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Un continente in cerca di futuro Enzo Nucci
Enzo Nucci Un continente in cerca di futuro
Il cammino del Sudafrica, definita la locomotiva economica, politica e sociale del continente africano, è stato illuminato per pochi mesi dai preparativi dei campionati mondiali di calcio. Ma già il 4 luglio ovvero una settimana prima che l’arbitro fischiasse il fine partita tra Spagna e Olanda, le strade polverose e malridotte delle township sono tornate ad infiammarsi, proprio come nel maggio del 2008. Nella Regione a vocazione turistica del Western Cape sono ripresi gli attacchi xenofobi contro gli stranieri. Neri contro neri, poveri contro poveri. Nel mirino ci sono gli immigrati provenienti da Somalia, Zimbabwe, Malawi, Mozambico, Nigeria, Paesi da cui scappano per cercare pane e libertà in quella che è denominata la “nazione arcobaleno” per il crogiuolo di culture ed etnie che faticosamente convivono. I disperati abitanti delle periferie (privi di case decenti, scuole, servizi sociali ed assistenza medica) sono delusi dalla lentezza dei cambiamenti promessi e stanchi della corruzione, “un’epidemia che infetta i centri decisionali locali e nazionali, ai livelli alti e bassi “ secondo l’analista e docente universitaria Raenette Taljaard. Il Sudafrica, infatti, da solo produce un quarto del reddito dell’intero continente nero eppure la disoccupazione supera il 26% mentre 20milioni di persone (su 48milioni di abitanti) vivono al di sotto della soglia di povertà. Gli immigrati (in maggioranza clandestini) sono tra i due ed i tre milioni: non se ne conosce il numero esatto. Sono tutti disposti a svolgere i lavori più umili e duri (braccianti, minatori) con salari inferiori a quelli previsti dalla legge e senza diritti sindacali. Nasce così la guerra tra poveri con le accuse agli immigrati di “rubare il lavoro”. Eppure una gran parte del miracolo economico sudafricano poggia proprio sulle spalle e la fatica di questa forza lavoro a basso costo e spesso altamente qualificata. Ma basta poco per accendere le township e far scattare la caccia gli stranieri, indifesi capri espiatori della violenza dei delusi. Nadine Gordimer, premio Nobel per la letteratura nel 1991 ed attivista contro l’apartheid, ha spiegato in un’intervista concessami per la Rai che “la presenza degli immigrati in Sudafrica crea un conflitto di interessi con coloro che si ritengono gli unici proprietari dei mezzi di produzione. Mandela ha restituito la libertà anche agli oppressori bianchi liberandoli dai loro sensi di colpa. Ma penso che in realtà il razzismo non sia mai stato sconfitto completamente. Bianchi, neri e meticci non sono in realtà parte di un processo unitario di sviluppo. E negli ultimi anni c’è stata una nuova frattura con l’avanzata della crisi economica”. Parole quanto mai veritiere perché la fragile tregua sociale sottoscritta in vista dei mondiali di calcio è stata spazzata via dal ciclone dello sciopero dei lavoratori dei servizi pubblici in lotta per gli aumenti salariali che nei primi 20 giorni di settembre 2010 ha paralizzato il Paese. Gli enormi investimenti pubblici per la World Cup se hanno contribuito a contenere la recessione economica creando anche 129mila posti di lavoro stagionali ora rischiano di diventare un boomerang per il Governo presieduto da Jacob Zuma, eletto nel 2009 con l’appoggio dei sindacati e dei settori più estremisti dell’African National Congress. Zuma ha fatto grandi promesse all’elettorato più radicale che oggi passa all’incasso. Perché tanta attenzione al Sudafrica? Innanzitutto perché per un cittadino europeo è difficile comprendere la natura di questi rigurgiti xenofobi che rischiano di diventare un’endemica emergenza in un Paese che conta il 90% della popolazione di colore. Poi perché la “nazione arcobaleno” resta il laboratorio politico più in-
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novativo dell’Africa che dal 1994 (ovvero dalla fine della segregazione razziale) ha fatto passi da gigante senza ricorrere a soluzioni violente e liberticide che potevano apparire come una comoda scorciatoia. Il Sudafrica è il Paese meno africano del continente perché è proiettato verso modelli europei e statunitensi ma dove è forte il rischio che l’eredità politica di Mandela vada in fumo. Così come nel 2010 si sono celebrati “per convenzione” i 50 anni dell’indipendenza africana, gli analisti dell’ “Economist Intelligence Unit” (una autorevole pubblicazione consorella del settimanale inglese “The Economist”) hanno designato la Somalia come il peggior Paese al mondo, un triste primato toccato - tra gli altri- all’Afghanistan ed al Turkmenistan negli anni scorsi. Gli asettici dati offrono solo una pallida idea della tragedia in corso. Più del 40% della popolazione (secondo la Fao) necessita di aiuti alimentari per sopravvivere. Un bambino su cinque è malnutrito mentre i combattimenti hanno già costretto oltre un milione e mezzo di persone a migrazioni interne. Oltre 500mila di queste vivono in campi profughi di fortuna in condizioni spaventose mentre le organizzazioni internazionali sono in grado di rifornirle solo della metà dell’acqua di quotidianamente necessitano. Si sono rivelati tutti fallimentari i 15 tentativi di mettere in piedi governi in grado di fronteggiare la crisi apertasi nel 1991 con la caduta del regime di Siad Barre. Il fragilissimo Governo Federale di Transizione (appoggiato dalla comunità internazionale) è dilaniato da furibonde lotte intestine ed incapace di fronteggiare l’avanzata degli Shabaab, i radicali islamici, che controllano l’80% del Paese e gran parte della capitale. Gli Stati Uniti sono troppo concentrati nell’accantonare i sanguinosi capitoli rappresentati da Iraq ed Afghanistan ed il massimo dell’impegno è stato quello di aiutare politicamente e militarmente il Governo guidato proprio da un loro ex nemico: il presidente Sharif Ahmed, esponente
moderato delle Corti islamiche al potere per sei mesi nel 2006 prima di essere spazzate via dall’intervento militare degli etiopi, eterodiretto proprio dagli Usa. Alcuni analisti politici statunitensi sottolineano l’errore di fondo di considerare il processo di costruzione dello stato (con l’appoggio al poco rappresentativo Governo di Transizione) come l’unico strumento non militare per contenere l’espansione dei gruppi radicali armati. I nodi stanno venendo drammaticamente al pettine e l’instabilità della Somalia minaccia sia il difficile equilibrio del Corno d’Africa (dove la guerra non dichiarata tra Etiopia ed Eritrea rischia di riesplodere) sia di accendere in Kenya la disputa mai sopita tra la maggioranza cristiana ed una consistente minoranza islamica. Del resto la capacità militare delle milizie Shabaab è dimostrata dall’attentato che l’11 luglio 2010 ha provocato 74 vittime a Kampala, capitale dell’Uganda, tra i frequentatori di un bar intenti ad assistere alla finale dei mondiali di calcio. La Somalia non può più attendere.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
La resa
Fine maggio 2010, Touati Othman, esponente di spicco del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc) affiliato ad al-Qaeda si arrende all’esercito. Othman, alias Athman Abou El Abbas, era membro del consiglio dei saggi, il più importante organo nella gerarchia del Gspc. La maggior parte delle cellule del Gspcsul territorio algerino sono state smantellate. L’8 settembre 2010 i fondatori del Gspc hanno lanciato un appello “ai combattenti ancora attivi invitandoli a deporre le armi”. Una parte della stampa algerina, tuttavia, mette in dubbio l’autenticità di tali appelli in quanto firmati, tra gli altri, da un capo, Hassan Hattab, arresosi nel 2007, condannato senza mai essere comparso in tribunale ma di cui non si sa nulla, neanche in quale prigione possa essere detenuto. 25 luglio 2010, un kamikaze si fa esplodere a bordo di un’autobomba lanciata contro una gendarmeria in un villaggio vicino a Tizi Ouzou, Cabilia: un morto e otto feriti. È solo un episodio, uno dei tanti che per tutto il 2010 hanno scandito la vita quotidiana degli algerini. Nell’agosto 2009, il Presidente della Repubblica, Abdelaziz Bouteflika, aveva dichiarato pubblicamente di aver “teso la mano” agli integralisti islamici attivi nel suo Paese, soprattutto nella regione della Cabilia. Il simbolico gesto presidenziale può aver portato a qualche buon risultato ma non ad una duratura pace se, proprio ai primi di settembre 2010, la stampa algerina diffondeva la notizia che “almeno 88 membri di al-Qaeda sono stati uccisi dall’inizio dell’anno in diverse operazioni dell’esercito”. Il 2 febbraio quattro militari rimangono feriti in una zona a 150 km ad Ovest di Algeri a seguito dell’esplosione di un ordigno artigianale, mentre, la stampa quello stesso giorno dà notizia dell’uccisione di sette membri di gruppi armati integralisti a Charef, 250 km a Sud della capitale. All’inizio di febbraio 2010, la stampa diffonde già un primo “bilancio”: sono almeno quindici i membri dei gruppi armati uccisi nel solo mese di gennaio. Il 20 febbraio, un militare muore e cinque civili rimangono feriti nell’esplosione di due ordigni avvenuta a 50 km ad Est di Algeri. Questo attentato arriva come una vendetta a 48 ore dall’uccisione da parte dell’esercito di due affiliati di “al-Qaeda per il Maghreb Islamico”. Il 24 febbraio il quotidiano francofono El Watan dà notizia dell’uccisione di tre membri della cellula quaedista “El Farouk” durante un’imboscata dell’esercito vicino a Dra Essebt, nella zona di Bouira, 80 km ad Est della capitale. La reazione è presto organizzata: 2 marzo 2010, un gruppo armato attacca coi lanciarazzi una caserma della polizia a Tigzirt. Subito, parte un’operazione di rastrellamento dell’Esercito nella zona. La vendetta arriva il 7 marzo quando la stampa scrive di cinque “terroristi” uccisi dall’esercito in un’imboscata a 70 km ad Est di Algeri. Il 3 aprile sette agenti di sicurezza e un militare vengono
Generalità
Nome completo: Repubblica democratica popolare di Algeria Bandiera
Lingue principali: Arabo, francese, tamazight (berbero) Capitale: Algeri Popolazione: Circa 35 milioni Area: 2.381.740 Kmq Religioni: Musulmana sunnita (99%), cristiana ed ebraica (1%) Moneta: Dinaro algerino Principali Risorse naturali: petroesportazioni: lio, gas naturale, ferro, fosfati, uranio, piombo, zinco Risorse agricole: grano, orzo, avena, uva, olive, cedri, frutta, pecore, bestiame PIL pro capite: Us 7.000
colpiti a morte con due bombe. Le armi non cessano il fuoco verso obiettivi di carattere militare, ma il 25 giugno vengono colpiti da estremisti islamici anche gli invitati ad una festa nuziale ad Est di Algeri. Muoiono cinque persone, una di loro è un bambino di dieci anni.
I militanti del gruppo al-Qaeda per il Maghreb islamico mirano ad unire le forze jihadiste della regione nordafricana per combattere contro l’Europa e la presenza occidentale nei Paesi del MaL’Algeria ha vissuto un 2010 relativamente tranquillo. I gruppi terroristi armati che si ricollegano ad al-Qaeda (al-Qaeda per il Maghreb islamico) hanno compiuto azioni meno sanguinose rispetto agli anni precedenti e la loro attività si è concentrata soprattutto nella zona meridionale del Paese. Resta instabile, in parte, anche la situazione della Cabilia, la regione montuosa che si estende da Algeri vero l’Est lungo la costa mediterranea. Il terrorismo che minaccia oggi l’Algeria non ha la forza, i numeri e la pericolosità di quello che ha sconvolto il Paese nel corso degli anni Novanta. La data chiave è il 1991, quando il movimento politico Fis (Fronte islamico di Salvezza) vince il primo turno delle elezioni politiche generali. Di fronte alla minaccia islamista a gennaio i militari
ghreb. L’obiettivo sembra in gran parte fallito per mancanza di fondi, di uomini e anche per l’azione repressiva condotta dall’esercito algerino. interrompono il processo elettorale, il Fis viene dichiarato fuori legge e comincia uno scontro sempre più sanguinoso tra i gruppi terroristi di ispirazione islamica radicale e l’esercito algerino. L’organizzazione terroristica dominante è il Gia (Gruppo Islamico Armato), in seguito affiancato dal Gspc (Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento). In Algeria il terrorismo islamico raramente ha preso di mira gli stranieri. Le vittime sono state soprattutto cittadini algerini. Nel decennio di sangue sono stati colpiti intellettuali, scrittori, giornalisti, esponenti della vivace società civile che caratterizza l’ex colonia francese. Numerosi anche gli attacchi contro poliziotti e militari. A migliaia i caduti fra la popolazione civile, sia nei centri urbani che nei villaggi. Tra gli stranieri sono stati colpiti esponenti della chiesa cattolica, da sempre minoritaria ma costantemente a fianco della popolazione musulmana nei momenti difficili del Paese. Vanno ricordate le uccisioni del vescovo di Orano Pierre Claverie e dei sette monaci trappisti del monastero di Tibherine. Si calcola che in totale le vittime del terrorismo in un decennio siano state circa 100mila. Una via di uscita dal tunnel del terrorismo è stata cercata a partire dal 1999, quando è stato eletto alla presidenza della Repubblica Abdelaziz Bouteflika. Bouteflika ha voluto impegnarsi per la riconciliazione e ha offerto una amnistia ai combattenti islamici in cambio del loro disarmo. Questo processo di riconciliazione è andato avanti con difficoltà e anche ambiguità. Alcuni gruppi hanno continuato le loro attività terroristiche,
Libertà di culto
Chi pratica una religione diversa dall’Islam è obbligato a costituire un’associazione, non può fare proselitismo e deve celebrare solo in luoghi autorizzati (chiese). Ma i cristiani d’Algeria vivono in diverse zone prive di una chiesa. “È necessario non limitare l’esercizio del culto a luoghi prefissati”, dichiara l’arcivescovo d’Algeria, mons. Ghaleb Bader (febbraio 2010). Il ministro della religione, Bouabdallah Ghlamallah, dichiara: “Non diamo la caccia ai cristiani ma non vogliamo che ci siano delle minoranze religiose che diventino un pretesto per le potenze straniere per entrare negli affari interni del Paese” (febbraio
2010).
Quadro generale
Ferhat Mehenni (Illoula, 5 marzo 1951)
Ferhat Mehenni, è un cantante e politico originario della Cabilia. È stato uno dei protagonisti della Primavera Berbera (Tafsut) del 1980. Nel 1985 fonda la Lega Algerina dei diritti dell’Uomo. Viene arrestato e condannato per attentato alla sicurezza dello Stato. Torturato nella terribile prigione di Lambèse, scriverà una canzone toccante “Tazuit Lambèse” per raccontare il suo patimento. Nel 1988 Mehenni aiuta a fondare un partito, il Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia. Il 17 gennaio 1994, Mehenni a nome del Movimento Culturale Berbero proclama il berbero “lingua nazionale e ufficiale” (tuttora lo Stato considera il berbero solo una “seconda lingua nazionale”). Nel 2001, dopo la Primavera Nera, fonda il Movimento per l’Autonomia della Cabilia. Ritiene che solo l’attribuzione di un’autonomia regionale alla Cabilia possa risolvere lo stato di tensione col Governo e far terra bruciata attorno ai terroristi. Il 19 giugno 2004 viene assassinato suo figlio, Ameziane, accoltellato in strada a Parigi. Nessun colpevole per la polizia. Durante le esequie funebri, Mehenni canta in cabilo la canzone della Resistenza Italiana “Bella Ciao”.
18 anni di emergenza Human Rights Watch (Hrw) ha definito “molto grave” la situazione dei diritti umani in Algeria, dove da 18 anni è in vigore lo stato d’emergenza e dove permangono pesanti restrizioni imposte alla società civile e alla stampa. “In Algeria”, ha dichiarato a Rabat, Sarah Leah Whitson, direttrice di Hrw per Medio Oriente e Africa del Nord, “sono diminuite le violenze politiche rispetto al 1999, quando il presidente Bouteflika ha preso il potere. Se gli algerini, oggi godono di una maggiore sicurezza fisica, sono invece meno liberi di criticare e contestare le politiche del Governo”. “Le autorità vietano manifestazioni e anche seminari organizzati dai difensori dei diritti umani”, si legge nel Rapporto 2010 dell’associazione pubblicato sul suo sito internet.
ma lentamente la vita degli algerini è tornata a essere più tranquilla, soprattutto nei principali centri urbani. Anche se negli ultimi anni c’è stata una ripresa delle azioni terroristiche anche ad Algeri, per opera dei militanti di al-Qaeda per il Maghreb islamico attentati del dicembre 2007 e dell’agosto 2008. L’Algeria non ha quindi raggiunto una condizione di completa stabilità e sicurezza. A questa condizione si aggiunge un quadro politico assolutamente immobile. Arrivato alla presidenza nel 1999 Bouteflika, rieletto nell’aprile del 2009 (è il terzo mandato consecutivo), ora conta di restare al potere fino al 2014. Quando divenne presidente, Bouteflika alimentò molte speranze. Promise di ristabilire la pace, la riforma della pubblica amministrazione, della scuola e della giustizia. Assicurò di voler garantire il prestigio della nazione. Ma i progressi sperati non ci sono stati. O sono stati molto timidi, ben al di sotto delle attese. Come ha scritto il quotidiano indipendente El Watan, Boueflika non ha cose nuove da dire e presenta da un decennio lo stesso programma. Restano perciò irrisolti molti problemi come la corruzione, l’inflazione, la disoccupazione e la crisi degli alloggi, che colpisce soprattutto i giovani. Sulla scena politica non si affacciano uomini nuovi e resta dominante una casta di politici, militari e burocrati che gli algerini definiscono genericamente Le Pouvoir (Il potere). Di fronte a questa immobilità l’Algeria non collassa solo perché galleggia su un mare di petrolio. Grazie alle riserve di idrocarburi l’Algeria negli ultimi anni ha potuto arricchire le sue riserve valutarie (145miliardi di dollari) sfruttando gli aumenti del prezzo del greggio (ma con un calo sensibile nel corso del 2009). Tuttavia questa ricchezza non si è riversata sulla popolazione e la forte dipendenza dalle risorse petrolifere non ha favorito una diversificazione dell’economia. Gli introiti incassati dall’export di gas e petrolio vengono in gran parte utilizzati per l’importazione di alimentari, medicinali e materiali per l’edilizia.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Rapporti con la Libia
Rapporti difficili tra Ciad e Libia. Prima della presa del potere di Déby, Gheddafi ha rivendicato a mano armata i territori settentrionali del suo vicino. Poi il generale ha accantonato le mire espansionistiche per assumere il ruolo di mediatore nella regione, in particolare nel conflitto con il Sudan. Un cambio di strategia che evidenzia il ruolo che Gheddafi intende svolgere: essere il perno di ogni decisione negoziale nell’Africa centrale per consolidare la sua influenza sui paesi confinanti. Ma tutto è solo apparenza: il Governo di Tripoli infatti dopo la firma degli accordi non assicura nessun monitoraggio, indispensabile strumento per garantire il rispetto concreto delle intese. L’obiettivo di Tripoli è aiutare militarmente Déby contro i suoi oppositori ma in realtà nessuno dei due leader si fida dell’altro. Il generale-presidente Idriss Déby (al potere dal 4 dicembre del 1990) succederà a se stesso alla guida del Ciad per un quarto mandato presidenziale. Le elezioni sono fissate per l’aprile 2011 e saranno precedute da analoghe votazioni politiche e amministrative che nelle intenzioni del padre-padrone dovranno fare da cornice alla sua marcia trionfale verso un nuovo quinquennio di dispotico potere. Déby è il protagonista assoluto della scena politica conquistata con un colpo di stato che rovesciò Hissène Habré. L’opposizione politica è ridotta al silenzio e questo gli consente di gestire con grande abilità (ed a proprio vantaggio) le risorse di uranio e petrolifere del Paese, senza preoccuparsi se l’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e se l’indice di sviluppo umano pone il Ciad al 175° posto su 182 paesi. I guadagni derivanti dal petrolio assicurano introiti medi annuali per 750milioni di euro, una cifra che garantisce di affrontare spese militari di grandi entità. Déby può vantare un successo: la firma nel gennaio 2009 di un accordo con il confinante Sudan per normalizzare le relazioni diplomatiche e la sicurezza alle frontiere. Infatti, proprio l’instabilità dei rapporti con il presidente Omar El-Bashir, è stata all’origine dell’appoggio ai reciproci movimenti ribelli operanti nei due paesi. E così Bashir ha cessato il sostegno ai ciadiani del Fuc (Fronte Unito per il Cambiamento) e Déby si è impegnato a non aiutare gli indipendentisti del Darfur riuniti nello Jem (Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza). I due grandi nemici sono diventati amici. Déby è volato a Khartoum e le frontiere tra di due Paesi sono state riaperte dopo 7 anni di chiusura. È sepolta nella memoria dunque l’offensiva che nel febbraio del 2008 portò i ribelli (sostenuti dal Sudan) a cingere d’assedio il palazzo presidenziale a N’Djamena, la capitale.
