi. A Gyumri, ad esempio, sono molti gli armeni che pensano ad un attentato terroristico ordito dalla minoranza azera invece che a un terremoto. E in Azerbaijan si registrano non pochi festeggiamenti, con la gente scesa in strada per ringraziare Allah dei morti e delle perdite inflitte agli armeni. Ventitré anni dopo, la situazione non è cambiata granché. Né è cambiata la vita di 5mila terremotati, che vivono ancora in container e alloggi di fortuna.
Ilham Aliyev
(Baku, 24 dicembre 1961)
Le ali spezzate
Il solo corridoio di Lachin non basta. Il controllo della sottile striscia di terra che a Sud-Ovest collega il territorio del Nagorno-Karabakh con quello dell’Armenia non è considerato sufficiente dalle autorità di Stefanakert, le quali temono di potersi ritrovare in futuro – qualora il processo di pace concordata vada avanti – completamente circondati dagli azeri. Da qui la pretesa di mantenere il controllo, per motivi di sicurezza, di tutti i territori ad Ovest dell’enclave, facendoli coincidere con la frontiera armena, in modo da avere le spalle coperte. Allo scopo sempre di spezzare l’isolamento geografico della Regione, da anni si lavora alla riapertura del piccolo aeroporto di Stefanakert, in modo da poter collegare con regolari voli di linea la capitale del Nagorno-Karabakh con quella dell’Armenia, Yerevan. Se ne avvantaggerebbe l’economia, ma anche il turismo. La cosa però è più facile a dirsi che a farsi. I vicini nemici dell’Azerbaijan sostengono infatti, da sempre, che lo spazio aereo sopra l’enclave è giuridicamente riconosciuto come territorio azero. E molti armeni ricordano con angoscia quel 1° agosto del 1990 che vide un aereo passeggeri sulla tratta Yerevan-Stefanakert schiantarsi al suolo nel corridoio di Lachin, con la morte di tutti i suoi 43 passeggeri. Forse fu un incidente. Ma in molti sostennero che l’aereo venne abbattuto.
dura in questa Regione va infatti inserito in un contesto geo-politico dalle mutazioni profonde, che vede da un lato un Caucaso (meridionale e settentrionale) sempre più turbolento e dall’altro il sovrapporsi di nuove problematiche strategiche: dal disgelo un tempo impensabile fra Armenia e Turchia al rinnovato protagonismo russo, passando per le ambizioni da potenza regionale che animano ormai apertamente il governo turco di Erdogan e chiudendo con la
I PROTAGONISTI
complessa questione dei vecchi e nuovi corridoi energetici che vede impegnate le principali potenze europee. Sono tutte partite aperte, che passano da queste parti. Una maggiore stabilità, ergo una soluzione concordata del conflitto sul Nagorno-Karabakh, potrebbe perciò giovare a molti protagonisti indiretti che si proiettano nella Regione. Ma è vero anche che nessuno di loro è in grado di influenzare entrambe le parti in conflitto. Le quali, dal canto loro, fanno una gran fatica nel trovare un compromesso che possa risultare accettabile agli occhi delle rispettive opinioni pubbliche, accecate da più di vent’anni di propaganda di stampo nazionalistico.
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Che il petrolio possa costituire una sorta di “maledizione” lo dimostra la storia di molti Paesi – l’Iran, ad esempio, ma anche l’Iraq o la Libia – che hanno pagato a caro prezzo, in termini di libertà, la straordinaria ricchezza che l’oro nero può dare. In Azerbaijan, invece, la maledizione funziona al contrario. Nel senso che il mare di petrolio su cui galleggia la città di Baku è il motivo per cui le grandi potenze chiudono un occhio sulla strana concezione di democrazia del Presidente azero Ilham Aliyev. Quella di Aliyev è una democrazia “per via ereditaria”. A sponsorizzarne la prima nomina a Presidente, nelle elezioni del 2003, fu infatti il padre, Heydar Aliyev, che dell’Azerbaijan era stato il padre-padrone per 25 anni. E a nulla valsero le critiche dell’Osce, secondo cui quello scrutino non rispondeva alle “condizioni minime di imparzialità”, perchè caratterizzato da troppi brogli. Il rampollo della famiglia Aliyev si insediò lo stesso, costruendo in pochi anni un efficacissimo sistema di potere, che fa affluire i proventi del petrolio in poche selezionatissime tasche. Sia sulla corruzione che sulle continue violazioni dei diritti dell’uomo non c’è però grande potenza che osi aprire bocca. Al punto che il Presidente francese Jacques Chirac pensò bene, nel 2007, di insignire Aliyev della Legione d’Onore.
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La zona della Spagna indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione dei Paesi Baschi a cui questa scheda è dedicata.
La fine di Ekin
Un segnale importante che la fine del conflitto nei Paesi Baschi è più vicina, è stato l’annuncio dello scioglimento della formazione radicale basca Ekin, considerata l’ultimo braccio politico dell’Eta. La notizia è apparsa sul principale quotidiano basco, Gara, che la definisce la conseguenza “del cambio radicale di strategia” degli indipendentisti dopo lo storico risultato alle elezioni amministrative del 22 maggio 2011. L’Ekin (“Fare” in euskera), creata nel 1999 e considerata un’organizzazione terroristica da Unione Europea e Stati Uniti, è stata decimata dai numerosi arresti del 2010 e del 2011. Era considerata dalla magistratura spagnola “il cuore dell’Eta” perché incaricata di “applicare la strategia politica e militare” dell’organizzazione terroristica.
Il 20 ottobre del 2011 l’Eta ha annunciato la fine della lotta armata. Con un video inviato al quotidiano basco Gara, l’organizzazione armata che da 43 anni è in guerra con il Governo spagnolo per l’indipendenza dei Paesi Baschi, ha proclamato la “fine definitiva della lotta armata” senza porre alcuna condizione e ha sollecitato “l’apertura di un dialogo diretto con i Governi spagnolo e francese per risolvere le conseguenze del conflitto”. La scelta dell’Eta di abbandonare la lotta armata era attesa ed è la conseguenza diretta dell’indebolimento dell’organizzazione, decimata negli ultimi anni da numerosi arresti, e da un cambio radicale del quadro politico spagnolo. Il 17 ottobre del 2011 si è chiusa a San Sebastian la prima conferenza internazionale di pace per i Paesi Baschi. Non riconosciuta dal Governo spagnolo, che la considera una “manovra della sinistra indipendentista” per conquistare credibilità internazionale, la conferenza ha rappresentato comunque una tappa fondamentale verso la soluzione del conflitto, perché ha visto la partecipazione di tutti i partiti e i sindacati baschi - che con l’Eta hanno avuto da sempre rapporti più o meno dichiarati - oltre a nomi illustri del panorama politico internazionale, come l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan e l’ex capo di gabinetto di Tony Blair, Jonathan Powell. La conferenza si è conclusa con l’adozione di una risoluzione in cinque punti nella quale si chiedeva da parte dell’Eta una dichiarazione pubblica di “abbandono definitivo della violenza”, arrivata dopo appena tre giorni. Il documento, letto dall’ex premier irlandese Bertie Ahern, chiede anche che “i Governi spagnolo e francese accettino di intraprendere un dialogo”. Una risoluzione che è stata ufficialmente accolta anche da tutte le associazioni e i movimenti che compongono la cosiddetta “sinistra abertzale”, la sinistra indipendentista radicale basca. Dopo la tregua “permanente e verificabile” che l’Eta aveva annunciato nel gennaio del 2011, la sinistra indipendentista ha presentato
PAESI BASCHI
Generalità Nome completo:
Comunità autonoma dei Paesi Baschi
Bandiera
193
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Lingue principali:
Euskara, spagnolo
Capitale:
Vitoria-Gasteiz
Popolazione:
2.157.112
Area:
7.234 Kmq
Religioni:
n.d.
Moneta:
Euro
Principali esportazioni:
n.d.
PIL pro capite:
Us 1.310
una sua formazione per le elezioni amministrative del maggio 2011, ottenendo per la prima volta il via libera dei giudici spagnoli. Il partito basco Bildu (Riunire) ha potuto partecipare alle elezioni ottenendo un risultato storico: con 313 mila voti e il 22% dei consensi guadagnati in tutti e 4 i territori del Paese Basco, si è affermato come forza maggioritaria nel panorama politico locale. Per i baschi si tratta della possibilità di vedere rappresentate politicamente le proprie istanze di indipendenza. Per la Spagna è stato forse il passo definito verso la conclusione di un conflitto che ha lasciato sul terreno oltre 800 morti.
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“Euskal Herria è il Paese dei baschi. Noi, che lottiamo con tutte le armi di cui disponiamo per la libertà del nostro popolo, preferiamo dire che Euskal Herria è il Paese dell´euskara, la nostra lingua. La nostra lingua nella nostra terra. Libera”. Così l’organizzazione armata Eta ha spiegato in una lettera lo scopo della sua quarantennale lotta armata: l’indipendenza e l’autodeterminazione di Euskal Herria. Il termine Euskal Herria non si riferisce alle tre Province che compongono la Comunità autonoma
dei Paesi Baschi spagnoli ma, letteralmente, al “popolo che parla la lingua basca” e al territorio dove esso risiede. La Comunità autonoma dei Paesi Baschi è dunque solo una delle Regioni che compongono Euskal Herria. Le altre sono la spagnola Navarra (Nafarroa in basco) e tre Province sotto amministrazione francese: Lapurdi, Nafarroa Beherea e Zuberoa. La parte spagnola dei Paesi Baschi è nota come Hegoalde (‘parte Sud’ in basco), quella francese come Iparralde (‘parte Nord’ in basco).
Per cosa si combatte
Quello tra il Governo spagnolo e l’organizzazione separatista basca Euskadi Ta Askatasuna (Terra Basca e Libertà), conosciuta con l’acronimo di Eta, è un conflitto che dura da decenni nonostante i tentativi di negoziato tra le parti. L’Eta viene fondata nel 1959 da un gruppo di giovani studenti nazionalisti con lo scopo di combattere per l’indipendenza dei Paesi Baschi. L’organizzazione nasce dunque in piena dittatura franchista e in un contesto politico di forte repressione che aveva limitato fino ad annullarla l’azione del principale partito politico della Regione, il Partito nazionalista Basco (Pnv), fondato nel 1895 da Sabino Arana (disegnatore della bandiera basca, la Ikurriña) per garantire ai baschi una rappresentanza politica nel parlamento di Madrid. Il nazionalismo e la repressione franchista sono i due elementi chiave per comprendere la nascita e l’evoluzione dell’Eta, il cui simbolo è un serpente che si avvolge attorno ad un’ascia - a rappresentare l’astuzia e la violenza - e il cui motto è ‘Bietan jarrai’, ‘perseguire entrambi’, dunque la lotta politica e quella armata. Le radici del nazionalismo e della spiccata tendenza indipendentista del popolo basco vanno ricercate nella storia peculiare di questo popolo antichissimo e della sua lingua, l’euskara (parlato oggi da circa 700mila persone), di cui sono ancora ignote le radici etimologiche ma che rappresenta ancora oggi per i baschi, e molto più del territorio stesso, il fulcro della identità collettiva. Anche sotto la dominazione di popoli stranieri i baschi riuscirono sempre a mantenere una certa autonomia. Una autonomia che fu invece negata totalmente con la dittatura di Franco. Ancora prima dell’insediamento del regime, durante la guerra civile spagnola, l’aviazione falangista di Franco, supportata da aerei tedeschi della Legione Condor, bombardò e rase al suolo la città di Guernica, considerata storicamente dai Baschi come simbolo di libertà. Con la dittatura
franchista l’insegnamento e l’uso dell’euskara furono vietati e criminalizzati, i libri pubblicati in lingua basca bruciati, i nomi in basco furono banditi e quelli già in uso furono tradotti in spagnolo. Con la morte di Franco nel 1975 e la nascita della Costituzione spagnola del 1978 ai Paesi baschi viene assegnato lo status di Comunità Autonoma, con ampi margini di autonomia amministrativa ma non la totale indipendenza politica e il diritto all’autodeterminazione del popolo basco, che è invece, ancora oggi, lo scopo dichiarato della lotta armata dell’Eta e del programma politico del partito basco Herri Batasuna, considerato il braccio politico dell’organizzazione. Batasuna nasce nell’aprile del 1978 con l’obiettivo di creare uno stato socialista indipendente. Viene dichiarato illegale in Spagna nel marzo del 2003 e considerato una vera e propria orga-
Quadro generale
Organizzazione decimata
La fine dell’Eta è la diretta conseguenza della fortissima pressione delle autorità spagnole e francesi e delle operazioni di polizia congiunte che negli ultimi dieci anni hanno letteralmente decimato i vertici dell’organizzazione armata. Anche il 2011, nonostante la tregua, è stato un anno segnato da molti arresti eccellenti. In marzo il vicepremier e ministro degli Interni spagnolo Alfredo Perez Rubalcaba aveva dichiarato che la fine dell’Eta era più vicina dopo l’arresto di 4 membri di un commando del gruppo armato, Otazua, considerato il più importante e, secondo Rubalcaba, “tutto ciò che ormai rimane dell’Eta”. Nell’aprile del 2011 un nuovo colpo della guardia civile spagnola ha portato alla scoperta, nella Provincia di Guipúzcoa, del più grande deposito per la fabbricazione di esplosivi mai trovato in Spagna: oltre una tonnellata e mezza di materiale.
Arnaldo Otegi
(6 Luglio 1958)
Una commissione per il cessate il fuoco
L’organizzazione separatista basca Eta ha annunciato di volersi impegnare a cooperare con una commissione internazionale di verifica del cessate il fuoco decretato a gennaio, e si è appellata ai Governi di Parigi e Madrid affinché riconoscano tale organismo. In un comunicato pubblicato dal giornale basco Gara, l’Eta ha definito un “passo importante nel processo di risoluzione del conflitto” la creazione di tale commissione che è composta di cinque esperti internazionali di conflitti politici: Ram Manikkalingam, direttore del Gruppo di Consiglieri per il Dialogo (Dag) di Amsterdam, che ha operato in processi di pace in tutto il mondo e che della commissione è il Presidente; Ronnie Kasrils, del Sud Africa, i britannici Raymond Kendall e Chris Maccabe e il tenente generale Satish Nambiar, India.
nizzazione terroristica dagli Stati Uniti. È il giudice della Audiencia Nacional, Baltazar Garzón a mettere fuori legge il partito basco Batasuna sequestrandone i beni e impedendone l’azione politica. Non solo. Dopo la messa al bando di Batasuna, Garzón comincia una battaglia durissima contro le formazioni della ‘sinistra abertzale, l’insieme dei partiti e delle associazioni indipendentiste basche accusate di avere legami con l’organizzazione separatista. Il primo omicidio dell’Eta risale al 1968, quando venne uccisa la guardia civile José Pardines. Nel 1973 l’organizzazione separatista uccide, con una bomba piazzata sotto l’automobile, l’ammiraglio Luis Carrero Blanco, designato da Francisco Franco come suo successore. Da allora le vittime di attentati e omicidi mirati compiuti dall’Eta sono state oltre 800, 2.000 i feriti. Nel mirino dell’organizzazione armata obiettivi militari e civili oltre a singoli rappresentanti politici, sia del Pnv che del Partito Po-
I PROTAGONISTI
polare (Ppe) e del Partito Socialista (Psoe). Le modalità sempre le stesse: potenti ordigni fatti esplodere dopo una chiamata di avvertimento che però non ha evitato vittime civili. Ne muoiono 17 in un ristorante di Torrejon nel 1985, 21 in un centro commerciale di Barcellona nel 1987, 11 davanti alla sede della Guardia Civil di Saragozza nel 1991. Nel 1992 fallisce il primo tentativo di negoziato, ad Algeri, tra il Governo spagnolo e l’Eta. Un fallimento che porta ad arresti eccellenti da parte delle autorità spagnole e ad una nuova raffica di attentati e omicidi da parte dell’organizzazione separatista. Nel 1998 l’Eta dichiara la prima tregua della sua storia, durante il Governo di Aznar, che regge fino al dicembre del 1999. Il 23 marzo 2006, l’organizzazione dichiara un nuovo cessate il fuoco che apre la strada ad un tentativo, fallito, di dialogo con il Governo di Josè Luis Rodriguez Zapatero. La tregua si interrompe con un nuovo attentato. Il 30 dicembre del 2006 un furgone-bomba esplode in un parcheggio dell’aeroporto Barajas di Madrid. L’attentato rivendicato dall’Eta fa due morti e 19 feriti e Zapatero annuncia la fine del dialogo con l’Eta.
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È un politico basco e l’ex portavoce del partito indipendentista Batasuna. Negli anni ’90 ha iniziato la sua carriera politica affermandosi in breve tempo come una delle figure più importanti del panorama indipendentista e radicale basco e come leader di Batasuna, formazione dichiarata illegale nel 2003 perché considerata il braccio politico dell’Eta. Otegi è stato arrestato più volte dalle autorità spagnole: nel 2007 e poi nel 2009, assieme ad altri dirigenti della sinistra indipendentista su ordine del giudice Baltazar Garzon, con l’accusa di volere ricostituire Batasuna. Nel settembre del 2011 la Audiencia Nacional di Madrid lo ha condannato a 10 anni di carcere per “terrorismo” e “banda armata”. Il tribunale ha accolto in pieno le richieste della procura anche se il leader indipendentista non è accusato di alcun atto violento ma secondo la Audiencia Nacional avrebbe agito ‘’in piena connivenza e seguendo le direttive dell’Eta, nella quale era integrato, disegnando una strategia di crescita delle forze indipendentiste’.
Inoltre Cipro “Cresce la tensione sull’isola per le trivellazioni al largo e per la prossima Presidenza della Ue”.
Dal 4 marzo 1964 è presente a Cipro la missione Unficyp (United Nations Peacekeeping Force in Cyprus,) decisa dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per ristabilire la pace tra greci e turchi, in conflitto per il dominio dell’Isola, dopo la fine (nel 1960) della colonizzazione britannica. Nel 1974, torna la crisi militare: i greci tentano di annettere per via militare l’isola ad Atene, i turchi sbarcano e occupano il Nord. Il 16 agosto L’Onu ottiene il “cessare il fuoco” e crea un “muro”, una Buffer Zone (Linea Verde) lunga 180 Km e con ampiezza variabile da 20 metri a circa 7 Km. La linea Verde, sorvegliata dai Caschi Blu, attraversa anche la capitale Nicosia. Ad oggi, sono stati aperti solo alcuni varchi (check-point). Oggi, l’Isola è pacificata ma “separata”. Al Sud i greci della Repubblica di Cipro, Paese riconosciuto dalle diplomazie mondiali e divenuto nel 2004 membro dell’Ue. Al Nord, la Repubblica Turca di Cipro Nord (Rtcn) riconosciuta soltanto dalla Turchia. Cipro rimane sempre a rischio “tensione diplomatica/crisi militare”. Alle elezioni 2011 del nuovo Parlamento della Repubblica di Cipro (Sud), la comunità grecocipriota manda un chiaro messaggio di “allerta”. Il maggioritario partito comunista, Akel, è sconfitto dal partito di opposizione Adunata Democratica (Disy, di centro-destra). Secondo gli analisti, il voto ha voluto “punire” l’Akel (con il suo leader, attuale Capo dello Stato e di Governo, Demetris Christofias nonché l’alleato Partito Democratico, il Diko) anche per aver fatto troppe concessioni ai turco-ciprioti, durante i
negoziati per la “riunificazione”. A fine settembre 2011, la Turchia minaccia di congelare le relazioni con l’Ue se nel 2012 Bruxelles assegnerà alla Repubblica di Cipro la presidenza di turno dell’Unione. La Repubblica di Cipro, d’altra parte, continua a porre il veto, assieme alla Francia e alla Germania, all’ingresso della Turchia in Ue. È dal 1999 che la Turchia chiede l’adesione all’Europa. Anche le trivellazioni alla ricerca di gas naturale fanno scattare una nuova crisi: i greco-ciprioti autorizzano la compagnia Usa Noble Energy a esplorare il fondale al largo delle coste meridionali dell’Isola. Alle prime perforazioni del 20 settembre 2011, la reazione di Ankara: Erdogan e il premier della Repubblica Turca di Cipro Nord, Dervis Eroglu, firmano subito un accordo per prospezioni sottomarine congiunte. Il premier greco-cipriota Christofias, all’Assemblea Generale dell’Onu (New York, 22/09/2011): “L’iniziativa di Ankara è provocatoria e pone un pericolo reale, complicando il quadro più generale delle relazioni nella Regione”. Vista l’effettiva mobilitazione delle navi militari e degli F16 turchi nel Mediterraneo orientale, interviene la Grecia che si schiera a fianco della Repubblica di Cipro. Ankara sostiene che con le perforazioni condotte dal Governo di Cipro si blocca il processo di riunificazione dell’isola. Ma l’egemonia di Ankara non è indiscutibile. Già nella primavera del 2011, migliaia di cittadini turchi residenti a Cipro erano scesi in piazza e avevano scandito slogan e innalzato striscioni (“Giù le mani dai turco-ciprioti” e “Questo è il nostro Paese, lasciatelo governare a noi”) contro il primo Ministro turco Erdogan. Organizzati in una Piattaforma, circa 30 organismi fra sindacati e organizzazioni della società civile hanno chiesto e chiedono, in sintonia con analoghi gruppi greco-ciprioti, più diritti civili e sindacali e la riunificazione di Cipro, denunciando allo stesso tempo che la Turchia tende a limitare gravemente la capacità di autogoverno della Repubblica Turca di Cipro Nord.
