Lukas den Svarte - Favola della strega rossa

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Lukas den Svarte

~ Quattrofavole ~ Per ricordarsi di non avere paura del buio

III. Favola della strega rossa


Un modesto spruzzo di colore, semplice semplice, per far sorridere quanti ne sentono il bisogno. Da leggere con un cuscino (possibilmente rosso) dietro la testa e le gambe ben stese sul divano, sul letto o sul pavimento, anche. Quel che conta è il cuscino, così viene almeno un po’ di voglia di sognare, e se qualcuno ha anche una vecchia scopa ereditata dalla nonna, tenetela vicino: potrebbe anche farvi comodo. Sarà che anch’io, qualche volta, sento il bisogno di dare una spolverata a castelli, regine e alambicchi fumosi…

Lascia alle spalle i cattivi pensieri, le paure che voglion metterti nel cuore non sono altro che i cocci di ieri, i ricordi spenti di un tempo che muore. Cogli quel che hanno di più caro le polveri dei secoli ormai andati: non credere che il tempo sia avaro di piccoli sogni quasi dimenticati. Di piume d’angelo e polvere di fate preparati a fare ricchissima incetta, che le fantasie vedrai qui rinate e nelle tue mani resterà poi la ricetta. I petali rossi delle rose dell’amore e le loro spine, che tanto hanno fatto per far conoscere ancora il loro fiore, ti rammentino il loro eterno patto: che amare è dare senza ricevere, è avere senza dover chiedere. 4


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La campana suonò un rintocco grave e stonato, poi un altro. Un incedere rigoroso e militaresco picchiò sui gradini della cattedrale e lo sferragliare delle corazze rispose altrettanto ritmicamente. La folla indietreggiò rispettosamente, senza che le guardie fossero costrette ad allontanare i più azzardati con la minaccia delle lunghe alabarde. I pennacchi sgargianti degli elmi spiccavano nella luce del mattino, seguendo diligentemente il cardinale che, coi suoi chierichetti, apriva il corteo. I fiori erano abbondanti, come si conveniva, ma non abbastanza da nascondere la salma, anch’essa in armatura, con la spada stretta nelle mani in una posizione di eterna fierezza. Gli uomini e le donne che erano giunti sin lì per assistere alla messa funebre si fecero da parte senza obiettare: solo i parenti più stretti e i nobili della corte avrebbero condotto il buon re sino alla sua ultima dimora. Il cimitero regale, che ospitava sovrani, prelati ed eroici generali, aprì i suoi smisurati cancelli. I giardinieri avevano curato con diligenza le piante e i cespugli di rose che ammorbidivano gentilmente l’aria, le cappelle erano state restaurate e le loro pietre levigate una per una. Le statue si slanciavano come leggerissime ballerine: le anime che gli scultori vi avevano infuso avrebbero allietato il sonno del giusto monarca sino alla fine dei tempi con canzoni, danze e dolci premure. Il re aveva sempre detto che non avrebbe voluto un tetto sopra la testa, una volta morto, per cui fu seppellito all’aperto, anziché nella tomba di famiglia. In realtà, la regina aveva dovuto insistere perché le volontà del marito fossero eseguite; non si potevano infrangere le tradizioni come se niente fosse, le avevano detto. Ma era lei, ora, a decidere, e tutti nel regno le dovevano cieca obbedienza: il re non aveva avuto eredi maschi e la sua unica figlia, la principessa Elisabetta, che stava ora al fianco della madre, era troppo giovane per poter impugnare lo scettro e portare la corona, anche se solo un anno ancora le sarebbe bastato per raggiungere la maggiore età. Ad ogni modo, tutti i cortigiani avevano tirato un sospiro di 6


sollievo al pensiero che il regno non fosse finito in mano a quella scapestrata. La regina Viviana era sembrata fin da subito la più adatta a quel ruolo. Aveva tenuto insieme la corte e il paese, quando il re aveva dovuto assentarsi, e la sua autorità era pienamente riconosciuta. Con qualche ombra, però: non erano in pochi a pensare che la regina non fosse estranea alla morte improvvisa del buon re. In vita era stato un uomo energico e vigoroso ma, colto da una malattia mai vista prima, lo sventurato sovrano era spirato dopo sole ventiquattro ore. Prima ancora che si potesse parlare di avvelenamento, la regina aveva allertato i membri del clero per le esequie e la nobiltà del regno per la propria incoronazione. I primi, di fronte all’inaspettata dipartita del monarca, si buttarono con fervore nei preparativi, ma ben più rapidi ad afferrare la situazione erano stati i secondi. La regina Viviana era stata, da nubile, una fanciulla molto contesa e adesso era diventata la più allettante vedova che si potesse trovare: sposarla significava diventare re. Se in più ci si aggiungeva il fatto che era ancora una bella donna, anche se non più giovanissima, non ci voleva molto a capire che presto ci sarebbe stata una gran ressa di pretendenti alla sua mano. Questo lei lo sapeva bene. Intanto che il cardinale mormorava le sue preghiere e raccomandava il re al Signore, Viviana guardava i presenti da dietro il velo nero. Gli occhi scuri non si stupirono di notare che gli sguardi degli uomini erano prevalentemente rivolti a lei piuttosto che al feretro nella fossa o al sacerdote. Cugini acquisiti, ragazzi ancora senza barba e vedovi di ogni età cominciavano già a cercare di conquistarla, quando il corpo del suo legittimo marito non era ancora stato sepolto. Viviana li evitò tutti, dal primo all’ultimo, e non a caso posò una mano sulla spalla della figlia. Elisabetta alzò il viso fresco, ma non disse niente. Accettò il gesto della madre come un invito a farsi forza o più probabilmente 7


smise di pensare a un diadema che aveva visto giorni prima in città. Elisabetta non era una ragazza malvagia, ma si era dimostrata… Superficiale sin dalla nascita. Non riusciva ad andare oltre quello che poteva indossare o che l’avrebbe divertita: ogni cosa che esulava da quel campo la annoiava a morte. Compreso, quindi, il funerale del padre, a cui aveva comunque voluto un gran bene. Per i suoi canoni, s’intende. «…e voli d’angeli cantando ti accompagnino al tuo riposo. Amen» concluse il cardinale, benedicendo un’ultima volta il sovrano e chiudendo il suo libretto. «Amen» ripeterono i presenti. «Amen» rispose in ritardo Elisabetta. «Amen» fece per ultima Viviana, sollevando il mento. Guardava esattamente davanti a sé, in direzione dell’unico che dall’inizio della cerimonia le aveva rivolto solo un formale saluto. Un giovane moro, che era sempre stato accanto al Conte di Vallechiara. Senza dire una parola, la regina spostò lo sguardo sulle guardie che alzavano con attenzione il coperchio del sepolcro e lo deponevano dove sarebbe rimasto per secoli e secoli. Gradualmente, nobili e soldati si attardarono per sfiorare con le dita il nome del buon re inciso sulla piastra di marmo e congedarsi dalla regina e dal porporato. Viviana rientrò in casa da sola, dopo aver affidato la figlia al proprio seguito di damigelle e servitori. Seria in viso, attraversò le sale svuotate dal lutto, batté i tacchi degli stivali per i corridoi ingombri solo di dipinti, sculture e armature lucidate, marciò sui tappeti persiani rifiniti con filo d’oro. Salì le scale di marmo pregiato, sfilando davanti ai volti imperturbabili degli antenati e degli uomini illustri, si fece investire dalla luce variopinta delle vetrate. Passò sotto le due spade dell’eroe e del patriota e premette con entrambe le mani sulle pesanti porte, che si aprirono sotto la sua spinta. Sola, nella sala del trono, si diresse 8


con decisione verso i due seggi vuoti, sui quali la coppia reale aveva dettato legge, fatto giustizia, accolto dignitari e alti mercanti. Si fermò davanti a quello del re, socchiudendo gli occhi; senza togliersi i guanti di pizzo scuro, vi passò le dita sopra, lentamente. Viviana non vi indugiò. Come spazientita, si avviò verso la scalinata a chiocciola che conduceva alle stanze superiori, lungo quel tragitto familiare che non aveva più nulla da darle ormai da molto tempo. Girò la maniglia della camera da letto ed entrò. Con un sospiro, si tolse il cappello e il velo dal viso, scansando il baldacchino per poterli gettare sul letto. Con le mani sui fianchi, mosse qualche passo per la stanza, inquieta e pensosa. «E adesso? Dovrei sentirmi cambiata? Dovrei sentirmi meglio?» chiese, come se si rivolgesse a qualcuno. Difatti, dal lato opposto della stanza, una figura esile e minuta si allontanò dalla parete contro la quale era rimasta immobile. Non che si nascondesse, ma la sua presenza sembrava un compendio naturale dell’arredamento, qualcosa di cui quell’ambiente non avrebbe potuto fare a meno. Era una donna, più anziana di forse una decina d’anni della regina, coi capelli raccolti in una cuffia scura. Ben vestita, ma senza sfarzo; dai modi affabili, ma privi dell’etichetta esclusiva della nobiltà. Una domestica, né più né meno, le cui mansioni erano quelle di dirigere tutti gli altri servitori. Una sorta di maggiordomo al femminile, priva però di quell’aria altezzosa e impeccabile con cui siamo abituati a immaginarli. Aggirò il letto e scansò a sua volta i veli del baldacchino, raccogliendo gli indumenti della sua padrona. «Non vi sentite meglio, forse?» domandò, senza una spiccata deferenza. «No.» rispose seccamente Viviana, voltandosi «Affatto». «Tuttavia avete ottenuto quello che volevate.» la domestica le si fece incontro «Ora siete una regina, e non soltanto la consorte di un monarca». 9


Viviana socchiuse gli occhi, restando immobile ad attendere che la servitrice le si facesse appresso e, anche quando l’ebbe davanti, continuò a restare immersa nei suoi pensieri. «Mia cara Gerda, com’è strano il moto di questo nostro mondo.» si sfilò i guanti uno per uno e glieli porse «Gira come una trottola, così veloce che ci si affanna per seguirlo e poi di colpo… Si ferma e prende a girare in senso opposto». Gerda piegò i guanti con cura lì dove si trovava, con la roba ancora in mano. «Avete insistito molto per portare a buon fine i vostri propositi. Il rischio è stato grande, dacché ci siamo esposte solo voi e io, che sopra chiunque altro vi sono fedele». «Non mi sto pentendo di quello che ho fatto, Gerda; non ti illudere che mi nascano dei rimorsi da ragazzina.» stizzita, le diede le spalle, ma non fece che due passi, prima di tornare di nuovo a guardarla «Ma adesso cos’ho nelle mani? Potere? È una parola gloriosa per indicare un mucchio di questioni noiose e insulse di cui dovrò occuparmi e che prima erano compiti esclusivamente di mio marito. Né, d’altra parte, posso affidare il governo di tutto il regno ad un siniscalco.» portò un polpastrello alle labbra morbide, ragionando sulla cosa «Una regina non è poi così diversa da una schiava». «La verità» disse la domestica, sistemando guanti, cappello e velo al loro posto «è che non sapete godervi un successo, mia regina. D’altra parte, le vostre parole testimoniano la vostra ancora giovane età: col tempo vi verrà il senno per apprezzare la vostra posizione». Viviana non si irritò per la critica ricevuta, ma si diresse piuttosto verso lo specchio ovale sul mobile per truccarsi e vi si chinò, appoggiandovisi con un palmo. «Giovane.» mormorò, dubbiosa, mentre con un dito andava a pizzicare una ruga di fianco all’occhio destro «Quanto tempo ci vorrà perché questa giovinezza sfiorisca del tutto? Te lo dico io: 10


poco. Gli anni si possono nascondere, ma non si possono togliere». «Sapete bene come la nobiltà si piegherà per ottenere le vostre grazie. Avrete solo l’imbarazzo della scelta, da qui in avanti». «Vedovi e scapoli che sperano di mettere le mani su quello che ho conquistato. Non ho intenzione di condividere con nessuno di loro ciò che è mio.» fece una smorfia, quindi, prima di riprendere a parlare «Quando lo capiranno, molti di loro preferiranno puntare a mia figlia Elisabetta: è giovane, è bella ed è in età da marito… Lei!» e storse nuovamente la bocca, facendo un gesto di disprezzo col braccio. «Una regina non ha ragioni per invidiare la sua unica figlia. Vedrete presto che le vostre considerazioni sono solo frutto di un attimo di esitazione.» Gerda chiuse i cassetti dove aveva riposto la roba, tornando verso la padrona «Come ha preso la morte del padre?». «Come vuoi che l’abbia presa? Non avrà ancora realizzato quello che è successo. A cosa vuoi che arrivi, col cervello bolso che si ritrova?». La domestica scrollò le spalle, concedendosi un piccolo sorriso carico d’ironia. «È dunque questa la donna che la regina dovrebbe invidiare? Avevate preso atto sin da principio anche di questo, se ben ricordate. Non lasciate che l’intelletto si offuschi anche a voi». «È un rimprovero, Gerda?» torva in faccia, Viviana guardò di sbieco la domestica. «Solo l’ammonimento di una donna con più anni di voi, che serviva la famiglia regnante prima ancora che voi nasceste» le rinfacciò con un certo orgoglio impertinente quella. «Finiscila. Non sono dell’umore per sentire delle prediche.» la regina si pettinò le ciglia davanti allo specchio, sbattendo poi un paio di volte le palpebre «Piuttosto, cosa mi sai dire del giovanotto che stava a fianco del Conte di Vallechiara?». 11


«Non ci ho fatto caso. So che il Conte di Vallechiara si è un po’ isolato dalla corte, dopo la morte della moglie, tanto che il suo tesoro ne ha risentito. Tiene solo alla compagnia del figlio, da quel che si dice». «Non ti ho chiesto notizie del Conte di Vallechiara, Gerda.» la interruppe Viviana «Ti ho chiesto notizie sul giovane che gli era accanto. Può essere che sia suo figlio?». «Non l’ho nemmeno visto, vi ho detto.» ribatté la domestica, a sua volta un poco scocciata «Può essere, non lo so. Come faccio a saperlo?». «Un bel giovanotto.» disse la regina, drizzandosi «Alto, moro, coi capelli un poco mossi, e un bel portamento». «Può essere che sia lui. È l’ipotesi più probabile, dal momento che il Conte è sempre stato leale alla corona ed era amico del re. Si sarà sentito in dovere di portare con sé il figlio. Come mai vi interessa tanto?». «Secondo te?» la regina tornò a guardare lo specchio, con aria superba «È un gran bel giovane. Come se ne trovano pochi, in giro». Gerda si irrigidì, sebbene si aspettasse una risposta del genere. «Mia regina, il re è stato appena seppellito, e questo lo sa anche quel giovane.» le fece notare «È sconveniente per voi iniziare una relazione». «Non mi hai appena detto che sono ancora giovane?» replicò stizzita Viviana «Se anche non fosse vero, sono pur sempre la regina. Almeno in questo, posso fare quello che voglio». «Dovete osservare un preciso periodo di lutto, che vi piaccia o meno. Credete che nessuno sospetti di voi? Se la corte venisse a sapere di un oltraggio alla memoria del re, non perderebbero occasione per screditarvi». «Posso metterli a tacere tutti» disse la regina, già meno sicura. «E loro possono deporvi. Il vostro trono sarà traballante finché la faccenda non sarà del tutto chiusa.» insistette la domestica, con il 12


suo consueto modo di fare «Tenete il lutto, almeno per alcuni mesi». Viviana cincischiò, sfregando assieme le dita di una mano. Si morse un labbro, emise un mezzo sospiro, quindi batté un colpetto sul mobile, girandosi quindi sulla sedia. «E sia. Seguirò la convenzione del lutto come ci si aspetta da me, ma questa dovrà essere ridotta all’osso. Non aspetterò che la vecchiaia mi porti via quel che avrei potuto comprare con la mia giovinezza. Nel frattempo, tu» e sollevò un dito verso la domestica «dovrai informarti su tutti i possibili pretendenti. In special modo, sul figlio del Conte di Vallechiara. Il tempo non ti mancherà». Gerda annuì, chinando il capo in segno d’obbedienza. «E ora vai.» riprese la regina, tornando a fissare il proprio volto «Oggi è giorno di lutto in tutto il regno. Osservalo anche tu e approfitta di questo giorno di riposo». «Se non c’è altro…» fece la domestica. «No. Nient’altro» risposte laconica la regina, disinteressandosi completamente della servitrice. Gerda si chinò un’ultima volta, per poi aprire la porta e lasciare la stanza. La regina Viviana fu scrupolosa nel seguire il consiglio della sua servitrice. Col trascorrere dei giorni, si rendeva conto sempre meglio di come una tresca sarebbe stata fatale, per la sua autorità ancora vacillante. In molti infatti miravano, di nascosto o alla luce del sole, al seggio che significava potere assoluto sull’intero regno, ma Viviana, abile nell’attaccare come nel difendersi, si premurò bene di non lasciare varchi per usurpatori e rivoltosi. Gli elementi più pericolosi vennero messi da parte, talvolta incarcerati, in due o tre casi segretamente eliminati. La regina ci teneva ad apparire magnanima, per cui non forzò la mano contro di loro: il popolo sarebbe stato con lei e i nobili che le si dimostrano leali sin da 13


principio furono ricompensati lautamente. Trascorsero quattro mesi, prima che Viviana potesse sentirsi sicura al proprio posto e, come questo avvenne, quasi rimpianse il clima di sotterfugi e attentati alla sua autorità. Si scatenarono di colpo, tutti assieme, non appena il cardinale stabilì che il lutto era finito. Il palazzo si riempì di una folla di nobili senza moglie; messaggeri ed ambasciatori facevano avanti e indietro, portando le proposte dei loro padroni; un vorticare senza fine di pettegolezzi e maldicenze trascinò con sé le dame di corte. Viviana prese tempo, senza rifiutare da principio niente e nessuno, tenendo faticosamente a mente tutte le possibilità che le si aprivano dinnanzi. Elisabetta, che la regina credeva si sarebbe ritrovata anch’essa circondata, continuava la sua vita di sempre, ignorata e felice di esserlo. Col tempo, coloro che avrebbero ricevuto un rifiuto avrebbero provato a ripiegare su di lei, e questo Viviana non lo voleva. Da un lato, la regina voleva prendere parte attiva nella scelta del consorte per la figlia, dal momento che chiunque, anche il più stolto, sarebbe stato capace di abbindolarla e, eventualmente, usarla contro di lei; dall’altro, Viviana si riscopriva ancora donna, con tutti i tumulti che le passioni generano nel suo sesso. Senza ammetterlo, la regina aspettava, sperando che in quella sala facesse il suo ingresso un messaggero proveniente da Vallechiara. Ma nessuno, neanche il Conte, si sognò mai di farle visita e questo in un primo tempo la rattristò e in un secondo la fece adirare. Del giovane figlio del Conte, ormai, aveva saputo tutto. Si chiamava Aleandro, e aveva ventuno anni: dietro istruzione del padre, si limitava a gestire le proprie terre, senza prendere parte attiva alla vita di corte, se non era necessario. Se vi era forzato, ed era accaduto, si presentava come un personaggio schivo, del tutto lontano dagli interessi di un giovane della sua età e del suo rango. Le dame che avevano mostrato interesse per lui e avevano presentato le loro proposte erano rimaste senza una risposta. Si diceva che fosse rimasto molto scosso dalla morte prematura della madre e 14


preferisse, per il momento, mantenere il suo isolamento. La somiglianza caratteriale col padre saltava all’occhio di tutti. «Non è possibile!» protestò la regina, una volta rimasta sola con la servitrice «Non lo accetto! Dovrei forse abbassarmi, io, la regina, a recarmi al suo castello?». «Nessuno approverebbe.» la contestò Gerda «Alimentereste solo le ciance a vuoto delle cortigiane». «Cosa vuoi che mi importi di loro!» sbottò, alzando un braccio «Se Aleandro fosse con me, al mio fianco, potrebbero solo invidiarmi. Lo inviterò qui a palazzo, e lui non potrà rifiutarsi di venire». «Non si rifiuterà, è vero.» ammise la domestica «Tuttavia il cuore di uomini come il Conte di Vallechiara non può essere rubato senza il loro espresso consenso. Aleandro è il suo ritratto, e per di più è ancora così giovane: alla sua età, si è capaci di ogni sciocchezza, anche rifiutare una regina e il suo regno per un capriccio infantile». «Oserebbe tanto, secondo te? Ricorda che potrei minacciare lui e suo padre, se si ostinasse a rifiutarmi!». «E non lo avreste mai, così. Perché piuttosto sceglierebbero entrambi la morte e la tortura; se anche arrivaste a farlo cedere, non avreste mai nulla da lui.» Gerda scosse la testa «Questa passione è insana, mia regina. Dovreste rinunciarvi, prima che metta in pericolo la vostra posizione». «Rinunciarvi!» ripeté Viviana, con gli occhi sgranati e rossa di rabbia «Non sono arrivata sin qui per sentirmi dire che devo rinunciare a qualcosa! Se non potrò averlo con le buone, lo prenderò con la forza!». «Il cuore di una persona non può essere assoggettato ai voleri di nessuno» affermò la domestica, sicura di quel che diceva. Viviana rimase immobile, con le mani artigliate alla propria gonna ampia e gonfia, il labbro che le tremava d’ira. 15


«Si può, invece.» disse, sorridendo con risolutezza «Rimarrà una faccenda pulita, se ricorrerò alla strega rossa». Gerda rimase interdetta e le ci volle qualche secondo per comprendere le intenzioni della padrona. «La strega rossa?» domandò, mano a mano che rifletteva sull’idea della regina, che cominciava già a piacerle. «Sì!» rispose convinta Viviana, puntando a gran passi verso la domestica «La strega rossa!». E spalancò le braccia, folgorata dalla sua stessa trovata. «Ciò che mi viene vietato potrà esser conquistato, ciò che mi è proibito sarà tutto invertito con la strega rossa!». «La strega rossa!» ripeté Gerda. «Per incantesimo o tortura, la fiamma sacra o impura arderà soltanto per me, che presi il posto del re». «E c’è un preciso perché…». «Per fare quello che pare a me!». «Un decreto o un rifiuto varran meno dello sputo! Non è per nulla che son diventata regina vincente ed ammirata!». «Ammirata e temuta…». 16


«Una testa è caduta. Una sola, che vuoi che sia, ora che la corona è tutta mia!». «E ancora non è abbastanza…» «La corona è una stanza, non val niente di più: quella sala laggiù, dove un trono spogliato del monarca più amato giacerà e attenderà l’uomo che mi prenderà!». «In un modo o nell’altro…» «C’è una strega in un antro…». «Al servizio lei è…» «Della regina più grande che c’è! Con unguenti e pozioni per tante generazioni ha stabilito la sorte, ha scongiurato la morte di principotti e sovrani toccati dalle sue mani. Sarà il suo burattino, lo giocherà come un bambino con formule e preghiere di antichissime ere. 17


La strega rossa!». «La strega rossa!». «Mi darà ciò che è mio…». «Invocherà ogni Dio…». «Per demonio che sia, seguirò questa via!». «Di Aleandro la volontà Soltanto lei deciderà; andrà incontro da sé…». «Alla regina più grande che c’è! Sarà come l’ho sognato…». «Più che desiderato…». «La strega rossa saprà…» «Plasmarlo come vorrà». «Avevo dimenticato un amore sterminato e mi straripa il petto il cuore non mi ha retto al sentirti così tanto vicino siamo due in un solo destino! E verrà da me, con baci e parole…». 18


«Non lasciate udire queste parole…». «Poesia e carezze e voluttà…». «Ma fate piano, per carità…». «La carne, la brama e la passione…» «Bisogna agir con attenzione…» «Apparterrà soltanto a me…» «Alla regina più grande che c’è». «Con la strega rossa». «La strega rossa». Viviana si stese sul letto, vinta dalla forza bollente della sua stessa emozione. Gerda le si fece subito vicina con cautela. «È bene che non vi rechiate personalmente da lei: mille occhi vi scrutano ogni istante che trascorrete fuori da questa camera. Manderò una persona fidata che la convochi al vostro cospetto senza che nessuno se ne accorga». Viviana sembrò faticare a comprendere cosa le veniva detto. Alla fine, però, piegò il capo in un cenno di assenso, prima di lasciar ricadere il capo all’indietro, come priva di sensi. Gerda non perse un attimo per eseguire l’ordine della regina, com’era solita fare. Prese da parte un servo a lei sottoposto, uno che sapeva sarebbe rimasto zitto, e gli diede l’ordine di recarsi dalla strega rossa, che da sempre risiedeva in una casetta di sassi, 19


situata appena fuori dal cortile del palazzo: non ci sarebbe stato alcun impiccio nel portarla da Viviana quella sera stessa, ma nel biglietto che diede al messo, Gerda scrisse espressamente che doveva presentarsi nove giorni dopo, al calar della notte. Come lo seppe, Viviana andò su tutte le furie, ma la domestica le spiegò che in quel tempo avrebbe potuto riflettere con più lucidità su cosa aveva in mente. D’altronde, in quel momento la regina non era nelle condizioni di vedere nessuno, né tantomeno ragionare su cos’è che volesse realmente; nei giorni successivi, poi, avrebbero avuto luogo numerosi ricevimenti, per cui il palazzo sarebbe stato costantemente affollato. Gerda aveva scelto la data più appropriata e vicina nel tempo: meno curiosi c’erano in giro e meglio era. Per questa ragione, e solo per questa, l’irrequieta Viviana riuscì a trattenersi. Ma le cose non sarebbero state semplici. La domestica si rese conto fin da subito di come la regina non riuscisse a togliersi dalla testa il giovane Aleandro. Placare una donna innamorata andava al di là delle sua capacità, come di quelle di chiunque. Frenetica, Viviana rischiò di tradirsi più d’una volta: cacciò sgarbatamente quanti, ignari di tutto, si azzardavano a portare le loro proposte e non si curava degli affari di stato, sostenendo che aveva ben altro a cui pensare. Più di un ricco mercante, di un nobile scontento e di un comandante inattivo furono rimandati indietro senza sapere cosa si sarebbe fatto per risolvere i loro problemi. La regina attendeva soltanto il giorno prefissato, e a questo punto lo faceva anche Gerda. Una volta, addirittura, la principessa Elisabetta l’aveva presa da parte per chiederle che cosa avesse sua madre che non andava. La domestica si era arrampicata sugli specchi per trovare una giustificazione. La situazione era allarmante, se persino Elisabetta arrivava a insospettirsi. Diede disposizioni perché la regina non fosse mai lasciata sola, per nessuna ragione, e che ci fossero sempre giullari, musici e poeti disposti ad intrattenerla in ogni minuto libero. Gerda se li rivide tornare 20


indietro uno dopo l’altro: Viviana li aveva allontanati dalle sue stanze dietro la minaccia dell’impiccagione; uno era stato persino cacciato dal palazzo e non vi tornò mai più. La regina pretendeva di star sola proprio per poter pensare in solitudine al suo Aleandro e nessuno avrebbe dovuto disturbarla. Fu così che, quando giunse il nono giorno, la domestica poté tirare un sospiro di sollievo. Viviana, al contrario, fu intrattabile per tutto il giorno: sin dal suo risveglio, si diffuse in giro la notizia che la regina era di cattivo umore. I servitori e le guardie badarono bene di tenersi a distanza da lei, ma per loro fortuna, Viviana non volle mai uscire dai suoi appartamenti. Trascorse l’intera giornata ad osservare il ciclo del sole dalle finestre. Lo vide sorgere, salire alto nel cielo e sparire a poco a poco oltre l’orizzonte, quindi venne il buio. E trascorse un’ora. Due. Tre. Viviana era fuori di sé. «Doveva essere qui al calar della notte!» ripeteva, prendendosela con la domestica. «La notte è lunga.» provava a scusarsi quella «Starà aspettando il momento propizio». Ma anche lei non riusciva a spiegarsi come mai la strega rossa non si fosse ancora presentata. La regina non era una donna capace di cadere preda della disperazione; maledisse la strega per tutta la notte, condannando il suo oltraggio, la sua arroganza, ripetendo di come si sarebbe vendicata di quell’affronto. Nella sua mente, tutto le era chiaro: doveva aver capito che il re non era morto per cause naturali. O magari si sentiva indignata per non essere stata chiamata per organizzare il suo assassinio. In ogni caso, quell’appuntamento mancato era sicuramente un segno di disprezzo della strega nei confronti della regina. Un segno di tradimento, in altre parole. Lo stava spiegando per l’ennesima volta a Gerda, rimasta sveglia solo per via della sua preoccupazione, quando, contemporaneamente al canto del gallo, qualcuno bussò tre colpi alla porta, poi altri due. Sia la regina che la domestica si voltarono 21


improvvisamente: era il segnale che avevano concordato con la strega. «Vai ad aprire» ordinò con voce tremante Viviana a Gerda: tutta la sua rabbia sembrava essersi sciolta in un’agitazione che la faceva tremare dalla testa ai piedi. La domestica si avviò verso la porta e la socchiuse. Sulla soglia, nella penombra del corridoio, si ergeva la figura della strega, ferma, rinvolta in una cappa rosso sgargiante, col pesante cappuccio che le ricadeva sin quasi al mento. Mosse il capo in un piccolo inchino, scomponendo appena le pieghe rigonfie del mantello. «Sono stata convocata?» domandò con voce fioca, tanto che pareva si dovesse spegnere da un momento all’altro. «Falla entrare!» intimò da dietro la regina, dopo essersi sporta e aver scorto soltanto un lembo di quegli abiti così vistosi. Gerda si fece da parte, restando con la mano sulla maniglia. La strega rossa parve esitare per alcuni secondi, quindi entrò, facendo solo pochissimi passi all’interno; la domestica dovette far attenzione a non urtarla, nel chiudere la porta. Viviana si soffermò per un attimo ad acconciarsi i capelli, che l’ira aveva un poco scarmigliati, e respirò a fondo per ridarsi un contegno. Nel giro di un attimo, era di nuovo padrona della propria freddezza. Stava per parlare, ma proprio in quel momento la strega si inchinò nuovamente e con sveltezza, di fronte alla regina. Viviana si sentì immediatamente a disagio. «Sono stata convocata?» ripeté la strega, dopo essersi rialzata. La regina riprese fiato e annuì. «Ti era stato detto di presentarti al calar della notte» le rammentò, col tono di chi sapeva di potersi permettere ogni critica. La strega si voltò verso la finestra: come spesso avviene, il gallo aveva sì cantato, ma fuori il cielo era sempre scuro. «È ancora buio» ribatté. 22


Viviana non seppe neanche dire con che tono avesse pronunciato quelle parole, tanto flebile era la sua voce. Non sapeva se cercava di scusarsi o se ostentava una calma imperturbabile. Poco importava: non c’era tempo per stare a discutere. «Ho bisogno dei tuoi servigi.» disse «Si tratta di una questione della massima importanza, che pretendo abbia la precedenza su qualsiasi altra cosa. Inutile dire che è fondamentale la tua riservatezza su questa faccenda. Nessuno, oltre a noi qui presenti, deve venirne a conoscenza». Camminava, mentre parlava, e si voltò verso la strega: il suo volto, dietro l’ombra del cappuccio, la seguiva senza distrarsi. Viviana la fissò con un certo scetticismo. «Pensavo ti fosse stato detto che dovevi dare nell’occhio il meno possibile, tra l’altro» e ammiccò in direzione del suo mantello, che di certo non passava inosservato. La strega allargò un po’ le braccia e restò a guardarsi per un paio di secondi. «Mi sembra di essere in incognito» sussurrò, sempre con quella vocina debole debole. Viviana fece per replicare, seccata, ma Gerda, lì vicina, le indicò con lo sguardo di lasciar correre, che era ormai tardi. La regina ricacciò malvolentieri indietro la propria bile. «Conosci tu Aleandro, figlio del Conte di Vallechiara?» chiese. La strega rossa scosse il capo. «È un giovane che presto sarà introdotto qui a corte. Sei in grado di preparare un filtro magico, immagino». La strega annuì con una certa indecisione. «Filtri d’amore?» precisò la regina. Questa volta la strega si mostrò sin da subito più convinta, ma sollevò con attenzione il palmo di una mano, bianco come marmo. «Si tratta di filtri molto pericolosi» mormorò. La regina si diresse verso di lei, stringendo le mani sulla gonna. «Cosa significa che sono pericolosi?» domandò, già irritata. 23


La strega mosse un passo indietro nel vedersi caricare a quel modo e rimase in silenzio per qualche istante. «Sono molto potenti.» spiegò infine «Una persona a cui viene somministrato il filtro non riesce più a liberarsi dall’incantesimo per tutta la vita. Neanch’io potrei sciogliere una magia tanto forte». Viviana sgranò gli occhi: una luce vittoriosa le si dipinse immediatamente in faccia. «Quindi quella persona sarebbe… Devota all’altra sino alla morte?» chiese, trattenendo a stento la propria euforia «Senza possibilità di riscatto, insomma? L’incantesimo non si interromperà nemmeno per un attimo?». «Nemmeno per un attimo». «E non perderà di efficacia col passare degli anni?». La strega fece segno di no con la testa. Viviana batté assieme le mani in una nota di trionfo, senza trattenere una risata estasiata. Guardò radiosa Gerda, quindi puntò il dito verso la strega. «Perfetto, perfetto. Voglio quel filtro. Tu lo preparerai in modo che Aleandro si innamori di me senza ripensamenti.» le ingiunse, quindi ritrasse la mano «Io farò sì che Aleandro lo beva». «Di voi?» e stavolta la voce della strega si alzò di un’ottava per lo stupore «Ma il re…». Viviana la fulminò con un’occhiata rovente, senza rinunciare a un centimetro di terreno: non avrebbe temuto di affrontare nessuno, in quel momento. «Il re è morto.» le ricordò, dura in viso «Da quattro mesi, ormai. Il mio periodo di lutto è finito. Voglio un nuovo marito e tu me lo procurerai.» le puntò il dito una seconda volta, quindi le diede le spalle «Va ad occuparti di preparare il filtro». Gerda girò la maniglia e socchiuse la porta, ma la strega rossa rimase lì dov’era. Viviana, come se ne accorse, si voltò a guardarla con aria impaziente ed altezzosa. «Che cosa c’è?» le chiese, scocciata «Ti ho detto di andartene». 24


