Atlante delle Guerre - quinta edizione

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ATLANTE

DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO

Quinta edizione



ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO Quinta edizione Dedicata a Nelson Mandela

Associazione 46° Parallelo


ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO QUINTA EDIZIONE Direttore Responsabile Raffaele Crocco Capo Redattore Federica Ramacci

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In redazione Beatrice Taddei Saltini Daniele Bellesi Hanno collaborato Paolo Affatato Fabio Bucciarelli Nicole Corritore Angelo d’Andrea Davide Demichelis Marina Forti Federico Fossi Anna Frattin Emanuele Giordana Mariangela Gritta Grainer Rosella Ideo Adel Jabbar Enzo Mangini Federica Miglio Razzi Mohebi Sohelia Mohebi Enzo Nucci Ilaria Pedrali Alessandro Piccioli Alessandro Rocca Ornella Sangiovanni Luciano Scalettari Pino Scaccia Fabrizio Tassadri Alessandro Turci Roberto Zichittella

Redazione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it

Un ringraziamento speciale a: Gabriele Eminente, Direttore Generale Medici Senza Frontiere Italia Federico Fossi, Unhcr Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Marica Di Pierri, Cdca

Foto di copertina Foto del reportage "Battle to Death" scattata ad Aleppo in Siria il 10/10/2012 ©Fabio Bucciarelli www.fabiobucciarelli.com

Testata registrata presso il Tribunale di Trento n° 1389RS del 10 luglio 2009 Tutti i diritti di copyright sono riservati ISSN: 2037-3279 ISBN-13: 978-8866810292 Finito di stampare nel gennaio 2014 Grafiche Garattoni - Rimini

Editing Antonella Carlini Marika Tamanini Progetto grafico ed impaginazione Daniele Bellesi Progetto grafico della copertina Daniele Bellesi


Algeria Ciad Costa d’Avorio Guinea Bissau Liberia Libia Mali Nigeria Repubblica Centrafricana Repubblica Democratica del Congo Sahara Occidentale Somalia Sudan Sud Sudan Uganda

44 48 52 56 60 64 68 72 76 80 84 88 92 96 100

Colombia Haiti

108 112

Afghanistan Cina/Tibet Filippine India Iraq Kashmir Kirghizistan Kurdistan Pakistan Thailandia Timor Est Yemen

120 124 128 132 136 140 144 148 152 156 160 164

Israele/Palestina Libano Siria

174 178 182

Cecenia Cipro Georgia Kosovo

190 194 198 202

Editoriale Raffaele Crocco Saluti Amministratori Introduzione Riccardo Noury Introduzione Gabriele Eminente Introduzione Marica Di Pierri Introduzione Mariangela Gritta Grainer Istruzioni per l’uso La Redazione La situazione Raffaele Crocco Informazione e guerra/1 Pino Scaccia Vittime di guerra/1 Razi e Sohelia Mohebi Vittime di guerra/2 Gabriele Eminente Informazione e guerra/2 Enzo Nucci Geografia della guerra Rosella Idéo Evoluzione dei conflitti Enzo Nucci SPECIALE DONNE E GUERRA Donne e guerra/1 Federica Ramacci Donne e guerra/2 La Redazione Donne e guerra/3 Cdca Donne e guerra/4 Nicole Corritore Donne e guerra/5 Federica Miglio Africa Diritti umani, illusione africana Amnesty International SCHEDE AFRICA

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Inoltre Etiopia America Stampa e giornalisti sempre nel mirino Amnesty International SCHEDE AMERICA

116 117 118

Inoltre Messico Asia In Asia il dissenso non viene tollerato Amnesty International SCHEDE ASIA

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Inoltre Birmania/Myanmar - Corea del Nord/Sud - Iran Medio Oriente L’ingiustizia ha il volto dei profughi Amnesty International SCHEDE MEDIO ORIENTE

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Europa Nella libera Europa vietata l’opposizione Amnesty International SCHEDE EUROPA

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Inoltre Irlanda del Nord, Paesi Baschi

209 210 212 216 217 219 221 223 224 227 229 230 232 236 237 241 244 245 247

SPECIALE SVOLTA ISLAM Slolta Islam. A che punto siamo Adel Jabbar Altri stati coinvolti Ilaria Pedrali Le missioni Onu Nazioni Unite - I Caschi Blu Raffaele Crocco Vittime di guerra/3 Federico Fossi Vittime di guerra/4 Unhcr SPECIALE CONFLITTI AMBIENTALI I conflitti ambientali/1 Cdca I conflitti ambientali/2 Cdca SPECIALE PIRATERIA La pirateria/1 Alessandro Rocca La pirateria/2 Alessandro Rocca Amnesty 2013 Amnesty International Racconti di viaggio Anna Frattin/Fabrizio Tassadri Gruppo di lavoro Fonti Glossario Ringraziamenti

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Indice

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Idea e progetto Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento

Edizione Associazione 46° Parallelo Via Piazze 34 - Trento info@atlanteguerre.it www.atlanteguerre.it In collaborazione con Editrice AAM Terra Nuova S.r.l. Via Ponte di Mezzo, 1 50127 - Firenze Tel. +39 055 3215729 info@aamterranuova.it www.aamterranuova.it

Foto di Federica Miglio

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Editoriale

Attacco a diritti e democrazia Così si alimenta la guerra

UNHCR/J. Akena

Il Direttore Raffaele Crocco

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ono sempre lì. Tutte e 36 sono sempre lì, non si muovono, le dannate. Le guerre del Pianeta, quelle in qualche modo dichiarate e combattute, non diminuiscono mai. Per una che finisce, un’altra inizia, in una girandola che fa perdere testa e speranze. Il 2013 si è chiuso con gli attentati in Russia, alla viglia delle olimpiadi invernali, la ripresa della guerra nella Repubblica Democratica del Congo – ma era mai finita davvero? -, la crisi politica della Thailandia, la ripresa della repressione in Ciad. Cito solo alcune cose, la lista è davvero lunga. Ad accorciarsi è solo la speranza. Rimaniamo prigionieri dei veti incrociati, degli interessi delle nuove potenze economiche, dell’incapacità europea ad esprimere una minima politica di peso nel mondo. La Siria, 140mila morti, milioni di rifugiati, è diventata il nuovo epicentro dello scontro e del massacro. La volontà del regime di non mollare, il sogno degli integralisti islamici di creare un califfato, la voglia di libertà dei siriani che si sono ribellati per primi e la determinazione dei curdi di avere finalmente uno stato loro e libero, creano un cocktail di violenza che nessuno vuole davvero affrontare. L’Onu in questa storia ha mostrato anche negli ultimi dodici mesi tutti i suoi limiti, subendo anche l’affronto di un Paese, l’Arabia Saudita, che ha rifiutato di entrare come membro non permanente nel Consiglio di Sicurezza: inutile farlo – hanno spiegato i diplomatici sauditi – data l’incapacità di intervento. Così, l’ultimo brandello di speranza, l’unico teorico strumento di intervento che il mondo si era dato per risolvere le crisi, si avvia al tramonto definitivo. L’impressione è che non ci creda più nessuno e che nessuno pianga per questo. Affondare l’Onu, distruggerne immagine e contenuti, abbatterlo è la stessa operazione che in vari Paesi avanza per eliminare la democrazia. Non solo come forma – badate bene, per quello basta un qualsiasi golpe – ma come idea forte, come valore. Da un lato, si distrugge l’Onu svuotandolo di significati e rendendo marginale, inutile, superato dal tempo, tutto ciò che è scritto nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Si finge di darli per scontati, quindi inutile avere luoghi che ne garantiscano l’esistenza. Dall’altro lato, si lavora per fare della democrazia un pezzo del passato, reso vano dalla velocità dei tempi, dalle necessità del mercato e dalle nuove esigenze degli individui. Attenti: accade in Europa, succede a casa nostra, con dati di affluenza al voto ormai ridicoli. Nel mondo ogni cosa avanza trascinandone altre con se. Ignorare la catastrofe che ogni guerra porta, significa non renderci conto che ogni guerra ha una qualche influenza su ciò che siamo e saremo, sul nostro quotidiano, sul futuro. Pensare la guerra come ad una cosa degli altri vuol dire creare le condizioni per essere noi le prossime vittime.


Saluti

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a Provincia di Trento è stata tra le prime a sostenere il progetto dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, arrivato alla quinta edizione. Una scelta che abbiamo deciso di confermare, puntando a farne sempre più uno strumento utile nelle scuole, fra le associazioni del territorio. Lo vogliamo diffondere in modo capillare, organizzando incontri e appuntamenti utili ad informare. Il Trentino da sempre vuole avere orecchie ed occhi sul mondo. Da sempre la nostra Provincia interviene per sostenere progetti, iniziative pensate per migliorare le condizioni di vita e dei diritti di migliaia di essere umani. La guerra si alimenta di povertà e ingiustizie. Essere presenti, sapere cosa accade, intervenire in modo coerente e solidale è fondamentale per prevenire i conflitti, per evitare che crescano, si moltiplichino. Uno slogan di questo volume è “conoscere la guerra per evitare di farla”. È un’idea che condividiamo: ci permette di sperare in un futuro migliore. Sara Ferrari Assessore all'università e ricerca, politiche giovanili, pari opportunità, cooperazione allo sviluppo della Provincia autonoma di Trento

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ove c’è una forte e diffusa presenza delle cooperative si registra minore disuguaglianza sociale, maggiore equità. Questa affermazione è, ormai da lungo tempo, suffragata da studi approfonditi e dimostra il carattere egualitario dell’agire cooperativo. Noi, che lavoriamo nel movimento cooperativo secondo questi convincimenti, aggiungiamo: dove c’è equità, dovuta al cooperare, viene meno una delle ragioni che possono scatenare la guerra. La cooperazione è nata anche per questo. Non ha visto la luce solo per venire incontro ai bisogni economici delle persone ma per cercare di soddisfare anche quelli culturali e sociali. Moltissimi cooperatori nel mondo ispirano il loro agire a queste semplici bussole che indicano nel dialogo e nell’ascolto le modalità di costruire impresa e comunità. Sappiamo bene che, in realtà, queste convinzioni profonde non appartengono alle maggioranze, sono patrimonio di minoranze pensanti. Purtroppo non siamo in presenza di popoli amanti della pace e di governanti e politici guerrafondai. La cultura della belligeranza è molto più profonda e abita i sentimenti e i pensieri di molti. Certo se i “capi”, anziché contrastare la convinzione che nella guerra risieda lo strumento di soluzione delle controversie, esaltano questa credenza e organizzano i periodi di pace in preparazione delle lotte armate future e auspicate, il mondo non troverà serenità e non ci sarà domani. Si dovrebbero sostanzialmente rovesciare le politiche che vengono adottate in moltissime parti del mondo e sostituite con altre che tendano alla conciliazione attraverso comportamenti, scelte di governo, metodi educativi che abituino alla solidarietà e alla mutualità. La nuova fase storica iniziata con la dimostrazione pratica che la globalizzazione iniqua dei potenti e dei ricchi sostenuta dalla finanziarizzazione dell’economia, porta inevitabilmente all’impoverimento di tanti e alla conseguente necessità di restringimento della democrazia a ogni livello, dovrebbe convincere o almeno aiutare a far capire la necessità dell’inversione di rotta. Globalizzazione diseguale preceduta e preparata dalla produzione e mondializzazione di armi sempre più sofisticate e costose. L’umanità in tutta la sua storia non sembra abbia avuto chiaro tutto ciò e tende anche oggi a “consegnarsi” nelle mani dei portatori di sventura. Eppure ha avuto esempi sublimi l’ultimo dei quali è la prodigiosa testimonianza di Nelson Mandela che non a caso appare come appartenente più agli Dei che agli uomini. Le azioni di contrasto che anche l’ATLANTE contribuisce in modo esemplare a tenere vive, agiscono in questo contesto e sono chiamate quindi a un compito veramente alto e difficile. Proprio per questo la sfida che continua anche con la quinta edizione, va sostenuta e ne va sottolineato l’alto valore “politico” e civile. La base di ogni azione proficua è la conoscenza approfondita delle questioni. La lettura attenta di questi rapporti contribuisce in modo fondamentale alla acquisizione degli strumenti sui quali costruire azione. La speranza è che soprattutto i giovani sappiano avvalersene al fine di impostare la loro vita sui binari della comprensione vera. Non bastano la conoscenza delle lingue, la facilità di movimento e la velocità di acquisizione di troppe superficiali informazioni. C’è bisogno che tutto ciò sia sostenuto dalla cultura, dalla materializzazione di idee di convivenza attiva. Diego Schelfi Presidente Federazione Trentina della Cooperazione

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vrei voluto non buttar giù queste righe ed il non scriverle avrebbe significato “non si combatte più, non c’é più guerra.” Purtroppo non è così e l’uomo continua a farsi del male, talvolta, perfino senza una motivazione e, spesso, solo per quei trenta denari che non sono mai serviti a cambiare il mondo. Ma adesso, anche solo per un momento, vorrei che ognuno di noi fosse artigiano. Un homo faber, un uomo fabbro di se stesso. Che con passione, capacità e impegno forgia la propria vita quotidiana, prepara il proprio futuro, destina la propria sorte. Che è sempre protagonista, e mai comprimario, delle proprie azioni. Che, con il lavoro duro e l’impegno continuo, lotta senza clamore contro i bisogni, le povertà, le disperazioni, le guerre. Annullandole, infine. Sostituendo alla miseria, benessere e ricchezza. Dando forza ad una società sempre più uguale e, dunque, sempre più giusta. Su queste pagine il marchio dell’Associazione Artigiani vuol dire “noi ci siamo e lavoriamo per cancellare la guerra. Ogni guerra.” Roberto De Laurentis Presidente dell'Associazione Artigiani di Trento


Saluti

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essuno è nato schiavo, né signore, né per vivere in miseria, ma tutti siamo nati per essere fratelli. Voglio ricordare Nelson Mandela e utilizzare le sue straordinarie parole perché sintetizzano davvero bene il mio pensiero e l'impegno politico ed istituzionale della Provincia di Firenze in questi anni. In un mondo globalizzato, dominato dalla finanza e dal pensiero unico neoliberista abbiamo scelto di andare contro corrente cercando nel nostro lavoro quotidiano di combattere le crescenti diseguaglianze, le ingiustizie, la negazione di diritti fondamentali. Sappiamo oramai molto bene quali sono le cause dei conflitti, che spesso il mondo dei media superficialmente descrive come etnici e/o religiosi, ma che in realtà nascono per motivi economici, di controllo del potere e del territorio, di sfruttamento delle risorse naturali. Per queste semplici ragioni appare evidente che un mondo più giusto è sicuramente un mondo più sicuro e che non ci può esser pace senza giustizia e rispetto dei diritti fondamentali per tutti i popoli. Esprimo un forte e sincero apprezzamento per questa nuova edizione. L'Atlante fin dalla sua nascita è sempre stato uno strumento davvero utile ed interessante, che ci racconta in maniera semplice ma allo stesso tempo efficace ed esaustiva che siamo immersi in un mondo ed in un tempo di guerra e di conflitti diffusi in tutti i continenti, spesso dimenticati se non addirittura rimossi dal nostro immaginario collettivo. Probabilmente questa è l'ultima volta che, per i motivi noti a tutti, la Provincia di Firenze può essere presente come sostenitore dell'Atlante, per questo rivolgo un sincero augurio ed un forte auspicio al Direttore ed a tutta la Redazione perché continuino a realizzare questa bellissima pubblicazione. Andrea Barducci Presidente Provincia di Firenze

Enrico Rossi Presidente Regione Toscana

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gni anno l'Atlante delle guerre e dei conflitti, giunto alla sua quinta edizione, ci consegna una fotografia tanto dettagliata quanto inquietante dello stato della violenza organizzata esercitata dagli Stati nel mondo. Si aggiungono nuovi capitoli, se ne aggravano altri già aperti, qualcuno si attenua e si risolve. Soprattutto gli autori riescono ogni volta a illuminare aspetti nuovi delle guerre. Anche qui, oltre alle documentatissime schede paese, troviamo speciali focus come quello sulla pirateria, sui conflitti ambientali o sulla svolta nell'Islam. Vorrei soffermarmi sullo Speciale Donne e Guerra, perché nell'anno 2013 abbiamo dedicato il nostro tradizionale Meeting per i Diritti Umani a questo tema. Quello della violenza contro le donne è ormai una emergenza globale, attiene al grado di civiltà tout-court che un Paese può vantare. Nelle guerre del XXI secolo le donne non solo soltanto vittime o protagoniste dell'opposizione ai conflitti o ancora alla resistenza contro gli effetti più devastanti della guerra, come già nel XX secolo, ma ne diventano anche attrici protagoniste (basti ricordare Lynndie England, la soldatessa USA diventata tristemente famosa per essere una delle protagoniste delle torture nel carcere degli orrori di Abu Ghraib in Iraq) . Ma occorre comprendere la dimensione e la profondità del problema della violenza contro le donne, per potervi opporre una strategia di diritti e di pace. “Abbiamo finalmente conseguito la nostra emancipazione politica e ci impegniamo a liberare tutto il nostro popolo dai rimanenti vincoli della miseria, della privazione, della sofferenza, della discriminazione sessuale e di ogni altro genere di discriminazione.” È una frase dal discorso che Nelson Mandela ha pronunciato il giorno del suo giuramento come primo presidente del Sudafrica dopo l'apartheid, il 10 maggio 1994. Questo instancabile combattente per la libertà e i diritti umani che si è spento pochi mesi fa, individua fra le discriminazioni ancora da combattere quella sessuale, pur trovandosi a guidare un Paese che aveva come priorità quella uscire dall'apartheid razziale. Perché Mandela ha chiaro come questo sia il fulcro di qualsiasi discorso e prassi sui diritti umani. Anche nella nostra democrazia matura, sorretta da una delle Costituzioni più avanzate del mondo, dobbiamo registrare che in molti ambiti della vita sociale, politica e produttiva le donne incontrano ancora oggi troppi ostacoli per poter dire che effettivamente le condizioni di parità statuite dalla nostra Costituzione siano rispettate. Basti pensare alla lunga scia di sangue che il femminicidio continua a lasciare nella vita contemporanea, i cui numeri sembrano più confacenti, appunto, ad una guerra. Dobbiamo cambiare radicalmente questa condizione perché la lotta contro la discriminazione di fatto delle donne è una questione decisiva per i diritti umani e per la vicenda della democrazia nel mondo, che oltre a caricare il pianeta di un livello insostenibile di violenza ne blocca lo sviluppo. La guerra che l'Atlante ci presenta, non è quindi solo il perdurare di decine di conflitti armati in atto ogni giorno, ma anche la condizione di discriminazione e di sofferenza di milioni di donne, la violazione dei diritti umani e civili ad ogni latitudine del globo, le condizioni inumane di milioni di profughi (come quella dei cittadini siriani, in fuga da una devastante guerra civile nel loro paese). Tutto questo ci riguarda direttamente, anche noi che viviamo un una pacifica nazione (che tuttavia ha tollerato numeri di guerra in termini di vittime femminili o umiliazioni inflitte ai profughi nel CIE di Lampedusa). La tratta degli esseri umani (anche in questo caso soprattutto donne), i profughi dei conflitti del nord Africa che dobbiamo accogliere, la produzione e il commercio delle armi, i conflitti per le fonti energetiche: sono gli effetti della guerra che entrano nel nostro “pacifico” Occidente e la nostra sfida è governarli con civiltà e lungimiranza. L'Atlante ci aiuta in questo lavoro quotidiano e testardo di quanti, volendo la pace, la prepara ogni giorno nella vita sociale, culturale, economica e politica.


Introduzione

Da Guantanamo a Nairobi L’ingiustizia non conosce confini

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airobi è il luogo-simbolo di una riflessione sullo stato dei diritti umani alla fine del 2013. Al centro di una piccola parte della capitale del Kenya, alla fine di settembre il gruppo estremista islamico al-Shabab ha fatto irruzione nel centro commerciale Westgate, uccidendo ufficialmente 67 persone, probabilmente decine di più. La loro colpa era di essere

ricche. Quattro mesi prima, a maggio, le abitazioni di 400 famiglie di City Carton, uno dei tanti insediamenti informali (“slum”) in cui vive metà della popolazione di Nairobi, sono state demolite da una folla di uomini armati di martelli, machete e piedi di porco. La polizia, presente sul posto, ha usato gas lacrimogeni e proiettili veri. La colpa delle persone sgomberate era di essere persone povere. Alla fine del 2013, il mondo dalla prospettiva dei diritti umani appare sempre più diviso, tenuto insieme solo da un comune denominatore: l’intolleranza verso ciò che non ci piace e coloro che lo rappresentano. I gruppi armati islamisti non tollerano l’educazione, il pensiero critico, la messa in discussione dei dogmi religiosi. Boko Haram, in Nigeria, ha ucciso decine di alunni e studenti perché andavano a scuola. I talebani in Afghanistan e Pakistan hanno portato a termine attacchi contro le donne. In Siria, i gruppi armati qaedisti hanno commesso crimini contro l’umanità. In Egitto, nei mesi in cui sono stati al potere, i Fratelli musulmani hanno azzerato le voci dissidenti, approvandosi da soli una Costituzione illiberale. La transizione tunisina si è macchiata del sangue di due gravissimi omicidi politici. Dall’altro lato, specialmente in Europa, l’intolleranza verso “chi non ci piace” diventa sempre più dominante e corrode politiche e cultura. Rom, omosessuali, migranti, rifugiati sono colpiti da una discriminazione di sistema. Nel nostro Paese, le richieste di politiche di accoglienza basate sul rispetto dei diritti umani sono sommerse – anche loro, insieme a centinaia di uomini, donne e bambini inghiottiti nel Mediterraneo da politiche di segno contrario – dal sempre più frequente suggerimento, a volte garbato e a volte minaccioso, di occuparsi “degli italiani che campano con meno di 1000 euro al mese”. Come se politiche basate sul rispetto dei diritti umani non potessero contribuire anche a contrastare povertà e disoccupazione… In molti Paesi, come nella Russia di Putin e in altri Paesi dell’ex spazio sovietico, le idee consentite sono solo quelle che piacciono al Presidente. Non stupisce, di fronte a questo quadro, che il numero di Paesi che praticano la tortura sia in aumento, di pari passo con l’inasprimento o l’adozione di legislazioni repressive nei confronti della libertà d’espressione (nelle piazze fisiche come online). Accanto al nuovo simbolo delle violazioni dei diritti umani, ricordiamoci di uno dei precedenti. Anche quest’edizione dell’Atlante non può raccontare che il centro di detenzione di Guantánamo è stato chiuso. Racconta, invece, per rimanere negli Usa, la storia più triste del 2013. Herman Wallace, dopo 41 anni di isolamento completo in un carcere della Louisiana, Usa, aveva ottenuto il 1° ottobre l’annullamento della condanna. Malato terminale di cancro, è morto poche ore dopo aver varcato, in un’ambulanza, il portone della prigione. Riccardo Noury Portavoce Amnesty International


Introduzione

MSF nelle zone di conflitto

Sempre e comunque accanto alle vittime

Gabriele Eminente Direttore Generale Medici Senza Frontiere Italia

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a oltre 40 anni Medici Senza Frontiere è a fianco delle vittime dei conflitti con i propri medici, infermieri, e il personale non sanitario. L’accesso alle cure mediche di qualità – in molti Paesi già difficile in tempi di pace – quando è in corso un conflitto diventa una sfida estrema che può riguardare centinaia di migliaia di persone. Durante un conflitto come quello nella Repubblica Centrafricana, ad esempio, aumentano inevitabilmente i bisogni medici, già enormi anche nelle zone meno instabili del Paese. Il sistema sanitario nella Repubblica Centrafricana soffre della mancanza di personale qualificato e ci sono poche strutture sanitarie pubbliche fuori dalla capitale. Mancano forniture mediche e molte persone non possono permettersi di pagare le tariffe richieste per le cure. Anche l’accesso da parte delle organizzazioni umanitarie alle zone di conflitto sempre più spesso è problematico. E le sfide si moltiplicano: un esempio recente è la Siria. La volontà politica della comunità internazionale ha portato rapidamente ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla questione delle armi chimiche approvata all’unanimità e ha dato modo agli ispettori di visitare zone sotto assedio da mesi. Al contrario, la mancanza di mobilitazione politica sul mantenimento di uno spazio umanitario lascia intere zone della Siria tagliate fuori dall’assistenza umanitaria, mentre le forniture mediche essenziali vengono sistematicamente bloccate e non possono attraversare la linea del fronte. Non solo. Il sistema sanitario – come il resto della società siriana – è sotto continuo assedio e non è più in grado di rispondere ai bisogni medici più acuti e cronici della popolazione. Gli ospedali e il personale medico sono presi di mira. La Siria è solo il più recente dei nuovi scenari di attività degli ultimi anni. Le rivolte in Medio Oriente e in Nord Africa hanno avuto le loro peculiarità, ma con caratteristiche a cui avevamo assistito raramente, come gli ospedali presi deliberatamente di mira o medici che hanno preso parte ai combattimenti. Non si vedevano scene di questo tipo dalla prima guerra cecena nel 1995. In Bahrain, gli ospedali sono stati utilizzati per identificare i manifestanti. In Libia, nel 2011, abbiamo potuto raggiungere l’enclave di Misurata solo su dei pescherecci. In Siria abbiamo dovuto aprire nuovi ospedali in clandestinità con la sensazione di tornare ai tempi dell’intervento in Afghanistan nel 1980, quando siamo entrati nel Paese, allora sotto i sovietici, a dorso d’asino. Abbiamo allestito degli ospedali in case private, in una grotta o in una struttura che accoglieva animali, in condizioni molto precarie. Si tratta di conflitti dove il “senzafrontierismo” – ovvero la capacità di intervenire per salvare vite umane, senza necessariamente chiedere il permesso dello Stato – è più importante che mai. Siamo abituati a negoziare il massimo con le parti in conflitto. Tripoli non ha voluto parlare con noi, se non alla fine. Con Damasco si discute, ma senza ottenere nessuna autorizzazione. Quando s’impone la clandestinità, cosa resta dell’umanitario? Assistiamo a una vera e propria messa in discussione della legittimità degli aiuti umanitari da alcune parti coinvolte in conflitto. Adottare dei pretesti umanitari per giustificare l’intervento militare nella guerra contro il terrorismo, in particolare, ha generato molta confusione. I gruppi islamici, ad esempio in Mali, non ci chiedono qual è la nostra appartenenza religiosa, ma si preoccupano più di un’eventuale agenda nascosta, vogliono sapere chi ci finanzia, chi cureremo o se abbiamo intenzione di trasformare la loro società. Noi siamo molto chiari: siamo qui per salvare delle vite umane. E la neutralità è la nostra unica arma in un conflitto.


Introduzione

Non di sole armi muore l’uomo Le crisi ambientali causa di conflitti

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on di sole armi muore l’uomo. È un dato sempre più allarmante che emerge non soltanto nelle lontane (e pertanto invisibili) periferie del mondo da cui emanano fumi tossici e racconti di malattie e morte, ma ormai da ogni dove. A partire da qui, sotto i nostri occhi. La nuova frontiera di conflitto oggi, di guerra dichiarata a uomini, donne e comunità, è l’ambiente. O meglio, la sua devastazione. L’avvelenamento di terreni, aria e acqua. La distruzione delle condizioni che permettono alla vita, in tutte le sue forme, di essere tutelata. Impianti industriali, centrali per l’energia, poli estrattivi, discariche e inceneritori, miniere, mega infrastrutture sono alcuni dei sistemi d’arma di questa guerra senza quartieri, che impattano gravemente i territori compromettendo la vita di chi li abita. Le miniere di coltan in Congo, l’estrazione petrolifera in Amazzonia o nel Delta del Niger, le grandi dighe in Patagonia o in India, le miniere della Bolivia, il dramma dei rifiuti in Campania o l’Ilva a Taranto. Sono solo alcuni esempi di questo multiforme fenomeno, esempi diversi ma che ci raccontano la stessa dinamica: progetti produttivi, estrattivi o di smaltimento che non tengono conto, colpevolmente, delle conseguenze spesso irreparabili che infliggono a territori e abitanti. Che non inseriscono nei costi di produzione i costi ambientali, sociali e sanitari prodotti sulle comunità coinvolte, le uniche a pagarne il vero prezzo. È per questo che milioni di comunità locali in tutto il mondo, unite dalla necessità di difendere il proprio futuro e quello dei loro figli, si organizzano autonomamente da decenni. È nata così una nuova categoria di conflitti: i conflitti ambientali. Conflitti sociali nati attorno alla difesa del territorio così diffusi e dirompenti da essere il sintomo più evidente di un modello economico che né il pianeta, né i suoi abitanti sono in grado di sostenere. La trincea è chiara. Da una parte: mega imprese, governi, banche. Progetti spesso multimilionari. Dall’altra: cittadini e cittadine, comunità che lavorano dal basso mobilitandosi, facendo informazione e pressione per difendere una idea altra dello sviluppo, fondata sulla giustizia e sulla tutela dei diritti, a partire da quello fondamentale alla vita. Una geografia mondiale di conflitti, una cartina di tornasole delle conseguenze delle politiche di sfruttamento selvaggio, che ci svela una nuova geopolitica. Perché le guerre oggi non si fanno solo con gli eserciti. Ma con i capitali, le imprese, le trivelle, i rifiuti e il cemento. Marica Di Pierri Presidente Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali


Introduzione

Informare in nome della pace

Questo libro sarebbe piaciuto a Ilaria e Miran

Mariangela Gritta Grainer Presidente Associazione Ilaria Alpi

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a pubblicazione della quinta edizione dell’Atlante delle guerre e dei conflitti arriva in un momento particolare: il 20 marzo 2014 saranno venti anni da quando Ilaria è stata assassinata “nel più crudele dei giorni” insieme a Miran Hrovatin a Mogadiscio: un’esecuzione preordinata e ben organizzata perché lei tacesse per sempre e non potesse più raccontare. “Non tacere” era il titolo dell’appuntamento per il 19° premio televisivo “Ilaria Alpi” che si è concluso lo scorso settembre a Riccione. Conoscere, cercare, svelare, raccontare… non tacere: imperativo categorico, scelta etica che si rintraccia sempre nei lavori di Ilaria. Non tacere e raccontare le guerre che ci sono nel mondo, spesso sconosciute o dimenticate: è l’ispirazione dell’Atlante fin dalla sua prima edizione. “L’Italia ripudia la guerra” è scritto nella nostra Costituzione (art.11). Nella realtà non è però così: Perché molti Paesi (oltre alle superpotenze) hanno la bomba atomica. Perché al terrore nucleare, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, si è sostituito l’incubo del terrorismo e di nuove guerre per combatterlo. Perché i conflitti cosiddetti locali in corso sono tanti, in ogni parte del mondo. Perché si continuano a fabbricare armi che poi, ineluttabilmente, si vendono legalmente o illegalmente per alimentare i conflitti locali. Perché l’Italia è il quinto Paese produttore di armamenti bellici e il primo esportatore mondiale per pistole e fucili, armi “leggere” non soggette ai controlli della legge e che finiscono prevalentemente nei Paesi del Sud del mondo. Perché l’Italia partecipa, insieme con altri Stati e Nazioni, a guerre e noi ce ne accorgiamo solo quando muore un militare italiano, un ragazzo, un figlio nostro. Perché le guerre uccidono e sottraggono risorse per lo sviluppo. Perché noi viviamo in una parte del mondo che ospita il 20% della popolazione e consuma l’85% della ricchezza, e siamo convinti che i diritti umani riguardino questo 20% senza pensare alle persone che vivono “Dove i diritti umani non esistono più” o non esistono ancora. È tempo di costruire una cultura di pace: è questa la finalità di questa pubblicazione proprio perché parla di guerre. L’Associazione Ilaria Alpi pensa che la cultura della pace può crescere ed affermarsi solo insieme alla cultura della legalità, della giustizia e della verità. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin uccisi con un solo colpo ciascuno sparato alla nuca: perché Ilaria aveva rintracciato, nel suo lavoro d’inchiesta, un gigantesco traffico internazionale di rifiuti tossici e di armi che aveva nella Somalia (martoriata da un sanguinario dittatore come Siad Barre prima e dalla guerra civile poi) un crocevia importante oltre che in zone del nostro Paese come solo in questi giorni viene “rivelato”. A gestire sono mafia,’ndrangheta e camorra, organizzazioni criminali che godono di coperture e complicità nelle strutture di potere pubbliche e private. Sappiamo già quel che è successo quella domenica 20 marzo 1994. Sappiamo quel che è successo prima e anche dopo, il perché, forse anche da chi era composto il commando assassino, ma ancora non sappiamo con certezza chi ha ordinato l’esecuzione e chi ha coperto esecutori e mandanti. Vogliamo che il 2014 sia l’anno della verità, tutta la verità, e della giustizia. Ce la faremo grazie a Luciana e Giorgio Alpi (Giorgio ci ha lasciato ma è sempre con noi): ci hanno insegnato tanto con il loro dolore, la dignità, l’indignazione, l’orgoglio, l’impegno incessante. Ce la faremo grazie alle donne e uomini di buona volontà, tantissimi amici dell’Associazione e del premio Ilaria Alpi a partire da quanti lavorano con passione e competenza per aggiornare e rinnovare l’Atlante delle guerre e dei conflitti: una pubblicazione che sarebbe piaciuta molto a Ilaria.


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SITUAZIONE A OTTOBRE 2013 CONFLITTI, MISSIONI ONU, INOLTRE

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Istruzioni per l’uso La redazione

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Piccola guida alla lettura della quinta edizione Questa guida è ormai una tradizione. Esiste da quando esiste l’Atlante perchè i temi trattati sono “sensibili”, si prestano a interpretazioni, prese di posizione, perché no anche a strumentalizzazioni. Spiegare, quindi, le ragioni che ci hanno portato a scrivere, trattare e impaginare in un certo modo argomenti e fatti diventa essenziale per dare la giusta chiave, o almeno quella che secondo noi è la giusta chiave. Detto questo cominciamo, scusandoci con i lettori affezionati, che si ritroveranno dinnanzi a cose già dette. Iniziamo dalle novità. Questa quinta edizione vede nascere la collaborazione con Medici Senza Frontiere. Ci pare fondamentale averli nel progetto, per il punto di vista “originale” che hanno dei conflitti, delle crisi umanitarie e della scarsa informazione che i mass media danno della guerra. A loro si aggiunge il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali, che ci consente di raccontare ciò che la guerra combina nell’ambiente. Gli altri ci sono tutti, come l’anno scorso. L’elemento principale, in questo libro, resta la forma grafica, la scelta di essere Atlante. Lo ripetiamo: ogni guerra ha esattamente lo stesso spazio, il medesimo numero di pagine. Questo per evitare di dare ad una maggiore importanza rispetto alle altre. È una scelta “politica”, che vuole mettere tutte le guerre allo stesso livello. Così, le schede conflitto sono tutte di 4 pagine, divise rigorosamente per continente, come in un Atlante, appunto. Attenzione: in questo – che è un Atlante particolare – troverete delle schede conflitto, non delle “schede – Paese”. Qui si disegna un profilo geografico ad una guerra e, quindi, vi sono schede che non corrispondono a Stati o Nazioni, ma ad aree di conflitto. È una differenza fondamentale. Per l’uso delle parole, cioè per le definizioni che diamo ad ogni aspetto delle guerre, vi rimandiamo anche quest’anno al Glossario che troverete nelle ultime pagine. Leggetelo, perché è importante per avere un criterio univoco e senza incertezze. Le definizioni che diamo non sono scientifiche, lo scriviamo sempre, ma sono una scelta, fatta dopo giorni di discussione. E danno un indirizzo preciso alla lettura. Vi diciamo, poi, che troverete, sotto le carte geografiche di ogni scheda conflitto, i dati sulla situazione profughi e rifugiati. È stata realizzata in collaborazione con l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu e si aggiunge al tradizionale rapporto sul tema che pubblichiamo, come tradizione, nelle ultime pagine. Altre istruzioni: le foto che trovate in questo Atlante ci sono state fornite da fotografi amici, dalle associazioni che collaborano, dall’Alto Commissariato dei Rifugiati. Altre sono tratte da video di reporter sparsi in tutto il mondo. Sono quelli che tecnicamente si chiamano “frame”, cioè fermi immagine di un filmato. Per questo, a volte, possono sembrare di qualità strana, magari mosse o sgranate. Le abbiamo volute e scelte per la loro efficacia, per la capacità di raccontare tutto in una sola immagine. Un’ultima cosa: le carte geografiche sono quasi tutte messe a disposizione dalle Nazioni Unite, per questo sono in inglese. Unica eccezione è la Carta di Peters, usata da sempre in questo Atlante. Anche questa è una scelta politica. Buona lettura.

Foto in alto UNHCR/P.Behan


La situazione

Raffaele Crocco

Foto in alto UNHCR/H.Caux

UNHCR/Zalmaï

Mica bello vivere in riserva, con la spia della benzina che segnala sempre che stiamo rimanendo a piedi. Per niente piacevole avere il conto in banca sempre a debito. Eppure nella nostra stranezza di essere umani è quello che facciamo da decenni: vivere consumando quello che ancora non abbiamo, le risorse future. C’è un signore svizzero, Mathias Wackernagel, si chiama così, che per far capire esattamente quello che succede ha inventato, qualche tempo fa, un modo per misurare il nostro indebitamento nei confronti del Pianeta. Mette assieme decine di parametri - tipo i consumi alimentari, energetici, ma anche le capacità finanziarie, di innovazione dei singoli Paesi – poi tira le somme. Nel 2013 il mondo è andato in “rosso”, ha cioè iniziato a consumare le risorse future, il 20 agosto. Lentamente, anno dopo anno, la data si abbassa. Nel 2000 eravamo andati in riserva il 1° novembre, nel 1990 il 7 dicembre. Un Pianeta con i debiti, questa la Terra del 2014. Non solo finanziari, legati alla crisi, ma soprattutto energetici, di risorse e quindi di possibilità di distribuire meglio, in modo più equo, ricchezza e speranze di vita. Prendiamo l’agricoltura, il settore che dovrebbe garantire cibo e quindi la vita. Tra il 2003 e il 2012 il tasso di crescita della produzione mondiale è stato del 2,5% annuo. Un recente rapporto Fao dice che nel prossimo decennio si crescerà ancora dell’1,5%. Apparentemente tutto bene, invece no. La crescita non è sufficiente a placare la fame di almeno metà della popolazione umana. Ci sono troppe differenze – la Fao le chiama per nome: “disuguaglianze” - fra le aree dove si produce magari anche in sovrabbondanza e le zone dove il cibo manca completamente. Aggiungete la carenza di terre coltivabili, erose dai disastri ambientali o rese inutili dalle guerre, l’aumento dei costi di produzione, la crescita dei prezzi dei prodotti e la scarsità delle riserve ed il gioco è fatto. Tre miliardi e mezzo di esseri umani rischiano la pelle, ogni giorno, semplicemente perché non sanno cosa mangiare. Negli anni della finanza globale e della ricerca avanzata, l’agricoltura resta centrale nei giochi di guerra e di pace. Conquistare terre coltivabili è l’obiettivo di tutti quelli che possono farlo. Nel 2010 la Banca Mondiale ha pubblicato un rapporto, raccontando come nel mondo 46milioni di ettari di aree agricole – la superficie della Francia – fossero passate di mano, affittate e prese in gestione da fondi d’investimento degli Emirati del Golfo, Nord americani, Europei o di Governi, come Cina, India, Corea del Sud. Seul, da sola, ha preso in affitto per 99 anni un milione e 300mila ettari in Madagascar, con canoni che variano dai 90 centesimi ai dieci dollari all’anno per ettaro. Due terzi di queste terre controllate da altri sono in Africa, usate per il 37% per il cibo, per il 21% per i carburanti vegetali, il restante per vere e proprie specula-

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Povero pianeta: i conti sono in rosso


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zioni finanziarie. Quest’anno tira il grano? Bene si coltiva grano, altrimenti si cambia. Ciò che conta è il guadagno. Problemi che paiono lontani, a meno di sfogliare il Guardian dell’aprile del 2013. Il quotidiano britannico ha condotto un’inchiesta sulle terre coltivabili nell’Unione Europea. Ha scoperto che il 50% delle campagne del Vecchio Continente sono in mano ad appena il 3% delle aziende agricole europee. Aziende che, per altro, hanno come soci non contadini del luogo, ma anche in questo caso i fondi d’investimento di cui si parlava poco fa. Insomma, tutto è concentrato in mano a pochi. Anche in Europa. La corsa alle disuguaglianze non conosce fine ed alimenta conflitti attuali e futuri. Per carità, cambiano i protagonisti. Raccontare il mondo usando lo schema di “un Nord imperialista che sfrutta le risorse del Sud” diventa sempre più riduttivo. Lo dicono i dati. Lo racconta la cronaca. Il 26 e 27 marzo del 2013 a Durban, in Sudafrica, c’è stato il quinto summit dei Paesi Brics, cioè degli Stati ad economia forte, emergente e soprattutto brutalmente contrapposta a quella del quasi superato G8. Sono Brasile, Russia, India, Cina e, ultimo arrivato, Sudafrica. Insieme rappresentano il 42% della popolazione mondiale. Ognuno di loro è capace di generare fra il 3 e il 5% del Pil planetario. Per capirci: il loro tasso di crescita, sempre in termini di Pil, fra il 2001 e il 2010 è stato mediamente dell’8,5% contro il 1,2% dell’Area Euro e il 1,6 degli Stati Uniti. Sono potenze, destinate per molti analisti a superare i colossi – credeteci o meno c’è anche l’Italia fra questi – che hanno dettato legge sino ad oggi. Negli ultimi anni la crisi l’hanno sentita, la crescita è rallentata, ma a Durban hanno creato i presupposti per fondare una Banca comune, con una dotazione di 50miliardi di dollari, e diventare interlocutori alternativi alla Banca Mondiale e alle banche d’investimento regionali. Obiettivo finale: sganciarsi dal dollaro come moneta per gli scambi internazionali. Operazione fantascientifica? Forse, ma c’è chi ci crede. A Durban l’incontro si intitolava “Brics e Africa, una partnership per l’integrazione e l’industrializzazione”. Il Sudafrica vuole giocare le proprie carte e diventare la potenza regionale di riferimento. La Cina è passata da 10miliardi di dollari di interscambi nel 2000 a 160 nel 2011: è diventata di fatto la padrona del Continente. Stati Uniti e Francia non gradiscono, chiaro. La tensione viene alimentata creando milizie, finanziando guerre e appoggiando governi amici. Nel mezzo ci sono le persone, quelli che potrebbero essere come noi. L’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che tenta di far sopravvivere profughi e rifugiati dice che ogni quattro secondi c’è un nuovo profugo sul Pianeta, c’è un altro essere umano che fugge dalla sua terra, dalla casa, dagli amici, dalla quotidianità per cercare di avere una speranza. E chi non fugge deve fare i conti con Governi che non rispettano i diritti umani. Amnesty International lo spiega bene: 112 Paesi nel mondo hanno torturato i loro cittadini nel 2013. In 80 i processi sono stati portati a sentenza senza garantire la difesa. In 50 polizia e forze di sicurezza hanno ucciso illegalmente. In 101 Stati la libertà d’espressione è stata cancellata e in 57 i prigionieri di coscienza sono rimasti in carcere. Lo stato del Pianeta alle soglie del 2014 è questo. Non è peggio di prima, ma non è meglio. Eppure, da qualche parte nella nostra pancia, c’è la consapevolezza che in qualche modo viviamo nel mondo migliore che l’uomo abbia mai conosciuto. Anche nei Paesi più poveri, la vita media si è alzata, i consumi alimentari sono cresciuti. L’accesso all’acqua è diventato possibile per milioni di essere umani che ne erano privi, così come si è alzato l’indice di alfabetizzazione. Abbiamo le informazioni tecniche, abbiamo la coscienza sociale e politica, abbiamo gli strumenti per risolvere tutte le contraddizioni che viviamo. Possiamo davvero finirla di fare debiti con questa vecchia signora che ci ospita. Soprattutto possiamo smetterla di far pagare gli interessi ai tanti, troppi, che ancora oggi hanno molto, molto, meno di noi.

UNHCR/G. Dubourthoumieu

UNHCR/D.A.Khan


Informazione e guerra/1 Pino Scaccia

Giornalisti rapiti, imprigionati, uccisi. Come può esserci la libertà di raccontare quello che succede nel mondo se i reporter ogni giorno rischiano sempre più la vita? L’esatta, preoccupante dimensione del fenomeno si può trarre solo dalle cifre. Ci sono dati di per sé allarmanti: negli ultimi cinque anni sono stati 660 i reporter uccisi nel mondo, 1896 negli ultimi dieci anni, quasi 15 mila negli ultimi venti. Senza contare i bloggers che fino a poco tempo fa neppure erano considerati fra le vittime dell’informazione. Nel 2013 dopo i primi nove mesi, i morti sono già 89 (con i bloggers o citizen journalist il bilancio sale a 109) in piena drammatica media con le stagioni precedenti, visto che ogni anno presenta un conto di almeno cento vittime. I Paesi più pericolosi risultano al momento Siria e Pakistan con 11 vittime, seguiti da India e Filippine. Questo il report completo: 11: Pakistan, Siria. 8: India, Filippine. 7: Somalia. 6: Egitto. 5: Brasile. 4: Messico, Guatemala. 2: Haiti, Iraq, Russia, Colombia. 1: Nigeria, Repubblica Centrafricana, Perù, Yemen, Kenya, Ecuador, Paraguay, Afghanistan, Congo, Uganda, Honduras, Libia. (aggiornato al 30 settembre 2013) La situazione è particolarmente grave in Siria, dov’è in corso una sanguinosa guerra civile. Le vittime fra i reporter sono state addirittura 50 negli ultimi due anni (fra cui 12 stranieri) a cui sono da aggiungere 19 bloggers. Ma si continua a morire anche nelle guerre più antiche, che vanno avanti da più di dieci anni, come in Iraq (278 vittime complessivamente dall’inizio del conflitto) e Afghanistan (34 complessive). Dieci in totale gli italiani morti in guerra (a cui sono da aggiungere le 20 vittime per mafia e terrorismo, altri fronti dolorosi). L’ultima vittima risale al 2010 quando il fotografo Fabio Polenghi cadde in Thailandia colpito dall’esercito durante una manifestazione. Morti strane, spesso misteriose, su cui difficilmente si riesce a stabilire la verità. Come nel caso di Ilaria Alpi: a vent’anni esatti dal suo sacrificio non è stato possibile accertare chi è stato a ucciderla e soprattutto perché. In occasione del decennale della morte sono tornato a Mogadiscio. Ho inter-

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Giornalisti e fotoreporter come bersagli mobili


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vistato intellettuali, pacifisti somali, italiani coraggiosi che hanno deciso di restare e un avvocato che dice di sapere tutto sulla morte di Ilaria. Yahya Amir, professore universitario: “I signori della guerra hanno deciso di ucciderla perché sapeva troppo dei loro affari: armi, droga, rifiuti tossici. Non solo. La giornalista italiana sapeva pure con chi facevano affari questi signori. Un omicidio su ordinazione”. Sono passato accanto all’angolo dove è avvenuta la sua tragica esecuzione. In certi posti bastano i sussurri: un nome (italiano) fra i mandanti, il grande affare della cooperazione, cifre esorbitanti (tremila miliardi delle vecchie lire), ma i meccanismi che soffocano la verità sono sempre gli stessi: la verità giornalistica contro quella giudiziaria. E in tribunale il delitto resta impunito. Come restano impunite le altre morti italiane: Enzo Baldoni in Iraq, Antonio Russo in Cecenia, Maria Grazia Cutuli in Afghanistan. Non c’è tuttavia solo il prezzo più alto, la vita, a documentare il tributo dei giornalisti alla libertà di informare. Sono stati 1993 quelli arrestati l’anno scorso e attualmente sono in prigione 355 reporter: 195 dei media tradizionali e 160 bloggers. L’infame classifica vede nettamente in testa la Cina, con 99 detenuti, seguita da Iran (49), Siria (46), Turchia (30) e Vietnam (35). Notevole anche il numero dei rapiti: addirittura 42 quest’anno. Per non parlare poi dei 73 esiliati, cioè giornalisti costretti a lasciare il proprio Paese per sopravvivere. Quando muore uno di noi. Non importa la nazionalità e neppure il ruolo: può essere un fotografo o un fonico, un operatore o un producer: uno di noi. E allora ti accorgi che stai in mezzo a una guerra vera, dove sparano sul serio, non è un film, e se non capita a te ma a qualcun altro è solo casualità, destino. Inutili i giubbotti antiproiettile, le scorte, la prudenza, il mestiere, tutto il resto. Se ti arrivano granate o colpi di cannone o killer assetati di vendetta o guerrieri disperati e impauriti c’è poco da difendersi. Neppure il buonsenso basta perché la storia è piena di passi molto riflessivi e poi l’incursione improvvisa, l’attacco a sorpresa e tu ti ritrovi lì, a un soffio dalla fine. Chiunque di noi si è trovato spesso in difficoltà. Ma nessuno di noi è un eroe né ha la vocazione di diventarlo. Si va in guerra, sembra banale, come si va in qualsiasi altra parte del mondo a “raccontare”: può essere una festa e può essere l’inferno. La cosa strana è che continuiamo a sentirci dei privilegiati, solo per il fatto di stare in mezzo all’evento, occhi e anima di tutti gli altri. Molti purtroppo pagano irrimediabilmente la grande curiosità, questa voglia di capire. C’è un muro trasparente ad Arlington, Virginia. Sta in cima a Freedom Park e domina Washington. È alto sette metri. E non finisce mai: ogni anno, ai primi di maggio, aggiungono un pezzo. Ogni pannello ha un nome, un luogo, una data. È il muro del Journalists Memorial, il monumento ai giornalisti caduti. Il primo della lista: James M. Lingan, 62 anni, americano, ucciso a Baltimora nel 1812. Lavorava al Federalist , dava fastidio ai politici. Non è una lista completa, quella di Arlington, ma è “democratica”. Nel senso che ci sono nomi sconosciuti e storici come Robert Capa, 1954, il fotoreporter forse più famoso del ’900, cinque guerre in 18 anni: sue le uniche, vere immagini dello sbarco in Normandia. A 41 anni andò in Giappone per una mostra, Life lo chiamò: “Già che ci sei, coprici il fronte in Indocina”. Saltò su una mina vicino ad Hanoi. Giornalisti massacrati in guerra. Fatti sparire perché davano fastidio. Il reportage di guerra nasce nel 1854, quando il Times invia un proprio corrispondente, l’irlandese William Russell, in Crimea. Fino ad allora le notizie erano pervenute dal fronte solo grazie ai servizi di alcuni ufficiali incaricati dall’autorità militare. Resoconti pieni di retorica e di verità di comodo. Ma è il Vietnam lo spartiacque nella storia del giornalismo di guerra. Gli inviati raccontano al mondo la “sporca guerra” senza censure. Una guerra che finisce dalle trincee direttamente nelle case degli americani. Solo in Vietnam i morti fra i reporter sono stati 68. Una svolta ulteriore nel reportage di guerra, che ci porta alla realtà di oggi, è avvenuta sicuramente durante la guerra del Golfo numero uno. Per la prima volta la guerra in diretta televisiva, anche se sicuramente filtrata dal comando militare americano da una parte e condizionata dal regime di Saddam dall’altra. Lampi di guerra, solo lampi. La testimonianza è sempre più complicata e sempre più rischiosa. Soprattutto nei tanti conflitti cosiddetti invisibili. Ma perché il mondo non vuole testimoni? Chiudo ricordando quello che una grande, coraggiosa reporter russa, Anna Politkovskaja aveva scritto poco prima di essere eliminata: “Non sono un magistrato inquirente, sono solo una persona, sono una giornalista, che vuole descrivere quello che succede a chi non può vederlo”. Questa è l’unica nostra grande colpa. Imperdonabile per chi vuol nascondere la verità.


Vittime di guerra/1 Razi e Sohelia Mohebi

I rifugiati politici, cittadini del nulla

Scriviamo questa lettera affinché il grido di sofferenza di un uomo sia di invito per i nostri concittadini a pensare alla situazione di decine di migliaia di altri esseri umani e più in generale alla condizione del rapporto fra gli uomini del nostro tempo. Come rifugiati politici che vivono in Italia da oltre cinque anni, siamo giunti alla conclusione di dover impugnare la penna e raccontare di quell’uomo indefinito. “Chi è il rifugiato politico? Cos’è l’asilo politico? Cosa significa chiedere quest’asilo all’Italia? Che significa per l’Italia dare questo asilo?” Il rifugiato politico è l’emblema di tutte delle contraddizioni del mondo globale. Prigioniero di due Stati, quello da cui è fuggito e quello che lo ha accolto, e di nessuna cittadinanza. Un uomo costretto a vivere senza volto. Un fantasma che nel migliore dei casi trova di fronte a sé tre grandi porte chiuse. Infatti, ammesso che il suo corpo riesca a non diventare mangime per i pesci, o a non venir schiacciato dai camion cui si aggrappa per superare la frontiera, o che riesca ad affrontare tutti i confini visibili e invisibili fino ad arrivare in questa terra, una volta ottenuto l’asilo politico trova comunque di fronte a sé tre grandi porte chiuse. La prima porta. Questa porta riguarda l’impossibilità in Italia di poter dare continuità a quell’attività politica e sociale per la quale il rifugiato ha rischiato la propria vita e per la quale è stato costretto ad abbandonare la terra d’origine, gli affetti e le sue proprietà. Chi entra a far parte della categoria di rifugiato politico non ha infatti la possibilità di continuare un’attività che mantenga le reti create precedentemente o che gli permetta di attivarne di nuove nel Paese ospitante. Questo è il caso di giornalisti, attivisti, avvocati, registi e studenti che non hanno abbandonato il proprio Paese alla ricerca di un miglioramento economico, ma con l’obiettivo di perseverare nelle loro attività politiche, sociali e culturali. Non potendo fare ciò, il loro sacrificio, e quello degli ex colleghi, dei familiari e degli amici rimasti nel Paese d’origine, perde qualsiasi senso. In un Paese come l’Italia, privo di una legge organica in materia, nei migliori dei casi il rifugiato si vede costretto a vivere di piccoli sussidi che ne permettono la sopravvivenza ma non ne favoriscono la realizzazione personale. Si permette al corpo di sopravvivere mentre l’anima avvizzisce. Stiamo parlando di uomini e donne che hanno elevati titoli di studio, specializzazioni, spirito imprenditoriale, desiderio di restituire il favore dell’accoglienza arricchendo la società che li ospita. Persone dotate del carisma necessario per contrapporsi a regimi dittatoriali e sanguinari e che spesso hanno una tale forza d’animo da poter dare certamente un prezioso contributo a qualsiasi società. Eppure ogni loro intenzione, ogni loro energia propositiva e vitale è spenta dalla totale insensatezza del meccanismo burocratico che

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“Lo vedevo spesso nei vicoli del centro storico di Trento e in via Roma, nella biblioteca centrale della città. La mattina andava lì, lavava la sua faccia nel bagno, cercava un po’ di calore nel profumo del caffè e delle brioche del bar. Gli chiedevo “Come stai?”. Diceva: “Dalla mattina fino alla sera cerco lavoro senza trovare nulla, passo le notti in strada vicino alla stazione sopra i tombini dell’areazione per non congelarmi. Pranzo alla Caritas se arrivo in tempo”. Poi si è perso. Chiedevamo a chiunque, ma nessuno sapeva nulla di lui. Un giorno abbiamo saputo che aveva richiesto asilo politico alla Svezia. Ancora mesi di silenzio, fino a quando ci dissero che volevano rimandarlo a Trento e che lui, per rimanere là, aveva tentato per tre volte il suicidio nel campo dei rifugiati. Alla fine l’ufficio competente svedese aveva accettato di prendere in considerazione il suo caso”.


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“gestisce” la loro nuova vita di non-cittadini. Un meccanismo che preferisce elargire sussidi, trovare lavori poco decorosi ma “controllati”, rinchiudere in alloggi “protetti” o superaffollati al permettere un’attiva realizzazione delle proprie aspirazioni. La seconda porta. Questa porta è sbarrata dalla “Convenzione di Dublino” cui aderiscono 24 Paesi europei e in cui si obbliga il primo Paese ricevente a registrare le impronte digitali del richiedente e limitarne entro i propri confini la residenza, la circolazione e il lavoro: questo rende la condizione di asilo politico un esilio di fatto. Un regolamento criticato fortemente sia dal Consiglio Europeo per i rifugiati e gli esuli che dall’Unhcr in quanto incapace di tutelare i diritti fondamentali dei rifugiati. Ed è paradossale che in una società globale in cui tutto sembra potersi muovere liberamente (merci, notizie, stili di vita, contenuti culturali e mediali) le persone non abbiano gli stessi “diritti di movimento”. Si sente spesso dire che in questo tempo le persone sono trattate come merci. Ma nel caso dei rifugiati politici lo status di “persona” sembra addirittura inferiore a quello di qualsiasi prodotto commerciale. La terza porta. Questa porta è chiusa dall’impossibilità del ritorno in patria. I rifugiati si trovano costretti, così ad ondeggiare in un limbo. Un limbo che più che una questione sociale o di dignità personale sta sempre più diventando un metro di civiltà. Secondo recenti dati Istat negli ultimi due anni, sul solco della crisi economica che ha colpito l’Italia, già 800mila immigrati hanno deciso di lasciare il Paese per rientrare nei loro Stati di origine. È bene ricordare, anche se può sembrare tautologico, che il rifugiato politico a differenza degli immigrati non ha la possibilità di tornare nel proprio Paese di origine nemmeno quando il Paese “ospitante”, come nel caso di un’Italia in profonda crisi, versa in situazioni economiche e sociali che non permettono una vita dignitosa. Ed è soprattutto utile ribadire che sul limbo in cui fluttuano i rifugiati politici pende una duplice condanna sancita dalle mancanze dei Governi dell’Unione Europea (Premio Nobel per la Pace 2012). Perché duplice condanna? In primis perché fuggono dai conflitti o regimi dittatoriali direttamente o indirettamente sostenuti dagli stessi Governi europei che, in secondo luogo, non hanno attuato politiche condivise ed efficaci per la loro accoglienza, inserimento e valorizzazione e per il rispetto della loro dignità. Fatto drammaticamente rilevante per l’Italia che, ad oggi, non ha ancora espresso una benché minima legge in materia. Attualmente l’Italia sta ospitando solo 58mila rifugiati politici a fronte dei 570mila ospitati dalla Germania. Eppure sembra solo quello italiano ad essere un caso emergenziale, sebbene i numeri ne smentiscano l’intensità.


Vittime di guerra/2 Gabriele Eminente

La storia di Medici Senza Frontiere è stata intrecciata da sempre con le difficoltà di fornire assistenza medica e umanitaria in luoghi devastati dai conflitti e dalla guerra, come negli anni ’90 in Rwanda o in Jugoslavia. Per farlo abbiamo sempre scelto di prenderci il rischio di lavorare nelle cosidette ‘zone di conflitto’, dove è in corso una guerra o persistono situazioni di estrema violenza. Questo rischio lo abbiamo sempre accettato mossi unicamente da un sentimento universale di solidarietà verso tutti coloro che necessitano di assistenza medica. Ma oggi in un crescendo di crisi umanitarie, dalla Siria al Congo, dal Bahrain al Mali e al Sud Sudan, siamo costretti ad assistere a un trend preoccupante: uomini armati che negli ospedali assaltano i pazienti ricoverati, cliniche prese di mira come obiettivi militari nelle guerriglie o ancora farmacie ed ambulatori sistematicamente distrutti o saccheggiati. Alle nostre ambulanze viene impedito di raggiungere i feriti, sottraendo così a interi gruppi la possibilità di ricevere l’aiuto di cui hanno urgente bisogno. I simboli usati per dichiarare la presenza di un servizio puramente medico, come la croce rossa, la mezza luna rossa, o il nostro logo, vengono ignorati, e spesso calpestati, mentre sono là proprio a richiamare la coscienza etica e il rispetto condiviso da tutti per la professione medica. Basti a tutti un solo tragico numero: fra dicembre 2012 e agosto 2013 sono 29 gli operatori umanitari uccisi mentre portavano avanti campagne di vaccinazione per la polio in Nigeria e in Pakistan, due Paesi dove questa malattia resta ancora endemica. La tragedia delle vittime e la sofferenza dei loro familiari sono le vere e più dirette conseguenze di questi attacchi. Migliaia di bambini rimangono così senza vaccinazioni e cure mediche, esposti a epidemie e malnutrizione. Anche per questo motivo le organizzazioni sanitarie sono state costrette a rivedere in questi ultimi anni le proprie attività: ad esempio abbiamo dovuto aumentare le misure di sicurezza. Il soccorso medico sembra essere diventato il target di alcune operazioni di guerra e di guerriglia. E proprio in quei luoghi dove speravamo stesse tornando una qualche forma di stabilità, siamo invece testimoni della ripresa di attacchi e minacce contro gli operatori umanitari. Pensiamo ad esempio all’Afghanistan o al Sud Sudan, dove gli ospedali vengono sistematicamente distrutti. Msf lasciò l’Afghanistan nel 2004 quando cinque dei nostri operatori furono assassinati, costringendoci a uscire da quel Paese dove eravamo rimasti ininterrottamente fin dal 1979 e dove siamo tornati solo di recente, quattro anni fa. E lo stesso si può dire della Siria, dove in questi due anni di guerra gli ospedali sono stati presi di mira, rendendo estremamente complesso, quando non impossibile, sia raggiungere che curare i feriti. Questa allarmante realtà ha costretto il Comitato Internazionale della Croce Rossa (Icrc) e Medici

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Sempre più difficile portare aiuto dove si combatte


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Senza Frontiere a condannare pubblicamente e con vigore ogni azione che deliberatamente punti a deviare l’intervento medico, quando non ad impedire l’assistenza ai feriti e i malati. Msf e Icrc hanno voluto rivelare le dimensioni e le conseguenze di quest’aggressione contro chi cura e chi ha bisogno di cure attraverso una lettera aperta. Desideriamo cambiare tutto questo, perché le persone possano accedere alle cure di cui hanno bisogno senza alcuna paura, in qualunque modo e ovunque si trovino. La prima sfida che dobbiamo superare è quella di prevenire questi attacchi e queste violenze subito. Gli Stati e tutte le parti coinvolte in un conflitto hanno la responsabilità e la possibilità di mettere in atto la prevenzione: loro è il compito di prevenire gli abusi, impedire l’ostracismo e fermare i continui colpi che vengono sferzati contro l’assistenza medica. Chi lavora per curare deve essere sostenuto e non osteggiato, e per questo gli Stati dovrebbero mettere in atto ogni possibile misura, anche attraverso la loro legislazione, per proteggere l’azione medico-umanitaria. Per Msf gli obiettivi sono due: da un lato, garantire l’accesso alle cure per tutti, dall’altro la sicurezza sia per i pazienti che per il personale medico. Lo facciamo con molti strumenti diversi tra loro, comprese campagne che promuovono il rispetto per la nostra missione. Stiamo documentando e analizzando i dati sugli incidenti violenti in Siria, Iraq, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Honduras, Afghanistan, Kenya, Yemen, Myanmar, Colombia e Repubblica Centrafricana: questo per contribuire al dibattito internazionale, e richiamare l’attenzione di organizzazioni umanitarie, Governi, autorità locali e gruppi armati. Sempre e solo con l’obiettivo di proteggere la professione medica, e garantire le cure laddove ce ne sia più bisogno. Non si tratta di proteggere le operazioni umanitarie in sé. Gli attacchi contro il personale medico o le strutture sanitarie negano il diritto dei feriti e dei malati all’assistenza. Un paziente non può essere un nemico. L’etica medica obbliga gli operatori sanitari ad assistere tutti i pazienti e ad agire in modo imparziale, solo sulla base dei bisogni medici. Proteggere malati e feriti è un principio al centro delle Convenzioni di Ginevra: ambulanze, cliniche mobili e ospedali devono essere spazi sicuri e neutrali. Come medici e infermieri, siamo impegnati a offrire cure salva-vita per chi ne ha bisogno, a prescindere da quale sia la fazione o il gruppo di appartenenza. Se questo principio non è rispettato, nessun tipo di trincea sarà in grado di proteggere i nostri pazienti e operatori sanitari.

Troppe crisi dimenticate

Da dimenticate a invisibili: le crisi umanitarie stanno scomparendo dai telegiornali italiani. Da nove anni Medici Senza Frontiere, con il supporto dell’Osservatorio di Pavia, pubblica il rapporto sulle “Crisi dimenticate”, che prende in esame la loro copertura nei telegiornali di prima serata (3 della TV pubblica e 4 della TV privata). Il quadro che emerge dall’ultimo rapporto è inaccettabile: nel 2012 i Tg hanno dedicato solo il 4% dei servizi a contesti di crisi, conflitti, emergenze umanitarie e sanitarie. È il dato più basso dal 2006, cioè da quando Msf ha avviato il monitoraggio. Fra i dati più emblematici: 3 notizie sulla Repubblica Democratica del Congo, 12 sull’Iraq, 17 su Sud Sudan e Sudan, zero sulla Repubblica Centrafricana. Se le crisi umanitarie trovano sempre meno spazio, la fine del mondo profetizzata dai Maya ha invece meritato 30 notizie in un anno. La sorte di intere popolazioni non raggiunge il grande pubblico. Nei Tg la voce delle vittime delle crisi umanitarie è scomparsa.


Informazione e guerra/2 Enzo Nucci

Il Kenya è diventato un grimaldello politico che rischia di far saltare equilibri internazionali consolidati nel tempo. La “vetrina africana” di quello che fu il capitalismo occidentale negli anni ’70 con una accelerazione repentina è arrivata ad un bivio negli ultimi mesi, anche se non sono mancati inquietanti prodromi. L’attentato terroristico degli Shabaab (gli integralisti somali legati ad al-Qaeda) al centro commerciale Westgate di Nairobi è costato la vita ad almeno 70 persone ed ha mostrato clamorosamente l’incapacità delle autorità di fronteggiare le minacce eversive. La strage del 21 settembre 2013 è stata preceduta solo negli ultimi 12 mesi da 60 attentati nella capitale ed un centinaio nelle zone rurali con un bilancio complessivo di 160 morti e diverse centinaia di feriti. Non va infatti dimenticato che il Kenya dall’ottobre 2011 ha lanciato una vasta operazione militare (dai risultati ancora poco visibili) nella Somalia Meridionale contro gli Shabaab che di fatto rende il Paese particolarmente esposto alle rappresaglie dei radicali islamici. Minacce alla stabilità aggravate dai forti legami che i terroristi hanno all’interno dei campi in territorio kenyano che ospitano 600mila profughi e nel quartiere di Eastleigh a Nairobi, dove sono ammassati tra i 250 ed i 500mila somali privi di documenti e permessi di soggiorno. Del resto già nel novembre 2011 George Saitoti, all’epoca ministro della Sicurezza, dichiarò in parlamento che “gli Shabaab sono un serpente con la testa a Eastleigh e la coda a Mogadiscio”. La “piccola Mogadiscio” (come è comunemente chiamato Eastleigh) è controllata dagli estremisti somali che hanno a diposizione moschee in cui organizzano raccolte di fondi e campagne di proselitismo, mentre a chi dissente è riservata la violenza che spesso sfocia nell’omicidio nella assoluta certezza dell’impunità. Ricorrendo ad una abusata metafora giornalistica siamo di fronte ad una “cronaca di un attentato annunciato”, aggravata anche dalla diffusa corruzione delle forze dell’ordine sospettate di aver chiuso occhi, orecchie e bocche di fronte al denaro elargito dagli assassini. A distanza di mesi non si conosce ancora il numero dei morti, dei feriti, la precisa dinamica degli avvenimenti e neanche la sorte dei terroristi: arrestati, uccisi o addirittura riusciti a fuggire nascondendosi tra i sopravvissuti? Questa strategia della tensione in salsa kenyana ha toccato il culmine proprio quando è entrato nel vivo il processo promosso dalla Corte Penale Internazionale (Cpi) de L’Aja contro il Presidente Uhuru Kenyatta (eletto nel marzo 2013), sospettato (insieme al vice presidente William Ruto) di essere il mandante degli scontri seguiti alle contestate elezioni del 2007 che provocarono almeno 2mila morti e centinaia di migliaia di sfollati. Il procedimento è al centro di un durissimo braccio di ferro tra Cpi e l’Unione Africana (Ua) che ha accusato la Corte di mettere sotto accusa solo i governi africani e di tralasciare i crimini compiuti nel resto del mondo. Recentemente L’Aja si è occupata di casi avvenuti nella Repubblica Democratica del Congo, Repubbli-

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Kenya, l’Unione Africana vuole un Tribunale internazionale


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ca Centrafricana, Mali e Uganda sulla base di specifiche richieste pervenute dalle nazioni interessate. Mentre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha caldeggiato i processi contro i crimini del dittatore sudanese Omar El-Bashir in Darfur e del colonnello Gheddafi in Libia. Infine la magistratura belga ha spiccato un mandato di cattura contro l’ex dittatore del Ciad Hissène Habrè, rifugiato in Senegal. Non mancano autorevoli voci di dissenso tra cui quella del sudafricano Desmond Tutu, arcivescovo anglicano e premio Nobel per la pace, per il quale l’Unione Africana cerca solo l’immunità per i capi di stato responsabili di crimini contro i loro popoli. Ma l’affaire Kenyatta-Ruto ha fatto emergere il profondo malcontento dell’Ua che si sta già organizzando per creare un proprio tribunale regionale in grado di perseguire “in modo africano” gli autori dei crimini internazionali compiuti sul territorio degli stati membri. Una strada insomma per uscire dalla giurisdizione internazionale de L’Aja che approderà anche all’assemblea generale delle Nazioni Unite. Forte di questa presa di posizione, il parlamento di Nairobi per la seconda volta in 3 anni ha approvato una mozione che chiede al Governo di avviare le procedure per uscire dalla Cpi, di cui il Kenya fa parte dal 2005. Una mossa prettamente politica tesa solo ad inasprire i rapporti già tesi del continente africano con L’Aja perché anche in caso di recesso i procedimenti in corso proseguirebbero lo stesso essendo stati avviati in precedenza. Il clima inoltre si è surriscaldato con l’ulteriore “apertura” del Presidente Kenyatta verso la Cina, che essendo già tra i primi partner economici del Paese gode di un trattamento di favore. E notoriamente Pechino non è molto attenta ai crimini contro l’umanità né ai processi di democratizzazione nei Paesi dove investe. In ogni caso il processo al Presidente ed al vicepresidente apre interrogativi sull’operato del Cpi: le imputazioni dei due leader sono state tardive. Kenyatta e Ruto sono stati democraticamente votati (come hanno confermato anche le missioni internazionali degli osservatori in un clima elettorale abbastanza tranquillo) e sarebbe quindi la prima volta che due esponenti politici scelti liberamente dagli elettori siano poi accusati di crimini contro l’umanità anche se commessi prima della loro elezione. Intanto questo durissimo scontro ha provocato il rinvio al 5 febbraio 2014 del processo a Kenyatta che doveva invece comparire a novembre. Il Paese ha comunque avuto una battuta d’arresto. Le elezioni di marzo hanno fatto registrare ancora una volta una scelta di voto sulla base dell’appartenenza etnica e non per adesione ad un programma politico. Dal 1° settembre sono entrate in vigore nuove tasse: il 16% in più su tutti i generi alimentari e di largo consumo che rendono più difficile la vita a chi guadagna meno di un euro al giorno. Ma c’è anche un giro di vite sulla stampa ed i giornalisti. Diventa preoccupante la situazione sulla costa dove si concentra il turismo straniero, fonte di reddito principale della prima economia dell’Africa Orientale. A Mombasa (seconda città del Kenya e principale porto sull’oceano Indiano), Malindi (tanto frequentata da italiani e tedeschi) e zone limitrofe cresce il consenso intorno al movimento politico-religioso che si batte per il ritorno del Califfato islamico in questa area. I giovani militanti musulmani che sostengono il progetto sono stati i protagonisti di molte violenze. A marzo uccisero almeno 23 persone che erano in attesa di votare mentre in precedenza furono i protagonisti di violenti scontri con la polizia a colpi di pistola nelle strade di Malindi nei pressi di un casinò affollato da turisti stranieri. Insomma oggi il Kenya è una pentola a pressione con tante e diverse forze in gioco che spingono in direzioni opposte e contrarie. Il rischio è mandare a gambe all’aria le relazioni del Paese con il resto del mondo con la Cina pronta a diventare la nuova àncora politica . Senza mai dimenticare che il Kenya è la principale porta di accesso al Corno d’Africa (Somalia, Etiopia, Eritrea) che permane tra le aree più “calde” del mondo dove i rischi di guerra sono dietro l’angolo.


Geografia della guerra Rosella Idéo

Nella primavera 2013 si è profilata una grave crisi nei rapporti intercoreani e fra gli Stati Uniti e la Corea del Nord (RpdC, Repubblica Popolare Democratica di Corea). Le cronache hanno calcato la mano sulla retorica guerrafondaia della RpdC che, per la prima volta, ha minacciato di far “perire in un mare di fuoco” Washington, oltre a Seoul. È tutta colpa della RpdC, retta da un regime “imprevedibile”, come recita la maggior parte delle cronache? Si sa che il regno dei Kim, oggi arrivato al terzo “erede” dell’unica dinastia socialista della storia, Kim Jong Eun (asceso al vertice alla morte del padre, Kim Jong Il, nel dicembre 2011), è un regime indifendibile. Dal marzo 2013 una commissione d’inchiesta indipendente, voluta dall’Onu, sta raccogliendo numerose testimonianze sulle gravissime violazioni dei diritti umani, sistematiche e su larga scala, nella RpdC. È meno noto, invece, che la Corea del Nord si sente, e lo è, un Paese in guerra che diffida di tutti, anche dei vecchi amici. L’Urss di Gorbaciov l’ha abbandonata nel 1991 tagliando i rifornimenti di greggio, essenziali per far funzionare uno stato industrializzato avvitato in una crisi economica senza ritorno. Deng Xiaoping, all’inizio del disgelo con la Corea del Sud (Repubblica di Corea, RdC) nel 1987, si è impegnato in una dichiarazione ufficiale, a non appoggiare la RpdC nel caso scoppiasse un conflitto nella penisola. Che il piccolo Stato si comporti come un Paese assediato, lo dimostra il lungo servizio militare: dieci anni contro i due della Corea del Sud, protetta dall’ombrello nucleare e dagli oltre ventottomila soldati americani che stazionano sul suo territorio dalla fine della guerra di Corea (1950-1953). Detto questo, gli obiettivi della RpdC sono molto chiari. Dal 1953 il Paese chiede di essere riconosciuto dagli Stati Uniti e vuole la firma di un trattato di pace in sostituzione dell’armistizio tuttora in vigore. Anche le sue reazioni sono note e prevedibili: l’inflazione verbale e militare della RpdC si accentua tutte le volte che si sente minacciata o ignorata. La “pazienza strategica” delle due amministrazioni Obama rientra nell’ultimo caso. Lo sviluppo dei due progetti nucleari (al plutonio e all’uranio) del regime, risponde all’esigenza di difendersi dal “pericolo che viene dal mare” (Giappone e Stati Uniti); e al costo minore del nucleare rispetto all’adeguamento impossibile dei suoi armamenti tradizionali, per la maggior parte obsoleti. Sia chiaro: cronache allarmistiche a parte, la RpdC non potrà mai scatenare una nuova guerra di Corea perché questa volta

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Nucleare, fame e pugno di ferro La Corea continua a far paura


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nessuno verrebbe in suo aiuto. Né i russi, né i cinesi sono disposti ad alterare gli equilibri già precari di un’area in fibrillazione (vedi le dispute territoriali fra la Cina e Giappone). L’insistenza di Washington sulla precondizione che il regime dei Kim abbandoni il nucleare prima di riprendere i colloqui a sei (due Coree, Stati Uniti, Cina, Giappone e Russia) in stallo dal 2008, è un modo di prendere tempo per aumentare la pressione sul Paese. “Fate come la Libia” è stato per qualche anno il refrain dell’amministrazione americana per convincere la RpdC a sbarazzarsi del suo arsenale atomico. Non c’è da stupirsi se la fine di Gheddafi e del suo regime abbia convinto Pyongyang esattamente del contrario. La Corea divisa in due tronconi e una RpdC reietta, isolata e colpita da innumerevoli sanzioni, ha una logica nella geopolitica dell’Asia Orientale. Una premessa: la RdC, dopo il decennio della politica di disgelo (1997-2007) voluta dai suoi due presidenti progressisti (e boicottata da Washington), è ritornata a considerare nemici e non fratelli-divisi i Nordcoreani. Nella RdC, che dal 2008 è governata dai conservatori, propaganda anti nordcoreana e spionaggio, se pure in modo più sottile e umano che nella RpdC, sono moneta corrente. Guerra fredda ad oltranza, dunque: fra le due Coree, fra gli Stati Uniti e la RpdC. Il pericolo che si accenda nella penisola una guerra non voluta, per un errore o per un incidente, è sempre alto e il gioco rischioso. Sono da tenere presenti anche i rapporti pericolosamente tesi fra le due Coree da un lato e dall’altro il vecchio e impenitente colonizzatore, il Giappone, che nega o sminuisce le atrocità, compiute prima e durante la seconda guerra mondiale; in particolare in Corea e in Cina. Il Giappone nazionalista e negazionista di Abe Shinzo è una potenza economica calante non solo rispetto alla Cina ma anche alla RdC che, negli ultimi decenni, gli ha strappato molti primati economici. Se una Corea unita è oggi diventata un sogno lontano (per i coreani) e un pericolo scongiurato (per il Giappone), anche una confederazione coreana nel nome della coesistenza pacifica (l’unico obiettivo che si potrebbe, forse, prendere in considerazione nel medio termine), sarebbe un temibile avversario per l’ex impero del Sol Levante. Dal punto di vista della sicurezza, il “pericolo” dell’atomica Nordcoreana fa gioco al Giappone sia per emendare la sua Costituzione pacifista e riarmarsi come “un Paese normale”, sia per rinsaldare l’alleanza militare con gli Usa in funzione anticinese. Lo scudo anti missile voluto da Washington nell’arcipelago, è in realtà un segnale diretto alla Cina e serve anche alla difesa di Taiwan, la “Provincia ribelle” sostenuta dagli Usa. La questione coreana va inserita, dunque, nel quadro regionale d’insieme che ha sullo sfondo la competizione fra America e Cina. Il riposizionamento strategico degli Stati Uniti dal Medio Oriente alla Regione Asia-Pacifico (spostamento del grosso delle truppe incluso), è una necessità, secondo alcuni analisti, per proteggere l’egemonia mondiale americana. Ko Un, il più noto e prolifico poeta coreano, che si è impegnato per decenni nella costruzione di una Corea unita, sostiene che gli intellettuali del Sud percepiscono la Cina come la “grande muraglia” che incombe sulla penisola e ne ostacola l’unificazione. Basta guardare la carta geografica per rendersene conto. È evidente che la stabilità del regime dei Kim è funzionale agli interessi nazionali della Cina. L’immenso impero di mezzo è circondato dalle basi americane in Asia Centrale, a Sud dal gigante indiano, che si è dotato di armamenti nucleari con il beneplacito di Washington, nonché dai Paesi dell’Asean che nell’America trovano un contrappeso alla crescente influenza economica e diplomatica cinese. Le dispute territoriali sulle isole contese fra alcuni Paesi Asean e la Cina hanno trovato un difensore d’ufficio negli Stati Uniti. Se questi ultimi riuscissero a provocare la caduta del regime dei Kim l’accerchiamento della Cina sarebbe completo e la Corea, in caso di un’unificazione di emergenza, diventerebbe una altra base americana contigua alle basi in Giappone. Oltretutto milioni di profughi in fuga metterebbero in crisi le Regioni settentrionali cinesi. Per ovviare a questi pericoli, non si sa quanto imminenti, negli ultimi anni Pechino sta penetrando con molti investimenti nel tessuto economico della Corea del Nord. La trasformazione di Pyongyang è in mano ai cinesi: dagli shopping center pieni di merci di ogni genere ai nuovi palazzi che hanno cambiato il volto alla capitale. Alla stessa logica rispondono sia lo sviluppo dei porti orientali, utilizzati dalle navi di Pechino, sia gli investimenti nell’estrazione di minerali, poi importati in Cina. Altri investimenti “esteri” sono in progetto nelle previste zone economiche speciali. Una bella ipoteca su tutta la penisola coreana.


Evoluzione dei conflitti Enzo Nucci

Nelson Mandela ci aveva abituati ai colpi di scena fin dall’11 febbraio 1990 quando uscendo dal carcere dopo 27 anni di detenzione strinse la mano ai suoi carcerieri senza titubanze. La sua morte il 5 dicembre 2013 ha messo il Sudafrica di fronte alla responsabilità di andare oltre lui, facendo tesoro dei suoi comportamenti. Non sono comunque pochi gli estremisti del suo stesso partito (l’African National Congress) che lo hanno criticano duramente per aver fatto troppe concessioni alla minoranza bianca durante la delicata transizione politica. Mentre Mamphela Ramphela, ex direttrice generale della Banca Mondiale, tra i fondatori con Steve Biko di un movimento radicale di opposizione all’Anc, sostiene invece che se Mandela avesse svolto due mandati presidenziali invece di uno la democrazia avrebbe avuto un corso migliore. Opinioni a confronto ma per la Nazione Arcobaleno si avvicina l’ora delle scelte. Nel 2014 sono in programma nuove elezioni politiche e presidenziali. Sul piatto c’è la sfida più grande: la liberazione da quelle pericolose incrostazioni che fanno del Sudafrica (a 20 anni dalla fine del regime di segregazione razziale) una delle democrazie più ineguali del mondo, guidata da una classe politica famelica, corrotta ed inefficiente. L’eredità politica di Mandela è stata da tempo messa in soffitta mentre la sua immagine è usata come un facile scudo dietro cui trincerarsi per portare a termine operazioni politiche di dubbio gusto. Lo dimostrano le polemiche che hanno visto protagonista il Presidente Jacob Zuma che si è fatto fotografare e filmare accanto ad un Mandela visibilmente assente ma anche inconsapevolmente annoiato dalle speculazioni intorno alla sua figura che vedono protagonisti pure i suoi più stretti familiari. “L’eredità politica di Mandela è stata macchiata ed offuscata dalla perdita progressiva dei paletti morali che aveva piantato quando era leader” ha commentato Frederik Willem de Klerk, l’ultimo Presidente bianco e contestato premio Nobel per la pace insieme a Mandela per il ruolo svolto nella transizione. La corruzione è generalizzata, guai per i giornalisti che osano denunciarla. Il Governo nell’aprile 2013 ha approvato il “Secrecy bill”, una norma che prevede il carcere per i reporter, bollata come liberticida da Human Rights Watch. L’Anc, il partito di maggioranza dei neri, in 20 anni non è stato all’altezza del compito affidatogli per 4 volte consecutive dal 60% degli elettori. Secondo alcuni economisti sarebbero addirittura aumentate le disuguaglianze rispetto al periodo dell’apartheid, perché la nuova classe dirigente ha trasformato l’esercizio del potere nella personale fonte di arricchimento spesso illecito, facendo quindi della politica uno dei pochi mezzi di ascesa sociale e convertendo la classe media in un esercito di impiegati statali, troppo spesso parassitari. Una conferma arriva proprio dal Cosatu (lo storico sindacato che ha guidato le lotte antiapartheid)

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Corruzione, disuguaglianze, censura: è il Sudafrica del dopo Mandela


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accusato di essere totalmente schiacciato sulle posizioni dell’esecutivo in una commistione di interessi che esclude i più deboli. Le organizzazioni fronteggiano ormai da almeno 3 anni la rabbia di minatori, camionisti, lavoratori del settore tessile che scioperano “illegalmente” contro lo stesso sindacato che ha scelto addirittura il silenzio di fronte alla strage della miniera di Marikana (16 agosto 2012) in cui 34 lavoratori furono uccisi e 78 feriti dalla polizia durante uno sciopero per chiedere aumenti salariali alla multinazionale britannica, licenziataria dell’estrazione di platino. Forse non è stata ininfluente nell’oblio sindacale la presenza nel consiglio di amministrazione della multinazionale di Cyril Ramaphosa, in passato fondatore del principale sindacato dei minatori (il Num), braccio destro di Mandela nelle trattative con gli Afrikaner per l’uscita dall’apartheid, oggi uno dei più ricchi uomini d’affari del Sudafrica che molti già indicano come futuro Presidente della Nazione Arcobaleno. Fuori dalle ovattate stanze del “potere nero” si agita una disoccupazione giovanile che supera il 48%, a fronte del 12% complessivo dell’Africa sub sahariana e del 24% che scuote il Maghreb travolto dalla Primavera araba. Innegabili i passi in avanti: tra il 1996 ed il 2010 la fetta di popolazione che vive con meno di due dollari al giorno è diminuita dal 12% al 5%. Dal 1998 ad oggi il Prodotto Interno Lordo è cresciuto progressivamente e la popolazione nera (l’80% dei 50milioni di sudafricani) ha avuto accesso a ricchezze e libertà inimmaginabili. Un cammino che ha portato il Paese nel 2010 a fare il suo ingresso nel Brics, il gruppo che riunisce le cinque economie emergenti di Brasile, India, Cina, Russia. Per molti migranti provenienti da Nigeria, Somalia, Zimbabwe, Mozambico, il Sudafrica è la terra promessa che però sta partorendo pericolosi fenomeni di xenofobia di massa che sfociano in violenza: 60 mozambicani uccisi nel 2008 mentre nel giugno 2013 sono stati i somali a pagare un alto tributo di sangue per mano dei fratelli neri. La classe dirigente deve fare di più, forte delle immense ricchezze di materie prime, le cui riserve minerali sono stimate intorno ai 2,5trilioni di dollari. Questa vetrina ha ovviamente attirato gli investimenti cinesi che negli ultimi 6 anni sono cresciuti del 400% con un boom di scambi nel 2012 che ha toccato i 60miliardi di dollari. Estrazioni minerarie, industria tessile, produzione di energia e costruzioni di ferrovie sono i principali interessi del Dragone che esercita anche una grande influenza politica sul Presidente Zuma, il quale nel 2010 negò il visto di ingresso al Dalai Lama per un incontro di tutti i premi Nobel per la Pace in vista dei Mondiali di calcio. Una scelta duramente stigmatizzata dal vescovo anglicano Desmond Tutu, Nobel per la pace e grande amico di Mandela. Jacob Zuma, autodidatta, ex responsabile militare dei “servizi segreti interni” dell’Anc durante l’apartheid, un passato nell’ala estrema del partito, resta al centro delle polemiche. Sul suo capo pendono 700 denunce per corruzione. Una delle ultime indagini riguardano i 250milioni di euro pubblici spesi per ristrutturare una delle sue residenze per “ragioni di sicurezza”. Ma la magistratura indaga anche su un appalto pubblico di 500milioni di euro per la costruzione di linee ferroviarie che vede protagonisti uno dei figli di Zuma e società indiane e cinesi. Le elezioni amministrative negli ultimi anni segnano un progressivo calo di consensi per l’Anc, il partito di Mandela. La popolazione nera si sente tradita, abbandonata dai dirigenti che pensano solo ad arricchirsi disinteressandosi delle paghe di fame, della disoccupazione, della mancanza di aule scolastiche e professori capaci di insegnare, dei 3milioni di armi da fuoco registrate in circolazione (una ogni 15 abitanti), del femminicidio che qui registra il triste record mondiale. C’è chi pensa di votare per la Democratic Alliance, il principale partito di opposizione, fondato dai bianchi, di ispirazione democratico-liberale, che si è battuto contro l’apartheid negli anni bui. Anche in Sudafrica si sta diffondendo la consapevolezza che l’attuale classe dirigente ha usato l’immagine di Mandela per brutte operazioni marketing politico, trasformandola in una icona, in un santino in nome del quale tutto è possibile. Oggi dunque sono proprio l’Anc, il partito di Mandela, ed i suoi dirigenti gli avversari da sconfiggere per cambiare il Sudafrica: la seconda “rivoluzione” non violenta dopo la fine della segregazione razziale.


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SPECIALE DONNE E GUERRA


Donne e guerra/1 Federica Ramacci

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Donne, l’altra metà della guerra che è giusto raccontare Non se ne parla abbastanza. Il ruolo delle donne nei conflitti è quasi del tutto assente dalle cronache giornalistiche. Non se ne parla abbastanza quando diventano vittime delle aberrazioni peggiori delle guerre. Lo stupro utilizzato come arma per annientare il nemico è la più ignobile delle strategie belliche, utilizzata in molti, troppi conflitti: durante l’occupazione indonesiana di Timor Est, durante l’invasione del Kuwait, nella Repubblica Democratica del Congo, nel genocidio ruandese del 1994 e poi nella ex Jugoslavia, dove, tra il 1992 e il 1995, più di 20mila donne hanno subito violenza sessuale davanti agli occhi fin troppo discreti della comunità internazionale. Non se ne parla abbastanza anche quando sono parte attiva nelle battaglie per la costruzione di una società libera e democratica. Chi ha sfogliato le passate edizioni del nostro Atlante sa quante pagine abbiamo dedicato a figure femminili cruciali nei tanti conflitti che si combattono nel mondo. Abbiamo raccontato, tra le altre, la storia dell’attivista saharawi Aminatou Haidar, della politica colombiana Ingrid Betancourt, della primo Ministro pakistana Benazir Bhutto, della giovane Malala Yousafzai. Donne che hanno avuto la determinazione e il coraggio di impegnarsi e lottare - sfidando restrizioni culturali e assurde leggi - e pagando sempre un prezzo altissimo: la libertà negata o la vita stessa. Ancora. Non si parla abbastanza delle donne che hanno partecipato e partecipano alle guerre come soldati. Lo fanno arruolandosi negli eserciti regolari o nei gruppi guerriglieri. Imbracciano le armi, sparano e uccidono come gli uomini. In Siria il Presidente Assad ha deciso, dal gennaio 2013, di creare un esercito di 500 donne per combattere i ribelli. Nel nord della Siria le donne curde sono in prima linea, arruolate nello Ypg e nello Ypj, due milizie (la prima mista, la seconda di sole donne) attive a difesa della popolazione contro i gruppi qaedisti. Temutissime dagli avversari per l’alto livello di preparazione e la determinazione sul campo di battaglia hanno diramato alla fine del 2013 un bollettino di guerra con il numero dei membri di bande armate legate ad al-Qaeda uccisi nei combattimenti: 2923 in tutto. Combattenti donne sono presenti da sempre anche tra i guerriglieri del Fronte Polisario nel Sahara occidentale, nei gruppi ribelli della Repubblica Democratica del Congo, nelle organizzazioni armate protagoniste di alcuni conflitti che hanno insanguinato l’Europa, come l’Eta nei Paesi Baschi e l’Ira nell’Irlanda del Nord. Sono state spesso anche spietate. Ne abbiamo parlato nella quarta edizione dell’Atlante raccontandovi (nella scheda Somalia) la storia di Samantha Lewthwaite che la polizia britannica ha ribattezzato la “vedova nera” per la sua missione di organizzare attentati terroristici per conto della rete internazionale del terrore. Non si parla abbastanza delle donne che in Africa e in America latina si organizzano e si mobilitano per difendere l’ambiente e le proprie comunità, sviluppando progetti che funzionano grazie alla loro profonda conoscenza del territorio e della gestione delle risorse. Per questo sono temute, perseguitate, arrestate, uccise. E non si parla abbastanza delle donne che nei teatri di guerra vanno perché il loro lavoro è quello di informare. Venti anni fa veniva uccisa a Mogadiscio la giornalista italiana Ilaria Alpi. Questo Speciale “Donne e Guerra” non vuole giudicare, esaltare, piangere o santificare il ruolo della donna nei teatri di conflitto ma, come sempre, informare - per quanto possibile in poche pagine sull’altra metà della guerra, quella subita, vista e combattuta dalle donne. Per provare a raccontare la storia per intero insomma. Come è giusto che sia.

Foto in alto UNHCR/B. Sokol

Foto in copertina Federica Miglio Speciale Donne e Guerra Momento di preghiera esterno ad un tempio copto. I copti festeggiano tanto la domenica quanto il sabato. Le donne non possono accedere alla chiesa nei periodi mestruali o nel caso abbiano avuto rapporti sessuali il giorno precedente.


Donne e guerra/2 La redazione

Una Convenzione Mondiale per tutelare la diversità di genere

Foto in alto UNHCR/M. Sibiloni

La Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) è stata adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 (con 130 voti a favore e 10 astensioni). È considerata una svolta storica nel percorso per il riconoscimento dei diritti delle donne. Il testo della convenzione è stato elaborato tra il 1976 e il 1979. La Cedaw: - contiene definizioni sulle forme di discriminazioni nei confronti delle donne Art 1 “Ai fini della presente Convenzione, l’espressione “discriminazione contro le donne” sta ad indicare ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia l’effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, indipendentemente dal loro stato matrimoniale e in condizioni di uguaglianza fra uomini e donne, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile, o in qualsiasi altro campo” - impegna gli Stati che la ratificano ad astenersi da azioni discriminanti in base al sesso Art 2: “Gli Stati parte condannano la discriminazione contro le donne in ogni sua forma, convengono di perseguire, con ogni mezzo appropriato e senza indugio, una politica tendente ad eliminare la discriminazione contro le donne, e, a questo scopo, si impegnano a: ...... astenersi da qualsiasi atto o pratica discriminatoria contro le donne e garantire che le autorità e le istituzioni pubbliche agiscano in conformità con tale obbligo; prendere ogni misura adeguata per eliminare la discriminazione contro le donne da parte di qualsivoglia persona, organizzazione o impresa; prendere ogni misura adeguata, comprese le disposizioni di legge, per modificare o abrogare ogni legge, regolamento, consuetudine e pratica che costituisca discriminazione contro le donne; abrogare dalla normativa nazionale tutte le disposizioni penali che costituiscono discriminazione contro le donne. - impegna gli Stati che la ratificano ad adottare provvedimenti per raggiungere l’uguaglianza in tutti i settori; Art 3: “Gli Stati parte devono prendere ogni misura adeguata, incluse le disposizioni legislative, in tutti i campi, ed in particolare in campo politico, sociale, economico e culturale, al fine di assicurare il pieno sviluppo ed il progresso delle donne, per garantire loro l’esercizio e il godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali su una base di uguaglianza con gli uomini.” - istituisce il Comitato Cedaw Art 17: “Il rispetto della Convenzione viene controllato dal Comitato sull’Eliminazione delle Discriminazioni Contro le Donne. Il Comitato della Cedaw è composto da 23 esperte/i di alta autorità morale e di grande competenza negli ambiti di cui essa si occupa. Le/i componenti del Comitato vengono nominate/i dai propri governi, ed elette/i a scrutinio segreto dagli Stati parte della Convenzione. In questa elezione si terrà conto di un’equa ripartizione geografica e della rappresentanza delle diverse forme di civiltà e dei diversi ordinamenti giuridici.

