Lukas den Svarte
Il tocco del destino
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Prefazione minima ad opera di me medesimo, l’autore
Io le detesto, le prefazioni. Se c’è qualcosa che detesto in un libro - e che di conseguenza, leggendo, salto a pié pari - è la prefazione. Intendiamoci, senza nulla togliere a quello che c’è scritto dentro, né tantomeno al suo autore. Ma una prefazione, a mio avviso, uno dovrebbe andare a cercarla dopo aver letto il libro, se la vuole capire e, soprattutto, se non vuole rovinarsi quel poco di sorprese che qualsiasi testo, bello o brutto che sia, gli riserva. Altrimenti cominci la lettura già sapendo che Ottilia e Edoardo si innamorano e che qualcuno, verso la fine, deve tirare le stecche. Questa è la prima ragione. La seconda, e di certo non per importanza, è che qualunque scrittore o intellettuale abbastanza rinomato da potersi permettere di stendere una prefazione non ha tuttavia alcun diritto, dovere o filantropica missione di spiegare al lettore come interpretare il libro che ha in mano. Ti reputo, caro lettore, abbastanza intelligente per poterti fare da solo un’opinione tua e personale su quel che ti passa riga per riga davanti agli occhi. E anche se non lo fossi, il libro ora ce l’hai tu, acconsento tranquillamente a dartelo in pasto. E’ giusto che tu ne faccia quello che vuoi. E con questa fanno due. Aggiungo che non so quale fosse il mio intento preciso quando ho cominciato a scrivere questo romanzo. Non so dirlo con precisione nemmeno adesso e, onestamente, non mi pongo il problema. Ne avevo tanti, di intenti, per cui ognuno colga pure quello che preferisce. Una sola regola: chi cerchi di trovare uno scopo in questa narrazione sarà perseguito a termini di legge; chi cerchi di trovare una morale verrà bandito; chi di trovare un intreccio fucilato. Se l’ha detto Mark Twain, visto che sono di moda le citazioni, lasciatelo dire anche a me. Mi dicono che è necessaria un’ultima cosa: qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è - si fa solo per dire - puramente casuale.
Lukas den Svarte
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AVVERTENZA: Questo libro contiene esperimenti linguistici e culturali gravemente scorretti, quali “lui” e “lei” in funzione di soggetto, neologismi non autorizzati e strutture grammaticali volutamente forzate. Dopo non dire che non ti avevo avvisato.
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Il tocco del destino
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Se ti ho vista ridere nell’ombra, tinger di bianco la distesa sgombra, forse ho scorto dietro all’assenzio il timido sanguigno nettare che ha sposato il mio silenzio. T’ho inseguita per i ciechi vicoli, nel cieco buio con gli ammennicoli del tempo spio il tuo destino. Il timido sanguigno nettare ha irrorato il mio giardino. Per un minuto, un altro ancora, un soffio solo per l’ultima ora in quest’abisso da cui rimiro il timido sanguigno nettare che ha spezzato il mio respiro. Ascolterò e porgerò la guancia, muto farò l’ago della bilancia e al passar feroce delle resse il timido sanguigno nettare ha incendiato ogni mia messe. Dovrò vederti ridere nell’ombra, tinger di bianco la distesa sgombra; questo terrore brucia com’assenzio il timido sanguigno nettare che ha sposato il mio silenzio.
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1- Primo giorno, Giovedì Pioggerellina sparuta e pungente che graffia i finestrini, le gocce che scivolano lungo i grandi cartelli blu e vi si aggrappano stoicamente, condannate a cadere quando altre le seguiranno e le spingeranno da presso. Alcune già si schiantano al suolo, inascoltate; i freni stridono troppo forte. A ben pensarci, danno più fastidio delle unghie sulla lavagna, ma ci si fa l’abitudine. Uno sbuffo e un ultimo strattone. Così si presentavano le consuete otto e dieci di un mattino uggioso. Lilli era già in piedi da una manciata di secondi e aspettava pazientemente che una ressa di studenti pigiati come sardine sfilassero attraverso il corridoio del vagone per guadagnarsi l’uscita. Alla prima occasione, si infilò in un varco; il tizio che si era attardato volle nascondere la sua mancanza con un sorriso cortese, come a dire che l’aveva fatta passare per educazione, ma lei nemmeno lo notò. Scese i gradini del treno con le mani già al sicuro nelle tasche del giubbottino di pelle e il mento abbassato a tener piantata la sciarpa (“sciarpetta leggera”, in verità, da non confondere con un foulard) contro la clavicola. Fece un paio di metri prima di svoltare, gettare un’occhiata a sinistra e attraversare direttamente i primi binari, con quella specie di ruggine che si appiccicava alla suola delle scarpe di tela. L’ombrellino dondolò come un pendolo sulla borsa rimpinzata all’inverosimile e Lilli si sentì impacciata: non era tempo da nubifragi, non avrebbe dovuto neppure tirarlo fuori. Rimetterlo dove prima, tuttavia, sarebbe stata un’impresa decisamente complessa. Si voltò per controllare nuovamente nella moltitudine che avanzava, fatta di cappottini, cartelle e jeans scoloriti, senza tuttavia riconoscere qualcuno. Certo, se fosse stata dieci centimetri più alta ci avrebbe visto anche meglio, ma non se la prese per questo: quel pensiero innocuo le avrebbe fatto compagnia sino alla facoltà. Si accontentò, quindi, accelerando il passo. Un fischio assordante le confermò però i suoi timori. Un altro treno in arrivo, ovviamente sull’ultimo binario, che faceva baccano per scoraggiare chi avesse avuto la tentazione di attraversare anche quello. Uno a zero per quelli che avevano scelto il sottopassaggio fin da subito, si disse, mentre si dirigeva verso le scale, solo per trovarvi una folla di gente più sveglia di lei, già in attesa da preziosi secondi. Teste ciondolanti a non finire che ondeggiavano da destra a sinistra: una specie di balletto per novelli mostri di Frankenstein. C’era di che sentirsi scemi, mentre gli specialisti dei cento metri su stazione già si erano guadagnati l’uscita,
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buttandosi in avanti di buona lena prima che il fatidico treno da “non-si-sa-dove” delle “otto e qualcosa” potesse minacciarli. E invece lei stava lì, a scendere le scale un gradino alla volta assieme a tutti gli altri, come sconsolati ubriachi di caffè fatto con la moka, a rimbalzare debolmente da una parte e dall’altra, sfiorando giacche, capelli, gomiti e mani affondate nelle tasche solo per metà. Sprofondando gradualmente in un chiacchiericcio da taverna amplificato e condensato in un tunnel imbiancato male. Non è niente, si sopporta; sempre con la stessa forza dell’abitudine. Ma se fosse stata dieci centimetri più alta, avrebbe visto oltre quel tamarro alla sua destra con la risata chiassosa e un canino brutto e storto. Chissà, magari dietro c’era qualcosa o qualcuno da guardare. Non che fosse bassa, sfatiamo subito questo mito. Per nulla. Solo, a qualcosa bisogna pur pensare e, contrariamente a molti altri, non riusciva a venir assorbita dall’università ventiquattr’ore su ventiquattro. La vita non si esauriva mica nello spazio di qualche corso noioso, altrimenti… Beh, altrimenti sarebbe stata come loro, per la gioia di mamma e papà. Ecco, questo è un modesto esempio di percorso mentale e associazione di pensiero che distraeva dal movimento ritmico delle gambe e dell’ombrellino. Seguendo questa falsa riga, quasi ogni mattina conduceva al pascolo la propria umile persona, sino ai verdi campi dell’ateneo (definizione tutta sua, per la quale prima o poi, aveva assicurato, si sarebbe fatta riconoscere i diritti d’autore). Ed è allo stesso modo che in quell’anonimo giorno raggiunse la sua comoda e asciutta aula. Prese posto accanto ad una ragazza riccia che salutò con aria solare, come si fa con una grande amica. Il fatto è che nemmeno sapeva come si chiamasse, ma aveva imparato la curiosa logica che porta, in ambienti come l’università, a fingersi amici di quello e quell’altra per riscuotere appunti e scambiare chiacchiere insulse sulle finalità del corso, sulle lezioni svolte e sul gatto in copertina del quaderno. Sono conseguenze ineluttabili e inalienabili, esattamente come quella di usare parole del genere, frutto insipido della lettura forzata, di testi d’esame scritti bestialmente male. Lilli si immerse a malapena sino alle caviglie in quei discorsi, con la solita aria di sufficienza e carenza di voglia. L’arrivo del professore le sembrò una liberazione. Effimera, lo sapeva, e se ne ricordò sempre meglio mano a mano che la spiegazione veniva portata avanti. Nel giro di dieci minuti, la penna era persa nell’intrecciare disegnini senza alcun significato negli angoli della pagina e la testa poggiava annoiata sulla mano. Un vago senso di intorpidimento prese a correrle lungo la linea del collo, drizzandole i capelli sulla nuca. La pioggia cadeva copiosamente, ora,
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e la si vedeva distintamente attraverso le finestre di fianco alle file di banchi. Poteva sentirla impattare contro le tegole, le grondaie e il cemento del cortile, al piano di sotto. Peggio che mai, tuttavia, sentiva il vento infiltrarsi fin nell’aula, attraverso l’unica finestra aperta che - guarda caso - era quella più vicina a lei. Resistette all’impulso di rimettersi la sciarpa attorno al collo solo perché si sarebbe sentita ridicola a farlo. Sarebbe bastato alzarsi, camminare sino alla finestra e chiuderla. Non avrebbe attirato l’attenzione in alcun modo e persino i ragazzi delle altre file l’avrebbero tacitamente ringraziata per questo. Peccato che all’estremità del lungo banco ci fosse un altro tizio seduto. Uno di quei quasi-ritardatari, entrato immediatamente dopo il professore, senza tuttavia dar segno di avere fretta. Si era seduto in silenzio ad una buona distanza da lei e aveva tirato fuori nulla più di una penna e un taccuino. Muto e indifferente allo spiffero, se ne stava rinvolto in una spessa giacca a vento arancione e grigia che somigliava più ad una tuta da sci, tanto pareva pesante. Lilli poteva vedere le goccioline ancora avvinghiate al tessuto sintetico delle maniche, le strisce scure che vi avevano lasciato colando via e la spruzzata d’acqua sul pavimento. Il cappuccio striminzito come una carcassa disidratata gli giaceva accartocciato sulle spalle; non doveva essergli servito a ripararsi granché dalla pioggia, ma ora della finestra aperta pareva non importargli niente. Lilli lo osservava senza un grande interesse: adesso aveva freddo, tutto il resto passava in secondo piano. Si protese verso di lui come meglio poté, bisbigliando qualcosa per attirare la sua attenzione. Quello nemmeno se ne accorse, intento a sfogliare qualche pagina imbrattata di appunti. Lilli quasi si sdraiò sul banco per riuscire a strappargli uno sguardo. Allungò un braccio verso di lui. «Scusa?» sussurrò nuovamente, e il giovane finalmente si voltò. Lilli non fece neanche in tempo a notare la sua prima espressione; il ragazzo si voltò di scatto verso di lei con una luce d’allarme negli occhi e saltò in piedi rumorosamente, senza trattenere una specie d’urlo. Lei rimbalzò di riflesso all’indietro, altrettanto sbigottita. Fissò velocemente il banco e i sedili per vedere se c’era qualcosa che avesse potuto scatenare una simile reazione, ma non notò niente. L’intera aula era piombata nel silenzio; i volti degli studenti e del professore guardavano tutti in direzione di quel ragazzo in piedi con la sgargiante giacca a vento. E di Lilli, di conseguenza. «La finestra…» riuscì a balbettare in qualche modo, tremante d’imbarazzo.
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Il giovane si voltò verso di essa, osservando il vetro messo per sbieco, bagnato, con la pioggia che tintinnava sul cornicione. Senza una parola, la chiuse e si rimise a sedere come se niente fosse. Il professore liquidò il tutto con una scrollata di spalla e un’espressione buffa, che strappò una risata viscida agli studenti in prima fila. Lilli mormorò uno “scusa” che non arrivò nemmeno alle proprie orecchie e tornò impacciata sul suo quaderno. La ragazza riccia le lanciò un’occhiata interrogativa. «Ma che è successo?» le domandò, con la bocca aperta nella sgradevole mescolanza di stupore e riso. «Ma cosa ne so, è saltato su come una cavalletta» rispose Lilli, gesticolando con la mani. «Sarà uno che ha paura delle donne» propose l’altra, e a quel punto chiusero la questione, scuotendo la testa senza speranza. La lezione non subì altre interruzioni, almeno da parte del professore. Lilli, invece, non riuscì a tenere il filo del discorso per tutto il tempo. Quell’avvenimento, così inaspettato e improvviso, l’aveva scombussolata. Di tanto in tanto guardava in direzione dello sconosciuto: ce n’erano a migliaia di ragazzi così, né belli né brutti, coi normalissimi capelli un po’ sparati per allergia al pettine di prima mattina e un paio di occhi scuri intrappolati in un’espressione leggermente incerta. Un ragazzo anonimo, esattamente come lei. Questa analogia con Lilli però non suscitò evidentemente la stessa curiosità in lui, che non si voltò nemmeno a considerarla. Sembrava del tutto indifferente a quanto era accaduto, come se fosse stata una cosa normalissima. Beh, così assurda non era, in fondo. Poteva semplicemente esser stato soprapensiero ed essersi preso uno spavento immotivato. Era quella quiete totalmente priva d’imbarazzo a metterla a disagio: un altro sarebbe diventato rosso in faccia, ci avrebbe riso sopra invano per rimediare alla brutta figura e magari avrebbe persino cominciato a parlottare tra sé. Lui no, un pezzo di ghiaccio. I lineamenti del suo viso si erano rilassati nel giro di un secondo, per non lasciare più spazio alla tensione. E quell’espressione sul viso quando quasi l’aveva sfiorato: le era sembrato terrorizzato, nel vero senso della parola. Paura delle donne? L’ipotesi non sembrava più così stupida. Era dell’idea di chiedergli alla fine dell’ora cosa gli fosse preso, ma il giovane si alzò dal suo posto con almeno dieci minuti d’anticipo e si avviò zitto zitto verso la porta. Lilli non si ricordava se l’aveva già visto a lezione. Probabilmente sì, anche se non ci aveva fatto caso. Era una di quelle facce che in qualche modo non sembrano distanti da quelle che si è abituati a vedere, su cui ci si può confondere
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facilmente. Per questa ragione, Lilli si sentì di poter asserire che sì, l’aveva già visto, quando magari non era affatto vero. Il resto della mattinata, comunque, fu sufficiente a farle dimenticare quel fuoriprogramma così imprevisto. 2- Ottavo giorno, Giovedì «Tanto non fai nulla, no?». Così aveva sentenziato quel brav’uomo di suo padre, con la gamba posata sul tavolo, la sigaretta tra le dita e un sorrisetto a sfottere sulle labbra sottili, incorniciate da un filo di barba. Bell’uomo. Secondo Freud sarà stato per via della sindrome di Elettra, ma a Lilli suo padre era sempre parso vicino all’ideale dell’uomo perfetto. Alto quanto basta, dritto come un fuso, senza ciccia sullo stomaco. Non erano tanto i caratteri del viso, che di particolare non avevano alcunché, quanto quello sguardo penetrante, sempre inchiodato in faccia alle persone con cui parlava. C’era chi si sentiva a disagio ad averlo di fronte, con quella sua aria perennemente sfrontata e brillante. Veniva da chiedersi, ogni volta, quando la sua bocca si sarebbe mutata in un’espressione maliziosa e avrebbe tirato fuori qualcosa di pungente e gratuito. Impeccabile sul lavoro, era in verità un gran bel pezzo di stronzo, consapevole di chi la gente credeva fosse e, di riflesso, di quello che gli permettevano di fare. Era in grado di sedurre una donna per venderle una collana, convincere un malcapitato che un certo orologio gli avrebbe aumentato il sex-appeal (si fidavano proprio perché lui stesso sembrava sempre in gran forma, l’uomo pienamente realizzato, una sorta di eterno libertino moderno) e costringere una figlia ad aiutarlo malvolentieri in negozio. Inutili i tentativi per dissuaderlo con le solite scuse, meno che mai con quella dello studio. Non era mica scemo, d’altronde; la conosceva bene, non se la sarebbe bevuta mai. Proprio per quello era inutile anche solo pensare di commuoverlo: significava solo divertirlo con un breve botta e risposta da cui sarebbe uscito inevitabilmente vincitore. Fu così, senza possibilità di ricorsi in appello, che Lilli si ritrovò confinata per l’intero pomeriggio nella gioielleria del padre. Grande, raffinata, con un arredamento lussuoso e una reputazione invidiabile: sapeva bene quante commesse avrebbero considerato lavorare lì dentro un colpo di fortuna; peccato che non si sarebbero trovate lì per stare al banco. Le vetrine andavano pulite, gli specchi lavati, i pavimenti passati con lo straccio bagnato. C’era poi quel carico di merce nuova da sistemare, nel retro. E il retro era l’esatto
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opposto di come si presentava la gioielleria. Una sorta di metà oscura, malvagia e incasinata, dove le pareti erano nascoste da montagne di scatole e scatolette, sacchetti di nylon, avanzi di carta da salumiere, briciole e polvere ovunque. Suo padre non si curava mai di riordinarlo: il suo lavoro era quello di vendere, non di pulire, diceva. Per quello andavano bene, guarda caso, Lilli o sua madre. La giovane la prese con filosofia, rassegnandosi a prendere in mano scopa e spazzola. Per entrare meglio nella parte, si era persino legata un grembiule in vita e un fazzoletto sulla testa; riusciva anche a portare i guanti di gomma per più di un minuto di fila. Vedendosi riflessa in qualche vetro opaco, le parve che avrebbe potuto benissimo assomigliare ad una donna di cinquant’anni prima. Era curioso accorgersi di come la cosa non era sgradita né a lei né al padre, che eppure non era mai stato un uomo all’antica. Non in quella prospettiva, almeno. Quel semplice fazzoletto e lo straccio che teneva in mano le sembravano conferirle un’aura di responsabilità. In quegli umili panni, paradossalmente, forse, si sentiva persino più bella. E questo le faceva acquisire sicurezza. Era sempre così: ogni volta che dava una mano nella gioielleria cominciava con titubanza e un mare di esitazioni. La prima vetrina richiedeva almeno tre quarti d’ora. Ci prendeva confidenza, quindi, e per la seconda servivano a dir tanto dieci minuti. Dopo un paio d’ore trascorse lì dentro, non c’era più nulla che la potesse fermare. Canticchiava, parlava a mitraglia, fracassava le scatole inutili con una carica di adrenalina degna di un berretto verde. Rovistava in ogni angolo, dunque, senza concedere scrupoli alla sua curiosità. E’ per questa ragione che si mise a spalancare ogni sportello del banco e a tirar fuori tutte le buste di pelle e i rotoli di velluto. D’un tratto, davanti all’ennesimo cassetto aperto, si irrigidì e cacciò un gridolino. «E questa?» domandò, infilando una mano all’interno. Pesava più di quello che si aspettava. Lucida, in ordine, carica. Una nove millimetri di cui non era mai venuta a conoscenza. «Rimettila al suo posto.» le intimò subito il padre, contrariato «Se passa qualcuno, ti vede anche da fuori». Lilli si rigirò la pistola nel palmo, sorpresa e un poco spaventata da quell’arma. «Non mi avevi detto che tenevi un affare del genere in negozio» obiettò, rimettendola con cura dove l’aveva presa. «Sono un gioielliere, tesoro.» si giustificò brevemente il padre «Non vorrai che non mi procuri qualcosa per difendermi dal primo rapinatore tossicodipendente che capita. Non lo senti il tg?». «Ma la sai usare?» domandò, sempre più incuriosita.
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«Meglio di lui, quasi certo. Il novanta per cento della gente là fuori non ne ha mai presa in mano una». Lilli alzò d’istinto lo sguardo verso la strada, perfettamente visibile da lì: un tratto di una via secondaria, ad una cinquantina di metri dalla piazza. Nella luce di una delle ultime giornate calde che concede l’autunno, vide soltanto un giovane che camminava, tirando dritto senza degnare di un’occhiata la gioielleria. Uno che si faceva i fatti suoi, insomma, con il suo giubbotto di pelle da bancarella sul mercato ed un paio di pantaloni, anch’essi da poco. Lilli ci mise un attimo a figurarselo con una giacca a vento arancione, nell’atto di scattare in piedi come una molla. «E’ lui» si lasciò scappare dalle labbra. «Lui chi?» chiese il padre, ma Lilli non gli rispose nemmeno; la ragazza si avviò piuttosto a passi svelti verso la porta e la aprì, fermandosi sulla soglia. Il ragazzo era già assai più avanti, ma si voltò nell’udire il “Din!” della porta che si apriva. Non smise di camminare, ma a Lilli diede l’idea che avesse rallentato l’andatura per fissarla, magari per riconoscerla. Tutto questo durò soltanto un paio di secondi, il tempo che il giovane ci mise per tornar a guardare di nuovo davanti a sé. Lilli realizzò in quel momento com’era conciata e si affrettò a rientrare, un poco impacciata, nella gioielleria. Improvvisamente, non era più tanto fiera del suo travestimento. Il padre, chino su uno scatolone aperto, la guardò con espressione interrogativa. «Quel tizio che è passato.» disse lei, indicando con un pollice la porta «Abita qui vicino?». «Boh.» l’altro fece spallucce, tornando al suo scatolone «Non l’ho nemmeno visto». «L’altra settimana, a lezione, gli ho fatto prendere uno spavento… O qualcosa del genere, credo». «Poveraccio!» esclamò il padre, divertito «Che gli hai fatto?». «Ma niente! Gli è preso un colpo quando gli ho chiesto di chiudere una finestra. Ha fatto anche una figura da fesso che non ti dico». «Povero diavolo, sarà uno che ha paura delle finestre.» abbozzò un sorriso, lanciando uno sguardo d’intesa alla figlia, che non ricambiò «Ma chi è, lo conosci?». «Non ne ho idea.» Lilli scosse piano il capo, portandosi un dito alle labbra, piegato come un giunco «Però mi è sembrato familiare. L’avrò visto in giro, o magari in stazione». «Probabile». Tacquero per un paio di minuti: suo padre aveva perso del tutto interesse alla cosa, ma lo stesso non valeva per Lilli. Con la fronte
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aggrottata, rimuginava in cerca di un nome o di un volto da associare a quello del giovane, senza successo. A tratti sentiva di aver la risposta sulla punta della lingua, ma un istante dopo era convinta del contrario: un sensazione strana, in qualche modo intrigante. «Domattina glielo chiedo» stabilì infine, risoluta. Suo padre sospirò pazientemente. «Che cosa e a chi?» fece, senza alzare gli occhi. «A quel tipo.» rispose lei con un sorriso «Voglio sapere chi è». Suo padre prese a strofinarsi la barba, gesto che, Lilli lo sapeva bene, significava spudorata indifferenza. «Di certo non somigli a tua madre.» borbottò quindi «A lei a momenti serve la delega per andare a comprarmi le sigarette». La ragazza gli fece la linguaccia, prima di trotterellargli incontro. «Infatti io sono il ritratto sputacchiato del mio babbino bello» e gli appioppò un sonoro bacio su una guancia. «Sì, ma almeno sia io che tua madre consideriamo la gente che suona il campanello.» ribatté il padre, indicando una signora in attesa fuori dalla porta «Vai ad aprire, sbrigati. Non c’è bisogno che tu diventi anche sorda, sei già una sciagura così come sei». 3- Nono giorno, Venerdì L’indomani, Lilli si alzò appositamente in anticipo e prese il treno che passava mezz’ora prima. Era una piccola sciocchezza senza importanza, ma bastava a vitalizzare l’intera giornata: non poteva permettersi di arrivare in ritardo, com’era già successo qualche volta. Quindi, nonostante il regionale fosse arrivato puntualmente a destinazione, Lilli si fece tutto il tragitto dalla stazione alla facoltà di buon passo, alternando rapide corsette ad un’andatura volutamente sostenuta, giusto per tenere i piedi per terra. Il tutto condito con risatine a denti stretti, tanto che chiunque ci avesse fatto caso l’avrebbe presa per una già alticcia di prima mattina. Ma, per fortuna, nessuna amica rompiscatole e nessun pretendente già arzillo a quell’ora le erano rimbalzati tra i piedi. A dirla tutta, sul binario era svicolata tra una persona e l’altra con una prontezza di riflessi da campionessa mondiale di slalom gigante. Aveva cambiato persino la sciarpetta, optando per una meno conosciuta, e se l’era tirata sin quasi alle orecchie; i capelli, poi, li aveva schiacciati sotto un berretto che era stato di sua madre. Mancavano gli occhiali da sole, certo, ma a quell’ora sarebbe sembrata scema o cieca, a metterseli. Saltò una pozzanghera tenace, causata da una specie di voragine proprio accanto alla porta della facoltà e dalle sparute gocce cadute
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durante la notte - un tempo particolarmente piovoso, quell’autunno e si slanciò su per le scale, con le guancie arrossate e il fiatone. Si tolse il berretto di testa non appena entrò nella penombra dell’aula, che aveva ancora i neon spenti e le tapparelle abbassate; così vuota, Lilli la vedeva sempre meglio come sala conferenze, piuttosto che aula universitaria. C’era un che di lugubre nell’atmosfera, anche se era probabilmente per via dell’umidità e della scarsità di luce. O ancor più per la sagoma di spalle che, ignara di tutto, restava china su qualcosa che sembrava un quaderno. Lilli se ne accorse solo dopo aver tirato un buon respiro. Con mano incerta, cercò gli interruttori e li schiacciò. La figura si voltò al contempo. L’espressione poco sveglia e la chioma ricciuta la costrinsero alla resa. Eccheccacchio, ma ci dormiva lì dentro? Più o meno questo si chiese, mentre quella che ormai si era eletta a sua compagna di banco alzava un braccio per farsi notare. Lilli non poté esimersi dall’avvicinarsi, salutare con il braccino piegato e la mano scossa da qualcosa di simile ad un improvviso attacco di Parkinson. Le si sedette accanto, badando di aver modo di potersi alzare a razzo in caso di necessità. L’altra provò ad attaccare bottone con le solite chiacchiere, ma stavolta Lilli tenne duro: no, non si sarebbe lasciata imprigionare in una ragnatela di discorsi noiosi e banali, solo per saziare un bisogno di socializzare con la prima che ti capita intorno. Glissò le sue domande, accennando solo a qualche rapido cenno del capo, così che la studentessa riccia desistesse sin da subito coi suoi tentativi. Quindi, come si fu zittita, le illustrò i dettagli del suo piano. E che piano: aspettare la prima occasione e avvicinarlo. “Neanche fosse bello” fu l’ultimo commento dell’altra; Lilli ci passò sopra con aria di superiorità: ragazzetta da poco, senza un minimo di temperamento. La escluse dai suoi propositi senza pensarci due volte. Si appoggiò al banco col gomito, voltandosi verso l’ingresso dell’aula. Lo tenne d’occhio costantemente, passando in rassegna tutti quelli che entravano, scrutando oltre le loro facce ridenti, oltre le capigliature improbabili e le pagine sportive piegate sotto l’ascella. Si alzò in piedi quando sfilarono quelli troppo alti, si sedette al contrario sul banco e allungò il collo come una giraffa nei momenti di ressa più concitata, ovvero gli ultimi tre o quattro minuti prima delle fatidiche otto e trenta. Alla fine, come arrivò il professore, si sedette con riluttanza, senza vietarsi di guardare indietro qualche altra volta; la ragazza riccia le rivolse un’occhiatina snob. Schifata, per esser più precisi. Lilli sentì il bisogno di mandarla al diavolo con un sorriso. La vedeva bene a strillare davanti alla televisione o ad un giornalino per quattordicenni, con gli occhi sgranati e le mani spiaccicate sulla
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faccia. C’era una ragione se sapeva di somigliare a suo padre, a un uomo, piuttosto che a sua madre: non era una questione di femminilità, quanto di intraprendenza. Era attiva, sveglia e coglieva ogni occasione per divertirsi un po’, anche con niente. Questo non era signorile: meglio apatica che scalmanata, come diceva il galateo. Millenni di lotta per l’emancipazione sessuale e ci si riduce così! Osservò annoiata il professore che si sbottonava il cappotto ed apriva la borsa, estraendo una mole paurosa di fogli e fotocopie. Lilli incrociò le braccia sul banco e vi ci adagiò sopra la testa. Ci mancò poco che finisse per addormentarsi: la voce quieta, un poco impastata del professore assomigliava ad una camomilla orale ogni giorno di più. Un rumore secco, quello della serratura mal assemblata della porta, le fece riaprire di scatto gli occhi. Le scarpe da ginnastica squittivano con le suole umide sul pavimento di pietra. Erano le otto e quarantacinque: il giovane sconosciuto, con la sua giacca a vento che gli arrivava sino alle dita, si sedette in fondo all’aula, sempre all’estremità di una fila di banchi, presso la finestra. Il più isolato possibile, avrebbe detto Lilli. Non dava l’idea di preoccuparsi per il proprio ritardo; chiaro come il sole che era una consuetudine. La ragazza memorizzò la sua posizione e tornò a guardare il professore. Avrebbe dovuto lottare sino alla fine della prima ora contro quella risata beffarda che minacciava di affiorarle sulle labbra. Ce la fece, eh. Della lezione non riuscì che a cogliere qualche frammento nei momenti di lucidità, però non rise. Si lasciò andare ad un sorrisone rilassato quando furono concessi cinque-dieci minuti di pausa e avvertì una sorta di scossa attraversarle le gambe. La conosceva, era quella che la colpiva ogni volta che voleva combinare qualche scherzo o affrontare qualcuno col solo intento di renderlo ridicolo. Era una puntina di vergogna conficcata sotto la pianta del piede che le faceva il solletico. Le chiuse istintivamente, le dita dei piedi, aprendo invece le mani sul banco. «Vado» disse alla riccia, che si limitò ad annuire senza distrarsi dagli appunti che stava rileggendo: rompiballe, pensò Lilli, così impari a voler fare amicizia con cani e porci. Si staccò dal banco come uno di quegli aerei militari col decollo verticale, puntando il ragazzo: non la guardava nemmeno. Di sicuro non aveva mangiato la foglia. Lilli passò in mezzo ad una folla di ragazze che tenevano il portafoglio stretto al seno e altri che si toglievano di tasca la fida bustina del tabacco. Lui stava fermo al suo posto; quelli della sua fila che volevano andar fuori a godersi la pausa caffè con annessa sigaretta avevano fatto il giro lungo, senza
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costringerlo ad alzarsi per farli passare. La ragazza planò oltre i sedili come un falco, atterrando con gli artigli di fronte al suo quaderno. Il giovane alzò il viso senza mostrarsi sorpreso. «Ehi, ciao» fece lei, guardandolo senza remore in volto. «Ciao» ribatté l’altro col tono di chi se l’aspettava, a dispetto delle apparenze. «Ho il sospetto» continuò Lilli, sollevando un dito per puntarglielo addosso a intermittenza «che noi due siamo paesani». Il giovane la guardò in silenzio, giocherellando con la penna, quindi abbassò il capo sul proprio quaderno. «Può darsi» mormorò, sorridendo appena. «Sei passato davanti alla gioielleria, ieri» e gli disse anche il nome della via, trionfante: lui adesso avrebbe dovuto arrendersi. Il giovane sollevò nuovamente il viso, socchiudendo gli occhi in un’espressione vaga, distratta. Non parve indeciso, per scostante che rimanesse. «E’ vero.» ammise, senza provare a nasconderlo «Ti sei persino affacciata alla porta, anche se…». «Ero un po’ impresentabile». «Non esagerare». «In versione casalinga!». «Ecco, in versione casalinga. Diciamo così» il giovane tornò ad abbassare la testa con un sorriso forzato: imbarazzo, ecco cosa riconobbe immediatamente la giovane. «Stavo facendo dei lavori, sai… Gli uomini non sono capaci di tenere in ordine una gioielleria». «Uh, beh, immagino vari da persona a persona» bofonchiò il giovane: cercava di scappare, ed era fin troppo visibile. Lei invece era frizzante, su di giri: le piaceva starsene in quella posizione di vantaggio, di poter esercitare una sorta di piccolo dominio su di uno sconosciuto. Non gli avrebbe concesso spazi sino a quando non avrebbe saputo quel che voleva. «Eppure non ricordo di averti mai visto.» insistette quindi «Dove abiti?». «Ah, dietro alle poste.» rispose brevemente, mimando qualcosa di indecifrabile con le dita «Ma non da molto. Un paio d’anni». «Quindi prima abitavi da un’altra parte». «Sì, ma fuori. Non in paese, voglio dire. C’ero stato da bambino, ma poi…» si interruppe, gesticolando con la «Ho vissuto quasi sempre da altre parti, insomma, come hai detto tu». «Cosa sei, una specie di artista girovago? O lavori in un circo?» domandò Lilli, ironica.
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«No, no, solo che non sto mai troppo fermo in un posto. Paura di mettere radici, credo». Aveva risposto con serietà, senza tuttavia offendersi. Lilli si sentì a disagio: mediamente, era lei che non capiva gli scherzi degli uomini, mentre qui sembrava accadere il contrario. «Ok, non volevo offendere nessuno…» ricominciò, scansando una ciocca di capelli dal viso. «No, ma non-». «Comunque, io sono Liliana.» tagliò breve, troncando la sua protesta sul nascere «Lilli per gli amici. Tu?». «Ah, io… Mi chiamo Enoch». «Enoch?» ripeté lei, stralunata. «Enoch.» il giovane allargò le braccia come chi non sa che altro dire «E’ un tantino fuori dal comune, lo so». «No, scusami.» fece prontamente lei «D’altronde non ci sono neanche molte “Liliana”, in giro. Oltretutto, i miei si chiamano Priamo e Addolorata, quindi potrà esserci anche Enoch, no?». «Beh… Io sono qua» ribatté lui, senza sapersi capacitare. «Avevo anche un fratellino che si chiamava Angelo.» riprese Lilli, pensosa «Già più diffuso, ma comunque abbastanza originale anche quello». «Avevi?» non si trattenne dal chiedere Enoch. «E’ morto a sei anni.» rispose con abitudine «Io ero più piccola , non me lo ricordo nemmeno granché». «Ah… Mi dispiace». «E per cosa? Mica è colpa tua.» gli concesse un altro sorriso, scrollando le spalle «Comunque mi ha fatto piacere conoscerti, Enoch. Sei un paesano acquisito da poco, ma pur sempre un paesano». Gli tese la mano, ma quello fece un cenno col capo in direzione della cattedra: il professore, rimessi in ordine i propri fogli, si apprestava a ricominciare; tutti erano di nuovo ai posti, in silenzio, eccetto lei. Con una smorfia allarmata, fece un rapido gesto di saluto e schizzò via dal banco, affrettandosi a tornare al proprio. 4- Tredicesimo giorno, Martedì Lilli rientrò in casa spossata: lasciò cadere la borsa sulla prima sedia libera e abbassò le braccia di botto, scuotendo le dita a vuoto. Era un martedì sera freddo, senza mezzi termini. Il vento che spazza i capelli, le dita intirizzite, il vagone del treno con il riscaldamento difettoso e, per finire, i vetri dell’automobile appannati per via della
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condensa. Tutto questo era solo un corollario della giornata. Lilli quell’anno odiava il martedì e l’avrebbe fatto anche con un clima più mite. Era la giornata maledetta che capita in media in nove anni accademici su dieci: sveglia presto, lezione alle otto e trenta, poi un’altra subito dopo e la seguente alle quattro e mezza del pomeriggio. Significava passare un’intera giornata da sola, fuori casa, con un carico di libri da studiare a tracolla giusto per aver qualcosa con cui passare il tempo. Lilli salutò la madre e si sedette sul tavolo, preparandosi a ricevere le solite domande. “Com’è andata?”, “Hai studiato?”, “Ce la fai a seguire?” e così avanti per almeno cinque minuti: aveva sviluppato una specie di dottrina zen per rispondere e, contemporaneamente, pensare ai fatti suoi. Inevitabilmente, di ritorno dal massacro, il pensiero andava subito all’indomani, con un’altra bella levataccia tanto per tirare su il morale. La conversazione oleosa con sua madre le scivolava addosso, grondando a terra dalle punte delle dita. Sbatté la palpebre ad un’altra domanda, quella che di solito era anche l’ultima. «Che lezioni hai domani?» le aveva chiesto, mestando il purè con un cucchiaio di legno. Lilli piegò il capo di lato, fulminata da una piccola premonizione. «Domani è…?» e guardò la madre, in attesa che completasse la sua frase. «Mercoledì.» disse quella, in tono ovvio «Se oggi era martedì!». La ragazza annuì fra sé, mordicchiandosi ripetutamente il labbro inferiore. «Mercoledì, giovedì e venerdì.» li contò sulle dita, facendosi seria «C’è di nuovo quel tizio». Non lo vedeva dallo scorso venerdì, il giorno in cui si era alzata per fare conoscenza. Il corso c’era quei tre giorni ed era l’unico che frequentassero entrambi, visto che non gli era mai capitato di trovarlo in un’altra aula. «Allora?». Lilli cascò dalle nuvole: sua madre doveva aver detto qualcosa che il suo cervello non era riuscito ad afferrare. La fissò senza capire, con quelle tre dita ancora aperte su una coscia. «Che tizio?» ripeté la donna, guardandola con sospetto. «Niente di particolare, un ragazzo di qui, forse un po’ schizzato.» rispose, riaprendo le mani con noncuranza «Ha un nome bizzarro, ma forse mi ha solo presa in giro. Anche se non sembrava…» e si perse con lo sguardo oltre i fornelli e il vapore che saliva verso la cappa.
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«Liliana, ma me lo dici come si chiama o no?» replicò sua madre, stizzita; uno stato d’animo che si vedeva anche troppo spesso in quella donna, se non si ritrovava davanti un’indicazione nitida e precisa, meglio ancora se scritta in caratteri belli grandi. «Massì, massì.» la ragazza sbuffò, saltando giù dal tavolo «Ha detto che si chiama Enoch». «Enoch?». «Enoch.» ribadì Lilli, di fronte allo sguardo scettico della madre «Così mi ha detto». «Ma cos’è, arabo?». «Naa, non mi è parso straniero, però mi ha detto che abita qui in paese solo da due anni.» infilò un dito nel purè, portandolo alla bocca «Magari è ebreo. Magari la Giordania è piena di gente che si chiama così». «Ma se è ebreo che c’entra la Giordania?» obiettò dubbiosa sua madre, che cominciava a perdere il filo. «La Giordania non è laggiù? Dove c’è Israele?». «E lo domandi a me? Sei tu quella che studia». Lilli non ricordava di essersi mai iscritta ad una facoltà di geografia o a qualche altra che poteva anche solo avvicinarcisi. Rubò un’altra ditata di purè e raccolse la sua borsa dalla sedia. «Stasera lo chiedo al babbo» decise, avviandosi verso la propria camera. «Lilli?» la richiamò sua madre; la ragazza alzò gli occhi al cielo, girandosi su sé stessa. «Che c’è, mamma?» chiese, facendo attenzione a non lasciar trasparire l’esasperazione che già le montava dentro. «Come mai ti interessa tanto quel ragazzo?». Mamma Addolorata era, come si è detto, del tutto dissimile dalla figlia. Se l’avesse vista alzarsi per quella stupidata nell’intervallo tra un’ora e l’altra, avrebbe usato quell’episodio per ricordarle a vita com’era facile perdere la faccia. Ogni cosa doveva esser vissuta e condivisa anche dentro le mura di casa, senza esclusioni, e decisamente i suoi argomenti preferiti riguardavano sempre i ragazzi che Lilli frequentava. In questo sapeva essere logorroica, quando ci si metteva d’impegno. «Non lo so.» rispose in tutta onestà lei «Ci ho attaccato bottone perché anche lui abita qui». «Non ti sarai mica innamorata, vero?» andò subito al punto, sparata come un centometrista «Guarda che io con tuo padre-». «Ma va!» la interruppe subito, sbottando «Possibile che tutte le volte devi saltar fuori con questi discorsi?».
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«Era un bel giovanotto, tuo padre.» continuò l’altra, imperterrita «Ci sono cascata con tutte le scarpe alla prima occhiata. Se avessi usato un po’ di cervello…». «Ci saresti cascata alla seconda. O alla terza, al massimo.» concluse da sé, buttandosi la borsa su una spalla e riprendendo a camminare verso la sua stanza «Ci ho parlato mezza volta». «E’ un bel giovanotto anche questo qua?». Lilli sbatté i piedi per terra, voltandosi ancora, stavolta a metà corridoio. «Mamma, né bello né brutto, va bene? Non mi interessa, stop» fece persino segno di cesura con le braccia, sballottando tutti i libri da una parte e dall’altra. «Quando dici “né bello né brutto” vuol dire che tanto brutto non lo trovi». Lilli strinse i pugni e alzò una muta preghiera per calmare i propri nervi. Un attimo dopo, rifiutandosi di ascoltare quel che continuava a dire sua madre, si infilò in camera e chiuse la porta. 5- Quattordicesimo giorno, Mercoledì Tamburellava con le dita sul quaderno aperto, rileggendo di tanto in tanto quelle due o tre righe che aveva scritto. Agli appunti ci stava rinunciando, dopo quelle mattinate di totale disinteresse. Quasi gli dispiaceva per il professore, che di tanto in tanto le sembrava soffermarsi a guardarla, come per controllare che non si distraesse. Impressioni comuni a tutti, perché uno che sta in piedi dietro ad una cattedra e ha davanti anche un centinaio di persone basta che guardi in una direzione perché un’ala intera si senta tirata in causa. Lilli premette la punta della penna sul foglio, allargandola sino a tracciare una spirale, poi una serie di cerchi concentrici, schizzando infine via in una linea retta che si arricciolava all’altro lato della pagina. Fissò il gruppetto di ragazze che si erano sedute accanto a lei; la riccia si era fatta trovare sin da subito al solito posto, ma troppo sprofondata in un dibattito sulla lezione precedente con un’altra studentessa, anch’essa riccia, perché la potesse considerare. Poco male, di certo non le faceva nascere alcuna gelosia. Si concesse persino un piccolo sorriso strafottente, nel vederla tutta occupata a far fingere di non notarla, mentre lei poteva fissarla quanto voleva. Dall’altra parte dell’aula, invece, stava Enoch. Non un saluto, niente di niente. Non riusciva a incrociare il suo sguardo neanche volendo, eppure ogni volta che gli dava le spalle se lo sentiva premuto addosso. Quegli occhi scuri e anonimi, forse un poco tristi, che le correvano lungo la
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spina dorsale e guardavano oltre i capelli, cogliendo forse il riflesso del sole su una guancia, un attimo prima che Lilli si voltasse e lui, col guizzo di un cobra, tornasse sul professore come se non si fosse mai distratto. La giovane avvertiva il maglione pizzicarle la pelle con sottili brividi ogni volta che si muoveva; se restava immobile, il sudore le si gelava addosso. Portò una mano alla tempia per scacciare quella sensazione incombente, quel miscuglio aspro di angoscia primitiva e razionalità offuscata che le bagnava la lingua, costringendola a deglutire con forza. Ritrasse le dita e scoprì di avere i polpastrelli umidi: aveva paura, una fifa matta che le annebbiava il cervello con rapide raffiche bianche, poi scure. Puntini freddi e chiazze indecise di colore le comparivano davanti allo sguardo. Immediatamente, pensò ad un attacco d’ansia: era stata un’adolescente anche lei, sapeva come funzionavano quegli affari e, finché poteva prenderli per tempo, non c’era motivo di indugiare. Raccolse alla svelta quaderno, penna e astuccio, cacciandoli alla rinfusa nella borsa e si alzò in piedi. Il sedile scattò all’indietro un po’ troppo fragorosamente e la fece avvampare. Con la mano si sistemava freneticamente i capelli, finendo per arruffarseli; le ragazze accanto le rivolsero uno sguardo preoccupato, che lei non ricambiò in alcun modo. Si tirò la borsa in spalla e per poco non perse l’equilibrio; si avviò quindi verso la porta, sbandando un poco nell’ultimo tratto. In bagno, si ritrovò con le mani appoggiate al lavandino e il viso fradicio che gocciolava l’acqua fredda con cui si era sciacquata. Inspirò ed espirò a pieni polmoni, alzando quindi il viso verso lo specchio coperto di adesivi. I contorni della sua faccia, conciata da sbatter via, apparivano poco nitidi, ma andavano pian piano stabilizzandosi. Si rinfrescò nuovamente le guancie, quindi il collo, adagiandosi i capelli sulle spalla. Cominciava a riacquistare il controllo di sé stessa, se ne accorgeva bene; mise le mani sotto l’acqua corrente e ce le tenne, bagnando i polsi, i palmi, il dorso, le dita una per una. Sospirò di sollievo dopo alcuni secondi, reclinando il capo all’indietro e chiudendo gli occhi. Li riaprì quando sentì bussare tre colpetti alla porta, che era sicura di aver lasciato aperta. Enoch stava in piedi sulla soglia, aspettando il suo permesso per entrare. L’espressione era la solita, priva di particolari sfumature; la giovane si immaginò che sarebbe ricaduta di nuovo in quella specie di crisi, ma il suo organismo non reagì in alcun modo. «Va tutto bene, Liliana?» domandò il ragazzo, restando appoggiato alla porta con una mano «Ti ho vista uscire barcollando».
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«Addirittura?» ribatté lei, sforzandosi di metterla sul ridere «No, davvero, non è stato niente. Un senso di vertigine, qualcosa così». Enoch annuì piano, dischiudendo le labbra con aria indecisa. «Forse un calo di zuccheri.» riprese la ragazza, pettinandosi alla meglio i capelli con le mani zuppe «O qualcosa che non andava a colazione.» si voltò a guardare il giovane, che era ancora dove prima «Ora sto già meglio, però. Non ci sono abituata, tutto qua». Enoch fece un cenno di assenso con più decisione, staccandosi dalla porta, ma non parve intenzionato ad allontanarsi. «Non saresti dovuto uscire per così poco.» lo ammonì, intanto che stabiliva che i capelli, quel giorno, li avrebbe tenuti legati «Torna pure su, non preoccuparti». «Veramente è quasi mezzogiorno.» Enoch ruotò il polso per controllare il proprio orologio, uno di quei Casio di plastica che si comprano con due spiccioli «Io esco sempre un po’ prima». La ragazza si voltò a guardarlo con aria un po’ spaesata: sarà stato quel momento di debolezza, ma le era venuto immediatamente in mente che fosse sceso soltanto per lei. «Non mi ero accorta che fosse così tardi.» si schermò «Allora è inutile che torni su. Hai fretta di andar via?». Enoch si fece più indeciso, più nervoso. «Non lo so, Liliana.» balbettò, facendo un passetto indietro «Forse». «Lilli. Ci sono più abituata. E cosa vuol dire “non lo so?”» si voltò a guardarlo, senza capire «Devi prendere il treno?». «No, no, no.» il tono di voce si affievolì gradualmente, sino a diventare un borbottio incomprensibile «Ma forse è meglio se vado lo stesso». «Ti spavento sino a questo punto?» la giovane rimase a fissarlo, con le mani posate sulla borsa. «Come?» si voltò di scatto verso di lei: adesso sì che sembrava spaventato, per non dire terrorizzato. «Di tanto in tanto hai queste reazioni un po’…» scosse la mano davanti al viso «Da schizzato. Facciamo solo un pezzo di strada assieme, se vuoi». Enoch sembrò a malapena rassicurato, come un bambino poco convinto. «Se voglio?» domandò, e Lilli notò come si stava torturando le dita di una mano. «Se lo vuoi, sì» e già non era più sicura di volerlo lei: gli aveva fatto quella proposta senza secondi fini, ma ora quel tipo gli pareva proprio suonato; per non parlare della crisi di poco prima che, anche
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se non era in grado dire perché, in qualche modo era certa che risalisse a lui. «Va bene, allora.» Enoch infilò le mani nella tasca del giaccone, senza mutare tuttavia nel proprio scetticismo «Si può fare». Qualcuno lassù doveva essersi mosso a pietà, che fosse per via dell’irrequieto Enoch o per soddisfare la curiosità di Lilli. I raggi del sole erano caldi, l’aria fresca un balsamo per i polmoni. L’anima fradicia della città esalava l’ultimo, prolungato respiro. L’erba nelle aiuole avrebbe esultato, senza più il peso dell’acqua che la schiacciava al suolo; gli alberi se la scrollavano di dosso, facendola scivolare, come con malizia, lungo i rami, il tronco, l’estremità delle foglie. Lilli si ritrovò a guardarli col naso per aria; d’altra parte, la conversazione stagnava. Si accorse, in quel silenzio, che da qualche parte, in alto tra le fronde, alcuni uccelli cantavano. Non piccioni, di quella era piena sino alla nausea. Uccellini, quindi presumibilmente piccoli e degni di questo nome. Passeri, forse: eccetto i pettirossi, le venivano in mente sempre e solo quelli. Mica faceva “l’ornitologica”. «Si dice ornitologica, no?» domandò all’altro: se non altro, avrebbe attaccato discorso. «Come?» fece lui, rialzando la testa: sembrava esser rimasto immerso in chissà quali pensieri sino ad allora, con le mani nelle tasche e il viso mezzo sprofondato nel bavero del giaccone. «Sì, gli appassionati di uccelli.» e indicò gli alberi «Si chiamano ornitologici, no? O ornitologichi…». «Penso che si dica ornitologi.» rispose Enoch, sempre con quell’aria confusa «Senza il “ci” in fondo». Lilli parve altrettanto dubbiosa e persa in qualche altro angoscioso dilemma. Si pizzicò un labbro con le dita, socchiudendo gli occhi e fissando il vuoto; Enoch la fissò con una certa preoccupazione. Magari pensando che fossero gli strascichi di quella specie di capogiro di poco prima. «Ma scusa.» riprese invece la ragazza «Allora quegli animali brutti, ma proprio orrendi… Quelli che sembrano una via di mezzo tra un castoro e un papero». «Ornitorinchi» disse il giovane, accennando ad un sorriso. «Ornitorinchi, sì!» concordò lei, facendo schioccare le dita; un attimo dopo si coprì la bocca con una mano, nascondendo una risatina «Che cretina, gli ornitorinchi…». Enoch non ribatté, abbassando lo sguardo sul selciato e sulla punta delle proprie scarpe. «E’ che avevo fatto caso agli uccelli. E’ strano sentirli cantare, in questo mese» ricominciò, guardando le piante.
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«Non ci ho mai fatto caso» confessò l’altro, alzando anch’egli il viso. «Beh, neanch’io. Solo, gli uccelli cantano a primavera, giusto?» mimò qualcosa di vago con le mani «Cioè, magari ora passa un ornitologo e mi dice che sono ignorante come una capra». «O un ornitorinco» commentò Enoch. Lilli ci fece una risata sopra. Del tutto gratuita, ma era già qualcosa vedere che quel tizio era vivo, anche se un tantino spento. Spento o fulminato. In qualche modo, era riuscita a sciogliergli la lingua e non gli avrebbe più permesso di riannodarsela dietro ai denti «Certo che fa strano che uno non ci badi. Siamo sempre qui.» e gettò un’occhiata intorno «Ci fossero degli scoiattoli, scommetto che li noterebbero tutti». «E’ un po’ difficile immaginarsi gli scoiattoli sui pini marittimi». «Magari da qualche parte ci sono. Non qui, ma da qualche altra parte.» Lilli fece spallucce con aria innocente «Una volta li ho visti. In amore, oltretutto. Corrono su e giù come trottole.» e mimò il gesto con l’indice «Trr trr. Infoiati a mille. Ne ho anche preso uno in mano. Morbido morbido, sembra un peluche, solo che è caldo, ha le zampette, il musino…» si voltò verso Enoch, che ascoltava con aria perplessa il suo monologo «Ne hai mai preso in mano uno?». «No». Lo disse con una freddezza ed un distacco che riuscì a troncarle il fiato. Non seppe dire se l’aveva seccato col suo atteggiamento infantile o se aveva pronunciato le parole sbagliate. Enoch si era fatto scuro in viso per un attimo, solo per tornare ad assumere la sua consueta espressione dopo appena un paio di secondi. «Ti stanno antipatici?» le venne così, d’un fiato, senza il bisogno di pensarci su. «Chi?». «Gli scoiattoli» chiarì Lilli. «No, assolutamente no.» Enoch la guardò incuriosito «Ho solo detto che non ne ho mai preso uno in mano». «E non ti piacerebbe farlo?» chiese, come se fosse una cosa possibile in quel momento, come se potessero scovare, per primi, gli scoiattoli su quei pini marittimi. «Non ci penso nemmeno». Enoch sorrideva debolmente mentre lo diceva; a malincuore, pareva, ed allo stesso tempo sprezzante di sé. Una caricatura che si altalenava da indecisioni evidenti, persino patetiche, sino a secche smentite. Combatteva, ad ogni frase, contro un incombente senso di vergogna e di paura. Che poi sono la stessa cosa.
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Lilli aveva avuto a che fare con persone timide; con persone scontrose, anche, con qualche asociale militante. Proprio per questo Enoch sfuggiva ad ogni suoi tentativo di catalogazione. Non si impappinava da solo, non mostrava alcuna esitazione nel dire ciò che pensasse. Se aveva evitato la sua compagnia, adesso non la rifiutava. Tuttavia, restava a mezzo chilometro da lei: era lì accanto, ma era distante. Non come una ragazza può rinfacciare al fidanzato che la trascura, niente di tutto questo; Enoch, semplicemente, dava l’idea di vivere per conto suo, in un suo mondo, diverso per percezioni e prospettive, da quello di chiunque altro. La prima risposta che Lilli riuscì a darsi per quell’atteggiamento fu l’autismo, e la fece sentire imbarazzata. Volle accertarsene. «Sei uno di quelli tutto casa e università, tu?» cominciò, guardandolo bene in faccia. «Ah… No, non credo.» rispose quello, dopo un attimo di sorpresa «Almeno, non penso. Cioè, studio, eh, ma… Non ho fretta di finire». Lilli fu tentata di mordersi la lingua: scema, aveva anche notato che Enoch si portava solo una sorta di taccuino, a lezione. I cervelloni, e ne conosceva, avevano due comportamenti: o passavano l’intera ora chini sul quaderno a prendere appunti o direttamente tenevano gli occhi incollati sul professore e scrivevano lo stesso. «Allora avrai qualche passione.» tentò quindi «Un passatempo, qualcosa così». Enoch seguitò a guardarlo senza capire e, stavolta, senza nemmeno parlare. «Voglio dire: magari…» due secondi di silenzio nervoso «Disegni! O scrivi poesie. Dipingi miniature, sei appassionato di fotografia…». «No» rispose confuso il giovane. «Motori? Computer?». Enoch scosse il capo, fermandosi in mezzo alla piazza per cercare di raccapezzarsi. «Nessuna passione?» insistette Lilli, che adesso si accorgeva di essere avvampata: autista da poco; anzi, da niente. «No.» stavolta Enoch sembrò alleggerirsi, concedendosi quella che sarebbe potuta anche diventare una piccola risata «Perché? Tu che passioni hai?». Lilli si bloccò e strinse le labbra. Con fare evasivo, cominciò a giocherellare con la sciarpetta. Doveva farsi venire qualcosa in mente. «Colllllll…eziono penne» farfugliò, rialzando la testa. «Ah.» Enoch annuì col capo «Stilografiche e penne firmate?».
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«No!» si affrettò a rispondere «Cioè, sì, anche quelle, se capita. Però…» risatina mezzo isterica «Non ho un patrimonio di penne tenuto in pregiate scatole d’abete. No, io… Saccheggio le cartolerie». «Saccheggi le cartolerie?» ripeté lui. «Sì, sai, penne, lapis colorati, evidenziatori, quelli lì. Anche i quaderni: grossi, piccoli, ad anelli, a quadretti…». Enoch si lasciò andare a quella piccola risata che si era affacciata prima. «Tutte le ragazze, allora, collezionano penne.» disse «Si portano tutte un arsenale di pennarellini, in quegli astucci. Me ne accorgo anch’io» che sembrava voler dire “se ne accorge persino l’ultimo degli imbecilli” o qualcosa del genere. Lilli si rese conto di essersi fregata da sola. «Io di più» provò a ribattere, ma Enoch proprio non le diede spago. «Anche questa l’ho già sentita.» si tolse finalmente una mano di tasca, accarezzandosi la barba rada «E poi sarei io quello strano, eh?». «Io non ho detto che sei strano». «Oh, ma l’hai pensato. E comunque hai detto che ho reazioni da schizzato». «Ehi, non voleva mica essere offensivo». «Non ho mai detto che lo fosse». Lilli si rassegnò ad aver perso la partita. Si fece il resto della strada muta come un pesce, senza più provocare Enoch. La curiosità avrebbe dovuto metterla da parte, per non sembrare indiscreta più di quanto non avesse già fatto. Guardò le insegne delle copisterie, piuttosto, e i banconi delle pizzerie che venivano passati con uno strofinaccio in attesa dell’ora di pranzo; Enoch fece lo stesso. Alla svolta familiare, quella in cui si prende sempre a destra, Lilli si ritrovò da sola, avanti di un paio di metri rispetto a lui. Si voltò velocemente, trovando il giovane fermo all’incrocio e tentennante. «Che c’è?» gli domandò. «Io non vado da quella parte.» rispose lui, restando dove si trovava e facendo un cenno del capo verso una stradina stretta, pigiata tra le case «Devo andare di qua». «Ma la stazione è di là» Lilli piegò il pollice verso il vai e vieni che si intrecciava in strada. Enoch girò la punta del piede sull’asfalto, segnale che la ragazza riconobbe immediatamente. «Non sono venuto in treno.» spiegò, e parve dispiaciuto come uno che non sa come scusarsi ma ci prova lo stesso «Ho lasciato la macchina qua vicino».
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Lilli ne rimase esterrefatta. «Ma tu sei matto!» esclamò con allegria incredula «Vuoi dire che sei venuto fin qui in macchina?». «Non ho mai preso il treno.» continuò Enoch, sempre con quel tono «Ci vengo in macchina tutte le mattine». La ragazza restò ferma e senza parole. Alla fine piegò il capo impressionata, tornando indietro quanto bastava per raggiungerlo. «Il treno ti converrebbe molto di più.» disse «Dai, anche solo per la rottura del viaggio, se non vogliamo parlare della benzina. Quanti chilometri ci saranno?». «Eh.» fece un passo indietro, ritrovandosi con la schiena appoggiata ad una parete «Un po’». «Con un traffico che sembra di essere a Manhattan. Lo vedo dal finestrino del treno.» fece una pausa, guardandosi intorno «Hai detto che è qui vicina?». Enoch alzò un braccio, facendo un gesto indefinito che poteva assomigliare a un sì. «Vuoi che ti accompagni?». Di nuovo impacciato, confuso, il giovane svicolò via di un altro passetto: a più riprese guardò verso la viuzza deserta che avrebbe dovuto imboccare. «Se non ti secca» precisò Lilli, percependo la sua agitazione. «E’ che devi andare alla stazione, tu» balbettò Enoch. «Va beh, posso allungare il tragitto di cinquecento metri. Altrimenti non te lo direi». «Se ci tieni, d’accordo». «Se ci tieni tu, semmai». «Non voglio trascinarti fino alla mia macchina per forza». «Ma non mi stai forzando!». «Sì, ma se la metti-». «Io non metto niente. Io sto-». «Ho capito, ma se la me-». «Ti sto infastidendo?». Enoch stavolta non replicò, aggrottando la fronte. «Lo so, ho il mio modo di fare e un mucchio di volte non è bello.» disse Lilli, approfittando dell’impasse «Ma non c’è problema, per me, davvero. Facciamo due passi, tanto per staccare dalla routine». «Ok, ok, caduta la discussione, stop.» lui infilò una mano nella tasca dei pantaloni, estraendo un mazzetto di chiavi e girandosele attorno a un dito «Facciamo alla svelta». «Così ti liberi prima di me?» lo punzecchiò ancora Lilli; non che fosse veramente indignata, però non le riusciva di lasciarle passare,
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se poteva rispondere con un po’ di veleno: eredità paterna, si diceva da sé. «Così arrivi prima in stazione» tagliò corto Enoch, facendo posto ad uno sprazzo di esasperazione; Lilli se la rise sotto i baffi. C’era una ragione precisa per cui, in fin dei conti, aveva insistito per accompagnarlo. Lilli non era una ragazza con ambizioni colossali: non era interessata a diventare una donna in carriera o una rispettata professionista; d’altra parte, non era nemmeno una di quelle che, da quando ricevono il primo bambolotto, pensano soltanto a come sarà il loro futuro da mamme. No, lei sapeva di essere meno pretenziosa e, con questo, più banale. Le andava bene continuare a studiare non per amore del sapere o per un viscerale attaccamento alla sua materia, ma soltanto per trovare, senza urgenza improvvisa, un lavoro tranquillo e, con esso, un luogo tranquillo dove vivere. Stava bene nella sua cittadina, poco più che un paese, che conosceva alla perfezione. La realtà universitaria, invece, era un edificio e una strada. Una sola, che conduceva dalla stazione alla facoltà, dalla facoltà alla stazione. Le andava bene finché non ci pensava, ma Enoch le offriva l’irrifiutabile. Una manciata di metri di deviazione dal sentiero che scavava quotidianamente; una di quelle cose che uno non si concede mai da solo, magari anche per paura di smarrirsi. Sapeva che non avrebbe trovato meraviglie architettoniche, che nulla di quella stradina le sarebbe rimasto impresso nella memoria. Tuttavia, le dava l’illusione di respirare una boccata dell’aria che apparteneva solo agli abitanti di quella città. Se doveva trascorrere parte del giorno tra di loro, per anni, non c’era motivo per non conoscere qualcosa di più, per insignificante che fosse. E Lilli si perse con un sorriso verso le finestre alte delle palazzine, aperte solo per cacciare l’odore di chiuso dalle stanze; sulla soglia umida e consumata di un portone; sui muri imbrattati e negli occhi di una vecchia che rientrava col suo carico di pane, uova e verdura. Enoch era indifferente a questo; lo capiva, per lui quella stradina era la norma. Forse si era soffermato su quei particolari, i primi tempi. Forse no. Più probabile. «Non c’ero mai stata qui» ammise Lilli, riportando l’attenzione sul giovane. «Non c’è neanche granché da vedere» replicò l’altro. «E perché passi di qui, allora?». Enoch scrollò le spalle. «Necessità. Non si trova mai un parcheggio qui in centro. Se invece faccio un giro ampio, passando intorno, di lì…» e qui un’indicazione
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che Lilli non comprese «Arrivo a un posticino, qui dietro, dove posso lasciare la macchina senza problemi». «Ci metterai una vita» osservò lei. «Un po’.» la solita risposta «Però lo preferisco. Evito di passare per le strade affollate, così». Lilli in compenso gettò un’occhiata alle proprie spalle per assicurarsi di non perdere la via del ritorno. «Ora capisco perché arrivi sempre in ritardo» disse, riferendosi a quella fissazione di usare l’automobile. Enoch tirò un sospiro, chiudendo nel pugno il mazzo di chiavi. «Magari» mormorò soltanto, apparentemente senza senso; Lilli questa volta scelse di ignorarlo e, come al solito, non a caso. Alzò un braccio e indicò un balcone con la ringhiera visibilmente arrugginita. «Gatto!» esclamò, con l’entusiasmo di una bambina trionfante. Enoch sollevò a sua volta il viso. Un gatto, sì, un tigrato che sonnecchiava con espressione pasciuta. In sostanza, un gatto che non aveva nessuna particolarità e che, allo stesso modo, di particolare non faceva assolutamente nulla. «Guarda che musotto orgoglioso che ha» fece la ragazza, continuando a tenere la testa alzata e la bocca semiaperta. «Ha un muso da gatto» disse Enoch con finta perplessità. «Capisci niente, tu.» ribatté subito lei, abbassando la testa e restando immediatamente come abbagliata; di nuovo puntò un dito, stavolta davanti a sé «Altro gatto!». Stavolta bianco, però, e bello vispo. Come si sentì chiamato in causa, si voltò in allarme verso i due e dopo un attimo corse via, arrampicandosi fino a una grondaia. Enoch assistette dubbioso alla scena, quindi stese anche lui l’indice. «Macchina» disse. «Uh?» Lilli si distrasse dal gatto bianco solo dopo alcuni secondi, posando lo sguardo sulle quattro o cinque macchine parcheggiate in uno spiazzo accerchiato dalle case «Qual è?». Un 106. Di un celestino sbiadito, dava l’idea di non essere appena uscito di fabbrica. Avrà avuto anche una decina di anni, forse, testimoniati assai bene dai classici graffi sul paraurti anteriore, sullo specchietto malconcio e anche un po’ sulla targa, che doveva aver preso qualche colpetto. Tutto sommato, in giro si vedeva comunque di molto peggio. «Non è una Rolls, ma non mi ha mai lasciato a piedi» infilò la chiave nella portiera e lì la lasciò, posando una mano sul cofano.
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«E ti lamenti? A me tocca fare la trasportata, il più delle volte» Lilli storse la bocca in una smorfia. «Non hai la patente?». «Diciamo che ce l’ho ma è come se non ce l’avessi.» incrociò le braccia contrariata «Ho dei genitori molto noiosi, in cambio». «Io non ho quel problema, almeno» il giovane si girò, aprendo la portiera. «Questa strada è piena di gatti.» disse lei, di punto in bianco «“Vicolo dei gatti” dovrebbero chiamarlo. Suona anche bene». «Liliana, gatti o no, io devo andare via.» la interruppe Enoch «Comincio ad aver fame e a casa dovrò prepararmi il pranzo». «Lilli.» lo corresse nuovamente, e inarcò un sopracciglio in segno di apprezzamento «Ma che bravo ometto di casa. Ce ne sono pochi che sanno cucinarsi un piatto di pasta». «Se è per quello, ce ne sono ancora meno che vivono da soli.» si sedette al posto di guida, licenziando con indifferenza lo sguardo stupito della giovane «Imparerebbero tante cose». Lilli approfittò di quegli ultimi attimi per squadrarlo: ne era certa, doveva avere la sua stessa età; forse qualche anno di più, ma non ci avrebbe scommesso. In ogni caso, era decisamente anomalo che un ragazzo così giovane vivesse da solo. Era roba da film, quella. Nel mondo vero, alla sua età non si hanno i soldi per pagare un affitto né c’è desiderio di vivere da soli. Un figlio di papà, forse, ma in quel caso non guiderebbe un 106 mezzo scassato. Gli studenti si accalcano in appartamenti fatiscenti di cui dividono le spese: appartamenti vicini all’università, poi, non a quasi un’ora di treno di distanza. Frattanto Enoch aveva chiuso la portiera, messo in moto e aperto un finestrino. Come uno zotico, senza la minima considerazione per la ragazza che l’aveva accompagnato. «Io vado.» disse «Tu corri a prendere il treno, altrimenti lo perdi». «Non mancherò, figurati». Fece il gesto di alzare la mano e salutare, ma Enoch era già partito. Fuggito, più propriamente. Le sue ultime parole dovevano essere il suo modo per dire ciao. Forse ci aveva messo anche un cenno della mano, non era riuscita a farci molto caso; sta di fatto che Lilli si ritrovò da sola a domandarsi perché si fosse fatta trascinare fin lì. E, in seguito, chi aveva trascinato chi. «Non ho capito bene» disse suo padre. Col bicchiere di vino sollevato a mezz’aria, sorretto dalle dita come se fosse stato avvinto da ragnatele, e i gomiti ben puntellati sul tavolo. Aveva scansato ogni briciola, prima, proprio per evitare che durante
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l’ultimo sorso, che andava sempre bevuto a quel punto e in quella posizione, gliene rimasse qualcuna attaccata alle maniche. Cena, sempre in famiglia, tutti e tre: la televisione accesa e tenuta a volume basso, più che altro uno sgraziato sottofondo musicale a base di spot pubblicitari e telegiornale, il tintinnare delle posate nei piatti, il rumore del frigorifero, a volte anche del forno. Ogni sera lì, cinque minuti prima che le pietanze venissero messe in tavola: la madre che cucinava e pareva non badare a nessuno, il padre che sistemava le pieghe della tovaglia e l’angolatura delle forchette, Lilli che smozzicava il pane in preludio al proprio pasto. Gesti che sembravano dire “ecco, ora l’udienza è aperta”, e girottolando intorno alle sedie come lupi affamati gli animi si destavano, le consuetudini e le novità del giorno balenavano in occhiate furtive, poi qualcuno parlava, dava inizio alla schermaglia. Le regole si mescolavano quando erano tutti seduti, la battaglia navale di frasi misurate somigliava sempre più a una partita di calcio, talvolta degenerava in una rissa da saloon (e a quel punto il padre spegneva la tv). Con la famiglia al completo, nell’unica mezz’ora in cui ci si poteva veramente confrontare, saltavano fuori tutti i propositi maturati in una giornata, le perplessità, i sospetti. Lilli si perse la prima argomentazione, uno scambio di battute di moderata ferocia sugli occhiali da donna che i suoi genitori intavolarono solo per loro. Lei pensava a come formulare il suo discorso, la sua scala reale con cui vincere la mano, quella di cui avrebbero parlato anche da soli, in mormorii concitati, fissando corrucciati il film serale di cui nessuno dei due aveva seguito mezzo secondo. Curioso. Le fece pensare che Enoch, se era vero che viveva da solo, non doveva avere il tempo per guardarlo fin dall’inizio in tutta calma, quello stesso film. Che cosa strana. Strana strana. Difficile pensare che a vent’anni, quando ancora si conduce la vita al guinzaglio e si sta in panciolle, c’è qualcuno che è costretto a far tutto da sé. E sta a due passi da casa tua, non, chessò, in Russia o in Burkina Faso. Vive in una strada dove è la norma trovarsi la pappa pronta, dove arrangiarsi è solo una parola che si dice per giustificare la stoica capacità di vivere senza accendino. Lilli aveva atteso l’attimo di pausa successivo alla proclamazione del primato degli occhiali con la montatura tonda e alla sua immediata bocciatura; nei due secondi di smarrimento che seguirono, una studiata tregua volta solo a riprender fiato, la giovane si intromise col suo intrecciare le dita e posarci sopra il mento. Subito suo padre, veloce come un serpente, fece per riprendere la parola. La conosceva, oh, se la conosceva, e aveva imparato cosa voleva dire quel suo modo di fare, ma finiva per
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arrivare sempre tardi. Le dava troppo spazio fin da principio, concedendole di stare in silenzio, senza metter becco nella discussione: le lasciava modo di preparasi la strategia, così. Avrebbe potuto parlare di nuovo, alzare la voce e sovrastare la figlia, ma sua moglie, anche solo per fargli dispetto, avrebbe finito per mettergli la mano davanti al viso e lasciar parlare Lilli. Era una di quelle rare occasioni in cui le due lavoravano in sintonia e, guarda caso, lo facevano contro di lui. Così Lilli aveva parlato di Enoch, ancora una volta, e del suo comportamento bizzarro, di quella titubanza che si alternava a momenti di durezza ingiustificata, portando suo padre a restare fermo col bicchiere di vino e un’espressione dubbiosa, sebbene attenta, sul volto. «Non ho capito bene». Lilli incrociò le braccia sul tavolo con molta meno cura di lui, una volta che si fu tolta il piatto di davanti. «Non hai capito perché dovrebbe essere… Com’è? Autistico?» chiese la mamma, alzandosi per cominciare a sparecchiare e guardando il marito. «Penso si dica autista» rispose la giovane, finendo inevitabilmente per sorridere: ornitologo, non ornitorinco. «Secondo me non c’entra nulla, comunque.» continuò la madre «Avrà avuto qualcosa in testa. Più che autismo, può darsi che sia… Non so, un forma di fobia. Potrebbe essere… Come si dice uno che ha paura della gente?». «Demofobico» suggerì il padre. «Un demofobico ha paura della folla, mi pare.» la ragazza non parve molto convinta «Io l’ho avvicinato da sola». «Beh, non so che dirti. Per uno che con tre o quattro persone attorno rischia un attacco di panico magari averne davanti anche solo una risulta fastidioso. Oppure la sua è solo maleducazione». «Ma non è maleducato.» si oppose Lilli, tirandosi contro lo schienale «Un maleducato non si preoccupa di una che si sente male». «A proposito, che vuol dire che ti sei sentita male?» e qui la donna tornò ad essere tutta mamma, con lo sguardo preoccupato che le rivolse. «Non mi sono sentita male!» ribatté piccata la giovane, contraddicendosi da sola. «No, quello che non ho capito» era la voce di suo padre, che con tutta calma aveva finito il vino e posato il bicchiere sul tavolo «è perché lo vieni a dire a me».
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Lilli rimase un po’ di sasso a quella domanda: era vero, non era questo grande argomento di cui parlare, se uno ci pensava bene. Oggettivamente parlando, s’intende. «Mi è rimasto impresso» disse, e senza nemmeno volerlo la voce le rimasta bassa, poco più di un filo. Alzati, cacchio, alzati: niente da fare. Neanche le venivano più le parole, di colpo. Mosse una mano e scansò un tozzo di pane, bofonchiando qualcos’altro. Seguì il disperdersi di minuscoli frammenti di crosta sulla tovaglia, schiacciati sotto il suo indice. Poi rialzò il viso. Colse per un attimo sua madre che si voltava, evidentemente dopo averla fissata per tutto quel tempo; esattamente quello che suo padre stava ancora facendo. «Beh? Che c’è?» sbottò stizzita, ritrovando il fiato «Ho detto che mi è rimasto impresso». «Ti è rimasto impresso lui?» la incalzò suo padre, stappando eccezionalmente la bottiglia una seconda volta. «Mi è rimasto impresso quel che è successo oggi» puntualizzò Lilli col medesimo tono. «Quand’ero giovane io si diceva che il tempo d’innamoramento di una donna era di quanto…» e guardò la moglie «Sei mesi?». «Pà, cavolo!» saltò su la ragazza. «Qualcosa del genere.» gli rispose la donna «Comunque non si diceva quand’eri giovane, mi pare di averlo letto in un’intervista a Jack Nicholson». «Cazzate. E cosa c’entra, poi?» riprovò Lilli, cominciando a bollire. «E allora? Scusa, Jack Nicholson non può averlo sentito dire da qualcun altro?» il padre continuava il discorso con la moglie come se nulla fosse, completamente estraneo alla figlia che sfuriava, cercando invano di riprendere il controllo della discussione. «Non penso che l’abbia sentito dire da te». «Ma anche lui era giovane quand’ero giovane io. Avrà la mia età...». «Qualche anno di più» lo corresse la ragazza, cercando ora di spostare altrove l’orizzonte della conversazione. «Qualche anno, sì, ma in via teorica potevamo esser ragazzi insieme.» sintetizzò suo padre «Dicevo, sei mesi o nove, qualcosa così. Qui saremo a una settimana, a dir tanto». «Non sono innamorata. No, no e no. Non me ne importa niente di Enoch. Guardami nelle palle degli occhi.» e se li indicò con due dita, dilatandoli «No. No e no. Ti dico di no». «Certo che sei un tantino nervosetta, a prescindere» fece lui, accavallando le gambe con quella dannata aria sfacciata, quella che metteva su ogni volta che la ficcava in trappola.
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Lilli, infatti, fece con la mani il gesto di mandare tutto all’aria e sbuffò rumorosamente. «Qualche problemino all’università?» domandò dunque il padre, proprio per mandarla a rotoli; lanciò anche un’occhiatina alla moglie, che rispose con uno sguardo più bonario, ma certo altrettanto divertito. «No.» rispose seccata Lilli, alzandosi dal tavolo «Vado in camera mia, qui c’è poca serietà». Nessuno sollevò obiezioni, lasciandola sfilare attorno al tavolo come se nulla fosse. Varcò la soglia impettita, rossa in viso e con le mani che formicolavano. Suo padre la richiamò solo con un gesto della mano. «Che altro c’è, ora?» chiese lei, con le spalle curve e le braccia stese lungo i fianchi. «Non t’interessava sapere perché si è comportato così?» domandò, passando un braccio dietro lo schienale della sedia e cominciando a dondolarsi debolmente. Lilli alzò gli occhi al soffitto, appoggiandosi malvolentieri allo stipite della porta. «Cosa?» lo guardò in viso per distinguere se stesse scherzando o no. «Non essere così scorbutica, Liliana» le rinfacciò sua madre, con la severità che l’aveva sempre contraddistinta quando si trattava di un richiamo. «Non sono scorbutica» provò dapprima a tenere la voce alta, ma l’occhiata del padre la costrinse a stemperarsi: o stai buona o non ti dico niente. Dovette quindi aspettare ancora qualche secondo, il tempo che suo padre vuotasse il bicchiere, si pulisse la bocca e si rimettesse comodo sulla sedia. «Come mai si è comportato così?» le toccò anche di chiedere, perché lui ormai fingeva di essersi estraniato da tutto. «Perché ti nasconde qualcosa» rispose, senza neanche guardarla. «Grazie tante!» brontolò, staccandosi dalla porta «A questo c’ero arrivata da sola». «Bugiarda» disse lui, e Lilli, per non dargliela vinta, si affrettò a imboccare il corridoio che l’avrebbe portata in camera. La camera, questa sconosciuta: il rifugio che era segreto solo perché era bello immaginarsi che nessuno immaginasse quanto potesse significare per lei. Lilli ci trascorreva tutto il tempo che passava a casa. Non si era staccata, si sarebbe detto, dalla sua parte più adolescente. L’età era sempre verde, in fondo, proprio in bilico tra la giovinezza più inconsapevole e la maturità. L’idea di separarsi dalla
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sua camera le era per questo ancora insopportabile: ogni pensiero, ogni ricordo, era racchiuso in quelle quattro pareti e trovava al primo sguardo qualcosa che lo confermasse. Le foto di quand’era bambina, che si aprivano su tanti di quegli anni racchiusi in pochi fotogrammi sfumati; i peluche, i gattini di ceramica, il portachiavi, tutti regali, ognuno di una persona diversa; persino quel braccialetto col cuoricino, un avanzo di bigiotteria che a quindici anni era bastato a scioglierle il cuore, solo perché veniva dalla persona giusta; il salvadanaio della nonna. Cose molto meno sentimentali, poi, come il computer, lo stereo, la televisione con gli adesivi della pantera rosa appiccicati sopra da una vita e il mobile della scrivania stracolmo di quadernini e astucci traboccanti. Non aveva mentito del tutto ad Enoch, se non altro. A suo padre sì, però, e si sedette sul letto, lasciandosi lentamente scivolare all’indietro sino a sdraiarsi. «Non sono innamorata» si disse con un sorriso, proprio per vincere l’assurdità della situazione. Ne avrebbe riso, se non fosse stata da sola. Era vero, non lo era. Ma dire che non le importava niente di Enoch era una bugia. Alzò due dita verso il sonaglio appeso sopra il letto: uno di quelli che si tiene sopra le culle dei neonati, di legno ormai scolorito, e che gira se viene toccato. Lilli non ricordava certo di averci giocato quando ancora non parlava né camminava, ma era un’altra di quelle cose di cui non aveva mai potuto fare a meno. Un pesciolino sorridente blu, una paperella rossa con gli occhi chiusi, una luna blu, quindi di nuovo un pesciolino, stavolta rosso, e così via. La incantava. Era capace di restare ore a farlo girare, a sentire il legno risuonare debolmente e a vedere quelle figure alternarsi senza fine. Lo fece scorrere, infatti, socchiudendo gli occhi con un sorriso stanco e appena abbozzato sulle labbra. Il sonaglio rispose fedelmente, filando liscio: i pesci, le papere e le lune presero a sfiorarsi e a urtarsi irregolarmente. Tlic. Tlic. Tlic. Tlic-tloc. Tlic-tlic-tloc. Tlic-tloc, tlic-tloc, tlic-tloc, tlic-noch. E-noch, E-noch. Lilli abbassò il braccio, ascoltando le ultime note. Le figure di legno smisero gradualmente di oscillare, sino a ritrovare la quiete. Era spuntato fuori dal nulla, proprio come non fosse mai esistito prima di allora. Il tizio anonimo che non si nota mai, in mezzo a un centinaio di persone, su cui non ci si sofferma, che non ci attira in alcun modo. Invece no. Lilli non lo accettava. Non era possibile che non si ricordasse di una persona che, per ragion di cose, doveva aver già scorto un’infinità di volte. Era più che altro come se non avesse voluto farsi notare: una persona non poteva sfuggire a quel modo alla sua memoria, esserle così estranea. Di fatto non lo era. Perché si era stupita nel vederlo in paese? Si era alzata, aveva
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insistito per conoscerlo e per farci due passi assieme. Quella soggezione che le era venuta addosso era stato lui a trasmettergliela, in qualche modo. Erano i suoi occhi che si era sentita addosso, sebbene non l’avesse mai colto impegnato a guardarla. Lilli lo conosceva, ne era sicura, così come lo era di non averlo mai visto. Rabbrividì senza volerlo: aveva paura, come se le giungesse un segnale di allarme dal proprio corpo. Non trovava una spiegazione e questo la inquietava, le faceva soffiare un senso di surreale tra i capelli dietro la nuca, quando la risposta non poteva che essere semplice, naturale. Glielo suggeriva la ragione, esattamente come l’istinto la metteva in guardia. Si girò sul fianco, sporgendosi per recuperare il cellulare, che lasciava sempre sul comodino. Come lo ebbe in mano, cominciò a suonare: Lilli cacciò un urletto e si raggomitolò sul letto, lasciando cadere il telefonino sul pavimento. Continuò a suonare, vibrando e girando piano anche a terra. Quella paura di prima gli picchiava in testa, facendole battere il cuore all’impazzata. Non era una coincidenza, non lo era. Con le dita serrate e ancora premute sulla bocca, Lilli si sporse per guardare. Sul display illuminato lampeggiava un nome. Gloria. Lilli si passò una mano tra i capelli, scansandoli dal viso. Scema, scema, scema, si ripeté, e scosse la testa. Raccolse il cellulare e, dopo aver preso un buon respiro, si decide a rispondere. «Dimmi, sorellina» mormorò, con la voce ancora roca. «Ciaaaaao!» le rispose dall’altra parte «Come stai, cucciola?». «Eh.» Lilli si guardò intorno, sincerandosi un’altra volta che fosse tutto a posto «Un po’ stanca». «Sempre a studiare, me lo immagino. Non sai che fa male? Poi diventi gobba!» proseguì Gloria al telefono; Lilli riusciva a immaginarsela con quell’espressione un po’ scema sulla faccia paffuta, talmente impegnata a dire scemenze che non si accorgeva d’altro. «Per quanto studio io…» borbottò, abituata com’era a sentirsi fare discorsi senza né capo né coda come quello. «E’ sempre troppo! Fai come me, che vivo serena, in pace e voglio bene a tutti. Piuttosto, per sabato sera?». «Sabato sera?» Lilli si passò una mano sulla fronte, cercando di ricordarsi qualcosa. «La cena da me. Te n’eri già scordata? Daaai, non mi puoi lasciare da sola: io organizzo le cene ma non ce la faccio a sopportarle da sola, lo sai». «Non ho detto che non vengo, Glò. Mi era solo passato di mente».
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«Ah, bene. Sono contenta.» fece una pausa, anche troppo lunga, che spinse Lilli a controllare che non fosse caduta la linea, poi riprese la parola «Lo prepari tu il dolce?». «Dolce?». «Sì, il dolce! Quello che fai tu buono da morire, come si chiama…». «Ah, ecco.» la ragazza fece una smorfia «Ora ho capito perché mi hai telefonato, razza di sfruttatrice priva di sentimenti». «Su, su, che ho detto ai ragazzi che preparavo qualcosa di speciale! Non posso mica arrivare con una torta comprata al supermercato, che figura ci faccio?». «Al solito. Così io cucino e tu spacci per tuo quel che faccio io. E io, da brava scema, come sempre mi troverò a fartelo lo stesso». «Graziegrazie, tesora, tu sì che sei un’amica. Ma va tutto bene? Hai una voce strana». Lilli trattenne il fiato a quell’osservazione, ma scelse di far finta di non aver capito. «Come?» domandò, cercando di essere credibile. «Ho detto che hai una voce strana, Lillina bella. Sembri tesa come una corda di violino». La ragazza spostò altrove lo sguardo, contrariata. Amiche: quando non lo vorresti, sembrano conoscerti come le loro tasche, non riesci mai a nasconder loro niente di niente. «Diciamo che mi sento come se stessi facendo un brutto sogno, un po’ confuso» disse, grattandosi impreparata la testa. «Come dici?» fece invece Gloria «Hai fatto un brutto sogno? Ma eri già a dormire?». Lilli colse la palla al balzo senza pensarci due volte. «Sssì, diciamo di sì. Mi ero assopita appena mangiato». «Ma tu sei matta! Non sono nemmeno le nove! A quest’ora devi essere sveglia e pimpante, che la notte devi scatenarti! Il sonnellino va bene al massimo… Uhm… Il pomeriggio. La pennichella dopo pranzo». «Sai quante possibilità di scatenarmi, se il giorno dopo devo alzarmi prima delle sette… Comunque non ho mai detto che questa volta ti farò quel cavolo di dolce». «Daaaaiiiiii!» piagnucolò l’altra «Hai detto che tanto alla fine ti troverai a farmelo lo stesso. Così prima pensiamo al palato di qualche bel fusto e poi dopo lo seduciamo». «Alle tue cene? Un bel fusto, come lo chiami tu? Come minimo ci trovo i soliti tre o quattro sfigati di tutte le volte». «Crudele, cattiva e senza cuore.» la apostrofò Gloria, facendo la risentita «E comunque scappo, io a cena non ci sono ancora andata.
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Fammi sapere del dolce, eh, va bene anche un messaggio. Ciaociaociaociaociao». «Si, va be-». Riattaccato. Gloria era una cara ragazza: Lilli sopportava il fatto che fosse anche una pazza furiosa, ma quel suo modo di terminare le chiamate la mandava fuori dai gangheri. Gliel’avrebbe detto, ovviamente. Un’altra volta, beninteso, e un’altra volta sarebbe stato come parlare con un muro. Rimise il cellulare sul comodino, rilassando le membra sul letto. Guardò l’ora, fece un po’ di zapping per i canali. La televisione, al solito, non l’aiutò però a portare altrove il cervello nemmeno per dieci minuti in tutta la serata. Enoch, Gloria, il dolce, Enoch di nuovo. Dio, che sonno… 6- Sedicesimo giorno, Venerdì Lilli gli fece la posta come un falco. Sapeva che ci rimetteva di femminilità ogni giorno di più che ci indugiava, ma il furbastro il giorno prima non si era nemmeno presentato. Non poteva permettergli di scamparla, visto e considerato che era venerdì, l’ultimo giorno utile sino al successivo mercoledì. C’è da dire che non sarebbe morta di curiosità, se avesse dovuto aspettare sino ad allora: a stento ci avrebbe pensato, probabilmente, com’era accaduto la settimana prima. Forse. La sfumatura intrigante dell’agguato, però, non lasciava più adito ai dubbi. Beh, “agguato”… Sicura che anche lui avrebbe levato le tende prima della fine della lezione, era uscita con un quarto d’ora d’anticipo, col risultato che chiunque si era accorto di una scema che, dopo aver tentennato con la gamba aperta scomodamente verso l’esterno per una mezz’oretta, era scattata in piedi come una tarantolata. A momenti si era fatta venire anche un crampo, a forza di molleggiare quel piede sulle punte. Aveva persino guardato Enoch con una certa insistenza, senza volerlo, e doveva essere pure arrossita. Neanche ce n’era bisogno, perché si era accorto di quella uscita defilata alla pari di tutti gli altri. Poi… Va beh, il professore si era interrotto, ma quello poteva essere un caso. Più no che sì. E con questa erano già due figure da competizione. Di merda, proprio. Ne avrebbe tenuto conto “in sede d’esame” (perché sentir dire “all’esame” o “durante l’esame” da un professore è un evento epocale; no, si sentirà sempre parlare solo ed esclusivamente di quello che avviene “in sede di esame”)? Tolta quest’ultima disquisizione, Lilli non riusciva comunque a pensare ad altre conseguenze eccetto quelle che ci sarebbero state sul comportamento di Enoch. Avrebbe dovuto aggirarle, concentrata al
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massimo, guizzante come un’anguilla. Aveva una faccia di bronzo da competizione e sapeva che poteva permettersela. Lui era sembrato addirittura impaurito, quando uscendo aveva incrociato il suo sguardo. Ci avrebbe fatto leva. Tutto questo, da notare, l’aveva elaborato nella seconda metà della lezione e ulteriormente perfezionato in pochi secondi, dopo aver richiuso la porta dietro di sé. Riusciva a sentirsi geniale, in casi come quelli. Stava appoggiata ad una scrivania da due soldi che qualcuno aveva sistemato alla meglio nell’atrio prima dell’aula. A braccia incrociate, con la larga borsa in pvc che si ostinava a scivolare via, batteva ritmicamente i piedi e guardava la porta, poi l’ora, poi di nuovo la porta. Lilli sospirò. Fece due passi in tondo. Si appoggiò di nuovo alla scrivania. Estrasse dalla borsa il telefonino e premette un pulsante a casaccio perché si illuminasse il display. Vide l’ora: le nove e quarantanove. Rimise a posto il cellulare e si sistemò i capelli. Senza volerlo, le scappò un colpetto di tosse. Nel farlo notò un’unghia che aveva perso lo smalto e si soffermò ad esaminarla. Rischiò di rompersi. Alzò gli occhi. Li riabbassò. Riprese il cellulare. Nove e cinquantuno. Lilli si fece impaziente. Batté entrambe le punte dei piedi a terra, con un certo sforzo. Si soffermò su quell’esperimento a lungo, cercando di tenere un ritmo ben calibrato. Rinunciò e prese il cellulare. Nove e cinquantaquattro. La porta dell’aula si aprì. Enoch uscì. Il viso della ragazza, di nuovo senza volerlo, si illuminò; il giovane si accorse anche di quello: anche un cieco si sarebbe reso conto che Lilli lo stava aspettando. Le fece un cenno col capo senza fermarsi, biascicando un saluto incomprensibile. Lei rispose con aria radiosa e un tono assai più alto. «Ciao!» ma quello neanche rallentò l’andatura: non che andasse molto spedito, ad ogni modo, e Lilli non faticò a tenergli immediatamente dietro. Enoch scese i primi due o tre gradini come uno ignaro di tutto, quindi voltò di poco il capo e la scorse dietro di sé. Come la ragazza aveva previsto, si sentì in dovere di dire qualcosa. «Mi segui?» domandò, senza riserbo. «Perché?» ribatté lei, e lo fece con una faccia divertita, piena di innocenza fasulla. «Sei uscita esattamente quando me» parlando, riprese a guardare davanti a sé e allungò il passo. «Ti perdi nelle coincidenze» continuò Lilli, anche lei accelerando. Lo sbuffo che gli uscì dalla bocca somigliava a una risata sarcastica.
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«Dall’aula però non sei uscita una decina di minuti fa?». «E allora? Ho dimenticato l’astuccio». «L’astuccio?» di nuovo si girò a guardarla, sensibilmente meno sicuro. «L’astuccio, sì.» ribadì Lilli, inserendo la quinta «Sono uscita, mi è venuto in mente e non l’ho più trovato nella borsa, così sono tornata per riprenderlo». Enoch corrugò la fronte: erano ormai fuori dall’edificio, all’aria aperta, e si fermò. «A fine lezione, s’intende» precisò la ragazza. «E allora perché mi vieni dietro, se devi riprenderlo?». «Perché mi sono appena accorta che non l’avevo lasciato dentro.» rispose lei con un sorrisone «Capita, ogni tanto. Sono un po’ sbadata». Enoch le diede le spalle e riprese a camminare scuotendo la testa. «Era rimasto schiacciato sotto tutti gli altri libri» insistette, accennando a corricchiargli dietro. Il giovane si sistemò l’alto bavero della giacca e infilò le mani in tasca, rivolgendole una mezza occhiata. «Davvero?» le chiese, chiaramente senza essersela bevuta. «Assolutamente no, logico. E’ la prima stronzata che mi è venuta in mente» ammise candidamente Lilli. «Ah, meno male». «Facciamo due passi?» propose la ragazza, portandosi al suo fianco. «Due passi?» fece, incerto. «Non cominciare subito a ripetere tutto quello che dico» lo ammonì lei. Enoch si fermò, alzando la testa per cogliere la piazza con un’ampia occhiata. «E’ che sono le dieci.» replicò debolmente «Non hai altre lezioni?». «Oggi, grazie al cielo, no.» Lilli sorrise di nuovo, con un’espressione che rasentava il sadismo «Un’esclusiva del venerdì». Il giovane si soffermò a pensarci sopra. La ragazza vide il suo petto gonfiarsi e restare immobile per alcuni secondi; gli occhi di Enoch erano puntati a terra. Lilli si soffermò a pensare su quanto le aveva detto suo padre e trovò che aveva ragione. Su tutta linea. Questo la fece un poco pentire dei suoi propositi, dal momento che la prima giustificazione che le venne in mente per il suo comportamento era che Enoch fosse affetto da un’ipotetica malattia. «E dove vorresti andare?» domandò quello, alzando appena il viso. «Non so.» Lilli scrollò le spalle «Due vasche in Passeggiata?».
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«In Passeggiata?» Enoch sembrò realmente innervosito dalla proposta. «Stai ricominciando». «No, dai. C’è sempre un mucchio di gente» e riabbassò il capo, dopo averlo scosso un paio di volte. «A quest’ora? Ma figurati! Chi vuoi che ci sia?» e spalancò gli occhi, continuando a cercare di metterla sul ridere «E’ l’ora migliore per andarci, secondo me». «E’ che ho un po’ di cose da fare, a casa». Lilli sul momento non replicò. Aveva capito che quella di Enoch era una bugia inventata su due piedi; per nulla originale, tra l’altro. Avrebbe potuto ribaltare la situazione e condurlo con la forza sino alla Passeggiata, ma quel sospetto che le era venuto un attimo prima la bloccò. Potevano esserci ragioni serie per le quali Enoch non poteva accompagnarla, ragioni di salute che in qualche maniera le sfuggivano. Per cui desistette. In parte. «Ti accompagno alla macchina, allora» disse, senza nascondere la propria delusione. Enoch rimase interdetto allo stesso modo, alle strette. «Come vuoi tu.» rispose, con altrettanto dispiacere dipinto in faccia «Se ci tieni». «Almeno faccio due passi.» Lilli finse di accontentarsi «Alzarsi all’alba per seguire solo una lezione è già abbastanza noioso». Il giovane annuì, muovendo le mani all’interno delle tasche. «La macchina è al solito posto, però» volle avvertirla. «L’avevo immaginato.» il che significava davvero andare in direzione opposta alla stazione, ma ormai la giovane era in ballo «Andiamo, va». Se non altro, Lilli si accorse di essersi già affezionata a quel tragitto, per quanto fosse sola la seconda volta che lo faceva. Enoch parlava poco, come sua abitudine, ma a lei non importava molto. Le persiane socchiuse delle finestre parlavano anche per lui, come occhi stropicciati che si sforzavano di restare aperti, senza cedere al ricordo del sonno, ancora recente. Il rumore dell’aspirapolvere nelle case la faceva quasi ridere: sin da bambina, era stata affascinata da quell’aggeggio. Tante piccole vite come la sua, come quella di sua madre, si svolgevano dietro pareti spesse, in fondo, pochi centimetri. Ma quanto c’era in una vita, in una sola, che fosse la più insulsa? Lilli se le immaginava come gemme opache, le cui infinite sfaccettature le distinguevano però l’una dall’altra. Il vicolo dei gatti, per angusto che fosse, le pareva, in quella mattina, più che immenso. Sterminato. Egoisticamente, magari, ma per lei aveva più valore che tutto il resto
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del mondo messo insieme. Per quella scoperta, che in fin dei conti non significava niente, fu profondamente grata ad Enoch. Lui, dal canto suo, non aveva praticamente spiccicato parola, se non per rispondere con dei monosillabi. Arrivato alla macchina, vi infilò la chiave senza esitazione e aprì la portiera. Si fermò, quindi, perché Lilli, a furia di distrazioni, era rimasta un poco indietro. «Io dovrei andare» disse, con una punta di rammarico. Lilli parve non sentirlo e anzi si affrettò a farglisi più vicino. Le piaceva il fatto che non avvertisse più alcuna soggezione nei confronti di Enoch. Evidentemente quella storia l’aveva innervosita, sino al punto da causarle quel capogiro di due giorni prima. Questo la tranquillizzava non poco: il nervosismo e l’agitazione, d’altra parte, sono sempre passeggeri. «Grazie per avermi accompagnato sin qua» riprese Enoch, con la mano appoggiato allo sportello aperto. «Dovrei ringraziarti io, non ti pare?» fece lei «Tanto prima o poi dovrò tornarci per rubare un gatto». Il giovane non ebbe reazioni a quella battuta. «Però da qui ci vuole molto più tempo per arrivare in stazione». Lilli non perse l’occasione per tirargli una stoccata. «La Passeggiata invece è proprio lì vicina, pensa un po’» disse, incrociando le braccia. Enoch, che nel frattempo aveva preso posto sul 106, rimase fermo lì dov’era, pensoso: toccato, pensò la giovane. «Cercherò di fare ammenda…» mormorò, o più che altro singhiozzò quelle parole, perché sembrava far fatica a pronunciare ogni sillaba «La prossima settimana». «Attento, perché una donna queste cose se le lega al dito, quando fosse per farti un dispetto» lo mise in guardia lei, senza celare la propria soddisfazione. Enoch rimase, esattamente come Lilli si era auspicata, disarmato da tanta sfrontatezza. «Credo che terrò conto di questa informazione» riuscì infine a replicare, e fece il gesto di chiudere lo sportello. «Uh, aspetta!» lo interruppe la ragazza, appoggiando una mano al tettuccio del Peugeot. Enoch rimase con lo sportello quasi del tutto chiuso, con solo uno spiraglio che gli permetteva di sentire quello che Lilli stesse dicendo, ma non cercò nemmeno di riaprire del tutto la portiera. In compenso la richiuse, preferendo aprire un finestrino. A Lilli quella scelta non parve la più intelligente, ma sorvolò: ci si stava abituando, ormai.
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«Domani sera una mia amica fa una cena.» proseguì imperterrita «Magari la conosci». «Non penso» disse subito Enoch, con una prontezza da primato. «Ha una casa un po’ fuori dal centro. Capelli rossi, occhi azzurri… Gloria, si chiama». Enoch si adagiò contro lo schienale e provò a far mente locale, ma non diede segno di conoscerla. «Non lo so, te l’ho detto che abito lì da poco». «Beh, in due anni qualcuno avrai pur conosciuto». Il giovane tirò un sospiro stanco. «Segni particolari?» chiese, e doveva saperlo anche lui che a quella domanda non si riesce mai a rispondere, se non con delle assurdità. Lilli, per l'appunto, cincischiò. «Di particolare, eeeh… Boh. Cioè…» si raddrizzò, alzando il viso al cielo «L’unica cosa che mi viene in mente è che ha due tette grosse così, ma non so se va bene» e ridacchiando le mimò con abbondanza, con le guancie colorate di un leggero rossore. Enoch, allo stesso modo, chiuse per un attimo gli occhi. «Va beh, ma che importa? Le dico che porto un amico, è solo contenta.» si chinò di nuovo sul finestrino aperto «Devo anche preparare una torta, almeno mi dici cosa ne pensi». «Scusa, Lilli, ma non la conosco nemmeno…». «Che c’entra? Ti ho detto che non c’è problema! Fidati, no? Anzi-» e aprì la borsa con una mano, rovistandoci dentro per estrarre il cellulare «Ti lascio il mio numero. Fammi sapere qualcosa». «Lilli-». «Dai, che vuoi che sia? E’ un numero di telefono, non ti sto consegnando i piani strategici di difesa del Pentagono». «Non ho un cellulare» riuscì a rispondere interrompendo la ragazza. Lilli rimase un poco inebetita, col telefonino ancora in mano. Per un paio di secondi non riuscì a capacitarsi di quell’anomalia. «Va beh, va beh, ok.» disse velocemente, infilando nuovamente il telefonino in borsa e riprendendo a rovistarci «Te lo scrivo su un foglietto. Un telefono fisso ce l’hai, no?». «Sì, quello sì» biascicò l’altro, imbarazzatissimo. «Ecco. Problema risolto. Al giorno d’oggi ci si stupisce per le cose più normali. Siamo talmente abituati a tutta questa tecnologia che non ci rendiamo conto di dove ci sta portando. Tutto a posto, figuriamoci» e ripeteva discorsi del genere con una tale insistenza che la vergogna del povero Enoch crebbe ancora di più. Parlava anche mentre, strappato un foglio dall’ultima pagina di un quadernino, si mise in punta di piedi per potersi appoggiare con una
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certa goffaggine al tettuccio della macchina, spiaccicandosi contro la portiera e il finestrino posteriore. Quando porse il foglietto ad Enoch, si accorse che quello si era quasi seduto sul cambio, da tanto che si era scansato. Inarcò un sopracciglio, tradendo la propria sorpresa e tornando a pensare all’ipotesi di una malattia. Senza dire niente e con attenzione gli diede il foglietto come si fa quando si porge un bastoncino a un animaletto. Il giovane lo prese da un’estremità con altrettanta cautela; la sua mano tremava, le sue labbra restarono dischiuse per tutto il tempo che gli ci volle. Lilli, durante quell’operazione, lo guardò preoccupata e con una certa compassione; Enoch fissava solo il foglietto e la mano, senza concedersi una distrazione. Quando infine lo ebbe tra le dita, parve estremamente sollevato. Lilli, per non metterlo a disagio, fece un passo indietro. «Fammi sapere, se decidi di venire» disse soltanto, con voce fioca. Enoch annuì velocemente, facendo sparire il biglietto nella tasca senza nemmeno leggerlo. «Devo andare» ribadì, con un’urgenza che spaventò la ragazza. Lilli di fatto non riuscì a dire altro. Riuscì soltanto a seguire i movimenti del giovane, il suo brevissimo gesto di saluto e poi lo vide partire rapidamente, ancora col finestrino aperto, nonostante la temperatura fosse quella che fosse. 7- Diciassettesimo giorno, Sabato L’indomani non migliorò. Arriva l’inverno vero, avevano detto alle previsioni del tempo, che dopo cena erano di rigore. Lilli aveva dovuto attendere che suo padre si gustasse i suoi sessanta secondi scarsi di meteorologia e si decidesse a togliere le gambe dal tavolo ormai sparecchiato. Con indosso il suo piumino verde pistacchio, che tutti in casa definivano inguardabile, e il vassoio del dolce in mano, era rimasta in piedi accanto alla vetrina come una guardia della regina d’Inghilterra. In bella vista, rivolgendo un’infinità di occhiate all’orologio appeso al muro: un trucchetto snervante che con la mamma qualche volta funzionava, ma era già stato stabilito che Lilli sarebbe stata accompagnata da suo padre, e quindi non c’era stata speranza di cavarsela con un po’ di anticipo. «Per andare in stazione ci vuole più tempo e c’è anche più traffico» protestò stizzita, quando ormai erano partiti. «Ma in stazione ci vai la mattina e tua madre non vuole che tu prenda la macchina la sera.» le rispose automaticamente il padre «C’è buio».
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«La macchina i fanali ce l’ha. Cazzo, solo per andare a mangiare a casa di Gloria». «Tua madre ti risponderebbe che di notte le strade sono piene di balordi». «Gli stessi che ci sono di giorno. Non fanno mica come i pipistrelli». «A questo punto direbbe che se ti lasciasse la macchina, tu la useresti per andare in postacci peccaminosi. E quelli, nota bene, sono aperti solo la notte». «Ma dove vuole che vada? Postacci peccaminosi, guarda quel che ti viene in mente» e incrociò le braccia, sbuffando. «Beh, lo diceva a me quando eravamo ragazzi. Sai, magari quando una sera non passavo a trovarla. “Ti vai a infilare in postacci peccaminosi, lo so! Io con te non posso mai stare tranquilla!”. Così diceva. Papale papale». «Ci credo, conoscendoti avrà avuto anche ragione» e gli indirizzò uno sguardo complice. «Liliana, sono tuo padre» le replicò con aria austera. «Non attacca». «Dovresti portarmi rispetto». «Già provata anche questa». «Allora dovrò ricordarti che al volante ci sono io.» disse, tranquillissimo «Così ansiosa di tornare a casa?». «Scusa, babbino, scusa.» ribatté svelta come un gatto Lilli «Non dirò più che ti infili nei postacci peccaminosi, anche se è vero». «Ecco, stiamo migliorando. Ma tua madre con questi argomenti non la convinci, è tutta roba già vista». Lilli portò un dito alla bocca e si mise a pensarci sopra. «Se le dico che potrei andare nei postacci peccaminosi in macchina con qualcun altro? Dici che attacca?» chiese improvvisamente. Suo padre storse il viso in una smorfia, poco convinto. «Perché no?» fece lei, imbronciata «E’ vero. Cioè, potrebbe esserlo». «Ti fai portare nelle discoteche a luci rosse?» domandò suo padre, a quell’osservazione. «No! Potrebbe essere vero! Non ho detto che vado… In quei posti lì! Dove la trovo poi una discoteca a luci rosse?». «Beh, io so che almeno una ce n’è. Un night, al massimo, non so come bisogna chiamarlo». «Dove?». «E’… Più in là. Prima del casello.» e fece un cenno vago con la mano «Almeno, c’era». «Quando?». «Qualche anno fa, non so di preciso».
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«Quand’eri ragazzo?». Il padre la guardò di sbieco, quasi volesse incenerirla. «Sai che stai bene quando fai l’aria truce?» disse lei, tranquilla come un fringuello. «Che?». «Lo sguardo assassino, quello di prima. Fa maschio tenebroso». Il padre rise, mandandola a quel paese con un gestaccio. «Maschio tenebroso non mi ci aveva ancora chiamato nessuna» disse quindi, e Lilli notò comunque come gettò un’occhiata allo specchietto; vanitoso come Narciso. «No, sul serio. Di norma gli uomini che fanno gli incazzosi sembrano brutti o soltanto stupidi. Tu invece stai bene». Suo padre stette zitto per un attimo. «Maschio tenebroso…» ripeté quindi, e le indirizzò di nuovo lo sguardo di prima. «Ecco, vedi? Sei, come dire… Metti in subbuglio». «Fascinoso». «Fascinoso mi vengono in mente i modelli delle sfilate». «No, allora no. Mai piaciuti, quelli. Scommetto che non sono neanche capaci di pisciare al muro». «Questa osservazione te la potevi risparmiare». «Silenzio, mi sto abituando al ruolo del maschio tenebroso, quindi devo sembrare anche un po’ un duro hollywoodiano». «Mai visto un duro hollywoodiano inveire contro i modelli». Suo padre le scagliò un altro sguardo assassino, stavolta più lungo. Lilli si fermò ad osservarlo con attenzione. «Fosco e tetro?» disse lui, con un’alzata di sopracciglio. «Conturbante» stabilì lei. «Ecco, conturbante. Mi piace». «Potrebbero ingaggiarti per fare il Signore del Male di un qualche film di fantascienza». «Nessun Signore del Male sarebbe conturbante quanto me». «Assolutamente» concordò lei, e suo padre assunse un’espressione decisa. Le luci del cortile di Gloria erano già in vista, quando a Lilli venne in mente un’altra scappatoia. «Se correggo e le dico che potrei essere portata nei postacci contro la mia volontà?». Suo padre prese tempo, intanto che scalava le marce. «Questa potrebbe anche andare. Sulle prime ti dice di no, ma poi quand’è da sola ci ripensa e viene a chiedere consiglio a me». «E vai!» esultò la ragazza, alzando un pugno.
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«Solo, mettila meno sul ridere. Drammatica. Più ne rimane turbata e meglio è». «Non preoccuparti, ho già in mente una strategia» lo rinfrancò Lilli, slacciandosi la cintura di sicurezza. Senza più parlare, si tolse il vassoio da sopra le ginocchia e aprì lo sportello, uscendo dall’auto con attenzione. Una volta fuori, lo tenne ben alto e si diede una sistemata con la mano libera al vestito scuro che si era messa per la sera, cominciando a stiracchiare le pieghe davanti e dietro. Quand’ebbe finito, si accorse che suo padre la guardava con viva insoddisfazione. «Che c’è?» gli domandò lei, che conosceva bene quella faccia. Lui aggrottò la fronte, restando a fissarla. «C’è che mi ritrovo con una figlia persino carina ma che va a cercare un giubbotto proprio osceno». «Uffa!» sbottò lei «Tanto sotto ho il vestito, come sono dentro questo me lo tolgo». «Fossi in te me lo toglierei prima di entrare e lo butterei nel primo fosso a disposizione». «Testone anche tu! Ce l’avete tutti col mio piumino!» e chiuse lo sportello. Dall’interno della macchina, vide il padre fare il segno del telefono con una mano, come a dire che avrebbe dovuto telefonare per farsi venire a prendere. Lilli annuì, fece qualche passo e sventolò una mano per salutare. Quindi, quando suo padre ebbe fatto inversione, si decise a suonare il campanello, un pulsantino d’ottone che spiccava su un muretto di sassi, proprio di fianco a un basso cancellino. Dopo neanche cinque secondi, udì il rumore metallico della serratura che scattava. Gloria non doveva aver neanche fatto a tempo a vedere chi fosse, apriva e basta. Lilli spinse il cancellino e percorse l’infido vialetto di ghiaia, l’incubo fattosi realtà di tutte le scarpe col tacco alto. Lei c’era quasi abituata: aveva imparato come percorrerlo, con un braccio steso per garantirsi un poco d’equilibrio e la mano sempre in cerca di un appiglio. La cosa fastidiosa era che il giardino di Gloria era così grande da somigliare alla Pampa argentina; la casa, in lontananza, sembrava quasi un miraggio e tutti quei lampioni gialli ai lati del vialetto, con gli alberi prossimi a spogliarsi del tutto, creavano un’atmosfera vagamente cimiteriale. Lilli si complimentò con sé stessa per aver trovato in così poco tempo abbastanza motivi per smantellare l’invidia per le famiglie ricche. Beninteso, sapeva anche lei che col lavoro di suo padre se la passavano meglio che bene, ma un conto è possedere una gioielleria e un altro una delle più grosse aziende del circondario, qual era il caso del padre di Gloria. Questo lo
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rendeva ricco e, per una strana ragione, in quanto tale aveva una tendenza alla megalomania. Tendenza che aveva ereditato la figlia, a suo modo: Gloria la manifestava organizzando continuamente cene, feste, raduni di motociclisti, surfisti, scalatori, escursionisti e numismatici (i suoi hobby sapevano variare da una settimana all’altra). D’estate c’era da farsi venire un esaurimento nervoso a starle accanto per più di due giorni di fila, con tutti i frenetici programmi che riusciva ad ammassare; d’inverno, si arrabattava alla meglio per combattere la noia incombente, di cui sapeva lamentarsi come nessun’altra. Lilli arrivò incolume alla porta della casa e la trovò socchiusa. Col suo “permessooo…” che le veniva sempre con la solita intonazione, allargò l’apertura ed entrò. «Ecco, “permessooo…”, ti pareva» sentì dire all’interno, sottovoce, ma non riuscì a capire a chi toccava il turno di sfotterla per quella storia. D’altra parte, nell’atrio era un viavai di gente. Colpa dei morsi della fame, visto che come minimo Gloria aveva fatto venire tutto lì con almeno un’oretta di anticipo. Lilli non ebbe bisogno di controllare in sala da pranzo per sapere che i ragazzi dovevano aver smozzicato tutto il pane nei cestinetti, mentre le ragazze si erano radunate lontano da tutto ciò che poteva far venire fame prima del previsto. Tranne quelle in cucina, chiaro. Verso quella si diresse subito Lilli, dispensando salutini a destra e a manca e indicando il vassoio che teneva in mano per evitare tutti i convenevoli e poterlo posare da qualche parte. E’ facile immaginarsi che la casa di Gloria fosse ampia e sfarzosa quanto il suo giardino. C’erano statuette d’argento sui mobili, litografie di pittori famosi sulle pareti, tappeti sui pavimenti e qualche ninnolo esotico che non guastava. La cucina, in compenso, in occasione delle cene somigliava a quella di una pizzeria: i mobili di rovere e le lastre di marmo si intravedevano a stento sotto una distesa di posate, sale, ciotole, sacchetti di pasta, piatti e piattini, oltre a qualche borsetta lasciata incautamente da quelle parti. D’intorno alle pentole fumanti e ai vassoi da riempire si affollavano quattro ragazze che Lilli conosceva da un mucchio d’anni: tutte compagne di scuola che il tempo non era mai riuscito del tutto a separare. Proprio in mezzo a queste, una spanna al di sotto di tutte le altre teste, si vedeva agitarsi quella rossa di Gloria. Nel frattempo un’altra ragazza, una che alle elementari prendeva sempre dieci e che a diciassette anni per una sbandata aveva mandato all’aria tutti gli studi, notò Lilli e le si fece incontro, catturando l’attenzione di tutte le
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altre. Si era anche data un profumo da mignotta, perché Lilli se lo sentì subito venire al naso quando questa volle salutarla coi consueti baci sulla guancia. E’ impressionante quanto le persone possono cambiare radicalmente, magari per una sciocchezza. Gloria proprio no, anche contando che era l’unica che saltellava. O meglio ci provava, perché si era messa anche lei i tacchi alti e per ogni balzello rischiava di ammazzarsi. Ma neanche quello l’avrebbe sfiancata: c’era chi diceva che era rimasta una bambina; Lilli, invece, non riusciva a definirla nemmeno infantile. Estremamente espansiva, piena di energie, instancabile e un mucchio di altri aggettivi analoghi. Il cervello le funzionava fin troppo bene, gliel’aveva già dimostrato. Se faceva la bambina, era per due ragioni: la prima era che si divertiva; la seconda che poteva concederselo, perché a nessun uomo era mai importato un fico delle sue manie. E Gloria stessa diceva che la vita è una lunga filza di esperimenti, quindi gli uomini andavano accuratamente testati per essere sicure di fare una scelta giusta. La vita è anche breve, poi: non si poteva mica perdere tempo in osservazioni moraleggianti. Quando partiva con quella solfa, Lilli non ce la faceva proprio a darle torto. «Viaviavia, fatemi salutare la mia tesora!» trillò, facendosi largo tra le altre come un panzer. «Buona, Glò, che mi fai cadere il dolce» disse Lilli, piazzandoglielo davanti per arginarla. Gloria sporse il viso verso il vassoio, alzando le sopracciglia sottili. «Cos’è, cos’è?» domandò, cercando di sollevare con le dita la carta stagnola con cui la ragazza aveva coperto il dolce «Non me l’hai mica detto» «Fammelo posare, che lo rovesci» le intimò, ma quella non si mosse di un centimetro. «E’ quello che piace a me?» insistette, alzando gli occhi azzurri su Lilli. «Massì, quello che ti ho fatto per il tuo compleanno». «Aspettaspettaspetta…» Gloria portò una mano sulla fronte e ci batté due colpetti «Quello col mascarpone?». «Mascarpone e cioccolato» precisò Lilli, e il volto dell’altra si illuminò di botto. «Bella la mia tesora! E’ una bomba, una bomba. Come li fa lei i dolci, non li fa nessuno» garantì alle altre, che quasi tutte, tra l’altro, erano presenti al compleanno di Gloria. Lilli tirò un sospiro e si decise a posare il vassoio sul tavolo, in uno dei pochi spazi liberi. Mentre Gloria si metteva a controllare che non le avesse mentito e le altre facessero capannello attorno a lei, Lilli ne
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approfittò per togliersi l’esecrato piumino e andarlo ad appendere all’attaccapanni. Quando tornò, l’amica stava tirando avanti un discorso, che però troncò in maniera del tutto improvvisa come la vide. «E va beh, se ne parla dopo. Ora fuori tutte, andate a chiacchierare, a godervi la festicciola, che qui restiamo io e Lilli». «Ehi!» si oppose lei, scherzosa «Che vuol dire che ci restiamo io e te? Cos’è, una penitenza?». «Dopo ti spiego. Andate, divertitevi, spettegolate, have fun, insomma sciò, sciò, aria» e cominciò a spingerle fuori di peso, tra le risate di quelle più avvezze al comportamento di Gloria. Lilli assistette alla scena con un palmo di naso, incrociando gli sguardi di tutte le altre. Come ebbe finito, Gloria arrivò persino a richiudere la porta e fece il gesto di chi si asciuga il sudore. «Cos’è, hai rivelazioni scottanti per me?» domandò Lilli, che aveva imparato a conoscerla. «Dopo, dopo.» ripeté l’altra «Più che altro scotto la pasta. Aiutami a colarla, tu che hai più forza». Lilli fece come le veniva chiesto e impugnate due praline sollevò con un certo sforzo la pentola, la rovesciò nel colapasta, e ci volle parecchia attenzione per farci stare tutti gli spaghetti. «Cos’hai preparato?» domandò quindi, gettando un’occhiata a tutta l’altra roba sparsa per la cucina «Tante cosucce buone. Si comincia con antipasti di terra» e sollevò un tovagliolo di carta da un vassoio. «Ok, prosciutto crudo» sintetizzò Lilli. «Non è solo prosciutto, amica maligna.» la rimbrottò Gloria «Ci sono anche i crostini» e indicò un altro vassoio, questo scoperto. La ragazza ci buttò sopra un’occhiata. «Con cosa vanno farciti?» chiese, guardandosi intorno. «Col prosciutto.» rispose l’altra, e cominciò a sghignazzare tra sé «Ma non potrai dire che il mio antipasto di terra è solo prosciutto». Lilli non le rispose nemmeno. «Poooi abbiamo un’amatriciana fatta come si deve.» continuò Gloria «Sugo congelato che mia madre aveva messo da parte, quindi è buono». «Ti sei proprio fatta in quattro per questa cena, non c’è che dire» osservò la ragazza, a presa in giro. «Vuoi mangiare bene o morire avvelenata?». «Perché devo passare la mia vita tra un ricatto e l’altro?» si domandò Lilli, alzando gli occhi al soffitto. «Te lo meriti».
