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Lukas den Svarte
Naigh-Moor Fuori dal Baratro Edizione originale
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Nota dell'autore
Questo libro nasce tredici anni fa. L'autore era un ragazzino di molte pretese, cocciuto e pieno di buona volontà. È il primo romanzo di un ciclo che doveva contarne altri due; poi divennero tre, e adesso, in tutta onestà, non so nemmeno più dirvi quanto manchi dalla fine. So solo che ormai questo è qui e che un ragazzino un po' più cresciuto si sentì anche in dovere di scrivere il suo seguito. Facile da capire, quindi, cosa intenda con "edizione originale". Questo è "NaighMoor" come lo concepii, quando ancora non sapevo come chiamare il primo romanzo, e anzi mi sembrava fondamentale cambiare di continuo titolo, sottotitolo, copertina, numero dei capitoli e così via. Sarebbe impossibile anche per me risalire ad un'edizione veramente originale: nel corso degli anni ho cancellato qualche file che mi sembrava troppo vecchio, mano a mano che rimaneggiavo il testo. In ogni caso, questa stesura è quella che più ci si avvicina. Perché pubblico questa? Non saprei neppure dirlo con precisione. La risposta più ovvia è che, trattandosi del primo romanzo che scrissi, ci sono affezionato. Sento di avere come un debito verso queste pagine, verso i loro personaggi e quelle terre che inventai e in cui ancora adesso, a distanza di tanto tempo, sono rimasto intrappolato. Di tanto in tanto, quando sono a cavallo tra un progetto e l'altro, ritorno qui e rileggo un capitolo, lo correggo oppure lo riscrivo interamente. Immagino che prima dell'età pensionabile, di questo passo, avrò pronto un "Fuori dal Baratro" tutto nuovo. Ed è questa la ragione per la quale ho sentito il dovere di pubblicare, di bloccare in un fermo immagine, quello che doveva essere il capolavoro di quel ragazzino. È un romanzo verde, acerbo. Ci sono incoerenze, errori, colpi di scena che adesso mi fanno sorridere e passioni virulente e fuori luogo. È una summa dell'ingenuità di un adolescente convinto di essere più maturo della sua età solo perché cominciava ad accorgersi che il mondo non era solo bianco e nero. Se adesso, dopo tredici anni, mi ritrovo a guardare con nostalgia a questo romanzo, le ipotesi sono due: o non ho smesso di credermi più vecchio di quello che sono oppure quell'ingenuità ha più valore di quanto io stesso voglia ammettere. Lukas den Svarte
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Fuori dal Baratro
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I. Lo schiavo
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a cupa penombra in cui era avvolta la città sembrava ben decisa a non lasciar filtrare neppure un raggio di sole, celandoli sotto le pesanti nuvole, di un grigio talmente denso da far credere che si sollevasse dalle ceneri di una città data alle fiamme. Ma quell’atmosfera che a un estraneo sarebbe apparsa tetra e opprimente era ormai la norma per tutti coloro che vivevano ad Armalak: la prima città sorta sulla terra arida di Nog Tuluth. Ogni abitante sapeva bene da cosa erano originate quelle nubi. Non era il vento che proveniva dal deserto. Non erano le numerose fucine da guerra, i cui fumi salivano rigonfi fino al cielo. Non era la polvere che si sollevava ad ogni passo mosso sulle sue ampie strade. Era un fenomeno che derivava dalla magia, ma della cui origine si era persa memoria. O, più probabilmente, si era sempre taciuto. Sta di fatto che l’odore della stregoneria e il suo sentore impregnavano l’aria: la fama di quel luogo aveva attirato maghi e sacerdoti di oscuri Dèi da tutta la penisola. La città aveva bandito la vera luce del sole, si diceva, solo per ottenere un contatto con i mondi inferi e, di conseguenza, con le perverse entità che li abitavano. L’anima nera di Armalak pulsava attraverso quella stessa cappa ammorbante. Le snelle torri ed i massicci palazzi si slanciavano verso il tetto di quel morto cielo, come se volessero sorreggerlo e difenderlo dall’alto dei loro bastioni contro quanti avessero osato avvicinarsi ad Armalak con intenzioni ostili. Lungo le strade della città, centinaia e centinaia di Naigh-Moor, altresì noti come elfi oscuri o elfi grigi, dal colore della pelle della maggior parte dei membri della loro razza, si accalcavano attorno ad un piccolo drappello di soldati, attirati come mosche da uno spettacolo insolito, anche per quella razza avvezza alla crudeltà. Quattro guardie pesantemente corazzate si stavano facendo largo con gesti bruschi tra la folla, gridando ordini nella loro lingua stranamente morbida, accarezzata appena da accenti aspri e discordanti. Trascinavano dietro di loro un Umano lacero e contuso, vestito con gli stracci di quella che era indubbiamente stata un’elegante uniforme da ufficiale imperiale. Con continui gesti stizziti, la scorta lo strattonava per mezzo delle salde catene che quasi gli impedivano di camminare, pronunciando nervose imprecazioni quando incontravano lo sguardo del prigioniero, ancora acceso da una viva e caparbia luce. Da quale misteriosa fonte attingesse ancora quella forza d’animo, probabilmente non lo sapeva nemmeno lui. Dal canto suo, gli sguardi che rivolgeva alla folla attorno a sé erano privi di paura o semplice curiosità: pareva che gli sembrassero naturali le loro insolite sembianze, i loro corpi alti e snelli, 9
col loro carnato cinereo, e in particolare le sinistre sclere nere in cui galleggiavano le iridi di colori sgargianti. Per l’uomo in catene, tutto questo era già stato da tempo relegato in un angolo della sua mente troppo lontano per farvi caso. E, nonostante i continui insulti che gli venivano scagliati contro dai suoi aguzzini e da tutta quella gente, procedeva a testa alta, come se le botte ricevute e l’età ormai avanzata non fossero mai esistite. Arrivati di fronte ad un grosso portone sormontato da uno scudo, l’elfo che guidava la compagnia vibrò due sonori colpi all’uscio, visibilmente lieto di non dover più portare con sé l’Umano. La figura di un traballante soldato comparve sulla soglia, stropicciandosi gli occhi con le mani, protette da pesanti guanti d’arme. Qualche parola nel loro linguaggio e la comitiva poté entrare nell’edificio, pungolando il prigioniero con le lunghe lance che portavano. Il chiasso della folla scomparve dietro la porta. Un corridoio umido ed illuminato soltanto da qualche sporadica torcia avvolse i soldati e il prigioniero, ghermendoli in un’oscurità da far rimpiangere quella precedente. Mentre i loro piedi battevano sui freddi blocchi di pietra del pavimento, la visibilità veniva sempre meno, accompagnata tuttavia dal crescere dell’eco dei loro passi e dallo sferragliare delle catene: gli unici rumori che era possibile udire, oltre agli squittii di qualche piccola creatura. Dopo pochi, malconci gradini, arrivarono in vista di un nuovo corridoio, su di cui si affacciava una lunga filza di piccole celle del tutto spoglie, fatta eccezione per un improvvisato giaciglio in ognuna di esse. Non c’era traccia di altri prigionieri in tutto il corridoio. Di nuovo la mano del capofila fu la prima a muoversi, armeggiando con un grosso mazzo di chiavi nella serratura della prima cella che gli era capitata a tiro. Una volta aperta e tratta a sé la porta per le sbarre, si volse di nuovo verso i propri subordinati, facendo loro cenno di chiudere dentro l’Umano. «Fine della gita.» annunciò uno di essi nella lingua comune, assestando un colpetto alla schiena del prigioniero con il manico della propria lancia «Ci siamo stufati di portarti a spasso». Quelle che sperava fossero le ultime parole rivolte a quel fastidioso Umano si rivelarono ancora una volta soltanto la miccia che portava ad una sfacciata risposta per le rime. «Mi duole molto avervi arrecato un simile disturbo.» ribatté infatti con un tono incredibilmente pacato, dopo essersi voltato lentamente verso il Naigh-Moor con un sorriso che la folta barba non poté celare «Non era certo mia intenzione». Quell’ennesimo attacco di sarcasmo fece perdere al soldato quel poco di pazienza che aveva: quella rabbia che aveva accumulato durante tutto il tragitto attraverso Armalak si liberò in una violenta bastonata portata a termine col manico della propria arma, che centrò facilmente la mascella del prigioniero, 10
facendolo rovinare sul fianco con un gemito. Stava per infierire sull’uomo inerme quando la salda stretta del capitano lo indusse a trattenersi ed a rinunciare a quanto aveva intenzione di fare. «Lascialo stare.» gli ordinò con fermezza, avvicinandosi subito all’Umano «Questo non è né il luogo né il momento adatto». Il prigioniero si sollevò a sedere con entrambe le mani, il viso vistosamente ammaccato, fissando con astio le quattro sentinelle, in piedi davanti a lui. Avrebbe voluto saltar loro addosso e strozzarli con le stesse catene che gli impedivano così tanto i movimenti, ma la follia di quel gesto lo avrebbe indubbiamente portato a ricevere un colpo ancor più doloroso del precedente, se non l’avessero direttamente ucciso. Non appena notò la fiamma che incendiava lo sguardo dell’Umano, il capitano sfoggiò un sorriso per niente invitante, prima di afferrarlo per i capelli grigi e scaraventarlo malamente all’interno della cella, senza farsi alcuno scrupolo. Scrollò le spalle di fronte al ringhio rabbioso del prigioniero, quindi si volse verso un angolo ancora più in ombra del corridoio, accompagnato dai volti dei propri compagni. «Tu!» esclamò, richiamando a sé un altro elfo oscuro, che finora era rimasto a sedere silente su uno sgabello, osservando la scena senza pronunciarsi «D’ora in avanti ti spetterà il compito di sorvegliare questa bestia!». Non aggiunse altro: una sola occhiata all’Umano ed un gesto stizzito verso gli altri soldati e già risaliva le scale, dopo aver finalmente adempito al suo scomodo incarico. Frattanto, l’altro Naigh-Moor si era avvicinato malvolentieri alla porta della cella, richiusa attentamente da una delle guardie del gruppetto, e si era messo a sedere sul suo basso sedile, sbuffando annoiato mentre seguiva con i sanguigni occhi i soldati che si allontanavano. Non era interessato al prigioniero, non gli importava chi fosse o da dove venisse. Si limitava a sistemare l’orlo di una manica degli abiti laceri che indossava. Non serviva un genio per indovinare che la sua condizione fosse nettamente inferiore a quella delle guardie della Legione di Armalak. Era giovane. In un altro posto, qualcuno avrebbe potuto pensare che la sua vita sarebbe potuta cambiare. Lì, no di sicuro. Il Naigh-Moor si ravvivò nervosamente i lunghi capelli castani che raggiungevano agevolmente l’attaccatura del grigio collo. L’Umano, intanto, si era faticosamente messo a sedere sul proprio giaciglio, tirando un sospiro di sollievo, come uno che riprende fiato dopo una scampagnata. «Come ti chiami, ragazzo?» gli chiese poi con assoluta naturalezza, come se si fosse trovato nel posto più tranquillo del mondo. «Eh?» balbettò l’altro, strappato ai propri pensieri troppo velocemente perché avesse potuto comprendere anche una sola parola del prigioniero.
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«Come ti chiami, ragazzo?» ripeté l’altro, scandendo ogni parola come se dovesse insegnare a scrivere ad un bambino «Tre semplici parole, vediamo se sai rispondere». A quelle parole, l’elfo scattò in piedi, facendo cadere lo sgabello dietro di sé con un sonoro colpo ed estraendo in fretta un sottile ed arrugginito coltello. «Sentimi bene, pezzo di sterco!» gli gridò in faccia, vomitando quanto veleno riuscisse a scagliargli contro «Chi diavolo credi di essere per potermi parlare con quel tono? Devo ricordarti in che situazione ti trovi?». L’uomo piegò appena il capo di lato, e vide il polso del giovane tremare. Tutto il suo impeto sembrava essere andato nel nulla, come se avesse dato un pugno al mare. Era soltanto un ragazzo e quello davanti a lui era un uomo più che maturo. Prigioniero che fosse, non voleva dire che si sarebbe fatto impressionare. L’Umano non fece una grinza, nemmeno di fronte all’arma dell’altro. «Come non detto, come non detto.» rispose l’uomo, sollevando un palmo con rassegnazione «Dimenticavo che voi grigi siete più permalosi dei cinghiali» e si voltò dall’altra parte. L’elfo oscuro rimise il pugnale al suo posto con un gesto ancora carico di nervosismo, cercando di trattenere la frustrazione che gli correva lungo tutto il corpo come un fiume in piena, e risollevò lo sgabello. Passò alcuni minuti in silenzio, agitandosi come un ossesso, incerto come non lo era mai stato in vita sua: quel semplice prigioniero era riuscito a metterlo dannatamente a disagio pronunciando solo poco parole, in una lingua a cui era stato abituato, ma che non aveva mai sentito pronunciare con quell’accento. Un prigioniero, sì. Ma prima di tutto uno sconosciuto. Senza farsi vedere, prese a seguirlo con la coda dell’occhio, come se solo con uno sguardo avesse potuto capire qualcosa di lui, della terra da cui proveniva, del motivo per cui si trovava lì, adesso. «Dal Jin» sussurrò dopo un poco, la testa bassa. L’Umano si appoggiò coi palmi al lurido giaciglio, con l’impaccio che gli derivava dall’avere le braccia incatenate. «Come?» chiese quindi. «Ho detto che mi chiamo Dal Jin.» sibilò acido l’altro, questa volta guardando il prigioniero dritto negli occhi «Volevi il mio nome, no?». L’altro lo guardò in silenzio, prima di far scioccare la lingua contro il palato. «Dal Jin…» sussurrò piano, portando l’indice alle labbra «Non è un nome troppo semplice per uno della tua razza?». Il ragazzo si irritò notevolmente per le parole dell’Umano. Chi era costui che pretendeva di sapere addirittura come un Naigh-Moor dovrebbe chiamarsi? Un normale prigioniero avrebbe taciuto, avrebbe pianto o magari avrebbe urlato ed
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inveito contro di lui, ma non si sarebbe permesso una simile osservazione. Non con quella voce, non con quella calma. «No, non arrabbiarti di nuovo.» disse prontamente quello, scorgendo la rabbia nuovamente pronta a sbocciare nell’elfo oscuro «Non avevo intenzione di offenderti. Anzi, guarda, mi presento anch’io: Marcus Darnissor, sommo comandante dell’esercito di sua maestà, l’Imperatore Adeius. Togli tutti questi titoli e ti rimarrà davanti un generale dell’Impero. Così abbiamo fatto conoscenza, no?». Un sorriso di soddisfazione comparve sul volto della giovane guardia. «Quindi ho visto giusto.» arguì «Sei un pezzo grosso… ». L’Umano rise per un attimo, poi, con lo sguardo ancora allegro, rispose: «Semmai, ero un pezzo grosso, amico. Sai, è difficile considerare la grandezza qui dentro. Generale o no, farò la fine che spetta al più infimo straniero che cade in mano alla tua gente». «Credi? Non vorrei deluderti, ma non puoi ancora immaginare ciò che ti accadrà, invece» mormorò Dal Jin, senza nemmeno rendersi contro della banalità di quella frase, anche se sapeva bene che non poteva esserci nulla di più vero: qualunque tormento sarebbe stato scelto per quel prigioniero, gli avrebbe fatto molto più male di quanto pensasse. L’uomo però sembrava ignorare le sue parole e continuava ad osservarlo divertito: forse era pazzo. Dato il suo comportamento bizzarro, quella sembrava essere l’unica soluzione possibile. A quel pensiero, la curiosità cominciò a logorare il giovane come una malattia. Un pazzo non capita tutti i giorni. Un Umano pazzo anche meno. Un generale Umano pazzo era direttamente un evento. «Come sei finito qui?» domandò il giovane, apparendo di colpo serio. L’uomo sospirò, abbassando lo sguardo per qualche secondo, e sul viso gli si riflesse qualcosa come un’ombra di tristezza. «Oh, è una lunga storia.» rispose l’uomo, stringendosi nelle spalle «Credi di avere la pazienza per ascoltarmi?». «Non credo di aver niente di meglio da fare» rispose l’elfo oscuro, indicando il corridoio vuoto e spoglio e prendendo una posizione comoda sul suo sgabello. Marcus rise ancora, quindi si mise a sedere e si portò una mano sotto il mento. Restò fermo qualche secondo ad accarezzarsi la barba, riordinando i ricordi. Con calma, senza tradirsi, aspettando che il suo carceriere desiderasse veramente ascoltarlo, meglio se con l’ingenuità che sembrava tradire. «Come ti ho già detto, ero un comandante dell’esercito imperiale.» annunciò quindi «A pensarci bene, forse ero anche il favorito dell’Imperatore». «Nientemeno» fece il giovane, sarcastico.
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«Non mi interrompere, rischio di perdere il filo. Dicevo, al punto che mi affidò il comando in una rischiosa campagna contro degli Orchi che si trovano ad Ovest di qui. Sulle vostre terre». «Orchi? Ci sono Orchi da queste parti?» domandò incredulo l’elfo, aggrottando la fronte. L’uomo fissò l’altro, a sua volta stupito. «Da sempre.» rispose con aria un po’ perplessa «Hanno assemblato un’orda considerevole negli ultimi anni. Che attacchino la tua razza è improbabile, ma al di là del mare ci sono solo i Principati dell’Impero. Strano che tu non ne abbia mai sentito parlare…». Dal Jin balbettò qualcosa di confuso in sua difesa, quel poco che, tuttavia, fu sufficiente a far capire all’Umano come non dovevano per niente circolare le notizie fra gli strati più bassi della società Naigh-Moor. «Capisco.» lo interruppe Marcus con autorità, seppur mantenendo intatta una sorta di gentilezza, quindi prese ad osservare dapprima i vestiti del suo interlocutore, poi l’evidente magrezza che si poteva notare anche solo dal viso scavato dell’elfo ed infine il fisico chiaramente avvezzo ai lavori più duri «Sei uno schiavo?». Dal Jin rimase in silenzio per alcuni lunghi secondi, poi si limitò ad annuire, la testa bassa per la vergogna, gli occhi attratti dal grigio pavimento: per una volta, l’Umano si sentì un po’ colpevole per quella domanda. «Ma non uno schiavo qualsiasi.» lo corresse il Naigh-Moor per riscattare il suo orgoglio «Io appartengo alla città. Non ho un proprietario, eccetto il tiranno, e posso guardare dall’alto in basso tutti gli altri schiavi.» ostentò una punta di superbia, più che altro per convincere sé stesso di quel che diceva «Ad ogni modo, mi pare che tu avessi una storia da raccontare» «Oh, sì, scusa.» obbedì l’uomo, ponendo l’indice e il pollice sulle labbra per ricordare «Dunque, dicevamo degli Orchi. Come ti ho già detto, c’era questa orda di selvaggi pronto a passare il confine orientale dell’Impero, così fui mandato a fronteggiarli. Sai, toglierli di mezzo in anticipo per evitarci guai più grossi. Il nostro obiettivo era quello di riuscire ad intercettare i vari drappelli che si stanno organizzando e stroncarli prima che si unissero al grosso delle altre truppe.» fece una pausa, corrugando la fronte «Soltanto che il viaggio fu molto lungo e quando giungemmo nella regione, eravamo già molto provati: dovemmo razionare i viveri, dal momento che altro cibo non se ne trovava. Avanzavamo stanchi e con i piedi pesanti come il piombo. Avevo una cavalla, Thalya, che era famosa per essere irriducibile e veloce; eppure anche lei sembrava sentire notevolmente la fatica. Mentre marciavamo attraverso la prima chiazza di verde che vedemmo da che eravamo sbarcati a Nog Tuluth, fummo attaccati da un gran numero di Orchi, Goblin ed altre strane bestie.» 14
Marcus tacque per qualche secondo, il volto corrucciato, riprendendo con voce più fioca «Evidentemente, erano stati loro a trovare noi e non viceversa. Architettarono persino bene la loro trappola, per essere dei primitivi senza cervello». L’uomo accigliò ancor di più lo sguardo, sputando rabbiosamente a terra e chiudendo con forza i pugni: sembrava pronto a scagliare fulmini e saette. Il Naigh-Moor si trovò a pensare che con quelle mani sarebbe stato capace di scannare un avversario senza bisogno di armi. «Siete stati sconfitti?» domandò l’elfo con voce bassa: in qualche modo, sentiva che la cosa lo dispiaceva, come un’avventura che finisce male. Senza nemmeno rendersene conto, stava contravvenendo ad ogni “regola” della propria razza: essere impietosito da un Umano in catene non era un comportamento che i suoi simili gli avrebbero potuto perdonare. L’uomo gli rispose con l’abbozzo di una risata. «Soldati dell’Impero sconfitti da selvaggi? No, questo era impossibile. Abbiamo vinto, e siamo sopravvissuti.» rispose «Ma avevamo subito troppe perdite per poter continuare, per di più in un territorio sconosciuto. Diedi l’ordine di tornare indietro. A mio parere, non saremmo dovuti nemmeno partire, ma non avevo ordinato io quella spedizione». «Ma non ce l’hai fatta a tornare» concluse per lui l’elfo, che stava già intuendo cosa doveva essere successo dopo. Marcus storse le labbra in una piega amara. «Ci hanno raggiunti durante la notte: innumerevoli elfi oscuri, troppi perché potessimo fare qualcosa. Hanno rubato i nostri cavalli in modo da impedirci la fuga ed ucciso tutti i miei ragazzi come se si trattassero di formiche. Non è difficile capire perché io sono stato preso come prigioniero: ora avrete qualcuno con cui divertirvi, qualcuno su cui sfogare tutto la vostra cieca crudeltà!» le ultime parole si persero in un ringhio furioso, uno scoppio di rabbia che poco prima sarebbe stato ritenuto impossibile, per quell’uomo. A quelle parole, il Naigh-Moor balzò nuovamente in piedi, a metà tra l’ira e la sorpresa. «Cieca crudeltà? Tu osi avventurarti con i tuoi stupidi soldati nella nostra terra, a Nog Tuluth, e poi pretendi di scamparla? Se noi lo facessimo, voi come rispondereste?» esclamò, portandosi di fronte alle sbarre della cella. «Non eravate il nostro obiettivo, ce ne stavamo addirittura andando, stupido ragazzino!» gli gridò l’altro di rimando, sollevandosi sulle gambe nonostante lo sforzo che gli costasse quel gesto. Le iridi dell’elfo oscuro si accesero di colpo di un rosso vivo e presero a brillare come fuochi selvaggi, serpeggiando davanti al viso del vecchio soldato. L’Umano non si mosse dalla sua posizione, anche se il suo viso tradì istantaneamente 15
l’interesse per quegli occhi. Dal Jin si ritrasse con un urlo selvaggio, tornando a sedersi sullo sgabello, lo sguardo cupo: per quanto provasse, non riusciva a contestare in nessun modo le parole di quell’uomo. «Ora cos’ hai da guardarmi così?» gli domandò infine con un tono che nulla aveva a che fare con la sfuriata di prima. «È comune nella tua razza quella caratteristica?» mormorò l’altro, tornando a sedersi, nel tentativo di ripristinare la tranquillità di poco prima «Non ci ho mai fatto caso». «Di quale caratteristica stai parlando?» chiese il Naigh-Moor con la voce un po’ tremante, sollevando una mano fino a collo, come per proteggersi da qualcosa. «Oh, andiamo, l’ hai intuito anche tu. Gli occhi, naturalmente». Dal Jin si sentì colpito nel vivo dalle parole e dallo sguardo penetrante di Marcus. Ogni secondo che passava, quell’uomo lo costringeva a svelare qualcosa di più su di lui. Abbassò nuovamente il capo e gli occhi prima infuocati si spensero del tutto: in qualche modo, stava per vacillare e mettersi a piangere, ma represse frettolosamente le lacrime. Si passò le dita sulle palpebre come per scacciare un’ipotetica stanchezza. «Beh… Sì, è così…» sussurrò in maniera ben poco convincente. Marcus osservò ancora l’elfo, ma stavolta con uno sguardo diverso, simile a quello di un padre paziente, ed un piccolo sorriso sulle aride labbra sottili. Di nuovo Dal si accorse di quanto quell’uomo non fosse un prigioniero comune, di come in realtà nascondesse qualcosa d’innaturale. «Dai, dì la verità» lo incitò infatti come solo un padre od un amico sarebbe stato capace di fare. «Non sono convincente, eh?» fece il Naigh-Moor, con tono rassegnato «E va beh… Qui da noi sono segno di… Debolezza» mormorò, forzando un sorriso fin troppo fasullo. L’uomo lo guardò con aria tra lo scettico e il divertito. «E questo chi te l’ ha detto?». «Mio padre, Dal Gadejli, Signore di Armalak, la città in cui ti trovi» rispose il Naigh-Moor con un certo orgoglio. «Ma non avevi detto di essere uno schiavo?» l’uomo inarcò un sopracciglio di fronte a quella contraddizione. «Infatti lo sono…» rispose l’elfo, inspirando a fondo per trovare il coraggio di spiegarsi «Mi ebbe da una schiava di piacere, Shadyla. Una nascita indesiderata, soprattutto a causa del brillare degli occhi, ma mia madre fece in modo di lasciarmi in vita. Venni al mondo in un giorno a noi sacro, quello della “Nascita delle Ombre”, e mi fu perciò concessa la grazia». Marcus lo guardava con la stessa indecisione di prima
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«E tu ci credi? Voglio dire, tutto questo non ti suona in una strana maniera?» disse, portandosi la destra al mento «Se tuo padre è una personalità tanto importante, avrebbe potuto facilmente avere la meglio sulle convinzioni di tua madre e fare di te ciò che voleva». «Non ho detto che ci credo.» replicò il giovane, risentito «Credi che non me lo sia mai chiesto anch’io?». «E cosa disse la tua matrigna, la vera moglie di Gadejli?» «E chi lo sa?» il Naigh-Moor, stringendosi nelle spalle «Lei morì pochi giorni dopo la mia nascita in circostanze misteriose: fu assassinata mentre dormiva da uno sconosciuto di cui si sono poi perse le tracce. Questo è il punto più oscuro della storia. Mi sono spesso domandato se l’assassino fosse mio padre, ma nessun altro sembrò porsi la mia domanda, allora. Furono incolpati senza indugi alcuni schiavi che avevano nutrito del risentimento verso mia madre, adducendo numerose prove, almeno a sentire qualunque abitante di Armalak». «Ah, se è per quello capita spesso anche fra gli uomini… E in genere si tratta di un mucchio di frottole. Dici che non è il tuo caso?» fece l’uomo, alzandosi ancora in piedi come se fosse scontato che avesse ragione. Dal Jin sospiro, sentendo la propria ignoranza su quei fatti pesare su di lui come un macigno. «E anche se fosse? Che posso farci?» mormorò, scuotendo nervosamente la testa e fissando poi l’uomo «E cosa vorresti farci tu, soprattutto?». «Io? Io niente. Ma tu puoi tentare di capire.» gli propose serio l’uomo, ora appoggiato alla parete con la mano «Puoi scegliere di vivere per sempre nel dubbio oppure cercare di scoprire la verità. Un uomo chiuso in gabbia guarda il mondo con altri occhi. E, che tu ci creda o no, il tuo destino potrebbe essere deciso proprio da questa piccola scelta». “Ed anche il mio” si disse, nutrendo in sé la speranza che quell’apparentemente insignificante schiavo potesse tirarlo fuori di lì in qualche modo. Sarebbe stata solo questione di convincerlo ad aprire la porta di quella dannata cella: non poteva essere impossibile. «Lo so… Ed è proprio questo che mi spaventa» rispondeva nel frattempo l’altro. Pur senza conoscerne il motivo, il Naigh-Moor si rese conto che quel prigioniero, odiato da tutti e destinato a morire, era forse l’unica persona con cui aveva parlato liberamente in tutti quegli anni. O forse lo sapeva? Chi altri gli aveva fatto domande del genere durante la sua vita? Chi si era anche solo interessato di quello che lo riguardava, prima di allora? Aveva dovuto aspettare che un generale Umano (forse pazzo) fosse fatto prigioniero per riuscire ad aprire gli occhi?
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«Ed inoltre non so come fare. Mio padre è irraggiungibile e tutti asseriscono di non sapere niente dell’accaduto.» aggiunse, nuovamente insicuro delle proprie intenzioni «Come faccio a distinguere il vero dal falso?». «Ragazzo mio, se vuoi un consiglio, stammi bene a sentire.» annunciò l’altro, puntandogli contro l’indice della mano libera «Avrai sicuramente provato a parlare con… Shadyla, no? Cosa ti ha risposto? ». «Ciò che ti ho già raccontato.» rispose il giovane, allargando le braccia «Tutti qui dicono la stessa cosa senza varianti, te l’ho detto» «Lei deve conoscere la verità.» gli garantì, senza che il suo sguardo facesse una grinza «Ed è la persona che ti è più vicina: devi spremerla, elfo, anche se le farà male». «Forse hai ragione, Umano.» borbottò Dal Jin, per niente deliziato da quell’ultima prospettiva; tuttavia sfoderò poi un sorrisetto divertito «Dopotutto non sei così male come credevo». L’uomo rise fragorosamente, quindi si sedette sul suo giaciglio, sollevando le gambe incatenate con l’aiuto delle robuste mani. Anche se non sembrava, gli attenti occhi di Marcus seguivano ogni movimento della propria sentinella, aspettandosi che quell’amichevole modo di trattarla sortisse qualche risultato. Affidarsi ad un Naigh-Moor troppo giovane per capire cos’aveva realmente attorno non era il miglior piano che avesse ideato, ma non gli era venuto niente di meglio in mente. «Per oggi basta parlare, ragazzo. I tuoi compagni non sono stati molto gentili con me: urge una bella dormita» e si voltò dall’altra parte. Il Naigh-Moor osservò l’uomo in silenzio, lasciando che il sorriso svanisse lentamente, dopodiché si mise a pensare a tutto quello che era successo e alle parole da dire alla madre, quella sera. Il dubbio prese a lacerargli la mente come mai gli era successo prima e sentì dentro di sé un vortice di rabbia e di eccitazione salirgli fino alla gola: non resistette più. In punta di piedi, svicolò via dal corridoio e cominciò ad avviarsi verso casa, scivolando attentamente fra le ombre della prigione. L’uomo sulla branda sorrise, trattenendo a fatica un’esclamazione di giubilo.
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II. Il sangue degli eroi
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’oscurità avvolgeva le cupe torri di Armalak, nere e minacciose nella loro tetra maestosità, continuamente pattugliate da dozzine di guardie. Nessuno diede però molto importanza ad un giovane Naigh-Moor dai vestiti logori che si avvicinava di soppiatto ai reparti della servitù del palazzo di Dal Gadejli. Soltanto una delle sentinelle lo fissò con disprezzo per qualche secondo, prima di riportare la sua attenzione sulla cortigiana che passeggiava per la stessa strada, scoccando occhiatine maliziose a tutti i maschi che incrociavano il suo sguardo. Dal Jin nemmeno se ne accorse, troppo preso dalla vicinanza della sua meta, e proseguì in silenzio. Quando ebbe raggiunto l’edificio, aprì la porta della casa ed entrò furtivamente nella casa delle schiave di piacere: le numerose concubine del tiranno parlavano divertite tra di loro mentre si pettinavano, provavano vestiti o riposavano sdraiate sui divani, allegre, sorridenti. Alcune alzarono una mano in segno di saluto dell’elfo mentre ridevano fra loro di quel risolino tipico delle femmine elfe oscure. Una di loro si alzò sveltamente in piedi e gli si avvicinò con passo sensuale, ancheggiando sinuosamente sotto la propria tunica, nera e brillante come un cielo tappezzato di stelle. Le candele giallognole che irradiavano di una tenue luce l’intera stanza risplendevano sui suoi lisci capelli ramati, donando loro luminosi riflessi di luce. «Bentornato, Dal! Che ci fai già qui? Dovresti essere di guardia alla prigione…» gli chiese, fissandolo in viso con i grandi e vivaci occhi, nel tentativo d’indovinare la risposta alle domande che le affioravano alla mente semplicemente dall’espressione dell’elfo «Uthluk ti ha lasciato andar via prima o era semplicemente attaccato alla bottiglia e non ti ha nemmeno visto?» continuò, allargando le braccia non appena l’ebbe raggiunto, fino a stringerlo a sé come un bambino. Dal si lasciò abbracciare, confuso e imbambolato, come accadeva ogni qualvolta che lei gli si avvicinava. Una ragazza effettivamente bella e decisamente furba. Troppo furba. Beh, almeno più di lui. Svariate volte aveva cercato di convincerlo a giacere con lei, svariate volte le sottili allusioni e gli eccitanti movimenti dell’elfa l’avevano quasi condotto a fare ciò che magari suo padre aveva fatto con lei la sera precedente. Un senso di ripugnanza lo assalì mentre ripensava a quanti altri uomini la cortigiana doveva aver trascinato nel suo letto, istupiditi dalle promesse di amore e di piacere che continuava a giurare anche a lui. Anzi, a pensarci bene soltanto di piacere. E lui, come gli ricordavano spesso, era ancora giovane e stupido.
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«Beh, Ezela… Sai com’è fatto Uthluk, no?» le rispose confusamente, staccandosi attentamente da lei «E sai anche che le prigioni sono molto brutte e monotone. Quindi ho pensato di fare un salto… Ma, mi raccomando, non andarlo a dire in giro». «Bene…» garantì l’altra, arrotolandosi maliziosamente una ciocca di capelli attorno al dito e strizzandogli un occhio «Forse avremo un po’ di tempo per noi…». «Ezela… Dammi cinque minuti per parlare con mia madre e sono da te, mh?» sussurrò Dal alla ragazza, posandole le mani sulle spalle. «D’accordo, Dal, ma non farmi aspettare troppo» rispose asciutta la ragazza, allontanandosi impettita: evidentemente, non avrebbe gradito ritardi. L’elfo si avvicinò alla stanza della madre con la testa completamente scombussolata dalle domande ma un sola certezza: Ezela ci avrebbe provato ancora. E ancora una volta avrebbe dovuto beccarsi un rifiuto. Troppi pensieri gli ronzavano per il cervello per pensare a cose del genere ed inoltre, se avesse perso altro tempo, Uthluk si sarebbe inevitabilmente accorto della sua assenza. Aprì la porta con una mano e cercò di assumere lo sguardo più deciso che poteva. Shadyla era all’interno, intenta a provare un paio di orecchini dorati. Il vestito bianco e aderente che portava metteva in risalto le prosperose forme della donna che, nonostante l’ormai avanzata età per la sua professione, non dimostrava certamente gli anni che realmente aveva. Quando si voltò e vide il figlio in piedi davanti all’entrata, lo fissò con due occhi che non prometteva niente di buono. «Dal! Cosa diavolo ci fai qui?» gli domandò, agitando i lunghi capelli corvini avvolti nella treccia che le ricadeva sulle spalle «Lo sai che Uthluk non sopporta che lasci il tuo posto per venire qua!». Dal Jin non rispose e si limitò a chiudere la porta dietro di sé, quindi si avvicinò alla madre con passo lento, la testa bassa. «Sono venuto per sapere, madre» esordì in un lungo ed incerto borbottio, incapace di sollevare il capo. «Sapere cosa? Quante legnate ti darò per essere venuto qui?» esclamò ridendo la donna, tornando a guardarsi riflessa nello specchio davanti a lei. «Conoscere il mio passato, una volta per tutte» sbottò deciso il Naigh-Moor, alzando lo sguardo, acceso di colpo da uno strano bagliore di determinazione. «Il tuo passato?» Shadyla inarcò un sopracciglio, voltandosi sorpresa «Ancora con quella vecchia storia?». «Una storia che ho sentito raccontare troppe volte, per essere vera» precisò il ragazzo, sentendo l’agitazione crescere in lui. «Ma piantala! Ti rendi conto cosa stai rischiando? Te l’ ho già spiegata decine di volte!». 20
«Quelle sono un cumulo di idiozie… E tu lo sai bene! Voglio la verità, ora!» sbraitò, indicando saldamente il pavimento con l’indice. «Dal, torna al tuo lavoro» ribatté seccata la donna, voltandosi ancora verso lo specchio, visibilmente innervosita. «Non prima di aver avuto una risposta, madre.» continuò l’elfo, imperterrito «Non prima». Shadyla sbuffò, costringendosi a sfoggiare un sorriso chiaramente falso, quindi prese a torturare gli orecchini, fingendosi intenta ad aggiustarli sui lobi. «Allora, sei figlio di Gadejli e mio e poi…» recitò, come in una cantilena. «Basta!» la interruppe l’altro, afferrandole l’esile braccio e strattonandola con forza, costringendola ad incrociare i suoi occhi, accesi di una sinistra luce scarlatta «Basta bugie». «Ma… Dal, mi fai male!» protestò l’altra, cercando vanamente di divincolarsi. «Quella storiella è vecchia, ormai. E io non sono più bambino.» sibilò il NaighMoor a denti stretti, stringendo ancor di più la sua presa «Rispondi a questa domanda, allora: perché Gadejli non mi uccise?». «Io… Io… » balbettò, mentre gli occhi si inumidivano rapidamente, più per una chiara ferita all’anima che per la stretta del figlio. «Perché?». «Perché eri nato-». «Perché?» insistette Dal, arrivando quasi a gridarlo. A quell’ultima parola, Shadyla si lasciò cadere in ginocchio ai piedi del figlio, non appena quello le lasciò andare il braccio. Gli afferrò con entrambe le mani le gambe e lo strinse a sé, singhiozzando e piangendo, la testa affondata contro le sue ginocchia. L’elfo non sapeva bene che fare. Non era quello che si era aspettato. Non era quello che aveva voluto. Il dolore di sua madre era il suo. Ma era anche una risposta. Ed era bastato veramente così poco? Le passò una mano fra i capelli con delicatezza, dopodiché l’aiutò a rialzarsi, al contempo dispiaciuto per il pianto della madre e soddisfatto per essere riuscito ad ottenere il risultato che voleva: la prova che aveva inseguito come una chimera per tutti quegli anni. E che, invece, era sempre stata così vicina. «Madre, io devo sapere» le disse con tono pacato, una volta che fu nuovamente seduta davanti allo specchio. «Lo vuoi davvero?» gli domandò la donna, ancora in lacrime. «Sì. È necessario, ormai» rispose il ragazzo, traendo dalle sue stesse parole quel poco di determinazione che ancora gli serviva. «Prometti, Dal... Prometti che non rivelerai mai niente a nessuno! Promettilo!». L’elfo tirò un sospiro, tenendo lo sguardo lontano da quello della madre: già sapeva che, nel bene o nel male, non avrebbe potuto tener fede a quel giuramento. 21
«Lo prometto...» cedette alla fine, nella speranza che così Shadyla si calmasse. «Ho pregato in silenzio che non mi chiedessi mai questo, per anni… Ma senza dubbio gli Dèi hanno altri piani riguardo al tuo futuro, piuttosto che farti restare chiuso qui a tenere d’occhio i prigionieri: è il tuo destino.» lanciò un tremulo sospiro, asciugandosi le lacrime con una mano «Non ti arrabbiare con me per ciò che sentirai, ma se vuoi davvero sapere la verità, dovremo cominciare dall’inizio». «Sarò forte, madre» le promise l’altro, ascoltando attentamente ogni parola di Shadyla. «Lo sarai, Dal, lo sarai… Perché dovrai esserlo.» disse la madre, ponendo le sue mani sulle spalle del ragazzo, prima di ritrarle e mettersi a sedere su una piccola poltroncina in pelle, continuando a parlare con voce tranquilla, rotta solo da qualche sospiro dovuto allo sfogo di poco prima «Tutto cominciò quando Gadejli, tuo padre, partì per un viaggio assieme ad un manipolo dei suoi per compiere razzie lungo le coste dell’Impero, più per guadagnare gloria che altro. Nonostante il loro scarso numero, lui e i suoi compagni compirono numerose imprese, schiavizzando e radunando sotto di sé mercenari di qualsiasi razza o popolo: tutto sul filo del rasoio, con i segugi dell’Impero che marciavano contro di loro. Tuttavia, sono ben pochi i soldati di ventura che vorrebbero tuo padre come loro Signore: ammutinamenti e ribellioni si susseguirono sempre più rapide, ma, non chiedermi come, nessuna di esse riuscì ad avere successo. Il viaggio di ritorno verso Armalak fu la parte più turbolenta della loro avventura. Mentre saccheggiava uno dei tanti villaggi dei principati di confine, Gadejli trovò sul proprio cammino un’indovina. Pur di salvarsi, la maga si offrì di rivelare il destino di ciascuno dei nobili della spedizione: come ormai sai, abusare troppo della magia può risultare fatale per un’incantatrice, ma alla donna non restavano che due alternative. Una morte sicura per mano di Gadejli, o la speranza di poter sopravvivere grazie ai suoi stessi incantesimi. Dal canto suo, tuo padre accettò di buon grado, divertito più dal rischio che stava correndo l’indovina che dalla possibilità di conoscere il suo futuro». «Il tiranno non crede al destino, è risaputo» mormorò l’elfo, dato che la madre sembrava essersi fermata, forse soltanto per riprendere fiato. «È ciò che ti hanno… Che ti abbiamo fatto credere per anni.» ammise lei, voltando il capo per la vergogna, prima di riprendere a narrare la storia, come se quell’osservazione non fosse mai stata posta «Ci credette. Anzi, forse fu l’unico a farlo veramente. Deve aver sentito l’inquietudine crescere in lui, dichiarando che sarebbe entrato per ultimo nella tenda della maga. A mio avviso, lo fece soltanto perché avrebbe potuto sperare che l’indovina non resistesse abbastanza e non riuscisse ad arrivare a lui: non so quanto si sentì frustrato quando arrivò il suo turno. All’interno della tenda, la donna gli annunciò la prossima nascita di 22
un figlio maschio, un secondogenito. Un bambino che avrebbe racchiuso in sé tanto potere da eguagliare e superare il fratello maggiore e lo stesso padre, un bambino la cui fama avrebbe fatto impallidire ogni altro nobile di Armalak. Benché le pressioni del sempre più incuriosito Gadejli si succedessero l’una dopo l’altra, la maga dichiarò di non essere in grado di rivelargli altro. Tuo padre lo considerò un vero e proprio smacco morale: sguainò la spada e decise che avrebbe ucciso quell’indovina, contrariamente alla sua promessa di lasciarla in vita in cambio delle sue prestazioni. Non appena vide quel gesto, l’incantatrice gli porse frettolosamente una pergamena, intimandogli, forse con troppa esuberanza, di non aprirla prima del suo arrivo ad Armalak. Obbedire agli ordini di un’indovina stracciona gli sembrò un insulto ancora più grande: ignorando le sue suppliche, si sbarazzò di lei e s’impossessò della pergamena, opponendosi però testardamente a tutte le richieste degli altri nobili di mostrarla loro. Fu tanta la sua determinazione di non accontentare qualsiasi loro capriccio, seppur piccolo che fosse, che s’impose di non aprirla prima del suo arrivo in città, attenendosi così al consiglio della maga: molto probabilmente, ebbe di nuovo paura. È la sola ragione. La superstizione ha sempre roso il cervello di tuo padre, sempre!». «Immagino che il contenuto di quella pergamena non sia rimasto un segreto per sempre» arguì l’elfo, appoggiato alla parete. «Purtroppo no... Quando fece ritorno ad Armalak, fra il clamore della folla, attraversò in trionfo le strade, esibendo i trofei e le ricchezze che aveva conquistato nel viaggio. Ma, quando raggiunse il suo palazzo, si accorse che una donna, accompagnata solo da un bambino di pochi anni, lo attendeva davanti ai cancelli, tenendo fra le sue braccia un misterioso fardello avvolto in un panno scuro. Solo avvicinandosi, Gadejli riuscì a notare che la donna non era altro Zadra di Thanisshar, sua consorte, e il bambino suo figlio, Lohidran. E soltanto quando la donna lo ebbe liberato dalla veste nera, il neonato che stringeva a sé si voltò a vedere, per la prima volta, il padre, ancora saldamente in sella alla sua cavalcatura. Un secondogenito, come gli era stato predetto, fratello di sangue di Lohidran… E figlio naturale di Zadra, non mio» la voce dell’elfa oscura tornò a spezzarsi e due piccoli luccichii comparvero alle estremità dei larghi occhi rossi. Dal rimase immobile nella sua posizione, in silenzio, lo sguardo esterrefatto, allibito. Possibile che per anni ed anni avesse vissuto con una donna che si spacciava per sua madre, ma che in realtà non lo era? Tutto gli sembrava così assurdo: per tutto quel tempo aveva ingenuamente vissuto nell’ignoranza, ingannato da chi gli stava più a cuore? Era davvero stato necessario un prigioniero, un condannato a morte, per ottenere la verità? Inspirò a fondo, cercando di calmarsi, di darsi un contegno.
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«Non preoccuparti.» balbettò, muovendo qualche passo verso la donna, che subito si sporse verso la sua mano, stringendola nella sua, in cerca di un qualche conforto «Tu mi hai allevato, cresciuto: mi hai voluto bene ed io ne ho voluto a te… Come un figlio può amare una madre, credimi: non posso smettere di farlo adesso». «Grazie, Dal… Questo… Mi rincuora.» mormorò lei, ritraendosi lentamente, non senza aver però lasciato una delicata carezza sul palmo del figlio «Totalmente dimentico dell’incontro con l’indovina, il tiranno indisse un grande banchetto a cui invitò, ovviamente, anche i suoi compagni di viaggio. Com’è usanza dei Naigh-Moor più ricchi, il banchetto comprendeva l’esibizione e anche l’uccisione di numerosi schiavi per deliziare e divertire i presenti, ma Gadejli volle strafare: decine e decine di prigionieri che aveva catturato durante e il suo viaggio furono denudati, umiliati e colpiti a morte. Li usò come divertimento personale, sperimentando i più disparati modi di uccidere, sotto le continue incitazioni di ogni commensale. «Durante il pranzo, uno degli amici di Gadejli gli ricordò tuttavia il responso della maga che avevano incontrato e tornò così alla mente di tuo padre il ricordo della pergamena. Mandò uno schiavo a prenderla e la lesse con tranquillità, ebbro com’era di vino e di gloria. Chiunque, qui ad Armalak, conosce ormai a memoria quel dannato pezzo di carta: L’esule giungerà ed i figli di Armalak cadranno sotto di lui, perché in lui scorrerà il sangue del Conquistatore, che la sua stessa spada spazzerà via. La città nera gli apparterrà e il suo nome sarà temuto come la voce stessa degli Inferi. I padri e i fratelli gemeranno all’avvicinarsi del principe di Armalak, colui che vede con occhi di brace e che nacque assieme alle Ombre. Dopo aver letto quelle parole, si voltò a guardarti e notò quel bagliore in fondo ai tuoi occhi. Zadra balbettava, le disse che ogni tanto il tuo sguardo si faceva più vivo. Provò a calmarlo come poteva. Al colmo dell’ira e del terrore, tuo padre tentò di ucciderti di fronte a tutti, ma la salda presa degli invitati lo fermò e lo costrinse perlomeno a rimandare i suoi piani. «Nei giorni successivi, la lite fra Zadra e Gadejli sorse spontanea. La faccenda della pergamena allora venne tenuta nascosta, ma io ero un’ancella di tua madre, a quel tempo, e lei si confidò con me: voleva lasciarti vivere, diceva di non dare ascolto alle parole di una maga vagabonda, ma Gadejli aveva paura. Inoltre, Zadra era l’unica persona in grado di poter qualcosa contro di lui. Sei venuto al mondo il giorno della “Nascita delle Ombre”, in linea con la profezia, ma sei stato al contempo fortunato: come ben sai, nessun elfo oscuro nato in quel giorno può venir ucciso finché non si sarà macchiato di una colpa ritenuta troppo grande dai sacerdoti di Junk Stok, il Signore dei Veleni. Se quella notizia fosse arrivata ai sacerdoti in tempo, tuo padre non avrebbe potuto farti niente. 24
Purtroppo, Gadejli fu più veloce di tua madre: la uccise nel sonno, attribuendo poi la colpa a un gruppo di schiavi, come ben sai. Ma tuo padre ignorava che io sapessi: di nascosto, mi recai al tempio di Junk Stok, dove feci notare ai chierici il giorno della tua nascita. È stata una mia scelta… Prima che di Zadra. Gadejli lo sa. Come io so bene che prima o poi questa mia generosità mi costerà cara…». «Quindi i miei sospetti erano fondati.» disse Dal Jin, mentre gli occhi cominciavano ad accendersi di un rosso vivo e le mani si chiudevano vigorosamente a pugno «E quel cane ha ucciso mia madre!». «No, Dal, calmati!» lo ammonì la madre, trattenendolo con una mano, come se quel gesto potesse servire a qualcosa contro la furia del ragazzo. «E perché?» si oppose infatti quello, dirigendosi fulmineamente verso la porta «Avrà ciò che si merita! Se è vero che morire per mano mia è il suo destino, non fallirò!». «Devi attendere.» gemette lei, sporgendosi in avanti e protendendo un braccio verso di lui, sul viso una chiara espressione terrorizzata «Sei ancora troppo giovane! E per fare cosa, poi? Per affrontare da solo lui e tutta la sua guarnigione! Cosa potresti mai fare? Fai funzionare quella testa!». L’elfo abbassò lo sguardo, riflettendo sull’infondatezza della sua impulsiva idea: lui contro un’intera Legione, al cui comando vi era uno dei più potenti NaighMoor dell’intera Nog Tuluth? Sua madre aveva ragione: non avrebbe potuto farcela, nelle sue misere condizioni. «Niente… Non posso fare niente.» ammise con voce bassa, abbassando le braccia «Ma mi costa molto udire queste parole senza poterci fare nulla» «Lo so, figlio mio, ma devi essere forte.» sussurrò Shadyla con un filo di voce, riaccomodandosi poi sulla poltroncina «Lasciami finire… Come ti ho detto, andai io stessa dai sacerdoti e mi fu affidata la tua custodia. Gadejli, però, ti ripudiò e ti ridusse in schiavitù, escludendoti così da qualsiasi faccenda di stato. Promise di lasciarmi vivere, se ti avessi tenuto all’oscuro di tutto, se mi fossi lasciata comprare il silenzio, come chiunque aveva fatto, almeno allora. Oramai, non c’è un solo abitante di Armalak che non sappia chi tu sia veramente, ma non c’è nessuno che te lo direbbe mai di sua volontà. Io ti ho accudito, ho avuto cura di te come il figlio che non ho mai potuto avere e ho cercato di fare ciò che tuo padre mi aveva intimato. Ma… Ho fallito, come vedi». Tacque per un attimo, osservando il pavimento e agitando nervosamente la punta di un piede su di esso. Per tutti i decenni della vita di Dal, era riuscita ad attenersi a quel ricatto, a tacergli ogni verità. La sua piccola stanza le sembrava adesso una specie di tribunale in cui non avrebbe avuto la benché minima possibilità di mentire. Forse avrebbe potuto restare in silenzio ancora a lungo, evitare tutto ciò che quella rivelazione implicava, ma era giusto? Quel ragazzo non era nemmeno suo figlio, è vero, ma non aveva mentito, pochi minuti prima: 25
gli aveva voluto bene. Quell’affetto che li aveva legati era indubbiamente pari a quello fra una normalissima madre ed un figlio e di certo superiore a quello fra una Naigh-Moor e la propria prole. Ma, a maggior ragione, adesso lui avrebbe corso dei rischi enormi, avrebbe tentato di scappare, di vendicarsi di suo padre: si era sempre comportato così. Non avrebbe agito diversamente neanche stavolta, nonostante non ci fosse soltanto il pericolo di punizioni, semplici o brutali che fossero, ma di perdere la vita. Forse solo quell’evenienza avrebbe potuto trattenerlo. «Che cosa farai adesso?» gli domandò alla fine la donna, la voce poco più che un rauco sussurro. Dal Jin sentì quelle parole pesanti come il piombo, pronte a schiacciarlo. La mente era ancor più carica di domande, idee e dubbi di quella della nutrice, a tal punto che non gli riusciva formulare alcun pensiero coerente. Ascoltava solo minuziosamente quella donna che ancora chiamava madre, con la speranza di trovare un qualcosa che lo scuotesse da quella situazione. Alla fine si decise a parlare, ma lo sguardo era ancora basso e sconvolto, mentre il Naigh-Moor agitava nervosamente le dita delle mani. «Non lo so.» rispose con una voce che sembrava provenire da un altro mondo «Non avrei mai pensato che la verità fosse talmente… Sconcertante. Forse, se lo avessi saputo, non te l’avrei nemmeno chiesto». La madre si alzò in piedi e gli si avvicinò lentamente, abbracciandolo con dolcezza come era solita fare fin da quando gli era stato affidato, molto tempo prima. «No, Dal. Non devi pensare a queste cose. Né ora, né mai. So che per te deve essere stato terribile, ma è sempre meglio che vivere nel dubbio eterno. E non puoi immaginare che sollievo sia stato per me parlartene». L’elfo rimase rigido come un palo mentre le calde braccia della donna lo stringevano, ma già nella sua mente pensava a cosa sarebbe successo dopo: la paura gli attanagliò il cuore. Non avrebbe avuto scelta, che sua madre fosse d’accordo o meno. «Non posso perdonarglielo.» mormorò, passandosi una mano sulla spalla sinistra, dove recava il marchio di “Snathir”, schiavo, che l’avrebbe accompagnato sempre e comunque, in qualsiasi tempo e luogo «Non posso perdonargli ciò che ha fatto a me, a te e a mia madre... Né quello che farà ancora ad altri». «Cosa farai, allora, Dal?» balbettò lei, più con un’implorazione che con una domanda, gli occhi di nuovo umidi di pianto. L’elfo passò una mano sul viso della madre e allontanò il pianto dal suo volto con le dita affusolate, mostrandole un sorriso decisamente insicuro.
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«Hai già capito, madre.» le sussurrò, cercando di far apparire la cosa meno grave di quello che realmente era «E sai anche che non ci sono altre possibilità. Non c’è un futuro per me, qui. Posso solo sperare che non mi faccia uccidere». La madre annuì con un cenno del capo, singhiozzando, le unghie letteralmente conficcate nei palmi. «Mi mancherai molto» le disse soltanto, cercando di guardarla con quanta dolcezza gli era concesso avere, quindi si avvicinò a lei e la baciò sulla fronte liscia, racchiudendo in quel piccolo bacio tutto l’amore che poteva. Si voltò e si diresse traballando come un ubriaco verso la porta, appoggiandosi alla maniglia per riuscire a mantenere l’equilibrio. «Dovrò andarmene, madre» spiegò poi con tono serio, volto nuovamente verso di lei. «No, Dal! Possiamo provare a-» provò a opporsi la donna, ma solo la porta che si chiudeva rispose al suo appello. Come una bambina, rimase a sedere sulla sua poltrona, le labbra tremanti che non riuscivano a far altro che balbettare frasi sconnesse. Invano, cercò la forza di alzarsi, di cercare Dal nell’attiguo stanzone, ma gambe e braccia erano ormai lontane dal suo controllo, come arti paralizzati e impotenti, inutili contro un fato così schietto e crudele. Trasse a sé le ginocchia e affondò la testa contro di esse, lasciandosi andare ad un pianto trattenuto troppo a lungo. «Ho perso un figlio...» si ripeteva incoerentemente, ogni volta stringendo ancor di più la presa sulle proprie gambe «Ho avuto un figlio e l’ho perduto...». «Mi mancherai molto...». «Dovrò andarmene, madre». Poi quel rumore di passi e la maniglia che si muoveva. Ezela era prudentemente schizzata via dalla porta quando si era resa conto che il congedo tra i due era ormai immediato. Era dapprima rimasta incuriosita dalla conversazione, poi il suo viso aveva cominciato a mutarsi in una smorfia seria e preoccupata quando Shadyla aveva cominciato a raccontargli del viaggio di Gadejli e della profezia. A quanto pare, la cara cortigiana aveva il cuore di una ribelle... E la lingua abile nel fornire a Dal una ragione quanto mai valida per fuggire. Sul perché rifletté solo per pochi attimi, il tempo di accorgersi che la donna non aveva rivelato tutto al giovane schiavo. Un’altra domanda si era affacciata serica alla mente della ragazza ed un’altra volta era stata accantonata. Solo una cosa era importante, adesso: il tradimento di cui aveva origliato la trama. Dal chiuse la porta alle sue spalle, deciso, ma allo stesso tempo scosso e tormentato come mai l’avevano visto. Si diresse verso l’uscita dalla casa delle cortigiane gettando occhiate tutt’attorno a sé; quasi tutte le schiave lo 27
guardavano incuriosite, badando però a distogliere lo sguardo ogni qualvolta il ragazzo lo incrociava. Troppo spesso, un risolino ed una frase detta sottovoce schermavano quel sinistro scudo di stranezza che si era formato fra lui e le numerose donne. Solo una di loro, come notò facilmente, faceva di tutto per non guardarlo: Ezela. Non si diede pena di capire cos’era accaduto, però il solo fatto che l’elfa non gli prestasse attenzione lo fece sentire ancora peggio. Ma non c’era tempo per i pensieri: ormai fuori, osservò appena l’edificio da cui era uscito e una lacrima gli rigò il volto, subito allontanata con decisione dalla mano destra. Shadyla uscì dalla sua stanza quasi un’ora dopo, col viso provato ben nascosto sotto strati di fatiscenti creme estetiche ed un pesante trucco scuro. Era ancora sulla porta, quando anch’essa vide che ciascuna delle Naigh-Moor aveva alzato il viso verso di lei non appena si era mostrata sulla soglia. Allargò sorpresa entrambe le sottili sopracciglia e tutte le donne chinarono il capo, tornando alle loro chiacchiere o fingendo di farlo. Shadyla aveva molti più anni di quanti ne dimostrasse ed era di certo meno ingenua del figlio adottivo: qualcosa non andava per il verso giusto, era lampante. Con passi misurati, prese posto su un divanetto color cremisi, di fianco ad un’altra cortigiana, che doveva avere pochi anni in meno a lei. Questa teneva le mani sopra le ginocchia e la schiena piegata, mentre il viso ovale aveva la stessa indifferenza di una pietra. Mosse appena un piede nel percepire una presenza vicina a sé, senza che la sua faccia facesse una sola piega. «Miryah...» mormorò cortesemente Shadyla, ben sapendo che l’altra donna poteva dimostrarsi amichevole solo se trattata con tutto il rispetto che da sola diceva di meritarsi. «Che vuoi?» fu l’asciutta replica dell’altra. «Sono certa che l’hai già intuito da sola» Shadyla si sforzò di sorridere di fronte alla durezza dei modi di Miryah, forse l’unica delle cortigiane con cui era riuscita a intessere un rapporto non di amicizia, ma di leggera simpatia. «Ezela è rimasta ad ascoltare alla tua porta fino a quando Dal non è uscito» al termine di quella frase, la donna si grattò il naso con le lunghe unghie. L’altra sbarrò gli occhi, stringendo d’istinto i pugni, colta da un improvviso terrore. «Dov’è, adesso?» domandò sgomenta «Ha detto a qualcuno ciò che ha sentito?». «Non credo.» Miryah scrollò le spalle, chiudendo per un istante i grandi occhi nocciola «È rimasta perlopiù da sola finché non è uscita per un lavoro, più di mezzora fa». Shadyla rimase in silenzio, mentre l’altra accarezzava distrattamente un bracciolo del divano. Miryah non le avrebbe chiesto se qualcosa non andava, 28
non avrebbe cercato di fornirle il suo aiuto, ormai lo sapeva. D’altronde, ottenere quelle informazioni era già più di quanto ci si potesse aspettare da qualsiasi altra cortigiana. Congiunse le mani, appoggiando i gomiti alle cosce, tenendo attentamente d’occhio la porta principale dell’edificio: Ezela la varcò solo qualche minuto dopo. Pareva stanca, quasi distrutta, ma la ragazza era ancora abbastanza vigile da distinguere la rabbia sul viso della donna che gli si stava avvicinando. Fece un passo indietro, guardando a destra e a sinistra in cerca di una via d’uscita da quella situazione, ma Shadyla le fu davanti prima che potesse far qualcosa. «Buonasera, Ezela.» salutò quella a denti stretti «Ti spiace se parliamo un po’?». «Shadyla, devo...» provò a rispondere, indicando con un tremante dito la stanza in cui erano alloggiate le cortigiane più giovani. La lunga mano dell’altra le si cinse attorno al polso con una violenza che non accettava obiezioni. «Non preoccuparti...» continuò quella, mentre la trascinava dietro di sé fra le occhiatacce o le sommesse risate delle schiave presenti. Chiuse con cautela la porta dietro di sé, spingendo Ezela al centro della stanza come se fosse stata un fantoccio. Shadyla sentiva la paura della ragazza crescere inesorabilmente: lo vedeva nei suoi occhi, nelle sue labbra schiuse, nelle sue mani che non riuscivano a star ferme. «Allora, Ezela.» riprese la donna, avvicinandosi come un inquisitore alla giovane «Mi è stato detto che t’interessi degli affari miei e di mio figlio». «Eh?» balbettò poco convincente la giovane elfa oscura, cercando invano di sfuggire all’interrogatorio «Ti assicuro che…». «Ho qualche anno più di te, ragazzina.» la zittì impaziente Shadyla, incrociando le braccia al seno «Cos’hai sentito?». «Niente! Io ho solo-». «Non cercar di fare la furba con me.» di nuovo, la ben più matura cortigiana la costrinse al silenzio «Hai origliato alla mia porta per tutto il tempo; cos’hai sentito?». Ezela tacque, mordendosi ripetutamente il ben disegnato labbro inferiore: stava per crollare, lo si vedeva lontano un miglio. Ed era proprio quello che la donna voleva. «Ezela, non ho intenzione di attendere oltre» la avvisò accigliata quella. «E va bene!» gridò rabbiosamente la ragazza, allargando le braccia «Ho sentito tutto, capito? Tutto! Ogni singola parola!». «A chi ti sei offerta, oggi?» domandò a sorpresa Shadyla, senza cambiare espressione. Ezela rabbuiò in viso, facendosi ancora più adirata di quanto non fosse già. 29
«Questo non ti riguarda» sibilò poi con tono di sfida, incrociando lo sguardo della donna. «Invece sì, che ti piaccia o no.» le parole della ragazza sembravano non aver intaccato neppure lontanamente la corazza di ghiaccio della donna «Non sfidare troppo la mia pazienza, ragazzina». Ezela fece una smorfia, chiudendo i polsi con quanta forza aveva nelle braccia, quindi inspirò a fondo, miscelando le successive parole ad una buona dose di veleno. «Jelfrid, uno dei maghi di corte...». Contrariamente a quanto la giovane si aspettasse, Shadyla non mostrò altro che tranquillità di fronte a quella risposta. «Allora puoi anche avergli detto tutto, non fa differenza. È solo uno stregone imbecille, nemmeno gli frullerà per la testa di dar peso alla cosa. Sarà troppo impegnato nei suoi assurdi esperimenti». «Questo non vi aiuterà!» sbottò l’altra, offesa «La legge della città punisce il tradimento con la morte e-». Non riuscì a terminare la frase che il sonoro schiocco di uno schiaffo echeggiò per la stanza. Ezela indietreggiò con una mano posata sulla guancia arrossata, gli occhi dilatati dallo stupore e dalla paura. «E questa è solo una bega tra sgualdrine: secondo la legge, nessuno è tenuto ad intervenire finché non si passa all’utilizzo delle armi.» terminò al suo posto la donna, ancora col palmo aperto «Ti conviene tenere la bocca chiusa con Dal e con le oche nell’altra stanza». Il viso della ragazza divenne gretto e corrucciato come Shadyla non l’aveva mai visto. «Tanto il tuo caro figlioletto è comunque condannato.» ringhiò ferita «E tu condividerai il suo stesso destino». «È molto probabile. Ma, sino ad allora...» la donna coprì la distanza che la separava da Ezela e spostò velocemente le pieghe del lungo vestito, mettendo mano all’impugnatura di un pugnale che non tardò a puntare al collo della ragazza «Tu non dirai niente a nessuno di quanto hai udito». «Non puoi uccidermi.» disse con voce soffocata, mentre cercava di sottrarre il collo alla lama del coltello «Non potresti scamparla». «Io sono condannata, l’hai detto anche tu. Credi che mi farei degli scrupoli a sgozzarti come una gallina?». La freddezza dipinta sul viso di Shadyla fece trasalire così a fondo Ezela che rischiò di tagliarsi con l’affilata lama dell’arma. «Sino a quando Dal non avrà deciso di andarsene, se e quando questo succederà, ti terrò d’occhio, ragazzina. Bada di non tentare scherzi».