La strega non disse niente ancora per qualche secondo, col capo chino, prima di risollevarlo e rispondere. «C’è un problema, mia regina». Viviana si girò di scatto, avvicinandosi con ancora maggior impeto alla strega. «Problema? Che problema?» con un’ansia improvvisa, cercò le mani della strega e le trovò, quindi le strinse nervosamente «Tu devi farmi avere il mio Aleandro!». «Il filtro.» disse quella, ritraendosi col busto «Non posso prepararne uno che permetta di innamorarsi di una persona specifica. La persona che lo ingerisce viene colto da un capogiro, forse anche uno svenimento; il filtro impiegherà alcuni secondi per avere effetto: quando Aleandro si sveglierà, offrirà tutto il suo amore alla prima persona che vedrà». La regina perse gradualmente forza nelle proprie braccia e lasciò andare le mani della strega. Si morse il labbro inferiore e portò un dito alla bocca. «La prima persona che vedrà.» ripeté fra sé «Questo complica le cose». «Non poi molto, se lo sapete.» la rassicurò la strega «Dovete solo aspettare il momento propizio». La regina posò le mani sui fianchi e guardò fisso davanti a sé, con quell’aria severa che assumeva ogni volta che pensava. «Hai ragione.» concordò infine, tornando sulla strega «Ma quello è compito mio. Tu occupati del filtro. Lo voglio pronto al più presto». La strega rossa si inchinò un’altra volta per dimostrare che avrebbe obbedito. «Allontanati in fretta, adesso.» proseguì la regina «Non voglio che ti vedano» e fece cenno a Gerda di aprire la porta. La domestica non se lo fece ripetere e subito eseguì l’ordine: mentre la strega usciva dalla stanza, lanciò un’occhiata dubbiosa verso la finestra e notò il colore ormai rosato del cielo. Chiuse la 25


porta, quindi, e rimasta sola con Viviana, assistette alla sua esultanza. «È fatta, è fatta. Che ti avevo detto?» non faceva altro che dire «Aleandro mi amerà e non avrò mai dubbi su di lui. Non mi trascurerà, mi circonderà di tutte quelle attenzioni che ho sempre desiderato». «Mia regina…» provò a interromperla, ma quella non le porgeva orecchio neanche per scherzo. «Farà tutto quello che vorrò, sarà come l’ho sempre desiderato.» continuava infatti, da sola «Esiste una donna più felice di me?». «Mia regina, vi prego…». «Sono ad un passo dall’ottenere tutto quello che si può sognare. Ricchezza, potere e un uomo giovane e bello innamorato come nessun altro potrà mai essere». «Mia regina, ascoltate!» disse Gerda, stavolta con ben più veemenza, e la regina si interruppe. In lontananza, all’esterno, si udì il segnale delle guardie che si davano il cambio sulle mura. Lo stesso segnale coincideva con quello col quale i servi del castello dovevano mettersi al lavoro. «Così tardi?» fece la regina, rendendosi conto che era ormai mattino «E la strega è appena uscita!». Senza bisogno di altre parole, sia lei che la domestica corsero fuori dalla stanza e si affacciarono sulle scale: sotto lo sguardo di un paio di sguatteri incuriositi, la figura intabarrata della strega rossa si dirigeva verso i primi raggi del giorno. In incognito, secondo quel che aveva detto. La strega rossa rientrò nella propria casetta quando la gente era ormai immersa nelle proprie mansioni e il cielo era di un azzurro così terso che era un piacere a vedersi. La porticina era piccola e schiacciata, tanto che dovette piegarsi per passarci attraverso, rischiando di inciampare in quella specie di cappa che toccava terra. Una volta dentro, ebbe ancora maggiore difficoltà a 26


richiudere la porticina, perché il soffitto, sull’ingresso, era talmente basso che le toccava procedere piegata sulla vita, con quel mantello raggomitolato addosso come quello di un beduino e un braccio proteso all’indietro per ritrovare la maniglia. Sbuffò mentre sollevava un lembo e avanzava su una gamba sola, sino al punto in cui poté finalmente raddrizzarsi e con un sospiro liberatorio portò le mani al cappuccio e lo fece scivolare all’indietro, chiudendo beatamente gli occhi. Lungi da quel che si potesse credere, la strega rossa non aveva più di diciott’anni: la pelle chiara e liscia risaltava come alabastro, fresca e delicata, e gli stessi lineamenti del viso parevano esprimere la medesima dolcezza. Nell’aprire la spilla che teneva chiuso il mantello, i capelli le ricaddero oltre le spalle ed erano così neri e leggeri e brillanti che davano l’idea di essere intrecciati con la fuliggine portata dal vento. Le labbra ciliegie mature: chiunque si sarebbe aspettato che solo a sfiorarle si sarebbe raccolto sulla punta delle dita il nettare più vermiglio. Riaprì gli occhi stancamente e si avvolse il mantello attorno a un braccio con un paio di buoni avvitamenti, preferendo restare col semplice vestito, d’un verde stinto, che se non altro era della sua misura. A dispetto di quella che era apparsa col mantello addosso, la strega rossa era di costituzione esile e bastava vedere con quanta fatica lo reggeva tra le braccia per capire che genere di ragazza era. Con un ultimo sbuffo, aprì un baule da un angolo sotto una finestrella e ve lo ripose. Come alzò gli occhi, chiunque avrebbe notato, così in piena luce, il riflesso violetto delle sue iridi, che normalmente si distingueva appena appena. Senza il mantello, la giovane si trovò però a rabbrividire, per cui staccò un vecchio scialle da un punteruolo e se lo avvolse attorno alle spalle, quindi si strofinò piano le braccia. Passò davanti allo scaffale con le boccette e le erbe utilizzate per i rimedi più comuni, degnandoli solo di uno sguardo distratto. Si spostò nell’altra stanzetta, quella che era il vero e proprio antro: decine di volumi erano allineate su mensole 27


improvvisate; bottigliette e barattolini, sia pieni che vuoti, giacevano accatastati su tavoli, nicchie e ripiani. Insomma, non c’era un angolo libero. Cacciò con un dito un ragnetto dal calderone spento, accese un paio di candele davanti al piccolo ritratto di una donna bionda e robusta con indosso la sua cappa rossa e infine, scansando con una mano un mezzo centinaio di amuleti, raggiunse la sua scopa fatta di ramoscelli d’erica. Con essa si mise a spazzare la casa, facendo attenzione ad ogni angolo che puliva, e talvolta mormorava alcune parole in una strana lingua, come se si rivolgesse a qualcuno lì nascosto. Alla fine, sfiorò con la scopa un piattino e raccolse dal vicino tavolo una bottiglia piena di latte. Ne versò parte del contenuto nel piattino, poi aggiunse qualche pezzetto di focaccia appena sfornata e si allontanò di qualche passo, stringendo piano la scopa tra le dita. «Tutti sistemati, adesso.» disse con un filo di voce «Tutti sistemati… Beh, per ora. Almeno sino a stasera dovrei arrivarci tranquilla». Fece per stiracchiarsi, ancora con la scopa in mano, e si ritrovò col fare un piccolo balzello avanti, sino a lasciarsi avvolgere, delicata come una farfalla, dai raggi del mattino che si proiettavano all’interno del piccolo antro. «Sì, va ben così, è già mattino, un altro passo sul mio cammino, un altro passo sul mio sentiero quand’ormai il cielo non è più nero. Sola qui, non son mica una bambina che piange, chiusa, giù nella cantina. E sì, va ben così, è tutto ciò che ho, un’altra vita io non la condurrò… Tra boccette ed ampolline 28


vengon dalla strega rossa bimbi, uomini e vecchine con un piede nella fossa! “Prestatemi un unguento!” “Il marito m’ha tradita!” “Un foruncolo sul mento!” “La fortuna sulle dita!” Quanti segreti parlan da lontano attraverso le linee della mano; scrutar nei sogni di mezz’estate, cantar sortilegi nelle vallate! Sì, che va ben così, è tutto ciò che ho, un’altra vita io non la condurrò. Sì, va ben così, fino alla notte, al tuffarsi giù in mare, a frotte, dei soli d’ogni dì; e la Luna sola lassù, dietro la nube bruna, li vedrà uscire dai cespugli, dalle foreste scosse in subbugli per ridere ballare, fare scherzetti: attenti a trattare con i folletti. Elfi, coboldi e fate, gnomi, goblin e linchetti, e neppure ci badate, tanti sono i folletti! Ninfe, troll e buffardelli, 29


anche quel piccolo nano: oh, rubacchiava gli anelli dal tesoro del leprecano! Mille e più spiriti ogni giorno vanno a sguinzagliarsi per il mondo, paion le api di un alveare: trovan sempre qualcosa da fare. Ma sì, va ben così, è tutto ciò che ho, un’altra vita io non la condurrò. Bussano tutti alle mie porte, voglion conoscere la loro sorte, voglion parlare col caro defunto e del futuro magari un riassunto. Sola qui, è un’esistenza beata! Posso star tranquilla e rispettata né sarà mai di casa la noia: m’invento magie per ogni gioia. Sabba, torce, cantilene, spettri dagli sguardi vacui! Volerò con le falene, danzerò coi fuochi fatui! Draghi, mostri e giganti dormono nelle caverne; ne ho incontrati così tanti, alla luce dalle lanterne. E quanto ancora c’è da scoprire 30


che non vi saprei nemmeno dire, ma stare su una scopa in sella, credetemi, non c’è vita più bella». E, sempre canticchiando, si rimise a spazzare il pavimento, diretta verso la propria camera, una stanzina angusta, l’unica a cui si accedeva tramite una porta. Per aprirla, fu sufficiente spingere la porta con la scopa, solo che la strega rossa ci mise un po’ troppa energia e questa andò a sbattere rumorosamente contro una mensolina proprio lì dietro. Si udì una specie di miagolio isterico mescolato ad un urlo vagamente umano e una figura piccola e pelosa schizzò giù a razzo, atterrando miracolosamente sul letto della strega. Dalla mensola, provenne il rumore di qualche barattolo di vetro che traballava e minacciava di cadere. La strega rossa si precipitò nella camera e richiuse la porta, restando a mani aperte davanti ai barattolini per prenderne qualcuno al volo, in caso di bisogno. Come le parve che non ci fossero rischi, tirò un sospiro, si asciugò il sudore dalla fronte e si decise a voltarsi con le mani sui fianchi verso il letto. La creatura che vi era sopra la fissava in silenzio, con un’espressione colpevole, come quella di un bambino che non sa bene che scusa tirare fuori per scapolarsela. A vederlo così, non si sarebbe neanche potuto dire che razza di bestia fosse: sembrava un incrocio tra un lemure e un tapiro, con una coda folta e pelosa, da lince. In verità, c’è da dirlo, era un animale così ridicolo da far persino tenerezza. «Glosci.» sibilò la giovane, e intanto cominciò a battere un piede sul pavimento «Quante volte ti ho detto che non devi metterti a sonnecchiare sulle mensole? Con tutto il posto che c’è, poi!». La creatura chiamata Glosci si guardò intorno un paio di volte, quindi si rizzò sulle zampe posteriori e sollevò un dito. «In primo luogo non stavo sonnecchiando» ribatté, proprio come un essere umano, solo che la sua voce era stridula e al contempo sembrava quella di un raffreddato. 31


«Non provare a fregarmi, so benissimo che ti metti a dormire sulle mensole.» insistette la strega «Non voglio nemmeno sapere perché lo fai, voglio solo che la pianti». «Ma calcola che, avendo attutito l’urto della porta con il mio povero muso, ho evitato che tu fracassassi tutti i barattoli» affermò, aggrappandosi a quella via d’uscita. Un istante dopo, si udiva distintamente il rumore del vetro che si rompeva sul pavimento. La strega chiuse gli occhi e si irrigidì, aprendo le mani come artigli sui fianchi. Glosci rimase con la bocca ancora mezza aperta e un’espressione vagamente ebete. «Beh, ne hai rotto solo uno, grazie a me» si corresse. «Io l’ho rotto, eh?» fece la giovane, riaprendo gli occhi, sul punto di lanciar fulmini «Non sei stato tu che l’hai urtato buttandoti giù dalla mensola, sono stata io». «Non puoi saperlo, Linda.» obiettò la creatura, con convinzione «È caduto in ritardo. Può essere stato per via di una scossa di terremoto». «Appena mi recherò al concilio delle streghe, lo causeremo noi un terremoto.» ringhiò minacciosa la strega «E appena si aprirà una voragine ti ci ficcherò dentro a testa in giù, bugiardo d’un famiglio! Ti rendi conto che tu dovresti consigliarmi e aiutarmi e invece mi rendi tutto quanto più difficile?». «Dubito che al tuo primo concilio ti darebbero molto credito.» replicò Glosci «Più probabile che diano ascolto a me, che sono nel giro da più tempo». «Oh, piantala, razza di topo muschiato, e fammi vedere cos’hai rotto» e si girò, chinandosi sui resti del barattolo e sul liquido rossastro che si disperdeva sul pavimento. Il famiglio allungò il collo per poter sbirciare anche lui, ma le bastò lo strillo di un secondo dopo per capire che aveva proprio rotto qualcosa che non andava. Linda si aggrappò al letto e fissò con aria assassina la creatura. 32


«Sangue di biscia zuccherato.» disse la strega, snudando i denti «Lasciato all’aperto per quindici giorni, condito con un pizzico di rosmarino, due foglie di fragola e, non dimentichiamocela, una radice di mandragola spremuta. Il tutto cotto a fuoco molto lento». «Oh.» Glosci ritrasse lentamente il capo «È buono da bere?». «Non lo so, non l’ho mai assaggiato. Quel che importa, però, è che si tratta di uno degli ingredienti fondamentali per preparare un filtro d’amore e si dà il caso che non ne abbia altro.» sollevò il pugno chiuso, minacciando di schiacciarci sotto la testa del famiglio «Ora dammi una ragione per non strozzarti». Il povero animale sgranò gli occhi e si fece piccolo piccolo. «Se non fosse stato per me non ti saresti mai presentata in tempo al castello» rispose fulmineamente, tutto d’un fiato, coprendosi il muso con le manine nere. Linda rimase col braccio a mezz’aria, quindi si decise a riabbassarlo. «Non parliamone più. Quell’insaccato per cui la regina ha perso la testa non morirà certo di vecchiaia in capo a qualche giorno» storse la bocca, raccogliendo con attenzione i vetri dal pavimento. «Non pensi che si la regina si arrabbierà?» domandò il famiglio, tornando ad assumere una posa più tranquilla. «Posso farci qualcosa, se adesso mi manca un ingrediente?» scrollò le spalle «Si farà passare l’arrabbiatura, se vuole quel filtro». «Certo che ha l’aria di essere parecchio irascibile» osservò Glosci. «Hai visto tutto?». «Ho usato lo specchio.» e indicò con la testa il grande specchio ovale sistemato sopra un mobile, proprio di fronte al letto «Dev’esserci sempre quel problemino con l’audio, però, perché riuscivo a sentire solo la voce della regina.» e lanciò un’occhiata canzonatoria alla strega «La tua arrivava appena. C’era mica qualche disturbo?». 33


«Senti, non ho mai avuto a che fare con la gente di palazzo, sinora, e di colpo mi capita una regina ansiosa tra capo e collo. Metterebbe soggezione a chiunque!» allargò le braccia, rischiando di seminare di nuovo i vetri per tutta la stanza, quindi si alzò per andarli a buttare via «Se in più ci aggiungi il fatto che non mi ricordavo di quella stupida convocazione…». «Proprio una convocazione stupida, sì, un po’ come dimenticarsi di esser state mandate a chiamare dalla regina in persona» e il famiglio si mise seduto. «È per via di quel rituale di ieri sera, e lo sai. Mi ha stancata e mi sono appisolata un momentino, tutto qua» Linda rientrò nella stanza con uno straccio in mano e si piegò per pulire il sangue di biscia zuccherato finito sul pavimento. «Infatti non potevi andare prima a palazzo e dopo occuparti del rituale». La giovane rialzò la testa, restando in ginocchio. «Glosci, ora piantala di farmi la predica, chiaro? Non lo sopporto.» e tornò a chinarsi «Si è risolto tutto per il verso giusto, no? Sono arrivata in tempo, nonostante quella storia dell’incognito, che mi ha portato via mezz’ora». «Ma che bisogno c’era? Hai solo quel mantello lì». «Che ne so, volevo fare qualcosa di più…» e smanacciò di nuovo, colpendo il famiglio sul muso con lo straccio «Spettacolare. Pensavo alla polvere di quarzo tritata nel succo di mirtilli, così sarei stata quasi invisibile e quand’ero nella stanza della regina puff!» e un’altra smanacciata, che mandò per la seconda volta al tappeto il famiglio, che nel frattempo si era rialzato «Comparire di colpo in un lampo argenteo! O azzurrino che sia, mi ci sbaglio di continuo. Solo che mi sono ricordata che non è la stagione dei mirtilli e la marmellata l’ho finita a forza di mangiarla a colazione, e così mi sono dovuta adeguare». «E questo avrebbe, ecco, minato la tua fiducia in te stessa?» chiese Glosci, sistemandosi i baffi tutti storti. 34


«Certo che l’ha fatto! L’ha… C0m’è che hai detto? Minato! Minato, sì. Guarda che le regine fanno soggezione.» e si rialzò di scatto, girandosi velocemente su sé stessa, tanto che il famiglio dovette appiattirsi per evitare di essere colpito una terza volta «Non sai mai cosa aspettarti, da quelle lì» e parlava come se ne conoscesse un’infinità, intanto che tornava nella stanza del calderone. Glosci saltò giù dal letto, seguendola a passetti silenziosi. «Per una volta hai le tue attenuanti, comunque.» disse «Persona odiosa». Linda gli rivolse un’occhiata, quindi si tagliò una fetta di pane. «Non sta a noi giudicare che genere di persona sia.» premette con un dito il pane, trovandolo morbido «È quello del fornaio?». «Sua moglie l’ha lasciato sulla finestra stamattina, mentre stavi tornando a casa». «Quella donna è buona proprio come questo pane: non c’è un giorno in cui non me l’abbia portato, da quando le abbiamo guarito il figlio dalla polmonite» e sorrise, andando a prendere un poco di burro da spalmarci. «Ma hai davvero intenzione di prepararle quel filtro?» continuò Glosci, contrariato. «A chi?» fece la giovane, ormai con un pezzo di pane in bocca. «Alla regina, Linda, alla regina. A chi altri, secondo te?». «E perché no?» e si strinse nelle spalle, alzando il viso verso il modesto ritratto della donna vestita con la cappa rossa «La mamma non l’avrebbe fatto, secondo te?». «Mi interessa di più sapere quello che farai tu, non quello che avrebbe fatto lei.» borbottò il famiglio «Il buon re Edoardo è morto da così poco tempo e lei già pensa a sostituirlo: puoi star sicura che quella aveva in testa quell’altro tizio già da un pezzo, forse mentre il re era ancora vivo». «E con questo?». «Linda!» Glosci si puntò sulle quattro zampe «Ci sono cose che sono sbagliate, che non si fanno! Quanto a quell’Aleandro, poi, se 35


è figlio del Conte di Vallechiara, sarà poco più di un ragazzo. Ti sembra una cosa giusta che si innamori della regina?». La giovane mangiò il suo boccone di pane, quindi riprese a parlare. «Vuoi sapere la verità? No, non penso che sia una cosa giusta. Assolutamente no, sono d’accordo con te. Ma sono disposta a scommettere che quel babbeo, chiunque sia, non è migliore di lei, e questo perché è nobile, è ricco ed è per forza pieno di puzza sotto il naso. Sono tutti fatti così.» e scrollò le spalle una seconda volta, poi addentò il pane e continuò a parlare a bocca piena «Poi, che sia una cosa giusta o meno, è una cosa da farsi, se non vuoi che la regina ci cacci via entrambi o ci spicchi la testa dal collo». A quel discorso, Glosci il collo se lo massaggiò due o tre volte, prima di andarsi a sedere in un angolo. «Ad ogni modo, ora dovrai avvisarla che per preparare il filtro ci vorrà del tempo» disse, dimenando la coda. «Le farò avere una lettera. Devo farmi vedere a palazzo il meno possibile, altrimenti mi riconosceranno». Non fece che due passi, quindi scagliò un’occhiataccia al famiglio, come si accorse che fingeva di non guardare il piattino pieno di latte e focaccia. «Lascialo stare, Glosci.» gli intimò «Ti ho già detto mille volte che quello è per i f0lletti». «Quelli sono dei piccoli ricattatori.» bofonchiò «Non capisco perché senti il bisogno di accudirli». «Non accudisco un bel niente. Voglio solo tenermeli amici». «Blablabla. Begli amici, quei serpentelli». Linda posò il pane e rimase a fissarlo. «Ci tieni tanto a trovarti con la coda in fiamme, Glosci? O a svegliarti una mattina con i baffi tagliati?» gli chiese «Lo sai che lo fanno». «Ma gli aumenti sempre le razioni!» piagnucolò quello. 36


«E con questo?» la giovane fece un paio d’occhi grandi così «Non è che ti lascio senza, c’è latte per tutti qui dentro!». «Ma come ti aspetti che apra una bottiglia di latte da solo, con le manine che mi ritrovo?» e gliele mostrò, disperato. Linda sospirò, alzando gli occhi al cielo. «In parole povere, non vuoi che lasci qualcosa ai folletti perché tu non riesci a grattarmi il latte quando non ci sono? Bella ammissione, Glosci, per quanto velata». Senza aggiungere altro sull’argomento, comunque, stappò la bottiglia del latte con il pollice e ne versò un bicchiere per il famiglio. «Sbrigati, almeno, che devi aiutarmi a pensare a come riempire quella lettera. Anzi, sarà bene che ci mettiamo subito a scriverla» e detto questo si alzò, cominciando a gironzolare per la casetta per ricordarsi dove avesse lasciato le pergamene, la penna e il calamaio. La regina Viviana guardava con impazienza lo specchio, intanto che le damigelle le si aggiravano attorno per pettinarle i capelli, incipriargli le guancie e occuparsi delle unghie. A tratti storceva il viso in una smorfia stizzita, lamentandosi perché qualcuna, così diceva, le faceva male. Gerda stava in disparte e scuoteva la testa: non potevano farle male, riusciva ad accorgersene anche da lì. Viviana era tutto un fremito, si dondolava da una parte all’altra dello sgabello, incrociava le gambe finendo per urtare il mobile e si ritraeva prima che avessero finito di curare il suo aspetto, col risultato che, a dispetto della sua fretta, ci volle molto più del previsto perché fosse pronta. Una volta in piedi, si lamentò perché il busto era ora troppo stretto ora troppo lenteggiante, perché le pieghe della gonna rigonfia non la convincevano e l’alto collare le dava fastidio. Finì per infilarsi da sola i guanti di raso e raccogliere la corona come avrebbe fatto con uno straccio senza valore, calcandosela in testa con una sola occhiata verso lo specchio. 37


Nell’uscire dalla stanza, lasciò indietro tutte le damigelle, divorando il corridoio a lunghe falcate. Gerda le fu subito accanto. «Vi comportate come una pazza» la rimproverò a bassa voce. «La pazzia di una regina obbliga alla pazzia tutti i suoi sudditi» ribatté alla svelta Viviana, senza neanche guardarla. «Che maniera balorda di ragionare». «Finché sono io che comando, questa è la maniera più sensata di ragionare» e quasi correva, tanta era la sicurezza con cui avanzava, e Gerda dietro, che non accennava a mollarla un secondo. «È da scriteriati». «Dì pure innamorati. Lui mi aspetta giù! Non un attimo di più!». «Avete perso il lume». «Sia lode al santo nume!». «È il diavolo che vi tenta». «Neanche questo mi rallenta. Cupido segna la strada, ha scelto che io vada». «Usate criterio». «Non è adulterio». «Ma solo per poco». 38


«Ma come un fuoco». «Non deve capire». «Ne potrei morire». «Se solo intendesse». «Se solo s’arrendesse». «Sarebbe già la fine…». «Saremmo anime vicine…». «Tutto rovina nel niente…». «Librarsi sopra la gente…». «Oscuro e profondo». «In volo sul mondo!». «Siete troppo trafelata». «Dovrei darmi un’aggiustata?». «Qualcosina forse stona». «Ho messo male la corona?». «È stato il riflesso di un vetro». «Bisogna tornare indietro». 39


«Siamo a due passi dalle porte!». «Mi sento a un passo dalla morte!». «Contegno, mia regina, contegno! Quello che vi è più degno! Scansate la ciocca dal viso, provate un piccolo sorriso». «Mi sento imbarazzata». «Temuta ed ammirata! Fredda e distante, siete una regnante!». «Chissà perché mai ora vorrei esser la sua aurora, vorrei esser ricordata leggera come una fata». «La vostra guancia è rovente». «E la mia voce suadente». «Se togliete il tremolio». «Lui dovrà essere mio». «Con calma. Con calma».

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Viviana inspirò a fondo, chiudendo gli occhi e chinando il capo. Quando lo rialzò, fece gli ultimi metri e le guardie le aprirono le porte della sala del trono, dove venivano tenute le udienze. Riuscì a sentire le ultime parole del banditore che annunciava il suo arrivo e il rumore delle ginocchia che si piegavano per renderle omaggio. Non guardò che davanti a sé, in modo da avere davanti solo e soltanto il suo trono. Doveva sedersi, respirare l’aria che c’era solo lì, quando le mani si chiudevano attorno ai braccioli e la schiena trovava il più saldo degli appoggi. E rimase in silenzio per un attimo, col capo alzato. Nell’abbassarlo, colse prima Gerda, in piedi contro la parete opposta, poi gli scranni vuoti. Infine, proprio davanti a lei, il Conte di Vallechiara col figlio, ancora con la testa bassa, umilmente prostrati ai suoi piedi. Pur nella sua posizione, alla regina Viviana si spezzò il fiato. Guardava i riccioli neri di Aleandro a fatica: la spaventava non riuscir a vedere il suo volto, come se dal loro ultimo incontro potesse essere cambiato. Poteva essersi ingannata. Poteva aver travisato. Deglutì, strinse le dita e si fece forza. Aveva dimostrato di possederne in così tante situazioni che anche quella non sarebbe dovuta essere da meno. «Conte di Vallechiara, alzatevi. Siete il benvenuto.» disse, e le piacque la sicurezza della sua stessa voce «Lo stesso valga per vostro figlio» aggiunse quindi. Il Conte obbedì con solerzia; Aleandro, chiaramente meno abituato a un tale ricevimento, si mosse quando lo vide fare al padre, controllando ogni suo movimento. Era rimasto dietro a lui di un paio di passi, sia per rispetto che per essere certo di non commettere errori. La distanza non bastava certo a nasconderlo agli occhi di Viviana. Tale e quale a come lo ricordava, capace di farle battere il cuore all’impazzata più di quanto le fosse mai capitato nella sua vita. Adesso lo odiava, quel trono che le imponeva di restare così lontana da lui. Se l’avesse avuto vicino, non si sarebbe stancata di guardarlo, di osservare ogni particolare in lui, saziarsi la vista riempiendola solo della sua presenza. 41


«Mia regina, abbiamo risposto quanto prima alla vostra convocazione.» esordì il Conte, strappandola dai suoi sogni ad occhi aperti «Io e mio figlio siamo ai vostri ordini». Viviana spostò malvolentieri lo sguardo su di lui, ma ebbe l’accortezza di non farlo notare. Il Conte di Vallechiara, nonostante l’età ormai avanzata, era rimasto un bell’uomo, con un portamento che molti giovani cercavano invano di imitare, una barba ben curata e le membra ancora salde. La vita, però, gli era rimasta impressa sulla pelle: i capelli erano sbiancati, le rughe tracciavano profondi solchi sulla sua fronte e attorno agli occhi, che un tempo erano stati tanto brillanti quanto quelli del figlio. Non era un mistero che la morte della moglie, avvenuta da più di dieci anni, l’avesse segnato. Ad ogni modo, il Conte non avrebbe mai accettato di far sfoggio in pubblico della sua debolezza. «Il messo è tornato soltanto ieri, caro Conte. Non c’era bisogno di precipitarsi qui così in fretta.» disse Viviana, mostrando un tiepido sorriso «Anche una regina può attendere». «I miei obblighi verso la corona vengono prima di ogni altra cosa.» ribatté il Conte «Ci sono molti uomini che possono gestire gli affari delle mie terre in mia assenza». La regina si trattenne dal rispondergli. Stando a quel che si diceva, le casse della Contea di Vallechiara erano in perdita. Con la morte della moglie, il Conte sembrava aver perso la voglia di tirare avanti. Probabilmente, in sua assenza avrebbero tirato soltanto un sospiro di sollievo. «Il mio amato marito lodava molto la vostra lealtà, Conte.» disse dunque «Noto con piacere che il suo giudizio era esatto. Avete dato prova di valore e dedizione in molte altre occasioni». Proprio in quel momento, le porte si aprirono nuovamente. La principessa Elisabetta entrò nella sala col suo seguito di ancelle. Viviana fu lieta di vedere che avevano fatto un ottimo lavoro su di lei. Un lavoro duraturo, soprattutto. La principessa non era fatta per i ricevimenti: la annoiavano mortalmente. Capitava spesso 42


che finisse per disfare distrattamente l’acconciatura, togliendo un fermaglio qua e uno là, oppure rovinasse tutto il trucco attorno agli occhi per strofinarseli tra uno sbadiglio e l’altro. Stavolta le avevano raccolto i capelli color del grano in una treccia con cui al massimo avrebbe potuto giocherellare e le palpebre erano state appena schiarite in modo da far risaltare l’azzurro dei suoi occhi. Aveva una bella carnagione chiara, per cui il trucco, anche se sbavato, non si sarebbe notato poi molto. «Vi prego di scusare mia figlia. Ha l’abitudine di impiegare molto tempo per prepararsi.» disse Viviana al Conte, quindi invitò la figlia ad avvicinarsi «Elisabetta, questi sono il Conte di Vallechiara e suo figlio Aleandro». «Conoscete il mio nome, altezza?» domandò il giovane, un poco sorpreso. Viviana avrebbe voluto mordersi la lingua, ma lo stesso Conte le venne incontro, voltandosi velocemente verso di lui. «Porrai le tue domande a tempo debito, Aleandro, se ti sarà concesso.» gli rinfacciò «O forse la tua curiosità viene prima dei tuoi doveri verso la tua principessa?». Aleandro chinò il capo, facendo un passo indietro. «Avete ragione.» disse, accettando quel rimprovero «Vi chiedo scusa, padre». «Non è a me che devi chiedere grazia, ma alla tua regina.» e si volse verso Viviana, abbassando anch’egli la testa «Vi prego di scusarlo, maestà. Aleandro non ha una grande esperienza di ricevimenti». «Perdonate il mio ammanco, altezza» si affrettò a dire il giovane, inginocchiandosi nuovamente. Viviana rimase sul suo trono in silenzio per alcuni istanti. Da quando il periodo di lutto era finito, era stata adulata in tutti i modi, ma nessuno, tra tutti i nobili che si erano recati da lei per corteggiarla, aveva dimostrato la cortesia del Conte, né l’ubbidienza di suo figlio. Si alzò in piedi, scendendo con 43


attenzione i gradini posti dinnanzi al trono e si fermò di fronte ad Aleandro. Esitò, e non lo fece per reticenza al perdono, quindi stese la mano verso di lui. «Alzatevi» gli disse in tono benevolo, senza poter fare altrimenti. Aleandro sollevò il viso verso di lei e Viviana vi vide riflessa la stessa fermezza di suo padre. «Ho il vostro perdono?» le domandò, e mentre parlava la guardava fissa negli occhi. Viviana era senza fiato da una manciata di secondi. In quel momento, avrebbe acconsentito a qualsiasi sua richiesta. «Lo avete» rispose con fatica, e quando lui per rialzarsi posò la mano sulla sua, sentì un brivido ghiacciato correrle lungo la schiena. Aleandro si ritirò quindi nuovamente in segno di ossequio; Viviana non sapeva se ringraziarlo o meno. «Ora posso salutarlo anch’io, mamma?» chiese la principessa, con la sua solita aria inconsapevole. La regina si voltò di scatto verso di lei, riprendendosi di colpo. «Elisabetta!» esclamò, contrariata «Ti sembra questo il modo di comportarsi? Specialmente quando i nostri ospiti si rivelano tanto cortesi!». «Non abbiatevene così a male con lei, mia regina. La spontaneità è nelle fanciulle come i fiori su una pianta a primavera» la giustificò il Conte sorridendo. «Ecco, voi sì che siete molto caro.» fece la principessa ridendo, e gli porse la mano «Da dove avete detto che venite?». «Sono il Conte di Vallechiara, mia principessa» rispose, e si chinò per il baciamano. «Oh!» fece lei, e portò l’altra mano alla bocca fresca, rattristata «Mi dispiace molto per vostra moglie». Viviana serrò gli occhi con forza, diventando rigida come un bastone. Il Conte ebbe più o meno la stessa reazione. 44