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«L’arrosto e le patate come sono venuti?». Gloria si voltò a guardarla incuriosita. «Come fai a sapere che ci sono arrosto e patate?» le chiese. «Prova a controllare il menu dell’ultima cena che abbiamo fatto. E già che ci sei di quella precedente». Gloria si gonfiò come un pallone, scagliando saette d’odio dagli occhi. «La vuoi finire di punzecchiarmi? Ti sei alzata col pepe al culo?». «Non è certo colpa mia se prepari sempre arrosto e patate» disse Lilli, congiungendo le mani dietro la schiena e facendosi più vicina all’amica. «Ma ti pare che una che viene invitata a cena debba fare tante storie? Non ti piace l’arrosto, per caso?». «Adoro l’arrosto» fece Lilli con un sorriso. «Non ti piacciono le patate?». «Perché mai non dovrebbero piacermi le patate?». «E allora potresti anche lasciarmi in pace, che ho già una vita abbastanza stressata di mio! E pussa via, che mi taglio!» strillò poi, cercando di assestarle un calcio che avrebbe anche fatto male, se l’avesse presa. «Ti tagli? Ma che cacchio fai, sbucci una carota?». «Carota?» ripeté Gloria, e si ritrovò a fissare la carota mezza pelata che teneva in mano. «Se sono due ore che dici che ci sono le patate!». «Uh, sì. Questa non c’entra nulla, allora.» e la lanciò via senza guardare, centrando in pieno il lavandino «Mi sono confusa col piatto che volevo preparare prima. Poi le patate sono già in forno». Lilli portò una mano davanti alla bocca, cominciando a ridersela di nascosto; Gloria rispose allo stesso modo, tanto che la discussione finì in un reciproco scambio d’insulti mescolati a risolini, che poi divennero anche spintoni e colpi d’anca. Quando Gloria si fu fatta almeno un po’ male, decisero di comune accordo di smetterla. «Beh, ad ogni modo ce n’è per un reggimento» disse Lilli, ritornando a gironzolare intorno ai fornelli «Quanti siamo?». «Dodici. Sei arrivata per ultima». «C’è andata bene» osservò Lilli, e rimase ferma con le mani sul coperchio della pentola della pasta. «Perché?» domandò Gloria, senza capire. Lilli tuttavia non le rispose. Guardava la pentola con un’espressione corrucciata, le labbra strette e gli occhi socchiusi. «Perché c’è andata bene?» ripeté l’amica, immaginandosi che l’altra non l’avesse sentita.
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«Niente.» rispose Lilli, rimettendo finalmente il coperchio sulla pentola; stilizzò un sorriso come meglio le venne «Se c’era un’altra persona, eravamo in tredici a tavola». «Cavolo, hai ragione. Va beh, tanto non aspettiamo mica nessun altro.» Gloria si voltò verso l’amica, pensosa «O sì?». «Avevo chiesto a un tizio che conosco di venire anche lui.» spiegò Lilli, e il solo parlarne le fece riacquistare contegno «Gli avevo detto di ritelefonarmi, ma non mi ha fatto sapere nulla. Che se ne vada in malora, a ‘sto punto». «Che se ne vada in malora sì, ayò! Issate le vele, cani! Facciamo fare un giro di chiglia a questo topo di fogna!» alzò un braccio di scatto, per poi riabbassarlo con la solita risata «Ma dove le senti queste espressioni qua?». «Che se ne vada a fanculo, allora. Non me ne importa proprio un cazzo» replicò scocciata la ragazza. «Frena, tesora, frena. Ti stai agitando» l’avvertì l’altra, aprendo il barattolo del sugo. «Mi sto agitando sì. Non ci avevo più pensato e ora mi è tornato in mente». «Non vorrai mica incazzarti a scoppio ritardato, eh! Chi è ‘sto tipo?». «Uno di qua. Mai visto prima, però…» indietreggiò di un passo per permettere all’amica di condire la pasta «Sai quando incontri qualcuno e hai la sensazione di conoscerlo?». «In questo caso non puoi dire non averlo mai visto prima, scusa». «Allora diciamo che non mi ricordo dove l’ho visto. Ha detto che vive qui da poco, mi pare un paio d’anni, ma che stava qui anche da bambino. Un tipo assurdo, a volte mi viene da pensare che sia persino malato». «Malato? Cos’è, mi volevi portare a tavola un lebbroso?». «Macché lebbroso, scema!». «Io esigo che si vesta con un lenzuolo, in quel caso. Con i campanellini legati. Sai com’è, siamo una famiglia all’antica». «Glò, seria. Trenta secondi di serietà. Me li concedi?». «Wow, dev’essere proprio una cosa importante». «No che non lo è. Non in un certo senso, al massimo. Approssimativamente, diciamo. Oh, che cazzo!» e batté persino un piede per terra. «Ehi, Lillina, buona. Buona. Che ti piglia?» Gloria posò il barattolo, guardando con una certa apprensione l’amica «Sei arrivata qua tutta allegra e di colpo ti prende una crisi isterica?». «Non è una crisi isterica. Non ho ragione neanche di essere nervosa» ribatté l’altra, impuntandosi.
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«Non è, non ho e non fa. Dimmi quel che è, invece di quello che non è. Cazzo, Lilli, anche al telefono non sembravi mica tanto in te». «Brava, hai detto una cosa intelligente.» concordò la ragazza, appoggiando le mani al tavolo «Non sono in me». «Mi incuriosisci proprio. Ti concedo persino una proroga: sessanta secondi di serietà. Un minuto tondo». Lilli le rispose con l’accenno di un sorriso, chiudendo per un attimo gli occhi. Non lo capiva, non ci arrivava. Esattamente come quando si sforzava di capire i logaritmi e non c’era niente da fare: le sfuggiva il meccanismo, la logica per la quale un numero ne dava un altro. Era uscita di casa serena, senza pensare a quella telefonata che non era arrivata. Adesso che le era tornata in mente, il suo cervello minacciava di dare in escandescenze. Perché? Era arrabbiata con Enoch? No, se lo aspettava. Era una cosa che poteva accadere, un’eventualità che aveva preso in considerazione. Eppure ora si trovava sconvolta, nel significato più corretto del termine, e come per i logaritmi non riusciva a capire il meccanismo di quello sconvolgimento. «Vuota il sacco» la incitò Gloria, riprendendo in mano il barattolo e vuotandolo in un pentolino per scaldarlo. Lilli prese fiato. «Non riesco a inquadrarlo.» mormorò, staccandosi dal tavolo «Ha delle reazioni improvvise e inconsulte, se gli parlo pare terrorizzato. Terrorizzato sul serio, dico: di punto in bianco scatta, trema, roba così». «Hai detto che ti sembra malato» le ricordò l’altra, attenta. «No, non è malato. Quello è sano come un pesce. Mi sento una cretina anche solo ad aver pensato una cosa del genere.» si umettò le labbra, solo per sentire il sapore dolciastro del rossetto sulla punta della lingua «E’ solo che mi spiazza. A tratti è una persona normale, sicura, e un attimo dopo diventa inerme come un bambolotto». «Quello mi sa che è malato nella testa!» esclamò Gloria, battendosi un dito sulla tempia «Magari ha una sindrome maniacale, altroché!». «Ma piantala». «Piantala un cavolo. Pensi che quelli lì esistano solo alla televisione? Mi hai chiesto di esser seria e io ti dico seriamente quel che penso». Lilli stette in silenzio, ragionando sulle conclusione tratte dall’amica, quindi scosse il capo con decisione. «No, Gloria, no. Non chiedermi perché, non posso esserne per nulla certa, ma sono sicura che non ha nessuna sindrome maniacale. Avevo pensato ad un’eventuale fobia, più che altro». «Possibile anche quello e, lo sottolineo, pericoloso anche quello».
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«Un fobico non è pericoloso». «Un fobico con un alto livello di patologia può dare di matto.» asserì convinta «E uno che dà di matto è pericoloso per sé stesso e per gli altri». «Mio padre dice che nasconde qualcosa». «Ecco. Dà retta a tuo padre, che non è uno stupido». «Senti, io non penso che sia un maniaco e non penso neanche che sia un fobico. Ti ho solo detto quel che mi è venuto in mente in questi giorni. Se poi nasconde qualcosa, va bene, ci posso credere anch’io, ma che vuoi che ti dica? Avrà qualche segreto che non vuol fa saltare fuori. Ce li abbiamo tutti, no?». «Ma non abbiamo tutti reazioni come quelle che hai descritto, mettila come vuoi». «Beh, allora mettiamola così: voglio capire che cos’ha, ok? E voglio capire perché mi mette così… Angoscia! A volte non mi dà il minimo fastidio e altre volte mi sento… Non lo so. Male. E’ come se fossi in tensione» e mentre parlava aveva preso a girare intorno al tavolo. «Guarda che sei in tensione anche adesso». Lilli sbuffò rumorosamente. «Lo vedo» disse quindi, decidendo di fermarsi. «Forse è il caso che ne riparliamo quando sei più tranquilla, mh? Se stiamo qui a parlare, poi finisce che gli spaghetti si raffreddano». La ragazza stette immobile per qualche istante, quindi annuì. Rimasero zitte entrambe, intanto che Gloria era intenta a controllare che il sugo non fosse né troppo denso né troppo liquido e di tanto in tanto lo mestava energicamente. Quando fu pronto, lo verso sugli spaghetti e cominciò a canticchiare debolmente. «Come si chiama quel tizio?» domandò quindi, senza neanche voltarsi. Lilli piegò le labbra in un sorriso, preparandosi allo stupore dell’amica. «Enoch». Gloria si voltò a guardarla con un occhio aperto e uno no. «Che?» domandò, e Lilli chinò il capo. «Enoch. Anche il nome mi sembra di averlo sentito prima, ma di certo non so dove». «In un fumetto giapponese, mi sa. Che razza di nome è Enoch?». «Il suo. Sempre che sia vero». «Eh, può anche darsi che ti abbia dato un nome falso. Poi, dai, te lo immagini che ridicolo con un cognome normale? Martelletti Enoch, di professione contabile. Dai, non può essere il suo nome!».
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Lilli non commentò. Aveva detto ad Enoch che persino lei e i suoi genitori avevano nomi fuori dal comune, quindi anche il suo era ammissibile. Era sembrato sincero nel rispondere, consapevole della stranezza. Lilli chiuse la parentesi assieme alle palpebre. Quello che era nato come un gioco stupido ed irriverente si stava trasformando in un’ossessione. «Ancora non mi hai detto perché hai cacciato tutte le altre» disse, sollevando un pollice per indicare la porta ancora chiusa. «Ufficialmente perché tu sei l’unica capace di aiutarmi in cucina» rispose Gloria, con una faccetta che non prometteva nulla di buono. «E non ufficialmente?». Gloria gettò un’occhiata verso la porta per assicurarsi che fosse chiusa. Quando riprese a parlare, lo fece a voce bassa, con ogni circospezione. Addirittura le fece cenno di farsi vicina; Lilli si preparò al peggio. «Hai dato un’occhiata a chi c’è di là?» le chiese, con gli occhi azzurri che scintillavano di luce criminale. «A parte le altre in cucina?». «A parte loro». Lilli si raddrizzò, accarezzandosi gli orli della bocca. «Mi è parso di vedere Nicola, Sara, poi… Andrea e Veronica». «Proprio quella. Veronica.» Gloria storse la bocca, disgustata «Quella stronza. Quand’è arrivata a momenti si è spaccata una gamba nel vialetto. Neanche sa camminare sui tacchi, sembra di vedere un trampoliere». «Si è fatta qualcosa?». «Macché, mi pare le si sia solo graffiato un collant». «Peccato» disse Lilli, che condivideva la medesima antipatia per quella ragazza. «L’hai detto. Ha piantato un casino perché questa casa non è sicura, secondo lei. Cristo, se non è sicura stattene a casa tua, anziché venire a rompere alle cene degli altri». «Ma non l’hai invitata tu?» domandò la ragazza, dubbiosa. «Certo che l’ho invitata io. Ma mica per lei». Lilli cominciò a capire in quale prospettiva andava visto il ragionamento di Gloria. «Chi si è portata dietro?» chiese, senza girare attorno alla questione. Gloria sogghignò, lieta che Lilli avesse capito cosa intendeva. «Un pezzo di fico da urlo. Lo vedrai, è un ricciolone moro». Lilli le spinse di lato la testa, facendole cacciare un urletto euforico; arrotolò gli spaghetti attorno ad una forchetta, tutta su di giri.
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«Innocenzo. Tienilo a mente questo nome, anche se ti basterà vederlo per tenerci gli occhi incollati addosso tutta la sera». «Non è che sia un nome molto diffuso, neanche quello.» osservò Lilli «Magari ti ha dato un nome falso anche lui». «Nome falso o no, io quello me lo faccio, cascasse il mondo. Ti rendi conto che sopporterò per un’intera serata quella stronza di Veronica, pur di attaccarci bottone?». «Forse dovresti diventare anche amica sua, per ingraziartelo» propose Lilli, con ironia. «In quel caso lo violento senza pensarci due volte» e si mise a ridere da sola, riprendendo a mestare gli spaghetti. La ragazza la guardò con aria benevola, fino a quando non abbassò gli occhi sulla pasta. Si voltò indietro verso il tavolo, stranita. «Glò?» disse. «Mh?». «Ma perché hai cotto gli spaghetti, se non hai ancora servito gli antipasti?». Gloria si immobilizzò di botto. Guardò davanti a sé. Si voltò verso il vassoio del prosciutto e quindi verso quello del pane. «Occazzo» borbottò infine, prima che in uno scroscio di risate le due si sbrigassero a rimettere gli spaghetti nella pentola e a sistemare il prosciutto sul pane. Durante la cena, saltò fuori che c’era anche chi sapeva essere più puntiglioso di Lilli, visto che un paio di ragazzi fecero notare che quelli non erano neanche crostini, dato che il pane non era abbrustolito. Erano piccole fette di pane col prosciutto e basta. Quello che definirono, insomma, “un antipasto da bar”, scatenando la furia di Gloria, che stabilì che alle cene successive degli antipasti se ne sarebbero dovuti occupare proprio loro due. Lilli non avrebbe scommesso un centesimo sulle probabilità di mangiare degli antipasti alle successive cene. Qualcun altro, in seguito, commentò a bassa voce che gli spaghetti erano stati palesemente riscaldati, altrimenti non si sarebbe spiegato com’è che erano rimasti così attaccati. Gloria aveva già smesso di ascoltare le lamentele dei suoi amati commensali, tutta presa com’era dal suo intento. Lilli dovette sorbirseli entrambi – sia Gloria che il suo intento – per l’intera serata. Doveva, come le aveva raccomandato l’amica, soltanto tenerle il gioco. Gloria si era assicurata di avere Innocenzo alla propria destra e Lilli a sinistra, così da poter attaccare bottone con lui e bisbigliare di tanto in tanto qualcosa a lei. Tutta la cena era funzionale soltanto a quello scopo. Si era finito per dividere il tavolo
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in due nuclei: da una parte loro tre, con sporadici interventi dell’odiata Veronica, che non si era certo portata dietro quel ragazzo per niente; dall’altra tutti quelli che restavano. Lilli partecipava con interesse zero ed un’aria altrettanto assente. Tuttavia era suo dovere aiutarla, sia pure nei limiti: Gloria era capacissima di cavarsela da sola. Quanto ad Innocenzo, gettargli qualche occhiata addosso non le fu certo difficile. Anche da seduto, la sua testa ricciuta spiccava di una spanna sopra quella di Gloria. Lilli dovette riconoscere che l’amica aveva avuto buon gusto, almeno fisicamente. Era un tipo un po’ troppo quadrato per i suoi gusti, però: il classico ragazzo tranquillo, ma non spento; simpatico, senza che finisse a fare il buffone; serio, ma non austero. Rispetto agli altri, aveva giusto i tratti del viso disposti leggermente meglio. Un po’ troppo banaluccio, un’osservazione che generalmente riusciva a condividere solo con Gloria; per tutte le altre, era un segno di immaturità o altre cagate di quel genere. Non era però il momento, e Lilli inghiottì la cena tra sospiri e sbadigli nascosti alla meno peggio, quando Gloria, frizzante all’inverosimile, rimaneva incantata in qualche discorso di cui non le fregava niente, ma che usciva comunque dalle labbra rosa di Innocenzo. Sino al dolce, almeno. Per tutte le altre portate, c’era sempre stata qualche volontaria disposta ad alzarsi e ad andare in cucina per aiutare Gloria. Per il quello, al contrario, si supponeva che avrebbe dovuto far tutto da sé. «Restate tutti seduti, ci pensiamo io e Lilli» annunciò invece e la tirò via dal tavolo con uno strattone erculeo. Lilli dovette sbrigarsi a saltare in piedi per non ritrovarsi con la schiena a terra e le gambe per aria. L’espressione di Gloria, d’altra parte, non faceva che ribadirle che doveva sbrigarsi. Una volta nel corridoio, riuscì a liberarsi dalla sua stretta e a dare una sistemata al vestito. «E’ il momento, cucciolotta mia» disse Gloria, sfregandosi le mani. «E ti pare una ragione valida per cercare di ammazzarmi?» le rinfacciò Lilli, rallentando la frenetica corsa verso la cucina. «Ma se non ti sei fatta niente! Su, su, che il tempo stringe! Devo conquistarlo». «Guarda che se non se n’è accorto vuol dire che è proprio scemo». «Chi se ne frega se se n’accorto o no! Voglio farmelo, non m’interessa che vinca il premio Nobel!» e tra risatine perfide ed eccitate superarono entrambe la soglia della cucina. Gloria si avvicinò al vassoio del dolce, contemplandolo avidamente.
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«Guarda che non ci ho sciolto un filtro d’amore dentro» la avvisò Lilli, dietro di lei. «Peccato. Almeno un afrodisiaco ce l’hai messo?». «Al massimo c’è la cioccolata». «E’ afrodisiaca?» Gloria si voltò a fissarla con occhi sgranati. Lilli fece spallucce. «Così ho sentito dire». Il viso da folletto dell’amica si illuminò come una lampadina. «Grandioso.» esclamò, cominciando a guardarsi intorno «Cioccolata, cioccolata. Altra cioccolata!». Lilli la agguantò per le spalle, tentando invano di arginarla; Gloria guizzò via come un’anguilla, prendendo ad aprire dispense, cassetti e sportelli del frigorifero. Di tanto in tanto ripeteva “cioccolata”, interrompendosi solo per sghignazzare Alla fine, tirò fuori una scatola di Mon chéri, mettendola bene in mostra davanti al viso. «Eh?» domandò tutta arzilla, aspettandosi un parere. Lilli, con una mano sulla fronte, guardò prima la scatole a poi Gloria. «E ora con quelli che ci facciamo?» chiese, vivamente perplessa. «Cioccolata!» ripeté Gloria, proprio come una bambina. «No, cioccolatini, è diverso». Gloria si girò la scatola tra le mani, esaminandola con aria confusa. «Dici che non vanno bene?» fece, un poco delusa. «C’è un dolce intero alla cioccolata. Cosa fai, poi, glieli ficchi in bocca uno dopo l’altro, quelli lì?». «Boh, che ne so, è un’idea. Piglia questi» e le schiaffò in mano i Mon chéri. «Che cacchio ci faccio con questi?» sbottò Lilli, tenendo in mano la scatola come se fosse un esplosivo. «Li servi dopo il dolce, così provo a mettergliene in bocca uno. Perché cazzo non è la stagione delle ciliegie?» Gloria allargò le braccia. «Perché all’inizio dell’estate ne avrai di sicuro già un altro» rispose prontamente la ragazza. «Chiamami scema.» ribatté altrettanto alla svelta l’altra «Ah, questo l’ho fatto io, eh, siamo d’accordo» aggiunse, indicando il dolce che aveva preso in mano. «Ma se hanno visto tutti che l’ho portato io!». «L’ho fatto io a casa tua e l’hai portato tu, allora. Senti, questo cavolo di dolce dev’essere la stoccata finale. Mi serve una scusa cretina per mangiarlo sola soletta con lui». Lilli piegò la bocca, incerta.
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«Siamo in dodici a cena, Glò.» osservò «Come fai a mangiarlo da sola con lui? Dove li metti tutti gli altri?». «E allora intorno a noi deve formarsi il vuoto. E’ una cosa che si può fare, se mi aiuti». «Come no! Dico a tutti quanti che c’è un lupo mannaro in giardino». «Mi basta che ti inventi qualcosa per attirare l’attenzione. Dai, Lilli! Ne ho bisogno!» e batté un piede a terra, mettendo su il broncio. Lilli sospirò, cercando di scappare via dall’espressione da cane bastonato dell’amica, ma quella le girava intorno in modo da metterle sempre la faccia davanti agli occhi. Quando cominciò persino a guaire, Lilli non ce la fece a trattenersi da una risata. «Va bene, va bene. Ci proverò.» le promise «Ma tu cerca di essere molto lenta a servire gli altri, devi darmi il tempo di pensare». «Sarà il dessert più lento della storia» le garantì Gloria, facendole cenno di uscire dalla cucina. Non avevano mosso che pochi passi che scorsero un’ombra entrare in salotto con andatura dubbiosa. Gloria si immobilizzò e diede un colpo a mano aperta sulla pancia di Lilli per fermarla. «E’ lui!» bisbigliò, allarmata «Innocenzo!». «Sicura?» fece Lilli, che non aveva fatto in tempo a vederlo con chiarezza. «Sicurissima. Sbrigati, sbrigati, infilati qui dentro!» e con la stessa mano aprì come un fulmine la porta di uno sgabuzzino buio. «Ma sei scema?» sussurrò la ragazza, ma Gloria non perse tempo a spingercela dentro e a richiudere la porta. Nello stesso momento, Innocenzo usciva dalla stanza in cui era entrato, con un’espressione vagamente smarrita. «Ciaaao.» fu rapidissima a dire Gloria «Ti sei perso?». Il giovane si voltò a guardarla sorpreso e imbarazzato. «Ho paura di sì.» ammise, avvicinandosi con titubanza a lei «Veronica mi ha chiesto se potevo andarle a prenderle gli occhiali nella borsa perché le è entrato un moscerino in un occhio e ora le danno noia le lenti a contatto. Solo che non trovo il divano su cui ha lasciato la sua roba». «Oh, povero caro.» lo compianse lei «Vuoi una fetta di dolce? L’ho fatto io». Innocenzo la fissò decisamente spaesato. «Uh… Qui?» balbettò, visto che erano in mezzo al corridoio. «Quel tavolo è scomodo da morire.» fece subito la ragazza «Possiamo mangiarlo con calma davanti al televisore, in sala». «Ah, beh, se ci tieni.» replicò il giovane, come meglio gli riuscì «Devo prendere gli occhiali a Veronica, però».
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«Perfetto, taglio due fette e prendo un paio di piatti puliti in cucina.» Gloria sorrise come un angioletto, voltandogli le spalle e tirandoselo immancabilmente dietro «Sono sicura che ci penserà Lilli a prendere quegli occhiali». «La tua amica? Ma come fa a sapere che le servono, se si è alzata insieme a te?». Non aveva ancora finito di dirlo che si udirono un colpo e un urletto spaventato provenire dallo sgabuzzino. Gloria strizzò gli occhi in una smorfia dolorosa; Innocenzo sobbalzò, quindi in un classico impeto maschile aprì velocemente la porta dello sgabuzzino. Lilli era curva in avanti con una scopa che le era finita tra capo e collo, la mano sinistra puntellata contro la parete e la destra che stringeva ancora la scatola di Mon chéri. Nella penombra, in quella posizione e con un’espressione ancora terrorizzata in faccia sembrava una specie di spaventapasseri. Rimasero tutti quanti in silenzio per alcuni secondi. «C-cercavo l’interruttore della luce» si giustificò con un filo di voce. Innocenzo continuò a guardarla sbalordito. «Cioccolatini a sorpresa» disse d’un tratto Gloria, indicando con una mano i Mon chéri. Lilli guardò la scatola della cui esistenza nemmeno si ricordava più e stiracchiò un sorriso nervoso. «Ne vuoi uno?» domandò, ancora con la scopa sulle spalle, protendendo la scatola verso Innocenzo. Lui rimase letteralmente senza parole, fermo come un pezzo di legno. Gloria tolse di dosso all’amica la scopa e se la mise di fianco come una guardia svizzera; Lilli si raddrizzò solo quando fu uscita del tutto dallo sgabuzzino. Innocenzo fu il primo a superare l’impasse. «Ma che cazzo ci facevi lì dentro al buio?» chiese a Lilli, stranito. «Ah…» mormorò lei, impacciata «Cercavo…». «I fusibili» Gloria completò fulmineamente la frase. «I fusibili!» le fece eco Lilli «Per via delle luci». «Luci?» domandò Innocenzo, sempre più confuso. «Luci. Lampadari, plafoniere, neon…» provò a spiegare la ragazza, agitando a vuoto la scatola di cioccolatini. «Quelle di fuori, s’intende.» specificò Gloria «A basso consumo». «Consumano, però». «Da morire» annuì Gloria. «Specie di notte, poi. A questa… Ora. Da non credere». «E quindi le ho chiesto di staccare i fusibili.» confermò l’amica, battendo un colpetto a terra con la scopa «Tanto la casa la conosce». «Già, così si fa prima» e stavolta fu Lilli ad annuire. «Al buio?» obiettò Innocenzo.
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«Eh… Al buio, sì» rispose la ragazza. Il giovane spostò lo sguardo da Lilli a Gloria, quindi rise di gusto, infilando le mani nelle tasche dei jeans. «Voi due siete suonate, ve lo dico io!» esclamò, indietreggiando di un paio di passi. «Ci fa dei complimenti, tesora» disse Gloria, che aveva la straordinaria capacità di mantenere il sangue freddo sempre e comunque e non perdere la sua faccia di bronzo in nessuna situazione. Lilli proprio non ce la fece a ribattere, stavolta. «Dov’è che la trovo la roba di Veronica?» domandò intanto Innocenzo, senza perdere la sua allegria. «Non la vuoi una fetta di dolce, allora?» fece Gloria, amareggiata «Ci ho perso un mucchio di tempo per prepararlo». «Io ho sentito dire che l’ha preparato lei, a dir la verità.» e indicò Lilli, che ormai si era incartata e non riusciva più a dir nulla «Lo mangiamo tutti assieme, comunque» e ritornò verso la sala da pranzo, disinteressandosi persino degli occhiali di Veronica. Le due ragazze restarono lì dov’erano. Come se ne fu andato, si scambiarono un’occhiata. Gloria, senza parlare, andò a rimettere a posto la scopa. «Mi sa che ce lo siamo giocato» confessò Lilli, un poco dispiaciuta. «Naa» rispose semplicemente l’amica, scrollando le spalle. «Ma perché cavolo hai tirato fuori i fusibili?». «E’ la prima cosa che mi è venuta in mente.» Gloria gesticolò con la mano libera, elettrizzata «Se avevi idee migliori potevi tirarle fuori tu». «Potevamo dire che stavo cercando… Boh, dei tovaglioli». «Dici che non se l’è bevuta, eh?». «Andiamo, non se la sarebbe bevuta nessuno». Gloria non si mosse, restando a rimuginarci sopra per qualche secondo. Quando abbassò lo sguardo sul dolce, si accorse che pendeva paurosamente da una parte. «Di questo passo finirà sul pavimento» borbottò, risistemandolo poco igienicamente con un dito. «Non farmi questo, Glò» la supplicò Lilli, guardando preoccupata il suo dolce. «Non ti faccio proprio un tubo, questo mi serve per il piano B. A tavola, e senza perder tempo». «Frena!» le intimò Lilli, prendendola per un braccio «Cos’è il piano B?».
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«Quello che ti ho detto prima. Distrazione. Su, su, altrimenti perdiamo l’affiatamento. Prima siamo andate alla grande». «Ma se non ci ha creduto nemmeno alla lontana». «Sì, ma vorrei vedere chi altri riuscirebbe a vendere una cazzata di quel genere come abbiamo fatto noi due. Alla carica, tesora, e preparati a distribuire i Mon chéri al mio segnale». Lilli ci provò davvero a spremersi le meningi per trovare qualcosa degno del piano B. Si prese tutto il suo tempo per pensarci intanto che Gloria distribuiva il dolce. Con estrema lentezza, tra l’altro, visto che doveva aver capito che Lilli si trovava in difficoltà, e nonostante ci volesse mezz’ora per mettere una fetta in un piatto, Gloria minacciava apertamente chi avesse osato cominciare a mangiare senza aspettare gli altri. Ogni volta, dopo quelle parole, gettava un’occhiata a Innocenzo: chiaro come il sole che gli altri potevano anche strozzarcisi, col dolce, ma lui doveva aspettarla. D’altra parte, rimase invischiato per cinque minuti abbondanti in una dibattito con Veronica, che voleva i suoi occhiali e non voleva assolutamente alzare le chiappe dalla sedia per andare a prenderseli da sola. Certa gente è veramente fatta così. Gloria fece un gesto di esultanza quando la vide sbottare e saltare in piedi tutta stizzita, per poi procedere a tentoni, con un dito pigiato su un occhio che pareva volesse cavarselo. Lilli le lenti a contatto se le era messe sia a carnevale che ad halloween. Rosse, andavano bene per fare la strega adoratrice di Satana. Con tutta la sua inesperienza, tuttavia, non ricordava che una lente fastidiosa portasse a camminare come un cieco. Ecco, ora un argomento ce l’aveva, sfottere Veronica, ma era peggio che non avere niente. Novantanove su cento, Innocenzo si sarebbe sentito tirato in ballo, e questo era proprio quello che non doveva accadere. Il casino era che adesso quella trovata le sarebbe picchiata in testa tutta la sera. Gloria le passò accanto col vassoio quasi vuoto. «Trovato qualcosa?» bisbigliò, chinandosi con nonchalance su di lei. «Buio completo» rispose Lilli, portando due dita alle tempie. Gloria le diede un colpetto alle spalle con il gomito. «Non ti preoccupare, ho trovato qualcosa io.» disse, strizzandole l’occhio «Tu reggimi solo il gioco. Cerca di guadagnarti l’attenzione di tutti». Lilli sospirò, raddrizzandosi contro lo schienale della sedia. Tamburellò per un attimo con le dita sul tavolo per darsi coraggio, quindi tentò di prendere la parola. «Ragazzi» disse, e non ci fu un cane che le rivolse uno sguardo. Lilli storse la bocca, stringendosi con forza un polso nell’altra mano.
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«Ragazzi» ripeté, alzando il tono: questa volta uno si voltò, la guardò per un attimo, poi dal momento che nessun altro la considerava, tornò ad occuparsi di tutt’altro. Gloria, a cui non scappava niente, colse al volo la situazione. Posò il vassoio sul tavolo e agguantò un cucchiaino, cominciando a farlo risuonare furiosamente contro un bicchiere. «Ordine, brutti animali coprofaghi! Bestie ad offesa delle bestie! Vi richiamo all’ordine! Volete prestare attenzione o no?» e malmenava quel povero bicchiere al punto da far temere che lo facesse saltare in mille pezzi. Qualcuno rispose “no” con decisione, ma tutti gli altri si voltarono immancabilmente verso di lei. Innocenzo la fissava come si guarda un alieno. «Ma dico, chi ve l’ha insegnata l’educazione?» riprese, guardandoli malissimo tutti quanti «La qui presente signorina Liliana vuol parlare a voi tutti e, visto che vi ha preparato con le sue adorabili manine quel dolce su cui state per posare i denti e le manacce, ascoltare quello che ha da dire mi pare il minimo indispensabile». Il solito di prima scagliò un’invettiva a favore del rovesciamento delle istituzioni, un altro gli fornì il suo appoggio, ma per il resto si fece silenzio. Un silenzio riluttante, ma pur sempre silenzio. Lilli, allo stesso modo, rimase muta come una tomba. Attenzione ottenuta, e se non altro Gloria aveva rinunciato a spacciare il dolce come suo. E adesso? Mica le aveva detto cosa aveva in mente. Arrossì violentemente e si girò verso di lei. Gloria la guardò come se nulla fosse. «Ma che c’è?» domandò finalmente la ragazza che stava seduta accanto a Lilli. «Cucciola, sei diventata timida?» le chiese Gloria, fingendosi preoccupata. «Qualcosa del genere» rispose a denti stretti la ragazza. «Oh, povera la mia tesora. Va beh, vorrà dire che dovrò levarti io dall’impaccio, come al solito.» e alzò il visetto da faina, guardando tutti gli altri «La nostra Lillina si chiedeva se qualcuno di voi sa da dove venga il nome Enoch». Lilli si sentì raggelare il sangue. Tutti si voltarono a fissarla con aria spaesata. In un attimo si vide i loro sguardi puntati in faccia come i riflessi di un labirinto di specchi, le loro bocche distorte in smorfie che avevano del grottesco e che ripetevano quel nome, ora ad alta voce ora in mormorii fra sé. Chi? Enoch? Ma chi è? Enoch l’ho già sentito. Enoch? Dai, ma chi è? Mai sentito. Enoch. E’ straniero? Ma
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lo conosci? Lilli non ce la faceva ad affrontare quelle domande. Sentiva di dover dare una spiegazione e non sapeva più darla. «Sei una carogna» si ritrovò a dire a Gloria, che aveva già piantato il cucchiaio nel dolce. «Non dirmi grazie, allora» ribatté lei in tutta calma, e si mise a cinguettare con Innocenzo, inventandosi qualche scusa poco credibile per giustificare tutta quella storia. Lilli comprese che quella sarebbe stata la distrazione e per un attimo non se la sentì di reggere il gioco all’amica. Alla fine, comunque, aprì la bocca per rispondere in qualche modo. Le mancò il fiato, e attorno a lei di nuovo nessuno parlava, limitandosi a gettarle occhiate sporadiche. «E’ il figlio di Caino» fece una voce in fondo al tavolo, e tutti drizzarono le orecchie, anche senza volerlo. Lilli trasalì di botto e da rossa che era si sentì scolorire in viso. «Come hai detto?» domandò piano, accorgendosi di essere spaventata. «Dicevo che Enoch è il figlio di Caino. Il primogenito, intendo.» rispose quello, a bocca piena «Ed è anche il nome della città che Caino fondò. E un patriarca biblico, anche». «Zitti tutti, parla Pio XII» commentò divertito quello che prima voleva fare la rivoluzione, facendo sbocciare qualche risatina. Nicola, il ragazzo che aveva parlato del figlio di Caino, si portava dietro quel soprannome già da qualche anno: era storia nota che ai tempi del liceo aveva sofferto di depressione acuta. Una sorta di complesso di inferiorità con le donne, che lo aveva portato a convincersi che non avrebbe mai trovato una ragazza. Si vociferava che per questa ragione avesse pensato di farsi prete; di certo si sapeva soltanto che a neanche sedici anni si era già letto la Bibbia per intero. Ad ogni modo, alla fine si era trovato una tipa suonata che doveva averlo sverginato con una brutalità sconvolgente, perché dopo un mese Nicola era completamente uscito dal suo isolamento. La sua storia con quella ragazza non durò che qualche altro giorno, perché lei lo mollò in tronco per mettersi con un tatuatore brasiliano o qualcosa di quel genere, ma lui non risentì affatto della separazione. Proprio perché lo vedevano star meglio, la gente si sentì libera di cominciare a prenderlo in giro per quella sua idea di prendere i voti. Scelsero un papa a caso che dicevano gli somigliasse cosa per niente vera - e lo ribattezzarono, appunto, Pio XII. Nicola ci conviveva allegramente, con lo spirito di uno che ha ricominciato a vivere ancora da poco. Così sorrise anche lui davanti a quell’osservazione, senza alterarsi.
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«Ehi, ha chiesto se abbiamo mai sentito quel nome. Ecco, io Enoch l’ho letto lì sopra» si difese, allargando le braccia. «E ti pareva che non saltasse fuori la Bibbia, però.» borbottò uno dei ragazzi con aria di provocazione «Cazzo, siamo nel duemila! Dammi qualcosa di più attuale». «Guarda che ti stupiresti di quante cose che ti sorbisci ogni giorno derivano da quel libro lì» replicò Nicola, prendendosi un’altra cucchiaiata abbondante di dolce. «Nonono, sul serio.» si intromise Lilli, fissandolo «Parlami un po’ di questa cosa. Cioè, spiegami. Che vuol dire?». Il ragazzo inghiottì l’intero boccone, stringendo gli occhi. «Non è che ci sia molto altro. E’ tutta roba che si trova nella Genesi. L’altro Enoch è un patriarca antidiluviano, mi pare - e, ripeto, mi pare - sia il padre di Matusalemme». «Antidiluviano vuol dire che era contro il diluvio?» domandò una ragazza, confusa. Nicola alzò gli occhi al cielo e, come videro quel gesto, tutti furono d’accordo nel condannare l’ignoranza di una simile domanda. Probabilmente, se non avesse fatto alcun gesto, sarebbero rimasti tutti zitti. «Antidiluviano vuol dire “prima del diluvio”. Non “contro il diluvio”.» spiegò brevemente «E’ un patriarca che è vissuto prima del diluvio, stop». «E del figlio di Caino?» insistette Lilli «Non sapevo nemmeno che avesse avuto un figlio». «Altroché se ne ha avuti. Una discendenza bella ricca, ma non chiedermi tutti i nomi.» scosse piano il capo, socchiudendo gli occhi, quindi ammise: «A dir la verità, Enoch mi è venuto in mente a forza di giocare a Vampire». «E’ quella roba che ti fa credere che il mondo sia dominato dai vampiri?» domandò il rivoltoso, ridacchiando: stavolta nessuno gli diede spago, forse perché nessuno sapeva di cosa stesse parlando. «Non c’è altro?» chiese Lilli. «Non ricordo con precisione. E’ roba che occupa lo spazio di un versetto, roba così.» fece una pausa per inseguire una gocciolona di cioccolato col cucchiaino «Sull’altro Enoch, intendo il patriarca, qualcosa di più ci sarebbe. C’è un libro intero, apocrifo. Apocrifo vuol dire che non è incluso nella Bibbia tradizionale, per la cronaca.» e qui gettò un’occhiata verso la ragazza che non sapeva cosa fosse un antidiluviano «Il libro di Enoch, mi sembra che si chiami proprio così».
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«Pio XII è un papa apocrifo!» lo canzonò il rivoltoso, sgranando gli occhi in un moto di esaltazione. «Non ho mai letto quella roba, se è questo che vuoi dire.» disse Nicola con indifferenza «E’ roba che appartiene ad altre confessioni religiose. Non mi interessa. Mi pare che lo usino i copti». «Cosa sono, una minoranza religiosa?» domandò Lilli. «Più o meno. Sono ortodossi, ma hanno un loro papa. E non sono così pochi come uno pensa, solo perché qui non ce ne sono molti.» alzò gli occhi verso la ragazza, esaminandola con scetticismo «Si può sapere che te ne frega dei copti, però?». «Davvero. Chiamala curiosità morbosa.» osservò la ragazza che le era seduta accanto, squadrandola «Sei sicura di sentirti bene?». Lilli restò di sasso. Sentiva le dita delle mani e dei piedi formicolare e le labbra pesanti e appiccicose. La sua fetta di dolce era ancora nel piatto, intatta. «Sto bene, sto bene.» rispose sbrigativamente «Sono solo un po’ soprapensiero, stasera». «Sarà, ma sei pallida come uno straccio.» continuò quella «C’è mica qualcosa che ti ha dato noia?». «Vuol diventare papessa anche lei!» esclamò il rivoluzionario, e se la rise da solo. «Ti senti male?». Lilli voltò la testa: era Innocenzo. Doveva aver interrotto la sua chiacchierata con Gloria, dal momento che entrambi la guardavano con un’apprensione del tutto autentica. Di nuovo, Lilli si accorse di aver guadagnato l’attenzione di tutti, anche se stavolta l’aveva fatto non volendo. Provò a rispondere, ma si sentiva troppo a disagio per riuscire a formulare una frase coerente. «Vuoi che ti apra una finestra?» domandò lui, attento «Magari un po’ d’aria ti fa bene». «Così fa conoscenza col pinguino che c’è in giardino?» disse il rivoltoso, alludendo al freddo della sera. «E piantala» gli ingiunse Innocenzo, di fronte a quell’ennesima battuta. «E’ la stessa merda di prima?» le domandò Gloria, attenta, senza preoccuparsi di quanto potesse star male una volgarità in bocca a una ragazza. Lilli fece a malapena segno di sì con la testa, quindi portò una mano alla fronte, socchiudendo gli occhi. «Ora passa, però» sussurrò, tirando dei lunghi respiri. «Mi pare che tu riprenda colore, in effetti» disse, e Innocenzo le fece subito eco.
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«Massì, ora mi riprendo.» le garantì Lilli «Questa roba va e viene». «Ti tengo d’occhio, in ogni caso. Se mi convinci poco, ti carico in macchina e ti riporto a casa di persona» stabilì Gloria. Lilli chiuse gli occhi del tutto e si abbandonò sulla sedia, rinunciando a protestare. Almeno di esser riportata a casa non ci fu bisogno. Non che Lilli si sentisse all’apice delle proprie forze, ma riuscì a dissimulare a sufficienza per tutto il resto della serata. Si guardò Notting Hill insieme a tutti gli altri (tolti quelli che seguivano il film per cinque minuti e poi si alzavano per farsi gli affari loro) e notò tutti i dettagli più insignificanti, come il colore dei vestiti delle comparse, le automobili parcheggiate e le finestre delle case. Cose che succedono a chi ha visto il solito film una decina di volte: tutte le volte che sentiva parlare di Julia Roberts, la prima cosa che le veniva in mente era lei che si girava per andare al tavolo di cinque allupati. Si ricordava tutte le battute a memoria, se si sforzava. Poi c’era la canzone di Ronan Keating. Ok, lo conoscono tutti, ma se qualcuno chiede “Chi è Ronan Keating?” tutti rispondono che è quello che ha fatto la canzoncina di Notting Hill. Una delle tante, poi, e il titolo non se lo ricorda mai nessuno. Povero ragazzo, come se non avesse fatto altro in vita sua. Ecco, questa era una di quelle argomentazioni mentali che Lilli portava avanti da sola per passare la serata senza dare nell’occhio. Una di quelle cose che avrebbe sentito il bisogno di dire ad alta voce ma che, per qualche inspiegabile motivo, si sarebbe tenuta dentro sempre e comunque. Tuttavia, quando proposero di terminare la serata in discoteca, Lilli non se la sentì. «No, dai, voi andate pure.» disse, sprofondata sul divano «Se ballo e poi ci metto anche un bicchiere, stasera mi ricoverano». «Non preoccuparti.» rispose il rivoltoso, seduto sul bracciolo di una poltrona «C’è sempre una piattola a cui non piace andare in discoteca, cosa vuoi che sia?». «Io di piattole non ne vedo, a parte te.» Gloria partì al contrattacco senza perdere un attimo «Non te ne sei accorto che non si sente bene? Deve venire per forza, così magari casca per terra?». «O finisce per vomitare ubriaca in mezzo alla pista.» aggiunse Nicola, guardando il rivoltoso «Se non sbaglio è quello che è successo a te a Capodanno». «E’ stata una congestione.» precisò l’altro, e si mise a ridacchiare da solo «Etilica». «Bravo, quindi che ne diresti di chiudere la boccuccia e intrattenere gli altri con la tua imbecillità mentre la riaccompagno a casa?» gli
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chiese Gloria, rialzandosi in piedi e battendo un colpetto sulla spalla dell’amica. «Immagino non ci siano alternative» borbottò Lilli, guardandola. «Assolutamente no. Io in disco ci voglio andare, quindi ti spedisco nel posto che più ti conviene, stasera.» si avviò verso l’attaccapanni, da cui recuperò il tanto odiato piumino verde «A letto» e glielo tirò sulle gambe. In macchina non parlarono molto: si fecero quasi tutto il viaggio in silenzio. Lilli si sentiva in colpa per come era naufragata la serata, ma era sollevata all’idea di infilarsi sotto le coperte e non pensare più a niente sino al giorno dopo. A tratti non si ricordava nemmeno perché aveva avuto… Beh, quel che aveva avuto. Neanche sapeva come chiamarlo. Crollo nervoso? Pareva troppo drammatica, a dirla così. Attacco d’ansia? Ancora peggio. Malessere passeggero? L’unica volta che aveva usato quelle parole era stato per nascondere alla madre che aveva fumato uno spinello. Lilli arrivò a convincersi che poteva vivere anche senza una definizione specifica. «Mi dispiace per averti rovinato la cena» disse alla fine, infagottata nel piumino. «Ma figurati.» ribatté Gloria con indifferenza «C’è stato ben poco da rovinare, diciamolo chiaramente». «Non è stata una brutta serata» commentò Lilli, controllando che l’amica non se la fosse presa. «No, ma è stata una serata normale. Spenta. In una parola, noiosa. E io odio la noia.» storse la bocca, prima di gettarle un’occhiata «Almeno tu ti sei sentita male e per cinque minuti abbiamo avuto qualcosa di cui parlare». «Cosa sei andata a dire agli altri?» chiese la giovane, d’un tratto allarmata. «Io? Niente! Non vado in giro a parlare delle cotte delle mie amiche». Lilli abbassò il capo, stanca. «Te l’ho già detto, non mi pare proprio il caso di chiamarla così» mormorò. «Sia quel che sia, tesora, ora hai solo bisogno di dormirci su. Certo, a me risulta che ti conci in questo modo solo quando ti prendi una cotta di quelle brutte». Lilli non aveva voglia di parlare ancora di quella storia. Non voleva pensarci, era una cosa che voleva lasciarsi indietro sino a quando non si sarebbe sentita meglio. Allora avrebbe potuto rifletterci sopra a mente lucida. «Col ricciolone come procede?» domandò, cambiando argomento.
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«Da schifo» rispose secca Gloria. «Vedi che faccio bene a sentirmi in colpa?» osservò Lilli, rassegnata. «Un cazzo. Mi sa che con quello non c’è niente da fare, che tu ti metta a far casino o no. E poi non te la prendere, può capitare anche a te di essere… Fuori forma». «Sì, ma non fa una bella impressione una che brancola al buio con una scopa sulle spalle». «E un pacchetto di Mon chéri in mano. Non li abbiamo mica mangiati, tra l’altro.» fece una pausa, battendosi un dito sulle labbra «Per me comunque quello là non è tanto giusto. Carino, eh, ma mi sa che non è il mio tipo». «Prima di cena eri convinta dell’esatto contrario». «Bah!» sbottò Gloria, stufa «Sta a vedere che è gay, anche». Lilli guardò davanti a sé, stranita. «Non mi è sembrato gay.» ammise «Neanche un po’». «Se non è gay è scemo, allora. Uffa, una volta dicevano che gli uomini non si tirano mai indietro, davanti a una bella scopata. Cos’è, devo presentargli il mio curriculum vitae?». «Non penso che gli interessi» disse Lilli, accennando una risata. «Qualcuno allora dovrà spiegarmi perché deve sempre andare a finire così, con quelli più gnocchi». Fermò l’automobile davanti al cancello della casa di Lilli, restando seduta con una mano sul cambio e l’altra sul volante. La ragazza si tolse la cintura con uno sbadiglio. «Grazie per il passaggio, Glò.» disse, sporgendosi per darle un bacio sulla guancia «E per la comprensione dimostrata». «E che avrei dovuto fare?» ribatté l’altra, ricambiando il bacio «Grazie a te per essere venuta. Chiamami, se hai bisogno di qualcosa per il tuo antidiluviano». «Scema» Lilli aprì la portiera, posando un piede sull’asfalto della strada «Già, ma cosa faresti senza un’amica fuori di testa almeno quanto te?». «Di più, Glò.» disse lei, scendendo «Molto di più, fidati». «Adoro sentirti parlare così.» fece Gloria, orgogliosa «Fatti una bella dormita, tesora». «Lo spero. Buonanotte, Glò». «’Notte». 8- Ventunesimo giorno, Mercoledì «Copto? Perché dovrei esser copto?».
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Lilli rimase lì come una deficiente. In effetti non è che avesse molto senso, ma la lezione doveva aver funzionato da anestetico per il cervello. Dopo un quarto d’ora, aveva cominciato a portare avanti quel ragionamento, sino a convincersi da sola, per forza d’inerzia, della sua fondatezza. I copti hanno il libro di Enoch, aveva detto Pio XII. Quindi i genitori di Enoch erano di confessione copta. Nicola aveva anche sottolineato che ce n’erano tanti. «E’ un… Patriarca biblico, no?» balbettò, sistemandosi nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio «Antidiluviano.» aggiunse, come se questo avvalorasse in qualche modo la sua tesi «Insomma, credevo…». «E perché non il figlio di Caino?» fece il giovane, scocciato, avviandosi verso la piazza senza neanche starla a sentire «C’è anche quello, non lo sapevi?». «Conosci anche quello?» fece Lilli, fingendo di cadere dalle nuvole. «Quando ti porti dietro un nome come il mio, capita che ti interessi sapere dove siano andati a pescarlo.» rispose Enoch, gesticolando con una mano «A te non succede, vero? Lo sai cosa vuol dire Liliana?». «Ah, questo sì.» ribatté lei, cercando di trovare un appiglio per uscire da quella situazione «Vuol dire giglio». «Cosa non si trova sulle targhette che vendono alle bancarelle, eh?» insistette il giovane, sprezzante «E magari conosci anche l’etimologia? Chi fu la prima a portare quel fottuto nome?». «Beh, quello no…». «Ti dirò, neanch’io. Ma non per questo vado in biblioteca a cercare lo stronzo che ha inventato il tuo nome. E se anche scoprissi che è colpa di un cazzo di Imam del dodicesimo secolo, non verrei comunque a chiederti se sei musulmana». Lilli non ebbe la forza di replicare, né di far qualcosa per evitare tutti quegli sguardi curiosi che le venivano gettati da ogni parte delle piazze, dalle copisterie, dalle botteghe di alimentari, dalla finestre ai primi piani e dagli studenti seduti sulle panchine. Stringeva le dita attorno alla borsa dei libri e le sentiva tremare, ma non di rabbia. Un groppo in gola le impediva di parlare, come quando da bambina combinava qualche pasticcio e non riusciva a giustificarsi. Erano stati tre giorni tranquilli, senza preoccupazioni, e ora si pentiva di quella sicurezza che ne era derivata. Era cominciata come un gioco innocente e l’aveva trasformata in una vera e propria persecuzione. Eppure diventava necessario. Egoisticamente, per lei. Fin da principio, aveva voluto sapere di più di lui. Per divertirsi, inizialmente; per necessità, in quel momento. E non le bastava
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sapere qualcosa: voleva tutto. A tratti, avrebbe voluto anche che qualcuno le impedisse di perseverare in quell’ossessione, se non altro per cacciare il dolore e il tremolio delle ciglia che la rabbia di Enoch le instillavano. «Sei arrabbiato?» riuscì a domandargli con voce fievole, quando la risposta già la conosceva. Enoch era in mezzo alla piazza, il vuoto intorno a lui. Portò le mani alle tempie, socchiuse gli occhi e le riabbassò. «Se vuoi sapere qualcosa di me, d’ora in avanti chiedi. Non andare a cercare le risposte da qualche altra parte, come se tu stessi giocando alle spie.» rispose, quindi strinse le labbra «Puoi anche trattarmi come un essere umano, ogni tanto, e non come un bersaglio». Lilli non riuscì a capire se Enoch aveva mangiato la foglia: era troppo impegnata a inghiottire il proprio rimorso. «Ti avevo anche invitato alla cena di sabato» disse, cercando di ritrovare un equilibrio. Il giovane infilò le mani nelle tasche, guardandosi attorno, a disagio. Mosse un paio di passi per venirle incontro. «Scusa, Lilli. Te l’avevo detto che non sarei venuto». Lei provò un paio di volte a stiracchiare un sorriso. Aveva confidato che quell’ammissione l’avrebbe fatta stare meglio, che avrebbe alleggerito il carico che sentiva gravarsi addosso. Non aveva aiutato affatto. «No, hai ragione.» disse la ragazza «Avrei dovuto ritelefonarti io». «Non ti ho mai dato il mio numero» le ricordò Enoch. Lilli non riusciva più a seguire con nitidezza il filo del discorso. «Mi hai lasciato il tuo, ma io non ti ho dato il mio.» spiegò il giovane, quindi estrasse di tasca le chiavi del Peugeot «Vado alla macchina. Ci vediamo domattina». Lilli guardò quelle chiavi in silenzio, quindi mosse le labbra per mormorare un saluto a stento udibile. Enoch doveva aver capito, però, perché mosse la testa e le diede le spalle, dirigendosi verso il suo solito posteggio, lasciandola lì dov’era. Sola. Lilli riuscì a domandarsi perché questa volta non le avesse lasciato quel numero di telefono. Forse era di fretta. O forse non vedeva l’ora di andarsene da lì. Di andarsene da lei. Lilli rimpianse il vicolo dei gatti: quello sarebbe rimasto lì ad aspettarla, ma quel giorno non sarebbe stato altro che una strada stretta. Vecchia. Sporca. Senza niente su cui poter posare lo sguardo impunemente. 9- Ventiduesimo giorno, Giovedì
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“Non ti vedo mica tanto bene” aveva detto sua madre. Non capitava quasi mai che la trovasse già in piedi a quell’ora, quando lei usciva di casa. Lilli aveva fatto finta di nulla, aveva preparato la borsa a casaccio ed era salita in macchina con indosso i primi vestiti che le erano capitati sottomano. In treno, aveva risposto senza sorridere ad un ragazzo che si era alzato per farla sedere. Guardava attraverso il finestrino opaco e vi vedeva riflesso il proprio viso. Neanche sentì il bisogno di passarsi un dito sulle occhiaie per controllare se c’erano davvero. Doveva avere una faccia che era tutto un programma già il giorno prima, ci avrebbe giurato, ed ecco spiegato perché sua madre era già sveglia neanche alle sette del mattino. Si immaginava la discussione della sera precedente, davanti alla televisione: lei preoccupatissima per come l’aveva vista rientrare e suo padre annoiato che provava a dissuaderla dal romperle le scatole. Proprio perché sapeva che con lui non l’avrebbe avuta vinta, eccotela alzarsi di soppiatto dal letto al primo rumore e far finta di essere già in piedi da un pezzo per poterle dare un’altra occhiata. La routine dell’apprensione. In stazione faceva un freddo cane, di quello pungente che si insinua attraverso il cappotto e ti costringe a tenertelo addosso. Una tramontana gelida le spazzava i capelli, facendola almeno pentire di non essersi portata dietro un cappello. Sollevò il colletto, tenendolo serrato attorno alla gola con una mano. Poteva sentire l’aria gelida passare attraverso ogni spiraglio libero, ma era l’unica cosa di cui si rendeva conto. La pavimentazione del marciapiede le sfilava monotona sotto gli occhi, l’asfalto screpolato pareva il corpo di un moribondo incancrenito. Le sembrava di camminare sulla gommapiuma, come se i piedi fossero destinati ad affondare fino alla caviglia e la strada gonfiarsi verso l’esterno. Lilli non se ne curava minimamente. Poteva dire che c’era abituata, se qualcuno le avesse chiesto qualcosa. Per intenderci, sapeva bene che nessuno le avrebbe mai chiesto nulla, però convincersi di avere tutto sotto controllo era indispensabile. Era solo triste, poteva dire, ma non sarebbe stata del tutto sincera con sé stessa. Afflitta andava meglio. Provò a sorriderci sopra, ma sentiva troppo freddo per osarsi di muovere le labbra e sentirle ghiacciarsi ancora di più. Adesso non le importava più nemmeno sapere perché la faceva stare così. Voleva solo che finisse, in un modo o nell’altro. Di norma era la prima ad ammettere che qualcuno le piaceva, specialmente con Gloria. Con Enoch non era stato così, neanche in quel momento se la sentiva di ammettere una cosa del genere. Con quale diritto la faceva sentire così in colpa?
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L’aria calda che usciva dai radiatori le giunse estranea, invadente. Il rumore che emettevano, nel silenzio dell’aula, le faceva venire il mal di testa. Suo padre non si sentiva mai in colpa. No, questo non era vero: non dava mai a vederlo. Era un essere umano anche lui, impossibile pensare che si sentisse sempre dalla parte della ragione, che non si pentisse mai di aver messo troppo zucchero nel caffè. Lilli era troppo grande per ragionare per estremi. Il tempo per il complesso di Edipo o di Elettra era passato. Era ora di dimostrare di aver raggiunto un po’ di maturità: quella le avrebbe dato la forza di mascherarsi come doveva fare lui. Lui si rifiutava di crollare, di mostrare apertamente una debolezza, e questo doveva aiutarlo a tirare avanti. E ad essere incredibilmente solo. Lilli si domandò se suo padre confidasse mai a qualcuno, compresa sua madre, i dubbi e le paure che potevano sorgergli. Forse. Probabile. E’ a questo che serve avere qualcuno accanto, in fondo. Il professore spaccò il secondo, cominciando a spiegare alle otto e trenta in punto. Enoch avrebbe perso più dei soliti due o tre minuti di riepilogo. Non era che le dispiacesse in particolar modo, però la faceva sentire strana, come se quelle mattinata fosse pericolosamente anomala e instabile. Poteva essere che non si sarebbe più fatto rivedere, pur di non rischiare di avere di nuovo a che fare con lei. Gettare alle ortiche le ultime lezioni di un corso… Lei lo avrebbe fatto? Se fermamente convinta, sì. Non era una scelta intelligente. Quando le dicevano che era fuori di testa, proprio come Gloria, anche a lei piaceva fingere di prenderlo come un complimento. Intelligente o meno, era una scelta fuori dal comune. Lei stessa era fuori dal comune. Detta così aveva sempre suonato bene, almeno alle sue orecchie. Ma Enoch? Enoch era anche lui fuori dal comune? Poteva esserlo in senso drammatico, per quel che ne sapeva. Arrivò che erano quasi le nove. Lilli non fu nemmeno la prima ad accorgersene, perché a quell’ora tutti sono già abbastanza stufi da cercare di acchiappare al volo una distrazione. Per qualche secondo, si sentì sollevata in volo, in una specie di estasi. Scoprì che la mano le tremava, tanto che dovette accentuare la stretta sulla penna perché non le sfuggisse. Il quaderno l’aveva già aperto e richiuso da almeno cinque minuti. Avrebbe riprovato a prendere appunti, prima della fine della lezione, proprio per dimostrare che non era vero che non gliene fregava niente del corso, dell’esame e del libretto universitario. Avrebbe fatto quel che poteva perché ora era tornato. E invece no. Guardò indietro, cercò di cogliere uno sguardo, e lo vide intento a fissare il professore, col suo blocco note in mano. Girò la testa quasi subito, amareggiata. Le venne in mente quel capogiro che le era
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preso la settimana scorsa e lo rimpianse. Almeno l’aveva guardata, persino con insistenza. Ora più niente, un alone di vuoto che si espandeva da lei sino agli angoli più distanti della stanza. Incrociò le braccia sul banco, le spinse verso il bordo e si piegò, posandovi sopra il mento. Osservò il professore, così da fingere di non aver perso interesse per quello che stava spiegando, poi piegò il capo di lato. Come abbassò le palpebre, le parve di sentire le ciglia inumidirsi e non si mosse, immobile, sperando che si asciugassero da sole, senza che nessuno la vedesse portare un dito agli occhi per cacciarle. Quando si accorse di non potersi nascondere dietro ai capelli, alle braccia o allo sguardo posato a terra, si decise ad asciugarli come per scacciare un moscerino e li trovò appena umidi. Si vergognò di aver fatto tanta scena per nulla. Proprio per nulla, perché non c’era nessuna ragione per sentirsi così. Si voltò verso Enoch e colse quella sfumatura della durata di una frazione di secondo, i suoi occhi che tornavano di scatto a guardare davanti a sé dopo esser rimasti posati su di lei per chissà quanto tempo. Fin dall’inizio, pensò. Il professore annunciò una pausa di pochi minuti. Lilli crollò all’indietro con un sospiro, urtando il quaderno ad anelli del tipo che si era seduto dietro di lei. Si tirò la borsa sulle gambe senza curarsene minimamente. Ci ficcò le mani e cominciò a rovistarci confusamente dentro, sino ad estrarne il cellulare. Il numero lo compose a mente, impiegandoci tra l’altro meno tempo che si fosse messo a cercarlo sulla rubrica. Tuu. Tuu. Tuu. Tuu. Tuu. Lilli sibilò un’imprecazione. Suonò a vuoto per cinquantasette secondi. «Pronto?». Voce impastata, bassa, roca. Se lo immaginava. «Gloria?» mormorò Lilli, che non poteva permettersi di alzare il tono. «Tesora, sono Gloria solo dalle undici in poi. Meglio undici e mezza» fece l’altra, assonnata. «Scusami. Sul serio. Ti telefonavo per chiederti se mi potevi dare quella mano». «Lilli, ma non ti senti bene? Hai una voce da schifo, lasciatelo dire». «Ti ho detto che ho bisogno di una mano» ripeté la ragazza, scandendo bene le parole una per una. «Ok, ok, ma rallenta. Cazzo, mi hai appena svegliata» a sentirla parlare, però, dava l’idea di essere già all’erta all’incirca dal momento in cui aveva visto la chiamata in arrivo. «Sì, sì, scusa, lo so-».
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«Ho capito che lo sai, ma stai buona, cavolo. E’ per via di… Coso, come si chiama?». «Quello». «Ecco. Ci avrei giurato.» Gloria sospirò rumorosamente «Che è successo?». «Niente!» sbottò Lilli «Cioè, ci ho litigato ieri». «Oh, e fammi indovinare: adesso ci stai malissimo e vorresti esserti morsa la lingua perché credi che non lo rivedrai mai più». «Sono in aula, è seduto ad un’altra fila di banchi». «Cristo, Lilli, tu sei proprio partita». «Gloria, porca puttana, ho bisogno di farci luce, su questa storia. Mi vuoi aiutare o no?». «Ma che luce vuoi farci? A me pare tutto chiaro e lampante già di suo». «No che non lo è». «Io dico di sì, invece, ed è quello che ti ripeto da sabato sera: ti sei presa una cotta. E’ tanto strano?». «Vieni a lezione con me, domattina?». Lilli sentì Gloria trattenere il fiato dall’altra parte della linea. «Come?» domandò quindi quella, ridendo. «A lezione, qui. Prendiamo il treno assieme domattina.» Lilli strinse gli occhi, corrugando la fronte «Glò, mi avevi detto di chiedere a te, se avessi avuto bisogno». «Lo so, lo so. Cavolo, non ti ho mai sentita così. Sei uno straccio». «Gloria, ci vieni o no?» la incalzò la giovane, premendo la mano libera sul banco. «Ma non sono una studentessa universitaria! Sono un’orgogliosa mantenuta, non un’asceta che passa le giornate sui libri!» protestò l’amica, rimettendosi a ridacchiare «Non posso mica entrare in un’aula, mi buttano fuori». «Massì che puoi, che razza di discorsi fai?». «Ah, sì?» Gloria sembrava davvero stupita. «Altrimenti cosa te lo chiedevo a fare, testa di rapa?». «Wow, stai riacquistando mordente. Così mi piaci». «Gloria…». «Sì, sì, va bene, va bene!» concluse quella «Dimmi a che ora devo farmi trovare in stazione». «Non lo so… Prima delle sette e mezza, se vogliamo prendere il treno per arrivare puntuali». Di nuovo dall’altra parte seguì un silenzio di tomba. «Tu sei completamente pazza» disse alla fine Gloria. «Dai, sul serio».
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«Sul serio un cavolo! Io non faccio più levatacce da quando abbiamo finito le superiori e adesso mi vieni a dire che devo alzarmi all’alba. Te lo ricordi che la mattina ti dormivo su una spalla, in autobus?». «Gloria, per favore. E’ importante. Per una volta, una volta sola». «E’ inutile che dici “per una volta”, lo fai sempre e io poi finisco per venirti dietro come una scema tutte le mattine. E non chiedermelo con quel tono sommesso, me ne accorgo da sola di come sei ridotta». «Ho solo bisogno di riprendere un po’ il controllo di me stessa». «E per questo nobile intento domattina mi toccherà uscire di casa quando è ancora buio. Ora smettila di supplicare e fai un bel respirone, ok? Domattina lo castighiamo insieme». «Ma non voglio che lo castighi, mi basta-». «Farci luce e riprendere il controllo. Vedi che brava? Ho imparato anch’io. Come premio mi meriterei una bella dormita, non ti pare?». Lilli riuscì a fare un sorriso, finalmente uno vero, leggero. «Grazie, Glò» disse, arricciando una pagina del quaderno. «’Notte!» fu la risposta che ottenne, dopodiché la chiamata si interruppe. Lilli riabbassò il cellulare, osservando il display per alcuni istanti, fino a quando non notò gli sguardi curiosi degli studenti attorno a lei. Alzò il viso con una smorfia, guardandoli senza imbarazzo. «Beh? Mai vista una che telefona?» fece, stizzita. Qualcuno borbottò delle scuse, qualcuno non disse niente e qualcun altro ancora finse di non aver né sentito né origliato. Lilli rimise il cellulare nella borsa appena prima che il professore ricominciasse a spiegare. Premette il pulsantino in cima alla penna per tirar fuori la punta e si preparò risolutamente a compensare quel che aveva perso prima. Proprio per dare una conferma alla sua stessa sicurezza, si voltò verso Enoch. Non lo trovò. Il posto che aveva occupato sino all’intervallo era vuoto, senza tracce del suo passaggio. Aspettò invano per tutta la lezione che tornasse. Si arrese, infine, e richiuse il quaderno. Non di nuovo, pensò, mentre sentiva rimontare lo sconforto. E’ difficile fare effettivamente caso a quanto tempo trascorriamo al telefono, di quante parole riusciamo ad infilare in una stentata conversazione fatta di battute troncate a metà. Ripetendo le stesse cose almeno due o tre volte, cavillando su un’incomprensione, urlandosi dietro quando la linea minaccia di cadere. Uno che non ci bada dice che sta attaccato alla cornetta poco o niente; uno più attento e con meno vergogna è in grado di riferirti i minuti e i secondi al millesimo. Indipendentemente da quanti siano. Lilli aveva sentito
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al telegiornale qualche milione di servizi, sempre gli ultimi, su “come gli adolescenti passano la vita al telefonino”. Perlopiù una lista di calcoli in base a sondaggi da film surrealista. Lei ci rideva su ogni volta: le venivano in mente i questionari che le avevano piazzato sotto il naso alle scuole superiori; più avanti, anche all’università. Se uno si guardava intorno mentre lo compilava, vedeva una percentuale del cinque-dieci per cento di persone spaventosamente serie, assorbite dal loro ruolo di cittadini nell’atto di esprimere una ponderata opinione; tutti gli altri sghignazzavano e bisbigliavano qualcosa al compagno di banco. Perché? Tutti stupidi? Lilli sapeva che, per una volta, finivano per fare come lei. “E’ anonimo, no?” chiedeva uno e, come avevano ricevuto il segnale, cominciavano a scrivere, su quel foglio con stampato sopra l’ufficiale bollo del ministero, le più immani stronzate che venivano in mente. Poi alla fine una bella fetta si pentiva sempre e provava a ricorreggere, ma la voglia calava dopo due o tre domande. E via, consegnato pieno di strafalcioni, scarabocchi e crocette cancellate, segni di penna rossa, annotazioni fatte a lapis, talvolta con qualche disegnino. Su queste basi l’onnisciente ministero si sente in grado di dire quanto tempo passa al telefono la gente. Ma che cos’è, alla fin fine? Il riflesso della vacuità d’ogni giorno, che si accontenta di tre minuti trascorsi a parlare senza aver modo di guardarsi. Cosa rimane di un giorno trascorso, quando così poco, tale e quale a un granello di sabbia confrontato con le spiagge della California, lo spazza via come se volesse fare un dispetto alla memoria? Si finisce per vivere in virtù di una manciata di istanti piuttosto che di una distesa di anni che passano senza lasciar traccia, se non di noia e dolore. Il rammarico partorito da quell’incalcolabile silenzio si può avvinghiare agli uomini come un rampicante e trascinarli giù, giù. Con sé. Lilli sapeva come funzionano queste cose. Pensava che saperlo le avrebbe dato la forza di superarle. Ma se un ostacolo si aggira, si salta o comunque si supera, esso rimane comunque dietro di noi, fermo al suo posto, e chi ci dice che nella vita si può solo andare avanti? Un ignorante, un illuso, uno stolto. Un bugiardo che nega di aver mai visto la malinconia e il rimorso rimettergli davanti, tutt’altro che morto, uno stralcio di quel che è già stato e non ha mai cessato di essere. Così, la prospettiva di avere Gloria al suo fianco le aveva permesso di fare un balzo orgoglioso che sapeva di rivincita. Ma l’ostacolo, saldo e inclemente come tutto ciò che nasce inemotivo, non era stato scagliato lontano e il ritrovarselo accanto quando
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credeva di avanzare l’aveva angosciata. Sino alle cinque e dodici del pomeriggio. Lilli provava a trarre conforto dalla televisione, il che, c’è da dirlo, non è che alimentasse le sue speranze. Il cellulare, tra suoneria e vibrazione, aveva cominciato a saltellare sul comodino che sembrava fosse arrivata la fanfara. Lo aveva lasciato suonare per un pezzo, annoiata, prima di buttarci sopra un’occhiata. Era il numero di un telefono fisso, lo vedeva dalle prime cifre, ma non lo conosceva. Non era Gloria, quello era scontato; era anche l’unica che si faceva sentire, a pensarci bene. Non restava che un’alternativa; Lilli si portò di scatto il telefono all’orecchio, drizzandosi a sedere. «Liliana?». «Sì?». «Sono Enoch». Lilli chiuse gli occhi e allontanò il telefono dalla bocca, così da nascondere il tremito che ebbe il suo fiato quando inspirò. Si arrotolò una ciocca di capelli attorno a un dito e prese a torcerla impietosamente. «Volevo chiederti scusa per ieri» disse il giovane. «No, ma non ce n’era mica bisogno!» fece subito lei, con entusiasmo: il solo fatto di risentirlo, di avere la sua considerazione la faceva sussultare. «Beh, ci sono andato giù pesante. Stamani-». «Ma dai, su!» provò a zittirlo lei «Sono cose che si dicono». «Non proprio». «Guarda che mi sono sentita dire di peggio». Enoch rimase in silenzio per alcuni secondi. Lilli lo sentì sospirare. «Stamani mi sembravi giù da morire.» riprese il giovane «Per quel poco che ti ho vista, s’intende». Lilli perse tutta la sua verve; cincischiò, con i capelli avvolti attorno a quel dito e la lingua che umettava piano le labbra. «Ho pensato persino di venire al tuo banco, ma poi…» Enoch lasciò la frase in sospeso «Niente. Sono rimasto dov’ero». «Sei andato via» mormorò la ragazza. «Un po’ prima sì.» si affrettò a rispondere l’altro «Cose da fare». Lilli si massaggiò la fronte con due dita; guardava davanti a sé, confusa. «Mi dispiace di aver esagerato così.» riprese a bassa voce «Non ce n’era motivo». «Dai, Enoch…» ribatté la ragazza, e si accorse che era la prima volta che pronunciava il suo nome, col terrore di sbagliare in qualche modo la pronuncia «Non è il caso, sul serio».
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«Con tutto il casino che ho fatto in piazza? Avrei dovuto telefonarti già ieri, per fare le cose come si deve. Non aspettare una giornata, vedere che c’eri rimasta male e chiedere scusa solo allora. Se l’avessi fatto ieri, stamattina non saresti stata così giù di corda». «Pensi che mi sentissi così per causa tua?» domandò veloce Lilli, dissimulando la tensione «Non puoi saperlo». Enoch sembrò pensarci su per alcuni secondi, quanto bastò a lei per pentirsi di quello che aveva appena detto. «Non lo so.» rispose dunque «Può darsi, come può non aver significato nulla, ma se anche soltanto una minima parte della tua tristezza fosse derivata da quel che ti ho detto, ce ne sarebbe abbastanza per far star male tutti e due. E far star male te nonostante tutto non mi piace». Lilli trasalì: quelle parole le suonavano come un’ammissione. Di amicizia. Di sincera lealtà. Di amore. Non riusciva a capirlo, era come se le mancassero i mezzi. Eppure un campanellino aveva suonato, una corda era stata pizzicata. Se ne sarebbe ricordata anche senza volerlo. «Devo andare a studiare, adesso» disse d’un tratto, spostando lo sguardo sulla borsa appoggiata alla sponda del letto. «Oh, va bene.» disse Enoch, pacato «Ti ho mica disturbata?». «No, no. Nessun disturbo.» gli garantì Lilli «Solo che ora…». «Devi metterti a studiare». «Ecco, esatto.» rise, senza capire perché lo faceva «Ogni tanto tocca anche a me». «Capito». Capito cosa? Che doveva studiare o che stava scappando a bordo della prima bugia che le era venuta in mente? «Beh, allora ciao» disse Enoch, senza lasciar trasparire nulla. «Ci vediamo domattina?» chiese Lilli, provando a recuperare un indizio, una semplice inflessione che gettasse più chiarezza. «Sìsì, come sempre» fu la risposta frettolosa, automatico, priva d’entusiasmo del giovane. «Allora… A domani, Enoch». «Va bene, ciao». Lilli restò a guardare il telefonino fino a quando il display non fu scuro. Una telefonata, una sola. Di pochissimi minuti. Quanto tempo trascorri al cellulare? Tutto il pomeriggio, la sera e la notte che segue. Con chi? Con un pensiero e un ricordo. 10- Ventitreesimo giorno, Venerdì
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Se qualcuno avesse avuto ancora dubbi sull’arrivo dell’inverno, quella mattina si sarebbe ricreduto: faceva un freddo cane. L’aria umida, la tramontana gelida e la macchina che indicava con un “bip!” la presenza di ghiaccio sulla strada. Lilli si illudeva ogni inverno di essersi abituata a sopportarlo, solo per ritrovarsi a battere i denti in attesa del treno, con addosso il giubbotto vecchio di cinque anni, non per nulla il più pesante che aveva, e le braccia conserte nel vano tentativo di scaldarsi. Come arrivò in stazione, cercò con lo sguardo Gloria, senza trovarla. Facendosi coraggio, incrinò la sua posizione e guardò l’orologio. Dovette girarci intorno, oltretutto, perché funzionava da un lato solo; da prima ancora che cadesse il muro di Berlino, si diceva. Strinse i denti, guardandosi intorno, e proprio in quel momento le parve di veder Gloria salire le scale del sottopassaggio. Dovette avvicinarsi per sincerarsi che sotto la sciarpa e il berretto da lappone ci fosse la sua faccia. La salutò con una mano, ma quella non rispose perché le teneva entrambe nelle tasche del cappottino. Troppo leggero, un drammatico errore. Gloria le andò incontro con la testa piantata tra le spalle; a stento si intravedevano gli occhi azzurri, mentre la punta rossa del naso spiccava come una ciliegia matura. O come il naso di una ragazza sul punto di morire assiderata. Borbottò qualcosa di incomprensibile, fissando l’amica con uno sguardo feroce. «Non ho capito, hai la sciarpa davanti alla bocca» disse Lilli, facendo finta di nulla. Gloria girò la testa in modo da guadagnare un po’ di spazio senza dover togliere le mani dalle tasche. «Io ti ammazzo» ripeté quindi a denti stretti. «Ah, meno male.» replicò l’altra, sorridente «Pensavo chissà cosa». «Potrei farlo in maniera molto dolorosa.» borbottò l’altra «Ma dovrei muovermi, e l’idea basta a farmi rabbrividire». «Su, su. Tra poco arriva il treno e sentirai che bel calduccio, se il riscaldamento funziona». «Bella prospettiva.» commentò l’altra con sarcasmo, quindi spalancò gli occhi e si girò dall’altra parte «Inventati qualcosa, però, perché tra poco si accorgeranno chi sono e verranno a rompere». «Chi?» domandò Lilli, senza capire. «Come chi? C’è metà della nostra vecchia classe, lì avanti.» e fece un cenno della testa in direzione di un capannello di ragazze «Si accorgeranno di me e verranno tutte qui. E questo accadrà prima che arrivi il tuo treno». «Non credevo le odiassi, dal momento che le inviti continuamente a cena da te».
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«Portami via.» fece con voce rauca, allargando la bocca in una smorfia «Ho freddo, se parlo mi entra l’aria in bocca, non ho fatto colazione, mi si congelano i polmoni, lo stomaco e l’intestino. Quelle quattro galline se mi vedono poi cominciano a farmi le battutine, mi ronzano intorno tutto il tempo e non mi fanno neanche patire in pace. Portami via, se mi vuoi ancora bene». «Via, via, via, allora. Guarda, c’è un pilone libero» disse Lilli, prendendola per un braccio e dirigendosi verso il lato opposto del binario. «Che ci faccio, mi hai preso per Vlad l’impalatore?». «No, ti insegno un trucchetto che non si impara nemmeno alla scuola di sopravvivenza. Ferma lì» e la premette con un braccio contro il pilone. Gloria si irrigidì per il freddo e aprì la bocca al contatto col metallo e il cemento gelido. «Ma sei scema?» protestò, cercando già di divincolarsi. «Sta ferma, ti ripara dal vento. Sopporta cinque secondi, cavolo!». Gloria spalancò gli occhi e strinse la bocca, colpita. Rimase ferma dov’era stata messa con espressione attenta, spostando lo sguardo da destra a sinistra. «Uh, è vero» ammise alla fine, col viso illuminato da quell’improvvisa consapevolezza. «Altrimenti non ti ci mettevo, no?» le fece notare Lilli. «E se mi affaccio?» non aveva ancora finito di dirlo che piegò il capo di lato, per ritrarsi subito dopo. «Ti cucchi il vento». «E’ vero.» disse di nuovo, emozionata da quella scoperta, e cominciò a fare avanti e indietro «Vento. Non vento. Vento. Non vento». «E’ una scoperta che può salvarti la pelle.» disse Lilli, tornando a incrociare le braccia intirizzita «Il freddo non lo toglie di sicuro, ma è sempre meglio di nulla». «Zitta, non dirmi niente.» le intimò l’amica «Voglio illudermi di stare bene con un pilone ghiacciato contro la schiena». «Se ti fa felice». Gloria rimase ferma dov’era per circa quattro secondi, poi cominciò a molleggiarsi sulle ginocchia e infine a battere i piedi per terra. «Arriva fra tanto il treno?» domandò, senza nascondere la propria sofferenza. Lilli si voltò nuovamente verso l’orologio. «Dieci minuti, ritardo escluso» rispose, paziente. «E’ anche in ritardo?» piagnucolò Gloria, disperata.
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«Quasi tutte le mattine. Ma non di molto, giusto quei cinque-dieci minuti che bastano a farti arrivare tardi». «Dove, all’obitorio?». «Solo se fai medicina legale». Gloria la guardò senza parlare, con la fronte aggrottata e l’espressione inclemente. «Faceva pena, tesora. Al solito.» bofonchiò, quindi tirò su col naso «Però mi aspettavi di vederti arrivare qui con il respiratore sulla faccia e una flebo al braccio. Non eri mortalmente depressa?». «Non sono depressa» replicò la ragazza, impuntandosi. «Ok, non sei depressa. Distrutta, allora. Sfiancata. Sabato scorso sembravi una appena uscita dall’ospedale con una tisi malcurata». Lilli distolse lo sguardo con aria scocciata, senza riuscire tuttavia a scansare le occhiate di Gloria. «Senti, allora il termine corretto non ce l’ho.» riprese quella «Solo che mi pareva che tu fossi messa male. Voglio dire, altrimenti non mi avresti fatta venire fin qui, no?». Lilli abbassò la testa e fissò la punta delle proprie scarpe, osservando l’alluce che premeva da sotto contro la punta di gomma bianca. «Ieri mi ha telefonato» rispose, sentendosi persino un po’ colpevole: le sembrava che adesso avrebbe potuto fare anche da sé, senza bisogno di coinvolgere nessuno. Forse. «Ma è grandioso, no?» fece l’altra, rasserenata «Di cos’avete tubatoops, volevo dire parlato?». «Mi ha chiesto scusa» disse Lilli, senza riuscire a smorzare la vena sfottitrice dell’amica. «Oh, che teneri!» esclamò, congiungendo le mani «La mia cucciolina ha trovato un bambolotto rincoglionito proprio come piace a lei!». «Non ho trovato-». «Massì, massì, non ti agitare. State solo vivendo la crisi del numero sette. Sette giorni che lo conosci e ci litighi. Oh, ma magari lo conosci da più tempo». «Certo che lo conosco da più tempo!». «Allora è quella del numero undici». «Se non la pianti, ti trascino in mezzo alle oche giulive.» la minacciò, ammiccando alle compagne del liceo «Guarda, ce n’è una che ti guarda con insistenza». «Non una parola.» garantì Gloria, schiacciandosi contro il pilone come il sarcofago di un faraone «Quand’è che arriva il treno?». Il treno arrivò con un ritardo di soli tre minuti: i classici centottanta secondi che uno passa a controllare l’orologio, camminare avanti e indietro e ricontrollare un’altra volta. Segue quindi la fase del “si
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vede-non si vede”: si comincia confondendo i fanali del treno con quelli delle auto che passano nella strada accanto, poi si riesce a separarli. A quel punto, ci sono le varie ipotesi: è fermo, si muove, è lento, ma-arriva-o-non-arriva, sino al punto in cui te lo trovi davanti, e comincia a fermarsi quasi cinquanta metri oltre il binario. Gloria saltellava in un moto d’esultanza, con la scusa che così si sarebbe tolta un minimo il freddo di dosso; Lilli guardava i finestrini con scetticismo. «Tutto pieno» annunciò, quando ancora le porte non si erano aperte. «Pieno?» domandò l’amica, stizzita «Ma ho fatto il biglietto!». «Funziona come sul pullman, Glò. Il biglietto vuol dire che puoi salire, non che puoi sederti». Salirono insieme all’orda studentesca che aspettava come loro e che, allo stesso modo, aveva un’espressione smorta e rassegnata sul viso nel vedere i posti a sedere tutti occupati. Gloria non perse comunque tempo. Salendo, vide un ragazzo seduto tra uno scompartimento e l’altro su uno di quei sedili a ribalta e si impossessò del primo che le capitò a tiro. «Sistemata» disse, ma assunse subito un’aria perplessa quando vide che nessun altro seguiva il suo esempio. Lilli scosse il capo e la invitò col capo a rialzarsi. «Qui tra uno scompartimento e l’altro si riempie all’inverosimile.» la informò «Se resti seduta, ti trovi schiacciata come una sardina e senza ossigeno». «Opporca vacca.» imprecò, saltando in piedi «Questo non è un viaggio in treno, è una discesa all’inferno». «Io la faccio tutte le mattine.» Lilli salì i pochi gradini dello scompartimento adiacente e si fermò in mezzo al corridoio, stringendo le dita attorno alla maniglia tra un sedile e l’altro «Ci mettiamo qua, si respira di più». Gloria si guardava intorno come se fosse in mezzo a chissà chi, eseguendo gli ordini dell’amica. «Cacchio, non ce n’è davvero uno libero.» sussurrò, girandosi anche verso l’altro scompartimento «Ci tocca stare in piedi sino all’arrivo?». «Fai conto che sia un carro bestiame». «Almeno c’è caldo. E’ per via del bue e dell’asinello?». «Meglio non indagare se è il riscaldamento o…». «La flatulenza?» fece Gloria, drizzando il collo. Il signore in giacca e cravatta seduto al posto a cui si erano appoggiate interruppe la lettura dalla “Gazzetta dello sport” per fare
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una smorfia; Gloria dovette accorgersene, perché gli rivolse uno sguardo curioso. «Certo che adesso potresti dirmi come mai mi hai fatta alzare per venire con te» proseguì, riportando l’attenzione sull’amica. «Ma niente…» rispose evasiva Lilli. «Questo vorrebbe dire che mi hai fatto alzare per niente, e io non potrei perdonartelo.» le ricordò Gloria «Dovrei ucciderti con uno di quei sistemi particolarmente dolorosi di cui sopra». Lilli accennò ad una piccola risata, togliendosi la sciarpa dal collo. «E’ che un mucchio di volte rimango senza inventiva.» disse, arrotolandosi la sciarpa attorno alle mani «Non so come mai». «Quindi io devo intervenire quando vedo che ti incarti? Fare la panchinara, insomma?». «Gloria, dai…». «Nono, sono seria. Non mi secca, eh. Poco entusiasmante, forse, ma lo sai che non sopporto che uno stronzo ti faccia star male. Non lo ammetto, mi fa andare in bestia». «Se mi reggi il gioco, non ci sarà neanche il bisogno di incazzarsi. Non è un ragazzo cattivo, non farti strane idee». «Nooo!» replicò Gloria, portando le mani alle guancie «Mamma, è buono, lo amo e lo adoro come la pasta col pomodoro! Andiamo, Lilli, ho già inquadrato il tipo». «Non l’hai mai visto». «Non ho bisogno di vederlo, mi basta vedere le tue reazioni». Il signore della “Gazzetta dello sport” tossì in maniera spudoratamente fasulla. Gloria gli rivolse una nuova occhiata, stavolta persino preoccupata. «Lillina?» domandò in un sussurro, protendendosi verso l’amica. «Cosa c’è?» fece l’altra, guardandola male. «Il tipo qui accanto si sente male». «Mh?» Lilli alzò gli occhi per vedere cosa potesse mai avere, quindi si chinò anche lei «A me pare che stia benissimo». «No, te lo dico io, sta male. Ha appena dato un colpo di tosse autentico come le tette della Marini». Lilli si raddrizzò, coprendosi la bocca per nascondere le risatine. «Per me ha un grosso problema coi suoi neuroni.» continuò Gloria «Gliene deve mancare uno per fare una squadra di pallavolo e quelli non sanno più come fare». «Questo genera sicuramente gravissimi squilibri nella sua anatomia cerebrale» aggiunse Lilli. «Proprio quello che dicevo io, è colpa di quella brutta anatomia. Chissà a quanti anni gli è venuta».
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Il signore tossì di nuovo, sfogliando rumorosamente le pagine del giornale. Le due amiche non poterono fare a meno di grugnire altre risatine sommesse, sino a quando Gloria non sussultò per via di uno scossone che attraversò tutto il treno. «Oh mio Dio, stiamo rallentando» disse, guardando da un finestrino. «Per forza.» ribatté Lilli «Siamo alla stazione successiva». Gloria guardò l’ondata di pendolari, uguale se non maggiore a quella che si erano lasciate alle spalle. Nel vederli salire, si artigliò alla sua maniglia e li fissò con occhi colmi di orrore. «Occavolo, ma quante altre stazioni ci sono prima di arrivare?» domandò, voltandosi verso Lilli. «Assai» rispose brevemente quella. «Oh, che bello.» mormorò Gloria, intanto che si faceva da parte per far passare gli illusi in cerca di un posto «Potrò dire di sapere cosa provavano i deportati, dopo questo viaggio». «Magari se prendevamo il treno prima era meglio. Di norma c’è meno gente». «Ci credo, per un quarto d’ora di sonno in più io arrivo a uccidere. Cosa vuoi che sia uno scomodo viaggio in treno?». Il signore sbuffò sonoramente, piegandosi la Gazzetta sulle cosce. Gloria strinse le labbra e si girò verso di lui. Non si era mai fatta problemi a mostrarsi con gli altri tanto tollerante quanto lo erano quelli con lei. «Signore? Mi perdoni» disse, con quell’aria affidabile che era capace di sfoderare quando voleva; la dimostrazione che sapeva apparire tutt’altro che scema, se ne valeva la pena. L’uomo alzò il viso come uno che casca dalle nuvole. «Le chiedo scusa se io e la mia amica infastidiamo la sua lettura culturale con le nostre chiacchiere degne della nostra insolente generazione.» cominciò, in tutta calma «E’ il DNA malato che ci rende tutte quante delle puttane senza rispetto». «Magari non lo sa - ed è sicuramente colpa della cattiva informazione che si vedeva già nel drammatico fin de siècle - ma è la maleducazione il male primario di noi giovani» rincarò Lilli, con altrettanta serietà, affiancandosi a lei. Il signore aprì la bocca per parlare, ma Gloria aveva già ripreso imperterrita. «Non solo di noi giovani.» disse, calmissima «E’ il retaggio dei nostri padri, tutti ubriaconi e prostitute». «Ma che volete-» ritentò l’uomo. «E’ anzi statisticamente dimostrato che questa componente è presente da molti anni.» lo interruppe di netto Lilli «Lo testimonia il
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fatto che si trovano ancora persone che pur di leggere il giornale belli comodi, lasciano in piedi le ragazze facendo finta di non vederle». «Non le vedono, ma sicuramente le sentono, a giudicare da quanto ne rimangono indisposti.» aggiunse l’amica «La buona educazione non approva questo comportamento, sa?». «Ah, beh, allora-» riprovò quello, indignato, facendo il gesto di alzarsi. «Oh, no, stia, stia. Resti comodo.» fece Gloria, posandogli una mano sulla spalla per farlo stare lì dov’era, leggera come una farfallina «Non saremo noi a chiederle di alzare il suo culone flaccido per lasciar sedere due ragazzacce ancora giovani e in forze che, a differenza di lei, possono sopportare questo duro viaggio in piedi». «Guarda, Glò, c’è il bagno libero.» disse Lilli, indicando la porticina in fondo allo scompartimento «Andiamo a farci una spada di eroina?». «Tesora, come fai a sapere che non posso vivere senza la mia dose quotidiana?». Si spostarono di un paio di maniglie tranquille e beate, sotto lo sguardo stralunato di tutti i passeggeri. Il signore della Gazzetta allargò le braccia e si voltò per seguirle con lo sguardo, ma non bofonchiò nulla più che qualche parola sconnessa. Lilli scambiò un’occhiata con Gloria: un ben consolidato lavoro di squadra era esattamente quello di cui aveva bisogno per sistemare la questione. I freddi umori grigiastri di quella mattina non persero un attimo per appiccicarsi alle guancie e a schiacciare le due ragazze dentro ai loro abiti invernali. Ovunque, per i primi cinque minuti, fu un avvolgersi nelle sciarpe e un continuo soffiarsi di nasi. Gloria si guardava intorno come una bambina curiosa e sbalordita. «E’ la prima volta che ci vengo di mattina» disse, intanto che attraversavano i binari. «Ci sei già venuta?» chiese Lilli «A far che?». «Che discorsi, non è che siamo fuori dal mondo. Ci venni per fare shopping, l’ultima volta. Mi portai a casa una gonnellina di Prada che non ti dico». «Ecco, non dirmelo. Per un attimo ho temuto che ti fosse capitato, anche solo per sbaglio, di volerti mettere a studiare». «Tesora, quanto mi deludi. Pensavo mi conoscessi.» voltò il capo verso sinistra, fermandosi dov’era «E’ un treno, quello?». Non aveva ancora finito di dirlo che dalla locomotiva giunse il solito fischio assordante, tale da farla saltare su come una molla. Sui binari, la gente si limitò ad allungare il passo.
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«Sì, è un treno.» confermò Lilli, rimettendosi in marcia «Muoviti, altrimenti ci tocca fare il sottopassaggio». «Perché vuoi trasformarmi in poltiglia, Lillina cara, eh? Non ti piaccio più così come sono? Quello lì mi fa diventare due metri, se mi passa sopra». «Ma non ti passa sopra, finiscila!» la prese per il cappottino, trascinandosela dietro senza ritegno «Al massimo non muori neanche da sola, guarda che folla che c’è». «Peggio, così confonderanno i pezzi da mettere nella bara. Mi seppelliranno con le tette di un’altra!». «Questo è assolutamente impossibile». «Al massimo ti faccio chiamare per effettuare il riconoscimento». Saltellarono da un binario all’altro come gazzelle, col treno che insisteva a fischiare per avere le rotaie sgombre e il macchinista esasperato affacciato al finestrino. «Semmai dovrei chiedere a quelli che le hanno viste più da vicino da me.» ribatté Lilli, una volta arrivata dall’altra parte «Ci sarebbe la fila fuori dalla porta della camera ardente». «Zitta, per carità, che mi hai fatto vedere la morte da vicino!». Lilli non le rispose nemmeno, lasciando che si calmasse da sola. Non che ci volle molto, come di consueto. Fatti due passi, riprese a guardarsi intorno. Non le sembrava possibile di vedere così tanta gente in una stazione, tutta quanta scesa da un solo treno. Decine di altri ne sarebbero arrivati soltanto in quella giornata, sputando fuori moltitudini infinite di altri studenti o presunti tali. Oltretutto, aveva fatto i conti senza i turisti, che in primavera avrebbero ricominciato a infestare le stazioni e a trascinarsi sino ai loro sedili rigorosamente prenotati con due o tre quintali di bagagli. Per una ragazza non abituata, persino la realtà provinciale era qualcosa al di là di ogni previsione e Gloria, come era valso per Lilli ai primi tempi, non poteva che sentirsi spaesata. E dire che era sempre stata viziatella forte, e lo sapeva anche lei: era abituata a farsi scarrozzare da una città all’altra per soddisfare un capriccio, ma quella semplice vita che ognuno di quei ragazzi portava avanti, ciascuno con i propri pensieri e le proprie urgenze, le era estranea. Certo, non era nulla a cui non sarebbe stata in grado di abituarsi, tuttavia per il momento le rimbalzava addosso e scappava via, finendo sotto le scarpe di quanti prendevano una strada o l’altra. La respingeva, le parve. I manifesti scoloriti attaccati ai muri invecchiati, i parcheggi vuoti, la fretta schiva di quelli che camminavano da soli, i vu cumprà con gli zaini sulle spalle e un fascio di braccialetti in mano, le borse di pelle, quelle sintetiche, a tracolla o portate a mano, gli zaini, le cartelline; ogni
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minimo dettaglio trascinava la sua storia, di cui Gloria non riusciva in alcun modo a sentirsi partecipe. Una volta in aula, tuttavia, tirò un sospiro di sollievo. «Calore!» esclamò, infilando le mani direttamente dentro al radiatore e facendo un gran baccano per via di un anello spropositato che insisteva a portare; tutti i presenti, per pochi che fossero, si voltarono a guardarla. Lilli non ci fece nemmeno caso. Con Gloria quella era la norma, l’avrebbe fatto anche in mezzo alla lezione, con l’auditorio più benpensante possibile a disposizione. Ecco perché finiva per farsi conoscere molto in fretta. «Tra cinque minuti avrai anche troppo caldo.» disse la giovane, sfilandosi i guanti «Ci mettiamo a sedere?». «Siediti pure, io resto qua a scongelare». Lilli eseguì l’ordine alla lettera, solo che andò a sedersi al capo opposto dell’aula. Gloria, imbronciata, tolse le mani semi-ustionate dal radiatore. «Io alludevo a un posticino bello caldo lì nei dintorni» borbottò, dopo averla raggiunta. «Lì ci si mette lui, di norma» replicò la giovane. «Lì?» fece Gloria, indicando il radiatore col dito. «Da quelle parti. Al primo posto libero che trova, sempre nelle ultime file». «E allora perché non ci mettiamo lì?». «Perché adesso seguiamo la lezione. Sono qui per quello, in fin dei conti». «E quale brillante idea ti sarebbe venuta, allora, per giustificare la mia presenza qui? Sai com’è, a me della tua lezione non è che importi granché, a meno che il professore non sia giovane e aitante». «No, avraaà…» Lilli si batté un paio di volte il dito sulle labbra «Una cinquantina d’anni». «Somiglia a Richard Gere?». «No, somiglia a un orsetto di peluche appena uscito dalla centrifuga». «Sexy». «Come no, bellissimo.» Lilli si tolse sciarpa e giubbotto, ammucchiandoli sul sedile accanto «Pensavo di trascinarlo sino in Passeggiata, tanto siamo di strada per arrivare in stazione». «Grande, e se non viene? Ce lo porti per un orecchio?». «Beh, sei qui per aiutarmi, giusto? Sennò ti avrei fatta venire sin qui per nulla».
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«E dovrei ritornarci, perché mi ossessioneresti la vita sino allo spasimo». «L’hai detto tu che non vuoi vedermi soffrire, mica io». Gloria tacque. Batté un paio di colpetti a mano aperta sul banco, assottigliando le labbra. «Vuoi continuare a zittirmi ancora a lungo?» domandò, guardando l’amica. «Solo finché mi occorre» rispose in tutta franchezza quella. «Te ne approfitti perché giochi in casa». «Naturalmente. Tu faresti la stessa cosa». «Naturalmente un cazzo» ribatté Gloria, ma non brontolò oltre. Cominciò invece a rileggere gli ultimi sms in memoria sul cellulare, a darsi qualche ritoccatina davanti allo specchietto che si era portata dietro, a sfogliare il quadernino degli appunti di Lilli, trovandolo mezzo vuoto. Erano regolari e completi fino alla metà di novembre, circa, poi c’erano date scritte in alto e successivamente cancellate, pagine lasciate in bianco dopo poche righe, frasi sconnesse che non portavano da nessuna parte. Gloria guardò l’amica con viva perplessità, facendole vedere il quadernino. «Tutto merito suo» spiegò laconicamente Lilli, senza darci troppo peso. Gloria si addentò un labbro e annuì con un’alzata di sopracciglia. Frattanto, l’aula aveva cominciato a riempirsi, dapprima a poco a poco, poi con un’affluenza sempre maggiore. Le prime erano sempre ragazze sole - per qualche bizzarra ragione, non erano mai seconde a nessuno - dopo era il turno dei gruppetti di tre o quattro persone e quindi le coppiette. In extremis, gli scrocconi dell’ultimo minuti, quelli che non erano ancora entrati e già cercavano con lo sguardo l’amico che aveva promesso di tener loro i posti. Gloria ascoltava la descrizione che Lilli faceva di quasi ognuno di loro, che li conoscesse veramente o meno; storie fatte di aneddoti e pettegolezzi, di figuracce e di esami, dove tutti quanti all’improvviso sono amiconi, pur di farsi coraggio o condividere l’ansia con qualcuno. Ascoltava e guardava. «Manca il pesce più grosso, però» disse. «Se aspetti lui, prenditela pure comoda.» disse Lilli «Arriva sempre in ritardo, non l’ho mai visto essere puntuale». «Mi ricorda le volte che andavo a scuola in macchina». «Arriva in ritardo e se ne va in anticipo» continuò l’altra, incrociando le braccia. Gloria notò immediatamente che Lilli andava incontro a un rapido cambiamento d’umore. L’agitazione era visibile nei movimenti degli occhi e delle gambe, che non stavano ferme neanche mezzo minuto.
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Le braccia si intrecciavano e si scioglievano, prendendo di tanto in tanto a tamburellare con le dita sul banco; quando smetteva, si piegava in avanti e restava ferma, mostrandosi assonnata. Gloria capì e non fece niente, dal momento che farle notare il suo nervosismo sarebbe servito soltanto a renderla più irrequieta. Il professore arrivò infrangendo di almeno cinque minuti la sua puntualità svizzera. Per farsi perdonare, volle cominciare la lezione subito, senza perdere un solo attimo. Quanti erano andati fuori per fumarsi una sigaretta o prendere un caffè al distributore automatico cominciarono a rientrare in massa, cosicché, fra il rumore della porta che si apriva e chiudeva di continuo, dei sedili che cigolavano e dei quaderni che venivano aperti in tutta fretta, si perse il significato di quello che il professore spiegò nei primissimi minuti. Gloria elogiò sarcasticamente la flemma con cui Lilli, senza minimamente scomporsi, preferì non provare nemmeno a scrivere qualcosa sino a quando non ci sarebbe stato silenzio. «Guarda che adesso non si sente alcun rumore e tu non scrivi lo stesso» le sussurrò dopo un po’, assestandole una gomitata. «E’ tutta roba che so già» provò a schermarsi la ragazza, ma di sicuro non fu troppo convincente. «Il tuo giovanotto biblico non si fa vivo». «E’ in ritardo» fece Lilli, guardando l’orologio del cellulare. «Oh, allora è tutta normale?». «Ieri ha detto che sarebbe venuto. Gliel’ho chiesto prima di staccare la chiamata.» sbottò Lilli, a voce anche troppo alta, portando la mano a un orecchio come se fosse una cornetta «“Ci vediamo domani, Enoch?” “Sì, va bene, non c’è problema”». «In effetti io i problemi li vedo tutti nella tua testa». Lilli non replicò, preferendo sbuffare un paio di volte, e Gloria non infierì. La porta si aprì e si chiuse altre tre volte ed entrambe si voltarono all’unisono, solo per scorgere esclusivamente ragazzi trafelati, senza importanza. Alla quarta, Lilli sgranò gli occhi a tal punto da non lasciar adito a dubbi. Con mossa fulminea, si precipitò sul quadernino come una che aveva preso appunti sino ad allora e si era interrotta solo un istane. «Questo sì che vuol dire non dare nell’occhio. E’ quello lì?» chiese Gloria, indicando di nascosto Enoch che, senza uno zaino o una borsa, si sedeva in ultima fila, in disparte. Lilli fece velocemente segno di sì col capo; l’amica gli ridiede un’occhiata senza farsi notare. «Ma non è bello!» obiettò con scetticismo. «Chi l’ha detto che doveva essere bello?» ribatté velocemente Lilli.
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«A questo punto mi aspettavo-». «Che cavolo c’entra, ora?» la interruppe l’altra, come esagitata «Sei stata tu a saltare alle conclusioni. Da sola». «Buona, tesora, buona. Ti stai surriscaldando e diventi intrattabile». «Lo vedo da me.» disse Lilli, puntandosi le mani sulle cosce e abbassando la testa; si girò, poi, gettando uno sguardo fugace ad Enoch «E poi non è brutto». «Non sia mai.» Gloria alzò le mani, tirandosene fuori «Figurati se te lo tocco. Ho detto che non è bello, non che è brutto». «Non è questione di “toccarmelo”. Dico solo che non è così male». «Se non è male vuol dire che secondo te tende più al fico che al loffio. E’ questo che vuoi dire?». «Questo lo stai dicendo tu!». «Vuoi che te lo dica qualcun altro?». «Signorine». Lilli e Gloria si raddrizzarono di botto. Il professore le guardava spazientito, con tutta la prima fila voltata verso di loro. Da buoni automi, sollevarono una mano in segno di scusa, cordoglio e pentimento e chinarono il capo. Ognuna seguiva l’altra con la coda dell’occhio. Gloria, cercando di non fare rumore, prese un lapis dall’astuccio dell’altra e cominciò a scrivere qualcosa sul banco. Lilli si chinò a leggere. “Capita spesso?”. Le prese il lapis e rispose in caratteri ben marcati: “PRIMA VOLTA”. Gloria nascose le solite risatine con una mano e Lilli, per sua gioia, riuscì a far lo stesso. Programmarono l’assalto tracciando sul banco un piano strategico che, considerando il doveroso rispetto degli inservienti per la memoria storica dell’università, sarebbe rimasto impresso lì sopra per almeno un paio d’anni. Durante la pausa – la tregua, come la definì Gloria – partirono all’attacco come soldati che escono da una trincea. D’altra parte, il professore aveva detto che avrebbero fatto solo una “pausetta”, sempre con la scusa di recuperare quei fatidici cinque minuti iniziali. Non aveva ancora finito di dirlo che loro due erano già in piedi. Partirono sparate alla volta del bersaglio, schivando quelli che si alzavano all’improvviso e scivolando in mezzo a chi era stato addirittura più veloce di loro. Lilli stava in testa; Gloria, subito dietro, premeva per essere sicura che non si voltasse. Lo puntarono con un sorriso sfacciato, a metà tra il sadico e l’ebete. Lilli piantò di botto le mani sul suo banco e lui saltò indietro contro lo schienale, sebbene le avesse viste arrivare. Sul viso aveva un’aria da preda braccata.
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«Ciao, Enoch» salutò con entusiasmo la ragazza, e due o tre tizi seduti lì vicino li guardarono con la faccia di chi non capiva che razza di lingua stessero parlando. «Lilli» ricambiò l’altro, visibilmente più nervoso. «Sono venuta a trovarti, hai visto?» proseguì lei, senza perdere un colpo. «Sì, lo ve-». «Lei è Gloria.» disse Lilli, facendosi di lato per presentarla «La mia brava amica. Quella della cena, hai presente? Dì ciao, Gloria». «Ciao, Gloria.» ripeté l’altra alla lettera, chinando la testa alla giapponese «Ma pensavo ti chiamassi Enoch». «In effetti» confermò lui, ancora impacciato. «E’ venuta a farmi compagnia, visto che stamattina non aveva nulla da fare» disse Lilli. «Eh, sì, tutte le volte che posso starmene a letto, io mi alzo per fare compagnia a lei, già». «Posso immaginarlo… Gloria» fece Enoch, giusto per non restare in balia di quel fiume di discorsi. «Complimenti, non dev’essere facile immaginare una simile assurdità» disse quella. «Assurdità?» fece Lilli, stupita «Perché assurdità?». «Un tuo rapimento è un’ipotesi più credibile, mettiamola così». «Rapimento! Mi fai passare per una criminale! Mica chiedo un riscatto, io. Chi vuoi che spenda due centesimi per riaverti indietro?». «Allora è un rapimento disinteressato». «Sssì, dunque.» accennò Enoch, rigirandosi la penna tra le dita «Tu a che facoltà sei iscritta, Gloria?». «Oh, ne seguo una di rinforzo» rispose, con un cenno molto vago della mano. «Di rinforzo?» ripeté il giovane. «E’ quello che mi porta ad essere qui anche quando non dovrei». «Io e Gloria abbiamo pensato una cosa, prima» s’intromise Lilli, per impedire all’amica di essere troppo esplicita. «Quando vi ha richiamate?» domandò Enoch, indicando col capo il professore. «Ehi, ma qui quando uno fa casino se ne accorgono proprio tutti!» esclamò Gloria, in qualche modo divertita dalla prospettiva. «No, quella era una disputa sui punti di vista» spiegò Lilli, tornando a incrociare le braccia. «Una faccenda molto seria» aggiunse l’altra.
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«L’idea era di andare a fare un giro in Passeggiata. Come ti avevo proposto quella volta, ricordi? Dieci di mattina: niente seccatori, negozi aperti e ci accompagni in stazione, tanto per cambiare il copione.» la ragazza sorrise soddisfatta «Così ti fai anche perdonare». «Quindi qualcosa da farmi perdonare ce l’ho.» commentò Enoch «Una telefonata non basta mai». Lilli si inceppò senza preavviso. Si chinò sensibilmente e si rimise dietro l’orecchio la solita ciocca. Si raddrizzò, infine, e le riuscì di dire qualcosa. «Ah, tu intendi la chiamata di ieri.» mormorò «No, quella… Mi ha fatto piacere. Sul serio. E’ stato un pensiero… Gentile». «Mi è sembrato il minimo» disse Enoch e il tono placido con cui parlava la rilassava come un balsamo sulla pelle e al contempo le era insopportabile. «Non era quello che intendevo io» riuscì a replicare, a fatica. «Penso che prima di inforcarsi si riferisse alla mia cena» intervenne Gloria, pestandole anche un piede, non vista. «Ah, quella.» fece il giovane, spostando l’attenzione sull’altra ragazza «Non credevo di essere così atteso». «Figurati, se fossi venuto saremmo stati in tredici a tavola.» ribatté Gloria, scrollando le spalle con indifferenza «Ma ci vuole un martire che accompagni due fanciulle nelle strade delle spese folli, e qui dentro sei l’unico candidato». Enoch abbassò lo sguardo e le sopracciglia, facendosi pensoso. «Non vado mai in Passeggiata» ammise senza difficoltà. «C’è sempre una prima volta, mio caro.» disse Gloria, implacabile «E non provare a svignartela in anticipo, perché ti tengo d’occhio e apro il fuoco a vista». «Mi fai sentire sotto tiro, così». «Infatti lo sei.» la ragazza si voltò verso la cattedra, socchiudendo gli occhi «L’orsetto di peluche armeggia con il microfono. E’ già passato un minuto?». «A me non sembra un orsetto di peluche» osservò Enoch, guardando il professore. «Ma lui non è mica un orsetto di peluche come tutti gli altri». «Lui è centrifugato» specificò Lilli, tornando coi piedi per terra. «Certo, che palle, a casa mia il quarto d’ora accademico ne dura quindici, di minuti» mugugnò Gloria, sbuffando. «Inutile sperarci» commentò Enoch, che se non altro non sembrava preoccuparsene.
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«Ti veniamo a recuperare alla fine della lezione.» disse Gloria, afferrando Lilli per le braccia e girandola come un pupazzo. «Esco prima» insistette il giovane, senza concedere un millimetro. «Con cinque minuti di anticipo» stabilì Lilli, voltandosi come meglio le riusciva verso di lui. «Anche dieci» incalzò Gloria con una strizzatina d’occhio «Uomo avvisato, mezzo salvato, ricordatelo». La mandò avanti a spintarelle, sotto il malcelato disprezzo del professore, che le seguiva con lo sguardo mentre si abbassavano per passargli davanti. Come riuscirono a sedersi, Lilli tirò il fiato e si fece vento con una mano. Gloria la studiò con espressione attenta, piegando la bocca in una smorfia. «Guarda che non è mica naturale» disse, tendendo la voce bassa per non farsi beccare dal professore, che stava tentando di ricominciare la lezione nonostante il chiassoso parere contrario degli studenti. «Parli di me?» domandò Lilli, provata. «Anche, però che tu esci di testa lo sapevamo già.» rispose tranquilla, tornando poi a farsi seria «No, parlavo di lui». «E’ come… Come se avesse…» provò a dire Lilli, mimando non si sa bene cosa con le mani «Un’aura strana. Che confonde e stordisce». «No, più che altro non mi ha guardato le bocce». Lilli strabuzzò gli occhi. Gloria non mutava minimamente d’espressione, riflettendo su quella considerazione. «Scusa?» domandò l’altra, incredula. «Non le ha guardate. Neanche di sfuggita.» continuò Gloria, senza capacitarsi «Non è naturale». «Ma perché avrebbe dovuto restarsene lì fermo come un allocco guardare quelle due… Sonde!» Lilli smanacciò, ammiccando verso il seno dell’amica. «Queste due sonde, come le chiami tu, attirano l’attenzione.» ribatté l’altra, abbassandoci gli occhi sopra «Che ti piaccia o no, è così». «Magari non gli interessano, che ne sai tu?». «Cucciola, qualsiasi uomo, che sia un maniaco delle poppe o no, ci butta un’occhiatina. E’ un istinto. Non se ne vedono molte in giro, che ti devo dire? Sei tu quella che sta sempre attenta a tutto: io mi limito a lavorare nel mio piccolo». «Sì, cazzo, ma è tutta la mattina che non parli d’altro, Glò. Tette, bocce, poppe, si sente parlare solo di quelle!». «Sarai mica invidiosa, Lillina?». «Vuoi una sberla?». «Non c’è mica nulla di male ad ammettere un po’ di invidia. Tanto lo so che le vorreste tutte, solo perché non ve le portate a spasso
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ventiquattr’ore su ventiquattro. Anzi, me lo dovresti, dopo il recupero miracoloso di prima». Lilli preferì non rispondere, anche perché ormai l’aula si era fatta abbastanza silenziosa e non poteva permettersi di rischiare un altro richiamo. Prese quindi il lapis, esattamente come aveva fatto nell’ora precedente, e cominciò a scribacchiare sul banco. Gloria si stese alla meglio sul banco per coprirla. “Tette a parte, che volevi dire?”. L’amica lesse la scritta e cominciò a sorridere, lanciandole un’occhiatina che avrebbe dovuto essere eloquente, ma Lilli non capì dove volesse parare. Gloria dovette farsi passare il lapis per risponderle con uno di quei poemi che non si possono sbirciare sino a quando non sono stati finiti di scrivere. “Se il tuo bel topino non guardava il mio profilo migliore, ci sono due possibilità: o è gay, e lo escludo, oppure era talmente impegnato a fissare te da non vedere altro”. Lilli lesse, muovendo le labbra per pronunciare le parole senza farsi sfuggire un alito. Arrivata alla fine, la guardò di sbieco e si indicò con un dito, senza crederci. «Quello ti ha fatto direttamente le radiografie» sussurrò Gloria, senza neanche prendersi la briga di metterlo per scritto. Lilli, per l’ennesima volta, non replicò. Non fece finta di nulla, quello no, ed anzi intrecciò le dita sul banco, muovendole lentamente. Nel sapere che qualcuno le aveva messo gli occhi addosso c’era sempre di che soddisfare la vanità e al contempo permaneva un senso di pudore che impediva di accettare gli approcci eccessivamente diretti. Ripensava allora allo sguardo di Enoch, a tutte le sfumature della sua paura che sbiadiva per poi ripresentarsi, e si chiese se non fosse tutta una sorta di malata timidezza. E più ci rimuginava e più vedeva quei lineamenti addolcirsi in un’espressione languida, di una malinconia solitaria e delicata, tanto che alla fine non sapeva più dire se quel volto che le si affacciava alla mente era veramente il suo o una proiezione che si era creata lei stessa. Voltandosi, avvertiva i propri movimenti farsi legnosi e affaticati, indecisi. Enoch guardava avanti, seguendo la lezione; Lilli si concentrava quindi sulle sue mani, per quel poco che poteva vedere, e si chiedeva se quei movimenti coincidessero con quelli di uno che scrive o di uno che vuol solo darne l’impressione. Sospirò, e solo allora scorse il viso da furetto di Gloria, comodamente appoggiato alle proprie braccia. La vide scuotere il capo beffarda, con l’aria di chi la sa lunga. Lilli, col lapis in mano, riprese a scribacchiare sul banco senza troppa voglia. “Dove hai saputo del quarto d’ora accademico?”. Gloria le rispose col titolo di uno sceneggiato televisivo e la giovane provò a passare i restanti minuti a pensare a quello, giusto per tenere il cervello occupato.