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III. L’addio
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al Jin stava di nuovo attraversando la città, diretto verso le prigioni, quando la sua attenzione fu catturata dall’immensa sagoma di un edificio a lui ormai ben noto. Il palazzo di suo padre, Dal Gadejli, sovrano indiscusso della nera Armalak, ammantata nel suo plumbeo cielo, si stagliava nettamente al di sopra delle altre dimore nobiliari, quasi schiacciandole con la propria maestosità. Quella sarebbe stata la sua meta, in un futuro prossimo o lontano che fosse. Osservò le scure pietre levigate che componevano l’enorme struttura, i saldi cancelli forgiati con l’acciaio più duro, gli innumerevoli balconi e patii, le svettanti torri che accerchiavano la vera e propria roccaforte. Attaccare da solo quella fortezza? Sbaragliare l’intera Legione e la guardia personale del tiranno? Affrontare i maghi, le streghe e le leggendarie bestie di cui si dicevano le segrete essere stracolme? Quel futuro gli parve molto più remoto di quanto gli era sembrato in un primo tempo. Dal non si curò nemmeno di cercare di passare inosservato, gli occhi puntati a terra, le membra stanche più di quanto sarebbero potute divenire dopo un lavoro spossante. Il piccolo edificio delle carceri era, come al solito, privo di guardia: Uthluk stava ancora dormendo all’interno, con la mente annebbiata dai fumi dell’alcol. Intento a sonnecchiare su una sedia a fianco di un piccolo tavolo stracolmo di bottiglie, russava sonoramente, ed un filo di bava gli colava dall’angolo della bocca, resa appiccicaticcia dal continuo ingurgitare liquore a cui doveva essersi sottoposto. Dal osservò a lungo il volto del carceriere, muovendosi nel massimo silenzio che poteva, nel timore che il Naigh-Moor potesse svegliarsi e punirlo per la sua piccola scappatella. Il continuo sottofondo di Uthluk era come una tortura; il guardiano sembrava sul punto di interrompersi e svegliarsi di soprassalto, cosa che tuttavia non avvenne. Ci volle fin troppo tempo (almeno a parere di Dal) per riuscire a raggiungere il corridoio, muto e buio come raramente gli era apparso. Quando ebbe raggiunto il suo posto, osservò a lungo l’uomo, ancora addormentato sulla sua sudicia branda: sembrava tranquillo, il viso disteso in un’espressione finalmente riposata ed il respiro regolare. Se non avesse dato segni di nervosismo e sofferenza, sarebbe stato trasferito anzitempo nelle celle peggiori, dove Dal non avrebbe più potuto vederlo, se non il giorno della sua esecuzione. Tirò un sospiro, mentre si avvicinava allo sgabello e tornava a sedervisi sopra. Dopo qualche secondo già si ritrovava a giocherellare con il pugnale, a rigirarselo da una mano all’altra: era davvero sicuro di ciò che voleva fare? Abbandonare tutto e tutti, lasciare il solo luogo che conosceva per fuggire nel 32
resto del mondo, a lui totalmente sconosciuto? Solo allora si accorse di quanto erano state avventate le parole pronunciate davanti alla madre: ad Armalak aveva lei, Ezela e tutti quelli che lo conoscevano, anche se per ben pochi di loro nutriva qualcosa di appena superiore alla tolleranza. Per non parlare di cosa gli altri dovevano pensare di lui. Riflettendo sulla sua situazione, sul disprezzo che gli altri avevano sempre mostrato nei suoi confronti a casa del suo pessimo rango e di un’insulsa profezia che non avrebbe mai considerato, se solo le cose fossero andate diversamente, i suoi occhi si accesero nuovamente, traboccanti di rabbia e di odio, i denti si serrarono e le mani si agitarono a tal punto che il pugnale cadde a terra, echeggiando nei bui corridoi. L’uomo nella cella scattò in piedi all’udire quel rumore, dimostrando i propri riflessi di quello che era ancora un generale, un eroe dell’Impero, e portò istintivamente la destra al fianco, come per estrarre la spada che aveva probabilmente portato prima di venir catturato. Quando intese ciò che era realmente accaduto, sondò con attenzione lo sguardo infiammato del ragazzo, cercando di capire le ragioni del suo nervosismo. «Ah, sei tu.» mormorò, cedendo alla curiosità «Problemi? “ Il Naigh-Moor tacque per qualche secondo, poi quella luce nei suoi occhi si spense lentamente ed egli raccolse il coltello a terra, tentando di apparire il più naturale che poteva. «Molti…» rispose, mentre una smorfia seccata gli increspava le labbra «Primo fra tutti, il fatto che forse ho svegliato Uthluk». L’elfo drizzò le orecchie in attesa, aspettandosi di sentire la voce imperiosa ed impastata della guardia risuonare nell’intero edificio, ma non riuscì a percepire altro che il suo russare in lontananza. «No, tutto a posto.» aggiunse dopo alcuni istanti «Quell’ubriacone dorme come suo solito». Dal tornò a sedersi, osservando l’uomo nella cella, preoccupato per qualcuno che nemmeno conosceva. Si domandò incessantemente perché lo stesse facendo: forse perché non era un Naigh-Moor? Era una caratteristica tipica degli Umani aiutare i propri aguzzini? O stava soltanto cercando un modo per andarsene da lì? Quell’ultima possibilità sembrava la più probabile, ma implicava inequivocabilmente un’altra domanda: cosa si aspettava che uno schiavo riuscisse a fare per lui? «Ho scoperto troppe cose. Troppe.» disse infine, deciso a non nascondere la verità al vecchio soldato «Più di quante ne volessi sapere». L’elfo oscuro narrò così a Marcus del racconto della madre, interrompendosi a tratti per controllare se Uthluk stesse continuando a dormire, ben consapevole che anche solo parlare con un prigioniero sarebbe bastato a fargli ricevere qualche punizione, e non certo lieve. 33
«E questo è tutto.» annunciò con un sospiro quando ebbe terminato il suo racconto «Ho detto a mia madre che non posso più restare qui, ma le ho mentito: per quanto sia orribile, Armalak è l’unico luogo in cui ho vissuto e abbandonarla non sarà facile. Non potrebbe esserlo». L’Umano, che aveva ascoltato con la massima attenzione, dando nuovamente prova del suo curioso interesse per quell’insignificante schiavo, si grattò la testa, riflettendo su ogni possibilità. «Già, non lo è.» ammise «Ed io non posso darti consigli, stavolta: la scelta è e deve essere esclusivamente tua. Hai amici qui?». Un’altra frase priva di senso: fare come meglio credeva? Ma quell’uomo voleva scappare o no? Dal Jin sorrise sinistramente, divertito e al contempo rattristato da quelle parole. «Amici? Fra i Naigh-Moor l’amicizia non esiste, è un non-senso.» scrollò le spalle, nascondendo la sua delusione per quell’atteggiamento con la naturalezza di chi era abituato a farlo da anni «Le persone hanno lo stesso valore della polvere del deserto, qui, figuriamoci uno schiavo. Credo che a parte mia madre, non ci sia nessuno che tiene a me, qui… Nemmeno Ezela». Marcus non si smosse dalla sua posizione, apparentemente rilassato e quieto come se tutto fosse normale, incrociando a tratti lo sguardo dell’elfo «Effettivamente la crudeltà degli elfi oscuri è nota in tutto l’Impero, ma non immaginavo che arrivasse fino a questo punto.» borbottò, seguendo con gli occhi il movimento di un ragno sulla parete «Un’amicizia non implica nessuno sforzo, dopotutto: è una cosa naturale». «E questo è niente.» ribadì l’altro «Se tu fossi passato per la piazza principale, avresti visto cosa quelli come me sono capaci di fare: roghi, linciaggi, esecuzioni e torture sono all’ordine del giorno e fonte di divertimento. Non puoi immaginare le sofferenze delle vittime e-». D’un tratto s’interruppe e deglutì imbarazzato, mordendosi subito dopo il labbro inferiore: un prigioniero quasi sicuramente condannato a morte non doveva apprezzare molto quel genere di conversazione. «Scusami.» mentre pronunciava quelle scuse, non osava alzare gli occhi «Non avrei dovuto parlartene». L’uomo sfoggiò un sorriso fin troppo forzato e tornò a distendersi, conscio della sua condizione di prigioniero. «Figurati.» lo rassicurò, tornando a sdraiarsi «Era fin troppo chiaro che non mi avrebbero incaricato di raccogliere margherite per le loro signore». Marcus si addormentò velocemente; Dal, invece, ancora non riusciva a tranquillizzarsi: provò a pensare a come avrebbe potuto lui, un misero schiavo, sconfiggere uno dei maggiori tiranni Naigh-Moor della regione, a cancellare 34
quelle brutali usanze che aveva appena descritto all’Umano. Dopo qualche ora era ancora immerso nelle sue meditazioni, le aveva ridimensionate a più mandate, immobile sullo sgabello, fatta eccezione per le dita che giocherellavano nuovamente col pugnale, quando una fredda mano si posò sulla sua spalla. Si voltò di scatto, pronto ad attaccare, ma una luccicante lama si parò di fronte a lui, piazzandoglisi sotto il mento con una rapidità dei movimenti che gli mozzò il fiato più della stessa pericolosità dell’arma. Uthluk teneva una corta spada nella destra, divertito ed ancora ebbro, i capelli scuri scomposti sulla testa. Dal Jin abbassò in silenzio il pugnale che aveva prontamente alzato, fissando inespressivo il volto del guardiano. «Bene, bene, ragazzo…» disse quello, riponendo l’arma nella guaina «Stai facendo progressi. Come sta il nostro ospite?». «Al suo solito posto, Uthluk, dove vuoi che sia?» rispose duramente il NaighMoor, senza abbassare gli occhi da quelli del soldato. Una smorfia di rabbia attraversò il volto della guardia, che subito colpì il ragazzo con un violento manrovescio facendolo cadere dallo sgabello e rovinare a terra con un gemito. «Parla con rispetto, schiavo!» ringhiò, accentando l’ultima parola e fissandolo come se fosse stato la lurida carogna di qualche animale particolarmente schifoso «Non hai ancora capito chi è che comanda, vero?». Quindi, mentre l’altro si rialzava tenendo una mano sulla guancia livida, il carceriere osservò il prigioniero che indugiava sul giaciglio. Con calma, raccolse un secchio d’acqua da un angolo e lo rovesciò sull’uomo, che si trovò a doversi destare di colpo. «In piedi, maledetto verme!» gridò il Naigh-Moor, sbattendo il secchio contro le sbarre della cella «Credi di essere nelle stanze della nobiltà?». Marcus si alzò, osservando con odio l’aguzzino che lo guardava sorridendo malignamente, ridacchiando di quando in quando, ancora sotto gli effetti del liquore. «Sei troppo lento, lurido Umano.» realizzò l’altro fra una risata e l’altra, afferrando la frusta che teneva ben fissata alla cintura «Un po’ di sferzate non ti faranno che bene. Il nostro eroe ha fatto il bravo, ragazzo?». «Si è lamentato come se avesse le pulci» mentì senza esitazione Dal, sicuro del fatto che un trasferimento ai livelli inferiori non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione di entrambi. «Forse perché le ha davvero.» ribatté Uthluk, inumidendosi le labbra con la viscida lingua «E adesso levati di torno, voglio rivederti qui soltanto domattina». Dal rimase fermo dov’era, osservando il volto dell’uomo destinato a subire quella barbara tortura, indeciso se tornare a casa oppure tentare di bloccare 35
l’elfo oscuro. Notando l’incertezza del ragazzo, Marcus gli fece cenno con lo sguardo di andare, dandogli chiaramente a intendere che non poteva essere di alcuna utilità in quel momento. L’elfo si voltò, tentando con tutte le sue forze di ignorare le parole di disprezzo del carceriere nei confronti del prigioniero e lo schioccare continuo della frusta, dapprima contro il pavimento, quindi contro la pelle dell’Umano, accompagnato dai lamenti di dolore del prigioniero. Uscì dall’edificio affiancato da un senso di rabbia e repulsione che tornò istantaneamente a fargli credere che la scelta di fuggire era veramente l’unica possibile. Nemmeno Shadyla si era opposta quando le aveva annunciato la sua decisione, chiaro segno che neppure lei vedeva un’altra uscita. Non ancora, almeno. Fuori dal carcere la situazione non era molto diversa rispetto a quando si era allontanato per recarsi dalla madre: giorno e notte erano quasi uguali ad Armalak, regnava sempre una leggera oscurità che rendeva tetri anche i pomeriggi più limpidi. Dal si diresse nuovamente verso le stanze della servitù, il capo chino, cercando di non pensare a cosa sarebbe successo all’uomo nella prigione, solo ed incapace di difendersi, in balia di un sadico come Uthluk. Ma nonostante tutta la sua forza di volontà, la sua mente tornava sempre laggiù, agli umidi corridoi e alla spietatezza di guardie e soldati. Fu così che, tormentandosi senza sosta, arrivò alla sua destinazione: con un sospiro, spinse la porta ed entrò di nuovo, rincuorato come se quel luogo significasse la fine della sua agonia ed il ritorno di una tanto sperata pace interiore. Rialzando la testa, scrutò attentamente ogni angolo della stanza: Ezela sembrava non volergli dar peso, sebbene gli lanciasse di tanto in tanto qualche occhiata ben poco amichevole, mentre sua madre sedeva preoccupata sul solito divanetto color cremisi appoggiato ad una parete della stanza. Dal non poteva sapere che era merito di Shadyla se ora non si trovava in guai molto peggiori di un paio di occhi che lo guardavano con stizza. Con passo lento e pesante si avvicinò alla donna, pronto a parlarle di nuovo, ma in una veste che non doveva essere quella di poche ore prima. «Sono tornato» mormorò, sedendosi accanto a lei. Shadyla non rispose, gli occhi socchiusi rivolti davanti a sé come se non avesse sentito: Dal sapeva quanto sarebbe stata felice sua madre se non fosse scappato; e, d’altronde, anche lui rimaneva ancora in dubbio. Le aveva già detto che non sarebbe rimasto lì per molto, ma adesso aveva voglia di ricredersi, di affermare il contrario. Prese fiato, pronto a farlo, ma la sua mente tornò ancora a Marcus, a quell’uomo che si era dimostrato tanto cortese e disposto ad aiutarlo. Un uomo che avrebbe scontato le pene dell’inferno senza essersi macchiato di alcuna colpa: non poteva lasciarlo morire, a nessun costo. Si gonfiò di determinazione e si decise a parlare, ma aveva appena deciso di farlo che gli
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occhi tornarono bassi sul pavimento e la sua voce non fu altro che un flebile sussurro. «Me ne andrò il prima possibile: avrei troppi rimorsi se restassi» annunciò alla madre, stringendo le mani l’una dentro l’altra. «Rimorsi?» controbatté aspramente la donna, voltandosi verso di lui «Se te ne andassi non ne avresti, invece?». «Ne avrò.» ammise, mostrando però con quelle parole l’intenzione di non volersi più schiodare dalla sua idea «Ma non posso più rendermi complice di ogni… Blasfemia che viene commessa in questa città, ogni giorno». «Strani questi tuoi pensieri.» sibilò l’elfa oscura, fissandolo con scetticismo «Non sei tu quello che subisce punizioni su punizioni per assistere a quei dannati scontri nelle arene? Quello che voleva entrare nella Legione? Chi diavolo ti ha messo in testa l’idea di scappare?». Dal tacque per qualche istante: le sue prossime parole avrebbero potuto significare una brusca fine del suo progetto appena abbozzato. «Apprezzo la disciplina e il valore, non coloro che combattono.» esordì poi, aumentando la forza della stretta con cui si teneva bloccate le mani «E le idee sono mie… Ho soltanto avuto bisogno di un Umano per tirarle fuori quel tanto che bastava». «Un Umano?» sbottò incredula la donna «Quale Umano?». «Un prigioniero.» confessò il Naigh-Moor, alzando lo sguardo serio fino a quello della donna «Ma abbastanza giusto da spingermi a fare tutto questo». «Farmi sputare la verità a quel modo ti sembra giusto?» il tono della donna continuò ad alzarsi «E un Umano, poi! Ma non ti rendi conto? Ti ha abbindolato, Dal!». «Tu stessa hai affermato che il parlarne ha rimosso un grande peso dalla tua coscienza» le ricordò rapidamente il ragazzo, mantenendo tuttavia la sua voce ad un livello basso e pacato. La donna non ribatté. Inspirò più volte, ritrovandosi a chiudere troppo spesso gli occhi. «Figlio mio, non puoi immaginare quanto mi costi la sola idea di separarmi da te.» ammise Shadyla, dopo che furono trascorsi parecchi secondi, abbassando la testa e portando le mani al viso, quindi parlò nuovamente, la voce rotta da un pianto pronto a scoppiare «Ma devi fare ciò che ritieni giusto, vero? Hai l’età per capire…». «Vieni con me.» la incitò Dal, senza più trattenersi «Fuggiamo assieme». La donna scosse il capo con decisione, inspirando con forza ed allontanando le mani dal volto levigato e perennemente giovanile. «Ti sarei soltanto d’intralcio.» ribatté con un sospiro «Tu sei giovane, ma io non lo sono più. Sei tu che devi salvarti, ed è per questo che devi scappare. Vuoi 37
aggiungermi anche il rimpianto di saperti morto a causa mia? Resterò qui, non ho altro posto dove andare». Dal tornò ad esitare di fronte alla decisa affermazione della madre: non sarebbe sopravvissuta, se fosse rimasta lì senza far niente. Se le cose stavano come gi aveva detto, Gadejli avrebbe tentato di estorcerle una confessione con qualunque mezzo, pur di riuscire a trovarlo ed a sventare quello che era scritto nella profezia. Tentò allora di dissuaderla, proponendole un’ipotesi dopo l’altra, ma Shadyla rimase di pietra, ferma sulla sua decisione. Addirittura, quando il Naigh-Moor dichiarò che non se ne sarebbe andato senza di lei, lo convinse a fuggire comunque, a lasciare da parte ogni rimpianto. «Ti prometto che tornerò e che ti porterò via da questa miseria» mormorò alla fine l’elfo, con tono basso, fissando negli occhi la madre: dentro di sé, sapeva però che quella promessa non si sarebbe mai potuta realizzare. La donna annuì lo stesso, mentre una lacrima le solcava impertinente il viso, quindi si alzò in piedi, allontanandola con un gesto nervoso. A quanto pareva, Dal era se non altro sufficientemente convinto delle sue intenzioni: se fosse rimasto ad Armalak ancora qualche giorno, Ezela avrebbe sicuramente sparso la voce, fornendo così il giusto pretesto a Gadejli per eliminarlo una volta per tutte. L’avrebbe fatto, ne era certa. «Seguimi» si limitò a dire la donna, senza neppure voltarsi. Lentamente, si avviarono entrambi verso la stanza dell’elfa, facendosi spazio fra le varie cortigiane. Una volta dentro, la madre chiuse la porta alle sue spalle ed aprì un vecchio baule in legno scuro situato in un angolo della stanza. All’interno vi era di tutto, da vesti a cianfrusaglie: diademi, spille, bracciali, vestiti da donna ed altro. Da lì estrasse abiti su abiti, finché il ragazzo non si ritrovò fra le mani ciò che la donna cercava. Shadyla tirò poi fuori un mantello di fine stoffa nera, quasi brillante, che porse al Naigh-Moor con estrema attenzione. «Questo ti appartiene da prima che tu nascessi… Fu intessuto dalle più abili sarte del palazzo ed è il solito manto con cui Zadra ti stringeva quando Gadejli tornò dal suo viaggio» gli disse con un tono così basso da far credere che il solo alzarlo potesse sciupare il prezioso mantello. «Questa…» sussurrò con voce ancor più lieve, tanto che il Naigh-Moor, nonostante il perfetto udito della sua razza, riuscì ad intendere le sue parole a fatica, mentre le aggraziate dita della cortigiana accarezzavano una spilla dorata su cui era impresso un lungo coltello sovrapposto su un arco «è la spilla nobiliare di Gadejli. Anch’essa ti fu donata da tua madre, quando nascesti: fissaci il mantello e tienila sempre bene in vista, perché essa racchiude in sé la tua vera nobiltà. Infine, vorrei donarti qualcosa di mio…» e prese un oggetto circolare, avvolto in un panno morbido e delicato. 38
Con un tocco ancor più leggero del tessuto in cui era avvolto, Shadyla lo scoprì, mostrandolo nel suo vero aspetto: un cerchio in oro purissimo, lucente, adorno di incisioni runiche lungo tutta la sua circonferenza. «Questo diadema è ciò di più prezioso che io possegga.» spiegò la donna al ragazzo, che ancora taceva «Fu un regalo che Gadejli mi fece dopo… Il nostro primo rapporto. Un segno di gratitudine, insomma.» le parole si seguivano con sempre maggior disprezzo, mostrando chiaramente i suoi veri sentimenti per il tiranno «Indossa quanto ti ho donato, ti prego: custodisci ciò che ti do come meglio puoi e mi riterrò appagata». Il Naigh-Moor guardò in faccia la madre, poi chinò lo sguardo su tutte le cose che teneva fra le mani e lentamente si svestì degli abiti logori ed indossò quelli che gli venivano offerti. Quando ebbe finito, si osservò nello specchio della stanza, confuso e rigido: quello che aveva di fronte non gli sembrava più lui. Un elegante principe vestito completamente di nero, un’indistinta figura dagli abiti ricercati e immacolati: questo era ciò che gli sembrava di essere, adesso. Mentre si specchiava, la sua mente si strapazzava senza sosta di domande: di colpo si trovava ad indossare gli abiti di un nobile e si preparava ad abbandonare la sua città, forse per sempre. Quando aveva detto che voleva fuggire, non aveva creduto che sarebbe accaduto così in fretta, né a quel modo. Si chiese se fosse il caso di fare tutto così rapidamente, poi ricordò che l’Umano non sarebbe rimasto in quella cella ancora per molto: doveva portarlo con sé, lo sapeva bene. E sapeva che Marcus avrebbe dovuto essere nelle migliori condizioni possibili. Più tempo sarebbe rimasto in quella prigione, più si sarebbe indebolito. Dal aveva bisogno di Marcus almeno quanto lui. Era un soldato, per attempato che fosse; Dal non era niente. Si calcò il diadema sulla fronte proprio mentre realizzava quest’ultimo particolare, come se fosse stato quell’oggetto a fungergli da molla per capire. «Io non so…» balbettò poi, sfiorando il cerchio dorato con i polpastrelli, ed il sentire le rune elfiche e naniche sotto le sue dita gli fece affiorare ancora un po’ di sicurezza, quanto bastò a dargli il fiato di continuare «Sembra tutto così irreale… Non credi che qualcuno si insospettirà?». «Dal, sei ancora giovane ed ingenuo: non conosci ancora la natura del tuo popolo?» rispose la madre, guardando con tenerezza quello che le sembrava di tanto in tanto un bambino impaurito, troppo piccolo per non essere inghiottito dall’immensità di Armalak. Nell’udire quell’ultima parola, Dal Jin sentì come una fitta al cuore. Nel giro di poche ore, il suo popolo aveva cambiato volto. Se prima aveva guardato con invidia alcuni di loro e sopportato gli altri, ora tutti quanti non erano altro che coloro che l’avevano ripudiato e maltrattato per anni. Li odiò. Bugiardi. Ipocriti. Assassini. Serrò i pugni, gli occhi accesi di quella solita luce. 39
«Dal, mi stai ascoltando?» lo ridestò Shadyla, preoccupata dall’atteggiamento del figlio. Gli occhi si spensero lentamente, dando ad intendere alla donna che il NaighMoor stava bene. Poco convinta, la cortigiana riprese a parlare, facendo attenzione alle sue parole e alle reazioni dell’elfo oscuro, talvolta modificando radicalmente ciò che voleva dire, quando Dal sembrava di nuovo sull’orlo di una crisi. «Non importa niente a nessun Naigh-Moor di ciò che fanno gli altri, nel bene o nel male: l’indifferenza ha sempre caratterizzato la nostra razza» concluse, dopo un breve discorso. Dal la guardò con aria confusa. «Non sembri una di noi… O una di loro» riuscì infine a dire. La madre sospirò in risposta, agitandosi i lunghi capelli corvini e lasciandoli poi ricadere dolcemente sulle grigie spalle nude. «Non ho mai amato la nostra razza. Nemmeno tu lo hai mai fatto.» disse lei, senza alzare lo sguardo dal pavimento su cui i suoi occhi erano nuovamente ricaduti «Questa città, questa terra… È opprimente! Non c’è un angolo di pace in cui la tua anima possa rifugiarsi, non un solo centimetro di terra che non sia stato bagnato da malvagità e sangue d’innocenti, non un respiro che non sia contaminato dal fetore di questi meschini esseri che sono il nostro popolo. Non c’è nulla per cui valga la pena fare qualcosa, ad Armalak. Per questo devi andartene, almeno tu. Per questo ti aiuto, e scelgo di perdere un figlio». L’aria all’esterno della casa sembrava davvero incredibilmente soffocante, o almeno questo era ciò che sembrava a Dal Jin. Aveva lasciato senza commenti quell’osservazione, limitandosi a passare subito ai saluti e a svicolare via quando ritenne che gli abbracci disperati della madre si stessero facendo troppo numerosi e lacrimevoli. Shadyla provò un’ultima volta a dissuaderlo quando ormai il ragazzo stava uscendo dalla stanza, ma l’altro diede segno di non averla sentita. Una volta sola, si lasciò ricadere sulla sua abituale poltroncina, dove si prese il viso fra le mani e lo strinse con forza, arrivando a graffiarlo con le lunghe unghie: l’aver permesso all’elfo di fuggire avrebbe inevitabilmente segnato il suo destino, ma aveva saldamente deciso di non farsi simili scrupoli. Ciò che contava veramente era che il figlio riuscisse dove lei aveva fallito: andarsene, abbandonare quel maledetto luogo di dannazione. Ma ce l’avrebbe fatta? Solo il silenzio rispose a quella sua domanda. Dal invece avrebbe voluto correre per la città, gridando la sua decisone, come se quelle parole potessero squarciare il velo di putridume a cui Shadyla si era riferita, ma era ancora padrone della sua mente e del suo corpo per non commettere una simile sciocchezza. Istintivamente, sentì che il tempo stringeva: scacciando di colpo 40
ogni pensiero che potesse rallentarlo, si incamminò velocemente verso la prigione di Armalak, cercando di nascondersi il piÚ possibile dagli sguardi dei curiosi.
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IV. La fuga
L
a porta della prigione si aprì con un fastidioso cigolio, intanto che Dal si accingeva ad entrare, guardandosi attorno con prudenza. Istintivamente, il Naigh-Moor fece un passo indietro, tendendo le orecchie in cerca di qualche rumore sospetto, ma l’unica cosa che udì fu il sonoro ronfare di Uthluk, che evidentemente doveva riposare dopo aver fatto un po’ di movimento. Entrò quindi con la massima circospezione nell’edificio, misurando i suoi passi con una lentezza snervante. Dopo alcuni minuti, il capocarceriere era di fronte a lui, quasi sdraiato sulla sua vecchia sedia, gli occhi chiusi, le braccia che ricadevano a terra. Era buio, ma Dal riuscì ben presto ad individuare il mazzetto di chiavi sul tavolo ingombro di vino e liquori accanto alla guardia. Muovendosi più silenziosamente che poteva, vi si avvicinò, scavalcando le gambe di Uthluk, che sembrava non accorgersi di nulla: ben presto le chiavi furono a portata di mano. Con un gesto rapido, l’elfo le afferrò e scese le scale, nascondendo il mazzo sotto il mantello appena ricevuto dalla madre. In pochi istanti, percorse l’umido corridoio fino a raggiungere le celle, quasi incurante di non far rumore. Marcus era ancora nella stessa cella, visibilmente spossato, sdraiato sul giaciglio con gli evidenti segni delle frustate sulla schiena arrossata e sanguinante. L’elfo infilò quindi le chiavi nella serratura con una rapidità fulminea, mentre notava scocciato il gran numero di chiavi legate nel mazzo. L’uomo, sentendo armeggiare, si svegliò, rivoltandosi sulla branda, e guardò incredulo il giovane Naigh-Moor, vestito in una maniera che certo non si addiceva ad uno schiavo e chiaramente intenzionato ad aprire in fretta la porta della cella. «Che diavolo stai facendo?» gli domandò dopo alcuni secondi, ancora sdraiato. «Ti porto via di qui» si limitò a dire quello, senza alzare gli occhi dalla serratura. «Come?» disse l’altro, ancora stupito, sebbene quelle parole avessero confermato i suoi sospetti e le sue speranze. «Hai capito benissimo. Scendi di lì e muoviti: andiamo via da questo buco». L’uomo non se lo fece ripetere: con un balzo scese dal giaciglio e si rizzò in piedi, avvicinandosi a passi svelti alle sbarre, di colpo dimentico del dolore ancora fresco sulla sua schiena e, soprattutto, delle ingombranti catene. Nel frattempo, Dal aprì la porta, quindi entrò nella cella, avvicinandosi all’Umano. Dovettero trascorrere ancora alcuni secondi per far sì che il Naigh-Moor riuscisse a liberare i polsi e le caviglie del prigioniero, non più nella pelle dal desiderio di evadere. Marcus uscì immediatamente dallo stanzino, guardandosi istintivamente attorno e scrutando a fondo i bui corridoi delle segrete: di certo non si sentiva ancora libero come si era sentito il Naigh-Moor non appena aveva 42
abbandonato i reparti delle cortigiane, ma non dover più soggiornare in quella cella era già qualcosa di considerevolmente positivo. «Cosa ti ha fatto decidere così in fretta?» gli domandò poi a voce bassa, assicuratosi che i corridoi fossero spogli come si augurava. «Non è il momento di parlare.» sbottò il ragazzo, badando però a tenere il tono considerevolmente basso «Ti spiegherò le cose più tardi, con maggiore calma. Pensi di farcela a muoverti senza fare rumore?». «Posso provarci» rispose il generale, deciso a giocarsi il tutto per tutto pur di uscire da lì. «Prega che basti, se vuoi che usciamo di qui con le nostre gambe». In seguito a queste parole, Dal gli fece un chiaro cenno di non fiatare, quindi lo invitò a seguirlo mentre risaliva il corridoio. Ogni secondo sembrava durare interi minuti, ad ogni passo il respiro non tornava se non con grande sforzo e le ferite sulla schiena di Marcus bruciavano maledettamente, man mano che si avvicinavano all’uscita. Presto intravidero in lontananza la figura di Uthluk, ancora sulla sua sedia: evidentemente, la guardia non doveva essersi accorto per nulla di quanto era accaduto. A turni gli passarono davanti in punta di piedi, Dal Jin già più rilassato, perché ormai abituato a farlo. Quando fu la volta di Marcus, questi si mosse con troppa avventatezza e una sassolino rotolò per il corridoio, causando un molesto rumore che qualunque elfo sarebbe stato in grado di udire a parecchi metri di distanza, se si fosse trovato nell’assoluto silenzio. Come appunto erano. Dal si voltò di scatto, lo sguardo carico di terrore: uno sbaglio del genere avrebbe potuto rivelarsi fatale. Uthluk, però, si limitò a sbuffare e a borbottare qualcosa di incomprensibile, ridotto com’era. Gli sguardi dei due fuggitivi si incontrarono ed entrambi poterono tirare un sospiro di sollievo. Dal indicò poi una piccola stanza a qualche metro di distanza e, silenziosamente, aprì la porta di quello che doveva essere uno sgabuzzino, decisamente più buio delle prigioni stesse. Una volta dentro, fece cenno a Marcus di seguirlo ed entrambi si inoltrarono nella fitta tenebra, cercando di non urtare contro i molti oggetti accatastati nei vari angoli o appesi alle pareti. Quando anche l’uomo fu nello stanzino, Dal accese una candela agganciata al muro e chiuse la porta, lasciando che la fioca luce rischiarasse la piccola stanza, mostrando i mucchi di armi e corazze magari non molto ben tenute, ma sufficienti ad occultarli nella città. «Qui ci sono alcuni attrezzi delle guardie.» spiegò all’Umano, porgendogli la corazza e l’elmo dall’aspetto meno malconcio «Indossali. Forse riuscirai a confonderti con un Naigh-Moor. Non puoi camminare per Armalak vestito come sei ora».
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Marcus esitò, al pensiero di quanto gli avrebbe fatto male indossare una corazza con le ferite che si ritrovava, ma fu costretto a scacciare quei pensieri alquanto bruscamente: Dal aveva ragione, un Umano a spasso per una città di elfi oscuri non sarebbe stato molto naturale. Senza dar a vedere la sua costernazione per il dover essere costretto a farlo, indossò l’armatura, aspettandosi di provare un dolore impossibile da reprimere per molto, cosa che non avvenne. La corazza scivolò lungo la schiena come velluto, dimostrandosi imbottita di un qualche materiale comodo e morbido. «Un colpo di fortuna nella scalogna più nera» pensò, aggiustandosi alla meglio gli spallacci ed infilandosi l’elmo completo. Mentre Marcus indossava la roba che gli aveva porto, l’elfo osservò attentamente le armi presenti e prese per sé una spada non troppo ingombrante, dal fodero bruno e l’elsa violacea: la sfoderò rapidamente, provando l’eccitazione di poter impugnare finalmente un’arma decente. Sorrise di soddisfazione, prima di raccogliere un’alabarda da sentinella e tenderla verso l’uomo, intanto che fissava la spada alla cintura. «Così sarai più credibile.» gli disse, senza perdere il sorriso «E potrai difenderti, nel caso le cose andassero male». Strano come quella che doveva essere una fuga disperata ora non sembrava nulla di più che un gioco da ragazzi, uno scherzo. Sottovalutare un’impresa del genere non era cosa saggia, ma nessuno dei due se la sentiva di mettersi a fare il menagramo. «Perché tu non indossi una corazza? Ti sarebbe utile» gli domandò l’uomo mentre si allacciava l’elmo integrale, fissando scettico l’elfo privo di armatura davanti a sé. «Sono ben conosciuto, qui. E qualcuno potrebbe chiedersi come mai uno schiavo indossi un’armatura da guardia, non credi?» ribatté prontamente, senza tuttavia pensare al fatto che non vi era alcun senso insito in quelle parole. «Se è per questo, potrebbe chiedersi anche perché porti un mantello del genere.» notò Marcus, ancora con espressione seria «Dove l’hai preso?». Dal Jin si fermò per un attimo, ascoltando l’osservazione dell’uomo e cercando una risposta adeguata: non voleva ancora dirgli cos’era accaduto, almeno finché non sarebbero stati fuori dalla città. Inoltre, lanciò un’occhiata agli elmi ammucchiati sopra un piccolo tavolino e provò una senso di disgusto al pensiero di celare il diadema con uno di quei cosi, sebbene fosse conscio di quanto fosse controproducente lasciarlo così in bella mostra. Ma non se lo sarebbe tolto a nessun costo, nemmeno se fosse risultato l’oggetto principale per la sua identificazione, come probabilmente era… Dato che nemmeno gli elfi oscuri erano soliti portare diademi da donna.
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«Non preoccuparti per questo mantello. L’ho già indossato più volte, in… Occasioni formali» mentì, cercando di essere il più attendibile possibile: abbastanza, almeno a giudicare dal cenno di assenso che l’Umano gli rivolse. Presero un paio di borracce e qualche pezzo di pane e, una volta pronti, uscirono dallo stanzino, spegnendo la candela e rimettendola al suo posto, quindi si allontanarono dalle prigioni e si ritrovarono improvvisamente in fuga nel bel mezzo di Armalak. «Mi raccomando, fai il disinvolto.» sussurrò l’elfo a Marcus, prima di cominciare la lunga marcia per raggiungere le porte della città «Cerca di non dare nell’occhio». L’Umano annuì, lanciando però un’ulteriore occhiata al suo compagno: uno schiavo vestito da re era molto meno credibile che un Umano completamente nascosto da una corazza e da un elmo completo. Senza proferire altre parole, si diressero verso le mura della città, cercando di guardare dritti davanti a loro per non tradirsi con lo sguardo. Armalak sembrava enorme, le strade lunghissime, i palazzi identici l’uno con l’altro, gli sguardi tutti puntati su di loro ed i passi troppo lenti e pesanti per riuscire a percorrere l’intera città: accelerare l’andatura avrebbe però significato sembrare troppo frettolosi e destare sospetti nelle guardie più ligie, o nelle meno stupide. Decisero perciò di mantenere quella velocità, senza fare caso al cuore che rimbombava forte nei loro petti, salendo fino alla gola tanto da bloccargli quasi il respiro. Attraversare le piazze fu la cosa più difficile: i cittadini si accalcavano davanti ai negozi ancora aperti o attorno a qualche combattimento fra animali, chi proseguendo senza nemmeno alzare la testa, chi osservandoli seri, come se avessero già capito tutto e si preparassero a smascherarli di fronte agli altri abitanti. Uno di loro li seguì a lungo, soppesando attentamente ogni loro gesto: sembrava non stancarsi mai di pedinarli. Lo avrebbe fatto ancora a lungo? Avrebbe gridato chi erano veramente? L’unico modo per sviare i sospetti dell’elfo oscuro, se mai ne avesse avuti, era indubbiamente quello di sembrare i più naturali possibili: ma anche solo capire cosa fosse naturale in quel momento sembrava impossibile. Dal si sentiva improvvisamente consapevole di ogni suo muscolo, di come ognuno di essi dovesse rispondere alla sua volontà. La gambe erano due pezzi di legno, le braccia ricadevano come fuscelli inerti. Non sapeva se doveva cambiare andatura o meno, se il suo passo fosse troppo lento o troppo affrettato. Avrebbe voluto cominciare a parlare, inventarsi una conversazione con Marcus, ma non poteva farlo nel linguaggio comune, e l’Umano non conosceva la sua lingua. Per tutto il tragitto dovettero convivere con le gocce di sudore che colavano lungo la loro schiena; nel caso di Marcus, anche col dolore delle frustate, dei colpi subiti e delle catene che aveva portato. Tutto era di nuovo insopportabilmente vivo. 45
Il Naigh-Moor che li seguiva continuò a farlo ancora per qualche minuto, poi cambiò strada, forse perché si era convinto che quei due non avevano qualcosa da nascondere o forse perché doveva semplicemente andare da un’altra parte: Dal e Marcus sentirono all’improvviso liberi come non mai. Quando rialzarono lo sguardo, però, le porte della città si ergevano dinnanzi a loro: erano stati talmente impegnati a cercare di seminare il loro inseguitore che non si erano nemmeno accorti di dove erano arrivati. Due alte guardie, meglio vestite dei comuni soldati della città, forse per spiccare di fronte ad un possibile invasore o semplice visitatore, li osservavano senza parlare. «Chi siete?» esordì una delle due, quando furono abbastanza vicini, facendo un cenno del capo al fuggitivo agghindato da soldato. Dal Jin tacque, avendo riconosciuto l’altra guardia, che lo fissava con vivo interesse, e di colpo si sentì perduto: abbassò lo sguardo, rassegnato. Marcus da parte sua non parlò. Doveva aver capito cosa gli veniva chiesto, ma di certo non sapeva come rispondere. Da parte sua poté solo sfruttare la tristezza dipinta sul viso del ragazzo e assumere una postura altezzosa e sprezzante, ch’egli reputava, a buon ragione, essere tipico degli elfi oscuri. La guardia osservò l’uomo in un modo che non piacque a nessuno dei due fuggitivi. «Deve portarmi fuori di qui» rispose per l’Umano Dal «Non può parlare». «Non può parlare?» domandò la guardia «Cosa vuol dire?». «Che gli hanno mozzato la lingua». La guardia li fissò con scetticismo. «Non ho mai sentito parlare di una guardia senza lingua che deve farsi fare da interprete da un altro.» ribatté «Non ha un permesso scritto?». «E tu perché sei vestito a quel modo? Tua madre ha impietosito qualche riccone con degli abiti in eccedenza?» obiettò sarcastica l’altra sentinella, appoggiata alle mura della città, il manico dell’alabarda contro il petto, le braccia incrociate. «Questo non deve interessarti, Noranoth. Non sta scritto da nessuna parte che né io né questa guardia dobbiamo risponderti. Se vuoi le tue risposte, puoi andare da Uthluk a cercarle» rispose Dal con una punta di rabbia e disprezzo, mostrandosi palesemente nervoso e poco disposto alla conversazione. L’altro imprecò, staccandosi dal muro, ed afferrò la sua alabarda con entrambe le mani, nel tentativo di colpirlo violentemente con il robusto legno dell’impugnatura. Ma Marcus fece scudo all’elfo con la sua arma con una tale velocità e potenza da disarmare l’avversario, lasciando a bocca aperta sia lui che l’altra guardia. Prima che potesse fiatare, Marcus gli aveva già puntato la lama al ventre, mostrando una freddezza che non era per niente comune nemmeno tra creature avvezze al combattimento e alla battaglia come gli elfi oscuri. Non c’era nessuna frenesia né eccitazione nei suoi movimenti: sembrava che non provasse nessuna sensazione, che facesse ciò che sentiva di dover fare e basta, senza che 46
nessun sentimento, positivo o meno, potesse influenzarlo. I suoi perfetti movimenti erano parte di una serie interminabile di accurati calcoli, e pareva che nulla potesse influire su di essi in alcun modo. «Possiamo passare, adesso?» domandò infine con tono pacato Dal, risollevando l’alabarda del compagno ed allontanandone la punta dal corpo inerme dell’elfo. La guardia ancora in piedi gettò uno sguardo a Noranoth, come a chiedergli cosa ne pensasse. «È solo uno schiavo» balbettò quello, adducendola come scusa, quando era eppure fin troppo ovvio che era la paura a consigliarlo a quel modo. Si lanciarono un’occhiata d’intesa, quindi l’altra sentinella si volse verso le porte, dove una dozzina di schiavi incatenati si occupavano dell’apertura e della chiusura delle medesime. Le membra magre di quei poveri diavoli si contrassero per lo sforzo, il loro affanno fu nascosto dal rumore delle porte che si dischiudevano, mostrando uno spiraglio di terra brulla e inaridita. Dal li guardava e non parlava, pensando a quanto dovesse essere orribile la vita di quei poveracci. Si chiese ancora una volta che diritto avesse di scappare, quando c’era chi faceva una vita mille volte peggiore della sua. «Passate pure.» disse però la guardia quando i cancelli furono aperti quasi del tutto «Siete liberi di procedere». E senza dir altro, Dal e Marcus attraversarono le porte della città e furono fuori: i cancelli si chiusero dietro di loro alcuni secondi dopo, come bandendoli da Armalak. La via era sgombra, ora, e ciò che avevano appena visto apparteneva già solo alla memoria: una notte cupa e senza stelle era tutto ciò che poteva far loro compagnia. Si allontanarono in silenzio, senza voltarsi indietro, tesi e concentrati nel timore che li stessero ancora tenendo d’occhio, e soltanto quando furono abbastanza distanti, Dal dischiuse di nuovo le labbra. «Accidenti, sei bravo con le armi.» ammise, guardando con ammirazione il vecchio soldato «Se non fosse stato per te, non so proprio come ne saremmo usciti». «Sai, per essere un comandante dell’esercito imperiale bisogna saper far qualcosa.» confessò con una piccola risata l’Umano «Se così non fosse, l’Impero non esisterebbe». L’Impero. Di colpo, a Dal venne voglia di visitarlo, d’impararne la struttura, le regole, la gerarchia. E nella sua mente ancora acerba era forse il posto più adatto dove recarsi per avere la possibilità di riscattarsi e farsi un nome sufficiente ad annientare quello del padre. Camminarono sveltamente, e l’ansia che il giovane provava per il timore che la sua fuga incosciente durasse molto poco svaniva di fronte a quella prospettiva. Il mondo intero si apriva davanti a lui. «Mi domando come abbiano fatto a catturarti» disse dopo qualche minuto.
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Marcus rimase in silenzio per alcuni istanti, mentre il suo sguardo diveniva gradualmente più debole, più stanco, fino a mutare improvvisamente in una smorfia più copia. «È stato colui che guidava quei bastardi, durante il loro assalto al nostro accampamento.» spiegò, senza nemmeno voltarsi verso il Naigh-Moor «Sputo su di lui! Che possa bruciare tra fiamme eterne per quello che ha fatto». «Sei in grado di descrivermelo?» domandò il ragazzo, divenuto anch’egli quasi torvo come l’uomo. «E come potrei non riuscirvi? Quel demone ha fatto massacrare tutti i miei ragazzi. Non scorderò mai la sua faccia, nemmeno se dovessi campare mille anni. Era alto, con due accesi occhi verdi ed una treccia di capelli biondi che gli ricadeva sulle spalle. Doveva essere qualcuno d’importante, almeno a giudicare da come vestiva». S’interruppe di colpo: nel parlare, si era voltato verso Dal Jin ed aveva posato lo sguardo sul giovane elfo, che adesso appariva come risentito. «Ti somigliava, in alcuni particolari. E portava anche lui quella spilla…» aggiunse con voce rauca, indicando la spilla con lo stemma impresso sopra. Nell’udire questo, Dal abbasso il capo, avendo avuto prova che i suoi sospetti erano più che fondati. «Lohidran, il mio fratellastro. Il vero principe di Armalak. Beh, ormai dovrei dire fratello, però.» le labbra dell’elfo oscuro furono tentate d’incresparsi in un sorriso, ma non ne apparve nemmeno l’ombra, e anzi la voce divenne un sussurro «Ti chiedo scusa per ciò che ha fatto». Marcus guardò il volto del Naigh-Moor e posò una mano sulle spalle. «Non è certo colpa tua» mormorò, come se quelle parole potessero cambiare la realtà dei fatti. «Mio fratello è un verme. Come mio padre. Come tutti gli altri.» disse invece l’altro, tutto d’un fiato «Lo è sempre stato». Senza dire altro, si strofinò gli occhi con una mano e si rimise in cammino, assumendo un’espressione dura come il granito. I motivi per lasciare Armalak affioravano come funghi, adesso. Come aveva fatto a restarsene al guinzaglio come un cagnolino per anni, a mostrarsi disposto a credere ad ogni bugia che gli veniva propinata? L’orrore di quella città era diventato troppo ingombrante e fetido per poter essere portato da una sola persona. «Sarà meglio fare in fretta: mi fido poco di quelle guardie.» propose qualche istante dopo, cambiando argomento «Ce la fai a correre?». «Ho sopportato cose peggiori: una corsetta non mi ucciderà.» rispose il generale, cominciando già ad accelerare il passo «Certo, se avessimo rubato un cavallo…».
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Dal annuì col capo e lo seguì velocemente, ma ben presto le agili gambe dell’elfo distaccarono Marcus: sono ben pochi gli uomini capaci di eguagliare un elfo in velocità ed anche se l’Umano era chiaramente superiore alle persone comuni in potenza e rapidità, non poteva tenere il passo con un corridore rapido come quel ragazzo, per giunta molto più giovane di lui. «Ti dispiacerebbe rallentare l’andatura?» si vide costretto a gridargli dietro, quando il distacco si fece troppo accentuato. L’elfo, una decina di metri davanti, si fermò di colpo e si voltò verso l’uomo, senza ancora dare segno di una particolare fatica. Marcus, al contrario, ansimava tenendo una mano sul petto e, quando lo raggiunse, si fermò stremato, piegandosi sulla vita e posando le mani sulle ginocchia. «Diavolo, corri come un fulmine, ragazzo. Ammetto di essere un po’ arrugginito, però… Facciamo che ci fermiamo un attimo?» riuscì a dire fra un respiro affannato e l’altro. Il Naigh-Moor lo osservò serio, senza sfociare nemmeno nel più piccolo dei sorrisi. «Sono gli inconvenienti dell’andare a cavallo, i tuoi. Immagino che tu non abbia fatto altro per anni e, se i miei sospetti sono fondati, quegli stessi animali che vi hanno razziato molto presto saranno sulle nostre tracce, cavalcati da qualche soldato che vuole sbatterti di nuovo nella cella da cui sei fuggito» mormorò alla fine, gli occhi rivolti verso la città, ormai solo un puntino all’orizzonte. «Se non mi riposo un po’, temo che scoppierò prima di vederli arrivare. Non ti scordare che stavo chiuso in cella sino a un’ora fa.» dichiarò l’altro senza imbarazzo, indicando una delle sparute macchie boschive che affioravano «Lì dentro non ci troveranno. Bisogna solo trovarne uno adatto». «Non ne sarei così sicuro: fermarci non ci permetterà di andare troppo lontano. Ci cercheranno, frugheranno in tutti i buchi, useranno i segugi» replicò Dal, per niente allettato dal correre il rischio di esser catturato praticamente appena fuori da Armalak. «Sarà sempre più difficile per loro trovarci… E non essere pessimista» senza aggiungere altro, l’uomo gli diede le spalle e ripartì. L’ambiente all’esterno sembrava incredibilmente ridente ed allegro, rispetto alla città che avevano lasciato: uccelli notturni facevano la sua comparsa di tanto in tanto, canticchiando tranquilli, e si udiva in lontananza il verso di qualche animale di grossa taglia. Sotto l’attenta guida di Marcus, il ragazzo prese a cercare un posto per accamparsi, ma ogni volta che trovava una zona che gli sembrava adatta, l’Umano gli diceva però che non andava bene, trovando sempre un gran numero di motivi: il vento, l’esposizione, la distanza dalla strada sabbiosa che conduceva ad Armalak. L’elfo cominciò ad ammirarlo: quello che poteva non essergli sembrato nient’altro che un comune prigioniero, ora gli 49
appariva come un grande eroe, rotto a tutte le fatiche, colui che l’avrebbe davvero guidato fuori da quell’inferno. Dopo una mezz’oretta, trovarono un luogo ben isolato su di cui neanche Marcus ebbe qualcosa da ridire e lì si fermarono. «Sai almeno dove stiamo andando?» domandò Dal senza ancora sedersi, impegnato com’era a guardarsi attorno, per nulla a suo agio in quel luogo «Io non mi sono mai avventurato così tanto fuori da Armalak». «Credo di aver riconosciuto questo luogo, non preoccuparti.» lo tranquillizzò il generale, appoggiandosi con un sospiro ad un tronco d’albero «Sono passato qua vicino quando venivo trascinato nella tua città. In cinque giorni, circa, dovremmo raggiungere un villaggio che ho visto». «Cinque giorni?» Dal era sbigottito «Ti rendi conto che praticamente non abbiamo scorte di cibo, né tanto meno d’acqua? E che ben presto potremmo avere mezza Legione alle calcagna?». «Se è per quello, suppongo anche che non ci siano fonti, qua vicino, e dobbiamo anche attraversare un territorio che si potrebbe definire benissimo un piccolo deserto… È vero, non è molto esteso, ma sarà comunque una tortura, specialmente in questa stagione. Siamo senza cibo, senza acqua e la sola cosa che ci regge in piedi è la voglia di fuggire, ma quel villaggio è la nostra unica possibilità di salvezza». Dal Jin sbuffò, sedendosi nervosamente a terra, senza però pentirsi di aver tentato quella fuga: qualsiasi deserto sarebbe stata una pena sopportabilissima, paragonata agli anni che aveva trascorso fra gli altri elfi oscuri. Eppure il dubbio tornava a tartassargli il cervello di tanto in tanto, a ricordargli cosa aveva messo in gioco per perseguire il suo obiettivo: nessun sacerdote avrebbe potuto salvarlo, ora. D’altra parte, Marcus appariva fiducioso e convinto di farcela quel tanto che bastava a dare un po’ di vigore anche a lui. Molto probabilmente, nella sua acuta mente aveva già calcolato quante possibilità avessero di farcela. «Cerca di riposare: avrai bisogno di tutte le tue energie nei prossimi giorni» gli disse inoltre l’uomo, di nuovo in quel tono calmo, come paterno. Quelle ultime parole furono il soffio di vento che fece crollare del tutto il traballante castello di dubbi dell’elfo; senza dire altro, i due si sdraiarono sul terriccio e rapidamente la notte si impadronì del tutto di loro, facendoli scivolare nel mondo dei sogni con incredibile facilità.
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V. Deserto di morte
I
sogni non furono dei migliori, almeno nel caso di Dal Jin: nella sua mente, vide arrivare decine di cavalieri dalle nere armature che irrompevano all’improvviso e lo prendevano alle spalle, conducendolo nelle prigioni di Armalak dove Uthluk, ridendo selvaggiamente, lo sferzava con una frusta uncinata, ancora e ancora. Vedeva poi sua madre, ripudiata da Gadejli e bruciata viva nel centro della piazza, come veniva disposto per ogni traditore. Erano soltanto sogni, ma la consapevolezza che tutto ciò sarebbe probabilmente accaduto anche nella realtà lo portò a svegliarsi di colpo, sudato e ansimante, con i bei vestiti già segnati dal suo continuo agitarsi nel sonno. Albeggiava, ed i pallidi raggi del sole penetravano largamente tra i rami, illuminando i corpi dei due fuggitivi e facendo da sfondo al vivo cinguettio degli uccelli che adesso dominava tutt’attorno. Dal guardava quella luce con lo sguardo estatico di un bambino. Il sole. Ad Armalak l’aveva visto così poche volte da saperlo a malapena descrivere. Fuori dalle mura, tuttavia, esso continuava a esistere, e con lui gli animali, le piante. La vita. L’elfo si alzò in piedi con riluttanza, solo perché dovevano ripartire il prima possibile, scrollò Marcus, ancora addormentato accanto a lui. L’uomo borbottò qualcosa in risposta, aprendo gli occhi stanchi e lungi dall’essere perfettamente risposati, ma brillanti e vivi a tal punto che dopo appena qualche secondo erano nuovamente in marcia, senza che nessuno dei due avesse qualcosa da obiettare: sgattaiolarono silenziosamente fuori dalla macchia, lieti di non trovare alcuna traccia di sentinelle o di pattuglie nei dintorni. Camminarono, perciò, e stavolta tennero da subito un’andatura ben svelta. Vi era una calma quasi totale, tanto che l’unico rumore che si sentiva era la brezza che soffiava leggermente, agitando i radi cespugli d’erba secca: niente sembrava essere in grado di turbare quella quiete, al momento. Ben presto, la terra divenne però sempre più arida, si sbracciò e infine lasciò spazio al deserto di cui aveva parlato Marcus. Nulla più di una distesa biancastra di polvere e pietre, dove solo pochi arbusti trovavano la forza di crescere. Il primo pensiero che Dal riuscì a maturare fu fortemente negativo. Sapeva da prima di parte che non si sarebbe profilata una piacevole passeggiata in un ridente giardino, ma quell’esperienza era già peggio di quanto si aspettava. Un caldo inclemente prese il posto della tiepida arietta che avevano lasciato, confondendosi con la polvere che cominciava a comparire qua e là in piccoli mucchietti fra pietre e rovi rinsecchiti. Quando arrivò la sera, era però palese che l’uomo non era stanco come il giorno precedente, ed anzi non si sarebbe 51
osato dire che era reduce da un viaggio del genere. Fu allora che Dal si accorse di quello che un uomo ben allenato fosse in grado di fare: di certo, le ferite non potevano essere magicamente scomparse, eppure Marcus avanzava con decisione, ignorandole come se nemmeno esistessero. «Non ci fermiamo?» domandò infine Dal, vinto dalla curiosità del notare che l’Umano continuava a camminare, nonostante il sole stesse ormai calando. «Di notte si fatica molto meno che di giorno nei deserti, siano essi piccoli o immensi. Penso che ce la faremo a continuare sino all’alba, se ci diamo da fare.» rispose l’altro, senza fermarsi «E ormai puoi star certo che ci stanno seguendo». Dal preferì tacere, anche se quella risposta l’aveva già turbato. Si aggiustò i lunghi capelli, resi umidi dal sudore, e si strinse nella spalle, scegliendo di affidarsi ancora una volta all’uomo. Camminarono per l’intera durata della notte, concedendosi solo alcune piccole soste qua e là, giusto per riprendere fiato e provare quel freddo per niente piacevole di cui l’elfo non riusciva a capire la provenienza. Marcus voleva dire che in un deserto non sarebbero riusciti a star fermi a lungo? Qualunque fosse la risposta, soltanto alle prime luci dell’alba Marcus acconsentì a qualche ora di riposo, riconoscendo di non avere più le forze per muovere altri passi, e questa volta il sonno fu tranquillo: nessun incubo turbò il loro animo e si risvegliarono entrambi verso mezzogiorno, quando ormai il dardeggiante sole era nel pieno del suo vigore. Quel giorno camminarono senza quasi mai parlarsi, se non per decidere quale direzione prendere, ognuno racchiuso dentro i suoi dubbi e le sue convinzioni. Le provviste e soprattutto l’acqua finirono. Dal arrivò spesso a pensare a cosa stesse accadendo in quel momento a sua madre: molto probabilmente, il suo corpo stava venendo sottoposto ad ogni tipo di tortura immaginabile, se in esso vi era ancora vita, e più volte si fermò, voltandosi indietro impaurito, nell’attesa che qualche guardia comparisse e li raggiungesse senza problemi. Gli sembrava il minimo, dopo quello che aveva fatto passare a Shadyla, la donna che lo aveva accudito come un vero figlio e che adesso si preparava a sacrificarsi per lui. Era giusto? Forse no, ma tornare indietro avrebbe voluto dire rendere vana la morte dell’unica persona che aveva provato dell’affetto per lui. Quando sentiva i timori crescere in lui, alzava lo sguardo, puntandolo sulla figura dell’Umano, ora privo di elmo, che camminava al suo fianco: gli occhi immobili, le labbra serrate, i lineamenti composti. Pareva non saper cosa fosse la fatica, né tanto meno l’esitazione. Ma quando il sole tramontò all’orizzonte, Marcus cominciò ad apparire più inquieto: il sudore grondava copioso dalla sua fronte, lo sguardo era turbato e talvolta l’uomo volgeva il capo all’indietro, come se si fosse accorto della presenza di un qualche pericolo incombente. Dopo che l’uomo ebbe effettuato quel gesto qualche volta, Dal Jin si fermò e si decise a parlare: l’ennesimo, rumore in lontananza aveva raggiunto anche i suoi sensi. 52
«Ci seguono, vero?» chiese alla fine, ormai tanto rassegnato a quell’idea da non aver bisogno di ricevere una risposta «Li hai sentiti anche tu». «Ho paura di sì.» ammise l’altro, alzando la testa con un sospiro, ma riabbassandola subito dopo, con una nuova smorfia infastidita sul viso «Era facile immaginarlo, dopotutto». Il Naigh-Moor imprecò nella sua lingua, allontanò lo sguardo dall’Umano e strinse gli occhi per la frustrazione, riducendoli a due fessure buie e scure. Sì, forse era vero; anzi quell’esito era fin troppo ovvio. Ma adesso cosa avrebbero dovuto fare? Nascondersi o continuare? Dividersi e sperare che uno dei due si salvasse oppure restare uniti, nella speranza di poter sconfiggere i loro inseguitori? C’era sempre la possibilità che non ne avessero molti alle calcagna. Possibilità alquanto remota, tuttavia. «E adesso cosa facciamo? Ci raggiungeranno sicuramente» domandò infine al compagno, stringendo con forza i pugni, pieni solo della polvere del deserto. Marcus non rispose, continuando a guardare dietro di sé, poi girò nuovamente la testa, fissando Dal negli occhi, con lo sguardo acceso da una strana luce sotto le folte sopracciglia. «In tutti i miei anni al servizio dell’Impero, sono sempre stato reputato come un uomo sensibile ed attento nei confronti dei suoi soldati.» mormorò, senza nascondere un piccolo sorriso compiaciuto, mentre chiudeva saldamente le dita attorno al manico dell’alabarda, forte delle sue convinzioni «I miei superiori erano i miei padri, gli altri ufficiali erano i miei fratelli ed i miei guerrieri erano tutti i miei ragazzi». L’elfo si sentì di colpo inquieto, incapace di comprendere cosa l’altro intendesse: l’avrebbe ucciso per facilitare la propria fuga? Il suo viso sembrava non promettere nulla di buono. «Che intendi dire?» riuscì a chiedere, spostando la tremante mano verso il fianco, dove teneva fissata l’elegante spada. «Fuggi, ragazzo.» mormorò invece Marcus, senza ombra di dubbio deciso a fare qualunque cosa pur di non cadere ancora nelle mani dei suoi precedenti carcerieri e torturatori «Io li terrò impegnati il più possibile». Dal sussultò e sbarrò gli occhi di colpo: mise le mani avanti, come per fermare l’impeto di coraggio dell’uomo. «Sei pazzo?» esclamò «Non pensarci nemmeno! Mi prenderebbero comunque!». L’altro ridacchiò e scrollò le spalle, tentando invano di mascherare la tensione che lo percorreva e gli faceva tremare tutto il corpo in maniera ben vistosa. Troppi erano caduti sotto le lame dei crudeli elfi grigi per permettere che altri li seguissero. Non ragionava in maniera chiara, se ne rendeva perfettamente
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conto, ma quello era il suo modo di fare: soprattutto, per lui era l’ultima possibilità per evitare che un altro nome si aggiungesse alla lunga fila di vittime. «Non preoccuparti di questo. Sei solo uno schiavo, no? Cosa vuoi che gliene importi di te!» tentò infatti di spiegare, sottolineando le sue parole con un ampio movimento del braccio destro «Vattene e fai meno obiezioni: mi occuperò io di far perdere le tue tracce, fidati». «Un accidente! La mia intenzione era di salvare te, di fuggire assieme! Ho sacrificato mia madre per farlo!» si oppose il Naigh-Moor, afferrandolo bruscamente per un braccio, come per trascinarlo con sé «Non hai alcun motivo di fare una simile sciocchezza!». «Vuoi stare zitto?» gridò Marcus, ora chiaramente scosso dall’ira, svincolandosi dalla presa dell’elfo e puntandogli l’alabarda al petto prima ch’egli potesse riuscire ad assumere una posizione difensiva «Razza d’idiota! Vattene subito, se non vuoi che ti ammazzi! Sparisci, ora!». Dal si ritrasse nel vedersi l’arma puntata contro, balbettò qualcosa e quindi fece qualche passo indietro, chiudendo gli occhi: dunque quell’uomo voleva davvero spingersi sino a quel punto. Si chiese per l’ennesima volta perché lo facesse, cosa avesse da guadagnarci, ma nemmeno stavolta riuscì a capirlo. Non poteva abbandonarlo lì, lasciarlo a morire da solo. Forse sarebbe stato meglio se fosse rimasto lui, la vera causa di tutto, a fronteggiare i propri inseguitori: Marcus avrebbe potuto così salvarsi, tornare nell’Impero, dalla sua famiglia, se ne aveva una, e magari tornare in futuro al comando di un esercito abbastanza potente da sconfiggere la Legione di Armalak; Dal si era ormai giocato tutto in quell’impresa disperata. Ma di nuovo lo sguardo del generale lo fulminò, impaurendolo a tal punto da fargli accantonare qualsiasi cosa che fosse seconda alla sua sopravvivenza. «Addio, Marcus» mormorò, chinando il capo per il rimorso e la vergogna. Si voltò velocemente su sé stesso, iniziando a correre il più velocemente in direzione opposta all’uomo, il viso ancora rivolto verso terra, imperlato dal sudore e dalle lacrime sempre più copiose. «Addio» mormorò in risposta l’Umano, quando l’altro fu ormai troppo lontano perché lo potesse udire, quindi si voltò in direzione delle grida che aveva udito, con una luce sinistra nello sguardo: una luce che poteva appartenere solo a chi non ha più nulla da perdere. Rimase a pensare per qualche secondo, dopodiché cominciò a cancellare le impronte di Dal con attenzione, spazzandole via dalla terra sterile e stando attento a cancellare anche le sue, in modo che nemmeno l’occhio più acuto avrebbe capito in che direzione era fuggito l’elfo oscuro. Finito il lavoro, si asciugò la fronte bagnata e prese a scavare una buca con le mani, aiutandosi con l’alabarda, per poi ricoprirla nuovamente di terra più scura, in modo che fosse 54
ben evidente, sollevandosi in una posizione pienamente eretta soltanto quando gli fu sembrato ovvio per chiunque che lì doveva esserci stata creata una recente fossa. «Bene.» pensò fra sé, scuotendosi le mani ai pantaloni «Ora posso solo sperare che quelle carogne ci caschino». Si appoggiò l’arma sulla spalla e s’incamminò in direzione opposta rispetto a Dal Jin, quando, d’un tratto, si bloccò e tornò sui suoi passi. Raggiunto il punto dove aveva scavato la buca, si incise l’avambraccio con la lama dell’alabarda, serrando i denti e gli occhi per il dolore. Lasciò cadere qualche goccia di sangue a terra, quindi strappò una striscia di stoffa dalla maglia lacera che ancora portava sotto la corazza, fasciando strettamente la ferita. Riprese poi a correre nella direzione che aveva preso prima, spingendo i muscoli fino al limite della sopportazione. «La fine di Marcus Darnissor» si disse, mentre saettava per il deserto, ansimando come uno stantuffo. Qualche minuto dopo, una decina di cavalieri armati alla leggera giunse sul luogo, facendo scalpitare rumorosamente i loro destrieri. Sagome nere nelle chiara tonalità del deserto, si fermarono come un sol uomo quando il soldato alla testa del gruppo notò le macchie di sangue ed arrestò il suo cavallo nero e sudato davanti alla buca coperta, richiamando i suoi compagni. «Mio signore!» esclamò, girandosi sulla sella, rivolto evidentemente verso il comandante «Qui c’è qualcosa di strano!». A quelle parole, gli altri cavalieri si scansarono ai lati come in una parata, mentre un Naigh-Moor elegantemente vestito si faceva avanti, portandosi di fianco al capo dei soldati: la liscia fronte grigia cenere non sembrava per niente segnata né dalla stanchezza né dall’elevata temperatura ed i suoi perfetti lineamenti erano imperturbabili e sicuri nella loro abituale posizione. La treccia gli ricadeva sulle spalle, muovendosi appena ad ogni passo del cavallo. «A quanto pare, hanno avuto una lite tra loro e uno dei due deve essere morto» riuscì a dirgli il soldato senza balbettare, evitando così di cadere preda di tremiti e sussulti quando gli occhi verdi e ambigui dell’altro incontrarono i suoi, senza lasciar trapelare la minima emozione. L’altro rimase in silenzio, limitandosi ad osservare con disgusto il mucchio di terra sotto al quale credeva fosse seppellito uno dei due fuggitivi. «La nostra caccia è finita, temo, mio Signore» aggiunse il capo delle guardie, dopo aver taciuto per qualche secondo. «Finita?» sibilò l’altro, e nella sua voce si sentiva benissimo tutto il suo disprezzo e la sua frustrazione. Fulmineamente, alzò il braccio sinistro di scatto, colpendo l’altro con un potente manrovescio e sbalzandolo di sella, afferrando poi le redini del cavallo che già 55
cominciava ad agitarsi ed a nitrire spaventato. Gli altri cavalieri sbarrarono gli occhi nel vedere un tale gesto ed alcuni di loro scossero il capo, celando con l’elmo i sorrisetti divertiti comparsi sui loro volti, ritenendo, a buon diritto, che il soldato avrebbe potuto risparmiarsi queste ultime parole. Il nobile NaighMoor fece muovere qualche passo avanti al suo destriero, lasciando le redini dell’altro animale e portandosi di fronte al soldato ancora a terra, dando l’impressione di volerlo schiacciare senza pensarci due volte. «Idiota!» gli gridò, sporgendosi verso di lui ed indicando la buca «Uno di loro è vivo! Credi che abbia fatto tutta questa strada per niente? Chiunque sia sopravvissuto, dovrà pentirsi di essere scappato dalla mia città!». Voltò il suo cavallo con un gesto brusco, iniziando a seguire le orme lasciate da Marcus, senza degnare più di uno sguardo l’ancora stupito cavaliere. «Questo ti costerà caro, soldato» aggiunse alla fine: in qualunque modo fossero andate le cose, punirlo avrebbe alleviato, anche se in minima parte, la delusione per non poter avere entrambi i fuggitivi. Gli altri cavalieri lo seguirono istantaneamente, osservando duramente il NaighMoor che risaliva sconsolato in sella. L’Umano intanto stava correndo come un pazzo, cercando disperatamente un nascondiglio, ma non vi era alcun posto adatto: il braccio continuava a sanguinare ed il dolore era ancora dannatamente fastidioso, al punto che ad un certo punto Marcus dovette fermarsi. Strappò un altro brandello dai suoi stracci e lo avvolse intorno alla ferita, stringendolo il più possibile, nella speranza di arrestare la fuoriuscita di sangue. Posò violentemente le mani sulle ginocchia, tirando il fiato, al che piccole gocce grondarono a terra dal suo viso corrugato e dai radi capelli scarmigliati. Sapeva già che continuare a correre a quel modo non sarebbe servito a niente, dato che i suoi inseguitori l’avrebbero raggiunto in poco tempo, ma, se erano caduti nella sua trappola, doveva comunque dare tempo a Dal di fuggire lontano: chissà, forse lui avrebbe avuto fortuna e sarebbe uscito vivo da quella fornace. Drizzò la schiena lentamente, voltandosi appena: la sua espressione tranquilla mutò in un batter d’occhi, non appena vide la nube di polvere che si avvicinava, facendosi sempre più grande. Imprecò di rabbia, sputando a terra e riprendendo a correre freneticamente, ma fu tutto inutile: nel giro di pochi minuti, i Naigh-Moor l’avevano quasi raggiunto, spronando freneticamente i loro cavalli. Si fermò lentamente, inspirando e girandosi su se stesso, stringendo l’alabarda davanti a sé con tutte le forze che aveva. L’adrenalina prese a scorrere come un fiume in piena nelle sue vene, le labbra si chiusero in una smorfia determinata e tesa come una corda di violino, gli occhi affondarono al di sotto delle sopracciglia,.