«È… È passato tanto tempo, ormai» mormorò, e si vedeva come il pover’uomo soffriva a veder rispolverato un così brutto ricordo. «Oh, sì, saranno almeno dieci anni, no?» chiese la principessa, con la sua solita aria inconsapevole. «Elisabetta, forse è meglio se vieni a sederti al tuo posto e resti in silenzio» disse Viviana, inghiottendo la sua rabbia. «Va bene, va bene. Ho capito» e per tutta risposta si diresse verso le sue ancelle. Sotto lo sguardo stupito di tutti, si fece dare un cuscino, lo posò sul trono di fianco a quello della madre e ci si sedette sopra con espressione sollevata. «Non immaginate quanto sia scomodo questo trono» disse per spiegarsi. «Molti regnanti hanno detto la stessa cosa, nei secoli passati» ribatté Aleandro, scherzando. «Allora mi domando perché non li facciano ancora come si deve» borbottò Elisabetta, senza capire l’allusione. «Come stavamo dicendo poc’anzi,» riprese la regina, tornando sul proprio trono per troncare la questione «i vostri meriti, Conte, sono al di sopra di quelli di chiunque altro». «Vostra altezza esagera.» ribatté il Conte di Vallechiara «Servo solo come si conviene ad ogni suddito della corona». «No.» replicò velocemente Viviana, sollevando una mano «No, caro Conte. Conoscevo i nobili di questa corte uno per uno già quando era il mio povero marito a governare il regno e, credetemi, da quando gli sono subentrata mi rendo conto di come stiano veramente le cose qui dentro. La lealtà di tutti loro è dubbia». «C’è forse un traditore?» domandò il Conte, allarmato. Viviana rimase in silenzio alcuni secondi, prima di rispondere. Era uno spunto su cui riflettere, in futuro. «Chi può dirlo? La loro fedeltà deriva dalle ricchezze che concedo loro di possedere. Non potrò mai escluderlo, purtroppo.» scosse 45


piano il capo con un sospiro debole «Sono solo una donna, in fondo. Per di più vedova». «Mia regina,» il Conte si inginocchiò di nuovo davanti al trono, col viso fieramente sollevato «la vostra guida è stata ammirevole, da quando il buon re ci ha lasciati. Il regno non avrebbe potuto sperare in meglio, e se da parte mia potrò fare qualcosa per servirvi, non avete altro che da chiedere, per avere il mio braccio a vostra disposizione». «Sapevo di poter contare sul vostro appoggio, Conte.» Viviana sorrise, invitandolo con un gesto a rialzarsi «Siete un uomo onorevole. Ma un uomo lontano.» e si fece seria «Vallechiara è una delle terre più distanti e, per quanto so che vi presentereste con la massima puntualità al mio cospetto, come avete fatto oggi, non è il posto per un uomo come voi. Né per vostro figlio». Il Conte apparve sgomento fin dal primo istante e rimase senza parole; Aleandro, dietro di lui, gli lanciava di continuo sguardi preoccupati. «Ho deciso di invitarvi entrambi a palazzo, così che possiate essere di esempio per tutti gli altri cortigiani» annunciò la regina. «Maestà, io-» provò a protestare il Conte. «Naturalmente, ricoprirete un ruolo degno della vostra onesta persona perché, credetemi, essere onesto, in un mondo come quello in cui viviamo, significa essere qualcuno scelto in mezzo a diecimila.» proseguì Viviana, imperterrita «Sarete il mio alto siniscalco. Presiederete ad ogni udienza ed il vostro consiglio sarà il primo di cui terrò conto». «Altezza, io non posso che esserne onorato.» replicò il Conte, agitato «Ma non sono un uomo di stato: non riuscirei a tener testa a tutte le questioni del regno». «Ma lo siete stato.» la regina si alzò dal trono, allontanandosi di qualche passo «So come vi sentite, ma so anche che genere di uomo siete. Anzi,» e si voltò verso di lui «lo ricordo. La vostra 46


mente è brillante tanto quanto il vostro cuore. A chi dovrei affidare l’incarico, se non a voi?». Il Conte rimase in silenzio a lungo, con la fronte corrucciata e le labbra strette. «E le mie terre? Che ne sarà di esse?» domandò, malinconico. «Le faremo gestire ad un uomo di vostra fiducia, ma egli non sarà nominato Conte di Vallechiara.» rispose la regina «Quel titolo apparterrà a voi e si trasmetterà, quando sarà il tempo,» girò il capo verso Aleandro, attenta a modulare ogni sfumatura del proprio tono di voce «a vostro figlio». Aleandro fece del suo meglio per nascondere lo smarrimento. «Proprio per questa ragione,» ribatté il Conte «preferirei che mio figlio restasse a Vallechiara e lì venisse istruito per governare le terre che gli appartengono per lignaggio». Viviana guardò il giovane con attenzione: sentiva il proprio respiro gonfiare il petto con vigore, fino a quando le dita non le tremarono. «Questo non posso permetterlo» rispose, tornando con un certo sforzo sul Conte. «Il ragazzo non è pronto per una vita di corte!» insistette quello. «Neanche voi lo siete.» replicò Viviana, stavolta con durezza «Vostro figlio è quanto avete di più caro, non è un segreto per nessuno. Pensate che potreste assolvere appieno al vostro compito, senza la sua vicinanza? Quanto a lui, avrà modo di imparare più a palazzo che in qualsiasi altro luogo.» si zittì per un secondo, quindi addolcì l’espressione del viso e si avvicinò al Conte, prendendogli delicatamente una mano nelle proprie «Vi prego, caro amico. Questo regno ha bisogno di voi, adesso. Questo fardello è così pesante da portare per una donna sola… Sono certa, Conte, che mio marito sarebbe d’accordo con me nel farvi una simile proposta che so bene, credetemi, cosa significhi per voi». Il Conte di Vallechiara rimase fermo, con le labbra appena dischiuse e gli occhi stanchi, pieni di compassione. La sua cortesia 47


gli impediva di non ascoltare la richiesta di una donna che, per di più, era anche la sua regina. Per la sincera amicizia che l’aveva legato al defunto re, poi, avrebbe dato volentieri la sua vita. «Se questo è il vostro volere» mormorò, chinando il capo. «Lo è. Non c’è niente che desideri di più» e come involontariamente distolse lo sguardo dal Conte, per posarlo su Aleandro. «Mia regina!» si sentì esclamare in quel momento dall’altro lato della sala. Un messo era stato introdotto nella stanza: recava nella mano una busta sigillata che teneva bene in mostra. Fece qualche passo e si inchinò, restando molti metri dietro a tutti gli altri presenti. «Che cosa c’è?» domandò Viviana, seccata «Non è questo il momento per occuparsi della corrispondenza». «Chiedo venia, altezza, ma mi è sembrato opportuno consegnarvi questa particolare lettera quanto prima» si scusò il messo. «E cosa avrebbe mai di così importante? Oh, insomma, portamela qua e basta» gli ordinò, tornando a sedersi sul trono. Il messo si affrettò a rialzarsi e a consegnarli la busta, quindi restò fermo accanto a lei in attesa di altre disposizioni. Viviana prese la lettera e se la rigirò tra le mani, esaminandola. «Non conosco questo sigillo.» ammise, guardando il simbolo che era stato impresso con la cera sulla busta «Da dove viene?». Il messo si chinò per sussurrarle di chi si trattasse; Elisabetta, che fino ad allora era rimasta buona, con lo sguardo perso chissà dove, riaprì gli occhi di scatto. «La strega rossa?» disse ad alta voce, fissando la madre sbigottita ed emozionata. Viviana fu sul punto di stritolare la busta senza nemmeno leggerla. «La strega rossa!» ripeté stupito il Conte «A Vallechiara c’è chi dice che sia solo una leggenda. Dunque esiste davvero». 48


«Ma se ha persino una casetta appena fuori dalle mura.» disse Elisabetta «In città lo sanno tutti dove abita, però è sempre così affascinante, non trovate? La magia, gli incantesimi, tutte quelle cose lì…». «Ma chi è questa strega rossa?» domandò sottovoce Aleandro al padre, curioso. «Una fattucchiera al servizio del re. Secondo la leggenda, esiste da secoli ed i suoi poteri hanno aiutato il sovrano durante i periodi più caotici. La grande peste del secolo scorso, le guerre che sono state combattute, le terribili siccità che si sono susseguite: la strega rossa avrebbe salvato la nostra gente attraverso infinite ere. Senza di lei, si dice, niente di quello che conosciamo esisterebbe ancora.» e alzò un dito, guardando il figlio con severità «Ma tu guardati, Aleandro, da una donna che traffica con gli spiriti e i demoni. Se la regina vi ha ricorso, non sta a noi indagare perché l’ha fatto, perché sicuramente non avrà potuto fare altrimenti». «Proprio per questa ragione,» fece Viviana, a denti stretti, mentre si faceva nervosamente vento con la busta «gradirei che questa informazione non trapelasse. Potete immaginare cosa penserebbero gli altri nobili, se si venisse a sapere in giro». «Potete star certa che nessuno di noi parlerà.» le garantì il Conte «Ora comprendo perché avete chiesto con tanta insistenza di avermi a corte, mia regina, e potete star tranquilla che avete la mia approvazione. Stando così le cose, anzi, ripartirei subito per Vallechiara, così da raccogliere i miei averi più stretti ed essere al più presto al vostro servizio». Viviana rimase come pietrificata, con la lettera in mano e gli occhi un poco sbarrati. «Oh, certo, certo.» si riprese quindi, annuendo «È una situazione… Tragica, ecco. Non c’è proprio alternativa». «Con il vostro permesso, allora…» e si inchinò, per essere imitato con prontezza dal figlio. 49


La regina era troppo scossa per poter rispondere qualcosa; in silenzio, li guardò allontanarsi assieme, mentre un goccia di sudore le scivolava sulla tempia da sotto la corona. «È veramente una cosa incredibile» disse Aleandro, quando furono fuori dalla sala. «Dì pure allarmante, figliolo» ribatté il padre con serietà. «E quella strega rossa.» continuò il giovane «Non ne avevo mai sentito parlare». «Trattieni la tua curiosità, Aleandro.» lo mise in guardia il Conte «Noi siamo solo uomini, ricordatelo: è pericoloso confrontarci con un essere che vive forse dagli albori del tempo, il cui potere è capace di mutare i cieli e le sorti di una battaglia, facendo piovere fuoco e sangue dalle nubi. Dai retta a me, figlio mio: non c’è niente che dovrebbe spaventarti di più di una creatura nata in grembo al Diavolo stesso!». «No, due volte al giorno. Una dopo ogni pasto» disse Linda, sollevando un paio di foglioline una per una. La donna davanti a lei le seguiva con gli occhietti socchiusi e la bocca aperta, confusa. «Cosa c’è che non hai capito, ora?» chiese la giovane. «Cos’è che devo fare con quelle foglie lì» rispose l’altra. Linda alzò gli occhi al cielo: era una bella giornata, cominciata col sole, il buon umore, eppure qualcuno là in alto si divertiva a tartassarla con i paesani più ottusi che si potessero trovare in giro. «Le mastichi o le triti e le butti giù con un bicchier d’acqua.» le spiegò, paziente «È solo un’erba per profumare l’alito. Chiedi pure a chi vuoi, ce ne sono alcuni che se la colgono da sole». «Ah, ecco, è proprio quello che mi serviva.» fece la donna, attenta «Sai, mio marito non fa altro che lamentarsi. Dice che gli sembra di dormire col guardiano dei maiali». 50


«Certo che potrebbe anche girarsi dall’altra parte» borbottò Linda, porgendole le foglie. «È quello che gli ho detto anch’io!» disse l’altra, toccando quasi con riverenza le foglie che aveva sulla mano «Beata te che sei ancora giovane e non ti devi preoccupare degli uomini. E, ah, piccolina…» la prese per un braccio con la mano libera, facendosi più vicina «Non è che potresti farmi un altro favore?». «Tutto quello che vuoi, purché tu non mi stia così vicina.» disse, turandosi il naso «Accidenti, tuo marito ha proprio ragione, però». «È per mio figlio.» bisbigliò la donna, senza spostarsi di un centimetro «Hai sentito che è morto quello che curava il terreno della quercia vecchia?». «Certo, ci ho parlato giusto l’altra sera.» rispose con naturalezza, per schiarirsi la voce un attimo dopo, davanti agli occhi sgranati della donna «Sì, coi suoi parenti, intendo». «Ma non era solo come un cane?» bofonchiò l’altra. Linda si guardò intorno in cerca di una via di fuga. «Beh, insomma, ho parlato con quelli che credevo fossero i suoi parenti.» disse con un gran sorriso «Saranno stati… Non so, lontani conoscenti. Ma dimmi cosa ti serve, su». «È che, sai com’è… Ora quel terreno non ha più nessuno che se ne occupi… Oh, per farla breve!» e si sporse di nuovo verso la giovane, sussurrandole all’orecchio «È per il posto di soprastante». «Beh, bisognerebbe parlare col proprietario, immagino» ribatté piano Linda, ritraendosi. «No, no, per quello è già tutto sistemato! È che io pensavo a qualcosa come…» e si soffermò qualche secondo a cercare la parola «Un aiutino. Un piccolo incentivo, sai, giusto per convincerlo che è il ragazzo giusto». «Ah, quello». 51


«Sì, quello! Una spintarella, magari… È un figliolo valente, sarebbe proprio il lavoro che fa per lui». «Qualcosa posso fare, sì.» disse Linda, pensandoci su «Un piccolo rituale, devo solo aspettare la Luna giusta. O un talismano, qualcosa da portare sempre addosso». «Ecco, un talismano.» concordò subito la donna «Così se lo mette al collo. Meglio che… Che un rituale, come hai detto tu. Sai, non vorrei offendere nostro Signore, mi capisci…». «Massì, massì, sta tranquilla.» la rassicurò la giovane «Devo prepararlo, però. Ne ho un’infinità in casa, ma non ce n’è mai uno come serve, ogni volta. Non mi ci vorrà molto. Ti avviso che non faccio ancora miracoli, però». «Oh, non fa niente, qualcosa farà, ti conosco!» gioì la donna, congiungendo le mani e guardando in viso la ragazza «Sei una brava bambina, Linda. Ma devi avere lavoro fin sopra i capelli, poverina! Veniamo tutti quanti da te!». «Non me ne parlare, di questi tempi sono veramente esasperata.» ribatté la strega «Hanno chiesto di me persino a palazzo». «A palazzo?» fece l’altra, sbalordita. «Altroché!» rispose Linda, ed era già lì lì per vuotare il sacco, quando avvertì qualcosa di piccolo e peloso graffiarle una caviglia con una zampetta. Abbassando gli occhi, vide Glosci che la fissava con aria contrariata. «Ma non posso dirti di più, proprio no, mi spiace.» si affrettò a dire, chinandosi per prendere in braccio il famiglio «Sai come sono i pezzi grossi». La donna annuì brevemente, osservando con scetticismo lo strano incrocio di creature che la fissava sospetto dalle braccia della strega. «A proposito, ho sentito che ne sono arrivati un paio di nuovi» disse, e non ci voleva un genio per capire che moriva dalla voglia di spettegolare. 52


«Stranieri?» domandò Linda. «No, un Conte che era già stato a corte, mi pare. Da Vallechiara.» disse, saettando occhiate verso il palazzo in lontananza «È venuto per fare il siniscalco e si è portato dietro il figlio. Un ragazzo che avrà più o meno la tua età. Lo conosci?». La giovane rimase in silenzio, fissando il viso della donna senza muovere un muscolo. Ci volle una debole manata di Glosci per farle capire che lo stava soffocando. «No.» rispose infine «Mai sentito parlare. Ti preparo il talismano quanto prima, d’accordo? Devo… Devo tener d’occhio la zuppa». «Ma certo, cara, certo.» acconsentì l’altra, tutta allegra «Ti porto un po’ della ricotta che facciamo, la devi assolutamente sentire. Non ne assaggerai mai una più buona». «Ne sono sicura» fece a denti stretti Linda, indietreggiando verso la porta di casa. «Le foglie allora le mastico? Due volte al giorno?». «Una per pasto». «Una per pasto, sì. Grazie, piccolina, anche a nome di mio figlio. Passa a trovarci, qualche volta, magari quando anche lui è in casa. È un così bel ragazzo!». «Non mancherò» ribatté brevemente la giovane, aprendo la porticina. Come se la richiuse alle spalle, ancora curva per passare, tirò un sospirone. Glosci non perse tempo a saltar giù a terra. «La peggior malalingua di tutto il regno.» disse, infastidito «Vorrebbe persino che tu andassi a trovarla, sperando che ti invaghisca di suo figlio solo perché tu possa prepararle tutti gli infusi possibili e immaginabili per i calli, la sciatica e l’alito cattivo. E tu stavi per andarle a dire che lavoriamo per la regina. Non ti piace proprio tenerti la testa sul collo». «Piantala, sei un famiglio e devi tenermi d’occhio.» lo rimbrottò Linda «Piuttosto, hai sentito? La regina l’ha già mandato a chiamare». 53


«Assieme al padre.» aggiunse Glosci «Quella donna non ha proprio alcun ritegno». «L’importante è preparare il filtro in tempo.» tagliò corto la giovane «Il sangue di biscia l’ho raccolto, adesso bisogna aspettare che sia pronto per essere utilizzato. Riguardo a quel tonno che piace tanto alla regina, speriamo solo che non sia uno stolto, perché una volta che avrà bevuto il filtro ho paura che ce lo troveremo tra i piedi di continuo». Tempo dopo il tonno in questione, assieme al padre, faceva anticamera in attesa che la regina fosse nuovamente pronta a riceverli. Era stata preparato per loro un comodo alloggio proprio nelle vicinanze della sala del trono, provvisto di più servitori di quanti ne avessero bisogno. Viviana voleva che i suoi ospiti avessero la miglior sistemazione possibile e, soprattutto, fossero sempre a sua disposizione nelle immediate vicinanze. Aleandro, tuttavia, rimpiangeva Vallechiara e la sua libertà; anche suo padre sembrava pensarla come lui, ma i doveri verso la corona erano per lui vincoli sacrosanti. Per quanto avrebbe preferito tornare nella sua terra, tra la sua gente, sarebbe stato disposto a sacrificare ogni cosa per il bene del regno. Aleandro, che era molto obbediente al padre, accennava solo di rado al suo malcontento e si teneva nel cuore la propria nostalgia, senza farne parola con nessun altro. Era quasi ora di cena. Affacciandosi a una finestra, si potevano scorgere i camini fumanti delle case e, anche da lì, respirare il profumo degli umili pasti che venivano cucinati. Lo stomaco di Aleandro rispondeva rumorosamente a quegli odori: il suo nobile rango non era bastato a inculcargli il disprezzo per la vita semplice del popolo. Né a lui né a suo padre. «A questo punto c’è da aspettarsi che discuteremo con la regina a tavola» disse il Conte, in piedi davanti alla porta. Aleandro si voltò a guardarlo, senza togliersi dalla finestra. A lui più che ad ogni altro era evidente la mutazione che aveva avuto 54


suo padre, da che erano arrivati a palazzo. Si era fatto più serio, più cupo: il ruolo che gli era stato conferito l’aveva turbato, anziché rallegrarlo. Il Conte, lontano dall’immaginare la vera ragione della sua convocazione, temeva che la stabilità del regno fosse in pericolo e lo inquietava il fatto che la regina non l’avesse ancora messo al corrente di quale pericolo si trattasse. A differenza del figlio, che era molto meno abituato alle consuetudini della vita di corte, non si sarebbe però mai azzardato a chiederle esplicitamente cosa non andasse. Dunque si preoccupava soltanto di eseguire i compiti che gli venivano imposti e di rispondere con prontezza alle richieste della regina. Aleandro provava per lui un senso di apprensione e profonda pena. «Mi piacerebbe sapere qualcosa di più su questa regione» annunciò, per spostare altrove il discorso. Suo padre girò la testa per guardarlo. Anch’egli si era accorto di come il figlio non si trovasse bene e se ne doleva, ma gli ordini erano stati tassativi: Viviana voleva che Aleandro restasse a palazzo. «Questo posto non è Vallechiara» replicò allora, per scoraggiarlo. «È molto più grande.» ribatté il giovane «Tutto quello che posso fare è solo vederlo attraverso questa finestra. Anche quando siamo arrivati qui, non ci siamo fermati nemmeno per un attimo. So che non potevamo tirarci indietro alla chiamata della regina, ma ho visto questi luoghi e questa gente solo di sfuggita, come un ladro che scappa. A Vallechiara avevo modo di scendere in paese, di parlare con gli uomini e le donne che ci servono». «La gente di qui non è la stessa che vive nella nostra terra» lo ammonì il Conte. «Voi credete, padre mio? Io penso invece che non scoprirei grandi differenze tra la brava gente di qui e quella di Vallechiara». «Siamo molto lontani da casa e parecchie usanze di questo luogo ci sono estranee, talune persino avverse: esse influiscono molto 55


sul carattere delle persone, le rendono diverse da come ce le aspettiamo». «Non posso saperlo, se non esco da queste stanze e non imparo a conoscerli. Da che siamo qui, non ho mai avuto modo di allontanarmi dal palazzo». «Questo luogo ti opprime solo perché ti senti ancora uno straniero. Presto stringerai le amicizie che ti permetteranno di restare senza sentirne il peso: ti aiuteranno loro ad ambientarti». «Dame, cortigiani, nobili di alto lignaggio… Certo, è un gran viavai. Ma quanti di loro sono affidabili? Quali pronunciano parole sincere? Perdonatemi, ma sento la mancanza della compagnia che mi offriva la gente modesta di Vallechiara. Non foste forse voi a indirizzarmi verso di loro, a dirmi di avere più fiducia in un contadino che in un ricco signore? Il vostro insegnamento mi è rimasto impresso, lo porto sempre con me. Anche in questo luogo». Il Conte sospirò e chinò il capo. Lentamente, si mise infine a sedere su una poltroncina e congiunse le mani, chino in avanti. «Sai bene che non avrei voluto portarti con me, Aleandro: questo è il palazzo degli intrighi e dei complotti, delle maschere e delle falsità. Ed è vero, trovare un amico degno tra queste mura è un’impresa ardua, a dispetto di quello che sembra. Ricorda sempre: nulla qui è come sembra e ci sono pugnali nei sorrisi degli uomini». «A maggior ragione lamento la lontananza della nostra terra e invidio la povera gente che posso solo scorgere da questa finestra. La loro vicinanza mi rinfrancherebbe». Il Conte alzò di nuovo lo sguardo su di lui e lo valutò in silenzio. La somiglianza tra padre e figlio era evidente persino ai loro occhi, chiara e lampante. Sapevano di essere in sintonia tra loro, di condividere le stesse idee. Raramente capitava loro di essere in disaccordo. 56


«Cercherò di inventarmi qualcosa per farti uscire dal palazzo.» disse, incapace di negargli ciò a cui lui stesso ambiva «Conosco alcuni affezionati servitori che sarebbero disposti a coprirti». Aleandro si allontanò dalla finestra per correre incontro al padre. Lo ringraziò calorosamente e si chinò per baciargli la mano, ma il Conte gli intimò di fermarsi con un gesto autoritario. «Non più di un paio d’ore.» aggiunse severo «È bene che tu tenga di più ai tuoi doveri che ai tuoi desideri». «Saprò farmele bastare.» ribatté il giovane, rialzandosi «La vostra concessione è più che generosa: attenderò la giusta occasione senza scalpitare e farò tesoro del tempo che avrò a disposizione senza abusarne». «Taci, ora. Arriva qualcuno». Si udì infatti bussare alla porta: il maggiordomo invitava il Conte e Aleandro a prendere posto in sala da pranzo. La regina e la principessa, disse, li avrebbero raggiunti entro poco. Elisabetta in realtà era ancora nelle sue stanze, con un nugolo di damigelle che le ronzavano attorno: chi le sistemava i capelli, chi le unghie, chi si preoccupava del colorito delle sue gote, chi che il suo naso non brillasse e chi se ne stava in piedi a leggerle ad alta voce uno struggente romanzo d’amore che la principessa ascoltava con un orecchio solo. Neanche Viviana era puntuale, dal momento che proprio in quel momento irruppe, da sola, nella camera della figlia. Tutte le damigelle interruppero il proprio lavoro all’unisono. «Uscite» ordinò la regina, fermandosi appena oltre la soglia. «Sono pronta in un secondo, mammina» disse subito Elisabetta, vedendola riflessa nello specchio davanti a sé; le fanciulle che la assistevano le rivolsero un’occhiata preoccupata. «Ho detto “uscite”.» ripeté Viviana «Lasciateci sole». «Oh, mamma, solo un secondo!» protestò la figlia, girandosi sulla sedia «Voglio sapere se coso, qua, si sposa.» e alzò il viso verso la 57


damigella col libro aperto in mano «Com’è che si chiamava lui? Il cavalier Panzerotto?». «Fuori di qui, prima che vi faccia frustare tutte!» scoppiò la regina, indicando la porta. Le dame di compagnia mollarono ombretti, smalti e romanzetti d’appendice e uscirono una dopo l’altra, in un turbine di gonnelle tenute alzate per affrettare il passo. L’ultima, con accortezza, badò bene di richiudere la porta. «Devi sempre essere così triviale?» borbottò la figlia, avvicinandosi allo specchio col viso «Ora guarda che bel risultato: sono orrenda. Una via di mezzo tra una nobildonna imbellettata e una pecoraia». «Devi sempre essere così ottusa?» la rimbeccò Viviana, decidendosi ad andarle incontro «Non sarai mai né l’una né l’altra, col cervello che ti ritrovi. Che bisogno hai di tutte quelle sciocchine che ti stanno attorno come avvoltoi?». «Sta per partire un’altra predica?» fece Elisabetta, sbuffando e cominciando a sventolarsi con uno sgargiante ventaglio di piume. La regina strinse i pugni e chiuse gli occhi, obbligandosi a restare calma. «Sono soltanto venuta a dirti che voglio - anzi, pretendo - che per una volta tu ti comporti come si deve.» disse, a denti stretti «Non accetterò di essere messa ulteriormente in imbarazzo da te». «In imbarazzo?» la principessa sgranò gli occhi «Che ho fatto?». «A che cosa servirebbe se te lo dicessi? Tanto tra due minuti te lo sarai già scordato». «Uffa, ma se non mi dici dove sbaglio io come faccio a comportarmi meglio? Non sei mai chiara». Viviana si passò una mano sugli occhi, inspirando profondamente. «Elisabetta, questi sono ricevimenti importanti.» provò a spiegarle «Ogni cosa che tu dici può mutare le sorti di tutto il regno». 58


«Addirittura?» chiese la figlia, sbalordita. Viviana tirò un sospiro. «Sì, addirittura.» rispose, scocciata «Quindi mi aspetto che tu sia conforme al tuo regale ruolo. Che tu sia all’altezza delle aspettative che ogni cortigiano ripone nella tua autorità che d’altra parte, fatta eccezione per me, è pur sempre indiscussa. Ognuno dei nostri sudditi, dal nobile al popolano, deve sentirsi pienamente rispecchiato nelle tue parole e nel tuo agire. Capisci?». Elisabetta teneva le sopracciglia alzate, le labbra dischiuse. Dopo qualche secondo, scosse silenziosamente il capo in segno di diniego. La regina cominciò a tremare dalla testa ai piedi e alzò gli occhi al soffitto. «Pensa almeno tre volte a quello che stai per dire, quando saremo di là!» esplose di nuovo «Pensaci una volta, un’altra e poi un’altra ancora! Devi essere sicura che quello che dici non sia una stupidaggine delle tue!». «E se alla terza volta non sono ancora sicura?» domandò Elisabetta, allarmata. «Allora sta zitta!». La principessa rimase come paralizzata, con la bocca stretta, girata per metà sul suo sgabello. Giocherellò con le dita a vuoto per prendere coraggio. «Non è che posso restare qui, allora?» le chiese, speranzosa. «No.» ribatté seccamente sua madre «Sei una principessa, anche se hai il senno di una mula». «Ma dove sta scritto che le principesse devono annoiarsi ai ricevimenti con funzionari, tesorieri e nobili pancioni? Io volevo andare a cavalcare, oggi». «Sta scritto… Non importa dove sta scritto! Lo devi fare, punto e basta!». «Io lo voglio vedere scritto da qualche parte, altrimenti non vengo». 59


Viviana si trattenne dal saltarle addosso e strangolarla. «Elisabetta…» cominciò, a denti stretti. «Scusa, ma se non è scritto da nessuna parte, mamma» e si girò verso lo specchio per non doverla guardare. «Elisabetta». «Se fosse scritto da qualche parte, tipo su un librone, potrei tenerlo qua in camera, così saprei sempre cosa deve fare una principessa». «Elisabetta, insomma, vedi-». «Elisabetta-vedi-di-dar-retta, Elisabetta-vedi-di-dar-retta» cantilenò la figlia, dondolando la testa da una parte all’altra. Viviana, con la vena gonfia sul collo e in mezzo alla fronte, non si sarebbe trattenuta un attimo di più. «Va bene, va bene, ci vengo.» disse però la principessa, dimenando la treccia con una mano «Ma sappi che a me quel Conte non mi piace proprio. È troppo vecchio per essere interessante». La regina si rigirò sui tacchi con un diavolo per capello. «Mi basta che tu non dica niente, chiaro? Niente!» le ingiunse, con le dita delle mani aperte dal nervosismo «Se stai zitta, per una volta le cose andranno lisce come si deve». Viviana aveva messo mano, per quell’occasione, ai tesori più cari che possedesse: una collana di luminosi diamanti, anelli di fattura finissima, frutto del lavoro dei migliori orefici del regno, e dei sottili e provocanti orecchini di rubino. Ogni gioiello era stato pensato per lei, per mettere in risalto quella bellezza che non era ancora sfiorita, il viso ancora scevro di rughe, il collo liscio, da cigno. Aveva indossato un abito bellissimo, che al contempo non sarebbe apparso sgargiante; si era affidata alle mani esperte di Gerda per il trucco solo perché le proprie insistevano nel tremare, ma aveva guidato passo passo ogni minima sfumatura che veniva deposta attorno ai suoi occhi, sulle sue guancie, sulle labbra 60


tiepide. Si era adoperata perché tutto, a partire da lei stessa, fosse perfetto. L’idea di non arrendersi, né alla vecchiaia né a nient’altro, la spingeva a voler affrontare la fonte del suo affanno. Infinite volte aveva fantasticato sulle possibilità di averlo per sé senza bisogno di alcun filtro, di incantarlo soltanto con le sue grazie: sarebbe stata una vittoria impareggiabile, al di sopra qualsiasi convenzione. Al di sopra, persino, della magia stessa. Ma Aleandro non coglieva alcuna allusione, nessun richiamo, neanche quando la regina osava una posa ammiccante, più esplicita di quanto richiesto. Tutte le meraviglie con cui aveva adornato il proprio corpo non avevano sortito altro effetto che quello di aumentare le distanze tra lui, giovane ancora ineducato ai vizi come ai privilegi della nobiltà, e lei, così padrona del proprio ruolo di sovrana. Si era spaventato. Viviana gli leggeva nello sguardo un evidente senso di smarrimento, di inadeguatezza. Nulla a che fare con l’inadeguatezza di Elisabetta, ad esempio, eccetto quella comune incapacità di rendersi conto della situazione. Quando tutto era così palese, eppure, e Viviana si domandava come quei due ragazzi potessero non capire, ignorarla sino a quel punto. Per timore, l’uno, e per stupidità, l’altra. La capacità di Elisabetta di non riuscire mai a intuire niente la sgomentava: la portava a chiedersi in che modo qualcuno avrebbe potuto sopportarla. Eppure come riuscivano a parlare tra di loro, quei due, separati dalle questioni di cui lei doveva discutere col Conte. Solo perché in possesso dell’unica cosa che Viviana non avrebbe potuto riottenere. Solo perché giovani. La regina faticava ad ascoltare le parole del Conte, anch’egli ignaro, tutto preso dal suo compito, col cinguettio sottovoce tra Aleandro ed Elisabetta. Storie di cavalli. Si raccontavano storie di cavalli. Mentre il Conte passava in rassegna le spese per il mantenimento dell’esercito e la costringeva a prestargli almeno un briciolo di attenzione, nonostante Viviana volesse implorarlo ad ogni secondo di tacere. Era sola, sola come non lo era mai stata 61


in nessun momento della propria vita. D’un tratto, si accorse che Elisabetta la stava chiamando da alcuni secondi. Si voltò verso di lei, senza riuscire nemmeno a sembrare infastidita. «Mamma, ma ce l’hai portato tu quel mantellaccio lì in sala da pranzo?» le domandò la figlia, indicando la parete di fronte a lei. Viviana alzò gli occhi con aria confusa riconoscendo all’improvviso una vecchia cappa di un rosso sgargiante contro il muro. Per qualche ragione, non riuscì a spiccicare una parola quando questa si mosse. «Buon Dio, non siamo soli!» esclamò allarmato il Conte di Vallechiara, girandosi sulla sedia. Viviana si sentì quasi mancare per lo sfinimento. Si sorresse la fronte con una mano, chiudendo gli occhi, mentre attorno a lei la sala precipitava nel caos e tutti quanti saltavano in piedi. La strega rossa restava ferma dov’era, con il bastone in mano e il cappuccio abbassato sul viso. E Linda, sotto di esso, si sentiva morire di vergogna. La regina risollevò la testa come un automa, con gli occhi spiritati. «Gerda!» cominciò a gridare, senza ancora staccarsi dal tavolo «Gerda! Vieni qui, Gerda!». «Ma non sarebbe più saggio chiamare le guardie?» obiettò il Conte. «Gerdaaaa!» si sgolava Viviana, reclinando il capo all’indietro. «Oddio, la mamma dà i numeri. Il cerusico, occorre il cerusico!» fece la principessa, portando una mano alla bocca e indietreggiando di qualche passo, sino a finire contro Aleandro. «Gerdaaaaaa!». Quando finalmente la domestica accorse trafelata nella stanza, rimase ferma per un attimo a guardare senza capire la smorfia indicibile nel quale si era trasformato il viso della regina. Solo successivamente si accorse della presenza della strega rossa. I capelli le si rizzarono sulla testa e il viso le impallidì di botto, ma si mosse quanto più velocemente possibile per andarle incontro. 62


Linda raddrizzò al meglio la testa sotto quel cappuccio troppo grosso per lei e già si stava schiarendo la voce, quando Gerda la afferrò per un braccio, tirandola in disparte come si sarebbe fatto con un animale molesto o un bambino pestifero. «Volevo solo-» cominciò a dire, senza un gran successo. «Di qualunque cosa si tratti, non potevate presentarvi in un’altra occasione?» sibilò a denti stretti Gerda, con la testa piantata nelle spalle. Linda si passò la lingua sulle labbra, senza riuscire a spiccicare parola. Alzò appena il viso, come se la stessa domestica potesse cavarla d’impaccio, e Gerda alzò un sopracciglio non appena scorse il bagliore di quel viso giovanissimo dalle guancie rosse d’imbarazzo. «È per via del filtro?» le domandò la donna, piegando il capo. Linda annuì con entusiasmo. «Ho tutti gli ingredienti.» rispose, e nella sala si era fatto un tale silenzio che chiunque riuscì a sentirla «Basta aspettare la luna giusta. Ho pensato che sua altezza volesse esserne informata.» e indicò con un dito la regina, che dal suo posto le lanciò una saetta dagli occhi «Sapete, con questa gente facoltosa non si sa mai come rapportarsi». Gerda rivolse uno sguardo a Viviana, riuscendo miracolosamente a non farsi scappare neanche mezza risatina. «Ah, ma adesso ho capito!» quasi urlò un istante dopo Elisabetta, con gli occhi illuminati da un presunto colpo di genio «È la strega rossa!». Viviana crollò a faccia in giù sul tavolo - e nessuno la considerò. «Santissimo Iddio!» fece infatti il Conte, portandosi una mano al cuore «La strega rossa! È lei!». «La strega rossa» ripeté a voce più bassa Aleandro. «Ma da cos’è che se ne accorgono tutti?» bisbigliò Linda all’orecchio di Gerda. 63