Generalità
Nome completo: Repubblica del Ciad Bandiera
Lingue principali: Francese, Arabo Capitale: N’Djamena Popolazione: 9.826.419 Area: 1.284.000 Kmq Religioni: Musulmana (53,10%), cristiana (35%), animista (10%) Moneta: Franco CFA Principali Prodotti agricoli esportazioni: PIL pro capite: Us 1.519
L’intesa sta portando alla smobilitazione dei soldati della Minucart, la missione di pace dell’Onu operante tra Ciad e Centrafrica mentre per il 2011 la protezione dei 250mila rifugiati del Darfur e dei 165mila sfollati ciadiani dovrà essere garantita da soldati ciadiani addestrati dall’Onu e da una forza mista di militari di Sudan e Ciad. Molte agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative che operano nell’area sono scettiche perché giudicano il ritiro delle truppe della Minucart come una seria minaccia alla sicurezza della popolazione civile.
Passato da una condizione di colonia ad un regime autoritario, il Ciad è ancora lontano dal raggiungere una stabilità politica e sociale, resa ancora più difficile dalla violenza che caratterizza l’intera Regione. Secondo il rapporto dell’Unicef 2009 sulle emergenze, sono tre i tipi di violenza che caratterizzano la crisi nel Ciad, soprattutto nella parte Orientale del Paese: i conflitti armati
La Repubblica del Ciad, situata nell’Africa Centrale e circondata dagli Stati confinanti della Libia, del Sudan, del Camerun, della Nigeria, del Niger e della Repubblica Centraficana è considerata uno dei Paesi più poveri del mondo, attraversato da forti instabilità interne e da conflitti ancora irrisolti. Proprio la vicinanza con molti Paesi dove si combattono guerre violente e sanguinose ha aggravato la crisi interna del Ciad, guidato da un Governo che fatica a gestire i forti flussi di rifugiati in fuga dai conflitti e dalle tensioni interne. Dopo una lunga storia da ex colonia francese, il Ciad è diventato indipendente nel 1960. Una transizione pacifica che sembrava presagire un futuro di stabilità per il Paese che nello stesso anno, il 20 settembre, è entrato ufficialmente a far parte dell’Onu. Il primo Presidente del Ciad, eletto l’11 agosto del 1960, è stato François Tombalbaye che nel dopoguerra aveva fondato uno dei principali partiti ciadiani, il Partito Progresinterni tra il Governo del Ciad e i gruppi di opposizione armata del Paese, gli attacchi contro i civili in prossimità del confine da parte delle milizie stanziate nel Darfur e la violenza interetnica. Spesso, secondo quanto denuncia lo stesso rapporto i tre tipi di violenza finiscono col sovrapporsi e a farne le spese è la popolazione civile, costantemente a rischio e priva di protezione.
sista del Ciad (Ppt). Le speranze del Paese furono presto deluse dal Governo di Tombalbaye, che si trasformò in una guida autoritaria. Solo due anni dopo la sua elezione, il Presidente aveva messo al bando tutti gli altri partiti politici attivi in Ciad e cominciato una forte repressione contro quelli che considerava oppositori politici. Il malcontento nel Paese cresceva e in più di una occasione il Governo dovette sedare rivolte interne. Tensioni si registravano nel Nord del Paese, abitato da popoli di fede islamica ma anche al Sud dove le popolazioni erano cristiane e animiste. Nel 1966, nel confinante Sudan, venne fondato il Fronte Nazionale per la Liberazione del Ciad (Frolinat). Il gruppo di ribelli imbracciò le armi contro il Governo dando inizio ad una sanguinosa guerra civile, proseguita anche dopo il colpo di stato militare del 13 aprile del 1975, quando Tombalbaye venne ucciso e il generale Félix Malloum, capo della giunta militare, divenne il nuovo capo di Governo.
Comunità internazionale
La comunità internazionale non contribuisce concretamente al processo di pace nella regione. Il Governo di N’Djamena (al di là degli impegni formali) non riesce (o non vuole instaurare) un vero dialogo con le forze ribelli e prendere seriamente in considerazione i grandi problemi economici e sociali che affliggono il Paese. Alla Libia vanno riconosciute le capacità diplomatiche di aver evitato la guerra aperta tra Ciad Sudan ma non bastano solo gli impegni militari a consolidare una fragile pace, che ha magari solo gli aspetti di una tregua temporanea. Proprio per questo la comunità internazionale dovrebbe intervenire per farsi garante di accordi quasi sempre scritti sull’acqua ed edificati sulla sabbia. La questione Darfur deve trovare collocazione nell’agenda degli impegni.
Quadro generale
Marzio Babille (Trieste, 15 marzo 1953)
Marzio Babille è un medico triestino ma la sua vocazione di cittadino del mondo gli è stata trasmessa dalla madre armena. Babille (in passato responsabile dei progetti sanitari in India) è oggi il rappresentante dell’Unicef in Ciad. È impegnato in particolare nei progetti per il recupero alla vita civile dei bambini soldato, un fenomeno ancora molto diffuso nelle aree di confine con il Sudan (Darfur). Sono almeno 800 i ragazzi già passati nei centri dell’ Unicef ma mancano i fondi per garantire un percorso globale di pieno reinserimento nella vita civile di questi minorenni. Il 9 giugno 2010 a N’Djamena sei paesi hanno firmato un accordo per mettere fine al reclutamento dei minori di 18 anni. Marzio Babille sa bene che se non si attuano politiche concrete per dare speranze, lavoro, istruzione e assistenza sanitaria a popolazioni violate non si andrà lontano. Ma un primo passo (costituito almeno da una formale rinuncia al reclutamento) è stato fatto. Questi ragazzi infatti spesso tornano ad arruolarsi volontariamente allettati dal salario “sicuro” elargito dai gruppi ribelli con il quale sostengono le famiglie.
Nell’impossibilità di annientare la guerriglia del Frolinat, nel 1978 Malloum decise di nominare primo ministro il leader dei ribelli Hissène Habré. La convivenza dei due ai vertici del Paese durò poco. L’anno successivo le forze ribelli del Frolinat e l’esercito di Malloum si scontrarono apertamente nella capitale N’Djamena. Il generale golpista Malloum fu costretto alla fuga ma il Paese scivolò in una crisi interna ancora più profonda. La guerra civile coinvolgeva, oltre al Frolinat, numerose fazioni di ribelli e la situazione nel Paese era ormai fuori controllo. L’Onu intervenne e traghettò il Paese alla firma, nell’agosto del 1979, di un trattato di pace - l’Accordo di Lagos - che permetteva la formazione di un Governo di transizione che avrebbe dovuto guidare il Paese alle elezioni politiche. A capo di questo Governo il presidente Goukouni Oueddei, mentre Habré fu nominato ministro della difesa. Dopo 18 di mesi la situazione era però immutata e gli scontri continuavano ad imperversare. Queddai riuscì a conquistare il controllo della capitale ma per farlo chiese aiuto alla Libia che inviò nel Paese le proprie truppe. Ancora grazie alla Libia nel 1983, l’esercito governativo sferrò un nuovo attacco contro le forze di Habré, che ottenne il sostegno delle forze francesi già presenti sul territorio. Nel 1984 la Francia e la Libia siglarono un accordo per ritirare le proprie truppe dal Ciad. Accordo che non fu però rispettato dalla Libia che mantenne i propri soldati nella striscia di Aouzou. Solo nel 1987 Ciad e Libia firmarono un cessate il fuoco, che rimase in vigore fino al 1988. Negli anni Ottanta la stabilità interna del Ciad è minata da una serie di colpi di stato. Nel 1990 un disertore dell’esercito di Habré, Idriss Déby riuscì con un golpe ad instaurare un nuovo Governo, di cui egli stesso divenne Presidente. Negli anni successivi altri tentativi di colpo di stato furono sferrati contro il Governo di Déby che è però tuttora in carica. Il Paese è ancora attraversato da violenti scontri tra le varie anime della guerriglia ciadiana, e l’instabilità è costantemente in aumento nonostante i tentativi del presidente Déby di siglare trattati di pace con le fazioni ribelli. La situazione si è poi ulteriormente aggravata dal 2003, quando centinaia di rifugiati in fuga dalla Regione sudanese del Darfur, martoriata da un conflitto civile, hanno iniziato ad entrare in Ciad per sfuggire alle violenze. Il 23 dicembre del 2005, il Governo del Ciad ha dichiarato ufficialmente lo stato di guerra contro il Sudan. Alla base della decisione una lunga serie di violenti scontri lungo il confine tra i due Paesi ai danni delle popolazioni che abitano la frontiera. Il conflitto tra il Ciad e il Sudan è ancora in corso.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
La missione Unoci
L’Unoci (United Nations Operation in Côte d’Ivoire) è una missione di peacekeeping autorizzata dalle Nazioni Unite il 27 febbraio del 2004. Lo scopo della missione è quello di “facilitare la realizzazione del trattato di pace firmato dai partiti della Costa d’Avorio nel gennaio del 2003” dopo la fine della guerra civile. Come spesso è accaduto per le missioni di pace dell’Onu, il mandato dell’Unoci è stato rinnovato più volte, l’ultima fino al 31 dicembre del 2010. Per garantire il regolare svolgimento delle elezioni di ottobre le Nazioni Unite, con una risoluzione del settembre 2010, hanno deciso di incrementare, temporaneamente, il personale della missione di 500 unità. Degli oltre 8mila soldati presenti, circa 4mila sono francesi, gli altri provengono da 41 Paesi diversi. Durante la missione 21 peacekeepers e 4 funzionari dell’Onu sono morti in conflitti a fuoco. Nella storia della Costa d’Avorio entra di prepotenza il Giappone. Le elezioni (31 ottobre 2010), annunciate mentre scriviamo, si sono tenute grazie all’intervento di Tokyo che ha donato tutto il necessario per lo svolgimento della tornata elettorale: 25mila urne, 50mila cabine e 50mila kit elettorali. La Costa d’Avorio esce da una vera e propria guerra civile, terminata solo nel 2007 grazie alla mediazione del Presidente del Burkina Faso, Blaise Campaoré e a un accordo di pace firmato dai contendenti a Ougadougou. Elezioni che, tuttavia, non sono state prive di tensione e mentre esce questo Atlante potrebbero essersi tradotte in un ennesimo conflitto armato tra i contendenti. Una nuova guerra che potrebbe avere conseguenze per l’economia del Paese piuttosto incerta vista l’instabilità politica. La Costa d’Avorio è divisa tra un Nord dove
COSTA D’AVORIO
Generalità
Nome completo: Repubblica della Costa d’Avorio Bandiera
Lingue principali: Francese (ufficiale), dioula, baoulé, bété, sénoufo Capitale: Yamoussoukro Popolazione: 16.600.000 Area: 322.460 Kmq Religioni: Cristiana, musulmana Moneta: Franco CFA Principali Prodotti agricoli, esportazioni: diamanti, manganese, nichel, bauxite, oro PIL pro capite: Us 1.510
prevalgono politicamente gli uomini delle Forze Nuove (Fn), che vogliono il controllo politico totale, e in un Sud, dove c’è un Governo provvisorio, quello di Guillaume Soro, che è anche segretario delle Fn che con Laurent Gbagbo, il cui mandato presidenziale è scaduto nel 2005, intende giungere ad una possibile intesa. Gli aventi diritto al voto sono 5,3milioni di persone su una popolazione di 21milioni di abitanti, di cui il 51% non è ancora in grado di leggere e scrivere.
Sessanta diversi gruppi culturali, risorse infinite: le ragioni della guerra in Costa d’Avorio sono da ricercare nel controllo delle ricchezze del territorio, controllo che viene rivendicato dai diversi gruppi dirigenti facendo leva sull’appartenenza ad un clan. L’interdizione dalle cariche politiche delle popolazioni a sangue misto ha creato tensioni che non si assopiscono, innestate su un deficit democratico costante nella storia della Costa d’Avorio sin dall’indipendenza. Inoltre, l’economia del Paese, una delle migliori La Costa d’Avorio ottiene l’indipendenza nel 1960 grazie a uno dei padri della decolonizzazione, Felis Houphpuet-Boigny. Legato sia per il proprio passato politico sia per gli interessi economici alla Francia, Boigny garantisce al suo Paese uno sviluppo economico considerevole. Grazie a un programma di incentivi statali sostenuti anche da Parigi. Boigny porta la Costa d’Avorio a essere il primo esportatore mondiale di cacao e il terzo di caffè. Per 20 anni l’economia del Paese cresce al ritmo del 10% all’anno, superata del continente africano, dipende quasi interamente dall’esportazione delle materie prime e questo scatena da sempre gli interessi delle grandi aziende multinazionali, pronte a finanziare i diversi gruppi pur di assicurarsi - con la presa del potere - il controllo del mercato. Insomma, è un Paese diventato terreno di confronto per interessi esterni, con Francia, Stati Uniti e Cina a contendersi il ruolo di “partner”
privilegiato.
solo dall’economia dei grandi Paesi produttori di petrolio e diamanti. Boigny gode di enorme credito politico, cosa che gli permette di governare con pugno di ferro, senza permettere la nascita di partiti politici né, tanto meno, di organizzare elezioni libere. All’inizio degli anni ’80 crolla il prezzo del cacao e del caffè con effetti sull’economia del Paese. Il debito estero triplica e cresce la criminalità, la stabilità del Governo comincia a vacillare. Boigny, nel 1990, deve affrontare le prime proteste di piazza. Il Presidente risponde al
Le sanzioni
Nell’ottobre del 2010 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha prorogato fino all’aprile del 2011 le sanzioni economiche contro la Costa d’Avorio. La risoluzione è stata approvata all’unanimità e motivata dalla “situazione in cui versa la Costa d’Avorio che è una minaccia continua alla pace internazionale”. L’organismo internazionale descrive un Paese spaccato in due: la parte meridionale controllata dal Governo e la parte settentrionale nelle mani dei ribelli. Le sanzioni includono un embargo sule armi, restrizione negli spostamenti per alcuni cittadini, restrizioni ai movimenti finanziari e sull’importazione dei ‘diamanti sporchi’ il cui traffico ha, sottolinea la risoluzione del Consiglio, contribuito al conflitto che coinvolge anche la vicina Liberia e la Sierra Leone.
Quadro generale
Guillaume Kigbafori Soro (Ferkessédougou, 8 maggio 1972)
Guillaume Kigbafori Soro dal marzo del 2007 è il primo ministro della Costa d’Avorio ed è stato uno dei leader della rivolta contro l’attuale presidente Laurent Gbagbo. Nel settembre del 2002, durante il tentativo di colpo di stato degenerato in una vera e propria guerra civile, Soro era alla guida del Movimento Patriottico della Costa d’Avorio (MPCI) e nel dicembre dello stesso anno l’MPCI si è unito ad altri due gruppi ribelli formando le Forze Nuove della Coste d’Avorio di cui è diventato segretario generale. Le Forze Nuove controllano il 60% del territorio della Costa d’Avorio. Con la firma di un accordo di pace nel 2003, Soro viene nominato ministro delle comunicazioni del Governo di riconciliazione di Gbagbo, ma questo non garantisce all’esecutivo la stabilità politica. Soro viene allontanato dal Governo nel 2004 con l’accusa di voler boicottare l’esecutivo e reintegrato nello stesso anno. Il 28 dicembre del 2005 viene nominato ministro del Programma per la Ricostruzione del Governo di Charles Konan Banny e dal 2007 viene nominato primo ministro.
Cacao: l’oro nero della Costa d’Avorio La Costa d’Avorio è il principale produttore mondiale di cacao. Il Paese copre da solo circa un terzo della produzione mondiale ma la gestione di questa enorme ricchezza non è cosa semplice per il Governo ivoriano. Secondo quanto denunciato da diverse organizzazioni umanitarie nei campi di raccolta del cacao vengono impiegati migliaia di bambini, sfruttati in tutte le fasi della produzione. A risolvere del tutto il problema non è bastata la nascita di un circuito di commercio alternativo, sottoposto a controlli rigidi per garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori. Buona parte della produzione di cacao, e di altre materie prime come caffè e cotone inoltre, viene contrabbandata nei Paesi limitrofi per evitare i dazi governativi, con il risultato che il Paese non riesce ancora a beneficiare delle enormi potenzialità della produzione ed esportazione del cacao.
malcontento attraverso la concessione di alcune libertà politiche, tra cui il multipartitismo. Le prime elezioni libere confermano alla giuda del Paese il padre della patria. Boigny muore nel 1993 e viene sostituito da Henri Konan Bédié, che riesce a migliorare il quadro economico anche grazie a una svalutazione del 50% del franco Cfa, legato a quello francese e ora all’euro. La repressione del dissenso crea un forte malcontento che viene sfruttato, nel 1999, da un gruppo di militari capitanati dal generale Robert Guei, che rovescia Boédié e organizza le elezioni presidenziali. Le consultazioni del 2000 si svolgono in un’atmosfera pesantissima, caratterizzata da tentativi di brogli compiuti da Guei e dall’esclusione di Alassane Ouattara, principale candidato dell’opposizione, perché di sangue misto. Uno dei suoi genitori, infatti, proviene dal Burkina Faso. La decisione scatena la rabbia dei musulmani del Nord. Dalle urne esce vincitore Laurent Gbagbo, principale oppositore di Boigny. Nel 2002 parte dell’esercito si ammutina e tenta di rovesciare il Presidente. Gbagbo resiste e il golpe si trasforma in una vera e propria guerra civile che spacca il Paese in due: il Nord controllato dai ribelli del Fronte Nuovo e il Sud sotto il controllo del Governo. La Costa d’Avorio entra in uno stallo politico e istituzionale che paralizza il Paese. Nel 2003 vengono firmati accordi di pace che, tuttavia, rimangono sulla carta. Molti nodi costituzionali rimangono tali, soprattutto quelli che riguardano l’eleggibilità delle popolazioni di sangue misto. Il Paese rimane diviso in due. E i tentativi del Presidente di riprendere il potere sul territorio sotto il controllo dei ribelli, manu militari, falliscono anche grazie alla forza di interposizione dell’Onu, 10mila uomini ancora presenti nel Paese, e ai contingenti francesi che controllano la zona di sicurezza al “confine” tra il Nord e il Sud del Paese. Le elezioni libere vengono continuamente rimandate proprio per l’instabilità del Paese. Nuovi accordi vengono firmati a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, il 4 marzo del 2007. Accordi che aprono la via all’organizzazione delle elezioni presidenziali e politiche.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Il coinvolgimento nel “buco nero” somalo
Etiopia ed Eritrea hanno continuato, in un certo senso, la loro guerra in un territorio “terzo”: la Somalia. Dal 2005 fino al 2009, mentre l’Etiopia appoggiava militarmente in modo massiccio il Governo di transizione somalo, l’Eritrea sosteneva il movimento ribelle degli estremisti musulmani, prima fornendo armi alle cosiddette Corti islamiche, poi agli Shabab. L’Onu ha documentato ripetutamente negli ultimi anni le violazioni all’embargo sulle armi alla Somalia da parte dell’Eritrea, al punto che dalla fine del 2009 ha imposto sanzioni all’Asmara con l’accusa - nella risoluzione votata dal Consiglio di Sicurezza - di voler «destabilizzare o rovesciare il Governo federale di transizione della Somalia».