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SPECIALE SVOLTA ISLAM
Le rivolte del mondo islamico Sono state la grande novità del 2011. Hanno cambiato un mondo, quello islamico, troppo spesso apparso agli osservatori occidentali monolitico e immutabile. Legenda ¢Paesi coinvolti in rivolte ¢Paesi in cui c’è movimento ¢Paesi in conflitto ¢Paesi ancora non coinvolti direttamente
Sono state paragonate alla caduta del Muro di Berlino (1989) per l’effetto che possono avere sugli equilibri del Pianeta e per la possibilità che – teoricamente – hanno di cambiare la vita di ogni singolo cittadino, di interi popoli. Le rivolte della “primavera Araba”, come è stata chiamata l’onda lunga di proteste che a partire dalla fine del 2010 ha investito il mondo islamico del Nord Africa
e della penisola Arabica, hanno tenuto il mondo con il fiato sospeso e fatto rinascere speranze. Sono caduti regimi – Egitto e Tunisia – che parevano indistruttibili. Sono scoppiate guerre durissime – in Libia – che hanno sparigliato le carte nell’intero Mediterraneo, mettendo in discussione alleanze e rapporti internazionali. Sono rimasti in sella dittatori – Siria,
Yemen su tutti – che hanno scelto di reprimere con fucilate e arresti le proteste popolari. In dodici mesi è accaduto di tutto. Quale sarà il risultato lo vedremo, forse, nei prossimi dodici mesi. Ma è fondamentale tentare di mettere in ordine dati e analisi. Per capire cosa accade così vicino a casa nostra.
I numeri delle proteste uMAROCCO
La nuova costituzione viene approvata con un referendum popolare.
01/07/2011
vTUNISIA
Si tengono le prime elezioni libere nel Paese dalla caduta di Ben Ali.
23/10/2011
wLIBIA
Il leader libico Muammar Gheddafi viene ucciso a Sirte.
20/10/2011
xEGITTO
Il 33% degli accessi a twitter durante le rivolte? Sono donne.
33%
yGIORDANIA 25% è la percentuale di popolazione che vive in condizioni di povertà.
25%
zSIRIA
Il numero dei morti nei primi sette mesi di proteste, iniziate a marzo 2011.
3.000
{ARABIA SAUDITA
Le donne cominciano una storica protesta contro il divieto di guidare l’auto.
17/06/2011
|BAHRAIN Inizia la protesta in Bahrain, il popolo è piazza per “il giorno della rabbia”.
14/02/2011
}E ARA
Il num eletto ha un di 1m
80
EMIRATI ABI
TUNISIA
EGITTO
SIRIA
DATI GENERALI
DATI GENERALI
DATI GENERALI
L’elezione della Costituente è fondamentale, con un vero e proprio braccio di ferro fra la componente più religiosa della politica e i laici che hanno guidato la rivolta contro Ben Alì. Paese di tradizione laica, la Tunisia rischia una nuova frattura proprio nell’assemblea che dovrebbe segnarne la rinascita.
Nome completo Repubblica Tunisina Capitale Tunisi Lingue Arabo, Berbero, Francese Popolazione 10.434.000
Nome completo Repubblica Araba d’Egitto Capitale Il Cairo Lingue Arabo, Francese, Inglese Popolazione 77.505.756 (2005)
Religione Islamica (90%), cristiana copta (9%), ebraica e altre (1%) Superficie 1.001.449 kmq Moneta Lira egiziana Pil pro capite 6.354 $ (2010)
Una carneficina che continua: sono 3mila i civili morti nelle rivolte siriane, iniziate sull’onda lunga di quelle degli altri Paesi dell’area. Il Presidente Assad ha mandato l’esercito e forte dell’assenza di un antagonista, in qualche modo riconosciuto sia all’interno che all’estero, soffoca le proteste senza riformare nulla.
Nome completo Repubblica Araba di Siria Capitale Damasco Lingue Arabo, siriano Popolazione 20.410.000 (2011)
Religione Islamica (90% sunniti 74%, drusi 13%), cristiana (10%), ebraica Superficie 185.180 kmq Moneta Lira siriana Pil pro capite 4.756 $ (2008)
MAROCCO
GIORDANIA
ARABIA SAUDITA
DATI GENERALI
DATI GENERALI
DATI GENERALI
La rivolta popolare, in febbraio 2011, è stata soffocata nel sangue, ma ha ottenuto che re Mohammed VI concedesse la riforma costituzionale votata con un referendum il 1° luglio. Varate anche riforme economiche per distribuire meglio la ricchezza. E la protesta si è per ora placata.
Nome completo Regno del Marocco Capitale Rabat Lingue Arabo, Berbero, Francese Popolazione 33.757.750
Religione Musulmana, Cristiana, Ebraica Superficie 446.550 kmq Moneta Dirham Pil pro capite 4.754 $
BAHRAIN
Situazione complessa: le manifestazioni sono state represse nel sangue, ma qualche concessione è arrivata, con i maggiori poteri dati dal re alla Camera bassa eletta democraticamente. Ma lo scontro è religioso, fra la minoranza sunnita che governa e la maggioranza sciita che non si sente rappresentata. DATI GENERALI Nome completo Regno del Bahrain Capitale Manama Lingue Arabo Popolazione 1.234.596
mero degli ori nel Paese, che na popolazione milione di abitanti.
0.000
Religione: Islamica (98%), ebraica (1%), cristiana (1%) Superficie 163.610 kmq Moneta Dinaro tunisino Pil pro capite 9.483 $ (2010)
Molto è cambiato in Egitto con la caduta di Mubarak, ma difficile dire se il Paese va davvero verso la democrazia. L’esercito gioca ancora un ruolo fondamentale e le proteste per le mancate riforme sono ricominciate. Fondamentale la posizione dei Fratelli Musulmani.
Religione Musulmana 80%, Cristiana 10%, Altre (fra cui Ebraismo) Superficie 665 kmq Moneta Dinaro del Bahrain Pil pro capite 34.661 $
Le proteste di gennaio hanno convinto re Abdallah II a concedere riforme economiche e ad abbassare il costo di carburante e cibo. Inoltre, ha annunciato elezioni municipali entro la fine del 2011, con i giovani – che sono la maggioranza della popolazione giordana – come protagonisti.
Nome completo Regno Hascemita di Giordania Capitale Amman Lingue Arabo Popolazione 5.323.00
Per la prima volta una donna viene eletta membro dell’Assemblea consultiva.
15/10/2011
YEMEM
La yemenita Tawakur Karmanuna vince il premio nobel per la pace.
07/10/2011
Nome completo Regno Arabo Saudita Capitale Riyad Lingue Arabo Popolazione 24.293.844
EMIRATI ARABI UNITI
OMAN
DATI GENERALI
DATI GENERALI
Per evitare guai, gli emiri hanno concesso un piccolo allargamento alla base elettorale , arrivando a 80mila elettori su un milione di abitanti. Hanno anche inviato truppe a reprimere le manifestazioni del vicino Bahrain, per evitare il contagio della protesta.
Nome completo Emirati Arabi Uniti Capitale Abu Dhabi Lingue Arabo Popolazione 4.621.399 Religione Musulmana (85%
LIBIA ~OMAN
Religione Musulmana sunniti 92%, Drusi, Cristiana 6% Superficie 92.300 kmq Moneta Dinaro giordano Pil pro capite 5.536 $
La vera novità l’hanno portata le donne, con la protesta per la patente. L’Arabia Saudita non ammette proteste e gli appelli di alcuni intellettuali al cambiamento sono caduti nel nulla. In compenso, la monarchia saudita ha aiutato Giordania, Yemen e Bahrain a reprime le manifestazioni.
sunnita, 15% sciita), Cristiana, 8%, Induismo, Buddismo Superficie 82.880 kmq Moneta Dirham degli Emirati Arabi Uniti Pil pro capite 38.893 $
La morte di Gheddafi ha concluso una guerra civile durata 8 mesi e costata migliaia di morti. La protesta iniziata nel febbraio 2011 è stata repressa dal Colonnello e l’esercito, a differenza di altri Paesi Nord africani, è rimasto fedele al Governo. Da questo, aggiunto a ragioni storiche di divisioni territoriali fra Cirenaica e Tripolitania e alla difficoltà di tenere unite le tribù, è nato il conflitto interno. Il Governo provvisorio ha promesso una nuova Costituzione e libere elezioni.
Religione Musulmana Superficie 2.248.000 Moneta Riyal Pil pro capite 23.813 $
Le proteste, arrivate anche qui, sono state represse nel sangue, ma sono riuscite ad ottenere il primo rimpasto di governo dopo 40anni. Salda la posizione di Qaboos bin Said, il sultano che regna dal 1970, le richieste della popolazione restano di natura economica.
Nome completo Sultanato dell’Oman Capitale Mascate Lingue Arabo Popolazione 2.622.198
YEMEN
Religione Musulmana Superficie 309.550 kmq Moneta Riyal Omani Pil pro capite 24.673 $
Il Presidente yemenita Ali Aballah Salh, al potere da decenni, ha scelto di reprimere ogni protesta. Risultato: forse 700 morti in pochi mesi. Ha anche promesso di ritirarsi e nuove elezioni, ma per ora nulla appare all’orizzonte. Resta il fatto che sembra aver perso l’appoggio delle tribù del Paese. Lo dimostra l’attentato che ha subito mentre pregava in una moschea. Ferito, ma sopravvissuto, ha continuato a reprimere duramente la protesta.
Speciale svolta Islam Amedeo Ricucci
UNHCR/H. Caux
Si narra che nel bel mezzo della presa della Bastiglia, il 14 luglio del 1789, Luigi XVI abbia chiesto ad uno dei sui maggiordomi: “Che succede? Una rivolta?”. “No, sire – fu la risposta. Questa non è una rivolta. È una rivoluzione”. È probabile che un dialogo del genere abbia avuto come protagonisti nei mesi scorsi anche Zine El Abidine Ben Ali, Hosni Mubarak, Muammar Gheddafi, Bashar el Assad, Ali Abdallah Saleh e molti altri raìs del mondo arabo, che hanno visto il loro potere pluridecennale messo in discussione da una contestazione di piazza senza precedenti, che ne ha già fatti cadere alcuni e ne sta facendo vacillare altri. Forse è ancora presto per capire se i sommovimenti in corso vadano annoverati fra le rivolte oppure fra le rivoluzioni. Si vedrà. Certo è che il mondo arabo, dall’Oceano Atlantico al Golfo Persico, dal Marocco all’Oman, è attraversato oggi da un vento nuovo, di libertà e di democrazia, che per la prima volta minaccia i regimi al potere. Ne hanno già fatto le spese il dittatore tunisino Zine El Abidine Ben Ali, costretto precipitosamente alla fuga in Arabia Saudita il 14 gennaio; il faraone egiziano Hosni Mubarak, dimissionato a furor di popolo l’11 febbraio e piazzato in custodia cautelare nella sua residenza di Sharm El Sheick; il padre-padrone dello Yemen Ali Abdallah Saleh, ferito durante un attacco armato al palazzo presidenziale e costretto a riparare in Arabia Saudita, da dove governa goffamente per procura; e infine il qaìd libico Muammar Gheddafi, il cui regime è colato a picco sotto i bombardamenti della Nato, intervenuta a sostegno di una rivolta armata interna. In bilico resta, per ora, il Presidente siriano Bashar El Assad, alle prese con una protesta di piazza che va avanti dal mese di marzo e che ha già visto più di 2mila morti. Sotto controllo appare la situazione in altri Paesi, dove il vento della rivolta è stato represso sul nascere oppure assorbito, con l’avvio di riforme. È stato così in Marocco, dove re Mohammed VI – spaventato dall’ampiezza delle rivolte nei Paesi fratelli - ha deciso di rinunciare ad una parte dei suoi poteri, a partire dalla “sacralità” che gli deriva per via della discendenza diretta dal profeta. A scegliere questa “terza via” – né fuga, cioè, né repressione brutale – è stato anche il re di Giordania, Abdallah; il quale, sia pur timidamente, ha avviato un calendario di riforme politiche ed economiche, che non ha placato gli umori della piazza ma ha evitato finora l’escalation della violenza. Difficile da decifrare resta infine la situazione in Algeria, dove in gennaio e febbraio le proteste di piazza hanno fatto decine di morti, salvo poi rientrare, soffocate dalle divisioni in seno ai partiti dell’opposizione e dalle manovre in stile bastone&carota del regime di Bouteflika. Non bisogna infine dimenticare, a dimostrazione della portata epocale degli avvenimenti in corso, che il vento della rivolta ha toccato anche diversi Paesi del Golfo, che da decenni vivevano nell’immobilismo politico
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Nel mondo islamico è tempo di cambiamento
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più totale. In Bahrein si è rivoltata la comunità sciita, che è maggioranza nel Paese ma è da sempre discriminata dalla minoranza sunnita al potere; e solo l’intervento armato dei vicini sauditi ha impedito che venisse rovesciato il regime degli Al Khalifa. Fuochi di rivolta anche in Oman, dove il sultano Qabus Bin Said ha dovuto procedere a ben tre rimpasti di Governo per placare la contestazione popolare. E non sono mancate le tensioni nemmeno in Arabia Saudita, dove la minoranza sciita è scesa più volte in piazza per reclamare riforme politiche, e dove in giugno le donne hanno stupito tutti, lanciando una campagna di disobbedienza civile contro il divieto che impedisce loro di guidare l’auto e per ottenere maggiori diritti. Insomma, un po’ dappertutto è caduto il muro del silenzio che per tanti anni aveva protetto i regimi al potere, consentendo il dilagare della corruzione, del nepotismo e del malaffare. “Gli arabi sono entrati in uno stato di rabbia e di frustrazione senza precedenti”, ha dovuto riconoscere in gennaio il segretario generale della Lega araba, Amr Mussa. E non a caso, nelle piazze di Tunisi come del Cairo, di Sanaa come di Manama, i manifestanti hanno spesso esposto cartelli in cui si chiedeva senza mezzi termini “Dégage” – ovverosia “smamma” – rivolti ovviamente ai loro presidenti-dittatori. Anche per questo è difficile che il vento di rivolta si plachi, sia dove non ha ancora raggiunto i suoi obiettivi, sia dove la restaurazione potrebbe prendere il sopravvento, come in Egitto e, forse, in Tunisia. Questa sollevazione generale ha comunque colto di sorpresa le cancellerie occidentali, che con quasi tutti i dittatori arabi facevano affari da decenni, negli ultimi tempi in cambio del loro (presunto) contributo nella lotta al terrorismo islamico. C’è addirittura chi ha provato, all’inizio, in Francia come in Italia, a difenderne qualcuno, soprattutto Ben Ali e Mubarak, proprio in nome di questo credito, dimenticandosi dei loro metodi di governo, autocratici e assai poco democratici. Né i Paesi europei sono riusciti ad elaborare un piano comune per affrontare ora la difficile transizione, che durerà anni e rischia di creare una preoccupante fascia di instabilità nell’area del Mediterraneo, che è pur sempre Mare Nostrum. Sbaglia però chi pensa che queste “primavere” arabe affondino le radici nella povertà e nel sottosviluppo. È semmai una questione di dignità, troppo a lungo calpestata da autocrati senza scrupolo che hanno anteposto gli interessi personali e della loro cricca a quello collettivo. Per dignità si è dato infatti fuoco il 17 dicembre 2010 il giovane Mohammed Bouazizi, il venditore ambulante di Sidi Bouzid, in Tunisia, il cui gesto disperato è stato all’origine di tutto. E in nome della dignità sono scesi in piazza i giovani tunisini, egiziani o siriani, stufi di non poter aspirare ad un futuro migliore e stanchi di dover solo sopportare, come i loro padri. In Paesi che hanno in media quasi il 50% della loro popolazione al di sotto dei 25 anni, il fattore demografico è stato la vera molla delle rivolte arabe. E ad esso si è saldato uno degli effetti più interessanti della globalizzazione: l’aspirazione alla libertà e alla democrazia. Si pensava, qui in occidente, che questi valori non fossero condivisibili dalle masse arabe. Che addirittura non fossero nel loro Dna. E invece, merito anche della rivoluzione tecnologica, della Rete partecipativa e dei social network, il vento del cambiamento che ha preso a soffiare da Rabat a Muscate ha portato proprio queste parole d’ordine, subito condivise. E poco importa se dietro la rivolta, in diversi Paesi, ci sia stato anche lo zampino dell’amministrazione Usa, che da qualche anno finanzia i net-attivisti del Maghreb e del Medio Oriente, per promuovere scenari pacifici di regime-change. In fondo, non c’è rivolta né rivoluzione che sia del tutto spontanea. Ma questo non ne sminuisce l’importanza, né l’autenticità. Più interessante è il fatto che al-Qaeda e gli islamisti siano stati spiazzati e tagliati fuori, un pò dappertutto. Fino a qualche anno fa, erano loro a convogliare le speranze di riscatto per il mondo arabo. Ora non più.
oggi – come dicono i giovani di Piazza Tahrir – la restaurazione e quindi la controrivoluzione. Il problema, infatti, è che la cacciata di Mubarak non si è tradotta in un cambio di regime. Sono i militari, suoi sodali da sempre, ad aver allontanato Mubarak, che era diventato ormai impresentabile; e sono i militari a tenere oggi in mano le redini del Paese, di cui vogliono pilotare la transizione verso il futuro, attraverso il Consiglio Supremo delle Forze Armate. Che l’Egitto vada perciò verso la democrazia è una scommessa ancora azzardata. La partita è ancora aperta. E le manifestazioni non più unitarie che ci sono state negli ultimi mesi ne sono la prova. Il 29 e 30 giugno violenti scontri hanno opposto in Piazza Tahrir le forze dell’ordine ai familiari delle vittime, che chiedono verità e giustizia. L’8 luglio sono tornati a manifestare i giovani, a decine di migliaia, per chiedere da un lato la fine dei processi militari per i cittadini arrestati fra gennaio e febbraio e dall’altro l’apertura dei processi ai personaggi più in vista del vecchio regime. Il 29 luglio, infine, in quello che doveva essere il Venerdì dell’Unità, c’è stata una prova di forza delle formazioni islamiste, Fratelli Musulmani in testa, che hanno occupato Piazza Tahrir a centinaia di migliaia, per sostenere i militari al potere e chiedere che la religione sia il punto di riferimento irrinunciabile del nuovo Egitto. Comunque vada a finire, è finita un’era. Quella di un Faraone che solo nel primo decennio del suo regno era riuscito ad avere una certa popolarità, in patria come nel resto del mondo arabo, perdendola poi in maniera progressiva ma inesorabile, per via del suo attaccamento al potere, morboso, e per i suoi troppi errori.