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«D’accordo, bastardi.» mormorò fra sé, il volto colmo di furia «Se devo morire, lo farò.. Ma qualcuno di voi mi aprirà la strada». Ben presto, i cavalieri lo scorsero nitidamente: in piedi, lo sguardo fisso, pronto a combattere, una figura che appariva imponente anche di fronte ai loro cavalli, che riusciva ad incutere timore anche se era solo, ferito ed a corto di cibo ed acqua da giorni. Un ottimo esempio di guerriero, quello che tutti i soldati sarebbero voluti diventare. Uno degli elfi oscuri si lanciò con un grido verso di lui, spingendo il cavallo ventre a terra, la lancia in resta. Ma era troppo inesperto e preso dalla foga per poter competere con un generale dell’Impero: Marcus scansò l’affondo con facilità, scartando a destra e colpendolo poi alla testa con l’alabarda, fracassandogli elmo e cranio con un sol colpo. Il corpo senza vita del Naigh-Moor cadde al suolo con un confuso gemito, facendo fuggire lontano il cavallo. L’Umano si voltò fulmineamente, azzoppando la cavalcatura dell’altro elfo oscuro che gli si era avvicinato e facendolo rovinare a terra assieme al padrone, che perse la sua lancia, prima di sentire la sua carne trafitta dalla punta dell’arma del suo avversario. Nemmeno un istante dopo, un’altra minacciosa ombra calò all’improvviso sull’uomo, costringendolo a voltarsi di scatto. Marcus non era ancora riuscito a distinguere i lineamenti del nuovo avversario che aveva fatto scattare la lama dell’alabarda verso il suo fianco, ma stavolta il suo attacco venne facilmente bloccato e deviato: una lunga spada che brillava di una luce rossastra si schiantò contro il manico dell’alabarda, facendo indietreggiare l’Umano. «Ci incontriamo ancora, Umano.» annunciò il Naigh-Moor, con un ghigno stampato sulla faccia «Ma questa volta non puoi più scappare». «Tu?» esclamò Marcus, fissando gli occhi verdi di Lohidran e riportando l’alabarda a difesa del corpo, pronto a combattere contro quel nuovo avversario, conscio però di non avere alcuna possibilità, oltretutto nelle sue condizioni, contro un combattente così abile e ben equipaggiato. Il principe annuì, evidentemente compiaciuto dall’aver finalmente di fronte a sé la preda che aveva cercato. «Io… Lohidran, principe di Armalak!» esclamò con esaltazione, sorridendo esageratamente «Credevi davvero che un prigioniero malridotto e uno schiavo traditore potessero sfuggirci? Mi diverti da morire, omuncolo!». Non ci fu bisogno di altro per far crescere la rabbia dell’uomo: colui che aveva ucciso ogni suo soldato, dal primo all’ultimo, e l’aveva condotto in una lurida cella, ora rideva del loro ricordo e delle sue speranze. «Sporca carogna!» urlò dopo un istante, tentando di affondare la punta dell’arma nel ventre dell’elfo con decisione, pregando di vendicare con quell’attacco quanti erano stati perseguitati, catturati, torturati ed uccisi senza pietà dal fratello di Dal e dai suoi uomini. 57
Ma la stanchezza dei giorni precedenti l’aveva indebolito notevolmente, mentre Lohidran appariva in piena forma: quest’ultimo parò l’attacco con la sua spada, facendogli scivolare l’alabarda via dalle mani e alzando la spada sopra la testa. Calò la lama sulla spalla di Marcus con forza, spezzando l’armatura e raggiungendo un polmone senza faticare, grazie alle chiare virtù magiche che possedeva l’arma. L’uomo gridò di dolore, allargando le braccia, mentre l’altro liberava la spada e si preparava a colpirlo nuovamente. Il volto del Naigh-Moor si trasformò in una maschera di ferocia e soddisfazione: affondò la lama nel petto dell’altro, facendola spuntare dall’altra parte come se la carne dell’avversario e la sua corazza non fossero che burro. Gli occhi brillanti si spensero di colpo, mentre Marcus vedeva il suo fallimento ucciderlo due volte, sia nel corpo che nell’anima. Senza una sola parola, crollò sulle ginocchia, fissando con sguardo vitreo e triste il suo assassino, che lo scansò bruscamente con un sonoro calcio per liberare la spada dal suo torace. Il volto dell’uomo s’immerse nella polvere, mentre una pozza rossa e densa si formava sotto di lui, unendosi al sangue nero dei due soldati che egli stesso aveva ucciso. L’elfo oscuro rimase fermo qualche istante, lo sguardo serio, gli occhi persi davanti a sé, quindi si voltò lentamente, senza curarsi dei cadaveri a terra, e riprese a cavalcare con tutta calma. «Recuperate i cadaveri e torniamo al punto in cui è seppellito lo schiavo» ordinò inespressivo ai suoi soldati, che lo seguirono come miti cagnolini ancora una volta. Quando vi arrivarono, impose loro di scavare nel punto dove vi era la buca e quelli, sia pur riluttanti, obbedirono, senza nemmeno osar lamentarsi per il caldo e la fatica. Non appena scoprì che non c’era traccia dell’altro cadavere, Lohidran colpì violentemente con un pugno il soldato che gli aveva dato la notizia, spaccandogli il setto nasale. «Cane maledetto.» ringhiò, girandosi poi verso il corpo dell’Umano; in un impeto di rabbia, gli assestò un violento calcio, facendolo crollare scompostamente al suolo «Dividetevi e cercatelo! Rastrellate tutto il deserto, se necessario, ma non tornate indietro finché non avrete il suo cadavere! Offro un sostanzioso premio in oro a chi mi porterà la sua testa!». Ci furono alcuni attimi di incertezza, ma dopo pochi secondi i Naigh-Moor si sparpagliarono con un rumoroso scalpiccio in cerca di Dal Jin, chi spaventato dall’ira del principe, chi allettato dalla promessa di incassare un bel gruzzolo. Il fuggitivo, nel frattempo, stava ancora correndo senza fermarsi, nemmeno per guardare indietro: i suoi pensieri erano però fissi sulle parole dell’Umano, un perfetto sconosciuto che rischiava di morire per lui: lo stesso che infatti era appena caduto sotto i colpi di Lohidran. Si fermò per un attimo, passandosi una 58
mano fra i capelli sporchi di terra e polvere. La sua testa era assediata da decine di domande senza risposta: perché nessuno gli aveva detto niente sul suo passato, prima di allora? Perché suo padre l’aveva condannato ad un’esistenza terribile? Tutto questo era accaduto soltanto per aver creduto ad una stupida profezia di quella che poteva essere una vecchia pazza? Perché adesso era solo contro tutta la sua razza? Perché Marcus? Perché lui? Il cervello gli ronzava come se fosse stato invaso da sciami di vespe e la sua angoscia non accennava a diminuire; la sua mente era provata tanto quanto i suoi muscoli. La notte era ormai calata sul piccolo deserto e le ombre erano corse a nascondersi spaventate, pronte a tornare quando la rassicurante presenza del sole le avrebbe accompagnate, ma Dal aveva paura che la sua se ne fosse andata per sempre, certa del fatto che il giorno dopo il suo padrone non avrebbe più avuto bisogno di niente se non di essere seppellito sotto mezzo metro di terra. Si sedette su di una bassa roccia, stremato, tenendosi il capo fra le mani, come per scacciare i cattivi pensieri: aveva il terrore di dormire, temendo che i suoi inseguitori potessero raggiungerlo mentre riposava, ignaro di tutto. La stanchezza era tuttavia troppa per non cedere e a notte fonda l’elfo oscuro cadde di nuovi in mano ai sogni ed agli incubi. Immagini di morte e di rovina si susseguivano nella sua mente anche quando dormiva, costringendolo ad agitarsi come un cane piagato dalle pulci. Quando si svegliò, era quasi più stanco della sera precedente: il sole stava facendo allora la sua timida comparsa e lo illuminava con gli ancor freddi raggi, che si sarebbero però trasformati in frecce infuocate entro poco tempo, pronti a farsi sentire sopra il Naigh-Moor per tutto il giorno, tenendolo sotto il loro torrido influsso. Dal si voltò indietro, osservando con soddisfazione infantile la sua ombra attaccata a lui come tutti i giorni, e si alzò in piedi, stirandosi per togliersi di dosso la stanchezza e la fatica. Cominciò a camminare, prima di iniziare a correre, lo sguardo fisso davanti a sé, dimentico delle continue domande di poche ore prima, fino a quando non si fermò di colpo, udendo un rumore in lontananza, dietro di lui. Rimase immobile, trattenendo il fiato, sperando che il suono si allontanasse, ma così non fu: in preda alla disperazione più cupa, cercò allora un nascondiglio, ma l’arido deserto non gli offrì alcun riparo dove nascondersi. Ben presto, la sagoma di un cavaliere che avanzava si stagliò contro il monotono paesaggio, a qualche decina di metri di distanza. Il trotto leggero della sua cavalcatura si tramutò rapidamente in un galoppo sfrenato, mentre il soldato puntava il ragazzo, la bava alla bocca dovuta all’eccitazione dell’inseguimento. Il fuggitivo iniziò a correre il più velocemente possibile, dando fondo a tutte le sue energie, rialzandosi quando inciampava e tenendo la testa bassa al fine di evitare dei possibili dardi, ma in poco tempo l’altro gli fu addosso, a pochi metri di distanza, tanto che gli sembrava di sentire l’alito del cavallo sul collo. 59
«È inutile che scappi, porco traditore!» gli gridò contro l’altro, indirizzando la lancia contro di lui «Creperai come quell’altro!». Nell’udire queste parole, il mondo di Dal si fermò di colpo: Marcus era morto. Era quasi certo che sarebbe accaduto ma non aveva pensato a cosa questo potesse significare. Si fermò di colpo, piantando i piedi a terra e voltandosi con uno scatto verso il suo aggressore, gli occhi accesi di una luce rossa incandescente, i denti serrati, le sopracciglia alterate in una posa innaturale. Con un balzo e un’energia che non sapeva di avere, si scagliò contro l’aggressore, strappandogli la lancia dalle mani e sbilanciandolo, tanto che il soldato imprecò furioso, mentre i suoi piedi scivolavano via dalle staffe, facendolo crollare malamente al suolo. Dal gli saltò addosso, piantando le ginocchia contro il suo ventre e alzando sopra di lui la lancia. Il soldato urlava e strepitava, agitava le braccia per difendersi; Dal non vedeva nulla che potesse indurlo a pietà. Con un grido carico di incontenibile furore, conficcò la punta nel petto dell’elfo oscuro. Una volta, un’altra e un’altra ancora. Il soldato urlò, si dibatté, poi sbiancò in volto, sbarrando gli occhi e alzando tremante la testa, la bocca aperta, osservando il viso del ragazzo in preda ad una rabbia incontrollabile, poi il suo capo ricadde di colpo all’indietro. Dal Jin ansimò pesantemente sopra il corpo della vittima della sua furia, lo sguardo ancora acceso dalla cieca rabbia di pochi istanti prima: allontanò le mani dalla lancia, rialzandosi in piedi, sconvolto e sudato, infreddolito in quel torrido deserto. La estrasse solo dopo qualche minuto di totale silenzio, senza badare a pulirla dal sangue, e raggiunse il cavallo dell’avversario, accarezzandogli il muso con delicatezza, prima di salirgli in groppa e stringere le briglie con entrambe le mani, abbandonando quel luogo senza una parola, gli occhi basse. Dovette sollevare parecchia polvere per fare spazio alle lacrime.
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VI. Verso la libertà
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avalcò per tutto il giorno, avvolto nel nero mantello, attirando così ancor di più il sole cocente, ma senza liberarsene nemmeno per un istante, lo sguardo puntato davanti a sé, mentre ripensava incredulo ai fatti degli ultimi giorni. Sapeva che quei ricordi lo avrebbero tormentato per il resto dei suoi giorni, se non vi avesse messo personalmente la parola fine. Si sentiva abbattuto, il viaggio gli sembrava interminabile e più volte fu tentato di tornare indietro: e se magari Marcus fosse sopravvissuto? Se l’avessero semplicemente catturato? Ma allora perché quelle parole da parte del soldato? Un’intimidazione? Il rimorso lo tormentava di continuo, attanagliandogli l’anima con i suoi gelidi tentacoli, tanto che credette ripetutamente di non essere più in grado di respirare, soffocato dai suoi stessi dubbi. Si ricordò poi di non aver preso l’armatura dal corpo del Naigh-Moor che aveva ucciso e si sentì ancora più stupido, chiedendosi e chiedendosi se quello che stava facendo avesse un senso o meno. Inoltre, l’ambiente sembrava esser stato creato appositamente per fomentare dubbi e paure: per quanto potesse sforzarsi, tutto quello che vedeva era soltanto terra arida e pietre, fatta eccezione per le basse montagne, ben visibili anche da lì, che costellavano l’intera penisola di Nog Tuluth. La fame e soprattutto la sete erano terribili, le borracce legate alla sella del soldato erano già state svuotate quasi del tutto; il caldo gli faceva talvolta perdere la cognizione del tempo e dello spazio, sprofondandolo in un abisso di semi-incoscienza. E proprio durante uno di questi mancamenti, sentì un colpo violento che lo fece sobbalzare e quasi cadere di sella; il cavallo nitrì con forza, sbattendo più volte a terra gli zoccoli. Dal cercò di calmarlo, ma alla fine fu costretto a scendere per vedere cos’era successo: con un’imprecazione, realizzò che, probabilmente inciampando in una roccia, la cavalcatura si era azzoppata ad una zampa anteriore e non era più in grado di camminare. Non appena se ne rese conto, il Naigh-Moor si sentì ancora più solo e sperduto di prima: sapeva che non ci sarebbe stato niente da fare per l’animale, bloccato in mezzo al deserto senza risorse. E sapeva che, per quanto gli sembrasse orribile, poteva soltanto abbreviare le sofferenze della sfortunata creatura. Lentamente, gli occhi spenti, sganciò la lancia dalla sella e la piantò con violenza nel fianco del cavallo; la povera bestia nitrì dal dolore per poi cadere di lato, esalando un ultimo rantolio. Quante volte era entrato in contatto con la morte, negli ultimi giorni? Sicuramente troppe perché l’omicidio di un cavallo potesse anche solo intaccarlo. Lasciò l’arma sul luogo per non dover portare troppa roba e riprese il suo viaggio, camminando a testa bassa, guardando fisso a terra. 61
Man mano che le ore trascorrevano, la sete aumentava sempre più: le labbra erano riarse, il volto era ormai smunto e sofferente, le mani tremanti, il sudore brillava lungo tutta la sua pelle, come una bizzarra patina iridescente. I minuti passavano lunghissimi ed indifferenti, ma, pian piano, il clima sembrò mitigarsi e la terra, seppur ancora arida e secca, prese un colore più scuro e vivace. Dopo altri due giorni trascorsi trascinando i piedi uno dietro l’altro con sempre maggiore fatica, Dal si accorse che il deserto era ormai finito, lasciando il posto a un terreno migliore, in cui riusciva a spuntare qualche arbusto. Ma, nonostante questo, il suo animo continuava a peggiorare, mentre le forze lo abbandonavano sempre più; l’unica cosa che forse lo manteneva ancora in piedi era che nessun Naigh-Moor aveva fatto la sua comparsa, permettendogli così di proseguire indisturbato la sua fuga. Al crepuscolo, raggiunse un piccolo boschetto: accelerò l’andatura ed iniziò a correre sempre più in fretta, entrandovi dentro e sedendosi all’ombra di un grosso albero, con un sorriso di soddisfazione stampato sulle labbra spaccate. Rise fra sé, sentendosi al sicuro fra le alte piante, lontano dai pericoli che lo avevano tormentato nel deserto, quindi crollò di stanchezza, nonostante il continuo brontolare dello stomaco e l’insopportabile arsura della gola. Quando si riprese, il terrore aveva nuovamente preso il sopravvento sulla felicità: nuovi incubi si susseguirono ai precedenti, nei quali talvolta compariva anche Marcus, rimasto bloccato nel mezzo del deserto, che gridava con tutte le sue forze, implorandolo di aiutarlo. Si svegliò di colpo, dimenando le mani davanti a sé, come per scacciare una minaccia invisibile. Un tuono rombò nel cielo nel medesimo istante: pioveva a dirotto. Annaspando, Dal si mise faticosamente in ginocchio, coprendosi il volto dalla pioggia continua, temendo quella stessa acqua che aveva desiderato per tanto tempo. Era completamente ricoperto di fango e sporcizia: i capelli erano divenuti freddi e pesanti, i vestiti erano lordi di sozzura; panico e confusione erano le uniche emozioni che riusciva a provare in quel momento. Corse disordinatamente per il boschetto, fermandosi soltanto quando si rese finalmente conto di quello che stava succedendo. Si guardò intorno e, non appena notò una pozzanghera, vi immerse la faccia, abbeverandosi come un animale e sputando la maggior parte della sporca acqua che ingeriva. Dopo essersi dissetato in quel modo barbaro, si alzò faticosamente in piedi e cominciò a camminare per il bosco, in cerca di una via d’uscita, ancora smarrito. Gli alberi non lasciavano filtrare la minima luce, se non quando un lampo squarciava la notte, illuminando la tetra ed imponente sagoma della buia foresta. Avanzò incerto, cadendo a terra più volte a causa della stanchezza delle gambe, rimanendo disteso a volte anche per minuti, nel tentativo di riprender fiato. Sembrava che non ci fosse nessuno in quel bosco oltre a lui: nessun rumore, amichevole o ostile che fosse, ad eccezione del continuo martellare della pioggia. 62
Vagò per la selva per tutta la durata del temporale, riuscendo ad uscirne solo al mattino: una volta fuori, si appoggiò ad un tronco, per poter fare correttamente il punto della situazione. Si passò una mano sugli occhi nel vano tentativo di allontanare la stanchezza e l’affanno, prima di guardarsi attorno e scorgere una piccola fattoria in lontananza. Una minuta casa era facilmente distinguibile fra dei campi di un qualche cereale, in condizioni non molto rigogliose. Stette a guardarla per qualche minuto, cercando di calcolare quanto tempo ci avrebbe messo a raggiungerla nelle sue condizioni e, soprattutto, cosa dire al proprietario: l’estremità occidentale di Nog Tuluth era abitata quasi interamente da Umani in condizione di schiavitù o comunque succubi dell’autorità degli elfi oscuri. Di certo non sarebbero stati molto ospitali con un Naigh-Moor, neppure se avesse provato a spiegare loro di essere fuggito da Armalak. O forse quella casa era abitata proprio da un elfo oscuro, anche se Dal non riusciva a trovare una ragione per questo: tutti i Naigh-Moor dovevano vivere in città o villaggi, allontanarsi totalmente da un centro abitato era vietato, oltre che sconsigliato. Nessuno poteva tenersi discosto dalla civiltà, altrimenti i sette sovrani e i governatori non sarebbero stati in grado di amministrare la propria, personalissima giustizia. Si fece coraggio ed iniziò a camminare in direzione dell’abitazione, non senza aver rilasciato un ultimo sospiro. Il viaggio, seppur breve, gli sembrò interminabile: si trascinava malamente sulle gambe, una delle quali recava anche un ampio taglio, procurato durante una caduta nel bosco, e quel poco che portava con sé gli sembrava maledettamente pesante. Si fermò dopo pochi metri, scoraggiato, seppur conscio del fatto che per rimettersi in marcia dopo avrebbe dovuto faticare molto di più. Strinse i denti, riprendendo subito a camminare, deciso a non rallentare nemmeno l’andatura, sopportando il dolore che non accennava a diminuire. Arrancò a schiena piegata fino alla fattoria, talvolta camminando con l’aiuto delle mani, pur di non cadere. Quando fu a pochi metri della casa, tirò il fiato, raddrizzandosi e guardandosi attorno. Era poco più che una baracca: i muri erano in legno tarlato, il tetto presentava un grosso buco in un angolo e le finestre erano prive di vetri, al cui posto vi erano pezzi di stoffa che dovevano fungere da tende per il padrone di casa. Guardò nei campi con attenzione, nella speranza di scorgere qualcosa o qualcuno a cui parlare, tuttavia già rassegnato a rinunciare all’idea: quell’ambiente desolante dava l’impressione di essere disabitato. Il suo cuore prese però a battere all’impazzata non appena notò che un vecchio Umano stava chinato a zappare la terra che circondava l’edificio, il capo coperto da un largo cappellaccio di paglia ed il torso magro da far paura coperto da una casacca malridotta; sembrava non essersi accorto della sua presenza. L’elfo avrebbe potuto tacere, infilarsi di nascosto nella casa ed arraffare tutto quello che gli serviva senza essere 63
probabilmente visto. Ed era proprio quanto stava per fare, ma un pensiero improvviso lo distolse da quel proposito: Marcus e sua madre aveva dato la loro stessa vita per lui e questo era il suo modo per ringraziarli? Divenire un ladro non era certo ciò che avevano voluto insegnargli. Come si sarebbe sentito se qualcun altro avesse fatto lo stesso con lui? Inspirò a fondo, scuotendo il capo e maledicendo con un sorriso il suo piccolo gesto d’altruismo. «Ehi, voi!» gridò in direzione dell’uomo, alzando una mano e facendo attenzione al timbro vocale, rendendosi conto di non aver parlato per giorni. Il vecchio si erse in piedi e si voltò verso di lui, scrutandolo in ogni particolare con i sottili occhi a fessura. Borbottò qualcosa contro il sole che gli impediva di distinguere chiaramente l’ignoto visitatore e svelse la zappa da terra, mettendosela in spalla ed avvicinandosi lentamente all’elfo oscuro, incuriosito. «Che volete?» gli chiese con voce stanca e affannata, ma del tutto tranquilla, assottigliando ancor più gli occhi, fino a celarli sotto le folte sopracciglia canute «Ho molto da fare». «Scusatemi, signore,» rispose l’elfo, sforzandosi di essere gentile «ma vengo in pace. Vi chiedo solo di aiutarmi e darmi qualche indicazione, se possibile». Il Naigh-Moor lo osservò accuratamente, mentre parlava: quel tizio, col suo naso adunco e le sue accentuate rughe sulla pelle abbronzata dal sole, sembrava quasi un personaggio delle favole, il vecchio contadino eremita. E forse lo era. «Vieni dal deserto, ragazzo, non è così?» mormorò quello, voltandosi in direzione di esso «Entra, vedrò cosa posso fare per te». Senza aggiunger altro, l’uomo aprì la porta in legno, entrando nell’abitazione e facendo cenno all’inaspettato visitatore di seguirlo. La stanza era buia e calda, quasi priva di mobili, fatta eccezione per un tavolo con qualche sedia ed una piccola dispensa in un angolo. All’elfo parve quel buco parve subito quasi peggiore delle stanze di uno schiavo, a lui che per anni aveva vissuto in una sola stanza assieme alla madre, dove il poco spazio era occupato perlopiù da specchi, cofanetti e armadi di vestiti a basso costo. «Come ti chiami, elfo oscuro?» gli domandò intanto il fattore, quando furono entrambi all’interno. Dal rimase in silenzio per un attimo, pensando a cosa rispondere, nel timore di tradirsi, anche se la tensione era ben evidente nella sua voce. «Nor… Nor Zalafeth» rispose alla fine, cercando di essere il più naturale possibile. L’uomo annuì col capo, dirigendosi verso la dispensa, forse convinto dalle semplici parole dell’interlocutore o forse tutto il contrario. «Io sono Fedrag.» aggiunse, sottolineando l’ultima parola e voltandosi verso di lui, fissandolo con i piccoli occhi «Mi hanno detto che vi è scappato un altro esule». 64
«Un… Esule?» balbettò Dal, sbarrando gli occhi. Non aveva mai pensato al fatto che le sue azioni lo marchiavano come tale: un esule. Uno dei pochi che abbandonava quelle abiette città per fuggire e cercare di vivere nel resto del mondo. L’uomo continuò a parlare per qualche secondo, ma le sue parole echeggiavano vuote nella testa dell’elfo oscuro, entrandogli da un orecchio e uscendogli dall’altro. Il Naigh-Moor non prestava la minima attenzione a quello che diceva il vecchio, immerso com’era nei suoi pensieri. «Sono venuti a cercarlo altri della tua razza.» diceva intanto quello «Deve averla fatta grossa davvero questo. Com’è che si chiamava? Ah, sì, l’ho scritto qui. Sì, ecco… Dal… Jin!». Nell’udire il suo nome, l’elfo ritornò con i piedi per terra e mormorò un “sì?” in risposta a Fedrag, mordendosi la lingua subito dopo. «Hai detto qualcosa, ragazzo?» gli domandò il vecchio, tornando a guardarlo. «Io? No… Non ho detto niente, davvero» rispose, cercando di guardarlo in faccia. L’uomo annuì nuovamente, prendendo un piatto ed un pezzo abbondante di pane e porgendoli entrambi al ragazzo, invitandolo a sedersi. Questi non se lo fece ripetere due volte ed iniziò a mangiare avidamente il pane che, seppure duro e insipido, aveva per lui il sapore del nettare degli dei. «Bene.» l’uomo gli si sedette accanto, sfoderando un ampio sorriso con i pochi denti che gli rimanevano «Ora vuoi dirmi perché sei scappato, Dal Jin?». L’elfo oscuro alzò la faccia dal piatto, lo sguardo incredulo, la bocca piena chiusa a fatica, senza riuscire a spiccicare parola. «Andiamo, hai visto troppi pochi inverni per poter pensare anche solo di ingannare il vecchio Fedrag.» annunciò l’altro con la sua voce roca e vecchia, serio in viso «E poi corrispondi perfettamente alla descrizione che mi hanno fatto quelli che sono venuti a cercarti. Fai attenzione, giovanotto: non sono certo animati da buoni propositi. Anzi, direi proprio che vogliono farti la pelle». Dal inghiottì il cibo senza nemmeno masticarlo e strinse gli occhi per lo sforzo, rialzandoli subito dopo, fino ad osservare il viso del contadino. «Lo so.» mormorò alla fine, deglutendo a causa del troppo cibo ingoiato «Quello che non so è perché vi siete dimostrato così gentile con me: avete paura che possa farvi del male?». L’uomo si voltò distrattamente verso la sola finestra, poi tornò a concentrare l’attenzione sul ragazzo. «Se sei un esule, non dovrei temere niente da te e tu non dovresti temere niente da me. Ho più paura degli altri Naigh-Moor: sono gente malvagia e davvero poco educata… Non sono proprio il tipo di persone che mi vanno a genio.» ridacchiò, avvicinandosi poi al tavolo e posando il palmo destro su esso «Ma, se
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sei fuggito da loro, è chiaro che nemmeno a te vanno a genio» terminò l’ultima frase puntandogli un dito davanti al viso, concedendosi poi un’ulteriore risatina. «No, non direi.» gli confermò Dal, sorridendo appena «Ho perso troppo a causa loro. E non voglio averci più nulla a che fare». «Oh, questo sarà impossibile, purtroppo.» ribatté l’Umano all’istante, stavolta in tono sprezzante «Te li troverai attaccati come sanguisughe, almeno fino a quando non avrai abbandonato le terre di Nog Tuluth e sarai fuggito abbastanza lontano da non destare più interesse in loro». Le rughe del vecchio assunsero un’espressione grave, ed egli alzò una mano ossuta davanti al viso, stringendola a pugno per meglio sottolineare le sue parole. «Tutto qui?» gli domandò in tono sarcastico l’elfo «Credevo chissà cosa». «Attento, figliolo.» lo ammonì l’altro, le folte sopracciglia sempre più aggrottate e convinte «Non scherzare con loro. Ogni esule che scappa è uno smacco che subiscono. Fanno di tutto per ammazzare quelli come te prima che passino il mare… E ho sentito dire che c’è un pezzo grosso che ha giurato di catturarti, vivo o morto». A queste parole, l’espressione spaccona sul volto di Dal Jin sparì velocemente, lasciando posto alla consapevolezza di aver sfidato suo padre e suo fratello, che erano in possesso di abbastanza potere per schiacciarlo come una mosca. Mentre l’elfo rifletteva, il vecchio si era alzato faticosamente dalla sedia, aveva preso un bicchiere e una brocca di acqua e l’aveva invitato a bere senza complimenti. Stettero a parlare e a mangiare per circa un’ora: Dal Jin gli raccontò poi, non senza continue interruzioni in cui decideva se era meglio dirgli tutto ciò che voleva sapere oppure tacere, la sua storia, mentre Fedrag gli dava consigli su consigli, motivandoli uno per uno quando il Naigh-Moor non intendeva seguirli; gli dette anche una borraccia d’acqua e un po’ di pane per il viaggio. Sotto le continue pressioni del vecchio, l’elfo oscuro arrivò addirittura ad approfittare del suo letto, lasciandovisi cadere sopra stremato dalle fatiche. Si addormentò quasi istantaneamente, riuscendo finalmente a fare un sonno senza incubi. Un sonno anche parecchio lungo, oltre che tranquillo: il sole aveva già compiuto il suo ciclo e la luna stava facendo la sua comparsa quando Dal riprese conoscenza. Ignaro di ciò, si strofinò gli occhi, come in un qualunque mattino ad Armalak, e si mise pigramente a sedere. Con un movimento ampio della mano si aggiustò alla meno peggio i capelli e quel piccolo contatto bastò a ricondurlo alla realtà, non appena sentì la sporcizia su di essi. Ritrasse la mano con una smorfia, alzandosi in piedi e cercando Fedrag con lo sguardo: il vecchio era seduto al tavolo, assorto nei suoi pensieri, i piccoli occhi persi in lontananza. 66
L’elfo si avvicinò alla stipite della porta che conduceva alla stanza dove sedeva l’uomo, osservando per un istante la notte fuori dalla finestra: sembrava incredibile che esistessero ancora scenari di una simile bellezza dopo quanto era successo. Miriadi di stelle erano appese al manto buio, ogni nuvola era fuggita lontano, dove non avrebbe potuto più dargli fastidio. Si distolse da quella visione con riluttanza, abbassando gli occhi dalle nere sclere sull’Umano. «Signore?» chiese esitante, restando dove si trovava. L’uomo si voltò verso di lui, rapidamente, ed il suo sguardo serio si trasformò in un ghigno soddisfatto, mentre i pochi denti rimastigli formarono uno sghembo sorriso; nonostante l’aspetto del vecchio non fosse per niente grazioso, Dal era ben lieto di poter vederlo sorridere così allegramente. «Ah, ben svegliato, ragazzo… Ma di solito a quest’ora si va a dormire, non il contrario.» Fedrag proruppe in una risata sommessa, abbassando gli occhi sul tavolo. Dal sorrise anch’egli, più per educazione che per altro, varcando lentamente la soglia, quindi sospirò, tornando a guardare fuori: i suoi inseguitori non avrebbero tardato a trovarlo, se fosse rimasto in quel nascondiglio. Gettò un’occhiata alla misera casa del fattore e al suo piccolo orto, immerso in un’assoluta pace. Tutto quello avrebbe cessato di esistere, se l’avessero scoperto. Dal sentì di non farcela più. Basta sacrificare vite. Scosse il capo, cercando di distogliere l’attenzione da quei funesti ricordi. «Credo che adesso dovrei andare, però.» mormorò, voltandosi serio verso l’uomo «Vi ringrazio per la vostra ospitalità, ma non posso restare. Sapreste indicarmi la strada da prendere per raggiungere il villaggio più vicino?» chiese gentilmente, sforzandosi di assumere un comportamento garbato. L’Umano si alzò dalla sedia, poggiando entrambe le mani rugose sulla superficie del tavolo mentre annuiva con aria consapevole. «Naturalmente, naturalmente» rispose, avvicinandosi al Naigh-Moor e guardandolo con occhi vispi, dirigendosi verso l’ingresso. Una volta che furono entrambi fuori, Fedrag sospirò a sua volta, alzando un braccio magro verso la direzione opposta da cui era venuto l’elfo. «Là c’è un piccolo villaggio: Tadahirm, si chiama. Una pista facile e breve, ma proprio per questo non te la consiglio: sarebbe il primo posto dove verrebbero a cercarti.» lo sguardo assunse un’espressione preoccupata, mentre l’uomo spostava il magro braccio verso ovest, indicando una grossa montagna in lontananza, che si poteva appena intravedere nel buio della notte «Quella invece è la strada più lunga e difficile: tutta sassi e pietre, c’è il rischio di rompersi il collo a scalare quel monte». Il contadino tacque per qualche secondo, prima di grattarsi la fronte ed abbassare di un poco il braccio, indicando ora le pendici della stessa montagna. 67
«Ma c’è una via relativamente sicura, anche se è difficile da trovare.» continuò, volgendosi verso il giovane elfo «Superare il Picco Muto passando attraverso esso». Il viso del vecchio si trasformò in una smorfia, mentre stringeva gli occhi a fessura, abbassando il braccio e strofinandosi le mascelle con l’altra mano, come a cercare di ricordare. «C’è un galleria?» osò Dal, incrociando le braccia al petto. «Non proprio, ragazzo mio. Si dice che una volta dei minatori Nani al soldo dei grigi avessero trovato del thail là dentro: materiale prezioso per loro, lo usano ancora per costruire armi e armature, per quanto ne so. Non so se il thail c’è davvero, però i cunicoli ci sono, puoi starne certo: li ho attraversati anch’io una volta.» scosse la testa, borbottando qualcosa, prima di riprendere, stavolta con espressione un po’ scocciata «Scomodi e tortuosi, ma i Nani non fanno caso a queste cose, accidenti a loro. Vanno da una parte all’altra della montagna ed a pochi chilometri c’è una cittadina portuale, Shynastar». Il Naigh-Moor rimase serio, mentre ascoltava attentamente le parole dell’uomo, valutando ogni possibilità, gli occhi puntati verso la montagna: probabilmente, si illudeva ingenuamente di notare un passaggio a quella distanza, cosa che naturalmente non avvenne. «E dov’è l’ingresso per questi tunnel?» mormorò con voce sempre più convinta dalle parole del contadino. Il vecchio abbassò il capo, imbarazzato dalla domanda, ma, conscio del fatto che prima o poi sarebbe arrivata, si fece coraggio e si decise a parlare. «Non ricordo… Ero molto giovane quando li attraversai, anche se mi pare che fosse ai piedi della montagna. E non dovrebbe esserci una sola entrata» rispose infine, rialzando la testa. Dal annuì risoluto, confidando che l’ingresso non poteva essere tanto nascosto da essere introvabile. E se non fosse riuscito a trovarlo, avrebbe scalato la montagna. A mani nude, se necessario. Da quando era partito, aveva messo in gioco tutto quello che aveva; adesso poteva permettersi di rischiare di smarrirsi in una miniera nanica, sempre che la trovasse. Scalare una montagna, in alternativa, non sarebbe stato nulla di più pericoloso di ciò che aveva già fatto. «Grazie di tutto» concluse sbrigativamente, incamminandosi silenziosamente in direzione della montagna, gli occhi puntati verso la massiccia sagoma in lontananza. Fedrag lo osservò allontanarsi senza lamentarsi per la sua mancanza d’educazione: forse era abituato al comportamento dei Naigh-Moor o forse era troppo stanco per aver anche solo voglia di parlarne. Alzò gli occhi al cielo, guardando attentamente le stelle del firmamento.
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«Buona fortuna, ragazzo» disse, tornando a fissarlo, prima di varcare la soglia della sua modesta abitazione. Dal si sentiva incredibilmente sicuro di sé in quel momento: da spacciato che si riteneva, era riuscito a trovare delle provviste ed aveva finalmente un percorso da seguire. Il ricordo di sua madre e Marcus erano una costante, ma, assieme ad essi, tornavano anche le ultime parole che si erano rivolti: forse il destino aveva voluto che uno solo di loro due si salvasse. Nella tristezza di quei giorni, quel semplice pensiero, anche se cinico ed egoista, lo rassicurava e gli dava la forza di muovere un passo dopo l’altro. Una cosa era certa: Marcus non sarebbe morto inutilmente e lui avrebbe portato a termine la sua fuga a qualunque costo. Sarebbe scappato in una grande città imperiale, avrebbe appreso l’uso delle armi ed un giorno sarebbe tornato al comando di nientemeno che una grande armata per vendicare quell’uomo che si era dimostrato disposto a sacrificarsi per lui. Ma adesso l’obiettivo principale era quello di raggiungere la montagna e trovare i cunicoli di cui aveva parlato Fedrag, null’altro. Accantonò qualsiasi altro pensiero, ponendosi come scopo solo ed esclusivamente quello di trovare le miniere, una volta raggiunto il Picco Muto. Quando il sole fece capolino, irradiando con la sua pallida luce la muta figura dell’elfo che ancora avanzava, Dal decise di fare una sosta e si guardò attorno. La tanto ambita meta gli sembrava molto più vicina della sera prima e poteva già delinearne i particolari e la forma con grande precisione; il terreno attorno all’elfo era mutato in una distesa di pietre ed erba secca che gli arrivava sino alla vita. Aguzzando la vista, il ragazzo notò che l’ambiente doveva essere all’incirca così fino ai piedi del monte, quindi niente di particolarmente faticoso. Slacciò con una mano la sacca che teneva legata alla vita, estraendo da essa la grossa pagnotta che il fattore gli aveva donato, e ne strappò un misero pezzo. Le poche provviste che recava con sé sarebbero dovute essere dosate con parsimonia, se voleva riuscire ad arrivare vivo a Shynastar. Bevve perciò una sola sorsata d’acqua, scacciando con tutta la grinta rimastagli la tentazione di ignorare la prudenza e soddisfare i propri bisogni. Riposò per un’oretta e si rialzò svogliatamente, riprendendo il cammino verso la montagna. Il caldo aveva ripreso a picchiare con violenza, tempestando l’elfo senza concederli tregua. Al tramonto lo sguardo cupo di Dal si tramutò in un sorriso di soddisfazione: la montagna era davanti a lui, massiccia ed imperiosa nella sua solidità. Subito cominciò a girarle attorno, facendo attenzione ad ogni particolare che potesse rivelarsi utile per trovare l’ingresso delle grotte. La felicità di aver raggiunto almeno il primo dei suoi obiettivi sbiadì però in fretta quando l’elfo, per quanto si sforzasse, non riuscì a trovare un’entrata per le misteriose miniere. Seccato, diede un violento colpo alla grossa roccia di fronte a lui, imprecando e dirigendo 69
lo sguardo altrove. Un’espressione sbigottita e terrorizzata comparve sul suo volto quasi istantaneamente: riusciva a scorgere nitidamente quattro cavalieri a qualche centinaio di metri di distanza dirigersi ventre a terra verso di lui, le lance ritte verso il sole, pronte a puntarsi contro di lui «Sheynt!» gridò, utilizzando un’imprecazione nella sua lingua madre per maledire i suoi inseguitori. Con una scatto, si staccò dalla pietra, girandosi su sé stesso e prendendo a correre freneticamente in direzione opposta. La disperazione raddoppiò le sue forze, i muscoli delle gambe contratti in uno sforzo costante, la testa volta a controllare gli inseguitori sempre più vicini. Scavalcò i massi che gli si paravano dinnanzi, salendo scompostamente su una cresta rocciosa alla sua sinistra. La scalò faticosamente, portandosi circa due metri più in alto dei Naigh-Moor: di certo i cavalli non sarebbero riusciti ad inerpicarsi fin lassù ed avrebbe avuto l’occasione di rifugiarsi sulla montagna o addirittura valicarla prima che i suoi inseguitori chiamassero dei rinforzi ed accerchiassero completamente la montagna. Per un attimo credette di averla fatta franca ed un sorriso sardonico comparve sul suo volto, ma quest’ultimo fu istantaneamente scacciato da un dardo che saettò a due dita dalla sua testa, rimbalzando sulla nuda roccia. Nel frattempo, i cavalieri si erano avvicinati ancora di più, le balestre attentamente imbracciate. Ben presto, altri tre dardi seguirono il primo, senza che nessuno di essi, fortunatamente, lo colpisse. Ma la tensione e la stanchezza giocarono comunque un brutto scherzo allo sfortunato elfo oscuro. Spaventato dalla salva di quadrelli, allentò la presa delle mani, sbilanciandosi e perdendo l’equilibrio. Con un grido di esultanza dei cavalieri, cadde all’indietro, rovinando malamente giù per il fianco della montagna, trascinando con sé sassi e ciottoli. Incautamente, i quattro rallentarono l’andatura, lasciandosi andare a commenti, battute e minacce rivolte al ragazzo, che ormai credevano impossibilitato a muoversi o comunque rassegnato alla cattura. Dal non era in effetti in condizioni molto migliori. Sdraiato a pancia in giù, faccia a terra, cercava faticosamente di rialzarsi, tossendo polvere e terra riarsa. Piantò le mani sul suolo, rialzando a fatica il proprio corpo malconcio, coperto di graffi e ammaccature dalla testa ai piedi. Flesse i muscoli della braccia e sollevò il viso, sporco di sangue e polvere grigiastra, i denti serrati in una smorfia rabbiosa su cui colava il sangue vivo delle ferite, le sopracciglia profondamente inarcate sotto ai quali brillavano due luci color rubino. Si alzò in piedi, fissando per un attimo gli incuriositi Naigh-Moor, prima di voltarsi ancora e riprendere a correre, come se i numerosi colpi subiti non fossero mai esistiti, spostandosi verso una distesa di erba secca, ingiallita ancor di più dalla luce solare ed alta abbastanza da nascondere un bambino. Si chinò sul torso e sulle ginocchia: sapeva che non avrebbe potuto vincere i propri inseguitori in un confronto 70
diretto; la sua sola possibilità di salvezza consisteva nel filar via a testa bassa e confondersi con l’ambiente. Con una risata, gli inseguitori spronarono nuovamente i cavalli verso di lui; nei loro occhi si poteva leggere la loro ferocia: inseguire un avversario inerme, in quattro contro uno e armati di tutto punto era un divertimento, come cacciare una volpe. Non c’era né vigliaccheria né disonore ai loro occhi. Dal sapeva che L’avrebbero sicuramente raggiunto se non avesse escogitato un piano abbastanza buono da permettergli di svicolare via. Ma la sua testa era vuota, completamente vuota. A conoscenza di questo triste dato di fatto, prese tempo, sperando che l’erba alta servisse ad offrirgli abbastanza protezione da dargli tempo di ragionare. Tuttavia, continuava a sentire le grida dei cavalieri dietro di sé sempre più vicine: addirittura, a volte, gli sembrava che i destrieri arrivassero ad alitargli sul collo, a piantare gli zoccoli nelle sue orme prima ancora che esse prendessero forma. Terrorizzato dall’idea, si voltò indietro, continuando a correre senza guardare dove mettere i piedi: un gesto imprudente. Di colpo sentì la terra scomparire di colpo, mentre cadeva in una profonda buca, urtando violentemente contro le pareti di quest’ultima. Quando toccò il fondo gli sembrò quasi una liberazione. Alzò il capo di scatto, osservando il cerchio di cielo sopra di lui considerevolmente piccolo. «E due…» mormorò sprezzante, mettendosi faticosamente a sedere, strascinando le gambe indolenzite dopo il busto. Strinse gli occhi, piantando gli incisivi nel labbro inferiore e massaggiandosi fulmineamente la gamba destra. Sentì le vesti umide attraverso i guanti ed abbassò lo sguardo sull’arto, scostando la mano: il grosso taglio che si era procurato nel bosco qualche sera prima era notevolmente aumentato di dimensioni e di profondità, a causa delle continue botte prese nelle cadute. Facendosi forza, tentò di ignorare il dolore e si alzò in piedi, tenendo sollevata la gamba destra e appoggiandosi alla parete rocciosa accanto a lui. Si guardò attorno, alla ricerca di una via d’uscita da quella trappola, tornando ogni tanto ad alzare la testa, conscio di non poter uscire arrampicandosi, specialmente in quelle condizioni. Il suo sguardo si fissò allora su un budello scavato nella roccia a circa un metro d’altezza: possibile che l’entrata delle miniere fosse quella? Dal decise di non porsi la domanda e vi si infilò rapidamente, sperando che almeno fosse abbastanza profondo da nasconderlo agli occhi degli inseguitori, qualora avessero trovato la buca in cui era caduto. Strisciando sul ventre si spinse nelle profondità del tunnel, trascinandosi in avanti con le braccia a ritmo frenetico, troppo impegnato a scappare per pensare alla stanchezza o alle ferite. Il budello però sembrava non finire mai, sottraendogli rapidamente tutte le energie che era riuscito ad accumulare. Per interminabili minuti la percorse, scacciando con noncuranza vermi, ragni ed altri esserini che la abitavano, senza mai voltarsi indietro, accompagnato unicamente dal fiatone che non riusciva a trattenere in 71
alcun modo e con le membra sempre più lente e pesanti. Dei quattro cavalieri non si udiva più alcun rumore: forse lo stavano ancora cercando in superficie. Qualunque cosa fosse accaduta, era molto gradita al Naigh-Moor. Pian piano, il tunnel parve allargarsi, fino a terminare bruscamente in una caverna più ampia. Dal Jin si gettò rapidamente fuori dal cunicolo, scivolando a terra e protendendo le mani davanti a sé per attutire la caduta, quindi si alzò nuovamente in piedi, appoggiandosi alla roccia. Stremato, tirò il fiato: la luce filtrava attraverso piccole aperture che comunicavano direttamente con l’esterno e settori che avevano ceduto. Erano spiragli miseri, ma sufficienti per mostrare come la grotta fosse stracolma di cianfrusaglie di ogni genere, tutte in pessimo stato. Pale malandate, picconi spezzati, barili marci e perfino un piccolo carrello in ferro arrugginito, deragliato fuori da delle rudimentali rotaie. Quello non era certo l’ingresso principale, ma Dal aveva raggiunto il suo scopo, nonostante la sfortuna: le miniere!
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VII. Longevità
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al si staccò con riluttanza dalla parete di pietra dopo qualche minuto, muovendo qualche passo all’interno della grotta: questa si diramava in tre profondi cunicoli bui e impregnati di fetore, di cui non si vedeva la fine. Stava per decidersi ad esplorarne uno quando una fitta alla gamba ferita lo fece desistere dall’idea: non ce l’avrebbe fatta. Se anche forse sarebbe stato in grado di avanzare ancora un poco, poteva essere ancora più rischioso che fermarsi e riposare. Qualunque creatura poteva annidarsi per quelle miniere, pronta ad approfittare delle condizioni dell’elfo per avere la meglio su di lui. Ma era anche vero che, se fosse rimasto lì, i suoi inseguitori avrebbero potuto attraversare la galleria e raggiungerlo. Chiuso fra due fuochi, decise di non darsi pensieri per i cavalieri e si sedette a terra, appoggiando la schiena alla dura pietra. Crollò dalla stanchezza in pochi minuti, dimentico del pericolo che correva. Un Nano, stando a quel che dicevano le leggende che conosceva, avrebbe probabilmente trovato quel giaciglio estremamente comodo, ma lo stesso non valse per Dal Jin. Quando si svegliò, qualche ora dopo, la prima cosa che avvertì fu un tremendo mal di schiena che aveva sostituito il dolore alla gamba. Con una smorfia si sollevò in piedi, scuotendosi i vestiti con veloci pacche, nel tentativo di scacciare la polvere. Controllò con cura in che stato fossero le sue ferite, osservando con gioia che di esse non rimanevano ormai che croste e lividi, ma niente di più. Persino dalla gamba, che rappresentava la sua prima preoccupazione, gli vennero segnali incoraggianti. Solo una lesione superficiale, nulla che non sarebbe guarito da sé, col tempo. Consumò quindi un rapido pasto, esaurendo le misere scorte che portava con sé e decidendo poi quale dei tre tunnel imboccare: dopo averli scrutati attentamente, comprese che poteva solo confidare nella buona sorte e si infilò in quello centrale, aguzzando la vista per abituarsi all’oscurità. Ogni tanto si voltava indietro, nel timore che i NaighMoor avessero attraversato la piccola galleria, e si affrettava ad accelerare il passo per sparire dalla vista di un possibile (ma molto poco probabile) pericolo alle spalle. Ben presto, quel timore scomparve dalla sua mente e l’elfo tornò a concentrarsi sulla strada che aveva preso, accortosi che quella sarebbe stata l’unica cosa a cui avrebbe dovuto pensare d’ora in avanti. Il cunicolo era angosciosamente ripetitivo ed appariva tutto uguale, fatta eccezione per le diverse condizioni in cui era ridotto e per i vari mucchi di ciarpame ai lati. Poi, di colpo, l’ambiente mutò notevolmente e l’elfo si trovò in una sala in cui sembrava esserci un po’ più di luce, forse a causa del chiarore delle pietre che 73
formavano pavimenti e pareti. Infantilmente, Dal credette subito che quel materiale fosse thail, ma poi vi passò una mano sopra e si rese conto di quanto fosse assurda quell’ipotesi: semplice pietra, solo di un colore leggermente diverso dal solito. Lasciò scivolare distrattamente i polpastrelli sui grossi massi con un sospiro, meditando su cosa si aspettava di fare un semplice ragazzo, senza viveri, sperso in una miniera di cui nemmeno aveva mai sospettato l’esistenza, braccato da quattro cavalieri che non avrebbero impiegato molto tempo a trovarlo - sempre che non si perdessero anche loro - e che si illudeva ancora come un bambino che metalli preziosi come quello si trovassero così in bella vista, a portata di mano di chiunque fosse passato di lì. Chiuse il pugno e lo sbatté contro la roccia, soffocando un’imprecazione frustrata, mentre la sua mente ripercorreva per l’ennesima volta l’accaduto dei giorni precedenti: in così poco tempo, tutta la sua vita era cambiata. Rifletté su quanto sarebbe stato più saggio organizzare la fuga nei minimi particolari, forse nemmeno fuggire. Dopotutto, cosa ci avrebbe perso? Gli occhi si fecero bassi: la risposta era a portata di mano anche per il più grande imbecille di tutto il mondo. Marcus. Era fuggito in tutta fretta per lui. Per quel prigioniero apparentemente insignificante, più un relitto che un essere umano, ormai. Un relitto che aveva saputo però dar prova di sé stesso e si era dimostrato più utile di lui nel loro tentativo di scappare. Adesso era morto. Tutta quella fretta non era servita a nulla. Si chiese se almeno la sua fuga sarebbe andata in porto. «No» si rispose semplicemente, scuotendo la testa. Sarebbe morto anche lui, inutilmente, di stenti o per mano dei suoi inseguitori. E la morte di Marcus sarebbe stata più inutile della loro fuga. Una vampata di rabbia lo scosse violentemente: riaprì gli occhi, serrò i denti e allontanò la mano dal muro con un colpo secco. Il viso accigliato di quel ragazzo avrebbe per una volta impressionato lo stesso Marcus: non avrebbe lasciato nulla per intentato. Dal riprese a camminare, con determinazione. Aguzzò la vista nell’oscurità, cercando un varco fra le mura, un altro corridoio da attraversare per cercare di raggiungere la tanto agognata uscita. Lo trovò. Anzi ne trovò due: due tunnel apparentemente identici, poco distanti l’uno dall’altro, separati da una scritta malridotta su una pietra chiara, fredda come il marmo. Scrutò attentamente l’iscrizione, cercando di trovare un’indicazione. «Rune naniche…» sussurrò seccato, lasciandosi poi sfuggire un’altra bestemmia: non aveva idea di come tradurle. Portò una mano alle tempie, cercando di riflettere e le sue dita percepirono qualcosa che lo fece sobbalzare: il diadema! Non si ricordava nemmeno di portarlo ancora. Ringraziò gli dei di non averlo perso durante la caduta del giorno prima o nel bosco, mentre imperversava il temporale: in cuor suo sentiva che quell’oggetto sarebbe stata la sua salvezza, anche se non sapeva il perché. La 74
risposta a questa domanda gli arrivò quando i polpastrelli sfiorarono la superficie dorata del cerchio. Vi erano delle iscrizioni sopra. Galvanizzato, se lo tolse rapidamente e lo osservò con attenzione, cercando di delineare bene le lettere nel buio della sala. Alcune erano rune elfiche, che, ovviamente, conosceva fin troppo bene, ma altre non avevano significato per lui: rune naniche, come quelle sulle indicazioni. Si sforzò di trovare una traduzione che legasse le parole nel suo linguaggio alle altre, ma inutilmente. I due alfabeti erano nettamente differenti e solo un esperto avrebbe tradotto correttamente le iscrizioni. Ed esperti lì non ce n’erano. Rigirò nervosamente il cerchio dorato e per un istante una tenue luce brillò sull’interno del diadema: vi era un’altra scritta, in caratteri più piccoli e presentava frasi coerenti sia in elfico che nanico. Forse l’una non era la traduzione dell’altra, ma non aveva nulla da perdere. Dal fuoco nasce la vita L’incisione in elfico diceva questo. Dal non perse tempo a chiedersi che senso avesse, non gli importava: voleva solo uscire da lì. La scritta in nanico presentava meno caratteri e provò quindi a confrontarla con l’iscrizione sulla pietra e con sua gioia notò una runa presente in entrambe le diciture. «Potrebbe significare “fuoco”… O “vita”… O, ancora, “nascita”.» si domandava l’elfo nella sua mente, il volto contratto in una smorfia dubbiosa «Oppure potrebbe essere anche solo un articolo…». Maledisse il fatto di non aver avuto modo di studiare il nanico, mentre si rimetteva il cerchio sulla testa, lasciandolo scivolare fin sopra le orecchie appuntite. Osservò la forma della runa che tanto lo interessava: sembrava un triangolo isoscele a cui qualcuno aveva allungato i lati uguali, che proseguivano ancora per un po’. Non sapeva perché, ma una voce gli diceva che significava “nascita”. Forse la forma della runa lo aveva gettato su quella strada, ma una lunga serie di conferme si apriva nella sua testa: nascita, quindi inizio, forse portava ad un’altra entrata alla montagna, abbastanza lontana da permettergli di aggirarla senza essere scoperto. Stava ancora riflettendo, quando scoprì che i suoi piedi l’avevano già portato qualche metro dentro il tunnel e non accennavano a fermarsi. Un lieve sorriso comparve sulle sue labbra, mentre spingeva le gambe in avanti ad un’andatura più rapida. Il cunicolo era anch’esso dannatamente buio, l’umidità della montagna sembrava assumere forma fisica e la temperatura cominciava curiosamente ad avanzare. La paura e il caldo cominciarono ad avere effetto sul Naigh-Moor: piccole gocce di sudore comparvero numerose sulla sua fronte, i muscoli venivano talvolta scossi da lievi tremiti, il fiato si fece pesante. Di colpo un rumore secco si udì provenire dal tunnel, proprio davanti a Dal. Questi trasalì, ripensando alle storie udite sulle creature che abitavano le profondità di montagne e miniere: fastidiosi Goblin, corpulenti Orchi o torreggianti colossi… 75
Per non parlare dei draghi, ovviamente. Per un istante fu dell’idea di tornare indietro, di imboccare un altro cunicolo o addirittura di aggirare la montagna in superficie. Ma lì doveva esserci qualcuno ad aspettarlo, il cunicolo non poteva essere stato ignorato dai quattro cavalieri e forse l’uscita era davvero davanti a lui. Si fece forza ed inspirò profondamente: avrebbe affrontato qualsiasi cosa pur di abbandonare quelle grotte. Tuttavia, la sua mano cercò istintivamente l’elsa della spada e le dita vi si chiusero intorno. Cercando di fare il minor rumore possibile, la sguainò, riprendendo poi a procedere con passo più silenzioso che poteva, reggendo la lama con la destra. I secondi scorrevano lenti come i passi dell’elfo e talora si poteva di nuovo sentire quel rumore, anche se ogni volta sembrava essere leggermente diverso. Poi, una luce rossastra comparve in fondo al tunnel. Dal aguzzò la vista, tentando invano di delineare i contorni di ciò che la provocava. Avrebbe dovuto avere paura, ma non ne ebbe. E non per coraggio o determinazione, ma per curiosità. Ci sono poche creature più curiose degli elfi in questo mondo e Dal onorava almeno in questo la sua razza. L’andatura si fece più tranquilla quando il giovane notò che c’era una stanza lievemente illuminata davanti a lui. «Probabilmente un cratere infuocato.» mormorò a voce bassa, con una smorfia sulle labbra «E quindi la runa significava fuoco…». Sospirò, certo del fatto che lì non avrebbe trovato niente, ed abbassò l’arma, pur tenendola ancora nella mano: i rumori dovevano essere quelli delle lingue di fuoco e lava che si agitavano nel cratere. Ennesimo errore. Avanzò con noncuranza, senza fare caso a ciò che aveva di fronte finché non fu all’interno della stanza. Vi era un mobilio scarno, ma ancora in ordine: sedie, tavoli, dispense ed un enorme fornace accesa, che scoppiettava allegramente, riempiendo di fumo il soffitto e le pareti rocciose. Ma soprattutto, una tozza figura magra e annerita che vi armeggiava intorno. La testa completamente calva, segnata da cicatrici ed ecchimosi vecchie quanto quelle miniere, il torace nudo, ancora poderoso ma al contempo magro da far impressione, la mani coperte da due guanti in cuoio pieni di buchi. La figura si voltò su sé stessa, imprecando in una lingua rozza e dura e pulendosi i guanti ai pantaloni laceri, mostrando un volto annerito dalla fuliggine ma chiaramente riconoscibile. Era un Nano, eccezionalmente vecchio e pimpante, nonostante fosse praticamente tutto una ruga. Una folta barba bianca - a chiazze nere - incorniciava una bocca sdentata e ingiallita e gli ricadeva in ciuffi sparsi sul petto nudo. Dal sgranò gli occhi, squadrando la figura senza credere a ciò che vedeva. Di colpo, la creatura ruppe il silenzio, parlando con voce roca ed evidentemente intossicata dal fumo. «Ah, bene! Le forniture per gli elfi oscuri sono lì» annunciò con tono tranquillo, le labbra inaridite contratte in un ghigno soddisfatto, indicando un grosso sacco rosicchiato dai topi e coperto di polvere che stava in un angolo. 76
Dal lo osservò stralunato per un lungo istante, mentre quello si posava le mani sui fianchi e si drizzava completamente sulla schiena tutto contento, aspettandosi probabilmente dei complimenti e un pagamento. «Prego?» fu invece tutto quello che riuscì a dire il Naigh-Moor, bloccato in un’espressione ebete. Il Nano sgranò gli occhi a sua volta, per poi richiuderli e assumere un’espressione decisamente infuriata. Strinse i pugni con forza dentro i guanti e li alzò fino alla brutta faccia, con gli occhi di chi è sul punto di scoppiare dalla rabbia. «Ho detto che le tue dannate forniture sono pronte, muso di carbone! La volete vincere la guerra o no?» gridò, arruffandosi spasmodicamente la barba ispida. «Guerra?» ripeté ancora più incredulo il “muso di carbone”, senza nemmeno pensare all’offesa appena subita. «La guerra, la guerra, la guerra!» esplose quello, prendendosi la barba in due lunghi ciuffi e cominciando a saltellare avanti e indietro per la stanza come un ossesso, ripetendo decine di volte quelle due parole. Il Naigh-Moor fece scattare istintivamente un braccio a protezione del volto quando il Nano cominciò a dare di matto, poi lo fece scivolare lentamente lungo il fianco, osservando con gli occhi fuori dalle orbite i movimenti della secolare creatura. Un Nano può vivere trecento anni, quattrocento al massimo, e di certo non contiene tutte quelle energie. E di che guerra stava parlando? Dal lo fissò urlare e correre in cerchio ancora qualche secondo, poi cercò di assumere un’espressione indifferente. «Le mie scuse… Nano.» esitò prima di quella parola, dato che non trovava un termine adatto a quello strano soggetto «Ma… Le notizie… Non corrono veloci e quindi… Di che guerra parli?». Il Nano gli corse davanti, fermandosi di fronte alle sue ginocchia e strattonandogli il mantello. «La guerra! La guerra contro i bastardi Elfi! Contro gli oppressori Umani!» sbraitò, serrando i denti e sputacchiando continuamente dopo ogni frase. Dal si allontanò da lui con una smorfia, posando la mano sulla sua testa calva e spingendolo indietro. La guerra di cui il Nano parlava doveva essere nientemeno che la Grande Guerra, il conflitto che aveva sconquassato l’Impero e le ultime vestigia del regno degli Elfi. Solo che la Grande Guerra si era consumata circa trecento anni prima e si era conclusa con l’ennesima sconfitta degli elfi oscuri: il Naigh-Moor ebbe così la prova che il Nano era molto poco informato, oltre che completamente pazzo. «Ah, sì! La guerra…» balbettò, cercando di essere convincente «Sì, li… Li ammazzeremo tutti, d’accordo?».