«Per tutti i santi!» continuò il Conte, voltandosi verso la regina «La situazione deve essere dunque veramente drammatica». «Non immaginate quanto» replicò Viviana, senza neanche risollevare la fronte. «Oh, io la trovo una cosa molto affascinante, invece.» commentò Elisabetta, battendo assieme le mani un paio di volte «Sapete fare gli incantesimi, quelli che funzionano davvero? E le pietrine coi segnetti, le collanine con quelle perline strane…». «Intendete… Degli amuleti?» chiese Linda, perplessa. «Uh, non lo so. A me dicono sempre che devo fare la principessa.» bofonchiò l’altra, corrugando la fronte con incertezza «I ciondolini magici quali sono?». «Oh, beh… Tipo questo?» e infilò una mano nella tasca, tirando fuori un amuleto che aveva dimenticato lì un paio di mesi prima. «Sììì, come quello!» fece Elisabetta, tutta esultante, trotterellando verso di lei «È magico? Funziona? Posso averlo?». «Se ci tenete…» borbottò Linda, impreparata, quindi se lo rigirò nel palmo un paio di volte, prima di porgerlo alla principessa. Elisabetta prese il ciondolo tra le dita con aria sognante. Un attimo dopo tornò indietro saltellando, senza esserselo ancora messo al collo. «Guarda bello, guarda bello! È un amuleto magico, ti piace? È mio, me l’ha dato la strega rossa!» trillò in faccia ad Aleandro, come se non si fosse già capito. Viviana rialzò la fronte arrossata, mentre un tremito le scuoteva le membra dalla testa ai piedi. Persino il Conte, intanto, aveva messo da parte le faccende del governo per dedicarsi essenzialmente alla propria curiosità. «È un grandissimo onore incontrare una fattucchiera della vostra fama. Una fama in grado di vincere anche il timore di un uomo savio.» diceva, intanto che si piegava in un inchino «Sono il Conte di Vallechiara: lietissimo di fare la vostra conoscenza». 64


La strega rossa taceva, lo sguardo insondabile perso nell’osservare i presenti. O almeno uno di essi, quello che non sapeva se aiutare la principessa a mettersi l’amuleto o se concentrarsi su quell’ospite del tutto inattesa. «Più di una volta i vostri talenti hanno salvato queste terre dalla rovina.» continuava il Conte «Il padre di mio padre già mi narrava dei vostri interventi salvifici, e al contempo mi ricordava come persino un’armata di diecimila uomini avrebbe dovuto pensare a…». Il Conte si interruppe, dal momento che la strega non aveva ancora battuto ciglio e guardava fisso sempre nella stessa direzione, cioè verso Aleandro. Guardò a sua volta il figlio, che sembrava aver scelto di occuparsi dell’amuleto, alla fine. Fece schioccare la lingua contro il palato, finendo di raddrizzarsi. «Signora fattucchiera?» disse, per richiamare la sua attenzione. «Prego?» ribatté Linda, tornando al piano terra. «È mio figlio Aleandro, quello» la informò il Conte, e lo stesso giovane si staccò dalla principessa come una molla. «Felice di fare la vostra conoscenza.» disse subito quello, piegandosi in un inchino «Vi chiedo perdono per non avervi onorato come si conveniva fin da subito». Linda dischiuse le labbra, stringendo le dita attorno al bastone con quanta forza aveva. «Avete forse avuto una visione?» domandò apprensivo il Conte. «Visione?» ripeté la fanciulla, senza capire. «Una visione riguardante mio figlio. Lo stavate fissando». Ora anche Aleandro, che non si era accorto di nulla, alzò gli occhi su di lei. Linda lo guardò in faccia per qualche secondo. «Un caso.» ribatté quindi, con un sorrisone che a stento riuscirono a intravedere «C’era… Una bestia brutta». «Una bestia brutta attorno a mio figlio?» esclamò il Conte, al colmo della preoccupazione. 65


«No, no. Una bestia brutta nel senso di… Un ragno.» si schermò confusamente Linda «Peloso. Non tanto, intendo. Però… Brutto. Là dietro» e indicò una colonna nella stessa direzione. «Un ragno? Dov’è un ragno?» Elisabetta schizzò via dalla colonna con la reattività di un gatto. Viviana, con la vena gonfia sulla fronte e i denti serrati, teneva stretto il braccio di Gerda come se potesse trarne una qualche forma di autocontrollo. «Quel che doveva essere comunicato è stato comunicato interamente?» domandò a Linda, scandendo le parole una per una. A parte i balbettii sconnessi di Elisabetta, nella stanza si fece silenzio. Linda deglutì fin troppo rumorosamente, prima di annuire. «Allora Gerda vi accompagnerà alla porta, se non vi spiace.» stabilì la regina, mollando la presa sul braccio della domestica «Abbiamo ancora molto da fare, attorno a questo tavolo». «Ma c’è ancora un ragno da qualche parte» piagnucolò la principessa, tutta stretta nelle proprie spalle. «Elisabetta, siamo nel medioevo! E in un castello! È normale che ci siano i ragni!» ringhiò Viviana. «I ragni dovrebbero stare solo nelle segrete a tormentare i prigionieri. O in qualche caverna dove abita un mostro, tutta piena di teschi.» ribatté la ragazza, stizzita «Come si vede che non ti fai leggere i romanzi, mamma». La strega rossa intanto usciva scortata dalla domestica, senza smettere di rivolgere occhiate all’indietro, per quel che le riusciva di scorgere da sotto il pesante cappuccio. Rientrata in casa, Linda si era seduta su uno sgabello con ancora il mantello indosso: i lembi si erano afflosciati comodamente per terra, su una striscia di polvere di vecchia data. Guardava davanti a sé, arrotolandosi di continuo una ciocca di capelli attorno a un 66


dito e sciogliendola, per ricominciare daccapo un attimo dopo. A tratti si interrompeva per un paio di secondi: sollevava le sopracciglia e muoveva la bocca come per dire qualcosa, senza tuttavia che riuscisse a uscirne fuori mezza parola. «Ma insomma, com’è andata?» domandò Glosci per la terza o quarta volta, in piedi sulle zampe posteriori. Linda si fermò un’altra volta, fece un’espressione incerta senza nemmeno guardarlo e si strinse nelle spalle. «Mah.» rispose infine, con un gesto vago della mano «Così». «Così come?» insistette il famiglio, confuso. «Ma così, come vuoi che sia andata?» borbottò la ragazza «Bene. Sì, cioè… Normale, diciamo. Così, via». Glosci rimase zitto qualche istante, quindi si grattò la testa con una delle sue manine, piccole e nere. Saltò giù dal tavolo sul quale si era sistemato, andando a piazzarsi davanti ai suoi piedi. Linda, tutta presa a fissare il vuoto, ci mise un minuto buono per accorgersi che stava cercando di incrociare il suo sguardo. «Beh?» fece, quando se ne fu resa conto. «Cos’è che non mi stai dicendo, Linda?» le chiese il famiglio, tutto sospettoso. «Niente!» sbottò di colpo la giovane «Perché dovrei nasconderti qualcosa, scusa?». «Perché dovresti essere così nervosa, allora?» osservò Glosci. «Chi ha detto che sono nervosa? Non c’è ragione per cui io sia nervosa. Tu hai detto che io sono nervosa» ribatté Linda, piccata. «Lo credo bene. Ti conosco». «Piantala di fare la coscienza saputella, Glosci, chiaro? Dacci un taglio». «Ma se l’altro giorno hai detto che devo tenerti d’occhio!». «E allora fai conto che non te l’abbia mai detto. Niente. Non ho mai detto niente» e fece un segno netto con la mano. Il famiglio si azzittì nuovamente, spostando lo sguardo altrove. Ma Glosci sembrava esser veramente fatto per compensare 67


l’irruenza della sua compagna: lasciò perciò passare qualche secondo, fece un giro largo, prima di balzare morbidamente sulle sue ginocchia e accoccolarcisi come un perfetto animale domestico. Linda sbuffò, guardò in alto, in basso, gli diede anche un colpetto per farlo scendere. Poi, piano piano, cominciò ad accarezzarlo, quantomeno per dare un ordine ai propri pensieri e riprendere un po’ di controllo di sé stessa. «È che mi è parso di essere capitata in un momento poco opportuno, oggi.» bofonchiò alcuni minuti dopo, sempre con gli occhi distanti «C’era un ricevimento, un pranzo d’affari, qualcosa del genere». Glosci, facendo finta di nulla, drizzò le orecchie. «C’era la regina, ed era parecchio nervosa.» continuò Linda «Urlava, batteva la testa sul tavolo… Non sembrava proprio tranquilla. Poi c’era anche la principessa, una svampita che non ti dico. Anche il Conte di Vallechiara, quello famoso. E c’era…». Si interruppe per un secondo. Glosci sentì il pelo sul proprio dorso farsi ispido come tanti spilli, ma Linda non se ne accorse neppure. «Sì, insomma, suo figlio. Quello del filtro. Aleandro, si chiama.» riprese, solo per fermarsi ancora qualche secondo «È un bel nome. È un bel ragazzo, anche, sì. Se l’è scelto belloccio, la regina. Simpatico. Bello, sì. Ha un… Sì, un bel sorriso. Dei begli occhi. Dei bei capelli...». E sospirava. Ripeteva qualcosa, muoveva un poco la mano e sospirava di nuovo, abbassando pian piano lo sguardo. Glosci si girò di scatto, con gli occhi sgranati. «Linda, ti sei presa una cotta per il salame di corte?» le domandò di botto, allarmato. «Io?» la giovane si ridestò di colpo, rialzando la testa indispettita «Una cotta io? Per uno così? Ma stai scherzando?». «Non lo so, ne parli in un modo…» disse il famiglio. «Io non ne parlo in nessun “modo”! Non lo conosco, non so chi sia e l’ho visto soltanto una volta! Che ti salta in testa, si può sapere? 68


Sono la strega rossa, io! Cosa ti aspetti, che il primo ragazzotto che arriva a palazzo possa impressionarmi in qualche modo? Io ho a che fare con le forze dei quattro elementi, Glosci! Con la natura stessa! Che ti aspetti che possa farmi un… Un nobiletto da due soldi! È fuori discussione, assolutamente fuori discussione!» Linda incrociò le braccia al seno, irritata «E non chiamarlo salame» puntualizzò un attimo dopo. Glosci non aveva smesso di guardarla per tutto il tempo, a differenza di lei. «È che sei tutta rossa in viso» le fece notare, con pazienza. «Sono rossa perché mi fai arrabbiare!» esclamò la giovane, sentendosi avvampare ancora di più a quell’osservazione «È rabbia, hai capito? Non è vergogna, è rabbia. Mi fai arrabbiare, punto e basta. E scendi, che pesi». Dietro la spinta delle mani di Linda, Glosci balzò sul pavimento senza fare una grinza. La giovane saltò in piedi in tutta fretta, finendo per incespicare nella cappa: il silenzio del famiglio le giunse più nitido di qualsiasi altro rumore. Strinse i denti, schivando attentamente il suo sguardo. «Non voglio sentire un’altra parola sull’argomento.» lo ammonì, togliendosi il mantello di dosso a fatica «Né oggi né mai. Abbiamo del lavoro da fare, se te lo fossi scordato, e non mi riferisco né alla regina né a… Né alla regina, ecco. Va a recuperare dal baule la roba che mi serve, piuttosto». «Ma per chi mi hai preso? Per un mulo?» fece Glosci, di rimando «È già tanto se riesco ad alzare il coperchio, del baule». Linda sbuffò, levandosi finalmente di dosso la cappa. «Già, dimenticavo che i famigli danno solo buoni consigli» borbottò stizzita, andando a recuperare il suo armamentario da sola. Glosci, per tutta risposta, si mise a riorganizzare le candele.

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Il manto del destriero di Aleandro era madido di sudore: il giovane, desideroso di sfruttare il più possibile la piccola evasione che suo padre gli aveva concesso, aveva spremuto l’animale a più non posso. I muscoli del cavallo tremavano ancora, quando Aleandro smontò di sella e lo condusse al passo attraverso le viuzze del borgo. Camminava e si guardava attorno con le labbra aperte, incurante degli stivali bianchissimi che si lordavano di fango ad ogni passo; gli odori che avrebbero fatto storcere il naso a qualunque figlio della nobiltà lo rasserenavano, la vista delle povere case del paese gli era più familiare degli arazzi dipinte nelle sale del palazzo. E la voce gli sgorgò spontanea, attraverso le labbra: «Al di là della cinta e della fortezza, la terra nuda sott’ogni asprezza che si sbreccia al comando del sole, prospera o muore dove solo esso vuole, piacente si sveste o si copre per pudore sboccia o si raccoglie nel dolore sotto la sferza empia dell’inverno, alle cure del paradiso o dell’inferno. Oltre le mura e la brulla collina, dal fossato alla brughiera vicina dove l’occhio si sperde smarrito e l’animo fiero si ritrova rapito: Solo il coraggio mi vuole qua sulla terra scevra di falsità. Dove il lupo corre sciolto con la notte e la pioggia batte sulle spoglie grotte, 70


l’aquila spadrona nel cielo nudo e leva vincente il suo grido crudo. E tuffarsi con gli occhi aperti in distese di ghiaccio o deserti, portato per la cavezza dall’ignoto con i piedi penzoloni sul vuoto. Mi empia i polmoni questo vento, sia la sua l’unica voce che sento frusciare tra i rami vivi del bosco attraverso posti che non conosco. Lo sguardo di un uomo più indietro, l’orizzonte liscio come il vetro: il soffio fiero della libertà sarà tutto ciò che mi rimarrà». Eppure, inevitabilmente, un senso di inquietudine lo tormentava: un nodo allo stomaco, qualcosa che gli faceva apparire ogni contorno come sfocato, fuori luogo. Tutto quanto appariva nel posto sbagliato. Soprattutto lui stesso. Aleandro ne conosceva bene la ragione: sapeva che non aveva niente a che fare col suo lignaggio, col suo ruolo. La sua lingua non balbettava per il timore delle persone che interrogava, le sue gambe non tremavano per via del luogo in cui si trovava. Era la meta stessa, in quel momento, a terrorizzarlo: una casetta dalla porta bassa, con una finestrella sghemba in un angolo. Il giovane vi tentennò davanti per qualche minuto, ora allontanandosi, ora avvicinandosi di nuovo, ora sollevandosi sulle punte per gettare un’occhiata discreta all’interno. Fece per sfiorare la porticina con i polpastrelli e questa si aprì da sola con un lento cigolio. Le ombre all’interno 71


si confondevano in un mosaico indistinto; Aleandro sporse il viso oltre la soglia. «È permesso?» riuscì a stento a sussurrare. Gli rispose una vibrazione metallica appena accennata. Il giovane ritrasse la testa di scatto, sbattendo la nuca contro la trave troppo bassa della porta. Mezzo frastornato, provò a indietreggiare ancora, ritrovandosi all’esterno. Un ragazzino lo fissava senza parlare, con gli stinchi nudi che ciondolavano giù da un muretto. Aleandro fu tentato di rimontare in sella e sparire al galoppo per la vergogna, ma gli venne il sospetto che così sarebbe apparso ancora più ridicolo. Facendo finta di nulla, quindi, chinò il capo ed entrò nuovamente nella casa. La vibrazione non aveva cessato neanche un istante: accompagnava i suoi passetti titubanti all’interno della stanza sconosciuta, come il ronzio ossessivo di mille calabroni. L’aria odorava di incenso profumato, così intenso da ottundere i sensi. Poi, tutto d’un tratto, cominciarono a risuonare dei colpi gravi, come se qualcuno stesse suonando un largo tamburo di pelle. Aleandro guardò la porta che si era lasciato indietro e lo spiraglio di luce che vi penetrava attraverso. Aveva percorso sì e no due metri, eppure si sentiva imprigionato tra quelle pareti soffocanti, sotto quel tetto basso. Se avesse provato a uscire, ne era certo, la porta si sarebbe richiusa un attimo prima, da sé, proprio come da sé si era aperta. Allentò il nodo del fiocco attorno al collo per respirare meglio, andando a urtare con il gomito contro una mensola che non aveva nemmeno visto. Aleandro si ritrovò spalmato contro il muro ad arginare maldestramente la caduta di una fila di boccettine di vetro. Quando fu sicuro che anche l’ultima non si sarebbe sfracellata al suolo tirò un sospiro, senza ancora staccarsi dalla parete. Trattenne il fiato, accorgendosi che sia la vibrazione che i colpi di tamburo erano cessati. Col mento e i gomiti ancora schiacciati contro il muro, girò gli occhi verso l’arco che conduceva alla stanza attigua. Nella luce tenue che filtrava attraverso la stanza si 72


stagliava una figura ammantata, il volto celato dietro un pesante mascherone di legno dai lineamenti deformati in una smorfia grottesca. Le grosse piume di cui era adorno spiccavano come un’aureola blasfema, i pendagli d’osso oscillavano ancora, cozzando l’uno contro l’altro. Rimase ferma alcuni istanti, prima di stendere un bastone nodoso verso di lui. Aleandro si ritrasse, smanacciò, balbettò qualcosa, poi la paura ebbe il sopravvento. Si girò, cominciò a scappare, mentre la figura lo rincorreva goffamente sotto l’ingombro del mantello. La fuga di Aleandro culminò nel rumore secco della sua fronte che si schiantava contro la trave della porta, subito seguito dal tonfo mentre stramazzava al pavimento. Linda gli corse in soccorso e si piegò su di lui, togliendosi il mascherone dal viso. Lo guardò con gli occhi colmi di panico per un istante, osservando l’impronta della trave che prendeva forma sulla sua fronte. «Oddio è morto.» mormorò, facendosi coraggio per sfiorarne la pelle «Ho ammazzato il salame della regina. Gesù, Maria e tutti i santi, ho ammazzato il salame. O madre terra, rendigli il suo spirito. Che le forze degli elementi-». «Ma la pianti di mescolare sacro e profano?» la interruppe Glosci, zampettando velocemente sino al corpo disteso di Aleandro. Con fare paziente gli passò le manine sul collo e sulle labbra, sollevandogli poi una palpebra per volta per guardarlo nelle pupille. «C’è speranza, Glosci? Puoi salvarlo? Salvalo, per l’amor di-». «Ma cosa vuoi salvare, non vedi che respira e che il battito è regolare? Al massimo c’è il rischio che la botta l’abbia rimbambito, ma di questo non mi preoccuperei troppo». «Grazie al cielo.» Linda si portò una mano al cuore, chiudendo gli occhi «Comunque me n’ero accorta anch’io. Dici che alla regina piace anche un po’ tonto?».

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«Ti eri accorta di cosa?» ribatté il famiglio, piccato «Ma perché invece di dire stupidaggini non vai a prendere dell’acqua? O preferisci tenerlo steso sul pavimento?». «Vado, vado.» fece Linda, rialzandosi in piedi «Ma questi sono i compiti che spetterebbero a te, non a me». «Non mi disturbare mentre effettuo una diagnosi.» disse Glosci, allargando una narice di Aleandro «Uh, che belle mucose… Sospetto trauma cranico. Forse dal cerume nelle orecchie potrei desumere se ci sono stati danni a livello cerebrale…». «Devi desumere ancora per molto?» la giovane tornò con un bicchiere d’acqua in mano «Fatti in là». «Cos’è, non riesci a prendere la mira se ci sono io in mezzo?». Per tutta risposta, la strega rovesciò il bicchiere sul viso del giovane, affogando anche il famiglio. Aleandro si riscosse di scatto, spalancando gli occhi. «Linda!» protestò Glosci, ritraendosi e passandosi le manine sul muso bagnato «Era da bere!». «Oh, perdonatemi se non ho mai fatto il corso di rianimazione nobili!» replicò la giovane, incrociando le braccia indignata «Potevi dirmelo, no? C’era il rischio che annegasse, poi? Non mi pare». «C-chiedo scusa…» balbettò Aleandro, riuscendo a sollevare un poco una mano. Subito l’espressione di Linda si sciolse in un sorriso delicato, mentre si chinava per sorreggerli la testa. «Ditemi, caro» sussurrò con voce angelica. Aleandro spostò lo sguardo come meglio riuscì, individuando la maschera ancora a terra, accanto a lui. Rabbrividì istintivamente, facendosi forza per appoggiarsi al palmo di una mano. «Credo di aver sbagliato porta» mormorò, passandosi una mano sulla fronte. «Oh, no, l’avete centrata in pieno.» commentò Linda «Sì, cioè, volevo dire, dipende da cosa stavate cercando». 74


Aleandro socchiuse gli occhi per qualche secondo, come se stesse sforzandosi di ricordare. «La casa della… Strega rossa?» domandò, intimorito. Linda allargò il proprio sorriso da un orecchio all’altro. «Allora l’avete trovata » rispose, e il sollievo era tutto suo. Aleandro la fissò con una nota di stupore in viso. «Voi sareste la strega rossa?» le chiese. «Potete chiamarmi Linda, caro. Ce la fate a rialzarvi?». «Credo di sì…». «Ma certo che ce la fa!» fece sprezzante Glosci, dirigendosi verso la cucina «Ha solo preso una botta in testa, mica una cannonata». Aleandro, che si stava rimettendo in piedi, si immobilizzò. «Ha veramente parlato qualcuno o me lo sono immaginato?» domandò a Linda, evidentemente ancora rintronato. «Oh, non badate a Glosci. Parla spesso a vanvera, è fatto così». «Parla quella che non sa riconoscere un vivo da un morto» le fece di rimando il famiglio dall’altra stanza. «Più che altro ha una voce ben strana il vostro Glosci» disse piano Aleandro, una volta in piedi. «Trovate? Anche secondo me. È sgradevole, fastidiosa, proprio un tormento per le orecchie. Dovreste sentirlo quando canta». «La mia voce è proporzionata alle mie dimensioni.» ribatté Glosci, affacciandosi sulla soglia «Ma le mie orecchie sono comunque migliori delle vostre messe insieme. Ora che lo sapete…». Aleandro sgranò gli occhi nuovamente, muovendo due passi indietro. Linda lo fermò con un braccio mezzo metro prima che picchiasse una terza volta la testa contro la trave. «Ma… Quell’animale parla!» esclamò il giovane, sbalordito. «Perché è un famiglio. Tutti i famigli parlano.» disse la strega, indirizzandogli un’occhiata «Beh, magari non quanto lui». «E che strano animale che è, poi». «Non più strano di quanto voi lo sembrereste a me» brontolò Glosci. 75


«Oh, potete riferirvi a lui come a un roditore, andrà bene» continuò Linda, conducendo il giovane sino alla cucina. «Non che sia proprio esatto» puntualizzò il famiglio. «Ed è anche pignolo, sì.» fece la strega, mettendo a sedere Aleandro sulla sedia davanti al tavolo come se fosse un bambino «È un raro esemplare di Ratto delle Sabine, in effetti». «Uno degli ultimi» aggiunse orgogliosamente Glosci, quindi si arrampicò sul tavolo, sdraiandovisi comodamente. «Io credevo che-» cominciò il giovane. Il famiglio gli puntò un ditino verso il naso con fare imperioso. «Nulla di ciò che credi è reale, giovanotto.» disse, puntellandosi poi sul gomito «Dà retta a chi ha visto più inverni di te». Aleandro si ritrovò a fissare sconvolto quell’esserino peloso di cui non aveva nemmeno mai immaginato l’esistenza, eppure imbevuto di chissà quali poteri, intanto che la leggendaria strega rossa, che all’apparenza non era più di una ragazza, armeggiava attorno al tavolo. Tirò un sospiro, crollando la testa in avanti. Linda gli fu immediatamente addosso con una pezza bagnata in mano. «Vi sentite di nuovo male?» gli domandò, apprensiva. «No, solo-». «Avete un bozzo in fronte grosso come un uovo, poverino». «Lo immagino, ma-». «Avreste bisogno di risposo, volete sdraiarvi?». «È s0lo la tensione del momento». Linda studiò quella risposta con aria confusa, prima di rivolgere un’occhiataccia al famiglio. «Tutta colpa tua, Glosci!» gli rimproverò, puntandogli un dito contro. «Mia?». «Mi hai spaventato un ospite di riguardo! Non potevi stare zitto?». 76


«Io l’ho spaventato? A momenti si ammazza contro la trave della porta e tu dici che l’ho spaventato io?». «Uno shock dopo l’altro possono essere fatali per alcune persone! E se fosse una mente fragile e sensibile? Ti rendi conto dei danni irreparabili che potresti avergli causato?». «Di certo il cranio non l’ha fragile. E poi non mi sembra un mentecatto». «Non intendevo in quel senso!». «Quello che intendevo dire» si intromise Aleandro, riottenendo subito tutta l’attenzione di Linda «è che non sono abituato a trattare con certi… Poteri». «Poteri?» fece la giovane, confusa. «Parla di te, Linda» le ricordò Glosci. «Ah. Sìsìsìsì, certo. Poteri, naturalmente. Il mio potere, ecco» sollevò il dito come se fosse riuscita a fare il punto della situazione, con un largo sorriso. «E ammetto che non so nemmeno con quale coraggio sono venuto fin qui.» riprese Aleandro, abbassando lo sguardo «Ma non saprei proprio come fare, altrimenti». «Oh, povero caro» sussurrò lei, con la pezza ancora nelle mani. «Non so neanche cosa potrebbe costarmi tutto questo. Forse dovrò versare il mio sangue, coprire il mio corpo di ferite, lordare la mia anima nel peccato, condannarmi a mortificare le mie carni e invano, perché le porte dell’Inferno si spalancheranno ugualmente e dovrò subire le punizioni di diavoli e mostri per aver osato desiderare tanto sino al giorno del giudizio in cui Dio padre onnipotente si rifiuterà di concedermi l’assoluzione ultima e…». Si interruppe, mentre Linda e Glosci lo fissavano in silenzio con aria ugualmente perplessa. Aleandro si schiarì la voce, avvicinandosi alla giovane. «Per farla breve.» disse, posandole le mani sulle spalle «Voi siete la mia unica speranza». 77


«La vostra unica speranza» ripeté lei con un filo di voce, gli occhi persi in quelli di Aleandro. «Senza di voi sarei perso, come chi si smarrisce nel deserto» riprese. «Senza di me sareste perso» gli fece eco Linda, stritolando la pezza come se si trattasse del proprio cuore, senza accorgersi di come stesse gocciolando sul pavimento. «Questo potrebbe costarmi carissimo, lo so, forse anche-». «Ditemi solo quello che vi serve» lo esortò lei, prima che l’altro ripartisse con una seconda sequela di sciagure. Aleandro distolse lo sguardo, allentando appena la presa sulle spalle della giovane. «Potente strega rossa» cominciò lui. «Potente stre-» fece per ripetere ancora Linda, ma si trattenne «Sì?». Aleandro tentennò ancora. La pezza era praticamente asciutta, a differenza delle mani della giovane e del pavimento. Inspirò due o tre volte, mentre Linda restava immobile. «Siete in grado di preparare un filtro d’amore?» domandò infine, tutto d’un fiato. «Anche voi?» ribatté Glosci d’istinto. «Anche io?» fece Aleandro di rimando. «L’avete detto voi». «Sìsì! Cioè, lo so, ma… Qualcun altro ve l’ha richiesto, ultimamente?». «Eh, uh, beh…» Glosci fece un gesto vago con la manina «Diciamo che di tanto in tanto lo chiedono. E non è neanche un filtro che porta all’Inferno, eh. Al massimo quei due-trecento anni di purgatorio, credo. Dovrei dare un’occhiata al manuale dei vizi capitali…». Linda, da parte sua, era rimasta raggelata. «P-per chi vi serve?» balbettò debolmente. «È… Importante?» esitò Aleandro, cercando una scappatoia. 78


«Tocca, tocca.» mentì Glosci, con naturalezza «Altrimenti poi l’incantesimo non funziona. Eh». Il giovane abbassò gli occhi. In cuor suo, pensava persino se fosse il caso di tirarsi indietro. «Potrà apparirvi ridicolo.» mormorò «Ma se si fosse trattata di una donna comune non avrei mai pensato a ricorrere ad un sortilegio». Linda non si mosse nemmeno allora. Non stava nemmeno sulle spine: era già qualcosa se si ricordava ancora di respirare. «La principessa Elisabetta» rispose infine Aleandro. Glosci rimase di sasso. Linda no, o almeno, non per più di un secondo. Andò verso il calderone a passo spedito, accigliata in viso. «Ma… Ho detto qualcosa che non va?» domandò Aleandro, allarmato. «No, no» tagliò corto lei, mentre Glosci saltellava verso il calderone. «E allora posso chiedervi perché state-». «Vi preparo qualcosa da bere.» replicò lei con un sorrisone mentre, non vista, rovesciava nel calderone il contenuto di una boccetta con un teschio impresso sopra «Non vi va un drink?». «Non vorrei disturbare…» disse Aleandro, timoroso. «Nessun disturbo, caro. Ci metto solo un attimo. Sentirete, sentirete». «Ehm, Linda…» si intromise Glosci, preoccupato. «Zitto, mio fedele amico, i famigli non possono berne». «Temevo che vi foste adirata per qualche ragione» ammise Aleandro che aveva ripreso ingenuamente fiducia. «Nooo, io? Figurarsi, perché dovrei? È il mio lavoro. Magari ci vorrà un pochino, eh. E qualche altra goccia, qui…». Linda abbandonò il calderone per un attimo, senza neanche nascondere l’espressione assassina che le era comparsa il viso, di cui solo Aleandro non si accorse. Glosci, non visto, si affrettò a 79


svuotare il contenuto di tutte le boccette di antidoti, dolcificanti e sciroppi per la gola che trovò nelle vicinanze. Quando Linda si voltò, lo trovò in piedi sull’orlo del calderone con aria trafelata, mentre saltellava da una zampetta all’altra per non scottarsi. Saltò via alla svelta, andando ad accovacciarsi davanti a tutte le boccette che aveva tirato fuori. «Pronto così» fece velocemente Linda, andando a pescare con un mestolo un liquame marrone scuro, quasi nero, dal fondo del pentolone; sorrise nuovamente, versandolo in un bicchierone di terracotta «A voi, caro». Aleandro studiò il liquido con scetticismo, stringendo il bicchiere tra i polpastrelli. «Ma… Fa delle bollicine» obiettò timidamente. «Le deve fare.» rispose velocemente Linda, col mestolo ancora in mano «È buono così com’è. Su, bevete, bevete». Aleandro lo annusò sospettoso, avvertendo un pizzicorio al naso, che tuttavia non gli parve sgradevole. Facendosi coraggio, ne bevve un sorso, intanto che Glosci lo osservava speranzoso da dietro il calderone. Si passò la lingua sulle labbra, facendola quindi schioccare un paio di volte contro il palato. «È… Frizzante. Ma dolce. Sorprendente.» disse, piacevolmente impressionato «Ha come un retrogusto di… Non lo so. Le spezie, forse» e buttò già un’altra sorsata, stavolta più abbondante. Linda lo fissò con aria stravolta per alcuni secondi, quindi scagliò un’occhiata rovente al famiglio. «Sì, beh, non bevetelo tutto di fretta, vi potrebbe… Boh, fare male» borbottò spazientita. «In effetti fa venire un po’ di singhiozzo.» commentò Aleandro «Ma ottima. Dà anche uno strano senso di dipendenza, vi dirò». «Male, malissimo!» esclamò Linda, spalancando gli occhi «Avete assolutamente bisogno di prendere dell’aria fresca! Meglio ancora se tornate a palazzo, in un ambiente più familiare». «Addirittura? Non mi sembrava…». 80


«Date retta a me, che conosco i sintomi.» insistette Linda, tirandolo sbrigativamente per un braccio «E non temete, il vostro filtro sarà pronto quanto prima. Siete in ottime mani. Occhio alla trave della porta, è bassa». «Ma non vi ho ancora…». «Non c’è bisogno di nulla, grazie.» la giovane lo spinse direttamente da dietro la schiena, sbattendolo fuori con la delicatezza di un orso «Arrivederci e salutatemi tanto la principessa. Omaggi, auguri e via dicendo». Aleandro si ritrovò di nuovo fuori, con la casetta della strega appena dietro di lui. Si girò su sé stesso, guardando la giovane attraverso lo spiraglio ancora aperto della porta. «…Ringraziata.» riuscì infine a dire, con un breve inchino «Ci si fa un’idea del tutto sbagliata di voi fattucchiere. Non mi aspettavo che foste così… Piacevole». Linda rimase ferma sulla soglia per un attimo. Infine annuì, chiudendo piano la porta. Nuovamente al sicuro dietro di essa, vi si appoggiò, chiudendo gli occhi e controllando il proprio respiro; quindi spalancò di nuovo gli occhi, portando le mani ai capelli e avanzando come una tigre infuriata verso la cucina. Glosci ripuliva incuriosito il fondo del bicchiere di Aleandro. «Così eccoci nei guai più di prima.» sbottò la giovane, guardandolo male «E tu l’hai salvato! Io volevo solo avvelenarlo! La dose non era mortale e tu hai... Sei stato tu, insomma!». «Se l’avessi avvelenato poi cosa avrebbe detto la regina?» domandò lui, staccandosi dal bicchiere. Linda sbuffò, mettendosi a sedere a terra, con le braccia attorno alle ginocchia. «Per la scema di palazzo, poi. Elisabetta la sciacquetta. Bleah, non so nemmeno io come ho fatto a…». Si fermò, sbuffando nuovamente. Glosci la guardava con aria sibillina. «A innamorarti di lui?» intuì, divertito. 81