EGITTO
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Quando a metà gennaio Piazza Tahrir cominciò a riempirsi di giovani e meno giovani che chiedevano a voce alta le sue dimissioni, in molti – soprattutto fra i diplomatici e i commentatori occidentali - pensarono alla solita, ennesima fiammata di protesta, che prima o poi si sarebbe spenta. D’altra parte, era stato sempre così, nei 30 anni di potere di Hosni Mubarak, detto il Faraone. E non c’erano segnali chiari che questa volta sarebbe andata diversamente: anche se nella vicina Tunisia era stato appena cacciato, il Presidente Ben Ali; e anche se il malumore della piazza, soprattutto per la designazione (tacita ma ormai sicura) del figlio Gamal alla successione, aveva superato da tempo il livello di guardia. In realtà, tutto è precipitato nel giro di qualche settimana, man mano che è cresciuta la folla venuta a presidiare, giorno e notte, Piazza Tahrir e le principali piazze egiziane. Il 25 gennaio, Giornata della Collera, segna l’inizio delle ostilità, perché Mubarak ordina per la prima volta alla polizia di sparare sulla folla. Il 28 gennaio procede ad un rimpasto di Governo, che la piazza però boccia, giudicandolo un gesto insufficiente. Il 1° febbraio si dichiara disponibile a rinunciare ad un ennesimo mandato – sarebbe stato il sesto – ma dichiara di voler restare in carica fino alla fine di quello in corso, cioè fino a settembre del 2011. Il 10 febbraio annuncia libere elezioni entro l’anno ed il trasferimento dei suoi poteri al nuovo Vice-presidente, Omar Seuleiman. Infine, l’11 febbraio, parte con la famiglia per la sua residenza di Sharm el Sheick e qualche ora dopo il suo Vice, che parla a nome dei militari, ne annuncia le dimissioni. Il Faraone è costretto a mollare la presa. L’Egitto non è più suo. Raccontata così, sembra una passeggiata. E invece la Rivoluzione egiziana ha fatto, secondo l’ultimo bilancio, 864 morti fra i manifestanti e 6.460 feriti, più 26 poliziotti uccisi durante gli scontri di piazza di gennaio e febbraio. Un tributo pesante, che è poi cresciuto nei mesi successivi, per via del braccio di ferro che si è venuto a creare fra la piazza e le forze che guidano
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SIRIA
La Siria è un’eccezione, è stato il mantra del regime di Damasco fino alla vigilia delle proteste popolari senza precedenti scoppiate nel marzo 2011. Secondo la propaganda, gli uragani tunisino ed egiziano non avrebbero lambito le coste siriane, protette dal profondo attaccamento della popolazione al suo Presidente Bashar al-Asad. Che la Siria sia un’eccezione nel panorama delle altre rivolte arabe si è paradossalmente rivelato un fatto, dimostrato da inarrestabili manifestazioni pacifiche represse nel sangue da un sistema di potere che al suo interno non ha finora mostrato alcuna frattura. Lo scenario siriano è inoltre eccezionale perché a differenza degli altri – dalla Tunisia al Bahrain passando per Egitto e Yemen – gli attori regionali e internazionali preferiscono attendere, lasciando che la mattanza continui pressoché indisturbata. No alternativa? No rivoluzione. Il motivo principale di quest’atteggiamento è dovuto all’assenza di una alternativa politica che assicuri un post-Asad al riparo da pericolosi scossoni regionali. Il tassello siriano è quello centrale nel puzzle di una Regione dove da decenni si scontrano interessi cruciali per i giganti del mondo: Israele, Iran, Arabia Saudita, Turchia, Russia e Stati Uniti. Lo Stato ebraico, alleato di Washington, è da quarant’anni protetto di fatto a Est da una Siria che non ha alcuna intenzione di minacciare il pericoloso vicino. L’Arabia Saudita, anch’essa alleata degli Usa, è una monarchia del Golfo solo in apparenza esente dal malcontento sociale e politico serpeggiante in tutte le città arabe. Ormai spinge per la caduta del regime degli al-Asad ma teme fortemente una destabilizzazione su scala regionale. Lo scenario iracheno ha dimostrato a Riyad la concretezza di una minaccia dell’espansionismo iraniano nel Medio Oriente arabo. La Turchia, che condivide con Damasco oltre 800 km di frontiera abitata in prevalenza dall’irrequieta minoranza curda, condanna la repressione ma prende tempo. La Siria è alleata da
trent’anni dell’Iran. Nell’ambito di tale rapporto privilegiato, Damasco intrattiene rapporti eccellenti con il movimento armato sciita libanese Hezbollah. Presente in funzione anti-israeliana, la forza del Partito di Dio è dovuta al suo arsenale militare, rifornito regolarmente grazie al corridoio siriano. La Russia, ex Urss, non ha che la Siria come alleato in Medio Oriente: mantiene un porto militare a Latakia e strutture logistiche a Tortosa, continua da anni a vendere armi di seconda mano all’esercito di Damasco e a lungo termine mira a svolgere un ruolo di opposizione all’influenza statunitense nell’area. Uno, cento, mille oppositori. Dopo quasi mezzo secolo di assenza di una vera vita politica in Siria, con migliaia di prigionieri rinchiusi nelle carceri per reati di opinione e altri migliaia da decenni in esilio e sparsi tra Europa e Nordamerica, il fronte delle opposizioni in Siria muove i suoi primi veri passi solo da pochi mesi. Da fine aprile a settembre 2011, i dissidenti della generazione dei cinquantenni e sessantenni e membri dei partiti ideologici si sono riuniti in una decina di diversi congressi e riunioni svoltisi tra Istanbul, Cairo, Doha, Ankara, Parigi, Bruxelles e Damasco. Sul terreno, i giovani delle città e delle campagne reclamano – ciascuno con modalità diverse – “libertà”, “giustizia sociale”, uno “Stato laico” e “civile” (non religioso, né militare), un “sistema pluralistico” e “democratico”. Con oltre 3mila civili uccisi e decine di migliaia di scomparsi nelle segrete del regime (fine settembre 2011), in patria gli attivisti faticano a elaborare un progetto politico lucido e concreto per il post-Asad. All’estero, al di là dei proclami di unità, deve ancora emergere un unico vero attore in grado di rappresentare le istanze di chi da circa sette mesi invoca la caduta degli al-Asad.
nuncia riforme politiche, promette l’apertura di inchieste sulla morte dei dimostranti, annuncia che non si candiderà nelle elezioni presidenziali del 2014. Sono le ultime mosse disperate di un despota che sente franare il piedistallo. Il 14 gennaio Ben Ali decreta lo stato di emergenza (con il divieto di assembramento per più di tre persone), scioglie il Governo e assicura lo svolgimento di libere elezioni entro sei mesi. Ma ormai nessuno gli crede, Tunisi è in fiamme e il regime di sta sgretolando. Nella notte Ben Ali e i suoi familiari si imbarcano su un aereo e lasciano il Paese. Prima puntano su Malta, poi su Parigi, ma il Presidente francese Sarkozy nega l’atterraggio. Alla fine Ben Ali e il suo clan fanno rotta sull’Arabia Saudita. Intanto a Tunisi il primo Ministro Mohammed Gannouchi compare in televisione e annuncia di assumere l’incarico di Presidente ad interim. Tuttavia la Corte costituzionale stabilisce che il ruolo di Presidente spetta a Fouad Mebazaa, lo speaker del parlamento. Gannouchi resta in carica come primo Ministro mentre in tutta la Tunisia regna il caos tra violenze, saccheggi e regolamenti di conti fra i membri del regime appena caduto. Gannouchi forma un nuovo Governo, nel quale però sono presenti diversi membri del partito unico di Ben Ali, l’Rcd. In mancanza di veri segnali di discontinuità con il passato, la protesta dei tunisini non si placa.
TUNISIA
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La scintilla che innesca in Tunisia la cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini” è un episodio che il 17 dicembre 2010 avviene nella cittadina di Sidi Bouzid, situata nella Tunisia centro-occidentale, a 265 chilometri da Tunisi. Mohammed Bouazizi, un giovane di 26 si cosparge di benzina e si dà fuoco quando la polizia gli impedisce di vendere come ambulante frutta e verdura. Bouazizi è diplomato, ma non trova lavoro e il suo carretto di frutta e verdura è l’unica attività che sostiene lui e la sua famiglia, però è senza licenza. Il gesto di Bouazizi scatena la protesta nella Regione da parte dei giovani, frustarti per il carovita, la mancanza di lavoro e di prospettive. Il 22 dicembre un altro giovane di 22 anni si uccide appendendosi ai cavi dell’alta tensione a Sidi Bouzid. Il 24 dicembre un manifestante di 18 anni, Mohamed Amari, è ucciso dalla polizia durante una violenta manifestazione a Menzel Bouzaiene. La dura reazione del regime di Ben Ali rinfocola la protesta, che si estende a Tunisi, Sfax, Kairouan, Sousse e Ben Guerdane. Il 28 dicembre il Presidente Ben Ali rivolge alla nazione un messaggio televisivo nel quale accusa “l’uso della violenza nelle strade da parte di una minoranza di estremisti” e promette una risposta “ferma” da parte dello Stato. Ma la protesta si estende, raccoglie l’adesione dei sindacati e degli avvocati, che si radunano per manifestare davanti al palazzo di giustizia di Tunisi. Un avvocato denuncia di aver subito torture da parte della polizia. Intanto il 30 dicembre muore un altro giovane che era stato colpito dalla polizia durante una manifestazione. Mohammed Bouazizi muore in ospedale il 5 gennaio in seguito alle gravissime ustioni riportate nel suo tentativo di suicidio. Ormai la protesta dilaga in tutto il Paese e il regime risponde con una dura repressione, che provoca morti e feriti, senza contare i casi di tortura. Il 13 gennaio il Presidente Ben Ali compare nuovamente in televisione. Questa volta an-
Un’onda lunga dal Mediterraneo all’Arabia La rivolta dei Gelsomini, iniziata in Tunisia e proseguita in Egitto, ha lambito anche le coste della Penisola Arabica. A tremare, per il timore dell’effetto domino, sono i regnanti delle monarchie del Golfo, alleate di ferro degli Stati Uniti. E con esse vacillano anche il Marocco e la Giordania. Quello che accomuna questi Paesi, al di là delle caratteristiche che le manifestazioni hanno assunto in ciascuno di essi, sono le misure adottate dai sovrani per mettere a tacere le proteste, affinché non venisse intaccato lo status quo che garantisce loro ampi poteri in materia legislativa. Alla sete di democrazia, di elezioni libere, di riforme strutturali è stato risposto con la repressione da parte della polizia e con lo stanziamento di proventi della vendita del petrolio a favore della popolazione. Quel che più colpisce è la proposta, partita dai sauditi, di far entrare nel Consiglio di Cooperazione del Golfo anche la Giordania, che già ne fece richiesta nel 1996, e il Marocco, Paesi che con il Golfo Persico non hanno nulla a che vedere né dal punto di vista geografico né da quello economico. Accanto ai timori di perdere la leadership i sovrani, sunniti, temono l’ascesa regionale dell’Iran sciita e quindi una perdita di stabilità nella regione anche su base confessionale. E se Marocco e Giordania hanno avviato un processo di riforme pilotate dall’alto, che porterà probabilmente solo cambiamenti di facciata, le monarchie del Golfo hanno imposto una normalizzazione facendo ricorso alle proprie ingenti riserve finanziarie. In entrambi i casi le misure adottate non sono servite a portare stabilità interna e a placare il malcontento popolare.
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MAROCCO
GIORDANIA
Il Marocco, seppur abbia una monarchia che gode del sostegno popolare, vede al proprio interno seri problemi economici e una corruzione dilagante. I cable di Wikileaks relativi agli affari della famiglia reale hanno indebolito l’immagine del Paese, anche se la scarsa libertà di stampa ha impedito che le proteste dilagassero come è successo in Tunisia o in Egitto. Le manifestazioni sono cominciate il 20 febbraio, data da cui prende il nome il movimento dei giovani attivisti che si sono serviti dei social network per lanciare un appello contro la corruzione e organizzare proteste simultanee in tutto il Paese. Dura la repressione della polizia, il cui intervento ha ferito oltre 100 persone. Il Marocco occupa il 116° posto nell’indice di democratizzazione su 167 Paesi, ha un tasso di povertà molto alto, una disoccupazione al 10% e il Pil più basso di tutta l’area maghrebina con circa 4700 dollari annui. In questo contesto il Governo, per sedare le proteste, ha pensato di varare riforme economiche più che politiche: annunciati il raddoppio dei sussidi statali alle famiglie, l’aumento dei salari pubblici e la creazione di nuovi posti di lavoro. Il 17 giugno re Mohammed VI, al trono dal 1999, ha rivolto un discorso alla nazione in cui ha promesso riforme politiche e la modifica della Costituzione, votata poi con un referendum il 1° luglio. Contrariamente alle chiamate alle urne precedenti, dove la partecipazione è sempre stata piuttosto scarsa al referendum sulla nuova Costituzione, ha partecipato il 73% degli aventi diritto, che ha votato al 98%. Secondo le promesse dovrebbero essere indette elezioni libere e il premier scelto tra le fila del partito che ottiene la maggioranza dei voti. Attualmente l’articolo 19 della Costituzione garantisce al sovrano un’autorità quasi assoluta, tra cui c’è la scelta della nomina del primo Ministro in via discrezionale. Nonostante il risultato delle urne i giovani del movimento 20 febbraio sono tornati a scendere in piazza per chiedere nuove riforme democratiche, ritenendo quelle del re delle riforme più formali che strutturali. Con l’adozione della nuova Costituzione le elezioni previste per il 2012, sono state anticipate a novembre 2011. 15 gennaio 2011: giorno della collera in Giordania. Migliaia di persone in tutto il Paese hanno manifestato protestando contro la disoccupazione e il rincaro dei prezzi dei beni di prima necessità. In risposta il Governo ha abbassato il costo del carburante e del cibo, ma il malcontento generalizzato non ha placato la sete di riforme che anima la popolazione. La Giordania è un Paese dove il tasso di disoccupazione è al 15% e dove i problemi economici sono una costante che attanaglia la società e che non riesce a trovare una via d’uscita. Lo scopo delle proteste, i cui vertici vedono esponenti della Fratellanza Musulmana e dei sindacati, è il cambio di un sistema politico basato su una corruzione dilagante e sulla strutturazione del potere che non rappresenta quasi per niente il popolo. Re Abdallah II, per sedare gli animi e dare segnali di riforme ha sciolto il governo guidato da Samir Rifai e ha designato come nuovo primo Ministro Marouf al-Bakhit. Personaggio non nuovo sulla scena politica giordana in quanto già premier dal 2005 al 2007 e capo della Sicurezza Nazionale. Il principale compito del nuovo Governo è la creazione di un comitato responsabile che proponga riforme concrete alla legge elettorale, al fine di arrivare a un sistema che possa garantire a ogni componente politica e sociale una rappresentatività ottimale. Re Abdallah II ha inoltre annunciato che entro la fine del 2011 si terranno elezioni municipali che vedranno protagonisti i giovani, partner principali nella vita pubblica nonché maggioranza della società. Oggi la Giordania è una monarchia costituzionale, dove il re detiene il monopolio del potere e prende le decisioni politiche più importanti. Il suo potere di veto può essere superato dai due terzi di entrambe le camere che compongono il parlamento: i membri del senato sono interamente nominati dal re mentre quelli della camera sono eletti dal popolo. Nel 1989 è entrata in vigore una riforma che ha legalizzato i partiti politici e i movimenti di opposizione.
UNHCR/H. Caux
All’interno del variegato panorama della Primavera araba c’è anche il caso del Bahrain, dove il regime è stato salvato dall’intervento degli eserciti saudita ed emiratino. Con una popolazione poco inferiore agli 800mila abitanti e un reddito pro capite di circa 40mila dollari annui il Bahrain, centro bancario dell’intera regione del Golfo, occupa una posizione strategica poiché ospita il quartier generale della quinta flotta degli Stati Uniti, che è responsabile delle operazioni nel Mar Rosso e nel Mar Arabico. Le proteste popolari sono state duramente represse dalle forze di sicurezza, assassinando i manifestanti senza risparmiare donne, bambini e medici giunti in soccorso dei feriti. A febbraio 2011 l’inizio delle manifestazioni, alla cui base c’era la richiesta di riforme strutturali, quali l’introduzione di una costituzione formulata da un’assemblea eletta su base democratica. Principale richiesta della piazza è la fine del governo degli Al Khalifa, sunnita, in un Paese a maggioranza sciita (70% della popolazione), oltre alla scarcerazione di tutte le persone arrestate in passato per aver espresso il proprio dissenso. La fine degli Al Khalifa sarebbe una tragedia per i sauditi. La strada sopraelevata lunga 25 chilometri, costruita agli inizi degli anni ’80 da re Fahd, conduce in Arabia Saudita attraversando lo specchio di mare che separa i due Paesi e arriva proprio nella Regione dove sorgono i principali pozzi petroliferi dell’Arabia. In seguito alle rivolte il re ha varato una riforma che aumenta i poteri legislativi della Camera Bassa, eletta democraticamente, anche se la Camera Alta, di nomina regia, continuerà ad avere l’ultima parola in fatto di leggi. Le elezioni sono fissate per il 24 settembre 2011, ma al-Wefaq, partito di opposizione, ha annunciato il loro boicottaggio. Il vero rischio, però, è quello di una guerra confessionale, fomentata dalla maggioranza sciita che non si vede rappresentata dalla monarchia sunnita e rivendica quindi la propria identità religiosa a suo giudizio repressa e discriminata.
ARABIA SAUDITA
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Segnali di malcontento anche in Arabia Saudita. Gli attivisti sperano che il popolo si convinca che il sovrano non è intoccabile e che un cambiamento è possibile anche qui. A innescare le proteste l’appello di un centinaio di intellettuali diffuso via internet in cui veniva chiesta la creazione di una monarchia costituzionale, la separazione dei poteri e l’adozione di una costituzione. Anche la minoranza sciita ha organizzato manifestazioni per chiedere il rilascio dei prigionieri politici. Nonostante le proteste siano state vietate e molti siti internet oscurati, la gente chiede riforme politiche e sociali, rispetto dei diritti umani, posti di lavoro migliori, accesso alle elezioni. Il fronte più combattivo sembra, però, essere quello femminile. Le donne in Arabia Saudita, benché costituiscano la maggioranza dei laureati nel regno non possono studiare o lavorare senza l’autorizzazione di un tutore di sesso maschile, sia esso il marito, il padre, un fratello, i figli. Non possono guidare e non hanno diritto di voto. Il 23 aprile 2011 si sono svolte le elezioni amministrative, in risposta alle petizioni che chiedevano riforme politiche e sociali, e alcune donne si sono presentate per votare ma sono state rimandate a casa. Nonostante il Paese abbia ratificato nel 2000 la Convenzione per eliminare ogni forma discriminatoria nei riguardi delle donne, anche a questa tornata elettorale il Paese si è dichiarato non ancora pronto alla partecipazione femminile al voto, tantomeno all’elezione di una donna. A giugno si è svolta la più grande rivolta delle donne saudite dopo quella del 1990, quando una carovana di auto al femminile iniziò a girare attorno a Riyadh. 21 anni dopo, emblema della protesta è Manal al-Sharif, 32 anni, arrestata perché aveva caricato un video su youtube dove la si vedeva alla guida di un’auto. 3345 persone hanno firmato una petizione al re Abdullah e oltre 24mila hanno solidarizzato con Manal su facebook. A causa di queste proteste, e tenendo conto della stagione di rivolte che ha caratterizzato il mondo arabo e in particolare i Paesi vicini, la famiglia reale vede a rischio la stabilità del regno. Per questo motivo l’Arabia Saudita ha fornito sostegno economico e militare a Giordania, Yemen e Bahrain nella repressione delle manifestazioni.