Nel coacervo del Corno d’Africa
Non solo Iraq, Afghanistan, Medioriente. L’Est Africa è ormai considerato una delle aree di grande instabilità del pianeta: innanzitutto per la guerra civile somala che dura da 20 anni, ma anche per le situazioni delicate e a rischio di altri Paesi, come Sudan, Uganda, e dello stesso Kenya che soltanto due anni fa ha vissuto una stagione di violenze in occasione delle ultime elezioni. In questo scacchiere, è fortemente destabilizzante la serie di tensioni innescate da un lato dall’Eritrea con i Paesi confinanti (l’ultima è nata dall’occupazione militare di un’area contesa con Gibuti, dalla quale l’Onu ha già chiesto il ritiro), dall’altro dai movimenti di guerriglia (nelle regioni Oromo e Ogaden) intestina all’Etiopia. Nel 2010 si sono avute avvisaglie di ribellione - seppure in forma ancora embrionale - anche in Eritrea. Le conseguenze della guerra perdurano ancora oggi. Dal punto di vista economico e sociale entrambi i Paesi hanno pagato un pesante prezzo in termini di vittime e invalidi, ma anche di grave crisi economica, ristagno produttivo, deficit agricolo. La più colpita, naturalmente, è stata l’Eritrea, messa veramente in ginocchio dal conflitto. Il Paese è piombato a livelli di povertà e di emergenza umanitaria senza precedenti e che continuano a peggiorare. Una vera e propria fame permanente, aggravata anche dal forte isolamento del Paese rispetto alla comunità internazionale e ai rapporti - piuttosto ostili - con tutti gli Stati confinanti. L’Eritrea, da Paese-faro del riscatto africano dei primi anni ‘90, è divenuto uno dei Paesi per i quali con maggior frequenza le agenzie dell’Onu lanciano appelli a causa del susseguirsi di emergenze alimentari gravi. I tre quarti della popolazione vive sotto la soglia di povertà. L’Etiopia ha saputo reagire meglio alla crisi del dopo-guerra. Oggi presenta aree che hanno mostrato significativi segnali di sviluppo (l’area della capitale, Addis Abeba, e il Tigrai) e altre, specie le Regioni del Sud e dell’Ovest, che presentano ancora situazioni di povertà ed emergenza idricoalimentare drammatiche. Dal punto di vista politico l’Etiopia, sul piano internazionale, all’inizio del 2009 ha ritirato le sue truppe dal territorio somalo. Sul piano interno, verso la fine dello stesso 2009 si è riacutizzata la ribellione armata dei gruppi Oromo e del Fronte di liberazione dell’Ogaden (formato prevalentemente da guerriglieri di etnia somala). Infine, nel maggio 2010, alle elezioni presidenziali e parlamentari, il Premier Meles Zenawi e il suo partito (l’Fprde) hanno ottenuto una schiacciante vittoria che ha consentito al Primo ministro etiope
Generalità
Nome completo: Repubblica Federale Democratica d’Etiopia Bandiera
Lingue principali: Amarico, Tigrino, Oromo Capitale: Addis Abeba Popolazione: 85.800.000 Area: 1.104.300 Kmq Religioni: Chiesa ortodossa etiopica (50,6%), protestante (10,1%), cattolica (0,9%), musulmana (32,8%), religioni tradizionali animiste (5,6%) Moneta: Birr Principali Caffé, pelli grezze, kat esportazioni: (erba che masticata dà effetti leggermente psicotropi), oro PIL pro capite: Us 898
ETIOPIA ERITREA
Generalità
Nome completo: Stato di Eritrea Bandiera
Lingue principali: Tigrino, Afar, Tigré, Kumana, Arabo Capitale: Asmara Popolazione: 5.800.000 Area: 117.600 Kmq Religioni: Cristiani copti (48%), cattolici e protestanti (5%), musulmani (45%), fedeli a religioni tradizionali (2%) Moneta: Nakfa Principali Bestiame, sorgo, esportazioni: prodotti tessili e manifatturieri PIL pro capite: Us 700
di ottenere il quarto mandato consecutivo. Gli altri gruppi politici, come nelle elezioni precedenti, hanno denunciato brogli e violenze nei confronti degli oppositori. Anche gli stessi osservatori dell’Ue hanno criticato lo svolgimento e la correttezza del processo elettorale. Quanto all’Eritrea, considerata ormai un vero e proprio Stato-prigione, nel Rapporto annuale di Reporters sans frontières, sia nel 2009 che nel 2010 è risultata il Paese al mondo con la minore libertà di stampa, all’ultimo posto nella classifica.
La disputa sui confini che aveva cagionato il ricorso alle armi, non è mai stata risolta. Accettato da entrambe le parti il “cessate il fuoco” voluto dall’Oua (Organizzazione per l’Unità Africana), i due Governi avevano anche accolto la proposta delle Nazioni Unite di rimettersi alla decisione della Corte permanente di Arbitrato dell’Aja per la demarcazione della contestata linea di confine, e la definizione del tracciato fu affidata a una commissione di esperti internazionali col compito di studiare la storia delle linee di confine fin dall’epoca coloniale della conquista italiana, mentre una missione di mantenimento della pace dei caschi blu (denominata Unmee, Missione ONU per Etiopia ed Eritrea) doveva tenere sotto controllo la fascia di frontiera per evitare nuovi scontri e tracciare materialmente la nuova frontiera. La linea di demarcazione indicata dal team di esperti nel 2002 è stata accettata dall’Eritrea (e in gran Sono passati più di dieci anni da quando è scoppiato il confitto fra Etiopia ed Eritrea, e nove dal “cessate il fuoco” che ha pressoché congelato il conflitto. Nonostante ciò, i rapporti fra i due Paesi, durante tutto questo tempo, sono rimasti molto tesi, e in alcune fasi si è sfiorato la ripresa di una guerra aperta. Un conflitto per molti aspetti incomprensibile. I due attuali Governi, sia etiope che eritreo, sono “figli” della guerra di liberazione dalla dittatura di Menghistu Hailé Mariam, il ”terrore rosso”, come veniva chiamato. La leadership attuale etiope, guidata dal primo ministro Meles Zenawi, è costituita nella sua ossatura dai capi del Fronte rivoluzionario democratico del popolo etiopico, tanto quanto quella eritrea, le cui principali figure politiche provengono dal Fronte popolare di liberazione eritrea, primo fra tutti Isaias Afewerki, Presi-
parte dà ragione alle sue rivendicazioni), ma non dall’Etiopia. Un rifiuto, quello etiopico, che si protrae da anni. La situazione perciò è di fatto tuttora congelata, anche per l’inerzia dei caschi blu che non hanno mai dato seguito alla demarcazione fisica del nuovo confine, com’era previsto dal loro mandato. Dal luglio 2009, poi, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha votato all’unanimità il ritiro delle forze di pace, su richiesta del Governo dell’Asmara. Le stesse Nazioni Unite, poco dopo (nel dicembre 2009) hanno imposto sanzioni contro l’Eritrea per il suo sostegno - specie attraverso l’invio di materiale bellico - agli estremisti islamici somali (i gruppi che vanno sotto il nome di “Shabab”) che combattono il Governo di transizione di Mogadiscio. Ancora oggi non ci sono comunicazioni, né rapporti commerciali, né relazioni diplomatiche fra i due Paesi. dente del Paese fin dalla sua nascita (1993). La lunga e sanguinosa guerra di liberazione aveva portato alla cacciata del dittatore Menghistu e alla vittoria nel maggio 1991. Finita la guerra, si erano formati fin da subito due Governi provvisori e di comune accordo si era giunti presto (nell’aprile 1993) al referendum col quale il 99,8% degli eritrei avevano scelto l’indipendenza dall’Etiopia. Antiche ragioni storiche e culturali (specie legate all’epoca della colonizzazione italiana) facevano sì che gli eritrei avessero consolidato una forte identità nazionale, che i decenni di dominio dell’imperatore Hailé Selassié e poi del regime repressivo di Menghistu non avevano nemmeno scalfito. Dopo la pacifica divisione dell’ex grande Etiopia nei due Stati sovrani, i due Paesi avevano mantenuto rapporti eccellenti di collaborazione e di
Da governo a dittatura
Il settembre del 2001 segna il momento di svolta autoritaria del regime eritreo. A seguito della diffusione di una lettera aperta che criticava la scelta della guerra e la carenza di democrazia, sono scattate le epurazioni: in pochi giorni sono finiti in carcere gli 11 firmatari del documento, di fatto tutta la nascente opposizione politica. Quasi contemporaneamente sono stati chiusi tutti i mezzi d’informazione che si erano espressi in modo critico verso il Governo e arrestati 9. Della quasi totalità delle persone finite in carcere non si è saputo più nulla. Le condizioni del Paese sono tali che gli eritrei fuggono a migliaia ogni anno e cercano asilo politico all’estero. A scappare, con ogni mezzo e a rischio di morire lungo la traversata del Sahara, sono soprattutto i giovani, che oltre lo spettro della fame vogliono lasciarsi alle spalle anche quello di un servizio militare durissimo e dalla durata spesso imprecisata (talvolta anche
di 10-15 anni).
UNHCR / P. Wiggers
Quadro generale
Isaias Afewerki (Asmara, 2 febbraio 1945)
Isaias Afewerki, già leader dell’Fple, è stato il primo Presidente dell’Eritrea indipendente. Considerato uomo di idee politiche fortemente socialiste - ispirate soprattutto al maoismo cinese - era salito al potere all’indomani della liberazione del Paese a presiedere il Governo di transizione. Considerato un uomo illuminato e di grande carisma, aveva all’inizio degli anni ‘90 un enorme seguito popolare. Gli esiti del referendum, peraltro, ne avevano anche rafforzato il consenso politico. Ha guidato l’Eritrea, senza una reale opposizione politica, fino all’epoca del conflitto con L’Etiopia. Il dopo-guerra ha segnato, però, una svolta. È iniziata una rapida involuzione politica che ha portato presto il Governo a trasformarsi sempre più in regime, e Isaias Afewerki in dittatore. Oggi l’Eritrea è uno Stato poliziesco, dove controlli, perquisizioni e arresti arbitrari sono all’ordine del giorno. Quella del Presidente Afewerki e della stretta oligarchia che lo circonda è un’involuzione autoritaria che ha pochi precedenti persino nel Continente africano, incurante della miseria a cui ha ridotto la sua stessa gente e del totale isolamento internazionale. Anche l’Italia negli ultimi anni ha fortemente raffreddato i rapporti col Paese del Corno d’Africa.
UNHCR / F. Courbet
Democrazia e repressione Anche l’Etiopia dal punto di vista della vita democratica presenta enormi problemi. Il Governo è dominato dai leader del Tigrai, la Regione a Nord dell’Etiopia che aveva guidato anche la guerriglia contro Menghistu. Con le ultime elezioni, il partito di Zenawi ha addirittura conquistato tutti i seggi in Parlamento, tranne due. Il Paese vede attivi ben due movimenti di guerriglia, indipendentisti: il movimento della popolazione Oromo e quello dei somali dell’Ogaden, verso i quali l’esercito conduce una repressione durissima. In tutte le tornate elettorali il regime è stato accusato di violazioni e brogli: nel 2002, come pure nel 2005 e nelle ultime del 2010. Dura è stata di nuovo la reazione del Governo, con una forte limitazione della libertà di stampa, l’arresto di giornalisti, le azioni intimidatorie nei confronti dei principali oppositori politici.
mutue relazioni. Contemporaneamente, la pace finalmente raggiunta, dopo decenni di guerriglia e di sanguinarie repressioni che avevano portato la popolazione etiope e quella eritrea agli ultimi posti nelle classifiche dello sviluppo umano e della povertà, stava consentendo di avviare una crescita economica lusinghiera. Per l’Eritrea addirittura stupefacente, con ritmi di crescita del PIL oltre il 7%. Poi, inaspettatamente, fra il 1997 e 1998, sono cominciate le frizioni fra i due Paesi “cugini”: un’escalation cominciata da dispute intorno ai dazi doganali e agli accessi commerciali ai porti (l’Etiopia non ha accessi al mare e sino al 1998 aveva utilizzato i porti dell’Eritrea per l’importexport), e proseguita con crescenti tensioni fra i due eserciti ai confini. Proprio la disputa sui confini è la stata la causa dichiarata della guerra. La contesa su alcune città e località di confine ha condotto l’Eritrea, dopo l’ennesimo episodio nel quale alcuni suoi soldati erano stati uccisi in una fascia di territorio considerata propria dagli etiopi, a dichiarare guerra al Paese vicino. Un conflitto avvenuto in due fasi, la prima nel 1998 e la seconda nel 2000. Data l’enorme differenza di forze in campo - basti pensare allo squilibrio di popolazione fra i due Paesi, l’Etiopia ha oggi oltre 85milioni di abitanti, l’Eritrea poco più di 5 e mezzo - quest’ultima ha subito pesantissime sconfitte, specie nella seconda fase della guerra. Nelle alture desertiche dell’altopiano e nelle impervie montagne che dividono i due Paesi, se da un lato l’Etiopia ha perduto centinaia di migliaia di soldati mandati ripetutamente all’assalto degli avamposti eritrei, dall’altro il piccolo esercito dell’Asmara, una volta rotta la linea difensiva del fronte, ha subito perdite ingentissime di uomini quando l’esercito etiopico ha dilagato all’interno del suo territorio. La guerra nel giugno del 2000 si è fermata per un “cessate il fuoco” richiesto dall’Onu e accettato da entrambi i contendenti.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Nell’aprile del 2010 un tentativo di colpo di stato da parte di un gruppo di militari ha riportato la Guinea Bissau in una situazione di grave instabilità interna dopo un periodo di apparente calma. Dalle elezioni presidenziali del luglio 2009 e dopo l’uccisione, nel marzo dello stesso anno, dell’ex presidente Joao Bernardo Vieira, la situazione sembrava infatti essersi normalizzata. Subito dopo il tentato golpe, Malam Bacai Sanhá, presidente della Guinea Bissau ha cercato di rassicurare il Paese e la comunità internazionale affermando che la situazione è sotto controllo. “Va tutto bene” ha detto, ma il rischio di ripiombare nel caos è reale per un Paese dove - spiega Amnesty International nel suo Rapporto Annuale 2010 - le forze armate continuano ad interferire pesantemente nella vita politica e sociale, commettendo nella totale impunità gravi violazioni dei diritti umani, uccisioni il-
GUINEA BISSAU
Generalità
Nome completo: Repubblica di Guinea-Bissau Bandiera
Lingue principali: Portoghese Capitale: Bissau Popolazione: 1.345.479 Area: 36.120 Kmq Religioni: Animista (45%), musulmana (40%) Moneta: Franco CFA Principali Anacardo esportazioni: PIL pro capite: Us 736
legali, torture e altri maltrattamenti, arresti e detenzioni arbitrarie. Particolarmente instabile è la zona di confine con il Senegal dove continuano da anni gli scontri tra frange di ribelli indipendentisti ed esercito regolare. È la regione della Casamance, dove la popolazione locale è costretta a vivere sotto la costante minaccia di questo annoso conflitto, delle incursione dei ribelli del Movimento delle Forze Democratiche della Casamance (Mfdc) o dei bombardamenti dell’esercito. A peggiorare la situazione la presenza massiccia di mine sul territorio.
Un Paese in mano ai signori della droga. Anni di guerra civile sono base e conseguenza di questa situazione. La Guinea Bissau è un narcostato, nel senso che è uno Stato in mano a pochi trafficanti, dall’altra parte c’è tutto il resto della popolazione. Qui, la principale preoccupazione è quella di fare da ponte, da punto di smistamento del traffico della droga dall’America Latina (ma anche dall’Asia e dal Marocco) alle grandi piazze europee. La popolazione non ha a disposiLa Guinea Bissau è stata colonia portoghese con il nome di Guinea portoghese sino al 1974 quando ottenne l’indipendenza. Ma è il 1956 l’anno di svolta. Il 1956 è oltre che l’inizio della fine della colonizzazione anche la nascita di una realtà che sarà protagonista nel Paese sino ai giorni nostri. Stiamo parlando del Paigc (Partido Africano da Independencia da Guiné e Cabo Verde). Amilcar Cabral scrittore e fondatore del
zione l’acqua, da più di un quindicennio non c’è l’energia elettrica, le istituzioni sono, di fatto, inesistenti. Militari e dipendenti pubblici non vengono pagati se non due o tre volte l’anno, con la differenza che per i militari spesso si muovono “interventi d’emergenza” per pagare gli arretrati ed evitare, probabili, colpi di stato. In questa “terra di nessuno” il traffico di droga trova particolare favore. partito guidò il Paese verso una rivolta culturale. Il processo venne, però, significativamente accompagnato da un periodo di guerriglia interno. Il partito e la sua guerriglia si imposero velocemente nel Paese, in primo luogo per le caratteristiche fisiche del territorio (grandi quantità di giungle) e in secondo luogo per il presunto appoggio di Cina, Unione Sovietica e altri Stati africani che avrebbero fornito le armi
Guinea Bissau e Gambia contro il narcotraffico
I Governi di Gambia e Guinea Bissau hanno recentemente sottoscritto numerosi accordi grazie ai quali è stato possibile contrastare in maniera più efficace la piaga del narcotraffico che soprattutto per la Guinea Bissau rappresenta un enorme ostacolo per la stabilizzazione e la crescita. Gli accordi prevedono lo scambio di informazioni sensibili tra i due Paesi che hanno anche sollecitato l’Ecowas, l’organismo che riunisce i 15 Stati dell’Africa dell’Ovest, ad assumere un ruolo più di guida e coordinamento nel contrasto al
narcotraffico.
Quadro generale
Amílcar Cabral (Bafatá, 12 settembre 1924 - Conakry, 20 gennaio 1973)
Amílcar Cabral è considerato il padre dell’indipendenza della Guinea Bissau. Durante i suoi studi a Lisbona conosce un gruppo di militanti con i quali coltiva le sue idee anti coloniali. Tornato nella Guinea Bissau fonda con Luiz Cabral, suo fratellastro e futuro Presidente della Repubblica di Guinea Bissau, il Paigc (Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo Verde), organizzazione clandestina che si batte contro l’esercito portoghese per l’indipendenza della Guinea Bissau, che Amílcar Cabral non vedrà mai. Venne infatti assassinato il 20 gennaio 1973 a Conakry, solo sei mesi prima dell’indipendenza della GuineaBissau.
