Atque 28-29 n.s. 2021

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materiali tra filosofia e psicoterapia


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materiali tra filosofia e psicoterapia

Rivista semestrale fondata nel 1990 Redazione  Fabrizio Desideri (codirettore), Maurizio Ferrara, Alfonso Maurizio Iacono, Luciano Mecacci (codirettore), Paolo Francesco Pieri (direttore) Comitato esecutivo  Rocco Greppi, Teresa Recami, Alessia Ruco, Marco Salucci, Antonino Trizzino, Vincenzo Zingaro Collaborano, tra gli altri  Arnaldo Benini, Paola Cavalieri, Felice Cimatti, Pietro Conte, Michele Di Francesco, Roberto Diodato, Adriano Fabris, Rossella Fabbrichesi, Umberto Galimberti, Enrico Ghidetti, Anna Gianni, Tonino Griffero, Mauro La Forgia, Federico Leoni, Maria Ilena Marozza, Alessandro Pagnini, Pietro Perconti, Fausto Petrella, Patrizia Pedrini, Mario Rossi-Monti, Amedeo Ruberto, Carlo Sini, Elisabetta Sirgiovanni, Silvano Tagliagambe, Luca Vanzago, Giuseppe Vitiello, Vincenzo Vitiello Cura delle immagini  Manuel Forster Redazione, grafica e impaginazione  Marco Catarzi Ufficio stampa  Anna Pampaloni Direzione  via Venezia, 14 – 50121 Firenze Sito web www.atquerivista.it Moretti & Vitali Editori s.r.l. via Giovanni Segantini, 6 24128 Bergamo telefono +39 035 251300 www.morettievitali.it

© atque – materiali tra filosofia e psicoterapia nuova serie, n. 28-29 – anno 2021 ISSN 1120-9364; ISBN 978-88-7186-854-7 Registrazione  Cancelleria del Tribunale di Firenze n. 3944 del 28 febbraio 1990 Direttore responsabile  Paolo Francesco Pieri Finito di stampare nel dicembre 2021


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Al grembo delle parole

a cura di  Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri contributi di  Giuseppe Civitarese, Francesco Di Nuovo, Enrico Ferrari, Elena Gigante, Angiola Iapoce, Roberto Manciocchi, Maria Ilena Marozza, Giuseppe Martini, Paolo Francesco Pieri, Silvano Tagliagambe, Antonino Trizzino prefazione di  Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri


Abbonamento annuo (due numeri): Italia € 40,00, Estero € 55,00. Per sottoscrizioni e informazioni scrivere a segreteria@morettievitali.it


Sommario

Intorno agli aspetti germinativi dell’esperienza estetica, con specifici riferimenti alla talking cure. In forma di dizionario Paolo Francesco Pieri

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Prefazione 31 Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri PARTE PRIMA – QUALE PAROLA PER LA CURA

Cura e parola: un intreccio necessario Enrico Ferrari

I tre paradossi della traduzione psicoanalitica Giuseppe Martini

Parole che immaginano Roberto Manciocchi

“A me piace sentire le cose cantare”. Variazioni sul tema dell’esperienza tra psicopatologia e filosofia Angiola Iapoce

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Resti inesprimibili. Transiti estetici nella talking cure 115 Maria Ilena Marozza PARTE SECONDA – ESTETICA DELLA CURA

Musica, parola, gesto: lo “sguardo attraverso” Silvano Tagliagambe

L’identità di terribile e felicità: sublime, sublimazione e unisono nell’arte e nella psicoanalisi Giuseppe Civitarese 7

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Musica involontaria. Il simbolo delle cose nelle cose stesse Elena Gigante

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Glossario di un lettore Antonino Trizzino

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021

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La cura della parola incurabilis 241 Francesco Di Nuovo

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Intorno agli aspetti germinativi dell’esperienza estetica, con specifici riferimenti alla talking cure. In forma di dizionario Paolo Francesco Pieri

[L’estetica è] essenziale al costituirsi stesso del discorso filosofico e, pertanto, in costante dialogo con tutte quelle ricerche di tipo neuro-scientifico e psicobiologico che indagano le dinamiche della vita percettiva e il funzionamento del cervello in rapporto alla nostra vita mentale. Solo misurandosi con queste prospettive e con le soluzioni che configurano – anche polemicamente, s’intende – l’estetica può dirsi adeguata alle sfide del presente. Se accogliamo la suggestione di Benjamin che “estetica” significa essenzialmente una “dottrina della percezione”, questo passaggio non può essere trascurato. Solo così possiamo intendere l’estetico nel suo originarsi da processi percettivi di base quali quelli legati ai processi attenzionali e alle risonanze emotive delle sensazioni. Ricordando il Valéry dei Cahiers si tratta, in altri termini, di capire come da piccole differenze in ambito psico-sensoriale derivino, asimmetricamente, grandi conseguenze capaci di modellare il profilo della nostra identità. F. Desideri, in Dialoghi di estetica

attenzione – Il termine fa riferimento all’esistenza di fenomeni mentali che attivano la percezione (v.) e si danno in assenza di processi volontari e intenzionali. L’osservazione di tali fenomeni induce a ritenere che è solo in assenza di una centralità dell’Io (v.) che la mente ha la capacità di entrare in contatto sensibile con qualcos’altro, così da provocare una vera e propria esperienza (v.). Se infatti consideriamo più profondamente le nostre modalità percettive, così come quelle di tutti gli esseri viventi non umani, possiamo rilevare che esse non hanno il carattere intenzionale della coscienza (v. autocoscienza), e hanno piuttosto a che fare con 9 ©

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il risuonare emotivo delle sensazioni con i processi attenzionali del Sé (v. emozioni, sensazione, coscienza estetica). Che poi sono quei processi che nella loro modulazione raccolgono via via dall’ambiente le informazioni necessarie alla nostra sopravvivenza. E contemporaneamente modellano il profilo della nostra identità. Va perciò tenuto in debito conto che – grazie ai processi attenzionali – anche le più piccole differenze che insistono proprio nella sfera percettivo-sensoriale, sono sempre in grado di procurare grandi conseguenze, inducendo trasformazioni, più o meno vistose, della nostra identità. C’è da sottolineare che i processi dell’attenzione hanno inizio nella primissima infanzia. Infatti sappiamo che prima dello sviluppo e la stabilizzazione delle capacità di categorizzare e quindi ancora prima dell’esercizio delle capacità linguistiche (a nove mesi per Michael Tomasello, ma già tra i due e tre mesi per la Vasudevi Reddy), il bambino e la bambina mettono in atto un processo di investimento dell’attenzione verso un oggetto esterno, e cogliendolo, di indicarlo. Sulla capacità di un primo orientamento estetico (v. coscienza estetica, esperienza estetica) nella primissima infanzia, indotto proprio dai processi dell’attenzione, ci si può riferire alle esperienze estetiche precoci osservate sia nel fenomeno del baby-talk da Ellen Dissanayake, sia quando già ai nove mesi, prima ancora di imparare a parlare, il bambino e la bambina sono in grado di condividere con l’adulto l’attenzione per un oggetto, per cui lo stesso Michael Tomasello, può parlare di “scene di attenzione condivisa”. (E una tale attitudine estetica che si dà attraverso le nostre esperienze precoci, non facciamo fatica a rintracciarla nemmeno alla nascita della nostra specie: per esempio, quando l’Homo sapiens compiendo i primi passi nella savana pleistocenica, esplorava l’ambiente o ascoltava i suoni provenienti dal mondo della natura e il canto degli uccelli.) autocoscienza – Il livello della mente (v.) che esprime il grado riflessivo intellettuale della coscienza che costituisce il regno del cosiddetto Io, definibile in qualche modo distante da quell’altro livello della mente che è il Sé (v.), con cui mai perfettamente vi coincide – se non nelle forme psicopatologiche gravi, su cui non è qui il caso di soffermarsi. Si tratta di un livello della mente descrivibile in relazione all’altro, e precisamente: 10 ©

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Intorno agli aspetti germinativi dell’esperienza estetica

a) ha il carattere di una funzione selettiva, che però si sviluppa relativamente tardi; b) è l’effetto per così dire imprevisto e imprevedibile di un Sé che lo precede, e probabilmente si collega all’esercizio dell’attività linguistica – d’altronde c’è un Io con la capacità di nominarsi e con­ temporaneamente di essere nominati (v. linguaggio); c) esprime l’intenzionalità, ovvero la capacità di rivolgersi a sé stessi e, più in generale, verso qualcosa assumendola come contenuto; d) partendo dall’attitudine estetica nei confronti del mondo (v. percezione estetica), presiede alla formazione dell’Io, che non coincidendo con il Sé, vi può fare riferimento solo come a qualcosa che in un certo senso lo precede, assumendolo nella forma della rappresentazione; e) proprio in quanto consapevolezza di essere Io, si dà con il carattere di una risposta a un qualcosa che, come tale, gli sta fuori, ovvero, come anticipato, esprime il rispondere ai vari impatti percettivi e le relative stimolazioni; f) mette in scena quella vita psichica che è dispiegata dagli atteggiamenti intenzionali, per cui dà luogo a selezioni che non possono che essere tardive rispetto a quelle che discendono dai fenomeni attenzionali (v. attenzione); g) si installa, per l’appunto, attraverso quell’altra forma di investimento psichico che è messa in scena (è rappresentata) dagli atteggiamenti strutturalmente stabilizzati. coscienza estetica – La mente (v.), nel suo essere incarnata in un corpo che necessita dei sensi per avere informazioni, rivela fondamentalmente una caratteristica sensibile. Sicché è la vita sensoriale a esprimere le dinamiche del percepire che nel loro darsi profondo, fanno emergere quel primo livello di coscienza che riprendendo il termine greco ‘aisthesis’ (“percezione sensoriale”), possiamo definire ‘estetica’ (v. percezione estetica). E proprio in tal senso – seguendo puntualmente le riflessioni che possiamo ricavare dalla lettura delle importanti ricerche e riflessioni di Fabrizio Desideri – possiamo parlare di un “meccanismo estetico” che costituisce lo specifico della mente, ma anche di una “coscienza estetica” come la soglia critica dell’individuo e il mondo. 11 ©

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L’espressione designa infatti quel livello della mente che emerge dal basso, e che più propriamente si dispiega nel darsi di quella soglia che attiene strettamente alla vita sensoriale e alle dinamiche della percezione estetica – talché potremmo dire che senza un qualcosa che metta in comunicazione, è niente. In altri termini è questo il regno del Sé (v.) che esprime quella vita della mente che in qualche modo precede l’Io (v.). Un Sé che esiste solo al darsi della percezione di qualcosa (v. percezione), per cui diciamo che è nello stesso sentire che si costituisce il senziente insieme al sentito. Un Sé che forse anche dal punto di vista ontogenetico, sta prima della nascita della soggettività e la formazione dell’individuo; e come tale presiede, in un certo senso, allo stesso Io. Un Sé che, nella sua forma più rigogliosa, possiede la capacità di innovare ciò di cui siamo in possesso, ovvero il nostro paesaggio mentale e le nostre categorizzazioni già costituite. Detto in modo sintetico, si tratta di un livello della mente che: a) ha il carattere di una funzione selettiva a sviluppo precoce; b) non è connesso, né può esserlo, all’esercizio dell’attività linguistica (v. linguaggio), perché si dà prima dell’esercizio delle facoltà linguistiche, e anche prima dello sviluppo e la stabilizzazione delle capacità di categorizzare; c) è qualificabile come un processo di tipo attenzionale (v. attenzione) che si dispiega indipendentemente e prima di ogni processo intenzionale, e quindi come un fenomeno che precede la volontarietà, giacché le forme di riflessione e di autoconsapevolezza che lì possono pure venire a dispiegarsi, sono fuori e prima di ogni intenzione. A questo proposito pensiamo: sia a quante volte rispondiamo con la nostra attenzione a qualcosa capace di attrarre i nostri sensi e vincolarci, indipendentemente dall’averlo calcolato in anticipo; sia alla triangolazione che avviene tra bambino, madre e un terzo oggetto la cui attenzione è condivisa da entrambi; sia, insieme a questo, alla capacità indicale del bambino che precede quella del nominare; sia – forse – al suo attenuarsi, sino quasi a spegnersi, lungo i vari gradi delle diverse forme di demenza; d) presiede alla vera e propria (auto)formazione che avviene nello scambio col mondo; infatti e) emerge da un’attitudine estetica nei confronti del mondo ovvero da quell’effetto imprevisto e imprevedibile, che hanno tutti i fenomeni relativi all’attenzione; 12 ©

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Intorno agli aspetti germinativi dell’esperienza estetica

f) origina dalle situazioni interumane (emblematicamente: il bambino o la bambina con chi se ne prende cura) e più in generale dall’impatto percettivo con un oggetto (un evento, una situazione) e, insieme, dalla selezione precoce dei relativi tratti più significativi che si danno nel nostro sentire (pensiamo agli aspetti di un oggetto o ai dettagli di un qualsivoglia evento o discorso, e quindi anche al suono che le parole di uno stesso discorso hanno); g) si installa attraverso forme di investimento psichico connesse alla dinamica energetica, le quali – nei diversi gradi in cui si danno e per la modalità variabile che assumono – possono mettere in crisi, ma anche chiedere (pretendere) di innovare, gli atteggiamenti che nella vita mentale si sono strutturalmente stabilizzati. creatività – La nozione rimanda a quel “gioco del fantasticare” che, secondo Peirce, fa riferimento alla possibilità di produrre molteplici modelli di inventare, simulare, ipotizzare, fare inferenze e immaginare un numero infinito di mondi possibili. Essa rimane però distante sia da quella di stampo romantico-idealistico sia da quella totalmente governata da regole. È possibile piuttosto pensarla imparentata con quella di Wittgenstein, quando l’autore l’assumeva come l’esito di una mediazione tra fattuale di partenza e problema da risolvere. In tale versione, il termine diviene sinonimo di ‘costruttività’ e ‘formatività’, per cui rinvia alla prassi che l’adotta – fino al punto di poterla riscrivere e cambiarla. D’altra parte, il seguire una regola non è affatto un affare calato dall’alto né è immodificabile, ma sta tutto nella prassi, dove la prassi risponde alla vita. Scriveva lo stesso Wittgenstein più o meno a questo proposito: «io faccio una distinzione tra il movimento dell’acqua nell’alveo del fiume, e lo spostamento di quest’ultimo; anche se, tra le due cose, una distinzione netta non c’è». Detto molto in sintesi, c’è un momento in cui nella nostra vita accade una “transizione dei codici simbolici”, perché, nello scambio percettivo (v. percezione) tra noi e il mondo, i “segni” che si erano installati (à la Jung, i “simboli morti”) cominciano, nelle nostre pratiche, a starci stretti e siamo necessariamente rinviati all’“immagine” del mondo (v. immagine) a cui erano fondamentalmente connessi e quindi – ancora à la Jung – ai “simboli vivi” (v. simbolo). 13 ©

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emozioni – Come esseri viventi e in particolare come mammiferi, noi mostriamo di possedere sin dalla nascita, un insieme di molteplici elementi di origine emozionale, che predispone la nostra esistenza nel mondo, sino a colorare ogni nostro esperire accompagnando, quasi musicalmente, il nostro esistere veicolandoci la capacità di sviluppare una percezione estetica del mondo (v. esperienza estetica). In altri termini, la nostra dinamica percettiva (v. percezione) reca sempre con sé un alone emotivo, e come tale è irriducibile a ogni categorizzazione ed è altrettanto irriducibile tout court alla dimensione cognitiva. Occorre perciò tenere conto che nel rapporto tra quota corporea e vita della mente, e tra soggettività e mondo esterno, si danno vari livelli dell’espressività emozionale. Sin nei primi impatti percettivi – ogni volta che, per esempio, guardiamo tocchiamo ascoltiamo – si dà infatti una preselezione, dove l’ampiezza del tono emotivo, da un lato, e la sollecitazione di aspetti pre-cognitivi, dall’altro, vengono a superare la dimensione in senso stretto cognitiva. E dal momento che i diversi toni emozionali, per quanto possano essere decantati filtrati e modulati, entrano variamente, e continuamente, in gioco in tutte le nostre esperienze, accade che essi si oppongono, perturbano o omeostaticamente compensano le nostre preferenze e tendenze “naturali”, ma anche le nostre convenzioni, le nostre routine cognitive, i nostri schemi culturali. Va inoltre considerato che le emozioni, in attesa di una possibile conoscenza, ci generano, continuamente, modelli di attenzione (v.). E che, proprio nel loro orientarla continuamente, le emozioni sensibilizzano i nostri sensi verso aspetti del reale magari trascurati, sino a consentirne una riclassificazione, e a condurci verso nuove conoscenze. Con ciò, va evitato ovviamente di assimilare l’emotivo al cognitivo. E va piuttosto considerato che sono le reazioni emotive a intonare le nostre conoscenze e il nostro stare nel mondo: vale a dire, le emozioni non generano tout court una specifica conoscenza, ma anticipano quella capacità di attenzione che di per sé apre non solo a una possibile conoscenza ma anche a un nostro nuovo stare nel mondo. Considerando che le emozioni, in un certo senso, sono lì a predisporre la nostra esistenza nel mondo, sino a colorare ogni nostro esperire e ad accompagnare, quasi musicalmente, il nostro esistere, è opportuno costruire la bozza di una psicoterapia a carattere non soltanto cognitivo ma anche emotivo. Una sua bozza che ripensi i vari livelli 14 ©

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Intorno agli aspetti germinativi dell’esperienza estetica

dell’espressività emozionale che si danno nel rapporto tra quota corporea e vita della mente, e tra soggettività e mondo esterno. Sappiamo d’altronde che il tono emozionale, per quanto decantato, filtrato e modulato, entra variamente, e continuamente, in gioco nelle nostre esperienze di cura attraverso le parole. empatia – Occorre rivolgere una precisa critica a questa nozione come una immedesimazione nel sentire dell’altro, tale da implicare un accesso privilegiato all’esperienza interna. Possiamo certamente continuare a riferirci a questa nozione, ma a due condizioni correlate tra loro: dismettendo l’idea che coscienza e sentire siano la stessa cosa, e pensando, invece, che tra dimensione percettivo-estetica (v. coscienza estetica) e dimensione intellettuale della coscienza (v. autocoscienza) intercorre una originaria relazione, dove per l’appunto l’empatia svolge una funzione decisiva. Solo con questa duplice considerazione, possiamo assumere l’empatia in modo radicale: come una vera e propria esperienza (v.), che, come tale, è sottratta sia alla coscienza, sia all’autosufficienza dell’intenzione, sia a ogni tipo di progetto. L’empatia rinvia così a un involontario quanto puro sentire. Un sentire che giunge al grado zero dell’accogliere l’alterità. E che in quanto tale va inteso come un’esperienza psico-estetica della passività, e quindi come traccia del proprio “Sé” (v.): l’emblema, per dirla à la Nietzsche, di quella “grande ragione del corpo” che in un certo senso precede la soggettività dell’“Io” (v.). Definendola propriamente come evento dei processi attenzionali del “Sé” (v. attenzione), l’empatia cessa infatti di essere un atteggiamento intenzionale estetico-psichico dell’“Io” (v.) dove è quest’ultimo a disporre di una diretta comprensione e un’immediata certezza del proprio stato interno e dei propri sentimenti, e quindi di un accesso privilegiato alla propria esperienza interna. E cessa di essere altresì un percorso intraemozionale che è tout court capace di disporsi alla comprensione dei vissuti interiori e i sentimenti dell’altro perché li rivive, sentendoli dall’interno (v. emozioni). Va da sé che il rapporto umano della talking cure può dar luogo all’empatia. Un tale fenomeno va però definito come evento dell’attenzione, di una attenzione rivolta all’esperienza psicoestetica di una pas15 ©

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sività che accoglie il patire: vale a dire come un evento dell’attenzione verso l’esperienza di qualcuno che – in un apparente gioco di parole – è affetto dall’affetto dell’altro. esperienza estetica – L’espressione indica la capacità di mettere in atto quelle sensazioni (v.) che, in continuità con la percezione (v.), ci consentono – come ci ricorda Fabrizio Desideri – una serie di operazioni: sia un’assimilazione mimetica del reale, per cui possiamo espandere ciò che ci è familiare; sia il piacere della ricerca (del seeking), per cui siamo interessati al nuovo e ne scopriamo le eventuali affinità col già conosciuto; sia il piacere di esercitare le nostre preferenze, per cui abbiamo un qualche grado di libertà e un certo vantaggio non solo nella sopravvivenza ma anche nel condurre la nostra vita; sia, infine, l’accesso, per così dire, all’istinto del gioco, per cui siamo in grado di apprendere attraverso una serie di pratiche, esercizi e simulazioni, tutte rinforzate dal piacere. È importante sottolineare che l’esperienza estetica non è riducibile totalmente a quella emozionale, per quanto le emozioni vi siano costantemente coinvolte (v. emozioni). E che essa non è neanche da assumere come un mero fatto psicologico, e in quanto tale come tutta interna alla nostra mente (v.). Essa esprime piuttosto la messa in atto di una relazione tra interno ed esterno, tra mente e mondo; e come tale, è ciò che disegna un territorio intermedio, dove l’uomo e il mondo, il soggetto e l’oggetto, ci sono nella misura in cui si è costituita una loro relazione – e giammai prima o fuori di questa. È attraverso il darsi dell’esperienza estetica che infatti si dispiega la capacità di armonizzare da un lato, la nostra vita psichica e mentale insieme alla realtà, e da un altro lato, il complesso delle diverse facoltà e funzioni cognitive superiori della mente simbolica e degli strati più antichi dell’organizzazione cerebrale tipici della mente emozionale. Ed è proprio perché l’individuo e il mondo, l’uno e l’altro, la realtà interna e la realtà esterna si istituiscono nell’esperienza estetica, che quest’ultima è sommariamente definibile, in negativo, come una percezione (v.) che non nasce dalle nostre intenzioni, e in positivo, come il momento in cui si danno quei processi dell’attenzione (v.) che costituiscono il vero e proprio grembo delle nostre intenzioni e le nostre parole. 16 ©

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Sicché, occorre preliminarmente pensare, da un lato, che le esperienze estetiche sono autonome rispetto al linguaggio e ne precedono l’avvento; e da un altro, che le emozioni, proprio per il loro carattere primitivo e naturale, accadono prima che le espressioni linguistiche possano affiancarle, finendo, provvisoriamente, con il sostituirle (v. linguaggio). In questo senso giova pensare alla psicoterapia come un dialogo dell’Io con il Sé, ovvero con gli aspetti germinativi dell’esperienza estetica e quindi come il luogo e il momento dove possono osservarsi le transizioni dei codici simbolici. La psicoterapia svolge sì un lavoro di ricognizione, ma lo fa riconoscendo, sempre di nuovo, i confini dei differenti fenomeni di significazione. E lo fa dall’interno, ovvero sforzandosi di risalire alle condizioni interne dell’esperienza, e cioè a un orizzonte dell’esperienza che non è disegnabile dall’esterno. In un tale esercizio, si può dire che lo sguardo dello psicoterapeuta consiste in un guardare attraverso, un guardare attraverso quei fenomeni di significazione che via via emergono, standovi però sempre all’interno (come in un filtro dall’interno del filtro stesso): vale a dire in un guardarli dall’interno per indagarne le possibilità; per comprendere il già saputo, ciò che gli sta davanti, riguardandoli in un coinvolgimento reciproco. esperienza segreta – La nozione di “esperienza vissuta”, o tout court il “vissuto”, designava un accesso privilegiato alla mente e veicolava una specifica sottolineatura delle nozioni di Io (v.) e di soggettività. La pratica della cura parlata ha però teso a evidenziare, ai due partecipanti, come ciascuno sia piuttosto un teatro di processi oggettivi, i cui significati si costituiscono nel darsi del loro lavoro congiunto, e precisamente nel lavoro che si dispiega, à la Wittgenstein, nel corso dei progetti che gli stessi individui, attraverso i sistemi delle norme collettive cui appartengono, lasciano di volta in volta accadere. La critica alla nozione di vissuto è divenuta così necessaria, non tanto per giungere a negare l’esistenza di enti o stati mentali, quanto per far uscire dalla sterile separatezza in cui verrebbero a trovarsi le differenti nozioni: quali, per esempio, lo spiegare e il comprendere, il quantitativo e il qualitativo, la natura e la cultura, i fatti e i valori, ma anche l’esteriore e l’interiore, il tempo esteriore e quello interiore, la superficie e il profondo, l’ordinamento oggettivo e quello soggettivo del passato. È 17 ©