«Non dirlo nemmeno per scherzo!» replicò inviperita Linda «È già la seconda volta che tiri fuori questa storia! Già la seconda! E ora lui è venuto qui e tu… E lui… E io…». Si azzittì nuovamente, abbassando lo sguardo con rassegnazione. Il famiglio tornò al proprio bicchiere con aria soddisfatta. «Però è buona questa roba.» disse «Glosci-Cola. Potrei chiamarla così. Non so perché ma suona bene». «Ma che ne so.» brontolò la giovane «Che ci hai messo dentro?». «Ah, non si dice. È un segreto. Non lo saprà mai nessuno». Linda chiuse il discorso, sparendo col viso nelle sue stesse braccia. Si prese un giorno per ragionarci sopra. A mente lucida, come si ripromise. Di fatto, passò le ventiquattro ore successive trattenendosi dal piagnucolare. Si trattava di una questione importante, diceva, e rompeva un bicchiere per sbaglio. La faccenda rischiava di diventare un controsenso, e Linda usciva di casa per una passeggiata, solo per rientrarvi sì e no dieci minuti dopo. Per la principessa Elisabetta, poi… E a quel punto si chiudeva in camera sua, non prima di aver scacciato in malo modo il famiglio. L’indomani era uno straccio. Glosci la trovò seduta al tavolo, smunta in viso e con le occhiaie marcate. Facendo finta di nulla, si arrampicò su per un gambo, sino a che non si ritrovò davanti la faccia provata della sua padrona. La fissò senza parlare per alcuni secondi. Linda, per non intercettare il suo sguardo, buttò giù un sorso del piccolo boccale che aveva davanti. Glosci tirò un sospiro, sdraiandosi sul tavolo e appoggiando il muso alle manine. «Devi per forza buttarla così sul tragico?» le domandò. «Ho solo dormito poco» rispose svogliatamente la ragazza. «Dì pure che non hai chiuso occhio» disse l’altro. «Sono una strega. Se la notte non sto sveglia io, chi altri ci dovrebbe stare?». 82


Glosci si rifiutò di ribattere, stavolta. Inspirò una seconda volta, solo per drizzare i baffi, insospettito. «Cos’è questo odore? Pizzica il naso» fece, guardandosi attorno. Un attimo dopo posò gli occhi sul boccale; la giovane lo coprì prontamente con una mano. «Linda, che stai bevendo?» le chiese, allarmato «Non è GlosciCola!». «Niente.» replicò velocissima lei «Acqua. Semplice acqua». «Acquavite, semmai. A naso mi pare grappa di prugne». «Il tuo naso si sbaglia». «Linda, non è ancora ora di pranzo». «Ti ho detto che è solo acqua!». «L’ultima volta che hai bevuto mezzo boccale di birra poi ha piovuto per un mese filato! Hai allagato cinquecento case e fattorie, in piazza c’erano le trote e si è arenato un capodoglio nel fienile del vecchio Tobia!». «Però ho fatto piovere rane, dopo» si giustificò la giovane. «Per forza, la gente doveva pur sfamarsi! Il capodoglio è finito in una settimana!». «E va bene, va bene.» si arrese Linda, allontanando il boccale con una mano «Finito. Non bevo più, basta che la pianti». Seguì qualche attimo di silenzio. La giovane si sorresse la fronte con le mani, chiudendo gli occhi. Glosci approfittò del momento per infilare di soppiatto la testa nel boccale e sbevazzarsi la grappa. «Stai pensando che non dovrei prendermela così, vero?» domandò Linda, ancora senza riaprire gli occhi. Glosci ebbe tutto il tempo per tirar fuori la testa senza essere visto. «D’altra parte, il filtro per la regina servirà a portarmelo… A farlo innamorare di lei» continuò la giovane, correggendosi da sola. «Stavi per dire qualcos’altro o me lo sono immaginato io?» fece il famiglio. 83


Linda lo ignorò di proposito. «È che adesso mi ha chiesto qualcosa che andrebbe assolutamente contro a quel che mi ha ordinato la regina.» continuò la strega «Non posso far contenti entrambi». «Beh, io direi che la precedenza ce l’ha la regina, no? Un po’ come ha ragione la nostra testa a voler restare sul collo». Linda stiracchiò le labbra, abbassando lo sguardo. «È che non mi sembra giusto…» borbottò con rimpianto. «Ah, adesso non ti sembra giusto? All’inizio non ti facevi tanti problemi, eppure.» le rammentò il famiglio «Anzi, se ci pensi bene, adesso sarebbe tutto più semplice: dare ad Aleandro il filtro così da farlo innamorare della regina. Non c’è nemmeno bisogno di inventarsi alcun espediente per convincerlo». Linda rialzò gli occhi con aria spaventata, anche se solo per un istante. Distolse lo sguardo un attimo dopo, lasciando Glosci a guardarla con un’espressione preoccupata. Senza aggiunger altro, la giovane si alzò dal tavolo, vuotando con noncuranza il boccale nel calderone. Il famiglio guardò altrove a sua volta, indeciso sul da farsi. «Linda, io dovrei essere una specie di buona coscienza, per te.» disse infine, con un certo rammarico «Posso darti consigli per farti vivere a lungo o per preparare un incantesimo… Ma non posso andar contro a ciò che sente il tuo cuore». «Non te l’ho mai chiesto» mormorò la giovane, restando ferma davanti al calderone. «Devi stabilire da sola cosa puoi fare e cosa non puoi. Fossi in te chiederei a una persona di cui puoi fidarti. Una che ti conosca come me e sappia consigliarti un sistema per salvare capra e cavoli, ecco». «E chi?» Linda sorrise amaramente «Sono una strega, Glosci. Vivo da sola. A parte te, non c’è nessuno che mi conosca così bene». «Beh…» fece il famiglio «In verità qualcuno ci sarebbe». 84


La giovane si voltò a guardarlo. Glosci si era fermato accanto al ritratto della donna bionda, vestita con la stessa cappa rossa che era solita indossare lei. Linda socchiuse gli occhi, prima di inarcare le sopracciglia. «La mamma?» domandò, senza bisogno di ricevere una risposta. Le nocche della donna batterono un paio di colpetti contro la porticina, che si aprì un poco con un lungo cigolio. Nessuno, tuttavia, si presentò sulla soglia. La donna indugiò qualche istante, prima di radunare il proprio coraggio e spingere la porta con la mano. Infilò guardinga la testa all’interno di quell’ambiente sconosciuto, mossa dalla tentazione di poter finalmente sbirciare nell’antro della strega rossa. Tuttavia si rese conto da sola dei rischi a cui la esponeva la sua curiosità, per cui prese fiato e si annunciò. «Linda? Sei in casa?» domandò, muovendo un passetto all’interno «Ero passata per quell’amuleto». Era la stessa donna che qualche giorno prima si era recata dalla giovane per via dell’alito pesante. La peggiore malalingua del regno, come l’aveva definita Glosci. Nessuno, in ogni caso, le rispose. «La porta era aperta» disse, cominciando ad avere un po’ di paura. Stava per girarsi, quando scorse dietro l’angolo di una parete una figura accovacciata a terra, con indosso la tradizionale cappa rossa. Tirò un sospiro di sollievo, facendosi avanti con meno esitazione. «Oh, Linda, meno male che sei qui. Volevo dirti che le erbe hanno funzionato, ma mio marito ha detto che la puzza doveva venire da qualche altra parte. Non è che hai-». Si interruppe. Il corpo di Linda era fermo dove l’aveva visto, a gambe incrociate davanti a un piccolo braciere che emanava un fumo denso e dolciastro. Allo stesso tempo, tuttavia, una figura nebbiosa che ricordava in tutto e per tutto la giovane si sollevava 85


da esso, come levitando nell’aria. Si voltò a guardarla con aria preoccupata, urlando con voce spettrale qualcosa come un “torno subito!”, ma la donna non fece in tempo a capire cosa stesse dicendo. Rovesciò gli occhi, crollando all’indietro priva di sensi. «… insomma, ti dico che avevo chiuso!». «Come no! È passata attraverso i muri!». «E allora potevi chiudere tu!». Linda e Glosci apparvero dal nulla senza smettere di bisticciare. «Ti rendi conto che siamo nel mondo degli spiriti e che c’è una tizia svenuta nell’ingresso di casa?» continuò il famiglio, agitato «Sta diventando una moda!». «Vorrà dire che d’ora in avanti mi farò pagare il biglietto, cosa ti devo dire! Un fiorino a svenimento!» gli replicò Linda, sbracciandosi. «Buona eternità a voi» fece una voce. Linda e Glosci si azzittirono. Un uomo pallido e smunto, alto ed esile come un bastone, li fissava senza scomporsi minimamente. «Ah, uhm, buondì» borbottò Linda, a disagio. «Le devo ricordare che non c’è distinzione tra dì e notte, nell’oltretomba.» spiegò l’ombra, impassibile «La suddivisione del giorno in fasi ben determinate appartiene al mondo dei vivi. Qui tutto si sussegue senza una ragione ciclica. Di fatto, nulla si sussegue, perché nulla accade». Linda incrociò le braccia, abbassando lo sguardo spazientita. «Ciò nondimeno, la nostra esistenza non viene meno, ma prosegue e si intreccia con i flussi sempre più numerosi di uomini e donne destinati, come ognuno di noi, all’aldilà.» continuò l’ombra «Tra l’altro, non basterebbe a spiegare la ragion d’essere di spiriti ed entità che qui dimorano e che forse avrete modo d’incontrare. Se-».

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«Senti, bello, conosco questo posto meglio di te. Piantala di farmi la lezione o ti faccio ritornare in vita sottoforma di abete» lo interruppe Linda, scansandolo con una mano. «Ciò è nelle vostre possibilità.» ribatté quello «Ma, in quanto spettro maggiordomo del mondo degli spiriti, se mi è consentito». «No, non è consentito.» tagliò corto Linda, togliendoselo da davanti «Cavolo, ma è l’aldilà! L’unico posto al mondo - anzi, fuori dal mondo - in cui puoi passare la vita senza lavorare e tu ti metti a fare il maggiordomo? Con cosa ti pagano?». «La soddisfazione di un lavoro ben fatto è un adeguato pagamento». «Ah, sì? Allora per soddisfarmi dovrei prenderti a sberle». «Ciò è nelle vostre possibilità». «Linda, ci terrei a ricordarti che la durata dell’incantesimo è limitata» le ricordò Glosci. «E con questo? Dovrei ignorare tutti i pazzi che mi importunano?». «Calcolando che un abitante su due del mondo degli spiriti lo è…» Glosci fece spallucce «Direi di sì». «Non mi ci abituerò mai» brontolò lei, con un sospiro scocciato. È forse il caso di dare una vaga spiegazione del luogo in cui Linda e il famiglio si erano recati. Immaginate l’aldilà come un grande continente pieno di città (o anche come una lunga strada piena di case, non fa differenza, tanto il concetto di spazio non esiste, lì): per ogni città, o casa che sia, troverete determinate persone, un po’ come suonando un campanello vi risponde il padrone di casa. Non ci sono limiti di spazio, se non quello della vostra fantasia, di conseguenza i suoi occupanti tendono a farne un po’ ciò che vogliono, anche perché qualsiasi luogo è immediatamente raggiungibile, basta volerlo. L’unico problema viene dal fatto che proprio questa libertà risulta eccessiva per qualche anima, al punto che molti non riescono a darsi un freno e ammattiscono un 87


tantino: ciò genera talvolta, come in questo caso, un caos colossale. Linda, in quanto ancora viva, soffriva più delle anime gli effetti di una tale confusione. «Siamo ancora alla piana» disse Linda, guardando il terriccio rossastro-fucsia-azzurrino-verde-giallo sotto i suoi piedi. «È sempre quello il punto di partenza.» le rammentò Glosci «Devi entrare in sincronia con le menti delle anime. Pensare come loro». «Provare a chiedere non ha senso, vero?». A quelle parole il viso di un uomo con la barba spuntò come un fungo davanti ai loro piedi. «Più in giù c’è l’oro! Oro! Oro! Deve esserci!» esclamò soltanto, prima di sparire nuovamente sottoterra. Glosci lo fissò con aria paziente, avvezzo ormai a quelle scene. «Secondo te?» fece, in risposta alla domanda di Linda. La giovane provò a camminare qualche minuto, con una mano alle tempie per concentrarsi e, appunto, pensare con il cervello di un defunto. Curiosamente, la prima cosa che le venne in mente fu l’incrocio fra un pesce e una pecora a pallini che, come da copione, le comparve davanti un attimo dopo. «Evita di distrarti, se possibile» disse Glosci, mentre la pecora nuotò via saltellando sulle gambe. «Al diavolo! Com’è possibile che questo mondo funzioni? Qui sono tutti matti! Non c’è un senso». «Il senso basta sceglierlo.» disse il cartello indicatore davanti a lei «Dov’è che vuoi andare?». Linda strabuzzò gli occhi, restando per un attimo a bocca aperta. «Ah, uhm, io…» e alzò gli occhi verso le frecce che indicavano le direzioni. Non aveva fatto in tempo a guardarle che divennero qualche miliardo, troppe perché il cartello potesse reggerle, e crollarono addosso ai due sollevando un mucchio di polverone bianco, nero e rosa. Sotto di esse si sentì il sospiro del famiglio. 88


«C’è di buono che questa roba non può far male, altrimenti se fosse per te saremmo già rimasti schiacciati sotto qualche tonnellata di indicazioni» borbottò. «Quello lo sapevo anch’io.» ribatté Linda, acida, facendo poi una pausa «Ma secondo te se morissimo qui dove andremmo a finire?». «Perché ti poni la domanda, quando sai che non è possibile?». «Non so, così. Per parlare». «Meno domande fai e più possibilità ci sono di non finire sotto un punto interrogativo gigante. Ti spiacerebbe levarmi questa roba di dosso, adesso? Sto immaginando di avere un crampo ad una zampa». Un attimo dopo le frecce partirono in ogni direzione (ovvero ognuna nella sua, non fatevi domande o rischiate di ritrovarvi come Linda). Glosci stiracchiò le membra, intanto che Linda si rialzava goffamente sotto la cappa. «Immagino che camminando non arriveremo da nessuna parte. Non riesco a concentrarmi a quel modo, stavolta» ammise la giovane, intanto che attorno a lei sfrecciavano qualche centinaia di maratoneti. «Ah, “stavolta”?» domandò Glosci, con sarcasmo «Fai prima a cercare di evocarla direttamente». «Forse è il caso». Linda portò le mani alle tempie, chiudendo gli occhi. Un istante dopo comparve un’imponente figura in grembiule, pentolone e mestolo. «Linda! Tesoro!» esclamò quella. Glosci aggrottò la fronte. «Non è lei.» disse, perplesso «È quella che stava dopo il campanile». «Mi sto solo scaldando» si giustificò velocemente la giovane. «Ma ti ho preparato le frittelle! E l’arrosto alla brace!». Una ragazza in armatura comparve accanto alla donna. 89


«Oui, mademoiselle?» domandò subito, con un inchino. «E questa chi è?» chiese Glosci. «Je suis Jeanne d’Arc» rispose prontamente quella. «Non dire nulla» disse velocemente Linda, e attorno comparvero cinque o sei figure che nulla avevano a che fare in comune. Giovanna d’Arco le guardò con meraviglia, prima di esclamare un “parbleu!” e sguainare la spada. «Qui c’è qualche inglese di sicuro» commentò Glosci «Fai prima a cancellare e ricominciare da capo». «What?» domandò qualcuno. Una cinquantina di anime si affollarono tutt’attorno. Una cominciò a vendere bruscolini, senza peraltro poter essere pagata; la confusione tutt’attorno non poté far altro che aumentare. Glosci rivolse un’occhiata dubbiosa alla sua padrona. «Hai visto se c’è?» gli domandò la strega, ancora con le dita premute sulle tempie. «Ehm, veramente…» borbottò il famiglio, impreparato: era troppo piccolo per vedere al di là delle spalle di tutta quella gente! «Non riesco a mettere a mettere a fuoco quel che mi servirebbe…» disse Linda, stringendo le labbra. «Feu? Le feu?» gridò Giovanna d’Arco, allarmatissima, prima di correre via. Gli inglesi, che si erano seduti a prendere il tè (con i bruscolini), le rivolsero appena un’occhiata, fedeli alla loro flemma. Uno di loro domandò un altro “what?” molto altezzoso. «Non disperare, Linda.» la rassicurò Glosci, con filosofia «In fondo, adesso ce n’è una di meno». «Non sono il tipo che si dispera» ribatté Linda, convinta. «Domani in battaglia pensa a me e la tua spada cada col filo smussato» annunciò un’anima, facendosi avanti. «Eh?» fece Linda, colpita. «Dispera e muori» incalzò l’anima. Due giovinetti biondi e ricci le si affiancarono a quelle parole. 90


«Dispera e muori» ripeterono a loro volta. «Vaaaaaa bene.» rispose Linda, annuendo «Ora però basta». Allargò le braccia e tutte le anime, compresi i tre spiriti inquietanti, il venditore di bruscolini, Giovanna d’Arco che correva lontano, gli inglesi, i bruscolini e il tè vennero rapidamente e senza proteste inghiottiti dal terreno giallo-verdeviola-marrone, che infine scomparse a sua volta. Linda e Glosci si ritrovarono come sospesi nel nulla. «Direi che avevamo passato il limite» disse la giovane, provata. «Concordo.» Glosci si accarezzò i baffi, ora più tranquillo «Prova a pensare a una situazione in cui potrebbe trovarsi». Linda si sedette su uno sgabello rosso che si materializzò proprio nel momento giusto sotto di lei e portò due dita alle tempie. Un istante dopo passarono dal silenzio assoluto a un chiasso da taverna, e lo stesso sgabello si trasformò in una panca di legno affollata di ubriachi. «Linda!» sbottò Glosci, contrariato, mentre la mano di un omaccione lo scansava per raggiunger un boccale di birra. «Non dirmi che non va bene. Hai avuto modo di conoscerla meglio di me» si oppose Linda, da parte sua calmissima. Attorno a loro uomini, donne e strani esseri bevevano, mangiavano o urlavano sguaiatamente. Una creatura cornuta ruggì poco lontano, prima di scavalcare un tavolo e buttarsi addosso a una specie di orco. Dalle vicinanze giunsero risate fragorose e urla di incitamento, mentre i due se le davano di santa ragione. Linda appoggiò le guancie alle mani, ignorando la scena. «Beh, se ci sono alcune cose che ricordo bene della mamma sono proprio quelle che detestavo» disse, come a voler fornire una spiegazione al famiglio. «Non ti pare di esagerare un tantino?» domandò Glosci. Linda si girò verso la sua sinistra, in tempo per vedere una specie di angelo con le ali nere, bello come un dio. 91


«Beh, sì…» confessò, alzando un sopracciglio «Forse non le detestavo così tanto». Glosci si batté una pacca sulla fronte, senza più speranze. «Comunque, la volevi?» le chiese la giovane, stendendo solo un dito per indicare qualcosa «Eccola là». Il famiglio girò la testa e sbirciò oltre i tavoli. Nel bel mezzo di quella baraonda, non aveva nemmeno fatto caso che un’orchestra stava suonando (con degli strumenti a dir poco inusuali, come tamburi in pelle d’osso, flauti di pietra pomice e violini senza corde) ed era stata allestita una vera e propria pista da ballo. Lì si esibivano acrobati, saltimbanchi, pagliacci, mangiatori di fuoco, mangiatori di spade, mangiatori di stinco di maiale, cani a tre teste, tacchini a Natale e ballerini più o meno improvvisati. Noi siamo quelli che nel buio stanno, quelli che non possono più far danno! Quelli che erano più di là che di qua, che si sono fermati dove meglio si sta! Abbiamo dei balli che sono una bomba, un rigor mortis a ritmo di tromba, un tango per quelli con almeno tre mani, una polka per chi non arriva a domani! Su, fatti un giro col signore della peste, il nostro migliore animatore di feste, per ogni bacillo un cocktail omaggio, fatti un giro, se ne hai il coraggio! Matto come me o matto come te, matto il papa, matto anche il re, matti il sultano e l’imperatore matti, matti, matti si muore! 92


Bibite adatte per tutti i gusti, fai un salto a vedere nei fusti cosa galleggia, se birra o se vino o magari anche un teschio sopraffino! Balla coi morti, non avere paura, non preoccuparti se la vita era dura qui andrai avanti anche senza mangiare ma che morte è, se non ti puoi sbronzare? Dall’altra parte sbarcavi il lunario, qua ti sei giocato anche il sudario a dadi col diavolo, che bara, si sa ma, alla fine, il problema dove sta? Matto come me o matto come te, matto il papa, matto anche il re, matti il sultano e l’imperatore matti, matti, matti si muore! Fai un saltello pensando al vicino che si alzò scornato un bel mattino e ti bruciò la baracca e la stalla: tanto lo ritrovi qui dove si balla! La suocera racchia, lo zio taccagno cosa vuoi che conti tutto il suo guadagno! Strilli quanto vuole, pianga tutto il dì, tanto alla fine ci ritroveremo tutti qui! Tutti suonati, senza alcuna eccezione, di matti faremo una grande nazione, 93


da mane a sera a ballare e cantare con spiriti e fate, senza più pensare! Matto come me o matto come te, matto il papa, matto anche il re, matti il sultano e l’imperatore matti, matti, matti si muore! Nell’esatto centro della pista si dimenava una donna bionda e grassoccia, all’apparenza non più giovanissima, ma sicuramente piena d’entusiasmo. Inconfondibilmente vestita con lo stesso mantello rosso che indossava Linda. Glosci si accarezzò nervosamente il pelo sul collo. «Sei sicura che sia lei?» bofonchiò, a disagio «Magari…». «Magari è la solita di sempre» lo smentì Linda, quindi si sollevò l’orlo della pesante cappa e salì poco educatamente in piedi sul tavolo. Qualcuno applaudì mentre la giovane saltava agilmente da un tavolo all’altro, senza preoccuparsi di quanti bicchieri rovesciava o di quante dita le rimanevano sotto il tacco delle scarpe. Quando atterrò oltre l’ultima panca, l’attenzione di tutti si era ormai focalizzata su di lei. Pochi, sparuti imitatori si misero a saltar sui tavoli allo stesso modo, solo per scivolare o esser scaraventati di sotto dai commensali meno tolleranti. Gli unici che sembravano non essersi accorti di nulla erano giusto quelli che ballavano, come se si fossero trovati in un’altra dimensione (il che, come i lettori avranno ormai capito, in un mondo del genere non era affatto da escludere). Linda si fece largo tra anime, diavoli, spiriti e affini sino a quando non riuscì ad afferrare la donna per una spalla. Quella si girò allegramente, senza smettere di ballare, solo per spalancare gli occhi un attimo dopo. «Linda! Piccola mia!» esclamò con un grandissimo sorriso «Sei venuta a trovare la tua mammina!». 94


«Avevo bisogno di parlarti» disse sbrigativamente la giovane. «E c’è anche Glosci!» continuò la donna, euforica ed incurante delle sue parole, intanto che il famiglio si arrampicava sulla spalla della fanciulla «Piccolo briccone! Vegli ancora su mia figlia, eh? E dire che pensavo di vederti da queste parti, ormai!». «Spiacente, ma ho intenzione di restare di là ancora per un pezzo.» ribatté il famiglio «A meno che non mi investa una carrozza». «Oh, voi vivi! Ormai ho rinunciato a capirvi!» fece la donna, aprendo le braccia; e, ovviamente, non smetteva di ballare un secondo. Linda restava rigida come un palo. «Mamma, ho detto che avevo bisogno di parlarti» incalzò ancora una volta. «Un altro giro! Finisco questo e arrivo!» e la donna non aveva ancora finito di dirlo che volteggiò via. Glosci, ormai arrivato sulla spalla della giovane, si sporse sino al suo orecchio. «Volendo puoi cancellare tutto questo baccanale» le ricordò. «Per cosa? Perché mi tenga il broncio?» disse Linda, scuotendo poi il capo. Riportò quindi gli occhi sulla madre, rassegnata. Un attimo dopo partì alla carica. La raggiunse, la prese per le braccia e la girò su sé stessa una volta, poi due, tre. La mamma rise dive divertita, poi sorrise, poi divenne dubbiosa e alla fine cominciò a non capirci più niente. A quel punto Linda le posò un dito sulla punta del naso e, come colta da una forza invisibile, la donna schizzò all’indietro come un proiettile, atterrando una mezza dozzina di danzatori e finendo fuori dalla pista. Linda sospirò. «Come vorrei poterlo fare anche nel mondo reale» disse, prima di andare a recuperare sua madre. La trovò che scalciava a gambe all’aria in mezzo a un cespuglio, ma non c’era da preoccuparsi che si fosse fatta male, visto che 95


nell’aldilà questo è impossibile. Linda la prese per il polso per aiutarla a tirarsi in piedi. «Scusa, mammina, ma non ho tutto il giorno… O notte, o quel che è» borbottò la giovane. La donna, per tutta risposta, cominciò a strillare, fuori di sé. Linda preferì allora lasciarla nel suo cespuglio e ritrasse la mano. «Sai che così non otterremo nulla, vero?» le fece notare Glosci. «E dovrei dargliela vinta, secondo te?» si impuntò la ragazza, incrociando le braccia «Non ha mica ragione lei!». «Ma ragione per cosa?» insistette il famiglio, passandosi una manina sul viso, esasperato. «Non puoi irrompere così nella mia vita!» urlò intanto la donna, che ancora sgambettava «Sono tua madre!». «Sei morta, mamma!» le ricordò Linda, gettandole un’occhiataccia «Non posso più irrompere nella tua vita, come dici tu!». La donna fece silenzio qualche secondo, il tempo di riflettere su quell’ultima affermazione. «Non puoi irrompere così nella mia morte, allora!» gridò di nuovo, correggendosi. «Mamma, per…» Linda portò le mani alla testa dalla frustrazione, quando avvertì una mano ferma stringersi attorno al suo polso. Girò il capo incuriosita, ritrovandosi di fronte una signora sconosciuta, il cui viso le parve però che avesse qualcosa di familiare. Per non parlare della cappa rossa che portava, tale e quale alla sua e a quella di sua madre. «Non darle ascolto.» disse la signora, rivolgendo poi un cenno del capo verso la mamma «Lei lo faceva di continuo… Non è così, piccola maialina?». «Piantala di chiamarmi così! Lo sai che non lo sopporto!» fece la mamma, sollevando un pugno chiuso. «Io ti chiamo come mi pare! Sei mia figlia, per cui abbassa la cresta!» la donna spostò quindi lo sguardo sul famiglio, 96


sciogliendosi in un sorriso «Ciao, Glosci. Sei morto anche tu, alla fine?». «Ma non aspettate altro, qui?» domandò il poveretto. «Nonna?» fece intanto Linda, guardando la signora. «Ma certo, tesoro.» rispose la signora, con dolcezza «Ora ti spiacerebbe tirar fuori mia figlia di lì? Vorrei tornare a ballare». «A… Ballare?» la giovane strabuzzò gli occhi «Ma nonna! È la prima volta che ti vedo!». «Appunto! Non ci siamo mai viste, quindi vuol dire che possiamo continuare così. O vuoi che ti faccia sedere sulle mie ginocchia e ti racconti di quando la tua mammina aveva sei anni?». «Sarebbe così… Tenero» sussurrò Linda, incantata. «Scordatelo, non sono morta per ritrovarmi una nipote che mi tormenta anche nell’aldilà. Tira fuori la mia maialina da lì, io me ne torno a ballare» e la piantò lì dov’era senza aggiungere altro. Linda sollevò un sopracciglio, incerta, quindi guardò Glosci. «Ci pensi?» gli domandò, con un sorrisone «Ho una nonna!». «E cosa credevi, che tua madre l’avessero trovata sotto un cavolo?» disse il famiglio. «No, ma… È mia nonna.» ripeté Linda, per poi storcere la bocca «Ed è un’arpia». «Oh, non crederai di essere tanto meglio, spero.» bofonchiò Glosci «Se lasciassimo stare le nonne e andassimo a ripescare le mamme, invece?». Linda crollò il capo, chiudendo gli occhi un attimo per tornare padrona di sé. Infine raggiunse nuovamente il cespuglio: la mamma aveva sempre le gambe all’aria, ma aveva smesso di dimenarle e di strepitare. Già un passo avanti, si disse. Linda le batté due colpetti su un ginocchio. «Che ne dici se cominciamo a trattare, mamma?» le domandò, sporgendosi per guardare la sua espressione. «Proprio adesso? Avevo trovato una posizione comoda» rispose quella, con molta calma. 97


Linda la tirò fuori di lì prima che ne nascesse una nuova questione. La mamma si scrollò di dosso la polvere (che non c’era) con una mano. «Mi fa piacere vederti mamma.» disse la giovane «A differenza di te, a giudicare da quanto strillavi». «Ma smettila, lo sai che sono sempre contenta di vederti.» ribatté la donna «Certo, potevi scegliere un momento più opportuno». «Come no! La prossima volta aspetterò che ti faccia viva tu». «Venendo al punto…» si intromise Glosci. «Stai diventando noioso, lo sai?» disse Linda, guardandolo male. Ma, per una volta, la ragazza decise di dargli retta. Così, tirato un buon sospiro, snocciolò tutta la storia, colorando qualche dettaglio per farla apparire più interessante ed escludendone altri che avrebbero potuto causarle imbarazzo. Bene o male, comunque, alla fine era riuscita a dare un’idea molto generale della situazione. Soprattutto, però, aveva fatto molta attenzione a far passare Aleandro come il buon vecchio salame di corte, e soltanto quello. Sua madre ascoltò senza interrompere, sino a quando Linda concluse con un “e questo è tutto”. A quel punto sorrise, battendo assieme le mani e portandole poi alle guancie. «La mia bambina si è innamorata!» esclamò, radiosa. Linda sbiancò di botto. Glosci, che era salito sino alla sua spalla, scivolò e finì di sghignazzare per terra. «Io non ho mai detto-» cominciò la giovane. «Oh, ma si vede. E anche bene.» la interruppe la mamma «Allora, com’è? A parte salame, intendo. Non avrete solo quello in comune, spero». «Non chiamarlo salame!». «Oh, non ce l’hai chiamato anche tu, prima?». «Non è un salame! E non lo sono nemmeno io!». «Alto, moro e coi riccioloni.» s’intromise Glosci, perfido «E salame». «Uh, allora somiglierà a tuo padre» osservò la mamma. 98


Linda, che aveva già afferrato il famiglio per la coda, si immobilizzò. Da sempre, sua madre si era rifiutata di parlarle di quell’uomo che, eppure, doveva pur essere da qualche parte. «Anche papà era alto, moro e riccio?» domandò, di colpo seria. «No, nel senso che era un salame» rispose la mamma, per poi rimettersi a ridere. Linda la colpì con la prima cosa che le capitò a portata di mano, cioè Glosci, che per sua fortuna fu abbastanza svelto da aggrapparsi in tempo alla spalla della donna. La giovane mollò la presa stizzita, incrociando le braccia e puntando i piedi. «Ho come il presentimento che questo incantesimo stia per svanire» disse, molto contrariata. «Così presto? E io che pensavo fossi venuta per una buona ragione.» ribatté la donna, accarezzando istintivamente il famiglio che un tempo era stato il suo «Non volevi un consiglio? Un parere? Un’idea?». Linda la fissò con aria estremamente scocciata. «E quale sarebbe questo consiglio?» le chiese, sperando che fosse la volta buona. «Uh, ma è molto semplice.» rispose la mamma, tranquillissima «Devi dire tutto alla regina». Linda strabuzzò gli occhi. «Oh, eccetto il fatto che quel giovanotto ti piace, naturalmente» aggiunse un attimo dopo. «Non mi pare che sia quello il problema!» disse la ragazza, agitata «Ti rendi conto di quello che dici?». «Stavolta non ha detto che non gli piace» notò Glosci. «Doppia negazione afferma.» sintetizzò la mamma, sfoggiando così tutta la sua cultura « Ma certo che devi dirglielo, tesoro. Perché non provi a pensare a cosa succederebbe?». Linda alzò un sopracciglio, senza capire. La mamma sospirò, intanto che metteva a terra il famiglio. 99


«Come la regina verrà a sapere che il suo pupillo si è perso dietro a sua figlia - che la regina odia - diventerà verde d’invidia e le proibirà di sposarlo». «Questo non risolverebbe la questione per niente» si oppose la ragazza. «E tu credi che la regina vorrà saperne qualcosa di lui, dopo una storia del genere? Sei proprio una bambina se lo credi ancora.» Linda abbassò lo sguardo. In quel momento, le andava bene anche di passare per una bambina, se questo avesse potuto aiutarla a salvare Aleandro sia dalla regina che dalla principessa. «Non può arrivare a odiarlo da un giorno all’altro, però» borbottò, ancora poco convinta. «Non può? Ma certo che può!» fece sua madre, ridendo «È una donna! Come me. E come te. Tutte e tre con un debole per i salami, oltretutto. Più o meno è per questa ragione che ho spedito via tuo padre a calci, sai?». «Pensavo fosse morto» disse Linda, sorpresa. «Morto? Gli converrebbe, non preoccuparti! Ad ogni modo, la regina è più ragionevole di quel che sembra. E decisamente molto emotiva. Come minimo lo spedirà in missione in mezzo al deserto, fidati.» la mamma posò le mani sui fianchi robusti, chinando il capo di lato «Ora posso tornare a ballare? Tra l’altro, a giudicare da come ti stanno scomparendo i piedi, direi che l’incantesimo sia terminato davvero». Linda abbassò gli occhi di scatto, mentre i lembi della sua veste si facevano trasparenti. «I miei piedi!» gridò, spaventata «Dove sono i miei piedi?». «Mmm, forse sono già nel mondo dei vivi.» ipotizzò la donna «Devi starnazzare così tutte le volte che l’incantesimo finisce?». «Le mie mani! Non ho più le mani!» continuava intanto Linda, fuori di sé «Santo cielo, e adesso come farò a grattarmi il naso?». «Lo strofinerai contro un muro. Ciaociao, tesoro, torna a trovarmi!». 100