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Enoch fortunatamente non provò a uscire senza farsi notare. Gloria lo scorse alzarsi in piedi e lui aspettò sulla porta che le due ragazze avessero lasciato a loro volta i sedili. Una volta che si furono bardate alla bisogna per combattere il generale inverno (che poi era ancora tardo autunno ma, dal momento che tutti avevano freddo, nessuno aveva voglia di star lì a sottilizzare), si diressero verso di lui ed Enoch uscì senza aspettarle ulteriormente. Gloria bofonchiò qualcosa sulla sua maleducazione; Lilli non se ne accorse nemmeno. I suoi pensieri vorticavano senz’ordine, accalcandosi in ogni recesso libero e schiamazzando l’uno sopra l’altro in una muta baraonda. Il fatto che fosse riuscita a convincerlo ad accompagnarle non voleva dire che sapesse a cosa le sarebbe potuto servire. Cercò lo sguardo di Gloria, che le batté una pacca sulla schiena e riprese a mandarla avanti. Allo sbaraglio. Uscirono dall’aula badando che la porta non facesse rumore e lo trovarono ad attenderle, appoggiato ad una vecchia scrivania che tutti ricordavano esser sempre stata lì. «Bravo ragazzo.» si complimentò Gloria «Vedo che hai capito cos’è meglio per te». Enoch non si mosse, né volle ribattere. «Andiamo?» chiese soltanto, senza tuttavia mostrarsi impaziente. Lilli annuì, aspettando però che qualcuno si decidesse a schiodarsi da lì e a scendere le scale. Alla fine, come al solito, Gloria dovette farla camminare a forza. Fuori, le nuvole si erano ritirate, lasciando spazio a un sole vagamente tiepido, che però bastava a risollevare il morale di chi aveva temuto in una giornata più rigida. Scendendo le scale non avevano aperto bocca ma, una volta fuori, Gloria aveva alzato gli occhi azzurri al cielo e inspirato a fondo. Si era bloccata, quindi, quasi l’avesse colta una paralisi fulminante. «Mi sono congelata i polmoni» fece con voce strozzata. Lilli le rivolse uno sguardo di simpatia. «E’ il guaio di respirare» disse, dandole un colpetto per farla muovere di nuovo. «Giuro che non lo faccio più. Però si sta meglio, c’è stato uno sbalzo climatico». «Aspetta cinque minuti e un po’ di brezza fetente e cambierai idea». Ci volle molto meno. Bastò affacciarsi sul lungofiume e fermarsi sulle strisce pedonali: una zaffata tagliente sfrecciò sopra i tettucci delle auto, ghermendo le cartacce dalla strada e sospingendole sino ai piedi dei tre ragazzi. Si abbottonarono il colletto sino in cima, tenendolo premuto sulla gola con energia. Come un automobilista ebbe la compiacenza di lasciarli passare, attraversarono velocemente
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e ripresero la marcia, col vento alle spalle che sollevava i capelli di Lilli e Gloria sino a schiaffeggiarle sulle guancie. «E’ solo questione di poco!» disse la prima, costretta ad alzare la voce per farsi sentire. «Oh, certo!» ribatté Gloria «Perché arrivi la primavera sicuramente! Ci vorranno solo tre mesi! Avrò tutto il tempo per morire prima che si cominci a star meglio!». Il tragitto sul ponte assomigliava a quello di una perestroika da luna park, con gli sbuffi ghiacciati che soffiavano liberamente da ogni parte, il marciapiede stretto e il traffico semi-congestionato. Studenti, uomini ben vestiti, donne in bicicletta e mendicanti seduti per terra ingombravano il passaggio. A metà, Lilli si fermò e trattenne Gloria per il cappottino. Di Enoch non c’era più traccia, come se quella torma di gente lo avesse inghiottito. Lo videro riemergere dopo alcuni secondi, distaccato, mentre scendeva dal marciapiede e si arrischiava a camminare lungo il margine della strada. Aveva un colorito pallido e un’espressione smarrita, completamente in balia di una confusione a cui non doveva essere abituato. «Tutto ok?» gli chiese Lilli, nel vederlo così. «Troppa gente» rispose stringatamente lui. «In Passeggiata si sta meglio. Cioè, c’è la solita gente, però… Insomma, è più larga. Sembra che ce ne sia meno, diciamo». «Ho perfino urtato una vecchietta». «Ah, ecco perché sei rimasto indietro» disse Gloria, intanto che riprendevano a camminare. Enoch tacque di nuovo. Lilli vedeva come il giovane si tenesse in disparte e non sapeva in che modo comportarsi. Anche rispetto a loro, Enoch stava a qualche metro di distanza, tanto che le due ragazze finirono per trovarsi di nuovo parecchio avanti, e lui indietro che di certo non faceva a botte per stare al passo. Di questo Gloria ne approfittò alla prima occasione. «Le alternative sono due.» bisbigliò, accostandosi all’amica «O gli sono antipatica o ha qualche fobia strana». «Perché dovresti essergli antipatica?». «Perché non risponde mai a quello che gli dico, devo cavargli le parole come denti». «Quello è normale, a meno che non sopporti neanche me». «E allora ha le fobie: chiamiamo Freud e facciamolo psicanalizzare». «Io avevo pensato alla demofobia: paura della gente, no?».
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«O nonnettofobia, paura delle vecchiette sdentate. O l’ha stesa con una spallata o quella deve averlo minacciato con un bazooka, per ridurlo così». «Bella scelta, il rimorso o il terrore». La Passeggiata appariva nitida, avvolta in quella luce scarna che a stento disegnava le ombre sulle strade e lungo gli edifici, pigiati l’uno accanto all’altro. Nell’aria si respirava un odore di caffè, brioche e di crêpes al cioccolato, che le prime sigarette e i tubi di scarico non erano ancora riusciti a sopraffare. Così le luci lasciate ancora spente per mancanza di voglia, le tende impermeabili che restavano bloccate sopra gli ingressi delle botteghe, gli ombrelloni chiusi. Sulla soglia, commesse annoiate mandavano sbadigli prolungati e si guardavano dallo stropicciare gli occhi assonnati per non rovinare il lavoro di trucco di quasi tre minuti. E gruppi mezzi dispersi di ragazzi, mani nelle tasche e sguardi ancora addormentati, biciclette che in tutto il giorno non avrebbero più ritrovato la strada così sgombra e filavano libere, cogliendo l’attimo fuggente. Un furgoncino ritardatario si sbrigava a scaricare scatoloni fasciati di nastro adesivo. Di sicuro, difficilmente avrebbero potuto trovare un orario più adatto per Enoch. Gloria adocchiò il primo tabaccaio aperto e fermò l’amica per un braccio. «Vi lascio soli due secondi, belli.» disse, senza farsi problemi «Non combinate dei guai». Partì a razzo. Enoch, che come prima se ne stava più indietro, si avvicinò. Di dieci o venti centimetri, anche. «In due secondi non è nemmeno facile.» commentò all’indirizzo di Lilli «Magari se mi concede più tempo…». «Cosa?» chiese quella, rabbrividendo all’improvviso e voltandosi velocemente verso di lui. «Che?» fece Enoch di rimando, spiazzato. «Cosa fai?». «Io? Niente! Cosa-». «Hai detto che se ti concede più tempo-». «Non ho fatto niente!». «Hai detto che avresti fatto qualcosa». «Ma non mi dà il tempo di far niente, neanche volendo». «Sì, però cosa avresti voluto fare?». Enoch si posò le mani attorno alla vita, abbozzando un sorriso. «Non lo so.» rispose quindi, ironico «Se vuoi, mi fermo a pensarci su». «No!» replicò subito Lilli, scuotendo la testa e cercando di metterla sullo stesso piano «Non è il caso».
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Enoch accennò una risata e si girò verso il tabaccaio, sollevandosi sulle punte. «Anche perché non avrei il tempo nemmeno per quello.» disse «Non ha trovato coda». Pochi attimi dopo, Gloria usciva con un pacchetto da dieci di Marlboro morbide. «Cristosanto, giuro che non resistevo più» esordì, scartandolo. Sia Enoch che Lilli restarono in silenzio; lei, in particolare, avrebbe potuto farle notare che fumava sì e no un pacchetto di sigarette al mese, per cui quello sbandierato attacco di dipendenza proprio non stava in piedi. Era qualcosa da dire, un discorso senza pretese, giusto per dare aria ai denti. Una frecciata innocua, di quelle che Gloria voleva sentirsi scagliare solo per il gusto di risponderle a tono. Non fece parola, invece, e spostò subito lo sguardo altrove. «A te non chiedo nemmeno se ne vuoi una, ci ho rinunciato.» disse l’amica, mettendosi subito una sigaretta in bocca «Tu, Enoch?». «No, grazie» rispose brevemente. «Non ti spaccerai per un virtuoso, spero.» disse lei, infilandosi il pacchetto in borsa «Magari vuoi ricordarmi che il fumo uccide?». Enoch studiò la ragazza con attenzione, osservando i movimenti con cui tirava fuori l’accendino e ne proteggeva la fiammella con una mano, la punta di arroganza nelle labbra che si stringevano attorno al filtro, nelle palpebre che si abbassavano con durezza. «Non sono il tipo.» rispose infine «Ci sono tante altre cose che uccidono». «Anche perché non c’è bisogno di dirmelo, c’è scritto sopra. Tra un po’, comprando un pacchetto di sigarette ti tatueranno in fronte “Fumare provoca il cancro e fa puzzare l’alito”». «Quello è vero» s’intromise debolmente Lilli, e per la prima volta da quando era uscita, Gloria le rimise gli occhi addosso. Aspirò una buona boccata, quindi riprese a camminare, sistemandosi meglio i capelli sotto il berretto. Aspettò che si ricreasse la formazione di base, ovvero lei e Lilli in avanti ed Enoch in solitaria nelle retrovie, quindi prese l’amica a braccetto, tenendola vicina a sé. «Dirti di non far casini è inutile, vero? Fiato sprecato» sussurrò, guardandola severa. «Ha fatto tutto lui!» sbottò Lilli, liberandosi dalla sua stretta e da una nuvoletta di fumo che le era finita sotto il naso. «Non me ne importa un cavolo. Se ti fai mettere sotto così, che io ci sia o no non fa differenza.» la rimbeccò l’altra «E tieni la voce bassa: ti stai sputtanando a morte».
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Lilli dovette mordersi la lingua ed evitare persino di risponderle, visto che con la coda dell’occhio si accorse di come Enoch stesse ascoltando quella conversazione. Lo faceva con una discrezione fuori dal comune, tanto che non avrebbe neanche saputo dire come avesse fatto a scoprirlo. Una sorta di istinto naturale, suppose, o quel conclamato intuito femminile che lei, pur essendo donna, non aveva mai capito cosa fosse. Era stato un flash di una frazione di secondo, un lampo non annunciato di consapevolezza. Arrivò a chiedersi se la sua fosse stata ben altro che una semplice impressione. Se ogni volta che aveva sentito su di sé lo sguardo Enoch, lui fosse sempre stato lì a controllare, non visto, ogni suo movimento. Se quel campanellino d’allarme suonasse per un preciso motivo, come una sesto senso di cui non conosceva l’origine. E la Passeggiata rumoreggiava piano, ignara, accavallando lo scorrere delle catene delle bici sul battere dei tacchi alti e delle suole consumate, sugli schiamazzi inaspettati, sulle risate tra amici. In quel brusio, Lilli ascoltava l’ondeggiante strusciare della borsa sui jeans e sull’orlo del cappotto. Le gambe le sembravano rigide come pezzi di legno, l’andatura meccanica, in qualche modo ridicola: la sensazione che si prova nel sentirsi osservati, valutati, quando si diventa improvvisamente consapevoli di come dirigiamo senza pensarci ogni movimento, anche quelli che ci appaiono impercettibili e il corpo ci appare come un infinito ammasso di filamenti e tendini che sfiora la mostruosità. Non è diverso dal trattenere il respiro e domandarsi se poi tornerà da sé ad essere un’azione involontaria e automatica, e temere per un istante di no, di esser condannati ad annegare, come sommersi dalle onde. Gloria la riscosse di colpo, agguantandola e tirandola verso una vetrina. Lilli sbatté le palpebre un paio di volte e le ci volle qualche secondo anche solo per ripiombare sulla Terra e capire cosa aveva davanti: un negozio di scarpe di fronte al quale ricordava di essersi fermata più di una volta, durante quegli anni che aveva trascorso all’università. «Ti piacciono?» domandò Gloria, puntando un dito verso una mensola su cui c’era una fila di stivali che non finiva più. «Se mi dici quali di preciso…» ribatté, piegando la testa. «Soprapensiero, eh? Dovresti sapere a quali mi riferisco tra questi». «Dovrei? Ero un po’ assorta». «Non sai quanto mi dispiaccia averti distratta. Forza, su, datti una svegliata, cucciola». Lilli si sforzò e lasciò scorrere lo sguardo lungo la mensola. Quando arrivò a uno stivale alto sino al ginocchio, con almeno quindici
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centimetri di tacca e una decina di fibbie metalliche, si fermò e storse la bocca. «Quelli?» domandò, proprio appoggiando il p0lpastrello al vetro. «Oui» rispose con un sorrisone Gloria. «Modello battona dark, credo si chiamino così». «Al di là delle tue pallose opinioni vedi qualcos’altro all’orizzonte? Qualcosa come un parere meno stronzo, ad esempio». Lilli socchiuse gli occhi, analizzando lo stivale in ogni dettaglio. «Mah.» rispose infine, facendo spallucce «Carini. In tutti i sensi» e indicò il prezzo. «Adesso non perdiamoci in quisquilie senza valore né importanza». «Beh, un valore ce l’hanno. E’ scritto su quel cartellino pieno di zeri». «Non cederò ai tuoi loschi tentativi di dissuadermi, sappilo». «Per amor del cielo, non pensarlo nemmeno. I soldi sono tuoi e i piedi anche.» replicò Lilli, ritraendosi «E’ solo che ce ne sono di sicuro di altrettanto… “Belli” e meno costosi». «Oh, adesso voglio proprio vedere, allora.» la sfidò Gloria, incrociando le braccia «Prego, vossignoria, indicatemi un paio di siffatti calzari». La giovane resistette alla tentazione di alzare gli occhi al cielo e rinunciare. Portò invece un dito alle labbra, spostando l’attenzione sul resto della vetrina. «Quelli.» disse dunque, indicando un altro stivale sulla mensola inferiore «Il prezzo è la metà, all’incirca. E sono molto meno baldracconi». «Chi ti ha detto che non li voglio baldracconi? Sai per caso cosa voglio farci, con quegli stivali?». «Non credo di volerlo sapere. Mi hai chiesto di trovarti una soluzione alternativa e quelli mi paiono meglio. O anche quelli» e ne indicò un altro ancora. Gloria li studiò come se si trattasse di animali mai visti prima. Passò dal primo, al secondo e quindi al terzo, per poi rifare il giro al contrario. «Può darsi che dentro ne abbiano degli altri ancora che non sono riusciti a mettere in vetrina» disse, cercando l’approvazione dell’amica. «Vuoi dire a stipare in vetrina» la corresse lei «In quel marasma non ci sopravvive manco un acaro». «Dici che non ci respira?». «A dir la verità non so se gli acari hanno i polmoni. Dovremmo chiedere al primo acaro socievole che incontriamo».
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«Chissà se dentro ne troviamo qualcuno. Quel tizio dietro al bancone ci somiglia parecchio, a un acaro». «Naa, quello è solo un brutto omino di mezza età. Lui i polmoni li ha di sicuro, non ci serve per il contributo che vogliamo donare alla biologia». «Magari è amico di un acaro. Con quella faccia, d’altra parte». «Oh, e dici che li alleva dentro gli stivali?». «Magari dentro a quelli che non sono in vetrina». «Scommetto che la trovi una scusa valida per entrare a provarli, Glò». «Dico solo che vale la pena di controllare. Per il bene della biologia e dell’umanità tutta, beninteso. Complimenti, ti sei guadagnata un regalo di Natale anticipato e senza sorpresa». «Cosa?» domandò Lilli sgranando gli occhi, ma Gloria, come sua abitudine, aveva già smesso di considerarla e si era staccata dalla vetrina. Enoch se ne era stato in mezzo alla strada a guardarsi intorno, apparentemente senza interessarsi alla questione. Gloria sventolò una mano per richiamare la sua attenzione. «Mister E!» fece, a voce alta «Puoi venire qui un momento?». Enoch le si avvicinò a passi lenti, tirando avanti le gambe come batacchi di campane. «Mister E?» chiese quindi, fermandosi appena prima del marciapiede. «Mi piace, è originale e ti fa sembrare un tipo misterioso e intrigante; il che, al giorno d’oggi, non è poco.» rispose rapidamente Gloria, senza dargli il tempo di fiatare «Ad ogni modo, sei stato designato uomo di buon gusto, nonché giudice ufficiale della compravendita». Enoch aggrottò la fronte. «Temo di aver perso il filo logico» confessò, guardando la ragazza. «Quelli.» disse quella, indicando la vetrina. «Stivali. Noi entriamo, ce li proviamo e tu ci dici quali ci stanno meglio, così li compriamo e diventiamo belle e fighe». «Io non voglio nessun paio di stivali!» si oppose Lilli, assaltandola alle spalle con entrambe le mani. «Tesoro, ho detto che è il tuo regalo di Natale. Non manca molto, no?» si giustificò Gloria «Gli ultimi li hai distrutti, a forza di portarli. Guarda che me lo ricordo». «Basta una fatina fosforescente, come l’anno scorso. Dì, ma l’hai visto quanto costano quelli?».
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«Esattamente quanto li pagheresti in qualunque altro negozio. Piantala di giocare alla piccola fiammiferaia, non sto facendo un’opera di carità». «Già, ma se li volessi li comprerei da me». «Non puoi impormi di comprarti il regalo che vuoi tu, tesorina.» Gloria le fece una carezzina strafottente sulla guancia senza nemmeno voltarsi «Pensa che ogni volta che qualcuno ti regala un paio di scarpe non sono mai come le vorresti. Io te le faccio scegliere e tu mi tieni il broncio. Ma quanto sarà irriconoscente?». «Irriconoscente un corno!». Enoch non rispose. Lilli rinfacciava all’amica che non doveva neanche sognarsi di farle da banca, Gloria borbottava qualcosa sui conti postali, ma lui dava l’idea di non ascoltare. Guardava attraverso la porta di vetro del negozio, con gli occhi vivi e accesi. Scrutava fin dove gli riusciva, percorreva ogni metro del pavimento sino al bancone, alle scatole da scarpe dietro di esse, alle pareti nude. Sembrava capace di calcolarne superficie e volume con un margine minimo d’errore. «Andrà per le lunghe?» domandò, senza distogliere lo sguardo. Gloria posò delicatamente due dita sulla bocca di Lilli per farla stare zitta e lo fissò. «Potrei dirti che daremo solo un’occhiata. Sarebbe la risposta che ti darebbe qualunque ragazza.» disse, gesticolando con la mano libera «Peccato che io non sia il tipo. Mi piace prendermi il mio tempo quando compro qualcosa, caro». Enoch non ebbe reazioni, come se Gloria stesse parlando con qualcun altro. Continuò a guardare il negozio, catturando persino l’attenzione del commesso di mezza età regolarmente dotato di polmoni, che aggirò lentamente il bancone. Lilli fece energicamente segno di no col capo e con le dita di entrambe le mani quando lui tornò ad abbassare lo sguardo su di loro. «Mi sta bene» rispose allora, con indifferenza. «Tu sei matto!» scoppiò Lilli, mettendosi le mani tra i capelli. «Vittoria.» esultò invece Gloria, passando un braccio attorno all’amica e cominciando già a trascinarla verso il negozio «Mister E, sei il mio supporter preferito». Lilli girò la testa oltre la spalla a guardare indietro, come una che viene condotta senza vie di fuga sino alla sedia elettrica. Gloria la lasciò andare per poter entrare per prima, pimpante come una bambina.
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«Buongiorno.» salutò, prima che il commesso potesse aprir bocca «Vorremmo dare un’occhiata agli stivali che avete. A cominciare da quelli che avete in vetrina». «Quali le piacciono?» domandò l’uomo, andandole incontro. «Tutti.» rispose lei, sorridente «Ma intanto comincerei con i primi tre della mensola più alta». «I primi tre.» ripeté il commesso, e lanciò un’occhiata perplessa alla mensola per controllare quali fossero «Ok, devo cercarli. Che numero le occorre?». «Trentasette per me e trentotto per la mia amica.» e indicò Lilli, che si guardava intorno con molto meno entusiasmo «All’occorrenza potrebbe servirci anche un trentanove, se calzano poco». L’uomo si grattò la fronte: significava almeno nove paia di scarpe e aveva detto che era solo per cominciare. Enoch, nel frattempo, stava entrando dalla porta. Con tutta calma, si portò verso un divanetto d’angolo, più in disparte, e vi si sedette. «Lei ha bisogno di qualcosa?» gli domandò il commesso, sperando in un cliente più normale. «No, grazie.» fece lui, alzando una mano «Io faccio il giudice di gara». L’uomo fece cenno di aver capito, probabilmente perché doveva, e ricontrollò le scarpe in vetrina, prima di sparire oltre una porticina stretta. Le due ragazze rimasero in silenzio per alcuni secondi, quindi Gloria ruppe il silenzio. «Non ho nemmeno visto quali sono, i primi tre stivali di quella mensola» ammise candidamente. Lilli si passò una mano sul viso, abbassando la testa. Dopo qualche secondo, riaprì gli occhi e li spostò sul tranquillissimo Enoch. «Non sai che cos’hai scatenato» gli bisbigliò, e non sapeva se ridere o cominciare già a piangere. Lui le sorrise con un’aria che non aveva nulla di rassicurante, ma che allo stesso tempo le fu improvvisamente gradita e confortante. Sei umano, pensò. E pensò anche a una massima di Proust che aveva letto su un libretto di aforismi e che a lei, teoricamente, non sarebbe dovuta piacere: “Nella vita delle donne, tutto fa capo alla messa in prova di un abito nuovo”. Di un paio di stivali, se ci si accontenta. In quello sguardo, ebbe il forte sentore che ad Enoch fosse venuta in mente la stessa frase. Non andò assolutamente nella maniera che si sarebbero aspettate, se non per il fatto che passarono quasi tutto il resto della mattinata in quel negozio di scarpe. Enoch, che si era tenuto da parte per tutta la Passeggiata, era socievole come non l’avevano mai visto prima. Era
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divertente, senza mezzi termini. Parlava volentieri, faceva le battute giuste, a sua volta non si vergognava di ridere. Per ogni stivale, poi, assolveva al ruolo che Gloria gli aveva imposto. I suoi giudizi facevano venire la voglia di provarsi un altro paio di scarpe, anche a caso. Dagli stivali brillanti quasi-tecnologici a effetto caduta assicurata, agli scamosciati modello “Madame occhio-alla-ciott”, a quelli in stile Pocahontas deportata. E giù a riderci, anche quando non ne valeva la pena, e a ordinare il paio di scarpe più sceme che vedevano. Lilli sghignazzava senza ritegno, Gloria faceva le boccacce al commesso esasperato quando questi le dava le spalle e se si allontanava cominciavano a mescolare le scarpe che non avrebbero sicuramente comprato nelle scatole sbagliate. Rossi in viso, con le labbra strette nelle smorfie più faticose possibili per nascondere le risate più spudorate, si scagliavano magari la carta appallottolata degli stivali quando credevano di non essere visti: se l’uomo li beccava, poi, tutti improvvisamente seri e a far finta di niente, per poi sfogarsi alla prima occasione possibile. Enoch, senza alzarsi dal suo divanetto, a un certo punto cominciò a storcersi nelle posizioni più assurde, simulando una specie di colica renale a cui non avrebbe creduto nemmeno un idiota. Scacciarono persino una donna, facendole credere che il commesso era di cattivo umore e conveniva tornare il p0meriggio. Non mostrarono più maturità di quella che si vede ad una festa di compleanno tra ragazzini di tredici anni. Quando videro che il commesso stava per perdere la pazienza, si mostrarono decisi nell’acquisto come se lo fossero sempre stati, ed uscirono di lì con i primi stivali su cui avevano posato gli occhi fin dall’inizio: Gloria con i baldracconi e Lilli con quelli che costavano la metà. Lasciarono il negozio pieno di scatole aperte, scarpe fuori posto e carta sparsa per tutto il pavimento. In poco più di un’ora, l’avevano trasformato in una sorta di magazzino portuale. Fecero quasi tutta la strada rievocando i brutti tiri che avevano giocato a quel poveraccio d’un commesso, imitando la sua faccia prima a disagio, poi vagamente infastidita e infine spaventosamente incazzata, con tanto di vena gonfia sul collo: si sarebbero sentiti in colpa il giorno dopo. Si fermarono solo di fronte alla classica vetrina di abiti da sposa, quella che aveva da sempre finito per catturare l’attenzione sognante di Lilli. Il viso le si scioglieva davanti ai veli bianchissimi, ai guanti lunghi sino al gomito, ai corpetti ricamati sino all’inverosimile. Nonostante quel che si creda, sono ancora tante le ragazze che vivono nell’attesa del matrimonio, e non importa quando, né con chi. Le vedi lì, con un sorriso dolce sulle labbra e un senso di umiltà che al contempo appare solenne. Quello di chi dice che i suoi desideri, in
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fondo, sono poca cosa se si concentrano in un solo giorno, e tuttavia l’intensità che riescono ad avere per loro quelle poche ore le rende intoccabili, al di sopra di qualsiasi critica. Così, con una vanità leggiadra e in fondo al cuore una speranza delicata come il cristallo, Lilli si perdeva nei colletti di pizzo e nei fiocchi di seta, come un bambino davanti a un negozio di dolci. «Perché non mi regali uno di questi, Glò?» domandò, con una serenità radiosa nel voltarsi verso l’amica. «Perché vanno al di là delle mie possibilità, tesorina.» rispose, avvicinandosi a lei per gettare uno sguardo distratto agli abiti «E, in tutta onestà, non voglio che tuo padre mi ammazzi». «Probabilmente gli prenderebbe solo un colpo» disse la ragazza, divertita. «E’ uguale. Gli voglio ancora abbastanza bene da preferirlo vivo». Risero appena, quindi Gloria si allontanò di qualche passo. Lilli accennò a fare lo stesso, quando per la seconda volta lo smascherò. Il viso di Enoch si specchiava sulla vetrina, col riflesso del sole che ne metteva in risalto gli occhi penetranti, così limpidi pur nella quiete, quella stessa che aveva visto tanto raramente posarsi su di lui. La guardava allo stesso modo, e sapeva di esser stato scoperto, ma non accennava a distogliere lo sguardo. Lei rimase a guardarlo, sebbene per pochi secondi. «E’ anche spuntato il sole! Quello vero! Che bello il sole!» esclamò infatti Gloria, che aveva già buttato il berretto dentro il sacchetto degli stivali. «Perché, il sole di prima era finto?» chiese Enoch, girandosi verso di lei. «Prima era freddo.» rispose la ragazza «Che razza di sole è, scusa?». «Un sole invernale» osservò Lilli, dimenando allegramente il suo sacchetto. «Infatti non è caldo, è la pressione alta che non ci fa sentire che la temperatura è la stessa di prima» aggiunse subito il giovane. «L’alta pressione di cui parlano sempre al meteo? Giuro che non ho mai capito che cazzo sia». «Io so che la fanno con dei cerchietti e dei numerini». «Cerchietti concentrici». «Come quelli delle parole crociate?». «Quelle erano le cornici, mi pare». «Spiacente, non è estate, non sono al mare e quindi le parole crociate non hanno ancora ricominciato ad esistere, per me». «Tutto questo è spaventosamente senza senso».
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Risero. Un’altra volta, una più o una meno non avrebbe fatto differenza. Fecero finta, senza che la cosa pesasse né a Lilli né ad Enoch. Andava bene, finché c’era di che star bene così com’erano. Di fronte alla stazione, Gloria si stiracchiò, dando l’impressione di allungarsi di trenta centimetri. «Adesso un’altra esperienza da deportati?» domandò a Lilli. «Naa.» rispose quella «C’è sempre meno casino, al ritorno. I rientri si scaglionano durante tutto l’arco della giornata». «Giusto.» riprese Gloria, guardando Enoch «Ma tu non vai e vieni fin qui con l’automobile?». «Parcheggiato a dodici chilometri da questa stazione, ma sì» le confermò il giovane, levandosi di tasca le chiavi del 106. «E dove hai detto che abiti?». «Non l’ho detto.» specificò lui «Dietro le poste, la strada parallela». «Beh, allora perché non tornate a casa assieme, le prossime volte? Tanto fate la stessa strada. E le risparmi un viaggio d’inferno». Enoch si raggelò di botto. Gloria parlava a vanvera solo quando non aveva nulla da perderci. Quella richiesta che gli faceva così improvvisamente, apparentemente spontanea, doveva averla in testa da chissà quanto. Aveva aspettato il momento giusto, tirandola fuori quando lui non avrebbe potuto dire di no. Lilli lo guardò in silenzio. In fondo alla gola, sentiva la sua stessa voce rispondere che non ce n’era bisogno, che non c’era il minimo problema, poteva tirare avanti come al solito. Ma non un fiato le uscì dalla bocca. Deglutì anzi con forza, come se potesse ingoiare quella tentazione e farla scomparire dentro di sé. «Non lo so.» rispose Enoch, rigirandosi incerto le chiavi tra le dita «Se ci tieni…». «Se va bene a te…» mormorò Lilli, stringendo il sacchetto con entrambe le mani. Lui stavolta non disse niente. Accennò due o tre movimenti delle spalle, provando a mostrare indifferenza. Allo stesso modo, si trovò ad annuire, pur con evidente nervosismo. «Grazie» sussurrò allora lei, e si accorse di condividere parte di quel suo imbarazzo. O quel che era. Gloria assistette al successivo silenzio senza sapere neanche lei se interromperlo oppure no. Indecisa, girò la testa verso i cartelloni della stazione. «Rischiate di perdere il treno» disse Enoch, prendendo la palla al balzo. «Sì.» ribatté Lilli, destandosi di scatto e cercando con la mano l’amica «Meglio affrettarsi».
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«Che fretta c’è?» borbottò quella «Ho visto un McDonald’s, all’occorrenza. Poi non ce ne dovrebbero essere uno all’ora, di treni?». «Io vado al Peugeot.» annunciò il giovane «Devo fare un mucchio di strada per arrivarci». «La stessa che ho fatto anch’io.» disse Lilli, con un sorriso «Già qualche volta». «Vero. Hai ragione». «Non è tanto breve». «Appunto». «Appunto». E rifurono da capo. Gloria si appoggiò stancamente ad una colonna e cominciò a giocherellare col cellulare. «Dai, ci vediamo mercoledì» si decise infine Lilli, con un sorriso. «D’accordo.» replicò l’altro «Fa buon viaggio, insomma». «Tenteremo». Dopo un paio di minuti, Gloria riuscì finalmente a varcare la soglia vera e propria della stazione. Accanto a lei, Lilli a stento guardava dove andava, camminando con la testa voltata indietro. Mentre l’amica timbrava il biglietto, sollevò con qualche esitazione un braccio. Non seppe dire con certezza, però, se Enoch si era veramente fermato a salutarla da lontano oppure no. 11- Venticinquesimo giorno, Domenica Lilli approfittò di quell’intero finesettimana per pensarci sopra. Disdì tutti gli appuntamenti per le serate - cioè uno solo, quello del sabato sera - e passò i due giorni successivi sul letto, a rimuginare. Era convinta che riflettendoci avrebbe trovato il bandolo della matassa, sarebbe venuta a capo di quella situazione, delle intenzione di Enoch e delle proprie. Si rigirava sul cuscino, stropicciandolo senza pietà: ora si metteva sul fianco, ora si stendeva a pancia in su, ora si rannicchiava in posizione fetale, come se ogni movimento servisse a schiudere una nuova consapevolezza. Analizzava quella mattinata minuto per minuto, fronteggiando i ricordi che minacciavano di alterarsi, di svanire nella sua percezione anziché nella realtà. Gloria avrebbe potuto aiutarla una seconda volta. Avrebbe potuto dirle cos’era vero e cos’era solo un frutto delle fantasie che le nascevano sulle innumerevoli opportunità che aveva avuto d’agire diversamente. Se non avesse esitato, Enoch sarebbe forse diventato più loquace sin dall’inizio? Se invece si fossero fermati a fare colazione davanti a quel bar che faceva sfogliatelle buonissime cosa
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avrebbe detto? Se nemmeno l’avesse trascinato in Passeggiata, non sarebbe stato meglio per tutti? E ci si crucciava con sempre maggior ostinazione. No, neanche Gloria avrebbe potuto farci qualcosa, e se lo ripeteva ogni volta che le ritornavano in mente le sue parole durante il viaggio di ritorno. “Rassegnati, tanto sei cotta. Puoi dire quello che vuoi, ma nulla me lo toglie dalla testa”. Aveva aggiunto anche qualcosa come “se fossi stata ubriaca, gli saresti saltata addosso anche in mezzo alla strada”. Questo in riferimento al fatto che, tra una risata e l’altra, avevano dimostrato una sintonia notevole, che non poteva essere attribuita al caso. Da flirt, per usare un vocabolo da giornale scandalistico. Lilli non faticava a immaginarsi la sua foto accanto a quella dell’ultima attricetta in costume, intenta a pomiciare con un calciatore tatuato. Ci sarebbe stato benissimo, se fosse stata famosa. Per sua fortuna, però, non lo era, e questo le permetteva di ragionarci su in tutta pace, senza dover renderne conto a nessuno. Era forse utile a qualcosa? Aveva taciuto di fronte al parere di Gloria; non le sarebbe stato impossibile tagliar subito corto come le altre volte, ma non sapeva se ne sarebbe valsa la pena. Fra sé e sé l’aveva definita “un’insinuazione delle sue”; insinuazione che era tuttavia riuscita a chiuderla nel mutismo e a scacciarle il suo abituale e sano appetito. Aveva dovuto mentire, sia a pranzo che a cena, tirando in ballo un’improbabile mal di pancia, dovuto forse a un principio di colite. A quel punto, aveva dovuto anche convincere i suoi a non chiamare il medico. Il sonaglio di legno sopra il letto girava, risuonando le sue semplici note, e Lilli lo muoveva con un dito, tanto che il braccio dopo un po’ le divenne insensibile e pesante. Lo lasciò ricadere, dunque, e si sistemò sul letto a faccia in giù, coi capelli che quasi le impedivano di vedere attraverso gli unici spiragli che le erano rimasti. Si risollevò con le mani, fece un giro completo su sé stessa, si rimise su un fianco. Non poteva escludere che in quello che diceva Gloria, in qualche bizzarro modo, ci fosse qualcosa di vero. Era stata la prima impressione anche dei suoi genitori, che eppure di quella storia non sapevano niente, o quasi. Lilli provò a figurarseli nella sua situazione, a immaginarsi cosa avrebbero fatto al suo posto. Ovvio che non le riuscì: non sapeva cosa prendeva a sé stessa, figurarsi se doveva tradurre la solita sensazione in un’altra persona. A tratti guardava il telefonino, controllava l’elenco delle chiamate e lo scorreva, ritrovando subito, per primo, il numero di Enoch. Nessun altro aveva più chiamato, ma neanche lui lo aveva fatto. D’un tratto, pensò che avrebbe dovuto sentirsi sola, e dall’altro le parve che ci fosse già
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qualcuno di troppo, a giudicare da come le invadeva ogni attimo libero di tempo. Chiedeva forse un’ammissione? Il potere dell’autoconvinzione è straordinario, e lei lo sapeva. Sarebbe bastato arrivare a pensarlo, magari a sussurrarlo appena, e inevitabilmente sarebbe rimasta avvinta alle sue stesse parole. Avrebbe finito per ripeterselo sino allo spasimo. Buttò via il cuscino, sbuffando. Dopo, dopo, quello non era il momento. Da sola non ci arrivava. 12- Ventiseiesimo giorno, Lunedì Ma arrivarci era possibile. Era necessario. Stabilì che avrebbe seguito la prassi più logica. Col capo cosparso di cenere, si preparò a rivolgersi all’unico che avrebbe potuto, secondo lei, darle una risposta: suo padre. Il primo giorno della settimana era quello con l’orario più umano: sveglia presto, ok, ma alle quattordici le lezioni erano finite. Aveva l’abitudine, a quell’ora, di mangiare a mensa, visto che altrimenti sarebbe arrivata a casa troppo tardi per trovare la voglia di svuotare un piatto. Quel lunedì, invece, filò dritta verso la stazione. Allo stomaco vuoto credeva di averci ormai fatto l’abitudine, tanto più che quel dilemma bastava a riempirla mente e corpo. Un’energia che stupiva persino lei la portava a tenere quel ritmo frenetico, a non concedersi nemmeno un attimo di respiro. Tutto il suo essere era rivolto alla risoluzione del dubbio. Addusse, come scusa per il rientro a casa anticipato, un tremendo mal di testa che avrebbe colto la professoressa, portandola ad interrompere la lezione prima del previsto. Per tutto il pomeriggio, attese quindi il momento giusto per passare all’azione, nascondendosi dietro un libro di testo che aveva in verità già letto e riletto da un pezzo. Un quarto d’ora prima dell’orario di chiusura della gioielleria, schizzò fuori di casa, dicendo che sarebbe andato dal tabaccaio a fare una ricarica per il cellulare. Il negozio non distava molto da casa; lo stesso valeva per il tabaccaio. Lilli uscì a piedi, chiudendosi nel primo giubbotto che le capitò sottomano; neanche a farlo apposta, agguantò il solito piumino verde. In strada, quand’era sola, si arrischiava ad accennare una corsetta che non avrebbe dovuto dare nell’occhio, rallentando sotto la luce dei lampioni. Avanzava a singhiozzo, sfuggendo lo sguardo dei pochi che mettevano il naso fuori di casa, col freddo che faceva. Per ogni passo che faceva, si ripeteva che doveva fare in fretta, per non arrivare prima che suo padre avesse già abbassato la saracinesca. Quando vide le vetrine ancora illuminate e le due lanterne ai lati dell’insegna si rasserenò, riuscendo a tirare un
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sospiro di sollievo e a riprendere un’andatura più sostenuta. Provò ad inghiottire il proprio fiatone, temporeggiando fuori dalla porta della bottega accanto. Come si accorse che non le serviva a nulla, perché non era la stanchezza a farle quell’effetto, si riassettò i capelli e superò gli ultimi metri. Non aveva mai tentennato per parlare con suo padre. Ora accadeva. Di nuovo, tanto per cambiare, ebbe un’altra prova di quanto poteva su di lei quel perfetto sconosciuto. All’interno della gioielleria c’era un tepore meraviglioso, di quelli che permettevano a suo padre di portare al massimo una giacca sopra la camicia, d’inverno e d’estate. La donna che aveva di fronte, invece, quasi scompariva sotto la pelliccia e il colbacco. Teneva per mano una bambina con le trecce che, a giudicare da come si guardava intorno, non vedeva l’ora di andarsene. Lilli salutò con educazione, per quanto al solo vedere la donna avrebbe voluto voltarsi e rimandare la discussione con suo padre. Si dice che la fortuna è cieca, mentre la sfiga ci vede benissimo. Non c’erano altre ragioni per spiegare perché la più grande rompiscatole di tutto il paese aveva deciso di insediarsi nella gioielleria proprio quella sera. La ragazza guardò suo padre, e sentì di ammirarlo per l’inesauribile pazienza con cui accondiscendeva a tutte le richieste che la seccatrice gli faceva. Sul bancone c’erano ancora, spiegati e non, una decina di rotoli di velluto per saziare la sua incapacità di prendere una decisione. E col suo sorriso affabile il gioielliere ne riapriva un altro, magari il solito di pochi minuti prima, e mostrava anelli e orecchini, approvava col capo, dava consigli e si complimentava per le scelte della donna. Per un moto di bontà, Lilli aggirò il bancone con un sorriso e si offrì di dare una mano a suo padre. Non le sfuggirono, infatti, le occhiate esasperate che le lanciava mentre le passava prima un rotolo e poi l’altro, affinché li rimettesse al loro posto. Quelli erano i momenti in cui la giovane scansava completamente l’idea di finire i suoi giorni dentro una gioielleria. I crampi alle mandibole, a forza di sorrisi, cominciarono a coglierla già dopo cinque minuti scarsi e, a giudicare da quel che sentiva, avrebbe dovuto sopportarli ancora per un bel pezzo. La donna levò le tende dieci minuti dopo l’orario di chiusura, dopo aver fatto un ordine che se non altro avrebbe compensato quella fatica. Una volta soli, Lilli e suo padre crollarono stancamente sul bancone. Gli occhi dell’uomo minacciavano di uscire dalle orbite dalla spossatezza. «Tenace la vecchia, eh?» disse Lilli, con la faccia appoggiata ad una mano, al punto da comprimersi una narice con la propria guancia.
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«Mortalmente.» rispose il padre, affrettandosi a dirigersi verso la porta per chiuderla «Era qui almeno dalle sei e mezza. Dovrebbe espatriare: in America la userebbero al posto dei B52». «Mi sa che la metterebbero tra le armi di distruzione di massa». «Basta specificare che cosa distrugge» ribatté l’uomo, spegnendo le luci esterne. «Ma che cosa voleva, poi?» chiese Lilli, chiudendo con cura tutti i cassetti «Roba per la bambina, quello l’ho capito, ma per cosa?». «Prima comunione» rispose il padre, scandendo ogni sillaba. La giovane rimase un poco perplessa, ferma dietro il bancone. «Non si fa a primavera, quella?». «Lo Spirito Santo scende quando gli fa più comodo, si vede. Ha perso non so quanto a parlarmi del prete. Controlla che le vetrine siano tutte chiuse, così ce ne andiamo prima che quella racchia ci ripensi e torni indietro». «Agli ordini» rispose Lilli, cominciando a fare il giro delle serrature. Nel frattempo, suo padre estrasse di tasca il telecomando per abbassare la saracinesca e lo premette. Il ronzio elettrico si accompagnò al girare della chiave nella toppa della porta. «Tu che ci fai qui, comunque?» chiese alla figlia, voltandosi infine verso di lei «A quest’ora la mamma ci vuole tutti a casa, specialmente tu». Lilli tirò a sé un paio di serrature, facendo tremare debolmente i vetri. Di nuovo, l’assaliva quel senso d’incertezza. «Volevo chiederti una cosa.» disse «Una delle nostre». «Quindi una che tua madre non deve sapere.» commentò l’uomo, sospirando «Discorso lungo?». «Beh,» ribatté la giovane «la vecchia avrebbe potuto trattenerti in negozio altri cinque minuti, no?». «Altri cinque, sì.» rispose il padre «Ma non di più». Lilli prese un bel respiro e si accinse a vuotare il sacco. Fu quello che fece, senza omissioni, nel minor tempo possibile. Suo padre, che aveva ascoltato con una coscia sul bancone e le braccia incrociate, sollevò un dito solo verso la fine. Strano che non l’avesse interrotta prima, come si addiceva meglio al suo stile. «Tutto questo casino per quel tizio che passò qui fuori tempo fa?» domandò, sinceramente scettico «Non mi è parso un sex symbol su due gambe». Lilli inarcò un sopracciglio, studiando la sua espressione. C’era un particolare che le stonava, in qualche modo. «Allora l’avevi visto, quella volta.» esclamò, quand’ebbe finalmente l’illuminazione giusta «Mi dicesti di no, me lo ricordo bene».
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«Infatti non l’avevo visto.» rispose subito l’uomo «Ma c’è un ragazzo della tua età che fa spesso avanti e indietro dall’altra parte del marciapiede. Non che si faccia notare molto, ti dirò, ma non ha la faccia di uno che è indeciso se comprare una collana oppure no. Quindi ho fatto due più due». «Tu sapevi chi è Enoch?» fece Lilli, sbalordita «L’hai visto passare qui davanti un mucchio di volte e non mi hai detto nulla?». «Errata corrige, tesoro. Io non avevo idea che si trattasse di quel tizio di cui dicevi tu. Poteva essere anche uno che voleva fare una rapina, per quel che ne sapevo io». «Ma se non sai chi è, come fai a dire che è Enoch?». «Facendo due più due, appunto. La prima cosa che mi è venuta in mente, a vederlo, era che fosse uno che ti ronza intorno. Sai, uno di quei tipi timidi». «Non ho mai detto nemmeno che mi faccia il filo» puntualizzò Lilli. «Stando a quel che mi hai appena raccontato, mi pare invece evidente. Deve dichiararsi con un mazzo di rose per dimostrartelo?». L’uomo si alzò dal bancone, risistemando con gesto automatico le pieghe dei pantaloni. Lilli teneva lo sguardo basso, persino infastidita: tutti avevano le idee così chiare, a quanto pareva. Lei, come il marito cornuto, era l’unica a non aver capito nulla. E più si sforzava, eppure, e meno scorgeva quel filo logico che per gli altri doveva essere lampante. «Dai, smettila di roderti il fegato e andiamo a casa» disse il padre, aprendo la porta sul retro e trattenendo un brivido di freddo. La ragazza lo seguì di controvoglia, varcando la soglia per dargli modo di chiudere. «Però a me c’è qualcosa che non torna.» bofonchiò, una volta fuori «Insomma, mancano un mucchio di… Sintomi classici. Non si comporta come dovrebbe, ecco. E non è che sia imbranato». «Liliana, quant’è che stai dietro a questa faccenda? Un mese?». La giovane storse appena la bocca, sentendosi improvvisamente colpevole di chissà cosa. «All’incirca» rispose appena. «Guarda che non ho scordato le scenate che hai fatto a casa. Ti stai perdendo in un mucchio di considerazioni senza senso». «Credo di farlo spesso, di recente» mormorò la ragazza, con un sorriso teso, provato. «E sbagli.» le rinfacciò subito il padre «Figuriamoci se funziona così. Per un uomo, poi. Andiamo, pensavo che qualche esperienza ormai l’avessi fatta, no? Qualche ragazzo l’hai già avuto e io ho dovuto arrendermi al fatto che non saresti arrivata vergine al matrimonio».
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«Pà!» saltò su lei, arrossendo inevitabilmente «Ti pare un discorso da fare?». «E a te pare che io sia scemo?» replicò subito l’altro, estraendo le chiavi dell’auto. Lilli si ritrovò a ridere sotto i baffi. Suo padre aveva tenuto quella conversazione sul versante della serietà per troppo tempo, non era assolutamente da lui. Inoltre, doveva essere una di quelle cose che si era tenuto nel gozzo per chissà quanto, a giudicare dalla spontaneità con cui l’aveva fatta uscire. Poteva tradurla come una domanda: “quella volta che sei rincasata su di giri - sì, me n’ero accorto - a chi credevi di darla a bere?”. E le veniva da sghignazzare più di prima. «Il bello di queste cose è che non seguono regole fisse.» continuò suo padre «Capitano, ed è tutto lì. Sono irrazionali. Se qualcuno si mettesse a spiegarle con le formule diventerebbero persino noiose. Quando si tratta di questioni come si deve, beninteso». Lilli rialzò il viso con una rinnovata aria di provocazione. «E’ incredibile quanti giri a vuoto riesci a fare per evitare la parola “amore” e affini» disse, passando attorno al cofano dell’auto. «Già.» rispose tranquillamente l’altro «Non si sa bene perché, ma è una parola che non sta bene sulla bocca di un uomo di cinquant’anni. Sono le strozzature della vita moderna». «Ah, le chiami così, tu? Io preferisco “stronzate”, suona più schietto». «Non è un caso se somigliano parecchio le une alle altre, sai?». Aprirono le portiere e si sedettero. L’uomo girò le chiavi nel quadro e accese la ventola per spannare il parabrezza. Lilli non riusciva a star comoda su quel sedile. Guardava le luci dei fanali che si proiettavano con sempre maggior nitore sull’asfalto e avvertiva un senso di mancata conclusione. Reclinò il capo contro il poggiatesta, stringendo le labbra. «In verità ci sarebbe dell’altro.» disse, con la fronte aggrottata «Non è che il mio problema fosse quello di sapere cosa prova Enoch». «Avevi parlato di una discussione lunga, non lunghissima» replicò suo padre, che sapeva essere tanto paziente coi clienti, ma assai meno per i problemi dell’adolescenza o della prima maturità che fossero. «Hai fatto tutto da solo» gli rammentò la giovane, e non si fece scrupoli a girare la chiave e spegnere quadro, fanali e spannante. A suo padre cascarono le braccia come due fascine. Si piegò in avanti, appoggiandosi al volante. «Sentiamo, forza» la incitò, senza però mostrare interesse. Lilli congiunse le mani in grembo e prese a guardarsi le unghie una per una. Poc’anzi, era riuscita a vuotare il sacco senza difficoltà: non
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era solita avere imbarazzi con suo padre. Ora che aveva conquistato ancora la sua attenzione, tuttavia, sentiva mancarsi il coraggio. «Non è facile da spiegare» mormorò, stringendosi con forza un dito. «Liliana, se eviti di tentennare mi fai un favore.» disse subito l’uomo, intuendo la situazione «A quest’ora comincia a venirmi fame e voglia di tornare a casa». «E’ che non so cosa pensare io» scoppiò, aprendo le braccia di scatto. «Di quel tizio? Se ne abbiamo parlato sinora!». «Di me stessa!» e si indicò, avvampando in viso molto più di prima. «E che dovresti pensare di te stessa?». «Che cavolo ne so! Se lo sapessi non lo verrei a chiedere a te!» si infilò una mano tra i capelli con tanta veemenza da finire per scompigliarli e farsi male «Quello che voglio capire è… Insomma, sforzati! Come se dovessi tirare le somme.» portò un dito alla bocca, addentando una pellicina persino con rabbia «Perché non è importante quel che pensa lui. Cioè, non è vincolante, diciamo. Voglio solo sapere qualcosa… Di me!». Suo padre si distaccò dal volante per tornare ad appoggiarsi allo schienale, estenuato. Guardò la moquette del tettuccio, le piccole luci posizionate appena sopra lo specchietto, e pensò che non sarebbe stato sbagliato accenderle. Sospirò, socchiudendo gli occhi. «A costo di pronunciare le parole proibite, contravvenendo così al mio ruolo,» disse, approfittando di un momento di silenzio «non sai se sei innamorata o no?». Lilli chinò il capo, nascondendo il rossore sotto i capelli che le ricadevano sulle gote. «Per farla breve… Sì» rispose quindi, artigliando le mani sulle proprie ginocchia. «E lo chiedi a me?» domandò il padre, sbigottito «Non sono mica nella tua testa!». «Sì, sì, però-». «Queste cose devi sentirtele tu da sola, non devono dirtele gli altri». «Lo so, è una cosa fuori dal mondo». «Altroché se lo è! E magari sei venuta fin qui di nascosto per chiedermi una cosa del genere!». La ragazza stette zitta, secondo la buona regola che chi tace acconsente. Suo padre la squadrava spazientito, con la chiave minacciosamente vicina alle dita. «Insomma, lui ti piace oppure no?» le domandò infine, per chiudere la discussione.
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Lilli rialzò il capo, girandolo per un attimo verso il finestrino, in cerca di una via di fuga, dopo essersi messa in trappola da sola. Quindi si voltò, con le labbra tremule e il groppo in gola. «E’ complicato» biascicò, e sentì le lacrime bruciarle gli occhi come sale, pregando per irrorarle il viso. Suo padre perse improvvisamente tutta la sua aggressività. Come vergognandosi, distolse a sua volta lo sguardo, preferendo non dire nulla. Lilli si premette il pollice sulla bocca e riabbassò la testa, facendosi piccola piccola su quel sedile foderato di pelle. Non sapeva cosa inventarsi, quand’anche si fosse trattata di una bugia, per scamparla. Si sentiva la testa ottenebrata, appesantita da quasi un mese di preoccupazioni attorno al solito argomento, alla solita persona. «Qualcosa non ti torna, eh?» domandò suo padre, addolcendo il tono. Lilli fece segno di no col capo, tenendo le labbra ben strette per non lasciarsi scappare neanche un singhiozzo. «Mancano i sintomi classici» seguitò suo padre. Lei si strinse nelle spalle come meglio le riuscì. «Non ti era mai capitato, vero?». «Mai» rispose Lilli in un roco sussurro, e prese a cercare un fazzolettino di carta nelle tasche dei pantaloni. Suo padre aspettò che avesse finito di soffiarsi il naso per parlare di nuovo. In quel breve frattempo, mentre fingeva di non farci caso, la seguì con la coda dell’occhio. Forse gli parve di essere tornato un poco ragazzo anche lui, fatto sta che sentì di capirla più di quanto volesse far apparire. «Tesoro, sono cose che dovete vedervi tra voi.» disse «Come faccio a dirti cosa provi, se non lo sai da sola?». «Lo so, lo so.» rispose Lilli, finendo di asciugarsi le narici «Però… Tu come hai cominciato con la mamma?». Suo padre stiracchiò un sorriso, quindi scosse la testa. «Ogni storia è diversa, non si possono fare paragoni». «Sì, ma come hai cominciato?» insistette la ragazza «A una festa, quello lo so. Ma com’è stato che è finita così?». L’uomo alzò il volto, visibilmente impreparato. I denti spiccavano in una sorta di sorriso sghembo. «Sinceramente?» chiese, senza guardare la figlia. Lilli annuì velocemente, infilando di nuovo il fazzoletto nella tasca. Suo padre inspirò dalla bocca, posando una mano sul volante. La giovane notò come le dita e il palmo vi aderivano mollemente, per poi stringersi e rilassarsi di nuovo.
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«Non è una cosa di cui parliamo volentieri, io e tua madre.» spiegò «Lo sai cosa pensa di me, e non ha certo torto. Non era la prima e non pensavo che sarebbe stata, in qualche modo, l’ultima. E non so nemmeno se abbia mai capito alcune cose». «Del genere?» domandò Lilli, vedendo che suo padre era indeciso se continuare o no. «Beh, non ero proprio solo, in quel periodo. O single, come si dice ora. Mio pareva di avere il mondo, da ragazzo. Sentivo di potermi permettere di fare un po’ il… Insomma, Come mi pareva». «Il puttaniere». «Eh. Sì. E quella sera attaccai bottone con tua madre così, tanto per fare. Da cosa nacque cosa, dopo». «E quell’altra?». «E l’altra… Niente. Era come me. A dispetto della mia presunta onnipotenza, se ne andò, e io mi ritrovai con tua madre e basta. Per quello non se ne parla, in casa. Lei fa finta di non sapere in che maniera poco galante mi ero comportato e io sono condannato a subire tutte le frecciatine che mi lancia facendo finta di cadere dalle nuvole. C’è voluta qualche litigata bella tosta per appurare come stavano le cose, sia per me che per lei». «Io ti avrei mandato al diavolo, fossi stata al suo posto». «Ma tu non somigli a tua madre, infatti». Suo padre girò la chiave d’avviamento, stavolta senza incontrare resistenza. Accese nuovamente i fanali e tolse il freno a mano. «Però avresti potuto continuare come prima.» osservò Lilli «Perché sei rimasto con lei?». L’uomo alzò entrambe le sopracciglia, con un’espressione insicura, e i movimenti con cui innestò la retromarcia risultarono più imperfetti. «Non so mica dirtelo. E’ per quello che dico che è una cosa irrazionale. Cominciò tutto come uno scherzo, una specie di scommessa stupida con qualche amico. Mi aspettavo, forse, che lei si stancasse di quel gioco prima di me. E invece…». «Invece la mamma ha tenuto duro» concluse la giovane per lui. «Già. Ci ha creduto. “Badate! Ella ci crede”. Come nella Madama Butterfly, no?». «Non l’ho mai vista, lo sai». L’auto uscì lenta dal piccolo parcheggio, con l’asfalto sgretolato che scricchiolava sotto le ruote. «Io dopo non sapevo bene che fare.» riprese suo padre, stavolta senza bisogno d’essere interrogato «Tirai avanti quella storia senza pensarci sopra. Alla fine, mi accorsi che non potevo più farne a meno.
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Così, senza preavviso. Non riuscivo più a figurarmi da un’altra parte». «Beh, è romantico, in fondo». «Tutte queste storie qua lo sono, se le si analizza sotto la giusta luce. Ognuna è diversa dall’altra, eppure». «Io qualche analogia con quello che sto passando io ce la vedo, però» disse Lilli, facendosi pensosa. «Poco e niente, non t’ingannare. E poi io sono un uomo e tu una donna… Beh, una ragazza, diciamo» si corresse, rivolgendole un’occhiata schizzinosa. «Farò finta di non aver sentito. Che vuol dire, poi? Sarà uguale sia per… I maschi e le femmine, va bene così?». «Grosso errore. Ognuna valuta secondo il suo criterio, ricordatelo». «E allora? Non mi dai neanche… Chessò, un consiglio?». «Certo che te lo do: quello di parlarne con tua madre». «Con la mamma?» fece Lilli, stupita «Non dire sciocchezze, dai!». «E tu non fare la bambina, Liliana. Non è un consiglio stupido». «Ma siamo su due orizzonti completamente diversi!» si oppose la giovane «Se solo le racconto tutto, mi fa un processo senza possibilità di appello. Dovrei parlargliene solo perché è una donna?». «No. Perché è tua madre». Lilli non seppe come ribattere. Non poteva non riconoscere che c’era del vero in quel che diceva, e si fidava abbastanza di suo padre per sapere che non l’avrebbe mandata a caccia di farfalle. «Pensaci su con calma.» disse l’uomo, dopo alcuni secondi «Tu non mi hai mai parlato di quel ragazzo e io non l’ho nemmeno mai visto fuori dal negozio. Ok?». Lilli, nonostante la diffidenza, avrebbe avuto voglia di abbracciarlo e di sentire la sua barba pizzicarle la tempia. 13- Ventisettesimo giorno, Martedì Ovvero il giorno degli orari impossibili. L’idea di doverla tirare sino alle sei passate le era insostenibile. La sera precedente, aveva cercato senza troppa convinzione di imbastire un discorso con sua madre, e l’aveva fatto soltanto perché doveva. Non aveva cavato un ragno dal buco, nel senso che il tempo a disposizione era stato poco e nulla e la mamma non aveva inteso al volo di cosa si trattasse. Lilli difettava con lei di quella confidenza che era riuscita a guadagnarsi negli anni con il padre. L’indomani, tuttavia, si era resa conto di essere alle strette. Aveva temporeggiato troppo a lungo; il giorno dopo l’avrebbe rivisto e le avrebbe dato, o almeno così sperava, quel passaggio sino a
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casa. Si era prefissata di fare chiarezza con sé stessa prima di allora e si trovava sempre al punto di partenza. L’ansia cominciò a farsi largo nel suo intimo già tormentato. Sarebbe bastato un ritardo del treno per tornare a casa fuori tempo massimo, senza più la possibilità di intercettare sua madre. Oppure l’avrebbe potuta trovare indaffarata ai fornelli, a sua volta in ritardo sulla propria, rigorosa tabella di marcia. E lilli premeva e ripremeva un pulsante a caso per illuminare il display del cellulare e guardare l’ora. D’improvviso, si accorse di crederci anche lei. Non come nella Madama Butterfly, neanche come aveva fatto sua madre tanti anni prima. Però riusciva, con la forza della disperazione, a fidarsi. Era decisa a confessarle tutto, e la distanza tra loro che non si era mai annullata non sarebbe stata d’impedimento. Sarebbe stato come un incontro inaspettato tra vecchie amiche, che di botto si ritrovano in mezzo a una strada e finiscono per infilarsi in una caffetteria e passare il resto della giornata sedute a un tavolo, a tracciarsi un resoconto della propria vita. Lilli non riusciva a rinunciare a quell’idea neanche con le mascelle piene del rancio che passavano a mensa; fuori, il solito vento inclemente scuoteva le piante nelle aiuole. Avrebbe trascorso le ore che la separavano dalla lezione successiva in un’auletta studio affollata, gomito a gomito con ragazzi intenti a ripassare o attaccati come l’edera a un computer portatile. Non cera certo una giornatina adatta per starsene all’aperto, d’altra parte. Se quest’ultima prospettiva bastava a farla rabbrividire, la prima riusciva a disgustarla anche maggiormente. In genere sapeva sopportare in silenzio, senza dimostrare tanta intolleranza, ma non quel pomeriggio. Per cui, infrangendo una volta di più i suoi propositi di brava studentessa, non si curò della lezione e saltò sul primo treno che l’avrebbe riportata a casa. Passò il viaggio a inventarsi una scusa, arricchendola di particolari per ogni minuto che passava. L’ultimo le si affacciò alla mente nel momento stesso in cui apriva il cancello: il giardino cotto dal freddo già si preparava con rassegnazione ad accogliere un tramonto sempre più tiranno. Lilli guardò il cielo come una clessidra fatale, la cui sfumatura sbiadita scivolava, granello per granello, nel ventre del crepuscolo. Non un’immagine consolatoria, ma le piacque. Le diede lo sclancio per aprire la porta e ostentare un’assoluta normalità. La mamma aveva aperto la tavola da stiro pochi metri più avanti, in cucina. Col ferro in mano e una camicia bianca stesa davanti, le gettò un’occhiata che a Lilli seppe sin da subito di diffidenza. «Che ci fai qui?» le chiese senza mezzi termini.
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La consolò il fatto che quella voce, almeno, non fosse così tonante come temeva: anzi era curiosa, un poco spaesata. Il suo arrivo era il dettaglio che scombinava la routine in cui sua madre sapeva cristallizzarsi con esperienza. Lilli detestava quel suo vivere così banale, dove prima di andare a letto si poteva prevedere, senza possibilità di errore, quello che sarebbe successo il giorno dopo. «Mancava un professore» rispose, e senza pensarci posò la borsa su una sedia, sempre la solita, di fianco alla porta. «Non me l’avevi detto, ieri sera» disse sua madre. «Non lo sapevo.» ribatté Lilli «Sono arrivata lì e lui non c’era». «Così, senza neanche prendersi la briga di avvisare?» e lo domandava con incredulità, come se non le sembrasse concepibile un simile comportamento. «Che ti devo dire.» la giovane allargò le braccia «Non lo sapeva nessuno». «Mi pare impossibile» commentò sua madre, storcendo il naso. Lilli aveva immaginato quella replica. Non si scompose, quindi, preparandosi a seguire il canovaccio che si era prefissa e che, teoricamente, avrebbe dovuto farla persino passare bene. «Nessuno me l’aveva detto, mettiamola così.» continuò, prendendosi una caramella da un barattolo «Poi stamattina ho sentito alcune voci di corridoio che dicevano che non si sarebbe presentato e dopo pranzo sono andata a informarmi al dipartimento». Parlò con sicurezza, senza incepparsi, ma un attimo dopo le venne in mente che a quell’ora il dipartimento era chiuso e provò il desiderio di mordersi la lingua. Sua madre non poteva saperlo, però. Non doveva ricordarselo, più che altro, perché a Lilli tornò subito alla memoria un episodio simile, in cui aveva appunto trovato il dipartimento chiuso. A quel punto, avrebbe potuto dire che il martedì facevano orario continuato, ma non sapeva se sarebbe stata abbastanza credibile. Sua madre però non ebbe alcuna particolare reazione, riprendendo a passare il ferro sulle maniche della camicia senza farsi tante domande. «Potevi anche aspettare per vedere se arrivava o no» disse, solo dopo qualche istante. «Al dipartimento i professori firmano il registro, quando entrano. Un po’ come si timbra il cartellino.» ribatté d’impeto Lilli, senza neanche essere sicura di quello che diceva «E poi sarei dovuta restare lì sino alle quattro e mezza, magari per niente». «Ah, beh.» borbottò la donna, che aveva messo piede dentro un’università solo per accompagnare la figlia, il primi giorno dell’orientamento «Se non firmano, vuol dire che non ci sono».
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«E poi mi hanno detto espressamente che non c’era» rincarò Lilli, mettendosi in bocca la caramella e lasciando la carta stropicciata in un posacenere. Di nuovo, sua madre tacque, con un’espressione pensierosa che le trapelava da quegli occhi, che a lei erano sempre parsi costantemente stanchi, in qualche modo scoraggiati. «Via, hai fatto bene, allora» disse finalmente, togliendo la camicia dalla tavola. Lilli gliela prese dalle mani, offrendosi spontaneamente di piegarla lei. Questo suonò alla donna più strano della sua giustificazione improvvisata. La giovane si sentì il suo sguardo addosso per tutto l’eternità che ci mise a piegare quella dannata camicia sul tavolo da cucina. «Sistema anche i fazzoletti, per favore» fece la mamma, indicandone una pila proprio lì accanto. E Lilli, senza protestare, almeno obbedì da brava figliola, visto che come studentessa quel giorno aveva combinato poco. Addirittura si mise a canticchiare debolmente, senza sapere come facevano le note ad uscirle dalla gola. Pian piano, sentì la tensione dentro e fuori di lei placarsi, sdraiarsi docile sul pavimento come un cane da compagnia. Sua madre cominciò a parlare del più e del meno, portando avanti uno dei suoi discorsi noiosi, che avevano per tema il negozio di alimentari, il tabaccaio o al massimo una telefonata di qualcuno. Lilli ascoltava con un orecchio sì e uno no, rispondendole a monosillabi o con cenni del capo. Di tanto in tanto aggiungeva qualcosa lei ed era da vedere come la donna alzava il viso e ascoltava, segno per segno, senza perdersi una sillaba. Erano chiacchiere vuote, sciatte, a cui però la mamma prestava una grandissima attenzione. Lo faceva perché le si presentava un’occasione unica, che era proprio quella di sentirle, una volta tanto. Lilli ne ebbe una gran pena e si vergognò profondamente. Sentiva di aver ingiustamente isolato quella povera donna che, per quanto caratterialmente distante da lei, non aveva mai potuto cessare di volerle bene. Si immaginò le sue giornate, trascorse quasi interamente da sola, e si domandò con quale forza riuscisse ancora a campare come se nulla fosse, a dissimulare tutta la solitudine che doveva portarsi dentro. Non sarebbero mai diventate due di quelle madri e figlie che se la intendevano perfettamente, di questo se ne rendeva conto, ma volle provare ad esserlo finché le riusciva. Un giorno, due, magari anche una settimana. Non sperava di arrivare più in là, ma il solo desiderio di provarci la riempiva di una singolare commozione. E introdusse l’argomento, infine, dopo
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qualche attimo di silenzio, solo per avere qualcos’altro di cui parlare. La superficie liscia della fronte le si increspò sottilmente. «Mamma?» chiamò, con un accento carico d’imbarazzo. La donna alzò gli occhi dal ferro e dalla tavola, spostandoli su di lei. Pacati, appena sfiorati dalla curiosità. Scevri di malizia. «Ti volevo chiedere una cosa» aggiunse Lilli, titubante. «Fai pure» acconsentì l’altra con naturalezza. La giovane cercò di trovare una qualche distrazione nei vestiti piegati sul tavolo. «Non so se ti farà piacere sentirla» la avvisò, ben consapevole di come sua madre non avrebbe mai e poi mai potuto apprezzare l’atteggiamento che aveva tenuto con Enoch sin dall’inizio. La donna interruppe i propri movimenti, posando il ferro su uno straccio; il vapore soffiò attraverso i fori, perdendosi in una nuvoletta biancastra. «Ha a che fare col tuo tornare a casa prima del solito?» le domandò, contrariata. Lilli non aveva riflettuto su quell’eventualità: si era imposta la più completa sincerità, senza eccezioni, ma non dimenticava che quella di fronte a lei era pur sempre sua madre. Partire col piede sbagliato significava giocarsi ogni possibilità di uno sviluppo. «No, che c’entra?» rispose quindi, scuotendo il capo con decisione. «Che ne so?» ribatté la donna «Ho solo chiesto». “Allora va bene” sembrava voler dire. In un’altra occasione, sarebbe bastato quell’accenno a far desistere la giovane. Lilli però soprassedette: si sentiva colma di un affetto lontano, che si era forse affacciato soltanto ai tempi della prima infanzia. Eccezionalmente per quel pomeriggio, il legame con la mamma le appariva intatto e indistruttibile. Tirò il fiato, abbassando il capo e chiudendo gli occhi per un paio di secondi, non vista. Seguiva il ritmico riempirsi dei polmoni, il loro svuotarsi, il battito del cuore che le rimbombava fino alle orecchie. «Ti ricordi quel ragazzo col nome strano?» domandò infine alla madre, che aveva ripreso pazientemente a stirare. «Nome strano?» ripeté quella, come per sapere di quale si trattasse. «Enoch» disse Lilli, per esser più chiara. «Aah, sì. Quello ebreo, no?». «Non è ebreo» ribatté la giovane, provando a fare un sorriso. «Mi sembrava di aver capito di sì». «Né ebreo né copto né… Boh. Quel che vuoi». «Va beh, va beh. Che cos’ha di particolare?. Lilli posò i palmi sul tavolo, tenendo la testa bassa.
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«A saperlo» mormorò, e fece anche a lei il solito resoconto. Senza tagli, come si era ripromessa. A dispetto di quel che si aspettava, dovette realizzare che sua madre si ricordava benissimo di Enoch: avrebbe potuto recitarle a memoria la chiacchierata a cena di qualche settimana prima, coi richiami a Jack Nicholson, i dubbi sulle varie fobie e, soprattutto, la scenata della figlia alle insinuazioni del padre. Lilli si accorse anche che la mamma intuiva in anticipo quello che stava per dirle. Non riusciva a sorprenderla, in nessuna maniera, e le aspre critiche che questa le faceva - perché gliele faceva - non erano scatti improvvisi, come quelli di chi viene a sapere qualcosa senza sospettarlo: erano commenti duri, ben ponderati. Sembrava che la donna si fosse aspettata, bene o male, il suo comportamento. La mamma ascoltò in silenzio le ultime parti del racconto, senza scomporsi di un millimetro neanche quando vide affiorarle, proprio come un giorno prima, le lacrime agli occhi. Lilli le tamponò con un foglio di scottex; sua madre non si mosse. Non per indifferenza; non aveva un animo meno tenero del marito. Tuttavia non le si avvicinò, né la tristezza della figlia si trasmise anche a lei. Semplicemente sapeva, proprio perché era una donna, quanto piangere le fosse necessario. Lo stesso non avrebbe certo fatto se Lilli fosse scoppiata in violenti singhiozzi, ma le bastò un’occhiata per capire che non era il caso. La lasciò fare, quindi, aspettando che il respiro della figlia si normalizzasse e lo scottex finisse nel cestino della spazzatura. Spense il ferro da stiro e staccò la spina, arrotolandosi il filo attorno a una mano. «Potevi parlarmene prima, Liliana.» disse, osservando la giovane «Santo Dio! Hai persino tirato in ballo Gloria!». «Siamo amiche da tanti anni.» replicò la ragazza «Ci aiutiamo a vicenda». Sua madre rimise il ferro nella sua scatola, apprestandosi poi a chiudere la tavola da stiro. «A volte mi chiedo se ce l’ho davvero, una figlia.» riprese, appoggiando la tavola al muro «O se ce l’ha soltanto mio marito. Anzi, se ne ha due: tu e Gloria». «Mamma, dai…». «Mi sembra di sentir parlare lui. Ragionate col solito cervello, tutti e tre, e nessuno, badate, nessuno, viene mai a dire qualcosa a me». «Vorresti che Gloria venisse a raccontarti quello che fa?» la provocò Lilli. «Ecco. Il solito spirito di tuo padre. Superfluo» ribatté, secca. «Hai detto tutti e tre».
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«Quello che volevo farti intendere è che io non ho bisogno di sentire le ammissioni di voi due, padre e figlia. So da sola cosa fate e cosa non fate, mi basta guardarvi in faccia». «E allora perché non mi sei venuta incontro tu, invece di aspettare me?» domandò Lilli, scettica e un poco risentita. «Beh, volete sempre sembrare così in gamba, voi. Così autosufficienti. Se non sentite il bisogno di mettermi al corrente di niente, cosa ve ne fate del mio parere? Tanto io sono sempre chiusa tra queste quattro mura, quindi non posso farmi un’idea del vostro mondo variopinto, no?». La giovane si girò verso la finestra: il sole aveva già declinato quasi del tutto, lasciando spoglio il cielo. Sbuffò, quantomeno per fare qualcosa. Sua madre taceva, occupata a rimettere a posto la scatola del ferro da stiro. «Adesso vuoi sentirmi dire che non lo sono?» domandò quindi Lilli «Che ho bisogno di chiederti qualcosa per darti la tua rivalsa?». La donna si raddrizzò massaggiandosi la schiena. Con calma prese una pila di maglie e la posò sopra il bancone da cucina. «No.» rispose, come si fu fatta un po’ di spazio, e si sedette su una sedia, così da poter appoggiare i gomiti sul tavolo «Adesso voglio aiutarti per quel che posso, dal momento che me l’hai chiesto. Non ho bisogno di prendermi rivalse, al contrario di te e di tuo padre». La ragazza non si mosse, assistendo col solito scetticismo a quel cambio d’apparenze della madre. Il suo modo di fare le risultava incomprensibile, totalmente al di fuori dalle sue abitudini. «Su, siediti.» la invitò la donna, indicandole la sedia più vicina «Così siamo più comode, no?». «Non è che mi stai prendendo in giro, vero?» chiese Lilli, accostandosi dubbiosa alla sedia. «Liliana, c’è una ragione se io e tuo padre abbiamo finito per sposarci ed è che lui fa tanto il superuomo, ma alla fine viene sempre qui a parlarmi a cuore aperto di tutti i suoi casini come un bambino. Quando è sicuro che tu non puoi vederlo, ovviamente». «Il babbo si confida con te?» fece la ragazza, stranita. «E con chi altri vuoi che lo faccia?» replicò la donna, col medesimo tono «La mamma non ce l’ha più, ed è anche figlio unico. E poi è sempre stata una sua debolezza». «Devo dire che non lo facevo così… Fragile» Lilli finì per sedersi, con un vago sorriso sulle labbra. «Oh, per carità, non chiamarlo così. Lui è un uomo di pietra, duro e puro sino al midollo, almeno a sentire quello che va a dire in giro». «Povero paparino dolce».
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La madre le rivolse un’occhiata eloquente, intrecciando le dita delle mani. «Guarda che non si comporta diversamente da te» disse, senza nasconderlo. «Io però dovrei avere qualche attenuante, non ti pare? Giovane e stupida, femmina, piagnona…». «Ricordati che il cervello non invecchia, a dispetto di quello che si dice. Tuo padre con me è rimasto tale e quale da quando l’ho conosciuto. Sempre i soliti discorsi, le stesse idee… E mi confesse sempre le solite cazzate, per parlar chiaro». «E il giudizio che gli hanno portato gli anni?». «Lo sta ancora aspettando. Ti preparo un tè?». «Volentieri. Ma sta seduta, ci penso io». Lilli si diresse verso la vetrina e prese tutto l’occorrente. Sua madre, appoggiata al tavolo, si passava una mano sul viso, provata. Borbottò anche qualcosa che Lilli non riuscì ad afferrare, ma si immaginò che riguardasse altre faccende che avrebbe dovuto sbrigare. La giovane riempì quindi un pentolino d’acqua e lo mise sul fuoco. «Enoch.» disse sua madre, girandosi sulla sedia «Perlomeno è un bel ragazzo?». «Beh…» rispose Lilli, senza saper bene che parole usare «Non è da buttare, diciamo». «Non è da buttare? Cosa vuol dire, che è meglio di un sacchetto di spazzatura? Non mi pare il massimo». «Non è male, insomma» si corresse la ragazza, provando ad essere più concisa. «Almeno andiamo migliorando. Descrivimelo, com’è?». «Eh, descrivimelo… Cosa ti dico?». «Descrivimelo, via. Ha un testa e tutte e due le gambe?». «Massì che ce l’ha!». «E allora! Dai, su, falla breve». «Mah… Castano, capelliiii… Né corti né lunghi. Una via di mezzo». «Va beh. Poi?». «Poi… Niente. E’ un tipo riservato, sta molto sulle sue. Parla poco, per intenderci, ma non è che dia fastidio. Non è scorbutico, è… Introverso. Molto. Non gli scappa detto nulla di lui, ma si accorge di tutto. E’ come… Non lo so. Deve guardarsi molto attorno». «Oh, allora gli hai anche guardato gli occhi. Come li ha, verde smeraldo?». «No, oddio, no… Castani. O neri. Non ci ho fatto molto caso. Però sembrano tristi, malinconici. Per via del taglio, sai. E allo stesso tempo quando vuole gli diventano magnetici, tanto… Tanto che ti
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fanno chiedere se sta guardando qualcosa dietro di te! O forse me lo immagino io. Ma te li senti proprio… Sulla pelle, sai?». «Immagino. Alto? Fatto bene?». «Alto… Media statura, diciamo. E fatto bene, sì. Né grasso né magro. Cammina dritto, anche». «Quello è importante». «Sì, in effetti vedere un gran fico che cammina ingobbito in avanti fa comunque una brutta impressione». «Non brutta: bruttissima». «Beh, dovrei vederlo in abiti eleganti per darti un giudizio come si deve, a ‘sto punto. Se vogliamo guardare il portamento, intendo. Finora l’ho visto soltanto con una specie di giaccone da sci». «E non sai se ti piace abbastanza». Stavolta Lilli non rispose. Accarezzò con un dito il bordo del pentolino, senza riuscire a scottarsi come si sarebbe aspettata. Sua madre si sistemava le maniche della maglia, ammucchiando scrupolosamente tutte le palline di lana in un posacenere. «Devo dire che la tua opinione su quel giovanotto è maturata parecchio dall’ultima volta che ne abbiamo parlato io e te, da sole». «Ne abbiamo già parlato?» domandò Lilli, sorpresa. «Era proprio un martedì sera, se ricordo bene. Sei tornata a casa e mi hai parlato di un tizio “né bello né brutto” che avevi conosciuto da poco. A confronto di come ne hai parlato ora…». Lilli la fissò proprio perché la donna le dava le spalle, incerta. Si voltò a guardare il tè, a disagio. «Non mi avevi mica detto di descrivertelo, quella volta» disse. «Vero anche questo» le concesse la mamma, lasciando stare le maniche della maglia e incrociando le braccia in grembo. «Ecco». «Però se ti chiedessi di descrivermi un altro ragazzo, uno scelto a caso, non credo che ne parleresti così» puntualizzò la donna. «Così come? Te l’ho descritto per come lo conosco». «Mi hai descritto un ragazzo comune, tesoro. Senza offesa, ma è un tipo castano, con gli occhi scuri, né basso né magro… Qualcosa di particolare che ti abbia colpito non ce l’ha. Non penso che le donne si voltino, quando lo vedono per strada, sbaglio?». «Beh…» rispose Lilli, stiracchiando il solito sorriso. «Non voglio dire che sia brutto, beninteso. Solo, non può essere un Apollo. Eppure sei rimasta a parlarmene nel dettaglio, cercando ogni sfaccettatura. Praticamente, mi hai parlato soltanto del suo carattere - o di quello che pensi sia il suo carattere. Senza aver nessun
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particolare che ti abbia colpito, come ti dicevo prima, saresti lo stesso capace di parlare di lui per ore». «Forse perché lo conosco» la giovane si appoggiò con entrambe le mani al tavolo, tenendo lo sguardo basso. «Perché ti piace. Altrimenti non avresti tirato in ballo gli occhietti tristi e magnetici al contempo». «Il fatto che lo conosca non vuol dire che mi piaccia» si oppose Lilli, rialzando piano il viso. La mamma stese un braccio sul tavolo e girò la testa verso la vetrina. Lo sguardo le si perse sull’argenteria modesta, sui merletti di pizzo che aveva realizzato lei stessa, sino a fermarsi sui vassoi disposti per verticale. Il riflesso che mandavano del suo viso, opaco e sfocato, sopravviveva impunito all’avanzare degli anni. «Ti poni un po’ troppe domande, e non va bene. Ti affatichi e basta. Adesso stai lì a cercare un mucchio di risposte, ma non sai nemmeno tu se ne vale la pena. Alla fine cos’avrai ottenuto?». «Mi basterebbe capire quel che… Provo per lui.» si schermò la ragazza, posandosi una mano sul cuore «Solo quello». La donna scosse lentamente il capo. «Sai, Liliana, a volte basta ammettere che una persona ti piaccia per vedere le cose in un’altra maniera. Per cambiare prospettiva. Finora hai fatto di tutto per negare che quel ragazzo ti possa piacere. Come mai? Vuoi startene da sola, in questo periodo?». Lilli batté ritmicamente un piede per terra, umettandosi le labbra; le dita delle mani ticchettavano sul tavolo come zampette di un ragno. «No.» rispose «Voglio dire, è un po’ che non ci penso. Non mi sono più posta il problema». «Magari è per quello che non riesci a vederlo sotto un’altra luce. Da come me ne hai parlato, qualcosa che ti interessi quel giovanotto ce l’ha». «Qualcosa deve averlo per forza» concordò la giovane. «Non è necessario che ci sia un colpo di fulmine improvviso, o una storia travagliata dietro. Una persona può piacerti e basta solo perché è lì e da lì non si muove. E puoi accorgertene anche dopo un po’ di tempo, non importa quando, ma arriva il punto in cui devi fare i conti con te stessa e vedere se l’ipotesi regge». «Non ho un buon rapporto con me stessa, di questi tempi». «Lo credo bene, dal momento che ci sei entrata in conflitto aperto». Lilli diede un’occhiata al pentolino e vide il colore ambrato che aveva preso il liquido al suo interno. Con attenzione, riempì un paio di tazze e le mise in tavola assieme allo zucchero e a un paio di cucchiaini. Sospirò, quindi, mentre si sedeva vicino alla madre e
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aspettava che il tè si raffreddasse almeno un minimo. Si sorresse la fronte col dorso di una mano, pensosa. «Con tuo padre fu tutta un’altra storia.» disse la donna, aggiungendo almeno cinque cucchiaini di zucchero «Lui ci sapeva fare, sai, era uno di quelli che fanno un po’ come gli pare e piace». «Un puttaniere» sintetizzò nuovamente la ragazza. «No, puttaniere no. Che esagerata» replicò la donna, e sorrideva. Sorrideva con un’espressione delicata, serena, e con lo sguardo che le si poteva vedere immerso nella memoria. Davanti a lei dovevano scorrere le immagini di quella festa, intorno a lei il chiacchiericcio delle amiche e dentro di sé, sia pure indebolita dagli anni, quell’emozione che doveva averla percorsa quando l’aveva visto, e ci aveva parlato e avevano cominciato a costruirsi un piccolo futuro. Mescolava lo zucchero e il tintinnare del cucchiaino contro la tazza di porcellana non le giungeva alle orecchie. «Sciupafemmine può andar meglio.» disse quindi, divertita «E’ più carino». «C’è differenza?» chiese Lilli, cercando di assorbire un po’ della sua tranquillità. «Per me c’era. Non mi sarei mai messa con un puttaniere, ma con lui sì.» ribatté, senza perdere una briciola di allegria «Non che ci sperassi, in verità». «Che vi sareste messi assieme?». «Quello lo pensai la prima sera che lo vidi.» annuì, cominciando a sorseggiare il tè cucchiaino per cucchiaino «Poi non speravo che durasse, conoscendo tuo padre. Ero abbastanza convinta che sarei stata una delle tante. Qualcosa deve pur averci trovato in me, però». «E non sai cosa?». «Di preciso no, anche perché non me l’ha mai detto. Quando glielo chiedo, mi risponde con una battutaccia. Ma, come ti dicevo prima, a volte non è il caso di farsi troppe domande. Bevi il tè, altrimenti ti si raffredda». Lilli mise automaticamente un paio di cucchiaini di zucchero nella tazza, mescolandolo debolmente. «A te cosa piacque di lui?» chiese quindi, mandando giù una piccola sorsata. «Quando lo vidi, vuoi dire? Tutto.» la donna non aveva vergogne, né smetteva per un attimo di sorridere «Ricordo che dissi ad una mia amica che a prima vista mi sembrava uno stronzo: ancora meglio mi torna in mente il brivido che mi fece accapponare la pelle, da tanto che l’avevo sparata grossa». «Proprio colpo di fulmine, insomma».
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«No, non ti confondere: non rimasi folgorata di punto in bianco. Semplicemente, tuo padre era il genere di giovanotto che piaceva a tutte, senza esclusioni. Un colpo di fulmine è quando vedi un bel ragazzo e ti ci senti improvvisamente in sintonia. Lui era… Al di sopra delle mie aspettative, a quei tempi. Era uno che nemmeno si prende in considerazione, tanto sei convinta che non hai possibilità. Quello era un altro motivo per cui non credevo certo che l’avrei sposato». «Nulla a che fare con quello che sto passando io, insomma» disse Lilli, delusa. «Non è mica necessario che ce l’abbia, qualcosa a che fare. Pensa per conto tuo, senza fare paragoni di alcun genere. Se ti piace, è sufficiente, non c’è bisogno d’altro». «Già questo è da vedersi» replicò la ragazza, mandando giù un cucchiaino di tè. «Smettila di rifletterci sopra e fa come ti ho detto. Te ne renderai conto da sola se era vero o no.» la donna si interruppe, girando la testa verso il calendario, appeso al muro di fianco alla porta «Anche perché non ti rimane molto tempo. Va beh che abita qui vicino, è comunque qualcosa…». «Mh?» fece la ragazza, alzando la testa «Perché non dovrebbe più rimanermi del tempo?». «Non è l’ultima settimana di lezione, questa? Non penso che ti ricapiterà di vederlo spesso prima che ricomincino i corsi, il prossimo semestre». Lilli restò come pietrificata, con gli occhi puntati sul viso della madre, tutta intenta a svuotare beatamente la sua tazza. Come un automa girò il capo verso il calendario, rendendosi improvvisamente conto di quanti giorni erano trascorsi. Enoch, senza fare alcunché, era riuscito a farle perdere la nozione del tempo sino a quel punto. Per un attimo, le sembrò che il pavimento sotto la sedia fosse crollato, inghiottito in una voragine nera come la pece. «Se l’hai convinto ad accompagnarti a casa, ti restano giusto tre occasioni» le fece notare la mamma. «Due.» la corresse Lilli, con voce metallica «Giovedì lui va via prima». «Occhio, perché di treni non ne passano tanti, nella vita. C’è da saperli prendere. Tra l’altro non ho capito perché debba soltanto accompagnarti a casa. Voglio dire, deve riportarti in stazione, non puoi mica lasciarci la macchina. Dovreste fare assieme sia l’andata che il ritorno, a mio avviso: avrebbe di sicuro più senso di così».
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«E’ tutto quello che Gloria è riuscita a ottenere.» ribatté Lilli, amareggiata «Io non ci ho pensato. E poi non voglio tirare troppo la corda. Dopo va a finire che…». «Che te lo giochi?» concluse per lei la madre, con lo sguardo di chi sa di avere ragione. Lilli guardò la tazza e prese a girarvi il cucchiaino dentro. «Forse» mormorò, e fu forse l’odore del tè, ma di nuovo avvertì un fin troppo noto pizzicore molesto agli occhi e al naso. Con la scusa di rimettere i vestiti nell’armadio, lo represse in camera, di nascosto. La tazza rimase lì dov’era, con la bevanda dorata in cui si specchiava il lampadario di cucina. 14- Ventottesimo giorno, Mercoledì Né il freddo pungente né il fetore della carrozza col riscaldamento che sapeva di polvere la intaccarono. I capelli sembravano esser diventati di ghiaccio: poteva sentire le loro radici una per una, conficcate come aghi gelidi nella testa. Le ignorava, eppure. Aveva fatto a meno del berretto di lana, dopo esserselo provato e riprovato davanti allo specchio. Forse non era il colore giusto, o non si intonava col cappottino buono, quello color panna, lungo sino alle ginocchia. Preferiva affrontare il freddo, sempre che il vento non la trasformasse in uno spaventapasseri alla prima folata. Uscendo di casa, non aveva ancora preso una decisione, nonostante ci avesse riflettuto sopra per tutta la serata; però si era passata un po’ di ombretto sulle palpebre e aveva tracciato una sottile linea con la matita sotto le ciglia. Nulla di smaccato: abbastanza da non dare nell’occhio, insomma, ma da provare un paio di espressioni allo specchio a spese della colazione. Lo stomaco non aveva dato l’idea di risentirsene, fortunatamente. Aveva accuratamente evitato qualsiasi contatto con gli altri studenti in stazione, rivolgendo solo minimi cenni di saluto e passando dietro le spalle di quelli che non si erano avveduti di lei. Il treno l’aveva aspettato in disparte verso la fine della piattaforma, con le braccia conserte e il viso affondato nel bavero del cappotto. Così trascorse anche il viaggio, miracolosamente seduta, guardando fuori dal finestrino la nebbia sui campi verdi, le saracinesche abbassate e le montagne in lontananza, già bianche di neve. Il tempo pulsava estraneo fuori dal vagone, come un’accozzaglia mal riuscita che non risponde più ad alcuna logica. Lo accompagnò per mano durante la prima lezione, trascinandosi avanti un minuto alla volta. Una miscela d’ansia e insofferenza le serpeggiava nelle vene, alterandole di
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continuo l’espressione, la piega delle labbra, la posa sul sedile. La pagina del quaderno era un intreccio di arabeschi naif, dentro ai quali le pareva di scorgere sguardi che emergevano dal fondo di un qualche abisso. Allo stesso tempo, si sentiva addosso l’attenzione di tutti quelli che aveva attorno: era come se ogni occhio guardasse verso di lei, come se per lei fossero tutte i sorrisi strafottenti e le risate malcelate. La sua mente sprofondava nell’incubo di una folla di colpo rumorosa, e soltanto ai suoi orecchi. Lilli si strinse in sé stessa, nascondendo il quaderno con le braccia e le mani. Fu in quel momento che si soffermò sulle proprie unghie. Le aveva avute davanti da quando si era alzata, eppure non ci aveva ancora fatto caso. Improvvisamente sentì che non avrebbe potuto mostrarle così com’erano e si mise la borsa sulle ginocchia, rovistandoci sino a trovare lo smalto che non toglieva mai da lì dentro. Neanche il suo preferito, ma era quello d’emergenza: non importava il colore, qualsiasi cosa era sempre meglio di niente. Passò gli ultimi dieci minuti della lezione a occultare in tutti i modi quello che stava facendo. Tratteneva il fiato e si occupava di un dito, mai due assieme, rialzando la testa subito dopo. Il pennellino tremava come una foglia mossa dal vento. Col respiro accelerato, rimase poi con le mani aperte sulle cosce, ad aspettare che lo smalto si asciugasse, e dissimulare le venne ancora più difficile. Ma passò, come doveva essere, e a fine lezione gli altri studenti si alzarono o restarono ai loro posti: in ogni caso, senza badare a lei. Un senso di freddo e nausea la avvolse e crebbe mano a mano che l’aula si svuotava e nuovamente si riempiva, mentre i sedili venivano ceduti ai nuovi entranti e il vociare si faceva sentire veramente. Gli zaini che atterravano sui banchi rimbombavano dentro di lei; ognuno era un distinto tuffo al cuore che la faceva sussultare nella sua singolare solitudine. Guardò indietro quando il professore raggiunse la cattedra e vide solo la porta socchiusa. Enoch non era ancora arrivato, come c’era da aspettarsi. Lilli cominciò a chiedersi se si sarebbe presentato, se non avesse evitato di farsi vivo proprio pur di non tenere fede alla promessa che le aveva fatto. La sola idea le faceva mancare il terreno sotto i piedi. Si voltò a malincuore quando il professore cominciò a spiegare. Provò a focalizzarsi su quello che diceva per combattere l’attesa, ma si accorse che non riusciva quasi mai ad afferrare una parola e, le poche volte che ci riusciva, non vedeva il nesso con quanto detto prima. Per un attimo si chiese come avrebbe fatto a sostenere l’esame alla fine di gennaio, ma fu una domanda che le scappò subito di mente. Riprese a scarabocchiare per sedare un attacco d’isteria, trattenendosi a stento dal cominciare a
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mangiarsi le unghie e rovinare così il lavoro clandestino dell’ora precedente. Quando, dopo pochi minuti, udì la porta che veniva chiusa con cautela, sentì che era arrivato. Ancora prima di voltarsi e vederlo sorrideva raggiante. Lo riconobbe all’istante e senza vergogna lo salutò con un cenno entusiasta della mano. Era luminosa, traboccante di una felicità che superava ogni suo ricordo, ogni sua fantasia. Enoch ricambiò il saluto con più discrezione, come al solito, e si sedette nelle ultime file, al posto più isolato che si potesse trovare. Lilli continuava a guardarlo, con le gote rosse di un’emozione incontenibile. Le andava bene tutto, ora, anche i discorsi di sua madre. In quel momento, avrebbe ammesso qualsiasi cosa, sarebbe stata capace dei giuramenti più spregiudicati. Non si chiese da dove sgorgava quella contentezza inaspettata, che cosa alimentasse i battiti forsennati del suo cuore. Stava bene e poteva guardare in faccia qualsiasi cattivo pensiero, alzare un dito e farlo sparire in un’innocua nuvoletta. Aveva atteso quell’apparizione da venerdì scorso. Non le importava perché le piacesse, o se era anche solo effettivamente sicura che gli piacesse davvero. Gli piaceva lì dov’era o in qualunque altro posto, libero di fare qualsiasi cosa volesse. L’aria stessa le sembrava più leggera e fragrante, come se la sua presenza l’avesse purificata. E intanto che quelle immagini di purezza le fiorivano spontanee, doveva trattenersi dal ridere, dal costringere una fila intera ad alzarsi in piedi per farla passare e permetterle di raggiungerlo, solo per stargli vicino. In un attimo, le tornarono in mente tutte quelle stupidaggini che aveva detto nel negozio di scarpe e a cui non aveva più pensato da allora. Rivide il suo viso riflesso nella vetrina, quei brevi secondi in cui i loro sguardi si erano incrociati così indirettamente ed erano eppure rimasti fermi, ed era stato come fissarsi intensamente negli occhi. Vagheggiò la tenerezza che poteva avervi letto, il sospetto di un sentimento limpido come il cristallo, e scoprì il suo corpo farsi duttile e morbido. Controllò l’orologio, ancora e ancora. Le sue sensazioni erano offuscate dall’euforia; talvolta ottuse, talvolta esagerate. Aspettava solo l’intervallo, viveva in attesa di quello. La lezione era cominciata in orario, non c’erano scusanti. E quando finalmente vide il professore sollevare la manica della giacca, si apprestò già a ficcare astuccio e quadernino nella borsa. Appena annunciò la pausa, raccattò tutta la sua roba e si fece largo tra la folla come un ariete. Enoch se la vide arrivare incontro sparata all’inverosimile. «Fatti più in là» gli disse, rivolgendogli uno sbrigativo cenno del capo.
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Il giovane si guardò a fianco per appurarsi di avere spazio a sufficienza, quindi scalò. Di due posti. Lilli lo guardò senza capire. Si era scelto la fila più comoda possibile, come non se ne sarebbe trovata un’altra in tutta l’aula, cosicché anche spostandosi non si sarebbe trovato immediatamente accanto a qualcuno. «Pensi che la prenderà bene, se ti vede passare dalle prime file alle ultime?» le domandò, ammiccando in direzione del professore. «File mediane, prego» puntualizzò Lilli. «File mediane, ok, ma il concetto è lo stesso, no?». «A dir la verità, di quel che pensa non me ne può fregare di meno.» rispose la ragazza, posando la borsa sul banco «Ma guarda che non c’è bisogno di andare in Australia. Mi bastava un posticino solo». «Su questo ci mettiamo le giacche e la borsa.» ribatté Enoch, aprendo con una mano il sedile alla sua sinistra - quello tra loro due «Almeno stiamo anche larghi». Lilli lo studiò perplessa, quindi si lasciò andare ad una piccola risata, piegando alla meglio il cappotto. Tutto nella norma. «Certo che tu sei proprio strano» commentò, senza voler essere offensiva. Lui non disse nulla. Si limitò a recuperare la sua giacca e a posarla per primo sul sedile, come per dare il buon esempio. Si mise quindi a sfogliare con noncuranza il suo blocco note; Lilli provò a sbirciare. Le parve che fosse sempre il solito che gli aveva visto in mano la prima volta, ma era assurdo che fosse riuscito a trascrivere gli appunti di tutte le lezioni in quel taccuino da quattro soldi o pagine, che dir si volesse. «Non c’è la tua amica, stamani?» le chiese, senza alzare lo sguardo. «Chi, Gloria? Probabilmente è impegnata in qualche importante convegno all’estero» e fece spallucce. «Davvero?» Enoch si voltò, incuriosito. «No, ma è la risposta che mi dà quando non ha voglia di farmi compagnia. D’altra parte, non si sa mai quando Gloria si deciderà a combinare qualcosa, dal momento che è abituata a non fare proprio un bel niente. Per il momento, mi lascia da sola». «Ed è per questo che sei venuta a sederti qui?». Lilli intrecciò le dita e vi appoggiò la guancia, osservandolo con un’aria amabile, almeno dal suo punto di vista. La malizia superava qualsiasi timore, come le veniva naturale per il carattere che aveva. «Preferivi che ci fosse anche lei?» gli domandò, guardandolo in viso. «Ho solo chiesto» replicò lui, e sembrava non aver difficoltà a farlo, nessun impiccio o imbarazzo.
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«Allora smettila di farmi il terzo grado. Non sai che non bisogna farsi troppe domande?» la ragazza incrociò le braccia sul banco, appoggiandoci sopra il mento «Mi annoio. E’ una ragione sufficiente per farti visita nel tuo regno delle ultime file?». «Non ho visto divieti d’accesso o di sosta» disse Enoch, stando al gioco. «Puoi sempre mettercene uno». «Mi sa che dovrei chiedere in comune. Dovrei rubare un cartello per strada, non so se ci vuole una licenza particolare». «Credo vada bene anche un adesivo. Lo appiccichi sui banchi vietati e voilà, sei a posto». Abbozzarono entrambi un sorriso. Lilli le era grata, immensamente grata, per quello scambio insignificante. In cuor suo, pensò che Enoch, che sembrava accorgersi sempre di tutto, si fosse reso conto di come ci fosse della tensione da allentare. L’idea che l’avesse presa sul ridere solo per il gusto di farlo, per un piccolo piacere infantile, non le accarezzava ancora la mente. E quando lui la guardò di nuovo, e stavolta con attenzione, Lilli sentì un brivido ghiacciato paralizzarle la schiena. «Vedo che ti sei fatta bella, stamattina» disse, adocchiando il trucco intorno agli occhi e, forse, anche lo smalto sulle unghie. Lilli scansò i capelli con una mano: era un gesto che doveva denotare timidezza, eppure finiva per mostrare ancor meglio l’occhio, il velo leggero dell’ombretto, la linea sottile che separava l’iride dalla palpebra. «Solo un minuto prima di uscire di casa» ribatté piano, troppo piano, più di quanto avesse voluto. Si schiarì la voce, quindi, per ridarle un tono accettabile: lo sguardo di Enoch restava fermo su quel ritaglio del suo viso e a lei parve di leggere sulle sue labbra ferme una nota di nostalgia, di rimpianto. «Beh, è un bel risultato, se ci hai messo solo un minuto» disse infine il giovane, con un sorriso di apprezzamento, e ancora gli brillava qualcosa in fondo alle pupille. Lilli reiterò il solito movimento, riprovando a spingere indietro lo stesso ciuffo di capelli. «Grazie» sussurrò, ritraendo le mani sino a farle scomparire sotto il banco, sulle proprie gambe. Lui la fissava, la bocca appena dischiusa, sino a far intravedere i denti. Lei scelse di inspirare per ritrovare un contegno. «Le ciglia si slanciano come ali di rondine» disse il giovane, all’improvviso, con una voce tenue ma non indecisa.
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Lilli restò col fiato in gola e il busto eretto; gli occhi erano due specchi vitrei che guardavano davanti, incapaci di vedere. Non le venivano le parole, né sapeva cosa avrebbe voluto dire. Enoch non ne approfittò. La guardava, senza preoccuparsi di essere invadente, e si accontentava forse soltanto di quello. Alla fine, Lilli riuscì ad arricciolarsi una ciocca attorno a un dito. «Sono lunghe di suo.» mormorò appena «Non ci ho dato niente». Il giovane dovette rimanere interdetto, a giudicare dall’espressione che gli si affacciò per un in istante sul volto. «Ho fatto una gaffe.» disse, con un sorrisetto forzato «Sei fortunata, comunque. E’ meglio così, no? Risparmi». «No, cioè, sì.» replicò velocemente lei, già pentita «Scusami». «Scusarti? E per cosa?». «Volevo dire grazie.» si corresse altrettanto in fretta, per poi aggiungere in un sussurro «Erano belle parole». «Una bella gaffe, semmai. La tipica frase pronunciata nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Mi capita più spesso di quel che tu possa immaginare». Lilli si prese le mani l’una nell’altra, accarezzandosi più e più volte le dita esili e seguendone la scia con lo sguardo. Rialzò il viso lentamente, non senza aver esitato. «Grazie… Per la gaffe» disse, dominando a stento il suo tremito. Enoch si volse ancora verso di lei. Sorrise, perché anche lei lo faceva, e chinò il capo. Lilli si sentì le membra cedevoli e i propri sensi vaghi, mossi da una brezza calda che spirava solo attorno a quel sedile ingombrato dai cappotti. La inspirò, e di più non poté fare. Rompere il ghiaccio una seconda volta risultò loro difficile, specialmente quando il professore ricominciò la lezione. Ognuno si asserragliava nel proprio silenzio, senza trovare il coraggio di riallacciare un discorso. Lilli inseguiva ogni dettaglio con paura e speranza: paura che lui se ne accorgesse e speranza che, se mai fosse accaduto, potesse capirla e venirle incontro per primo. Allo stesso tempo, tuttavia, mascherava i proprio sguardi in ogni maniera, in modo da far sì che Enoch non potesse accorgersi di lei. La giovane ne traeva un senso di frustrazione persino doloroso, come un nodo stretto intorno alla gola. Per ogni istante, le sembrava di trovare uno spunto per dire qualcosa, per riconquistare la sua attenzione. Bastava attendere il momento giusto, farsi forza. Poi anche contare sino a tre. Uno. Due. E il tre che non arrivava mai. Così finiva puntualmente che l’occasione andasse perduta. Guardando la sua spalla, poi, avvertiva tutta la propria impotenza. Il sole entrava sporadicamente dalla finestra, le tagliava mezza faccia e arrivava a sfiorare, appunto, la
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spalla di Enoch. Un capello era rimasto aggrappato al suo maglione e spiccava lucentissimo agli occhi della giovane. Sarebbe bastato sporgersi un poco, togliere quel capello, quell’insulsaggine, ed avrebbe trovato qualche parola in più. Lo sapeva, ne aveva certezza. Ma il capello restava lì, quasi volesse sbeffeggiarla. Lilli si sentì sprofondare in un vortice di disperazione, ma tenne fuori le mani, artigliandosi alla sua sola determinazione. Non era abituata a quella timidezza. Pensava di essersela lasciata alla spalle già da un pezzo, quand’ecco che se la ritrovava a bussare al vetro con un sorriso sornione: “No, no, non mi hai affatto mandata via”. Alla fine, vedendo che non riusciva a tirarne fuori nulla di buono, Lilli ricorse all’unico, inglorioso mezzo che le avrebbe permesso di superare quell’impasse: glielo scrisse sul banco. “Hai un capello sulla maglia”. Realizzò di che idiozia si trattasse soltanto quando Enoch lo lesse. Cazzo, era un capello. Almeno li avesse avuti lunghi, poi. Il giovane si guardò la maglia per come gli riuscì. Lilli, nel marasma più completo, cominciò a dargli indicazioni come in una caccia al tesoro. Spalla. Lì, lì, ma più sopra. Acqua. Acqua. Fuochino. No, ho detto fuochino, più su. Fuochino, fuocherello, fuoco e infine il perfido capello venne raggiunto. Lilli sentì di aver toccato il fondo. «Ma invece che seguire tu mi cerchi i capelli sulla maglia?» le domandò a bassa voce Enoch, divertito. La ragazza rispose disegnando lo schema del tris sul banco. Lui la guardò male e la mandò a quel paese con un gesto della mano. Lilli proseguì con ostinazione: tracciò una X nel riquadro di mezzo. Enoch ci gettò a malapena un’occhiata, poi ammiccò verso il professore, invitandola ad ascoltare la lezione. Lei assunse un’espressione implorante e scrisse “NOIA” sotto lo schemino, senza cavarne fuori niente. Provò anche a disegnarci una faccina avvilita, ma ci perse un mucchio di tempo e le venne malissimo. Così gettò a malincuore la spugna, tornando al proprio quadernino. Se seguire la spiegazione del professore voleva dire compiacerlo, però, l’avrebbe fatto. Ci avrebbe provato, almeno, visto che aveva perso per strada metà corso. Voleva mostrarsi degna del suo interesse, almeno quanto lui lo era per lei. Desistette dopo cinque minuti, sbuffando, e le cadde lo sguardo di lato, sul tris. Un cerchietto era stato tracciato nella casella in alto a destra, chissà come e chissà quando. Lilli si voltò verso Enoch e vide che stavolta anche lui la guardava. Lei gli sorrise e tracciò un’altra bella X, con la lingua che le sporgeva dall’angolo della bocca. Enoch rispose dopo un minuto, poi con più frequenza. Al termine della lezione avevano fatto quattordici partite.
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Lilli uscì dall’aula d’umore floreale, persino inebetita: il sorriso sulla bocca, gli occhi sfavillanti, la pelle calda del viso che si offriva ai baci del sole. Beh, sole… Quel che passava tra una nuvola e l’altra. Avrebbe potuto esserci anche il diluvio e a lei non sarebbe interessato. Non se ne sarebbe accorta, proprio: tutto, dal selciato ai cornicioni, sino alle tegole dei comignoli le appariva sotto una patina zuccherata che cullava i sensi. Le era stato caro il sedile ribaltabile, il banco con i segni mezzo-cancellati del tris, il volantino abbandonato in un angolo della stanza che si protendeva come una felce morente sul muro lurido di pedate. Ogni cosa si trovava al posto giusto, dov’era funzionale ad entrambi; a lei e ad Enoch. Di lui, assurdamente, non si curava: era come doveva essere, senza che Lilli si aspettasse niente da lui; era un’entità fissa e salda, il pilastro a cui potersi appoggiare e riposare, trovare una piccola pace. Questo secondo lei. Non si stancava di guardarlo; eppure, come ebbra, non riusciva a cogliere quel che era palese, e cioè il turbamento del giovane. Lilli parlava, parlava e rideva, ripensando alla sincronia elementare con cui alla prima occhiata di Enoch si era alzata dal proprio posto e assieme avevano lasciato l’aula, come sempre in anticipo. Erano stati movimenti impeccabili, di comune accordo; il solo ricordo la incantava, facendola gongolare di soddisfazione. Enoch, al contrario, parlava poco e si limitava a rispondere brevemente, con sempre maggior tensione man a mano che si allontanavano dal palazzo della facoltà. Lilli canticchiò per tutto il vicolo dei gatti, mettendoci di tanto in tanto un miagolio in mezzo, quando le sembrava di scorgere quattro zampe allontanarsi furtivamente dalla strada. Lui guardava le chiavi del Peugeot, rigirandosele tra le dita umide di sudore. A tratti guardava la ragazza e per un attimo i lineamenti del volto scivolavano nella dolcezza, per ritrarsi subito dopo. Era come se il giovane combattesse contro un richiamo naturale, rifiutandolo con caparbietà, ma senza riuscire ad impedirgli di affacciarsi. Raggiunta l’automobile, poi, ebbe un debole sussulto. Lilli al 106 ci saltellò intorno, più che camminare, raggiungendo la portiera con aria trionfante. Enoch aveva invece rallentato notevolmente l’andatura. «Allora? Sei ancora lì? Andiamo, altrimenti forzo la serratura!» lo incitò la ragazza, tutta contenta «Guarda là, poi: non c’è un granello di polvere. Devi averla lavata. In tempi recenti, almeno. Bravo! Non si accompagnano le donne a casa con le macchine sudice. Non ce ne sono mica tanti che se ne preoccupano». «Ah, no?» fece lui, tentennando con le chiavi in mano.
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«Il mondo è pieno di sozzoni poco galanti» rispose la giovane, storcendo la bocca. «Quindi non sono galante, ma non sono neanche sozzone» disse Enoch, e girò la chiave: era stato uno sprazzo, addirittura quattro o cinque parole di fila. Lilli ne trasse coraggio. Più del dovuto, anche. «Tu non sei galante.» ribatté, aprendo la portiere e mettendosi a sedere «Sei direttamente poetico. Com’era quell’immagine di prima?». Enoch, che si era anch’egli già seduto, rimase fermo, con lo sportello ancora aperto e un piede fuori dall’auto. «Beh?» lo incalzò lei, e non smetteva di fissarlo. «Non me lo ricordo» rispose il giovane, richiudendo la portiera. «Bugiardo.» lo apostrofò Lilli, ridendo «Te lo ricordi benissimo». «Anche tu» le rinfacciò lui, con altrettanta sicurezza. «Non so di cosa tu stia parlando» e nascose il riso dietro il dorso della mano, distogliendo lo sguardo. Andavano giocando a carte sempre più scoperte, senza averne vergogna. Lilli sentiva il nodo attorno alla propria coscienza allentarsi secondo per secondo. Si sistemò meglio sul sedile quando lo sentì mettere in moto e strattonò la cintura di sicurezza. Diede un’occhiata ad Enoch e vide che lui guidava senza. «Non ti sei messo la cintura» volle ricordargli. «Lo so.» rispose lui, uscendo dal parcheggio «Infatti ho una macchina educata che non fa “bip-bip” se non me la metto». «Tipo la mia. Beh, allora dai la licenza di non metterla anche a me». «No, te lo scordi» replicò istantaneamente l’altro. «Ma se tu non ce l’hai!». «Mi piace avere mobilità quando guido; tu invece devi star ferma, quindi la metti». Lilli sbuffò, dando un altro strattone alla cintura. Spostò lo sguardo su di lui e d’un tratto comprese cosa intendesse il giovane parlando di mobilità. Enoch si era come abbarbicato sul lato sinistro del sedile, con una coscia pigiata contro lo sportello e la mano che per arrivare al cambio a momenti doveva usare le molle da camino. «Capito.» borbottò la ragazza «Devi compensare la macchina educata facendo il rompiscatole tu». «Fai finta che gli opposti si attraggano» disse Enoch, sarcastico. «Ehi, guarda che quello è vero!» esclamò Lilli «E’ una legge fisica, le affinità elettive».
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«E’ una cazzata.» replicò secco il giovane «Avrai letto il romanzo e visto come finisce, se le tiri in ballo. Gli opposti si annullano, altro che attrarsi». «Beh, non ero nella zucca di coso, lì… Come si chiamava?». «Goethe». «Ecco, Goethe. Dicevo, non possiamo mica sapere con certezza cosa volesse dire. Per intenderci, su quel libro avranno dibattuto per due secoli magari un migliaio di critici, ognuno con un’opinione diversa. Cioè, ok, alla fine due muoiono e due restano lì a… A…». «A fare non si sa bene cosa». «Pure, anche quello. Voglio dire, magari Goethe intendeva una cosa e noi abbiamo capito tutto il contrario, non ti pare? E’ possibile, no?». «Infatti io non ho letto la prefazione, la postfazione, il saggio di un premio nobel o quel che c’era. Ho letto il romanzo e ho visto come finisce». «Quindi secondo te gli opposti si annullano?». «Si consumano e pian piano, sì, si annullano. Dolorosamente, senza guardare in faccia a nessuno». Lilli si azzittì. Abbassò lo sguardo e sollevò le punte dei piedi dentro gli stivali nuovi. Il tono di Enoch le faceva persino un po’ paura. «Ti preferivo poetico.» ammise, rialzando gli occhi «Comunque è sorprendente: credevo di essere l’unica ad aver letto quel romanzo». «L’ho letto qualche anno fa, tra l’altro di sfuggita». «Ah, anch’io, mi ricordo solo i quattro personaggi principali. Ma in fondo è meglio: se non ci fosse un po’ d’ignoranza non ci sarebbe dialogo, no?». «Perché, altrimenti non ci sarebbe? Stento a credere che qualcuno potrebbe riuscire ad ammutolirti». Lilli gli rivolse un sorriso tenue, reclinando il capo contro il poggiatesta. Inspirò dalla bocca e più che mai sentì il cuore batterle a mille, sino ad annebbiarle i pensieri. Si abbandonò a quella sensazione senza rimorsi, socchiudendo gli occhi. «Tu ci sei riuscito» disse, senza nasconderlo. Enoch provò a dissimulare, ma non ottenne un grande successo. Le sopracciglia erano basse, gli occhi si spostavano da una parte all’altra con troppa velocità. «Da isterico» mormorò dopo qualche secondo. «Ma ci sei riuscito» ribatté lei. «Non posso andarne fiero». La ragazza non smetteva di sorridere, sempre con la medesima delicatezza. «Non faremmo una brutta coppia, io e te».