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«Sì, ammazzali, distruggili, divora le loro carni, sevizia le loro donne, mutila i loro bambini! Devono crepare tutti come cani, dobbiamo avere la nostra vendetta!». Il Nano era fuori di sé per la furia e l’eccitazione. Ogni tanto aggiungeva qualche altra parola, ansimando con quanto fiato contenesse il suo corpo rinsecchito , poi di colpo decise di prendere il sacco che aveva indicato prima e se lo issò con una facilità straordinaria sulle spalle. «Prendile, prendile!» esclamò euforico, posandolo davanti ai piedi di Dal Jin, causando uno sgradevole clangore metallico. L’elfo alzò gli occhi rossi al soffitto, sbuffando scocciato. «Quella roba non si sarà rovinata dopo più di tre secoli?» domandò, guardando di sfuggita il sacco mangiucchiato. «Rovinato? Il mio thail non si rovina, carbonella! Io sono il fabbro supremo, sono il migliore, il Re dei Nani, sì! Sarò il Re dei Nani!» ribatté quello, ricadendo in un’altra crisi di follia. Stavolta Dal non gli diede peso: udita la parola “thail” si era chinato ed aveva aperto fulmineamente il sacco, venendo investito da una nube di polvere. Corazze di thail! Il sacco era pieno di armature di preziosissimo materiale. «Puoi farne altre, fabbro?» chiese senza indugi, guardando speranzoso il vecchio. Il Nano si fermò di colpo, osservando il Naigh-Moor con lo sguardo di un bambino a cui è stato promesso un giocatolo che voleva da anni. «Altre? Altre? Sì, le faccio, le faccio! Ora prendi quelle e torna fra un po’, eh?» esclamò eccitato, iniziando subito a rovistare fra i mucchi di minerali ammucchiati in ogni angolo della stanza e fischiettando una vecchia nenia nanica. Il Naigh-Moor sorrise euforico e riprese a rovistare nel sacco. Vide subito una corazza di splendida fattura e protese le mani verso di essa, stringendola e tentando di sollevarla. La alzò a fatica fin davanti al suo viso, poi chiuse gli occhi, lasciandola cadere a terra con un sonoro colpo secco: il thail è tristemente famoso per essere piuttosto pesante, oltre che molto prezioso e resistente. Imprecò nella sua lingua natale, quindi alzò la testa verso il Nano, ricordandosi il particolare più importante della sua situazione. «Scusa, puoi dirmi dov’è l’uscita da queste miniere?» mormorò, mentre tentava di infilare di nuovo la corazza nel sacco. «Mi ha appena ingaggiato un Naigh-Moor con un diadema in testa, non posso distrarmi» rispose istantaneamente quello. «Sì, ma quel Naigh-Moor sono io» replicò con un sospiro Dal. «E allora sai già che devo restare concentrato». «Ma io devo uscire di qui!». 78
«Io no». «E la tua roba, quella per fare la guerra? È troppo pesante, devi aiutarmi a portarla fuori di qui». «Chiedi al Naigh-Moor con il diadema, deve essere ancora qui intorno». Si potrebbe scrivere un libro solo sugli scambi di battute che vi furono tra i due. Si è persa la memoria di tutte quelle frasi sconnesse pronunciate dal Nano, ma una cosa è rimasta indelebile nella memoria di ogni popolo: alla fine l’elfo oscuro dovette rassegnarsi a lasciare lì le corazze ed a cercarsi da solo l’uscita. Fu così che decise di imboccare un altro cunicolo che partiva da quella stessa stanza, nella speranza di uscire vivo (e mentalmente incolume) da quelle miniere.
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VIII. Padri e figli
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a sala del palazzo rifletteva delle pallide luci generate dalle numerose fiaccole attaccate alle pareti che ardevano silenziosamente, ravvivate di quando in quando dalle servitrici prescelte del tiranno. Le larghe colonne in pietra recavano incisioni eleganti e suadenti, il pavimento era liscio come uno specchio appena lucidato, sculture squisite e bellissimi arazzi enfatizzavano la regalità e il gusto artistico di chi vi dimorava. In realtà, Dal Gadejli preferiva molto la sala delle armi a quel magnifico salone, ma sapeva che in quel momento doveva stare lì. Seduto sul suo trono alto circa cinque metri, il gomito sinistro che reggeva la testa stanca posato sul bracciolo, attendeva notizie riguardo alla fuga di un apparentemente insignificante schiavo, giocherellando con le lunghe trecce divenute anzitempo bianchissime. Al suo fianco, schiena ad un’imponente colonna in marmo nero, stava il fido consigliere e primo luogotenente del sovrano di Armalak, Netork Assahama. Il tiranno lo voleva sempre accanto quando doveva prendere una decisione di qualunque tipo o attendeva notizie, come in questo caso. C’è chi diceva che i glaciali occhi del luogotenente avevano conquistato la fiducia del tiranno per mezzo di qualche sortilegio, ma era molto più probabile che i due fossero ben consci di quanti vantaggi traevano dal cooperare nella maniera più stretta possibile. Era risaputo che Netork era inoltre un maniaco delle istituzioni di Armalak e che andasse così fiero della propria posizione da non separarsi mai dalla sua uniforme da battaglia, la stessa che stava indossando in quel momento; abbastanza fanatico, poi, da tenere così curate le sue tre creste rossastre, simbolo gerarchico, che arrivava a farsi tagliare i capelli una volta al giorno, mantenendole sempre impeccabili in ogni dettaglio. Gadejli invece non sembrava affatto interessato a far vedere chi era: chiunque nei reami di Nog Tuluth lo avrebbe riconosciuto. L’attesa aveva però un notevole effetto su di lui: si passava incessantemente le lunghe dita sul viso, ripercorrendo le lunghe ed esili cicatrici, tre per occhio, che partivano dalla metà della fronte notevolmente ampia e scivolavano sinuosamente fin sotto gli zigomi, rivelando la sua passata appartenenza alla setta degli untori. Poi, di colpo, la porta si aprì lentamente, distogliendo i presenti dai loro pensieri e concentrandoli su di essa. La sagoma di Lohidran comparve sulla soglia, non annunciata. Senza parlare, il principe fece il suo ingresso nel salone, chiudendo la porta dietro di sé e camminando sul lungo tappeto violaceo che portava al trono su cui sedeva suo padre. Quando fu a qualche metro da lui (più del solito, dal punto di vista di Gadejli), si inginocchiò sulla gamba destra, piantando poi 80
una mano a terra e posando l’altra sulla coscia piegata, il capo abbassato in segno di rispetto. Gadejli attese per qualche secondo, cercando vanamente di scrutare nel viso del figlio le parole che ancora non si era deciso a pronunciare. «Ebbene?» chiese alla fine, stizzito, ormai sicuro dell’esito fallimentare dell’impresa. Lohidran deglutì, chinando ancora di più la testa per la vergogna, gli occhi verdi chiusi, il corpo percorso da continui tremiti di paura. L’ira del tiranno era giustamente temuta da ogni abitante del regno, incluso egli stesso. «Porto notizie dall’unità mandata in cerca dello schiavo.» mormorò alla fine, prendendo un po’ di coraggio «È fuggito attraverso il deserto assieme al suo compagno Umano. Quest’ultimo è stato raggiunto e ucciso, ma Dal Jin è sfuggito alle nostre reti». «Sfuggito?» domandò secco l’altro, chinando di un poco il capo ed inarcando un sopracciglio «Un misero schiavo, giovane ed inesperto, è sfuggito ai miei soldati? Alla Legione della mia città?». «Ci ha teso un tranello e si è spacciato per morto» rispose il principe, sentendosi così piccolo da poter essere schiacciato da un topo. «E non lo hai cercato? Deve attraversare un deserto a piedi e tu hai un numero di cavalieri più che sufficiente per trovarlo» ribatté sprezzante il padre. Ogni parola di Gadejli appariva al figlio come una spada che lacerava gli esili drappi di scuse che si parava davanti, uno dopo l’altro, mettendo sempre più a nudo la verità, il suo fallimento. Dentro si sé sentiva l’impeto di rispondere, di motivare le sue azioni, di elencare le varie possibilità, ma la sua voce non rispondeva ai comandi, bloccata com’era dalla vergogna. «Ha… Ha ucciso un esploratore.» balbettò poi con voce insicura «E deve essersi impadronito del suo cavallo». «Idioti!» scoppiò l’altro, scattando in piedi «Vi fate ammazzare da uno schiavo quasi disarmato, a piedi, quando portate con voi il miglior equipaggiamento disponibile e cavalcate destrieri d’eccezione!». Lohidran strinse gli occhi e i denti, affondando la testa nelle spalle come a scomparire nell’alto bavero del mantello. Avrebbe voluto trovarsi in qualunque altro posto, anche in mezzo ad una battaglia in cui la sconfitta era scontata, ma non lì. «Io… Lo riprenderemo, padre» disse infine, sollevando il capo e fissando Gadejli con un puerile sguardo speranzoso. Il tiranno rimase a guardarlo inespressivo per qualche secondo, quindi si voltò di profilo e si allontanò dal centro della sala, dirigendosi verso la navata di sinistra. Lì stavano in piedi le schiave predilette ed esclusive del sovrano NaighMoor, tutte nella solita posizione, la mano destra sopra l’altra, unite poco sotto il bacino, ferme come statue, gli occhi bassi ed immobili puntati verso lo stesso 81
punto. Ognuna di esse portava vestiti di straordinaria regalità, diademi dorati o argentati cingevano loro le fronti lisce, gioielli e pietre preziose ornavano i loro corpi levigati. Gadejli si diresse con passo indifferente verso una di esse, scelta a caso, seguito dallo sguardo impaurito del principe e da quello freddo e glaciale del luogotenente, che era rimasto immobile per tutto quel tempo, le braccia conserte e le labbra serrate. L’elfa oscura, una ragazza che ancora non si era affacciata del tutto alla maturità, non fece una grinza: il bel viso, totalmente ovale, non rifletteva alcuna emozione, la pelle marmorea, i lunghi capelli chiari, attorcigliati in una treccia che toccava quasi terra, e gli occhi dorati la rendevano più simile ad una statua che ad un essere vivente. Un sorriso malizioso comparve sul viso del tiranno quando fu di fronte a lei. Delicatamente, le sollevò il volto, posandole l’indice sotto il mento, in modo che i loro sguardi si incrociassero. «Vedi questa fanciulla, Lohidran? » domandò, prendendo a carezzarle suadentemente il lungo collo con il dito indice «Lei mi dà piacere durante la notte, durante il giorno, quando lo desidero». Il viso della ragazza si illuminò di un sorriso, chiaramente sollevata: era luogo comune che il tiranno punisse o addirittura uccidesse le sue serve senza un motivo, solo per soddisfare il proprio sadismo. O, almeno, senza un motivo che loro riuscissero a cogliere. Gli occhi imperturbabili di Netork si chiusero nel vedere quel sorriso e l’elfo scosse la testa. «Però…» aggiunse Gadejli, assumendo un’espressione decisamente più dura e facendo scattare la mano verso l’alto, afferrando la ragazza per i capelli «Posso fare a meno di lei». La concubina emise un piccolo grido di dolore e portò istintivamente le mani alla testa, ma quando sentì le dita ferree del sovrano, le ritrasse terrorizzata, iniziando a piangere disperatamente. Il tiranno la trascinò dietro di sé, con una smorfia seccata sulle labbra, avviandosi verso una porta in legno e metallo in un angolo, unica macchia in quel salone meravigliosamente sfarzoso, sotto gli sguardi atterriti di tutte le altre cortigiane, tuttavia ancora immobili nella loro posizione. «Ho molte altre donne che obbediscono ai miei ordini, non sentirò certo la sua mancanza» esclamò, aprendo l’uscio con la mano. Ignorando il pianto continuo e le suppliche della ragazza, la scagliò nella stanza, che sembrava non essere altro che una buia cantina. Richiuse la porta dietro di sé, pulendosi distrattamente le mani l’una con l’altra e tornando a passi tranquilli verso il trono. Subito la ragazza si lanciò contro la porta chiusa, priva di serratura interna, sbattendo i pugni contro il legno e conficcandovi le unghie fra gli spasmi del panico. Un lieve brontolio la distrasse dalla sua lotta impossibile, facendola voltare tremante verso il punto da cui era provenuto. Una 82
creatura quadrupede, alta circa un metro e mezzo, emerse dalle ombre, gli occhi da rettile puntati contro la sventurata. Il corpo era di un colore rossastro ed era coperto da grosse scaglie ossee su tutto il dorso, una grossa coda uncinata sbatteva di tanto in tanto a terra, mentre i secondi passavano inesorabili. Poi, con un balzo ed un ruggito, la bestia si lanciò contro la ragazza, le fauci spalancate, mostrando una bocca munita di denti affilati e letali. Le grida di dolore e di puro terrore echeggiarono nel salone ed un brivido corse lungo la schiena di ogni concubina e del principe inginocchiato a terra. «Non faceva bene il suo lavoro. Proprio per niente, capisci?» disse con tranquillità il tiranno quando le grida furono cessate, sedendosi nuovamente sul suo alto trono «Così come ho abbastanza puttane per permettermi questo, posso fare la stessa cosa con te. Credi forse che essere figlio di Zadra e non di una di loro ti salverebbe in caso di un’altra delusione?». Il principe riabbassò la testa, consapevole che il tono schietto di Gadejli non mentiva. Certo, non si sarebbe limitato ad una debole salamandra, ma avrebbe avuto qualcosa anche per lui. «Ho altre cose a cui pensare che non preoccuparmi di te. Vedi di trovarlo in fretta e non fare ritorno se non portando con te la sua testa. Mi sono spiegato?» domandò il sovrano, non avendo ricevuto una risposta. «Sì, mio signore» rispose prontamente il figlio, anche se con tono basso e visibilmente insicuro: se non avesse risposto in tempo, probabilmente il padre non ci avrebbe pensato su due volte ad anticipare la sua esecuzione. «Ora sparisci. Netork e io dobbiamo parlare di cose importanti». Senza dire altro, Lohidran si sollevò in piedi, alzando lo sguardo fino ad incrociare quello gelido del luogotenente: chiunque avrebbe percepito l’odio del giovane principe nei confronti di quel soldato. La risposta di Netork fu un sorrisetto che durò al massimo un paio di secondi. Stracolmo di rabbia ed invidia, Lohidran si girò su se stesso, avviandosi a passi svelti verso l’uscita dal salone, aprendo nervosamente la porta e chiudendola con un colpo secco. Le guardie alla porta lanciarono entrambe un’occhiata impaurita nel vedere il principe così furente, gli occhi verdi sembravano lanciare fulmini e saette, tanta era la sua rabbia. Aveva sempre odiato Netork: un comune nobile di mezza tacca che aveva carpito la fiducia di suo padre durante le molte scorrerie che aveva effettuato. Il suo sangue regale chiedeva il suo posto, il posto che spettava al figlio del tiranno di Armalak: a fianco del sovrano. Ed invece quel posto era di un misero luogotenente, dotato di chissà quali poteri per meritarsi un titolo del genere. Intanto che meditava su questo, le membra scosse dall’ira, ebbe un’idea. Un sorriso soddisfatto comparve sulle sue labbra, mentre imboccava un corridoio laterale, ritrovandosi ben presto avvolto da un fumo di uno strano odore dolciastro. Un portone coperto di iscrizioni runiche e glifi conduceva alla 83
torre del castello dedicata a maghi e divinatori. Spinse la porta con la mano, ritrovandosi in una vasta sala cui erano collegate altre stanze più piccole, alcune di addestramento, altre residenze degli incantatori di corte. Un pugno di elfi oscuri conversava tra loro, discutendo sulle possibili sembianze di una creatura che, secondo le leggende, risiedeva nei più profondi inferni. Alla vista del principe, il loro dibattito terminò bruscamente in un veloce inchino. «Dov’è Fala Rhai?» domandò quello, secco, senza preoccuparsi di altro. Il dito indice di uno dei maghi si sollevò ad indicare una porta a cui era appesa una mano umana con tracciate sopra strane incisioni. Senza dire altro, Lohidran si voltò, lasciando gli stregoni alle loro insulse discussioni, e si diresse verso la porta, che aprì senza farsi tanti scrupoli. All’interno, una vecchia Naigh-Moor sedeva su di una poltrona in pelle di chissà quale animale, gli occhi puntati su un grosso volume dalle pagine ingiallite, imbrattato di milioni di annotazioni sconnesse e di parole scritte in ogni tipo di lingua conosciuta. Il viso dell’elfa, di un grigio opaco, che sotto una certa luce pareva possedere un’ombra smeraldina, impallidì nel vedere Lohidran entrare così deciso nella sua stanza e le dita chiusero il tomo nervosamente. Un’elfa, per quanto vecchia, resta sempre una creatura di rara bellezza e Fala Rhai non era da meno, anche se alcune rughe comparivano qua e là sul suo viso e di certo il suo corpo non possedeva più la forza e l’agilità di un tempo. «Ho bisogno del tuo aiuto, strega.» ordinò con durezza il figlio del tiranno, senza curarsi di chiudere la porta «Devi dirmi dov’è fuggito uno schiavo di notevole importanza per mio padre». Fala Rhai annuì lentamente, alzandosi in piedi e superando con deferenza Lohidran, sbarrando la porta con una grossa asse. «Voglio il massimo segreto su ciò che faccio» disse, con un tono così sicuro di sé che l’elfo non se la sentì di ribattere. Il principe sapeva che quella donna aveva abbastanza potere per far saltare l’intero castello e che quindi era meglio non contraddirla, anche se le era superiore nella scala gerarchica. Lasciò quindi che facesse ciò che voleva, muovendo poi qualche passo verso il centro della stanza, mentre osservava con la coda dell’occhio gli alambicchi, le pergamene ed i grossi volumi di magia che riempivano la stanza. «Ora avvicinatevi, mio principe» mormorò, restando ferma dov’era rimasta. Ancora una volta, il Naigh-Moor ubbidì, voltandosi su sé stesso e tornando dove era prima. Lo trovava dannatamente seccante, ma quell’umiliazione avrebbe portato i suoi frutti. Lentamente, la strega avvicinò le dita dalle lunghe ed affilate unghie alla fronte del principe, posandogli i polpastrelli sulle tempie. Senza obiettare, Lohidran osservò attentamente il volto dell’elfa, ora rilassato: la strega teneva gli occhi chiusi, come se dormisse, anche se probabilmente stava 84
cercando di capire di chi parlasse. I maghi sanno evitare molte formalità per ottenere le risposte che vogliono. Una piccola luce giallastra brillò per un istante lungo le dita affusolate della strega, che riaprì i grandi occhi stanchi. «Bene: Dal Jin, vostro fratello: l’avevo intuito.» un sorriso compiaciuto, quasi materno, comparve sulle labbra di Fala Rhai mentre pronunciava queste parole e si portava l’indice destro alle labbra, vagando con lo sguardo fra i vari libri «Ecco perché vostro padre è così interessato… Avrebbe dovuto ammazzarlo alla nascita, si sarebbe evitato molte rogne». Lohidran tacque, limitandosi a seguire i movimenti della strega, chiedendosi se l’ormai nota profezia fosse vera o se fosse invece una delle tante stupide leggende che circolavano nel mondo, di cui quasi tutte si rivelavano sbagliate. Nel frattempo, l’incantatrice aveva posato la mano su un volume di un vivace colore azzurro che spiccava tra tutti gli altri e aveva preso a sfogliarlo, cantilenando uno stornello del suo popolo. Ad un tratto un lampo illuminò gli occhi rossi della maga, che chiuse il libro e lo rimise con calma al suo posto. «Ora massimo silenzio.» ordinò imperiosa, puntando le mani davanti a sé «Ho bisogno di concentrazione». Senza nemmeno un cenno, il principe incrociò le braccia al petto, appoggiandosi alla parete, concentrato sulla strega. Fala Rhai attese che l’elfo prendesse posto, quindi congiunse lentamente solo i palmi delle mani, mormorando qualcosa in una lingua arcana. Il tono della voce andò sempre aumentando, le mani si allontanarono sempre più l’una dall’altra, mostrando una piccola sfera rossastra comparsa magicamente fra di esse. Il viso della strega era contratto in una smorfia di sforzo, accigliato, gli occhi chiusi, mentre quasi gridava le misteriose parole, fino a quando non cessò di colpo e la sfera perse il suo colore, assumendone uno più scuro. All’interno di essa, seppure in forme distorte, si poteva vedere un giovane elfo oscuro vagare per dei cunicoli bui, reggendo una spada in una mano. Con un sospiro, la maga lasciò ricadere le mani sui fianchi, avvicinandosi assieme al principe alla visione, per meglio guardare in essa. Dopo qualche muto attimo, Lohidran ruppe il silenzio. «Dov’è?» domandò, continuando a fissare la sfera. «In un posto in cui potete lasciarlo: le miniere naniche del Picco Muto» rispose con un sorriso la vecchia strega. «Perché dovrei lasciarlo lì?» insistette il principe, fingendo poco interesse. Fala Rhai lanciò un altro sospiro, dando le spalle all’elfo oscuro e allontanandosi dalla sfera, che scomparve rapidamente. «Sono miniere molto estese, abbandonate dagli inizi della guerra. Se non si perde, morirà per mano delle creature che le abitano adesso. Sono infestate di Bornock».
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Lohidran ripensò al suo primo incontro con quelle creature: strane bestie primitive dalle numerose varianti, prive di collo, con la testa piantata fra i muscoli pettorali. Gli era capitato di affrontarne di molti generi: alati, enormi oppure massicci come orchi; ognuna di quelle creature era decisamente esperta nell’infliggere un tipo sempre diverso di morte. Sorrise appena, immaginandosi che non avrebbe dovuto fare alcuna fatica, poi il suo ottimismo mutò di colpo. Già una volta avevano sottovalutato quello schiavo e lui gliel’aveva fatta in barba, raggiungendo addirittura quelle caverne. «Lo seguirò comunque.» incalzò con decisione, più per la paura di fallire che per desiderio personale «Puoi tornare ai tuoi pensieri, strega». Detto ciò, le volse le spalle e aprì la porta, tornando nel salone. Lo attraversò di tutta fretta, diretto verso gli alloggiamenti dei guerrieri. Li raggiunse dopo appena qualche minuto: un’altra torre del palazzo, abitata unicamente da guardie e soldati. Due spade incrociate sul portone robusto indicarono al principe che aveva raggiunto il posto che cercava ed entrò nella torre, senza preoccuparsi di bussare o perdersi in simili formalità. Varcò la soglia, senza fare caso ai soldati che si inchinavano al suo cospetto, diretto verso un guerriero che stava in piedi in fondo alla sala e lo osservava avvicinarsi. Quando Lohidran gli fu davanti, questi fece per inginocchiarsi, ma la mano salda dell’elfo lo afferrò per il collo, portando il suo viso davanti a quello del principe. Una vocina gli disse che il tiranno non si era dimostrato molto pietoso con il giovane. «Hai un lavoro da fare, Yanis.» sibilò Lohidran, avvicinando ancor più il viso turbato del capitano al suo «Lo schiavo è nelle miniere del Picco Muto. Prepara i tuoi uomini e fatti trovare fuori dal palazzo, quando sei pronto». «Ma, mio signore…» balbettò il confuso soldato «Gli uomini che sono qui sono stremati, di ritorno da una missione che aveva incaricato loro di svolgere il vostro giustissimo padre, e gli altri stanno ancora cercando quel fuggitivo». «Questi vermi possono scordarsi il riposino!» esclamò, voltandosi a guardare i soldati nella stanza con disprezzo, tenendo ancora il soldato per il collo, quindi si rivolse di nuovo a lui, assumendo un tono che fece gelare il sangue nelle vene al malcapitato «Yanis, forse non ci siamo capiti: devi trovarlo, se vuoi vivere, capito? Trova Dal Jin!». Gridò le ultime parole con quanta voce avesse, scagliando il capitano a terra ed uscendo rapidamente dalla sala, sotto gli sguardi attoniti dei soldati.
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IX. Disgustose creature
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utti i tunnel di quelle maledette miniere sembravano uguali: la stessa oscurità, gli stessi pali di sostegno piantati sempre al solito modo, la stessa umidità. Ogni tanto un rumore prodotto da qualche piccola creatura priva d’importanza si udiva, ora vicino, ora lontano. Il Naigh-Moor lottava continuamente contro la tentazione di tornare indietro e gettare il folle Nano nella sua fornace, sia per la sua indisponenza, sia per gli assurdi ragionamenti che aveva formulato nei minuti che avevano trascorso assieme. Un folle è pericoloso, un folle psicopatico e guerrafondaio è peggio. Se forse un giorno quell’individuo fosse servito a qualcuno, non avrebbe mai fatto niente di socialmente utile. Intanto, però, quel Nano era riuscito a sopravvivere per secoli in un ambiente inospitale, solo, dimenticato da tutti. O forse abbandonato da tutti, era più probabile. Abbandonato per la sua aggressività o semplicemente per la sua pazzia? Se fosse divenuto così dopo che tutti l’avevano lasciato in quelle miniere? Senza rendersene conto, Dal aveva trovato qualcosa su cui riflettere nell’uggiosità e desolazione in cui si trovava. Qualcosa di addirittura più triste di quel luogo, che lui, seguendo le indicazioni di un vecchio contadino che poteva benissimo essere un suo nemico, stava cercando di attraversare. No, Fedrag non sembrava il tipo per quel genere di inganni. Era solo un uomo solo, come tanti altri, che cercava di vivere, o meglio sopravvivere, a discapito dell’era infelice in cui viveva. Un uomo come lui. Come lo era stato Marcus, come lo era quel fabbro. Sentì il bisogno di piangere come un bambino, ma ricacciò indietro le lacrime quando nemmeno avevano raggiunto gli occhi obliqui. Provava una pena enorme per quegli uomini, per sé stesso. Poi, una figura apparve nei suoi pensieri, un volto familiare e temuto: una faccia grigia, segnata da sei sottili cicatrici e con due lunghe trecce candide che ricadevano sulle spalle incredibilmente ampie per un elfo. Suo padre, tiranno di Armalak, uno dei più potenti sovrani dell’arida terra di Nog Tuluth: Dal Gadejli. L’odio si dilatò in lui a macchia d’olio: chiuse i pugni con decisione, aggrottando lo sguardo. I piccoli bagliori rossastri bruciarono in fondo a quelle sclere nere come l’inchiostro. Se ci poteva essere un responsabile per tutto ciò, era proprio suo padre. E, se c’era qualcuno di impossibile da eliminare per la salvezza di tutti, era di nuovo lui. Ma, se in quella insulsa profezia, se nelle misere parole di quell’indovina c’è una briciolo di verità, Dal poteva comunque farcela. Era già stato un miracolo raggiungere quelle caverne vivo. Un miracolo che gli era costato la vita di Marcus, però. E forse anche più di una. Shadyla, sua madre, Ezela, la ragazza 87
che non amava, ma a cui non avrebbe comunque mai fatto del male, forse anche Fedrag, che poteva essere stato smascherato. Quattro vite potevano essere già state spazzate via come cenere al vento senza che lui se ne fosse accorto. Forse sarebbe accaduto lo stesso, senza che un ragazzino privo di esperienza alcuna decidesse di fuggire tutto ad un tratto, organizzando alla meno peggio un piano per scappare e trascinare con sé un prigioniero malridotto. Una magra consolazione. Tutta la determinazione di poco prima era nuovamente scomparsa; quei pensieri non gli davano tregua. Un rimorso pesante tonnellate lo schiacciava, opprimendolo senza via d’uscita, lasciandolo concentrato solo su come liberarsene. Troppo concentrato. Superò più volte altri passaggi, puntando davanti a sé non per sua scelta, ma perché nemmeno si accorgeva di quello che gli stava attorno. Un cupo brontolio lo strappò alle sue riflessioni, precipitandolo sulla realtà con tale violenza che quasi sentì il dolore dell’impatto. Aguzzò gli occhi e drizzò le orecchie, senza udire o vedere null’altro. Un brivido gli corse lungo la schiena, facendolo tremare di pura paura. «C’è qualcuno?» domandò in preda alla paura. La risposta fu un grugnito sommesso, seguito da un appena percettibile bagliore giallastro. Sì, qualcuno c’era, anche se non aveva risposto a parole alla sua domanda. Qualcuno che magari avrebbe fatto felice un avventuriero più abile di lui nell’impugnare un’arma. E possibilmente meno impaurito. Con un movimento il più veloce possibile, fece saettare la mano all’elsa della spada, sguainando la lama con un lieve grido rabbioso, più per darsi coraggio che per altro. Non ebbe molto effetto, se non quello di far infuriare all’istante la creatura: non appena la mano scura dell’elfo toccò l’impugnatura, la bestia caricò in avanti, correndo con velocità superiore ad un comune Umano, a testa bassa, avrebbe detto chiunque. Ma la testa era davvero bassa, affondata nelle larghe spalle coperte di spunzoni ossei decisamente pericolosi. Dal avrebbe voluto scappare, avrebbe voluto trovarsi in qualunque altro luogo, anche nella sala delle torture di Armalak, ma non lì: anche se non lo sapeva, la sua somiglianza con Lohidran era notevole, in questo. Le sue gambe, però, non sembravano dello stesso parere. Fermo come un statua di sale, nemmeno tremava, gli occhi sbarrati fermi sul mostro. Poi, quasi senza rendersi conto di quello che faceva, afferrò la spada con entrambe le mani, la sollevò sopra la sua spalla destra in orizzontale e si lanciò urlando contro di lui. Quando fu di fronte a quella deforme creatura, il busto proteso in avanti, sentì dentro di sé che quello era il momento di calare la lama sul corpo della bestia. E così fece: un violento fendente si abbatté sull’essere, incagliandosi però fra le spine dorsali, anziché raggiungere la molto più tenera carne. Tuttavia, fu sufficiente a 88
sbilanciarlo, in modo che la violenta artigliata con cui attaccò il Naigh-Moor fosse facile da evitare anche per un combattente al primo, vero scontro, come appunto il giovane. L’elfo scartò a destra e la bestia lo sorpassò, dandogli le spalle nude; Dal seppe sfruttare questa mossa, risollevando velocemente la spada e colpendo il mostro con un attacco veloce, lasciandogli un largo, ma poco profondo, squarcio nella schiena. Un guerriero più attento avrebbe saputo sicuramente sfruttare meglio quell’occasione, evitando di far arrabbiare ancora di più quell’essere, che ruggì di dolore, portando una mano alla ferita e osservando il sangue sulle dita, prima di voltarsi furibondo verso Dal. Ora i due potevano guardarsi attentamente. La bestia era un Bornock, come aveva predetto la strega, Fala Rhai. Il brutto muso segnato da tagli e cicatrici di ogni genere spuntava nel petto, nudo come il resto del corpo scolpito da muscoli ben allenati. Dal si sentì gelare nuovamente il sangue nelle vene, pensando a quante poche possibilità avrebbe avuto con quella bestia, anche se era riuscito a ferirla. Ai piccoli occhi del Bornock invece, il suo avversario sembrava solo un intruso dall’aspetto strano, ma probabilmente di buon sapore, sotto quelle vesti impolverate. L’elfo oscuro lo squadrò per un istante di troppo, istante che permise alla creatura di scagliarsi nuovamente in avanti con un ringhio, aggrappandosi alle braccia del Naigh-Moor con violenza e serrandogli i polsi come una morsa d’acciaio. Dal aprì convulsamente le mani, lasciando cadere la spada che reggeva e dando al Bornock l’occasione che aspettava. L’essere aprì a dismisura la grossa bocca, mostrando una fila di denti gialli ed acuminati, prima di serrare con forza le fauci sul braccio destro del ragazzo. Dal gridò di dolore, chiudendo gli occhi e alzando la testa, mentre provava spasmodicamente a sfuggire alla presa della bestia. Il sangue scuro fluiva a fiotti fuori dalla ferita, bagnando il brutto muso della creatura, che sembrava essere decisa a non mollare il giovane per nulla al mondo. Il Bornock lo sbatté con forza contro la parete rocciosa, causandogli decine di graffi alla schiena e immobilizzandolo sempre più: l’elfo sentì le forze venirgli meno. Vide la fine sempre più vicina, strisciare lungo le sue gambe prima di soffocarlo con una stretta ancor peggiore di quella del Bornock. Ma la disperazione rinforzò la volontà e annebbiò il dolore. Con un grido, alzò la gamba destra, piantando il tallone contro l’inguine della bestia e scagliandola lontana con un colpo violento. La creatura fu costretta a staccarsi dalle braccia del Naigh-Moor, finendo ruzzoloni qualche metro indietro. Nella sua caduta, rovinò contro uno dei pali di sostegno, atterrandoci sopra con tutto il suo peso. Il legno vecchio crepitò e si piegò su se stesso, spezzandosi con un rumore acuto. Nello stesso istante, il Bornock si rialzava in piedi, pronto a combattere nuovamente, cosa che Dal non era in grado di fare. Inginocchiato su una gamba, la mano che cercava di tamponare la grossa ferita sul braccio, pregava solo che facesse in fretta. 89
Tutto avvenne in una manciata di secondi: la volta in pietra, priva del suo sostegno, crollò tutta assieme, costringendo molti altri pali a rompersi a metà sotto il peso dei massi che cadevano, schiacciando sotto il loro peso la perversa creatura. Il Naigh-Moor non stette ad aspettare che la frana lo raggiungesse: con uno sforzo terribile per uno nelle sue condizioni, si alzò sulle gambe malferme e corse via, raccogliendo la spada con la mano sinistra mentre si lanciava ventre a terra verso l’oscurità del cunicolo. Un rombo assordante lo seguì per parecchi metri, scagliando macigni e pietre verso il sempre più vicino elfo oscuro. Poi, lentamente, si addolcì, lasciando dietro di sé solo una grossa nube di polvere e una montagna di ciottoli a bloccare l’accesso. Dal smise di correre solo quando non udì più assolutamente niente. Allora si fermò, ansimante, la mano sinistra che impugnava la spada, l’altra ancora ferma sulla ferita sanguinante: faceva un male dannato. Si inginocchiò a terra, stremato, cercando di calmarsi, di dominare il dolore. Tossì violentemente quando la polvere arrivò al suo olfatto e alla sua vista, offuscando i cunicoli, già non chiaramente visibili. Doveva andarsene di lì al più presto, anche se non sapeva dov’era l’uscita. Doveva continuare a cercare, ignorare il fatto che una possibile strada era stata appena bloccata. Riprese a camminare a fatica, coi i denti stretti; le gambe, la spada e persino il diadema sembravano farsi sempre più pesanti ad ogni passo. Ma avrebbe continuato, non avrebbe fatto caso né a quello né al sangue che sgocciolava a terra di quando in quando. Così sperava, almeno. Ben presto, raggiunse uno dei tunnel che prima non aveva notato. L’espressione sbalordita che gli comparì sul volto denotò tutta la sua sorpresa, poi la bocca mutò in un ampio sorriso di vera gioia e addirittura in un’allegra e gioiosa risata. Sempre ridendo, lo imboccò, troppo felice per pensare che altre creature come quel Bornock potevano trovarsi in quel luogo ad attenderlo. «C’è abbondanza di pali e pietre, dopotutto» si disse, incapace di formulare un pensiero più savio. Un altro cunicolo identico ai precedenti, tanto per cambiare. Ma la monotonia delle miniere sembrava non avere effetto su di lui. Una troppo ingenua felicità lo stava conducendo in avanti a testa alta, muovendo il suo corpo malridotto per lui. Persino il morso della bestia sembrava essere diventato molto più sopportabile. Poi, nonostante tutti i suoi sforzi, comprese che avrebbe dovuto comunque riposare. Si appoggiò alla parete, lasciandosi quindi scivolare fino a terra, dove giacque, cadendo preda del sonno e della stanchezza nel giro di pochi minuti. Nemmeno lui si rese conto di quanto dormì: il tempo non è una cosa facile da misurare quando si è dentro una montagna, incapaci di vedere il sole o la luna. Tutto quello che seppe è che quando si svegliò non si sentiva certo meglio. Una piccola chiazza scura a terra indicava il punto in cui il sangue era gocciolato 90
durante il suo riposo. Portò una mano al braccio ed osservò il morso, adesso sostituito da croste e da un profondo squarcio scuro che cominciava a stento a cicatrizzarsi. Rabbrividì ripensando alla sofferenza che quella creatura gli aveva e gli stava facendo provare. Adesso però il dolore, nonostante non lo sentisse a meno che non sfiorasse la ferita, gli rendeva quasi impossibile muovere l’arto. I graffi sulla schiena, in compenso, non gli dolevano più in nessun modo, trattandosi solo di semplici ferite superficiali. Facendo leva sul braccio sano, si alzò in piedi, cercando di ergersi in posizione eretta quanto più potesse. Barcollando, si sforzò di fare qualche passo avanti, avanzando penosamente. Di colpo la gamba destra cedette sul ginocchio, facendolo sbilanciare e mandandolo a sbattere contro la dura roccia con il braccio martoriato. Lanciò un grido, agitandosi convulsamente, la mano sulla ferita, prima di essere costretto ad inginocchiarsi dal dolore lancinante. Una piccola lacrima bagnò gli occhi serrati nello sforzo del Naigh-Moor. «Massì, lasciati andare» sembrava dirgli il sangue mentre gorgogliava nelle vene, facendo pressione per superare la fragile crosta. Dal annuì col capo, come per rispondere a quel consiglio: l’avrebbe fatto, avrebbe ceduto. Restava solo da capire cosa sarebbe successo se l’avesse fatto e, soprattutto, in cosa consisteva farlo. Riaprì gli occhi, guardandosi attorno come un bambino, sentendosi più piccolo di quanto non fosse mai stato. Anche se fosse stata giusta, la parola “arrendersi” non esisteva, non poteva esistere. Arrendersi a cosa? Al dolore? Lasciarsi cadere a terra ed aspettare che il braccio guarisse? Sarebbe morto di fame e di sete, come minimo. Ridacchiò, trovando in quella risatina la forza di risollevarsi nuovamente in piedi. Se avesse perso anche la forza di volontà, non sarebbe mai uscito di lì. Perlomeno, non ne sarebbe mai uscito vivo. Strinse i denti, zoppicando vistosamente, tanto che a prima vista si sarebbe creduto che l’elfo fosse stato ferito ad una gamba, anziché ad un braccio. Nuovi tunnel comparvero davanti a lui, condannandolo a fare altre scelte, a fidarsi dei suoi sensi o dell’istinto. Più volte si ritrovò di fronte a dei vicoli ciechi, pareti nude e grezze di nessuna apparente importanza. Trascorse così un altro giorno senza storia: Dal cercò invano di riuscire a dormire placidamente, ma il suo braccio lo obbligò a svegliarsi di continuo, destato dalle violenti fitte che provenivano dalla ferita. Quando decise di desistere dal suo intento, erano comunque passate alcune ore ed anche se l’elfo non era certo molto riposato, le sue condizioni gli permisero di continuare la sua esplorazione delle miniere. In pochi giorni, era però decisamente dimagrito, le labbra erano riarse per la sete e le sue membra rispondevano a malapena ai suoi comandi. Ancora poco tempo e sarebbe indubbiamente crollato. Il misero equipaggiamento che portava con sé sembrava essersi tramutato in 91
pesantissimo piombo, la carenza di viveri gli offuscava la vista fino a fargli girare la testa, a confonderlo, a fargli scegliere strade che aveva già preso. Ma, ad un tratto, si ritrovò senza quasi accorgersene in una zona che non aveva indubbiamente mai visto: l’aria era calda ed un forte fetore di putridume e sporcizia raggiunse immediatamente le sue narici. Dal si spinse in avanti, incuriosito, facendo attenzione a muoversi nel massimo silenzio possibile. Balzò agilmente fra le pietre ed i grossi massi, scivolando come un ragno sopra di essi, acquattandosi ogni qualvolta udiva un rumore sospetto. Strani rumori sommessi si susseguivano continuamente; il cattivo odore crebbe a dismisura. Intuiva cosa avrebbe trovato là. Nonostante questo, non riuscì a resistere alla tentazione di avvicinarsi ancora: si lasciò cadere da una sporgenza rocciosa, andando a nascondersi dietro un macigno di notevoli dimensioni. Poggiandovi sopra le mani, sollevò la testa, scrutando nelle tenebre lo spettacolo che gli si parava davanti. Decine di Bornock di ogni taglia e aspetto dormivano, sdraiati a terra con la brutta bocca mezza aperta che lasciava colare la bava. In un angolo, la carcassa di una strana creatura, forse un insetto gigantesco, troneggiava sopra un cumulo di ossa e marciume. Le bestie ronfavano tranquillamente, probabilmente sazie dopo il pasto, i corpi nudi sporchi di sangue e polvere. La maggior parte sembrava appartenere alla solita sottorazza di quello che lui aveva già affrontato e sconfitto con grandi fatiche: la razza più comune, la più debole. Ma altri erano totalmente diversi: alcuni erano più larghi e gobbi, altri erano dotati di un grosso paio d’ali cartilaginee, incapaci di volare nel vero senso della parola, ma comunque in grado di spiccare balzi molto più lunghi del normale. Infine, vi era un Bornock di dimensioni mastodontiche, come minimo il triplo del normale, rivolto a pancia in giù, adornato da numerose cicatrici e segni di riconoscimento nella società di quelle depravate creature. Non appena lo vide, Dal deglutì e fece per voltarsi e prendere un’altra strada, ma qualcosa lo fermò. Qualcosa di caldo, rumoroso e molto grosso. Qualcosa su cui lui poggiava, senza pensarci, le sue mani. Con suo sommo orrore, l’elfo vide il “masso” rotolarsi, brontolare sonoramente e scivolare a qualche metro di distanza. Lunghi artigli prominenti fuoriuscivano dalle enormi zampe, una cresta di spine di almeno mezzo metro spuntava sul dorso enorme, sorretto da quattro robusti arti, ed un busto poderoso in cui sporgeva un muso disgustoso con una bocca enorme, un grosso naso simile a quello di un pipistrello e due piccoli occhi circolari letteralmente conficcati in una fronte da cui spuntavano tre grossi corni. Il mostro aprì gli occhi, osservando distrattamente il NaighMoor tremante, senza provare nessun interresse particolare per lui, quindi si accasciò di nuovo, ignorandolo completamente. Dal si sentì mancare dalla gioia: avrebbe voluto gridare a tutte quelle creature disgustose che l’essere l’aveva trascurato, che era vivo e vegeto e che sarebbe 92
uscito da quelle grotte. Fortunatamente la ragione ebbe il sopravvento e l’elfo oscuro si voltò su sé stesso, scoprendo che le sue gambe tremavano come foglie al vento, rallentandogli notevolmente i movimenti. Prese quindi a sgusciare di nuovo fra le pietre, deciso ad allontanarsi il più silenziosamente possibile. Raggiunse la sporgenza da cui prima si era lasciato cadere al culmine dell’eccitazione, entusiasta per essersi salvato. Ma quando l’ebbe raggiunta, un ruggito sorpreso lo fece voltare verso la distesa di Bornock addormentati: la creatura era adesso ritta sulle quattro poderose zampe e si agitava selvaggiamente, chiamando a gran voce le bestie che giacevano a terra. Dal non rimase a vedere lo svolgersi degli eventi: scavalcò la grossa roccia e prese a correre a perdifiato, conscio che se non fosse riuscito a trovare l’uscita al più presto sarebbe finito fra quella montagna di cadaveri che aveva visto. Le grida si susseguirono una dietro l’altra man mano che i Bornock si svegliavano e cominciavano ad inseguirlo, ululando selvaggiamente. Il Naigh-Moor sentiva il cuore battergli come un tamburo e la ferita al braccio era diventata solo un piccolo particolare perfettamente trascurabile. Incurante di ogni altra cosa, correva come un pazzo per i cunicoli, aspettandosi di vedersi piombare addosso una di quelle bestie alate o quell’immenso mostro da un momento all’altro. Non si preoccupava nemmeno di imprecare, tanta era la sua foga e la sua paura. Una lunga scalinata in pietra gli fece salire il cuore alla bocca: l’uscita! Forse. Scelse di non dare ascolto a tutti i pensieri pessimistici che cercavano di affollare quella mente troppo preoccupata sulla fuga per dare spazio ai particolari. Salì i gradini a tre a tre, ansimando come uno stantuffo, col sudore gelido che gli colava copioso dalla fronte. Davanti a lui però non vedeva altro che il buio della scalinata, nessun segno di luce, mentre se si voltava a guardare indietro poteva scorgere benissimo la marea di creature che lo seguivano, urlando e schioccando le fauci nelle fetide bocche. Sembrava non esservi nessuna via d’uscita, quando il nitrito di un cavallo riaccese in lui la speranza: nessun cavallo sarebbe potuto sopravvivere nelle miniere, quindi l’uscita era proprio davanti a lui. Ma allora perché non vedeva alcuna luce? Continuò nella corsa senza farci caso, la testa bassa, i muscoli delle gambe tesi come le corde di un liuto. Quando ebbe fatto qualche altro metro, si accorse di essere fuori: era notte fonda, una notte illuminata da migliaia di minuscoli bagliori nel cielo stellato. Si perse a contemplare quel cielo che non aveva visto da troppo tempo, senza fare caso ai destrieri neri come ombre che scalpitavano selvaggiamente, né tanto meno i loro padroni. Una mezza dozzina di Naigh-Moor bardati alla battaglia lo attendeva pazientemente, le armi ancora nel fodero, le mani sulle briglie, gli occhi soddisfatti puntati sul giovane fuggitivo. Dal Jin calò quindi lo sguardo su di loro, osservandoli con incredulità e rinnovato terrore. Uno di loro, un guerriero che portava un elmo adornato da decine di piccole rune scintillanti, si 93
fece avanti, senza proferire parola. Il ragazzo non si trasse indietro: non poteva scappare, non adesso. Il comandante del gruppo lo guardò divertito, deciso a dire qualcosa che colpisse i suoi subordinati. Aprì la bocca per parlare, ma la sua espressione si trasformò in una maschera di orrore e stupore: i Bornock stavano uscendo a fiumi dalle miniere, le fauci spalancate, gli artigli pronti a colpire. Si avventarono sui cavalieri Naigh-Moor disarcionandoli, senza far caso a quanti dei loro simili cadevano sotto le lame dei guerrieri terrorizzati. Il guerriero dal ricco elmo sfoderò all’istante una grossa scimitarra a due mani, falciando con scioltezza quante creature gli si avvicinavano. Dal colse il momento giusto. Attese che i Bornock che attaccavano il capitano si fermassero inorriditi per qualche istante, quindi balzò da dietro la sella sul grosso cavallo dell’ufficiale. Senza dargli nemmeno il tempo di fiatare, lo spinse violentemente, facendolo rovinare a terra con la grossa scimitarra ancora in pugno, e afferrò le redini che prima reggeva il suo avversario. I Bornock lo fissarono allibiti, quindi spostarono gli sguardi malvagi sul guerriero a terra: doveva essere molto più facile da ammazzare, adesso. Si lanciarono contro di lui, dando l’occasione allo schiavo di voltare la cavalcatura imbizzarrita e dirigerla a spron battuto lontana dalla battaglia. Il capitano appiedato sibilò un’imprecazione, ghermendo con una sola occhiata Dal, i suoi uomini che stavano cadendo come mosche e le immonde creature che lo stavano attaccando. Con un grido, sollevò la scimitarra e si lanciò nel bel mezzo della mischia. Frattanto, preso dalla frenesia, il ragazzo fuggiva a tutta velocità, scavalcando le ondate di creature che gli si paravano davanti, sguainando la spada e agitandola sopra la testa, menando di quando in quando un fendente ad una creatura e gridando con quanta voce aveva, cercando di aprirsi un varco tra le fila dei mostri. Scansò una bestia alata con un colpo del pomo della spada, bloccandola nel suo balzo e facendola cadere anch’essa a terra con le mani a coprire il muso sanguinante. Quello fu l’ultimo ostacolo che gli si presentò. Scoraggiati dalla troppo elevata velocità dell’elfo oscuro, i Bornock lo lasciarono fuggire, concentrandosi sui cavalli e sui Naigh-Moor che restavano in vita. Dal Jin sorrise: era fatta, ancora una volta.
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X. Le strade di Shynastar
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al non si voltò a guardarsi indietro nemmeno per un istante, sia per l’impellente desiderio di abbandonare quella montagna che per l’orrore di vedere la fine che avrebbero fatto i condannati cavalieri elfi oscuri. Curvo sopra la sua nuova cavalcatura, si godette quei momenti di libertà in uno stato di traboccante felicità: il villaggio di cui Fedrag aveva fatto nome si trovava dritto davanti a lui, dato che riusciva a vedere chiaramente la linea orizzontale fra mare e cielo che segnava l’orizzonte e quindi la meta da raggiungere. Per sua fortuna, la sua città natale, Armalak, si trovava parecchio vicino al mare, confine naturale che gli avrebbe lasciato alle spalle i ricordi della schiavitù e soprattutto i suoi inseguitori. Shynastar, tradotto nella lingua corrente, ha il significato di “grande goccia”, uno dei termini con cui i Naigh-Moor indicavano mari e oceani: quella grande goccia sarebbe stata la sua salvezza. Sempre che laggiù non vi fossero stati altri soldati ad aspettarlo, cosa molto probabile: i villaggi al confine di Nog Tuluth erano infatti normalmente abitati sia da elfi oscuri che da membri di altre razze. Questi ultimi venivano però tenuti in stato di schiavitù o comunque di netta inferiorità dai loro padroni dalla pelle grigia; era di queste persone che Dal aveva bisogno per fuggire da quella terra maledetta. Chiunque di loro sarebbe stato ben lieto di aiutare un esule in fuga, nella speranza che, una volta radunati assieme, questi reietti tornassero e li conducessero lontano da lì. Nessuno era però mai tornato indietro a farlo. Presto ogni illusione di quei poveretti sarebbe svanita, anche se gli esuli avessero cominciato a fuggire a frotte, lasciando spopolate le proprie città. Immerso nei suoi pensieri, Dal continuava a galoppare senza preoccuparsi di nient’altro. Di colpo, il cavallo si fermò ansimante, crollando sul fianco dopo pochi secondi, senza un nitrito. L’elfo lottò per togliere i piedi dalle staffe, riuscendo a liberarsi e spiccando un salto un istante prima che la creatura toccasse terra. Rotolò su sé stesso, cercando di ritrovare l’equilibrio, riuscendo solo a risvegliare il dolore al braccio. Digrignò i denti, portando la mano sinistra alla ferita, soffocando caparbiamente la voglia di fermarsi e non rimettersi in cammino finché il morso non fosse altro che un ricordo, e chiuse gli occhi con violenza, tenendoli così per un tempo tanto lungo che quando li riaprì dovette faticare per riadattare la sua vista all’ambiente circostante. Si alzò faticosamente, allontanando lentamente la mano dal braccio e mettendosi ad esaminare il destriero sdraiato a terra, che respirava affannosamente e con intensità sempre maggiore. Dal non tardò a notare la causa di quella così brusca caduta: il petto dell’equino era segnato da un profondo taglio che doveva essersi 95
allargato con la corsa, causato indubbiamente dallo scontro con i Bornock. Il sangue rosso acceso dell’animale macchiava adesso l’erba ingiallita tutt’intorno, formando una pozza che andava espandendosi inesorabilmente. Forse, in altre circostanze, quel cavallo poteva essere salvato, cosa che non sarebbe stata comunque facile, ma quella non era certo la situazione migliore per farsi simili domande. L’unica cosa sicura era che l’elfo non aveva fortuna con gli animali. Sospirando, sguainò la spada, sollevando gli occhi al cielo: era già la seconda volta che era costretto a quello. Uccidere cavalli feriti ed incapaci di difendersi non era per niente divertente. Posò con attenzione la punta della lama dove sapeva esserci il cuore del cavallo, quindi conficcò con un colpo violento l’arma nelle carni della sfortunata cavalcatura. La bestia nitrì selvaggiamente, sollevando la grossa testa in un ultimo spasmo mortale, quindi il muso ricadde contro il terreno, con un tonfo. Piantando uno stivale contro la carcassa del cavallo, Dal ritrasse la spada, osservando in un muto silenzio il sangue che gorgogliava fuori dalla ferita, quindi pulì rapidamente la lama con uno straccio, rinfoderandola poi con estrema attenzione. Perquisì attentamente la sella prima di allontanarsi, arraffando le provviste e le poche monete che il soldato si era portato con sé. Con la giusta foga di chi è stato per giorni senza mangiare e bere, si avventò sul cibo del capitano, masticando carne cruda mentre riprendeva la sua marcia verso Shynastar, dimentico dell’incidente avvenuto. Raggiunse il villaggio portuale l’indomani, in una classica giornata soleggiata e radiosa: sembrava che gli Dèi avessero preso a volergli bene tutto ad un tratto, magari per premiarlo della riuscita della sua fuga dalle miniere. Persino il braccio non gli dava più molti problemi: riusciva infatti a muoverlo quasi come se non fosse mai stato leso. La prima impressione che ebbe di Shynastar non fu piacevole: un mucchio di baracche e capanne di legno, costruite qua e là su strade coperte di polvere e sporcizia. Qualche relitto umano giaceva fra l’immondizia: alcuni avevano addirittura la pelle estremamente pallida e ratti e mosche banchettavano allegramente con i loro cadaveri, come se nulla fosse. Curiosamente, nessuno dei morti o dei poveracci era un Naigh-Moor. I pochi elfi oscuri sembravano vivere tranquillamente la loro vita, tenendo d’occhio le misere navi che attraccavano nel porto disastrato. Un piccolo bastione in pietra torreggiava su una scogliera non molto alta, su cui sentinelle dall’aria annoiata svolgevano le loro mansioni di ronda con terribile apatia: doveva essere molto che quella fortezza non veniva attaccata. D’altronde, chi avrebbe mai attaccato Nog Tuluth da quella posizione, finendo dritto fra le braccia della Legione di Armalak? Dal cercò di evitare gli sguardi dei passanti, facendo un giro di esplorazione per il piccolo villaggio, cercando di stabilire in quale luogo recarsi per chiedere di poter attraversare il breve tratto di mare. Se avesse sbagliato posto, si sarebbe 96
sicuramente ritrovato in catene nel giro di pochi giorni. Le uniche cose che non sembravano mancare in quel paesino di spelonche erano osterie, taverne e bordelli. La qualità di qualsiasi servizio offerto non doveva essere certo delle migliori, ma i Naigh-Moor non sono affatto famosi per cortesia ed ospitalità ed un marinaio reduce da un lungo viaggio avrebbe trovato di che divertirsi anche a Shynastar. Dal non aveva la minima idea di cosa fare, tanto che decise che avrebbe tentato la cosa più semplice ed ovvia da fare: chiedere informazioni. Si guardò attorno in cerca di un qualcuno di adatto, trovandolo in uno straccione Umano dalla lunga barba castana incolta, completamente calvo ed accasciato con la schiena appoggiata alla parete. Gli si avvicinò con fare indifferente, fissando il suo volto magro e gli occhi incavati, chiedendosi se dopo tanti giorni di stenti la sua faccia non fosse simile a quella dell’uomo. Accantonò le domande personali quando gli fu davanti e l’Umano alzò uno sguardo che sembrava chiedere qualche soldo verso di lui, senza parlare. «Cerco una nave per le terre d’oltremare» disse soltanto Dal, fissandolo con il tipico distacco di un elfo oscuro, sforzandosi di non farsi vedere implicato con quel miserabile. L’uomo sollevò un magro dito verso le navi ormeggiate nel porto, distogliendo per un istante i suoi occhi da quelli dell’elfo, prima di ritornarvi con un ghigno ingiallito sulle labbra. «Se tu non fossi chi penso io, non mi faresti domande così stupide» borbottò con voce rauca, raccogliendo un foglio accartocciato a terra e spiegandolo davanti al volto del Naigh-Moor. Era la prima volta che Dal appariva in un ritratto ed anche se l’artista era stato notevolmente abile, avrebbe preferito che la sua faccia non comparisse in un avviso di taglia. Dopo pochi secondi, il poveraccio rimise il disegno nel mucchio di sporcizia da cui l’aveva tolto, osservando divertito l’elfo e sfregando assieme pollice e indice, dimostrandosi ben disposto ad aiutarlo in cambio di qualche moneta. Con una smorfia, Dal si infilò una mano nella tasca in cui aveva messo i soldi trovati nella sella del capitano e offrì svogliatamente un paio di spiccioli all’uomo. Questi li afferrò fulmineamente, facendoli sparire nel solito punto dove teneva il disegno, quindi si sporse di poco verso il Naigh-Moor, facendo leva sulle gambe, più simili a stecchi che ad altro. «Vai all’Ancora Spezzata, al porto, e chiedi di Lokar all’oste» bisbigliò, prima di rivolgergli un inchino e fargli cenno di andarsene. Senza farselo ripetere, Dal si voltò su sé stesso e si diresse rapidamente verso la taverna che gli era stata indicata dal mendicante. L’aspetto dell’edificio era decisamente squallido, tanto da far rimpiangere le baracche che aveva oltrepassato. Muri di legno rosicchiati dai tarli, finestre prive di vetri e un caldo torrido caratterizzavano l’interno. Nessun Naigh-Moor 97
era presente, cosa che lo rese bersaglio di interesse per tutti i presenti, perlopiù tagliaborse e ladruncoli sempre pronti a far scoppiare una rissa per il minimo pretesto. Dal non fece loro caso, preso com’era dalla sua voglia di andarsene da quel villaggio, e puntò direttamente al bancone. L’oste sembrava essere più affamato dei suoi clienti: magro da far paura, con i capelli che non dovevano aver mai scorto un pettine e una pelle sporca come se ne vedono poche. Osservava l’elfo senza dire nulla, con la speranza che richiedesse una qualche consumazione. «Cerco Lokar» fu tutto quello che però gli domandò l’altro, appoggiandosi con i gomiti al bancone di legno. L’oste annuì sconsolato, indicandogli una piccola porta in un angolo della stanza afosa. Dal ringraziò con un cenno del capo, lasciando una piccola moneta all’uomo e spostandosi verso la porta. La aprì cautamente, bussando piano prima di entrare, facendo poi il suo ingresso in quello che prima di essere la stanza di quel Lokar doveva essere stato poco più che uno sgabuzzino per le scope. Su un letto disfatto in pessime condizioni, stava sdraiata l’imponente figura di un Mezzorco a torso nudo, con braccia grandi più del doppio di quelle dell’elfo e due piccole zanne prominenti dalla brutta bocca. Sangue umano e sangue di Orco riuniti in un solo, poderoso corpo. Se si fosse alzato in piedi, avrebbe sicuramente fatto ancora più impressione di quanta ne faceva su quel letto. Le numerose bottiglie vuote a fianco del giaciglio sembravano la spiegazione delle innumerevoli macchie di liquore ben evidenti sui suoi pantaloni. «Chiudi la porta e dimmi cosa vuoi» borbottò quello, fissando annoiato il Naigh-Moor in piedi sulla soglia, senza apparire minimamente stupito dall’improvvisa apparizione di quello sconosciuto. Il modo semplice, ma linguisticamente corretto, di esprimersi del Mezzorco sbalordì non poco Dal, che eseguì rapidamente l’ordine, facendo poi qualche passo verso il suo interlocutore. «Devo lasciare Nog Tuluth.» ammise dopo un attimo di esitazione, cercando di sembrare gentile «Mi è stato detto che voi siete in grado di aiutarmi senza che io corra troppi rischi». Lokar si limitò ad annuire; seccato, a giudizio di Dal. «Sei quell’esule che è scappato qualche giorno fa, allora.» Lokar ruppe infine il silenzio, sollevandosi a sedere «Per me va bene, posso portarti fino a Raidemark… Ma da lì in poi saranno solo affari tuoi». «So badare a me stesso» ribatté fulmineamente il Naigh-Moor, sentendosi sottovalutato dal Mezzorco.