Talibé, i piccoli mendicanti Il 70% dei Talibé, i piccoli mendicanti che chiedono l’elemosina nelle strade di Dakar, sono minori guineani, piccoli studenti delle scuole coraniche sfruttati dai cosiddetti marabutti (dotti islamici) che hanno creato un vero e proprio traffico di bambini. Secondo quanto spiega l’Unicef, le famiglie della Guinea Bissau mandano i figli a studiare nelle scuole coraniche in Senegal perché lo considerano un Paese più laico ma questo ha permesso, nel corso degli anni, lo sfruttamento di questi bambini. Non solo come mendicanti ma anche come braccianti agricoli nei loro terreni.
ai guineiani. Si dovrà attendere sino al 1973 per la firma d’accordo definitivo. Il 24 settembre la Guinea poteva dirsi libera dal Portogallo. Nel novembre dello stesso anno si ottenne il riconoscimento ufficiale da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il Governo del Paese venne affidato a Luis Cabral, fratello di Amilcar che rimase al potere sino al 1980 quando con un colpo di stato Joao Bernardo Vieira (primo ministro del Governo Luis Cabral) si mise al timone della Giunea Bissau. Vieira istituì un Governo provvisorio che mantenne il potere, con un consiglio rivoluzionario, fino al 1984, anno in cui fu ricostituita l’Assemblea Nazionale. “Nino” (così veniva chiamato Vieira) rimase al potere sino al 1998, anno che segna l’inizio di una sanguinosa guerra civile. Era giugno quando il generale Absumane Manè si ribellò alla sua deposizione da capo delle forze armate. Un anno di sanguinosa guerra che portò alla fine della dittatura di Vieira. Si dovette attendere sino al febbraio del 1999 per la firma della tregua, mentre 11 mesi dopo, successivo periodo di Governo provvisorio, i cittadini vennero chiamati a eleggere un nuovo Governo: si andava al voto. Nel 2000 Kumba Ialá fu eletto Presidente. Ma la tranquillità non durò a lungo. Appena tre anni dopo un nuovo colpo di stato portò all’arresto del Presidente considerato incapace di risolvere i problemi del Paese. Nel marzo del 2004 si tennero nuove elezioni legislative. Ma il Paese non uscì dal suo stato di agitazione, tanto che nell’ottobre dello stesso anno si assistette ad un ammutinamento dell’esercito e successiva morte del capo delle forze armate. Nel 2005 le ultime elezioni e Vieira di nuovo al potere. Ma l’anno cruciale è stato il 2009. Il 2 marzo viene assassinato Vieira. Ma non per caso. Il giorno prima, infatti, veniva altresì assassinato il capo dello Stato Maggiore Tagma Na Wai, ucciso da un ordigno dinamitardo piazzato dentro un palazzo nel quale il capo si riuniva con altri militari. Nemico acerrimo del Presidente “Nino”, Na Wai, fu uno dei fautori (faceva parte della giunta militare) della caduta del suo regime negli anni ’90. A parlare del legame dei due omicidi (i militari di Na Wai avrebbero sequestrato e ucciso Vieira) è un funzionario del blocco dell’Africa Occidentale (Ecomas) che lo conferma all’agenzia giornalistica Reuters, appena 24 ore dopo la morte di Vieira.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Verso le elezioni
Nell’ottobre del 2011 si terranno in Liberia le seconde elezioni dalla fine della guerra civile nel 2003. Tra i candidati la favorita è senza dubbio l’attuale presidente Ellen Johnson Sirleaf, che può vantare l’appoggio della comunità internazionale e in particolare del segretario di stato Usa Hillary Clinton. Tra i papabili c’è però anche l’ex calciatore George Weah che già nel 2005 ottenne un ottimo risultato al primo turno delle presidenziali ma perse al ballottaggio. Da segnalare è anche il Senatore Prince Yormie Johnson. Candidato per il partito National Union for Democratic Progress, è un ex-signore della guerra accusato di diversi massacri e di crimini contro l’umanità. Si candiderà per un nuovo mandato alla guida della Liberia la Presidente uscente Ellen Johnson Sirleaf, nonostante la Commissione per la Verità e la Riconciliazione l’abbia accusata di aver sostenuto finanziariamente alcune delle fazioni armate negli anni della guerra civili, raccomandando la sua interdizione dai pubblici uffici per almeno 30 anni. “Le accuse rivolte contro di me sono motivate politicamente pertanto non ritengo di dovermi fare da parte”, scrive il Presidente in una nota inviata in Parlamento, in cui annuncia la sua prossima candidatura per lo scrutinio dell’ottobre 2011. Nella lista dei nomi contenuta nel rapporto della Commissione, reso pubblico nel 2009, figura anche quello dell’ex presidente Charles Taylor, attualmente sotto processo all’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella vicina Sierra Leone e di alcuni ministri dall’attuale Governo di Monrovia. La Sirleaf aveva già ammesso in passato di aver incontrato e consegnato fondi a Taylor ne-
Generalità
Nome completo: Repubblica della Liberia Bandiera
Lingue principali: Inglese Capitale: Monrovia Popolazione: 3.842.000 Area: 111.370 Kmq Religioni: Cristiana (66%), animista (19%), musulmana (15%) Moneta: Dollaro Liberiano Principali Cocco, caffè, legname, esportazioni: ferro, bauxite, oro, diamanti PIL pro capite: Us 1.033
gli anni ’80, mentre quest’ultimo si preparava a rovesciare l’allora presidente Samuel Doe. Intanto, alla fine del 2009, la presidente Johnson-Sirleaf ha ufficialmente chiuso il programma di disarmo e riabilitazione e reintegro che, partito nel 2003, ha permesso di disarmare 101mila ex combattenti e il reintegro di altri 90mila. La stessa Presidente ha promulgato una legge, approvata da Camera e Senato dopo un iter di due anni, sulla libertà di informazione. La Liberia è dunque il primo Paese dell’Africa occidentale ad avere una legge che garantisce ai cittadini il diritto ad essere informati.
Le dittature di Samuel Kanyon Doe prima e di Charles Taylor poi, con i colpi di stato che li hanno portati al potere, sono la ragione vera della lunga guerra civile liberiana. I due dittatori hanno governato appoggiandosi a pochi elementi dei loro clan familiari, puntando poi allo scontro con gli Stati vicini per impadronirsi di risorse naturali e aumentare la loro ricchezza personale. La sollevazione dei gruppi armati è motivata dal bisogno - per larga parte della popolazioPoteva essere una storia di libertà e, invece, è stata una storia di sangue e diamanti. Già il suo nome, Liberia, definisce una comunità di “liberi uomini di colore”. Una storia che inizia nel 1822 quando in questo territorio si installano i coloni afroamericani sotto il controllo dell’American Colonization Society. Una terra promessa che, tuttavia, doveva essere contesa agli indigeni che in quel luogo vivevano. Il nuovo stato aveva l’estensione delle terre controllate dalla comunità dei coloni e da coloro che ne erano stati assimilati. Gran parte della storia della Liberia è un continuo susseguirsi di scontri e tentativi, raramente coronati da successo, di una minoranza civilizzata di dominare una maggioranza considerata per tanti aspetti “inferiore”. È stata chiamata Liberia per dargli il carattere di “terra degli uomini liberi”. Uomini liberi che hanno sempre combattuto. Se da principio il tempo è scandito dall’affermare un principio di civiltà contro un principio di inciviltà, così erano pensati gli uomini che vi abitavano, poi è diventato uno scontro per accaparrarsi i diamanti della vicina Sierra Leone. Negli ultimi vent’anni i focolai di conflitto hanno più volte ripreso vigore, sfociando in violenze e veri “stermini etnici”. La rivolta del 1989 ha messo fine alla violenta dit-
ne - di reagire all’oppressione, al reclutamento forzato dei bambini soldato e all’assassinio indiscriminato di ogni oppositore. Gli accordi di Accra, che hanno portato all’attuale presidenza, sono stati firmati dalle fazioni ribelli puntando ad un rinnovamento del Paese. Per ora tengono, pur con le tensioni create dal permanere in molte aree della Liberia di gruppi armati pronti a scendere in campo. tatura di Samuel Doe (capo della Armed Forces of Liberia), preparando l’avvento dell’altrettanto sanguinaria era di Charles Taylor, capo del National Patriotic Front of Liberia. Tra il 1992 e il 2002, con l’intento di conquistare le miniere di diamanti della confinante Sierra Leone, Taylor appoggia il Revolutionary United Front (Ruf) di Foday Sankoh. Al potere, Taylor, ci arriva nel 1997 dopo una lunga scia di sangue e di traffici loschi. A Monrovia instaura un regime di terrore. La polizia speciale liberiana, che fa capo direttamente al Presidente, non ha avuto pietà con gli ex oppositori del Movimento Unito di Liberazione (Ulimo): arrestati, torturati e uccisi a centinaia. Mentre il terrore vive a Monrovia, non cessano i conflitti interetnici e le lotte tra fazioni. I membri del Governo appartenenti alla famiglia di Taylor, intanto, presenti nel Governo, non perdono occasione per dimostrare la loro incompetenza nel tentativo di rilanciare un’economia distrutta dalla guerra e che vede nel miraggio dei diamanti sierraleonesi una possibilità di rilancio che, però, non si materializza. È così che i vecchi sostenitori abbandonano Taylor che, nel 2003, guadagna l’esilio da “signore della guerra”. Un esilio offerto dalla Nigeria, ma Taylor giura: “Col volere di Dio, tornerò”. I
La presenza internazionale
Nonostante gli innegabili passi avanti fatti dal Paese negli ultimi anni, la presenza internazionale sul territorio della Liberia è ancora molto vasta. Le Nazioni Unite sono rappresentate non solo dalla Missione di peacekeeping (UNMIL), ma anche da ben 16 agenzie specializzate, programmi per la povertà e l’infanzia e da rappresentanti della Banca Mondiale. La missioni UNMIL è dislocata in Liberia dal settembre del 2003 con lo scopo di monitorare e sostenere gli accordi per il cessate il fuoco. Il mandato di UNMIL scade il 30 settembre del 2011, nel corso della missione 88
peacekeepers hanno perso la vita.
Quadro generale
Una popolazione giovane
In Liberia gran parte della popolazione è composta da giovani. Il 43,6% della popolazione è composto dai ragazzi fino ai quattordici anni (maschi 765.662, femmine 751.134), il 52,8% da persone dai quattordici ai sessantaquattro anni (maschi 896.206, femmine 940.985) e per il restante 3,7 supera i sessantacinque anni. Il ruolo ‘cruciale’ della popolazione giovane per il futuro della Liberia è stato più volte ribadito dalla stessa presidente Ellen Johnson Sirleaf e sarà fondamentale anche in occasione delle prossime elezioni.
Charles Ghankay Taylor (Arthington, 28 gennaio 1948)
Charles Ghankay Taylor è un politico liberiano, Presidente della Liberia dal 1997 al 2003. Salito al potere nel 1997 Taylor ha Governo la Liberia come un dittatore, promulgando tra l’altro lo Strategic Commodity Act con il quale si è garantito la facoltà di gestire “personalmente e direttamente” tutte le risorse dello Stato. Prima di diventare Presidente è stato un signore della guerra durante il conflitto liberiano degli anni ‘90. Per per la sua attività di trafficante d’armi a favore dei ribelli armati in Sierra Leone, venne spiccato contro di lui un ordine d’arresto dal Tribunale Speciale di quel Paese e in seguito ad una rivolta popolare, nel 2003, fu costretto a fuggire in Nigeria dove ha ottenuto asilo politico. Dal 2008 la Corte Speciale dell’Aja lo sta processando con l’accusa di crimini di guerra e delitti contro l’umanità per il ruolo avuto nella guerra civile combattuta in Sierra Leone dal 1991 al 2001, che causò circa 200 mila morti e diverse migliaia di mutilati. Secondo l’accusa, l’ex Presidente ha armato i ribelli del Fronte rivoluzionario unito (Ruf) per ottenere in cambio il controllo delle risorse della Sierra Leone.
Commissione Verità e Riconciliazione Il 20 luglio 2009 il Parlamento della Liberia ha ricevuto il rapporto finale della Commissione verità e riconciliazione. La Commissione è stata creata il 12 maggio 2005 per indagare le origini e le responsabilità della guerra civile che tra il 1989 e il 2003 ha insanguinato il Paese. La Commissione è stata presieduta da Jerome Verdier, avvocato liberiano attivista dei diritti umani. Il rapporto, 370 pagine, ha stabilito che le cause principali della guerra civile sono state la povertà, l’accentramento del potere, le profonde diseguaglianze sociali ed economiche, la corruzione del sistema politico e giudiziario e, infine, le divisioni etniche. Per superare questi problemi la Commissione ritiene necessario processare le persone sospettate di aver commesso crimini e ingiustizie e impedirgli di partecipare alla vita politica del Paese. Il testo presenta una lista di 94 soggetti, tra individui e istituzioni, che dovrebbero essere ulteriormente indagati per crimini economici. La lista comprende 54 aziende private, 19 rappresentanti di multinazionali e istituzioni statali e 21 singole persone. Il rapporto pone come priorità la lotta all’impunità, “come condizione imprescindibile per la promozione della giustizia” e invita il Governo a dare un seguito alle sue raccomandazioni. Per quanto riguarda il processo di riconciliazione la Commissione ha raccomandato l’organizzazione di un forum che faciliti la condivisione tra le vittime e i colpevoli delle esperienze vissute. Un punto, questo, rispecchia un’esigenza stabilita dall’accordo di pace di Accra che nel 2003 ha messo fine alla guerra civile. Tra le raccomandazioni della Commissione, infine, c’è la richiesta di amnistia per i bambini coinvolti nella guerra. Per le donne e i bambini sono anche previste delle compensazioni per i danni subiti.
liberiani si augurano, invece, che non torni più e che venga condannato per crimini di guerra e contro l’umanità dal Tribunale Internazionale. Tutto ciò pone fine a un’era sanguinaria: 200mila morti e un milione di profughi. La Liberia ha vissuto quattordici anni di guerra civile. Devastazioni, distruzioni. Generazioni che hanno vissuto, convissuto e partecipato alla guerra. Bambini sottratti alla loro infanzia per essere spediti nei campi di battaglia. Drogati per renderli feroci e incoscienti. Menti e vite distrutte che ora debbono essere ricostruite. Con gli accordi di Accra (2003) nasce il Governo guidato da Jyude Bryant, che regge due anni grazie all’appoggio degli Usa e alla presenza di una forza multinazionale a mandato Onu composta da 15mila caschi blu. Nel 2005 la Liberia comincia a intravedere una nuova luce con l’elezioni della prima donna Presidente in Africa. Ellen Johnson Sirleaf.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Economia
La Nigeria in cifre presenta una situazione pesantissima, tanto da farne un Paese dei paradossi. Pur essendo fra l’ottavo e il nono posto fra i maggiori produttori di greggio al mondo, importa la quasi totalità dei carburanti di cui ha bisogno perché le tre raffinerie del Paese sono quasi sempre ferme per guasti e manutenzione. E pur presentando un Pil pro capite abbastanza elevato rispetto a tanti Paesi africani (2.400 dollari l’anno), il 70% dei nigeriani vive sotto la soglia di povertà. Negli ultimi anni il Prodotto nazionale lordo cresce con ritmi paragonabile a quelli di India, Cina e Brasile (8,1% nel 2009, 7,2% nel primo semestre del 2010), ma nonostante questo il Nord del Paese e la Regione del Delta (quella petrolifera) rimangono profondamente sottosviluppate e arretrate. In particolare il SudEst, proprio a causa dei decenni di sfruttamento del territorio dell’industria petrolifera, presenta livelli altissimi di inquinamento ambientale, al punto che l’agricoltura è stata quasi totalmente azzerata. L’aspettativa di vita nel Paese è di 45 anni, una delle più basse del mondo, quasi un terzo della popolazione è analfabeta, il 70% non ha accesso a servizi sanitari adeguati e il 53% non ha acqua potabile. Infine, la mortalità infantile sotto i cinque anni è al livello record del 185 per mille. La situazione di costante instabilità e insicurezza della Regione del Delta ha portato negli ultimi anni a una riduzione d’interesse e d’investimento di alcune compagnie petrolifere. Inoltre, nei momenti di più intensa attività di guerriglia dei gruppi ribelli vi sono state anche soste forzate di alcuni impianti d’estrazione, per cui la media produttiva degli ultimi anni è risultata ridotta del 30% rispetto al potenziale. Tutto ciò ha comportato una minore crescita dell’attività estrattiva in Nigeria rispetto all’Angola, al punto che è riuscita addirittura a superarla nella classifica del greggio estratto in un anno. Quanto all’attività dei ribelli, nel 2009, di fronte al forte intervento repressivo del Governo il Mend aveva dichiarato all’inizio dell’estate una tregua unilaterale di alcuni mesi. In realtà, la strategia messa in atto proprio dal presidente Yar’Adua e dal suo vice Jonathan prevedeva, accanto all’intervento repressivo, anche l’offerta di amnistia a chi avesse deposto le armi. Durante il periodo della tregua unilaterale del Mend è maturata anche la sorta di accordo tra il Governo e alcuni dei leader principali del movimento ribelle - primo fra tutti Henry Okah, già arrestato e incarcerato fin dal 2008 - che ha portato, verso la fine del 2009, alla resa di diverse migliaia di ribelli. Nel corso del 2010, poi, si è avuto nuovamente qualche episodio di attacchi da parte di aderenti al Mend, forse dovuti anche al mancato sblocco dei fondi promessi per la reintegrazione degli ex ribelli nella vita civile. Infine, è ancora in Parlamento la grande riforma del settore petrolifero che dovrebbe modernizzare il sistema, fissare nuovi criteri per le concessioni e le royalties, migliorare la trasparenza di un comparto cronicamente caratterizzato dalla corruzione e dalla malversazione di denaro. Tra le altre cose, la nuova legge dovrebbe garantire il 10% degli introiti delle royalties a beneficio delle popolazioni locali del Delta del Niger. In attesa della riforma complessiva, il Governo ha varato, sempre nel 2010, la miniriforma della compagnia petrolifera nazionale. Infine, è stata varata un’altra norma di riassetto del sistema bancario, con l’obiettivo di ridare fiducia alla struttura del credito nigeriano. La riforma ha portato alla creazione di un’agenzia governativa federale che ha il compito di “ripulire” i bilanci delle banche dai cosiddetti “titoli tossici” e di risanare il sistema che negli ultimi tempi era stato tenuto in piedi da forti iniezioni di liquidità per evitare il collasso di diverse banche.