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Enoch guardò fuori dal finestrino, quindi si appoggiò con ambo le mani allo sterzo. «No, credo di no» disse lui, come vinto. Ma non si mosse. Lilli avrebbe voluto spronarlo ancora, condurlo sino a sé, dove lei lo stava aspettando. Oppure far cessare quell’attesa e sporgersi finalmente verso di lui: una carezza tra i capelli, un bacio soffice sulla guancia. Fece più di un tentativo, scoprendo che le sue membra si rifiutavano di obbedirle. Guardò Enoch e provò a capire cosa stesse pensando, ma la vista era sazia e questo bastava anche per tutti gli altri sensi. Nel posare gli occhi su di lui, tutto l’affannarsi dei pensieri veniva accantonato come superfluo. E se scorse in lui qualche esitazione, appena un barlume intravisto tra i vapori che le gonfiavano il petto, non poté che esserne lieta. Enoch doveva patire le sue stesse pene, avvertire identiche scosse attraverso i propri arti; proprio come lei, avrebbe voluto venirle incontro e fare la prima mossa. Lilli non riusciva a pentirsi neanche della loro timidezza, ora. Se non ci fosse stata, sarebbero stati diversi da com’erano. Forse non si sarebbero nemmeno piaciuti. Non a quel modo, almeno. Queste e molte altre erano le impalcature mentali con le quali si sorreggeva e che le facevano di credere di camminare a mezzo metro da terra. Enoch accese il riscaldamento. Lilli posò una mano sulla gratella di ventilazione per sentire il calore sui polpastrelli. Buttò poi l’occhio sull’autoradio e improvvisamente sentì la mancanza di un po’ di musica, tuttavia si trattenne. La prese il timore che mettendo su un disco avrebbe spazzato via tutto quello che avevano costruito. «Mi fai dare un’occhiata ai tuoi appunti?» chiese di botto, per evitare l’incancrenirsi dell’atmosfera. Enoch tacque per qualche secondo, senza dar nemmeno segno d’aver capito, quindi schioccò la lingua contro il palato. «Appunti.» ripeté, senza girarsi «Se ci capisci». «Scrivi in italiano, no?» domandò Lilli, inarcando un sopracciglio. «Non penso che sia quello il problema.» il giovane rallentò, infilandosi una mano in tasca per estratte il blocco note «Tanto per cominciare, non sono tutti». Glielo porse tenendolo per un’estremità, col braccio raggomitolato contro il fianco. Lilli riconobbe la medesima situazione di quella volta in cui lei gli aveva dato il suo numero di telefono: totale eliminazione di ogni eventualità di un contatto. Lilli non capiva, ma riconobbe che sua madre aveva ragione. Qualunque fosse stata la ragione che spingeva Enoch a comportarsi a quel modo, non c’era bisogno di chiederselo. Le andava bene così com’era. Rispettare il suo riserbo, o anche paranoia che fosse, non le costava niente. Prese il blocchetto
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senza commentare, cominciando a sfogliarlo. Sin da primo acchito, la calligrafia le parve perfettamente comprensibile. Cosa ci fosse di difficile da capire lo sapeva soltanto lui. «Sai, credo di essere rimasta un po’ indietro» disse, passando da una pagina all’altra. «Non so se posso aiutarti» ribatté lui, visibilmente a disagio. «Perché? Non sei stato presente a quasi tutte le lezioni?» fece Lilli, incuriosita. «Beh, tu dacci un’occhiata come si deve». Lilli aggrottò la fronte e tornò sul blocco note. Aprì una lezione a caso e cominciò a leggere. Filò spedita per una pagina e mezzo, dopodiché si interruppe, ritraendo il viso con aria dubbiosa. Ci leggeva senza problemi, ma quel che c’era scritto le era completamente alieno. Va bene, delle ultime lezioni aveva capito poco o niente, ma quel che c’era su quel taccuino proprio non poteva combaciare. Di punto in bianco, si passava a tutt’altra roba, per nulla inerente con la spiegazione. Era come se Enoch avesse compiuto un salto improvviso e fosse andato avanti per i fatti suoi. «Ma che roba è?» domandò la ragazza, sgranando gli occhi. «Quello a cui mi riferivo» rispose l’altro, piegando la testa. «Non riesco – scusa, eh – ma non riesco a seguire il filo logico. Queste cose non le ha spiegate… Insomma, non le ho mai neanche sentite accennare dal professore». «Diciamo che è abbastanza esatto». «Grande.» Lilli rise, scuotendo la testa «Ma che vuol dire? Che fai finta di fare il bravo ragazzo e poi invece che gli appunti qua ci metti tutte le stronzate che vuoi?». «Naa, non chiamarle stronzate. Sono profonde riflessioni sulla nostra umana esistenza». «Ho letto almeno due o tre parolacce, qua dentro». «Riflessioni lucide e realistiche. Se le facessi a voce alta ce le metterei, quindi le metto anche per iscritto». «Geniale, ma mi fai venire voglia di assistere al tuo orale, giusto per sentire cosa gli dici, al prof». «Molto poco probabile che tu ci assista». «Carogna». Lilli sghignazzò, richiudendo il blocco note e posandolo sul cruscotto. Quelli erano i momenti in cui pensava che Enoch fosse in realtà più matto di lei: di una pazzia innocua, proprio come quella da cui diceva di essere affetta pure lei; buona per farsi due risate anche da soli. Questo la tranquillizzava, la faceva sentire a casa, e Lilli sfarfallava
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con le ciglia, le rondinelle pronte a spiccare il volo, quando era sicura di non farsi notare. Frattanto avevano raggiunto il casello: Enoch aveva aperto il finestrino e si stava sporgendo per recuperare il biglietto. Lo mise da parte e ripartì: dentro alla macchina, entrambi tacevano di nuovo, ma era un silenzio sereno, sgombro d’ansie. Come uscirono dalla corsia d’accelerazione, il giovane parlò di sua iniziativa per la prima volta. «Autostrada.» annunciò con un lungo sospiro «Tratto lungo e monotono». «Si fa prima che con il treno, no?» domandò Lilli, che non era abituata ad utilizzarla. «Mica vero. Si spende di più. E poi è noiosa, te l’ho detto». «Vuoi che ti canti una canzoncina per tirarti su il morale?» propose Lilli, sorridendo. «Penso di poterne fare a meno». «Magari ho ereditato l’ugola della Callas, che ne sai?». «Mi fido del mio istinto.» replicò lui, dandole un’occhiata «Dimmi qualcosa che non so, piuttosto». «Dove ho fatto l’asilo?». «E’ un inizio». «In una di quelle scuole da cui escono i terroristi». «Oh.» fece lui, con aria d’ammirazione «E non ti sei ancora fatta saltare in aria?». «No, quindi continua a sperare». «C’era anche Gloria?». «Sì, e lei è già scoppiata, almeno in un certo senso». «Effettivamente non passa inosservata». «Neanche da bambina, quando non aveva ancora le tette. La gente la vedeva da lontano e cominciava a scappare». Lilli le raccontò di tutto e di più. Pescò ricordi a caso, qualsiasi cosa che le venisse in mente, che riguardasse la sua infanzia, l’adolescenza o i primi anni che aveva trascorso all’università. Parlava a mitraglia, come un torrente inarrestabile, ed Enoch ascoltava senza interferire, se non con una domanda o due al momento giusto. Per tutto il viaggio, non diede mai segno di stanchezza, né di noia. Probabilmente, avrebbe potuto andare avanti chissà per quanto ancora. A Lilli andava bene così. A lui anche. Nessuno dei due sentì il bisogno di forzare la mano dell’altro, neanche quando Enoch arrestò il 106 davanti al parcheggio della stazione e fece scendere la giovane. “Ci si vede domani”, e un breve saluto. Allegro. Tutta la fretta della sera
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precedente era svanita: adesso, Lilli ne era certa, avevano davanti tutto il tempo del mondo. 15- Ventinovesimo giorno, Giovedì Trascorse anonimo. Lilli non si aspettava una giornata da annali, ma nemmeno quella. Prese subito un paio di posti in aula (anzi, tre) e li difese con insistenza. Enoch arrivò e ringraziò per la cortesia, ma nulla più. Durante la seconda metà della lezione, non reagì ai tentativi di iniziare un’altra partita a tris. Alla fine si alzò, le sussurrò un “ciao” che lei riuscì a stento a leggergli sulle labbra e uscì. Lilli rimase lì per la lezione successiva. Verso mezzogiorno, le arrivò anche un messaggio di Gloria che voleva essere messa al corrente delle novità; non le aveva ancora detto niente. “Mi sembra proceda bene”. Nemmeno aveva l’abitudine di essere così laconica negli sms. Gloria non rispose. 16- Trentesimo giorno, Venerdì Il rollio della macchina era lento, pareva d’essere in un frullatore con le ruote. Enoch, senza volerlo, mandava il motore su di giri, spesso cambiava in ritardo, altre volte troppo presto. A un incrocio, la macchina gli si spense persino. Dentro all’abitacolo regnava un silenzio di tomba. Esattamente com’era stato in aula. Peggio che il giorno prima. Lilli era combattuta tra lo sconforto e il desiderio di rifarsi, di riscattare tutto quel buono che sapeva esserci tra di loro. Ad aumentare l’angoscia, c’era il fatto che quella era stata l’ultima lezione; l’ultima occasione, prima di cominciare a sperare di incrociarlo per strada, magari a un mercatino di Natale o in qualsiasi altro luogo dov’era tuttavia certa che non l’avrebbe mai trovato. Lui, scostante, nervoso, spiccicava le labbra senza parlare. Forse era in tensione per lo stesso motivo. Forse aveva le palle girate per conto suo. Forse, addirittura, gli seccava averla accanto. Lilli passava in rassegna tutte le ipotesi, dando sempre più spazio a quelle pessimistiche. Col tempo, l’avrebbero assorbita completamente. Inutile implorare sé stessa per dare uno strappo alla propria volontà: il viaggio sul 106, l’ultimo, sarebbe trascorso senza che lei riuscisse a farci qualcosa. A un tratto, Enoch parlò, seppure con un filo di voce. O meglio, bestemmiò. Lilli non aveva dubbi su cosa avesse detto. «Sentì…» mormorò in seguito lui, aprendo una mano sul niente. Lei si voltò a guardarlo: sperava, senza osarsi di fiatare.
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«Liliana» aggiunse Enoch, come per fare il punto. «Lilli» lo corresse la giovane. «Lilli» concesse l’altro. Quindi tacque. Le energie gli sfumavano via dalle dita, dalle vene, dai tendini della mano aperta. «Sei un tipo ostinato.» provò lei, per farlo respirare «Non mi ci chiama nessuno così». «A parte i tuoi». «A parte i miei. Te l’ho detto io? Non ricordo…». Enoch chiuse la mano a pugno. La riaprì, congiunse pollice e indice. «Oggi è l’ultimo giorno di lezione» disse, accantonando l’osservazione della ragazza. Ancora silenzio. «Sì» rispose Lilli, immaginando che avrebbe voluto mettere un punto interrogativo in fondo alla frase. «Esatto». «Aha». «Potrei non parlartene. Non credo che ci vedremmo più, onestamente». Lei già stava con le orecchie ritte: a quell’affermazione, sentì il cuore sobbalzarle nel petto. Era la prima conferma. Gli stessi pensieri, le stesse paure. «Non è detto che vada a finire così, ma è probabile.» riprese Enoch «Mi sembrerebbe di prenderti un po’… In giro, anche». Lilli inspirò sino ad empirsi i polmoni. Si considerava intraprendente; in certi casi poteva dire di esserlo stata. Adesso avrebbe lasciato parlare solo lui. «Ti sarai accorta di alcune cose.» diceva il giovane, faticando visibilmente «Cose di me, per esser chiari. Lo so che te ne sei accorta. E’ come… Sai quando ti trovi davanti a uno sulla sedia a rotelle o con qualche… Qualche disturbo, diciamo, e provi a dissimulare, perché ti senti a disagio e non puoi dirlo. Magari vorresti aiutarlo e non puoi farlo. Non perché tu non ne sia capace, non intendo quello, ma perché… Si offenderebbe. Lo umilieresti. Ed è così, tu lo sai e lui lo sa. Lui lo sa meglio di te». Di nuovo tacque. Lilli regolò il proprio respiro col rumore delle ruote sull’asfalto. Fissava la strada e non provava assolutamente il desiderio di voltarsi. «Tu lo vedi come sto seduto, anche adesso» continuò Enoch, e lei dovette girare almeno gli occhi. Lui se ne rese conto. Non gli scappava nulla, meno che mai in quel momento.
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«Non è certo la prima volta che mi comporto così. Avrai fiutato qualcosa sin da quel… Quell’incidente con la finestra». Lilli rise nervosamente, coprendosi il viso sino al naso. «Ecco, appunto» commentò appena lui. «No, no, scusa. Errore mio. Non voglio passare per maleducata.» ribatté subito la ragazza «Comunque sì, qualcosa l’ho notato per forza». «Lo credo bene». «Hai un po’ quegli scatti che non sono proprio… Normali, lo posso dire?». «Va benissimo». «Non sono naturali, meglio» puntualizzò da sola, per non perdere l’attimo buono. La replica di Enoch fu come una condanna. «No» disse. Per due o tre secondi, all’udito di Lilli giunse soltanto il rumore del traffico. «Innaturale no» ribadì il giovane. «Ho detto che non è-». «E’ naturale.» replicò lui, troncando la questione «Più di quanto tu creda, più di quanto io voglia». Qualche altro momento di assoluto mutismo; Lilli passò in rassegna tutte le malattie, fisiche e psichiche, che conosceva, quasi che avesse potuto trovare in una manciata di secondi la risposta che le era sfuggita per settimana. «Ok.» disse infine, siccome la situazione non si sbloccava «Qual è il problema, senza girarci tanto intorno?». Lui strinse le labbra e il volante. «Non l’hai capito?» domandò. «No» rispose lei, sincera sino alla schiettezza. Enoch rabbrividì. Era pallido. Sudava un poco. «Cos’è che ti frena?» chiese Lilli, provando ad aiutarlo. Niente. Lei si sporse in avanti, piegò il capo da una parte. «Cos’è che non puoi fare?». Enoch la guardò con negli occhi il terrore di un bimbo smarrito, a cui era stato tolto ogni sostegno. «Toccarti». Lilli si ritrasse. Perplessa, preoccupata. Per lui, per sé, anche per il mondo intero. Ne fu persino un po’ sbalordita. «Non posso toccarti» ripeteva intanto Enoch, e batteva piano un palmo sul volante.
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Che voleva dire? Non posso toccarti. E allora? In qualche maniera, doveva considerarsi infetto, ma di cosa? Di una qualche malattia, logico. Solo che sembrava sanissimo. Lilli pensò che avesse l’aids; magari saperlo l’aveva stravolto, aveva alterato radicalmente il suo equilibrio mentale. «Scusami, non ce la faccio.» disse Lilli: l’aria le sembrava pulsare d’inquietudine «Che vuol dire? Non… Non… Non ha senso, via». «Tutti i sensi del mondo, invece» le contestò lui, sospirando. «No, dai, se è un discorso di retorica risparmiamelo, eh, per piacere. Che vuol dire?». «Quel che ti ho detto». «Ho capito! Ma, insomma…» Lilli guardò in basso, accigliò gli occhi «Se vuoi che ti capisca anch’io me la devi spiegare. Dici che non puoi toccarmi, no? Perché non puoi?». Enoch si morse il labbro inferiore; non rispose. Non sapeva cosa dire. «Ok. Proviamo a metterla in un altro modo, va bene?» fece la giovane «Cosa rischio, se mi tocchi?». Enoch si girò di scatto, allarmato. Lilli mantenne il sangue freddo più di quanto le sarebbe riuscito in un’altra situazione. «Che cosa mi succede se ti tocco?». «Muori». Lilli distorse il viso in un’espressione buffa, difficilmente identificabile. Le scappò una mezza risata davanti a quella risposta; solo il protagonista idiota di un film dell’orrore, le venne in mente, ne sarebbe rimasto turbato. «Muoio?» domandò, stranita «Che cacchio vuol dire che muoio?». Enoch sollevò le spalle con qualche sforzo; non riusciva a stringerle, a scrollarle. «Vuol dire che è così» rispose, e la vergogna l’aveva reso rosso in faccia. «Oh, certo, ti tocco e mi prende un mezzo coccolone, roba di ‘sto genere. No, sul serio: hai qualche malattia infettiva? Non è un problema, non è che comincio a farmi dei pregiudizi». «A chiamarlo pregiudizio…». «Eddai, su. Se non mi dici nulla, dopo ti prendo… Non so, per uno scemo. Come faccio a non prendertici?». «Sarebbe già qualcosa». «E piantala». Enoch abbassò lo sguardo. Prese un bel respiro, un altro. «Non ho malattie. A meno che tu non voglio chiamarla così.» disse, e la macchina filava sì e no a trenta, in un raro tratto di strada sgombra
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«Non penso che nessuno l’abbia mai classificata o, se l’ha fatto, non l’ha mai reso noto». Lilli sorrideva con la bocca mezza aperta, eppure tutta l’allegria era scemata, vanificandosi. Al suo posto si intrometteva una tristezza nostalgica, pesante come un macigno. «Mi stai dicendo che sei affetto da qualcosa che hai solamente tu?» domandò, senza crederci. «Nono, affatto.» rispose con una certa ingenuità il giovane «Deve esserci qualcun altro, ma non lo conosco» «Oh, beh, se è socievole quanto te non lo troverai mai». «Penso di avere le mie buone ragioni per essere poco socievole, non credi?». «E’ meglio che non ti dica a che cosa credo, di tutto quello che mi stai dicendo». «Ascolta, non mi aspetto che tu capisca ogni cosa…». «No, non ho capito niente. Tu tocchi la gente e quella muore?». «In parole povere… Sì». «E dove hai lasciato la falce? E la cappa nera?». «Liliana, per favore…». «Devo chiamarti “signor morte”? O hai un titolo, tipo eminenza, eccellenza, oppure… Antisantità! Perché sarai un emissario del male e dell’inferno, presumo». «Stai diventato assurda». Lilli scoppiò; una rabbia cocente, pregna di delusione e di speranze che si sentiva crollare chiassosamente ai piedi, come un finissimo lampadario di cristallo che va in frantumi sul pavimento. «Ah, “io” sarei quella assurda? Non tu, che a sentire quel che dici ammazzi la gente solo se la sfiori, no; quella assurda sono io! Dì un po’, Enoch è il tuo vero nome o l’hai adottato per darti un fascino criptico?». «Massì che è vero!». «Almeno quanto i discorsi a cazzo che mi hai fatto sinora. Lo sai, non è una pura casualità se io tengo il culo su questo sedile, se sono venuta ad attaccare bottone, se ti ho accompagnato sino alla macchina ogni volta che potevo. Lo sai, vero? Hai la faccia di uno che si accorge di tutto, quindi sì che lo sai». «Ma l’ho capito, quello». «A maggior ragione se l’hai capito!» gridò lei, e incrociò le braccia. Lilli era piena di un odio che non credeva nemmeno di poter conoscere. Neanche da bambina si era sentita così carica di disprezzo per una persona. L’illusione era caduta, lordandole ogni pensiero,
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ogni ricordo felice. Enoch taceva, colpevole e senza possibilità di appello. «Non si prendono in giro le persone.» disse Lilli, stringendo gli occhi e guardando altrove, in direzione opposta al giovane «Basta, non voglio sentire altro. Portami a casa e chiudiamola qui». E lui obbedì. Accennò a biascicare qualcosa quando raggiunsero il parcheggio, ma lei alzò un mano e gli richiuse la portiera in faccia. Sulla propria auto, finalmente sola, Lilli poté sfogare tutte le lacrime e i singhiozzi disperati che aveva trattenuto sino ad allora. Appoggiata al voltante, guardò con altrettanto schifo i volti curiosi dei passanti che si accorgevano di lei. Uno ad uno, prima di chiudersi nel silenzio e mettere in moto. 17- Trentesima notte, Sabato E’ colpa dell’agitazione, lo sa benissimo. Se l’è portata dietro tutto il giorno, le ha anche tolto l’appetito. Non il sonno; non del tutto, almeno. Un dormiveglia continuo, come le capita spesso quando prende l’influenza. Lo stomaco comincia a lamentarsi solo dalle due in poi, aggravando la situazione. La gola è carta vetrata, a forza di bocconi di pianto buttati giù senza farsi vedere. La testa le fa male, e gira. Riesce a vedere la stanza anche al buio e sopra la testa l’ombra del sonaglio immobile che pare una mano protesa su di lei. Tutto attraverso la visione sbiadita del sogno; del ricordo, perché Lilli non sogna mai, quando è in quello stato. Per qualche strana ragione, rivede alcuni episodi della sua vita, neanche i più importanti. Non si stupisce quindi di ritrovarsi davanti il sorriso del fratellino, i suoi dentini di latte piccoli piccoli tra le labbra sottili e rosse, proprio come le sue. Gli occhi socchiusi, con la frangia dei capelli castani, o più sul biondiccio scuro, proprio come i suoi: ha il sole negli occhi, ma sorride lo stesso, come se gli stessero facendo una fotografia. Angelo ha sempre sei anni, quando lo sogna. Non ne ha mai avuti sette, e com’era prima di allora neanche se lo ricorda. Ha sei anni anche nella cornice in salotto e in quella in camera. Una delle due ha la stessa espressione del sogno, quindi Lilli capisce perché le appare così nitida. Angelo riparte di corsa, può vedere i polpacci nudi e lisci che spuntano dai pantaloncini corti. Ha le scarpette buone, quelle che la mamma ha conservato nell’armadio. Lilli ritrova un pizzico di serenità, quella che le è mancata durante tutto il giorno. Per pochi minuti della notte, Angelo non è morto. Fa anzi uno scatto un po’ goffo, come tutti i bambini, per correre dietro a un pallone di quelli morbidi. Tutto impegnato, con gli occhietti azzurri concentrati sulla
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palla e la sua fossetta sulla guancia sinistra, cerca invano di farsi vedere dagli altri: è una partitella, ma numerosa. Saranno almeno una dozzina di ragazzini, tutti all’incirca di quell’età. Qualcuno è più grande e finisce per farsi notare più degli altri. Non tutti, però. Ai lati del campetto ci sono le mamme: riconosce la sua, la loro, ma inevitabilmente il suo viso è quello che ha adesso, non quello di più di quindici anni prima. Qualcosa non le torna, però, perché tutti le altre madri sono vestite di nero, una chiazza anonima, tipo un dipinto dei macchiaioli. Le facce sono ovali di un rosa acceso. Lilli corruga la fronte, schiaccia le sopracciglia sugli occhi: il richiamo della realtà si fa più forte, sente che potrebbe svegliarsi solo volendolo, ma non è la sua intenzione. Si rilassa piano, e col placarsi del respiro affiora un dettaglio un più. I visi ovali appaiono circondati da una specie di aureola bianca, che assomiglia sempre di più ad una fascia. Una delle donne si muove per chiamare un altro bambino in disparte, si china su di lui e in quel momento Lilli si accorge che lei, come le altri madri, sono in realtà monache. La suora dice qualcosa; il bimbo guarda indietro, poi annuisce, e la suora alza un braccio. E’ altissima e corpulenta, sembra un lottatore avanti con gli anni: il suo gesto attira lo sguardo di tutti. Fa un altro cenno. Il bambino accanto a lei ride ed entra in campo con un pezzetto di lingua fuori dalla bocca. Non sa dove stare, ma ci prova. Mentre saltella da una parte all’altra, passa davanti a Lilli e le rivolge un’occhiata. Lei memorizza quegli occhi castani spalancati, che la impressionano, quindi il bambino parte in avanti. Lilli gira la testa per un urlo di sua madre e vede Angelo con il pallone tra i piedi. Corre verso la porta, ma si trova davanti due avversari. Uno è quel bambino appena entrato. Prova a superarli, ma la palla rimbalza contro i loro stinchi. Angelo barcolla, smanaccia per non finire col sedere per terra e nel farlo si aggrappa ala maglietta dell’altro bambino. Riparte subito dopo, ma l’altro resta fermo. Lilli ansima nel sonno, le manca l’aria. Negli ultimi attimi, le sembra di vedere il bambino allontanarsi zitto zitto. Forse le ripassa davanti. Forse no. Lilli boccheggia e cede. Si sveglia, e la prima sensazione che prova è un brivido di freddo. 18- Trentunesimo giorno, Sabato Lilli si sciacquò il viso con l’acqua bollente, facendolo arrossare. In pigiama, si asciugò e si puntellò con le mani sul lavandino, incrociando le gambe all’altezza delle caviglie. Non scoprì occhiaie, né altri segni di quella nottata. Poteva dire di averla superata fin troppo bene, ma aveva voglia di strappare la testa all’orsetto tenero
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cucito sul pigiama, proprio sopra il cuore. L’ira era ancora lì, incancellabile, e, conoscendosi, si immaginava che sarebbe rimasta al suo posto ancora per chissà quanto tempo. Su di essa, però, si era deposto un pesante e fastidioso strato che impediva alla ragazza di sfogarsi decentemente. Lilli ne riconosceva il sapore: era paura. Provò a digerirla con una tazza di cioccolata calda e qualche biscotto. Le venne voglia di vomitare tutto immediatamente, fame o no. L’orologio emise un singolo rintocco. Aver già fatto colazione alle otto e mezza il sabato mattina le mise addosso ancora più frustrazione. I giorni di festa avevano sempre avuto il potere di metterla di buon umore. Oltretutto l’idea di essere in vacanza l’aveva sempre esaltata. Magari dopo tre giorni già si annoiava, ma non i primi tempi. Quello mai. Eccetto quel sabato mattina. Il primo fottuto giorno delle vacanze invernali. Sua madre se ne accorse, ma non le chiese cosa avesse. Per carattere. Non riusciva ad essere sicura di nulla, non se la sentiva di essere la prima a parlare e lasciava volentieri l’iniziativa agli altri. Era all’opposto della mania di protagonismo, completamente, tuttavia era ovvio che dovesse aver intuito qualcosa. Dopo la loro discussione di qualche giorno prima, poi, Lilli non aveva dubbi sulla cosa. Ma aveva ancor meno voglia di raccontare il finale di quella storia in giro, specie dopo la sensazione che le aveva lasciato addosso quel sogno. «Perché non vai ad aiutare il babbo?» le chiese la donna, mentre passava con l’aspirapolvere il pavimento di cucina. Lilli aveva vagato per la casa per un paio d’ore, senza trovare un attimo di quiete. Adesso, seduta sulla cassapanca, girò appena la testa verso sua madre. «Non mi ha chiesto nulla» rispose, senza schiodarsi da lì: era quasi comoda, d’altra parte. «Almeno passi il tempo, se non hai nulla da fare» disse la mamma, con quella voce fioca, timida. La ragazza guardò l’orologio, pur sapendo benissimo che ore erano. Sospirò e si piegò in avanti sulle proprie braccia. «E’ già tardi» obiettò senza convinzione. «Macché. La gente comincia a girare per negozi solo adesso. Così che siamo vicini a Natale, tuo padre avrà parecchio da fare. Quando non sanno cosa regalare, si infilano tutti in gioielleria. Anellini da poco, orologi… Poi quei ciondoli col cuoricino. Non passano mai di moda, si vede». «L’argenteria» aggiunse Lilli, tanto per dire qualcosa.
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«L’argenteria, sì.» concordò sua madre «C’è sempre pieno, almeno fino al ventiquattro. E poi gli fai piacere, che fra voi due ve la intendete». La ragazza storse la bocca, ma acconsentì. Mentre si cambiava, cercava di seguire il ragionamento non espresso della mamma: andare in negozio, distrarsi. Qualche minuto dopo, riflettendoci in negozio, si convinse dell’esatto contrario: sarebbe stato meglio restare a casa, dove certo non avrebbe corso il pericolo di vederlo e non avrebbe dovuto sorridere in continuazione a tutti i clienti. Tuttavia era lì, e ormai non poteva più tornare indietro, quindi tanto valeva seguire le chiacchiere delle persone più loquaci, provare a perdercisi dentro. Finiva però per perderne qualche pezzo che mandava all’aria tutte le buone intenzioni. Allo stesso modo, la sintonia col padre appariva in qualche modo spezzata, col risultato che, per dirla con le parole della mamma, non sapeva se gli faceva poi tanto piacere. Vennero concessi ad entrambi alcuni minuti di stanca quando la porta si chiuse con la conseguente nota metallica e la gioielleria rimase momentaneamente vuota. Lilli rimase coi gomiti sul bancone, mezza curva in avanti. Suo padre raccolse gli astucci di velluto; come inavvertitamente, fece cadere lo sguardo su di lei. La giovane prese un profondo respiro e fece per parlare. «Che c’è?» la precedette suo padre, spezzandole il fiato in gola. «Te l’ha detto la mamma che sarei venuta?» gli domandò, spaurita. «Che sei venuta lo vedo da me.» rispose rapidamente l’altro «Che hai qualcosa nel gozzo è logico, visto che anche l’ultima volta sei passata a trovarmi solo per quello. Cos’altro dovrei pensare?». Lei abbassò gli occhi, ma sapeva di non avere il tempo di sentirsi in colpa. Nel giro di poco, qualcun altro avrebbe suonato il campanello della gioielleria. «Una cosa sul mio fratellino» disse, guardando il padre in viso. «Aveva un nome» le ricordò suo padre, risentito. «Sì, beh, volevo dire-». «E lo ha ancora, a suo modo». «Pà, per favore!» esclamò Lilli, allargando le braccia. L’uomo tacque, ma come uno che la fa di sua spontanea volontà, e non certo per l’intimazione di qualcun altro. «Ci pensavo stanotte.» continuò la ragazza, spostando lo sguardo fino ad un angolo vuoto, dove la sua memoria avrebbe potuto ricostruire meglio il sogno «Ti ricordi di una partita a pallone che giocò? Prima di ammalarsi, intendo».
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«Una partita a pallone?» domandò suo padre, senza capire «Ma quanto tempo fa?». «Non so, doveva aver compiuto sei anni da poco.» rispose lei, vaga «Con degli altri bambini che non conosco, oltretutto. C’erano delle suore…». «Suore?». «Suore. Di quelle vestite di nero e bianco». «Cioè quasi tutte, bell’indicazione. Dov’è che giocavano? In cortile?». «No, proprio in un campo. Un campetto, almeno. Forse quello dietro la scuola media». Suo padre storse la bocca come chi non ha la più pallida idea di cosa rispondere. Mosse il capo in segno di diniego, guardando il bancone. «Non mi ricordo niente del genere.» confessò «Col pallone tra i piedi ce lo vedevo a stento, tra l’altro, figuriamoci in un campetto». «Già, ma tu non c’eri.» disse Lilli, e le si illuminò lo sguardo «C’era la mamma, solo lei». Doveva essere così, altrimenti l’immagine del padre le sarebbe rimasta impressa, come sempre, e l’avrebbe rivista in sogno. Difficile che si ricordasse di sua madre e non di lui. Sempre ammettendo che il sogno corrispondesse alla memoria reale di quell’evento, ma su questo Lilli non aveva dubbi. Intuito femminile. Almeno aveva scoperto di averlo anche lei. «Si può sapere perché ti interessa tanto?» le domandò suo padre, che la conosceva abbastanza bene da aspettarsi una fondata ragione per tutta quella curiosità. «Perché mi è venuto in mente e non credo per caso.» rispose la giovane, e per una volta fu anche onesta; in parte «Pensi che la mamma se lo ricordi?». «Questo devi chiederlo a lei. E’ tanto importante?». Lilli cincischiò, quindi annuì piano. «Credo di sì». «Vacci piano, con lei.» si raccomandò l’uomo «Non ha mai superato del tutto il trauma. Ormai sei grande, te ne sarai accorta da sola». «Lo so, lo so». «Ecco, allora vedi di non scuoterla, o sarò io a scuotere te, dopo che ti avrò presa per il collo». Lilli non disse altro. Finì la mattinata in negozio senza più fiatare, dandosi modo di temperare l’ansia di sapere qualcosa di più su quella dannata partita di calcio tra bambini. Si dimenticò di sorridere, tra le tante cose, ma suo padre non le rimproverò niente. Rientrarono a casa assieme, senza che nessuno facesse parola di quel poco che si erano detti. Lilli guardava sua madre, alla ricerca del
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momento giusto per farle quella domanda. Suo padre ritornò al lavoro che lei non si era ancora decisa, per quanto il bisogno di fare chiarezza su quel minuscolo particolare le fosse insostenibile. La mamma si era offerta per dare una mano in negozio anche lei. Non accadeva raramente, specie nel periodo natalizio; era la norma di qualsiasi famiglia con un solo reddito. Lui però aveva risposto di no, persino bruscamente, ripartendo in fretta e furia. Lilli non tardò a capire che l’aveva fatto per lei, per darle l’opportunità di parlare a quattr’occhi con sua madre. Aspettò sino a quando non la vide seduta sulla cassapanca, coi capelli appena sfiorati dal riflesso del sole pallido dietro di lei e un’espressione annoiata sul viso. L’impronta della malinconia le segnava lo sguardo e le rughe del viso, facendola apparire più vecchia di quanto non fosse. L’inverno doveva farle sentire ancor più il peso della solitudine, in quella stanza vuota occupata sempre e solo dalla sua presenza. Il negozio le avrebbe offerto almeno una distrazione, che invece le era stata negata senza rivelarle la ragione. Lilli, che quella ragione la conosceva, agì d’impulso. «Tè caldo o cioccolata?» domandò, entrando in cucina. La donna, che si stava stropicciando gli occhi con una mano, alzò gli occhi, leggermente sorpresa. «Non ho capito» disse, senza spostare la mano. «Mi faccio un tè. O una cioccolata.» spiegò Lilli, armeggiando dintorno ai fornelli «Tu cosa preferisci?». «A quest’ora?» chiese la mamma, guardando l’orologio. «Non ho mica voglia di aspettare le cinque. Fa freddo, almeno mi scaldo un briciolo». «Vuoi che alzi i termosifoni?». «No, voglio che tu mi dica se preferisci il tè o la cioccolata» insistette la ragazza, aprendo lo sportello in cui teneva entrambe. La donna chiuse gli occhi, finendo di stropicciarseli, quindi si piegò in avanti, sbattendo un paio di volte le palpebre. «Non so mica se mi ci va.» rispose, dopo qualche attimo «Magari la cioccolata mi resta sullo stomaco, dopo». «Ok, allora tè» stabilì Lilli, prendendo la scatolina dell’Earl Grey. «Ma non lo bevo... E’ presto ». «E allora lo bevi dopo, ma io te lo preparo lo stesso. Al massimo, è un po’ di tè avanzato». La donna si appoggiò con la nuca alla finestra, mugolando qualcosa. Lilli prese il consueto pentolino e lo riempì d’acqua. «Come l’altra volta» disse la ragazza.
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Sua madre riabbassò la testa, scoccandole un’occhiata di colpo viva, attenta. Durò solo pochi attimi, ma abbastanza perché la donna riuscisse a farsi un’idea chiara di cosa si aspettasse da lei la figlia. Come l’altra volta, appunto. Anche Lilli se ne accorse, nonostante sua madre si fosse velocemente richiusa nel silenzio, facendo finta di nulla. «Ho fatto un sogno strano, stanotte.» le confidò la ragazza, col viso serio e le braccia incrociate «Ma non era proprio un sogno… Hai presente quando ti sogni un ricordo, per così dire?». «Tipo quando ti sognavi l’esame di maturità?». «Qualcosa del genere.» rispose Lilli, ridacchiando con un certo nervosismo «Solo che quello della maturità era un incubo, non un sogno. Finiva sempre che mi bocciavano, alla fine». «Ma sai, in quei sogni lì uno non sa mai dove finisce il ricordo e comincia la fantasia. E’ per quello che te li ricordi meglio». «Quello me lo ricordavo bene perché era un incubo. E me lo sognavo di continuo, anche». «Era un incubo realistico». «Ok, ok, ma questo non era un incubo. Realistico sì, proprio per quello te ne volevo parlare. E’ una cosa che dovevo aver dimenticato ed è… Rispuntata. Inconsciamente». «Curioso». «Riguarda il mio fratellino». «Ah» fece soltanto la donna, e si rabbuiò di colpo, lasciando riaffiorare quanto e più di prima quell’ombra di nostalgia. Lilli esitò nel vedere la madre assumere quell’espressione. Le rivenne in mente l’avvertimento di suo padre ed ebbe la tentazione di lasciar cadere l’argomento. A quel punto, però, neanche sua madre le avrebbe permesso di tacere. «Ho sognato che giocava una partita di calcetto, qualcosa così, insieme ad altri bambini» disse, cercando di non metterla sul drammatico. In qualche modo ci riuscì, perché la mamma girò la testa, fissandola con scetticismo. «Non ha mai avuto molta passione per il pallone.» osservò «Meno di quel che ci si aspetti, almeno. Ci sono certi bambini che imparano a dare calci a una palla prima che a parlare». «Boh, neppure io me lo ricordo col pallone tra i piedi, in verità. Però ero piccola, non so dirti». «Qualche volta giocava con gli altri bambini dell’asilo, ma dopo cinque minuti si stufava. Oddio, magari se erano in tanti si divertiva anche».
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«Eh, era proprio una situazione del genere. Mi ricordo almeno una dozzina di bambini, tutti all’incirca della sua età. Chi più chi meno, metti, ma perlopiù di sei, sette anni. In un campetto da calcio, con le porte e tutto il resto». «In un campetto?» domandò sua madre, sempre meno convinta. «Così mi sembrava». «No, Liliana, guarda che ti sbagli. Da quel che mi ricordo io, non ha mai messo piede in un campo da calcio». «C’erano anche delle monache» aggiunse Lilli, senza desistere. Sua madre si fece pensosa, come se quel dettaglio l’avesse improvvisamente colpita. Strinse la bocca, con gli occhi spostati in basso a destra nel tentativo di ricordare. «Quelle mi sono rimaste impresse.» continuò la ragazza «Può essere che da bambina mi avessero fatto paura. Ce n’erano… Un bel numero, tutte attorno al campetto». La donna non parlava. Muoveva appena le sopracciglia, di tanto in tanto, o piegava le labbra in una leggera smorfia. «Mi sembrava quello dietro delle scuole medie» aggiunse Lilli, cercando di aiutare sua madre a darle quella risposta. «Sì.» disse quella, annuendo lentamente «Proprio lì». «Allora te lo ricordi!» esclamò la ragazza, trovando d’un tratto la forza di sorridere, così naturale e spontanea. «Ma ci avrà giocato cinque minuti, appunto. Era estate, perché si sudava anche a star fermi.». «Se non altro non me lo sono immaginato». «A me pare persino strano che tu te lo ricordi, a dire il vero.» ribatté sua madre, stringendo le spalle «Con tutte le cose che sono successe, guarda quel che ti viene in mente.» «Te l’ho detto, è roba che ieri non mi sarei assolutamente ricordata. Che ci facevamo lì tutti e tre, poi?». «Con sicurezza non te lo so dire, però lì vicino ci abitava una con cui andavo a scuola assieme da ragazza. Prima che nasceste voi due passavo spesso a trovarla, può darsi che fosse una delle ultime volte che lo facevo. Ora tra l’altro non sta più neanche lì». «E lui lo accompagnavi lì a giocare a pallone?». «No, te l’ho detto: non gli interessava, solo che quella volta lì c’erano parecchi bambini.» la donna sorrise piano, intanto che inspirava «Se vedeva un mucchio di bimbi come lui non ce la faceva a star fermo». «Però quelli non li conosceva». «No, venivano da fuori. Da un orfanotrofio di non so dove, per quello c’erano le suore. Erano venuti con un pulmino come quello delle scuole, giallo».
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Lilli chiuse le mani a pugno, socchiudendo lentamente gli occhi. Dischiuse le labbra sino a mostrare i denti, quindi le richiuse e spostò lo sguardo altrove. Potevano essere coincidenze e, in ogni caso, non dovevano significare niente. Non c’era motivo perché significassero qualcosa, a meno di non prendere per buoni dei deliri. «E non sono più tornati?» domandò, tornando sulla madre. «Non che io sappia, ma non è che un orfanotrofio si fa pubblicità. E poi…» la donna abbassò il viso, finendo inevitabilmente per ripensare al figlio perduto, e solo a quello «Non ci avevo mai fatto caso, ma credo che sia l’ultima partitella che abbia giocato. Cominciò a sentirsi male poco tempo dopo». Lilli sentì le membra vibrarle dalla testa ai piedi. Istintivamente, si sorresse sul ripiano della cucina, cercando di non farsi notare. «Era solo una partita di pallone.» mormorò «Non vuol dire nulla». «Hai ragione, ma… Cosa vuoi?» fece la madre, rialzando a fatica la testa «Finisco per tener conto di ogni sciocchezza, se solo l’ha riguardato. Non è stato facile». La giovane chinò il capo, avvertendo di nuovo il naso pruderle. La tensione la richiamava, minacciando di farle perdere il controllo. Non aveva senso, semplicemente non poteva averlo. Non era un’ipotesi fattibile. Eppure non riusciva a escluderla. Era assurdo, inconcepibile, ma era anche una coincidenza impressionante, difficile da ignorare almeno quanto lo era da accettare. Non poteva dire dove finisse la realtà e cominciasse la fantasia. Per un attimo, tuttavia, si chiese se una escludesse veramente l’altra, se la realtà non fosse fatta anche di fantasia. Ma non a quel modo! Non era materia che si potesse intrecciare così, senza il minimo compromesso. A meno che il compromesso non fosse rappresentato da una persona. Non è l’uomo l’unico tramite in natura, il solo che permetta a due dimensioni, l’una concreta e l’altra onirica, di coesistere? Lilli aveva sognato, e sognando aveva rivissuto quello che era successo, scoprendo ciò che da sola non avrebbe potuto in nessun modo intuire. Una realtà che pareva essere più mostruosa di qualsiasi incubo partorito da mente umana. «Il tè sarà pronto, ormai» disse sua madre, ammiccando col capo verso il pentolino. Lilli lo guardò, sentendo solo ora l’odore di cui aveva permeato l’intera cucina. Le parve improvvisamente estraneo, com’essere ridiscesi dall’empireo e riscoprire senza preavviso la crudezza della terra. «Ne vuoi una tazza?» domandò con un filo di voce, passandosi una mano sul viso per nascondere il pallore.
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La donna si piegò per poter veder meglio il pentolino, quindi sorrise nuovamente, e stavolta con più leggerezza. «Massì, dai.» rispose, annuendo «Mi stuzzica il profumino». Lilli prese un paio di tazze, i cucchiaini, lo zucchero e spense il fornello. Prima di togliere la bustina, estrasse il cellulare dalla tasca: scalò la rubrica nome per nome, sino a giungere a quello che cercava. Indugiò per un paio di secondi con il pollice sul pulsante verde, quindi rimise il telefonino al suo posto. Si sarebbe presa del tempo. Avrebbe bevuto il tè, fatto compagnia a sua madre e dopo… «Dopo facciamo un salto in negozio, ok?» disse, voltandosi verso la mamma «Tutte e due». La donna si mostrò perplessa come lo era stata prima, ma si alzò in piedi col solito sorriso lieve sulle labbra. «Cos’è, ti è venuta improvvisamente voglia di lavorare?» le chiese « E poi hai sentito cos’ha detto il babbo: non mi ci vuole, là». «E tu vuoi stare qui ad annoiarti tutto il giorno?». La mamma storse la bocca, muovendo la testa da una parte all’altra. Per un attimo, Lilli vide quella ragazza che non aveva mai conosciuto, che si era nascosta dietro i doveri della donna di casa prima che lei nascesse. «Prima il tè» rispose, indicando le tazze. Accennarono una risata e se la presero comoda, senza guardare né l’orologio sul muro, né quello sul cellulare, né quello che aveva segnato il tempo da vent’anni a quella parte. In gioielleria, quando ci arrivarono, trovarono il solito caos prenatalizio. Lilli si tolse il piumino di dosso in tutta fretta, aggirò il bancone e posò un bacio sulla guancia del padre, che fissava stupito sia lei che la moglie. «Cos’è, una riunione di famiglia?» domandò, sospettoso. «Ogni tanto ci vuole, non la facciamo mai» gli rispose Lilli, buttando il piumino nello sgabuzzino e riemergendo velocemente nella stanza. Con le mani congiunte in grembo e il sorriso bianco come l’avorio, agguantò quindi il primo uomo che vide ronzare davanti ad una vetrina. «Addolorata!» fece intanto una cliente, riconoscendo la donna. Si scambiarono bacini sulla guancia, una stretta di mano e le solite cortesie del caso. Lilli, mentre accompagnava il signore verso un’altra vetrina, passò loro accanto in tempo per sentire dei brandelli di conversazione. «Io ci starei giorno e notte qui dentro, con un marito come il tuo.» diceva la donna, a bassa voce «Non hai paura che gli venga qualche cattivo pensiero, se lo lasci qui da solo?».
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Sua madre voltò il capo verso il marito, come per studiarlo. Lilli scorse la serenità sui suoi lineamenti di nuovo rilassati, quieti. «Proprio per niente, se devo esser sincera» rispose la mamma, e la giovane distinse anche lo scambio di sguardi che marito e moglie ebbero e che scivolò tra una persona e l’altra. A sera, con la porta chiusa e i suoi ormai a letto, Lilli prese il cellulare e fece quella chiamata. Lui rispose dopo pochi secondi. «Pronto?». «Enoch, sono Lilli». «Lo so, ho riconosciuto il numero. Se vuoi-». «Voglio solo che tu mi dica una cosa.» lo interruppe duramente lei «Hai detto che sei già stato qui. Quando?». Dall’altra parte ci fu silenzio per alcuni istanti. «Avrò avuto sei anni» rispose quindi il giovane. «Con chi?» incalzò Lilli. «Non voglio parlarne». «Hai fatto una partita a pallone con altri bambini?». «Una partita?». Lei nemmeno gli rispose, aspettando che fosse lui a farlo. «Sono stato in campo per un minuto scarso» disse quindi Enoch. «Hai detto che abiti dietro le poste?». «E’ un interrogatorio?». «Potrei anche crederti». Di nuovo Enoch non parlò, e stavolta per lungo tempo. Lilli lo sentì più di una volta trattenere il respiro per cercare di parlare, senza riuscirci. Esattamente come capitava a lei. «Passo a trovarti domani» riuscì infine a dire la ragazza, dopo aver deglutito con forza. Un attimo dopo chiuse la chiamata e spense di scatto il cellulare. 19- Trentaduesimo giorno, Domenica Quando lui le aprì la porta, Lilli dedusse dal suo viso di non esserglisi presentata proprio come lui si aspettava, almeno a giudicare dal modo in cui si erano salutati il giorno prima. In effetti non si era preoccupata di null’altro se non di mettersi un paio di scarpe e il fatidico piumino multiuso sulle spalle. Per il resto, aveva indosso gli abiti da casa, ovvero un paio di calzoni invecchiati e una maglia ereditata dalla mamma. Né si era curata di darsi più di una pettinata ai capelli. Nello spiraglio aperto della porta, appariva calma, persino
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indifferente. Enoch, non parlava, incerto, anche lui con indosso i soliti abiti di sempre. Non doveva avere molto altro di ricambio. «Posso entrare?» chiese Lilli, con le mani nelle tasche del piumino; si molleggiava appena sulle punte per scacciare il freddo. «Se non sei qui per fare sciocchezze…» ribatté Enoch, facendosi da parte dietro la porta e finendo di aprirla del tutto. «Non ne ho alcuna intenzione, fidati» garantì la ragazza, superando la soglia con l’esitazione che le veniva ogni volta che entrava in casa di qualcun altro; stavolta un po’ meno del solito, forse. Lui richiuse dopo che Lilli ebbe fatto qualche altro passo e si fosse portata a distanza di sicurezza. Ne studiò le mosse con cautela: doveva essere preparato a tutto, nonostante quello che aveva detto la giovane. Lei intanto si guardava intorno, aprendo di riflesso la bocca ogni volta che alzava la testa. Era una casetta indipendente ma semplice, persino spartana. Mobili da due soldi che avevano visto tempi migliori, pareti che tendevano al grigiastro e finestre senza tendine. Fatta eccezione per un tappeto, il pavimento, in finto marmo, era spoglio. Il tutto compresso in tre stanzette tutte comunicanti tra loro, più un bagno nascosto chissà dove e un cortile di mezzo metro quadrato. Anche troppo per un ragazzo che viveva da solo; tenuto meglio di molti appartamenti per studenti in cui Lilli era stata, pure. Il lampadario, per modesto che fosse, non presentava traccia di ragnatele. Non c’era odore di polvere, né di chiuso. Il divano, tolta una coperta ammucchiata di lato, non era ingombro di riviste; sul tavolo, che la ragazza riusciva a intravedere oltre lo stipite della cucina, c’era una tovaglia di plastica un po’ tagliuzzata, ma niente piatti o stoviglie in giro. Enoch era un bravo e ordinato omino di casa. «Così questa è la tana dell’orco.» disse, facendo una sorta di cenno di apprezzamento «Ci ho messo un po’ a trovarla perché mi sono scordata di chiederti l’indirizzo preciso». «Non è così difficile» replicò lui, se non altro staccandosi dall’uscio. «Oh, no, assolutamente, è bastato fare quello che vuoi uomini non fate mai – e che tu di sicuro fai meno degli altri: chiedere indicazioni.» Lilli si voltò quindi verso di lui «Certo che se mi avessi detto che era l’ultima casa della strada, anziché “dietro le poste” sarebbe stato meglio. Ho dovuto suonare cinque o sei campanelli. Proprio non vuoi farti trovare». «Ho le mie buone ragioni» fece Enoch. Entrambi tacquero, ma né l’uno né l’altro vollero dare segni di cedere, né di avvertire una qualche agitazione.
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«Vuoi qualcosa da bere?» chiese il giovane, piegando il capo verso la cucina «Ho dell’aranciata in frigo». «Fa un tantino freddo per quella.» rispose Lilli, accennando un sorriso «Non è pericoloso, poi?». «Se lo fosse non te lo proporrei. Il piumino lascialo pure sul divano, ho i termosifoni accesi». «Lo sento, ma non conto di fermarmi». Enoch la guardò per un attimo, quindi scrollò le spalle. «Fai come ti pare» e andò per primo in cucina. Lilli lo seguì con la titubanza dell’estranea, a passetti piccoli piccoli. Si sporse quanto basta per vedere il piccolo frigo aperto e il giovane intento a riempire di aranciata un bicchiere che una volta era stato un barattolo di Nutella. Lui si accorse di lei con la coda dell’occhio, ma non si scompose. «Allora, cos’avevi da dirmi?» domandò, intanto che rimetteva a posto la bottiglia, appoggiandola contro una confezione di sugo di pomodoro. Lilli strinse le labbra e aprì le mani dentro le tasche del piumino. «Nulla di preciso.» rispose, muovendosi indietro di qualche passo per farlo uscire dalla cucinetta «Non ho un elenco di domande già pronto, se è quello che ti aspetti». «Io non mi aspetto niente.» replicò prontamente lui, facendo il gesto di portare il bicchiere alle labbra «Hai accennato a una partita di pallone, ieri sera». «Esattamente». «Ci ho pensato su, per cercare di ricordarmela meglio.» Enoch sollevò a stento un dito (a due metri di distanza) per indicarla «Parlo io, mh? Ti tolgo dall’imbarazzo, almeno. E’ stata l’unica volta che ho messo piede qui da bambino, ci sono rimasto solo una giornata e poi sono ripartito. Avevo… Cinque o sei anni. E non ho toccato palla, visto che a calcio, logicamente, non ci ho in pratica mai giocato. Sono entrato e uscito, quindi è stata questione di un minuto o due». «Non eri da solo, però» aggiunse Lilli, piegando la testa in avanti. Enoch buttò giù una sorsata abbondante. «No, non ero da solo.» rispose, prima ancora di aver riabbassato del tutto il bicchiere «Difficile che un bambino di sei anni vada in giro da solo per un paese che non conosce». «E con chi eri?». «Con la madre superiora, poi suor Gemma, suor Gabriella e suor Non-me-lo-ricordo. E un mucchio di altri bambini.» Enoch fece un gesto ampio col bicchiere «Com’è che sai di quella partita, comunque? Non mi risulta che sia stato un incontro tanto famoso».
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Lilli alzò gli occhi sino a puntarli in quelli del giovane. «C’era anche il mio fratellino» mormorò, togliendosi le mani di tasca. Enoch si fece scuro in viso fin da principio. Sollevò il bicchiere per bere e la ragazza vide le sue dita tremare notevolmente. «Una coincidenza curiosa» disse velocemente, in una specie di sussurro ovattato. «Te lo ricordi?» riprese lei «Aveva la tua età, i capelli corti…» e indicò i propri «Del colore dei miei. Fai uno sforzo: appena prima che tu uscissi dal campo». Enoch abbassò il bicchiere e lo posò sull’acquaio con un sospiro. Tenne lo sguardo su di esso per alcuni secondi, con le palpebre semiabbassate e le labbra immobili. «Come fai a sapere che ero io?» domandò, fermo come una statua. «C’ero anch’io» rispose la giovane. Lui restò così com’era ancora qualche attimo, quindi allontanò le dita dal bicchiere e sollevò il viso verso la ragazza. Lilli vi lesse sopra tutta l’inquietudine e il senso di smarrimento che aveva testimoniato il suo comportamento sin da quando l’aveva conosciuto. «Mi ricordo.» ammise Enoch, sfuggendo il suo sguardo «Mi dispiace, Liliana». La giovane rimise le mani nelle tasche e abbassò gli occhi sulla punta delle proprie scarpe, piegando appena la schiena. «Non è detto che sia stato tu, giusto?» obiettò, per convincersene «Non c’è niente di sicuro». Enoch non le rispose. Si voltò verso l’acquaio e aprì il rubinetto, sciacquando il bicchiere. «O sì?» insistette Lilli. Lui aprì uno sportello e mise il bicchiere a scolare senza ancora darle una risposta. «Puoi sempre non crederci» disse, e richiuse lo sportello. Lilli rimase ferma, quindi annuì tra sé. Indietreggiò di qualche passo e aprì la cerniera del piumino. Il calore che si sentiva in corpo non veniva dai termosifoni. Si stupì di non provare tutto il contrario, di non sentire freddo. «Come funziona?» si azzardò dunque a chiedere. Enoch si asciugò le mani con uno straccio e uscì dalla cucina a testa bassa, nervoso. «Te l’ho già spiegato, a grandi linee» rispose, e i suoi occhi notarono come ora la ragazza si tenesse attentamente a distanza e ad ogni suo movimento si affrettasse a ritrarsi, indipendentemente dalla credibilità della sua storia.
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Lilli si ritrovò accanto la porta d’ingresso. La porta d’uscita, anche. La tentazione fu improvvisamente forte, ma la vinse. D’altra parte, se Enoch avesse voluto farle del male, avrebbe già avuto un’infinità di altre occasioni. «Mi sembra impossibile che un bambino possa ucciderne un altro.» disse, dominando il tremito della propria voce «Che possa anche solo desiderarlo». «Non sono certo io a desiderarlo.» ribatté Enoch «Accade. Punto e basta. Così come camminando si sciolgono le scarpe». «Accade cosa?». Il giovane tacque di nuovo. Le labbra gli si stesero in una smorfia che non sapeva cosa dire, quindi cominciò a passeggiare piano per la stanza, andando a raccogliere un oggetto a caso, il telecomando del televisore. «Lui, il mio fratellino… L’hai toccato e si è ammalato.» riassunse Lilli, sforzandosi di sedare l’ansia «Tu li tocchi e si ammalano? E’ così?». «Non sempre» rispose Enoch, premendo d’istinto un pulsante: accese il televisore, ma solo per spegnerlo un attimo dopo con una piccola imprecazione. «Vuoi dire che qualcuno si salva?» chiese la ragazza, saettando con gli occhi da un angolo all’altro per trovare le parole «Che c’è chi ha come… Come delle difese immunitarie? Che è come un virus?». Il giovane alzò appena una mano per frenarla. «No.» replicò, passandosi il telecomando da una mano all’altra «Non tutti si ammalano, ma nessuno si salva. Non è mai successo, almeno». Lilli inghiottì la propria saliva come se fosse una palla di cemento. «E allora come…?». «In tanti modi.» rispose lui, anticipandola «In tutti quelli che si possono immaginare. Muoiono. Non sono io a decidere come, né quando. E’ come se portassi sfortuna». «Ma non è sfortuna, vero?» Lilli ricacciò indietro la solita ciocca, scoprendo di avere i palmi umidi, almeno più delle tempie «Non è che ti fa scivolare su una buccia di banana o… O si toglie». «No. Non è malocchio, ammesso che quello, sì, esista» Enoch stilizzò un sorriso amaro. La giovane sentì le gambe tremarle. Di colpo volle trovarsi in qualsiasi altro posto, anche in una fossa coi dannati, ma non lì, in quel misero appartamento di un paese di provincia, col rumore delle automobili della strada di sotto e quello della tranquilla, inconsapevole vita dei vicini.
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«Non sono io a decidere neanche il “chi”, tra l’altro.» proseguì Enoch «So che non ti piacerà sentirmelo dire, ma non ho colpe per tuo fratello. Non gli sono andato incontro volontariamente… E neanche ho cominciato quella partita propriamente di mia intenzione. Se ci siamo toccati, vuol dire che così doveva essere». «Doveva essere?» chiese Lilli, alzando il capo di scatto. Enoch si diresse verso una finestra e la aprì. «Il destino» disse, mentre ruotava la maniglia. L’abbaiare di un cane giunse alle orecchie della ragazza. Due o tre volte, quindi il suo padrone lo richiamò, riuscendo a zittirlo. Enoch, senza aggiungere altro, si sedette a cavalcioni della finestra, con una gamba che penzolava all’interno e una all’esterno, incurante della temperatura. Un soffio di brezza arrivò sino a lei, facendola raggelare, tuttavia non si lamentò. Non riusciva neanche a pensare con coerenza: tutto, persino il suo stesso essere, le pareva astratto e irreale. «Non riesco a trovare una spiegazione sensata.» confessò, sbattendo ripetutamente le palpebre sotto le sopracciglia abbassate «Non c’è una ragione concreta o in qualche modo fisica perché questo avvenga». «C’è.» replicò lui, guardando fuori «Solo che non la conosci». «E qual è? Il destino, come hai detto tu? Non è una motivazione reale, non è qualcosa di fisico». «E perché no? Non puoi esserne certa.» ribatté Enoch, dondolando lentamente le gambe «La gente si costruisce così tanti luoghi comuni sulla vita, la morte, il destino… Li immaginano come entità soprannaturali, forze invisibili e inconsistenti. Hanno dato loro una sede nel cielo o in mondi irraggiungibili, accantonando mano a mano la soluzione più banale. Nessuno pensa più che la morte possa essere qualcosa di organico. Di schiettamente semplice. Qualcosa di carne, di sostanze comuni; qualcosa di naturale, com’è naturale vivere. Che possa esistere un essere capace di dare la morte, condannato a dare la morte, con più facilità di come un uomo e una donna possono dare la vita a un loro simile». «Ma tu sei un mio simile!» si oppose Lilli, mettendo in lotta l’evidenza contro l’assurdo «Sei stato bambino e ora sei cresciuto e diventerai un uomo! Ti ho visto… Bere! Sbadigliare! Non sei nulla di… Nulla di inumano! Nulla di trascendentale!». «Bevo, sbadiglio e mangio. La notte dormo, anche. Questo autunno ho preso l’influenza e a primavera sono allergico alle graminacee. Di più, un giorno o l’altro morirò anch’io, come tutti gli altri; ma ciò che conta è che do la morte a qualsiasi altro essere vivente, senza che
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questo dipenda dal mio volere. Non ho anomalie fisiche, non più di te, eppure uccido. Non posso neppure essere l’unico, perché la gente muore in tutto il mondo anche se io non la sfioro. Io e tanti altri, chissà quanti. Perché così non deve valere anche per il resto? Forse il destino, e Dio stesso, sono qua dietro l’angolo, in America o al Polo Nord, e parlano, mangiano e in qualche modo si trasmettono da un vivente all’altro, in un ciclo vorticante e infinito». Lilli distolse lo sguardo. Inutilmente, perché lo riportò su di lui senza poterne fare a meno. «Dio…» riuscì solo a sussurrare, confusa. «Qualcuno che stabilisce come le cose debbano andare.» fece Enoch, annuendo «Colui che sceglie chi devo toccare. Che mi spinge a fare ciò da cui non posso ritrarmi, che mi fa sorgere quel folle impulso di sfiorare un uomo, di non evitarlo quando viene verso di me. Qualcuno del quale siamo tutti in balìa». «La Provvidenza». «Ma verso quale fine conduce?». «Non lo sai?». «No di certo». Lilli portò una mano alla bocca, scoprendola asciutta e arida. Provò il bisogno di averlo adesso quel bicchiere d’aranciata, o anche solo d’acqua, ma non si osò di chiederlo. Altre incombenze riempivano il suo cervello, subissandolo di domande che correvano lungo il limite della follia. «Se è un impulso, è qualcosa di spiegabile» disse, cercando di tenere la mente lucida. «Ogni cosa è spiegabile, ma non nei termini a cui sei abituata.» ribatté Enoch, facendo una pausa, per poi concedersi un mezzo sorriso «Senti qua che roba, paio un santone». «Riesci anche a prenderla sul ridere» fece Lilli, senza riuscire a ricambiare il suo sorriso. «Ci si fa l’abitudine, a forza di conviverci». «Appunto, ne parli come se fosse una malattia. Un impulso, qualcosa di… Di analizzabile, insomma. Di corporeo». «Corporeo, sì. Va già meglio. Ma lascia che ti dica qualche altra cosa.» e alzò un dito per fare il punto, raddrizzandosi: quindi tornò ad appoggiarsi allo stipite della finestra «Sono cresciuto in un orfanotrofio. Se ho questa maledizione addosso dalla nascita, è facile indovinare cosa ne è stato dei miei genitori. Il Caso ha voluto che di me si occupassero le suore più anziane, sempre loro, una dopo l’altra; allo stesso modo ha fatto sì che io fossi schivo per natura, tanto da permettermi di avere solo rarissimi contatti con gli altri bambini.
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Sempre lui, questo Caso, ha fatto sì che dopo molti anni spuntassero alcuni presunti zii, ricchi e ben pasciuti, che mi avrebbero riconosciuto come loro nipote e tratto fuori dall’orfanotrofio. Ancora, per puro Caso, si tratta di due persone prese dal lavoro, indifferenti alla mia sorte, che sono stati ben lieti di darmi questa piccola casa, una macchina e, pensa un po’, un assegno mensile. Li ho visti talmente tanto spesso che ancora adesso sono vivi e in salute, il che permette loro di campare e, importante, di mantenermi. Pensa a quante probabilità ci sono che avvenga una cosa del genere.» si fermò per prendere fiato e fissò lo sguardo sulla giovane, immobile «Questo non è “corporeo” come il mio impulso. E’ altrettanto vero e altrettanto reale, ma non è un gioco di coincidenze». Lilli ascoltò quel discorso senza muovere un muscolo, inorridita. La spaventava, più di quanto le fosse mai capitato in vita sua. Sentiva il respiro pesante e affrettato, una sorta di singhiozzo che andava e veniva, facendole vacillare le palpebre e l’equilibrio. Si stupì anche lei quando quella che le sfuggì dalla bocca fu una risata tremante, anziché un urlo. «E’ pazzesco» commentò, strofinandosi una mano sulla fronte. «Sei stata tu a pormi quella domanda» le ricordò lui, che adesso sembrava aver trovato una parvenza di calma. «E… E poi?» continuò Lilli, vincendo i suoi stessi inceppamenti «Che altro? Cos’altro puoi fare?». Enoch la guardò con palese stupore, col labbro un poco sollevato e un occhio socchiuso. «Niente!» rispose, come se fosse ovvio «Cosa ti aspettavi? Magia? Apparizioni divine? O magari un vampiro dal fascino truce coi poteri di un supereroe americano? Andiamo, non cominciare con le stronzate da fumetto fantasy». Lilli storse la bocca: fantastico per fantastico, poteva starci anche quello, per quanto ne sapeva lei. Al momento, tra l’altro, non era interessata a saperne altro. C’era già abbastanza materiale, in quel dialogo di pochi minuti, per perderci il sonno. La cosa preoccupante era che quello che diceva, sia pur nella sua personalissima ottica, aveva un senso! Non erano i deliri incoerenti di un deviato o di un visionario. Enoch parlava di quella maledizione, come l’aveva definita lui, senza impacci. Un pazzo non sa di esserlo, si disse Lilli, muovendosi da sola l’obiezione più scontata. Ma suo fratello? Enoch non poteva aver mentito. Quella dell’orfanotrofio e degli zii poteva benissimo essere una balla - a cui, magari, lui stesso credeva - ma un bambino era morto. E non un perfetto sconosciuto. Suo fratello. Lilli si ricordava di Enoch; Enoch si ricordava di lui. La giovane poteva
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scegliere di credergli o no; poteva anche sincerarsi di quel che gli aveva detto. Sarebbe bastato allungare un braccio e posare una mano sulla sua spalla. Lilli non riusciva ad immaginarsi che sarebbe morta così, di punto in bianco; l’àncora con il suo mondo, fatta di rassicuranti certezze, era ancora saldamente al suo posto. La paura che le impediva di provare veniva però dal profondo: una reazione primitiva sorta dal contatto con l’ignoto, con ciò che poteva significare tutto e niente. Inspirò un paio di volte, voltando il capo per poter chiudere gli occhi senza essere vista. In quel momento di tregua riuscì a rammentarsi che sino a pochi giorni prima aveva parlato con lui come con ogni altra persona. Questo era quello che avrebbe dovuto fare adesso e questo, per sua sorpresa, era proprio quello che si sentiva di fare. Prima di fuggire, beninteso. «Non hai mai parlato così a lungo» disse, posando le mani sui fianchi con un sorriso indefinito. «Non ne ho proprio mai parlato, di questa storia» ribatté Enoch, scendendo dalla finestra. «Veramente?». «Veramente. Ti senti onorata, forse?». «No, questo no. Solo che mi aspettavo che tu ne avessi già parlato con qualcuno; chessò, con un medico. Quando fosse per cercare aiuto». «Non vedo proprio come potrebbe aiutarmi» fece Enoch di rimando, richiudendo la finestra. «Ma potrebbero… Analizzarti, non lo so. Giusto per sapere in che maniera funziona questa… Cosa». «Lo so già come funziona.» replicò il giovane, cominciando a stancarsi «Non c’è altro da capire». Di nuovo lei non seppe cosa dire. La porta le appariva un’alternativa sempre più attraente. La mancanza dell’aria aperta, o di qualsiasi altro luogo che non fosse quella casa, la sfiancava. Il suo istinto di conservazione finì per avere la meglio. «Credo di dover andare, ora» mormorò debolmente, voltando inevitabilmente gli occhi verso la maniglia. «Credi di non dover tornare» la corresse Enoch, intuendo dove la giovane stesse andando a parare. «Più o meno.» confessò Lilli, tesa come una corda di violino «E’ abbastanza sconvolgente, non ti pare?». «Lo immagino» disse lui, abbassando la testa. «E’ comprensibile… No?». Enoch si mordicchiò il labbro inferiore e prese a massaggiarsi energicamente la mascella.
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«Non possiamo continuare come prima?» chiese, alzando le sopracciglia. Lilli lo guardò preoccupata, col sibilo del respiro che le passava attraverso le labbra socchiuse. «E’ un po’ diverso, ora» rispose, volendo esser riduttiva. Enoch abbassò lo sguardo, incassando il colpo. In quel momento comprese di non aver più nulla da perdere: si rifiutò di desistere. «Credo di essermi innamorato di te» disse, tutto d’un fiato. Lilli ne rimase come paralizzata. «So di essermi innamorato di te.» precisò frettolosamente lui «Per quello che può valere…». Aveva le guancie rosse di vergogna, gli occhi aperti oltremisura e le mani che accennavano costantemente un gesto, sempre rimandato. Lilli non batteva ciglio, imbambolata. Era stata una doccia fredda, o anche peggio. Realizzò solo allora che le prime rivelazioni di Enoch, quelle di due giorni prima, erano bastate a spazzar via ogni traccia di buoni, sentimentali propositi. E ora questo. Di ciò che si era forse persino convinta di provare per lui non era rimasto che il bagliore flebile della memoria. Se Enoch l’avesse saputo, probabilmente se ne sarebbe persino accontentato. «Mi prendi alla sprovvista» replicò appena Lilli. «Un’altra volta?» chiese lui, con un debole sorriso. La giovane abbassò gli occhi e diede in una risatina nervosa. «Un’altra volta, sì». Enoch annuì lentamente, senza convinzione. Premette la punta di un piede sul pavimento e ce la girò, tenendoci gli occhi puntati sopra. Rialzò poi il capo con le labbra già aperte, nel momento stesso in cui Lilli si preparava a parlare a sua volta. «Potre-». «E’ che-». Si interruppero entrambi, a turno sorrisero e si rivolsero un cenno con la mano. «Parla tu». «No, no, hai cominciato tu». «Ma fa niente, figurati». Lilli gesticolò per riprendere il filo di quello che stava dicendo. «E’ che sembra un tantino impossibile, scusa» proseguì finalmente. «Per via della mia-» iniziò Enoch. «Non perché tu non possa essere il mio tipo.» lo interruppe lei, facendosi sempre più irrequieta «Sei… Sì, sei un bel ragazzo, hai gli occhi… Come dire…». «Scuri?».
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«Magnetici». «Ah, ecco». «Penetranti, via. Mi piacciono, sul serio. E sei simpatico, anche, non lo voglio negare. A tuo modo, magari. Scommetto che saresti anche galante, se non fosse per i tuoi… Ovvi limiti». «Ed è quello il problema, giusto?» domandò Enoch «Intendo i miei ovvi limiti». Lilli smise di gesticolare, facendo ricadere le braccia. «Sì.» rispose quindi «E’ un po’ difficile instaurare un rapporto sentimentale senza potersi neanche toccare. A meno che tu non abbia qualche alternativa…» e a questo punto era disposta anche a sperarci. «No, nessuna alternativa.» disse però lui «Mi spiace». «Nemmeno con un paio di guanti, ad esempio?». Lui scosse la testa e rise, stavolta con un poco di sincerità in più. «Come Rogue degli X-men?» chiese. «Non funziona, eh?». «Non sono ancora un personaggio dei fumetti, te l’ho detto. E non ho neanche in programma di diventarlo». Lilli riuscì ad allontanare almeno un po’ la paura da sé. Si sentiva come un acrobata sul filo, con solo un bastone tra le mani per non precipitare in mezzo alla pista. La pista era il terrore; il bastone era l’Enoch “umano”, il ragazzo all’apice della semplicità che però era riuscito a impossessarsi completamente dei suoi pensieri. La sbalordiva la forza con cui, pur portandosi dietro il suo carico, si ostinava a provare a vivere un’esistenza fin troppo normale, ora visibilmente stilizzata su un modello che non aveva mai potuto appartenergli. Lilli sentì che avrebbe dovuto trovare qualche altra ragione per escluderlo dalla propria vita, se avesse voluto continuare a guardarsi allo specchio la mattina senza provare disprezzo per sé stessa. Una ragione di cui fosse convinta; una ragione altrettanto umana, soprattutto. «Che poi non ci conosciamo nemmeno, dai.» disse, infilando di nuovo le mani in tasca «Non so assolutamente nulla di te, eccetto quello che mi hai detto oggi». «Beh, c’è tempo per conoscere una persona.» obiettò lui «Io di te so molte cose, inoltre». «Non poi così tante, fidati». «Abbastanza per innamorarmi, e non solo.» Enoch alzò per un attimo gli occhi al cielo, come per riordinare le idee, quindi li riabbassò e li puntò sulla ragazza «O vuoi che ti descriva la tua casa, la tua macchina e il tuo modo di guidarla, le occhiate che tuo padre
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mi lancia quando mi vede passare fuori dalla gioielleria, credendo che non me ne accorga?». Lilli strizzò un occhio come per reagire ad una puntura. «Questa è meglio se non gliela dico.» borbottò, ridendo sotto i baffi «Ma non vuol dire niente, comunque: non è in base a questo che puoi dire di conoscere una ragazza». «Tutto ciò con cui interagiamo ci condiziona. Si può capire molto di una persona valutando le persone che la circondano, le sue abitudini, il modo in cui si rapporta con gli altri, quando non si tratta di sé. Si può ricavare qualcosa» e alzò un dito, facendo il gesto di battere un colpetto «persino da come dà i colpetti a un sonaglio di legno posto sopra il letto». Lilli si adombrò di botto. Enoch non poteva averla sparata così, a caso. In un altro frangente ne sarebbe rimasta stupita positivamente, l’avrebbe presa sul ridere; in quello le metteva solo angoscia. «Uno di quelli che si mettono sopra il box dei neonati, si direbbe» specificò intanto lui, fugando ogni dubbio, quindi incrociò le braccia. «Come fai a sapere di quel sonaglio?» domandò lei, seria. «L’ho visto» rispose l’altro, in tutta calma. «Non puoi averlo visto: quel sonaglio è in camera mia e tu non ci hai mai messo piede. Di questo ne sono certa». «Io ti dico che l’ho visto. Altrimenti non avrei potuto descrivertelo così, no?». «Vuol dire che te ne ha parlato qualcuno.» insistette Lilli «Gloria, forse. O anche mio padre. Sono entrambi capacissimi di averlo fatto». Enoch fece lentamente segno di no con la testa. «Né l’una né l’altro. L’ho visto, stop». «Beh, allora dimmi come cavolo hai fatto». «La tua camera ha anche una bella finestra.» rispose tranquillamente il giovane «Tua madre la tiene molto pulita, peraltro. E ha lavato le tende di recente». Lei si posò una mano sul petto e abbassò il viso, stralunata. «O mio Dio.» disse, rialzando gli occhi «Mi hai spiato?». «“Osservato” mi piace di più». «Non dirmi che ti sei messo lì con un binocolo». «Naa, non sono mica un maniaco. Mi sono solo inoltrato illegalmente nel campo del tuo vicino». «Tu sei pazzo!» esclamò Lilli, cominciando a ridere «Se quello ti vede, ti impallina come un tordo!». «Potrei prenderlo come spunto per una morte eroica».
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«Ma per cosa, poi? Per… Beh…» Lilli spostò lo sguardo altrove, imbarazzata «Per arrivare alla mia finestra?». «Qualche metro più indietro, in verità.» confessò Enoch «Quanto bastava per non farmi vedere». La ragazza piegò l’indice e se lo portò alla bocca, tra i denti, per smettere di ridere, senza però nascondere il sorriso allegro che le era rimasto sulla faccia. Né il rossore che le colorava immancabilmente le gote. «Ora, a seguito di queste pesanti ammissioni sulla mia condotta,» riprese il giovane «non è che potresti ritrattare?». Lilli provò a finirla, a ritrovare abbastanza serietà per potergli rispondere di no, ma in quel momento proprio non le riuscì. Rimase zitta, con quel dito in bocca e la testa che dondolava da una parte all’altra. «Senti, mi rendo conto che possa suonarti strano, molto strano, ma non ti sto chiedendo di condividere la condanna che mi trovo legata al collo.» disse Enoch «Lo so da me che non posso neanche sperare di avere un rapporto… Completo con una donna. Meno che mai lo vorrei, sapendo quel che succederebbe.» fermò gli occhi su di lei, con abbastanza intensità da indurla ad abbassare la mano e a tornare, seppur dolorosamente, coi piedi per terra «Non potrei mai farti una cosa del genere. Non riuscirei a essere schiavo di un egoismo così grande». Lilli girò la testa verso la porta, stanca. Avrebbe rimandato volentieri una decisione del genere, o tutta quanta la discussione, almeno al giorno dopo. «E allora, ammettendo che sia possibile, che cosa ti aspetteresti da me?» domandò, tornando a voltarsi verso di lui. Enoch le si fece più vicino, per quanto era loro concesso. «Mi basterebbe che ci facessimo compagnia, ogni tanto, un po’ come avremmo potuto fare anche oggi.» rispose «Mi pare che ci riusciamo bene, se vogliamo. Non ti chiedo nulla di più». Lilli piantò il pollice nella tasca dei pantaloni e strinse le labbra, col capo nuovamente chino. «Questo non è amore.» mormorò «E’ amicizia, al massimo». «Se per te va bene, io posso accontentarmi che tu mi consideri anche solo un amico.» ribatté lui, seguendo con gli occhi la sua mano «L’amore che posso provare io si pasce soltanto della tua vista e della tua voce». Lilli gli regalò un sorriso, dolce per sua natura. «E’ una cosa bella da sentirsi dire, in qualsiasi circostanza.» sussurrò, risollevando gli occhi su di lui «Grazie».
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«E’ soltanto una cosa autentica». «E’ raro trovare qualcosa di autentico, in questo mondo». «Dev’essere per questo che fa piacere sentirselo dire, allora». Lei fuggì il suo sguardo, senza più riuscire a sostenerlo. Lo abbassò sulla cerniera del piumino, mentre con le mani si apprestava a richiuderla. «Non mi farai correre rischi, vero?» domandò, col tono asciutto. «Convivo con questa bomba innescata da quando sono nato. So usare tutte le precauzioni» le garantì il giovane. Lilli sospirò un’ultima volta, appena prima di rialzare la testa e guardarlo in faccia. «Vedrò cosa posso fare» gli rispose. Lo vide sorridere, una fila di denti bianchi che non aveva mai visto così larga, così improvvisamente felice. «Ora però ho bisogno di prendere un po’ d’aria e rifiatare.» aggiunse la ragazza «Da sola». Lui annuì, leggero, come uno che cammina sulle nuvole con la delicatezza di una piuma. «Certo, certo. Lo capisco benissimo.» disse prontamente, facendole un cenno in direzione della porta, a cui era più vicina lei che lui «Per ora comunque grazie, Liliana. Non lo dimenticherò». «Lilli, testa dura.» lo rimbrottò la giovane «Comincia col non dimenticare quello.» si girò verso la porta, solo per bloccarsi un attimo dopo e tornare su Enoch «Aspetta un po’: che mi ci chiamano i miei l’hai scoperto durante una delle tue missioni di spionaggio?». «E’ stata la prima cosa di cui mi sono accorto» fece l’altro, annuendo orgogliosamente. «Sei un bastardo.» lo apostrofò lei, con un sorriso beffardo «Ma se tutti fossero bastardi come te, penso che staremmo meglio». «Non ho capito se è un complimento o no». «Tu che ne dici?». Enoch si fermò su due secondi a pensarci. «Io dico di sì» stabilì infine. «Sbagliato.» controbatté divertita Lilli, sollevandosi il bavero del piumino fin sotto il collo «E’ una critica costruttiva». «Ed è meglio che un complimento?». «Molto meglio». «Ecco, allora mi permetto di fartene una anch’io» disse Enoch, ritraendosi di un paio di passi per squadrarla meglio. Lilli inarcò un sopracciglio, perplessa. «Beh?» chiese, siccome lui non accennava a spiegarsi.
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«Prendi quel giubbotto e buttalo nel primo cassonetto che trovi.» rispose il giovane, sghignazzando «Ce n’è uno giusto in fondo alla strada». «Ommadonna, ti ci metti anche tu? No, frena. Fammi indovinare: anche questo l’hai sentito dire da mio padre?». «Veramente no. E’ proprio brutto. Ma fa piacere sapere che non sono l’unico a pensarlo». Lilli mise su il muso, sbuffò e si aprì la porta da sola. «Domani passo a comprare il regalo per quella scema di Gloria.» annunciò, prima di mettere il piede sulla soglia «Se mi viene in mente qualcosa di abbordabile anche per te ti chiamo, ma non andare subito in giro a dire che sono la tua ragazza». «E a chi potrei andare a dirlo?» le fece notare lui. La giovane comprese quanto quell’osservazione fosse fondata. Poco ma sicuro che la casa di Enoch era ordinata perché così piaceva tenerla a lui, non certo in previsione di ricevere delle visite. «Ti richiamo domani» tagliò corto Lilli, uscendo all’aperto. «Mi trovi a casa» ribatté lui, in piedi nello spiraglio della porta. Si salutarono brevemente. Lilli rimise piede in strada con innegabile sollievo; si ravvivò i capelli con un colpo della mano, cercando di riscuotersi. Si era ripromessa di cercare un valido motivo per dirgli di no; non di trovare la maniera per tirarselo dietro. Adesso, pur col fiato corto per aver retto a quelle rivelazioni, si preparava già all’indomani, sicura che gli avrebbe telefonato senza ripensarci, a dispetto di tutta la propria ansia. Per quanto riguarda Enoch, fece finta di chiudere la porta, appoggiandola soltanto. Dopo alcuni secondi la riaprì silenziosamente, seguendo con gli occhi la ragazza ignara. Dentro, il cuore martellava furiosamente, e il respiro filtrava tremando attraverso le sue labbra aperte. Quando non la vide più, richiuse la porta e andò a sedersi sul divano. Lì le forze, finalmente, lo abbandonarono. 20- Trentatreesimo giorno, Lunedì «Ma sei certa che sia sicuro?» le domandò il giorno dopo, rannicchiato sul suo sedile, al posto di guida. «Scherzi? Sono le due.» rispose Lilli, a sua volta premuta contro il finestrino «La gente a quest’ora mangia o, se ha finito, si guarda bene dall’uscire di casa. Chi vuoi che ci sia?». «Non lo so, orde di turisti con bambini? Non ci ho mai messo piede, cosa ne so?».
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«Oh, falla meno lunga, lagna.» ribatté la ragazza, infastidita «Io rischio a mettere le chiappe sulla tua macchina e tu fai lo stesso accompagnandomi a cercare quel regalo. Senza contare che ho dovuto inventare ai miei una balla che non si saranno bevuti manco alla lontana. E per la fretta mi è rimasto pure il pranzo sullo stomaco». Enoch si zittì e si concentrò piuttosto sulla strada, tra l’altro sgombra. Il telefono era suonato nemmeno mezz’ora prima, facendogli drizzare le orecchie sin da subito. Pur correndo, era riuscito a mormorare una preghiera perché non si trattasse di qualcuno che voleva vendergli l’adsl. Sentirla per telefono, poi, l’aveva esaltato: l’aveva caricato di così tante speranze che nemmeno lui sapeva quante fossero. Infilarsi due vestiti puliti, darsi una sistemata e saltare sul Peugeot era stato un attimo. Nemmeno si era chiesto perché proprio la macchina, dove sarebbero dovuti andare. Ora, tutto l’entusiasmo si era dissipato. Enoch guardava preoccupato la ragazza seduta accanto a lui. «Lì, lì a destra.» disse quella, protendendo un braccio per dargli la direzione «Accosta appena ne hai occasione». Enoch obbedì, guardandosi intorno con circospezione. Un’agenzia di viaggi, un negozio di bigiotteria, una saracinesca abbassata. Non un’anima in giro. «Su, su.» lo incitò Lilli, slacciandosi la cintura di sicurezza e aprendo lo sportello «Abbiamo circa un’oretta, facciamocela bastare». Il giovane inspirò, si fece vento con una mano e la imitò. Scorse un paio di donne sul marciapiede, a una cinquantina di metri, e si convinse sempre meno della trovata della ragazza. «Faccio strada io, tu vienimi dietro» annunciò lei, aggirando la macchina. Enoch attraversò la strada alla svelta, dal momento che Lilli sembrava aver fretta. Passarono su un vialetto ghiaioso, affiancato da robusti alberi vestiti di luci elettriche ancora spente, data l’ora. Su una panchina, riconobbe due suonatori di piva, con le tradizionali pelli di pecora sulle spalle, intenti a masticare panini; alla stessa maniera, a fianco del vialetto, notò una manciata di zingari seduti in un parco giochi, intabarrati nelle loro coperte di pile. Tutto sembrava indicare che Lilli non si era sbagliata. Infine, scorsero i drappi rossi e le luci, stavolta accese, avvolte attorno alle bancarelle. «Ok, se non altro mi sono ricordata dove lo fanno.» disse lei, strofinandosi i palmi delle mani «Di norma vago per mezz’ora prima di trovarlo. Così che non c’è nessuno, oltretutto, era anche più difficile». «Sempre che ne sia valsa la pena» bofonchiò il giovane.
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«Quello è garantito. Se ti serve un regalo di Natale, qui stai sicuro che non torni a mani vuote». Enoch piegò la testa per vedere meglio, e poté se non altro sincerarsi che non ci fosse nessuno. Prima di allora, i mercatini natalizi li aveva visti soltanto in televisione o su qualche rivista. Non gli era mai venuta la tentazione di visitarne uno perché le feste, quando si è soli, riescono a trasmettere una tristezza indicibile; lui l’aveva conosciuta per anni e anni, illudendosi che prima o poi avrebbe imparato a sopportarla. Se c’era passato vicino, qualche volta, aveva cambiato strada per non ridursi ancora peggio di come si sentiva. Quel giorno, per una rara volta, aveva l’occasione di essere liberamente curioso. Diede un’occhiata alla ragazza, che filava dritto come un treno, e avvertì un solletico alle labbra, un invito a sorridere finché poteva. Piegò il capo, quindi, per sbirciare tra una bancarella e l’altra e riuscire a vedere fin dove arrivasse quella fila di luci e nastrini. Rallentò l’andatura quando lo vide fare anche a lei, prendendosi soltanto il tempo di affiancarla. Un pupazzo di Babbo Natale a dimensioni naturali ancora in lontananza cominciò a ondeggiare da una parte all’altra sulle note di Jingle Bell e di un’altra musichetta che Enoch non conosceva. Quando gli girarono intorno, il giovane si soffermò sui suoi occhiali tondi, sull’espressione gioviale del viso, sul rosso della bocca aperta, sulla campana che gli avevano infilato in una mano. Senza neanche volerlo, si lasciò scappare una piccola risata e Lilli si voltò a guardarlo. Le indicò il pupazzo per spiegarsi; lei sollevò quel sopracciglio alla sua maniera - come a lui non riusciva. «Un bambino, un bambino» lo definì, e scosse la testa bonaria. «E’ simpatico» si giustificò Enoch, gettando un’altra occhiata al pupazzo. «Ci credo, è Babbo Natale! Come fa ad essere antipatico?». Un giovanotto dietro il banco di gastronomia davanti al quale avevano piazzato il pupazzo si sporse in avanti verso di loro. «Basta averlo davanti dalla mattina alla sera.» rispose, con un forte accento meridionale «Ti fa passare la voglia». Lilli ed Enoch gli risposero con una mezza risata. «Hai tutta la nostra comprensione» disse lei, restando al gioco. «Lo volete? Ve lo regalo!» insistette quello, indicando il pupazzo «Mi dà sui nervi, sembra un ubriaco deficiente». «Spiacente, ma non ho nemmeno fatto l’albero di Natale, figurati se saprei dove mettere un pupazzo ubriacone» gli rispose ancora la ragazza, poi si ritrovarono tutti e tre a stringere le spalle.
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Insieme, Lilli ed Enoch si avviarono dunque tra i banchetti semideserti, senza più quella fretta che era sembrato loro di avere quando erano scesi dalla macchina. I vari venditori, come c’era da aspettarsi, non fecero nulla più che alzare gli occhi, spaparanzati sulle sedie pieghevoli, i più intenti a sbocconcellare qualcosa e a svuotare bottiglie d’acqua di plastica. «Beh, abbiamo appurato che a Natale sono tutti più buoni, o perlomeno più spiritosi» commentò Enoch, girando un’altra volta la testa verso il ragazzo di prima. «Poveri cristi, è l’unico momento della giornata che possono prendersela un po’ più tranquilla.» ribatté Lilli «Quando c’è pieno, devono sempre stare attenti che qualcuno non gli freghi la roba». «Tu invece sai sempre come beccare gli orari più smorti possibili e immaginabili, eh? Un paio di settimane fa la Passeggiata, oggi il mercatino di Natale. Cos’è, una sorta di talento particolare?». «Ho le sonde nascoste sotto i capelli. Bzz-bzz-bzz!» rispose lei, alzando due dita dietro le orecchie. «E magari ti suggeriscono anche che cosa comprare alla tua amica?». «No, quello si improvvisa. Qualsiasi cosa andrà bene.» disse, passando da una sfilza di statuine del presepe a una di soprammobili in legno a forma di animali «Guarda carino, le prendo il gatto con gli occhi da allucinato?». «Veramente pensavo a un paio di stivali, giusto per essere originali» replicò Enoch, esaminando con scetticismo l’oggetto che gli aveva indicato, una di quei cosi non identificati realizzati talmente male da essere raccapriccianti. «Ah, no, se li è appena comprati, per quel che mi riguarda. E poi lei è ricca, io no». «Ricca?» domandò lui. «Ricca ricca. Figlia unica, persino. Una che fa molto comodo se hai sia il cellulare che il portafoglio senza un centesimo». «Intendi dire che è milionaria?». «Non ho compilato la sua dichiarazione dei redditi, ma non studia, non lavora e non ha intenzione di fare nessuna delle due cose finché non ci sarà costretta. Come la chiami tu una così?». «La chiamo mantenuta.» rispose lui, tranquillo «Come me, insomma. Quindi sono ricco?». Lilli si voltò verso di lui, stranita. «Che c’entra? Tu sei… Boh, un caso a parte.» borbottò, facendo un gesto vago, per poi restare con un’espressione dubbiosa sul viso «Già, ma tu che cacchio ci fai all’università, poi?». «Ci studio, ovvio».
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«Con quegli appunti da pazzoide? Andiamo, non ci puoi sostenere un esame» fece lei, scettica. «Ho detto che studio, non che do gli esami. A dirla tutta, non sono neanche iscritto». «Neanche iscritto?» ripeté Lilli, strabuzzando gli occhi «Ma che ci vieni a fare a lezione, allora?». «Perché studiare mi piace, tutto sommato, e i professori che ci sono là dicono un mucchio di cose che vale la pena di ascoltare, se uno può. Se mi leggo qualcosa, poi, non mi devo porre il problema delle scadenze e farmi venire l’ansia per gli orali». «Va beh, ma se fossi iscritto almeno potresti laurearti. Ora come ora, studi per non arrivare a nulla». «Guarda che l’assegno che mi passano non è così grande. Se ci dovessi anche togliere i soldi per le tasse universitarie, non so nemmeno se arriverei alla fine del mese». «Ah, se la metti su quel piano lì… Le fontanelle con le pietre?» chiese, indicandone una su una bancarella. «Non un granché, come regalo.» rispose Enoch, storcendo appena la bocca «E poi, sai, quando vivi in una condizione di questo genere non è che ti preoccupi molto di trovarti una sistemazione professionale». «Beh, è comunque qualcosa…». «Ah, perché tu saresti una che la cerca?» domandò lui, sarcastico. «Sì, ok, diciamo che… Con calma, con molta calma, seppur alla lontana, la cerco anch’io.» disse Lilli, e abbassò la testa sorridendo «Io mi accontento di poco, ma non è che voglio fare la mantenuta». «C’è chi si può permettere un po’ d’ambizione e chi no.» ribatté Enoch, senza dar troppo peso alla cosa «Al momento tiro avanti, non importa come». La ragazza annuì piano, posando lo sguardo su un rivenditore di autentiche palline di vetro, poi su una fila di penne su cui, a richiesta, si poteva incidere il nome. Regalo già utilizzato, quest’ultimo. «E’ un po’ difficile mettersi nei tuoi panni» ammise, voltandosi verso di lui. «In compenso non ti fai molti problemi.» osservò il giovane, e Lilli si accorse che la guardava con un misto di benevolenza e gratitudine «Mi aspettavo che non ti avrei più rivista o che, nel caso, saresti schizzata via ad ogni mio movimento. Non credi a quello che ti ho detto, non è così?». Lei socchiuse gli occhi, spostandoli gradualmente verso la più vicina bancarella.
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«Non ci penso molto sopra, e credo sia meglio per entrambi.» rispose, rilasciando un debole sospiro «D’altra parte, non ho motivi per mandarti via». «Non è necessaria una motivazione, se scegli di non volermi intorno». Lilli si soffermò su un ciondolo senza importanza, realizzato con piume e sonagli, quindi rialzò il viso su di lui. «Sei buono, con me, e questo mi basta. Che tu possa o non possa farmi del male è ininfluente, perché so che non me ne farai.» disse, prima di tornare a sorridere «E poi non stiamo facendo nulla di compromettente, no? Siamo solo due amici che si fanno compagnia a un mercatino. Perché farsi tante domande, se si può star bene?». Enoch ascoltò quelle parole con visibile piacere, senza poter fare a meno di lasciar trapelare un po’ d’imbarazzo. Lilli intuì quanto dovessero significare per lui, sotto tutti gli aspetti, e non se la sentì di ritrattare, né di aggiungere altro. Lui abbozzò una risata incerta, alzando il viso verso il cielo. «Allora non interessa più neanche a me» disse, e si rimisero a fare il giro delle bancarelle. Si fermarono a lungo a quella dei giochi “di una volta”, osservando incantati la fluida semplicità della trottola, la tenerezza negli occhi del cavallino a dondolo. Ascoltarono il ronzio di un aeroplanino a carica che girava in tondo senza riuscire a staccarsi da terra e seguirono a bocca aperta i piccoli sciatori che, lungo una pista, scendevano da una montagna e vi risalivano. C’era qualcosa di magico attorno a quei semplici giocattoli, una malinconia soffusa che stringeva il cuore. E anche qualcosa di più. Qualcosa che andava colto e che Lilli non riusciva ad individuare, sebbene sentisse di averlo vicino, tanto da poterlo sfiorare. Allontanandosi per un attimo da quel banco, trovò in quello di fronte il regalo adatto. Uno specchio, ai cui piedi stava una fatina dai lineamenti delicati, bionda, anch’essa impegnata a guardare il proprio riflesso nella superficie di un laghetto. La colpì subito e non seppe neanche dirne la ragione. Non era neanche che costasse molto meno degli stivali che le aveva comprato Gloria, quindi per un anno non avrebbe sfigurato né con lei né con sé stessa. Stranamente, poi, non l’avrebbe voluto per sé. Era come se quello specchio fosse nato solo per essere esposto in quel preciso momento e acquistato per essere regalato. Soltanto quello. «Ti piace?» domandò ad Enoch, che era rimasto all’altro banco. Lui si piegò per darci un’occhiata.
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«Lo prenda pure in mano, se vuole» disse la donna che stava in piedi dietro alla bancarella. «Posso?» chiese la ragazza, alzando gli occhi su di lei. «Prego, prego». Enoch si fece da parte. Lilli prese lo specchio tra le mani e lo tenne ben fermo. Lo studiò nei minimi particolari, girandoselo tra i palmi e, già che c’era, ne approfittò per darsi una pettinata con qualche breve colpetto delle dita. Scorse poi Enoch, attentamente in disparte, che cercava di vederlo anche lui, senza avvicinarsi. Inspirò e in un attimo di coraggio glielo porse. Rimasero con gli sguardi incrociati, l’una a farsi intendere dall’altro, poi lui alzò a sua volta un braccio. La mano di Lilli tremava almeno quanto la sua quando, per un attimo, furono entrambe strette attorno alla cornice dello specchio. Lei la ritrasse, infine, quasi artigliandosela al fianco. «E’ molto bello» disse Enoch, dopo averlo guardato, e stavolta fu lui a porgerlo a lei. Lei lo riprese e le parve di averlo fatto troppo bruscamente. Non un contatto. Ma poteva esserne certa? Si chiese se l’avesse toccato senza accorgersene, se fosse accaduto senza che nessuno di loro due se ne fosse reso conto. La fronte le si aggrottò mentre lo rendeva alla donna. In quel caso, si disse, avrebbero avuto più fortuna che se se ne fossero accorti. «Mi fa un pacchetto, per favore?» domandò con voce debole, un po’ tremante. Pochi minuti dopo, mentre le strade andavano riempiendosi, erano di nuovo in macchina e lei, per tutto il viaggio, notò appena la piega sottile del sorriso sulle labbra di Enoch. 21- Trentacinquesimo giorno, Mercoledì (Natale) Era un mattino nebbioso quello su cui Lilli, ancora in pigiama, aprì la finestra di camera. Vi si soffermò per alcuni secondi: era da quando Enoch le aveva detto di averla spiata proprio attraverso di essa che le capitava. Restava spesso lì, per vedere se l’avrebbe trovato nel campo del vicino, magari addirittura arrampicato su una pianta. Non le era nemmeno difficile indovinare da dove era passato e dove, quindi, sarebbe apparso. Si divertiva a pensare a cos’avrebbe detto se l’avesse colto in flagrante, al punto da arrivare a riderci da sola. La sua capacità di guardare al di là della sinistra caratteristica di Enoch sorprendeva anche lei, sia che fosse dovuta all’irresponsabilità o ad un ben più sano e razionale scetticismo.
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In ogni caso, non era il giorno adatto per certe riflessioni. C’era un copione prestabilito a cui tener fede ogni Natale e andava rispettato. Un’abitudine, più che altro, ma talmente reiterata da esser diventata una sorta di tradizione di famiglia. Prevedeva che tutti quanti si dovessero ritrovare in una stanza (di norma il salotto, dove piazzavano l’albero, ma da quando avevano smesso di farlo era più probabile la cucina) e lì avveniva, a turno, lo scambio dei regali, davanti ai quali c’era da fingersi sbalorditi, ringraziarsi e abbracciarsi, per una volta all’anno. Questo avveniva sempre la mattina, relativamente presto, dopo una colazione più abbondante del solito. Sempre così, sempre loro tre. Era quella che definivano una festa di famiglia, nel senso più stretto del termine. Di nonni, era rimasta solo quella materna, che non prendeva parte neanche a quei comuni riti. Lilli ricordava di averla vista solo una manciata di volte in vita sua, l’ultima risalente a setteotto anni prima. Il che era solo un bene, le ripetevano, perché la donna, a quanto pareva, era matta da legare, ed una di quelle matte cattive, malevole. Lilli non ne poteva sentire la mancanza neanche volendo: preferiva galleggiare serenamente in quella timida farsa che occuparsi di lei. La norma era quella, in fondo, quindi perché sottrarvisi? Si poteva vivere senza porsi tante domande: era quello che si rispondeva già da un pezzo, ormai. Si poteva, sì. Se uno si era posto prima le domande giuste. Congiunse le mani con un gran sorriso di fronte a un paio d’orecchini su cui aveva messo gli occhi in negozio, dove andavano a pescarle un regalo tutte le volte che non avevano nessuna idea. La stupì che non avessero pensato neanche quel Natale a un piumino nuovo, possibilmente di un altro colore: avrebbe puntato su quello. Baci, abbracci e ringraziamenti gioiosi si susseguirono fedelmente. Toccò poi al classico dopobarba che aveva scelto per suo padre e alle tazze con annesse bustine per infusi per la mamma; un regalo, quest’ultimo, quantomeno più originale e azzeccato, che avrebbe senz’ombra di dubbio serbato con tutte le cure: se avesse aperto la scatola, sarebbe già stato tanto. Per suo marito, lei aveva scelto su “quello di cui ha veramente bisogno”, ovvero un classico paio di scarpe di cuoio; lui invece mantenne il riserbo fino alla fine. Sempre per una di quelle regole non scritto, gli toccava sempre per ultimo. Gli spettava il compito, insomma, di chiudere in bellezza. E stava appunto per farlo, quando suonò il campanello. «Questo è un seccatore, a prescindere da chi è.» disse, lasciandosi andare svogliatamente contro la sedia «Ma dimmi te, la mattina di Natale…».
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Lilli rabbrividì come se si fosse trovata in mezzo alla neve. Il nome di Enoch le balzò spontaneo alla mente. «Lasciate stare, vado io» fece la mamma, staccandosi con entrambe le mani dal tavolo. Lilli aspettò solo pochi attimi per alzarsi a sua volta e seguirla. «Che ci andate a fare in cinquanta a vedere?» le domandò suo padre, scocciato, ma lei non gli rispose. Arrivò sulla soglia che sua madre era già lì a chiedere chi fosse. Fuori, con un braccio adagiato tra un punta e l’altra del cancello, stava, com’è facile immaginarsi, Enoch, intento a bofonchiare una qualche risposta. «Faccio io, faccio io, faccio io!» esclamò velocemente Lilli, aggirando la mamma con la rapidità di una saetta «Vai pure in casa, me ne occupo io». La donna la guardò con un paio d’occhi grossi così, restando dapprima ferma dove si trovava. Indietreggiò solo dopo un po’, intanto che spostava l’attenzione sul giovane, come a volergli fare una radiografia istantanea. Enoch preferì concentrarsi sulla ragazza che gli veniva incontro. La salutò con una specie di borbottio indistinto. «Ciao.» gli replicò semplicemente lei, confusa «Che ci fai qui?». «Sono venuto a portarti il regalo» rispose lui, cercando di assumere un’espressione naturale; si vedeva lontano un miglio che non lo era, però, e che quella del regalo per lui non era certo una consuetudine. Lilli, allo stesso modo, provò a mostrarsi stupita come aveva fatto prima, a tavola, anche se l’eventualità di vederselo piombare a casa le era saltata in testa da una decina di secondi, troppi pochi per potervisi essere già abituata. «Il regalo?» domandò, allargando gli occhi «Mi hai comprato un regalo?». «Un pensierino» minimizzò lui, e alzò con l’altra mano un sacchetto di carta fin sopra il cancello. «Enoch, ma non dovevi…» ribatté lei, attenendosi ad un copione di poco diverso da quello del Natale in famiglia «Io non ti ho preso niente, oltretutto». «Ma io sì.» insistette lui «Prendilo, su. Non posso mica riportarlo indietro». Lilli guardò quel braccio proteso oltre le sbarre del cancello, con le dita strette attorno a quel sacchetto rosso e incoccardato. Era impaurita, forse, ma curiosa. Per una volta, non voleva dirgli di no, oltre a non poterlo. Sorrise, rivolgendo un’occhiata alle sue spalle per assicurarsi che la mamma non fosse ancora lì.
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«Uomo sfacciato, potevi anche evitare di venirmi a suonare a casa, però.» disse, tornando su di lui «Dentro però non vorrai entrarci, suppongo». «In effetti preferirei evitare» rispose Enoch. «Ok, ci avrei giurato. Ma non possiamo restare in giardino, anche perché sto congelando.» ribatté la giovane, piantandosi le mani sotto le ascelle e la testa tra le spalle «Perché devi complicare le cose a questo modo?». «Scusa.» mormorò lui, ritraendo il sacchetto «Ho la macchina qui accanto, al massimo». «Macchina?» gli fece eco lei «Va bene, se non dobbiamo camminare per due chilometri e mezzo. Tanto ormai metà della mia vita la passo sul tuo Peugeot, cinque minuti in più non faranno differenza». «E’ giusto qui dietro» disse lui. Lilli aprì il cancello e si sporse, così da constatare che avesse ragione. Il problema al massimo era il divieto di sosta sotto il quale l’aveva parcheggiata. «Speri che i vigili siano più buoni, a Natale?» gli domandò, ammiccando al cartello. «No, mi auguro che sappiano distinguere tra sosta e fermata» le rispose lui, e si sedettero all’interno. Enoch si premurò innanzitutto di far ripartire il riscaldamento; Lilli, da parte sua, controllò che nessuno la stesse tenendo d’occhio da qualche finestra. Poi posò gli occhi sul sacchetto che l’altro le reggeva davanti al naso. «A te» disse il giovane, e lei si appiattì contro il sedile. La vicinanza di quel braccio le ricordò l’episodio dello specchio. La sua fermezza, eppure, le era nuova. Si era abituata a vedere in lui quello a disagio, a riconoscere come sue quelle dita che tremavano. Ora stavano ferme, salde, imperturbabili. Poteva dedurne una cosa soltanto: Enoch aveva fiducia. Più di quanto, al momento, ne avesse lei in lui. Lilli se ne vergognò persino. «Grazie» sussurrò, prendendo il sacchetto dal fondo con entrambe le mani. Come fu del tutto libero dai contatti di Enoch, la ragazza si sentì giustificata ad aprirlo come desiderasse. L’avevano chiuso con un paio di colpi di spillatrice e null’altro; Lilli li fece saltare senza esitazioni e guardò attraverso l’apertura del sacchetto l’involucro di carta sul fondo. Infilò una mano e le sue labbra si allargarono sino al punto da portarla a ridere. “Cos’è?” ripeteva a più riprese, mentre provava invano a intuirlo e lui, un poco impacciato, le ripeteva di fare piano, di aprirlo senza fretta. La prima cosa che distinse fu un ricamo
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crema su velluto crema. Sollevò la carta dell’involucro con delicatezza, quasi con timore, e dischiuse le labbra, dapprima senza capire. Era un divanetto in miniatura, nella cui sofficità i polpastrelli potevano affondare sensibilmente. Una coppia di cuscinetti d’un rosa appassito a cui era stata data la forma appena abbozzata di due cuori erano stati cuciti come se fossero stati abbandonati mollemente contro lo schienale. Così indissolubilmente vicini. Lilli abbassò gli occhi sulla linea sottile appena sotto l’imbottitura. «Aprilo» la invitò Enoch. Lei sollevò con attenzione il coperchio: nemmeno si rese conto che stava trattenendo il respiro. Il carillon cominciò a suonare quasi immediatamente la sua nenia meccanica, pregna di nostalgia. Minuscoli campanellini, uno dopo l’altro, si alternavano, e per ognuno era come se uno spiritello lo muovesse e gradualmente tutti si stancassero, sino a fermarsi e tacere a sforzo compiuto. Lilli guardava e ascoltava senza che un solo muscolo del suo viso reagisse. Di fronte a quel pegno di umiltà, su cui la vanità aveva provare a posare il suo scialle, si sentiva toccata nel profondo. Più di quanto avrebbero potuto fare, fisicamente, le mani di lui, la sua pelle. A così poco, a un pensiero così povero, si arrendeva e si offriva, lasciandosi avvincere senza che le venisse fatta alcuna richiesta. «E’ bellissimo» sussurrò con l’ultimo spruzzo di fiato che le restava. «E’ solo un portagioie» disse Enoch, con la voce arrochita. Lilli scosse lentamente il capo, col sorriso bianco e rosso che cominciava a riapparirle lieve sulla bocca. «E’ molto di più» e riabbassò il coperchio, voltandosi per un secondo verso di lui «Grazie». Sfiorò i cuscinetti e la linea ondulata dello schienalino, e per ogni istante in più che vi trascorreva era come se il suo cuore acquisisse un sentimento nuovo, una quieta dolcezza ancora sconosciuta che solo quel piccolo regalo, e colui che gliel’aveva offerto, le sembrava le permettessero di accarezzare. «E’ proprio bello.» ripeté senza distrarsi «Credo di averlo sempre voluto, anche se… Non so, non me l’ero mai figurato. Eppure è esattamente come se l’avessi visto in un tempo lontano e ora lo ricordassi improvvisamente.» si girò verso Enoch, cercando di scrutare una conferma nei suoi occhi «Ultimamente mi succede di continuo, quando ci sei di mezzo tu». Col fare di uno che cerca qualcosa tra i sedili, il giovane si guadagnò la scusante per abbassare il viso. «Non si tratta di un tempo lontano.» la corresse «Era l’altro ieri, al mercatino».
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Lilli lo guardò senza riuscire a focalizzare cosa intendesse. «Alla bancarella dei giochi di una volta.» proseguì Enoch «Su uno scaffale di quelli dietro. Ci sei passata davanti con lo sguardo un mucchio di volte, l’hai visto ma non ti ci sei soffermata. Molto strano da parte tua». Lei aprì maggiormente la bocca, colpita, ma ancora non parlò. «Non l’hai riconosciuto per quello che era, altrimenti non l’avresti lasciato lì. E io, di conseguenza, non avrei potuto regalartelo. Ti è sempre piaciuto, mi è parso un regalo… Adatto». Lilli non perse il sorriso. Guardò meglio il giovane, tuttavia, socchiudendo gli occhi. «E questo come lo sapevi?» gli domandò. «L’ho visto.» rispose lui, calmo «E lo vedo anche adesso». «C’è qualcosa che non noti?». «C’è, c’è. Com’è possibile che tu non osservi con la dovuta attenzione uno scaffale. Capita anche questo». Lilli piegò le labbra in una piccola smorfia, infastidita solo per metà. Sospirò, quindi, ed entrambi restarono in silenzio, rotto solo quando la ragazza risollevò un’altra volta il coperchio del portagioie. Allora tutti e due vi posarono sopra lo sguardo e seguirono l’indice di Lilli che scivolava lento lungo gli scomparti. Lei sospirò ancora per farsi coraggio. «Adesso dovrei darti un bacio.» disse, col sorriso che tremolava «Te lo meriteresti». «Un bacio?» domandò lui, fin troppo impetuosamente. «Su una guancia» puntualizzò secca Lilli. «Ah, mi sembrava». «Non farti strane idee». «Nessuna idea, sarebbe inopportuno in ogni caso». «Già, un tantino». «Ecco». E di nuovo si tacquero. Lilli richiuse con delicatezza il portagioie, ma ancora non accennò a rimetterlo nel sacchetto. Lo girò, in qualche modo lo soppesò, se lo posò sulle gambe e trovò il meccanismo per ricaricarlo. «Quindi…» mormorò «Non potresti proprio? Neanche se il bacio te lo desse un’altra persona, di sua intenzione…». «E’ un contatto» osservò lui, chinando la testa. «Anche se…». «Sì, anche se».
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Lilli si umettò le labbra, poi le mordicchiò senza farsi vedere. Per ogni aggiunta che Enoch faceva, le pareva che il suo discorso acquistasse coerenza; il suo surreale si faceva viepiù realistico. «Riguardo al regalo…» disse il giovane, e lei si voltò. Enoch era rimasto con un dito teso verso il portagioie; un leggero tremito lo scuoteva. «Sì?» chiese Lilli, visto che lui non si decideva. «Lo conserverai?» domandò allora lui. «Ma certo che lo conserverò! E’ splendido!» esclamò lei, stupita «Anzi, lo metterò in camera mia, in un punto ben visibile dalla finestra: così potrai controllare quando vorrai se sarà sempre lì». Lilli sorrideva vistosamente, abbastanza da indurre anche lui a farlo, seppure per poco. «Mi farebbe piacere che tu lo tenessi per ricordarti di me» spiegò Enoch. «Ok, nessun problema, ma… Stai mica per partire?». «No, ma la gente fa presto a dimenticare». Lilli gli rispose d’impulso, senza riflettere; le venne spontaneo come respirare. «Credi che io sia come loro?». Enoch non disse nulla, tenendo lo sguardo lontano. Lilli avrebbe voluto girargli il viso con una mano, ma non poteva, quando fosse stato per non tradire l’illusione folle del giovane. Riprese lo stesso la parola. «Non lo sarò con nessuno, né tantomeno lo sarò nei tuoi confronti. E se anche un giorno prenderò quella strada, tu me lo dirai e mi fermerai, perché tu puoi farlo». Parlò con il mento alzato e gli occhi fissi sul suo volto: sentiva una solennità, in quello che diceva, da elettrizzarle i capelli. Ancora una volta, le sarebbe piaciuto sapere da dove le derivasse e a che cosa quindi si metteva nelle mani, sempre più spesso, quando gli parlava o pensava a lui. Enoch alzò il viso e lei poté vedere come il petto gli si empiva e la tensione come di un’incombenza si rifletteva nei suoi occhi. «E’ meglio che tu torni a casa, ora.» disse, cambiando argomento «I tuoi saranno in pensiero». «O incazzati neri.» ribatté lei, ricordandosi di colpo di loro «Hai interrotto una sorta di liturgia secolare, se non lo sai». «Mi odieranno per questo?» chiese il giovane, con l’aria di uno che non se ne preoccupava. «Oh, solo un po’» rispose Lilli, rimettendo con cautela il portagioie nel sacchetto.
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Restò così, quindi, con quello sulle ginocchia e le punte dei piedi che tamburellavano sul tappetino di gomma. «Ti accompagno fino al cancello» si offrì Enoch, e non aveva ancora finito di dirlo che già mise in moto. Si lasciarono quindi lì davanti e lei restò con il sacchetto tra entrambe le mani sino a quando la macchina non fu scomparsa dietro la vicina svolta. Come rientrò in casa, vi trovò solo sua madre insolitamente seduta da sola al tavolo. Lilli non ce l’aveva forse mai vista. Appariva infastidita, anche se cercava di non darlo a vedere. «Che c’è?» le domandò subito la giovane, bruciandola sul tempo. «Niente, cosa dovrebbe esserci?» rispose prontamente la donna. «A parte Enoch la mattina di Natale?». Sua madre appoggiò un gomito sul tavolo e posò la guancia sulla mano. «Oh, beh, se non altro non cerchi di negare che era lui, è già un passo avanti» borbottò. «E perché dovrei?» ribatté Lilli, piccata. «Perché è un evento eccezionale che io conosca il tuo nuovo ragazzo così in fretta. Di norma-». «Enoch non è il mio ragazzo» replicò immediatamente la giovane. «No? E che cos’hai lì?» fece la donna, indicando il sacchetto che Lilli aveva appena lasciato sulla vetrina. «Solo un regalo». «Che sei andata ad aprire in macchina con lui? Ti ho vista, cosa credi? Su quella - cos’ha, una Saxo? Una roba così». «Macché Saxo, è un 106» brontolò Lilli. «Fa lo stesso». «No, non fa lo stesso. Non è il mio ragazzo, stop». «Ah, quindi, in sostanza:» riepilogò la donna sulle dita della mano«sei venuta a chiedermi consigli - a me e a tuo padre - lunedì ci sei uscita assieme a un orario improbabile e ora addirittura ti viene a casa col regalino di Natale. E non è il tuo ragazzo». Lilli diede un’occhiata al sacchetto, pensando che sarebbe stato meglio imboscarlo fin da principio. «E’ una cosa un po’ complicata da spiegare ma no, non è il mio ragazzo» ribadì, senza cedere di un millimetro. «E allora spiegamelo, su.» la incalzò la mamma «Di norma, quando si arriva a questo punto, una è già “avanti”». «Ma che t’importa?» sbottò la ragazza «Si può sapere perché devi essere così acida?». «Io non sono acida. Non sono acida.» si schermò la donna «Mi preoccupo solo per te. Sei mia figlia o no?».
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«Sono grande, mamma». «No, per niente». Sbuffarono a turno: discussione trita e ritrita che durava da quando Lilli aveva inaugurato la rivoluzione dei quattordici anni e della quale non si intravedeva mai una via d’uscita. Avrebbero potuto ripetere per tutta la vita l’una che sua madre la considerava una bambina e l’altra che sua figlia non si decideva ancora a crescere. Alla fine la donna fu la prima a riprendere la parola, dopo essersi ricacciata dietro un orecchio una ciocca di capelli – quel gesto che la figlia aveva inconsapevolmente ereditato. «Almeno mi fai vedere cos’è?» chiese, facendo un cenno del capo verso il sacchetto. Lilli lo prese senza dire nulla. Avrebbe potuto porgerglielo, ma non lo desiderava. Era suo e l’idea che qualcun altro lo maneggiasse non le andava proprio a genio. Così posò il sacchetto sul tavolo e prese dal suo fondo il portagioie con entrambe le mani: sembrava che tenesse in mano una bomba, a giudicare dall’attenzione che ci metteva. Lo aprì senza parlare, così che il carillon intonasse le sue ultime note, giusto pochi secondi, prima di spegnersi gradualmente, come un respiro che muore. Sua madre rimase zitta. Si protese in avanti per guardarlo meglio, poi lo trattò con la solita delicatezza che aveva visto adoperare alla figlia, anche perché era l’unico modo per poterlo esaminare a dovere. Lilli era nervosa: fino a cinque minuti prima, avevano aperto i regali facendo il solito moderato baccano da famigliola felice. Ora, invece, c’era un silenzio di tomba, neanche che quel portagioie fosse stato una specie di strumento magico. Sua madre se ne staccò solo dopo alcuni secondi. «Bello.» disse quindi, annuendo mentre incrociava le braccia al seno «Molto fine». «Ha detto che l’ha trovato al mercatino di Natale dove siamo stati lunedì. Non l’avevo nemmeno visto». «Ma lui sì, a quanto pare. Se Dio vuole, ha buon gusto» e si piegò per poterlo guardare di nuovo nel dettaglio. «Molto. Non mi aspettavo nemmeno che mi facesse un regalo, poi». «E’ anche originale.» riprese sua madre «Senza essere... Smaccato, via. Vedi i cuoricini, qua… E’ La dimostrazione che si può fare un bel regalo senza spendere un capitale». «Beh, non lo so quanto l’ha pagato…». «Naa, non tanto. Però non se ne vedono molti in giro, ci vuole un po’ di colpo d’occhio. Certo che con un regalo così…». «Ti ho detto che non è il mio ragazzo, mamma».
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«Non sarà il tuo ragazzo, ma di sicuro è cotto, altrimenti ti avrebbe preso qualcosa di meno impegnato. E poi, dai, non è mica brutto». «Ognuno pensi agli affari propri, che è meglio.» tagliò corto Lilli, riavvicinandosi il portagioie e posandoci le mani sopra come due artigli «Ma dov’è finito quell’altro matto? Deve ancora darti il tuo, dei regali». «Me l’ha già dato.» rispose la donna «Poi ha detto che doveva andare in bagno e non ne è ancora uscito ora. Immagino abbia approfittato spudoratamente della tua assenza». «Perché?» domandò la ragazza, stranita «Che ti ha regalato?». La donna si girò sulla sedia, protendendosi per aprire un cassetto. «Me l’ha già fatto nascondere» disse a bassa voce, tirando fuori una scatolina bianca, che porse poi alla figlia. Lilli la prese nella destra e lesse il nome tracciato a chiare lettere su di essa, che certo non le suonava nuovo. «Eau de toilette, eh? Da quando ha un naso raffinato?» chiese sarcastica, girandosi verso la madre, quindi sollevò il tappo per sentirne il profumo. «Suppongo che abbia il solito naso di quand’era più giovane.» rispose la donna con una scrollata di spalle «E’ stato il primo regalo che mi ha fatto, da ragazzi. Ora, ovviamente, ha dovuto comprare la confezione più grande che ha trovato, altrimenti non sarebbe stato contento». «Ma va.» fece la giovane, colpita, con un sorriso canzonatorio «Non dirmi che è diventato romantico di botto». «No di certo.» replicò svelta la donna, allungando la mano per farsi rendere il profumo «Lo è sempre stato». Lilli non avrebbe scommesso una moneta bucata sull’ipotesi che sua madre potesse dire una cosa del genere. Era come se qualcosa nell’aria stesse cambiando, e in meglio. Di sicuro sentiva che qualcosa stava mutando dentro sé stessa, ma non aveva la presunzione di considerarsi lei la causa di quello smottamento improvviso. Anzi se ne tirò fuori fin da subito: le carte erano sul tavolo, ma la partita la giocavano ognuno per conto suo. Si infilò in camera sua prima che suo padre tornasse in cucina e mise il portagioie sulla scrivania, poi su una mensola, poi di nuovo sulla scrivania e infine si ritrovò sul letto, a pancia in giù, a caricarlo e ricaricarlo di continuo, con lo sguardo perso nel nulla e un sorriso languido sulle labbra sognanti. 22- Trentottesimo giorno, Sabato
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«… e non ti dimenticare l’evento che sconvolgerà la tua vita piatta e noiosa!». Lilli alzò gli occhi al soffitto. L’avrebbe fatto anche se Gloria l’avesse avuta davanti e non al telefono, come le capitava in quel momento. «Il concerto di Madonna?» ribatté, facendo finta di non capire. Seguirono alcuni istanti di silenzio. «C’è Madonna in concerto?» domandò quindi Gloria. «Boh.» rispose Lilli con indifferenza «Da qualche parte del mondo probabilmente sì, tipo a Roma o in Australia. Contemporaneamente». «Noooo, io parlavo dell’entusiasmante e immancabile festa di fine anno e miglior principio che si terrà nella mia casetta, pensa un po’, il trentuno di dicembre! Poi, se vuoi chiamare anche Madonna, fai pure, ho sempre desiderato un suo autografo». «A casa tua?» Lilli strinse le labbra, perplessa «Ma non sei a Cortina in settimana bianca?». «Cortina un cavolo, sono a Oslo. Mooolto meglio di Cortina, molto molto». «Cos’ha di meglio?». «I norvegesi. Sono davvero così biondi, eh». «Su quello non avevo dubbi. Anzi, proprio per quello mi aspettavo che tu restassi lassù sino alla fine delle feste. Che cavolo ci torni a fare a casa per Capodanno?». «E’ semplice: sono venuta a Oslo per fare la settimana bianca. Il trentuno sarebbe l’ottavo giorno, per cui devo improrogabilmente tornare a casa. Eh, è così, non ci posso fare nulla». Lilli guardò il cellulare come per controllare che non fosse quello a giocarle strani scherzi. A forza di frequentare Gloria si era abituata alle sue assurdità, ma quella proprio non se la spiegava. «Tesora?» domandò l’amica, e la ragazza se la immaginò intenta a molleggiarsi sulle punte tutta divertita, certa di averla stupita. «Sono ancora qui» rispose con un sospiro. «Se lo dici con quella voce lì sembra che tu sia all’ospedale. Tra l’altro mi risulta che è un po’ di tempo che non metti il naso fuori di casa, Lillina cara». «In effetti non ne ho una gran voglia negli ultimi tempi.» e rivolse un’occhiata al portagioie, che era diventato ormai una sorta di passatempo per le giornate senza nulla da fare «Se tu sei in Norvegia, poi, me lo spieghi con chi esco?». «Hai ragione, povera piccina, ti ho trascurata.» ribatté l’altra con la voce piagnucolosa «E’ solo che ero tutta presa anche prima di partire,
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ma intanto festeggiamo la nostra felice riunione quando torno, no? E dopo non ti mollo piùpiùpiùpiùpiù, contenta?». «Da morire, nel senso che quasi quasi mi ammazzo. Come si chiama quello che ti ha “tutta presa prima di partire”?». «A dir la verità mi ha preso solo quassù» rispose Gloria, sghignazzando ferocemente. «Dei dettagli ne faccio volentieri anche a meno» ribatté Lilli, accennando anche lei ad una risata. «No, ma è un ragazzo con la testa a posto. Non vuoi sentire i particolari, però, quindi non ti dico dove la mette-». «Glò, per favore!». «Così l’ho portato quassù con noi, l’ho fatto bere e ora dice che non mi lascerà mai. Un amore di ragazzo. A proposito, il tuo come sta?». La giovane gettò una seconda occhiata al portagioie, stavolta con assai più incertezza. «Il mio… Beh, non è proprio mio.» rispose, tenendosi sul vago «Ma va bene, sì. Dovendo tirare le somme, sì, bene». «Non sai ancora come scopa, per essere concisi una volta tanto.» sintetizzò Gloria «Cazzo, sei sempre la solita, la trascinerai avanti per almeno sei mesi». «Beh…». «E non dirmi che sto diventando volgare come uno scaricatore di porto, lo so da me. Però potresti anche darti una mossa. Di questo passo, lo farai diventare vecchio». «Non è detto che mi interessi» riprovò Lilli, adottando la solita tattica. «Cheppalle, sorellina! Non è detto, non è dato e non è consentito. Peggio che una monaca con le fisime». Gloria sbuffò, e la ragazza ne approfittò per stare zitta. Sperava, così, di far cadere la questione una volta per tutte. Meno pubblicità faceva di Enoch e meglio era per tutti. «Digli di venire alla festa.» disse però Gloria, pronunciando le fatali parole, proprio quelle che Lilli voleva evitare di sentire «Almeno-». «Non credo che sia il caso» ribatté subito la giovane, senza neanche lasciarla finire. «Maddai, quanto casino che fai per ‘sta storia». «Non ci viene!» insistette Lilli «L’hai visto anche tu, non gli piace avere della gente intorno». «Ma saremo quattro gatti, finiscila!». «Se anche fossimo un gatto solo, sarebbe un gatto di troppo».