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«Non mi interessa cosa sai fare e cosa non sai fare, mi interessa se puoi pagare. Mostrami quanti soldi hai, se vuoi passare» lo zittì, indicandogli un barile in mezzo alla stanza che doveva fungere da tavolo. Con un sospiro, Dal affondò le mani nelle tasche, svuotandole del denaro che aveva sottratto al soldato e posandole sulla botticella. Per quanto per lui fosse più di quanto avesse mai avuto in vita sua, non immaginava neppure lontanamente se potessero bastare o meno. Lokar fissò minuziosamente ogni moneta, con una smorfia sul viso, quindi fece cenno al Naigh-Moor di andarsene. «È il minimo… Ci avrei scommesso che non saresti arrivato a una moneta di più. Fatti trovare qui al tramonto» fu tutto ciò che disse, prima di tornare a coricarsi, gli occhi tuttavia ancora puntati sull’elfo, nel caso avesse avuto intenzione di riprendersi i suoi soldi. Senza obiettare, Dal diede le spalle al Mezzorco, aprì la porta e si ritrovò di nuovo nella stanza principale dell’Ancora Spezzata. Adesso nessuno gli dava più peso: sembravano tutti immersi nelle loro chiacchiere e nelle loro bevande. Nemmeno l’oste lo degnò di uno sguardo, mentre percorreva la stanza ed usciva all’aperto. Ma, non appena fu fuori, uno dei molti avventori presenti nella taverna si alzò in piedi silenziosamente, prendendo a seguire attentamente il giovane Naigh-Moor. Come pedinatore era piuttosto scarso, però: persino un ragazzo inesperto come Dal si accorse della sua presenza in pochi istanti. Sorrise appena: era scampato a pericoli che probabilmente quell’uomo non avrebbe mai affrontato in tutta la sua vita. Si sentiva sicuro di sé, abbastanza da voler mostrare all’uomo cosa sapeva fare: esattamente come qualunque altro elfo oscuro avrebbe fatto. Si insinuò in un vicolo, lasciando penzolare volontariamente le mani lungo i fianchi. Pochi passi all’interno della stretta strada e l’uomo aveva già estratto un lungo pugnale che doveva avere ben più di qualche anno. Senza una parola, cercò di colpire con una violenta pugnalata le spalle dell’elfo, col solo risultato di urtare col petto contro il gomito alzato di scatto di Dal. Colto di sorpresa, cadde a terra goffamente, dando occasione al Naigh-Moor di sfoderare la spada e assestargli un calcio alla mano che stringeva il pugnale. L’uomo ringhiò di rabbia e dolore e, costretto ad aprire la mano e a lasciar cadere l’arma, si trovò ben presto la lama dell’avversario a solleticargli la pelle del collo. Prese allora a tremare come una foglia, fissando a bocca aperta e occhi terrorizzati il giovane elfo dallo sguardo impassibile, in piedi davanti a lui. «Vi prego, nobile signore…» balbettò con la voce colma di paura «Scusatemi…Lasciatemi andare, vi prego!». «È un po’ tardi per chiedere pietà: pochi secondi fa cercavi di ammazzarmi» obiettò con cinismo Dal, senza sapere se essere infuriato o divertito. 99
L’uomo deglutì rumorosamente, sentendo la punta della spada sempre più prossima alla sua gola. «Per pietà… Ho famiglia! Ho una moglie e… Sette, no, otto figli!» riprese l’altro, mentre la sua paura aumentava ancora. Dal sapeva che aveva mentito: era una scusa troppo banale e inoltre quell’incertezza aveva tradito lo stupido ladruncolo. Avrebbe dovuto ammazzarlo come un cane, come si addice ad un comune Naigh-Moor, ma aveva scelto di non esserlo più. Senza una parola, allontanò lentamente la spada dall’uomo, continuando ad osservarlo. Lo sventurato rimase fermo a guardarlo ancora per qualche secondo, negli occhi la stessa disperazione di prima mescolata all’incredulità di quel gesto, quindi esplose in dozzine di patetici ringraziamenti, inginocchiandosi e baciando il mantello nero e sporco dell’esule. Con una smorfia di disgusto, Dal si distanziò dal borseggiatore, tirando il mantello via dalle sue mani. «Va» aggiunse infine, senza spostarsi ulteriormente. L’uomo si sollevò in piedi a fatica, raccogliendo il pugnale finito poco lontano, quindi fece un ulteriore piccolo inchino e si voltò, correndo a gambe levate in direzione opposta all’elfo. Dal, fermo come una statua di gesso, lo guardò scappare via finché non fu sparito oltre il vicolo. Non perse troppo tempo a chiedersi se avesse fatto bene o male: dopo pochi secondi si era già voltato e aveva ripreso a passeggiare per la stradina di Shynastar, la testa bassa, in mano la spada ancora sguainata. L’attesa per il tramonto fu la più lunga che il Naigh-Moor avesse mai provato: il sole sembrava appeso al cielo con un filo d’acciaio, deciso a starsene al suo posto per un tempo più lungo del solito. Quando finalmente si decise a tuffarsi nel mare, tingendo di rosso le squallide costruzioni del villaggio, Dal era ancora nei pressi del vicolo dell’agguato, dove aveva camminato avanti e indietro per ore, roso dal desiderio di andarsene. Non appena apparve la prima sfumatura crepuscolare, Dal si incamminò vero l’Ancora Spezzata a passo svelto, trattenendosi dal correre solo per il timore di dare nell’occhio più di quanto indubbiamente non aveva già fatto. Se fosse riuscito ad abbandonare Nog Tuluth, la sua fuga si sarebbe potuta definire riuscita in pieno. Sempre che far morire il tuo salvatore e lasciare al proprio destino tua madre, i tuoi conoscenti e un poveruomo che ti ha aiutato quando più ne avevi bisogno significhi un successo completo. Rallentò il passo, guardandosi indietro con il dubbio dipinto sul volto: forse il suo posto era quello. Forse doveva tornare indietro e cercare di fare qualcosa per le persone che si erano dimostrate amichevoli con lui. Già, ma cosa? Affrontare un intero regno da solo, quando aveva difficoltà a sconfiggere una stupida bestia primitiva come un Bornock? Scosse il capo, fermandosi 100
scoraggiato, le braccia che ricadevano inerti come stracci. Sentì ancora una volta il bisogno di mettersi a piangere dallo sconforto, ignorando tutti i passanti che già lo guardavano con espressione incerta. Chiese perdono, comprendendo quanto male aveva causato con quel suo gesto, quindi rialzò il capo, riprendendo a camminare seppur con un’andatura molto contenuta. Sarebbe tornato, un giorno, assieme ad un potere tanto grande da permettergli di sconfiggere il tiranno e di vendicarsi di quanti avevano arrecato dolore a lui e alle altre vittime dei suoi intrighi. Lo giurò su quello stesso sole che stava tramontando; lo stesso che fino a pochi giorni prima non aveva mai visto bruciare con tanta intensità. Raggiunse l’osteria pochi minuti dopo, guardandosi attorno e cercando di scorgere una qualche imbarcazione pronta a salpare, ma il suo sguardo fu invece catturato dall’imponente figura del Mezzorco, appoggiato con la schiena e la pianta di un piede alla parete in legnaccio, di fianco alla porta. Adesso che era in piedi e vestito, Lokar aveva l’aspetto di un terribile combattente, le grosse braccia nude, il busto coperto da un’armatura di cuoio raccogliticcia e indurita da placche in ferro a protezione di scapole e pettorali ed una grosso e pesante randello dall’aria brutalmente efficiente legato alla cintola. Inoltre, la notevole stazza (la sua altezza raggiungeva minimo i due metri e la sua larghezza doveva essere di quasi un metro, cosa che lo rendeva più simile ad un armadio che ad un essere vivente), le zanne giallastre e il torvo cipiglio facevano di lui una creatura che era sicuramente meglio avere come amica - o perlomeno come conoscente - che come nemica. Notò subito il Naigh-Moor fra le poche persone che circolavano in quel luogo e gli fece cenno di avvicinarsi. Lokar attese pazientemente che il ragazzo gli fosse davanti, quindi puntò il grosso dito verso le barche ormeggiate, in particolare verso un piccolo peschereccio dove due uomini dall’aspetto trasandato stavano in piedi, guardando incuriositi l’elfo elegantemente vestito, attirati inevitabilmente da quello strano diadema da donna che gli cingeva la fronte. Dal li osservò di sfuggita, maggiormente interessato alle condizioni della barca: si chiese ripetutamente se quel trabiccolo avesse avuto qualche possibilità di non ribaltarsi in mare aperto, cosa che lui riteneva sarebbe avvenuta. Il Mezzorco attese ancora qualche secondo, quindi abbassò il grosso braccio come svogliatamente, riportando l’attenzione dell’elfo oscuro su di sé: ripeteva quel gesto ogni volta che succedeva una cosa del genere, con terribile monotonia. «La barca è quella: non perdere tempo, prima te ne vai e meglio è» ordinò brusco, incrociando le braccia al petto e facendogli un cenno col capo, come ad indicargli di sbrigarsi. Dal non rispose, rinunciando a replicare per il comportamento non certo educato di Lokar, un po’ per il suo aspetto poco rassicurante, un po’ perché effettivamente neanche lui desiderava restare un minuto di più in quella scarna 101
cittadina. Si voltò, incamminandosi verso l’imbarcazione, cercando di celare l’emozione e la foga di mettersi a correre, di spronare i due uomini a partire in fretta. «Ehi!» lo richiamò d’un tratto il grosso Mezzorco, inducendolo a volgersi verso di lui, che adesso mostrava un sorriso fiducioso nella seppur brutta bocca «Buona fortuna, ragazzo. E non scordarti del vecchio Lokar, se un giorno tornerai indietro». Dal sorrise a sua volta, sollevando di poco un braccio in segno di saluto, quindi rivolse del tutto la sua attenzione alla barca, raggiungendola in qualche secondo: le parole di quell’uomo lo avevano nuovamente caricato di energia, inculcandogli sempre più nella testa l’idea di tornare davvero in futuro, com’era scritto nella profezia. Quando fu davanti alla piccola imbarcazione, i due uomini gli fecero gentilmente cenno di salire a bordo, senza però curarsi di alcuna formalità, mettendosi subito al lavoro per far partire il peschereccio. Una piccola vela, che doveva essere stata ricavata con stracci trovati chissà dove, fu spiegata al vento, quindi entrambi i pescatori imbracciarono due grossi remi ed uno dei due disincagliò la piccola ancora che teneva ferma la barca. Questa emise un lungo cigolio, sembrando che dovesse spaccarsi prima ancora di partire, poi, lentamente, dolcemente, scivolò sulle onde del piccolo tratto di mare , prendendo pian piano il largo. Aveva percorso solo pochi metri, quando un uomo, che sembrava sbracciarsi per richiamare l’attenzione dei tre a bordo, raggiunse correndo il molo, urlando come un folle. Nonostante il volto paonazzo, Dal non ebbe difficoltà a riconoscerlo: era il ladruncolo che prima gli aveva teso l’agguato, “l’uomo che non sapeva quanti figli aveva” e che l’elfo aveva scelto di risparmiare. Il NaighMoor fece cenno ai due uomini di fermarsi, rizzandosi poi in piedi verso l’uomo, indicandogli di parlare: l’imbarcazione si fermò fra i borbottii dei pescatori, che non volevano chiaramente tenere con loro quell’ospite ancora per molto. «Signore!» gridò nuovamente il ladro, fermandosi sul bordo del molo e mettendo le mani a coppa davanti alla bocca per far intendere meglio le sue parole «Fate attenzione! Un guerriero vi sta cercando e non tarderà a trovarvi!». Dal inarcò sinistramente un sopracciglio, nuovamente percorso dal timore di essere catturato, quindi si fece forza e domandò: «Chi è? Chi mi cerca?». «Un elfo grigio, come voi!» gli rispose l’altro, prendendo fiato prima di completare la frase «Un tizio con un elmo che luccica di tante lettere e che sembra appartenere alla Legione di Armalak!». L’unica immagine che si affacciò nella mente di Dal Jin all’udire quella descrizione fu quella del capitano dei cavalieri che aveva incontrato appena fuori dalle miniere e che era stato attaccato da tutti quei Bornock inferociti: 102
come poteva essersi salvato? È vero, per rivestire quella carica doveva sicuramente essere dotato di una notevole abilità e non mancava di un sopraffino equipaggiamento, ma non poteva assolutamente avercela fatta contro tutte quelle bestie. Avrebbe voluto dire qualcosa, fare un’altra domanda, ma era rimasto così tanto tempo in silenzio, immobile, che i due uomini avevano deciso di riprendere a remare, allontanando sempre più la barca dal molo, rendendo impossibile la conversazione fra i due. Rassegnato, Dal ringraziò con un cenno il ladro, quindi si sedette su una piccola e bassa panca presente sulla misera imbarcazione, scansando con un piede le grosse reti da pesca, situate lì vicino. Sorrise appena, ripensando a quanto quell’uomo doveva sentirsi in debito con lui per averlo lasciato in vita, ma un’espressione più turbata si impadronì quasi subito del suo viso, lasciandolo a riflettere su cosa avrebbe dovuto fare appena raggiunta l’altra sponda. Se davvero quel soldato lo stava inseguendo, non poteva permettersi di restare in quella cittadina chiamata Raidemark (che tra l’altro non conosceva minimamente) troppo a lungo; anzi, sarebbe stato meglio se l’avesse lasciata il prima possibile, magari il giorno stesso del suo arrivo. Per tutta la giornata, non si degnò di scambiare una sola parola con i suoi due compagni di viaggio, evitando ogni contatto anche quando si avvicinavano, stanchi, lasciando svolgere esclusivamente alla vela il compito di muovere la barca, e provavano a porgli qualche domanda imbarazzata, sempre troncata sul nascere. Trascorsero la notte in mezzo al mare, tranquillamente, anche se Dal temeva che al suo risveglio si sarebbe trovato in acqua, dopo che la barca fosse stata rovesciata da un’onda troppo grossa. Impiegò quindi parecchio tempo ad addormentarsi, riposando sopra un giaciglio improvvisato dai proprietari del peschereccio: qualche straccio accatastato, per rendere leggermente più morbido il duro legno della chiatta. Quando il sole sorse, destandolo dal suo sonno insoddisfacente, gli sembrò una liberazione: si alzò faticosamente in piedi, stirandosi i muscoli rattrappiti ed indolenziti, notando che il dolore al braccio non era ormai nulla più che qualche piccola segno. Presto non sarebbe stato null’altro che una nuova cicatrice. I due uomini, addormentati vicino a lui, si accorsero ben presto che l’elfo era ben sveglio, in piedi, con le mani sul bordo del guscio di noce, lo sguardo perso verso la loro meta, Raidemark, che si poteva ben delineare in lontananza: un porto dall’aspetto notevolmente migliore di Shynastar e visibilmente più grande. «Quella che vedete è solo la zona portuale.» commentò uno degli uomini, girandosi sul fianco e guardando in direzione dell’esule «La vera città è molto più all’interno, circondata da una cerchia di mura. È il posto ideale per nascondervi, finché le acque non si saranno calmate».
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Dal rispose con un abbozzo di sorriso, il primo segno d’intesa che aveva dato da quando aveva messo piede su quella barca: si aspettava di trovarsi davanti un altro villaggio di poca importanza, molto simile a quello che aveva appena lasciato, ed invece ecco quella che poteva già definirsi una città. «La popolazione?» domandò, tornando a guardare Raidemark e scrutandola con attenzione, riuscendo anche a vedere una linea offuscata dalla distanza che dovevano essere le mura. «È una città imperiale. Pochissimi Naigh-Moor, se è quello che intendete: gli elfi oscuri vi si tengono lontani. Siamo ormai fuori dal loro territorio» rispose l’altro pescatore, mentre entrambi si alzavano in piedi, raccogliendo gli stracci su cui avevano riposato. C’era qualcosa che non quadrava: una città così vicina a Nog Tuluth doveva essere molto grande e potente per riuscire ad arginare le costanti razzie dei Naigh-Moor e Raidemark non sembrava certo sufficientemente fortificata. Come poteva quella cittadina resistere contro il sempre maggiore strapotere degli elfi oscuri? Alla fine, quando ormai i due si stavano allontanando, Dal ebbe la forza di chiederlo. «Come mai non è ancora caduta?» domandò atono, senza smuoversi dalla sua posizione. Un pescatore si voltò, stringendosi nelle spalle e mostrandogli un ampio sorriso. «Raidemark non ha certo il potere per difendersi, ma è a meno di un giorno di cammino da Vathalar, di cui avrai sentito sicuramente parlare: se gli elfi grigi osassero anche soltanto avvicinarsi alla cittadina, l’intero esercito convogliato a Vathalar verrebbe messo in movimento. Attaccare Raidemark significherebbe quindi attaccare Vathalar e qualunque essere dotato di un po’ di buon senso non lo farebbe, a meno che non ci fosse costretto». Dal fu ben lieto di sentire questa notizia: se avesse raggiunto il porto, sarebbe stato decisamente al sicuro e avrebbe potuto raggiungere poi Vathalar, la prima vera città del Principato dell’Est, dove nessun Naigh-Moor avrebbe osato inoltrarsi. Continuò il viaggio con questo buon umore, staccandosi ogni tanto dalla prua per guardare il mare calmo sotto di lui: sembrava che le cose dovessero andare sempre bene nei giorni a venire. Si sedette su una cassa tanto alta da non permettergli di toccare i piedi a terra, dando le spalle alla città sempre più vicina, scambiando di tanto in tanto qualche parola con i due uomini, mentre tamburellava impazientemente le dita sul legno. Poi, tutto ad un tratto, quando ormai il sole aveva raggiunto lo zenit, la voce imperiosa di uno dei pescatori, unita alla sua espressione sorpresa, lo costrinse a scendere e piegarsi sulle ginocchia. «Che diavolo succede?» chiese, accucciato dietro la cassa, le mani sull’elsa della spada, pronto a sfoderarla in caso di problemi. 104
«Ci sono dei Naigh-Moor sul molo… E sembra che ci stiano aspettando» mormorò uno dei due, mentre l’altro pronunciava una bestemmia, scrutando il comitato d’accoglienza. Dal imprecò a sua volta, chiudendo gli occhi: non c’era via di scampo. Se avessero virato, gli elfi oscuri sarebbero sicuramente partiti al loro inseguimento e non vi erano posti per permettere all’esule di ripararsi, se non quella misera cassa. Nervosamente, provò a chiedere che cosa avrebbero fatto, lasciandosi scivolare a sedere, rassegnato, la testa appoggiata al legno. «Niente. Li distrarremo e voi proverete a calarvi in acqua» consigliò il più giovane dei due, appoggiandosi al remo. «Ma vi ammazzeranno!» bisbigliò l’elfo, lo sguardo sbalordito. «Questo non è il loro territorio, ve l’ho detto.» obiettò l’anziano, sicuro delle sue parole «Possono punire voi, se vi acchiappano, non noi. Quello che mi chiedo è come hanno fatto ad arrivare qui così in fretta». «Magia, indubbiamente» ringhiò l’altro pescatore, stringendo il manico del remo con quanta forza aveva. Dal fu sul punto di ribattere nuovamente, ma comprese che non c’era altro da fare: gettarsi in acqua adesso significava essere visto ed essere meglio preso di mira dagli arcieri che sicuramente lo stavano aspettando assieme agli altri. Si avviarono tutti e tre verso il proprio destino, sconsolati, ma decisi a giocarsi il tutto per tutto. Il Naigh-Moor si chiese se l’avrebbero consegnato ai suoi simili, allo scopo di salvarsi la vita, cosa molto più probabile che rischiare per salvarlo: erano pagati per portarlo fino a Raidemark, non per farsi uccidere come cani per salvare la pelle di un ragazzo di nessuna importanza. Dal credette di leggere quell’intenzione negli occhi dei due pescatori, ma non gliene fece comunque una colpa: quei due avevano probabilmente una famiglia. Una famiglia che non doveva essere distrutta per colpa sua. Mentre stava riflettendo, udì un sibilo sopra la sua testa: una salva di frecce si abbatté sulla barca, trafiggendo in numerosi punti la chiatta, la cassa dietro cui si stava nascondendo e i due sventurati. Il più giovane cadde in avanti all’istante, finendo con la testa sui piedi dell’inorridito e terrorizzato esule, l’altro si alzò di scatto in piedi, folgorato dai dardi, mormorando qualcosa prima di finire in acqua, sbilanciato dalla troppe ferite. Il viso del ragazzo si trasformò in una maschera di cieca paura, le gambe scalciarono il corpo senza vita del pescatore, che rimaneva immobile nello stesso punto, il corpo crivellato di frecce, il sangue che colava da ogni ferita. Incapace di parlare, ascoltò le parole del capitano dei Naigh-Moor in piedi sul molo: lo stesso a cui aveva rubato il cavallo. «Dal Jin, scendi da quella barca!» gridò, mentre gli arcieri si preparavano a tirare di nuovo, incoccando le nere frecce nei lunghi archi «Non hai alcuna possibilità». 105
La mente bloccata dalla paura, l’esule si ripeté quelle parole nella sua testa fino a generare una confusa cacofonia di idee che portavano tutte alla solita conclusione: era perduto. Poi, d’un tratto, i suoi occhi si accesero d’ira allo stato puro, tornando a brillare come fuochi fatui. Non avrebbe ceduto, nemmeno adesso. Il suo sguardo ricadde sul corpo dell’uomo a terra e in un istante seppe cosa fare: poiché sarebbe stato d’impiccio, si slacciò il mantello, se lo avvolse a un braccio e poi, cercando di ignorare il disgusto ed il senso di colpa nel fare un simile gesto, sollevò il cadavere, scagliandolo fuori bordo. «Tirate!» abbaiò il capitano, indicando il corpo, e il suo ordine fu seguito dallo scoccare di almeno una decina di archi. Quando la prima freccia colpì lo sfortunato pescatore, Dal effettuò la sua mossa: si tuffò dalla parte opposta, balzando più lontano che poteva. Nello scorgere il vero bersaglio sfuggirgli così, il capitano lanciò una sonora imprecazione, voltandosi di colpo e confondendo i già sorpresi arcieri. Nel frattempo, l’esule aveva preso fiato e si era immerso, nuotando sott’acqua come meglio gli riusciva nella sua totale inesperienza, cercando così di evitare i dardi che sarebbero prontamente arrivati. Riemerse per prendere fiato e la prima cosa che vide furono proprio le frecce dirigersi verso di lui, sfrecciandogli vicino: una di esse gli sfiorò lo zigomo, macchiando di sangue nero la liscia superficie dell’acqua. Prese nuovamente ad annaspare, avvicinandosi così al molo in pietra, senza fermarsi nemmeno quando sentiva i dardi immergersi vicino a lui, perdendo rapidamente potenza. Non sapeva cosa fare, soltanto che doveva continuare a nuotare, nella speranza di trovare qualcosa dietro cui nascondersi. Esaurite le riserve d’ossigeno, fu costretto a riaffiorare in superficie, deciso inoltre a spendere un attimo per guardarsi attorno. Sollevò le mani ed emerse, il mantello appallottolato nella destra e nuovamente le frecce fendettero l’aria, puntando contro di lui. Ma stavolta uno degli arcieri prese meglio la mira: nonostante la lunga distanza e il bersaglio in movimento, il suo dardo raggiunse l’esule. Con un grido, Dal vide la freccia trapassare il mantello, pronta a piantarsi nel suo viso. La punta del dardo restava però immobile a meno di un dito dalla sua tempia, conficcata sino al piumaggio nel mantello fradicio, che era bastato con la sua massa a farle perdere ogni forza di penetrazione. Ululanti di gioia, i Naigh-Moor abbassarono le armi, convinti che la loro preda fossa stata finalmente messa fuori combattimento. L’elfo era più stupito che loro, ma in pochi giorni era stato così vicino alla morte che quel clamoroso colpo di fortuna non lo sconvolse a tal punto da impedirgli di ragionare: approfittando della loro distrazione, si guardò attorno, notando un canale fognario aperto proprio nel molo. Senza esitare, si immerse nuovamente, raggiungendolo prima che i suoi avversari potessero comprendere che era ancora vivo. Vi si infilò proprio mentre i loro archi erano nuovamente pronti a tirare, incitati dalle continue urla 106
rabbiose del capitano, ma fortunatamente impossibilitati a colpire il bersaglio, ormai fuori dalla vista degli arcieri.
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XI. La reputazione di un esule
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al, con gli occhi sbarrati, irritati dalla salinità e dalla sporcizia nella quale si era immerso, piantò le mani nell’acqua lurida, sentendo immediatamente il fondo del canale sotto i palmi tremanti, pervasi da continui brividi. Si tirò in piedi e avanzò di corsa nel tunnel di scarico, inciampando più volte, spinto indietro dalla corrente e confuso dal tanfo ripugnante, cercando affannosamente di riordinare i pensieri e lasciare che la tensione si abbassasse, che il cuore si calmasse, che i pensieri riprendessero il loro giusto posto nella mente. D’un tratto, vinto dalla stanchezza e dal nervosismo, finì a terra per l’ennesima volta, ma stavolta sbattendo la testa contro la dura pietra del canale: un brusco contatto che lo costrinse però a fermarsi e a tornare lentamente padrone di sé stesso. Sollevatosi con entrambe le mani, tirò il fiato, gli occhi chiusi, mettendosi poi a sedere sull’umida passerella a fianco del condotto. Sospirò, riprendendo una quantità di razionalità sufficiente a riordinare le idee: appena ebbe ritrovato la lucidità necessaria, si voltò verso il mare, aspettandosi di vedersi arrivare addosso quei Naigh-Moor che lo avevano preso di mira, ma nessuno sembrava essere in vista. Probabilmente, lo avrebbero aspettato all’uscita delle fogne, decisi a fargli un’allegra sorpresina. Scosse il capo, passandosi una mano fra i capelli lerci e lasciando poi ricadere la fronte su di essa, immerso nei suoi pensieri: poteva aspettare e poi uscire allo scoperto da dove era venuto, sperando che nessuno fosse lì ad attenderlo con una freccia incoccata, oppure continuare la sua fuga attraverso il condotto. Senza perdere tanto tempo a pensarci, decise che avrebbe scelto la seconda opzione: non doveva far altro che raggiungere un’uscita prima di loro, e stavolta era lui ad essere in vantaggio. Per quanto si fossero dimostrati particolarmente organizzati, non potevano conoscere già ogni sbocco per le fogne. Un sorriso sinistro e deciso gli comparve sul viso, mentre tornava in piedi ed esaminava rapidamente il fetido cunicolo davanti a lui, accorgendosi di quanto somigliasse alle miniere: e a quegli scenari, ormai, c’era abituato. E correva molto in fretta. Il tempo di fissarsi il mantello appallottolato alla cintura, formulare un ultimo pensiero, ed era già partito, piegato sulla schiena, scacciando ratti e altre bestiole dovunque passasse, ricacciandole nell’acqua sporca che aveva lasciato. Muscoli che si stendono e si contraggono a velocità pazzesca, foga, il rumore continuo del canale e soprattutto la voglia di non farsi beccare un’altra volta: solo questo era il mondo di Dal, in quei minuti. Minuti che non esistevano, dimenticati nella corsa frenetica. Tempo e spazio cessarono di esistere, finché la 108
chiara luce del sole filtrante attraverso una grata illuminò la pietra verdastra del pavimento ed una scala arrugginita fissata saldamente alla parete del tunnel. Senza esitare, Dal vi si avventò, risalendo con furia incontrollata i pochi gradini e tentando poi di alzare la piccola botola, a cui nessuno sembrava fare la guardia, ma un freddo chiavistello in metallo rispose per essa, mostrandosi chiaramente discorde all’idea dell’esule. Con un’imprecazione, l’elfo sguainò la spada, mandando a urtare l’elegante pomo contro la grata con quanta forza aveva in corpo, colpendola con rabbia e ansia sempre maggiore. Dopo una manciata di tentativi, il chiavistello stridette, s’incrinò, quindi si spezzò con un colpo secco, permettendo al Naigh-Moor di uscire dal canale. Si issò rapidamente fuori, richiudendo malamente la botola con un calcio, mentre le mani si sbattevano tra loro per liberarsi alla meno peggio del letame raccolto nel cunicolo. Dal si guardò allora attorno, interdetto: decine di occhi sbalorditi lo fissavano con vivo interesse, chiedendosi che accidenti avesse combinato quel ragazzo per sbucare fuori a quel modo. L’elfo li osservò fin nei minimi dettagli, imbarazzato e al contempo turbato, lieto però di non vedere nessun Naigh-Moor tra loro. Dopo qualche esitazione, si decise a rompere il silenzio che regnava sulla strada, rotto di tanto in tanto solo dal rumore delle onde in lontananza e dal verso di qualche uccello di mare. «Salve» balbettò, mostrando un sorriso incerto. Ancora silenzio. «Dove… Dov’è la parte interna? Le mura, intendo» si affrettò ad aggiungere, ancora sconvolto dalla fretta di abbandonare quel luogo malsano. Vi furono alcuni mormorii sommessi, quindi un dito indicò l’Ovest, puntando un piccolo cancello ad inferriata posto fra due tozze torri. Non appena l’elfo ebbe velocemente ringraziato con una mano, la folla sembrò perdere totalmente il suo interesse per quello strano individuo, che adesso si dirigeva verso la cinta, facendo ben attenzione a camminare all’ombra degli edifici, fermandosi prima di ogni strada che poteva permettere ai soldati della Legione di Armalak di tendergli un agguato. Locande, osterie e botteghe di ogni genere seguirono le une alle altre, accompagnate dai costanti sguardi attoniti dei cittadini, fra cui comparivano anche alcuni, sparuti, elfi oscuri, dall’aspetto però decisamente diverso da quelli che si potevano incontrare nella tetra Nog Tuluth: molti di essi vestivano infatti come semplici popolani imperiali ed i loro sguardi apparivano privi dell’arroganza sprezzante presente in ogni paio d’occhi dei Naigh-Moor della città nera. Vivevano e lasciavano vivere, senza preoccuparsi di quanto accadeva attorno a loro. Pian piano, Dal riuscì a non fare per niente caso a tutti quelli che si voltavano a squadrarlo, additandolo e sussurrandosi qualcosa di evidentemente ironico tra loro. Perso com’era nel suo intento di sfuggire ai 109
propri inseguitori, riuscì a rendersi conto di aver raggiunto le mura solo quando una mano imperiosa avvolta in un guanto placcato in duro acciaio gli intimò di fermarsi, aprendosi davanti al suo naso. «Alt.» gli intimò la guardia ai cancelli che l’aveva fermato, da sotto l’elmo completo «Mostrami il tuo lasciapassare, se vuoi proseguire». L’elfo assunse un’espressione perplessa, mentre affondava le mani nelle tasche alla ricerca di qualcosa che però sapeva bene non poter trovarsi lì. «Niente lasciapassare, eh?» intuì il soldato, facendogli cenno di allontanarsi con una smorfia disgustata, fra i risolini delle altre sentinelle, appoggiate alle porte della vera e propria città «Fuori dai piedi, grigio». Dal fu sul punto di replicare, di chiedere perché aveva bisogno di una lasciapassare e dove poteva trovarne uno, quando un ammasso di stracci sotto il quale sedeva quieto un mendicante con più anni che capelli in testa rispose ad ogni sua domanda. «Il lasciapassare.» sghignazzò il vecchio, fra i pochi denti rimastigli nella larga bocca «I nobilastri e i borghesucci di questo buco non vogliono essere infastiditi da noi poveracci». Il ragazzo squadrò attentamente il barbone, il sopracciglio destro inarcato, prima di confrontarlo con sé stesso: sotto lo strato di fetore che lo ricopriva, c’era ben altra cosa che un “poveraccio”, almeno secondo lui. Il problema era che nessuno l’avrebbe visto, finché non si fosse tolto la puzza di dosso. Spinto dal solo istinto di sopravvivenza, decise quindi di ignorare i suoi commenti e cercare di farsi dare qualche informazione su come riuscire ad attraversare le porte di Raidemark. In risposta alla sua prevedibile richiesta, il mendicante scoppiò in una risata, battendosi più volte le mani sulle scarne ginocchia. «Entrare in città? Tu?» quasi urlò, guardandolo divertito e puntandogli contro l’indice ossuto «Chi vuoi che ti permetta di passare, dopo la fama che i tuoi compari hanno ben provveduto a crearti?». In preda ad uno scatto d’ira, il Naigh-Moor afferrò per gli stracci il mucchio d’ossa, tirandolo in piedi con entrambe le mani e sbattendolo contro la pietra che formava le basse mura. «Zitto, vecchio idiota!» sibilò a denti stretti, dandogli un strattone talmente violento che qualcuno avrebbe potuto pensare che il vecchio si sarebbe sbriciolato in seguito al colpo, senza un gemito «Dimmi come fare e tieni per te il resto!». Il mendicante scalciò selvaggiamente, piagnucolando, terrorizzato da quell’improvviso scatto d’ira da parte dell’elfo oscuro, adesso acceso da un’ ira che brillava nel fondo di quegli strani occhi, sempre più lucenti e furiosi. La sua salvezza sembrò giungere con le imperiose parole dello stesso soldato, ora fattosi avanti di qualche passo. 110
«Lascialo andare, straccione.» ordinò questi, puntandogli contro la lancia, tenuta con una sola mano, lasciando libera l’altra di sottolineare quelle parole con un gesto seccato «Le liti fra barboni non sono tollerate qui; risolvete le vostre pendenze al porto». Di nuovo. Essere bagnato e puzzolente significava essere uno straccione? Dopotutto, i suoi vestiti, anche se inzuppati e sporchi di ogni schifezza erano chiaramente di stoffe ricercate e il diadema dorato brillava comunque sulla sua fronte. Era uno schiavo, sì, ma nessuno l’avrebbe mai pensato a meno di non conoscere la sua vera identità. Già, ma prima di tutto, era un Naigh-Moor: quello era il punto. Dal si fermò a riflettere, senza ancora mollare la presa sull’uomo che, nel vedere che le parole della guardia non erano bastate, non accennava a calmarsi. Un dubbio improvviso rese il giovane ancora più truce in volto: il mendicante sapeva chi era, quindi perché le guardie non avrebbero dovuto? Come avrebbe fatto altrimenti un drappello così folto di Legionari di Armalak a irrompere in una cittadina imperiale? Ma, soprattutto, se le cose stavano così, perché le autorità di Raidemark si erano prestate al gioco dei Naigh-Moor? Quanto denaro aveva stanziato Gadejli per riaverlo ad Armalak, vivo o morto? «Mi hai sentito, Naigh-Moor?» ingiunse il soldato, facendo un altro passo e imbracciando l’arma con entrambe le mani. Ridestato da quella frase, Dal si riebbe dai suoi pensieri, tornando a puntare gli occhi sull’uomo che teneva premuto contro il muro. «Tu mi aiuterai a passare» mormorò a denti stretti verso di lui, fissandolo con una vena d’odio che riuscì a fingere molto bene, prima di lasciarlo ricadere al suolo e di allontanarsi, senza far nemmeno caso alla guardia. Lo spaventato mendicante rimase immobile, la bocca semiaperta in un’espressione sconvolta, le mani che tremavano, appoggiate alla polverosa pavimentazione della strada. Nel frattempo, Dal si era portato senza aggiungere altro lontano dalla vista dei soldati, dietro un’imponente abitazione in legno scuro, restando però ben visibile dall’uomo avvolto negli stracci, ancora fermo nella sua posa statuaria, quindi si era appoggiato alla parete a braccia incrociate e così era rimasto per qualche minuto. Lentamente, aveva poi proteso un braccio verso l’uomo, fissandolo freddamente, conscio del fatto di non aver del tempo da perdere. Il vecchio lo stava ora guardando a sua volta, incerto sul da farsi, intimorito al contempo da cosa avrebbe potuto fargli se si fosse avvicinato o se al contrario non lo avesse fatto. La sua esitazione svanì però quando il ragazzo sguainò seccato il suo misero pugnale; malridotto, sì, ma comunque capacissimo di uccidere. Dal prese a giocherellarci, fissandolo come se fosse sul punto di lanciarglielo, i polpastrelli di indice e pollice che stringevano la punta con sicurezza. Incespicando per il panico, l’uomo si sollevò in piedi, tenendo 111
stretti a sé i suoi stracci, fra le cui pieghe teneva probabilmente i suoi più importanti averi. Una volta raggiunto il ragazzo, questi lo afferrò con la destra, trascinandolo fin dove non potevano essere visti dai soldati. «Vi prego, buon signore…» balbettò tremante il barbone, subito pentito della scelta di avvicinarsi all’esule. «Sta calmo.» lo rassicurò Dal con un tono molto più conciliante ed amichevole del precedente e mostrando perfino un mezzo sorriso «Voglio solo che tu mi aiuti a superare quei soldati. Sugli spalti non c’è quasi nessuno, vero?». Per nulla tranquillizzato, l’altro si limitò ad annuire di scatto, di certo più disposto ad aiutarlo che a trovarsi un coltello nella pancia. «Solo una guardia, ma sarà vicina ai cancelli a parlare con gli altri.» aggiunse poi frettolosamente «Le mura non sono alte e…». «Va bene, va bene.» lo zittì l’altro, ricordandosi di colpo della fretta indispensabile per salvarsi la pelle quando notò un tranquillo elfo oscuro camminare per le strade con aria assente «Ora voglio che tu faccia il giro delle case senza farti vedere e che, quando sarai dall’altro lato della strada, tu ti metta a gridare con quanto fiato hai in corpo, tenendoti ben nascosto e allontanandoti se qualcuno si avvicinerà, mi hai capito?». L’uomo lo guardò confuso, quindi mostrò di aver capito, balbettando qualcosa in risposta, senza però muoversi. «D’accordo, ma adesso vai, presto.» lo incalzò il Naigh-Moor, afferrandolo per una spalla ed indirizzandolo verso la direzione da prendere «E niente scherzi o giuro che ti ammazzo come un cane alla prima avvisaglia di fregatura». Sottolineò le ultime parole con una brusca spinta, dimenticandosi di buone maniere e educazione, contando su quel tono per riuscire a sveltire le cose. D’altra parte, il vecchio terrorizzato stava ubbidendo ciecamente ai suoi ordini, pensando soltanto a salvare la sua vita e dimentico così del rischio che avrebbe corso nell’aiutare un ricercato con una notevole taglia sulla testa. Dal si sporse poi oltre la casa, curandosi di tenersi ben appiattito contro la parete, in modo da confondersi con le ombre, e tenendo d’occhio le sentinelle, che conservavano tra loro ignare di tutto. D’un tratto, il grido del mendicante squarciò il silenzio apatico di Raidemark: cittadini e soldati si volsero in direzione della voce e, com’era prevedibile, almeno due delle quattro guardie si allontanarono dalla loro postazione per andare a controllare, mentre le altre, più quella che si ergeva sugli spalti, li fissavano con attenzione, seguendo ogni loro movimento, incuriositi e fors’anche un po’ spaventati. Dal colse il momento: con uno scatto, si avventò contro le basse mura, scalandole a mani nude con incredibile frenesia, incurante dei graffi e delle unghie che si spezzavano contro la dura pietra. Con un gemito, raggiunse così gli spalti, constatando con felicità che nessuno si era accorto della sua mossa. Con l’adrenalina che arrivava quasi ad 112
annebbiargli il cervello e ad offuscargli la vista, si guardò intorno ed al di sotto della cinta, notando con sollievo che soltanto un magro cane, che doveva essere molto meno vecchio di quanto non appariva, lo stava guardando, scodinzolando allegramente. Senza una parola, si calò con facilità dalle mura, atterrando con un piccolo balzo all’interno della vera e propria Raidemark. La città interna non aveva effettivamente nulla di che spartire con il quartiere portuale: case, botteghe e persino qualche villa si susseguivano l’un l’altra in strade attentamente lastricate e pulite e i pochi individui che era possibile intravedere non avevano affatto l’aspetto dei cittadini portuali, sia dal punto di viste dell’abbigliamento che da quello del portamento. Riacquisendo la calma, Dal riuscì a realizzare il perché di quelle vie quasi vuote, aiutato in parte dall’odorino invitante che fluttuava leggero nell’aria: ora di pranzo. Una nuvola di fumo spuntò dalle labbra del Mezzelfo, danzando davanti al suo volto per qualche secondo, prima di salire in alto, disperdendosi silenziosamente. La fioca luce della candela illuminava appena i visi delle tre persone sedute al piccolo tavolo, esulandoli dal resto della clientela del “Cigno nero”, immersa in chiacchiere sommesse, battute volgari e numerosi bicchieri di vino. «Però! Ha una faccia da vero furbetto» mormorò sarcasticamente lo stesso Mezzelfo, fissando con un sorrisetto complice il ritratto del Naigh-Moor, rappresentata in uno dei tanti avvisi di taglia affissi un po’ ovunque. «Ciò che conta è quello che c’è scritto sotto» gli fece notare l’avventore che gli stava di fronte, un ometto nascosto sotto un cappuccio cencioso, indicandogli la somma decisamente sostanziosa. «Sei sicuro che sia a Raidemark?» gli domandò l’altro, assumendo un’espressione più seria, dopo aver riletto per l’ennesima volta l’avviso. «Più che sicuro: ho visto io stesso quel mendicante vicino alle mura parlarci con una faccia piuttosto spaventata e non è difficile immaginarsi cos’è successo quando si è messo ad urlare» rispose con un sorriso l’uomo, incrociando le braccia sul tavolo e adagiandovisi sopra, con fare sognante. «Seimila monete…» sussurrò eccitato il Mezzelfo, lanciando un’occhiata al suo taciturno compagno, seduto di fianco a lui e intento a scolarsi una bottiglia di un qualche liquore «Che ne dici, Jago? Ti farebbero comodo?». Senza parlare, il massiccio uomo, alto quasi due metri e dall’aspetto per niente raccomandabile, con le braccia prive di maniche e grosse come argani, si limitò a scrollare le spalle, posando poi la bottiglia mezza vuota sul tavolo. «Seimila… Sarebbero giusto quello che ci vorrebbe per risollevarci, non trovi?» aggiunse quindi l’altro, sperando di intercorrere in una reazione da parte del compagno. 113
Questa volta, invece, questi non si degnò nemmeno di fare alcun cenno, mostrandosi poco interessato alla cosa, ma privo di obiezione alcuna. «Beh, allora è deciso.» stabilì il Mezzelfo, riavvolgendo la pergamena e infilandosela nella cintura, afferrando poi la bottiglia e alzandola al cielo, prima di accarezzarsi la piccola barbetta e pronunciare le sue ultime parole «Una nuova impresa per Jago e Nemorel. A noi, Dal Jin». «Vuoi piantarla di seguirmi?» sbottò ancora una volta il Naigh-Moor, voltandosi a guardare annoiato il testardo cane, che non sembrava affatto intenzionato a staccarsi dall’esule, per chissà quale arcano motivo «Non ho niente per te, capito? Niente!». L’elfo cercò nuovamente di farsi capire dall’animale, mostrandogli ripetutamente null’altro che i palmi graffiati, ma non ottenne nessun risultato nemmeno stavolta. Le possibilità erano quindi due: o quel cane era del tutto scemo oppure non si aspettava nulla di specifico da lui. Ma allora perché lo stava seguendo da quando aveva superato le mura? I dolci profumi del pranzo erano rimasti intatti, ma adesso erano ormai quelli della cena, e la luna stava facendo capolino nel cielo, punteggiato da qualche piccola stella. Nonostante la continua presenza del cane, il suo abbaiare ripetutamente ogni volta che qualche altra bestia percorreva la stessa strada, ed il suo fetore d’immondizia, addirittura più forte di quello dello stesso Dal, la vita non sembrava tanto brutta all’elfo. I soldati della Legione non avevano oltrepassato le mura; a quanto pareva, il mendicante aveva svolto bene il suo compito e lui era riuscito a scavalcare la cinta senza essere visto. Sì: decisamente, le cose andavano bene. Eppure, uno strano senso d’inquietudine gli correva su e giù per tutta la pelle, insinuandosi fino alla sua anima, attanagliandogliela a tal punto che ogni volta che qualcuno si voltava a guardarlo, l’elfo aveva l’istinto di scappare o nascondersi. Nemmeno sentiva la fame o la sete (sebbene non avesse ingurgitato altro che lurida acqua salata e scarichi fognari), tanto era il suo nervosismo. Adesso la calma sembrava essere tornata, almeno in parte, assieme ai bisogni naturali di ogni persona e da questo punto di vista la cosa non gli giovava per niente. Dal non aveva con sé nemmeno un soldo, a meno che non vendesse qualcosa al primo mercante spilorcio che avesse incontrato. Strinse i pugni con tutta la forza che aveva, fino a far sbiancare le nocche ed a strappare un’occhiata perplessa al cane: miserabile, sì, ma non si sarebbe separato da ciò che adesso gli serviva più di ogni altra cosa, né tanto meno dagli unici ricordi che aveva di sua madre. Prese in considerazione l’idea di fuggire subito, senza attendere che le acque si calmassero, ma la scartò pressoché immediatamente, deciso a non rinunciare a quella sua piccola libertà. Ma per riuscire a tirare avanti almeno un po’, doveva 114
trovarsi qualcosa da fare, al più presto. Un piccolo corpo inerme scaraventato in mezzo alla strada tornò a conferirgli una buona presa sulla realtà. D’impulso, accelerò il passo fino a correre, raggiungendolo in pochi secondi, riuscendo a delineare la sagoma di quello che sembrava essere un bambino Umano di circa dieci anni. Con stupore dell’elfo, la barba sul viso delle creatura che si contorceva a terra, massaggiandosi le costole fra una bestemmia e l’altra, gli fece capire che quello doveva essere un Mezzuomo di età adulta, un essere di cui aveva sentito parlare soltanto negli sparuti racconti che narravano della vita al di fuori di Nog Tuluth. Rapidamente, si chinò su di lui, prendendolo delicatamente per le spalle e cercando di sollevarlo a sedere, quando una voce altisonante lo costrinse a voltarsi e a guardare verso la porta da cui il Mezzuomo era volato a terra come un sacco di patate. «Lascia quello sgorbio lì dove si trova!» ordinò un uomo di notevole statura, mostrandosi chiaramente intenzionato a far intendere chi è che comandava «E vedi di sparire, ragazzino, se non vuoi fare la stessa fine!». Detto questo, si voltò verso il magro animale, rigido come un palo, che ringhiava selvaggiamente contro di lui in posizione da combattimento, fulminandolo, o perlomeno cercando di fulminarlo con uno sguardo rovente, riuscendo invece solo a farlo arrabbiare ancora di più. «Tu e quel sacco di pulci!» aggiunse infine, additando il cane e rientrando da dove era uscito, borbottando qualcosa contro i mendicanti e gli animali. «Tutto a posto?» mormorò invece il Naigh-Moor al ferito, più che mai deciso ad aiutare quel poveretto. Il Mezzuomo rispose con un gemito, accasciandosi sul fianco e aprendo la bocca, mostrando un’intera fila di denti fracassati e gengive sanguinanti. Un ladro? Era piuttosto evidente che l’energumeno appena apparso doveva essersela presa per qualche motivo con quel piccoletto, tanto da sfogarvisi sopra a quel modo. «Ti… Ti prego, lasciami andare…» piagnucolava intanto quello, indietreggiando con le mani fino a portarsi con la schiena alla parete di un edificio «Non ho nulla con me, nulla!». Dal intuì facilmente che il Mezzuomo doveva averlo scambiato per uno sciacallo; il piccoletto, in compenso, non aveva proprio l’aspetto di un ladro: sembrava il comunissimo ometto da taverna, di quelli tutti uguali: solo, in versione ristretta. L’elfo oscuro gli posò cordialmente una mano su una spalla, sfoggiando un sorriso leggero e amichevole. «Non preoccuparti: non ti farò del male.» gli assicurò, tornando in posizione eretta quando il Mezzuomo parve aver capito «Perché sei in queste condizioni? Cos’hai fatto?». L’altro deglutì, per nulla tranquillizzato, ma deciso a fidarsi anche di un NaighMoor, purché facesse qualcosa per le sue condizioni. 115
«Quell’uomo di prima… Mi ha riempito di botte!» si lamentò, indicando la porta della taverna. «Quello l’avevo immaginato. Perché l’ha fatto?». «Non lo so!» mugolò il ferito, prendendosi la testa fra le piccole mani, fuori di sé per il panico «Ha detto che lo guardavo male… Ma io non l’avevo nemmeno visto stasera!». Dal sospirò, incrociò le braccia al petto e corrucciò lo sguardo, lasciando correre gli occhi per il quartiere in cui si trovava: dov’erano finite i negozi e le case variopinte? E la perfetta pavimentazione? E le ridenti insegne ben redatte? Perché adesso c’era solo una lercia tavola di legno imbrattato con su scritto “Il cervo”? All’elfo sembrò di essere tornato al porto, ma era sicuro di essere rimasto all’interno delle mura e, anzi, di trovarsi dalla parte opposta della cittadina. Scosse il capo, nel rendersi conto che dei quartieri squallidi come quello dovevano essere rifugio per molti poveri della città, magari mercanti falliti che possedevano tuttavia una casa all’interno delle mura e non al di fuori di esse. «Avevo sentito parlare di quel bullo.» aggiunse il Mezzuomo, tamponandosi il naso spaccato con un fazzoletto e sperando di rendere l’elfo partecipe delle sue riflessioni «E io stupido ad esser venuto qui lo stesso…». «C’è una taglia su di lui?» domandò Dal dopo l’ennesimo brontolio di stomaco, pronto a tutto pur di mettere qualcosa sotto i denti. «No, nessuna taglia. Ma di sicuro ce ne sono molti ben disposti ad offrir da bere a chiunque gli desse una lezione» ridacchiò il Mezzuomo, provocandosi da solo una fitta di dolore alla bocca fracassata e imprecando qualcosa in un rozzo linguaggio. «E non credo proprio che sia un serio problema per un vero guerriero.» annunciò poi, evidentemente desideroso che l’elfo provasse, indipendentemente dai risultati che avrebbe potuto ottenere «Magari puoi farcela». Quell’allusione fu tutt’altro che priva d’interesse per il ragazzo: aveva vinto soldati e Bornock, un tipaccio da taverna non sarebbe stato molte più pericoloso… Forse. «E se non ce la faccio?» chiese, ripensando ai Naigh-Moor che lo stavano cercando. Per tutta riposta, il ferito si indicò con una mano, sfoggiando un sorriso sanguinante. «Non farti problemi, comunque.» tentò di rassicurarlo, divertito ed eccitato da quella situazione «Non avrai problemi». L’elfo sorrise a sua volta, quindi si voltò, notando che il cane era ancora lì e guardava il Mezzuomo con interesse, decidendosi alla fine di avvicinarsi per osservarlo (anzi, annusarlo) meglio, fra i suoi continui borbottii. Tutto 116
sommato, adesso il piccoletto non gli sembrava affatto uno stinco di santo, anzi, doveva trattarsi di una dannatissima canaglietta mal riuscita: molto probabilmente, contava di trarre qualche ulteriore vantaggio, oltre alla sua semplice vendetta. «Può darsi che ci provi» concluse l’esule, intanto che si avvicinava alla porta aperta. Dal abbandonò così la strada, facendo il suo ingresso nella taverna. Un’invitante odore di cibo e birra lo allontanò per un attimo dai suoi piani, facendolo vagare con la mente davanti ai piatti di ogni cliente. Poi, il suo sguardo si fece duro quando scorse la massiccia figura dell’Umano, appoggiato al bancone ed intento a trangugiarsi una bottiglia di liquore. Un sorriso comparve sulle sue labbra nel notare quanto quel gigante stesse bevendo, cosa che lo avrebbe non poco avvantaggiato. Attese pazientemente che finisse almeno una bottiglia ed emettesse un sonoro rutto a bocca aperta, causando il disgusto del grasso oste, che tuttavia a giudicare dall’abbigliamento non sembrava migliore di lui. Dal decise che quello era il momento giusto ed impose alle sue gambe di seguire il cervello, nonostante il loro continuo tremore. Quando fu a fianco dell’uomo, chiuse con forza gli occhi e inspirò a fondo, afferrando poi una grossa bottiglia per il collo. Il rumore del vetro che si infrangeva contro la nuca del gigante generò un innaturale silenzio in tutta la taverna, rotto soltanto da un grugnito dello spaccone. Ecco, l’aveva colpito. E se il Mezzuomo si era inventato una scusa? I dubbi ed un colosso di una simile stazza non erano certo la combinazione migliore. L’uomo si massaggiò per qualche secondo la testa, cercando di capire che cosa fosse successo, quindi si voltò con occhi incredibilmente furenti verso l’ignoto aggressore. Nessuno aveva mai osato colpire a quel modo Thodoran Vurrenmatt. Nessun guerriero. Nessun lottatore. E adesso un elfo oscuro che era poco più di un ragazzino lo guardava con aria falsamente convinta, riuscendo con enorme fatica a trattenere il terrore e l’agitazione che provava. «Questo fa più male dello sguardo di un Mezzuomo, vero?» arrivò addirittura a domandare quel Naigh-Moor, posando ciò che restava della bottiglia sul bancone e studiando con estrema attenzione ogni minuscolo movimento del gigante. Thodoran balbettò qualcosa, incapace di trasformare in parole l’indignazione e lo sbalordimento, quindi si lanciò contro il ragazzo con un ruggito rabbioso, sollevandolo con entrambe le mani per il collo, stringendo con una forza ancora maggiore del suo normale. Dal prese a dimenarsi selvaggiamente, menando ginocchiate e calci con quanta disperazione aveva, col solo risultato di rimbalzare ogni volta contro la solida massa dell’uomo. Provò un terrore ancora più grande di quello che aveva affrontato nelle miniere. Freneticamente, iniziò 117
ad annaspare con le mani, tentando invano di allontanare le enormi mani del bullo. Solo quando sentì il fiato venirgli meno, ebbe un’idea: raccogliendo tutta la forza che gli rimaneva, piantò l’indice e il medio negli occhi furenti di Thodoran, ritrovandosi, quasi senza rendersene conto, sdraiato a terra, mentre l’altro gridava e muggiva come un toro ferito, indietreggiando alla cieca, le grosse mani davanti al volto. Dal rialzò faticosamente le palpebre, tossendo con violenza, finché non riuscì a far tornare il fiato. Quando ciò accadde, il gigante si era ormai ripreso e avanzava verso di lui, gli occhi arrossati e lacrimanti, le braccia protese verso di lui. Fulmineamente, rotolò sul fianco, schivando la carica dell’uomo e rialzandosi in piedi. L’intera taverna fissava lo scontro, incapace di proferir parola, incantata e terrorizzata al contempo. Thodoran ruggì furibondo, stringendo entrambe le mani in un unico colpo che avrebbe letteralmente annientato il ragazzo, se solo l’avesse colpito. Il forte dolore agli occhi lo portò però a mancarlo di poco, riducendo invece in vari pezzi un piccolo tavolo circolare. Dal approfittò di quel momento e si chinò velocemente, afferrando un gambo dello stesso tavolo e cominciando a tempestare il gigante con quell’arma improvvisata. Un colpo, due, tre… Sentì l’eccitazione crescere in lui man mano che la vittoria sembrava essere sempre più vicina. Sorrise, pregustando già l’inevitabile, a suo parere, sconfitta di Thodoran. Poi, però, la mano imperiosa dell’omone arrestò il suo attacco, bloccandolo. Subito dopo, un notevole diretto lo colpì in pieno petto, facendolo finire tre o quattro metri indietro, fra i piedi di un avventore che si ritenne particolarmente sfortunato. Dal si rialzò barcollando, appena in tempo per vedere il gigante che lo caricava a testa bassa brandendo lo stesso gambo che lui stesso aveva maneggiato prima. Racchiudendo tutta la sua forza di volontà in quel gesto, l’elfo oscuro si gettò di lato, lasciando che Thodoran travolgesse letteralmente il tavolo, facendo finire a terra tutti i commensali. Cogliendo ancora una volta l’attimo perfetto, Dal gli balzò alle spalle, sfoderando con la mano destra il pugnale e assestandogli una scarica di colpi alla tempia con l’impugnatura, imprimendo sempre maggior vigore per ogni colpo. Stordito da quei sempre più fitti e violenti dolori, l’uomo si ritrovò molto presto con la vista annebbiata, finché essa non scomparve del tutto e il corpo svenuto del gigante rovinò a terra con un sonoro tonfo senza un solo gemito. Il Naigh-Moor ansimò pesantemente, arrancando per riuscire a sollevarsi in piedi, ma senza risultato. Con un solo, lungo ringhio, si mise a sedere contro la parete, ancora con il pugnale nella mano. Gli sguardi incuriositi dei clienti lo seguirono in un muto silenzio, costringendolo a dire qualcosa per sedare la loro curiosità. «I commenti dopo…» disse con un filo di voce fra un respiro affannoso e l’altro, indicando il corpo del gigante a terra «Ora, qualcuno lo porterebbe fuori?».
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XII. L’arena
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al si lasciò cadere su una sedia poco distante, quasi sdraiandovisi sopra, mentre osservava un paio di ragazzotti robusti trascinare Thodoran per le gambe e le braccia fuori da “Il cervo”. Non appena il gigante fu adagiato in strada, sotto lo sguardo eccitato del Mezzuomo sanguinante ancora appoggiato ad un muro, l’oste della taverna si decise a prendere la parola. «Perché l’avete fatto, Naigh-Moor? Mi avete privato di uno dei migliori clienti» borbottò, cercando di mascherare con un’espressione cupa ed un tono grave la sua soddisfazione nel vedere quel famigerato bullo finalmente sistemato. L’elfo lo guardò in volto, smettendo di colpo di ansimare: il tentativo dell’uomo non era propriamente riuscito. Le sottili sopracciglia e le larghe labbra mostravano chiaramente che l’oste non doveva essere poi così dispiaciuto e la testa calva come un uovo non era percorsa da nessuna traccia di nervosismo, né da alcuna, nemmeno minuscola, goccia di freddo sudore. «Da quello che ho capito, lui ne ha allontanati molti di più» si limitò a rispondere, sfoggiando un piccolo sorriso e indicando con un pollice la porta da cui dovevano essere volate innumerevoli persone, oltre al Mezzuomo di poco prima. «Sei un amico del piccoletto di prima?» domandò quindi l’uomo, con fare perplesso, prendendo a pulire svogliatamente il bancone sporco del liquore che era nella bottiglia infranta sulla nuca del gigante. «Né di lui né di nessun altro cittadino di questa città» rispose con assoluta tranquillità Dal, senza smuoversi dalla sua posizione. «E allora perché l’hai fatto?». L’elfo mostrò un sorriso sinistro, prendendo a giocherellare con il bordo di un bicchiere colmo di vino. «Spirito caritatevole. E fame» sorrise sarcastico, carpendo con un’occhiata tutti gli sguardi dei clienti. Tutti meno che uno. Fra tutta la clientela, uno strano individuo finemente vestito continuava tranquillamente a pasteggiare con una bistecca di notevoli dimensioni. L’elfo lo guardò attentamente, ma tutto quello che riuscì a notare dell’individuo celato da un cappuccio e da un mantello nero come la notte fu la sua altezza spropositata, ancora maggiore di quella di Thodoran, il corpo snello e la pelle marmorea, di un pallore quasi mortale. La sua riflessione sul misterioso avventore fu bruscamente interrotta dalla grassa risata dell’oste, adesso davanti al suo tavolo.
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«Toh, prendi.»annunciò questi con un sorriso, piazzandogli sotto il naso un piatto in ceramica, che nulla aveva a che spartire con le ciotole degli altri clienti, occupato da carne e legumi di ottima qualità assieme ad un grosso boccale di birra «Era il pasto di Thodoran, ma tu ne hai più bisogno di lui, è sufficiente guardarti». Dal fu tentato di chiedere uno specchio, ma gli bastò il tono dell’uomo per capire che la sua magrezza adesso doveva essere notevole, quindi si limitò a ringraziare imbarazzato e a far sparire tutto il pasto nel giro di pochi minuti. Pian piano, la tensione nella taverna si abbassò, ritornando ai normali livelli di un’osteria di periferia. Quando ormai quasi tutti i presenti furono di nuovo concentrati sulla loro cena e sui loro discorsi, la tozza figura di un Nano dalla pelle stranamente scura si avvicinò al tavolo del Naigh-Moor, aggiustandosi per convenzione i lunghi capelli castani che gli donavano comunque ben poco, e sedendoglisi davanti con fare educato. «Buonasera» esordì, fissandolo con lo sguardo vispo ed un amichevole sorriso sotto la folta barba riccia. Dal alzò riluttante gli occhi dal piatto, incrociando gli occhietti allegri del Nano e osservando i suoi grezzi tratti somatici. Un grosso naso schiacciato spiccava sopra i lunghi baffi; le braccia e le mani poderose, per quel che si poteva scorgere attraverso la cotta di bronzo che proteggeva il vigoroso busto dell’individuo, erano costellate da un infinito numero di lunghi peli e da un’altrettanta moltitudine di piccole cicatrici. «Buonasera a voi.» rispose dopo qualche istante, lasciando le posate nel piatto e drizzandosi sulla schiena, assumendo un portamento più fiero «Chi sareste?». «Rokammarden Pellenera.» si presentò quello, con aria tranquilla, indicandosi il volto senza perdere il suo ghigno «Ma puoi chiamarmi Rok». «Dal Jin» mormorò senza fare caso all’improvviso passaggio all’uso del “tu” da parte del Nano «E cosa vorresti, allora, Rok?». Il Nano scoppiò in una fragorosa risata, battendo poi con forza una mano sull’esile spalla dell’elfo oscuro. «Veniamo al punto, eh?» esclamò, chiudendo la mano sinistra a pugno per meglio sottolineare le sue parole «Per me va bene!». Il forte tono del Nano si trasformò di colpo in un basso mormorio, dando ad intendere che il suo non era certo argomento da urlare ai quattro venti. «Hai combattuto molto bene contro quell’energumeno… Nei tuoi piccoli limiti, ovviamente.» precisò con un nuovo sorriso «Qui a Raidemark apprezziamo molto i combattenti forti e di fegato. Tu sei uno di questi. Vedi, sia io che molti altri abbiamo deciso di guadagnarci da vivere proprio sfruttando questa semplice abilità naturale». «Avventurieri?» azzardò il Naigh-Moor, mostrandosi interessato. 120
«No, no, gladiatori. C’è un’arena, nei sotterranei di una struttura disabitata poco distante. Non sarebbe propriamente legale, ma alla gente piace vedere due che se le danno di santa ragione». «Non so quanto piaccia a quello che finisce ammazzato». «Abbiamo un valido guaritore… In qualunque modo finisca, è in grado di curare le nostre ferite. In un po’ di tempo, s’intende» gli assicurò il Nano, seppur con qualche incertezza. «Sì, ma se qualcuno muore?» insistette l’altro, di colpo già riluttante all’idea «Cosa fa, lo rianima?». Rokammarden fece una smorfia, senza tuttavia perdersi d’animo. «Cerchiamo di evitare di ammazzarci.» continuò, giocherellando nervosamente con le proprie dita «E in caso di ferite molto gravi, il nostro guaritore è prontissimo ad intervenire, questione di pochi secondi. E’ in gamba.». «Non si è mai verificato alcun incidente, quindi?». «Non giri attorno alle parole, per cui ti dirò che uno ce n’è stato: ma uno solo, in molti anni. Non è certo questo piccolo rischio a spaventarci. Noi la consideriamo una questione d’onore; siamo guerrieri, dopotutto. Si rischia di più a lavorare al porto che a prendersi a mazzate. Avanti, che te ne pare? Mi sembra che tu abbia i requisiti per partecipare. Voglio dire, se non ti ha spaventato quel gorilla di prima!». Dal si accorse istantaneamente dell’occhiataccia che l’oste aveva lanciato loro, senza però dire niente. L’arena… Anche ad Armalak ve n’era più d’una. Molte volte vi si era recato, di nascosto, per poter seguire i combattimenti che vi si svolgevano ogni giorno. La sola differenza che pareva notare fra questi scontri e quelli a cui aveva già assistito era che nei secondi vi era molta più crudeltà, o almeno così sembrava. Combattere per onore? Perché no? Avrebbe avuto modo di imparare ad usare meglio le armi che portava con sé, riuscendo a contare su di loro invece che sulla fortuna e i riflessi, come aveva fatto sinora. «La professione di gladiatore paga bene» aggiunse Rok, strappando al NaighMoor una nuova occhiata interessata. Un altro punto a favore dell’accettare. In che altro modo sarebbe potuto sopravvivere? Braccato com’era dai soldati, entrare nelle fila di altri combattenti, e in clandestinità, poteva significare per lui la sicurezza, in aggiunta agli altri vantaggi. E poi, forse non era così incapace come aveva creduto fino ad allora. «D’accordo.» mormorò, senza però mostrarsi convinto come in realtà era «Finisco di mangiare e mi fai vedere». Così fecero. Rok e Dal consumarono con calma la loro cena, discutendo di tanto in tanto sui particolari e le regole degli scontri. A quanto pareva, esisteva una precisa gerarchia che classificava i combattenti in base al loro valore e alle 121
battaglie che avevano vinto. Al primo gradino stava il Signore delle Arene, un Umano di notevole abilità, a sentire Rok. Egli stesso ci aveva combattuto ed era stato sconfitto con estrema facilità, sebbene il Nano occupasse il terzo gradino della scala gerarchica. L’elfo oscuro avrebbe, com’è intuibile, occupato l’ultimo posto, in quanto si sarebbe trattato dell’ultimo arrivato fra i guerrieri. Sempre secondo le considerazioni di Rok, Dal si sarebbe lasciato alle spalle i livelli più bassi in ben poco tempo. Il Naigh-Moor era però restio su questo punto: fino ad allora, non aveva mai sostenuto duelli veri e propri e non era mai spiccato come combattente di innate capacità. A dire il vero non era spiccato nemmeno come un combattente comune. Le sue uniche esperienze erano quelle che aveva vissuto durante la sua fuga: che fossero state sufficienti a fare di lui un guerriero? Fra le continue ciance del gladiatore, l’elfo prese a guardarsi con attenzione ad ogni occasione, paragonandosi al Nano. Per quanto Rok non doveva aver mentito sul fatto di essere un veterano della lotta, Dal non ce la faceva comunque anche solo a pensare che un giorno sarebbe potuto diventare come lui. Di tanto in tanto il suo sguardo tornava sul pallido figuro vestito di nero in un angolo: quello sembrava invece un nobile da due soldi, avvezzo a vivere nella bambagia, a giudicare dalle pieghe stizzite che sembrava prendere la sua bocca di tanto in tanto. «No, non sono nemmeno ai suoi livelli» si trovò a dire, autocommiserandosi, mentre lo fissava in ogni suo movimento, senza che l’avventore sembrasse accorgersi di nulla. «Come?» domandò il Nano, interrompendo i suoi discorsi su un particolare, quanto noioso, scontro che aveva combattuto. «Niente» garantì l’altro, distogliendo lo sguardo da quell’individuo e tornando su Rok. Senza esitare, puntò un dito verso il piatto vuoto che aveva attentamente spazzolato fino all’ultima briciola: significava che potevano andarsene. O perlomeno questo fu quello che intuì il corpulento Nano. Si sollevarono entrambi in piedi, tornando ad essere il principale punto d’interesse di tutti gli altri presenti. Meno che uno, ancora una volta. Rok fece un cenno di saluto all’oste, che ricambiò però con una sola, truce occhiata, ed uscì dalla taverna, seguito dalla magra figura dell’elfo. Thodoran era ancora a terra, il viso contratto in una smorfia di dolore e la tempia sanguinante. «L’hai pestato bene, questo» constatò il Nano con un sorrisetto divertito. «Ci sarebbe riuscito chiunque altro, se lo avesse voluto davvero» borbottò Dal, scrollando le spalle, ben poco interessato al corpo tramortito del gigante. Stavolta Rok rimase in silenzio, limitandosi ad annuire con sguardo basso. In cuor suo, sapeva bene che non era così, che non poteva esserlo. L’elfo oscuro neanche notò l’improvviso cambio d’atteggiamento del Nano, assorto com’era 122
nei suoi pensieri. L’idea lo eccitava indubbiamente. Passò in rassegna ogni casa che superavano, sperando che fosse quella in cui si nascondeva l’arena. Ogni qualvolta veniva smentito dal passo immutabile del Nano, fissava l’edificio successivo, dimentico del fallimento. Rok rallentò solo quando furono di fronte ad un vero e proprio tugurio: una baracca in pietra rovinata, sporca e maltenuta. Appena la vide, Dal credette che gli sarebbe caduta addosso al primo colpo di vento. «È questa» gli confermò il Nano, dopo essersi guardato attentamente attorno a scanso di eventuali pericoli o grattacapi. Spinse la portaccia di legno con le grosse mani pelose, facendo cenno all’elfo oscuro di entrare in fretta. Dal si affrettò ad ubbidire, fiondandosi letteralmente all’interno della struttura prima che Rok dovesse ripetere. Buio pesto, tanto per cambiare. L’esule rimase immobile dov’era, attendendo che l’altro entrasse anch’egli e chiudesse la porta dietro di sé. Quel poco che riuscì a intravedere fu la tozza figura del Nano che si muoveva con naturalezza nella stanza, chinandosi dopo qualche metro. «Ti ci abituerai» mormorò con un sorriso che Dal non poté vedere; indi, si udì il rumore di qualcosa che si muoveva e la stanza si illuminò di una tenue luce proveniente dal basso. L’elfo poteva adesso distinguere chiaramente una botola di pietra aperta davanti ad un Rok impegnato a pulirsi le mani ai pantaloni. Indugiò per qualche istante, poi si decise a seguirlo quando questi scese la scala che portava ai piani inferiori. I sotterranei sembravano essere tutt’altra cosa dell’edificio in cui si trovavano: vive fiamme serpeggiavano sopra a numerose torce, la roccia delle pareti era liscia e levigata, tutto il corridoio appariva pulito e ordinato. Una ragazza Umana vestita con abiti semplici che mettevano bene in mostra il corpo prosperoso li guardava incuriosita, appoggiata alla parete. La pelle scura, di un colore che Dal non aveva mai visto sul corpo di nessun altro, prima d’ora, sembrava fragile e delicata, ricordando quella delle Naigh-Moor che il ragazzo aveva conosciuto. I lunghi capelli riccioli, più scuri della pelle, erano avvolti in una strana acconciatura che gli ricordava un albero a primavera; gli occhi erano due profonde pozze nere. «Ehilà, Sali.» si annunciò il Nano, alzando una mano in cenno di saluto «Ho portato un amico». Dal inarcò un sopracciglio a quell’ultima parola: Rok era indubbiamente molto veloce nello stringere amicizie. La ragazza alzò gli occhi dal Nano, fino a squadrare con attenzione l’esule, visibilmente diffidente. «Sei sicuro di quello che fai ?» la voce rifletteva benissimo il suo stato d’animo «È un Naigh-Moor». «Da quel poco che ho visto, è a posto… E ha steso Thodoran» 123
Sali si mostrò visibilmente colpita da quell’affermazione. «E poi,» continuò Rok con un sorriso allegro «se dovessi essermi sbagliato, lo prenderemo e lo rigetteremo in strada». «Se ha sistemato Thodoran, sarà più difficile di quanto pensi.» osservò la ragazza, prima di prorompere in una piccola risata e tendere la mano scura verso l’elfo «Io sono Sali, come avrete capito». Dal osservò quella mano un po’ inebetito: che voleva dire? Con fare incerto, eseguì la stessa mossa della ragazza che lo osservava tranquilla. Lo sguardo vivace dell’Umana si smorzò in un’espressione un po’ confusa, mentre prendeva l’iniziativa e stringeva quella mano, sentendola tremare dentro la sua. «È tutto a posto? » domandò perplessa dopo averla ritratta, vedendo che l’elfo sembrava ripetere le sue azioni in ritardo, come un automa. «Cos’è, ti sei già innamorato? » scherzò il Nano, assestandogli una gomitata durante l’ennesima risatina. Dal arrossì notevolmente, non tanto per il commento di Rok, quanto per il fatto di non sapere cosa significasse stringere una mano. Fra i Naigh-Moor, un simile gesto non era mai stato introdotto, in quanto significava rispettare una persona al pari di sé stesso. Ogni elfo grigio poteva esclusivamente inchinarsi o vedere il proprio interlocutore farlo, e questo accadeva solo durante occasioni formali. «Non è il mio tipo» ribatté con una smorfia la ragazza di colore, avendo ben capito dallo sguardo dell’elfo oscuro che dietro quell’esitazione doveva esserci qualcosa che loro non immaginavano nemmeno. Dal sollevò lo sguardo dalle sue riflessioni, tornando a guardare il Nano, che stava nuovamente ridacchiando. «Vogliamo muoverci?» sbuffò seccato, incrociando le braccia al petto e sollevando gli occhi al cielo. «Certo, certo, giovane innamorato.» rispose l’altro con l’ennesimo sorriso sarcastico, salutando poi con un cenno Sali «Andiamo, vieni dietro a me». L’elfo borbottò qualcosa, prima di voltarsi per vedere la ragazza stringersi nelle spalle divertita, evidentemente ormai abituata ai commenti ironici di Rok. Gli sorrise e Dal comprese già che fra quelle mura avrebbe trovato un’amica. Quella sensazione gli apparve comunque strana: erano bastati così pochi giorni a renderlo tanto disponibile verso gli altri? Ad Armalak, simili idee non lo avevano mai sfiorato o lo avevano comunque fatto molto di rado. Dal cominciò a capire che cosa fosse veramente il mondo al di là della penisola di Nog Tuluth. Certo, sapeva che non tutti si volevano bene gli uni con gli altri (come aveva provato sulla sua pelle una mezz’oretta prima), ma quel poco che aveva visto sulle labbra della ragazza e su quelle di Rok gli bastava. Qualcuno di cui fidarsi, forse. Mentre percorreva il corridoio, si ritenne fortunato.