Pochi istanti dopo, l’intera figura di Linda e Glosci erano sparite. Viviana camminava avanti e indietro per la grande camera, ora congiungendo le mani dietro la schiena, ora torturandosi le dita una per una. A tratti guardava fuori dalla finestra, senza riuscire a stimare quanto tempo mancasse ancora all’alba. Non c’era un posto che trovasse abbastanza comodo per restarvi seduta (o almeno ferma) né esisteva qualcosa che potesse distrarla in alcun modo. Addirittura, colta da un improvviso fastidio, si tolse persino la corona di testa e la gettò sul letto. Gerda, seduta su uno sgabello in un angolo della stanza, la guardò con aria annoiata. «Non sopportate più il peso della corona, adesso?» le domandò ironicamente. «Non è ancora arrivata.» replicò stizzita la regina, per tutta risposta «Come minimo si farà viva solo quando tutto il castello potrà vederla, come sempre». «Stavolta credo invece che farà un’eccezione. Per una volta che si è persino annunciata con una lettera…» e la domestica ammiccò verso la busta che Viviana aveva lasciato davanti allo specchio. La regina non rispose, né smise di fare avanti e indietro per la stanza. Senza più parlare, impiegò almeno cinque minuti a cambiarsi di dito gli anelli che aveva, in quasi tutte le combinazioni possibili. Nello stesso momento in cui si apprestava a ricominciare, si udirono battere quattro colpi alla porta. Viviana si arrestò di colpo, facendo poi un veloce cenno a Gerda. La domestica obbedì senza fiatare, come aveva sempre fatto e, come aprì la porta, si ritrovò la strega rossa ritta sulla soglia. «Entrate» disse subito Gerda, sapendo di assecondare i desideri della sua padrona, e si fece da parte. Linda, col cappuccio rosso tirato fin sul viso e il bastone nella destra avanzò lentamente all’interno della stanza. Viviana lanciò un’occhiata alla corona, ma le risultava troppo fuori portata perché facesse in tempo a rimettersela in testa. Le sembrò di 101


essere nuda di fronte a quella che, a tutti gli effetti, era una sua suddita. «Spero sia importante.» parlò con durezza fin da subito, così da essere certa di far pesare la sua autorità regale «Hai il filtro con te?». Linda strinse la mano attorno al bastone per farsi coraggio. «Ci sono delle… Complicazioni» mormorò, cercando di non apparire nervosa. «Complicazioni? Come sarebbe a dire?» ringhiò la regina «Avevi detto di aver tutti gli ingredienti!». «Il filtro c’è.» si affrettò a rispondere Linda «Cioè, lo preparerò domani notte. I problemi sono… Di altra natura». «Se tu hai il filtro, qualsiasi problema sarà spazzato via» tagliò corto Viviana. La giovane tentennò ancora qualche secondo, poi inspirò a fondo e riaprì bocca. «Si tratta di vostra figlia» riuscì a dire, con un filo di voce. La regina la guardò con stupore, prima di corrugare la fronte in un’espressione seccata. «Mia figlia?» domandò con asprezza «Che altro ha combinato quella maledetta stupida?». Linda realizzò che, se non altro, la mamma non si era sbagliato nel rapporto tra la regina e la principessa. Questo la rassicurò quanto bastava per raccontare anche a lei quel che era successo, facendo ancora più attenzione a non rivelare alcun particolare che potesse cacciarla da sola in qualche guaio. Alla fine del breve racconto, Viviana sembrava un fantasma. Pallida in viso, indietreggiò sino a farsi cadere a sedere sul bordo del letto. Molto poco regalmente, si sarebbe potuto dire. Strinse le dita sulle coperte pregiatissime, crollando il capo in avanti. Gerda le si fece vicina: nessuno, a parte lei, aveva mai visto la regina in quello stato. Viviana però disdegnò il suo aiuto con un gesto della mano; rialzò la testa, guardando con aria convinta la strega. 102


«Se questo è ciò che Aleandro vuole, non sarò io a impedirglielo.» disse con sicurezza «E dubito che Elisabetta avrà qualcosa da obiettare. Se avesse un po’ di cervello, forse, ma non è il suo caso». Seguirono alcuni attimi di silenzio, che Linda si sentì in dovere di spezzare. «Quindi rinunciate al filtro?» domandò, speranzosa. «E perché mai?» fece invece Viviana, sorprendendola «Ti ho ordinato un filtro d’amore e me lo porterai. Ma questo matrimonio si farà, dal momento che andrà bene ad entrambi. Mia figlia è in età da marito e se Aleandro chiederà la sua mano… Anzi, non ci sarà bisogno che la chieda. Gliela concederò io stessa». Sia Gerda che Linda la fissavano senza riuscire a credere a una parola. Viviana si rialzò dal letto come se nulla fosse, risistemando le pieghe della gonna. «Hai fatto bene ad avvisarmi, strega.» disse, di nuovo padrona di tutto il suo contegno «Ora, se non c’è altro, puoi andare». La giovane era rimasta impietrita lì dov’era. Le ci volle qualche secondo (e il braccio di Gerda ad accompagnarla) per venire scortata verso la porta. Quando fu di nuovo sulla soglia, si voltò indietro, mostrando senza accorgersene la sua espressione smarrita, dipinta su quel viso così giovane. Viviana fece appena in tempo a notarlo che Gerda chiuse la porta, lasciandola con un’espressione di meraviglia sul volto. La domestica attese dietro l’uscio chiuso alcuni secondi per essere sicura che la strega se ne fosse andata, prima di spostare lo sguardo su di lei. «Da quando vi preoccupate del bene di vostra figlia prima che del vostro?» le domandò senza mezzi termini. «Non essere insolente, Gerda» la rimproverò l’altra, tornando a sedersi sul letto con molta più naturalezza.

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«E voi non mentitemi.» insistette la domestica «Sarei cieca se non mi fossi accorta che state tramando qualcosa e state sicura che prima della fine avrete bisogno di me». Viviana tacque per qualche secondo, passandosi ripetutamente le mani tra i capelli per ravvivarli. «Non hai sentito? Aleandro arde d’amore per Elisabetta.» disse «Credi forse che sia una bugia?». «Nient’affatto. Mi sembra strano che voi non ve ne siate accorta da sola, più che altro». «Quindi si sposeranno. È tutto molto semplice». «No che non lo è. Non rinuncereste a lui per nulla al mondo.» obiettò Gerda, certa di non sbagliare «Perché volete il filtro, allora? Di certo non per darlo a vostra figlia». «Il filtro è per Aleandro.» rispose seccamente la regina «Hai sempre detto che per me sarebbe sconveniente sposarlo, no? Ebbene, sarà Elisabetta a sposarlo e a salvare le apparenze». «Volete usare vostra figlia come facciata?» Gerda spalancò gli occhi, sgomenta «È vostra figlia!». «E con questo?» Viviana la guardò sprezzante «Aleandro sposerà Elisabetta, ma amerà me. La gente non saprà mai la verità e io non dovrò dividere il potere con nessuno. Direi che meglio di così non potrebbe andare». «Ma pensate allo scandalo se si venisse a sapere! Se il popolo-». «Se Elisabetta è stupida, non aspettarti che il popolo sia migliore di lei.» la interruppe la regina «Non si accorgeranno mai di niente, né lei né loro». Gerda si passò una mano sulla fronte. «Spero che ritroverete il senno. State esagerando» disse, cercando di farla ragionare. «Non ho chiesto il tuo parere» Viviana storse la bocca in una smorfia mentre lo diceva, quindi intrecciò le dita e vi appoggiò sopra il mento. 104


La domestica non disse altro, tornando al suo sgabello. Forse avrebbe potuto andarsene finalmente a letto solo chiedendolo, ma intuiva dallo sguardo della regina che doveva esserci dell’altro. Qualcosa che, a giudicare dalle premesse, a dir poco la turbava. D’un tratto infatti Viviana rialzò gli occhi, cercando lo sguardo dell’altra donna. «Ti sei accorta della strega?» le domandò di punto in bianco. Gerda comprese in un attimo a che cosa la regina si riferisse. «Che cosa intendete?» domandò, fingendo di non saperlo. «Quando è uscita le è scivolato un poco il cappuccio all’indietro.» continuò l’altra «Ha l’aspetto di una ragazza molto giovane. Dell’età di Elisabetta, direi». «Forse è davvero una ragazza» osservò Gerda. «Eppure la strega rossa è al servizio del regno da secoli. Possibile che… Ma non importa.» scosse il capo con decisione «Hai notato come parlava di Aleandro?». «Non ci ho fatto caso» mentì la domestica, distogliendo lo sguardo. «Lo ama. Ne sono certa.» Viviana risollevò il viso, distorto dall’ira «Ha provato a non farmelo capire, ma è giovane. È giovane e lo ama». «Adesso state-». «Non ripetermi che sto esagerando, Gerda!» ribatté aspramente la regina «Solo un idiota non se ne sarebbe accorto!». «Anche se fosse, qual è il problema?» la domestica provò a placarla, mantenendosi calma a sua volta «Aleandro non potrebbe mai provare niente per una strega vecchia di secoli». «È bella. È bella ed è giovane» ripeté la regina, stringendo le mani a pugno. «Ma è ugualmente una strega. E lui un nobile». Viviana sembrò riprendere il controllo di sé stessa. Abbassò lo sguardo, dischiudendo le labbra per trarre un lungo respiro. 105


«Ad ogni modo, è a conoscenza dei miei piani.» mormorò «Ed è pericolosa. Solo il Diavolo sa di quali poteri può essere dotata». La regina spostò l’attenzione sul letto, sino alla corona che vi giaceva ancora sopra. La guardò a lungo, prima di distogliere nuovamente lo sguardo. «Quando mi avrà consegnato il filtro, dovrà sparire» aggiunse, per poi serrare le labbra. Gerda rimase in silenzio e immobile, badando che nulla tradisse il suo orrore per quel nuovo delitto. Non fece una piega, aspettando con pazienza il momento in cui Viviana le ordinò di uscire dalla camera e di andare a riposarsi. La regina non esitò nemmeno un giorno nell’offrire la mano della figlia al giovane Aleandro. La notizia delle nozze fece il giro del regno: non erano ancora stati avviati i preparativi che già giungevano lettere di congratulazioni da ogni famiglia nobile. Il popolo, allo stesso modo, non perse tempo a festeggiare la notizia e nei villaggi di confine come nelle grandi città la gente si affrettò a celebrare l’evento. Il Conte di Vallechiara, ora più che mai obbligato a restare a palazzo, seguiva con attenzione il succedersi degli eventi. Dall’alto della sua stanza, fissava attraverso le finestre ora la distesa attorno al castello, ora il luogo dove si sarebbe celebrato il matrimonio. La regina aveva scelto per l’occasione la meravigliosa corte sulla scogliera in cui tutti i precedenti monarchi, lei compresa, si erano uniti in matrimonio. Aveva cominciato sin da subito a trasportarvi statue e ornamenti di valore, come a voler essere sicura che non si potesse rimandare la cerimonia. Il Conte, che con le mani dietro la schiena fissava ancora la corte, abbassò il capo con un sospiro; proprio in quel momento, Aleandro entrò nella stanza. Suo padre si voltò velocemente. «Hai perso l’abitudine di bussare?» domandò, austero. 106


Aleandro, che aveva già la bocca aperta per dire qualcosa, si ritrovò a mordersi un labbro, quindi chinò la testa. «Perdonatemi, padre» si sbrigò a dire. «Ah, lascia perdere.» fece però subito il Conte, che come si sarà capito non era certo avvezzo ad essere severo «Immagino tu sia su di giri, con questo matrimonio per la testa». «A dir poco.» rispose il figlio con un sorriso, raddrizzandosi «È stato così anche per voi?». L’uomo stiracchiò un sorriso che lo fece apparire più anziano di quanto non fosse e scrollò le spalle. «Non saprei dirti, figliolo. Io e tua madre… Beh, diciamo che fu solo meno… Improvviso. Ma immagino che questo sia un’ulteriore giustificazione per te». «Se lo dite voi, mi sento più che scusato, allora.» ribatté allegramente Aleandro «Ero venuto ad avvisarvi che la regina vi ha concesso un periodo di licenza dalle faccende di stato. Sino al matrimonio». «Licenza?» ripeté l’uomo, confuso «Intende dire che non dovrò più occuparmi di niente?». «Più o meno. A dire il vero, vi chiede di aiutarla nell’organizzazione della cerimonia». Il Conte corrugò la fronte, restando come impalato. Aleandro non aveva perso un briciolo della sua felicità: mai, prima di allora, suo figlio gli era parso così ingenuo. Si passò due dita sugli occhi, voltandosi istintivamente verso la finestra. «Ha richiesto urgentemente la mia presenza qui a palazzo.» cominciò a dire, con tono dubbioso «Ha accennato a serie minacce per il regno, di cui tra l’altro non sono ancora stato messo al corrente. E adesso la regina scalpita perché tu sposi sua figlia e non si preoccupa di nient’altro se non del matrimonio» scosse il capo con fermezza «Qui c’è qualcosa che non torna, figlio mio». «Se mi è permesso dire la mia, forse vedete il male dove non c’è.» commentò Aleandro, che per nulla al mondo avrebbe voluto veder 107


turbato il proprio ottimismo «Credevo che la notizia vi avrebbe reso felice, ma non riesco a vedervi soddisfatto». «Soddisfatto? Sì, lo sarei, se fossi convinto che tutto fosse normale. Hai idea di quanto a lungo vengano programmati i matrimoni nelle famiglie regali?» il Conte lo guardò in viso, cercando di farlo ragionare «Comprendi che questo matrimonio, farà di te, prima o poi, il nuovo re?». «Appunto per questo non capisco come facciate a non gioirne» fece il giovane, sorpreso. L’uomo sospirò, avvicinandosi di qualche passo. «Aleandro, Aleandro… Proprio non ti rendi conto di cosa dici?» gli chiese «Dov’è finito quel figlio che ho fatto sgattaiolare fuori da palazzo? Quel ragazzo che rimpiangeva la vita semplice di Vallechiara, lontano dagli intrighi della corte?». Aleandro distolse lo sguardo, raccogliendo distrattamente un frutto da una cesta. «Non m’interessa diventare re, padre. È di Elisabetta che mi importa, e solo di lei.» disse dopo qualche esitazione «Ma ciò non vuol dire che, a suo tempo, non sarò un buon re». «L’ultimo buon re non ha vissuto a lungo.» gli ricordò con amarezza il Conte. «Lo dite come se la sua morte non fosse stata naturale» fece Aleandro, sempre più stupito dal comportamento del padre. «Ho avuto tempo per riflettere, figlio mio, abbastanza per farmi nascere qualche legittimo dubbio. Ma non parliamo di questo. Perché non parliamo piuttosto dell’unica cosa che ti interessa, come dici tu?». «Elisabetta?» il giovane ricominciò immediatamente a sorridere, giocherellando con il frutto «Cosa volete sapere?». «Oh, non voglio sapere granché, in realtà. È solo che non mi avevi mai accennato di questa tua passione per la principessa». «Lo so.» convenne Aleandro «E avete ragione, è stata improvvisa. Ma vi assicuro che è autentica.» 108


«Sorprendente. Non avrei nemmeno detto che tu la conoscessi così bene. Ad ogni modo, in questi giorni avrete occasione di rimediare, giusto?». «Non proprio.» rispose il giovane «La regina ha stabilito che io ed Elisabetta non dobbiamo più incontrarci prima delle nozze». Il Conte lo fissò perplesso, colpito da quella nuova stranezza. «Mi sembra un’assurdità» si ritrovò a confessare. «Non è un’assurdità! Insomma, la regina ha deciso così e… Insomma, non è importante. Vi garantisco che i miei sentimenti sono autentici. Ho…» si interruppe, abbassando lo sguardo «Avevo persino chiesto aiuto per poterla conquistare». «Chiesto aiuto? Che genere di aiuto? E a chi?». Il giovane si accorse di aver rivelato più di quello che avrebbe voluto. Stranamente, solo in quel momento si ricordò di cosa aveva chiesto alla strega rossa; improvvisamente si domandò se quanto fosse avvenuto avesse a che fare con lei e si sentì colpevole. «Oh, a…» mormorò, tenendosi sul vago «Una ragazza». «Vuoi dire che una ragazza ti avrebbe aiutato a sposare la principessa?» il Conte rise di gusto «Non sapevo neanche che avessi stretto amicizia con le damigelle di corte. E perché lo avrebbe fatto, poi? Ti considerano un buon partito tanto quanto la principessa». «Non è una damigella.» borbottò sbrigativamente Aleandro «Cioè, insomma, non del tutto. Diciamo che ha a che fare con la corte». «Una serva, allora?». Il giovane abbassò lo sguardo: per quel poco che sapeva della strega rossa, quel termine decisamente gli sembrava inadatto. «No, nulla del genere.» disse soltanto «È così importante per voi sapere di chi si tratta?». «Per carità, ci mancherebbe altro.» fece l’uomo, alzando le mani «E ti avrebbe aiutato?». 109


«Più di quel che avrei immaginato, a quanto pare. Le ho chiesto di aiutarmi e la regina stessa è giunta ad offrirmi la mano di sua figlia». «Beh, di sicuro la tua amica è una che sa il fatto suo, allora. E una nobilissima persona, che sia di sangue blu o meno.» disse il Conte, che era ben lontano dal sospettare che si stesse parlando di una strega «Spero che tu l’abbia ringraziata, almeno». Aleandro rialzò gli occhi. Aveva ascoltato le parole del padre e sentito crescere dentro di sé qualcosa che sapeva di rimorso. Un groppo gli serrò la gola, costringendolo a prendersi qualche secondo per rispondere. «A dire il vero no.» ammise «Pensate che dovrei?». «Buon Dio, sì, assolutamente!» esclamò il Conte «Anzi, se mi fosse possibile vorrei offrirle anche i miei ringraziamenti e, perché no, anche qualcosa di più. Non ti avevo mai visto così felice». Ma Aleandro, di colpo, si era rabbuiato. Era come se non solo qualcosa, ma tutto, fosse profondamente sbagliato. Il loro trasferimento a corte, la richiesta che aveva fatto alla strega rossa e infine un matrimonio senza preavviso. Ma, giusto o sbagliato che fosse, era stato lui stesso a mettere i piedi su quel sentiero. «Dovrete permettermi di sgusciare fuori un’altra volta, allora» disse al padre, e quello gli batté una solidale pacca su una spalla. Linda, né serva né damigella, pelava le patate. Strega o no, non aveva mai trovato un modo più efficace per farlo, né aveva grande interesse a inventarselo in quel momento. E nemmeno poteva dire che pelare patate avesse un senso, visto che aveva già fatto due montagne, una di patate e una di bucce. Glosci le faceva compagnia, seduto sull’unico angolo libero rimasto sul tavolo. Guardò rattristato la giovane, per poi spostarsi gli occhi sul sacco ormai afflosciato. «Cosa succederà quando le avrai finite?» le domandò. 110


«Non lo so. Non mi interessa.» ribatté la giovane, atona «Passerò a qualcos’altro». «Di certo le cipolle non possono peggiorare la situazione» fece il famiglio, alludendo agli occhi gonfi della sua padrona. «Smettila, Glosci.» Linda tirò su col naso, protendendo poi una mano verso di lui «Passami un altro fazzoletto». Il famiglio guardò oltre l’orlo del tavolo, in direzione del tappeto di fazzoletti sul pavimento, quindi balzò giù. Quando tornò, le porse un lembo di stoffa bianca. La giovane la prese, soffiandosi il naso con potenza; un attimo dopo sollevò appena le sopracciglia. «Ma… Non è un fazzoletto.» borbottò, tirandolo a sé «È un lenzuolo». «I fazzoletti erano finiti» si difese timidamente il famiglio. Linda lo guardò per qualche secondo, prima di stringersi nelle spalle e rimettersi a pelare le patate. Glosci le si fece più vicino. «Coraggio, dai. Non puoi continuare così.» provò a dire «Non fai altro che piangere da giorni». «Sto superando il momento critico» ribatté debolmente la ragazza. «È quello che ripeti da quando hai cominciato». Linda strinse i denti, cercando di pelare quelle patate con più efficienza, solo per ritrovarsi a singhiozzare dopo due secondi scarsi. Glosci alzò gli occhi al cielo, lasciando che la giovane si sfogasse per l’ennesima volta. «Non doveva andare così.» piagnucolò Linda, battendo spossata due colpetti sul tavolo «La mamma aveva detto che non sarebbe andata così. Lei doveva lasciarlo andare e… E…». «E invece le cose sono andate diversamente.» concluse per lei il famiglio, senza sapere cos’altro dire «Ma con tutti i giovanotti che ci sono dovevi proprio prenderti una cotta per quell’Aleandro?». «Non è una cotta» replicò con voce rauca la giovane, cercando di riprendere in mano la patata. 111


«No che non lo è. Magari fosse solo una cotta! Ti sarebbe già passata.» Glosci le prese il viso nelle manine, cercando di far sì che lo guardasse «Linda, era solo il ragazzo sbagliato. Ne troverai altri». «Io non voglio trovare nessuno.» fece lei, riagguantando il lenzuolo «Tanto nessuno vorrà mai una strega, figlia di un’altra strega, che sarà sempre e solo una strega. Mentre lui… Lui sarà principe e poi re. Con la… Sua Elisabetta!» e buttò via il lenzuolo in un impeto d’ira. Glosci stava per dire qualcosa, quando improvvisamente si udì bussare alla porticina. Linda sussultò, solo per ripiombare nell’apatia un attimo dopo. «Digli che non ci sono, chiunque sia.» bofonchiò, riprendendo il lenzuolo «Devo finire di pelare queste maledette patate». «Neanche per sogno!» ribatté prontamente il famiglio, afferrandola per le guancie prima che potesse far qualcosa e cominciando a schiaffeggiarla rapidamente «Svelta, svelta, svelta!». Linda smanacciò per levarselo di torno come si fa con una mosca fastidiosa, ritrovandosi però a doversi appoggiare contro lo schienale. Nel frattempo, alla porta bussarono nuovamente. «E ha anche fretta.» commentò Linda, prima di alzare la voce per farsi sentire «Arrivo!». Si sollevò con estrema fatica dalla sedia, passandosi la manica del vestito sul viso per asciugarsi le lacrime; poi, a passi lenti, si diresse stancamente verso la porta e la aprì. Una figura incappucciata stava in piedi sulla soglia, intabarrata in un pesante mantello. «Cerco la strega rossa.» fece una voce femminile da sotto il cappuccio «Posso entrare?».

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«Oh, uhm…» Linda restò impreparata «In genere la gente non vuole entrare nel mio antro. È… Tenebroso. Ed è in disordine. Se poteste ripassare…». «No» rispose subito la donna, entrando nella casetta senza aspettare un invito. La giovane non provò nemmeno a fermarla, limitandosi a sospirare stancamente. La donna incappucciata restò quindi ferma, aspettando che Linda chiudesse la porta. Come lo fece, avanzò speditamente di qualche passo, guardandosi attorno. Si fermò davanti al tavolo ingombro, posandovi sopra lo sguardo. «Patate» disse soltanto. «Ve l’avevo detto che c’era disordine» mormorò Linda, seguendola svogliatamente. «È una questione della massima importanza» tagliò però corto la donna, abbassandosi il cappuccio sulle spalle. La giovane si immobilizzò, ritornando improvvisamente padrona di sé. «Ma voi…» balbettò, sbigottita «Siete la domestica della regina». «Chiamami Gerda.» disse velocemente quella «E tu sei Linda, vero?». «Come fate a…?». «Conoscevo tua madre.» rispose la domestica, spostando lo sguardo verso il ritratto della donna con la cappa rossa «Non che fossimo grandi amiche, ma, beh, probabilmente sono l’unica a corte a sapere chi fosse veramente la strega rossa. E chi lo sia adesso.» si voltò verso la giovane, esaminandola in viso «Hai un aspetto terribile». «Sto superando il momento critico.» si affrettò a rispondere Linda «Ma come-». «Non ho tempo per rispondere alle tue domande. Sono uscita dal palazzo di nascosto.» senza esitazioni, si sedette su una bassa panca, proprio sotto la finestrella della casa «Siediti». 113


La giovane la guardò con un misto di meraviglia e inquietudine. Si avvicinò alla donna, solo perché Glosci la precedesse, con un’aria seria sul musetto. «Anch’io mi ricordo di te.» disse, fermandosi davanti a Gerda «E no, proprio non posso dire che eri un’amica di sua madre». «L’animale parlante della strega rossa.» commentò la domestica, senza impressionarsi «Sei sempre tu o sei il figlio del precedente?». «Tuo nonno sarebbe un bambino in confronto a me. E neanche il nonno di tuo nonno non arriverebbe ai miei anni.» il famiglio guardò Linda, per nulla allegro «Non fidarti di lei. Se volessi sapere qualcosa su tuo padre, è a questa donna che dovresti chiedere». «Mio padre?» la giovane cominciava a non capirci più nulla. «È una storia vecchia, animale parlante.» disse Gerda, desiderosa di cambiare discorso «Sia io che la tua padrona siamo rimaste con un pugno di mosche, alla fine». «E di certo sia tu che lui avete imparato che non è saggio prendersi gioco della strega rossa.» Glosci socchiuse gli occhi «Bada a quello che dici, dunque, perché stavolta non sarei io a trattenere la sua mano dal darti la giusta punizione». «Punizione?» si intromise Linda, che non apprezzava la piega del discorso «Ma di che cosa stiamo parlando si può sapere?». Gerda sospirò, posando le mani sulle ginocchia. «Tuo padre lasciò tua madre per me quando scoprì che era incinta. E tua madre si vendicò» rispose brevemente la domestica. «Non come avrebbe potuto, ricordatelo sempre.» puntualizzò il famiglio «A te non fu fatto niente, e solo perché fui io a calmare la sua rabbia». «Mentre lui è dovuto scappare chissà dove, lo so. Ma non sono qui per questo.» la domestica si voltò verso Linda «Sono venuta per dirti che la regina medita di ucciderti, ragazza». La giovane si irrigidì, impallidendo. 114


«Uccidermi?» riuscì solo a domandare, incerta. «Ucciderti come ha già fatto con re Edoardo.» aggiunse Gerda con un’espressione grave «Con il mio aiuto». «Tu hai ucciso il re?» esclamò Glosci, sbigottito. La domestica annuì col capo, senza segni di pentimento. «Tutti lo ricordano come il buon re, ma essere un buon re non fa di lui un buon marito.» continuò la domestica «Solo io e la regina sappiamo che uomo fosse all’interno delle mura di casa. Non biasimerò la mia regina per averlo assassinato». «E ti aspetti che adesso daremo ascolto a un’assassina?» fece Glosci, per nulla convinto «Chi ci dice che le tue parole siano oneste?». «Viviana vuole eliminare la tua padrona solo perché ama Aleandro.» Gerda parlò senza esitare, sollevando una mano per impedire a Linda di ribattere inutilmente «Nessuno può essere incolpato per amare una persona, né tantomeno ucciso. Sia la politica che la magia non hanno niente a che fare con questo. Quanto ad Aleandro, posso solo dire che farà presto ad accorgersi dell’errore che sta commettendo». «La tua dolce regina ha intenzione di uccidere anche lui, quindi?» domandò Glosci, sprezzante. Gerda lo guardò con altrettanta durezza. «Viviana non potrebbe torcergli un capello nemmeno volendo. È il suo amore, come lo è della tua padrona. A differenza di lei, si sente soltanto più legittimata a proteggerlo con qualsiasi mezzo». A quel punto, Glosci si decise a tacere. Linda, da parte sua, era rimasta impietrita. La delusione e la disperazione che aveva provato in quei giorni sembrava condurre in un incubo ancora peggiore. «Ad ogni modo, puoi salvarti.» ricominciò Gerda, guardando la giovane «La regina dovrà aspettare sino al matrimonio per mettere in atto i suoi piani: avrai tutto il tempo che ti serve per scappare». 115


«Scappare?» riuscì a dire Linda, dopo quel lungo silenzio «Non saprei nemmeno dove andare». «Se fossi in te, comincerei a pensarci fin da subito.» la domestica si alzò in piedi senza attendere oltre «Un’ultima cosa: la regina si chiede da giorni quanto dovrà aspettare per avere il suo filtro». «Può aspettare tutta l’eternità, per quel che ci riguarda» replicò aspramente Glosci. «Se le consegnerò il filtro, potrò giustificare il mio allontanamento da palazzo.» disse Gerda «Inoltre, se non glielo consegnerete, prima o poi potrebbe inviare delle guardie qui e usarvi molti meno riguardi». Glosci guardò Linda con apprensione. Prima che potesse dire qualcosa, la giovane si diresse verso l’altra stanzetta. «Eccolo.» disse quando ritornò, con in mano una fiaschetta di vetro contenente un liquido di un rosso vivace «Basterà che lo faccia bere ad Aleandro e questi si innamorerà della prima persona che vedrà». «Non dovresti darglielo» disse il famiglio, preoccupato. Linda scrollò le spalle, porgendolo alla domestica. Gerda lo prese con cura tra le mani, facendolo poi sparire tra le pieghe del mantello. «Devo andare, adesso» disse velocemente, tirandosi di nuovo il cappuccio sulla testa. Fece qualche passo verso la porta, fermandosi solo quando vi fu davanti. Né Linda né Glosci avevano ancora riaperto bocca. Gerda si voltò a guardarli con aria angustiata. «Io amavo tuo padre, Linda.» mormorò, come per cercare una giustificazione «Esattamente come Viviana ama Aleandro». «Li amate di un amore malato, fatto di invidia e gelosia» disse Glosci, senza muoversi da dov’era. Gerda chinò il capo, prima di uscire dalla casetta. Linda restò ferma ad osservare la porta. Lentamente, poi, spostò lo sguardo verso il famiglio. 116


«Ma si vede così tanto che… Insomma, di Aleandro?» gli domandò. «Quella donna ti ha appena detto che la regina ha intenzione di ucciderti e tu pensi a quel salame.» Glosci la guardò stancamente «Fai tu». Linda socchiuse gli occhi, valutando attentamente quel particolare. «Suppongo che adesso dovrei cadere nello sconforto» mormorò, come se non ci fosse nessun’altra alternativa. «Vuoi dire che non lo farai?» fece il famiglio, sbalordito. «È nei momenti di difficoltà che bisogna tirare fuori il coraggio e la determinazione.» affermò quel solenne proposito con molta convinzione «Sono la strega rossa. Da secoli i regnanti scendono a patti con me». «O con tua mamma, tua nonna, tua bisnonna…» la corresse Glosci. «Fa lo stesso. La regina è venuta da me.» tagliò corto Linda «Non sarò io a farmi impaurire da una donna solo perché indossa una corona». Aveva appena finito di dirlo che si sentì bussare alla porta e la giovane fece un salto di mezzo metro dallo spavento. Glosci la guardò molto preoccupato. «È solo la porta.» disse «Perché non vai a vedere chi è, invece di parlare a vuoto?». Linda si riscosse di botto, scuotendo la testa con decisione, come a dire “adesso te la faccio vedere io”. Per prevenzione, comunque, stese il braccio sino a raggiungere il bastone. «Chiunque tu sia, sappi che non sono dell’umore adatto.» disse con voce stentorea, mentre girava la maniglia «Al primo scherzo ti scaglierò all’Inferno con il mio…». E solo allora si accorse che invece del bastone aveva preso la scopa e che ritto sulla soglia, con un’espressione molto indecisa, stava Aleandro. 117


«Con la vostra scopa?» domandò debolmente il giovane, indicandola. «Ma con ramoscelli d’erica» rispose lei con un filo di voce. Sulla faccia, le era rimasto uno sguardo idiota. «Vi ho disturbata?» disse Aleandro, comunque turbato «Forse dovrei ripassare. Mi è sembrato che-». «Nononononononono.» si affrettò a ribattere Linda, mettendo le mani avanti per gesticolare «Non stavo minacciando di morte voi. No, ecco, affatto. Tutti ma non voi». «Minacciate tutti di morte?» fece il giovane, allarmato. «Nooo, io? Tutti? Solo… Qualcuno! Per legittima difesa, capite. Minaccia contro minaccia, ecco. Magari un po’ di malocchio, di quello che non fa…» e qui le scivolò la scopa di mano, che rovinò rumorosamente sul pavimento facendole sfuggire un urletto «…mmmale. Ci sono, eh, ci sono. Che non fa male. Poco. Forse. Cioè, tanto, ma da poco. Il malocchio eh, non la… Scopa». Aleandro restò a fissarla sulla soglia mentre lei si soffiava su un dito a cui evidentemente doveva essersi fatta male, chissà come, con la scopa. Un attimo dopo, le dita di Linda cominciarono a tremare vistosamente, come anche il suo sorriso teso. «State bene?» le chiese il giovane, vedendola così scossa «Posso». «Venite dentro» disse rapidamente la ragazza, facendogli un rapido cenno e togliendosi dalla porta: chiunque, vedendola, si sarebbe accorto di come i suoi nervi erano stati messi a dura prova. Aleandro gettò un’occhiata incuriosita alla montagna di patate e al lenzuolo in mezzo all’altra stanza. «È per un incantesimo?» non riuscì a trattenersi dal chiedere. «Che?» domandò Linda, senza capire. «Le…». «Le patate?». «Ecco, sì. E il lenzuolo». 118