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«Ma se lo porti a casa mia insieme qualcosa combiniamo. Poi si prepara un’atmosfera adatta, ci metti un bicchierino di punch e poi anche un altro e lo streghi. Cazzo, cosa vuoi di più dal tuo Cristo?». «Gloria, non è il caso…». «O lo inviti tu o lo invito io.» stabilì l’amica, lapidaria «E se lo invito io, già che ci sono ti sputtano. Scegli tu». Lilli cominciò a fare delle smorfie a vuoto, da assatanata. Senza pronunciare una parola, mandò Gloria a fanculo almeno un paio di volte e insieme a lei ci finì anche qualche personaggio del presepe. «Hai scelto?» domandò l’altra, con la sua vocetta serafica. «Glielo dico, glielo dico.» acconsentì la giovane, chinando la testa «Ma tanto non ci viene. Lo conosco». «Lo convinceremo. Se ho convinto te, posso convincere anche lui, non è un osso troppo duro. Ora che ne dici se ti lascio a pensare al momento adatto per avvisarlo del destino incombente e me ne vado fuori a sciare?». «Massì, massì. Vai, sparisci e lasciami qui a gestire le cose. E scordati il dolce, non ne ho la minima voglia, stavolta». «Uh, brava che me l’hai ricordato. Stronza, eh, ma brava. Perché non me lo vuoi fare?». «Perché tu scii, e quando non scii sei a letto con qualcuno. Quindi mi arrogo il diritto di essere invidiosa e di cercare di rovinarti la festa di fine anno». «E miglior principio. Ma dai! Anche qualcosa di semplice, altrimenti cosa porto su un vassoio per fare bella figura?». «Hai mai pensato a una specialità norvegese?». Gloria si zittì di nuovo. «Ma sai che è una buona idea?» disse dunque «Che preparano qui?». «Cazzo ne so, sei tu quella che si rotola nella neve in Norvegia! Esci di lì, prendi un biondo e domandaglielo!». «Dio, tu sì che sei fondamentale per la mia sopravvivenza, Lillina». «Meno male che te ne accorgi». «Stacco perché sei troppo intelligente e devo chiedere al biondo. Bada, non lo faccio per andare a sciare alla faccia tua. Sono brava?». «Quanto me, ma un po’ più stronza. Sparisci». «Ciaoooooooo!». Chiamata terminata. Lilli mise da parte il cellulare e riprese il portagioie. Lo caricò, lo aprì e rimase lì ad ascoltarlo: se non altro, poteva dire che l’aiutava a riflettere. Era una scusa valida per restare ad ascoltarlo senza seccature. Si chiese se Gloria la stesse prendendo in giro o, al contrario, avesse capito tutto. Beh, proprio tutto no, per forza. C’era qualche dettaglio incredibile di troppo. Altrettanto
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difficile, o quasi, era anche che Gloria si stesse prendendo gioco di lei. Non era nel suo stile, non fra loro due, specie dopo quello che si era già mostrata disposta a fare. Restava quindi l’ipotesi che qualcosa, ma non tutto, l’avesse intuito per forza. Lilli prese il cellulare e scovò sulla rubrica il numero di Enoch. Avrebbe tagliato la testa al toro, tanto sapeva come sarebbe andata a finire. Portò il telefonino all’orecchio e aspettò. «Pronto?» fece lui, dopo averci messo più del solito per arrivare alla cornetta. «Enoch, sono io» disse, e le venne d’istinto. “Sono io”, non “sono Lilli” o qualcos’altro. Non si soffermò affatto, almeno inizialmente, a chiedersi se l’avrebbe riconosciuta. «Oh, ciao!» salutò subito lui con evidente entusiasmo: sì, l’aveva riconosciuta «Dimmi, dimmi». «Nulla di che, mi chiedevo se avessi programmi per l’ultimo dell’anno». Di nuovo si accorse di esser partita col piede sbagliato. Enoch non poteva averne, neanche volendo. Parlando così finiva per illuderlo, se ne rendeva conto anche da sola. L’unica cosa che le sarebbe piaciuto sapere era con quale cervello aveva cominciato quella chiamata. «Per l’ultimo dell’anno?» chiese lui dopo alcuni secondi, chiaramente senza aspettarsi nulla del genere. «Eh, e miglior principio.» aggiunse Lilli, e stavolta fece attenzione a cosa dire «No, perché mi ha telefonato Gloria dicendomi che fa una festa a casa sua. Cioè, praticamente mi ha ricattato per far sì che ti telefonassi, anche se magari tu… Non so se è un posto dove te la senti di andare, mettiamola così. L’ho accennato anche a lei, ma…». Si interruppe. Più che altro, il tono le si affievolì, fino a scomparire. Le parve di poter vedere tutta la delusione sul viso del giovane, l’infrangersi delle speranze che doveva aver nutrito per qualche attimo. Si pentì di quello che aveva detto, di avergli telefonato, persino di non aver mandato subito al diavolo Gloria e le sue trovate. «No, non è proprio il mio posto» rispose finalmente Enoch, e a sentirlo parlare Lilli ebbe la conferma di tutti i suoi sospetti. «Ho provato a dirglielo, ma come facevo a spiegarle… Insomma…». «Ho capito, ho capito. Stai tranquilla.» ribatté lui, e la sua voce era di nuovo calma, pacata, quella che era stata così rara udire per così tanto tempo «Hai fatto bene a dirmelo». Lilli inghiottì un boccone amaro. Non l’aveva più sentito da Natale e, adesso che lo faceva, andava a finire a quel modo. Abbassò gli occhi sul portagioie, ancora sul letto, e lo accarezzò con una mano.
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«Ti piace ancora il mio regalo?» domandò proprio in quel momento Enoch, col tono un poco ingenuo. Lilli ritrasse la mano come se avesse preso la scossa, ma la sua espressione andò comunque addolcendosi. «Molto.» rispose, sincera «Ogni giorno mi piace di più». Sentì il suo respiro e le sembrò di intuire che anche lui stesse sorridendo, forse più di lei, anche se poteva essere soltanto la sua immaginazione. «Ne sono felice» disse semplicemente Enoch. Lilli fu colta improvvisamente da un impulso di ribellione che sentì correrle sulla pelle e vibrarle attraverso tutto il corpo. Scosse la testa sdegnata, serrando gli occhi. «No, senti, non è possibile che vada così. Non è giusto» disse. Lui non sembrò capire la ragione di quello scatto. «Scusa?» chiese «Non ho capito». «Non va bene, cazzo, non va bene. A tutto c’è un limite e questo non lo ammetto. Lo rifiuto. Cazzo, ho i miei limiti anch’io». «Parli di me?» domandò Enoch, confuso. «No, di Gloria.» rispose Lilli, senza nasconderlo «Ma non ne frega niente, chiaro? Non mi va giù e non ce la manderò controvoglia. La risolviamo, te lo giuro». 23- Quarantunesimo giorno, Martedì (Ultimo dell’anno) Si mise il vestito buono, ma stavolta quello invernale, a cui poteva abbinare guanti e sciarpa di pelliccia sintetica, ma comunque morbida ed elegante quanto bastava per dare un poco nell’occhio. Il piumino verde, oltretutto, si decise a lasciarlo a casa in favore del cappottino: avrebbe sicuramente patito più freddo ma, per una volta, per di più per una sorta di veglione di Capodanno, voleva fare bella figura. Ad esser onesti, arrivò persino un po’ in ritardo rispetto all’ora che lei e Gloria si erano date. E dire che sua madre le aveva lasciato persino prendere la macchina, nonostante avrebbe inevitabilmente tirato sino alla mattina dopo, quindi passando in mezzo alla fascia dei pazzi scatenati in giro per le strade, quegli stessi che Lilli non aveva mai visto, tolto un carosello di tifosi alla fine del campionato. Doveva ricordarsi di tenersela buona, la mamma, in futuro. Lilli constatò fin da subito che Gloria non le aveva detto la verità, o meglio, non aveva precisato che non sarebbe stata la solita festa. Si aspettava di trovare il solito gruppetto di tutte le volte, con fidanzati annessi; quella in cui si ritrovò in mezzo era invece una vera bolgia, un marasma di festoni, palloncini e facce che non aveva mai visto
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prima. Cercò Gloria in cucina, dov’era di norma tutte le volte, ma non ce la trovò. Si mosse a suo agio attraverso i corridoi e le stanze che le erano familiari da una vita, salutando ogni tanto qualcuno, un volto conosciuto che emergeva eccezionalmente tra la folla. Alla fine la scovò che saltellava davanti a un sofà, impegnata in chissà quale delle sue assurdità. Lilli provò ad attirare la sua attenzione in qualche modo, senza riuscirci: inevitabilmente, cominciò a sentirsi fortemente a disagio, specie di fronte alle occhiate di un paio di ragazzi spuntati fuori da chissà dove. Le sembrava di esser capitata in mezzo a un’orgia da thriller. Sobbalzò quando Gloria le saltò letteralmente addosso, proprio nel momento in cui lei era distratta. «Bellabellabellabella!» trillò l’amica, stringendosi al suo collo con entrambe le braccia «Come, dimmi come, ho fatto a vivere così tanto senza di te!». Lilli, ancora scossa, balbettò una risposta, ma Gloria si era già voltata verso tutti gli altri presenti con un gesto teatrale. «Ragazzi, ecco qua la donna che avete sempre sognato!» esclamò, mostrandola in tutto il suo splendore «La mia migliore amica, che presto si affaccerà nei vostri sogni la notte: salutate Lilli!». In risposta si levò un coro di farfugliamenti che non le permise di capire un accidenti di niente. Lei chinò il capo e scrollò una mano aperta per ricambiare, stilizzando un sorriso. «Scusa se ho detto loro che sei la donna dei loro sogni. Non me la sentivo di specificare che si trattava di incubi.» disse Gloria, staccandosi dalla ragazza «Uh, cos’è, cos’è, cosè?» domandò quindi, notando il pacchetto nell’altra mano di Lilli «E’ per me? Regalo miomio, tutto mio?». «Se è ancora intero dopo la tua carica…» borbottò la giovane, buttandoci anche lei un’occhiata. «Oh, sì che è intero, io non rompo nulla, neanche le pallette. Dallo a me, dai, dai, dallo a me!». Lilli se lo portò dietro la schiena, alzando un dito davanti al viso di Gloria per tenerla buona. «Solo se mi fai togliere il cappotto e ci allontaniamo per un attimo da questo casino» disse, catturando con uno sguardo tutta la stanza: c’era d’altra parte abbastanza vociare perché nessuno la sentisse. Gloria sbatté i piedi, poi girò l’amica su sé stessa e la spinse fuori. Lilli cominciò a sfilarsi il cappottino e lo appese al suo solito posto, togliendo da lì un paio di giubbotti senza farsi problemi. Nel frattempo, lasciò il pacchetto nelle mani di Gloria, che non smetteva di ronzarle attorno come un avvoltoio.
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«Scommetti che indovino cos’è?» la provocò quella, cominciando a cercare i punti nevralgici per aprirlo. «Perderesti a prescindere» ribatté Lilli, sicura. «Boriosa. Sei venuta qui da sola?» si volle informare subito Gloria. «Sì, e miracolosamente con la mia macchina». «Questo è già un bel traguardo. Ma Enoch? Non sono stata in grado di vedere se è in mezzo a questa babele». «E nemmeno ce lo vedrai» replicò la ragazza, scuotendo la testa. «Ti avevo detto di invitarlo!» protestò Gloria, cercando di aver la meglio su un pezzetto di scotch più resistente delle aspettative. «E io ti avevo detto che non sarebbe venuto! L’ho invitato, ma non puoi aspettarti che mi segua come un cagnolino». «Bah, non ho proprio voglia di quel cetriolo.» concluse, riuscendo finalmente ad avere la meglio sul pacchetto «Voglio vedere questo affarino delizioso! C’è la mia faccia dentro! Come hai fatto?». «Ne tengo sempre una per quando non ci sei» rispose l’altra con un sorriso. «Per sputarci sopra, eh? O per infilarmi le dita negli occhi. Ma guarda bellina, c’è la fatina fatosa! E non è nemmeno una di quelle made in Taiwan, quelle le conosco. Dove l’hai trovato?». «Segreto professionale. Mio e di Enoch, se proprio lo vuoi sapere». «Oh, sì.» disse Gloria, alzando le sopracciglia con aria indemoniata «C’è decisamente qualcosa che voglio sapere e tu, mia piccola adepta serpentella, mi dirai ogni cosa. Dopo che avrò fatto vedere questo specchio a tutti, logico». «Neanche per idea, se non vuoi che qualcuno te lo rompa subito». «Vero, oltretutto porta anche sfortuna.» concordò l’amica, guardando lo specchio e pensando a un posto sicuro dove lasciarlo «In camera mia, così ti confessi liberamente?». «Non ho proprio niente da confessare, Glò.» tenne duro Lilli, inflessibile «Magari ho i miei buoni motivi per non dirti nulla, non ti pare?». Gloria storse la bocca e si avviò verso le scale. «Un giorno pagherai per tutto questo.» replicò, nella farsa di una minaccia «Ma tieni conto che in ogni caso stasera c’è abbastanza gente anche per dimenticartelo, il tuo amore copto. Prendi in considerazione la cosa, semmai». Effettivamente non poteva darle torto. Da quello che capì, la maggior parte di quelli che non conosceva erano ragazzi in vacanza conosciuti a Copenhagen in circostanze non meglio precisate o che si erano aggregati al gruppo di partenza e coi quali Lilli non aveva mai avuto a che fare. Una compagnia decisamente varia e pittoresca che aveva
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colto al volo l’occasione di far baldoria; Gloria, ovviamente, era diventata la promotrice ufficiale della festa. Si trattava di gente simpatica, ad ogni modo, e allegra: l’ideale per passare un Capodanno divertendosi. I tavoli erano ingombri di pasta, panini, patatine e altro cibo senza troppe pretese, ma a sufficienza per rifocillare un reggimento. Più avanti, sentì dire, avrebbero tolto tutto per far posto a vino, spumante e grappa. A Lilli rivenne in mente il dolce che avrebbe dovuto preparare e di cui proprio non si era preoccupata. Meglio così, perché non avrebbe potuto prepararne uno abbastanza grande per quella mandria di ragazzi. Prese da parte però Gloria, tirandola in disparte per un braccio. «La specialità norvegese di cui parlavi l’hai portata giù o l’hai lasciata a Oslo, poi?» le domandò, parlando al suo orecchio per superare il frastuono della musica. «Altroché se l’ho portata!» rispose l’amica, divincolandosi, e alzò un braccio «Hans!». Lilli si vide arrivare davanti un biondo sul metro e novanta abbondante, coi capelli a spazzola e un paio di occhi sottili, azzurri come il cielo. «Lilli, ti presento Hans, la specialità norvegese.» disse Gloria, col suo sorrisetto strafottente «Parla benissimo l’italiano, quindi parlaci pure come se fosse il tuo vicino di casa. Hans, questa è Lilli, la mia migliore amica». Il giovane nordico stese una mano verso di lei. «Ciao» salutò, e dall’intonazione della voce lei si immaginò che fosse una delle poche parole che sapesse pronunciare. «Uh, ciao… Hans» rispose Lilli, e si accorse di come lui si sforzava di star dietro ai movimenti delle sue labbra. «Su, su, ora che te l’ho presentata però vai, eh?» si intromise Gloria, spingendolo via e facendogli cenno con le mani di allontanarsi. Hans ubbidì con aria divertita, ma anche con quella di chi non ha capito un tubo di quello che gli veniva detto. Lilli si voltò e si coprì la bocca con una mano per nascondere uno sghignazzo. «E quello sarebbe “la specialità norvegese”?» chiese all’amica. «Preferivi uno stoccafisso?» ribatté Gloria «E dire che ci tira vicino». «Non dirmi che sei andata anche con quello». «No, io vado solo con amore-tesoro.» e alzò un dito per indicare un ragazzo che provava a dribblare un altro con un bicchiere di plastica schiacciato «Con Hans ripartiremo poi tutti quanti per Courmayeur». «Courmayeur?» fece Lilli, incredula «Non hai detto che era finita la settimana bianca?».
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«Infatti sono tornata a casa.» rispose tranquillissima Gloria «Domani sera ripartiamo e ne facciamo un’altra. A Courmayeur, appunto. Che c’è di strano?». Lilli la fissò con lo sguardo torvo e incrociò le braccia. «Niente, mi fai solo schifo» rispose, fingendosi sprezzante. «Se non fosse stato per via del tuo Enoch, avrei invitato anche te, ma tu eri tutta presa.» disse Gloria con una smorfia «Sei sempre in tempo a ripensarci, però. I tuoi li possiamo sempre convincere, non è un problema». «Lascia stare. Ma che mi dici di quel tipo che ti piaceva, Innocenzo? Amore-tesoro te l’ha già fatto dimenticare?». «Dimenticare? E perché mai? Eccolo là!» e alzò di nuovo un dito per indicare Innocenzo che si riempiva un bicchiere di Coca Cola. Lilli strabuzzò gli occhi. «Ti sei portato dietro pure lui?» domandò «E quell’altro non dice niente?». «Perché dovrebbe? E’ il suo migliore amico». Lilli andò a sedersi senza aggiungere altro. Gloria la rincorse, la colpì un paio di volte sulla testa con una bottiglia vuota e quindi presero a punzecchiarsi l’un l’altra con gli stuzzicadenti delle focaccine. Le lancette dell’orologio sul muro, intanto, procedevano inascoltate, in mezzo all’atmosfera di festa che aveva invaso l’intera casa. Nessuno escluso: Lilli non ebbe difficoltà ad ammettere di divertirsi, seppur con delle persone che nemmeno conosceva. Le venne più volte il desiderio di prendere in considerazione l’ipotesi di fare la valigia e partire anche lei, alla spregiudicata, senza neanche contare quanti soldi si era messa da parte. Finché era una tentazione, le andava anche bene, perché era una di quelle a cui sapeva che avrebbe rinunciato per potersene poi lagnare in futuro. Lo sapeva lei e lo sapeva Gloria, che in vacanza ci andava tutti gli inverni e tutte le estati ed era riuscita a portarsi dietro Lilli solo in tre occasioni, due delle quali di pochi giorni. Sapevano di avere tanti punti in comune e ne andavano fiere tutte e due, ma questo valeva finché c’erano soltanto loro due. Per quanto riguardava i viaggi, proprio per questa ragione, c’era sempre stato poco da fare. Gloria non sarebbe mai riuscita a trascinarla dove voleva, neanche con tutta l’invidia che Lilli diceva di provare per lei. Se le avesse proposto di partire, loro due e basta, sarebbero andate in capo al mondo con un biglietto di sola andata: come ci metteva qualcuno in più, e di norma si trattava di almeno cinque o sei persone, Lilli se ne tirava fuori. Erano cose che le andavano più che bene per una serata - come quella festa - ma era inutile sperare che volesse farle durare una volta di più. Il bello, tra
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loro, era che sapevano sopportarsi come non era mai capitato con qualcun altro, al punto da volersi bene più di quanto ci si sarebbe aspettato. Così andava, così doveva andare. Lungo la linea della mezzanotte l’intero fuso orario, un considerevole spicchio di mondo, si incendiò di grida e scoppi di tappi che partivano in ogni direzione. La schiuma dello spumante venne sputata fuori tra stilli isterici e il fragore di risate selvagge e imprecazioni. Pur tra tutto quel frastuono, da fuori giunse immancabilmente il rumore dei botti e dei mortaretti. Qualcuno alzò il volume della musica sino a un livello assordante, con le casse che grattavano i bassi come se avessero la raucedine. Un tizio non meglio identificato cominciò a ululare alla luna, sempre ammesso che ci fosse. Lilli folleggiò in quella ressa per una decina di minuti, tra mani alzate, gomiti e chiappe che si dimenavano da una parte all’altra. Poi ci si buttò proprio in mezzo, nuotandoci attraverso, ora spingendo, ora assottigliandosi per raggiungere il tavolo prima che venisse sparecchiato del tutto. Agguantò per il collo una bottiglia di spumante non ancora aperta e una confezione di bicchieri di plastica senza stare a sottilizzare e ritornò nelle retrovie facendosi largo a testa bassa, come un montone. Fece un salto quando proprio accanto a lei cominciarono a far scoppiare i palloncini a pedate per allestire una vera e propria pista da ballo in sala da pranzo. Ripreso fiato, Lilli scivolò via non vista tra quell’andirivieni scalmanato, passando accanto a un ragazzo che si era già stonato a sufficienza e sedeva tutto contento per terra, con le spalle appoggiate al muro e un cartone di vino sotto un braccio. Appena fu nel corridoio, si rese conto del fumo con cui avevano riempito la stanza e si meravigliò che non le avesse dato fastidio. Le venne da ridere da sola, segno che la sua parte l’aveva fatta anche lei, e si fermò a guardare la bottiglia, ormai sola. Si stava divertendo, per una volta, ed aveva persino finito per conoscere un mucchio di gente nuova, con cui magari valeva la pena di tenere i contatti. Al di fuori della sala da pranzo in quel momento non c’era proprio nessuno, tolto lo sciapo entusiasmo delle altre case e la noia di chi di anni nuovi non sapeva più che farsene. Arrivò fino al cappottino, indecisa, e tentennò. Col fondo della bottiglia lo urtò e sentì qualcosa crepitare in una tasca e oltre il cui orlo spuntava un nastro verde. Posò lo spumante sul pavimento e si infilò velocemente le maniche. Si chinò per riprendere la bottiglia e diede un’ultima occhiata furtiva al corridoio, prima di aprire la porta e uscire nel vialetto sassoso. Si era già accorta all’andata che con quegli stivali riusciva a percorrerlo quasi facilmente, con una bella postura dritta tipo scopa in culo che bene o male faceva sempre
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figura. Si infilò i bicchieri sotto un braccio e, arrivata al cancellino, vi si appoggiò con un mano, avvertendo sul palmo una sensazione di gelo pazzesco: e dire che in casa aveva sentito persino caldo, ma va beh che in quella casa a momenti neanche ci stavano tutti. Girò la testa e le prese un mezzo colpo - un altro - nel ritrovarsi il muso del 106 proprio davanti, in divieto di sosta, di fermata e pure di esistenza, lì dove si trovava. Non che fosse lì per caso, né che fosse vuoto. La portiera si aprì ed Enoch spuntò fuori zitto zitto, restando a guardarla con una mano sul tettuccio della macchina. «Meno male che ti avevo detto di non farti notare!» gli rinfacciò Lilli, tenendo forzatamente la voce bassa «Davanti al cancello sei venuto a lasciarla?». «Non è colpa mia, non vedi che casino che c’è?» controbatté lui, allargando le braccia di scatto «Non c’è un posto da qui a Zanzibar!». «Io l’ho trovato, cavolo». «Sì, all’ora di cena. Tu poi potevi anche scendere e fartela a piedi fin qui, non dovevi mica aspettare una che non sai quando esce». Lilli sbuffò e aprì il cancellino: in effetti faceva un freddo boia, difficile dargli torto. Se avesse parcheggiato a cinquecento metri, poi sarebbe dovuto restarsene comunque nei pressi della casa a congelare. «Va bene, va bene, scusa.» gli concesse la ragazza «E’ tanto che mi aspetti?». «Naa, non molto. Dalla mezzanotte, più o meno. Saranno quanti… Cinque minuti?». «Facciamo anche dieci e magari anche un quarto d’ora. Sempre ammesso che tu sia arrivato qui a mezzanotte in punto. Ti stai immedesimando nella parte, Enoch?». «Del fidanzato da telefilm che aspetta due ore e poi dice cinque minuti?». «No, del fidanzato in generale. E’ da quello che prendono spunto i telefilm.» Lilli gli porse la bottiglia con un sorriso leggero «Stappi tu?». Enoch aggrottò appena la fronte e prese la bottiglia dall’estremità opposta a quella della giovane. «A cosa devo questo onore?» domandò, intanto che si sedeva sul cofano della macchina, con un tallone posato sul paraurti. «A dir la verità io ho poca forza, finisco per farmi male alle mani» ammise Lilli, prendendo un paio di bicchierini di plastica. Si appoggiò quindi anche lei alla macchina, lei su un fanale e lui sul’altro, e cominciò ad abbottonarsi il cappottino. Da dietro, lontano, le giunse il rumore dell’ennesimo botto.
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«I fuochi artificiali sul mare.» commentò, allargando il proprio sorriso davanti a una raggiera rossa, piccola piccola sull’orizzonte nero della notte «Erano anni che non li facevano di questi tempi». «Oh, non è che si siano dati granché da fare.» ribatté Enoch, intento a liberare il tappo «Nulla a che vedere con quello che si vede alla fine d’agosto, per intenderci». «Beh, dai, è comunque qualcosa. Due o tre fuochi da poco, a quattro o cinque chilometri di distanza, al freddo, brindando con spumante e bicchierini di plastica…». «Per me è meglio di tutte le feste che ho mai passato.» disse il giovane, fermandosi con la mano stretta attorno al tappo «Bisogna sapersi anche accontentare». Lilli piegò il capo con la sua solita espressione, avvicinando con due dita un bicchiere sino a lui, facendolo scorrere sul cofano. «Buon anno nuovo, Enoch» disse, alzando gli occhi sul giovane. «Buon anno nuovo, Lilli.» rispose lui, ricambiando finalmente il suo sorriso «Stappo?». Lei alzò il pollice. «Vai». Tirarono una specie di urletto per festeggiare il volo del tappo e il suo atterraggio sul baule di una BMW di linea. Riempirono con attenzione i due bicchierini e alzarono un brindisi muto a niente e nessuno in particolare, eccetto loro stessi. Dopo il primo sorso, Enoch si voltò verso di lei. «Perché l’hai fatto?» le domandò con aria riconoscente. Lei si strinse nelle spalle, ancora col bicchiere tra le dita. «Perché mi sembra giusto.» rispose con calma «Un Capodanno senza nessuno con cui passarlo dev’essere triste. Abbiamo detto che ci saremmo fatti compagnia, no?». «Tu la compagnia ce l’avevi comunque» osservò Enoch. «Ma tu no. Sta tranquillo, un giorno troverai il modo di sdebitarti, se è questo il problema. E poi dovevo sempre darti questo» e infilò una mano nella tasca interna del cappotto, tirandone fuori un pacchetto semplice, di quelli che solo a vederli da lontano si capisce che possono contenere solo roba per vestirsi. «Per me?» il giovane allargò gli occhi. «Certo! Sarò un po’ in ritardo, ma è il regalo di Natale.» rispose Lilli, tenendoglielo davanti «Almeno siamo pari, no?». Enoch lo prese con un timore come reverenziale, rigirandoselo piano tra le dita, che gli tremavano visibilmente. Doveva essere abituato a ricevere regali all’incirca come lo era nel farne.
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«Sei troppo scioccato, è meglio se ti riempio di nuovo il bicchiere» disse la ragazza, che si era già ripresa la bottiglia. «E’ grandioso» mormorò Enoch, sorridendo con una soddisfazione bruciante, esaltato. «E’ un regalo. Abituatici pure» e riempì di nuovo i due bicchierini, prendendo a canticchiare la canzonetta che aveva suonato prima che lei uscisse. Lui la guardò mentre lo scartava, seguendo il movimento delle sue dita, delle sue gambe che si accavallavano con naturalezza e del piede che dondolava piano a vuoto. «Auguri, Enocchino bello» fece Lilli, sicuramente un po’ alticcia, alzando il suo bicchiere. «Cos’è?» domandò il giovane, socchiudendo gli occhi come ebbe finito di scartare il pacchetto. «Una sciarpa.» rispose lei «Firmata. E calda, l’ho sperimentata». Enoch la sollevò con una mano davanti a sé. «E’ di un bel bordeaux» fu il suo primo parere. «Vomito di ubriaco, come dice mio padre. I love vomito di ubriaco». «Non ho mai pensato a comprarne una, ma mi sarei risparmiato un bel po’ di mal di gola con questa.» se la passò attorno al collo, imbacuccandosi alla meglio «Come sto?». «Seduto sul cofano della tua macchina e in ottima salute, direi». «Ho il raffreddore. Con questa qua mi ci posso anche soffiare il naso, all’occorenza? Ho lasciato i fazzoletti a casa». «Provaci e ti rompo la bottiglia in testa. Questo posso ancora farlo». Enoch rise, riprendendo istintivamente il bicchiere nella destra. Con l’altra mano accarezzò delicatamente la lana della sciarpa, come ad assicurarsi della sua consistenza. «E’ un regalo molto bello, Lilli.» disse, sorridendole «Grazie». «Beh, non è come il tuo portagioie, ma devo ammettere di non aver molta fantasia con i regali». «Fai conto che ti abbia reso quel bacio che volevi darmi, con questa.» aggiunse Enoch «Su una guancia». «Su una guancia» ripeté lei, alzando un palmo. «Com’è la festa dentro?» domandò il giovane, cambiando discorso. «Una bomba.» rispose prontamente Lilli «Gloria ha fatto le cose in grande. Solo che c’è una calca da mercato». «Lo immaginavo, almeno a giudicare dalle auto parcheggiate qui intorno e dagli schiamazzi che si sentono». «Sei proprio sicuro di non voler venire anche tu? Magari, se fai attenzione…».
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«Basta che non ne faccia qualcun altro ed è fregato lo stesso.» ribatté Enoch, scuotendo il capo «Meglio se non entro, sul serio». La ragazza abbassò lo sguardo. «Peccato, però…» sussurrò. «Magari me la racconterai, uno di questi giorni.» propose lui, rialzando la testa con naturalezza, come se non si perdesse niente «La notte è sempre lunga: se ti diverti tu, poi hai anche un mucchio di cose da raccontare a me». Lilli lo fissò con un mezzo sorriso, senza nemmeno più sorprendersi. «Vuoi che torni dentro? Scherzi?» domandò, abbozzando una risata. «E perché no? Non devi mica star qui fuori ad ibernare per far contento me, in fondo». Entrambi udirono in quel momento il rumore della serratura del cancellino che si scattava e il suo cigolio appena accennato quando venne aperto del tutto. Videro Gloria, ferma con la mano appoggiata su di esso e un’espressione poco convinta sul viso da folletto. Lilli fece schioccare la lingua contro il palato. «Meno male che tu non avresti dovuto esserci» disse Gloria, rivolgendosi ad Enoch. «No?» provò a ribattere lui, con attorno al collo quella sciarpa nuova, col cartellino ancora attaccato. «Così mi ha detto lei». «Beh, di fatto sono passato solo per fare un saluto» si giustificò il giovane. «Un saluto? E a chi?» domandò Gloria, scoccando un’occhiata a Lilli. «Dovevo ancora dargli il suo regalo di Natale» disse quella, raccogliendo dal cofano la carta del pacchetto come prova. «Un bel colore.» commentò l’amica, guardando la sciarpa «Adesso però un salto dentro puoi anche farlo, eh. Visto che sei arrivato fin qui, d’altronde». «No, meglio di no» rispose per lui Lilli, a denti stretti. «Chissà perché ma lo immaginavo.» fece Gloria, alzando per un attimo gli occhi azzurri su di lui, col suo solito sorriso strafottente «Devi avere una sorta di allergia alla compagnia, non è così? Almeno me lo farai salutare come si deve, vero, tesora?». «No, questo ancora meno» e ricambiò il suo sorriso con uno tagliente come il filo d’un rasoio. «Uuuh, ma quante verità vengono a galla e tutte assieme.» Gloria si strofinò le mani, come euforica «La mia Lillina è già gelosa e non si vergogna ad ammetterlo». «Ehi, un momento» si intromise Enoch, sentendosi tirare in ballo.
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«Mettila come vuoi» tagliò corto Lilli, e si mosse sul cofano della macchina sino ad avvicinarsi a lui. Enoch sentì la pelle accapponarglisi e i capelli farsi duri come spilli; si paralizzò, combattuto tra l’improvviso terrore e un’ansia indefinibile che la voleva lì, sempre più vicina, e lo invitava a divorare quei pochi centimetri e lei con loro. Fissò il braccio con cui Lilli si sosteneva e lo vide tremare convulsamente, e risalendo lungo la spalla sino alle sue labbra dischiuse, agli occhi quasi spalancati. Il tutto durò poco più di un secondo. «Come volete voi, semmai» ribatteva intanto Gloria, senza smettere di pungere. Lilli saltò in piedi come una molla, dirigendosi verso di lei. Riprese a respirare: le gambe formicolavano di botto, il braccio le ricadeva inerte lungo il fianco. Non sapeva neanche dirsi come aveva fatto a riuscirle quel minimo slancio, quello sfidare a volto scoperto la paura, il dubbio e il destino. I polmoni le si riempirono improvvisamente dell’ aria gelida della notte invernale. «Gloria, ascolta…» cominciò, ritrovando la propria voce. «Tutta orecchi.» disse l’altra con un sorrisone, riaprendo il cancello dietro di sé «Un po’ di privacy, vuoi? Sì che lo vuoi, vieni». Lilli guardò Enoch, ancora impreparata. «Solo un secondo» balbettò con voce debole, tanto che non seppe nemmeno se lui aveva capito, facendogli cenno con una mano di attendere. Lei e Gloria oltrepassarono il cancellino e fecero qualche passo, soltanto due o tre, prima di fermarsi. «Senti-» provò a riprendere Lilli. «No, stammi a sentire tu.» la interruppe l’amica, un poco arrabbiata «Perché mi hai detto una bugia? Non ce ne sono mai state tra di noi». «Gloria, insomma-». «Ma che cavolo ti piglia, santiddio? Bastava che mi avvertissi e organizzavamo qualcosa, te l’avevo detto fin da subito! Cos’è, non ti fidi più?». Lilli gesticolò in cerca di una risposta. «Non ce n’era bisogno» bofonchiò alla fine. «Macché non c’è bisogno, sembrate Lilli e il vagabondo! Cazzo, lo so che è vecchia, ma non venirmi a dire di no!». «E’ che noi due… Boh… Dobbiamo stare da soli. Lui, ecco». Gloria incrociò le braccia e abbassò il capo, cominciando a battere ritmicamente la punta di uno dei baldracconi sulla ghiaia: come facesse a non perdere l’equilibrio è un mistero.
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«Ok. Va beh. Ho capito.» disse dopo un po’, rialzando il viso «Ti serve un po’ di intimità per portartelo a letto». Lilli distolse lo sguardo come un fulmine. Adesso, veramente, non sapeva che cosa risponderle. Se le avesse risposto di no, l’avrebbero tirata lunga per chissà quanto, magari avrebbero anche litigato. Avrebbe fatto passare male Enoch, anche. Come spiegarle, però? Come, in un ritaglio di discussione all’aperto e al freddo, con Gloria persino senza cappotto, a mezzanotte e un quarto del primo gennaio? Trattenne il fiato, premendo le labbra l’una contro l’altra. «E se anche fosse?» domandò, e le guancie le avvamparono subito di vergogna. Glorie le prese quelle gote tra le mani, avvicinandosi al suo viso con gli occhi azzurri aperti, leali. «Tesorina, ma bastava che me lo dicessi. Potevate passare il Capodanno insieme, tu e lui: cosa pensavi, che ti avrei tenuto il muso? O al massimo venivate qui e con una scusa ve ne stavate per conto vostro in una delle camere di sopra, come fanno tutti». Lilli muoveva la bocca senza riuscire a biascicare una parola. La solidarietà di Gloria le faceva venire voglia di sprofondare. «Dai, adesso non fare così.» ricominciò quella «Scusami se magari l’ho messa anche sullo… Schietto, diciamo. Lo sai come sono fatta. Tu la vedi un po’ più poetica, sentimentale, dolce, anche. Ma a me queste cose le puoi dire, le hai sempre dette. Se volete stare insieme a farvi le coccole tutti stretti e… e…». «Va bene, falla finita» disse Lilli, dopo essersi schiarita la voce. «Ok. Ma ora? Che intendi fare?». La ragazza la guardò senza raccapezzarsi. «Venite dentro o ripartite assieme?» chiarì Gloria. Lilli guardò in direzione del Peugeot che riusciva ancora a scorgere. «Al momento… Stiamo un po’ qui fuori. Poi la festa mi piace, sul serio, quindi… Non lo so, forse un po’ restiamo». L’amica annuì, e soltanto quello, notando l’agitazione della giovane. «Come volete voi.» ripeté «Ora però fa un respirone e non ti preoccupare più. Và dal tuo Enoch e riprendete a tubare tutti tranquilli, ok?». Lilli la guardò smarrita, poi annuì a sua volta, desiderosa ormai soltanto di uscire da quella situazione. «Io torno dentro.» annunciò Gloria «Qua fa un freddo boia, per quel che mi riguarda. Se non ti vedo più, ci ribecchiamo quando torno da Courmayeur». Provò a lanciarle un’occhiata d’intesa, che l’altra raccolse solo in ritardo, e anche male, e si separarono. Lilli tornò verso la macchina
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con quel groviglio di bugie ed equivoci che ancora pulsava in mezzo alla fronte. Fu il passare di nuovo il cancellino e il tornare a sedersi sul cofano, senza mai incrociare il suo sguardo, e lui che taceva, paziente, a rilassare di nuovo i suoi nervi. Come se l’avesse presa per mano e sollevata, sebbene non l’avesse nemmeno sfiorata. Poteva andar bene anche così, si disse. Poteva disinteressarsene, come fanno le stelle, che eppur sembrano assistere a tutte le disgrazie degli uomini e accogliere i loro lamenti, i loro crucci, le loro passioni. Alzò gli occhi verso di esse, senza parlare. «Tutto a posto?» le chiese Enoch. Lei fece senno di sì con la testa. «Mi ha solo fatto un po’ di domande.» rispose, tranquilla, con le mani in grembo «Le solite cose». «Del tipo?». «Mah, voleva sapere cosa ci facevi tu e soprattutto cosa ci facevo io, qui. Cosa stavamo facendo io e te, insomma». «E tu che le hai risposto?». Lilli si girò appena e riscoprì il bicchiere, ancora mezzo pieno di spumante. «Io niente di preciso. E’ lei che ha raggiunto la conclusione che io e te ce la intendiamo. Che stiamo tubando, ecco cos’ha detto». Enoch piegò la testa. Sorrideva, divertito da quella prospettiva. «E tu non le hai detto niente?» le domandò. «Cosa potevo dirle? Non è una situazione facile da spiegare, la tua». Lui abbassò lo sguardo, ancora con quel sorriso, appena smorzato, come pizzicato da un accenno di risentimento. «Adesso però penserà che siamo… Che sono il tuo ragazzo, insomma. O qualcosa di quel genere». Lilli scrollò le spalle, riprendendosi il bicchiere con la mano sinistra. «Te l’ho detto, non è una situazione che posso spiegarle» disse. «Lo penseranno tutti» aggiunse Enoch. Lei esitò per un attimo. Abbassò il bicchiere sino a sentirne il fondo su una coscia, freddo. Sospirò debolmente, quindi risollevò la testa, il braccio, lo spumante. «Non è una situazione che posso spiegare» insistette. Enoch guardò il suo bicchiere, si tastò la sciarpa, controllò l’ora. Lilli bevve un altro sorso e le parve che fosse il primo di tutta la serata, che avesse il sapore estraneo di ciò che non si assaggia da tanto tempo. «Non voglio finire per esserti d’impaccio» disse il giovane. «Non lo sei.» ribatté lei «Ho fatto tutto io, no?». «E se questa storia ci scappa di mano?».
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«Non ci scapperà di mano.» lo rassicurò Lilli «E’ l’unica cosa che possiamo tenere in pugno. Non ce la faremo scappare» e vuotò il bicchiere. Enoch non si oppose, non volle farlo. Se n’era accorto lui perché era abituato a star da solo, ma anche lei doveva averlo fatto. “Non ci scapperà di mano. Non ce la faremo scappare. Noi non ce la faremo scappare”. Aveva parlato al plurale, aveva parlato di loro due. Di loro due come chi? Come coloro che condividevano un segreto, che si trattasse di realtà o sogno, di un incubo della mente di Enoch? Non era stato lui a chiederle di farlo. Si chiese cosa tenevano in quel pugno, su che cosa avevano il controllo, di che cos’erano gelosi. Lilli doveva essersi resa conto di quello che aveva detto, doveva averla come stordita, prima o dopo che avesse parlato, che ci avesse riflettuto o che le fosse uscito spontaneo dalla bocca. La giovane si ricompose, rialzando gli occhi alla notte. «Beh, sarà meglio che torni dentro, adesso» disse, senza mostrare di aver incrinato la propria calma. «In effetti fa freschino, qua fuori» concordò Enoch, strofinandosi una mano sul braccio. «Se non te ne hai a male, s’intende». «No, ma figurati. Non vorrai mica passare la notte a ghiacciare sul cofano della mia macchina! Se in più è anche una bella festa…». «Sì.» confermò Lilli, abbassando il tono «Proprio una bella festa». Rimase immobile alcuni attimi, poi recuperò i bicchieri. «La bottiglia la vuoi tu?» domandò al giovane «Tanto dentro ce ne sono un’infinità e mezzo». «Naa, portala pure dentro. Non sono neanche abituato a berlo, come minimo mi ubriacherei al prossimo bicchiere». «Esagerato». «Se mi ubriaco, voglio vedere come fai a portarmi a letto». «Ti lascio qui. In tutti i sensi». «In tutti i sensi cosa?». Lilli non volle dirgli che Gloria aveva usato poco prima le medesime parole, anche se con un’intenzione del tutto diversa. Riagguantò la bottiglia per il collo e si alzò dal cofano. «Dai, io torno nella bolgia. Mi ha fatto piacere che tu sia venuto». «Sono io che devo ringraziare te.» rispose lui, tornando a sorridere «La prossima volta però rapiniamo una banca, visto che sei portata per i piani diabolici». «Il mio cervello è una trappola mortale. Nel senso che prima o poi una delle mie trovate mi ammazzerà». «Se non ammazzi qualcun altro tu».
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«Ah, beh, sì, c’è anche quella possibilità. Su, ci risentiamo presto; chiama pure tu, quando ne hai voglia». «Non vorrei disturbare». «Oh, non essere timido, ora. Cosa vuoi disturbare? Sta tranquillo». Lilli sventolò una mano e passò il cancellino. Come ebbe fatto due passi, si sentì richiamare indietro. Si voltò. «Grazie per la sciarpa» disse Enoch, alzandone un lembo. «Almeno siamo pari» ribatté con un sorriso, ma le parve che per nulla al mondo quella sciarpa potesse valere quanto quel portagioie. Come fu di nuovo sul vialetto, sola, si chiese se per lui, solo per lui, potesse essere diverso, se l’avrebbe conservata come un cimelio. Come il suo portagioie, come il profumo della mamma. Il famoso valore sentimentale che nei discorsi salta fuori ogni tre per due. Rientrò in casa con quella bottiglia in mano e le parve di aver addosso lo sguardo di tutti, sebbene Gloria non avesse sicuramente parlato di lei ed Enoch. La conosceva, non l’avrebbe mai fatto. Eppure vedeva quegli occhi che fingevano di occuparsi d’altro, che si tradivano continuamente. Gente che parlava dei fatti loro, rideva, e un attimo dopo li sollevava per fissarla, un secondo, un secondo e mezzo. Il tizio seduto contro il muro non c’era più, dovevano averlo sistemato da qualche altra parte; la sala da pranzo era affollata, ma non più come prima. Lilli si sentiva improvvisamente fuori posto. La musica le sembrava troppo alta, il chiasso delle urla le dava fastidio, i liquori sul tavolo non l’allettavano. Per terra, i resti dei palloncini e dei festoni le facevano impressione come un cadavere. Si diresse verso un gruppetto di ragazzi e ragazze con cui aveva scherzato durante la serata e li trovò impegnati in un discorso nel quale lei non riusciva ad entrare. Si passò i palmi delle mani l’uno contro l’altro, si spostò. Intercettò Gloria, che la guardò stupita e le venne subito incontro. «Ma lui?» le domandò soltanto, quasi urlandolo, sporgendosi sino al suo orecchio per farsi sentire. «Andato» rispose Lilli, cercando di far sfoggio dello stesso distacco. «Se n’è andato?» fece l’amica, con gli occhi di fuori. «L’ho mandato via». Gloria assunse un’espressione stupefatta. «Perché cazzo l’hai mandato via?» le urlò in faccia, ed era veramente arrabbiata, sul punto di uscire dalla grazia di Dio. «C’era la festa» rispose Lilli, e la vergogna le corse lungo tutto il corpo, più violenta di prima. Gloria si mise le mani tra i capelli rossi, scosse la testa.
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«Tu sei proprio cretina» le disse, scandendo fin troppo bene le parole, e la piantò lì. A Lilli parve che la sua voce si fosse fatta sentire al di sopra della musica. Doveva spiegare, doveva dir qualcosa, ma non sapeva come fare. Non poteva ribattere. Si sentì mille volte più stupida di quanto la considerasse Gloria. Provò a difendersi con sé stessa, ma la stessa rabbia che aveva letto sulla faccia di Gloria, quel senso di delusione ripugnante, le crebbe enormemente dal fondo delle viscere, attimo per attimo. Prese un bicchiere, ma non lo riempì, limitandosi a tenerlo in mano, quindi si girò e si fermò in un angolo, con le spalle contro la parete. Da lì non si mosse, se non per fare qualche passo. Due volte incrociò lo sguardo di Gloria in compagnia del suo amoretesoro e due volte quello sguardo le parve chiedere “ma che cazzo ci stai a fare qui?”. Come la rivide passare una terza, le diede le spalle in fretta, aspettò che fosse passata e tornò nel corridoio. Premette un pulsante a caso sul cellulare, controllò l’ora. L’una meno cinque. Imprecò muovendo a stento le labbra e riprese il cappottino. Andare a casa, andare a casa. Dopo un parcheggio criminale, si vide aprire la porta da un Enoch ancora sveglio, con indosso i soliti vestiti, ma con un’aria stupita, tanto e quanto lo era stata quella di Gloria. «Lilli!» esclamò soltanto, facendo quasi un balzo indietro. «Ciao.» ribatté lei, tirando indietro la solita ciocca con un movimento nervoso e mostrando così di aver portato con sé la solita bottiglia «Posso entrare?». «Sìsì, certo. Ma è successo qualcosa?». «No, nulla, tranquillo». Enoch, perplesso, si fece da parte per far entrare la ragazza. Lilli si guardò attorno, intanto che si sbottonava il cappottino. «Credevo di trovarti già a letto» disse la giovane. «No, guardavo un po’ di televisione.» rispose l’altro, abbozzando un sorriso «Non ci sono programmi brutti come quelli che trasmettono a Capodanno». «Quello poco ma sicuro» e rise appena, un trillo un po’ inquieto. «E’ un sistema come un altro per prendere sonno.» prese il telecomando per spegnere un varietà a base di cantanti e vallette mezze nude in una piazza dove il conduttore era bardato come un esquimese «Ma dimmi come mai sei venuta qui. Mi fai preoccupare». «Niente, davvero.» rispose Lilli, evasiva «Solo… Posso togliermi il cappotto, intanto?». «Fai, fai. L’attaccapanni è proprio dietro di te».
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La giovane dovette girarsi per trovarlo, guardare altrove. Ne ebbe un leggero sollievo. «Mi chiedevo…» cominciò, mentre sistemava il cappottino e la borsa «Se ti avrebbe fatto piacere fare… Far mattina, diciamo». «Mattina?» ribatté lui, incerto «Sssì, se ti va. Cioè, se sei venuta fin qui…». «Ho portato anche lo spumante». «Sì, sì, ho visto… Ma credevo ti trovassi bene alla festa di Gloria. Hai litigato con qualcuno?». «No, no, niente di tutto questo. Solo che… Mi andava di più star con te. Come amici, eh. Farci compagnia. Lì dentro non conosco quasi nessuno». «Ah, va bene, per quello. Nessun problema.» fece Enoch, impacciato quanto lei, prendendo a guardarsi intorno «Non è che sia molto organizzato, però, te lo dico fin da subito. Non me l’aspettavo». «Lo capisco». Rimasero zitti, lei con quella bottiglia in mano e lui appoggiato allo schienale del divano, intento a grattarsi la nuca. «Eeee…» ricominciò quindi Enoch, balbettante «Che si fa da qui all’alba?». «Non lo so… » rispose lei, tirando fuori l’unica idea che le era venuta durante il breve tragitto dalla casa di Gloria a lì «Hai un gioco da tavolo? Tipo il Monopoli…». «Il Monopoli?» «O Cluedo, Risiko… Quelli lì. Il gioco dell’oca. Va bene tutto». «Ho le carte». Persero il conto dei punti a scopa, azzardarono una scala quaranta, provarono a ricordarsi le regole del ramino, passarono anche a rubamazzo. Arrivarono a farsi un solitario a turno, tra linguacce e auguri di fallire. Provarono a inventarsi un gioco nuovo, riempiendo un’agenda di regole sconclusionate, appunti lasciati a metà, punteggi esplosi. Si offesero in tutte le lingue quando qualcosa non tornava, prendendo fiato tra un urlo e l’altro con il solito mezzo bicchierino di spumante. Finirono a fare i castelli di carte e a consolarsi a vicenda quando vennero giù entrambi per una ginocchiata contro un gambo del tavolo. Rovistarono tra la videoteca di Enoch, misero su cinque minuti di “Quattro bassotti per un danese”, altrettanti de “Il maggiolino matto”, il pezzo più angosciante di “Shining”, poi un film con Nicholas Cage di cui non avevano nemmeno il titolo, passando persino a roba come “Il giorno più lungo”. Tra l’uno e l’altro, si soffermarono su un documentario sull’alce che trovarono su un canale secondario, alternandolo con la televendita di un frullatore
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multifunzione. Alla fine Lilli decise di punto in bianco che era il momento di fare sul serio, basta stronzate. E andò a pescare una copia di quello che definì “un intramontabile capolavoro” e che, chi sa come, un ragazzo di poco più di vent’anni aveva in casa: “Il dottor Zivago”. Lilli si era sistemata troppo comodamente sul divano o forse aveva semplicemente bevuto troppo spumante. O forse aveva sbagliato film. Si ricordava d’averci pianto, l’ultima volta che l’avevano trasmesso, ma l’avevano fatto in prima serata, non alle quattro di notte o qualsiasi ora fosse stata. L’ultima cosa che le rimase in mente fu Komaronskij che diceva a Lara qualcosa di poco carino, qualcosa che aveva a che fare col letto e che Lilli aveva capito, sì, ma poi i contorni si erano sfumati, e con essi tutto il resto. Si risvegliò col televisore spento e un plaid a scacchi addosso; la bocca impastata, un piede sul pavimento e uno no, i capelli scarmigliati riversi su una guancia. Aprì un occhio di scatto e ci impiegò un paio di secondi per ricordarsi dove fosse. Accarezzò la coperta, sfiorando i peneri coi polpastrelli. Le sembrò comoda e piacevole e per un minuto abbondante si interessò solo a quello. Poi, gradualmente, ricominciò a ragionare. Si passò una mano sul viso e sul naso. Sbatté le palpebre e, dopo un paio di tentativi andati a vuoto, si tirò a sedere. Girò la testa, con gli occhi socchiusi sotto il trucco un po’ sbavato. Vide Enoch che sogghignava, con le braccia incrociate sul tavolo e la testa appoggiata sopra. I raggi del sole gli filtravano da dietro le spalle, attraverso la finestra. «Buongiorno, principessa» disse soltanto, guardandola. Lilli non si sentiva ancora in grado di cogliere quello che suonava come un complimento. «Dormivo?» domandò invece, passandosi una mano sugli occhi e finendo così di distruggere il lavoro di trucco della sera prima. «Nooo, è solo una tua impressione. Ti sei abbioccata a metà Zivago. Io te l’avevo detto che era meglio qualcos’altro». Lei storse la bocca, mugolò qualcosa, scomparve con la testa sotto la linea dello schienale e ricomparve subito dopo. «Che ore sono?» chiese, massaggiandosi alla meglio il collo intorpidito. Enoch girò la testa verso l’orologio a muro. «Circa le dieci e mezza.» rispose «Non hai neanche dormito tanto, a regola». «Merda.» borbottò Lilli, sparendo di nuovo «I miei stavolta mi ammazzano».
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«Perché, contavi di tornare a casa sveglia, all’alba?». Lei non rispose: non ci aveva nemmeno pensato, in verità. Si tirò su un’altra volta, stavolta decentemente, posando le mani sulle gambe. «Ti preparo un caffè» disse Enoch, alzandosi dal tavolo. Lilli bofonchiò un “grazie” che lui sicuramente non riuscì a sentire. Schiodarsi dal divano, anche, le riusciva particolarmente difficile. Ci rimase fino a quando non lo vide tornare con vassoio, tazzine e zuccheriera col cucchiaino già dentro. Le venne persino da ridere. «Lllà. Colazione a letto. Beh, letto… Si fa per dire» commentò Enoch, posando il vassoio sul tavolinetto posto davanti al divano: un tavolinetto di cui Lilli nemmeno si ricordava. Si piegò per avvicinarsi al vassoio e si zuccherò il caffè senza parlare, con un’espressione stranamente attenta negli occhi, di chi fatica a mettere a fuoco i dettagli. Mentre mestava col cucchiaino, le ricadde lo sguardo sul plaid e lo sollevò con una mano. «Me l’hai messo tu?» domandò ad Enoch. «Sì, quando mi sono accorto che dormivi» rispose lui, calmo, prendendo la sua tazzina. «Non mi hai…» cominciò Lilli, lasciando cadere la coperta per accennare un gesto, mai completato «Toccata, vero?». «No, ci sono stato attento» e scosse piano il capo. «Mh, grazie». La giovane non sembrava spaventata. Doveva essere ancora troppo assonnata per comprendere veramente quel che poteva essere successo. Se l’avesse messa a letto allora sì che ci sarebbe stato da preoccuparsi. Bevvero un paio di sorsi a testa, quindi lei alzò il viso su di lui, mano a mano che riprendeva il contatto con la realtà. «Ma non hai dormito, tu?» gli chiese «Hai una faccia…». «Senti chi parla.» fece lui, ridacchiando «Ma ti sei vista?». Lilli ci mise un paio di secondi a realizzare, quindi prese un cuscino e se lo strinse davanti, nascondendoci il viso sino al naso, come se servisse a qualcosa. «Devo essere orrenda» disse, risollevando un poco la testa per posarci il mento. «Solo un po’, non preoccuparti». «Ora ti piaccio un po’ meno, se non altro?». Enoch si tirò indietro, come per studiarla, quindi allargò il proprio sorriso e si rimise a tracannare il caffè. «Naa, sei sempre tu.» rispose, allegro «Non ci contare». Lilli si mise a ridere, d’una risata intontita, un po’ brilla.
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«Ora però finisco il caffè, mi do una sciacquata in bagno e me ne vado.» stabilì, con quel poco di serietà che poteva permettersi «I miei avranno già avvisato la polizia, conoscendoli». «Ma va là». «Nonono, grazie dell’ospitalità, della coperta e del caffè, ma io ci tengo alla mia salute e mi do proprio alla fuga. Semmai ci risentiamo nel coso, nel pomeriggio». «Col cavolo, io questo pomeriggio starò dormendo.» la smentì lui «Io me ne vado a letto non appena varchi quella porta. Ho passato una notte insonne, cosa credi?». «E a far che?». Enoch posò la tazzina e congiunse le mani, con le labbra tese e sottili. «Ho vegliato te.» rispose, guardando altrove «E’ abbastanza?». Lilli rimase mezza stupita, con un’espressione un tantino ebete sulla faccia, quindi ricominciò a ridere piano. Il giovane allargò le braccia e sbuffò sonoramente. «Che cacchio dovevo fare?» protestò «Aspettare che tu cadessi dal divano e finissi a dormire per terra?». «Omino dolce e affettuoso.» lo apostrofò, senza smettere di ridere «E fai anche il caffè buono buono». «Sfotti, sfotti. La vuoi una brioche? Ne ho alcune in cui non ci si piantano nemmeno i denti». «Prendi la fiamma ossidrica» propose lei, ormai partita per la tangente. «See, ne tengo una per tutte le evenienze, vedrai! Vuoi che vada a controllare se ho del tritolo in cantina?». «Così bummmm! tutta la marmellata radioattiva che si spalma sui muri!». «Perché radioattiva? Ora spiegami che cazzo c’entra la marmellata radioattiva». «Boh, ci andava. Come quella, com’era… Sette lettere! No, aspetta, otto. Otto, sì. Cantò Laura: Nek è troppo corto». Enoch ascoltò quella freddura in silenzio, poi, vedendo che Lilli non la smetteva di sghignazzare, sospirò e abbassò la testa. «Giuro che quello lì è solo zucchero» disse, indicando la zuccheriera. «Zucchero radioattivo!». «Vado a prenderti una brioche. Senza marmellata». Non era neanche poi così dura: non sapeva di niente, ma non era così dura. Due minuti dopo, Lilli si guardò allo specchio e tirò una specie di urletto rauco. Poi, di corsa, si sciacquò la faccia e si pettinò in qualche maniera i capelli. Uscì fuori dal bagno con gli occhi spalancati e le mani aperte.
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«Mi ammazzano. Mi ammazzano» ripeteva in continuazione. «Ma no che non ti ammazzano». «Ti dico di sì! Guarda qua, sembro Maga Magò!». «Non ti ammazzano». «Sì che mi ammazzano. Il cappotto, i guantini, la borsetta maledetta». «Ti ammazzano se apri bocca, mi sa». «Si sente che ho bevuto? Mi puzza l’alito?». «Non l’ho sentito, ma spari cazzate come una mitraglia. Basta quello». «Sono già morta». «Ti conservi ancora bene». «Verrai al mio funerale?». «Lilli». «Voglio i fiori bianchi. Bianchi». «Lilli». «Anche tu ti devi vestire di bianco. Con la sciarpa da ubriaco, però». «Lilli». «Sarete tutti lì a piangere, tu, Gloria, e-». «Lilli!». Si azzittì, già col cappotto indossato senza una grande eleganza e la borsa sotto un braccio, nell’atto di mettersela a tracolla. Sembrava una profuga, o una disgraziata di qualche altro genere. «Sì?» fece, guardando Enoch con gli occhi ancora sgranati. «Lilli» riprese lui, moderando il tono della voce. «Sì, “Lilli”, quello l’ho capito. Cosa c’è?». Lui aprì la bocca per parlare. Mosse impercettibilmente una mano. «Niente» disse alla fine, facendo cenno di lasciar perdere. «No, sul serio, che c’è?» insistette lei, dandosi una sistemata veloce ai capelli «Sono seria, ora, sto buona. Che c’è?». Il giovane scosse il capo. «No, nulla.» rispose «Vai, altrimenti ti viene davvero tardi». «Tardi, sì. Scusa, ma non t’immagini che casino che scoppia in casa mia, se non torno ad un orario prefissato. Già mi sa che la macchina per uscire la sera da sola me la sogno, dopo questa qua». «Non ti preoccupare». Le aprì la porta, sfilando come al solito dietro di essa, sempre con quell’attenzione maniacale. Lilli lo guardò con apprensione: aveva la faccia di chi non le aveva detto tutto. «Fatti sentire, se... Se c’è bisogno.» mormorò, restando per un attimo sulla soglia. Lui si limitò ad annuire piano.
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«Allora… Ciao» disse lei, piegando un poco la testa per vedere quel ritaglio di viso che riusciva a scorgere dietro la porta. «Ciao» salutò lui, col tono basso, che le arrivò a stento alle orecchie. La ragazza gli gettò un’occhiata sempre più preoccupata e mosse il primo passo oltre la soglia dopo alcuni secondi. Si voltò indietro dopo il primo metro, lo vide sulla soglia della casa, dov’era stata lei. Le fece un cenno e lui ricambiò con un piccolo, debole sorriso. Fece qualche altro passo, sino a raggiungere quasi il marciapiede della strada. «Lilli!» la richiamò lui, alzando un poco il braccio. Lei si voltò facendo leva su un piede, con le mani in tasca e un’espressione alleggerita sul viso. «Cooosa c’è?» domandò, guardandolo da lì. Enoch sembrò rilassarsi a sua volta. «Grazie per essere venuta» disse. Lilli si guardò attorno, allargando le braccia per come le riusciva senza sfilare le mani di tasca. «E ci voleva tanto?» gli chiese, accennando una risata. «Ti amo». Lilli rimase così com’era, con un pezzetto di lingua che le sporgeva da un angolo della bocca e gli occhi fissi su di lui. Enoch non dava segno di agitazione, e quel sorriso quieto, placido non accennava a dileguarsi dal suo viso. «Ah.» fece lei, riuscendo a muoversi un poco «Sì, beh…». «Va a casa, ora.» la incitò il giovane «Farai tardi». Lei non si mosse per qualche attimo, girò la testa verso l’auto. Staccò un piede da terra di pochi centimetri e ce lo rimise. Il respiro le arrivava a singhiozzo alla bocca, affiorando e spegnendosi un attimo dopo. «V-vado… A casa.» balbettò, indicando col pollice la sua macchina «Grazie per la serata, la nottata…». «Grazie a te» ribatté Enoch, con la sua solita leggerezza. Lilli si girò. Fece un paio di passi. «Volevo dire grazie per tutto.» disse un attimo dopo, tornando a voltarsi «Tutto… Quanto». Lui non le rispose, ma quel sorriso che non spariva, quell’espressione morbida negli occhi, le valsero più di qualsiasi cosa che avrebbe potuto dire. Si scambiarono un altro cenno di saluto e lei arrivò alla macchina. Ci salì sopra, strinse lo sterzo con entrambe le mani ed espirò. Tardi, tardi. C’era da arrivare a casa, ora. Del resto se ne sarebbe parlato più avanti. La sera. Il giorno dopo. Quando sarebbe stato il momento.
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24- Quarantasettesimo giorno, Lunedì (Epifania) Due voci stampate contro la cornetta del telefono, o come si può chiamare la parte in basso del cellulare, il culo, insomma. A brandelli, quali stralci di un respiro, pigiate l’una contro l’altra, sopprimendosi a vicenda. «Credevo di non sentirti più». «Scusami». «Sono rimasto seduto davanti a questo telefono per non so quanto. Fa ridere». «Ci ho messo un po’». «Non è solo per farmi gli auguri, vero? Non ti ho preparato la calza». «No. Sono rimasta a pensarci sopra. Sai com’è…». «Logico». Pausa. Respiri trattenuti, poi infranti, di nuovo trattenuti. «Non posso ricambiare quello che provi. Non in queste circostanze». Silenzio, ancora un piccolo ritaglio. «Altrettanto logico». «Mi dispiace». «A me no, lo sapevo già. Non ti ho mai chiesto di farlo». «Allora perché dirmelo?». «Perché è vero». Il rumore distorto, umido, di un sospiro. «Penso che dovremmo smettere di vederci». «Io no». «Ma è sbagliato! Non porta da nessuna parte». «E’ già arrivato dove doveva arrivare, invece. Non posso trovarlo sbagliato. E’ tutto quello che posso volere». «Ti fai solo del male». «Il mio amore può consistere solo nel guardarti. L’ho fatto da lontano e ora riesco a farlo da vicino, mentre ti parlo, e ti vedo ridere, alzare il tuo sopracciglio, fare le tue smorfie con la bocca. Che non posso averti lo so da me, lo sapevo già prima. Ma tu baratteresti quel senso di ebbrezza, l’intensità pura di un sentimento, con la polvere del deserto che mi offri in cambio, dicendomi di dividere ancora il mio piatto con la solitudine? Non ti chiedo niente, non l’ho mai fatto prima d’ora, se non di concedermi di poter essere innamorato anch’io. Almeno quello, se il resto mi è stato negato». «Ma per quale scopo, Enoch?». «Tu per quale scopo ami un uomo, Lilli?». Nessuna risposta, se non l’accenno debole di un sospiro, un altro, grondante d’impaccio.
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«Non l’hai, come non l’ho io. L’amore è fine solo a sé stesso, al piacere che produce quando affonda nel cuore e lo senti appesantirsi e andar giù, giù, giù, fino a quando non ti senti mancare e ti accorgi che era quello, e nient’altro. E’ ciò che mi fai vivere ogni istante, Lilli». «Fa male…». «La nostalgia di un carillon ti reca forse più sollievo?». Il fiato che risale su per la gola e vi si artiglia, ghiacciato. «L’hai visto?». «L’ho sperato». «Tu non sembri sperare in niente». «Io spero solo che una passione così grande duri sempre sino al giorno dopo, e vada avanti un po’ per volta, a forza di rimandi, sino all’infinito, quando anche fosse sempre sul punto di cadere e si aggrappasse ogni ora alle sue ultime forze». Si udì il singhiozzo che veniva represso, inghiottito strenuamente. «Sei crudele». «Con chi?». «Crudele». «Ti amo». «Basta, ti prego». «Ti amo». «Basta, basta, basta…». «La tua voce è dolce anche così». «Ti piace sentirmi star male?». «Mi illude che tu possa bere dal mio stesso calice». «Non potremmo mai». «Ma io potrò continuare a illudermi». «Non dire più niente». «Non ci penso nemmeno». «Ti uccidi». «Sarebbe un bene per tutti». «Mi uccidi». Riuscì a farlo tacere. «Non chiamarmi più. Non ti risponderò». «Lilli». L’interruzione brusca della conversazione, l’anonimo, ripetitivo tuutuu del telefono che va avanti a vuoto, per conto suo. L’uno in silenzio, crollato sulla sedia; l’altra a premersi il cuscino contro il viso per soffocare i singhiozzi alle orecchie della mamma nella stanza accanto.
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25- Quarantottesimo giorno, Martedì «Non sarei dovuta venire ad aprirti» disse Lilli, arrestandosi a mezzo metro dal cancello, con un giaccone buttato sulle spalle e le braccia incrociate per ripararsi dal freddo. «Non ti sembra un po’ eccessivo?» domandò Enoch, fermo dall’altra parte; dava l’idea di non sapere bene cosa aspettarsi da lei. La ragazza si sistemò meglio il giaccone per evitare che finisse per terra, passando con gli occhi da un estremo all’altro dell’orizzonte. «A te non sembra eccessivo venire a suonarmi a casa di continuo. Non è una cosa molto comune.» ribatté, tornando quindi a guardarlo «Ma tu non ti fermi davanti a niente per spiarmi da una finestra, figuriamoci per schiacciare un campanello». Enoch stilizzò un sorrisetto, e non fu l’unico. «Forse l’abbiamo messa un po’ troppo pesante fin dall’inizio» disse, strofinandosi un dito sotto il naso. «Forse un pochino» concordò lei, ridacchiando nervosamente. «Già, me ne rendo conto.» infilò le mani nelle tasche, piegandosi un poco sulla vita «Se ci riprovassimo?». Lilli alzò le mani e le mosse in maniera vaga. «Forse se la mettiamo un po’ più… Sul soft» replicò, imbarazzata. «Sul soft, sì, ecco». «Sai, è piacevole sentirsi dire quelle belle cose - e sei anche bravo a dirle. Però… Meglio evitare, ok?». «Sìsì, capisco.» fece subito lui, grattandosi la nuca «Mi sono lasciato prendere la mano». «L’abbiamo fatto tutti e due, direi. Ma va beh, cose che capitano» generalizzò Lilli. «Oh, beh, se a te capitano…» borbottò il giovane, impreparato. «Insomma, non tanto spesso. Così… Intensamente mai, a dir la verità.» ammise lei «Ma cosa vuoi che ti dica?». Enoch si soffermò su quella domanda per alcuni secondi, raddrizzando il capo. Dio solo sapeva che cosa lui volesse sentirsi dire e lei volesse rispondere per svicolare. «Mi andrebbe bene sapere quando potremmo rivederci» rispose il giovane, guardandola in viso. Lilli arrossì, anch’ella per niente pronta a quello scambio. «Eeeh… Non lo so. Non ne ho idea. Sono un po’ impegnata, di questi tempi. Per via dell’esame, sai.» disse, infilando una parola dietro l’altra «Ma potresti… Potresti accompagnarmi all’orale, a fine mese, se ti va bene». «All’orale?» ripeté lui.
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«Beh, sì, lo so che non è il massimo dello spasso. Non è proprio un appuntamento, d’altra parte, ma se vuoi…». «Bbboh. Ok.» Enoch scrollò le spalle «Se per te va bene…». «Sìsì, benissimo. Almeno ci facciamo compagnia, no? Come siamo rimasti d’accordo». «Compagnia, d’accordo. Mi va bene». «Ma più soft, eh? Senza farmi girare la testa». Che era come dire che, ancora, a nessuno dei due riusciva di stare senza l’altra, quando fosse stato nel pensiero, nella fantasia. Più soft, ma mai del tutto lontani. Anche a costo di non esser mai più sinceri. 26- Cinquantaseiesimo giorno, Mercoledì Lilli si mosse con indecisione, con l’incertezza di chi si trova a maneggiare qualcosa di prezioso e sconosciuto, tipo quelli che ti passavano tra le mani alle scuole superiori, che si trattasse del vaso Ming della professoressa di storia dell’arte o di un pezzo di crisoberillo povero spacciato per una gemma di grande valore durante l’ora di chimica. Con la differenza che quel portagioie non le era affatto sconosciuto, neanche alla lontana. Era così tanto tempo, però, che non ne faceva sfoggio, un’eternità che aveva durato da Natale sino ad allora. Se aveva sussurrato qualcosa nella linea sottile tra l’imbottitura e l’interno, prima di prendere un anellino, una collanina, una delle tante chincagliere senza valore che vi aveva riposto e scambiato di posizione ancora e ancora e ancora, se era rimasta a premere piano con l’indice sui cuscinetti rosati e a far ripartire in eterno la solita musichetta, lo aveva fatto da sola, con la porta chiusa e le orecchie dritte per badare che non arrivasse nessuno. Ora era diverso. Il piumone sul letto le sembrò sin da subito inadatto; sentì i gambetti affondare troppo e questo le trasmise un senso di insicurezza. Sollevò con attenzione il coperchio, lasciò suonare la musichetta. Si ricordava di caricarlo ogni volta che lo riponeva, perché credeva che se per caso una volta, aprendolo, quel carillon non l’avesse accolta, quel dono avrebbe perso tutto il suo valore. Accosciata davanti al letto, tenne una mano sul coperchio, senza accennare a toglierla da lì, a rinunciare al suo possesso su quell’oggetto. Gloria, seduta lì accanto, dovette piegarsi sulla vita per riuscire a vederlo da vicino. Lilli accentuò appena la stretta sul portagioie. «Non te lo porto via, piantala» commentò l’altra, spostando appena gli occhi sulle unghie senza smalto della giovane. «Ci tengo» si limitò a dire Lilli.
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«Ma va, non si era notato.» ribatté Gloria, con un sorriso sarcastico, raddrizzandosi «Bellino bellino bellino, comunque. Con quale dichiarazione te l’ha dato?». «Dichiarazione?». «Massì, dai, vi ho proprio davanti agli occhi: lui tutto timidotto ti porge un sacchetto con la coccardona - o magari no! Con un fiorellino finto intrecciato sopra - e poi si ritrae zitto zitto fino a quando non l’hai aperto e solo allora, dopo che hai sfoderato una faccia da triglia quella è inevitabile, conoscendoti - lui parte con un discorso tutto impacciato preparato in precedenza e tu lo ascolti, gli occhietti prendono il loro taglio triste, lui comincia ad avvolgersi da solo, borbotta roba senza troppo senso che a te, incredibilmente, piace da morire ascoltare e poi puff! e tu ci caschi con tutte le scarpe. E’ andata così, no?». Lilli si appoggiò con la guancia contro una mano. «Il sacchetto con la coccarda.» rispose, infastidita «Hai beccato solo quello». «Oh, beh, allora vuol dire che la dichiarazione te l’aveva già fatta». La giovane chiuse un occhio in una smorfia, quindi dischiuse le labbra e prese fiato. «Forse non voglio parlartene, ci hai mai pensato?» domandò all’amica, voltando gli occhi verso il suo viso. «Davvero? Non me n’ero mica accorta.» replicò Gloria, arrivando quasi a distendersi sul letto, come se fosse a casa propria «In fin dei conti eviti l’argomento come la peste e ti ho telefonato due volte per saperne qualcosa, prima di decidermi a venire direttamente qui. E’ un po’ strano, direi». «Perché strano?» obiettò Lilli, con un piccolo sorriso «Lui ci è già venuto due volte». Gloria arricciò le labbra, incrociando le braccia dietro la testa. «Alludevo al tuo comportamento, non al mio. Non mi faccio ancora problemi per venire a casa tua: ci sono cresciuta, altrimenti non me starei qui sbracata sul tuo letto.» precisò, incrociando le gambe sul materasso «Bel tentativo di colpirmi e al contempo sviare l’attenzione, comunque». «Se bastasse così poco per tenerti buona...». «E che ti aspetti? Ti trovi un giovanottello aitante, ti aiuto a concludere e poi di colpo sparisci, non mi dici più niente neanche se te lo chiedo, dissimuli (male) e non ti fai più sentire.» esclamò Gloria, risentita «Cacchio, una volta mi facevi la telecronaca minuto per minuto, quando prendevi una cotta per qualcuno. Ma te lo ricordi alle superiori?».
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Lilli sospirò mentre si metteva in ginocchio sul tappeto. Incrociò le braccia sul letto e vi posò la testa. «Non lo faccio per cattiveria, Glò.» le rispose, col mento premuto sul piumone «E’ che non posso parlartene, proprio. Non posso e non voglio, ok». «Ecco, siamo sincere». «Ma oltre a non volerlo, ti dicevo, proprio non posso. E’ una questione complicata e non posso… Rendertene partecipe, insomma». «See, see.» Gloria sbuffò, girando la testa da un’altra parte «Poi però vieni a chiedermi aiuto come al solito, mh? Vedrai come ti rispondo per le rime». «Non penso che accadrà. Tra me ed Enoch c’è un rapporto particolare, un po’ fuori dal comune. E’ difficile da spiegare, anzi, è proprio impossibile, ma è una cosa di cui vado gelosa. E un po’ fiera, a modo mio.» piegò il capo sino ad appoggiarlo sulle braccia, in modo da poter guardare il portagioie, che richiuse con un dito «Però è splendido questo regalo qui, non trovi? Mi piace da morire…». Gloria guardò la sua nuca, i suoi capelli sparsi sul piumone, il dito che indugiava sull’imbottitura del divanetto. «Non ti ho mai vista così persa dietro a un ragazzo.» disse, catturando la sua attenzione «All’inizio la facevi tanto lunga, eppure. E dire che non è neanche passato tanto. Forse nemmeno un mese. A guardarti ora, si direbbe che tu gli sia andata dietro per una decina d’anni». Lilli si voltò. Piano, per una volta. Da un lato si era abituata a sentire quella storia dei due fidanzatini; l’aveva tirata fuori anche lei, dopotutto. Dall’altro, semplicemente non lo sapeva nemmeno lei. «Ma che ci trovi, poi?» riprese Gloria, portando le punta delle dita alla fronte «Cos’ha di tanto speciale da conciarti così? Cristo, il giorno in cui mi ridurrò così per un uomo, se mai accadrà, spero che almeno sarà per uno pazzescamente fico». «E pensi che potrai deciderlo tu?» le chiese l’altra. «Un minimo di libero arbitrio me lo lascerai, no? Non c’è mica Cupido con le alette e le frecce con la punta a forma di cuoricino». «Non in quella forma, magari.» disse Lilli, abbassando gli occhi sul portagioie «Ma hai idea di quante cose potresti non sapere? Di quanto l’amore potrebbe avere una spiegazione… Materiale, terrena? Così anche la vita, la morte e chissà cos’altro. O forse no. Forse è l’unica cosa intangibile, eppure vera, che ci rimane in un mondo così a portata di mano, così facile da toccare».
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Gloria si mise a sedere, incrociando le gambe. Guardava l’amica con attenzione, tenendo lucidamente testa al suo sguardo sognante. Lentamente, si lasciò andare a un lieve sorriso d’intesa. «Essere innamorata ti fa dire un mucchio di cose senza senso.» commentò, tranquilla «Ma che a te sembreranno intelligenti, sensibili e piene di profondi sentimenti, immagino. A te, a lui… E’ questo che ha di tanto bello, ai tuoi occhi?». Lilli socchiuse morbidamente le palpebre. «E’ dolce.» mormorò, senza poter fare a meno di sfociare in quel sorriso vago, perso nel nulla «E buono. Ascolta quel che dico fino in fondo, non mi interrompe mai. E’ paziente, tanto paziente». «Che con te ci voglia un mucchio di pazienza è scontato. Io rischio un esaurimento nervoso solo a starti davanti». «Ma no, dai. Lo sai quel che intendo.» Lilli continuava per la sua via, pacata, letteralmente imperturbabile «Si sacrifica tanto per me: non lo dice ma lo fa, io me ne accorgo. E dire che io gli do così poco in cambio, quasi niente. Lui eppure ne è felice, si accontenta e non chiede mai nulla di più, mai nulla». Gloria la studiò perplessa, senza parlare, per alcuni secondi. Sospirò, quindi, chiudendo gli occhi. «Che poi è una cosa confusa.» riprese Lilli, accennando un gesto con le mani aperte «Lo è sempre, quando non ce l’ho accanto. Quando c’è invece tutto quanto mi sembra così chiaro, scorrevole… Smetto di pensarci, almeno». «Parli come una che sente la mancanza.» sintetizzò l’altra. Lilli abbassò gli occhi, piegò la bocca in una smorfia arrendevole. «Può darsi, sì» ribatté, chiudendo il portagioie e rimettendosi in piedi. «Quant’è che non lo vedi?». Lilli si irrigidì appena, voltandosi per nascondere il rossore sulle guancie. Rimise il portagioie sulla mensola, prendendo tempo. «Più di una settimana» rispose, come se fosse normale. «Come?» fece Gloria, saltando su come una molla «Più di una settimana? Ma cos’è, è andato in vacanza da solo? Perlomeno al telefono vi sentirete, però!». Lilli si voltò solo un attimo, il tempo di andare a sistemare le tende alla finestra. «Gli ho detto che devo studiare.» disse «Non vuole disturbarmi». Gloria la fissò sbigottita, con le mani posate sul materasso e il volto proteso in avanti.
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«Ma sei scema?» sbottò ad un tratto «Ci credo che dici che quel povero cristo è paziente e si sacrifica! Si immola, proprio! Perché cavolo lo devi trattare così?». Lilli scrollò le spalle, sforzandosi di ignorare il groppo sotto la gola, in mezzo al petto. «Perché devo studiare» rispose debolmente. «Tesora, io ti conosco da quando sono nata: non sei una che si ammazza sui libri. Ne hai più voglia di me, sicuramente, ma da te a una che studia ce n’è come da Parigi a Dakar. Proprio ora che ti sei trovata un ragazzo, poi! Di norma una studia meno, non di più». Lilli guardò involontariamente fuori dalla finestra. Fuori doveva fare un freddo del diavolo, eppure il suo sguardo cadeva ancora sul cortile del vicino. Si sarebbe dovuto bardare come per un uscita a Capo Nord, quel pomeriggio. «Ma scusa, non ti viene voglia di starci insieme?» le domandò Gloria. Lei cincischiò, incrociò le braccia, fece due passetti. «Devo-» ricominciò a dire. «Non ripetermi che devi studiare. Sono arrivata e non stavi studiando. Non stavi per ricominciare, non avevi appena finito». Lilli si girò verso la scrivania, che stava dirimpetto al letto. Non poteva spiegarglielo, non c’era modo che la capisse. Non c’era modo che le credesse. La vita doveva continuare come prima, era l’unica alternativa. Era quello che avevano voluto entrambi, per il loro stesso bene. Più soft. Nei giorni appena trascorsi, era giunta a tormentarsi anche su quell’aggettivo, domandandosi se era adatto, se lui aveva capito. Solo per arrivare in fondo a chiedersi se lei avesse capito sé stessa, in primo luogo. Ma certe cose nascono impossibili, proibite dalla natura. Questo l’aveva capito anche Enoch, gliel’aveva suggerito lui. E allora da dove nasceva quel rimorso e quell’odio bruciante verso di sé, quel rimpianto con cui si alzava la mattina e che l’accompagnava a dormire la notte, quando troppo tardi, quando troppo presto? Si girò verso Gloria, appena in tempo per vedere che le aveva fregato il cellulare dal comodino, se l’era portato all’orecchio e ora stava comodamente in attesa, con gli occhi rivolti verso l’alto. «Che cazzo stai facendo?» esclamò, scattando subito verso di lei. «Sst! Buona un minuto». «Buona un cazzo! Dammi qua!». Gloria si ritrasse come un’anguilla, senza nemmeno guardarla. «Un momento!». «Glò, perdio!».
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«Ma finiscila di far casino.» fece, ruzzolando sul letto per sgusciare via.«Lo faccio per te, razza di - sì, ciao, Enoch, sono Gloria, Lilli mi ha passato il telefonino perché non aveva voglia di aspettare che si liberasse la linea, come stai? Bene, sono contenta, ti ripasso lei? Ciao, caro, stammi bene.» e le porse il telefonino con aria tranquilla «E’ per te, cucciolina». Lilli la fulminò con lo sguardo, o almeno ci provò, quindi prese il cellulare e se lo portò all’orecchio. Subito, le venne naturale di sorridere, come se l’avesse avuto davanti. «Enoch? Scusami, Gloria fa la scema.» fece, prendendo a girottolare per la stanza «No, no, ormai siamo qui. Lei dice che mi fa un favore, poi. Non farci caso. No, è venuto tutto fuori dal fatto che, beh, anche se studio un po’ di tempo mi avanza, sai com’è. Magari è l’occasione per vederci… Ma non ho ancora pensato nulla, però. Questa matta mi ha preso alla sprovvista con una delle sue trovate, mi ritrovo spiazzata e… Non lo so, ti ritelefono io. Sul serio, ormai l’impegno l’ho preso, non posso rimangiarmi tutto. Probabilmente, avrei dovuto già chiamarti prima, solo che… Facciamo che ne riparliamo, vuoi? Ti richiamo io, quella là sdraiata sul letto mi mette in imbarazzo. Eh, beato te che mi capisci. Sì, allora… Restiamo d’accordo così? Voglio dire, ti chiamo io e… E tutto il resto. Mi ha fatto piacere sentirti, anche così. Forse… Forse avrei dovuto chiamarti prima. Va beh, ecco, ci risentiamo, ok? Ciao, Enoch, ti telefono presto, ciao». Chiuse la conversazione. Gloria era intenta a grattarsi un sopracciglio. «E io che mi aspettavo che ci saresti stata delle ore.» disse, ancora con un occhio mezzo chiuso «Fidanzatini poco chiacchieroni?». Lilli la fissò. Era rossa in faccia, un po’ per la vergogna e un po’ per la fatica. Si tirò i capelli indietro con una mano, quindi alzò il cellulare per fare il gesto di batterlo sulla testa dell’amica. «Sì, adesso fammi anche del male!» brontolò quella, alzando una mano per difendersi «Invece di dirmi grazie». Lilli per qualche secondo sentì di volerle dare ragione. D’istinto, come per un bisogno che corre lungo la pelle, le avrebbe stretto la testa tra le braccia. 27- Cinquantottesimo giorno, Venerdì C’erano quei finestrini appannati, potevi abbassarli e rialzarli una decina di volte, far partire il riscaldamento e poi spegnerlo quando boccheggiavi come una trota appena pescata, tanto era uguale, dopo trenta secondi di nuovo non si vedeva un tubo di niente. Ogni tanto
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qualche gocciolina vi rimaneva spiaccicata sopra, come sparata da chissà dove, da cannoncini abilmente mimetizzati lungo i cigli della strada, in agguato, che le sputavano fuori. Messi lì solo per quello. Lilli una volta si preoccupava per le fantasie che le venivano in testa: adesso non più, aveva imparato a conviverci, perché tanto ognuno se le fa, anche se non lo dice per non screditarsi, rovinare la sua immagine di individuo arrivato, compito, perfettamente sviluppato e inserito nel suo ruolo, qualunque esso sia. Così si permetteva di andare a briglia sciolta nel guardare il cielo nuvoloso, color ematoma, col bagliore fioco di un sorriso sulle labbra e le mani che aggiustavano ogni tre per due il bavero dell’altro giubbotto, quello un po’ da meno, che si abbinava coi pantaloni aderenti pesanti e quel maglione viola col colletto rigonfio che arrivava fino alle orecchie, in cui volendo poteva far sparire tutta la faccia. Incastrata con una gamba tra il sedile e la portiera, tutta pigiata, con la spalla contro il finestrino, alla lunga aveva trovato il modo di starci persino comoda. Il lungomare sfilava indifferente sotto le gomme, i pini si piegavano per il vento, le palme sventolavano le foglie taglienti, quasi volessero ghermire gli occasionali disgraziati che fuggivano in bicicletta, con gli occhiali da sole anche con un tempo del genere, le fascette per il sudore, gli stinchi nudi e il bomber gonfio come un dirigibile. In mezzo a tutto, l’espressione preoccupata di Enoch che teneva le mani sul volante. Lilli, contrariamente a lui, riusciva a sentirsi rassicurata. «Certo potremmo anche provare a metterci un po’ di musichetta, su questo trabiccolo.» disse, spostando gli occhi sull’autoradio «Funziona quella?». «Se non la metti a un volume estremamente alto, sì.» rispose lui, posandoci sopra solo un’occhiata «Altrimenti va su di giri e non si capisce più nulla». «Wow, hai un’autoradio che si esalta e dà in escandescenze?» alzò un dito, cominciando a girarcelo a vuoto sopra «Come si accende? Non trovo il power. Ti manca qualche pulsante, anche». «Mancano quelli che non servono.» rispose l’altro, alzando un indice a sua volta «Scansa quel ditino, faccio io». «Non è un ditino, è un bel dito longilineo e affusolato». «E’ un ditino morto, se non lo levi di lì». Lilli ritrasse la mano con una risata, infilandosela preventivamente sotto una gamba. «Ma ti pare che una debba convivere coi tuoi ditacci assassini?» gli chiese, e la cosa la divertiva: era, alle sue orecchie, come se qualcuno le avesse detto di non mettersi in bocca quello che trovava per terra. «Beh, non ti ho chiamata io, stavolta».
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Lei tolse il dito da sotto la coscia, ritornando a tormentare tranquilla il colletto del giubbotto che litigava con quello spropositato del maglione. Il sorriso non le abbandonava le labbra, in un leggero attacco di ridarella spontanea. «E va beh, ma non sei mai contento, allora.» disse, guardandolo in viso «Mi faccio sentire perché mi mancavi, ti richiamo puntualmente e ti invito fuori e hai persino di che lamentarti?». Enoch non allontanò lo sguardo dalla strada. «Idea tua o di Gloria?» le domandò quindi. Lilli si sentì un poco colpevole. Solo un poco, una cosuccia su cui sapeva passare facilmente sopra. Specialmente adesso. «Lei mi dà solo una spintarella quando rimango bloccata.» rispose, senza vergognarsi «Se mi avessi chiesto tu di uscire, avrei accettato. A qualsiasi condizione». Enoch rimase fermo. Lei lo guardava fisso, con soltanto il viso voltato verso di lui e il resto del corpo forzatamente immobile, costretto su quel sedile. «Mi hai chiesto di andarci piano» le ricordò il giovane. «Sì, hai ragione. Mi sto smentendo da sola.» Lilli si prese tra pollice e indice il setto nasale, proprio sotto alle estremità delle sopracciglia, sfiorando con le unghie il lacrimatoio degli occhi «Faccio un po’ casino, scusami». «Vuoi che cambi argomento?». «Sì.» lei annuì, rialzando la testa e riabbassando la mano «Anche se ho sbagliato io». «Beh, adesso non buttarla giù così drammatica.» spostò gli occhi verso il mare, che per un attimo, tra uno stabilimento balneare e l’altro, gli parve di poter scorgere anche nella penombra di un pomeriggio di gennaio «Ad esempio, non è che da lì ora esce fuori una specie di Nettuno incazzato?». Lilli sbatté le palpebre, guardando prima il mare e poi il giovane. «Come?» rise, solo per lo sbalzo insensato che aveva fatto fare alla conversazione. «Mi pare la seratina adatta, no? Una via di mezzo tra un tritone e un gigante, per dire. Con la barba, il tridente…». «E che ci sta a fare lì?». «Che ne so, porta via i bagni, le cabine, le palme, i lampioni». La ragazza chinò il capo con un sorriso. Ma quanto ti costa, avrebbe voluto chiedergli, come fai, se davvero sai cosa sia l’amore e lo provi, lo vivi. Spostò piuttosto l’attenzione sulla musica che usciva dalle casse della radio da almeno qualche secondo, in tutta libertà, inascoltata da entrambi.
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«Ma che roba è?» domandò, indicando l’autoradio «Un tizio che si lamenta in curdo?». «Noo, macché curdo.» rispose lui, approfittandone poi per strizzarle l’occhio «Copto». «Ah, mi sembrava strano». «E’ la mia macchina, in fondo». Lilli corrugò appena la fronte, cercando di afferrare una parola di quello che le sembrava inglese americanizzato masticato male con un bicchierone di Coca cola in mano. «Ma il copto è anche una lingua?» chiese, curiosa. «Boh, non ne ho idea.» Enoch scrollò le spalle «Non credo». «Copto da poco». «Vallo a dire a nonno Noè». «E a papà Caino». Si scambiarono un sorriso d’intesa, prima che lui tornasse a concentrarsi sulla strada che filava, tutta dritta, semivuota. «Quant’è che manca a quel… Come si chiama?» le domandò dopo alcuni secondi. «Lounge. Si chiama Lounge.» lei diede un’occhiata alle insegne degli alberghi e degli stabilimenti balneari «Cinque minuti e ci siamo». Lilli si ricordava di averci visto degli ombrelloni aperti accanto alla porta e un mucchio di gente seduta fuori, ma doveva essere perché l’ultima volta c’era stata d’estate. Tolto quel dettaglio e le luci di Natale che avrebbero durato sino a Pasqua, tuttavia, le parve il solito locale. Un posticino intimo, non troppo grande, che dava l’idea di stare in disparte, separati dal mondo, anche quando ti trovavi con lo schienale della sedia contro le spalle di quello seduto accanto. Magari avevano cambiato la disposizione dei divanetti e dei tavoli alti, quelli coi trespoli attorno, ma non avrebbe potuto giurarlo. Rallentò nel muovere i primi passi all’interno, giusto per studiare la situazione. Enoch la raggiunse dopo qualche attimo, sempre dietro, sempre a una certa distanza; Lilli si stava sfilando i guanti di lana bianchi. «Beh, è deserto» commentò il giovane, guardandosi intorno. «Ci credo, devono avere appena aperto» rispose lei, intercettando con la coda dell’occhio lo sguardo di una cameriera sui venticinque anni e dal passo frettoloso che doveva essere appena uscita dalla cucinetta. Enoch fece un giro ampio attorno alla ragazza, spostando gli occhi su una gigantografia di Marilyn Monroe con la bocca aperta e le labbra spiccatamente rosse. Colorate a pennarello, a giudicare. «Ti piace?» gli chiese Lilli, girando la testa verso di lui.
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Il giovane annuì, muovendo percettibilmente le mani dentro le tasche del giaccone. «E’ tranquillo, no?» insisté la ragazza. «Se resta così, sicuramente» rispose lui, visto che non c’era veramente un’anima, neanche più la cameriera. «Beh, dai, allora scegliamo dove metterci». «Quello che preferisci. Occhio solo alle gambe». «Ci ho pensato, ci ho pensato. Uno di questi tondi va bene?» chiese, indicando un tavolo. «Qua, almeno metto le spalle contro il muro». Si sedettero, prima l’una e poi l’altro, badando di trovare una posizione adatta per le gambe, con la mani strette attorno alla circonferenza del tavolo. Lilli posò la borsa su una delle due sedie che erano rimaste libere. Enoch si guardava intorno con viva curiosità, un po’ spaesato. Tempo cinque secondi e rispuntò la solita cameriera, il sorriso gentile sulla bocca, il grembiulino che riportava il nome del locale. «Buonasera, ragazzi.» salutò, e riusciva a non far sentire l’automatismo con cui doveva pronunciare quelle parole «Sapete già che cosa prendere?». Lilli guardò il giovane, che scosse appena il capo, imbambolato. «Se ci lasci due liste…» disse la ragazza, ammiccando alle stesse che la cameriera teneva tra le mani. «Ma certo. Aspettate qualcuno?». Lilli spostò gli occhi sul viso della cameriera, che si molleggiava piano, passando dalle punte ai talloni. «Sì: le liste» rispose quindi, secca, liberando il primo bottone del cappotto. «Ecco qua» rispose la cameriera, posandole sul tavolo e schizzando nuovamente via. La ragazza prese la propria, spingendo l’altra verso Enoch con la punta delle dita, quindi finì di sbottonarsi. Lui le rivolse uno sguardo interrogativo, stupito dalla risposta che aveva dato alla cameriera. «Alle coppiette cercano sempre di rifilare un tavolinetto da due.» spiegò Lilli, con gli occhi socchiusi «Hanno paura che non restino abbastanza posti per quelli che vengono dopo». Enoch si mordicchiò il labbro inferiore. «No, un tavolinetto piccolo non è il caso» borbottò, aprendo il menu. «Già, ma vaglielo a spiegare, se ti riesce. Quella riesce a fingere bene, comunque. Probabilmente adesso mi odia». «Mi dispiace». «Ma va, dicevo così, per dire».
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Si sfilò le maniche del cappotto, girandosi sulla vita per sistemarlo dietro la sedia. Enoch alzò lo sguardo dal menu per guardarla, come inavvertitamente; Lilli si accorse di quella occhiata fin da subito, la vide soffermarsi sulla curva del seno che si intravedeva attraverso il maglione. Se ne stupì, se non altro perché non era da lui farsi notare così, fin da subito: doveva proprio sentirsi a disagio, per tradirsi a quel modo. Se ne stupì, ma non negò che le facesse piacere. «Non hai caldo, tu?» gli domandò, facendo finta di nulla «Hai ancora la sciarpa al collo». Enoch riprovò ad abbassare gli occhi sul menu. «Ho caldo solo ad averti davanti.» rispose con un mezzo sorriso, senza poter fare a meno di arrossire «Cambia poco se mi tolgo il cappotto». «Esagerato» ribatté Lilli, prendendo la sua lista. Incrociarono gli sguardi per un attimo, senza dir nulla. Enoch aveva capito di esser stato scoperto, ma mostrava di non curarsene, proprio come lei faceva finta di non essersi accorta di lui. Erano le regole del gioco, e non c’era bisogno che qualcuno le ricordasse loro. «Ti sta bene quel maglione, però» disse Enoch, richiudendo la lista sul tavolo. Lei allargò il proprio sorriso, posando a sua volta il menu. «Ha il colletto puffoso» replicò e vi posò sopra entrambe le mani per sollevarlo fin sotto il naso e le orecchie, affondandoci il viso fin dove le riusciva. «Puffoso?» ripeté lui, divertito. Lei annuì velocemente, senza riabbassarlo. Aveva gli occhi vispi, la punta del naso appena arrossato dal raffreddore, i capelli raccolti, stretti da una molletta, che le lasciavano libera la pienezza di quel mezzo viso. In quel momento, per meno di un secondo, Enoch la trovò bella, innocentemente bella, più di quanto aveva mai pensato di poter trovare bella una ragazza. Si sentì all’apice della felicità per il solo fatto di averla davanti. Questo sarebbe bastato, si disse, fino alla fine dei giorni. Poi lei lasciò andare il colletto, lui si tolse cappotto e sciarpa, sospirarono a turni, sorrisero e ordinarono. Una cioccolata e un amaro. Ubriacone. Golosa. Lilli passò un minuto buono buono a sistemarsi le maniche sui polsi, coi gomiti puntellati sul tavolo; il biascicare sottotono di una canzone degli anni ottanta le arrivava alle orecchie. Enoch si guardava intorno, si lasciava andare contro lo schienale, borbottava qualcosa. «Spero che ti piaccia sul serio» disse la ragazza, fermandosi con le mani congiunte a fianco di una guancia. «Ti ho detto di sì» ribatté lui, alzando il viso.
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«E’ che non mi sembri convinto». Enoch alzò gli occhi verso quella specie di lenzuolo rigonfio che faceva da soffitto alla saletta, stringendo le labbra. «Sai com’è,» rispose infine, stringendosi nelle spalle «non è che abbia molta esperienza di locali. Al massimo li ho visti da fuori o alla televisione.» aprì quindi i palmi, come per mettere le mani avanti «Se mi dici che vale la pena di fare tanta strada per venire fin qui mi fido, però. Vuol dire, beh, che è un buon locale». Lilli socchiuse gli occhi, ritraendo appena il viso, confusa. «A volte fatico un po’ a seguirti, sai?» replicò, tornando a sorridere «E poi ti pare di aver fatto così tanta strada?». Enoch piegò il capo di lato. «E’ normale?». Lei fece il gesto di ricacciare indietro la sua ciocca, che stavolta però nemmeno c’era. Non si scompose per questo. «Facciamo un esempio.» rispose, tranquilla «Si comincia con una puntata qui, tanto per non sapere che fare, poi dopo un’ora ti arriva una telefonata, mettiamo di Gloria, che ti dice che è a quindici chilometri da qui. Sali in macchina, affronti un traffico tipo Manhattan nell’ora di punta e la raggiungi che se ne sta andando, così ti invita a seguirla e ti trascina in un discopub che magari non hai mai sentito nominare e che, guarda caso, è a due passi da qui. E tu ti rifai tuuuutta la strada indietro, tanto per non buttare la serata.» incrociò le braccia sul tavolo con un sorriso leggero, piegandosi sino a sentire il suo bordo contro le costole «Non immagini nemmeno quanta benzina si possa bruciare in un ordinario sabato sera». Enoch ascoltava con un braccio sul tavolo e uno ciondoloni, lungo la sedia, con le dita che sfioravano la gigantografia illuminata di Marilyn. Scosse la testa nel chinarla. «Bruciata per niente» commentò, poco convinto. «Cosa ti devo dire? E’ così che va». Lui storse la bocca. Sollevò un poco la mano, accennò a far schioccare le dita, ma la riabbassò un attimo dopo. Lilli intuì che volesse dirle qualcosa e l’avrebbe anche invitato a parlare, se proprio in quel momento non fosse tornata la cameriera, col suo vassoio, il suo sorriso, la tazza di cioccolata, il bicchiere con l’amaro liscio. Posò lo scontrino sul tavolo, dopo aver annunciato loro il prezzo. «Faccio io» bofonchiò Enoch, recuperando il portafoglio dal giaccone. Lilli rimase zitta, un poco rannicchiata in sé, con le braccia che sparivano sotto la linea del tavolo. Guardava la panna sulla cioccolata senza parlare, senza neanche un preciso perché, un poco a disagio
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perché era lui a pagarle il conto. Enoch aveva provato a farlo passare per un gesto naturale, quale doveva esserlo per tutti, ma lei aveva l’impressione che non gli fosse riuscito. Le parve del tutto estraneo a un luogo come quello, come se le stesse pareti minacciassero di respingerlo. Per quello rimase ferma anche dopo che la cameriera si fu allontanata con un “grazie” velocissimo, appena comprensibile. Non sapeva se avrebbe dovuto chiedergli di riprendere il discorso interrotto oppure no. Lui teneva gli occhi sul bicchiere e attorno ad esso le dita della mano. Non parlava, assente. Non doveva neanche aver troppa voglia di amaro, almeno quanto lei non aveva effettivamente voglia di cioccolata calda con panna. «Com’è che hai scelto proprio questo posto, comunque?» le domandò d’un tratto. Lilli lo guardò: i lineamenti del viso erano quieti, ancora in bilico tra l’apatia di un attimo prima e il tentativo di ridestarsi. «Ci vengo quasi sempre, quando esco. Tutte le volte che c’è parto assieme a Gloria, per dire.» rispose, spostando d’istinto gli occhi per il locale «Non è male. Mi ci portò un mio ex un paio d’anni fa.» fece un gesto vago con la mano, tra lo schifato e l’infastidito «Poi io l’ho scaricato, ma il posto mi piaceva». «Oh.» fece Enoch, sollevando le sopracciglia «Un tuo ex». «Un mio ex, sì.» ripeté tranquilla lei, sfregando piano le mani «L’ho mollato e non voglio neanche più tornarci, se stai provando a farmi una scena di gelosia». «Mi dai il permesso di essere geloso di te?». Lilli rimase con le mani ferme per un secondo e un’espressione colpita sul viso, tradita; Enoch sorrideva, e non seppe dirlo se di sincera felicità o soltanto per prenderla in giro. «Beh…» balbettò «Visto come mi consideri». Lui abbassò lentamente il capo, senza che quel sorriso gli svanisse dalle labbra. Passò il dito sull’orlo ancora asciutto del bicchiere. «A dir la verità mi aveva stupito proprio quella parola.» disse con calma «Quel “un mio ex”. Fa molto telenovela scema. O pubblicità di una qualche crema idratante, di un balsamo per capelli, anche». «Uh, quante storie per una parola in inglese. Se ne sentono di continuo, mica solo alla televisione». «A me risulta che sia latino, non inglese». Lilli drizzò la testa. «Latino?» fece «No, aspetta. Ex più ablativo si usava quando - c’entra qualcosa?». «La cioccolata si fredda» le ricordò lui.
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«Sì, sì, va beh, ho capito.» ribatté velocemente lei, prendendo la tazza con una mano, mentre con l’altra cercava il cucchiaino «E’ solo che mi stai mandando nel pallone con una cazzata, ti rendi conto?». «Non farci caso. Arriverai a domani anche se te ne freghi.» spostò le dita dietro il bicchiere, intercettando il suo sguardo «Cin cin?». Lei rimase ferma per un istante, prima di tirar fuori qualcosa a metà tra un sbuffo e una risata. «Cin cin, uomo pignolo» e spinse la tazza e il piattino sotto di essa sino a far risuonare uno dei due contro il bicchiere di Enoch. La porta automatica si fece di lato per far entrare due ragazze sui diciotto-diciannove anni, di quelle con il chewing-gum in bocca, i capelli tagliati alla solita maniera e l’andatura ondeggiante, da zoccola ancora acerba ma piena di buona volontà. Enoch rivolse loro soltanto uno sguardo. Lilli cominciava a prender gusto alla cioccolata. O meglio, alla panna, perché la cioccolata ancora non si vedeva. Dopo poco si sporse in avanti, invitando il giovane a fare lo stesso. «Ti posso chiedere una cosa?» gli bisbigliò. «E’ una cosa segretissima che va chiesta sotto voce?» ribatté lui, imitando il suo tono e la sua espressione. «Se vuoi lo urlo, così ci prendono per matti» lo rimbeccò lei. Enoch capì che cosa intendesse e sospirò stancamente. «Vai» la incitò, spostando lo sguardo altrove. Lilli si accorse di aver toccato, ancora senza dire nulla, un tasto a cui il giovane poteva solo fingere di essere insensibile. Valutò l’ipotesi di chiedergli qualcos’altro, ma lui se ne sarebbe sicuramente accorto e questo, sia pure in buona fede, avrebbe finito per ferirlo di più. «Quando tocchi qualcuno,» cominciò, con la voce ancora bassa «tu che cosa provi? Non te l’ho mai chiesto…». Enoch si riportò indietro, con le braccia conserte. «Nulla di buono.» rispose col suo tono normale, passandosi distrattamente il pollice sulle labbra umide «Nessun effetto speciale tipo improvvisi mancamenti, ma un fastidio, quasi un dolore.» riportò gli occhi su di lei, senza difficoltà «Probabile che sia solo la mia immaginazione, però: lo sai quante cose riesce a inventarsi il cervello». Lei girò il cucchiaino dentro la cioccolata, avvertendo la resistenza che la sua densità le opponeva. «Non è nemmeno piacevole, quindi» disse, con gli occhi bassi. «No, proprio per niente» le confermò lui, Lilli accigliò sensibilmente lo sguardo, pensosa.
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«Peccato.» mormorò alla fine, riprendendo ad abbassare la voce «Non posso neanche chiederti di urtare maldestramente quelle due che sono appena entrate, allora. Non per altro, ma quelle lì mi fanno sorgere un istinto omicida a pelle». Enoch rise sommessamente, spostando gli occhi per poterle vedere anche lui, mentre discutevano a uno di quei tavolinetti da due con le facce pompate, talmente espressive da sembrare maschere del teatro greco o giapponese, e gli orecchini che dovevano tintinnare come quei campanelli che mettono sopra le porte dei negozi. «No, purtroppo con quelle lì non potrei nemmeno.» disse, allontanando lo sguardo «A parte il fatto che toccarle mi farebbe persino ribrezzo. Più del solito, intendo». «Poveraccio, no, allora manco per idea.» Lilli rise a sua volta, appoggiando la fronte al dorso della mano, per poi risollevarla «Ma perché non potresti, poi?». «Perché no.» rispose l’altro, come se fosse ovvio «Non sono mica io che decido». La giovane lo fissò come istupidita. «Altrimenti non toccherei nessuno, no? Non sarebbe facile, ma si può fare.» continuò lui, per poi riabbassare il capo e ripetere «Non sono io che decido». «Adesso non ti seguo più» ammise Lilli. «Pensavo di avertelo già detto.» Enoch sollevò gli occhi, palesemente senza troppa voglia di parlarne «E’ come… E’ una sensazione che non so spiegarti, come se tu dovessi descrivere i colori a un cieco o far capire a un sordo cos’è il jazz. C’è qualcosa, una componente inscindibile che è sempre stata in me, che mi porta a farlo, a non scansare una spalla che potrei fare a meno di urtare o ad allungare una mano che potrei tenere in tasca. Una predestinazione, la stessa che quel giorno mi ha spinto magari a uscire, a camminare per un viale affollato, dove normalmente non andrei mai, per nessuna ragione al mondo.» tornò a chinare il capo, riprendendo in mano il bicchiere «E’ così. Accade. Punto e basta». Lilli cercò di cogliere il suo sguardo basso, senza riuscirci. Inspirò una boccata d’aria, sperando che servisse in qualche modo ad alleggerirla. «Come le stringhe delle scarpe?» domandò, debolmente. «Che si sciolgono quando cammini, sì.» rispose lui, rialzando il viso quel tanto che gli bastò per buttar giù un sorso di amaro «Certe volte torni a casa e le hai ancora allacciate, certe volte devi fermarti in mezzo alla strada per farci due nodi».
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Lilli guardò il cucchiaino, lo mosse all’interno della massa marrone e calda della cioccolata. «Scusami.» disse, posandosi le mani in grembo «Non volevo darti… Turbarti». «No, figurati.» fece lui, e nel raddrizzarsi voleva sembrare un altro, uno che non si era mai posto problemi «E’ la norma, questa qua. Piuttosto…» e ammiccò senza farsi notare un terzetto, due donne e un uomo, sulla trentina, che erano appena entrati «Non c’è il rischio che qua si riempia all’inverosimile?». «E’ prestino, mi pare.» rispose Lilli, controllando l’orologio al polso (perché almeno uno ne aveva e ogni tanto se lo metteva anche) «Qui vengono a fare l’aperitivo, il pomeriggio, e quello lo preparano all’ora di cena». «Non che importi.» ribatté Enoch, pacato «Ormai siamo qui». «Guarda che se vuoi andare via non c’è problema, eh». Lui scosse piano il capo. Tornava a sorridere, con gli occhi scuri socchiusi, come se volessero mettere a fuoco ogni dettaglio del viso della ragazza. «Anch’io avrei accettato a qualsiasi condizione.» disse «Difatti sono qui assieme a te». Lilli si volle riprendere un altro cucchiaino di cioccolata. «Quanto ti costa restare in un posto del genere?» gli domandò. «Quanto costa a te avermi davanti?». La giovane prese un altro cucchiaino. Lo mandò giù. Sorrise appena, piegando la testa e appoggiando la guancia a una mano. «Io ero disposta a tutto» confessò, e sentì che non le costava niente. «Io lo sono ancora adesso» replicò lui, facendo eco al suo sorriso. Schiodarono le natiche dalle seggiole quando i tavoli della prima saletta, quella in cui si trovavano anche loro, finirono per essere tutti occupati. Le cameriere - perché ora erano due - stavano cominciando a disporre i primi vassoi per l’antipasto e già c’erano i segnali di una coda imminente per raggiungere i piattini e le posate di plastica. Lilli stimò che fossero trascorse all’incirca due ore. Due ore senza che riuscisse a ricordarsi che cosa si fossero detti per quel tempo. Avevano riso e scherzato, ma al di là della sua ultima uscita, la giovane non si ricordava altro. Certo, se si fosse fermata sopra a rifletterci, si sarebbe fatta tornare indubbiamente in mente tutto, ma era proprio quello il do. Uscirono fuori senza troppe difficoltà, anche se Enoch dovette scansarsi per far passare un tizio che era uscito a fumarsi mezzo sigaro, un toscano, a giudicare dall’odore. Lilli lo guardò, gli chiese se andasse tutto bene, quando aveva visto anche lei
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che non c’era stato il minimo contatto. Lui annuì subito, chiudendosi il giaccone. «E’ stato molto peggio quando quell’altra ha cominciato a spostare di continuo la sedia» disse. «Dici quella seduta accanto a noi, quella che urlava?» domandò lei. «Quella, sì. Ci è andata vicino un paio di volte» Non se ne preoccupava, proprio perché alla fine non era successo niente. Lilli si soffermò per un attimo sull’assurdità di tutte quelle precauzioni, su come lei stessa lo assecondasse senza pensarci e addirittura arrivasse a provare apprensione per lui. Enoch si mise la sciarpa, facendole fare un paio di giri sgraziati attorno al collo. Alzò il mento in quel gesto, guardandosi attorno. «Non c’è un cane» osservò, in mezzo alla strada deserta tra i marciapiedi spogli e le panchine gelide. «Beh, è anche un venerdì di metà gennaio.» ribatté la ragazza, infilandosi i guanti «Non ero neanche sicura che lo facessero, l’aperitivo». «A quanto pare sì.» e si voltò indietro, verso le vetrate del Lounge «Guarda là, sono tutti dentro». «Mica scemi» fece Lilli, rabbrividendo. Enoch non sembrò ascoltare le sue ultime parole. Tornò a guardare davanti a sé, verso il mare e rallentò appena l’andatura. Accigliò gli occhi, sollevandosi sulle punte. La giovane gli gettò un’occhiata. «Che ti piglia?» gli chiese «Hai visto qualcuno?». «No.» rispose lui, quasi accennando un saltello «Controllavo se avevo visto bene. Là c’è un pontile, giusto?». «Certo che c’è il pontile! Cosa vuoi che ci sia!» esclamò lei, sul punto di mettersi a ridere «Non dirmi che non l’hai mai visto!». «Sì che l’ho visto. Due ore fa, quando ci siamo passati davanti con la macchina per cercare il parcheggio». «Andiamo, ma lo sanno tutti che c’è il pontile, lì!». «Oh, per saperlo la sapevo, ma non l’avevo mai visto.» infilò le mani nelle tasche, rivolgendole un cenno con la testa «Andiamo a farci due passi sopra?». «Sei matto?» Lilli sgranò gli occhi, fermandosi in mezzo alla strada «Con ‘sto freddo?». «Appunto. Non ci sarà nessuno». «E per una buona ragione! C’è da morire assiderati, là. Hai idea del vento che ci tira?». Enoch fece due passi in avanti, poi girò su sé stesso, mostrando le palme delle mani.
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«Hai detto che eri disposta a tutto o no?» le rammentò, con un ghigno sulle labbra «A qualsiasi condizione, così hai detto». «A qualsiasi condizione che mi permetta di sopravvivere!» si corresse Lilli, tirandosi indietro «Perché io là ci resto!». Enoch reclinò piano il capo all’indietro, sicuro di sé. «Dopo quello che mi hai fatto passare lì dentro, oseresti negarmi un così piccolo favore?» disse, quasi ridendo «Non l’ho davvero mai visto, anche se è a due passi». Lei assottigliò le labbra, concedendosi due o tre secondi di silenzio di troppo. «Si va sul pontile!» sancì Enoch, girando sui tacchi e ripartendo alla bersagliera, anche a costo di lasciarla indietro. Cosa che non sarebbe successa, e lo sapeva. Lilli gli trottò dietro, seppur malvolentieri, un attimo dopo, accompagnandolo a suon di lamentele sino al semaforo, alle strisce pedonali. Lui le attraversò che era ancora rosso, urlacchiando qualcosa per farle notare che la strada era vuota. Si sarebbe trovato bene in stazione, si disse lei. Il rumore del mare increspato dal vento, prossimo a gonfiarsi, si fece udire sempre più mano a mano che percorrevano il pontile, passando sotto la luce gialla dei lampioni. Per ogni metro che facevano, il freddo si faceva sentire con più vigore, come con insistenza. «Ma fa freddo…» piagnucolò Lilli, a metà tragitto «Non lo senti, tu?». «Ho la sciarpa.» rispose lui, alzando la voce per farsi sentire «Non sono abituato a portarla. Fa davvero caldo». «Io la sciarpa non ce l’ho.» continuò lei, incassand0 la testa tra le spalle «Poi questo pontile è tutto uguale, che te ne fai di vederlo?». «Se tu non l’avessi mai visto saresti curiosa quanto me.» replicò il giovane «Perché non usi il maglione come sciarpa? Tanto non ti vede nessuno, non ti preoccupare se non sei elegante». Lilli borbottò qualcosa, andando a ripescare il colletto del maglione sino a tirarselo fin sopra quello del cappotto. Non che cambiasse molto, come si premurò di riferirgli mentre lo seguiva a passetti piccolini. Per sua fortuna non ci volle molto per arrivare in fondo, anche perché il pontile era corto, il più corto che conoscesse. Enoch si appoggiò con le mani nude alla ringhiera, che era di metallo, senza dar segno di sentirne il freddo. Lilli si immaginò che fosse come toccare due pezzi di ghiaccio in Antartide. Rimase indietro, mentre lui si perdeva nella distesa nera del mare, ribollente di schiuma e dei bagliori delle lanterne sulla sua coltre maestosa. Non si mossero, né lui né lei. Proprio per quello, la giovane gli si accostò, nei limiti. La
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durezza di un palone le sfiorava il gomito, esattamente dove avrebbe potuto esserci lui. Enoch volse il viso verso di lei per qualche secondo, sul suo corpo tutto stretto in sé che provava a combattere il freddo. Si staccò dalla ringhiera, aggirando il palone, per appoggiarsi accanto a lei, più vicino di quanto Lilli si ricordò che avesse mai osato da solo. Lei non si spostò di un millimetro, limitandosi a tenerlo d’occhio. «Faccio attenzione, sta tranquilla.» le garantì lui «E’ solo per poterti guardare in viso. Me lo concedi?». Lilli piegò la testa da una parte all’altra per liberare la bocca dal colletto di maglione e cappotto. «Mi hai avuta davanti tutto il tempo.» disse, sollevando un mano per provare, invano, a tener fermi i capelli «Oltretutto senza vento». «Ma qui è diverso» si giustificò Enoch, e non aggiunse altro. Si girarono entrambi verso il mare; lui sollevò una gamba per appoggiare il piede alla ringhiera. Inspirò l’aria del mare invernale. «Certo che è fantastico, qui.» disse, sorridendo appena «Indipendentemente dal pontile. Il mare. Così immenso, qua nel buio, che non s riesce a intuire neanche la linea dell’orizzonte. Il cielo stesso sembra un’oscurità liquida, che fatica a separarsi dalle onde». Lilli guardò il mare, sporgendosi con la testa per intravedere gli spruzzi biancastri quando si infrangeva contro il pontile. «Mi chiedo come sia l’oceano» riprese Enoch, con un filo di voce. «Sterminato.» gli rispose Lilli «Ha un rumore diverso, avvolgente, che fa impallidire il mare». «Hai visto l’oceano?» gli chiese lui. «Visto e sentito. In vacanza coi miei, da bambina, ma me lo ricordo.» fece una pausa, rialzando il viso «Deve fare anche più paura di questo, la notte». Enoch la guardò, con la solita calma. «Ti fa paura il mare di notte?». «Non è molto rassicurante, mettiamola così. Non sai cosa può nascondere, non vedi niente… A volte mi sogno di restare con la testa sott’acqua e non vedere nulla, neanche come raggiungere la superficie. Neanche se sto nuotando nella direzione giusta o verso il fondo». Il giovane corrugò la fronte, tenendo gli occhi su di lei. «E’ impressionante.» disse, tamburellando due colpetti sulla ringhiera «Non ci avevo mai pensato». «Ognuno usa l’immaginazione come meglio gli riesce. Io faccio i sogni strani e tu la usi per dire le tue belli frasine, tipo quelle di prima. Hai mai pensato di fare il poeta?».