BAHRAIN
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EMITATI ARABI UNITI
OMAN
Sette piccoli stati federati dal 1971, realtà unica nel mondo arabo, che si affacciano sul Golfo Persico. Su ciascuno di essi regna un emiro. La capitale è Abu Dhabi, che insieme alla più popolata Dubai costituisce la parte più ricca del Paese. Oltre l’80% della popolazione è formata da lavoratori stranieri impiegati negli stabilimenti petroliferi, che vivono in condizioni pessime. I ricchi, invece, sono esenti da ogni forma di tassazione e hanno lavori procurati loro dal Governo. Con la scadenza, agli inizi di febbraio 2011, del mandato del Consiglio Federale Nazionale un gruppo di 160 esponenti della società civile, intellettuale, ex funzionari di governo, professori universitari, ha presentato una petizione per la riforma del sistema elettorale, con la richiesta del suffragio universale. Nel Paese il Consiglio federale é composto da 40 membri, metà dei quali eletto direttamente dai sette emiri, e l’altra metà dallo 0,1% della popolazione che ha diritto di voto. Le ragioni della protesta non sono da ricondurre alla povertà, ai bassi salari, alla disoccupazione, problematiche sulle quali il Governo ha deciso di intervenire stanziando fondi per acquedotti ed energia elettrica nelle zone più povere del Paese. A protestare negli Emirati sono i gruppi più rappresentativi della società che da sempre non hanno accesso alla vita politica del Paese perché esclusi dalla famiglia reale. Il Governo, per prevenire disordini, ha deciso di ampliare la base dell’elettorato in vista delle elezioni di settembre 2011, concedendo il diritto di voto dapprima a 12mila persone rispetto alle iniziali 7mila per arrivare a 80mila elettori su una popolazione totale di circa un milione di abitanti. Ancora troppo poco per coloro che chiedono il suffragio universale. La reazione del Governo alle proteste è stata l’intimidazione mediante arresti mirati e misteriose sparizioni di avvocati, blogger, analisti, scrittori. Per mantenere lo status quo e non permettere che le manifestazioni dei Paesi vicini minacciassero la stabilità del regno, anche gli Emirati, così come l’Arabia Saudita, hanno inviato le proprie truppe a sostegno del Bahrain per sopprimere le proteste. Qaboos Bin Said è il sultano che regna in Oman da 41 anni, salito al potere grazie a un colpo di stato che rovesciò il regime di suo padre. Il sultanato occupa una posizione strategica, è il venticinquesimo Paese produttore di petrolio al mondo e il 40% del traffico petrolifero mondiale passa davanti alle sue coste. Il Pil pro capite si assesta sui 26mila dollari e la speranza di vita è di 76 anni. Ottime capacità di relazioni internazionali e sviluppo: tutti elementi che collocherebbero il Paese in una posizione di stabilità. Ciò nonostante l’onda lunga della primavera araba è arrivata anche in Oman. La città di Sohar, principale porto petrolifero e cuore dell’industria del Paese, è stata teatro delle prime manifestazioni, alle quali la polizia ha risposto con una dura repressione: morti e feriti il bilancio. Violenze che hanno innescato la miccia e hanno fatto arrivare la protesta fino alla capitale Muscat e a Salalah. Le richieste della gente erano comuni a quelle degli altri popoli del Medio Oriente e del Nord Africa: riforme politiche, lavoro, condizioni di vita migliori, lotta alla corruzione. Il sultano ha annunciato una serie di riforme tra cui l’aumento del 40% del salario minimo nel settore privato, la creazione di un ente per i consumatori, l’aumento delle borse di studio universitarie, la creazione di 50mila nuovi posti di lavoro nel settore pubblico e un sussidio mensile di circa 400dollari per i disoccupati. Sul fronte politico re Qaboos ha effettuato il primo grande rimpasto del Governo dal 1970, con la sostituzione di alcuni ministri chiave (economia, interno e industria). Esclusa dalle ragioni della protesta la destituzione del sultano. La popolazione rimane bendisposta nei suoi confronti, grazie anche all’apertura diplomatica verso l’Occidente, Usa in particolare, che ha fatto superare all’Oman la condizione di isolazionismo comune agli stati della Penisola Arabica. A differenza dei Paesi vicini, infine, in Oman sono assenti gli attriti di natura religiosa: la religione di stato è l’Islam sunnita, praticata da quasi il 90% della popolazione e non sono presenti comunità sciite.
Speciale svolta Islam Roberto Zichittella UNHCR/A. Duclos
Quanto ha pesato, nel successo delle rivoluzione arabe in Tunisia e in Egitto, il ruolo di social network come Facebook e Twitter? Ha davvero senso parlare di “Rivoluzione Facebook” per definire le rivolte che nello spazio di poche settimane hanno scalzato dal potere personaggi come Ben Ali e Mubarak? La sensazione è che si sia esagerato nell’enfatizzare il ruolo avuto dai social network. Indubbiamente Facebook, Twitter, gli sms, i blog, i filmati fatti girare su YouTube hanno aiutato a far circolare le informazioni e a mettere in comunicazione fra di loro i protagonisti della rivolta. Tuttavia, a Tunisi così come al Cairo, i regimi sono caduti soprattutto dopo giorni di piazze piene, di barricate, di scontri nelle strade e purtroppo dopo decine e decine di morti. Le rivoluzioni, insomma, sono state di carne, ossa e sangue. Come è sempre accaduto. Anche prima che ci fosse internet, fin dalla rivoluzione francese. Interessante, a questo proposito, l’analisi del politologo egiziano Adel Rifaat, riportata dall’Osservatorio geostrategico dell’informazione. “La rivoluzione”, dice Rifaat, “è prima di tutto il desiderio di libertà del popolo egiziano e la perdita totale di legittimità da parte del potere di Mubarak. Facebook e Twitter hanno giocato un ruolo importante per accendere la miccia, poi si è aggiunta Al Jazeera una volta che la fiamma era stata accesa. Ma non si devono confondere gli attori politici e i mezzi tecnici a loro disposizione. Se milioni di cuori e di spiriti non fossero stati pronti a rispondere all’appello dei giovani blogger, non sarebbe accaduto nulla”. È più o meno la stessa opinione di Mark Zuckerberg, l’ideatore di Facebook. Nel maggio del 2011, durante l’e-G8 Forum di Parigi, Zuckerberg ha dichiarato: “Credo che Facebook non sia stato necessario e neppure sufficiente per far accadere questi fatti. È vero che col tempo internet aiuta le persone a comunicare sempre di più in un modo più efficace, ma se non ci fosse stato Facebook ci sarebbe stato anche qualcos’altro”. La conferma che internet non basta lo si è visto in Bahrein, un Paese del Golfo ad alto tasso di penetrazione di internet, simile a quello dei Paesi occidentali. Nonostante questo, qui la rivolta si è spenta. Invece resta inquieto lo Yemen, dove metà della popolazione è analfabeta e gli accessi a internet sono molto limitati.
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Che bello Facebook, ma è stata la piazza a battere i dittatori
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IRAN YEMEN BARHAIN ARABIA SAUDITA IRAQ SIRIA GIORDANIA EGITTO LIBIA TUNISIA ALGERIA MAROCCO
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Si calcola che ormai un arabo su cinque utilizzi Internet. Secondo dati che risalgono al 2008, gli utenti di Internet sono 13milioni in Egitto, 3milioni in Tunisia, 3milioni e mezzo in Siria, 380mila in Yemen. 300mila in Siria. Uno dei meriti principali riconosciuti a internet e ai sociali network è quello di far girare le informazioni e le immagini, aggirando divieti e censure. In questo modo le vecchie tradizionali strutture di potere vengono messe in pericolo. I regimi non hanno più il monopolio dell’informazione, che ormai si diffonde al di fuori dei media tradizionali. Ma questo aspetto presenta anche un pericolo non trascurabile. Infatti i social network, i cui utenti si presentano con foto e profili, possono anche rappresentare per i regimi una miniera di informazioni. In Tunisia, ad esempio, il Presidente Ben Ali, ha preferito non interrompere gli accessi alla rete proprio per potere recuperare il maggior numero possibile di informazioni personali sugli internauti. Il regime poliziesco di Ben Ali aveva messo a punto anche un sistema per accedere alle password degli utenti, ma alcune società come Facebook, Google e Yahoo hanno preso contromisure a difesa degli internauti. Fino a che punto la capacità di utilizzo della rete da parte dei giovani arabi è stata un fenomeno davvero spontaneo? Questa capacità non è nata dal nulla. Già nel dicembre del 2008 si svolse a New York un incontro internazionale di cyberattivisti patrocinato da Google, Facebook e Twitter. Durante l’incontro si discusse delle tecniche per avviare una mobilitazione civile attraverso i social network. Fra gli ascoltatori più attenti di quel seminario c’erano Ahmed Salah (uno dei fondatori del movimento egiziano di piazza Tahrir) e Slim Amamou, un blogger tunisino che, dopo la caduta di Ben Ali, è stato nominato sottosegretario per la Gioventù e lo Sport. Altri incontri di blogger e di cyberattivisti si svolsero al Cairo nel 2009 e a Budapest nel 2010. Nell’organizzazione di questi incontri, oltre a Google, hanno giocato un ruolo chiave Alec Ross e Jared Cohen. Ross, dopo aver lavorato nello staff della campagna presidenziale di Barack Obama, è stato nominato consigliere per l’innovazione del segretario di Stato Hillary Clinton. Cohen, sempre al Dipartimento di Stato, ha avuto l’incarico di tenere i contatti con i cyberattivisti, soprattutto quelli del Medio Oriente. In questi incontri internazionali la diplomazia americana ha allacciato un legame con alcuni di coloro che, alcuni mesi dopo, sarebbero stati fra i protagonisti della “primavera araba”. Anche se non si può certo concludere che l’input alle rivolte sia arrivato dagli Stati Uniti, vero è che in questo caso gli Stati Uniti hanno esercitato quello che potremo definire uno smart power, cioè la versione tecnologica del soft power, ovvero la capacità, da parte di uno Stato, di esercitare la sua influenza con mezzi pacifici e non con la forza. Nel gennaio del 2011 il contatto fra il Governo degli Stati Uniti e le piazze in fermento di Tunisi e del Cairo è stato stabilito con un tweet apparso su Twitter, siglato @StateDept, scritto in lingua araba. Il messaggio diceva: “Vogliamo unirci alle vostre conversazioni”. Il messaggio era partito dalla stanza di Alec Ross, al Dipartimento di Stato. Su Twitter, Ross è seguito da oltre 363mila persone.
UNHCR/H. Caux
Speciale svolta Islam Amedeo Ricucci
Probabilmente non si saprà mai se le dimissioni alla fine di settembre 2011 del direttore di Al Jazeera, Wadah Khanfar, erano veramente previste da tempo come ha dichiarato lui – e rappresentano perciò solo un normale avvicendamento – oppure se sono il frutto di una clamorosa rottura politica con il suo editore, l’emiro del Qatar, o peggio ancora un complotto ordito ai suoi danni per le posizioni assunte in merito alle “primavere” arabe del 2011. Di certo, con l’uscita di scena di Khanfar si chiude un ciclo storico, che era iniziato in Afghanistan nel 2001 ed ha consentito ad Al Jazzera di diventare la prima e la più influente fra le tv satellitari pan-arabe, l’unica in grado di sfidare (e spesso anche di battere) le regine conclamate dell’all news all’occidentale, vale a dire Cnn, Bbc e Fox. Quando nacque, in realtà, nel 1996, Al Jazeera venne snobbata come una qualunque Cenerentola. Si pensò infatti ad una delle solite idee stravaganti degli sceicchi arabi. E quasi nessuno fece caso a questa tv satellitare che trasmetteva in arabo da Doha, nel Golfo Persico. Oggi, invece, dopo i successi maturati sul campo, Al Jazeera è diventata un punto di riferimento imprescindibile per il sistema dell’informazione globale: sua è stata infatti la copertura più completa nelle aree di crisi che preoccupano i governi occidentali – Iraq, Palestina, Afpak – e sua è stata la cronaca – i maligni hanno detto: la regia – delle primavere democratiche che hanno infiammano nell’ultimo anno i Paesi arabi del Maghreb e del Medio Oriente. Gongola, in ogni caso, l’emiro del Qatar che finanzia a piene mani l’emittente, Hamad Bin Kalifa al Thani. Il quale si sentirà finalmente risarcito delle critiche feroci cui Al Jazeera è stata sottoposta nei suoi primi anni di vita. “È il megafono di Osama bin Laden”, tuonarono per anni gli americani, quando venivano mandate in
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Al Jazeera, voce araba che sfida i grandi network
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onda i messaggi dello sceicco del terrore. E gli stessi governi arabi l’hanno spesso messa al bando, oscurandola oppure chiudendone – senza farsi tanti scrupoli – gli uffici di corrispondenza, per evitare critiche al loro operato. Ma Al Jazeera ha continuato a crescere, contribuendo non poco alla crescita di un’opinione pubblica araba non più succube dei regimi al potere e in grado inoltre di confrontarsi alla pari con l’Occidente. Da questo punto di vista si può dire che Al Jazeera abbia ricreato via etere quello spazio pan-arabista che era crollato sotto il peso delle ripetute sconfitte militari ad opera di Israele e non aveva più leader della statura di Nasser in grado di alimentarlo. È stato comunque un percorso in salita, quello di Al Jazeera. Nel 2003 le monarchie del Golfo hanno provato a inventarsi una tv concorrente e molto più conservatrice sul piano dei contenuti, Al Arabiya, che avrebbe dovuto contrastarne l’egemonia. Ma i risultati sono stati al di sotto delle aspettative, anche perché Al Jazeera ha lanciato nel 2006 un nuovo canale in inglese, Al Jazeera International, che è riuscito a sfondare anche nei Paesi occidentali, estendendo a 360 gradi, dagli Stati Uniti al Sud-Est asiatico il proprio bacino di utenti. D’altra parte, il suo look appare impeccabile. In studio giornalisti e commentatori dal profilo altisonante, molto british, e sul campo reporter dalla provata esperienza. Un mix che dovrebbe garantire ascolti e credibilità. E così è stato, quasi sempre. Sì, perché sulle primavere arabe sbocciate nel 2011 Al Jazeera ha in realtà fomentato più che raccontato, adottando per di più due pesi e due misure: telecamere accese sui rivoltosi del Maghreb, spente invece su quelli del Golfo Persico, vicini di casa. Si vede che l’editore di riferimento, l’emiro, si è sentito in pericolo e ha reagito di conseguenza. Il re è nudo, insomma, anche in Qatar.
Speciale svolta Islam Federica Ramacci
Dai primi mesi del 2011, quando le rivolte in Nord Africa e nel Medio Oriente sono esplose con un micidiale effetto domino, poco si è parlato della posizione della Repubblica islamica dell’Iran nei confronti dei popoli in rivolta. Parlare di Iran non è mai cosa facile, l’isolamento imposto dall’esterno dalla comunità internazionale e la rigidità interna del regime teocratico, ne fanno un Paese quasi misterioso e difficilmente decifrabile. Eppure, nonostante le pochissime notizie diffuse dai media e l’apparente freddezza del gigante persiano nei confronti delle rivolte, l’Iran è rimasto tutt’altro che immobile davanti alla cosiddetta “primavera araba”. E non poteva essere altrimenti se si considera che molto prima dei cittadini di Tunisia ed Egitto, sono stati gli iraniani a scendere in piazza in massa nel 2009 contro il regime, in occasione della rielezione dell’attuale presidente Mahmoud Ahmadinejad. In una recente intervista a The Guardian, la scrittrice iraniana Azar Nafisi - autrice di ‘Leggere Lolita a Teheran’ e figlia di Nezhat Nafisi, la prima donna ad essere eletta al parlamento del Paese - ha dichiarato che il popolo iraniano “ha illuminato la strada dell’Egitto e della Tunisia”. “Molti dissidenti, soprattutto donne – ha spiegato la scrittrice al giornale britannico – hanno guardato a Teheran durante le rivolte del 2009 e oggi la primavera araba influenza l’Iran perché intimorisce il regime che sta per questo diventando più autoritario e violento”. L’esperienza dell’Onda Verde è costata al popolo iraniano decine di morti, torture e arresti sommari. Una repressione tanto violenta da lasciare sbigottiti gli stessi iraniani, che hanno scelto, a differenza di quanto accaduto in Egitto o in Tunisia, di interrompere la protesta. Interrompere, ma non rinunciare. Così, se è vero che quello iraniano e stato il primo popolo, e con due anni di anticipo, a ribellarsi alla dittatura, è vero anche che oggi il rischio per gli Ayatollah è che quanto accaduto in Tunisia e in Egitto e in altri Paesi della Regione, finisca col dare nuova vita al cosiddetto Movimento verde. Ed è per questo che l’Iran è stato tra i primi Paesi a schierarsi apertamente con le popolazioni in rivolta nel Nord Africa, cercando però di far passare la propria interpretazione di quanto sta accadendo nella Regione: non dei movimenti laici in lotta contro un tiranno, ma un “risveglio islamico”. Durante il suo sermone del 4 febbraio 2011, mentre in Egitto imperversava la rivolta contro il Presidente Hosni Mubarak, la Guida Suprema iraniana, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha dichiarato che il risveglio degli egiziani “è avvenuto in una moschea”. “Gli eventi di oggi nel Nord Africa, Egitto, Tuni-
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In Iran tutti in piazza per sostenere le rivolte
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sia e in altri Paesi – ha detto Khamenei – hanno un significato speciale per la nazione iraniana. Questo è lo stesso risveglio islamico che ha portato alla vittoria della grande rivoluzione della nazione iraniana”. Il tentativo di paragonare quanto stava accadendo nella Regione alla Rivoluzione iraniana del 1979, che ha instaurato nel Paese il regime islamico degli ayatollah, non solo è stata criticata dagli stessi egiziani – i Fratelli musulmani hanno chiarito che in Egitto era in corso una “rivoluzione popolare” e non una “rivolta islamica” – ma non ha convinto nemmeno gli iraniani. Pochi giorni dopo il sermone di Khamenei infatti, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi i due leader dell’opposizione iraniana costretti agli arresti domiciliari dopo le rivolte dell’Onda Verde, hanno chiamato gli iraniani a scendere in piazza per sostenere le popolazioni di Tunisia ed Egitto. Hanno risposto in migliaia. Circa 30mila iraniani hanno riempito la piazza principale di Teheran, Piazza Azadi (che in farsi significa “libertà”), la più grande di Teheran certo, ma anche un ponte simbolico con i ribelli di Piazza Tahrir in Egitto. E stavolta gli iraniani sono scesi in piazza urlando slogan non solo contro il Presidente Mahmoud Ahmadinejad, ma contro l’intero sistema teocratico degli ayatollah, al grido di “morte a Khamenei”. La repressione del Governo iraniano è stata puntuale: due morti e circa 1.500 arrestati. I conservatori del governo di Teheran hanno addirittura chiesto, senza ottenerla, la condanna a morte per i due leader dell’opposizione. A distanza di alcuni mesi, nel settembre del 2011 è ancora Khamenei a parlare delle rivolte nella Regione. Questa volta in occasione della Conferenza Internazionale sul Risveglio islamico e le rivolte popolari in Medio Oriente e Nord Africa, organizzata dall’Iran proprio per discutere del potenziale effetto della “primavera araba” sugli equilibri economici e politici della Regione. Nel suo discorso di inaugurazione della Conferenza, l’Ayatollah Khamenei si è rivolto ai Paesi che sono riusciti a cacciare i loro governi dittatoriali esortandoli a “non fidarsi mai” degli Stati Uniti e dei loro alleati europei, nonostante il sostegno che hanno dato alle rivolte, e ad impedirgli di intervenire nei loro affari interni. I popoli protagonisti delle primavere arabe “si attengano ai principi della religione islamica senza lasciarsi imporre modelli esterni nei nuovi ordinamenti” ha detto Khamenei rivolto a più di 500 esperti di studi islamici arrivati a Teheran da 80 Paesi diversi. “Crediate in Dio e otterrete la vittoria” ha detto ancora la Guida Suprema iraniana invitando a “scrivere i principi del Corano” nei nuovi ordinamenti che nasceranno dalle ceneri delle rivolte arabe. È evidente che la Repubblica islamica dell’Iran sta cercando di cavalcare la “primavera araba” e gli sconvolgimenti geopolitici che sta portando con sé, sfruttando le rivolte per aumentare la propria influenza nella regione e indebolire invece il ruolo degli Stati Uniti e dei suoi alleati. La partita più importante è quella che stanno giocando proprio l’Iran sciita e l’Arabia Saudita, sunnita, alleato di ferro degli Stati Uniti. L’onda d’urto delle rivolte è infatti arrivata anche nella penisola Arabica dove la repressione in Paesi come lo Yemen e il Bahrein è stata durissima. L’evoluzione delle rivolte e i prossimi appuntamenti elettorali nei Paesi coinvolti dalla “primavera araba” saranno fondamentali per capire il futuro politico dell’intera Regione. Come fondamentale sarà l’evoluzione delle rivolte in Siria, il più importante alleato arabo dell’Iran. Gli iraniani che hanno partecipato all’Onda Verde continuano a ripeterlo: “Aspettiamo di vedere cosa succede in Siria. Se il regime di Damasco cadrà allora anche quello iraniano sarà più debole. E il movimento verde è pronto a ripartire”.