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solo facendo decadere la sterilità in cui sussisterebbero tali distinzioni, che è infatti possibile mettere in evidenza come in quella “cura parlata” che è il trattamento psicoanalitico e più in generale psicoterapeutico, accada un vivo coinvolgimento e una reciproca (co)determinazione di tali (opposte) nozioni ed entità – come avviene quando le cose si danno a vedere da un punto di vista sistemico. È con ciò che è venuta a decadere l’idea di esperienza come “esperienza vissuta”, e quindi come un’esperienza che la coscienza registra e che il soggetto può in qualunque momento richiamare volontariamente a sé. Magari è ancora possibile sostenerne l’esistenza limitatamente alle nevrosi traumatiche e gli stati d’angoscia, dove i relativi materiali giacciano per così dire nella sfera ipnotica di un “vissuto unico”, per cui, sussistendo nella forma di un’“impronta mnestica”, sono ogni volta condannati a una mitica ripetizione. Già con queste prime riflessioni, si comprende come l’esperienza abbia cessato di qualificarsi come “esperienza vissuta”, e si sia potuta assumere – à la Benjamin – come quell’“esperienza segreta” attraverso cui il soggetto storicamente e concretamente emerge; per cui, di volta in volta, i suoi materiali – grazie a una “memoria emancipativa” dove il “Sé” (v.) e non l’“Io” (v.) ricopre una funzione primaria – si danno, in modo assolutamente spontaneo e involontario, nell’esperienza ordinaria: vale a dire in quella forma di esperienza che è la sola a permettere una vera connessione dell’esteriore con l’interiore. esprimibile/inesprimibile– Condizione interna al linguaggio è l’inesprimibile o l’ineffabile che indicando il limite del costituirsi dello stesso linguaggio e quindi ciò che non può essere detto ma soltanto mostrato, rende possibile la sua plasticità e variabilità. In altri termini l’inesprimibile viene a designare un “residuo”, che proprio evidenziando i limiti di una lingua e lo sfondo in cui essa si staglia, ci impone una sempre nuova riformulazione o traduzione: «l’inesprimibile (ciò che mi appare pieno di mistero e che non sono in grado di esprimere) costituisce – scriveva Wittgenstein – forse lo sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato». D’altro canto, occorre considerare che le lingue verbali dell’animale umano non possono mai formulare un senso o un significato che sia valido una volta per tutte, per cui sono sempre costrette a riformula18 ©

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re e reinterpretare l’esperienza. E non potendola mai esaurire, lasciano sempre un che di non formulato e come tale riformulabile. Si può forse continuare a considerare “onniformativa” la lingua verbale come faceva L. Hjelmslev perché “inesprimibile” e “onniformativa” non sono logicamente in contraddizione, e lo si può fare – come propone Garroni – assumendo il termine “onniformatività” nell’accezione di formatività aperta, e quindi per indicare la produttività o capacità di esprimere sempre qualcosa di più e di nuovo sull’esperienza del dicibile (compreso lo stesso dire della lingua). D’altronde, le lingue verbali oltre il comunicabile hanno un che di incomunicabile, e sono comunque dotate di una capacità metalinguistica riflessiva, ovvero di quella capacità che consente (che obbliga a) un continuo chiarimento, a noi stessi e agli altri, del senso delle parole che veniamo dicendo e ascoltando, sia per spiegarci meglio che per chiedere spiegazioni. immagine – L’immagine è ciò che accade prima di ogni nostra parola e prima di ogni nostra concettualizzazione, e si correla al nostro sentire (v. sensazione) e alla nostra vita emozionale (v. emozioni). È in questo senso che noi possiamo dire che la nostra vita ne è attraversata, e che, con le parole di Wittgenstein, noi viviamo “attraverso le immagini”. Va detto subito che la cosiddetta immagine interna è difficilmente concettualizzabile. È importante intanto pensare, contro ogni mera riduzione empiristica della tematica wittgensteiniana delle “somiglianze di famiglia”, come la sua indeterminatezza e la sua ambiguità diano sempre luogo a una indefinita proliferazione di possibili esiti sul piano operativo, su quello semantico, su quello concettuale e infine su quello conoscitivo. Occorre allora non intendere le immagini come “figure” che sono nella mente. E proprio evitandoci di cadere nella “trappola introspettiva” già denunciata tra l’altro da Dennett, potremo considerarle, come suggerisce Fabrizio Desideri, il sintetico definirsi di un interno e di un esterno: vale a dire, una sintesi socialmente immaginale che, proprio in forza della indeterminatezza dell’immagine interna individuale, produce paradossalmente una tensione e uno scambio continuo tra forza immaginativa del pensare e vincolo con l’esteriorità oggettuale. 19 ©

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Si tratta forse di rubricare l’immagine in una specifica categoria, che è quella dei “quasi-oggetti”. Come del resto fa lo stesso Fabrizio Desideri quando la colloca efficacemente in un luogo di mezzo tra l’oggetto e la sua rappresentazione. Che è come dire che la percezione di un’immagine (v. percezione) si dà solo quando si rileva la differenza che sussiste tra l’immagine e la cosa di cui essa è immagine. E, insieme a tutto questo, se ne coglie la somiglianza. D’altronde, è proprio perché siamo capaci di fare una distinzione tra vedere e pensare di vedere, che possiamo dire che “vediamo immagini”. Tale abilità consiste infatti nel cogliere somiglianze una volta che abbiamo categorizzato la differenza tra quei “quasi-oggetti” che sono le immagini e quegli “oggetti” che sono le cose. Per questa via, sbaglieremmo ancora se pensassimo che sono le somiglianze a costituire la condizione di riconoscibilità delle immagini. Perché, al contrario, sono proprio le immagini che ci addestrano a cogliere le relazioni interne agli oggetti e a farci riconoscere le somiglianze che intercorrono tra loro (v. schemi estetici). Tant’è che possiamo giungere a considerare che il nostro rapporto col mondo, sia sul piano della sua conoscenza che su quello ontologico, si sviluppa propriamente attraverso le immagini (questi cosiddetti quasi-oggetti). E ciò da quando, per dirla sommariamente, eravamo neonati e abbiamo percepito l’immagine (il volto) di chi si prendeva cura di noi. ineffabilità – Partendo dal fatto che semiotica ed estetica si incontrano sul piano dell’esperienza e quindi nel contatto sensoriale e percettivo con il mondo, emerge che nella psicoterapia si dà una relazione paradossale in cui il comprendere non può che essere un comprendere sempre di nuovo: cioè un comprendere che non può mai né giungere a comprendere il già-compreso e a dire l’ineffabile, né ad afferrare, una volta per tutte, ciò che invece necessariamente sfugge alla conoscenza. È per questo che occorre pensare che alla nostra capacità linguistica si accompagna continuamente una certa ineffabilità. Nella nostra “cura parlata” è infatti necessario interrogarsi su come ogni discorso possa procedere veramente soltanto se, nei vari ambiti, non si mette in scena un’eterna vittoria della mediazione linguistica sulle cose. Sicché, solo se riusciamo a mantenere vivo l’oggettuale nella 20 ©

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sua opacità e proprio facendogli ogni volta rinvio, sarà possibile non dire di più di quel che nel nostro dire taciamo. D’altro canto, considerando che non sia negoziabile l’esistenza di un mondo esterno indipendente da noi, in quanto la presenza dell’oggetto come tale ci si impone ineludibilmente in modo pre-intellettuale, sarà più che mai opportuno riflettere costantemente sull’importanza della nozione di percezione (v.) e sulla problematicità del rapporto tra l’“Io” (v.) e il “mondo delle cose” – che attiene fondamentalmente al modo in cui il linguaggio (v.) lo rappresenta. E partendo proprio dall’idea che laddove le cose appaiono, si dà contemporaneamente il fenomeno della loro resistenza (della loro non perfetta trasparenza), c’è da considerare che tra percezione e pensiero esiste un rapporto complesso, per cui ogni volta che nominiamo, per esempio, gli oggetti, i soggetti, la dimensione dell’essere un corpo vivente e la stessa logica dell’Es (intra-, inter- ed esopsichico), dobbiamo rammentare che questi, esplodendo (come sono esplosi) a livello estetico-esperienziale, eccedono sempre la nostra pura e semplice intelligenza – sia rivelandone criticamente i tratti essenziali, sia tendendo a oltrepassarla, e quindi ad aprirla a una haecceitas. Vedi anche esprimibile/inesprimibile. intenzionalità – v. autocoscienza. io – vedi autocoscienza. interpretazione – v. esprimibile/inesprimibile, ineffabilità. linguaggio – Dobbiamo considerare che ciò che chiamiamo “immagine del mondo” non è solo un’immagine (v.), perché essa si dispiega attraverso un operare-percepire che si associa a quasi-segnali, e sottostà alla condizione di una unità di senso insieme all’esigenza di una comunicazione. È per ciò che lo statuto del linguaggio va sempre affrontato in relazione a un’“immagine interna”, considerandola, da un lato, come ineludibile premessa e garanzia della realtà del significato delle parole, e dall’altro, come una puntuale contestazione di chi intendesse attenersi soltanto ed esclusivamente al linguaggio, in ciò confondendo la critica di Wittgenstein con il rifiuto di attribuire ogni valore cognitivo o semantico all’attività percettivo-immaginativa. 21 ©

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Tra linguaggio e immagine (v.) c’è quindi da ravvisare l’esistenza di un certo rapporto. Insieme al fatto che ciascuno dei due rinvia all’altro: vale a dire che il linguaggio è possibile attraverso il materiale offerto dalla percezione (v.), e l’immagine, implicando il riconoscimento dell’oggetto percettivo, è a sua volta possibile perché presuppone un qualche linguaggio, pur senza farvi un esplicito riferimento. In effetti, nella nostra mente troviamo in azione, sin dalla primissima infanzia, quello specifico prodotto dell’immaginazione che permette di percepire immagini: quelle immagini che ogni volta preludono al linguaggio. Qui stiamo parlando dell’“immagine esterna” di una cosa che offrendosi pubblicamente al nostro sguardo, ne dà un’“immagine presenza”. E del fatto che tale “immagine presenza” è preliminare alla comprensione dell’“immagine interna”, che per il suo essere accessibile solo privatamente, è opportuno intendere come “immagine rappresentazione”. Sicché emerge che nella percezione di un oggetto, noi percepiamo un oggetto singolare, che contemporaneamente è però riferibile a un aggregato di oggetti simili e dissimili – dal momento che noi privilegiamo soltanto alcuni dei suoi elementi, e che dall’“immagine interna” noi cogliamo uno “schema” che è tale da costituire la premessa del significato di una parola e di un concetto. Discende da qui che l’“immagine interna” esprime fondamentalmente un’“immagine-schema” che è un fattore, sempre attivo, di possibili significazioni, scopi e conoscenze. E che in virtù di una stretta correlazione tra linguaggio e immaginazione, e quindi in virtù del carattere dell’“immagine interna” e della sua componente di indeterminatezza, il linguaggio dice ciò che sempre fa dire la percezione, connessa allo stesso linguaggio. C’è però da pensare che nel suo accompagnare e sviluppare i caratteri plastici e creativi della percezione e quindi nell’espandersi dei significati, ma anche nell’assorbire la stessa percezione in un mondo ancora più complesso, detto sempre attraverso il linguaggio, l’“immagine interna” dica molto di più. Da un canto, l’uso proprio e condizionante del linguaggio è propriamente quello meta-oggettuale (per esempio, il cane in genere come entità e significato linguistici), mentre quello oggettuale (nell’esempio, il cane riconosciuto come tale nella percezione) è tale in relazione alla percezione degli oggetti e alle loro “immagini 22 ©

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interne”. E d’altro canto, non c’è alcun dubbio che il linguaggio senza percezione non esiste (così come non esiste la percezione senza linguaggio), e che i significati meta-oggettuali sono riferibili a significati oggettuali (così come a schemi percettivi). Così come non c’è alcun dubbio che il linguaggio non può sorgere se non quando ha preso (per così dire “meta-oggettualmente”) le distanze dalla percezione. È proprio in virtù dei tratti privilegiati dell’“immagine interna”, che si può comprendere come il linguaggio si costituisca in tutta la sua estensione attraverso l’analogia. Ed è per questa via che si può porre in forte rilievo la questione del “simbolo” e il suo pervadere totalmente il linguaggio, per cui ogni espressione linguistica (e quindi ogni significato, sia empirico che non empirico) è sempre analogica, ovvero caratterizzata da un qualche trasferimento, per cui possiamo assumere il simbolo propriamente come la condizione onnipervasiva del linguaggio. mente – Nel definire la mente è opportuno oltrepassare l’idea che l’assegna o all’interno o all’esterno. E intanto soffermarsi a osservare l’effettivo darsi di un interno e di un esterno, così come il formarsi di veri e propri spazi che si creano nella loro interattività: quando l’interno e l’esterno si congiungono; e congiungendosi, e persino intrecciandosi, mutano; e costantemente oltrepassandosi, si rinnovano. Solo così riusciamo a by-passare il dibattito sterile tra le due opposte posizioni che nel tempo si sono create, sino a divenire dei veri e propri miti. Da un lato, la posizione del “mentalismo” che ereditando l’antica concezione internalista, ha attribuito al mentale un carattere autonomo; e ciò è accaduto sia nella versione fenomenologica dove l’autonomia del mentale si costituisce perché l’Io ha un accesso privilegiato ai contenuti e i “vissuti” della coscienza; sia nella versione cosiddetta “logica” dei significati; sia nella versione per così dire “neurologica” dove l’autonomia del mentale discende dal cervello, ovvero dai supporti in cui si manifesta e si incorpora. Da un altro lato, la posizione del “comportamentismo” che ha inteso la mente come un fenomeno che al pari di altri fenomeni è osservabile e spiegabile scientificamente. Per questa via che pone al centro l’esperienza estetica (v.) e i suoi aspetti germinativi, è opportuno riferirsi provvisoriamente a un suo modello che la distingue in coscienza estetica (v.) e autocoscienza (v.), 23 ©

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in quei due livelli che vengono dialetticamente a configurarsi e variamente a rinviarsi, come accade – con le parole di Walter Benjamin – tra il sogno e la veglia, dove non può esserci l’una cosa senza l’altra. Parlare di un “meccanismo estetico” che costituisce lo specifico della mente, e quindi di una “coscienza estetica” come la soglia critica dell’individuo e il mondo, e del relativo nesso tra immagine (v.), simbolo (v.) e linguaggio (v.), permette una prima sommaria descrizione della mente in una sua doppia articolazione. Che poi sono quei i due livelli con cui la psicoterapia ha costantemente, ma cautamente, a che fare: quei due livelli che per certi versi ricordano e rendono attuale l’attrito che si evidenzia tra il pensiero non indirizzato che attiene alla coscienza estetica (v.), ovvero al Sé come “fattore soggettivo” e il pensiero indirizzato che attiene invece all’autocoscienza (v.) e perciò all’Io, e quindi tra “Le due forme del pensare” sottolineate da Jung nel 1921. oralità – Nella psicoterapia c’è da mantenere viva la memoria dell’oralità, e per questa via porre in giusto rilievo l’accadere delle voci della diade analitica, così come la pura sonorità dei loro silenzi (più o meno prolungati). E ciò perché solo quando non sono più nascoste dalle parole, le loro voci possono mostrare il loro volto fonico e comparire come oggetti sonori che aprono alla percezione di un interno e un esterno e all’instaurarsi di plurali relazioni (v. percezione). Proprio nella nostra cura che attraversa il linguaggio c’è allora da riflettere su come – attraverso la percezione dell’elemento puramente materiale della voce – le valenze sonore delle parole, il loro timbro e la loro grana, entrino innanzitutto in contatto diretto con il corpo di ciascuno, suscitandone quella costitutiva “percezione estetica” cui prima accennavamo. D’altronde, prima che parola, la voce è suono: vale a dire che la parola, solo nel suo universo acusticamente significativo, trova una intrinseca connessione con la comunicazione vocale. In questa prospettiva è dunque importante assumere la voce orientandosi sulla sua costituzione materiale, ancor prima che sulle sue significazioni. In altri termini, oltre a pensare a un livello di comprensione della voce come veicolo di significati e magari come sorgente di un’ammirazione estetica, c’è da considerare la sua esistenza come oggetto 24 ©

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incarnato, ovvero come quella leva che svolge un’azione causativa sui vari piani, per esempio nel costituirsi del soggetto. Da qui l’importanza di riflettere su come la psicoterapia – nel suo dar forma alla relazione tra due individui e nel costituirli come tali – rinvii, in qualche modo, alle interazioni precoci tra il bambino e chi se prende cura, cui l’espressione colloquiale baby talk fa riferimento – come dice bene Ellen Dissanayake. E così, giungere a considerare più profondamente come interno e esterno, soggetto e oggetto vengano di volta in volta a dispiegarsi e articolarsi propriamente nel profilo musicale delle parole e dei silenzi, dei gesti e delle espressioni del corpo – quel profilo musicale che sta appena prima del vero e proprio agire linguistico (v. linguaggio). percezione – La percezione è un dispositivo dove la nostra mente (v.) insieme all’intero nostro corpo reagisce ma anche organizza e interpreta ciò con cui entra in vario modo in contatto. Sicché quel tutto determinato/indeterminato che chiamiamo il ‘percepito’, è l’effetto delle nostre capacità di interagire con l’ambiente, e quindi l’effetto del complesso dei nostri organi sensori che trovandosi di fronte a qualcosa, dispiega l’esigenza di trarne un’immagine interpretativa, adeguata e quindi significativa (v. immagine). In una tale definizione emergono almeno due cose. La prima riguarda il fatto che ogni percezione di una cosa non può che essere in vario modo incompleta, perché implica che di quella cosa si focalizzino alcuni aspetti, se ne trascurino altri, e si individui il contesto in cui quella stessa cosa è collocata. La seconda riguarda invece il fatto che nella percezione di una cosa si produca una immagine, che pur nella sua indeterminatezza di fondo, costituisce un fattore condizionante, sicché quella cosa risulterà percettivamente determinata in un certo modo e non in un altro. La percezione ha insomma a che fare non già con dati sensibili dotati di una loro univocità segnaletica, bensì con un complesso di segnali, che è efficace nella misura in cui la stessa percezione – attraverso l’immagine – può, per un certo verso, organizzarlo e, per un altro interpretarlo. La percezione non è perciò un mero risultato fattuale e approssimativo del semplice riguardare le cose, ma piuttosto rinvia a un operare e 25 ©

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un significare, che, nel loro complesso, fanno un qualche riferimento ai vari gradi del linguaggio (v.). Del resto, se l’organizzazione percettiva non vi avesse in qualche modo a che fare, si fermerebbe a mettere insieme ciò che è dato, e non produrrebbe né immagini né esperienza. resto – vedi esprimibile/inesprimibile e ineffabilità. schemi estetici – L’espressione è stata introdotta per la prima volta da Fabrizio Desideri che ha fornito l’abbozzo di una teoria ispirandosi alla nozione di “libero schematismo” e di “norma indeterminata” di cui parlava Kant nella Terza critica (F. Desideri, 2016), per poi approfondirla e rielaborarla inserendovi tra l’altro importanti riferimenti a F. Bartlett, a J. Piaget e a Marwin Minsky, uno dei padri dell’intelligenza artificiale (F. Desideri, 2018, pp. 61-75). Con questa espressione si indicano quegli specifici dispositivi che mette in atto l’energia indotta dall’andamento circolare dei processi della capacità – sia esogena sia endogena – dell’attenzione (v.), e che hanno la funzione di sovrintendere all’attitudine estetica. Essi non sono determinati né sul versante oggettuale né su quello concettuale, e come tali evidenziano una piena flessibilità. Ed è esattamente per la loro flessibilità che essi sono capaci di rendere affini le figure e i tratti della realtà con cui entrano di volta in volta in contatto – per quanto una tale realtà, in sé e per sé, sia differente, vuoi per le connotazioni oggettive, vuoi per le proprietà fenomeniche. Ed è proprio per i loro caratteri di bassa regolarità, di indeterminatezza concettuale e di orientamento extra-cognitivo (pre- e meta-cognitivo), che essi appaiono come lo strumento fondamentale del nostro continuo sviluppo cognitivo. Funzionando specificamente in modalità cognitivamente indeterminata ed esperienzialmente proiettiva, gli schemi estetici vengono assunti come una vera e propria “attitudine”: vale a dire, come un’inclinazione della nostra mente (v.), una sua predisposizione o capacità potenziale, a svolgere l’attività di cui si è detto – un’attività che si realizza per l’appunto trovando le condizioni esterne e interne che ne permettano l’estrinsecarsi. Ed è in questo senso che possiamo parlarne come di un’attitudine transculturale che pertiene alla possibilità, di noi come esseri umani, di fare esperienza del mondo e di costituirci nella rete relazionale con lo stesso mondo. 26 ©

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Gli schemi estetici sono pertanto ciò che rende possibile il nostro fare esperienza del mondo o costituire la nostra rete relazionale con il mondo; dove esperienza del mondo e rete relazionale, per la flessibilità che caratterizza gli schemi estetici, dobbiamo intenderle come non fissate una volta per tutte. Giacché, governati come sono da una regolarità indeterminata, gli schemi estetici, presenti nella memoria, si attivano nella nostra esperienza estetica (v.), e quindi entrano ogni volta in azione, nel farsi dell’esperienza (nel configurarla ma anche nell’anticiparla) – ampliando, dentro la dinamica percettiva, l’insieme dei tratti che costituiscono il mondo, e così lasciandoci l’opportunità di intravedere nuove quote del reale, nuove stratificazioni di senso e nuove dimensioni della nostra stessa esperienza (v. simbolo). sé – vedi coscienza estetica. sensazione – Il termine indica non già la capacità di restituirci in modo perfetto e completo tutto ciò che costituisce veramente un qualsivoglia oggetto. Se lo fosse, noi, come esseri senzienti, ci troveremmo identificati con le cose stesse, e una volta ridotti a cose tra le cose, non potremmo trarne dati organizzabili e adoperabili. La sensazione è piuttosto un filtro recettivo, che agendo entro una fascia di stimoli possibili, ce ne offre dei dati in forma di segnali. Ma che per farli funzionare come tali, non può che essere parziale e quindi diventare proprio un filtro selettivo, che in quanto tale mostra come quel qualcosa possa essere utile al nostro adattamento o ne costituisca una minaccia. E perché possa funzionare pienamente, per cui il sapere che ne deriva sia comunicabile e condivisibile, la vita sensoriale deve organizzarsi in una percezione che essendo a sua volta ambigua, necessita continuamente di una comprensione. È seguendo un tale modello, che si ipotizza un livello della mente (v.) dove si dispiega una “coscienza estetica” (v.) che emerge dal basso, e più propriamente nel darsi di quella soglia che attiene strettamente alla vita sensoriale e le dinamiche della percezione estetica – talché possiamo che senza un qualcosa che metta in comunicazione, è niente (v. percezione e esperienza estetica). In questo senso, la psicoterapia diventa una pratica antropologica che ha a che fare con una semiotica del sentire, fondamentalmente estetica e non cognitiva, che come tale rinvia non già a una condizio27 ©

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ne intellettualistica bensì al darsi insieme di un interno e di un esterno: vale a dire, all’originaria adesione del soggetto nel suo fare esperienza della vita, nel suo sentirsi con altri e nel sentire l’altro – partendo dal fatto che semiotica ed estetica si incontrano sul piano dell’esperienza e quindi nel contatto sensoriale e percettivo tra Sé (v.) e mondo e non tra Io (v.) e mondo. simbolo – Il come sia possibile il darsi di un simbolo che – mediante un insieme di operazioni esplicitabili – consenta di giungere all’esperienza percettiva verificando il suo corrispondere a qualcosa nell’effettiva realtà culturale del parlante (v. percezione), rimane un problema nelle diverse discipline e nella pratica terapeutica in particolare. Come ci ricorda Giovanni Matteucci, già Cassirer – proponendo una integrazione del carattere semiotico con quello antropologico – suggeriva che alla attività del simbolo attiene essenzialmente sia il senso dinamico del “formare” che quello del “congiungere”. Per questa via è magari possibile parlare più specificamente di “simboli attivi” che proprio per il loro carattere di una “ forma formans”, congiungono e intrecciano mente e mondo, e che, per il loro stesso essere vivi, hanno la capacità di oltrepassare le distinzioni che sono già date tra mente e mondo, e quindi tra ciò che è già del soggetto e ciò che è già dell’oggetto (v. mente). Proprio riguardando la produzione di senso in un’accezione più ampia di quella che tende a identificarla con un contenuto intenzionale, è intanto possibile rinvenire, come ha sottolineato Carl Gustav Jung, il funzionamento di veri e propri “simboli vivi”, che hanno innanzitutto a che fare con l’allentare e riannodare vincoli percettivi nei confronti del mondo, ogni volta stabilizzando relazioni genericamente cognitive o destabilizzando le stesse – fino a instaurarne di nuove. Vedi attenzione ma anche linguaggio. suono della voce – vedi oralità. versione fenomenologica della mente, critica della – v. mente. vissuto – vedi esperienza segreta. 28 ©

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bibliografia. – C.G. Jung, Tipi psicologici (1921), trad. it. in Opere, vol. 6, Bollati Boringhieri, Torino 2011; L. Wittgenstein, Zettel (19451948), trad. it., Einaudi, Torino 1986; L. Wittgenstein, Della Certezza (1949-1951), trad. it., Einaudi, Torino 1999; E. Garroni, “Immagine e linguaggio”, in «Documenti di lavoro e pre-pubblicazioni», Università di Urbino, 28, 1973; E. Garroni, Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla Critica del Giudizio, Bulzoni, Roma 1976; A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, 2 voll., Einaudi, Torino 1977; E. Garroni, Ricognizione della semiotica, Officina, Roma 1977; G. Carchia, “Il ‘Passagenwerk’ di Walter Benjamin”, in «aut-aut» 197-198, 1983; J. Bouveresse, Le mythe de l’intériorité. Expérience, signification et langage privé chez Wittgenstein, Minuit, Paris 19872; E. Garroni, Senso e paradosso, Laterza, RomaBari 1995; P.F. Pieri, Dizionario junghiano, Bollati Boringhieri, Torino 1998; E. Garroni, “L’indeterminatezza semantica. Una questione liminare”, in F. Albano Leoni, D. Gambarara, S. Gensini, F. Lo Piparo e R. Simone (a cura di), Ai limiti del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 49-78; M. Mazzeo, “Il tempo del tatto”, in R. Contessi, M. Mazzeo e T. Russo, Linguaggio e percezione. Le basi sensoriali della comunicazione umana, Carocci, Roma 2002, pp. 67-73; E. Garroni, “Immagine interna, figura-segno e lo schematismo kantiano”, in Id., L’arte e l’altro dell’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza, Roma-Bari 2003; P.F. Pieri, Introduzione a Jung, Laterza, Roma-Bari 20033; E. Garroni, “Simbolo e linguaggio”, in «Atque», 1 n.s., 2005, pp. 21-40; E. Garroni, Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari 2005; M. Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana, il Mulino, Bologna 2005; E. Garroni, Immagine, linguaggio, figura, Laterza, Roma-Bari 2006; E. Garroni, “La mente, il corpo, le cose”, in P. Carignani e F. Romano (a cura di), Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Franco Angeli, Roma 2006, pp. 27-36; M. Tomasello, Le origini della comunicazione umana, Raffaello Cortina, Milano 2009; V. Reddy, Cosa passa per la mente di un bambino. Emozioni e scoperta della mente, Raffaello Cortina, Milano, 2010; C. Caputo, Hjelmslev e la semiotica, Carocci, Roma 2010; E. Garroni, Creatività, Quodlibet, Macerata 2010; P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma 2010; F. Desideri, La percezione riflessa. Estetica e filosofia della mente, Cortina, Milano 2011; 29 ©

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Paolo Francesco Pieri

F. Desideri, La misura del sentire. Per una riconfigurazione dell’estetica, Mimesis, Milano-Udine 2013; F. Desideri, “Sulla forma differenziale delle emozioni”, in L. Russo e S. Tedesco (a cura di), Sull’emozione, in «Aesthetica Preprint. Supplementa», 29, novembre 2013, pp. 7990; F. Desideri, “Epigenesi e deduzione dei giudizi estetici. Per il superamento di antiche dicotomie”, in «Studi di estetica», 1-2, 2014, pp. 29-55; F. Desideri, “Schemi estetici. Una proposta”, in L. Marchetti, L’estetica e le arti, Mimesis, Milano-Udine 2016; M. Montinari, Il principio ripetizione. Studio su Walter Benjamin, Mimesis, Milano-Udine 2017; E. Dissanayake, “Incunaboli estetici”, in «Atque», 20 n.s., 2017, pp. 109-124; F. Desideri, Origine dell’estetico. Dalle emozioni al giudizio, Carocci, Roma 2018; F. Desideri, Oggetti attivi. Sulla singolarità delle opere d’arte, Mimesis, Milano 2021.