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Raggiunsero in poco tempo un’imponente scala in legno resistente e, quando si apprestarono a scenderla, l’elfo notò che la luce aumentava sempre più, assieme ad un continuo vociare di sottofondo. Un nuovo corridoio gli si affiancò , ma il Nano gli fece cenno di continuare a scendere. «Un tempo questo posto era una catacomba, costruita in una grotta naturale e impermeabile: se così non fosse, non si spiegherebbe quanto è profonda. Mi ricorda alcune opere della mia gente.» fece Rok, con un sorriso «Poi è diventato un covo per contrabbandieri e roba del genere. Dicono sia pericolante, ma se tutta questa roba sta in piedi, e lo fa da un pezzo, stai sicuro che reggerà anche al terremoto. E se lo dice un Nano, puoi fidarti. La città è piena di accessi a caverne come questa». Si fermò, quindi, indicando uno stretto corridoio su cui si affacciavano numerose porte. «Le stanze dei gladiatori.» lo informò, senza degnarle di un’occhiata «La tua nuova casa». Dal sorrise, abbassando il capo. La prima casa, in verità. Gli appartamenti delle cortigiane non erano certo una casa, in quanto si trattava del semplice salottino, adibito a dormitorio durante la notte, a cui erano collegate tre o quattro stanzette. Contando che vi abitavano anche una quarantina di Naigh-Moor, si trattava di uno spazio piuttosto ristretto. Ben presto, la luce si fece ancora più forte, il vociare si trasformò in grida d’incoraggiamento e cori d’esultanza ben definibili. La scala stessa sembrò assumere un colore più giallastro, assieme al tozzo corpo del Nano. «E questo sarà il tuo regno, ragazzo mio!» Rok dovette esclamarlo per farsi sentire dall’elfo. Dal rimase sbalordito nel vedere quanta folla si era radunata intorno ad una grande arena in pietra, circondata da un’alta recinzione metallica. All’interno di essa, due uomini privi di corazza si fronteggiavano, combattendo con due lunghi bastoni con cerchi di ferro alle estremità. Entrambi sembravano notevolmente affaticati ed il loro corpo era coperto da lividi e chiazze sanguinanti. Un colpo violento di uno di essi fece volare via l’arma all’altro, facendola finire sul lato più vicino della recinzione. Dal vide l’uomo disarmato affannarsi per cercare di afferrare il bastone dell’altro, ma cadere poi a terra dopo un colpo altrettanto forte al viso. Il vincitore alzò il bastone al cielo, mostrandosi in tutta la sua forza e popolarità. «Uno scontro fra guerrieri di un certo livello. » spiegò il Nano al compagno, indicandogli i due «Due lottatori di un qualche ordine di non so dove… Non ci capisco nulla, in queste cose». Dal non riuscì a sorridere, lo sguardo fisso sullo sconfitto, agonizzante a terra, che si contorceva con le mani alla testa, fra le cui dita scivolava sangue 125
vermiglio. Rok non ci mise molto ad intuire il perché della sua assenza di risposta e gli diede una gomitata ad una gamba, indicandogli con l’altra mano un Umano con un’ampia tunica candida farsi strada fra i presenti. L’elfo oscuro seguì il grosso dito del Nano, seguendo i movimenti dell’uomo. Dalla sua posizione, riuscì a notare che anche lui reggeva fra le mani un bastone, ma alle loro estremità vi erano due lunghe lame ricurve ed il manico era ornato da fasce di vari colori. «Il guaritore, un sacerdote di Larillan.» gli indicò il Nano con tono tranquillo, incrociando le braccia «Te l’ho detto, non lasciamo certo chi perde a morire dissanguato». Poco convinto, Dal non si lasciò distrarre, continuando a fissare il chierico con aria scettica. Ora l’uomo stava cantilenando qualcosa ed il suo bastone sembrava vibrare di pura energia. Poi, lentamente, una piccola fiaccola azzurra comparve fra una delle lame, scivolando via da esse e ricadendo docilmente sul corpo dello sconfitto. Questi sembrò di colpo stare sensibilmente meglio: si alzò in piedi a fatica, tastandosi i punti in cui era stato ferito e notando con sua soddisfazione che non vi erano più segni così marcati. «Non chiedermi come diavolo fa,» borbottò Rok, dopo un sospiro «ma quello è quasi in grado di rianimare un cadavere. Se non ci fosse lui, temo che la nostra arena non esisterebbe nemmeno. È un brav’uomo: dice che lo fa per vocazione». L’esule annuì, sospirando a sua volta. Adesso lo sconfitto sembrava essere almeno in grado di camminare, ma poco prima non doveva essersi sentito molto bene. Rabbrividì al pensiero di trovarsi nelle medesime condizioni, ma si costrinse a stringersi nelle spalle. Doveva riuscire a sopravvivere con i suoi mezzi per un po’ e quella era la soluzione più a portata di mano. Dopotutto, non era detto che le cose andassero così male anche per lui: Rok sembrava così sicuro, quando diceva che si sarebbe rivelato un ottimo gladiatore. «Allora, che devo fare?» domandò d’un tratto il Nano, guardandolo preoccupato «Vado a parlare col gestore o no?». Dal lo guardò con aria rassegnata, quindi si fece forza e annuì con vigore. «Vai» mormorò, tornando a fissare l’arena con sguardo di sfida. «Io sto per chiudere» annunciò l’oste, avvicinandosi al tavolo dove il pallido avventore restava seduto, assorto nelle sue meditazioni. L’individuo alzò lo sguardo sull’uomo, guardandolo con due occhi che lo fecero rabbrividire, quindi si alzò, ergendosi in tutta la sua altezza. Quanto sembrava piccolo l’oste a confronto di quell’essere! Snello e pallido, vestito completamente di nero, sembrava un profeta divino di chissà quali sventure. Con passo tranquillo, superò l’uomo, senza degnarlo di un solo sguardo. L’oste rimase fermo in quella posizione, inquietato dalla presenza di quello strano avventore. 126
Una grossa mano si appoggiò allo stipite della porta, seguita da un ringhio furioso, quando ormai l’individuo aveva raggiunto il bancone. «Dov’è?» la voce di Thodoran squarciò la quiete della taverna come un fulmine a ciel sereno «Dov’è quel piccolo bastardo?». L’oste iniziò a sudare freddo, ritraendosi dietro il tavolo a cui era seduto l’avventore, che ora si apprestava ad oltrepassare con tranquillità il gigante. «E tu dove vuoi andare? » gli gridò contro questi, spingendolo maleducatamente indietro, senza che questi sembrasse tuttavia minimamente impressionato. Infatti, l’avventore appena spinto indietro aveva ripreso a camminare verso l’uscita con passo tranquillo e pacato. «Ehi, ti ho detto che tu non esci!» gli intimò nuovamente con tono rabbioso «Ma chi diavolo credi di essere, mingherlino?». Furiosamente, allungò la mano verso il suo volto, scansandogli il cappuccio con un colpo netto, mettendogli in mostra i lunghi capelli corvini, lisci come l’olio. Lo sguardo adirato si trasformò di colpo in un’espressione confusa, mentre ritraeva goffamente la mano, indicando il viso pallido e magro dell’avventore. «Quegli occhi… Tu sei come quel ragazzino! » urlò il gigante, chiudendo le mani a pugno e preparandosi a colpirlo. «Forse» rispose asciutto l’altro, evitando con facilità il feroce diretto, scartando rapidamente a sinistra. Senza alcuna esitazione, sollevò la gamba destra, sferrando un rapido quanto violento calcio alla mascella dell’avversario e facendolo finire a terra, dopo che questi ebbe effettuato qualche giro intontito su sé stesso. L’individuo rimase a guardarlo mentre Thodoran cercava di sollevarsi sgraziatamente, ritrovandosi comunque con la faccia contro il pavimento in legno dell’osteria, quindi lo agguantò per il colletto, trascinandolo nuovamente fuori con una sola mano. «Scusate per l’inconveniente» mormorò in direzione dell’oste, sollevandosi di nuovo il cappuccio sul viso, mentre il gigante faceva un volo di un paio di metri, andando a finire, grugno a terra, contro la strada polverosa. Con sguardo incredulo, il proprietario della taverna rimase immobile dietro il tavolo, la bocca aperta, la testa calva percorsa da dozzine di piccole gocce di paura. Serata un po’ troppo movimentata, quella.
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XIII. Rinascita
«
Qua dentro» il viso di Rokammarden Pellenera si fece serio, mentre indicava la robusta porta che spiccava nel corridoio degli appartamenti: dovevano averla recuperata chissà dove e piazzata lì perché risaltasse. Posò la mano sulla maniglia, deciso ad entrare, ma esitò, tornando a guardare il Naigh-Moor in piedi dietro di lui, che gettava continue occhiate in direzione della scala che portava all’arena. «Come hai detto che ti chiami? » gli chiese, aggrottando incerto la fronte. «Dal Jin.» rispose l’altro frettolosamente «Però puoi chiamarmi Dal, se vuoi». Il Nano annuì con un nuovo sorriso, quindi diede due sonori colpetti alla porta e la aprì, rendendo visibile la stanza del gestore. Un uomo sulla cinquantina, ben vestito e dotato di un fisico invidiabile per l’età, sedeva tranquillo dietro una scrivania perfettamente in ordine, su cui troneggiava una corazza di ottima fattura, con glifi splendenti ed un grosso cavallo alato scolpito sul torace. Non si sarebbe certo detto che in un luogo del genere vi potesse essere una stanza così ben arredata: armi, elmi e scudi di magnifica qualità addobbavano pareti e piccoli mobili ed il grosso teschio di una sfortunata creatura con feroci zanne e lunghe corna appuntite stava in un angolo, illuminato dalla tenue luce di due lunghe candele. Il gestore alzò gli occhi con palese sollievo da un foglietto che stava esaminando: non doveva certo essere entusiasta di dover svolgere quei compiti da scribacchino. Si passò una mano fra i radi capelli neri con disinvoltura, poggiando poi entrambi i gomiti sul tavolo. Il suo sguardo tradiva la curiosità e lo scetticismo che aveva provato nel notare chi stesse seguendo il Nano. «Salute, Bozus» esclamò Rok, richiudendo educatamente la porta dietro di sé «Salute a te, Rok» rispose l’altro, ma i suo occhi non si staccarono dall’elfo oscuro, in piedi accanto al Nano e notevolmente a disagio. «Ti ho portato un ragazzo promettente» annunciò Rok, prendendo posto a sedere su una delle due sedie davanti alla scrivania. «Ho visto.» il gestore reagì a quelle parole con un rauco sussurro, senza fare obiezioni nel vedere che Dal non si era nemmeno avvicinato alla sedia «Un Naigh-Moor». L’esule sentì il proprio stomaco contorcersi al percepire quel tono ben poco allegro: la pessima fama della sua razza lo avrebbe seguito ovunque, lo sapeva bene. «È a posto, puoi fidarti. » gli garantì il Nano, sfoggiando il suo tipico sorriso «Ed è un guerriero dannatamente abile». 128
«Non lo metto in dubbio, se lo dici tu.» mentì visibilmente Bozus, allargando le braccia «Ma non vorrei essere nei suoi panni: molti dei nostri compagni hanno perso la famiglia proprio per mano di quelli come lui». «Non fare di tutta l’erba un fascio: mi sembra fin troppo diverso dai comuni elfi oscuri» replicò l’altro. «Già, è evidente.» mormorò l’uomo, alzandosi in piedi e facendo cenno all’elfo di uscire «Ti dispiacerebbe lasciarci soli, ragazzo?». Dal si strinse nelle spalle, controllando che sul viso di Rok apparisse un cenno d’assenso, quindi uscì dalla stanza, appoggiandosi poi alla porta che aveva attentamente richiuso. All’interno, Bozus si era avvicinato ad una lunga alabarda ed aveva preso ad accarezzarne il manico, per nulla convinto dalle parole del Nano. «So a cosa stai pensando.» arguì Rok, tenendo la voce bassa, conscio del fatto che gli elfi sono dotati di un apparato uditivo molto più sensibile di qualunque altra creatura intelligente «Ma non ha niente a che vedere con i suoi simili, te lo garantisco». «Oh, su questo hai ragione» rispose l’altro, avvicinandosi alla scrivania ed aprendo attentamente un cassetto. Infilò una mano all’interno di esso e la tirò fuori assieme ad un ormai noto avviso di taglia, passando quest’ultimo alle curiose mani del Nano. «Alcuni Naigh-Moor sono arrivati in città, questa mattina, ed hanno già affisso decine di questi manifesti al di fuori delle mura» mormorò Bozus, piantando i pugni contro la scrivania e appoggiandovisi. Rok sorrise, staccando poi gli occhi dal foglio soddisfatto. «È la prova di quello che ti ho detto: è senza dubbio un esule» disse con tono sereno. «È vero,» ammise l’altro «ma ci sono due motivi per cui non è saggio prenderlo fra noi: per prima cosa, è comunque un elfo oscuro e, sebbene gli altri suoi compagni potrebbero capire che non è d’accordo con i suoi simili, ha sicuramente un atteggiamento che farà perdere le staffe a qualcuno; per seconda, c’è il problema della taglia. Hai idea di cosa succederebbe se i NaighMoor venissero a sapere che si trova qui? Se qualcuno dei nostri facesse la spia per incassare il denaro?». Il Nano assunse un’espressione cupa, annuendo preoccupato fra sé. «Corriamo il rischio di venire annientati anche solo per averlo fatto entrare qui, stasera. Vuoi che quei dannati radano al suolo questo edificio con noi all’interno? Non possiamo nemmeno rivolgerci alle guardie, se non vogliamo finire tutti quanti nelle prigioni di Raidemark» continuò Bozus, prendendo a camminare nervosamente avanti e indietro per la stanza.
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Rok sospirò, sporgendosi per posare il foglio sulla scrivania e tornare poi nella sua posizione riflessiva, le braccia incrociate, il mento piantato contro la cotta. «Quel ragazzo ha steso Thodoran.» mormorò, senza smuoversi di un solo millimetro «Con particolare facilità, inoltre». «Come?» l’altro si fermò di colpo, fissando sbalordito il Nano come se gli avesse appena rivelato qualcosa di fondamentale per la sua intera esistenza. Rok annuì, sollevando poi lo sguardo sul gestore con aria determinata. «Quello che ha messo sotto anche me.» precisò, storcendo il naso, al ripensare al suo scontro con l’energumeno «Dal Jin ha stoffa da vendere». Bozus si lasciò cadere sulla sedia, scuotendo la testa come per riprendersi: da quando si era insediato da quelle parti, Thodoran il bullo si era rivelato uno spina nel fianco per chiunque avesse intenzione di mettere piede all’interno de “Il cervo”. A Rok questo non era piaciuto, ma vedere le condizioni in cui l’Umano l’aveva ridotto aveva spinto molti a scegliere di non affrontarlo. A quanti poi avevano commentato che un Nano era troppo basso per affrontare un simile gigante, lo stesso Bozus aveva risposto che non era affatto stata una questione di centimetri. «Non basterebbe lo stesso, contro i Naigh-Moor…» rispose dopo qualche secondo, ma nella sua voce si leggeva l’incertezza che lo percorreva. «Andiamo, Bozus! A parte il fatto che un plotone di elfi oscuri avrebbero notevoli difficoltà ad entrare a Raidemark, quel ragazzo può rivelarsi un eccellente combattente». «Corriamo troppi rischi, Rok» insistette seccamente l’altro, mostrandosi ben deciso a non cedere nemmeno sotto quella prospettiva. Il Nano borbottò qualcosa fra sé con espressione contrariata, quindi continuò nella sua battaglia personale fra testardaggini. «Ha bisogno di noi, lo vuoi capire? È un esule, può aiutare tutti quanti, qui! Vuoi lasciarlo morire per paura di qualche stupido soldatino con la pelle grigia?» il suo tono andava sempre più aumentando, i piccoli occhi a fessura sembravano essere pronti a lanciare fiamme e fulmini. L’uomo rimase perplesso, mentre riviveva i tempi in cui aveva combattuto assieme ai cavalieri e ai sacerdoti di Mytherlat, il ferreo Dio della Giustizia, affinché episodi come quelli che doveva aver vissuto il Naigh-Moor non si ripetessero. Anni prima, si era ritrovato ad essere il solo superstite del suo gruppo, in quanto tutti i suoi compagni erano caduti durante un’avventura troppo grande per loro. Bozus rabbrividì al pensiero dei suoi amici scomparsi in un luogo lontano parecchi giorni di viaggio da lì e di lui che fuggiva, lasciandoli al loro destino. Ora un ragazzo che aveva perso tutto bussava alla sua porta, in cerca di aiuto: era forse giunta l’occasione di redimersi dal suo orribile atto di codardia? I rischi si presentavano più reali di quella volta, ma non si trovava più 130
da solo. Un’intera arena era pronta a combattere al suo fianco, in caso di estrema necessità. Tuttavia, quanti sarebbero fuggiti, piuttosto che affrontare l’ira della Legione di Armalak? Quanti avrebbero preferito tradirlo? «Fallo entrare: gli parlerò» riuscì a dire, senza alzare lo sguardo, la mano che reggeva la fronte stanca. Rok non se lo fece ripetere: rapidamente, si sollevò dalla sua sedia, dirigendosi verso la porta a passo svelto. «Da solo» ingiunse il gestore, quando il Nano stava ormai calcando la mano sulla maniglia. L’altro annuì, aprendo lentamente la porta: Dal se ne stava appoggiato alla parete in pietra, le braccia conserte, gli occhi lontani dall’uscio. Nonostante le parole di Bozus, non sembrava minimamente turbato all’idea di un fallimento. «Ehi» lo chiamò l’altro a voce bassa, facendogli cenno di entrare. L’esule si voltò interessato ed anche un po’ stupito, varcando la soglia della stanza quando ormai il Nano era lontano da essa. Chiuse la porta distrattamente, concentrato com’era sulla figura dell’uomo che adesso aveva ripreso di colpo tutta la sua dignità e sedeva composto sulla poltrona dietro la scrivania, il pollice affondato nella mascella. «Dal Jin, no?» disse con aria tranquilla, mentre questi gli si avvicinava timidamente, fermandosi dietro una sedia e posandovi le esili mani sopra. «Sì…» rispose quello con un filo di voce, notando l’avviso di taglia spiegato sulla scrivania e fissando poi il suo interlocutore con aria interrogativa. «Esule di Armalak.» aggiunse Bozus, prendendo in mano l’avviso per poi riporlo nello stesso cassetto da cui l’aveva estratto «Perché sei fuggito?». «Ho… Dovuto.» rispose sincero l’altro, seguendo ogni movimento delle mani dell’altro «Non potevo più vivere lì». «Condannato?» azzardò l’uomo, unendo i polpastrelli delle mani. «No, non proprio.» Dal esitò, emettendo un piccolo sospiro «Ma ho conosciuto un uomo che condivideva quella sorte». «Chi?» insistette l’altro, cercando di aprire una falla nelle sue affermazioni. «Un generale imperiale,» alzò gli occhi, incrociando lo sguardo interessato del gestore «Marcus Darnissor». A quelle parole, Bozus scattò in piedi, piantando le mani contro le scrivania, gli occhi sbarrati, lo sguardo sconvolto. «Darnissor? Darnissor è stato catturato?» esclamò, pronto a scuotere come un pupazzo quel ragazzo pur di avere una risposta. «Siamo scappati assieme.» cercò di tranquillizzarlo l’altro, stringendo le dita contro lo schienale, conscio del fatto che avrebbe comunque dovuto rivelare tutta la verità «È… Morto durante la fuga».
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L’uomo crollò sulla poltrona, esausto, colpito da quella notizia improvvisa come da un dardo di balestra dritto al cuore. «Darnissor… Morto?» balbettò confusamente, senza osare rialzarsi. L’elfo annuì col capo, anch’egli poco felice di tornare con la mente al momento in cui l’aveva saputo da quel soldato. Non aveva mai avuto una conferma e di questo si era rammaricato da quel momento, ma non riusciva ad immaginare come l’uomo avrebbe potuto scamparla. Dall’altra parte della scrivania, Bozus non accennava a riprendersi, gli occhi bassi, le mani strette attorno ai braccioli della poltrona: aveva sempre sentito parlare soltanto bene di quell’ufficiale ed aveva pregato in cuor suo che non partisse per quell’assurda missione a Nog Tuluth. Dopotutto, come avrebbe potuto con un’armata del genere raggiungere quella terra maledetta, insinuarsi fra i domini dei perfidi Naigh-Moor e sconfiggere le bellicose tribù di Orchi che si preparavano ad assaltare il Principato in cui anche lui viveva? Sarebbe stato più saggio attenderli a Raidemark assieme al potente esercito di Vathalar. Tutti lo sapevano. Si costrinse a scacciare quei pensieri ed a riportare la propria attenzione sull’esule. «Rok dice che te la cavi bene a combattere.» cambiò improvvisamente discorso, tentando di tornare ad assumere il portamento di poc’anzi «Credi di potercela fare?». Dal rimase in silenzio qualche istante, mentre eliminava faticosamente le parole di Marcus dalla sua testa, poi si decise a rispondere, seppur con una voce che non era null’altro che un debole sussurro. «Sono qui per saperlo». «Già.» mormorò l’altro, soppesando attentamente quella risposta «Immagino che tu sappia i rischi che corriamo a prenderti tra noi, perciò te lo chiedo sinceramente e voglio un’altrettanto onesta risposta: lo vuoi davvero?». «Sì» rispose risoluto, fissando con aria caparbia Bozus, che appariva ormai rassegnato. «Dovrai cambiare il tuo nome: nessuno in città dovrà conoscerti come Dal Jin. Provvederemo a tagliarti i capelli e tu stesso dovrai cercare di sembrare diverso da come sei realmente». L’esule annuì, stavolta con meno entusiasmo: era una cosa che andava fatta, lo sapeva bene, ma non gli piaceva comunque. Con un sospiro, portò entrambe le mani al diadema, togliendoselo dalle tempie ben poco allegramente. «Perdonami, madre» si disse, mentre lo rigirava fra le dita, fissandolo, conscio di non poter fare altrimenti. «Ti faremo avere altri vestiti.» aggiunse Bozus, incrociando le braccia al petto e appoggiandosi allo schienale della poltrona «Questi li terrò io stesso al sicuro».
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Dal lanciò un’occhiataccia all’uomo. L’idea di lasciare la sua roba in mano a qualcun altro gli fece subito pensare che quegli stessi vestiti sarebbero finiti nelle mani di un mercante in ben poco tempo. «Non me ne separerò.» ingiunse nervoso, stringendo con forza il diadema dorato «Li terrò nella mia stanza; nessuno li toccherà nemmeno lì». «Come vuoi.» rispose a quell’ordine l’uomo, scrollando le spalle «Ma bada di non rimetterteli, ne va della sicurezza di tutti. Inoltre, sarebbe un peccato rovinarli in un combattimento». L’elfo si sentì già più tranquillo a quelle semplici parole: per quanto si trattasse di un sacrificio di cui avrebbe fatto volentieri a meno, avrebbe accettato anche questo, purché la sua roba fosse sempre restata a portata di mano. «Vai pure a riposarti, se vuoi.» concluse l’altro con tono tranquillo «L’ultima stanza a destra». «Andiamo, non vorrai fare tardi al tuo primo scontro, vero?». Il tono canzonatorio di Rok lo portò a fare una smorfia, mentre fissava scettico i vestiti troppo larghi per il suo esile fisico. Certo che erano rapidi, da quelle parti! Soltanto la sera prima aveva tenuto il suo colloquio con Bozus e quella mattina doveva già affrontare un combattimento. Era fin troppo evidente che il gestore dell’arena voleva essere sicuro di aver fatto la scelta giusta prima che fosse troppo tardi, se non lo era già. Sbuffando, s’infilò le vesti che gli erano state mandate, constatando con suo disappunto che erano più scomode di quanto avesse immaginato. Con gesto annoiato, si protese per raccogliere la spada tenuta sotto la branda che gli era spettata, ma la salda stretta di Rok gli intimò di non farlo. «È un semplice allenamento, cosa credi?» lo informò con una risata il Nano, strattonandolo indietro con una forza che quel tozzo corpo sembrava non avere nemmeno lontanamente. Dal lo guardò accigliato, lasciandosi vincere dalla brusca stretta del gladiatore: lo fissò attentamente, quando ebbe smesso di tirarlo a sé come un elastico. «E allora?» osò chiedere, inarcando un biancastro sopracciglio. «E allora utilizzeremo semplici bastoni: devi ancora abituarti ai duelli» rispose Rok, avviandosi verso l’uscita della piccola stanza. «Utilizzeremo?» obiettò, poco convinto «Che c’entri tu?». «Dove troveresti qualcun’altro che ti sopporta anche quando ti alleni?» rispose sarcasticamente l’altro, aprendo la porta con tranquillità «Forza, muoviti: troverai tutto quello che ti serve al piano di sotto». Dal borbottò qualcosa, anche se in cuor suo sapeva di non poter far altro che rallegrarsi per il fatto di avere Rok come compagno di allenamenti. Sembrava abile a combattere, era in buon rapporti col gestore, almeno apparenti, e lo 133
considerava dopotutto una persona gradevole, se non fosse stato per quelle continue battute pungenti che gli rivolgeva. Si avviarono entrambi per il corridoio, immerso nel silenzio, rotto soltanto dal battere dei loro stivali sul pavimento di pietra. L’elfo notò subito la differenza con la sera prima: nessun grido proveniente dall’arena, poche fiaccole accese e un’atmosfera molto più tranquilla. Con un sospiro, scese le scale che portavano all’arena: sarebbe stato comunque più sicuro combattere con quel Nano che con i soldati di Armalak. «Spero per te che quel ragazzo sia davvero in gamba come dici» mormorò fra uno sbadiglio e l’altro la figura del guaritore che era intervenuto nello scontro la sera prima. Lo sguardo assonnato del sacerdote si posò su Bozus, immobile accanto a lui, ma visibilmente nervoso. Dritto come un palo, le braccia conserte, fissava la scala impaziente, chiedendosi quanto avrebbe dovuto ancora aspettare ed ignorando i continui commenti del suo compagno. Quando finalmente il Nano e l’elfo comparvero in cima ad essa, tirò un sospiro di sollievo, voltandosi a guardare lo svogliato guaritore. «È quello, Goyl» gli disse, indicandolo con un cenno del capo. «Ma va? » ribatté l’altro, ironico, divertito dall’agitazione del gestore, che adesso sembrava avere due dischi roventi al posto degli occhi. Bozus si costrinse a non rispondere, attendendo che i due scendessero l’ultimo gradino senza dire nient’altro. Dall’altra parte della stanza, Dal appariva inquieto come poche altre volte: gli occhi sanguigni si guardavano attorno incessantemente, visibilmente poco fiduciosi. Solo quando fu a un paio di metri dai due uomini, si decise a concentrarsi su di loro. Adesso che non era presente il marasma della sera precedente, poteva delineare facilmente il guaritore ed il suo strano bastone adorno di fasce multicolori, su cui erano tracciate eleganti e sinuose rune elfiche. La pelle chiara, i capelli sbiancati prima del tempo, almeno a giudicare dalla scarsità di rughe sul suo viso, e la tunica dello stesso colore lo facevano apparire più come un fantasma che come una creatura vivente. Reggeva il bastone con una sola mano, in modo che l’altra potesse strofinare gli occhi arrossati dopo ogni sbadiglio che si susseguiva incessantemente al precedente. «Goyl Nakader.» lo presentò Bozus al Naigh-Moor, indicandolo con il pollice destro «Lui è Dal Jin». «Larillan sia con te, Dal Jin» rispose automaticamente il sacerdote, guardando ben poco interessato l’elfo. «Potete chiamarmi Nor Zalafeth.» mormorò l’esule, lanciando un’occhiata d’intesa al gestore «O meglio, dovete, a sentire lui».
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Bozus sorrise, portandosi al fianco del ragazzo e assestandogli una pacca sulle spalle. «Procedi con i tuoi controlli, Goyl» concesse quindi, notando la richiesta del chierico fatta con un semplice sguardo. Dal inarcò un sopracciglio stupito, voltandosi automaticamente verso il Nano, solo per vederlo scrollare le spalle, considerando ovviamente quei controlli come ordinaria routine. Riuscì così a vedere a malapena il bastone del sacerdote posarsi sulla sua spalla destra e vibrare per un istante, prima che Goyl lo ritraesse con disinvoltura. «Nessuna protezione magica.» confermò il chierico all’uomo e al Nano, che lo guardavano tranquilli «Ma è più resistente alla magia del normale, almeno in base a quanto mi hai detto, Bozus». «Questo è solo un bene per lui: non vuol dire niente» tagliò corto l’uomo, poco interessato a quel particolare. «Larillan non lo apprezzerebbe molto.» mormorò con una smorfia il sacerdote, tornando poi ad assumere un’espressione tranquilla, dopo l’ennesimo sbadiglio «Ma questo non è un problema». Dal lo guardò confuso, quindi, sotto l’invito del Nano, si decise ad impugnare un bastone della sua misura. «Chi è Larillan?» gli sussurrò quando furono abbastanza vicini, in modo che solo lui potesse sentirlo. «Il Dio della magia o qualcosa del genere.» rispose l’altro, lanciando un’occhiata sgradevole al sacerdote «Non chiederlo a lui o ti usa per sperimentare i suoi dannati incantesimi». L’elfo sorrise, portando poi la sua attenzione sull’arena davanti a lui: sarebbe dovuto entrarvi entro pochi secondi. Alzò gli occhi al soffitto, assaporando gli ultimi secondi della sua esistenza precedente, chiedendosi se sarebbe mai tornato ad essere quello che era, se sarebbe riuscito a tornare alla sua vita di sempre. Con un sospiro, chiuse Dal Jin nel baule dei ricordi e fece entrare Nor Zalafeth all’interno dell’arena.
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XIV. Limiti magici
«
Immagino tu conosca le regole». Il solido cancello dell’arena si chiuse dietro i due combattenti mentre ogni parola veniva attentamente scandita da Bozus, di colpo visibilmente nervoso. Dal, di spalle al gestore e al chierico, lanciò di scatto un’occhiata stupita al Nano accanto a lui, Rok Pellenera, la tozza figura muscolosa che si stava togliendo la pesante maglia. Questi si limitò a scrollare le spalle e a fare una smorfia completamente disinteressata. «Niente colpi mortali: l’obiettivo è quello di rendere inoffensivo l’avversario, non di ucciderlo.» continuò con fare piuttosto seccato il gestore, armeggiando per chiudere saldamente il cancello «È tutto quello che devi sapere. Nessuno è qui per uccidere nessuno. Un incontro può terminare con lo sconfitto senza un graffio, se si usa un po’ di buonsenso». Il Naigh-Moor non si curò di rispondere, se non con un lieve cenno del capo, occupato com’era a guardarsi attorno, abbacinato come se avesse avuto davanti a sé una vera e propria opera d’arte. Per anni aveva ammirato le arene di Armalak e da bambino aveva sperato di poter diventare un valido gladiatore, un guerriero coraggioso ed impavido, un eroe pronto a combattere pur di affinare le proprie abilità e difendere la città dagli invasori che, a giudicare dalle storie e dalle leggende messe in giro dalle vecchie elfe oscure, non aspettavano altro che un attimo di disattenzione per sfondare le mura e depredare la città. Con gli anni si era reso conto di quanto c’era di falso in quella favole per bambini e di come un gladiatore non fosse proprio un paladino senza macchia e senza paura. Assassini a pagamento che si battevano solo per dare al pubblico l’ebbrezza della violenza e del sangue, che uccidevano per denaro, dilettando gente ancor più feroce di loro. Raggiunta questa coscienza della realtà, aveva messo senza indugi da parte i suoi sogni da ragazzino. Ma tutto questo non era bastato a tenerlo lontano dalle arene, a impedirgli di sognare avventure e battaglie lontane da Nog Tuluth, luoghi dove il coraggio, l’eroismo e il senso dell’onore sarebbero stati sempre rispettati. Ora stava entrando in un posto che, a prima vista, non si sarebbe detto molto diverso dall’inferno che aveva già vissuto, eppure non se ne pentiva. Forse le parole di Rokammarden il Nano erano bastate ad abbindolarlo a tal punto da fargli credere che quel luogo sarebbe stato decisamente migliore di ciò che chiunque altro avrebbe pensato. E quelle semplici parole di Bozus: non uccidere. Un concetto troppo Umano, troppo diverso dal cinico modo di pensare dei Naigh-Moor, perché non potesse fare breccia nella mente di quello che era ancora un adolescente, dopotutto. Lasciò vagare lo sguardo sugli spalti 136
vuoti, sulla recinzione metallica, sull’impazienza di Bozus, sugli occhi tranquilli del guaritore, quindi su quelli incuriositi del Nano, nudo fino alla cintola. Chinò di un poco il capo, nascondendo un piccolo sorriso: una casa ed una famiglia. «Tutto bene?» domandò Rok, appoggiandosi con una mano al solido bastone, rivolto verso terra. Dal annuì con aria un po’ interrogativa, senza nemmeno pensare al fatto che era rimasto in piedi, immobile, con lo sguardo perso nel vuoto, quindi si portò al centro dell’arena con naturalezza, ripetendosi dentro di sé quanto quello scontro sarebbe stato importante. Il Nano lo seguì senza smettere di controllarlo, piazzandosi poi davanti a lui con le gambe divaricate e il bastone stretto dalle grosse mani. «Il suono del gong indicherà l’inizio del vostro scontro» annunciò il gestore, che ora sedeva accanto ad un grande disco di bronzo, reggendo in una mano una piccola mazza. Entrambi i combattenti si piegarono sulle ginocchia a quell’ordine, tenendosi d’occhio senza spiccicare una sola parola. Rok restava fermo senza muovere un solo muscolo, in posizione statuaria: tutto il suo sarcasmo e la sua ironia sembravano essere annegate in una determinazione senza pari, le sottili fessure sotto le folte sopracciglia non lasciavano trapelare nessuna emozione. Quell’elfo gli era simpatico, doveva ammetterlo. La sera precedente, quando aveva saputo dello scontro che avrebbe dovuto combattere l’indomani, aveva considerato seriamente l’idea di favorire quel ragazzo in qualche modo, ma tutti i suoi progetti erano scomparsi quando aveva ripensato alla rissa in taverna. L’anno prima, il Nano se l’era vista con quel bestione, Thodoran, ed aveva assaggiato l’amaro sapore della sconfitta. Pochi colpi e si era ritrovato steso a terra con un braccio rotto e la testa che gli doleva come un cuore pulsante. Adesso questo ragazzo, un perfetto sconosciuto, era riuscito a batterlo senza nemmeno faticare troppo. Fortuna? Intelligenza? O un talento innato? Da quello che aveva visto, Dal non era certo il miglior combattente del mondo: gli attacchi che aveva sferrato prima col gambo del tavolo e poi col pugnale non erano affatto quelli di un guerriero esperto. Ad un vero lottatore sarebbe bastato un solo colpo ben assestato per stordire il gigante, ma nonostante la sua inesperienza e la visibile agitazione, il Naigh-Moor era comunque riuscito a sconfiggere quel temibile avversario. Cosa nascondeva quel ragazzo? Quale forza l’aveva reso così letale? E soprattutto, cos’aveva che lui non possedesse? Di fronte al Nano, Dal stava, molto pateticamente, pregando. Incerto sul da farsi, stava lasciando che la paura lo vincesse dal tutto. Una vibrante nota del gong lo destò di colpo da quei pensieri: strinse le dita attorno al lungo bastone, serrando allo stesso modo i denti. Trascorsi alcuni istanti, Rok prese l’iniziativa. Con una rapidità che non si sarebbe nemmeno immaginata per un corpo come il 137
suo, scattò in avanti ed effettuò un violento, ma fin troppo probabile, attacco diretto al fianco dell’elfo, mandando il bastone a sbattere contro il suo. Il colpo non si rivelo però così semplice come sembrava: con mossa repentina, il Nano ritrasse la sua arma, spingendola poi contro l’addome scoperto del ragazzo. D’istinto, Dal balzò indietro, come d’altronde Rok aveva previsto e per il quale motivo si era portato più in avanti, in modo da raggiungere l’avversario, ovunque egli andasse. Quello che non aveva previsto era che “il troppo inesperto combattente” potesse evitare quell’attacco. Al contrario, il Naigh-Moor riuscì a parare il colpo, ruotando il bastone con velocità fulminea e spingendolo successivamente verso l’alto, portando entrambe le armi sopra la testa dello sbalordito Rokammarden. Sollevò di scatto la gamba destra, pronto a colpire in piena faccia il basso Nano, ma quando era ormai pronto a colpire, esitò. Calciare a quel modo colui che reputava un po’ come il suo salvatore non gli andava assolutamente a genio. Tuttavia, sapeva che non poteva permettersi di mostrarsi pietoso in un frangente come quello: decise quindi che avrebbe sì colpito, o meglio, cercato di colpire il suo avversario, ma non avrebbe osato fare quella che sarebbe stata indubbiamente una delle migliori azioni in un combattimento. Anziché sollevare la gamba sino alla faccia di Rok, indirizzò il colpo contro le sue ginocchia, colpendolo di fianco, con l’intento di farlo cadere a terra. L’impatto fra la lunga ed esile gamba dell’elfo e quella corta del Nano si udì distintamente per tutta l’arena e gli spalti. Dal sbarrò gli occhi, nel notare che l’avversario non aveva fatto una grinza e restava saldamente in piedi, come se non fosse stato nemmeno sfiorato. «Mai fare concessioni» ringhiò, allontanando il bastone da quello dell’avversario. Dal si sentì già sconfitto dopo quel fallimento. Abbassò goffamente la sua arma, troppo lentamente perché l’urto del largo legno che il Nano utilizzava non riuscisse a superare la difesa, colpendolo alla bocca dello stomaco in modo da farlo finire a terra. Spalancò la bocca, allentando la stretta sul bastone, mentre volava letteralmente indietro, atterrando sulla schiena con un tonfo. Strinse i denti nella speranza di riuscire ad ignorare il dolore, sollevando la testa con la sola forza di volontà, abbastanza rapidamente per vedere Rok che si stava nuovamente avventando su di lui. Con tutta la rabbia accumulata nel colpo che aveva subito, sollevò di scatto un piede, stavolta colpendo in pieno il viso contratto in una smorfia aggressiva con il tallone. Il Nano fu costretto a fare un passo indietro, sibilando sotto il sangue che cominciava a colare dal grosso naso. In quel breve istante, Dal riuscì a trovare la forza per rotolare sul fianco, sollevandosi poi in piedi con il bastone fra le mani. Rimasero entrambi nelle loro rispettive posizioni, intenti a riprendere fiato dopo i violenti colpi che avevano subito, quindi l’elfo mostrò i denti serrati, caricando rapidamente il 138
gladiatore. Senza esitare diresse un violento fendente alla testa scoperta del Nano, anche se questi riuscì ad intercettarlo con facilità, aspettandosi evidentemente una mossa del genere: l’esperienza di Rok cominciò a farsi sentire. Nonostante la foga che lo pervadeva, anche il Naigh-Moor lo capì. Non avrebbe vinto, come aveva dato per scontato fin dall’inizio. Il Nano lanciò un grido, quindi si portò di profilo rispetto all’esule, ruotando il bastone su quello dell’avversario in modo da farsi più vicino, quindi fece scattare il gomito, sollevandolo fino a farlo schiantare contro l’addome di Dal. Prima ancora che riuscisse a riprendersi dalla botta, Rok fece nuovamente perno sull’arma del Naigh-Moor, spingendola con forza tale da fargliela scappare dalle mani e farla volare lontana qualche metro. L’elfo oscuro richiuse quasi istantaneamente le mani, nel vano tentativo di riuscire ad afferrare nuovamente il bastone, ma una nuova spinta di Rok lo sbalzò indietro di qualche passo. Bloccato dal ficcante dolore allo stomaco, riuscì a malapena a portarvi una mano sopra quando un nuovo attacco del Nano lo colpì stavolta in pieno viso, facendolo ruzzolare di lato con un gemito. Strinse gli occhi ed i denti con quanta forza aveva, senza rendersi conto che così non faceva altro che aumentare le sue sofferenza, sollevandosi di nuovo in piedi con l’aiuto delle mani tremanti. Un fiotto di sangue gli sgorgò dalle labbra spaccate, gocciolando sul pavimento in pietra dell’arena, tingendolo di una chiazza nera come la pece. Rok non si fece scrupoli nemmeno stavolta: con un nuovo balzo in avanti, diresse un nuovo attacco nello stesso punto, ma le malferme mani dell’esule afferrarono la sua arma prima che potesse raggiungere il bersaglio. Un guizzo scarlatto comparve negli occhi dell’elfo, contorto in una maschera di rabbia e dolore, poi un violento calcio alle ginocchia, identico a quello che lui stesso aveva sferrato poco prima, lo fece finire a terra, dove sbatté la testa con violenza. La vista gli si offuscò rapidamente a quel contatto: l’ultima cosa che riuscì a vedere fu il bastone del Nano immobile sulla sua testa, quindi un grido indistinto e poi il buio. «È finita!» esclamò il Nano verso i due spettatori, col bastone pronto a schiacciare la testa dell’elfo. Naturalmente, non avrebbe mai fatto una cosa del genere, ma quella posizione significava una sola cosa: l’incontro era terminato. Bozus e Goyl annuirono all’unisono, dirigendosi poi con tranquillità verso i cancelli. Rok lanciò un’occhiata al ragazzo svenuto a terra, quindi si avvicinò alla recinzione, dove aveva appeso i suoi vestiti. Quando l’ebbe raggiunta, i due uomini erano ormai all’interno e si stavano avvicinando l’uno al Nano e l’altro all’elfo. «Ha perso» mormorò con una smorfia Bozus, mentre il Nano s’infilava la maglia.
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«Ma ha combattuto bene, per essere appena entrato.» ammise Rok, aggiustandosi alla meglio le maniche «Deve solo fare pratica con i duelli». «Già.» convenne l’altro, voltandosi verso il guaritore chino sull’esule «È furbo… E decisamente resistente, per essere un elfo». Rok fece qualche passo verso Dal, osservandolo perplesso, quindi scosse la testa in segno di diniego. «Non è resistente nel senso che intendi tu.» spiegò poi «Ha qualcosa che noi non abbiamo». Bozus inarcò un sopracciglio, visibilmente in disaccordo con la sua teoria, lanciando un’occhiataccia al Nano. «Goyl ha notato soltanto una resistenza alla magia leggermente fuori dal comune» accentuò quelle parole con lingua velenosa, dando chiaro segno di non essere ancora convinto di aver fatto la cosa giusta a prendere quel ragazzo sotto la sua ala protettrice. «Non è questione di magia. Ha qualcosa di superiore, ma non so altro». «È solo un elfo oscuro.» ribatté secco l’altro «Null’altro. Non scordartelo, Rok». Il Nano fu sul punto di ribattere, ma si limitò a corrugare nervosamente la fronte e a voltarsi, distratto dalla litania del guaritore, verso il ragazzo. La solita, tenue luce azzurra comparve fra le lame del bastone a quel richiamo, scivolando poi sul corpo del ragazzo e avvolgendolo come una veste aderente. I tagli e le ecchimosi sul volto sbiadirono lentamente, lasciando il posto alla liscia pelle scura, ma Dal non si mosse di un solo centimetro. Il sacerdote aggrottò la fronte perplesso, fissando il ragazzo in cerca di un motivo, poi i grandi occhi del NaighMoor si aprirono lentamente, rivelandosi più confusi di quanto Goyl non si sarebbe aspettato. «Sheynt…» balbettò l’esule, con sguardo sofferente «Deve fare così male?». «Cosa ti fa male?» domandò il sacerdote in tono pacato, anche se si leggeva benissimo sul suo viso la preoccupazione. «La testa…» rispose a fatica l’altro, indicandola con la mano tremante «Rimbomba come un tamburo… Ed è pesante…». «Ti ha pestato per bene.» mormorò il sacerdote dopo un sospiro ed alcuni istanti di silenzio, indicando il sopracciglio ancora gonfio e la tempia contusa «Mi domando come hai fatto a rialzarti». Dal non rispose, limitandosi a sfoggiare un sorrisetto divertito, che dovette però lasciare il posto ben presto ad una nuova imprecazione. «Hai bisogno di riposare.» continuò Goyl, posandogli una mano calda sulla spalla «Tornerò questa sera e terminerò di porti le cure necessarie: sino ad allora, restatene a letto». Dopo queste parole, alzò lo sguardo verso il Nano che ora si trovava al suo fianco, intento a fissare preoccupato il ragazzo a terra. 140
«Ci sei andato pesante.» gli annunciò il sacerdote, senza però mostrare rancore verso di lui «Fasciagli la testa, portalo su e veglialo fino a stasera». Rok annuì, visibilmente rattristato per aver esagerato col ragazzo, quindi si chinò su di esso, preparandosi a scusarsi e ad eseguire gli ordini del mago. «Lascia stare, mi occupo io di tutto». Una voce femminile pronunciò quelle parole con tranquillità, seguita dal rumore di passi leggeri che percorrevano l’arena: Sali, la ragazza che si trovava quasi sempre all’entrata del corridoio segreto dell’edificio, stava puntando verso il gruppetto. «Chi ci fai sveglia, a quest’ora?» interloquì Bozus, osservandola visibilmente incuriosito. «Non sono abituata a dormire molto» mentì lei, stringendosi nelle spalle, senza distogliere la sua attenzione dal Naigh-Moor sdraiato a terra. Il Nano, pronto a scherzare su ogni questione riguardante la ragazza, rimase questa volta in silenzio, annuendo cupamente. «D’accordo, dammi pure una mano a fasciarlo» mormorò, quando lei gli fu al fianco. «Mi occupo io di tutto.» ribadì acida Sali, fulminando il guerriero ed il guaritore con un’occhiata «È l’unica cosa che posso fare per rendermi utile, come al solito». Sia Rok che i due uomini rimasero un po’ stupiti da quell’osservazione: per anni la ragazza aveva svolto semplici mansioni come pulire o, appunto, assistere i feriti, ma non si era mai lamentata della sua posizione né dei suoi compiti, anzi ne era sempre andata fiera. Goyl le aveva persino proposto di entrare nell’ordine sacerdotale di Larillan, ma Sali aveva sempre rifiutato, definendosi poco interessata e per nulla adatta agli studi magici. Possibile che adesso si fosse di colpo stancata? «O è soltanto un pretesto per stare con lui?» si chiese il Nano, rivolgendo un’occhiata perplessa al Naigh-Moor che sembrava capire ben poco di quanto stesse accadendo. Un elfo oscuro braccato dai soldati ed un’Umana? Non poteva funzionare. Oltre alle differenze fisiche secondo le quali, stando al parere di Rok, un elfo non avrebbe potuto trovare graziosa un’Umana, le loro vite non potevano e non dovevano intrecciarsi. Dal era talmente ricercato dai soldati di Armalak da dover cambiare nome e rifugiarsi in un’arena clandestina; Sali era una ragazza con un futuro, a Raidemark: come avrebbero fatto a condividere lo stesso destino? Inoltre, un elfo può raggiungere addirittura i novecento anni, decisamente troppi perché un’Umana potesse anche solo sperare che le cose non cambiassero con il passare del tempo. Con un sospiro, Rok si decise ad accantonare quei pensieri, reputandoli come semplici e precoci fantasticherie. Si 141
costrinse a sorridere, quindi si sporse verso l’esule, battendogli una mano sulla spalla. «Non te la sei cavata male, ragazzino» gli bisbigliò con una risatina sarcastica. «Come no…» ribatté l’altro con un sorriso, mettendo da parte per un istante il continuo dolore alla testa «Tu sei in piedi e io sono per terra». Rok ridacchiò nuovamente, quindi si allontanò, seguito dai due uomini, dopo aver rivolto qualche raccomandazione alla ragazza. «Ed ora a noi» annunciò Sali, quando tutti se ne furono andati «Non vorrai restare lì tutto il giorno, vero?». «Riposo assoluto» ripeté la ragazza con un sospiro, giocherellando con le esili dita sulla pelle scura dell’altra mano. Sdraiato nel suo giaciglio, Dal borbottò qualcosa, girandosi poi dall’altra parte con un’imprecazione dovuta al continuo dolore alla testa. «Vedi che ti fa male?» aggiunse Sali con un sorrisetto divertito. L’elfo non rispose, deciso a non dare altre soddisfazioni a quella strana ragazza. Sospirò, ripensando a quante cose aveva scoperto in quel giorno. Al mattino, aveva imparato che le bastonate in piena faccia fanno male e che la magia può farti sentire meglio, anche se a volte non funziona come dovrebbe, come ricordò con una smorfia. In tutto il pomeriggio, invece, era riuscito a raccogliere qualche informazione sulla struttura della città e sui guerrieri che combattevano nell’arena, senza aver tuttavia ancora saputo chi fosse questo leggendario Signore delle Arene di cui nessuno sembrava parlar volentieri. Doveva essere un guerriero di notevole abilità, a quanto pareva. Ed era altrettanto sicuro che non dovesse farsi vedere molto, altrimenti avrebbe avuto modo d’incontrarlo o perlomeno di riuscire a sentirne parlare. Infine, Sali gli aveva spiegato del perché si trovasse in un luogo come quello, di come suo padre fosse uno dei gladiatori più anziani dell’arena e combattesse ancora, nonostante l’età. Quando però le aveva chiesto notizie riguardo a sua madre, la ragazza aveva taciuto, piombando in un silenzio assoluto per alcuni minuti, nonostante le continue domande e le ancor più frequenti scuse da parte del Naigh-Moor. Ora sembrava aver ripreso quella spigliatezza e quell’allegria di quando l’aveva portato al piano di sopra fra un gemito e l’altro. Stava ancora riflettendo, quando la porta si aprì lentamente, lasciando intravedere la figura del sacerdote con in mano il solito bastone. «Come sta il nostro Dal Jin, o meglio, il nostro Nor… Com’era?» chiese, dopo aver posato una mano sulla spalla della ragazza in cenno di saluto. «Zalafeth, Nor Zalafeth.» rispose con un cenno della mano, girandosi di nuovo a fatica e indicando la testa fasciata «E non sto certo benissimo».
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L’Umano sorrise, avvicinandosi all’esule e prendendogli il viso nella mano nuda: il gonfiore sul sopracciglio era notevolmente diminuito. Sali si era dimostrata efficiente, come al solito. Con un sospiro, prese a cantilenare nuovamente qualcosa, puntando il bastone verso il viso dell’elfo. La stessa luce azzurrina, la stessa sensazione, e le bende furono del tutto inutili. «Finito.» annunciò Goyl, sollevando nuovamente il bastone «Sali, tagliagli i capelli, adesso». «Perché?» esclamò l’altro con aria incredula, ritraendosi di colpo. Il guaritore inarcò un sopracciglio e sfoggiò un sorriso, quindi si diresse nuovamente verso la porta con incedere lento e calcolato. «Bozus te ne ha già parlato: Nor Zalafeth dovrà essere un po’ diverso da Dal Jin, non ti pare?» disse, quando stava ormai per uscire. Senza aggiungere null’altro, scoccò un’occhiata d’intesa alla ragazza e chiuse la porta dietro di sé.
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XV. Volontà
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ok non poté trattenersi dallo sghignazzare quando notò l’espressione imbronciata dell’elfo oscuro, supino sul suo giaciglio, le braccia incrociate dietro le testa. «Ti donano» la sua risatina e il suo sorriso derisorio non sembravano essere della stessa opinione. «Come no?» ringhiò in risposta Dal, indirizzando il suo sguardo verso il piccolo specchio affisso alla parete. Se avesse saputo che per diventare un gladiatore avrebbe dovuto tagliarsi così tanto i capelli, forse avrebbe addirittura rinunciato. «Non farti tutti questi problemi: dopotutto, sono dei comunissimi capelli corti.» si disse, ma non poté nascondere la sincera smorfia di disgusto che gli era comparsa sulle labbra al solo pensare una cosa del genere «Mi riconoscerebbe chiunque, nonostante tutto il vostro lavoro» aggiunse poi ad alta voce, sollevandosi in piedi nervosamente. Sali, con il viso poggiato sul dorso della mano, non poté far a meno di manifestare il suo disappunto contro ogni affermazione del Naigh-Moor. «Pretendevi di trasformarti in un’altra persona, cambiando il tuo taglio di capelli?» sbottò, fulminandolo con uno sguardo accigliato «E poi non sei così orribile, stupido ragazzino!». Dal inarcò entrambe le sopracciglia, voltandosi stupito verso la ragazza. «Ragazzino?» balbettò in credulo, guardandosi poi nello stesso specchio «Mi sembra di dimostrare ben più di ottantacinque anni: guarda come sono ridotto. Sembro uno di quelli che prendono tutto troppo sul serio». «Ah, credi ancora alle favole che ti dicevano per farti star tranquillo e sereno?» fece Rok, canzonatorio. «Favole un corno, io sono un elfo. Succede anche troppo spesso». «Ah, piantala! È perché ne devi aver passate di tutti i colori in troppo poco tempo.» gli garantì il Nano, soffocando una nuova risata «Se mangerai e dormirai di più, stai sicuro che le occhiaie spariranno». Sali taceva, gli occhi sbarrati, puntati contro l’elfo come se questi fosse una creatura mai vista prima. «Ottantacinque?» mormorò con un filo di voce, come impietrita. Dal borbottò qualcosa in direzione del Nano, quindi si volse nuovamente verso la ragazza, visibilmente stupefatta. Rok scoppiò di colpo in una grassa risata, appoggiando con forza la schiena alla porta.
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«Gli elfi sono longevi, non credi?» riuscì a chiedere fra i sospiri affannosi e le piccole lacrime che stavano nascendo nei piccoli occhi «Ma se stai a sentire lui, ti dirà che se si impegna può campare sì e no altre due settimane. Potenza della mente… Ed ecco, sono invecchiato di quattro secoli!». Dal storse la bocca, rifiutandosi di rispondergli. L’Umana taceva ancora, confusa come poche altre volte. Se quello che le sembrava un ragazzo della sua età aveva ottantacinque anni, quanto avrebbe potuto ancora vivere? Qualche millennio? In tutta la giornata, era arrivata a chiedersi ciò che Rok aveva temuto nell’arena fin troppe volte. Ora tutte le domande che si era posta avevano avuto una risposta decisamente negativa. Era proprio il caso che si cercasse un compagno Umano. Almeno, quella era la cosa più sensata da fare. «Sali?» chiese perplesso Dal, posandole una mano sulla scura spalla «Tutto a posto?». La ragazza annuì rapidamente, stracciando ogni suo pensiero con altrettanta velocità. Tirò un sospiro, rialzandosi in piedi, lo sguardo lontano, poi, di scatto, il sorriso le tornò sulle labbra. «Io comincio a stancarmi di star qui a farti da infermiera.» annunciò, stiracchiandosi «Oltretutto, ora non ne hai bisogno». «E, se non vuoi ascoltare ogni mia osservazione sull’allenamento di stamattina, ti conviene andartene in fretta.» disse Rok, facendole cenno col suo solito sorriso di allontanarsi «Io e questo fenomeno dobbiamo parlare». «Lungi da me l’idea di sorbirmi i tuoi noiosissimi consigli, o prode combattente.» il viso della ragazza si illuminò sinceramente, mentre si accingeva ad uscire dalla stanza «E tu non dare retta a tutto quello che ti dice questo nanerottolo, o ti verrà un naso brutto come il suo». Rok incrociò le braccia scocciato, rimanendo in silenzio fino a che Sali non fu fuori dall’appartamento del Naigh-Moor. Viceversa, Dal sorrideva divertito, ammirando la grossa patata bitorzoluta al centro della faccia del Nano. Rok dovette schiarirsi rumorosamente la voce per riuscire ad ottenere un po’ di serietà. «Evitando i commenti sul mio naso,» esordì, agguantando con la grossa mano uno sgabello e sedendovisi sopra «dobbiamo discutere del nostro piccolo combattimento». «Non sono abituato a combattere con il bastone» mormorò seccato l’elfo, tornando a sedersi sul piccolo letto. «No? Eppure posso garantirti che l’hai utilizzato molto bene. Dove hai imparato?» lo sguardo del Nano era stranamente serio. «Ho perso lo scontro: questo significa che sono inferiore a te, no?». «Sono uno dei migliori gladiatori di quest’arena. Dove hai imparato, ho detto».