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Cedaw (Convention on the Elimination of all forms of Discrimination Against Women)


Queste esperte/i prestano i propri servizi a titolo personale, non in quanto delegate o rappresentanti dei propri paesi d’origine”. Il 3 settembre 1981, la Convenzione è entrata in vigore in tempi record rispetto a ogni altro precedente trattato sui diritti umani. Quasi 20 anni dopo l’entrata in vigore della Cedaw, il 15 ottobre 1999, l’Assemblea generale dell’Onu ha adottato il relativo Protocollo facoltativo che definisce: - una procedura di denuncia, utilizzabile sia da singole donne che da gruppi di donne per denunciare al Comitato sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne i casi di violazione delle norme stabilite dalla Convenzione; - una procedura d’indagine, che conferisce al Comitato il potere di condurre indagini sui casi di violazioni gravi o sistematiche dei diritti umani delle donne nei paesi che hanno sottoscritto il Protocollo facoltativo. L’Italia ha ratificato la Cedaw il 10 giugno 1985 e ha aderito al Protocollo opzionale il 29 ottobre 2002. Finora 186 Paesi (più del 90% dei membri delle Nazioni Unite) hanno ratificato la Cedaw. I seguenti Stati mancano ancora all’appello della ratifica: Iran, Nauru, Palau, Somalia, Sudan, Tonga e gli Stati Uniti d’America.

SINTESI TRATTATO Il Trattato Cedaw contiene 30 articoli che forniscono un modello pratico per promuovere i diritti umani di base, ottenere progressi e superare le barriere di discriminazione contro le donne. Segue una sintesi degli articoli chiave:

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Articolo 1: Definizione di discriminazione. Definisce la discriminazione nei confronti delle donne in tutti gli aspetti dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Articolo 2: Doveri Paese. I paesi devono eliminare le leggi discriminatorie, le politiche e le prassi nel quadro giuridico nazionale. Articolo 3: L’uguaglianza. I paesi devono adottare misure per sostenere l’uguaglianza delle donne in campo politico, sociale, economico e culturale. Articolo 4: Misure speciali temporanee. I paesi possono attuare misure speciali temporanee per accelerare l’uguaglianza delle donne. Articolo 5: Pregiudizio. I Paesi concordano di modificare o eliminare le pratiche basate sull’inferiorità o superiorità dell’uno o dell’altro sesso. Articolo 6: Traffico. I paesi si impegnano a prendere misure per reprimere lo sfruttamento della prostituzione e la tratta delle donne. Articolo 7: La vita politica e pubblica. Le donne hanno un uguale diritto di voto, di ricoprire cariche pubbliche, e di partecipare alla società civile. Articolo 8: Il lavoro internazionale. Le donne hanno il diritto di lavorare a livello internazionale senza alcuna discriminazione.

Articolo 9: Nazionalità. Le donne hanno gli stessi diritti degli uomini di acquisire, modificare o conservare la loro nazionalità e quella dei loro figli. Articolo 10: Istruzione. Le donne hanno gli stessi diritti degli uomini in materia di istruzione, tra cui la parità di accesso alle scuole, la formazione professionale, e le opportunità di borse di studio. Articolo 11: L’occupazione. Le donne hanno gli stessi diritti in materia di occupazione senza discriminazioni sulla base di stato civile o di maternità. Articolo 12: Salute. Le donne hanno uguali diritti per i servizi di assistenza sanitaria a prezzi accessibili. Articolo 13: Vita economica e sociale. Le donne hanno uguali diritti a prestazioni familiari, il credito finanziario, e la partecipazione ad attività ricreative. Articolo 14: Le donne rurali. Le donne rurali hanno il diritto a condizioni di vita adeguate, la partecipazione nella pianificazione dello sviluppo, e l’accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione. Articolo 15: Uguaglianza davanti alla legge. Donne e uomini sono uguali davanti alla legge. Le donne hanno il diritto legale di stipulare contratti, a una propria proprietà, e a scegliere il loro luogo di residenza. Articolo 16: Il matrimonio e la famiglia. Le donne hanno gli stessi diritti degli uomini su questioni relative al matrimonio e le relazioni familiari. Articoli 17-24: Comitato di controllo della Cedaw. Articoli 25-30: Amministrazione della Convenzione.


Donne e guerra/3 Cdca

I conflitti ambientali nemici delle donne A cura del Cdca (Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali) www.cdca.it

“Noi donne indigene, in quanto responsabili della cura e della tutela della famiglia, della trasmissione della nostra cultura e guardiane della Madre Terra, abbiamo la responsabilità morale e spirituale di assicurare la salute e il benessere della Madre Terra e di aiutarla a sanare le ferite che l’essere umano sta causando, attraverso un uso responsabile dei suoi doni”.

Foto in alto UNHCR/H. Caux

UNHCR/F. Noy

Ormai non più soltanto nei Sud del mondo le donne sono le prime vittime di quei conflitti ambientali che divampano, sempre più frequentemente, per il controllo e la gestione delle risorse naturali, ogni giorno più scarse e compromesse per via dei cambiamenti climatici e della rapida erosione di biodiversità. La vulnerabilità delle donne in questi contesti è dovuta in primis al fatto che esse sono le più dipendenti dalle risorse naturali minacciate e, in secondo luogo, alle impari relazioni di potere e alle barriere sociali, economiche, culturali e politiche che le pongono in condizione di inferiorità rispetto agli uomini. I più immediati impatti dei conflitti ambientali incidono sui settori che sono tradizionalmente di competenza delle donne: l’agricoltura di sussistenza e la raccolta di acqua, legna da ardere e prodotti delle foreste. La crescente scarsità delle risorse naturali si traduce, per esse, in un maggiore investimento di tempo da destinare al loro reperimento e, di conseguenza, in una minore quantità di tempo ed energie da dedicare alla propria istruzione e formazione. Questo porta ad un progressivo aumento delle diseguaglianze sociali e dunque, in un circolo vizioso, ad un generale peggioramento delle loro condizioni. In aggiunta a tutto ciò, è provato che nei contesti di conflitto è proprio durante i lunghi viaggi che donne e bambine sono costrette a compiere, da sole, per raccogliere acqua e legna che i fattori di rischio aumentano. Emblematico in questo senso è il caso del Darfur Occidentale e Meridionale, dove l’82% delle donne curate in seguito ad uno stupro era stato attaccato durante lo svolgimento di compiti quotidiani quali, appunto, la raccolta di acqua o legna. Durante i periodi di carestia, disastri naturali o conflitti, le condizioni di salute di donne e bambine si aggravano prima e in misura maggiore rispetto agli uomini, per motivi fisiologici e per via di costrizioni sociali e disuguaglianze

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Dichiarazione della Conferenza Mondiale delle Donne Indigene presso il Foro Permanente sulle Questioni Indigene dell’Onu del 2008


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di genere. Inoltre, in qualità di responsabili della cura e dell’assistenza ai malati, le donne vedono aumentare il loro carico di lavoro man mano che i membri della loro famiglia si ammalano. Le bambine e le donne anziane sono ancora più a rischio a causa della discriminazione di genere nell’allocazione delle risorse, comprese quelle alimentari e sanitarie. Nel caso poi di conflitti violenti, così come durante i disastri naturali, donne e bambine sono spesso soggette a intimidazioni, violenza di genere, aggressioni sessuali, stupri, poiché in questi contesti l’erosione delle norme di controllo sociale rende le donne sole particolarmente vulnerabili. Al tempo stesso, le donne, in particolare nei Paesi del Sud del mondo rivestono un ruolo fondamentale nello sviluppo di progetti alternativi di gestione delle risorse e di opzioni di adattamento sostenibili, grazie alla loro profonda conoscenza del territorio e delle risorse naturali e grazie alle loro molteplici responsabilità all’interno della famiglia, della comunità e dei settori produttivi. Le donne indigene in particolare rivestono un ruolo fondamentale in qualità di agenti di cambiamento, in relazione sia alle misure di riduzione del danno che a quelle di adattamento alle mutate condizioni. Queste donne possiedono infatti un vastissimo bagaglio di conoscenze ed esperienze che possono essere utilizzate per resistere nelle situazioni di conflitto e mitigare i danni prodotti sull’ambiente, attraverso lo sviluppo di efficaci strategie di adattamento e di sussistenza compatibili con il contesto ambientale. Moltissime sono le situazioni nelle quali le donne sono coinvolte in prima linea nell’organizzazione di progetti e mobilitazioni sociali in difesa del proprio territorio, ma molte di queste donne sono in pericolo proprio a causa dell’invisibilità a cui sono sottoposte. Due esempi particolarmente significativi sono rappresentati dalle donne indiane che hanno guidato per anni la resistenza pacifica contro le dighe sul fiume Narmada e l’azione delle donne Wayu’u colombiane in difesa della loro Madre Terra. Il Narmada è un fiume dell’India sul quale da oltre 20 anni si sta costruendo un gigantesco sistema di dighe, alcune delle quali enormi. Ciò ha implicato l’esproprio delle terre dei contadini della valle e lo spostamento forzato di centinaia di migliaia di famiglie. In questo contesto si è andato organizzando un incredibile movimento di resistenza popolare, una lotta condotta dalla resistenza pacifica delle donne della Narmada Valley, unite nel movimento Nba, che non conosce al suo interno divisione di casta o di genere e in cui le donne hanno un ruolo fondamentale, guidate da Baba Amte e dalla biologa Medha Patkar, che ha ottenuto vittorie importanti nel contrasto al mega progetto. Le donne hanno avuto un ruolo fondamentale anche nei movimenti di resistenza del popolo Wayu’u, organizzato in clan secondo una struttura matrilineare. I Wayu’u sono un’etnia di 300mila persone, metà delle quali vivono in Colombia, nella Regione della Guajira, una della zone maggiormente minacciate da grandi megaprogetti idroelettrici, petroliferi e per il controllo dell’acqua. In questa Regione negli ultimi 15 anni sono andate sempre più intensificandosi le azioni militari e paramilitari per il controllo dei territori, con i conseguenti sfollamenti forzati, scomparse, omicidi, stupri e continue violazioni dei diritti umani. Le donne Wayu’u, principali vittime di abusi da parte dei gruppi armati (negli ultimi anni sono state oltre 250 le donne Wayu’u uccise) sono anche quelle che maggiormente si sono organizzate per denunciare e combattere le continue violazioni di diritti, rafforzando l’identità della propria etnia, e mantenendo l’unità delle loro comunità. Anche da noi, in tutti i casi in cui le condizioni ambientali sono deteriorate al punto da divenire fattori di rischio per la salute degli abitanti, le prime a mobilitarsi e a lottare per chiedere il rispetto del diritto alla salute e alla vita sono proprio le donne. I comitati di mamme attivi attorno ai grandi conflitti ambientali in corso in Italia, dal progetto Muos a Niscemi, a Taranto, a Brindisi o nelle grandi città in cui la contaminazione è fattore di rischio sanitario sono ulteriori prove a dimostrazione di questo protagonismo. Resta da superare, al contrario, il mantenimento di barriere di genere nell’elaborazione di politiche ambientali, che potrebbero e dovrebbero invece vedere un coinvolgimento maggiore di chi è in prima linea nella difesa di diritti e territori.

UNHCR/A. Duclos

UNHCR/R. Arnold


Donne e guerra/4 Nicole Corritore

Foto in alto UNHCR/R. Arnold

UNHCR/F. Noy

“Non potevo fare nulla, lì sdraiata mentre mi violentavano, non avevo alcuna possibilità di difendermi…” Aula del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia (TpI), L’Aja. La donna dai capelli scuri piegata sul microfono del banco dei testimoni, apre il documentario Sexual Violence and the Triumph of Justice, prodotto nel 2012 dal Tribunale1. È una delle migliaia di donne che, durante il conflitto in Bosnia Erzegovina negli anni ‘90, hanno subito stupro, deportazione e lunga prigionia. Secondo diverse fonti, le donne vittime di stupro nel periodo 1992-1995 sarebbero state tra le 20 e le 25mila, per la maggior parte musulmane.Un dato difficile da stabilire con esattezza, perché molte donne non hanno mai denunciato pubblicamente la violenza subìta. Fin dall’inizio della guerra cominciarono ad emergere, attraverso le testimonianze raccolte da organizzazioni internazionali, notizie di civili sottoposti a violenze e stupro sistematico. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite costituì una Commissione di esperti (detta “Biassouni”, dal nome del presidente) che da ottobre 1992 analizzò oltre 40mila documenti, prove e testimonianze. I risultati spinsero il Consiglio a istituire nel ‘93 il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (Tpi): prima corte costituita in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Dal primo processo, iniziato nel ‘94, fino ai giorni nostri, sono 161 i casi sottoposti a giudizio per violazione delle Convenzioni di Ginevra, crimini contro l’umanità, genocidio, violazione delle consuetidini e delle leggi di guerra. Il dato significativo è che il Tpi ha perseguito in maniera specifica i reati di stupro e riduzione in schiavitù sessuale in quanto crimini contro l’umanità. Un orientamento che poi è stato confermato dalla giurisprudenza internazionale e inserito nell’art. 7 dello Statuto di Roma della nuova Corte Penale Internazionale nel ‘98. Non solo. Nel corso della guerra in Bosnia Erzegovina, lo stupro è stato utilizzato come strumento specifico di terrore all’interno delle campagne di pulizia etnica. La prima conferma la si ebbe con il verdetto dei giudici dell’Aja il 22 febbraio 2001 per i fatti di Foča, una delle cittadine bosniache più segnate sulla mappa dell’orrore disegnata dalle forze militari serbo-bosniache: Zoran Vukoviċ, Radomir Kovač e Dragoljub Kunarac, furono i primi ad essere condannati rispettivamente a 12, 20 e 28 anni di carcere. Accusati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, vennero giudicati colpevoli di stupro nei confronti di decine di donne e ragazze, tra le quali minorenni. Secondo Amnesty International2, questo verdetto ha rappresentato un evento di importanza fondamentale sul piano della difesa dei diritti umani delle donne: vengono riconosciuti lo stupro e la riduzione in schiavitù sessuale quali crimini contro l’umanità, contrastando la teoria

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Lo stupro come arma Il caso della ex Jugoslavia


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per cui la tortura delle donne è un fattore “intrinseco” alle guerre. Il verdetto ha riconosciuto inoltre che lo stupro subito dalle donne imprigionate era parte di un piano sistematico e su larga scala di attacco alla popolazione civile. Dal 2005 il Tribunale Internazionale cominciò a trasferire sempre più processi dall’Aja alle Corti locali. Molti casi finirono davanti alla Corte di Sarajevo, costituita per giudicare i crimini più gravi commessi durante il conflitto. È proprio qui che uno dei primi verdetti fece discutere. Milan e Sredoje Lukić vennero riconosciuti colpevoli di numerosi crimini commessi nella Regione di Višegrad tra il ‘92 e il ‘94. Dei 21mila abitanti di Višegrad, prima della guerra, due terzi erano bosgnacchi (bosniaco musulmani), e più di 13.500 di loro furono costretti a lasciare le proprie case. La condanna, rispettivamente all’ergastolo e a 30 anni di reclusione, provocò forti proteste tra le associazioni di donne vittime di guerra: pur essendo emerso durante il processo che gli imputati erano responsabili di violenze sessuali, non comparendo tale crimine negli atti di accusa non vennero per questo condannati.Sono le donne che fuori dalle aule si battono perché venga riconosciuto il reato di cui sono state vittime. Nei tanti processi per crimini di guerra che si sono perseguiti fino ad oggi nelle Corti locali - in Bosnia come in Croazia e Serbia – è emerso anche un altro tipo di coinvolgimento delle donne in guerra: nel ruolo di carnefici. Il primo, e unico, caso di donna perseguita dal Tribunale dell’Aja era stato quello di Biljana Plavšić, che tra il ‘96 e il ‘98 era presidente della Republika Srpska, una delle due Entità della Bosnia Erzegovina. Venne messa sotto processo per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Dato che si costituì volontariamente, patteggiando poi con il Tribunale e dichiarandosi colpevole di crimini contro l’umanità, il Tribunale lasciò cadere l’imputazione di genocidio. Il 27 febbraio 2003 venne condannata a 11 anni di prigionia3. Nelle Corti locali invece, stanno emergendo sempre di più casi a carico di donne, non solo in Bosnia Erzegovina. La prima condanna a carico di una donna presso una Corte locale venne infatti comminata dalla Procura speciale di Belgrado il 12 dicembre del 2005. Nada Kalaba venne condannata a 9 anni di reclusione per aver partecipato ai crimini commessi nella fattoria di Ovčara presso Vukovar (Croazia) nel novembre del 1991, quando in una notte furono maltrattati e uccisi circa 200 prigionieri di guerra croati4. In Bosnia Erzegovina, il primato viene raggiunto nel 2012: Rasema Handanović, detta Zolja (Vespa), estradata a fine 2011 dagli Usa, viene processata presso la Corte di Sarajevo per crimini perpetrati su civili croato-bosniaci e soldati prigionieri nel villaggio di Trusini nel 1993, quando faceva parte di un’unità speciale dell’Armija Bih (esercito bosniaco-musulmano). Nell’aprile 2012 viene condannata in primo appello a 5 anni e mezzo di carcere 5. Una seconda condanna al femminile viene emessa alla fine dello stesso anno a carico di Albina Terzić, detta “Nina”. Durante la guerra era arruolata nell’Hvo (forza militare croato-bosniaca) e aveva partecipato a atti disumani nei confronti di prigionieri serb-bosniaci ad Odžak (Bosnia Erzegovina) tra maggio e luglio del ‘926. Nell’arco del 2012 la Corte di Sarajevo ha condannato 30 persone ad un totale di 483 anni e mezzo di carcere , mentre ha emesso 23 nuovi mandati di accusa di cui alcuni a carico di donne. Come Azra Bašić, arrestata nel marzo 2012 negli Usa e che durante la guerra era arruolata nell’esercito croato. L’accusa è di aver perpetrato crimini di guerra su civili serbo-bosniaci nella primavera del ‘92, nel campo di concentramento vicino alla città bosniaca di Derventa. Alcune donne carnefici non cambiano però la sostanza: migliaia di donne sono state vittime. Secondo le numerose associazioni di queste ultime, infatti, il ricorso sistematico alla violenza sessuale ha portato a ridefinire l’intero conflitto come una guerra che è stata, ancor prima che contro gruppi etnici, contro le donne. Una guerra che prosegue in tempo di pace: nella maggioranza dei Paesi dei Balcani non esiste alcun riconoscimento giuridico delle vittime di stupro in guerra e quindi alcun sostegno sociale ed economico.

UNHCR/F. Noy

1 Link al documentario dell’ICTY, 2012: http://www.icty.org/sid/10949 2 Bosnia-Herzegovina: Foca verdict - rape and sexual enslavement are crimes against humanity, Amnesty International, 2001: http://www.amnesty.org/en/library/info/ EUR63/004/2001/en 3 Lady Plavšić, di Azra Nuhenfedić, Osservatorio Balcani e Caucaso, 2009: http://www. balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Lady-Plavsic-44719 4 Ovčara, un processo esemplare, di Danijela Nenadiċ, Osservatorio Balcani e Caucaso; 2005: http://www.balcanicaucaso.org/ aree/Serbia/Ovcara-un-processo-esemplare-31934 5 War crimes conviction highlights women’s grim role, SEETimes, 2012: http://www.setimes.com/cocoon/setimes/xhtml/en_GB/ features/setimes/features/2012/05/01/ feature-01 6 The verdict rendered to Albina Terziċ appealed, Prosecutor’s Office of Bosnia Hercegovina, 2013: http://www.tuzilastvobih.gov. ba/?id=1683&jezik=e


Donne e guerra/5 Federica Miglio

In alto - Soddo Una fabbrica di mattoni d’argilla dove lavorano donne cieche, che battono il materiale grezzo e lo setacciano. Il lavoro passa poi agli uomini che si occupano di dar forma ai mattoni e di cuocerli.

Soddo In Etiopia l’infibulazione è molto diffusa ed è spesso causa di gravi infezioni. Nonostante il cristianesimo rifiuti la pratica, i copti continuano a rifarsi alle culture antropologiche tribali precedenti alla cristianizzazione.

L'emergenza medico-sanitaria in Etiopia è generalizzata, ma è sempre più acuta via via che ci si allontana da Addis Abeba, come accade ad esempio nella Regione del Wolayta nel Sud del Paese. La cecità è tra le patologie più diffuse: su una popolazione nazionale di circa 90milioni d'abitanti si contano almeno 5milioni tra non vedenti e ipovedenti, mentre 9milioni di bambini sono affetti da Tracoma. A differenza della Cecità Fluviale molto diffusa nel Centrafrica, per la quale è difficile trovare una cura essendo trasmessa da un parassita endemico, il Tracoma che affligge il Wolayta è una banalissima infezione oculare che potrebbe essere prevenuta e addirittura debellata garantendo l’accesso a fonti di acqua pulita. Qui sono allarmanti anche i dati del prolasso utero-vaginale. Si tratta di una patologia diffusa specialmente tra le madri come somma di diversi fattori: i ripetuti parti mal assistiti, gli sforzi fisici nei campi e lo stato di malnutrizione generale, il tutto incardinato sul più vasto problema della mutilazione genitale femminile. In Etiopia la donna è il perno del nucleo domestico ed è l’unica figura che accudisce i figli, ecco perché la sua infermità è causa di disgregazione familiare e di abbandono della prole, impattando sul già gravoso fenomeno dei “bambini di strada”. Per tutta questa vasta e depressa area esiste oggi un solo ospedale pubblico, quello di Soddo, capitale amministrativa del Wolayta. Una struttura vetusta, senza acqua corrente e dove l’energia viene fornita solo dai generatori. Il complesso è stato costruito più di 40 anni fa quando il numero di abitanti era inferiore rispetto ad oggi e alcune piaghe, soprattutto l’Aids, non avevano ancora fatto la loro comparsa. www.federicamiglio.net

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Caso Etiopia, l'infermità femminile distrugge il nucleo familiare


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In alto - Soddo Nel Paese oltre il 15% dei bambini nasce sottopeso e nei primi cinque anni di vita la metà denuncia sintomi acuti di malnutrizione con conseguenti ritardi nella crescita e un’alta predisposizione a diverse malattie.

In basso - Soddo Nella sezione femminile dell’ospedale di Soddo poco più di dieci stanze devono bastare per tutti i reparti, compresi quelli infettivi. Anche i bambini ricoverati rimangono con le madri perché non esiste pediatria.

Pagina a fianco - Soddo Una donna dopo il parto. Nel Paese la mortalità infantile sotto i 5 anni ha un rapporto di 166/1000, mentre il 10% dei bambini non supera nemmeno l’anno di vita.


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In alto - Soddo Donna che aderisce a un progetto di microcredito (piĂš efficace quando indirizzato a collettivi femminili piuttosto che maschili) per la produzione di tessuti nei villaggi del Wolayta.

In basso - Soddo Momento di raccoglimento di fedeli copte. La Chiesa etiope si basa sul Vecchio Testamento con numerosi punti di contatto col giudaismo, a partire dalla lingua liturgica (il ge’ez, idioma semitico).


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Africa

UNHCR/S. Modola

A cura di Amnesty International

Diritti umani illusione africana I conflitti armati sono proseguiti o si sono aggravati in diversi stati dell’Africa subsahariana, tra cui Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo e Sudan, dove i bombardamenti indiscriminati nello Stato del Sud Kordofan da parte dell’esercito hanno costretto circa 100mila persone alla fuga. Gli attacchi da parte dei gruppi armati islamisti si sono protratti in Nigeria e Somalia e hanno nuovamente colpito il Kenya, mentre in Mali le violazioni dei diritti umani sono proseguite ben oltre l’intervento militare francese. Le discriminazioni nei confronti delle persone per il loro reale o presunto orientamento sessuale o per l’identità di genere si sono inasprite nella maggior parte del continente e in Zambia si è aperto il primo processo nei confronti di una coppia gay. Numerosi Governi hanno continuato a negare la libertà di espressione, come nel caso di Eritrea ed Etiopia. Attivisti per i diritti umani sono stati vessati, intimiditi e imprigionati in Gambia e Sud Sudan. L’uso della tortura da parte delle forze di polizia e di sicurezza è rimasto diffuso. Secondo fonti

militari, nei primi sei mesi del 2013 in Nigeria sarebbero stati uccisi oltre 950 presunti militanti di Boko Haram. Casi di tortura sono stati riportati in vari Paesi tra cui Guinea, Etiopia, Senegal e Zimbabwe. In Costa d’Avorio più di 200 persone sospettate di aver minacciato la sicurezza dello Stato sono state detenute illegalmente. Nelle proteste seguite all’aumento del prezzo del carburante in Sudan, sono stati uccisi oltre 100 manifestanti e centinaia di altri sono stati arrestati. Per quanto riguarda l’Africa Settentrionale, la situazione dei diritti umani è rimasta critica nei Paesi in cui nel 2011 le vecchie leadership erano uscite di scena. In Egitto, nei mesi precedenti la deposizione del Presidente Mohamed Morsi, decine di attivisti dell’opposizione sono stati arrestati con accuse inventate o motivate politicamente, giornalisti della carta stampata e di emittenti televisive e blogger sono stati convocati per interrogatori per aver criticato le autorità o “diffamato” la religione. La violenza di gruppo contro le donne, particolarmente nel corso delle manifestazioni, è stata ampiamente tollerata dalle autorità. Dal 3 luglio in avanti, le forze di sicurezza egiziane hanno represso duramente manifestazioni a favore di Morsi, fino al picco del Ferragosto in cui centinaia di simpatizzanti e militanti della Fratellanza musulmana sono stati uccisi. Per rappresaglia, la Fratellanza musulmana ha attaccato e distrutto decine di chiese copte. In Tunisia le leggi dell’era di Ben Ali sono sta-


UNHCR/M. Sibiloni

te utilizzate in diverse occasioni per accusare artisti, blogger e giornalisti di “insulto alla religione” o “disturbo dell’ordine pubblico”, in un crescendo di attacchi contro la libertà di espressione. Due gravi omicidi politici, a febbraio e a luglio, attribuiti a gruppi vicini all’estremismo islamista, hanno provocato dure proteste e acuito la crisi politica nel Paese. In Libia è entrata in vigore una legge che pone restrizioni ingiustificate alla libertà di riunione pacifica. Altrove nella Regione, attivisti politici e per i diritti umani hanno continuato a subire arresti, detenzioni e, in alcuni casi, torture o altri maltrattamenti. Le autorità non hanno trovato una situazione duratura per intere comunità sfollate a causa del conflitto, come i tawargha

e i mashashya, che hanno continuato a vivere in campi scarsamente attrezzati e non hanno potuto ancora rientrare nelle loro case per paura di rappresaglie. Migranti, rifugiati e richiedenti asilo hanno ancora subito detenzioni a tempo indeterminato, torture e altri maltrattamenti, anche da parte delle varie milizie. Per quanto riguarda gli altri Paesi del Maghreb, nuove leggi hanno rafforzato il controllo sui mezzi d’informazione in Algeria e in Marocco. Il ritrovamento dei resti di alcuni prigionieri scomparsi nel Sahara Occidentale negli anni Settanta ha riproposto il tema dell’impunità per le forze armate marocchine e la necessità di continuare le ricerche sulle altre centinaia di scomparsi saharawi.

UNHCR/B. Bannon


44

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL’ALGERIA RIFUGIATI

5.706

RIFUGIATI ACCOLTI NELL’ALGERIA RIFUGIATI

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PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SAHARA OCCIDENTALE

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Crimini impuniti

Le autorità algerine non hanno intrapreso iniziative adeguate per indagare sulle migliaia di sparizioni forzate e altre violazioni dei diritti umani, commesse durante il conflitto armato interno degli anni Novanta. Lo denuncia Amnesty International nel suo Rapporto annuale sottolineando che “le famiglie delle persone che erano state vittime di sparizione forzata hanno dovuto accettare certificati di morte per poter ricevere un risarcimento ma sono state loro negate informazioni sulla sorte dei loro parenti scomparsi. Coloro che continuavano a invocare verità e giustizia sono stati vittime di vessazioni”. Inoltre, sottolinea l’organizzazione, “la carta per la pace e la riconciliazione nazionale (Legge 06-01), in vigore dal 2006, ha assicurato l’immunità alle forze di sicurezza e ha criminalizzato le pubbliche critiche al loro operato”.

Il potere logora

Al potere dal 1999, Bouteflika nel corso del 2013 è rimasto molti mesi lontano dalla scena a causa dei suoi problemi di salute, mai chiaramente spiegati all’opinione pubblica. Bouteflika ha ripreso l’attività politica alla fine di settembre e sembra intenzionato a promuovere quelle riforme costituzionali di cui l’Algeria ha più che mai bisogno. Ma la sensazione è che le riforme serviranno a garantire soprattutto una sua ricandidatura per le presidenziali del 2014. Nessuna vera svolta, insomma, sembra all’orizzonte.

Nel 2013 l’Algeria ha rivissuto il dramma del terrorismo fra il 16 e il 19 gennaio, con l’assalto di un gruppo di terroristi a un impianto per l’estrazione del gas nella località di Tiguentourine, vicino a In Amenas, non lontano dal confine con la Libia. Il gruppo armato, formato da una quarantina di terroristi della brigata di Mokhtar Belmokhtar, affiliato ad al-Qaeda, ha assalito l’impianto prendendo in ostaggio circa 800 persone di varie nazionalità. Il complesso è stato circondato dalle forze di sicurezza algerine, che al quarto giorno di assedio hanno avviato un’azione di forza. L’attacco si è concluso con la morte di 67 persone (37 ostaggi stranieri, una guardia di sicurezza algerina e 29 terroristi, fra i quali Abdul al Nigeri, uno dei vice di Mokhtar Belmokhtar). Illesi gli altri ostaggi: 685 lavoratori algerini e 107 stranieri. Si sospetta che i terroristi siano arrivati dalla Libia e dal Mali. L’Algeria sarebbe stata presa di mira per aver concesso l’uso del proprio territorio e dello spazio aereo alla Francia, impegnata nell’intervento armato in Mali. Per il resto, cinquantuno anni dopo la conquista dell’indipendenza, l’Algeria appare come un Paese bloccato, sia a livello politico che a livello economico, ancora incapace di esprimere in pieno tutte le sue potenzialità. L’ultima volta che i cittadini sono stati chiamati alle urne, in occasione delle legislative del maggio 2012, le elezioni sono state vinte ampiamente dal Fln (il partito del Presidente Bouteflika) ma sono state caratterizzate da un alto tasso di astensionismo. La classe politica ha perso credibilità agli occhi degli elettori, che di conseguenza disertano le urne. Ad Algeri il vento della “primavera araba” del 2011 non è arrivato, o almeno è arrivato molto debole. Questo è avvenuto per diverse ragioni. Prima di tutto, dopo il traumatico decennio degli anni Novanta, caratterizzati da un terrorismo e da una violenza eccezionali, gli algerini temono un processo di cambiamento traumatico, che potrebbe sfociare in nuova violenza. Inoltre in Algeria, nonostante il sistema politico appaia bloccato, esiste formalmente il pluripartitismo e la stampa gode di una relativa libertà di espressione (anche se radio e televisione restano di proprietà statale). Non si può, quindi, parlare dell’esistenza di un regime simile a quello dell’egiziano Mubarak e del tunisino Ben Ali. Infine, la rendita che deriva dall’export di petrolio e gas naturale garantisce al Governo le risorse finanziarie sufficienti per garantire la pace sociale e soddisfare, almeno nell’immediato, le diverse rivendicazioni popolari. Tuttavia lo scontento della popolazione algerina resta palpabile, soprattutto fra i giovani (il tasso di disoccupazione giovanile oscilla fra il 30 e il 35%). Non esiste un movimento nazionale di contestazione, la protesta si esprime in genere a

ALGERIA

Generalità Nome completo:

Repubblica democratica popolare di Algeria

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo, francese, tamazight (berbero)

Capitale:

Algeri

Popolazione:

Circa 36.300.000

Area:

2.381.740 Kmq

Religioni:

Musulmana sunnita (99%), cristiana ed ebraica (1%)

Moneta:

Dinaro algerino

Principali esportazioni:

Risorse naturali: petrolio, gas naturale, ferro, fosfati, uranio, piombo, zinco Risorse agricole: grano, orzo, avena, uva, olive, cedri, frutta, pecore, bestiame

PIL pro capite:

Us 7.286

livello locale, con brevi fiammate che richiedono comunque l’intervento delle forze dell’ordine. La paralisi politica è ben rappresentata dal declino fisico del Presidente della Repubblica Abdelaziz Bouteflika.


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I militanti del gruppo al-Qaeda per il Maghreb islamico mirano ad unire le forze jihadiste della regione nordafricana per combattere contro l’Europa e la presenza occidentale nei Paesi del Ma-

ghreb. L’obiettivo sembra in gran parte fallito per mancanza di fondi, di uomini e anche per l’azione repressiva condotta dall’esercito algerino.

Per cosa si combatte

L’Algeria ha vissuto un 2010 relativamente tranquillo. I gruppi terroristi armati che si ricollegano ad al-Qaeda (al-Qaeda per il Maghreb islamico) hanno compiuto azioni meno sanguinose rispetto agli anni precedenti e la loro attività si è concentrata soprattutto nella zona Meridionale del Paese. Resta instabile, in parte, anche la situazione della Cabilia, la Regione montuosa che si estende da Algeri vero l’Est lungo la costa mediterranea. Il terrorismo che minaccia oggi l’Algeria non ha la forza, i numeri e la pericolosità di quello che ha sconvolto il Paese nel corso degli anni Novanta. La data chiave è il 1991, quando il movimento politico Fis (Fronte islamico di Salvezza) vince il primo turno delle elezioni politiche generali. Di fronte alla minaccia islamista a gennaio i militari interrompono il processo elettorale, il Fis viene dichiarato fuori legge e

comincia uno scontro sempre più sanguinoso tra i gruppi terroristi di ispirazione islamica radicale e l’esercito algerino. L’organizzazione terroristica dominante è il Gia (Gruppo Islamico Armato), in seguito affiancato dal Gspc (Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento). In Algeria il terrorismo islamico raramente ha preso di mira gli stranieri. Le vittime sono state soprattutto cittadini algerini. Nel decennio di sangue sono stati colpiti intellettuali, scrittori, giornalisti, esponenti della vivace società civile che caratterizza l’ex colonia francese. Numerosi anche gli attacchi contro poliziotti e militari. A migliaia i caduti fra la popolazione civile, sia nei centri urbani che nei villaggi. Tra gli stranieri sono stati colpiti esponenti della chiesa cattolica, da sempre minoritaria ma costantemente a fianco della popolazione musulmana nei momenti difficili del Paese. Vanno ricordate le uccisioni del vescovo

Quadro generale

Ancora in vigore la pena di morte

In Algeria è ancora in vigore la pena di morte anche se le autorità hanno mantenuto una moratoria de facto sulle esecuzione che dura ormai da dieci anni. Secondo il Rapporto 2013 di Amnesty International, i tribunali algerini hanno comunque emesso almeno 153 sentenze capitali nell’ultimo anno, comminate nei confronti d’imputati che erano stati condannati in contumacia, ritenuti colpevoli di reati relativi al terrorismo. Nessuna delle sentenze è divenuta esecutiva. L’ultima esecuzione in Algeria risale al 1993. Gli altri Paesi ad aver introdotto una moratoria sulle esecuzioni sono: Benin, Brunei Darussalam, Burkina Faso, Camerun, Congo, Corea del Sud, Eritrea, Federazione Russa, Ghana, Grenada, Kenya, Laos, Liberia, Madagascar, Malawi, Maldive, Mali, Mauritania, Marocco, Mongolia, Myanmar, Nauru, Niger, Papua Nuova Guinea, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sri Lanka, Suriname, Swaziland, Tagikistan, Tanzania, Tonga, Tunisia, Zambia.


Mohamed Smaïn (1943)

I diritti delle donne

In Algeria le donne hanno continuato a subire discriminazioni, nonostante alcune nuove leggi abbiamo permesso di accrescere la rappresentanza femminile in parlamento (riuscendo ad ottenere quasi un terzo dei seggi). Il Comitato Cedaw ha esortato il Governo a riformare il codice di famiglia, per dare alle donne gli stessi diritti degli uomini su tematiche come matrimonio, divorzio, custodia dei figli ed eredità. Il Comitato ha inoltre sollecitato il Governo algerino a ratificare il Protocollo opzionale alla Cedaw, a emanare leggi finalizzate a tutelare le donne contro la violenza domestica e di altro tipo e ad affrontare la disuguaglianza di genere nel campo dell’istruzione e dell’impiego.

di Orano Pierre Claverie e dei sette monaci trappisti del monastero di Tibherine. Si calcola che in totale le vittime del terrorismo in un decennio siano state circa 100mila. Una via di uscita dal tunnel del terrorismo è stata cercata a partire dal 1999, quando è stato eletto alla presidenza della Repubblica Abdelaziz Bouteflika. Bouteflika ha voluto impegnarsi per la riconciliazione e ha offerto una amnistia ai combattenti islamici in cambio del loro disarmo. Questo processo di riconciliazione è andato avanti con difficoltà e anche ambiguità. Alcuni gruppi hanno continuato le loro attività terroristiche, ma lentamente la vita degli algerini è tornata a essere più tranquilla, soprattutto nei principali centri urbani. Anche se negli ultimi anni c’è stata una ripresa delle azioni terroristiche anche ad Algeri, per opera dei militanti di al-Qaeda per il Maghreb islamico attentati del dicembre 2007 e dell’agosto 2008. L’Algeria non ha quindi raggiunto una condizione di completa stabilità e sicurezza. A questa condizione si aggiunge un quadro politico assolutamente immobile. Arrivato alla presidenza nel 1999 Bouteflika, rieletto nell’aprile del 2009 (è il terzo mandato consecutivo), ora conta di restare

I PROTAGONISTI

al potere fino al 2014. Quando divenne Presidente, Bouteflika alimentò molte speranze. Promise di ristabilire la pace, la riforma della pubblica amministrazione, della scuola e della giustizia. Assicurò di voler garantire il prestigio della nazione. Ma i progressi sperati non ci sono stati. O sono stati molto timidi, ben al di sotto delle attese. Come ha scritto il quotidiano indipendente El Watan, Boueflika non ha cose nuove da dire e presenta da un decennio lo stesso programma. Restano perciò irrisolti molti problemi come la corruzione, l’inflazione, la disoccupazione e la crisi degli alloggi, che colpisce soprattutto i giovani. Sulla scena politica non si affacciano uomini nuovi e resta dominante una casta di politici, militari e burocrati che gli algerini definiscono genericamente Le Pouvoir (Il potere). Di fronte a questa immobilità l’Algeria non collassa solo perché galleggia su un mare di petrolio. Grazie alle riserve di idrocarburi l’Algeria negli ultimi anni ha potuto arricchire le sue riserve valutarie (145miliardi di dollari) sfruttando gli aumenti del prezzo del greggio (ma con un calo sensibile nel corso del 2009). Tuttavia questa ricchezza non si è riversata sulla popolazione e la forte dipendenza dalle risorse petrolifere non ha favorito una diversificazione dell’economia. Gli introiti incassati dall’export di gas e petrolio vengono in gran parte utilizzati per l’importazione di alimentari, medicinali e materiali per l’edilizia.

47

Ex Presidente della sezione di Ralizane della Laddh, Mohammed Smaïn, 70 anni, si batte da anni per ottenere verità e giustizia per le famiglie delle persone scomparse durante il conflitto armato degli anni Novanta. Nel giugno del 2012 è stato arrestato per non aver risposto a un mandato di comparizione da parte del procuratore di Relizane. La convocazione si riferiva a una condanna a due mesi di reclusione e al pagamento di ammende per aver criticato le autorità, che avevano spostato i cadaveri da una fossa comune a Relizane nel 2001. È stato poi rilasciato con un provvedimento di grazia presidenziale emanato a luglio, per motivi di salute. L’attivista ha descritto i suoi diciotto giorni di prigionia alla stampa, denunciando (in una dichiarazione pubblicata da Arabress) le difficili condizioni di vita e gli abusi sui detenuti: “La sera i detenuti dormono attaccati gli uni agli altri. Impossibile girarsi senza dar fastidio al vicino. Ci sono quelli che dormono nei bagni e il cibo servito serve solo a mantenere i detenuti in vita. Mangiano per non morire”. La Laddh (Lega Algerina per la Difesa dei Diritti dell’Uomo) è una associazione nazionale senza scopo di lucro che denuncia le violazioni dei diritti umani commesse durante un decennio dai servizi di sicurezza e dai gruppi armati islamici.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL CIAD RIFUGIATI

39.695

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SUDAN

32.220

SFOLLATI PRESENTI IN CIAD 90.000 RIFUGIATI ACCOLTI NEL CIAD RIFUGIATI

373.695

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SUDAN

306.960

REPUBBLICA CENTROAFRICANA

65.874


Contro il deserto una muraglia verde

Il Ciad e altri dieci Paesi della Regione del Sahara, cioè Gibuti, Eritrea, Etiopia, Sudan, Niger, Nigeria, Mali, Burkina Faso, Mauritania e Senegal, hanno deciso di combattere uniti il deterioramento del territorio, riportando il verde in Africa Settentrionale. Per farlo, creeranno foreste, costruendo una specie di muraglia verde. L’impoverimento del suolo è una seria minaccia per la sicurezza alimentare e la qualità della vita. A rischio sono circa 500milioni di persone.

UNHCR/H. Caux

Instabilità politica, arresti arbitrari di oppositori, riforme considerate indispensabili – nella scuola e nell’economia – fallite: nel Ciad dell’eterno Presidente Idriss Deby Itno, le cose continuano a non funzionare. Lo dimostrano le dimissioni, nel novembre del 2013, del primo Ministro Joseph Djimrangar Dadnadji, in carica dal gennaio dello stesso anno. La scelta ha evitato di esporre pubblicamente le divergenze in seno al partito di maggioranza, il Movimento patriottico della salvezza (Mps), al potere dal 1990. In poche ore è stato nominato il nuovo premier. La scelta è caduta su un economista dalla consolidata esperienza politica e un uomo d'affari affermato, Kalzeubet Pahimi Deubet. Una decisione rapida, ma la tensione è palpabile, con cinque rimpasti di governo in pochissimo tempo e una valanga di omicidi e arresti arbitrari di oppositori. Secondo un recente rapporto di Amnesty International, centinaia di parlamentari dell’opposizione, giornalisti, accademici, attivisti per i diritti umani sono in carcere, in condizioni pessime, spesso senza essere stati mai incriminati. La libertà d’espressione è vietata, polizia e esercito sparano senza subire processi. L’ultima ondata repressiva è del 1° maggio 2013. Il Presidente Deby Into ha denunciato un tentativo di golpe e sono partiti gli arresti. Sempre secondo Amnesty, nella capitale N’Djamena, sono morte almeno otto persone. Di lì a poco, sono iniziate le retate di attivisti locali per i diritti umani, detenuti in isolamento senza poter incontrare familiari, avvocati e medici. In carcere sono finiti molti parlamentari e il 6 del mese è stato fermato Eric Topona, segretario generale del Sindacato dei giornalisti, con l’accusa di “attentato all’ordine costituzionale”. Nonostante questo, il Ciad il 17 ottobre è stato eletto membro non perma-

CIAD

Generalità Nome completo:

Repubblica del Ciad

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese, Arabo

Capitale:

N’Djamena

Popolazione:

11.175.000

Area:

1.284.000 Kmq

Religioni:

Musulmana (53,10%), cristiana (35%), animista (10%)

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

Prodotti agricoli

PIL pro capite:

Us 2.474

nente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il biennio 2014-15, scatenando l’ira di molte organizzazioni internazionali per i diritti umani. Come è possibile – si chiedono – che un Paese non democratico e costantemente impegnato nel riarmo – solo nel 2010 ha speso 234milioni di euro in armamenti – possa sedere nella “stanza dei bottoni” dell’Onu? Domanda che non ha avuto risposta. La Francia, grande amica del Paese, ha guardato alla elezione con occhio favorevole. Non a caso le truppe di Parigi impegnate in Mali sono affiancate proprio dai soldati giunti dal Ciad.


Il Ciad è al 183° posto su 187 Paesi per l’indice di sviluppo umano. L’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, appena il 9% ha accesso a servizi sanitari adeguati mentre solo il 48% usufruisce dell’acqua potabile. Una situazione sociale esplosiva che con la proliferazione del passaggio di armi (soprattutto leggere) sul proprio territorio ha visto crescere in maniera esponenziale la violenza tra le comunità locali. Il Ciad è una tappa essenziale per l’esportazione di armi verso i Paesi vicini, in particolar modo nella Regione sudanese del Darfur. Resta ancora gravissimo il problema di un milione di mine in circolazione e dei due milioni di ordigni inesplosi che minacciano la vita dei civili.

I conflitti tra le oltre 200 etnie che popolano il Paese sono all’ordine del giorno, una instabilità che torna utile al Governo centrale che sulla filosofia del “divide et impera” basa il suo potere. I confini (specialmente quelli orientali) restano caldi. Qui rapimenti ed attacchi contro i civili sono portati a segno dalle centinaia di milizie stanziate nel Darfur e che facilmente attraversano le frontiere - groviera che separano il Sudan dal Ciad. Ed inoltre sono molto attivi i gruppi interni di resistenza armata che si oppongono al Presidente Déby. E spesso, troppo spesso, queste differenti tipi di violenza si sovrappongono, si uniscono, e si separano alla velocità della luce. A farne le spese la popolazione inerme.

Per cosa si combatte

La capitale costa molto cara

Nonostante il Paese sia fra i più poveri del pianeta, N’Djamena – capitale del Ciad – è fra le città più care del mondo. Lo rivela la società di consulenza Mercer, che ha messo a confronto i prezzi di un numero consistente di città, identificando così le dieci più care al mondo per non residenti o turisti. L'analisi ha tenuto conto di un paniere di indicatori che vanno dal prezzo di un caffè, a quello di un giornale internazionale o a un litro di gasolio fino a un affitto mensile e N'Djamena è al quarto posto. Un volo da e per New York arriva a costare 2500 dollari. Anche pranzare con un sandwich e una bibita in un fast food è molto costoso: circa 25 dollari a persona. Il prezzo di un quotidiano è di 7 dollari e quello di un caffè circa di 3.

50

UNHCR/H. Caux

La Repubblica del Ciad, situata nell’Africa Centrale e circondata dagli Stati confinanti della Libia, del Sudan, del Camerun, della Nigeria, del Niger e della Repubblica Centraficana è considerata uno dei Paesi più poveri del mondo, attraversato da forti instabilità interne e da conflitti ancora irrisolti. Proprio la vicinanza con molti Paesi dove si combattono guerre violente e sanguinose ha aggravato la crisi interna del Ciad, guidato da un Governo che fatica a gestire i forti flussi di rifugiati in fuga dai conflitti e dalle tensioni interne. Dopo una lunga storia da ex colonia francese, il Ciad è diventato indipendente nel 1960. Una transizione pacifica che sembrava presagire un futuro di stabilità per il Paese che nello stesso anno, il 20 settembre, è entrato ufficialmente a far parte dell’Onu. Il primo Presidente del Ciad, eletto l’11 agosto del 1960, è stato François Tombalbaye che nel dopoguerra aveva fondato uno dei principali partiti ciadiani, il Partito Progressista del Ciad (Ppt). Le speranze del Paese furono presto deluse dal Governo di Tombalbaye, che si trasformò in una guida autoritaria. Solo due anni dopo la sua elezione, il Presidente aveva messo al bando tutti gli altri partiti politici attivi in Ciad e cominciato

una forte repressione contro quelli che considerava oppositori politici. Il malcontento nel Paese cresceva e in più di una occasione il Governo dovette sedare rivolte interne. Tensioni si registravano nel Nord del Paese, abitato da popoli di fede islamica ma anche al Sud dove le popolazioni erano cristiane e animiste. Nel 1966, nel confinante Sudan, venne fondato il Fronte Nazionale per la Liberazione del Ciad (Frolinat). Il gruppo di ribelli imbracciò le armi contro il Governo dando inizio ad una sanguinosa guerra civile, proseguita anche dopo il colpo di stato militare del 13 aprile del 1975, quando Tombalbaye venne ucciso e il generale Félix Malloum, capo della giunta militare, divenne il nuovo capo di Governo. Nell’impossibilità di annientare la guerriglia del Frolinat, nel 1978, Malloum decise di nominare primo Ministro il leader dei ribelli Hissène Habré. La convivenza dei due ai vertici del Paese durò poco. L’anno successivo le forze ribelli del Frolinat e l’esercito di Malloum si scontrarono apertamente nella capitale N’Djamena. Il generale golpista Malloum fu costretto alla fuga ma il Paese scivolò in una crisi interna ancora più profonda. La guerra civile coinvolgeva, oltre al Frolinat, numerose fazioni di ribelli e la situazio-

Quadro generale


Idriss Déby (Fada, 1952)

UNHCR/H.Caux

Migranti, in trentacinque muoiono nel deserto

Nell’ottobre 2013, almeno 35 migranti nigeriani morti di sete. È il bilancio di una nuova tragedia dell'immigrazione, nel deserto del Ciad. Il camion su cui viaggiavano si è bloccato nel deserto, lasciandoli senza scampo. I cadaveri sono stati ritrovati dall’esercito, che ha impiegato giorni nell’operazione di recupero.
Si tratta – hanno spiegato le autorità – solo dell’ultimo, clamoroso episodio di una tragedia che sembra non conoscere limiti.

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Il Presidente Idriss Déby è un abile politico passato indenne attraverso molte burrasche. È al potere ininterrottamente dal 1990 e le elezioni di aprile 2011 gli hanno spianato la strada per un altro mandato di cinque anni. La fedeltà alla Francia gli ha assicurato una lunga carriera. Le truppe di Parigi infatti non esitarono ad intervenire in suo favore nel febbraio 2006 quando, trovandosi all’estero, le forze ribelli tentarono per la seconda volta di rovesciarlo con un piano che prevedeva anche l’abbattimento dell’aereo su cui viaggiava. I millecento soldati francesi in servizio stabile in Ciad schiacciarono i rivoltosi. Del resto Déby ha perfezionato il suo addestramento militare proprio studiando in Francia. Prima di diventare un acerrimo nemico del Sudan di Bashir e della Libia guidata da Gheddafi, Idriss Déby sfruttò abilmente il loro aiuto economico e militare alla fine degli anni ’80 per prendere il potere contro l’esercito governativo del suo ex alleato Hissène Habré, Presidente dell’epoca. Lo scaltro Déby non ha esitato a modificare la costituzione nel 2004 per eliminare il limite di due mandati per l’elezione presidenziale. Ora la scoperta del petrolio apre la strada verso la ricchezza. E per un Presidente di appena 62 anni la strada è ancora lunga.

ne nel Paese era ormai fuori controllo. L’Onu intervenne e traghettò il Paese alla firma, nell’agosto del 1979, di un trattato di pace l’Accordo di Lagos - che permetteva la formazione di un Governo di transizione che avrebbe dovuto guidare il Paese alle elezioni politiche. A capo di questo Governo il Presidente Goukouni Oueddei, mentre Habré fu nominato ministro della Difesa. Dopo 18 di mesi la situazione era però immutata e gli scontri continuavano ad imperversare. Oueddei riuscì a conquistare il controllo della capitale ma per farlo chiese aiuto alla Libia che inviò le proprie truppe. Ancora grazie alla Libia nel 1983, l’esercito governativo sferrò un nuovo attacco contro le forze di Habré, che ottenne il sostegno delle forze francesi già presenti sul territorio. Nel 1984 la Francia e la Libia siglarono un accordo per ritirare le proprie truppe dal Ciad. Accordo che non fu però rispettato dalla Libia che mantenne i propri soldati nella striscia di Aouzou. Solo nel 1987 Ciad e Libia firmarono un cessate il fuoco, che rimase

I PROTAGONISTI

in vigore fino al 1988. Negli anni Ottanta la stabilità interna del Ciad è minata da una serie di colpi di stato. Nel 1990 un disertore dell’esercito di Habré, Idriss Déby riuscì con un golpe ad instaurare un nuovo Governo, di cui egli stesso divenne Presidente. Negli anni successivi altri tentativi di colpo di stato furono sferrati contro il Governo di Déby che è però tuttora in carica. Il Paese è ancora attraversato da violenti scontri tra le varie anime della guerriglia ciadiana, e l’instabilità è costantemente in aumento nonostante i tentativi del Presidente Déby di siglare trattati di pace con le fazioni ribelli. La situazione si è poi ulteriormente aggravata dal 2003, quando centinaia di rifugiati in fuga dalla Regione sudanese del Darfur, martoriata da un conflitto civile, hanno iniziato ad entrare in Ciad per sfuggire alle violenze. Il 23 dicembre del 2005, il Governo del Ciad ha dichiarato ufficialmente lo stato di guerra contro il Sudan. Alla base della decisione una lunga serie di violenti scontri lungo il confine tra i due Paesi ai danni delle popolazioni che abitano la frontiera. Nel 2010 i due Paesi hanno firmato un accordo di pace.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA COSTA D’AVORIO RIFUGIATI

100.689

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI LIBERIA

65.560

GHANA

8.699

GUINEA

6.552

SFOLLATI PRESENTI NELLA COSTA D’AVORIO 45.000 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA COSTA D’AVORIO RIFUGIATI

3.980


Il razzismo non ha colore

Nazionalismo, xenofobia, identità rigida: sono questi i risultati veri della ivoirité , idea promossa e lanciata attorno al 1990 dall’allora Presidente Bédié e fatta propria da Laurent Gbagbo. L’ivoirité pretende di definire la nazionalità ivoriana sulla base di una serie di nozioni culturali, con l’obiettivo di segnarne i confini. Si è sviluppato così il precetto di un gruppo identitario preciso, chiamato a governare il Paese, in grado di reggere l’arrivo degli stranieri, indispensabili all’economia nazionale. Si sono così protetti i privilegi della classe dirigente e dei ricchi, contro le richieste di integrazione. In termini marcatamente politici, l’ivoirité ha consolidato la gestione autoritaria del potere, creando di fatto due livelli di cittadinanza: quella dei ‘puri’ ivoriani e quella dei figli di ‘unioni miste’ o degli ‘alloctoni’, esclusi da molti diritti politici.

UNHCR/H. Caux

Resta un Paese in bilico, la Costa d’Avorio. A tre anni dalla fine della guerra fra l’ex Presidente Gbagbo, che non voleva lasciare la carica dopo aver perso le elezioni, e l’attuale Capo di Stato, Alassane Dramane Ouattara, le violenze sono continue, l’economia è allo sfascio e l’integralismo islamico penetra con sempre maggior vigore. Un problema costante per l’attuale Presidente Ouattara è tenere sotto controllo le Forze repubblicane della Costa d’Avorio (Frci), ex ribelli analfabeti che non ricevono gli stipendi e i dozos, i cacciatori tradizionali che hanno acquisito il gusto per la vita militare dopo la guerra civile del 2010 – 2011. Così, le organizzazioni internazionali denunciano il moltiplicarsi di racket, stupri, estorsioni e violenze in genere ai danni della popolazione, già in difficoltà per il peggiorare della situazione economica. Nel 2013 si registravano 8milioni di disoccupati, soprattutto giovani. Gli impiegati dello Stato vengono pagati ogni tre mesi. Questo rafforza il fronte dell’opposizione, che fa riferimento all’ex Presidente Laurent Gbagbo, sotto processo all’Aja per crimini internazionali. La sua situazione è ambigua. C’è chi pensa debba essere rilasciato, perché vittima di un complotto internazionale. Chi, come l’ex segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, sostiene le ragioni del Tribunale Internazionale e chiede una condanna. La tensione è alta, lo scontento cresce. Il Presidente in carica, Ouattara, viene accusato di aver svenduto il Paese alla Francia, cedendo tutto: dal cacao al caffè, dall’acqua corrente alla telefonia, dal petrolio alla gestione del porto di Abidjan. Questo lo ha indebolito anche sul fronte internazionale. Gli Stati Uniti lo avevano appoggiato, sulla base della promessa che la torta economica ivoriana sarebbe stata divisa tra Washington e Parigi. La Francia si è presa tutto e gli Usa certamente non lo appoggerebbero in caso di crisi. Ouattara, originario del Burkina Faso, cerca soluzioni.

COSTA D’AVORIO

Generalità Nome completo:

Repubblica della Costa d’Avorio

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese (ufficiale), dioula, baoulé, bété, sénoufo

Capitale:

Yamoussoukro

Popolazione:

19.737.000

Area:

322.460 Kmq

Religioni:

Cristiana, musulmana

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

Prodotti agricoli, diamanti, manganese, nichel, bauxite, oro

PIL pro capite:

Us 1.707

In vista delle elezioni presidenziali del 2015, ha dato la cittadinanza a tre milioni di burkinabè, che hanno occupato l’Ovest del Paese, cacciando in malo modo i legittimi proprietari delle grandi piantagioni di cacao e di caffè. Intanto, però, i confini del Paese sono un colabrodo pericoloso: la Costa d’Avorio sta diventando il deposito delle armi dei gruppi islamici che sono fuggiti dalla Libia e dal Mali. Le armi passano dal Ghana, dalla Liberia e dal Burkina Faso e arrivano nel Nord del Paese ivoriano.


Le ragioni della guerra in Costa d’Avorio sono da ricercare nel controllo delle ricchezze del territorio, controllo che viene rivendicato dai diversi gruppi dirigenti facendo leva sull’appartenenza ad uno dei 60 diversi gruppi culturali. L’interdizione dalle cariche politiche delle popolazioni a sangue misto ha creato tensioni che non si assopiscono, innestate su un deficit democratico costante nella storia della Costa d’Avorio sin dall’indipendenza. Inoltre, l’economia del Paese, una delle migliori

del continente africano, dipende quasi interamente dall’esportazione delle materie prime e questo scatena da sempre gli interessi delle grandi aziende multinazionali, pronte a finanziare i diversi gruppi pur di assicurarsi - con la presa del potere - il controllo del mercato. Insomma, è un Paese diventato terreno di confronto per interessi esterni, con Francia, Stati Uniti e Cina a contendersi il ruolo di “partner” privilegiato.

Per cosa si combatte

Tante le feste del Paese

Non solo Brasile, viene da dire: anche in Costa d’Avorio il carnevale è una festa importante. Uno dei più importanti è quello di Bouaké, una sorta di festa dell’amicizia lunga una settimana. C’è poi la Fête de l’Abissa a Grand Bassam, in ottobre, quando si onorano i morti. Altro evento notevole è la Festa delle Maschere, che si svolge vicino a Man nel mese di febbraio: danzatori e maschere delle regioni circostanti si riuniscono qui, a testimoniare la grande importanza che le maschere mantengono per il popolo Dan.

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UNHCR/H. Caux

La Costa d’Avorio ottiene l’indipendenza nel 1960 grazie a uno dei padri della decolonizzazione, Felis Houphpuet-Boigny. Legato sia per il proprio passato politico sia per gli interessi economici alla Francia, Boigny garantisce al suo Paese uno

sviluppo economico considerevole. Grazie a un programma di incentivi statali sostenuti anche da Parigi, Boigny porta la Costa d’Avorio a essere il primo esportatore mondiale di cacao e il terzo di caffè. Per 20 anni l’economia del

Quadro generale

UNHCR/H. Caux


Félix HouphouëtBoigny

(Yamoussoukro, 18 ottobre 1905 – 7 dicembre 1993)

Un puzzle di lingue

In Costa d’Avorio La lingua ufficiale è il francese, usato dai giornali, nel sistema scolastico e nell’amministrazione pubblica. Questo per avere un idioma comune, in presenza di almeno 60 dialetti africani parlati nel Paese, in particolare agni, baoulé, senoufo e malinke. Frammentaria anche l’identità religiosa. Sulla base del censimento del 1998 la fede più diffusa è quella musulmana (38,6 %), seguita da quella cristiana cattolica (19,4%) e da quella protestante (6,6%). Rimangono diffusi i culti tradizionali e sincretici insieme alle Chiese indipendenti africane.

Paese cresce al ritmo del 10% all’anno, superata solo dall’economia dei grandi Paesi produttori di petrolio e diamanti. Boigny gode di enorme credito politico, cosa che gli permette di governare con pugno di ferro, senza permettere la nascita di partiti politici né, tanto meno, di organizzare elezioni libere. All’inizio degli anni ’80 crolla il prezzo del cacao e del caffè con effetti disastrosi sull’economia del Paese. Il debito estero triplica e cresce la criminalità, la stabilità del Governo comincia a vacillare. Boigny, nel 1990, deve affrontare le prime proteste di piazza. Il Presidente risponde al malcontento attraverso la concessione di alcune libertà politiche, tra cui il multipartitismo. Le prime elezioni libere confermano alla guida del Paese il padre della patria. Boigny muore nel 1993 e viene sostituito da Henri Konan Bèdiè, che riesce a migliorare il quadro economico anche grazie a una svalutazione del 50% del franco Cfa, legato a quello francese e ora all’euro. La repressione del dissenso crea un forte malcontento che viene sfruttato, nel 1999, da un gruppo di militari capitanati dal generale Robert Guei, che rovescia Boèdiè e organizza le elezioni

I PROTAGONISTI

presidenziali. Le consultazioni del 2000 si svolgono in un’atmosfera pesantissima, caratterizzata da tentativi di brogli compiuti da Guei e dall’esclusione di Alssane Ouattara, principale candidato dell’opposizione, perché di sangue misto. La decisione scatena la rabbia dei musulmani del Nord. Dalle urne esce vincitore Laurent Gbagbo, principale oppositore di Boigny. Nel 2002 parte dell’esercito si ammutina e tenta di rovesciare il Presidente Gbagbo che resiste e il golpe si trasforma in una vera e propria guerra civile che spacca il Paese in due: il Nord controllato dai ribelli del Fronte Nuovo e il Sud sotto controllo del Governo. La Costa d’Avorio entra in uno stallo politico e istituzionale che paralizza il Paese. Nel 2003 vengono firmati accordi di pace che, tuttavia, rimangono sulla carta. Molti nodi costituzionali rimangono tali, soprattutto quelli che riguardano l’eleggibilità delle popolazioni di sangue misto. Il Paese rimane diviso in due. E i tentativi del Presidente di riprendere il potere sul territorio sotto controllo dei ribelli, manu militari, falliscono anche grazie alla forza di interposizione dell’Onu, 10mila uomini ancora presenti nel Paese, e ai contingenti francesi che controllano la zona di sicurezza al “confine” tra Nord e Sud del Paese. Le elezioni libere vengono continuamente rimandate, fino alle elezioni del novembre 2010 che hanno visto la vittoria di Ouattara.

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È considerato il padre dell’indipendenza, primo Presidente della Costa d’Avorio dal 3 novembre 1960 al 7 dicembre 1993. Prima era stato sindacalista. Figlio di un capo tradizionale, si è laureato in medicina nel 1925. Ha iniziato in Francia la carriera politica, diventando deputato dell’Assemblea costituente nel 1945-46 e poi dell’Assemblea nazionale, sino al 1959. Fondatore del Rassemblement démocratique africain (Rda, organizzazione interterritoriale dell’Africa Occidentale Francese) e della sua sezione locale, il Parti démocratique de la Côte d’Ivoire (Pdci), è più volte ministro in Francia e nel 1959-60 diventa primo Ministro della Costa d’Avorio. Dopo l’indipendenza viene eletto Presidente della Repubblica, riconfermato per più di trent’anni. Sul piano internazionale ha mantenuto una stretta collaborazione con l’Europa e in particolare con la Francia. Ha spostato la capitale da Abidjan a Yamoussoukro e realizzato numerosi progetti di infrastrutture.

UNHCR/H. Caux


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA GUINEA BISSAU RIFUGIATI

1.182

RIFUGIATI ACCOLTI NELLA GUINEA BISSAU RIFUGIATI

7.784

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SENEGAL

7.700


Alle porte la carestia

Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) classifica il Paese al 176esimo posto su 186 Paesi. L’aspettativa di vita è di circa 48 anni, il prodotto interno lordo pro capite è di 1042 dollari, dollari internazionali il cui valore è fermo al 2005. Il tasso di abbandono della scuola primaria è dell’88%. Secondo la Fao, la Guinea-Bissau sta vivendo attualmente un periodo di grave carestia, a causa della scarsa produzione agricola e dell’instabilità politica. Potrebbe colpire circa 260mila persone entro il 2014.

Era scritto nelle stelle: le annunciate elezioni generali che avrebbero dovuto sostituire il governo transitorio, salito al potere con un colpo di stato nell’aprile del 2012 spodestando il Presidente Raimundo Pereira, sono state continuamente rimandate. Erano previste nel maggio del 2013, sono slittate a novembre dello stesso anno. Infine, sono state rimandate al 16 marzo 2014. Il Presidente provvisorio, Manuel Serifo Nhamadjo. Ha spiegato che il rinvio è dovuto a problemi finanziari ed è stato deciso in accordo con i partiti politici e la Commissione elettorale. Potrà esser vero, ma intanto in Guinea Bissau la tensione resta alta. In settembre del 2013, il parlamento ha bloccato un disegno di legge che avrebbe garantito l’amnistia per gli autori del colpo di stato militare del 2012. A presentare il progetto di norma era stato lo stesso Governo di transizione, intenzionato a tener buoni i militari. Esigenza questa che pare primaria per sopravvivere, dato che proprio i militari sono ritenuti i responsabili della trasformazione del Paese in “narconazione”. La coca colombiana, infatti, transiterebbe da qui, prima di arrivare in Europa, grazie alla collaborazione di generali e ammiragli. Nell’aprile del 2013, il capo dell’esercito, il generale Antonio Indjai, è stato formalmente accusato dagli Stati Uniti di complotto narcoterroristico con le Farc colombiane (Forze armate rivoluzionarie). Lui, il generale, ha reagito chiedendo una commissione d’inchiesta internazionale indipendente per fare luce sul suo presupposto coinvolgimento in un traffico di droga.

GUINEA BISSAU

Generalità Nome completo:

Repubblica di Guinea-Bissau

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Portoghese

Capitale:

Bissau

Popolazione:

1.515.000

Area:

36.120 Kmq

Religioni:

Animista (45%), musulmana (40%)

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

Anacardo

PIL pro capite:

Us 1.210

Nello stesso mese, un altro ufficiale superiore, l’ex-capo della Marina, il controammiraglio Americo Bubo Na Tchuto, è stato incriminato dagli Usa per traffico di droga e arrestato dagli agenti della Dea, l’agenzia antidroga americana, che lo hanno prelevato in mare -nelle acque internazionali dell’Africa dell’Ovest- con diversi complici. Ora è in attesa di un processo negli Stati Uniti. In questa situazione, il Paese resta tra i più poveri al mondo, senza rapporti con la comunità internazionale. Mancano cibo e medicinali e il Paese sembra sempre più in mano a organizzazioni criminali.


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Il Paese è nelle mani di pochi trafficanti di droga, con complicità dirette dell’esercito, e la popolazione è lasciata al suo destino. Qui la principale preoccupazione è quella di fare da ponte, da punto di smistamento del traffico della droga dall’America Latina, ma anche dall’Asia e dal Marocco, alle grandi piazze europee. La popolazione non ha a disposizione l’acqua e da più di un quindicennio non c’è energia elettrica.

Ora il Governo, con il contributo della Banca Mondiale, finanzierà un progetto di 2,5milioni di dollari per iniziare i lavori che dovrebbero garantire la corrente elettrica e l’acqua alla capitale. Militari e dipendenti pubblici non vengono pagati se non due o tre volte l’anno, con la differenza che per i militari spesso si muovono “interventi di emergenza” per pagare gli arretrati ed evitare, probabili, colpi di stato. Insomma la Guinea Bissau è la “terra di nessuno”.

Per cosa si combatte

La Guinea Bissau è stata colonia portoghese con il nome di Guinea portoghese sino al 1974 quando ottenne l’indipendenza. Ma è il 1956 l’anno della svolta. Nello stesso anno nasce una realtà che sarà protagonista della storia del Paese fino ai giorni nostri. Si tratta del Paigc, Partido Africano da Independencia de Guiné e Cabo Verde. Amilcar

Cabral, scrittore e fondatore del partito ha guidato il Paese verso una rivolta culturale. Il processo, però, viene accompagnato da un periodo di guerriglia interno. Il partito e la guerriglia fanno loro il Paese in poco tempo, in primo luogo per le caratteristiche del territorio, grandi distese di foreste, e in secondo luogo per il presunto appoggio di Cina, Unione Sovietica e altri

Quadro generale

Una violenza sempre più cieca

La violenza è davvero quotidiana in Guinea Bissau. Tra i tanti fatti di cronaca, ne è buon esempio quanto accaduto nell’ottobre del 2013. Tre cittadini nigeriani accusati di aver rapito un bambino sono stati linciati dalla folla. Il bimbo era sparito in mattinata nella capitale Bissau, e ben presto si erano sparse in giro voci su un suo ipotetico sequestro da parte di nigeriani. È nato un raduno spontaneo di giovani, che sempre più furiosi, senza che polizia riuscisse ad arginarli, hanno assalito le vittime e ne hanno fatto scempio.


Francisco Mendes (Enxude 7 febbraio 1939 – Bissau 7 luglio 1978)

Un popolo, tante genti

La popolazione della Guinea-Bissau è decisamente eterogenea. A Nord e a Nord-Est vi sono i fula (20%) e i mandingo (13%). Nelle zone costiere del Sud abitano invece i balanta (30%) e i papel (7%) . Al centro e nelle aree marine del Settentrione vivono i manjaco (14%) e i mancanha. I mulatti – mestiços – sono solo l’1% e fra questi c’è anche una piccola minoranza di persone originarie di Capo Verde. I portoghesi e gli europei in genere sono ormai solo lo 0,06% della popolazione, frutto del precipitoso esodo dei coloni all’indomani dell’indipendenza del Paese.

Stati africani che avrebbero fornito le armi ai guineani. Ma solo il 24 settembre 1973, con la firma di un accordo definitivo, si può dire libera dal Portogallo. Nel novembre dello stesso anno ottiene il riconoscimento ufficiale dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Il Governo viene affidato a Luis Cabral, fratello di Amilcar, che rimane al potere fino al 1980 quando un colpo di stato, da parte di Joao Bernardo Vieira, lo spodesta. Vieira rimane a capo del Paese fino al 1998, anno dell’inizio di una sanguinosa guerra civile. Il generale Absumane Manè si ribella alla sua deposizione da capo delle forze armate. La guerra civile dura un anno e pone fine alla dittatura di Vieira.

I PROTAGONISTI

Solo nel 1999, a febbraio, viene firmata la tregua e 11 mesi dopo i cittadini vengono chiamati alle urne per eleggere il nuovo Governo. Nel 2000 Kumba Lalà viene eletto Presidente. Ma la calma non dura a lungo. Appena tre anni dopo un nuovo colpo di stato porta all’arresto del Presidente considerato incapace di risolvere i problemi del Paese. Nel marzo 2004 si tengono nuove elezioni, ma il Paese non esce dallo stato di confusione in cui è piombato, tanto che nell’ottobre dello stesso anno l’esercito si ammutina. Nel 2005 ancora elezioni e Vieira torna al potere. Il 2 marzo 2009 viene assassinato. Il giorno prima viene ucciso il capo di stato maggiore Tagma Na Wai. Proprio a quell’anno viene fatto risalire lo sbarco dei cartelli della droga, che inizieranno ad influenzare la vita politica del Paese. Il golpe dell’aprile del 2012 è solo l’ultimo capitolo di un copione già scritto.

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Uno degli uomini simbolo della guerra per l’indipendenza del Paese, Mendes era tra i pochi abitanti della GuineaBissau ad avere un’istruzione secondaria ai tempi della colonia. Abbandonò gli studi per unirsi al Paigc (Partido Africano da Independencia de Guiné e Cabo Verde) nella lotta per l’indipendenza. Adottò il nome di guerra ‘Chico Te’, scalando sempre più posizioni nel partito. Fu commissario politico della Regione di Bafata nel 1962. Dal 1963 al 1964 ottenne la stessa carica per il Fronte Settentrionale. Entrò ufficialmente in politica nel 1964 e nel 1965 divenne un membro del Consiglio di Guerra del Paigc. Nel 1967 fu nominato delegato del Consiglio per il Fronte Settentrionale. Fu eletto primo Ministro nel 1973 seguendo la stesura della dichiarazione di indipendenza. Morì tragicamente in un incidente automobilistico a Bissau il 7 luglio del 1978. La sua firma la si può vedere nelle prime 4 emissioni di banconote della Guinea-Bissau, esattamente sui 50, 100 , 500 e 1000 pesos.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA LIBERIA RIFUGIATI

23.480

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GHANA

5.156

RIFUGIATI ACCOLTI NELLA LIBERIA RIFUGIATI

65.909

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI COSTA D’AVORIO

65.560


L'educazione di genere

Insieme, i diritti delle donne si difendono meglio: ne sono convinti gli studiosi dell’Università di Makerere, il maggiore ateneo di Kampala, Uganda, impegnati a sostenere l’avvio di un corso sulla parità di genere in un college fondato in Liberia cinque anni dopo la fine della guerra civile. I professori ugandesi terranno lezioni e presiederanno commissioni d’esame: l’Università di Makerere detiene oggi il primato mondiale per numero di studenti che hanno conseguito dottorati o titoli di master in Studi di genere e sulle donne. Un percorso formativo, questo, attivato nel 1991, che potrà garantire un aiuto prezioso alla Liberia.

UNHCR/G. Gordon

La pace è sempre un sogno garantito dalla forza multinazionale dell’Onu, ma qualche cosa di buono nel 2013 della Liberia c’è da registrarlo: è finito l’incubo degli sfollati e dei rifugiati. Alla fine di dicembre del 2012, sono rientrati dalla Guinea gli ultimi 724 rifugiati, fuggiti dalle guerre civili che fra il 1989 e il 2003 hanno ucciso almeno 200mila persone e creato 800mila sfollati interni e 250mila rifugiati all’estero, in Costa d'Avorio, Ghana, Guinea, Mali, Nigeria, Sierra Leone e Gambia. Ad esempio il campo di Buduburam, a 44 Km da Accra (Ghana), dal 1990 è stato la casa di più di 35mila rifugiati liberiani. Un Paese che tenta di rinascere, quindi e che paradossalmente affronta il problema di accogliere quasi 67mila rifugiati ivoriani, in fuga dalla Costa d’Avorio dopo le violenze seguite alle elezioni del 2010, per le quali l’ex Presidente Laurent Gbagbo è sottoposto al giudizio della Corte Penale Internazionale. Una sorte che lo accomuna al “grande male” liberiano, l’ex capo dello Stato Charles Taylor. Condannato nel 2012 a cinquant’anni di carcere per crimini contro l’umanità e crimini di guerra dal Tribunale speciale per la Sierra Leone (Tssl), nell’aprile del 2013 ha visto confermare la condanna in appello. In pratica, è stato riconosciuto colpevole di aver fornito sostegno ai ribelli sierra-leonesi del Fronte rivoluzionario unito (Ruf) in cambio di diamanti, durante la guerra che ha martoriato il Paese negli anni ’90: di qui la condanna per omicidio, stupro, tortura e arruolamento di bambini-soldato. Probabilmente, Taylor andrà in carcere in Rwanda. Avrà, così, più vicina la famiglia, che non a caso lavora in patria per conservare appoggi e potere, forte di denaro e

LIBERIA

Generalità Nome completo:

Repubblica della Liberia

Bandiera

Lingue principali:

Inglese

Capitale:

Monrovia

Popolazione:

3.994.000

Area:

111.370 Kmq

Religioni:

Cristiana (66%), animista (19%), musulmana (15%)

Moneta:

Dollaro Liberiano

Principali esportazioni:

Cocco, caffè, legname, ferro, bauxite, oro, diamanti

PIL pro capite:

Us 655

sostegni politici. Un vero problema per la Presidente Ellen Johnson-Sirleaf, premio Nobel per la pace nel 2011. L’economia liberiana è ancora a terra. Almeno il 25% del territorio e il 40% delle aree boschive sono in mano a privati. Gli impiegati pubblici ricevono gli stipendi in ritardo. Il rilancio passa dagli aiuti internazionali e dal tentativo di dare gambe all’Ecowas/Cedeao, la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, una sorta di unione che, finite le guerre, tenta di riattivare le economie asfittiche della regione.

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Situazione attuale e ultimi sviluppi


Controllo del potere e della ricchezza: le dittature di Samuel Kanyon Doe prima e di Charles Taylor poi, con i colpi di stato che li hanno portati al comando, sono la ragione vera della lunga guerra civile liberiana. I due dittatori hanno governato appoggiandosi a pochi elementi dei loro clan familiari, puntando infine allo scontro con gli Stati vicini per impadronirsi di risorse naturali e aumentare la loro ricchezza personale. La sollevazione di gruppi armati è motivata

dal bisogno – per larga parte della popolazione – di reagire all’oppressione, al reclutamento forzato dei bambini soldato e all’assassinio indiscriminato di ogni oppositore. Gli accordi di Accra, che hanno portato all’attuale presidenza, sono stati firmati dalle fazioni ribelli puntando a un rinnovamento del Paese. Per ora tengono, pur con le tensioni create dal permanere in molte aeree della Liberia di gruppi armati pronti a scendere in campo.

Per cosa si combatte

62

UNHCR/G. Gordon

Poteva essere una storia di libertà e, invece, è stata una storia di sangue e di diamanti. Già il nome, Liberia, definisce una comunità di “liberi uomini di colore”. Una storia che inizia nel 1822 quando in questo territorio si installano i coloni afroamericani sotto il controllo dell’American Colonization Society. Una terra promessa che, tuttavia, doveva essere contesa agli indigeni che in quel luogo vivevano. Il nuovo stato aveva l’estensione delle terre controllate dalla comunità dei coloni e da coloro che ne erano stati assimilati. Gran parte della storia della Liberia

è un continuo susseguirsi di scontri e tentativi, raramente coronati da successo, di una minoranza civilizzata di dominare una maggioranza considerata per tanti aspetti “inferiore”. Se all’inizio lo scontro è scandito dalla necessità di affermare un principio di civiltà contro un principio di inciviltà, così erano pensati gli uomini che vi abitavano, poi è diventato uno scontro per accaparrarsi i diamanti della vicina Sierra Leone. Negli ultimi vent’anni i focolai di conflitto hanno più volte ripreso vigore, sfociando in violenze e veri “stermini etnici”. La rivolta

Quadro generale

Arriva in casa la luce elettrica

Per i liberiani, la vera novità del 2013 è l’arrivo – almeno per molti di loro – dell’energia elettrica in casa. A renderlo possibile, gli aiuti internazionali. È un progetto in più fasi. Prima la costruzione di tre centrali, che dovrebbero erogare 38 megawatt di energia elettrica già tra due anni, con investimenti a carico del Governo, del Giappone e della Banca Mondiale. Poi, verrà costruita una diga idroelettrica da 80 megawatt a Mount Coffee, con l’aiuto di Germania, Norvegia e Banca europea per gli investimenti.

UNHCR/R. Ochlik


Leymah Gbowee

(Monrovia, 1 febbraio 1972)

UNHCR/G. Gordon

Il disastro università

Forse lo stress, oppure lo scarso entusiasmo o le lacune nella grammatica inglese: il risultato è però nel disastro del sistema scolastico liberiano. Nel 2013, 25mila aspiranti matricole su 25mila hanno fallito il test di ammissione alla University of Liberia, uno dei due atenei pubblici dello stato centrafricano. Un record al rovescio che fa ammontare a zero le iscrizioni al primo anno. E innesca il dibattito sull'istruzione «da ricostruire», in un Paese che sconta 14 anni di guerra civile e si regge su un'economia tra le più fragili al mondo.

del 1989 ha messo fine alla violenta dittatura di Samuel Doe, preparando l’avvento dell’altrettanto sanguinaria era di Charles Taylor. Tra il 1992 e il 2002, con l’intento di conquistare le miniere di diamanti della confinante Sierra Leone, Taylor appoggia il Revolutionary United Front (Ruf) di Foday Sankok. Al potere, Taylor, ci arriva nel 1997 dopo una lunga scia di sangue e di traffici loschi. A Monrovia instaura un regime di terrore. La polizia speciale liberiana, che fa capo direttamente al Presidente, non ha avuto pietà con gli ex oppositori del Movimento Unito di Liberazione (Ulimo): arrestati, torturati e uccisi a centinaia. Mentre il terrore vive a Monrovia, non cessano i conflitti interetnici e le lotte fra fazioni. I membri del Governo appartenenti alla famiglia di Taylor, intanto, non perdono occasione per dimostrare la loro incompetenza nel tentativo di rilanciare un’economia distrutta dalla guerra e che vede nel miraggio dei diamanti sierraleonesi una possibilità di rilancio che, però, non si materializza. È così che i vecchi sostenitori abbandona-

I PROTAGONISTI

no Taylor che, nel 2003, guadagna l’esilio da “signore della guerra”. Un esilio offerto dalla Nigeria, ma Taylor giura: “Col volere di Dio, tornerò”. I liberiani si augurano, invece, che non torni mai più e che venga condannato per crimini di guerra e contro l’umanità dal Tribunale Internazionale, cosa che avvien nel 2012, con la sentenza a cinquant’anni di carcere. Tutto ciò pone fine ad un era sanguinaria: 200mila morti e un milione di profughi. La Liberia ha vissuto quattordici anni di guerra civile. Ci sono state devastazioni, distruzioni. Intere generazioni che hanno vissuto, convissuto e partecipato alla guerra. Bambini sono stati sottratti alla loro infanzia, per essere spediti nei campi di battaglia, drogati per renderli feroci e incoscienti. Menti e vite sono state distrutte e ora debbono essere ricostruite. Con gli accordi di Accra (2003) nasce il Governo guidato da Jyude Bryant, che regge due anni grazie all’appoggio degli Usa e alla presenza di una forza multinazionale a mandato Onu composta da 15mila caschi blu. Nel 2005 la Liberia comincia a intravedere una nuova luce con l’elezione della prima donna Presidente in Africa, Ellen Johnson Sirleaf, che nel 2011 riceve prima il Nobel per la Pace e poi viene rieletta per un secondo mandato.

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È una pacifista liberiana. Nel 2011, assieme a Ellen Johnson Sirleaf e Tawakkul Karman, è stata insignita del Premio Nobel per la Pace. Ha studiato alla Eastern Mennonite University in Virginia, negli Usa. Tornata nel Paese all'indomani dello scoppio della prima guerra civile liberiana, nel 1989, assieme a Comfort Freeman ha fondato Women in Peacebuilding Network (Wipnet). Le due donne, presidenti di differenti chiese luterane, hanno dato un grande contribuito alla fine della seconda guerra civile liberiana nel 2003, aprendo la strada all'elezione a Presidente della Liberia di Ellen Johnson Sirleaf. Attualmente è direttore esecutivo della Women Peace and Security Network Africa, con sede ad Accra, in Ghana, associazione che si batte per dare appoggio alle donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti. Partecipa alla Commissione per la verità e la riconciliazione in Nigeria ed ha allargato a tutta l'Africa Occidentale il network del 'Women in Peacebuilding Program'.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA LIBIA RIFUGIATI

5.252

SFOLLATI PRESENTI NELLA LIBIA 59.425 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA LIBIA RIFUGIATI

7.065


Ancora torture dopo Gheddafi

Anche nella Libia post Gheddafi la tortura sembra essere lo strumento contro gli oppositori. La denuncia è di Amnesty International che nel 2013 ha documentato almeno 13 casi di morte per tortura. 20 gli episodi registrati tra il settembre 2011 e il luglio 2012. La vittima più recente è Hussein Radwal Rachel, soldato scelto dell'esercito catturato il 1° dicembre 2013. Interrogato per ore sulla scomparsa di un veicolo militare, è morto - dicono i medici - per infarto a seguito di torture. Il corpo è stato ritrovato in un container: il volto era tumefatto e braccia e gambe presentavano segni di scariche elettriche.

© Fabio Bucciarelli

Gheddafi negli ultimi giorni di vita lo aveva detto: “Senza di me sarà il caos”. In effetti, la nuova Libia è sull’orlo del baratro, divisa tra una difficile ricerca di democrazia e la totale anarchia. Dalla caduta del raìs c’è stato un assassinio politico ogni dodici giorni. È vero che Gheddafi, concentrando per quarant’anni tutto il potere su di se, ha lasciato un Paese senza istituzioni, senza una parvenza di società civile, senza un sistema economico strutturato, quindi c’è l’oggettiva difficoltà nell’inventare dal niente uno Stato. Il primo Ministro Alì Zeidan non è stato capace finora di garantire un processo di pacificazione, con l’applicazione di uno Stato di diritto e il ripristino di minime condizioni di sicurezza. Zeidan è talmente debole che è stato addirittura nelle mani delle bande per costringerlo alle dimissioni, in accordo con pezzi del Parlamento. Il Governo non controlla molte zone del Paese, soprattutto in Cirenaica. Così nati i tuwwar, gruppi armati dei ribelli che hanno occupato il territorio libico costituendosi in piccoli centri di potere. La popolazione è sempre più esasperata dalla presenza intimidatoria di queste bande armate a suo tempo protagoniste della rivoluzione e un “vento egiziano” potrebbe presto scuotere anche Tripoli. La contro-primavera in definitiva non solo ha portato caos e instabilità ma sta facendo precipitare la produzione del petrolio, unica risorsa del Paese, crollata del 70% in un mese per disordini e scioperi in Cirenaica che hanno provocato la chiusura dei terminal a Ras Lanouf e in altri centri importanti. Oggi la Libia esporta soltanto 330mila barili al giorno contro una media di quasi un milione e mezzo del passato. A Bengasi, dove è partita la rivolta, si vive un’altra Libia, agitata da sommosse, vendette e scontri sull’islamismo, frutto anche dello storico separatismo dalla Tripolitania. I parlamentari vivono sotto il ricatto delle milizie e sono addirittura sequestrati durante incontri politici. La fragilissima Alleanza nazionale di Mahmoud Jibril e gli islamisti della

LIBIA

Generalità Nome completo:

Stato della Libia

Bandiera

Lingue principali:

Arabo

Capitale:

Tripoli

Popolazione:

6.120.585 (2008)

Area:

1.759.840 Kmq

Religioni:

Musulmana (97%), Cristiani (3%)

Moneta:

Dinaro libico

Principali esportazioni:

Petrolio, gas naturale

PIL pro capite:

Us 11.936

Fratellanza Musulmana devono oltretutto fare i conti con possibili complotti dei lealisti del vecchio regime. La Nato e l’Europa, dopo aver spinto per deporre il vecchio regime, oggi non esistono più mentre s’insinua il pericolo neanche troppo nascosto della presenza inquietante di al-Qaeda, grazie anche alle frontiere colabrodo. Una volta c’era Gheddafi, bisogna dirlo, ad arginare in qualche maniera la deriva fondamentalista. Adesso che non c’è più, che hanno vinto quelli della Cirenaica non ci sono più freni. Il paradosso è che è stato proprio l’Occidente ad aiutarli appoggiando l’emiro del Qatar che ha un progetto chiaro: diventare leader del Grande Islam.

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Situazione attuale e ultimi sviluppi


Tutto è nato dalla “giornata della collera”, il 17 febbraio del 2011, per protestare contro le vittime della manifestazione davanti al consolato italiano contro le magliette blasfeme. In poco tempo si è trasformata in una rivolta che in realtà nascondeva forti interessi economici legati alla ricchezza del Paese. Come tutti i dittatori, Gheddafi non lasciava spazio alla libertà di

espressione, ma in ballo c’era principalmente il controllo degli stabilimenti petroliferi, situati in Cirenaica ma gestiti direttamente dal raìs in Tripolitania. Ben presto alle spalle degli “shabab” si sono dunque posti gli europei, innanzitutto i francesi, per infilarsi in un affare in cui da troppo tempo erano emarginati.

Per cosa si combatte

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© Fabio Bucciarelli

La Libia italiana fu una colonia del Regno d’Italia nell’Africa settentrionale, durata dal 1912 al 1947 e, ufficialmente come colonia unica, dal 1934 al 1939. Il primo ministro italiano Giovanni Giolitti, iniziò la conquista della Tripolitania e della Cirenaica il 4 ottobre 1911, inviando a Tripoli contro l’Impero Ottomano 1732 marinai al comando del capitano Umberto Cagni. Oltre centomila soldati italiani riuscirono ad ottenere dalla Turchia quelle Regioni attualmente definibili libiche nel Trattato di Losanna del 18 ottobre 1912, ma solo la Tripolitania fu effettivamente controllata dal Regio esercito italiano sotto la ferrea guida del governatore Giovanni Ameglio. Nell’interno dell’attuale Libia (principalmente nel Fezzan) la guerriglia indigena continuò per anni, ad opera dei turchi e degli arabi di Enver Pascià e di Aziz Bey. L’ascesa al potere del fascismo determinò un inasprirsi della politica italiana nei confronti dei ribelli libici. La lotta proseguiva solo in Cirenaica, dove resisteva ancora il capo senussita della guerriglia, Omar al-Mukhtar. Dotato di un’eccellente visione strategica, con il sostegno delle popolazioni locali, ha impedito per molto tempo agli italiani di riprendere il controllo della provincia. Ma fu ferito e catturato l’11 settembre 1931 durante la battaglia di Uadi Bu Taga in uno scontro

a fuoco con collaborazionisti libici. Fu trasferito via mare a Bengasi, dove subì una parvenza di processo ed ebbe un breve colloquio con Graziani. Il 16 settembre venne impiccato in catene nel campo di concentramento di Soluch, davanti a ventimila libici fatti affluire dai vicini lager. La morte di Omar Al-Mukhtar segnò la fine della resistenza libica e la riunificazione delle tre province sotto il comando italiano. Nel 1934 venne proclamato il Governatorato Generale della Libia (coll’unione della Tripolitania e della Cirenaica) e successivamente i cittadini africani potettero godere dello status di

Quadro generale

© Fabio Bucciarelli


Ali Zeidan

(Waddan, 15 dicembre 1950) © Fabio Bucciarelli

Migranti e rifugiati, ancora dramma

A due anni dalla fine della guerra, resta preoccupante la situazione di migranti, rifugiati e sfollati. Per quanto riguarda i primi sono ancora migliaia quelli detenuti nei "centri di trattenimento" finanziati per altro da Italia e Unione Europea nel nome della "Strategia Integrata della gestione delle Frontiere". Sul fronte sfollati, sarebbero ancora 65mila quelli interni, quasi tutti della tribù mashashya, abitanti delle montagne di Nafusa, Tawargha, cioè libici neri e tuareg di Ghadames, accusati di aver protetto e nascosto Gheddafi.

“cittadini italiani libici” con tutti i diritti che ne conseguirono. Mussolini dopo il 1934 iniziò una politica favorevole agli Arabi libici, chiamandoli “Musulmani Italiani della Quarta Sponda d’Italia” e costruendo villaggi (con moschee, scuole ed ospedali) ad essi destinati. Il primo governatore fu Italo Balbo, a cui si deve la creazione della Libia attuale sul modello di quella dell’imperatore romano Settimio Severo (nato in Libia).Balbo divise nel 1937 la Libia italiana in quattro province (nel 1939 annesse al Regno d’Italia) ed un territorio sahariano. Il Regno d’Italia dopo la prima guerra mondiale avviò una colonizzazione che ebbe il culmine soprattutto verso la metà degli anni Trenta con un afflusso di coloni provenienti in particolare da Veneto, Sicilia, Calabria e Basilicata. Nel 1939 gli italiani erano il 13% della popolazione, concentrati nella costa intorno a Tripoli e Bengasi. La seconda guerra mondiale devastò la Libia italiana e costrinse i coloni a lasciare in massa le loro proprietà, specialmente nella seconda metà degli anni Quaranta. Nel Trattato di Pace del 1947 l’Italia fu costretta a rinunciare a tutte le sue colonie, compresa la Libia. Il territorio venne diviso in due amministrazioni:

I PROTAGONISTI

Tripolitania e Cirenaica sotto gli inglesi e Fezzan alla Francia. Nel 1951 l’indipendenza. La Libia è il primo Paese africano a liberarsi dal giogo colonialista. Re Idriss I sale al potere. Sarà il primo e l’unico re di Libia. Nel 1969, in settembre, il giovane ufficiale Muhammar Gheddafi attua un incruento colpo di stato, insieme ad altri ufficiali. Nel 1975 Gheddafi (abbandonato l’appellativo di colonnello per un più…democratico “fratello leader”) pubblica il Libro Verde, il suo pensiero politico alternativo tra comunismo e liberalismo, una sorta di mix tra socialismo reale e democrazia ateniese, mescolato con gli interessi tribali, gestito dai ‘Comitati popolari’ organismi di base della volontà popolare. Nel frattempo, viene accusato di finanziare i gruppi terroristici internazionali e gli Stati Uniti lo dichiarano nemico numero uno, tentando più volte di ucciderlo, con bombardamenti aerei (1986) e attentati. Negli anni ‘90, dopo la prima guerra del Golfo (1991), inizia un lento avvicinamento all’Europa e agli Stati Uniti, operazione che sfocia nella ripresa delle relazioni diplomatiche con Washington e con la ripresa degli affari con il Vecchio Continente. Nulla sembra turbare il regime, sino alla primavera del 2011, quando le rivolte nel Maghreb danno fiato a una opposizione interna che sembrava sconfitta.