Generalità
Nome completo: Repubblica Federale di Nigeria Bandiera
Lingue principali: Inglese (lingua ufficiale) Capitale: Abuja Popolazione: 154.400.000 Area: 923.768 Kmq Religioni: Negli Stati del Nord la popolazione è per la quasi totalità islamica; nel Centro-Sud c’è una larga maggioranza cristiana (in prevalenza protestante/evangelica), ma c’è anche una forte presenza di sette d’importazione americana e della rinascenza africana. Islam 50%, cristianesimo 40% (di cui oltre un terzo cattolicesimo), religioni tradizionali 10%. Moneta: Naira Principali Petrolio (che costituesportazioni: isce oltre il 90% delle esportazioni), cacao, caucciù PIL pro capite: Us 2.400
Il problema numero uno della Nigeria è sempre l’estrema povertà in cui versa la stragrande maggioranza della popolazione, almeno il 70%, a fronte della piccola oligarchia di ricchissimi, costituita da alti vertici dell’esercito (fino al 1999 la Nigeria è stata governata da un susseguirsi di giunte militari, spesso golpiste), esponenti del mondo politico e una ristretta oligarchia di businessman. La povertà diffusa, in ultima analisi, è la radice dei frequenti scoppi di violenza dalle apparenti motivazioni “religiose” nel Centro-Nord del Paese come pure la guerriglia e gli atti di terrorismo che caratterizzano la regione petrolifera del Delta del Niger. Riguardo agli scontri di “matrice” religiosa - che negli anni precedenti erano avvenuti soprattutto a Kano e nelle città di “coabitazione” fra cristiani e musulmani - nel 2009 e 2010 sembra che il loro epicentro sia la Regione del PlateLa Nigeria per molti aspetti è ancora lo Stato artificiale creato nel 1914 dai colonialisti inglesi. Paese federale, composto di 36 Stati e un territorio (l’area di Abuja, la capitale federale), vi abitano 250 etnie differenti, con tre gruppi dominanti: gli Hausa-Fulani in tutta la parte settentrionale, gli Yoruba nel Sud-Ovest, gli Ibo nel Sud-Est. L’estrema eterogeneità di culture, economie, storia, lingue, realtà climatico ambientali, religioni (il Nord è islamizzato in larghissima parte, il Sud è prevalentemente cristiano) rende difficile la crescita di un forte senso di identità nazionale. La sua storia post coloniale (l’indipendenza è stata ottenuta nel 1960) è costellata di tensioni e scontri etnici, e addirittura di una guerra di secessione, quella del Biafra, che comportò anche la prima grande crisi umanitaria per la quale si mobilitò l’Occidente, verso la fine degli anni ‘60. I primi 40 anni della sua storia di Paese indipendente sono stati caratterizzati da una catena
au, e in particolare la città di Jos, dove sono avvenuti ripetuti episodi di violenze che hanno provocato in totale, poco meno di un migliaio di morti. La ribellione armata dell’area Sud-Orientale del Delta del Niger, invece, si è sempre caratterizzata come una forma di guerriglia/terrorismo che aveva tradizionalmente lo scopo principale dell’estorsione. Dal 2006, tuttavia, la situazione era piuttosto cambiata con la comparsa della nuova formazione ribelle del Mend (Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger), che fin dalla sua nascita aveva dato una connotazione molto più ideologica alla propria causa, dichiarando di voler ingaggiare nei confronti delle compagnie petrolifere straniere una guerra che si sarebbe conclusa solo con la loro cacciata e la fine dello sfruttamento delle popolazioni locali azione e della devastazione ambientale del Delta del Niger. pressoché continua di colpi di stato e di regimi militari. Fino al 1999, quando per la prima volta, i nigeriani hanno potuto esprimere liberamente il voto, eleggendo alla guida del Paese Olusegun Obasanjo, che ha poi governato la federazione per due mandati. Alle successive elezioni, tenutesi il 21 aprile 2007, ha vinto invece Umaru Yar’Adua, delfino dell’ex Presidente. A differenza di Obasanjo, uomo del Sud della Nigeria e cristiano, Yar’Adua era originario dello Stato di Katsina, nell’estremo Nord, musulmano. Yar’Adua tuttavia ha sofferto di una lunga malattia che gli ha impedito per diversi mesi, a partire dal novembre 2009, di esercitare le sue funzioni. Il potere, durante tutto il periodo di inabilità del Presidente, è stato gestito dal suo vice, Goodluck Jonathan, che ne ha anche preso ufficialmente le funzioni dal 9 febbraio 2010 con l’avallo del voto del Parlamento. Nel marzo 2010 Jonathan ha sciolto e rinnovato in larga misura l’esecutivo.
L’Eni in Nigeria
La presenza dell’Eni in Nigeria e in particolare nel Delta è piuttosto significativa. La sua attività estrattiva si aggira intorno ai 150mila barili di greggio al giorno. Significativi anche i problemi attraversati in questi ultimi anni dalla la compagnia petrolifera italiana nel Paese africano. Dopo l’epoca dei sabotaggi e dei sequestri di persona, che avevano colpito l’Eni come le altre compagnie presenti nel Delta, era arrivata la grana dell’inchiesta ministeriale voluta nel 2007 dal Governo Prodi per accertare eventuali responsabilità della Compagnia rispetto all’inquinamento della regione petrolifera. Dell’indagine non si è saputo più nulla, ma nel frattempo è scoppiato un altro problema: l’Eni è finita sotto accusa negli Stati Uniti per presunto versamento di tangenti a funzionari nigeriani in cambio di appalti di estrazione. Questa volta l’Eni ha preferito pagare in fretta la salatissima multa (365milioni di dollari) per chiudere la vicenda ed evitare il processo penale. Anche due altre società, una americana e una francese, hanno seguito lo stesso percorso: pagata la multa
hanno evitato il tribunale.
UNICEF/NYHQ2009-0449/Gangale
Quadro generale
Goodluck Jonathan (Otueke, 20 novembre 1957)
Cristiano, originario del Delta del Niger, doveva avere un ruolo da comprimario: vice del presidente Yar’Adua, musulmano del Nord, garante nel mandato 2007-2011 - e forse anche nel successivo - della regola non scritta che vuole in Nigeria un’alternanza di un Presidente cristiano (del Sud) e di uno musulmano (del Nord) ogni due mandati, con un vice dell’altro credo e dell’altra parte del Paese. Invece, Goodluck Jonathan il 6 maggio 2010 si è ritrovato Presidente. Quel patto non scritto di fatto è saltato, con la morte di Yar’Adua. Il punto è che Jonathan ha presto smentito chi pensava che la rottura degli equilibri potesse durare soltanto fino all’elezione del prossimo maggio 2011: infatti, ha già annunciato la sua volontà di candidarsi. Annuncio che ha messo in subbuglio il partito di maggioranza, il Pdp (Partito democratico popolare), quello del primo Presidente eletto democraticamente (Olusegun Obasanjo, nel 1999) e anche quello di Yar’Adua. Ora il braccio di ferro è tutto interno al Pdp, che deve avallare o meno la candidatura di Jonathan. È già noto, peraltro, chi sarà il più temibile avversario politico alle elezioni del 2011: Ibrahim Babangida, “vecchia conoscenza” del potere nigeriano. Oggi potentissimo e ricchissimo, è stato a capo della dittatura militare fra il 1985 e il 1993.
UNICEF/NYHQ2009-0463/Gangale
Bambini avvelenati dal piombo Sono già 400 i casi accertati, ma le stime fanno temere cifre ben più elevate. Quattrocento bambini morti per avvelenamento da piombo, nello Stato nigeriano di Zamfara. L’emergenza è scoppiata nella primavera del 2010, ma i primi dati - frutto del lavoro sul campo dei team dell’Oms e di Medici Senza Frontiere giunti sul posto - parlano di avvelenamento di massa che ha colpito nel modo più tragico le fasce più vulnerabili della popolazione: bambini e donne incinte. La causa sarebbe l’estrazione effettuata con metodi “artigianali” dell’oro da vecchie miniere abbandonate presenti nella zona, già pesantemente contaminate dal piombo utilizzato nel lavoro di estrazione del passato. Ben più elevato il numero dei contaminati: si parla di oltre 18mila persone.
Il 5 maggio Yar’Adua è morto e, come previsto dalla Costituzione nigeriana, il giorno successivo Goodluck Jonathan ha giurato come Capo dello Stato. Rimarrà in carica fino alle prossime elezioni presidenziali, previste per maggio 2011. La Nigeria è considerata uno dei giganti africani, insieme al Sud Africa, non tanto per la sua forza economica, quanto per la concentrazione di popolazione (oltre 150 milioni di persone in un territorio relativamente piccolo) e per le sue riserve di greggio, per le quali si colloca fra l’ottavo e il nono posto fra i produttori mondiali e si contende il primato in Africa con l’Angola. È in questi ultimi dieci anni, con l’avvento della democrazia, che sono scoppiate le principali contraddizioni del Paese. Prima delle quali la questione petrolifera: a fronte degli enormi introiti legati alle concessioni per l’estrazione del greggio (che costituiscono più del 90% delle esportazioni), la popolazione nigeriana è in condizioni di grave povertà - il 70% vive con meno di un euro al giorno - e, paradossalmente, è proprio la gente del Delta del Niger, l’area petrolifera del Paese, ad essere fra le più povere. La seconda grande contraddizione è legata alle tensioni religiose. Gli scontri fra cristiani e musulmani, avvenuti in particolare lungo la fascia di coabitazione nel Centro-Nord del Paese, sono iniziati improvvisamente all’indomani dell’elezione del primo Presidente votato democraticamente, intorno al 2000-2001. Da allora vi sono stati ricorrenti momenti di forte tensione che hanno provocato in alcuni casi anche migliaia di vittime. Tensioni religiose che, dopo decenni di pacifica e tollerante convivenza fra cristiani e musulmani, sembrano essere state utilizzate più come elemento strumentale di pressione politica che come reale scontro di fedi. Fra il 2008 e il 2010 questi scontri fra cristiani e musulmani sono avvenuti principalmente nello Stato del Plateau, e in particolare nella città di Jos, nell’area centro-settentrionale della federazione nigeriana. Scontri molto violenti che hanno provocato centinaia di vittime e migliaia di feriti. Il terzo grande problema del Paese è l’inurbazione selvaggia, che ha creato enormi caotiche megalopoli. Prima fra tutte Lagos, capitale commerciale della Nigeria, che si stima sia ormai intorno ai 20 milioni di abitanti. Problema che non riguarda solo l’estrema povertà delle periferie urbane, ma anche i livelli di criminalità cresciuti a livelli preoccupanti.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Crimini di guerra
Continuano, davanti alla Corte penale internazionale (Icc), i processi per crimini di guerra commessi nella Repubblica Centrafricana. È in attesa di cominciare quello a carico di Jean Pierre Bemba, ex vice Presidente della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), accusato di omicidio, stupro e saccheggio. Fuggito dal suo Paese nel 2007 è stato arrestato nel maggio del 2008. Secondo le accuse i reati sono stati commessi nella Rdc e nella Repubblica Centraficana dal suo gruppo armato, tra il 2002 e il 2003. Con una prima sentenza l’Icc ha autorizzato il suo rilascio in attesa del processo a condizione di trovare un Paese disposto ad ospitarlo, ma nessuno Stato si è offerto. L’inizio del processo era previsto per il 14 luglio del 2010 ma è stato posticipato.
UNICEF/NYHQ2007-0127/Pirozzi
UNHCR / F. Noy Sconcerto e stupore per la decisione delle Nazioni Unite di ritirare la forza di pace Minucart dalla Repubblica Centrafricana. Una decisione che mette a rischio il processo elettorale nel Paese. Elezioni, prima fissate per il 24 ottobre 2010 e poi rinviate, che dovrebbero arrivare in un momento in cui la Repubblica Centrafricana si trova a essere il crocevia delle attività di diversi gruppi ribelli tra i quali i temibili ribelli ugandesi del Lords Resistence Army ormai diventati il terrore in tutta la regione che va dalla Repubblica Centrafricana all’Uganda, passando per il Sud Sudan e per la Repubblica Democratica del Congo. Ai ribelli ugandesi si aggiungono una serie di sigle locali che a vario titolo rivendicano qualcosa, vari gruppi di banditi molto ben organizzati e, per finire, i gruppi ribelli del Darfur che in diverse occasioni si sono rifugiati proprio nel territorio centrafricano per sfuggire all’esercito sudanese. Dopo la decisione delle Nazioni Unite il Governo di Bangui ha valutato l’ipotesi di spostare le elezioni al 23 gennaio 2011 nella speranza di un ripensamento dell’Onu. La Repubblica Centrafricana, infatti,
Repubblica CENTRO AFRICANA
Generalità
Nome completo: Repubblica Centrafricana Bandiera
Lingue principali: Francese Capitale: Bangui Popolazione: 3.683.538 Area: 622.984 Kmq Religioni: Cristiana (51%), animista (34%), musulmana (15%) Moneta: Franco CFA Principali Cotone, caffè, minerali, esportazioni: diamanti PIL pro capite: Us 1.128
non è in grado con le proprie forze di garantire la sicurezza dei seggi e degli elettori. Uno spiraglio aperto lo ha lasciato il Segretario Generale dell’On, Ban ki-Moon, che ha affermato che si “potrebbe costituire una nuova forza di pace di almeno 1000 uomini per garantire la sicurezza del Paese e nel contempo addestrare e armare l’esercito centrafricano”. Il tempo passa e la Minucart ha già fatto rientrare tutti gli uomini posizionati nelle zone critiche del Paese. Gli episodi di violenza, ora, si stanno moltiplicando nel Sud.
La Repubblica Centrafricana non ha mai conosciuto una vera democrazia. Provata da decenni di malgoverno e colpi di stato il Paese non è mai riuscito a risollevarsi. Negli ultimi anni la Repubblica Centrafricana ha dovuto poi subire le pressioni e l’instabilità causate dalle vicende politiche degli stati confinanti, dal Ciad al Sudan che hanno innegabilmente inciso nella tenuta interna del Paese, totalmente impreparato a ricevere le ondate di profughi in fuga da altri teatri di guerra. L’insicurezza e il pericolo, oltre Storia di schiavi, colpi di stato e imperatori. Questa è la Repubblica Centrafricana. Una terra abitata da tempi antichissimi: vari ritrovamenti testimoniano l’esistenza di antiche civiltà anteriori alla nascita dell’impero egizio. Terra contesa tra vari sultanati che utilizzavano l’attuale Repubblica Centrafricana come una grande riserva di schiavi, dalla quale venivano trasportati e venduti nel Nord Africa attraver-
ad una rete inesistente di strade per lo più disastrate, hanno impedito alle agenzie umanitarie di raggiungere le zone colpite dai combattimenti, in particolare nel Nord-Est, e di portare sostegno alle popolazioni. Non da ultimo la criminalità fuori controllo e il traffico clandestino di diamanti (è la seconda voce nelle esportazioni del Paese) contribuiscono ad aumentare la già drammatica situazione interna della Repubblica Centraficana. so il Sahara, soprattutto al mercato de Il Cairo. La nascita della Repubblica è stata fortemente voluta da Berthelemy Boganda, un prete cattolico leader del Movimento d’Evoluzione Sociale dell’Africa Nera, il primo partito politico del Paese. Boganda governa fino al 1959 quando muore in un misterioso incidente aereo. Gli succede suo cugino David Dacko che nel 1962
L’odissea infinita dei profughi
Sono ancora decine di migliaia gli sfollati e i profughi della Repubblica Centrafricana. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha iniziato nelle scorse settimane il trasferimento di migliaia di persone in campi allestiti dalla stessa agenzia nelle aree di confine con il vicino Ciad, dove i rifugiati arrivano fuggendo dal conflitto armato che imperversa nel Nord del Paese. Critica la situazione anche lungo il confine congolese, dove sono migliaia i profughi in arrivo dalla Repubblica Centrafricana per sfuggire agli attacchi dei gruppi armati (soprattutto i ribelli ugandesi dell’Lra) e dove l’Unhcr ha allestito nuovi campi di
accoglienza.
UNHCR / F.NOY
Quadro generale
François Bozizé Yangouvonda è il Presidente della Repubblica Centrafricana. Sale al potere nel marzo del 2003 al comando di un colpo di stato contro l’allora presidente Ange-Félix Patassé. Nel 2005 vince le elezioni presidenziali ottenendo al primo turno la maggioranza relativa (il 43%) e quella assoluta nel secondo (64,6%). Le elezioni sono state ritenute valide dalla Comunità Internazionale. Personaggio di spicco della vita politica della Repubblica Centrafricana, Bozizé è stato brigadier generale del dittatore Bokassa e nominato ministro della Difesa dal successore David Dacko nel 1979. Ancora durante la dittatura di Kolingba (1981-1993) venne nominato ministro delle comunicazioni. Per lunghi anni, durante la presidenza Patassè, la sua lealtà non fu mai messa in discussione tanto da diventare Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate. Il colpo di stato del 2003 fu possibile, secondo le accuse dello stesso Patassè, grazie all’appoggio fornito a Bozizé dal Governo del Ciad. François Bozizè e l’ex presidente Ange-Félix Patassè sono entrambi candidati alle prossime elezioni presidenziali che dovrebbero svolgersi all’inizio del 2011.
UNHCR / M. Baiwong
Violazioni di forze governative e gruppi armati Nella Repubblica Centrafricana i civili sono vittime sia delle forze governative che dei gruppi armati. La denuncia è di Amnesty International che nel suo Rapporto annuale 2010 parla di una situazione ormai fuori controllo soprattutto nelle province del Nord del Paese: Ouham, Ouham-Pende, Vakaga, Nana-Gribizi e Bamingui-Bangoran. La situazione di violenza incontrollata rende quasi impossibile il lavoro delle organizzazioni umanitarie che faticano a fornire il bilancio esatto di morti e feriti causati del conflitto. Alcune delle vittime, spiega Amnesty nel Rapporto, sono state prese di mira perché sospettate di appoggiare i gruppi rivali, altre sono finite nel mirino per aver semplicemente criticato le parti coinvolte nel conflitto. La guerra non risparmia gli operatori umanitari: ne è stato ucciso uno della Croce rossa in giugno e altri due della Cooperazione Internazionale.