Speciale svolta Islam Giulia Bondi
Le fotografie scattate dal cellulare sono di Ilyess
Ilyess e Naoufel hanno 30 anni, Fauzi 29, Zouhaier soltanto 17. Vengono dalla Tunisia e sono sbarcati sull’isola di Lampedusa prima del 5 aprile 2011, data fatidica che il Governo italiano ha fissato come spartiacque tra chi avrebbe avuto diritto a sei mesi di “Permesso di soggiorno per motivi umanitari” e chi no. Nei primi 8 mesi dell’anno, oltre 50mila persone hanno raggiunto l’Italia e almeno 1.600 (dati Unhcr) sono morte in mare. Ragazzi tunisini in cerca di un futuro migliore o forse simpatizzanti del vecchio regime. Profughi in fuga dalla Libia in guerra. Giovani già in viaggio da molti mesi attraverso il deserto per scappare dall’Etiopia, dall’Eritrea, dalla Somalia. Nel massimo affollamento dell’isola di Lampedusa molti di loro hanno dormito per strada, qualcuno ha sfondato le porte delle case, altri sono stati accolti, nutriti e vestiti da associazioni e famiglie. Come denunciano le organizzazioni internazionali (Unhcr, Iom) e le associazioni attive sull’isola (Arci, Melting pot), chi è passato al Centro di primo soccorso e accoglienza (Cpsa) di Lampedusa ha trovato condizioni di sovraffollamento e negazione di diritti. Per i giovani sbarcati prima del 5 aprile, una volta lasciata l’isola siciliana ci sono stati giorni o settimane nelle basi militari o tendopoli dette “Cai” (Centri di accoglienza e identificazione). Dai centri, la maggioranza ha cercato di raggiungere la Francia, con in tasca permessi temporanei che, oltre a non dare il diritto a lavorare, non sempre sono bastati a varcare il confine, a causa di ulteriori condizioni imposte dal Governo francese. Passare la frontiera di Ventimiglia è stata per molti un’esperienza rocambolesca. Alla fine dell’estate 2011, Ilyess e Naoufel vivono in Francia, Fauzi e Zouahier in Italia. Il loro futuro dipende dalla possibilità, incerta, di ottenere un permesso di soggiorno definitivo. Il loro presente è molto diverso dalle aspettative che avevano prima di partire. ILYESS Ilyess è minuto, con un bel sorriso. Viene da Zarzis, ha 30 anni e a Lampedusa ha incontrato Anna, un’infermiera in pensione che lo ha rifornito di abiti puliti, di una cartina dell’Italia e una busta con un po’ di soldi. L’obiettivo di Ilyess è la banlieue di Parigi, dove suo fratello vive da quattro anni, senza documenti, e fa consegne per una pizzeria. Lì spera di poter fare il suo lavoro, decoratore d’interni, come spiega mostrando le foto sul cellulare: pavimenti in ceramica e pareti dipinte si alternano ai primi piani della sua ragazza. “Puoi stare come sans papier anche per qualche anno – sostiene – basta non dare nell’occhio, non fare mai niente contro la legge, neanche prendere la metro senza biglietto”. C’è chi si paga il viaggio dalla Tunisia vendendo la macchina o la moto, lui
217
Quattro piccole storie per un mondo che cambia
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i mille euro li ha risparmiati in quattro o cinque mesi di lavoro. Ha deciso di fare harraga, il viaggio da clandestino, perché a Zarzis non vedeva prospettive. Ci aveva già provato, ma la polizia costiera tunisina li aveva fermati quasi subito e lo scafista gli aveva reso metà dei soldi. Dopo Lampedusa, il 3 aprile Ilyess è trasferito alla tendopoli di Trapani, nell’area dell’ex aeroporto militare di Kinisia, dove alloggia per 13 giorni con altri 750 giovani. Qui, scatta foto col cellulare documentando le condizioni di vita, gli scioperi della fame, una rivolta con tentata fuga. Ritirato il permesso temporaneo, raggiunge prima Messina, poi Roma, Modena, Milano e Ventimiglia, dove riuscirà a passare il confine dopo ore di attesa, grazie anche alla presenza di una troupe di giornalisti. “Davanti a loro”, spiega Ilyess, “la Polizia di frontiera non ha potuto rimandarmi indietro”. Ilyess ha con sé un po’ di denaro e ha un indirizzo a Parigi. Due condizioni che, assieme al permesso del Governo italiano, gli danno diritto a entrare in Francia, anche se non di lavorare. Arriva a Parigi, ma si sente solo e deluso. A Zarzis aveva una casetta con il portico e il giardino, i suoi hanno un po’ di terra con qualche olivo, il pomeriggio portava in spiaggia il nipotino di pochi anni. Ora ha un posto letto nella banlieue, il lavoro da imbianchino in nero quando lo chiamano, ogni tanto i soldi per una birra. Gli altri giorni, su Facebook, inganna il tempo giocando a Cityville e postando video dei rapper maghrebini. NAOUFEL Naoufel, 32 anni, ha i capelli in ordine e il look da dandy anche dopo una settimana sulle panchine del parchetto di Lampedusa. A Djerba faceva il fotografo e in un mese scattava 8mila dinari di foto ricordo per i turisti. A lui andava il 10%, il resto al “padrone”. Per la Tunisia, 800 dinari (400 euro) è un buono stipendio, ma di lasciarsi sfruttare Naoufel non ne voleva più sapere. “Da quando Ben Ali, 23 anni fa, ha portato il capitalismo in Tunisia – conclude – qualcuno lo ha saputo sfruttare molto bene”. Sulla possibilità di cambiamento nel suo Paese, Naoufel è scettico. A fine 2010 aveva già tentato di “bruciare il confine”, arrivando in Turchia e poi in Grecia, da dove, dopo Capodanno, avrebbe dovuto imbarcarsi per l’Italia con un documento falso. Invece, il 13 gennaio, la polizia greca lo ferma, e Naoufel si ritrova su un aereo per Tunisi. Nella capitale tunisina, sotto coprifuoco, è il giorno dell’ultimo discorso di Ben Ali. Il rimpatrio è rimandato a cinque giorni dopo, quando il Presidente e la sua famiglia sono già fuggiti. Naoufel passa un mese a Tunisi, poi s’imbarca di nuovo con altri 280, di cui 4 donne. Dopo 24 ore di mare, Lampedusa. “Molti dei ragazzi che sono qui finiranno per tornarsene indietro”, sostiene Naoufel: “Non per i rimpatri, ma perché non hanno un mestiere e non hanno contatti”. Lui, invece, sostiene di avere un progetto redditizio, di import-export tra Parigi, Tunisi e Dakar. Qualche mese dopo, però, la situazione è diversa. A Marsiglia, Naoufel non ha con sé l’attrezzatura da fotografo, che era di proprietà dell’hotel, e l’unica altra offerta d’impiego, come fornaio, la rifiuta perché gli orari sono troppo pesanti. I mesi da disoccupato, dipendente dalla generosità e dall’amicizia di alcuni connazionali, sono durissimi, e Naoufel passa le giornate davanti al mare tra sigarette e caffè. Non gli è passata la voglia di fare progetti, e sta offrendo una consulenza a un altro giovane tunisino che vorrebbe aprire un ristorante a Djerba. Solo a metà estate trova un posto come idraulico, naturalmente in nero. Per il permesso di soggiorno, il suo datore di lavoro gli
suggerisce di “andare in Italia e comprarsi una finta assunzione da una ditta”. Ha sentito dire che è facilissimo.
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FAUZI “Nessuno di noi vive ancora una vita normale”, esordisce Fauzi, 29 anni, mentre sorseggia il caffè al tavolino di un bar. Lui a Lampedusa è sbarcato il 14 marzo e per 9 giorni ha vissuto al Cpsa, in stanza con altre 8 persone. Gli manca Tunisi, dove è nato “nel quartiere più bello”, dice mostrando foto in cui al mare si alternano i monti. Faceva il meccanico, ma “con uno stipendio da 300 dinari non puoi costruirti nulla”. Il Paese, dice, sta cambiando ma è ancora corrotto, “per fare qualunque cosa devi pagare”, sostiene. Lui ha deciso di partire all’improvviso, ha venduto la bici e il computer per pagare il biglietto. Dopo i giorni di Lampedusa, il 23 marzo lo trasferiscono alla tendopoli di Bari, dalla quale fugge subito, con altri sessanta: “Un’anziana ci ha dato indicazioni per la stazione”. Poi raggiunge Sassuolo, vicino Modena, e dopo 22 giorni in una casa abbandonata, insieme allo zio e ad altri due giovani, un carabiniere gentile gli dà l’indirizzo del centro stranieri, dove “con il numero che mi avevano dato a Bari”, lo aiutano a presentare domanda di soggiorno. Ora Fauzi
ha un alloggio comunale, frequenta un corso e va in giro a portare il suo curriculum. Le giornate si consumano nell’attesa, a volte passa ore sdraiato sul letto a guardare il soffitto. La madre, a Tunisi, è malata, ma non può andare a trovarla finché non ha un permesso regolare. Intanto ha trovato un’associazione di volontariato e andrà a dare una mano per tenere pulito un parco. ZOUHAIER Zouhaier, 17 anni, a Lampedusa è stato accolto all’ex base militare Loran, assieme ad alcune gio-
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vani donne e altri minorenni. A guardare le loro facce, jeans, berretti e giacche a vento, i ragazzini non hanno quasi nulla di diverso dai loro coetanei della Magliana, del Pilastro o di Scampia. D’accordo con la mamma, Zouhaier ha deciso di lasciare la scuola a metà anno e partire, ma studiare gli piaceva, e vorrebbe tanto continuare. Magari arrivare fino all’università, diventare un informatico. Della Tunisia, gli mancano i pomeriggi all’internet point e non vede l’ora di riaprire Facebook, con la foto del profilo che lo ritrae in kimono e cintura rossa. Di due cose Zouhaier è orgoglioso: la sua città, Sidi Bouzid, “dove tutto ha avuto inizio”, e le sue medaglie agli ultimi campionati nazionali giovanili di taekwondo. A differenza degli altri ragazzi, lui non fuma, resta in disparte, parla a voce bassa. La legge italiana vieta di rimpatriare i minorenni e prevede un percorso di integrazione, al termine del quale potranno ricevere il permesso di soggiorno. Dal 2009, però, la legge 94 (il cosiddetto “pacchetto sicurezza”), che ha introdotto il reato di immigrazione clandestina, ha portato un paradosso: “Molti ragazzi – denuncia Save the Children – arrivano in Italia a 17 anni, non fanno in tempo a concludere il percorso, e a 18 diventano automaticamente clandestini”. Altri minori (dal 15% al 60%, a seconda delle Regioni) scappano dalle comunità, restano soli e senza documenti e spesso finiscono preda di criminali e sfruttatori. Nel caso di Zouhaier, fortunatamente, la faccia da bravo ragazzo non mente. Nella casa-famiglia cui è stato assegnato, in provincia di Frosinone, ha imparato subito un ottimo italiano, segue un corso di formazione professionale e non vede l’ora di iniziare la scuola. Pazienza se in Tunisia era vicino alla maturità e qui gli toccherà prima prendere la licenza media.
Stefano Manca
Nazioni Unite I Caschi Blu Raffaele Crocco
Qui sotto una Cartina che fotografa lo stato delle Missioni Onu sparse nel nostro pianeta.
Come ogni anno, in queste pagine riassumiamo i dati delle missioni che le Nazioni Unite hanno in corso per garantire tregue o vegliare la pace in alcuni punti del pianeta. Parlarne è fondamentale per capire le difficoltà nelle decisioni, le coerenze o le contraddizioni dell’Assemblea dell’Onu. Gestire la pace è davvero complesso per una organizzazione che si scontra con interessi nazionali, di area e ideologici spesso divergenti, con meccanismi di decisione, poi, assolutamente poco democratici. Ricordiamolo: a decidere l’invio di truppe – sempre assemblate sulla base delle disponibilità di singole nazioni o di organizzazioni e alleanze transnazionali, come la Nato o l’Unione Europea per intenderci – è il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che si riunisce regolarmente e che valuta le aree di crisi. L’Assemblea ratifica queste scelte. I dati sotto riportati sono relativi alle missioni in corso al 30 giugno 2011, ultimo censimento effettuato. Troverete il nome delle varie missioni, potrete sapere quanto personale militare o civile vi è impegnato e quali sono i costi. Già, i costi. Scoprirete che tentare di mantenere la pace, di garantire la sicurezza, ha costi enormi, maggiori che fare la guerra. Questi soldi l’Onu dovrebbe averli dagli Stati che formano l’Assemblea: non è così. O almeno non è sempre così. Molti Paesi pagano in ritardo o non pagano mai, creando situazioni di “ricatto politico” difficili da gestire. Non sempre, poi, le missioni di pace dei caschi Blu dell’Onu funzionano. Negli anni, vi sono state violente polemiche sul ruolo e sul comportamento dei soldati mandati a garantire sicurezza. Vi sono stati episodi di violenza brutale, di soprusi, uniti a momenti in cui le “regole di ingaggio” – cioè l’insieme di norme che le Nazioni Unite varano per regolamentare il comportamento dei militari in caso di conflitto – hanno impedito interventi efficaci per impedire eccidi. La vita non è facile per le missioni di pace, spesso strette fra critiche feroci e scarsa operatività. Tant’è. Ci sono. E con tutti i loro difetti, per molti essere umani sono l’unica speranza per sopravvivere.
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Onu, quanto costano queste missioni di Pace
Operazioni di pace delle Nazioni Unite Operazioni di pace in corso Missione
Data inizio
Truppe
Osservatori militari
Polizia
Civili internazionali
UNTSO
mag-48
0
151
0
93
UNMOGIP
gen-49
0
42
0
25
UNFICYP
mar-64
862
0
62
39
UNDOF
giu-74
1.043
0
0
42
UNIFIL
mar-78
12.131
17
0
349
MINURSO
apr-91
27
196
4
98
UNMIK
giu-99
0
8
6
143
UNMIL
set-03
7.786
132
1.319
470
UNOCI
apr-04
8.596
185
1.271
399
MINUSTAH
giu-04
8.718
0
3.543
566
UNMIS
mar-05
9.250
465
637
970
UNMIT
ago-06
0
33
1.208
393
UNAMID
lug-07
17.755
255
4.937
1.139
19.315**
240**
6.432**
1.579**
MONUSCO
lug-10
17.009
715
1.246
981
UNISFA
giu-11
-
-
-
-
83.177
2.199
14.233
5.707
Totale: Missione
Civili locali
Volontari ONU
Personale totale
Vittime
Bilancio (US$)
UNTSO
130
0
374
50
66,704,800 (2010-11)
UNMOGIP
52
0
119
11
16,146,000 (2010-11)
UNFICYP
111
0
1.074
181
57.437.100
UNDOF
103
0
1.188
43
49.561.700
UNIFIL
653
0
13.150
293
542.785.700
MINURSO
162
18
505
15
63.199.600
UNMIK
233
28
418
54
44.914.800
UNMIL
987
237
10.931
160
540.889.200
UNOCI
740
185
11.376
77
485.839.600
MINUSTAH
1.329
237
14.393
164
810.305.000
UNMIS
2.812
331
14.465
60
947.076.900
UNMIT
884
173
2.691
10
196.744.800
2.883
486
27.405
90
1.708.748.400
3.455**
548**
-
2.827
616
23.394
26
1.425.948.400
UNISFA
-
-
-
-
-
Totale:
13.856
2.311
121.483
1.234
circa 7.60 mld US$*
UNAMID MONUSCO
* I bilanci includono le specifiche per il conto di sostegno per le operazioni di pace e per la Base Logistica ONU a Brindisi (Italia). (http://www.un.org/News/ Press/docs/2009/ga10841.doc.htm) ** Personale autorizzato NOTA: UNTSO e UNMOGIP sono finanziate dal bilancio biennale regolare delle Nazioni Unite. I costi per le Nazioni Unite delle altre operazioni in corso sono finanziati dai loro rispettivi bilanci sulla base di valutazioni legalmente vincolanti per tutti gli stati membri. Per queste missioni i dati di bilancio si riferiscono solitamente al periodo di un anno (07/11 - 06/12), salvo indicazione diversa. Per informazioni sulle missioni politiche vedi documento DPI/2166/Rev.74 consultabile su internet: http://www.un.org/Depts/dpko/dpko/ppbm.pdf. Documento preparato dalla sezione Pace e Sicurezza del Dipartimento d’Informazione Pubblica delle Nazioni Unite, in collaborazione con il Dipartimento per le Operazioni di Peacekeeping, la Divisione Finanziaria per il Peacekeeping dell’Ufficio di Pianificazione del Programma, di Bilancio e Contabilità, e del Dipartimento per gli Affari Politici - DPI/1634/Rev.122 - luglio 2011
United Nations Truce Supervision Organization (Organizzazione delle Nazioni Untie per la Supervisione della Tregua)
2) UNMOGIP
United Nations Military Observer Group in India and Pakistan (Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite in India e Pakistan)
3) UNFICYP
United Nations Peacekeeping Force in Cyprus (Forza delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace a Cipro)
4) UNDOF
United Nations Disengagement Observer Force (Osservatori delle Nazioni Unite per il ritiro)
5) UNIFIL
United Nations Interim Force in Lebanon (Forza temopranea delle Nazioni Unite in Libano)
6) MINURSO
United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara (Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale)
7) UNMIK
United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (Missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione temporanea del Kosovo
8) UNMIL
United Nations Mission in Liberia (Missione delle Nazioni Unite in Liberia)
9) UNOCI
United Nations Operation in Côte d’Ivoire (Operazione delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio)
10) MINUSTAH
United Nations Stabilization Mission in Haiti (Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti)
11) UNMIS
United Nations Mission in the Sudan (Missione delle Nazioni Unite in Sudan)
12) UNMIT
United Nations Mission Integrated Mission in Timor-Leste (Missione Integrata delle Nazioni Unite a Timor-Est)
13) UNAMID
African Union and United Nations Hybrid Operation in Darfur (Operazione Ibrida dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite in Darfur)
14) MONUSCO
United Nations Organiation Stabilization Mission in the Democratic Republica of the Congo (Missione di Stabilizzazione della Repubblica Democratica del Congo)
15) UNISFA
United Nations Interim Security Force for Abyei (Missione per la Sicurezza nell’area di Abyei, Sud Sudan)
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1) UNTSO
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Vittime di guerra/3 Federico Fossi UNHCR/E. Hockstein
UNHCR/E. Hockstein
Nel 2011 è accaduto quello che in molti temevano: sul Corno d’Africa si è abbattuta la scure della più grave carestia che ha investito l’Africa orientale negli ultimi 60 anni. Oltre 12milioni di persone necessitano di aiuti alimentari per sopravvivere. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati António Guterres, dopo aver visitato la Regione, ha affermato: “In questi anni ho visitato molti campi profughi nel mondo, ma non ho mai visto persone arrivarci in tali disperate condizioni” e ha definito la situazione “una tragedia umana di proporzioni inimmaginabili”. La Somalia è il Paese che maggiormente subisce gli effetti devastanti della carestia, dichiarata ufficialmente in sei regioni del Paese, effetti che vanno ad aggravare la condizione ormai già cronicamente precaria di un Paese dilaniato da oltre vent’anni di guerre e conflitti e caratterizzato da un clima di instabilità politica e di insicurezza generalizzata per la popolazione civile. L’esodo che ne consegue è imponente. Al settembre 2011 si stima fossero oltre 900mila i rifugiati somali riversatisi nei quattro Paesi confinanti: Kenya, Etiopia, Yemen e Gibuti, un terzo dei quali costretto alla fuga nel corso di quest’ultimo anno. Ad essi bisogna aggiungere quasi un milione e mezzo di sfollati all’interno della Somalia, persone disperate che si muovono in un contesto di estremo pericolo e povertà alla ricerca di cibo, acqua, di cure mediche, di un rifugio e sicurezza. In totale quindi circa un terzo della popolazione somala è stato costretto ad abbandonare la propria casa. I bambini costituiscono il gruppo più numeroso all’interno della popolazione di rifugiati: in Etiopia essi rappresentano circa l’80% dei rifugiati ospitati nei quattro campi della regione Sud-occidentale di Dollo Ado. La situazione è ancora più preoccupante nel campo di Kobe, dove i minori rappresentano quasi l’89% degli abitanti, con un tasso di malnutrizione che rasenta il 20%. Più della metà dei rifugiati che quest’anno hanno raggiunto dalla Somalia il complesso di campi di Dadaab, in Kenya, sono bambini. Dadaab è il più popoloso insediamento di rifugiati al mondo. Sorto venti anni fa per dare rifugio a 90mila persone, oggi Dadaab ospita un numero di rifugiati circa cinque volte superiore, il 60% dei quali sotto i 18 anni. In coordinamento con le altre agenzie e con le autorità dei Paesi confinanti, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) è impegnato in prima linea nell’enorme sforzo umanitario che una crisi di tale portata richiede. La priorità per l’Agenzia delle Nazioni Unite è quella di salvare vite umane fra una popolazione di rifugiati gravemente indebolita. I rifugiati somali che arrivano in Kenya e Etiopia hanno spesso camminato a piedi per settimane prima di raggiungere la frontiera senza più acqua e cibo e spesso hanno visto morire durante la lunga marcia membri della propria famiglia, specialmente bambini e anziani. Garantire che i nuovi arrivati ricevano cibo, acqua e cure mediche è cruciale e costituisce una sfida contro il tempo.