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Attuale primo Ministro della Libia, ha ricoperto, negli anni ottanta, l'incarico di ambasciatore in India. Dopo aver lasciato la carriera diplomatica è diventato un oppositore di Gheddafi. Per questa ragione ha vissuto a lungo in Europa, collaborando fra l'altro con il partito socialdemocratico tedesco ed il partito socialista italiano. È rientrato in patria allo scoppio della guerra contro il dittatore libico. Il 14 ottobre 2012 è stato nominato capo del Governo. Nel 2013, in ottobre, è stato protagonista di un episodio che ha dimostrato la fragilità del governo libico. Ha subito infatti un sequestro lampo da parte di un gruppo di uomini armati, che lo accusavano di aver aiutato gli Stati Uniti a catturare il leader estremista Abu Anas al-Libi, ritenuto responsabile di pesanti attacchi terroristici. Zeidan è stato prelevato dall'Hotel Corinthia di Tripoli con un presunto mandato di arresto e trattenuto per alcune ore. Rilasciato, ha subito solo il furto degli effetti personali e documenti confidenziali.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL MALI RIFUGIATI

149.943

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI MAURITANIA

54.029

NIGER

50.204

BURKINA FASO

38.776

SFOLLATI PRESENTI NEL MALI 227.930 RIFUGIATI ACCOLTI NEL MALI RIFUGIATI

13.928

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI MAURITANIA

12.436


Prodi cerca investimenti e pace

Romano Prodi, nominato nell’ottobre 2012 da Ban Ki-Moon suo inviato speciale per il Sahel, ha lanciato una Road Map per la Regione. A giugno 2013 il Segretario Generale ha presentato personalmente al Consiglio di Sicurezza, Prodi presente, il risultato del lavoro del Professore. La considerazione di fondo parte dalle stime di grande crescita economica prevista dell’Africa sub-sahariana, dalla quale il Sahel è escluso. La Regione è quindi candidata a diventare una sorta di buco nero del Continente, esposta all’insorgenza di fenomeni come quelli che di recente hanno visto il Mali come triste protagonista. Il Sahel abbraccia almeno otto Paesi: Senegal, Mauritania, Burkina Faso, Mali, Niger, Ciad, Sudan e arriva sino al Corno d’Africa con l’Eritrea. La Road Map di Prodi prevede un piano di sviluppo economico che tolga il Sahel dall’emergenza cronica, specie alimentare; per questo il Professore ha promosso una personale missione nelle principali cancellerie del mondo al fine di raccogliere gli aiuti necessari. Nel mese di settembre 2013 Prodi ha infine relazionato nuovamente sul Sahel nel quadro della 67a Assemblea Generale dell’Onu, in qualità di Presidente del Gruppo di lavoro sull’Africa. UNHCR/H. Caux

Grazie alla copertura giuridica della risoluzione 2085 del Consiglio di Sicurezza del 20 dicembre 2012, la Francia e i suoi alleati africani (specie il Ciad e la Nigeria) ed europei (soprattutto la Gran Bretagna) hanno iniziato l’11 gennaio 2013 l’operazione militare denominata “Operazione Serval” nel Nord del Mali per contrastare il potere e il terrore instaurato dalle milizie islamiche nell’Azawad, lo Stato Tuareg autoproclamatosi indipendente dal Mali nell’aprile 2012. Dispiegando oltre 5mila uomini, Parigi ha potuto contare anche sulle forze dell’Afisma (African-led International Support Mission to Mali) che hanno messo in campo quasi 8mila soldati. Sin dal principio delle operazioni militari il Presidente francese Hollande ha riscosso il plauso della comunità internazionale e il consenso dell’opinione pubblica maliana: un sondaggio di Al Jazeera del gennaio 2013 ha registrato un’approvazione del 98% per l’operato della Francia. Le manovre sul campo hanno portato, già verso la primavera del 2013, alla progressiva riconquista delle principali città del Nord, come Timbuktu, Gao e Kidal, che erano cadute sotto il controllo delle sigle islamiste (Ansar Dine, Mujao e Aqmi). La battaglia si è quindi spostata ulteriormente a Nord, nelle alture degli Ifoghas, una zona montuosa che ha permesso ai mujaheddin di nascondersi con un certo successo. Molti affiliati alle milizie islamiste hanno preferito lasciare le loro postazioni e confondersi con la popolazione civile. Anche per questa ragione “Serval” è tutt’ora in corso e Parigi ha lasciato sul campo circa 4mila militari. Intanto i Tuareg, che non accettavano truppe maliane sul proprio territorio (ovvero nella zona attorno a Kidal) hanno acconsentito a firmare ai primi di giugno un cessate il fuoco in attesa di trovare col nuovo Presidente, Ibrahim Boubacar Keïta, forme di intese per ottenere una sempre maggiore autonomia da Bamako. Contestualmente Romano Prodi, nominato da Ban Ki-Moon suo inviato speciale per il Sahel, sta lavorando per attrarre investimenti in Mali

MALI

Generalità Nome completo:

Repubblica del Mali

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese

Capitale:

Bamako

Popolazione:

14.517.176

Area:

1.240.142 Kmq

Religioni:

Musulmana (80%), animisti (18%) e altre (2%).

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

Us 1.088

e per estensione nella Regione. Una sorta di piano Marshall per il Sahel che dovrebbe scongiurare nuove rivolte dettate, oltre che dal fanatismo religioso, anche dalla facilità da parte degli islamisti di reclutare frange marginalizzate della società africana. Parlando di fronte al Consiglio di Sicurezza il 26 giugno di quest’anno, Prodi ha così concluso il suo intervento: “I would like to reiterate two messages – first, do not forget the Sahel or you will have more Malis if you do, and second, I appeal to the international community to be as generous to the Sahel as they were towards Mali.”


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Francia e Afisma hanno combattuto, per ora con successo, per restituire al Mali la propria integrità territoriale, dopo la proclamazione nell’aprile 2012 da parte dell’Mnla (Movimento Nazionale per la liberazione dell’Azawad), dell’indipendenza dell’Azawad, un’espressione berbera che si riferisce a un territorio compreso tra Nord del Mali, Niger e Sud dell’Algeria. Una indipendenza che il movimento aveva dichiarato grazie all’alleanza con gli islamisti più integralisti. L’Mnla, dopo essere stato un alleato tattico degli islamisti e successivamente un loro avversario, in questa fase ha firmato il cessate il fuoco con le autorità di Bamako – capitale del Mali - e si mantiene su posizioni attendiste. Esiste tuttavia una lunga tradizione di rivolte Tuareg che hanno lo scopo di affrancare l’etnia dal resto della società maliana, rivendicando i territori settentrionali della Regione di Kidal. Le sigle islamiste (Ansar Dine, Mujao e Aqmi) combattono con lo scopo di assoggettare il Mali (non solo il Nord) alla Shari’a; messi sulla difensiva dall’operazione “Serval” guidata dalla Francia, gli jihadisti possono comunque contare su cellule attive nel Paese (per attentati e sequestri) tanto che gli advisor occidentali concordano nel ritenere il loro potenziale militare

ancora in grado di colpire su larga scala. Il Mali insomma è simile all’attuale Somalia, dove la minaccia del gruppo al-Shabaab (anch’esso allontanato dal potere da un’operazione militare coordinata da potenze straniere, vedi Kenya) può essere fronteggiata solo grazie a truppe importate: infatti i deboli e mal organizzati eserciti di Mogadiscio e Bamako non potrebbero reggere da soli ad una nuova controffensiva islamista senza soccombere.

Per cosa si combatte

Dopo l’intervento del gennaio 2013, la Francia ha iniziato progressivamente a ritirare le sue truppe dal teatro di guerra maliano. Tuttavia Parigi (e il Presidente Hollande in grave crisi di popolarità, soprattutto dopo lo smacco siriano) è consapevole che per mantenere la situazione sotto controllo occorre tener alto il livello di guardia. È infatti vero che Hollande e la Francia sono percepiti dai maliani come liberatori e le immagini del Presidente francese sono diffusissime a Bamako e il tricolore sventola per le strade principali del Paese, ma questa euforia non è in grado di offuscare il dato cruciale: cioè che le truppe francesi, contrariamente ai primi annunci, sono rimaste nel teatro di guerra e non hanno in progetto un ulteriore ritiro a breve termine. Nonostante la situazione finanziaria della Francia sia fonte di preoccupazione anche a Bruxelles, il conflitto in Mali, costato circa 70milioni di euro solo nella prima settimana, è una voce che si è aggiunta al bilancio dell’Eliseo. Tuttavia permangono serie criticità potenziali: innanzitutto Hollande ha lanciato “Serval” (costretto nell’agenda dall’offensiva jihadista verso il Sud del Paese del gennaio 2013) quando l’addestramento delle truppe panafricane non era ancora completo. Questo spiega due aspetti cruciali della situazione odierna: il primo è che le uniche unità davvero efficaci nel contrasto ai fondamentalisti costretti in fuga verso il Nord del Mali sono quelle del Ciad, abituate a combattere in

zone desertiche; il secondo attiene al ruolo della Gran Bretagna, che ha confermato l’invio di addestratori destinati a fermarsi nella Regione almeno per un anno. Si capisce quindi come l’impegno militare delle forze Occidentali non possa essere di breve durata. Si muove intanto la diplomazia con Romano Prodi nella veste d’inviato speciale di Ban Ki-moon per il Sahel, che nel mese di settembre 2013 ha avuto incontri alle Nazioni Unite e prima della fine dell’anno si recherà nella Regione accompagnato dal Presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim. Intanto le annunciate elezioni presidenziali si sono svolte in estate e hanno portato alla proclamazione di Ibrahim Boubacar Keïta (già primo Ministro dal 1994 al 2000). Tuttavia non è un mistero per nessuno che a Bamako l’uomo forte rimanga il capitano golpista Amadou Sanogo. Quest’ufficiale dell’esercito che aveva dovuto cedere il potere formale sotto pressione della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) all’allora Presidente ad interim Dioncounda Traore, rimane il cardine attorno al quale ruota il potere in Mali, a partire appunto dal ruolo cruciale delle forze armate e ai legami di amicizia con il neo-presidente, che come abbiamo visto è un politico di lungo corso. I nodi nel Nord del Paese riguardano soprattutto Gao e Kidal. Nella prima si sono verificati i primi attentati suicidi nella storia del Mali. A Kidal invece si è consumata una spaccatura a livello etnico: tra i Tuareg dell’Mnla (Mouvement National pour la Libération de l’Azawad) - che al

Quadro generale

UNHCR/G. Gordon

Afisma schiera 8mila uomini

Afisma (African-led International Support Mission to Mali), è l’estensione militare della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, Ecowas in inglese (Economic Community of West African States) o Cedeao in francese: (Communauté Économique des États de l’Afrique de l’Ouest ). L’Afisma, dall’inizio del conflitto ha stanziato in Mali non meno di 8mila uomini, ed è composta da 21 Stati. Il maggior contributo all’organizzazione viene dal Ciad e dalla Nigeria; quest’ultima esprime anche il vertice di comando con il generale Abuulkadir Shehu. L’inizio delle operazioni era originariamente previsto per il settembre 2013, ma l’accelerazione imposta dalla discesa verso Sud delle truppe islamiste nel gennaio dello stesso anno ha fatto accelerare i tempi di una missione che, sulla carta, dovrebbe avere la durata di 12 mesi ma difficilmente verrà ritirata nel gennaio 2014.


Ibrahim Boubacar Keïta

UNHCR/B. Sokol

(Koutiala, 29 gennaio 1945)

Timbuktu uccisa dagli integralisti

Timbuktu è la città simbolo del Mali. Anche per questa ragione gli islamisti durante l’occupazione, e prima di abbandonarla, si sono accaniti contro il suo sincretistico patrimonio culturale. La missione Unesco che a fine giungo 2013 ha terminato la stima dei danni subiti dalla città, ha concluso che essi sono assai maggiori di quelli inizialmente prospettati. Il rapporto che Lazare Eloundou Assomo ha inviato alle Nazioni Unite è impietoso: 14 mausolei sono stati completamenti distrutti (di questi 13 erano considerati patrimonio dell’umanità). Anche la Moschea di Djingareyber, la storica madrasa dell’università di Timbuktu, ha subito gravissimi danneggiamenti così come totale è la distruzione del monumento a El Farouk. I miliziani di Ansar Dine in fuga hanno inoltre incendiato i manoscritti che facevano parte della storica biblioteca della città: oltre 4mila testi antichi sono andati distrutti mentre per altri 300mila parzialmente salvati dall’incendio da alcuni volontari, occorre con urgenza un piano di restauro a causa dei danni provocati dal fuoco, dal fumo e dall’acqua usata per spegnere l’incendio.

principio del conflitto, nell’aprile 2012, avevano proclamato unilateralmente l’indipendenza delle Regioni col nome di Azawad – e i maliani. Territorio off-limits per i militari di Bamako, e non per francesi e truppe del Ciad dunque, in una frattura etnico-politica che getta una luce d’incertezza sul futuro di questa Provincia. Occorre vedere se il cessate il fuoco firmato il 18 giugno a Bamako tra le forze regolari e i Tuareg reggerà. L’Mnla è d’altronde un alleato tattico di primaria importanza per dare la caccia alle milizie islamiste che si sono rifugiate verso l’Algeria e soprattutto negli Adrar degli Ifoghas, catena montuosa non così imponente ma fitta di canyon usati come nascondigli quasi inaccessibili. L’altro fronte che preoccupa Parigi e la nuova leadership di Bamako è la questione degli ostaggi francesi, sia quelli in mano alle sigle islamiste da prima dell’inizio del conflitto, sia quelli rapi-

I PROTAGONISTI

ti in altri Paesi della Regione, tipo il Camerun. Ecco perché Parigi ha chiesto ai propri connazionali di lasciare il Nord del Camerun e ha dissuaso fortemente i viaggi o la permanenza dei suoi connazionali in Nigeria. È proprio in Nigeria, infatti, agisce da qualche mese un nuovo gruppo denominato Ansaru (Vanguard for the Protection of Muslims in Black Africa); si tratta di una costola dei sempre più forti Boko Haram che ha lanciato un’offensiva specializzata in sequestri tale da mettere Hollande, ma anche il premier inglese Cameron, in ulteriore difficoltà (i due leader hanno entrambi già perso ostaggi e uomini nell’area, proprio nel tentativo di liberarli dai rapitori). Il Sahel che ruota intorno al Mali è insomma un teatro di sintesi nella storia trentennale del Jihad: elementi di “somalizzazione” si mescolano ad ascendenze afghane, tattiche di guerriglia a sequestri su larga scala. Il tutto in una ridda di sigle e formazioni che, pur con obiettivi diversi nel lungo termine, nel breve solcano i confini del Continente africano per fare causa comune contro l’Occidente e i suoi alleati.

71

Ibrahim Boubacar Keïta, ha giurato il 4 settembre 2013 come nuovo Presidente del Mali. 68 anni, Keïta è un politico di lungo corso, già primo Ministro dal 1994 al 2000, è stato in precedenza per ben due volte (2002 e 2007) sconfitto alle elezioni presidenziali. Grande amico della Francia (con studi blasonati a Parigi: Sorbona e Cnrs), Keïta è la sintesi perfetta del politico navigato e molto ben visto sia nella Regione (ha forti legami con le élite di Costa d’Avorio e Burkina Faso e in generale con quelle dell’intero Sahel) che oltre Atlantico, specie nella galassia del socialismo europeo. La sua non inimicizia col capitano Sanogo, il militare golpista (da molti ritenuto ancora l’uomo forte di Bamako) e i suoi legami con Parigi ne fanno il candidato ideale per gestire la fase post-conflitto o, come forse sarebbe meglio dire, di stallo del conflitto. Fedele alla sua forma mentis, Keïta ha nominato come primo Ministro un tecnocrate (evitando logiche familistiche o di bandiera politica) e cioè Oumar Tatam Ly, già membro della Central Bank of West African States e ha inoltre salutato l’accordo di cessate il fuoco firmato a giugno dai Tuareg di Kidal come il prodromo necessario alla riconciliazione nazionale.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA NIGERIA RIFUGIATI

149.943

RIFUGIATI ACCOLTI NELLA NIGERIA RIFUGIATI

3.154


La corruzione costa cara

Una “guerra” finora perduta in Nigeria è quella alla corruzione, in tutti i settori, ma prima di tutto in quello dell'oro nero: un rapporto parlamentare dell’aprile 2012 ha calcolato che il fenomeno è costato 6,8miliardi di dollari. Quanto agli esempi, non serve andare lontano. Nel luglio 2013 il Tribunale di Milano ha giudicato l'italiana Saipem, in primo grado (la difesa ha presentato ricorso), colpevole di corruzione internazionale. Secondo i giudici, la Saipem nel 2003 versò circa 182milioni di dollari in tangenti ai funzionari nigeriani. Quando la corruzione si somma alla cattiva gestione, gli esiti diventano paradossali: a causa dell’inadeguatezza delle sue sole quattro raffinerie, l'ottavo Paese al mondo per produzione di greggio si trova a importare circa il 90% della benzina che consuma la popolazione.

Tutto il 2013, come del resto l'anno precedente, è stato caratterizzato dagli attentati terroristici del gruppo estremista islamico Boko Haram e dalle azioni repressive della polizia e dell'esercito nigeriani. Innumerevoli gli attentati, messi a segno con particolare intensità e ferocia nella primavera del 2013, tanto da spingere il Governo Federale a proclamare lo stato d'emergenza negli stati di Yobe, Borno e Adamawa. Un provvedimento che non ha fermato, tuttavia, la spirale delle violenze, alcune delle quali con un alto numero di vittime: ad esempio, nel mese di luglio 2013, un assalto a una scuola secondaria di Mamudo (Stato di Yobe) ha provocato oltre 40 morti fra studenti e personale scolastico, molti dei quali arsi vivi. Un altro attacco, nel mese di settembre, è costato la vita a 160 persone, sempre nel Nord-Est del Paese. Secondo l'ufficio per gli affari umanitari dell'Onu (Ocha), nei tre soli Stati dov'è stato proclamato il coprifuoco, gli attentati di Boko Haram hanno provocato in tutto più di 1200 morti in poco più di sei mesi, fra maggio e dicembre 2013 (il rapporto Ocha, peraltro, non fa riferimento alle – non poche – vittime provocate dalle operazioni antiterrorismo dell'esercito). Sul piano delle relazioni internazionali, rilevante è stato l'accordo siglato nel luglio 2013 a Pechino, tra il Presidente Goodluck Johnson e l’omologo cinese Xi Jinping, secondo il quale la Cina ha concesso un prestito di 1,1miliardi di dollari (a tassi agevolati) per la costruzione di quattro nuovi terminal aeroportuali in altrettante città nigeriane. Inoltre, il prestito finanzierà la realizzazione di una metropolitana a Lagos e una serie di infrastrutture per l’estrazione di gas, petrolio ed energia elettrica. Riguardo alla politica interna, il Governo Federale nella seconda parte del 2013 ha mostrato segni di progressivo indebolimento. Già in settembre il Presidente Goodluck aveva licenziato ben nove ministri dando luogo a un rimpasto. Le profonde divisioni nel partito di maggioranza hanno portato poi, proprio a fine anno (il 22 dicembre 2013), a una secessione – e passaggio all'opposizione – di ben 37 deputati del suo partito (Pdp, People democratic party), facendo venir meno la maggioranza parlamentare. La coalizione dei gruppi d'opposizione, riuniti nell'All progressives congress (Apc) può contare ora su 189 deputati contro i 171 del Pdp. Si aggrava, quindi, la situazione di fragilità politica della Presidenza federale: Goodluck Johnson aveva da poco perduto l'apppoggio di cinque governatori “di peso”, passati tutti all'opposizione, nelle file dell'Apc.

NIGERIA

Generalità Nome completo:

Repubblica Federale di Nigeria

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Inglese (lingua ufficiale)

Capitale:

Abuja

Popolazione:

168.800.000

Area:

923.768 Kmq

Religioni:

Negli Stati del Nord la popolazione è per la quasi totalità islamica; nel Centro-Sud c’è una larga maggioranza cristiana (in prevalenza protestante/evangelica), ma c’è anche una forte presenza di sette d’importazione americana e della rinascenza africana. Islam 50%, cristianesimo 40% (di cui oltre un terzo cattolicesimo), religioni tradizionali 10%.

Moneta:

Naira

Principali esportazioni:

Petrolio (che costituisce oltre il 90% delle esportazioni), cacao, caucciù

PIL pro capite:

Us 2.600


mille. La “battaglia” per il petrolio, seppure messa in secondo piano dall'escalation terroristica, si continua a combattere, su diversi fronti: uno è quello del contrabbando, che fa “perdere” al Paese miliardi di dollari l’anno. Secondo dati forniti dal Governo di Abuja, circa 150mila barili di greggio al giorno vengono sottratti illegalmente. Secondo il consigliere alla presidenza Patrick Dele Cole, tuttavia, solo il 10% del petrolio rubato viene raffinato e consumato localmente, tutto il resto è venduto sui mercati internazionali. Il Governo reagisce: a fine novembre 2013, una vasta operazione ha portato alla chiusura di 134 raffinerie illegali nella regione del Delta del Niger, negli Stati di Bayelsa, Rivers e Delta.

Per cosa si combatte

Disegnato con squadra e compasso. Alla radice di tanti problemi della Nigeria c’è il fatto che per molti aspetti è ancora lo Stato artificiale creato nel 1914 dai colonialisti inglesi. Paese federale, composto di 36 Stati e un territorio (l’area di Abuja, la capitale della Federazione), vi abitano 250 etnie differenti, con tre gruppi dominanti: gli Hausa-Fulani in tutta la parte settentrionale, gli Yoruba nel Sud-Ovest, gli Ibo nel Sud-Est. L’estrema eterogeneità di culture, economie, storia, lingue, realtà climatico-ambientali, religioni (il Nord è islamizzato, il Sud è cristiano-animista) rende difficile la crescita di un forte senso di identità nazionale. La sua storia post coloniale (l’indipendenza è del 1960) è costellata di tensioni e scontri etnici, e addirittura di una guerra di secessione, quella del Biafra, che comportò anche la prima grande crisi umanitaria per la quale si mobilitò l’Occidente, verso la fine degli anni ‘60. I primi 40 anni della sua storia di Paese indipendente sono una catena quasi ininterrotta di colpi di Stato e regimi militari. Fino al 1999, quando per la prima volta i nigeriani hanno potuto vota-

re liberamente, eleggendo alla guida del Paese Olusegun Obasanjo, che ha poi governato la federazione per due mandati. Alle successive elezioni (21 aprile 2007), ha vinto Umaru Yar’Adua, delfino dell’ex Presidente e membro dello stesso partito, il Partito Democratico del Popolo (Pdp). A differenza di Obasanjo, uomo del Sud e cristiano, Yar’Adua era originario dello Stato di Katsina, nell’estremo Nord musulmano. Yar’Adua tuttavia ha sofferto di una lunga malattia che gli ha impedito per diversi mesi, a partire dal novembre 2009, di esercitare le sue funzioni. Il potere, durante tutto il periodo di inabilità del Presidente, è stato gestito dal suo vice, Goodluck Jonathan, che ne ha anche preso ufficialmente le funzioni dal 9 febbraio 2010. Il 5 maggio Yar’Adua è morto e, come previsto dalla Costituzione nigeriana, il giorno successivo Goodluck Jonathan ha giurato come Capo dello Stato. Candidatosi alle elezioni del 16 aprile 2011, le ha vinte a larga maggioranza (59,6% dei consensi, 22milioni di voti). La Nigeria è considerata uno dei giganti africani, insieme al Sud Africa, non tanto per la sua

Quadro generale

74

Alla radice delle continue e violente tensioni del gigante africano c'è sempre la stessa, profonda, contraddizione: tra un lato l'estesa perdurante povertà di decine di milioni di nigeriani, dall'altra l'enorme ricchezza delle sue riserve di petrolio e gas. Anche il fenomeno – piuttosto recente – dell'estremismo islamico antioccidentale rappresentato da Boko Haram, trova la sua linfa nell'iniqua realtà sociale del Paese. Pur essendo la Nigeria il primo produttore di petrolio del continente africano e l'ottavo al mondo (2,53milioni di barili al giorno), il 70% dei suoi abitanti vive sotto la soglia di povertà, l’aspettativa di vita è di 53 anni, oltre un terzo della popolazione è analfabeta, il 42% non ha accesso all'acqua potabile, e la mortalità infantile sotto i 5 anni è al livello record del 143 per


Wole Soyinka

(Abeokuta, 13 luglio 1934)

Dai vescovi un appello: stop alla violenza

“Salvare la Nigeria dal crollo”. Il documento dei vescovi nigeriani risale al maggio 2013. Parla di «un’escalation di violenza e criminalità senza precedenti» sfociato «in una guerra di bassa intensità». Ma la parte più interessante del testo riguarda l'indicazione delle ragioni profonde del terrorismo di Boko Haram: «È chiaro», scrivono i vescovi, «che il nostro Paese sta vivendo gli effetti cumulati e l’impatto corrosivo della corruzione: Se i nostri leader politici non troveranno il coraggio di utilizzare le istituzioni dello Stato per combatterla, questo mostro divorerà la Nazione intera». Posizione netta, ma non diversa da quella espressa costantemente dalla Chiesa cattolica, come pure dalle altre confessioni cristiane e dalle guide delle comunità musulmane nigeriane. Nel Paese africano, le voci più critiche, sia verso il terrorismo di matrice pseudo-religiosa che verso i mali delle istituzioni dello Stato, vengono dalle leadership religiose. Un impegno alla pacificazione che non viene espresso solo con le parole: ad esempio, a Jos, capitale dello Stato del Plateau – uno dei più colpiti dagli attacchi di Boko Haram e dagli scontri intercomunitari – nel febbraio 2013 è stato creato, per iniziativa congiunta del vescovo Kaigama e dell'imam Daoud, il “Centro per il dialogo e la riconciliazione tra cristiani e musulmani”. E nell'agosto successivo, i due leader religiosi hanno lanciato l'appello alla popolazione di «incrociare le mani e lavorare insieme per ricostruire le chiese e le moschee delle nostre comunità».

forza economica, quanto per la concentrazione di popolazione – poco più di 175milioni di abitanti in un territorio relativamente piccolo (quasi tre volte l’Italia) – e per le sue riserve di greggio, per le quali si colloca all’ottavo posto fra i produttori mondiali, e si contende il primato africano con l’Angola. È in questi ultimi dieci anni, con l’avvento della democrazia, che sono scoppiate le principali contraddizioni del Paese. Prima delle quali la questione petrolifera: a fronte degli enormi introiti legati alle concessioni per l’estrazione del greggio (che costituiscono il 95% delle esportazioni, l’80% delle entrate fiscali e il 40% del Pil), la grande maggioranza della popolazione nigeriana (il 70%) vive con meno di un euro al giorno ed è proprio il Delta del Niger, l’area petrolifera del

I PROTAGONISTI

Paese, una delle regioni più povere. La seconda grande contraddizione è legata alle tensioni religiose. Gli scontri fra cristiani e musulmani, avvenuti in particolare lungo la fascia di coabitazione nel Centro-Nord del Paese, sono iniziati improvvisamente all’indomani dell’elezione di Obasanjo, intorno al 2000-2001. Da allora vi sono stati ricorrenti crisi che talvolta hanno provocato anche migliaia di vittime. Tensioni che, dopo decenni di pacifica e tollerante convivenza fra cristiani e musulmani, sembrano essere state utilizzate più come elemento strumentale di pressione politica che come reale contrapposizione di fedi. Infine, terzo grave problema, l’inurbazione selvaggia, che ha creato caotiche megalopoli. Prima fra tutte Lagos, capitale commerciale del Paese, che ha ormai superato i 20milioni di abitanti. Smisurate città dove all’estrema povertà delle periferie si somma anche un elevato tasso di criminalità.

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«Nessun dialogo con gli assassini di massa che hanno come filosofia l’omicidio di persone innocenti». Su Boko Haram posizione netta, quella di Wole Soyinka, il primo africano a vincere il Nobel per la letteratura (nel 1986). Soyinka, 79 anni, drammaturgo, poeta, scrittore, è uno degli intellettuali più importanti del continente. Ma lo scrittore non risparmia nemmeno i politici: «sono corresponsabili delle violenze», dice, per aver strumentalizzato le azioni del gruppo estremista. Da sempre Soyinka divide la sua vita fra letteratura e passione politica. Nato ad Abeokuta, nel 1934, è di etnia yoruba. Laureatosi all'Università di Ibadan (Nigeria) poi a quella di Leeds (Inghilterra). Tornato in patria, si occupa di teatro e fonda due compagnie drammatiche. All'inizio della guerra del Biafra, un suo appello per la conciliazione gli vale due anni di prigionia (1967-69). Liberato alla fine della guerra, nel 1985 diventa Presidente dell'Istituto internazionale del teatro dell'Unesco e l'anno successivo riceve il premio Nobel. Dopo il colpo di Stato di Sani Abacha (1993), Soyinka denuncia più volte il regime golpista. Nel 1994, riesce a fuggire dalla Nigeria, giusto in tempo per evitare la condanna a morte. Ora vive negli Stati Uniti.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA RIFUGIATI

164.568

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CAMEROON

92.094

CIAD

65.874

SFOLLATI PRESENTI NELLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA 51.679 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA REPUBBLICA CENTRO AFRICANA RIFUGIATI

14.014

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

10.662


La povertà aumenta

Nella classifica delle economie mondiali, occupa la posizione numero 177, su 229. O meglio: la occupava, prima della guerra. L’indice di sviluppo umano colloca il Centrafrica molto più in basso, al 171° posto su 177 Paesi. O meglio: lo collocava, sempre prima della guerra. L’agricoltura secondo le statistiche ufficiali garantiva la metà del Prodotto interno lordo. In realtà valeva molto di più, soprattutto l’agricoltura di sussistenza, che assicurava un po’ di cibo a chi viveva nelle campagne, circa il 60% della popolazione. L’insicurezza che regna nel Paese però, impedisce di recarsi nei campi a lavorare, soprattutto alle donne. Prima della guerra sei centrafricani su dieci vivevano con meno di 1,25 dollari al giorno. Ora non si sa. L’unico dato certo è che la situazione è peggiorata.

UNHCR/H. Caux

L’ultimo colpo di stato nella Repubblica Centrafricana risale al 24 marzo 2013. Le milizie Seleka hanno costretto alla fuga il generale Bozizé e insediato il nuovo Presidente: Michel Djotodia. È solo l’ultimo di una lunga serie: in Centrafrica i governi si avvicendano in seguito ad atti di forza. Non è un caso se dal 1960, anno in cui ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia, la Repubblica Presidenziale si è tradotta di fatto in una dittatura militare. Il Centrafrica è uno dei Paesi più poveri del mondo, nonostante disponga di materie prime in abbondanza. E non si tratta solo del legname delle foreste che ricoprono buona parte del territorio, ma anche di diamanti, oro e petrolio. Beni che fanno gola alle potenze internazionali, che non a caso si contendono l’appoggio del governo locale: Francia, Cina e pare anche l’Iran (interessato all’uranio) sono gli attori principali, che agiscono con l’appoggio locale di Ciad e Sudan. Era dicembre 2012 quando Seleka (Alleanza) iniziava l’avanzata verso la capitale. Seleka è appoggiata da alcuni movimenti ribelli, le milizie armate però sono guidate in gran parte da militari e mercenari venuti dai confinanti Ciad e Sudan. Il Presidente Bozizé, spinto dal coordinamento degli Stati dell’Africa Centrale, accetta di trattare: i ribelli devono deporre le armi e in cambio lui deve nominare un nuovo primo Ministro. A marzo però riprende l’offensiva di Seleka e in pochi giorni i ribelli entrano a Bangui. Bozizé fugge in Camerun, mentre i miliziani si danno a saccheggi, uccisioni e violenze, nella capitale e in varie zone del Paese. Il Governo insediato da Seleka non ha il controllo della situazione. Michel Djotodia, primo Presidente musulmano in un Paese a maggioranza cristiana, cerca legittimazione giocando la carta delle divisioni religiose: nomina ministri e comandanti militari in gran parte di fede islamica, in un Paese in cui i musulmani sono meno del 15% della popolazione. I leader cristiani e musulmani però si muovono uniti per promuovere la pace e ricordare che in Centrafrica non ci sono mai state divisioni religiose. Il Presidente ufficialmente scioglie le milizie Seleka, ma loro continuano a scorrazzare e provocare disordini nel Paese. Molti sono costretti ad abbandonare i campi, le città o i villaggi dove vivevano, spesso rasi al suolo. Si contano 349mila sfollati interni, mentre 61mila persone si rifugiano all’estero. Il 5% della popolazione ha dovuto abbandonare la sua terra.

Repubblica

CENTRO AFRICANA

Generalità Nome completo:

Repubblica Centrafricana

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese

Capitale:

Bangui

Popolazione:

4.525.000

Area:

622.984 Kmq

Religioni:

Cristiana (51%), animista (34%), musulmana (15%)

Moneta:

Franco CFA

Principali esportazioni:

Cotone, caffè, minerali, diamanti

PIL pro capite:

Us 851

Una Forza multinazionale africana (Fomac) presidia il Centrafrica dal 1993, era composta da duemila militari provenienti da vari Paesi della zona, Camerun, Gabon, RD Congo e Ciad. Ma non sono stati in grado di fermare le scorribande dei Seleka. La missione è stata rafforzata con altri 1500 uomini. La popolazione però, ridotta allo stremo, non aspetta più la difesa delle autorità, locali o internazionali. In molti villaggi sono nati gruppi di autodifesa, che garantiscono la sicurezza dei cittadini con mezzi di fortuna: fucili fatti in casa, archi e frecce.


Il Centrafrica non ha mai conosciuto una vera democrazia. Provato da decenni di malgoverno e colpi di Stato, il Paese non è mai riuscito a risollevarsi. Negli ultimi anni la Repubblica Centrafricana ha anche subìto pressioni e instabilità causate dalle vicende politiche degli Stati confinanti, Ciad e Sudan, che hanno inciso nella tenuta interna del Paese, totalmente impreparato a ricevere le ondate di profughi in fuga da altri teatri di guerra. L’insicurezza e il

pericolo, oltre ad una rete di strade per lo più disastrate, hanno impedito alle agenzie umanitarie di raggiungere le zone colpite dai combattimenti, in particolare nel Nord-Est, e di portare sostegno alla popolazione. La criminalità e il traffico clandestino di diamanti (seconda voce nelle esportazioni del Paese) contribuiscono ad aumentare la già drammatica situazione interna della Repubblica Centraficana.

Per cosa si combatte

Troppa violenza niente scuola

Sette studenti su dieci non sono tornati a scuola da dicembre 2012, quando è esploso il conflitto in Centrafrica. L’Unicef ha verificato che gran parte degli istituti sono stati saccheggiati, occupati o distrutti a causa dei combattimenti. Fra quanti sono stati interpellati dall’Agenzia per l’infanzia delle Nazioni Unite, otto persone su dieci hanno dichiarato che non mandano i bambini a scuola per paura che subiscano violenze. Ma anche chi vorrebbe tornare non ha vita facile: quattro insegnanti su dieci non ci sono più, sono dovuti fuggire anche a loro, a causa della guerra.

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UNHCR/G. Casteele

La storia della Repubblica Centrafricana è segnata da schiavitù, colpi di Stato e imperatori. Una terra abitata da tempi antichissimi: vari ritrovamenti testimoniano l’esistenza di antiche civiltà anteriori alla nascita dell’impero egizio. Contesa tra vari sultanati che utilizzavano quest’area come una riserva di schiavi, che venivano trasportati e venduti nel Nord Africa, soprattutto al mercato de Il Cairo. La Repubblica è stata fortemente voluta da Berthelemey Boganda, un prete cattolico leader del Movimento d’Evoluzione Sociale dell’Africa Nera, il primo partito politico del Paese. Boganda ha governato fino al 1959 quando è morto in un misterioso incidente aereo. Suo cugino, David Dacko, nel 1962 ha imposto un regime monocratico. Ha avuto inizio così una lunga serie di colpi di stato. Il primo, ai danni di Dacko, lo attua il colonnello Jeab Bedel Bokassa, che sospende la Costituzione e scioglie il Parlamento. La follia di Bokassa arriva al punto di autoproclamarsi Presidente a vita nel 1972 e Imperatore del risorto Impero Centrafricano nel 1976. Un impero di follia e povertà per la gente. La Francia, ex potenza coloniale, decreta la fine di Bokassa nel 1979 e restaura la presidenza di Dacko, con un altro colpo di stato. Nel 1981 il generale Andrè Kolimba prende il potere. Pressioni internazionali costringono il dittatore a convocare elezioni nel 1993, che vengono vinte da Ange-Felix Patassè. Il neo Presidente dà vita a una serie di epurazioni negli apparati statali. Promulga una nuova co-

stituzione nel 1994, ma le forti tensioni sociali sfociano in rivolte popolari e violenze interetniche. Nel 1997 vengono firmati gli accordi di pace che portano al dispiegamento di una forza internazionale composta da forze militari di Paesi africani. Poi arriva il turno dell’Onu. Di nuovo alle urne nel 1999, Patassè vince, ma ormai

Quadro generale

UNHCR/D. Mbaiorem


Dieudonné Nzapalainga

(Bangassou, 14 marzo 1967) UNHCR/D. Mbaiorem

Diritti umani, violazioni senza fine

Amnesty International denuncia le continue violazioni dei diritti umani in Centrafrica. Gli uomini di Seleka, circa 20mila effettivi, si sono resi colpevoli di razzie nei villaggi, esecuzioni, torture di civili, stupri e di aver reclutato 3500 bambini. Il 22 aprile a Mbres, nella Provincia di Nana-Gribizi, hanno ucciso 27 persone, ne hanno ferite oltre 60 e hanno incendiato quasi 500 case: la popolazione locale aveva cercato d’impedire il furto di materiali che dovevano servire a costruire una scuola. Il 13 luglio hanno fermato un taxi collettivo. A bordo vi erano dieci persone. I soldati hanno trovato delle magliette col volto dell’ex Presidente Bozize. Hanno fatto scendere i passeggeri e li hanno portati via. Alcuni giorni dopo sono stati ritrovati i cadaveri, galleggiavano in un fiume: mani e piedi legati e con evidenti segni di tortura. Nel rapporto pubblicato da Amnesty International a novembre 2013, si legge anche la testimonianza di una donna, violentata per ore di fronte ai suoi bambini in lacrime. Mentre la stupravano, gli aguzzini la mordevano e le davano schiaffi.

le tensioni sono fuori controllo. Il Paese diventa una sorta di terra di nessuno dove le forze militari e ribelli razziano e rapinano la popolazione. Terreno fertile per un ennesimo colpo di stato, nel 2003, che porta al potere il generale Francois Bozizé, che poi vince le elezioni nel 2005 ritenute valide dalla Comunità Internazionale. Insomma la Repubblica Centrafricana è considerata come uno “Stato fantasma”, secondo un report del 2007 dell’International Crisis Group. Secondo quanto riportato il Paese avrebbe perso completamente la propria capacità istituzionale. Il Centrafrica ha vissuto in una condizione di brutalità continua, sia prima che dopo il raggiungimento dell’indipendenza. Cinquanta anni di regimi autoritari hanno dato vita a uno Stato predatore e violento, in cui l’unica possibilità per arrivare al potere e per mantenerlo è stato il ricorso continuo alla violenza. A ciò vanno ag-

I PROTAGONISTI

giunte le pressioni esercitate dalla ex potenza coloniale, la Francia, che ha mantenuto legami molto stretti con i vari leader che si sono susseguiti, determinando la caduta o il ritorno di chi poteva dimostrarsi un interlocutore affidabile e creando un altro “pays-garnison” nella Regione, oltre al Ciad. La fragilità interna ha reso la Repubblica Centrafricana una periferia della periferia per Paesi vicini come il Ciad, il quale controlla strettamente le iniziative prese a Bangui. Solo un esempio: il finanziamento per la presa del potere di Bozizè nel 2003. Un colpo di stato regionale visti i numerosi contributi arrivati dai paesi vicini come il Congo Brazzaville e la Repubblica democratica del Congo e grazie al tacito consenso di Sudan, Libia e Francia. Un apparato statale incapace di porre freno alla bulimia dei corrotti, e una redistribuzione delle risorse guidata da interessi clientelari, portano alla nascita di movimenti ribelli che, una volta arrivati al potere, generano nuove tensioni e si comportano esattamente come coloro che hanno combattuto.

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Corre, instancabile, da un villaggio all’altro, ma anche da Bangui a Roma, passando per Ginevra, poi torna ad immergersi nella sua realtà, a Bouar o a Bossangoa, dove ha partecipato anche a varie iniziative pubbliche in compagnia dei presidenti delle comunità islamiche e protestanti. Dieudonné Nzapalainga, “molto più che un Arcivescovo”, lo ha definito l’Agenzia France Presse. Ricopre questo incarico da maggio 2012, ma si è subito fatto notare: “Non sono le religioni a dividerci, è la politica”. Ripetuta come un mantra, questa affermazione ha aperto gran parte dei suoi incontri con centrafricani e stranieri, politici e gente comune. Dieudonné Nzapalainga è stato scelto da Papa Benedetto XVI per riportare l’ordine nella chiesa del Centrafrica. Dopo il colpo di Stato di aprile 2013, che ha insediato il Presidente Michel Djotodia, l’Arcivescovo di Bangui si deve prodigare anche per riportare la pace nel Paese. Ma non è facile. Intanto c’è già chi teme che un giorno o l’altro faccia il salto e si lanci in politica. Chi lo conosce però, non ci crede: non ne ha bisogno, il potere lo esercita già tutti i giorni.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO RIFUGIATI

509.396

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI UGANDA

127.021

CONGO

89.424

REPUBBLICA UNITA DELLA TANZANIA

63.330

SFOLLATI PRESENTI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 2.669.069 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO RIFUGIATI

65.109

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI RWANDA

50.736

BURUNDI

9.368


Il gioco delle alleanze

Nella complicata geografia della guerriglia è da segnalare la creazione di un fronte ribelle ugandese (con basi e incursioni in Congo) che unisce Allied Democratic Forces e National Army for the Liberation of Uganda (ADF-NALU). Il fronte sarebbe responsabile di un attacco nel dicembre scorso contro il villaggio di Kamango, nell’est della Repubblica democratica del Congo (nella provincia del Nord Kivu) in cui sarebbero morte una quarantina di persone. ADF è nata col sostegno di Khartoum; NALU in origine era appoggiato da Nairobi e dalla stessa Kinshasa in chiave anti Kampala.

UNHCR/F. Noy

Secondo fonti ufficiali delle Nazioni Unite, il conflitto militare in Congo ha prodotto 2,6milioni di sfollati e più di mezzo milioni di rifugiati mentre sarebbero tra i 3,5 e i 5milioni le persone che hanno perso la vita e oltre 6milioni e mezzo i congolesi che necessitano urgentemente di cibo e assistenza sanitaria per riuscire a sopravvivere. Ricostruire il puzzle dei conflitti che attraversano da anni l'ex Congo Belga è difficile anche se non è complicato definire l'area di maggior tensione: l'Est del Paese, e, in particolare, la strategica regione di confine del Kivu, ricca di risorse minerarie contese da signori della guerra locali, sostenuti dai Paesi vicini o dallo stesso governo di Kinshasa, e alimentati da una rete di trafficanti internazionali. In questo contesto, l'ultima vicenda bellica interna di portata preoccupante ha riguardato il Movimento 23 marzo, noto come M23, formato dal ex ribelli del National Congress for the Defence of the People che nel marzo del 2009 aveva firmato col governo un accordo di pace che avrebbe dovuto reintegrare i miliziani nell'esercito congolese. Sostenuto nemmeno troppo velatamente dal Rwanda, formato inizialmente da poche centinaia di uomini, il nuovo gruppo armato è diventato pericoloso nel 2012, quando, in autunno, ha preso temporaneamente la città di Goma e, nel 2013, è riuscito a sferrare un attacco contro un accampamento militare della missione Onu Monuscoa Kibati, località dove ha sede anche il comando della Force Intervention Brigade a guida Onu di recente formazione. Le Nazioni Unite e le forze armate congolesi hanno risposto lanciando contro l’M23 una massiccia offensiva che a fine novembre ha prodotto la disfatta delle milizie ribelli, costringendo i suoi dirigenti a firmare un accordo con Kinshasa in cui si impegnavano a rinunciare alla lotta armata e a trasformarsi in forza politica. La controffensiva era iniziata nell'agosto scorso per raggiungere poi definitivi successi a fine ottobre con la cacciata dei ribelli dalla Kibumba e, due giorni dopo, con la ripresa del controllo della città di Rumangabo, a circa 50 chilometri a nord di Goma, una delle tre più grandi basi militari dell’esercito congolese,

Repubblica DEMOCRATICA DEL

CONGO

Generalità Nome completo:

Repubblica Democratica del Congo

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese, lingala, kiswahili, kikongo, tshiluba

Capitale:

Kinshasa

Popolazione:

72 milioni

Area:

2.34 milioni kmq

Religioni:

Cristiana, musulmana

Moneta:

Franco congolese

Principali esportazioni:

Diamanti, rame, caffè, cobalto, petrolio greggio

PIL pro capite:

US 365

presa dai ribelli l'anno precedente. Di fatto però, nessuno scommette sul futuro della pace nella regione dove appetiti diversi stanno alla base della nascita o rinascita dei gruppi armati. Tra i tanti, oltre all'M23, le Democratic Forces for the Liberation of Rwanda (Fdlr), organizzate da estremisti Hutu che nel 1994 presero parte al genocidio in Rwanda e che poi si rifugiarono in Congo, o i separatisti del Mai Mai Kata Katanga.


africana” che tra il 1998 ed il 2003 coinvolse in Congo 8 nazioni africane causando quasi 5milioni e mezzo di vittime. Nel 2011 il Presidente Kabila dispose il blocco dell’estrazione per coltan e cassiterite dopo il varo negli Stati Uniti di una legge sulla tracciabilità dei minerali, considerati “insanguinati” proprio come i diamanti perché i gruppi armati li hanno usati per finanziarsi. Ma ovviamente concretamente è rimasta solo una buona intenzione perché qui 12milioni di persone vivono con l’estrazione. Quindi tutto continua come prima, sotto lo sguardo attento dei soldati dell’esercito regolare che non percepiscono stipendio e di quelli ruandesi che qui sono di casa. Ed il contrabbando vola, arricchendo chi lo organizza.

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Nel Kivu è concentrata tutta la enorme ricchezza del sottosuolo. Per questo banditi, esercito regolare corrotto, gruppi di ribelli dai nomi altisonanti ma dallo scarsissimo rispetto per le popolazioni inermi, si scontrano senza pietà per il controllo dell’estrazione dei preziosi minerali. Ruanda, Burundi e Uganda (Paesi confinanti o che hanno forte influenza politico-economica) hanno dati di export molto superiori alle reali risorse minerarie, grazie al contrabbando che aumenta di mese in mese diretto verso i loro confini. Ovvio che queste nazioni non stanno a guardare né auspicano la pace ma si sono ritagliate un ruolo attivo per rendere instabile la Regione, come dimostra il loro intervento diretto in quella che fu definita la “guerra mondiale

Per cosa si combatte

UNHCR/F. Noy

La riconferma di Joseph Kabila per un altro mandato presidenziale nelle elezioni del 28 novembre 2011 alla guida della Repubblica Democratica del Congo non suscitò particolari reazioni nella comunità internazionale. Le Nazioni Unite (solitamente vigili) con un asettico e notarile comunicato si limitarono a prendere “nota del risultato annunciato da parte della Commissione elettorale”. Alain Juppé, ministro francese degli Affari Esteri, si soffermò invece su “una situazione esplosiva con una forte tentazione di ricorrere alla violenza”. Gli Stati Uniti espressero la “profonda delusione” per la decisione della Corte suprema del Congo di avallare il risultato elettorale. A denunciare frodi e gravi irregolarità nelle elezioni furono la Fondazione Carter (l’organizzazione non governativa dell’ex presidente statunitense Jimmy Carter) ed il cardinale Laurent Monsengwo, massimo rappresentante della Chiesa in un Paese profondamente cattolico. Schede già compilate nelle urne, numero delle preferenze maggiore dei votanti, ritardi nell’apertura dei seggi, intimidazioni, violenze e pressioni contro gli elettori furono puntualmente docu-

mentate dagli osservatori della Fondazione Carter e dalla rete dei 30mila volontari e sacerdoti sparsi nel Paese che controllarono la regolarità dello spoglio. Ma il conteggio delle schede sentenziò la vittoria schiacciante di Kabila con il 48,95% dei voti contro il 32,33% ottenuto da Etienne Tshisekedi, leader dell’opposizione, conosciuto come il “Mandela del Congo” per i lunghi anni trascorsi in carcere. Di fronte alla minaccia di crescenti proteste che causarono almeno una decina di morti, Kabila decise di giocare d’anticipo: prestò giuramento e schierò i carri armati nelle strade. Solo il dittatore dello Zimbabwe Robert Mugabe era presente alla cerimonia mentre gli altri Paesi africani scelsero di mandare i primi ministri, rimarcando così una significativa presa di distanza. Ad ispirare la colpevole acquiescenza sulle ripetute e continue violazioni dei diritti umani e politici è il saldissimo legame che unisce il quarantaduenne Presidente Kabila (figlio dell’ex presidente Laurent, l’uomo che pose fine alla sanguinosa dittatura di Mobutu Sese Seko) alle multinazionali interessate alla estrazione di materie prime di cui il Congo è ricchissimo.

Quadro generale


Il “Falco” italiano

UNHCR/F.Noy

Rivolte, non solo Kivu

Menzionare tutti i conflitti o microconflitti congolesi è assai complesso proprio perché molti di questi si svolgono in zone dalle frontiere porose e alimentano una geografia della guerra locale con ramificazioni estere. Si possono ricordare gli effetti del conflitto di Dongo sui diritti di pesca nell'Ubangi nel Nordovest, che hanno prodotto 200mila tra sfollati e rifugiati, la maggior parte fuggiti nella vicina Repubblica del Congo. La presenza nel Nordest dei ribelli ugandesi del Lord Resistance Army (Lra). Le formazioni ribelli dell'Ituri, provincia nord orientale, calma però dal 2006 dopo che un accordo di pace ha portato al disarmo dell'ultimo dei tre gruppi ribelli, l'Ituri Patriotic Resistance Front. Infine il già menzionato Mai Mai Kata Katanga (o Mai Mai Bakata Katanga), un gruppo separatista attivo nella provincia meridionale del Katanga. E' finanziato dai katanghesi della diaspora.

Cobalto, uranio, oro, diamanti, cassiterite (da cui si ricava lo stagno), coltan (da cui si estrae il tantalio, componente essenziale per telefoni cellulari, computer, videogiochi, dvd) sono solo alcuni dei preziosi minerali di cui trabocca il Congo: “Un vero e proprio scandalo geologico” secondo gli esperti. Un duplice saccheggio che dura da decenni: quello ufficiale di cui sono protagoniste le multinazionali (appoggiate dal Governo) e quello di frodo animato dai contrabbandieri. Unici destinatari i Paesi ricchi occidentali e orientali che utilizzano i preziosi materiali pagati a basso costo per realizzare altissimi profitti. Stati Uniti, Canada, Inghilterra, Belgio, Malesia, India e Cina sono i Paesi stranieri con i maggiori interessi. Nel Sud e Nord Kivu operano invece bande armate che con coperture governative sovrinten-

I PROTAGONISTI

dono alla esportazione illegale di materie prime che dirottate verso Ruanda, Burundi e Uganda. Da questi Paesi una rete di mediatori provvede a far fronte alle richieste delle grandi aziende internazionali. Ma il Congo resta uno dei Paesi più poveri e sottosviluppati del mondo. Uno dei punti di forza di Joseph Kabila è la profonda divisione dell’opposizione. Non a caso erano ben 11 i pretendenti alla poltrona di Presidente della Repubblica Democratica del Congo alle ultime elezioni: una atomizzazione del quadro politico che ha favorito lo scaltro e privo di scrupoli capo di stato uscente. Ma la sua popolarità è in declino. Lo dimostra la richiesta presentata in parlamento da venti partiti di opposizione per aprire la procedura di alto tradimento nei confronti di Kabila, il quale ha nascosto ai congolesi che due compagnie di forze speciali del Ruanda operavano in Congo per dare la caccia alle Fdlr (Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda) che si oppongono al Governo di Paul Kagame. Ovviamente in pieno accordo con le autorità di Kinshasa.

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Sono italiani i due «unmanned aerial vehicles», prodotti dalla sussidiaria di Finmeccanica Selex ES, che sorvolano dal dicembre del 2013 la zona intorno a Goma per controllare e segnalare movimenti di truppa o spostamenti delle popolazioni civili. I due aerei senza pilota “Falco” della Selex ES, sono stati acquistati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per essere impiegati all'interno delle attività della missione militare nella Repubblica Democratica del Congo (Monusco). Dronispia che sorvolano dalla fine dell'anno scorso la regione orientale del Nord Kivu, al confine con il Ruanda. I velivoli sono giunti nella base delle forze armate congolesi a Goma il 15 novembre 2013, a bordo di un C-130J “Hercules” dell’Aeronautica militare italiana. Il contratto di acquisto di cinque velivoli senza pilota (del valore complessivo 50 milioni di euro) era stato sottoscritto con Selex ES dal Dipartimento delle Operazioni di Peacekeeping dell’ONU a fine luglio. La consegna dei tre droni rimanenti è prevista entro il febbraio 2014.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DEL SAHARA OCCIDENTALE RIFUGIATI

116.452

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI ALGERIA

90.000

MAURITANIA

26.000


Repressione e diritti umani

Sono continue le manifestazioni di protesta nel Sahara Occidentale che rivendica il diritto all’autodeterminazione con un referendum. Le autorità marocchine sono state accusate di reprimere con la violenza le manifestazioni saharawi e di violare costantemente i diritti umani della popolazione. Nel marzo del 2013 una cinquantina di persone, tra cui anche donne e bambini, sono rimaste ferite, ad el Ayoun, nel Sahara Occidentale, a causa dell’intervento delle forze di sicurezza marocchine per reprimere una manifestazione indetta dal popolo saharawi. Nel 2013 il Robert F. Kennedy Center for Justice and Human Rights, ha presentato anche in Italia il suo Dossier frutto della missione di una delegazione internazionale di osservatori nei territori occupati dal Marocco, nel corso della quale “si è assistito direttamente a episodi di grave abuso contro il popolo Saharawi da parte delle forze di polizia marocchina e sono state raccolte innumerevoli testimonianze circa il ripetersi negli anni di insopportabili violenze ed intimidazioni”.

Il conflitto in Mali è una “bomba a orologeria” per il Sahara Occidentale. L’allarme arriva dal Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-Moon che in un Rapporto presentato - nell’aprile del 2013 - al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha avvertito del “serio rischio” che la guerra nel Nord del Mali contro i gruppi islamisti legati al-Qaeda, contagi altri Paesi nella Regione. Secondo Ban Ki-Moon gli estremisti potrebbero infiltrare anche i campi profughi nel deserto algerino dove più di 200mila sahrawi vivono in esilio dal 1975, da quando il Marocco ha occupato i territori del Sahara Occidentale. Da quarant’anni il popolo Sahrawi aspetta inutilmente un referendum sull’autodeterminazione. Questa lunga attesa, le drammatiche condizioni di vita dei profughi e le continue violazioni dei diritti umani da parte del Governo marocchino nei territori occupati (certificate dalle Nazioni Unite e dai dossier di numerose Organizzazioni Internazionali), rischiano di provocare una reazione violenta, soprattutto delle generazioni più giovani di sahrawi. Nell’ottobre del 2013, alla vigilia della visita del delegato dell’Onu per il Sahara Occidentale nella Regione, il Fronte Polisario ha chiesto al Consiglio di Sicurezza di farsi carico della responsabilità di risolvere questa situazione di stallo, accelerando l’organizzazione del referendum, oggi bloccato dal Marocco. La questione del Sahara Occidentale è stata causa di tensione nel 2013 tra il Governo di Rabat e quelli di Washington e Algeri. In aprile, il Marocco ha cancellato le annuali esercitazioni militari con gli Stati Uniti dopo che l’amministrazione Obama ha appoggiato la proposta di ampliare il mandato della missione delle Nazioni unite nel Sahara Occidentale per includere il monitoraggio della situazione dei diritti umani. Il portavoce del Governo di Rabat, Mustapha Khalfi, ha convocato i giornalisti per esprimere la rabbia delle autorità riguardo alle iniziative mirate ad ampliare il mandato della missione dell’Onu: “È un attacco alla sovranità nazionale del Marocco, che avrà conseguenze negative per la stabilità dell’intera regione”. Tensione che si è ricomposta solo nel novembre del 2013 con l’annuncio di un colloquio alla Casa Bianca tra il Re del Marocco, Mohammed VI e il Presidente Barack Obama. Al centro dei colloqui,

SAHARA OCCIDENTALE

Generalità Nome completo:

Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD)

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Hassaniya, spagnolo

Capitale:

El Ayun

Popolazione:

circa 1 milione

Area:

circa 280.000 Kmq

Religioni:

Islamica Sunnita

Moneta:

Dinaro algerino nei campi profughi, Dirham marocchino nei territori occupati

Principali esportazioni:

Fosfati, pesca, petrolio e probabilmente ferro e uranio

PIL pro capite:

n.d.

anche i rapporti economici, considerando che il Marocco è sempre stato uno dei più stretti alleati degli Stati Uniti. Tensione per il Sahara Occidentale anche tra Rabat e il Governo algerino. Il Marocco ha richiamato il suo ambasciatore ad Algeri per consultazioni in seguito alle dichiarazioni fatte dal Presidente algerino Abdelaziz Bouteflika il quale aveva chiesto un monitoraggio sulle violazioni dei diritti umani.


86

Il popolo Saharawi è privato del diritto fondamentale e internazionalmente riconosciuto ad avere una terra, su cui vivere in pace e libertà. Il diritto all’autodeterminazione viene negato dal Governo del Marocco, nonostante le numerose risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite e nonostante alcuni rappresentanti europei considerino illegale lo sfruttamento delle risorse naturali del Sahara Occidentale, costituite da grandi quantità di fosfati e abbondantissimi banchi di pesce. Molto contestato l’accordo tra Unione Europea e Marocco approvato nel feb-

braio del 2012 che liberalizza, in parte, il commercio di prodotti agricoli e di pesca includendo anche il territorio del Sahara Occidentale. Il deputato francese dei Verdi europei José Bové ha ritirato il suo nome dalla relazione dopo la votazione in segno di protesta. Decisivo in ogni caso è il contributo dell’Europa per il sostentamento dei rifugiati. Anche se, purtroppo, gli aiuti umanitari internazionali stanno diminuendo in maniera vistosa e preoccupante, così come l’attenzione internazionale rispetto al dramma vissuto dal popolo Saharawi.

Per cosa si combatte

Il Sahara Occidentale comprende le Regioni di Saquia el Hamra al Nord e Rio de Oro al Sud, 284mila Kmq. Confina con il Marocco, l’Algeria, la Mauritania e l’Oceano Atlantico. È uno dei territori più ostili alla vita dell’uomo in tutto il pianeta. Aride distese di rocce e dune di sabbia sono solcate da piccoli wadi (letti di fiumi) nei quali si accumula quel po’ di acqua che non riesce mai a raggiungere il mare a causa della rapida evaporazione. Il Sahara Occidentale, già colonia spagnola, è l’ultima colonia africana ancora in attesa dell’indipendenza: al dominio spagnolo, infatti, nel 1975 si è sostituito quello di Marocco e Mauritania, che hanno invaso il territorio. La maggior parte della popolazione è fuggita in Algeria dove, da allora, vive nei campi profughi. In pratica, la questione del Sahara Occidentale è un caso di decolonizzazione mancata. Il popolo Saharawi è privato dal 1975 del suo diritto all’autodeterminazione. Lo dimostrano le tappe di questo conflitto.

Il 6 ottobre 1975, il re del Marocco dà il benestare alla “marcia verde”, attraverso la quale 350mila marocchini avanzano verso il Sahara Occidentale con l’obiettivo di conquista del territorio. Il 31 Ottobre 1975 inizia l’invasione marocchina nella zona Orientale del Sahara Occidentale. La Spagna intanto si ritira e il 2 novembre Madrid riafferma il proprio supporto all’autodeterminazione della gente Saharawi, allineandosi agli impegni internazionali assunti. Con il ritiro della Spagna, alla fine del 1975 il Polisario (movimento di liberazione che dal 1973 lotta per l’indipendenza) sembra sul punto di guadagnare l’indipendenza. Ma con trattative separate e segrete, Madrid firma un accordo clandestino con il Marocco e la Mauritania. I tre Paesi decidono di spaccare il territorio del Sahara Occidentale fra il Marocco e la Mauritania, evitando di dare l’indipendenza ai Saharawi. Nel 1976 il Fronte Polisario proclama la Rasd, Repubblica Araba Saharawi Democratica, ma

Quadro generale

Condanne

Mano pesante della giustizia marocchina nei confronti dei saharawi, che alla fine del 2010, avevano organizzato una manifestazione di protesta nel campo di Gdeim Izik, a el-Ayoun nel Sahara Occidentale. La corte militare di Rabat ha inflitto otto condanne all’ergastolo. Una nona condanna alla prigione a vita è stata inflitta ad un imputato contumace. Per 4 dei 24 imputati la condanna è stata a 30 anni di reclusione; a dieci sono state inflitte pene detentive tra i 20 e i 25 anni di reclusione. Per due saharawi la condanna è stata a due anni di reclusione. Tra le accuse contestate c’erano quella di costituzione di banda armata, omicidio con l’aggravante della premeditazione e vilipendio di cadavere. A Gdeim Izik le forze di sicurezza marocchine intervennero con durezza per smantellare un campo dove vivevano alcune migliaia di saharawi, originari del territorio conteso del Sahara Occidentale. Negli incidenti che ne seguirono una dozzina di agenti marocchini rimasero uccisi, mentre non è mai stato ufficializzato il numero di saharawi che persero la vita.


Mohamed Abdelaziz e il Fronte Polisario (Marrakech, 17 agosto 1947)

Festival Internazionale del Cinema del Sahara

Il FiSahara (Festival Internacional de Cine del Sáhara) è un festival del cinema che si svolge ogni anno nei campi sahrawi di Tindouf, in Algeria. È nato 10 anni fa con il duplice obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale sulla situazione del popolo sahrawi in esilio e per offrire alle migliaia di persone che vivono nei campi profughi la possibilità di aprirsi all’arte e alla cultura cinematografica, incontrando artisti provenienti da tutti il mondo. Nato dall’iniziativa del Ceas-Sáhara (Coordinadora Estatal de Asociaciones Solidarias con el Sáhara), il FiSahara è l’unico festival di cinema che si realizza in un campo di rifugiati. Grazie all’iniziativa sono state create anche delle videoteche ed è stata fondata una scuola di cinema, la Escuela de Formación Audiovisual Abidin Kaid Saleh, dedicata e aperta ai giovani saharwi dei campi profughi.

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È un politico saharawi, Segretario Generale del Fronte Polisario e Presidente in esilio della Repubblica Araba Saharawi Democratica (Rasd). Nel maggio del 1973 è tra i fondatori del Frente Por la Liberación de Saguia El Hamra y Río de Oro (il Fronte Polisario) e membro dell’ufficio politico. Il Fronte Polisario è un movimento indipendentista costituito da studenti e da militanti saharawi, già attivisti nella precedente lotta anticoloniale contro la Spagna. Sin dalla fondazione, il Polisario organizza la guerriglia contro le forze di occupazione. Nel febbraio del 1976 il Fronte Polisario, con l’appoggio del Governo algerino, fonda la Repubblica Araba Saharawi Democratica (Rasd) e costituisce l’Esercito di Liberazione Popolare Saharawi (Elps). Sotto la guida di Mohamed Abdelaziz la lotta armata del Fronte Polisario termina nel 1991, per effetto della proposta di un piano di pace formalizzata dall’Onu. Alla fine di aprile 1991 il Consiglio di Sicurezza approva il piano e dispone la Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale (Minurso). Una minoranza del Fronte Polisario critica Abdelaziz proprio per la sua scelta radicale nel proseguire la via diplomatica rifiutando il ritorno alla lotta armata.

l’annessione illegale del territorio dà il via alla guerra fra Marocco e Mauritania, per il controllo del territorio. Decine di migliaia di Saharawi fuggono sotto i bombardamenti al napalm del Marocco. L’aggressione investì sia il Nord che il Sud del Paese facendo fuggire i Saharawi verso Est, in Algeria appunto, dove è stato concesso loro asilo politico. Il rientro nelle loro terre viene reso ancora più difficile dalla costruzione da parte del Marocco, a partire dal 1980, di un muro elettrificato. È un’impressionante opera militare: bunker, postazioni fortificate, campi minati (mine in gran parte italiane), lungo oltre 2200 Km alto cinque metri fatto di sassi e sabbia; si dice che il suo mantenimento costi al Governo marocchino oltre 1milione di dollari al giorno. Nel 1984, l’Organizzazione degli Stati Africani ammette come Stato membro, la Rasd, espelle il Marocco, nega di fatto valore giuridico agli accordi fra Spagna, Mauritania e Marocco. Nel 1991, dopo 18 anni di guerra, il Consiglio

I PROTAGONISTI

di Sicurezza dell’Onu approva il Piano di Pace. Dal 6 settembre 1996 la Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale, Minurso, sorveglia il rispetto del cessate il fuoco e organizza il referendum di autodeterminazione che è rimasto solo sulla carta, a causa dell’opposizione del Marocco. Sempre l’Onu, in una decisione specifica sul Sahara Occidentale, trasmessa da Hans Corell, Segretario Generale Aggiunto per gli Affari Giuridici, al Presidente del Consiglio dichiara: “Gli Accordi di Madrid non hanno significato in alcun modo un trasferimento di sovranità sul territorio, né hanno concesso ad alcuno dei firmatari lo status di potenza amministrante, dato che la Spagna non poteva concederlo unilateralmente. Il trasferimento di potere amministrativo sul territorio nel 1975 non riguarda il suo status internazionale, in quanto territorio non autonomo”. La continuazione dello status quo sta conducendo ad una repressione sempre più brutale nelle zone occupate e ad un ritorno alle ostilità. Molti giovani ed anziani parlano apertamente della necessità, per sbloccare l’impasse, di ricorrere alle armi o ad atti di terrorismo che sino ad oggi non sono stati parte della strategia Saharawi.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA SOMALIA RIFUGIATI

1.136.143

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI KENIA

512.069

YEMEN

226.909

ETIOPIA

223.031

SFOLLATI PRESENTI NELLA SOMALIA 1.132.963 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA SOMALIA RIFUGIATI

2.309


Gli Al-Shebaab e l’avorio

Dopo l’assalto del settembre scorso al centro commerciale ‘Westgate’ di Nairobi che ha provocato oltre 68 morti e più di 200 feriti, l’agenzia Agi riportava una notizia che pochi altri hanno rilanciato. Il movimento qaedista somalo al-Shebaab al-Mujaheddin, responsabile dell’ assalto, si auto-finanzia almeno in parte con i proventi della caccia di frodo, e in particolare con il traffico di avorio e di corni di rinoceronte. La denuncia parte da Andrea Crosta, direttore esecutivo dell’organizzazione non governativa ‘Elephant Action League’. I guerriglieri jihadisti non sono direttamente coinvolti nella caccia di frodo ai pachidermi, ma sfruttano le attività illegali dei bracconieri, con i quali hanno stretto patti di collaborazione, al pari di altre formazioni africane, come l’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda, e i miliziani filo-governativi dei Janjaweed in Sudan. Il valore commerciale dell’avorio movimentato si aggira, sul mercato nero, intorno ai 150 euro il chilogrammo, per un valore complessivo annuo compreso tra i 5 e i 7,5miliardi di euro. UNHCR/S. Modola

Nell’ultimo anno la Somalia ha fatto molta strada. La cacciata degli Al Shaabab, l’insediamento di un nuovo Governo nel settembre del 2012 e infine la Conferenza dei Paesi Europei per la Somalia, apertasi a Bruxelles nel settembre 2013, con lo scopo di organizzare il sostegno dell’Ue alla riconciliazione ed alla ricostruzione civile ed economica del Paese. L’impegno in prima battuta è arrivato dai leader somali, dopo oltre vent’anni di scontri sanguinosi e otto anni di transizione, fino al passaggio al nuovo Governo federale, determinati a rispondere alle aspettative di una popolazione allo stremo. L’azione militare della missione Amisom dell’Unione Africana e dell’esercito somalo è riuscita a isolare il gruppo terrorista al-Shaabab in gran parte del Paese, anche se vi sono ancora alcune sacche di resistenza. I pirati lungo le coste pare abbiano le lance spuntate: gli attacchi negli ultimi due anni sono diminuiti del 93%, e tutti i tentati di abbordaggio del 2013 sono falliti. Continuano però gli attentati terroristici che minacciano la sicurezza e la stabilità del Paese e soprattutto continuano a lasciare nel terrore la popolazione civile. Ma questo non spaventa gli esuli che a poco a poco stanno rientrando nel loro Paese contribuendo alla fondazione di un nuovo Stato. In tal senso, in vista delle elezioni previste per il 2016, resta fondamentale il sostegno dell’Unione Europea e di tutti i partner internazionali per aiutare le nuove istituzioni a gettare le basi del nuovo Stato federale. “Un nuovo patto per la Somalia”, questo il titolo della conferenza svoltasi a Bruxelles il 16 settembre 2013 che ha dato vita al “New Deal “ per la Somalia. Con questo termine si è voluto dare forza ad un patto di reciproca responsabilità e di gestione del rischio fra la Somalia e la comunità internazionale. Uno sforzo economico volto a risollevare la speranza di un Paese intero e della sua popolazione: 1,8miliardi di euro, di cui 650

SOMALIA

Generalità Nome completo:

Somalia

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Somalo, arabo, italiano, inglese

Capitale:

Mogadiscio

Popolazione:

10.085.000

Area:

637.661 Kmq

Religioni:

Musulmana (99%)

Moneta:

Scellino somalo

Principali esportazioni:

Banane, bestiame, pellame e pelli, mirra, pesce

PIL pro capite:

Us 600

dalla sola Unione Europea (in aggiunta al miliardo già stanziato dal 2008). Punto di arrivo il 2015 quando è prevista l’approvazione di una nuova Costituzione federale e il 2016, con lo svolgimento delle prime elezioni. A questo processo hanno partecipato anche rappresentanti della società civile nelle maggiori città del Paese oltre ai partner internazionali. Il patto prevede 5 punti chiave: costruzione della pace e stabilità governativa, politica inclusiva, sicurezza, giustizia, e basi economiche per ricavi e servizi. Ogni forma di aiuto dovrà seguire le priorità concordate col governo.


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Senza dimenticare che la Somalia è un Paese clanico e quindi diviso in molteplici entità, nell’ultimo anno le rivalità fra i clan sembrano essersi fermate per combattere e cacciare definitivamente gli estremisti islamici degli Al Shabaab. L’Unione Europea ha annunciato un nuovo aiuto di 124milioni di euro per la missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom) per rafforzare la sicurezza nel Paese. L’impegno economico è così arrivato a circa 600milioni. Questo nuovo stanziamento coprirà i costi di funzionamento del quartier generale della missione a Nairobi. Un sostegno determinante per permettere all’Amisom di proseguire nel mandato che affidatogli dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ma nel Paese la sicurezza è sempre a rischio.

In Somalia la guerra civile si è piano piano trasformata in una lotta al terrorismo, sono negli ultimi mesi del 2013 si sono succeduti molti attentati che hanno provocato decine di morti. Dopo la strage di Nairobi del centro commerciale Westgate, del 21 settembre 2013 che ha provocato decine di morti e centinaia di feriti, i fondamentalisti somali non si sono fermati. Dopo aver perso di fatto la guerra gli Shabaab si sono ridotti ad azioni di terrorismo puro. Ora in Somalia si combatte per questo. Le zone sotto controllo degli islamisti, sono a macchia di leopardo nel Sud del Paese, dopo che hanno perso il controllo delle principali città e delle vie di comunicazione. Una situazione difficile che sconfina nei Paesi vicini e rende complesso il controllo del territorio.

Per cosa si combatte

È il 26 gennaio 1991, con la caduta del dittatore Siad Barre che incomincia il periodo forse più buio della storia della Somalia. Doveva essere la fine di una dittatura, si è trasformata in una guerra di tutti contro tutti, signori della guerra, clan, bande rivali. Il territorio è stato a poco a poco conteso e suddiviso in settori sotto il dominio di tribù senza scrupoli a colpi di Kalashnicov e di Tecniche, l’arma somala per eccellenza, il mitragliatore montato sul cassone aperto del Toyota Pick-Up. Dopo quasi 22 anni però le elezioni del nuovo Presidente hanno aperto uno spiraglio di luce sul futuro di questa terra. Un Paese che fino a ieri di fatto era ancora senza istituzioni, un popolo senza diritti. Solo violenza, attentati e povertà all’ordine del giorno, dove la vita di un uomo può valere poche decine di dollari americani. In realtà non è che prima del 1991 la Somalia avesse conosciuto lunghi periodi di pace. Dalla proclamazione dell’indipendenza del primo luglio 1960, che vede l’unificazione della Somalia, dell’amministrazione fiduciaria italiana (19501960) e del Somaliland protettorato britannico, per nove anni aveva visto un Governo della repubblica somala legittimamente eletto. Nel 1969 Siad Barre con un colpo di stato prende il potere ed instaura il suo regime. Nel 1977 Barre muove guerra contro l’Etiopia per la Regione dell’Ogaden, Regione etiope con alta presenza di popolazione somala da sempre rivendicata dalla Somalia. Il regime interno è poco tollerato, gli scontri aumentano e dal 1980 assumono il profilo di una vera e propria guerra civile. La Regione del Somaliland (ex Somalia britannica unificata nel 1960 nella Repubblica Somala) rivendica una propria autonomia fino ad arrivare alla auto proclamazione d’indipendenza del 18 maggio 1991. Molti oppositori al regime di Siad Barre vengono arrestati ed incarcerati, altri esiliati ed altri scappano di propria iniziativa. Dopo la caduta del regime di Siad Barre e lo scoppio degli scontri interni, la comunità internazionale decise di intervenire con l’invio di

una missione Onu, la Unosom. Obiettivo della missione, nota anche come “Restore Hope”, era quello di creare un margine di sicurezza per l’invio di aiuti umanitari per la popolazione civile vittima da sempre dei conflitti somali. Ma la intricata situazione di controllo del territorio da parte dei signori della guerra, principalmente dei due grandi oppositori di quegli anni Ali Madi da una parte e il generale Aidid dall’altra, conducono la missione Onu ad un fallimento simbolicamente identificato con la battaglia di Mogadiscio e l’abbattimento dell’elicottero americano Black Hawk. La Unosom si ritira nei primi mesi del 1994 a due anni dal suo primo invio. Anche l’Italia era presente in Somalia con la missione Ibis che si ritira il 20 marzo 1994, lo stesso giorno in cui vengono barbaramente assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Gli anni successivi sono caratterizzati da una sempre maggiore frammentazione del territorio da parte dei sempre crescenti “lord war”. In questi anni la Somalia è anche la vera terra di nessuno, inesistenza di controlli frontalieri, una frammentazione territoriale e clanica gestita dal solo controllo delle armi. Questa situazione consente lo svolgimento di traffici illeciti, rifiuti

Quadro generale

UNHCR/S. Modola


Omar Hammarni Shafik (L’americano)

Anche gli Stati Uniti d’America avevano il loro leader Shebaab. Si chiamava Abu Mansoor Al-Amriki, l’islamista radicale originario dell’Alabama che sarebbe rimasto ucciso in un conflitto a fuoco avvenuto il 12 settembre 2013, nel piccolo villaggio di Bardhere, vicino alla città di Dinsoor,a Sud-Ovest della capitale, Mogadiscio. Omar Hammami Shafik, questo il suo nome da cittadino americano - meglio noto come Al-Amriki o ‘’l’americano’’, era dal novembre del 2012 nell’elenco dell’ Fbi dei terroristi più ricercati dagli Stati Uniti. Sulla sua testa pendeva una taglia di 5milioni di dollari. Nato a Daphne in Alabama, Shafik è cresciuto a Damasco, in Siria. Tornato in Alabama per andare al college, ha cominciato a identificarsi come musulmano già durante il liceo per poi diventare un salafita. Abbandonati gli studi di ingegneria civile va a Toronto, in Canada, dove sposa una donna somalo-canadese nel 2004, per poi trasferirsi con lei in Egitto nel 2005. Abbandona la moglie e la figlioletta avuta nel frattempo per aderire alShabaab in Somalia alla fine del 2006.

Radio Shabelle

Era la principale emittente radiofonica privata della Somalia e la più ascoltata, Radio Shabelle si era procurata diversi nemici, primi fra tutti gli esponenti del nuovo Governo, così con un blitz delle forze di sicurezza e con il pretesto per l’occupazione abusiva dei locali di proprietà del Governo stesso, un’altra voce libera è stata fermata alla fine di ottobre 2013. 36 giornalisti su 68 sono stati arrestati da 100 agenti della polizia politica della Somalia, che hanno malmenato tutti i presenti comprese le donne, armi in pugno hanno anche arrestato l’editore di Radio Shabelle e Sky FM, Abdi Malik Yusuf Mohamud, su ordine del ministro dell’Interno Abdikarim Hussein Guled. Prima di terminare le trasmissioni alcuni colleghi hanno però diffuso la notizia del raid improvviso degli agenti. I giornalisti arrestati sono stati subito rilasciati, ma hanno chiesto di restare in cella per paura di essere uccisi. Ma la cosa gli è stata impedita dalle forze di sicurezza. La strage in Somalia e a Mogadiscio in particolare non si è mai fermata. Sono 19 i giornalisti uccisi negli ultimi mesi, ultimo in ordine di tempo Mohamed Mohamud “Tima Cade” (Testa Bionda), giornalista di Universal TV.

dispersi in mare e sotterrati nel deserto somalo in cambio di armi, fino alla formazione di veri campi di addestramento della milizia jihadista. Intanto i diversi clan e i molti signori della guerra, sollecitati dalla comunità internazionale e dall’Unione Africana, si incontrano cercando di trovare l’accordo. Molte le Conferenze di pace messe in atto, ma ogni volta si concludono con un nulla di fatto. Bisogna aspettare il 2004 per vedere, a conclusione della quattordicesima Conferenza di pacificazione, la nomina di un Parlamento di transizione che elegge Presidente Abdullahi Yusuf Ahmed e un Governo Federale di Transizione (Tfg) che dopo un primo periodo di attività da Nairobi, a giugno 2005 entra in Somalia. Mogadiscio però è considerata ancora troppo pericolosa e nelle mani dei diversi “lord war” così il Governo di transizione risiede per un periodo a Johwar e poi a Baidoa. Nell’estate 2006 gli scontri iniziati dentro Mo-

I PROTAGONISTI

gadiscio fra i lord war e le milizie jihadiste somale portano queste ultime, controllate dalle Corti islamiche, a scacciare i signori della guerra e a prendere il controllo della città. Da Mogadiscio poco alla volta le Corti islamiche prendono il controllo di buona parte della zona sud della Somalia fino ad arrivare alle porte di Baidoa, la città di residenza e controllo del Tfg che nel frattempo aveva ottenuto la tutela dell’Onu e l’appoggio militare dell’Etiopia. Da Baidoa riparte l’offensiva governativa che con il determinante intervento dell’esercito etiope e il sostegno dei militari della Regione del Puntland, rispondono al tentativo delle Corti di conquistare Baidoa, con un attacco senza precedenti porta in pochissimo tempo alla conquista di Mogadiscio. Il Tfg ottiene così ufficialmente il controllo della capitale, ma nei fatti ha inizio un lungo periodo di attentati da parte dei fondamentalisti islamici, ai palazzi della presidenza e del Governo con numerose vittime fra i civili e decine di migliaia di sfollati che abbandonano il centro di Mogadiscio.

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(6 Maggio 1984 – 12 Settembre 2013)

UNHCR/B. Bannon


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL SUDAN RIFUGIATI

569.212

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CIAD

306.960

SUD SUDAN

176.834

ETIOPIA

27.175

SFOLLATI PRESENTI NEL SUDAN 1.873.300 RIFUGIATI ACCOLTI NEL SUDAN RIFUGIATI

152.194

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI ERITREA

112.283

CIAD

32.220


La diga di Roseires

Nonostante la guerra e i 200mila profughi fuggiti dal Nilo azzurro verso Etiopia e Sud Sudan, la diga di Roseires è stata ultimata. Nel gennaio 2013 è stata inaugurata, alla presenza del Presidente Omar Hassan al Bashir, che nel suo discorso ufficiale ha auspicato che «l’energia e il potenziamento nelle capacità di irrigazione contribuiscano allo sviluppo della Regione». Per la precisione, si è trattato della ristrutturazione di una diga che c'era già, da 66 anni. Costata quattro anni di lavori realizzati da imprese cinesi e 460milioni di dollari, finanziati dalle monarchie del Golfo, la diga, lunga 25 chilometri, ha potenziato la sua capacità a 7,4miliardi di metri cubi all’anno. La Regione è tra le più povere del Paese (il 64% della popolazione vive sotto la soglia di povertà). Il progetto ha costretto al trasferimento più di 20mila famiglie della zona.

UNHCR

Pacificazione sul piano internazionale, tensioni all'interno del Paese. Il 2013 per il Sudan si è caratterizzato così. In primo piano i rapporti con la Repubblica del Sud Sudan, indipendente dal 2011. Mentre nel corso del 2012 si erano verificate tensioni fortissime tra i due Paesi, fino a un passo da una nuova guerra, il 2013 è stato l'anno della normalizzazione dei rapporti. La prima tappa importante è stato l'accordo raggiunto ad Addis Abeba sui dazi che il Governo di Juba deve versare a quello di Khartoum per il passaggio del suo greggio da esportare (la gran parte dei pozzi è rimasto al Sud – circa l'85% – ma gli oleodotti attraversano tutti il Nord). Il contenzioso sui dazi – che Juba riteneva esosi – aveva portato, all'inizio del 2012, alla decisione drastica del Governo sudsudanese di interrompere l'estrazione petrolifera (350mila barili al giorno). Una scelta che aveva condotto i due Paesi – entrambi dipendono largamente dall'industria petrolifera – sull'orlo del baratro economico. Blocco durato più di un anno: nel marzo 2013 si è chiusa la trattativa e sono riprese le attività estrattive. Ma non solo. Altri accordi, sempre in marzo, hanno riguardato la smilitarizzazione per una fascia di confine di 10 km, e l'impegno reciproco a non sostenere i gruppi di guerriglia presenti nel Paese vicino. Infine, ulteriori segnali di distensione sono stati, nel mese di aprile, l’apertura di 10 valichi lungo la frontiera comune e, il 9 settembre, l'arrivo a Khartoum del primo volo commerciale di una compagnia privata sudsudanese. Il Governo guidato da Omar El Bashir ha dovuto fronteggiare i focolai di conflitto e di protesta interna: accanto alle guerre civili nelle Regioni del Darfur, del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro (vedi “Per che cosa si combatte”), sono scoppiate violente manifestazioni di piazza, specie a fine settembre 2013, sia a Khartoum che in altre importanti città del Sudan (tra cui Wad Medani, El Obeid, Kosti, Nyala, Port Sudan). La ragione? La reazione contro le misure economiche di austerità messe in atto dal Governo, soprattutto il rincaro del carburante (conseguenza di lungo periodo della perdita di gran parte dei diritti delle estrazioni petrolifere dai pozzi rimasti al Sud Sudan), per appianare un deficit stimato in 2,4miliardi di dollari. La protesta di settembre, guidata dal Fronte rivoluzionario del Sudan (Srf, la nuova sigla che raggruppa i principali movimenti d'opposizione politica e

SUDAN

Generalità Nome completo:

Repubblica del Sudan

Bandiera

Lingue principali:

Arabo, i diversi gruppi etnici parlano oltre 400 lingue locali, inglese

Capitale:

Khartoum

Popolazione:

37.200.000

Area:

1.886.068 Kmq

Religioni:

Musulmani (60%, predominanti fra arabi e nuba, nelle regioni del Centro-Nord), cattolici (15,5%), arabi cristiani (1%), aderenti a religioni tradizionali (23,5%)

Moneta:

Sterlina sudanese

Principali esportazioni:

Petrolio e prodotti petroliferi, cotone, sesamo, arachidi, gomma arabica, zucchero, bestiame

PIL pro capite:

Us 2.549

armata del Paese), è stata la più importante manifestazione di dissenso politico nei 24 anni di potere di El Bashir. Seppure originata dalla crisi, si è subito allargata ai temi delle libertà civili e del rispetto dei diritti umani.

93

Situazione attuale e ultimi sviluppi


94

I conflitti in Darfur, nel Nilo azzurro e nel Sud Kordofan continuano senza sosta. Dimenticati dalla comunità internazionale e anche dai media. In Darfur – dove operano due principali gruppi ribelli: l'Esercito di liberazione del Sudan e il Jem (Movimento per la giustizia e l'uguaglianza) – nel corso del 2013 si sono ripetuti attacchi e nuove fughe di profughi civili. Nella Regione del Nilo azzurro, dov'è attivo l'Spla-N (Esercito popolare di liberazione del Sudan-Nord), è stata soprattutto Amnesty International a denunciare la distruzione di decine di villaggi (con almeno 150mila nuovi sfollati) da parte dei militari regolari sudanesi. Stesso copione sui Monti Nuba (Regione del Sud Kordofan): dal 2011 si susseguono i bombardamenti, i raid aerei, le incursioni dell’eser-

cito di Khartoum. Una repressione che presenta tragiche analogie con quelle del Darfur. La conseguenza di questi conflitti è l'afflusso costante di profughi che, sia dal Nilo azzurro sia dal Sud Kordofan, si sono riversati in Etiopia e soprattutto in Sud Sudan. Una situazione di costante emergenza umanitaria, resa ancora più difficile dallo scoppio del conflitto civile del dicembre 2013 nella nuova Repubblica meridionale. Per la martoriata popolazione dei Nuba, alla guerra si aggiunge l’assenza quasi totale di aiuti umanitari: il Governo sudanese ne ha per lungo tempo negato l’accesso. Solo a ottobre un accordo fra governo e ribelli ha consentito l'apertura di un corridoio umanitario per la vaccinazione dalla poliomielite di 160mila bambini nubiani.

Per cosa si combatte

La storia tardo coloniale e post-coloniale del Paese africano è stata sempre caratterizzata da conflitti, tensioni e violenze nelle diverse regioni del Paese. Una sequela ininterrotta di guerre civili che ne hanno segnato tutta la storia, tanto che si può affermare che il grande Paese africano non ha mai avuto periodi significativi di pace e stabilità. Dagli anni ‘50 è stato un continuo susseguirsi di colpi di Stato e di giunte militari. Anche l’attuale Presidente, Omar Hassan El Bashir, che guida il Paese dal 1989, è salito al potere con un golpe. Altrettanto costanti nel tempo sono state le tensioni e gli scontri armati fra il Nord del Paese, arabo e islamizzato, e il Sud, africano e cristiano-animista. Solo con la secessione delle Regioni meridionali e la nascita della Repubblica del Sud Sudan, avvenuta il 9 luglio 2011, questo interminabile conflitto si è chiuso, aprendone tuttavia altri, nei territori contesi degli Stati di Abyei, del Sud Kordofan, del Nilo Azzurro, ossia quegli Stati della federazione ai quali il Governo di Khartoum non ha consentito di scegliere attraverso l’autodeterminazione se rimanere con il Nord o passare nel nuovo Stato della Repubblica del Sud Sudan. La fase bellica più lunga e cruenta è stata sicuramente la guerra combattuta fra il 1983 e il 2003: i gruppi ribelli (guidati dalla più importante delle fazioni, l’Spla-Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese) si sono battuti per ottenere l’indipendenza dal Nord. Quello che non hanno ottenuto le armi, poi, l’ha fatto il petrolio: il bisogno crescente di greggio ha portato la comunità internazionale (Usa e Cina in testa) a moltiplicare le pressioni per il raggiungimento della pace, anche perché la maggior parte dei giacimenti si trovavano nella zona di confine fra il Nord e il Sud del Paese (e ora, con la divisione in due seguita alla secessione, l’85% dei giacimenti è rimasto nel territorio del nuovo Stato, nel Sudan meridionale). La fine del conflitto sudanese, fortemente vo-

luta dai Paesi industrializzati e ottenuta con gli Accordi generali di pace del 2005, ha portato in breve tempo allo sviluppo delle infrastrutture per l’industria estrattiva e all’assegnazione di molte concessioni petrolifere (in gran parte accaparrate dalla Cina), tanto che alla vigilia della divisione dei due Stati il petrolio costituiva l’80% delle esportazioni del Paese. Ma con la nascita della Repubblica del Sud Sudan sono sorti nuovi problemi: il grosso dei giacimenti è rimasto nel Sud, ma le infrastrutture sono rimaste al Nord. Inoltre, fra i due Stati si sono dovuti ridiscutere il sistema delle divisioni delle royalties e gli accordi per l’utilizzo da parte del Sud Sudan degli oleodotti che attraversano le Regioni del Nord. Problemi, questi ultimi, che hanno provocato la gran parte delle tensioni e degli scontri armati lungo la frontiera fino al momento in cui sono stati raggiunti gli accordi del marzo 2013. Sul piano internazionale, il Governo sudanese ha da molti anni rapporti non facili con l’Europa e con la gran parte dei Paesi industrializzati

Quadro generale

UNHCR/P. Wiggers


Hassan El Bashir

(Hosh Bannaga, 1 gennaio 1944) UNHCR/ V.Tan

Referendum Abyei

È una piccola Regione. È la più contesa fra Khartoum e Juba. È la matassa più intricata e ancora irrisolta nei rapporti fra i due Paesi. È, ovviamente, una questione di petrolio. Si tratta di Abyei, un territorio incastonato fra i confini del Sudan e del Sud Sudan, che gode di uno statuto speciale stabilito dagli accordi di pace del 2005, in base al quale i suoi abitanti hanno autonomia decisionale. Abyei è ricchissimo di greggio, e di quello buono. La popolazione avrebbe dovuto esprimersi col referendum già nel 2011, contestualmente alle Regioni meridionali per decidere sulla secessione, per scegliere se stare col Nord o con il Sud. Non ebbe luogo allora, e neppure nei due anni seguenti. Le pressioni degli Stati Uniti, dell'Onu, dell'Unione Africana a fissare il voto non sono finora valse a nulla, e nemmeno i tentativi di mediazione cinese, che per via del petrolio e delle altre materie prime intrattiene stretti rapporti con entrambi i Paesi: il referendum è bloccato per via del disaccordo su chi deve votare. La Regione di Abyei è abitata in prevalenza da Dinka Ngok, favorevoli all'adesione al Sud Sudan, ma anche da una minoranza di Misseriya, etnia araba legata invece a Khartoum, e da un milione di pastori seminomadi, anch'essi Misseryia, che vi soggiornano stagionalmente. Ecco perché il punto nodale è su chi vota: se solo i residenti Abyei passa col Sud, se anche i pastori non stanziali va con il Nord. Perciò il referendum continua a slittare. Nell'ottobre del 2013 era stata fissata l'ennesima data. Ma è stata rinviata ancora. I dinka ngok hanno deciso di votare lo stesso, organizzando autonomamente la consultazione (e i Misseriya hanno disertato le urne): hanno vinto col 99,9% i “sudisti”. Ma il voto non è stato riconosciuto da nessuno e la questione-Abyei resta sospesa.

occidentali. Con gli Stati Uniti, le relazioni sono state a lungo molto tese, specie dopo il 2001, quando l’intelligence americana appurò che Osama bin Laden era stato protetto a Khartoum per lunghi periodi, e in tutta la prima fase della guerra del Darfur, per le accuse di genocidio da parte americana nei confronti del governo sudanese. I forti contrasti fra Washington e Khartoum si

I PROTAGONISTI

erano attenuati nella fase precedente al referendum per la secessione del Sud, e in tutta la fase seguente fino alla proclamazione dell’indipendenza dello Stato di Juba. Nel 2012 e nei primi mesi del 2013 le tensioni fra i due Paesi sono nuovamente cresciute, in coincidenza con le dispute sul confine fra Nord e Sud Sudan e con la questione del “pedaggio” che Juba doveva pagare a Khartoum per utilizzarne gli oleodotti (lo Stato meridionale ne è privo, perché all'epoca del Sudan unito il greggio estratto nel Sud veniva esportato con pipeline che attraversavano il Nord del Paese).

95

In barba ai mandati di cattura del Tribunale penale internazionale (Tpi) Omar Hassan El Bashir continua tranquillamente a governare il Sudan. Ha vinto le (dubbie) elezioni dell’aprile 2010 col 69% dei voti, con punte di consenso dell’85% in alcune Regioni del Nord. El Bashir guida il Paese dal 1989, quando conquistò il potere con un golpe. Ha governato da sempre col pugno di ferro, arrestando gli oppositori e spegnendo nel sangue le rivolte scoppiate negli anni nel Paese. Nel marzo 2009, però, in relazione a quanto accaduto nel Darfur, il Presidente sudanese è stato incriminato dal Tpi per diversi gravissimi reati, compresi genocidio e crimini contro l’umanità. Nel luglio 2010 il Tribunale ha spiccato un secondo mandato di cattura per genocidio. Ma nonostante ciò il Presidente sudanese continua a godere dell’appoggio di Cina, Russia e di molti Paesi africani. Le accuse del Tpi parlano di prove della responsabilità diretta nel massacro di 35mila persone, oltre alla lunga lista di violazioni dei diritti umani. Ma i suoi “difensori” – Cina in testa, primo partner commerciale – parlano di “gestione politica” della Corte internazionale, che accusa il governo sudanese ma ignora i crimini commessi dai Paesi occidentali in altri contesti, come ad esempio in Iraq e in Afghanistan.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL SUD SUDAN RIFUGIATI

87.009

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI ETIOPIA

58.715

KENYA

16.774

UGANDA

11.135

SFOLLATI PRESENTI NEL SUD SUDAN 345.670 RIFUGIATI ACCOLTI NEL SUD SUDAN RIFUGIATI

202.581

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SUDAN

176.834

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

18.296

ETIOPIA

5.891


Povertà, analfabetismo, salute negata

Decenni di schiavizzazione e 20 anni di guerra hanno mantenuto la popolazione del Sud Sudan (circa 10milioni di abitanti) in una condizione di estrema povertà e ignoranza. I problemi con cui il Governo deve ora fare i conti sono tanti: l’accesso all’acqua potabile, il sistema sanitario quasi inesistente, l'analfabetismo. L’84% delle donne è analfabeta, solo il 12% dei bambini conclude il ciclo delle scuole elementari (e meno del 10% delle bambine), fra i 6 e i 17 anni solo il 30% dei ragazzi sa leggere e scrivere. Nel Paese c’è soltanto il 15% dei docenti di cui ci sarebbe bisogno. Ma è sul versante della salute che il Paese ha gli indicatori peggiori. La percentuale di mortalità materna, ad esempio, è la più alta al mondo e appena il 5% dei parti è seguito da staff sanitari specialistici. Solo un minore su quattro è vaccinato contro il morbillo, e la mortalità infantile (sotto i 5 anni) è di 380 casi ogni 1000 nascite.