impone un regime monocratico. Inizia una lunga storia di colpi di stato. Il primo ai danni di Dacko è del colonnello Jeab Bedel Bokassa, che sospende la costituzione e scioglie il Parlamento. La follia di Bokassa arriva al punto di autoproclamarsi Presidente a vita nel 1972 e imperatore del risorto Impero Centrafricano nel 1976. Un impero di follia e povertà per la gente. La Francia, ex potenza coloniale, decreta la fine di Bokassa nel 1979 e restaura la presidenza di Dacko, con un altro colpo di stato. Nel 1981 il generale Andrè Kolimba prende il potere. Pressioni internazionali costringono il dittatore a convocare elezioni nel 1993 che vengono vinte da Ange-Felix Patassè. Il neo Presidente dà vita a una serie di epurazioni negli apparati statali. Promulga una nuova Costituzione nel 1994, ma le forti tensioni sociali sfociano in rivolte popolari e violenze interetniche. Nel 1997 vengono firmati gli accordi di pace che portano al dispiegamento di una forza di interposizione composta da forze militari di Paesi africani. Poi arriva il turno dell’Onu. Di nuovo alle urne nel 1999, Patassè vince, ma ormai le tensioni sono fuori controllo. Il Paese diventa una sorta di terra di nessuno dove le forze militari e ribelli razziano e rapinano la popolazione. Terreno fertile per un ennesimo colpo di stato, nel 2003, che porta al potere il generale Fracois Bozizè, che poi vince le elezioni nel 2005 ritenute valide dalla Comunità Internazionale. Patassè, nel frattempo, è riparato in Togo. Oggi è pronto a rientrare per ripresentarsi alle elezioni. Il Paese, nonostante la povertà estrema, è ricco di diamanti, uranio, oro e ferro. Ma l’industria mineraria è poco sviluppata.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Stupri di massa
Il ricorso allo stupro di massa come strumento di pulizia etnica è prassi comune sia per i soldati governativi che le truppe ribelli. A settembre scorso l’Onu ha accertato che almeno 303 civili sono stati violentati (alcuni molte volte) durante gli attacchi sferrati da 200 uomini armati nell’Est del Congo tra il 30 luglio ed il 2 agosto 2010. Tra le vittime 235 donne, 52 bambine, 13 uomini e 3 bambini “ma - avverte il rapporto - il numero delle vittime potrebbe essere maggiore mentre l’entità e la violenza di questi stupri di massa superano l’immaginabile”. Durante queste violenze sono state bruciate 932 case, saccheggiati 42 negozi mentre 116 persone sono state fatte prigioniere e ridotte in schiavitù. L’Onu ha chiesto al Governo di Kinshasa di assistere le vittime e perseguire i responsabili. Il presidente Joseph Kabila, riconfermato nelle elezioni del 2006 con l’appoggio della Comunità Internazionale, si è recentemente soffermato sui cinque flagelli che bloccano lo sviluppo del Paese: corruzione, concussione, intolleranza, indisciplina, imbrogli finanziari. Un duro colpo alla credibilità delle quattro priorità da lui stesso individuate che prevedevano elezioni generali per il 27 novembre 2011; l’avvio di riforme strutturali per esercito, polizia, giustizia, scuola; riabilitazione delle strutture; rivoluzione morale. Così come resta una chimera il piano quinquennale (2008-2012) che includeva cinque settori di intervento: infrastrutture, nuovi posti di lavoro, educazione, acqua, energia elettrica. Le fredde cifre parlano di un Paese posizionato al 162° posto (su 183) nella classifica delle nazioni più corrotte. Nel 2009 le previsioni di crescita economica sono scese dal 5% all’ 1, 5% mentre due terzi dei 71milioni di abitanti sono sottoalimentati nonostante ci siano ben 80milioni di ettari di terre coltivabili, di cui solo il 10% è sfruttato. Come è stato più volte ribadito, la maledizione della Repubblica Democratica del Congo è proprio la sua immensa ricchezza: cobalto, uranio, diamanti, oro, legno. Questa immensa fortuna stuzzica tanti, troppi appetiti da parte delle multinazionali e dei Paesi confinanti (in primo luogo Ruanda e Uganda), di gruppi di pseudo ribelli al servizio di signori della guerra pronti a passare al servizio del miglior offerente. Insomma la Repubblica Democratica del Congo è squassata da guerre e conflitti per il controllo delle risorse, come accertato anche dall’Onu. Non è casuale la presenza nella zona Orientale del Paese (la più ricca) - secondo stime delle Nazioni Unite - di almeno 8 diversi gruppi di ribelli, alcuni di questi guidati da guaritori tradizionali o da mistici invasati dediti al cannibalismo rituale come i famigerati Mai-
Repubblica DEMOCRATICA DEL CONGO
Generalità
Nome completo: Repubblica Democratica del Congo Bandiera
Lingue principali: Francese, lingala, kiswahili, kikongo, tshiluba Capitale: Kinshasa Popolazione: 62.6 milioni Area: 2.34 milioni kmq Religioni: Cristiana, musulmana Moneta: Franco congolese Principali Diamanti, rame, esportazioni: caffè, cobalto, petrolio greggio PIL pro capite: US 140
Mai. In questo fosco quadro c’è da registrare il fallimento della Monusco, la forza di pace delle Nazioni Unite con la missione di stabilizzare il Paese, che è anche la più consistente al mondo, presente da 10 anni e costosa: 3,5miliardi di dollari dal luglio 2009 a maggio 2010. I caschi blu non sono riusciti a fermare la guerra né le violenze sui civili inermi. Ed ora il Governo di Joseph Kabila, giunto al potere con il viatico dell’Occidente, vuole che se ne vada.
Il Congo è uno dei Paesi più ricchi di risorse naturali di tutto il continente africano. Dispone di vasti giacimenti di coltan e cassiterite, ampiamente utilizzati nell’industria informatica e della telefonia mobile; giacimenti di diamanti, di rame, uranio, cobalto, zinco, stagno, argento, tungsteno, alluminio. La maggior parte di queste immense ricchezze si trova nelle Regioni investite dai conflitti più violenti: il Nord Kivu, il Sud Kivu e il Katanga. Il legame tra i conflitti in corso e lo sfruttamento di queste risorse è stato accertato dall’Onu che, prima nel maggio del 2001 e poi nell’ottobre del 2002, ha pubblicato due dossier nei quali si accusano le multinazionali Occidentali attive sul territorio congolese di sfruttare le risorse “favorendo il prosieguo della guerra”. Nei due rapporti viene stilata una lista dettagliata delle com-
pagnie e dei singoli individui, responsabili di avere alimentato il conflitto attraverso lo sfruttamento delle risorse, che sono anche la principale fonte di finanziamento dei gruppi armati ribelli, i quali controllano i giacimenti e utilizzano i proventi della vendita dei minerali per pagare i soldati e acquistare nuove armi. “Le grandi multinazionali minerarie - si legge nel rapporto dell’Onu - sono state il motore del conflitto ancora in corso, e hanno preparato il terreno per le attività illegali e criminali di estrazione nella Repubblica Democratica del Congo. I Governi dei Paesi dove hanno sede gli individui, le compagnie e le istituzioni finanziarie, coinvolte nelle attività, dovrebbero assumere la loro parte di responsabilità, anche cambiando la propria legislazione nazionale e investigando”.
I gruppi armati
L’Onu ha individuato i seguenti gruppi ribelli attivi nelle aree orientali di Nord Kivu, Sud Kivu e Katanga: Fdlr (Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda) il cui leader Laurent Nkunda è in arresto in Ruanda; Mai-Mai (una milizia popolare nata per l’autodifesa dalle invasioni ruandesi); Cndp (Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo); Fplc (Forze Patriottiche per la Liberazione del Congo); Adf/Nalu (Forze Democratiche Alleate/Esercito Nazionale di liberazione dell’Uganda) di cui fanno parte militanti islamici ed ex militari del dittatore Idi Amin Dada; Lra (Esercito di Resistenza del Signore) il cui leader Joseph Kony è ricercato dalla Corte Penale Internazionale per le violenze commesse dalle sue milizie in Uganda e Rd Congo; Frpi/Fpjc (Forza di Resistenza Patriottica in Ituri/Fronte Popolare per la Giustizia in Congo). JeanClaude Baraka, il loro capo, è stato arrestato di recente; Enyele: gruppo operante nella provincia dell’Equatore e guidato da Ondjani Mangbama, un guaritore tradizionale, arrestato a maggio.
La storia della Repubblica Democratica del Congo, dei suoi violenti e infiniti conflitti e delle sue drammatiche crisi umanitarie, è legata alla lotta per il controllo delle sue immense risorse naturali. Una lotta che inizia nel 1885 con la colonizzazione belga, quando i primi giacimenti di diamanti vennero scoperti e che continua ancora oggi. Il 30 giugno 1960, è Patrice Lumumba a diventare il primo ministro della neonata Repubblica Democratica del Congo. Protagonista della lotta per l’indipendenza dal Belgio, Lumumba mirava ad un affrancamento completo dall’ex potenza coloniale che manteneva ancora molti suoi soldati nei quadri dell’esercito congolese. Lumumba venne sequestrato e ucciso dalle truppe dell’esercito rimaste fedeli, dopo un ammutinamento, al capo di stato maggiore Joseph Mobutu. Dopo aver riorganizzato l’esercito, Msobutu capeggia nel 1965 il colpo di stato contro Joseph Kasavubu, primo Presidente della nuova Repubblica, instaurando un lungo regime autoritario a partito unico. Mobutu cambia il nome del Paese in Zaire e il suo in Mobutu Sese Seko. La corruzione e le violenze dilagano e in piena guerra fredda, Mobutu si guadagna
Quadro generale
Joseph Kabila Kabange (Sud-Kivu, 4 giugno 1971)
Laurent-Désiré Kabila, padre dell’attuale presidente Joseph, non piaceva per niente ad Ernesto Che Guevara, arrivato nel 1965 in Congo per sostenere il movimento marxista schierato con i sostenitori di Lumumba. “Troppo dedito a champagne e donnine” appuntava nel suo diario rimproverandogli scarso fervore ideologico. Non mancano dubbi sulla legittima discendenza di Joseph Kabila, così come da molte parti si ipotizza che ad armare i sicari che uccisero Laurent-Désiré sia stato proprio lui per succedergli nella carica di capo dello Stato. Joseph grazie a questa parentela “pesante” ha avuto la strada spianata. Con una educazione militare di alto livello ricevuta in Cina, è diventato Presidente giovanissimo ad appena 29 anni. Ha sventato colpi di stato organizzati dai fedeli del vecchio dittatore Mobutu ed ha varato una costituzione su misura per lui abbassando l’età minima per il candidato alla presidenza da 35 a 30 anni appena pochi giorni prima che li compisse. La Comunità Internazionale lo ha appoggiato nelle elezioni presidenziali del 2006 contro Jean-Pierre Bemba, ricco uomo d’affari arrestato due anni dopo su mandato della Corte Penale Internazionale per le violenze commesse dalle sue milizie.
l’appoggio internazionale degli Stati Uniti e di molti Governi Occidentali, combattendo contro la vicina Angola, sostenuta dall’Unione Sovietica. Nel 1994, un’ondata di migliaia di profughi disperati, ruandesi e burundesi, scappa dal vicino Ruanda dove è in corso il genocidio e si rifugia nella Regione congolese del Kivu. Il Paese è ulteriormente destabilizzato e si creano le condizioni ideali per una nuova sollevazione dei ribelli contro Mobutu. Nel 1996, capeggiati da Laurent Kabila e armati da Uganda e Ruanda i ribelli occupano la capitale, Kinshasa e insediano lo stesso Kabila come Presidente. Lo Zaire torna ad essere Repubblica Democratica del Congo e Mobutu fugge in Marocco dove morirà, lasciandosi alle spalle un Paese ridotto al collasso economico e investito da un conflitto senza precedenti che coinvolge Paesi vicini e che, per la vastità del territorio coinvolto e il numero impressionante di vittime è stato ribattezzato ‘Guerra Mondiale Africana’. Il nuovo Governo non è diverso dal precedente e gli stessi Paesi che avevano contribuito a designare Kabila, decidono di rovesciarlo sostenendo le azioni di gruppi ribelli in un Paese ormai completamente destabilizzato. Nel 1998 esplode la guerra civile, ancora in corso nella Repubblica Democratica del
Congo. Sul campo si combattono da una parte le truppe di Ruanda, Burundi e Uganda a sostegno dei ribelli tutsi del Raggruppamento Congolese per la Democrazia (Rcd) e del Movimento di Liberazione del Congo (Mic); dall’altra le truppe di Zimbabwe, Namibia e Angola che combattono a fianco del presidente Kabila. Nel gennaio del 2001 Laurent Kabila viene assassinato, ma gli scontri continuano. Al suo posto viene designato il figlio Joseph Kabila, che imposta da subito i negoziati per arrivare alla firma degli accordi di pace nel 2003. Si insedia così un nuovo Governo di transizione che mette fine alle ostilità e che porta al ritiro degli eserciti stranieri alleati del Governo: Angola, Namibia e Zimbabwe e di quelli che sostenevano i ribelli: Ruanda e Uganda.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Una via del riscatto delle donne saharawi
Il progetto è destinato a donne e ragazze dei campi Saharawi, massimo 15 persone, per la creazione di piccoli oggetti e collane. Lo scopo è di insegnare ad un gruppo di donne dei campi Saharawi le tecniche base di ceramica consentendo di recuperare le tradizioni decorative artistiche e culturali, produrre oggetti d’artigianato tipici e creare una piccola fonte di guadagno. Dopo una prima breve fase di insegnamento le donne sono autonome, conoscono l’intero processo produttivo dalle materie prime all’oggetto finito; hanno già prodotto le medaglie ed altri oggetti per la decima edizione della “maratona nel deserto” svoltasi nel febbraio 2010. La lavorazione utilizza una tecnica di cottura artigianale con forno “raku” ricavato da un bidone e mediante un cannello a gas termoretraibile, per evitare la costante energia elettrica necessaria. Il progetto costa 12.000 euro compreso materiale e 3 viaggi nei campi profughi degli istruttori. Se il progetto avrà buon esito e potrà diffondersi i frutti saranno copiosi per la debolissima economia saharawi. Dopo trent’anni e in attesa di un referendum voluto dalla Comunità Internazionale, ma mai arrivato, il conflitto non è ancora terminato. Per l’Onu, il caso del Sahara Occidentale, deve essere risolto in conformità al principio dell’autodeterminazione. Le soluzioni contrarie a questo principio hanno provocato, fino ad ora, enormi perdite umane e materiali sia per la popolazione saharawi sia per la popolazione marocchina. Nel maggio 2005 gravi scontri fra le forze di sicurezza marocchine e dimostranti saharawi danno inizio alla “seconda intifada saharawi”. La Commissione per i Diritti Umani dell’Onu (Hcdh) ha dichiarato nel 2006, a seguito dell’invio di una delegazione nei Territori Occupati e nei campi di rifugiati di Tindouf, che le viola-
SAHARA OCCIDENTALE
Generalità
Nome completo: Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD) Bandiera
Lingue principali: Hassaniya, spagnolo Capitale: El Ayun Popolazione: circa 1 milione Area: circa 280.000 Kmq Religioni: Islamica Sunnita Moneta: Dinaro algerino nei campi profughi, Dirham marocchino nei territori occupati Principali Fosfati, pesca, petrolio esportazioni: e probabilmente ferro e uranio PIL pro capite: n.d.
zioni dei diritti umani nei confronti del Popolo Saharawi sono diretta conseguenza dal mancato riconoscimento del suo diritto fondamentale all’autodeterminazione, come sostenuto in più occasioni dalle Nazioni Unite. Nel rapporto si sottolinea che il Consiglio di Sicurezza e il Segretariato Generale, devono essere appoggiati e sostenuti dalla Comunità Internazionale nel cercare un soluzione politica, giusta e definitiva al conflitto ancora in corso.
Il Popolo Saharawi è privato del diritto fondamentale e internazionalmente riconosciuto ad avere una terra, su cui vivere in pace e libertà. Il diritto all’autodeterminazione viene negato dal Governo del Marocco, nonostante le numerose risoluzioni di condanna dell’Onu e nonostante Hans Corel, Segretario per gli Affari Giuridici dell’Onu abbia giudicato “illegale” lo sfruttamento delle risorse naturali del Sahara Occidentale, costituite da grandi quantità di fosfati e abbondantissimi banchi di pesce. Molte Nazioni europee considerano illegale Il Sahara Occidentale comprende le Regioni di Saquia el Hamra al Nord e Rio de Oro al Sud, 284mila Kmq. Confina con il Marocco, l’Algeria, la Mauritania e l’Oceano Atlantico. È uno dei territori più ostili alla vita dell’uomo in tutto il pianeta. Aride distese di rocce e dune di sabbia sono solcate da piccoli wadi (letti di fiumi) nei quali si accumula quel po’ di acqua che non riesce mai a raggiungere il mare a causa della rapida evaporazione. Il Sahara Occidentale, già colonia spagnola, è l’ultima colonia africana ancora in attesa dell’indipendenza: al dominio spagnolo, infatti, nel 1975 si è sostituito quello di Marocco e Mauritania, che hanno invaso il territorio. La maggior parte della popolazione è fuggita in Algeria dove, da allora, vive nei campi profughi. In pratica, la questione del Sahara Occidentale è un caso di decolonizzazione mancata. Il popolo Saharawi è privato dal 1975 del suo diritto all’autodeterminazione. Lo dimostrano le tappe di questo conflitto. Il 6 ottobre 1975, il re del Marocco dà il benestare alla “marcia verde”, attraverso la quale 350mila marocchini avanzano verso il Sahara Occidentale con l’obiettivo di conquista del territorio. Il 31 Ottobre 1975 inizia l’invasione marocchina nella zona Orientale del Sahara l’estensione al Sahara Occidentale degli accordi sulla pesca, approvati nel 2006 tra il Parlamento Europeo e il Marocco. Fortunatamente le contraddizioni europee non si applicano al campo umanitario, dove il contributo dell’Unione Europea è decisivo per il sostentamento dei rifugiati. Anche se, purtroppo, gli aiuti umanitari internazionali stanno diminuendo in maniera vistosa e preoccupante. Ad esempio, anche l’Italia, per il 2010 ha ridotto da 7milioni a solo 300mila euro la propria as-
sistenza.
Occidentale. La Spagna intanto si ritira e il 2 novembre Madrid riafferma il proprio supporto all’autodeterminazione della gente Saharawi, allineandosi agli impegni internazionali assunti. Con il ritiro della Spagna, alla fine del 1975 il Polisario (movimento di liberazione che dal 1973 lotta per l’indipendenza) sembra sul punto di guadagnare l’indipendenza. Ma con trattative separate e segrete, Madrid firma un accordo clandestino con il Marocco e la Mauritania. I tre Paesi decidono di spaccare il territorio del Sahara Occidentale fra il Marocco e la Mauritania, evitando di dare l’indipendenza ai Saharawi. Nel 1976 il Fronte Polisario proclama la Rasd, Repubblica Araba Saharawi Democratica, ma l’annessione illegale del territorio dà il via alla guerra fra Marocco e Mauritania, per il controllo del territorio. Decine di migliaia di Saharawi fuggono sotto i bombardamenti al napalm del Marocco. L’aggressione investì sia il Nord che il Sud del Paese facendo fuggire i Saharawi verso Est, in Algeria appunto, dove è stato concesso loro asilo politico. Il rientro nelle loro terre viene reso ancora più difficile dalla costruzione da parte del Marocco, a partire dal 1980, di un muro elettrificato. È un’impressionante opera militare: bunker, postazioni fortificate, campi minati
Quadro generale
La sahara marathon
La sahara marathon è una manifestazione sportiva internazionale di solidarietà con il Popolo Saharawi ed è giunta quest’anno alla decima edizione. Promossa dal Comitato Sportivo Saharawi e organizzata da volontari provenienti da diverse nazioni, la Saharamarathon comprende oltre alla maratona classica le distanze di 21 Km - 10 Km - 5 Km e la corsa dei bambini. Ha come obiettivo la promozione dell’attività sportiva tra i giovani Saharawi, il finanziamento di progetti umanitari e la sensibilizzazione del mondo sul conflitto dimenticato; in quel territorio vivono oltre duecentomila profughi Saharawi. Il percorso unisce simbolicamente tre campi profughi: Smara, Auserd, El Ayoun. Nelle tendopoli, camminando, non sei mai solo: i bambini ti chiedono da dove vieni, le persone si intrattengono a parlare e ti offrono il tè, che è un segno dell’ospitalità del Popolo Saharawi. È cortesia berne almeno tre bicchieri: il primo è amaro come la vita, il secondo dolce come l’amore, il terzo soave come la morte. La maratona si svolge ogni anno a fine febbraio in occasione dell’anniversario della proclamazione della Rasd. Si parte da Roma o da Rimini con l’Air Algerie, i partecipanti sono ospitati in gruppi di 4 o 5 da famiglie Saharawi, nelle loro tende. Si dorme e si consumano i pasti con loro. I giorni seguenti la maratona sono dedicati ad incontri e visite.
Mahfud Ali Beiba (1953 - Tindouf, 2 luglio 2010)
Il 2 luglio 2010, per crisi cardiaca, è morto a El Aiun nella sua modesta tenda nei campi profughi di Tindouf (Algeria). Dal Popolo Saharawi è considerato un eroe indimenticabile, uno strenuo combattente (senza armi) per la difesa dell’indipendenza Saharawi, uno dei più intelligenti e semplici rappresentanti di questo piccolo popolo. “Vedo il futuro con molto ottimismo” era solito dire; ma anche “In nessun momento la causa dovrà sparire con la scomparsa degli uomini”. Era nato 57 anni fa a El Aiun, oggi nei Territori Occupati; era sposato e padre di tre figlie. Al momento della morte era Presidente del Parlamento. È stato co-fondatore tra le altre cose e primo Segretario Generale del Polisario, ha occupato alte cariche di Governo. Da primo Ministro della Rasd era capo delegazione nelle negoziazioni col Marocco alle Nazioni Unite: uomo onesto e negoziatore saggio. Era considerato uno dei più eminenti politici africani degli ultimi decenni (veniva paragonato a Nelson Mandela). Non è mai appartenuto all’ala militare del Polisario e il suo prestigio e la sua autorità erano riconosciuti da tutti.