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Corno d’Africa: la fuga dei bambini per sopravvivere alla carestia
Vittime di guerra/4 Luciano Scalettari UNHCR/R. Gangale
Niente pioggia, niente cibo Incubo carestia nel Corno d’Africa
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La crisi è esplosa, improvvisa, a luglio 2011, quando i mezzi d’informazione se ne sono accorti. Da chi opera in Corno d’Africa, peraltro, era stata invece ampiamente prevista: se per due anni salta la stagione delle piogge è inevitabile che la carestia arrivi. Ma per molto tempo gli allarmi non sono arrivati sui media. E quando ne hanno scritto, le cifre erano già da immane tragedia: 10milioni di persone colpite, poi 11, e 12, e ancora oltre 13. Ad ogni
aggiornamento la dimensione della catastrofe è cresciuta mese dopo mese. Specie riguardo ai bambini: 2,3milioni sono stati vittima di malnutrizione acuta o grave. La Somalia centro-meridionale è stata certamente il Paese più colpito dalla carestia, ma anche il Sud dell’Etiopia, il Kenya orientale e settentrionale, e in forma meno grave Gibuti, l’Eritrea, qualche area della Tanzania e del Sud Sudan. La fascia di popolazione che ne ha
Totale Popolazione Rifugiati Somali
903.199 persone
203.259
pagato il prezzo più alto è quella che viveva di agricoltura e allevamento, soprattutto nelle aree rurali. Per tutta la seconda metà del 2011 l’esodo di profughi è continuato, la gran parte dei quali in uscita dalla Somalia. Un esodo costante. Gli operatori umanitari riferivano di un movimento costante di migliaia di famiglie, gruppi, colonne di persone. Un flusso di rifugiati e sfollati che nell’autunno del 2011 aveva ormai formato il campo profughi più grande del mondo a Dadaab, in Kenya; un altro grande agglomerato in Etiopia meridionale, a Dollo Ado; e ancora, intorno a Mogadiscio 226 piccoli campi profughi sparsi tutto intorno alla capitale, e nel co-
famiglie
Ripartizione geografica
Kenia Ultimo aggiornamento - 09/10/2011
Totale Popolazione Rifugiati Somali
Arrivi rifugiati Somali 2011
515.795 persone
94.971
persone
34.242
famiglie 163.767 famiglie
Yemen Ultimo aggiornamento - 09/10/2011
Etiopia Ultimo aggiornamento - 09/10/2011
196.990
persone
n/a famiglie
famiglie
172.255 persone
39.492famiglie
Djibouti Ultimo aggiornamento - 09/10/2011 Fonte dei dati: http://data.unhcr.org/horn-of-africa/regional.php?id=65
19.390
persone
18.159
n/a
89.258
persone
21.336
famiglie
4.454
persone
persone
n/a famiglie
famiglie
n/a
siddetto “corridoio di Afgoi”, a Sud-Ovest della città, con circa 400mila sfollati interni. Ma se da un lato i somali hanno reso visibile l’emergenza con il loro esodo di massa, le agenzie umanitarie Onu e le Ong hanno a lungo lanciato appelli anche per la “fame che non si vede”, cioè quella delle popolazioni dell’Ogaden somalo in Etiopia, o di molte Regioni rurali del Kenya. «La gente fuori dai campi profughi», aveva sottolineato Suzanna Tkalec, operatrice del CRS (Catholic Relief Service), «è nelle stesse identiche situazioni di quella che c’è all’interno. Solo che quella che sta all’esterno non ha lo status di rifugiata, non ha lasciato il proprio Paese. Si deve pensare anche a tutta quella popolazione – e sono tanti, parliamo di 4milioni di kenyani e 4,8milioni di etiopi – che vive la stessa condizione disperata ma non si vede, perché non è raggruppata in campi». Il Wfp, l’agenzia delle Nazioni Unite per la sicurezza alimentare, ad agosto 2011 aveva dichiarato lo stato di emergenza, elevando la crisi al massimo livello d’azione e avvertendo che c’era forte preoccupazione per la vita di 720mila bambini, se non si fosse intervenuti in fretta. I dati di questa crisi sono crudi: almeno il 20% delle famiglie di tutte le zone interessate ha dovuto far fronte a grave carenza di cibo. La malnutrizione acuta ha investito più del 30% delle persone, con due morti al giorno ogni 10mila individui. Secondo la Fao (l’agenzia Onu per lo sviluppo agricolo nei Paesi poveri), la crisi alimentare nel Corno d’Africa si sarebbe protratta ben oltre la fine del 2011, dato che i primi raccolti si sarebbero avuti solo nei primi mesi del 2012 e per di più molti contadini avevano abbandonato campi e villaggi in cerca di salvezza. Quanto alla Somalia, il Paese di gran lunga più colpito, fin da subito il vescovo di Gibuti Giorgio Bertin, aveva parlato di «immane tragedia», perché, aveva aggiunto, «è un cocktail micidiale quello che l’ha messa in ginocchio: la carestia più i vent’anni di guerra. La terribile crisi umanitaria non è dovuta soltanto alle due stagioni di piogge che sono saltate. La mancanza d’ac-
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UNHCR/B. Bannon
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qua va a colpire una popolazione già duramente provata e resa vulnerabile dal conflitto». «La crisi somala», aveva concluso il presule, «non può essere affrontata solo dal punto di vista umanitario, ma anche attraverso una decisa azione politica che porti alla pacificazione del Paese». Per fuggire alla fame i somali sono fuggiti in tre direzioni. Molti hanno cercato di raggiungere Mogadiscio, nella speranza di trovare aiuti delle organizzazioni internazionali. Molti altri si sono diretti oltre confine, verso il Kenya e l’Etiopia. Molteplici le cause di questa crisi. La scarsità di piogge è stata quella principale: ha colpito direttamente l’80% della popolazione. Tuttavia, la contingente causa climatica è stata solo il colpo di grazia che ha colpito popolazioni da tempo vulnerabili, dimenticate ed escluse dagli investimenti dell’economia globale. Nel Corno d’Africa il problema della scarsità di cibo è strutturale, e la produzione agricola è sempre stata di sussistenza, anche in condizioni climatiche normali. Inoltre, negli ultimi decenni la crescita di produzione agricola non ha compensato nemmeno l’incremento della popolazione. In molte aree del Corno d’Africa vi è stato un disincentivo ad accrescere la produzione, a causa della concorrenza di prodotti importati a prezzi estremamente bassi, in quanto eccedenze di produzione di altri Paesi. E nel corso del 2011 l’aumento dei prezzi, già pesantemente influenzato dalla incipiente carestia, ha subito ulteriori impennate a causa delle speculazioni internazionali. Altri fattori che hanno fortemente contribuito ad acuire l’emergenza sono stati la dipendenza dall’esterno per l’approvvigionamento di cibo; la svalutazione delle monete locali; l’aumento del prezzo del petrolio; i fenomeni della deforestazione e la desertificazione (il 60% del Corno d’Africa è classificato come arido); infine, il riscaldamento globale del pianeta che ha reso più frequenti le siccità. Tutti fattori che hanno portato a un’allarmante scarsità di scorte alimentari e di risorse idriche, nonché a un peggioramento generale delle condizioni igienico-sanitarie. In un contesto tanto deteriorato, i numerosi fo-
colai di guerra e violenza, in Sud Sudan, Eritrea, ma soprattutto Somalia, accompagnati dall’instabilità politiche e dalle operazioni militari, hanno reso gli interventi umanitari internazionali a favore delle vittime difficili e pericolosi. A volte impossibili.
UNHCR/ S. Modola
Vittime di guerra/5 Stefano Fantino UNHCR/S. Modola
Rifugiati, apolidi, sfollati. Nomi da appuntare sull’agenda internazionale, perché oggi, a sessanta anni esatti da quel 1951, anno della Convenzione Onu di Ginevra sullo status di rifugiato, numeri e statistiche non fanno che ribadire la pregnanza e la rilevanza della questione all’interno dello scacchiere mondiale; con il rischio, già presente ma con possibilità di acuirsi, di vederne gravare il peso in gran parte sui Paesi in via di sviluppo. Lo conferma il lavoro dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) che nella pubblicazione “Global Trends 2010” parla chiaramente di questa sproporzione: i quattro quinti dei rifugiati del mondo vengono accolti da Paesi in via di sviluppo. Un profondo squilibrio nel supporto internazionale che dimostra come la vastissima popolazione dei profughi sia a carico dei Paesi più poveri del mondo, non solo in dati percentuali ma anche in termini assoluti e, questo è un dato allarmante, in relazione ai sistemi economici dei Paesi presi in considerazione. Non sorprende, dunque, la dichiarazione dell’Unhcr António Guterres, sintesi di un trend ormai consolidato: «Assistiamo al giorno d’oggi a preoccupanti rappresentazioni dei rifugiati e del paradigma della protezione internazionale. La paura – continua Guterres – di una presunta invasione di rifugiati nei Paesi industrializzati è fortemente esagerata o erroneamente associata alle questioni migratorie. Nel frattempo, sono i Paesi più poveri a farsi carico dell’onere». L’anno passato l’Unhcr, che ha focalizzato i propri sforzi anche su crisi umanitarie causate da disastri naturali (Benin, Haiti, Repubblica Dominicana, Pakistan, Filippine, Uganda), stima in 43,7milioni
UNHCR/B. Bannon
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Il dramma dei profughi cresce Sono 44milioni nel mondo
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le persone costrette alla fuga, il dato più alto registrato dalle Nazioni Unite negli ultimi 15 anni, includendo in questo allarmante numero più di 15milioni di rifugiati (circa dieci milioni sotto mandato Unhcr e quasi 5 sotto competenza della Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi), 27milioni di sfollati internamente a un Paese a causa di conflitti e quasi un milione di richiedenti asilo, in gran parte (un quinto del totale) nel solo Sudafrica. Domanda quest’ultima, inoltrata da più di 15 mila bambini, soprattutto somali e afgani, non accompagnati o separati dai genitori. Un dato preoccupante che traslato nel breve-medio periodo, gli ultimi cinque anni, vede salire il numero a oltre 72mila richieste. Il dato dei rifugiati sotto mandato Unhcr è cresciuto dell’1,5% nell’ultimo anno (circa 153 mila persone), in gran parte per il deterioramento della situazione somala che ha indotta quasi 120mila persone a lasciare il Paese alla ricerca di rifugio in Etiopia, Kenya e Yemen. Un dato comunque controbilanciato da quello dei ritorni volontari: 197mila circa, soprattutto verso l’Afghanistan. Il dato più interessante è quello della distribuzione dei rifugiati, o meglio della loro concentrazione nei Paesi sottosviluppati: secondo l’Unhcr i quattro quinti della popolazione profuga, piu di 8,5milioni, si trovano in paesi in via di sviluppo; e sono i 49 Paesi meno sviluppati ad avere sulle spalle quasi 2 milioni di persone. In parte questo è dovuto a una tendenza netta, che contrariamente al pensare comune, vede la maggior parte dei profughi cercare una sistemazione nella Regione di origine piuttosto che altrove. Alla fine del 2010 sono 3 su 4 i rifugiati che risiedono in un Paese confinante, e il Paese dal quale si
UNHCR/R. Nuri
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UNHCR/E. Hockstein
genera il flusso migratorio è (dal 76% al 92%) è all’interno della stessa Regione geografica. L’impatto economico del fenomeno grava essenzialmente su Paesi in via di sviluppo. Per ogni dollaro americano pro capite del Prodotto interno lordo il Pakistan si fa carico di 710 rifugiati. Repubblica Democratica del Congo e Kenya seguono con 475 e 247. Per arrivare a una Paese sviluppato si deve giungere fino alla Germania, un alto numero di profughi (quasi 600mila), ma un impatto molto risicato rispetto all’economia, accoglie 17 rifugiati per ogni dollaro pro capite di Pil, rispetto ai Paesi sopra citati. E anche come numero totale, ad esempio in Europa, i profughi si sono ridotti: -2,5% rispetto allo scorso anno (circa 40mila persone) per un totale di 1,6milioni. Una cifra, per capirsi, inferiore agli 1,9milioni di rifugiati ospitati dal Pakistan da solo, in gran parte afgani, che rendono il Paese ancora una volta il capoclassica tra i Paesi ospiti. Un novero di nomi che negli ultimi anni è rimasto pressoché invariato, dato che anche nel 2010, sono sempre gli stessi i dieci Paesi con maggior rifugiati: dopo il Pakistan, Iran e Siria. Il prolungarsi di molti conflitti internazionali odierni incide sulla persistenza della condizione di rifugiato per milioni di persone in tutto il mondo. Nel 2010, tra tutti i rifugiati sotto mandato Unhcr, 7,2milioni di persone in una situazione di esilio protratto, ovvero sono bloccati in tale situazione da più di cinque anni. Ad accelerare il cambiamento del loro status dovrebbe essere la comunità internazionale, essendo per loro impossibile il rimpatrio volontario, viste la situazione di conflitto nel loro Paese natale o anche di negazione di diritti
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e servizi essenziali. La soluzione alternativa è duplice: l’attuazione di un meccanismo di integrazione nel Paese ospite, oppure lo stabilirsi in un altro Paese. La prima via è sicuramente la più complessa e implica un lavoro importante del Paese di rifugio. La dislocazione in un Paese terzo rimane una pratica in ascesa, invece, sebbene sempre minoritaria rispetto al ritorno volontario in patria. Nel 2010 sono stati 747mila i profughi che necessitano di un posto per ristabilirsi, con una disponibilità di 80mila posti. Anche se alcuni Paesi accettano i programmi di integrazione per la prima volta: tra essi Paraguay, Romania e anche Giappone. E in più l’Unhcr nel 2010 è riuscita a ristabilire nel Medio Oriente circa 50mila rifugiati iracheni e ha oltrepassato quota 40mila il numero dei rifugiati del Bhutan che hanno avviato una nuova vita altrove. Numeri che danno la cifra del rapporto negativo tra richieste e rifugiati e numero di sistemazioni, alle quali bisogna aggiungere i tantissimi casi che non rientrano esplicitamente nella definizione di “profugo”. Come quelli degli apolidi e quelli degli sfollati interni. Sui primi, persone che non possiedono la nazionalità, è difficile elaborare statistiche a causa de differenze sulle definizioni e nella metodologia che impediscono un rilevamento attendibile del fenomeno che risulta comunque in crescita dal 2004. Per quanto riguarda gli sfollati interni (Idp) nel 2010 sono rientrati, più di 2.9milioni, nelle proprie aree d’origine in Paesi come Pakistan, Repubblica Democratica del Congo, Uganda e Kyrgyzstan. Ma il numero totale, più di 27,5milioni rimane spaventoso, il più alto degli ultimi dieci anni. E dietro i numeri si nascondono le storie e le vite di persone assolutamente da non dimenticare.