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Prefazione

In questo fascicolo di “Atque” torniamo a riflettere su quella pratica di cura che definiamo talking cure, a partire dalla brillante definizione di Anna O., alla luce di alcuni argomenti ampiamente dibattuti nei fascicoli pubblicati in questi ultimi anni. Per certi versi, la talking cure dei nostri giorni tende sempre più a riconoscersi in una dimensione performativa, valorizzando le azioni, le trasformazioni, i passaggi che si compiono nella pratica linguistica, avendo ormai quasi del tutto abbandonato sfondi più concretistici o rimandi ad altri livelli di realtà che diano senso all’attuale. E tutto ciò conduce di necessità a ricercare una migliore capacità descrittiva dell’esperienza e della sua attualità, ma anche, approfondendo in senso critico il concetto stesso di esperienza, a giungere al grembo delle parole. Per questo intendiamo parlare di estetica della talking cure accogliendo la proposta di Emilio Garroni e di Fabrizio Desideri di guardare all’estetica non più come una disciplina speciale, ma come una riflessione critica sulle condizioni di senso dell’esperienza, volta a esplorarne la grande complessità. Lo “sguardo-attraverso”, mutuato da Wittgenstein nel tentativo di descrivere quel modo paradossale di vivere dentro l’esperienza mettendola contemporaneamente in questione dall’interno, esprime molto bene il processo di pensiero che accompagna costantemente la pratica della talking cure, almeno quando essa si ponga criticamente in discussione relativamente ai modi del suo farsi. Come si vedrà nella lettura di questo fascicolo, assumere questo vertice di riflessione fa sì che alcune questioni che hanno attraversato le concezioni della talking cure si presentino in modo molto diverso, tanto da delineare un nuovo contesto riflessivo della sua teoria della clinica. 31 ©

atque materiali tra filosofia e psicoterapia, 28-29 n.s., 2021, pp. 31-38 – ISSN 1120-9364


Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri

In primo luogo perde di consistenza sia la prospettiva internalista che ha inteso la mente come un fenomeno osservabile e spiegabile scientificamente al pari degli altri fenomeni, sia la prospettiva internalista che, con la sua classica distinzione tra mondo interno e mondo esterno, ha trascinato con sé presunte autonomie del mentale, e relativi accessi privilegiati, acritici riduzionismi e causalismi derivativi. Analogamente, l’ammissione di un “primato dell’esperienza” si rivela uno strumento fecondo per ripensare criticamente il “primato del linguaggio” che ha dominato decenni di riflessioni sulla talking cure: non certo nel senso di una messa da parte di quest’ultimo – ché il linguaggio, una volta acquisito, non può più essere ignorato, proprio per gli spazi intersoggettivi e le operazioni simboliche che consente – ma nel senso di una valorizzazione della complessità e della difformità delle dimensioni interagenti nell’esperienza. E proprio in questo senso, assume un valore strategico la riflessione sulla proposta che ci arriva da due autori come Emilio Garroni e Fabrizio Desideri, dove si pensa una correlazione molto stretta tra percezione e linguaggio, come dimensioni che, pur avendo origini, strutture, temporalità e finalità diverse, si sviluppano in un gioco interattivo, in cui il passaggio dall’indeterminatezza pre-linguistica verso definizioni più specifiche si avvale continuamente di una costitutiva, feconda reciprocità. Di fatto, nella pratica della talking cure, sono sempre in gioco le componenti percettive ed emotive che attengono non già ai processi intenzionali (consci) bensì ai processi attenzionali (inconsci): e già questo può essere un rovesciamento dell’euristica della cura, non foss’altro che nel privilegio assegnato a una modalità di comprensione inscindibile dalle implicazioni percettive ed emozionali specifiche del presente attuale. Come si vedrà, tutto ciò, seguendo per certi versi la pista di Merleau-Ponty, ci conduce in fondo ad allontanarci definitivamente da ogni primato assegnato a un mondo interno rappresentazionale, a favore piuttosto dello studio dell’interfaccia percettiva, e di tutta la sua enorme complessità. Altro punto di rilievo è la considerazione di come, in questo gioco interattivo e diversamente espressivo di percezione e linguaggio, l’oggetto resti comunque un termine che, opponendo resistenza, non si lascia completamente prendere, svelare, esprimere o rappresentare, per cui lascia sempre qualcosa da dire, o forse anche qualcosa che non si può 32 ©

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Prefazione

dire. Come allora pensare questo resto nella nostra talking cure? Come ci provoca, questo resto, nella ricerca di un’ulteriorità del discorso, nella ricerca di un non-ancora? Possiamo intenderlo, à la Wittgenstein, come quell’inesprimibile che costituisce lo “sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato”? Oppure potremmo, à la Jankélévitch, distinguere un indicibile che “allude alla desolazione e al silenzio della morte” da un ineffabile su cui “c’è infinitamente e ineusastivamente da dire”? Oppure, ancora, à la Desideri, potremmo intenderlo come rinvio a quelle emozioni che, proprio perché si esprimono in forma sub-intenzionale, “non possono mai tradursi nell’orizzonte cognitivo”? E questo argomento non ci avvicina forse a ripensare che il grado intellettuale della mente (l’Io) si trova in dialettica connessione con la mente come coscienza estetica (il Sé), e quindi in modo più congruo con la performatività della talking cure? Per questa via, si cominciano a esplorare quegli ambiti dell’operare clinico in cui ci si confronta più direttamente con i limiti del rappresentabile, e con quelle feconde differenze che si aprono tra quanto può essere detto nel linguaggio e quanto può essere espresso nella sensibilità che lo accompagna. In questo senso forse è proprio la voce l’aspetto che meglio esprime l’intersecarsi di piani nella costituzione di una comprensione innescata più dal contesto emotivo-percettivo che dall’interpretazione cognitiva. Così come viene utilmente ripensato uno dei riferimenti più comuni nella pratica psicoterapeutica, l’empatia, valorizzandone l’appartenenza ai fenomeni passivi tipici della recettività prerappresentazionale corporea. E questa impostazione costituisce anche un’apertura verso una visione critica di uno dei cardini della psicologia fenomenologica, il concetto di vissuto, per lo meno nelle sue versioni più coscienzialiste o rappresentazionali. Infine la riflessione viene portata su una concezione dialettica soggetto-oggetto che emerge operativamente dalla prassi estetica, così come dalla riflessità che su di essa si insedia. Sicché emerge una soggettività dai confini aperti, fluttuanti, che si costituisce ai limiti della capacità sensibile, come interfaccia sé-mondo; una soggettività che continuamente si confronta con una funzione riflessiva, legata alla costituzione di un’autocoscienza capace di definire, limitare, designare. Una soggettività, dunque, che si esprime pienamente nel gioco interattivo di sensibilità e linguaggio. 33 ©

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Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri

1. È opportuno ricordare che la storia ufficiale della talking cure prende avvio quando Anna O. sperimenta che la parola può far superare il mutismo della perdita. Del resto, un po’ temerariamente, possiamo anche affermare che, se l’uomo non sperimentasse la perdita e la caduta, non avrebbe bisogno né desiderio di parlare. Per questo motivo, parola e cura condividono la medesima origine e il medesimo destino, che è quello di provvedere a sé stessi e all’altro favorendo la comunanza e, allo stesso tempo, il collegamento tra i diversi livelli esperienziali: quello sensoriale, emotivo e ideico. Curativa non può essere la parola delirante perché assolutizza l’idea negando la sensorialità del corpo e, nemmeno, la parola ipocondriaca perché rimane prigioniera dei sensi e non accede alle idee. La parola cura quando diventa parola erotica, che sa abitare la perdita tessendo legami. E la parola cura quando diventa parola estetica, che sente e fa sentire permettendo la globalità della conoscenza e dell’esistenza (Enrico Ferrari). 2. Se il linguaggio è sicuramente lo strumento principale attraverso cui si svolge l’esperienza psicoanalitica, dovremo senz’altro riconoscere che esso non è terapeutico di per sé. I fattori terapeutici vanno ricercati piuttosto nella trasformazione emozionale che esso consente. Per questo la psicoanalisi, più che una talking cure, è una terapia attraversata dal linguaggio. È perciò opportuno discutere quali cambiamenti apporti alla relazione analitica il riferirsi preferenzialmente all’interpretazione, oppure alla narrazione, oppure alla traduzione. E così indagare le maggiori potenzialità di un lavoro analitico inteso come lavoro traduttivo ed esaminare i tre paradossi con cui tale paradigma ci confronta: 1) lo sforzo di comprendere il paziente si accompagna al riconoscimento dell’inevitabile tradimento a cui questo ci espone; 2) se la traduzione è volta a limitare l’incomprensibile, proprio l’incomprensibile garantisce la fedeltà e il rispetto dell’alterità; 3) la traduzione implica una trasformazione dell’irrappresentabile in rappresentazione, ma tuttavia esito altrettanto importante dell’analisi è la trasformazione inversa dalla rappresentazione all’irrappresentabile (Giuseppe Martini). 3. Si dovrà dunque porre attenzione ad alcune attuali proposte sull’impresa psicoterapeutica che, abbandonata ogni visione “disvelante”, descrivono la propria pratica come un mettere in forma, un menta34 ©

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Prefazione

lizzare, un dar voce agli aspetti affettivi e sensoriali della relazione presente fra paziente e terapeuta. Tenendo in considerazione questo punto, possono esser prese come spunto di riflessione alcune idee proposte da C.G. Jung, da L. Wittgenstein e da W.R. Bion. Questi autori sembrano avere delle visioni simili relative al rapporto fra l’immagine, la sensazione, la percezione e la parola, e tentano di risalire ai momenti aurorali della nascita del pensiero e del linguaggio nella cultura occidentale (Roberto Manciocchi). 4. D’altronde va affrontato il ruolo che svolge il linguaggio nella relazione che la fenomenologia ha stabilito tra manifesto e latente, tra essenza e accidente. E va posto il focus sull’esperienza in quanto momento fondante l’essere umano e dimensione fondativa, non aggirabile. La domanda centrale diventa così quella di Bin Kimura: “Che cosa è primario, l’esperienza o il linguaggio”. Per questa via, le riflessioni di Wittgenstein sull’Io in quanto limite del linguaggio, con la relativa impossibilità di accesso agli stati interni nella loro purezza sensoriale, vanno confrontate con la posizione di Bin Kimura, quando pone la dinamica del soggetto e la sua propria identità, sia normale che patologica, nella dimensione intermedia dell’aìda, tra immediatezza della certezza sensibile e mediazione del linguaggio. Si tratta di un luogo che suggerisce una posizione dello psicoterapeuta tanto rispettosa degli Erlebnisse dei pazienti quanto propositiva in senso trasformativo (Angiola Iapoce). 5. Nelle diverse teorie del linguaggio che hanno sostenuto la pratica della talking cure è rimasto sempre problematico un punto che riguarda il modo di intendere ciò che non è dicibile: quegli aspetti che stentano a entrare in una dinamica virtuosa del gioco interattivo tra immagine, sensibilità, affetti e parola, segnando così un confine insuperabile per una pratica che si qualifica attraverso le potenzialità dell’atto del parlare. Come si presenta l’inesprimibile? Quali limitazioni pone? Coincide con l’indicibile? E se no, in che rapporti è con esso? Ha a che vedere con l’irrappresentabile? È una categoria assoluta o tollera sfumature ed evoluzioni? Queste domande incidono profondamente sull’atteggiamento clinico che assumiamo di fronte ai limiti della capacità di parlare, nostra e dei nostri pazienti, e la risposta che diamo è molto influen35 ©

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Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri

te rispetto alla nostra capacità di attendere, di accettare il silenzio, di mantenere una fiducia nelle possibilità evolutive di una cura che, attraverso la parola, s’afferra alle esperienze profonde, del passato e del presente vissuto (Maria Ilena Marozza). 6. Anche se la talking cure è un metodo di trattamento che opera attraverso uno “scambio di parole”, bisogna comunque rilevare che questa nozione è problematica, perché i processi terapeutici sono modellati dagli aspetti non verbali dell’interazione, per esempio l’espressione facciale, la sincronizzazione del movimento del corpo, le pause del discorso e il silenzio. In questo contesto, due nozioni sono di fondamentale importanza. La prima nozione è ben rappresentata dalla ricerca di John Cage sul silenzio, concepito inizialmente in modo tradizionale, come assenza di suono, o come minima attività sonora. Già in questa fase, tuttavia, il silenzio non è solo una negatività per Cage. L’attenzione al silenzio aiuta a scoprire la struttura musicale poiché questa può essere determinata solo dalla durata. La musica diventa un concetto vuoto (silente) da cui può emergere qualsiasi tipo di suono. La “Lezione sul nulla” di Cage, una lettura del 1950, segnala un cambiamento nel suo pensiero sul silenzio. Egli si rende conto che il ruolo importante del silenzio riguardo alla struttura musicale non stabilisce ancora un pieno riconoscimento delle sue qualità positive. All’inizio della ‘Lezione sul nulla’, egli tenta di arrivare a un diverso rapporto con il silenzio, che non è più assenza di suoni: il silenzio stesso consiste di suoni. Il silenzio genera suoni. Chiasma. Reversibilità. Attraverso l’intreccio di silenzio e suono, la loro reciproca penetrabilità viene allora apprezzata. La necessaria interdipendenza tra suono e silenzio riguarda due aspetti principali: il silenzio non è solo la precondizione del suono – questo significa che il silenzio contiene il suono – ogni suono a sua volta ospita anche il silenzio. La seconda nozione di fondamentale importanza è il concetto di “Doppio legame”, tratto dal pensiero ecologico di Gregory Bateson. L’autore lo ha originariamente sviluppato con alcuni colleghi, più di sessanta anni fa, nell’ambito di una teoria della schizofrenia incentrata più sulle relazioni familiari patologiche e sulla comunicazione che non sui fattori biologici. Un doppio legame è un tipo di comunicazione che si confuta da sé, come quando si dicono contemporaneamente due cose tra loro incompatibili. Una persona che cerca di rispondere a un doppio 36 ©

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Prefazione

legame non sarà mai in grado di farlo correttamente, poiché, qualsiasi cosa faccia, essa potrà essere giudicata sbagliata (Silvano Tagliagambe). 7. L’estetica del Sublime e il concetto psicoanalitico di sublimazione, opportunamente riletto, possono interagire in modo da illuminarsi reciprocamente. Ciò che otteniamo è, da un lato, una comprensione più penetrante dell’essenza dell’esperienza estetica nell’arte, dall’altro, una visione più convincente di come si svolge il processo del diventare soggetti. Infatti il primo barlume di autocoscienza si accende in una dimensione prettamente estetica, nel senso etimologico del termine, cioè in uno spazio fatto di sensazioni. Tale spazio, denominato “chora semiotica” da Julia Kristeva, è al tempo stesso dinamico e intersoggettivo – in altri termini, benché intessuto di sensorialità, non può comunque prescindere da una cornice simbolica. Per illustrare questa area tematica, è opportuno esaminare due esempi di sublime contemporaneo, il film di Kim Ki-duk intitolato Pietà, e alcune opere monumentali di Richard Serra (Giuseppe Civitarese). 8. È possibile dunque proporre una generale rilettura dell’esperienza analitica in chiave estetica, centrata sulle caratteristiche dello “sguardo-attraverso”. La prospettiva filosofica di Emilio Garroni può fungere da cornice teorica. Attraverso questo percorso si approderebbe a una sorta di realismo trascendentale in cui, pur restando ancorati al mondo sensibile e condiviso, si determina una trascendenza estetica: un vero e proprio attraversamento del senso mediante i sensi. Ed emerge così una disposizione sinestetica che, tornando sulla terra, trasforma la metafisica in dia-fisica e la talking-cure in arte (Elena Gigante). 9. Si può inoltre descrivere l’avventura che la parola può esperire nelle sue diverse declinazioni di senso: per un verso, la parola stentorea, che si dà sicura, densa di verità incontrovertibili, come ci viene dal Cratilo di Platone o dal Diavolo di Dürer. Di contro, la parola puramente convenzionale, prossima ad annichilirsi nella vacuità gorgiana: la parola, così ci appare, dell’Ermogene platonico o della Morte raffigurata da Dürer. Dal confronto delle due, infine l’apertura a una terza possibilità: è la parola che viaggia nella cosa che esprime, la parola esperienza, mai ferma, gravida di un senso infinito; incurabile, nell’ac37 ©

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Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri

cezione ricavabile dalla riflessione dantesca (forse, proprio per questo, paradossalmente, strumento capace di cura) ovvero indisponibile a ridursi tra le maglie strette della grammatica. Ove grammatica è icona di pensiero fermo, di teoria stantia, timorosa della vita, come può certo anche divenire la teoria che l’analista maneggia (Francesco Di Nuovo). 10. Alla fine del fascicolo, viene proposto il glossario di un lettore. Esso, per essere tale, deve necessariamente contenere qualche elemento di finzione, perché una descrizione realistica finirebbe per violare il suo segreto. Ogni voce commenta, in ordine alfabetico, le passioni, le manie, i vizi, i rituali e i libri che hanno segnato il percorso del lettore protagonista: da Poe, a Borges, ad Augusto Monterroso; dalla vocazione precoce alla lettura, all’amore per i cataloghi; dall’equipaggiamento del vero sottolineatore, al suo desiderio di solitudine; dalla meraviglia della prima biblioteca, ai libri prestati che nessuno gli ha più restituito (Antonino Trizzino). Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri

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PARTE PRIMA

QUALE PAROLA PER LA CURA



Cura e parola: un intreccio necessario Enrico Ferrari

English title  The Cure and the Word: a necessary combination Abstract  The official history of the talking cure starts when Anna O. experiences that the word could help to overcome the silence of the loss. After all, we can quite recklessly assert that if a human being doesn’t experience the loss and the fall, then the human being itself wouldn’t have the need or the desire to talk. For this reason, the word and the cure are sharing the same origin as well as the same fate, which is to take care of ourselves and the other by fostering commonality and at the same time a link between different levels of experience: the one of the senses, the one of the emotions and the one of the ideas. The delirious word can’t be curative because it absolutizes the idea by denying the sensorial attitude of the body, as well as the hypochondriac word can’t be curative because it stays prisoner of the sense and doesn’t have access to the ideas. The word can cure when it becomes erotic word, able to inhabit the loss by weaving bonds. And the word can cure when it becomes aesthetic word, able to feel and make feel by allowing the totality of knowledge and existence. Keywords  talking cure, loss, disorientation, sorge, erotic word, aesthetic word

1. Perché parliamo? L’insegnamento di Anna O. C’è una domanda che tocca tanto le profondità della vita, quanto le banalità del traffico quotidiano. La domanda è seria, forse decisiva. E, come ogni domanda seria, ha essenzialmente bisogno di essere posta, pur non trovando mai la possibilità di una risposta esauriente: perché parliamo? Non ci basta liquidare il tema con la necessità di comunicare. Tutti sappiamo quanto si comunichi anche con il silenzio, con lo sguardo, 41 ©

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con l’azione. Eppure, avvertiamo la spinta a parlare: una sorta di pulsione radicata nella sfera del bisogno ma che può, a volte, farsi desiderio e, persino, amore della parola. Non ci basta neppure motivare il nostro parlare con la necessità del concetto, con cui strappiamo alla mutabilità della scena di ogni giorno verità comuni e durature. Troppo spesso, infatti, ci troviamo a parlare sillabando, urlando, impressionando, contraddicendoci. La scienza ha scelto la rotta dello studio dei segni parlati, del loro nascere come del loro strutturarsi nella neurofisiologia dell’individuo e nella storia culturale delle società. Ma si è distratta dalla meta, che non può ridursi all’avvistamento dei codici comunicativi e del loro funzionamento. C’è qualcosa che viene prima, che ha a che fare con il parlare stesso prima ancora che con il pronunciare determinate parole o altre. Per accostare il prima, non ci resta che osservare (descrivere) l’avvertenza del parlare. Non già della parola, ma del parlare. Di ciò che avviene parlando, e ascoltando. Entrambe esperienze, prima che funzioni. Entrambe esprimibili dal modo del gerundio che le lingue, bacino di sedimentazione ma non già grembo della parola, hanno sentito il bisogno di coniare. Il modo del gerundio ha avuto la sua consacrazione nella regione umana della cura psicologica, mediante la celebre espressione di Berta Pappenheim:1 talking cure. La paziente di Breuer e di Freud, pioniera di quell’esperienza unica che verrà chiamata psicoanalisi, intendeva così esprimere un sentimento di libertà (o liberazione) guadagnabile nel dialogo terapeutico. Nel parlare ascoltato dall’altro e reciprocamente tessuto, significativo non meno per la forma che per il contenuto. Una primigenia esperienza che rivela la propria validità mentre la si compie, colta nel suo scorrimento presente, indefinita perché non interamente pre-vedibile, conoscibile solo mentre avviene. Ma perché Berta Pappenheim (Anna O. nella narrazione di Freud) cercava la libertà parlando? Prima, i soli movimenti, i blocchi o le scosse del corpo l’avevano fatta rimanere nel lutto del padre, imprigionata senza poter vedere il proprio sentire, senza avvertire quella sensazione J. Breuer, S. Freud, “Studi sull’isteria” (1892-95), trad. it. in Opere, vol, 1, Boringhieri, Torino 1989, pp. 188 ss. 1

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Cura e parola: un intreccio necessario

di libertà procurata, invece, dal parlare. Un tragitto, il suo, dall’esperienza della morte alla parola. Berta sentiva di dover parlare per vivere, per poter esistere, per superare il mutismo della perdita. È alla base della cura, è alla base della parola.