Indipendence Flotilla La spedizione ha lo scopo di accendere i riflettori sull’occupazione marocchina dei territori saharawi. Un gruppo di navi, soprannominato “Indipendence Flotilla”, lascerà nelle prossime settimane le isole Canarie per dirigersi verso le coste del Sahara Occidentale. Gli organizzatori hanno intenzione di protestare contro l’occupazione marocchina del Paese e le condizioni di vita della popolazione saharawi. La spedizione ha lasciato Las Palmas e dovrebbe arrivare a Al Aaiun il 14 Novembre. Sul viaggio vigileranno le forze di sicurezza spagnole. “Siamo nella fase iniziale del progetto - ha dichiarato Isabel Galeote, portavoce dell’Ong Observatorio para los Derechos Humanos en Sáhara Occidental - ma abbiamo già ricevuto molte richieste di partecipazione sia da cittadini che da giornali e televisioni”. Il Sahara Occidentale è uno Stato riconosciuto dall’Unione Africana, ma non dalle Nazioni Unite che lo inseriscono nella lista degli Stati non indipendenti. Controllato dall’esercito marocchino fin dal 1976, da anni attende un referendum per deciderne l’indipendenza. Dopo l’annessione Rabat è stata espulsa dall’Unione Africana e ha visto deteriorarsi sempre più i rapporti con la Spagna e la Francia. Non ultimo il caso di Aminatou Haidar, attivista sahrawi a cui il Marocco ha concesso di tornare in patria solo dopo 32 giorni di sciopero della fame.
(mine in gran parte italiane), lungo oltre 2200 Km alto cinque metri fatto di sassi e sabbia; si dice che il suo mantenimento costi al Governo marocchino oltre 1milione di dollari al giorno. Nel 1984, l’Organizzazione degli Stati Africani ammette come Stato membro, la Rasd, espelle il Marocco, nega di fatto valore giuridico agli accordi fra Spagna, Mauritania e Marocco. Nel 1991, dopo 18 anni di guerra, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva il Piano di Pace. Dal 6 settembre 1996 la Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale, Minurso, sorveglia il rispetto del cessate il fuoco e organizza il referendum di autodeterminazione che è rimasto solo sulla carta, a causa dell’opposizione del Marocco. Sempre l’Onu, in una decisione specifica sul Sahara Occidentale, trasmessa da Hans Corell, Segretario Generale Aggiunto per gli Affari Giuridici, al Presidente del Consiglio dichiara: “Gli Accordi di Madrid non hanno significato in alcun modo un trasferimento di sovranità sul territorio, né hanno concesso ad alcuno dei firmatari lo status di potenza amministrante, dato che la Spagna non poteva concederlo unilateralmente. Il trasferimento di potere amministrativo sul territorio nel 1975 non riguarda il suo status internazionale, in quanto territorio non autonomo”. La continuazione dello status quo sta conducendo ad una repressione sempre più brutale nelle zone occupate e ad un ritorno alle ostilità. Molti giovani ed anziani parlano apertamente della necessità, per sbloccare l’empasse, di ricorrere alle armi o ad atti di terrorismo che sino ad oggi non sono stati parte della strategia Saharawi.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
I pirati somali
Sono circa 30mila le imbarcazioni che ogni anno attraversano il Golfo di Aden e 406 gli attacchi di pirateria avvenuti nel 2009. Sono i dati dell’Organizzazione Marittima Internazionale che denuncia anche il fatto che i pirati colpiscono prevalentemente sulla costa Orientale dell’Africa. Sono 30 le navi da guerra della flotta dell’Unione Europea e di altri Paesi che pattugliano quest’area dell’Oceano Indiano proprio per proteggere le navi di passaggio dagli attacchi pirati. Delle migliaia di navi attaccate negli ultimi anni molte sono state catturate insieme ai loro equipaggi. Per il loro rilascio i pirati somali hanno poi preteso il pagamento di un riscatto. Una contropartita a cui mai vi hanno rinunciato anche a costo di tenere in ostaggio nave e marittimi per mesi. Anche una nave italiana ha vissuto questa esperienza. Si tratta del rimorchiatore italiano Buccaneer. La nave venne catturata nel golfo di Aden l’11 aprile 2009 e rilasciata solo il 9 agosto dello stesso anno. A bordo vi erano 16 marittimi dei quali 10 italiani. Ufficialmente la nave venne liberata grazie ad un laborioso lavoro diplomatico. Per molti invece, compreso i pirati, venne pagato un riscatto milionario. La Farnesina e la compagnia proprietaria del Battello hanno sempre smentito che sia stato pagato un riscatto. I dati, forniti dalla World Peace Foundation, parlano di un affare, quello piratesco, di 100milioni di dollari solo nell’ultimo anno. Sul piano militare l’esercito etiope continua a mantenere una presenza a Mogadiscio. Ma questa situazione contribuisce ad alimentare tensione e motivi di scontro. L’Etiopia è da sempre considerato lo stato nemico numero uno per la Somalia per via della regione dell’Ogaden. Anche l’esercito americano interviene direttamente nel conflitto a sostegno dei governativi perché teme una islamizzazione somala e un controllo jihadista nella regione che possa alimentare anche le basi internazionali di alQaeda. L’Unione Africana approva l’invio di una missione chiamata Amisom (African Mission to Somalia) incaricata di controllare la capitale dal ritorno delle milizie islamiche. I primi ad inviare un proprio contingente in Somalia sono gli ugandesi, arriveranno poi i burundesi e lasceranno invece il territorio somalo i militari etiopi. Alla fine del 2008, il 29 dicembre, il presidente Abdullahi Yusuf Ahamed rassegna le sue dimissioni motivandole con l’impossibilità di portare la Somalia in una fase di pacificazione ed accordo tra le parti e criticando inoltre la Comunità Internazionale per il mancato sostegno economico, senza il quale non sarebbe stato possibile formare un esercito in grado di fronteggiare le Corti Islamiche e gli altri gruppi che si contendono il potere. Viene sostituito da Sheikh Sharif Sheikh Ahmed eletto capo del Governo Federale di Transizione il 31 gennaio 2009, leader di una fazione moderata dell’Unione delle Corti Islamiche. Poco dopo Omar Abdirashid Ali Shermarke diviene primo ministro. La storia dell’ultimo anno non porta grandi cambiamenti se non un aumento di attentati, attacchi, scontri con un aumento crescente del numero delle vittime molte fra i civili. Il controllo del territorio è sempre più nelle mani di Al Shabab e degli altri gruppi islamisti. La stessa Mogadiscio è solo parzialmente sotto il controllo militare del Tfg e del contingente Amisom. Nel settembre 2010 si dimette Shermarke dopo mesi di polemica con il Presidente e altri gruppi clanici in parlamento tolgono il loro appoggio politico a Sheikh Sharif Sheikh Ahmed che rinforza la richiesta d’intervento della Comunità Internazionale contro i diversi gruppi fondamentalisti denunciando la volontà di questi di costituire in Somalia una importante base di al-Qaeda.
Generalità
Nome completo: Somalia Bandiera
Lingue principali: Somalo, arabo, italiano, inglese Capitale: Mogadiscio Popolazione: 10.700.000 Area: 637.661 Kmq Religioni: Musulmana (99%) Moneta: Scellino somalo Principali Banane, bestiame, esportazioni: pellame e pelli, mirra, pesce PIL pro capite: Us 600
L’eterno conflitto che si combatte in Somalia è certamente influenzato anche dalla forte instabilità che caratterizza l’intera Regione del Corno D’Africa. La vicina Etiopia, guidata da un Governo cristiano e circondata da Paesi musulmani, non ha esitato ad invadere la Somalia. Le truppe etiopi sono entrate a Mogadiscio nel 2006 per contrastare le Corti Islamiche ed evitare la nascita di uno Stato islamico in Somalia. Gli stessi Stati Uniti hanno bombardato più volte il territorio somalo considerato da Washington una base ideale per i terroristi islamici. A
questo va aggiunto il dramma di quella che molti definiscono come una vera e propria “economia di guerra” e che è costantemente alimentata da gruppi armati e potentati locali che da una simile instabilità, ormai al limite del collasso, traggono enormi profitti grazie anche a traffici illegali di armi e rifiuti. Un Paese caratterizzato da una drammatica frammentazione politica, economica e sociale, subita prima di tutto dalla popolazione civile somala, stremata da quella che l’Onu continua a definire come “la peggiore crisi umanitaria al mondo”.
I Clan somali
L’unico Paese al mondo che da quasi 20 anni vive in una situazione di conflitto continuo e senza una vera autorità nazionale che abbia il controllo del territorio, quel Paese è la Somalia. Volendo datare un inizio a questa situazione di conflitto permanente dobbiamo rifarci alla caduta del dittatore Siad Barre, destituito il 26 gennaio 1991. Quella che doveva essere la fine di un regime dittatoriale si è trasformata presto in una guerra fra le più lunghe e cruente dell’Africa. Per la presa del potere, i diversi clan somali si sono contesi e suddivisi il territorio e il controllo su di esso a colpi di Kalashnikov e di Tecnica, l’arma somala per eccellenza, il mitragliatore montato sul cassone aperto del Toyota Pick-Up. In realtà non è che prima del 1991 la Somalia avesse conosciuto lunghi periodi di pace. Dalla proclamazione dell’indipendenza del primo luglio 1960, che vede l’unificazione della Somalia dell’amministrazione fiduciaria italiana (19501960) e del Somaliland protettorato britannico, per nove anni aveva visto un Governo della Repubblica Somala legittimamente eletto. Nel 1969 Siad Barre con un colpo di stato prende il potere ed instaura il suo regime. Nel 1977 Barre muove guerra contro l’Etiopia per la regione dell’Ogaden, regione etiope con alta presenza di popolazione somala da sempre rivendicata dalla Somalia. Il regime interno è poco tollerato, gli scontri aumentano e dal 1980 assumono il profilo di una vera e propria guerra civile. La regione del Somaliland (ex Somalia britannica unificata nel 1960 nella Repubblica Somala) rivendica una propria autonomia fino ad arrivare alla autoproclamazione d’indipendenza del 18 maggio 1991. Molti oppositori al regime di Siad Barre vengono arrestati ed incarcerati, altri esiliati ed altri scappano di propria iniziativa. Dopo la caduta del regime di Siad Barre e lo scoppio degli scontri interni, la Comunità Internazionale decise di intervenire con l’invio di una missione Onu, la Unosom. Obiettivo della missione, nota anche come “Retore Hope”, era quello di creare un margine di sicurezza per l’invio di aiuti umanitari per la popolazione civile vittima da sempre dei conflitti somali. Ma la districata situazione di controllo del territorio da parte dei signori della guerra, principalmente dei due grandi oppositori di quegli anni, Ali In Somalia esiste una ampia omogeneità etnica. La grande maggioranza della popolazione infatti è di etnia somala. Tuttavia all’interno del popolo somalo la suddivisione clanica è di grande importanza. È sufficiente pensare che la composizione dei diversi parlamenti espressi nel tempo dai molteplici processi di pace, sono sempre stati composti su base dei clan di appartenenza. Anche nella vita politica e nel controllo territoriale l’appartenenza clanica è di grande importanza. I clan, di identità familiare, sono patrilineari e spesso sono suddivisi in sotto-clan e sotto-sotto-clan. La società somala è etnicamente endogamica. I matrimoni possono diventare occasione di alleanza fra gruppi di sotto-clan diversi o anche proprio fra clan differenti. I principale clan somali sono: Darod, Dir, Hawiye, Isaaq,
Rahanweyn, Meheri
Quadro generale
Sheikh Sharif Sheikh Ahmed (Shabeellaha Dhexe, 25 luglio 1964)
È il 7° Presidente della Somalia eletto il 31 gennaio 2009 dopo le dimissioni di Abdullahi Yusuf Ahamed. Durante il periodo di controllo di Mogadiscio da parte delle Corti Islamiche, Sheikh Ahmed ne incarnava l’anima più moderata come capo della Unione delle Corti Islamiche (Icu). Parla il somalo e l’arabo. È un Abgal, sottoclan di uno dei clan più numerosi della Somalia, quello Hawiye. Dopo gli studi all’estero e il suo rientro in Somalia, Ahmed viene coinvolto nell’Unione delle Corti Islamiche e viene eletto a capo di un piccolo tribunale locale a Jowhar. Fra i suoi più stretti amici e alleati c’è lo sceicco Hassan Dahir Aweys, uno dei fondatori dell’Unione (Icu) e Aden Hashi Farah “Eyrow” che ha combattuto in Afghanistan nel 2001 e che secondo Washington ha collegamenti con al-Qaeda. Il 28 dicembre 2006, dopo solo sei mesi di potere delle Corti Islamiche a Mogadiscio, l’esercito etiope con il Tfg conquista Mogadiscio. Ahmed fugge in Kenya dove rimane sotto la protezione delle autorità. Rilasciato a febbraio 2007 raggiunge altri componenti dell’Unione delle Corti in Yemen. Partecipa ai lavori della conferenza di pace di Gibuti a inizio 2009 dal quale esce eletto Presidente il giorno 31 gennaio.
Madi da una parte e il generale Aidid dall’altra, conducono la missione Onu ad un fallimento simbolicamente identificato con la battaglia di Mogadiscio e l’abbattimento dell’elicottero americano Black Hawk. La Unosom si ritira nei primi mesi del 1994 a due anni dal suo primo invio. Anche l’Italia era presente in Somalia con la missione Ibis che si ritira il 20 marzo 1994, lo stesso giorno in cui vengono barbaramente assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Gli anni successivi sono caratterizzati da una sempre maggiore frammentazione del territorio da parte dei sempre crescenti “lord war”. In questi anni la Somalia è anche la vera terra di nessuno, inesistenza di controlli frontalieri, una frammentazione territoriale e clanica gestita dal solo controllo delle armi. Questa situazione consente lo svolgimento di traffici illeciti, rifiuti dispersi in mare e sotterrati nel deserto somalo in cambio di armi, fino alla formazione di veri campi di addestramento della milizia jihadista. Intanto i diversi clan e i molti signori della guerra, sollecitati dalla Comunità Internazionale e dall’Unione Africana, si incontrano cercando di trovare l’accordo. Molte le conferenze di pace messe in atto, ma ogni volta si concludono con un nulla di fatto. Bisogna aspettare il 2004 per vedere, a conclusione della quattordicesima conferenza di pacificazione, la nomina di un Parlamento di Transizione che elegge presidente Abdullahi Yusuf Ahmed e un Governo Federale di Transizione (Tfg) che dopo un primo periodo di attività da Nairobi, a giugno 2005 entra in Somalia. Mogadiscio però è considerata ancora troppo pericolosa e nelle mani dei diversi “lord war” così il Governo di Transizione risiede per un periodo a Johwar e poi a Baidoa.
Nell’estate 2006 gli scontri iniziati dentro Mogadiscio fra i lord war e le milizie jihadiste somale portano queste ultime, controllate dalle Corti Islamiche, a scacciare i signori della guerra e a prendere il controllo della città. Da Mogadiscio poco alla volta le Corti Islamiche prendono il controllo di buona parte della zona Sud della Somalia fino ad arrivare alle porte di Baidoa, la città di residenza e controllo del Tfg che nel frattempo aveva ottenuto la tutela dell’Onu e l’appoggio militare dell’Etiopia. Da Baidoa riparte l’offensiva governativa che con il determinante intervento dell’esercito etiope e il sostegno dei militari della regione del Puntland, rispondono al tentativo delle Corti di conquistare Baidoa, con un attacco senza precedenti che porta in pochissimo tempo alla conquista di Mogadiscio. Il Tfg ottiene così ufficialmente il controllo di Mogadiscio, ma nei fatti ha inizio un lungo periodo, che sussiste ancora oggi, di continui attentati da parte dei fondamentalisti islamici, attacchi ai palazzi della Presidenza e del Governo. Numerose le vittime civili e decine di migliaia gli sfollati. La situazione umanitaria è di vera emergenza.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Per i profughi nulla è cambiato
Il campo-sfollati di Nyala, nel Darfur, continua ad essere il più grande del mondo. E le condizioni di vita di questi come di tutti gli altri profughi darfuriani continuano ad essere spaventose. Mentre si trascinano stancamente le trattative di pace, la realtà della popolazione civile resta di miseria e violenza quotidiana. Nei soli due mesi di maggio e giugno 2010 vi sono stati oltre 800 morti, in Darfur. In luglio nuovi scontri fra esercito governativo e ribelli del Jem (il maggiore gruppo ribelle) hanno provocato altre centinaia di vittime. La situazione rimane esplosiva. Non solo per le condizioni estreme in cui vive la gente, ma anche perché sia il regime sudanese che i ribelli mettono in atto una strategia di pressione, fatta di reti spionistiche, infiltrazioni nei campi e intimidazioni verso i leader degli sfollati sospettati di contiguità coi ribelli o di collaborazionismo col Governo di Khartoum. In questa fase storica, nonostante le tante tensioni e le contraddizioni irrisolte che attanagliano questo enorme Paese, sono in vigore diversi accordi di pace: quello fra Governo e Slpm (Sud-Sudan) siglato nel 2005; quello con il Fronte dell’Est, il raggruppamento delle fazioni ribelli del Sudan Orientale, firmato nel 2006. Quanto al Darfur, dopo il cessate-il-fuoco sottoscritto col Governo dal maggiore gruppo ribelle politico-militare (nello stesso 2006), sono continuate le trattative - a singhiozzo - anche con gli altri gruppi armati. I colloqui di pace sono in corso a Doha, nel Qatar. L’ultima novità, nel maggio 2010, è stata l’abbandono del tavolo delle trattative da parte del Jem (Movimento Giustizia e Libertà). La situazione rimane molto instabile. Nel corso del 2010 ci sono stati più di un migliaio di morti dovuti a scontri e scaramucce fra etnie rivali e fazioni armate. Le elezioni - previste dagli accordi di pace, ma svoltesi nell’aprile 2010 con molti mesi di ritardo sui tempi fissati - hanno confermato il Presidente del Governo centrale Omar Hassan El Bashir (che ha vinto col 69% dei voti) e anche il Presidente della regione semiautonoma del Sud Sudan, Salva Kiir, col 93% dei consensi. Il Paese, attraverso questa prima elezione multipartitica da 24 anni, oltre ai presidenti, ha eletto i membri dei Parlamenti (centrale e del Sud) e 25 governatori. Peraltro, non sono mancate le contestazioni del voto con accuse di brogli elettorali e intimidazioni nei confronti dell’opposizione. Le associazioni per la tutela dei diritti umani hanno segnalato episodi ripetuti di brutale repressione, violenze verso gli oppositori politici e arresti nei confronti di numerosi giornalisti. Nel luglio del 2010 la Corte Penale Internazionale ha spiccato un secondo mandato di arresto nei confronti di El Bashir (dopo quello emesso l’anno precedente, nel marzo 2009). Si tratta dell’unico caso al mondo di un Presidente in carica (e rieletto) incriminato per genocidio, gravi violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e contro l’umanità. Ora il Paese si prepara all’appuntamento più delicato: il referendum, fissato per gennaio
Generalità
Nome completo: Repubblica del Sudan Bandiera
Lingue principali: Arabo, i diversi gruppi etnici parlano oltre 400 lingue locali, inglese Capitale: Khartoum Popolazione: 42.000.000 Area: 2.505.810 Kmq Religioni: Musulmani (60%, predominanti fra arabi e nuba, nelle regioni del Centro-Nord), cattolici (15,5%), arabi cristiani (1%), aderenti a religioni tradizionali (23,5%) Moneta: Sterlina sudanese Principali Petrolio e prodotti esportazioni: petroliferi, cotone, sesamo, arachidi, gomma arabica, zucchero, bestiame PIL pro capite: Us 2.309
2011, col quale le regioni meridionali del Paese devono decidere se rimanere federate al resto del Paese o realizzare la secessione. L’approssimarsi del voto, com’era prevedibile, sta facendo crescere la tensione nel grande Paese africano.