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Enoch sorrise, e il bianco dei suoi denti spiccò per un attimo sotto la luce del lampione. «Non sono nato per scrivere» rispose, scuotendo la testa. «Ma per parlare sì». Lui si prese un dito nell’altra mano, fermandoci sopra lo sguardo per qualche istante. «Forse.» ribatté «Non mi vergogno a dire quello che mi viene in mente in certe occasioni. Anche se non le metterei per iscritto». «A me piace sentire quello che ti viene in mente.» girò del tutto la testa verso di lui «Dici delle belle cose». Enoch si raddrizzò, prese fiato. Mosse ritmicamente le dita sulla ringhiera, tutte quante. «Vuoi che continui?» le domandò, senza guardarla. «Non lo so.» rispose lei, onestamente «Hai qualcosa di bello da dire in mente?». «Non ne ho idea. Dovresti dirmelo tu». «Beh, allora sentiamo.» fece Lilli, ridendo «E’ qualcosa che toglie anche il freddo, magari?». Lui socchiuse gli occhi, aprendo la bocca. «Dipende» disse infine. «Dipende? Da che cosa?». «Dal fatto che tu voglia sentirtele dire o no». Lilli poteva fingersi sorpresa, ostentare quell’ingenuità fasulla che sapeva tirare fuori in qualsiasi momento per cavarsi da una situazione scomoda. Appositamente, non lo fece. Si appoggiò meglio alla ringhiera, con un sorriso tenue. «Vai, spara» lo incitò in un mormorio. «Sei la cosa più bella che potesse mai capitarmi». «Scemo» replicò lei, senza alterarsi minimamente, chinando il capo. «Davvero.» insistette lui, allegro «So già che questa notte sognerò il mare, come fai anche tu, e ti avrò qui accanto, sopra queste onde ora scure e ora limpide, col vento inclemente di una sera d’inverno o un sole caldo che ti bacia la pelle e le dona la fragranza dell’estate». Il cielo ruppe nel rombo di un tuono grave. Enoch non si mosse. «Lo sai che non importa nient’altro, se sei qui. Il mondo stesso potrebbe venire inghiottito da questa massa nerissima e io non mi muoverei, non mi allontanerei da te, neanche quando le ultime acque ci lambissero i piedi e le caviglie. Se almeno uscisse la Luna da dietro quelle nuvole, almeno quella, per gettare uno sguardo d’invidia sul tuo viso». Il vento si alzò, soffiò rabbiosamente, un alito violento e raggelante che scuoteva le piante come in un delirio. Solo lì, per pochi attimi, il
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freddo non riuscì a prender possesso delle loro membra, né a coprire le parole. «Cosa cambia se non posso dirtelo, quando ogni mio gesto ti trasmette ciò che provo e ti porta il mio pensiero, la mia anima, per ogni passo che muoviamo assieme, l’uno accanto all’altra? Fosse anche solo per poche ore di una vita, che insieme non potrebbero fare neanche un giorno, sarà sempre più di quello che ci potremmo aspettare restando soli. Non importa il silenzio, non conta nulla il chiasso che fa questo vento per provare ottusamente a nascondertelo. Lo sai che ti amo, lo sai quanto sia felice di poterlo fare, anche fosse per un minuto soltanto. Come io so che volevi sentirmelo dire, ancora una volta». Lilli allargò il sorriso sul proprio viso abbassato, rivolto al mare, mentre sentiva il suo corpo cullato tra braccia invisibili. 28- Sessantesimo giorno, Domenica «Pensavo che avresti avuto da studiare almeno fino… Al giorno prima, metti. Niente altre eccezioni». «Tolta la domenica. Vuoi farmi studiare anche di domenica? E’ una cosa logorante, sai?» si sfilò il piumino bagnato, facendoglielo penzolare davanti al naso, dandogli subito le spalle «Me lo metti da qualche parte? Voglio vedere che cos’hai». Glielo lasciò tra le mani prima ancora che l’avesse preso come si deve. Enoch annaspò per agguantarlo prima che gli cadesse sul pavimento, trovandosi poi a bilanciare il peso da una gamba all’altra, mentre lei andava a colpo sicuro verso la scaffale delle videocassette. «Che cos’ho?» balbettò, cominciando a spiegazzare il tessuto sintetico tra le dita senza pensarci. «Ho paura di non ricordarmelo.» gli rispose lei, posando le mani sui fianchi «L’ultima volta dovevo essere un po’ troppo brilla, sai. Credo di aver perso qualche pezzo di quella notte». «Ah» fece appena lui, girandosi per cercare, come smarrito, un posto per lasciare il piumino; voltatosi, si portò di nascosto al naso il colletto, illudendosi di poter respirare l’odore dei suoi capelli misto a quello della pioggia. «Voglio dire, non ho scordato nulla, eh. Le carte, lo spumante, le cazzate che dicevamo. Ho solo un vuoto sulle etichette di queste cassette. Solo su alcune». «Però…». «“Il giorno più lungo”! Questo me lo ricordo bene!» premette un dito sul titolo, mostrando la punta della lingua «Però cosa?».
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«Lilli…» cincischiò Enoch, allargando appena un braccio. «Che c’è?» domandò lei, voltandosi finalmente verso di lui «E’ perché ti sono piombata in casa senza avvisarti?». «No, no. E’ che…». «Quello vuoi tenertelo come souvenir?» gli chiese, indicando il piumino che il giovane aveva ancora in mano. Enoch lo guardò distrattamente, andandolo poi a posare sullo schienale del divano. «Scusami.» borbottò, intanto che lei ricominciava a guardare le videocassette «E’ che hai detto che di domenica non studi». «Aha.» gli rispose Lilli, pescando incuriosita una cassetta «Che cos’è questa qua? Non c’è l’etichetta». Lui piegò il capo per vederla meglio, da lontano, e socchiuse gli occhi. «Mi pare sia “Jumanji”. Ce ne sono due o tre senza etichetta». «“Jumanji”? Hai “Jumanji”? Io ti adoro! Ci guardiamo questo!» si rigirò la cassetta tra le mani, come a cercare una conferma che si trattasse proprio di quel film «Certo che tenere “Jumanji” accanto a “Il giorno più lungo” è un po’ da schizzati, secondo me». «Dovrei fare un po’ d’ordine tra quella roba». «Ma figurati, sei più ordinato di me». «Lilli». Lei si fermò a metà strada tra lo scaffale e il videoregistratore, con la cassetta stretta tra due mani. «Sì?» chiese «Stavi dicendo?». Enoch sollevò appena il capo, si umettò le labbra. «E’ che.. Domenica scorsa non sei venuta.» mormorò, incespicando un poco sulle parole «Non che fossi obbligata, però…». Lilli spostò gli occhi per la stanza, trovando la finestra. «Domenica scorsa non pioveva.» ribatté «Fai conto che io sia qui solo perché oggi sta piovendo, ok?». «Oh, beh, ok, mi va bene.» rispose, muovendo a vuoto le mani prima di protenderne una per farsi porgere la cassetta «La metto dentro io». «Va bene.» fece lei, obbediente «Come vuoi». Enoch andò verso il videoregistratore con la cassetta in mano. Fece per chinarsi, ma si fermò con una mano sul televisore. Si girò piano verso Lilli, nervoso. «Anche ieri pioveva» disse, guardandola in viso. «Ma… Non era domenica» replicò lei. «Oh. Non era domenica. Giusto» si ripeté il giovane, intanto che si piegava per inserire la videocassetta e premeva i pulsanti per riavvolgerla.
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Rimasero in silenzio alcuni secondi, intanto che il videoregistratore, di un modello un tantino vecchio, faceva il suo lavoro. Enoch rimase chino per alcuni secondi, prima di decidersi a rialzarsi. «Certo che… “Jumanji”». «Non dirmi che lo trovi troppo infantile». «No, no, macché. Ma mi aspettavo qualcosa tipo “Il dottor Zivago”». «Non ci contare. Quello l’abbiamo già visto. Beh, almeno in parte». «Sei stata tu a insistere per vederlo». «Sì, e sono stata io a insistere per portarmi dietro il bottiglione dello spumante.» Lilli aggirò il divano, in modo da potercisi sedere «Sono cose che non si conciliano l’un l’altra». «Hai fatto tutto da sola.» Enoch andò a sedersi al capo opposto del divano «Ma dimmi subito se vuoi addormentarti di nuovo. Giusto per sapere se devo prendermi una sedia». «Nono, stavolta resisto!» esclamò con una piccola risata, alzando una mano come in un voto solenne «Che poi quella volta non mi ricordo proprio di essermi addormentata. Sei sicuro che… Che non ci siano stati contatti, insomma?». «Cos’è, alla fine ci credi anche tu?». Lilli prese tempo: alzò gli occhi al soffitto, rincantucciandosi nel suo angolino sicuro. «Meglio aver paura che toccarle, si dice» gli rispose infine, preferendo tenersi sul vago. «Che toccarmi, direi. Comunque no, ti ho detto che ci sto attento. Ora ti senti più tranquilla?». Lei rise ancora, di un riso inquieto. «Sì. Tranquillissima». Stette in silenzio ben cinque secondi, prima di riattaccare. «Non ti sei mai chiesto che potremmo esserci sfiorati senza essercene accorti, però? Che io potrei essere… Condannata già da tempo e non lo sappiamo? Magari da quella volta della finestra, addirittura». Enoch sospirò, allungandosi per raggiungere il telecomando del videoregistratore sul basso tavolino posto davanti alla televisione. «Me lo sono chiesto.» ammise, senza fare una grinza «E mi sono risposto di no. Me ne sarei accorto, ne sono sicuro». «Sei sicuro? Insomma-». «Avere un contatto fisico con te è una cosa che desidero troppo perché me ne possa lasciar sfuggire uno». Lilli si ammutolì, prendendosi le mani l’una nell’altra, abbassando il capo imbarazzata. «E poi anche se fosse, ormai non potremmo più farci nulla, per cui è inutile star sopra a pensarci.» proseguì lui, sistemandosi più
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comodamente sul divano «Questo anche per cambiare discorso. Se invece che “Jumanji” avessi scelto un piastrone romantico di cinque ore sarebbe stato diverso, ovvio». «Oh, consolante.» disse Lilli, riprendendosi «Devo tenerlo in considerazione per quello che ci guarderemo dopo?». «Ne vuoi guardare due?». «Se ci resta la voglia.» la ragazza fece spallucce «Mi piace la tua logica, comunque. Menagrama, ma non riesco a darti torto». «Già.» si piegò in avanti per recuperare anche il telecomando del televisore, di cui si era dimenticato «Ma se scoprissi che fosse successo come la prenderesti?». «Ti manderei al diavolo!» rispose, ridendo «Anzi, nel dubbio ti ci mando subito, iettatore!». Non fece accenno a un malsano rigoglio sorto da dentro che aveva sorriso a quella prospettiva, affogandolo prontamente nella sua stessa risata. 29- Sessantatreesimo giorno, Mercoledì Lilli spalancò la portiera della macchina, con l’ombrellino ancora aperto in una mano, già infradiciata dalla testa ai piedi solo per averlo abbassato per mezzo secondo, e si scaraventò all’interno. Chiuse l’ombrellino con un urletto, sporgendosi poi il minimo indispensabile per ritrovare la maniglia dello sportello e tirarla a sé. Il muggito del diluvio la raggiunse anche all’interno dell’abitacolo, mentre si districava alla meglio tra la borsa, le cinture e tutto il resto. «Ma porco cane!» imprecò come prima cosa «Sei tu che fai piovere, almeno ammettilo!». Enoch, che era schizzato come una molla nel vederla salire in macchina a quel modo, si rilassò e le rivolse un’occhiata superficiale. «Buongiorno anche a te, Lilli» disse, con un sospiro. «Buongiorno un cacchio.» sbottò lei «Non vedi che schifo di tempo?». «Effettivamente è un po’ orrendo.» rispose il giovane, girando la testa per guardare fuori dal finestrino tempestato dalle gocce fittissime «Solo che ormai è la norma, visto che va avanti così da venerdì sera». «Appunto, da quando sono uscita con te». «Vero.» riconobbe Enoch, mentre rilasciava piano la frizione e schiacciava l’acceleratore «Peccato che io non sia un mago della pioggia, però».
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«Avrai fatto incacchiare il Nettuno gigante che sconvolge la spiaggia, allora, che ti devo dire?». Enoch la studiò con viva perplessità mentre lei apriva la borsa e tirava fuori libri e quaderni in quantità industriale. «Tutto bene?» le domandò. «Proprio per nulla. Guarda qua, tutte le pagine umide!». «Tutte? Per due go-». «Come sono in viso?» lo interruppe lei, voltandosi di scatto a fissarlo. «Ma…» balbettò il giovane, confuso «Come vuoi essere?». «Non lo so, mi si è rovinata la matita? Sono orrenda? Sul serio! Anche i capelli, si sono impiastricciati tutti?». Lui la guardò di nuovo, sbigottito. «Nnno, sei sempre tu» rispose, dopo qualche esitazione. «Vuoi dire che non somiglio a… A un panda o a qualche bestia strana? O a un leone, magari un po’ spelacchiato?». «A me sembra la tua solita faccia. Un po’ più sballottata del solito, ma quello dev’essere un effetto passeggero». «Sballottata? Che vuol dire sballottata? Faccio schifo?». «Mannò! Volevo dire-». «E muoviti con questa macchina, vuoi anche farmi fare tardi? Già è tutto così incasinato!». Enoch diede una sbirciata all’orologio digitale sul quadro. «Lilli, sono le sette.» disse, cercando di calmarla «L’esame c’è alle nove, mi hai detto». «Tu non sai, tu non sai! E se comincia mezz’ora prima?». «Ma al più tardi alle otto siamo lì, figurati! Stattene buona, perdio!». Lilli si zittì, o più che altro mise su il broncio, alzando appena le mani e accavallando le gambe. Enoch sospirò più pesantemente, piantando la testa tra le spalle. Dopo un paio di minuti di totale silenzio, la vide estrarre un quaderno dalla borsa e aprirselo sulle ginocchia. Aspettò ancora qualche secondo, seguendo distrattamente i movimenti degli occhi della ragazza lungo le righe scribacchiate. «Almeno ti senti preparata?» le chiese, col tono più dolce. «Un cazzo.» rispose seccamente lei, senza alzare il viso dagli appunti «Mi boccia di sicuro, me lo sento». «Ah, ecco.» disse Enoch «Ora sì che il discorso mi torna». Il corridoio dello studio era stretto, qualcosa di simile a un budello scavato nella roccia, con quella calca di ragazzi che occupavano le due o tre sedie disponibili, tutti gli altri in piedi, l’uno di fronte all’altro, conto la parete. Lilli gli rivelò che le ricordava quello che i condannati a morte percorrono per arrivare alla sedia elettrica, tipo il miglio
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verde di King. Ad Enoch veniva in mente qualcosa di affine ma sensibilmente diverso, come la coda per le docce a gas dei nazi o il muro contro i quali avvengono le fucilazioni. Questo, almeno a giudicare dalle espressioni delle più disperate - perché si tratta sempre di ragazze - che facevano dondolare le gambe accavallate o, rannicchiate per terra, passavano e ripassavano sulle solite pagine del quaderno, tenuto aperto a cinque centimetri dalla faccia, al punto che anche girar pagina era un problema considerevole. Lilli era una di quelle. C’era una ressa da concerto. Enoch non si avvicinò nemmeno abbastanza per riuscire a contar tutte le teste, quali più alte, quali più basse, che scorgeva nel corridoio. E l’esame sarebbe cominciato un’ora dopo. «Tranquillizzati, almeno tre quarti di quelli che vedi se ne andranno appena comincerà l’esame.» lo rassicurò Lilli, quando lo vide guardarsi attorno con timore «Ti spiego, agli esami ci si iscrive via internet: vai sul sito, inserisci nome, cognome e matricola e ti segni. Solo che i professori non si preoccupano di suddividere fin da subito gli studenti attraverso più giornate. No, ti tocca venire qui il primo giorno, aspettare che facciano l’appello e decidano quando ti tocca. Così magari ti alzi alle sei di mattina solo per sentirti dire di tornare una settimana dopo. Un sistema molto funzionale, vero?». «Non troppo, mi pare.» rispose Enoch, poco convinto «Quindi vuoi dire che siamo venuti fin qui per niente, forse?». «No, ma solo perché mi sono iscritta subito il primo giorno disponibile. Oddio, c’è gente che si è iscritta ventitre secondi dopo che hanno aperto le liste, ma da quel che ho visto sono sesta. Dovrebbe toccarmi in mattinata.» fece una pausa, inspirando un filo tremulo d’aria «E questa è l’ultima cosa che voglio, adesso. Posso tornare a casa?». Il giovane le gettò un’occhiata; lei guardava fisso davanti a sé. «Ripassa, che è meglio» e andò a cercarsi un posticino discosto. Si piazzò vicino a una fotocopiatrice, col giubbotto schizzato di pioggia tra le braccia e una bacheca con le foto di una festa per una professoressa dal cognome francese, docente di chissà quale materia, contro le spalle. Lì trascorse buona parte della mattinata, quando Lilli non gli veniva vicino, solo per ripartire un attimo dopo, domandare qualcosa agli altri in attesa, aprire un quaderno e ritornare. Enoch ebbe tutto il tempo per focalizzare le propria attenzione su quello che nelle foto sembrava un portinaio, con i capelli bianchissimi sparati, gli occhialoni spessi da civetta e un sorriso sottile, sempre lo stesso, sia davanti alla porta che con la sua
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fetta di torta paradiso nel piattino. Poté anche provare a fare un ragionamento per capire chi fosse la professoressa straniera, dal momento che non c’era una faccia che si ripeteva con insistenza. Alla fine stabilì che era quella col foulard, accessorio che doveva appartenere per forza a una francese già avanti con gli anni. Un po’ come dire che tutti i siciliani devono girare con la coppola in testa, più o meno, ma non se la sentiva di chiederlo a Lilli. Come il professore si presentò, fu come se un toro inferocito fosse comparso all’ingresso: partirono tutti, anche facce che non si erano mai viste, andando a premersi l’uno contro l’altro, il più vicino possibile al suo studio. Enoch, per non finirci in mezzo, indietreggiò, rischiando di infilare un piede in un cestino della spazzatura. Pur da laggiù, riusciva a scorgere un riquadro della testa di Lilli, che ogni tanto si sollevava sulle punte per guardare oltre la spalla di quella specie di Primo Carnera che le ostacolava la visuale. Durante l’appello, la sentì effettivamente chiamare per sesta. Cercò anche di tenere il conto di tutti gli altri iscritti, ma al trentesimo il professore si inceppò e fece un paio di correzioni, mandando a pallino il suo tentativo. Lo colpì anche uno che si era iscritto col nome “Il dito di Dio” e che adesso doveva esser lì da qualche parte a sghignazzare di nascosto, alla faccia della paura di essere rimandato. Poi il professore se ne tornò con la lista nel suo studio e ne emerse solo dopo cinque minuti, in cui arrivarono anche alle orecchie di Enoch tutte le previsioni e i sondaggi che riuscirono a mettere in campo tra tutti. Quando uscì e comunicò fino a quale nome si sarebbe spinto nelle varie giornate, tutti cominciarono a borbottare tra loro, dal momento che, a parte quelli tirati direttamente in causa, nessuno doveva averci capito granché. Quindi il primo, il classico tipo con la faccia da bravo ragazzo, anche fin troppo buono, tipo immacolatamente viscido, venne invitato ad entrare e la lista venne lasciata appesa fuori dalla porta. Per due minuti, quello stormo di studenti e presenti tali arrivò a confinarsi in un numero irrisorio di metri quadrati, prima di cominciare ad allontanarsi alla sparuta. Enoch provò a distinguere qualcuno più allegro, quel “dito di Dio” che doveva essersi goduto il suo momento di gloria anonima, ma non ne notò nemmeno uno che stesse sorridendo. Alla fine, riemerse anche Lilli, aprendosi la strada tra la folla con le mani protese in avanti che si allargavano quando c’era spazio, come se nuotasse a rana. «Sesta.» confermò, facendosi vento con il quaderno «Stamattina».
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Enoch annuì sbadigliando: aveva riguadagnato pienamente la sua posizione e se ne stava con un gomito sulla fotocopiatrice e le spalle al muro, messo bene per un mezzo pisolino. «Vuoi che ti aiuti a ripassare?» le propose, con un occhio solo aperto. «Aiutarmi?» gli fece eco lei, dubbiosa «E come fai? Già hai gli appunti bislacchi di quell’altra roba, questa poi non l’hai mai fatta…». «Mi dai un libro in mano e parli. Magari io ti faccio qualche domanda, ogni tanto. Non è così che si fa?». Lilli arrotolò il quaderno come una pergamena, restando con le labbra cucite e un’espressione incerta sul viso. «Boh, proviamo, se te la senti.» gli concesse infine, con una nota di rassegnazione «Tanto ormai sono condannata, che cambia?». «Ma finiscila. Dai, passami un libro». Non durò poi molto, ma neanche pochissimo. Lilli, dopo aver tentennato per qualche minuto, attaccò con una filippica che non coincideva con le pagine che gli aveva dato, ma il giovane riuscì in qualche modo a ritrovarlo, guidato più che da altro dalle miriadi di annotazioni a margine dei segni dell’evidenziatore. Parlò a raffica, facendo solo pochissime pause, in cui portava il dito indice alla bocca e ce lo teneva per alcuni istanti, prima di ricominciare a farlo svolazzare per il corridoio in un nuovo discorso. Enoch riuscì a farle qualche domanda, nello specifico qualche data pescata qua e là, qualche nome, qualche teoria scritta in grassetto o in corsivo, in mezzo al testo. Gli sembrò che fosse preparata, anche se ogni volta che si bloccava sembrava in procinto di scoppiare in una disperata crisi di pianto. Lui, da parte sua, non è che sapesse bene neanche cosa dirle, visto che non aveva mai sostenuto un esame: non sapeva, di fatto, se quello che a lui sembrava sufficiente lo era anche per un professore universitario. Finì che Lilli si riprese il libro, dichiarandosi spacciata, senza possibilità di cavarsela. Enoch la lasciò fare, ritirandosi buono buono nel suo dominio, appoggiato alla fotocopiatrice. Da lì vide anche di peggio, d’altronde. Una ragazza seduta, china in avanti come una moribonda, tenne il libro aperto sulla solita pagina almeno un quarto d’ora. Scorreva una riga con gli occhi e muoveva le labbra, poi alzava gli occhi, provando evidentemente a ripetere, solo per riabbassare la testa in un impeto di sconforto, sbattendosi il libro sulle ginocchia. Gli parve persino di scorgere il luccicore delle lacrime nei suoi occhi. Un’altra litigava aspramente, seppur a voce bassa, con una sua amica, rivendicando la sua totale ignoranza sul terzo capitolo di un saggio, e faceva avanti e indietro mentre lo ribadiva, gesticolando, sgranando gli occhi, a volte spalancando le braccia come durante la
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scena madre di una tragedia eroica. Enoch scuoteva la testa, non visto, e qualcun altro lo imitava, rivolgendogli un mezzo sorriso comprensivo. Alle undici e cinque, dopo tre promossi e due bocciati, l’uno consecutivo all’altro, toccò a Lilli. Lui la sentì chiamare e la vide partire a razzo, raccattando la borsa in un baleno. La vide voltarsi a fissarlo con un’espressione volutamente senza speranze, mentre si dirigeva spedita verso lo studio. Alzò appena una mano quando lei ormai si era già voltata, giusto per chiederle se voleva che l’accompagnasse anche dentro, ma gli mancò l’iniziativa e non aprì bocca. Senza contare che avrebbe dovuto scavalcare un po’ troppe gambe per entrare anche lui. Rimase fuori, quindi, staccandosi almeno dalla fotocopiatrice, col giaccone piegato sul braccio. Iniziò così un’attesa modello sala parto. Dapprima rimase fermo, intercettando lo sguardo di quanti avevano capito che era venuto fin lì solo per accompagnarla e lo fissavano incuriositi, senza però dirgli nulla. Poi prese a passeggiare nel suo metro-un metro e mezzo di isolamento, tenendo le orecchie ben dritte per captare qualche segnale dall’interno, ma l’unico rumore che colse fu quello delle sue stesse scarpe che si posavano e si staccavano dal pavimento. Dopo una decina di minuti, udì la voce del professore alzarsi quasi in un urlo: un verso improvviso e indecifrabile, che fece alzare il viso di tutti quelli nel corridoio, anche se non si capiva se era di delusione o di soddisfazione, l’accenno di una risata o uno starnuto fragoroso. Tentennò per qualche minuto ancora, quindi al secondo (o a quello che sembrava un secondo) si diresse verso la porta, evitando stinchi, piedi e caviglie in ampie falcate, come un saltatore di ostacoli. Si fermò con la spalla appoggiata alla porta, proprio contro la lista, e riprovò, da lì, ad acchiappare qualche brano di conversazione, di nuovo senza riuscirci. Di preciso, non sapeva neanche dire se Lilli stava parlando, perché anche quando lo faceva gli pareva che tenesse la voce bassissima, come se si stesse confessando, e l’unica cosa che gli arrivava distinta era il commento del professore, ovattato, distorto. Guardò i ragazzi seduti davanti alla porta, chiedendo loro con un cenno del capo se sapessero qualcosa; quelli gli risposero con delle deboli scrollate di spalle. Rimase lì fino a quando non realizzò che non ne avrebbe cavato un ragno dal buco, quindi rifece tutto il percorso all’indietro, con la solita attenzione, e cominciò a grattarsi la testa. Poi di nuovo lì, scavalcando ancora stinchi, piedi e caviglie. E sentì infine il peso di una mano sulla maniglia, questa che si abbassava. Lilli comparve sulla soglia, ansimante, travisata. Enoch
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fece un passo indietro, per sicurezza, evitando miracolosamente uno scarpone. «Venticinque» fece la ragazza in un soffio, prima che lui le avesse ancora chiesto qualcosa. Diedero insieme in un ululato sommesso di esultanza, che costò loro un’occhiata tra il perplesso e il seccato del professore, che si era affacciato alla porta per chiamare lo studente successivo. Poi di corsetta, non sapevano neanche bene come, col libretto ancora in mano, stretto tra i polpastrelli umidi perché sul braccio c’era già caricato il cappotto e la borsa, con l’unico bottone, anche troppo sgargiante, rimasto slacciato a forza di aprirlo e chiuderlo davanti alla scrivania. Trotterellando giù dalle scale tra risate d’onnipotenza e gesti d’esultanza, con la smania, l’euforia, che viene, che passa, che dura solo cinque minuti, che te la scordi subito, proprio come per un attimo riesci a scordarti di tutto il resto. Fermi davanti a un distributore automatico di bibite e snack ad alto contenuto proteico, perché Lilli si era ricordata di colpo di aver fame, abbastanza da non riuscire a raggiungere il bar, che eppure era proprio davanti all’ingresso del palazzo della facoltà. Pacchettino di wafer, bottiglietta d’acqua, il Kit Kat da far scivolare nella borsa, per dopo, e lì dentro urtare il cellulare, ricordarsi di dover chiamare i genitori, o almeno la mamma, che ci teneva. Raccontarle l’esame nei minimi dettagli, prima a lei che a lui, tirandola lunga per un’infinità, senza neanche accorgersi di quanto quel poveraccio si sta rompendo e si è già rotto prima, almeno fino a quando non cade la linea o finiscono i soldi, non importa come mai. E rimettere il telefonino in borsa e trallallà con la lingua, camminando e dondolando la mano, come se tra le dita stringesse la sua e la sollevasse in alto, e poi in basso, e poi di nuovo in alto, a far finta di poterlo fare, prima di un bacio sulla guancia, o anche sulla bocca, comunque casto, felice. Enoch la guardava dal suo metro abbondante di distanza. C’era e non c’era, come la sua ombra; proprio come si era abituata a quella, così le sembrava naturale che lui fosse lì, in quel modo, con quelle circostanze sue, e solo sue. «Beh, adesso non c’è più bisogno che tu mi racconti come ti è andato, l’esame.» disse il giovane, con le mani affondate nelle tasche del giaccone «Mi è bastato sentire la telecronaca che hai fatto a tua madre». «Scusami.» ribatté lei, abbozzando una risata e scansando la ciocca, sempre quella, dietro l’orecchio «Sono i vincoli familiari, sai. Ma avrai modo di risentirla, tranquill0. Tuuutta la telecronaca, tutta tutta, almeno tre o quattro volte».
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«Oddio, se ci tieni. Se non c’è scampo, ecco». «Antipatico e carogna.» fece lei, incrociando le braccia risentita «Basta, non ti chiederò più di accompagnarmi agli esami». «No? E dire che ti ho portato anche fortuna». «Non attaccare con questa solfa, che sono superstiziosa. Solo perché hai assistito a un miracolo non puoi pretendere…» Lilli alzò gli occhi al cielo, stupita «Ma ha smesso di piovere?». «Dal momento che non abbiamo l’ombrello aperto…» replicò Enoch, alzando a sua volta un’occhiata verso le nuvole che andavano lentissimamente dissipandosi «Come lo chiami questo?». La ragazza abbassò il viso sul suo, con aria interrogativa. «Un altro miracolo?» le suggerì lo stesso Enoch, aprendo le braccia. Lilli stiracchiò un sorriso sarcastico. «Cammina, mago della pioggia.» disse, facendogli cenno di non fermarsi «E, già che ci sei, dì alle tue sorelle nuvolette di non scoppiare in rovesci improvvisi almeno per un’oretta». Il giovane chiuse un occhio e storse la testa. «Non so mica se mi danno retta» bofonchiò, allentando la sciarpa per grattarsi il collo. «Beh, sarà meglio per loro che se ne stiano buone, visto che devi portarmi in Passeggiata a fare una bella vasca e magari anche a prendere due bomboloni belli caldi, appena fatti, come si conviene a tutti i bravi fidanzatini. Mmm, non senti l’odorino che si spande soave nell’aere mattutino?». «Lilli...» Enoch corrugò la fronte, preoccupato. «Aere» ripeté lei, prendendo a sghignazzare tra sé. «Lilli» incalzò il giovane, con più convinzione. «Eh, no, non cominciare. “Lilli”. “Lilli”. Con la voce che si alza un pochino per volta, piantala pure. C’è la solita gente dell’ultima volta, con la differenza che ha appena piovuto, c’è ancora un tempo mediamente da schifo e non è ancora iniziato il secondo semestre. Quindi - anzi, ergo, dato che stamattina sono poetante - ce ne sarà addirittura meno.» fece una pausa, quanto le bastò per rivolgergli un’occhiata particolarmente comunicativa «E se non ti va, ti butto nel coso… Nel… Dammi una forma poetica per “fiume”!». Enoch abbassò la testa, mentre le sue labbra sfociavano, senza volerlo, in un sorriso alleggerito. «Rivo» le rispose infine, rialzando gli occhi. «Ecco!» concordò lei, annuendo «Ti butto nel rivo. Anzi, in lo rivo ti scaglio, senti qua come suona già meglio. Dai, altrimenti che trottolino amoroso du-du-da-da-da sei?» e prese da subito a destra,
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per affacciarsi sul lungofiume, allontanandosi così dalla solita piazzola, oltre il vicolo dei gatti, dove avevano lasciato il Peugeot. Affrontarono assieme il solito vento, quello che non strappava le cartacce da terra solo perché erano troppo bagnate, saltando le pozzanghere dove affogavano le cicche delle sigarette e galleggiava un grume di cellophan, tutto raggrinzito. Attraversarono la strada eccezionalmente sgombra, anche per una giornata di quel genere, tanto che Lilli ebbe la tentazione di fermarsi a metà delle strisce pedonali e di restarci ad aspettare che passasse una macchina, una che una, solo che scorse subito un pullman sull’altro ponte e desistette fin da principio. Enoch camminò rasente il muro, quello su cui a primavera avrebbero già potuto vedere gli studenti seduti a gambe incrociate, con la schiena contro i lampioni, o più comodamente sdraiati, magari con la testa sulle gambe della propria ragazza, o sullo zaino, con la musica nelle orecchie e gli occhiali da sole. Lui di questo non se ne curava, era roba che poteva esser venuta in mente solo a Lilli, che non era così estranea a quella vita, così fuori dal mondo come a tratti sembrava essere il giovane. No, Enoch faceva camminare le dita su quel muro levigato da pioggia, zaini e sederi studenteschi, e guardava il fiume, il suo colore giallastro, tipo zuppa di fagioli, talmente gonfio che quasi lambiva i ponti, con il suo carico di legna e sterpi che si ammassavano ai piloni di pietra o lungo gli argini, durante il loro tragitto verso il mare. «Che guardi?» gli domandò Lilli, sollevandosi sulle punte per poter sbirciare anche lei al di là del muro. Enoch scrollò le spalle, distogliendo per un attimo lo sguardo. «Non ti è mai capitato di chiederti dove vadano a finire quei tronchi?» disse, voltandosi verso di lei. La ragazza posò lo sguardo su uno di essi, il più vicino, stringendo le labbra. Non gli diede una risposta. «O quel groviglio di sterpi là, uno qualunque. Guarda, in quello ci è finito in mezzo anche un flacone di varichina» e tese un dito per indicarlo. «Beh, comunque mi pare logico dove vanno.» rispose finalmente Lilli «Finiscono in mare. Se non rimangono incagliati in un’ansa, il che è più probabile, o qualcuno si degna di pulire questo pattume di fiume». «Ma se togliamo queste possibilità,» proseguì lui, riprendendo a camminare «vanno in mare. Ma dove, in mare?». «Dove, in mare…» Lilli accennò due gesti impreparati «In mare! Se tu raggiungessi la foce del fiume, lo vedresti».
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«Li ho visti, li ho visti. Mi è capitato una volta, come per sbaglio. Ma intendevo… Se uno di questi tronchi, o quell’ammasso di sterpi, raggiungono il mare, cosa ne è di loro? Tu e ne stai sulla riva, lontano, e li vedi sospingersi in avanti, a fatica; diventano sempre più piccoli, sino a quando - anche se tu da quella riva ti sei ormai allontanato - non potresti più vederli. E poi?». «E poi cosa?». «E poi che fine fanno?». Lilli sorrise, sistemandosi meglio la borsa su una spalla. «Beh, prima o poi andranno a fondo» gli rispose. Enoch si zittì. Gettò solo due occhiate al fiume, finendo poi per concentrarsi solo sul marciapiede. Lilli teneva la testa piegata di lato per guardarlo in viso, divertita da quell’intermezzo. «Aveva un senso questa digressione sul fiume sporco?» gli domandò, col suo sorriso sereno, senza pensieri. Il giovane accennò una risata debole, un po’ imbarazzata. «Pensavo a quando questi tronchi si inabisseranno.» disse, passandosi una mano tra i capelli corti «Quei pochi che arriveranno al mare, eh. Forse nessuno, a ben vedere». «E allora?» lo incalzò lei, ricambiando la sua risata. «E allora…» Enoch sollevò il viso, incerto «E allora pensavo che siamo un po’ tutti come quei tronchi lì. Andiamo avanti, fino a quando nessuno si accorge più di noi. Lentamente, silenziosamente, fino a quando non ci inabissiamo, da soli, con un’ultima scossa, in mezzo al mare quieto, indifferente». Lilli lo fissò. Alzò il suo sopracciglio, perplessa, prima di abbassare la testa, persino un poco inorridita. «A te fa male accompagnarmi agli esami» commentò soltanto. «Dici?» fece lui, sorridendo. «Assolutamente. La sveglia troppo presto non è salutare, per te». «Ma va, per due discorsi senza senso». «No, no, voglio dire, il loro senso ce l’hanno. Solo che spiazzano. Mettila come vuoi, ma spiazzano». Enoch la guardava. Sorrideva, con quella sua aria pacata. «Sei gentile» le disse. «Perché?» domandò Lilli, stranita, più un’esclamazione che altro. «Perché mi hai corretto. Hai detto che quel discorso aveva un senso. E’ una cosa gentile». Lei ritornò a sorridere piano. «E’ una cosa giusta, se posso correggerti di nuovo» ribatté. «Tutte le volte che vuoi.» le garantì lui «Ma se mi dici così, mi sento libero di aggiungere un’altra cosa a quel ragionamento di prima».
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«Madonna, ho scatenato un mostro.» disse lei, ridendo «Che cosa, dai, sentiamo». Enoch allargò il proprio sorriso, girando per un attimo la testa all’indietro. «Hai presente quegli sterpi col flacone? Ecco, pensavo… Pensavo che prima o poi uno dei due scivolerà via, probabilmente il flacone, e andrà a fondo per primo, mentre gli sterpi andranno avanti ancora un po’ per la loro strada. Ecco, è il solito destino per entrambi, ma non… Quegli sterpi, insomma, quel groviglio di rametti che si sarà ormai allentato e sfaldato, si accorgerà di quel flacone che scivola tra le dita, lo sentirà sino all’ultimo al suo fianco, tra le sue braccia scheletrite. Gli resterà vicino, fino al suo abbandono». Lilli lo seguiva con lo sguardo, faticando a tenere il filo, ma attenta, per ragion di cose più di quanto lo sarebbe stata se l’avesse sentito dire ad un’altra persona. Il ponte tagliava l’aria a metà, coi suoi sacchi appesi di lato per via della piena. «Un conto è andare alla deriva da soli.» proseguì Enoch «Un altro è farlo assieme a qualcuno, almeno finché ci è concesso. Più o meno è questo che-». «Va bene così.» lo zittì lei, alzando la mano come per fare il gesto di posargli un dito sulle labbra, che restavano però distanti, un centimetro o un metro «Non c’è bisogno d’altro». Salirono sul ponte deserto, finendo inevitabilmente per guardare la melma giallastra più prossima del solito, mentre facevano scorrere un palmo sul corrimano; nel solito punto in cui aveva toccato una passava anche l’altro. Arrivarono all’incrocio immediatamente successivo, si fermarono per abitudine al semaforo rosso, prima di attraversare di nuovo e battere con le suole le piastre secolari bagnate, inscurite. «Su quel ponte la volta scorsa ci ho urtato una vecchietta» mormorò Enoch, le mani in tasca, la testa incassata tra le spalle per via del vento che ancora riusciva a soffiar loro addosso. Lilli si fermò per un attimo, il tempo di guardarsi indietro. «Hai ragione.» disse, socchiudendo gli occhi «Anche se io non l’ho nemmeno vista». «Neanch’io, a dir la verità.» il giovane scosse il capo «Cerco di badare il meno possibile alla gente, specialmente quelli che tocco. Meno so di loro e meglio sto.» si interruppe, guardando la ragazza «Tutto il contrario di quello che fai tu, insomma». «Io bado alla gente?» gli domandò Lilli, colpita.
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«Tu ci entri dentro, alla gente.» precisò lui «La fissi, ti immagini quel che fa, quel che farebbe. Poi se incontri uno che non sai spiegarti, tipo me, lo tartassi per capirci qualcosa». «Devo esserti sembrata odiosa» disse lei, abbassando la testa, senza cercare di negare la propria colpevolezza. «Tutto fuorché odiosa, Lilli». «Sì, ma che vuol dire, poi? Tu ti accorgi di tutto, meglio di me, e non provare a nasconderlo! Come fai a dire che te ne freghi della gente?». «Io mi accorgo solo di quello che è necessario per il presente. Non ho nessuna intenzione di soffermarmi su qualcuno, sapere chi è, quello che fa, quali pensieri ha nella testa per poi magari spazzarlo via, un giorno, e restare solo col suo ricordo. E questo lo faccio per la sopravvivenza mia, non altrui». «Allora in qualche modo ci tieni a te stesso, eh? I rimorsi non bastano a stenderti?». Enoch allargò per un attimo gli occhi, inspirando a fondo. «Purtroppo no.» rispose, d’un fiato «Non che cambierebbe qualcosa, se mi levassi di torno, probabilmente da qualche parte ne nascerebbe un altro. Ma per me stesso, sì, a volte penso che sarebbe meglio». Lilli si fece più scura in viso, mentre al contempo una sottile ruga di preoccupazione trovava posto sulla sua fronte liscia. Le sembrava che la stessero mettendo gratuitamente sul tragico, di botto, e questo non era affatto nelle sue intenzioni. Per quello fece sparire la rughetta e riprese la parola, tenendo la voce alta. «Ma anziché seppellirci da soli in un cimitero, non potremmo ricordarci del mio bell’esame brillantemente superato? Cavolo, lo so, non è il voto più alto del mondo, ma io ero già rassegnata a ridarlo!». «Vero, vero.» ribatté Enoch «Dov’è che fanno i bomboloni?». Trecento metri più avanti, un bar stretto stretto, senza neanche uno straccio di sedia, neanche uno sgabello. Per i bomboloni avevano sistemato un banconcino grazie al quale uno poteva ordinare stando in strada, senza mettere piede all’interno. Una di quelle modeste delizie mordi e fuggi, tanto per inzuccherarsi la faccia intanto che ci si dirigeva in facoltà, magari con un gruppetto di compagni. Solo che ci sarebbe voluto un terzo miracolo, quella mattina. Lo trovarono chiuso, con la saracinesca abbassata e neanche un avviso, un orario, niente. Lilli partì con una sequela di improperi, inviperita, scagliando maledizioni a gogo inventate sul momento. Enoch la convinse a continuare la passeggiata, offrendosi anche di infilarsi in uno di quei locali dove a stento c’è posto per un paio di piedi, dicendo che avrebbe fatto attenzione. Lilli però non sarebbe arrivata a questo, oltretutto per una brioche e un cappuccino. D’un tratto, gli impose di
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fermarsi, e c’era talmente poca gente in giro che a quelle parole tre o quattro persone le rivolsero un’occhiata. «Mi ero dimenticata di questo.» disse, estraendo dalla borsa il Kit Kat ancora intatto e sempre fresco di distributore «Facciamo a metà?». «L’hai preso per te.» le fece notare lui «Non so se-». «Te lo sto offrendo, zuccone. Con questo risolviamo anche il problema della colazione, almeno». «Solo con quello lì?». «La necessità insegna a razionare i viveri» rispose lei, cominciando a scartarlo con entrambe le mani, sino a staccarne una stecca e porgergliela. Enoch fece per prenderla, solo per incontrare un istante dopo la resistenza della ragazza. Sollevò il viso, senza capire. «Spezzalo a metà» la invitò lei, tranquilla, mentre con l’altra mano mimava alla meglio il gesto. Lui non si mosse. Le sue dita presero a tremare. «Ho paura che finirei per toccarti» sussurrò, senza però accennare a mollare la presa. «Con me non devi avere paura di nulla.» Lilli alzò il mento, con il suo sorriso tiepido nel freddo dell’inverno «Un Kit Kat è fatto per essere spezzato da due persone. E’ l’unico modo perché abbia un sapore». Enoch abbassò gli occhi. Erano fermi in mezzo alla strada, con la gente che sfilava pigramente attorno a loro, con tutto lo spazio che volevano. In mezzo a loro soltanto quella piccola barretta ricoperta di cioccolata, su cui poteva scorgere l’impronta del suo pollice, che si era mano a mano spostato su di essa. Fece leva con la mano, senza energia. Il Kit Kat si spezzò, con la sua nebbiolina di bricioline. «Bravo.» si complimentò Lilli, mentre già se lo portava alla bocca, tra i denti «Tieniti pronto, ce ne sono altri tre come questo». Enoch lo guardò per qualche secondo, prima di imitarla con un certo sollievo, senza ancora osarsi di rialzare gli occhi. Per un istante, una frazione infinitesimale di secondo, gli parve la cosa più buona del mondo, abbastanza da fargli bruciare gli occhi. Forse anche prima di sentirlo tra le labbra, per il solo piacere che quella tenerezza gli aveva lasciato. «Avranno anche aggiornato la vetrina degli abiti da sposa.» disse Lilli, con le labbra strette per non far sentire che stava ancora masticando la sua metà di Kit Kat «Ci saranno quelli invernali. Mi piacciono anche di più, quelli, anche se di norma una coppia su due si sposa a maggio o giù di lì. Escono fuori e ci sono tutte quelle altre
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donne col pancione, perché a maggio sono sempre tutte incinte, anche. Dev’essere per quello che si sposano, mi sa». «Ci sono abiti da sposa per l’inverno?» interloquì Enoch, con la testa annebbiata che ritrovava i contorni delle cose. «Beh, diamine, sì. Hai mai visto una sposina surgelata?». «Non ci ho mai fatto caso». «Che poi non è che cambi molto, perché le chiese fanno venire freddo solo quando non c’è nessuno dentro e una si fa una sudata comunque a stare sull’inginocchiatoio. Ti immagini solo il nervosismo? Poi il prete davanti, la parte da ricordarsi, un salame di promesso sposo che sarà più agitato di te…». «Però!» fece il giovane, ridacchiando «Da quanti anni è che ci fantastichi sopra, su ‘sta roba?». «Ma che ne so, sarà dalla nascita o giù di lì! A tre anni già facevo i biglietti per il mio matrimonio, con un nome solo perché mi mancava il moroso!» Lilli smanacciò per un attimo con la mano, prima di porgergli di nuovo una barretta, stavolta senza smettere di camminare «Ti dicevo dei vestiti invernali - che poi ora ci finiamo davanti e li vediamo - sono più pesanti come tessuto, no? Ovvio, dove non lasciano la pelle scoperta, voglio dire.» la barretta si spezzò a metà «Magari ti fasciano con un paio di veli in più, ma quello non mi attira. No, io pensavo a un bustino, stretto qui attorno alla vita.» Lilli si mise la sua metà tra i denti, a mo’ di sigaretta, per poter stringere le mani sui punti indicati «Ma qualcosa di fatto bene, stecche di balena, poi tutto il ricamo bianco sopra, che neanche si vede, almeno da lontano. Poi i guanti, su quelli sono ancora indecisa per la fattura, se devono lasciare le dita scoperte oppure no. Sai, ti sembrerà scemo, ma non ho mai chiesto a nessuno come ci si regola per l’anello, se vanno tolti o no». «Aha» Enoch annuì, non si capiva se ascoltava o meno. «Il velo no, non ci tiro. O forse sì, boh. No, quel che è importante è la mantellina, proprio perché è un vestito invernale. Col decolté sul davanti e quei tre o quattro centimetri di braccio nudo che si vedono è l’ideale.» chiuse un occhio, pensosa «In pelliccia è più bella, c’è poco da farci. Però sintetica, magari… Sono indecisa». «Eh, già, al giorno d’oggi le ragazze sono tutte animaliste». «Le ragazze non lo so: io sì.» puntualizzò Lilli «Il difficile è esserlo fino in fondo». «Appunto». «Dio, ma è un matrimonio, eh!» si oppose lei, come se fosse una giustificazione «Capita una volta nella vita. Oddio, anche due o tre, di questi tempi, ma dopo bisogna andare in comune e… Brutto.» storse
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la bocca, scuotendo il capo per ritrovare un assetto «Poi non so se metterci sotto gli stivaletti, sotto la gonna, sai, tanto per cambiare un po’ e non mettere le solite ballerine. Bianchi, ovvio, fino a metà polpaccio, con un po’ di tacco sottile, da principessa». «E magari un diadema in fronte, eh, principessa?». «Sììì! Me lo faccio fare da un orefice su misura, di quelli bravi!» convenne lei, esaltata «Oro bianco. Anzi, giallo, forse ci sta meglio coi capelli, se il velo non lo metto. O… Boh. Non ci avevo mai pensato, mi hai dato una bella idea. Terzo pezzetto». Enoch lo prese per un’estremità, la strinse, lo spezzò. «Mh!» si ricordò all’improvviso lei, con la sua barretta in bocca, alzando una mano «La mu-» si interruppe, inghiottendo a forza il Kit Kat, praticamente quasi intero «La musica. E’ importante, bisogna decidere anche quella». «Perché?» domandò lui, con meno esuberanza e il dorso della mano davanti alle labbra «Non c’è la marcia nuziale?». «C’è sì, ma la cerimonia è lunga, ce ne sta anche un’altra». «E dobbiamo deciderla noi?» Enoch si indicò con una mano. «Certo! A chi vuoi farla scegliere, al prete?». Il giovane non rispose, anche se non era a quello che si riferiva. «Pensavo di uscire dal classico.» continuò Lilli«Ma senza strafare. Come per gli stivaletti, insomma. Qualcosa che colpisca, ma non dia fastidio, qualcosa di delicato…». «“Ave Maria” di Schubert?». Lilli si voltò a fissarlo, mostrandosi sbigottita per un secondo. «L’hai sparata, vero?» chiese, a bruciapelo. «Assolutamente sì. Perché, ci ho colto?». «No, hai beccato quella che misero i miei». «Che culo» Enoch chinò il capo in segno di apprezzamento. «No, io pensavo a qualcosa di più moderno, proprio. Niente musica classica, tutta già sentita». «Heavy metal o direttamente Marilyn Manson?». «Scemo. No, io pensavo a qualcosa tipo…». Abbassò la testa, con le labbra assottigliate e gli occhi socchiusi, come se si stesse focalizzando su un certo ricordo. Rialzò il viso, quindi, con un’espressione da triglia o da soprano, a scelta. «Onlyyy youuuu!» saltò fuori di botto, facendoglisi quasi vicina. «See, ma per piacere!» fece Enoch, riprendendo a sghignazzare. «Only youuu!» ripeté lei, modificando un poco l’impostazione della voce e facendogli cenno con la mano di andare avanti. Lui si voltò dall’altra parte con una smorfia.
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«Eddai, non fare il cadavere come tuo solito!» lo incitò la ragazza, contrariata «Io ti ridò il tempo, va bene? Onlyyy…». «Via, Lilli». Lei alzò le sopracciglia, con le palpebre mezze abbassate. «Onlyy youuu…». Enoch mugugnò, dondolando la testa da una parte all’altra. «Can make...» riprese la ragazza. «Ma era così che faceva?». Lei scrollò le spalle senza preoccuparsene. «The darkness…». Lui alzò per un attimo gli occhi al cielo. «Bright?» concluse quindi, con un ritardo abominevole. «Only youuuuu…». «And you are gone!». «Alone!». «Cannnn…». Si bloccarono per un attimo, poi Lilli fece un gesto di noncuranza e ripartì. «Only youuu…». «You are my… Deeestinyyy!». «Onlyy youuuu!». «Onlyy youuuu!». «Fooor the truuuth!». «O-o-o-only youuuuu!» «Can make this sciaaabiduuu!». «Sciaaabiduuu!». «The magic that you doooo!». «When you hold my hand…». «I uuunderstand!». «Oddio, poi come cazzo era…». «Sciabiduuu!». «See, sciabidu…». «When you hold my hand, I understand…». «The magic that you dooooo!». «Bravo!». «Youu are my dreeeam come true…». «Come true». «My one…». «And ooonlyyyy youuuu!». «Youuuu!». «Weeeeh!».
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Lilli alzò le braccia in segno di trionfo, intercettando lo sguardo di un passante che veniva in senso opposto, uno di quelli in giacca, cravatta e ventiquattr’ore. Non che si fossero illusi di passare inosservati, né di non aver fatto effettivamente tutto quel casino, ma nel momento in cui uno smette si ritrova sempre un po’ fuori posto. Abbassò le braccia senza smettere di sorridere, proprio perché non gliene fregava niente del tipo davanti né di tutti quelli che potevano essere passati prima di lui. Enoch stava ancora finendo la sua “uuuu” bella lunga, con la bocca stretta per far passare solo un filo d’aria. Quindi, com’era anche giusto, si lasciarono finalmente andare a una risata come si deve. «Alè, vai così!» esclamò la giovane, battendo le mani «Ci siamo sganciati!». «Si dice sganciati, ora?» ribatté l’altro, sardonico «Una volta si usava partiti». «Partiti completamente! Partiti per un viaggio!». «Ah, si viaggia? Dove si va?». «Non importa: siamo partiti, questo conta! A fanculo tutto il resto». «Tu cominci con fanculizzare la grazia principesca?». «Sarò principessa un giorno nella vita, poi stop! Siamo sganciati da tutte le convenzioni di questa società marcia e bacata, siamo al di sopra di essa!». «Siamo in orbita, insomma». «Astronauti in orbita! Che fluttuano nello spazio! Sganciati! Di più! Disincagliati!». Enoch abbassò la testa, sorridendo tranquillo, estraneo a tutte i volti che si affacciavano, credendo di non essere visti, alle finestre chiuse, sulla soglia dei negozi. «In effetti la sensazione è quella, ultimamente.» mormorò, indirizzandole uno sguardo, il suo sorriso «Per te no?». Lilli si voltò verso di lui, con l’aria euforica a malapena mitigata, solo il minimo indispensabile per apparire credibile. «Mi stai per caso chiedendo se sono felice?» gli domandò. «Lo vedo che sei felice. Non ho bisogno di chiedertelo» rispose lui, il suo tono placido, quell’oasi di pace sconfinata che compariva chissà quando, sempre nei momenti più impensati, così velocemente da mozzarle il fiato. «E… E allora?» insistette Lilli, abbozzando una risata. «Pensavo a quell0 che hai detto prima. Lì per lì non volevo far vedere che ci avevo fatto caso». «Tu fai sempre caso a tutto, smettila». «A tutto magari no. A qualcosa sì».
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Lei si fece un po’ più vicina, un po’ più curiosa, perché lui non parlava. «Qualcosa cosa?» gli chiese, tenendolo d’occhio. «Dovevamo prendere due bomboloni come due bravi fidanzatini. Così hai detto.» disse, e per un attimo Lilli intravide un barlume d’angoscia, dietro la maschera incrinata della sua quiete, del suo sorriso conciliante «Fino a quanto scherzavi?». Lei abbassò la testa, incrociò le braccia. Fece due passetti, facendo dondolare le gambe in avanti più del dovuto. «Vuoi sapere se siamo fidanzati?» gli domandò, con una sicurezza che le venne spontanea «Se, beh, a nostro modo tu sei il mio ragazzo e io… Se io sono la tua ragazza?». Enoch rovistò con le mani in fondo alle tasche slabbrate del giaccone. «Senza farla tanto lunga, sì» rispose, con altrettanta fermezza. «Perché?» Lilli non nascose una risata «Saperlo non cambierebbe niente. Non avresti nemmeno qualcuno a cui raccontarlo per vantartene, no?». «Quante coppie hai visto farsi e disfarsi?». La ragazza piegò la testa di lato, sfregandosi un dito sotto il naso. «Quelle di Gloria col suo ganzo settimanale contano?» chiese, senza perdere il buonumore. «Facciamo che Gloria conta per una, va». «Oh, ok, benone. Solo che…» alzò gli occhi al cielo bigio, cominciò a contare sulle dita di una mano «Boh, non ne ho idea. Tante. Ma tante ne ho viste farsi e durare, parecchie durano tuttora». «Prima ti ho detto una bugia.» ammise Enoch, reclinando il capo «Non è vero che non guardo la gente. Ho preso l’abitudine a farlo dopo che ho cominciato a conoscerti». «Wow, ho scombussolato così tanto la tua vita?». «E io no?». Lilli strinse gli occhi. «Passaparola!» rispose quindi, distogliendo lo sguardo. «Mi è venuta la curiosità di guardarmi attorno, di osservare tutte quelle coppiette che si vedono, magari di seguirli per ascoltarli parlare. Ci ho fatto ancora più attenzione quando mi hai trascinato in quel locale, il Lounge». Lilli non accennò ancora a voltarsi. Non voleva dargli l’opportunità di accorgersi che lei si ricordava più del pontile che di altro. Enoch scosse lentamente il capo, fece schioccare la lingua contro il palato. «Non credevo che la gente fosse così sola» disse quindi, con gli occhi puntati davanti a sé, sulla strada umida, sgombra. «Che vuoi dire?» Lilli girò finalmente il viso verso di lui.
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Enoch fece schioccare la lingua contro il palato una seconda volta. «Due persone, un uomo o una donna, giungono a una sorta di accordo, nulla di più, che li porta a stare insieme, a fidarsi l’uno dell’altra; spesso a confidarsi qualche segreto, ma non sempre.» si umettò le labbra, facendo una pausa «Seduti al solito tavolo, faccia a faccia, o stravaccati su quei divani morbidi con qualche amico, qualche altra coppia. Eppure non vedi le loro mani intercettarsi, nemmeno per errore, e i loro sguardi si sfiorano senza malizia, senza un rimando nascosto. Le loro mani, su quei tavolinetti piccoli, quadrati, sono lontane, stanno sui propri polsi, sulle proprie cosce. Si toccano per tenere fermo il braccio di quello che ha l’orologio, controllare l’ora e poi lasciarlo andare, tornare alla fine sui bicchieri pieni di un cocktail alla frutta. Un cocktail alla frutta». Lilli si mordeva piano il labbro inferiore, a stento vedeva dove andava. «E nessuno di loro è come me, nessuno di loro ha nemmeno mai intuito qualche scarna realtà possa guidare le loro vite, decidere per loro, stabilire quando è finito il tempo in cui potranno sfiorare il dorso di una mano o passare il loro braccio attorno a spalle esili, accoglienti. Vanno avanti così, un uomo e una donna soli, sconosciuti, ognuno per sé, con la propria singolare noia, i propri singolari progetti, i propri singolari pensieri. Che si apriranno forse, un giorno, solo perché non si può fare altrimenti, solo perché in quel momento si sente il bisogno di condividerli con qualcun altro e non c’è nessuno di più adatto nei paraggi. E’ questo che ho perso? E’ a questo che devo rinunciare?» guardò Lilli, con gli occhi aperti, quasi sgranati «Dovrei piangere perché non sono come loro, quando loro sembrano affannarsi ad essere come me, che non sono altro che uno sfregio sul volto eterno della vita?». Lei inspirò; fece per alzare il capo, ma poi non se la sentì. «Ho visto soltanto coppie più divise di noi, anche se fra me e te dovesse restare sempre questa barriera d’aria, immensa come un abisso.» ricominciò Enoch «Ho cercato negli occhi degli uomini un bagliore di quello che sento nel mio petto, sulle labbra delle donne un riso come il tuo, così libero eppur congiunto al mio, indiviso a dispetto della natura stessa. Non l’ho trovato. Non lo trovo». Camminarono ancora, in silenzio, lasciandosi guidare dalle gambe, metro per metro. Tacevano, ed il silenzio di lui pareva ancora più reale, più concreto. Lilli riuscì a risollevare il viso. «Perché questa discorso e questa domanda?» gli chiese, dopo aver tirato un sospiro «Non avrebbe influenzato la mia risposta, e lo sai». Le labbra di Enoch ridisegnarono il suo sorriso pacato.
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«Per il bisogno di condividerlo con qualcun altro, magari.» rispose, togliendosi le mani di tasca «Per condividerlo con te, soltanto con te». «Perché sono l’unica che ti ascolta e questo a sua volta perché parli soltanto con me.» puntualizzò lei, ricambiando il suo sorriso «Ti ascolterebbero molte altre persone, molte altre ragazze». «Non servirebbe a nulla, visto che parlerei comunque solo per te». Lilli tirò un altro sospiro. Recuperò le cinghie della borsa con entrambe le mani, se le sistemò sulla spalla. «E va bene.» rispose, avvertendo il respiro farsi più leggero, volare verso l’alto, fluttuare sin nello spazio, come un astronauta «Sono la tua ragazza. Contento?». Enoch allargò il proprio sorriso, la fissò con più intensità. «Contenta?» disse, rigirandole la domanda. Lei abbassò lo sguardo, più impacciata di quanto avrebbe voluto dimostrare di essere. «Era quello che ti avrei risposto fin dall’inizio» ammise, cercando di parere tranquilla. «Lo sapevo anch’io». Lilli rise, d’un riso flebile, difficile da notare. «Davvero?». «Sei passata davanti al negozio di abiti da sposa senza nemmeno notarlo.» le rivelò, fermandosi e raddrizzando la testa e la schiena, intanto che Lilli si voltava di scatto a guardare indietro, stupita «La Passeggiata è finita. Più in là di qui non si può andare». Lilli rise ancora, stavolta con più freschezza, limpida, cristallina. Fece attenzione nell’alzare una mano, andando a stringere un lembo della sua sciarpa, che gli penzolava sul davanti. «Stavolta ti sbagli, mio caro.» disse, arrotolando un penero attorno a un dito «Più in là di qui si può andare e più in là di qui andremo». Enoch dondolò ancora una gamba a vuoto, con le mani che arruffavano l’interno delle tasche, la testa abbassata. Emise lo sbuffo di una risata, raddrizzò il capo, si voltò verso di lei. «La mia ragazza» disse, come se dovesse presentarla a qualcuno. Lei non trovò le parole per rispondergli. E ridevano e ridevano, i cuori alti, traboccanti di felicità, senza orpelli, spontaneamente. 30- Tempo indistinto Ne persero la nozione, in un certo senso. Era come essere appena svegli, ogni giorno, e stentare a dire con esattezza dove si trovavano, che cosa era successo la sera precedente, il pomeriggio, la mattina,
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che cosa sarebbe successo l’indomani. La macchina lasciata sempre al solito posto, il caffè della stessa ora indefinita, il bicchiere d’aranciata dopo troppe chiacchiere, o quando scappava, senza tendere verso alcun dove. Solamente andando. Da quando, fino a quando, e qual era il quando in cui vivevano: tutte nozioni disperse, smarrite lungo la via, lungo i soliti tragitti. In un abbandono al niente, tra le braccia di nessuno. Nella cornice dei giorni nebbiosi, sotto la pioggia, gli spiragli di sole che non duravano mezza giornata, le nuvole pesanti sempre gravide, a volte sbrecciate, a volte no. La familiarità dello zerbino, del campanello che non c’era mai bisogno di suonare, della porta bianca, del viso che si affacciava alla finestra, lo scorcio del sorriso che si intravedeva, i denti candidi che rispondevano gli uni agli altri, i saluti delle bocche che aprivano il loro morbido sipario rosa. I capelli, legati o sciolti o tenuti da un paio di forcine, sempre le stesse alternative, e il piumino verde abbinato con tutto, sempre offeso e vilipeso. Gli stessi gesti per toglierlo, la tensione un attimo prima di rischiare una carezza nel porgerglielo, scattar via, come se non si fosse complici, come se non si condividesse tutto, lontani, vicini, a rasentare la completezza. Ma prima o poi, ma prima o poi va a finire male, per ora chi se ne frega, avanti ancora un po’ e un pop-corn lanciato contro la testa su quel divano impregnato dei profumi della pelle, della crema idratante che lei si metteva ogni tanto, del balsamo per capelli per tenerli soffici. Tre stanze, piccole e pulite, ordinate, con la camera da letto che era una specie di tabù, un richiamo da sopprimere, il suo piumone su cui una volta si era seduta, si era sdraiata, sprofondandovi, e aveva chiuso gli occhi. Le era parso che le coperte si fossero mosse, che avessero solleticato e abbracciato le sue membra, le avessero massaggiato la testa, invitandola a reclinare meglio il capo e sospirare piano, cedevole, come l’animale che va al macello. Aveva sollevato una palpebra, l’aveva visto in piedi, con le ante dell’armadio di legno compensato aperte, eppure voltato verso di lei, con le labbra dischiuse, gli occhi persi. E lei aveva esitato, aveva accondisceso alle richieste che dai cuscini, dalle lenzuola erano scivolate alle sue orecchie, alle sue tempie, alla mente vacillante. Le era sembrato di vederlo chinarsi, aveva richiuso gli occhi. Li aveva riaperti, solo per accorgersi che non si era mosso. Si era rialzata con le gambe un po’ tremule, calzando meglio i talloni nelle scarpe, era sviata verso lo scaffale delle videocassette. Dio, quelle videocassette! Dove vai? Da Enoch? A far che? Mah, non lo so, probabilmente guarderemo un film, magari anche due. E quella povera donna di sua madre che fingeva anche di crederci, le prime
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volte, fino a quando non si mise anche lei a dire che non c’erano più speranze, come suo padre. Prova a spiegarglielo te che finivano veramente per passare mezza giornata davanti a quel video, lui col braccio attorno allo schienale del divano, per darsi e darle l’illusione che la sua testa vi si stesse appoggiando. Seguire un quarto d’ora di trama, sbadigliare, e poi finire a sussurrare piano, come se ci fosse il rischio che qualcuno li sentisse, lui che parlava, a oltranza, che perdeva il filo e lo riallacciava alla meglio, incespicava, taceva, e poi continuava con sprazzi di parole, di sillabe. Lei che ascoltava, in silenzio, con il pollice contro il sorriso timido, da bambina, o con gli occhi che prendevano ogni tanto quella piega triste, per via del taglio, diceva. E si poteva sentire, così vicini, sfiorati dal nulla, il suono, i minuscoli schiocchi che facevano le labbra nello scoprirsi lentamente, nel rendere alla luce il loro tesoro d’avorio, e il battere nell’aria delle ciglia, il loro adagiarsi le une sulle altre, intrecciarsi quando si abbassavano del tutto. I piedi che si muovevano appena percettibilmente nelle scarpe da tennis, negli stivali; fermi a guardare l’arricciarsi del cuoio, anche se erano solo piedi, e dita. Ma tutto l’equilibrio posa su di essi, e sull’incavo della schiena. A metterlo in mostra quando era in piedi, allora, magari davanti allo specchio, per controllare se era vero, e cosa ci fosse di così particolare. Borbottarci qualcosa, non importa se di senso compiuto, tanto alla fine era pur sempre un complimento, si poteva prendere così come veniva. Partire poi di corsa tutti e due, dopo qualche giorno di ozio totale, per approvvigionarsi in videoteca, semmai lasciare lui ad aspettare fuori, se dentro c’era altra gente, saccheggiare tutti i reparti, partendo dai film impegnati, quelli che avevano almeno un oscar o un leone d’oro al loro attivo, passando poi a tutti quelli sentimentali, finire con gli horror più pietosi che si trovavano in circolazione, quelli con in copertina una testa spappolata, roba da ragazzini, realizzati pietosamente male, da guardare obbligatoriamente al buio, poi alzarsi stufati, riprendere l’aranciata e spegnere prima del solito. E di nuovo lì, magari persino perché in una di quelle pellicole da due soldi c’era una scena che doveva essere romantica e, anche se al regista non era riuscito di renderla decente, era uno spunto, qualcosa, per ritrovarsi raggomitolati su quel divano, o magari uno seduto per terra, con la mano posata sul bracciolo e il viso rivolto verso l’alto, in una sorta di abbandono estatico. Perché si poteva parlare di tutto, di un anello da bigiotteria che lei portava al dito, della storia dei suoi calzini, di un ricordo per un programma che facevano in televisione e che avevano guardato entrambi, da bambini. Anche se magari in quel momento non se lo ricordavano nemmeno troppo bene. Non
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importava, era una scusa per avere la possibilità di restar fermi, a ignorare il tempo che scorreva fuori dalla finestra, dietro i vetri appannati, oltre il giardino della casa accanto, la strada. Veniva da ridere persino sulla noia perché non arrivava, non c’erano versi. Anche quando si affacciava, sembrava quasi che la aspettassero, perché diventava un’occasione, un’altra ancora, per ricominciare tutto daccapo, ricominciare a parlare, a ridere, a guardarsi. C’era tanta potenza in quell’illusione da farla sembrare reale, possibile, più di quanto non faccia già l’amore in sé, per sé, mentre chiama a sé e accoglie, rapisce gli uomini, le donne, indiscriminatamente. Superarono la febbre della videocassetta, di comune accordo. Passarono a quelli che chiamano i giochi intelligenti, come se chi si diverte a lanciare una palla e a riprenderla fosse, per antinomia, un cretino. Gli scacchi, che Lilli ripescò in soffitta, dopo averci perso un pomeriggio per trovarli, perché gioco intelligente o no, qualcuno li aveva schiaffati dentro la culla, che era stata anche quella del fratellino. Col telefonino schiacciato tra una spalla e la guancia, ed Enoch dall’altra parte della linea, che non sapeva bene neanche lui che dire, l’importante era non riattaccare, e lei che si scusava, bofonchiava, le urla di sua madre che passavano i muri, ora lo vedrai quando arriva il babbo, e a maggior ragione c’era da trovarli, rimettere a posto e filarsela prima che quello tornasse, altrimenti stavolta si sarebbe incazzato come una bestia. Il cellulare pestò anche tre volte per terra, tra imprecazioni velate e di nuovo sua madre che chiedeva cosa fosse successo, tutte e tre le volte. Infilarsi poi la scacchiera sotto un braccio, partire a razzo e rischiare di fracassarsi giù dalla scaletta coi gradini lisci come il sederino di un bebè, recuperare il piumino con la mano libera, le chiavi della macchina coi denti, defilarsi in una scia di “ciaociaociaociaociao” troncati dalla porta che si chiudeva, ma che durarono ancora un altro po’. Perché era tardi, quasi ventiquattr’ore che non lo vedeva, anche se le era capitato di correre anche di più dopo soli quarantacinque minuti, lasciando sempre sua madre con le mani sui fianchi, la tasca del grembiule da cui usciva uno straccio ricavato da una maglietta. Dovette insegnargli, logico, dal momento che Enoch non ci aveva mai giocato prima. Perché la torre va in verticale e orizzontale, l’alfiere in diagonale, il cavallo fa una L, così, due caselle in qua e una in là e la regina come le pare, mentre il re è un po’ anchilosato, si muove solo di uno. Tranne quando… Il fante di uno, di uno, però mangia storto. Di due alla prima mossa. La prima di tutto, di tutta la partita. Mi pare. Il cavallo la L, quella ricordatela bene, il fante boh, di uno o di due, che vuoi che cambi, si faranno regole casalinghe, i grandi
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giocatori le fanno. Come nel poker. Solo nel poker, forse. Ti dicevo del re, di uno tranne quando è in orizzontale con la torre, quindi… Ma è sempre in orizzontale con la torre, se non muovi nessuno dei due. E uno va qua, l’altra là… La regina come le pare. Ma se può fare la L non lo so mica… Se muove come le pare, d’altra parte! Ma per fortuna era tardi, per il giorno dopo si sarebbero procurati un manuale di istruzioni, completo anche di illustrazioni, magari, perché non ricordava se il re e la regina nemici stavano nella solita colonna, uno di faccia all’altro, oppure no. C’era una ragione se la scacchiera era finita in soffitta, indipendentemente dalla mancanza di istruzioni per l’uso, neanche fosse una lavastoviglie. E così anche il pomeriggio successivo, a reggersi la fronte davanti alle pedine sparpagliate perché qualcosa non tornava, a ricominciare dall’inizio almeno due o tre volte, con in mano un fogliettino con le annotazioni di suo padre, che diceva di saperci giocare, di essere esperto. Poi, improvvisamente, le cose sembrarono incastrarsi al proprio posto, le regole trovarono un senso, cominciarono a non essere poi così tante. Lilli si ritrovò con un dito premuto contro il labbro inferiore, lo sguardo vago che si sforzava di calcolare tutte le mosse, e le sembrava davvero di coglierle tutte. Le proprie e quelle di Enoch. Il che tuttavia non spiegava perché si ritrovasse con le pedine dimezzate. Mosse un alfiere che aveva tenuto sulla difensiva per l’intera partita, facendolo slittare lungo la scacchiera lucida. Vi staccò le dita di sopra solo dopo alcuni secondi, intrecciandole per appoggiarvi sopra il mento. «Ma così me le regali.» disse Enoch, spostando immediatamente dopo la sua regina, che era felicemente sopravvissuta «Scacco». Lilli sollevò la testa, come se l’avessero punta con uno spillo. Fissò il proprio re con aria incredula, poi con diffidenza. Gli occhi saettarono da una casella all’altra, per agguantare la scappatoia che sentiva a portata di mano. «E’ inutile che cerchi di salvarti.» commentò Enoch, incrociando le braccia «E’ matto». Lilli non si privò certo dello scrupolo di controllare tutte le mosse possibili e immaginabili, per nulla intenzionata a dargliela vinta. Poi, alla fine, si dovette rassegnare. Scacco matto. E due. «Ma non vale.» mormorò, grattandosi debolmente la testa «Sono io che ti ho insegnato, non puoi avermi battuta di nuovo». Enoch cominciò a ridere sotto i baffi. «Beh, insegnato…» borbottò, facendo un gesto vago. Lilli alzò il viso accigliata, scoccandogli un’occhiata rovente. «Ah, sì?» ribatté, senza muovere un muscolo.
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Enoch, nascose alla meglio lo sghignazzo con una mano. Per tutta risposta, Lilli si alzò in piedi come una molla, indispettita. Prima che lui potesse chiederle dove stesse andando, lei aveva già recuperato il guanciale del letto di Enoch, che era finito come al solito sul divano. Glielo sbatté contro la faccia con entrambe le mani, una traiettoria ammirevole che gli fece girare la testa e disperse sul pavimento pedine, scacchiera e una lattina vuota, in un fracasso secco e acuto. Enoch sputacchiò un’esclamazione, prima di essere raggiunto da un’altra cuscinata. «Scacco matto, eh?» ringhiava Lilli, mentre calava implacabilmente un colpo dopo l’altro. «Oh, fer-!». «Ingrato senza cuore!». «Ferma!». «Lo decido io quando fermarmi! Toh, così impari a non farmi vincere!». «Ferma, se vai avanti così mi tocchi!». «Ma figurati se ti tocco! Ti prendo a cuscinate, mica a sberle come ti meriteresti!». «Fermaaa!» e giù una botta rumorosa per terra «Ahia, porco cane, il cavallo sotto il gomito!». «Ti sta bene!» infierendo furiosamente, con la gambe piantate per terra, tipo lottatore di sumo «Screanzato e cafone!». «Ohia, ma che c’entra?». «C’entra eccome!» si interruppe, affacciandosi per un attimo a fianco del cuscino «Non te l’hanno insegnato che le signorine si fanno vincere, se si trovano in difficoltà?». E altri tonfi ovattati, da far rimbombare la testa. «Che fine ha fatto la cavalleria!». «Infatti ora bombardano!». «Sì, eh? Non hai ancora sentito il meglio, vigliacco!». Bum, bada bum, bada bum bum bum, avanti con l’artiglieria pesante. Qualche batuffolo di cotone spuntava dagli spiragli stripizzati del cuscino, un bottone si era aperto. Lilli digrignava i denti tra la sillaba di un insulto e l’altro, intanto che sentiva le braccia farsi pesanti. Diede in accelerazione per mettere tutte le energie in un’ultima scarica. Aprì la bocca per gridare qualcosa, solo per farsi salire alla gola un singhiozzo inaspettato. Forse fu quello, forse si era solo sbilanciata. Tirò un urletto rauco, andò al tappeto a faccia avanti, con una mano ancora artigliata alla federa del cuscino. Enoch sgranò gli occhi, tentò uno scatto fulmineo, pur con la schiena a terra. Lilli avvertì l’impatto sordo del proprio ginocchio, quello sonoro del
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proprio palmo. Contro il pavimento. Tutti e due. Enoch non si muoveva, col viso ancora distorto in una smorfia di terrore e gli occhi puntati su quel pollice che quasi gli solleticava lo zigomo, come se fosse la lama di un pugnale. L’altro braccio era rimasto piegato a mezz’aria, tipo gru, col guanciale che dondolava appena. Lilli era talmente occupata a rendersi conto di aver mantenuto quantomeno un equilibrio precario da non poter capire se si era fatta male o meno. Le iridi di Enoch si spostarono col loro movimento a scatti verso il suo viso arrossato, le sue labbra ancora aperte, i capelli un poco scarmigliati, comunque meno dei suoi, che ricadevano giù come le foglie di un salice. Avvertì i muscoli tesi di lei, la flessuosità del suo corpo in quegli istanti di faticosa immobilità, senza bisogno di vederli; lei sentì la tensione svelata del suo torace rigido, del collo piegato, così incredibilmente vicino come non lo era mai stato, solo scorgendo la tensione sul suo viso. Istintivamente, senza parlare, senza pensare. Enoch fu il primo a sorridere, a far schioccare in maniera appena percettibile la lingua contro il palato. «Sei bella da mozzare il fiato» sussurrò, ed entrambi sentirono, avvertirono che quelle parole erano state intrecciate col tessuto della sincerità, solo con quello, senza che nessuno di loro avesse mai pensato di utilizzarle in quel momento o in qualsiasi altro. Lilli non rispose, paralizzata sopra di lui, separata dal suo petto solo per un gioco fortuito. Riuscì soltanto a chiedersi che cosa sarebbe successo se non fosse avvenuto, se si fossero ritrovati così, l’una sopra l’altro, sgraziatamente, con le membra improvvisamente a contatto, in sussulto, il cuore dell’una che batteva sopra quella dell’altro. Riuscì a chiederselo, non a darsi una risposta. Lasciò la presa sul cuscino, fece leva sul braccio puntato sul pavimento e si lasciò cadere di schiena, al suo fianco, contro il pavimento. Finalmente poté espirare e sbattere le palpebre. Enoch si tolse il cuscino dal petto, la guardò, seguì il profilo della ragazza che si empiva d’aria e si svuotava. Fece il gesto di mettersi il guanciale dietro la testa, poi preferì piegare un braccio e appoggiare la testa su quello. «Ci siamo andati vicini» disse Lilli in un soffio. Il giovane si grattò l’angolo di una narice, per poter riprendere a respirare anche lui. «Vicini vicini vicini» ripeté lei, senza dargli il tempo di ribattere. Enoch stavolta si limitò ad annuire, per poi posarsi la mano libera sull’addome e sospirare. «Però si sta bene qui» aggiunse dopo alcuni secondi, guardandosi intorno per studiare quella nuova prospettiva.
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«Sì, non c’è male.» concordò Lilli «Lo facevo più freddo, questo pavimento». «Probabilmente perché è pietra sintetica, mi sa». «Dev’essere per quello che è anche più comoda». «Non ci avevo mai pensato». «C’è sempre una prima volta. E poi, scusa, non avevi ancora incontrato me». «Eh, già, vero anche questo. Grazie per avermelo fatto scoprire». «Figurati, è un piacere». Tacquero, immobili sul pavimento, a pancia in su, col naso verso il lampadario e i sensi che riscoprivano la circolazione attraverso ogni centimetro del corpo. Dopo qualche secondo, Lilli alzò un braccio. «Se non ci fosse il soffitto, potremmo anche dire che stiamo guardando le stelle» disse, disegnando un cerchio col dito, come se volesse aprirsi un varco nel tetto. «O le nuvole» osservò Enoch. «Beh, sì, diciamo le nuvole se è giorno e le stelle se è notte.» la ragazza annuì fra sé, tenendo conto di quella considerazione «Anche se mi piacciono di più le stelle». «Le nuvole sono più da sognatori, secondo me. Uno ci vede quello che vuole». «Ma le stelle sono più romantiche». «Solo perché ci sono di notte, e la notte è sempre più romantica del giorno. Vai a capire perché, poi…». «Domandalo a Schopenhauer». «A chi?» fece Enoch, staccando un poco la testa per guardarla meglio. «Era un filosofo. Un tedesco, mi pare» rispose Lilli, girandosi su un fianco, come se fosse a letto. «E che diceva?». «Un mucchio di cose, tirava in ballo anche le Upanishad e il velo di Maya.» si girò di nuovo, insoddisfatta della posizione, per ritornare sulla schiena «Non mi ricordo bene cosa diceva, mi è venuto così». Enoch la guardò. Lei aveva assunto un’espressione leggermente corrucciata, di quelle che non gradivano altre domande sull’argomento. Lui sorrise, da solo, intanto che spaziava con gli occhi sul pavimento, riconoscendo le sagome delle pedine sdraiate, che avevano smesso di girare in tondo. Ne cercò più che poté, senza muovere la testa, da quel punto di vista che rendeva il loro stagliarsi più inconsueto, più imponente. Spostò di nuovo lo sguardo sul viso della ragazza, rilassato, con la cornice ondulata dei capelli tutt’attorno.
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«Pensaci un attimo, però.» disse, a voce bassa «Un uomo e una donna sdraiati su un pavimento nudo, senza tappeti, ancora accaldati per una specie di lotta, spettinati. Con tutte queste pedine sparse ovunque, come se si fosse scatenato di colpo chissà cosa e fossimo rimasti solo noi due, qui dentro, senza nessuno che possa vedere, che possa ascoltare. Come se al di fuori di queste pareti non ci fosse più nulla.» alzò appena una mano, girò meglio il viso verso di lei «E’… Suggestivo, non ti pare?». Lilli non si mosse, spostando solo gli occhi verso un angolo distante, come distrattamente, lungo le piastrelle pulite, senza che si scorgesse un granello di polvere. Solo quei pezzi degli scacchi, come colonne tranciate di netto, abbattute. «Io non direi suggestivo.» rispose, prima di girare il viso verso di lui «Direi eccitante». Lo vide deglutire senza quasi muovere le labbra dischiuse. Lei girò di nuovo la testa, riprendendo a guardare verso l’alto, per poi tornare sul fianco e chiudere gli occhi. «Adesso però lasciami dormire, ok?» disse, raggomitolandosi appena «Come se questo pavimento fosse il nostro talamo nuziale e io la tua sposa che accampa la scusa del mal di testa.» sospirò, riaprendo gli occhi senza nemmeno volerlo «Così, forse, potrò arrivare a domani senza sentire il bisogno di toccarti». Sentì Enoch che restava fermo, le sue labbra che schioccavano pianissimo, in procinto di dire qualcosa che non gli veniva in alcun modo. Non tenne la conta dei secondi, o dei minuti, che trascorsero così, prima che lui le parlasse di nuovo, col suo tono quieto. «Vuoi che ti dia il cuscino?» le chiese, evidentemente sollevandolo dal pavimento. «No, perché?» fece lei, stringendosi alla meglio nelle spalle esili, già un poco premute contro le guancie «Sto bene così». Udì distintamente Enoch che tirava via il cuscino. «Anch’io sto bene così.» disse quindi «Posso darti il pensierino della buonanotte?». «Se è un bel pensierino…» rispose lei, sorridendo fra sé. «Ti adoro, principessa». Lilli allargò il proprio sorriso; anche se di spalle, sapeva che lui l’avrebbe vista, che l’avrebbe sentita. «Tu mi stai cambiando la vita, tesoro mio.» sussurrò «Ora dormi, che la notte è lunga». Che poi non era neanche notte, si capisce, ma soltanto pomeriggio. Uno dei tanti pomeriggi grigi di un inverno anonimo, né particolarmente freddo né particolarmente mite. Un inverno che
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prese a sbiadire, come ogni anno, senza troppo anticipo né troppo ritardo. E ricominciarono i corsi all’università. Ci fu anche un altro esame prima, tra le tante cose, ma uno di quelli piccoli, che poi magari risulta più impegnativo di uno di quelli grandi, sta di fatto che spesso l’unica differenza sono i crediti che uno si porta a casa. La spedirono al giorno dopo, ed Enoch dovette sopportarsi un po’ di più della sua isteria preesame, ma tutto sommato la spuntò senza fastidi, un orale da un quarto d’ora-venti minuti e poi via a saltellare per le strade, leggera come una rondinella. Ma i corsi, i corsi… Lì sì che venne il bello. Perché un conto era alzarsi la mattina, stropicciarsi gli occhi davanti allo specchio, controllare l’orologio posato sulla mensola sopra il lavandino e rendersi conto che c’è solo il tempo per lavarsi, pettinarsi, cambiarsi la biancheria, infilare le gambe nei pantaloni a forza di saltelli con la sola abatjour accesa per non svegliare i suoi, mettersi addosso un paio di maglie, il cappotto più a portata di mano - di solito il piumino - rovesciarsi in macchina e da lì sino alla stazione, magari con un biscotto in bocca e altri due in una mano; un altro era ripetere tutte le operazioni di prima ma con la macchina che aspettava sotto casa tutti i suoi comodi. Si fa per dire, perché ad una cert’ora Enoch non si peritava a pestare sul clacson e Lilli doveva affrettarsi e uscire di casa con l’accompagnamento delle maledizioni che le scagliava suo padre, che era sempre stato loquace di prima mattina, a cui dovevano aggregarsi anche quelle di tutto il vicinato. Salire comunque col suo autista, scambiarsi un saluto con le manine prima che con le parole e partire fra gli sbadigli di entrambi, di quelli che fanno venire persino le lacrime ai lati degli occhi. Lilli si allacciava la cintura, si sistemava nella sua posizione abituale, quella da cui poteva vedere che ore erano attraverso uno spiraglio tra le mani di Enoch e il volante. Lui le domandava se avesse dormito bene, magari qualcos’altro, e lei rispondeva solo muovendo la testa, perché la voglia di parlare a lei prendeva solo dopo almeno dieci minuti che era del tutto sveglia. Magari lo stesso succedeva anche ad Enoch, che in quella macchina, davanti al cancello della ragazza, aveva tutto il tempo per prendere il suo contatto quotidiano con la realtà. Poi lui superava il primo incrocio, girava la rotella dell’autoradio e alzava il volume, quello che abbassava automaticamente quando la vedeva uscire di casa, nell’evenienza che lei dovesse dirgli qualcosa, anche se non succedeva mai. Via per le strade ancora sgombre, troppo presto anche per andare al lavoro, fatta eccezione per i più mattinieri, per i primi motorini coi loro carichi di corpi adolescenti, di caschi, di zaini pieni di libri di algebra e latino. Imboccare l’autostrada ancora più
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deserta, null’altro che camion e pullman con solo il conducente a bordo, qualche macchina sparuta ogni tanto. Sparati come un proiettile lungo le corsie, lei con la nuca contro il poggiatesta che cercava invano di recuperare un po’ di sonno, una musica italiana o straniera o copta che risuonava senza che nessuno dei due la ascoltasse veramente, buona solo per non crollare veramente. Poi il caos più totale, mano a mano che il sole si alzava e schiariva i cartelli e definiva le ombre delle piante ai lati dell’autostrada, delle siepi, del guardrail, delle migliaia di vetture che si riversavano nelle strade e filavano dritte, prima di incapsularsi in un parcheggio strategico. Il traffico che procedeva a rilento, Enoch che le ricordava sconsolato come tutto questo si sarebbe potuto evitare, se solo si fosse alzata un po’ prima. Lilli non se ne preoccupava e allo stesso modo non lo faceva lui, a dispetto di quel che diceva. Raggiungere la solita piazzetta discosta, come se si fosse trattato del cuore segreto di un labirinto, scendere dal Peugeot e farsi di buona lena tutto il vicolo dei gatti e tutta la strada sino alla piazza e ai palazzi della facoltà. Lilli entrava sempre per prima, finendo per intercettare sempre lo sguardo del professore di turno. Teneva la mano sulla porta per lasciarla aperta, mentre con gli occhi vagliava l’intera aula e scovava due posti adatti, anzi, tre, che in un modo o nell’altro si scovavano sempre, se si aveva pazienza, se si sapeva cercare. Alle volte significava sedersi per terra, contro la parete, e magari qualcuno si chiedeva perché non occupassero due posti liberi nelle prime file, ma non osava farlo ad alta voce. Loro si guardavano, anche da lì, quando erano più sfortunati. Si sorridevano, come se fossero a fare una scampagnata, tirando fuori quadernino e astuccio lei, blocchetto e penna lui, cercando di agguantare il filo della spiegazione. Stavano bene così. E quando uno sta bene riesce a riflettere davvero, a mettere a fuoco le cose per come stanno, senza restare a scavarsi una fossa di rancore o rassegnazione degna di un pessimismo leopardiano. Seguivano le lezioni, tutte quelle che Lilli aveva in programma. Uscivano di lì che discutevano di quello che avevano sentito, ricercavano sui libri i passi che erano stati spiegati, interpretandoli alla loro maniera, per giusta o sbagliata che fosse. Enoch si annotava tutto quanto sul blocchetto; Lilli ci fece qualche correzione, in un paio di occasioni. Andavano a pescare euforicamente nella bibliografia quello che sembrava valesse la pena, enciclopedie in venticinque volumi, tomi di autori antichi che si ritrovavano solo in un’edizione del 1927, euforicamente. Non che poi li leggessero per interno: in genere li aprivano, pescavano qualcosa di vagamente inerente, trovavano un dettaglio che li colpiva nella
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colonna della pagina accanto e da quella passavano a tutt’altro argomento, per ritornare alla fine al tema da cui erano partiti. La stessa ragione per cui si facevano prendere la mano durante le lezioni e si bisbigliavano con la massima attenzione qualcosa, un ragionamento impostato così, su due piedi. Ne discutevano tra loro con discrezione, annuendo, socchiudendo gli occhi, muovendosi obiezioni. E finivano per tirar fuori un’allusione, magari anche non voluta, l’ennesimo spunto per rivolgersi un sorriso e due parole, che erano come un bacio, una carezza sulle spalle che non si sfioravano. Andavano così a farsi benedire gli ultimi minuti della lezione, tra sussurri sempre più espliciti, sospiri, occhiatine. Poi uscire, sempre in anticipo, dopo aver controllato l’ora più di una volta, fingendo urgenza, scambiarsi sempre una risata sommessa, a porta ormai chiusa, e scendere le scale piano, un passo per volta, pesantemente. Mangiavano quel che trovavano: tranci di pizza, panini recuperati in un negozio di alimentari, valdostana e crostata di mele. Quasi sempre all’aperto, o ritornando dentro la facoltà quando pioveva, perché a quell’ora i tavoli e gli sgabelli dei bar erano quasi tutti occupati, la gente tutta premuta nella calca delle loro masse. Lilli vi si gettava, mentre Enoch aspettava fuori. Usciva col suo sacchettino di carta bianca in cui avevano infilato anche lo scontrino, alzandolo sopra la testa per fargli vedere da lontano il successo della sua impresa, ogni giorno. Nelle aiuole, quando c’era bel tempo, con l’erba verde sotto i jeans e le spalle appoggiate al tronco di una pianta, le gambe piegate. Da lì, inconsciamente, a Lilli dovette venire l’ispirazione per occupare anche i giorni di festa. Perché arrivava un pezzettino di primavera ed erano ancora lì, andavano ancora avanti, le venivano incontro senza ricordarsene. C’era una pineta, a una quindicina di chilometri da casa, talmente grande e talmente nota da esser diventata direttamente “la Pineta”, quella a cui si riferivano tutti, come se non ce ne fossero altre. La prima volta organizzarono una specie di spedizione, con gli zainetti e l’abbigliamento da escursione in Amazzonia. Lilli provava a spacciarsi come quella che era più sicura, che conosceva il posto, ovvero faceva finta di esserci già stata due o tre volte… Che poi erano diventate una sola, quando era bambina. Non era vera neanche quella, per intendersi, però tutti sapevano dove fosse, come si raggiungesse, quanti campeggiatori si stanziavano lì vicino durante l’estate, e tutti, ugualmente, avevano il preciso dovere di fingere di conoscerla sul serio. Scavalcarono la staccionata prima di trovare il sentiero, o quel che si aspettavano di trovare, perché da lì dava l’impressione di far prima. Da un campetto da basket di cemento, di
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quelli con un solo canestro, un bambino biondo li fissò a bocca aperta come se avesse visto la Madonna. «O una delle fantomatiche coppiette che si appartano» spiegò Lilli, spostando il leccalecca da un angolo all’altro della bocca. «Ah, vengono qui?» domandò Enoch, senza scomporsi neanche tanto. «E dove vuoi che vadano? E’ famosa perché è grande, piena di buchi in cui imboscarsi.» abbassò lo sguardo perplessa sui rametti che si criccavano sotto i suoi piedi «Sai, festeggiare un amplesso in mezzo alla natura, cose così…». Lui assentì, al suo fianco, con il pollice infilato sotto la cinghia dello zaino, e l’espressione attenta del turista smarrito, che fa finta di guardarsi intorno mentre cerca i nomi delle strade sui cartelli o sopra i muri delle case. Oppure, in questo caso, di un indizio che gli facesse capire anche solo dove stavano andando. E lo trovò sotto l’iscrizione “pista da jogging”. «C’è anche “ippovia” subito accanto.» fece Lilli, indicando il cartello con una mano «C’è gente che viene a cavallo qui dentro? Va bene che la Pineta è grande, ma non così grande». «E noi?» domandò Enoch, voltandosi a guardarla. Lei alzò il sopracciglio, col bastoncino di plastica del leccalecca che le spuntava dalla bocca. «Anche noi andiamo a festeggiare un amplesso in mezzo alla natura?» disse lui, facendosi più conciso. Lilli aprì le labbra e le richiuse, dopo aver mosso la lingua. Le strinse, quindi, mentre con due dita tirava il bastoncino sino a far affiorare la palletta liscia al gusto fragola; il tutto senza togliergli gli occhi di dosso, senza mutare d’espressione. «Io ho preparato i panini» rispose, indicando il proprio zaino. Enoch sollevò lo sguardo, aggrottò appena la fronte. «Sono buoni?» chiese dopo qualche secondo. «Non lo so.» Lilli scosse la testa «Dovrei chiederglielo, ma non vorrei disturbare l’amplesso in corso tra il prosciutto cotto e la fontina». Avevano camminato in un certo silenzio, avevano sollevato la testa oltre la staccionata di legno, quando c’era, o al di là della striscia calpestata del sentiero, in cerca - senza volerlo ammettere - di quei buchi dove appartarsi, ma avevano trovato solo rovi alti un metro, tronchi tagliati con una motosega e spiazzetti bene in vista, praticamente campi aperti. Lilli, alzando il viso, aveva fatto attenzione a quelle che le sembravano deviazioni interessanti, ma che conducevano soltanto a giacimenti di bottiglie di plastica, sacchetti della spazzatura e piccole confezioni usate che immaginò avessero
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contenuto una siringa. Erano tornati indietro, senza nemmeno accorgersene, si erano fermati quando avevano riconosciuto in lontananza il solito canestro e una palla che ci rimbalzava d’intorno. Enoch si era grattato la testa; Lilli aveva guardato a destra e a sinistra, aveva puntato il primo spiazzetto abbastanza largo e vi si era diretta senza dire niente. Avevano spiegato la coperta, l’avevano fatta arretrare due o tre volte verso il tronco delle piante per centrare l’ombra. Si erano seduti, si erano sdraiati. C’erano cespugli abbastanza alti da illuderli che fossero nascosti, che nessuno avrebbe potuto vederli proprio come loro non riuscivano a vedere il sentiero da quella posizione. Avevano mangiato, più che altro smozzicato senza appetito, proprio perché i panini erano lì e andavano almeno assaggiati, e poi li avevano posati come se nulla fosse, come se li avessero messi lì solo per riprenderli poco dopo, qualche secondo, il tempo di pulirsi la bocca col dorso della mano. La carta stagnola la lasciarono senza pensarci troppo a prender quel bel sole che filtrava liberamente attraverso il tetto di pini, con le briciole, il filo rosa del prosciutto, la fontina che a vederla sembrava tirata fuori da una cucina giocattolo per bambine. Sugli zaini di tela, con qualche pallina accartocciata che avevano palleggiato sulle mani e poi schiacciata dentro i bicchierini di plastica da festina di compleanno, intanto che se ne stavano seduti sulla coperta ricoperta di aghetti sottili. Gli stessi che Enoch aveva preso, solo uno o due, per passarli piano sotto il naso di lei, distesa su un fianco, per vedere quando avrebbe cominciato a ridere, senza che lei volesse resistere. Avevano mosso piano le mani, i corpi separati, li avevano fatti correre sul profilo ideale delle guancie, delle spalle, con gli occhi chiusi per avvertirli, per sentirli gravitare a meno di un centimetro di distanza dalla pelle, appena sopra gli indumenti, o le mani nude, le gote, le tempie su cui potevano distinguere ogni singolo capello, i loro fremiti appena accennati. Risollevare le palpebre e scoprirsi ancora lì, con l’espressione assorta di un levigatore che può solo applicare gli ultimi ritocchi a una scultura che non gli appartiene, ma che in quel momento riesce a sentire come sua, a leggervi dentro il bagliore di un sentimento che non ha provato per primo, ma che ha comunque accolto in sé. Sorridere solo dopo alcuni attimi di tensione condivisa, quando l’altro riabbassava la mano, senza aver niente da dire, niente da chiedere. Non sapevano quanto tempo trascorrevano a quel modo, quanti sussurri si scambiavano, che cosa si dicevano, ripetevano, senza stancarsi, senza che le solite parole venissero a noia. La prima volta si alzarono quand’era ormai buio, anche freddo, eppure entrambi consapevoli che sarebbero rimasti incatenati su
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quella terra anche sino al mattino; all’addiaccio, persino, in una notte eterna, l’ultima, che ha scelto di non lasciare più che giunga l’alba. Si alzarono e mentre i loro piedi trovavano il sentiero nella semioscurità, si domandavano tra le fantasie quando sarebbero potuti tornare. Si accorsero, come improvvisamente, che il tempo era ancora loro, a completa disposizione. Che niente e nessuno avrebbe potuto forzarlo, non importava da quale pretesa fosse mosso. E tornarono, tornarono e lo fecero all’inverosimile, senza tenere il conto, talvolta facendo finta di essere in facoltà a seguire le lezioni, talvolta anche col cielo che tuonava, preparandosi ad aprirsi in un violento scroscio da un momento all’altro. C’era una vecchia donna, di cui si ricordarono entrambi, che si fermava sempre alla solita panchina, col suo impermeabile grigio chiaro e i capelli ancor più chiari schiacciati sotto un cappello di lana. Si recava lì a piedi, con un sacchetto di nylon allacciato a un braccio, e si fermava a sedere. Dietro di lei venivano i randagi, tanti quanti non si riusciva nemmeno a immaginare nemmeno che ce ne fossero, cani e gatti, con i musi di una bestia domestica, festosi. Lei aspettava di aver tutta la corte al completo, sempre, intanto che riprendeva fiato, un po’ curva in avanti. Enoch e Lilli la incrociavano di continuo quando facevano due passi, ogni volta più sicuri, come a casa loro, nella loro grande casa di pini marittimi e tronchi tagliati con la motosega e rovi e cumuli di sporcizia. Salutavano con educazione, lei ricambiava, dava loro confidenza per prima. Si fermavano in piedi davanti alla panchina, sempre un po’ discosti l’uno dall’altra, e dai randagi E ogni volta la donna li guardava, sorridente come una balia cresciuta con la famiglia dei padroni, e sospirava. «E’ un piacere vedervi assieme.» diceva, guardandoli «E’ raro trovare due ragazzi giovani così vicini come lo siete voi». Anche se non li aveva mai visti mano nella mano, se non sapevano cosa volesse dire sfiorarsi le dita per sbaglio. Uno dei due, talvolta anche entrambi, arrossivano; entrambi sorridevano alla stessa maniera, con un misto di felicità e orgoglio. Poi la donna si alzava, dava loro le spalle mentre si chinava per aprire il sacchetto, tirava fuori croccantini, scatolette di carne, pasta avanzata il giorno prima. Lo distribuiva come fa una mamma coi figli, tenendo lontani i più prepotenti a suon di rimproveri e gesti della mano. «E’ raro, sì.» ripeteva, girando la testa per poterli guardare, e non smetteva di sorridere «Dovrebbe essere così per tutti, ma è raro. Vivete tranquilli, non ci pensate. Ben venga per chi può goderselo».
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Restava in piedi, con le mani chiuse sui fianchi, mentre guardava i randagi e si rivolgeva ad alcuni di loro, guadagnandosi qualche occhiata. Passava la mano sulla loro groppa, quando una carezza leggera, quando con una stretta vigorosa. «Perché è così per tutti, tanto, c’è poco da farci. Anche il più orso ha bisogno di qualcuno che lo tenga calmo, che lo faccia star bene. Ci mette un po’ di più, magari, e alle volte gli viene anche voglia di lasciar stare, ma alla fine il suo qualcuno lo può trovare anche lui, se vuole. Non è vero?». Si girava del tutto verso di loro, sorrideva più largamente, col viso segnato dalle rughe, dalle zampe di gallina attorno agli occhi. «Io lo capisco dalle bestie. Lo vedete quello là?» continuava, indicando un bastardino bianco, con una chiazza marrone su un occhio, che se ne stava in disparte a fiutare il cibo, da lontano «Quello là è come un uomo scorbutico. Rimarrebbe senza nulla da mangiare, se non gliene tenessi da parte io, perché lui non mangia se ci sono gli altri, piuttosto se ne sta digiuno, fermo lì dov’è. Non si fa avvicinare da nessuno, non si fa toccare neanche da me. Ed è già un annetto che gironzola per la Pineta, eh. E’ un orso di cane. Ma alla fine ci viene anche lui, a mangiare, quando ci sono solo io. Io lo conosco. Quando si deciderà a fidarsi, si farà anche accarezzare». Enoch e Lilli restavano lì ancora un po’, lei si azzardava a salutare qualche cane, qualche gatto col pelo stranamente lucido. Poi salutavano, la donna rispondeva sempre, e restava sola, con quel bastardino che li fissava, ritto sulle quattro zampe, per esser sicuro che se ne fossero andati. Riuscirono a vederlo avvicinarsi al suo pasto una volta sola, ma distinsero solo la sua sagoma bianca, quasi indistinta, che si teneva a misurata distanza anche dalla donna. Loro d’altra parte parlottavano piano, si scambiavano sguardi morbidi, non scorgevano nemmeno più il sentiero. Procedevano a istinto, le loro gambe trovavano il posticino adatto senza bisogno che la mente glielo suggerisse. Estranei al mondo, padroni di ogni cosa. Avevano preso l’abitudine di portarsi dietro un piccolo stereo a pile che Lilli altrimenti non utilizzava mai. Gli avevano trovato facilmente posto nello zaino di Enoch, dato che alla fine di roba da portarsene dietro non ne serviva poi così tanta. Avevano preso i cd, tutti quelli che sembrava valessero la pena, li facevano andare finché non si scaricavano le batterie. Andavano avanti e ricominciavano da capo, automaticamente, perché nessuno dei due osava di distrarsi, di distogliere per un secondo gli occhi. Inginocchiati l’uno davanti all’altra, con un braccio steso in avanti, poggiato a terra per mantenere l’equilibrio. Ascoltavano i loro sussurri e i loro mormorii
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sopra Sinead O’Connor che cantava “Streets of London”, senza capire nulla più che qualche stralcio di parola ogni tanto, fraintendendo, perché l’inglese non lo sapeva bene nessuno dei due. Udivano solo la sua voce languida, le note soffuse, il pizzicare della chitarra e gli sembrava la porta per il loro romanticismo, per tutto quello che andava detto pianissimo, solo per le loro orecchie, bocca su bocca, così vicini, così separati. Enoch tremava un poco, il capo piegato di lato, mentre i polpastrelli di lei scivolavano appena sopra il suo viso, disegnavano gli zigomi, il naso, la fronte, senza che nessuno vedesse, senza che nessuno giudicasse. Lui quella volta si sporse piano, un po’ più del solito; Lilli si irrigidì, sollevò piano le sopracciglia, ebbe paura. «No, non trattenere il fiato.» sussurrò lui, con gli socchiusi «Posso sentire il tuo respiro sulle mia labbra». Lilli sorrise, accennò una debolissima risata. «Il mio respiro?» ripeté, senza spostarsi. «Il tuo respiro, sì.» rispose Enoch «Le tue parole. Il formicolio che percorre la tua bocca quando le pronunci, il calore del tuo corpo che si trasfonde nel mio. Il tuo respiro che si intreccia col mio, così che io possa respirare il tuo, e tu il mio». E Lilli quasi si sentì mancare, e quella volta come tutte le successive, quando le sembrava che la vista le si annebbiasse e il cuore le traboccasse attraverso quelle labbra dischiuse, fino alle sue e dentro di lui. Fu la prima volta che gli disse che lo amava. Glielo disse e glielo ripeté, gli giurò che in nome di Dio non avrebbe più voluto trascorrere un istante senza di lui. Lo ascoltò incantata mentre la prendeva in braccio col suo amore, senza smettere di risponderle e risponderle, ancora e ancora, quel giorno come gli altri che vennero, quando anche loro infine si scambiarono, con le lacrime agli occhi, le due fatali parole. Sempre. Mai. 31- Centotrentacinquesimo giorno, Venerdì Si può fare, per una volta. Fu questo che si dissero testualmente una sera, prima di separarsi un po’ prima del previsto, per dar tempo a Lilli di fare cena a un’ora decente, invece di farla tornare a casa tardi e trovare già tutto mezzo sparecchiato, con un solo piatto bianco che spiccava sulla tovaglia di plastica, illuminato dalla luce della lampada. Sorpresa sorpresa, arrivare in tempo, persino in anticipo, raggiante e premurosa, piena di vitalità. Sua madre a pulire i fornelli, suo padre già con le gambe accavallate e la sigaretta accesa tra le dita; ambedue sospettosi, intenti a seguirla con lo sguardo. L’hai
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piantato? Nono, stasera usciamo. Non aveva mai rivelato che la sera, quelle volte che la veniva a prendere, non andavano oltre casa sua, ma l’avevano intuito senza difficoltà, dal momento che non si cambiava nemmeno i vestiti. Così poterono persino dire che, meno male, erano diventati umani anche loro, alla fine. Lilli arrivò prima, ma mangiò anche molto più in fretta. Poco o niente, tra l’altro, nonostante le pressioni di sua madre. Schizzò via dal tavolo come una gazzella, scomparve oltre lo stipite della porta, nell’ombra del corridoio, senza neanche accendere la luce. Andò in camera sua, chiuse la porta dietro di sé fin troppo rumorosamente, stupendosi della forza che ci aveva messo. Camminò avanti e indietro come per recuperare qualcosa, a mani nude. Alla fine si sedette sul letto, fece dondolare le gambe come una bambina (per quel che le riusciva, perché toccava i piedi in terra), poi si alzò e recuperò il carillon. Aveva preso il vizio di caricarlo tutte le sere, di farlo suonare a lungo prima di addormentarsi. L’idea iniziale era stata quella di registrare il suono sul cellulare e caricarlo, farne una sveglia, ma il risultato non era buono, il telefonino storpiava tutte le note e non si sentiva bene neanche col volume al massimo. Ora lo ascoltava così, solo per il proprio piacere. Si era prefissa di mangiare e cominciare a prepararsi, così da ottenere il miglior risultato possibile. Non aveva calcolato di fermarsi ad ascoltare il carillon. Un minuto, due, cosa vuoi che siano, ricaricarlo quando la musica rallenta, accenna a finire. Alla fine, un quarto d’ora ce l’aveva perso tutto. Lo posò con cura sul comodino, si alzò in piedi e andò a recuperare la trousse. La aprì, controllò che fosse tutto in ordine, la rimise da parte, ricontrollò, provò due o tre ombretti sui polpastrelli, andò a sciacquarsi le mani, tornò in camera. Sua madre, entrando in camera per dirle di chiudere le persiane, la trovò in piedi davanti alle ante dell’armadio tutte spalancate, col letto coperto di ogni ben di Dio: l’aveva praticamente svuotato, l’armadio. Dietro l’incalzante gesticolare della figlia, uscì dalla stanza e richiuse la porta, stralunata. Udì suo padre sghignazzare sfacciatamente in salotto, chiaro segno che la mamma gli aveva prontamente riferito tutto. Sbuffò, intanto che appallottolava maglie e calzini e si riprometteva di rimetterli in ordine più tardi. La camera era più o meno nel solito caos, quando sentì suonare il clacson. Non si azzardava più a toccare il campanello, da quella volta. Sempre il clacson, i soliti due colpetti, identici. Lilli si tolse di nuovo il carillon di grembo e saltò in piedi, allungando le mani per recuperare la borsetta, quella nera laccata, con la catenina, in cui non entrava quasi niente. Staccheggiò fino al bagno, si diede un’occhiata
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davanti allo specchio e due colpetti con un dito sotto l’occhio per cacciare un granello che non c’era, riaprì la borsetta in modo da esser sicura di essere riuscita a pigiarci dentro tutto. Ripartì per il corridoio, illuminato tenuamente dalla luce del salotto che arrivava fin lì attraverso la porta aperta. «E’ arrivato, io vado. Ciao, buonanotte!» si affrettò a dire, mentre passava velocemente davanti alla stanza. «Liliana!» fece la voce di suo padre, immobilizzandola col tono arbitrario di chi in quel momento vuole solo obbedienza. Lei si fermò che era già quasi alla porta. Tirò indietro solo la testa per affacciarsi sulla soglia della stanza; suo padre le fece cenno con la mano di avvicinarsi. «Fatti un po’ vedere» aggiunse, come se la ragazza non l’avesse ancora intuito. Lilli storse appena la bocca, finché c’era abbastanza buio, poi mosse due o tre passi verso il salotto, restando impalata dietro alla prima poltrona, quella su cui non si sedeva mai nessuno. Non che servisse a qualcosa per nascondersi. I suoi genitori la fissarono senza parlare. La mamma aveva gli occhi grandi, quelli che le veniva quando era agitata. Suo padre stava stravaccato sulla poltrona, con la faccia da esaminatore, arcigna. La televisione andava avanti col suo varietà pall0so, ignorata. Non dissero niente. Fecero solo un cenno e un mugugno che sembravano d’apprezzamento. «Posso andare, ora?» protestò Lilli, spazientita, stendendo un braccio verso il corridoio «Quell’altro è là fuori che mi aspetta». «E chi ti trattiene?» fece suo padre, tornando a guardare la televisione «Andate piano, mi raccomando». Lilli bofonchiò qualcosa e ripartì velocemente, non senza essersi data un’ultima occhiata anche allo specchio del corridoio, quello subito prima della porta. Aveva appena girato la maniglia che sentì la mamma mormorare qualcosa al marito, chissà, magari convinta di non essere sentita. «Ma l’hai visto come si era conciata bella?» diceva. Lilli mosse un passetto sulla soglia, temporeggiò. Riusciva a immaginarsi suo padre che faceva spallucce, senza staccare gli occhi dalla televisione, ma voleva sentire cosa avrebbe risposto. Un secondo. Due secondi. «Sembra più grande» rispose infine. Lilli chiuse il pugno in una specie di gesto d’esultanza, anche se quello non doveva essere necessariamente un complimento. Uscì e chiuse la porta dietro di sé.
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Enoch stava al posto di guida, come suo solito. Teneva il finestrino abbassato e un braccio fuori. Come la vide comparire, aprì la portiera, mise un piede a terra e lì rimase. Con le mani sullo sportello, un poco curvo per passare con le spalle sotto il tettuccio. Occhi spalancati, fissi. Lilli aprì il cancello e si fermò sul marciapiede, unico interstizio tra lei e il Peugeot. «Come sto?» chiese, col suo sorriso leggero, un poco incerto. La primavera era nella sua pienezza, quando sembra che sia sul punto di passare all’estate anzitempo. Con le dita poteva tenere l’orlo del cappottino nero, elegante, lasciato aperto sul vestitino del solito colore, con lo scollo quadrato che non capivi cosa doveva mostrare, se l’accenno della curva morbida del seno o il ciondolo d’argento, non troppo lungo, che luccicava sotto la luce del vicino lampione. Lilli pregava che non facesse risaltare anche quell’imbarazzo che sentiva rovente sulle guancie, si chiedeva se sarebbe assomigliato a quello delle labbra, a quel rosso lucido, ma non smaccato, che ricordava la tinta densa del granato. Ma i capelli, i capelli… Sapeva quanto ci aveva messo, quante volte aveva dovuto cambiare l’impostazione delle forcine. Ora che li aveva raccolti dietro, sollevati, come non li aveva mai portati, ricadevano a piccole ciocche ondulate che parevano vive e lasciavano scoperta la linea ben fatta del collo, suggerivano il profilo delle spalle, e invogliavano l’occhio sui pendenti d’oro che piovevano giù dai lobi. Il viso era libero, niente si affacciava per celare il calore degli occhi, la linea sottile ma ben marcata per farli risaltare, le lunghe ciglia invitanti, da donna, non più da ragazza. Il bel piede calzava nudo nelle scarpette di vernice e su di esso, e sulla schiena dritta, sentiva in quell’attimo posare davvero tutto il suo equilibrio. Enoch appoggiò un braccio sul tettuccio della macchina. Era rimasto con la bocca un poco aperta, la stessa espressione confusa sul viso. «Non ho parole» rispose dopo un bel po’, muovendo appena la mano libera. «Sciocco» disse lei, e prese ad aggirare tranquillamente il cofano dell’auto, ringraziando quella dote naturale che le aveva permesso fin da piccola di camminare sui tacchi senza troppi sforzi. «Sul serio.» ribadì Enoch, tenendola d’occhio intanto che si spostava «Sei… Non lo so. Sei splendida, sul serio». Lilli si fermò davanti alla portiera e allargò piano il proprio sorriso. «Lo so che lo pensi.» disse, trovando la maniglia con le dita «Lo capisco da come mi guardi». Si sedette sul sedile, abbassò le palpebre e prese fiato. Le riaprì sulla volta stellata che scorgeva attraverso il parabrezza e si compiacque
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segretamente della sua vanità. La notte ti fa bella, si disse, utilizzando quelle parole che a lui dovevano essere sfuggite ma che lei si era ripetuta, da sola nella sua stanza, mentre si preparava. Lilli aveva le orecchie piene dei rumori della macchina, il rollio delle ruote su un asfalto ancora spoglio, senza orpelli di fanali, stop, frecce, luci di posizione, autoradio a palla che rimbombano dal finestrino aperto. Solo il giallo monotono dei lampioni, le fronde delle piante che ondeggiano pigramente, i semafori verdi, il lampeggiare rosso, a intermittenza, di un aereo nel cielo nero, non così sgombro. Nuvoloso, anzi, ma con la cappa ancora lontana che si avvicina pigramente. Enoch alzò il volume dello stereo con qualche ritardo, ridando voce al solito cd di quel pomeriggio. L’impressione che fa un locale vuoto, quando si arriva troppo presto, è particolare, una di quelle che non si sa mai se consigliare oppure tutto il contrario, parlarne il meno possibile. E’ un’esperienza fuori dall’ordinario, suggestiva. Prende un senso di angoscia e di eccitazione, viene da vergognarsi quando si intercetta lo sguardo di un cameriere che sembra chiederti cosa cazzo stai facendo già lì. Al contempo, poi, ti godi una minuscola soddisfazione quando ti servono subito, anche se magari lo fanno soltanto perché devono e, già che ci sono, per ammazzare il tempo. Lilli non ci aveva pensato la prima volta che avevano messo piede al Lounge, occupata com’era a cercare di rimettere in ordine il corso frenetico delle sue sensazioni. Questa però non era la solita serata. Era una di quelle speciali, per la quale si era vestita bene, pettinata, truccata, tirata a lustro più che poteva. Era un arco d’ore fatto per non essere dimenticato, anche se non avevano idee, né programmi, e si erano trascinati sino al Lounge proprio perché non sapevano da dove partire. Quella sera, Lilli si accorgeva di essere contemporaneamente libera e vincolata. A lui, come a un piccolo, insignificante silenzio. Quello che la lasciava libera di pensare a quel locale vuoto e la vincolava a non farne parola con Enoch, che mai avrebbe potuto anche conoscere un locale affollato. Sorrideva e non ci pensava, mentre apriva la bocca per far spazio a una patatina pescata dal cestinetto, quello che ti offrono solo se arrivi abbastanza presto e, possibilmente, in più di due. Lei spostava il dito sino alla cannuccia; lui guardava le sue unghie laccate, risaliva lungo le dita inanellate come non le aveva mai viste, uno all’anulare, uno all’indice, forse un po’ incompatibili, inadatti ad essere accompagnati nella solita mano. Seguiva i riverberi delle pietrine di bigiotteria sotto la luce del lampadario che si muoveva senza che nessuno se ne accorgesse, spiava il riflesso più fosco dei cubetti di ghiaccio nel suo bicchiere. Parlavano e scordavano cosa si
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dicevano, come se non avesse importanza. E di fatto non l’aveva. Parlare significava soltanto tenere il canale aperto, evitare che qualsiasi minimo inconveniente potesse ostacolarlo, come se fosse realmente possibile. Era domandarsi “Ci sei?” solo per sentirsi rispondere “Sì”. Non guardarono l’orologio, per cui non seppero dire con precisione quando cominciò a riempirsi. Si accorsero soltanto che non erano ancora arrivati a sperare nell’arrivo di altra gente, segno che l’imbarazzo di star lì da soli non era ancora diventato abbastanza grande. E forse non lo sarebbe diventato mai. Lilli fece soltanto cenno di alzarsi, sorridendo, quasi ridendo. «Conosco un posto dove si può sparire anche meglio di così». Risalirono in macchina che i viali avevano appena cominciato a illuminarsi, la musica di sottofondo del Lounge era stata sostituita con qualcosa che non avrebbe potuto in alcun modo scontentare i clienti. Qualcosa di più tenue, con al massimo un’impennata lirica ogni cinque minuti, quella di cui la gente non si rende nemmeno conto o, se lo fa, la accompagna aprendo la bocca e imitandola, come se conoscesse la canzone, oppure solo il motivetto. Era ancora presto, per quel che può valere il tempo, così relativo e senza peso, che da un verso fa venir tardi e da un altro incoraggia, ce n’è ancora tanto, si può andare avanti così. Presto per uno è tardi per l’altro e viceversa. Era il caso della Grande Topaia, che tutto era fuorché Grande e per quello era diventata soltanto, comunemente, la Topaia. Un nome che non si sapeva se era venuto fuori dal misterioso proprietario, che in tal caso doveva avere il gusto del kitsch, o da una trovata di quelli che la bazzicavano. Ad infittire il mistero c’era l’assenza di un cartello che la segnalasse. Persino di un’insegna. Nascosta tra villini da due soldi che nessuno aveva mai visti abitati, complici le siepi altissime, e un frammento di brughiera come se ne vedono più molto pochi, nascosti in seno alla periferia delle cittadine. Nascosta, ma conosciuta da tutti, vista la sua reputazione. La peggiore del circondario. Enoch aveva la fronte corrugata mentre le ruote scricchiolavano sulla ghiaia irregolare del parcheggio, affondando talvolta in buche scoperte. A tratti guardava Lilli, senza riuscire a formulare la domanda per la quale gli serviva una risposta. Lo spazio non era un problema, se non altro: non c’era un cane e di certo nessuno avrebbe potuto rimproverarlo di aver parcheggiato fuori dalle strisce, perché figurarsi se c’erano quelle. Lei canticchiava un po’ su di giri, battendo con le dita sulle cosce. Enoch tirò il freno a mano.