2. L’esperienza delle madri e degli amanti Chi conosce bene queste cose, mentre le sperimenta, è la madre del bambino appena venuto al mondo. La maternità pone fine all’appartenenza originaria e si trova a dar vita al nuovo. Il bambino non parla (ancora), ma la madre gli parla egualmente. Non possiamo dire: parla; ma, solo, “gli” parla. La madre parla perché avverte il “tu”: sente l’alterità del figlio, per questo non le basta pensare. Anzi, è parlando che pensa, immagina, si commuove. Magari vorrebbe non parlare, abitando la sola comunione dei sensi che appaga sì ma non intercetta la novità del tu. Per questo non può non parlare, fin da quando sperimenta le sensazioni dei movimenti dentro al proprio ventre. Non già, almeno sembra, quando le sensazioni sono incentrate sul solo corpo proprio che si modifica. La madre parla quando il nascituro si muove. È il movimento, manifestazione prima e ultima della vita corporea, a chiamare la parola, a far sentire il tu. Poi, al comparire della luce, saranno la vista, l’olfatto, il tatto a proseguire la chiamata. Soprattutto, quell’esperienza dell’evento che chiamiamo emozione e che, etimologicamente, richiama di nuovo il movimento (movēre) verso l’esterno (ex). Sono il muoversi del tu e il muoversi verso il tu a pro-vocare il parlare. La madre, da subito, non dice al bambino parole linguisticamente complete. La meraviglia dell’evento trova nella voce e nelle sue protoparole la possibilità di essere sentita e, al contempo, comunicata, raggiungendo l’altro in una compartecipazione che rende l’esperienza duale. Abbiamo così intercettato un secondo movente del parlare: la meraviglia. Quell’esperienza di spaesamento che contiene tanto il piacere quanto la paura e che, a differenza del movimento, non si situa nella spazialità della sensazione ma si diffonde nella globalità dello stato d’animo. Così facendo la meraviglia chiede una dimora che supera i confini del corpo il quale, da spazio, si fa dimensione, chiedendo di essere meglio nominato corporeità e di avere un nuovo accesso alla parola. 43



I tre paradossi della traduzione psicoanalitica Giuseppe Martini

English title  The tree paradoxes of psychoanalytic translation Abstract  Language is certainly the main tool through which the psychoanalytic experience takes place, but it is not therapeutic in itself. The therapeutic factors are rather related to the emotional transformation that it allows. For this reason psychoanalysis, more than a talking cure, is a therapy crossed by language. This leads the author to discuss what changes can bring to the analytic relationship by referring preferentially to interpretation, or to narration or translation. The major potential of an analytical work understood as a translation work is thus investigated and the three paradoxes with which this paradigm confronts us are examined: 1) the effort to understand the patient is accompanied by the awareness of the inevitable betrayal to which it exposes us; 2) if the translation is aimed at limiting the incomprehensible, precisely the incomprehensible guarantees fidelity and respect for the other; 3) the translation implies a transformation of the unrepresentable into representation, but an equally important outcome of the analysis is the inverse transformation from the representation to the unrepresentable. Keywords  language; translation; untranslatable; representation; unrepresentable

Una terapia attraversata dal linguaggio Tra le molte, la psicoanalisi contemporanea è attraversata da una pur feconda contraddizione difficile a risolversi: se frequente è il richiamo alla sua antica specificità che ruota in qualche modo intorno alla parola (dalla talking cure all’interpretazione, dalle libere associazioni alle equivalenze strutturali tra inconscio e linguaggio), è pur vero che le sue più significative e radicali trasformazioni si sono giocate sul piano 57 ©

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della valorizzazione del pre\extralinguistico (dalla sensorialità all’immagine, dal preverbale all’inconscio non rimosso). La questione non riguarda certo solo la psicoterapia o la psicoanalisi. Potremmo forse considerare il problema del limite del linguaggio come il problema limite della cultura occidentale. Noto è il passaggio gadameriano attestante che «il linguaggio è il mezzo universale in cui si attua la comprensione stessa»1 e l’ancor più famoso «L’essere che può venir compreso è linguaggio».2 Non bisogna peraltro trascurare come il filosofo stesso abbia precisato come «naturalmente con la linguisticità del comprendere non si può intendere che tutta l’esperienza del mondo si compia come parlare o nel parlare. Fin troppo conosciute sono quelle preverbali o oltraverbali prese di coscienza, mutismi, silenzi, in cui si esprime una immediata percezione del mondo».3 Ciò nonostante, dall’ammissione della assoluta centralità del linguaggio potrebbe discendere (si pensi allo strutturalismo e alle sue influenze in campo psicoanalitico) l’assolutizzazione della semiosi linguistica e il misconoscimento dell’extraverbale, dell’immagine4 e dell’emozionale in senso lato. Questo beninteso sarebbe difficilmente compatibile con i contributi della psicoanalisi, e di certo con una concezione che valorizza l’inconscio non rimosso e il fondo di irrappresentabilità di questo stesso.5 Occorre in primo luogo tenere presente i molteplici e contrapposti significati che può assumere il termine linguaggio. In Heidegger, da cui muove Gadamer, tutto è linguaggio, in quanto «dimora dell’‘Esse-

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H.G. Gadamer, Verità e metodo (1972), trad. it. Bompiani, Milano 1983, p.

Ivi, p. 542. Ivi, p. 482. 4 Vedasi al proposito P. Ricoeur, “Il racconto: il suo posto in psicoanalisi” (1988), trad. it. in Id., Attorno alla psicoanalisi, a cura di F. Barale, Jaca Book, Milano 2020, pp. 245-253. 5 Cfr. G. Martini, La sfida dell’irrappresentabile. La prospettiva ermeneutica nella psicoanalisi clinica, Franco Angeli, Milano 2005; Id., La psicosi e la rappresentazione, Borla, Roma 2011; Id., “Narrazione e ricostruzione dell’identità: paradigmi clinici”, in V. Busacchi, G. Martini, L’identità in questione. Saggio di psicoanalisi ed ermeneutica, Jaca Book, Milano 2020, pp. 159-178. 2 3

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I tre paradossi della traduzione psicoanalitica

re’», «essenza dell’Essere».6 E tuttavia «Il “parlato” trae, in vari modi, origine dal “non parlato”, sia questo qualcosa di non ancora espresso o qualcosa che deve di necessità restare inespresso in quanto realtà che si sottrae alla parola (…). Il suo dire scaturisce dal Dire originario, sia per quanto s’è fatto parola sia per quanto è rimasto ancora inespresso, da quel Dire originario che trapassa il profilo del linguaggio».7 Per contro, se, col termine linguaggio ci riferiamo alle «parole che usiamo quotidianamente»,8 i termini della questione cambiano radicalmente ed esso finisce col configurarsi come «arma a doppio taglio»:9 se da un lato consente nuove forme di relazioni e l’acquisizione di capacità narrative, dall’altro implica una perdita delle esperienze extraverbali e introduce una discontinuità. Richiamandosi a George Steiner,10 più che all’ambigua ontologia heideggeriana, Paul Ricoeur evidenzia come la destinazione primordiale del linguaggio sia non tanto la comunicazione, bensì la manifestazione di un’enigmaticità ai confini con l’indicibile. Ne consegue il «paradosso che il lavoro del linguaggio conduca al versante opposto della comunicazione, verso il segreto».11 Anche tra gli psicoanalisti non mancano autori che valorizzano una tale concezione. Nella sua efficace ricostruzione del pensiero di Hans Loewald, Stephen Mitchell bene sottolinea come per questo Autore «il linguaggio trascende la distinzione tra il preverbale e il verbale (…). La distinzione significativa è tra una fase dello sviluppo nella quale le parole, intese come suoni, sono immerse in un’esperienza non differenziata, densa e globale, e una fase successiva nella quale le caratteristiche semantiche del linguaggio acquisiscono la precedenza su quelle sensua6 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio (1959), trad. it. Mursia, Milano 1990, p. 98 e p. 102. 7 Ivi, p. 197 e p. 200. 8 D.N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino (1985), trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 182. 9 Ivi, p. 182. 10 G. Steiner, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione (1992), trad. it. Garzanti, Milano 1994. 11 P. Ricoeur, “Psicoanalisi e interpretazione. Un ritorno critico. Conversazione con Paul Ricoeur” (a cura di G. Martini – 2003), in P. Ricoeur, Attorno alla psicoanalisi, cit., pp. 379-395, p. 390.

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Parole che immaginano Roberto Manciocchi

English title  Words they imagine Abstract  The article focuses its attention on the current proposals regarding the psychotherapeutic enterprise which, coming out of a “revealing” vision, describe their practice as “putting in shape”, “mentalizing”, giving voice to the affective and sensorial aspects of the present relationship between patient and therapist. Taking this point into consideration, some ideas proposed by C.G. Jung, L. Wittgenstein and W.R. Bion who seem to have similar visions regarding the relationship between image, sensation, perception and speech, and try to trace the “auroral” moments of the birth of thought and language in Western culture. Keywords  image, sensation, perception, word, language, C.G. Jung, L. Wittgenstein, W.R. Bion

Il numero di «Atque» porta nel titolo i termini “esperienza estetica” e “grembo delle parole”. Questo significa che ci dovremo muovere in direzione di tematiche quantomeno connesse con la “bellezza”, nelle sue relazioni con il “linguaggio”; questioni queste che, come si sa, sono da sempre molto spinose per qualunque discorso. Pur volendone confinare la trattazione alla psicoterapia, portano, infatti, con loro innumerevoli problematiche, relative a presunti “stati primitivi e originari del mentale” dove il sensoriale, l’affettivo, il percettivo si compenetrano, ponendo immediatamente il dubbio relativo al poterne parlare e del come parlarne. L. Wittgenstein, secondo alcuni commentatori,1 l’aveva capito bene, e in senso radicale, a tal punto da impostare tutto il suo Tractatus 1 Vedi, per esempio, C. Sini, Scrivere il silenzio. Wittgenstein e il problema del linguaggio, Castelvecchi, Roma 2013.

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non come una trasmissione di saperi, in grado di perfezionare un apprendimento, ma come una richiesta, al lettore, di partecipare a una specifica evenienza che, proprio assumendo un carattere “estetico”, poteva portare a una chiarezza di pensiero. Con parole sue, il libro: «Conseguirebbe il suo fine se procurasse piacere ad almeno uno che lo legga e lo comprenda» (corsivo mio).2 Un cammino, al termine del quale sarebbe stato logicamente inevitabile «gettar via la scala dopo essere asceso su essa».3 Azione esemplificativa, questa ‒ accessibile solo al termine di un percorso ‒ che, unica, poteva ambire ad assumere sembianze autenticamente etiche in quanto coincidenti con la comprensione dei limiti di qualunque linguaggio comunicativo (non necessariamente espressivo, come capirà più tardi, ma su questo mi riprometto di dire qualcosa più avanti).4 La bellezza appare, insomma, una di quelle questioni riguardo le quali ‒ anche senza apparire troppo “mistici” o “irrazionali, romantici cultori dell’ineffabile” ‒ si può dire che sarebbe meglio tacere, come impone la settima proposizione dello stesso Tractatus.5 Ma naturalmente nessuno ha mai taciuto, anzi, si direbbe che si è finito per non parlare d’altro in tutto il cammino della cultura occidentale, fin dalla espulsione dei poeti dalla città di Platone, facendo spesso vivere un disagio per quella situazione, così ben rappresentata, con amara ironia, da Woody Allen in Io e Annie, dove le parole, espresse da un tizio all’uscita di un cinema, sembrano proprio fuori luogo, in quanto impregnate di pregiudizi intellettualistici e l’unica soluzione possibile sarebbe far esprimere direttamente (e non solo per concetti) chi le ha proferite: mi riferisco alla famosa scena nella quale, in fila fuori dal cinema, compare, magicamente, M. Mc Luhan a zittire il tizio che conL. Wittgenstein, Tractatus logico-philosoficus. Prefazione (1921), trad. it. Einaudi, Milano 1998. 3 L. Wittgenstein, Tractatus, cit., § 6.54. 4 Come noto, in Wittgenstein estetica ed etica si sovrappongono. Sulla concordanza del piano etico ed estetico rimando a P. Hadot, Wittgenstein e i limiti del linguaggio (1959-62), trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2007. Più direttamente ancora al Tractatus, cit., § 6.421. «È chiaro che l’etica non può formularsi. L’etica è trascendentale. (Etica ed estetica son uno)». 5 Ivi, § 7. 2

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Parole che immaginano

tinua a parlare dei suoi scritti, collegandoli al film appena visto, e Alwy dice: “Ragazzi… se la realtà fosse così!”. Per avanzare su un terreno tanto infido e vasto ci sarà dunque bisogno di aiuto: oltre ad alcune riflessioni del già citato Wittgenstein, farò riferimento ad alcune idee di C.G. Jung e W.R. Bion nell’intento di riportare, se possibile, un discorso di questa portata alla dimensione più contenuta della psicoterapia. Mi permetterò, per iniziare, di riprendere un saggio di Jung del 1922 ‒ curiosamente uscito un anno dopo la pubblicazione del Tractatus ‒ che propone proprio alcune considerazioni sull’arte, tentando però di differenziare e circoscrivere, come suo costume, i confini possibili di uno sguardo “psicologico”; prospettiva questa a cui sarebbe data facoltà e dovere di “parlare”. Dovremo cominciare dunque dalle sue parole per andare avanti. L’esercizio dell’arte è un’attività psicologica (…) questa constatazione determina nettamente, al tempo stesso, i limiti entro i quali è possibile applicare i punti di vista di questa scienza: soltanto quella parte dell’arte che comprende i processi di formazione artistica può essere oggetto di studi di tal genere, ma non quella che rappresenta l’essenza medesima dell’arte. (…) Nel campo della religione siamo costretti a fare una distinzione analoga (…) se ciò non fosse possibile, non solo la religione ma anche l’arte potrebbe essere considerata come una sezione della psicologia. Non si esclude con questo che tali soprusi non abbiano avuto luogo. Ma colui che li compie dimentica evidentemente che si potrebbe fare altrettanto per la psicologia e annientare il suo valore specifico e la sua propria essenza, trattandola come una semplice attività cerebrale.6

Corsivo mio.

C.G. Jung, “Psicologia analitica e arte poetica” (1922), trad. it. in Id., Psicologia e poesia, Bollati Boringhieri, Torino 1987. 6

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“A me piace sentire le cose cantare”. Variazioni sul tema dell’esperienza tra psicopatologia e filosofia Angiola Iapoce

English title  “A me piace sentire le cose cantare”. Variations on Experience’s Matter between Psychopathology and Philosophy Abstract  This paper focuses the role of the language in the relationship between the reality and the appearance, the noun and the predicate. The experience is central in the human being. The question is: What is the ground, language or experience? The Subject could be the limit of the linguage, as Wittgenstein suggests, and could be impossible know tra internal emotions or there is a space in-between the experience of the senses and the words to speak about, as Bin Kimura suggests. In any case language is foundamental for the psychotherapy in order to reach a linguistic style close to the expression of a patient and domestic as much as possible. Keywords  experience, language, event, essence, noun/predicate, trace, identity, empty pace, objectivity/subjectivity, aìda Io temo tanto la parola degli uomini. Dicono sempre tutto così chiaro: questo si chiama cane e quello casa, e qui è l’inizio e là è la fine! E mi spaura il modo, lo schernire per gioco, che sappian tutto ciò che fu e che sarà; non c’è montagna che li meravigli; le loro terre e giardini confinano con Dio. Vorrei ammonirli, fermarli; state lontani. A me piace sentire le cose cantare. Voi le toccate; diventano rigide e mute. Voi mi uccidete le cose Rainer Maria Rilke, Poesie

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Per poter continuare a parlare dell’esperienza, clinica ma anche in quanto momento fondante il senso dell’umano, occorre valorizzare sempre, senza mai dimenticarlo, che un lato dell’esperienza si sporge verso ciò che è sconosciuto e indicibile. Nel parlare di “esperienza”, per rimanere il più possibile aderente a questo tema, anche il linguaggio non potrà essere già completamente codificato, ma sarà sempre in evoluzione, per i termini, per i neologismi, le associazioni, per i pieni e i vuoti che ogni lingua ha in sé. Parlare dell’esperienza implica il problema della necessaria oggettivazione di quanto è il punto massimo della soggettività. Parlare dell’esperienza implica non dimenticare che è sempre attraverso un’esperienza che se ne può parlare, in un rimando all’infinito. I due volti dell’esperienza – apprendere dall ’esperienza e apprendere nell ’esperienza1 – prevedono la sedimentazione già avvenuta del materiale esperito insieme alla “nuova” reazione soggettiva a essa, due aspetti non scindibili tra loro se non per momentanea chiarezza discorsiva. I due volti si nutrono di ciò che è acquisito in quanto soggettivo “vissuto” e contemporaneamente ciò che ancora-non-c’è, le possibilità future che saranno il risultato a loro volta del momento non-ancora dell’esperienza. Questo è anche l’intero milieu culturale del Novecento che è stato lasciato in eredità al secolo in cui viviamo. Primo fra tutti il problema dell’evidenza e del non-evidente trascinato in questa microstruttura esperienziale. La fenomenologia di Husserl, a cui si può far risalire una tematizzazione fondamentale della questione, ha trattato questo duplice aspetto attraverso un metodo – a cui sostanzialmente anche Blankenburg aderisce – la cui acquisizione fermerebbe l’infinito procedere dell’esperienza nel suo versante soggettivo per accedere a un piano di fondamento essenziale su cui poter convergere. E spostandosi dal piano della filosofia a quello della patologia, la psicopatologia di indirizzo fenomenologico non rinun1 Particolarmente attento a questo duplice aspetto dell’esperire e dell’esperienza nel suo rapporto tra normalità e patologia è stato Blankenburg per il quale si devono evitare confusioni tra «l’esistente e il suo modo di essere, vale a dire tra quel che viene esperito a partire (aus) dall’esperienza e quel che viene esperito nella (an) esperienza». Bisogna anche dire che Blankenburg indirizza il suo sguardo più che sull’elemento separatore su quello unificante (cfr. W. Blankenburg, La perdita dell’evidenza naturale (1971), trad. it. Raffaello Cortina, Milano 1998, pp. 21-22).

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“A me piace sentire le cose cantare”

cia al piano eidetico di “raccolta” delle esperienze empiriche in una visione dell’“essenza” pur non evidente. La ricerca di psicopatologi come Blankenburg, Binswanger, Straus, solo per citarne alcuni noti, tende a inquadrare ogni manifestazione patologica all’interno di una più ampia concezione della vita e dell’essere umano che la possa ricomprendere, facendo così toccare patologia e antropologia. Gli psicopatologi hanno posto sotto la lente dell’indagine proprio l’evidenza fenomenica (su cui si è costruita l’oggettività delle scienze), inaugurando così una revisione dei confini tra normalità e patologia e adottando anche un nuovo linguaggio per esprimere la dinamica del loro continuo riposizionarsi. Così Blankenburg recupera al primo piano dell’indagine ciò che solitamente rimane non analizzato in quanto erroneamente si tende a pensare che una descrizione fenomenologica si limiti alla visione del fenomeno qui e ora, dando per scontato che il qui e ora coincida con la rilevazione stessa del fenomeno.2 Grande merito della psicopatologia fenomenologica è stato tematizzare il fenomeno evidente nella sua doppia veste, problematizzarlo come qualcosa che avrebbe potuto manifestarsi in modo differente o non manifestarsi affatto, sotto altre condizioni. Così ogni fenomeno si àncora a tutto ciò che lo circonda e che ne determina la sua qualità identitaria. La ricerca dell’essenza dei fenomeni, di derivazione platonica e che ha condizionato l’intera cultura dell’Occidente, si è infranta insieme alla dissoluzione dell’unità altrettanto essenziale dell’Io. D’altra parte occorre ricordare che la ricerca dell’essenza di ogni fenomeno non è estranea alla fenomenologia e neppure alla psicopatologia che ne segue l’indirizzo. Ma rimangono molti interrogativi che lo sfaldamento identitario del Novecento ci ha consegnato: i fenomeni, in quanto “segni” delle cose, hanno realmente una qualche identità stabile a supporto di tutte le predicazioni qualitative possibili? Oppure il supporto sono i suoi stessi predicati? Esiste un’oggettività che ricomprenda in sé ogni soggettività che resterebbe così spogliata di ogni sua attività che sia in deroga dalla necessità e dal determinismo? E se ogni esperienza è sempre “esperienza di esperienza”, “reazione di reazioni” e non di “oggetti”, di cose, in un processo continuo sen2

Ivi, p. 15.

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Resti inesprimibili. Transiti estetici nella talking cure Maria Ilena Marozza

English title  Inexpressible remains. Aesthetic transits in the talking cure Abstract  In the various theories of language that have supported the practice of talking cure, it has always remained problematic to understand the unspeakable, i.e., those aspects that are hard to enter into a virtuous dynamics of the interactive game between image, sensitivity, affect and speech. This marks an insuperable boundary for a practice that is qualified through the potential of the act of speaking. What does the inexpressible look like? What are its limitations? Does it coincide with the unspeakable? And if not, what is its relationship with it? Does it concern the unrepresentable? Is it an absolute category or does it tolerate nuances and evolutions? These questions have a profound effect on the clinical attitude we take towards the limits of our and our patients’ ability to speak. The answer we give strongly influences our ability to wait, to accept silence, to maintain confidence in evolving possibilities of a cure that, through words, grasps the deep experiences of the past and of the lived present. Keywords  talking cure, inexpressible, unspeakable, unrepresentable, aesthetic

1. Premessa

L’inesprimibile (ciò che mi appare pieno di mistero e che non sono in grado di esprimere) costituisce forse lo sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato. Ludwig Wittgenstein1

Il pensiero di Wittgenstein posto in exergo costituisce uno degli interrogativi più ricchi di interpretazioni nella sua filosofia. Esso costituisce però anche un punto di straordinario rilievo per quegli psicote1

L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano, p. 43.

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rapeuti che intendono la propria attività come una sorta di artigianato linguistico affondato nella profondità dell’esperienza soggettiva e intersoggettiva. Come si presenta a noi l’inesprimibile? Quali limitazioni ci pone? Coincide con l’indicibile? E se no, in che rapporti è con esso? Ha a che vedere con l’irrappresentabile? È una categoria assoluta o tollera sfumature ed evoluzioni? Sono domande, queste, che incidono profondamente sull’atteggiamento clinico che assumiamo di fronte ai limiti della capacità di parlare, nostra e dei nostri pazienti, e la risposta che diamo è molto influente rispetto alla nostra capacità di attendere, di accettare il silenzio, di mantenere una fiducia nelle possibilità evolutive di una cura che, attraverso la parola, s’afferra alle esperienze profonde, del passato e del presente vissuto. Di fatto, centoquaranta anni di pratica della talking cure2 sono stati sostenuti dall’avvicendarsi di molte teorie sul linguaggio e sulla sua efficacia terapeutica. Un punto però è rimasto sempre problematico in tutte le diverse versioni, un punto che riguarda il modo di intendere quello che non è dicibile: quegli aspetti cioé che stentano a entrare in una dinamica virtuosa del gioco interattivo tra immagine, sensibilità, affetti e parola, segnando così un confine insuperabile per una pratica che si qualifica attraverso le potenzialità dell’atto del parlare. Di questa indicibilità possiamo individuare una versione forte, che ha a che vedere con un’inesprimibilità radicale, con quanto cioè non giunge neanche a sfiorare una potenzialità linguistica, non assumendo peraltro neanche una figurabilità né tanto meno un’espressività nei movimenti degli affetti o della sfera sensibile. Dalle freudiane nevrosi attuali in cui il deficit di rappresentazione impedisce l’accesso al trattamento analitico, all’alessitimia psicosomatica che impedisce ogni emergenza fantasmatica e men che mai consente una parola che possa elaborarla, alla psicopatologia post traumatica vuota di rappresentazione, al lutto caduto nel vuoto che divora ogni passaggio al ricordo, alle psicosi dominate dall’irrappresentabilità dell’angoscia: in tutti questi casi la talking cure ha le armi spuntate, perché sembra proprio che non ci sia assolutamente niente di cui parlare. Il vuoto povero, carenziale che sembra 2 La talking cure di Anna O. fu condotta da Joseph Breuer tra il 1880 e il 1881, in una forma molto poco strutturata, ma capace comunque di dischiudere l’interesse per le potenzialità terapeutiche del linguaggio.