UNHCR/B. Sokol

Almeno un migliaio di morti, 200mila sfollati che hanno abbandonato le proprie case, 10mila rifugiati oltre confine. Questo è il bilancio dei violentissimi scontri che hanno squassato il Sud Sudan nella seconda metà di dicembre 2013. Nel momento in cui l'Atlante va in stampa, gli scontri sul campo continuano, in sette dei dieci Stati che costituiscono la Repubblica sudsudanese, e sono in corso i primi colloqui di pace ad Addis Abeba per arrivare a un “cessate il fuoco”. Le violenze sono scoppiate il 15 dicembre, quando il Presidente Salva Kiir ha accusato Riek Machar (vicepresidente del Paese fino al 23 luglio 2013) di aver ordito un colpo di Stato. Accusa sempre negata da Machar, che viceversa aveva denunciato la volontà di Kiir di volersi sbarazzare degli avversari politici. La guerra di dicembre è stato l'ultimo atto di una lunga crisi politica, iniziata nel giugno 2013, quando il Presidente aveva dapprima sospeso dalle funzioni due ministri del Governo, poi (il 10 luglio) aveva rimosso il governatore dello Stato di Unity con l'accusa di aver violato la costituzione provvisoria. Infine, il 23 luglio, a sorpresa Kiir aveva annunciato la deposizione anche del vicepresidente Machar, del segretario del partito al potere Pagan Amun – dell'influente, seppure minoritaria, etnia Shilluk – e dell'intero Governo (al posto di Machar, il Presidente ha in seguito nominato James Wani Igga, ex comandante ribelle dell’Spla e Presidente del Parlamento dal 2005). Fortissime le pressioni della comunità internazionale perché il Sud Sudan non ripiombi nella guerra civile: l'appello alla tregua è venuto dall'Unione Africana, dalle Nazioni Unite e anche dall'Unione Europea. Gli scontri hanno esasperato una situazione umanitaria già pesantissima: ai 210mila profughi già presenti nel territorio del Sud Sudan, in poco più di 15 giorni si sono aggiunti altri 200mila sfollati, decine di migliaia dei quali – secondo i dati forniti dall'Onu – si sono rifugiati presso le basi dell’Unmiss (la missione delle Nazioni Unite per il Sud Sudan) nelle città di Juba, Bor, Bentiu, Malakal e Pariang.

SUD SUDAN

Generalità Nome completo:

Repubblica del Sudan del Sud

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Inglese (ufficiale), arabo (ufficiale), denka, nuer, zande, bari, shilluk

Capitale:

Juba

Popolazione:

10.625.000

Area:

619.745 Kmq

Religioni:

Cristiana, religioni tradizionali africane, islam

Moneta:

Sterlina sud-sudanese

Principali esportazioni:

Petrolio (98% del budget dello Stato)

PIL pro capite:

1.120

«Siamo stati testimoni di terribili atti di violenza, di uccisioni, brutalità e atrocità senza precedenti su base etnica oltre che di gravi violazioni dei diritti umani», ha denunciato la rappresentante speciale dell’Onu in Sud Sudan, Hilde Johnson. Naturalmente le violenze hanno reso molto più difficile l'intervento umanitario in tutto il Paese. Ancora nei primi giorni di gennaio 2014 venivano segnalati accesi combattimenti in corso sui fronti di Bor (capoluogo dello Stato del Jonglei, a 120 km dalla capitale Juba), Mayom e Malakal.


nistratori del Paese, a tutti i livelli, devono la propria carica non a competenza o a capacità di gestione politica, ma semplicemente al fatto di essere ex capi del movimento di ribellione. Infine, va sottolineato che il disaccordo fra Kiir e Machar cresceva da tempo, e quest'ultimo aveva reso sempre più esplicita l'intenzione di contrapporsi al presidente in carica alle elezioni del 2015. Nella fase delicatissima che vivrà il Paese nel 2014, avranno un ruolo cruciale le chiese cristiane del Paese: i leader religiosi, fin da subito, hanno denunciato la strumentalizzazione della questione etnica per scopi di potere: «Quello che è accaduto», hanno scritto rivolgendosi all'opinione pubblica, «non deve essere descritto come un conflitto etnico. Vi sono piuttosto contrasti politici tra il Sudan People’s Liberation Movement e i leader politici del Sud Sudan».

Per cosa si combatte

98

Alla base del conflitto ci sono divisioni etniche antiche, ma anche l’incapacità del Governo di rispondere ai gravissimi problemi del Sud Sudan. Quanto alle questioni tribali, fin dall'indipendenza era evidente il venir meno del “collante” che aveva tenuto insieme i diversi gruppi: la lotta al comune nemico Khartoum e la forza carismatica di John Garang. La nascita del nuovo Paese ha messo ha fatto emergere fin da subito la volontà dei dinka (l'etnia maggioritaria) di mantenere il controllo del potere. Al punto che non pochi membri degli altri gruppi – specie i nuer – hanno vissuto la supremazia dinka in campo militare e amministrativo quasi come una forza di occupazione. Del resto, anche la transizione dell'Spla da movimento armato di liberazione a partito politico è tuttaltro che terminata, e molti degli ammi-

UNHCR/E.Denholm

La Repubblica del Sud Sudan è la più giovane nazione africana. È nata ufficialmente il 9 luglio 2011, quando è stata proclamata a Juba, la capitale, l’indipendenza dal Sudan. È il 54° Stato dell’Africa e il 193° delle Nazioni Unite. La secessione dal regime di Khartoum è stata conquistata col sangue: quasi mezzo secolo di guerre, delle quali l’ultima è durata ben 22 anni: dal 1983 al 2005. Il trattato di pace che ha chiuso il conflitto aveva anche fissato le tappe successive: un periodo di transizione di cinque anni, nei quali il Sud avrebbe goduto di ampia autonomia e il referendum per l’autodeterminazione, svoltosi il 9 gennaio 2011, nel quale il 98,83 per cento dei votanti si è espresso a favore della secessione. Il neonato Paese africano ha la libertà, ma poco altro. È ancora alle prese con le ferite profonde dei decenni di guerra civile che hanno opposto il Nord arabo e musulmano e il Sud, africano e

cristiano-animista, non solo per ragioni religiose ed etniche, ma anche per l’iniqua distribuzione delle ricchezze nazionali e degli investimenti da parte dei governi di Khartoum. Il conflitto, aggravato da prolungate carestie, ha causato due milioni di morti e quattro di rifugiati e sfollati. Ma anche la distruzione quasi totale delle infrastrutture: scuole, strade, ponti, ospedali. Oltre alle enormi carenze dello stato sociale, nella sua breve storia il Sud Sudan ha dovuto affrontare diverse crisi umanitarie. La prima delle quali legata al rientro in massa di 350mila sudsudanesi che durante la guerra erano emigrati nelle regioni del Nord e che sono rientrate in patria con l’indipendenza. Inoltre, nel 2012, erano scoppiati scontri etnici in diverse aree del Paese (proseguiti anche nel 2013), il più grave dei quali aveva provocato migliaia di morti nella Regione del Jonglei, con

Quadro generale


Salva Kiir Mayardit (Bahr el Ghazal, 13 settembre 1951)

Riek Machar

È l'altro protagonista dello scoppio di guerra civile della fine dicembre 2013: Riek Machar Teny, 60 anni, è il leader influente dei nuer, il secondo gruppo etnico del Paese (circa un milione di persone) dopo i Dinka (4milioni). Machar è originario dello Stato petrolifero di Unity. È una figura controversa: durante i 20 anni di guerra sudanese (1983-2003) ha combattuto sia con il movimento di liberazione dell'Spla sia nelle file dell’esercito di Khartoum. Nel periodo in cui militò col Nord è stato accusato di essere responsabile del massacro dei dinka avvenuto a Bor nel 1991, motivo per cui è sempre stato guardato con sospetto dalla maggioranza dinka. In seguito è rientrato con l'Spla, e nel 2005 è stato fra i firmatari degli accordi di pace che hanno messo fine al lungo conflitto. Fino al luglio 2013 Machar è stato vicepresidente della Repubblica del Sud Sudan, deposto da Salva Kiir pochi giorni dopo il suo annuncio di volersi candidare alla presidenza del Paese nelle elezioni del 2015.

99

Salva Kiir Mayardit è l’uomo che ha pronunciato la fatidica formula che proclamava l’indipendenza del Sud Sudan e la nascita del nuovo Stato. Ne è quindi il primo, e finora unico, Presidente. Nato a Bahr al Ghazal il 3 ottobre 1951, è uno dei fondatori dell’Splm, il Movimento Popolare di Liberazione Sudanese, del quale guidò per lungo tempo l’ala armata. Ma è anche l'uomo che destituendo l'intero Governo, il 23 luglio 2013, ha innescato il processo che ha portato alla crisi della seconda metà di dicembre. Kiir, il 26 aprile del 2010 aveva vinto (col 93% dei consensi) le elezioni nel Sudan del Sud, diventando, allora, Presidente dello Stato semiautonomo delle regioni Meridionali e vicepresidente del Sudan. È cristiano e appartiene all’etnia dinka, maggioritaria nel Sudan Meridionale. È considerato l’erede di John Garang, il leader storico della lotta per i diritti del Sud, morto nel 2005 – poco tempo dopo la firma dell’accordo di pace – in un incidente mai del tutto chiarito. Rispetto a Garang, Kiir è considerato di idee più radicali. Mentre Garang era favorevole all’ipotesi di uno Stato federato con il Nord, Kiir ha sempre sostenuto l’indipendenza da Khartoum.

UNHCR/M.Pearson

decine di migliaia di sfollati. Altre emergenze umanitarie si erano verificate nel Sud-Ovest, lungo il confine col Centrafrica a causa delle incursioni del gruppo ribelle del Lra (Esercito di resistenza del Signore). E, ancora, lungo il confine Nord, per via degli scontri fra l’esercito di Khartoum e i gruppi armati del Sud Kordofan e del Blue Nile, due Regioni le cui popolazioni non hanno potuto votare per l’autodeterminazione, pur avendo combattuto con l’Spla (l’Esercito di liberazione del Sud Sudan) la guerra per l’indipendenza, e scegliere di far parte del nuovo Stato meridionale. Gli scontri dei suoi primi due anni di vita avevano già spinto alla fuga oltre 200mila profughi oltre confine. Quanto alla situazione economica del Paese, dipende totalmente dal petrolio (costituisce il 98% delle entrate delle Stato). L’85% delle riserve di greggio, con la scissione in due del grande Sudan è rimasto al Sud. La capacità di estrazione è di circa 350mila barili al giorno. Ma i soli oleodotti utilizzabili, realizzati prima

I PROTAGONISTI

dell’indipendenza, sono quelli che attraversano il Nord. Il contenzioso sul “diritto di passaggio”, per il quale Khartoum esigeva un prezzo salatissimo, ha portato il Governo del Sud a interrompere le estrazioni, dal gennaio 2012 fino al marzo 2013, quando sono riprese a seguito di un nuovo accordo con Khartoum. Ma quell'anno e più senza introiti del greggio ha precipitato il già poverissimo Paese in una profonda crisi economica, che ha costituito una delle premesse al rigurgito di guerra civile della fine del 2013. Se da un lato la prima metà dell'anno aveva salutato i risultati positivi degli accordi con Khartoum (quello, appunto, sui dazi per l'uso degli oleodotti del Nord; ma anche quello sulla smilitarizzazione del confine per una fascia di 10 km) e della conseguente normalizzazione dei rapporti col governo di Omar El Bashir, sul piano interno il Sud Sudan si è progressivamente avvitato nella crisi politica, sfociata a fine 2013 in scontro armato vero e proprio che ha messo a nudo tutta la fragilità della leadership sudsudanese e degli equilibri tra le diverse etnie, ma anche tra le differenti “anime” dell'Splm (vedi “Gli ultimi sviluppi”).


100

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL’UGANDA RIFUGIATI

5.572

RIFUGIATI ACCOLTI NELL’UGANDA RIFUGIATI

197.877

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

127.021

SOMALIA

19.000

RWANDA

14.684


Omosessualità perseguitata

L’Uganda è considerato il Paese “più omofobo al mondo”. Una legge del 2009 propone l’introduzione di misure estreme nei confronti delle persone lgbt (acronimo che indica lesbiche, gay, bisessuali, transessuali). Crea poi l’obbligo di denuncia alla polizia da parte di chiunque sia a conoscenza dell’omosessualità di una persona, il divieto di attività che possano in qualunque modo promuovere l’omosessualità, fino ad arrivare alla pena di morte per alcuni casi di omosessualità, come ad esempio quando l’arrestato è considerato recidivo o è sieropositivo.

UNHCR/F. Noy

La sconfitta dei ribelli del gruppo M23, nella vicina Repubblica Democratica del Congo, ha riportato un po’ di tranquillità, sul piano militare, in Uganda. Gli scontri, concentrati nelle Regioni congolesi del Kivu, hanno interessato proprio il confine con l’Uganda, dove dall’inizio 2012, secondo i dati dell’Alto commissariato per i Rifugiati dell’Onu, sarebbero oltre 40mila i rifugiati congolesi in fuga. Ma per un problema che pare risolto, altri ne emergono o si confermano. In ottobre, l’ambasciata Usa a Kampala ha lanciato un’allerta per gli americani nel Paese: sulla base di informazioni di intelligence, temevano un attacco tipo “Westgate”, il centro commerciale keniano distrutto da terroristi islamici. La tensione è stata alta. Gli Stati Uniti, d’altro canto, sono una presenza forte in Uganda, proprio sul piano militare. Nel settembre 2013, le forze Usa stanziate nel Paese hanno effettuato, insieme a truppe Sud Sudanesi, la loro prima missione militare. Hanno usato droni da combattimento per scovare il nascondiglio di Joseph Kony, capo del Lord’s Resistence Army (Lra), il gruppo ribelle ugandese che per circa 20 anni ha seminato il terrore in Uganda, Congo, Sud Sudan e nella Repubblica Centrafricana. Su di lui Washington ha posto una taglia di 5milioni di dollari e il Tribunale Internazionale lo insegue con un mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità. Kony sarebbe rifugiato nella Repubblica Centrafricana, per sfuggire alla caccia che gli sta dando una vera e propria forza multinazionale formata da militari di Uganda, Sud Sudan e Congo. Avrebbe fatto filtrare la voce di voler trattare la resa, ma pochi sono disposti a crederci: difficile che riesca ad ottenere l’amnistia per i crimini

UGANDA

Generalità Nome completo:

Repubblica di Uganda

Bandiera

101

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Inglese, Swahili

Capitale:

Kampala

Popolazione:

36.350.000

Area:

241.040 Kmq

Religioni:

Cattolica, protestante, animista, musulmana

Moneta:

Scellino Ugandese

Principali esportazioni:

Quasi nulle, se si eccettua il caffè

PIL pro capite:

Us 1.424

imputati e dopo aver trasformato migliaia di bambini in soldati. Ai problemi militari vanno sommate le questioni politiche. A settembre del 2013, 160mila docenti pubblici sono scesi in sciopero, denunciando i problemi della scuola: edifici fatiscenti e privi di servizi, classi composte da oltre cento allievi e stipendi da fame. Intanto l’inflazione galoppa: più 43% il prezzo degli alimenti in un anno. Gli aiuti internazionali sono bloccati dalla troppa corruzione. L’accusa viene rivolta direttamente al Presidente Yoweri Museveni: userebbe gli aiuti internazionali come cassa privata, per pagare i politici e ottenere consenso.


Il petrolio recentemente scoperto in Uganda – giacimenti per due miliardi e mezzo di barili - sta suscitando grandi appetiti: potrebbe diventare la causa futura di conflitti e scontri. Comunque sia, da sempre sono ragioni economiche – il controllo delle risorse – ad alimentare le guerre ugandesi. Riguardo ai giacimenti, gli attivisti ugandesi per la giustizia ambientale protestano contestando gli accordi per la suddivisione della produzione - i cui dettagli non sono stati resi noti - siglati dal Governo di Kampala con le

grandi multinazionali straniere. Le royalties corrisposte allo Stato ugandese sarebbero, secondo le denunce degli attivisti, troppo basse, così come troppo morbide e compiacenti sarebbero le norme in materia di sicurezza e quelle ambientali. In questo scenario la futura stabilità del Paese dipenderà da come verranno utilizzati i proventi del petrolio. Se cioè costituiranno un vero motore per lo sviluppo, oppure andranno a soddisfare gli appetiti di pochi, innescando una spirale di proteste e violenze.

Per cosa si combatte

Minigonna vietata

In Uganda le donne non possono usare la minigonna. Lo ha deciso il Governo nel 2011, con la legge anti-pornografia. È una legge che blocca, fra le altre cose, anche la pubblicazione di siti su Intenet, multando con 10milioni di scellini ugandesi o incarcerando chi favorisce la diffusione di immagini per adulti. Per quanto riguarda le donne e le minigonne, la legge – voluta dal ministro di Stato per l'Etica e Integrità dell'Uganda, Simon Lokodo, ex sacerdote – stabilisce che "qualsiasi abbigliamento che espone parti intime del corpo umano, in particolare le aree di stimolazione erotica, è fuorilegge. Qualsiasi cosa sopra il ginocchio è fuori legge. Se una donna indossa una minigonna, ci sarà il suo arresto".

102

UNHCR/F. Noy

Il destino dell’Uganda è simile a quello di molti altri Paesi africani: indipendenza, colpi di stato, guerre e nuovamente pace e poi ancora disordini. Negli anni Cinquanta inizia il processo di democratizzazione che sfocia il 9 ottobre del 1962 nell’indipendenza. La Costituzione preve-

deva un sistema semi federale, con sufficiente spazio per le élite politiche tradizionali. Ma gli equilibri si rompono rapidamente. La convivenza tra il re del Buganda, primo Presidente del Paese, e il suo primo Ministro, Milton Obote, un “Lango” del Nord, dura poco. Nel 1966

Quadro generale

UNHCR/V. Vick


Idi Amin Dada

(Koboko, 17 maggio 1925 – Gedda, 16 agosto 2003)

UNHCR/F. Noy

Uganda – Israele, accordo per la deportazione

Nell’estate del 2013, il Presidente ugandese Yoweri Museveni e il Governo israeliano hanno firmato un accordo che consentirà a Tel Aviv di deportare oltre 50mila clandestini eritrei e sudanesi in Uganda. Il ministro degli Interni israeliano, Gideon Sa'ar, ha spiegato che in un primo momento le forze dell'ordine coordinate dal personale del ministero cercheranno di convincere i migranti a lasciare il Paese in modo volontario. Poi si procederà all'espulsione non solo per i clandestini, ma anche per quei rifugiati in possesso del permesso di soggiorno. Cosa ci guadagna l’Uganda? "In cambio dell'ospitalità" Israele offrirà al Governo di Kampala fondi per l'agricoltura, l'istruzione e la modernizzazione dell'esercito. Associazioni per i diritti umani accusano i due Governi di promuovere una tratta degli schiavi.

Obote prende d’assalto il palazzo presidenziale. Inizia così una lunga serie di colpi di stato, di atrocità e di conflitti etnici. Idi Amin Dada, capo di stato maggiore dell’esercito di Obote, consolida la sua posizione, che poi usa contro lo stesso Presidente. Nel 1971 prende il potere e governa con mano pesante e con un utilizzo spietato dell’esercito. Il dittatore Amin teme il predominio degli Acholi e dei Lango nell’esercito e così da vita a una delle più sanguinarie persecuzioni con uccisioni di massa. Nazionalizza le attività commerciali britanniche ed espelle la popolazione asiatica. Cresce, contemporaneamente, la tensione tra Uganda e Tanzania, rea di aver ospitato Obote e alla fine degli anni ’70 inizia la guerra ugandese-tanzaniana. Nel 1979 i tanzaniani, anche con il sostegno dell’Esercito di liberazione nazionale dell’Uganda (Unla), prendono la capitale Kampala e nel 1980 torna al potere Obote. Di nuovo vendette e atrocità.

I PROTAGONISTI

Yoweri Museveni, attuale Presidente dell’Uganda, fonda l’Esercito di Resistenza Nazionale (Nra) e inizia la guerriglia. Obote risponde con uccisioni di massa. Tre anni di scontri che sfociano nella presa del potere da parte di Museveni. È del 1995 l’approvazione di una nuova Costituzione che rinvia al 2001 il passaggio al multipartitismo, avvenuto grazie a una consultazione referendaria nel 2005. Museveni viene eletto nel 1996, rieletto nel 2001. Nonostante il potere sia saldo nelle sue mani, il Presidente ugandese deve far fronte a vent’anni di guerra civile combattuta contro l’Lra guidato dalla follia di Joseph Kony, che ha come obiettivo quello di prendere il potere e governare secondo i dieci comandamenti. Musevani interviene nella guerra della Repubblica democratica del Congo, nel 1996, prima a fianco di Laurent Desirè Kabila, in chiave anti Mobutu, e poi dal 1998 al 2003 appoggiando i gruppi ribelli del Paese. Grazie a una riforma costituzionale del 2005, Museveni vieni rieletto per la terza volta nel 2006, anno in cui avvia i negoziati di pace con l’Lra, e poi, per la quarta volta, nel 2011.

103

È stato un politico e militare ugandese. Il suo nome completo era Idi Oumee Amin Dada e fu Presidente dell'Uganda dal 1971 al 1979. È passato alla storia come uno dei peggiori criminali contro l’umanità. Diventato Presidente con un colpo di stato, ha governato perseguitando razzialmente Acholi, Lango, Indiani e altri gruppi inclusi induisti e cristiani dell'Uganda. Amnesty International calcola siano state almeno 500mila le sue vittime. Si auto-conferì il titolo di "Sua Eccellenza il Presidente a vita, Feldmaresciallo Al Hadji Dottor Idi Amin, Signore di Tutte le Bestie della Terra e dei Pesci del Mare e Conquistatore dell'Impero britannico, in Africa in Generale e in Uganda in Particolare". Nell'ottobre del 1978 , con l’aiuto di truppe libiche, ordinò l'invasione della Tanzania. Fu un disastro. L’esercito della Tanzania contrattaccò arrivando a Kampala: le perdite totali dell'esercito tanzaniano furono di un carro armato. L'11 aprile 1979, Amin dovette abbandonare la capitale. Andò in esilio, inizialmente in Libia, poi in Iraq e in Arabia Saudita. Nel 1989, tentò di rientrare con la forza in Uganda, ma venne fermato. Morì in Arabia Saudita il 16 agosto 2003.


Inoltre Etiopia "Il Pil cresce, i diritti umani no. Ancora arresti per oppositori e giornalisti".

104

La novità più rivelante in Etiopia è stata la manifestazione organizzata, nel novembre 2013, dal partito d’opposizione Semayawi (Partito Blu). Migliaia di persone sono scese in piazza ad Addis Abeba per protestare contro il regime guidato dal Fronte Democratico Rivoluzionario d’Etiopia (Eprdf), al potere dal 1996. Le manifestazioni di opposizione sono cosa assai rara in Etiopia, e quella di novembre 2013 è la prima dal 2005, quando centinaia di manifestanti scesi in strada per denunciare brogli elettorali furono uccisi dalle Forze dell’Ordine. Il Partito Blu chiedeva attraverso la protesta, il rilascio di giornalisti, attivisti e oppositori detenuti nelle carceri e una presa di posizione seria del Governo contro la disoccupazione e la crescita di inflazione e corruzione nel Paese. Secondo quanto riportato dall’Agenzia di Stampa Misna, i partecipanti alla manifestazione hanno potuto sfilare pacificamente nel centro della capitale. Circostanza che ha fatto pensare ad un tentativo del nuovo primo Ministro etiope, Hailamariam Desalegn, succeduto a Meles Zenawi (in carica ininterrottamente dal 1996 al 2012, anno della sua morte) di mostrare maggiore apertura verso le opposizioni. Ipotesi smentita però da numeri e statistiche che parlano di un Paese dove le violazioni dei basilari diritti umani sono all’ordine del giorno. Nonostante tassi di crescita economica tra i più alti di tutto il continente africano, le organizzazioni internazionali per i diritti umani accusano le autorità etiopi di aver approvato, nel 2009, una legge antiterrorismo che permette di fatto al Governo di reprimere, con arresti e detenzioni arbitrarie, qualunque forma di opposizione o critica al reAlessandro Piccioli

Alessandro Piccioli

gime. Secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti 75 pubblicazioni sono state chiuse dal regime negli ultimi 20 anni, 7 giornalisti sono tuttora in carcere e gli arresti, con accuse di terrorismo platealmente infondate, sono frequenti. È quanto accaduto a Eskinder Nega, giornalista, vera e propria spina nel fianco del potere. Negli ultimi venti anni Eskinder è stato imprigionato sette volte, rischiando anche la pena di morte. Nel 2005, a seguito delle proteste scaturite all’indomani delle elezioni, è stato arrestato con l’accusa di tradimento insieme alla moglie Serkalem Fasil che ha poi dato alla luce, in detenzione, il figlio Nafkot. Il 13 luglio 2012 Eskinder è stato condannato a 18 anni di prigione proprio grazie alla legge antiterrorismo approvata dal Governo etiope e il 2 maggio 2013 la Corte suprema federale ha confermato la condanna a suo carico. Nel settembre 2013 il giornale britannico The Guardian ha pubblicato un suo articolo nel quale il giornalista ha tirato in ballo direttamente l’Unione Europea, chiedendo apertamente di applicare sanzioni mirate nei confronti dell’Etiopia. Intanto continua ormai da anni lo scontro interno tra il Governo di Addis Abeba e i ribelli attivi nella Regione dell’Ogaden. Quello tra l’esercito regolare e l’Onlf (Ogaden National Liberation Front) è uno dei conflitti più lunghi del Corno d’Africa. Sono inoltre proseguiti gli scontri tra l’esercito etiope anche nelle Regioni di Somali, Oromia e Afara. Sul fronte internazionale inoltre, le forze etiopi hanno continuato a condurre operazioni militari in Somalia e hanno compiuto incursioni in Eritrea, accusata di appoggiare gruppi ribelli attivi nel Paese.


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COPYRIGHT BY AKADEMISCHE VERLAGSANSTALT, FL-9490 VADUZ, AEULESTRASSE 56 CARTOGRAFIA: FRANZ HUBER, MÜNCHEN d i

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QUESTA PROIEZIONE EQUIVALENTE É BASATA SULLA RETE GEOGRAFICA DECIMALE DI ARNO PETERS. ESSA SPOSTA IL MERIDIANO ZERO SULLA LINEA RETTIFICATA DEL CAMBIAMENTO DI DATA - INDICATA CON IL PUNTEGGIO - E SUDDIVIDE LA SUPERFICIE TERRESTRE IN 100 RETTANGOLI LONGITUDINALI DI UGUALE LARGHEZZA E IN 100 RETTANGOLI LATITUDINALI DI UGUALE ALTEZZA. CON QUESTA PROIEZIONE SI OTTENGONO NELLA FASCIA EQUATORIALE RETTANGOLI VERTICALI CHE SI TRASFORMANO, AVVICINANDOSI AI POLI, IN QUADRATI E POI IN RETTANGOLI ORIZZONTALI. LE COORDINATE DELLA NUOVA RETE SI TROVANO AI MARGINI DELLA CARTA ACCANTO ALLE COORDINATE TRADIZIONALI.

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America

A cura di Amnesty International

Stampa e giornalisti sempre nel mirino Vi sono stati limitati progressi nella lotta all’impunità. Le ampie violazioni dei diritti umani del passato, e l’assenza di misure per chiamare i responsabili a risponderne di fronte alla giustizia, hanno gettato una lunga ombra su molti Paesi della Regione. Tuttavia, alcuni emblematici procedimenti giudiziari in Argentina, Brasile, Cile e Uruguay hanno fatto compiere significativi passi avanti alla richiesta di giustizia per le violazioni commesse sotto le giunte militari del passato. Ad Haiti l’ex “Presidente a vita”, Jean-Claude Duvalier è comparso in giudizio per rispondere alle accuse di violazioni dei diritti umani. Il suo processo ha dato un barlume di speranza alle vittime e ai familiari di coloro che subirono esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e torture durante la sua presidenza. In Guatemala, l’ex Presidente militare Ríos Montt è stato condannato per genocidio e crimini contro l’umanità ma la condanna è stata annullata dalla Corte costituzionale per una questione procedurale. Negli Usa, ben pochi passi avanti sono stati fatti per portare in giudizio i responsabili degli

abusi commessi nel contesto del programma di detenzioni segrete della Cia durante l’amministrazione Bush. L’amministrazione Obama è sembrata molto più incline, invece, ad accanirsi contro chi ha reso note violazioni dei diritti umani, come Chelsea (all’anagrafe Bradley) Manning, o metodi illegali di controllo, come Edward Snowden. A Guantánamo, decine di detenuti hanno effettuato un lungo sciopero della fame per protestare contro le continue vessazioni e l’incertezza sul futuro. Il Presidente Barack Obama ha reiterato la sua promessa di chiudere il centro di detenzione ma cinque anni dopo la prima circostanza in cui la espresse, 166 persone si trovano ancora all’interno del centro. Qualche progresso è stato registrato nel campo della pena di morte. Negli Usa, il solo Paese della Regione in cui si eseguono condanne a morte, il Maryland è diventato il 18° stato abolizionista. Nei Paesi anglofoni dei Caraibi hanno continuato a essere emesse condanne a morte ma non vi è stata alcuna esecuzione. I conflitti sociali sulle risorse naturali, e gli attacchi ai diritti umani a essi collegati, si sono intensificati in molti Paesi. Tuttavia, il riconoscimento dei diritti dei popoli nativi ha ottenuto un grande impulso da sentenze giudiziarie che hanno riaffermato il loro diritto al consenso libero, preventivo e informato sui progetti di sviluppo che li riguardino. In Brasile, le proteste contro l’aumento dei prezzi e gli sprechi collegati all’organizzazione di eventi sportivi in-


ternazionali sono state affrontate con un ampio ricorso alla forza eccessiva. La violenza contro le donne è rimasta un grave problema. In tutta la Regione, sono proseguite le campagne contro la discriminazione e la violenza e per il pieno riconoscimento dei diritti sessuali e riproduttivi. Milioni di donne non hanno potuto esercitare il loro diritto a prendere decisioni libere e informate in tema di maternità. In paesi quali Cile, El Salvador, Nicaragua e Repubblica Dominicana, donne e ragazze rimaste incinte a seguito di uno stupro o la cui vita era posta a rischio dalla gravidanza non hanno avuto accesso a servizi sicuri e legali di aborto. L’impatto di questa negazione dei diritti umani è risultato particolarmente acuto per le ragazze e le donne appartenenti a gruppi svantaggiati.

Gli attacchi ai giornalisti e ai difensori dei diritti umani sono andati avanti senza sosta. I giornalisti hanno continuato a svolgere un ruolo fondamentale nella denuncia delle violazioni dei diritti umani e, per questo, sono stati bersaglio della repressione governativa così come delle bande armate e del crimine organizzato. Difensori dei diritti umani, che spesso già vivevano in condizioni rischiose e difficili, sono stati oggetto di atti di violenza, abusi giudiziari e delegittimazione pubblica. In molti Paesi, la violenza quotidiana e l’insicurezza hanno preso il posto dei conflitti armati interni e della repressione politica del passato, soprattutto in El Salvador, Guatemala, Honduras e Messico e nelle grandi città di Brasile, Colombia e Venezuela.


108

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA COLOMBIA RIFUGIATI

394.122

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI VENEZUELA

203.563

EQUADOR

122.964

STATI UNITI D’AMERICA

17.766

SFOLLATI PRESENTI NELLA COLOMBIA 3.943.509 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA COLOMBIA RIFUGIATI

219


Produzione di coca in calo

Secondo la United Nations Office of Drugs and Crime, la sezione dell’Onu che si occupa di crimine e droga, dal 2001 in Colombia la produzione della coca è scesa di un terzo. Anche gli ettari di terra coltivati per la droga sono diminuiti, passando da 64mila a 48mila. Questo significa che il Paese non è più il leader mondiale della produzione, battuto dal Perù, mentre al terzo rimane la Bolivia. La coca prodotta dalla Colombia è destinata soprattutto al mercato statunitense. Quella peruviana e boliviana invece prende la strada del Brasile e dell’Argentina e infine dell’Europa.

UNHCR/ B. Heger

Da un lato i colloqui di pace a Cuba, dall’altro ancora scontri armati, morti, sequestri. Nel limbo del non fare, si consuma la guerra in Colombia. Dal 15 ottobre del 2012, le delegazioni del Governo e delle Farc, le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane, cercano una soluzione a sessant’anni di conflitto. A garantire che tutto vada bene, con il ruolo di mediatori, ci sono anche i rappresentanti di Venezuela e Norvegia. Ma i risultati non ci sono. Il 6 ottobre 2013, la leader contadina Nancy Vargas, della Rete delle Donne di Algeciras per la Pace e lo Sviluppo, e suo marito, il dirigente contadino Milciades Cano, sono stati brutalmente assassinati al ritorno da una riunione della locale sezione di Marcia Patriottica; i loro corpi, crivellati di proiettili, sono stati rinvenuti alle 17.00 dal conducente di un autobus proveniente da una frazione vicina a quella della coppia. Un episodio fra tanti: in quei giorni tutto il Paese era in marcia per chiedere riforme agrarie, una nuova sanità pubblica e una più equa distribuzione della ricchezza. La protesta – pacifica – è stata più volte attaccata brutalmente dalla polizia e dall’esercito. Anche lo scontro armato non si è fermato. Il 4 ottobre, le Farc hanno annunciato di aver abbattuto un aereo militare nella Regione del Caquetà. In agosto, sette soldati sono rimasti uccisi e 5 feriti nel Sud del Paese. Almeno sei le vittime tra le forze armate rivoluzionarie. È stata l’ultima di tre battaglie in poche settimane. Tutto questo mentre le Farc, ad inizio 2013, avevano proclamato un cessate il fuoco unilaterale, mai rispettato. I negoziati sono comunque andati avanti fra molte contraddizioni. A favorirne la prosecuzione, l’impennata di investimenti stranieri nell’ultimo anno. Le Farc hanno proposto una distri-

COLOMBIA

Generalità Nome completo:

Repubblica della Colombia

Bandiera

109

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Spagnolo

Capitale:

Bogotà

Popolazione:

47.700.000

Area:

1.141.748 Kmq

Religioni:

Cattolica (92%), protestante, animista ed altro (8%).

Moneta:

Peso Colombiano

Principali esportazioni:

Cocaina, caffè, carbone, smeraldi

PIL pro capite:

Us 10.671

buzione della terra – 20milioni di ettari – ai poveri, con l’introduzione di un limite alla grandezza delle proprietà. Nell’agosto del 2013, il Governo del Presidente Santos ha risposto presentando una riforma agraria. La delegazione delle Farc ha preso tempo, poi l’ha rispedita al mittente, giudicandola inaccettabile. Sul tavolo restano anche i problemi della partecipazione alla vita politica dei partiti nati dalle forze rivoluzionarie e della non detenzione dei capi della guerriglia. Tutti nodi che ancora non sono stati sciolti, lasciando il Paese in balia della guerra.


Le ragioni della guerra sono le stesse da sei decenni: la cattiva distribuzione della ricchezza. Il denaro, le risorse sono legate all’agricoltura e da lì arriva la gestione del potere. Non a caso, l’oligarchia del Paese è sostanzialmente agraria. Il 4% dei proprietari controllano il 67% dei terreni produttivi. In Colombia, poi, il reddito è distribuito in modo drammaticamente iniquo. Il Prodotto Interno Lordo è uno dei più alti del Sud America, con quasi 330mila milioni di dollari,

ma il 49% dei colombiani vive sotto la soglia di povertà. Oggi la guerra civile viene combattuta soprattutto per il controllo o la distruzione delle vaste aree trasformate per la coltivazione della coca, vera ricchezza nazionale. Proprio il narcotraffico è l’altra grande ragione di conflitto interno, con intere zone del Paese contese fra Governo, Farc, Eln e grandi organizzazioni di trafficanti.

Per cosa si combatte

110

UNHCR/ B. Heger

È la quarta volta che provano a siglare un accordo, l’ultima era stata fra il 1998 e il 2002. Questa volta, però, pur fra mille prudenze e molto scetticismo, il processo di pace avviato fra Governo colombiano e Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) nell’ottobre 2012 ha regalato qualche speranza in più: forse inutilmente. Sessant’anni di guerra interna, combattuta da narcotrafficanti, formazioni guerrigliere e esercito, hanno fatto della Colombia una terra dal destino incerto. In questi decenni ci sono stati presidenti conservatori e riformisti. Sono nati ben 36 diversi gruppi guerriglieri, fra cui le Farc comandante per quasi 6 decenni da Manuel Marulanda, detto Tirofijo, morto nel 2007, poi l’Eln, cioè l’Esercito di Liberazione Nazionale e l’M-19, per citare le formazioni più famose. Si sono formati gruppi paramilitari – come il Mas (Morte ai Sequestratori) – pagati dall’oligarchia agraria. Possiamo collocare una data di inizio più recente del conflitto: il 6 novembre 1985. Quel giorno, 35 guerriglieri dell’M-19 occuparono il palazzo di Giustizia di Bogotà. L’intervento dell’esercito provocò un massacro: oltre ai guerriglieri, morirono altre 53 persone, tra magistrati e civili. Di fatto, in Colombia il Governo centrale perde quel giorno il controllo del territorio. E se da un lato è la guerriglia ad assumerlo, dall’altro sono i narcotrafficanti, proprio

a partire dalla metà degli anni ‘80, a proporsi come alternativa allo Stato. La guerra interna diventò così a tre – Stato, Guerriglia, Narcotraffico – con migliaia di morti. Vennero censiti almeno 140 gruppi paramilitari attivi sul territorio, quasi tutti finanziati dai narcotrafficanti. Il Presidente liberale César Gaviria, nel giugno del 1991 diede il via a Caracas a una serie di incontri con i rappresentanti della guerriglia, con l’obiettivo di raggiungere la pace. Il processo di pace non decollò, nonostante la nuova e più democratica Costituzione. Il Governo iniziò allora una “guerra totale” contro organizzazioni civili, gruppi ribelli e narcotraffico. Pablo Escobar Gaviria – capo del cartello di Medellín, potente organizzazione di narcotrafficanti – evaso intorno alla metà del 1992, ricominciò le azioni armate. In tutta risposta apparì, nel ‘93, il Pepes (Persecutori di Pablo Escobar), che uccise trenta esponenti del cartello in due mesi e distrusse varie proprietà di Escobar, ucciso a sua volta il 2 dicembre dalla polizia a Medellín. Farc e Eln iniziarono una serie di attacchi a centrali elettriche, impianti industriali, caserme, avviando la strategia dei rapimenti. Il Governo tentò da parte sua un attacco a fondo al narcotraffico, pur nelle contraddizioni che nascevano dalla corruzione di parte della politica. Fu un periodo durissimo. Nel 1995, vennero aperti 600 proce-

Quadro generale

Proteste contro gli stipendi d’oro

Le proteste del 2013 sono nate, in parte, anche per la decisione del Governo di Bogotà di aumentare il salario a più di duemila alti funzionari della burocrazia statale. Il loro salario base è stato infatti portato a più di dodicimila dollari, mentre più di quattordici milioni di colombiani guadagnano appena il salario minimo, corrispondente a meno di trecento dollari mensili e, sempre secondo le statistiche, una percentuale ancora maggiore di persone guadagna attorno ai cento dollari al mese. Si calcola che il 32,2% dei colombiani viva sotto la soglia di povertà estrema.


Carlos Pizarro Leongómez

(Cartagena de Indias, 6 giugno 1951 – Bogotá, 26 aprile 1990) UNHCR/M. H. Verney

Leva forzata per i minorenni

La notizia è stata pubblicata dal sito Nuova Colombia: nonostante un recente pronunciamento della Corte costituzionale – che ha dichiarato illegale il procedimento - l’Esercito colombiano recluterebbe forzosamente i giovani. A denunciarlo il difensore Civico Vólmar Pérez, che sostiene si tratterebbe di minorenni, appartenenti ai ceti più poveri della società. Verrebbero prelevati e spostati in Regioni diverse del Paese, senza neanche dar loro il tempo di comunicare con i propri familiari. Secondo Pérez, questa grave violazione avviene principalmente a Bogotá, ma si registrano indici preoccupanti di reclutamento forzato anche nei dipartimenti Norte de Santander, Sucre, Vaupés, Risaralda, Quindío e Córdoba.

111

È stato fondatore e dirigente del gruppo guerrigliero M- 19, che ha poi trasformato in partito politico come Alianza Democratica M-19. Figlio di un ammiraglio, si avvicina alla Gioventù Comunista mentre studia giurisprudenza. Lascia l’università per andare a lavorare come volontario nelle zone più povere del Paese. A 18 anni si arruola nelle Farc, che abbandona per divergenze insanabili e fonda M-19. Arrestato nel 1979, rilasciato in seguito ad una amnistia nel 1982, prosegue la lotta armata sino al processo di pace con il Governo di Bogotà nel 1988 e alla smobilitazione della guerriglia. Diventato popolare, si candida alle presidenziali, ma viene ucciso da un sicario il 26 aprile 1990, in aereo, mentre da Bogotà si sta recando a Barranquilla. In un primo momento la responsabilità dell’omicidio viene attribuita al re della coca, Pablo Escobar, che nega. Emergono allora le responsabilità delle Unità di Autodifesa, una milizia privata creata da Carlo Castano Gil.

dimenti contro le forze di sicurezza, in relazione a 1338 casi di assassinio, tortura o sparizione. All’inizio del 1997, si stima che almeno un milione di colombiani fossero stati espulsi dalle loro abitazioni nelle zone di conflitto. Nell’agosto del 2000 il Presidente Pastrana lanciò, in accordo con gli Stati Uniti, il Piano Colombia. Vennero addestrati tre battaglioni antidroga, con l’obiettivo di distruggere 60mila ettari di coltivazioni di coca e tagliare la forza economica di guerriglia e narcotraffico. Le Farc nel febbraio 2002 sequestrarono alcuni esponenti politici, nel tentativo di influenzare le elezioni e ottenere uno scambio di prigionieri. Fra loro c’era la candidata alla presidenza Ingrid Betancourt, che sarà rilasciata solo dopo sei anni, nel luglio del 2008. Si moltiplicarono anche gli attentati. Nel 2002 salì alla Presidenza l’indipendente Uribe Velez, che chiese l’intervento diretto degli Usa nella lotta alla guerriglia e al narcotraffico. Il mese dopo, un contingente militare statunitense arrivò nella Provincia di Arauca: fu il primo coinvolgimento diretto nella

I PROTAGONISTI

guerra civile colombiana. Nell’ottobre 2003 Luis Eduardo Garzón, candidato del Polo Democratico Indipendente (Idp), vinse le elezioni per il sindaco di Bogotà, la carica politica più importante del Paese dopo la Presidenza della Repubblica. Fu una sorpresa: per la prima volta un partito di sinistra si affermava. Passi avanti che non fermarono la guerriglia: divennero 1500, in quegli anni, gli ostaggi tenuti prigionieri. Dal 2006 si tentò l’ennesimo processo di pace. Almeno 20mila paramilitari deposero le armi, in cambio di un’amnistia, del reintegro sociale e di uno stipendio per 24 mesi. La guerriglia, però, continuava la lotta armata, con sequestri e azioni contro obiettivi militari e governativi. Nel 2010 la guerra – con l’arrivo al ministero della Difesa prima e alla Presidenza poi, di Juan Manuel Santos – diventa anzi più dura. Santos, appena eletto, annuncia una Terza Via di sviluppo per il Paese, detta di Accordo di Unità Nazionale, ancorata al centrosinistra. Riconosce anche, per la prima volta, l’esistenza di un conflitto armato. Le Farc, da parte loro, nel 2013 riconoscono le loro responsabilità nella guerra. Un atto importante. Resta da vedere se sarà sufficiente a portare la pace.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DA HAITI RIFUGIATI

38.567

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI STATI UNITI D’AMERICA

26.849

CANADA

6.798


Una baraccopoli ricostruita

Al via ad Haiti un progetto di riqualificazione di una delle più grandi baraccopoli di Port-au-Prince, Jalousie. Le autorità hanno stanziato in tutto 1,4milioni di dollari per questo progetto che ha lo scopo di far tornare a vivere tutti gli sfollati in abitazioni e non più nei campi di accoglienza. Jalousie sta diventando un mix di edifici coloratissimi man mano che procede la ricostruzione. Le facciate degli edifici sono state dipinte con colori che vanno dal viola al verde passando per il crema, in omaggio al noto pittore haitiano, Prefete Duffaut, morto nel 2012 e famoso per la serie delle ‘città immaginarie’. Il progetto di riqualificazione, che rientra nel programma generale di ricostruzione dopo il sisma del 2010, è stato chiamato ‘La bellezza contro la povertà: Jalousie a colori’.

Corruzione politica, instabilità sociale, povertà, carenze sanitarie. È stato un anno nero per Haiti che non riesce a riprendersi dal devastante terremoto che ha colpito l’isola nel 2010. I dati diffusi da Amnesty International e dalla Caritas parlano di oltre 300mila haitiani ancora sfollati all’interno del Paese. Il Governo ha continuato ad attuare programmi di rientro e reinsediamento degli sfollati che continuano in gran parte a vivere in accampamenti di fortuna - gli “slums”, concentrati nei dintorni della capitale Port-au-Prince - dove le condizioni di vita sono state definite “deplorevoli” da Amnesty International. Negli oltre trecento campi spesso mancano i bagni e l’acqua potabile. Una situazione disastrosa che ha contribuito al perdurare di una epidemia di colera iniziata nel 2010. A risollevare le sorti del Paese caraibico non bastano gli aiuti della comunità internazionale. Nel gennaio del 2013, a tre anni dal terremoto, Bruxelles ha approvato lo stanziamento di 30,5milioni di euro per i malati di colera, le vittime del recente uragano Sandy e gli sfollati. Il finanziamento si aggiunge ai 213milioni disposti dal 2010 dall’Ue. Soldi, quelli stanziati dalla comunità internazionale, rimasti però imbrigliati tra burocrazia e corruzione mentre ad Haiti si continua a morire di fame e di sete (le Nazioni Unite stimano in 1,5milioni il numero di persone colpite da grave insicurezza alimentare su una popolazione di circa 8milioni di abitanti). Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che ha rinnovato fino al 15 ottobre del 2014 la missione dei caschi blu ad Haiti (Minustah) deve gestire il crescente malcontento popolare nei confronti degli oltre 5mila soldati presenti sull’isola, accusati in più di una occasione, di abusi contro le donne (ad oggi nessuna delle accuse è finita in un tribunale haitiano). Anche nel 2013 non sono mancate forti contestazioni popolari alla classe politica haitiana. Nel

HAITI

Generalità Nome completo:

Repubblica di Haiti

Bandiera

113

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Francese

Capitale:

Port-au-Prince

Popolazione:

10.170.000

Area:

27.750 Kmq

Religioni:

Cattolica, chiese protestanti, voodoo

Moneta:

Gourde Haitiano

Principali esportazioni:

Nessuna, solo economia di sussistenza

PIL pro capite:

Us 1.229

marzo del 2013 centinaia di persone sono scese in piazza a Port au Prince per protestare contro il primo Ministro Michel Martelly, accusato di violare la Costituzione. Secondo i dimostranti e diversi parlamentari, l’ex cantante avrebbe una doppia nazionalità, vietata dalla legge dell’isola, e quindi non potrebbe ricoprire alte cariche governative. Nell’ottobre del 2013 nuove violente manifestazioni hanno investito la capitale dopo che l’avvocato André Michel, accanito oppositore del Presidente Michel Martelly, è stato fermato dalla polizia, interrogato e poi rilasciato. Aveva denunciato la moglie e il figlio del Capo dello Stato per corruzione.


Fortunatamente oggi ad Haiti non si combatte più per le strade come qualche anno fa. Le violenze sono comunque all’ordine del giorno, ma le bande criminali che imperversavano nel Paese sembrano quasi sparite nel nulla. Oggi la guerra che si combatte ad Haiti è un’altra: quella per la sopravvivenza. La politica haitiana non è mai stata in grado di dare soluzioni ai problemi della gente, perché sempre assoggettata ai poteri forti e agli interessi economici delle grandi potenze internazionali. E intanto nel Paese si muore di fame, talvolta di sete e spessissimo per banali patologie come la diarrea. Ma si combatte anche per un tozzo di pane e migliaia di haitiani sono ormai a rischio di insicurezza alimentare e nutrizionale. L’economia

nazionale è in ginocchio e la produzione industriale haitiana è irrisoria. La Fao e il Governo di Haiti reputano necessari, per il prossimo anno, 74milioni di dollari per aiutare il settore agricolo del Paese a rimettersi in piedi. Come cornice alla guerra fra poveri che si scatena in queste condizioni di grave povertà e insicurezza sociale, c’è la forza multinazionale dell’Onu, la Minustah, che ha il compito di stabilizzare l’area. Lavoro sporco e difficile se si considera che dal primo giorno in cui i caschi blu sono arrivati a Haiti la popolazione locale li ha snobbati. Molti, moltissimi, anzi troppi i casi di abusi che hanno visto come protagonisti negativi i soldati Onu.

Per cosa si combatte

Colonia spagnola, poi francese, indipendente dal 1804 grazie alla prima rivolta di schiavi conclusa con un successo, Haiti ha una storia complessa alle spalle, caratterizzata da continue dittature militari, che sfociano nell’occupazione militare statunitense fra il 1915 e il 1934. In quel periodo, la resistenza semipacifica haitiana trova ispirazione nella propria cultura e nella religione voodoo. Protagonista è la popolazione nera, che ha il proprio leader nel popolare agitatore dottor François ‘Papa Doc’ Duvalier. Gli americani se ne vanno nel 1934, lasciando una economia a pezzi. Molti haitiani emigrano a Santo Domingo, in cerca di lavoro, provocando tensioni razziali ed economiche terminate tragicamente con una pulizia etnica che fa 20mila vittime tra gli haitiani. Agitata sempre dallo scontro fra popolazione mulatta e nera, di fatto l’isola resta dipendente dagli Stati Uniti ed è governata, come un dittatore, da “Doc” Duvalier, fino alla sua morte, nel 1971. Il potere passa allora al figlio Jean-

Claude, chiamato Baby Doc, che tenta una mediazione tra i ‘modernizzatori’ mulatti. Contemporaneamente, elimina con brutalità tutta l’opposizione. Alla crisi politica, si aggiunge all’inizio degli anni ‘80 quella economica. Haiti viene identificata come zona ad alto rischio per l’Aids e il turismo crolla. Poi, un programma statunitense per sconfiggere una malattia dei suini danneggia l’economia rurale, con l’uccisione per errore 1,7milioni di animali. Nel 1986 scoppia la rivolta popolare e Baby Doc Duvalier deve riparare all’estero con la famiglia. Si forma una giunta provvisoria militare. Il luogotenente generale Henri Namphy, confidente di Duvalier, viene nominato Presidente, ma un’organizzazione cattolica si oppone. È guidata da un giovane

Quadro generale

Per il colera accuse all’Onu

114

Le vittime dell’epidemia di colera del 2010 ad Haiti hanno deciso di presentare una richiesta di risarcimento danni all’Onu di decine di migliaia di dollari. Secondo la popolazione di Haiti, l’epidemia che ha già causato la morte di 8mila persone e 650mila malati, è stata portata dai Caschi blu dell’Onu provenienti dal Nepal, che avevano scaricato liquami contaminati nel fiume Artibonite, la cui acqua viene utilizzata per bere e per lavarsi. Le accuse erano state avvalorate anche da un rapporto dello specialista Renaud Piarroux dell’ospedale di Marsiglia rilasciato a fine 2010. Lo riferisce il Daily Mail. Navi Pillay, rappresentante dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu, aveva annunciato che qualcuno avrebbe dovuto risarcire la popolazione, ma ha formalmente respinto le accuse.


Jean Claude Duvalier

(Port-au-Prince, 3 luglio 1951)

La tratta dei migranti

A febbraio 2013, 3353 haitiani, tra cui 1032 donne e 345 bambini, sono stati vittima della tratta di migranti alla frontiera settentrionale fra Haiti e la Repubblica Dominicana. La denuncia arriva dell’ufficio del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (Jrs) di Ouanaminthe (Haiti) che lancia l’allerta sull’aumento del fenomeno. Fra i trafficanti - riferisce l’agenzia Misna - ci sono anche donne che si spacciano per le madri di neonati vittime della tratta di cui i genitori hanno perso le tracce. La Commissione dei diritti umani della zona Nord della Repubblica Dominicana ha avvertito che Haiti rischia sanzioni internazionali se non porrà un freno al traffico di esseri umani.

prete: Jean-Bertrand Aristide. Le elezioni del 1987 vengono vinte a larga maggioranza da Namphy, ma nel giro di un anno un altro colpo di stato porta al potere un altro generale, Prosper Avril. Nel 1990 Avril è costretto a fuggire e sempre nel 1990 alle nuove elezioni si candida Aristide, che con lo slogan ‘Lavalas’ porta in massa la gente alle urne. Il successo di Aristide non dura molto: nel 1991 viene destituito da un golpe militare. L’Onu reagisce con un embargo totale, cui fa seguito un intervento militare degli Usa, che costringe i militari a farsi da parte. Nel 1994 Aristide può quindi tornare nel Paese e governare. Ma lo fa in piena crisi economica e in un grave clima di violenza. Alle elezioni legislative del giugno 1995, i candidati da lui sostenuti furono accusati di brogli dall’opposizione. Si arriva alle elezioni presidenziali del 1995, in dicembre, vinte da René Preval.

I PROTAGONISTI

Le violenze nel Paese non finiscono e nel 1996 il Consiglio di sicurezza dell’Onu proroga la propria missione militare sull’isola. Nel gennaio 1999 le cose precipitano, con Preval che destituisce gran parte dei parlamentari. La tensione sale ancora - come la violenza - con le elezioni presidenziali del novembre 2000, vinte dall’ex Presidente Aristide. Il conflitto tra la maggioranza e l’opposizione è violentissimo e non si placa. Nel 2004 i ribelli, formano il Fronte di Resistenza dell’Artibonite, conquistano alcune città e in seguito costringono Aristide a dimettersi e a lasciare il Paese. Spinti dall’opinione pubblica internazionale, il 30 aprile 2004 i Caschi Blu dell’Onu arrivano sull’isola per cercare di riportare l’ordine dopo le violenze seguite alla rivolta popolare che ha contribuito alla cacciata di Aristide. Presidente ad interim veniva nominato Boniface Alexandre, e premier Gerard Latortue, con l’impegno a svolgere nuove elezioni legislative entro il 2005. Le elezioni si svolgono nel 2006 e viene eletto Presidente l’agronomo haitiano Réné Garcia Préval.

115

Jean Claude Duvalier, detto anche Baby Doc o Bébé Doc è un politico haitiano, figlio di François Duvalier, detto Papa Doc. È stato Presidente dittatore di Haiti dalla morte del padre, nell’aprile del 1971, al 1986. Rientrato ad Haiti nel 2011 dopo quasi tre decadi di esilio e inseguito da un ordine di comparizione che in caso di inosservanza lo avrebbe esposto all’arresto e al successivo accompagnamento coatto, il 61enne ex presidente è stato costretto, nel 2013, a presentarsi davanti ai giudici della Corte d’Appello di Portau-Prince, per un’udienza preliminare in cui si dovrà stabilire se sarà o meno processato per i crimini contro l’umanità perpetrati sotto il suo regime. Trascorso un ventennio in Francia, dopo essere fuggito in seguito ad una sollevazione popolare, nel gennaio 2011 Duvalier ha deciso di tornare nel Paese caraibico affermando di “voler aiutare il suo popolo”. In Tribunale dovrà rispondere dei metodi repressivi utilizzati nella gestione del potere negli anni del suo Governo. Chiamate a deporre dalla pubblica accusa, numerose vittime delle torture e dei sequestri compiuti dalla temutissima milizia che rispondeva a lui direttamente, i famigerati Tom Tom Macoute, espressione che nel gergo legato al voodoo significa ‘Orchi’.


Inoltre Messico

116

"130mila uccisi in soli 6 anni. Continua la guerra sporca dei narcos".

Il Messico è uno dei Paesi più pericolosi al mondo, per i giornalisti e non solo. È una guerra silenziosa e dimenticata quella che si combatte nel Paese Centroamericano, ma il bilancio delle vittime è quello di una mattanza, continua e impunita di uomini, donne e bambini. Secondo il Rapporto 2013 pubblicato da Amnesty International, durante i sei anni di mandato dell’ex Presidente Felipe Calderón (dicembre 2006 – novembre 2012) in Messico sono state uccise 136100 persone, 53 persone al giorno, 1620 al mese, 19442 all’anno; 56 erano giornalisti. I cartelli del narcotraffico e le altre bande criminali attive sul territorio messicano si sono resi responsabili della stragrande maggioranza di uccisioni, rapimenti, sparizioni e spesso hanno agito in collusione con funzionari pubblici. Continue sono state le violazioni dei diritti umani anche ai danni delle popolazioni native e dei migranti, vittime di attacchi, rapimenti, stupri e tratta di esseri umani. In un dossier diffuso nel giugno del 2013, Amnesty International ha accusato le autorità federali e statali del Messico di aver reso quello delle sparizioni un fenomeno all'ordine del giorno poiché esse lo hanno tollerato o hanno rifiutato di affrontarlo o peggio ancora ne sono state direttamente responsabili. I recenti impegni dichiarati da alti rappresentanti del Governo a porre fine alle sparizioni e a rintracciare le vittime sono stati giudicati da Amnesty International “importanti”, ma l’organizzazione ha sottolineato che essi “non significheranno nulla per i familiari degli scomparsi se non saranno accompagnati da risultati con-

creti nella lotta all'impunità e nella localizzazione delle vittime”. Nel 2013, il Governo federale del Messico ha reso noto che negli ultimi sei anni sono scomparse o risultano disperse almeno 26mila persone. Si tratta di difensori dei diritti umani, indigeni e attivisti sociali e politici. In altri casi le sparizioni sono legate al narcotraffico, all’immigrazione e alla guerra tra bande criminali. Sebbene il Governo messicano abbia ora, almeno in parte, riconosciuto l'ampiezza del fenomeno delle sparizioni, manca ancora l'ammissione del coinvolgimento delle autorità federali, statali e municipali in molti di questi casi. Tale coinvolgimento configurerebbe la scomparsa di una persona come "sparizione forzata", un crimine riconosciuto dal diritto internazionale, di cui il Governo messicano dovrebbe rispondere direttamente. Uno dei luoghi più pericolosi di tutto il Messico (e di tutto il mondo dicono le statistiche) è Ciudad Juarez, dove si registrano punte di tremila omicidi l’anno. Situata al confine con gli Stati Uniti, qui i narcotrafficanti si contendono i corridoi per il traffico di droga e degli immigrati illegali che cercano di attraversare il muro, lungo 3140 km, costruito dagli Stati Uniti lungo il confine con il Messico. È qui che tremila donne sono sparite e risultano disperse dal 2003 e dove centinaia di corpi stuprati e mutilati sono stati ritrovati. Una furia criminale quella dei narcos, che non risparmia i giornalisti, sottoposti a continui attacchi, violenze e arresti arbitrari con il coinvolgimento spesso delle stesse autorità messicane. Secondo l’associazione indipendente Articulo 19, il 2013 è stato uno degli anni più violenti contro la libertà di stampa. Da Gennaio a Ottobre del 2013 l’organizzazione ha documentato 225 aggressioni (nel 2012 sono state 207 e 172 nel 2011). Tre giornalisti sono stati uccisi, due sono spariti e 7 sono stati incarcerati.


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Asia

A cura di Amnesty International

In Asia il dissenso non viene tollerato Una brutale repressione si è abbattuta sulla libertà di espressione sia nelle strade che online, determinando vessazioni, aggressioni, arresti e uccisioni di chi avesse osato contrastare le autorità. Il Vietnam ha messo in prigione oltre 20 dissidenti pacifici, mentre in Cambogia le forze di sicurezza hanno ucciso persone che protestavano pacificamente contro gli sgomberi forzati. Nello Sri Lanka, giornalisti sono stati minacciati e aggrediti o sono “scomparsi” per aver criticato le autorità. In Cina, le proteste di massa contro gli sgomberi forzati sono state affrontate con arresti, imprigionamenti e condanne alla rieducazione nei campi di lavoro. Nonostante non avessero commesso alcun crimine, migliaia di persone sono rimaste trattenute in campi di prigionia politica in Corea del Nord, sottoposte a condizioni estreme tra cui i lavori forzati, la tortura e anche esecuzioni extragiudiziarie. Una Commissione d’inchiesta istituita dal Consiglio Onu per i diritti umani ha confermato le gravi, sistematiche e massicce violazioni dei diritti umani nel Paese. Milioni di rifugiati, sfollati e migranti - in se-

guito a conflitti, disastri naturali o per ragioni economiche - hanno continuano a subire violazioni dei diritti umani. In Afghanistan, centinaia di migliaia di persone continuano a risultare profughi interni, molti dei quali in condizioni disperate in campi privi di forniture adeguate. In Myanmar, centinaia di migliaia di persone hanno lasciato le loro terre a causa del conflitto armato o della violenza comunitaria tra musulmani e buddisti. L’Australia ha reintrodotto la legge sulle procedure “offshore” d’esame delle domande d’asilo: alla fine del 2012, oltre 300 richiedenti asilo politico erano detenuti nell’isola di Nauru e in quella di Manus, in Papua Nuova Guinea. L’impunità è rimasta la norma per i responsabili delle violazioni dei diritti umani passate e recenti. Non vi è ancora stata un’indagine internazionale, indipendente e imparziale sulla sanguinosa guerra civile dello Sri Lanka (19832009), durante la quale si ritiene che decine di migliaia di persone siano state uccise dalle forze governative e dalle Tigri Tamil. I conflitti armati hanno continuato a rovinare la vita di decine di migliaia di persone, ferite, uccise o costrette a lasciare le loro terre a causa di attentati suicidi, bombardamenti indiscriminati, attacchi aerei o uccisioni mirate. Il numero dei civili uccisi in Afghanistan, che aveva raggiunto il picco nel 2012, continua a essere elevato. In Pakistan l’esercito e i gruppi armati hanno continuano a perpetrare abusi nelle Aree tribali e nel Balucistan, tra cui sparizioni forzate, rapi-


menti, torture e uccisioni illegali. Le minoranze religiose, come i musulmani sciiti hazara, sono state al centro di un’ondata di uccisioni brutali da parte dei gruppi armati. Il periodo che ha preceduto le elezioni generali dell’11 maggio è stato segnato da un’ondata di attacchi contro il personale dei seggi e nei confronti dei partiti più laici da parte dei talebani. Un’altra ondata di attentati ha coinciso con l’apertura a negoziati coi talebani da parte del nuovo Governo. In Afghanistan e Pakistan, molte donne e ragazze hanno continuato a non avere alcuna possibilità di partecipare alla vita pubblica e in alcuni casi sono state vittime di vere e proprie esecuzioni per mano dei talebani. In India, le proteste seguite allo stupro di gruppo e poi alla morte di una studentessa hanno messo in evidenza il persistente fallimento dello Stato nel tenere a freno le violenze contro donne e ragazze e a nulla è servita l’adozione di una legge che prevede la pena di morte per il reato di stupro, mentre continua a non riconoscere come reato lo stupro coniugale. La pena di morte è stata introdotta anche in Papua Nuova Guinea per l’uccisione delle “streghe”. In Cina, dove una nuova generazione di leader politici è salita al potere, la proposta di riformare il sistema della detenzione amministrativa (compreso quello della rieducazione nei campi

di lavoro), usato per tenere persone agli arresti senza accusa né processo anche per quattro anni, si è collocata al di sotto degli standard internazionali. Centinaia di migliaia di persone restano sottoposte a questa forma di detenzione. Ogni anno continuano a essere eseguite migliaia di condanne a morte. Gli attacchi alla libertà di espressione, di manifestazione pacifica e di associazione, sono proseguiti nelle Repubbliche asiatiche dell’ex Unione Sovietica, dove è attivo un programma di “rendition” che ha coinvolto anche l’Italia, col rimpatrio della moglie e della figlia di un dissidente del Kazakhistan.


Il conflitto e l’Italia

120

A un costo annuo di quasi 2 milioni di euro al giorno, il contingente italiano autorizzato dal Parlamento per la missione in Afghanistan è di circa 4.200 uomini dislocati soprattutto nell’area occidentale dove l’Italia ha il comando del Regional Command West (RC-W), un’ampia regione (grande quanto il Nord Italia) che comprende le quattro province di Herat, Badghis, Ghowr e Farah. Oltre quaranta soldati italiani sono morti in Afghanistan. Nel 2012 dovrebbe iniziare un primo ritiro dall’unico teatro internazionale per il quale Roma non ha deciso riduzione di fondi e di personale. Scarso resta l’impegno nella ricostruzione civile, sbandierato a parole che poco finanziato nei fatti

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL’AFGHANISTAN RIFUGIATI

2.585.605

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI PAKISTAN

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SFOLLATI PRESENTI IN AFGHANISTAN 486.298 RIFUGIATI ACCOLTI IN AFGHANISTAN RIFUGIATI

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PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI PAKISTAN

16.147


L’ombra di Karzai

Anche se Hamid Karzai non potrà più ripresentarsi alle elezioni, la sua figura resta nell’ombra dietro ai futuri possibili candidati, tra cui suo fratello Qayyum. La corsa comprende l’ex signore della guerra Abdul Rasul Sayyaf, il responsabile del Security Transition Commission Ashraf Ghani Ahmadzai, il ministro degli Esteri Zalmai Rassoul (anch’essi appoggiati dal Presidente), il leader del National Coalition of Afghanistan Abdullah Abdullah, il capo del Right & Justice party Hanif Atmar, il ministro all’Istruzione Farooq Wardak per un totale di 27 candidati. Tra cui, oltre a Sayyaf, spicca anche come vice di Ashraf Ghani, il generale Dostum, noto al tempo della guerra civile col nomignolo di “macellaio di Mazar”.

UNHCR/R.Arnold

Il vero punto di svolta nel conflitto afgano, lungi dall’essere terminato, dovrebbe verificarsi nel 2014 col ritiro del contingente Isaf, la forza multinazionale della Nato (composta da 50 Paesi) arrivata a un picco di 130mila soldati nel 2011 e a poco meno di 90mila nel 2013, quando è iniziato il ritiro delle truppe straniere aderenti alla missione Isaf/Nato. Entro la fine del 2014 si prevede il totale passaggio di sovranità della sicurezza dalle truppe internazionali alle forze afgane anche se rimarrà un contingente “non combattente” con compiti di assistenza tecnica e formazione (garanzia che Paesi come Italia e Germania hanno già ufficializzato). Nel corso del 2011 e del 2012, tre Conferenze internazionali, a Bonn (dicembre 2011), Chicago (maggio 2012) e Tokyo (luglio 2012), hanno definito tempi e modi del ritiro del contingente militare, il quadro della governance e il futuro sostegno civile della Comunità internazionale al Paese ancora retto (sino al 2013) dal Presidente Hamid Karzai. L’uscita di scena dei militari della Nato coinciderà infatti anche con le elezioni presidenziali alle quali Hamid Karzai non può ripresentarsi e prevede una nuova missione Nato ridotta: Resolute Support. Due principalmente restano i nodi da sciogliere: il processo di pace coi talebani e la presenza di basi militari americane. Per il resto il futuro resta incerto, gravato da ombre e timori che al ritiro si associ l’abbandono di un Paese che rischia di precipitare nel caos della guerra civile. Il processo di pace, da tutti evocato e invocato, non sembra intanto aver fatto passi avanti. L’apertura di un ufficio politico talebano in Qatar nel 2013 non ha fatto grandi passi avanti per le rimostranze di Kabul, preoccupata di essere tagliata fuori da un dialogo diretto tra la guerriglia e gli Usa. Il Pakistan continua a far chiaramente capire di voler essere parte in causa essenziale in qualsiasi decisione riguardi il negoziato ma il nuovo premier pachistano Nawaz Sharif ha però mostrato un atteggiamento più collaborativo rispetto ai suoi predecessori, con l’obiettivo di vincere i sospetti afgani (ha liberato tra l’altro mullah Baradar, l’ex numero due di mullah Omar arrestato a Karachi nel 2010). Sul fronte dei rapporti Kabul-Washington, è in fase di stallo il Bilateral Security Agreement previsto dall’Enduring Strategic

AFGHANISTAN

Generalità Nome completo:

Repubblica Islamica dell’Afghanistan

Bandiera

121

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Il pashto e il persiano (dari) sono le lingue ufficiali. C’è inoltre una grande varietà di lingue, la maggior parte di origine persiana o altaica: hazaragi, turcomanno, uzbeco, aimaq e altri

Capitale:

Kabul

Popolazione:

29.820.000

Area:

652.090 Kmq

Religioni:

Musulmana (99%) (74% sunnita, 15% sciita e 10% altro).

Moneta:

Nuovo Afghani

Principali esportazioni:

Smeraldi, uranio, altri minerali, oppio

PIL pro capite:

Us 1.055

Partnership Agreement tra i due Paesi e che dovrebbe garantire la possibilità per gli Stati uniti di mantenere in Afghanistan il controllo di alcune basi e la presenza di un contingente di soldati anche con compiti di sostegno all’esercito afgano.


Per cosa si combatte? È una domanda che molto spesso è stata rivolta dall’opinione pubblica ai Governi dei Paesi impegnati in una guerra (l’ultima in ordine di tempo) che ha ormai superato il decennio e nata come una sorta di vendetta statunitense dopo l’11 settembre. Alcuni analisti hanno proposto la chiave delle risorse, ma l’Afghanistan non ha petrolio e riserve limitate di gas e può essere bypassato da oleodotti e gasdotti che provengono da altrove. Possiede un immenso giacimento di minerali già noto ai sovietici – dal rame al carbone – che resta però di difficile estrazione benché, negli ultimi anni, questo mercato sia in espansione e tenuto sotto controllo soprattutto dalla Cina. La chiave geopolitica continua a reggere (territorio di “profondità

strategica” per il Pakistan in caso di guerra con l’India, snodo tra Asia centrale, Medio Oriente e subcontinente indiano) ma molte altre se ne aggiungono: quella ad esempio che un fallimento afgano sarebbe un fallimento per la Nato o il rischio di lasciare che l’Afghanistan diventi una nuova Somalia, buco nero per narcotrafficanti, integralisti, contrabbandieri. Quel che va considerato è che il Paese è in guerra da trent’anni e i motivi per continuare il conflitto continuano a cambiare favorendo la sopravvivenza di eserciti privati e un’abitudine mentale a risolvere i contenziosi con la spada. Non di meno il desiderio di pace è fortissimo tra gli afgani e forse un negoziato potrebbe, dopo sei lustri, trovare terreno fertile anche se si investe troppo poco sulla società civile.

Per cosa si combatte

Com’è forte l’Afghanis

L’economia afgana ha visto rafforzarsi l’afghanis, il cui corso è rimasto stabile in un quadro regionale in cui le divise iraniana, pachistana e tagica si sono deprezzate su euro e dollaro perdendo mediamente la metà del loro valore. Ne deriva, che a fronte di una capacità di esportazione già molto bassa, all’Afghanistan conviene importare dai vicini, il cui export è favorito dal cambio. Il post 2014 è dunque molto incerto anche sotto il profilo economico pur se l’economia locale potrebbe avvantaggiarsi dallo sfruttamento del sottosuolo. La legislazione (permessi, affitti, royalties) resta però opaca e non sembra favorire l’interesse generale.

122

UNHCR/M.Maguire

L’Afghanistan è una repubblica islamica con una superficie di oltre 650mila km² e una popolazione stimata a circa 29milioni di abitanti. Le lingue ufficiali del Paese sono il Dari e il Pashto. Presenti molte lingue minori parlate dalle diverse comunità afgane (uzbeco, turcmeno etc). Dal momento che nel Paese non si effettuano più censimenti accurati da diversi decenni, non vi sono informazioni precise sulla composizione numerica delle varie componenti della popolazione, divisa tra Pashtun, Tagiki, Hazara, Uzbechi, Aimak, Turkmeni, Baluchi e altre minoranze tra cui i nomadi Kuchi. La religione ufficiale è l’Islam (sunniti 80%, sciiti 19%, altro l’1% ). Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il tasso di mortalità infantile sotto i cinque anni è stimato a 147 morti ogni 1000 nati vivi (era di 209 nel 1990) e resta comunque tra i più elevati al mondo. La decrescita dei valori è avvenuta grazie all’attuazione del pacchetto base di servizi sanitari diffuso dal 2003. L’aspettativa di vita complessiva è cresciuta a 48 anni. Il divario città campagna resta enorme: in queste ultime ad esempio, l’accesso all’acqua potabile è del 39% mentre in zona urbana è del 78%. In compenso una persona su due possiede un telefono cellulare. Oltre 1milione e 200mila persone usano

Internet. L’economia afgana è largamente dominata dal settore primario, seguito da quello dei servizi e dell’industria ma l’Afghanistan è anche il maggior produttore mondiale di oppio, con circa il 90% della produzione totale del pianeta. Quella legata alla coltivazione del papavero da oppio è un’economia diffusa capillarmente in modo particolare nelle zone Sud-Occidentali

Quadro generale

UNHCR/S. Phelps


Fawzia Koofi

(Badakhshan, 1975)

Rifugiati: il dramma di ritornare

Sono più di 2,7milioni i profughi afgani registrati ancora in esilio al di fuori dei confini nazionali, suddivisi tra Pakistan (1,7 mln.) e Repubblica Islamica dell’Iran (1 mln). Un milione quelli tuttora privi di documenti ufficiali, mentre più di 590mila sono gli sfollati interni secondo i dati pubblicati dall’ Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite nell’agosto 2013. Grazie al “Programma di Rientro Volontario” iniziato a marzo 2002, il più vasto mai intrapreso dall’Unhcr, circa 5,7milioni di afgani hanno fatto ritorno nel Paese negli ultimi 10 anni. Più dell’80% ha usufruito di incentivi economici, sussidi e campagne di informazione mirate predisposte dall’Agenzia. Secondo un sondaggio del Morr (Ministero Afgano per i Rifugiati) i profughi tornati nel territorio nazionale mostrano però tassi di accesso alle risorse fondamentali di molto inferiori a quelli della popolazione residente. Circa il 15% di loro fa nuovamente ritorno nei Paesi confinanti.

123

Avvocato e attivista per i diritti delle donne, Fawzi Koofi è un membro del Parlamento afghano e la prima donna a ricoprire la carica di vicepresidente della Camera. È una delle candidate alle prossime elezioni presidenziali del 2014. Nel 2002 ha cominciato a lavorare per l’Unicef, l’Agenzia dell’Onu che si occupa della protezione dell’infanzia e nel 2005 viene eletta per la prima volta al Parlamento afghano dove siedono 69 parlamentari donne - come rappresentante della Provincia di Badakhshan, nelle montagne del Nord dell’Afghanistan, dove è nata. La sua infanzia è stata travagliata. Diciannovesima di ventitré figli è nata dalla relazione del padre, un ex parlamentare afghano, con la seconda delle sue sette mogli. Appena nata è stata rifiutata dalla sua famiglia che avrebbe preferito un figlio maschio e abbandonata in strada. È stata salvata da uno sconosciuto che l’ha riportata alla madre assicurandosi che non l’avrebbe nuovamente abbandonata. Da adulta è sopravvissuta a numerosi attentati, l’ultimo nel 2010 e oggi vive scortata da diverse guardie del corpo. È sposata e ha due figlie a cui ha dedicato il libro “Lettera alle mie figlie”, pubblicato nel 2011 dalla Sperling & Kupfer.

UNHCR/M.Maguire

del Paese e, secondo alcune fonti, equivarrebbe a metà dei proventi derivati dell’export legale. L’economia è “drogata” anche da altri fattori: l’aiuto esterno è stato nel periodo 2010/11 di oltre 15miliardi di dollari, ossia quasi quanto l’intero Pil (circa 17,2 mld di dollari). Secondo l’Ufficio del lavoro di Ginevra (Ilo) gran parte della ricchezza nazionale proviene del settore economico informale-tradizionale, largamente dominato dall’agricoltura (che occupa il 59% degli afgani) cui si è aggiunto un dinamico settore di nuovi servizi (che occupano il 24,6% degli afgani contro il 12,5% del settore manifatturiero) che rischia però di contrarsi, essendo legato alla presenza straniera. Con un ingresso nel mercato del lavoro di circa 400mila giovani ogni anno, la maggior parte dell’occupazione che il Paese è in grado di offrire è comunque nel settore informale, quello cioè che non fornisce garanzie di futuro e protezioni assicurative. Se dunque il tasso di disoccupazione è relativamente basso (7,1%, ossia circa 823mila perso-

I PROTAGONISTI

ne sopra i 15 anni su una stima di una massa di forza lavoro nel 2012 di 11,5milioni di afgani) la gran parte dei lavoratori è sotto-impiegata o impiegata in lavori precari e saltuari. Sei afgani su dieci, occupati nel settore primario, lavorano in condizioni di mera sussistenza. La forza lavoro del settore manifatturiero è stimata a solo mezzo milione di afgani e tutte le altre occasioni di occupazione, concentrate nelle aree urbane, dipendono sia dall’offerta di lavori precari o stagionali (come avviene nell’edilizia) o da servizi di vario tipo, molti dei quali - quelli che garantiscono un miglior salario - legati alla presenza straniera e alle diverse forme di aiuto che verranno progressivamente meno con la riduzione dell’impegno militare e, presumibilmente, della cooperazione internazionale. Nonostante gli sforzi nel settore dell’istruzione, il tasso di alfabetizzazione è tra i più bassi del mondo (0,354 Education Index Undp 2011. Italia: 0,965) e colpisce in particolare le donne. L’Afghanistan è infatti ancora compreso nella categoria Least Developed Country (Ldc), Paesi che presentano i più bassi indicatori di sviluppo socio economico nella tabella sullo sviluppo umano dell’Undp.


124

La zona della Cina indicata con questa colorazione indica la parte riconducibile alla Regione del Tibet a cui questa scheda è dedicata.

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL TIBET RIFUGIATI

15.068

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI NEPAL

15.000


Il dissenso in manette

Un giro di vite contro ogni forma di dissenso nei confronti del Governo: è la politica di Pechino secondo Human Rights Watch. Dal febbraio 2013, sarebbero stati arbitrariamente arrestati almeno 55 attivisti, messi sotto controllo critici e opinionisti di spicco. Inoltre ha aumentato i controlli sui mezzi di comunicazione sociale, sulla rete e sull’attivismo pubblico, riducendo considerevolmente lo spazio a fatica conquistato dalla società civile cinese nel corso di questi ultimi anni.

Brutta fine di 2013 per la Cina: il 28 ottobre un attentato in piazza Tienanmen è costato la vita a cinque persone. Lo ha rivendicato l’Etim, l'East Turkestan Islamic Movement, sigla separatista uigura dello Xinjiang. Rivendica l'indipendenza da Pechino della Regione autonoma Nordoccidentale cinese dello Xinjiang, che definisce Turkestan Orientale. Vi vive la minoranza degli uiguri, di lingua turcofona e fede musulmana. Qualche giorno dopo, il 7 novembre, un nuovo attentato nella Provincia Settentrionale dello Shanxi ha ucciso altre due persone. Le tensioni sono forti e resta senza soluzione il conflitto con il Tibet. L'ennesimo tentativo per trovare una soluzione pacifica, il Dalai Lama, l'ha fatto in autunno del 2013. “Basta con le autoimmolazioni”, ha detto. Fermiamo, insomma, i giovani monaci che si danno fuoco per la libertà del Tibet. “Non aiutano nessuno”, ha spiegato. È stata la nuova prova di pace, il modo per spiegare al Governo di Pechino che c'è voglia e bisogno di un accordo che chiuda sette decenni di conflitto. Una posizione netta quella del Dalai, arrivata dopo che il 20 luglio 2013, il 120mo monaco in quattro anni, dal 2009, aveva bruciato la propria vita per protestare contro l'occupazione del Tibet da parte della Cina. I quasi 70 anni di scontro continuano a non portare a nulla. Nessun accordo pare possibile tra il Governo tibetano in esilio e Pechino. Il primo, ormai da sessant'anni in India, ha smussato angoli e richieste, passando dai proclami di libertà e indipendenza ai progetti di una forte autonomia all'interno della Repubblica Democratica di Cina. Il secondo ignora ogni possibile mediazione e accusa il Dalai Lama e il Governo in esilio di alimentare proteste e ribellioni contro la legittima annessione territoriale realizzata con la forza nel lontano 1954. La protesta si allarga. Nella contea di Zatoe sono iniziate manifestazioni contro le attività minerarie avviate dal Governo di Pechino. La reazione è stata durissima. In settembre del 2013, le autorità hanno lanciato un ultimatum, minacciando “gravi misure” contro i contestatori. I tibetani avevano iniziato la protesta bloccando gli oltre 500 minatori ci-

CINA TIBET

Generalità Nome completo: Bandiera

Lingue principali:

Cinese mandarino

Capitale:

Pechino

Popolazione:

1.353.000.000

Area:

9.596.960 Kmq

Religioni:

Confuciana, taoista, buddista (95%), cristiana (3,5%), musulmana (1,5%)

Moneta:

Renminbi

Principali esportazioni:

Praticamente tutto nel manifatturiero, più frumento, riso, patate

PIL pro capite:

Us 9.055

Generalità Nome completo:

Tibet

Bandiera

Lingue principali:

Tibetano, Cinese

Capitale:

Lhasa

Popolazione:

3.030.000

Area:

1.228.400 Kmq

Religioni:

Buddista, altre

Moneta:

Renminbi

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

Us 948

Repubblica Popolare Cinese

125

Situazione attuale e ultimi sviluppi

nesi, definendo i lavori illegali. Gli scontri sono stati durissimi, centinaia i feriti. A tutto questo si aggiungono le notizie sulla possibile deportazione di più di due milioni di tibetani, spostati contro la loro volontà in nuovi villaggi costruiti da Pechino per tenere sotto controllo popolazioni altrimenti nomadi. L'obiettivo, denuncia Human Rights Watch, è di controllare facilmente nuove insurrezioni anti-cinesi e mettere fine alla cultura nomade dei tibetani.


126

È uno scontro storico, reso attuale da precisi interessi economici quello che contrappone Cina e Tibet. Pechino considera vitale il presidio della frontiera con l’India, Paese da sempre considerato rivale. In Tibet, poi, ci sono importanti risorse minerarie e immense riserve d’acqua, quelle che vengono dai tanti fiumi della Regione. Pechino ha sempre voluto il controllo di quell’area. Questa esigenza cinese si scontra naturalmente con la voglia di indipendenza dei

tibetani, che forti di una cultura politico-religiosa radicata e delle tradizioni, rivendicano il loro diritto ad essere uno Stato libero e autonomo. La scelta del Dalai Lama di trovare una soluzione attraverso il dialogo non convince tutti i tibetani. L’ala più radicale del movimento indipendentista chiede all’opinione pubblica mondiale un intervento più duro nei confronti della Cina, da loro considerata Paese occupante.

Per cosa si combatte

Un problema interno alla Cina: al di là delle parole, è questa la visione internazionale dello scontro con il Tibet. È esattamente ciò che le cancellerie mondiali hanno pensato la mattina del 7 ottobre del 1950, leggendo sulle agenzie stampa o sui dispacci dei servizi segreti che quarantamila soldati dell’Esercito cinese avevano attraversato il fiume Yangtze e occupato tutto il Tibet Orientale e il Kham - che ora è parte di tre Province cinesi - uccidendo ottomila soldati tibetani male armati. Solo sette giorni dopo l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso diventò sovrano del Tibet. Il cuore della controversa questione tibetana è tutto in una frase: è un problema interno. Nessun Paese occidentale ha mai riconosciuto il Tibet come uno Stato sovrano indipendente. Quindi, in punta di diritto internazionale, Pechino ha ragione nel definire la questione un “problema interno”. I cinesi - coerenti con questa visione - avevano pianificato tutto. Soprattutto avevano saputo cogliere il momento adatto. Il mondo guardava solo alla guerra in Corea, scoppiata all’alba di domenica 25 giugno 1950, con un attacco della Corea del Nord di Kim Il Sung alla Corea del Sud. Gli Stati Uniti intervennero militarmente, subito, chiedendo e ottenendo l’ombrello politico delle Nazioni Unite. In questo clima, l’attacco al Tibet, passò in secondo piano. Formalmente il Tibet era in una posizione di stallo, nata dall’abbandono dell’India da parte della Gran Bretagna nel 1947. Storicamente, la Regione era stata a lungo indipendente, poi era caduta sotto l’influenza della

Cina imperiale, prima di essere messa sotto tiro dalla Russia zarista e dal Regno Unito, che intervenne militarmente nel 1904. Da sempre, però, cultura e autonomia politica erano rimaste salde, tanto da definire una identità nazionale, che aveva nel Dalai Lama il capo di Governo e spirituale. La Cina aveva annunciato l’attacco. Mao, al potere dal 1949, aveva più volte spiegato che voleva una Cina riunita in tutti i suoi territori e questo significava anche il Tibet. Il 1° gennaio 1950 Radio Pechino annunciò che presto il Tibet sarebbe stato liberato dal giogo straniero. Così, l’occupazione avvenne senza quasi proteste, messa ulteriormente in secondo piano dal fatto che i cinesi il 19 ottobre del 1950 intervennero pesantemente nella guerra di Corea

Quadro generale

Ancora arresti per corruzione

Continuano gli arresti di politici e notabili con l’accusa di corruzione. L’ultimo a finire in gabbia, nell’ottobre 2013, il sindaco di Nanchino, Ji Jianye. L’accusa è di reati economici. Secondo il Quotidiano del Popolo, voce del Governo, Ji, che in quanto sindaco del capoluogo della Provincia del Jiangsu ha una carica equivalente a quella di vice Ministro, è accusato di aver intascato 20milioni di yuan, pari a circa 2,4milioni di euro. Il caso, come fa notare la stampa cinese, è collegato alla vicenda di Zhu Xingliang, imprenditore edile di Suzhou e uomo più ricco della Provincia di Jiangsu, sotto inchiesta da tempo.


Jung Chang

(Yibin, 25 marzo 1952)

Mao, 120 anni e tante polemiche

La crisi colpisce anche la Cina, tanto da mettere in discussione le cerimonie per i 120 anni dalla nascita di Mao Zedong (Mao Tse-tung). Media e social network protestano per la decisione del governo di investire 2,5miliardi di dollari nel villaggio natale del Grande Timoniere, Shaoshan per renderlo all’altezza di un tale evento. Sedici i progetti varati, incluso un rinnovato centro di accoglienza turistica e il restauro della casa dove Mao è nato il 26 dicembre 1893. I lavori previsti includeranno anche stazioni per la linea ad alta velocità e superstrade in grado di facilitare l’arrivo dei visitatori

appoggiando il Nord con milioni di uomini e mettendo in grave difficoltà gli Stati Uniti. Il 23 maggio 1951 il Dalai Lama firmò il “Trattato di liberazione pacifica” e diventò vice Presidente del comitato permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Il documento permise alla Cina di iniziare la colonizzazione del Tibet. Prima militarizzandolo, poi spingendo i cinesi ad andare nella nuova Regione. Il Tibet intanto rinunciava ad avere una politica estera autonoma, a batter moneta, a stampare francobolli. Le terre venivano ridistribuite, soprattutto nelle zone del Kham Orientale e nell’Amdo, per non rompere i rapporti con l’aristocrazia. Da quel momento fu tutto un susseguirsi di ribellioni, avvicinamenti pacifici e rotture, spesso alimentate dall’esterno, da altri Paesi. Nel 1959 la prima grande rivolta. Il 10 marzo 1959 il movimento di resistenza tibetano guidò una protesta contro i cinesi. Per reprimerla, Pechino schierò 150mila uomini e unità aeree. Morirono in migliaia nelle strade di Lhasa e in altre città. Il 17 marzo, il Dalai Lama abbandonò la capitale e chiese asilo politico in India, assieme ad almeno 80mila profughi. I morti furono 65mila. Nel 1965 il Tibet venne dichiarato Regione Autonoma, con una annessione di fatto alla Cina. Nel 1968 la Rivoluzione Culturale portò alla di-

I PROTAGONISTI

struzione dei monasteri, almeno 6mila e all’uccisione di molti monaci. La resistenza tibetana però non mollava. Nel 1977 e nel 1980 vi furono altre due sollevazioni, anche queste represse duramente da Pechino. Dal 1976, Pechino ha riavviato l’opera di colonizzazione, tanto che in Tibet sono arrivati 7milioni di cinesi, contro i 6milioni di tibetani che ci vivono. L’obiettivo di Pechino, denuncia la resistenza, è cancellare la cultura e l’identità tibetane. Il Dalai Lama ha nel frattempo tentato la via della mediazione, rinunciando a reclamare l’indipendenza, puntando all’autodeterminazione per salvare la cultura del Paese e salvaguardare i diritti umani. Una mediazione proposta nel 1987 tramite gli Stati Uniti è fallita. E come sempre, dopo ogni fallimento, sono ricominciati gli scontri, diventati protesta internazionale a partire dalle Olimpiadi a Pechino nel 2008 e, dal 2009, autoimmolazioni di giovani monaci. Nel 2012 il capo del Governo tibetano in esilio, Lobsan Sangay, ha definito quei gesti di autodistruzione “Un chiaro atto d’accusa alle politiche di repressione del Governo di Pechino”. Circa 3mila tibetani ogni anno scelgono l’esilio, raggiungendo il Nepal o l’India. In 20mila risiedono stabilmente in comunità sparse in Nepal, senza però venga loro riconosciuto – nonostante gli accordi internazionali – lo status di profughi. Il risultato è che, di fatto, sono prigionieri. La ragione è semplice: il Nepal non vuole irritare il grande vicino.

127

Grande oppositrice del Governo, Jung Chang è una scrittrice diventata famosa per una biografia durissima contro il Grande Timoniere, Mao Zedong. Figlia di due funzionari del Partito Comunista Cinese, era adolescente proprio negli anni della grande rivoluzione culturale voluta da Mao. A 14 anni si arruola nella Guardia Rossa e partecipa alla “pulizia” ordinata dal partito nei confronti di intellettuali e dissidenti. Frequenta l’università di Sichuan, laureandosi in letteratura inglese. Nel 1978 ottiene una borsa di studio e lascia la Cina, trasferendosi a York, in Gran Bretagna. Nel 1992 raggiunge la celebrità con il romanzo autobiografico Cigni selvatici, in cui ripercorre quasi un secolo di storia cinese attraverso le vicende di tre donne della sua famiglia (la nonna, la madre e se stessa): tradotto in ventotto lingue, il libro ha venduto oltre 10milioni di copie. Del 2006 la biografia su Mao, scritta con il marito Jon Halliday. Attualmente vive a Londra.


128

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLE FILIPPINE RIFUGIATI

986

SFOLLATI PRESENTI NELLE FILIPPINE 1.159 RIFUGIATI ACCOLTI NELLE FILIPPINE RIFUGIATI

141


Una guerra sotto silenzio

Si è rischiata una guerra fra Malaysia e Filippine nel febbraio del 2013. È accaduto quando 200 filippini sono sbarcati a metà febbraio a Lahad Datu, un villaggio nella parte Settentrionale dell’isola del Borneo, nello Stato di Sabah, su ordine del sultano di Sulu, per recuperare la sovranità del territorio rivendicata dalla sua famiglia. A condurre l’attacco il fratello, Kiram II. Militari e esercito malesiani sono intervenuti, con l’appoggio di un cacciabombardiere. Il bilancio non ufficiale è stato di otto morti tra i malesiani e 19 tra i filippini. Sulla vicenda è calato l’imbarazzato silenzio dei Governi dei due Paesi.

UNHCR/A. Jain

L’ultima battaglia, feroce, nel settembre 2013. Il 28 del mese, il portavoce dell’esercito delle Filippine, Domingo Tutaan, ha annunciato la liberazione degli ultimi 195 civili ancora nelle mani degli indipendentisti islamici del Fronte Moro di liberazione nazionale (Mnlf). Lo scontro era iniziato il 9, nella città di Zamboanga, nell’isola di Mindana, una delle aree che gli islamici chiedono per loro. In diciannove giorni di guerra, sono morti 166 indipendentisti, 23 soldati e 12 civili. Migliaia di persone sono fuggite, case ed edifici pubblici sono andati distrutti. In quarant’anni di guerra, il conto dei morti è salito ad almeno 120mila. Due milioni sono gli sfollati. Si muore ancora in Mindanao, la Regione islamica delle Filippine che chiede maggiore autonomia in un Paese per il 94% cristiano. All’inizio del 2013 la pace sembrava cosa fatta. Il Presidente Benigno Aquino aveva annunciato la firma di un accordo con i separatisti. Era la traccia di una roadmap per creare nel Sud del Paese una nuova Regione autonoma entro il 2016, quando scadrà il mandato del Presidente Aquino. Non ha funzionato. Da entrambe le parti – Governo e Indipendentisti – i “falchi” non hanno accettato la soluzione, alimentando attentati e guerra. In settembre sono tornate a parlare, appunto, le armi. Il Governo, poi, si trova a fronteggiare, a Nord, la guerriglia del Nuovo esercito del popolo (Npa), di ispirazione marxista. Gli attacchi a convogli e postazioni militari sono continui, nonostante la crisi vissuta dal movi-

FILIPPINE

Generalità Nome completo:

Repubblica delle Filippine

Bandiera

129

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Filippino, Inglese, Spagnolo, Arabo

Capitale:

Manila

Popolazione:

97.848.000

Area:

300.000 Kmq

Religioni:

Cristiana (91%), musulmana (5%), altre (4%)

Moneta:

Peso Filippino

Principali esportazioni:

Prodotti agricoli, abbigliamento e idraulica

PIL pro capite:

Us 4.380

mento negli ultimi anni. I combattenti sono stimati attorno ai 4mila, numero ridotto rispetto ai 20mila che si stimavano negli anni ’80, ma comunque considerevole. Un tentativo di negoziato è fallito nel 2011, interrotto dal rifiuto del Governo di liberare i militanti detenuti. Così si è tornati a combattere. La tensione resta alta anche dal punto di vista sociale, con le fasce deboli della popolazione che chiedono una migliore distribuzione della ricchezza, con interventi economici precisi, per alzare i salari, ridistribuire la terra e frenare la disoccupazione.