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«Ma sei sicura che siamo arrivati nel posto giusto?» ce la fece infine a chiederle, prima di scendere. «Tu non sei di qui, e si vede.» gli rispose Lilli, tranquilla come una rosa «Guarda che non la chiamano la Topaia per niente». Enoch smontò aiutandosi con le mani e sospirò. «Beh, dimmi almeno a cosa devo essere pronto» disse, chiudendo lo sportello. «A quest’ora?» fece lei «A niente!». Aggirò la zona più infida col talento di una conoscitrice di terreni ghiaiosi, uscendone illesa, senza nemmeno un graffietto sul tacco delle scarpette di vernice. Lo condusse sotto un’arcata fatta di sbarre arrugginite, una di quelle sulla quale in un tempo lontano doveva essere stato avvinghiato un tendone d’ingresso. Arrivarono alla porta a vetri, di quelle che dall’altra parte hanno il maniglione antipanico e antincendio. Dopo che lei l’ebbe oltrepassata, Enoch la tenne aperta con una mano, mentre il suo sguardo cadeva inevitabilmente sull’impronta che qualcosa - probabilmente una mazza - aveva lasciato sul lastrone di vetro spesso. Si affrettò a muovere qualche passo, dal momento che Lilli si era già dileguata nel locale. Sul pavimento era disposto un piastrellato di un bianco sporco, come quello di una cucina, con la differenza che doveva essere abituato a farsi calpestare da centinaia e centinaia di suole di scarpe ogni notte sino al mattino. Non a quell’ora, però. Il bancone era vuoto, la donna dietro il registratore di cassa, che aveva il suo posto in un angolino in ombra della sala, si sorreggeva una guancia con una mano. Tutt’intorno tavolini e sedie che somigliavano in maniera impressionante a quelle che si trovano nelle scuole pubbliche. Una melodia familiare, a volume notevolmente alto, si diffondeva dagli amplificatori giganti, ai lati di una modesta pista da ballo. «Più avanti fanno musica più pesante.» riprese Lilli, girandosi a guardarlo «Sai, heavy metal, hardcore, quella roba che non sai manco come classificarla... Ci trovi la peggior gente che puoi immaginare: tutti quegli incazzati col mondo che hanno bisogno di vestirsi con gli stivaloni borchiati alti sino al ginocchio e magliette smanicate anche a dicembre. Anticonformisti di tutte le taglie, alcolizzati, fumati, qualche drogato perso… Ogni tanto anche qualche trans particolarmente intraprendente». Enoch storse la bocca, un poco a disagio. «Ma tu ci sei già venuta qui, allora?» non poté fare a meno di domandarle. «Quand’ero più piccola ci facevo un salto ogni tanto. Sai, mi prendevo la licenza di sentirmi giovane e ribelle» rispose lei, ridendo.
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«Giovane e ribelle tu?» fece lui, sarcastico «Non ti ci vedo proprio». «Beh, in effetti non ero mica diversa da adesso, solo che questo qua era una sorta di posto proibito. Per una ragazzina venire qui voleva dire essere una con le palle. O almeno così credevamo io e Gloria». Enoch affondò le mani nelle tasche e si guardò intorno, incrociando lo sguardo di uno dei due baristi che stavano dietro il bancone. «Se è un ritrovo per ragazzini non può essere così terribile» disse, tornando su di lei. «Oh, sì che può. E poi lo vedrai. Tutti gli svalvolati della zona si ritrovano qui, di tutte le età. C’è tanta gente neutrale, per così dire, ma ci sono sempre anche quei mattoidi che si sentono parte di una qualche comunità di alternativi e non possono fare a meno di ritrovarsi qui. Nooo, guarda lì!» esclamò di colpo, trottando via. Si fermò davanti a un flipper di vecchia generazione, uno di quei residui degli anni ottanta che fecero la fortuna delle sale giochi. Senza poterne fare a meno, i polpastrelli avevano trovato i pulsanti al lato per muovere le palette, i muscoli carpali delle mani avevano già trovato il loro incastro naturale contro gli spigoli consumati del cassone. «Da non crederci, c’è ancora.» disse Lilli, fra sé, intanto che spalettava a vuoto «Ero un drago con questo aggeggio, sai? Gloria non è mai riuscita a far meglio di me. Ero la campionessa incontrastata». «C’è anche il biliardo.» mormorò Enoch, gettando un’occhiata verso un tavolo verde un po’ malmesso, di quelli con le buche larghe «E il biliardino». «Non avrai pensato che ti abbia portato qui senza una ragione, vero?» gli domandò lei, staccandosi dopo un ultimo affondo dal flipper «Qui qualcosa da fare lo troviamo per forza». Il giovane si guardò intorno ancora una volta, dubbioso. «Se non ti senti a disagio vestita come una diva di Hollywood in un locale che si chiama la Topaia…» disse, guardandola di nuovo dalla testa ai piedi. «Per niente! Sono col mio cavaliere che mi protegge, per cui posso andare in giro dove voglio e come voglio.» allargò il proprio sorriso, staccandosi dal flipper per muovere qualche passo verso il bordo del tavolo verde «Ci sai giocare?». «A biliardo? Non conosco nemmeno le regole». «Peccato.» commentò lei, socchiudendo gli occhi «Ho sempre avuto un debole per i giocatori di biliardo». Enoch incrociò le braccia, sollevando il capo sin quasi a reclinarlo.
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«A biliardino sì» disse, gettando un’occhiata sulla fila di giocatori rossi e blu impilati nelle stecche. Lilli li guardò a sua volta. «Non è proprio la stessa cosa, mi sa» ribatté, con aria scettica. «In alternativa potresti insegnarmi a giocare a biliardo.» propose lui, senza scomporsi «Cercando di evitare che vada a finire come per gli scacchi». «Non ci penso nemmeno!» lo smentì subito la ragazza, scuotendo il capo «Chi ti ha detto che conosco le regole del biliardo, poi?». «Se ti piacciono i giocatori di biliardo…». «Non vuol dire che conosca le regole!». «Ma non possono essere così difficili, dai. Ci sono solo due stecche e qualche palla, in fondo». «Io prendo due gettoni, intanto.» tagliò corto la ragazza, dirigendosi verso la donna col registratore di cassa «Fammi vedere quanto sa essere macho un giocatore di biliardino». Un batti e ribatti secco, qualcosa che riecheggia come dentro a una cassa armonica metallica, un poco arrugginita. Con quello “stennn!” che sa di vecchio e che si fa sentire quando la pallina finisce in rete. Poi il resto è come un pendolo impazzito che scandisce ogni battito, senza un ritmo, solo un furore di colpi e di polsi che si girano e si scuotono, con le birre che traballano dentro i bicchieri di plastica, infilate in quei buchi circolari accanto al segnapunti. «Sei un po’ scarsino, tesoro bello». «Scusa, è il tuo ciondolino». «Il mio ciondolino? E che c’entra con come giochi?». «Beh, ti saltella lì davanti, proprio sullo scollo del vestito. Mi viene difficile seguire la pallina, con quello davanti». «Piantala di fare il guardone e gioca!». «Non faccio il guardone». «Gioca». «E’ che mi deconcentrano». «Gioca!». Quando non sei buono è tutta questione di riflessi. La pallina impatta contro i piedi dei giocatori prima ancora che il tuo cervello abbia dato l’input. D’istinto dai uno strattone a quella manopola e tuta la fila scatta, col risultato che ti domandi come hai fatto e perdi la pallina di vista o la manchi clamorosamente, così magari ti arriva un altro tiro. E’ segnare che è più difficile, tiri e non fai altro che spedirla a lato, ti rimbalza contro e a momenti te la tiri in porta da solo. Quando non sei capace, ti puoi giusto affidare alla coordinazione occhio-mano, imparando al massimo a non farti troppe domande sui salvataggi
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miracolosi che ti riescono ogni tanto. Poi se ci prendi la mano nasce un agonismo che non si vedeva neanche nei migliori combattimenti di Muhammad Ali, di quelli che mettono in campo forza di volontà e fiera determinazione, la risoluzione a non perdere, a chiedere la rivincita sicuri di farsi valere. E se non è questa volta, magari la prossima. «Frullare non vale, però!». «Uffaaa...». «Eh no, è una delle poche cose che so anch’io». «Le donne sono cavallerescamente esenti da ogni regolamento». «E dagli con la cavalleria». «E poi tu hai fatto il gancio, prima!». «Il che?». «Non vale il gancio!». «Ma non so nemmeno cos’è ‘sto gancio!». «Il gancio! Aspetta… E’ quando fai così… Passi il pallone da un attaccante laterale a quello di mezzo e… Tiri, così.» “stenn!” «Gol. Segna». «Segna un cavolo!». «Ma ho fatto gol!». «Hai appena detto che non vale!». «Ho anche detto che sono esente dal regolamento». «Dai, te l’ho praticamente fatto passare io!». «Ti fidi troppo della gente, mio caro». «Ma così arrivi a sei, ho automaticamente perso!». «Toh, è vero. Aspetta un secondo, allora, il tempo di prendere tutte le palline che rimangono e infilarle nella mia porta, così ti rendo la sconfitta meno disonorevole». «Lil-». «Oh, piantala di brontolare. Andiamo a ballare». Enoch rimase con le mani sulle manopole, il peso gli ci ricadde tutto sopra, tanto che a momenti il biliardino si sollevò da una parte. Di colpo, poi, vi si staccò, come se si fosse scottato. «Nonononono.» rispose subito, agitando ampiamente il dito indice da una parte all’altra «Levatelo pure dalla testa». «Oseresti dire di no ad una fanciulla?» fece Lilli, sbalordita, con gli occhi spalancati, a cui l’eye-liner dava ancora più risalto. «Oserei sì!» replicò con veemenza «Che ti prende, sei ammattita?». «Solo perché ti ho chiesto di ballare? Non mi hai mai detto che non ti piace, non lo sapevo». «Lilli, sul serio, non se ne parla nemmeno.» Enoch incrociò le braccia, indietreggiando di un passo; tutto il suo corpo, o almeno così
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le parve, fu scosso dalla tensione nervosa «No, no, scordatelo. E’ al di là delle mie forze, non ce la faccio». «Ti sembra qualcosa di più azzardato di quello che abbiamo già fatto?». «Mi sembra qualcosa che non è il caso di fare, punto e basta». Lilli non si fece problemi ad ignorarlo. «Libero di pensarla come vuoi.» disse, sfilandosi il cappotto e andandolo a posare su una sedia a ribalta, tali e quali a quelle che c’eran0 in facoltà «Resta il fatto che io ho voluto fidarmi di te anche quando non sarebbe proprio stato il caso, se ti ricordi». Lo piantò lì senza aggiungere altro. Enoch rimase con le braccia incrociate e la bocca distorta in una smorfia mentre scorgeva per la prima volta le sue spalle nude, completamente, senza che un solo ciuffo di capelli potesse offuscare il movimento armonico dei muscoli, delle scapole. Fu una vista che lo fece sussultare, gli fece cercare con dita tremanti il bicchiere di plastica della birra, ormai quasi vuoto. Quello schioccò, segno che era sul punto di rompersi. Enoch si guardò intorno, portandolo nervosamente alla labbra. Era entrato qualcun altro, ma poca gente, che avrebbe potuto contare tranquillamente sulle dita di una mano. O di due, esagerando. Sulla pista vuota, Lilli cominciava a muovere le gambe sode, il bacino ravvolto nella seta aderente del vestito. Enoch buttò giù un altro sorso di birra, rischiando di strozzarcisi. Tossiva ancora un po’ quando si decise a raggiungerla. O, per meglio dire, a fermarsi a due metri davanti a lei. «E’ che non so ballare» borbottò, con una voce che, come si rese conto lui stesso, non avrebbe potuto farsi sentire in mezzo alla pista. Lilli infatti piegò la testa, portando una mano a coppa all’orecchio. “Vieni più vicino” gli parve di leggere sulle sue labbra. Enoch fece un paio d’altri passettini. «E’ che non so minimamente ballare!» ripeté, aggiungendoci un avverbio per rendere meglio l’idea. «Non importa che tu sappia ballare!» gridò lei, tirando indietro la testa «Basta che tu ascolti la musica e la segui!». «Distinguere la musica sarebbe già qualcosa! Io sento solo del frastuono!». Lilli riabbassò la testa per ridere. «Immaginatela!» gli suggerì, scuotendo un braccio «Tanto quando la gente balla fa come gli pare, non ce n’è uno che vada a tempo». Enoch si guardò intorno un paio di volte, provò senza entusiasmo a muovere una gamba. Sulle tempie gli rimbalzava il rumore insistente dei bassi, come un bombardamento tutto uguale, senza varianti.
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Spostò il peso da un piede all’altro, sulla suola gommata delle scarpe. Rannicchiò le braccia al petto, finendo per assomigliare a un feto nel ventre materno. Girò il viso da una parte all’altra per controllare che nessuno lo stesse fissando. Lilli fece il gesto di prendergli la testa fra le mani, fermandosi quando vide che riaveva di nuovo i suoi occhi. «Piantala di guardarti attorno!» gli intimò, sillabando bene ogni parola «Tanto nessuno ti considera! La gente viene qui per bere, si butta in mezzo a una pista proprio perché può fare quel che gli pare!». «Ma se non so come si fa!». «E perché, secondo te c’è qualcuno lo sa? Non c’è neanche il dj nella cabina, solo un disco registrato che fa il solito giro tutte le sere! Guarda me, guarda me, guarda soltanto me!». Lui si lasciò dirigere il viso, lo sguardo, obbedendo senza neanche capire cosa le stesse dicendo. Mosse piano la testa per seguire quella di lei. Piegò il ginocchio, un po’ troppo di botto. Provò ad appoggiarsi sulla punta di un piede. Guardarla era facile, persino naturale. Imitarla un po’ meno. Ma seguire l’alzarsi della fronte, la scintilla dei suoi orecchini, il lucore appena accennato, molle e invitante, delle sue labbra, il discendere lungo il suo collo sulla linea sottile dell’argento e della pelle. Quando risaliva lungo la linea del suo braccio che si levava, sfocato nella penombra, e scorgeva il braccialetto che vi si abbandonava e gli anelli che catturavano la luce del lampadario, gli sembrava di essere davanti a un’odalisca, a una principessa orientale amante della danza, al punto da osare di ballare da sola, con le ancelle vestite di veli colorati schierate contro la parete. Gradualmente fu come perdere cognizione del proprio corpo. Il mondo trovava il suo assetto in quella visione ondeggiante, fluttuante, dove ogni cosa ritrovava il suo fulcro soltanto nel viso di lei. Gli fece cenno di farsi ancora più vicino, lo chiamò a sé. Il suo pensiero non conobbe l’esitazione, nemmeno se la vide passare davanti. Il suo volto si affacciava a scatti, scompariva in una sferzata dei capelli, in cui si erano intrecciate le sue dita, i suoi anelli. A tratti indietreggiava, tornava a lui, si metteva di profilo tra i flash delle luci che andavano e venivano fulmineamente, insistenti, ubriacanti. Non seppe dire come, non seppe dire quanto. D’un tratto non c’era altro che un assolo di chitarra elettrica che graffiava i muri, la sala era sprofondata nella penombra fumosa. I loro corpi avevano rallentato i movimenti, il viso di lei era quei dieci-quindici centimetri più in basso, i soliti, e soltanto quelli. Un flash passava ogni tanto a illuminare le sue guancie fresche, lucide, forse un poco umide di euforia. Tutto quanto andava pianissimo, come loro, perché non c’era
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nulla oltre il minuscolo spazio in cui si erano raccolti. Le loro membra si accoppiavano in movenze fluide, appaiate. Ad Enoch sembrava di avere nelle orecchie un valzer di Strauss, di leggerlo anche in ogni sfumatura del suo viso, attraverso i tremiti impercettibili nelle sue iridi, nel loro calore. Le labbra lasciavano intravedere la fila bianca dei denti, il respiro vi filtrava, poteva vederlo dall’empirsi e svuotarsi del suo petto. «Stai sudando» gli disse Lilli, nulla di più di un sussurro, che lui riuscì comunque a capire, nonostante la musica avesse ripreso a rimbombare come prima. Enoch si ritrasse lentamente, sentendo improvvisamente i vestiti appiccicati addosso. Si passò due dita sulle fronte, scoprendola effettivamente madida di sudore. «Credo di non esserci tagliato» ribatté, intanto che sentiva le gambe che cominciavano improvvisamente a vacillare. «Vieni, zuccone.» fece lei, facendogli un cenno col capo mentre si allontanava dalla pista «Devo anche controllare che la borsa sia ancora al suo posto». La Topaia cominciava infatti a riempirsi. Enoch rimase per un secondo sulla pista a massaggiarsi la nuca, prendendosi quel tempo per domandarsi quando fosse entrata quella gente e, di conseguenza, quanto tempo fossero rimasti loro sulla pista. Gli sembrava una canzone soltanto, ma non era facile distinguere se effettivamente si passava da una all’altra oppure se semplicemente era cominciato un attacco diverso. Scansò un tizio attempato che si dirigeva verso il bagno e tornò da Lilli, che riemergeva in quel momento senza staccare gli occhi, se non con riluttanza, dalla propria roba. Enoch si fermò dietro un biliardino, senza aver ancora tolto la mano da dietro il collo. La giovane alzò il viso per guardarlo in faccia e cominciò a sorridere. «Mi sembri provato» commentò, a sfottere. Enoch lasciò ricadere le braccia, si appoggiò con entrambe le mani alle manopole del biliardino. «Non sono la persona più adatta per fare un balletto» ammise, tirando il fiato. «Scherzi? Sei andato…» fece un’espressione confusa «Bene. Tutto sommato bene. Meglio di quel che speravo, via». «Vuoi dire che sei stata a guardare come ballavo?». Lilli aprì la bocca, ma non fece parola. Alzò un dito per dire qualcosa, fece schioccare la lingua contro il palato.
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«In ogni caso grazie per le ritrattazioni.» aggiunse Enoch, piegando il capo e sollevando il pollice «Sei andato bene, benino, alla fine quasi passabile». «Scusa.» fece Lilli, riuscendo ad accennare una risata «Non intendevo quello». «Ah, non importa, figurati. Tanto non mi rivedrai ballare tanto presto, sta tranquilla. Non ho il fiato per questa roba». «Ma va, quante storie!» esclamò lei «La prossima volta facciamo una bachata, d’accordo?». Enoch le gettò un’occhiataccia. Lei gli rispose con una risata, quindi si sporse in avanti per fargli la linguaccia. «Su, su, che adesso ti vado a prendere qualcosa per ridarti un po’ di vigore!» fece, girandosi per recuperare la borsa «Va bene un’altra birra o vuoi qualcos’altro?». «Ancora? Contando anche quello che ho bevuto al Lounge…». «Hai pure ballato.» ribatté Lilli, ferma con la borsa in mano accanto a lui «Non hai ancora digerito?». «A dire il vero mi sento più brillo di prima» e in effetti non si era ancora staccato dalle manopole. «Beh, anch’io non è che sia al cento per cento.» confessò Lilli, spostando come inavvertitamente gli occhi sul biliardino «Ma non si può, bisogna finire la partita a questo qua.» riprese, schizzando via come una lepre «Non si può mica farla a stomaco vuoto». E di nuovo un batti e ribatti, i colpi secchi della pallina che andava da una parte all’altra del campo, di nuovo la birra che traballava nei bicchieri di plastica, che tracimava quando tiravano con forza il biliardino intero, facendolo saltellare o muggire mentre tracciava una striscia nera sulle piastrelle già scure. Tra grida di rabbia e cori da stadio che facevano voltare persino i più sballati, che cominciavano a spuntare qua e là, coi rasta lunghi fino a metà schiena e due etti di piercing in faccia, i rappettari col cavallo dei calzoni al ginocchio, i feticisti vestiti di pelle nera… Finì cinque a cinque, l’unico possibile risultato di parità quando fanno la grazia di scendere tutte le palline. Sarebbe dovuta continuare, con qualche altro gettone, perché il pareggio non va mai bene a nessuno. Lilli aveva riaperto la borsa, ci frugava dentro in cerca del portafoglio; Enoch faceva la somma dei propri spiccioli per vedere se ci arrivava. Vennero in due, ragazzi sui diciott’anni, di quelli quasi normali. Uno cominciò a far scorrere il segnapunti da una parte all’altra. «Ragazzi, partita?» domandò l’altro.
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Lilli era ancora con la borsa in mano, aveva appena trovato i soldi. Li fissò, spostando gli occhi verso Enoch, senza poter dare loro una risposta. Lui aveva rinunciato alla ricerca degli spiccioli perduti, si sorreggeva di nuovo con le manopole. Si guardò intorno, strinse le mani con forza, forzando i piedi del portiere contro la traversa. «Se non avete paura di perdere» rispose, alzando il viso. Quello con le dita sul segnapunti sghignazzò ferocemente, buttando la testa indietro. «Paura noi?» quasi urlò, indicandosi «Tu non ci conosci! Andiamo a prendere da bere e poi vedrai!». Lilli spalancò gli occhi su di lui, intanto che i due marciavano verso il registratore di cassa. Sulla bocca di Enoch era rimasto un mezzo sorriso. «Hai detto di sì» disse, stupefatta, senza ancora smuoversi. «Di sicuro loro non conoscono me» osservò lui, riabbassando la testa. «Che ti frega!» fece Lilli con un ampio gesto, aggirando il biliardino «L’importante è stracciarli prima che se ne accorgano!». «Io però sto in difesa, tu sei più brava a segnare». «Niente in contrario, zucchero». E così ricominciava. Partì lentamente, per il vero, coi tatticismi e la pallina che filava troppo lenta per rendersi pericolosa. Poi, dopo una ventina di secondi, impennò di colpo. E allora di nuovo con gli schiocchi, il rumore delle molle delle stecche che vengono schiacciate a forza di affondi, urla, strida, bestemmie, minacce e maledizioni. Una botta sorda quando la pallina si incastrava sotto i piedi di un difensore e per un attimo tutti trattenevano il fiato e si immobilizzano con gli occhi spalancati, poi di nuovo girare il polso e rispedirla avanti, e dagli con uno sgambettamento a vuoto, cinque paia di gambe saldate che volano verso l’alto tutte assieme, i quattro bicchieri che a forza di spintoni avevano fatto una chiazza giallognola sul pavimento, con un po’ di schiuma, il tavolo che volava verso l’alto quando tra grida belluine venne sollevato da tutti e quattro, chi più chi meno. La pallina schizzò fuori un paio di volte, la prima tra le seggioline da scuola, la seconda improbabilmente verso l’alto, a campanile, tanto che uno dei due ragazzi la agganciò con un colpo di testa, ributtandola nel campo, con un impeto tale che Enoch dovette arretrare di scatto col busto per non prendersi una testata in mezzo alla fronte e allo stesso tempo non dimenticarsi della pallina, che ripiombò pericolosamente dalle sue parti. Cori da ultrà e strani balletti per ogni volta che la lamiera della rete risuonava per un gol,
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brindisi sboccati ogni due o tre. Erano in quattro e facevano casino per tutto quanto il resto del locale. Lilli ed Enoch uscirono dalla Topaia un po’ traballanti, col viso arrossato e un ghigno tra l’ebete e lo sbronzo sulla faccia. La gente entrava a frotte, per raggiungere il parcheggio saltarono oltre i resti arrugginiti dell’impalcatura per il tendone d’ingresso, finendo coi piedi nella terra e i ciuffetti d’erba. Urlacchiavano e ridevano come scemi, guadagnandosi qualche occhiata, e Lilli sempre qualcuna in più del giovane. Arrivarono a sentire la ghiaia sotto i piedi. «Ma perché non hai visto come sono sgusciato per guadagnarmi l’uscita!» ripeteva Enoch, tra un attacco di risate e l’altro «C’era… C’era…». «Perché tu non mi guardavi mentre facevo vedere il dito medio a quell’altro maniaco!» continuava Lilli, sbracciandosi esageratamente prima di prendersi la fronte tra le mani. «Ma il mio è stato un tuffo a coso…» e lo mimava «A volo d’angelo!». «Un angelo caduto in voooloooo, questo-». «Spiaccicato sull’asfalto nell’ora di puntaaa!». «Ma fammi finire, almeno!». «Ma l’ho capito che c’era uno che ti ha guardato il culo! Che speravi, vestita da gnocca come sei?». «Non parlavo di quello! E falla finita di ridere!». «Ti ho fatto un complimento, perché t’incazzi?». «Perché non mi stai mai a sentire! Io ti stavo cantando una canzone!». E giù a ridere daccapo, perché tanto non c’era nulla da fare, ormai la ridarella sarebbe durata almeno un quarto d’ora buono buono. Aprirono le portiere, si lasciarono letteralmente cadere sui sedili, sbuffando per regolarizzare il respiro. Si guardavano con la bocca aperta, la lingua che spuntava e poi tornava dentro quando facevano una pausa e deglutivano. «Certo che prestazione, però.» disse Enoch, esaltato «Non mi ricordavo di essere così bravo a biliardino». «Altroché, dovrebbero metterti titolare della nazionale!» rincarò lei, allungando una mano per battere un colpetto sul cruscotto «Non li facevi proprio passare!». «E tu gliene hai infilati di belli, non si vedevano manco partire». «Puoi dirlo forte, li abbiamo ridicolizzati». «In quella che abbiamo vinto, forse». «Va beh, anche la prima l’abbiamo persa per un pelo, in fondo». «Eh, sì, secondo me l’ultimo l’hanno fatto che erano in fuorigioco». «Bravo, in fuorigioco! La terza pace, ok, quanto l’abbiamo persa?».
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«Nove a uno». «E va beh, che vuoi che sia». «’Nsomma, sembrava d’essere a Caporetto». «Ora non la mettere così tragica, via». «No, anzi, è stata tutta colpa di un calo di forma dei nostri giocatori. Non si erano preparati a dover affrontare così tante partite». «Giusto, ecco quello che succede quando non c’è un’organizzazione che funzioni come si deve. E devono aver sentito anche il cambio di stagione, erano fiacchi». «E il cambiamento del tempo.» aggiunse Enoch, guardando il cielo «Mi sa che domani va a piovere». «Domani?» domandò Lilli, colpita, girandosi verso di lui. Il giovane esitò per un attimo nel vedere la sua reazione. «Domani, sì» rispose quindi, senza capire. «Allora c’è ancora tempo prima che arrivi domani!» stabilì di punto in bianco, sollevandosi per poter controllare l’orologio dell’auto sul quadro acceso «Sì, guarda ancora quanto ce n’è!». E se non ce ne fosse stato non sarebbe cambiato niente. Andavano senza una direzione, adagio, tra le sfanalate di quelli dietro, il ruggire quasi maestoso dei motori mentre li sorpassavano, le facce arroganti di quelli che stavano alla guida, guardando fissi davanti, con gli occhi di un consumatore di peyote pieno di mescalina fino alle orecchie. L’autoradio riciclava i soliti motivetti già sentiti, a tratti li cantavano in un duetto improvvisato, poi uno dei due prendeva il largo, andava per i fatti suoi in solitaria. Si ritrovarono sul lungomare, sempre lì andavano a finire, perché avventurarsi in direzione opposta, verso monte, significava sparire nel nulla, fino a dove non avrebbero trovato neanche più i lampioni. Incolonnati ai semafori, in attesa di scorgere la comparsa del verde oltre il tettuccio delle macchine che avevano davanti. Ma dove andiamo, dove vuoi andare, quando ormai c’è ressa ovunque, non c’è rimasto nemmeno più lo spazio per le strade. E invece andare ancora avanti, alla deriva, lui con gli occhi sulla strada, lei che guardava fuori dal finestrino. «Che cosa c’è di là?» domandò Enoch, intanto che la macchina filava, filava, lungo la strada diritta. «Di là dove?». «Di là dove non c’è niente». Lilli spostò gli occhi verso la direzione che lui aveva accennato col capo, oltre le insegne degli stabilimenti balneari e le loro siepi. «Niente.» rispose con ovvietà «C’è il mare». Enoch mise la freccia, iniziò risolutamente la manovra di parcheggio, quasi senza rallentare.
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«Che fai?» gli chiese Lilli, sorpresa da quella mossa improvvisa. Lui non rispose. Si limitò a centrare il riquadro segnato di bianco, anche se erano tutti liberi. Più avanti sì che si scorgevano ancora luci, quelle delle automobili e di un locale, una discoteca, gli sembrava di ricordare. Enoch girò la chiave, la radio si ammutolì. «Bene.» commentò lei «E ora?». «E ora ci facciamo un giro.» rispose l’altro, aprendo la portiera «Ci si potrà andare, no?». «Teoricamente no, altrimenti non metterebbero una sbarra all’entrata del parcheggio.» rispose Lilli, indicandola, senza ancora alzarsi dal sedile «I confini del bagno sono recintati, poi». «Non avranno recintato tutta la spiaggia». «Tutta no. Il più possibile sì». «E allora non avranno messo una recinzione troppo alta da non poter essere scavalcata. Su, schiodati da lì, ci vuoi restare in eterno?». Si incamminarono entrambi. La sbarra si superava tranquillamente, era bassa e c’era spazio anche per passarci a fianco, appiattendosi. Bastò superare quell’ostacolo perché Lilli si sentisse d’un tratto presa da quella minuscola trasgressione. C’era la ghiaia, di nuovo la ghiaia, sempre la stessa, ma che stavolta sembrava più fine. Passarono dietro a una siepe per nascondersi da eventuali curiosi in macchina, e cominciarono a percorrere il recinto, quel classico steccato di legno bianco da villino coloniale americano. Raggiunsero la costruzione di legno che c’è in ogni bagno, quella che chiamano il bar, il quartier generale di tutto lo stabilimento. Gli accessi erano stati tutti sistematicamente sbarrati col pantografo, con qualche lucchetto. Ci girarono intorno, saltarono un travicello di legno sottile, passarono sotto le docce incappucciate con dei sacchettoni di plastica. Trovarono l’ingresso alla spiaggia e il cancellino chiuso, basso. Oltre quello, d’altra parte, non c’era nulla da rubare. Solo il mare. Lo scavalcarono senza difficoltà, uno alla volta. La sabbia solleticava i piedi nudi, i talloni vi affondavano, le punte si riempivano dei suoi infinitesimali granelli. Portavano le scarpe in mano, le reggevano soltanto con le dita. Camminavano piegati un poco in avanti per mantenere l’equilibrio su quel terreno cedevole, vergine di impronte, appena increspato da tante, piccole dune. Andavano verso l’acqua, senza parlare, solo con qualche sospiro ogni tanto, per non far seccare la gola. Un vento caldo spazzava la rena, uno scirocco insistente che non prometteva niente di buono. E infatti, sul mare, al largo, si scorgevano saette di un rosa pallidissimo, diafano, illuminavano il profilo della costa, quello vaghissimo, solo intuibile, delle isole che si vedono solo di giorno, sotto il sole. In
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silenzio, a stento si udiva anche solo il rumore del vento che sfrecciava attorno, scuotendo i vestiti, drappeggiando le bandiere alte, distanti ormai alle spalle. Parlava il mare, muggiva come un corpo vivo, ribollente. La sua enorme massa nera prendeva aria, si gonfiava, dai suoi pori fuoriusciva una schiuma bianca, si tuffava e scompariva, per poi fare la ricomparsa a pochi metri dal bagnasciuga, espandendosi, divorandone metri e metri per poi ritirarsi e provare un nuovo assalto. Di nuovo, di nuovo, di nuovo. Senza che si udissero tuoni, né il crepitare spaventoso sopra la sua mente sprofondata oltre la costa e le isole. Lilli ed Enoch camminarono sul ciglio della sua potenza irrequieta, per un poco, ma finirono per fermarsi. Si volsero al mare, coi piedi affondanti nelle sue carni asciutte. Enoch si abbassò, si mise giù, accosciato. Lilli lo guardò, rimanendo in piedi. Dopo alcuni secondi, si chinò e si sedette senza preoccuparsi tanto del cappottino, del vestito. Si circondò le ginocchia con le braccia, le raccolse al seno. Guardavano le onde, seguivano il loro parto sin dove gli occhi glielo permettevano, si soffermavano a lungo sugli ultimi strascichi del loro velo biancheggiante. Senza stancarsi, senza parlare, respirando l’aria densa di salmastro, il rombo cupo del mare mosso, che si preparava a scuotersi furiosamente, come un colossale cavallo scalciante. Con gli occhi affogati nel niente, nella sua sterminata vastità. «Ho sempre avuto paura del mare di notte.» disse Lilli, con la voce flebile «Te l’ho già detto, no?». Enoch girò la testa, smise di fissare il mare per concentrarsi solo sul profilo del suo viso. «Così grande e buio che riusciresti a intuire le onde solo quando ti si infrangerebbero addosso.» continuò lei «Mi è rimasto addosso il terrore di quegli incubi: di immergermi nelle sue acque nere e non essere capace di riconoscere il fondo dalla superficie, di nuotare in una direzione credendo di uscirne, solo per addentrarmici ancora di più. Al punto che da sola non avrei mai osato di venire fin qui, in una notte come questa. Per paura, solo per paura.» le sue labbra produssero un debolissimo schiocco nel separarsi; Lilli alzò un braccio per indicare il mare «Ora guarda cosa mi sarei persa, se anche stasera avessi avuto paura». Enoch si era seduto a sua volta. A quel gesto e a quelle parole spostò lo sguardo sulla linea dell’orizzonte, alzò maggiormente le palpebre quando per un istante un altro fulmine lacerò il cielo. Aprì e chiuse la bocca, ma appena appena, tanto che a stento se ne intravide il movimento. Lilli aveva fatto ricadere il braccio, era ferma.
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«Forse non c’è ragione di aver paura di nulla.» mormorò, stavolta voltandosi lei per prima «Forse ogni paura reca in sé qualcosa di buono. Qualcosa che non andrebbe tralasciato». Lui socchiuse gli occhi, li posò sulle sue stesse gambe. Raccolse un pugno di sabbia, lo fece ricadere piano. «Ciò che non vuoi conoscere per paura non potrai conoscerlo mai. E’ qualcosa a cui rinunci.» disse, tornando a sollevare il viso «E la vita è una. Non puoi rifarti nella successiva». Un attimo dopo colse un movimento, sentì la sabbia sprofondare sotto il suo palmo. Abbassò gli occhi di scatto, scoprì la mano di Lilli proprio lì accanto, premuta sul solito, mutevole sostegno. Il suo viso si era sporto sino al suo, il suo alito gli accarezzava le labbra, una ciocca dei suoi capelli, mossa dal vento, si protendeva verso il suo zigomo. Enoch trattenne il fiato, le sue membra si irrigidirono. «Non penso che mi importi più qualcosa della paura.» sussurrò, e le parole si deponevano sul suo volto, lo incendiavano «Penso che mi importi soltanto di questa vita. Di come intendo viverla, che sia lunga o brevissima». Lui non aveva ancora ricominciato a respirare. «Lilli, ti prego, non lo fare» riuscì comunque a dire, velocemente, con le ultime sillabe che si potevano soltanto intuire. «Non possiamo continuare così» insistette lei, senza rinunciare, senza perdere alcunché della delicatezza triste con cui gli si rivolgeva. «Non ci sarebbe un futuro, se tu lo facessi». Lilli distolse lo sguardo per un istante, ma né le sue dita, né il suo collo né il suo labbro tremarono, quando riaprì i suoi occhi grandi davanti a quelli del giovane, dentro di essi. «Neanche se mi offrissi a te completamente, in questa notte?» sussurrò, ed Enoch fu scosso dalla testa ai piedi, ritrasse il viso; lei tornò a colmare quelle distanze minime e incalcolabili «Io e te soltanto, su questa spiaggia deserta, con soltanto il rumore del mare nelle orecchie, senza niente intorno. Nessuno verrà, nessuno ci cercherà. Soltanto io e te e quella tempesta a proteggerci da lontano, i suoi fulmini che nemmeno vedremo, l’odore della salsedine e quello della nostra pelle, il nostro calore e il suo vento…». Lui ansimava attraverso la bocca aperta, aveva artigliato le dita alla sabbia, l’aveva segnata con file di solchi che non sarebbero arrivati all’indomani. Provava a dire qualcosa, senza riuscire a spiccicare una parola. Lilli era incatenata a quei pochi, pesanti centimetri che li tenevano disgiunti. «Cosa ne sarà di me, quando tu non ci sarai più?» domandò di scatto Enoch, senza sapere come.
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Lei non si mosse. Le sopracciglia si abbassarono, schiacciarono i begli occhi sotto di esse, disegnarono l’accenno di una linea sulla sua fronte liscia. «Potrebbe non essere vero niente…» provò a dire. «Lo è. Lo è tutto quanto». «Ma me l’hai detto soltanto tu, ho solo la tua parola…». «Dio voglia che tu abbia soltanto quella per sempre». Lilli chiuse gli occhi con forza. Si rifiutò di vedere ancora un istante. Si tirò indietro, si ricacciò da sola sulla sabbia. Avrebbe voluto sprofondarvi, implorava che la inghiottisse quel niente eterno, per non dover più sentire quel freddo improvviso che giungeva assieme al vento e le faceva nascondere il capo tra le spalle. Sentì Enoch che si muoveva, che provava a farsi più vicino. «Lilli, ti prego…» stava già sussurrando, con la voce impastata di amarezza. «Io non riesco a capire come sia possibile che tu possa farmi del male. Come tu possa anche solo far del male a qualcuno.» ribatté lei, prendendosi il viso nella mano su cui era rimasta la sabbia «Non ce la faccio, non ce la faccio». Enoch abbassò la testa e i pugni chiusi. Ripeté il suo nome, tentò di cominciare un discorso. «Almeno avessi visto!» riprese lei, interrompendolo «Almeno avessi avuto la prova di quello che sei! Non è mai successo niente, niente, da quando siamo insieme!». «Perché non voglio fartelo vedere, tesoro. E’ successo, succede continuamente. Solo io mi accorgo di cos’è che causo, nessuno potrebbe mai pensare che sia stato io, ma è così. Succede. E’ persino logico, se ci pensi bene. Credimi, tesoro…». «Io ti credo!» gridò lei, calando di scatto la mano «Ma non capisco! Non riesco a capire, in nessun modo!». Poi si riprese il viso nella mano e serrò i denti e gli occhi, obbligandosi a ricacciare indietro le lacrime, a non parlare per non lasciarsi scappare un singhiozzo. Tornando alla macchina, sentirono delle urla, degli insulti che qualcuno si scambiava reciprocamente in mezzo al chiasso. Affacciandosi alla siepe, videro due gruppi di ragazzi, il primo che doveva essere uscito da un’auto che aveva ancora gli sportelli aperti e le luci accese e l’altro per metà in sella ai motorini. Due ragazzetti, all’incirca sui sedici anni, si urlavano contro. Quello dei motorini sputò addosso all’altro, finendo per mancarlo. Gli amici li tenevano
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separati, a turno li prendevano da parte con la forza. Uno dei due arrivò a sedersi in macchina per qualche secondo. «Per favore, portatemi via!» ripeteva, sbracciandosi dentro l’abitacolo. Prima che potessero rimettere in moto, era già uscito, ma il gruppo dei motorini aveva fatto in tempo a convincere l’altro a mettersi il casco e a rimettersi in sella. Pur fra minacce e indici puntati, fecero schermo per far sì che si occupasse soltanto di portar via le chiappe da lì, mentre le marmitte facevano baccano e le ruote sgommavano sull’asfalto. Il ragazzetto che era rimasto con quelli dell’auto fece un mucchio di storie per non dover salire in macchina senza aver finito di ricordare a tutti che lui non era scappato. Dovevano essere usciti da quella discoteca con le luci, a qualche centinaio di metri da lì, si spiegarono Lilli ed Enoch. Lui si concesse un sorriso dolente. «Tanta rabbia, tanto casino e non si sono nemmeno sfiorati. Letteralmente.» disse, scuotendo la testa «E se anche l’avessero fatto prima, sarebbero stati poi tanto diversi da me?». 32- Centoquarantunesimo giorno, Giovedì Neanche a farlo apposta, capitava proprio quand’era a casa sua, da sola. Sua madre e suo padre avevano accolto quella novità con sarcasmo. Lilli da parte sua non sapeva nemmeno perché aveva deciso di starsene per conto proprio, in quel banalissimo pomeriggio. Aveva un paio di commissioni da sbrigare per la mamma e per sé e una camera da riordinare, come i bambini, ma era tutta roba che avrebbe potuto risolvere in un’oretta, massimo due. Avrebbe potuto cavarsela alla solita maniera di molte altre volte, solo che non volle. Senza rancore, direttamente senza una giustificazione. Perché “le era preso così”, si era risposta da sé. Fatto sta che non ci sarebbe potuto essere tempismo migliore. «Resto del mondo chiama Lilli, resto del mondo chiama Lilli, sei ancora viva? Passo» esordì Gloria, al telefono, probabilmente premendosi un pugno chiuso contro la bocca per alterare la voce. «Attualmente sì.» rispose la giovane, e subito le venne da ridere all’idea «Per pura fortuna, mi sembrerebbe il caso di dire». Dall’altra parte della linea seguì un breve silenzio. «Non sarai mica all’ospedale?» domandò quindi Gloria. «All’ospedale?» ripeté Lilli «Ma che sei, di fuori?». «Ah, meno male, vuol dire che non ci sei ». «Certo che non ci sono! Che ci dovrei essere a fare all’ospedale?».
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«Non lo so, è un secolo che non ti fai più sentire e ora mi dici che sei viva per un caso fortuito. Mi fai pensar male, se hai ‘ste uscite qua». Lilli fu di nuovo sul punto di mettersi a ridere e l’avrebbe anche fatto, in un altro giorno. «Intendevo che tutti i giorni rischiamo di morire.» disse, cercando se non altro di far ridere lei «Sai, i pericoli della vita moderna…». «Non comincerai mica a portar merda, vero?». «Non penserai mica di vivere in eterno?». Gloria si zittì di nuovo, poi Lilli la sentì schiarirsi la voce. «Sta a sentire, profetessa dell’apocalisse.» ricominciò «Ho già un oroscopo del cazzo questa settimana, se anche fai a meno di ricordarmi la vanità della mia esistenza sto bene lo stesso. Si può sapere dove sei finita?». Lilli si arrotolò svogliatamente uno straccio per spolverare attorno al dito indice. «Un po’ qua e un po’ là» rispose con indifferenza. «Che bella risposta, tesora. D’altra parte diceva “attenzione, le vecchie amicizie potrebbero rivelarsi insicure”. Vedi che ci ha azzeccato?». «Ma dove vuoi che sia stata?» esclamò Lilli, cominciando a camminare avanti e indietro per la camera «Sono stata con Enoch, stiamo insieme dalla mattina alla sera». «Wow, che resistenza!» parve complimentarsi Gloria «Full-time?». «Aha». «Full-sex?». «Affari miei, ciccina». «All’anima, come sei diventata riservata! Se non le dici a me queste cose a chi le racconti?». «Fammi pensare… A nessuno». «Ah, va beh, vorrà dire che me lo farò raccontare da lui». Stavolta fu Lilli a interrompersi, colpita da quell’ultima affermazione. «Scusa tanto, perché dovrebbe venirlo a raccontare a te?» chiese, puntando il solito dito davanti a sé, a vuoto. «Perché mi pare giusto invitare anche lui alla prossima… Boh, cena, uscita, passeggiata pallosa guardando le vetrine.» rispose Gloria, tranquilla «D’altronde è il tuo ragazzo, ok, ma tu sei ancora la mia migliore amica. E se non c’è modo di staccarti da lui neanche per un istante, l’unico sistema che resta è quello. Se la montagna non va a Maometto…». «Non mi pare che c’entri granché quel proverbio». «Chi se ne frega, l’importante è che ci siamo capiti, no? Allora, cosa devo organizzare? Dimmelo tu, sono a disposizione».
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«Glò, il problema non è quello, lo sai. L’hai visto anche a Capodanno» «Massì, massì, lo vedo che vuol fare il misantropo. Solo che il fatto che tu sia la donna del misantropo non fa di te una misantropa per forza, mi pare. Bella parola, però. Mi sa che è la prima volta che la uso. Ma voglio dire…». «Glò». «Sìsì, non parlo più del coso, del misantropo! Voglio dire… Non è che se lui è biondo devi ossigenarti anche tu. Così, se lui ha una… Abitudine, non è che deve attaccartela». «Sì, ma ho capito quello che vuoi dire». «Ecco, se l’hai capito…». «Sì, l’ho capito». «Vuol dire che ho fatto un’argomentazione coerente. Cazzo, mi sa che è la prima volta anche per questo». «E’ una giornata storica, segnala sul calendario». «Lo so, me l’aveva predetto l’oroscopo. Ma se io mi sono per una rara volta spiegata e tu hai capito, mi spieghi dove sta il problema?». Lilli sospirò, più pesantemente di quanto si sarebbe aspettato. «Eh, perché io fin lì non ci arrivo» continuò Gloria, senza essersene accorta o senza averla considerata. «Senti, gliene parlo, va bene?» acconsentì l’altra «Ora tra l’altro mi becchi in un momento che ho parecchio da fare…». «Ma non c’è mica fretta, cucciola. E’ solo per sapere che non sei ancora morta. E per spettegolare, beninteso». «Lo immagino cos’hai in mente, non ti preoccupare. Appena lo rivedo glielo dico e ti faccio sapere, ok?». «Appena lo rivedi?» obiettò Gloria «Ma non facevi il full-time?». «Oggi no. Ed è proprio per quello che non posso star tanto al telefono.» ribatté Lilli, spazientita «Dai, sul serio, mi tocca di staccare». «Va beh, va beh, come vuoi tu. Se mi dici che è tutto a posto…». «Ti dico che è tutto a posto, sì. Contenta? Finisco di fare quel che devo e guardo un po’». «Guarda, guarda. Ho un mucchio di cose da raccontarti». «Me le dirai tutte, sta sicura. Dai, stacco, ciao». «Ciao, tesora, riguardati». Lilli schiacciò il pulsante rosso, controllò il display del cellulare per essere sicura che la comunicazione fosse stata interrotta. Posò quindi il telefonino sulla scrivania, si infilò una mano tra i capelli. Faticava a ricordare un’altra occasione in cui aveva riattaccato lei per prima, in una telefonata con Gloria. E le sue ultime parole, che le erano parse
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piene di apprensione, forse anche di delusione… “Riguardati”, proprio come se avesse qualcosa, come se dovesse affrontare un qualche genere di convalescenza. Le veniva su un senso di tensione, d’incombenza. Di affanno. L’avvicinarsi dell’estate, si disse, che quando arriva sembra farlo senza preavviso, si mangia i giorni uno dopo l’altro con ingordigia. Un secondo prima è inverno, ma come si sveglia un barlume di primavera tutto quanto fila velocemente, ti ritrovi con le finestre aperte e le tende corte, in qualche ufficio vedi già girare le grandi pale di un ventilatore sul soffitto e non sai nemmeno come ci sei arrivato, fin lì. Tutto quanto si condensava improvvisamente in quell’attimo tra gli alberi in fiore e l’ormai prossima canicola sfiancante, opprimente, come in quell’attimo tra il sonno e il risveglio, dove non si sa bene dove si è, persino cosa si è, se quella materia onirica che si è mossa in solitudine per chissà quali luoghi o quel misero corpo separato che riprende coscienza tra lenzuola spiegazzate, con la coperta buttata giù dal letto. O almeno questo era quello che sembrava a lei, quando la primavera era appena sbocciata e l’estate ancora lontana, a distanza di mesi. 33- Centoquarantaduesimo giorno, Venerdì Ad Enoch non aveva detto ovviamente nulla. Le ritornò in mente la telefonata di Gloria proprio quando aveva passato il cancello di casa e lui stava già ripartendo. Non se ne curò, passò oltre; la occupava di più il pensiero di sedersi a mangiare. I suoi li trovò già seduti, coi piatti pieni degli ossicini del pollo, la caraffa dell’acqua mezza vuota, come accadeva puntualmente da quando lei ed Enoch avevano imparato a sfruttare tutto il tempo disponibile. A giudicare dalle loro movenze e dagli sguardi che si scambiarono, dovevano avere appena terminato una discussione. Il televisore era spento, nonostante fosse l’ora del rituale del telegiornale. Lilli si insospettì fin da principio. «Tornata» accennò soltanto, mentre posava la borsa sulla solita sedia. «All’ora giusta» replicò subito suo padre, che tra i due aveva sicuramente l’aria più contrita. «E’ andato tutto bene all’università?» domandò la mamma, cercando di attenersi al formulario già concordato, quello di sempre. Lilli si sfilò il giubbottino di pelle un po’ usurato, lo andò ad appendere per avere la scusa di uscire un attimo dalla cucina. «Mah, nulla di speciale» la sentirono dire dal corridoio, prima che ritornasse nella stanza, con le maniche già rimboccate sino al gomito.
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Intorno al tavolo c’era silenzio, si udì distintamente lo stridere dei gambi della seggiola sul pavimento. La mamma si alzò per scaldare la pentola col brodo, ci girò un paio di volte il mestolo dentro. Quel brodo che in casa durava dalla metà di settembre sino ai primi di giugno, anche quando faceva venire caldo solo a vederselo nel piatto, col fumo che sale fino agli occhi. Lilli allungò una mano fino al cestino del pane, cominciò a sbocconcellare una crosta. Intanto teneva gli occhi sul viso di suo padre, che appariva fin troppo impassibile, distante, come se non fosse seduto al solito tavolo. «E col ragazzo?» le domandò quando lei stava già rimestando col cucchiaio nel brodo. Lilli scrollò le spalle, tenendo lo sguardo incollato al piatto. «Solita roba» rispose sbrigativamente: aveva intuito che non poteva trattarsi d’altro che di quello. Il padre annuì, pescando uno stuzzicadenti dalla saliera. Non aveva neanche toccato la frutta, quella volta. La mamma faceva avanti e indietro tra i fornelli e la sedia, senza saper dove stare. «Perché non lo inviti a mangiare qui?» saltò fuori di punto in bianco l’uomo, senza smettere di tormentarsi i denti. Lilli alzò il viso, sbatté le palpebre. Prima di rispondere, cercò lo sguardo di sua madre, solo per ritrovarsela tutta intenta a guardarla e a cercare di nascondere la sua abituale tensione. «A mangiare qui?» ripeté la giovane, appoggiando l’indice sul tavolo. «Certo, perché no?» ribatté tranquillo il padre. «No, ora questa me la spieghi.» disse lei, posando il cucchiaio nel piatto «Hai passato anni a dire che la famiglia deve restarne fuori, mi hai espressamente vietato di portare in casa i ragazzi che frequentavo e ora sbuchi fuori con questa trovata qua?». «Beh, non c’è mica niente di male a voler conoscere un personaggio così popolare. Dopo tutte le storie di quest’inverno…». «C’è di strano che non è un discorso da te. Non lo faresti in circostanze normali, non provare a darmela a bere». «Liliana, sta calma…» s’intromise debolmente la mamma, ma ormai padre e figlia tiravano avanti da soli, sullo stesso binario. «Adesso sei più grande.» riprese infatti quello «Le cose sono diverse. Quant’è che state assieme? Tre, quattro mesi?». «Ma saranno tre mesi scarsi. Non mi pare la storia più lunga che abbia mai avuto in vita mia». «Eh, non è mica poco, comunque». Lilli restò zitta per un attimo. Agguantò il suo pezzo di pane e cominciò lentamente a sbriciolarlo sulla tovaglia, senza neanche rendersene conto.
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«Non è un po’ poco per invitare a mangiare uno che non hai nemmeno mai visto, se non qualche volta per sbaglio?» gli chiese, senza nascondere la stizza «Si può sapere da dove viene tutta questa curiosità, almeno? Cos’è, sei diventato l’amicone di tutti da un giorno all’altro?». Suo padre socchiuse gli occhi, intanto che spingeva lo stuzzicadenti tra due molari, con la bocca aperta e gli occhi rivolti verso l’alto. Lo lasciò poi in un posacenere, intanto che si tastava le tasche di camicia e pantaloni per cercare le sigarette. «Diciamo che le altre volte non eri uscita di testa così tanto.» rispose l’uomo, con tutta la sua calma «Esci la mattina prima che ci alziamo e ritorni quando abbiamo finito di cenare. E anche al di là di questo…». «Sono a studiare. Gli orari sono quelli che sono, cosa credi?». «Liliana, non mi prendere per il culo.» si tirò indietro, contro lo schienale, con la sigaretta spenta tra le dita di una mano «Io non ci giro tanto attorno, ma tu non mi far incazzare». Lilli sbuffò e scansò la solita frangia, anche se non ce n’era bisogno. Tacque, tenendo gli occhi bassi. «Vogliamo solo vedere che sia tutto a posto» mormorò la mamma, posandole una mano sulla sua. «Ma certo che è tutto a posto, perché non dovrebbe esserlo?» mugugnò la giovane. «A maggior ragione non c’è motivo perché tu debba farla tanto lunga, no?» disse il padre, dopo essersi acceso la sigaretta «Portamelo qui, non lo mangio mica». «Noo.» fece Lilli, rialzando il viso «Vuoi solo fargli il terzo grado». «La cosa ti dà forse fastidio?». Lei prese il pane con due dita, gli fece fare un salto in avanti. Così, senza un motivo preciso. «Darà fastidio a lui, immagino» rispose. «Quello è un problema suo.» sintetizzò il padre, aspirando una buona boccata «Portamelo domenica a pranzo». «Domenica?» chiese Lilli, contrariata «Così presto?». «E perché no? Devi prepararlo all’impatto, per caso?». 34- Centoquarantatreesimo giorno, Sabato Lilli si accorse fin da subito che questa non era una cosa che avrebbe potuto rimandare facendo finta di nulla finché non fosse caduta nel dimenticatoio. Conosceva suo padre e lo conosceva bene. Non era come con Gloria. Era riuscita al massimo a strappargli una condizione: che sarebbe stata lei a preparare il pranzo. Questo, o
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almeno così sperava, le avrebbe permesso di tenere la situazione sotto controllo, di ridurre al minimo i contatti. Enoch, da parte sua, non sembrò impressionato, né tantomeno spaventato. Quando glielo disse, mostrò un po’ di stupore, ma fu rapido a farne sparire ogni traccia. Cominciò a camminare senza fretta, il capo chino, facendosi rimbalzare una nocca sulle labbra. Non parlò, se non per rispondere con brevi cenni d’assenso. Quando fece delle domande a sua volta non riguardavano altro che l’abbigliamento, l’orario in cui presentarsi, se e cosa portare come regalo per mostrarsi onorato dell’invito. Aleggiava però un odore di inquietudine, tra le pareti della sua piccola abitazione. Forse Enoch l’aveva sentito e per quello evitava appositamente di forzare la situazione. Ma anche Lilli doveva aver percepito qualcosa, perché non seppe spiegarsi il proprio sangue freddo, l’energia che le permetteva di restare in piedi. Di nuovo le affiorò quel senso di incombenza, di ineluttabilità, che aveva provato dopo la telefonata con Gloria. Una rassegnazione per la quale andavano avanti tutti e due a testa alta, col sole negli occhi già brucianti, al punto da veder la terra perdere di definizione e tremolare. Presero la macchina, si fermarono per meno di un’ora in un parco giochi per bambini. Poi tornarono a casa, dopo essersi scambiati poco più di due parole. 35- Centoquarantaquattresimo giorno, Domenica Enoch si presentò puntualmente, con addosso la solita roba con cui era solito andare con lei in Pineta, in facoltà o in qualsiasi altro posto. Lilli corse ad aprirgli il cancello in grembiule, lasciando tutto quanto sul fuoco. «Cos’è quella roba?» gli domandò, indicando il sacchetto di plastica che si tirava dietro. «Sono passato a prendere qualcosa.» rispose lui con incertezza, allargandolo per mostrarle la bottiglia di vino all’interno «Spero sia buono. Non me ne intendo, ho badato più che altro al prezzo». «Bene, bene, perfetto.» commentò velocemente Lilli «Lascia fare a me, ok? Ho già predisposto tutto». Gli fece strada sino alla porta, attraverso quel cortile che finora aveva avuto modo di vedere solo da fuori, sino alla porta di legno, ancora socchiusa. Una volta dentro, lo lasciò però praticamente sulla soglia, trottando da sola verso la cucina. Enoch rimase solo col sacchetto in mano. Si sporse in avanti, guardò a destra e a sinistra, si decise a muovere qualche passo titubante. Riconobbe un attimo dopo la sagoma di suo padre che si affacciava anch’egli dalla cucina, la stessa
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che sino ad allora aveva scorto solo da lontano, tagliato a metà dal bancone della gioielleria. «Vieni, figliolo, vieni» lo chiamò quello, facendogli cenno col capo di avvicinarsi. Enoch ondeggiò sino alla cucina, attraverso quello spazio sconosciuto, su un pavimento che aveva sempre immaginato di un colore diverso, vedendone uno spiraglio da lontano. Rivide Lilli che armeggiava, di spalle, ai fornelli. Sua madre lo salutò da accanto a lei, con un calore tenue che trapelava dal sorriso di circostanza. Suo padre gli parve invece molto più distaccato, severo. Gli dette l’impressione che stesse soltanto aspettando la sua prima mossa falsa. E già quel “figliolo” gli era piaciuto poco. «Così ecco finalmente il fantomatico Enoch. Un nome quantomeno curioso.» fece l’uomo, togliendosi una mano di tasca per tendergliela «Esotico, si direbbe». Il giovane guardò quella mano dalla sua debita distanza. Era una difficoltà che aveva previsto, ma a cui non era riuscito a trovare una soluzione. Lilli vi si gettò in mezzo come un incursore. «Ma che c’è, hai portato qualcosa?» domandò a voce alta, scansando con una mano il padre per piantarsi davanti ad Enoch, esattamente tra l’uno e l’altro «Ma non dovevi! Cos’è, una bottiglia?». «Sì, vino.» rispose prontamente lui, cogliendo la palla al balzo «Spero vi piaccia, non sono-». «Un grande esperto, lo so. Dai qua a me, su.» lo interruppe, quasi strappandogli la bottiglia di mano e voltandosi velocemente per porgerla al padre «Tieni, babbino, guarda se ti piace». «Babbino un corno» brontolò quello, prendendo tuttavia il sacchetto in mano e cominciando a cercare un posto dove lasciarlo. «Tu tesoro intanto ti vai a sedere là, eh?» continuò Lilli, indicandogli il suo posto «Fai il giro attorno al tavolo e spaparanzati com0do». «Ma fagli almeno togliere quel giubbetto di dosso, poveraccio!» fece suo padre, posando la bottiglia ancora nel sacchetto sul tavolo. «Massì, massì, ora se lo toglie. Dallo qua a me, da bravo». Enoch se lo sfilò con attenzione, badando di non finire per urtarla mentre liberava un braccio attraverso il polsino troppo stretto. Lilli si molleggiava appena sulle punte, come un’atleta che si riscalda prima di un esercizio, in tensione. Quando ebbe il giubbetto tra le mani, ripartì verso il corridoio a razzo. «Mamma, dà un’occhiata alla pasta» disse intanto che partiva, a scanso di equivoci. «A proposito, cosa prevede il menu?» chiese suo padre, girandosi verso la porta aperta sul corridoio.
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«Pasta tricolore.» rispose Lilli, intanto che armeggiava freneticamente per sistemare il giubbetto di Enoch «Di secondo fetta di carne e patate fritte». L’uomo lanciò un’occhiata verso la moglie, che alzò gli occhi al cielo. «Specialità domenicali, proprio.» commentò divertito, ma mica poi tanto, perché l’appetito non gli era mai mancato e l’idea di rinunciare alla classica mangiata di fine settimana non doveva andargli molto a genio «E io che speravo in un bel coniglio alla cacciatora». «Sei sempre in tempo a preparartelo, se ci tieni tanto. Io so cucinare così, vedi tu se vuoi accontentarti o provvedere». Poi arrivò l’interrogatorio, esattamente quello che avevano temuto. Lilli si occupava di riempire i piatti e alzarsi ogni tre per due, con la scusa di recuperare due sciocchezze: il formaggio grattugiato, il sale, l’olio, l’aceto, il pepe, l’origano… Suo padre faceva le domande. Quelle generiche, che uno si aspetta, senza andare troppo nel dettaglio, ma al contempo non si lasciava sfuggire una sillaba. Di dov’era, quanti anni aveva, che cosa faceva, che progetti aveva per il futuro, da quanto tempo conosceva Lilli. Sia lui che la figlia mangiavano solo distrattamente. Enoch, a dispetto di tutto quello che ci si sarebbe aspettato, era tranquillo, senza paura: aveva schiaffato le gambe sotto la sedia e questo gli bastava. Per ogni domanda aveva pronta una risposta, che solitamente era una balla, ma che sapeva recitare bene, con convinzione, riuscendo sempre ad essere credibile. Anche quando affermava di essere uno studente in pari con buone possibilità di un avviamento al lavoro, sosteneva lo sguardo del padre di Lilli, ogni tanto scambiava un’occhiata con sua madre, senza difficoltà. Allo stesso modo, si guardava bene dal prendere la parola quando non gli venisse richiesto. Lilli riuscì pian piano a tranquillizzarsi: suo padre non dava segni di gelosia, né Enoch balbettava o perdeva il filo. Il giovane stava vincendo il confronto, le parve. A metà del secondo, suo padre smise di fare domande e la conversazione si spostò stancamente su altri argomenti, sino a diventare, finalmente, felicemente noiosa. Tutto andò, in sostanza, sorprendentemente bene, al punto che Enoch poté attardarsi senza fastidi, continuare a scambiare chiacchiere anche dopo il caffè. Poi venne anche il momento di alzarsi. Lilli, come scusa, scelse di trascinarlo in camera, così da guadagnare tempo e non costringerlo a salutare, a ricadere nella trappola delle strette di mano e dei baci sulle guancie. Si aspettava che Enoch sarebbe crollato con un sospirone, che avrebbe mostrato segni di cedimento. Invece non ebbe reazione alcuna. Rimase in religioso silenzio appena oltre la soglia
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della camera, a fianco del televisore. Guardava, piuttosto, tutto quello che riusciva a vedere, prendendosi tempo. Riconobbe la scrivania, il sonaglio sopra il letto, il portagioie. Persino il poster su una parete e le linee intrecciate sulle ante dell’armadio. «Non è come guardarlo da lontano» disse, con un lieve sorriso sulle labbra: libero, appagato, il primo onesto di tutta la giornata. «Beh, adesso potrai tornare quando vorrai, no?» osservò Lilli, cercando il suo sguardo «L’ostacolo è superato, non c’è più pericolo». Enoch passò in rassegna i pupazzi sulle mensole, i soprammobili da quattro soldi, i resti dei giocattoli di quand’era bambina. La foto del fratellino nella cornice, la stessa espressione che era apparsa nel sogno della giovane, identica, anche se lui non poteva saperlo. «No, non credo» rispose soltanto, abbassando il capo, senza tuttavia perdere il suo quieto sorriso. Riuscì a scamparsela con un saluto dal corridoio, sulla soglia della porta di cucina. Non gli vennero incontro e di sicuro lui non si mise a insistere perché lo facessero. Lilli gli porse la sua roba, lo riaccompagnò al cancello. Sentì galleggiare dentro di sé di nuovo quella sensazione, asfissiante, al punto che le parve che lo stesso giardino vi partecipasse. La cosa che più la disturbò fu vedere dai suoi occhi, da quei semplici occhi scuri che aveva trovato così intensi, i segni di quella stessa desolazione. «Andrà tutto bene, ora.» provò a dire, con un filo di voce «Te lo giuro, amore». Lui la guardò, ormai col cancello aperto e la strada ancora sgombra. «Non giurare.» replicò, anch’egli senza convinzione «Si vedrà». Si scambiarono un saluto che era parso più volte estasi purissima, lui uscì, sventolò debolmente una mano dopo aver fatto qualche metro. Lilli rientrò in casa stanca come dopo una maratona. Sua madre aveva smesso di lavare i piatti, probabilmente per andare in bagno. Suo padre sedeva da solo al tavolo, con le gambe incrociate su di esso, lo stuzzicadenti nel posacenere, la sigaretta ormai consumata. Lei gli andò vicino, fermandosi davanti ai suoi piedi. Lui non sembrò nemmeno vederla. Lilli socchiuse gli occhi, si appoggiò al tavolo con entrambe le mani. «Non me lo vuoi dare il tuo giudizio?» gli domandò, guardandolo solo con la coda dell’occhio. «Ci tieni tanto?» ribatté lui, facendosi avanti per spegnere la sigaretta. Lilli si strinse nelle spalle. «Sei tu che hai insistito perché lo portassi qui» mormorò.
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Il padre non si mosse per alcuni secondi, quindi raggiunse il collo della bottiglia che aveva portato Enoch. «Non capisco cosa tu ci faccia assieme» disse, senza farsi problemi, intanto che il vino gorgheggiava riversandosi nel bicchiere. «Che cosa?» chiese lei, seccata «Ora vorresti dirmi che ti ha fatto una brutta impressione?». «Detta brutalmente, ai miei tempi si pomiciava di nascosto, in queste situazioni. Si allungavano le mani, si accarezzavano le cosce facendo finta di niente. Se mia figlia fosse una santa e io un rincoglionito, potrei anche dire che avete un rapporto normale ma, mi spiace, non è proprio il mio caso. E neanche il tuo» e buttò giù un sorso di vino. «No, no, aspetta… Avrebbe dovuto fare il maiale per piacerti?» Lilli sgranò gli occhi, stralunata «Perché uno educato non ti va bene?». «Non è una questione di educazione. Non è normale. Non mi interessa il perché, tanto se avessi voluto dirmelo l’avresti già fatto da sola, ma non ho capito che cosa stavate fingendo di fare, tutti e due. Poi fate come vi pare, sono affari vostri. Tu mi hai chiesto un giudizio: per me non è normale. Indipendentemente da tutte le sue buone ragioni. E non penso che a te faccia bene stare con un tipo che non è normale». In quel momento, sentirono la porta del bagno che si chiudeva e il rumore dei piedi della mamma che ritornava in cucina. Si zittirono entrambi, riabbassando lo sguardo l’una sul tavolo, l’altro sul bicchier di vino. 36- Centoquarantacinquesimo giorno, Lunedì Lilli frustava con le dita i cespugli della Pineta, si sforzava di ferirli per come le riusciva intanto che procedevano lungo il sentiero. Quando con un’unghiata riusciva a strapparne un brandello, lo guardava cadere sino a che non finiva sul terriccio o scompariva volteggiando dietro di lei. Enoch le stava accanto e le rivolgeva un’occhiata di tanto in tanto, quando coglieva nel suo sguardo, nel socchiudersi delle palpebre, una nota di intolleranza, persino di cattiveria. Era già capitato di bigiare le lezioni, non era una novità sconvolgente, ma un conto era farlo per appartarsi e un altro per scappare, così, sdegnosamente, senza tener conto della meta. Gli era sembrato che anche il professore li avesse guardati in cagnesco, quella volta. Alla Pineta c’erano arrivati d’istinto, nel primo pomeriggio, accompagnati da un cielo coperto che ispirava poco fiducia. Enoch alzava ogni tanto il viso per osservarlo, esprimeva la sua preoccupazione con una debole smorfia o con poche parole; Lilli
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tirava dritto, a stento rispondeva, mentre le sue dita spiegazzavano le foglie, spogliavano i fiori, spezzavano i rametti. «Non vuoi che ci fermiamo?» chiese lui, dal momento che stavano camminando assai più del solito. La giovane si soffermò a guardarsi intorno senza interesse. Le gambe andavano avanti da sole, senza che Lilli riuscisse a sentire la stanchezza. Di questo Enoch se n’era accorto prima ancora che lei. «Camminiamo un altro po’» rispose alla fine, con voce atona. Lilli aveva allora smesso di infierire sulle piante e si sfregava le mani l’una con l’altra, lentamente, con forza. Quando abbassava gli occhi a guardarle, poteva vedere fino a che punto le stava facendo arrossare. Avevano fatto il giro, ormai, si erano spinti sino ai confini della Pineta, scoprendoli più vicini di quanto si erano aspettati. Enoch taceva, aveva smesso anche di provare a parlarle. Riaprì la bocca solo per emettere qualcosa, come un verso di stupore appena accennato, più simile a un gemito che ad altro. Lilli spostò la sua attenzione su di lui e da lì seguì il suo sguardo. C’era una donna in piedi davanti a una panchina intenta a chinarsi su un sacchetto di nylon. Vi rovistava dentro, ne estraeva scatolette di latta con musi di gatti soddisfatti impressi sopra. Tutt’intorno non c’era però traccia di animali, tolto il gorgheggiare insistente degli uccelli. «Non è quella che gliene porta di solito.» disse Lilli, rompendo il silenzio per la prima volta di sua iniziativa «Guardala pure, è mora. E’ anche più giovane, si vede bene». Enoch distolse lo sguardo, come se non volesse curarsene. «Altro che più giovane, avrà quanto noi.» continuò Lilli, colta da un improvviso interesse, con gli occhi socchiusi per mettere a fuoco i dettagli «E poi non c’è un cane, in giro. Per me è nuova, non la conoscono. Quello lì è cibo per animali, non penso che lo mangi lei». Si voltò verso di lui, inaspettatamente. Ad Enoch parve di rivedere il primo sguardo che gli aveva rivolto, tanto la sua espressione gli sembrava estranea, sconosciuta. «Dovremmo avvisarla che viene già quell’altra signora» riprese lei. «Non mi sembra il caso di immischiarci» disse Enoch, scuotendo la testa come per scacciare un brivido. «Ma ci rimane male, se vede che non arriva nessuno.» s’intestardì Lilli, che di colpo pareva esser tornata loquace «E’ venuta qui apposta, i cani e i gatti non si avvicinano se non la conoscono. Io la chiamo». «Lilli-». «Scusi! Scusi!» prese a esclamare, agitando una mano per farsi notare, intanto che le si avvicinava; l’altra ragazza si era raddrizzata
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velocemente, col sacchetto stretto al seno, impreparata «Mi scusi, è venuta a portar da mangiare ai randagi?». L’altra le aveva annuito, sussurrando una risposta a malapena udibile, un “sì” di cui si intercettava solo il movimento di un labbro. «Volevamo dirle che passa già una signora tutti i giorni a far la stessa cosa» si spiegò Lilli, sorridendo. La ragazza col sacchetto diede un’occhiata oltre la sua spalla per vedere a chi altri si riferisse quel plurale, scorgendo Enoch che era rimasto indietro senza parlare. «Insomma, se magari non le vengono dietro non deve preoccuparsi, ecco tutto.» proseguiva Lilli «Magari sono un po’ diffidenti, ma sa, con quella signora che li custodisce così bene…». La giovane ricambiò allora il sorriso, posando di nuovo il sacchetto sulla panchina. «Lo so, lo so» disse, aprendolo per riprendere a tirar fuori le scatolette «Una signora anziana, coi capelli bianchi e un impermeabile…». «Sì, sì!» concordò Lilli, prendendo coraggio «Con un cappellino, tante volte…». «Un cappellino, sì.» ripeté l’altra, annuendo «E’ mia nonna». «Ah, sua nonna? E’ una caratteristica di famiglia, allora». «Più o meno. Io è la prima volta che ci vengo.» ammise con qualche imbarazzo, riprendendo in mano la solita roba per rimetterla dove prima «Ora che la nonna non si sente bene, mi tocca, d’altra parte. Lei ci tiene così tanto…». Lilli si sentì improvvisamente raggelare. Un formicolio impellente le salì dalla pianta del piede sino alla spina, fulmineamente. «Non sta bene?» domandò, con viva incertezza «Cos’ha?». La ragazza si strinse nelle spalle, prima di decidersi ad infilare il dito in una linguetta. «Non riesce più ad alzarsi dal letto.» rispose brevemente «Sta male». Lilli non riusciva a muovere un muscolo. Le braccia le si erano come paralizzate lungo i fianchi, le ginocchia erano diventare rigide come un pesce congelato. Aveva la lingua incollata al palato, tanto da non riuscire a chiedere quanto quella donna stesse male, cosa voleva dire di preciso che non riusciva più ad alzarsi. Ma in fondo non ce n’era bisogno. Si accorgeva da sola che stava solo cercando di sentirsi dire che una vecchia signora gentile con cui si erano fermati a chiacchierare qualche volta non stava veramente morendo. Che non se ne stesse andando, neanche un Poco alla volta, magari, senza un improvviso tracollo. Un decorso lento, lungo mesi, un’agonia silenziosa, l’ennesima, la più umile, la più semplice. Si voltò a
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guardare Enoch e rivide quella desolazione, una rassegnazione non diversa da quella con cui si immaginava si stesse preparando alla morte la signora che dava da mangiare ai randagi. Aveva capito tutto fin dall’inizio, lui. Gli era bastato scorgere quella ragazza da lontano per intuire cosa stava succedendo, nella camera da letto di un appartamentino sperduto in chissà quale strada di una cittadina sul mare. O forse sapeva già da prima. Forse ne era stato l’artefice. Lilli mormorò un “arrivederci” poco convinto. Le parve di passare per una pazza, intanto che barcollava di nuovo sino a lui. Ricominciarono a camminare piano, a testa bassa. «Stai pensando che sia stato io?» le chiese Enoch, quando furono abbastanza lontani da non essere uditi. Lei rimase con le labbra serrate, gli occhi fissi sul sentiero. «Non l’ho mai sfiorata, l’hai visto anche tu.» continuò lui «Mi sono sempre tenuto a distanza». Fece una pausa, riabbassando il viso. Lilli trovò senza rendersene quasi conto la cinghia della borsa attorno alla propria spalla. «Forse si riprenderà, allora» commentò, con un filo di speranza. Enoch si infilò le mani nelle tasche, ce le affondò finché poté. «Non credo» rispose, scuotendo nuovamente il capo. «Ma devi essere stato tu, allora» si ostinò Lilli, e faticava anche solo a parlare, mentre si voltava a guardarlo con gli occhi lucidi e sgranati. «Tesoro, non faccio tutto io.» ribatté il giovane «Non posso essere la causa di tutti i mali del mondo». «Forse non sei la causa di alcun male, allora» provò ancora lei. «So quello che sono, smettila». «Ma c’è una donna che sta morendo e non per causa tua. Se non tu, chi altri può essere stato? Se sei sicuro di non averla toccata neanche per sbaglio…». «Sono sicuro di entrambe le cose, Lilli. Non so perché, non so come». «Ma se ti fossi sbagliato fino ad ora…». «Non mi sono sbagliato!» scoppiò a quel punto Enoch, togliendosi una mano di tasca con uno scatto «E’ così! Che ci sia una ragione o no, non importa a nessuno! E’ così e non si può cambiare niente! E’ così e non posso cambiare nemmeno me stesso!». Lilli affondò la testa tra le spalle, senza osarsi di replicare. Si strinse le braccia con le proprie mani, come se volesse consolarsi di quell’abbraccio che lui non aveva mai potuto concederle. Per la prima volta da quando aveva accettato di ascoltarlo, si chiese veramente che strada l’avesse portata a percorrere.
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Si sedettero nel primo spiazzo che trovarono: non il più comodo e neanche granché discosto ma d’altronde, col tempo che faceva, la Pineta era deserta. Lilli si inginocchiò senza aspettarlo. Le era caduto lo sguardo su un ciuffo d’erba che si era ostinato a spuntare in mezzo agli aghi di pino e a un tappeto di rametti secchi. Aveva cominciato ad attorcigliarsi attorno a un dito un filo per volta: ne prendeva uno, lo torceva e lo strappava, ascoltando il rumore che faceva quando si svelleva dalla terra o si spezzava a metà. Poi passava al successivo. Enoch si sedette con un sospiro, appoggiando le braccia alle ginocchia. Tamburellava con le dita su di esse, e per qualche attimo riuscirono a udire soltanto quelle e i fili d’erba che Lilli staccava dal suolo. Lui prese fiato. Si appoggiò su una mano e si girò verso di lei, piegandosi per poter scorgere il suo viso dietro i capelli che le erano ricaduti su una guancia. «Che cosa c’è?» riuscì a domandarle. Lilli si accorse che la stava fissando; si voltò per guardare altrove, rinunciando persino al suo ciuffo d’erba. Lentamente, poi, vi ritornò, mentre la sua testa si riabbassava e lei si abituava a convivere con la sua apprensione che avvertiva rovente sulla pelle del viso, dove i suoi occhi riuscivano ad arrivare. «E’ per qualcosa che ho fatto ieri a pranzo?» perseverò nel chiederle Enoch, senza smuoversi di un millimetro. Lilli ascoltava soltanto lo spezzarsi di ogni singolo filo d’erba, restava a osservare i granuli di terra che aveva smosso. «E’ per qualcosa che è successo ieri e di cui non sono a conoscenza?». Lei si interruppe. Lasciò andare i fili d’erba, liberando con delicatezza quello che teneva ancora avvolto all’indice. Fece per alzare gli occhi, riabbassandosi subito dopo: sembrava che stesse tentando di sorreggere il cielo con la testa. «Mi sento stanca, tesoro.» rispose debolmente, con una voce roca, provata «Solo questo». Enoch aprì le labbra per inspirare. Le richiuse, deglutì a vuoto. «Stanca di cosa?» le domandò. «Al limite» disse Lilli, guardando fisso davanti a sé. Lui trattenne il fiato, esitò. Gli sembrava che non avrebbe più potuto aspirare una singola boccata d’aria. «Stanca di me?» le chiese, con immenso sforzo. Lei si voltò per guardarlo. Vedeva il tremito della sua bocca e delle sue palpebre, le sue iridi che cercavano in ogni modo di nascondere quella tensione, quel terrore che impediva loro di trovare requie dietro la maschera del controllo. «E’ tutto sbagliato» sussurrò a stento.
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«Che cosa è sbagliato? Che cosa?». «Mi basterebbe che non fosse vero. Soltanto quello. Non avrei bisogno d’altro». Enoch si ritrasse un poco, distese una gamba. «Perché non mi dici che non è vero?» gli domandò Lilli, stavolta facendosi più vicina lei «E’ così assurdo ogni volta che ci penso…». «E’ così.» rispose lui «Te l’ho detto anche prima». «Ma come si fa a vivere così?» fece lei, riuscendo ad alzare la voce «Quando non puoi avere niente di quello che sogna qualsiasi altra persona, niente di quello che sogni anche tu. Come puoi desiderare di continuare a vivere in questa maniera?». Enoch piegò di nuovo la gamba. Si fece udire il primo tuono, grave e profondo, mentre anche le ultime ombre scomparivano e a tutto si sostituiva una fredda luce grigiastra. Le prime gocce non aspettarono a farsi sentire, pungenti come spilli. Nessuno dei due, tuttavia, accennò a cercare un riparo. «Perché non ce la faccio a morire. Ho paura come ne avresti tu.» disse il giovane dopo qualche attimo «Chiunque sia stato, mi ha incastrato per bene: costretto a scontare tutto questo senza che io possa trovare una via di fuga. Anche quando sento di non poter resistere nemmeno un’altra ora, di dover porre fine all’orrore che mi porto dentro sin dalla nascita. E’ allora che arriva la paura, quando bisogna trovare il coraggio di farlo. Ci provi, ti fai forza e ti domandi se ne sarai in grado, se ne varrà la pena; se anche una sola persona si ricorderà di te o se ti troveranno solo quando l’odore sarà arrivato sino in fondo alla strada. Se sarai solo un corpo riverso sul pavimento, magari con un’espressione ridicola stampata sulla faccia. Se starai meglio dopo che l’avrai fatto, se avrai veramente finito di soffrire. E non ce la fai mai. Siamo parassiti, sanguisughe attaccate alla nostra stessa esistenza: non ci resta altro che quella, è la nostra unica, ultima compagnia. E andiamo avanti, compriamo qualche altro secondo con la vita intera di qualcuno che non ci ha fatto niente, uno che io magari non ho mai conosciuto, che mi ritrovo addosso per caso, quando meno me l’aspetto. Siamo tutti condannati a questo. E solo per un mero, stupido istinto di autoconservazione». Lilli si era coperta la bocca con le mani giunte, riuscendo a vincere l’impulso di mangiarsi le unghie come quand’era ragazzina. Muoveva gli occhi per seguirlo, di tanto in tanto, respirando a fondo. «Perché mi hai detto tutto questo?» gli chiese a un certo punto «Io non intendevo questo. Io non voglio che tu… Pensi a queste cose». «Cerco solo di farti comprendere… Insomma, di farti capire cosa si prova a vivere così.» Enoch intrecciò le dita delle mani sopra un
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ginocchio «Quanto sia significante per me averti qui accanto a me, ora, e vedere che tu mi ascolti, mi sei vicina». «Io non mi limito ad ascoltarti e a starti vicina, Enoch.» ribatté lei, rialzando il viso di scatto in un moto di rifiuto «Io ti amo. Sono qui per questo! Ma come… Cristo, come si fa ad andare avanti così?». Lui si premette le labbra l’una contro l’altra, sino a farle sbiancare. L’abituale quiete del suo sguardo si era incrinata. Aveva capito. E aveva accusato il colpo. «Vuoi lasciarmi?» domandò, forzando il tono sino a farlo sembrare naturale; provandoci, almeno, disperatamente. «No che non voglio!» ribatté subito Lilli, allarmandosi all’idea. «Io posso offrirti solo questo, non ho il diritto di trattenerti». «Ma io non voglio andare via, non mi importa!». «Guarda che lo posso capire, sono umano come te». «Io non me vado!» ribadì Lilli, quasi urlandolo. Enoch non se la sentì di insistere oltre, né di affrontare il suo viso. «Io non ti lascio, amore mio.» aggiunse lei, riabbassando al voce «E’ tutto perfetto, ogni cosa, ogni dettaglio. Non è come… Io sono già stata fidanzata, lo sai. Non è mai stato così, mai in tutti la mia vita. Sembrava, quello sì. Credevamo di essere felici, forse lo eravamo persino, ma non era come adesso. Sentivamo… Sapevamo di essere due estranei, non importava quanto questi… Corpi potevano essere stretti.» le sue dita trovarono istintivamente la terra fresca, così vicine alla sua gamba, mentre si protendeva verso di lui quanto bastava per indurlo a voltarsi piano, come in uno di quei tanti attimi che avevano già vissuto, assaporato sino all’ultima goccia e poi lasciato indietro «Non era come tra noi. Davvero. Ho dovuto conoscerti per capirlo, ma adesso mi chiedo se sia stato casuale, quella volta, che la finestra fosse rimasta aperta. Tutta la mia curiosità per te è venuta fuori da lì. E’ quella che mi ha permesso di scoprire chi sei realmente e, ora che ci sono riuscita, non ho nessuna intenzione di rinunciare a te. Non per un… Un particolare. Perché è di quello che si tratta: solo un particolare tra tanti». Enoch ascoltava, senza riuscire a udire il rumore della pioggerellina sui rami, sulle foglie, sul suolo coperto di aghi di pino. In un’altra circostanza non sarebbe rimasto in silenzio: era stato lui a parlare di destino per primo, ma solo perché non conosceva altri termini per definirlo. Non ci credeva troppo nemmeno lui a quelle storie di eventi collegati l’uno all’altro secondo un disegno preciso, una sorta di cinica Provvidenza. Ma era poco più di un ragazzo, ed era innamorato. Poteva scorgere i battiti del cuore di lei nelle sue parole, immaginare il loro accelerare, quasi traboccare, sino al punto di
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sommergerla. Lilli ormai non poteva più di dire di avere fiducia in lui, come può accadere con un’altra persona. Aveva fiducia in loro due. Ogni suo pensiero, ogni sua emozione, non era più cosa che potesse appartenere soltanto a lei. Enoch non poté fare a meno di sentirsi parte a sua volta di quell’insieme, di quell’abbraccio vellutato che sembrava di sentirsi sulla pelle. Ci si abbandonò senza voler più pensare. «Possiamo fare come abbiamo sempre fatto» disse, mentre ritrovava i suoi occhi; gli stessi che, chissà come, gli sembrava di aver smarrito. «Lo stiamo già facendo» sussurrò lei, con un sorriso tenue. «Sta cominciando a piovere, però». «Non è una cosa granché importante, se succede così tante volte in un anno» rispose Lilli, alzando un dito per seguire i lineamenti del suo viso con un dito, accarezzando l’aria. Dalla fronte agli zigomi, al naso, alla bocca, il mento, per poi risalire e ricominciare da capo, ancora una volta, indefinitamente. Enoch lasciò che le proprie palpebre si abbassassero e sospirò, reclinando appena il capo. Poteva sentirla anche così, sebbene non si sfiorassero nemmeno. Il suo indice che si muoveva sopra di lui nell’ombra indistinta, una vibrazione sottile che vinceva anche il picchierellare della pioggia, delle gocce che dai capelli percorrevano il collo, sino a insinuarsi sotto il colletto. Per alcuni interminabili secondi Enoch non avvertì più alcuna distinzione tra il sogno e la realtà. Poi, all’improvviso, non sentì più nulla oltre alla pioggia. Riaprì gli occhi: Lilli aveva ritirato la mano e ora le teneva entrambe in grembo. Aveva gli occhi chiusi, stretti; le labbra le tremavano, le sopracciglia lottavano per trovare una piega rilassata. «Cosa c’è, amore?» le domandò, e improvvisamente si sentì in colpa anche solo per essersi goduto quel momento «Non stai bene?». Lei aprì la bocca per parlare, ma ne uscì soltanto un breve singhiozzo. Enoch notò il barlume di un umore sulle sue ciglia. Lilli teneva gli occhi chiusi per non crollare, per non scoppiare a piangere. «Scusami.» mormorò, senza aprire gli occhi «Non ce la faccio». Enoch sentì tutto il mondo franargli sulle spalle. Impallidì, anche se lei non poteva vederlo, e il respiro gli piombò in fondo alle viscere. Guardò le proprie mani, mosse appena le dita, a fatica. Mai come allora sentì l’impulso di fare a pezzi tutti i divieti e balzare verso di lei mentre ancora ripeteva “non ce la faccio, non ce la faccio”, protendere le proprie braccia per incatenarla contro di sé; sentirla trattenere il respiro dallo spavento, forse anche divincolarsi, invano, prima di diventare cedevole come un fuscello, quasi esanime, e premere la guancia contro il suo petto. Concedersi infine entrambi la
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libertà di sentirsi vivi, impunemente vivi e folli d’estasi. Ma non lo fece. Aveva soltanto sollevato debolmente una mano. Lei aprì gli occhi, due pozze lucide, colme. Una lacrima le corse giù dalle ciglia istantaneamente, senza incontrare intralci, pesante. Scivolò oltre l’orlo della sua guancia, precipitò. Si schiantò, come una goccia calda, ben distinta da tutte le altre, sulla mano di Enoch. Lui non rifletté su quello che stava facendo. Alzò la mano sino a portarla alle labbra, stringendola tra di esse per sentire il suo sapore salato mescolato a quello della pioggia. Lilli lo fissò con quegli occhi grandi, spalancati, pieni d’orrore. Enoch aveva ottenuto un frammento di lei, ne avrebbe serbato il ricordo sino a quando non sarebbe sbiadito. Si sarebbe aggrappato al ricordo del ricordo, quando non gli sarebbe rimasto altro, cercando di ricreare nella sua mente quella lacrima, quella goccia salsa che era tutto quello che riuscivano a offrirsi. Nulla di più avrebbe potuto ricevere, nulla di più avrebbe potuto darle. Lui alzò lo sguardo con l’aria di un bambino che ha appena fatto qualcosa di sbagliato e d’un tratto se ne rende conto, quando ormai non può più rimediare. Lilli si strofinò una mano sugli occhi. «Basta, non ce la faccio più» disse velocemente, raccogliendo la borsa da terra e rialzandosi di scatto. Enoch si scosse di colpo, con l’angoscia attanagliata all’anima «Cosa fai?» le domandò, annaspando senza sapere cosa fare, come fermarla, con quale coraggio. «Me ne vado!» riuscì a urlare lei, stritolando la borsa tra le dita «Lasciami stare! Non ce la faccio più! Lasciami stare!». «Lilli!» «Non mi seguire!» urlò un’ultima volta, prima di partire in una corsa traballante, isterica, lungo il sentiero. Enoch la chiamò ancora, senza ricevere risposta. Restò voltato, ancora seduto, mentre lei sfrecciava a testa bassa oltre un cespuglio quasi spoglio. Gli servirono alcuni secondi per domare l’ansia e l’odio di sé, così improvviso e lancinante da lasciarlo disorientato. Arrancò per rialzarsi, sbandando per ritrovare un equilibrio mentre si gettava a rotta di collo per il sentiero, chiamandola, invocandola. La trovò solo dopo poche centinaia di metri, in piedi, immobile accanto al tronco di una pianta. Gli dava le spalle, ancora più piccola nella stretta convulsa con la quale si teneva le braccia, sotto la pioggia sempre più fitta. «Lilli» disse Enoch, fermandosi a qualche distanza, senza un riparo. «Vaffanculo, siamo venuti con la tua macchina!» gli gridò lei di rimando, girandosi a guardarlo «Veniamo sempre con quella!».
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Lui restò dove si trovava, senza saper cosa dire. Lilli si appoggiò al tronco della pianta, tutta stretta in sé. Dondolava appena la testa avanti e indietro, senza posa. «Mi riporti a casa?» piagnucolò infantilmente, col tono mortalmente annoiato, mortalmente stanco. Come una bambina, anche lei. Senza più uno straccio di energia, né fisica né mentale. Ed Enoch sapeva che, nel caso ce ne fosse stato bisogno, non avrebbe potuto nemmeno sostenerla sino alla macchina. Lilli arrivò alla porta di casa rannicchiata sotto l’ombrellino, anche se lì stava ormai smettendo di piovere. Enoch era rimasto con la macchina ferma davanti al cancello, la guardava da lontano come per essere sicuro che sarebbe arrivata alla porta. Ce la fece. Lui girò la maniglia, asciugandosi per modo di dire la suola delle scarpe sullo zerbino. C’era la luce accesa in cucina, quella che non ci veniva mai lasciata per caso. Riconobbe la voce di sua madre che finiva di dire qualcosa; l’avrebbe spenta nel giro di pochi minuti, non appena si fosse accorta che era uscito il sole. La giovane tirò dritto verso la propria camera, facendo finta di non aver sentito. «Liliana, sei tu?» domandò la mamma, spostandosi per poterle gettare un’occhiata attraverso lo spiraglio della porta. «Sì, sono arrivata» rispose lei con voce meccanica, senza fermarsi. «Almeno non ti rinchiudere subito in camera tua!» la richiamò velocemente sua madre «Vieni qua! E’ venuto qualcuno a trovarti!». Lilli si bloccò nella penombra del corridoio. Si passò il palmo delle mani sugli occhi provati, che per fortuna quella mattina non si era preoccupata di truccare nemmeno leggermente. Li sentì ugualmente pesanti, come se li avesse strofinati con acqua e sabbia. Non era proprio l’occasione migliore per farsi vedere dagli ospiti, di chiunque si trattasse. Anche arrivando al bagno non avrebbe risolto nulla. Se lo sentiva. Ma, soprattutto, non le importava niente che qualcuno vedesse, pensasse e ipotizzasse. Si girò su sé stessa, arrivò alla porta di cucina e si appoggiò come sua consuetudine con le mani allo stipite. Gloria stava seduta alla cassapanca, non si era presa la briga di alzarsi. Un flebile raggio di sole cominciava a farle risaltare qualche singolo capello rosso che si era un poco sottratto all’elastico della coda. Lilli si ritrovò immediatamente addosso gli sguardi di tutte e due. «Oddio, ma cos’hai fatto?» le domandò subito sua madre, smettendo di asciugarsi le mani al grembiule.
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«Niente, cosa dovrei aver fatto? Niente» rispose velocemente Lilli, girando poi la testa per rivolgere almeno un cenno a Gloria. Quella però la fissava altrettanto sgomenta. «Ma ti sei vista?» continuò con apprensione sua madre «Hai una faccia… Diosanto, sei stravolta!». «Sto bene, falla finita» ribatté annoiata la giovane. «Stai bene un cavolo, basta guardarti!». «Davvero, Lilli.» s’intromise Gloria «Ma che ti è successo?». «Ecco, la senti anche lei?» ripartì sua madre, facendosi più vicina per darle un’occhiata «Hai gli occhi gonfi, le occhiaie…». «Non ho niente!» si ostinò Lilli, tirandosi via dalla porta e dalle attenzioni della mamma. «Ma fatti vedere, perdio! Già questa poveraccia è qui ad aspettarti da… Che ore erano?». «Eh, saranno state le due» rispose Gloria, ondeggiando con la testa da destra a sinistra con fare approssimativo. «Dalle due, sì! Lo sai che ore sono, adesso?». «Ma non me ne frega, cazzo!» sbottò Lilli, evitando nuovamente che sua madre le si facesse troppo appresso «Fatela finita e basta!». «E chi ti tocca, chi ti tocca!» esclamò la mamma, facendo un giro su sé stessa e tornandosene da dove era venuta. «Ma dov’eri?» le domandava intanto Gloria «Eri con quell’altro?». «E con chi volevi che fossi?» rispose la giovane, sbuffando. L’amica la studiò con le palpebre socchiuse, le mani aggrappate al bordo della cassapanca e il busto proteso in avanti. Batteva appena la punta dei piedi sul pavimento; colpetti lenti, altalenanti. A Lilli parve che avesse già capito tutto. «Addolorata, forse è meglio se io e lei andiamo di là in camera, ti spiace?» domandò infatti alla donna, alzandosi in piedi e sfoggiando un sorriso d’intesa. «Ah, come ti pare.» replicò la madre «Se ti riesce di farla ragionare, mi fai solo un favore. Io ci rinuncio». «Per tentare posso anche tentare. Dai, Lilli, andiamo, così mi racconti un po’ di cose e me ne spieghi qualcun’altra, mh?». «Non vedo proprio cosa dovrei spiegarti» insistette la giovane con aggressività, ma ormai alternative non ce n’erano, che avesse intenzione di affrontarla oppure no. Si diresse verso la camera da sola, prima che Gloria dovesse cominciare a spingerla come faceva di solito. Lasciò la borsa sul letto: quella si era asciutta, a differenza dei suoi capelli, che erano rimasti un poco umidi. Lilli se li passava e
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ripassava con una mano. Gloria chiuse la porta, restandovi appoggiata contro. «Sai che se non ti conoscessi ti avrei già mandata a cagare da un pezzo?» disse, senza tuttavia alterarsi neanche un po’. «E mandamici, se devi.» ribatté Lilli, senza essersi ancora tolta il giubbetto «Tanto è già una giornata di merda, una più una meno…». «Nooo, ma va tutto bene.» la canzonò Gloria, staccandosi dalla porta «Non è successo niente, è tutto a postissimo». «Non è successo niente, infatti». «Ripetilo ancora, può darsi che finisca per crederci. Bella, ma chi vuoi prendere in giro?». Lilli non le rispose, se con un gesto vago, un invito stentato a lasciar perdere. Gloria non la considerò minimamente. «Sono preoccupata. Anche i tuoi sono preoccupati, ne parlavo con tua madre prima che tu arrivassi.» disse, senza interrompersi «Dice che sei sempre fuori casa, e che quando ci sei è come se non ci fossi. Lo so anch’io com’è fatta tua madre, conosco i discorsi che fa, ma non ti fai più sentire nemmeno con me. Quanto tempo è che ti ho telefonato? Tu non ti sei fatta risentire! Sia pure che possa esserti passato di mente, però è la prima volta da quando ti conosco che mi fai uno scherzo del genere! Solo per quello - e non per altro - non è già normale». Gloria le diede un’occhiata per quello che le riusciva, visto che l’altra se ne stava di spalle, limitandosi a voltarsi solo occasionalmente. «Dice che sei sempre con Enoch.» continuò, riferendosi a quanto doveva averle raccontato la donna «Mattina e sera, non sa nemmeno più se vai ancora all’università. Di questo non me ne fregherebbe niente, ma che sia per amore o per rincoglionimento, ti vedo tornare a casa con gli occhi gonfi. Si può sapere che ti ha fatto quello stronzo?». Lilli si girò a guardarla, senza però spiccicare parola. Non è stronzo, avrebbe potuto risponderle, ma qualcosa doveva averle fatto lo stesso. «Che ti è successo, Lilli?» le domandò Gloria, tendendo una mano verso di lei. Lilli si ritrasse d’istinto, prima ancora di pensarci. Un riflesso che per i primi istanti le parve naturale, spiegabilissimo, nonostante Gloria fosse rimasta con la mano alzata e un’espressione disorientata. Quando si accorse a quale punto era arrivata, fin dove l’aveva portata la vicinanza a lui, sentì il proprio respiro strozzarsi in gola. Le sembrò che le pareti della stanza si facessero opprimenti, che ogni rumore si ovattasse tra le sue quattro mura.
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«Che cosa ti ha fatto?» le chiese di nuovo Gloria. Lilli sentì la sua voce conficcarsi in mezzo al suo petto, spaccando tutti i suoi tentativi di mantenere un equilibrio. Dischiuse le labbra, le sentì tremolare l’una contro l’altra e bagnarsi di saliva. Strizzò gli occhi, sforzandosi di tenere il mento alto. «Oddio, nonono, su» cominciò già a dire Gloria come se ne accorse, facendosi appresso all’amica. Nell’attimo in cui realizzò che le sue mani avevano raggiunto le sue braccia, Lilli emise un lamento roco, prolungato. Si buttò in avanti, contro il suo piccolo corpo che avrebbe dovuto farsi grande solo per lei, intanto che scoppiava irrimediabilmente a piangere a dirotto, col viso nascosto come meglio le riusciva contro la sua spalla. Un pianto ai limiti dell’isteria, represso così a lungo e liberato sino ad allora solo a piccole dosi, una goccia per volta. Stringeva quel corpicino generoso con rabbia. Sapeva che le stava facendo male, che non poteva essere altrimenti, che ogni stretta e ogni colpo la faceva sussultare ma mai, neanche per un attimo, la sentì allontanarsi, discostarsi anche solo per riprendere fiato. «Piangi e basta, brava.» le diceva Gloria, con la voce morbida, intanto che si sforzava di accarezzarle la testa «Come tutte le volte che l’ho fatto io con te. Senza pensare, senza recriminare, perché non ho scordato come si fa, anche se non succedeva da tanto tempo, anche se abbiamo creduto che non sarebbe successo più. Un po’ per uno, non importa quando, tanto non si diventa mai abbastanza grandi. Piangi e basta. A recuperare la vita ci penseremo dopo. C’è sempre tempo anche per quello». Era sceso il silenzio. Da un giorno all’altro, senza avvisare nessuno. 37- Centoquarantaseiesimo giorno, Martedì «Un periodo di riflessione. Breve, non preoccuparti. Anche Gloria è d’accordo, pensa che mi farebbe bene. Non le ho detto nulla, non lo dirò mai a nessuno. Non è niente. Noi donne ci facciamo spesso, così. Non devi spaventarti. Approfittane per rilassarti un poco anche tu. Ti amo ancora, cosa credi?». 38- Centoquarantottesimo giorno, Giovedì «Me lo ripete tutte le sere, prima che mi addormenti. Anche se non lo vedo, né ci parlo. E’ lì che aspetta, senza parlare, con quegli occhi pieni di tristezza, eppure calmi, immobili. Me lo ripete tutte le sere, anche se non sono con lui. Me lo sento».
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«E tu cosa gli rispondi, cucciola?». «Mi addormento prima di trovare tutte le parole». 39- Centoquarantanovesimo giorno, Venerdì Lilli barcollava, più che camminare, per il corridoio, cercando di riguadagnare la camera più di una volta. «Mi sembra tutto sbagliato…» borbottò «Sei sicura che sia il caso?». «Ne sono sicura sì. Altrimenti perché cavolo sarei venuta a prenderti per accompagnarti a casa mia?» replicò Gloria, con un’alzata di spalle «La strada la conosci, da quel che mi risulta. Certo, potevi esserti sforzata un pochino di più nel prepararti…». «Non volevo neanche venire, infatti». «Ah!» fece l’altra, con aria vittoriosa «Hai parlato al passato. Non volevi, hai detto, quindi adesso vuoi. E’ un grande passo in avanti, non ti pare? Ora, che ne dici di fare qualche altro passo fino alla porta? Non hai nemmeno la scusa che non riesci a camminare coi tacchi, a momenti ti porto via in ciabatte. Se non sbaglio, quelle scarpe lì le portavi alle superiori». «Per farci ginnastica» precisò Lilli, con una smorfia stanca. «Ecco perché si sono conservate così bene, allora. Te lo ricordi di quando ci imboscavamo nello spogliatoio?». «Contando che lo facevamo sempre…». «Esatto! No, cioè, sempre… Quando quella racchia voleva che facessimo gli esercizi». «Quindi sempre». Gloria si portò un dito alle labbra, soffermandosi con aria pensosa su quell’osservazione. «Perché mi ricordo di aver giocato delle partite di pallavolo con te, allora?» le chiese, girandosi a guardarla. «La disfida delle sezioni. Cominciava a fregargliene solo la settimana prima, ci dava un pallone in mano e poi s’incazzava se perdevamo». «Disfida? Si chiamava così?». Lilli fece spallucce. «Ce la chiamo io» rispose, atona. «Wow, stai prendendo il largo.» si complimentò Gloria «Sei sempre vivace come uno zombi, ma perlomeno parli. Hai avuto un’ispirazione creativa! Molto meglio che stare con una faccia da ebete a fissare il vuoto». «Non fissavo il vuoto; guardavo dalla finestra». «Oh, che palle, Lilli! Da quando sei diventata così puntigliosa?».
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Lei non aveva voglia di risponderle già di suo; in più, sua madre fece capolino dal salotto, con indosso già il suo pigiama da televisore, la fida coperta stretta al petto con le braccia. Non se ne staccava, un po’ come Linus, con la differenza che non si ciucciava il dito. Fino a quando non si sarebbe decisa ad andare a letto, però, se la sarebbe trascinata appresso. «Andate via, ragazze?» domandò, con un sorrisetto debole, ingenuo. «Appena tua figlia esce dalla trance.» disse Gloria, andando a recuperare la borsa dell’amica «Penso che sia questione di secondi, ormai». «Allora, mi raccomando, divertitevi» riprese la donna, senza mutare d’espressione. Lilli la guardò in viso, intanto che pronunciava quelle parole. Scorse il bagliore di preoccupazione nei suoi occhi, quel tono conciliante nella voce, di chi si premura di assecondare un bisognoso, senza però mancare di fargli sentire il peso della sua diversità. Povera bambina, hai preso una sbandata, hai fatto così tante cose sbagliate, ma noi siamo qui, vedi? Qui accanto a te, anche quando sei ridotta da fare schifo, e non pretendiamo che il tuo cervellino ricominci a funzionare come si deve da subito. Così declinava tutto, di botto, per paura di qualcosa di imprecisato, di sconosciuto, scartando per prudenza l’ipotesi che potesse comunque venirne fuori qualcosa di buono. Qualcosa di bello. Ci rifletteva su mentre Gloria apriva l’anta dell’armadio e sceglieva una giacchetta per Lilli. Vestendola, come si fa con un bambino o con un povero idiota. «Quale le faccio mettere, Addolorata?» domandò alla donna «Questa qua scura?». «No, quella è vecchia, ha anche un paio di rammendi sulle maniche. Prendile il chiodo di pelle, le sta meglio. Non che sia granché più nuovo, ma è indistruttibile». «Chiodo, chiodo, chiodo…» ripeté Gloria, intanto che lo cercava, spostando con le mani giacchette e cappottini «Chiodo. Ah, il giubbettino storico, dicevi questo. Dai, Lillina, collabora un po’ e infilati questo affare. Tanto, dato che di fare la gran gnocca non ne hai voglia, è l’ideale. Anzi, dopo a casa mi cambio di nuovo anch’io. Facciamo finta che sia una serata votata al casual». «Perché?» chiese la donna, stupita «Sei tanto carina, vestita così». «Perché tua figlia, con la sua allegria contagiosa, darà già abbastanza nell’occhio. Almeno così non penseranno che sia stata l’unica a non aver voglia di mettersi in ghingheri.» diede un’occhiata a Lilli, che si
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limitava ad ascoltare distrattamente «Tu mi raccomando non reagire, eh? Non ti smentire, ci mancherebbe». Lilli sbuffò, prendendole la borsa di mano e sistemandosi da sola il colletto e i polsini. «Andiamo o no, Glò?» fece, spazientita. Sua madre la guardò, con la coperta sempre tra le braccia. «Le passerà» disse, come se la giovane non potesse sentirla, quando in realtà ce l’aveva proprio davanti. «Le passerà sì.» le garantì Gloria, chiudendo l’armadio con un sospiro «Forza, tesora, visto che ora scalpiti per andar via». L’occasione era una cena. Un’altra. L’ennesima. Gloria doveva essere riuscita chissà come a non annoiare ancora nessuno, sebbene riproponesse ogni volta il medesimo copione. Oppure, come la stessa Lilli si immaginò, aveva fatto pressioni per radunare il solito gruppetto con l’esplicita scusa di tirarle su il morale. Non c’era da stupirsi, quindi, se le facce che vide arrivare, una per volta o a coppiette, apparissero già un po’ seccate fin dall’inizio. Salvo qualcuno, beninteso. Lilli e Gloria aspettavano sedute sulle scale che conducevano al piano di sopra, dal momento che in cucina era già tutto pronto. Da lì si alzavano a turno per andare ad aprire quando sentivano suonare il campanello. Lilli cercava di non incrociare troppo a lungo gli sguardi di tutti quelli che entravano, ma finiva sempre che se li ritrova addosso lo stesso, almeno per i due minuti di rito. Lei tornava a sedersi, loro le venivano dietro. Ma come stai, ma quant’è che non ci si vede, ma ti sei tagliata i capelli, ma mi hanno detto che ti sei trovata un ragazzo. Sull’ultima domanda Lilli glissava abilmente, tanto che piano piano dovette aver preso a circolare il passaparola “non chiedetele del suo ragazzo”. Chissà come, smisero di chiederglielo anche quelli che arrivarono dopo. Tipo quello che aveva sempre voglia di fare il buffone e non mancava mai. Il rivoltoso. «E con te abbiamo fatto l’en plein della vecchia classe» commentò Gloria, dopo averlo accolto sulla soglia. «No, l’en plein non si può proprio fare, visto che Nicola non viene» ribatté subito l’altro, ridacchiando fra sé, come sua abitudine. «Come non viene?» fece Gloria, colpita «Non mi ha detto niente». «L’ho visto ieri e mi ha detto che non se la sente. Per motivi religiosi, diciamo.» e sghignazzò di nuovo «Non sapeva come dirtelo. Deve rendersi conto da solo di essere un po’ suonato».
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«Ma figurati! Cosa si aspettava, che gli facessi il processo, se me l’avesse detto di persona? E poi, scusa, quali sarebbero i motivi religiosi?». «Eh, hai scelto il giorno sbagliato, secondo lui.» rispose, sfilandosi il giubbotto «Lui è un po’ Pio XII, lo sai». Gloria lo guardò con aria interrogativa, quindi cercò aiuto in Lilli. «A saperlo avremmo preparato una cena a base di pesce» disse quella, senza grande entusiasmo. Gloria, finalmente, afferrò il concetto. Si decise poi a lasciar aperti sia la porta che il cancellino, tanto era cominciato un andirivieni che la costringeva ad alzarsi ogni tre per due, tra quelli che arrivavano e quelli che uscivano a fumare in giardino. Era una serata tiepida, inoltre. Nel giro di qualche chiacchiera e altrettanti bicchieri, avrebbero finito per aprire le finestre della sala da pranzo. Lilli teneva saldamente il suo posto sulle scale, in disparte, e assisteva con un fastidio che rasentava la paura alla processione avanti e indietro, con o senza sigarette. Si scoprì di colpo a mangiarsi le unghie. Guardò i loro contorni divenuti molli e frastagliati, le pellicine attorno strappate sino al vivo. Si affrettò a premere le mani tra le ginocchia, tenendocele strette per evitare che, in un momento di distrazione, ritrovassero la strada per arrivare alla sua bocca. E fissava la frotta di gambe, torsi e braccia dondolanti che sbucavano da una porta aperta e scomparivano dietro l’angolo del muro come chi si ritrova in mezzo a una fiera di oscenità e non può sottrarvisi, senza neppure poter trovare un orecchio a cui almeno esprimere il proprio rifiuto. Gloria pareva sempre più lontana, avviluppata da saluti e convenevoli. Lilli alzò gli occhi, la guardò mentre stringeva un braccio attorno al collo di un tizio che aveva già visto. Si fece più attenta, distaccandosi dal vortice ottundente in cui sentiva risucchiati tutti i suoi pensieri. “Amoretesoro”, lo chiamava, con insistenza. «Ma vi siete già visti, non vi ricordate?» fece Gloria, e Lilli si accorse solo in quel momento che doveva aver parlato anche a lei da chissà quanto tempo «Andiamo, alla festa di Capodanno! Va beh che io te stavamo ancora assieme e tu dovevi essere troppo stordito dall’amore che mi portavi e che - non negarlo - mi porti ancora, segretamente, quando sei in bagno solo soletto…». Amore-tesoro rispose con un gestaccio volgare e uno schiamazzo poco comprensibile, quindi tese la mano verso Lilli. Lei la strinse solo per modo di dire, praticamente posandogliela tra le dita per una frazione di secondo.
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«Quest’altro, invece, fa direttamente finta di nulla.» riprese Gloria con una smorfia, sollevandosi sulle punte per afferrare un ciuffo di riccioli neri «Principino di buona educazione? Ci consideri?». Lilli si rese conto che c’era anche Innocenzo, lì accanto; neanche fosse stato trasparente come il vetro. «Ma io lei me la ricordo!» si difese lui, stringendo un occhio per il dolore mentre staccava la mano di Gloria dai capelli «Come faccio a non ricordarmi di una in uno sgabuzzino con una scopa in testa e un pacchetto di Mon chéri in mano?». Lilli accennò a un sorrisetto mesto, intanto che le tornava in mente quell’episodio. «A stare con Gloria ci si abitua a cose peggiori» disse, senza penarsi a ridistendere il braccio per salutarlo. «Sì, ho notato che ogni tanto è spaventosa.» ribatté lui, ridendo di gusto e gettandole un’occhiata «Tra l’altro quella lì dello sgabuzzino dovete ancora spiegarmela, perché io non ci sono ancora arrivato». «Ma non puoi ricordarti di qualcosa di più bello?» s’intromise Gloria, che di certo non aveva interesse ad andare a fondo sull’argomento «Anche solo caratteristico, eh. Una cosa che ha detto, ad esempio, il dolce che aveva preparato, un gesto che ha fatto mentre eravamo a tavola…». Innocenzo si portò una mano al mento, con aria pensosa. «In effetti mi ricordo anche che ti sei sentita male, quella sera.» disse quindi, tornando a rivolgersi a Lilli «Un capogiro, un mancamento, roba di quel genere». «Quanto sei spiritoso, stasera!» esclamò Gloria, battendo assieme le mani «Vuoi guadagnarti una pedata negli stinchi, forse?». «Non ero proprio al massimo, quella volta.» ammise invece Lilli, passandosi una mano tra i capelli «Un po’ come stasera, insomma». Innocenzo la guardò, un po’ stupito e un po’ preoccupato. «Non dirmi che ti sentirai svenire anche stasera» disse, guardandola con serietà. «A ‘sto punto ti converrebbe stare a casa, allora.» interloquì amoretesoro «Se a tutte le cene ti riduci così…». «Tu sta zitto che non c’eri nemmeno.» lo zittì subito Gloria «Lilli non si sentirà male, ma si sentirà ancora meglio se la finirete di starle addosso come avvoltoi. Chiaro, tutti e due?». Amore-tesoro, per tutta risposta, tirò fuori dalla tasca dei calzoni un pacchetto di sigarette e se ne mise una, spenta, tra le labbra. Innocenzo gli prese direttamente il pacchetto di mano. «Noi siamo qua fuori, se hai bisogno» disse, indicando la porta.