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Resti inesprimibili. Transiti estetici nella talking cure

caratterizzare questi casi potrebbe trovare una buona rappresentazione nella definizione proposta da Vladimir Jankélévitch dell’indicibile, come dimensione di un mutismo rigido, che pietrifica ogni possibilità di discorso, poiché allude piuttosto alla desolazione e al silenzio della morte.3 Ma dobbiamo anche confrontarci con un’altra versione dell’indicibile, legata invece a tutto ciò che il linguaggio non è in grado di esprimere perché rappresenta il suo “altro”, dotato di caratteristiche non traducibili, ma altamente espressive e in grado di modulare e arricchire profondamente la pratica linguistica. È chiaro che ci stiamo qui riferendo alla paticità che sottende ogni nostra esperienza, che può articolarsi tramite la sensibilità, l’iconicità, l’affettività o il movimento corporeo. L’indefinitezza e la forte capacità espressiva di questi ambiti costituiscono di contro un alimento privilegiato, indispensabile per la talking cure, almeno quando essa venga intesa come pratica affondata nell’intera esistenza umana, accordata sul gioco di rimandi virtuosi tra le diverse componenti della nostra esperienza. La definizione di ineffabilità proposta da Jankélévitch consente di valorizzare questo ambito altro dal linguaggio come offerta di un indistinto non-so-che capace di alimentare la vita psichica, vivo e cangiante, sul quale invece c’è infinitamente e inesaustivamente da dire. La distanza tra la negatività indicibile e la positività ineffabile è, in questo senso, grande come la differenza tra la tenebra cieca e la notte trasparente, tra il silenzio muto e il silenzio tacito.4 È in questa prospettiva che la talking cure coglie le sue migliori potenzialità, come pratica, affondata nell’esperienza umana, che consente di modulare in un gioco interattivo di sensibilità e linguaggio le specifiche qualità del sentire individuale con la condivisione e comprensione in un linguaggio pubblico, intersoggettivo. Al riconoscimento delle differenze tra ambiti caratterizzati da un fondo intraducibile corrisponde, in questo senso, una mutualità vantaggiosa: la proposta di Emilio Garroni5 di pensare sempre insieme V. Jankélévith, La musica e l’ineffabile (1961), trad. it. Bompiani, Milano 1998, p. 62. 4 Ivi. 5 Cfr. a questo proposito, la bella argomentazione sviluppata da E. Garroni nel suo ultimo scritto “Simbolo e linguaggio”, contenuto in «Atque», 1 n.s., 2006, pp. 21-40. 3

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PARTE SECONDA

ESTETICA DELLA CURA



Musica, parola, gesto: lo “sguardo attraverso” Silvano Tagliagambe

English title  Music, word, gesture: “looking through” Abstract  “Talking cure” is a treatment method that operates through an “ex­ change of words.” Many researchers insist on the paramount importance of language use in therapeutic processes and emphasize that the “very idea” of psychotherapy is based on the assumption that it is possible for one person to resolve a problem through talking to another. But this notion is problematic because it was demonstrated that therapeutic processes are decisively shaped by non-verbal aspects of interaction, e.g., facial expression, synchronization of body movement, speech pauses and silence. In this context, two notions are of fundamental importance. The first is John Cage’s research on silence. At first, Cage conceives of silence in a traditional way, as the absence of sound, or as minimal sound activity. Already, however, silence is not just a negativity to Cage. The attention to silence aids in uncovering musical structure since this can only be determined by duration. By assigning the primacy of the musical parameters to duration, Cage not only opens music to silence, but to all sounds of any quality or pitch. Music becomes an empty (silent) concept from which any type of sound may emerge. Silence acquires an important role: only through silence can the musical material adopt many types of sounds. Cage’s ‘Lecture on Nothing’, a reading from 1950, signals a shift in his thinking on silence. He realizes that the important role of silence regarding musical structure does not yet establish a full recognition of its positive qualities. Cage wants to avoid approaching silence from a negative point of view, i.e., as absence of sound. At the beginning of ‘Lecture on Nothing’, he attempts to arrive at a different relationship towards silence. «What we require is silence; but what silence requires is that I go on talking … But now there are silences and the words make help make the silences … We need not fear the silences, we may love them». Silence is no longer the absence of sounds; silence itself consists of sounds. Silence begets sounds. Chiasm. Reversibility. Through the intertwining of silence and sound, their mutual penetrability now becomes appreciated. Each retains a part of its antipode;

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each requires the other as its frame. The necessary interdependency between sound and silence relates to two principal aspects: silence is not only the precondition for sound - this means that silence contains sound - every sound in turn harbors silence as well. The second notion of fundamental importance is the “double bind”, concept from Bateson’s ecological thinking. He originally developed it with colleagues, more than sixty years ago, in the context of a theory of schizophrenia which emphasised pathological family relations and communication rather than physiological factors. A double bind is a selfrefuting kind of communication, as when you say two incompatible things at once. A person trying to act on the basis of a double bind will never be able to do it right, since no matter what they do, it can be objected to. Keywords  talking cure, silence, sound, randomness versus improvisation, double bind

1. Ludwig Wittgenstein, Jorge Luis Borges e John Cage “Musica, parola, gesto”: questo il sottotitolo scelto da Aldo Giorgio Gargani per il suo ultimo libro, dedicato a Wittgenstein,1 che indica un percorso e sintetizza, con estrema efficacia, un intero programma di ricerca. Al centro del quale vi è la densa riflessione dedicata, fin dalle prime pagine del testo, alla questione della comprensione di un tema musicale che, al pari della comprensione di una proposizione, si compie «nell’ampia correlazione del nostro linguaggio con le circostanze della vita e con la cultura del gioco linguistico», 2 il che pone il problema «di come possa realizzarsi la comprensione al di fuori di regole, modelli e paradigmi prestabiliti e prefissati».3 Questa dislocazione dell’atto del comprendere non in un qualsivoglia altrove esterno, ma all’interno di una rete di connessioni che costituiscono la cultura e le forme di vita in cui siamo immersi, che il tema musicale esibisce e manifesta in modo immediato, fa emergere il carattere gestuale del linguaggio: «Quando improvvisamente un tema, una frase, ti dice qualcosa, non c’è bisogno che tu sappia spiegarti 1 A.G. Gargani, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Raffaello Cortina, Milano 2008. 2 Ivi, p. 16. 3 Ibidem.

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Musica, parola, gesto: lo “sguardo attraverso”

il perché. All’improvviso ti è accessibile anche questo gesto»,4 che ha il significato che ha indipendentemente da ogni regola. Esso è infatti l’espressione, immanente e autonoma, della nostra risposta, nuova e originale, in termini di gioia o dolore, di riso o di pianto, non governata da alcuna norma o paradigma prefissati, di fronte alle manifestazioni e agli eventi della nostra vita. Se si spezza questo legame tra le forme di vita e la cultura il gesto si trasforma in un frammento isolato e perde ogni significato, diventando inaccessibile. Questo esito, cruciale per comprendere quello che Gargani considera «l’aspetto più originale dell’opera di Wittgenstein (tardivamente colto dalla letteratura secondaria)»5 è spiegato con straordinaria incisività da Borges nel suo racconto La ricerca di Averroè, ispirato da un passaggio di Renan nel suo libro sul grande filosofo Averroè, dove dice che egli, che pure era uomo assai intelligente e colto, ignorava il teatro e per questo si equivoca, e, traducendo Aristotele, commette l’errore di definire la commedia come satira e la tragedia come elogio. Ecco il passaggio cruciale del racconto di Borges, che descrive Averroè alle prese con l’opera monumentale che lo avrebbe giustificato davanti al mondo: il commento di Aristotele. Questo greco, fonte di tutta la filosofia, era stato dato agli uomini affinché insegnasse loro tutto ciò che si può conoscere; interpretare i suoi libri, come gli ulema interpretano il Corano, era l’arduo proposito di Averroè. Poche cose registrerà la storia più belle e più poetiche di questo consacrarsi di un medico arabo ai pensieri di un uomo dal quale lo separavano quattordici secoli. Alle difficoltà intrinseche dobbiamo aggiungere che Averroè, non conoscendo il siriaco e il greco, lavorava sulla traduzione di una traduzione. Il giorno prima, due parole dubbie lo avevano arrestato al princi4 L. Wittgenstein, Bemerkungen über die Philosophie der Psychologie. Letzte Schriften über die Philosophie der Psychologie a cura di G.E.M. Anscombe e G.H. von Wright), Blackwell, Oxford 1980, ed. it. a cura di R. De Monticelli, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adelphi, Milano 1990, i, § 660. Vedi Zettel (a cura di G.E.M. Anscombe e G.H. von Wright, Blackwell and University of California Press, Berkeley, CA 1970, ed. it. a cura di M. Trinchero, Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, Einaudi, Torino 1986, §§ 158-159. 5 A.G. Gargani, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, cit., p. 16.

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L’identità di terribile e felicità: sublime, sublimazione e unisono nell’arte e nella psicoanalisi1 Giuseppe Civitarese

English title  The Identity of the Terrible and Happiness: On the sublime in Art and Psychoanalysis Abstract  The aesthetics of the sublime and the psychoanalytic concept of sub­ limation, properly re-read, can interact in a way that illuminates each other. What we gain is, on the one hand, a more penetrating understanding of the essence of aesthetic experience in art, and on the other, a more compelling view of how the process of becoming a subject unfolds. In fact, the first glimmer of self-consciousness is ignited in a purely aesthetic dimension, in the etymological sense of the term, that is, in a space made of sensations. This space, called “chora semiotics” by Julia Kristeva, is at the same time dynamic and intersubjective-in other words, although woven of sensoriality, can not ignore a symbolic framework. To illustrate this thematic area, the author examines two examples of contemporary sublime, Kim Ki-duk’s film entitled “Pietà”, and some monumental works by Richard Serra. Keywords  Sublime, contemporary art, Kim Ki-duk, Richard Serra, aesthetic conflict, Wilfred R. Bion, sublimation, symbolization

In una lettera all’amica Margot Sizzo, datata 12 aprile 1923, Rilke2 tematizza l’essenza dell’estetica del sublime: 1 Versione rivista della relazione “Visioni sublimi e nascita della psiche: il bello è solo l’inizio del tremendo” tenuta il 27 marzo 2021 alla quinta edizione del seminario saffo Sperimentazioni Artistiche Filosofiche Fuori Orbita “L’anima e il sublime”. Il testo è in corso di stampa in italiano in un volume dallo stesso titolo, a cura di I. Casali, presso la casa editrice Jaca Book, Milano, e in inglese sulla rivista «Fort Da». 2 R.M. Rilke, Poesie, ii, (1908-1926), trad. it. di A.L. Giavotto Künkler, Einaudi, Torino1995, p. 520.

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atque materiali tra filosofia e psicoterapia, 28-29 n.s., 2021, pp. 179-207 – ISSN 1120-9364


Il terribile ha spaventato e sgomentato gli uomini: ma dov’è una cosa dolce e magnifica che non porti, a tratti, questa maschera, la maschera del terribile? La vita stessa (e noi non conosciamo nulla all’infuori della vita) non è terribile? [è come dire che l’unica cosa che conosciamo è il terribile]? Ma non appena ammettiamo che è terribile (non come oppositori, perché come potremmo essere alla sua altezza? ma fidando che proprio quello terribile sia cosa interamente nostra, solo, per il momento, ancora troppo grande, troppo vasta, troppo incontenibile per i nostri cuori che imparano), non appena, dico, assentiamo al suo più tremendo essere terribile, col pericolo di soccombere in lei (lei che è troppo per noi!), allora si apre per noi un presagio della felicità massima, che a quel presso è nostra. Chi non arriva mai, con una decisione definitiva, a consentire al terribile della vita, anzi ad esultare nel consenso, non prenderà mai possesso degli indicibili poteri che il nostro essere ci affida (…), e nel giorno della decisione [ma è un giorno che arriva tutti i giorni] non sarà stato né un vivo né un morto. Dimostrare l’identità del terribile e della felicità, dei due volti di uno stesso capo divino, anzi di quest’unico volto, che semplicemente si mostra nell’uno o nell’altro verso, a seconda della distanza da cui, o della condizione in cui lo si percepisce…: questo è il significato vero dei miei due libri, di cui solo uno, i Sonetti a Orfeo, si trova già nelle sue benevole mani.

Rilke3 dunque mette assieme bellezza, vita e sgomento. Se nell’estetica del sublime la bellezza (o meglio, il sublime) si trova già collegata all’orrido, non è così per l’inizio della vita. Quello che cerco di fare qui è di tessere alcuni fili per connettere tra di loro questi due termini. Provo così a riflettere sull’esperienza estetica per vedere, da un lato, se può dirci qualcosa su come la soggettività umana, la mente, inizia a formarsi entro un fascio mutevole di sensazioni; dall’altro, se il modo in cui la psicoanalisi si rappresenta come nasce la psiche può aiutarci a intuire qualcosa non solo dell’estetica del sublime, ma più in generale dell’esperienza estetica nel campo dell’arte. Per introdurre questa tematica, e mettere alla prova il mio discorso in un ambito dell’arte contemporanea diverso da quelli di cui mi sono già occupato, Ivi, p. 55: «Poiché del terribile il bello / non è che il principio, che ancora noi sopportiamo, / e lo ammiriamo così, ché quieto disdegna / di annientarci». 3

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L’identità di terribile e felicità: sublime, sublimazione e unisono nell’arte e nella psicoanalisi

accennerò alle istallazioni di Richard Serra. Prima però vorrei partire da un film, Pietà, del regista coreano Kim Ki-duk, vincitore nel 2012 del Leone d’oro a Venezia.

Pietà Il protagonista, Kang-do, vive in un mondo desertico, corrotto, squallido, fatto di masturbazione, violenza e denaro. Per mestiere, lavora per uno spietato usuraio, per il quale riscuote debiti. Il contesto è un distretto industriale urbano in rovina. Quando i debitori non hanno la possibilità di pagare, li storpia. In questo modo essi riscuotono il denaro della polizza d’assicurazione che erano stati obbligati a stipulare all’atto di ricevere il prestito e possono pagare l’usuraio. Il fatto di cui ci rendiamo immediatamente conto è che Kang-do rende storpi gli altri nel corpo così come lui lo è già nell’animo. Nato fisicamente, si può dire che non sia mai nato come essere umano. Kang-do non sa cos’è l’empatia, non conosce il linguaggio degli affetti. Per questo tratta gli altri come insetti o cose. Come gli urla una delle sue vittime, è un diavolo dal cuore duro, un essere abietto. Le persone che accettano la sua violenza cinicamente e beffardamente ‘provvidenziale’ fanno pensare a quei bambini, come scrive Bion, che per restare in vita rinunciano a soddisfare i propri bisogni affettivi e spirituali in nome dei bisogni materiali. La freddezza e la violenza assai poco filtrate delle prime scene rendono la visione del film quasi rivoltante. Uno pensa a un esperimento di sadismo del regista, a un film volutamente brutto e che in qualche momento sembra girato in maniera distratta o con pochi mezzi. Perché accettare un gioco simile? Il perché è presto detto. La mia esperienza è stata di sentirmi mano a mano più coinvolto nel racconto e nelle vicende del protagonista. Un senso progressivo di sorpresa e di fascinazione ha preso il posto della ripugnanza. Se il terribile della situazione di partenza (così come il tremendo degli inizi della vita) respingeva, ora questo stesso elemento mi attirava. E qui siamo al tema della nascita. Ciò che il regista ci racconta è la vera nascita di Kang-do. Mano a mano che il film scorre lo vediamo diventare gradualmente umano, cioè capace di soffrire, di voler 181



Musica involontaria. Il simbolo delle cose nelle cose stesse Elena Gigante

English title  Involuntary music. The symbol of the things in the things themselves Abstract  This paper proposes a reinterpretation of the psychoanalytic experience in the key of aesthetics, as “looking-through”. The philosophical perspective of Emilio Garroni works as theoretical framework. It arrives at a sort of transcendental realism in which, remaining anchored to the sensible and shared world, an aesthetic transcendence occurs: a real crossing of the sense through the senses. A synaesthetic disposition comes to light that, returning to earth, transforms metaphysics into diaphysics and talking-cure into art. Keywords  Looking-through, diaphysics, transcendental realism, sense, synaesthesia, symbol io non creo ma sono creato, non scrivo ma sono scritto, e quindi non sono un creatore ma una creatura Carlo Bordini, I costruttori di vulcani1 anche gli artisti esprimono con un’immagine ciò che li muove interiormente e attraverso quell’immagine rimandano a elementi ultimi di verità e ciò accade quando essi vedono e vivono i frammenti di verità e non solo usano immagini, che hanno il loro fine in sé stesse. Edith Stein, Diario, 20 novembre 19412

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atque materiali tra filosofia e psicoterapia, 28-29 n.s., 2021, pp. 209-239 – ISSN 1120-9364


Ouverture: la domanda di Nina12 In un’arroventata sera d’agosto – che, persino a memoria dei più vecchi dei vecchi, si rivela il più torrido di sempre – mi decido ad andare a salutare i miei nipotini torinesi, in vacanza a Lecce. «Tra palazzi di tufo, in una grande pianura, sulle rive del nulla», 3 sono scesi in Salento, ma forse, meno poeticamente, sono venuti a soggiornare in un paesaggio che ha perso la bellezza nostalgica verseggiata da Bodini. Anche questa terra, come tante, sembrerebbe aver barattato la propria miseria, a tratti lirica, con un’euforica contemporaneità stantia, costellata da frastuono, intrattenimento e code. Manca l’umiltà, il silenzio. Manca la gioia elementare: ascoltare la musica naturale di ciò che accade, la vita che diventa. Manca lo sguardo poetico. Per colmare il tempo vuoto, il vacare della vacanza, l’umanità cerca distrazioni che sortiscono l’effetto opposto fino a coincidere con la noia. Abdicare all’attenzione significa condannarsi all’impossibilità di cogliere quello che ci sta proprio sotto il naso o nelle orecchie. Ci sfugge l’intelligenza delle cose cieche: «La forza della pietra che, cadendo, ne spinge un’altra che finisce per cadere nel mare e ammazzare un pesce».4 Stentiamo a sentire la «qualità da materia prima» che si nasconde nei fenomeni, «qualcosa che (può) anche definirsi ma che non si (realizza) mai perché la sua stessa essenza (è) quella di “diventare”».5 Mentre saluto i bambini, ci assale una colonna di fumo denso acre grigio. Tutto, intorno, prende letteralmente fuoco: brucia la macchia mediterranea, le isole, la Grecia, il Canada, la California; in Yakutia, nella   C. Bordini, I costruttori di vulcani - Tutte le poesie 1975-2010, Luca Sossella, 2010, incipit. 2   Cfr. A. Ales Bello, Assonanze e dissonanze. Dal Diario di Edith Stein, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 270. 3 V. Bodini, La luna dei Borboni e altre poesie (1945-1961), 11, in Id., Tutte le poesie, Besa Muci, Lecce 2020, p. 98. 4 C. Lispector, Vicino al cuore selvaggio (1944), trad. it., Adelphi, Milano 1987, p. 135. 5 Ibidem. 1

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Musica involontaria. Il simbolo delle cose nelle cose stesse

Siberia orientale, si scioglie persino il permafrost, la crosta ghiacciata e protettiva della Terra. «S’i’ fosse foco arderei ’l mondo», ora, assume una coloritura profetica perturbante: l’Heimat è un incendio. La casa brucia. Heimlich è diventato unheimlich.6 Ciò che sarebbe dovuto rimanere coperto è venuto a galla, il segreto è affiorato – suggerisce Schelling.7 Si è verificato uno scarto, una dispnea, che ha fatto coincidere il familiare con il suo opposto, il senso con il controsenso, la casa con l’inferno. Insomma se l’Io non è padrone neanche in casa propria, allora la specie umana non può arrogarsi il diritto di spadroneggiare sulla terra, pena il rischio di autodistruggersi. Quello che era mio non è più mio, oppure, è mio e non-mio contemporaneamente, o ancora, non esiste “mio”. Si apre definitivamente il rischio del senso. Mentre cerchiamo «un centro di gravità permanente» – come cantava Franco Battiato che ci ha lasciati in un preludio d’estate – dobbiamo arrenderci alla constatazione che, in una complessità in costante auto-moltiplicazione, non possono funzionare vertici unici di giudizio. Non si tratta di invocare il becero relativismo assoluto delle post-verità. Emerge, invece, la necessità di prospettive critiche, orientate alla riflessione sulla possibilità stessa dei fenomeni, lo sguardo attraverso i fenomeni:8 la pietra che può cadere e, cadendo, può spingerne un’altra, e così via. L’errore dell’Io che pensa di essere padrone, Io-individuo o Io-specie umana, è una trappola di presunzione. Non riconoscere l’intrinseca fallacia dell’egoità significa condannarsi all’inflazione. Bisogna cambiare immagini e immaginarsi non più come entità monolitiche e autonome, ma realmente composite e interdipendenti; non strutture continue, ma mosaici di complessità. Forse, potremmo raffigurarci come i diversi armonici di un unico suono, inestricabilmente imbrigliati tra loro: di 6 Quel fine logofilo che è stato, tra i vari talenti, Freud considera che «Heimlich è quindi un termine che sviluppa il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere in conclusione col suo contrario: unheimlich». S. Freud, “Il perturbante” (1919), trad. it. in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 277. 7 Ivi, p. 275. 8 Cfr. E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Castelvecchi, Roma 2020.

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La cura della parola incurabilis Francesco Di Nuovo

English title  The care of the word incurabilis Abstract  The theme of these reflections is the adventure that the word can experience in its different declinations of meaning: on the one hand, the stentorian, sure word, full of incontrovertible truths, as we get from Plato’s Cratylus or Dürer’s Devil; on the other hand, the purely conventional word, the vacuous one of Hermogenes or Dürer’s Death. From the comparison of the two, finally, the opening of a third possibility: the word that travels in the thing it expresses, experiential, never still, full of meaning; incurable, in the sense derived from Dante’s reflection, that is, unavailable to the narrow mesh of grammar. Perhaps for this very reason, paradoxically, an instrument capable of healing. Keywords  word, experience, différance, incurabili, aesthetics of care (…) soli homines datum est loqui, cum solum sibi necessarium fuerit. Non angelis, non inferioribus animalibus necessarium fuit loqui, sed sed nequicquam datum fuisset eis: quod nempe facere natura aborret1

Le nostre riflessioni provano a scommettere sulla possibilità di scorgere nella filigrana di alcuni suggestivi snodi del discorso filosofico la ricorrenza di flussi carsici rivelatori di dinamiche profonde dell’umano; quegli stessi flussi, è il senso della nostra scommessa, che potrebbero anche prender forma e vivere nella stanza d’analisi. 1 Dante, De vulgari eloquentia, a cura di V. Coletti, Garzanti, Milano 1991, pp. 4-5: «solo all’uomo fu dato di parlare, parchè solo a lui fu necessario. Mentre non lo fu né per gli angeli, né per gli animali inferiori, cui la parola sarebbe stata data inutilmente: cosa che la natura evita accuratamente di fare».

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E ciò proprio a ridosso di quell’avventura, insolubile e infinita, in cui viaggia la parola. I pensieri che seguono si svolgono secondo uno sviluppo rizomatico, privo di rigorose gerarchie interne e senza evidenti punti di entrata e di uscita. Riflettendoci, vien da pensare che tutto questo qualcosa vorrà pur dire del tema in questione.

L’incipit parmenideo e il Cratilo platonico Nel testo che a buon diritto potrebbe valere come l’evento fondativo della nostra civiltà, venendo in qualche modo a conferirle quel­ l’aria di famiglia, ci avverte Carlo Sini, 2 che suole chiamarsi ‘filosofica’ (ove il termine, ben più di un mero nomen disciplinae, vuole alludere, à la Severino, al “midollo vitale” dell’esistenza), v’è anzitutto, cruciale, il tema della parola. In esso, anzi si dispiegherebbe un’“avventura della parola”, che mai prima e in nessun altro luogo sarebbe avvenuta. Il testo in questione è il Poema3 parmenideo, Sulla natura, e, in particolare, ci si riferisce qui alla frase del frammento sette (e inizio dell’otto) della Prima parte, ove la dea, interrogata dal giovane che intende percorrere la via iniziatica della sapienza, così dice. Leggiamo nella traduzione che lo stesso Sini ci propone: Osserva, giudica quello che io ho detto e le dimostrazioni che ne ho dato.4 C. Sini, L’avventura della parola – Aforismi. Sul Web H. Diels, W. Kranz, I Presocratici, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006/2015. 2 3

Nel testo greco originale (ivi, pp. 488-9) è «krìnai dè lògoi polùderin élengkhon/ eks eméthen réthenta»; Giovanni Reale traduce: «ma con 4

la ragione giudica la prova molto discussa che da me ti è stata fornita». Certo, dà molto a pensare il polùderin (dèris, in greco antico, ‘combattimento’, ‘pugna’) che la dea riserva alla sua prova (élengkhon). È infatti la dea stessa ad avvertire il giovane che la sua parola è ‘controversa’.