È il controllo del territorio, cioè delle sue ricchezze, la ragion vera delle guerre che tormentano le Filippine. La prima guerra, ormai da quarant’anni, è tra maggioranza cristiana e minoranza musulmana, che reclama l’indipendenza. Ad alimentarla c’è la storica, pessima, distribuzione della ricchezza. Il Nord e il Centro dell’Arcipelago sono le aree ricche, a maggioranza cristiana. Il Sud è povero e lì prevalgono i musulmani - sono il 5% della popolazione complessiva – che da sempre accusano la maggioranza cristiana di non aver fatto abbastanza per

distribuire le risorse equamente. La medesima accusa è all’origine del secondo fronte: quello con i gruppi di origine marxista. Una cattiva distribuzione che è ben rappresentata dalla diffusione della popolazione sul territorio: il 60% degli 85milioni di Filippini, infatti, vive in una sola isola, Luzon, dove c’è la capitale. A tutto questo si somma la tensione internazionale, con le frequenti crisi con la Cina, per il controllo di isole ritenute fondamentali sia per il controllo dei traffici via mare, sia per le risorse minerali e petrolifere.

Per cosa si combatte

Gli scontri del 2013 e del 2012 hanno cancellato ogni illusione di pace, almeno per il momento. Già nel 2011 c’era stata la speranza di una soluzione, con Manila e indipendentisti islamici che sembravano avviati a trovare un’intesa che prevedesse, per i territori a Sud del Paese, una sovranità condivisa e garantita da Hong Kong e Cina. Niente da fare, i negoziati sono saltati, così come sono fallite le trattative con i gruppi marxisti. E la guerra è ripresa. L’elezione nel 2010 di un altro Aquino alla presidenza, Benigno, figlio dell’icona della democrazia, Cory Aquino, aveva acceso speranze nel Paese asiatico, storicamente travagliato. Prima colonia della Spagna, poi degli Usa, dopo l’indipendenza il Paese venne guidato con mano dittatoriale da Marcos sino al 1986, anno della svolta democratica, con l’elezione della presidente Cory Aquino. L’arrivo della nuova Presidente portò ad un accordo con i movimenti separatisti musulmani di Mindanao, attivi nel Sud del Paese sin dagli anni ‘50. Venne concessa loro ampia autonomia amministrativa. Questo fermò il conflitto armato con i separatisti. Continuò invece la guerra con il Nuovo esercito del popolo (Npa): nel 1990, la guerriglia riprese,

dopo la denuncia della scomparsa di attivisti politici e sindacali della sinistra. Il 26 novembre 1991 un altro pezzo del passato coloniale se ne andò: gli Usa si ritirarono dalla base di Clark - una delle due esistenti nelle Filippine, l’altra è Subic Bay -, insieme a 6mila effettivi americani. Nel maggio dell’anno dopo, venne eletto alla presidenza Fidel Ramos, ex ministro della Difesa. Nel 1996 parve risolto il problema con i separatisti islamici. Il 30 settembre venne firmato un accordo di pace e Nul Misauri, capo del Fronte di liberazione nazionale moro, diventò Governatore di Mindanao, Regione autonoma enorme. Fu una pace di breve durata. Già nel 2000 i musulmani chiedevano un referendum per l’autodeterminazione, mentre la maggioranza cattolica protestava contro l’accordo non accettandolo. Intanto una serie di scandali per tangenti e corruzione travolgeva la politica. Nell’aprile del 2002 a General Santos, nel Sud del Mindanao, venne dichiarato la stato d’allerta, per l’esplosione di parecchie bombe, con 14 morti, a opera del Milf, il Fronte Islamico di liberazione moro. Era la ripresa della guerra. L’obiettivo dichiarato era creare uno stato musulmano. Lo scontro con i gruppi islamici diven-

Quadro generale

Una Pasqua auto - violenta

130

È davvero violento il modo che i filippini hanno di festeggiare la Pasqua. Nel 2013, sono stati almeno ventiquattro i penitenti che si sono fatti inchiodare alla croce per rievocare la sofferenza e la morte di Gesù. Altre centinaia si sono autoflagellate, frustandosi ripetutamente la schiena. Una pratica che preoccupa non poco la chiesa ufficiale. Monsignor José Palma, capo della Conferenza episcopale delle Filippine, ha esorato i fedeli a concentrarsi sulla meditazione e la preghiera, invece di dedicarsi a forme di penitenza estreme.


L’elettorato filippino

UNHCR/F.T.Temprosa

Le isole sempre contese

Resta aperta anche la crisi internazionale, con il confronto militare per il controllo delle isole Spratly, da settant’anni contese da Cina, Taiwan, Vietnam, Malaysia, Brunei e, appunto Filippine. Sono 750 isole coralline, fondamentali dal punto di vista strategico per i traffici nel Mar Cinese Orientale, importanti per la pesca e, soprattutto, interessanti per il petrolio e gas naturale che sembrano essere nel sottosuolo. La Cina le reclama e minaccia. Manila, forte dell’appoggio degli Usa, non molla: nel 2012 ha stanziato due miliardi di euro per riarmare l’esercito.

ne sempre più duro, ma restava alta la tensione anche con i gruppi guerriglieri di origine marxista, che riprendevano vigore. Nel 2003, Amnesty International denunciò l’uso della tortura su prigionieri politici, membri di gruppi armati e criminali comuni. Accusa che venne respinta dal Governo. Nel marzo del 2004, fu sventato un attentato simile a quello che aveva colpito Madrid l’11 marzo. Vennero arrestati quattro membri di Abu Sayyaf con 36 chili di esplosivo confiscati. Uno di loro si dichiarò responsabile dell’attentato che il 27 febbraio di quell’anno costò la vita a 100 persone sul SuperFerry 14. Gli arrestati, che svelarono di essere stati addestrati dalla rete terroristica Jemaah Islamiah, legata ad al-Qaeda, progettavano attentati contro treni e negozi a Manila, città con dieci milioni di abitanti. Nel 2004, la Norvegia mediò un accordo fra Nuovo esercito del popolo e Governo. L’anno successivo, dopo negoziati di pace in Malaysia, indipendentisti musulmani e Governo annunciarono un accordo sulle terre ancestrali di cui i ribelli rivendicavano la proprietà da trent’anni. Tregue che non durarono. Nel 2010 sono ripre-

I PROTAGONISTI

si i combattimenti. Si calcola che dal 1971 ad oggi siano stati più di 150mila i filippini morti tra Mindanao e l’arcipelago di Sulu, nello scontro per l’indipendenza e oltre 50mila gli sfollati. Il conflitto con la guerriglia del Npa, invece, avrebbe procurato almeno 40mila morti, a partire dal 1969. Il doppio fronte della guerra interna delle Filippine è sempre aperto. Da un lato lo scontro con gli indipendentisti del Milf, dall’altro la guerra con Npa di matrice comunista, continuano a far pagar prezzi alti in termini di vite umane. Il neo Presidente Benigno Aquino III - eletto in giugno - ha fatto ripartire le trattative di pace con risultati scadenti, così sono continuate le offensive militari. Per le trattative, il ministro degli Esteri della Malaysia è stato chiamato a fare da mediatore, senza risultato. Il Milf vuole trattare solo sulla base della cosiddetta “sovranità condivisa”, che prevede un unico Stato con un Governo autonomo nel Sud islamico. Un’ipotesi che può diventare realtà solo con una revisione della Costituzione e quindi con l’intervento del Parlamento filippino, poco disponibile a una decisione di questo tipo. Così il Milf e il gruppo Abu Sayyaf – nato negli anni ’90 e legato ad al-Qaeda - continuano a lottare per arrivare a creare uno Stato islamico indipendente a Mindanao e nelle isole Meridionali delle Filippine.

131

IL 13 maggio 2013, 52milioni di filippini hanno votato per rinnovare metà del Parlamento nazionale. Sono stati eletti circa 300 deputati, 12 senatori, e vari Governatori provinciali e municipali. In tutto, circa 18mila nuovi incarichi. Il voto ha rafforzato il Governo del Presidente liberale Benigno Aquino, eletto nel giugno 2010 e ultimo rampollo di una famiglia da sempre potente nel Paese. Contro i candidati sostenuti da Aquino si presentava una coalizione guidata dal vicepresidente Jejomar Binay e dall’ex Presidente Joseph Estrada. A preoccupare è la crescita di ruolo e potere delle famiglie che contano nel Paese. Tra i 33 candidati alla carica di senatore c’erano due parenti del Presidente Aquino, poi la figlia del vicepresidente Binay, il figlio dell’ex Presidente Estrada, e molti altri familiari di persone che hanno incarichi politici di rilievo. C’è un consolidato controllo per via familiare delle relazioni politiche e economiche: nonostante un esplicito divieto contenuto nella Costituzione nel 1987, il Parlamento non ha mai approvato una legge per far rispettare la norma e non permettere quella che di fatto è una trasmissione dinastica. È stato calcolato che, nelle Filippine, sono circa 250 le famiglie più influenti che, nel tempo, hanno gestito il potere.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL’INDIA RIFUGIATI

14.258

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI CANADA

5.287

STATI UNITI D’AMERICA

5.041

RIFUGIATI ACCOLTI NELL’INDIA RIFUGIATI

185.656

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI CINA

100.003

SRI LANKA

67.165

AFGHANISTAN

9.633


Un milione di rivolte

Lo scrittore V.S. Naipaul descriveva l’India di “un milione di rivolte”: gli infiniti conflitti che percorrono una nazione enorme e plurale per lingue, culture, religioni, stratificazione di caste, classi, gruppi etnici. Di recente sono riaffiorate violenze “comunaliste”, termine che indica lo scontro tra gruppi sociali definiti dall’appartenenza religiosa o di casta: nel settembre 2013 teppisti di casta jat (hindù) hanno seminato il terrore tra i musulmani in diversi villaggi di Muzaffarnagar, municipalità rurale nello stato di Uttar Pradesh, facendo 45 morti e 50mila sfollati – sono stati denunciati anche numerosi casi di stupro. Episodio allarmante, perché istigato da interessi politici (l’India è in clima pre-elettorale in vista delle elezioni parlamentari del giugno 2014). È mossa da interessi politici anche la creazione di un nuovo Stato nell’India centrale, il Telangana, per separazione dall’Andhra Pradesh: nel settembre 2013 il Governo centrale ha dato il suo assenso. Non è la prima volta che le frontiere interne alla nazione sono rimaneggiate lungo linee linguistico-culturali, ma qui in primo piano è piuttosto la gestione delle risorse naturali: e poiché il nuovo Stato si accaparra la parte più ricca, la partizione è accompagnata da proteste crescenti. Infine ci sono conflitti sociali in senso proprio, come i movimenti contro le requisizioni di terre destinate a miniere e industrie.

La notizia ha fatto scalpore in India. Negli ultimi giorni di settembre 2013 è arrivato ai media il testo di una risoluzione del Partito comunista indiano – Maoista (Cpi-Maoist), l’organizzazione politica fuorilegge protagonista di una decennale rivolta armata in alcune zone rurali del Paese, spesso indicata come movimento naxalita. Firmata dal segretario generale Muppalla Laxman Rao, alias Ganapathi, ammetteva che il movimento armato “affronta una fase critica”, e sta perdendo influenza proprio nelle sue roccaforti. Il comunicato del Partito maoista è rimbalzato sulle prime pagine. E non deve stupire: la rivolta armata condotta dal Cpi-Maoist (e da alcune sigle minori) è il più grave conflitto oggi presente in India, per estensione e intensità. Coinvolge zone per lo più montagnose e impervie a cavallo tra cinque o sei stati Centro-Orientali (Andhra Pradesh, Chhattisgharh, Orissa, Jharkhand, Bengala Occidentale, propaggini del Madhya Pradesh), abitate per lo più da popolazioni native (adivasi, gli “abitanti originari” del subcontinente indiano). Il ministero degli Affari Interni dell’Unione indiana stimava alla fine nel 2012 che 173 distretti siano “affetti da estremismo di sinistra”, in calo da 223 distretti nel 2008; mentre l’autorevole osservatorio indipendente South Asia Terrorism Portal tende ad accreditare stime più basse, con solo 48 distretti “altamente” interessati dal conflitto. È in calo anche il numero delle vittime relative: dopo un picco di 1180 morti nel 2010 il bilancio è sceso a poco più di 600 nel 2011 e 367 nel 2012. Il conflitto resta però reale. Il 25 maggio 2013 ha fatto sensazione l’attacco lanciato dai guerriglieri nel distretto di Bastar contro un convoglio di dirigenti locali del Congress Party, il partito che guida la maggioranza di centrosinistra al Governo dell’Unione indiana. Tra le 26 vittime lasciate sul terreno c’era Mahendra Karma, dirigente locale del partito e famigerato fondatore della milizia anti-maoista chiamata Salwa Judum, nata del 2005 e in seguito riconosciuta responsabile di aver seminato il terrore nei villaggi, brutalità, omicidi, stupri. Il 15 settembre i giornali hanno riferito che 14 maoisti sono stati colti di sorpresa dalle forze di sicurezza, in un distretto montagnoso al confine tra Orissa e Chhattisgarh, e sono stati uccisi in un encounter (parola che allude a quando forze di polizia uccidono in “scontri a fuoco” persone considerate criminali fuggitivi, mafiosi, ribelli o al-

INDIA

Generalità Nome completo:

Repubblica dell’India

Bandiera

133

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Hindi, inglese e altre 21 lingue

Capitale:

Nuova Delhi

Popolazione:

1.237.000.000

Area:

3.287.594 Kmq

Religioni:

Induista (80,45%), musulmana (13,43%), cristiana (2,34%), sikh (1,87%), buddista (0,77%)

Moneta:

Rupia

Principali esportazioni:

Tessuti, gioielli, prodotti dell’ingegneria e software

PIL pro capite:

Us 3.843

tro: secondo molte organizzazioni per i diritti umani si tratta per lo più di uccisioni extragiudiziarie). Era un segnale di svolta. Pochi giorni dopo, è proprio il numero uno del Partito ad ammettere che la pressione militare sale e le filadella guerriglia sono in declino. Dichiarazione di sconfitta, ripiego tattico? Difficile dire: ma certo non è la fine della ribellione che percorre l’India rurale, alimentata da antiche ingiustizie.


I giovani adivasi (nativi) che si uniscono alla guerriglia combattono per una cosa molto semplice: la terra. I maoisti denunciano lo Stato che vuole dare le terre alle multinazionali per aprire miniere e fabbriche, parlano di difendere le risorse naturali e la terra dei nativi. La popolazione rurale dell’India, e in particolare quella adivasi e fuoricasta, è stata negletta per decenni: nella povertà più assoluta, esclusa dai benefici dello «sviluppo», inteso come sanità, scuola, i servizi di uno stato sociale, infrastrutture per lo sviluppo agricolo. Lo “sviluppo” casomai è arrivato sotto forma di esproprio di terre, prese dallo Stato o da grandi aziende private per realizzare grandi progetti, miniere, acciaierie, dighe. Il nesso dei poteri locali – funzionari, polizia, politici e imprenditori forestali o coloni agricoli, alleati per sfruttare la gente senza potere - ha

accelerato lo sfruttamento e l’esproprio delle terre adivasi. È questo che dà ai maoisti tanta attrattiva agli occhi di persone che dello stato hanno visto solo il volto violento. Dall’altra parte, lo Stato lotta per riprendere il controllo delle ampie zone dove i ribelli trovano santuario, off limits per le forze dell’ordine. Anche le grandi imprese sono coinvolte: tra le indiscrezioni rivelate da Wikileaks nell’estate 2012, una diceva che un grande gruppo industriale indiano, Essar, pagava una sorta di “tassa per la protezione” ai gruppi maoisti perché non attaccassero i suoi impianti. L’azienda ha smentito con forza, ma è opinione diffusa che pagare per la protezione sia una pratica comune. Intanto, il conflitto è l’alibi per continuare a lasciare intere Regioni dell’India rurale nel ciclo vizioso di esclusione, sfruttamento, repressione.

Per cosa si combatte

Sembra impossibile che una grande nazione democratica, “economia emergente” che siede tra i G20, potenza atomica, sia percorsa da una guerriglia interna. Eppure si tratta proprio di un conflitto interno, strisciante. «La maggiore minaccia alla sicurezza interna» dell’India, l’aveva definito qualche anno fa il primo Ministro indiano Manmohan Singh. Nel primo decennio del 2000 il Prodotto interno lordo indiano è cresciuto a ritmi da “tigre asiatica”, superando il 9% nel 2010. Grandi città come Mumbai, New Delhi, Kolkata (Calcutta) hanno ormai l’aspetto moderno di metropoli globali. La classe media urbana è cresciuta in modo spettacolare, come anche le disparità interne. Molto di questa crescita sta nelle information technologies, dal software ai call center, ma si moltiplicano anche gli investimenti in miniere, acciaierie, poli industriali. È qui che la “storia di successo” dell’economia globale e la guerriglia interna si incontrano. La rivolta armata di ispirazione maoista coinvolge una Regione compresa tra la parte rurale del Bengala occidentale e del Bihar, nella piana del Gange, al Jharkhand, Orissa, Chhattisgarh nel-

la Regione Centro-Orientale, con propaggini in Andhra Pradesh e Maharashtra. La mappa delle «zone affette da insurrezione maoista» coincide quasi alla perfezione con la Regione chiamata «tribal belt», dove prevale la popolazione indigena («tribali», o adivasi, cioè «abitanti originari»): una minoranza di oltre 90milioni di persone, la parte più povera e marginale della società indiana. Questa Regione a sua volta coincide con la «mineral belt», i territori montagnosi dove si trova gran parte delle ricchezze minerarie indiane: l’80% del ferro, il 90% della bauxite, uranio, carbone, rame, oro. La mappa dei giacimenti minerari e quella delle popolazioni native si sovrappongono: è questa la radice del conflitto. I protagonisti del conflitto armato sono diversi, tutti chiamati “naxaliti” dal movimento che prese avvio con una rivolta nel villaggio di Naxalbari, nelle campagne del Bengala Occidentale, contro lo sfruttamento agrario; guidato da un Partito comunista di ispirazione maoista, quel movimento fu duramente schiacciato negli anni ‘70. Il conflitto attuale, che ne riprende l’ispirazione, è cominciato negli anni ‘90 in Andhra Pradesh su spinta

Quadro generale

“Legge della terra” contro l’ingiustizia

134

È stata definita una legge “storica”: in settembre il Parlamento indiano ha approvato la “Land Adquisition Bill”, legge sulle acquisizioni di terra – per la precisione sul “diritto a equo risarcimento, trasparenza, e misure per risistemare” coloro che cedono terre per nuove attività produttive, miniere, fabbriche. Milioni di indiani nella seconda metà del ‘900 sono stati costretti a sfollare per far posto a simili opere, per lo più in zone rurali. La nuova legge aumenta l’entità dei risarcimenti per chi accetta di cedere la terra, e sancisce che l’acquisizione sia possibile solo se accetta almeno il 70% degli interessati, nel caso di aziende pubbliche, o l’80% in casi di acquisizione da parte di privati. Il ministro per lo Sviluppo Rurale Jairam Ramesh si è detto convinto che così viene meno una grande fonte di ingiustizia verso le popolazioni contadine e native. Molti però restano scettici: troppo spesso le norme a tutela delle popolazioni rurali e native sono rimaste inattuate.


Dayamani Barla

Il diritto al cibo

Nel mese di settembre 2013 il governo indiano ha approvato la National Food Security Bill (Legge nazionale per la sicurezza alimentare), che sancisce il “diritto al cibo” come un diritto fondamentale della persona. Dovrà garantire l’accesso al cibo ai circa 800milioni di indiani che vivono sotto la soglia di povertà. Finanziata con circa 20miliardi di dollari annui, la legge istituirà un gigantesco programma di welfare per distribuire agli aventi diritto 5 chili di riso, grano e legumi ogni mese a 3 rupie (cinque centesimi) al chilo; donne incinte e neo madri avranno anche un sussidio di 6mila rupie (90 dollari) al mese. L’India ha già un “sistema di distribuzione pubblica” di alimenti a prezzo calmierato, e programmi come il pasto gratuito distribuito nelle scuole: ma ciò non ha impedito che il 20% dei bambini indiani sotto i 5 anni soffra di malnutrizione acuta, e che quasi metà (61milioni di bambini) siano rachitici a causa della malnutrizione cronica. La sfida ora è realizzare il diritto al cibo senza lasciare fuori nessuno.

del People’s War Group (“Gruppo della guerra di popolo”), e in Bihar del Maoist Coordination Centre e un’altra sigla (Cpi-m-party unity), eredi del vecchio partito. Nel 2004 si sono fusi dando vita al Cpi-maoist, Partito comunista maoista, illegale. A differenza degli anni ‘60 i militanti – foot soldiers – sono per lo più “tribali”, anche se la leadership è di persone istruite e di casta alta. Dopo una forte offensiva delle forze speciali in Andhra Pradesh, tra il ‘99 e il 2000 il Cpimaoist si è spostato verso Nord. Oggi è presente in ampie zone del Chhattisgarh, Jharkhand, Orissa, Bihar; mentre altre sigle sono presenti in zone limitrofe. Non è una presenza continua, piuttosto concentrata in alcuni punti, a macchia di leopardo: il “corridoio rosso” spesso evocato dai media non esiste. Per lunghi anni lo Stato ha dato una risposta principalmente militare al movimento naxalita, creando corpi speciali e scuole di anti-guerriglia. Non solo: la guerra al maoismo è diventata presto una guerra sporca, condotta da milizie irregolari armate dallo Stato. Il caso più noto è la Salwa Judum, attiva in Chhattisgarh: creata nel 2005, in un paio d’anni

I PROTAGONISTI

ha seminato il terrore con centinaia di raid, villaggi incendiati, stupri, uccisioni, costringendo a forza 350mila persone a sfollare. Nel 2009 il Governo ha lanciato una operazione “interstatale coordinata” nota come Green Hunt, “Caccia verde”, che ha subìto una clamorosa battuta d’arresto nell’aprile 2010, quando i maoisti hanno attaccato un battaglione di polizia uccidendo 76 agenti. Al settembre 2013 si stima che circa 70mila uomini delle forze di sicurezza federali siano schierati contro i maoisti, oltre a decine di migliaia di poliziotti dei singoli Stati. Le cronache sono piene di encounter in cui vengono uccisi presunti maoisti, che spesso risultano semplici abitanti locali. Più che le operazioni sul terreno però, negli ultimi due anni i “successi” dello Stato sono dovuti a operazioni mirate di intelligence, che hanno portato ad arresti e all’uccisione di dirigenti di spicco del Cpi-Maoist. Inoltre, l’offerta di incentivi e reinserimento ha spinto molti a deporre le armi. Arresti, uccisioni, frazionismo interno, defezioni hanno messo in crisi il partito maoista, come testimonia la risoluzione diffusa di recente. La guerra però continua. E il conflitto ha travolto attivisti sociali, gandhiani, sindacalisti, avvocati dei diritti umani, spesso guardati con sospetto sia dai maoisti, sia dalle forze governative.

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Attivista per i diritti delle comunità native, Dayamani Barla è una figura nota nel Jharkhand, stato dell’India Settentrionale. Giornalista e attivista per i diritti degli adivasi come lei, ha ricevuto il Premio Ellen Lutz per i diritti dei popoli indigeni. Nata in una famiglia «tribale», ha fatto la domestica per potersi pagare la scuola dopo che al padre era stata sottratta la terra di cui viveva. Diplomata, ha scritto per alcuni giornali locali diventando una «cronista popolare». Alla fine degli anni ‘90 è tornata nel suo distretto per partecipare alla lotta contro il progetto di due dighe sui fiumi Koel e Karo, che avrebbe sommerso decine di villaggi con migliaia di persone: la rivolta contro il Koel Karo Project è stato uno dei primi movimenti di massa che portavano alla ribalta la questione degli sfollati ambientali in India, ed è stato vittorioso. Nel 2005 è stata protagonista di un altro movimento, contro una mega acciaieria progettata da Arcelor-Mittal. Vive nella città di Ranchi, in Jharkhand, guadagnandosi la vita con una minuscola rivendita popolare di tè. L’ultima battaglia, quella di un villaggio alle porte di Ranchi contro la requisizione ordinata dal Governo, ha portato Dayamani in galera, alla fine del 2012, accusata di aver istigato le famiglie sfollate a rioccupare le terre.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALL’IRAQ RIFUGIATI

746.440

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI SIRIA

471.418

GIORDANIA

63.037

GERMANIA

49.829

SFOLLATI PRESENTI NELL’IRAQ 1.131.810 RIFUGIATI ACCOLTI NELL’IRAQ RIFUGIATI

98.822

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SIRIA

63.586

TURCHIA

15.496

PALESTINA

11.467


I numeri della violenza

Almeno 6mila i morti dall’inizio del 2013: il conteggio, dell’organizzazione indipendente Iraq Body Count, è sicuramente approssimato per difetto. Maggio e settembre i mesi peggiori, con oltre 1000 persone uccise in ognuno, secondo le Nazioni Unite. La violenza è ai livelli massimi dal 2008, con una media di 68 autobombe al mese (finora) e un “attacco multiplo” ogni 10 giorni, stando a Michael Knights, esperto americano che raccoglie – e analizza - questo tipo di dati dal 2004. Baghdad continua ad essere al primo posto per frequenza di attacchi e numero di vittime, ma attentatori suicidi, terroristi, e killer colpiscono da Nord a Sud. Il conto delle vittime di ottobre è già quasi a 600. Giornata particolarmente sanguinosa il 1 ottobre - con oltre 50 morti a Baghdad, per 13 autobombe coordinate in zone sciite. Le Nazioni Unite, che stimano (fine settembre) in 5740 il numero dei civili uccisi da gennaio, sottolineano come tale cifra sia doppia di quella registrata per tutto il 2010.

Più di mille persone uccise in attentati e attacchi nel mese di settembre, almeno 6mila i morti dall’inizio del 2013. In Iraq la violenza è ai livelli più alti dal 2008, e il Paese sembra non riuscire a trovare pace. Autobombe, attentati multipli, attacchi contro soldati e poliziotti, omicidi più o meno mirati: a pagare il prezzo più alto sono i civili. L’Iraq ormai non fa più notizia, ma, a dieci anni dall’invasione del marzo 2003, che rovesciò il regime di Saddam Hussein, e a quasi due anni dal ritiro degli americani, è ben lungi dall’essere un Paese stabile e pacificato. Una grave crisi politica che sembra non trovare soluzione si ripercuote sulla sicurezza, mentre si aggrava il conflitto tra sunniti e sciiti. I primi si sentono sempre più emarginati dal Governo del premier Nuri al Maliki (sciita), che ha accentrato il potere nelle sue mani, e controlla l’intero apparato di sicurezza. Dal dicembre 2012 le proteste sunnite, in un primo tempo pacifiche, fanno parlare di “primavera araba” irachena. Ma non dura. Il 23 aprile, l’attacco delle forze governative contro sunniti accampati per protesta a Hawija, vicino Kirkuk, nel Nord, fa 45 morti fra i manifestanti. Due inchieste successive accertano un uso sproporzionato della violenza da parte delle forze di sicurezza, che sparano contro civili disarmati. È la scintilla che fa divampare l’incendio: la violenza si allarga e si intensifica nelle zone sunnite, diventando rivolta armata. Nella provincia di Anbar, in particolare, esponenti politici e religiosi invitano i rivoltosi a imitare i loro “fratelli siriani”, e a rovesciare il Governo di Baghdad. Maggio è un mese particolarmente sanguinoso, con oltre 1000 vittime della violenza in tutto il Paese. Gli attentati suicida in particolare prendono di mira gli sciiti, ma la violenza è diffusa e pervasiva. Milizie sciite rivali si affrontano a Baghdad, mentre nella capitale irachena molti temono il ritorno dei famigerati “squadroni della morte”.

IRAQ

Generalità Nome completo:

Repubblica di Iraq

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo, curdo

Capitale:

Baghdad

Popolazione:

32.580.000

Area:

437.072 Kmq

Religioni:

Musulmana (sciita, sunnita); minoranze: cristiani, yazidi, sabei

Moneta:

Dinar iracheno

Principali esportazioni:

Petrolio

PIL pro capite:

Us 7.004

Il Governo Maliki è più volte sull’orlo del collasso, ma in qualche modo riesce sempre a restare in sella. Le elezioni provinciali del 20 aprile vedono ancora in testa la formazione del premier (anche se indebolita), ma soprattutto l’affermazione di liste locali in molte Province, mentre vanno male le forze laiche, prima fra tutte Iraqiya di Allawi. Di fronte alla violenza che non dà tregua (e che per la prima volta colpisce anche in Kurdistan) il monito di Maliki: rischiamo la guerra civile, dice il premier, che se la prende con i “terroristi” che arrivano dalla vicina Siria.


A dieci anni dall’invasione del marzo 2003 e dal rovesciamento del regime, i suoi effetti destabilizzanti permangono, inseriti ora in un contesto regionale – il Medio Oriente – che ha visto sconvolti i precedenti equilibri. L’Iraq resta politicamente instabile, con ricadute dirette sulla sicurezza: la violenza continua a insanguinare il Paese, risparmiando (per ora) solo la Regione del Kurdistan. Irrisolto il nodo del “power sharing” – l’accordo che a fine 2010 aveva consentito la nascita del Governo – il potere è di fatto in mano al premier Nuri al Maliki. Stretto fra due vicini ingombranti, Iran e Turchia, l’Iraq post-americano, dove è forte l’influenza di Tehran, subisce ora direttamente gli effetti del conflitto nella vicina Siria, con le sue

diverse componenti influenzate da quelle stesse parti esterne impegnate in questo conflitto (leggi Iran, Arabia saudita, Qatar). Effetti che si sommano alle dinamiche interne, con il rischio che l’attuale rotta di collisione fra il premier Maliki (il cui mandato scade nel 2014) e i sunniti si trasformi in vera e propria rivolta armata contro il Governo di Baghdad nelle Province a maggioranza sunnita. Una rivolta che potrebbe innescare una disintegrazione del Paese, dove i sunniti tendono ad appoggiare i “ribelli” siriani, mentre il Governo sostiene Bashar al Assad. Molto dipenderà però dagli esiti del conflitto in Siria, nonché dall’atteggiamento di Tehran, alleata di Damasco. Le sorti dell’Iraq, insomma, non si decidono solo a Baghdad.

Per cosa si combatte

Già parte dell’Impero Ottomano, poi monarchia sotto mandato britannico (1920), ottiene l’indipendenza nel 1932. Il 14 luglio 1958 un colpo di stato rovescia la monarchia. L’8 febbraio 1963 il Governo di Abdul Karim Qasim viene a sua volta rovesciato da un golpe del Ba’ath, partito nazionalista arabo. Presto estromessi, i ba’athisti tornano al potere il 17 luglio 1968, instaurando il regime del partito unico. Il 22 settembre 1980, Saddam Hussein, Presidente dal 16 luglio 1979, attacca l’Iran, dove nel febbraio 1979 la Rivoluzione Islamica dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini ha rovesciato lo Scià. Inizia così una guerra sanguinosa che vede l’Occidente schierato con Baghdad. A guerra finita (20 agosto 1988), l’Iraq è in una situazione disastrosa, con un debito enorme verso i Paesi del Golfo, che ne hanno finanziato l’avventura militare. Il 2 agosto 1990, Saddam invade il Kuwait, accusato di abbassare il prezzo del petrolio per indebolire l’economia irachena. Il 6 agosto le Nazioni Unite impongono un embargo, per costringere Baghdad a ritirarsi.

La Guerra del Golfo, che inizia il 17 gennaio 1991, autorizzata dal Consiglio di Sicurezza, vede l’Iraq attaccato da una coalizione di 34 Paesi. Il 3 marzo Baghdad accetta il cessate il fuoco: ma le sanzioni resteranno finché l’Onu non certificherà che l’Iraq non possiede più “armi di distruzione di massa” (nucleari, chimiche, biologiche). L’embargo devasta il Paese – e rafforza il regime di Saddam, che però è nel mirino di Washington. Per il Presidente George W. Bush l’occasione si presenta dopo l’11 settembre: il 20 marzo 2003 Stati Uniti e Gran Bretagna invadono l’Iraq, anche senza l’ok del Consiglio di Sicurezza. Il 9 aprile i carri armati americani entrano a Baghdad. Deposto il regime, inizia l’occupazione del Paese, presto avallata dall’Onu. Tuttavia, il rapido precipitare degli eventi convince Washington a “restituire la sovranità” agli iracheni. A fine giugno 2004, passaggio di consegne a un Governo ad interim guidato da Iyad Allawi, mentre una risoluzione Onu legittima la “Forza multinazionale”, sotto comando Usa, il cui man-

Quadro generale

In Kurdistan arriva il cambiamento

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Quasi un terremoto politico nella Regione semiautonoma kurda. Le elezioni per il rinnovo del parlamento locale, il 21 settembre, segnano la fine del monopolio del potere da parte dei due maggiori partiti – il Partito Democratico del Kurdistan (Pdk) del Presidente Mas’ud Barzani, e l’Unione Patriottica del Kurdistan (Puk) di Jalal Talabani, attuale Presidente dell’Iraq. La novità politica sta nel crollo di quest’ultimo, al quale subentra come seconda forza politica della Regione il movimento Goran (Cambiamento) che ha ottenuto il 24,21% dei voti, aggiudicandosi 24 dei 111 seggi del Parlamento. Il Pdk di Barzani resta primo (con il 37,39% e 38 seggi), ma la partita per il Governo adesso è aperta. Il partito di Talabani scende al 17,8% e di seggi ne avrà solo 18. Comunque evolvano gli sviluppi, è indubbio che si tratta di un risultato storico.


Abdul Maliki al Saadi

Il petrolio ha gli occhi a mandorla

La Cina acquista quasi la metà del petrolio prodotto attualmente dall’Iraq, circa un milione e mezzo di barili al giorno. Con oltre 2milioni di dollari l’anno di investimenti, e centinaia di lavoratori sul posto, le compagnie (statali) del Paese asiatico stanno facendo la parte del leone nel settore petrolifero, e potrebbero via via sostituirsi a quelle occidentali, che iniziano a essere scoraggiate dal persistere dell’instabilità, dai rischi economici, nonché dalle condizioni poco allettanti offerte finora dal Governo di Baghdad. Sì, perché i cinesi non si lamentano, e accettano di buon grado – a differenza delle major - i cosiddetti “contratti di servizio”, che non consentono di partecipare agli utili della produzione. Ma a Pechino va bene così: se gli altri si ritirano, meglio. A riempire il vuoto saranno loro. Pechino non si intromette negli affari dell’Iraq: le basta portarsi a casa il petrolio.

dato sarà prorogato annualmente. Il 30 gennaio 2005 prime elezioni per un “Governo di transizione”. Approvata – di stretta misura – la nuova Costituzione il 15 ottobre in un referendum popolare, gli iracheni tornano a votare il 15 dicembre. Nel maggio 2006, il nuovo Governo guidato da Nuri al Maliki mette insieme i partiti sciiti (religiosi) e kurdi - i due gruppi perseguitati sotto Saddam. L’ex Presidente iracheno, catturato il 14 dicembre 2003, e condannato a morte da un Tribunale speciale, è giustiziato il 30 dicembre 2006. Il 22 febbraio 2006 un attentato contro la moschea sciita al Askariya di Samarra innesca una vera e propria guerra civile fra sunniti e sciiti, a cui gli americani rispondono con la surge, portando la loro presenza militare a quasi 170mila uomini. Il 14 dicembre 2008 Stati Uniti e Iraq firmano lo Status of Forces Agreement (Sofa), che stabilisce il ritiro totale delle truppe Usa entro fine

I PROTAGONISTI

2011. Le elezioni legislative del 7 marzo 2010 vedono vincere di strettissima misura Iraqiya, alleanza nazionalista guidata dall’ex premier Iyad Allawi. Ma a guidare il nuovo Governo, che nasce (incompleto) solo a dicembre, sarà di nuovo Nuri al Maliki, riuscito a unificare le forze sciite. Il 18 dicembre 2011 gli ultimi soldati statunitensi lasciano l’Iraq, ma la fase post-americana parte sotto cattivi auspici: un mandato di arresto contro Tariq al Hashimi, uno dei due vicepresidenti della Repubblica – con accusa di “terrorismo” – avvia una grave crisi politica, che a sua volta innesca un ciclo di violenza incontrollata. Attentati spesso multipli, con numerose vittime, insanguinano il Paese. Presto l’instabilità politica - con crisi della coalizione di Governo – diventa paralisi, mentre il premier Maliki continua ad accentrare poteri. Le Nazioni Unite parlano di 2010 civili vittime della violenza nella prima metà del 2012, mentre per il Dipartimento di Stato l’Iraq resta più violento dell’Afghanistan.

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I sunniti iracheni hanno forse trovato una loro figura carismatica. A portare alla ribalta lo sceicco Abdul Maliki al Saadi sono le proteste iniziate nella provincia di Anbar a fine 2012. Oppositore di Saddam, arrestato nel 1988, lascia il Paese nel 2001 per andare in Giordania, ad Amman. Dopo il 2003, si limita a stigmatizzare i “gravi errori”degli americani, ma non lancia appelli al jihad contro gli occupanti. Nel 2007 viene scelto come Gran Mufti dell’Iraq, ma rifiuta. Si impegna tuttavia per Anbar, aiutando i disoccupati, perché al Qaeda abbia difficoltà a reclutare tra le loro fila. A farlo conoscere sono le proteste sunnite – inizialmente pacifiche – organizzate nella provincia dal dicembre 2012. Parla a favore della convivenza tra le diverse confessioni in Iraq, e con una fatwa vieta ai sunniti di chiedere una loro regione federale. La svolta arriva quando a Falluja alcuni soldati sparano contro i manifestanti: lo sceicco minaccia il premier Maliki di trasformare il sit-in pacifico in rivolta armata, e invita i militari a disertare e a unirsi alla protesta. Oggi Saadi fa la spola fra Ramadi (capitale di Anbar) e Amman, e per i sunniti è diventato un simbolo.


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Come leggere le Mappe

Nella Mappa Onu, qui sopra, troverete solamente indicato lo Jammu and Kashmir poichè si tratta dell’antico nome dell’intera area contesa da India, Pakistan e Cina. La Mappa, qui a destra, indica invece la spartizione di fatto dei territori da parte dei suddetti Stati, con diversa denominazione, mai riconosciuta a livello internazionale.


Situazione attuale e ultimi sviluppi

Il 26 settembre 2013 guerriglieri con le uniformi dell’esercito indiano hanno attaccato una postazione della polizia indiana nel Kashmir, ad appena 10 chilometri dal confine di fatto con il Pakistan; nello scontro sono morti 5 agenti di polizia, i 3 attaccanti e un civile. Secondo le autorità indiane si è trattato dell’ennesimo tentativo di infiltrazione di elementi armati dal territorio pakistano. Di certo è uno degli attacchi più sanguinosi degli ultimi tempi e ha fatto salire la tensione tra India e Pakistan, a pochi giorni dall’incontro tra i rispettivi premier, Nel Kashmir indiano nel 2013 è Manmohan Singh e Nawaz Sharif, presso l’Onu scoppiato il panico da attacco a New York. nucleare. La Regione contesa - Ma è solo l’ultimo di una serie: il 2013 ha visto India e Pakistan entrambe dotate riprendere la violenza in Kashmir, il territorio di arsenale atomico – ha vissuto all’estremo Nord del subcontinente indiano, gomesi frenetici per la costruzione vernato dall’India ma rivendicato dal Pakistan. di migliaia di rifugi antiatomici. Le Secondo il South Asia Terrorism Portal, 62 perfamiglie sono state anche invitate sone sono rimaste uccise nei primi sei mesi del dalle autorità locali a rifornirsi di 2013 (30 uomini delle forze di sicurezza indiane, candele, torce elettriche, gene- 21 guerriglieri e 11 civili): nello stesso periodo ratori, benzina, cibo e acqua per del 2012 le vittime erano state 41. Ancora nel resistere almeno due settimane. 2012 i dati mostravano un lento ma continuo deSono stati anche distribuiti opu- clino della violenza (117 morti nel 2012, contro scoli con consigli su “che fare” in 183 nel 2011). Siamo ancora lontano dal picco caso di attacco: come proteggersi di oltre 1100 morti nel 2006, ma i dati degli ulse si è all’esterno, in auto e come timi mesi indicano una ripresa di attività delle superare il disorientamento che formazioni islamiste come Hizb-ul-Mojaheddin, segue l’esplosione. L’attacco, ha a cui sono attribuiti gli attacchi più sanguinosi spiegato la propaganda, sarebbe la di questo inizio 2013. Sono aumentati anche gli logica conseguenza dell’escalation scontri armati lungo la frontiera, sia la Linea di militare dell’ultimo periodo. Controllo (vedi il “focus”), sia la frontiera internazionale riconosciuta. La fragile calma degli ultimi anni rischia di svanire. Sia perché i tentativi di disgelo avviati tra India e Pakistan negli ultimi due anni non avanzano. Sia perché è bloccato il dialogo politico interno. In Jammu&Kashmir restano in vigore le leggi d’emergenza che Generalità danno poteri speciali alle forze di Nome completo: Jammu e Kashmir sicurezza, la Armed Forces Special Bandiera Power Act (Afspa) e la Public Safety Act (Psa), indicate da organizzazioni come Amnesty international come una delle maggiori fonti di abuso verso la popolazione civile. Proprio Lingue principali: Hindi, Inglese la rabbia contro le “leggi nere” aveCapitale: Jammu e Srinagar va alimentato nell’estate del 2010 (rispettivamente capitali la “rivolta delle pietre”, movimento invernale ed estiva dello di massa di adolescenti che aveva Jammu e Kashmir) spiazzato sia il Governo, sia le stoPopolazione: 12.500.000 riche forze politiche nazionaliste, Area: 222.236 Kmq ed è stato represso duramente (112 ragazzini sono rimasti uccisi). Religioni: Musulmana ma nella Il Governo centrale aveva risposto regione Jammu prevale la hindu e in quella del allora avviando l’ennesimo tentativo Ladakh quella buddhista di dialogo con le forze nazionaliste Moneta: Rupia del Kashmir, che però non ha dato risultati concreti. In luglio 4 persone Principali Frutta, lane di cachesono state uccise e oltre quaranta mire, tessuti ricamati, esportazioni: pietre lavorate ferite quando i paramilitari della Border Security Force hanno aperto PIL pro capite: n.d.

KASHMIR

Panico atomico

Generalità Nome completo:

Azad Jammu e Kashmir

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Bandiera

Lingue principali:

Kashmiri, Urdu, Hindko, Mirpuri, Pahari, Gojri

Capitale:

Muzaffarabad

Popolazione:

4.500.000

Area:

13.297 Kmq

Religioni:

Buddista, musulmana, induista, sikh

Moneta:

Rupia

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

n.d.

il fuoco su manifestanti disarmati. Allo stesso tempo New Delhi gioca la carta dello “sviluppo”, con 370miliardi di rupie stanziati dal 2004 per finanziare progetti di infrastrutture o creare posti di lavoro. Intanto, secondo fonti attendibili, i dirigenti di Lashkar-e Taiba e Hizb-ul Mojaheddin, organizzazioni “jihadi” che combattono in Kashmir (ma hanno base in Pakistan), vanno dicendo che la guerriglia nella valle riprenderà nel 2014, grazie ai combattenti che torneranno dall’Afghanistan dopo il ritiro delle forze occidentali. L’escalation di questi mesi è un monito.


forze nazionaliste del Kashmir restano divise su questioni strategiche fondamentali, dalle forme di lotta all’obiettivo (gli indipendentisti rivendicano il referendum per l’autodeterminazione, raccomandato da una risoluzione dell’Onu nel 1948: ma per alcuni “autodeterminazione” significa scegliere tra India e Pakistan; per altri include una terza opzione, l’indipendenza, rifiutata sia a New Delhi che a Islamabad). Così, quando nel 2003 il Governo indiano ha offerto il dialogo, la All Party Hurriyat Conference (“Conferenza della libertà”), il cartello delle forze nazionaliste formato nel 1993, si è spaccata. La prima rivendicazione comune però è mettere fine alla militarizzazione della vita quotidiana e revocare le leggi speciali. Nel 2009, l’anno più calmo dall’inizio dell’insurrezione, l’India ha avviato il ritiro circa 35mila soldati dal Kashmir: ma l’ha bloccato l’anno successivo. Resta l’impunità delle forze di sicurezza; nessuno ha mai indagato su esecuzioni extragiudiziarie, torture, stupri, o la scomparsa di migliaia di persone. Mentre la “rivolta delle pietre” dell’estate 2010 ha rivelato la rabbia di una generazione cresciuta nel conflitto, che rivendica libertà ma non si aspetta nulla da un dialogo che si trascina da troppi anni.

Per cosa si combatte

Una terra poco libera

È chiamato Azad Kashmir (azad significa “libero” in lingua urdu). Ma il settore di Kashmir sotto il controllo pakistano vive tutt’altro che in regime di libertà. Dietro la facciata di periodiche elezioni locali e di un Governo indipendente, ogni aspetto della vita politica in Azad Kashmir è controllato dal Governo federale di Islamabad, dall’esercito e dalle agenzie di intelligence. La Commissione per i diritti umani in Pakistan (Hrcp, organizzazione indipendente, non governativa e non partitica) ha spesso denunciato le rampanti violazioni nel territorio. Secondo Human Rights Watch “il Governo pakistano reprime le libertà democratiche, imbavaglia la stampa e pratica normalmente la tortura”. Chi voglia prendere parte alla vita pubblica in Azad Kashmir deve fare giuramento di fedeltà al Pakistan; chi professa pubblicamente sostegno all’indipendenza del Kashmir (opponendosi cioè alla sua annessione al Pakistan) viene perseguitato.

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Per India e Pakistan il Kashmir è una contesa territoriale. Dopo una guerra non dichiarata nell’estate 1999, questo inizio secolo ha visto momenti di escalation (come quando nel 2002 le due potenze atomiche hanno schierato i rispettivi eserciti lungo la frontiera comune, in stato di massima allerta) e di relativa calma. Come tra il 2005 e il novembre 2008, quando India e Pakistan hanno avviato il ciclo di dialogo più promettente dal 1947: per la prima volta da decenni era perfino ripreso il servizio di bus tra il Kashmir indiano e il territorio occupato dal Pakistan. Nel dicembre 2008 però l’attacco terroristico a Mumbai, organizzato dal gruppo jihadista Lashkar-e-Taiba (pakistano), ha riportato il gelo, e nel febbraio 2010 un attacco all’ambasciata indiana a Kabul, in cui è risultato coinvolto l’Isi, l’intelligence militare del Pakistan, ha mostrato che la competizione tra i due Paesi si gioca anche in Afghanistan. Solo nell’agosto 2011 sono ripresi i contatti bilaterali, ma le relazioni restano fredde. L’India diffida del premier pakistano Nawaz Sharif, insediato nel giugno 2013, e vede con allarme la corsa del Pakistan a dotarsi di armi nucleari “da campo”, di rapido impiego. Il Pakistan d’altra parte attribuisce disegni aggressivi all’India. Le

UNHCR/T. Irwin

Il conflitto del Kashmir è una delle crisi regionali più prolungate del subcontinente indiano. È un conflitto allo stesso tempo interno (all’India) e tra stati (India e Pakistan): e questa duplice natura fa della verdeggiante vallata del Kashmir, circondata da ghiacciai himalayani là dove si toccano India, Pakistan e Cina, una polveriera con implicazioni regionali che riverberano fino all’Afghanistan. Il conflitto interno è esploso alla fine degli anni ‘80 con una ribellione separatista che ha raggiunto nei momenti peggiori l’intensità di una guerra civile. Questa a sua volta è alimentata dalla contesa territoriale tra le due potenze nucleari del subcontinente: India e Pakistan hanno combattuto per il Kashmir due guerre dichiarate (nel 194849 e nel 1965) e una non dichiarata (nell’estate del 1999), oltre a una lunga «proxy war» condotta da guerriglieri infiltrati dal Pakistan, anche se Islamabad dichiara di dare ai musulmani del

Kashmir solo “sostegno morale e politico”. Il problema del Kashmir è una delle eredità irrisolte della Spartizione del 1947, quando dalla vecchia India britannica sono nate due nazioni separate, il Pakistan musulmano e l’India multireligiosa e secolare benché a maggioranza indù. Il principato di Jammu e Kashmir (che includeva i territori di Jammu, Kashmir e Ladakh, e i territori di Gilgit e Baltistan) fantasticò di restare indipendente, ma infine optò per l’India con un atto formale che ne fece uno Stato dell’Unione indiana in un quadro di ampia autonomia. La decisione presa dal locale maharaja Hari Singh (indù) con l’accordo dei notabili nazionalisti guidati da Sheikh Abdullah (musulmano) fu sgradita ai dirigenti pakistani, che rivendicavano il Kashmir. La disputa è sfociata nel 1948 nella prima guerra tra India e Pakistan. La linea di cessate-il-fuoco negoziata con la mediazione delle Nazioni unite nel 1949 è da allora il confine di fatto: a Ovest il settore

Quadro generale


Afzal Guru

UNHCR/B.Baloch

(1969 - 9 February 2013)

Loc, la Linea di Controllo

Si chiama Loc, acronimo di Line of Control, “Linea di Controllo”. Separa le zone del Kashmir sotto il controllo dell’India e del Pakistan: era la linea su cui erano assestati i rispettivi eserciti al momento di negoziare il cessate il fuoco che nel 1949. Non è un confine internazionale riconosciuto, perché resta oggetto di rivendicazione. È diventata però un confine di fatto (prendendo il nome di Loc) nel 1972, con gli Accordi di Simla che alla fine di una nuova guerra tra Pakistan e India segnarono la nascita del Bangladesh; da allora infatti le due parti si sono impegnate a non violarla.. La Loc resta permeabile all’infiltrazione di combattenti armati (dal lato pakistano a quello indiano), ma per la popolazione civile è una barriera insormontabile, che separa villaggi e famiglie. Tra i due lati non funzionano le normali connessioni telefoniche e solo in rarissime occasioni si sono avute visite e ricongiungimenti familiari.

sotto controllo pakistano (circa un terzo del territorio, capitale Muzaffarabad) a Est la parte sotto sovranità indiana (circa il 60% del territorio originario, capitali Srinagar e Jammu). Una zona di ghiacciai all’estremo Nord (10%) è stata ceduta dal Pakistan alla Cina nel 1962. Le risoluzioni delle Nazioni unite del 1948 e ‘49 chiesero al Pakistan di ritirare le proprie forze dal territorio occupato e sollecitavano un referendum perché i kashmiri potessero decidere il proprio futuro. Il Pakistan non si ritirò, e l’India se ne fece una scusa per non indire mai il plebiscito. Il periodo post indipendenza ha visto un crescente attrito tra le classi dirigenti kashmire e il Governo centrale dell’Unione indiana, che ha via via eroso il regime di autonomia del Jammu & Kashmir. La disaffezione è esplosa nel 1989 in una protesta civile che ha coinvolto un ampio schieramento sociale e politico, dall’Università ai sindacati ai partiti nazionalisti. Alla fine di quell’anno risalgono anche le prime azioni armate contro obiettivi governativi a Srinagar. La risposta dello Stato centrale indiano è stata dura, e l’escalation inesorabile. Il primo gruppo armato, Jammu & Kashmir Liberation Front

I PROTAGONISTI

(Jklf), è stato presto sbaragliato: erano giovani con idee di lotta di popolo, il loro leader Yasin Malik fu presto arrestato e nel ‘94 il Jklf ha rinunciato alla lotta armata. Ma ormai altri protagonisti avevano preso il sopravvento: il Hizb-ul Mojaheddin, braccio armato del partito conservatore (e filopakistano) Jamiat Islami, a sua volta scavalcato da altre sigle (Jaish-e Mohammad, Lashkar-e-Taiba e altre). Erano i primi anni ‘90 e in Kashmir confluivano armi e combattenti provenienti dall’Afghanistan, formati alla jihad, “guerra santa” (nella sua accezione politico-militare), e sostenuti dal Isi, il servizio di intelligence militare pakistano. Con i combattenti “stranieri” è arrivato in Kashmir un islam di stampo taleban estraneo alla sua tradizione sufi locale. È arrivato anche il terrore: attentati contro civili, bombe nei mercati, rappresaglie. Gli hindù del Kashmir, i pandit, sono in gran parte fuggiti. Il Governo centrale ha mandato esercito e corpi paramilitari a contrastare i ribelli, la valle è stata militarizzata. È una guerra largamente manovrata da servizi segreti, ma è la popolazione del Kashmir che ha pagato il prezzo più alto: tra 50 e 80mila persone sono morte dal 1989 al 2010, in gran parte civili. Senza contare migliaia di desaparecidos e una scia di ingiustizie e abusi che hanno travolto le forze sociali, sindacati, forze politiche, gruppi per i diritti umani. E questo è il problema di oggi.

143

Il 9 febbraio 2013, all’alba, Afzal Guru è stato impiccato nel carcere Tihar di New Delhi in gran segreto. Cittadino indiano, era stato arrestato dopo il clamoroso attacco al Parlamento indiano del dicembre 2001, condotto da combattenti suicidi di Jaishe-Mohammad, gruppo jihadi con base in Pakistan. Guru, allora rappresentante di ditte farmaceutiche tra Delhi e Srinagar (in Kashmir), da ragazzo aveva militato nel J&K Liberation Front ma in seguito si era consegnato alle autorità rinunciando alle armi, e nulla lo collegava ai gruppi jihadisti. Eppure nel 2002 è stato processato e condannato a morte per l’attacco al parlamento, sulla base di leggi speciali antiterrorismo: la Corte Suprema, nel respingere il suo appello, sentenziò che non c’erano prove della sua appartenenza a un’organizzazione terrorista, ma la sua vicinanza a uno degli attaccanti suicidi (un vecchio compagno di scuola) dimostrava la sua attiva complicità. Nel 2006 l’esecuzione è stata rinviata, nel timore che in Kashmir scoppiassero rabbia e violenza. Poi, dopo l’attacco a Mumbai nel 2008, sui media illustri commentatori ed esponenti della destra nazionalista sono tornati a chiedere l’impiccagione di Guru.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL KIRGHIZISTAN RIFUGIATI

3.489

SFOLLATI PRESENTI NEL KIRGHIZISTAN 168.600 RIFUGIATI ACCOLTI NEL KIRGHIZISTAN RIFUGIATI

4.941


Scoperto il “vodkadotto”

Lo hanno subito ribattezzato “vodkadotto”: un tubo da venti centimetri di diametro e lungo 500 metri che oltrepassava illegalmente la frontiera tra Kirghizistan e Kazakistan, passando sotto al fiume Ču, portando vodka illegalmente da un Paese all’altro. A scoprirlo la polizia del Kirghizistan, Paese dove la domanda di vodka è molto alta, ma il prezzo al litro è eccessivo. Così, è nato il contrabbando con il confinante Kazakistan, maggiore produttore di vodka della Regione. Lì il prezzo è più abbordabile. Non a caso pare che il "vodkadotto" abbia funzionato per mesi.

Per cosa si combatte

UNHCR/N. Prokopchuk

In visita presso le istituzioni europee, il Presidente kyrghizo Almazbek Atambayev porta a casa la promessa di un sostegno allo sviluppo democratico pari a 13milioni e mezzo di euro. Il Paese è una Repubblica parlamentare dal 2011, anno delle ultime elezioni, indette dopo un colpo di Stato. “Il Kirghizistan deve affrontare ancora molte sfide, nell’ambito dello Stato di diritto, del rispetto dei diritti umani e della riconciliazione inter-etnica (nell’ultimo rapporto Amnesty International denuncia ancora casi di tortura e di duri scontri religiosi). È importante che i partner internazionali sostengano il Paese nel processo di consolidamento della democrazia”. Anche in vista delle elezioni del 2015, dove Atambayev non potrà correre. Per evitare derive autoritarie, la legge prevede un solo mandato di sei anni, non rinnovabile. “Ci ho messo più di sei ore per arrivare a Bruxelles; il nostro Paese è lontano dall’Europa, ma è anche vero che nell’era della globalizzazione tutto è a portata di mano. E nello sviluppo della democrazia parlamentare solo l’Unione europea può aiutarci”. Bruxelles si è impegnata anche a sostenere l’economia, con 30milioni di euro che finanzieranno progetti di microcredito a favore di una popolazione altamente dipendente dalla vicina Russia. Sia a livello economico che, soprattutto, a livello politico con la vittoria di Almazbek Atambajev, E il ritorno di Bishek nell’orbita di Mosca lascia un interrogativo nel Sud del Paese fedele all’opposizione, dove, soprattutto ad Osh, non è escluso che la tensione possa elevarsi nuovamente. La posizione geografica del Kirghizistan, alla periferia dell’Asia centrale e al confine con l’immensa Cina, è un fattore che sicuramente influisce sull’autonomia di scelta della politica energetica e, più in generale, economica. Con il Kazakhstan, il più grande vicino centroasiatico, Bishkek non mantiene una relazione abbastanza amichevole da poter contare su un alleato.

Kirghizistan

Generalità Nome completo:

Repubblica del Kirghizistan

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Kirghizo, russo

Capitale:

Bishkek

Popolazione:

5.000.000 circa

Area:

198.500 Kmq

Religioni:

Musulmana sunnnita, minoranze cristiane

Moneta:

Som kirghizo

Principali esportazioni:

Gas naturale, oro, mercurio, uranio, carni, lana , cotone

PIL pro capite:

Us 2.351

L’amico, gioco-forza, resta la Russia, che utilizza la propria ricchezza energetica per ottenere vantaggi dalla piccola nazione, che in epoca sovietica era una repubblica sorella. La posizione economica kyrghiza non permette al Paese di mantenere un’indipendenza strutturale, visto che il commercio con Mosca rappresenta più di un terzo del totale del volume degli scambi del piccolo stato centroasiatico. Se si osserva la situazione politica internazionale e i ‘giochi’ che le grandi potenze intavolano sul Kirghizistan, è chiaro che la presenza americana, dominante


Shanghai nel 1996, ha avvicinato Russia e Cina nel proprio vicinato comune in Asia centrale. La cooperazione in termini politici e militari ha anche favorito la collaborazione economica e commerciale tra i membri dell’organizzazione. Tuttavia, come ci si aspetta quando un’economia enorme come quella cinese instaura una relazione commerciale con un ‘pesce più piccolo’ come il Kirghizistan, i vantaggi in termini economici sono disproporzionati a favore del partner più forte. Secondo il professor Stephen Blank, dello Us Army College, «se il Kirghizistan dovesse entrare a far parte anche dell’Unione Economica Eurasiatica» o dell’attuale Unione Doganale, «sacrificherebbe la propria economia a vantaggio di Mosca». Le risorse energetiche kyrghize sono scarse e non permettono al Paese di mantenere una politica economica autonoma, premessa necessaria per la stabilità politica in generale. Per quanto riguarda il gas naturale, infatti, le riserve si attestano intorno ai 4miliardi di metri cubi, una quantità effimera nel bilancio energetico nazionale.

Peste Bubbonica sotto controllo

Da registrare un “allarme peste” in Kirghizistan nel 2013. Più di 160 persone, alla fine di agosto, sono state ricoverate negli ospedali per il rischio di contagio da peste bubbonica, dopo la morte di un ragazzo, il pastore 15enne Timerbek Issakounov, che viveva in un villaggio di montagna al confine con la Cina, vicino alla località turistica del lago di Issyk-Koul. Le 160 persone ricoverate erano entrate in contatto con il giovane. Sono state messe sotto sorveglianza e curate con antibiotici. Il ministero alla Sanità ha escluso la possibilità che l’episodio dia il via ad una epidemia estesa.

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fino a qualche anno fa, sta perdendo terreno in favore di Russia e Cina, che hanno offerto al Paese centroasiatico soluzioni di lungo periodo e meno controverse. La presenza delle forze armate statunitensi nella base kyrghiza di Manas è stata fondamentale per le operazioni militari in Afghanistan negli ultimi dodici anni, ma lo scorso giugno il Parlamento di Bishkek ha stabilito la scadenza della concessione nel luglio del 2014. Nel 2003, a bilanciare l’ingresso delle truppe a stelle e strisce fu la concessione della base militare di Kant alle truppe dell’Organizzazione di Sicurezza Collettiva guidata dalla Russia. Questa ‘Nato post-sovietica’ non ha mai riscontrato il successo sperato alla sua fondazione, anche a causa dell’abbandono del progetto da parte di alcuni partner regionali importanti, come l’Uzbekistan. Più efficace si è dimostrata l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, i cui partner principali sono Russia e Cina. In questo caso, la Sco si concentra sui problemi domestici e transfrontalieri, che possono emergere a causa di movimenti che abbiano mire separatiste o terroristiche. Questa organizzazione, ideata a

UNHCR/S. Grigoryan

Il Kirghizistan è uno Stato indipendente dell'Asia centrale. Dal 1936, con il nome di Repubblica Socialista Sovietica Chirghisa, fu una Repubblica federata dell'Unione Sovietica

fino al 1991, anno in cui divenne indipendente dall'Unione Sovietica, dal 1992 è membro delle Nazioni Unite. La superficie è poco meno di 200mila km, la popolazione ammonta a cinque

Quadro generale

UNHCR/A. Plotnikov


Kurmanbek Salievič Bakiev (Masadan, 1º agosto 1949)

UNHCR/T. Bjorvatn

Crisi, un anno di proteste

Anno di forti proteste, il 2013, in Kirghizistan, legate alle difficili condizioni economiche in cui il Paese continua a trovarsi. La più importante di queste manifestazioni, in maggio. È stato dichiarato lo stato di emergenza nella Regione in cui è situata la miniera Kumtor, gestita dalla compagnia canadese Centerra Gold, dopo che circa duemila persone hanno protestato chiedendo la nazionalizzazione dello stabilimento e più garanzie sociali. Almeno 55 persone, tra cui 13 poliziotti, sono rimaste ferite negli scontri con le forze di sicurezza. Agenti in tenuta antisommossa hanno usato granate stordenti e proiettili di gomma per disperdere i manifestanti che lanciavano pietre. Un autobus della polizia è stato dato alle fiamme. La polizia ha arrestato circa 80 persone.

milioni e mezzo di abitanti. La capitale è Biškek, chiamata Frunze durante il periodo sovietico, poiché è la città natale di un generale dell'Armata rossa, Michail Vasil'evič Frunze. Il Khanato fu occupato nel 1876 dall'Impero Russo; iniziò così il lungo periodo egemonico russo sul Kirghizistan. I Kyrghisi fecero parecchie insurrezioni, che durarono molto tempo, e molti emigrarono in Afghanistan, insofferenti al potere russo, o in Cina. La più forte ribellione avvenne nel 1916, repressa nel sangue. L'oppressione russa dunque continuò, e fu nel 1918 che iniziò l'era dei Soviet. Per il Kirghizistan iniziò un'età di scolarizzazione e alfabetizzazione di massa, e di forte industrializzazione connessa all'urbanizzazione del territorio, arido e selvaggio. Ciò continuò per tutto il Novecento, nonostante la forte repressione di movimenti contrari al regi-

I PROTAGONISTI

me, ma nacquero dei movimenti culturali clandestini. Contemporaneamente, iniziò un periodo di conflitto etnico con la minoranza uzbeka dell'oblast di Osh. I conflitti etnici non si fermarono nemmeno con l'indipendenza del Paese, nel 1990, in seguito allo scioglimento dell'Urss: nonostante la formale indipendenza, dal punto di vista economico vi era infatti ancora una stretta connessione con il Governo di Mosca. Venne eletto come primo Presidente Askar Akayev, che rimase al potere fino al 2005 quando si dovette dimettere in seguito alle violente proteste contro il suo potere, considerato corrotto e autoritario. Questa fu la cosiddetta Rivoluzione dei Tulipani. Fu eletto allora Kurmanbek Bakiyev con la speranza di un cambiamento per il Paese. Ma, per gli oppositori, la speranza fu vana: ritenuto un semi-dittatore si arrivò a violente manifestazioni di piazza continue proteste che arrivarono al culmine nell'aprile del 2010 quando ci furono 75 morti negli scontri. E la rivolta ancor oggi cova sotto la cenere, soprattutto a Sud.

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Si è laureato in ingegneria ed è stato nell’Armata Rossa dell’ex Urss dal 1974 al 1976. È stato in politica, prima come capo dei soviet cittadini, poi come deputato. Con la fine dell’Urss e l’indipendenza del Kirghizistan, diventa primo Ministro nel dicembre del 2000. Con la “rivoluzione dei tulipani” del 2005, diventa Presidente del Paese, con l’89% delle preferenze. Un mandato complicato il suo. Deve affrontare lo scandalo per l'uccisione di alcuni membri del parlamento a opera di terroristi, poi una grave crisi economica, che alimenta proteste. Reagisce con metodi brutali, ma nel 2009 viene rieletto, non senza il sospetto di brogli. Nell'aprile del 2010, dopo violenti scontri popolari repressi dal Governo, scappa dalla capitale e si rifugia nella città Meridionale di Osh. Il 13 aprile dichiara di essere pronto a dimettersi se la sua incolumità è garantita: due giorni dopo si rifugia in Kazakistan, dopo aver firmato una lettera formale di dimissioni.


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Come leggere le Mappe

La Mappa, qui sopra, indica il territorio turco. Qui a destra riportiamo la mappa del territorio transnazionale abitato dai curdi.

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA TURCHIA RIFUGIATI

135.450

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA

90.773

IRAQ

15.496

FRANCIA

10.887

RIFUGIATI ACCOLTI NELLA TURCHIA RIFUGIATI

267.063

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SIRIA

248.466

IRAQ

9.478


Partito per la Pace e la Democrazia

Il Partito della Pace e della Democrazia (Partiya Aştî û Demokrasiyê, in curdo) è un partito politico curdo, attivo in Turchia, rappresentato da 36 deputati nel Parlamento turco. Il BDP è guidato congiuntamente da Selahattin Demirtas e Gulten Kisanak: un uomo e una donna come è prassi nei Partiti e in generale nelle istituzioni curde che assegnano alla donna un ruolo centrale. Attualmente i rappresentanti del BDP guidano un centinaio di municipalità del Kurdistan turco dopo la storica vittoria nelle elezioni amministrative del 2009 ma sono sottoposti a continue vessazioni, arresti e incarcerazioni da parte del governo turco che, tra l’altro, vieta loro di usare la lingua curda negli uffici pubblici. Nel dicembre del 2013 il BDP ha annunciato ufficialmente la lista dei candidati alle elezioni amministrative che si terranno in Turchia nel marzo del 2014. Nella lista ci sono 63 candidati donna alla carica di sindaco e vicesindaco

Federica Ramacci

Il processo di pace iniziato nel gennaio del 2013 con l’annuncio dell’avvio di un dialogo tra il governo turco e il leader curdo Abdullah Ocalan, continua nonostante le difficoltà e le tensioni degli ultimi mesi. Il 21 marzo del 2013, giorno del Newroz (Capodanno) per il popolo curdo, Ocalan aveva infatti annunciato la decisione di ritirare i combattenti curdi dal suolo turco. Un passo storico e un gesto concreto del leader curdo verso la normalizzazione dei rapporti con Ankara e la fine di un conflitto decennale che ha fatto più di 45mila morti. Il 9 settembre del 2013 arriva però l’annuncio del Pkk, tramite l’agenzia di stampa Firat, della sospensione del ritiro dei militanti verso le montagne del nord dell’Iraq, iniziato l’8 maggio del 2013. Motivo della decisione i continui scontri con l’esercito turco e la mancanza di decisi passi avanti di Ankara nel riconoscimento costituzionale dei diritti fondamentali dei curdi. Le trattative tra il governo turco e il leader curdo Ocalan non si sono comunque interrotte. E dal gennaio del 2013, Ocalan ha potuto ricevere regolari visite di rappresentanti del BDP (Partito curdo per la Pace e la Democrazia rappresentato nel Parlamento di Ankara) nel carcere di massima sicurezza di Imrali, in Turchia, dove è detenuto in isolamento dopo l’arresto nel 1999. Ankara prosegue la sua strategia di apparente disgelo anche sul fronte curdo-iracheno. Il 16 novembre del 2013 Recep Tayyip Erdogan e il presidente del Kurdistan iracheno Masoud Barzani, si sono incontrati e stretti la mano a Diyarbakir, considerata dai curdi il capoluogo del Kurdistan turco. La strategia recente di Erdogan, alle prese con uno scandalo per corruzione, la riprese delle proteste popolari iniziate a Gezi Park e Piazza Taksim, dipende soprattutto dall’andamento del conflitto siriano, che ha consegnato ai curdi di quel Paese ampie aree di autonomia a ridosso del confine con la Turchia. I curdi siriani che abitano la regione del Rojava infatti, hanno cominciato fin dall’inizio della guerra civile a costruire una “terza via” alternativa ai

KURDISTAN

Generalità Nome completo:

Kurdistan

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Kurmanji, Sorani e molti sotto dialetti

Capitale:

n.d.

Popolazione:

Circa 40.000.000

Area:

Circa 500.000 Kmq

Religioni:

Maggioranza mussulmana sunnita

Moneta:

n.d.

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

n.d.

due blocchi pro e contro Assad, riuscendo ad ottenere una propria amministrazione autonoma con proprie istituzioni civili che coinvolgono non solo la popolazione curda ma anche le minoranze armene, arabe e cristiane e un esercito di difesa del popolo, lo YPG (Unità di Difesa Popolare) che ha finora garantito la sicurezza e la stabilità di questa zona della Siria a dispetto del conflitto che sta insanguinando il Paese. Intanto in Iran, secondo la denuncia di Amnesty International, prosegue la discriminazione e la repressione violenta della minoranza curda da parte del potere sciita.


Quella del popolo curdo è una lotta per l’autodeterminazione, l’autonomia e il riconoscimento della propria identità e dei diritti civili e politici all’interno degli Stati nazionali. La repressione a cui vengono sottoposti è da sempre durissima. I governi di Iran, Turchia, Siria e dell’Iraq di Saddam Hussein, hanno sempre cercato di negare la stessa esistenza di questo popolo tentando di cancellarne la cultura, la

storia, la lingua e negando a volte anche il diritto ad un documento d’identità. Torture, processi sommari, incarcerazioni, repressione violenta fanno parte della storia - passata e attuale - di questo popolo che abita un territorio ricco di petrolio e di risorse naturali (il 70% del petrolio dell’Iraq si trova nel Kurdistan iracheno) a cui gli Stati nazionali non hanno alcuna intenzione di rinunciare.

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Federica Ramacci

Il Kurdistan, letteralmente “Paese dei Curdi”, è una vasta area geografica di circa 500.000kmq divisa tra Turchia, Iraq, Siria ed Iran ed abitata a maggioranza dalla popolazione di etnia curda. Si tratta della regione corrispondente alla parte settentrionale e nord-orientale dell’antica Mesopotamia. Il popolo curdo - di origine indo-iraniana – ha la sua lingua, cultura e organizzazione politica ma la sua identità e le libertà fondamentali sono ancora oggi negati. La ricchezza - di petrolio e risorse naturali - del territorio del Kurdistan è senza dubbio una delle principali ragioni per cui la Turchia, la Siria e l'Iran rifiutano a questo popolo il riconoscimento dei più basilari diritti civili e politici, negando di fatto la sua stessa esistenza. Tale negazione ha inizio sotto l’impero Ottomano e continua ancora oggi, nonostante le battaglie di numerose organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch, e delle stesse istituzioni europee: la Commissione contro il Razzismo e l’Intolleranza del Consiglio d’Europa, ha più volte sottolineato come in Turchia non siano garantiti ai curdi diritti basilari quali quello di espressione, assemblea e associazione. In realtà, con la fine della Prima Guerra Mondiale sembrava davvero possibile la nascita di uno Stato curdo indipendente. A prevederlo era il Trattato di Sévres, firmato il 10 agosto 1920, che stabiliva, nell'Anatolia orientale, la creazione appunto, di un Kurdistan autonomo. Il Trattato

non venne però rispettato, a pesare fu soprattutto la forza della nascente Repubblica turca. Di fatto, il successivo Trattato di Losanna, firmato nel 1923 da Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone, Grecia, Romania cancellò il trattato di Sèvres e i territori abitati dal popolo curdo vennero spartiti tra Turchia, Siria, Iran ed Iraq. Oltre 25 milioni di curdi furono dispersi, per la maggior parte, in queste quattro nazioni. Oggi i curdi nel mondo sono circa 45 milioni, trasformati di fatto in quattro minoranze e, nel corso degli anni, costretti a subire violenti tentativi di assimilazione in tutti e quattro i Paesi. In Iraq, vivono circa 7 milioni di curdi, in gran parte nella Regione autonoma del Kurdistan, che copre circa 85.000Kmq - per i curdi Basur-

Per cosa si combatte

Settemila arresti in pochi anni

Il Kck (Koma Civiken Kurdistan – Unione delle Comunità del Kurdistan) è l’organizzazione che comprende tutte le forze della società civile e politica curda. Negli ultimi anni più di 7.000 persone sono state imprigionate nella cosiddetta “operazione KCK”, lanciata nel 2009 dal governo turco, subito dopo le elezioni politiche che hanno visto in Turchia la grande affermazione delle forze politiche filo curde. Parlamentari, giornalisti, intellettuali, segretari di partito, e molti dei sindaci curdi che avevano conquistato nel 2009 la carica di primo cittadino nelle città del Kurdistan turco, sono stati rinchiusi nelle prigioni turche accusati di far parte di questa organizzazione considerata l’espressione, il “braccio politico”, del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) inserito nella lista nera dei gruppi terroristi da Turchia, Stati uniti, Unione Europea e Iran.

Quadro generale

Federica Ramacci


YPG (Unità di Difesa Popolare)

NEWROZ, il lungo capodanno curdo

Il Newroz è il capodanno che i curdi festeggiano nel periodo che va dal 18 al 21 marzo di ogni anno. Le celebrazioni sono un appuntamento fondamentale per il popolo curdo, espressione della loro stessa esistenza e di unità nazionale. Viene celebrato in tutte le città curde sfidando ogni anno i divieti. In Turchia in particolare, i festeggiamenti del Newroz sono stati spesso accompagnati dalla violenta repressione delle forze di sicurezza turche che tentano di impedirne la celebrazione. Nel 1992, 70 persone sono stati uccise negli scontri con la polizia turca durante i festeggiamenti. La festa del Newroz è un festa spettacolare, caratterizzata da danze, musica e canti popolari di grande suggestione. Nelle città vengono accesi fuochi (simbolo di vita e di libertà) e i festeggiamenti vanno avanti giorno e notte. Nel capoluogo del Kurdistan turco, Dyarbakir i curdi che si riuniscono ogni anno per festeggiare il Newroz supera il milione. Le donne si vestono solitamente di abiti dai colori sgargianti, mentre gli uomini sono soliti portare i tipici abiti della tradizione curda. Tutti hanno almeno una bandiera rosso-verde-gialla, i colori del popolo curdo. Le frasi pronunciate durante questa occasione sono: "Newroz píroz be!" (Buon Newroz!).

Kürdistan, cioè Kurdistan del Sud - ma abitano anche in altre città: Kirkuk, Mosul e la capitale Baghdad. Il Partito Democratico del Kurdistan (PDK) guidato da Mustafa Barzani si è opposto al regime di Saddam Hussein che ha adottato repressioni brutali contro i curdi: armi chimiche, arresti, uccisioni, sparizioni e deportazioni forzate. In Iraq i due maggiori partiti curdi, il Pdk e il Puk (Unione Patriotica del Kurdistan) di Jalal Talabani, si contendono il dominio del territorio. In Iran vivono circa 12 milioni di curdi, musulmani sunniti, in un’area di 140.000 kmq chiamata Rojhelat Kurdistan, cioè Est Kurdistan. Con lo scoppio della rivoluzione Komeinista (1979) i curdi iraniani riuniti attorno al PDKI (Partito democratico del Kurdistan Iraniano) fondato da Abdul Rahman Ghassemlou, hanno lottato per ottenere una loro forma di autonomia all’interno dello Stato. Il potere sciita ha dato il via ad una dura repressione che ha causato circa 10.000

I PROTAGONISTI

morti. In Siria, i curdi vivono in gran parte nella regione chiamata Rojava, situata a nord est del Paese in un’area di circa 40.000kmq abitata da 3 milioni di curdi. Fino all’inizio della guerra civile nel 2011, i curdi non avevano alcun riconoscimento da parte del governo di Damasco che ha invece cominciato a concedere ampi margini di autonomia al PYD, il principale partito curdo siriano, con l’aggravarsi del conflitto. In territorio turco si trova la gran parte dell’area del Kurdistan, circa 250.000 kmq. Ci vivono 12milioni di curdi che chiamano la regione Bakur- Kurdistan, cioè Nord-Kurdistan. Ai curdi in Turchia non è riconosciuto nessun diritto, la politica del governo di Ankara è quella di negare la loro stessa esistenza. Nel 1979 il leader curdo Abdullah Ocalan fonda con altri il PKK, Partito dei lavoratori curdi, organizzazione politica e militare che comincia la sua lotta armata contro il governo turco per ottenere il riconoscimento dell’identità del popolo curdo. La reazione della Turchia è stata ed è ancora oggi durissima: perquisizioni forzate, distruzione di villaggi, arresti ingiustificati e torture.

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Lo YPG (Yekîneyên Parastina Gel, in curdo), l’Unità di Difesa Popolare curda, è una milizia creata in Siria nel 2004 ma attiva dallo scoppio della guerra civile. E’ responsabile di difendere il territorio del nord-est della Siria, Rojava, da qualunque gruppo armato tenti di coinvolgere nel conflitto i territori abitanti dai curdi. Lo YPG è composto prevalentemente da soldati uomini e donne provenienti dalle regioni del Kurdistan siriano ma ha arruolato anche arabi che abitano le zone del Nord della Siria e che considerano le Unità di Difesa Popolare un metodo di difesa efficace del territorio. Nel Rojava è attiva anche la milizia dello YPJ (Unità di difesa delle Donne) composta unicamente da combattenti donne. Alla fine del 2013 lo YPG ha diffuso un bollettino di guerra in cui annuncia l’uccisione in scontri armati di 376 soldati delle forze del regime siriano e 2.923 membri di bande armate dell’Isis (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) e del Fronte Al-Nousra legati ad Al Qaida. Le milizia curde hanno inoltre annunciato di aver catturato 790 soldati e poliziotti delle forze siriane, poi rilasciati, e di aver fatto prigionieri 587 membri dell’Isis e di Al-Nousra affermando che 91 di questi sono di nazionalità straniera. Nel 2013 le Unità di Difesa del Popolo hanno liberato almeno 5 città del nord della Siria.

Federica Ramacci


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL PAKISTAN RIFUGIATI

49.736

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI AFGHANISTAN

16.147

CANADA

11.605

GERMANIA

6.943

SFOLLATI PRESENTI NEL PAKISTAN 757.995 RIFUGIATI ACCOLTI NEL PAKISTAN RIFUGIATI

1.638.456

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI AFGHANISTAN

1.637.740


Sangue sull’inchiesta Bhutto Freddato a Islamabad il procuratore Chaudry Zulfikar Ali, titolare del caso dell’omicidio dell’ex premier Benazir Bhutto, avvenuto nel 2007 e ancora irrisolto. La sua morte apre nuovi oscuri scenari. L’assassino, che ha sparato ripetutamente, ha agito in pieno giorno in una zona trafficata di Rawalpindi. Zulfikar non era un magistrato qualunque. Stava indagando sul caso Bhutto, l’ex due volte premier uccisa da un killer suicida. Se in un primo tempo si attribuisce del delitto ai talebani, ben presto sulla vicenda comincia a circolare un’altra versione, quella di “omicidio di stato”. Si ipotizza la responsabilità del Governo del generale Pervez Musharraf, allora al potere, che aveva garantito alla Bhutto il rientro in patria dopo un lungo esilio. Su questa pista indagava il procuratore ucciso. Tutto da rifare. Intanto il generale Musharraf, raggiunto da ben tre ordini di custodia, è agli arresti domiciliari.

UNHCR/S. Phelps

Tutto cambia in Pakistan. E il cambiamento può essere, nonostante le difficoltà e le tensioni interne, una prova di maturità e di democrazia. Dopo un quinquennio di governo, il Governo del Pakistan People Party (Ppp), legittimamente eletto, termina il suo mandato senza colpi di stato: è la prima volta nella storia del Paese. Se ne ricava un’alternanza politica: sale al potere la “Pakistan Muslim League-Nawaz” (Pml-n). Il partito propone un leader che non è di primo pelo: Nawaz Sharif, vecchio leone della politica pakistana. Il nuovo primo Ministro, uscito vincente nelle elezioni dell’8 maggio 2013, è il primo uomo politico nella storia del Paese a diventare Premier per la terza volta, dopo i mandati degli anni 1990-93 e 1996-99. È un uomo politico-imprenditore, con un approccio fondamentalista e conservatore, sostanzialmente “di destra”. In passato il suo Governo diede ampio spazio ai partiti religiosi islamici e confermò la “legge di blasfemia”, ampliandone le pene previste fino alla pena capitale. Ma, nonostante le simpatie islamiste della Pml-n, oggi la popolazione pakistana ha guardato soprattutto alle questioni economiche, come mancanza di elettricità, inflazione, disoccupazione, corruzione. Il popolo, incluse le minoranze cristiane e indù, ha dichiarato il fallimento del Ppp e ha puntato sulle promesse di un rilancio dell’economia. La nazione, già provata dalla crisi energetica del 2012, ha attraversato infatti una pesante “crisi sociale” per un’ondata generale di protesta che la Lega musulmana, giunta al potere, si troverà a gestire. E ha tutti gli strumenti per farlo, dato che la Pml-n governa da sola e ha occupato anche la poltrona presidenziale, con Mamnoon Hussain – anch’egli politico e businessman – eletto dal Parlamento a luglio 2013. Punto interrogativo sul nuovo corso della politica pakistana è il rapporto fra l’esecutivo di Sharif e i “poteri forti” dei militari, dato che il Premier non è benvisto dall’esercito (furono loro a cacciarlo con un golpe nel 1999). Una delle carte da scoprire è invece la sua volontà di “negoziare con i talebani”, in patria, e cambiare registro anche con il vicino Afghanistan. In

PAKISTAN

Generalità Nome completo:

Repubblica Islamica del Pakistan

Bandiera

153

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Inglese, urdu, punjabi, sindi, pashto, baluchi

Capitale:

Islamabad

Popolazione:

179.200.000

Area:

803.940 Kmq

Religioni:

Musulmana (95%), in maggioranza sunniti; cristiana (2%), indù (1,6%)

Moneta:

Rupia pakistana

Principali esportazioni:

Tessuti, cotone, pesce, frutta

PIL pro capite:

Us 3.056

politica estera, inoltre, Sharif ha promesso l’apertura allo storico nemico, l’India, anche se gli osservatori ricordano che fu lui a dare il via ai primi test atomici che nel 1998 agitarono New Delhi. Altrettanto importante resta la relazione con gli Stati Uniti, storico alleato sulla scena internazionale: da un lato si annuncia lo stop ai “droni”, usati dagli Usa contro i terroristi, dall’altro il desiderio di riallacciare un’ampia cooperazione nel settore economico.


154

Il Pakistan è oggi il “centro nevralgico di alQaeda” – dicono gli analisti del Pentagono – ed è un Paese chiave per la lotta al terrorismo internazionale. Inoltre, per il commercio internazionale e l’industria petrolifera, lo Stato resta al centro di interessi (e dunque di conflitti) strategici, geopolitici ed economici di vasta portata. Tanto che, pur essendo nell’orbita dell’alleanza atlantica (gli Usa finanziano programmi di cooperazione militare e civile), perfino la Cina ci ha messo gli occhi sopra: Pechino ha avviato una serie di investimenti e progetti di cooperazione economica, solida base per costruire una amicizia politica e diplomatica. Il Pakistan, d’altro canto, affacciandosi sull’Oceano Indiano, è la strada privilegiata per far passare gli oleodotti che trasportano il greggio dai Paesi dell’Asia centrale: Turkmenistan, Kazakistan e Uzbekistan, che detengono le più vaste riserve al mondo di gas e petrolio. Per questo, attorno alla Regione centroasiatica (appena uscita dall’orbita russa) e al quadrante afgano-pakistano, si celebra oggi il nuovo “Grande gioco” (espressione usata nel sec. XIX) delle potenze mondiali, in Occidente e in Oriente, per accaparrarsi alleanza politiche e dunque sicuro approvvigionamento di risorse energetiche. Sullo scacchiere pakistano si preannuncia l’ennesimo confronto fra i due colossi mondiali, Stati Uniti e Cina, interessati ad estendere la loro influen-

za politica in una Regione di grande importanza strategica. Ma in Pakistan vi sono anche tensioni di natura religiosa. Il Pakistan è uno stato a maggioranza musulmano sunnita, ma nel Paese vive anche una minoranza sciita di trenta milioni di fedeli, che fanno del Pakistan la seconda nazione sciita al mondo dopo l’Iran. Il conflitto religioso in atto nel Paese vede da una parte i sunniti appoggiati dall’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo, dall’altra gli sciiti appoggiati dall’Iran. Entrambi i fronti fanno leva sul vicino conflitto afgano, entrambi usano le moschee come luoghi di propaganda e indottrinamento, entrambi coprono o favoriscono organizzazioni terroristiche, entrambi cercano di silenziare le voci dell’islam moderato e delle minoranze religiose. Proprio le minoranze religiose (soprattutto cristiani, indù e ahmadi) sono spesso nel mirino di attacchi di massa: l’ultimo anno ha visto un aumento della violenza. Entrambi gli schieramenti trovano appoggi in partiti politici, in membri del Governo pakistano, in settori delle forze armate e dei servizi segreti. In mezzo a queste tensioni, a cercare di governarle e depotenziarle, il resto del Governo, delle forze armate e dei servizi segreti, ovvero quanti vogliono costruire un Pakistan unito, laico e democratico, rispettoso della legalità e dei diritti umani.

Per cosa si combatte

Tensioni vecchie e nuove, fra democrazia e struttura feudale, fra modernizzazione e tribalismo, fra lobby militari e forze islamiste: il Pakistan, la “Terra dei puri”, è alle prese con una profonda instabilità interna che ha radici molto antiche. Il Paese, considerato dalle cronache giornalistiche solo in casi clamorosi, come l’uccisione di Osama bin Laden, è invece uno dei protagonisti assoluti dello scacchiere politico internazionale. Situato nel cuore dell’Asia meridionale, il Pakistan nasce ufficialmente il 14 agosto 1947. Fino ad allora aveva fatto parte dell’India britannica, poi divisa in due diversi Stati: il Pakistan, a maggioranza musulmana, e l’India, a maggioranza indù. Dall’indipendenza, il Pakistan è sempre stato in conflitto con l’India per il controllo del territorio del Kashmir ma questa non è l’unica causa di destabilizzazione per il Paese. La sua stessa struttura di federazione, suddivisa in 4 Province, 2 Territori e 107 Distretti, con una composizione etnica estremamente frastagliata, ne fanno un territorio di difficile gestione, diviso tra una parte meridionale, organizzata in modo più moderno, e una parte settentrionale, profondamente tribale e attraversata da antiche spinte indipendentiste. A livello sociale e culturale, la nazione resta ancorata alla antica struttura feudale, che informa le dinamiche economiche, le relazioni e l’intero tessuto sociale, spaccato fra élites che detengono il potere economico e politico e masse di diseredati, ridotte in stato servile. Inoltre,

negli equilibri sociali e politici, hanno sempre contato molto i militari, che rappresentano uno dei “poteri forti”, sempre presenti nei momentichiave della storia nazionale: leader militari, fra l’altro, hanno governato direttamente il Paese tramite un golpe, come nel caso del dittatore Zia-ul-Haq (negli anni ‘80) e, più di recente, del generale Pervez Musharraf (dal 2000 al 2008). L’altro elemento che caratterizza fortemente, sin dall’origine, la storia e la società pakistana è l’islam, nelle sue diverse forme e declinazioni: dopo l’Indonesia, il Paese è il secondo stato al mondo per numero di fedeli musulmani (il 95% su 180milioni). Benché il fondatore della patria, il leader musulmano Ali Jinnah, abbia voluto disegnare una nazione laica e democratica – così rappresentata nella Costituzione – negli anni successivi i movimenti e i partiti islamici integralisti hanno condizionato in modo sempre più incisivo la politica, la società, il sistema giudiziario e l’istruzione pubblica. Gli islamisti, soprattutto sotto il governo di Zia-ulHaq, hanno ottenuto, in cambio dell’appoggio politico al dittatore, provvedimenti legislativi filo-islamici che hanno mutato il volto della nazione, penalizzando i diritti umani e libertà individuali. Il tasso di conflittualità è altissimo. Il Paese vive forti tensioni interne: la crisi nella Provincia del Belucistan dura dagli anni ’70; gruppi islamisti, con scuole di pensiero diverse, cercano di imporre la loro visione; sono sempre vive le tensioni fra componenti etniche e triba-

Quadro generale

Intolleranza tollerata

Vita dura per i cristiani e le altre minoranze non islamiche. Il 22 settembre 2013 un attentato suicida dei talebani pakistani in una chiesa di Peshawar ha fatto 85 morti e 150 feriti. “Una intolleranza pervasiva è ampiamente tollerata in Pakistan”, afferma un rapporto sui diritti umani nel Paese, pubblicato nel 2013 dalla Ong “Human Rights Commission of Pakistan”. Il testo afferma che nel 2012, 583 persone sono state uccise e 853 ferite in 213 attentati o scontri settari, per motivi di religione. In tali episodi 20 cittadini ahmadi sono stati uccisi a causa della loro identità religiosa, mentre a Karachi sei chiese cristiane sono state attaccate. Un capitolo è dedicato alla legge sulla blasfemia (che prevede la pena di morte per vilipendio all’islam, ndr) “lasciata intatta per immobilismo politico”. Il rapporto invoca l’abolizione della legge e chiede che i casi siano trattati dall’Alta Corte, non dai tribunali di primo grado, sensibili alle pressioni dei gruppi estremisti islamici.


Malala Yousafzai (Mingora, 12 luglio 1997)

Pressioni UE, si ferma il boia

Il Governo pakistano ha sospeso 468 esecuzioni capitali, confermando la moratoria che vige nel Paese da cinque anni. Ad agosto 2013, l’esecutivo aveva prospettato una ripresa delle esecuzioni, generando critiche da Ong come “Amnesty International” e in patria. Poi il dietrofront, frutto delle pressioni della comunità internazionale. In particolare, nell’Unione europea la ripresa delle esecuzioni avrebbe avuto la conseguenza di cancellare il Pakistan dalla lista delle nazioni che hanno “linea preferenziale” negli scambi commerciali. Il Governo di Sharif, allora, torna sui suoi passi per “pragmatismo politico”, lasciando al Paese la porta aperta sui mercati europei. Tutti contenti. Ci sono 8mila detenuti che hanno esaurito tutti i gradi giudizio e si trovano nel braccio della morte nelle diverse carceri pakistane, soprattutto per reati di terrorismo. Secondo il Codice penale pakistano, 27 reati, tra i quali quello di “blasfemia”, sono punibili con la pena capitale.

155

I talebani la temono e hanno detto più volte di volerla uccidere. Malala Yousafzai è una 16enne studentessa e attivista pakistana che, già da tre anni, cura un blog sulla Bbc per sostenere i diritti civili e soprattutto il diritto allo studio delle donne nella valle dello Swat (Pakistan del Nord). Qui imperversano i talebani pakistani che, negando tale diritto, continuano a distruggere scuole femminili. La sua opera di sensibilizzazione, in così giovane età, l’ha pian piano resa celebre, valendo a Malala diversi riconoscimenti internazionali. La ragazza diventa perciò “personaggio scomodo” e per i militanti è “simbolo degli infedeli e dell’oscenità”. Nell’ottobre 2012 resta vittima di un attentato rivendicato dai talebani. Gravemente ferita alla testa e al torace, viene trasferita in un ospedale di Londra e, dopo una lunga terapia, miracolosamente si riprende. A febbraio 2013 Malala è ufficialmente candidata al Premio Nobel per la Pace 2013, la più giovane di sempre. A luglio 2013, in occasione del suo compleanno, Malala rivolge un discorso all’Assemblea dell’Onu, indossando lo scialle appartenuto a Benazir Bhutto e lanciando un appello all’istruzione dei bambini e delle donne in tutto il mondo.