I diversi focolai di guerra civile che hanno ripetutamente scosso il Sudan e impoverito tremendamente la sua popolazione (oltre l’80% vive sotto la soglia di povertà) hanno avuto origini diverse: il conflitto Nord-Sud si è acceso nel 1983 per via della decisione del Governo centrale di imporre la sharia anche nelle Regioni non islamizzate nel Paese. Quella lunga guerra poi si è via via trasformata in un conflitto per le risorse, prima fra tutte il Il Darfur, che si trova nella parte Occidentale dell’immenso Sudan (è il secondo Paese del continente africano per dimensione), è ormai da anni una delle aree di crisi più acuta del pianeta. La questione scoppia nel febbraio del 2003: il Governo arabo e islamico di Khartoum (la capitale) stava in quel momento tentando di definire l’accordo di pace con l’Splm, il Movimento di Liberazione del popolo sudanese, dopo quasi 20 anni di guerra civile fra Nord e Sud Sudan. È in quei frangenti che nel Darfur - l’area più povera del poverissimo Sudan - prende l’avvio un movimento di ribellione armata che chiedeva attenzione da parte del Governo centrale dopo decenni di trascuratezza, marginalizzazione e sottosviluppo. L’accendersi della ribellione è però l’occasione da parte del Governo guidato da Hassan El Bashir non solo di scatenare una violenta repressione verso le popolazioni non arabe e indigene della Regione, ma anche di armare i gruppi nomadi di origine araba, divenuti noti poi col nome di Janjaweed, innescando una feroce serie di scontri e scorribande fra questi guerrieri nomadi a cavallo e le popolazioni non arabe e stanziali. È l’inizio di una guerra civile fra le più sanguinose e violente vissute in Africa: in un paio d’anni sono centinaia i villaggi bruciati e rasi al suolo, petrolio. Gli altri episodi di ribellione armata (nel Darfur, nei Nuba, nell’Est Sudan) sono nati invece soprattutto per le condizioni di emarginazione e di estrema povertà in cui queste Regioni “dimenticate” si sono sempre trovate a vivere. I gruppi ribelli chiedono sviluppo, investimenti, maggiore autonomia dal Governo centrale, e di non essere esclusi dalla ricca “torta” dei pro-
venti derivanti dalle concessioni petrolifere. con gli abitanti costretti a fuggire, a espatriare verso i campi profughi del Ciad o ad accamparsi negli smisurati campi sfollati interno allo stesso Darfur. La stima è che il conflitto abbia provocato oltre 300mila vittime e 3milioni di profughi (dei quali 200mila rifugiati in Ciad e il resto nei campi sfollati all’interno del territorio sudanese), su una popolazione totale della regione di 8milioni di abitanti. L’elenco delle violazioni dei diritti umani commesse in Darfur è impressionante: massacri, stupri sistematici, vessazioni di ogni genere, incursioni nei campi sfollati, eccidi indiscriminati di civili. Il sistema utilizzato è di fatto il medesimo della precedente guerra ventennale con la popolazione africana del Sud del Paese: affiancare alla usuale repressione dell’esercito l’azione di gruppi paramilitari che lo stesso Governo ha armato, allo scopo di creare una sorta di azione a tenaglia. Le azioni di guerra e gli scontri sono andati avanti intensamente fino a maggio 2006, quando la principale fazione ribelle (Slm/a, Movimento per la liberazione del Sudan) sottoscrisse col Governo un accordo di pace. Da allora continua il conflitto “a bassa intensità”, a fasi alterne fra riprese delle trattative di pace e nuovi momenti di tensione. L’emergenza umanitaria, invece, è rimasta costantemente drammatica: in Darfur vi sono an-
Quadro generale
Il referendum. E poi?
Nel Sud Sudan tutti attendono la fatidica data: in gennaio 2011 si vota per rimanere uniti al Nord o per la secessione. E tutti sanno, in Sudan come nella Comunità Internazionale, che con ogni probabilità vinceranno i separatisti. Nessuno sa invece cosa accadrà dal giorno dopo. Il Governo centrale e quello del Sud non sono nemmeno riusciti a stabilire quale sarebbe la linea di frontiera. E non è difficile immaginare la ragione: la maggior parte dei pozzi di greggio - attuali e futuri - si trova nell’area a cavallo tra Nord e Sud. Per cui ci sono molte aree contese, tra cui l’intero Stato di Abyei. Inoltre, manca un accordo chiaro sulla gestione delle risorse petrolifere. Quindi? Secondo gli osservatori il rischio di un nuovo conflitto è alto. Anche per il fatto che in quest’ultimo paio d’anni il Governo transitorio del Sud Sudan si è prodigato a riempire gli arsenali.
Hassan El Bashir (Hosh Bannaga, 1 gennaio 1944)
In barba ai mandati di cattura del Tribunale Penale Internazionale (Tpi) Hassan El Bashir si appresta a governare per altri 5 anni. Ha vinto le (dubbie) elezioni dell’aprile 2010 col 69% dei voti, con punte di consenso dell’85% in alcune regioni del Nord. El Bashir è a capo del Sudan dal 1989, quando conquistò il potere con un golpe. Ha governato da sempre col pugno di ferro, arrestando gli oppositori e spegnendo nel sangue le rivolte scoppiate negli anni nel Paese, compreso il Darfur. Nel marzo 2009, però, proprio per i fatti del Darfur, El Bashir è stato incriminato dal Tpi per crimini di guerra e contro l’umanità. Nel luglio 2010 il Tribunale ha spiccato un secondo mandato di cattura per genocidio. Nonostante ciò il Presidente sudanese continua a godere dell’appoggio di Cina, Russia e di molti Paesi africani. Le accuse del Tpi parlano di prove della responsabilità diretta nel massacro di 35mila persone, oltre alla lunga lista di violazioni dei diritti umani. Ma i suoi “difensori” - Cina in testa, primo partner commerciale del Sudan e acquirente del suo petrolio - parlano di “gestione politica” della Corte Internazionale, che accusa il Governo sudanese ma ignora i crimini commessi dai Paesi occidentali in Iraq e in Afghanistan.
Dopo una guerra Cosa resta del Sudan? La domanda non è retorica, riguardo a questo martoriato Paese. Sommando le vittime stimate dei diversi conflitti civili sudanesi si arriva all’impressionante cifra di 2milioni e mezzo di morti. Tra profughi e sfollati si superano i 6milioni, molti dei quali vivono ormai da dieci, quindici o più anni da “rifugiati permanenti” in Ciad, Kenya, Etiopia e, in misura minore, negli altri Paesi confinanti. A causa delle guerre, specie di quella ventennale fra Nord e Sud, è stata perduta di fatto un’intera generazione. I dati sulla povertà sono catastrofici: l’analfabetismo è al 30%, la mortalità infantile sotto i 5 anni al 91 per mille, un terzo della popolazione ha accesso ai servizi sanitari, il 30% della popolazione non può usufruire di acqua potabile. La disoccupazione, infine, è al 19%.
cora i campi sfollati più grandi del mondo e il Programma Alimentare Mondiale dell’Onu, dal 2006 in poi, ha continuato a indicare la crisi del Darfur come la più grave del pianeta, insieme a quella somala. Quest’ultima fase di guerra civile del resto va ad aggiungersi a una storia tardo coloniale e post-coloniale del Paese africano nella quale la stabilità e la pace non ci sono mai state. Dagli anni ‘50 è stato un continuo susseguirsi di colpi di stato e di giunte militari. Anche l’attuale presidente, Omar El Bashir, che guida il Paese dal 1989, è salito al potere con un golpe. Altrettanto costanti nel tempo sono state le tensioni e gli scontri armati fra il Nord del Paese arabo e islamizzato e il Sud africano e cristiano-animista. La fase bellica più lunga e cruenta è stata sicuramente la guerra combattuta fra il 1983 e il 2003: per 20 anni diversi gruppi ribelli (guidati dalla più importante delle fazioni, l’SplaEsercito di Liberazione del Popolo Sudanese) si sono battuti per ottenere l’indipendenza dal Nord. Quello che non hanno ottenuto le armi, poi, l’ha fatto il petrolio: il bisogno crescente di greggio ha portato la Comunità Internazionale (Stati Uniti in testa) a moltiplicare le pressioni per il raggiungimento della pace, anche perché la maggior parte dei giacimenti si trova nella zona di confine fra le regioni a prevalenza arabo-musulmana e il Sud del Paese. La trattativa più lunga, infatti, nell’ambito dell’accordo di pace fra Nord e Sud Sudan, è stata quella sulla divisione dei proventi derivanti dalle concessioni petrolifere. L’accordo del 2003 ha previsto tuttavia anche una serie di tappe verso la democratizzazione del Paese. Tappe che, pur fra molte tensioni, ritardi e difficoltà, sono state finora rispettate: nell’aprile 2010 si sono svolte - come previsto - le elezioni, le prime multipartitiche dal 1986. Nel gennaio 2011 è fissato il referendum, nel quale la popolazione del Sud Sudan dovrà scegliere fra il rimanere parte dello Stato federale del Sudan o l’indipendenza totale. Due sono i fattori che stanno trasformando profondamente gli equilibri politici ed economici del Paese negli ultimi anni: da un lato lo sviluppo vertiginoso della sua industria petrolifera (il greggio costituisce ormai l’80% delle esportazioni); dall’altro il fatto che la Cina si è accaparrata la gran parte del petrolio estratto, diventando ormai da qualche anno il primo partner commerciale del Sudan.
Situazione attuale e ultimi sviluppi
Violenza contro le donne
La violenza di genere in Uganda ha raggiunto un livello di grave allarme. A denunciarlo è Amnesty International che parla di un picco di violenze, anche domestiche, contro le donne e di una generalizzata impunità dei responsabili. La situazione non sembra migliorare nonostante la recente approvazione da parte del parlamento di un progetto di legge che rende illegali le mutilazioni genitali femminili stabilendo pene per i responsabili e misure di protezione per le vittime. Nonostante i notevoli passi avanti, sia in termini economici che di stabilità interna, l’Uganda deve ancora affrontare molti problemi politici e di sicurezza interna. Nel suo Rapporto annuale del 2010, Amnesty International definisce “scarsi” i progressi del Paese nell’attuazione degli accordi raggiunti nell’ambito del processo di pace del 2008 e nonostante una situazione generalmente definita “calma”, a preoccupare è la stabilità politica dell’intera regione (legata soprattutto al destino di altri Paesi: Repubblica Democratica del Congo, Sudan e Repubblica Centrafricana) e soprattutto l’inadeguatezza delle autorità ugandesi nell’indagare e perseguire le gravi violazioni dei diritti umani, commesse durante i vent’anni di guerra civile scatenata dai ribelli dell’Lra (Lord’s Resistance Army o Esercito di Resistenza del Signore), che continuano ancora oggi a terrorizzare le popolazioni dei Paesi vicini. Nel mese di ottobre del 2010, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha denunciato l’inasprimento della ‘’campagna di terrore’’ da parte dei ribelli ugandesi del Lord’s Resistance Army contro i civili nella Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo (Rdc) e Sud Sudan. I dati diffusi dall’Unhcr sono drammatici. Dal dicembre 2008, e nonostante gli accordi raggiunti per il processo di pace, il Lra ha assassinato 2mila persone, ne ha rapite oltre 2600 e ha causato 400mila sfollati. Solo nel 2010 i ribelli dell’Esercito del Signore hanno sferrato oltre 240 attacchi mortali. Almeno 344 persone sono state uccise. Si tratta soprattutto di civili inermi sottoposti ad atrocità di ogni tipo. Una scia di sangue che non si è interrotta neanche con l’intervento della Corte Penale Internazionale che ha spiccato quattro mandati di cattura internazionale contro alcuni ribelli dell’Lra, compreso il sanguinario leader Joseph Kony. In una situazione già così drammatica le autorità ugandesi devono affrontare anche il rischio rappresentato dal terrorismo di matrice isla-
Generalità
Nome completo: Repubblica di Uganda Bandiera
Lingue principali: Inglese, Swahili Capitale: Kampala Popolazione: 25.800.000 Area: 241.040 Kmq Religioni: Cattolica, protestante, animista, musulmana Moneta: Scellino Ugandese Principali Quasi nulle, se si eccetesportazioni: tua il caffè PIL pro capite: Us 1.501
mica. Nel luglio del 2010 un duplice attentato nella capitale Kampala ha causato la morte di 74 persone e il ferimento di decine di altre. Una delle bombe è esplosa nell’Ethiopian Village, un ristorante etiope in un quartiere meridionale della città. L’altro, in cui hanno perso la vita la maggior parte delle vittime, ha colpito il Lugogo Rugby Club, nella parte orientale della capitale. Secondo il Governo l’attacco sarebbe opera delle milizie islamiche radicali somale al-Shabaab, che già in passato avevano minacciato di colpire l’Uganda come rappresaglia per la partecipazione di truppe ugandesi alla forza di pace dell’Unione Africana a Mogadiscio.
Le ragioni dello scontro in Uganda non sono chiare. Certo, come sempre alla base c’è la volontà di controllare le risorse del Paese. Joseph Kony, capo dell’Lra sostiene però di aver preso le armi per difendere i diritti della popolazione Acholi, che abita i distretti settentrionali dell’Ugana. Ipotesi, questa, in netta contraddiIl destino dell’Uganda è simile a quello di molti altri Paesi africani: indipendenza, colpi di stato, guerre e nuovamente pace. Negli anni Cinquanta inizia il processo di democratizzazione che sfocia il 9 ottobre del 1962 nell’indipendenza. La Costituzione prevedeva un sistema semifederale, con sufficiente spazio per le elite poli-
zione con i fatti: sino ad oggi, le peggiori atrocità commesse dai ribelli hanno avuto proprio gli Acholi come vittime. Di fatto, appoggiato a lungo dal Sudan, Kony sta combattendo da vent’anni, mettendo in ginocchio l’economia ugandese e facendo colassare le strutture sociali e istituzionali. tiche tradizionali. Ma gli equilibri si rompono rapidamente. La convivenza tra il re del Buganda, primo Presidente del Paese, e il suo primo ministro Milton Obote, un “lango” del Nord, dura poco. Nel 1996 Obote prende d’assalto il palazzo presidenziale. Inizia così una lunga serie di colpi di stato, di atrocità e di conflitti
Gli investimenti libici
“La Libia sarà il più importante investitore estero in Uganda”. A dichiararlo è stato l’ambasciatore libico a Kampala Abdalla Bujeldain. Tripoli è già al secondo posto tra gli investitori in Uganda con 375 milioni di dollari in otto società, tra cui Uganda Telecom, National Housing Corporation, Soluble Coffee Plant, Tropical Bank, lake Victoria Hotel e Tamoil East Africa. Scopo dell’interesse libico in Uganda è, come ha spiegato lo stesso ambasciatore, “la costruzione di un continente africano economica-
mente solido”.
Quadro generale
Esercito di Resistenza del Signore
L’Esercito di Resistenza del Signore (o Lord’s Resistance Army - LRA), costituito nel 1987, è un gruppo di guerriglieri di matrice cristiana, che opera nel Nord dell’Uganda, in alcune parti del Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo. Il leader del gruppo è Joseph Kony (nella foto), che si proclama il “portavoce” di Dio. Lo scopo dichiarato del gruppo ribelle - che dall’anno della sua costituzione imperversa in Uganda e nei Paesi limitrofi compiendo atrocità di ogni tipo: omicidi sommari, saccheggi, stupri, abusi su minori, utilizzo di bambini soldato, mutilazioni - è quello di istituire uno stato teocratico secondo i dettami dei dieci comandamenti. Nel 2005 la Corte Penale Internazionale ha spiccato diversi mandati d’arresto, a carico di Kony e di tre comandanti, ma non sono stati attuati dal Governo ugandese né dai governi regionali. Il 12 novembre 2006 Kony ha incontrato un rappresentante dell’Onu per gli affari umanitari. Al termine dell’incontro Kony ha dichiarato all’agenzia Reuters: “Non abbiamo nessun bambino. Abbiamo solo combattenti”.
Un sussidio per i più poveri Nonostante le difficoltà economiche il Governo ugandese ha deciso di garantire, a partire dal 2011, un sussidio mensile per i cittadini che versano in una situazione di estrema povertà. Il provvedimento è solo l’inizio di un programma di sostegno alla popolazione in cinque anni per il quale il Governo ha stanziato 64milioni di dollari. Il direttore del dipartimento per la Protezione sociale del ministero per il Genere, il Lavoro e lo Sviluppo, George Bekunda, ha spiegato in conferenza stampa che oltre 600mila persone appartenenti a 95mila nuclei familiari beneficeranno del sussidio. L’assegno sarà garantito agli ultra sessantacinquenni e alle famiglie più vulnerabili, con orfani o disabili a carico.
etnici. Idi Amin Dada, capo di stato maggiore dell’esercito di Obote, consolida sua posizione, che poi Usa contro lo stesso Presidente. Nel 1971 prende il potere e governa con mano pesante e con un utilizzo spietato dell’esercito. Il dittatore Amin teme il predominio degli alcholi e dei langi nell’esercito e così da vita a una delle più sanguinarie persecuzioni con uccisioni di massa. Nazionalizza le attività commerciali britanniche ed espelle la popolazione asiatica. Cresce, contemporaneamente, la tensione tra Uganda e Tanzania, rea di aver ospitato Obote e alla fine degli anni ’70 inizia la guerra ugandese-tanzaniana. Nel 1979 i tanzaniani, anche con il sostegno dell’Esercito di liberazione nazionale dell’Uganda (Unla), prendono la capitale Kampala e nel 1980 torna al potere Obote. Di nuovo vendette e atrocità. Yoweri Museveni, attuale Presidente dell’Uganda, fonda l’Esercito di resistenza nazionale (Nra) e inizia la guerriglia. Obote risponde con uccisioni di massa. La Croce Rossa, nel 1983, denuncia l’uccisione di 300mila persone. Tre anni di scontri che sfociano nella presa del potere da parte di Museveni. È del 1995 l’approvazione di una nuova Costituzione che rinvia al 2001 il passaggio al multipartitismo, avvenuto grazie a una consultazione referendaria nel 2005. Museveni viene eletto nel 1996, rieletto nel 2001. Nonostante il potere sia saldo nelle sue mani, il Presidente ugandese deve fare fronte a vent’anni di guerra civile combattuta contro Lra (Esercito del Signore) guidato dalla follia di Joseph Kony, che ha come obiettivo quello di prendere il potere e governare secondo i dieci comandamenti. Museveni interviene nella guerra della Repubblica democratica del Congo, nel 1996, prima a fianco di Laurent Desiré Kabila, in chiave anti Mobutu, e poi dal 1998 al 2003 appoggiando i gruppi ribelli del Paese. Grazie a una riforma costituzionale del 2005, Museveni viene rieletto per la terza volta nel 2006, anno in cui avvia i negoziati di pace con l’Lra. Alcune tensioni tra gli eserciti di Uganda e Repubblica democratica del Congo (Rdc) si sono registrate nel mese di dicembre 2009 nella località di Beni, nel Nord Kivu (Rdc), città al confine tra i due Paesi.