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Dal sollevò uno sguardo accigliato verso il Nano, mostrando tutta la sua contrarietà al ricevere ordini, tuttavia si decise a parlare nonostante i suoi modi non gli andassero a genio. «Esperienza indiretta.» mormorò, abbassando lo sguardo e lasciando vagare la mente fra i ricordi «Ho avuto modo di spiare elfi oscuri che uccidevano altri elfi oscuri, nelle arene di Armalak». «Uno spettacolo allettante.» dichiarò Rok, e il disprezzo comparve sul suo viso «Quelle sono battaglie per assassini, non per guerrieri». «Infatti ho visto utilizzare bastoni una sola volta, quando un nobile eccellentemente equipaggiato ha sfidato un pugno di schiavi. Vista la fine che fecero gli schiavi, dubito che qualche vero combattente sarebbe così stupido da utilizzarli nuovamente». «E perché questa battaglia? Un’insubordinazione?» chiese il Nano, anche se in cuor suo conosceva già la risposta. «Spettacolo.» a queste parole, Rok capì di aver ragione «Capita abbastanza spesso. Un nobile vuole affermare la sua grandezza e ammazza qualche schiavo per dimostrarlo. In questo caso, però, i membri della sua stessa famiglia, in particolare suo fratello minore, non hanno apprezzato il suo gesto: dissero che armare così male i prigionieri significava solo codardia ed il nobile ci rimise la vita». «Che allegra famigliola. Ma non vi siete ancora estinti, a forza di fare così?» commentò il Nano con un sorrisetto divertito «Chi era questo idiota?». Dal sorrise a sua volta, rialzando gli occhi verso il guerriero. «Nor Zalafeth» rispose, senza nascondere l’allegria sempre più viva. Il Nano rimase con espressione perplessa per qualche secondo, quindi si batté le grosse mani sulle cosce, senza nascondere tutta la propria ilarità. «E fra tutti i nomi hai scelto proprio quello?» domandò, quando ebbe smesso di ridere. L’elfo scrollò le spalle. «È un nome che si ricorda facilmente» commentò con aria tranquilla. «Non provo nemmeno a negarlo.» convenne il gladiatore, facendo scemare il sorriso in pochi istanti «Se quello che dici è vero, sei in grado nientemeno che di ripetere le mosse dei guerrieri che hai soltanto visto combattere. E addirittura riesci a resistere ai colpi come un manichino da combattimento: hai imparato anche questo ad Armalak?». La voce di Rok era pungente, coglieva i punti più reconditi dell’anima di Dal. L’esule sentì la propria gola venir stimolata come sensibili corde di violino: doveva e voleva dire qualcosa, ma nemmeno lui sapeva di cosa si trattasse. Un suo personale segreto che nemmeno lui conosceva? Si rese conto di come stava sfociando nell’assurdo, con quelle ipotesi. 146
«Non lo so.» balbettò, dopo lunghi istanti di silenzio «Credo di averlo fatto perché dovevo». «Perché dovevi?» continuò l’altro, incrociando le braccia «Se qualcuno ti dà un ordine, tu ubbidisci così?». Di nuovo qualche secondo senza un solo rumore. «Non è ciò che intendevo.» rispose alla fine con una smorfia incerta dipinta sul viso «Era necessario per ottenere un posto qui». Rok sembrava non capirci nulla: quel ragazzo desiderava così tanto entrare nelle arene? E adesso che ce l’aveva fatta, come si sarebbe comportato? Sarebbe tornato ad essere sempre e solo un combattente di scarso livello? «E la resistenza alla magia?» insistette il Nano, la fronte corrucciata. «Non so niente nemmeno di quella» Dal rispose con rapidità, stavolta: era semplice quell’interrogatorio, bastava rispondere “non lo so” ad ogni domanda; d’altronde, era vero. Rok rimase immobile nella sua posizione, valutando ogni possibilità e rendendosi sempre più conto di non essere portato per un ragionamento come quello. Dentro di sé, la curiosità gli urlava con quanta forza avesse, ma dov’erano i mezzi per approdare ad una soluzione? «Nella mente di un sacerdote» si fece scappare in un mormorio, mentre spalancava gli occhi per quell’idea. «Come?» Dal chinò il capo di lato, confuso. Per tutta risposta, il gladiatore si sollevò in piedi di scatto, agguantando il Naigh-Moor per il polso. «Tu vieni con me.» gli annunciò, facendolo quasi capitolare al suolo per strattonarlo«Goyl ti farà una piccola visita». Il piccolo santuario rifletteva di una vispa luce celestiale che circondava la modesta statua al centro della sala: Larillan appariva in quell’immagine come una sorridente creatura molto simile ad un elfo, avvolta in un pesante mantello sopra cui rilucevano decine di specchi a forma di stella. Snelle colonne correvano dal pavimento al soffitto e i pilastri decorati con grazia apparivano bianchi come l’avorio. Un piccolo altare si trovava ai piedi della statua: una lunga lastra di marmo pregiato, sorretto dalla scultura di un uomo inginocchiato. Sembrava impossibile che un luogo del genere si trovasse nei sotterranei di una casa in rovina, ma, evidentemente, Bozus aveva deciso di rendere il tempio del sacerdote più accogliente che potesse. Ed il risultato era decisamente degno di nota. Di fronte alla statua del proprio Dio, Goyl era impegnato in un piccolo rituale che doveva aver già ripetuto centinaia di volte, a giudicare dalla meccanicità dei propri movimenti. L’entrata nel santuario del
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Nano e del Naigh-Moor lo costrinse però a distogliere l’attenzione dalle sue cose e a spostare il proprio sguardo su di loro. «Vederti sta diventando monotono, ragazzo» sorrise, spegnendo con un soffio una piccola fiamma che aveva creato poco prima. Dal fece una smorfia, guardando annoiato il tozzo compagno. «È lui che ha delle strane convinzioni» si lamentò, sbuffando. Goyl si pulì le mani l’una con l’altra, indirizzando i suoi occhi incuriositi verso Rok, che appariva stranamente serio. «Ebbene?» chiese, decidendosi a rompere il silenzio che si era instaurato. «Voglio che tu esegua qualche controllo più approfondito su di lui.» rispose in un attimo il Nano, indicando l’elfo con un cenno del capo «In particolare sulla sua resistenza alla magia». Il chierico non fece nemmeno una grinza in risposta, né si smosse dalla sua posa: quel Naigh-Moor aveva effettivamente destato in lui un particolare interesse, ma, al contempo, era ben conscio del fatto che Bozus non avrebbe approvato l’idea di Rok. «Non posso procedere oltre quello che ho già fatto» disse quindi, senza che una sola nota della voce lo traesse in errore. «Al diavolo i discorsi di Bozus!» sbottò l’altro, facendosi più vicino «È solo un controllo, nulla di più». «Ma a che pro farlo?» interloquì Goyl, allargando le braccia. Rok era dannatamente testardo, lo sapeva bene; si sarebbe impuntato anche stavolta, qualsiasi cosa fosse significata. Il solo guardare in faccia il Nano bastò infatti a fargli capire che avrebbe perseverato nel suo intento. «Anche tu l’hai visto combattere, stamani. Hai visto cos’è in grado di fare!» rispose infatti quello «Non è affatto normale!». Dal canto suo, Dal non ci capiva quasi nulla. Rok sembrava estremamente sicuro di quello che diceva, ma lui stesso era sicuro di non avere nessun talento particolare. Quella mattina, aveva semplicemente agito d’impulso, senza quasi pensare ai movimenti che compieva. Istinto ed un’abbondante dose di fortuna, nulla di più. Nessuna formidabile abilità. Goyl, nel frattempo, restava in silenzio, anche se adesso fissava con vivo interesse l’elfo oscuro. «Tu sei d’accordo?» gli domandò, serio in viso, strappandolo alle sue riflessioni. Dal esitò qualche secondo, quindi scrollò le spalle con un sorriso incerto. «Farà male?» chiese, senza riuscire a nascondere il proprio imbarazzo per quella domanda. «Se ci fosse un rischio del genere, non avrei nemmeno preso in considerazione la richiesta del tuo amico». Risposta semplice, rassicurante. Beh, fino ad un certo punto, ovvio. Se fosse stato riscontrato qualcosa di anormale, che fine avrebbe fatto? Rok l’avrebbe 148
davvero sbattuto di nuovo sulla strada? Quel posto sembrava relativamente sicuro, per uno nella sua situazione; non poteva permettersi di lasciarsi sfuggire dalle dita quel colpo di fortuna. Ma, se non avesse acconsentito, Rok se ne sarebbe sicuramente risentito e perdere un amico - o un complice - come lui sarebbe potuto risultare ugualmente disastroso. Si fece coraggio ed annuì, aspettando che il chierico facesse la prossima mossa. Non appena vide quel cenno, il Nano si fece in disparte, distanziandosi di qualche metro dai due, in attesa. Goyl, intanto, si era voltato senza parlare e subito aveva posato il palmo sul freddo altare, gli occhi chiusi, rilassati, come se stesse dormendo, ma ben presto la fronte si aggrottò, le palpebre cominciarono a tremare, le labbra si schiusero sino a mostrare i denti stretti. Una luce giallastra prese a brillare sotto la sua mano, disperdendosi poi a macchia d’olio lungo tutta la lastra, accendendo di un barlume dello stesso colore l’intera stanza. Una piccola vibrazione sembrò scuotere l’altare mentre il sacerdote ritraeva il braccio e riapriva gli occhi, passandosi la mano lungo la veste. «Avvicinati» mormorò poi, scansandosi un poco verso sinistra «e metti la mano qui sopra». Dal obbedì titubante, guardando con attenzione prima Goyl e poi la lastra, visibilmente inquieto. «Proprio sicuro che non faccia male, eh?» borbottò, adesso del tutto contrario a togliere quella curiosità a Rok. «E vuole fare il gladiatore…» il sacerdote di Larillan alzò gli occhi al soffitto, sorridendo per la grottesca situazione «Andiamo, non fare il bambino». Il Naigh-Moor arrossì per la vergogna, quindi si decise a poggiare la mano sulla lastra, seppur con qualche incertezza. Un incoraggiante tepore gli raggiunse rapidamente tutto il corpo: calma, quiete assoluta. Ogni preoccupazione sembrò svanire come fumo al vento, lasciando il posto ad una pace sempre più intima e tranquilla. Socchiuse gli occhi, sollevando lo sguardo per qualche istante. Quando lo riabbassò, si ritrovò ad urlare come un ossesso: cinque lunghe dita brillanti erano sorte attorno alla sua mano, serrandogliela in una morsa troppo forte per qualsiasi essere vivente. Cercò invano di divincolarsi, senza smettere di gridare nemmeno per un secondo, neanche quando Goyl gli posò una mano sulla spalla nel tentativo di placarlo. «Dannazione, vedi di star fermo!» sbottò, dopo aver appurato che la gentilezza sarebbe servita a ben poco «O la smetti da solo o ti paralizzo, accidenti a te!». Dal ansimava come in una crisi di panico, gli occhi sbarrati, il sudore che colava a fiumi dalla fronte liscia. «Che diavolo significa questo?» balbettò, tremando come una foglia al vento. «Noi sacerdoti la chiamiamo “la mano di Larillan”. Nome azzeccato, non trovi?» Goyl chinò di un poco il capo di lato, prima di aggirare l’elfo oscuro e porglisi 149
dinnanzi «Ti sonderà a fondo, evidenziando ogni anomalia di natura fisica, mentale o magica… In maniera del tutto indolore, come ho già detto». Dal si sentì ben poco tranquillizzato da quelle parole: è vero, la stretta della misteriosa mano era piacevole e rilassante, seppur lo stringesse con forza titanica, ma essere immobilizzato a quel modo non era comunque il suo sogno. Poi, così come era comparsa, la mano allentò la presa, lasciandosi assorbire dalla luce che ancora illuminava l’altare: pochi secondi e la stanza era tornata ad essere quella che aveva accolto l’elfo ed il Nano. Dal sollevò la propria mano sino al viso, guardandola in ogni particolare nel timore di trovare in essa qualcosa che non quadrasse. «Non mi sembra di essere diverso da prima» disse, mentre Goyl si faceva vicino a lui. «Non esteriormente» ribatté pacatamente il sacerdote, colmando la distanza che li separava con pochi, lenti passi. Non appena fu a poco più di un metro dal Naigh-Moor, congiunse i polpastrelli, iniziando a cantilenare qualcosa in una lingua che né Dal né Rok, ancora immobile nella sua posizione, furono in grado di tradurre. Quando il canto ebbe termine, Goyl distanziò le mani, mostrando cinque serpeggianti saette di un giallo ancora più vivo di quello dell'incantesimo precedente legare ogni dito al proprio corrispondente. Dal fece un passo indietro, con una smorfia preoccupata sul viso: prima la mano e adesso i fulmini? Se lo avesse saputo subito, forse avrebbe rinunciato senza pensarci due volte. Ma non fu abbastanza svelto: con mossa repentina, il chierico gli prese le tempie fra le mani, lasciando che le saette si svincolassero l'una dall'altra, insinuandosi invece nelle lunghe orecchie dell'esule. Dal fu sul punto di urlare di nuovo, di scacciare Goyl con un calcio, ma si rese immediatamente conto che l'incantesimo era del tutto innocuo, come gli era stato annunciato. Lasciò perciò che il chierico completasse il suo rito, limitandosi a guardarlo perplesso: se lui non stava soffrendo, per Goyl la cosa doveva essere ben diversa. A giudicare dal suo viso, l'uomo sembrava in lotta con qualcosa di enormemente superiore a lui: le sue dita tremavano e stringevano con sempre maggiore forza la testa dell'elfo, gli occhi erano serrati sino quasi a lacrimare, la bocca era una smorfia di rabbia e sforzo. Poi, con uno scatto, si allontanò dall'elfo con un gemito, accasciandosi a terra. Rok e Dal furono chini su di lui in un istante, scuotendolo per le spalle. Goyl riuscì tuttavia a mettersi a sedere quasi subito, senza aver bisogno dell'aiuto di nessuno dei due. «Non ce l'ho fatta.» mormorò, prima ancora che i due riuscissero a chiedergli come si sentiva «Si è opposto a me in tutti i modi». Rok si voltò a guardare di sbieco il Naigh-Moor non appena sentì quelle parole. «Sapevi che non ti avrebbe fatto nulla.» disse con aria truce «Perché-». 150
«No.» lo interruppe il sacerdote, posandogli una mano sul grosso braccio «È... diverso». Entrambi i gladiatori si voltarono verso di lui, accantonando la disputa che già stava nascendo. «L'ha fatto istintivamente, senza volerlo realmente, senza nemmeno rendersene conto. Una sorta di volontà inconscia... Ha avuto paura del mio incantesimo e la sua mente lo ha rifiutato automaticamente». «Io non ho fatto niente...» obiettò Dal, senza capire cosa l'uomo intendesse. «Non te ne sei reso conto, te l'ho detto, ma la tua volontà è stata in grado di piegare un incantesimo. E questo non è affatto normale». «Vuoi dire che questo Naigh-Moor è in grado di resistere a qualunque tipo di magia?» chiese Rok, letteralmente sbigottito: se così fosse stato, quel ragazzino sarebbe risultato un assassino di maghi senza pari, con un po' di addestramento. «Non credo.» rispose dopo qualche secondo l’uomo, frattanto che si sollevava in piedi «Sapeva che gli avrei lanciato un incantesimo e questo l’ha aiutato notevolmente, senza contare che si trattava di una magia particolarmente semplice». Goyl distolse lo sguardo da Rok, fissando con attenzione Dal, come a cercare una riprova di quanto aveva capito nel suo corpo. «Avevi ragione, questo ragazzo non è per niente normale.» annunciò, voltandosi ancora verso Rok «Ha una volontà molto superiore a quella di una persona comune. Indubbiamente superiore a quella di un Nano, tra le altre cose». «E pensi che sia sufficiente a fargli scordare il dolore di una bastonata? Su queste basi, allenando la mente potrebbe ignorare il dolore fisico?». «Non esagerare. Evidentemente, può entro dei limiti molto più estesi del solito, tutto qua: non può certo sopravvivere senza testa, nemmeno se lo vuole. E questo spiega anche il suo comportamento durante il vostro duello». «E adesso?» il viso di Rok si fece preoccupato «Ora che ha ottenuto un posto qui, all’arena, non riuscirà più a combattere a quel modo?». Goyl guardò ancora l’elfo, impietrito come se fosse stato davvero lanciato su di lui un incantesimo di paralisi, fermo con la faccia di chi non ha capito praticamente nulla, quindi si strinse nelle spalle. «Sarà lui a deciderlo. Deve solo volerlo». Dal comprese quanto gli serviva solo in quel momento. Volere è potere, disse qualcuno. Se davvero avesse voluto, avrebbe potuto vendicarsi di suo padre, allora, così come aveva ottenuto la libertà. Era solo questione di tempo… E di volontà.
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XVI. Prede e cacciatori
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E così questa è la vera natura del nostro ragazzo.» disse Bozus, il gestore dell’arena di Raidemark, smettendo di lucidare un lungo pugnale in acciaio temprato «Chi l’avrebbe mai detto, eh?». Rok, intento ad esaminare una grossa ascia prelevata dalla rastrelliera personale dell’uomo, si limitò ad annuire, scorrendo con le dita sul robusto manico dell’arma. «Ho voluto controllare anche negli allenamenti: per questo te ne ho parlato solo adesso» mormorò, imbracciando l’ascia e maneggiandola con scioltezza. Bozus non fece nemmeno una grinza nel vedere il Nano armeggiare con le proprie cose, ormai abituato a quel suo modo di fare, ma spostando tuttavia il proprio sguardo verso il gladiatore, interessato a quelle ultime parole. «E che ne è risultato?» chiese, posando il pugnale sulla scrivania e congiungendo le mani sopra di essa. «Beh, non è certo formidabile come nel suo primo scontro.» Rok scosse le spalle, riponendo l’arma al suo posto «Però è ancora molto al di sopra della media di un combattente del suo grado». «Molto quanto?» insistette l’Umano. «Non credo che si possano fare calcoli matematici su una cosa del genere,» il Nano fece una smorfia «ma Dal Jin sembra ben disposto ad allenarsi parecchio, pur di salire la scalinata gerarchica». «Non basta solo la volontà, lo sai bene. Quella è solo un incentivo per sé stesso. Non possiamo correre il rischio di vederlo ammazzato solo perché voleva provare». Rokammarden si avvicinò alla scrivania con uno sguardo di sfida incollato sulla faccia. «Domani avrà il suo primo combattimento» disse con tono imperioso, senza pensare al fatto che lì dentro non era certo lui che comandava. «Domani?» Bozus sbarrò gli occhi, fissando incredulo il proprio interlocutore «Non se ne parla nemmeno! È qui da troppo poco tempo! Andrebbe incontro ad una disfatta e basta!». «Mal che vada, resta comunque un problema suo. Ma io ti assicuro che Dal è in grado di superare i guerrieri di grado più basso con una mano legata dietro la schiena». Il gestore scosse il capo, tirandosi indietro con la propria poltrona. «È troppo presto» mormorò, senza nemmeno rialzare lo sguardo.
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«Un accidente! Sai bene a che livello sono i gladiatori più inesperti! Se li berrà tranquillamente, fidati di me. L’hai visto anche tu, no?» Rok fece soprattutto perno su quell’ultima frase, conscio del fatto che Dal si era rivelato decisamente superbo, per essere al suo primo scontro. Bozus alzò gli occhi severi verso il Nano ed incrociò le braccia al petto, quindi annuì appena, senza una sola parola. «Avviso immediatamente Sidonas» concluse Rok senza attendere un’ulteriore replica ed avviandosi a passi svelti verso la porta. La silenziosa figura vestita di verde scivolò di nuovo fra le ombre, appoggiandosi al muro dell’alto edificio. Con un sospiro, si sfilò il cappuccio, mostrando i lisci capelli castani e il viso dalla carnagione rosea. «È inutile.» annunciò alla grossa figura accanto a lui, passandosi una mano sul mento ed accarezzando così la sottile barbetta «Non si trova da nessuna parte, forse l’hanno già catturato». Jago, il cacciatore di taglie che faceva coppia con il Mezzelfo Nemorel, sembrava ben poco d’accordo col proprio compagno. «Non credo» fu tuttavia tutto quello che disse, sporgendosi oltre l’edificio e gettando un’occhiata alle strade della città. «No, eh?» obiettò Nemorel, ben saldo sulla propria idea «E allora come lo spieghi che non lo troviamo in nessun modo? È diventato invisibile?». «Ha semplicemente trovato asilo da qualche parte, non credi?» ribatté con un velo d’ironia il suo compagno, anche se il suo viso rimase freddo e impassibile come sempre. «Ah.» convenne il Mezzelfo, inarcando un sopracciglio, prima di sfociare in un sorriso ingenuo «Sì, è molto, molto probabile». «Non ne posso più.» ribadì per l’ennesima volta il Naigh-Moor, rimirando i corridoi degli appartamenti «È una settimana che sono segregato qua sotto». «Conosci i rischi che corri in superficie.» lo ammonì la ragazza di colore che gli stava pazientemente accanto «Ti annoi solo perché non conosci ancora nessuno fra i gladiatori». Dal fu sul punto di mandarla al diavolo, ma si limitò a farle un brusco cenno con la mano. «Sali, non posso aprire una porta a caso e dire “salve, io sono Dal Jin, anzi, Nor Zalafeth. Vuoi essere mio amico?”». La ragazza sbuffò, portando le mani sui fianchi e sollevando gli occhi al soffitto. Già, non poteva, ma questo non voleva dire che doveva stressare lei fino a quando non sarebbe riuscito a conoscere qualcuno. «Tempo al tempo, Dal. Non è certo colpa nostra se vogliono farti la pelle». 153
«Ma la pelle è comunque mia: posso scegliere di rischiarla o meno» continuò Dal, al colmo del nervosismo. Non aveva pensato a quanto sarebbe potuto risultare monotono restare in quel posto finché le acque non si fossero calmate. Aveva sperato che la vita fosse un po’ più movimentata del solito “addestramento, cure magiche” che si ripeteva ormai da sette giorni. Sali, dal canto suo, non capiva cosa ci fosse di tanto difficile, visto che le era capitato di passare ben più di una settimana consecutiva nei piani inferiori delle arene, lontana dalla luce del sole e dall’aria fresca. Uno schiavo doveva essere abituato a questo genere di cose, no? Ma, schiavo o no, Dal le stava letteralmente logorando i nervi. «E va bene!» sbottò quando ebbe raggiunto il limite della sopportazione «Andiamo fuori, se devi proprio essere così esasperante!». Dal colse l’occasione al volo: senza attendere oltre, si diresse verso le scale che portavano al piano superiore, anche se fu saldamente fermato dal braccio nudo della ragazza non appena ebbe fatto qualche metro. «Solo mezzora, però» ingiunse, guardandolo preoccupata. Il Naigh-Moor fece una smorfia seccata, ma annuì lo stesso, sapendo che una volta là fuori sarebbero dovuti stare sul chi vive, in guardia da tutto e da tutti. Sali lo lasciò andare e lo seguì a passi lenti, facendo ben attenzione che nessuno si accorgesse della loro piccola scappatella. Pochi secondi ed il sole pomeridiano baciava la loro pelle, accompagnato dagli schiamazzi della città, nel pieno della sua attività. Socchiusero entrambi gli occhi, non più abituati alla luce diurna, mentre si incamminavano lungo le strade di Raidemark, gli occhi attenti e le orecchie tese. «Ora mi spiegherai perché sei voluto uscire a tutti i costi?» chiese la ragazza all’elfo e nel suo tono non si leggeva più il desiderio di restare nelle stanze sotterranee che prima l’aveva contraddistinta. Dal chinò un poco il capo, senza nascondere il sorriso che gli era affiorato sulle labbra. «Sono lunatico.» spiegò, rialzando lo sguardo e posandolo sulle numerose figure che si muovevano a passi frettolosi o tranquilli, pesanti o cadenzati «A volte mi piace restare da solo, altre non sopporto la solitudine». Sali sorrise a sua volta, scrollando le scure spalle su cui brillavano i riflessi del sole. «Suppongo sia così per tutti» disse, cercando e trovando la mano dell’elfo con la sua. Dal si fermò di colpo al solo sentire quel contatto: di nuovo incertezza, di nuovo quella confusione. Stranamente, quella mano sembrava più calda del solito ed il sorriso di Sali era sì radioso e felice, ma comunque ambiguo, almeno dal suo punto di vista. 154
«Che vuol dire?» balbettò, chiudendo le proprie dita attorno a quelle di lei. «Nessuno ti ha mai preso per mano?» fu la risposta della ragazza, ancora ferma al suo fianco. «Quello sì, lo hanno fatto. Ed è per questo che ti chiedo cosa significa, adesso». «Beh, immagino che significhi la stessa cosa di sempre: affetto». «Affetto?» sussurrò con voce tremula; Sali sembrava essersi fatta più vicina, anche se non se ne rendeva nemmeno conto «Che genere di affetto?». A quelle parole, la ragazza si slanciò allegramente in avanti, sino a raggiungergli le labbra. Dal rimase paralizzato per un istante, col solo pensiero di aver avuto una conferma dei suoi timori, quindi lasciò che i propri occhi si chiudessero, che ogni cosa sfumasse lontana. Sentì le braccia di lei cingergli il collo, mentre lui la stringeva in un abbraccio, mentre assaporava un bacio che gli appariva così lontano da quelli di Ezela. Sali non possedeva certo né la bellezza né la melodica voce di un’elfa, ma era riuscita a fare in sette giorni quello per cui una NaighMoor poteva impiegare sei mesi. Beh, a meno che non si trattasse di una delle cortigiane che vivevano con lui. Per qualche ragione che non sapeva spiegarsi, poi, l’idea di baciare un’Umana non gli dispiacque. Quando le loro bocche si separarono, Dal provava solo il desiderio di non muoversi più da quella posizione. «Qualcuno mi criticherà molto per aver baciato un ottantacinquenne» sussurrò lei, senza nascondere una piccola risata sommessa. Ottantacinquenne, già. L’età era un problema decisamente influente in quel caso. Lei non doveva avere più di vent’anni, se li aveva. Lui era un elfo oscuro di ottantacinque anni, con un’aspettativa di vita di circa novecento anni, se solo fosse sopravvissuto. Abbassò lo sguardo, senza una sola parola. «Ehi, niente tristezza, oggi.» gli disse lei, voltandogli delicatamente il viso verso il proprio «È solo un problema marginale… Sarà bello finché durerà, non ci pensare». Dal si sforzò di sorridere, ma quella nuova consapevolezza non gli permise di recitare con abbastanza abilità. Sapere già che sarebbe finita presto non era certo il modo migliore per avviare una relazione. Sali gli accarezzò delicatamente uno zigomo, prima di deporgli un nuovo, piccolo bacio sulle labbra. «Non preoccupartene, per favore.» continuò, ammiccando con gli occhi alla città «Facciamo un giro, dai. Dopotutto, siamo usciti per questo». L’elfo annuì di buon grado, ben lieto di aver modo di distrarsi da quella nuova preoccupazione che era sorta, ed insieme si dispersero per Raidemark, ritornando pian piano a fare attenzione a tutto e a tutti. «Dal! Dal!» gridava intanto Rok, aprendo ogni porta delle stanze sotterranee. 155
Nugoli di gladiatori si affacciarono, alcuni parlottando tra loro sul motivo di tanto schiamazzo da parte del Nano. «E Sali?» urlava ancora quello, rivolgendosi di quando in quando a qualcuno dei presenti «Qualcuno mi dica dove diavolo sono quei due!». «Saranno in città, cosa vuoi che ti dica?» rispose una voce assonnata, prima che una porta fosse richiusa ed il malcapitato si decise a tornarsene a riposare. «Dove?» sbottò di colpo Rok, zittendo con la sua possente voce tutti i borbottii dei gladiatori. Neanche un minuto ed il Nano era fuori dall’edificio, in cerca dei due. «No, il mercato, no: è pericoloso, Dal!» si oppose la ragazza, strattonandolo per un braccio «Rischi una pugnalata nella schiena!». L’elfo si guardò attorno: attorno ad ogni banchetto si affollava un gran numero di persone: Sali aveva ragione, un posto del genere era del tutto sconsigliato per uno nella sua situazione. Fece una smorfia, guardandola con aria rassegnata. «E va bene…» sospirò, prendendola sottobraccio «Torniamo pure all’arena, prima che qualcuno se ne accorga». Dal ignorava che qualcuno se n’era già accorto e stava rastrellando l’intera città per cercarli, ma era un pericolo che sapeva esistere ed aveva scelto di affrontarlo. Sali si sentì subito sollevata dalle parole dell’esule: aveva accettato il rischio di una ramanzina, ma non certo quello di andare contro qualche cacciatore di taglie o addirittura contro i soldati di Armalak. Si voltò su sé stessa con un sorriso che svanì in un batter d’occhi: tre elfi oscuri ben bardati alla battaglia si stavano avvicinando a loro, apparentemente del tutto disinteressati a Dal. Senza perdere tempo, si guardò attorno: nessuna strada laterale, nessuna via d’uscita. Eccetto il mercato stesso. «Che c’è?» domandò incuriosito l’elfo, che aveva notato lo sguardo angosciato della ragazza. «Infilati nel mercato senza voltarti: ci sono tre Naigh-Moor dietro di noi» mormorò, mentre già camminava, trascinando con sé l’esule. «Sheynt!» sibilò quello fra i denti, ubbidendo alla compagna «Vediamo di muoverci o non li semineremo mai, dannazione». Si insinuarono senza perdere tempo fra la folla, talvolta sgomitando pur di riuscire ad attraversarlo più in fretta. E fu così che Dal urtò un Mezzelfo vestito di verde che stava rubacchiando qualcosa da un tavolo. Nemorel si voltò con una smorfia, incrociando per un istante i sinistri occhi del ragazzo. Rimase fermo senza una parola, quindi assestò una gomitata al massiccio Jago, come al solito accanto a lui e taciturno. «Un colpo di fortuna, vecchio mio.» gli disse, indicando Dal che si stava allontanando «Guarda chi c’è laggiù». 156
Jago si drizzò di colpo sulla schiena, rischiando di rovesciare tutto la merce del mercante con cui stava contrattando. «Si è tagliato i capelli.» notò, mentre lo pedinava a grandi passi, scansando sgarbatamente quanti gli impedivano il passaggio. «Ma il mio occhio di falco l’ha scorto fra tutti, visto?» sghignazzò il suo collega con un sorrisetto, poi, quando vide che l’altro non dava segno di risposta, perse ogni carica d’ironia «D’accordo, l’avresti notato anche tu». I due si fecero così sempre più vicini a Dal e a Sali, l’uno che si faceva largo fra la gente e l’altro che camminava dietro di lui, evitandosi tutta la fatica. Era anche vero che toccava a Nemorel scusarsi con quanti si lamentavano per il rozzo comportamento di Jago, ma riusciva a farlo con poche parole pronunciate rapidamente. Frattanto, i due fuggitivi stavano per giungere in vista dell’uscita del mercato, quando passarono davanti ad un banchetto che nulla aveva a che spartire con gli altri: una grossa tenda dai colori sgargianti, decorata con glifi e rune che nemmeno Dal aveva mai visto prima… Essendo molto probabilmente inventate. Al suo interno, la curva figura di un ometto sui sessant’anni stava rileggendo distrattamente una delle centinaia di pergamene in vendita, gli occhi socchiusi, la testa calva coperta da un pesante cappuccio scarlatto. Le sue magre dita tremarono non appena il Naigh-Moor oltrepassò il suo negozio: come un lampo, lasciò cadere la propria pergamena, aprendo di scatto una grossa scatola che teneva sul proprio tavolo: il ritratto dell’esule fu la prima cosa che comparve sotto i suoi occhi. Incespicando sui cuscini di velluto che arredavano il proprio negozio, si precipitò fuori da esso, trovando quasi subito con lo sguardo l’elfo e la ragazza, accanto a lui. Si sfregò le mani per un tempo che gli fu sufficiente a riordinare le idee, quindi sollevò una bacchetta col braccio destro, mormorando qualcosa: piccole fiamme vivaci si formarono attorno alla sua estremità, convogliandosi poi in un’unica sfera infuocata di una decina di centimetri di diametro. «Jago!» gridò Nemorel non appena notò cosa quel vecchio stesse facendo «È un incantesimo, spicciati!». «Incantesimo?» domandò l’altro a gran voce, guardandosi attorno ma notando solo in ritardo la figura del mercante «O porc-». La sua bestemmia fu troncata dallo sfrigolare della sfera infuocata nell’aria. In nemmeno un istante, l’incantesimo rasentò vicino alle orecchie del Naigh-Moor, mancandolo di pochissimi centimetri. Una cacofonia di grida si affiancò al fuoco che divampava sopra il tendone di un ambulante, subito combattuto dal paonazzo venditore. Dal si voltò prima verso la fiamma e poi verso il mago, incalzando Sali a correre il più velocemente possibile. L’intero mercato si trasformò fulmineamente in un tumulto generale: chi si fermava a guardare l’incendio, chi gridava, chi correva via, chi si faceva largo fra gli altri. 157
Accorgendosi della confusione, i tre Naigh-Moor, rimasti indietro, si sbrigarono a raggiungere il luogo dell’incidente, sfoderando le armi come segno di impellenza. «Siamo fregati!» esclamò Nemorel, alzando il tono per farsi sentire dal suo colossale compagno e vedendo le espressioni dei tre elfi oscuri in avvicinamento «Se quel vecchio lo accoppa perdiamo la taglia, se quei soldati lo raggiungono, la perdiamo comunque e se lo raggiungiamo noi non possiamo ucciderlo in pubblico!». «E allora rimandiamo la caccia!» gridò l’altro, girandosi verso il mercante che stava guardando con orrore il disastro combinato «E quel vecchio scemo fermerà quei tre!». Il Mezzelfo parve non capire, ma quando vide Jago dirigersi verso il mago e sollevarlo da terra per il bavero, capì che non era il momento per farsi delle domande. Il colossale cacciatore di taglie scosse due o tre volte il mercante, urlandogli qualcosa in faccia, quindi lo scaraventò fra la folla, atterrando un paio di esterrefatti cittadini. Nemorel seguì a bocca aperta la traiettoria e la caduta del vecchio: talvolta aveva serie difficoltà a capire il proprio compagno. «Io non lo conosco, l’ho solo incontrato per caso» balbettò agli increduli astanti, prima che la robusta mano dell’energumeno non l’ebbe girato verso l’uscita del mercato. «Sei tu quello svelto: seguilo, dannazione!» gli intimò quello, assestandogli una spinta. Il Mezzelfo rimase imbambolato per qualche istante, quindi borbottò qualcosa di autoelogiante e partì all’inseguimento, zigzagando fra la folla accalcata davanti a loro. Dietro di lui, Jago arrancava come un orso, sbatacchiando agli angoli della strada quanti gli si paravano dinnanzi. «Situazione oltremodo ridicola.» commentò con una smorfia la figura accovacciata su un grosso edificio da cui poteva tenere d’occhio tutto il mercato «Un po’ di fortuna e tanti imbranati… Null’altro». Si sollevò in tutta la sua altezza, aggiustandosi sulle spalle il mantello lungo fino alle caviglie, senza che però il suo sguardo si allontanasse da Nemorel e, soprattutto, da Jago. Un simile figuro era ben facile da vedere. Senza batter ciglio, prese a saltare da un tetto all’altro, superando anche spazi di notevole larghezza come se si trattassero di piccole fosse. Quando Sali e Dal furono finalmente abbastanza lontani dal mercato, li vide rallentare e tirare il fiato, mentre anche i due inseguitori facevano lo stesso. «Conosco quella ragazza.» udì dire da Jago «È meglio lasciar perdere». «E per quale motivo?» controbatté il suo compagno «Non possiamo farci certi scrupoli, nel nostro mestiere». 158
«Lavora nell’arena». Un muto silenzio segui le parole del colosso, dopodiché Nemorel scoppiò in una lunga serie di bestemmie ed insulti contro l’arena e chi ci aveva a che fare. Dalla sua alta posizione, il pallido avventore nerovestito non ebbe modo di udire nessun’altra parola riguardo ai due fuggitivi. Lasciando i cacciatori di taglie ai loro pensieri, si dedicò all’elfo ed alla ragazza, che stavano aggirando il suo stesso edificio, diretti verso le arene. «Dal Jin.» si disse, mentre si preparava a seguirlo «Stai diventando interessante, ragazzino».
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XVII. Rivelazioni
«
E tu l’hai portata là fuori!» urlò Rok, furibondo «Ti rendi conto di cosa poteva accadere?». Dal non rispose, limitandosi a tenere la testa bassa, consapevole di aver commesso un’imperdonabile incoscienza. La sua infantile voglia di stare all’aperto aveva fatto finire lui e Sali a far da bersagli a un mago, precipitandoli in una situazione ben poco invidiabile. Senza contare il fatto che nemmeno immaginavano che altri cacciatori di taglie erano sulle tracce del Naigh-Moor, che ora se ne stava in piedi nella propria stanza a subirsi la meritata predica assieme alla ragazza. «Sapevi meglio di lui che non avrebbe dovuto allontanarsi!» il Nano si rivolgeva ora a Sali, senza che il tono accennasse a scendere. Nemmeno lei era ancora riuscita a spiccicare parola da quando Rok era tornato, trafelato, dopo aver perso un’intera giornata alla ricerca infruttuosa di loro due. E nemmeno lei sapeva come discolparsi per quella sciocchezza. Dopo nemmeno un’ora dal loro sofferto arrivo agli appartamenti sotterranei, l’intera città era venuta a conoscenza dell’incendio e dei disordini sorti nel mercato, quando un venditore di oggetti magici e affini aveva scagliato un incantesimo contro un misterioso ladro che, a sentir lui, aveva cercato di rubargli qualche prezioso amuleto. Evidentemente, il vecchio mago aveva preferito mentire sulla vera identità del “ladro”, piuttosto che rivelare ulteriori indizi sul nascondiglio di Dal Jin, il ricercato con la taglia più alta di tutta Raidemark. Almeno di questo, l’elfo gli era riconoscente: meglio essersi fatto un solo nemico che trovarsi contro tutti i cacciatori di taglie e le guardie, oltre ai già temibili soldati della Legione di Armalak. «Ci pensi a cosa potrebbe succedere se qualcuno ti avesse riconosciuto?» continuava intanto Rok «Rischiamo di essere scoperti!». «Paura dei cacciatori di taglie?» ribatté stavolta Sali con una voce acida e forte, come se alludesse a qualcosa o qualcuno in particolare. A quelle parole, il Nano sembrò perdere il proprio controllo, trasformando il volto in una vera e propria maschera rabbiosa, tanto che la ragazza si morse la lingua ed indietreggiò di un passo, di colpo pentita di ciò che aveva detto. «Non nominare quegli sciacalli!» gridò, pieno di disprezzo «E pensa a tuo padre, dannazione!». Sali sobbalzò, facendosi ulteriormente indietro, le dita percorse da tremiti continui e disperati: sembrava che sarebbe crollata a terra da un momento all’altro, tanto il suo viso era stravolto. Dal esitò per un attimo, anch’egli colpito 160
dalla frase di Rok, quindi spostò timidamente la mano, prendendo in essa quella della giovane, nel tentativo di calmarla. «Farai bene a non commettere altre sciocchezze.» disse il Nano verso l’elfo oscuro, anche se adesso la furia pareva di colpo sbollita, lasciando il posto solo ad una rabbia controllabile «Domani sera dovrai combattere, non sono ammesse sconfitte». Dal capì istantaneamente che Rok non stava scherzando, stavolta. O avrebbe dimostrato di saper fare qualcosa o sarebbe stato rispedito sulle strade, dove non avrebbe più potuto danneggiare l’arena con le sue imprudenti trovate. Il Nano non aggiunse altro: senza altri commenti, aprì la porta della stanza e la richiuse dietro di sé, ignorando tutte le occhiate che gli lanciavano i curiosi affacciati alle porte delle loro stanze. Non appena Rok fu uscito, Sali si voltò verso Dal, senza parlare. Il suo viso però diceva tutto: gli occhi tremavano, chiaramente sul punto di bagnarsi di lacrime, e le labbra erano dischiuse e disposte in maniera incerta, confusa. Al suo fianco, il Naigh-Moor non appariva per niente allegro, anzi, ma la sua espressione tradiva comunque una certa curiosità. «Ti stai chiedendo perché gli ho risposto a quel modo, non è così?» mormorò lei, la voce rotta e rauca. Dal tacque per qualche istante, indugiando sulla risposta. «Più che altro, mi chiedevo perché hai nominato proprio i cacciatori di taglie» rispose, facendo attenzione al proprio tono. Era una mezza bugia, ma decise che le avrebbe chiesto di suo padre in un secondo tempo. Sali esitò a sua volta, stringendo per un attimo le dita attorno alla mano del Naigh-Moor, dando così ad intendere perfettamente al compagno che quell’argomento doveva essere una sorta di tabù, in quel posto. «Nessuno vede di buon occhio i cacciatori di taglie, qui» rispose asciutta, del tutto contraria a continuare su quell’argomento. «E perché mai?» insistette tuttavia l’altro «È un lavoro come un altro». «È ignobile.» tagliò corto la ragazza, fissandolo con aria convinta «Molti di quelli che finiscono su un avviso di taglia non hanno mai fatto nulla per meritarselo. Dovresti saperne qualcosa». Dal si decise a lasciar cadere la questione, seppur a malincuore: continuare di quel passo non avrebbe portato a nulla di positivo. Se non altro, Sali appariva molto meno scossa di prima, seppur non doveva certo sentirsi molto rinfrancata da quelle domande. L’esule si fece coraggio, decidendosi a chiedere ciò che realmente gli interessava. «E tuo padre? » si limitò a dire con un filo di voce, vergognandosi per la propria curiosità non appena ebbe formulato la domanda.
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Lei tacque per un tempo ancora più lungo, gli occhi bassi, nuovamente tremolanti. «È un gladiatore, te l’ho detto.» dichiarò poi, rialzando di un poco la testa «Intraprese questa strada per mantenermi. Mia madre ebbe una lite proprio con un cacciatore di taglie, quando ancora era permesso loro di combattere in queste arene». «Non capisco: perché scoppiò quella lite?». «Per mio padre.» rispose la ragazza, dopo aver tratto un lungo sospiro «Fu falsamente accusato di aver ferito un alto funzionario della città con cui era stato in disaccordo prima che cominciasse a combattere, da giovane. Ramdar, il cacciatore di taglie, voleva consegnarlo alle autorità, nonostante l’arena si fosse offerta di proteggerlo. Ma l’ammontare della taglia bastò a fargli perdere del tutto la testa e una notte tentò di ucciderlo nel sonno. Mia madre se ne accorse…». «Capisco.» mormorò Dal «Questo Ramdar che fine fece?». «Fuggì quella stessa notte, forse aveva dei complici che lo aspettavano all’esterno. E… Io sono tutto ciò che è rimasto a mio padre, ormai. Rok lo sa bene, altrimenti non avrebbe fatto un discorso simile». Se prima si sentiva pentito di quello che aveva fatto, ora Dal si accorgeva ancor più nitidamente di quanto fosse stato stupido. Quel posto era forse l’unico rifugio veramente sicuro di tutta Raidemark e gli era stato messo a disposizione finché ne avesse avuto bisogno. Mandare a gambe all’aria l’arena e coloro che ne facevano parte sarebbe stato un gesto degno solo dell’ultimo dei vermi, addirittura peggiore dell’assassinio della madre di Sali. «Non mi smuoverò più da qui.» annunciò alla giovane, seppur con tono contenuto «Non metterò a rischio tutti quanti per le mie manie». Sali abbozzò un sorriso, facendoglisi più vicina, fino ad appoggiare il capo alla sua spalla. «Dovrò cercare di tenerti compagnia?». L’immagine del Naigh-Moor e della ragazza sfocò lentamente, mentre le mani dell’Elfo si allontanavano da essa. La piccola stanza era vivamente illuminata da numerose lampade ad olio che danzavano allegramente, come al ritmo di una tranquilla musichetta. «Domani avrai la conferma di quanto ti ho già detto, amico mio» disse, appoggiandosi con la schiena sulla propria poltrona. L’alto individuo dietro di lui si voltò con tutta calma, dirigendosi verso un piccolo mobile dall’altra parte della stanza. L’Elfo si sorprese nel notare quanto i passi dell’altro fossero relativamente rumorosi, almeno rispetto al solito. Un
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particolare che non dava adito ai dubbi: era agitato, anche se non lo dava a vedere. «Non c’è ancora nulla di sicuro» si oppose quello, sollevando una piccola statua di una qualche divinità e riponendola con una smorfia. «Cos’hai? Sei nervoso… O emozionato?» l’Elfo sorrideva, mentre pungolava l’altro con le sue parole. Nessuna risposta, nemmeno il minimo cenno. Senza una parola, l’altro si liberò del lungo mantello, posandolo con attenzione sulla sedia più vicina. Ora l’Elfo poteva vederlo in ogni suo particolare: i capelli lisci, corvini, lunghi quasi sino alla schiena, la pelle pallidissima, levigata e perfetta. Nessuno avrebbe potuto negare che gli eleganti tratti somatici lo rendevano di un’arcana bellezza, se non fosse stato per il suo pallore, inquietante quasi quanto quegli occhi, così innaturali per chiunque. «Dovremo tenerlo d’occhio molto più intensamente» mormorò, facendosi più vicino all’elfo. «Credo che basterà osservare il combattimento di domani. Ti ho detto come la penso, sarà la sua anima a guidarlo. Kanyu, non credevi nemmeno che sarebbe uscito vivo dalle miniere». «Mai detto questo.» Kanyu, come l’altro l’aveva chiamato, scrollò appena le spalle «Ma dovremo fare attenzione soprattutto ai suoi istinti». L’Elfo corrugò la fronte, guardandolo perplesso: non sembrava capire cosa intendesse; Kanyu se ne accorse senza nemmeno aver bisogno di voltarsi. «È un Naigh-Moor: potrebbe lasciarsi prendere dalla foga dei combattimenti e dimenticarsi di tutto e di tutto.» spiegò allora, incrociando le braccia al petto «Punti fermi, convinzioni, illusioni… Devi ricordarti che ne ha bisogno, anche se possono sembrarti stupide, persino imbarazzanti per lui. Ha l’età che ha, in fondo». «Motivo in più per non attendere oltre, no?». «Dovrà riuscire a trattenersi da solo» ribadì Kanyu, ben fermo sulla sua posizione. L’Elfo sbuffò al pensiero di dover passare altri noiosi giorni a controllare ogni movimento di Dal Jin, mentre dentro di sé si chiedeva se tutto quello che stavano facendo avesse un senso. Purtroppo, sapeva anche che insistere con Kanyu sarebbe stato del tutto inutile, data la serietà con cui si era messo in testa di perseguire il suo intento. Congiunse le mani svogliatamente, pronto a recitare quella cantilena che ormai anche l’altro aveva imparato a memoria, a forza di sentirla, quando la voce fredda del suo compagno lo distolse dalle sue meditazioni. «Non ho detto subito. Lasciamolo in pace, per stasera: ha altro per la testa».
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Il portone chiodato si aprì con un cigolio, lasciando intravedere una buia scala a chiocciola in marmo scuro, segnata da graffi e ammaccature. Il giovane paggio la discese per primo, illuminando così i gradini che il tiranno conosceva tuttavia alla perfezione. Quante volte aveva sceso quella scala? Centinaia, probabilmente. Sapeva quali erano i pregi di quel reparto del palazzo: c’era del buono nel trovarsi faccia a faccia con quanti non gli andavano a genio, mentre gli venivano spezzate le dita o divelte le unghie, mentre le fruste uncinate laceravano la loro pelle, mentre le tenaglie arroventate strappavano brani di carne come se fosse burro. Non poté fare a meno di nascondere un sorriso leggero, nonostante la situazione, quella volta, fosse diversa. Un’altra porta, quindi il paggio si fece da parte e il tiranno poté entrare nella sala delle torture. Appena consci dell’arrivo del loro signore, torturatori e boia si prostrarono a terra, salutando con la massima umiltà il sovrano di Armalak. Gadejli accennò un piccolo sorriso compiaciuto, quindi si avvicinò al primo carnefice che gli capitò a tiro, sollevandogli il viso con la mano destra, avvolta nel pesante guanto d’arme. Il volto del torturatore si gonfiò di fierezza, quando il tiranno gli fece cenno di alzarsi e gli rivolse la parola. «Come ti chiami, mio fido?» gli chiese in tono gentile, ritraendo lentamente le mani. «Queryl, mio sire.» rispose l’altro, indicando con due dita l’orrendo marchio che gli sfigurava una guancia «Mi avete onorato, marchiandomi personalmente quarantadue anni fa». «Ricordo benissimo, mio caro Queryl.» mentì il sovrano con un sorriso fra il sadico e il paterno «Sei uno dei coraggiosi che ha preferito essere marchiato a fuoco sul viso, purché fossi io a farlo». Oltre a quel Naigh-Moor, decine di altri fanatici schiavi di Gadejli avevano scelto di essere marchiati in quella atroce maniera, allo scopo di dimostrarsi superiori persino ai cittadini liberi di Armalak. I guadagni erano invero miseri a livello materiale, eccetto quelle piccole frasi di elogio che il tiranno pronunciava quando notava le cicatrici sui loro visi: per uno schiavo, tuttavia, erano sufficienti per potersi dire al di sopra degli altri. «Mio degno servitore, come sta la nostra piccola Shadyla?» chiese Gadejli, distogliendo lo sguardo dal carnefice e indirizzandolo invece verso una piccola porticina in fondo alla sala. «Continua a rivolgere insulti alla vostra illustrissima persona, maestà… Nulla che valga la pena di udire » rispose l’altro, storcendo la bocca. Il volto del tiranno si accigliò rapidamente, mentre incrociava le braccia, stizzito. Senza una sola parola, si avviò verso la porticina, subito seguito dal carnefice. Il macabro spettacolo che gli si parò davanti non bastò ad impietosirlo neppure minimamente. La nutrice di Dal era saldamente fissata per i polsi e per 164
le caviglie all’umida parete dello stanzino, seminuda, i lunghi capelli scomposti e lerci, la pelle impiastrata di sporcizia e sangue raggrumato. L’intero bel corpo dell’elfa era segnato da lividi, tagli e calcolate escoriazioni dalla testa ai piedi. Appena intravide la porta aprirsi, alzò a fatica il capo, cercando di identificare chi stesse entrando, nonostante il gonfiore e la stanchezza degli occhi. «Non immagini nemmeno quanto mi rammarichi vederti in queste condizioni» esordì Gadejli, portando una mano al mento. Non appena quella voce raggiunse le orecchie dell’elfa, Shadyla si drizzò di colpo, tremando di rabbia e timore alla sola vista del suo aguzzino. Poi in un impeto di coraggio strinse le labbra e sputò senza ritegno contro il viso del tiranno; Gadejli si limitò a storcere la bocca infastidito. Un istante dopo fece partire un manrovescio con la stessa naturalezza con cui si beve un bicchier d’acqua: la donna non girò nemmeno il viso da una parte. «Se sei venuto solo per dirmi questo, puoi anche andartene» gli ringhiò contro Shadyla, come se non avesse mai ricevuto quello schiaffo. Gadejli non fece una grinza, pulendosi il viso con un panno che gli venne porto dal carnefice. «Ho novità interessanti per te» annunciò quindi con un sorriso. «Ah, sì?» sibilò lei, serrando i pugni incatenati «Anch’io ho una novità per te: mancano sempre meno giorni alla tua morte». «L’ora della mia morte è ancora ben lontana, povera cara.» rispose l’altro, senza perdere il suo sorriso «Voglio solo informarti dei progressi nella ricerca del tuo adorato pargolo». Shadyla sgranò gli occhi, pronta anche a tentare di rompere da solo i legami che la incatenavano, pur di scagliarsi contro il tiranno. Non poteva averlo catturato, non era possibile. «Dal Jin è passato attraverso il Picco Muto. La Legione lo troverà in pochi giorni». «La tua Legione?» lo schernì lei, già rincuorata «I tuoi validi soldati non lo troveranno mai. Una volta lontani da te, quei porci penseranno solo ad ubriacarsi e a far baldoria, piuttosto che a cercare Dal». «Non credo proprio, amica mia.» ribadì Gadejli, appoggiandosi alla parete «Non hanno molte possibilità di scelta, se vogliono vivere». L’elfa mantenne il proprio falso sorriso, nonostante sapesse che, nonostante le sue parole, la Legione sarebbe stata perfettamente in grado di trovare Dal. «E, comunque…» continuò l’altro, smorzando una risata «Ho parlato con Fala Rhai: mi ha detto molte cose interessanti sui vostri ultimi dialoghi». Gli occhi di Shadyla si fecero sempre più gonfi d’ira, mentre l’elfa taceva, decisa a non dare più soddisfazioni al tiranno.
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«Perché non gli hai detto la verità?» insisteva Gadejli, sempre più divertito «La profezia non termina certo così, lo sai, no?». Detto questo, estrasse una vecchia pergamena spiegazzata, spiegandola davanti agli occhi della nutrice. «Guarda, la riconosci? L’ho conservata come una vera e propria reliquia… Beh, non proprio, visto che un servo l’ha ritrovata sotto un mobile. Ma fa niente.» fece spallucce, scorrendo le prime righe «L’esule giungerà ed i figli di Armalak cadranno sotto di lui, perché in lui scorrerà il sangue del Conquistatore, che la sua stessa spada spazzerà via. La città nera gli apparterrà e il suo nome sarà temuto come la voce stessa degli Inferi. I padri e i fratelli gemeranno all’avvicinarsi del principe di Armalak, colui che vede con occhi di brace e che nacque assieme alle Ombre.» recitò a memoria, come in una cantilena «Ma non finisce qui, vedi? E questa è l’originale, te lo ripeto. Ma egli dovrà precipitare nel Gelo e nel Fuoco della Morte, dove le grinfie del Nero, che a lungo attese, lo ghermiranno e lo strapperanno alla sua vita mortale. Questo non gliel’hai detto, Shadyla». «Quelle frasi non significano niente, niente!» gridò lei, dibattendosi come un’ossessa «L’intera profezia non ha significato, sono solo i deliri di una vecchia pazza! E tu sei più pazzo di lei a temerla!». «Mia cara, proprio non capisci.» il tiranno non smetteva di sorridere nemmeno per un istante «La prima parte della profezia si è già avverata, capisci? Tutti sanno che mi sono lasciato prendere dalla paura, che ho messo a soqquadro l’intera città per catturarlo… Ma ora cosa vuoi che faccia ancora quel ragazzino? Niente: ben presto sarà ricondotto qui, pronto ad essere ucciso». «Sei solo un illuso, se lo credi veramente!» insistette, anche se ora le lacrime gli rigavano il viso, lasciando chiari segni sulla pelle sporca. Gadejli appariva sempre più compiaciuto di sé stesso, tanto che il sorriso era ben vivo sulle sue labbra. «Io sarò un illuso vivo, mia cara.» riprese, facendo cenno a Queryl, dietro di lui, di avvicinarsi «Mio fedele amico, la nostra povera Shadyla non sta bene, come puoi vedere: tirale su il morale». Il volto del carnefice si accese di un lume di riconoscenza, mentre si avvicinava all’elfa, rivolgendo un nuovo inchino al sovrano, in segno di ringraziamento. Come un padre apprensivo, posò la mano sui capelli del carnefice, prima di allontanarsi. Posò lo sguardo su un mucchio di sporcizia e si fermò per un attimo, spostando gli occhi sulla pergamena; poi riprese a camminare, riponendola nella propria tasca.
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«Voglio che tu sia nel pieno delle tue condizioni, questa sera» disse Rok, mentre Goyl si incaricava di guarire le ferite superficiali del loro ultimo scontro di addestramento. «Stai tranquillo, so quanto è importante» gli garantì Dal, intento a giocherellare col proprio bastone, senza dar peso a quella richiesta. Sarà stata almeno la decima volta che Rok ripeteva quella frase. Goyl invece era rimasto silenzioso per tutto il giorno, come se nulla fosse. Mai aveva fatto un sorriso, mai una smorfia, niente di niente. Dal si era un po’ incuriosito da quel comportamento, ma l’aveva accettato con una scrollata di spalle: di certo non avrebbe rifiutato di curarlo, al termine del combattimento. «È la decima volta che mi rispondi così.» ridacchiò Rok, facendo un giretto per l’arena, e già sembrava aver messo in secondo piano l’inconveniente del giorno prima «Se ti serve qualcosa prima dello scontro, chiedi pure: ti aiuterò con piacere». Dal sorrise sinistramente, prima di impugnare con una mano il corto bastone del Nano, guardandolo con attenzione. Rok stava già rivestendosi quando il legno cadde davanti ai suoi piedi, facendolo sobbalzare. Si voltò di scatto versò il Naigh-Moor, i muscoli ancora tesi per la sorpresa: Dal era già in posizione di combattimento, le gambe flesse, lo stesso sorriso ancora presente sulle labbra. «Non vorrai dirmi che non ce la fai a reggere due allenamenti consecutivi?» mormorò, senza muovere un solo passo. Rok rimase a guardarlo perplesso per qualche secondo, quindi scoppiò in una fragorosa risata, chinandosi a raccogliere il bastone. «Bravo, ragazzo!» esclamò, sghignazzando «Questo è lo spirito!». Tre ore più tardi, le gradinate erano già affollate: pullulavano di uomini che inneggiavano e gridavano, chiamando a gran voce i guerrieri su cui avevano scommesso. Sali, ancora all’interno dell’appartamento del Naigh-Moor assieme a lui, sembrava più agitata di Dal. «Rilassati.» la tranquillizzò, mentre si allacciava gli stivali «Rok dice che non avrò nessun problema». «Rok dice tante cose» rispose brevemente l’altra, affacciandosi alla porta. Il corridoio straripava di gladiatori, bardati o meno alla battaglia, e le urla d’incitamento si mischiavano agli insulti e alle promesse, mentre attendevano che i primi due contendenti uscissero dalle loro stanze. «Pronto» annunciò Dal, alzandosi in piedi e guardando la ragazza. Sali si voltò verso di lui con aria preoccupata, quindi gli corse letteralmente tra le braccia, baciandolo con foga improvvisa. Quando le loro labbra si separarono, i suoi occhi vibravano di preoccupazione e impazienza.
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«Non perdere, mi raccomando.» gli sussurrò, stringendosi a lui come una bambina, prima di accennare ad una piccola risata nervosa «E smettila di tremare: sarà molto più facile degli allenamenti con Rok». «Magra consolazione.» obiettò, accarezzandole le spalle con delicatezza «Ma sapevo già cosa mi aspettava». Si sciolsero lentamente dall’abbraccio, varcando assieme la soglia della stanza. Una baraonda assordante li accolse non appena misero piede nei corridoi: era tanta la confusione che nemmeno riuscivano a parlare tra loro. Poco dopo di loro, un Umano a torso nudo si fece largo tra la folla: un ragazzotto tarchiato, con i capelli che non dovevano vedere una pettina da mesi e gli occhi scavati; attorno ad essi, due tatuaggi sgargianti senza alcun significato bastavano a differenziarlo dal resto dei guerrieri, i quali comunque, tra acconciature improbabili, tinte di guerre e abbigliamento fuori dal comune non mancavano certo di originalità. Il giovane puntò l’indice contro Dal, urlandogli qualcosa che probabilmente nessuno comprese, ma che dava l’idea di essere tutto fuorché amichevole. Il Naigh-Moor si limitò a muovere un passo indietro, in parte inorridito e in parte perplesso, mentre l’Umano lo superava a gran passi, seguito da quasi tutti i presenti. Il giovane riuscì a stento a leggere sulle labbra di Sali poche parole: “quello è Sidonas”. Quando il caos si fu un po’ diradato, Dal e Sali si decisero a scendere. Bozus, Rok e Goyl li attendevano impazientemente al termine della scala, parlottando tra loro. Non appena li intravide, il gestore corse verso di loro, serio in viso. L’elfo rallentò istintivamente l’andatura, vedendoselo arrivare contro a spron battuto, e non poté che ritrarsi di un poco quando la mano dell’uomo calcò la sua spalla. «Prova a perdere contro quella scamorza e ti assicuro che ti consegnerò personalmente ai soldati!» gli urlò per farsi sentire, quindi ridiscese le scale, trascinando con sé l’elfo oscuro e la ragazza. La situazione non parve delle migliori a Dal: trascinato giù dalle scale, obbligato a vincere ed in preda ad un’ansia che non aveva mai provato prima. Si voltò a guardare Sali mentre discendevano le scale ed i loro sguardi s’incrociarono: erano identici, in tutto e per tutto, sebbene fosse soltanto lui a dover combattere. Quando raggiunse Rok e Goyl, il Nano gli fu subito addosso, col bastone fra le mani. «Avanti, ragazzo!» gridò, mentre gli porgeva la semplice arma «E ricordati che qui si combatte per dimostrare che tu sei migliore, non per altro! Fagli vedere chi sei! Guadagnati il rispetto, guadagnati l’onore!». Dal si ritrovò quasi senza volerlo col bastone tra le mani, osservando Sidonas esibirsi e mettersi in mostra al centro dell’arena: quello era l’onore? Inarcò un sopracciglio, al pensiero che Rok non avesse fatto altro che inventargli frottole 168
su frottole da quando lo aveva conosciuto, ma gli bastò voltarsi verso di lui per ricevere una brusca smentita. «Lo so che è un idiota, ma questo non vuol dire che devi esserlo anche tu!» urlò quello, ridacchiando e spingendolo verso i cancelli del recinto «Vai e mostragli cosa sai fare!». Questa volta non poté più tergiversare: lanciò un’ultima occhiata a Sali ed al Nano e rivolse il proprio sguardo verso l’egocentrico Sidonas, che adesso lo stava chiamando a gran voce, tra gli insulti e le minacce: Nor Zalafeth. Sentendo quel nome, il giovane assottigliò gli occhi, riducendoli a due fessure buie come la notte, quindi si fece largo fra quanti ostacolavano il suo cammino, entrando nell’arena, il bastone in pugno. Per un attimo calò il silenzio, poi cori rabbiosi si diressero verso di lui, imprecando e sputando contro la sua razza, ma nessuno di essi gli giunse orecchie. Non fece un saluto, un cenno, niente. Col bastone nella destra, si portò al centro del recinto, guardando il proprio avversario. Il suono del gong tranciò di netto il caotico rumore del pubblico, ma non riuscì a destare Nor Zalafeth da quello che gli appariva come una specie di sogno cosciente. «Gentili signori!» esclamava intanto Bozus, in piedi, le braccia alzate «Quello che vi apprestate ad assistere sarà il primo scontro della notte! E sarà una lunga notte!». La sua voce fu di colpo sommersa dal boato degli spettatori, mentre altri si scambiavano battute sulla formula di presentazione, sempre uguale da circa dieci anni. Quando il caos tornò a scemare, il gestore ebbe modo di riprendere: «L’incontro di esordio sarà tra i nostri promettenti allievi! Il primo di essi già lo conoscete: Sidonas della Terra!» il gladiatore sollevò le braccia, accompagnato dal plauso di gran parte del pubblico «Il secondo è al suo primo, vero combattimento! Vi prego di accantonare il colore della sua pelle e di badare soltanto a ciò che vi farà vedere questa sera: Nor Zalafeth!». Nonostante le parole di Bozus, seguì un silenzio a cui l’arena non era abituata. Nessuno scagliò insulti contro l’elfo oscuro al centro della gabbia, ma veleno e disprezzo serpeggiavano chiaramente sugli spalti: quel silenzio valeva più di qualsiasi coro rabbioso. Nor non si mosse ancora, fermo a fissare Sidonas, il pugno serrato attorno al bastone. «Io dico che lo fa a pezzi.» disse improvvisamente Rok, tutto soddisfatto, le braccia incrociate sul largo petto «Ha la faccia giusta». «A me fa un po’ paura» ammise Sali, guardando il proprio, segreto compagno, come posseduto da qualche entità. Goyl tacque, come al solito, limitandosi a guardare con aria interessata il comportamento del Naigh-Moor: forse ora avrebbe realmente visto cos’era in grado di fare. 169
«Questo è quello che intendi con “dominare i suoi istinti”, Kanyu?» chiese l’Elfo, scrutando nella bolla magica di circa due metri di diametro che aveva creato. L’altro annuì, seduto sulla sua poltrona, le gambe accavallate, gli occhi puntati sull’esule. «Si tratterrà» annunciò poi con aria tranquilla, non appena il suono del gong riecheggiò anche nelle loro orecchie.
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XVIII. Nor Zalafeth
N
or restava silente ed immobile, come incapace di muovere anche un semplice muscolo, lo sguardo astioso indissolubilmente legato a Sidonas, che adesso sembrava essersi calmato un minimo. Il NaighMoor non riusciva a vedere null’altro che non fosse l’egocentrico Umano. Ogni suo pensiero era stato sostituito da un primordiale bisogno di aver la meglio su di lui. Dal Jin non esisteva più. Annegato in una corrente di selvaggia impazienza, aveva lasciato che soltanto l’istinto emergesse da quella pozza. Bozus lo guardava con incertezza, le mani che già reggevano la pesante mazza con cui era solito percuotere il gong: il Naigh-Moor non sembrava assolutamente affidabile. Avrebbe ucciso Sidonas? Dava ormai per escluso il suo successo, data la notissima vanagloria dell’Umano, ma non poteva permettersi di ospitare un elfo oscuro che, oltre ad essere ricercato, toglieva la vita agli altri gladiatori. Quando ritornò con i piedi per terra, si accorse che dal pubblico non provenivano che bassi mormorii: tutti attendevano soltanto lui perché lo scontro avesse inizio. Mentre si assicurava che i cancelli fossero chiusi, s’imbatté negli occhi attenti di Goyl, appoggiato alla porta dell’arena, e questi gli fece un cenno in direzione dell’esule, dimostrando di essere anch’egli preoccupato per lo strano comportamento dell’elfo. Bozus gli fece intender con un’occhiata di tenersi pronto ad intervenire nel caso la situazione precipitasse e tornò per un’ultima volta sui due guerrieri. Al vibrante suono del gong, subito annullato dalle grida della folla, Nor non si era ancora messo in guardia. Sidonas rimase più stupito di chiunque altro dalla presunzione e dall’arroganza del proprio rivale, di quel misterioso Naigh-Moor che era comparso come un miraggio fra tutti gli altri gladiatori, guadagnandosi immediatamente il favore di Goyl, Bozus e soprattutto di Rok, come ormai tutti sapevano. Nor non si smosse nemmeno dopo che l’altro, urlando con quanta voce avesse in gola, gli ebbe intimato di combattere, d’imbracciare come si deve la propria arma. La frenesia per l’incontro stava gradualmente scemando: l’Umano non prendeva l’iniziativa, l’elfo neppure parlava. A nulla servivano le incitazioni del pubblico, né le volgari bestemmie di Rok, agitato come un ossesso. Poi, superato il limite della sopportazione, Sidonas si fece avanti senza attendere una reazione da parte dell’esule ed indirizzò un suo violento attacco verso la tempia sinistra del proprio avversario. Un sordo rumore fu chiaramente udito da tutti i presenti nel giro di neanche un secondo: Nor si stava raddrizzando piano, il proprio bastone contro il fianco destro di Sidonas, ora piegato sul tronco. Eccetto il suo debole gemito, nessun’altra voce fu udibile nel 171
sotterraneo. Pochi erano riusciti, alla prima impressione, a vedere cos’era realmente successo ed anche loro avevano avuto serie difficoltà a credere che l’attacco dell’Umano fosse non solo fallito, ma che addirittura l’elfo fosse stato talmente rapido da reagire ed anticiparlo, raggiungendolo alla vita con il solido bastone. Sidonas riuscì a fatica ad indietreggiare ed ancor più difficile gli fu tentare con un ringhio un nuovo, maldestro attacco, mentre tutti gli spettatori tacevano, al contempo delusi e attratti dall’accaduto. Nor parò con naturalezza, ritrovandosi faccia a faccia col già malconcio avversario. Poi, inaspettatamente, lasciò cadere il proprio bastone, strappando subito l’altro dalle tremolanti dita dello stesso Sidonas. L’Umano lo vide ruotarlo velocemente davanti ai suoi occhi spaventati, quindi un secco rumore gli fece capire che l’arma era stata gettata con indifferenza contro la distante recinzione dell’arena, facendo ritrarre d’impulso un’esile figura celata da un mantello troppo largo per il suo fisico. Non c’era persona, eccetto il Naigh-Moor, ad aver capito cos’avesse intenzione di fare. Lo videro flettersi un poco, intanto che Sidonas serrava rabbioso i pugni, sollevandoli fin davanti al suo petto: se non altro, l’Umano sembrava essersi ripreso, almeno in parte. Ma a nulla servì questo suo risveglio: il diretto che avrebbe voluto schiantare contro la faccia dell’esule a malapena partì, arrestato bruscamente da una tallonata in pieno petto, che lo portò a barcollare come un ubriaco, seguita dopo qualche secondo da una molto più dolorosa ginocchiata all’addome. Sidonas non riuscì più a mantenere il proprio equilibrio: a seguito dell’ultimo colpo ricevuto, si lasciò cadere su un ginocchio, a malapena in grado di respirare. Nor non aveva mai parlato, né emesso un gemito, sebbene il suo viso tradisse la foga del combattimento. Un rude pugno sulla testa ed il mondo di Sidonas della Terra divenne buio e silenzioso. L’elfo rimase a guardarlo per qualche istante, poi l’altisonante voce di Bozus annunciò la sua vittoria, facendo scoppiare del tutto il frenetico Nano. Il resto del pubblico si lasciò andare solo quando Nor era ormai fuori dall’arena, chi con i fischi e le imprecazioni di inizio scontro, chi con qualche timida approvazione. Altri ancora rimasero in silenzio, seguendo con lo sguardo l’allievo che oltrepassava il recinto, con una fredda espressione sul viso. Goyl attese che Nor fosse uscito, quindi annuì compiaciuto, apprestandosi a raggiungere lo sconfitto Sidonas. L’elfo sentì tutte le sue energie prosciugarsi con rapidità impressionante, tanto che ebbe paura di svenire di botto, senza alcuna causa apparente. Espirò con forza, trascorrendo nell’immobilità alcuni secondi, che gli furono necessari a rendersi conto di ciò che era successo. Aveva combattuto. Aveva vinto. Dal osservò confusamente il vuoto che si era formato fra lui e gli altri gladiatori, scansatisi ai lati in segno di rispetto. Stava per salire le scale e dirigersi ai piani superiori, quando una figura familiare lo investì in pieno, rischiando di farlo 172
cadere a terra: la folta barba riccia e la grassa risata gli confermarono che era stato Rok a travolgerlo così. «Eccezionale, ragazzo!» esclamò quello, battendogli una mano sulla schiena con entusiasmo«Questo è combattere! Questo è ciò che sei capace di fare!». Dal non fece in tempo a balbettare qualcosa in risposta che già il Nano aveva ripreso a complimentarsi con lui. «E la scelta di combattere a mani nude? Straordinaria! Hai dato prova di sapere cosa sono il rispetto e lo spettacolo!». «Dai, Rok.» tentò di replicare, sperando così di disincagliarsi dall’asfissiante guerriero «Non ho fatto niente di-». La vista di Sali che si avvicinava gli impose di tacere, man mano che la ragazza muoveva, un passo dopo l’altro verso di lui, palesemente tesa, come confermava il suo stesso viso. «Complimenti, Dal» mormorò, quando gli fu appresso, ma non vi era la minima traccia d’emozione nella sua voce. Era comprensibile, vista la folla tutt’attorno a loro; tuttavia, i suoi movimenti erano effettivamente troppo meccanici perché tutto andasse bene. L’elfo non le aveva ancora chiesto che cosa la trattenesse a quel modo, quando un alto uomo dalla pelle scura si affiancò alla ragazza, causando un certo spavento nel giovane Naigh-Moor. L’amichevole sorriso che comparve nella cornice della corta barba bianca riuscì comunque a tranquillizzarlo quasi immediatamente. «Complimenti è dir poco.» esordì con uno spiccato accento straniero quello, tendendo una mano verso di lui «Ledini Elibam, il padre di Sali». Dal esitò a ricambiare il suo gesto, un po’ perché temeva di non ricordarsi più bene in cosa consistesse ed un po’ perché si aspettava che l’uomo fosse già venuto a sapere della loro piccola relazione. «Dal Jin» ricambiò alla fine, sollevando appena un braccio con fare incerto. Ledini rise allegramente, afferrando poi la mano del ragazzo in una stretta più vigorosa di quanto quello si aspettasse. «Nor Zalafeth.» lo corresse «Non dimenticarlo mai, se vuoi vivere a lungo». «Se sbaglierà a pronunciare il nome, potrà sempre rifarsi con la punta di una spada.» interloquì Rok, staccandosi dall’elfo «Visto che roba?». «E chi non l’ha visto? Il tuo pupillo si è battuto magnificamente, vecchio amico mio!». «E posso assicurarti che farà sempre di meglio, se continuerà ad allenarsi con costanza» aggiunse il Nano, incrociando fiducioso le braccia al petto. «Questo vorrei assicurarmelo personalmente.» annunciò Ledini con sorpresa di tutti «Sempre che lui sia d’accordo». Dal trattenne incredulo il fiato, senza riuscire a rispondere seppure sotto gli sguardi dei due. 173
«Sei sicuro di quello che dici?» intervenne dubbioso Rok, tornando su Ledini «Ha uno strano comportamento, l’ha dimostrato anche stasera». «So anche che è in grado di commettere grosse sciocchezze,» e qui lanciò un’occhiata alla figlia, destinata a ricordargli la sua scappatella del giorno precedente «ma voglio correre questo rischio. Lo prenderò come mio compagno: i nostri relativi gradi ce lo permettono, e Tiful ha lasciato l’arena nemmeno due settimane fa, come ben sai». «Questo è vero.» convenne l’altro «Però potresti anche scegliere un guerriero di rango più elevato». Frattanto, Dal non sapeva se essere grato o meno al Nano: con lui, nonostante la sua stravaganza, si era trovato fin troppo bene e, sebbene Rok non fosse effettivamente il suo compagno d’armi, diventare quello di Ledini avrebbe potuto rivelarsi spiacevole, date le circostanze. «Voglio lui.» ribadì intanto quello «Questo ragazzo ha le potenzialità per raggiungere le più alte sfere in breve tempo, ed il suo grado non ha un effettivo significato: la sola cosa importante è che sappia combattere, nulla di più. Lavoreremo per rafforzare il suo fisico e gli insegnerò un po’ di basi: ne avrà bisogno, contro dei combattenti veri». Rok tacque, incapace di controbattere alle affermazioni di Ledini, e si volse verso Dal in cerca di una risposta: l’elfo non riusciva però a darla, incerto com’era sul da farsi. «Accettare cosa implicherebbe?» chiese all’uomo, più che altro per guadagnare tempo e farsi un’idea un po’ meno vaga della situazione. «Beh, nulla di particolare.» gli rispose, stringendosi nelle spalle «Ti allenerai, parecchio, quello sì, e magari ti capiterà di combattere in coppia con me». Il Naigh-Moor lanciò una fugace occhiata a Sali, dalla quale non ricevette però nemmeno il più piccolo consiglio. «Per te sarebbe un grande onore, ragazzo.» gli assicurò Rok «Ledini è un ottimo guerriero ed un perfetto istruttore, ti sarà molto d’aiuto». «Se è così sicuro…» sospirò l’esule, riprendendo a guardare l’uomo. «Devo prenderlo per un “sì”?» domandò rapidamente l’Umano, lasciandosi andare ad un nuovo sorriso. Dal inspirò e chiuse gli occhi, quindi annuì, dirigendo subito gli occhi verso la ragazza: Sali appariva ancor più felice di suo padre della scelta che aveva preso, nonostante Ledini fosse persino prorotto in una seconda risata. «Cominciamo domani, allora: farai baldoria dopo una vittoria vera!» concluse quest’ultimo, voltandosi verso gli altri gladiatori «Buonanotte, Nor». L’elfo lo seguì con lo sguardo mentre si faceva allegramente spazio fra i presenti, fino a rendersi invisibile ai suoi occhi, senza riuscire a provare neppure un briciolo della gioia del suo nuovo maestro. 174
«Stai bruciando le tappe.» Rok ruppe il silenzio con la sua solita voce vivace «Hai trovato un compagno dopo un solo sguardo». «Mio padre è rimasto decisamente impressionato» disse Sali, facendosi più vicina «e devo ammettere che lo stesso vale per me». «Vale per tutti, ragazza mia!» esclamò Rok, assestando una nuova pacca sulla schiena del Naigh-Moor «Si scorderanno in tempi brevissimi che sei un elfo grigio!». Un elfo grigio, già. Nemmeno si era accorto di quanti gli si erano scagliati contro, prima ancora che lo scontro avesse avuto inizio. La fama si sarebbe molto probabilmente rivelata un’arma a doppio taglio: se da un lato scalare i gradini della gerarchia avrebbe potuto fornirgli una discreta protezione, sarebbe aumentato anche il pericolo che la sua identità venisse scoperta. E questo non era affatto un bene. «Farò del mio meglio per non deludervi» promise Dal, posando una mano sulle larghe spalle del gladiatore: frase di consuetudine, tanto per non rimanere in silenzio. «Questo mi pare obbligatorio.» ridacchiò l’altro, indicandogli poi con un cenno del capo la scalinata «Ora vedi di sparire: ti porteranno il dovuto nella tua stanza». «Il dovuto?» domandò l’altro, inebetito. «Il dovuto.» rispose la ragazza, al posto del Nano «Non ti mandano ad incassare colpi per niente, e le mie premurose cure non sono un vero e proprio pagamento». Il tono con cui pronunciò quelle parole non permise di trattenere una risata sommessa all’elfo ed una grassa e forte al Nano. «Non mi sembra di aver bisogno di cure» scherzò angelicamente Dal. Sali si accigliò visibilmente a quelle parole: piantate la mani sui propri fianchi, emise una sorta di sbuffo e lo fissò per niente amabilmente. «Se è così, puoi fare benissimo da solo» replicò offesa, prima di voltarsi impettita e allontanarsi rapidamente, lasciando i due con un palmo di naso. Rok scosse il capo, intanto che lo abbassava sconsolato. «Troppo permalosa.» borbottò poi, staccando lo sguardo da terra e spostandolo sull’esule, che ora non andava per nulla fiero della sua battuta «Col tempo farai il callo a questi suoi sbalzi d’umore». «Sarà…» riuscì a dire Dal dopo qualche istante di silenzio. Rok dapprima non si curò di smorzare il suo pessimismo; poi sorrise inaspettatamente, spingendo verso le scale lo sbalordito giovane. «Dieci minuti e sarà da te: affrettati!».