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Lilli stavolta si accorse fin da subito che si era rivolto solamente a lei, e non ad entrambe. Annuì appena, di conseguenza, e fu grata a Gloria quando se la tirò dietro in cucina per cuocere la pasta. Se lo ritrovò accanto per tutto il tempo, come si decisero a mettersi a sedere attorno al tavolo. Gloria da una parte, Innocenzo dall’altra. Premuroso, pieno di cure, disponibile al riso. Capace di avvitare la conversazione su qualsiasi argomento e mostrarsi sempre interessato, così come lo era di saltare di palo in frasca quando rischiava di diventare noioso. Molto più loquace di quanto si ricordasse Lilli, che l’aveva anzi trovato fin troppo taciturno, la volta precedente. Lei non sapeva neanche come ribattere. Innocenzo andava avanti da sé, senza perdere il ritmo, senza smettere di avere la battuta pronta. Comprensivo, d’indole paziente. Non la interruppe in nessuna occasione, neanche quando le ci voleva parecchio per riuscire ad articolare un discorso. Smetteva persino di mangiare per ascoltarla, congiungendo le mani, coi gomiti sul tavolo. Se lo avvisavano che così facendo il cibo nel piatto si sarebbe raffreddato, rispondeva con un’alzata di spalle. Lilli si voltava verso Gloria a più riprese, in cerca d’aiuto. Non riusciva a reagire, a trarsi d’impaccio da tutte quelle attenzioni non richieste che le piombavano addosso di punto in bianco da uno sconosciuto. Non era normale che qualcuno vivesse per ascoltare qualcun altro. Era una cosa che poteva stare bene a un frate, al massimo. Innocenzo lo faceva con naturalezza, persino con piacere. Le sue risate erano sincere, al punto da divenire contagiose. Ed era lì solo per ascoltare lei. A metà della cena, Lilli si chiese com’è che avessero cominciato a parlare, dal momento che lui non le aveva posto nessuna domanda. Era sicura di non aver cominciato lei per prima? Forse solo con uno sguardo, o l’abbozzo di un sorriso. L’indomani avrebbe potuto dire che aveva fatto tutto da solo? L’idea la smarriva. La disorientava non avere Enoch lì accanto, la sua presenza silenziosa, timida, al quale poteva comunque appigliarsi per uscire da quella confusione. Cercò il suo regno delle certezze e lo trovò spoglio come una distesa inaridita, scorticata. Ci mise un bicchiere, poi un altro ancora. Mentre il naso le sfiorava l’orlo di plastica bianca, girò gli occhi e notò Gloria che la studiava con un’espressione indefinibile. Lilli alzò le sopracciglia per chiederle che cosa avesse da guardare. «Guardalaguardalaguardala.» fece Gloria, sollevando un dito per indicare il suo viso «Hai avuto una reazione umana. Sei viva». Lilli sbuffò una risatina dentro il bicchiere, facendo saltellare le bollicine del vinello frizzante sino alle narici.
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Dieci minuti dopo, quasi metà tavola aveva preso a salmodiare un coro alpino imparato a Courmayeur con l’accompagnamento di piatti e cucchiaini. Lilli si ritrovò in mezzo a Gloria e Innocenzo che stonavano in maniera agghiacciante tutte le note; davanti a lei qualcuno aveva cominciato a battere assieme le posate senza tempismo, per il solo gusto di fare casino. Completamente rintronata, si appoggiò contro lo schienale della sedia, a occhi sbarrati. Scosse la testa un paio di volte, intercettando lo sguardo di qualche altro disperato. Senza preavviso, poi, cominciò a ridere. Con la mano davanti alla bocca e il respiro che minacciava di mancarle, in una specie di crisi d’asma e di nervi. Lo sterno accusava colpo dopo colpo, la nuca le doleva per via di una qualche contrazione della mandibola. Sentiva le lacrime grondarle sino alle guancie paonazze, in mezzo a tutto quella cacofonia che non diminuiva nemmeno per sbaglio, tra corpi abbracciati che oscillavano da destra a sinistra. E non sapeva se lo sguardo di tutto il tavolo ce l’aveva addosso sul serio o se se lo stava soltanto immaginando. Crollarono infine a sedere, tra applausi, brindisi e lanci in aria di tovaglioli sporchi e patatine. Lilli, con la bocca aperta e una mano premuta sul petto, poté riprendere a respirare. Durò poi chissà quanto la rassegna di avventure, volgarità e figure di merda guadagnate durante le vacanze, prima esposte platealmente, quindi gradualmente ricondotte ai vari gruppetti. Lilli, già un po’ partita, si ritrovò ad ascoltare resoconti di incidenti coi maestri di sci, sbornie e disgrazie evitate per miracolo, finendo per partire del tutto. Si rendeva vagamente conto che le stavano rifilando delle panzane incredibili, ma anche lei ci metteva del suo. Fingeva di indagare sulla loro veridicità così come Gloria, Innocenzo, amore-tesoro e quant’altri non si preoccupavano di contestare le sue balle da competizione. Andarono avanti così fino a notte inoltrata, quando ormai metà degli invitati erano già tornati a casa e i restanti erano tutti alticci e allegri, se non erano direttamente collassati sui divani. L’epilogo più classico per una cena a casa di Gloria. L’unica novità era che la stessa Gloria non si era preoccupata di tampinare nessuno. Mentre finivano di sghignazzare ognuno per sé, anche gli ultimi superstiti imboccarono a fatica la via di casa. Lilli si era riguadagnata il suo posto sulle scale, anche se ora ci si era sistemata molto più comodamente, a costo di apparire poco fine. Gloria aveva portato una poltrona in mezzo al corridoio e la divideva col rivoltoso. Amoretesoro e Innocenzo vagavano tra gli sbadigli da una stanza all’altra, trascinandosi dietro le gambe. Dopo il disperato tentativo di un’ultima resistenza, Gloria, con gli occhi già mezzi chiusi, si decise a
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concedere la libertà di tornare a casa anche ai più tenaci. Lilli aveva ripreso a borbottare qualcosa con Innocenzo, senza un vero filo conduttore. Fu così che arrivò, un poco inaspettata, la sua prima, vera, domanda. «Scusa, ma non sei fidanzata, tu?». Lilli si ritrovò con la lingua incollata contro il palato. Era riuscito a farla venir fuori senza passare per indiscreto. Parlavano di lei, di che locali aveva frequentato negli ultimi tempi, di dove le piaceva andare a mangiare. Lei aveva risposto che era da un bel po’ di tempo che non usciva, neanche per andare a mangiare. Così era sorta fuori quella domanda, di fronte a quello che a Innocenzo doveva essere parso un controsenso. Lilli si era presa il mignolo nell’altra mano e aveva cominciato a dimenarlo piano. «Solo in parte» aveva risposto, tenendosi vaga, e ciononostante aveva sentito un tuffo in fondo al cuore, sordo, stordente. Innocenzo non aveva posto altre domande. Non aveva chiesto chiarimenti, anche se sarebbero stati altrettanto legittimi. Esattamente come aveva fatto per tutta la sera, aveva cambiato argomento e aveva cominciato a parlare della ringhiera della scala. Gloria, dopo pochi minuti, gli si era avvicinata con uno sbadiglio da primato. Disse che era tardi, che aveva sonno e che, se si fosse gentilmente levato dai piedi, avrebbe potuto anche riaccompagnare a casa Lilli e andarsene a letto. Dietro di lei, amore-tesoro batteva con un dito sull’orologio che teneva al polso. Innocenzo non protestò, considerato che non era più tanto fresco nemmeno lui. «Il dovere chiama, a quanto pare» disse solo, per scusarsi con Lilli. «Il letto, più che altro» ribatté lei, alzandosi traballando in piedi. Amore-tesoro buttò il giubbetto sulle spalle di Innocenzo senza aprire bocca, avviandosi già verso la porta. «Appunto.» commentò quello «Ti porta a casa Gloria, allora?». Lilli annuì, cominciando a sbadigliare anche lei. Innocenzo si infilò il giubbetto in maniera decente. «Beh, allora dobbiamo salutarci.» disse, sistemando il colletto «Alla prossima occasione, capiti quando capita». Si sporse verso di lei, con attenzione, senza pretese. Lilli rabbrividì, ritrovandosi a chiudere gli occhi d’istinto, senza riaprirli finché le sue guancie calde, ruvide di un filo di barba, furono a contatto con le sue, mentre le sue labbra vi deponevano i due baci educati, a cui non seppe rispondere. Con quella spontaneità senza malizia, che aveva guardato con sospetto per anni come un indizio di falsità; la stessa che, si rendeva conto adesso, aveva invidiato morbosamente da quando Enoch era entrato nella sua vita. Riaprì gli occhi. Innocenzo
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si era appena ritratto, senza aver notato alcun minimo cambiamento in lei. «Se è per questo,» stava intanto dicendo Gloria, con aria tutt’altro che innocente «non c’è il rischio che non vi vediate per lungo tempo. Vi siete già scordati dell’immancabile pic-nic di lunedì?» piantò le mani sui fianchi, sorridendo beffarda «Non starete mica pensando di latitare, vero? E’ tradizione. E quest’anno capita anche a primavera inoltrata, è un evento non da poco». Lilli corrugò la fronte: confusa e assonnata com’era, le ci volle qualche secondo per capire a che cosa alludesse. «E’ vero!» fece invece Innocenzo «Devi aver pazienza, cerca di capire che ore sono». «Ho tutta la pazienza del mondo, caro.» replicò Gloria, tranquilla «E ora che ti sei ricordato e non puoi più sognarti di tirarmi il bidone, fai contento il tuo amico e vai a dormire, così possiamo andarci anche noi, mh?». «Ok, ok, me ne vado.» Innocenzo alzò le mani, senza perdere il sorriso, e si voltò di nuovo verso Lilli «Allora, visto che qualcun altro ha già deciso per noi, direi che ci vediamo lunedì». «Lunedì.» ripeté Lilli, annuendo «Va bene». «Allora vi lascio. Buonanotte, ragazze». «Buonanotte». «’Notte, caro». Come Innocenzo fu uscito, Gloria si voltò a guardare Lilli, che teneva ancora lo sguardo sulla porta. Come l’altra se ne accorse, diede spazio all’ennesimo sbadiglio, cercando di farlo passare per credibile. «Si va?» domandò, spiandola attraverso gli occhi socchiusi. Gloria sospirò, senza risponderle. Andò a prendere le chiavi della macchina. Lungo il breve tragitto sino alla casa di Lilli, parlarono dell’arrosto, delle previsioni del tempo e del dolce che avrebbe dovuto preparare per lunedì. 40- Centocinquantaduesimo giorno, Lunedì (Pasquetta) Pic-nic suonava un po’ da telefilm americano: un termine che poteva usare solo una che se ne sparava anche tre o quattro di fila. Come Gloria, appunto. Si va a far la merenda fuori. E’ così che dicevano. A mangiar sull’erba, più raramente. Oppure, senza bisogno di tante spiegazioni, “si va al Pianale” e in quel caso tutti capivano. Perché la merenda fuori, il pic-nic o a mangiar sull’erba che fosse, l’andavano a far tutti lì, indiscriminatamente. E al Pianale ci si andava solo per quello. Se si faceva all’antica, si prendeva la strada per il bosco,
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quella che “andava in su”, in abbigliamento di rigore: pantaloncini corti, felpa legata attorno alla vita, scarponi, zaino da escursione sull’Himalaya e bastone. Racchetta da sci, spesso e volentieri. Ma erano abitudini cadute in disuso. Ci si arrivava in macchina, in moto, in motorino, sull’Ape 50. Per un paio di giorni all’anno, quella strada disastrata, non asfaltata, tutta curve e buche, si trasformava in una Manhattan improvvisata. Una colonna di macchine che procedevano a venti all’ora, fermandosi quando qualcuno, inspiegabilmente, scendeva anziché salire, di solito un vecchio in canottiera che lassù ci si era coltivato un orticello, perché non c’era posto per viaggiare in due sensi di marcia. Qualcuno sul fuoristrada, tutto fiero, a cui venivano indirizzati tutti gli accidenti di chi si avventurava fin lassù su una Ka e ad ogni buca doveva rallentare per non fracassare mezzo telaio contro un sasso sporgente. E intanto accanto passavano due su un motorino carichi all’inverosimile, simili a un elefante in equilibrio su una palla, che filavano a zig-zag, posando un piede per terra quando il peso si sbilanciava troppo da una parte. Ragazzini di quindici anni con l’aria strafottente e il casco allentato, gli unici che riuscivano ad andare a una velocità decente; gli stessi che, solitamente al ritorno, finivano magari per forare una ruota. Ma piaceva. Aveva un sapore familiare, come possono averlo i biscotti della nonna, e chi se ne frega se li comprava al supermercato. Tutti, da quando i genitori ce li portavano ancora in braccio, erano stati abituati che almeno una volta all’anno, come in un pellegrinaggio, bisognava andare al Pianale. Lilli aveva tentennato proprio per quello. Era rimasta sdraiata a pancia in giù sul letto a guardare il telefonino, con le braccia incrociate sotto il mento. Chiamarlo. Fare finta di nulla, rimettere in sesto con un po’ di mastice quello che aveva scricchiolato. Anche se non avrebbe saputo cosa rispondergli, se gli avesse chiesto che cosa aveva deciso, dopo il fantomatico periodo di riflessione. Anche se non gliel’avesse chiesto, com’era sicura che sarebbe andata a finire. Andarci con lui, al Pianale. Ci sarebbe venuto. Forse avrebbe dovuto fargli credere che non c’era così tanta gente, ma ci sarebbe venuto. Ma perché farsene un problema, poi? Se c’era anche il rischio di urtare qualcuno, ad un certo punto, non doveva per forza farsene un problema. Poteva fregarsene, se veramente non dipendeva da lui. Perché rodersi il fegato a quel modo? Ma avrebbe continuato a farlo. Perché così doveva essere, o qualche altra risposta delle sue. Non si può cambiare nulla, non c’è niente da fare e via dicendo. Nemmeno un giorno di riflessione in più o uno in meno, allora, avrebbe cambiato qualcosa. Sarebbe stata soltanto un’altra boccata d’aria. L’ultima. Un po’ come
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una vacanza. Perciò si era alzata dal letto e aveva preparato la torta, cercando di farla meglio che le riuscisse. E intanto che apriva il forno per darle un’occhiata, le venne in mente che a lui non aveva mai fatto neanche una pizzetta. Enoch non gliel’aveva mai chiesta, d’altra parte. Ubbidiente, silenzioso, paziente; aveva tenuto fede all’accordo. Non si era fatto sentire. Eppure anche in quel momento doveva esser lì ad aspettare, senza azzardarsi a prendere l’iniziativa per paura di rovinare tutto. Fermo, seduto vicino al telefono, cercando di uscire di casa il meno possibile per essere sempre pronto ad alzare la cornetta. Avrebbe saputo resistere un altro giorno, poi tutto sarebbe riandato a posto. Sarebbe stata lei a tornare da lui, senza vergognarsi, finalmente serena. E gli avrebbe anche preparato quel dolce, una colossale montagna di panna e crema che non sarebbero riusciti a mangiare nemmeno in una settimana. Solo un giorno, uno soltanto. Pigiati in cinque su un’utilitaria, quindi, perché così c’erano più possibilità di trovare un parcheggio. Col bagagliaio stipato di zaini, spalla contro spalla tenendo in grembo chi un vassoio coperto, chi un fornellino, chi un sacchetto di nylon pieno di roba inutile. Quattro ragazze e il rivoltoso, sulla sua macchina. Una scelta ponderata con attenzione: scaricare tutta la responsabilità su di lui, sporcare la sua auto anziché la loro e la libertà di poter guardare i burroni oltre il ciglio della strada senza dover stare attente a non finirci dentro. Senza contare la possibilità di fare fronte comune per inveirgli contro ad ogni occasione. «Evita le buche». «Spegni la radio, è fastidiosa». «Questo dolce si scioglie, se non ti muovi. Dopo voglio vedere cosa mangiamo. Lilli, digli qualcosa, anche te». «Per me arriviamo domattina» «Prendila più larga, la prossima curva! Ammazzaci tutte!». «Ma se non stai attento buchi una gomma, cosa credi?». «Lo apri il finestrino?» «Lo richiudi?» «Certo, se l’aria condizionata funzionasse…». «Ma tieni d’occhio la strada, cazzo!». Quel povero cristo scese dalla macchina stralunato, muto come un pesce, senza più nessuna energia per ridere, neanche per provarci. Gloria e le altre due si stiracchiarono beatamente alla luce del sole, scambiandosi pareri sulla splendida giornata che si profilava. Lilli le osservò senza parlare, prima che si avviassero con gli zaini in spalla lungo il sentiero, parlottando del più e del meno. Senza fretta, sino al Pianale.
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Non che fosse più com’era una volta, senza bisogno di scavar tanto addietro negli anni; Lilli non aveva idea di come si presentasse prima della guerra, fatta eccezione per un paio di case diroccate che nessuno si era mai preoccupato di ristrutturare o buttar giù. Ricordava però benissimo le file di tavolini sotto le querce imponenti, i banchetti da fiera di paese, gli striscioni appesi ai rami e alle finestre della chiesina. I giochi. Tiro alla fune, corsa nei sacchi, il lancio dell’uovo. Campana. Divertimenti passati di moda, “come usava una volta”. Giochi scemi, li chiamavano ora. Niente però riusciva a cancellarle dalla mente tutti quei grandi in fila che si punzecchiavano, scambiandosi coloriti insulti in attesa del proprio turno, mentre lei guardava da lontano coi suoi occhi da bambina e si domandava perché ai più piccoli certe cose non le facessero fare. Nel giro di un paio d’anni, era decaduto tutto quanto. Problemi d’organizzazione, evidentemente, o mancanza di fondi. Le solite storie. C’era rimasto solo quell’enorme prato verde col sole a picco, a seicento metri d’altezza, compreso tra la chiesetta, i ruderi delle due case e le querce. La gente non ne parlava più di com’era prima. Si accontentava e faceva le feste al furgoncino dei gelati che non mancava mai all’appuntamento. C’erano un paio d’ombrelloni da mare e altrettanti tavolinetti pieghevoli. Una comitiva di coppie sposate da poco si era portata un barbecue per il quale si sarebbero fatti odiare da tutto il Pianale. Il resto erano asciugamani stesi sull’erba, tovaglie e coperte. Le zone d’ombra erano già state conquistate, così la loro combriccola aveva trovato posto soltanto al sole, un po’ come tutti. Fuori allora in maniche corte e occhiali da sole, se non direttamente in costume. C’erano voluti meno di dieci minuti perché qualcuno tirasse fuori un pallone da calcio e Lilli si ritrovasse in compagnia delle sole ragazze: Innocenzo, il rivoltoso, amore-tesoro, Nicola “Pio XII” e tutti gli altri esponenti del genere maschile le avevano piantate lì dov’erano per ritagliarsi uno spazio dove fare due palleggi. Non c’erano voluto di più perché tornassero indietro a recuperare qualche zaino per utilizzarlo come palo delle porte. Attorno alla tovaglia si era invece formato un tradizionale angolo dello spettegolo. Discorsi a cui Lilli riusciva a star dietro, almeno sulle prime, ma che poi la lasciavano disorientata. Erano bastati così pochi mesi perché avvenissero incontri, fidanzamenti, litigi, rotture. Il quadro complessivo era cambiato, le dicevano. Lilli stentava a capire come mai, allora, si ritrovassero ancora tutti lì, sempre le stesse persone alle stesse cene, negli stessi ritrovi. Al contempo non riusciva più a seguirle: non capiva come potessero sentirsi attratte da una farsa talmente
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mediocre, così ovvia, e finire per cascarci dentro, senza accorgersi di ripetere il solito, medesimo copione. E d’istinto le riveniva di pensare ad Enoch, a quel punto fuori dalla retta con la quale si era comunque andata a scontrare. Oppure si erano soltanto avvicinati, senza mai sfiorarsi, cadendo anche loro in un’illusione ancora più madornale: quella di credere in qualcosa che andasse oltre il loro corpo. Qualcosa di ancora più intimo che, tramite altre vie, era riuscito a oltrepassare le barriere fisiche e a congiungersi, come quei respiri soffiati da una bocca all’altra. Cos’era più reale, allora? Cosa più vero? Loro due persi in quell’esperienza allucinante che rendeva difficile tenere i piedi ancorati al terreno o le grida che venivano dal campo da calcio improvvisato al Pianale e il cicalio insistente attorno alla tovaglia? Cosa più vero? Cosa più falso? C’era davvero differenza, alla fine? Se lei era viva, e lo era Enoch, e lo erano anche loro, tutti. «Ma cos’è ‘sta roba? Gli 883?» borbottò d’un tratto Gloria, girandosi verso un altro gruppetto che doveva essersi portato anche uno stereo portatile. «Uh, ganzi!» commentò immediatamente una ragazza «No, per carità, eh» ribatté un’altra, con aria schifata. Lilli si riscosse come di soprassalto. Si guardò intorno qualche volta, cercando di prestarci attenzione anche lei, che fino ad allora non si era accorta di nulla. «Dai, erano anni che non li sentivo, nemmeno per sbaglio.» riprese Gloria «Mi fanno ritornare in mente gli anni spensierati della giovinezza, quando sembrava tanto aver imparato a limonare. Vero, Lillina, te ne ricordi? Lilli?». «See, aspetta e spera, con questa qua. Non vedi che non ti ascolta nemmeno?» fece una ragazza. «Ho sentito benissimo» disse lei, contrariata. «Ma se saranno dieci minuti che stai con lo sguardo fisso a terra!» la canzonò l’altra, mandandola a quel paese con un gestaccio. «Effettivamente non ha mica tutti i torti.» osservò Gloria, gattonando fino a Lilli per agitarle una mano davanti al viso «Bentornata tra noi, musetto pensoso». «E piantala!» sbottò la giovane, tirandosi indietro «Ero solo-». «Persa nell’attimo?». «Fanculo, va bene?». «Mamma, quanto sei incazzosa.» Gloria cominciò a ridacchiare, per nulla impressionata, prima di voltarsi di nuovo «Cos’è, me li hanno già cambiati? Che fine hanno fatto gli 883?». «Si vede che non piacciono nemmeno a loro» rispose un’altra.
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«Noo! Canaglie, bastardi!» cominciò a urlare Gloria «A me piacevano! Rimetteteli! Quali sono quelli con lo stereo?». «Parla piano, che ti sentono…» fece una, dandole un colpetto su un braccio. «Perché, secondo te mi metto a strillare perché non voglio che mi sentano?» saltò in piedi, mentre tutte le altre incassavano d’istinto la testa tra le spalle «Quali sono, quelli laggiù? Ehi, voi! Ehi!». «Glò, per l’amor di Dio…» fece Lilli, a denti stretti. «Dai, cucciola, sostienimi! E’ solo una richiesta educata, la nostra». «La tua, semmai. E da quand’è che sei educata, tu?». «Non farmi bestemmiare, allora. Già mi fa incavolare vederti così cadaverica, e lo sai.» Gloria la prese per un braccio sotto l’ascella, tirandola in piedi anche contro la sua volontà. Il Pianale si era azzittito, tutti guardavano con aria incuriosita quella piccoletta coi capelli rossi che si sbracciava e gridava come un naufrago in mezzo al mare. Lilli le stava accanto e si tartassava nervosamente un gomito con l’altra mano. Vide un ragazzo della loro età che scambiandosi occhiate interrogative coi due che aveva attorno, girava la rotellina del volume di un stereo portatile per abbassarlo. Com’era inevitabile, le tornò alla mente quello che era abituata a portare in Pineta. «Quella prima!» esclamò Gloria, scavalcando la ragazza che le era rimasta seduta davanti per farsi incontro al gruppo «La rimetti su? Non per nulla, è che ci piaceva». «A te e a lei?» domandò quello, indicandola assieme a Lilli. «A me, a lei e a tutto il nostro mucchio selvaggio!» rispose Gloria «Ma a me e a lei in particolare». Lilli ascoltava con un orecchio solo. Era rimasta stranamente colpita, più che altro, dallo scambio tra i due seduti assieme al tizio. Si erano guardati senza capire e uno aveva chiesto all’altro, a bassa voce, a che canzone Gloria si stesse riferendo. «Eh, ma non piaceva a noi.» rispose intanto il ragazzo, mentre il Pianale tornava a riempirsi del suo vociare «Abbiamo messo su il disco solo per sapere cosa c’era dentro». «E va beh, ma ora lo sapete e sapete anche che ci piace.» incalzò l’altra, intanto che si trascinava dietro Lilli sino al gruppetto «Erano anni che non lo risentivo, mi ha fatto… Sobbalzare il cuore». Il giovane abbassò immancabilmente gli occhi all’altezza del “cuore” di Gloria e ce li lasciò anche più del dovuto. «Devo mettermi a cercarlo di nuovo.» disse, con un’improvvisa gentilezza «L’abbiamo rimesso a posto ed è anche senza titolo. Masterizzato, insomma, sai com’è. Di norma ci scriviamo il titolo col
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pennarello indelebile, ma guarda caso in questo astuccio sono finiti quasi tutti in bianco». Lilli aveva voglia di domandargli cosa gliene doveva importare a loro due dei pennarelli indelebili; Gloria, per una volta, si mostrava molto più paziente. «Cos’era che volevi sentire?» domandò il ragazzo, stendendosi per prendere un astuccio porta-cd. «Eeeeh… I cosi» Gloria schioccò le dita un paio di volte. «Gli 883» le venne incontro Lilli. «Gli 883, ecco. Esatto.» convenne l’altra «Scusa, ho avuto un vuoto». «Figurati.» fece l’altro, ormai già troppo intontito per preoccuparsene, aprendo l’astuccio «Certo che gli 883…» aggiunse però fra sé, corrugando la fronte. «No, ma dai, non è possibile.» sbottò a quel punto il ragazzo che gli stava più vicino «Non si può cambiare questa roba con gli 883». Lilli gli posò sopra lo sguardo. Giovane, con l’acne stampata sulla fronte che risaltava anche sotto una frangia esageratamente lunga, i pantaloni di jeans strappati sopra il ginocchio magro. Con un ventre abbastanza pronunciato, comunque. Da promettente bevitore, le venne in mente. Non le ci volle nulla a immaginarselo a fare il musicista sfegatato. Bassista, ci avrebbe scommesso. Perché, non si sa come mai, ma un musicista adolescente su due suona il basso. «Su, non farne un dramma.» gli ribatté tranquilla Gloria «Cosa vuoi che sia? Fai contente due ragazze, ti pare poco?». L’altro accennò una risata, posando una mano sullo stereo. «Sì, ok, però lo sai chi sono questi qui?» chiese poi, riferendosi al cd che stava ancora girando, a volume bassissimo. «Ma che ne so! Si potranno ascoltare anche gli 883, per una volta! Non è mica reato!». «Ma fanno cagare!». Gloria si fece improvvisamente seria, al punto che anche Lilli, che le stava dietro, se ne accorse prima ancora che aprisse bocca. Non era per una particolare simpatia per gli 883. A Gloria della musica non era mai fregato un accidente e non avrebbe cominciato quel giorno. No, quel ragazzo aveva soltanto premuto un po’ troppo l’acceleratore, l’aveva infastidita con delle lagne superflue. «Scusami, eh, perdona la mia ignoranza» cominciò a dire, con un sorrisetto sardonico e un braccio proteso in avanti. «Glò, buona» s’intromise Lilli. «Perché sono ignorante, davvero.» continuò però l’altra, imperterrita, al massimo ritraendo il braccio «Io di musica non capisco un cazzo, lo riconosco. Non mi faccio neanche problemi ad
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ammetterlo. Solo che, se arriva una ragazza a chiederti un favore anzi, due - e tu cominci a far delle storie perché non vuoi che venga violata l’incolumità delle tue orecchie così ben addestrate o sei gay o sei cretino». Erano in tre. Il primo, quello che cercava il disco, restò con l’astuccio in mano, imbambolato; il secondo si coprì la bocca con una mano, cominciando a sghignazzare furiosamente; il terzo, bassista o fine intenditore che fosse, la fissò con gli occhi pallati. Per qualche secondo. Poi realizzò. «No, a me del finocchio non lo dai» disse, già innervosito. «E allora cretino, cosa ti devo dire?» replicò l’altra, senza scomporsi minimamente «Scusami, eh, ma potevo anche essere venuta-». «Gloria, falla finita» s’intromise di nuovo Lilli. «No, un secondo, gli rispondo. Dicevo, potevo anche essere venuta qui perché mi piacevi e avevo bisogno di una scusa per attaccar bottone, non ti pare? No di sicuro, visto che sei anche brutto come il culo, ma non penso che ti capiti spesso che una ragazza venga da te a questo modo». «Ma chi ti vuole?» fece l’altro «Ma chi ti conosce?». «Ma chi vuoi conoscere tu, allora? A parte quelle due o tre baldracche pescate sul computer con cui ti sfili dalle seghe?». «Gloria, Cristo!». «Con la faccia che ti ritrovi, ti puoi fare giusto quelle». «Ma baldracche sarete voi due, basta vedervi!». Lilli spalancò gli occhi, serrando le labbra. «Come cazzo ti permetti di tirare in ballo lei, ora, brutto stronzetto?» saltò su Gloria, facendosi avanti «Chi cazzo te l’ha dato il permesso?». «Ragazzi, fatela finita, ora» provò a dire quello coi cd. «La farà finita lui!» insistette Gloria, a muso duro. Lilli chiuse le mani a pugno, avanzando sino ad affiancarsi all’amica. «Baldracca a me?» sibilò, indicandosi «Piccolo segaiolo merdoso che non sei altro, baldracca a me?». «E vi aspettate di essere qualcosa di meglio?». «Bravo, sei cretino forte. Falla incazzare ancora di più, sforzati». «Con quella faccia da coglione che ti ritrovi dai della baldracca a me? Vieni qui ad ascoltare la musica e torni a casa a sfregare il tuo microscopico pisello pensando a quei due o tre culi che ti sei messo a spiare da lontano e dai della baldracca a me?». «Fatela finita, basta!». Ma ormai erano partiti per la tangente. Volarono insulti sempre più pesanti, ci misero in mezzo i padri e le madri; per qualche secondo,
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tornò il silenzio in tutto quanto il Pianale. Quelle che erano rimaste attorno alla tovaglia si guardarono bene dal muoversi da lì; gli altri interruppero la partita di pallone e si affrettarono a raggiungere le due. Chiesero spiegazioni, cercarono di tenerle a bada, scambiarono anche loro qualche insulto con i tre ragazzi, dal momento che ormai avevano preso ad offendersi tutti, senza distinzioni. Cominciarono a farsi delle minacce, a mostrare i pugni. Qualche ragazza si decise ad alzarsi per andare a calmarli, prendendoli per le braccia, mormorando le tre o quattro parole imparate a memoria per calmarli, mentre loro fingevano di essere così agitati come volevano mostrare e si facevano portare via, uno per uno. Alla fine dovettero esaurire le energie, perché in mezzo a tutto il Pianale che chiedeva un po’ di silenzio, quelli che erano rimasti riuscirono a far tornare Lilli e Gloria al campo base. Di peso, mentre quelle inveivano ancora e ogni tanto davano uno strattone per liberarsi, ribellandosi alle braccia ben più forti di Innocenzo e amore-tesoro, mentre Nicola Pio XII, il pacificatore per definizione, restava in coda, in modo da potersi mettere in mezzo, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Attorno alla tovaglia, quando vi arrivarono, si fece un silenzio di tomba. Fu deciso che sarebbero stati tutti quanti lì, fermi e buoni, senza fare una mossa; anche la partita avrebbe dovuto aspettare che le acque si fossero calmate per tutti. E così si ritrovarono sdraiati, chi in una posizione chi in un’altra. Chi si era portato con sé la ragazza coglieva l’occasione per tenersela stretta, farsi fare un massaggio improvvisato o magari chiudere gli occhi beatamente con le mani tanto conosciute immerse tra i capelli; quelli che erano da soli si erano ritrovati in una specie di zona comune, dove almeno avrebbero passato il tempo sino al disgelo. Lilli e Gloria avevano però uno spazio tutto loro. Imbronciate e incapaci di star ferme, stizzite, che non facevano altro che raccontarsi quello che avevano detto, quello che si erano sentite dire, la rabbia che avevano ancora addosso. Tutte cose che già sapevano, insomma, ma che per il momento avevano ancora bisogno di ripetersi l’un l’altra. Quelli che si affacciavano ogni tanto, mediamente i soliti tre che le avevano riaccompagnate indietro, si accorgevano ben presto che non li consideravano nemmeno, occupate com’erano a recriminare e a progettare come vendicarsi. Poi si calmarono. Vuoi perché era già trascorsa qualche ora, vuoi perché le avevano convinte a mettere qualcosa sotto i denti e a stomaco pieno passa anche l’arrabbiatura. Cominciarono a farsi i complimenti per come avevano affrontato il presunto bassista, a sfotterlo con più ironia e meno cattiveria. Gloria si riprese prima: cominciò a blaterare contro l’ozio e
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i panini, contro l’acqua che era diventata troppo calda. Lilli, che ci metteva sempre di più, rimase da sola, con lo sguardo basso sul tramezzino col cotto e la fontina ancora avvolto quasi interamente nella carta stagnola. La guardava luccicare al sole. La stringeva per sentirla scricchiolare. Si rese conto che stava per prenderle un’altra botta di malinconia, la stessa che le prendeva ogni volta che si ritrovava da sola. Ma non lo era, sola. Voltò il capo. Innocenzo guardava altrove, sembrava non far caso a lei, ma era lì. Mentre ognuno aveva ripreso a divertirsi e a godersi la giornata, lui se ne stava lì, immobile, a fissare chissà cosa tra gli ultimi rami di una pianta. Si dovette accorgere che Lilli l’aveva notato, dal momento che si girò a guardarla. «Passata?» domandò semplicemente. Lei si prese qualche secondo. «Ora sì, mi pare di sì» rispose quindi, annuendo debolmente. «Meglio così.» disse lui, dando l’idea di esserne sollevato «Sai, mi ha colpito tutta quella foga di prima. Non me l’aspettavo da te». «Non dev’essere stato un bel vedere» mormorò Lilli, chinando la testa per la vergogna che finalmente ricominciò a provare. «Non intendevo quello. Che vuoi che sia? No.» Innocenzo la osservò con più attenzione in viso «Mi ha stupito la grinta. Credevo che fossi una ragazza meno… Col sangue meno caldo, diciamo». Lei sospirò, risollevando il viso dopo qualche attimo. «E’ stato uno sfogo.» spiegò quindi «Troppo rancore accumulato». «E ora l’hai espulso tutto?». Lilli sfoggiò un sorriso tiepido, cominciando a giocherellare con un filo d’erba, con delicatezza. «Perché me lo domandi?» fece, un poco sospettosa. Innocenzo si strinse nelle spalle. «Per sapere se ora stai meglio» rispose con ovvietà. «E sei rimasto qui finora solo per essere sicuro che stia megli0?» chiese, lasciando andare il filo d’erba e intrecciando le dita delle mani sopra le ginocchia. «Non avrei dovuto?». Lilli diede un’occhiata al resto del gruppo, che cominciava nuovamente a disperdersi. «Gli altri si divertono.» disse «Tu resti qui ad aspettare me?». Innocenzo abbozzò una risata. «Beh, per una volta, eccezionalmente, lo posso anche fare». Eccezionalmente. Lilli si sentì salire un singolare groppo alla gola, uno che la fece sorridere di mestizia.
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«Sembra che siate diventati tutti quanti un’associazione di carità.» sussurrò, senza neanche abbassare gli occhi «Gloria, tu e anche gli altri. Volete fare i missionari, da grandi? Non avete la faccia adatta, rinunciate». Lui la studiò, senza riuscire a nascondere la perplessità. «E’ che sembri proprio abbattuta» disse, con un filo di voce. «Oh, se è per quello scommetto che si noti anche a mezzo chilometro di distanza» fece lei, con sarcasmo. «Ed è un male voler aiutare?». Lilli allontanò le mani dalle ginocchia e fermò gli occhi su di lui. «Perché tu?» domandò, senza girarci attorno «Tra tutti quelli che ci sono qui, sei forse quello che mi conosce meno». Innocenzo esitò, distogliendo lo sguardo per primo. «Perché-». «Perché tu, se di me non sai nulla?» lo interruppe subito lei. «Non m’interessa sapere qualcosa di te.» rispose «Ma mi ha fatto piacere parlare con te, l’altra sera, e ora mi dispiace vederti così». «Così come? Capita anche a me di incazzarmi, ogni tanto». «Ma non in quel senso, te l’ho detto. Non mi sembri solo nervosa, mi sembri veramente… Stanca». Lilli sbuffò, cingendosi le ginocchia stavolta con le braccia, più strette, sino a poterci premere contro il mento. «Ero stanca anche venerdì» ribatté. «Adesso ancora di più». Lei non si mosse, se non per piegare un poco il capo e premere con più forza le ginocchia contro la bocca. «Io non posso sapere che cos’hai, se non me lo dici.» continuò Innocenzo «Non voglio nemmeno chiedertelo. Ma penso che ti farebbe bene rilassarti e non pensarci più, di qualunque cosa si tratti». Lilli distese le gambe, appoggiando le mani a terra. Piegò il capo di lato, come per lasciarlo ricadere, e sentì che avrebbe potuto far lo stesso con tutto il suo corpo. Non seppe dire cosa la sostenne, se le sue mani o soltanto la sua voce. Innocenzo rimase dov’era. Non le domandò niente, ma non si mosse. Dopo qualche minuto cominciò a parlare, le fece alzare il viso per guardare le nuvole bianchissime. Lilli lo ascoltò parlare per lei, solo per lei, starle accanto per quell’unico scopo, anche se neppure lui sapeva bene che cosa dirle. Lei a malapena annuiva, senza mai aprire bocca, se non per inspirare a fondo. Anche quando si sdraiò, con l’erba che arrivava a farle il solletico alle orecchie, e lui accanto che non diceva più niente. Senza un alito di vento, scambiandosi solo poche parole, ora un po’ per uno,
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su quanto tempo ci avrebbe messo quella nuvola imponente a coprire il disco luminoso del sole. Fino a quando non lo fece e per Lilli svanirono lo spazio e il tempo, la consistenza del terreno sotto di sé, della gente, dei rumori di tutto il Pianale, perché le sue braccia l’avevano trovata e circondata; leggere, ma così lontane dal non esserci, dalle distanze imposte, così come la testa si era pian piano accoccolata, aveva ritrovato un posto dove poter chiudere gli occhi senza più paura. Smettendo di chiedersi cos’era giusto e sbagliato, se lui avesse saputo, se quella fosse stata la sua intenzione fin dall’inizio e che cosa avrebbe fatto, ora che le sue labbra di tanto in tanto le si posavano sulle tempie, sulla fronte e sulle guancie e lei lo lasciava fare, abbandonata, inerme. Non ci volle nulla perché cominciasse a venir buio. Nessuno si era preoccupato di cercarli, di invitare Innocenzo a giocare a pallone, di lanciare a Lilli uno sguardo complice, di fare una battuta. Erano passati davanti a loro e avevano tirato dritto. Il Pianale si era quasi del tutto svuotato, non c’era più musica, né urla, né risate. Lilli spostò l’attenzione sulle altre, che stavano svogliatamente raccogliendo la roba da rimettere in macchina. Aprì la bocca impastata, come una che si sveglia a fatica, intanto che attorno a lei recuperavano tovaglia e coperte. Qualcuna incrociò il suo sguardo confuso e le rivolse un cenno col capo, come a dire “buongiorno”. «Il dolce l’abbiamo rimesso nel vassoio.» la informò una, indicandolo in tutta naturalezza «Ne è avanzato un po’». «Uh, buono, posso prenderlo io?» si offrì subito Innocenzo, dando prova di riflessi ben più brillanti «Tanto ci si rivede, no?». Lilli restò a fissarlo con la solita espressione. Si era messo a sedere, ma lei era rimasta puntellata su un gomito, mezzo intontita. Un attimo dopo, Innocenzo alzò gli occhi, prima ancora di aver ricevuto una risposta. «Oh, ma allora avete ripreso conoscenza, voi due.» fece Gloria, fermandosi in piedi di fianco a Lilli; ed era lei che guardava in particolare «Guardate che qua stiamo sbaraccando. Sarebbe il caso di alzarsi e tornare a casuccia bella. Capito, Lillina?». Lei la fissò ancora per un secondo, poi si stropicciò gli occhi con una mano e sbatté le palpebre un paio di volte. «Forza, bella, che la nostra Gloria ha ragione!» la incitò Innocenzo, alzandosi definitivamente in piedi e prendendola per le mani per aiutarla a fare lo stesso. Lilli si ritrovò in piedi senza esser ancora riuscita a dire una parola. Si passò una mano fra i capelli, ravvivandoli per cercare di ritrovare il
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filo. Innocenzo intanto si stirava con soddisfazione, le braccia levate al cielo, contro il sole che si apprestava a calare. «Possibilmente rimettimela in sesto prima di domattina.» disse Gloria, rivolgendosi a lui «Rendila in grado di arrivare alle macchine, almeno». «E che problema c’è?» ribatté lui, ancora allegro, posando gli occhi su Lilli «A proposito, vieni giù assieme a noi, no? Di posto ce n’è». Lei lo guardò senza fiatare, come se gli avesse parlato in aramaico. «No, caro, levatelo pure dalla testa.» intervenne Gloria «Lei viene con me. Nei tuoi artigli c’è rimasta abbastanza a lungo. Ognuno se ne torna così com’era partito». «Eddai, Glò!» insistette lui «Che ti frega? Ci viene volentieri!». «Non me ne importa un fico.» rispose lei, inflessibile «Lei in macchina con te e quell’altro non ci sale». Detto questo, girò i tacchi e si rimise a dare una mano. Innocenzo sbuffò scocciato, con le mani sui fianchi. Abbassò lo sguardo su Lilli, che era rimasta lì a far decidere agli altri con quale auto sarebbe dovuta tornare indietro, e la osservò con preoccupazione. «Va tutto bene?» le domandò, posandole una mano sulla spalla «Non hai ancora aperto bocca». Lei lo guardò. Guardò lui e guardò la sua mano, prima di annuire con un sorriso vagamente rassicurante. «Scusami.» rispose, con voce debole «E’ sempre quella stanchezza di prima. Ma sto bene, ora». Innocenzo non le tolse gli occhi dal viso, ma ritrasse la mano. Lei provò a mettere un po’ più di sicurezza nel suo sorriso. «Mi aiuti a radunare la mia roba?» gli chiese, strofinandosi le braccia con una mano di fronte a un improvviso brivido di freddo. Non ci volle molto, anche perché i più si erano già caricati gli zaini in spalla ed erano ripartiti in direzione delle macchine. Il suo lo trovò per primo Innocenzo, che subito si offrì di portarle. Poi, col giubbottino di pelle buttato addosso senza nemmeno infilare le maniche, Lilli fermò l’ultima ragazza, quella a cui avevano affidato con ingratitudine tutti i sacchetti dell’immondizia. «Scusa, ma il mio dolce?» le chiese, perché nei dintorni non si vedeva. «L’ha preso Gloria» rispose quella, facendo un cenno col capo in direzione del sentiero che conduceva al parcheggio. «Che stronza.» commentò Innocenzo, ridendo «Lo fa apposta per evitare che tu salga in macchina con me».
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Lilli lo guardò in silenzio. Innocenzo parlava con lei, ma guardava oltre la sua testa, tenendo d’occhio quelli che gironzolavano ancora lì attorno. «Te la posso chiedere una cosa, ora?» le domandò, e intanto badava che la ragazza coi sacchetti si stesse allontanando «Una cosa sola». «Dimmi» gli concesse Lilli, anche se non poteva ignorare quel nuovo brivido e il tremito che le percorreva le gambe. Innocenzo si morse un labbro, senza aggiungere altro. Nicola Pio XII si avvicinò per recuperare il suo zaino, l’ultimo, e Lilli si girò, intercettando un’occhiata tutt’altro che distratta. Poi diede loro le spalle, lasciandoli del tutto soli. Innocenzo mandò un sospiro liberatorio. «Ora me lo puoi chiedere?» gli chiese Lilli, tornando a guardarlo. Lui annuì a più riprese, prendendo fiato. Batteva ritmicamente la punta di un piede sul terreno, poteva sentirlo anche lei. «No, è che mi chiedevo…» cominciò a dire, e nella stessa identica maniera le posò la mano sulla spalla. Lilli capì che era un discorso che aveva già cercato di farle pochi minuti prima, senza però esserci riuscito. «Siamo stati assieme tutto il giorno, oggi.» riprese lui«E… Non so, magari ho capito male io. Però…» chinò il capo per un attimo, prima di farsi coraggio e rialzarlo «Ma tu sei fidanzata o no?». Lilli non fece una mossa. Non era certo difficile immaginarsi che le avrebbe posto una domanda del genere. Era più che logico: era scontato. Alzò due dita per spostare dietro l’orecchio la solita ciocca. Chiuse per un attimo gli occhi, stringendo le mani a pugno. «Non importa più» rispose piano, scuotendo appena il capo, e stavolta fu lei a cercare per prima il conforto del suo abbraccio, per sbilanciato che fosse da due zaini caricati sulla solita spalla, e ad accettare poi quello che le offrivano le sue labbra, il cui sapore non aveva ancora conosciuto. Arrivarono alla macchina affrettandosi lungo il sentiero, ognuno di nuovo col suo zaino, ognuno di nuovo distante. Arrivarono alle macchine, alle facce annoiate che erano rimaste ad aspettarli, e si salutarono velocemente tra le lamentele che uscivano dagli sportelli aperti. Lilli salì dietro, ritrovando il solito posto, con una spalla contro il finestrino e un’altra contro quella di Gloria. Non si era nemmeno ricordata di sistemare lo zaino nel bagagliaio, così se lo mise sulle gambe. Immediatamente cominciò l’interrogatorio, che se non altro avrebbe permesso al rivoltoso di guidare senza ascoltare più critiche al suo stile di guida.
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«Ma allora?» «Non ci dici niente?» «Ma perché proprio Innocenzo?». «Ma da quant’è che dura?». «Però era nell’aria…». «Com’è che vi siete messi lì? Non vi dava fastidio?». «Cristo, ma qualcosa puoi anche dire!». Lilli spostò lo sguardo sul vassoio sulle ginocchia di Gloria, che era stata l’unica a non aver aperto bocca. «E’ il tuo dolce.» spiegò quella, sollevando il coperchio per mostrarle quel che ne rimaneva; senza mostrare invidia, o rancore «L’ho preso io, ma puoi riportarlo a casa». Lilli fissò la forma che aveva preso, la crema che colava, ormai quasi del tutto liquida, sul fondo del vassoio. Chiuse gli occhi, appoggiando la testa al finestrino. «Non gliel’ho portato» mormorò fra sé, intanto che la macchina ripartiva lungo la strada sterrata, tra curve e sobbalzi. 41- Ancora tempo indistinto Che cosa avrebbe dovuto dirgli? Chi avrebbe dovuto chiedere per primo? Significava rispettare la sua scelta, quel silenzio, oppure disinteressarsene? Chi era che doveva scusarsi? Chi avrebbe dovuto trovare la forza di parlare? Era un male tanto grande aver avuto un momento di debolezza, perché di quello si era trattato? O era peggio essere scomparso, non farsi più sentire? Non gli disse niente. Non gli disse più niente. Non avrebbe più udito la sua voce, se non si fosse fatto vivo. Lei non avrebbe mosso un passo verso di lui. Lilli aspettava e avrebbe aspettato, fino a quando non lo sapeva, mentre le ore cominciavano a sfilare sempre più veloci, lontane dalla camera e dal telefono sul comodino. Sempre meno sola, giorno dopo giorno. Sei tu? Sei ancora tu? Me lo chiedo anche quando ti guardo da lontano, barricato nell’ombra delle case, lontano dalle luci, là dove vedresti almeno un frammento di me, se tu scegliessi di voltarti. Ma non lo fai. Persino quando sono così vicino da pensare di poterlo fare, volendo; di poter protendere una mano e sfiorare i capelli sulla tua nuca, prima che tu ti sia accorta della mia presenza. Agire così, per rivalsa. E tuttavia non posso, perché se potessi dovrei farlo, per via di questa mia esistenza senza scelta, dove l’unica decisione sono stato in grado di prenderla solo assieme a te. Vendicarmi di te e di lui. Perché so di lui. L’ho visto nelle notti insonni, in quel letto fuori misura per il mio corpo così minuscolo. Scorgere il suo braccio attorno alla tua vita
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o la sua mano intrecciata con la tua è stata solo una conferma di quanto avevo già presagito. Lilli respirava. Sulle prime aveva annaspato, come se non ricordasse più come si faceva, ma poi aveva ritrovato l’equilibrio giusto. Grazie al sostegno, indubbiamente. Gloria e Innocenzo: c’erano, ci sarebbero stati finché non sarebbe tornato tutto completamente a posto. Magari senza più quelle immense illusioni, tenendo maggiormente i piedi per terra, ma se non altro adesso non c’era più quel senso di fatica, di dovere, che si alzava con lei la mattina e l’accompagnava a dormire la notte. Era libertà. Una libertà riscoperta, la più piacevole che avesse mai conosciuto. Andare avanti sorridendo verso l’estate, col sole alto e i vestiti leggeri, così lontani dai fardelli dell’inverno. C’era ovunque gente che rideva, altrettanto libera. C’era lui che le tirava un pizzicotto per farle un dispetto innocente, che le porgeva il bicchiere di Prosecco, che ogni tanto si chinava per darle un bacio sulla testa o le passava il braccio attorno al collo, la chiamava a sé premendole le labbra sulle guancie rosse. Talvolta le capitava di domandarsi che cosa avesse fatto per tutto quel tempo. Per quale ragione si fosse sottratta a chi poteva darle così tanto. E, tuttavia, riusciva ancora a darsi una risposta. Sono qui e mi ripeto le nostre due parole, proprio perché so che avrei paura di dirtele un’altra volta. Sono rimasto dentro al mio ruolo anche quando un altro non l’avrebbe fatto. Non sono nelle posizione di poter muovere delle pretese, non lo sono mai stato. Posso ricalcare le nostre strade, figurarmi le tue movenze in questi luoghi che mi ci è voluto così poco per conoscere. Ti vedo così bene, sapessi, che mi domando come tu possa essere la stessa, quando guardi le vetrine e non trapela nulla dai tuoi occhi, solo il riflesso dei neon davanti ai piedi dei manichini. Come puoi essere tu, amore mio? Così mi dico che potrei almeno amarti meno, sentire la tua mancanza lasciare il posto all’indifferenza, anche lentissimamente. Solo che per farlo dovrei parlarti, rompere il mio piccolo, insignificante giuramento. E anche se starai lì ad aspettare che lo faccia, sai anche tu che non potrà accadere. Hai la tua pace. Vorrei poterla odiare e con essa odiare anche te, ma non ci riesco. Non sono nato per questo. Per cosa si è nati non è poi così importante. Si può arrivare a credere di aver riflettuto, di aver stabilito qualcosa per noi stessi e talvolta può anche accadere veramente. Ben più probabile è convincersi che sia successo. Tornare sulla stessa strada le appariva come una scelta. Non è scritto da nessuna parte che non doveva essere una strada già battuta, facile da imboccare anche ad occhi chiusi, esattamente come quando usciva di casa e il sole le si schiantava contro il viso,
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lasciandola persino un po’ stordita. E lei senza sollevare la palpebre arrivava sino al cancello, dove trovava un po’ d’ombra; lì, di fronte a quel calore crescente che le appannava le iridi, usciva nel giorno. Per ridere, diceva, una volta tanto, come se per un tempo incalcolabile non l’avesse fatto. Lungo vie affollate, mano nella mano o in branco, uno sciame di coppiette che si trascinava sempre dietro almeno uno che si ritrovava da solo e stava smettendo di sperarci. Con Gloria che era tornata vivace come un fringuello e non risparmiava più le critiche, mai troppo pungenti, sempre su un sottofondo bonario, d’amicizia. Proprio lei che alla fine si era decisa a rispolverare amoretesoro “per fargli un favore, poveraccio” e ora se lo teneva costantemente vicino e le si leggeva negli occhi, per una volta, la paura di perderlo. Intanto che trascorrevano le settimane e nemmeno accennava a liberarsene, con l’espresso divieto di parlare tra loro o con chiunque altro di quello che avevano già fatto: di come teoricamente si erano già conosciuti, portati a letto e lasciati. Soltanto a me pare che sia un circolo ristretto, un laccio soffocante dove perdere gradualmente le forze, mano a mano che disperiamo di uscirne? Solo io lo invidio così pazzamente, io che dovrei dire di conoscerlo? Mi piacerebbe fermare uno di loro, uno a caso tra quelle facce che hanno smesso di essermi nuove, e raccontar loro la mia storia, credo così di potermi in qualche modo discolpare. Ma mi dico che potrei solo costringerlo a condividere la mia pena, e mi sembrerebbe d’essere come quel marinaio dalle mani ossute e dall’occhio scintillante di cui non abbiamo mai parlato, non so perché, sebbene mi sia venuto in mente così tante volte, quando ci eravamo già separati, al volger di ciascuna sera. O forse cerco soltanto adesso, a giochi finiti, di far poesia di me stesso. Per consolarmi, per convincermi, per salvarmi. Aggrapparmi a quella che abbiamo composto assieme, anche se non trovavamo mai le parole; sognando, senza occuparci di realizzare, inebriati di noi. La serena norma. La tranquillizzante, inattaccabile abitudine. Quella che non richiede troppe attenzioni, distante da impennate brusche, da cadute non preannunciate. Lilli non si domandava se fosse il fine a cui tutti agognano, non si preoccupava di cercare le risposte a una domanda che nessuno le avrebbe posto. Sapeva soltanto di averla raggiunta una seconda volta, dopo averci convissuto per vent’anni e averla inspiegabilmente persa. Non aveva più bisogno di ripetersi che si poteva cancellare qualunque errore con un colpo di spugna, ricominciare da zero, rinascere. Per quel che la riguardava, l’aveva fatto. Aveva bandito la propria follia, aveva ritrovato una complessiva calma. Per quel motivo, ogni cosa attorno a lei doveva aver trovato la
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quiete. Era di nuovo facile pensare per sé, parlare con suo padre e sua madre di quello che raccontava il telegiornale, delle previsioni del tempo, senza più doversi occupare di cos’erano stati prima di allora, di cosa potevano ancora essere. Le bastava la leggera indifferenza che rivolgevano a lei e ad Innocenzo, senza più quell’interesse asfissiante, mosso dall’apprensione. Ed era una banalità lieta rientrare a casa a un orario normale, dopo aver passato all’università solo il minimo indispensabile di ore, giusto quelle dei corsi, dove l’altro non si vedeva più da chissà quanto tempo. La sorprendeva la facilità con cui poteva conoscere una vicina di banco, stringere con lei un’ingenua amicizia che sarebbe durata soltanto per il resto del semestre. Pazientemente attendere l’orario giusto per chiamare il solito numero e trovare ristoro in una piacevole serata, senza lasciarsi sfuggire le occasioni in cui c’era una casa libera di cui approfittare. Mi chiedo se stai guardando, tesoro mio. Se riesci ancora a farlo. Hai visto? Hai visto? Io li ho davanti agli occhi ogni istante. Li vedo quando mi azzardo a percorrere la Passeggiata, in silenzio, o prendo posto su una panchina davanti a un bar, soltanto per osservarli. Vedi quanto è facile, quanto spesso capita in una giornata che due corpi estranei vengano a contatto? Pensa a loro. Pensa a due ammassi di membra chiusi in un’angosciante solitudine, guarda come si ostinano a volerla dimenticare. Si arrabattano faticosamente per metterla da parte, per rinunciare proprio a quello che dovrebbe renderli ancora umani. Vanno avanti, sopravvivono, e nessuno vuole più capire quale sia il valore di una mano nell’altra, di una spinta assestata ridendo ad una spalla, di due teste posate l’una sull’altra, abbandonate. Non comprendono, non vedono, non conoscono. Nemmeno si accorgono di tante altre piccole morti che fissano senza parlare, col groppo in gola, e non hanno il bisogno di essere come me per abbassare lo sguardo. Piccoli involucri di vergogna che non osano fiatare e non trovano il coraggio per piangere, se non da soli, al pensiero di quello che per tutti gli altri è naturale. Guardala. L’hanno chiamata timidezza, questa paura di vivere; una paura che diventa ossessione quando non c’è più nessuno attorno e ognuno si ritrova senza nulla più dei suoi vestiti addosso, in compagnia soltanto della consapevolezza che dovrà continuare, che questo balletto in cui ci hanno buttato appena nati va avanti e non rallenta per niente e nessuno. Cercheranno di tenere il passo, così come me, immaginandosi infinite volte che sapore deve avere la normalità, questo status quo inarrivabile, fatto di regole ben definite, di corpi tiepidi che si stringono. Li vedi, allora? Tu che sei sempre stata più
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brava di me a farlo, ce l’hai ancora il desiderio e il coraggio di guardare? Sotto il sole cocente dell’estate, distesi sui lettini della spiaggia o asserragliati sotto gli ombrelloni per godere di qualche attimo di tregua tra l’odore del salmastro commisto a quello delle creme abbronzanti e il rumore delle onde spezzato dagli strilli di un bambino. Eppure tutti lì, a fare avanti e indietro dal bar a turno, in punta di piedi perché la sabbia scotta come i carboni ardenti. Ripartire poi almeno una volta al giorno, quando il campetto da pallavolo si liberava. Tuffarsi in mare di corsa, con entusiasmo, lo stesso col quale, sul finire della giornata, alcuni si premevano freneticamente nelle cabine tra sussurri estatici, dopo esser passati sotto la doccia, con la pelle umida ancora profumata di bagnoschiuma. Quello che non potevano fare per tutto il resto della giornata, quando restavano fermi al sole e dovevano limitarsi alle chiacchiere e alle carezze maldestre. Imboccare strade affollate ad ogni ora, col costume da bagno anche sotto il vestito da sera, quando mancava la voglia di cambiarsi. Tutti assieme a trascinarsi da un luogo all’altro, nelle macchine zeppe sino all’inverosimile, facendo rigirare i soliti tormentoni alla radio, gli stessi che poi ritrovavano nei locali che bazzicavano, senza nemmeno sperare in un sedia libera. Senza sentirne il bisogno, finché erano tutti assieme. A volte riesce ad affiorare in me un poco di rabbia, quanto basta per non finire nel niente. Guardavo da oltre il bordo di una siepe, in piedi su un marciapiede rovente, mentre attorno a me sfilavano famiglie in bicicletta e ragazze coi pattini e gli auricolari nelle orecchie. Non so nemmeno quanto a lungo sono rimasto qui, con la brezza marina che mi sputava la sabbia in faccia, ed eppure nessuno è mai venuto a chiedermi che cosa stessi facendo, chi stessi aspettando. Neanche tu. Pure in mezzo a tutti i tuoi amici, con quegli abiti che sono appena un velo sulla tua pelle abbronzata, non ho potuto fare a meno di riconoscerti subito, mentre salivi in macchina assieme agli altri. Non eravamo così distanti. Non ti sei voltata, e io non ti ho chiamato. Ero un uomo invisibile, lo sono ancora: che peso avrebbe potuto avere la mia voce senza corpo? Ma mi è sembrato, per un istante, che tu mi abbia notato quando l’auto mi è passata accanto e tu guardavi nella mia direzione. Ma era uno sguardo diverso, lo stesso che si posa su uno sconosciuto che non riesce ad attirare la nostra attenzione, che incrociamo e dimentichiamo un attimo dopo. Sembra ieri che eravamo solo io e te. Noi che eravamo gli unici, e ci bastava questo per ritenerci i migliori. E ora cosa sono, dunque? Nulla più di uno straniero, per i tuoi occhi.
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Le era rimasto un sentore addosso, di ritorno da quella giornata al mare. Una nostalgia che aveva però qualcosa di sinistro: non quella sensazione appena appena amara, che lascia sulle labbra un sorriso mesto, ma un senso di pericolo di cui non conosceva l’origine. Innocenzo non doveva essersene accorto, perché non aveva perso niente della sua allegria. Nemmeno quando l’aveva riaccompagnata a casa e aveva insistito per fermarsi ancora un poco con lei, per chissà quale ragione. Si erano seduti sul solito letto, lui vivace, lei ancora taciturna. Innocenzo aveva dato un colpetto al sonaglio di legno, senza sapere quanto la stava involontariamente imitando. Aveva fatto un commento sulla propensione di tutte le ragazze per l’infantilismo. In proposito, aveva citato appunto quel sonaglio, come c’era da aspettarsi. Subito dopo, aveva però indicato un portagioie a forma di divanetto, che col suo discorso c’entrava anche poco, ma che non ricordava di aver mai visto sul comodino, di fianco al letto. Lilli si era ritrovata a sgranare gli occhi, a fissare i due cuscinetti a forma di cuore per un istante, esattamente il tempo che le ci volle per ricordarsi che l’aveva preso in mano la notte precedente, prima di andare a letto. L’aveva ascoltato, con la porta chiusa per non svegliare i suoi, ma senza malizia. La notte precedente e molte altre notti, molte altre mattine. Solo quel giorno in particolare le fece paura, spingendola a dire che si trattasse di un ricordo del suo fratellino, cosicché Innocenzo evitasse di farle altre domande sull’argomento. Per una volta, le era capitato nuovamente di pensare a cosa aveva fatto, all’eventualità di chiamare Enoch e di scusarsi, una volta per tutto. Di cercare almeno di dargli una giustificazione, anche se non avrebbe potuto accettarla. Una sera, Gloria, al terzo bicchiere, le aveva chiesto sboccatamente quale fosse, alla fine, il problema di quel tizio. Se era vero, come aveva sempre pensato, che avesse qualcosa che non andava nella zucca. Lilli, che era di poco più sobria, aveva riso, prima di risponderle che doveva trattarsi, in fin dei conti, di qualcosa del genere. L’indomani, di quella domanda non se ne ricordava già più; le era rimasta soltanto la certezza, a cui non sapeva risalire, che tutto quanto doveva esser stato nient’altro che una farsa, una maniacale paranoia che la induceva, nonostante tutto, ad aver pietà di lui. Aveva passato con Enoch circa tre mesi, nei quali aveva assecondato il suo insano terrore, rischiando di venirne contagiata, annullata. Anche con Innocenzo aveva ormai trascorso più o meno lo stesso tempo: e sarebbero andati anche oltre, senza ombra di dubbio. Eppure riconosceva di aver così tanto meno da dire, su di lui. Ma doveva obbligatoriamente significare qualcosa?
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Ora perlomeno camminava e sapeva dove si stava dirigendo. Enoch, da lontano, avrebbe potuto dire lo stesso? Sono rimasto qui. Ho taciuto. Mi sono allontanato da quel marciapiede e dal suo sole. Non ti ho più cercata. Forse, finalmente, ho avuto l’opportunità di scegliere qualcosa anch’io. Ho capito che questa è la fine, che doveva esserlo, e ho deciso con supremo sforzo di farla cadere, senza aspettare che sia lei a prendere me. Di fronte alla bellezza incomparabile del nostro miraggio, l’unica alternativa che mi è rimasta per rendergli onore è smettere definitivamente di parlare, serbando dentro di me tutta la mia pena: perché è pur vero che noi miseri uomini riusciamo a trovare infinitamente bello solo ciò che ci appare infinitamente triste. Ora che comincio a capirlo e mi piego ad apprezzarlo, tutto mi risulta più chiaro. Per me è tempo di andare. Di tornare ad essere, per sempre tuo, uno fra tanti. Così l’estate giunse, maturò e decadde. Sino a un altro autunno, alle pendici di un altro inverno. 42- Trecentoquarantasettesimo giorno, Domenica (Giorno dei morti) Le favole non durano mai abbastanza. Le favole non sono fatte per essere vissute in questo mondo. O, semplicemente, non era di una favola che si trattava e questo bastava a spiegare tutto. Perché sforzarsi di far sì che le assomigliasse, poi? Era nata e cresciuta come una relazione semplice, comune, ed era proprio quello che l’aveva resa piacevole. Perché non aveva avuto niente di particolare, ma nemmeno l’aveva richiesto. Perché l’aveva fatta star bene e non le era importato sapere come mai. Lilli si accorse con una smorfia che ne stava già parlando al passato, anche se poi non stava nemmeno parlando. E’ solo che ci pensava così intensamente, in quei giorni, che era come aver qualcuno accanto a rinfacciarle continuamente la realtà dei fatti. E c’è da dire che il luogo non è che invogliasse a pensieri ottimistici. Un classico due di novembre tale e quale a tutti gli altri, col cielo bigio, che minaccia di piovere ma non lo fai mai, in piedi con la famiglia davanti alla tomba del fratellino e dei nonni. Un piccolo cimitero di paese, il prete al microfono che parla e nessuno lo ascolta, tutta la gente riunita sulla ghiaia che ritrova parenti e amici che non aveva visto per un anno intero, donne indaffarate che riempiono d’acqua le taniche per versarle nei vasi da fiori. Accanto a loro, la donnetta che dimostrava vent’anni più di quanti ne aveva
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intenta a grattar via con un’unghia un angolo di sporco dalla lapide del marito, vicina a quella dei figli, di tutti. Innocenzo non c’era, aveva detto che lui non era abituato a frequentare certi posti. Neanche gli avesse chiesto se aveva mai messo piede in un bordello. Abitudini diverse, evidentemente, appartenenti a una famiglia senza bambini morti a sei anni. C’era mezzo mondo, fuori dalle mura del cimitero, che a quell’ora si stava dedicando a tutt’altro, tipo russare sul divano, col pranzo ancora sullo stomaco. Si sarebbero svegliati poco prima che la messa finisse, avrebbero indossati un abito buono e sarebbero partiti per andare a fare due passi altrove; d’altra parte, era pur sempre domenica. Lilli ricordava di averli invidiati, anche solo l’anno precedente, di aver sbuffato tra sé, senza azzardarsi però ad aprire bocca con i suoi, che ci avevano sempre tenuto. Quella volta no, anche se di ragazzi della sua età lì dentro non se ne vedevano quasi più e quei pochi erano notoriamente dei bigotti. No, non li invidiava. Un po’ perché qualcosa del rispetto sentiva di averlo imparato; un altro bel po’, soprattutto, per fare dispetto ad Innocenzo. Lilli riconosceva i sintomi, quei familiari scricchiolii. Non c’era bisogno di litigare apertamente, bastavano quei dissapori continui, in apparenza senza valore. Una mattina ti alzi e ti ritrovi sola, scopri che è andato a prendere un caffè con una presunta amica. Per passare il tempo, si giustifica lui. Così finiscono tutte le belle storie: per noia. E ti meravigli che qualcuno si ostini a scriverle, le favole. Non si era ancora consumato il dramma, tuttavia. Avrebbero sicuramente passato la serata assieme. Forse non sarebbe stata nemmeno tanto male. Ma un giorno inizia e un attimo dopo è già finita. Lilli si stava soltanto preparando ad accoglierlo, quell’attimo. Da sola, com’era partita e come si sarebbe ritrovata, presto o tardi. Così si diceva, e non vedeva nemmeno davanti a sé. Sua madre dovette batterle un colpetto sulla spalla per ottenere la sua attenzione. Ancora senza parlare, stese un braccio per indicarle il vialetto. Ed Enoch che le veniva incontro, senza espressioni, con la sua solita giacca a vento arancione sbiadito. Passava in mezzo alla gente come se saltasse dei birilli. Tutti quanti, mentre passava, si erano ritrovati fermi, chi col viso alzato per cercare il prete e riprendere il filo della messa, chi aveva cavato il cellulare di tasca per vedere se gli avessero scritto un messaggio. Suo padre e sua madre lo guardavano entrambi, senza un grande interesse. Quanto a Lilli, era rimasta pietrificata. Il senso di colpa le si era improvvisamente riversato addosso tutto assieme, schiacciandola dentro le sue scarpe. Desiderava sparire nei propri vestiti, esserne assorbita
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silenziosamente. Dissolversi nel nulla, prima che lui colmasse quegli ultimi metri. Ma questo ovviamente non accadde ed Enoch le si fermò proprio di fronte. «Salve» salutò anzi per primo, rivolgendosi ai genitori di Lilli e abbassando il capo. «Oh, buongiorno, Enoch.» ricambiò la mamma, con un sorriso «Tutto bene, spero». «Tutto a posto, sì, grazie.» disse lui, prima di voltare il viso verso Lilli, senza mostrare esitazioni «Ciao». Lei non si mosse, piegando appena le labbra per formulare una risposta talmente flebile che non riuscì a udirla nessuno. Suo padre mangiò la foglia immediatamente, ma non quella in cui poteva sperare la figlia. Anzi le fece una leggera carezza sui capelli, un gesto che non eseguiva mai. «Io e la mamma andiamo a salutare tuo nonno» disse, e con questo intendeva che sarebbero andati a visitare la tomba di un bisnonno che lei non aveva nemmeno mai conosciuto. Le sfilarono accanto tutti e due, dopo aver scambiato di nuovo, stavolta entrambi, un saluto con Enoch. Lilli sentì le proprie ossa farsi gelatina. Le venne la tentazione di richiamare indietro i propri genitori per paura, soltanto per paura, ma ormai si erano allontanati e avrebbe dovuto alzare la voce lì, tra le mura di un cimitero. «Scusami per essere piombato proprio qui.» disse Enoch, e le sembrò che non si accorgesse di nulla, a differenza di quello che ricordava «Avevo urgente bisogno di parlarti». Lilli aprì la bocca, senza però riuscire a parlare. «Adesso?» domandò, quando ne fu capace. Lui si limitò ad annuire, mettendosi di fronte alla lapide, come tutti i presenti. «Ma siamo al cimitero, Enoch» provò a protestare lei, in un sussurro. «E’ una questione della massima urgenza, Lilli». La giovane lo guardò: aveva i lineamenti del viso tesi, anche se si sforzava di mantenere una facciata tranquilla. La solita, imperturbabile aria placida, come di un fiume che scorre. Non se la sentiva di affrontarlo così, senza preavviso. Tentennò, cambiando argomento. «Non hai nessuno sepolto qui.» mormorò, voltando il viso altrove «Come hai fatto a trovarmi?». «Uno ce l’ho.» rispose lui, sollevando un dito per indicare la lapide del fratellino di Lilli «Sono già passato a trovarlo tempo fa, e mi ricordavo dov’era».
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Lei rimase immobile com’era, prima di passarsi due dita sulle tempie. «Scusami.» disse, scuotendo appena la testa nel rialzarla con un sorriso nervoso «Me n’ero dimenticata. Non ci sono più abituata». Enoch tacque, corrugando la fronte. Aveva messo le mani nelle tasche e sprofondato un poco la testa nelle spalle. Guardava la foto del bambino sulla lapide per non dover fronteggiare lo sguardo di lei. Lilli se ne rese conto senza difficoltà. «Credevo che non mi avresti parlato mai più» riprese lei, debolmente. «Lo credevo anch’io» ribatté l’altro, «Non ti ho più chiamato.» fece Lilli, cercando il proprio perdono forse più che quello che poteva darle lui «Sono svanita nel nulla, lo so. E’ che non avevo il coraggio di chiamarti, di dirti…». «Che ti eri innamorata di un altro» completò la frase Enoch. «Che non ce la facevo più a reggere la pressione che avevo addosso.» lo corresse Lilli, velocemente «Sarei tornata da te, l’avrei fatto davvero. Ma non avrei resistito molto di più, non sarei stata in grado di reggere quella situazione. Era… Non lo so…». «Non importa, Lilli.» il giovane si girò verso di lei, con un sospiro «Lo so anch’io cos’era. Non poteva funzionare, lo sapevo fin dall’inizio». «Enoch, io non volevo.» disse lei, e subito si sentì ipocrita come non le era mai capitato; chinò la testa, chiudendo gli occhi per ritrovare un minimo di equilibrio «Scusami. E’ stato un errore che ha portato solo del male a tutti e due. Io e te siamo diversi, non c’era niente da fare. Ho provato a fingere di essere più forte, ma non ci sono riuscita. Io sono una ragazza normale». «Lilli-». «Più che normale. Banale, insulsa, quello che vuoi. Tu, poi, sembri voler essere diverso da tutti». Enoch la ascoltò senza più provare a interromperla; ascoltò la sua voce che sembrava tingersi di rabbia nel definirsi a quel modo, mentre lui apriva e chiudeva le mani all’interno delle tasche della giacca a vento. «A me sei sempre piaciuta così come sei» le confessò qualche attimo dopo, con titubanza. Lilli lo guardò. Nuovamente, si sentì prendere da quella gran pena che aveva provato nei suoi confronti quell’estate, quando le era capitato di ripensare a lui.
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«E non sai quanto mi sarebbe piaciuto rinunciare a un po’ di questa diversità.» aggiunse, con una smorfia dispiaciuta «Non lo sai più, almeno, se parli così». Lei accigliò lo sguardo per un attimo a quell’osservazione, badando però bene di voltarsi subito dall’altra parte. La gente aveva cominciato a rumoreggiare, si muoveva. Enoch si ritrovò ad abbassare il capo alla sua sinistra, verso la mano grinzosa che gli veniva tesa. «Pace.» diceva la donnetta senza più nessuno, con un sorriso un poco folle, sempre in bilico tra la stanchezza e la volontà di continuare, muovendo la mano per sottolineare il suo gesto «Scambiatevi un segno di pace, non hai sentito?». Lui dischiuse le labbra, senza sapere come ritrarsi dall’insistenza della vecchia donna. Lilli venne avanti con gli occhi sgranati. «Enoch, io non ce la faccio a ricominciare tutto un’altra volta.» disse, col tono di chi sta sfiorando l’esasperazione «Vai via, per favore». Il giovane cercò di argomentare una risposta, invano. La donnetta, dopo aver visto l’espressione di Lilli, si affrettò a ritrarre la mano, facendosi indietro di un passo. Enoch si voltò di scatto a guardarla, poi tornò su Lilli. «Ti devo dire quella cosa importante» soggiunse faticosamente. Lei scosse piano il capo, assottigliando le labbra nel premerle l’una contro l’altra. «Non si può tornare indietro, Enoch» disse, come una sentenza. Lui non riuscì a muoversi per alcuni secondi. Alla fine si staccò in silenzio dalla lapide e guardò Lilli con smarrimento, prima di passare di nuovo in mezzo alla folla, mentre i più vicini, che avevano udito qualcosa, si discostavano e gli altri, per un gioco del caso, avevano appena finito di scambiare strette di mano con tutti quelli che c’erano. Le ritelefonò quando si stava cambiando, appena dopo l’ora di cena. Lilli aveva esitato a rispondere. Aveva dato un’occhiata alla sveglia per capire che ora si era ormai fatta e calcolato quanto tempo le avrebbe portato via quella chiamata. Quando era stata sicura che non le avrebbe fatto fare tardi, si era decisa a premere il pulsante verde e a portare il cellulare all’orecchio. «E’ veramente importante, Lilli.» diceva e ripeteva Enoch, agitatissimo «Altrimenti perché sarei venuto sino al cimitero?». «Va bene, va bene.» acconsentì alla fine lei «Calmati e dimmi di che cosa si tratta». Lo sentì distaccarsi dal ricevitore per tirare un sospiro.
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«Non è una cosa di cui ti posso parlare al telefono.» rispose «Devo parlartene a quattr’occhi». «Enoch, io sto uscendo.» fece lei, un poco spazientita «E non ho intenzione di cercare di rimettere assieme tutti i pezzi». «Lilli, è solo questione di un attimo!» insistette il giovane, con veemenza «Ma devo averti davanti, non ce la faccio così. Mi basta che tu passi qui da me, oppure vengo io da te, come preferisci». Lilli sbuffò, tornando a guardare la sveglia. «Per favore» la pregò lui, forzando la voce per mostrarsi padrone di sé. «D’accordo, va bene.» gli concesse Lilli, cambiando la mano con cui teneva il telefonino per poter finire di vestirsi «Passo lì da te, fatti trovare sulla porta». «Mi ci metto subito.» replicò Enoch, senza più riuscire a nascondere la tensione «Tu cerca di arrivare il prima possibile». Lilli allontanò per un momento l’orecchio dal cellulare, reclinando il capo. Per un istante, si sentì di nuovo vacillare, a seguito di una fitta che le parve perforare lo sterno. «Scusami per oggi, Enoch.» disse, riabbassando il viso «Per tutto quello che ho detto e fatto. Non mi hai fatto nulla di male e ti ho trattato come non ti meritavi.» fece una pausa, tirando finalmente un sospiro anche lei «Certe volte mi chiedo cosa sia diventata». Enoch, dall’altra parte, dovette condividere il suo stato d’animo. «Non temere.» disse «Non puoi essere cambiata così tanto». Lilli aveva contato su Innocenzo per quel cambio di programma. Era venuto a prenderla, come ogni volta, anche se con un certo ritardo. Per via di una cena fuori con dei vecchi compagni di scuola, di cui l’aveva preventivamente avvertita. Lei era salita in macchina e gli aveva detto cosa doveva fare. Una cosa da poco, gli aveva garantito. Solo una questione da sbrigare prima di poter raggiungere Gloria e gli altri, fare due chiacchiere e tornare a casa presto, dal momento che l’indomani ognuno sarebbe dovuto tornare a lezione o a lavoro. Innocenzo aveva acconsentito senza lamentarsi, almeno all’inizio. Prima di mutare d’atteggiamento. «Allora dobbiamo passare da quello stronzo di… Com’è che si chiama?» chiese, mentre deviava dall’itinerario abituale. «Enoch» rispose Lilli, preferendo sorvolare. «Enoch, già.» continuò Innocenzo, annuendo fra sé «Proprio un nome di merda». «E piantala, dai.» fece lei, infastidita «Si può sapere che ti ha fatto?». «A me? Niente. Mi sta sul cazzo, punto e basta».
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«Ma perché? Non lo conosci nemmeno!». «Non l’ho proprio nemmeno mai visto, se è per quello, però non toglie che mi stia sul cazzo lo stesso!». «Ma se nemmeno lo conosci-». «Sta a sentire, ora!» la zittì di botto, facendosi torvo in viso «Se ti piaceva così tanto, non lo mollavi per venire con me. Ci siamo fino a questo punto?». Lilli non aprì bocca, anche se avrebbe voluto, per la sola ragione che le sarebbe scocciato mancare all’impegno che aveva preso con Enoch. Anche se ne aveva già infranto uno molto più importante, mesi prima. Già sopportava a stento il ritardo che aveva accumulato. A quel riguardo spostò lo sguardo su Innocenzo, sulla postura con cui teneva le mani sul volante, sul velo che sembrava essergli sceso sugli occhi. «Che hai bevuto a quella cena?» gli chiese, tenendo d’occhio con preoccupazione la traiettoria del suo sguardo. «Non cominciare a rompere, eh.» bofonchiò lui, annoiato «Ci siamo divertiti e basta. C’era un po’ di vino e abbiamo bevuto, cos’avrò mai fatto di così atroce?». «Mi sembri solo un po’... Sei sicuro di non aver bevuto troppo?» «Mi sembri solo un po’.» ripeté il giovane, con tono canzonatorio «Un po’ cosa? Un po’ ubriaco?». «Più o meno.» concordò lei, guardandolo con più attenzione «Da quant’è che ti sei alzato dal tavolo?». «E che cazzo, hai qualche altra domanda?» sbottò Innocenzo «Vuoi sapere se sono stato al cesso, oggi?». Lilli si passò le mani sul viso, rischiando di portar via la riga di matita che si era data in fretta e furia prima di uscire. «Forse dovremmo evitare di andare con gli altri, stasera» commentò, abbassando le mani e guardandolo con apprensione. «Dovremmo cosa? Abbiamo detto che ci andiamo o no? Cosa facciamo, gli tiriamo un pacco e li lasciamo lì? Poi vuoi anche andare a trovare quell’altra testa di cazzo, quindi sta zitta e occupati solo di fare alla svelta, che non ho voglia di far tardi». Lilli alzò il viso verso il cielo, appoggiandosi al poggiatesta. Quegli ultimi miseri secondi che impiegarono per arrivare davanti a casa di Enoch li trascorse con le braccia incrociate e le gambe teste, le dita dei piedi che raschiavano segretamente la suola degli stivali. Scese che il motore era ancora acceso. Innocenzo non aveva alcuna intenzione di far sì che se la prendesse comoda e ci teneva a darlo ad intendere. Lilli passò davanti al cofano della macchina, non senza
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aver gettato immancabilmente un’occhiata al 106 celestino che i fanali della loro auto illuminavano da dietro. Ricordava ancora la targa a memoria, lei che non conosceva neanche quella della sua. Si diresse in fretta verso la porta, allo scopo di evitare un altro litigio con Innocenzo. Enoch, che era rimasto seduto sulla soglia, si alzò in piedi. Guardò la macchina e Innocenzo che vi era dentro e rimase lì dove si trovava, anche se aveva già accennato ad andarle incontro. «Sei venuta con lui?» le domandò per prima cosa, infatti. «Mi ha accompagnata.» rispose Lilli, senza scendere troppo nei dettagli «Te l’ho detto che stavo uscendo». Enoch si guardò intorno, soffermandosi per un attimo sulla macchina a motore acceso nella strada. Teneva le braccia ferme, ma muoveva le gambe, quasi spasmodicamente. «Non so se è stata una buona idea» disse, riprendendo a guardarla. «Non sono qui per ricostruire la nostra storia, Enoch, cerca di non farmelo ripetere» ribatté seccamente lei. «Ma non si tratta di niente di tutto questo! Vieni almeno in casa, però, non possiamo parlarne qua fuori». «No, guarda, non se ne parla proprio. Mi hai fatto venire fin qui perché non potevi dirmelo al telefono e ora vuoi farmi anche entrare in casa. Se mi vuoi dire qualcosa, me lo dici qua fuori». «Lilli, se ti dico che non posso, vuol dire che una ragione ce l’ho». «E, se io ti dico che non posso entrare, magari una ragione ce l’ho anch’io, non credi?». «Va bene, ma questa è più-». «Mi vuoi dire di che si tratta o no?». Enoch rimase con le parole strozzate in gola. «Mi hai fatto venire fin qui per niente?». Lui scosse appena il capo. «E allora dimmi di che cosa si tratta!». Enoch si morse il labbro inferiore. Riempì i polmoni. Abbassò il capo. «Del tuo ragazzo, Lilli» rispose infine, sollevando soltanto gli occhi «Si tratta di lui». Lilli si irrigidì, senza aprire bocca. «Allora, la finite sì o no?». Si voltarono entrambi, in tempo per vedere Innocenzo che apriva lo sportello e usciva, scuro in viso. «Cos’è, volete restare in silenzio a fissarmi? Cosa siete, due bambini?» esclamò, mentre avanzava verso di loro «Che cazzo avete da dirvi? Di che cazzo state parlando?». «Innocenzo, non ti agitare, stavo venendo via» provò a calmarlo Lilli, cercando con gli occhi un’intesa con Enoch.
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«Sì, come no! E tu che cazzo hai da guardarmi così, eh? Che cazzo hai da indietreggiare? Che ti ha fatto questo stronzo?». «Ma niente, mi ha solo-». Non finì la frase, se non con un urletto spaventato. Enoch, per una frazione di secondo, non vide niente. Si ritrovò a sbattere gli occhi steso per terra, con le spalle contro la parete della casa. Con le dita andò a tastarsi la mascella, nel punto in cui l’altro l’aveva colpito. Guardava le sue dita con orrore, senza osarsi di fiatare. Un istante dopo si ritrovò Lilli inginocchiata di fronte, con l’aria stravolta. Enoch si schiacciò con le spalle contro il muro, trattenendo anche il fiato. Lei, che si era gettata con tutto quello slancio su di lui, rimase paralizzata, esattamente come quella volta della partita di scacchi. In quel volger di un istante, si sentì di nuovo trascinata in quel gorgo vorticante che credeva di aver lasciato per sempre. Serrò i denti, però, voltandosi di scatto verso Innocenzo. «Sei un figlio di puttana!» strillò, saltando in piedi per andargli contro a muso duro «Non ti aveva fatto niente! Vigliacco! Vigliacco!». Innocenzo la fissò con aria ancora scossa, ansante. «Se ti piace tanto, allora vaffanculo!» gridò un attimo dopo, sollevando un dito sino al suo viso «Tienitelo!». Si girò e ritornò velocemente alla macchina, senza nemmeno barcollare, massaggiandosi il pugno. Lilli lo fissò senza muovere un muscolo, con le braccia rigide lungo i fianchi. «Stronzo!» gli urlò, mentre lui stava aprendo già la portiera. Innocenzo non diede neppure segno di averla sentita. Lei si girò verso Enoch, che non si era ancora mosso da lì, e si chinò su di lui. Dietro di sé, sentì il rumore delle ruote che stridevano sull’asfalto, mentre la macchina ripartiva di gran carriera. «Come stai? Ti ha fatto male?» gli domandò, guardandolo con attenzione in viso. Enoch fece segno di no con la testa, cominciando solo allora a passarsi la mano sulla mascella, che iniziava a risentire della botta. Lilli abbasso il volto sdegnata, arricciando le labbra. «Quell’imbecille…» sibilò, guardando in direzione della strada ormai deserta «Con me però adesso ha chiuso. Ver’Iddio, questa non gliela perdono. Che cazzo credeva di dimostrare?». Enoch non si schiodava dal muro. Aveva ripreso a guardarsi la mano con aria abbattuta e le dita gli tremavano come foglie al vento. Lilli sollevò lo sguardo su di lui. «Non cambia niente.» balbettò il giovane, posando la mano a terra «Non si può cambiare niente».
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«Beh, se non sono cambiata io…» disse Lilli, provando perlomeno a mostrare un sorriso. Per un attimo, senza pensare, sperò. Le parve possibile un’altra volta, per quanto incredibile. Ma questo, appunto, solo perché non pensò. «Ho fatto di tutto. Ho cercato di dirtelo.» ricominciò infatti Enoch, guardandola in faccia «Sono venuto anche al cimitero, pur di farlo, ma non c’è stato niente da fare. Era già deciso che finisse così…». «Enoch, le cose tra me e lui non andavano bene già da un po’. Non prendertela.» gli confessò lei «Mi dispiace solo che ci sia andato di mezzo tu». «Perché io l’avevo sentito, Lilli!» fece lui di colpo, alzando la voce «Io lo sapevo! L’ho sentito, come per tutti gli altri! L’ho voluto evitare, ci ho provato disperatamente e cos’è successo?» Enoch abbassò il viso, distrutto «Mi ha colpito lui. Mi ha toccato lui». Lilli realizzò improvvisamente. Non ebbe neanche il tempo di chiedersi come avesse fatto a metterci tanto, perché la sensazione che seguì fu solo ed esclusivamente paura. Panico. Si aiutò con le mani a tirarsi in piedi, prendendo subito le distanze da lui. «Io vado a casa, Enoch. A casa, hai capito?» disse, rabbrividendo per il nervosismo «Sono stufa di questi deliri. Stufa. Non voglio più averci niente a che fare, non me ne importa cosa pensi e chi credi di essere. Basta!». Fece qualche passo all’indietro, con gli occhi spiritati. Lui la fissò da terra per qualche istante, prima di annaspare per alzarsi a sua volta. «Aspetta!» la chiamò, appoggiandosi al pomello della porta «Ti accompagno almeno a casa!». «Non ne ho bisogno!» quasi gli urlò di rimando Lilli, accelerando il passo per allontanarsi «Casa mia è vicina, posso arrivarci benissimo a piedi, senza dover sentire altri… Deliri!» ripeté, avviandosi lungo il marciapiede. Scorse i visi curiosi dei vicini affacciati alle finestre, con la luce accesa, mentre passava sotto i lampioni e tutti quanti la vedevano e guardavano poi Enoch, che chiamava invano dal marciapiede davanti a casa sua. 43- Trecentoquarantasettesima notte, Lunedì Lilli trovò il cellulare al buio solo perché il display si era illuminato per la chiamata. Scombussolata. Ecco come doveva essere, altrimenti non si sarebbe spiegata come mai aveva lasciato il telefonino acceso anche dopo essersi messa a dormire, almeno per modo di dire. Ma stranamente non era sveglia, quando cominciò a suonare. Dalla
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camera dei genitori le giunse un mugugno infastidito, chiaro segno che la suoneria era riuscita a destare anche loro. Lilli rispose prima ancora di aver letto il nome in sovraimpressione. «Pronto?» borbottò, avvolgendo le parole più del dovuto. «Lilli?» fece una voce maschile, compunta, dall’altra parte. «Sì, chi è?» chiese lei, allungandosi per raggiungere l’interruttore dell’abatjour. «Sono Nicola». Lilli sollevò le sopracciglia per lo stupore, nella luce giallastra della lampadina. Nicola? L’ultima persona che si aspettava di sentire a quell’ora, anche se poi non era tanto tardi, era giusto Pio XII. «Ah, sei tu? Cos’è tutto il casino che sento?» gli chiese, perché dall’altra parte, le arrivavano intanto dei rumori indistinti, come se la stesse chiamando da un luogo affollato. «C’è un mucchio di gente. Scusami, mi sposto.» e lo sentì che camminava in mezzo a un vociare confuso «Ascolta. Si tratta di Innocenzo. Una disgrazia». Lilli sentì il sangue andarle in acqua. Aprì la bocca, spalancando gli occhi vitrei. «Ha perso il controllo mentre tornavamo ed è uscito di strada. Aveva insistito per guidare, anche se non sembrava in grado.» Nicola emise un sospiro «Fatti forza, Lilli». Lei non replicò. La testa le ciondolava, il cellulare minacciava di scivolarle dalla mano improvvisamente umida di sudore e immobile. «Pronto?» disse l’altro, dopo alcuni secondi. Lilli accostò vagamente meglio il telefonino all’orecchio. «Perché mi hai chiamata?» domandò, con voce roca. «Perché… Eravamo dietro alla sua macchina.» rispose Nicola, senza aspettarsi quella domanda «Hanno chiamato l’ambulanza e i suoi genitori, ma nessuno ha pensato di chiamare te. Così…». «Perché mi hai chiamata proprio tu?» insistette Lilli, alzando il tono. Nicola rimase in silenzio, intanto che la voce di lei cominciava a rompere nei primi singhiozzi. «Scusami.» mormorò lui, chiaramente impacciato «Preferivi che ti chiamasse qualcun altro?». Lilli staccò la comunicazione. Batté il cellulare sul comodino, cominciando a piangere a dirotto, scalciando sotto le coperte alla luce insignificante dell’abatjour. 44- Trecentoquarantanovesimo giorno, Mercoledì
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Lilli si era seduta in terza fila, senza avanzare delle pretese per guadagnarsi un posto davanti a tutti. In silenzio, in mezzo a quella marea di ragazzi che affollava una chiesetta di paese, qualcuno in piedi anche fuori che a stento doveva capire cosa il prete stesse dicendo. Tutti con gli occhi bassi o su quella bara bianca, come quella di un bambino, di quel fratellino di cui ricordava poco più che niente; cosparsa di fiori, di magliette, di biglietti di saluto. Se lo ricordava, il suo funerale, ma mai come allora le era ricomparso così nitidamente nella memoria. Si ricordava esattamente lo stesso ordine, il silenzio, l’espressione seria sul viso dei genitori, la madre sempre con gli occhiali scuri. Come lei, quella volta, che non ce la faceva nemmeno volendo a ripensare ai litigi, grandi o piccoli, e non faceva altro che sospirare per placare il senso di soffocamento che le saliva alla gola. Con Gloria, amore-tesoro, Nicola, tutti gli altri, in piedi nella stessa fila, perché non c’era stato verso di far stare qualcuno seduto. Le avevano lasciato il posto più vicino al corridoio tra le panche, perché non dovesse sgomitare per riuscire a salutarlo, anche se si sarebbe trattato soltanto di una carezza sul legno verniciato di bianco. E Lilli la fece la sua parte. Con modestia, passandovi sopra la mano con leggerezza, senza indugiarvi. All’uscita dalla chiesa, la gente applaudiva, si protendeva per avere quello stesso contatto, urlava un saluto, un augurio. Più in disparte, sugli ultimi gradini, riconobbe Enoch. Lo guardò senza parlare e lui fece lo stesso, prima di distogliere entrambi lo sguardo per posarlo su quella cassa condotta sulla spalle di sei ragazzi che barcollavano, un poco sbilanciati da un peso che non avevano mai avuto esperienza di portare. 45- Trecentocinquantesimo giorno, Giovedì «Tu devi capire che siamo sempre tutti qui, a tua disposizione.» le ripeté più volte Gloria, al telefono o di persona «Per qualsiasi cosa tu abbia bisogno. Siamo sempre tutti qui per te». Perché era una disgrazia, soltanto un’altra disgrazia, e anche se quell’anno ne erano già successe anche troppe, lei era soltanto molto sfortunata. Lilli non rispondeva nemmeno. Lilli non rispondeva più. 46- Trecentocinquantaduesimo giorno, Sabato «Mi dispiace che sia successo. Ho provato ad evitarlo-». «Non importa». «Non era quello che volevo, Lilli, davvero».
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«Smettila. Non sei stato tu. Non è colpa tua. Qualunque cosa tu dica, non voglio più credere che sia colpa tua. Ora devo chiudere, non posso restare qui a ripensarci». 46- Trecentocinquantacinquesimo giorno, Martedì «Tesoro, è una cosa che devi superare. Ci siamo passati anche io e tuo padre. Non era la stessa cosa, va bene…». «Non lo era di certo. Era peggio». Lilli guardò suo padre, senza alzare le braccia neanche per posarle sul tavolo. La mamma le gettò uno sguardo a sua volta, senza riuscire a contrariarlo. «Ad ogni modo tu c’eri ancora.» continuò dopo qualche istante «Ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo tirato avanti. Sei ancora giovane, hai tanti amici… Ti rifarai una vita tua». Lilli annuì col capo, in un movimento da automa. La mamma non smise di fissarla, piena di apprensione. Suo padre appoggiò le mani ai lati del piatto. «Liliana, ricordati sempre che quando perdi tutto hai infiniti modi di ricominciare». «Ecco.» convenne la mamma, cercando di trasmetterle un po’ d’entusiasmo «Dai retta a tuo padre». Lei alzò il viso per guardarlo. «Tu pensi che abbia perso tutto?» gli domandò, come spaurita. Suo padre prese il solito stuzzicadenti dalla saliera, lasciandosi lentamente andare contro lo schienale della sedia. «No.» rispose, senza mentire «I suoi genitori sì, forse, perché era loro figlio. Per te, bene o male, era solo un estraneo». 47- Trecentosessantaduesimo giorno, Martedì «Forse è trascorso troppo tempo. Avevano detto che sarebbero rimasti a mia disposizione, se avessi avuto bisogno di loro». «E non è stato così?». Lilli sorrise appena, sprofondando meglio nella poltrona, come se questa avesse potuto inghiottirla, permetterle veramente, alla fine, di sparire. «Sai com’è, la gente si stanca. Dicono “sempre”, ma lo intendono… Molto alla larga, insomma. Però Gloria mi è rimasta vicina. E c’è un altro ragazzo, uno di indole buona. Sta lì ad ascoltare tutti i miei sfoghi e mi telefona spesso per sapere come sto». «Più o meno come me, allora» fece Enoch.
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«Tale e quale a te». 48- Trecentosessantacinquesimo giorno, Venerdì «E’ solo un momento, e lo sai.» disse Nicola, piegato in avanti su una panchina della piazza, in uno di quegli ultimi, rari, giorni soleggiati, quasi caldi «Ormai l’hai imparato, anche se…». Lilli guardava le automobili nel parcheggio, con lo sguardo fisso. Sembrava non volersi distrarre, come se fosse concentrata su un dettaglio fondamentale. «Sei distratta.» osservò Nicola, piegando il capo per guardarla meglio «Cioè, forse è solo una mia impressione». «No, hai ragione.» rispose lei, spostando lo sguardo su di lui con un sospiro «Sono soprapensiero, scusami». «Nono, scusami tu.» si affrettò a ribattere l’altro, raddrizzandosi sulla panchina; solo per un attimo, prima di chinarsi di nuovo «Ti posso chiedere a che cosa pensi?». Lilli volle sorridergli, almeno un po’. «A quello che mi ha detto Gloria per prima, e che poi mi avete ripetuto tutti.» disse, sollevando lentamente il capo «Che siete sempre tutti qui. Ne parlavo ieri con una persona». «Beh, è vero, no?». Lilli colse con lo sguardo il tremito che scosse il braccio di Nicola, il muoversi delle sue dita a vuoto, alla ricerca della formula di un gesto. Riabbassò il viso. «Io ci sono almeno.» riprese intanto a dire lui «Nel mio piccolo, ma ci sono. Magari non è granché, voglio dire…». Lei si girò verso di lui, verso le pieghe incerte che aveva preso il suo volto e che ormai conosceva, senza bisogno di sentir pronunciate altre parole. Assecondò gli attimi di silenzio che ne seguirono, quindi gli prese la mano. Ignorò il tremolio che sentiva percorrere quelle dita e chinò la testa per posarvi sopra un bacio. Ci fece poi una carezza, dopo essersi risollevata. «Passo a trovare mio padre in gioielleria.» disse, mentre Nicola la guardava sbalordito, spaventato «Grazie». Si alzò in piedi, scegliendo di non guardare i suoi occhi, la sua mano che sarebbe rimasta ferma dove l’aveva lasciata, le sue gambe inchiodate alla pavimentazione della piazza. Se ne andò, e lei in cuor suo lo perdonò per non aver trovato la forza di salutarla. Scosse la testa solo quando imboccò la strada che conduceva al negozio. Il nastro si era guastato. Ripeteva le solite sequenze, all’infinito, sino a
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quando qualcuno non si sarebbe deciso ad alzarsi e staccare direttamente la spina, senza stare a tergiversare. 49- Trecentosessantaseiesimo giorno, Sabato Il campanello suonò in quasi concomitanza con le due del pomeriggio. I due rintocchi giunsero dalla piazza con qualche secondo di ritardo, quando ormai Enoch aveva già aperto la porta e si era immobilizzato sulla soglia. Dietro di lui, la corrente fece sbattere una finestra, chiudendola. Lilli non batté ciglio, nel suo cappottino panna, con il maglione di lana bianco, i pantaloni di velluto bianchi, le scarpette bianche, la borsetta bianca. Così candida che avrebbe abbagliato il sole e fatto impallidire la luna. Sotto quel cielo malato, che non poteva impedire di farle risplendere i brillanti del fermaglio sopra la china ondulata dei capelli. «Posso entrare?» chiese in un sussurro, senza muoversi, senza scomporsi di un millimetro. Enoch si ritrovò senza energie per parlare. Fece segno di sì con la testa, facendosi da parte mentre allargava lo spiraglio della porta. Lilli abbassò il capo in quello che somigliava a un ringraziamento, entrando. Si guardò intorno per qualche istante, riscoprendo il solito ordine all’interno delle stanze, la stessa metodica precisione. Si scansò, quindi, per permettere ad Enoch di chiudere la porta. «E’ successo qualcosa?» le domandò lui «Se mi avessi avvisato, avrei… Non so, sistemato un po’ la casa ». «Va bene così.» rispose lei, e aveva gli occhi sbarrati, le labbra dischiuse «Volevo solo…». Si azzittì, portando una mano al colletto del cappottino. Enoch la fissò, senza poter fare a meno di accorgersi del suo stato. Esitò anche lui, a sua volta. «Cosa c’è?» insistette, con quella voce quieta «Cos’è successo?». Lei fece per stringere le labbra, ma il sapore del velo di rossetto la indusse ad evitare. «Volevo sapere se ti piaccio vestita così.» riuscì a dire, sollevando il mento «E’ il meglio che ho potuto fare». Enoch rimase in piedi di fianco alla porta. La guardò per qualche istante, come lei le aveva chiesto, ma dagli occhi scuri trapelava la preoccupazione. «Sei bellissima.» mormorò dunque, senza poter trovare altre parole «Ma cos’è successo, Lilli? Sei strana, non…». Si interruppe, dopo esser riuscito soltanto a sollevare le braccia sino all’altezza della vita. Lei allentò la presa sul proprio colletto.
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«Ieri ero assieme a quel ragazzo» rispose, togliendo una mano per sistemare la solita ciocca dietro al solito orecchio. Tacque ancora. Enoch rimase fermo ad aspettare, senza forzarla. «Credo che sia innamorato di me.» riprese infine «Da tanto tempo. Mi rendo conto solo adesso che c’è sempre stato». «Lilli-». «Non me l’aveva mai detto». Enoch riabbassò le braccia. Non c’era segno di una seconda delusione nel suo viso, di un improvviso scoramento. Semplicemente, non capiva. Lei mosse appena un paio di passi, in cerchio. «Un’altra volta» balbettò fra sé, riprendendo a tormentarsi il colletto. Lui tentennò, prima di staccarsi dalla porta. «Lilli» ripeté un’altra volta, protendendo appena una mano, come se quel gesto avesse potuto significare qualcosa, potesse per una volta realizzarsi. Lei lo fissò, ferma, raccolta dentro al suo cappottino. Lui accennò a parlare, con fatica. «Ascolta». Lilli balzò in avanti con uno scatto, sfiorò il polso di quel braccio teso, affondò gli avambracci contro il suo torace, cercando con le dita le sue guancie, mentre le sue labbra coglievano di sfuggita quelle di lui. Enoch emise una sorta di urlo. Barcollò, indietreggiando, ritraendosi disperatamente. La fissò con lo sguardo di un allucinato, incrociando i suoi occhi così caldi, lucidi, come quelli di una martire. Fece per gridare, per chiederle che cosa avesse fatto, ma il fiato gli si spezzò. «E’ troppo tardi.» sussurrò lei, avvicinandosi piano a lui «Troppo tardi, è già accaduto». Enoch continuò a camminare all’indietro. Si sfregò terrorizzato il dorso della mano sulle labbra, scosse le dita come per cacciarvi qualcosa che vi era rimasto impresso. «Non l’hai fatto» provò a ribattere, deglutendo. «Non c’è più niente da fare.» disse però lei «Ora è già tutto deciso, stabilito». Enoch indietreggiò ancora, fino a fermarsi con le mani contro il divano. Vi artigliò le dita sopra, stringendo con quanta forza gli fosse rimasta in quel corpo all’improvviso svuotato. «Dio mio, Lilli, che cosa hai fatto?» chiese con quanta voce riuscì a trovare «Che cosa mi hai fatto fare?». Lei continuò ad andargli incontro piano, passo dopo passo. «L’ho scelto io.» rispose ancora «Sono venuta qui per questo».
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«Ma perché?» tentò ancora, quando ormai di nuovo sentire la sua presenza così vicina, la punta del suo piede che posava sulla solita piastrella «Perché me l’hai fatto fare?». «Non farmelo dire. Già lo sai». «No, Lilli, no.» pregò, intanto che le dita di lei ormai risalivano lungo le sue braccia, le sue spalle «Bisogna tornare indietro. Ci deve essere un modo per tornare indietro!». «E’ troppo tardi.» ribadì lei, bisbigliandolo davanti al suo viso, col respiro dell’una dentro quello dell’altro «E se anche potessi, amore mio, adesso non tornerei più indietro». E le sue dita salivano, estasiate, lungo le guancie, accarezzandone i contorni col polpastrello, prima di posarvi sopra i palmi soffici. «Amore mio» ripeté soltanto, ancora una volta, mentre già protendeva il viso verso il suo e la bocca trovava accoglienza sulla sua, nella sua. Lentamente, a stento, fino a quando non si fece malleabile, ancora più morbida, e le sue braccia la strinsero, senza forza, con timore, facendole correre un brivido bollente lungo la schiena, nell’incontro di quei due corpi così meravigliosamente caldi, abbandonati e circondati solo da loro stessi. Lei contro di lui, lui contro di lei, a turno, chiamandosi, ansimando coi visi che sfregavano assieme le guancie, le parole umide di singhiozzi. Intrecciando le dita, baciandole una per una, tremando nel rialzare il viso e riuscire a ritrovarsi così facilmente, a occhi chiusi. Per chissà quanto, senza più nozione alcuna. Di tempo, di spazio, di qualsiasi cosa che avessero imparato prima di allora. Conducendosi faticosamente, senza capire quando, senza vedere, incespicando, sino alla camera. Supplicando e gemendo tra i baci forsennati, col peso dei corpi su di sé, così leggeri, così presenti, così vivi in ogni loro mossa convulsa. Spogliandosi dei vestiti come di cose morte, di foglie secche, reclinando il capo nello scoprire finalmente ogni parte di sé, nel poterla reclamare e offrire alla carezze e ai baci impazienti. Le coperte strappate via senza aspettare, annaspando per non perdersi, per non smarrire la via che conducesse ai suoi seni nudi, al suo petto teso, madidi di sudore. Per poi ritrovarsi a incrociare lo sguardo, a cogliere in un attimo il calore della loro pelle, il suo profumo sensuale. E dolcemente riavvicinarsi, assaporando ancora il piacere di una carezza delicata sul viso, di un bacio a fior di labbra. Prima di incontrarsi, di concedersi a lui aggrappandosi al suo collo, di conquistarla pienamente e di averla per sé, solo per sé.
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Enoch e Lilli rimasero distesi a lungo, parlando solo per sussurri, senza riuscire a saziarsi della loro vicinanza. Ora stretti, ora sfiorandosi appena, ora accoccolandosi sull’altro solo per sentire i loro cuori battere. Giocando, ridendo, loro due e basta, in pace. Poi, inevitabilmente, lui si incupì. «E adesso, però?» le domandò, guardandola senza speranze di avere una risposta. Lilli gli sorrise, senza un’ombra di risentimento. «E adesso siamo io e te.» rispose, passandogli una mano tra i capelli «A tutto il resto non voglio nemmeno pensarci». Enoch sorrise a sua volta, con una serenità infinitamente libera. La baciò ancora, l’abbracciò, volle sentire ogni parte di lei su di sé. «Ti preparo qualcosa da mangiare.» disse, con gioia «Ti va bene un toast?». Lilli annuì, tenendolo vicino ancora qualche secondo, prima di permettergli di alzarsi. «Poi semmai te ne faccio anche un altro, se ti resta la fame.» continuò Enoch, mentre andava a ripescare i suoi vestiti «Cotto e fontina, li tengo sempre da parte». Lilli si sollevò appena su un gomito per rispondergli qualcosa. Piegò il capo, però, socchiudendo gli occhi. «Tesoro?» gli domandò, guardandolo con attenzione «Che cos’hai fatto a quella caviglia?». Enoch abbassò lo sguardo con curiosità, alzando la gamba per vedere. «Ah, quello.» disse, riferendosi a un paio di graffi appena sopra la fiocca del piede «Una sciocchezza. E’ stato un cane. In Pineta, tra l’altro. Sai quale mi è sembrato, anzi? Quello… Te lo ricordi la donna che portava da mangiare ai randagi?». Lilli fece segno di sì col capo, mentre la piccola ferita scompariva dietro i pantaloni di Enoch. «Ce n’era uno che mangiava sempre da sé. Il bastardino.» proseguì il giovane «Ha cominciato a ringhiare e mi si è avventato contro. Così, senza una ragione.» Enoch scrollò le spalle «Povera bestia, mi dispiace anche, per lui. Ero passato per rivedere un po’ dei posti dove andavamo noi e guarda invece che casino». Lilli corrugò appena la fronte, mentre lui spariva oltre la porta. Si sdraiò di nuovo, allargando le braccia con soddisfazione in quel letto finalmente disfatto. Quando si decise ad alzarsi, poi, diede un’occhiata al lenzuolo buttato di lato e lo raccolse. Vi si fasciò il corpo senza preoccuparsi di recuperare i suoi vestiti e scese dal letto,
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col suo strascico bianco che frusciava sul pavimento. Enoch si apprestava in quel momento a tornare in camera. «Il mio vestito da sposa.» disse lei, con un sorriso radioso «Meglio che l’altro, vero?». Lui la guardò incuriosito. «Quale altro?» domandò, senza sapere a cosa si riferisse. «Quello che avevo quando ho suonato il campanello.» rispose Lilli, indicando poi i vestiti sparsi per terra «Non ti eri accorto che era il mio vestito da sposa?». «Ah, quello!» fece lui, ridendo «No, non ci avevo fatto caso. Diciamo che pensavo ad altro, in quel momento». «E mi sono persino scordata della cosa più importante.» aggiunse lei, come se le fosse venuta in mente solo allora «Sono passata in negozio e ho preso il più bel gioiello che ho trovato. Aspetta, te lo faccio vedere». «Un secondo, vado a vedere se sono pronti i toast». Lilli si chinò, reggendo il lenzuolo con una mano mentre recuperava la borsetta. Enoch rientra qualche istante dopo, ancora a mani vuote. Sta dicendo che non sono ancora pronti, ma ormai è questione di un minuto. Fa appena in tempo ad accorgersi del gioiello. Lilli non sa come tenere in mano una pistola, e la nove millimetri le sembra ancora più pesante della prima volta. Ma ha già tolto la sicura. Spara due colpi, serrando gli occhi. Enoch viene sbalzato all’indietro, ma non manda un gemito. Rimane a terra, con le palpebre abbassate e il petto squarciato. Immobile. Lilli non si muove, la mano le trema ancora. Il lenzuolo e la sua pelle recano chiazze più rosse di quanto si sarebbe aspettata. Per egoismo. Perché fosse suo, solo suo. Perché fosse veramente libero dalla sua condanna, senza che fosse stato costretto a restare solo, il giorno ormai incombente in cui lei avrebbe dovuto lasciarlo. Per fare quello che da solo non sarebbe riuscito a fare. L’ultimo passo, prima di riunirsi davvero, eternamente o solo per un’altra breve vita, laddove deve aver senso quel qualcosa che si era unito prima ancora dei loro corpi. E che entrambi avevano sentito. Perché che il destino, o Dio stesso, siano in cielo o qua dietro l’angolo, in America o al Polo Nord, non possono aver deciso tutto questo per niente. E anche se lei non sa come provarlo, e non può saperlo, le riesce ancora di sperarci. Di crederci.
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Fuori un cane abbaia, in risposta allo sparo. Il suo padrone lo richiama con un urlo scocciato. Il tostapane suona una nota nel silenzio. E l’odore invitante del pane abbrustolito si diffonde per tutta la casa.
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Il nome Enoch compare nella Bibbia in Genesi 4,17 dov’è detto “Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio”. Sempre in Genesi 5,21 è detto, riferendosi ora al patriarca antidiluviano, che “Enoch aveva sessantacinque anni quando generò Matusalemme. Enoch camminò con Dio; dopo aver generato Matusalemme, visse ancora per trecento anni e generò figli e figlie. L’intera vita di Enoch fu di trecentosessantacinque anni. Poi Enoch camminò con Dio e non fu più perché Dio l’aveva preso”. Di lui è detto anche, in Siracide 44,16 “Enoch piacque al Signore e fu rapito, esempio istruttivo per tutte le generazioni” e nel Nuovo Testamento, nella Lettera agli Ebrei 11,5 “Per fede Enoch fu trasportato via, in modo da non vedere la morte; e non lo si trovò più, perché Dio lo aveva portato via. Infatti, prima che fosse portato via, ricevette testimonianza di essere stato gradito a Dio”. A lui sono attribuiti tre libri, nessuno dei quali accolto nel canone cristiano e in quello ebraico. Il primo di essi, detto “Enoch etiope” è invece riconosciuto dalla Chiesa copta. Tale nome significa, con buone probabilità, sacrificio.
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Postfazione (scritta di proprio pugno dallo stesso della prefazione)
Valgono gli stessi principi della prefazione, se per caso l’hai letta, ma il mio consiglio ora è di posare questo libro e di mettersi a fare altro. Quello che ti va: riposati, lavora, studia, porta fuori il cane prima che te la faccia sui mobili, dormi… Non fare niente, anche, perché ogni tanto c’è bisogno anche di quello. Questo libro riprendilo in mano tra qualche ora, meglio se domani. Altrimenti, sentiti pure libero di andare due righe sotto. C’era una volta un signore inglese, invero un po’ troppo dipendente dall’oppio, chiamato Samuel Taylor Coleridge. Ora, lo so che non è un perfetto sconosciuto, ma io, vedi, sono un po’ ignorantotto in letteratura e mi riesce difficile andare molto più in là di quello che ho trovato, qualche anno fa, sui libri di scuola. Ragion per cui, se cito qualcuno in un romanzo, mi viene difficile credere che qualcuno non se ne accorga e non ci faccia sopra una risata di superiorità, come a dire “guarda questo qua, pensava che a questo punto mi ritrovassi spiazzato”. No, caro lettore e collega di sventure, dove la sventura consiste nel vivere in quest’epoca (che è sempre la peggiore possibile e la meno poetica). Onestamente, di apparire più acculturato di quanto non sia non me ne importa un accidente. Ma questo signore, tra le tante cose che ha fatto, ha coniato una definizione che mi preme, e cioè quella di “patto finzionale”, che il mio meno erudito computer vorrebbe trasformare in “patto funzionale”. No. Finzionale. Ovvero la conferma che quello che ti ho raccontato in un romanzo è una storia immaginaria (leggere “balla” o altri termini anche più volgari), ma che tu, se sei un vero lettore, devi sciropparti comunque fingendo di credere che sia vera. Ok, mi devi dire, io faccio finta di credere alle tue panzane nella speranza che tu riesca un po’ a trascinarmi, poi prometto che tornerò coi piedi per terra. Perché tiro fuori questo discorso adesso? Perché almeno nessuno mi dirà che ho scritto una boiata senza ragion d’essere e preteso di convincere qualche ragazzo più giovane che ci siano in giro tizi capaci di ammazzare la gente solo toccandola. E anche perché segretamente spero che qualcuno in questa definizione sia riuscito a ritrovarcisi già per conto suo e ora mi consideri un po’ più simpatico. Senza tralasciare il dettaglio importantissimo, già enunciato: le citazioni sono di moda. Quindi ne ho in serbo già qualcun’altra.
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Un altro signore, dotato di spirito più di me e di Coleridge, un certo Daniele Pennacchioni, una volta si è messo a stilare nel nostro interesse un breve elenco dei diritti che sono rimasti a noi miseri lettori senz’arte né parte. Tra i tanti, quello di non leggere proprio, di saltare le pagine, di non finire il libro, che non per nulla sono i primi tre. Ecco, io mi auguro che qualcuno abbia almeno sentito il bisogno di farlo, altrimenti vorrebbe dire che avrei scritto anche una prefazione per nulla. Tanto abbiamo detto che questa roba è finzione, per cui non sei mica obbligato a prenderla sul serio. Salta, vola più avanti, torna indietro, leggilo con le dita nel naso, buttalo nel camino, ma poi non dire che ti rompo le scatole con qualcosa di cui non ti fregava niente e che io, maligno, ti ho comunque costretto a finire. Molto facile a dirsi, da parte mia, quando alla fine del libro ci sei già arrivato, tra l’altro. Per chi comunque non avesse mai sentito parlare di questo scrittore francese - a molti sembrerà assurdo, ma mi piacerebbe fermare la gente in strada e chieder loro chi sia - e abbia voglia di conoscere gli altri sette diritti che gli vengono riconosciuti, non cerchi Daniele Pennacchioni, ma Daniel Pennac. In libreria, d’altronde, lo trovate così. E adesso veniamo al mio preferito, poi basta. Con questa facciamo tre citazioni, in fondo. Quattro, contando quella di Twain all’apertura. Dal momento che mi sembrano già troppe, chiudiamo. Con un autore, che, per la gioia del gentil sesso, non si sa nemmeno se era un uomo o una donna, cosa che le/gli ha fatto guadagnare un posto d’eccezione negli speciali televisivi sui grandi misteri del mondo. Rullino i tamburi e si scuotano le lance, dunque, per William Shakespeare! Sì, lettore, perché adesso scadremo nella banalità della grandezza. Senza rielaborare, né commentare, rubando un pezzo del copione del buon Prospero. “Il nostro gioco è finito. Gli attori, come dissi, erano spiriti, e scomparvero nell’aria leggera. Come l’opera effimera del mio miraggio, dilegueranno le torri che salgono su alle nubi, gli splendidi palazzi, i templi solenni, la terra immensa e quello che contiene; e come la labile finzione, lentamente ora svanita, non lasceranno orma. Noi siamo fatti della stessa materia dei sogni, la nostra breve vita è nel giro di un sonno conchiusa”. A questo non mi sento di aggiungere altro. Mi auguro che nessuno sia soddisfatto, a questo punto, che nessuno sia rimasto imbrigliato in questo gioco di cui conosco a malapena qualche regola e che ci propina, quotidianamente, queste perle di cultura. Pillole di cultura, le ho sentite chiamare, il che mi fa dedurre che debbano guarirci da qualcosa. Beh, chi si sente malato si faccia
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avanti, allora. Tanto più che mi viene da chiedermi se dalle pillole siamo passati, senza accorgercene, alle supposte. Mi sento in dovere di aggiungere altri tre nomi: in ordine cronologico, Noemi, Giulia ed Eleonora. Per quel che mi riguarda, hanno più importanza storica, sociale e letteraria di tutti quelli citati sopra. E non perdo altro tempo a spiegare perché. Ora ogni mio incantesimo è spezzato, e quella forza che mi rimane è solo mia, ed è debole. […] Il vostro respiro gentile rigonfi le mie vele o fallirà il mio scopo, che era di divertivi. Ora non ho più spiriti da comandare, né arte per incantesimi: e la mia fine sarà disperata, a meno che io non venga soccorso da una preghiera che sia forte abbastanza da vincere la stessa Misericordia e liberare da ogni peccato. Come cercate perdono per le vostre colpe, così la vostra indulgenza mi renda libero. E cinque.
Luca Sigali
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«Forse il destino, e Dio stesso, sono qua dietro l’angolo, in America o al Polo Nord, e parlano, mangiano e in qualche modo si trasmettono da un vivente all’altro, in un ciclo vorticante e infinito».
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