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La cura della parola incurabilis

È possibile che un dio ingiunga di verificare la veridicità della sua parola? A queste condizioni, potrà ancora dirsi, questa parola, divina? Non più, dunque, sarebbe decisiva l’autorità del divino, né quella del luogo da cui quella parola viene profferita; nulla più varrebbe l’esercizio della parola ‘profetica’, essendo dirimente, quello sì, l’esercizio della parola logica, argomentativa, dimostrativa del vero, e che, in quanto tale, si rimette, esigendola, a una conferma fuori da sé stessa. Con Michel Foucault si potrebbe dire che, con Parmenide, lo statuto della verità cambia luogo e con essa la parola che la esprime. Non più, dunque, il luogo della parola ‘patica’, bensì quello della parola ‘critica’. Avrebbe così inizio un percorso conoscitivo, lungo il quale la verità, dandosi invero, al suo primo manifestarsi, “controversa” – polùderis, ovvero “di molteplici battaglie” – si presenta essa stessa richiestiva di legittimazione; quella appunto che può giungere dalla verifica dimostrativa (che un giorno a-venire non potrà prescindere della ratio dell’experimentum) e, che nella fattispecie, trae invece forza dal confronto dei logoi. Una verità logica e dia-logica, se ne potrebbe dire, suggellata dal fatto, inauditum fino al Poema parmenideo, che via via ciascuno debba farne discorso, confronto, con l’addurre le proprie ragioni. Così facendo, la parola logica/dialogica del Sulla natura, emancipa l’uomo dalla sacralità ineffabilis e perciò “incontroversa” del mondo, ponendogli proprio il mondo di fronte perché egli lo possa giudicare; ma ritorna comunque, alla fine del percorso dimostrativo, a essere parola latrice di una verità incontrovertibile: parola piena e definitiva, dunque. E non solo questo. Riprendendo Foucault, non avverrebbe qui solo un cambiamento dello statuto di verità, ma una nuova ridefinizione della soggettività umana, di cui la parola diviene atto fondativo, in quanto esercizio di responsabilità; che qui intendiamo ancora à la Foucault :5 ov5 Deleuze (G. Deleuze, La soggettivazione. Corso su Michel Foucault (1985-86), vol. 3, Ombre Corte, Verona 2020) coglie per primo l’apparizione del concetto foucaultiano di “soggettivazione”. Con la pubblicazione dei Corsi al Collège de France e la raccolta integrale degli scritti sparsi e delle interviste, Deleuze rende infatti giustizia al “nuovo” Foucault proprio analizzando la sua riflessione sulla Grecità. Il passaggio dal “rapporto di forze” al “rapporto a sé” è quello che consentirebbe, nell’analisi di Deleuze, a Foucault di proporre una nuova lettura del soggetto come esito dall’intreccio di processi di assoggettamento, ma anche di

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Glossario di un lettore Antonino Trizzino

English title  Glossary of a reader Abstract  The glossary of a reader must necessarily contain some element of fiction, because a realistic description would end up violating his secret. Each entry comments, in alphabetical order, on the passions, manias, vices, rituals and books that have marked the path of the protagonist reader: from Poe, to Borges, to Augusto Monterroso; from his early vocation for reading, to his love of catalogues; from the equipment of the true reader, to his desire for solitude; from the wonder of his first library, to the books he lent that no one ever returned. Keywords  Borges, Latin American literature, read, reread, vice

asociale – La nascita di un lettore è sempre in un rifiuto della socialità. Lui è un vizioso, un disubbidiente, un arbitrario, ed è tutte queste cose con l’esattezza del chirurgo. La sua è un’oscillazione tra una vita garantita, ma senza destino, e un destino che può ottenere soltanto in solitudine. C’è la solitudine a proteggerlo e quando cerca di disfarsene è troppo tardi, ogni volta gli viene restituita. Il lettore è un elusivo, ha periodi lunghissimi di inerzia, evita le conversazioni e, se proprio non può farne a meno, si presenta con un’aura di educato malessere. È quella voglia antica di immaginarsi come un cerchio perfetto, anche solo di piccolo raggio. Il che lo chiude per tutta la vita. biblioteca – Il piccolo lettore entra per la prima volta nella biblioteca dei nonni paterni. Ecco il luogo dove qualcosa è cominciato. Non sempre si riesce a trovare il luogo dove è nato qualcosa che dura da una vita e che ha cambiato profondamente il nostro sguardo; certe cose ci 257 ©

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sembrano così improbabili e il desiderio di quella luce così antico che difficilmente diremmo di poter trovare un loro luogo d’origine, addirittura una via, quasi un interno. Nella stanza c’è un raggio di luce, concentrato e messo a fuoco da una fessura delle persiane, che illumina il pulviscolo in sospensione nell’aria. Lui ricorderà quel momento con un senso di nostalgia come si prova per cose che stanno accadendo, sono appena accadute o devono ancora accadere; scoprirà che tutte le parole che ha letto sono iniziate in quella biblioteca. C’è un verso del libro v dell’Odissea che una voce nella penombra gli recitava: «e al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime».1 Il mare non parla ma si intuisce cosa direbbe se potesse parlare: la tua Itaca è lontana, piangi pure, non ti servirà a niente, quel velo di lacrime lo assorbirò in un istante. Omero punta a uno squilibrio quantitativo: là il mare, l’intera riserva di cloruro di sodio del pianeta, e qui due gocce di sale nell’occhio di un uomo. cataloghi – Qualcuno ha scritto che la cultura comincia dalla lettura dei cataloghi dei libri. L’adolescente smanioso di conoscenza sperimenta lì i suoi primi turbamenti, dentro quelle piccole enciclopedie magiche dove può entrare e uscire da qualsiasi parte, magari con la sensazione di smarrimento circolare di una porta girevole. Chi consulta un catalogo trova ciò che cerca e scopre quante altre cose non vuole cercare; il catalogo informa come se stesse dando un consiglio personale. Lo spettatore dei cataloghi (perché di questo si tratta, più che di lettore), consapevole di non conoscere quasi niente, si troverà davanti a un bivio: uno, andare alla ricerca di qualcosa al di fuori di sé stesso, due, capire che lui non è nulla al di fuori di sé stesso; in entrambi i casi, una parte della sua curiosità riuscirà a percepire perennemente ciò di cui non può perennemente godere. Sono trascorsi più di trent’anni e lui ricorda i cataloghi che lo hanno battezzato lettore vizioso: il celum stellatum del catalogo Bollati Boringhieri, con la copertina che concentrava tutto, filosofia, teologia, musica, psicologia, matematica, in un unico simbolo, una mappa per librificare l’universo; i cataloghi di libri introvabili distribuiti con 1

Omero, Odissea, Einaudi, Torino 1963, p. 133.

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Glossario di un lettore

munificente liberalità in una libreria segreta e dolcissima del quartiere Trieste; il catalogo Astrolabio che esibiva titoli pieni di esoterismi, psicoanalisi, orientalismi, mitologie, parapsicologie. In quegli oggetti si deposita la prima immagine di una vita pensosa, in cui sperare tutto è, semplicemente, il meno. enciclopedia – Prima si fa coraggio con un bicchiere di vino, poi, la mattina del 24 maggio 1978, Borges sale sulla pedana dell’aula magna dell’Università di Belgrano: «Io continuo a giocare a non essere cieco, continuo a comperare libri. Nei giorni scorsi mi hanno regalato un’edizione del 1966 dell’Enciclopedia Brockhaus. Ho sentito la presenza di questo libro in casa, l’ho sentita come una sorta di felicità. Erano lì i venti e più volumi a caratteri gotici che non posso leggere, con le mappe e le incisioni che non posso vedere; e tuttavia, il libro era lì. Io sentivo come una gravitazione amichevole del libro».2 L’enciclopedia non è esattamente un libro ma una macchina retorica, un libro che riproduce la logica che governa il funzionamento di una biblioteca. Borges non consulta l’enciclopedia, la legge. L’operazione consiste nello spogliare la funzione enciclopedica di ogni strumentalità, nel trasformarla in letteratura. Le sue enciclopedie predilette sono, oltre alla Brockhaus, l’Encyclopædia Britannica, il Meyers KonversationsLexikon, la Chambers, il Diccionario Enciclopédico Hispano-Americano: il programma di queste opere è di includere ed espandere il sapere, di moltiplicare le fonti e le citazioni, di intrecciare epoche e conoscenze attraverso migliaia di moduli interconnessi. Tutto ciò che legge Borges, lo legge come un’enciclopedia e tutto ciò che scrive lo scrive come se fosse un’enciclopedia. In un’epoca in cui l’originalità è considerata il valore supremo dell’arte, questa operazione è ambigua e coerente, è pura letteratura ma anche divulgazione, sintesi di seconda mano: Reader’s Digest. fumetto – Che cosa vuole da noi? Che si paghi un extra. Ci obbliga a un processo di adattamento diverso da quello di qualsiasi alJ.L. Borges, Borges oral, Emecé/Editorial de Belgrano, Buenos Aires 1979 (trad. it. Oral, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 23-24). 2

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 secondo l’ordine alfabetico dell’autore La rivista “atque” prosegue a pubblicare i fascicoli in formato cartaceo per i tipi di Moretti & Vitali di Bergamo, per cui questi sono tuttora disponibili presso le librerie e ordinabili all’indirizzo elettronico ordini@morettievitali.it. Si comunica inoltre che è stato deciso che ogni fascicolo, dopo un “embargo” di due anni, sia reso disponibile in formato pdf – in maniera completamente gratuita – sul sito www. atquerivista.it Si comunica infine che è ormai completata la digitalizzazione dell’intero archivio storico, sicché ogni singolo articolo e ogni intero fascicolo di “atque” – dal 1990 (anno della sua fondazione) sino a quelli di due anni fa – sono leggibili e scaricabili on line.

Filippo Accurso, “Freud e Wittgenstein: mitologia del quotidiano e linguaggio della scienza”, «atque», 23-24, 2001, pp. 159-194 Paolo Aite, “La visibilità da conquistare: note sull’immaginazione in analisi”, «atque», 12, 1995, pp. 47-62 Angela Ales Bello, “Comprendere le psicopatologie. Un approccio filosofico-fenomenologico”, «atque», 15 n.s., 2014, pp. 219-240 Massimo Ammaniti, “Attualità e evoluzione del concetto di ‘Sé’ in psicoanalisi”, (intervista di Francesca Cesaroni), «atque», 9, 1994, pp. 69-86 Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe, “La prima persona”, «atque», 13 n.s., 2013, pp. 187-212 Massimiliano Aragona, “Oltre l’attuale crisi della nosografia psichiatrica: uno sguardo al futuro”, «atque», 15 n.s., 2014, pp. 35-54 Giampiero Arciero, “Il problema difficile e la fine della psicologia”, «atque», 13 n.s., 2013, pp. 157-184 Elisa Arnaudo, “Soglie del dolore”, «atque», 22 n.s., 2018, pp. 89-98 Luigi Aversa, “La schizofrenia: una patologia della funzione simbolica. Anomia percettiva e devianza del conoscere”, «atque», 4, 1991, pp. 183-190 Luigi Aversa, “L’esperienza antinomica della psicoterapia”, «atque», 18-19, 1998, pp. 139-148 Luigi Aversa, “La coscienza e i suoi disturbi”, «atque», 20-21, 1999, pp. 77-86 Luigi Aversa, “L’analista, l’empatia e l’inconscio”, «atque», 25-26, 2002, pp. 117126 Luigi Aversa, “Le figure etiche dell’esperienza analitica”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 197-204 Luigi Aversa, “Dialogo con Mario Trevi”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 333-340 Arnaldo Ballerini, “La incompresa ‘incomprensibilità’ di Karl Jaspers”, «atque», 22, 2000, pp. 7-18

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Arnaldo Ballerini, “Dalla clinica del ‘caso’ all’incontro: verso una psicopatologia della prima persona”, «atque», 13 n.s., 2013, pp. 21-40 Arnaldo Ballerini, “Dove e quando comincia la schizofrenia”, «atque», 15 n.s., 2014, pp. 19-34 Arnaldo Ballerini e Andrea Ballerini, “Affetti e delirio”, «atque», 13, 1996, pp. 19-31 Arnaldo Ballerini e Mario Rossi-Monti, “Delirio, scacco gnoseologico, limiti della comprensibilità”, «atque», 1, 1990, pp. 59-72 Alessandro Barchiesi, “‘Atque’ e atque”, «atque», 1, 1990, pp. 129-130 Federico Barison, “Risposta ‘originale’: vetta ermeneutica del Rorschach”, «atque», 12, 1995, pp. 154-164 Paulo Barone, “Sul non-nato”, «atque», 4, 1991, pp. 173-182 Paulo Barone, “‘Pensare dialetticamente e non dialetticamente a un tempo’. Quindi ‘rompere’ (con) questo stesso tempo”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 205218 Franco Basaglia e Agostino Pirella, “Deliri primari e deliri secondari, e problemi fenomenologici di inquadramento”, «atque», 22, 2000, pp. 19-28 Enrico Bellone, “Sulle italiche fortune del professor Feyerabend”, «atque», 10, 1994, pp. 77-92 Franco Bellotti, “L’esperienza delle emozioni nell’incontro analitico”, «atque», 17 n.s., 2015, pp. 123-139 Gaetano Benedetti, “Intenzionalità psicoterapeutica”, «atque», 13, 1996, pp. 31-50 Gaetano Benedetti e Maurizio Palliccia, “Il disegno speculare catatimico”, «atque», 14 n.s., 2014, pp. 221-255 Roberto Beneduce, “‘I doppi dimenticati della storia’. Sofferenza, diagnosi e immaginazione storica”, «atque», 15 n.s., 2014, 277-298 Arnaldo Benini, “Il senso del tempo e i disturbi neurologici del presente”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 445-459 Arnaldo Benini, “La coscienza e il cervello. Raccomandazioni di un fisicalista a chi indaga sulla mente”, «atque», 15 n.s., 2014, pp. 55-64 Sergio Benvenuto, “Verso una verità che ci libera dalla dipendenza?”, «atque», 1819, 1998, pp. 165-188 Vania Berlincioni e Enrico Petrella, “Note su Per la critica della psicoanalisi di Karl Jaspers”, «atque», 22, 2000, pp. 151-164 Marianna Bernamaschi Ganapini, “Asserzione ed espressione”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 67-74 Graziella Berto, “La cura della singolarità”, «atque», 10 n.s., 2012, pp. 63-72 Graziella Berto, “Immagini di pensiero”, «atque», 14 n.s., 2014, pp. 29-40 Mariano Bianca, “Téchne o épistéme: quale stato della psicoterapia”, «atque», 1, 1990, pp. 73-90 Mariano Bianca, “Oggetto percettivo e percezione”, «atque», 4, 1991, pp. 197-212 Remo Bodei, “Un episodio di fine secolo”, «atque», 1, 1990, pp. 91-106

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Remo Bodei, “Curare il dolore dell’anima. Su alcune tecniche eterodosse e sulla funzione terapeutica della filosofia”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 63-71 Rossella Bonito Oliva, “Rappresentazioni e narrazioni dell’azione: l’altrimenti e la decisione. Per una fenomenologia del contingente”, «atque», 21 n.s., 2017, pp. 25-41 Eugenio Borgna, “I confini Io-Mondo nella Wahnstimmung”, «atque», 3, 1991, pp. 43-54 Eugenio Borgna, “La psicoterapia delle psicosi e le sue premesse filosofiche”, «atque», 6, 1992, pp. 45-58 Eugenio Borgna, “C’è ancora un senso nella psicopatologia?”, «atque», 13, 1996, pp. 51-60 Eugenio Borgna, “Sogno ed esistenza. Note su Binswanger”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 97-102 Gerardo Botta, “Riflessioni su L’altro maestro”, «atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 223-234 Gerardo Botta, “La traducibilità trasformativa del linguaggio”, «atque», 14 n.s., 2014, pp. 189-204 Adriano Bugliani, “Terapia e fenomenologia. Hegel e la psicoanalisi”, «atque», 2728, 2003, pp. 203-218 Massimo Caci, “Contatto vs perdita del contatto. Per una antropologia dell’ambiente fra Eugène Minkowsky e Gilles Deleuze”, «atque», 11 n.s., 2012, pp. 175-200 Bruno Callieri, “‘Curare’ o ‘prendersi cura di’. Un dilemma psichiatrico della responsabilità esistenziale”, «atque», 8, 1993, pp. 121-132 Bruno Callieri, “Inquadramento antropologico dell’esperienza d’incontro con lo psicotico”, «atque», 13, 1996, pp. 61-86 Bruno Callieri, “Prefazione”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 11-17 Giacomo Calvi e Lorenzo Calvi, “Nora: un’immagine letteraria dell’esaltazione”, «atque», 13, 1996, pp. 87-96 Giuliano Campioni, “La difesa dell’illusione metafisica: una ‘wagneriana’ risponde a Friedrich Nietzsche”, «atque», 12, 1995, pp. 165-172 Giuliano Campioni, “Ressentiment: il pericolo da superare per NietzscheZarathustra”, «atque», 19 n.s., 2016, pp. 17-33 Giuliano Campioni, “Friedrich Nietzsche: critica e affermazione della ‘volontà’” «atque», 21 n.s., 2017, pp. 109-128 Sandro Candreva, “Perversione e caduta dell’alterità”, «atque», 7, 1993, pp. 123132 Eleonora Cannoni, “Capire la paura. Lo sviluppo della rappresentazione della paura tra i cinque e i dodici anni”, «atque», 23-24, 2001, pp. 109-134 Baldassarre Caporali, “L’‘altro’ tra differenza e pluralità”, «atque», 7, 1993, pp. 155166 Vincenzo Caretti, “La solitudine del curante, la scissione mente-corpo e il deficit della simbolizzazione”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 323-332

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Enrico Castelli Gattinara, “Piccole grandi cose: tra ordinario e straordinario”, «atque», 10 n.s., 2012, pp. 19-40 Enrico Castelli Gattinara, “Zero come simbolo: uno sconfinamento indeterminato”, «atque», 11 n.s., 2012, pp. 95-112 Stefano Catucci, “‘Reimparare a sognare’. Note su sogno, immaginazione e politica in Michel Foucault”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 103-118 Paola Cavalieri, “Fenomenologia del primo incontro. Vissuti di estraneità e capacità di improvvisare del terapeuta”, «atque», 10 n.s., 2012, pp. 213-224 Paola Cavalieri, “Introduzione. Verso una psichiatria critica”, «atque», 15 n.s., 2014, pp. 11-15 Paola Cavalieri, “Il concetto di psicosi unica può essere oggi valido per una comprensione dei processi affettivi nelle psicosi?”, «atque», 17 n.s., 2015, pp. 199216 Paola Cavalieri, Mauro La Forgia e Maria Ilena Marozza, “Prefazione”, «atque», 10 n.s., 2012, pp. 11-15 Giorgio Caviglia, “Simbolo ‘vero’/simbolo ‘falso’: il dilemma clinico del simbolo diabolico”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 101,114 Felice Cimatti, “Il paradosso del ricordare. La memoria e il segreto del corpo”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 131-147 Felice Cimatti, “Quanto fa 25x20? Per una logica del cambiamento psichico”, «atque», 10 n.s., 2012, pp. 41-62 Felice Cimatti, “Divenire cosa, divenire corpo”, «atque», 18 n.s., 2016, pp. 107132 Giuseppe Civitarese, “Sul concetto bioniano di contenitore/contenuto”, «atque», 17 n.s., 2015, pp. 101-121 Giuseppe Civitarese, “L’identità di terribile e felicità: sublime, sublimazione e unisono nell’arte e nella psicoanalisi”, «atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 179-207 Alberto Clivio, “L’‘io’ biologico”, «atque», 9, 1994, pp. 141-152 Giorgio Concato, “Thymós”, «atque», 2, 1990, pp. 107-124 Giorgio Concato, “Note su percezione, intuizione e complessità nella psicologia di C. G. Jung”, «atque», 4, 1991, pp. 149-172 Giorgio Concato, “Gadamer, Jung e Bateson. Il colloquio psicoterapeutico in forma di dialogo”, «atque», 6, 1992, pp. 131-158 Gianluca Consoli, “Affetto, emozione e conoscenza”, «atque», 17 n.s., 2015, pp. 1333 Pietro Conte, “Metapherein. Il paradigma metaforico tra parola e immagine”, «atque», 14 n.s., 2014, pp. 17-28 Pietro Conte, “Sembra viva! Estetica del perturbante nell’arte contemporanea”, «atque», 17 n.s., 2015, pp. 265-281 Francesco Corrao, “Sul sé gruppale”, «atque», 11, 1995, pp. 11-24 Laura Corti e Marta Bertolaso, “Prospettive sulle/delle metamorfosi tecnologiche”, «atque», 24 n.s., 2019, pp. 63-84

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Elena Cristiani, “Il presente in analisi”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 341-354 Nora D’Agostino e Mario Trevi, “Psicopatologia e psicoterapia”, «atque», 13, 1996, pp. 97-120 Riccardo Dalle Luche, “Noia”, «atque», 17, 1998, pp. 43-66 Mario De Caro, “Volontà, libero arbitrio ed epifenomenismo”, «atque», 21 n.s., 2017, pp. 69-88 Luciano Del Pistoia, “Psicopatologia: realtà di un mito”, «atque», 13, 1996, pp. 121145 Vanessa De Luca, “Risentimento e vergogna: le basi morali della responsabilità”, «atque», 19 n.s., 2016, pp. 153-171 Pietro De Marco, “Autorità. Per una storia del legame auctoritas-exousìa”, «atque», 26-27 n.s., 2020, pp. 161-218 Roberta De Monticelli, “Alla presenza delle cose stesse. Saggio sull’attenzione fenomenologica”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 219-240 Daniel C. Dennett, “Il mito della doppia trasduzione”, «atque», 16, 1997, pp. 1126 Daniel C. Dennett e Marcel Kinsbourn, “Il dove e il quando della coscienza nel cervello”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 131-182 Fabrizio Desideri, “L’alterità come soglia critica”, «atque», 7, 1993, pp. 65-80 Fabrizio Desideri, “La fuga in sé. Variazioni sul tema della coscienza”, «atque», 9, 1994, pp. 47-68 Fabrizio Desideri, “Resonabilis Echo. La coscienza come spazio metaforico”, «atque», 11, 1995, pp. 93-114 Fabrizio Desideri, “Al limite del rappresentare: nota su immaginazione e coscienza”, «atque», 12, 1995, pp. 135-153 Fabrizio Desideri, “Il velo dell’autocoscienza: Kant, Schiller e Novalis”, «atque», 16, 1997, pp. 27-42 Fabrizio Desideri, “Kant: la malattia mentale come patologia della coscienza”, «atque», 20-21, 1999, pp. 23-40 Fabrizio Desideri, “Empatia e distanza”, «atque», 25-26, 2002, pp. 7-24 Fabrizio Desideri, “Uno sguardo sul presente: relativismo, pluralismo e identità umana”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 69-98 Fabrizio Desideri, “Interni. Quattro variazioni quasi dialettiche intorno a sensibilità e linguaggio”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 13-32 Fabrizio Desideri, “Del comprendere. A partire da Wittgenstein”, «atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 137-156 Fabrizio Desideri, “Sulla polarità tra ‘estetica e poietica’: intorno al Discorso sull’estetica di Paul Valéry”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 121-144 Fabrizio Desideri, “Parva gramaticalis ovvero Impossible love”, «atque», 13 n.s., 2013, pp. 11-18 Fabrizio Desideri, “Frammenti di conversazione sulla cura di sé e sulla cura in generale”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 17-31

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Fabrizio Desideri, “A due voci. Quasi un dialogo per nastro magnetico, Glasharmonika e rumore di fondo”, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 17-30 Fabrizio Desideri, “Adversus empathicos! Quasi un dialogo in tre scene”, «atque», 25 n.s., 2019, pp. 9-23 Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 18 n.s., 2016, pp. 9-13 Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 19 n.s., 2016, pp. 9-14 Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 9-14 Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 21 n.s., 2017, pp. 9-15 Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 23 n.s., 2018, pp. 9-14 Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 25 n.s., 2019, pp. 25-35 Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 26-27 n.s., 2020, pp. 9-15 Astrid Deuber-Mankowsky, “La soglia e il tempo della sensazione: sulla critica della psicofisica di Hermann Cohen”, «atque», 22 n.s., 2018, pp. 33-44 Massimiliano De Villa, “Kafka e l’«immenso insetto»: nuove vie della trasformazione”, «atque», 24 n.s., 2019, pp. 35-45 Massimiliano De Villa, “L’igienico intervallo tra Io e Tu. Umfassung contro Em­ patia nel pensiero di Martin Buber”, «atque», 25 n.s., 2019, pp. 163-180 Antonella Di Ceglie, “La categoria jaspersiana della ‘incomprensibilità’ tra dimensione individuale e dimensione sociale”, «atque», 22, 2000, pp. 29-42 Michele Di Francesco e Alfredo Tommasetta, “Mente cosciente e identità personale”, «atque», 13 n.s., 2013, pp. 1905-130 Giuseppe Di Giacomo, “Ironia e romanzo”, «atque», 2 n.s., 2007, pp. 133-152 Michele Di Monte, “Metafore vi(si)ve? I limiti del linguaggio figurato nel linguaggio figurativo”, «atque», 14 n.s., 2014, pp.57-84 Gianfranco D’Ingegno, “L’analizzabilità del candidato-analista nel terzo millennio. Una professione in via di estinzione?”, «atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 235-248 Francesco Di Nuovo, “Operai babelici, camaleonti di metodo: l’ineludibile dialogo interiore del diagnosta”, «atque», 15 n.s., 2014, pp. 163-200 Francesco Di Nuovo, “La cura della parola incurabilis”, «atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 241-255 Roberto Diodato, “The touch beyond the screen”, «atque», 11 n.s., 2012, pp. 153174 Ellen Dissanayake, “Incunaboli estetici”, con una introduzione di Mariagrazia Portera, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 109-124