UNHCR
UNHCR/E. Hockstein
Riflessioni sulla guerra Michele Nardelli
«… Oggi siamo alla mancanza del limite e alla caduta della logica, sotto il mito del prodotto interno lordo: che deve crescere sempre, non si sa perché. Procedendo così, la moltiplicazione geometrica non basterà più ed entreremo in un’iperbole… il progresso scorsoio» Andrea Zanzotto
La recente scomparsa di Andrea Zanzotto, grande poeta ma anche attento e critico osservatore della sua terra, ci priva di quel suo sorriso ironico sulle cose della vita che solo chi ha vissuto amandola porta con sé. Con la stessa leggerezza, ci lascia in eredità il monito inquietante che possiamo ritrovare nelle parole di quello che potremmo forse considerare il suo testamento politico, il dialogo con il giornalista Marzio Breda e diventato un libro: “In questo progresso scorsoio”. Ho un nitido ricordo di quel passaggio televisivo in cui ne parlava: “In questo progresso scorsoio – diceva con lo sguardo sornione dei suoi gatti – non so se vengo ingoiato o ingoio”. Il “poeta della natura” poneva così, semplicemente, il tema del limite. Quel limite oltre il quale il futuro diventa incerto, fino ad essere messo in discussione, che ci rincorre fin dentro le nostre esistenze individuali, laddove nelle scelte quotidiane possiamo sperimentare come fra fini e mezzi non ci sia differenza. Oltre il limite, c’è guerra per accaparrasi le risorse, scontro di civiltà per giustificarla, accelerazione nei cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, omologazione e banalizzazione nei consumi, impoverimento dei paesaggi (naturali e della mente), abbandono delle campagne e inurbamento selvaggio, il si salvi chi può nella lotta fra generazioni, la follia di una ricerca funzionale all’inclusione di pochi e all’esclusione di molti. E molto altro ancora… Quell’ultimo mezzo minuto… Quello del limite non è un tema fra gli altri. L’assenza di una cultura della finitezza umana e delle cose che ne accompagnano il cammino ha fatto sì che il mito del progresso diventasse nel tempo proprio un nodo scorsoio che l’umanità si è messa al collo da sola in nome del proprio dominio sulla natura. L’uomo si è pensato in conflitto con la natura o nella posizione di poterla addomesticare piuttosto che in alleanza, “come parte del tutto e non sopra le parti”. Non sempre, per la verità. La parola humanitas nemmeno esisteva nella lingua e nel pensiero dei greci, i quali non hanno mai creduto – a differenza dei romani – che l’uomo fosse l’indiscusso signore dell’universo. Viene in mente quella nota simulazione compiuta da un astronomo che provò a comprimere la storia della Terra lungo i suoi circa 4miliardi e mezzo di anni sulla scala di un solo anno. «…secondo questa simulazione, se a gennaio, su un braccio esterno della Via Lattea, si forma il Sole, a febbraio si forma la Terra, ad aprile i continenti emergono dalle acque, a novembre appare la vegetazione, a Natale si estingue il regno dei grandi rettili, alle 23 del 31 dicembre compare l’uomo di Pechino, a mezzanotte meno dieci l’uomo di Neanderthal, nell’ultimo mezzo minuto si svolge l’intera storia umana conosciuta, nell’ultimo secondo di questo mezzo minuto gli uomini si moltiplicano per tre o quattro volte e consumano quasi tutto quello che si era accumulato nei millenni precedenti…». Penso che nulla meglio di questo gioco possa far comprendere il significato del concetto di limite. Il fatto è che ci siamo affidati alle “magnifiche sorti e progressive”, verso le cui insidie Giacomo Leopardi ammoniva quel “secol superbo e sciocco” che aveva imboccato la strada delirante di un progresso senza limiti. E così, nell’ultimo secolo che da poco ci siamo messi alle spalle, in realtà una frazione di secondo nella nostra simulazione, l’uomo ha saputo e potuto applicare la scienza e la tec-
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La pace nella sobrietà, ovvero la ricerca di un limite al troppo
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nica al suo istinto di guerra, con conseguenze a dir poco sconvolgenti: ne sono venuti la Soah, il Gulag ed Hiroshima. Un numero di morti in guerra, nel Novecento, superiore a quello dei secoli precedenti dei quali l’uomo abbia memoria. Dovremmo allora quanto meno interrogarci sugli effetti di una cultura che non pone limiti né di natura etica e morale nel rapporto “con tutto quel che è … misteriosamente dato”, quasi fosse nelle nostre disponibilità il destino delle generazioni a venire. O quello delle altre specie viventi. Ed in effetti, la natura aggira l’ostacolo e si adatta a condizioni nuove ma non per questo non prive di effetti: la scomparsa del 71% delle specie di farfalle, del 54% delle specie di uccelli, del 28% di quelle delle piante … sempre negli ultimi istanti della nostra simulazione. Oltre il limite In effetti tutti oggi parlano, seppure talvolta a sproposito, di sostenibilità. Quando se ne iniziò a discutere anche sul piano politico con il primo “Rapporto sui limiti dello sviluppo” , ponendo l’accento proprio sul carattere limitato delle risorse e mettendo in guardia l’umanità dal proseguire nell’idea di uno sviluppo illimitato, cosa che avrebbe potuto determinare nell’arco di un secolo una situazione di rottura irreversibile, l’accusa fu di catastrofismo: la scienza avrebbe comunque trovato le soluzioni ai problemi che lo sviluppo portava con sé. Erano gli anni del boom economico, della sfida fra chi per primo avrebbe inviato un uomo nello spazio o sulla Luna, dell’accesso a inediti livelli di consumo per le classi sociali subalterne e dell’idea che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato in sé l’emancipazione dalla schiavitù e dall’asservimento al capitale. In nome dello sviluppo venne messo in campo l’inedito compromesso fra soggetti sociali di una parte del pianeta prima considerati antagonisti, senza nemmeno considerare che questo avrebbe potuto reggersi solo mantenendo nell’indigenza una rilevante parte del pianeta. Fino a legittimare nel tempo il ricorso alla guerra per non mettere in discussione il proprio livello di vita, considerato “non negoziabile”. Tant’è che nonostante aumentasse la consapevolezza dell’insostenibilità della crescita illimitata, si è proseguiti sulla strada di prima, gli uni per mantenere il proprio status, gli altri rivendicando un posto a tavola. Il tutto senza mai interrogarsi se il limite non fosse già alle loro spalle. Tanto che nel 1992, in occasione del primo aggiornamento del Rapporto, col titolo “Beyond the Limits”, gli stessi scienziati sostennero che i limiti della “capacità di carico” del pianeta erano già stati superati. Diagnosi confermata nel 2008, quando una nuova ricerca intitolata «Un paragone tra I limiti dello sviluppo e 30 anni di dati reali» , portò alla conclusione che i mutamenti nella produzione industriale ed agricola, nella popolazione e nell’inquinamento effettivamente avvenuti, erano coerenti con le previsioni del 1972 di un collasso economico nel XXI secolo. Un cambio di rotta Il carattere limitato delle risorse e la fragilità degli ecosistemi richiedono un netto cambio di rotta, un salto di paradigma che faccia della sostenibilità planetaria il perno di una nuova alleanza fra l’uomo e la natura. In questi giorni è nato il sette miliardesimo cittadino della terra. Le previsioni indicano che nel 2030 (fra qualche frazione di secondo del nostro gioco simulato) gli umani sulla Terra toccheranno quota 9miliardi. Questo significa una sola cosa: o le risorse esistenti vengono gestite con attenzione alla riproducibilità e ridistribuite equamente, o sarà la guerra. In realtà la guerra è già. Lo è stata e continua ad esserlo per il petrolio, è già in corso la guerra per privatizzare l’acqua ed è iniziata, sia pure in silenzio (e a bassa intensità) quella per la terra come spazio vitale, considerato che la superficie coltivabile per sfamare 9miliardi di persone richiederebbe una politica (ed un’autorità morale) mondiale che oggi non c’è. Oltre ad acqua, terra e petrolio, questo Atlante ha descritto altre guerre: quelle per i fosfati nel Sahara, il Coltan del Congo, l’oppio in Afghanistan, la cocaina in Colombia, il pesce nell’emisfero australe, i beni rifugio (diamanti e oro) in Africa… Senza dimenticare la guerra con la terra che la logica del massimo profitto ha in corso quando raccontiamo dell’uso dei veleni nell’agricoltura, delle discariche dei nostri dissennati stili di vita, dei rifiuti tossici e delle scorie nucleari stoccate da poteri criminali nei paradisi della deregolazione… Sapremo tornare sui nostri passi? Saremo capaci di declinare la parola pace con quella di sobrietà? La cultura del limite saprà scalzare la dittatura del Pil? Sapremo liberarci dal dominio delle cose? Sapremo realizzare una nuova alleanza con la natura per la salvaguardia del pianeta? Solo provando a dare qualche risposta a queste domande potremo forse evitare che questa infinitesima frazione della storia della Terra lasci dietro di sé ancora più furiosi scenari di guerra.
Beni a rischio Il caso Hebron Federica Ramacci
Fino a quando Hebron resterà una città fantasma? È la domanda che continuano a porre i palestinesi che abitano questa cittadina della Cisgiordania, distante circa 35 chilometri da Gerusalemme. L’impressione che si ha visitandola è quella di trovarsi in una gabbia, una grande gabbia dove la presenza dei militari e dei coloni israeliani ha condizionato così tanto la vita dei palestinesi da costringere la maggior parte di loro ad andare via , condannando una città antichissima e il suo centro storico ad un futuro di abbandono. Hebron, (Al-Khalil in arabo) è considerata il luogo simbolo dell’occupazione israeliana per alcune caratteristiche che ne fanno un caso unico: la presenza dei coloni nel centro della città e la loro particolare aggressività verso i palestinesi. Con gli accordi di Oslo del ’93, la città fu divisa in due parti, la zona H1 dove vivono circa 160mila palestinesi, controllata dalle autorità palestinesi e l’altra, sotto controllo israeliano, dove vivono circa 50mila palestinesi e 500 coloni. Muro contro muro nel cuore della città vecchia. A protezione di poche centinaia di coloni ad Hebron sono schierati 1.500 soldati israeliani. Appena fuori dalla città e sempre nella zona H2 sotto il controllo israeliano sorgono altre tre colonie - tra cui la più nota è quella di Kyriat Arba – dove vivono in tutto circa 7mila coloni. Hebron è stata occupata dall’esercito israeliano nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni. I coloni sono arrivati nella città con un passaporto svizzero e non sono mai più andati via. Intorno alla fine degli anni ‘70 sono cominciate, da parte dell’esercito israeliano, le demolizioni di molte delle abitazioni del centro storico e del mercato agricolo, che ha fatto posto ad uno degli insediamenti israeliani.
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Hebron: la sfida e la riconquista della memoria
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Città contesa Hebron, anche perché ospita uno dei luoghi sacri delle religioni ebraica e musulmana, la Tomba dei Patriarchi, che Israele ha deciso di inserire nella lista del patrimonio nazionale ebraico scatenando polemiche da parte della comunità internazionale e rischiando di scatenare una nuova Intifada. La Tomba dei Patriarchi di Hebron è il luogo dove il 25 febbraio 1994 il colono ebreo Baruch Goldstein uccise 29 fedeli islamici inginocchiati in preghiera e secondo la tradizione ebraica è il luogo dove sono custoditi i resti di Abramo e dei figli Isacco e Giacobbe, figure care anche ai musulmani. Nella città ci sono decine di check-point sorvegliati dai soldati israeliani che limitano o impediscono del tutto l’ingresso ai palestinesi nelle zone abitate dai coloni. Blocchi di cemento e filo spinato impediscono ai palestinesi l’accesso a Shuhada Street, l’arteria principale della città vecchia di Hebron dove solo i coloni possono transitare. I negozianti palestinesi rimasti nel centro storico sono stati costretti a porre delle reti di ferro sopra gli stretti vicoli per proteggersi dal lancio di oggetti e spazzatura da parte dei coloni che abitano i piani superiori degli edifici. Una città spaccata letteralmente in due, anche per i bambini. Palestinesi ed israeliani frequentano scuole diverse e le manifestazioni di odio, soprattutto dei coloni nei confronti degli abitanti arabi, sono continue. Una condizione talmente pesante per i palestinesi che in molti hanno deciso di abbandonare la città e chi è rimasto, ha denunciato la Croce Rossa Internazionale, vive, a causa delle restrizioni, in condizioni di estrema indigenza. Nel tentativo di salvare la Città Vecchia di Hebron dall’abbandono l’Autorità Palestinese ha disposto, con un decreto del 12 agosto 1996, la creazione del Comitato per il restauro del patrimonio architettonico di Hebron, che ha il compito di restaurare gli antichi edifici del centro e le abitazioni abbandonate; cercare di migliorare le condizioni di vita dei palestinesi che ancora abitano ad Hebron; sviluppare progetti di sostegno alla popolazione e contro povertà e disoccupazione. Negli ultimi anni, seppur tra mille difficoltà, il Comitato è riuscito a ristrutturare circa 900 abitazioni utilizzando gli standard internazionali di restauro. Nel 1996 nella città vecchia di Hebron vivevano solo 500 palestinesi oggi ne sono tornati circa 5mila. Ai palestinesi che scelgono di tornare a popolare il centro storico di Hebron vengono garantite dalle autorità palestinesi alcune agevolazioni, come l’esenzione dalle tasse ed alcuni servizi gratuiti ma il lavoro del Comitato non è certo facile. È una vera e propria sfida ad esempio, portare all’interno della città vecchia i materiali che servono per il restauro delle abitazioni. A causa dei blocchi e l’interdizione della strada principale ai veicoli palestinesi, il personale del Comitato ha trasportato i materiali nel centro storico con asini e cavalli. Il lavoro di recuparo della città di Hebron è valso al Comitato il premio Aga Khan di architettura uno dei più prestigiosi del settore, ricevuto dalle mani del re di Spagna. “Per noi il premio è stato un riconoscimento molto importante – sottolineano i membri del Comitato – nonostante le difficoltà noi continueremo il nostro lavoro di restauro della città e non ci fermeremo”. È la sfida di Hebron per la riconquista della memoria.
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Gruppo di lavoro
Paolo Affatato Paolo Affatato, giornalista e saggista, è responsabile della redazione “Asia” nell’agenzia di stampa vaticana Fides. Socio di Lettera22, associazione fra giornalisti specializzata in politica estera e cultura, nel 2011 ne è stato eletto presidente. Autore di servizi e reportage su diverse realtà dell’Asia, ha curato con Emanuele Giordana “Il Dio della guerra” (Guerini 2002); “A Oriente del Profeta” (ObarraO 2005), sull’islam asiatico; “Geopolitica dello tsunami” (ObarraO 2005). Ha partecipato a diversi numeri della collana di studi asiatici Asia Maior, contribuendo, fra gli ultimi testi, a “L’Asia del grande gioco” (2008), “Crisi globali, crisi locali e nuovi equilibri in Asia” (2009), “L’Asia di Obama e della crisi economica globale” (2010). Andrea Baranes Andrea Baranes lavora come responsabile delle campagne su istituzioni finanziarie private per la CRBM. Collabora con la Fondazione Culturale Responsabilità Etica, gruppo Banca Etica, per ricerche sui temi della finanza e dell’economia. È autore di diverse pubblicazioni relative ai temi della finanza e del commercio internazionali e collabora con riviste specializzate nel settore economico e della sostenibilità, quali “Valori” e “Altreconomia”. È direttore del sito di informazione “Osservatorio Finanza”. È attualmente membro del Consiglio Direttivo della rete internazionale della società civile BankTrack, e, in Italia, è membro del Comitato Etico di Etica Sgr, società di gestione del risparmio del gruppo Banca Etica. Barbara Bastianelli Giornalista, lavora al Premio Ilaria Alpi e si occupa del concorso giornalistico televisivo oltre a dirigere l’Archivio Ilaria Alpi. Dopo aver lavorato per diversi anni nelle testate giornalistiche locali, ha iniziato ad occuparsi di comunicazione, curando diversi uffici stampa. Ha seguito il Premio Ilaria Alpi fin dalla sua nascita, diventando nel 2007 vice presidente dell’Associazione Ilaria Alpi che l’ha ideato. Ha collaborato alla stesura dei volumi curati dal Premio Ilaria Alpi: L’informazione Deviata (Baldini e Castoldi, 2003), Le periferie dell’Informazione (Paoline, 2006) e Giornalismi & Mafie (Ega, 2008), Africa e Media (Ega, 2009) e Carte False (Verdenero, Ed.Ambiente, 2009). Ha curato insieme ad Angelo Ferrari il volume: Informazione e lavoro (Paoline, 2007).
Daniele Bellesi Diplomato al Liceo Artistico, ha frequentato per diversi anni la Facoltà di Architettura. Si è poi dedicato alla libera professione come grafico e consulente per la comunicazione. Ha lavorato molto anche nel mondo dell’associazionismo e del volontariato. È vicepresidente dell’Associazione Un Tempio per la Pace di Firenze (dialogo inteculturale e interreligioso) e ha fondato insieme agli altri l’associazione 46° Parallelo. Laura Boldrini Da oltre venti anni lavora nelle agenzie delle Nazioni Unite. Dal 1998 è portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) per il quale coordina anche le attività di informazione in Sud-Europa. In questi anni ha svolto numerose missioni in diversi luoghi di crisi, tra cui Ex-Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Sudan, Caucaso, Angola e Ruanda. Scrive in diverse riviste e tiene il blog “Popoli in Fuga” su Repubblica.it. Ha recentemente pubblicato per Rizzoli “Tutti Indietro”, storie di uomini e donne in fuga e di un Italia tra paura e solidarietà. Giulia Bondi Giornalista, collabora con Terre, Il mucchio e l’ufficio stampa del Comune di Modena. Suoi lavori sono apparsi su L’Espresso, Peacereporter, Protestantesimo (Rai). Ha pubblicato “Ritorno a Montefiorino”, storia della Resistenza a Modena scritta con Ermanno Gorrieri (Il Mulino, 2005) e “Io sono di Braida” su un quartiere di periferia di Sassuolo (Mo). Nel 2006 ha vinto il Premio Ilaria Alpi. Pietro Cavallaro Siciliano e fiero delle sue origini, vive a Riccione da oltre 50 anni. Ha svolto il ruolo di difensore civico ricoperto per 11 anni al quale la città lo ha chiamato. In questo ufficio ha promosso due convegni a carattere nazionale. Ha ricoperto più volte la carica di presidente di varie associazioni che lo ha condotto ad interessarsi fattivamente con passione e partecipazione di emergenze umanitarie quali le drammatiche necessità dell’Albania in seguito alla caduta del regime o più recentemente a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica al diritto all’indipendenza del popolo Saharawi il cui territorio si trova sotto occupazione del Marocco. Francesco Cavalli Direttore generale di Icaro Communication, network di comunicazione riminese com-
Cristian Contini Cristian Contini, è art director, consulente, strategist e docente nell’ambito della comunicazione avanzata new media/next media, social media, interaction design, ambienti immersivi 3D online, augmented reality, web design, comunicazione integrata, multimedia, pubblicità e marketing. Oltre alle docenze all’Università degli studi di Firenze ed allo IED, è consulente di aziende, enti privati e pubblici (fra gli altri, MInistero dell’Università e della Ricerca, Indire, Regione Toscana). È direttore creativo e cofondatore di Augmented Advertising (www.augmentedadvertising. com) struttura specializzata nell’advertising e nella comunicazione basata sull’augmented reality e sui new/next media. Raffaele Crocco Giornalista RAI, ha lavorato per alcuni anni come inviato in zone di guerra. Ha fondato la rivista Maiz - A Sud dell’informazione - ed è stato tra i fondatori Peacereporter. È l’autore del libro “Il CHE dopo il CHE”. Ha ideato e dirige questo Atlante. Angelo D’Andrea Angelo d’Andrea ha 36 anni, giornalista pubblicista, laureato in Comunicazione a Roma , dal 2005 è funzionario dell’Agenzia delle Entrate addetto alle Relazioni Esterne e Rapporti con la Stampa per il Veneto e il Trentino. Sta seguendo il tema dei “paradisi fiscali”. Ha collaborato ad un’inchiesta su “massoneria e finanza” per la Rizzoli. Per l’Atlante cura le schede Kosovo, Turchia e Cipro nonchè la versione radio e podcast di tutti i contenuti. Angela de Rubeis Angela de Rubeis redattrice del sito www.ilariaalpi.it e collaboratrice del premio ilaria alpi dal 2006. Laureata in scienze della comunicazione a bologna e specializzata in comunicazione di massa, ha collaborato alla stesura del libro informazione e lavoro (Paoline, 2007) e della collana “I taccuini del premio ilaria alpi. Oggi lavora al settimanale il Ponte di Rimini. Elena Dundovich Insegna Storia delle Relazioni Internazionali e Storia dell’Europa Orientale presso la Facoltà
di Scienze Politiche di Pisa. Si occupa da anni di Storia dello stalinismo e della situazione dei diritti umani nella Russia post-sovietica ed è membro fondatore dell’associazione Memorial Italia che, come filiale di Memorial Mosca, si occupa di Storia dell’Urss e delle vicende attuali della Federazione Russa con particolare attenzione alle vicende politiche e sociali delle ex Repubbliche sovietiche. Tra le pubblicazioni il volume “Italiani nei lager di Stalin” edito da Laterza nel 2006 scritto insieme a Francesca Gori. Stefano Fantino Giornalista freelance laureato in comunicazione di massa all’Università di Torino, ha lavorato negli ultimi quattro anni a Libera Informazione, Osservatorio nazionale sull’informazione contro le mafie. Collabora assiduatamente con il mensile Narcomafie, occupandosi principalmente di mafie al Nord e ha scritto di cultura, esteri e cronaca per diversi siti web. Coautore nel 2008, per i tipi di Ega, di “Giornalismi e Mafie. Alla ricerca dell’informazione perduta” è alle prese con il suo primo romanzo. Angelo Ferrari Angelo Ferrari, corrispondente dell’Agenzia Italia dall’Africa Centrale, da anni si occupa di problematiche relative al Sud del mondo e in particolare all’Africa, dove ha seguito le più grandi tragedie del continente: dalla guerra del Rwanda a quella della Somalia, dalla Repubblica democratica del Congo alla Sierra Leone. Tra i suoi libri ricordiamo Hakuna Matata, la globalizzazione galoppa mentre l’Africa muore (2002), Amahoro (Pace) tredici anni di viaggi in Africa (2003), Sogni, le speranze dei bambini africani (2006) e Africa gialla, l’invasione economica cinese nel continente africano (2008). Ha pubblicato per la Emi, editrice missionaria italiana, il libro “Le nebbie del Congo” uscito nel 2011. Marina Forti Marina Forti è nata a Milano, dove ha cominciato a lavorare a Radio Popolare. Giornalista professionista, dal 1983 è al quotidiano Il Manifesto, dove si è occupata di attualità internazionale, immigrazione e ambiente. Già caposervizio esteri, da inviata ha viaggiato a lungo in Iran, nel sub-continente indiano e nel sud-est asiatico. Per la rubrica “terraterra” ha avuto nel 1999 il premio “giornalista del mese”, noto come Premiolino. Con il libro La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel sud del mondo (Feltrinelli 2004) ha ricevuto il premio Elsa Morante per la comunicazione 2004.