La giovane lo guardò stranita. «Voi non pelate patate?» gli chiese, solo per correggersi un attimo dopo «Cioè, lo so che voi non pelate patate. Voi siete… Nobile, sì. I nobili non pelano patate, già. I quasi re, poi». «Oh, scusate, allora.» ribatté Aleandro, accortosi della figuraccia «Sì, insomma, no, io non le pelo, ma, ehm, sì, qualcuno lo fa. Solo… Non credevo che anche le streghe pelassero patate». Linda riprovò a stiracchiare un sorriso, mentre si sedeva sulla panca, facendo cenno al giovane di imitarlo. «Anche le streghe mangiano.» rispose «E i quasi re?». «Oh, beh, “quasi re”…» Aleandro rise nervosamente, a disagio «Non chiamatemi a quel modo, vi prego. Sono nobile solo per una fortunata coincidenza, figurarsi se voglio pensare di essere un “quasi re”. Sono solo un uomo. Un giovane uomo». Linda abbassò lo sguardo, annuendo fra sé. «Allora io…» disse piano «Io potrei essere solo una ragazza, per voi?». Aleandro la guardò con un certo stupore, prima di distendere le labbra in un sorriso. «Beh, ma voi non siete solo una ragazza.» rispose, volendole fare un complimento «Voi siete la strega rossa, signora di grandiosi portenti. Io, poi, lo so meglio di chiunque altro: senza di voi non avrei mai potuto conquistare il cuore della principessa Elisabetta». Linda avvertì un improvviso tonfo al cuore. Gli occhi, prima socchiusi, si aprirono con aria grave, posandosi quindi sul giovane. «Chiedo scusa?» fece soltanto, fissandolo senza gentilezza. «Mi riferisco al modo in cui avete accolto la richiesta che vi feci giorni fa.» continuò intanto il giovane, troppo allegro per accorgersi del cambiamento d’umore di Linda «Sono venuto apposta per ringraziarvi. E, ovviamente, pagarvi. O restituirvi il favore. Dovete scusarmi, non sono pratico di… Trattative con le 119


streghe. E, ecco, se si potesse… Sapere cosa avete fatto. Mi sento un po’ in colpa, sapete, e-». «Io non ho fatto niente.» lo interruppe di botto la ragazza, scura in viso «Cioè, voi credete che io abbia… Fatto innamorare la principessa di voi?». Aleandro parve improvvisamente interdetto. «Non è stato così?» domandò, rendendosi conto solo adesso dell’espressione di Linda. «Oh, assolutamente no, mio caro.» rispose l’altra, scuotendo lentamente il capo, così da non lasciar spazio a dubbi «Dovete credermi una povera scema a pensare che io possa anche solo approvare questo… Questo…». Rinunciò a trovare una parola adatta, stringendo le mani con forza sul bordo della panca per mantenere la freddezza. Aleandro era rimasto senza parole, con la bocca aperta e gli occhi smarriti. «Ma se volete così tanto ringraziare qualcuno, potrete sempre rivolgervi alla regina, mio ingenuo e nobile ragazzo.» riprese Linda, caricando le parole di disprezzo «Non avete la benché minima idea di cosa abbia in serbo per voi. Non siete felice? Presto sarete il novello sposo della principessa più stupida della storia del regno. Di certo vi farà sentire a vostro agio». Aleandro la fissò dapprima allibito, prima di farsi serio. «A quanto pare, tutti hanno le idee più chiare di me.» disse «C’è forse qualcosa che potete dirmi?». La giovane lo squadrò per alcuni secondi, riabbassando quindi il capo. «Che non dovreste fidarvi della regina, né di nessun altro a palazzo.» rispose infine «Il re non è morto accidentalmente. E, come lui, altri morranno». Aleandro rimase immobile ad ascoltarla, mentre sentiva la propria schiena bagnarsi di gelido sudore. «Come fate a saperlo?» le domandò «Avete partecipato alla sua-». 120


«Oh, no.» lo interruppe Linda, sollevando un palmo con un debole sorriso «Non ne sapevo niente fino a oggi. Io sono soltanto il prossimo nome sulla lista, a quanto pare». «Sulla lista di chi?» insistette Aleandro «Della… Regina?». La giovane sfuggì il suo sguardo, sino a chiudere gli occhi quando annuì piano. «Come? Quando? E perché?» le chiese subito l’altro. «Fate domande a cui non so rispondervi.» disse Linda, rialzando il viso «E non voglio. L’unica cosa che mi interessa» e qui si voltò a guardarlo «è che ascoltiate attentamente ciò che ho da dirvi. Cercate la vostra felicità, celebrate il vostro matrimonio, se proprio dovete, ma andatevene da qui. Allontanatevi da quella donna, perché la morte sarebbe poca cosa, in confronto a quel che potrebbe capitarvi. E io… Io non posso prendere parte a tutto questo». Aleandro rifletté per alcuni istanti su quelle parole, prima di fissarla con decisione. «Non posso tirarmi indietro.» disse «Se davvero esiste un male così grande è mio dovere affrontarlo, dal momento che me ne avete messo al corrente». «Non potete farci niente» Linda scosse la testa, rassegnata. «Che io possa o non possa non importa, dal momento che avete messo la vostra vita nelle mie mani.» Aleandro le prese la sua, facendola sussultare «Per quanto non sappia niente di voi, se non racconti frammisti a leggende, non permetterò mai che vi venga fatto del male. Non finché sarò padrone del mio corpo e della mia mente». La giovane indugiò ancora qualche secondo, prima di ritrarre lentamente la propria mano. Quelle ultime parole non avevano fatto altro che accrescere la sua amarezza, proprio perché sapeva che il suo corpo e la sua mente sarebbero stati liberi ancora per poco. E per mano sua, per di più. 121


«Ci tenete davvero a fare qualcosa per me?» gli domandò, con voce fioca. Aleandro assentì. «Tutto quello che mi chiederete» rispose, con una fiducia che nemmeno lui sapeva da dove venisse. La giovane si alzò in piedi, accarezzandosi con delicatezza le braccia. «Andate via di qui, dunque.» disse «Ma quando avrete varcato quella soglia, ricordatevi di Linda, e di lei soltanto. Lasciate dentro questa casa il rosso del suo mantello». Aleandro stava per replicare, quando un lampo di quegli occhi violetti, improvvisamente taglienti, lo ridussero al silenzio. Come imbambolato, si alzò a sua volta dalla panca, barcollando appena nel riscoprire il soffitto così vicino alla sua testa. «Andate» disse Linda, senza muoversi dalla sua posizione. «Siete-» fece per dire il giovane. «Andate» ripeté l’altra, indicandogli con un cenno del capo la porta. Aleandro parve improvvisamente incerto. Sembrava che gli pesasse uscire da lì, allo stesso modo come lo inquietava il modo di fare della strega. Dischiuse le labbra per parlare, senza riuscire ad emettere un suono, intanto che la giovane distoglieva del tutto lo sguardo da lui. A quel punto, ancora impacciato, Aleandro si diresse verso la porticina e uscì più frettolosamente di quanto si sarebbe aspettato lui stesso. Rimasta sola, Linda si guardò attorno con circospezione. Si diresse verso il calderone senza parlare, trovando Glosci ad aspettarla. «Come mai questa volta non ti sei intromesso?» gli domandò come lo vide. Il famiglio rispose con un’alzata di spalle.

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«Parli come se avessi sentito la mia mancanza.» ribatté quello, che sembrava non dar troppo peso a quanto accaduto «Piuttosto, non sono sicuro che mi piaccia la tua espressione». «Taci.» lo zittì subito la giovane «Nessuno metterà un dito addosso alla strega rossa. A qualsiasi costo. Ho tutto il tempo per sventare qualsiasi piano la regina possa aver messo in atto. Ricorrerò al libro nero, se sarà il caso». «Non scherzare, Linda.» la ammonì Glosci «La domestica potrebbe aver mentito, non ci si può fidare di quella donna. E Aleandro… Beh, anche lui potrebbe fare qualcosa, dopo quello che gli hai detto». «Oppure no.» obiettò l’altra «Gli incantesimi del libro nero vanno usati solo in caso di emergenza, non è così che mi hai sempre detto? Se questa non è un’emergenza come la chiami?». «La magia di quel libro ti porterà via tutto quello che hai». «Io non ho niente! Niente e nessuno!» gridò di colpo Linda. Il famiglio si ammutolì, chinando il capo. La giovane inspirò a fondo un paio di volte, prima di incamminarsi a sua volta verso la porticina. «Vado a fare due passi. Pensa tu a rimettere in ordine» disse soltanto, prima di uscire senza aggiungere altro. Glosci, senza perdere tempo, corse fino allo specchio nella camera della sua padrona. Elisabetta si attorcigliava pigramente una ciocca dei lunghi capelli biondi attorno a un dito, seduta sul bordo del suo letto. Di tanto in tanto rivolgeva un’occhiata dubbiosa ai due o tre fogli di pergamena su cui il ciambellano di corte aveva minuziosamente trascritto tutte le parole che avrebbe dovuto dire e i gesti che avrebbe dovuto fare. Lo stesso canovaccio su cui a turno sua madre e le sue ancelle si erano esasperate per giorni pur di farglielo imparare. Dopo l’ennesimo disastroso tentativo, il ciambellano l’aveva definita “fatua”: Elisabetta ignorava il 123


significato di quella parola, ma si ricordava di aver sentito parlare di certi fuochi fatui, che qualcuno (ma non riusciva a ricordare bene chi) si occupava di accendere la notte nei cimiteri. Ovviamente le era oscuro anche il motivo per il quale questo misterioso essere la notte non se ne stesse a letto a dormire come tutte le persone perbene, tuttavia non le piaceva affatto l’idea che il ciambellano avesse usato quell’aggettivo. E quella, naturalmente, era adesso la sua unica preoccupazione, mentre fuori era ormai buio e il giorno del matrimonio si avvicinava. E non solo quello: infatti, un’ombra più nera della notte stessa si stagliò contro la finestra, coprendo la luce della luna. Ma di questo la principessa era come al solito ben lungi dall’accorgersene, così l’ombra nera dovette bussare al vetro per catturare la sua attenzione. Elisabetta alzò lo sguardo, scorgendo la sagoma sul balconcino; senza porsi troppi problemi, si alzò per andare ad aprire, come d’altronde insegnava la buona educazione (avete mai letto su qualche manuale di buone maniere che non si deve aprire a qualcuno che bussa solo perché lo fa di notte, fuori da una finestra e senza essersi fatto annunciare? Nemmeno Elisabetta, infatti) e quando si ritrovò di fronte Aleandro, uno splendido sorriso le comparve immediatamente sulla bocca. «Oh, siete voi!» disse, evidentemente compiaciuta per quella sorpresa «Desiderate qualcosa?». «Oh, beh…» fece Aleandro, che aveva ancora addosso tutto l’affanno della scalata «Ho voluto fare una sorpresa alla mia futura sposa». «Oh, che tenero che siete.» fece Elisabetta, congiungendo le mani felice «La conosco?». Aleandro piegò di lato il capo con un mezzo sorriso che si perse rapidamente in un’espressione perplessa. «Non dovevo sposare voi?» le domandò, dopo qualche attimo di esitazione, visto che lei non accennava a dire altro. 124


«Me? Oh, già, sì, è vero!» esclamò la principessa, dandosi un colpetto sulla fronte «Dovete scusarmi, sapete: con tutta questa confusione per il matrimonio una povera ragazza finisce per dimenticarsi tutti i dettagli». Il giovane non poteva certo dirsi felice di essere passato da “quasi re” a “dettaglio”, ma fece buon viso a cattivo gioco. «Potreste farmi entrare, adesso?» le domandò quindi «Non vorrei che qualcuno mi vedesse». «Ah, giusto, visto che volevate fare una sorpresa… Ma non so se posso farvi entrare da lì.» Elisabetta lo fissò dubbiosa «Sapete, c’è la porta per far entrare la gente». «Non penso che sia quello il problema più grande» mormorò Aleandro. «Vi farei sentire mia madre quanto strepita ogni volta che faccio qualcosa che va contro le sue mille regole. Elisabetta-vedi-di-darretta, Elisabetta-vedi-di-dar-retta. È un tale tormento. Non so se tra le sue regole ce ne sia qualcuna che vi riguardi. O che riguardi un giovanotto sul mio balcone di notte, ecco». Aleandro realizzò che era meglio se non ricordava alla principessa che loro, stando al volere della regina, nemmeno dovevano vedersi. «Sono sicuro che non ci sia alcun problema» mentì, con un sorrisone affabile. «Oh, allora se lo dite voi mi fido» disse subito Elisabetta, e si decise a spalancare la finestra per far entrare il futuro marito. Aleandro, che si era arrampicato fin lassù badando a non farsi vedere da nessuno, poté tirare finalmente un sospiro di sollievo. «Su.» lo incitò intanto la principessa, guardandola con aria vivace «Mi devo coprire gli occhi?». Il giovane corrugò la fronte. «Coprire gli occhi?» domandò, senza capire. «Sì, gli occhi.» ripeté Elisabetta, col solito entusiasmo «Per la sorpresa, no?». 125


Aleandro si ritrovò a corto di parole. «Era questa la sorpresa» dovette ammettere alla fine. «Questa quale?» fece la principessa. «Questa qui. Questa… Stanotte». «Sì, stanotte e qui, d’accordo. Ma dov’è la sorpresa?». Il giovane rimase di nuovo in situazione di stallo. «Ho paura di essermela dimenticata nella mia stanza.» disse alla fine, molto incerto «Che stupido. Ve la-». «Oh, non preoccupatevi, anch’io mi scordo tutto di continuo.» lo rassicurò lei «Volete tornare a prenderla?». «No.» si affrettò a rispondere lui «Cioè, a ben pensare, è meglio se la tengo per il giorno della cerimonia». «Ottima idea! Che bello, così almeno ci sarà una sorpresa, invece che un’altra noiosa cerimonia e basta. Ma fate sì che sia una bella sorpresa, eh. Mi raccomando. Adoro le belle sorprese». Aleandro decisamente non aveva le stesse aspettative riguardo al proprio matrimonio. «Non siete impaziente, mia cara?» le domandò allora. «Per la sorpresa? Se devo aspettare-». «No, intendevo per il matrimonio» la corresse il giovane. «Ah, per quello?» Elisabetta si portò un’unghia alle labbra, resistendo dal mangiucchiarsela solo per via del sapore terribile dello smalto «Eh, uhm, ssssì. Ci sarà il ballo, dopo. Mamma ha chiamato la mia orchestra preferita, però ha anche detto che non posso… Ecco, che non devo bere, per cui metà del divertimento se ne va così. Insomma, io lo farei più festoso, un matrimonio. Meno pompa e più allegria, ecco. Voi no?». «Beh, io…». «Cioè, io non ci ho mai pensato, eh.» puntualizzò subito la principessa, andando a sedersi sul bordo del letto «Però mi è venuto in mente adesso. Magari se chiediamo tutti e due può darsi che ci accontentino». 126


Aleandro la guardò mentre con espressione pensosa dondolava le gambe nel vuoto come una bambina. Si passò una mano fra i capelli sulla nuca, a disagio. «Sì, ecco, magari…» balbettò «Certo che noi due non abbiamo mai avuto modo per conoscerci veramente, eh?». «Oh, ma io sono semplice.» rispose lei con una leggera risata «Tutti quelli che mi vedono una volta capiscono come sono fatta. Proprio bolle e sapone, come si dice». «Sì, beh, acqua e sapone, veramente». «Quello.» concordò la principessa, indicandolo con un dito «E poi ce ne sarà di tempo per conoscersi». «Già…» mormorò Aleandro, chinando il capo «Dopo. In genere non dovremmo conoscerci un po’ anche prima di sposarci?». Elisabetta gli rispose con una scrollata di spalle. «E che differenza fa? Prima o dopo, di tempo a disposizione ce n’è quanto uno vuole». Il giovane non riusciva in alcun modo a seguire la logica della principessa, sempre ammesso che ce ne fosse. Mosse qualche breve passo verso di lei. «Elisabetta, io… Credo di dovervi parlare» disse debolmente, mentre sempre più dubbi si affacciavano nella sua mente. «Oh. E non stiamo già parlando?» domandò lei, confusa. «Di una cosa importante, diciamo». «Oh, aspettate, ho capito. È una delle cose serie di cui parla sempre mamma.» Elisabetta si alzò in piedi, sistemandosi velocemente le pieghe del vestito e fermandosi proprio davanti a lui «Le cose serie non si possono ascoltare stando sedute sul letto, capite». Aleandro dischiuse le labbra con aria imbambolata, quando improvvisamente scorse con la coda dell’occhio un movimento vicino alla finestra. Un’ombra leggera e silenziosa, in qualche modo simile a un gatto e in qualche altro completamente differente. Girò il capo appena in tempo per riconoscere in essa il 127


famiglio della strega rossa con una fiaschetta a tracolla, che era appena saltato sul balconcino della principessa. Fece per dire qualcosa, ma Glosci, dando prova dei sui riflessi, si portò un ditino alla bocca per intimargli il silenzio e, neanche un secondo dopo, era di nuovo saltato via verso chissà quale altro appiglio. «Aleandro?» lo chiamò Elisabetta, seguendo poi il suo sguardo «Cosa c’è sulla finestra?». «Niente.» si sbrigò a rispondere lui, tornando a guardarla «Un… Rapace notturno, credo. Nulla di cui preoccuparsi. Mi sono distratto». «Lo vedo che vi siete distratto. Siete persino più distratto di me!» commentò lei, divertita «Dovevate dirmi quella cosa seria». Aleandro la fissò in silenzio per qualche istante. Sapeva cosa voleva chiederle: di sua madre, di suo padre e di qualsiasi progetto potesse esserci dietro il loro matrimonio, ma ormai poteva essere sicuro che Elisabetta non ne avrebbe preso parte, né poteva condurre qualche indagine con discrezione. Di certo chiunque se ne sarebbe accorto subito, se la principessa avesse cominciato a fare domande sulle intenzione di sua madre! E, tuttavia, la comparsa del famiglio della strega rossa, quella stessa notte, non poteva che provare che qualcosa di oscuro era all’opera e che sia lui che l’ingenua Elisabetta in qualche modo ne avrebbero fatto le spese. Di qualsiasi cosa si trattasse, sentiva che spettava a lui soltanto venirne a capo prima che fosse troppo tardi. «Me la sono scordata» rispose perciò alla principessa, scuotendo il capo. «Di nuovo?» fece lei, colpita «State diventando imbarazzante». «Vi chiedo scusa, principessa.» replicò lui, indietreggiando verso la finestra «È meglio se torno nella mia stanza, adesso. Il… Fresco della sera mi manda in confusione, evidentemente». «Forse fareste meglio a non bere neanche voi al matrimonio, allora» gli suggerì la futura sposa. 128


Aleandro annuì nervosamente, esitando parecchie volte e profondendosi in saluti e brevi inchini più del necessario, prima di saltare il balcone e ritrovarsi a dover discendere in qualche modo la parete del palazzo. Glosci rientrò con altrettanta aria furtiva nella casetta, attraverso la finestrella che aveva lasciato appositamente socchiusa. Aveva appena posato la fiasca sulla prima mensola a disposizione che un odore inconsueto, come di un forte incenso, gli giunse al naso. Insospettito, fece attenzione a non dire niente, perché non ricordava che Linda avesse in programma di realizzare alcun incantesimo, quella sera. Mosse appena pochi passi, tuttavia, che come fu nella stanza del calderone la sua padrona gli si parò davanti per sbarrargli la strada. «Linda!» esclamò, sobbalzando «Che cosa-». Ma la giovane non lo fece nemmeno terminare. Il suo viso gentile era celato da un’espressione cupa e lugubre che non lasciava preannunciare nulla di buono. Quando poi il famiglio riconobbe il grosso grimorio nero, capì che cosa l’aveva fatta cambiare. «Scusami, amico mio.» disse lei, con voce spenta «È solo una soluzione temporanea». Linda non fece altro che aprire il libro che una sorta di litania risuonò nella casetta e tutto quanto fu buio, come se la notte avesse inghiottito ogni cosa. Glosci riuscì a chiamare il suo nome ancora una volta, un attimo prima che il libro si richiudesse da solo, facendo arretrare la giovane di un passo, come se avesse ricevuto uno spintone. La litania, la notte e Glosci stesso erano spariti, risucchiati dalle pagine del libro. Linda non disse niente: strinse il libro con più forza tra le braccia, senza che nulla, né dolore né sollievo, fossero ancora comparsi sul suo viso. Dischiuse appena le labbra, abbastanza per pronunciare con voce flebile due versi di una filastrocca. 129


«Venga la notte, si spenga il sole, è il mio tormento che lo vuole».

«Mia figlia vuole che sia in pieno giorno.» disse Viviana, passandosi il piccolo ventaglio da una mano all’altra, intanto che percorreva il cortile «Io avrei preferito la sera, la trovo molto più suggestiva. Ma, come ben capirete, è pur sempre il suo matrimonio. Acconsentire a qualche richiesta mi pare dovuto». Il Conte, che la seguiva a pochi passi di distanza, annuì, senza accennare una protesta. Non c’era traccia sul suo volto di preoccupazione o di disagio per quel ruolo che gli era stato affidato: come sempre, ubbidiva senza fiatare, mettendo gli obblighi verso la corona davanti a tutto, compresi i suoi dubbi di padre. Accanto a lui, Aleandro nascondeva molto peggio il suo nervosismo. Ormai non aveva più dubbi che la regina avesse in mente qualcosa, specialmente dopo quelle ultime parole: che Elisabetta insistesse per anche solo una minima variazione in quel matrimonio era fuori discussione! Questo, di per sé, ad Aleandro sembrava parecchio deprimente, ma al momento sapeva di doversi preoccupare più della regina che della principessa. «Il nostro sposo è piuttosto taciturno, oggi.» lo punzecchiò Viviana, voltandosi a guardarlo «Forse comincia ad avvertire un poco di tensione? Il gran giorno è imminente, in fondo». Aleandro restò a fissarla, badando a non distogliere lo sguardo per nessuna ragione, come se da esso dipendesse chissà cosa. La regina si limitò a piegare appena il capo di lato. «Neanche una parola.» commentò brevemente, con un piccolo sorriso divertito «Vi facevo più convinto». «Aleandro, rispondi.» lo incitò il padre «La regina ti ha-». «Ho sentito.» lo interruppe fin troppo duramente il figlio, posandogli una mano sul braccio «Vostra maestà permette una richiesta anche allo sposo?». 130


«Aleandro!» lo richiamò subito il padre. «Tranquillizzatevi, Conte.» disse con calma Viviana «E voi chiedete pure. Non avete ancora fatto una sola richiesta, eccetto la mano di mia figlia». «Avrei preferito limitarmi a quella, per mia indole.» ribatté il giovane, con fierezza «Ho lasciato che fosse mio padre, di cui mi fido ciecamente, a stilare la lista degli invitati da parte nostra. Ma mi rendo conto che ho omesso un nome per me importante». Viviana alzò un sopracciglio, senza capire. «Tutto qui?» domandò «Volete aggiungere un nome alla lista degli invitati?». «Esattamente». «Non vedo dove sia il problema.» Viviana aprì il ventaglio «Posso chiedervi di chi si tratta? Un altro amico d’infanzia da Vallechiara?». «Un’amica. Non d’infanzia» rispose Aleandro, vago. «Oh, capisco.» fece la regina, sfoggiando un sorrisetto teso, mentre di riflesso cominciava ad agitare il ventaglio «Una… Vecchia fiamma, se posso azzardare?». «Mia regina…» mormorò il Conte, impacciato a sua volta. Aleandro, da parte sua, non aprì bocca. Viviana spostò lo sguardo altrove per nascondere la smorfia di disappunto. «Il vostro silenzio vale più di mille parole, mio caro. Dovreste essere più discreto.» disse, con un tono più amaro di quanto volesse, solo per aggiungere velocemente «Per mia figlia, intendo». «Maestà, mio figlio non ha vecchie fiamme, come le definite voi.» si intromise nuovamente il Conte «Una storia simile sarebbe cosa nuova anche per me, che sono suo padre. Non pensate male di lui». «Non lo sto facendo.» ribatté pronta Viviana «E sia, in ogni caso, vi è concesso portare questa vostra… Amica. Ma, in ogni caso, mi occorre conoscerne il nome». 131


Aleandro inspirò una buona boccata d’aria. «Linda» rispose quindi, badando che la sua voce non tremasse. La regina richiuse il ventaglio, guardandolo seria per qualche attimo. «Linda, certo. E poi?» domandò «Presso quale casato dovremo spedire il suo invito?». «Presso nessuno.» disse il giovane «Non appartiene alla nobiltà». Il Conte lo guardò senza dire niente, ma all’improvviso l’aria divenne così tesa che si sarebbe potuto tagliarla con un coltello. Viviana storse la bocca, infastidita. «Una popolana, dunque?» gli chiese, sprezzante «Mio caro, si tratta del matrimonio della principessa di questo regno». «È la mia unica richiesta» continuò Aleandro, senza smuoversi. Seguirono alcuni secondi di silenzio, in cui il giovane e la regina si fronteggiarono senza parlare. D’un tratto, quindi, il Conte si sentì in dovere di intervenire. «Altezza, quel che mio figlio si è scordato di dire è che la dama in questione, per quanto non appartenga alla nobiltà, è una signora di mirabili maniere.» disse, impeccabile come sempre «È figlia di una cara amica della mia defunta moglie, una donna che riveste importanti ruoli di ambasceria presso la nostra Vallechiara. Una dignitaria, insomma, avvezza alle consuetudini di palazzo e agli affari di stato». Viviana corrugò la fronte, scettica. «E vostro figlio si sarebbe scordato tutto questo?» domandò, cercando di valutare dallo sguardo dell’uomo se stesse dicendo la verità. «Il ragazzo è irrequieto per via del matrimonio, lo vedete anche voi.» rispose con naturalezza il Conte che, abituato alla vita di corte, aveva imparato a mentire come pochi «Mi faccio garante io per lui. Anzi, riconosco che è stato un mio errore quello di trascurare una persona degnissima e cara al mio Aleandro come la brava Linda». 132


La regina restò a fissarlo ancora per qualche attimo, prima di sospirare piano e riprendere a sventolarsi. «E sia, dunque.» concluse, benché scocciata «Mi fido di voi, Conte. Datemi il suo indirizzo, allora, ma non posso garantirvi che il messo farà in tempo». «Non disturbatevi.» disse Aleandro «Gliela farò recapitare da un uomo di mia fiducia. Sono certo che ce la farà». Viviana socchiuse gli occhi, nuovamente dubbiosa, ma acconsentì. «Fate a modo vostro, dunque, Aleandro.» concluse, aprendo e richiudendo il ventaglio «Tornate entrambi alle vostre stanze. Capisco che abbiate… Una certa urgenza». Stavolta Aleandro fu il primo a inchinarsi, e il padre dovette imitarlo un attimo dopo; quindi indietreggiarono, dando le spalle alla regina solo dopo molti passi a gambero. Non appena varcarono la soglia del palazzo, il Conte, visibilmente scosso, si rivolse al figlio. «In nome di Dio, si può sapere cos’è questa storia?» gli domandò, guardandolo torvo «Chi è questa Linda? Da dove salta fuori?». «La ragazza che mi ha aiutato, padre» rispose con calma il giovane. «Questo l’avevo già capito. Ma ti avevo detto di ringraziarla, non di invitarla al tuo matrimonio. A quel modo, poi! Non so nemmeno io perché ti ho coperto. O meglio, ho paura di saperlo, ma questo non va affatto d’accordo con i matrimoni, tantomeno con quelli reali. Adesso, figliolo, devi dirmi tutto, prima che la situazione precipiti». Aleandro abbassò il capo. La tentazione di rivelare tutta la storia al padre era forte, ma sapeva bene che il risultato sarebbe stato solo quello di mettere nei guai anche lui. No, era un problema suo, ormai, e avrebbe dovuto affrontarlo da solo, a costo di affrontarne le conseguenze per tutta la vita.

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«Farò tutto ciò che è in mio potere perché non precipiti.» disse infine, guardando il vecchio genitore «Solo questo posso promettervi». «Ma perché, Aleandro? Che cosa hai intenzione di fare?». «Io? Più niente, ormai, ma temo che la regina stessa abbia intenzione di fare qualcosa. Ora, vi prego, fidatevi di me: datemi un uomo fidato che possa consegnare l’invito e mantenere il silenzio». Il Conte si morse un labbro, prima di abbassare gli occhi e accarezzarsi la barba canuta con la mano. «Tra mezz’ora avrai il tuo uomo.» disse, senza nascondere la sua preoccupazione «Spero solo che tu sappia quello che fai». Aleandro annuì, dirigendosi verso la sua stanza senza aspettare oltre. «Lo spero anch’io» mormorò fra sé, una volta solo. Linda, con i palmi appoggiati a terra e i capelli che le ricadevano davanti al viso, assorbiva a grandi boccate il denso fumo aromatico che si sollevava dal braciere, sbattendo ripetutamente le palpebre ogni volta. Mano a mano che i suoi sensi si ottundevano, la sua vista si apriva sempre di più sul regno degli spiriti. Attraverso le braci, la strega rossa vedeva attraverso i mondi, sentiva i sussurri dei morti e degli spiriti nel loro debole crepitare, nel sibilo del fumo che saliva fino alle sue narici. Linda chiuse gli occhi per qualche istante, mentre sentiva le proprie membra vacillare, ma mantenne saldi i contatti col proprio corpo. Quando li riaprì, il fumo era come pieno di volti familiari, le loro figure sembravano sorgere dal braciere e fluttuare nella stanza. Linda risollevò la testa, sentendosi come intontita e si raddrizzò un poco aiutandosi con una mano. La giovane non perse tempo. «Vi ho convocati solo per dirvi che ho intenzione di ricorrere al libro nero.» disse, sfidando con uno sguardo le figure evanescenti di fronte a lei «Ho già compiuto il primo passo». 134


Un brontolio cupo si sollevò dalle forme spettrali, facendosi via via più forte di intensità. «Può darsi che debba ricorrere anche al vostro aiuto quanto prima.» continuò Linda, imperterrita «Che lo vogliate o no». «Nessuno di noi approva questa tua scelta» fece una voce maschile, la cui eco vibrò nella stanza ancora per molti secondi dopo che ebbe parlato. «Siete obbligati ad aiutarmi.» proseguì la giovane «Conosco i vincoli per costringervi a farlo, se necessario: non obbligatemi». Seguirono altri mormorii di disapprovazione, fino a quando una nebbia in particolare si fece più vicina ed imponente. Linda riconobbe subito sua madre anche in quell’aspetto. «Che cosa è successo?» domandò lo spirito della donna «Dov’è Glosci? Lui non può averti dato il suo consenso». A quelle parole Linda dovette chinare il capo, per nulla fiera di quanto aveva fatto. «Glosci è nel limbo.» rispose infine «Vi resterà sino a quando questa situazione non si sarà risolta, poi sarà libero». «E se tu non lo risolvessi, Linda?» insistette la donna, allarmata «Ti rendi conto che resterebbe confinato nel libro? Lascia perdere tutto subito, qualsiasi cosa sia accaduta! Stai sbagliando tutto!». «Non mi hai nemmeno chiesto cosa sia successo!» ribatté subito la giovane, con rabbia «Nessuno di voi l’ha fatto!». Il rumoreggiare degli spettri si spense di colpo, ammutoliti dall’ira della ragazza. Persino sua madre non riuscì a replicare. Linda sollevò da terra un foglio di pergamena recante il sigillo regale, mettendolo in bella mostra davanti agli spiriti. «Questa è arrivata stamani. L’invito per il matrimonio di Aleandro e della principessa Elisabetta.» disse, scandendo bene ogni parola «La regina ha intenzione di uccidermi ed è chiaramente disposta a farlo anche durante una cerimonia sacra. Ma io mi difenderò, a qualsiasi costo: troppo mi è stato strappato da quella donna, prima ancora che avessi osato anche solo chiedere qualcosa. Il 135


sangue del mio cuore ferito laverà le sue colpe e le mie! E voi dovrete obbedirmi!». Gli spiriti restarono in silenzio ancora qualche attimo. Alla fine, l’ombra della mamma si fece avanti una seconda volta. «Linda, ascoltami. Non sai quello che stai facendo.» la ammonì «Rifletti bene, dev’esserci un’altra soluzione». Linda strinse gli occhi e le labbra. «La soluzione è una sola» disse, e con un gesto stizzito della mano smosse le braci, disperdendo nel nulla le figure spettrali «Il mio respiro è in mano alla sorte: vendetta, a costo della morte!».

Viviana, dalla finestra della sua stanza, guardava la folla di nobili e damigelle che affollava la corte, la trafila di splendidi vestiti e spade scintillanti di cui erano coperti, il sole che vi rifletteva sopra i suoi raggi generosi. Mentre si preparava per il matrimonio e Gerda era la sola ad occuparsi di lei, a far sì che la regina fosse ancora più meravigliosa che la principessa, Viviana inghiottiva quell’amaro boccone poco alla volta. «A quanto pare, tutto è andato come progettavate» disse la domestica, che aveva notato il suo stato d’animo. La regina, con le braccia aperte per aiutare Gerda a vestirla, scosse appena il capo in segno di diniego. Gli occhi le brillavano, sul punto di riversare una pioggia di lacrime. «L’uomo che amo sta per sposare un’altra.» ribatté con voce roca e il respiro rotto «Niente è andato come progettavo». «Dimenticate che “l’altra” è vostra figlia» le ricordò la domestica «E, soprattutto, dimenticate il filtro». «Il filtro, sì. Un amore rubato, che in chissà cosa lo trasformerà.» Viviana volle chiudere gli occhi, lasciando modo di scivolare via a una sola lacrima «E di nascosto, poi. Come criminali». 136


«Potete sempre lasciar perdere. Il mondo è pieno di bei giovani come lui.» provò ancora a dissuaderla Gerda «Pensate a vostra figlia, a come sarebbe al riparo dagli scandali… A come sarebbe felice, anche». «E io?» ringhiò la regina, per tutta risposta «E io come sarei? Dovrò sacrificare la mia felicità per una ragazzina che non sa ancora cosa sia l’amore? Che forse non lo saprà mai?». Gerda preferì lasciar perdere, limitandosi a vestirla e agghindarla senza aggiungere altro. Viviana, intanto, scosse di nuovo il capo, stavolta con più risoluzione. «Se questo è l’unico modo perché sia mio, che sia.» disse, inspirando a fondo «Avrò ciò che il mio cuore brama. Non esiste regola a cui l’amore debba sottostare, né oggi né mai». «Lascerò il mio dolore come pegno, così che il mio spirito ne sia degno. Ogni sacrificio mi sarà ben accetto, ogni bene, ogni speranza, ogni affetto».