UNHCR/D.A.Khan

li diverse della società, evidenti, ad esempio, nelle stragi della città di Karachi. Ma il Pakistan subisce anche forti pressioni esterne: la comunità internazionale si è fatta più presente, con programmi di cooperazione strategica ed economica, da quando il Paese è divenuto un hub per il terrorismo internazionale. Un fattore che da decenni crea instabilità è l’insorgenza nella Provincia del Belucistan, nel Pakistan occidentale, abitata dai beluci, popolazioni tribali, dedite alla pastorizia e alla coltivazione della terra che vivono anche nell’Ovest dell’Iran e nell’estremo Sud dell’Afghanistan. Nel Belucistan dagli anni ‘70 imperversa la guerriglia indipendentista di gruppi ribelli che si battono per l’autonomia della Regione, ricchissima di risorse naturali e per questo annessa con la forza nel 1947 al territorio pakistano. Negli anni ’80 e ’90 il movimento dei beluci ha interrotto la lotta armata per imboccare, senza risultati, la strada della lotta politica. Ma nel 2000 alcuni gruppi di beluci hanno dato vita all’Esercito di

I PROTAGONISTI

liberazione del Belucistan, riattivando la guerriglia a cui il Governo pakistano ha risposto con il “pugno di ferro”. Dopo gli attacchi alle Torri gemelle del 2001, con l’inizio della campagna militare in Afghanistan, la guerra contro gli indipendentisti del Belucistan è finita col mescolarsi a quella contro i terroristi islamici di alQaeda. Proprio sull’area di confine con si sono concentrate le attenzioni di intelligence delle forze pakistane (e americane), impegnate nella guerra al terrorismo e nella caccia ai leader militanti, in particolare sul distretto del Waziristan. Le pressioni americane, però, risultano indigeste a larghi settori islamici della società: ne deriva un ulteriore aumento delle tensioni e dell’instabilità interna. La scena politica pakistana di oggi, mutevole, frastagliata e rissosa, è specchio di un Paese diviso, attraversato da fermenti e ideologie contrastanti, spaccato fra un’oligarchia di ricchi e il 60% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà. Un Paese in cui il posizionamento strategico internazionale è continuamente in discussione. Un Paese in cui risulta sempre più difficile governare spinte centrifughe e pulsioni radicali di carattere politico, sociale e religioso.


156

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA THAILANDIA RIFUGIATI

380

RIFUGIATI ACCOLTI NELLA THAILANDIA RIFUGIATI

84.479

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI MYANMAR

83.317


Marea nera Allarme turismo

È stato un vero disastro ambientale, con conseguenze che dureranno per anni. Nell’agosto del 2013, circa 50mila litri di petrolio si sono riversati nel mare della Thailandia Settentrionale, a causa della rottura di una condotta marina controllata dalla Ptt, organizzazione da sempre criticata e attaccata dalle associazioni ambientaliste. La marea nera ha ricoperto la costa dell’Isola Samet e ha compromesso seriamente il turismo e l’industria della pesca. Nemmeno i 350 membri impiegati dalla marina per la pulizia sono riusciti a fermare il disastro. Centinaia di turisti sono stati evacuati.

UNHCR/R. Arnold

La situazione è degenerata rapidamente, nel 2013. A fine anno sono riprese le proteste contro la prima Ministra Yingluck Shinawatra. Gli anti-governativi vogliono la fine del dominio della famiglia Shinawatra, al comando prima con Tahksin, ex premier esiliato a Dubai dal 2006 e condannato per abuso di potere. Poi, appunto, con Yingluck. Gli oppositori non vogliono il rientro del leader, considerato ancora forte negli strati più poveri della popolazione. I morti, nel mese di dicembre 2013, sono stati tre. L’esercito è rimasto neutrale, facendo però capire che non avrebbe tollerato una escalation della violenza. Tutto pare reggersi su equilibri delicati. Intanto, continua anche la guerra. Yala, Narathiwat e Pattani: lì lo scontro, sanguinoso, resta. Sono salite a 5300 le vittime della guerra che dal 2004 vede la minoranza musulmana chiedere l’indipendenza dalla Tahilandia. Una guerra sporca, costante. In settembre 2013 sono stati undici soldati a morire per un attacco. Il mese prima, a Yala, tre civili erano stati uccisi in un negozio di the. All’inizio dell’estate, otto soldati erano rimasti uccisi nell'esplosione di una bomba nascosta sul ciglio di una strada nel distretto di Krong Pinang. Ancora morte quindi, mentre, timidamente, sembra avviarsi il negoziato di pace fra Governo centrale e indipendentisti. La prima Ministra thailandese Yingluck Shinawatra in aprile ha annunciato che i colloqui tra il Governo di Bangkok, rappresentato dal Consiglio di sicurezza nazionale e i gruppi ribelli islamici nel Sud del Paese erano “in una fase iniziale di costruzione della fiducia reciproca”. Mentre lo diceva, lo stesso Governo ordinava un massiccio dispiegamento di soldati nelle Regioni roccaforte delle fazioni ribelli, soprattutto del Barisan Revolusi Nasional (Brn).

THAILANDIA

Generalità Nome completo:

Regno di Thailandia

Bandiera

157

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Thai

Capitale:

Bangkok o Krung Thep in thai

Popolazione:

66.790.000

Area:

514.000 Kmq

Religioni:

Buddista (95%), musulmana (4.6%), cattolica (0.75%)

Moneta:

Baht Thailandese

Principali esportazioni:

Tapioca, riso, caucciù, ananas, stagno

PIL pro capite:

Us 9.503

Il Brn è uno dei gruppi più importanti fra gli indipendentisti ed è ritenuto il responsabile di un grande numero di attacchi contro l’esercito centrale e contro civili. Da sempre chiede maggiore autonomia, ma è stato proprio questo gruppo a raggiungere l’intesa che, nel febbraio 2013, ha consentito l’avvio dei negoziati con il Governo. I colloqui si tengono in Malesia e oltre alla delegazione del Brn, composta da tre persone, e del Governo, al tavolo sono anche due rappresentanti di un’altra organizzazione secessionista, il Pattani United Liberation Organization (Pulo).


Non è questione di controllo diretto di risorse: la guerra interna alla Thailandia nasce dalle differenze culturali, economiche e dalla voglia di autonomia di una delle parti. I musulmani sono una minoranza relativamente piccola nel Paese, solo il 4,6% della popolazione, ma sono concentrati tutti nella stessa area e, soprattutto, hanno avuto una lunga storia di indipendenza

dalla Thailandia. La situazione internazionale, con lo scontro in atto fra mondo cosiddetto occidentale e terrorismo islamico, ha riacceso le loro speranze di indipendenza, portandole sotto la bandiera pan-islamica. Lo scontro politico interno, poi, ha reso più debole il Governo centrale e alimentato tensioni sociali, soprattutto nella capitale.

Per cosa si combatte

158

UNHCR/H. J. Davies

La situazione resta drammatica e paradossale. Da un lato i morti, la presa ferrea della polizia e dell’esercito sulla popolazione, gli attentati. Dall’altro l’immagine del Paese in grado di soddisfare ogni desiderio dei turisti. Tra questi due poli si muove la Thailandia degli ultimi dieci anni, pur con note positive. Nel 2012, accettando la mediazione internazionale, Thailandia e Cambogia hanno messo fine allo scontro armato che le vedeva impegnate dal 1962 per il controllo della zona di confine vicino al tempio di Preah Vihear, inserito tra i beni patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Gli scontri, in cinquant’anni, erano stati ripetuti. L’ultimo nell’aprile del 2012, con 18 morti. Durante una cerimonia che ha coinvolto le autorità militari dei due Paesi, circa 485 soldati cambogiani e un numero imprecisato di militari thailandesi hanno caricato nello stesso momento le armi sui camion. Sono stati sostituiti da circa 600 poliziotti che vigileranno sull’area. Altra buona notizia è che pare confinato nei limiti istituzionali lo scontro politico che contrapponeva i popolari delle Camicie Rosse agli aristocratici delle Camicie Gialle, senza più le manifestazioni di piazza che nel 2010 causarono centinaia di morti. Resta la guerra con gli indipendentisti a macinare morte nelle tre Province Meridionali a maggioranza musulmana, nonostante Yala, Narathiwat e Pattani, si trovino a poche centinaia di chilometri dalle più famose spiagge thailandesi, ai confini con la Malaysia. L’ap-

parato militare thailandese è sottoposto ad uno sforzo continuo, con costi spaventosi. Nel 2009 il generale a riposo Ekkachai Srivilas, direttore dell’Ufficio per la Pace e la Governance dell’Istituto Re Prajadhipok, aveva proposto un approccio diverso alla crisi, proprio per evitare le spese e gli sforzi che si pagano per dispiegare 60mila soldati nel Sud. Il Governo aveva respinto l’idea e l’estate del 2009 era stata una continua offensiva per rastrellare tutti i villaggi della Regione per fare terra bruciata intorno ai pejuang, i miliziani del Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn). Una scelta coerente con la decisione di attaccare i ribelli per distruggerli, senza cercare mediazioni. Quindi si combatte. Il picco dello scontro è stato nel 2007, ma non è mai cessato. Narathiwat, Yala e Pattani sono Province abitate in maggioranza da musulmani di lingua malese. Corrispondono al territorio di un sultanato annesso all’inizio del secolo scorso all’allora regno del Siam, dopo un accordo con gli inglesi, veri padroni dell’area in quegli anni. C’è una storia differente, quindi, a giustificare le richieste di indipendenza. La realtà, però, è che anche per gli osservatori stranieri si tratta di una guerriglia poco conosciuta. Il movimento ribelle si chiama “Combattenti per la liberazione di Pattani”, ma non ha né un simbolo né un leader riconosciuto. Totalmente ignoto anche l’obiettivo reale della guerra scatenata nel 2004: non è chiaro se vogliano solo una maggiore autonomia, l’indipendenza o

Quadro generale

Mekong sicuro contro la droga

Si sono intensificati i controlli anti droga nel Triangolo d’Oro, l’area ai confine fra Thailandia, Loas e Birmania, che ha nel fiume Mekong il proprio cuore. Dopo oppio e eroina, sono le metanfetamine, ora, nel mirino della polizia. Con la collaborazione della Cina, nel 2013 è scattata l’ Operazione “Mekong sicuro” che ha permesso l’arresto di 2534 sospetti e il sequestro di circa 10 tonnellate di droga, secondo le autorità thailandesi. Ci sono, però, pareri dissonanti, come quello di Pierre-Arnaud Chouvy, geografo del Centre National de la Recherche Scientifique (Cnrs). “Ci sono alcuni casi di sequestri molto pubblicizzati, ma a monte non c’è una valutazione dell’efficacia dei pattugliamenti”, ha sottolineato. Il tutto su uno sfondo di corruzione degli ufficiali impegnati, che “rimane un problema in Thailandia, dove alcuni responsabili prendono delle bustarelle”, secondo il Dipartimento di Stato americano.


Fabio Polenghi

(Monza 1962 – Bangkok 2010)

UNHCR/V.Tan

Monaci ricchi sfondati

Sono mesi strani per i circa 60mila monaci buddhisti thailandesi. Gli scandali si susseguono, mettendo in discussione il rapporto di fiducia con la popolazione, al 95% buddhista. Dopo le denunce per abuso di alcol e violenze sessuali, l’ultimo colpo all’immagine monacale è arrivato, nell’estate del 2013, da un video pubblicato su Youtube. Si vedono due monaci della provincia di Sisaket, nel NordEst, con occhiali da sole, borsa griffata, Ipod alle orecchie, mentre volano con il loro jet privato seduti su lussuosi sedili. Il video ha ottenuto milioni di visualizzazioni.

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Nato a Monza, fotografo giramondo con la voglia e la capacità di documentare tragedie, ingiustizie, è stato ucciso a Bangkok il 10 maggio 2010 mentre documentava l’assalto finale dell’esercito all’accampamento delle Camicie Rosse. Nel 2013, l’inchiesta penale della giustizia thailandese ha finalmente confermato che ad ucciderlo furono i soldati thailandesi, senza però riuscire ad identificare l’autore del colpo. La sentenza conferma le tesi sostenute da subito dalla famiglia. “È un verdetto positivo, ma non risolutivo”, ha commentato la sorella di Fabio, Elisabetta, che in questi tre anni ha cercato di far emergere la verità. Ha ascoltato la lettura del verdetto assieme alla madre Laura Chiorri e alla sorella maggiore Arianna. I giudici della Corte penale di Bangkok Sud hanno ricostruito con certezza la dinamica dell’uccisione. Polenghi fu colpito alla schiena da un proiettile di fucile M16, in dotazione all’esercito, mentre correva verso la Ratchaprasong Intersection, seguendo la ritirata dei “Rossi” nell’ultimo giorno della protesta antigovernativa durata due mesi e pagata 91 morti e 2mila feriti.

una unione con la Malaysia. Resta il fatto che nella Regione la stragrande maggioranza degli abitanti sono musulmani, di etnia e lingua malay. Da sempre i thailandesi li vivono come un pericolo. I pochi buddhisti della zona tendono a lavorare per conto del Governo e dal 2004 sono un facile obiettivo dei ribelli, che da sempre colpiscono soprattutto gli insegnanti, i “volti” del Governo di Bangkok, che rappresentano da soli l’11% delle vittime. Vanno a lavorare scortati dall’esercito e nemmeno questo ferma le imboscate. Una situazione che sembra diventata ingovernabile, anche dal punto di vista dei diritti umani. Un rapporto di Human Rights Watch ha spiegato come per effetto delle leggi speciali thailandesi, che prevedono la carcerazione preventiva senza mandato per 37 giorni, e di un regolamento del generale Viroj - comandante dell’area - che vieta visite dei familiari per i primi tre giorni di detenzione, migliaia di musulmani, maschi, di tutte le età siano stati arrestati

I PROTAGONISTI

e torturati dall’esercito. Secondo l’organizzazione, che ha sentito le testimonianze di molti medici e avvocati di ex detenuti, vengono torturati soprattutto nei primi giorni di detenzione nelle basi locali dell’esercito. Poi, sono trasferiti alla prigione militare di Ingkhayuthboriharn, nella Provincia di Pattani. I sistemi di tortura adottati sono: pestaggi con bastoni e spranghe, elettroshock, strangolamento, affogamento, soffocamento con buste di plastica, nudità forzata, esposizione a temperature estreme. È crisi dura, quindi. Per molti esperti, il movimento ribelle ha chiare origini locali. Per gli analisti internazionali, i rivoltosi – nel frattempo raccolti sono la sigla Fronte Rivoluzionario Nazionale (Brn) – sono da collegare alla rete di al-Qaeda. È di questo parere la Cia statunitense, che da sempre collabora con l’esercito nel quadro della lotta al terrorismo internazionale. A rafforzare questa opinione è arrivato, nel giugno 2009, un rapporto dell’International Crisis Group, che ha denunciato l’uso della retorica della jihad mondiale nelle scuole delle tre Province, al fine di reclutare nuovi combattenti. Ora, da febbraio 2013, si è accesa, timida, la speranza di una pace.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DA TIMOR EST RIFUGIATI

9


Momentum

Un sito internet per celebrare i progressi di Timor Est in campo economico e sociale. È il “regalo” che la missione Unmit (United Nations Integrated Mission in Timor-Est) ha fatto al Paese prima di lasciarlo definitivamente alla fine del 2012. Il sito internet si chiama “Momentum” (www.momentum. tl) e offre un ritratto della società timorese e delle tappe che hanno permesso la costruzione di un Paese più sicuro e stabile con la collaborazione dei caschi blu dell’Onu. Nel sito sono pubblicati documenti delle Nazioni Unite che riguardano la situazione della società timorese, gallerie fotografiche sulle arti e la cultura dell’isola, video e mappe geografiche. Finanziato dalla Unmit, il sito internet è online dal 2012 ed è consultabile nelle due lingue ufficiali di Timor Est: portoghese e tetum.

UNHCR/N. Ng

A gennaio 2013, dopo 13 anni di ininterrotta presenza, i caschi blu delle Nazioni Unite hanno lasciato Timor Est. Il mandato della missione Unmit, scaduto il 31 dicembre del 2012, non è stato rinnovato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha giudicato decisivi i passi avanti del Paese verso la stabilità. In particolare i due appuntamenti elettorali del 2012 (elezioni presidenziali e legislative), svoltisi in un clima di partecipazione pacifica e trasparenza, hanno permesso a Timor Est di mostrare alla comunità internazionale la solidità delle proprie istituzioni e la determinazione della popolazione a voltare pagina, dopo la lunga occupazione indonesiana e il travagliato percorso politico e sociale cominciato nel 1999 con il referendum per l’indipendenza da Giacarta. Taur Matan Rauk, Presidente di Timor Est, in un discorso alla Nazione ha definito quello dell’Unmit “un successo delle operazioni di peacekeeping che sarà a lungo ricordato”. “Le Nazioni Unite, negli ultimi 13 anni, ci hanno accompagnato e supportato nei nostri sforzi per costruire uno Stato e una Nazione - ha detto Taur Matan Rauk ai cittadini di Timor Est -. Esperienza, competenza e sensibilità dei tanti membri della Missione Onu hanno contribuito ai risultati che siamo riusciti a raggiungere”. Negli ultimi anni l’economia di Timor Est è cresciuta soprattutto grazie ai proventi dello sfruttamento dei giacimenti di gas e petrolio, nascosti nei fondali dell’isola. Come quello di Kitan, gestito dall’Eni. Il denaro è stato in gran parte destinato dal Governo alla realizzazione di grandi infrastrutture e ad oggi gli abitanti di Timor Est, una delle nazioni più povere del mondo, hanno goduto solo in parte dei vantaggi delle notevoli risorse dell’isola. Restano inoltre irrisolti alcuni dei nodi che hanno generato lunghi periodi di instabilità politica e sociale. Secondo quanto denuncia Amnesty International nel suo Rapporto 2013, sono tuttora impuniti i crimini contro l’umanità e le gravi violazioni dei diritti umani commesse duran-

TIMOR EST

Generalità Nome completo:

Repubblica Democratica di Timor Est

Bandiera

161

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Tetum, portoghese

Capitale:

Dili

Popolazione:

1.210.000

Area:

15.007 Kmq

Religioni:

Cattolica (90%), musulmana (5%), protestante (3%)

Moneta:

Centavo Est Timorense e Dollaro statunitense

Principali esportazioni:

Legname, caffè, petrolio e gas

PIL pro capite:

Us 20.113

te i lunghi anni dell’occupazione indonesiana (1975-1999). Il mandato del team d’indagine sui crimini gravi è terminato a dicembre 2012, senza riuscire a completare le circa 60 inchieste sui casi eclatanti di gravi violazioni dei diritti umani commesse nel 1999. Le forze di sicurezza di Timor Est inoltre, sono state accusate, anche nel 2013, di violazioni di diritti umani, compreso maltrattamento e uso eccessivo della forza, mentre i meccanismi di accertamento delle responsabilità della polizia e dell’apparato militare si sono dimostrati deboli.


Scopo della lotta della popolazione timorese è sempre stato il raggiungimento dell’indipendenza e dell’autodeterminazione. Dopo centinaia di anni di colonizzazione portoghese, la lunga occupazione indonesiana dell’isola (1975-1999) e gli anni di forte instabilità politica e di insicurezza sociale, Timor Est, la più giovane nazione dell’Asia, sembra aver raggiunto in parte il suo obiettivo. La decisione del Consiglio di Sicurezza di concludere la missione Unmit (iniziata

nell’agosto del 2006) è un segnale decisivo ma molto resta ancora da fare. Il Paese è poverissimo e dipendente dal sostegno della cooperazione internazionale. La sua piena autonomia è ancora ostacolata dai forti interessi internazionali in un’area strategica per le rotte commerciali e resa difficile dalle ferite mai del tutto rimarginate e dai crimini ancora impuniti commessi durante gli anni dell’occupazione indonesiana.

Per cosa si combatte

162

UNHCR/N. Ng

Timor Est è composta dalla metà orientale dell’isola di Timor, dalle isole di Atauro e di Jaco e dalla Provincia di Oecussi-Ambeno, una enclave situata nella parte occidentale dell’isola, Timor Ovest, che fa parte invece dell’Indonesia. Timor ha subito centinaia di anni di colonizzazione europea, da parte dei portoghesi, che arrivarono sull’isola nel XVI secolo, e dagli olandesi. L’instabilità politica e sociale dell’isola di Timor comincia proprio a causa della convivenza forzata sul territorio delle due potenze coloniali, che causò anni di sanguinosi conflitti, risolti soltanto nel 1859, con il Patto di Lisbona che sancì la suddivisione di Timor Est in due parti: quella Orientale andò al Portogallo e quellaOccidentale all’Olanda. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, a causa della sua posizione strategica nel Sud Est asiatico, Timor venne occupata dalle forze australiane che temevano potesse diventare una base militare giapponese. Nel febbraio del 1942 il Giappone occupò effettivamente Timor, cancellando l’assetto territoriale stabilito dal Patto di Lisbona e trasformando l’intera isola in un’unica Regione sotto l’influenza politico-militare del Giappone. Alcune centinaia di militari australiani però non deposero le armi e scelsero di continuare a combattere contro i giapponesi, sostenuti anche dalla popolazione timorese, che per questo pagò un prezzo altissimo. Quando nel 1943, l’Australia decise il ritiro completo dall’isola di Timor, la rappresaglia dell’esercito giapponese contro la popolazione fu terribile. Si stima che

le vittime delle violenze furono tra le 40mila e le 60mila. Dopo la fine della seconda guerra mondiale la parte Orientale dell’isola tornò sotto il dominio portoghese mentre nel 1949 la parte Occidentale, dopo il ritiro dell’Olanda, fu definitivamente annessa all’Indonesia. Un primo spiraglio verso l’indipendenza del Paese arrivò nel 1974 quando, in seguito alla ‘Rivoluzione dei Garofani’, il Portogallo cominciò ad allentare gradualmente il controllo sulle colonie in Asia e Africa, permettendo la formazione di partiti politici legalizzati a Timor Est. Nacque la “Frente Revolucionaria de Timor-Leste Indipendente”, detto Fretilin, destinato a diventare il movimento simbolo della lotta per l’indipendenza di Timor Est. Nel 1975 si tennero le prime elezioni politiche. Il Fretilin vinse con il 55% dei voti e dichiarò unilateralmente l’indipendenza dell’isola dal Portogallo. Lungi dall’essere un nuovo inizio per il popolo timorese, la dichiarazione d’indipendenza diede il via ad uno dei capitoli più sanguinosi della difficile storia di Timor Est. Il 7 Dicembre 1975 l’esercito indonesiano del dittatore Suharto, invase Timor Est occupando subito la capitale Dili e tutte le principali città del Paese. Nel 1976 Jakarta fa di Timor Est la sua ventisettesima Provincia. Iniziano gli scontri tra il Fretilin e l’esercito indonesiano, nell’indifferenza della comunità internazionale, mentre Stati Uniti e Australia riconoscono ufficialmente e subito l’occupazione indonesiana di Timor Est. Per 24 anni l’esercito e le milizie filo indonesiane

Quadro generale

Diritti delle donne

Nonostante l’approvazione da parte del Parlamento di una legge che introduce nell’ordinamento giuridico il reato di violenza domestica, i casi di abusi sulle donne a Timor Est sono ancora elevati. Anche quest’anno la denuncia arriva dal Rapporto 2013 di Amnesty International (ne avevamo parlato anche nella scorsa edizione del nostro Atlante) secondo cui, nonostante alcuni casi siano stati perseguiti dai tribunali, molti hanno portato a sentenze con sospensione della pena e sono stati sollevati timori per la mancanza di un’adeguata protezione per le vittime e i testimoni. Difficile la condizione delle donne anche dal punto di vista sanitario. Il tasso di mortalità materna di Timor Est è uno dei più elevati della regione dell’Asia e Pacifico.


Finn Reske-Nielsen

(Danimarca, 14 gennaio 1950)

UNHCR/N. Ng

Le Missioni Onu a Timor Est

Sono cinque le missioni di peacekeeping dell’Onu dispiegate a Timor Est dal 1999 al 2012: UNAMET (United Nations Assistance Mission in East Timor) Giugno 1999 Ottobre 1999 UNTAET (United Nations Transitional Administration in East Timor) Ottobre 1999 - Maggio 2002 UNMISET (United Nations Mission of Support in East Timor) Maggio 2002– Maggio 2005 UNOTIL (United Nations Office in Timor-Leste) Maggio 2005–Agosto 2006 UNMIT (United Nations Integrated Mission in Timor-Leste) Agosto 2006– Dicembre 2012 Il 31 dicembre è scaduto il mandato della missione Unmit e i caschi blu hanno lasciato Timor Est. Resta però nel Paese un team delle Nazioni Unite presente fin dal 1999 e che continuerà a lavorare sull’isola. Lo “UN Country Team” (UNCT) coopera con le istituzioni locali in diversi campi tra cui: agricoltura, alimentazione, sanità, istruzione, tutela dei minori, turismo.

imperversarono sull’isola accanendosi contro la popolazione. Più di 250mila timoresi furono uccisi, praticamente un terzo degli abitanti. Il 12 novembre del 1991 un gruppo di 200 soldati indonesiani trucidò almeno 250 timoresi riuniti per il funerale di un militante indipendentista nella città di Dili. Il cosiddetto ‘massacro di Dili’ venne filmato da due giornalisti americani, che diffusero le immagini permettendo al mondo intero di conoscere il dramma del popolo di Timor Est. Le immagini del massacro provocarono manifestazioni in tutto il mondo e, almeno, la condanna delle Nazioni Unite. Caduto il dittatore Suharto, il nuovo Presidente Habibie, decise nel 1998, di dare un segnale di distensione alla comunità internazionale rendendosi disponibile a concedere uno statuto speciale a Timor Est. L’Onu si occupò di organizzare un referendum

I PROTAGONISTI

per l’autodeterminazione dell’isola, indetto il 30 agosto del 1999. La partecipazione al voto fu massiccia, il 98,6% della popolazione si recò alle urne. Gli indipendentisti vinsero con il 78,5% dei consensi ma ancora prima che i risultati venissero resi pubblici, l’esercito indonesiano e le milizie paramilitari filo-indonesiane si scatenarono contro la popolazione. I timoresi venivano uccisi sommariamente, decapitati. In migliaia furono deportati a Timor Ovest, nella parte indonesiana dell’isola. L’Onu inviò a Timor Est una forza multinazionale di pace, la Interfet (International Force East Timor). Solo il 20 ottobre il parlamento indonesiano ratificò i risultati del referendum e decise il ritiro dell’esercito. Nell’aprile del 2002 i timoresi si recano di nuovo alle urne per eleggere il primo Presidente della storia di Timor Est: Xanana Gusmão, leader storico della guerra d’indipendenza. Nel mese di maggio del 2002 viene ufficialmente proclamata l’indipendenza della Repubblica democratica di Timor Est.

163

Finn Reske-Nielsen è stato a capo dell’ultima missione dell’Onu che ha servito Timor Est dall’agosto del 2006 al dicembre del 2012. A nominarlo è stato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon che gli ha assegnato anche la carica di Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite a Timor Est. È stato il suo terzo incarico sull’isola, dove Reske-Nielsen è arrivato la prima volta nel 1999: “Il Paese – ha raccontato -era devastato da combattimenti e corruzione politica. È stato un privilegio per me poter seguire il superamento di quei momenti difficili e i progressi di Timor Est verso la pace, la stabilità e un futuro più sicuro e prospero”. Reske-Nielsen ha 35 anni di esperienza con le Nazioni Unite. Il suo primo incarico dopo l’università è stato nel 1977 in Zambia “volevo vedere il mondo vero” ha spiegato. Poi in Papua Nuova Guinea, New York, Ginevra, Namibia e Laos. Nel suo discorso di saluto prima di lasciare la missione Unmit e Timor Est, ha ringraziato i timoresi e i leader politici “per la forte collaborazione e l’impegno comune” per la costruzione di un futuro di pace per l’isola.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLO YEMEN RIFUGIATI

2.590

SFOLLATI PRESENTI NELLO YEMEN 385.320 RIFUGIATI ACCOLTI NELLO YEMEN RIFUGIATI

237.182

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SOMALIA

226.909

ETIOPIA

5.221


Obama vuole trasferire Guantanamo

La collaborazione in chiave anti al-Qaeda fra Usa e Yemen sembra funzionare, tanto che l’amministrazione Obama avrebbe iniziato a discutere con alcuni funzionari dello Yemen dell’ipotesi di aprire proprio nel Paese arabo una prigione di massima sicurezza, per trasferirvi decine di yemeniti detenuti a Guantanamo e in Afghanistan. Il progetto sarebbe funzionale alla chiusura del carcere di massima sicurezza di Cuba – Guantanamo, appunto – promessa da Obama sin dai tempi della sua prima elezione, nel 2008. Metà dei 164 prigionieri del carcere cubano è yemenita.

Lucia Sonzogni

È un lento, inesorabile, stillicidio lo scontro armato che si consuma nello Yemen. Da un lato c’è la guerra al terrorismo, alle infiltrazioni di al-Qaeda: il Governo di Sana’a collabora con gli Stati Uniti ormai da anni. Dall’altro c’è il conflitto interno, con appartenenze tribali e religiose ad accendere la miccia, a contendersi il potere. L'ultima strage alla fine del 2013, nella Provincia di Dhalea. 19 persone sono morte per un colpo di cannone caduto su una tenda in cui si vegliava un militante separatista morto qualche giorno prima. I feriti sono stati 23, 4 i bambini coinvolti. Gli attivisti del movimento che chiede l'indipendenza hanno accusato l'esercito di aver sparato sulla tenda con i carriarmati. In dicembre nella capitale, Sanaa, un attacco suicida all'ospedale del Ministero della Difesa è costato la vita a 52 tra medici, infermieri e pazienti. Tra i morti anche due medici tedeschi volontari. L'azione non è stata rivendicata, ma gli esperti ritengono sia opera di militanti vicini ad al-Quaida. Sono gli ultimi episodi di uno scontro infinito, che pare non avere confini. A Nord infatti, nel novembre del 2013, si è riaccesa la faida fra una milizia tribale sciita e una milizia sunnita salafita. Dopo giorni di combattimenti e bombardamenti, sul campo sono rimasti almeno 100 morti. Fra questi anche alcuni ‘mujaheddin’ stranieri: un cittadino canadese, alcuni europei, tre algerini, un emiratino e due indonesiani. Solo un episodio, i morti sono quotidiani. Gli Usa continuano ad usare i droni per attaccare le basi di al-Qaeda. Dal 2008 sono state almeno 300 le missioni. Amnesty International ha denunciato in maggio decine di vittime civili e innocenti per questi bombardamenti. Per lunghi mesi – a partire dal 2012 – l’organizzazione terroristica è sembrata in difficoltà. Poi, ha ricominciato a portare colpi. In ottobre, formazioni tribali e islamiche hanno attaccato l’esercito con autobombe: i morti sono stati una quarantina.

YEMEN

Generalità Nome completo:

Repubblica Unita dello Yemen

Bandiera

165

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo

Capitale:

Sanaa

Popolazione:

24.000.000

Area:

527.970 Kmq

Religioni:

Musulmana

Moneta:

Riyal yemenita

Principali esportazioni:

Petrolio, gas naturale, caffé e cotone

PIL pro capite:

Us 2.251

Alcuni giorni prima altri tre soldati sono stati uccisi a Lahi, nel Sud del Paese, sempre da integralisti. E non mancano le azioni spettacolari, come quella tentata nella capitale, nei primi giorni di ottobre del 2013. L’ambasciatrice tedesca, Carola MuellerHoltkemper, è sfuggita per poco ad un sequestro, tentato mentre usciva da un grande magazzino nel quartiere di Hadda. Nello scontro a fuoco ingaggiato con gli assalitori ha perso la vita una guardia del corpo dell’ambasciatrice. Una guerra infinita, insomma, che l’elezione del nuovo Presidente Abde Rabbo Mansur Hadi, nel 2012, non ha saputo fermare.


Dal 2000 le ragioni della guerra nello Yemen sono sempre le stesse: la lotta al terrorismo. A questo si aggiungono le tensioni interne – riemerse con forza nel 2011 nel contesto delle proteste popolari in tutto il mondo islamico – fra Governo centrale e Clan, spesso legati alla tradizione e poco

propensi ad accettare cambiamenti nel modo di vivere. Vi è poi il ruolo degli Stati Uniti, militarmente presenti – e non da tutti accettati – proprio per contrastare al-Qaeda. Sostanzialmente, quindi, si combatte per il controllo del Governo centrale.

Per cosa si combatte

166

Lucia Sonzogni

Il nuovo Presidente, Abde Rabbo Mansur Hadi, non ha cambiato la realtà. Lo Yemen, nato nel 1990 dall’unione fra Nord e il Sud, resta fragile. La riconciliazione nazionale, in effetti, è ancora lontana: Sanaa e Aden restano separate dai lutti e dagli strascichi della guerra civile, oltre che dalle discriminazioni economiche e sociali di cui il Sud tuttora soffre. Il risultato è che il vento della secessione continua a soffiare, contrastato da una feroce repressione del Governo centrale, che ovviamente finisce per esasperare la situazione. In questo quadro già problematico si inserisce la presenza di al-Qaeda che appoggia le istanze secessioniste portate avanti dal Southern Mobilty Movement (Smm). Un secondo “fronte” è aperto nel Nord, al confine con l’Arabia Saudita, con la minoranza sciita che fa capo al clan degli Al Houti. Si tratta di sciiti della setta zaidita, che non riconoscono alcuna legittimità al Governo centrale. Il loro leader, il predicatore Hussein al Houti, è stato ucciso in un raid aereo del dicembre 2009. Secondo l’Onu, il conflitto ha già fatto decine di migliaia di vittime e provocato un flusso di almeno 50mila rifugiati, costretti ad abbandonare le loro case. Le autorità di Sanaa accusano l’Iran di fomentare la rivolta, per spingere al potere la minoranza sciita, che in Yemen rappresenta il 40-45% della popolazione. Certo è che le Province del Nord – in particolare quella di Saada – sono off limits per l’esercito di Sanaa e sono saldamente in mano ai ribelli: una secessione di fatto, che ha provocato nel

dicembre 2009 l’intervento armato dell’Arabia Saudita, che lamenta l’insicurezza di questa frontiera, troppo permeabile dai miliziani di alQaeda. A questo va sommato il quadro internazionale, con il ruolo degli Stati Uniti. Attaccati da al-Qaeda del 2000, con l’assalto alla portaerei Cole e la morte di 17 marines, gli Usa hanno raggiunto accordi con il Governo yemenita e ampliato la loro presenza militare, mettendo fine al rapporto ambiguo che l’ex Presidente Saleh ha mantenuto per anni con l’organizzazione. È, ad esempio, provato che le milizie di al-Qaeda sono state utilizzate senza tanti problemi dal Governo yemenita già nella seconda metà degli anni ’90, per contrastare la secessione nelle Province del Sud tentata dai ribelli del “Southern Mobility Movement”. Altrettanto disinvolto è stato però il voltafaccia dell’ex capo di Stato dopo l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2000, quando gli americani scoprirono la consistenza della rete terroristica di bin Laden in terra yemenita. A quel punto la caccia ai militanti di al-Qaeda diventò anche a Sanaa una priorità nazionale, resa ancora più pressante dal numero cospicuo di kamikaze yemeniti che si sono immolati in Iraq dopo il 2003, per combattere gli americani. Il paradosso è che, con la stessa velocità con cui le carceri di Sanaa si sono riempite di militanti di al-Qaeda, altrettanto velocemente si sono svuotate. Una fuga di massa si verificò ad esempio nel febbraio 2006, quando 23 miliziani di al-Qaeda, tutti di primo piano, evasero. Ed è

Quadro generale

La regina di Saba in una app

I misteri della regina di Saba e della storia dello Yemen saranno raccontati da una app per smartphone e tablet, realizzata dal Governo yemenita in collaborazione con la cooperazione italiana. La app si chiama Sheba, e permette di approfondire i temi dell’archeologia yemenita, attraverso un percorso museale virtuale in lingua araba, italiana e inglese. L’obiettivo è di valorizzare e rendere facilmente fruibile il patrimonio archeologico del Paese..


Tawakkul Karman (Ta’izz, 7 febbraio 1979)

Lucia Sonzogni

Ancora il dramma delle spose-bambine

Continua il dramma delle spose bambine nelle Yemen. Ragazze di otto - nove anni vengono cedute a uomini più che adulti. In estate, una sposa-bambina di otto anni è morta dissanguata per le ferite interne riportate dopo la sua prima notte di nozze. Il marito, un 40enne al quale la piccola era stata venduta dal padre, è stato denunciato dagli attivisti per i diritti umani. Le autorità della Provincia Settentrionale di Hajja, in cui sarebbe avvenuto il fatto invece hanno smentito la notizia. A raccontare per primo la storia della sposa-bambina, è stato il giornalista yemenita freelance Mohammad Radman, che sostiene che le autorità stanno cercando di insabbiare la tragedia. In ottobre, invece, un poliziotto è intervenuto per bloccare le nozze fra una ragazzina di nove anni e un uomo di 35. L’agente ha convinto la famiglia a rinunciare alla vendita, impedendo così che si celebrasse il matrimonio. questo l’inizio di una nuova fase, che vide i jihadisti impiantarsi sempre più saldamente nelle Province del Sud, con rapporti di contiguità se non di alleanza tattica con la guerriglia separatista, che continua a battersi per l’indipendenza. Allo stesso tempo, al-Qaeda nella penisola Arabica non smette di colpire, appena può, il nemico americano e i suoi più stretti alleati: nel 2008 vi furono due attacchi suicidi all’ambasciata Usa cui vanno aggiunti diversi attacchi contro obiettivi “occidentali”. Nell’autunno 2009, inoltre, l’Arabia Saudita ha denunciato l’infiltrazione di elementi legati ad al-Qaeda provenienti dal Nord dello Yemen, a conferma del fatto che la rete del terrore che faceva capo ad Osama bin Laden ha nello Yemen il suo principale caposaldo, con una capacità di azione ad ampio raggio ed una rete di protezioni tribali che sarà difficile smantellare, nonostante nel 2010 ci sia da registrare una grande battaglia fra l’esercito yemenita e i miliziani di al-Qaeda,

I PROTAGONISTI

nella città di Loder, nel Sud, con decine di morti da ambo le parti. Tutto cambia nel 2011, con il crollo del Presidente Saleh. Lo scontro con gli oppositori era diventato incandescente. Il 3 giugno un bombardamento di artiglieria semi-distrusse il palazzo presidenziale. Saleh, ferito, riparò in Arabia Saudita, ma al rientro le proteste ricominciarono, portando il bilancio a 700 morti. In un discorso alla tv di stato, il 25 settembre, Saleh promise nuove elezioni a breve, per avviare un processo di transizione dei poteri. Ma la piazza reclamava, armi alla mano, le sue dimissioni immediate. Inoltre voleva processarlo per la repressione feroce e per tutti gli altri crimini commessi nei suoi 33 anni di potere più o meno assoluto. I battaglioni della Guardia Repubblicana, guidati da suo figlio Ahmed, non lo hanno salvato da una contestazione ormai estesa a tutte le tribù e a tutto o il Paese e che gli ha fatto perdere in sei mesi anche l’appoggio dei suoi storici protettori, la Monarchia saudita e il Governo degli Stati Uniti. Nel 2012 il cambio, con l’elezione di Hadi, fedelissimo di Saleh. Nulla è davvero cambiato e le tensioni nel Paese restano.

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È una politica, membro del partito Al-Islah (Congregazione Yemenita per la Riforma, la branca yemenita dei Fratelli Musulmani) e leader dal 2005 del movimento Ṣaḥafiyyāt bilā quyūd (Giornaliste senza catene), gruppo umanitario da lei creato. Figlia di ʿAbd alSalām Khālid Karmān, leader dei Fratelli Musulmani, ministro degli Affari Giuridici ed ex membro del Consiglio della Shura dello Yemen, si tolse il niqāb (velo semi-integrale) alla Conferenza sui diritti umani del 2004 e da allora ha esortato “le altre donne e le attiviste a levarselo”. Durante le sommosse popolari nello Yemen del 2011, ha organizzato raduni di studenti nella capitale yemenita per protestare contro il dittatore Ṣāleḥ. Più volte arrestata, nello stesso anno ha scritto un articolo intitolato “La rivoluzione incompiuta dello Yemen” per il New York Times, in cui attacca gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita per il loro sostegno al regime “corrotto” di Saleh. Nel 2011 ha ricevuto assieme alle liberiane Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee il Premio Nobel per la pace “per la loro battaglia non violenta a favore della sicurezza delle donne e del loro diritto alla piena partecipazione nell’opera di costruzione della pace”.

UNHCR/L. Chedrawi


Inoltre Birmania/Myanmar "Verso una apertura democratica. Nel 2015 le elezioni verità".

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Dopo mezzo secolo di dittatura militare il Myanmar sembra pronto per aprirsi al mondo, anche se non sembra ancora del tutto escluso nel Paese, il rischio di una nuova ondata di repressione e violenze. L’appuntamento cruciale, a seguito del quale si capirà se il Paese è davvero pronto per un cambiamento, è rappresentato dalle elezioni del 2015. Vanno comunque sottolineati alcuni passi avanti decisivi verso la pacificazione e maggiori garanzie democratiche dopo i lunghi anni di bui della dittatura. La liberazione del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, nel 2010, dopo vent’anni di lotte arresti e reclusione, è stata certamente il segnale più forte, per la comunità internazionale, di discontinuità con il passato. Nel settembre del 2013 è arrivato un altro segnale positivo, i monaci buddisti del movimento accusato d’aver innescato le violenze contro i musulmani hanno firmato un accordo con le comunità islamiche e cristiane. Nel corso del 2013 gli scontri tra la maggioranza buddhista e la minoranza musulmana nell’ex Birmania hanno causato la morte di oltre 230 persone e 150mila rifugiati. In Myanmar si contano oltre 100 minoranze etniche, tra queste i musulmani rappresentano circa il 4% e le violenze etniche sono accese e diffuse in tutto il Paese, così come le violazioni dei diritti umani e civili. È comunque dal 2011 che i segnali di una apertura democratica del Paese sono stati piuttosto evidenti e continui, dall’amnistia concessa dal regime a numerosi prigionieri politici, ad alcuni cambiamenti nella Costituzione che dovrebbero garantire maggiore libertà di stampa, alle aperture economiche e commerciali. Bisogna però ricordare che in Myanmar le forze armate UNHCR/P. Behan

UNHCR/P. Behan

hanno ancora un ruolo chiave, preponderante nell’assetto istituzionale del Paese e occupano gran parte del Parlamento. La situazione resta dunque delicata, il percorso verso una reale democrazia è appena cominciato. A questa transizione democratica del Myanmar guarda con grande interesse anche l’Unione europea. Dopo aver alleggerito le sanzioni economiche e commerciali contro il regime, circa un anno e mezzo fa, Bruxelles ha anche promosso nel mese di novembre una visita diplomatico-commerciale nel Paese. “Tutti coloro che hanno partecipato a questa visita possono testimoniare il reale impegno europeo affinché si vedano migliorate le condizioni di vita in Myanmar e siano garantite a tutti reali possibilità di occupazione. L’Europa vuole anche procedere a creare delle concrete occasioni di partnership con il Paese” ha dichiarato Catherine Ashton, rappresentante dell’Ue per gli affari esteri, ai giornalisti europei a margine della visita. Agli incontri con la delegazione europea ha partecipato anche Aung San Suu Kiy: “Stiamo compiendo sforzi continui nel tentativo di assicurare che la politica proceda lungo il giusto cammino – ha affermato la Premio Nobel per la Pace -. Non è un processo automatico, che si possa definire concluso, senza necessità di miglioramento. La transizione è un lavoro in divenire, da compiere anno dopo anno, decade dopo decade, generazione dopo generazione”. Nel corso dell’ultimo giorno di visita della delegazione europea, il Myanmar ha annunciato la liberazione di altri 69 prigionieri politici, ma l’Unione Europea spinge per una amnistia che coinvolga tutti i detenuti per ragioni politiche.


Inoltre Corea del Nord-Sud "Coree, niente pace. E Pyongyang minaccia il mondo con l’atomica".

ree, più per motivi economici che per ideologia. Tanti sono infatti i progetti economici comuni fra le due nazioni. Uno è della zona di Kaesong, zona franca situata a Nord della zona demilitarizzata dove 123 imprese sudcoreane impiegano 53mila coreani del Nord che dal 2000 hanno uno speciale permesso per lavorare nelle fabbriche dei vicini sudcoreani. Pyongyang ha deciso nel 2013 la chiusura del sito industriale dopo l’ultima crisi e Seul vorrebbe negoziarne la riapertura. Resta inoltre in primo piano la questione delle violazioni dei diritti umani in Corea del Nord. A ribadirlo è stata, nel settembre del 2013, la Commissione dell’Onu incaricata di condurre un’inchiesta su questo tema. Centomila le persone contrarie al regime di Kim Jong Un che sarebbero rinchiuse in campi di prigionia. Così Michael Kirby, Presidente della commissione delle Nazioni Unite: “Le testimonianze individuali che emergono dalle audizioni pubbliche non rappresentano casi isolati. Sono rappresentativi di modelli su larga scala che costituirebbero violazioni sistematiche e macroscopiche dei diritti umani”. Nel documento dell’Onu si legge che i prigionieri politici vengono sottoposti a torture paragonabili a quelle inflitte in passato dal regime nazista alle persone rinchiuse nei campi di concentramento. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu può chiedere al Tribunale dell’Aja di investigare sugli abusi della Corea del Nord anche se quest’ultima non ha ratificato lo Statuto di Roma che istituiva la Corte Penale Internazionale.

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Ancora tensioni tra la Corea del Nord e la confinante Corea del Sud nonostante i tentativi di negoziato impostati da anni ma che non hanno mai portato ad una soluzione condivisa e duratura delle ostilità in corso tra i due Paesi. Tecnicamente ancora in guerra dopo la fine del conflitto (1950-1953), le due Coree non hanno mai firmato un accordo di pace. Esiste solo un armistizio che rappresenta una temporanea cessazione delle ostilità ma non garantisce per la futura sicurezza della Regione. Il confine tra i due Paesi, il 38simo parallelo, è il più protetto e militarizzato del mondo con 250 chilometri di mine, armi pesanti, filo spinato e rivelatori di movimento. La miccia dell’ostilità tra Seul e Pyongyang si riaccende a intervalli regolari, con lanci di missili e provocatorie esercitazioni militari. Nel 2013, anno del 60simo anniversario della firma dell’armistizio del 1953, l’improvvisa escalation di tensione tra i due Paesi ha fatto temere ancora una volta per il peggio anche se molti analisti ritengono ormai poco probabile un reale attacco missilistico da parte di Pyongyang e sono portati a interpretare i continui allarmi e ultimatum lanciati dal regime nordcoreano come una semplice provocazione. A pesare però è anche la sostanziale incapacità degli altri attori coinvolti - Stati Uniti in primis - di impostare trattative che possano portare a una soluzione negoziata e definitiva del conflitto. Gli Usa non hanno mai acconsentito, nonostante le numerose richieste della Corea del Nord, di sedersi ad un tavolo di negoziato bilaterale preferendo le trattative a sei - con Russia, Cina, Giappone e le due Coree - che nonostante i tentativi in corso da anni non hanno mai portato né ad una soluzione duratura del conflitto né ad un qualche significativo passo avanti. Nell’aprile del 2013 la crisi ha raggiunto un nuovo picco con la minaccia di Pyongyang di scatenare una “guerra termonucleare”, crisi poi rientrata nonostante la decisione del Consiglio di Sicurezza di imporre al regime Nordcoreano nuove e più severe sanzioni. Non deve sembrare strano invece, che a trattare siano proprio le due Co-


Inoltre Iran

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"C’è l’accordo sul nucleare. A Teheran sono nuovi Presidente e speranze".

Un nuovo Presidente riformista e un accordo sul nucleare con la comunità internazionale. Nel 2013 l’Iran cambia decisamente rotta e muove passi decisivi verso la distensione dei rapporti con gli Stati Uniti e il mondo intero. Nel giugno del 2013 la notizia dell’elezione di Hassan Rohani che diventa il nuovo Presidente della Repubblica Islamica, viene salutata positivamente dalla comunità internazionale e dalle nuove generazioni di iraniani, ansiosi di vedere rappresentate politicamente le proprie istanze di cambiamento e di maggiori libertà sociali e politiche. Il successore di Mahmoud Ahmadinejad è l’unico esponente del clero tra i candidati alla presidenza, molto vicino all’ex Presidente riformista Rafsanjani , Rohani ha raccolto oltre il 50% dei consensi ed è considerato un riformista moderato. Alla comunità internazionale è noto per essere stato, tra il 2003 e il 2005, il capo negoziatore per il dossier sul nucleare e proprio all’inizio del suo mandato si era raggiunto un primo importante accordo per la sospensione dell’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran. Ma la notizia più importante è arrivata alle tre di notte del 25 novembre 2013: il ministro degli Esteri iraniano Mohammad-Javad Zarif ha annunciato la fine dei negoziati tra Teheran e le potenze mondiali sul nucleare dichiarando: “Abbiamo raggiunto un accordo”. Notizia accolta con grande positività dalla comunità internazionale e dal mondo intero, quasi una naturale conseguenza, secondo molti osservatori, della svolta elettorale e del nuovo corso politico in Iran. “Si tratta di un primo importante passo verso un accordo generale: oggi la diplomazia ha aperto la strada per rendere il mondo più

sicuro” ha dichiarato Obama subito dopo la notizia dell’accordo e chiedendo poi al Congresso, in diretta tv, di non imporre nuove sanzioni a Teheran. I termini dell’accordo, raggiunto dall’Iran con Gran Bretagna, Francia, Germania, Usa, Russia e Cina, prevedono l’impegno da parte dell’Iran ad interrompere l’arricchimento dell’uranio sopra il 5% e a neutralizzare le sue riserve di uranio arricchito a quasi il 20%, mentre le potenze mondiali si sono impegnate a non imporre sanzioni all’Iran per i prossimi mesi. L’accordo finale, che tutti sperano possa essere raggiunto quanto prima, dovrebbe assicurare definitivamente che l’Iran non si doterà di armi nucleari e comporterebbe la cancellazione delle pesanti sanzioni economiche imposte negli anni a Teheran dalla comunità internazionale, che hanno acuito nel Paese l’insicurezza alimentare e la crisi economica. Soddisfazione per l’accordo è stata espressa da tutti gli attori coinvolti ma non da Israele. Il primo Ministro Benyamin Netanyahu ha dichiarato che l’accordo rappresenta “un errore tragico”. Nonostante la posizione israeliana, è innegabile un clima di speranza e di apparente distensione nei rapporti tra Teheran e la comunità internazionale, che però stride con il bilancio del Governo di Rohani in materia di diritti umani. Nei primi 100 giorni del nuovo esecutivo le esecuzioni capitali hanno raggiunto cifre da record. Solo nell’ottobre del 2013 sono stati giustiziati 20 detenuti. In tutto il 2013 ne sarebbero state eseguite 304. Le organizzazioni umanitarie denunciano inoltre le pesanti restrizioni alla libertà di stampa e d’espressione, gli arresti e le detenzioni arbitrarie degli oppositori politici molti dei quali restano in carcere dal 2009, anno della rivolta nota come “Onda Verde”.


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Medio Oriente

A cura di Amnesty International

Medio Oriente, l’ingiustizia ha il volto dei profughi Il brutale conflitto in Siria ha devastato il Paese, con oltre 100mila morti dal 2011 e più di sei milioni di persone in fuga dalle loro case, di cui quasi 5milioni profughi interni. Le forze e le milizie fedeli al Governo hanno continuato a compiere attacchi indiscriminati e mirati sui civili. Arresti arbitrari, sparizioni forzate e torture nei centri di detenzione sono rimaste prassi diffuse. Dall’inizio delle proteste, migliaia di presunti oppositori del Governo sono stati detenuti arbitrariamente. Alcuni sono ancora scomparsi e le loro famiglie, che spesso vivono nell’angoscia e nella disperazione, non sanno che sorte sia toccata loro e ignorano il luogo in cui si trovino. Altri, sottoposti a sparizione forzata, sono stati rilasciati dopo aver trascorso mesi in detenzione segreta e hanno raccontato ad Amnesty International delle torture e degli altri maltrattamenti subiti. Molti sembrano essere stati arrestati semplicemente per aver espresso il loro sostegno alle proteste o per essersi opposti al regime oralmente o per iscritto. Alcuni gruppi dell’opposizione hanno continuato a prendere in ostaggio e a uccidere sommariamente, anche

civili, sulla base della loro nazionalità, opinione politica e appartenenza settaria. Lo stallo internazionale ha impedito azioni significative, se non una risoluzione del Consiglio di sicurezza che prevede la fine dell’uso delle armi chimiche e la loro successiva distruzione. Il compromesso raggiunto il 14 settembre mostra che di fronte a pressioni concertate, che coinvolgano anche i partner di Damasco, qualcosa è possibile fare. Ma non va dimenticato che, dall’inizio della rivolta, decine di migliaia di civili siriani sono stati uccisi con armi convenzionali. Amnesty International ha più volte denunciato l’uso di artiglieria, armi aeree e bombe a grappolo, in attacchi delle forze armate di Damasco contro aree residenziali e villaggi. Amnesty International aveva chiesto sin dalla primavera 2011 un embargo sulle armi destinate alle forze armate del Presidente Bashar al-Assad e il deferimento della situazione siriana alla Corte penale internazionale. Trascorso un decennio dall’invasione diretta dagli Usa, l’Iraq è rimasto intrappolato in un ciclo di violazioni dei diritti umani. Sotto la copertura delle “leggi antiterrorismo”, sono proseguiti arresti arbitrari, detenzioni senza processo, torture e altri maltrattamenti. Centinaia di persone, per lo più civili, hanno continuato a morire ogni mese a causa di attentati e altri attacchi compiuti dai gruppi armati. Ad aprile si è registrato il maggior numero di morti violente dalla metà del 2008 in un crescendo di scontri tra gruppi armati sunniti e forze di sicurezza.


Il Governo di Israele ha portato avanti le sue politiche di punizioni collettive nei Territori Palestinesi Occupati, incluso il blocco sulla Striscia di Gaza e le restrizioni al movimento dei palestinesi della Cisgiordania, dove è proseguita l’espansione degli insediamenti illegali. In Iran, all’indomani dell’elezione del Presidente Rouhani sono stati rilasciati alcuni noti attivisti e oppositori politici, mentre si è registrato un picco di esecuzioni capitali. In Bahrein le autorità, nonostante l’annuncio di riforme e tavoli negoziali, hanno continuato a torturare e uccidere manifestanti e a condannare prigionieri di coscienza, tra cui esponenti dell’opposizione e attivisti giovanili e per i diritti umani. In tutti gli altri Paesi del Golfo la libertà d’espressione è stata sottoposta a pesanti limitazioni. I lavoratori migranti che si sono riversati in questi Paesi per sfuggire alla povertà hanno trovato pessime condizioni lavorative, come nel caso del Qatar. In Yemen, soprattutto nella Regione Meridionale, persone che avevano preso parte a manifestazioni hanno subito un uso eccessivo della forza e torture o maltrattamenti mentre erano in custodia.

Le autorità in Arabia Saudita, Iran, Iraq e Yemen hanno continuato a fare ricorso su larga scala alla pena di morte: le esecuzioni in questi quattro Paesi rappresentano il 99% del totale regionale.

UNHCR/G. Beals


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA PALESTINA* RIFUGIATI

94.901

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI EGITTO

70.028

IRAQ

11.467

*4,8 milioni di rifugiati e sfollati palestinesi rientrano nel mandato dell’UNRWA e non vengono pertanto considerati in questa tabella. RIFUGIATI ORIGINATI DA ISRAELE RIFUGIATI

1.341

RIFUGIATI ACCOLTI IN ISRAELE RIFUGIATI

48.505

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI ERITREA

37.347

SUDAN

10.743


Il Ritorno comincia prima

Si chiama Zochrot ed è una organizzazione non governativa israeliana che si è data uno scopo molto ambizioso: “spiegare” all’opinione pubblica israeliana la Nakba, la Catastrofe palestinese del 1948. Non un’operazione storica e di coscienza, ma un’operazione politica che punta a preparare il terreno al ritorno dei profughi palestinesi. Tour, iniziative culturali, mostre, manifestazioni: con questi strumenti gli attivisti di Zochrot vogliono “decolonizzare” il discorso pubblico israeliano. Zochrot «vede il Ritorno come un complesso processo multidimensionale - si legge sul sito web dell’associazione - che include non solo il ritorno fisico dei rifugiati in questo Paese, ma anche la loro integrazione appropriata e dignitosa in una società congiunta ebraicopalestinese». Esistono e resistono da cinque anni. www.zochrot.org/en

Il 2013 si è aperto con le elezioni legislative anticipate in Israele. Il voto del 22 gennaio ha prodotto un parlamento sostanzialmente spaccato a metà, tra partiti di centro destra e di centro sinistra. Ci sono voluti quasi due mesi di trattative prima che il primo Ministro Benyamin Netanyahu riuscisse a formare un Governo di coalizione, con il sostegno del neonato partito centrista Yesh Atid del presentatore televisivo Yair Lapid, dei conservatori di HaBait HaYehudi (La casa ebraica) del miliardario Naftali Bennet e con Hatnuah, il partito di centro dell’ex leader di Kadima, Tzipi Livni. Fuori dalla coalizione, per la prima volta, i partiti religiosi. Il ventennale degli Accordi di Oslo (13 settembre 1993) è trascorso senza grandi celebrazioni, ma solo con un tentativo, poco convinto, di riavviare il dialogo diretto tra israeliani e palestinesi. A fine luglio, rappresentanti israeliani e palestinesi si sono incontrati a Washington. Come gesto di buona volontà, Israele ha annunciato la liberazione di 104 detenuti palestinesi, da rilasciare in quattro “turni”. I primi 26 detenuti sono stati rilasciati a metà agosto e accolti trionfalmente a Gaza e in Cisgiordania. L’incontro avrebbe dovuto essere il primo di una serie, per riannodare il processo di pace interrotto nel 2010 dopo il rifiuto israeliano di bloccare l’espansione degli insediamenti colonici - illegali per la legge internazionale - nei Territori palestinesi. Meno di un mese dopo, però, scontri tra palestinesi e forze di polizia israeliane al valico di Qalandia, hanno spinto l’Autorità Nazionale Palestinese a interrompere i colloqui. A settembre 2013, il Presidente palestinese Mahmoud Abbas ha però ribadito davanti all’Assemblea generale dell’Onu, la volontà di andare avanti con i negoziati. Per il milione e mezzo di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, è stato un altro anno in condizioni di vita durissime, anche se l’emGeneralità Nome completo:

Stato di Israele

ISRAELE PALESTINA

Generalità Nome completo: Bandiera

Lingue principali:

Arabo

Capitale:

Ramallah

Popolazione:

4.150.000 (2007)

Area:

Dato non disponibile

Religioni:

Musulmana, cattolica

Moneta:

Sterlina egiziana, nuovo Shekel israeliano, dinaro giordano

Principali esportazioni:

n.d.

PIL pro capite:

Cisgiordania Us 1.500 Striscia di Gaza Us 670

Bandiera

Lingue principali:

Ebraico e Arabo

Capitale:

Tel Aviv

Popolazione:

7.900.000

Area:

22.072 Kmq

Religioni:

Ebraica (75,6%), musulmana (16,6%), cristiana (1,6%), drusa (1,6%), non classificati (3.9%)

Moneta:

Nuovo Shekel

Principali esportazioni:

Prodotti high tech, diamanti, prodotti agricoli

PIL pro capite:

Us 33.878

Autorità Nazionale Palestinese

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

bargo israeliano è stato appena ammorbidito dalle parziali aperture dei valichi di frontiera con l’Egitto. Più volte nel corso dell’anno sono state avviate trattative tra Hamas e Autorità Nazionale Palestinese per ricucire la frattura interna prodotta dalle elezioni del 2006 e dalla seguente crisi che ha spaccato Gaza e Cisgiordania. Il Governo israeliano ha continuato ad autorizzare nuove costruzioni in Territori oltre la cosiddetta Linea Verde, il confine del 1967, e a Gerusalemme Est. Circa 2mila nuovi edifici sono stati autorizzati.


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Due popoli e due Stati: rimane questa la soluzione al conflitto israelo-palestinese perseguita dalle diplomazie internazionali. Da parte palestinese si chiede il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati nella “Guerra dei Sei giorni” del 1967 (compresa Gerusalemme Est, indicata come capitale del futuro Stato palestinese) e il diritto al ritorno per i profughi del ’48. Precondizione per ogni trattativa è anche lo stop alla costruzione di colonie, illegali se-

condo il diritto internazionale e che con la loro espansione minano la continuità territoriale e il controllo delle risorse naturali del futuro Stato. Da parte israeliana, ufficialmente si rivendica il diritto alla propria “sicurezza”, ma di fatto sembra che ancora si perseguano gli obiettivi “massimi” del 1948, ovvero la realizzazione in Palestina di uno Stato ebraico esteso dal fiume Giordano al mar Mediterraneo.

Per cosa si combatte

Il conflitto israelo-palestinese dura da oltre 60 anni. Momento spartiacque è la fine del mandato britannico, al termine della seconda guerra mondiale. È allora, con il ricordo ancora vivo della Shoah nazista nell’opinione pubblica internazionale, che hanno successo gli sforzi del movimento sionista, nato alla fine dell’Ottocento su iniziativa di Theodor Herzl per dare una patria agli ebrei. Il 29 novembre 1947 una risoluzione dell’Onu accoglie le rivendicazioni del popolo ebraico, assegnandogli il 73% del territorio dell’ex mandato britannico. La decisione viene respinta dai palestinesi e dai Paesi arabi. Egitto, Siria, Transgiordania, Libano e Iraq attaccano il nascente Stato, che però vince la guerra, ampliando il territorio sotto il suo controllo verso la Galilea a Nord e verso il Negev a Sud. Il 14 maggio 1948 nasce ufficialmente lo Stato d’Israele con la “Dichiarazione d’indipendenza” firmata dal primo Ministro David BenGurion. Per i palestinesi si tratta della Nakba (catastrofe): in centinaia di migliaia vengono cacciati dalle proprie case o fuggono, cercando riparo in altri Paesi vicini. Nel 1956, dopo la nazionalizzazione da parte del Cairo del canale di Suez, Israele attacca l’Egitto conquistando Gaza e il Sinai (da cui poi sarà costretto a ritirarsi). Nel maggio del 1967 il Presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, stringe con la Giordania un patto di difesa, che getta le basi per un attacco allo Stato d’Israele. La reazione di Tel Aviv è immediata: nel giugno del 1967 Israele attacca l’Egitto, poi la Giordania e la Siria. È la ‘Guerra dei Sei giorni’, che segna la

dura sconfitta degli arabi, e l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, alture del Golan (tutt’oggi sotto controllo israeliano) e Sinai (restituito all’Egitto nel 1979). In seguito ci saranno altre guerre: nel 1973 la guerra dello Yom Kippur contro Egitto e Siria e nell’83 con il Libano. È con la “Guerra dei Sei giorni” che la questione israelo-palestinese entra nell’impasse attuale. Nonostante le pressioni internazionali e le numerose risoluzioni dell’Onu, infatti, Israele non si è ancora ritirata dai Territori occupati, e ha cominciato una lenta e costante campagna di colonizzazione che prosegue tutt’ora. Nel 1987 lo stallo nel conflitto dà origine a una sollevazione popolare contro l’occupazione israeliana, nota come Intifada (“rivolta”), che inizia nel campo profughi di Jabaliyya ma si estende presto a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. La rivolta dura sei anni, durante i quali i palestinesi manifestano e protestano con ogni mezzo, dalla disobbedienza civile agli scioperi generali, fino al lancio di pietre contro i militari. La guerriglia si interrompe grazie agli Accordi di Oslo del 1993, con la stretta di mano tra il primo Ministro israeliano Itzhak Rabin, e Yasser Arafat, storico leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Quest’ultimo, a nome del popolo palestinese, riconosce lo Stato di Israele e a sua volta Tel Aviv riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese (ruolo che dal 1995 spetterà all’Anp, l’Autorità Nazionale Palestinese). Gli accordi di Oslo si riveleranno però fallimentari e la tensione tornerà alta il

Quadro generale

Federica Ramacci

I beduini del Negev

Sono circa 170mila i beduini arabi semi-nomadi che vivono nel Sud di Israele, nel deserto del Negev. La loro convivenza nei confini dello stato israeliano non è mai stata facile e fin dagli anni ‘50 ci sono stati diversi piani per sedentarizzarli forzatamente. L’ultimo piano, approvato a settembre del 2011, è noto come piano Begin-Prawer e prevede che circa 40mila beduini lascino i loro insediamenti “non autorizzati” dove, secondo il Governo israeliano, non possono ricevere servizi essenziali, per risistemarsi in zone “approvate” dallo stesso Governo. Il piano da 5,6miliardi di dollari ha provocato dure proteste da parte dei beduini, che reclamano invece il diritto di usare la terra per le proprie greggi e di difendere il loro stile di vita. Il piano di reinsediamento è stato criticato anche dal Parlamento Europeo.

Federica Ramacci


Haneen Maikey

Le donne di Gaza

Nella Striscia il consolidamento del Governo di Hamas passa anche per una serie di atti legislativi sotto il segno dell’islamizzazione della società gazawi, con la speranza di battere la concorrenza islamista dei gruppi salafiti ormai radicati nella striscia. A farne le spese sono soprattutto le donne. Il 31 marzo 2013, per esempio, è stato approvato un nuovo codice scolastico che impone, tra le altre cose, che dall’età di 9 anni ci siano classi separate per bambini e bambine e che le classi femminili non possano avere insegnanti maschi. Il mese prima, l’università di Al Aqsa aveva introdotto un codice di abbigliamento per le studentesse che di fatto impone l’uso dell’hijab, il velo che copre la testa, e del jilbab, il cappottone che copre vestiti e forme. I provvedimenti sono stati criticati dall’Autorità Nazionale Palestinese, ma il dissenso di Ramallah non ha innescato alcuna marcia indietro.

28 settembre del 2000, quando l’allora capo dell’opposizione politica israeliana Ariel Sharon fa una provocatoria passeggiata, con mille uomini armati, sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Un gesto simbolico, compiuto in uno dei luoghi più sacri per i musulmani, con cui si rivendicava Gerusalemme come capitale “indivisa” di Israele. È l’inizio della “Seconda Intifada”. Dalla Striscia di Gaza, l’anno successivo, comincia il lancio dei razzi ‘Qassam’ contro Israele. Azione questa che nel corso degli anni porterà Israele ad intervenire più volte nella Striscia al fine di “indebolire la resistenza palestinese”. Con la motivazione di difendersi dagli attentati suicidi palestinesi, Israele nel 2002 prende la decisione di costruire una “barriera di sicurezza” in Cisgiordania, che di fatto sottrae ulteriori territori ai palestinesi, grazie a un tracciato che non segue la Linea verde del 1967 ma entra profondamente in Cisgiordania e circonda alcune delle più popolose colonie, diventate nel frattempo piccole città. La struttura, ribattezzata “muro dell’apartheid”, viene condannata anche dalla

I PROTAGONISTI

Corte internazionale di giustizia. Nel frattempo si rafforzano le tensioni anche nel fronte palestinese, alimentate dalla vittoria di Hamas alle elezioni politiche del gennaio 2006. Gli scontri armati tra le due principali fazioni palestinesi raggiungono il culmine nel giugno 2007 a Gaza, quando si rischia una vera e propria guerra civile. Hamas ha la meglio, dando vita così a una separazione di fatto dei territori palestinesi, con la Striscia di Gaza controllata dal movimento islamico e la Cisgiordania governata da Fatah, che controlla l’Anp. Sempre nel giugno 2007, con lo scopo dichiarato di contrastare Hamas, Egitto e Israele impongono un blocco economico su Gaza, che dura tuttora, solo parzialmente attenuato. Al termine del 2008 Tel Aviv avvia anche una campagna militare contro la Striscia, durata 17 giorni e nota come “Operazione Piombo fuso”. Il bilancio finale dei raid israeliani è di 1305 morti palestinesi e di 5450 feriti. Diverse organizzazioni non governative hanno tentato di rompere simbolicamente l’assedio. Tra il 2012 e il 2013, tuttavia, il conflitto israelo-palestinese è passato in secondo piano nell’agenda internazionale, eclissato prima dalla situazione egiziana e poi dalla drammatica piega presa dalla guerra civile in Siria.

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Palestinese cittadina israeliana, è tra i fondatori e la direttrice di Al Qaws, la prima organizzazione palestinese che si occupa dei diritti delle persone gay, lesbiche e transgender. Il gruppo, nato nel 2007 dopo essersi staccato dalla Jerusalem Open House, un’organizzazione Glbt israeliana. Una decisione che rispecchia il cambiamento della coscienza nel mondo glbt palestinese - o queer, come preferisce dire Haneen - che, si trova a dover affrontare una doppia sfida: da una parte quella del riconoscimento del diritto alla diversità sessuale nella società palestinese, in cui l’argomento rimane tuttora largamente tabù, e dall’altra quel rapporto tra identità individuale e identità nazionale collettiva, ovvero il rapporto tra la lotta delle persone queer nella cornice più ampia e spesso non meno drammatica di altre lotte palestinesi. «I poteri oppressivi non distinguono tra gay ed etero - ha detto Haneen in una intervista - Non si può lavorare contro l’occupazione israeliana dimenticando altre forme di oppressione». Al Qaws lavora sia tra i palestinesi cittadini di Israele che nei Territori controllato dall’Anp, con appoggio legale, case sicure, linee telefoniche di supporto, eventi sociali e culturali.

Federica Ramacci


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL LIBANO RIFUGIATI

15.112

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA

11.819

RIFUGIATI ACCOLTI NEL LIBANO RIFUGIATI

133.940

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI SIRIA

126.939

IRAQ

6.516


Un contestato Tribunale speciale

Dopo l’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, avvenuta 14 febbraio 2005, le Nazioni Unite hanno deciso di formare un tribunale speciale per far luce sull’assassinio. All’Aja, dal marzo del 2009, il Tribunale speciale per il Libano presieduto dal giurista italiano Antonio Cassese, è al lavoro per trovare i responsabili dell’assassinio. Molti i dubbi, anche tra autorevoli esperti di geopolitica, sul vero fine del Tribunale visto che per altri assassinii eccellenti (ad esempi: John Kennedy, Olof Palme, Aldo Moro, Benazir Bhutto) l’Onu non ha mai pensato di istituire una commissione di inchiesta internazionale. Il rischio reale è che il Tribunale, con la sua sentenza, diventi un mero mezzo politico ed ago della bilancia negli equilibri del Paese dei Cedri. È per questo che l’imparzialità del Tribunale deve essere limpida. Un’ombra però resta! Il Tribunale, va ricordato, è finanziato per il 51% dal Libano ma per il restante 49% da contributi volontari di altri Paesi (tra questi la Francia che l’anno scorso ha stanziato un milione e mezzo di euro).

UNHCR/P. Taggart

Il conflitto siriano continua a condizionare il precario equilibrio politico del Libano. Non si è sciolto infatti il nodo che contrappone, all’interno del Paese dei Cedri, le fazioni filo ed anti Assad. Scissione che ha rialzato la tensione nel Nord del Paese, dove il susseguirsi di scontri a Tripoli ha già mietuto decine di vittime. Ma lo stallo è anche politico. Lo scorso 25 marzo, infatti, l’esecutivo del sunnita Najib Miqati si è dimesso lasciando l’infausto compito di formare un nuovo Governo a Tammam Salam. Ancora una volta però il conflitto siriano ha pesato e continua a pesare sulla politica libanese. Ancora una volta Hezbollah sembra essere la causa di questo stallo. Il Partito di Dio infatti, rappresentato in Parlamento e al Governo, è sotto accusa per il suo coinvolgimento attivo (visto che alcuni suoi militanti combattono in Siria a fianco dei lealisti di Assad) nella crisi siriana ed è riuscito nell’intento di evitare il voto in estate per il rinnovo dell’Assemblea, parlando di ‘’circostanze che impediscono di organizzare le elezioni’’. Lo scorso 31 maggio il Parlamento, conscio della difficoltà di trovare un accordo valido che non faccia piombare il Paese nell’ennesima guerra civile, ha votato a favore della proroga della legislatura di 17 mesi. Un Governo provvisorio che scadrà il 20 novembre 2014, dopo la fine del mandato del Presidente della Repubblica, che in teoria dovrebbe lasciare entro il prossimo maggio. La proroga della legislatura potenzialmente scongiura la possibilità di un vuoto istituzionale, ma espone il Paese ad una pericolosa instabilità politica ed anche sociale. L’instabilità del Libano inoltre deve fare i conti con la drammatica ondata di profughi siriani in fuga dal conflitto. Va ricordato che il Libano accoglie già circa 400mila profughi palestinesi. A questi va aggiunta la preoccupante cifra di 716mila profughi siriani. A fornire le cifre è stata l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, precisando che 606mila profughi sono stati registrati al momento, altri 109mila attendono di esserlo. Nel frattempo, come se non bastasse, il Libano

LIBANO

Generalità Nome completo:

Repubblica Libanese

Bandiera

179

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo, francese

Capitale:

Beirut

Popolazione:

4.400.000

Area:

10.452 Kmq

Religioni:

Musulmana (sunnita, sciita), cristiana

Moneta:

Lira libanese

Principali esportazioni:

Gioielli, apparecchiature elettriche, prodotti metallurgici, chimici, alimentari

PIL pro capite:

Us 15.587

deve fare i conti anche con un altro suo vicino: Israele. Quest’ultimo sembra aver congelato per il momento le sue brame espansionistiche nel Sud del Libano, ma naturalmente la situazione potrebbe degenerare molto rapidamente (già avvenuto in passato). C’è da dire che Tel Aviv si guarda bene dall’ostacolare in qualunque modo i venti di cambiamento di tutto il mondo arabo. Una mossa sbagliata potrebbe infiammare e favorire l’anima più integralista musulmana a discapito della maggiore realtà democratica.


che non ha mai riconosciuto l’esistenza dello Stato israeliano, a sostenere economicamente il movimento di Hezbollah fiancheggiato anche dal Governo siriano, in conflitto con Israele per la sovranità sulle Alture del Golan. In realtà sia quest’ultime sia il Sud del Libano custodiscono un elemento fondamentale per la sopravvivenza e la stabilità di Israele: l’acqua. Sulle Alture del Golan si trova la sorgente del fiume Giordano mentre nel Sud del Libano scorre il fiume Litani. Due risorse idriche che in un territorio come quello del Vicino Oriente risultano sicuramente strategiche. Se nelle parole possiamo trovare il significato delle cose, l’operazione “Litani” del 1978 aveva un obiettivo ben preciso. Ma il problema principale è che purtroppo il Libano subisce da decenni lo scontro tra potenze più grandi di lui: da una parte la Siria e l’Iran, che trovano, un po’ meno oggi, in Hezbollah alleati interni al Paese dei Cedri pronti a combattere Tel Aviv, dall’altra Israele diviso tra le sue esigenze di approvvigionamento idrico e le sue necessità di difendere i propri confini.

180

Gli occhi del mondo sono puntati sulla Siria e sul mondo arabo in rivolta. In questo contesto, come precedentemente detto, il Libano si colloca appieno cercando di contenere l’onda d’urto della rivolta siriana che sembra prossima a trasformarsi in una guerra civile interna allo stesso Paese dei Cedri. A confermare questa ipotesi è l’ondata di violenza scoppiata a Tripoli, nel Nord del Libano, in cui sono morte decine di persone. A scontrarsi ripetutamente negli ultimi mesi, sono uomini armati del quartiere a maggioranza sunnita di Bab al-Tabbaneh (dove è forte il sostegno alle forze antisiriane del Libano e all’opposizione al regime di Damasco) e combattenti della zona a maggioranza alawita di Jabal Mohsen che appoggiano il regime di Assad. Ma oltre alla Siria, il Libano deve guardarsi da Israele, sempre pronto ad offensive oltre confine. Le tensioni tra i due Paesi sono costantemente cresciute a causa della contrapposizione tra Israele e il movimento sciita degli Hezbollah, che ha stabilito nel Sud del Paese le sue basi operative. Secondo Israele è l’Iran,

Per cosa si combatte

Gas e petrolio ricchezza inutile

Nel corso di un summit tenutosi a Beirut nell’aprile 2013, si è tornati a parlare dei giacimenti di gas naturali presenti al largo delle coste libanesi. Si è stimato che le risorse di gas ammontano a circa 700miliardi di metri cubi, più un numero di barili di petrolio potenziali oscillante tra i 440 e i 660milioni. A Beirut però, mentre i vicini Cipro e Israele concludevano contratti per sfruttare le proprie riserve offshore, tutto taceva, a cause delle diatribe interne alla classe politica, alla corruzione dilagante e, alle conseguenze della crisi siriana, particolarmente forti nel Paese. Instabilità che ha mostrato subito i suoi effetti negativi: quando si è trattato di assegnare i lavori di esplorazione, perforazione ed eventuale estrazione, delle 52 società che si erano inizialmente interessate, solo una decina si sono dette disponibili. Ma tutto in Libano, come il Governo, è fermo! E pensare che sbloccare una risorsa così ingente permetterebbe a Beirut di ripianare i deficit di energia elettrica che costa alle casse del Paese dei Cedri circa 3miliardi di dollari l’anno, a fronte di un Pil di poco superiore ai 40miliardi. UNHCR/G. Beals

Con la dissoluzione dell’Impero Ottomano, la Società delle Nazioni affidò alla Francia il controllo della Grande Siria, incluse le cinque Provincie che oggi formano il Libano. La Conferenza di Sanremo, dell’aprile del 1920, ne definirà i compiti ed i limiti. Benché la ratifica di questo passaggio di consegna avverrà solo tre anni dopo, già nel 1920 la Francia dichiarò lo Stato del Grande Libano indipendente. Uno Stato composto da vari enclavi etnici: uno in Siria con una grande comunità in maggioranza cristiano maronita e l’altro a maggioranza musulmana e drusa con capitale Beirut. Solo 6 anni dopo il Libano diventerà una Repubblica, definitivamente separata dalla Siria, anche se ancora sotto il comune mandato francese. Nel 1943 il Governo libanese abolirà il mandato francese dichiarando la propria indipendenza. Bisognerà aspettare la fine della seconda guerra

mondiale per assistere al ritiro definitivo delle truppe francesi dal nuovo Stato indipendente. Nel 1948, dopo la risoluzione dell’Onu 181 con la quale si “ripartiva” il territorio palestinese in seguito alla nascita dello Stato ebraico, anche il Libano aderì alla guerra della Lega Araba contro Israele non invadendo però mai il neonato Stato. Dopo la sconfitta araba, Israele e Libano stipularono un armistizio ma, a tutt’oggi, mai un trattato di pace. Conseguenza di questa guerra, furono 100mila profughi palestinesi ai quali se ne aggiunsero altri dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967. Profughi che decenni più tardi saranno la causa, secondo il Governo israeliano, di due invasioni del Libano da parte dell’esercito di Tel Aviv. La prima nel 1978, denominata “operazione Litani”, volta a stroncare, secondo Israele, le attività dell’Olp lungo il confine. La seconda, sempre per lo stesso motivo

Quadro generale


Tammam Salam (Beirut 1945)

Il dramma dei profughi

Resta drammatica la situazione dei palestinesi nei campi profughi libanesi. Va ricordato che il Libano ha non solo una altissima percentuale della popolazione costituita da profughi palestinesi (quasi l’11%) ma anche la più alta percentuale di concentrazione di rifugiati presenti nei campi, (il 52.8%). Esistono 12 campi profughi ufficiali con una popolazione di circa 217mila, su un totale di 411mila rifugiati nel Paese. Secondo fonti governative il numero potrebbe superare i 450mila, considerato l’alto numero di profughi non-registrati che vivono sia all’interno dei campi che fuori. Quando si parla di migliaia di persone ammassane in campi profughi tutto suscita infatti grande preoccupazione: l’acqua, l’igiene, la salute e il rifugio. Gli stessi palestinesi profughi sono colpiti dalla crisi siriana. Se un tempo lavoravano per 20 dollari al giorno, ora si trovano costretti a rivedere i propri compensi visto che i profughi siriani sono pagati solo la metà. Una vera “guerra tra poveri”.

181

Lo scorso aprile il Presidente libanese Michel Suleiman ha incaricato Tammam Salam di formare un nuovo Governo. Sunnita, esponente della coalizione del “14 Marzo” ed ex ministro della Cultura nel Governo Siniora, Salam prende il posto di Najib Mikati, dimessosi a marzo. Vicino all’opposizione sostenuta dall’Arabia Saudita, Salam è sostenuto anche da Francia e Stati Uniti. Il neo primo Ministro è membro di una delle più antiche ed importanti famiglie sunnite di Beirut. La carica di premier ritorna quindi nella capitale, dopo essere stata nelle mani prima della dinastia Hariri di Sidone e poi di Najib Mikati, originario della città di Tripoli, nel Nord del Paese. Al suo insediamento aveva spiegato di voler formare ‘’un Governo di consenso nazionale’’. Visto lo slittamento a fine 2014 per la formazione di un nuovo Governo, il suo progetto sembra quanto mai fallito. Quello che può cercare di fare è impegnarsi al massimo per riuscire almeno in un punto fondamentale per il Paese: scongiurare un conflitto interno. Per fare questo dovrà, tra le altre cose, convincere Hezbollah a non avanzare in Siria e a non rafforzare la sua presenza nel conflitto.

UNHCR/P. Taggart

ed iniziata il 6 giugno del 1982, è l’operazione “Pace in Galilea”. In realtà, quest’ultima, che si può chiamare prima guerra israelo-libanese, arrivò fino a Beirut dove aveva sede l’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Per impedire la prosecuzione di spargimento di sangue, intervenne la diplomazia internazionale che sgomberò la dirigenza dell’Olp (rifugiatasi a Tunisi) e riversò nei Paesi limitrofi molte unità armate palestinesi. Una situazione che lasciò la popolazione civile nei campi profughi priva di alcuna protezione. Questo porterà al drammatico massacro nei campi-profughi di Sabra e Shatila, da unità cristiane guidate da Elie Hobeika, lasciate agire dalle truppe israeliane, comandate da Ariel Sharon, di stanza nell’area coinvolta. Negli anni a seguire, il Libano dovrà affrontare i delicati equilibri interni tra le diverse etnie. Sicuramente una di queste realtà, gli Hezbollah, musulmani sciiti vicini a Damasco e Teheran, cambieranno, anni dopo, le sorti del Libano. È il 12 luglio del 2006 quando miliziani

I PROTAGONISTI

di Hezbollah attaccano una pattuglia dell’esercito israeliano nel Sud del Libano uccidendo tre soldati e rapendone due. Israele reagisce con la forza, avviando un’offensiva contro il Libano per “neutralizzare l’apparato militare di Hezbollah”. Al massiccio attacco aereo non corrisponderà però quello di terra che porterà l’esercito israeliano, dopo un mese, ad un avanzamento di pochi chilometri. La resistenza di Hezbollah, infatti, dimostrerà la propria efficacia, contrattaccando il territorio israeliano con lanci di migliaia di missili. L’11 agosto, un mese dopo, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite interverrà con una risoluzione (la 1701), che troverà il voto unanime dei Paesi membri, chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità tra le parti, il ritiro di Israele dal Libano meridionale e l’interposizione delle truppe regolari libanesi e dell’Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) in una zona cuscinetto “libera – come si legge – da ogni personale armato che non sia quello delle Nazioni Unite e delle forze armate regolari libanesi”. Da allora fino ai giorni nostri la situazione al confine è rimasta tesissima con saltuari scontri tra le parti provocati a volte anche da futili motivi.


182

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA SIRIA RIFUGIATI

728.542

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI TURCHIA

248.466

GIORDANIA

238.798

LIBANO

126.939

SFOLLATI PRESENTI NELLA SIRIA 2.016.500 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA SIRIA RIFUGIATI

476.506

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI IRAQ

471.418


Uno su tre è in fuga

Sette milioni di persone in fuga. Più di un terzo della popolazione siriana ha dovuto abbandonare le proprie case a causa del conflitto armato. I rifugiati hanno superato i 2milioni e 300mila, la metà sono bambini, tre quarti dei quali non hanno ancora compiuto gli 11 anni. Il maggior numero è fuggito a Est, attraversando la frontiera con il Libano dove si trovano oltre 700mila rifugiati siriani. In Giordania il numero dei rifugiati ha superato i 500mila, concentrati nel campo profughi di Za’atari, divenuta ormai di fatto la quarta città più popolosa del Paese. Alto anche il numero dei siriani fuggiti in Iraq, si tratta soprattutto di curdi siriani, arrivati nella Regione Autonoma del Kurdistan Iracheno che ne ospita oltre 200mila. Massiccia la presenza di rifugiati siriani anche in Turchia, che ne ospita oltre 500mila e in Egitto, dove si trovano oltre 100mila siriani. Le condizioni nei campi profughi sono al limite della sopravvivenza e l’Unhcr stima che entro al fine del 2014 il numero di siriani rifugiati potrebbe raggiungere e superare i 4milioni. A questi si devono aggiungere i circa 5milioni di sfollati interni, siriani che hanno abbandonato le proprie case ma che sono rimasti all’interno dei confini nazionali. © Fabio Bucciarelli

Dal 2011 in Siria si continua a combattere e non sembra emergere un probabile vincitore né una soluzione politica a breve termine. La situazione sul campo di battaglia, al contrario, è sempre più complicata. Lo schieramento che si oppone al regime di Bashar al-Assad è ormai difficile da decifrare nella sua composizione e sempre più ostaggio di gruppi integralisti che niente hanno a che a fare con i principi di libertà e giustizia che avevano ispirato inizialmente la rivoluzione popolare siriana. La presenza di gruppi legati ad al-Qaeda all’interno del fronte anti-Assad è ormai forte, tra questi spiccano il Fronte Jabhat al-Nusra e lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis). Scopo dichiarato dei due gruppi è quello di creare uno Stato islamico nel Nord della Siria. Le atrocità, gli abusi e i crimini di guerra compiuti sulla popolazione civile non solo dal regime siriano ma anche dalle opposizioni - in particolare dall’Isis nelle ampie zone del Nord ormai controllate dai qaedisti - sono documentate dalle testimonianze di civili, giornalisti e organizzazioni umanitarie. In un rapporto diffuso nel dicembre del 2013, Amnesty International ha chiesto espressamente alle monarchie del Golfo persico di sospendere immediatamente i rifornimenti di armi all’Isis, e alla Turchia di impedire che il proprio territorio venga usato dal gruppo integralista per trasferire armi in Siria. Ciò che infatti ormai emerge con chiarezza, è che le sorti della Siria si stanno decidendo al di fuori dei suoi confini, con vari Paesi esteri che armano e sostengono le fazioni in lotta. Da una parte il fronte sciita pro-Assad di Iran, Iraq e Hezbollah libanesi, oltre alla Russia. Dall’altra le monarchie del Golfo - con il Qatar in testa - e la Turchia, schierati con i gruppi ribelli sunniti. Europa e Stati Uniti sono fin dall’inizio formalmente al fianco dell’opposizione siriana e nonostante il pericolo rappresentato dai gruppi integralisti, nel maggio del 2013 l’Ue ha tolto l’embargo alla vendita di armi ai ribelli. Nell’estate del 2013 gli Stati Uniti sembravano pronti ad attaccare militarmente la Siria dopo aver accusato Damasco di usare armi chimiche contro la popolazione. Un accordo raggiunto grazie alla mediazione della

SIRIA

Generalità Nome completo:

Repubblica araba di Siria

Bandiera

183

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Arabo, Curdo, Armeno, Aramaico e Francese

Capitale:

Damasco

Popolazione:

20.410.000

Area:

185.180 Kmq

Religioni:

Islamica (90%, di cui 74% sunniti e 16% altre confessioni), cristiana (10%)

Moneta:

Lira siriana

Principali esportazioni:

Petrolio, prodotti petroliferi, minerali, frutta e verdura, cotone, tessili, carne e grano

PIL pro capite:

Us 5.000

Russia, ha evitato l’intervento Usa e portato alla distruzione dell’arsenale chimico siriano. Mentre scriviamo le Nazioni Unite hanno fissato per il 22 gennaio 2014 la Conferenza che dovrebbe riunire a Ginevra il Governo siriano e le opposizioni per discutere del processo di pace ma la riuscita dell’operazione è fortemente in discussione per le resistenze sia di Damasco che dell’opposizione siriana.


Nata sulla scia della cosiddetta “Primavera araba” come rivolta pacifica, quella in territorio siriano è ormai una guerra per procura, combattuta sulla pelle della popolazione civile. Da una parte gli Stati Uniti, con il Qatar, l’Arabia Saudita e la Turchia che appoggiano le opposizioni. Dall’altra l’Iran e la Russia, che insieme alla Cina hanno paralizzato con il veto ogni tentativo del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di accelerare a colpi di risoluzioni la caduta del regime di Assad. Una situazione di stallo che rischia da un momento all’altro di precipitare. Come accaduto ad ottobre del 2012, quando alcuni colpi di mortaio dell’esercito di Assad, caduti in territorio turco, hanno provocato una

rappresaglia armata di Ankara che ha fatto temere l’espandersi del conflitto a livello regionale. La radicalizzazione dello scontro su fronti opposti non ha risparmiato nemmeno la stampa, italiana e internazionale, spaccata sull’analisi del conflitto: da una parte chi parla di rivolta popolare repressa nel sangue, dall’altra chi denuncia una rivolta manipolata dall’esterno per liberarsi di un regime scomodo. Mentre i combattimenti sul terreno continuano e i morti aumentano, il rischio, dopo una eventuale fine del regime, è quello di un dopo Assad con una Siria fuori controllo, destabilizzata da lotte intestine tra fazioni e rivendicazioni delle minoranze, come quella curda.

Per cosa si combatte

Giornalisti sotto attacco

“Scioccante”: così le organizzazioni che si battono per la libertà di stampa definiscono il dramma dei giornalisti uccisi e rapiti in Siria dall’inizio del conflitto. Il bilancio è di almeno 36 giornalisti stranieri e siriani morti dal 2011 al dicembre del 2013. Almeno una trentina sarebbero i reporter rapiti o tuttora dispersi per mano dei gruppi qaedisti che combattono contro il Governo di Bashar al-Assad, in particolare il Fronte di Jabhat al-Nusra e lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis). La maggior parte dei rapimenti e delle uccisioni è avvenuta nella parte Nord-Occidentale del Paese al confine con la Regione turca dell’Hatay, nelle regioni di Idlib, Aleppo e nella zona montagnosa di Latakia. Nell’aprile del 2013 è stato rapito anche Domenico Quirico, inviato del quotidiano italiano La Stampa. Il giornalista è stato rilasciato dopo 152 giorni di prigionia.

184

© Fabio Bucciarelli

La conosciamo come Siria, un tempo era anche Soria, parola scomparsa: ne resta traccia nel gatto soriano. Per secoli terra d’imperi, l’ultimo quello turco sino al 1918, poi protettorato francese, il Paese è indipendente dal maggio del 1945. Per dieci giorni, quell’anno, il popolo siriano manifestò a Damasco per chiedere la libertà. I francesi reagirono bombardando, poi, su pressione inglese, la comunità internazionale riconobbe l’indipendenza, ufficializzata l’1 gennaio 1946. È l’inizio di un periodo di instabilità politica. Nel 1948 la sconfitta nella Prima Guerra arabo–israeliana dà il via al primo di 13 colpi di stato. Nel mezzo c’è la fallimentare esperienza dell’unione con l’Egitto nella Repubblica Araba Unita (1958). Nel 1963 l’ennesimo golpe porta al potere il partito laico Ba’th. Il partito gestisce tutto, da subito. Continuano, però i colpi di stato, accompagnati dalle sconfitte militari: nella terza Guerra arabo–israeliana, quella dei Sei Giorni, nel 1967, la Siria perde il controllo delle Alture del Golan, occupate da allora da Israele. Nel 1970 la “Rivoluzione Correttiva Siriana” mette sulla poltrona di capo dello Stato Hafiz al-Assad. Governerà per trent’anni, con mano durissima, reprimendo ogni forma di

opposizione e – per i servizi segreti di molti Paesi – alimentando il terrorismo internazionale. Nel 1982, al culmine di un’insurrezione islamica, Assad bombarda la città di Hama per reprimere la rivolta della comunità musulmana sunnita. Il New York Times parla di almeno 10mila cittadini siriani uccisi, 40mila, di cui 1000 sol-

Quadro generale

© Fabio Bucciarelli


I Qaedisti

Il controllo del territorio

© Fabio Bucciarelli

L’esercito di Bashar al-Assad controlla soprattutto i centri urbani, il corridoio tra Aleppo e Damasco e la zona costiera della Siria. Cruciale, tra giugno e luglio del 2013, la vittoria dell’esercito siriano e dei miliziani libanesi di Hezbollah che hanno riconquistano la città di Quasayr e il controllo del territorio che va da Damasco al Libano. I vari gruppi ribelli più o meno legati all’Esercito Libero Siriano controllano invece le campagne a Est e alcune zone del Nord. Tra i ribelli però sembra mancare coordinamento mentre sono all’ordine del giorno scontri interni anche molto violenti tra i vari gruppi armati che cambiano continuamente gli equilibri della variegata opposizione siriana, non solo sul campo di battaglia ma anche all’interno della Coalizione Nazionale Siriana nata nel 2012 a Doha, in Qatar e riconosciuta dall’Occidente come interlocutore politico alternativo al regime di Assad. La zona maggiormente sicura e stabile resta il Nord Est della Siria, che la popolazione a maggioranza curda chiama Rojava. È qui che i curdi stanno sperimentando una amministrazione autonoma temporanea guidata dal PyD, il principale partito curdo siriano, che potrebbe in futuro diventare permanente. dati, i morti invece per il Comitato Siriano per i Diritti Umani. Negli stessi anni, alimentando la guerra civile, Damasco arriva a fare del Libano un protettorato.Assad controlla tutto, governa con mano dura. La sua famiglia fa parte della minoranza alauita, propaggine sciita in un Paese che è a grande maggioranza di Islam sunnita – ¾ della popolazione – e in parte curdo. Questo genera continui contrasti, soffocati dalla macchina statale: Assad controlla i servizi segreti, l’esercito, la polizia. Non esistono partiti d’opposizione e la stampa non è libera. L’apice si raggiunge con il passaggio “ereditario” del potere: nel 2000 Hafiz muore e gli succede il figlio Bashar. Le speranze di una apertura democratica dello stato siriano cadono rapidamente: il neo Presidente nomina nei posti che contano i famigliari. Il fratello minore, Maher al-Assad, è al comando della IV Divisione dell’Esercito, mentre il cognato Assef Shawkat, è Capo di

I PROTAGONISTI

Stato maggiore. Ruoli chiave, che si rivelano essenziali al Presidente con l’avvio della rivolta del 2011, destinata a trasformarsi in guerra civile. In febbraio, sull’onda delle tante proteste nei Paesi musulmani, anche in Siria iniziano timide proteste. Chiedono maggiore libertà e una distribuzione più equa della ricchezza. La repressione è immediata e subito ci sono centinaia di morti e migliaia di arresti. L’opposizione si organizza, crea un Governo provvisorio che raggruppa tutte le fazioni. Nel giugno del 2011, Damasco mette in campo artiglieria e aviazione e la rivolta diventa guerra civile. I rivoltosi possono contare sull’appoggio di Lega Araba, Unione Europea e Stati Uniti. Russia e Cina, invece, inviano armi al governo di Assad, opponendo il veto ad ogni risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Uno scontro internazionale che, nei fatti, alimenta la guerra civile, causando migliaia di profughi in fuga verso Turchia, Giordania, Kurdistan Iracheno e Libano. Più di un milione e mezzo gli sfollati all’interno del Paese. E così, in guerra, si arriva al 2012.