Federico Fossi M.Sc. in assitenza umanitaria e sviluppo presso lo University College Dublin, da oltre dieci anni lavora nella comunicazione per il settore no-profit ed in particolare in ambito di cooperazione internazionale e rifugiati. Si è occupato di programmi europei di integrazione nel quadro dell’iniziativa comunitaria EQUAL. Dal 2008 lavora nell’ufficio stampa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Emanuele Giordana Emanuele Giordana, cofondatore e sino al 2010 direttore di Lettera22 è stato docente di cultura indonesiana all’IsMEO di Milano e è vicepresidente dell’Osservatorio “Asia Maior”. Ha pubblicato con G. Corradi “La scommessa indonesiana” e curato le collettanee “Il Dio della guerra”, “A Oriente del profeta”, “Geopolitica dello tsunami”, “Tibet, lotta e compassione sul Tetto del mondo”. Nel 2007 è uscito per Editori Riuniti “Afghanistan: il crocevia della guerra alle porte dell’Asia” e nel 2010 per ObarraO “Diario da Kabul”. Editorialista di “Terra” è uno dei conduttori di Radiotremondo a Radio3Rai e portavoce della piattafroma “Afgana”. Alessandro Grandi Milanese dal 1974 ha una passione sfrenata per gli orologi meccanici e per il Milan, unico suo vero e grande amore. Co-autore di tre volumi, “Guerre in Ombra”, “Guerra alla Terra” e “Haiti, l’isola che non c’era”, è inviato per PeaceReporter in America latina. Ha pubblicato sui maggiori quotidiani nazionali reportage da: Venezuela, Haiti, Messico, Bolivia, Paraguay. Adel Jabbar È sociologo ricercatore nell’ambito dei processi migratori e comunicazione interculturale. Ha insegnato sociologia delle culture e delle migrazioni all’Università Ca’ Foscari di Venezia e Comunicazione interculturale all’università di Torino. Libero docente incaricato nell’ambito della sociologia dell’immigrazione in diverse università italiane. Svolge attività di consulenza e formazione per enti locali e realtà associazionistiche. Sui temi relativi all’area araboislamica ha pubblicato molti interventi. Flavio Lotti È Coordinatore nazionale della Tavola della Pace, l’organismo che dal 1996 organizza la Marcia per la pace Perugia-Assisi. È Direttore del Coordinamento Nazionale Enti Locali per la pace e i diritti umani, un’associazione fon-
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prendente Radio Icaro, IcaroTV, Newsrimini. it e Bottega Video produzioni. Direttore del Premio Giornalistico televisivo Ilaria Alpi del quale ne è uno dei fondatori. Impegnato anche nel no-profit è vicepresidente della ONG Amani onlus.
data nel 1986 che riunisce oltre 700 Comuni, Province e Regioni italiane. Enzo Mangini Giornalista professionista dal 2001 specialista di temi di politica internazionale, fa parte dell’associazione indipendente di giornalisti Lettera22, attraverso cui collabora con Il Fatto Quotidiano online, il Riformista, Terra. Ha lavorato per il quotidiano Il Manifesto e per il settimanale Carta, dove ha ricoperto anche la carica di direttore responsabile. Dall’aprile 2010 è corrispondente in Italia di Vreme, settimanale indipendente di Belgrado, Serbia. Luisa Morgantini È stata eletta parlamentare europea nel 1999 e riconfermata nel 2004 come indipendente, nelle liste di Rifondazione Comunista. Nel gennaio 2007 è stata eletta Vice-Presidente del Parlamento Europeo con l’incarico delle politiche europee per l’ Africa e per i diritti umani. È tra le fondatrici della rete internazionale delle Donne in nero contro la guerra e la violenza, è inoltre nel coordinamento nazionale dell’Associazione per la pace, un movimento per la non violenza e la pace. Ha ricevuto il premio per la pace delle donne in nero israeliane e il premio Colombe d’Oro per la Pace di Archivio disarmo, è tra le 1000 donne nel mondo che sono state candidate al Premio Nobel per la pace. Michele Nardelli Presidente del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani. Il Forum dedicherà al tema del “limite” il suo itinerario di lavoro 2012 (www. forumpace.it). Per molti anni impegnato nella sperimentazione di forme originali di cooperazione fra comunità e territori, è autore con Mauro Cereghini di “Darsi il tempo. Idee e pratiche per un’altra cooperazione internazionale” (EMI, 2008). È stato fra i fondatori dell’Osservatorio Balcani e Caucaso. Per saperne di più www.michelenardelli.it Enzo Nucci Corrispondente della Rai da Nairobi per l’Africa sub-sahariana dal 2006. Napoletano, 53 anni, è in Rai dal 1988 dove ha lavorato come cronista nella redazione regionale del Lazio prima di passare al Tg3 nel 1994. È stato inviato di cronaca nazionale e di esteri. Ha seguito i conflitti nella ex Jugoslavia, Kosovo, Afghanistan, Iraq e la rivolta in Albania. Ha vinto numerosi premi giornalistici tra cui il “Testimone di Pace” di Ovada e il premio Andrea Barbato di Mantova.
Ilaria Pedrali Giornalista professionista, ha vissuto e lavorato a Gerusalemme come corrispondente per le Edizioni Terrasanta e gestendo il Franciscan Multimedia Center. Ha lavorato a Mediaset, e scritto su vari quotidiani nazionali, siti internet, web tv occupandosi di cultura, esteri, cronaca. Ama il Medio Oriente, viaggiare, ed è molto curiosa. Da qualche tempo ha iniziato a studiare l’arabo. Alessandro Piccioli Giornalista e fotoreporter. Da freelance ha realizzato reportage dall’Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Corsica, Iraq, Palestina, Siria, Egitto. Collabora con diverse testate e svolge attività autorale in Rai. Federica Ramacci Giornalista. Scrive di politica italiana e internazionale per diverse testate. È inviata alla Camera dei Deputati per l’agenzia di stampa “Nove Colonne”. Ha realizzato reportages, inchieste e interviste in Italia, America Latina, Europa e Nord Africa. Amedeo Ricucci Giornalista RAI, ha seguito come inviato speciale i più importanti conflitti degli ultimi vent’anni. Ha ottenuto diversi riconoscimenti nazionali e internazionali, fra cui il Premio Ilaria Alpi (2000). Ha scritto il libro La guerra in diretta. Il volto nascosto dell’informazione televisiva (Pendragon, 2004) Alessandro Rocca Giornalista pubblicista e fotografo freelance, è regista e autore di numerosi documentari e reportages trasmessi da Rai Uno (Speciale Tg1 e A sua immagine), Rai Due (Tg2 Dossier), Rai Tre, Skytg24, Rai News24, La7 (Effetto Reale). Ornella Sangiovanni Giornalista specializzata in questioni del mondo arabo, segue l’Iraq da circa 20 anni, e si è occupata a lungo delle sanzioni internazionali imposte al Paese in seguito all’invasione del Kuwait dell’agosto 1990. Collaboratrice di quotidiani, settimanali, e periodici, ha diretto il sito Osservatorio Iraq dal 2004 ai primi mesi del 2011. Luciano Scalettari È inviato speciale di Famiglia Cristiana. Si occupa prevalentemente di attualità africana
(ha effettuato spedizioni in una trentina di Paesi dell’Africa subsahariana) e di giornalismo d’inchiesta. Nel 2000 e nel 2006 ha vinto il Premio Giornalistico Saint Vincent. Ha pubblicato, tra l’altro: 2002 (con B. Carazzolo e A. Chiara) Ilaria Alpi, un omicidio al crocevia dei traffici), B&C. 2004 La lista del console - Ruanda, 100 giorni un milione di morti, Ed. Paoline-Focsiv. 2010 (con Luigi Grimaldi) “1994”, Chiarelettere Editore. Da settembre 2007 coordina, insieme ad Alberto Laggia, il laboratorio di giornalismo sociale “La voce di chi non ha voce” organizzato dalla Scuola di Giornalismo “A. Chiodi” di Mestre. Beatrice Taddei Saltini È tra le fondatrici di 46° Parallelo. Ha collaborato a reportages dall’America Latina. Per questo Atlante si occupa dell’editing, dei rapporti con la Redazione e della distribuzione. Cristiano Tinazzi Giornalista professionista, freelance, specializzato in Medio Oriente e Nord Africa, collabora con diverse testate fra cui Il Messaggero, Radio24, L’Espresso; Radio Svizzera Italiana, Il Mucchio Selvaggio. Lorenzo Trombetta Giornalista professionista, specialista di Siria e Libano, è corrispondente dell’Ansa da Beirut. Roberto Zichittella È giornalista, inviato del settimanale Famiglia Cristiana per il quale si occupa di varia attualità. Collabora assiduamente con il quotidiano Il Riformista, scrivendo soprattutto di esteri e per le pagine domenicali “Ombra”. Ha fatto radio (Radio Città Futura, Radio2 Rai) e gli piacerebbe farne ancora.
Glossario
Terroristi Tutti coloro che usano armi o mettono in atto attentati contro popolazioni inermi, colpendo obiettivi civili deliberatamente. In questo libro, questa è la definizione di terrorista, a prescindere dalle ragioni che lo muovono. Ne deriva che in questo volume viene definito Attentato Terroristico ogni attacco compiuto con fini distruttivi o di morte nei confronti di una popolazione inerme e civile al puro scopo di seminare terrore, paura o per esercitare pressioni politiche. Ovvero ogni attacco compiuto contro obiettivi militari, ma che consapevolmente coinvolge anche popolazioni inermi e civili. Resistenti Gruppi o singoli che si oppongono, armati o disarmati, all’occupazione del proprio territorio da parte di forze straniere, colpendo nella loro azione obiettivi prevalentemente militari. Anche in questo caso diamo questa definizione senza entrare nel merito delle ragioni. Gli attacchi di gruppi di resistenti a forze armate regolari in questo libro vengono definite Operazioni di Resistenza o Militari. Forze di Occupazione Ogni Forza Armata straniera che occupa, al di là della ragione per cui avviene, un altro Paese per un qualsiasi lasso di tempo. Forze di Interposizione Internazionali Sono invece Forze Armate, create su mandato dell’Onu o di altre organizzazioni multinazionali e rappresentative, che in presenza di precise regole di ingaggio e combattimento che ne limitano l’uso, si collocano lungo la linea di combattimento per impedire il confronto armato fra due o più contendenti. Le definizioni seguenti sono quelle ufficiali definite e riportate dall’UNCHR nei loro documenti e rapporti e a cui noi ci rifacciamo Profugo Termine generico che indica chi lascia il proprio paese a causa di guerre, persecuzioni o catastrofi naturali.
Richiedente asilo Colui che è fuori dal proprio paese e inoltra, in un altro stato, una domanda di asilo per il riconoscimento dello status di rifugiato. La sua domanda viene poi esaminata dalle autorità di quel paese. Fino al momento della decisione in merito alla domanda, egli è un richiedente asilo (asylum-seeker). Rifugiato Il rifugiato (refugee) è colui che è costretto a lasciare il proprio paese a causa di conflitti armati o di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. A differenza del migrante, egli non ha scelta: non può tornare nel proprio paese perché teme di subire persecuzioni o per la sua stessa vita. Sfollato Spesso usato come traduzione dell’espressione inglese Internally displaced person (Idp). Per sfollato si intende colui che abbandona la propria abitazione per gli stessi motivi del rifugiato, ma non oltrepassa un confine internazionale, restando dunque all’interno del proprio paese. In altri contesti, si parla genericamente di sfollato come di chi fugge anche a causa di catastrofi naturali. Migrante Termine generico che indica chi sceglie di lasciare il proprio paese per stabilirsi, temporaneamente o definitivamente, in un altro paese. Tale decisione, che ha carattere volontario anche se spesso è indotta da misere condizioni di vita, dipende generalmente da ragioni economiche ed avviene cioè quando una persona cerca in un altro paese un lavoro e migliori condizioni di vita. Migrante irregolare Chi, per qualsiasi ragione, entra irregolarmente in un altro paese. In maniera piuttosto impropria queste persone vengono spesso chiamate ‘clandestini’ in Italia. A causa della mancanza di validi documenti di viaggio, molte persone in fuga da guerre e persecuzioni giungono in modo irregolare in un altro paese, nel quale poi inoltrano domanda d’asilo. Extracomunitario Persona non cittadina di uno dei ventisette paesi che attualmente compongono l’Unione Europea, ad esempio uno svizzero.
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Guerre e conflitti Situazioni di scontro armato fra stati o popoli, ovvero a confronti armati fra fazioni rivali all’interno di un medesimo Paese. Includiamo in questo elenco i Paesi o i luoghi in cui esiste un latente conflitto, bloccato da una tregua garantita da forze di interposizione internazionali.
Fonti
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Organismi internazionali e istituzioni Unesco Unicef Oms Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) Africa-Union Nazioni Unite Ministero degli Esteri Ministero della Difesa Central Intelligence Agency Banca Mondiale Caritas United Nations Peacekeeping Force in Cyprus The Millennium Development Goals - Onu Istituto del Commercio con l’Estero Croce Rossa Italiana Informazione, giornali e istituti di ricerca Pagine della Difesa Africa News Misna Nigrizia Reuters Osservatorio Iraq Osservatorio dei Balcani Wikipedia Corriere della Sera La Repubblica La Stampa Valori Peacerporter Ansa Apcom Agimondo Adnkronos Famiglia Cristiana Limes Guerre & Pace Global Geografia Peace Link Balcanicaucaso.org Banchearmate.it Crbm.org
Crisigroup.org (Europe Report N°213, 20/9/11) B.H. Editorial, 24/7/2011 Libero-news.it Italiatibet.org Chinadaily.com Ilsole24ore.com Panorama.it Asianews.it Instablog.org Filosofia.org Nuovacolombia.net Colombiareports.com Agoramagazine.it Manilanews.net Iljournal.it Bbc.co.uk Asiantribune.com Bangkokpost.com It.euronews.net Iltempo.it Intopic.it/estero/thailandia/ Organizzazioni non governative Amnesty International Emergency Medici Senza Frontiere Reporters Sans Fronteres Unimondo Amani Club di Roma Elisso Pubblicazioni Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsoio, Garzanti, 2009 Ugo Morelli, Mente e paesaggio, Bollati Boringhieri, 2011 Gianfranco Bettin, Il clima è fuori dai gangheri, Edizioni nottetempo, 2004 Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di comunità, 1967 R.Kapuscinski, Imperium, Feltrinelli
Fotografie Le fotografie di quest’anno riportano l’autore. In alcuni casi giornalisti, fotografi oppure tratte dall’archivio dell’Alto Commissariato dei Rifugiati UNHCR. I Frame invece come sempre sono tratti dai video dell’archivio del Premio Ilaria Alpi. In alcuni casi abbiamo usato, invece, fotografie trovate su internet. Le fotografie dell’articolo di Nardelli sono da lui fornite.
Cartografia Per la cartografia delle schede conflitto abbiamo fatto riferimento a quella ufficiale dell’Onu tranne alcune riprese dal sito dell’Università del Texas: Colombia, Cecenia, Paesi Baschi, Cina, Turchia, India, Filippine, Nagorno Karabach e Algeria. Le carte tematiche basate sulla cartografia di Peters sono state gentilmente offerte dall’Ong Asal, che le ha elaborate. La realizzazione è a cura del gruppo di ricerca composto da Laura Boschetto, Michele Bruno e Alessandra Macchitella. Per le mappe dei continenti abbiamo usato la stessa Carta di Peters (in Italia iniziativa esclusiva Asal) che troverete nella sua forma completa nella terza di copertina.
Di seguito riportiamo gli autori delle schede conflitto (in corsivo gli Inoltre). Pietro Cavallaro - Sahara Occidentale Raffaele Crocco - Colombia, Cina-Tibet, Filippine, Thailandia Angelo D’Andrea - Turchia, Kosovo, Cipro Angela de Rubeis - Birmania, Iran, Corea Nord/Sud, NIcaragua/Costarica Stefano Fantino - Messico e immigrazione Angelo Ferrari - Repub. Centrafricana, Costa D’Avorio, Guinea Bissau, Liberia, Uganda Emanuele Giordana - Afghanistan Marina Forti - India, Kashmir Alessandro Grandi - Haiti, Messico Enzo Mangini - Israele/Palestina Enzo Nucci - Ciad, Repubblica Democratica del Congo Ilaria Pedrali - Siria Alessandro Piccioli - Libano Federica Ramacci - Paesi Baschi, Timor Est, India, Palestina Amedeo Ricucci - Yemen, Cecenia, Georgia, Nagorno Karabach, Kirghizistan Alessandro Rocca - Somalia Luciano Scalettari - Nigeria, Sudan, Sud Sudan, Etiopia Ornella Sangiovanni - Iraq Cristiano Tinazzi - Libia Roberto Zichittella - Algeria Schede Speciale Svolta Islam Lorenzo Trombetta - Siria Amedeo Ricucci - Egitto Roberto Zichittella - Tunisia Ilaria Pedrali - Marocco, Giordania, Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Oman
Ai nostri lettori. Per correggere un testo occorrono molti occhi. Noi abbiamo cercato di fare il nostro meglio. Laddove ci fosse sfuggito qualche refuso o errore ce ne scusiamo.
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Autori delle schede
Altri saluti L’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo è un progetto che richiede risorse ed energie. Tante le amministrazioni, lo avete visto, che hanno aderito e dato concretamente una mano. A queste vanno aggiunte la Regione Umbria, nella persona della Presidente, Catiuscia Marini, che già lo scorso ha mostrato di credere nell’idea, distribuendo nelle scuole la seconda edizione e la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome Italiane, con il Presidente Vasco Errani, che ha voluto concedere il patrocinio e quindi sostenerci. Sono fondamentali poi, due altri attori, da subito impegnati con noi: l’Associazione Ilaria Alpi, partner da sempre e fondamentale per dare gambe a un’idea che sembrava folle. Poi, la Tavola per la Pace e il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti dell’Uomo: la collaborazione con loro resta uno stimolo fondamentale.
Ringraziamenti Come sempre, si arriva ai ringraziamenti e che ci crediate o no, è un piacere. Il primo va a chi ci da coraggio, ogni anno, da tre anni. Cito in ordine sparso: Sara Ferrari, Wanda Chiodi, Fabio Rossetti, Carlo Basani, Giorgio Fracalossi. Poi c’è Stefano Fusi: averlo incontrato è stato un piacere e, soprattutto, ci ha dato una solidità che non conoscevamo. Come sempre, devo essere grato – e lo sono davvero – a Laura Strada, che mi permette di trovare tempo e modo per lavorare a questo progetto. Un pensiero lo rivolgo a Stefano Mirabelli, che mi ha dato aiuto e suggerimenti. Ancora: Beppe Giulietti ha trovato spazi e agganci, facendo arrivare l’Atlante dove non avremmo osato. Roberto Natale ci è stato vicino e non è stato poco. Quest’anno sono aumentate le amministrazioni e cresciuti gli enti locali che hanno aderito a questa follia: in tempi di vacche magre per le casse pubbliche, trovarle così disponibili e attente è stata una sorpresa. La speranza è di essere all’altezza delle aspettative. Un grazie particolare va a Aldo Bernardi, sempre disponibile. Il ringraziamento più sentito va, come sempre, ai tanti che scrivono per l’Atlante e dentro ci mettono idee, cuore, passione. Dovrei citarli uno a uno, ma per questioni di spazio non posso farlo. Sono però tutti impagabili, anche quando brontolano o avviano polemiche che, poi, trovano sempre un approdo comune. Un angolo speciale è per quelli che si fanno carico del lavoro di ramazza, quello duro: Daniele, Federica e Beatrice. Trovano soldi, articoli, collaboratori, errori e fantasie per fabbricare questo Atlante. Credetemi: sono incredibili. Per ultimo, ringrazio chi ci segue, chi è parte del gruppo di affezionati su Facebook, chi viene ad incontrarci nelle serate in giro per l’Italia: sono loro a farci capire che quello che facciamo forse serve davvero a qualcosa. Raffaele Crocco
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ISBN-13: 978-8888819945
€ 20,00