Aleandro si guardava allo specchio con indosso gli abiti della cerimonia e non li vedeva nemmeno. Era il suo volto che controllava continuamente, piuttosto che le pieghe del vestito: ogni suo lineamento era proteso verso quello che sapeva non sarebbe stato un giorno come gli altri. L’ansia per l’imminente matrimonio era l’ultimo dei suoi problemi. Suo padre, dietro di lui, lo fissava con aria apprensiva. «Immagino che sarei egoista se ti dicessi che non volevo che questo giorno arrivasse» disse dopo qualche minuto che il figlio aveva terminato di vestirsi. «Non volevate che mi sposassi?» domandò Aleandro, con freddezza. 137


«Non oggi.» rispose l’uomo, in tutta onestà «Non con quella fanciulla, almeno». «Perché è la principessa o perché è lei?» continuò il giovane. Il Conte sospirò, abbassando gli occhi al pavimento. «Perché non la ami abbastanza da sposarla» rispose infine. Stavolta Aleandro si fermò a guardarlo, con la scusa di allacciarsi i polsini. «È comunque quello che sto facendo.» disse il giovane, senza dar segno di sentirsi in qualche modo offeso per la schiettezza del padre «Quindi forse è abbastanza, invece». Il Conte sospirò nuovamente, posando il mento sul pugno chiuso. Aleandro non aggiunse altro: sapeva che suo padre aveva ragione, che l’aveva avuta fin dall’inizio, ma sapeva anche molto cose che lui invece ignorava. A sufficienza perché, matrimonio o no, non potesse tirarsi indietro e sfuggire alle proprie responsabilità. Se anche avesse significato rinunciare alla propria vita, Aleandro non poteva venir meno alla sua parola: sposare Elisabetta e salvare, anche se ancora non sapeva come, la povera Linda da un destino spietato. Come avrebbe potuto dormire con la coscienza pulita sapendo di non aver fatto niente per un’innocente e, già che c’era, per il suo stesso popolo? «Sarà bene avviarci verso la scogliera.» disse, rivolto al padre «Che la sposa si faccia aspettare è tradizione, ma è bene per noi arrivare in anticipo, così da… Essere pronti». E soprattutto, come pensò, cercare di avere la situazione sotto controllo fin da subito. «Ti stringerò come mio fardello, d’acciaio duro sarà il mio anello; dama giustizia prenderò in isposa: qui, dentro me, la tua pace si posa».

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Elisabetta era ferma come una statua di sale: uno stormo di damigelle le armeggiava attorno, tirandola da una parte all’altra per farle entrare il vestito, le distribuiva gioielli che rivedevano la luce dopo chissà quanti anni; altre le sistemavano i capelli e la spruzzavano di essenze profumate, altre ancora si preoccupavano di truccarle il viso con la massima precisione e i colori che più potessero far risaltare la sua bellezza. Elisabetta, in mezzo a quel marasma a cui doveva essere abituata, guardava la propria immagine nello specchio con un crescendo di paura mista a sorpresa. Nemmeno lei sapeva da dove proveniva quell’ansia che sino a pochi giorni prima non aveva conosciuto: passava così in rassegna gli eventi che si erano succeduti, con un’angoscia del tutto nuova per lei, che aveva assistito persino alla dipartita del padre senza battere ciglio. Qualcosa, dentro di lei, stava cambiando improvvisamente, con un sommovimento degno di un terremoto. Mentre le ornavano il bel collo con una collana di oro e diamanti, Elisabetta distolse lo sguardo e sollevò una mano, ordinando alle sue ancelle di fermarsi. «Il talismano che mi ha dato la strega rossa.» disse, con un filo di voce «Dov’è? Trovatelo, presto, voglio indossarlo». Le damigelle si guardarono tra loro assolutamente impreparate. Una di esse, la più anziana, si fece coraggio e le parlò «Altezza, quel ciondolo è orribile a vedersi». «Non mi interessa quello che pensi!» la zittì subito Elisabetta «Voglio quel ciondolo e lo voglio ora!». «Ma, principessa, non potete indossarlo con un abito del genere.» continuò pazientemente la damigella «Sarebbe un pugno in un occhio. Pensate a come anche tutti gli altri gioielli perderebbero di luminosità». «E allora non lo indosserò in bella mostra, ma datemi quel dannato… Amuleto, ecco!» insistette Elisabetta «Fatelo sparire in una piega dell’abito o scivolare nel corsetto, quello che volete, ma io non uscirò di qui senza di esso». 139


Le altre damigelle guardarono la più anziana senza sapere cosa fare. Quella, dopo aver tentennato qualche istante, fece loro cenno di recuperarlo. Elisabetta, sebbene agitatissima, ne trasse un evidente sollievo. Mentre le ancelle tornavano ad occuparsi di lei come di una bambola, la giovane vide il proprio volto nello specchio sparire dietro le loro mani e, per la prima volta, si rese conto di come quella dell’amuleto fosse l’unica decisione che aveva preso in merito a quel matrimonio. «Presa per mano dal destino, ti resterò per sempre vicino, i sogni di mille dolcissimi baci in mano ai desideri rapaci».

Dentro la casetta di Linda il silenzio era assoluto. Nessuna vibrazione, nessun calderone ribollente, nessun sibilo proveniente dal fuoco. Tutto taceva, dando a intendere che la strega non era in casa. Tuttavia, qualcuno batté due colpetti all’uscio e la porticina, con un debole cigolio, si aprì verso l’interno. La donna dall’alito pesante e nota malalingua si ritrovò a tremare sulla soglia nonostante il piacevole tepore del sole. L’ultima volta che era entrata aveva assistito a un fenomeno tutt’altro che normale e ora l’idea di ripetere l’esperienza non le andava affatto. «Linda?» chiamò, affacciandosi timidamente alla porta. Nessuna risposta. La donna deglutì, mentre un sudore gelido le correva giù per la schiena. Senza nemmeno sapere con quale coraggio lo faceva, mosse un passetto all’interno. Intravide fin da subito un lembo del mantello rosso attraverso l’apertura che conduceva all’altra stanza della casetta, esattamente come la volta precedente. Per terrorizzata cha fosse, tirò un sospirone e si avvicinò alla giovane. 140


«Sei in casa: che fortuna! L’ultima volta… Ma lasciamo stare. Volevo chiederti, visto che è giorno di festa, se ti andava di venire a fare un brindisi da noi. Sai, mio figlio ha ottenuto quel posto di soprastante!». Linda non si mosse. Restava seduta sul pavimento, con la cappa indosso sino al cappuccio, di spalle alla sua ospite. La donna la fissò qualche secondo, già molto più nervosa. «Oh, ehm, scusa. Magari non hai voglia.» si affrettò a dire, per nulla tranquilla «Se vuoi anche un altro giorno, magari-». La donna abbassò lo sguardo improvvisamente: la cappa della strega sembrava non finire a terra come uno straccio qualsiasi, ma anzi si dissolveva in una specie di fumo scarlatto, come una smisurata gonna di tulle. In quel momento, Linda si voltò a guardarla: i capelli si muovevano sotto il fruscio di un vento intangibile, gli occhi, solitamente di quel loro inconsueto violetto, erano due finestre bianche e accecanti aperte sul nulla; dalle labbra sanguigne e dischiuse le sfuggì un sussurro che pareva provenire direttamente dall’oltretomba. La donna cacciò un urlo e corse via a rotta di collo, ringraziando tutti i santi di non essere svenuta una seconda volta. Lo splendore della cerimonia era semplicemente abbagliante. Aleandro, arrivato prima di tutti, ne rimase basito: mai aveva assistito a un simile tripudio di colori e meraviglie. C’erano fiori a non finire, molti dei quali di specie che non aveva nemmeno mai visto; rigogliosi rampicanti si inerpicavano su colonne di candido marmo, come a voler circondare i novelli sposi e i fortunati ammessi alla cerimonia di una bellezza così ammaliante da non lasciar spazio all’amarezza. Magnifiche statue, opera dei più grandi artisti che il regno aveva conosciuto nei secoli, erano state condotte lì per unire allo splendore della natura quello dell’ingegno e della fantasia degli uomini. Dèi e angeli offrivano il loro favore e la loro benedizione: la potenza degli uni si univa 141


felicemente alla misericordia degli altri. L’arco nuziale, cinto di rose e gigli, lo attendeva come un traguardo che culminava quello scenario di meraviglie. A completare il tutto vi erano il cielo terso e il mare aperto, su cui si sollevava appena una brezza leggera, quanto bastava per riempire i loro polmoni della sua immensità. Aleandro sarebbe rimasto ad ascoltare la sua voce in eterno, quel giorno. Ci vollero le trombe d’argento dei musici per distogliere la sua attenzione. Fu allora che giunsero le donne che tutti quanti stavano aspettando. Prima venne la regina, strappando occhiate di stupore e invidia a tutti gli invitati: la sua bellezza, non ancora sfiorita, e la sua maestosità erano esaltate splendidamente dall’abito dorato, dal portamento impeccabile, dalla corona e dallo scettro saldamente nelle sue mani, che eppure apparivano tanto leggere e gentili. Sotto lo sguardo e la riverenza di tutti, prese posto sulla poltrona d’onore, l’unica di fianco all’arco nuziale. Gerda non l’accompagnava, stavolta: a lei spettava il compito di dirigere i rinfreschi, che erano già stati disposti a breve distanza dalle panche per gli invitati. A lei, soprattutto, era affidato il filtro. Infine venne Elisabetta, la principessa. Arrivò su un cavallo bianco, seduta di fianco sulla sella, rivestita di un abito candido come la neve che la faceva sembrare scesa direttamente dal cielo. Pur senza le doti della madre, Viviana dovette subire l’onta di vedere come nuovamente tutti gli occhi erano soltanto per lei, per quella bellezza giovanissima e ormai irraggiungibile, per la freschezza della sua pelle e l’innocenza dei suoi occhi, per la luce che sembravano emanare i suoi capelli e la dolcezza delle sue labbra e del suo sorriso. Chiunque, di fronte a una tale spettacolo, non avrebbe potuto che sentirsi sciogliere nella sua sola contemplazione. Solo Viviana, Aleandro e la stessa Elisabetta sapevano cosa volesse dire la paura anche in quel momento. Mentre raggiungeva a passi misurati lo sposo e gli invitati seguivano ogni sua mossa, la giovane sentiva il proprio cuore martellarle nel petto. Aleandro aspettò di averla accanto per 142


rivolgerle un sorriso gentile e porgerle la sua mano. Quando Elisabetta vi ebbe posato sopra la sua, il sacerdote, fatto un cenno alla regina, diede inizio alla cerimonia. La strega rossa in quel momento tornava visibile, appena qualche metro oltre i cancelli che separavano il palazzo dal villaggio. I lembi del mantello rosso parevano sfumare nell’aria, il volto era celato dal cappuccio: in una mano stringeva il bastone; sotto l’altro braccio reggeva il pesante grimorio nero. Non furono pochi quelli che si accorsero di lei: infatti, non era ancora trascorso un minuto che due guardie le si pararono davanti. Linda mostrò loro l’invito senza fiatare. Quando le dissero che non poteva presentarsi ugualmente agghindata a quel modo, la giovane aprì il libro e mormorò poche parole in un linguaggio arcano. Un attimo dopo, le due guardie caddero come sacchi di patate, prive di conoscenza. Altri si fecero avanti lungo il suo tragitto e tutti fecero la stessa fine. Linda mosse appena le labbra in un bisbiglio: «Venga la notte, si spenga il sole, è il mio tormento che lo vuole». Alzò poi gli occhi al cielo terso. In un attimo, come se le nuvole avessero preso a rincorrersi a velocità folli, nubi scure comparvero lunga la linea dell’orizzonte, sopra il mare, e un vento improvviso sferzò la terra. Sulla scogliera, il vento improvviso causò dapprima stupore e risate, poi il suo feroce alzarsi costrinse il sacerdote a interrompersi. Gli uomini correvano dietro ai cappelli, le donne si sforzavano di tenere ferme le grandi gonne. Il cielo, che sino a un minuto prima era sgombro, venne addensato da nubi pesantissime, il mare gonfiò sotto il soffio della tempesta. I petali delle piante venivano ghermiti dal vento, i veli di cui erano adornate le colonne garrivano come bandiere, sul punto di 143


lacerarsi. Tutta la bellezza e persino la luce sparirono con la rapidità del pensiero. Lo scenario meraviglioso del matrimonio si trasformò in una baraonda di urla e maledizioni, mentre sempre più invitati schizzavano via dai loro posti in cerca di un riparo. Viviana, di fronte a quello sconquasso, si alzò in piedi, solo per doversi appoggiare ad una colonna un attimo dopo: il vento fortissimo arrivò persino a farle scivolare la corona via dal capo. Fu allora che agli occhi dei presenti comparve la strega rossa, l’unica che sembrava non risentire di quella tempesta. Solo il cappuccio le scivolò alle spalle, mettendo in mostra il suo viso altrettanto giovane, altrettanto bello. «Chiedo scusa per il mio ritardo» disse soltanto, mostrando l’invito nella mano sinistra. Viviana, stretta alla sua colonna, guardò quell’invito sbalordita: le bastò solo un secondo, tuttavia, per capire cosa fosse accaduto. Fissò Aleandro che cercava di riparare Elisabetta dal vento chinandosi su di lei e gridò con quanta rabbia aveva in corpo. La voce del tuono, tuttavia, superò di gran lunga la sua. La strega rossa avanzò in mezzo agli invitati senza timore, fermandosi a qualche metro dall’altare. «Avete osato troppo, regina!» esclamò, guardando Viviana con quegli occhi incandescenti e la sua voce sempre provenire dal più profondo degli Inferni «Avete sfidato la strega rossa e la sua magia! Non uno dei vostri soldati è riuscito a fermarmi, né le mura del vostro castello hanno potuto tenermi lontana da voi! Parlate, dunque! Qual è la mia colpa? Cosa vi fa pensare di poter sconfiggere e uccidere la strega rossa?». Viviana stinse le dita attorno alla colonna con più forza, senza riuscire a spiccicare parola. Linda batté il bastone a terra, alzando il viso verso il cielo. «Il mio respiro è in mano alla sorte: vendetta, a costo della morte! 144


Dell’aria, del mare e spiriti dei cieli, dei vivi e dei morti squarciate i veli: tra i nostri mondi il varco è aperto versate la mia ira sul suolo scoperto!» Il cielo, da scuro e minaccioso, si fece ancora più buio: le nuvole gonfiarono enormemente, come sul punto di schiacciarsi sulla terra e soffocarla; le onde batterono la scogliera col vigore di una fiera scatenata, arrivando a bagnare lo stesso arco nuziale. Poi, gradualmente, le nubi si illuminarono di lampi e si distorsero in forme spaventose, sino a che i volti terribili di uomini torvi vi emersero, con lo stesso aspetto imperioso che avevano le statue degli antichi dei. Creature d’aria e d’acqua volarono dalle nuvole sin sulla superficie dell’acqua, nereidi e tritoni emersero dalle schiume delle onde, assediando la scogliera. Quando gli spiriti della tempesta parlarono con la voce del tuono, tutti i presenti cominciarono a urlare a più non posso. Nobili e soldati, sacerdoti e camerieri, tutti gridavano e correvano in ogni direzione, scavalcandosi e rovesciando panche e tavoli, abbandonando sul posto tutto ciò che era d’impaccio. Attorno alla strega rossa il vento si faceva ancora più forte, facendo brandelli dei ricchissimi abiti e delle insegne in alto sui torrioni. Nel cielo, intanto, il volto più regale e spaventoso parlò, affiancato dal coro degli spiriti. «Tremate alla nostra venuta, o viventi, tingete il giorno dei vostri lamenti! Non per portavi pace siamo venuti, ma con la collera, per essere temuti! Banditi dagli inni e dalle preghiere, ricordi di ormai remotissime ere, eccoci a voi col nostro carico di rancore 145


per darvi un assaggio del vero terrore!». Quanti avevano esitato a scappare, a quelle parole si dispersero in tutte le direzioni. Viviana, cercando di seguire il loro esempio, si allontanò dalla colonna di corsa, ma la terra si spaccò davanti ai suoi piedi, facendola cadere all’indietro prima che precipitasse nella voragine che si apriva proprio dinnanzi a lei. Aleandro, da parte sua, sentì Elisabetta farsi pesante tra le sue braccia: voltandosi verso di lei, vide che la fanciulla aveva perso i sensi. Mentre la gente fuggiva da quel luogo apocalittico, Linda restava ferma dov’era, ritta col suo bastone, a fissare compiaciuta la regina. In alto, lo spirito parlò nuovamente. «Ci hai richiamato qui, ragazza mortale.» disse «Coloro che cadranno oggi giungeranno a noi in sacrificio. Sventura sui tuoi nemici, dunque: io e i miei compagni siamo ministri del Fato!». «Sacrificio?» gridò Aleandro, per farsi sentire dalla giovane «Che cosa stai facendo? Vuoi sporcarti le mani nella colpa?». «Quale colpa?» urlò di rimando Linda «Quella di aver punito una donna malvagia, disposta a uccidere un’innocente e a derubare la sua stessa figlia del proprio marito? Quale male, donna meschina, ti ha fatto l’amore, da odiarlo a tal punto?». Viviana, rialzatasi, la fissò con odio cocente. «Il mio amore è pari al tuo!» gridò la regina, fuori di sé dalla rabbia «Il tempo mi è stato nemico! Se fossi stata più giovane, tutto questo non sarebbe successo! Il tempo mi ha portato via tutto ciò che avevo!». «Il tempo non è amico di nessuno!» ribatté Linda, con foga «È l’unica vera giustizia che ci è rimasta! La sua… E la mia! Preparati, dunque, ad affrontare il giudizio di questi spiriti, perché ad essi io consegnerò te e tutti quanti mi si pareranno innanzi!». Linda batté nuovamente il bastone a terra, e il vento aumentò ancora di più, così come le nuvole e i volti che mi emergevano si fecero più vicini alla terra, al punto che quasi potevano sfiorarla. 146


La giovane aprì quindi il grimorio, mentre attorno a lei, gli ultimi invitati scappavano via in cerca di scampo. Aleandro reagì d’impulso. Depose a terra il corpo inerte di Elisabetta e corse verso Linda come un lampo. La strega fece appena in tempo a rialzare gli occhi che il giovane le si gettò addosso, facendole cadere il librone di mano. Subito il vento sembrò perdere sensibilmente di forza. Aleandro strinse la ragazza per le spalle, mentre lei lo fissava a bocca aperta, incapace di muovere un solo muscolo. Avrebbe potuto liberarsi in qualsiasi momento, usare su di lui un incantesimo come aveva fatto per molti altri: ma qualcosa la tratteneva, lasciandola immobile come un fantoccio tra quelle braccia che sentiva per la prima volta strette attorno al suo corpo. Lentamente, i suoi occhi persero quella sinistra luminosità, ritornando del loro colore: due provati, stravolti, curiosi occhi viola. Aleandro allentò la presa su di lei fino a rilasciarla, quindi si alzò in piedi. Intanto che la sua determinazione e le sue energie si dissipavano, Linda tremava come se tutto il freddo che aveva scatenato le si fosse riversato dentro. Gli effetti dell’incantesimo andavano svanendo, ma vedeva ancora i volti degli spiriti sopra di loro. Sapeva cosa voleva dire e, singhiozzando debolmente, la giovane si voltò a guardare il libro a terra, chiuso. Mentre le lacrime le rigavano il viso, protese una mano verso di esso, senza riuscire a raggiungerlo. Aleandro non fece nulla per impedirlo, limitandosi a controllarla. «Glosci…» sussurrò, con voce rotta «Aiutami…». Linda riabbassò il braccio, senza forze. Un istante dopo, le pagine del libro cominciarono a tremolare e a brillare: poi, di botto, si aprì a metà e il piccolo animale, il famiglio, il raro esemplare di Ratto delle Sabine, balzò fuori come una molla, atterrando con una capriola sulle piastre di pietra. Glosci si passò una manina sulla fronte, sollevato, prima di voltarsi di scatto verso la sua padrona e correre tra le sue braccia. Aleandro, che aveva assistito a tutta la scena, era rimasto a bocca aperta: guardava ora il piccolo 147


animale che faceva di tutto per stringere come poteva la giovane ormai impotente, mormorandole parole di incoraggiamento e chissà cos’altro. D’un tratto, tuttavia, la tonante voce dei cieli si fece udire di nuovo. «Siamo stati evocati qui per una ragione.» disse lo spirito «Non ce ne andremo senza il nostro sacrificio». Linda interruppe per un attimo di piangere, solo per ricominciare subito dopo. Aleandro alzò il viso al cielo, girandosi su sé stesso. «Non c’è bisogno di alcun sacrificio!» esclamò in risposta alla richiesta dello spirito «Andatevene! Non c’è più nessun bisogno di voi!». «Non puoi darci ordini, mortale.» ribatté lo spirito, inflessibile «Né conosci le leggi che ci governano. Né tu né io, re di questi spiriti, possiamo fare qualcosa per cambiarle: non ce ne andremo di qui sino a quando non ci sarà stato offerto un tributo». Linda alzò gli occhi come meglio poté, quindi riabbassò il capo. «Prendete lei, allora!» gridò Viviana, che era di nuovo stretta alla sua colonna «Prendetela e andatevene! È lei l’unica colpevole qui!». Aleandro la fissò con sgomento. La strega, intanto, si era messa in ginocchio come meglio poteva. Allontanò il famiglio da sé con gentilezza, senza voler rialzare il viso. «Ho fatto una sciocchezza troppo grossa a volerti confinare.» mormorò, con un sorriso triste «Guarda che disastro ho combinato. È giusto che qualcuno paghi per questo… E devo farlo io. Ma tu non hai colpe, e lo sai». «E ti aspetti che stia qui a vederti sacrificare da sola?» le domandò Glosci, in tutta calma «Sono il tuo famiglio. Di professione veglio sulle streghe rosse scriteriate già da qualche secolo: tu non sei né meglio né peggio di loro. Non posso mica separarmi da te così.» e le saltò in braccio come se nulla fosse, preoccupandosi anche di mettersi comodo «Quando sei pronta, lo sono anch’io». 148


Linda lo guardò in silenzio, prima di rimettersi a piangere silenziosamente, senza tuttavia perdere il suo tiepido sorriso. Alzò gli occhi alle nuvole e rivolse solo un cenno allo spirito, prima di chinare il capo. Aleandro voltò gli occhi, vedendo tutti quei volti farsi inesorabilmente vicini. Guardò Linda, il piccolo animaletto parlante accoccolato tra le sue braccia e si voltò a fissare Elisabetta, ancora inconsapevole, a terra. Gli spiriti erano solo a pochi metri quando si girò di scatto, correndo come un pazzo. Viviana se lo vide arrivare addosso senza il minimo preavviso. Fece appena in tempo a immaginare che cosa volesse fare che lo sentì impattare contro di lei. Un attimo dopo, sotto i suoi piedi non c’era più il solido terreno e Viviana si ritrovò in aria, oltre la scogliera. Guardò in basso di scatto, quindi gridò, mentre vedeva le onde implacabili farsi immediatamente vicine e le braccia di ninfe marine e tritoni aprirsi per accoglierla nel loro abbraccio. Nel momento stesso in cui il suo corpo scomparve tra le acque, gli spiriti del cielo si arrestarono, ormai sopra il corpo inerme della strega, e il loro re si voltò verso Aleandro, ancora in piedi sulla scogliera. «Il sacrificio è stato compiuto.» disse lo spirito, con aria solenne «Il tuo patto è stato onorato, ragazza mortale». Poi, rapidamente com’erano comparsi si ritirarono nel cielo e si dispersero improvvisamente ai quattro angoli del mondo, lasciando un cielo ancora cupo, ma non più minaccioso, come appena dopo l’ultimo rovescio della tempesta. Persino il vento si acquietò, lasciando al suo posto solo quella brezza che l’aveva preceduto. Aleandro, dopo aver tirato il fiato, guardò le due fanciulle a terra, la principessa e la strega: in quella scelta, lo sapeva, si sarebbe consumato il suo destino. A passi decisi, infine, si diresse verso Linda. Quando arrivò, la giovane si decise a risollevare il viso e chiunque avrebbe potuto dire che era di nuovo la piccola e incerta ragazza avvolta in un mantello troppo grosso per lei. Aleandro si 149


inginocchiò attentamente di fronte a lei, restando a osservarla per qualche attimo. Linda, comprensibilmente, non sapeva che cosa fare, o dire: l’unica cosa che le riuscì bene fu quella di tremare come una foglia. Alla fine Aleandro sospirò pesantemente e si guardò intorno. «Vedi qualcuno che sta guardando?» le domandò, abbassando il capo. La giovane riuscì a malapena a gettare un paio di occhiatine a destra e a sinistra, incapace di rispondergli. «Io non guardo!» fece Glosci, da sotto le sue braccia, restandosene rintanato lì dov’era. Aleandro sorrise, rialzando la testa. Poi, senza perdere altro tempo, le prese il viso nella destra con delicatezza e si sporse per posarle un bacio sulle labbra, mentre Linda spalancava gli occhi tipo un pesce palla. Ora, io vorrei raccontarvi che fu un bacio lungo e intenso, ma il fatto è che appena lei riuscì a realizzare quel che stava succedendo, si trovarono costretti a interrompersi. «A-hem.» fece infatti il Conte di Vallechiara, schiarendosi la voce «Non per disturbarvi…». «Nononono, nessun disturbo» sussurrò Linda con un filo di voce, senza nemmeno rendersi conto di quel che diceva. «Nooo, perché disturbare?» fece invece Aleandro, con sarcasmo, rimettendosi in piedi «Ma dov’eravate finito?». «Hai presente quella folla urlante? Io ero sotto.» rispose il Conte, spostando poi lo sguardo sulla ragazza «Ma immagino che abbiate qualcosa da dirmi, tu e … La strega rossa». «Linda» lo corresse il figlio. «Linda, sì» ripeté la giovane, che aveva ripreso a tremare. «Glosci» disse invece il famiglio, saltando fuori dalle sue braccia con aria soddisfatta. «Oh.» balbettò il Conte, alquanto impreparato «Linda, sì… Chissà perché ma dovevo immaginarlo. E adesso, uhm… Adesso che farete?». 150


Linda guardò Aleandro come per ripetergli la stessa domanda. Il giovane si grattò la testa, chiaramente senza troppe idee. «Non lo so.» rispose sinceramente, voltandosi quindi verso di lei «Proviamo a vedere come va a finire?». «Ah, beh, io, uhm, cioè…» Linda cominciò a gesticolare a vuoto, impreparata «Direi di sì. Cioè, assolutamente sì. Alla grande, ecco». «Eh. È un inizio.» commentò il Conte, vivamente perplesso «Ma, Aleandro, ti ricordi che ti stavi sposando, mezz’ora fa?». «Sì, certo… Mezz’ora fa» sottolineò il giovane. «E hai anche ucciso la regina». «Che voleva uccidere lei e chissà quanti altri. E ha ucciso il re, prima. E, se ho ben capito…» e qui guardò Linda con una certa incredulità «Voleva… Me?». «Certo che è proprio un salame.» fece Glosci, che non riusciva a capacitarsi della sua ingenuità «Eroismo a parte, eh. Quello glielo concedo. Solo quello, però». «Hai comunque ucciso la tua regina.» riprese il Conte, con aria più grave «Questa… È una colpa gravissima, te ne rendi conto?». Aleandro si posò le mani sui fianchi, guardando in direzione della scogliera. «Esiste una soglia che non possiamo passare, se non vogliamo trasformarci in bestie.» disse, socchiudendo gli occhi «Io so di non averla passata. Lei avrebbe potuto dirlo?». Il Conte chinò il capo in avanti, accarezzandosi la barba con una mano. «C’è di buono che sembra non ci siano testimoni, a parte noi» mormorò, rassegnato all’idea di dover coprire ancora una volta il figlio. «Vi sbagliate» fece però una voce alle loro spalle. Gerda venne avanti col volto scuro, intercettando immediatamente lo sguardo di tutti. 151


«Io ho visto tutto.» disse la donna, fermandosi davanti al Conte «Ma non ne farò parola con nessuno, se è questo il vostro timore. Viviana è… Era mia amica, prima che la mia regina. Se andassi in giro a dire cos’è accaduto, voi la accusereste subito per l’omicidio del re Edoardo e per quello che aveva tentato qui. Non voglio che questo accada». Aleandro la squadrò con attenzione in viso. «Volete che manteniamo il silenzio in cambio del vostro silenzio?» domandò il giovane «È questo che volete?». Gerda annuì, incrociando le braccia. «Viviana scelse di non infangare suo marito quando avrebbe potuto.» spiegò la domestica «Adesso mi sembra giusto che voi facciate lo stesso con lei». Frattanto, il Conte si era spostato per vedere in che condizioni si trovava Elisabetta, di cui nessuno sembrava volersi interessare. Vistala in salute, benché svenuta, si affrettò a cercare qualcosa nei dintorni per farla rinvenire e subito gli balzò agli occhi una fiaschetta che doveva essere arrivata lì dal tavolo dei rinfreschi. Senza perdere tempo, quindi, la stappò e, sollevata la testa della fanciulla, le fece mandar giù un sorso. Linda, che osservava la scena da qualche secondo, fece appena in tempo a fare un’espressione allarmata e a lanciare un urlo che ormai il danno era stato fatto. Subito il Conte si voltò verso di lei senza capire. «Che succede?» domandò, guardando l’espressione della giovane, e in un attimo anche quella di Gerda fu all’incirca la solita: proprio nel momento in cui Elisabetta, fra i colpi di tosse, riapriva gli occhi. Il Conte abbassò gli occhi su di lei con aria apprensiva, accarezzandole la fronte e badando che la giovane fosse padrona di sé stessa. La cosa che lo colpì immediatamente, tuttavia, fu il lampo incredibilmente vivo che passò negli occhi di Elisabetta. «Il filtro…» riuscì a malapena a dire Linda. 152


La principessa in compenso sbatté le palpebre un paio di volte e guardò a lungo l’uomo. «State bene?» gli domandò quello, curandosi prima di tutto della salute della ragazza. «Bene? Certo che sto bene!» fu la rapida risposta di Elisabetta, che subito gli cinse il collo con le braccia e, tutta felice, gli posò un bacio su una guancia «Sto sempre bene quando vi vedo!». «Ah… Veramente?» domandò il Conte, inebetito. «Ma certo, certissimo! Vi spiace se mi alzo? Sto meglio in piedi che mezza sdraiata per terra». Glosci, nello sbigottimento generale, era l’unico che osservava la scena con soddisfazione. «Meglio di come speravo» disse, incrociando le zampe tutto contento. «Speravi cosa?» esclamò Linda, spaventatissima «Ha bevuto il filtro per lui!». «Naa, non proprio quel filtro.» rispose il famiglio «Ci ho fatto una piccola aggiunta di nascosto». Aleandro si voltò a guardarlo. «Quella sera che ti ho visto sul balcone…» disse, ricordandosi di quel particolare. «Esatto. Vedi che non sei poi così salame?». «Ma si può sapere che accidenti hai combinato?» fece Linda, che ancora non ci capiva niente. «Cosa vuoi che ci abbia fatto? Ho aggiunto qualche ingrediente.» Glosci fece spallucce, tutto tranquillo «Ho visto dove Gerda aveva messo il filtro tramite lo specchio, sono andato a palazzo di notte e ho compiuto la mia perfida missione di sabotaggio. Ora il filtro funziona un po’ come… Un’improvvisa botta di amore materno. O paterno, ecco. Divertente, non ti pare?». «Vuoi dire che adesso Elisabetta vuole bene al Conte come a un padre?» domandò la giovane, indicando la principessa che non faceva altro che abbracciare il padre di Aleandro. 153


«Precisamente. Cosa credevi, di saper creare filtri solo tu?» fece il famiglio, in un moto d’orgoglio «Dilettante. Ho qualche secolo di esperienza più di te, ricordatelo». «Beh, se non altro a qualcosa sarà servito.» fece Aleandro, affiancandosi a Linda «Qualcuno dovrà pur governare. Non possiamo lasciare il regno in mano a Elisabetta». «Posso prepararle un filtro per sviluppare l’intelligenza.» fece la strega, in un lampo di genio «Non ho mai provato, ma magari…» Tutti e tre, compresa Gerda, la guardarono subito malissimo. Linda, per una volta, scelse di optare per il silenzio. Il conte, intanto, si trovava alle prese con una ragazza svampita che non voleva staccarglisi di dosso a nessun costo. Aleandro si lasciò andare ad una piccola risata. «Dici che si accontenterà di avermi come fratello?» domandò a Linda, divertito dalla scena. La strega rossa inarcò un sopracciglio, prima di stringerglisi a un braccio con fare possessivo. «Sarà meglio per lei» bofonchiò, già gelosa. Aleandro alzò gli occhi al cielo, prima di passarle il braccio attorno alle spalle. Qualcosa gli diceva che Linda non avrebbe mai imparato la lezione ma, d’altronde, chi ci riesce veramente? Negli abissi marini, Viviana guardava la propria coda da sirena con aria dubbiosa. «Quindi, se ho capito bene, sono “condannata” a fare la ninfa marina per l’eternità?» fece, alzando gli occhi verso il tritone che le stava davanti. «Guarda che è un lavoro duro.» le ricordò quello «Devi guidare le onde, fare la guardia alla barriera corallina, ogni tanto cantare per attirare i marinai…». «Un lavoraccio, insomma.» commentò lei, ironica «Probabilità di invecchiamento? Zero, giusto?». 154


«Sei morta.» ribatté il tritone, stancamente «Da quando in qua i morti invecchiano?». «Oh, questo è quello che volevo sentire.» Viviana provò la sua pinna ondeggiando da una parte all’altra del fondale marino, prima di spostare gli occhi sull’altro «Sei libero a cena, belloccio?». Il tritone si appoggiò al suo tridente, esasperato. Le ninfe non cambiavano mai, non importava da dove venissero. Un po’ come le streghe, rosse o azzurre che siano. Ma… Guai se non ci fossero!

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«Il cuore di una persona non può essere assoggettato ai voleri di nessuno» affermò la domestica, sicura di quel che diceva. Viviana rimase immobile, con le mani artigliate alla propria gonna ampia e gonfia, il labbro che le tremava d’ira. «Si può, invece.» disse, sorridendo con risolutezza «Rimarrà una faccenda pulita, se ricorrerò alla strega rossa».

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