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Elisabetta Di Stefano, “Il vetro e il velluto. La casa tra opacità e trasparenza”, «atque», 18 n.s., 2016, pp. 205-218 Riccardo Dottori, “Oltre la svolta ermeneutica?”, «atque», 14-15, 1996, pp. 9-38 Rossella Fabbrichesi, “Sé, io, me: La psicologia della coscienza in Georg Herbert Mead”, «atque», 13 n.s., 2013, pp. 59-80 Adriano Fabris, “Il sacro e l’alterità”, «atque», 7, 1993, pp. 81-94 Adriano Fabris, “L’esperienza del sé”, «atque», 11, 1995, pp. 137-148 Adriano Fabris, “Sul ridere in alcune prospettive religiose”, «atque», 2 n.s., 2007, pp. 93-104 Adriano Fabris, “La filosofia e la cura di sé”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 47-62 Silvano Facioni, “Tra mutoli e scilinguati: una rapsodia”, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 33-52 Ubaldo Fadini, “Verità e pratiche sociali”, «atque», 18-19, 1998, pp. 35-50 Ubaldo Fadini, “La paura e il mostro. Linee di una ‘filosofia della simpatia’”,«atque», 23-24, 2001, pp. 29-42 Ubaldo Fadini, “Il fattore opacità. Stupidità e indeterminazione in Gilles Deleuze”, «atque», 18 n.s., 2016, pp. 239-252 Ubaldo Fadini, “Ri/sentimenti di rete. Osservazioni”, «atque», 19 n.s., 2016, pp. 173-186 Ubaldo Fadini, “Contro l’ossessione della fine. Per un ‘vissuto’ di collaborazione”, «atque», 23 n.s., 2018, pp. 31-45 Ubaldo Fadini, “Plasticità e metamorfosi. Alla ricerca di nuove mediazioni”, «atque», 24 n.s., 2019, pp. 17-33 Ubaldo Fadini, “Il volto e l’identità. A partire da Canetti e Deleuze”, «atque», 26-27 n.s., 2020, pp. 125-142 Ubaldo Fadini e Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 24 n.s., 2019, pp. 9-13 Benedetto Farina, “Il presente dissociato”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 391-418 Maria Farneti, “Dalla confusione ‘ronzante e fiorita’ di James al bambino ‘supercompetente’. Note sulla genesi della percezione visiva”, «atque», 4, 1991, pp. 129-148 Maurizio Ferrara, “La trama”, «atque», 3, 1991, pp. 67-80 Enrico Ferrari, “L’alludere del conoscere clinico. La diagnosi nella prospettiva fenomenologica”, «atque», 15 n.s., 2014, pp. 141-162 Enrico Ferrari, “Cura e parola: un intreccio necessario”, «atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 41-55 Roberto Ferrari e Ricardo Pulido, “L’esperienza animale del contatto. Zoofenomenologia e addestramento meditativo”, «atque», 11 n.s., 2012, pp. 35-62 Bruno Ferraro, “Arte combinatoria e processi di pensiero nelle Città invisibili di Italo Calvino”, «atque», 5, 1992, pp. 71-98 Paul K. Feyerabend, “Università e primi viaggi: un’autobiografia”, «atque», 10, 1994, pp. 9-26

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Piero Fidanza, “Lutto e perdita del soggetto”, «atque», 1, 1990, pp. 117-128 Piero Fidanza, “Legame emotivo e conoscenza”, «atque», 2, 1990, pp. 135-144 Roberto Finelli, “Il presente come soap-opera”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 99-112 Primavera Fisogni e Lucia Urbani Ulivi, “Metamorfosi di sistema. Il cambiamento come processo nella prospettiva del pensiero sistemico”, «atque», 24 n.s., 2019, pp. 117-137 Stefano Fissi, “L’orientamento prospettico-narrativo nella psicologia del profondo”, «atque», 5, 1992, pp. 131-154 Stefano Fissi, “Il labirinto del sé”, «atque», 11, 1995, pp. 115-136 Stefano Fissi, “I molti e l’uno in alchimia: l’immaginatio come luogo di integrazione e di confusività della materia psichica”, «atque», 12, 1995, pp. 79-106 Stefano Fissi, “Materia, forma, mente e coscienza”, «atque», 16, 1997, pp. 43-72 Stefano Fissi, “La coscienza nella metapsicologia postmoderna”, «atque», 20-21, 1999, pp. 153-178 Stefano Fissi, “I territori selvaggi e proibiti della soggettività dell’analista”, «atque», 25-26, 2002, pp. 171-198 Stefano Fissi, “La coscienza affettiva. Emozione e cognizione nel determinismo della coscienza”, «atque», 17 n.s., 2015, pp. 143-167 Giovanni Foresti, “Esperable uberty. Gli interventi clinici dell’analista come ipotesi di ricerca”, «atque», 10 n.s., 2012, pp. 197-212 Mauro Fornaro, “L’empatia da Jaspers a Freud e oltre”, «atque», 22, 2000, pp. 4362 Mario Francioni, “L’atteggiamento filosofico fondamentale delle psicoterapie”, «atque», 6, 1992, pp. 37-44 Elio Franzini, “Arte, parola e concetto”, «atque», 14 n.s., 2014, pp. 149-156 Pierfrancesco Franzoni, “La natura coerente: discontinuità non essenziale tra natura, vita e coscienza”, «atque», 22 n.s., 2018, pp. 99-108 Françoise Frontisi Ducroux, “Disturbi della personalità e tragedia greca”, «atque», 20-21, 1999, pp. 7-22 Anna Fusco di Ravello, “Il giro della prigione”, «atque», 11 n.s., 2012, pp.63-74 Carlo Gabbani, “Notizia bio-bibliografica (su Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe)”, «atque», 13 n.s., 2013, pp. 213-218 Hans Georg Gadamer, “Pensare le regole” (intervista a cura di Baldassarre Caporali), «atque», 5, 1992, pp. 169-178 Umberto Galimberti, “Filosofia e psicoterapia”, «atque», 6, 1992, pp. 31-36 Umberto Galimberti, “La verità come efficacia”, «atque», 18-19, 1998, pp. 19-34 Umberto Galimberti, “Karl Jaspers e la psicopatologia”, «atque», 22, 2000, pp. 63-78 Umberto Galimberti, “La questione dell’etica in Freud e Jung”, «atque», 27-28, 2003, pp. 107-124 Umberto Galimberti, “Il simbolo: orma del sacro”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 41-60

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Vittorio Gallese, “I neuroni specchio e l’ipotesi neurale: dalla simulazione incarnata alla cognizione sociale”, «atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 181-219 Paolo Galli, “Lettura razionale dell’oggetto e tenacia dei linguaggi consolidati”, «atque», 4, 1991, pp. 191-196 Aldo G. Gargani, “Il valore cognitivo delle emozioni”, «atque», 25-26, 2002, pp. 25-34 Emilio Garroni, “Simbolo e linguaggio”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 21-40 Alberto Gaston, “Karl Jaspers: l’inattuale attualità della psicopatologia”, «atque», 22, 2000, pp. 79-96 Rino Genovese, “La negazione e l’‘altro’”, «atque», 7, 1993, pp. 145-154 Enrico Ghidetti, “Verso una poetica dell’esistenza: l’‘umorismo’ di Pirandello”, «atque», 2 n.s., 2007, pp. 49-54 Sebastiano Ghisu, “Dialogo, scienze, verità”, «atque», 14-15, 1996, pp. 39-70 Sebastiano Ghisu, “Spiegazione, descrizione, racconto”, «atque», 18-19, 1998, pp. 65-88 Anna Gianni, “Andirivieni di contatti tra corpo e mente”, «atque», 11 n.s., 2012, pp. 201-214 Anna Gianni, Roberto Manciocchi e Amedeo Ruberto, “Introduzione”, «atque», 11 n.s., 2012, pp. 11- 16 Elena Gigante, “Nòstoi inauditi. Dalla percezione sonora fetale all’ascolto analitico”, «atque», 10 n.s., 2012, 129-149 Elena Gigante, “Del miraggio, della trasparenza. Le immagini sonore tra limite e sacro”, «atque», 14 n.s., 2014, pp. 157-185 Elena Gigante, “Musica involontaria. Il simbolo delle cose nelle cose stesse”, «atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 209-239 Giovanni Gozzetti, “La perdita del sentimento del Sé. Tra psicopatologia fenomenologica e psicoanalisi”, «atque», 13, 1996, pp. 145-154 Tonino Griffero, “Alle strette. L’atmosferico tra inatteso e superattese”, «atque», 10 n.s., 2012, pp. 101-128 Tonino Griffero, “Forte verbum generat casum. Espressione e atmosfera”, «atque», 14 n.s., 2014, pp. 85-105 Rossella Guerini e Massimo Marraffa, “La natura delle emozioni. Il dibattito fra Martha Nussbaum e Paul E. Griffiths”, «atque», 17 n.s., 2015, pp. 81-99 Luciano Handjaras, “Critica del metodo e utopia pluralista del relativismo di P.K. Feyerabend”, «atque», 10, 1994, pp. 127-141 Dieter Henrich, “Intervista”, «atque», 16, 1997, pp. 199-216 Nicolas Humphrey e Daniel C. Dennett, “Parlando per i nostri Sé”, «atque», 2021, 1999, pp. 41-76 Alfonso Maurizio Iacono, “L’idea di zòon politikòn e la conoscenza come costruzione”, «atque», 2, 1990, pp. 79-92 Alfonso Maurizio Iacono, “Valori condivisi e processi cognitivi”, «atque», 4, 1991, pp. 37-44

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Alfonso Maurizio Iacono, “Paura e fame di futuro”, «atque», 23-24, 2001, pp. 1728 Alfonso Maurizio Iacono, “La cura tra la malinconia e l’autonomia”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 229-243 Alfonso Maurizio Iacono, “Rousseau e l’ingannevole sogno dell’utopia come fine del risentimento”, «atque», 19 n.s., 2016, pp. 141-152 Angiola Iapoce, “Il soggetto tra continuità e discontinuità”, «atque», 18-19, 1998, pp. 149-164 Angiola Iapoce, “Il tempo affettivo del simbolo”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 115-135 Angiola Iapoce, “L’incompletezza dell’umano: configurare, costruire, testimoniare”, «atque», 14 n.s., 2014, pp. 205-220 Angiola Iapoce, “‘A me piace sentire le cose cantare’. Variazioni sul tema del­ l’esperienza tra psicopatologia e filosofia”, «atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 101-113 Marco Innamorati, “La psicopatologia in Théodule Ribot”, «atque», 20-21, 1999, pp. 137-152 Marco Innamorati, “La rimozione del simbolo”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 87-100 Marco Innamorati e Mario Trevi, “Verità ed efficacia in una prospettiva junghiana”, «atque», 18-19, 1998, pp. 129-138 Augusto Iossa Fasano, “Oggetti dentro i corpi. Ridefinire il post-umano”, «atque», 18 n.s., 2016, pp. 133-154 Vladimir Jankélévitch, “L’angoscia dell’istante e la paura dell’al di là”, «atque», 23-24, 2001, pp. 7-12 Vladimir Jankélévitch, “L’umorismo e la rivincita dell’uomo debole”, «atque», 2 n.s., 2007, pp. 39-40 Vladimir Jankélélitch, “L’impalpabile”, Incontro con Eric Binet, «atque», 2 n.s., 2007, pp. 175-181 Karl Jaspers, “La prospettiva fenomenologica in psicopatologia”, «atque», 22, 2000, pp. 97-124 Giovanni Jervis, “Corporeità e quotidianità nell’esperienza analitica”, «atque», 8, 1993, pp. 33-42 Giovanni Jervis, “Identità”, «atque», 11, 1995, pp. 45-52 Giovanni Jervis, “Naturalità e innaturalità delle psicoterapie”, «atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 11-20 Luis Kancyper, “Risentimento, rimorso e viscosità della libido”, «atque», 19 n.s., 2016, pp. 125-139 Mauro La Forgia, “Il rapporto Freud-Mach: una prima ricognizione”, «atque», 6, 1992, pp. 107-130 Mauro La Forgia, “Psicodinamica intenzionale”, «atque», 16, 1997, pp. 73-92 Mauro La Forgia, “Le parole dell’efficacia nella clinica psicoanalitica”, «atque», 18-19, 1998, pp. 105-116 Mauro La Forgia, “Livelli di coscienza e sensibilità clinica”, «atque», 20-21, 1999, pp. 127-136

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Mauro La Forgia, “Empatie radicali e distali”, «atque», 25-26, 2002, pp. 139-152 Mauro La Forgia, “Prospettive cliniche dell’intenzionalità”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 297-322 Mauro La Forgia, “Note su ironia, consapevolezza e processo conoscitivo”, «atque», 2 n.s., 2007, pp. 123-132 Mauro La Forgia, “Le forme del dire”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 51-66 Mauro La Forgia, “L’apparente specificità della clinica”, «atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 123-134 Mauro La Forgia, “Psicoterapia e sogno come pratiche retoriche”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 211-224 Mauro La Forgia, “Fenomenologia e clinica dell’ordinario”, «atque», 10 n.s., 2012, pp. 177-196 Mauro La Forgia, “Le immagini come prassi dell’eccedenza”, «atque», 14 n.s., 2014, pp. 41-56 Mauro La Forgia, “Venticinque anni di Atque. Un tragitto di vita e di cura”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 265-276 Mauro La Forgia, “La voce delle parole”, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 159-174 Mauro La Forgia, “Cronache dell’oltresoglia”, «atque», 22 n.s., 2018, pp. 71-88 Mauro La Forgia, “Vademecum di un consigliori. Ai confini del concetto di empatia”, «atque», 25 n.s., 2019, pp. 181-189 Mauro La Forgia, “Disordine, irritazione, cura. La pandemia in psicoterapia”, «atque», 26-27 n.s., 2020, pp. 153-160 Mauro La Forgia e Maria Ilena Marozza, “Introduzione”, «atque», 14 n.s., 2014, pp. 9-13 Roberta Lanfredini, “Materia cosciente tra prima e terza persona”, «atque», 13 n.s., 2013, pp. 41-58 Roberta Lanfredini, “Intenzionalità fungente: involontarietà e impersonalità in fenomenologia”, «atque», 21 n.s., 2017, pp. 91-108 Andrea Lanza, “Oltre lo ‘specchio’ e la ‘fusione’: il fondamento dell’Einfühlung husserliana nel Leib”, «atque», 25 n.s., 2019, pp. 139-162 Mario Lavagetto, “Dall’‘Accademia Spagnola’ al romanzo storico. Appunti sulla spiegazione e sulla messa in intreccio nell’opera di Freud”, «atque», 5, 1992, pp. 45-70 Luigi Lentini, “Ragione critica, razionalità scientifica, relativismo”, «atque», 8, 1993, pp. 181-200 Luigi Lentini, “Anarchismo, irrazionalismo, post-razionalismo”, «atque», 10, 1994, pp. 93-110 Luigi Lentini, “Immagine metodologica e ‘realtà’ scientifica sulla teoria anarchica della conoscenza”, «atque», 12, 1995, pp. 107-134 Federico Leoni, “L’inconscio è il mondo. Jean-Luc Nancy legge Sigmund Freud”, «atque», 27-28, 2003, pp. 81-106

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Vittorio Lingiardi e Francesco De Bei, “Al punto fermo del mondo che ruota”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 355-390 Giovanni Liotti, “Trauma e dissociazione alla luce della teoria dell’attaccamento”, «atque», 20-21, 1999, pp. 107-126 Enrica Lisciani-Petrini, “Paura dell’al-di-là o angoscia del quasi niente?”, «atque», 23-24, 2001, pp. 13-16 Giuseppe O. Longo, “Il sé tra ambiguità e narrazione”, «atque», 9, 1994, pp. 153-172 Giuseppe O. Longo, “Verso le emozioni artificiali?”, «atque», 17 n.s., 2015, pp. 219241 Primo Lorenzi, “Bruciar d’amore”, «atque», 17, 1998, pp. 101-144 Riccardo Luccio, “Complessità e autoorganizzazione nella percezione”, «atque», 4, 1991, pp. 91-108 Luca Lupo, “Il pozzo e la scala. L’umorismo etico di Wittgenstein”, «atque», 2 n.s., 2007, pp. 55-75 Cesare Maffei, “L’ambiente della cura”, «atque», 8, 1993, pp. 73-88 Giuseppe Maffei, “Fondamenti dell’apparato per pensare i pensieri”, «atque», 3, 1991, pp. 105-124 Giuseppe Maffei, “La psicoterapia e il modo indicativo”, «atque», 8, 1993, pp. 105122 Valeria Maggiore, “I vincoli della trasformazione: riflessioni sulla metamorfosi tra letteratura, filosofia e biologia”, «atque», 24 n.s., 2019, pp. 161-186 Mauro Mancia, “Sulle origini della coscienza e del sé”, «atque», 20-21, 1999, pp. 87-106 Roberto Manciocchi, “Il pensabile e l’impensabile tra Wittgenstein e Bion”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 75-99 Roberto Manciocchi, “Stati di sonnolenza. Ovvero quando sonno e veglia non sono fenomeni uniformi ma ampie classi di fenomeni”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 225-242 Roberto Manciocchi, “Capovolgimenti e catastrofi. Fra pratiche del contatto e pratiche del contagio”, «atque», 11 n.s., 2012, pp.127-149 Roberto Manciocchi, “Il non-luogo della psicoterapia”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 217-228 Roberto Manciocchi, “Parole che immaginano”, «atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 79-100 Sergio Manghi, “Di alcune orme sopra la neve”, «atque», 8, 1993, pp. 145-152 Amedeo Marinotti, “Il dialogo ermeneutico per Gadamer”, «atque», 14-15, 1996, pp. 71-90 Maria Ilena Marozza, “Le ‘convinzioni del sentimento’: desiderio e ragione nella psicologia del profondo”, «atque», 2, 1990, pp.41-60 Maria Ilena Marozza, “Il senso dell’alterità onirica”, «atque», 7, 1993, pp. 107-122 Maria Ilena Marozza, “L’immaginazione all’origine della realtà psichica”, «atque», 12, 1995, pp. 63-78

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Maria Ilena Marozza, “L’attualità come vincolo interpretativo”, «atque», 14-15, 1996, pp. 91-108 Maria Ilena Marozza, “La ricerca della verità come etica della cura”, «atque», 1819, 1998, pp. 89-104 Maria Ilena Marozza, “Da Jaspers a Jung. Il ripensamento dell’esperienza come base della teoria clinica”, «atque», 22, 2000, pp. 125-151 Maria Ilena Marozza, “La clinica tra modello e metafora”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 139-164 Maria Ilena Marozza, “La psicoterapia, l’ironia, l’onestà”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 97-110 Maria Ilena Marozza, “Di che parla la talking cure”. Lo sfondo sensibile del discorrere in analisi”, «atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 33-49 Maria Ilena Marozza, “Dove la parola manca il segno. Negli interstizi trasformativi della talking cure”, «atque», 10 n.s., 2012, pp. 153-176 Maria Ilena Marozza, “Immagini prospettiche della cura. A mo’ di postfazione”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 277-291 Maria Ilena Marozza, “Quando un corpo incontra il linguaggio. Modulazioni vocali nella talking cure”, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 125-141 Maria Ilena Marozza, “Linguaggi della vaghezza. Oltre il mito dell’interiorità”, «atque», 23 n.s., 2018, pp. 111-131 Maria Ilena Marozza, “Resti inesprimibili. Transiti estetici nella talking cure”, «atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 115-134 Maria Ilena Marozza e Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 31-38 Massimo Marraffa, “Identità corporea e identità narrativa”, «atque», 18 n.s., 2016, pp. 81-105 Massimo Marraffa, “Empatia, mindreading e introspezione”, «atque», 25 n.s., 2019, pp. 77-105 Giuseppe Martini, “I tre paradossi della traduzione psicoanalitica”, «atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 57-78 Vieri Marzi, “Il mondo della cura nel servizio psichiatrico territoriale”, «atque», 8, 1993, pp. 133-144 Felice Masi, “Empatia della forma espressiva. Il modello anaforico da Brandom a Bühler”, «atque», 25 n.s., 2019, pp. 121-137 Claudia Mattalucci, “Tabù, paure e soggettività. Un percorso antropologico”, «atque», 23-24, 2001, pp. 73-94 Giovanni Matteucci, “Il linguaggio dell’apparenza. Note a partire dalla lettura junghiana di Joyce”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 213-221 Marco Mazzeo, “Alla scoperta dell’America: cecità, sinestesia e plasticità percettiva”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 117-130

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Marco Mazzeo, “Contro il fanciullino. Infanzia cronica e sindrome di Peter Pan”, «atque», 23 n.s., 2018, pp. 211-225 Luciano Mecacci, “Freud e Pavlov, e la Neuropsicoanalisi. Tre note storiche”, «atque», 27-28, 2003, pp. 125-138 Luciano Mecacci, “Cos’è il teatro della mente?”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 153166 Luciano Mecacci, “Pereživanie: tema centrale della psicologia e psicoterapia nella Russia contemporanea. Breve nota storica”, «atque», 23 n.s., 2018, pp. 227-241 Maria Fiorina Meligrana, “Vite assediate. Riflessioni psicopatologiche sulla diagnosi di disturbo ossessivo”, «atque», 15 n.s., 2014, pp. 201-215 Maria Fiorina Meligrana e Roberto Manciocchi, “Il silenzio del corpo e l’autismo. Dopo oltre cent’anni dalla Psicopatologia della vita quotidiana”, «atque», 27-28, 2003, pp. 159-172 Ferdinando G. Menga, “L’inatteso e il sottrarsi dell’evento. Vie d’accesso filosofiche tra domandare e rispondere”, «atque», 10 n.s., 2012, pp. 73-100 Eugène Minkowski, “L’affettività”, «atque», 17, 1998, pp. 145-162 Marina Montanelli, “Sulle tracce dell’esperienza. Walter Benjamin tra critica del vissuto e uomo nuovo”, «atque», 23 n.s., 2018, pp. 133-146 Sergio Moravia, “Homo loquens. Immagini della comunicazione e immagini dell’uomo nel pensiero contemporaneo”, «atque», 2, 1990, pp. 15-40 Atsuo Morimoto, “Il sogno e la po(i)etica in Paul Valéry”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 183-197 Diego Napolitani, “Le figure dell’altro da pre- a trans-figurazioni”, «atque», 7, 1993, pp. 45-64 Salvatore Natoli, “Lo spazio della filosofia”, «atque», 3, 1991, pp. 125-142 Chiara Nicolini, “Il colloquio di ricerca tra conversazione e colloquio clinico”, «atque», 14-15, 1996, pp. 109-130 Friedrich Nietzsche-Mathilde Maier, “Epistolario”, «atque», 12, 1995, pp. 173-198 Yamina Oudai Celso, “Antipsicologismo husserliano e anticoscienzialismo freudiano. Spunti comparativi”, «atque», 27-28, 2003, pp. 173-202 Yamina Oudai Celso, “Nietzsche ‘primo psicologo’ e genealogista del ressentiment”, «atque», 19 n.s., 2016, pp. 81-104 Alessandro Pagnini, “Davidson, Freud e i paradossi dell’irrazionalità”, «atque», 8, 1993, pp. 153-180 Alessandro Pagnini, “‘Vedere la scienza con l’ottica dell’artista’: note su Feyerabend e il significato filosofico dell’arte”, «atque», 10, 1994, pp. 111-126 Alessandro Pagnini, “Ma le storie, curano? Narrative, simboli, effetti placebo”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 89-105 Alessandro Pagnini, “Introduzione” a Giulio Preti, “Sodoma: risentimento e democrazia”, «atque», 19, 2016, pp. 189-192 Daniela Palliccia, “Bachelard e la ‘rottura’ fenomenologica dell’istante”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 257-291