185

La presenza sempre più massiccia e potente dei gruppi integralisti nello scenario siriano ha cambiato radicalmente il corso della rivoluzione e gli equilibri all’interno dei gruppi di opposizione che compongono l’Esercito Libero Siriano. All’inizio della lotta contro il regime di Bashar al-Assad, era il Fronte di Jabhat al-Nusra ad essere considerato il meglio armato, il più efficace sul campo di battaglia e anche il più pericoloso. Il gruppo aveva messo a segno e rivendicato numerosi attentati fin dal 2011 e aveva cominciato da subito a prendere il controllo di diverse zone della Siria. Paradossalmente, con l’affermazione dei jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis), considerati il braccio iracheno di alQaeda, il Fronte al-Nusra ha cominciato a spostarsi su posizioni più moderate, mentre i più integralisti tra i suoi componenti hanno scelto di unirsi all’Isis. L’Esercito Libero Siriano ha preso le distanze dai gruppi più estremisti che combattono contro il regime - composti principalmente da stranieri di varia nazionalità, anche occidentali - ma la situazione sul territorio resta complicata e le alleanze e gli equilibri in campo cambiano di giorno in giorno.



EUROPA ELENCO DEI PAESI IN CONFLITTO

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Europa

A cura di Amnesty International

Nella libera Europa vietata l’opposizione Gli attacchi alla libertà di espressione, di manifestazione pacifica e di associazione, compresi procedimenti giudiziari, aggressioni e intimidazioni ai danni dei difensori dei diritti umani, sono proseguiti in molti Paesi. In Turchia, una repressione senza precedenti ha colpito le proteste iniziate a fine maggio a Istanbul e propagatesi in decine di città, provocando 8mila feriti e almeno tre morti. Numerosi organizzatori sono stati arrestati e indagati, anche sula base delle leggi antiterrorismo, che le autorità continuano a usare per punire il legittimo dissenso, la partecipazione alle manifestazioni e l’associazione a gruppi politici riconosciuti. In Bielorussia, unico Paese europeo a ricorrere alla pena di morte, la persecuzione del dissenso è rimasta profonda mentre in Russia è stata applicata la nuova legge che impone a tutte le Ong che ricevono fondi dall’estero e che svolgono attività politiche di registrarsi come “organizzazioni che svolgono le funzioni di agenti stranieri”: un tribunale di Mosca ha condannato l’Associazione per la difesa dei diritti degli

elettori Golos (Voce) al pagamento di una multa di quasi 8mila euro. Si è trattato della prima sentenza dopo una serie di ispezioni che hanno colpito oltre 200 organizzazioni (tra cui la sede di Amnesty International) in tutto il Paese. L’Azerbaigian ha modificato la sua legislazione per aumentare le pene per chi prende parte a proteste “non autorizzate” o “vietate” e ha messo in cantiere una nuova legge per inasprire le pene per il reato di diffamazione. Politiche e prassi restrittive in materia di controllo dell’immigrazione in diversi Paesi dell’Unione europea hanno posto i migranti a rischio di arresto, espulsione e respingimento e di altre violazioni dei diritti umani. I Governi si sono concentrati sul rafforzamento dei controlli di frontiera e hanno firmato nuovi accordi bilaterali con Paesi di origine e di transito, pur essendo a conoscenza (come nel caso dell’accordo tra Italia e Libia) della negativa situazione dei diritti umani in tali Paesi. Le persone in fuga dal conflitto siriano o dalla repressione nel Corno d’Africa hanno cercato rotte ancora più pericolose nel tentativo di trovare un rifugio sicuro in Europa e centinaia di esse sono morte presso le coste dell’Italia. La Grecia non ha garantito le condizioni minime di riparo e sicurezza ai rifugiati. I richiedenti asilo si sono imbattuti in grandi ostacoli nel presentare le loro domande e sono sempre più spesso andati incontro alla detenzione in condizioni disumane o alla violenza da parte di gruppi xenofobi. In tutt’Europa, la discriminazione nei confronti


delle minoranze etniche come i rom è andata avanti senza sosta. I rom hanno subito sgomberi forzati in ogni parte del continente, come in Francia, Italia, Romania, Serbia e Slovenia, finendo ulteriormente intrappolati in un ciclo di povertà e segregazione. Gli alunni e le alunne rom hanno continuato a essere inseriti in scuole o classi al di sotto degli standard in Repubblica Ceca e Slovacchia. Sono stati segnalati numerosi atti di violenza contro i rom. La Commissione europea non ha preso alcuna iniziativa contro gli stati che violano i diritti umani dei rom, pur avendo competenza legale per aprire procedure d’infrazione sulla base della Direttiva sull’uguaglianza razziale. È proseguita anche la discriminazione verso le persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuate. La Russia ha messo fuorilegge la “propaganda dell’omosessualità tra i minori”, limitando in questo modo i diritti alla libertà d’espressione e di manifestazione pacifica. Quanto alla sicurezza e al controterrorismo, in Italia due alti dirigenti e tre agenti dei servizi segreti sono stati condannati per il rapimento del cittadino egiziano Abu Omar, avvenuto nel 2003, prima che la Cia lo trasferisse illegalmente in Egitto. Sono stati condannati anche tre alti

funzionari della Cia. In totale, per questo caso, 26 cittadini statunitensi e tre italiani sono stati condannati. Tuttavia, il Presidente della Repubblica ha graziato un ufficiale dell’Air Force statunitense che era stato a sua volta condannato per il caso Abu Omar. In un’altra vicenda, la Corte europea dei diritti umani ha giudicato l’Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia responsabile della detenzione illegale, della sparizione forzata, della tortura e di altri maltrattamenti, nel 2004, ai danni del cittadino tedesco Khaled El-Masri.


190


La contabilità della morte

Secondo le stime internazionali, i conflitti in Cecenia avrebbero causato la morte di 150/200mila civili. Un numero spaventoso, se si considera che si tratta del 15-20% della popolazione. I soldati russi caduti in battaglia sarebbero 25mila, più o meno quanti ne morirono negli anni ’80 nella guerra russo-afghana. Infine, le Ong per i diritti umani stimano che almeno 3mila civili sono “spariti” nel nulla. In genere ciò significa che sono stati catturati, torturati, uccisi e sepolti nelle ormai innumerevoli fosse comuni presenti in Cecenia.

UNHCR/T. Makeeva

Nel cuore della Cecenia distrutta dalla guerra, a Shali, si è tenuta alla fine del 2012 la cerimonia per la posa della prima pietra di una moschea intitolata al Presidente Ramzan Kadyrov. A prima vista parrebbe trattarsi dell’ennesimo gesto megalomane a cui il giovane leader ci ha abituati. Il fatto però ha un significato simbolico importante, che rimanda alla politica di islamizzazione portata avanti da Kadyrov negli ultimi anni. Il programma di ricostruzione del Paese dopo la guerra prevedeva la realizzazione di molti nuovi edifici sacri e scuole islamiche. Nonostante non vi sia nessun obbligo formale, è risaputo che le donne di qualsiasi nazionalità sono tenute ad indossare l’hijab nei luoghi pubblici. Per istituire la nuova materia di storia delle religioni introdotta nella Federazione russa lo scorso anno scolastico, in Cecenia gli insegnanti sono stati richiamati direttamente dalle madrasa, le scuole islamiche. Kadyrov ha spesso incitato pubblicamente alla poligamia, che non è riconosciuta dalla legge russa. “La poligamia - ha spiegato - risolverebbe il problema del riconoscimento dei figli fuori dal matrimonio, che riguarda molti uomini russi. In più, abbiamo avuto la guerra e nel nostro Paese ci sono molte più donne che uomini”. Le (poche) notizie giunte negli ultimi anni hanno dimostrato che questo nuovo progetto islamico, oltre a scavalcare i limiti legali, si è rivelato un ulteriore mezzo per legittimare abusi e violazioni. Ad esempio, per Kadyrov le sette ragazze ritrovate morte in un bosco anni fa erano state “giustamente uccise per aver perso la morale”. Il delitto d’onore era uno dei temi su cui indagava l’attivista per i diritti umani Natalya Estemirova, poi uccisa. Secondo numerosi osservatori, il retroscena di queste vicende cecene sarebbe l’ennesimo progetto di grandezza di Kadyrov, che punterebbe a rafforzare il suo potere politico proponendosi anche come guida spirituale, califfo ed emiro di

CECENIA

Generalità Nome completo:

Repubblica Cecena

Bandiera

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Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Russo, Ceceno

Capitale:

Groznyj

Popolazione:

1.269.000

Area:

15.500 Kmq

Religioni:

Musulmana sunnita

Moneta:

Rublo, nahar

Principali esportazioni:

Petrolio

PIL pro capite:

n.d.

una Russia musulmana che avrebbe in Grozny la sua capitale. Questa strategia può presentare pericolosi effetti collaterali. Innanzitutto, il ritorno alla rigida educazione islamica, come tutte le forme di indottrinamento, spiana la via per derive estreme. Ma la strada del tradizionalismo islamico può arrivare a divergere da quella di Mosca. L’approccio tollerante di Vladimir Putin è parte di un legame di vantaggi reciproci costruito tra i due leader. Il Presidente russo, che in questo momento non vuole attirarsi ulteriori critiche occidentali né alimentare un Islam già in crescita nella Federazione, potrebbe essere costretto a prendere le distanze da Kadyrov.


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Parte dell’impero russo dal 1783, anche se con periodiche ribellioni (Imamato del Caucaso), Cecenia ed Inguscezia furono inglobate nella Repubblica Autonoma Socialista Sovietica Ceceno-Inguscia alla nascita dell’Unione Sovietica. Durante la Seconda guerra mondiale, i ceceni insorsero contro i russi sperando di approfittare dell’impegno dell’esercito sovietico su altri fronti per ottenere l’indipendenza, ma una volta che l’Armata Rossa ebbe ricacciato le truppe nemiche, Stalin ordinò una durissima punizione, accusando i ceceni di aver collaborato con i nazisti (non ci sono però prove storicamente valide a sostegno dell’accusa). Il 23 febbraio 1944 con l’Operazione Lentil in una sola notte mezzo milione di cittadini ceceni vennero deportati dal Governo centrale sovietico nella Repubblica sovietica del Kazakhstan. Qui i ceceni vennero isolati e le famiglie disperse nel tentativo di “decaucasizzare” i ribelli. Fu loro concesso di ritornare alla loro Regione d’origine solo nel 1957. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica in Cecenia nacque un movimento indipendentista che entrò in conflitto con la Russia, non disposta a riconoscere la secessione della Cecenia. Tra i motivi dell’opposizione russa vi sono anche la produzione petrolifera locale e soprattutto il passaggio sul territorio ceceno di oleodotti e gasdotti. Džokhar Dudaev, il Presidente nazionalista della Repubblica cecena, dichiarò l’indipendenza della nazione dalla Russia nel 1991. Nella sua campagna elettorale presidenziale del 1990 Boris Eltsin aveva promesso di riconoscere le richieste di autonomia amministrativa e fiscale dei governi federati, spesso disegnati su base etnica in epoca sovietica e il 31 marzo 1992 la Duma (presieduta da Ruslan Khasbulatov, un ceceno) approvò una legge in tal senso, in base alla quale Eltsin e Khasbulatov firmarono il Trattato della Federazione (Russa), che definiva la divisione dei poteri fra i due livelli di Governo, con 86 degli 88 territori interessati. Il Tatarstan firmò nella primavera del 1994, mentre nel caso della Cecenia, che rifiutava di ritirare la dichiarazione di indipendenza, nessuna delle due parti tentò seriamente di trattare. Nel 1994 il Presidente russo Boris Eltsin inviò 40mila soldati nella Repubblica per impedirne la secessione dando avvio alla prima guerra cecena. Le truppe russe, mal equipaggiate e poco motivate, subirono sconfitte anche notevoli ad opera dei ribelli ceceni. I russi riuscirono a prendere il controllo di Groznyj, la capitale, solo nel febbraio del 1995, e a uccidere Dudaev il 21 aprile 1996 lanciando intenzionalmente un missile sul luogo in cui si trovava con una operazione gestita dalla intelligence militare centrale. A fine agosto 1996 Eltsin si accordò con i leader ceceni per un cessate il fuoco a Chasavjurt, in Daghestan, che portò nel 1997 alla firma di un trattato di pace. Alla fine della prima guerra russo-cecena (1991-96) venne eletto come primo Presidente della Cecenia Aslan Maskha-

dov, il comandante delle forze ribelli che firmò con il generale Aleksandr Lebed la tregua con le forze armate russe. Tuttavia una grave crisi economica, le continue azioni terroristiche di Shamil Basayev e la perdurante presenza di signori della guerra, che in varie zone sostituivano completamente l’autorità governativa, ridimensionarono fortemente la figura del comandante Maskhadov. Il conflitto tornò a divampare nel 1999, dando inizio alla seconda guerra cecena. Nell’agosto 1999, Shamil Basayev decideva di allargare lo spettro del conflitto al vicino Daghestan. Le truppe russe invasero la Cecenia nell’ottobre 1999, radendo al suolo la capitale Groznyj. La maggior parte della Cecenia è attualmente sotto il controllo dei militari federali russi. La causa indipendentista Cecena ha perso l’interesse presso i media, soprattutto a partire dal 2007, anno al quale risale l’ultimo atto rivendicato dal movimento indipendentista.

Per cosa si combatte

Una repubblica per l’Islam

L’islamizzazione della Cecenia prosegue a tappe forzate, secondo il volere del Presidente Kadyrov. Ad esempio, in ogni palazzo di Stato è presente un’apposita stanza per la preghiera. Nelle trasmissioni delle Tv di Stato si può andare in onda solo con gli abiti islamici tradizionali, le donne devono indossare l’hijab, così come nei luoghi pubblici. Nelle scuole, il confine tra storia ed educazione religiosa si è fatto molto labile. Nelle classi dove vige una separazione fisica tra uomini e donne, le bambine sono obbligate a indossare l’hijab a partire dai sei anni.

UNHCR/B. Szandelszky

Va detto che oggi del sogno irredentista ceceno resta ben poco. Sotto il comando dell’autoproclamato nuovo Emiro del Caucaso, Doku Umarov, resterebbero infatti – secondo le stime del vice-ministro degli Interni russi, Arkady Edelev – meno di 500 terroristi abbarbicati sulle montagne, fra cui una cinquantina di mercenari arabi. La maggioranza di questi combattenti, inoltre, sarebbe spinta a scegliere la guerriglia non da considerazioni ideologiche o da motivi

Quadro generale


Džokhar Musaevič Dudaev

(Yalkhori, 15 febbraio 1944 – Gekhi-Chu, 21 aprile 1996)

UNHCR/R. Hackman

Mosca ammette: diritti violati

Per la prima volta le autorità russe hanno ammesso davanti alla Corte di Strasburgo di aver violato i diritti umani nel corso delle operazioni militari condotte in Cecenia. Lo ha reso noto la stessa Corte nella sentenza di condanna emessa nei confronti della Russia per il bombardamento del villaggio di AslandekSheripovo avvenuto il 17 febbraio 2000 nel corso della seconda guerra in Cecenia. In particolare le autorità russe hanno riconoscono di aver violato i diritti dei ricorrenti sia per quanto riguarda un uso ingiustificato della forza che per quanto riguarda l’incapacità di condurre un’inchiesta appropriata sull’accaduto. Nella sentenza i giudici di Strasburgo hanno stabilito che Mosca deve versare ai ricorrenti un milione e 160mila euro.

religiosi, quanto piuttosto da motivi personali, per vendicarsi cioè di un torto subito. Dietro questo mutamento epocale c’è sia la stanchezza – in Cecenia si combatte ormai da 20 anni – che l’eliminazione progressiva di tutti i grandi leader della guerriglia: dal Presidente Dzokhar Dudaev, ucciso nel 1996, al suo successore Aslan Maskhadov, ucciso nel 2005, fino al comandante Shamil Basayev, ucciso nel 2006. Ma a far suonare la campana a morto per la guerriglia cecena è stata soprattutto l’ascesa di un clan forte e prestigioso, che ha scelto di abbandonare la lotta armata e si è schierato dalla parte del Cremlino: il clan dei Kadyrov. Già gran Mufti di Grozny, Akhmad Kadyrov viene eletto capo del Governo nel 2000 e diventa Pre-

I PROTAGONISTI

sidente della Cecenia nell’ottobre 2003, carica che occupa fino al maggio 2004, quando viene ucciso in un attentato allo stadio di Grozny. Al suo posto è subentrato il figlio Ramzan, famoso per i suoi metodi brutali, che viene confermato Presidente nel 2007 e regna tuttora, con pieni poteri. È la milizia dei Kadyrov che viene incaricata, negli ultimi anni, di fare la “guerra sporca”, in nome di una progressiva cecenizzazione del conflitto, perseguita da Mosca con caparbietà: ne consegue un’alternanza di bastone e carota, con ripetute amnistie per i ribelli che scelgono di abbandonare la lotta armata e una spietata caccia all’uomo per stanare gli irriducibili. Se i risultati ci sono, insomma, restano contradditori. Per imporre la sua pace, Ramzan Kadyrov ha ridotto infatti a carta straccia i diritti umani più elementari, come denunciano da anni tutte le organizzazioni internazionali.

193

Generale dell’aviazione sovietica, dopo la dissoluzione dell’Urss. In servizio nell’Armata Sovietica dal 1966, nel maggio del 1990 abbandona la divisa e rientra a Groznyi per dedicarsi alla politica. Nel 1991, fallito il golpe contro il Presidente dell’Unione Sovietica, Gorbaciov, partecipa alle iniziative per dichiarare indipendente la Cecenia. Nell’ottobre di quell’anno diventa il primo Presidente dell’autoproclamata repubblica, iniziando un lungo e sanguinoso braccio di ferro con la Russia, che non vuole riconoscere l’indipendenza. L’unico Paese al mondo ad inviare diplomatici è la Georgia. Dudaev inizia a governare ribadendo l’appartenenza all’islam, introducendo l’alfabeto latino e ignorando la crescita delle organizzazioni criminali. Tra il 1993 e il 1994 oppositori interni e agenti russi tentano più volte di rovesciarlo o assassinarlo. Il primo dicembre 1994 inizia la prima Guerra Cecena. Dudaev è tra i comandati che guidano la resistenza. Nel 1995 va a Sud, con il suo esercito. La sua popolarità cresce, dalle vicine repubbliche islamiche arrivano volontari, per combattere i russi. A fermarlo sono due missili, lanciati dai russi che l’hanno individuato mentre parla ad un telefono satellitare pare, con un deputato liberale del Parlamento russo.


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Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DA CIPRO RIFUGIATI

11

RIFUGIATI ACCOLTI A CIPRO RIFUGIATI

3.631


Una disoccupazione da record

La disoccupazione a Cipro è tra le più alte della Zona Euro, (16,9% ad ottobre 2013), è quanto afferma l’Eurostat. Se poi si guarda alla sola disoccupazione dei giovani under 25 la percentuale Eurostat sale al 43,9%, al terzo posto (dopo Spagna e Croazia, mentre l’Italia al quarto posto) nella classifica dei Paesi dove più scarseggiano opportunità di lavoro per i giovani L’economia della Repubblica di Cipro ha rischiato nel 2013 il default. Nel 2014 avrà ancora grosse difficoltà. Per evitare il fallimento, il Governo di Nicosia ha beneficiato di un prestito (Unione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale) di 10miliardi di euro. Ma in cambio, Cipro ha dovuto aumentare le tasse, applicare un elevato prelievo forzoso sui conti correnti di tutti i depositi oltre i 100mila euro custoditi nella Bank of Cyprus, nella Laiki Bank e nella Hellenic Bank (rispettivamente il primo, il secondo e il terzo istituto di credito dell'isola), ridurre il personale nel settore pubblico, privatizzare le imprese pubbliche, aumentare l'imposta sulle società dal 10% al 12,5% e molto altro ancora.

La “questione cipriota” non ha trovato una soluzione per la riconciliazione etnica e la riunificazione territoriale. Ancora a fine 2013, il Governo della Grecia ha invitato la Turchia a rispettare le leggi internazionali e a ritirare i circa 35mila suoi militari che ancora occupano il 38% del territorio. Dal 1974, Cipro è divisa in due: a Nord, la Repubblica Turca di Cipro (riconosciuta come Stato legale solo dalla Turchia) e, a Sud, la Repubblica di Cipro con capitale Nicosia, a maggioranza etnica greca. A garantire il mantenimento della pace, rimangono i caschi blu dell’Unficyp, missione militare dell’Onu. Il 24 febbraio 2013 viene eletto il nuovo Presidente della Repubblica di Cipro, Nikos Anastasiades sostenuto dal Disy (Unione Democratica) e dal Diko (Partito Democratico) con il 57,48% dei voti. Rispetto al suo predecessore, Demetris Christofias dell’Akel (Partito Progressista dei Lavoratori, di orientamento marxista-leninista), il Presidente Anastasiades ha assunto un diverso atteggiamento nei confronti del Piano Annan (2004) per la riunificazione di Cipro. Tale Piano fu bocciato da un referendum popolare del 2004 e da tutti i maggiori partiti greco-ciproti, ma non da Anastasiades che votò per il “si”, distinguendosi così dalla linea del suo stesso partito. Il Piano Annan non entrò mai in vigore e Anastasiades divenne oggetto di accuse incrociate. Ciò, tuttavia, non gli impedì di rafforzare la propria influenza nel partito fino a giungere nel 2013 alla carica di Presidente della Repubblica. Durante una delle sue prime dichiarazioni dopo la vittoria, Anastasiades ha inviato alla comunità turco-cipriota un “messaggio di pace, amicizia e sincera intenzione di cercare una soluzione”. Anche i turco-ciprioti del Nord di Cipro, nel luglio 2013, sono andati alle urne per il rinnovo del Parlamento. Ne è uscito vincitore il Partito Turco Repubblicano-Forza Unita (Ctp-Bg, centrosinistra) guidato da Ozkan Yorgancioglu con il 38% dei voti. Al secondo posto si è piazzato il Partito di Unità Nazionale (Ubp, destra, dell'ex premier Irsen Kucuk).

CIPRO

Generalità Nome completo:

Repubblica di Cipro; Repubblica Turca di Cipro Nord

Bandiera 195

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Greco, Turco

Capitale:

Nicosia

Popolazione:

1.129.000

Area:

9.250 Kmq (di cui 3.355 Kmq all’interno della Repubblica Turca di Cipro Nord)

Religioni:

Cristiana ortodossa, musulmana

Moneta:

Euro nella Repubblica di Cipro. Nuova lira turca, nella Repubblica Turca di Cipro Nord

Principali esportazioni:

Prodotti agricoli tipici come olive e limoni, tessuti e calzature

PIL pro capite:

Us 26.794 Repubblica di Cipro Us 5.600 Cipro del Nord

Anche il cambio al vertice politico della Repubblica Turca di Cipro del Nord lascia ben sperare. Il Ctp, infatti, ha promosso per decenni il dialogo con la controparte greco-cipriota e nel referendum del 2004 sostenne il Piano Annan.


196

Cipro è pacificata dal punto di vista militare grazie alla presenza dei caschi blu della missione Unficyp ma rimane separata dalla Linea Verde (Buffer Zone) che, seppure non costituisce un muro invalicabile, tuttavia rappresenta un confine di attrito per uno scontro interetnico sempre potenziale tra i cittadini di origine greca e quelli di origine turca. La scoperta di ingenti giacimenti di gas naturale al largo delle coste di Cipro (Blocco 12 della Zona Economica Esclusiva, Mediterraneo Orientale) ha alzato il livello di conflitto. Tra l’altro, la Repubblica di Cipro ha raggiunto accordi sull’estrazione del gas anche con Israele, uno stato con relazioni non amichevoli con la Turchia. A ricordare che sotto l’apparente pacificazione non c’è vera pace, a Nicosia, in occasione dell’anniversario 2013

della proclamazione della Repubblica Turca di Cipro Nord, centinaia di studenti delle scuole medie e superiori sono scesi a sfilare nelle strade mostrando striscioni con scritte antiturche e scandendo slogan contro il Governo di Ankara. Tutto questo, mentre a pochi chilometri a Nord, nella parte della capitale sotto controllo turco, il Presidente turco-cipriota Dervis Eroglu presenziava ad una parata militare insieme con altri dignitari. Significative, infine, le più recenti dichiarazioni del primo Ministro della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, secondo cui "non esiste una nazione chiamata Cipro". Dichiarazione rilasciata (novembre 2013) proprio alla vigilia dell'avvio di un nuovo sforzo diplomatico da parte delle Nazioni Unite teso a raggiungere la riunificazione dell’Isola.

Per cosa si combatte

Cipro è la terza isola del Mar Mediterraneo per estensione, è situata 70 km a Sud della Turchia e a soli 200 Km dalla costa della Siria e del Libano. Ha una superficie complessiva di 9250 km² di cui il 59% sotto il controllo effettivo della Repubblica di Cipro, mentre la zona turcocipriota al Nord copre circa il 36% del territorio. Due piccole aree, Akrotiri e Dhekelia appartengono al Regno Unito come basi militari sovrane. La cima più alta dell'isola è il monte Olimpo (1953 metri) che sorge nella catena montuosa di Troodos. “Mesaria” è la fertile pianura centrale dell’isola. L’Isola venne divisa dopo l’invasione militare da parte della Turchia nell’estate del 1974. Ma come si era arrivato a questa invasione? Bisogna partire dal 1955. In quell’anno, a Cipro si era formato un movimento di guerriglia, l’Eoka (Ethniki Organosis Kyprion Agoniston, Organizzazione Nazionale dei Combattenti Ciprioti), a sostegno del progetto, già esistente da decenni, di annettere Cipro alla Grecia. Era il progetto Enosis (unione, annessione). Intanto, nel 1960, Cipro cessò di essere colonia britannica e fu proclamata indipendente sulla base del Trattato di Zurigo e Londra stipulato tra Turchia, Grecia e Regno Unito, alla presenza del leader greco-

cipriota, l’arcivescovo Makarios III, e di quello turco-cipriota, Fazıl Küçük. In base a quell'intesa fu elaborata una Costituzione. Ma nel 1967 in Grecia si instaurò una dittatura militare detta “dei colonnelli”. L’Enosis, l’idea dell’annessione di Cipro, tornò viva. Durante la campagna presidenziale per le elezioni del 1968, il Presidente cipriota Makarios III disse che l'Enosis (annessione alla Grecia) era impossibile mentre l’Indipendenza dell’isola era l’unica strada. Per reazione, i fautori dell’Enosis formarono l’Eoka B e con l’appoggio del Governo militare della Grecia e della Cia americana organizzarono, nel 1974, un colpo di Stato per cacciare Makarios III. A questo punto, le forze armate della vicina Turchia sbarcarono a Nord di Cipro per impedire che i greco-ciprioti conquistassero tutta l’Isola, annettendola alla Grecia, e per proteggere i cittadini di nazionalità turca che già da molto tempo vi risiedevano. Nel 1979 venne proclamato uno “Stato federato turco-cipriota” che nel 1983 divenne la Repubblica turca di Cipro del Nord (Rtcn) riconosciuta come stato legale solo dalla Turchia (oggi, la costituzione della Rtcn risulta "non valida dal punto di vista giuridico" sulla base delle risoluzioni 541 del 1983 e 550 del 1984 del Consiglio

Quadro generale

C’è ancora la Gran Bretagna

Sull’isola di Cipro esistono due basi navali sotto il controllo della Gran Bretagna. Si tratta della base di Akrotiri, dove è ospitata la Raf (Royal Air Force), e della base di Dhekelia. Le basi sono da sempre un costante motivo di frizione tra Londra e Nicosia da quando l’ex colonia Cipro conquistò l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1960. Da allora le voci ricorrenti sulla loro imminente chiusura si sono continuamente ripetute. Nel 1962, l'allora Presidente cipriota, l'arcivescovo Makarios III, aveva definito le basi militari britanniche sull'isola “piuttosto inutili in questa epoca atomica”. E ancora oggi molti ritengono che quelle basi siano un esempio di colonialismo e siano illegali sulla base di risoluzioni dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

L’acquedotto sotto il mare

Un mega-acquedotto sotto il Mediterraneo trasporterà 75milioni di metri cubi di acqua dolce nella parte turca di Cipro. Dalla diga di Alakopru, nella Provincia di Mersin in Turchia l'acqua dell'Anatolia scorrerà verso Cipro Nord attraverso una pipeline di 78 chilometri sotto il Mediterraneo. Circa 15milioni di metri cubi di acqua andranno verso i rubinetti delle case dei turco-ciprioti, altri 60milioni saranno destinati all'irrigazione. Il Nord di Cipro è regolarmente colpito da periodi di siccità. L'arrivo dell'acqua dell'Anatolia, dovrebbe contribuire fortemente allo sviluppo dell'economia turco-cipriota, molto più povera rispetto all’economia greco-cipriota.


Nikos Anastasiades (Limassol, 27 settembre 1946)

Özkan Yorgancıoğlu (Lempa, 1954)

Nato a Lempa nel distretto Sudoccidentale di Paphos quando ancora Cipro era unita sotto il dominio del Regno Unito. Yorgancıoğlu si è laureato in Economia all’Università di Istanbul. Dal 2013 è primo Ministro della Repubblica Turca di Cipro del Nord.

Campi paramilitari per i neo-nazisti

Sull’Isola sarebbero attivi alcuni gruppi neo-nazisti collegati al locale partito di estrema destra Elam (Ethniko Laiko Metopo, Fronte Nazional-popolare). Il partito comunista Akel ha denunciato il fatto con una serie di fotografie di probabili campi paramilitari. I neo-nazisti ciprioti sono collegati con il partito filo-nazista greco Chrysi Avgi' (Alba Dorata). A Cipro, Alba Dorata è comunemente considerata la "sorella maggiore" dell'Elam - fondato nel 2008 e riconosciuto come partito politico nel maggio 2011. Come Alba Dorata in Grecia, così pure l'Elam a Cipro è stato più volte accusato di promuovere l'odio razziale e aggressioni ai danni di immigrati.

di Sicurezza dell'Onu). La Repubblica di Cipro (del Sud) invece è riconosciuta a livello internazionale e fa parte dell’Ue. Tutta l’Isola di Cipro è divisa in sei distretti amministrativi: Distretto di Famagusta, Distretto di Kyrenia, Distretto di Larnaca, Distretto di Limassol, Distretto di Nicosia, Distretto di Paphos. I piani Annan. L’11 novembre 2002 il Segretario Generale dell’Onu, Kofi Annan, presentava un piano particolareggiato per una sistemazione complessiva della questione cipriota (il cosiddetto Annan I). Tenendo conto delle reazioni delle due parti, il piano fu rivisto il 10 dicembre 2002 (Annan II) e il 26 febbraio 2003 (Annan III). Il Segretario Generale propose alle parti di sottoporre l’Annan III a due separati referendum, uno per comunità, da effettuarsi simultaneamente. Ma il tutto è rimasto sulla carta. Nel gennaio 2004, il Segretario Generale Kofi Annan riprese i negoziati. Vennero redatti altri due piani: Annan IV e Annan V. I ciprioti vennero quindi chiamati a votare sull’Annan V il 24 aprile 2004, a distanza di appena pochi giorni dall’adesione della Repubblica di Cipro all’Ue.

I PROTAGONISTI

Ma gli elettori greco-ciprioti respinsero con ampia maggioranza il piano con il 75,8% dei voti. Al contrario, il 64,9% degli elettori turcociprioti lo approvarono. Dato lo stallo della situazione e i delicati equilibri politici interni, l’Onu continua a lasciare sull’isola una forza militare di mantenimento della pace, la United Nations Peacekeeping Force in Cyprus (Unficyp). I caschi blu vennero inviati a Cipro già nel 1964, per fare da cuscinetto tra le comunità greco-cipriota e turco-cipriota che vivevano in relativa pace, anche se con episodi di violenza reciproca. Questo accadeva, ben dieci anni prima della guerra vera e propria scoppiata solo nel 1974. Una guerra che, purtroppo, la presenza dei caschi blu non ha potuto scongiurare. I militari dell’Unficyp presidiano stabilmente la “Linea Verde”, quell’area di circa 350 km2 che divide il Nord turco e il Sud greco, tagliando in due anche la capitale Nicosia. Il termine “Linea Verde” ha origine dalla linea che nel 1964 il generale Peter Young, comandante delle forze britanniche sull’isola, disegnò (con una matita verde) sulla mappa di Nicosia allo scopo di separare i quartieri greci e turchi della capitale. Dall’aprile del 2003 è possibile attraversare la “Linea Verde”. Nel 2008 è stato aperto il primo passaggio all'interno del centro storico della capitale, in Ledra Street.

197

È avvocato laureatosi a Londra, leader del partito di centrodestra cipriota DISY, col quale è diventato Presidente della Repubblica di Cipro a inizio 2013.


198

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DALLA GEORGIA RIFUGIATI

9.290

SFOLLATI PRESENTI NELLA GEORGIA 279.778 RIFUGIATI ACCOLTI NELLA GEORGIA RIFUGIATI

469


I video dello scandalo

“Sogno georgiano”, il partito che fra il 2012 e il 2013 ha scalzato il Presidente Saakashvili, ha conquistato l’elettorato anche grazie ad alcuni video che mostravano torture degli oppositori nelle carceri. Alla fine del 2013, il partito ha pubblicato altri video, trovati pare, in un deposito di armi vicino al confine amministrativo con l’Abkhazia. Il Movimento Nazionale Unito - partito dell’ex Presidente - non contesta l’esistenza di questi depositi, giustificata con i preparativi ad una possibile guerra con la Russia, ma nega la possibilità che vi si trovassero video. Le immagini non riprendono solo le violenze nelle prigioni, di cui tutti hanno già avuto il tempo di dimenticarsi, ma anche nella sede del Dipartimento di Sicurezza Costituzionale.

A inizio giugno truppe russe hanno disposto protezioni di filo spinato al confine tra la Georgia e la Regione separatista dell’Ossezia del Sud, nel Caucaso Meridionale. Dal 2008 l’esercito russo pattuglia il confine tra Ossezia del Sud e Georgia dal lato ossetino della frontiera. La Russia è il principale alleato militare e partner economico dell’Ossezia del Sud, oltre che il più influente dei 5 Paesi (insieme a Venezuela, Nicaragua, Nauru e Tuvalu) che hanno riconosciuto l’indipendenza ossetina. Il Governo georgiano ha protestato contro l’operazione delle forze russe e le ha accusate di aver collocato il filo spinato alcune centinaia di metri oltre la linea di demarcazione, in territorio georgiano. L’incidente si inserisce nella crisi dei rapporti tra Russia e Georgia, che dalla guerra dell’agosto 2008 non intrattengono relazioni diplomatiche e vivono in perenne tensione militare. In Georgia, intanto, è cambiato il quadro politico. Il 27 ottobre 2013, Giorgi Marvelashvili, candidato della coalizione di Governo Sogno Georgiano, il partito del miliardario e premier Bidzina Ivanishvili, il più ostico avversario del Presidente uscente, Saakashvili, ha vinto le elezioni al primo turno, con il 63% dei consensi. Questo potrebbe allentare le tensioni. La nuova maggioranza ha abbandonato ogni velleità di protagonismo mondiale puntando piuttosto sulla ridefinizione di un ruolo da leader regionale, con particolare attenzione ai rapporti con i Paesi confinanti, in primo luogo la Russia, ma anche Azerbaijan (Paese fondamentale per la diversificazione delle forniture di gas) e Turchia. 
Di nuovo c’è che, in ossequio alla riforma costituzionale approvata lo scorso anno, lo Stato georgiano passa da essere una Repubblica presidenziale a Repubblica parlamentare. Una speranza che rischia, però, di infrangersi. Scarsi progressi sono stati fatti sulle cose che contano per i georgiani, come posti di lavoro e integrità territoriale. L’economia è in stallo, gli investimenti diretti esteri si stanno prosciu-

GEORGIA

Generalità Nome completo:

Repubblica Georgiana

Bandiera

199

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Georgiano

Capitale:

Tbilisi

Popolazione:

4.512.000

Area:

69.510 Kmq

Religioni:

Ortodossa georgiana (76%), musulmana (9.9%), ortodossa russa (3%), armena apostolica (4.9%), cattolica (2%), altre (3.2%)

Moneta:

Lari georgiano

Principali esportazioni:

Metalli ferrosi e non, alcuni prodotti agricoli, vino

PIL pro capite:

Us 5.842

gando e i soldati russi stanno disegnando nuovi confini con il filo spinato in Ossezia del Sud. Preoccupante è soprattutto, sotto Ivanishvili, il ritorno di nazionalisti di estrema destra e di gruppi semi-criminali. “Tutto ciò contro cui abbiamo combattuto è tornato. Eravamo stanchi dell’ultimo Governo, ma quello che abbiamo non è certamente meglio “, dice Shorena Shaverdashvili, editore di Liberali, una rivista politica.


200

Dal momento della disgregazione dell’Unione Sovietica, la Georgia ha vissuto periodi di notevole instabilità e turbolenze. Dopo una breve guerra civile, che Tblisi subì per due settimane a partire dal dicembre 1991 al gennaio 1992 la capitale georgiana divenne teatro di frequenti scontri armati tra i vari clan mafiosi e gli imprenditori illegali. Anche durante l’era Shevardnadze (1993-2003), la criminalità e la corruzione erano dilagate. Certamente, fra le quindici Repubbliche che componevano l’Unione Sovietica, la

Georgia è quella che in termini di integrità territoriale e di stabilità politica interna ha pagato il prezzo più alto. Ma è vero anche che è stato un georgiano, Stalin, a creare buona parte dei problemi etnici che la nuova Repubblica della Georgia – indipendente dal 9 marzo 1991 – si è trovata a dover gestire, con scarsi successi. Fu Stalin, infatti, a permettere nel 1931 che la sua Georgia si annettesse il Principato di Abkhazia, la Regione costiera situata a Nord, sul Mar Nero, che da secoli godeva di un’ampia autonomia all’interno dell’Impero ottomano, favorendo negli anni successivi da un lato l’immigrazione della popolazione georgiana e dall’altro l’uso della lingua georgiana al posto della lingua locale. E fu sempre Stalin ad acconsentire che l’Ossezia, altra Regione frontaliera fra Russia e Georgia, venisse divisa fra un Nord integrato nella Federazione Russa e un Sud annesso alla Georgia, senza tener conto degli inevitabili dissapori che questa divisone avrebbe creato, vista l‘omogeneità etnica e linguistica delle due Regioni. Non è dunque per caso se, già con i primi fermenti politici che porteranno alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, in entrambe le Regioni si manifestano fortissime tentazioni separatiste, a dispetto dell’esiguità dei territori in ballo. La prima guerra con l’Ossezia inizia proprio nel gennaio 1991, quando le forze armate georgiane entrano per riprendere il controllo della situazione. Dopo un anno e mezzo di pesanti scontri – ed un referendum popolare con cui gli osseti scelgono l’indipendenza – una tregua viene firmata,

il 26 giugno 1992, da Shervadnadze e da Yeltsin. In Abkhazia la prima guerra scoppia subito dopo la dichiarazione unilaterale d’indipendenza, nel luglio 1992. In agosto tremila soldati georgiani entrano nella Regione e dopo aspri combattimenti occupano Sukumi, la capitale. Centinaia di volontari, provenienti dalla Russia e dalle ex Repubbliche sovietiche – fra cui il famoso leader ceceno Shamil Basaiev – accorrono in aiuto delle milizie separatiste, finché la situazione sul terreno non viene rovesciata e si arriva ad una tregua, firmata il 27 luglio 1993. Una pace precaria regna nelle due Repubbliche secessioniste fino al 2004, quando la Rivoluzione delle Rose e l’ascesa al potere in Georgia del nuovo leader, Mickail Saakasvili, gettano nuova benzina sul fuoco del nazionalismo georgiano, rinfocolando la speranza di poter riprendere il controllo sulle due Regioni ribelli. A tale scopo, la Georgia procede ad un massiccio riarmo: le spese per armamenti dal 2004 in poi crescono a ritmi vertiginosi, fino a sfiorare il 10% del Pil, una vera e propria follia per un Paese povero, che dipende dalle importazioni dall’estero, in particolare dalla Russia. Nasce così la guerralampo lanciata dalla Georgia con esiti disastrosi nella notte fra il 7 e l’8 agosto 2008. La reazione russa è infatti immediata e sproporzionata – come stabilirà un rapporto del Parlamento Europeo – e in soli cinque giorni di combattimenti la guerra farà 850 morti e 100mila sfollati, quasi tutti georgiani. La tregua firmata il 12 agosto su iniziativa della Ue congela inoltre una situazione decisamente favorevole ai separatisti, tant’è che – forti dell’appoggio russo – sia l’Abkazia che l’Ossezia del Sud dichiarano unilateralmente la propria indipendenza, nel settembre 2008.

Per cosa si combatte

Il problema vero è che l’entità statale georgiana risulta troppo debole di fronte alla molteplicità di interessi etnici e di spinte regionalistiche che dilaniano il suo territorio. A questo si aggiunge la pressione della Russia, che in nome della

Quadro generale

I confini della musica

Il progetto si chiama Sayat Nova. I soldi li hanno trovati con una campagna di crowd-funding – una ricerca di fondi con internet - su Kickstarter, Così, tre studenti universitari di Stati Uniti e Gibilterra, hanno iniziato una ricerca sulle musiche tradizionali del Caucaso Meridionale. L’obiettivo è renderle fruibili a tutti online. I tre sono l’etno-musicologo Ben Wheeler, la storica Anna Harbaugh e l’antropologo Stefan WilliamsonFa. Sayat – Nova era un trovatore armeno del 18mo secolo. Compose canzoni e poesie in azero, armeno, georgiano e persiano. In pratica, i ricercatori esploreranno il territorio, registrando canti e versi. Il budget a disposizione è di 3mila dollari.


Gheorgi Marghvelashvili (1969)

L’omofobia nazionalista

Il 17 maggio 2013, sacerdoti della Chiesa Ortodossa georgiana hanno guidato circa 10mila nazionalisti nell’attacco a una ventina di rappresentanti delle minoranze sessuali. È accaduto nel centro di Tblisi, la capitale. Un attacco omofobo – non il primo – che ha risvolti anche dal punto di vista delle relazioni internazionali. La Chiesa ortodossa georgiana – che ha alimentato la manifestazione violenta - è sostenitrice dell’isolazionismo nazionalista. A questo si aggiunge che il clero è fortemente filo-russo. Questo per la convinzione che la Russia sia il pilastro dell’ortodossia, il centro della vera fede e l’erede della tradizione bizantina, abbandonata invece dalla Grecia svendutasi all’Occidente secolarizzato. In questa chiave, l’omofobia è una delle strade per rinsaldare radici e appartenenze, senza concedere deroghe alla vera fede.

difesa delle minoranze a lei legate, per storia e per lingua, continua a ritenere la Georgia parte integrante della sua tradizionale zona d’influenza. Mosca d’altronde non ha mai digerito la cosiddetta Rivoluzione delle Rose che nel novembre 2003 ha portato al potere Mikhail Saakashvili, considerato troppo filo-americano rispetto al suo predecessore, Eduard Shervardnaze. E da allora ha ingaggiato con le autorità georgiane una complicatissima partita a scacchi, di cui la guerra-lampo dell’agosto 2008 è solo una delle tante mosse, la più audace. Nel gennaio 2006, ad esempio, Mosca chiude senza preavviso i rubinetti del gas siberiano che rifornisce Tblisi; e nell’aprile dello stesso anno blocca le importazioni di vino georgiano. Le autorità di Tblisi replicano intensificando il dialo-

I PROTAGONISTI

go con Bruxelles, per un ingresso ufficiale della Georgia nella Nato. Russia e Georgia si danno inoltre battaglia nella cosiddetta Guerra dei Gasdotti: Tblisi aderisce infatti e viene coinvolta nel tracciato del gasdotto Nabucco, che porterà in Europa gas e petrolio del Mar Caspio senza passare dal territorio russo; mentre Mosca vara in risposta due progetti di gasdotti alternativi, Northstream e Southstream, che escludono dal loro tracciato l’uno l’Ucraina e l’altro la Georgia. Così alle ultime elezioni, Mosca riprende in qualche maniera il controllo della Georgia attraverso Bidzina Ivanishvili, secondo Forbes al 153esimo posto fra gli uomini più ricchi del mondo con un patrimonio stimato in sei miliardi e mezzo di dollari. Ma al di là della fortuna economica, tutta ottenuta in Russia, Ivanishvili, nel giro di pochi mesi è riuscito ad unire gran parte delle forze politiche e di opposizione contrarie al Governo Saakashvili, Ma i fermenti di piazza dicono che la storia non è affatto conclusa.

201

Ex professore di filosofia ed ex vicepremier e ministro dell’Educazione nel Governo del miliardario Ivanishvili dal 2012, Gheorgi Marghvelashvili è diventato Presidente della Georgia il 27 ottobre 2013, battendo al primo turno David Bakradze, sostenuto dal Capo di Stato uscente, Saakashvilil. Una vittoria netta, che conferma la svolta nella politica dello Stato caucasico. Il rivale si è fermato al 21,88%, una terza candidata, Nino Burdzhanadze al 10,07%. L’era Saakashvili, durata 10 anni, si è chiusa, non senza polemiche e non senza tensioni interne. L’ex Presidente infatti è accusato di aver avuto negli ultimi anni una deriva “fascista”. Nonostante questo, la presidenza Marghvelashvili si è aperta con buoni auspici. Lo sconfitto Bakradze ha riconosciuto il risultato elettorale e si è congratulato con il vincitore: ‘’Mi felicito con Gheorgi Marghvelashvili per la sua vittoria e la fiducia che il popolo georgiano gli ha espresso’’, ha dichiarato in una conferenza stampa.


202

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati United Nations High Commissioner for Refugees

I dati contenuti nella tabella a fianco sono forniti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati UNHCR. Sono dati ufficiali tratti dal rapporto Global Trends 2012 uscito nel giugno 2013 dai quali è possibile vedere i flussi dei rifugiati in entrata ed in uscita da ogni singolo paese. Per un approfondimento rimandiamo alla consultazione del rapporto stesso.

RIFUGIATI ORIGINATI DAL KOSOVO (+ SERBIA) RIFUGIATI

158.164

PRINCIPALI PAESI CHE ACCOLGONO QUESTI RIFUGIATI GERMANIA

113.809

FRANCIA

11.506

MONTENEGRO

8.504

SFOLLATI PRESENTI NEL KOSOVO (+ SERBIA) 227.821 RIFUGIATI ACCOLTI NEL KOSOVO (+ SERBIA) RIFUGIATI

66.370

PRINCIPALI PAESI DA CUI ARRIVANO QUESTI RIFUGIATI CROAZIA

49.931

BOSNIA & HERZEGOVINA

16.418

Non essendo stato ancora riconosciuto il Kosovo i dati sono riferiti all’intera Serbia


Un popolo in fuga

I kosovari che dal primo gennaio 2009 al 31 agosto 2013 hanno lasciato il Paese per chiedere asilo ai vari Paesi europei sono stati 66085. Il dato è stato diffuso dal quotidiano Zeri che cita fonti di Eurostat. Le richieste di asilo sono state presentate oltre che ai vari Paesi membri della Ue, anche a Svizzera, Islanda, Liechtenstein e Norvegia. Il numero complessivo dei kosovari recatisi illegalmente all’estero negli ultimi anni è molto più alto.

Dal 17 febbraio 2008, giorno di proclamazione dell’Indipendenza (“pavaresia”) la tensione militare in Kosovo, al confine Nord con la Serbia, nel distretto della città di Kosovska-Mitrovica (307500 abitanti), resta alta. La Kfor (Forza Nato in Kosovo con mandato Onu - comandante in capo da settembre 2013, Gen. Salvatore Farina dell’Esercito Italiano) mantiene attualmente nel Paese circa 5mila militari di 31 nazionalità (il contingente italiano conta 500 uomini, ed è il terzo più numeroso dopo quelli tedesco e statunitense). Nel Kosovo del Nord, la maggioranza della popolazione è di etnia serba e rimane fortemente ostile al Governo di Pristina. Con una tensione interetnica sempre palpabile, nel Nord continuano a verificarsi scontri armati tra civili, esplosioni di bombe tra le fazioni rivali, fatti di sangue in generale che riducono notevolmente il livello di sicurezza. Tra gli episodi del 2013 più fortemente significativi, il 19 settembre c’è stata l’uccisione al confine con la Serbia di un doganiere lituano appartenente alla missione europea Eulex (European Union Rule of Law Mission in Kosovo). Un fatto tragicamente importante perché rappresenta un’ostinata negazione del processo di normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia, un processo che l’Unione Europea, attualmente grazie alla mediazione del Capo della Diplomazia, sig.ra Catherine Ashton, sta tentando di portare avanti fin dal 2008. A fine ottobre 2013, il Kosovo è stato formalmente riconosciuto come Stato sovrano da 105 Stati Onu (su un totale di 193 membri), più Taiwan (non-membro) e Sovrano Militare Ordine di Malta (osservatore permanente). La Serbia continua a non riconoscere l’indipendenza del Kosovo. Nonostante questo, il 19 aprile 2013 i Governi di Belgrado e di Pristina hanno sottoscritto a Bruxelles un importante accordo. In base all’accordo, la Serbia si è impegnata

KOSOVO

Generalità Nome completo:

Repubblica del Kosovo

Bandiera

203

Situazione attuale e ultimi sviluppi

Lingue principali:

Albanese, Serbo

Capitale:

Prishtina/Priština

Popolazione:

Stime recenti parlano di 2.130.000 abitanti

Area:

10.887 Kmq

Religioni:

Musulmana, ortodossa, cattolica

Moneta:

Euro (moneta parallela al dinaro serbo al Nord)

Principali esportazioni:

Minerali e metalli non lavorati, prodotti manifatturieri

PIL pro capite:

Us 1,612

a chiudere i posti di polizia nel Nord del Kosovo che dipendono direttamente dal ministero dell’Interno di Belgrado. I posti di polizia sono fra le cosiddette strutture di governo parallele (anche tribunali, scuole, amministrazione) che Belgrado mantiene e finanzia nel Nord Kosovo, e che saranno gradualmente smantellate con la nascita, in base ai risultati delle elezioni amministrative del 3 novembre 2013, dell’Associazione delle Comunità Serbe in Kosovo, dotate di ampia autonomia.


Al centro della “questione kosovara” c’è il mantenimento dell’indipendenza nazionale conquistata nel 2008. La Serbia continua a considerare il Kosovo sotto la sua amministrazione alla luce degli articoli 108-117 della sua Costituzione del 2006: al Kosovo è riconosciuto il solo status di Provincia Autonoma. Già ai tempi della Jugoslavia di Tito, il Kosovo godeva di una grande autonomia politica ed amministrativa. Nonostante l’etnia albanese rappresentasse la stragrande maggioranza della popolazione del Kosovo, nel marzo 1989 il Presidente della Serbia, Slobodan Milošević, revocò gran parte dell’autonomia territoriale: la lingua albanese

non fu più lingua co-ufficiale nel Kosovo accanto al serbo-croato, le scuole autonome di lingua albanese vennero chiuse, i funzionari amministrativi e gli insegnanti albanesi vennero sostituiti con serbi o persone ritenute fedeli alla Serbia. Grazie alla Lega democratica del Kosovo (Ldk) di Ibrahim Rugova si adottò per anni una resistenza non violenta ma poi prese il sopravvento la lotta armata indipendentista guidata dall`Uck (Esercito di Liberazione del Kosovo). Si scatenò la guerra tra serbi e albanesi del Kosovo che deposero le armi solo dopo i “78 giorni” di bombardamenti Nato.

Per cosa si combatte

Il Kosovo si trova nella parte Sud-Ovest della Penisola Balcanica e presenta un territorio prevalentemente montuoso con i Monti Šar a Sud e Sud-Est e la Gjeravica, a Sud-Ovest (con la cima più elevata, 2.656 metri). È ricco di fiumi e di laghi e notevoli sono le cascate del fiume Drin, alte 25 metri, e le Cascate Mirusha. Il Kosovo non ha sbocco sul mare e confina con l’Albania (per 111,7 km), con la Macedonia (per 158,7 km), con il Montenegro (per 78,6 km) e con la Serbia (per 351,6 km). Il Kosovo indipendente dal 17 febbraio 2008 è una Repubblica Parlamentare rappresentativa, su base multietnica e comunitaria. La sua Amministrazione Pubblica è affidata all’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), la missione delle Nazioni Unite nata il 10 giugno 1999 con la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Dal 2008, dopo la dichiarazione d’indipendenza, molte delle funzioni svolte dalla missione Unmik avrebbero dovuto essere trasferite alla missione Eulex, istituita dall’Unione Europea per accompagnare il Kosovo nel processo di istituzione delle strutture statali (polizia, magistratura, dogana, ecc.). Tuttavia, il passaggio di

consegne tra le due missioni non è ancora stato attuato. Capo dello Stato è la signora Atifete Jahjaga nominata nell’aprile 2011. Capo del Governo e primo Ministro è il signor Hashim Thaçi leader del Partito Democratico del Kosovo (Pdk). Su Hashim Thaci pesano un’immagine ambigua, legata ai suoi presunti rapporti storici con le organizzazioni criminali, e un’accusa durissima: Dick Marty, senatore svizzero, davanti all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa indicò, il 16 dicembre 2010, Hashim Thaci come l’organizzatore di crimini efferati durante e dopo la guerra del 1999. Il Governo del Kosovo é composto da 17 Ministri. Secondo la Costituzione, almeno 3 ministri del Governo devono provenire dalle minoranze etniche (almeno 2 devono appartenere alla Minoranza serba). Anche all’interno del Parlamento kosovaro è prevista una composizione che garantisca la presenza ai gruppi etnici minoritari. Il Parlamento è composto, infatti, da 120 deputati eletti secondo il seguente sistema: 100 per voto diretto secondo il sistema proporzionale, un minimo di 10 seggi sono garantiti alla minoranza serba e 10 alle altre minoran-

Quadro generale

Elezioni municipali in Kosovo

204

Incidenti al Nord del Kosovo durante le elezioni municipali del 3 novembre. Assaltati da ultranazionalisti serbi tre seggi del settore serbo di Kosovska Mitrovica nonostante il massiccio schieramento di polizia e militari Kfor. Le operazioni di voto sono state ripetute il 1°dicembre. Stessa data in cui, in altri 24 comuni, si è votato per i ballottaggi tra i candidati sindaci maggiormente votati al primo turno. Dieci, invece, i sindaci eletti direttamente già al primo turno del 3 novembre. Le elezioni municipali del 2013, previste dall'accordo raggiunto ad aprile 2013 fra Belgrado e Pristina con la mediazione Ue, sono destinate a dar vita alle nuove Comunità Autonome dei Serbi del Kosovo che sostituiranno le strutture parallele di Governo (scuole, tribunali, sanità) mantenute finora dalla Serbia dopo la dichiarazione di indipendenza del 2008.

Una limitata libertà di Stampa

I giornalisti in Kosovo continuano a esprimere forti preoccupazioni per la loro sicurezza, per le condizioni in cui sono costretti a svolgere il loro lavoro e le difficoltà continue incontrate nell’informazione. Gli attacchi, le minacce e le pressioni nei confronti di tanti giornalisti in Kosovo costituiscono una violazione e una limitazione della libertà di stampa e di espressione. Freedom House nel 2013 ha collocato il Kosovo al 102° posto in una classifica di 197 Paesi. Nel 2012 il Kosovo era al 98° posto. Nonostante le dichiarazioni della Presidente, signora Atifete Jahjaga: “Apprezziamo e rispettiamo il lavoro di tutti i giornalisti”, questi sono regolarmente vittime di minacce e pressioni di ogni genere.


Bernd Borchardt (1955)

Farid Zarif (1951)

È rappresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite e capo della missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione ad interim nel Kosovo (Unmik). Prima di accettare l’incarico nei Balcani, aveva avuto un ruolo di assoluto primo piano nelle crisi in Sudan, in Iraq, in Liberia, in Eritrea e in Sud Africa.

Una base made in USA

Camp Bondsteel è la più grande base americana nei Balcani. Può ospitare fino a 7mila persone. Attualmente i soldati Usa sono 669. La base ha molte strutture, è una piccola città quasi autonoma, situata vicino Urosevac nel Sud del Kosovo. La base ha una storia controversa. Nel novembre 2005, Alvaro Gil-Robles, l’inviato per i diritti umani del Consiglio d’Europa, aveva descritto il campo come una “versione più piccola di Guantanamo”. Il giornale svizzero WeltWoche aveva riferito che il campo era stato un centro di detenzione Cia. Ma l’esercito degli Stati Uniti ha dichiarato che non vi sono strutture di detenzione segrete nel campo.

ze presenti nel territorio tra Rom (1 seggio), Ashkali (1 seggio) ed Egiziani (1 seggio), 3 seggi a Bosniaci, 2 ai Turchi e 1 ai Gorani. I deputati durano in carica 4 anni. Dal 1999, il Kosovo è composto da sette distretti amministrativi: • Mitrovica/Kosovska Mitrovica • Prishtina/Priština • Gjilani/Gnjilane • Peja/Peć • Gjakova/Đakovica • Prizreni/Prizren • Ferizaji/Uroševac L’unica università del Kosovo è l’Università di Pristina che attualmente si divide in due unità: una in lingua albanese, con sede a Pristina e 17 facoltà attive, e l’altra, in lingua serba ed affiliata all’Unione delle Università Serbe, con sede principale a Kosovska Mitrovica, con 10 facoltà. La Corte Suprema è la massima Autorità Giudiziaria. La Costituzione prevede anche un Consiglio Giudiziario del Kosovo che propone al

I PROTAGONISTI

Presidente i candidati a giudice procuratore ed è responsabile della carriera e dei procedimenti disciplinari dei giudici. Almeno il 15% della Corte Suprema e delle Corti Distrettuali devono essere formate da rappresentanti delle minoranze. La formazione e lo sviluppo del sistema giudiziario del Kosovo è attualmente sostenuta da Eulex. Il Kosovo ha una tra le economie meno sviluppate d’Europa, non autosufficiente, fortemente dipendente dalle importazioni e dai finanziamenti della Banca Mondiale e altri Istituti internazionali. Ma è da notare come dalla fine della guerra del 1999 il Paese ha fatto registrare una buona crescita economica e, durante il periodo di crisi finanziaria globale partita nel 2008, il Kosovo è stato uno dei soli quattro paesi in Europa a far crescere la propria economia, ogni anno, ad un tasso medio del 4,5%. Secondo la Banca Mondiale, il Kosovo nel 2013 era al 98° posto nella classifica degli stati in cui è più facile fare impresa. Nel 2012 era al 126° posto. Il Paese rimane un potenziale candidato all’adesione all’Ue. La popolazione è assolutamente giovane: circa il 70% dei kosovari ha meno di quarantacinque anni.

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Da febbraio 2013 è il Capo di Eulex in Kosovo. È nato in Germania ed è stato Ambasciatore. Ha dichiarato: “Daremo il nostro contributo affinché il dialogo politico tra Belgrado e Pristina si traduca in risultati concreti e, in secondo luogo, continueremo ad offrire una consulenza tecnica dal lato kosovaro, per l’attuazione dello stato di diritto, in particolare nel Nord del Kosovo”.


Inoltre Irlanda del Nord "Due bombe a Belfast in un anno. La tensione è sempre alta".

Nonostante gli accordi di pace del 1998, la situazione in Irlanda del Nord resta molto tesa. Lo dimostrano due ordigni esplosi a Belfast nel mese di novembre e dicembre del 2013. Il primo ordigno, 60 kg di esplosivo, era stato piazzato all’interno di un’automobile in un parcheggio nel centro di Belfast. La bomba è esplosa solo parzialmente e fortunatamente non ci sono stati feriti. La Polizia Nordirlandese ha concentrato le sue indagini sulla rete dei cosiddetti “dissidenti” Nazionalisti, ancora attivi nonostante gli accordi di pace e il disarmo dell’Ira e in un comunicato ha espresso preoccupazione per quanto accaduto: “Avrebbe potuto essere catastrofico per Belfast e il Nord Irlanda”. Il secondo ordigno, è esploso il 15 dicembre del 2013 dopo un falso allarme. Una telefonata anonima aveva annunciato la presenza di una bomba nel quartiere di Cathedral. Mentre la polizia evacuava la zona, l’ordigno è esploso in un luogo diverso. Non ha causato feriti ma secondo la Polizia era abbastanza potente da uccidere. Il clima resta dunque incandescente e se le due bombe sono quasi certamente opera dei dissidenti Nazionalisti che hanno scelto di non abbandonare le armi, anche gli Unionisti hanno contribuito a tenere alta la tensione con azioni violente. Per giorni, nel mese di dicembre 2013, i protestanti pro-britannici sono scesi in strada in migliaia a Belfast, hanno lanciato mattoni, bottiglie incendiarie e hanno esploso colpi d’arma da fuoco scontrandosi pesantemente con la polizia che è dovuta intervenire con cariche e idranti. A scatenare le proteste la decisione del Consiglio comunale di Belfast di limitare l’esposizione della bandiera britannica Federica Ramacci

fuori dal Comune, “per creare un’atmosfera di neutralità in una città divisa”. Una decisione considerata ancora oggi un affronto per i protestanti pro-britannici di Belfast. Decine di agenti sono rimasti feriti, oltre 100 persone sono state arrestate. Quella del 2013 è una delle crisi più gravi dopo anni di calma ritrovata nell’ambito di un conflitto tra i Nazionalisti a maggioranza cattolica (che vogliono l’indipendenza da Londra e l’unione del Nord dell’Irlanda con il resto della Repubblica) e gli Unionisti a maggioranza protestante (convinti che l’Irlanda del Nord debba rimanere unita alla Gran Bretagna). Il conflitto, fin dall’inizio, ha visto la massiccia presenza e partecipazione dell’esercito inglese e ha fatto più di 3500 morti. Grazie agli accordi del venerdì santo del 1998, i rapporti tra l’Irlanda del Nord e Londra si sono normalizzati, ma le divisioni profonde tra le due fazioni sembrano resistere al processo di pace. Belfast è tuttora una città divisa da muri - le “peace lines” - alti fino a otto metri, costruiti con cemento e filo spinato, ancora oggi separano i quartieri cattolici da quelli protestanti e, in alcuni punti, i cancelli sorvegliati dalla polizia vengono chiusi al tramonto per evitare scontri o azioni violente. Anche se le nuove generazioni non hanno vissuto i periodi più critici del conflitto nell’Irlanda del Nord, la violenza degli anni più duri, ha lasciato cicatrici profonde nella popolazione, che ancora non ha portato a termine un processo di pacificazione e riconciliazione necessario ad una pace duratura. Inoltre, una nuova generazione di militanti nazionalisti, che si definiscono appunto dissidenti dell’Ira e che gli ex militanti dell’organizzazione armata non riconoscono né sostengono, ha manifestato in più di una occasione l’intenzione di prendere nuovamente le armi.

Federica Ramacci


Inoltre Paesi Baschi "La lotta armata non riparte ma la pace è sempre lontana".

ta nel 2008 usufruendo di riduzioni di pena (in Spagna il limite delle detenzione è 30 anni) ma il Tribunale spagnolo si era opposto. Netto il dissenso espresso dal primo Ministro Rajoy sulla sentenza della Corte: “È ingiusta e sbagliata”, mentre a Madrid migliaia di persone tra cui le associazioni dei parenti delle vittime del terrorismo - sono scese in piazza per protestare contro la decisione dei giudici europei. Altra questione non ancora risolta è il disarmo dell’Eta. Il primo Ministro spagnolo Rajoy ha chiesto "la dissoluzione definitiva'' dell’organizzazione, ribadendo che lo scioglimento del gruppo armato è la condizione necessaria per ''una pacificazione definitiva e per una riconciliazione''. Notevolmente indebolita nel suo organico l’Eta si è sempre rifiutata di sciogliersi e consegnare le armi e nel marzo del 2013 ha annunciato ''conseguenze negative'' in seguito al rifiuto del Governo spagnolo di partecipare a un negoziato sul disarmo. Sul fronte politico intanto, il nazionalista moderato Inigo Urkullu è stato eletto, nel dicembre 2013, primo Ministro dei Paesi Baschi dal parlamento regionale. "Sarà una legislatura di pace e convivenza", ha detto il nuovo 'lehendakari' che è stato eletto con i soli voti del moderato Partito nazionalista Basco (Pnv) e guiderà un Governo di minoranza. Urkullu non si è alleato con Bildu, il secondo partito della Regione, che riunisce esponenti dell'area 'abertzale', ovvero dei simpatizzanti delle forze indipendentiste.

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Il 20 ottobre 2011 l’Eta annunciava la fine della lotta armata. A due anni di distanza da quella data storica, molti passi avanti sono stati fatti dalla società civile basca per superare decenni di conflitti e terrorismo ma restano ancora da sciogliere alcuni nodi cruciali, su cui pesa anche l’immobilismo dei governi direttamente coinvolti: quello spagnolo e quello francese. Lo stallo del processo di pace - avviato con la Conferenza di San Sebastian subito dopo l’annuncio della tregua da parte dell’Eta - è dovuto ad alcune questioni su cui sembra ancora difficile trovare un accordo: il disarmo dell’Eta, la scarcerazione e reintegrazione dei prigionieri politici, le garanzie in materia di diritti umani, la riconciliazione e la memoria. Determinante, così come è stato per il conflitto nell’Irlanda del Nord e in Sudafrica, è proprio la questione dei prigionieri politici. Il mancato accordo sulla scarcerazione dei 587 “presos” (detenuti in 79 diverse prigioni della Spagna e della Francia) viene interpretato dalla società basca come un segnale chiaro della non volontà di Madrid e Parigi di chiudere definitivamente gli anni bui del conflitto. A creare motivo di tensione sono anche le condizioni di detenzione degli ex militanti dell’Eta - rinchiusi in prigioni lontane dai Paesi Baschi, per impedire ogni possibile comunicazione tra i membri della banda armata - e alcuni casi, accertati, di tortura e maltrattamenti sui prigionieri. Nel 2013 le manifestazioni per chiedere la liberazione dei prigionieri politici sono state continue in tutti i Paesi Baschi. La più grande, nel gennaio 2013 a Bilbao, ha visto la partecipazione di migliaia di persone. Una questione, quella dei prigionieri politici, che è arrivata fino a Strasburgo. Nell’ottobre del 2013 una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha imposto la scarcerazione di diversi ex militanti dell’Eta condannati per attacchi terroristici. La Corte si è espressa in particolare sul caso dell’ex “etarra” Ines del Rio Prada, in carcere dal 1989 dopo la condanna a oltre tremila anni di detenzione per la morte di 24 persone. La donna doveva essere rilascia-



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SPECIALE SVOLTA ISLAM


Svolta Islam Adel Jabbar

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Rivolte e nuovi governi A che punto siamo Sono ormai tre anni che le società arabe attraversano una delicata e complicata fase di transizione. Le varie rivolte, che in diverse realtà sono ancora in atto, hanno evidenziato una serie di aspetti, fra cui i seguenti: 1. La necessità di cambiamento sentita da larghe fasce della popolazione. 2. La molteplicità di orientamenti ideologici e di visioni del mondo anche all’interno della galassia dei movimenti che fanno esplicito riferimento all’Islam. 3. La mancanza di una vera leadership rappresentativa di un progetto politico egemone. 4. La debolezza e in taluni casi l’assenza di corpi intermedi all’interno della società in grado di svolgere un ruolo di rappresentanza e di mediazione. 5. L’organizzazione sociale in molti casi è ancora legata a riferimenti clanistici, tribali e confessionali. All’interno di questo quadro agiscono diverse forze tese a conquistare un proprio spazio e affermare le proprie ragioni. In particolare nella situazione attuale ci sono due schieramenti contrapposti. Uno rivendica una visione della politica e della società che fa esplicito riferimento all’Islam, l’altra è l’espressione di un’elite ristretta che ha legami di convenienza con la casta militare. In questa fase di transizione il primo schieramento riesce ad avere un cospicuo riscontro elettorale lontano tuttavia dal costituire una larga maggioranza della società. L’altro schieramento invece riesce ad affermarsi solo con l’uso della forza come ha evidenziato il caso egiziano. Quindi siamo in presenza di una forte contraddizione che consiste nel fatto che entrambi gli schieramenti non sono effettivamente convinti delle pratiche democratiche. Gli uni vorrebbero utilizzare il mezzo democratico per affermare una visione distante dalla concezione di democrazia come è stata concepita nel pensiero liberale. Ciò si è visto sempre nel caso egiziano dopo l’affermazione attraverso le elezioni della Fratellanza Musulmana, la quale ha interpretato la propria relativa vittoria, quale mandato pressoché esclusivo per la definizione del nuovo assetto dello stato egiziano senza costruire delle vere alleanze con altre parti politiche e sociali. L’esempio concreto che ha evidenziato ciò è il pronunciamento del Presidente egiziano Mursi nel novembre del 2012, al fine di rendere i decreti presidenziali inoppugnabili. D’altro canto, sempre in Egitto a luglio del 2013, le forze opposte non hanno trovato altro mezzo che il golpe per imporsi sulla scena politica. Oltretutto, questa compagine variegata guidata dall’esercito che va da alcuni gruppi Salafiti vicini all’Arabia Saudita fino a gruppi liberali, panarabisti e ad alcune frange della sini-


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stra, si è resa responsabile di una forte repressione nei confronti di chi manifestava il proprio dissenso rispetto alla modalità con cui l’esercito insieme ai suoi alleati ha di fatto annullato il risultato delle urne. Non siamo qui a sentenziare chi abbia le ragioni o i torti maggiori, bensì intendiamo fondamentalmente richiamare l’attenzione sul fatto che quasi tutte le forze politiche presenti nello scenario manifestano una notevole carenza di formazione e di cultura democratiche. Su questo punto si dovrebbe riflettere approfonditamente al fine di individuare dei percorsi per comprendere meglio le dinamiche all’interno della società araba e quindi trovare delle modalità più effettive per ricostruire dei corpi intermedi capaci di diffondere una vera cultura di cittadinanza e di partecipazione che vadano oltre le appartenenze primarie quali clan familiari, tribù e identità confessionali. Fino a qui abbiamo tentato di descrivere alcuni tratti delle dinamiche interne alle realtà del mondo arabo. Ora volgeremo lo sguardo sugli aspetti geopolitici che contribuiscono a determinare la natura dell’evoluzione nei paesi in questione. Innanzitutto non si può non tenere conto dell’intesa tra la Federazione Russa e gli Stati Uniti riguardante la situazione siriana. Essi prevedono, tra le altre cose, la convocazione di un vertice, “Ginevra 2”, che avrebbe come obiettivo la soluzione politica del conflitto in atto. Certamente questa ipotesi suscita molta perplessità e tanti dubbi tra gli altri attori, quali l’Arabia Saudita, la Turchia e il Qatar, oltre che tra una parte consistente della variegata opposizione siriana stessa. Questa perplessità deriva dal fatto che non vi è chiarezza riguardo al ruolo del Presidente Bashar Al-Assad nella fase di transizione e al futuro del regime siriano. Lo scenario siriano non è l’unico che rimane aperto a tutte le eventualità. Ce ne sono numerosi altri quali l’Egitto, la Libia e lo Yemen, per citarne alcuni, nei quali permane una situazione fluida e con forte conflittualità. In questo panorama, la Tunisia desta una certa speranza e ottimismo, in quanto è l’unico caso nel quale sembra ci sia una transizione a conflittualità di intensità decisamente più bassa. Ciò avviene anche grazie al senso di responsabilità di alcune forze politiche e in particolare alla presenza di corpi intermedi quali il movimento sindacale dei lavoratori e i movimenti per i diritti umani che in questa fase hanno giocato e continuano a giocare un ruolo propositivo e di mediazione importante. In fine crediamo che nel mondo arabo si sia aperto finalmente uno spazio per un dibattito in cui sono protagonisti soggetti che rappresentano svariati orientamenti. Ciò è una novità assoluta che inaugura un percorso irreversibile di cambiamenti e di innovazione, che tuttavia restano legati e dipenderanno dai giochi della geopolitica internazionale.


Svolta islamica: onda lunga, democrazia breve A due anni dalle cosiddette Primavere Arabe, movimenti che hanno portato a un sostanziale stravolgimento degli equilibri nel mondo islamico, si sta assistendo a una situazione di totale caos destinata a durare nel tempo. In Egitto i Fratelli Musulmani hanno fallito e il nuovo Governo, che sta facendo collassare il Paese, è finanziato dalle petrolmonarchie del Golfo in chiave anti islamica. Quegli stessi Governi come Bahrein, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, da sempre nel mirino delle associazioni per la tutela dei diritti umani a causa dei brutali metodi utilizzati per la repressione del dissenso. In Tunisia il partito islamico moderato Ennhada non soddisfa le esigenze della popolazione e il Paese, prima esempio di stabilità sta pericolosamente andando verso la direzione egiziana. E in Turchia si è assistito a uno scontro tra potere politico e una parte della società civile a fronte di una progressiva islamizzazione del Paese. In tutto questo contesto si sta consumando anche una lotta settaria tra islam sciita e sunnita, due assi ben definiti sui quali si poggiano gli equilibri del mondo arabo e non solo: mezzaluna verde contro mezzaluna gialla. A farne le spese, come sempre, sono le popolazioni civili. Terreno di battaglia perfetto per questo conflitto eterno che risale alla notte dei tempi è la Siria, dove si incrociano i destini del Medio Oriente e del mondo intero.

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ARABIA SAUDITA

BAHRAIN

La dinastia dei Saud, sunniti-wahabiti, regna in Arabia Saudita dal 1926. È uno dei regimi più conservatori al mondo, oltre a essere uno dei migliori amici della Gran Bretagna. Qui la pena di morte è prassi abbastanza comune, per i reati di omicidio, rapina, traffico di stupefacenti e apostasia. Non ne sono immuni nemmeno minori e stranieri. Dall’inizio dell’anno oltre 60 persone sono state giustiziate, mediante decapitazione con la sciabola come vuole la legge coranica. Lo scorso aprile una circolare del dipartimento di Giustizia del regno ha denunciato la scarsità di boia e ha dato il via libera ai plotoni di esecuzione. La libertà di parola, di espressione e i diritti umani sono concetti che non vanno d’accordo con lo status quo che aleggia sul regno, tanto che le donne da sempre vivono una condizione di sottomissione e inferiorità che ha pochi eguali nel mondo. Da qualche tempo, però, l’attivismo femminile ha iniziato a farsi sentire e i monarchi non hanno potuto esimersi dall’ascoltare e accogliere alcune delle istanze che le donne stanno portando avanti. La prima è stata Manal al-Sharif con la manifestazione organizzata per permettere alle donne di guidare l’automobile. Questa campagna, che ha avuto una grandissima eco in tutto il mondo grazie al web, ha fatto in modo che la condizione delle donne saudite venisse portata agli occhi del mondo. E il grande consenso ottenuto su scala internazionale ha probabilmente fatto sentire in pericolo la tenuta del regno. Tanto che re Abdullah, dopo aver concesso alle donne il diritto di voto e quello di candidarsi alle prossime elezioni, ha assegnato a 30 donne un seggio nel consiglio della shoura, il parlamento saudita che in tutto conta 150 seggi: tra loro due principesse, alcune attiviste per i diritti umani e laureate. Totalmente assente, invece la rappresentanza dei religiosi. Elemento che ha scatenato le proteste di questi ultimi, che considerano il cambiamento molto pericoloso per il Paese. Nonostante questi piccoli spiragli di apertura, però, la situazione dei diritti umani in Arabia Saudita rimane preoccupante. Processi segreti, torture, violenze e arresti arbitrari, sono all’ordine del giorno per chi osa criticare il regime. Ne sa qualcosa Raif Badawi, blogger, reo di aver compiuto crimini informatici per aver manifestato il suo pensiero, e per questo condannato a 7 anni di reclusione e 600 frustate. 14 agosto 2013: giorno di Tamarod, ribellione. Come in Egitto, anche in Bahrain. Il piccolo Stato, cuore del golfo Persico e base della V Flotta della Marina americana, che non balza mai agli onori delle cronache se non per l’annuale Gran Premio di Formula 1, dal 2011 vede susseguirsi una serie di manifestazioni di piazza. Il popolo, per lo più di religione sciita, chiede misure più democratiche, riforme sociali, politiche e costituzionali al suo re Hamad bin Isa al-Khalifah, sunnita, che risponde alle manifestazioni con la violenza. Oltre 60 i morti dall’inizio delle proteste, che si stanno trasformando sempre di più in teatro di scontri settari tra sunniti e sciiti, da sempre discriminati in economia e in politica. Ambizione del popolo è quella di avviare un dialogo nazionale che porti verso la reale democrazia. Dopo una sosta, dovuta all’emanazione di riforme di facciata, tra cui la promessa di indagini sugli abusi compiuti dalla polizia, gli animi sono tornati a scaldarsi. Alla vigilia delle manifestazioni contro il regime convocate per il 14 agosto dal movimento Tamarod, sono state inasprite ancora di più le misure restrittive: carri armati, posti di blocco, militari hanno invaso la capitale Manama. La data non era casuale: il 14 agosto è il giorno dell’indipendenza del Paese dalla Gran Bretagna, nel 1971, che ha lasciato il posto agli al-Khalifah. In occasione della grande manifestazione sono stati emanati una serie di divieti e decreti di emergenza, per porre fine a ogni forma di dissenso. Sono state vietate marce, sit-in, riunioni e raduni nella capitale Manama, e sono stati concessi poteri straordinari alle forze di polizia. Già a febbraio il regime aveva vietato l’importazione nel Paese di maschere bianche, che ricordavano quella utilizzata dal protagonista del film “V per Vendetta”: avrebbero potuto essere utilizzate dai manifestanti per coprirsi il volto e diventare un simbolo delle proteste contro il regime. Il 14 agosto, nonostante i molti divieti di manifestazioni pubbliche, diversi gruppi hanno attraversato le strade della capitale Manama urlando “Democrazia! Democrazia!” con annessi rilanci su Twitter. Bilancio della giornata: decine di arresti, tra cui donne e bambini, e molti feriti. Centinaia i fermi di medici, attivisti, giornalisti, fotografi e blogger.


Grandi amici dell’Occidente, gli Emirati Arabi Uniti hanno fatto della lotta al terrorismo una bandiera. Dall’inizio del 2013 hanno arrestato quasi un centinaio di persone con accuse di terrorismo o cospirazione contro la sicurezza nazionale: la maggior parte di loro sarebbero state affiliate ad Al Islah, il ramo locale (e illegale) dei Fratelli musulmani. Una ventina di questi prigionieri hanno avviato uno sciopero della fame per protestare contro le restrizioni alle visite dei familiari e le presunte cattive condizioni di detenzione, che includerebbero l’assenza di aria condizionata e la privazione della luce. Anche le critiche nei confronti della petrolmonarchia non sono ben viste. Sono decine i blogger, gli attivisti e i semplici cittadini, che vengono arrestati perché rei di aver postato su qualche social network espressioni di dissenso verso il Governo. Sono considerati una minaccia per la sicurezza interna al Paese. A tal proposito è stata emanata una legge contro il cybercrime, che vuole regolamentare l’uso della rete, con un minimo di tre anni di reclusione per chi organizza manifestazioni di protesta e scioperi tramite internet. Come per il Bahrein, a cui sono legati per aver inviato truppe a sostegno della repressione delle manifestazioni di protesta, anche sugli Emirati è calato il silenzio mediatico in merito alle richieste di democrazia e libertà della popolazione. Il Governo federale emiratino aveva promesso riforme e libere elezioni, ma gli unici risultati che si sono visti sono state le repressioni sempre più crude. Nel suo rapporto annuale Amnesty International denuncia una situazione di soprusi e di violazioni di diritti umani, soprattutto per le donne e i lavoratori migranti stranieri, che costituiscono più del 90% della forza lavoro e non hanno diritto di scioperare. A maggio migliaia di loro hanno incrociato le braccia e si sono astenuti per 3 giorni dal lavoro, chiedendo un salario dignitoso e migliori condizioni di lavoro. La reazione della polizia non si è fatta attendere: 43 persone sono state costrette al rimpatrio forzato, numerose le lettere di licenziamento e centinaia le “dimissioni volontarie”. Il nuovo Governo giordano, cinque premier in tre anni, è nato alla fine di aprile 2013, dopo che a gennaio 2013 si erano svolte le elezioni, indette da re Abdallah II per cercare di mettere a tacere le proteste contro il carovita. Il Fronte di Azione Islamica, principale partito di opposizione ed espressione della Fratellanza Musulmana, ha deciso di boicottarle per chiedere che il premier venga eletto e non nominato da re e perché le zone rurali, a maggiore concentrazione islamista, vengono scarsamente rappresentate. La monarchia ashemita aveva sciolto il parlamento agli inizi di ottobre nel tentativo di aprire la strada a riforme radicali. Di oltre 3,1milioni di persone con il diritto di voto su 6,7milioni di abitanti (la metà circa sono palestinesi senza diritto di voto), ha votato solo il 56,56% degli aventi diritto. Le rivolte che hanno scosso il mondo arabo da qualche anno a questa parte hanno solo sfiorato la Giordania, nonostante qualche protesta abbia animato le strade e le piazze del Paese. L’opposizione prende piede, anche mediante forme di aggregazione politica alternativa, spesso nate sulla rete, come la pagina facebook Al-Hirak che conta oltre 32mila contatti, ma non riesce ad acquistare quell’incisività che potrebbe portare a pesanti movimenti di protesta. Il re, dal canto suo, ha sempre evitato le repressioni, cercando di elargire qualche concessione che ac-

EGITTO

EMITATI ARABI UNITI

GIORDANIA

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Due Presidenti in tribunale in un anno. Il fatto più eclatante accaduto in Egitto nel 2013 è stato il golpe, che ha portato alla destituzione del Presidente Mohamed Morsi, democraticamente eletto a giugno 2012 e oggi a processo in tribunale per incitamento alla violenza. Gli scontri hanno causato una vera carneficina che ha portato il Paese sull’orlo del baratro. Centinaia i morti e i feriti. Incompetenza, errori politici e promesse disattese da parte dei vertici del potere hanno causato forte malcontento tra le classi sociali. A fine 2012 l’Egitto ha una nuova Costituzione, redatta dai Fratelli Musulmani e approvata in due turni referendari con il 63,8%. Secondo l’opposizione non tutela i diritti civili e si basa sulla legge islamica. Ad aprile alcuni giovani fondano il movimento Tamarod (ribellione), che si oppone a Morsi, e raccolgono le firme per chiederne la destituzione e ottenere elezioni anticipate. Tra la fine di giugno e inizio luglio, il Paese registra eventi mai accaduti prima: una manifestazione a cui si stima abbiano partecipato 4milioni di persone, e l’esercito che dà un ultimatum, poi rifiutato, di 48 ore al Presidente per risolvere la crisi politica, trascorse le quali si sarebbe assunto la responsabilità di risanare il Paese. Il 3 luglio, il generale Abdul Fatah Khalil Al-Sisi, capo delle forze armate egiziane, annuncia che su iniziativa dell’esercito la Costituzione è stata sospesa e il capo della Corte Costituzionale si insedierà a capo di un Governo tecnico. Adli Mansur, capo della Corte Costituzionale, è il nuovo Presidente e i Fratelli Musulmani vengono completamente esclusi dal Governo. Pronte le reazioni islamiste: si susseguono una serie di manifestazioni in cui i militari sparano sulla folla. La più grave si registra il 14 agosto: oltre 500 morti e migliaia di feriti in poche ore. A inizio settembre il nuovo Presidente nomina una commissione di 50 esperti, per lo più laici, per modificare la Costituzione: 60 i giorni di tempo a disposizione per presentare il nuovo testo a Mansur, che entro un mese indirà un referendum per farla approvare. I militari avviano una serie di arresti eccellenti tra le file della Fratellanza e congelano tutti i beni ai suoi dirigenti. Intanto l’ex Presidente egiziano, Mubarak, che nel 2012 era stato condannato all’ergastolo in primo grado e posto agli arresti domiciliari in un ospedale militare del Cairo per le sue precarie condizioni di salute, rischia la pena di morte per complicità nell’omicidio dei manifestanti durante le rivolte del 2011.


contentasse i manifestanti. I motivi delle proteste sono comuni a molti altri Stati: disoccupazione, povertà, mancanza di servizi pubblici, scarso pluralismo nelle istituzioni. Anche i giornalisti hanno protestato contro il blocco di 290 siti web di informazione. La monarchia non viene, però, mai messa in discussione, anche se inizia a perdere un po’ del suo prestigio tra la popolazione. Forse anche per i legami sempre più forti che il Paese ha con gli Stati Uniti e le monarchie del Golfo. Bersaglio delle proteste sono i Governi, che con le loro politiche di austerity hanno impoverito un popolo già duramente colpito dal calo dei turisti, impauriti dall’instabilità dell’area. In questa situazione si deve aggiungere la preoccupazione per il continuo arrivo di profughi dalla vicina Siria. Secondo il ministero degli Esteri il 10% della popolazione è costituito da profughi siriani, che dovrebbero aumentare ancora, fino al 40%, entro la metà del 2014.

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MAROCCO

OMAN

A due anni dalla Nuova Costituzione e a 60 anni dalla Rivoluzione del Re e del Popolo, che ricorda la sollevazione popolare del 20 agosto 1953 durante la quale il popolo ha imposto ai colonizzatori francesi di permettere il ritorno in patria della famiglia reale, il Governo islamista marocchino ha presentato le attese riforme del sistema giudiziario, che prevedono un rafforzamento dell’indipendenza della magistratura e l’aumento dei salari e organici dei giudici. Introdotte anche una serie di norme che prevedono la tutela dei diritti umani. Stando a un rapporto di Human Rights Watch, infatti, i tribunali del Marocco avrebbero comminato numerose sentenze motivate politicamente negli ultimi anni, e i giudici non avrebbero indagato sulle torture denunciate dai detenuti per ottenere la loro confessione. Quello che il popolo chiede e per cui manifesta, però sono le riforme economiche e sociali. Oltre 5mila persone sono scese in piazza ad aprile per chiedere che venissero attuate le riforme auspicate da più di tre anni a questa parte ma mai messe in pratica. Ancora oggi il 30% della popolazione marocchina vive al di sotto della soglia della povertà: è questo uno degli elementi, insieme all’insofferenza per la corruzione dilagante, che ha scatenato la marcia nazionale di protesta capitanata dai principali sindacati marocchini. A luglio si è ufficialmente aperta una crisi di Governo, dopo che 5 dei 6 ministri del partito di opposizione Istiqlal sono usciti dall’esecutivo islamista guidato da Abdelilah Benkirane, accusato di non aver saputo adottare le misure necessarie per traghettare il Paese fuori dalla crisi economica e sociale che lo sta devastando. Gli attivisti del movimento “20 Febbraio” sono tornati in piazza, così come alcuni ex militanti che, ispirandosi ai ribelli egiziani che hanno deposto il Presidente Morsi, hanno dato vita alla frangia marocchina del movimento Tamarod. Chiedono la caduta del Governo di Benkirane e la revisione della Costituzione, una monarchia parlamentare, una reale separazione dei poteri e la laicità dello Stato, contando di raggiungere le classi popolari e i lavoratori. Il 22 settembre 2013 migliaia di persone sono scese in piazza per manifestare contro l’aumento dei prezzi dei prodotti di largo consumo, tra cui il carburante, che ha visto il suo prezzo aumentare di circa l’8% per il gasolio e circa il 5% per la benzina. La misura era stata imposta dal Governo per cercare di contenere il deficit del Paese. Visto dagli Stati Uniti come lo Stato chiave per arginare Teheran, l’Oman non è stato immune dalle perturbazioni sociali che hanno interessato il mondo arabo. Nel 2011 le proteste sono sfociate in repressione con morti e feriti. Tutto sommato, oggi, a due anni dalle manifestazioni, la situazione socio-politica dell’Oman appare stabile nel breve e medio periodo, grazie ad alcuni tentativi di riforme graduali, da parte del Sultano Qaboos bin Said al-Said al potere dal 1970. Non si verificano scontri settari, grazie al fatto che il 75% dei 3milioni e mezzo di abitanti del Sultanato è di religione islamica, ma non è sciita o sunnita. Qui prevale la corrente degli ibaditi, piuttosto pacifica e non in conflitto con le altre declinazioni del mondo islamico. A fine dicembre 2012 si sono svolte le prime elezioni municipali nella storia del Paese. In Oman esiste un solo consiglio comunale nella capitale composto da membri nominati dall’establishment del sultano. I consigli elettivi non hanno poteri legislativi, ma solo consultivi. Grazie alla ricchezza che deriva dagli idrocarburi, che costituiscono l’asse portante dell’economia del Paese, il sultanato dell’Oman è sempre stato considerato un’oasi felice in fatto di stabilità mediorientale. La democrazia, però, è solo un miraggio, dal momento che sono vietati i partiti politici e qualsiasi forma di partecipazione della popolazione alle decisioni del Governo. Da tempo l’Oman è monitorato dalle associazioni per la difesa dei diritti umani, tra cui Amnesty International, per le continue violazioni e repressioni di ogni tipo di critica interna. 21 attivisti, nel 2013, sono stati condannati a 18 mesi di carcere con l’accusa di aver utilizzato internet per criticare il regime e aver partecipato a manifestazioni non autorizzate. L’unico organo elettivo è il Consiglio della Shura fondato nel 1991, e i suoi membri possono solo “consigliare” il sultano su problematiche di politica interna ed estera. Il Governo ha offerto concessioni per l’esportazione e lo sfruttamento di due maxi-giacimenti (Khazzan e Makarem) alle società britanniche Bp e British Gas. Contemporaneamente ha sottoscritto un Memorandum d’intesa con l’Iran per lo sfruttamento del giacimento di gas di Keesh, che prevede anche la realizzazione di un gasdotto sottomarino di 200 km nello stretto di Hormuz. Un modo per mantenere il Paese in equilibrio tra potenze regionali e internazionali.


È stata la morte del 22enne Ahmet Atakan a far riesplodere le proteste in Turchia. Il giovane è morto nel corso di alcuni scontri con la polizia nella città di Antakya, nel Sud del Paese. Dal 10 settembre piazza Taksim, a Istanbul, è tornata a essere il teatro di manifestazioni di protesta, che vengono represse dalle forze di sicurezza con l’uso di gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e arresti. La morte di Ahmed Atakan ha scatenato accese polemiche in Turchia. La famiglia e le associazioni che appoggiano le proteste attribuiscono la responsabilità della morte del giovane a una bomboletta di gas lacrimogeno sparato dalla polizia, mentre le forze di sicurezza sostengono che la causa del decesso sia stata la caduta da un edificio. Non ci sarebbero però prove che avvalorino quest’ultima ipotesi. Ahmed Atakan era un manifestante antigovernativo sceso in piazza in una delle numerose proteste che interessano la Turchia dal mese di maggio. Inizialmente sono state organizzate da alcuni giovani, auto ribattezzatisi “Occupy Gezi Park”, che si opponevano al piano di demolizione del parco Gezi di Istanbul, nel cuore della città, per lasciar spazio alla costruzione di un centro commerciale. Progressivamente il movimento di protesta ha assunto una forma più strutturata e si è diffuso anche in altre città del Paese, per manifestare un dissenso più generale nei confronti delle posizioni sempre più conservatrici e di stampo islamico del Governo del premier Recep Tayyip Erdogan. Si protesta contro l’approvazione di una legge che vieta la vendita di alcolici vicino a moschee e scuole e contro i tentativi di emanare una legge che vieti i comportamenti moralmente inaccettabili, come baciarsi in pubblico ad Ankara. Erdogan ha accusato il Partito Popolare Repubblicano di essere l’ispiratore delle proteste di Gezi Park. La complessità della storia e della società turca rendono difficile la comprensione delle reali ragioni delle manifestazioni, ma ad accomunare quanti sono scesi in piazza c’è una sempre più crescente insofferenza nei confronti del premier, in carica dal 2002, e del suo autoritarismo. Le forze di sicurezza hanno reagito in maniera brutale alle manifestazioni con arresti di massa e repressioni che hanno causato 6 morti e il ferimento di migliaia di persone, tanto che anche Amnesty International ha condannato l’eccessivo uso della forza da parte della polizia e ha chiesto alla comunità internazionale che vengano sospese le vendite di gas lacrimogeni e di blindati per la polizia.

TUNISIA

TURCHIA 215

A febbraio 2013 a Tunisi è stato assassinato il leader del Fronte Popolare Chokri Belaïd, che si oppone al partito islamico moderato Ennhada al Governo. Rashid Ghannuchi, capo di Ennhada, è stato accusato dalla famiglia di Belaïd di essere il mandante dell’omicidio. Allo stesso modo Ennhada è stato accusato di essere coinvolto nell’omicidio di Mohamed Brahmi, il 25 luglio, fondatore e segretario generale del Movimento del Popolo (Echaâb), partito di opposizione laico e nazionalista, nato dopo la fine della ultraventennale presidenza di Ben Ali nel 2011. Era anche membro dell’Assemblea Nazionale Costituente che era incaricata di scrivere la nuova Costituzione. L’assassinio è avvenuto il giorno in cui la Tunisia celebra la festa nazionale di indipendenza dalla Francia. In seguito alle due uccisioni nel Paese si sono susseguite una serie di manifestazioni di oppositori e di sostenitori del Governo. La situazione è particolarmente tesa e violenta, con una crisi politica che si trascina da tempo su un rimpasto di governo e un allargamento del governo di coalizione. Uno stallo politico che blocca l’economia, con pesanti ricadute sulle esportazioni estere. Le opposizioni chiedono le dimissioni di Ennhada, mentre il Governo chiede il dialogo su costituzione e elezioni. Una situazione che ricorda quella del vicino Egitto alla vigilia della deposizione del Presidente Morsi. La nuova Costituzione non è mai stata scritta, non è ancora stata emanata una nuova legge elettorale e ci sono stati tentativi – non riusciti perché bloccati – di introduzione di leggi ispirate alla sharia nell’ordinamento statale. Scontri si sono verificati tra le forze dell’ordine e centinaia di sostenitori del gruppo integralista islamico salafita Ansar al Sharia, considerato vicino ad al-Qaeda, a causa della decisione governativa di impedire il congresso annuale del movimento. Anche in Tunisia ha conquistato terreno il movimento Tamarod, i cui obiettivi qui sono lo scioglimento dell’Assemblea costituente (Anc), l’annullamento della bozza della nuova Costituzione e la nomina di una commissione di saggi per la scrittura della futura Legge Fondamentale, che dovrà rappresentare tutti i tunisini. A dicembre 2013 dovrebbero svolgersi le prossime elezioni.