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Massimo Palma, “La critica dell’empatia in Walter Benjamin. Acedia, merce, dominio”, «atque», 25 n.s., 2019, pp. 107-120 Massimo Palma, “La narrazione del padre. Considerazioni su Alexandre Kojève, l’autorità, la tradizione”, «atque», 26-27 n.s., 2020, pp. 69-91 Felice Ciro Papparo, “Dalla magia naturale del sogno all’ars dell’esitazione in Paul Valéry”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 145-160 Felice Ciro Papparo, “Un tocco di ri-guardo”, «atque», 18 n.s., 2016, pp. 157-180 Felice Ciro Papparo, “Una tutt’altra sovranità. Rileggendo “La Sovranità” di Georges Bataille”, «atque», 26-27 n.s., 2020, pp. 93-124 Alfredo Paternoster, “Percezione e resistenza dell’oggetto”, «atque», 18 n.s., 2016, pp. 57-78 Giorgio Patrizi, “Dalla grana della voce alla grana della scrittura. Alcune riflessioni sulla parola detta e scritta”, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 53-61 Pietro Perconti, “I limiti delle storie su se stessi”, «atque», 13 n.s., 2013, pp. 131144 Luciano Perez, “Il tempo del puer”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 325-340 Alberto Peruzzi, “Intermezzo sul significato”, «atque», 14-15, 1996, pp. 131-154 Alberto Peruzzi, “Soglie e loro trasferimenti”, «atque», 22 n.s., 2018, pp. 45-58 Fausto Petrella, “Il messaggio freudiano e la psichiatria del presente”, «atque», 1, 1990, pp. 107-116 Fausto Petrella, “Sulla psicopatologia: caute riflessioni di uno psichiatra che non disdegna la psicoanalisi, di uno psicoanalista che non disdegna la psicopatologia”, «atque», 13, 1996, pp. 155-178 Fausto Petrella, “L’ascolto e l’ostacolo”, «atque», 14-15, 1996, pp. 155-188 Fausto Petrella, “Diagnosi psichiatrica e dintorni: considerazioni di un clinico”, «atque», 15 n.s., 2014, pp. 121-140 Fausto Petrella, “Cavalli e asini, muli, bardotti e carpe. Storia, invenzione, memoria e verità in psicoanalisi”, «atque», 23 n.s., 2018, pp. 147-189 Marco Piazza, “L’alterità e il mélange”, «atque», 7, 1993, pp. 177-196 Marco Piazza, “Il sé molteplice di Fernando Pessoa”, «atque», 9, 1994, pp. 173-192 Paolo Francesco Pieri, “I margini della conoscenza”, «atque», 2, 1990, pp. 11-14 Paolo Francesco Pieri, “La visione e le cose. Una conversazione sulla simultaneità”, «atque», 4, 1991, pp. 11-24 Paolo Francesco Pieri, “Segno, Simbolo e conoscenza. Per una epistemologia critica del pensiero di Jung”, «atque», 6, 1992, pp. 159-184 Paolo Francesco Pieri, “Attraverso il dire”, «atque», 8, 1993, pp. 43-66 Paolo Francesco Pieri, “‘Sono io, questo?’ Ovvero, il Selbst nel pensiero di C. G. Jung”, «atque», 11, 1995, pp. 73-92 Paolo Francesco Pieri, “Dialogo, confutazione, dialettica”, «atque», 14-15, 1996, pp. 189-208 Paolo Francesco Pieri, “Coscienza plurale”, «atque», 16, 1997, pp. 7-10

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Paolo Francesco Pieri, “Il problema della coscienza nella scienza della mente”, «atque», 20-21, 1999, pp. 179-190 Paolo Francesco Pieri, “Conoscenza e osservazione in psicologia. Due voci del Dizionario junghiano, Bollati Boringhieri”, «atque», 22, 2000, pp. 165-182 Paolo Francesco Pieri, “Il paradigma dialogico nella conoscenza e nella cura psicologica. Considerazioni sul pensiero di Mario Trevi”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 237-268 Paolo Francesco Pieri, “Umorismo e innovazione della conoscenza. La transizione dei codici simbolici e lo sconquasso nel corpo dei saperi”, «atque», 2 n.s., 2007, pp. 11-38 Paolo Francesco Pieri, “Il presente rappresentato”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 9-13 Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 9-10 Paolo Francesco Pieri, “La terapia attraverso il linguaggio: dall’approccio analitico a quello simbolico”, «atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 21-58 Paolo Francesco Pieri, “Introduzione”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 9-17 Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 10 n.s., 2012, pp. 9-10 Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 11 n.s., 2012, pp. 9-10 Paolo Francesco Pieri, “I saperi come limiti e come risorse del pensiero”, «atque», 15 n.s., 2014, pp. 93- 117 Paolo Francesco Pieri, “Tra psicoterapia e filosofia. Ovvero sulla cura e le sue varie declinazioni”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 13-15 Paolo Francesco Pieri, “Prefazione”, «atque», 22 n.s., 2018, pp. 9-13 Paolo Francesco Pieri, “Intorno agli aspetti germinativi dell’esperienza estetica, con specifici riferimenti alla talking cure. In forma di dizionario”, «atque», 2829 n.s., 2021, pp. 9-30 Paolo Francesco Pieri e Daniel C. Dennett, “Il sé e i sé. Quale tipo di realtà?”, «atque», 9, 1994, pp. 193-196 Luca Pinzolo, “La voce tra sonorità e respirazione in Emmanuel Lévinas. Abbozzo di una metafisica dell’atmosfera”, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 81-105 Luca Pinzolo, “L’evento della volontà in una prospettiva comparativa. L’azione e l’agente nella Bhagavadgītā”, «atque», 21 n.s., 2017, pp. 173-201 Luca Pinzolo, “Per un’ontologia del vissuto”, «atque», 23 n.s., 2018, pp. 83-110 Luca Pinzolo, “Estetica dello ‘sfioramento’. O dell’empatia e dell’ontogenesi”, «atque», 25 n.s., 2019, pp. 223-243 Sergio Piro, “Antropologie trasformazionali e filosofie diadromiche”, «atque», 11, 1995, pp. 177-195 Elisabetta Pizzichetti, “L’‘altro’ invisibile”, «atque», 7, 1993, pp. 167-176 Lucia Pizzo Russo, “Percezione e conoscenza”, «atque», 4, 1991, pp. 45-90 Helmut Plessner, “Il procedimento sintagmatico del linguaggio e il problema della traduzione”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 151-166

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Donatella Poggiolini, Vanna Valoriani, Paola Benvenuti e Adolfo Pazzagli, “Ansia in gravidanza: una condizione di normalità?”, «atque», 23-24, 2001, pp. 135‑158 Fabio Polidori, “Jaspers, le rovine di Nietzsche”, «atque», 22, 2000, pp. 183-196 Raffaele Popolo e Chiara Petrocchi, “Le rappresentazioni mentali in psicoterapia cognitiva”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 245-262 Maria Grazia Portera, “Chi sono io? Forme dell’individuo fra filosofia e biologia”, «atque», 13 n.s., 2013, pp. 81-104 Mariagrazia Portera, “Introduzione” a Ellen Dissanayake, “Incunaboli estetici”, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 109-110 Lorena Preta, “Fare artistico, fare analitico”, «atque», 2, 1990, pp. 145-156 Giulio Preti, “Sodoma: risentimento e democrazia”, con una introduzione di Alessandro Pagnini, «atque», 19 n.s., 2016, pp. 189-215 Antonio Rainone, “Razionalità: vincoli a priori e indagini empiriche”, «atque», 18-19, 1998, pp. 51-64 Franco Rella, “L’arte e il pensiero. Il pensiero dell’arte”, «atque», 5, 1992, pp. 99110 Franco Rella, “Porte sull’ombra”, «atque», 7, 1993, pp. 197-208 Paolo Rossi, “P.K. Feyerabend: un ricordo e una riflessione”, «atque», 10, pp. 2740 Paolo Rossi, “Il conoscere come fare”, «atque», 18-19, 1998, pp. 7-18 Romolo Rossi e Piera Fele, “Clinica della nostalgia e patologia del Nestos”, «atque», 17, 1998, pp. 67-82 Mario Rossi-Monti, “Il delirio tra scoperta e rivelazione”, «atque», 3, 1991, pp. 5566 Mario Rossi-Monti, “Sulle orme della vergogna”, «atque», 17, 1998, pp. 83-100 Mario Rossi-Monti, “Lo stato di emarginazione della psicopatologia. Quali responsabilità per gli psicopatologi?”, «atque», 22, 2000, pp. 197-214 Mario Rossi-Monti, “Empatia psicoanalitica ed empatia naturale”, «atque», 2526, 2002, pp. 127-138 Mario Rossi-Monti, “Psicopatologia e figure del presente”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 295-324 Mario Rossi-Monti e Giovanni Stanghellini, “Nosografia e psicopatologia: un matrimonio impossibile?”, «atque», 13, 1996, pp. 179-194 Martino Rossi Monti, “Il carcere, la tomba, il fango. Sulla fortuna di alcune immagini da Platone all’età di Plotino”, «atque», 18 n.s., 2016, pp. 181-202 Marino Rosso, “Realtà e possibilità di un incontro”, «atque», 7, 1993, pp. 133-144 Marino Rosso, “Il fumo e il fuoco”, «atque», 25-26, 2002, pp. 81-116 Marino Rosso, “La filosofia come terapia, saggio su Wittgenstein”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 121-149 Pier Aldo Rovatti, “Il giro della parola. Da Heidegger a Lacan”, «atque», 6, 1992, pp. 71-80

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Gian Giacomo Rovera, “Formazione del Sé e patologia borderline”, «atque», 9, 1994, pp. 127-140 Gian Giacomo Rovera, “Tra Adler e Freud rammentando Jung”, «atque», 27-28, 2003, pp. 65-80 Claudio Rozzoni, “Vedere l’irreale. Vissuto d’immagine, vissuto di fantasia”, «atque», 23 n.s., 2018, pp. 191-209 Amedeo Ruberto, “Note sulla paradossalità dello psichico negli scritti di C.G. Jung”, «atque», 2, 1990, pp. 126-134 Amedeo Ruberto, “Appunti su ‘verità e efficacia’ nel lavoro psicoterapeutico”, «atque», 18-19, 1998, pp. 117-128 Amedeo Ruberto, “Tempo, memoria, empatia”, «atque», 25-26, 2002, pp. 219-230 Amedeo Ruberto, “Coscienza e sogno in psicoterapia”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 201-210 Amedeo Ruberto, “Dell’impossibilità di non essere in contatto. Contributo allo sviluppo della psicologia analitica”, «atque», 11 n.s., 2012, pp. 75-92 Amedeo Ruberto, “Condivisibile e non condivisibile. Note su una visione eticopolitica della psicoterapia”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 107-119 Amedeo Ruberto, “Io, coscienza e volontà. La necessità del possibile”, «atque», 21 n.s., 2017, pp. 131-155 Amedeo Ruberto, “Empatia ed ecfrasia. Osservazioni dalla psicoterapia”, «atque», 25 n.s., 2019, pp. 191-205 Amedeo Ruberto, “Tornare indietro e andare avanti”, «atque», 26-27 n.s., 2020, pp. 143-152 Amedeo Ruberto e Antonella Leonelli, “Ansia, paura e panico tra psicologia e neurofisiologia”, «atque», 23-24, 2001, pp. 95-108 Amedeo Ruberto e Roberto Manciocchi, “La forza teorica del complesso. Mo­ dernità e specificazioni”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 269-296 Alessia Ruco, “Sensibilità, psiche e linguaggio nella riflessione estetica e antropologica di Helmut Plessner”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 167-184 Mario Ruggenini, “Il principio dell’io. Io, gli altri, l’alterità come abisso”, «atque», 9, 1994, pp. 21-46 Anna Sabatini, “La cristallizzazione del trauma”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 419444 Nicoletta Salomon, “Radici antiche della paura”, «atque», 23-24, 2001, pp. 43-58 Giorgio Sassanelli, “L’lo e il Sé”, «atque», 9, 1994, pp. 87-100 Barbara Scapolo, “Creare attraverso le ‘parole’ lo ‘stato di mancanza di parole’”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 185-212 Attilio Scarpellini, “L’impronta. Trattenere i corpi, toccare l’immagine”, «atque», 11 n.s., 2012, pp. 113-126 Riccardo Scarcia, “Fermare il tempo. Applicazioni di cronografia romana”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 113-130

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Antonello Sciacchitano, “Perché nella scienza non si piange e non si ride?”, «atque», 2 n.s., 2007, pp. 105- 119 Antonio Alberto Semi, “Interrogativi attuali sulla cura”, «atque», 8, 1993, pp. 6772 Carlo Serra, “Gesti vocali. Conflitti tra mimesi e senso”, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 143-157 Carlo Sini, “I segni della salute”, «atque», 1, 1990, pp. 49-58 Carlo Sini, “La quarta casella”, «atque», 3, 1991, pp. 11-22 Carlo Sini, “Narrazioni e suoni di flauto”, «atque», 5, 1992, pp. 11-24 Carlo Sini, “La verità di rango superiore. Considerazioni sui Seminari di Zollikon”, «atque», 6, 1992, pp. 59-70 Carlo Sini, “I modi come cura”, «atque», 8, 1993, pp. 9-14 Carlo Sini, “La voce del Sé e la signora Darwin”, «atque», 9, 1994, pp. 9-20 Carlo Sini, “Il mito del mito. Confini problematici dell’epistemologia feyerabendiana”, «atque», 10, 1994, pp. 41-52 Carlo Sini, “Immaginazione e realtà”, «atque», 12, 1995, pp. 17-24 Carlo Sini, “La passione della verità”, «atque», 17, 1998, pp. 31-42 Carlo Sini, “Empatia e comprensione”, «atque», 25-26, 2002, pp. 73-80 Carlo Sini, “Da quando gli alberi non rispondono: Platone e Freud”, «atque», 2728, 2003, pp. 7-16 Carlo Sini, “Umorismo alla lettera”, «atque», 2 n.s., 2007, pp. 41-48 Carlo Sini, “Il sonno e la coscienza (peripezie del sapere)”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 41-46 Carlo Sini, “Aver cura del sapere”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 35-45 Carlo Sini, “Il soggetto del volere”, «atque», 21 n.s., 2017, pp. 19-23 Elisabetta Sirgiovanni, “Riduzionismo in un’ottica pluralista: riflessioni epistemologiche sulla spiegazione neuroscientifica in psichiatria”, «atque», 15 n.s., 2014, pp. 65-92 Luigi Solano, “Elaborazione affettiva e salute”, «atque», 17 n.s., 2015, pp. 169-197 Umberto Soncini, “Fenomenologia e psicologia”, «atque», 6, 1992, pp. 81-106 Davide Sparti, “Tea for two. L’ironia nel jazz di Thelonious Monk”, «atque», 2 n.s., 2007, pp. 175- 174 Paolo Spinicci, “Immaginazione e percezione nell’esperienza pittorica”, «atque», 14 n.s., 2014, pp. 109-128 Giovanni Stanghellini, “Percorsi psicopatologici. La disforia e il tragico”, «atque», 5, 1992, pp. 155-168 Giovanni Stanghellini, “Il sé vulnerabile”, «atque», 25-26, 2002, pp. 199-218 Giovanni Stanghellini, “Per una psicoterapia fenomenologica”, «atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 113-122 Giovanni Stanghellini e Alessandra Ambrosini, “Karl Jaspers. Il progetto di chiarificazione dell’esistenza: alle sorgenti della cura di sé”, «atque», 10, 2012, 225-237

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Giovanni Stanghellini e Milena Mancini, “La dialettica della volontà e dell’involontario”, «atque», 21 n.s., 2017, pp. 157-170 Jean Starobinski, “Macchine e passioni. Il modello di Galeno”, «atque», 17, 1998, pp. 21-30 Luca Taddio, “Sulla resistenza delle cose”, «atque», 18 n.s., 2016, pp. 35-56 Silvano Tagliagambe, “Evento, confine, alterità”, «atque», 7, 1993, pp. 11-44 Silvano Tagliagambe, “I presupposti dell’anarchismo epistemologico di Paul K. Feyerabend”, «atque», 10, 1994, pp. 53-76 Silvano Tagliagambe, “Creatività”, «atque», 12, 1995, pp. 25-46 Silvano Tagliagambe, “L’identità è il destino dell’uomo”, «atque», 16, 1997, pp. 93126 Silvano Tagliagambe, “Empatia e rappresentazione della conoscenza”, «atque», 25-26, 2002, pp. 35-72 Silvano Tagliagambe, “Inconscio e conscio in Dostoevskij”, «atque», 27-28, 2003, pp. 17-64 Silvano Tagliagambe, “Il presente e l’ontologia delle relazioni”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 17-68 Silvano Tagliagambe, “La vita è sogno”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 47-96 Silvano Tagliagambe, “La cura nello spazio intermedio tra il corpo e la psiche”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 167-216 Silvano Tagliagambe, “Livelli di emozioni”, «atque», 17 n.s., 2015, pp. 35-78 Silvano Tagliagambe, “Raskol, logica del diavolo: il risentimento in Dostoevskij”, «atque», 19 n.s., 2016, pp. 35-79 Silvano Tagliagambe, “Il coraggio (e il bisogno) di regredire. Dalla semantica alla fonetica, dal significato al puro e semplice suono delle parole”, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 177-208 Silvano Tagliagambe, “La metamorfosi estrema del corpo: i trapianti e l’intruso”, «atque», 24 n.s., 2019, pp. 85-115 Silvano Tagliagambe, “ Ulterior…mente: l’empatia e il mito della prospettiva internalista”, «atque», 25 n.s., 2019, pp. 39-76 Silvano Tagliagambe, “La pandemia ha il volto di Amleto”, «atque», 26-27 n.s., 2020, pp. 19-51 Silvano Tagliagambe, “Musica, parola, gesto: lo ‘sguardo attraverso’”, «atque», 2829 n.s., 2021, pp. 137-178 Salvatore Tedesco, “Il progetto di una morfologia plastica”, «atque», 24 n.s., 2019, pp. 47-61 Filippo Tempia, “Neuroscienze della volontà e della decisione”, «atque», 21 n.s., 2017, pp. 45-67 Ines Testoni, “Paura della morte e anoressia. Mistica del digiuno tra Caterina Benincasa e Simone Weil”, «atque», 23-24, 2001, pp. 59-72 Stefano Tognozzi, “I molti problemi insoluti della percezione che rivolve i problemi”, «atque», 4, 1991, pp. 109-128

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Gabriele Tomasi, “Asimmetrie che contano. Wittgenstein sul dolore, la prima persona e le altre menti”, «atque», 23 n.s., 2018, pp. 47-81 Stefano Tomelleri, “Il risentimento e il desiderio mimetico. A partire da René Girard”, «atque», 19 n.s., 2016, pp. 105-124 Monica Toselli e Paola Molina, “Il bambino davanti allo specchio: l’interazione e la costruzione del sé”, «atque», 11, 1995, pp. 149-176 Enzo Vittorio Trapanese, “Il problema della definizione sociale di realtà”, «atque», 2, 1990, pp. 93-106 Enzo Vittorio Trapanese, “Le due metafore istitutive della psicoterapia di orientamento junghiano”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 165-196 Enzo Vittorio Trapanese, “La tirannide del presente”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 183-216 Enzo Vittorio Trapanese, “Sfondi della psicoterapia analitica”, «atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 59-98 Enzo Vittorio Trapanese, “Il disagio psichico e l’interpretazione del mondo sociale”, «atque», 15 n.s., 2014, pp. 241-276 Giuseppe Trautteur, “Distinzione e riflessione”, «atque», 16, 1997, pp. 127-142 Mario Trevi, “Configurazioni e metafore della psicologia e dell’analisi”, «atque», 1, 1990, pp. 29-48 Mario Trevi, “Inchiesta ingenua sulla natura della psicoterapia”, «atque», 6, 1992, pp. 15-30 Mario Trevi, “I modi manipolativi della psicoterapia”, «atque», 8, 1993, pp. 15-32 Francesco Saverio Trincia, “Riflessioni sul simbolo in, e oltre, Freud”, «atque», 1 n.s., 2006, pp. 61-86 Gianfranco Trippi, “Perdita di sé e perdita del mondo nell’esperienza psicotica”, «atque», 3, 1991, pp. 81-104 Gianfranco Trippi, “Shahrazàd e la psicoterapia”, «atque», 5, 1992, pp. 25-44 Gianfranco Trippi, “Lo specchio delle brame. L’io e il soggetto agli esordi della teoria lacaniana”, «atque», 9, 1994, pp. 101-126 Antonino Trizzino, “Empatia e introiezione”, «atque», 25-26, 2002, pp. 153- 170 Antonino Trizzino, “La dimora estranea. Note su Freud e Tausk”, «atque», 27-28, 2003, pp. 139-158 Antonino Trizzino, “Morire dal ridere. Quattro figure del Comico”, «atque», 2 n.s., 2007, pp. 79-92 Antonino Trizzino, “Tempo in abbandono”, «atque», 3-4 n.s., 2008, pp. 241-256 Antonino Trizzino, “La fisica dell’immagine. Sguardo anatomico e sguardo poetico”, «atque», 14 n.s., 2014, pp. 129-148 Antonino Trizzino, “La macchina morbida. Androidi, emozioni e altri oggetti non identificati nella fantascienza di Philip K. Dick”, «atque», 17 n.s., 2015, pp. 243262 Antonino Trizzino, “Bartleby o l’opacità. L’uomo segreto nella letteratura americana”, «atque», 18 n.s., 2016, pp. 219-236

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Antonino Trizzino, “Robert Walser. L’invenzione del silenzio”, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 209-228 Antonino Trizzino, “Soglia Lubitz. Manovre di discesa controllata”, «atque», 22 n.s., 2018, pp. 109-125 Antonino Trizzino, “L’occhio vivente. Empatia e biologia”, «atque», 25 n.s., 2019, pp. 207-221 Antonino Trizzino, “Glossario di un lettore”, «atque», 28-29 n.s., 2021, pp. 257-271 Masanori Tsukamoto, “Gradi del disegno. Per una poetica del sogno in Paul Valéry”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 161-182 Ernst Tugendhat, “Il problema dell’autodeterminazione: Freud, Hegel, Kierkegaard”, «atque», 14-15, 1996, pp. 231-260 Carlo Tullio-Altan, “Delirio e esperienza simbolica”, «atque», 3, 1991, pp. 23-32 Maria Consuelo Ugolini, “Ricerca di senso e psicoanalisi in Wittgenstein”, «atque», 5, 1992, pp. 111-130 Andrea Vaccaro, “Il sapere nel gioco linguistico della cura. Un excursus attraverso l’opera di Freud”, «atque», 8, 1993, pp. 89-104 Francesco Valagussa, “L’auctoritas dai mille volti. L’assenza di volto dell’autorità contemporanea”, «atque», 26-27 n.s., 2020, pp. 53-67 Italo Valent, “L’identità come relazione”, «atque», 11, 1995, pp. 53-72 Italo Valent, “La coscienza secondo Hegel”, «atque», 16, 1997, pp. 143-170 Paul Valéry, “Frammenti del Cahier Somnia”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 21-34 Margherita Vannoni, “La personalità dell’analista come principale strumento del lavoro analitico. Ma quale formazione?”, «atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 249-258 Luca Vanzago, “Le relazioni naturali. Il relazionismo di Whitehead e il problema dell’intenzionalità”, «atque», 11 n.s., 2012, pp. 19-34 Luca Vanzago, “Sulla genesi della partizione tra interiorità ed esteriorità. Analisi fenomenologiche”, «atque», 23 n.s., 2018, pp. 17-29 Mario Vegetti, “La psicopatologia delle passioni nella medicina antica”, «atque», 17, 1998, pp. 7-20 Mario Vegetti, “Fra Platone e Galeno: curare il corpo attraverso l’anima, o l’anima attraverso il corpo?”, «atque», 16 n.s., 2015, pp. 75-87 Francesco Vitale, “Flatus Vocis. Voce e scrittura tra Jacques Derrida e Giorgio Agamben”, «atque», 20 n.s., 2017, pp. 63-80 Sergio Vitale, “Una macchia di inchiostro di Freud. Note sulla conoscenza del­ l’evento”, «atque», 1, 1990, pp. 13-28 Sergio Vitale, “Estetica dell’analisi”, «atque», 2, 1990, pp. 61-78 Sergio Vitale, “La coscienza della simultaneità”, «atque», 3, 1991, pp. 33-42 Sergio Vitale, “Percezione e identità. Osservazioni sull’accadere del soggetto”, «atque», 4, 1991, pp. 25-36 Sergio Vitale, “ll sentimento della ricorsività. Sulla possibilità del cambiamento attraverso la filosofia e la psicoterapia”, «atque», 6, 1992, pp. 185-206

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Indice degli articoli di “atque” 1990-2021 Sergio Vitale, “Distanze”, «atque», 7, 1993, pp. 94-106 Giuseppe Vitiello, “Dissipazione e coscienza”, «atque», 16, 1997, pp. 171-198 Giuseppe Vitiello, “Essere nel mondo: io e il mio doppio”, «atque», 6-7 n.s., 2009, pp. 157-178 Giuseppe Vitiello, “Opacità del mondo e conoscenza”, «atque», 18 n.s., 2016, pp. 17-32 Giuseppe Vitiello, “La verità oltre la soglia”, «atque», 22 n.s., 2018, pp. 17-32 Giuseppe Vitiello, “Simmetrie e metamorfosi”, «atque», 24 n.s., 2019, pp. 139-160 Vincenzo Vitiello, “Violenza e menzogna dell’autocoscienza”, «atque», 11, 1995, pp. 25-44 Vincenzo Vitiello, “Devi, non sei. Sulla soglia del possibile: la Legge”, «atque», 22 n.s., 2018, pp. 59-69 Alberto Voltolini, “Varietà di esperienza percettiva: ‘vedere-in’ vs. scambiare qualcosa per un’altra”, «atque», 5 n.s., 2008, pp. 103-116 Benedetta Zaccarello, “Viatico après coup. Note di accompagnamento alla traduzione [di P. Valéry] ”, «atque», 8-9 n.s., 2011, pp. 35-40 Andrea Zhok, “Per un concetto formale di libertà”, «atque», 14-15, 1996, pp. 209230 Andrea Zhok, “Passione e contraddizione materiale: un modello”, «atque», 17, 1998, pp. 163-196

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