1) UNTSO

9) UNOCI

2) UNMOGIP

10) MINUSTAH

3) UNFICYP

11) UNAMID

4) UNDOF

12) MONUSCO

216

United Nations Truce Supervision Organization (Organizzazione delle Nazioni Unite per la Supervisione della Tregua) United Nations Military Observer Group in India and Pakistan (Gruppo di Osservatori Militari delle Nazioni Unite in India e Pakistan) United Nations Peacekeeping Force in Cyprus (Forza delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace a Cipro) United Nations Disengagement Observer Force (Osservatori delle Nazioni Unite per il ritiro)

5) UNIFIL

United Nations Interim Force in Lebanon (Forza temporanea delle Nazioni Unite in Libano)

6) MINURSO

United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara (Missione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale)

7) UNMIK

United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (Missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione temporanea del Kosovo

8) UNMIL

United Nations Mission in Liberia (Missione delle Nazioni Unite in Liberia)

United Nations Operation in Côte d’Ivoire (Operazione delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio) United Nations Stabilization Mission in Haiti (Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti) African Union and United Nations Hybrid Operation in Darfur (Operazione Ibrida dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite in Darfur) United Nations Organiation Stabilization Mission in the Democratic Republica of the Congo (Missione di Stabilizzazione della Repubblica Democratica del Congo)

13) UNISFA

United Nations Interim Security Force for Abyei (Missione per la Sicurezza nell’area di Abyei, Sud Sudan)

14) UNMISS

United Nations Mission in the Sud Sudan (Missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan)

15) MINUSMA

United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali (Missione di stabilizzazione in Mali)


Nazioni Unite I Caschi Blu Raffaele Crocco

È stato il Mali a chiamare uomini e mezzi per fermare la guerra, nel 2013. La Siria, invece, è rimasta impantanata nel macello: troppi gli interessi in gioco, troppo i veti che si sono incrociati per poter fare qualcosa. Le Missioni dell’Onu continuano nella loro “missione impossibile”: fermare le guerre, arrestare i massacri. Sono 15 quelle sul campo, in grande prevalenza in Africa. Una ha terminato il proprio compito, a Timor Est e questa è la buona notizia. La cattiva è che l’Onu continua a non avere strumenti di intervento, è sempre frenato da interessi di bottega, alleanze di opportunità e da una sostanziale contraddizione: il mancato rispetto dei diritti umani anche da parte di chi li ha formalmente sottoscritti. L’Assemblea, con i suoi 193 Paesi a formarla, ha troppe delegazioni a rappresentare Governi per nulla democratici. Il Consiglio di Sicurezza, con i suoi 13 membri, è troppo schiavo degli interessi dei cinque “grandi vecchi” con potere di veto: Cina, Russia, Inghilterra, Stati Uniti e Francia decidono ciò che è bene e ciò che è male sulla base delle politiche nazionali. Così, il balletto continua, con l’opinione pubblica mondiale a chiedersi se davvero ha un senso. Le missioni costano. Sono più di 7miliardi e mezzo di dollari quelli messi sul piatto per mantenerle. Tutti gli Stati dovrebbero finanziarle, invece molti non pagano o pagano tardi, ricattando strutture e politiche. A rimetterci sono sempre gli stessi: i tanti che la guerra – tutte le guerre – la subiscono. Eppure, per molti, per troppi, l’unico scudo fra la vita e la morte resta quello formato dagli uomini con il casco blu delle Nazioni Unite. Per milioni di esseri umani, l’unica speranza di futuro è nella presenza di quegli uomini e di quelle donne in armi, chiamati a fermare in qualche modo altri uomini e altre donne che vogliono uccidere, devastare, saccheggiare. Pensateci bene: vi sembra poco? Qui sotto una Cartina che fotografa lo stato delle Missioni Onu sparse nel nostro pianeta. UNAMA in Afghanistan, non contemplata nei nostri schemi, è una missione di carattere politico, diretta e sostenuta dal Dipartimento delle Operazioni di Pace delle Nazioni Unite.

217

Missioni di Pace, per troppi sono l’unica speranza


Operazioni di pace delle Nazioni Unite Operazioni di pace in corso Missione

Data inizio

Truppe

Osservatori militari

Polizia

Civili internazionali

UNTSO

mag-48

0

159

0

93

UNMOGIP

gen-49

0

42

0

25

UNFICYP

mar-64

923

0

68

38

UNDOF

giu-74

1.223

0

0

47

UNIFIL

mar-78

10.502

0

0

327

MINURSO

apr-91

26

201

6

95

UNMIK

giu-99

0

8

8

116

UNMIL

set-03

5.759

130

1.457

429

UNOCI

apr-04

8.492

187

1.315

409

MINUSTAH

giu-04

6.226

0

2.452

391

UNAMID

lug-07

14.457

353

4.487

1.061

MONUSCO

lug-10

18.751

521

1.416

998

UNISFA

giu-11

3.940

121

15

106

UNMISS

giu-11

6.800

142

690

861

MINUSMA

mar-13

5.219

0

791

132

82.318

1.864

12.705

5.128

Totale:

Missione

Civili locali

Volontari ONU

Personale totale

Vittime

Bilancio (US$)

UNTSO

134

0

386

50

70.280.900 (2012-13)

UNMOGIP

45

0

112

11

21.084.400 (2012-13)

UNFICYP

109

0

1.138

181

56.604.300

UNDOF

87

0

1.357

44

48.019.000

UNIFIL

640

0

11.469

299

492.622.000

MINURSO

167

13

508

15

60.475.700

UNMIK

205

27

364

55

44.953.000

UNMIL

858

215

8.848

177

476.329.800

UNOCI

772

153

11.328

112

584.487.000

MINUSTAH

1.252

168

10.489

175

576.619.000

UNAMID

2.955

421

23.734

173

1.335.248.000

MONUSCO

2.970

585

25.241

61

1.456.378.300

UNISFA

61

15

4.258

12

290.640.000

UNMISS

1.334

402

10.229

17

924.426.000

105

2

6.249

1

366.774.500

11.694

2.001

115.710

1.383

circa $7.54 miliardi

MINUSMA Totale:

Documento preparato dalla sezione Pace e Sicurezza del Dipartimento d’Informazione Pubblica delle Nazioni Unite, in collaborazione con il Dipartimento per le Operazioni di Peacekeeping, la Divisione Finanziaria per il Peacekeeping dell’Ufficio di Pianificazione del Programma, di Bilancio e Contabilità, e del Dipartimento per gli Affari Politici DPI/1634/Rev.149 - October 2013


Vittime di guerra/3 Federico Fossi

Foto in alto UNHCR/T.Irwin

UNHCR/S. Phelps

Se l’entità del flusso di civili che sono costretti a fuggire dalle proprie case è oggi uno dei fattori che determinano l’intensità dei conflitti, il 2012 detiene un triste record. Dal 1994 si registra infatti il numero più alto di persone in fuga da guerre, persecuzioni e violazioni dei diritti umani. Sono oltre 45milioni di donne, bambini e uomini che hanno lasciato tutto quello che hanno costruito per cercare rifugio e sicurezza, sfollati nel loro Paese o divenendo rifugiati dopo aver attraversato le frontiere nazionali. Le guerre restano la causa principale che sta alla base della fuga. Il 55% degli oltre 15milioni di rifugiati nel mondo proviene infatti da appena cinque Paesi, tutti colpiti da conflitti. Sono l’Afghanistan, la Somalia, l’Iraq, la Siria ed il Sudan. Da ormai 32 anni l’Afghanistan è il principale Paese di origine di rifugiati. In media nel mondo un rifugiato su quattro è afghano e il 95% di loro si trova in Pakistan o in Iran. Altri importanti flussi di civili in fuga si sono registrati in uscita da Mali e Repubblica Democratica del Congo. Si tratta di numeri allarmanti che evidenziano una sofferenza su vasta scala e che fanno emergere una difficoltà sostanziale della comunità internazionale nel prevenire i conflitti e promuovere soluzioni tempestive per una loro ricomposizione. Di fatto, oggi, ogni 4,1 secondi una persona nel mondo diventa rifugiato o sfollato. Quasi la metà sono minori. Un importante elemento che emerge esaminando la mappatura dei rifugiati e degli sfollati nel mondo è che oltre l’80% di loro sono accolti e assistiti nei Paesi del Sud del mondo, oltre il 10% in più rispetto al 2003. Si va quindi ampliando il divario in termini di accoglienza fra i Paesi più ricchi e quelli più poveri: la metà dei rifugiati trova infatti accoglienza in Paesi che hanno un reddito pro capite annuo inferiore a 5mila dollari Usa. Il 2013 ha visto esplodere quella che l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati António Guterres ha definito “la grande tragedia di questo secolo”, una crisi umanitaria che, al momento in cui scriviamo, ha già costretto alla fuga dalla Siria oltre 2milioni e 100mila civili, 1milione e 800mila dei quali nel corso degli ultimi 12 mesi. La metà sono bambini, il 70% dei quali sotto gli undici anni. Siamo ormai abbondantemente nel terzo anno di guerra e dalla Siria non si arresta il flusso di donne, bambini e uomini che, ad una media di 5mila al giorno, attraversano i confini in uscita dal Paese spesso portando con sè poco più dei vestiti che indossano. Le Nazioni Unite stimano inoltre che 4.25milioni di persone siano sfollate all’interno dei confini siriani e bisognose di assistenza umanitaria. Ogni giorno che passa comporta maggiori insidie per i civili siriani che cercano rifugio e sicurezza all’estero. Le famiglie in fuga sono costrette a scegliere percorsi sempre più peri-

219

In fuga da fame e guerra Ogni 4 secondi un nuovo profugo


220

colosi per raggiungere i Paesi confinanti, alcune volte attraversando la Siria in lungo e in largo per evitare le violenze dei combattimenti e raggiungere un posto di frontiera che gli permetta di lasciare il Paese. Alcune famiglie, dopo mesi e mesi di conflitto hanno esaurito tutte le loro risorse e non riescono a mettere insieme il denaro necessario per organizzare la fuga. Spesso sono costretti ad affrontare un persorso ad ostacoli, approfittando del buio della notte, attraversando villaggi falcidiati da colpi di mortaio e scariche di mitragliatrici fino alla meta del confine. In un ingente sforzo di solidarietà i Paesi limitrofi accolgono oltre il 97% dei rifugiati siriani con pesanti ripercussioni sulle infrastrutture, sulle loro economie e le società. Con un afflusso di un milione di rifugiati la popolazione del Libano è cresciuta del 18%. In proporzione, è come se in Italia fossero arrivati 10milioni di rifugiati in meno di due anni. L’impatto è preoccupante, in particolare sulle delicate strutture demografiche, con la possibilità che si verifichino gravi conseguenze per la sicurezza. Sia il sistema educativo che quello igienico-sanitario sono esposti a una pressione insostenibile. In Giordania, il flusso di rifugiati siriani ha comportato un incremento della popolazione dell’11%. 500mila persone da assistere e gestire nonostante le risorse limitate, l’economia in difficoltà e servizi e infrastrutture sotto pressione. Molti rifugiati siriani vivono all’interno di campi profughi. La popolazione del campo di Za’atri, aperto a fine luglio del 2012, è cresciuta in maniera esponenziale ed ospita oggi 120mila rifugiati diventando a pieno titolo la quarta “città” della Giordania per popolazione. Ma la maggioranza di essi, 480mila rifugiati, si trova nelle città e nei villaggi giordani. In Iraq, Paese già sottoposto a problemi di sicurezza e ad esodi interni di larga scala ben prima che iniziasse la crisi siriana, la popolazione di rifugiati siriani ha quasi raggiunto quota 200mila. In Turchia i 500mila rifugiati sono distribuiti in 21 campi dove vengono loro garantiti un alloggio, assistenza sanitaria, sicurezza e altri servizi. Senza un consistente sostegno internazionale che aiuti questi Paesi a gestire la crisi dei rifugiati siriani, l’intera Regione corre il rischio di una pericolosa destabilizzazione. Nel giugno di quest’anno l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), di concerto con i suoi partner, ha chiesto ai donatori 4,4miliardi di dollari per svolgere le operazioni umanitarie in Siria nell’anno in corso. Finora l’Agenzia ha ricevuto solamente il 46% di quanto sarebbe necessario per soddisfare le esigenze umanitarie sempre più impellenti. L’Alto Commissario Guterres ha rivolto un appello anche all’Europa, affinché garantisca ai siriani in cerca di protezione alle frontiere dell’Ue di poter ottenere accesso al territorio, a procedure di asilo rapide ed eque e alla sicurezza. Un’Unione Europea che deve impegnarsi in maggiori iniziative di condivisione degli oneri, in modo da mitigare il devastante impatto che la crisi di rifugiati sta causando sui Paesi immediatamente a ridosso della Siria.

UNHCR/M.Pearson

UNHCR/R.Arnold

UNHCR/M. Antoine


Vittime di guerra/4 Unhcr

Foto in alto UNHCR/B. Bannon

Paura di perdere le proprie certezze e desiderio di fuga. È un’Italia preoccupata e insoddisfatta quella che emerge dal sondaggio realizzato dalla Doxa per l’Unhcr in occasione del rilancio di Routine is Fantastic, la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi quest’anno dedicata alla protezione di 20 milioni di donne rifugiate. Mentre nel mondo 46,5milioni di persone - tra rifugiati, apolidi e sfollati – sono state costrette a fuggire dalle proprie case, dal sondaggio emerge che quasi 18milioni di italiani, se potessero, cambierebbero subito vita. Lo studio rivela poi che un 1 italiano su 3 si sveglia con la paura di perdere quello che ha e sono sopratutto le donne a temere di perdere le proprie certezze: oltre 8milioni dichiarano di sentirsi in apprensione per la stabilita’ della loro vita “Lo studio mostra bene quanto per gli italiani, e per le donne in particolare, siano importanti le certezze e quanto oggi cresca il timore di perderle – commenta Federico Clementi, responsabile della raccolta fondi dell’Unhcr. E sono proprio le sicurezze quotidiane – la casa, gli affetti, l’istruzione –quello che le donne e le bambine rifugiate perdono e che la campagna “Routine is fantastic” vuole restituire grazie alla generosità degli italiani ”. E proprio alle donne e alle bambine rifugiate è dedicata la campagna di quest’anno. La metà circa dei rifugiati – 7,3milioni su 15,3milioni complessivi (dati 2012) – sono donne. Donne e bambine sono inoltre le categorie più fragili e vulnerabili dinanzi alle guerra e alle persecuzioni. “Restituire una normalita’ alle donne e alle bambine rifugiate è l’obiettivo di Routine is Fantastic e per questa ragione rivolgiamo un appello all’opinione pubblica e ai media - spiega Laurens Jolles, delegato per il Sud Europa dell’Unhcr. Le donne in fuga da conflitti sono private della protezione e della loro famiglia. Lasciano alle loro spalle padri, mariti e fratelli per affrontare lunghi viaggi e cercare rifugio fuori dai confini del proprio Paese. Sono accompagnate in questo esodo forzato dallo spettro della violenza. Basta un piccolo gesto di generosità per portare loro un aiuto concreto”.

221

Routine is fantastic, l'Atlante aderisce alla campagna Unhcr per le donne rifugiate


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223

SPECIALE CONFLITTI AMBIENTALI


I conflitti ambientali/1 Cdca

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Guerre e finanza nemiche di ambiente e comunità La pressione crescente che l’economia globale esercita sul pianeta e la corsa al controllo delle risorse producono effetti via via più drammatici sull’ambiente e sulle comunità residenti. Una tendenza destinata ad aggravarsi ulteriormente, aumentando l’insorgenza di conflitti causati dalla scarsità delle risorse e dalla rivendicazione di tutela ambientale agita dalle comunità locali. Non è un caso, dunque, che negli ultimi decenni i conflitti ambientali, per la crescente diffusione e l’entità delle implicazioni prodotte, siano divenuti un fenomeno di estremo interesse in ambito politico, scientifico, universitario e sociale. Tuttavia, almeno nel nostro Paese, rimangono un tema ignorato dalla letteratura scientifica e dai mezzi di comunicazione. Una delle ragioni dell’importanza che essi ricoprono va ricercata nella loro rilevanza non soltanto a livello locale ma ancor prima a livello globale: i conflitti ambientali sono la manifestazione localizzata e sintomatica degli effetti che il modello di sviluppo economico attuale produce. Un’altra ragione di forte interesse ha a che vedere con le modalità in cui tali fenomeni stimolano forme nuove e dirette di partecipazione sociale: è progressivamente aumentata la richiesta di partecipazione da parte della società civile ai processi decisionali che riguardano la gestione della cosa pubblica. Ma partiamo da principio: cosa si intende di preciso per conflitto ambientale? Nella pratica, un conflitto ambientale si manifesta quando: politiche energetiche, infrastrutturali, produttive, di smaltimento; il mancato intervento pubblico in casi in cui sarebbe invece necessario (politiche di salvaguardia o risanamento ambientale); oppure politiche commerciali e finanziarie sovranazionali con rilevanti impatti ambientali incontrano (o meglio si scontrano con) l’opposizione della società civile. In altre parole, siamo di fronte ad un conflitto ambientale quando concorrono due elementi: - la riduzione qualitativa e/o quantitativa delle risorse presenti su un dato territorio: terra, acqua, biodiversità, flora o fauna, minerali o altre materie prime; - la presenza di opposizione/resistenza da parte della società civile che si organizza e mobilita in difesa dei propri diritti o del proprio territorio. Poli industriali, progetti di estrazione mineraria, politiche che privatizzano servizi di base o beni comuni, mega infrastrutture, discariche ed inceneritori sono solo alcuni degli esempi delle cause che possono essere alla base dell’insorgere di un conflitto ambientale. Negli ultimi decenni la natura dei conflitti ambientali rispetto al passato è cambiata al punto di far parlare di conflitti di nuova generazione: questi ultimi presentano una maggior potenza offensiva

a cura del Cdca (Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali) www.cdca.it


dovuta alla diminuzione delle risorse e al maggior ruolo via via assunto dagli organismi finanziari internazionali a scapito degli stati, ma anche una maggior potenzialità di resistenza sociale dovuta alla maggiore facilità di accesso alle nuove tecnologie, che ha permesso di far circolare in maniera capillare informazioni, documenti, denunce da un capo all’altro del mondo favorendo lo scambio tra esperienze solo geograficamente lontane e il contino insorgere di movimenti organizzati. I gruppi maggiormente colpiti sono spesso i settori più vulnerabili della popolazione, comunità povere o marginali, minoranze o popolazioni indigene che dipendono più direttamente dalle risorse naturali per la loro sussistenza. Ciò finisce per configurare una nuova forma di discriminazione: il razzismo ambientale, contro cui le comunità in mobilitazione chiedono a gran voce Giustizia Ambientale. Una categoria nuova, emersa da questo tipo di conflitto, che rivendica la sicurezza ambientale come diritto umano fondamentale. Entrando nello specifico della relazione tra tutela ambientale e conflitti armati, secondo il rapporto “Allarmi e Valutazioni di Rischio” elaborato nel 2009 dall’Unep, programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite, il collegamento tra conflitti veri e propri e ambiente è stretto e può avere diverse relazioni causa-effetto: da un lato spesso sono ragioni di tipo ambientale a generare conflitti armati; dall’altro lato, l’ambiente e le comunità locali sono sempre gravemente colpiti dagli effetti dei conflitti armati, come afferma lo studio ”Protecting the Environment during armed conflict”(2009), sempre dell’Unep. In generale, è impossibile avere una contabilità pur orientativa del numero dei conflitti ambientali in corso nel mondo a causa della rapida diffusione ed eterogeneità del fenomeno. Tuttavia, per la loro rilevanza è impossibile oggi, nella mappa mondiale dei conflitti, non inserire di diritto le centinaia di migliaia di casi in cui le proteste sociali fanno da contraltare all’imposizione spesso violenta di politiche economiche ed industriali che in ultima istanza hanno effetti non diversi da quelli di una guerra propriamente detta: fanno terra bruciata dei territori e della vita delle comunità che li abitano.

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Sui più emblematici casi di conflitto ambientale in America Latina, Asia e Africa il Cdca – Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali porta avanti dal 2007 un lavoro di mappatura, documentazione e divulgazione di informazioni. Il Cdca è nato da un progetto dell’associazione A Sud. Dare voce alle comunità coinvolte nei conflitti, indagarne le cause e denunciarne i responsabili è parte integrante del lavoro di ricerca, formazione e informazione che il centro porta avanti, disegnando una mappa mondiale di luoghi di criticità ambientale ma al contempo di resistenze sociali. Appunto, di conflitti.

AFRICA | Focus NIGERIA –Estrazione petrolifera Delta del Niger Da oltre 50 anni le principali multinazionali petrolifere del mondo operano nel Delta del Niger, una delle zone più popolosa del continente africano. La Nigeria detiene la più vasta riserva di gas ed è il maggiore esportatore di petrolio dell’Africa ma il 64.4% della popolazione vive con meno di $1.25 al giorno. Dagli anni ‘60 il Paese è vittima di disordini e violenze dovuti all’intreccio tra potere militare, politico e imprese petrolifere. L’attività estrattiva, che utilizza pratiche vietate come il Gas Flaring, ha contribuito all’impoverimento della popolazione, alla diffusione di malattie, all’alterazione irreversibile del territorio ed ha alimentato discriminazioni e sfollamenti. Le comunità locali chiedono la bonifica di corsi d’acqua e terreni, un’equa distribuzione dei proventi del petrolio, il risarcimento del debito ecologico e la demilitarizzazione del territorio, rivendicazioni cui lo Stato e gli eserciti privati delle multinazionali hanno risposto con violente repressioni che hanno portato nel 1995 all’impiccagione di 9 attivisti tra cui Ken Saro Wiwa – leader del Mosop -Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni. Dal 2005 ulteriore attore del conflitto è il gruppo armato Mend, Movimento di Emancipazione del Niger Delta. Nel 2011 la Shell è stata denunciata all’Aja per violazione dei principi guida dell’Ocse. A tutt’oggi, le comunità del Delta vivono in un ambiente irreversibilmente contaminato, privati dei propri diritti e mezzi di sussistenza. I numeri: • Oltre 50 anni di estrazione di idrocarburi nell’area • 30milioni di abitanti residenti nella Regione del Niger Delta • 36mila km² di ecosistema di mangrovie gravemente compromesso • Nigeria primo Paese al mondo per emissioni di Co2 da gas flaring


ASIA | Focus INDIA – Attività mineraria nell’Orissa Lo stato indiano di Orissa, “mineral belt” (letteralmente fascia dei minerali) dell’India, racchiude i maggiori giacimenti di carbone, ferro, e bauxite del continente. Qui vivono circa 7milioni di Adivasi che vivono prevalentemente di caccia, pesca e agricoltura. Nei primi anni ’90 il Governo indiano apre agli investimenti stranieri dell’industria pesante, prime fra tutte la Vedanta Resources, compagnia mineraria controllata da Sterlite Industries, conglomerato industriale con finanziatori come Jp Morgan e Hsbc Ambro. Da allora le popolazioni residenti, tra cui le comunità indigene di etnia Dongria Kondh, portano avanti una strenue resistenza in difesa del territorio, prima contro progetti di espansione delle attività di raffinazione, poi contro l’apertura di nuovi fronti estrattivi. Tra essi, il progetto di una miniera di bauxite sulle vicine colline Niyamgiri, ricche di biodiversità e di acqua e considerate sacre dagli abitanti. Il progetto minaccia direttamente 12 villaggi e indirettamente molte più comunità, che denunciano come gli impatti di tali attività sono devastanti per il territorio: i fanghi rossi prodotti dai cicli di lavorazione delle miniere rappresentano fattori di grave rischio per i terreni e le falde acquifere. Ad aprile del 2013 la Corte suprema, con una sentenza riconosce il diritto dei popoli nativi a essere parte integrante del processo decisionale riguardante il futuro della miniera di bauxite. Ad oggi, l’impresa continua a rimandare le consultazioni con i gruppi locali. I numeri:

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• 36 corsi d’acqua a rischio • 7milioni di abitanti nella mineral belt, perlopiù adivasi (indigeni) • 35mila acri deforestati nel periodo tra il 1980 e il 1997 e 150mila tra il 1998 e il 2005

AMERICA LATINA | Focus MESSICO – Contaminazione industriale a El Salto El Salto è considerata la cittadina più inquinata del Messico. A El Salto e nella vicina Junacatlàn, nello stato di Jalisco, dagli anni ’70 lo sviluppo di un enorme polo industriale e l’espansione urbana hanno provocato un crescente degrado socio-ambientale. La mancanza di trattamento delle acque fognarie, lo scarico di materiali pericolosi, la presenza di una mega discarica che raccoglie i rifiuti di Juadalajara (2^ città più popolosa del Paese) e di altre discariche e inceneritori clandestini, l’alta concentrazione di gas inquinanti hanno portato all’avvelenamento del fiume Santiago e dei territori circostanti e ad una incidenza allarmante di malattie nella popolazione. Nel 2008 Miguel Angel Lopez, un bambino di 8 anni, cade nel Rio mentre gioca a pallone e muore per intossicazione da arsenico, richiamando l’attenzione nazionale sul dramma che vive la comunità. Nel 2009 il Governo dello Stato, in risposta alle denunce popolari, emette dichiarazione di emergenza ambientale raccomandando la bonifica nei due municipi sotto indicazione della Commissione Statale dei Diritti Umani di Jalisco (Cedhj). Il caso di El Salto è stato trattato in due udienze regionali dal Tla, Tribunale Latinoamericano dell’Acqua e dal Tribunale Permanente dei Popoli, organismo internazionale non governativo. El Salto fa parte sin dalla sua nascita dell’Anaa – Assemblea Nazionale Vittime Ambientali, che raccoglie centinaia di comunità di tutto il Messico in lotta contro la devastazione territoriale. Le Autorità locali e statali continuano a violare la normativa ambientale. I numeri: • 1500 imprese presenti nell’area, 280 scarichi di acqua contaminata identificati, dei quali 266 direttamente nel fiume Santiago • 7 discariche e 5 inceneritori clandestini • 6071376 abitanti dislocati in diversi centri abitati, di cui 47 in zone ad alto rischio di disastri naturali


I conflitti ambientali/2 Cdca

a cura del Cdca (Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali) www.cdca.it

Le aree più vulnerabili del pianeta dal punto di vista ambientale corrispondono spesso a quelle più popolose. Si tratta di zone fragili, spesso ricchissime di biodiversità, sottoposte sistematicamente a politiche di sfruttamento selvaggio delle risorse e a repentini cambiamenti climatici con conseguenti difficoltà di adattamento e sopravvivenza per le specie viventi e le comunità residenti. È in particolare nei Paesi cosiddetti poveri che si produce un effetto distorto per cui le Regioni più disagiate economicamente e politicamente sono anche le più esposte alle conseguenze dei danni ambientali e climatici, sia per l’intensità degli impatti, che per la minore capacità di adattamento di questi Paesi, dovuta a una scarsa disponibilità di tecnologie e di fondi da destinare a interventi mirati. Inoltre, poiché gran parte dell’economia di questi luoghi si basa su modelli tradizionali (agricoltura, pesca o allevamento di sussistenza), è sempre più frequente che tali attività vengano danneggiate gravemente da eventi ambientali disastrosi. Questi fenomeni, oltre a incidere su equilibri ecosistemici, livello di biodiversità, qualità e quantità delle risorse naturali disponibili, sono tra le cause principali dei crescenti flussi migratori che stanno interessando vaste Regioni del pianeta. Osservare la distribuzione mondiale dei conflitti legati all’accesso e all’uso di risorse naturali mostra come lo stress ambientale sia una determinante significativa di violente crisi sociali, che i cambiamenti climatici rischiano di intensificare in molte aree particolarmente vulnerabili. Negli ultimi anni il fenomeno migratorio per cause ambientali sta assumendo le dimensioni di una emergenza planetaria, creando più migrazioni a livello globale dei conflitti armati: già nel 2001, secondo il World Disasters Report, il numero di profughi causati da cause ambientali aveva superato il numero degli sfollati prodotti dai conflitti armati. Le stime diffuse dall’Unhcr e dall’Oim parlano di 200-250milioni di profughi ambientali in movimento entro il 2050. Questo dato equivale a circa 6milioni di persone ogni anno costrette a lasciare le proprie terre a causa di fattori ambientali, cioè poco meno di una persona ogni 50 abitanti del pianeta. Esistono varie tipologie di profughi ambientali, classificate anzitutto in base alla causa che scatena il fenomeno migratorio: si distinguono cause naturali o antropiche, dovute cioè all’intervento umano. Per quanto riguarda gli eventi calamitosi, essi si caratterizzano per un carattere di imprevedibilità che rende difficile agire in maniera preventiva; ciò nonostante l’implementazione di politiche appropriate di gestione e messa in sicurezza dei territori aiuterebbe a contenere

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Popoli in cammino loro malgrado Quando le migrazioni sono forzate


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le conseguenze spesso nefaste di tali eventi. Negli ultimi anni, la frequenza e la carica devastatrice con cui tali eventi si abbattono in varie Regioni del mondo ha registrato un sensibile aumento. Uno dei fattori è dovuto al fatto che spesso i territori su cui si abbattono tali calamità scontano già pregresse situazioni di degrado ecologico (erosione dei suoli, deforestazione ecc.) che divengono così fattori di ulteriore vulnerabilità del territorio. Oltre a questa distinzione basata sulla causa scatenante delle migrazioni, i profughi ambientali possono essere suddivisi in tre ulteriori categorie: - persone che si spostano per un tempo determinato a causa di disastri naturali o provocati dall’uomo, ma che in momenti successivi possono ritornare nei luoghi di provenienza per iniziarvi la ricostruzione; - persone permanentemente spostate e riallocate in altra area. Questo gruppo di sfollati subisce gli effetti di disastri causati da progetti di sviluppo (grandi dighe, industrie, attività minerarie) e da disastri naturali che possono danneggiare un’area in modo permanente; - persone che si spostano provvisoriamente o permanentemente perché non possono essere sostenute dalle risorse delle loro terre a causa della degradazione ambientale. Ciò è dire che nel mondo, centinaia di milioni di persone basano la propria economia sulla disponibilità di servizi ambientali gratuiti: il loro danneggiamento o distruzione comporta per queste persone l’impossibilità di continuare a sussistere, obbligandole a spostarsi alla ricerca di nuove condizioni. Lo stimolo al fenomeno migratorio è da considerarsi una delle principali sfide a livello globale poste tanto dalle conseguenze del modello economico attuale che dai cambiamenti climatici in corso. Le prospettive future indicano una tendenza all’intensificazione di eventi meteorologici estremi e i conseguenti fenomeni (cicloni, piogge torrenziali, inondazioni, desertificazione e siccità) che secondo gli esperti interesseranno in maniera progressiva anche zone fino ad ora non interessate dall’incidenza di fenomeni del genere. Tra i Paesi che si trovano in situazione di maggiore vulnerabilità e che rischiano di vedere moltiplicato il numero delle persone costrette ad abbandonare le proprie terre nei prossimi anni ci sono la zona costiera del Bangladesh, i delta dei fiumi Rosso e Mekong in Vietnam, le isole Maldive, le isole Carteret della Papua Nuova Guinea, le isolette di Kiribati e Tuvalu in Polinesia e molte altre isole del Pacifico. Il displacement di persone per cause legate all’ambiente e al clima è destinato a colpire un numero crescente di persone nei prossimi anni, sino ad assumere le fattezze di veri e propri esodi di massa. Ciononostante attualmente i profughi ambientali (sia interni che migranti verso Paesi terzi) possono contare esclusivamente sulle politiche di intervento statali o dell’Unhcr, il cui mandato è stato esteso alle vittime di disastri ambientali naturali o provocati dall’uomo. Non godono di una protezione giuridica specifica e non sono riconosciuti come richiedenti asilo, poiché sono inclusi nelle migrazioni per ragioni economiche. Ciò rende urgente l’adozione in sede Onu di misure che predispongano in tempi certi una normativa specifica che definisca e garantisca tutela integrale ai profughi ambientali. Resta chiaro che l’implementazione di politiche mirate al potenziamento delle economie locali, unita all’applicazione di meccanismi di partecipazione delle comunità residenti alla gestione delle risorse naturali e dei territori e all’utilizzo di strumenti di consultazione preventiva come mezzo di prevenzione dei conflitti, rappresentano strumenti idonei a mitigare e prevenire l’insorgere o l’intensificarsi di fenomeni migratori.


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SPECIALE PIRATERIA


La Pirateria/1 Alessandro Rocca

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Non solo Somalia. La pirateria all'assalto di altri mari Se la Somalia e il Golfo di Aden rimangono luoghi simbolo per la pirateria marittima, bisogna registrare uno spostamento verso il Golfo di Guinea degli attacchi nel corso del 2013. La Pirateria marittima in Somalia è ormai un fenomeno che è secondo a quello in atto nel Golfo di Guinea. Il sorpasso è avvenuto nei primi sei mesi del 2013. Nelle acque del West Africa si sono registrati almeno 50 attacchi pirata condotti contro navi e mercantili di varia provenienza. Almeno 30 di questi attacchi in mare sono andati a buon fine, mentre nello stesso periodo dell’anno lungo le coste somale gli assalti sono stati solo quattro, tutti con esito negativo. Rispetto al 2012 c’è stata una riduzione del 90%. Il mare al largo delle coste occidentali dell’Africa ha conquistato il triste primato di essere il nuovo crocevia della pirateria marittima internazionale. Le nuove roccaforti dei pirati del west sono situate nella penisola di Bakassi tra Camerun e Nigeria. Una costa frastagliata e ricca di vegetazione che offre validi nascondigli alle veloci imbarcazioni d’assalto. Ma questi pirati si distinguo da quelli Somali per la violenza dei loro assalti e per le armi usate, elementi che stanno destando forti preoccupazioni nei Paesi che si affacciano lungo quelle coste. L’attenzione dei media però rimane ancora concentrata dall’altra parte del continente africano. Nel tratto di oceano Indiano che va dal Mar Rosso fino al largo delle coste della città di Obbia, in Somalia. Lungo questi 3300 chilometri di costa infatti, si sono concentrati negli ultimi anni gli assalti meglio riusciti dei nuovi pirati. Un fenomeno, quello della pirateria, di cui si parla dal 20072008, quando i sequestri delle navi mercantili cominciarono a finire sui media di tutto il mondo. Un fenomeno però, che ha radici lontane, come tanti altri problemi di questo Paese e cioè dall’inizio della guerra civile somala, nel 1991. Caduto il dittatore Siad Barre, dopo oltre 20 anni, sono venute a mancare le autorità di polizia e di controllo sulle acque costiere, che viceversa sotto Siad Barre erano piuttosto strutturate. C’era una guardia costiera e una marina militare abbastanza moderna e armata, per un Paese africano. Poi il nulla. Si dà il caso, tuttavia, che le acque somale, e in particolare quella che nella geografia marittima viene chiamata “Area 51” (prospiciente la Regione del Puntland), siano fra le più pescose del mondo: è una sorta di immensa pianura sottomarina con una presenza ittica straordinaria: secondo stime, per difetto, il potenziale di pescato – senza mettere in pericolo il ciclo naturale di ripopolamento delle acque – è di 200mila tonnellate l’anno, con varietà di specie fra le più pregiate. Quindi, tanto e ottimo pesce. E nessun “padrone” di quelle acque. È per questo che nella prima metà degli anni ’90 si sviluppa la pesca di frodo: pescherecci di altri Paesi si spingono fin nelle acque somale, con mezzi sempre più potenti. I pescatori locali reagiscono, a quello che considerano un vero furto: questa “guerra della pesca” è la premessa storica della pirateria, perché anche i somali si organizzano e cominciano a sequestrare le barche dei pescatori di frodo stranieri. Attacchi e pirateria da parte somala, armi o getti di acqua bollente dai pescatori di frodo. I pescatori locali, si sono organizzati da soli la loro “difesa” del mare. Dall’altra parte i pescatori di frodo hanno reagito allo stesso modo. Ecco l’origine di tutto. Prima bande locali, poi livelli organizzativi sempre più elevati, fino alle organizzazioni criminali, sia di parte somala che internazionali. Una vera industria del crimine. Nelle Regioni costiere della Somalia la pirateria è un’industria piuttosto strutturata. Esiste persino una “piazza”, un po’ come fosse una borsa europea, dove ci si reca per formare equipaggi e ottenere investimenti: ciascuno mette quello che ha, e guadagna in proporzione. I pirati spesso sono ex


marinai della guardia costiera, ex militari di Marina, ex ufficiali, funzionari, pochi i pescatori. Molti non sanno neanche nuotare. Sono pastori nomadi dell’entroterra, arruolati spesso per pochi dollari e attratti dall’occasione di arricchimento veloce. Oggi, i miliziani somali che vanno a fare i sequestri col kalashnikov sono l’ultimo anello della catena. Il vero business è altrove: finanziatori che mettono il denaro per organizzare barche da pirateria sempre più sofisticate e complesse; vi sono anche coloro che forniscono con precisione le rotte delle navi da intercettare; i mediatori che, in tempo reale, sono in grado di mettere in contatto le bande criminali con le compagnie e che “risolvono” in fretta il caso con un riscatto che comprende laute provvigioni. Tutte figure che con la Somalia hanno ben poco a che fare. Dall’altro lato c’è il business delle assicurazioni, delle compagnie private di sicurezza. Infine, delle operazioni di polizia internazionale, nelle acque somale. Due società di analisi americane hanno fatto una stima di quanto è costato alla comunità internazionale il caos somalo di questi 20 anni: 55,83miliardi di dollari. E anche di quanto è stato “pagato” il fenomeno della pirateria: poco più di 22miliardi di dollari. Una cifra da capogiro. Se è vero che il pattugliamento di una sola nave da guerra nel basso Mar Rosso costa 200mila dollari al giorno, ben si comprende la cifra complessiva. Ecco perché l’interesse è ancora concentrato tutto qui. Anche se i dati dicono che ci sia un ritorno alla normalità nel Corno d'Africa. Alcuni analisti sostengono che è ancora troppo presto, ma i segnali mostrano che i pirati abbiano ridotto notevolmente i loro spazi di manovra. I motivi sono essenzialmente due: il controllo da parte delle forze militari internazionali in mare aperto, e il lento ritorno del paese ad una giurisdizione statale strutturata. Proprio nei nuovi palazzi delle istituzioni somale si sta combattendo la vera battaglia contro la pirateria. Il Governo, attraverso il ministero della Difesa, si è rivolto ad una società olandese, la Atlantic Marine and Offshore Group. Il contratto stipulato prevede la fornitura di equipaggiamento, la formazione, organizzazione e management per la creazione di un servizio di guardacoste moderno. Gli olandesi hanno aperto, per meglio supportare il Governo, una sede a Mogadiscio, che oltre agli uffici, prevede un’officina per la logistica e la riparazione delle imbarcazioni. Il pattugliamento delle coste avverrà con veloci imbarcazioni da altura dotate delle più moderne tecnologie. Un primo step prevede il controllo da parte di personale privato, che verrà sostituito da personale formato somale una volta completato l’iter di formazione. Uomini che saranno in grado di pattugliare oltre 3000 km di coste.

La pirateria in pillole L’Icc International Maritime Bureau (Imb) è una divisione speciale dell’International Chamber Of Commerce (Icc). È una organizzazione no-profit, nata nel 1981 per il contrasto di ogni tipo di crimine e illecito marittimo. I dati che riportiamo sono parte dell’annuale Rapporto dell’Imb sulla Pirateria (Report on Piracy and Armed robber). Il Rapporto si basa sulla definizione di pirateria contenuta nell’art 101 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Unclos) Articolo 101 Definizione di pirateria Si intende per pirateria uno qualsiasi degli atti seguenti: a) ogni atto illecito di violenza o di sequestro, od ogni atto di rapina, commesso a fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati, e rivolti: i) nell’alto mare, contro un’altra nave o aeromobile o contro persone o beni da essi trasportati; ii) contro una nave o un aeromobile, oppure contro persone e beni, in un luogo che si trovi fuori della giurisdizione di qualunque Stato; b) ogni atto di partecipazione volontaria alle attività di una nave o di un aeromobile, commesso nella consapevolezza di fatti tali da rendere i suddetti mezzi nave o aeromobile pirata; c) ogni azione che sia di incitamento o di facilitazione intenzionale a commettere gli atti descritti alle lettere a) o b). Pirateria in Pillole (dal 1 gennaio del 2013 al 30 settembre del 2013) Attacchi: dal 1 gennaio al 30 settembre del 2013 gli attacchi a navi mercantili sono stati in tutto 188, in netta diminuzione rispetto all’anno precedente (i primi 9 mesi del 2012 avevano fatto registrare 233

attacchi) Aree a rischio: i 2/3 di tutti gli attacchi registrati nei primi nove mesi del 2013 sono avvenuti nelle acque di 6 Paesi: Indonesia (68); Nigeria (29); Bangladesh (10); Egitto (7); India (7); Togo (7). Il numero degli attacchi e le aree in cui si sono verificati, mostrano un aumento del fenomeno della Pirateria nel Sud Est asiatico e un calo drastico degli attacchi nella zona del Corno d’Africa. Armi utilizzate: Nella maggior parte dei 188 attacchi registrati nel 2013 sono state utilizzate armi da fuoco; in oltre 50 assalti sono state utilizzate armi da taglio. Vittime: Almeno 266 persone, membri dell’equipaggio, sono state prese in ostaggio durante gli attacchi, 20 sono rimaste ferite, 34 rapite, una uccisa. Navi attaccate: secondo i dati dell’ICC nel 2013 il maggior numero di attacchi ha preso di mira navi “portarinfuse” usate per trasportare carichi non-liquidi, solitamente generi alimentari (grano ad esempio). Questo genere di navi sono state attaccate 41 volte nel 2013. Subito dopo, con 39 attacchi, secondo i dati dell’ICC ci sono le navi che trasportano materiale chimico. Nazionalità delle navi: Singapore, Panama, Isole Marshall, Hong Kong, Liberia, sono i Paesi le cui navi hanno subito il maggior numero di attacchi nei primi nove mesi del 2013. In particolare la Liberia ne ha subiti 33, Singapore 29, Panama 22, Isole Marshall 21, Hong Kong 16. Golfo di Aden: L’Icc ha registrato un netto calo del fenomeno della Pirateria in una zona considerata da sempre tra le più a rischio, quella del Golfo di Aden. Ciò è dovuto, spiega il Rapporto, ad un forte incremento delle misure preventive adottate dai Paesi proprietari delle navi e ad una aumento della sicurezza armata a bordo delle navi. Il rischio nella zona è comunque sempre alto, sottolinea il Rapporto, che invita a prendere tutte le precauzioni necessarie per garantire la sicurezza dei mercantili.


La Pirateria/2 Alessandro Rocca

La pirateria moderna è un affare per molti

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Il dottor Paolo Quercia analista di relazioni internazionali e politica estera, ha lavorato per il Mae. Collabora con il Centro Alti Studi Difesa e ha fondato un centro studi di politica estera, il Cenass (Center for Near Abroad Strategic) di cui è anche direttore. All’interno del Cenass c’è un gruppo di lavoro di riflessione strategica sulla Somalia. Gli abbiamo chiesto una breve analisi sulla situazione della pirateria Somala e non solo. Che idea si è fatto in merito al problema pirateria? La pirateria è fenomeno molto antico e presente in molte parti del mondo. Tuttavia nell’Oceano indiano tra il 2008 ed il 2012 abbiamo visto esplodere una nuova forma di pirateria, basata non solo sulla capacità militare di assalire navi lungo la costa, ma di divenire una vera e propria forma di criminalità organizzata transnazionale, con i suoi investitori finanziari, i meccanismi di riciclaggio del denaro, forme avanzate di logistica e veri e propri mini eserciti di miliziani per gestire il controllo del territorio e la gestione di complessi sequestri. Per capire le peculiarità del fenomeno della pirateria somala è necessario collocarla nel contesto della dissoluzione della Somalia, il più grande stato fallito del mondo. Lungo le sue coste passa una delle rotte fondamentali dell’economia mondiale globalizzata, quella che unisce l’Europa all’Asia. Io dico sempre che la pirateria somala altro non è che l’estensione negli spazi della globalizzazione marittima del warlordismo clanico nato alla dissoluzione dello stato somalo. Come ha visto la gestione del problema da parte della comunità internazionale, Europa e Italia in particolare, e delle autorità somale? Per molti anni il problema della sicurezza marittima nell’Oceano indiano è stato in buona parte sopportato e affrontato dai privati, in particolare gli armatori, in pressoché totale solitudine. Gli atti di pirateria avvenivano in un vaccuum di sovranità, tra le acque internazionali e le ex acque territoriali somale, ove nessuna forza di sicurezza statale era sopravvissuta alla dissoluzione dello stato. E i privati, lasciati soli ad affrontare questo rischio, hanno a lungo gestito questo problema con un meccanismo di securizzazione economica. Assimilando la pirateria ad un costo di esercizio, da gestire in maniera economica secondo un approccio da riduzione del danno. In questo contesto, il ruolo delle assicurazioni, del sistema bancario, degli studi legali, delle private military companies è stato particolarmente rilevante. Se ciò ha da un lato comportato la stabilizzazione economica del fenomeno e la sua gestione in maniera programmabile, dall’altro ha portato all’escalation del valore dei riscatti. Dieci anni fa una nave veniva dissequestrata


con un riscatto di 200 – 300mila dollari. Oggi, dopo la professionalizzazione a livello finanziario della pirateria nel golfo di Aden, i pirati sembrano avere una perfetta conoscenza dei meccanismi bancari e assicurativi, e sopratutto sono in grado di stimare l’esatto valore della nave e del carico, e di ottenere, tramite sempre più raffinate tecniche negoziali, un riscatto che oscilla tra il 4 ed il 6% del valore. Nel caso di un petroliera, ciò comporta solitamente un pagamento di svariati milioni di euro, che include il costo dei “servizi” legali per il pagamento del riscatto. In questo modo i pirati hanno accumulato in pochi anni un vero e proprio tesoro di centinaia di milioni di euro e messo su un esercito di predatori dei mari, divenendo un problema per la sicurezza internazionale.

Chi beneficia di questo business che comunque pare continui ad essere in mano agli stessi signori della guerra che hanno ridotto la Somalia a quello che è oggi? È un business trasversale, di cui hanno beneficiato numerosi frammenti della società somala, che va dalla diaspora, ai funzionari governativi, fino agli Shabaab che, pur non praticando la pirateria, riscuotevano il pizzo sui proventi dei pirati. Ma la sua vera natura va probabilmente ricondotta ad una militarizzazione dei pescatori somali del Nord della Somalia, che si sono mischiati con altri trafficanti di armi e di uomini che attraversano le acque tra Somalia e Yemen per dare la caccia alle decine di migliaia di navi mercantili che solcavano le acque del golfo di Aden. Lo spostamento degli assalti nel Golfo di Guinea che segnale è? L’emergere degli attacchi di pirateria nel Golfo di Guinea è un fenomeno preoccupante. Per il momento essa non ha ancora raggiunto le dimensione di quella somala e qui “l’industria dei pirati” non sembra attrezzata a gestire lunghi sequestri e riscatti milionari. Spesso parliamo più di rapine a mano armata delle navi e del suo carico che di veri e propri sequestri delle navi. Il fenomeno non va però trascurato, soprattutto bisogna subito tenere sotto controllo i circuiti finanziari che ruotano attorno ai pirati. Difatti, in Somalia, è stata proprio la possibilità per i pirati di poter finanziarie un numero sempre maggiore di operazioni grazie a “investitori” stranieri, a far esplodere la pirateria nell’Oceano indiano ai livelli drammatici che abbiamo conosciuto fino al 2011. Che l’idea ha del nuovo Governo somalo, viste anche le ultime vicende e comunque espressione clanica e dei war lords? Il nuovo Governo somalo è ancora all’inizio della sua esperienza politica ed è troppo presto per poter dare un giudizio. Le sfide che dovrà affrontare, frutto di due decenni e di anarchia e caos, appaiono forse troppe ampie non solo per le sue capacità materiali, ma anche per la sua possibilità politica di comprensione e gestione. L’approccio centralista con cui ha cercato di caratterizzare le sue prime iniziative non sembra essere il migliore per ricompattare un Paese frammentato dalla divisione clanica e dalla molteplicità delle tensioni.

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L’intervento in mare delle unità militari può essere un buon deterrente? (i risultati di questo 2013 pare diano ragione). I dati del 2013 dimostrano che le strategie di lotta alla pirateria hanno dato i loro frutti. Sicuramente, le missioni navali nell’Oceano indiano hanno dato un importante contributo, sia nelle operazioni di pattugliamento, scorta e soccorso ma anche in quelle di caccia ai pirati e alle loro basi sulla terraferma. Ma vi sono altri elementi che hanno contribuito a produrre questa inversione di tendenza. Innanzitutto la decisione di armare, con nuclei di protezione militari o privati, molte delle navi più esposte al rischio della pirateria, ha rappresentato un fattore estremamente decisivo. Al momento non si registra nessun caso di nave con protezione armata che sia stata assalita con successo dai pirati somali. Nel corso del 2013, ogni qual volta i pirati hanno incontrato una resistenza armata nelle loro azioni di avvicinamento alle navi hanno sempre abbandonato l’assalto. L’altro fattore rilevante è stato il ritorno di interesse politico da parte della comunità internazionale sulla Somalia e la decisione di porre fine al periodo di anarchia e instabilità, puntando al rafforzamento delle strutture governative e alla ricostruzione politica ed economica. Solo il completamento della ricostruzione a terra può far consolidare i successi ottenuti sul mare contro la pirateria.


Il Rapporto annuale 2013 documenta le violazioni dei diritti in

159 paesi e

*Tra cui tortura, uccisioni illegali, sgomberi

70

%

50%

31%

13 %

112 paesi hanno torturato loro cittadini

In 80 paesi si sono svolti processi iniqui

In 50 paesi le forze di sicurezza sono state responsabili di uccisioni illegali in tempo di pace

Solo 21 paesi hanno eseguito condanne a morte

155 stati hanno votato per l’adozione di un Trattato sul commercio delle armi nell’ambito

dell’Assemblea generale dell’Onu ad aprile 2013. Solo tre paesi hanno votato contro il Trattato

Pena di morte: più di due terzi dei paesi del mondo sono


www.rapportoannuale.amnesty.it

di Amnesty International umani * commesse nel 2012

territori del mondo forzati, sparizioni e violenze contro le donne

36%

64

%

19%

23%

In 57 paesi 101 paesi In 31 paesi In 36 paesi uomini, donne e bambini prigionieri di hanno represso il persone sono hanno subito coscienza sono diritto alla libertĂ state vittime di rimasti in carcere di espressione sparizioni forzate sgomberi forzati

12 milioni di persone erano

apolidi all’inizio del 2012

15 milioni di persone sono

registrate come rifugiati

abolizionisti per legge o nella pratica

140

Questi dati non sono esaustivi e si riferiscono a paesi dove Amnesty International ha documentato specifiche violazioni dei diritti umani nel 2012. Le percentuali sono relative ai 159 paesi menzionati nel Rapporto annuale 2013. Per approfondimenti vedi rapportoannuale.amnesty.it


Rapporto Annuale 2013 Amnesty International

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I diritti umani non hanno confini Il Rapporto annuale di Amnesty International 2013 documenta la situazione dei diritti umani in 159 Paesi e territori nel corso del 2012. I Governi si sono impegnati a tutelare i diritti umani solo a parole, in realtà hanno continuato a invocare questioni d’interesse nazionale, preoccupazioni in materia di sicurezza e ordine pubblico, per giustificare le violazioni di quei diritti. In risposta, in tutto il mondo la gente è scesa per le strade e ha esplorato lo straordinario potenziale dei social network, per portare alla luce repressione, violenza e ingiustizia. Alcune persone hanno pagato a caro prezzo: sono state denigrate, incarcerate o hanno subito violenza. Ancora una volta atti di coraggio e di resistenza, individuali e collettivi, sono serviti a portare avanti la lotta per la difesa dei diritti umani e hanno puntato i riflettori sulle azioni dei Governi e sui potenti interessi acquisiti. Questo Rapporto testimonia il coraggio e la determinazione di donne e uomini che, in ogni parte del mondo, hanno chiesto a gran voce il rispetto dei loro diritti e proclamato la loro solidarietà nei confronti di quanti hanno subito violazioni. È anche la dimostrazione di come, nonostante i molti ostacoli lungo il percorso, il movimento di difesa dei diritti umani stia diventando sempre più forte e profondamente radicato e come la speranza che questo instilla in milioni di persone continui a essere una potente forza per il cambiamento.

Il segretario generale Salil Shetty e altri delegati di Amnesty International visitano, assieme ad alcuni membri della comunità di Bodo, un sito d’estrazione petrolifera situato alla periferia della città di Bodo, nel distretto amministrativo di Gokana, nello stato di Rivers della regione del Delta del Niger, novembre 2012. © Amnesty International


Racconti di viaggio Anna Frattin Fabrizio Tassadri

Il centro del mondo lo trovi su due ruote

Partiamo come sempre di sera, finito il lavoro, tanto per tirarsi avanti; i giorni a disposizione sono pochi e i chilometri che ci aspettano una cifra spaventosa. Puntiamo ad Est, strade che ormai conosciamo bene così come i tempi di percorrenza: “sono le 19… tra 200 km arriviamo a Postumia, forse troviamo da dormire al solito posto!” Così comincia la serie di frontiere da passare; quelle europee, ormai dismesse che ci si chiede perché non tolgono le strutture fatiscenti, (forse perché un giorno, non si sa mai, potrebbero tornare comode?) quelle un po’ meno europee, dove non sai bene se devi fermarti o puoi tirar dritto e quelle dove ancora ti fermi. Eccome se ti fermi. Abbiamo deciso di percorrere il tragitto interamente via terra, con tutto quello che comporta, per assaporare la progressione lenta nel territorio; geografico e umano. Sarà per nostra mancanza di fantasia ma il nastro di immagini con le caratteristiche di antropizzazione e il paesaggio naturale che ti scorre ininterrotto tutto d’intorno dà alla meta significati che uno spostamento “virtuale” in aereo, o distante dal palcoscenico come per mare, difficilmente può rendere. Il prezzo da pagare è sicuramente alto; anchilosi, chilometri di polvere di niente, smog, l’esodo dei turchi che ritornano in patria per le ferie dalla loro emigrazione europea. Compagni di viaggio pericolosi: spericolati e assonnati dopo giorni e notti di macchina senza soste. Code infinite alle frontiere, fatte di macchine fittamente assiepate, così vicine che nemmeno in moto si riesce a svicolare per guadagnare terreno. Cosa che per altro, per un senso di condivisione di sorte, non facciamo mai volentieri; ma sono loro, serenamente bloccati in colonna, che ci spronano a cercare una via di fuga con consigli e indicazioni. Mai nessuno ci ostacola o ci manda al diavolo. Forse perché sono cosi

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Viaggiare con un mezzo proprio passando confine dopo confine aiuta a capire molte cose: aiuta a comprendere che la gente “di là” non è più buona o più cattiva della gente “di qua”, che una rete alzata d’improvviso da terra non può separare due mondi diversi. Aiuta a vedere che le differenze ci sono, eccome, ma già all’interno di uno stesso Stato, e che i confini sono solo convenzioni politiche, quando le diversità etniche e culturali iniziano ad intervalli inaspettati, si alternano e si mischiano nel raggio di pochi chilometri. Si capisce che i posti segnalati come pericolosi sono tali solo per coloro che di quei posti si dichiarano nemici, mentre quando poi vi ci si reca si respirano un’accoglienza e una sicurezza maggiori di quelle trasmesse da chi li ha sconsigliati. Con questo spirito i chilometri corrono veloci e anche le lunghe giornate “di trasferimento” sono occasioni di riflessione e conoscenza. Così lo scorso agosto partiamo dall’Italia in moto per andare in Iran, attraversando i Balcani, la Bulgaria e la Turchia.


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contenti di tornare a casa! Cosi anche la convivenza stradale con questo popolo in viaggio, targhe tedesche e francesi con versetti del corano in arabo sul lunotto posteriore, ci regala immagini di disinvolto nomadismo, grande simpatia e, grazie ai più spericolati, spaventi memorabili. Naturalmente attraversare frettolosamente un Paese, sull’asse di grande comunicazione, non te lo fa conoscere più di tanto. La Bulgaria l’abbiamo vista più volte, i classici luoghi turistici li abbiamo battuti tutti, si sta niente male! Ma il viaggio via terra può regalarti l’imprevisto di una deviazione assurda che ti fa fare un giro del demonio su strade “terziarie”, perdere un sacco di tempo, ma anche vedere la cruda realtà di decine di villaggi che ti fanno tornare i conti su tutto quello che hai letto circa la povertà di ogni genere e le difficoltà dello stato, anzi, quello che vedi è ancora peggio di quello che hai letto. Vedere per credere, vedere per capire. In Turchia c’è un’altra aria, appena entri si vede che sei arrivato in un posto dove le cose stanno andando meglio. Addirittura alla frontiera, rispetto allo scorso anno, i controlli sono stati più veloci e discreti. Soprattutto con i turisti, che pare facciano un po’ di fatica a venirci in ferie dopo gli scontri di piazza. Quindi oltre alla squisitezza dell’accoglienza turca, con il chai, l’acqua e qualche volta anche la frutta in omaggio con il pieno di benzina, possiamo goderci anche quella della polizia che l’anno scorso ci dava multe per motivi futili e quest’anno se per sbaglio ti ferma, appena realizza la targa si scusa platealmente e ti fa frettolosamente segno di proseguire dove e come ti piace. Una cosa che invece non è cambiata nella Turchia Nord Occidentale è l’irrefrenabile voglia di diffidarti dall’attraversare il Paese dirigendoti a Sud Est. Un commerciante di tappeti, accarezzando il serbatoio della sua bmw, una meraviglia che da noi costa un sacco e li, grazie a dazi e sovrattasse sulle moto costa tre volte tanto, ci dice che è una pazzia andare a Est. Ci sono banditi e predoni, lui non è mai andato e mai ci andrà; lascia alla nostra fantasia occidentale la libertà di divagare fra terrorismo islamico e tagliagole comuni; ma i curdi proprio non li nomina! Così cominciamo a raccogliere informazioni, lungo la strada verso Est, e ricaviamo descrizioni dettagliate per evitare questo o quell’altro posto, condite di raccomandazioni calorose. Fortunatamente sono tutte imprecise e spesso contraddittorie, come sempre avviene quando la realtà è guidata dalla propaganda che ha bisogno di mantenersi un nemico fidato politicamente utile. Cosi ci dirigiamo verso i territori pericolosi e, in effetti lo spiegamento di forze armate aumenta in modo spettacolare, peccato non poter fotografare. Sfiliamo davanti a bocche di cannone e mitraglieri appostati in assetto di guerra, in lontananza scritte enormi sui fianchi delle montagne dichiarano che quello è territorio turco. Nelle città simbolo della “curdità” la gente sembra serena ed è straordinariamente amichevole; qualcuno ci dice di stare attenti ai furtarelli ma niente di più. Bambini di dieci anni con l’espressione da uomo gestiscono negozi, fratellini, greggi di capre, con una determinazione sorprendente. Qualche carro armato è fermo in periferia. Ma appena cala la sera le forze armate circondano i punti nevralgici: prefettura, posto di polizia, comune… chiudono l’area con le transenne e vi si asserragliano. Come un ragno nel suo buco. “Sono dei pagliacci”, ci dicono i locali “così i delinquenti comuni possono fare quello che vogliono”. “Se non si tratta di reati politici”, aggiunge qualcun altro. Passare il confine con l’Iran è un’altra cosa. Attraversare cancelli che si aprono e ti si richiudono dietro non è mai un’esperienza piacevole, soprattutto se davanti a te ne vedi tanti altri chiusi. Ti sembra di essere l’unico turista che sia mai passato di li. La disinvoltura, frutto dell’ esercizio, con la quale ti fregano qualche dollaro però ti smentisce. Alle volte anche farsi fregare può essere rassicurante! Tutto procede al rallentatore, c’è il tempo per guardarsi attorno e cercare di capire. Parliamo con un autista al


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quale chiediamo informazioni di viaggio e una volta di più ci vien detto di stare tranquilli perché: “italiani e iraniani? Stessa gente!”… Beh, se è una garanzia! L’ultimo atto del balletto è il colloquio con quello che deve essere il commissario politico. Una minuta signora in chador che cerca di capire perché diavolo ci è venuto in mente di venire in Iran, a bella posta, per giunta, non di transito come tanti! Siamo convincenti e da li a poco parliamo amabilmente delle rispettive realtà politiche. Naturalmente ne usciamo malconci. Anche in Iran certi nostri uomini pubblici sanno far ridere! Benefattori! Ci saluta ricordandoci il pizzo al signore che ci aiuterà nelle pratiche di sdoganamento della moto. Il balletto non è ancora finito. Per gli iraniani che ci vedono piombare sulle loro strade vestiti come palombari in sella alla nostra moto siamo in primo luogo degli alieni, esseri di un altro pianeta, ma allo stesso tempo portiamo una buona notizia e la speranza di un cambiamento. Sul volto di ognuno di loro, dopo un’espressione attonita di stupore, emerge un sorriso, ai più giovani scappa un urlo di gioia e a tutti viene voglia di correrci incontro per darci il benvenuto. “Welcome to Iran” è la frase che esce spontanea anche da chi in inglese non sa dire altro, e lo sguardo che la accompagna esprime insieme fierezza e gratitudine: fierezza per la propria terra, scelta come meta di viaggio, e gratitudine per noi avventurieri che non ci siamo fatti intimorire dalla cattiva propaganda che da decenni in Occidente avvolge il nome del loro Paese. D’altronde farsi intimorire qui sarebbe difficile: l’ospitalità degli iraniani è disarmante. In ogni località che attraversiamo la gente fa di tutto per aiutarci. Se chiediamo indicazioni stradali abbandonano immediatamente i loro mestieri per guidarci fino all’altro capo della città, anche un’ora di strada per loro tra andare e tornare. Se non capiscono l’inglese prendono in mano il cellulare e chiamano un amico che lo sa parlare per passarcelo. La novità che rappresentiamo li entusiasma a tal punto da invertire i ruoli tra turisti e locali, tanto che il più delle volte sono loro che fotografano noi! Ma non è solo la sorpresa che li anima. C’è come una frenesia in molti iraniani che li spinge a fermarci per strada anche solo per guardarci un attimo, per salutarci e soprattutto per mostrarci ai loro bambini. A Shiraz un signore ci insegue in moto in mezzo traffico con suo figlio di appena 2 anni adagiato alla bell’e meglio sul serbatoio. Con insistenza quasi esasperante, ci grida di fermarci un momento, solo perché il bambino ci veda e senta un paio di parole in inglese. Quasi questi pochi secondi e il volto di due persone bastino ad imprimere in una mente così giovane l’immagine di un mondo altro dal proprio e l’idea che questi due mondi possano comunicare. A Esfahan un altro signore si affianca a noi mentre passeggiamo di sera sul ponte Si-o-Se e con un inglese sciolto ci invita a conoscere la sua bambina di 3 anni che lo aspetta in macchina insieme alla moglie. Ci fidiamo e un attimo dopo siamo nella sua auto con la famiglia al completo: la bambina c’è davvero e lui la mostra a noi mentre la abbraccia affettuosamente e cerca di farla parlare in inglese. Tra un


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battibecco e l’altro con il marito, la moglie (lui non guida) ci porta fino ad un altro ponte, il Pol-e Khaju, dove lui ci fa scendere per ammirarne la bellezza e finalmente ci racconta di sé: è un giornalista rimasto senza lavoro; ama i giornali, ma in Iran la vita è dura per il mondo dell’informazione. I quotidiani (come anche gli internet cafè) aprono e chiudono in continuazione, non durano più di un anno o due. Le testate italiane che hanno più di un secolo sono un sogno per lui e l’Italia e la Francia appaiono gli esempi storici più grandi di una democrazia che il suo Paese non vede da duecento anni. Anche lui sembra pervaso da una strana agitazione: si muove velocemente, guarda appena se gli stiamo dietro; parla con ritmo incalzante senza quasi darci il tempo di rispondere. Ci viene il dubbio che stia agendo di nascosto. Sembra stia cercando di creare dei contatti senza dare nell’occhio. Tornati in macchina ne approfittiamo per chiedergli cosa ne pensa del nuovo Presidente. “È meglio di Ahmadinejad, che non mi è mai piaciuto, ma è troppo presto per valutarlo. Dice che vuole aprire l’Iran alle relazioni con l’Occidente e spero lo faccia davvero”. Nella piazza principale di Esfahan è una donna ad avvicinarsi a noi: sa non più di tre parole in inglese, noi zero in farsi e ciononostante intavoliamo una conversazione di un’ora e mezza in cui spaziamo dall’economia dell’Iran, alla sua società, alla sua politica. Lei storce la bocca sia parlando di Ahmadinejad che di Rohani, ma quando cerchiamo di approfondire il discorso ci fa segno che non può parlare, perché la gente che passa è attenta e potrebbe sentirla. “Gli abitanti di Esfahan sono gente meschina – ci dice – e purtroppo non ci si può fidare di nessuno”. Ci spiega che l’Iran siede sul petrolio, ma per il resto non ha molto. A parte i prodotti di alcune coltivazioni in Azerbaijan, la maggior parte dei beni alimentari viene importata dalla Russia, dal Giappone e dall’America... latina, ovviamente. “E la Coca-Cola dove la prendete?” chiediamo con bonaria provocazione. La sua risata e il suo sguardo complice svelano una grande sintonia tra noi: “quella non la importiamo, la produciamo qui. L’Iran ha ottenuto la licenza per fabbricarla, così può essere autonomo”. L’indipendenza dagli Stati Uniti rassicura anche Mohammad, un ragazzo di Teheran che ha deciso di lasciare la città per trasferirsi nel nulla del deserto, nella casa di origine dei suoi genitori, che trasformerà in un bed and breakfast. Per lui Ahmadinejad è stato un ottimo Presidente proprio perché ha preservato l’Iran dall’influenza degli Usa. “Se adesso Rohani vorrà aprire non si sa cosa succederà. Inoltre Ahmadinejad è un laico – non un religioso come Rohani – e questo forse ci teneva lontani da un’eccessiva pressione teocratica. È un uomo onesto che ha rifiutato lo stipendio di presidenza tenendo solo quello di docente universitario e, dettaglio di non meno conto, ha mantenuto la sua promessa elettorale di mettere in galera le più grandi famiglie di criminali conniventi con lo Stato”. Vuole sapere cosa ne pensiamo dell’Iran. Gli parliamo della propaganda negativa che a casa ce l’ha sempre fatto apparire come un posto terribile. “Certo, la propaganda è così in ogni parte del mondo. Ma per fortuna siete venuti lo stesso e avete visto che la realtà è completamente diversa. Viaggiare serve a questo, a conoscere, a farsi un’idea propria di ciò che spesso ci viene presentato da una voce di parte”. Il suo sguardo, mentre dice questo, trasmette un messaggio di forte empatia e umanità: parlare, confrontarsi, vedersi tra persone, ci fa scoprire vicini; non lasciamo che le manovre del potere ci allontanino.


Paolo Affatato Paolo Affatato, giornalista e saggista, è responsabile della redazione “Asia” nell’agenzia di stampa vaticana Fides. Socio di Lettera22, associazione fra giornalisti specializzata in politica estera e cultura, nel 2011 ne è stato eletto presidente. Autore di servizi e reportage su diverse realtà dell’Asia, ha curato con Emanuele Giordana “Il Dio della guerra” (Guerini 2002); “A Oriente del Profeta” (ObarraO 2005), sull’islam asiatico; “Geopolitica dello tsunami” (ObarraO 2005). Ha partecipato a diversi numeri della collana di studi asiatici Asia Maior, contribuendo, fra gli ultimi testi, a “L’Asia del grande gioco” (2008), “Crisi globali, crisi locali e nuovi equilibri in Asia” (2009), “L’Asia di Obama e della crisi economica globale” (2010). Daniele Bellesi Diplomato al Liceo Artistico, ha frequentato per diversi anni la Facoltà di Architettura. Si è poi dedicato alla libera professione come grafico e consulente per la comunicazione. Ha lavorato molto anche nel mondo dell’associazionismo e del volontariato. È vicepresidente dell’Associazione Un Tempio per la Pace di Firenze (dialogo inteculturale e interreligioso) e ha fondato insieme agli altri l’associazione 46° Parallelo. Fabio Bucciarelli Prima di diventare fotoreporter Fabio Bucciarelli si è laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni nel 2006 presso il Politecnico di Torino. Durante gli studi universitari ha frequentato la Univiersidad Politecnica di Valencia dove si è specializzato nello studio delle immagini digitali. Dal 2009 si dedica completamente alla fotografia e comincia a lavorare come fotografo di staff per l’agenzia LaPresse/Ap. Fabio ha vinto diversi premi internazionali ed il suo lavoro è stato pubblicato dal New York Time, Stern, The Times, The Guardian, The Wall Street Journal, LA Times, Foreign Policy, The Telegraph, Vanity Fair, La Repubblica, La Stampa, Le Monde. Negli ultimi anni ha documentato i più grandi conflitti mondiali soffermandosi sugli effetti della guerra sulla popolazione civile. Recentemente ha affiancato alla fotografia il giornalismo scritto. Nel 2012 ha pubblicato il libro ‘L’Odore della Guerra’ sul conflitto libico. Antonella Carlini Giornalista, lavora per il settimanale Vita Trentina e Rabio Trentino in Blu. È autrice di reportage dall'area mediterranea.

Nicole Corritore Giornalista e addetta stampa, lavora a Osservatorio Balcani e Caucaso (www.balcanicaucaso.org) dal 2001. Tra il 1992 e il 2000 ha operato in Croazia e Bosnia Erzegovina in progetti di cooperazione internazionale e decentrata, dedicati allo sviluppo locale e ai giovani. Tra il 1996 e il 2000 ha collaborato con diverse testate giornalistiche e network radiofonici italiani su temi relativi ai paesi dell'ex Jugoslavia. Dal 1992 al 1996 ha collaborato con la redazione esteri di Radio Popolare network. Parla fluentemente serbo, croato e bosniaco. Raffaele Crocco Giornalista RAI, ha lavorato per alcuni anni come inviato in zone di guerra. Ha fondato la rivista Maiz - A Sud dell’informazione - ed è stato tra i fondatori Peacereporter. È l’autore del libro “Il CHE dopo il CHE”. Ha ideato e dirige questo Atlante. Angelo D’Andrea Angelo d’Andrea ha 36 anni, giornalista pubblicista, laureato in Comunicazione a Roma , dal 2005 è funzionario dell’Agenzia delle Entrate addetto alle Relazioni Esterne e Rapporti con la Stampa per il Veneto e il Trentino. Sta seguendo il tema dei “paradisi fiscali”. Ha collaborato ad un’inchiesta su “massoneria e finanza” per la Rizzoli. Per l’Atlante cura le schede Kosovo, Turchia e Cipro nonchè la versione radio e podcast di tutti i contenuti. Davide Demichelis Giornalista e documentarista, ha lavorato per la RAI e ha realizzato film e reportage da varie zone del mondo. Tra le pellicole da ricordare "Radici. Dall'altra faccia delle migrazioni". Per RAI 3 ha condotto Nanuk, prove di avventura. Marica Di Pierri Attivista dell'associazione A Sud e giornalista, si occupa da anni di tematiche ambientali e sociali. Dirige ed è tra i fondatori del Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali di Roma attraverso cui porta avanti attività di ricerca, formazione e documentazione sui conflitti ambientali. Autrice di saggi e articoli, collabora con periodici, quotidiani, testate televisive e radiofoniche e riviste specializzate.

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Gruppo di lavoro


Marina Forti Marina Forti è nata a Milano, dove ha cominciato a lavorare a Radio Popolare. Giornalista professionista, dal 1983 è al quotidiano Il Manifesto, dove si è occupata di attualità internazionale, immigrazione e ambiente. Già caposervizio esteri, da inviata ha viaggiato a lungo in Iran, nel sub-continente indiano e nel sud-est asiatico. Per la rubrica “terraterra” ha avuto nel 1999 il premio “giornalista del mese”, noto come Premiolino. Con il libro La signora di Narmada. Le lotte degli sfollati ambientali nel sud del mondo (Feltrinelli 2004) ha ricevuto il premio Elsa Morante per la comunicazione 2004. Federico Fossi M.Sc. in assitenza umanitaria e sviluppo presso lo University College Dublin, da oltre dieci anni lavora nella comunicazione per il settore no-profit ed in particolare in ambito di cooperazione internazionale e rifugiati. Si è occupato di programmi europei di integrazione nel quadro dell’iniziativa comunitaria EQUAL. Dal 2008 lavora nell’ufficio stampa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Anna Frattin Laureata in filosofia, ha svolto il servizio civile presso il Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani di Trento. Ama il viaggiare in maniera autonoma e responsabile come mezzo migliore per conoscere da vicino la realtà di altri Paesi e culture. Tra le zone visitate l'Australia, l'est Europa e parte dell'Asia. Emanuele Giordana Emanuele Giordana, cofondatore e sino al 2010 direttore di Lettera22 è stato docente di cultura indonesiana all’IsMEO di Milano e è vicepresidente dell’Osservatorio “Asia Maior”. Ha pubblicato con G. Corradi “La scommessa indonesiana” e curato le collettanee “Il Dio della guerra”, “A Oriente del profeta”, “Geopolitica dello tsunami”, “Tibet, lotta e compassione sul Tetto del mondo”. Nel 2007 è uscito per Editori Riuniti “Afghanistan: il crocevia della guerra alle porte dell’Asia” e nel 2010 per ObarraO “Diario da Kabul”. Editorialista di “Terra” è uno dei conduttori di Radiotremondo a Radio3Rai e portavoce della piattafroma “Afgana”. Mariangela Gritta Grainer Insegnante di Matematica, ex Parlamentare del PDS, fondatrice e presidente dell'Associazione Ilaria Alpi. Come deputato ha fatto parte

delle Commissioni Parlamentari di Inchiesta sulla mal cooperazione e sull'omicidio di Ilaria Alpi e Miriam Hrovatin. È autrice di vari volumi sul tema. Rosella Idéo Ha insegnato storia moderna dell’Asia Orientale e Storia Politica e Diplomatica dell’Asia Orientale nelle università statali di Milano, Roma, Trieste. Borsista all’ISPI di Milano, borsista al Salzburg Seminar in American Studies, visiting scholar all’Università di California, Berkeley. Membro fondatore dell’AISTUGIA (Associazione Italiana di Studi Giapponesi) e di Asia Major (1989-2006); membro fondatore ed ex vicepresidente di Asia Maior (2006-2010). Ha pubblicato numerosi saggi sulle relazioni internazionali in Asia Orientale con particolare riferimento al Giappone e alla Corea contemporanea e una monografia: Corea una modernizzazione mancata (EUT,2000). Intervistata come esperta da radio italiane ed estere, giornali e televisione. Adel Jabbar È sociologo ricercatore nell’ambito dei processi migratori e comunicazione interculturale. Ha insegnato sociologia delle culture e delle migrazioni all’Università Ca’ Foscari di Venezia e Comunicazione interculturale all’università di Torino. Libero docente incaricato nell’ambito della sociologia dell’immigrazione in diverse università italiane. Svolge attività di consulenza e formazione per enti locali e realtà associazionistiche. Sui temi relativi all’area araboislamica ha pubblicato molti interventi. Enzo Mangini Giornalista professionista dal 2001 specialista di temi di politica internazionale, fa parte dell’associazione indipendente di giornalisti Lettera22, attraverso cui collabora con Il Fatto Quotidiano online, il Riformista, Terra. Ha lavorato per il quotidiano Il Manifesto e per il settimanale Carta, dove ha ricoperto anche la carica di direttore responsabile. Dall’aprile 2010 è corrispondente in Italia di Vreme, settimanale indipendente di Belgrado, Serbia. Razi e Sohelia Mohebi Sono due cittadini afghani che vivono a Trento assieme al loro figlio di sette anni. Razi e Soheila sono un uomo e una donna di cultura, due registi. Vorrebbero poter vivere della loro arte, vorrebbero non dover abbandonare questa loro passione. Vorrebbero, questo esce con forza dalle loro lettere, che l’asilo politico - status che condividono e in qualche modo subiscono -

permettesse loro di essere cittadini attivi e partecipi alla vita della comunità e non semplicemente persone in fuga da accogliere. Questa difficoltà non riguarda solo loro, ma è condizione comune di migliaia di persone. Partiamo dalla loro storia per provare a discutere della condizione in cui sono costretti a vivere decine di migliaia di richiedenti asilo in Italia. Riccardo Noury 49 anni, è il portavoce e direttore dell’Ufficio comunicazione di Amnesty International Italia, associazione di cui fa parte dal 1980. Ha curato i libri “Non sopportiamo la tortura” (Rizzoli 2000) e “Poesie da Guantánamo” (Edizioni Gruppo Abele, 2008) ed è autore o coautore di altre pubblicazioni. Ha un blog plurisettimanale sui diritti umani “Le persone e la dignità” sul Corriere della Sera e un blog settimanale sulle rivolte in Medio Oriente e Africa del Nord sul Fatto Quotidiano. Enzo Nucci Corrispondente della Rai da Nairobi per l’Africa sub-sahariana dal 2006. Napoletano, 53 anni, è in Rai dal 1988 dove ha lavorato come cronista nella redazione regionale del Lazio prima di passare al Tg3 nel 1994. È stato inviato di cronaca nazionale e di esteri. Ha seguito i conflitti nella ex Jugoslavia, Kosovo, Afghanistan, Iraq e la rivolta in Albania. Ha vinto numerosi premi giornalistici tra cui il “Testimone di Pace” di Ovada e il premio Andrea Barbato di Mantova. Ilaria Pedrali Giornalista professionista, ha vissuto e lavorato a Gerusalemme come corrispondente per le Edizioni Terrasanta e gestendo il Franciscan Multimedia Center. Ha lavorato a Mediaset, e scritto su vari quotidiani nazionali, siti internet, web tv occupandosi di cultura, esteri, cronaca. Ama il Medio Oriente, viaggiare, ed è molto curiosa. Da qualche tempo ha iniziato a studiare l’arabo. Alessandro Piccioli Giornalista e fotoreporter. Da freelance ha realizzato reportage dall’Irlanda del Nord, Paesi Baschi, Corsica, Iraq, Palestina, Siria, Egitto. Collabora con diverse testate e svolge attività autorale in Rai. Federica Ramacci Giornalista. Scrive di politica italiana e internazionale per diverse testate. È inviata alla Camera dei Deputati per l’agenzia di stampa


Alessandro Rocca Giornalista pubblicista e fotografo freelance, è regista e autore di numerosi documentari e reportages trasmessi da Rai Uno (Speciale Tg1 e A sua immagine), Rai Due (Tg2 Dossier), Rai Tre, Skytg24, Rai News24, La7 (Effetto Reale). Ornella Sangiovanni Giornalista specializzata in questioni del mondo arabo, segue l’Iraq da circa 20 anni, con particolare attenzione per la politica e le questioni energetiche. Si è occupata a lungo delle sanzioni internazionali imposte al Paese in seguito all’invasione del Kuwait dell’agosto 1990. Luciano Scalettari È inviato speciale di Famiglia Cristiana. Si occupa prevalentemente di attualità africana (ha effettuato spedizioni in una trentina di Paesi dell’Africa subsahariana) e di giornalismo d’inchiesta. Nel 2000 e nel 2006 ha vinto il Premio Giornalistico Saint Vincent. Ha pubblicato, tra l’altro: 2002 (con B. Carazzolo e A. Chiara) Ilaria Alpi, un omicidio al crocevia dei traffici), B&C. 2004 La lista del console - Ruanda, 100 giorni un milione di morti, Ed. Paoline-Focsiv. 2010 (con Luigi Grimaldi) “1994”, Chiarelettere Editore. Da settembre 2007 coordina, insieme ad Alberto Laggia, il laboratorio di giornalismo sociale “La voce di chi non ha voce” organizzato dalla Scuola di Giornalismo “A. Chiodi” di Mestre. Beatrice Taddei Saltini È tra le fondatrici di 46° Parallelo. Ha collaborato a reportages dall’America Latina. Per questo Atlante si occupa dell’editing, dei rapporti con la Redazione e della distribuzione. Pino Scaccia Inviato storico della Rai e poi redattore capo degli speciali del Tg1, ha seguito i più importanti avvenimenti degli ultimi vent’anni: dalla prima guerra del Golfo al conflitto serbo-croato, dalla disgregazione dell’ex Unione Sovietica alle guerre in Afghanistan e in Iraq fino all’ultima rivolta in Libia. Ha vinto numerosi premi e ha pubblicato sei libri: “Armir, sulle tracce di un esercito perduto”, “Sequestro di persona”, “Kabul, la città che non c’è”, “La Torre di Babele” , “Lettere dal Don” e “Shabab – la rivolta in Libia vista da vicino”. È

molto attivo sul web dove gestisce numerosi blog. Marica Tamanini 4 anni, impiegata nel settore umanitario. Lavora attualmente al Comitato Internazionale della Croce Rossa nel settore della formazione giuridica. Precedentemente, ha lavorato per Geneva Call, una ONG svizzera che si occupa di di dialogo umanitario con i gruppi armati non-statali. Si è laureata in scienze Internazionali e diplomatiche e possiede un master in diritto internazionale." Fabrizio Tassadri Nato a Trento il 15/02/65 è di professione tecnico ortopedico, professione svolta anche, per brevi periodi, in paesi del terzo mondo. Obiettore di coscienza ha viaggiato in diversi paesi dell'Asia e dell'Africa. Alessandro Turci e Federica Miglio Sono due documentaristi e reporter, Collaborano stabilmente con RAI 3, Aspenia, il Foglio e Tempi, e hanno viaggiato come inviati speciali e freelance per Africa, Asia, Americhe e Medioriente. Roberto Zichittella Giornalista professionista, scrive per Famiglia Cristiana, Il Messaggero e Linkiesta. È tra i conduttori di Radio3Mondo, la trasmissione di Radio3 Rai dedicata all’attualità internazionale. Fra il 2011 e il 2012 ha realizzato per Radio 3 degli audioreportage dedicati alla rivoluzione tunisina, all’ascesa delle destra in Ungheria e alla città francese di Albi.

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“Nove Colonne”. Ha realizzato reportages, inchieste e interviste in Italia, America Latina, Europa e Nord Africa.


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Fonti

Fotografie

Organismi internazionali e istituzioni Unesco Unicef Oms Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) Africa-Union Nazioni Unite Ministero degli Esteri Ministero della Difesa Central Intelligence Agency Banca Mondiale Caritas United Nations Peacekeeping Force in Cyprus The Millennium Development Goals - Onu Istituto del Commercio con l’Estero Croce Rossa Italiana

Le fotografie di quest’anno riportano l’autore. In alcuni casi giornalisti, fotografi oppure tratte dall’archivio dell’Alto Commissariato dei Rifugiati UNHCR. I Frame invece come sempre sono tratti dai video dell’archivio del Premio Ilaria Alpi. In alcuni casi abbiamo usato, invece, fotografie trovate su internet.

Informazione, giornali e istituti di ricerca Pagine della Difesa Africa News Misna Nigrizia Reuters Osservatorio Iraq Osservatorio dei Balcani Wikipedia Corriere della Sera La Repubblica La Stampa Valori Peacerporter Ansa Apcom Agimondo Adnkronos Famiglia Cristiana Limes Guerre & Pace Global Geografia Peace Link Balcanicaucaso.org Banchearmate.it Crbm.org Crisigroup.org (Europe Report N°213, 20/9/11) B.H. Editorial, 24/7/2011 Libero-news.it Italiatibet.org Chinadaily.com Ilsole24ore.com Panorama.it Asianews.it Instablog.org Filosofia.org Nuovacolombia.net Colombiareports.com Agoramagazine.it Manilanews.net Iljournal.it Bbc.co.uk Asiantribune.com

Cartografia Per la cartografia delle schede conflitto abbiamo fatto riferimento a quella ufficiale dell’Onu tranne alcune riprese dal sito dell’Università del Texas: Colombia, Cecenia, Cina, Turchia, India, Filippine e Algeria. Le carte tematiche basate sulla cartografia di Peters sono state gentilmente offerte dall’Ong Asal. Per le mappe dei continenti abbiamo usato la stessa Carta di Peters (in Italia iniziativa esclusiva Asal) che troverete nella sua forma completa nella terza di copertina.

Autori delle schede Di seguito riportiamo gli autori delle schede conflitto (in corsivo gli Inoltre). Paolo Affatato - Pakistan Raffaele Crocco - Colombia, Cina/Tibet, Filippine, Thailandia Angelo D’Andrea - Kosovo, Cipro Emanuele Giordana - Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo Marina Forti - India, Kashmir Enzo Mangini - Israele/Palestina Federica Miglio e Alessandro Turci - Mali Alessandro Piccioli - Libano Federica Ramacci - Haiti, Timor Est, Sahara Occidentale, Kurdistan Alessandro Rocca - Somalia Ornella Sangiovanni - Iraq Pino Scaccia - Kirghizistan, Cecenia, Georgia Luciano Scalettari - Nigeria, Sudan, Sud Sudan Roberto Zichittella - Algeria Redazione - Liberia, Repubblica Centrafricana, Uganda, Yemen, Siria, Costa D’Avorio, Guinea Bissau, Ciad, Libia Gli Inoltre: Etiopia, Messico, Birmania, Corea Nord/Sud, Iran, Irlanda del Nord, Paesi Baschi Schede Speciale Svolta Islam Ilaria Pedrali - Arabia Saudita, Bahrain, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Marocco, Oman, Tunisia, Turchia Ai nostri lettori. Per correggere un testo occorrono molti occhi. Noi abbiamo cercato di fare il nostro meglio. Laddove ci fosse sfuggito qualche refuso o errore ce ne scusiamo.

Bangkokpost.com It.euronews.net Iltempo.it Intopic.it/estero/thailandia/ Organizzazioni non governative Amnesty International Emergency Medici Senza Frontiere

Reporters Sans Fronteres Unimondo Amani Club di Roma Elisso Cdca - Centro Documentazione Conflitti Ambientali Icc - Commercial Crime Services


Glossario

Terroristi Tutti coloro che usano armi o mettono in atto attentati contro popolazioni inermi, colpendo obiettivi civili deliberatamente. In questo libro, questa è la definizione di terrorista, a prescindere dalle ragioni che lo muovono. Ne deriva che in questo volume viene definito Attentato Terroristico ogni attacco compiuto con fini distruttivi o di morte nei confronti di una popolazione inerme e civile al puro scopo di seminare terrore, paura o per esercitare pressioni politiche. Ovvero ogni attacco compiuto contro obiettivi militari, ma che consapevolmente coinvolge anche popolazioni inermi e civili. Resistenti Gruppi o singoli che si oppongono, armati o disarmati, all’occupazione del proprio territorio da parte di forze straniere, colpendo nella loro azione obiettivi prevalentemente militari. Anche in questo caso diamo questa definizione senza entrare nel merito delle ragioni. Gli attacchi di gruppi di resistenti a forze armate regolari in questo libro vengono definite Operazioni di Resistenza o Militari. Forze di Occupazione Ogni Forza Armata straniera che occupa, al di là della ragione per cui avviene, un altro Paese per un qualsiasi lasso di tempo. Forze di Interposizione Internazionali Sono invece Forze Armate, create su mandato dell’Onu o di altre organizzazioni multinazionali e rappresentative, che in presenza di precise regole di ingaggio e combattimento che ne limitano l’uso, si collocano lungo la linea di combattimento per impedire il confronto armato fra due o più contendenti. Le definizioni seguenti sono quelle ufficiali definite e riportate dall’UNCHR nei loro documenti e rapporti e a cui noi ci rifacciamo Profugo Termine generico che indica chi lascia il proprio paese a causa di guerre, persecuzioni o catastrofi naturali.

Richiedente asilo Colui che è fuori dal proprio paese e inoltra, in un altro stato, una domanda di asilo per il riconoscimento dello status di rifugiato. La sua domanda viene poi esaminata dalle autorità di quel paese. Fino al momento della decisione in merito alla domanda, egli è un richiedente asilo (asylum-seeker). Rifugiato Il rifugiato (refugee) è colui che è costretto a lasciare il proprio paese a causa di conflitti armati o di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. A differenza del migrante, egli non ha scelta: non può tornare nel proprio paese perché teme di subire persecuzioni o per la sua stessa vita. Sfollato Spesso usato come traduzione dell’espressione inglese Internally displaced person (Idp). Per sfollato si intende colui che abbandona la propria abitazione per gli stessi motivi del rifugiato, ma non oltrepassa un confine internazionale, restando dunque all’interno del proprio paese. In altri contesti, si parla genericamente di sfollato come di chi fugge anche a causa di catastrofi naturali. Migrante Termine generico che indica chi sceglie di lasciare il proprio paese per stabilirsi, temporaneamente o definitivamente, in un altro paese. Tale decisione, che ha carattere volontario anche se spesso è indotta da misere condizioni di vita, dipende generalmente da ragioni economiche ed avviene cioè quando una persona cerca in un altro paese un lavoro e migliori condizioni di vita. Migrante irregolare Chi, per qualsiasi ragione, entra irregolarmente in un altro paese. In maniera piuttosto impropria queste persone vengono spesso chiamate ‘clandestini’ in Italia. A causa della mancanza di validi documenti di viaggio, molte persone in fuga da guerre e persecuzioni giungono in modo irregolare in un altro paese, nel quale poi inoltrano domanda d’asilo. Extracomunitario Persona non cittadina di uno dei ventisette paesi che attualmente compongono l’Unione Europea, ad esempio uno svizzero.

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Guerre e conflitti Situazioni di scontro armato fra stati o popoli, ovvero a confronti armati fra fazioni rivali all’interno di un medesimo Paese. Includiamo in questo elenco i Paesi o i luoghi in cui esiste un latente conflitto, bloccato da una tregua garantita da forze di interposizione internazionali.



Altri saluti Cambiano le cose, ne prendiamo atto. Trovare i soldi per sostenere l’Atlante diventa sempre più complicato. Le amministrazioni pubbliche e locali sono in difficoltà, lo sappiamo tutti e trovarne alcune che ancora riescono ad avere risorse per puntare su di noi è quasi miracoloso. La Provincia autonoma di Trento, in questa partita, è come sempre motore e benzina: grazie davvero. Non è da meno la Provincia di Firenze e sappiamo quanta fatica facciano tutti gli altri Enti. Di divertente c’è l’arrivo – in qualche modo compensativo – di nuovi sponsor privati. Dall’anno scorso ci sono gli Artigiani di Trento al nostro fianco: hanno voluto tornare ed è una meraviglia. Si sono aggiunti la Federazione delle Cooperative di Trento e la Banca del Chianti: senza di loro saremmo rimasti fermi. Parlato dei soldi, arriviamo ad altro, ma sempre essenziale: l’aiuto in informazioni, notizie, idee, immagini e chi più ne ha, più ne metta. Un abbraccio vero va all’Associazione Ilaria Alpi, da sempre nel progetto e poi all’Unhcr, a Medici Senza Frontiere, al Cdca, ad Amnesty International, all’Asal. Infine, un saluto a tutti quelli che ci leggono, ci scrivono, ci contattano e a coloro che incrociamo nei davvero tanti incontri in giro per l’Italia. Tutti costoro, davvero tutti, sono la nostra forza.

Ringraziamenti Come ogni anno siamo allo spazio che mi prendo per i ringraziamenti personali, quelli che rivolgo a chi davvero permette al folle progetto di proseguire, pur privo di risorse. Da questo punto di vista, un abbraccio va a chi scrive, elabora idee, impegna il proprio tempo per far nascere l'Atlante: siete tutti incredibili ed è stupefacente che dopo cinque anni molti di voi siano ancora su questa pazza giostra. Un pensiero speciale va a Federica, Daniele e Beatrice, che spendono davvero giorni per questo lavoro. Ringraziarli è il minimo, dato che senza di loro questo volume resterebbe un'idea. Ci sono poi gli amici e le amiche di sempre, quelli che ci stanno accanto dal primo momento: sono Sara Ferrari, Stefano Fusi, Giuliano Andreolli, Laura Strada, Wanda Chiodi, Giuseppe Ferrandi, Simone Silliani, Carlo Basani. Li ho messi in ordine sparso, ma li abbraccio tutti. Voglio aggiungere Paolo Pardini, che mi permette di trovare tempo e risorse da dedicare a questa parte della mia vita. Quest'anno abbiamo scoperto di avere casa anche a Torino: le amiche del Caffè dei Giornalisti ce lo hanno dimostrato ed è stato un bellissimo regalo. A Torino abbiamo altre persone fondamentali, sono Fabio Bucciarelli e Alesandro Rocca. Mi stupisce sempre come riescano a trovare il tempo anche per questo libro. Un grazie di cuore va anche ai tanti che ci seguono su Facebook e sul sito. Dobbiamo migliorare molto, lo sappiamo, dando più continuità ad entrambi. È il nostro impegno per quest'anno. Infine, un grazie speciale va a Mario Calabresi. Ci ha accolto e ci ha premesso di immaginare come far crescere ancora questa idea, come renderla più solida e duratura. Davvero: non è poco. Raffaele Crocco


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ISBN-13: 978-8866810292

9 788866 810292 € 20,00


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