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«Avevi ragione: si è trattenuto.» convenne l’Elfo, voltandosi verso Kanyu, al suo fianco «Anche se non posso negare che mi ha preoccupato un po’, all’inizio». «È un Naigh-Moor» fu la semplice spiegazione dell’altro, che ancora fissava l’elfo oscuro tramite la sfera magica. L’incantatore si lasciò cadere sulla propria poltrona, mettendosi immediatamente a tamburellare con le dita sul bracciolo di essa. «È in ogni caso il primo Naigh-Moor che vedo comportarsi a quel modo» insistette, senza spostare di nemmeno un centimetro il capo. «Melidan, è un esule» continuò Kanyu, iniziando ad innervosirsi. «Sì, però-». «“Però” niente.» sbottò di colpo l’altro, sciogliendo finalmente le braccia conserte «È un ragazzino appena uscito dal Baratro. Non può domare i suoi istinti come un adulto». «D’accordo, d’accordo, non ti scaldare» l’arrestò Melidan, del tutto contrario a farlo infuriare. Un lungo silenzio pervase l’intera stanza dopo quelle parole: Kanyu teneva gli occhi socchiusi, immerso nelle sue riflessioni, mentre l’Elfo taceva, temendo d’irritarlo ulteriormente. Di certo doveva nutrire ben poca fiducia nell’autocontrollo del suo compagno, tanto da preferir tenere le proprie idee per sé piuttosto che esporle. «Quella ragazza potrebbe darci dei problemi» mormorò quello dopo qualche secondo. «Sacri Dei!» Melidan sgranò gli occhi, voltandosi di scatto verso l’altro, colto da un dubbio che non avrebbe mai voluto lo sfiorasse «Cosa vuoi fare di lei?». Kanyu stavolta sembrò essere addirittura percorso da fremiti: il volto era mutato in una terribile maschera di disgusto, le mani stavano letteralmente stritolando le sue stesse braccia. «È una donna.» rispose a denti stretti, permettendo così all’Elfo di rilassarsi «Non ammazzerei mai una donna, tanto meno una ragazza di quell’età». Melidan era evidentemente rincuorato, visto che era tornato a guardare davanti a sé con un sospiro, facendo poi caso alla sfera magica, ancora attiva. «È comunque un serio impiccio ai nostri piani» continuò Kanyu, accortosi anch’egli della persistenza dell’incantesimo. «I tuoi piani.» precisò l’incantatore, avvicinando il viso al piccolo Dal che riusciva a distinguere con chiarezza grazie al sortilegio «Ancora non ho capito perché devo continuare a seguirlo magicamente: ormai abbiamo appurato che non può dirci nient’altro». Il pallido figuro nemmeno rispose: accavallò le gambe con disinvoltura, mettendosi comodo sulla propria poltrona, i polpastrelli uniti davanti al viso.
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«Voglio un controllo accurato su tutti i Naigh-Moor che lo seguono, soprattutto su suo fratello» ordinò, senza che la voce assumesse alcuna particolare inflessione. «Tutti?» quasi urlò Melidan, sbalordito all’idea. «Tutti.» ribatté Kanyu, ben deciso a non ascoltare altre lamentele «E su quei due cacciatori di taglie». «…e così sono giunto alla conclusione che è meglio lasciar perdere.» terminò Nemorel, fissando impazientemente il massiccio Jago «Non ho nessuna voglia di ritrovarmi come quel Sidonas! E senza guaritore, poi!». Il torreggiante cacciatore di taglie annuì, all’apparenza impassibile e taciturno come al solito, ma il Mezzelfo si accorse del piccolo sorriso che gli era comparso sulle labbra. «Hai ragione.» mormorò «Niente taglia. So io come gestirmi quel ragazzo». Nemorel sbuffò, distogliendo con qualche bassa imprecazione l’attenzione da Jago, che ormai sembrava immerso nelle proprie fantasie. «Sempre la solita storia.» commentò «Restiamo squattrinati e finisci per divertirti soltanto tu».
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XIX. Il Signore delle Arene
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li allenamenti con Ledini furono più semplici del previsto: è vero, il suo modo di fare austero e severo era talvolta difficile da sopportare, ma non vi era null’altro da eccepire sulla sua capacità di addestrare un allievo. A differenza di Rok, che con lui aveva sempre e solo combattuto, il padre di Sali era ben intenzionato ad insegnarli accuratamente come maneggiare qualsiasi tipo di arma da mischia, incluse alcune di cui il Naigh-Moor non sapeva nemmeno dell’esistenza. Ciononostante, sebbene fosse indubbiamente meno capace come istruttore, Ledini sentiva il peso dei suoi anni: Rok era di gran lunga più pericoloso di lui nello scontro vero e proprio, fattore che risultava sufficiente per sollevare il morale del Naigh-Moor durante i loro combattimenti. Ledini, d’altronde, era ben orgoglioso del talento che il ragazzo mostrava sempre più esplicitamente ogni volta che si scontravano. Però, contrariamente a quanto l’elfo si aspettava, più di una volta l’uomo gli proibì di prendere parte alle sfide che gli venivano lanciate o proposte da Rok o Bozus, che si presentavano di tanto in tanto ad assistere, lasciandoli soltanto quando i due si recavano nei loro rispettivi alloggi, al termine di ogni allenamento. Goyl e Sali, da parte loro, li assistevano ogni mattina, ogni pomeriggio, instancabilmente, l’uno perché era suo preciso dovere farlo, l’altra perché diceva di voler seguire attentamente i progressi di quel prodigioso elfo oscuro. Il padre dubitava fortemente di quella storia, specialmente quando la sentì parlare col sacerdote di Larillan, mentre il ragazzo si esercitava in qualche tecnica che l’altro gli aveva insegnato. «Come fai a reggere questi ritmi?» gli aveva chiesto, guardandolo interessata «Dev’essere molto stancante per te». «Potrei forse lasciare che morissero o subissero gravi ferite?» aveva risposto Goyl con un sospiro. «Ma assolvere questo compito da soli è pazzesco» aveva incalzato Sali. Il sacerdote aveva taciuto per quasi un minuto, accantonando quell’osservazione con un rapido cenno della mano, quindi si era appoggiato alla recinzione, tenendo gli occhi puntati sulla ragazza seduta sulle gradinate con le mani unite davanti alle ginocchia. «Sei maturata: hai imparato cosa significhi avere a cuore qualcuno, col tempo.» aveva detto quello, e Ledini si era voltato immediatamente verso il Naigh-Moor, che, ignaro di tutto, continuava tranquillamente ad esercitarsi da solo «L’amore per gli altri è la forza che ti permette di fare ciò che faccio anch’io».
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Sali non aveva ribattuto, nemmeno si era voltata verso di lui, lo sguardo perso nel vuoto. «Vuoi imparare?» aveva infine chiesto il sacerdote, serio come mai lei l’aveva visto. La ragazza appariva estremamente imbarazzata e torturava incessantemente le proprie dita, costringendole a pieghe e forzature per nulla piacevoli: mordendosi il labbro inferiore, annuì rapidamente. Ledini e Goyl avevano sorriso ed entrambi erano tornati a svolgere le loro mansioni sollevati, lieti che Sali avesse finalmente preso, dopo così tanto tempo, la sua decisione. Lohidran era cupo in viso, molto cupo: l’inseguimento del fratello si stava rivelando fin troppo difficile. Dopo due settimane, non aveva ancora ricevuto nessun resoconto dalle truppe inviate in tutta Nog Tuluth e nelle zone limitrofe. Estrasse la lunga spada, rimirando tutte le piccole rune che brillavano incandescenti sulla lama rossastra, pregna di magia. Si domandò quando avrebbe avuto modo di utilizzarla nuovamente; quando Dal sarebbe nuovamente stato a portata della sua arma; quando quella sua dannata fuga sarebbe infine giunta al termine. Nello stesso istante, il capitano in seconda del drappello, Yanis, entrò rispettosamente nella tenda del principe, stando ben attento ad annunciarsi prima di farlo. Lohidran rimise la propria arma nel fodero, osservando con aria interrogativa il soldato. «Notizie su Dal Jin, mio signore!» esclamò quello. Il principe scattò in piedi, fissando con gli occhi spalancati il capitano, tutti i muscoli tesi a quelle parole. «Dov’è?» chiese istantaneamente. «Un messaggero dice che è stato avvistato a Raidemark, due settimane fa» rispose l’altro, ritto sull’attenti. «Due settimane?» quasi gridò Lohidran, avvicinandosi a passi svelti all’elfo oscuro «Perché diavolo sono stato avvertito solo adesso?». «Dovrebbe chiedere al soldato che ha portato la notizia, signore» rispose Yanis, facendosi immediatamente da parte, in modo da non venir bruscamente spostato dal furioso principe, già fuori dalla sua tenda. Lohidran attraversò l’intero campo, incurante di quanti gli rivolgessero inchini e garbati saluti, diretto verso il gruppo che si era formato attorno al messaggero, ora seduto su una bassa cassa. Si fece largo fra i propri soldati il più velocemente possibile, afferrando per il collo il messaggero prima ancora che quello si rendesse conto di chi avesse davanti. «Soldato!» gli intimò, sollevandolo in piedi «Sbaglio o hai qualcosa da riferirmi? O sei venuto fin qui solo per pavoneggiarti con gli idioti del tuo stampo?».
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«N-no, mio principe…» balbettò in risposta quello, gli occhi fuori dalle orbite per l’improvviso spavento. «E allora parla, imbecille!» aggiunse Lohidran, scagliandolo di nuovo a sedere sulla cassa. Il messaggero si rimise tremante in posizione, tenendosi agganciato con le mani al proprio, bizzarro seggio, nel timore di cadere per la paura. «Due settimane fa, a Raidemark… Vi sono stati dei tumulti con un Naigh-Moor e ci siamo poi accertati che si trattava proprio dello schiavo che cercate». «Accertamenti? Due settimane per degli accertamenti?» il principe sembrava pronto a scannarlo a mani nude. «Ho dovuto anche localizzarvi» tentò di scusarsi il soldato. «Non è difficile, siamo l’unico accampamento di tutta la costa.» tagliò corto Lohidran, incrociando le braccia al petto «Perché non avete usato un mago per avvisarmi?». «Il nostro gruppo è molto piccolo, siamo privi di stregoni». «Nessun gruppo dovrà essere privo di un mago, d’ora in avanti. Dove si trova Dal Jin, di preciso?». «Questo non lo sappiamo ancora, anche se si trova sicuramente all’interno del perimetro della mura». «Non lo sapete?» replicò Lohidran, e stavolta nulla avrebbe potuto trattenerlo «Dunque, sei venuto fin qui portando notizie vaghe, se non la prova che fai parte di un branco d’inetti, e adesso concludi dicendo che non sai dove si trovi?». Non vi fu alcuna risposta. La testa del messaggero rotolò al suolo come una palla, finendo sui piedi di un disgustato Naigh-Moor, mentre il furibondo Lohidran già rinfoderava la spada, senza nemmeno curarsi di pulirne la lama. «Che ogni mago si raduni al centro dell’accampamento!» ordinò, mentre si allontanava dal gruppo, stavolta senza aver bisogno di spostare alcun soldato, dato che tutti si stavano già prudentemente allontanando. La porta della stanza di Melidan si aprì lentamente, permettendo a Kanyu di entrare, nonostante dovesse chinarsi per passare. Sgranò gli occhi nel notare le innumerevoli sfere che galleggiavano a mezz’aria, ognuna incentrata su un particolare individuo. L’Elfo, al centro, stava fissando una grossa pietra verdastra tracciata da glifi e piccoli cerchi vecchi di secoli. «Un lavoro notevole» si congratulò Kanyu, avvicinandosi al compagno. Melidan non sobbalzò minimamente, abituato com’era alle improvvise apparizioni dell’altro, impegnato a guardarsi attorno. «Merito di quest’oggetto.» spiegò, sollevandolo nel palmo «Accumulatore d’incantesimi: assorbe le magie che vi lanci, liberandole poi a tuo piacimento». 180
«Grazioso gingillo» mormorò Kanyu, prendendo a controllare le sfere una per una. «Concordo pienamente. L’unico svantaggio è quello che ti può capitare di vedere». «Già…» rispose l’altro con una smorfia schifata, mentre distingueva chiaramente un Naigh-Moor che soddisfaceva i propri bisogni fisiologici. Melidan si sedette stancamente, stiracchiandosi i muscoli: trascorrere un’intera giornata a quel modo non era il migliore dei passatempi. «Mi spiace, amico mio, ma ora sarai tu a tener d’occhio tutti quei dannati soldatini.» annunciò, sbadigliando «Io sono stremato». Kanyu non si oppose, iniziando a controllare meticolosamente ogni sfera che gli sembrava sospetta, le braccia dietro la schiena. «Quanti sono, all’incirca?» domandò soltanto. «Una quarantina.» rispose Melidan, sollevando gli occhi al soffitto, finendo così per intercettare un’altra sfera, visione che ormai riusciva a farlo star male in nemmeno un secondo «Si muovono in gruppi di un massimo di quattro soldati». «Troppi per poterli attaccare apertamente» si disse Kanyu, chiudendo i pugni l’uno dentro l’altro. «Che cosa?» sbottò incredulo il principe di Armalak, aprendo di scatto i palmi. La manciata d’incantatori davanti a lui era irremovibile: tutti fermi nelle loro posizioni, chi scocciato, chi impaurito, ma comunque per nulla d’accordo col loro comandante. «Non è possibile effettuare un incantesimo di teletrasporto senza gli ingredienti necessari» ribadì il più anziano, nonché il più irritato. «E non ve ne sono nella zona» aggiunse un altro, anche se si tenne pavidamente dietro agli altri. Lohidran era al colmo dell’ira: non solo non sapeva dove si trovasse di preciso il fuggitivo, ma non aveva i consueti mezzi per raggiungerlo. Perché quei maledetti maghi avevano portato con sé così poca roba? L’unica volta che avevano lanciato quell’incantesimo, l’avevano fatto proprio per inviare alcune truppe a Raidemark, dopo che solo il capitano di un piccolo drappello, ferito e senza cavallo, li aveva raggiunti, chiedendo loro di farlo arrivare a Raidemark assieme a qualche soldato. «Dovremo metterci in marcia, allora.» ringhiò il principe, facendo un cenno a Yanis, dietro di lui «Tu andrai a Vathalar». «A Vathalar?» ripeté quello, sgranando gli occhi «Con tutto il rispetto, mio signore, Vathalar è il principale bastione della costa imperiale, dell’intero
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Principato. Neppure con tutto il nostro esercito avremmo la possibilità di entrare lì dentro». «Credi che non lo sappia?» rispose con un sorrisetto Lohidran «È proprio per questo che dovrai portare con te solo un ristretto numero di guerrieri fidati, oltre ad uno stregone». «Mio signore, è un suicidio!» continuò quello, cercando di farsi capire. «Non contraddirmi mai, Yanis.» lo avvertì l’altro, voltandosi con aria dura «Un gruppo piccolo potrà passare inosservato, se agirete con cautela: lo schiavo potrebbe essersene già andato da Raidemark e quello sarebbe il posto più adatto dove rifugiarsi». «Come… Desiderate» rispose dopo qualche secondo Yanis, chinando il capo: continuare a discutere sarebbe stato inutile, lo sapeva bene. «Quanto a voi,» aggiunse il principe verso gli incantatori, intanto che si apprestava ad andarsene «non dimenticatevi alcun ingrediente, stavolta». «Un’arena…» si ripeté soddisfatto il soldato, stringendo d’impulso l’impugnatura della propria spada. «Precisamente.» disse il tozzo Nano, incrociando le braccia al petto «Un mio cugino vi combatteva, anni fa». «E così il nostro schiavo è diventato un gladiatore, eh?» commentò un secondo Naigh-Moor, sghignazzando. «Chissà com’è diventato potente!» scherzò un altro, ridendo ancor più fragorosamente. Un quarto soldato non disse nulla, limitandosi a ridacchiare, divertito dalle battute dei compagni. Il primo di loro sorrise biecamente, mettendo mano alla sacca che teneva legata alla propria cintura ed estraendo da essa qualche moneta. «Tieni, buon Nano.» disse, porgendole all’informatore «Beviteli alla nostra salute». «Un corno!» sbraitò l’altro, mostrando l’avviso di taglia «Qui c’è scritto seimila monete!». «Davvero?» chiese con falsa incredulità il Naigh-Moor, prendendo in mano il foglio «Hai ragione… Ci siamo proprio sbagliati a scriverlo, allora». «Per tutti i diavoli!» urlò quello, rinnevandosi le maniche fino ai gomiti, ma l’affilata punta di una spada lo obbligò a non fare mosse avventate. «Fermo lì, Nano.» ordinò imperioso l’elfo grigio, che aveva lasciato cadere a terra l’avviso «Hai avuto il tuo compenso; ora sparisci». L’altro ringhiò qualcosa, quindi raccolse i pochi soldi che gli erano stati dati e si allontanò, borbottando maledizioni contro l’intera razza degli elfi oscuri. Il
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soldato, da parte sua, rise di gusto assieme ai commilitoni, rinfoderando la spada. «Miei signori, eccovi un perfetto imbecille!» esclamò, indicando il Nano ormai lontano «Ed ecco quattro fortunati che guadagneranno una rapida promozione!». Un coro d’esultanza acclamò il soldato, poi, ridendo e scherzando, i quattro sbucarono fuori dal vicolo, dirigendosi verso i cancelli delle mura. «Adaym, cosa farai con i soldi della ricompensa?» chiese ad un tratto uno, voltandosi alla sua destra: il Naigh-Moor non c’era più. «Ehi, fermi.» mormorò, arrestando i due davanti a sé «Adaym è scomparso!». «Scomparso?» chiesero all’unisono i due, voltandosi rapidamente. Piovvero commenti ad una velocità impressionante. Chi sosteneva che si fosse perso, chi che volesse prendersi gioco di loro, ma l’ipotesi più accorata fu quella che stesse cercando di ricongiungersi prima di loro col resto delle truppe. «Questa è l’unica strada per raggiungere i cancelli.» dedusse uno dei tre «Anche se s’illude di fregarci, non ha nessuna possibilità di farcela». «Non importa, dobbiamo assolutamente accelerare il passo, abbiamo perso troppo tempo» propose un altro, nervosamente. «Ha ragione.» convenne l’ultimo «Inoltre, se faremo in tempo, potremo dividere il premio in tre, anziché in quattro». Quest’ultima clausola convinse immediatamente i soldati, ben felici di avere l’opportunità d’intascare qualche soldo in più. Lanciati a tutta velocità, corsero per le strade della città sotto gli sguardi attoniti dei passanti e di quanti si affacciavano a porte e finestre per poter vedere il raro e buffo evento. Dopo nemmeno un minuto che correvano, il secondo della fila intravide con la coda dell’occhio un’ombra sfrecciargli alle spalle e si voltò di scatto: il compagno che prima lo seguiva, era sdraiato a terra, a pancia in giù, la schiena sfondata e sanguinante. «Sheynt!» imprecò, terrorizzato «Ci seguono, dannazione, ci seguono!». «Chi?» chiese l’altro, voltandosi di scatto, appena in tempo per vedere una figura d’anormale statura sovrastare l’altro soldato e colpirlo all’addome con un lungo pugnale. Il corpo del Naigh-Moor sussultò in preda agli spasmi, mentre la normale ferita si allargava come un ventaglio, senza che tuttavia l’arma si smuovesse dalla posizione. Quando l’aggressore ritrasse l’arma, lasciando cadere il cadavere dell’elfo oscuro, l’altro ebbe modo di esaminarlo attentamente. Sguainò la spada per difendersi nello stesso momento in cui l’assassino, con calma indecifrabile, alzava il viso, incrociando lo sguardo dello sbalordito soldato. «Tu?» sussurrò quello, le gambe tremanti, le braccia prosciugate da qualsiasi energia, tanto che la spada ricadde al suolo con un sonoro clangore. 183
Kanyu sorrise appena, slacciando la balestra che teneva allacciata dietro le spalle. Il Naigh-Moor si mise allora a gridare come un ossesso, si voltò sgraziatamente su sé stesso e prese a fuggire in direzione opposta dell’avversario. Una fitta di dolore alla gola gli annebbiò la vista in un istante, mentre crollava sul davanti, folgorato dal letale dardo dell’avversario. Kanyu abbassò l’arma tranquillamente, come se si fosse trattato di un tiro ad una sagoma di cartone, intanto che trovava riparo dalla vista altrui nelle ombre di un portico. «Quaranta meno quattro: trentasei.». calcolò, avvicinandosi al tetto ed issandovisi agilmente sopra «Non sono poi molti». «Sei in grado di combattere» annunciò un giorno Ledini, al termine dei loro consueti allenamenti. «Eh?» domandò confuso Dal mentre riponeva una corta mazza nella rastrelliera. «Sei in grado di combattere» ripeté Ledini, avvicinandoglisi. «Credevo di esserlo anche prima» borbottò l’esule, senza capire. «Intendo combattere con armi vere e proprie.» spiegò l’uomo con un sorriso «Sono certo che riuscirai a trattenerti». «Trattenermi?» chiese ancor più sbalordito Dal. «Non importa, ragazzo.» Ledini allargò il proprio, rassicurante sorriso «Fai pratica con la corazza che ti ho procurato, domani ti farò incontrare qualcuno che sappia veramente battersi». «Non come Sidonas, quindi» ridacchiò l’elfo, lanciando un’occhiata al proprio maestro. «Questo è poco, ma sicuro.» garantì Ledini con una piccola risata, posandogli poi una mano sulla spalla, serio e fiducioso «Non deludermi, Dal». Dal apprese in fretta quanto fosse effettivamente più difficile affrontare un vero gladiatore. Un allievo nemmeno s’immagina come può combattere un guerriero consumato da qualche anno di battaglia, soprattutto se si trova ad affrontarlo soltanto dopo qualche settimana. Tuttavia, ogni volta che si aspettava che le cose precipitassero, riusciva sempre a spuntarla in qualche modo, un po’ grazie all’ingegno ed un po’ per la fortuna e la forza di volontà che aveva ormai imparato a sfruttare a suo piacimento. Quell’essenza violenta che lo spingeva a combattere a quel modo, ad affrontare ogni duello con una concentrazione innaturale era ancora presente. La sentiva dentro la propria anima, si accorgeva che reclamava di uscire, di prendere possesso di lui, come durante il suo primo scontro. Eppure, nonostante non la scacciasse, riusciva a restare lucido, ad utilizzare quella strana sensazione, quel bisogno di dimostrarsi più potente, di 184
ottenere un tributo di sangue e gloria per ottenere ciò che voleva: vincere, null’altro. Non si lasciava andare, misurava propri attacchi, sfruttava colpi che con qualche libbra di forza in più sarebbero risultati mortali. Dal vinceva, non uccideva né menomava e la sua fama cresceva a dismisura. Quando ebbe raggiunto il grado di gladiatore vero e proprio, non c’era spettatore che non lo conoscesse, ma nessun soldato della Legione era ancora arrivato a sapere di lui. Si chiese il perché per giorni e giorni, finché non arrivò a credere che i soldati avessero persino abbandonato Raidemark, reputandolo fuggito chissà dove: di certo non poteva immaginare che il misterioso Kanyu vegliava provvidenzialmente su di lui, senza tuttavia alcun motivo apparente. Una mattina, dopo la sua quinta vittoria, Ledini e Rok gli fecero visita, non invitati. Fu per un semplice colpo di fortuna che Sali non si trovasse lì, in quanto si era recata silenziosamente da Goyl, che sapeva avrebbe trovato nel suo piccolo santuario. Non appena scorse l’espressione cupa sui volti dei due amici, Dal trasalì, temendo ancora che la sua storia con la ragazza fosse stata scoperta. «Hai un nuovo sfidante» annunciò invece Rok, strappandogli così un sospiro di sollievo. L’elfo rimase comunque perplesso: uno sfidante? Che c’era di strano? Non riusciva a capire il motivo di quelle facce. «Chi è?» chiese allora, visto che nessuno dei due si decideva a parlare. Vi furono alcuni attimi d’incertezza, quindi Ledini prese la parola, serio e preoccupante nella sua imponenza. «Il Signore delle Arene.» rispose, facendo sobbalzare l’elfo, seduto sul proprio letto «Sei libero di rifiutare». «Ed io ti consiglio caldamente di farlo» s’intromise il Nano, aspro. Il Signore delle Arene? Da quando aveva scelto di diventare un gladiatore, non aveva mai avuto modo di conoscerlo e nessuno ne aveva mai parlato: sembrava anzi che non volessero volontariamente farlo. Ledini e Rok più di tutti evitavano l’argomento, anche se, a sentire Sali e gli altri gladiatori, questo misterioso campione era dotato di capacità notevoli. Adesso aveva scelto di sfidarlo. Era senza ombra di dubbio un onore per l’elfo, ma a cosa serve l’onore quando ti ritrovi con tutte le ossa rotte? In più, gli veniva “caldamente consigliato” di rifiutare la sfida. Dal era in dubbio, in perfetto bilico fra le due possibilità. «Non avete mai voluto parlarmi di lui.» mormorò, rialzando la testa, precedentemente abbassata per riflettere «È sleale?». «Tutt’altro.» rispose Ledini, ancora in piedi, in attesa «Ma è troppo forte». «Allora perché non dovrei affrontarlo? Goyl mi curerà in ogni caso». «È troppo forte, Dal!» gridò Rok, sbattendo un pugno sul piccolo tavolo di fianco alla porta «Non riuscivi a battere me e vuoi scontrarti con lui?».
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Il Nano sembrava addirittura pronto a legarlo al letto purché quel combattimento non avesse luogo. Di cosa avevano così paura? «Non m’interessa.» rispose sbrigativamente Dal, alzandosi in piedi «Riferitegli che stasera lo affronterò». «Non hai alcuna possibilità, Dal! Cerca di-» Rok s’interruppe non appena la calda mano dell’Umano si posò sulla sua spalla. «Non è vero» mormorò, scuotendo lentamente il capo, gli occhi chiusi. «Ma sai chi è il Signore delle Arene!» sbottò l’altro, senza capire. «Meglio di te.» ammise, voltandosi verso l’elfo, che era rimasto in silenzio senza osar interrompere i due «Metti in atto tutto quello che ti ho insegnato. Questa sarà l’ultima volta che ti assisterò». «Perché?» chiese preoccupato l’elfo, gli occhi spalancati. Ledini tacque: un silenzio che stritolava Dal come una tenaglia. Cosa voleva dire? Odiava a tal punto il suo sfidante? O c’era qualcosa che non gli aveva detto? Fu in quel marasma di domande che l’uomo aprì la porta con un sospiro, voltandosi un’ultima volta verso di lui. «Perché i miei gradi non mi permettono di fare coppia col Signore delle Arene» rispose infine. Quella sera, nessun frequentatore abituale dell’arena fu assente: le gradinate erano stracolme, tanto che molti dovettero assistere allo scontro dalle scale che conducevano all’arena. Sali era più inquieta che mai ed aveva provato dozzine di volte a dissuadere l’elfo dal combattere. Dal non aveva mai parlato da quando Ledini e Rok l’avevano lasciato solo. I dubbi erano inevitabilmente rimasti, ma la curiosità si era dimostrata troppo micidiale: avrebbe affrontato quell’individuo, a dispetto dei fin troppi pronostici che lo davano per spacciato; le parole di Ledini gli avevano trasmesso un ottimismo che fino ad allora gli era stato sconosciuto. Ormai aveva indossato la propria corazza, controllato che ogni cosa fosse a posto e stava sistemando gli ultimi particolari, ignorando cocciutamente le richieste di Sali. «Sono un gladiatore.» disse in risposta a tutti gli scongiuri della ragazza quando fu pronto «Non posso tirarmi indietro». «Chiunque con un briciolo di cervello lo farebbe, Dal!» protestò lei, afferrandogli le mani «Lo sai perché tutti si tirano indietro?». «No» rispose semplicemente, aprendo la porta e ritrovandosi immerso nella solita, assordante confusione che precedeva ogni combattimento. Le parole della ragazza si persero nelle incitazioni dei gladiatori, nelle loro pacche, nei loro consigli: chiunque, in quel corridoio, credeva che Dal avrebbe avuto bisogno del loro aiuto, perché nessuno si reputava in grado di affrontare il Signore delle Arene. Né Ledini, né Rok, nessun altro. Quel Nor Zalafeth, però, 186
aveva vinto abbastanza da sembrare imbattibile, anche se contro avversarsi di profilo ben più basso. Se c’era qualcuno in grado di sorprenderli, questi era lui. E forse un’altra impresa delle sue sarebbe bastata per aver la meglio sul Signore delle Arene. Ovviamente, questo era quello che pensavano loro. La fama dell’elfo era tanta che ormai tutti lo ritenevano l’astro nascente dell’arena. Sebbene forse non avrebbe vinto nemmeno con uno dei veterani come Rok, tutti speravano in cuor loro che vincesse, nonostante in pubblico si definissero estremamente scettici. Scese le scale fra il clamore della folla, sempre seguito dalla ragazza, che ormai, davanti a tutta quella gente, non poteva più strattonarlo come prima. All’interno della recinzione, si poteva notare la presenza di un altro combattente, un massiccio individuo con una grossa spada bastarda a fianco: il Signore delle Arene. Dal raggiunse l’entrata a fatica, fermandosi di fronte a Ledini, che lo attendeva con anch’egli un’arma dello stesso tipo. Rok, Goyl ed addirittura Bozus erano al suo fianco, pronti ad augurare buona fortuna a quello strano ragazzo che era riuscito a conquistarsi i massimi onori in un così breve tempo. «Questa sai usarla meglio di lui» annunciò Ledini, porgendogli la spada. Dal la impugnò con la sola mano destra, mentre il gestore ed il sacerdote gli augurarono qualcosa che non riuscì a capire, nonostante fossero evidentemente speranzosi che ce la facesse. Rok taceva, estremamente serio, espressione che l’esule aveva visto raramente sulla sua faccia. Protese una mano verso di lui in silenzio, stringendogliela in una fiduciosa stretta: il rispetto dell’amico fu forse la cosa che più gli fece piacere, quella sera. Stava per entrare, quando Sali lo afferrò per un braccio, indicandogli il massiccio guerriero che lo attendeva. «Vuoi sapere chi è quello?» gridò, abbassando il braccio e guardandolo con occhi furenti «Quello è un cacciatore di taglie!». Jago osservò con impazienza l’elfo entrare nell’arena, staccandosi solo allora dalla recinzione. «Ecco il nostro prodigio.» si disse, prendendo la grossa arma nella destra «Ed ora fammi vedere se vali seimila monete, ragazzino».
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XX. Scelte e rinunce
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ancelli chiusi. Nessuna possibilità d andarsene. D’altronde, soltanto adesso sentiva il bisogno di tenersi lontano dal massiccio Umano. Un cacciatore di taglie ed un premio sostanzioso per la tua testa: la situazione non era proprio delle migliori. Il Signore delle Arene - che ora aveva perso tutta la sua aura di mistero - poteva tranquillamente infischiarsene delle regole dell’arena e guadagnarsi quelle agognatissime seimila monete; tutto trovava un senso, adesso. Avrebbe dovuto intuirlo, come si rimproverò immediatamente: un cacciatore di taglie, chi altri poteva essere? Chi poteva essere tanto disprezzato da tutti i membri dell’arena, visto quello che era accaduto alla madre di Sali? Essere sfidato a duello significava poter esser eliminato in una maniera indubbiamente comoda, senza quasi alcun impedimento. Quasi. Decine e decine di persone erano sugli spalti, intenzionate a seguire uno scontro regolare, e gli altri presenti erano gladiatori, guerrieri che non avrebbero permesso in nessun modo a Jago di commettere un omicidio travestendolo da combattimento corretto. Nemmeno Rok e Ledini, eppure, gli avevano rivelato da principio di chi si trattasse. Per quale motivo? Indubbiamente si fidavano di lui, per quanto lo odiassero a quel modo. Ma un ragionamento del genere era ben lungi dalla confusa ed un po’ spaventata mente del Naigh-Moor. Nor Zalafeth, come ormai aveva rinominato quella strana sensazione che si impadroniva di lui durante i combattimenti, non accennava a presentarsi, sepolta sotto una coltre di pavide e dubbiose preoccupazioni. Rimase immobile, intento a fissare il suo avversario che si avvicinava a passi pacati verso di lui, facendo sferragliare la grossolana corazza che gli proteggeva il torso massiccio. Quando gli fu davanti, mettendolo in ombra con la grossa mole, Dal indietreggiò d’istinto: Thodoran il bullo e Lokar il Mezzorco non erano certo stati da meno a quell’individuo, almeno in imponenza, ma Jago era qualcosa di peggio. Troppo per lui. Inoltre, la consapevolezza che quello non si trattava di un ubriacone da taverna, bensì del miglior combattente di tutta l’arena, accentuava il timore che gli ispirava, come un muro che sembra sempre troppo alto per essere scavalcato. «Dunque c’incontriamo» disse Jago, e la sua voce fece rabbrividire il giovane elfo oscuro. «Non credevo che la mia fama fosse giunta così in alto» ribatté sinceramente l’esule, facendosi un po’ di coraggio. «Non la fama di Nor Zalafeth.» rispose altrettanto francamente il Signore delle Arene «Ma quella di Dal Jin da Armalak». 188
Il Naigh-Moor si ritrasse immediatamente a quelle parole, sollevando con entrambe le mani la spada davanti a sé. «Calmo» si affrettò ad intimargli l’uomo, senza impugnare adeguatamente l’arma, mostrandosi così rinuncio ad iniziare precocemente il combattimento. «Sei un cacciatore di taglie» ringhiò in ogni caso Dal. La reazione di Jago lo lasciò del tutto senza parole. «E quindi?» gli aveva chiesto quello, scrollando le spalle. Non un abbozzo di sorriso gli era comparso sulle labbra, né il suo fare non si era fatto minimamente concitato: era freddo come il ghiaccio, per nulla rassicurante e l’espressione sul suo volto era dura come il granito. Eppure, questo non lo rendeva l’assassino spietato che l’elfo si era aspettato di affrontare. «Temi per la tua vita, elfo oscuro?» continuò Jago, irremovibile. Ancora silenzio. Dal era bloccato, invischiato in quella paura, incapace di stabilire cosa fosse giusto o cosa sbagliato. «Vivrai» il Signore delle Arene mormorò soltanto quella semplice parola, quindi si portò verso il centro dell’arena, dandogli le spalle. Quando si volse verso l’elfo, questi non aveva ancora mosso un passo, riuscendo soltanto a rivolgere la punta della spada verso terra. «Adesso dimostra di essere un guerriero!» esclamò allora, allargando le grosse braccia prive di protezioni «Sconfiggimi per non venire sconfitto!». «Non può farcela» borbottò Melidan, appoggiandosi alla parete dello stesso sotterraneo in cui i due contendenti si apprestavano a lottare. Kanyu, di fianco a lui, sembrava quasi inesistente: se ne stava muto come un pesce nel suo angolo in ombra, le braccia incrociate come suo solito, il volto celato in parte dall’elegante cappuccio nero. Pochi si sarebbero accorti della sua identità prima di essersi avvicinati abbastanza da venir raggiunti da un rapido affondo di pugnale. «Tu non la pensi così» arguì l’Elfo, tentando di scorgere nello sguardo del compagno un’emozione che confermasse i suoi sospetti. Niente. Kanyu esaminava sia Dal che Jago senza esprimere pareri. Melidan si chiese se fosse nato senza un solo lamento, se avesse mai lasciato trasparire chiaramente i propri sentimenti. «Può darsi, ma in un passato troppo remoto» si rispose, distogliendo l’attenzione da lui. Dal era ora davanti a Jago, a pochi metri da lui, ed ancora nessun istinto l’aveva percorso, nessuna traccia di Nor. E questo era quantomeno scoraggiante. Il suo cervello era intasato da domande e indecisioni, come già lo era stato negli scontri precedenti al suo primo combattimento con Rok, proibendo l’accesso 189
alla misteriosa volontà che aveva ormai imparato a dominare. Ma, se non fosse comparsa, non avrebbe avuto niente da dominare, a nulla sarebbero valsi tutti gli allenamenti per imparare a sfruttare appieno le recondite capacità del suo essere. Dov’era andata a finire tutta la sua spavalderia? Aveva accettato senza indugi la sfida, incurante di qualsiasi altro risvolto potesse avere; adesso avrebbe fatto esattamente l’inverso. La voce di Bozus non gli giunse affatto gradita alle fini orecchie. «Gentili signori!» esclamò quello, ripetendo la formula di rito «Quello che vi apprestate a vedere sarà il primo e stavolta unico scontro della notte!». Non vi fu nessun coro deluso in risposta a quelle parole: il Signore delle Arene in persona, che era rarissimo vedere nell’arena, ed il misterioso ragazzo che aveva conquistato in così breve tempo gli abitanti della città portuale si sarebbero scontrati assieme e questo, e soltanto questo, era ciò che volevano vedere quella sera. «Tuttavia, il confronto sarà indubbiamente piccante ed emozionante!» continuò Bozus, come se nessuno lo sapesse «Da un lato, l’indiscusso campione della nostra arena, celeberrimo per la propria abilità e la sua consumata esperienza! Signore delle Arene da anni ed anni, Jago Rimirkàs compare nuovamente nella gabbia dell’onore!». Ci vollero alcuni secondi perché il gestore riuscisse ad imporre quella calma necessaria per permettergli di presentare l’altro combattente; grida e cori si susseguivano inesorabili, a dispetto dell’immobilità e del silenzio del muscoloso guerriero. Di certo non doveva amare la reputazione che gli avevano pian piano costruito attorno. «Dall’altro, ecco invece lo sfidante: il Naigh-Moor che è riuscito ad ottenere il vostro rispetto e la vostra fiducia scavalcando i propri avversari uno dopo l’altro! Nor Zalafeth!». Ulteriore ovazione, altrettanto forte e prorompente. Gli unici individui che erano rimasti in un chiuso silenzio erano stati Kanyu, imperturbabile come sempre, Melidan, che si era attenuto al comportamento del compagno, Jago, la cui espressione diceva tutto sulla sua voglia di avere spettatori tra i piedi, e per ultimo Dal, insicuro e dubbioso. Perché non si poteva prolungare ancora un po’ quell’attesa? La risposta giunse con il suono del gong percosso velocemente da Bozus, anch’egli desideroso di assistere il prima possibile allo scontro. L’elfo alzò gli occhi sul proprio rivale: si aspettava di trovarselo addosso da un momento all’altro, ma Jago aveva soltanto sollevato la spada davanti a sé ed ora lo guardava con tutta calma, aspettando un suo cenno per poter iniziare veramente il duello. Inspirò a fondo, quindi si mise in guardia ed annuì con decisione, stringendo con ambo le mani l’impugnatura. Lo scontro sarebbe stato leale, almeno a giudicare dall’atteggiamento del suo avversario, ma per quanto? 190
Jago non poteva immaginarsi quella domanda: di fronte alla mossa dell’esule, colmò quei pochi metri che li separavano con un sol balzo, terminando con fendente tanto veloce che Dal riuscì appena a pararlo con la spada ed a schizzare indietro, sforzandosi di riportarsi in posizione come meglio poteva. Ebbe tutto il tempo di farlo, visto che Jago si fermò subito dopo quell’attacco, scuotendo un poco il capo, come se si fosse appena svegliato. Il Naigh-Moor lo attese arrivargli ancora addosso e minacciarlo seriamente con una serie di tre attacchi, tutti ad altezze differenti. Era rapido, estremamente rapido e letale. Dal fu costretto a deviare l’ultimo attacco con una sola mano, scartando subito dopo a sinistra in maniera disordinata. Non si era ancora ripreso che già il Signore delle Arene aveva sollevato la propria spada, descrivendo con essa una traiettoria retta e tagliente come un rasoio, all’altezza del braccio dell’elfo. Sentì un colpo violento, seguito all’istante dallo spallaccio che volava via, rimbalzando sul pietroso pavimento dell’arena. Non riusciva a portare a termine un attacco: Jago alternava una furia temibile alla calma più fredda, aspettandosi da un momento all’altro una reazione da parte del ragazzo. Ma avrebbe dovuto attendere fin troppo a lungo. «Non ce la può fare.» mormorò Melidan, preoccupato «Non da solo». «Non è ancora detto niente» replicò però Kanyu. L’Elfo sospirò, mentre il clangore delle due armi che cozzavano assieme riempiva l’intera stanza, catturando l’attenzione di tutti i presenti. «La paura può rivelarsi un avversario titanico.» continuò sprezzante «Molto più pericoloso che quell’omaccione». Frattanto, il corpulento Jago si era fatto sempre più vicino e pericoloso, alternando affondi, fendenti e mandritti senza mostrare il minimo accenno d’affanno. Più d’una volta le braccia e le gambe del giovane gladiatore erano state soltanto contuse grazie alla rudimentale corazza che Ledini gli aveva raccomandato di portare, ma i colpi dell’altro erano così potenti e violenti che il dolore era comunque tanto forte da impedirgli di muoversi con facilità. E dire che chiunque avesse assistito al primo scontro fra l’elfo e Rok l’aveva visto resistere a mazzate parecchio più dure. Dal non era in sé, se n’erano accorti quasi tutti, e non erano pochi quelli che si erano lasciati andare a proteste e lamentele. «Vali poco.» disse ad un certo punto il gigantesco Jago, con una smorfia sul viso «Non certo seimila monete». L’esule era pronto a dar ragione all’Umano, purché quella tortura avesse fine, ma al contrario un’altra voce, da lui soltanto udita, lo smentì senza farsi attendere. 191
«Mente.» sussurrava la voce «Non è così, non potrà mai esserlo». Dal sgranò gli occhi, guardandosi di colpo attorno e sollevando di scatto la spada. Fissò Jago con occhi interrogativi, lo vide spalancare la bocca e lanciarsi verso di lui in assoluto silenzio. Era certo di aver gridato, mentre defletteva anche quell’attacco, così come era certo che la spada avrebbe dovuto risuonare contro quella del cacciatore di taglie. Non riusciva a sentire neppure il pubblico. «Scaglialo via» continuava ancora la voce, suadente, irresistibile. Flesse i muscoli delle braccia indolenzite e spinse con quanta forza aveva, costringendo l’Umano ad indietreggiare. Nessun elfo oscuro sarebbe mai stato capace di smuovere una massa di muscoli come Jago, ma Dal lo fece, senza ben capire il perché. «Ora attingi alla tua stessa rabbia». Ringhiò selvaggiamente e menò uno scoordinato attacco, parato con una certa difficoltà a causa dello straordinario vigore che l’elfo aveva di colpo trovato. La voce prese a scatenarsi sempre più, a gridare dentro la testa dell’esule, a imporgli di non arrendersi, di dimenticare quanto era successo, di richiamare quelle energie che aveva ritenuto perse ed introvabili. Nor era di nuovo al suo posto, più infuriato che mai. Digrignava i denti come un animale, evitava la lama dell’altro con la destrezza di un acrobata, attaccava e attaccava, senza trovar pace. Ora era Jago a trovarsi seriamente nei guai: dopo minuti che gli sembrarono interminabili, avvertì il solido recinto contro le sue grosse spalle. Appena Nor si preparò a tentare di nuovo di ferirlo, gli occhi che brillavano incandescenti, rotolò sul fianco, udendo con soddisfazione il rumore della spada dell’elfo che urtava contro il recinto, facendo indietreggiare gli spettatori più vicini. Con un ruggito che Nor non riusciva nemmeno a sentire, conficcò la pesante arma nelle profondità del braccio dell’elfo, trapassandolo come burro. Nor urlò e si dibatté come un ossesso, appoggiando la fronte alla recinzione, impotente. «Non adesso!» prese però a tuonare la misteriosa voce, facendogli spalancare i già grandi occhi «Sei vivo! Puoi vincere, sai cosa devi fare!». Nor si staccò dal recinto senza un gemito, voltandosi verso Jago sotto gli occhi sbalorditi di quello e di tutti i presenti. «Non puoi combattere!» gridò l’Umano, sgomento dall’improvviso cambio di stato del Naigh-Moor, con le mani ancora sulla spada «Hai perso, sei sconfitto!». L’elfo grigio non lo sentiva: sollevò la propria spada con una sola mano, alzandola orizzontalmente sulla propria testa. Jago non fece a tempo ad estrarre l’arma dal braccio del ragazzo che già una lama si piantava nella sua spalla destra, strappandogli un grido talmente potente da ammutolire l’intera arena. Nor lasciò andare la spada, che scivolò pian piano a terra. Il giovane restava 192
cosciente, pur con un ferita che buttava sangue come una fontana e che andava prosciugando rapidamente le sue energie: anzi guardava l’Umano con un’aria da invasato, senza che i segni del dolore atroce gli attraversassero il viso. Jago era coricato dolorante sulla schiena quando la sua spada cadde a terra; Nor si chinò come un fulmine, raccogliendola con l’arto ancora utilizzabile e sollevandola, ora di colpo provato da una fatica ben distinguibile sul suo viso. A quella vista il Signore delle Arene si scordò persino del dolore: protese una mano davanti a sé, gli occhi sbarrati, tentando invano di fermare la sua stessa spada che ora si rivolgeva contro di lui; Nor, senza pietà, gli inchiodò saldamente l’altra spalla al suolo. Un nuovo urlo, poi il silenzio, interrotto solo dall’affannoso respiro del Naigh-Moor. Vi fu un borbottio di sottofondo poi, senza che Bozus avesse ancora pronunciato una sola parola, uno spettatore della prima fila acclamò Nor come nuovo Signore delle Arene. Nuove voci si aggiunsero alla precedente, formando in pochi secondi un coro di esaltate felicitazioni e di grida sconnesse, finché il silenzio che regnava nella testa di Nor s’interruppe di colpo, riportandolo alla realtà. Per qualche istante riuscì a vedere qualcosa; poi, tutto sfocò in un labirinto di dolore e confusione, lasciandolo cadere nell’abisso dell’incoscienza. Melidan si accasciò all’istante con un piccolo grido, soffocato facilmente dalle urla della folla. Kanyu lo sorresse prontamente, allontanandosi dagli esultanti spettatori in modo da poter parlare con l’Elfo, il cui corpo era adesso percorso da fremiti continui. Melidan non reagiva, gli occhi vitrei e spalancati, la bocca che si apriva e si chiudeva, balbettando arcane parole miste a gemiti di dolore, le braccia penzoloni. Kanyu lo adagiò a sedere in un angolo, imperturbabile come sempre. Goyl e Sali si erano già assicurati di prestare i primi soccorsi ai due combattenti quando Melidan riuscì a ritrovare il proprio autocontrollo. «Perché hai voluto farlo?» gli chiese l’altro «Non ci avresti guadagnato nulla in nessun caso». L’incantatore Elfo respirò a fondo, prima di rispondere. «Non potevamo rischiare con quel cacciatore di taglie.» spiegò, facendo poi una lunga pausa «E poi non doveva essere così faticoso…». Kanyu fece una smorfia, imprecando qualcosa sottovoce. «Quel ragazzino è arrivato fin qui perché ha una cosa chiamata resistenza magica.» disse poi, seccato «Quella caratteristica che ha scoperto il sacerdote di Larillan vale per ogni tipo di magia, non solo per le sue». Melidan sorrise a fatica, chiudendo gli occhi: come se non ne fosse a conoscenza! Era stato lui stesso a tener d’occhio il Naigh-Moor dalla sua fuga in poi e proprio lui aveva sempre sostenuto la teoria che Dal nascondesse qualche innato talento. 193
«L’ho sperimentata sulla mia pelle.» concluse alla fine, senza rinunciare al sorriso «Adesso cosa facciamo?». Kanyu abbassò il capo, incrociando le braccia come sua abitudine. Dopo aver mosso qualche passo avanti e indietro, lo rialzò, traendo un lungo respiro. «Aspettiamo». Dal aprì uno degli occhi assonnati, impiegando qualche secondo per riuscire ad identificare la sagoma indefinita sopra di lui. Quando però due calde labbra si posarono delicatamente sulle sue e sussurrarono un “ben svegliato, Signore delle Arene”, non faticò a capire di chi si trattasse. «Sali…» rispose con un filo di voce, intontito come se fosse reduce da una sbronza. Il viso sopra di lui annuì e sorrise, prima che la ragazza gli chiudesse nuovamente con due dita le palpebre. Mentre Dal stava per domandarle il perché di quel gesto, una forte pulsazione al braccio lo immobilizzò sul letto e gli fece scappare un mormorio di sofferenza. «Riposati, Dal.» gli ordinò con voce ancor più bassa Sali «La ferita al braccio era troppo profonda; ci vorrà qualche giorno per curarla». «Ferita al braccio?» ripeté il Naigh-Moor, facendo sforzo persino per parlare. «Sì, durante il duello con Jago, non ricordi? Goyl ti ha lanciato un incantesimo per farti dormire appena ti ha apportato le prime cure, non facevi altro che agitarti». L’elfo chinò il capo di lato, respirando a bocca aperta. «Non ricordo nulla…» fu tutto quello che disse, al che il sonno magico lo avvolse di nuovo, senza che l’elfo avesse ancora ben chiaro cos’era accaduto. Raidemark era nel pieno della sua attività, quella mattina: artigiani, mercanti e uomini di fatica erano indaffarati nelle proprie mansioni, accompagnati dal tiepido sole sopra le loro teste che riscaldava dolcemente la cittadina. Così come gli adulti, ragazzini di tutte le età si radunavano in gruppi e gruppetti, facendo capannello attorno ai membri più cresciuti tra loro che, come strilloni professionisti, raccontavano dei fatti più recenti esagerando volontariamente nella loro descrizione. Poi, quando gli stomaci cominciarono a dettare ordini, Raidemark decise di fare una sosta, lasciando le proprie strade quasi spoglie. Era la quiete che i due personaggi rimasti nei sicuri vicoli per tutti quei minuti attendevano; percorsero grandi viali e strette stradine, badando a non farsi scorgere da nessun curioso, fermandosi di quando in quando ad osservare muri scrostati e decadenti, sui quali troppi ragazzini avevano lasciato segni del loro passaggio e, soprattutto, di quello che era successo la sera precedente.
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«Opere dilettantistiche, sono poco più che bambini» borbottò uno dei due, gettando subito dopo un’occhiata al suo compagno. «Ma comunque sufficienti a renderlo riconoscibile.» replicò quello, preoccupato «E decisamente troppi perché i soldati della Legione tardino a notarli». «Lo scontro di ieri è sulla bocca di tutti.» convenne l’altro, facendo qualche passo indietro «Ormai non possiamo più attendere: dopotutto, ti serve vivo, no?». Silenzio, come al solito. Melidan, che aveva posto la domanda, non aveva ancora ricevuto una risposta, anche se cominciava ad intuirla. Kanyu poteva non proferire una sola parola, ma i suoi progetti erano fin troppo ovvi. «Interverrò personalmente» annunciò comunque il suo compagno, alla fine. «E quando? Non puoi ottenere niente.» replicò Melidan, poco d’accordo «Dovresti sbaragliare l’intera arena da solo». «Sarà fin troppo facile, invece. Sei un buon sacerdote, no?». Bozus non era nella sua stanza, quel giorno, contrariamente a com’era solito fare. D’altro canto, l’appartamento di Dal era stracolmo di gladiatori ed amici: sarebbe potuto mancare, lui, il gestore dell’arena? Gli incassi avevano toccato livelli record; il precedente Signore delle Arene, che aveva creato così tanti fastidi, era stato sconfitto ed ancora riposava e la fama del Naigh-Moor era salita alle stelle. Sembrava che non ci sarebbero potuti essere risvolti negativi nella situazione. Dal, obbligato a sedere sul letto dalle troppo numerose persone lì accalcate, restava ancora confuso, sebbene avesse cominciato a ricordare lo scontro precedente. Quando lo stesso Jago, traballante e malfermo, aprì la porta della stanza, tutto il vociare svanì in un istante, mentre qualcuno che non l’aveva visto entrare si sforzava di capire quale fosse la causa di quel brusco cambiamento. Il cacciatore di taglie avanzò a stento fino al ragazzo, che subito, come ogni presente, fece ben attenzione a tenere la propria arma a portata di mano. Lo sguardo del gigante era serio e freddo; le sue poderose braccia, ancora fasciate, non avrebbero faticato a schiacciarlo, nonostante le loro condizioni. Dietro di lui, Nemorel, più intimorito di chiunque altro, a causa della cattiva reputazione che aveva chiunque svolgesse la sua professione, chiudeva nuovamente la porta, salutando con gesti nervosi e frasi stringate. Jago si fermò davanti all’elfo oscuro, guardandolo con occhi lontani da qualsiasi emozione. «Ottimo combattimento, Dal Jin da Armalak.» esordì, chinando il capo in segno di riverenza «Ti aspetta un avversario ben più temibile di me, però». L’esule chinò di lato il capo, senza parlare: un altro nemico? Addirittura più pericoloso di quel guerriero che l’avrebbe sicuramente sconfitto, se quella misteriosa voce, che lui non poteva saper essere il frutto di un incantesimo, non l’avesse guidato? 195
«Il successo.» continuò Jago, rispondendo così allo sguardo di Dal «Ti troveranno molto presto». L’elfo abbassò gli occhi, chiudendo lentamente le dita sulle lenzuola. Era un rischio che aveva scelto di correre, ora doveva accettarne le conseguenze. Avrebbe potuto lasciare l’arena, adesso, ma voleva farlo? Alzò gli occhi verso Sali, Rok e molti degli uomini lì radunati: gli avevano offerto il loro aiuto, si erano comportati lealmente con lui. Avrebbe potuto abbandonarli? Inoltre, adesso era il Signore delle Arene, il campione amato dal pubblico. Tornare ad essere uno sconosciuto, una persona priva di tutto sarebbe stato ancora peggio che separarsi dai suoi nuovi compagni. «E dovrai affrontare molte prove per dimostrarti degno del tuo titolo, soprattutto ora che l’hai appena guadagnato.» riprese l’Umano, indicando la porta con un braccio e voltandosi poi verso Bozus, in piedi alla sua sinistra «Là fuori c’è un nuovo sfidante». «Riferiscigli che il Signore delle Arene deve riposare» replicò con una smorfia il gestore, senza nemmeno pensare che stava parlando con quello che aveva ricoperto quella carica sino al giorno prima. «È il tuo compito, non il mio» ribatté senza perdere tempo l’altro. Bozus sospirò, quindi si diresse a passi svelti verso la porta, rinunciando a fare altre obiezioni Appena fuori, l’alta sagoma di uno sconosciuto avventore lo portò a fermarsi immediatamente. Alzò gli occhi fino ad intercettare il suo viso, quindi strabuzzò gli occhi, al colmo della meraviglia. «Tu sei…» balbettò, come paralizzato. Una soffice nuvoletta lucente e muta volò come una saetta di lui, rallentando di colpo non appena gli sfiorò la fronte. Bozus sentì i propri pensieri farsi dubbi ed insensati, i ricordi svanire come sabbia al vento, mentre la nuvola andava rimpicciolendosi, fino a cessare docilmente di esistere. Melidan si affiancò a Kanyu in pochi secondi, impaziente di vedere gli effetti della propria magia. Davanti a loro, l’Umano sbatté le palpebre un paio di volte, intontito, quindi la sua attenzione riuscì a tornare sullo snello individuo davanti a lui. «E voi chi siete?» chiese schietto, assottigliando d’istinto gli occhi. «Gladiatori.» rispose semplicemente Kanyu con tutta tranquillità «Desidero affrontare il nuovo campione».
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XXI. L’ultimo giorno di vita
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a puzza di pesce era all’ordine del giorno, nel porto di Raidemark, assieme a quella della sporcizia e del letame scaricato in mare dai numerosi condotti fognari. Pochi erano quelli che non storcevano il naso quando si trovavano da quelle parti, sebbene la maggior parte degli abitanti della città esterna vi avesse trovato un lavoro modesto, ma in ogni caso abbastanza valido e sicuro. Pescatori e marinai vivevano senza problemi in quelle condizioni, trovando spesso di che commerciare o imbarcarsi, conferendo così all’intera Raidemark un aspetto particolarmente florido, per essere una città portuale. Ma c’era qualcuno a cui non importava minimamente dell’economia cittadina: appostato in alcune baracche all’estrema periferia, il piccolo drappello di soldati Naigh-Moor non sperava altro che di porre fine a quell’inseguimento e potersene così tornare a casa, magari con un bel gruzzolo fra le mani. Senza contare che quell’impresa si stava rivelando più pericolosa di quanto si erano aspettati. Tutti sapevano delle misteriose sparizioni che si erano registrate fra le loro fila, anche se nessuno era ancora riuscito a spiegarsi chi fossero i nuovi, letali rivali, e come riuscissero a passare inosservati: dovevano essere parecchi per riuscire ad agire con tanta discrezione. I preoccupati elfi oscuri non potevano sospettare che un solo individuo, aiutato da un semplice incantatore Elfo, fosse l’artefice di tutto. Adesso erano tutti riuniti nell’edificio più grande e ascoltavano con diffidenza il loro capitano, bardato alla battaglia appositamente per impressionare i suoi sottoposti. Il suo elmo scintillava di piccole e brillanti rune elfiche; la grossa scimitarra, sguainata e rivolta verso terra, sfrigolava contro il pavimento, sicuramente intrisa di una qualche magia. «Dodici, soldati.» ripeté per l’ennesima volta «Dodici sparizioni in un così breve tempo». Vi furono alcuni mormorii sommessi, quindi il capitano prese a camminare nervosamente avanti e indietro, zittendoli nuovamente. «E sono stati trovati soltanto quattro cadaveri.» ricominciò, dopo qualche attimo «I nostri avversari si sono curati di nascondere i corpi, magari gettandoli a mare». «O forse hanno convinto i restanti ad abbandonarci» azzardò uno degli elfi. Il capitano scagliò immediatamente un’occhiata rovente a colui che aveva parlato, senza che però questi si pentisse delle proprie parole. «È possibile, no?» continuò, infatti «Non abbiamo idea di chi siano questi aggressori».
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«Sì, è possibile.» accettò seccato il capitano «Ma, per quanti provassero un improvviso desiderio di disertare, è sconsigliato.» e qui la sua faccia si fece ancor più minacciosa «Perché non sarò affatto gentile con chi s’illude di poter tradire Armalak!». Stavolta un silenzio di tomba si susseguì a quell’intimidazione; tutti conoscevano la fama del capitano e nessuno voleva provare l’emozione di sentire la propria gola accarezzata dalla lama della sua formidabile arma. «Non importa quali e quanti siano i nostri nemici, state sicuri che chiunque provi ad abbandonare Armalak incorrerà nella mia ira!» aggiunse poi, sollevando la scimitarra per meglio farsi intendere. «E nella mia» concluse un’altra voce: la voce che ogni soldato della Legione aveva udito e temuto da quando si era arruolato. Lohidran era sulla soglia, appoggiato allo stipite con una spalla, duro in viso. Non appena si accorsero della sua presenza, tutti i soldati della stanza si profusero in fulminei inchini, badando a tenere gli occhi piantati a terra. Soltanto il capitano, troppo stupito per riuscire a ricordarsi delle formalità, rimase in piedi, attonito. «Mio principe, che ci fate qui?» domandò, abbassando la spada, imbarazzato. Lohidran attese qualche secondo prima di rispondere, intanto che faceva il suo ingresso, esaminando l’edificio in rovina in cui si trovavano e tornando poi sul capitano come se nulla fosse. «Dal Jin è in questa città, no?» disse, apparendo d’un tratto scocciato «Sono semplicemente venuto ad assicurarmi che riusciate a trovarlo». «Mio signore, non c’era bisogno…» replicò interdetto l’altro. Lohidran sembrò avvampare in viso: fissò con occhi furenti il capitano, trattenendo come meglio poteva la propria rabbia. «Non l’avete ancora trovato.» sibilò, stringendo i pugni «Ho con me un gran numero di maghi e soldati: oggi stesso cominceranno le ricerche». L’altro elfo indietreggiò di un passo, prima di annuire piano. «Eccellente idea, mio principe» disse d’un fiato, inquieto. Lohidran tacque, catturando in un’ultima occhiata tutti i presenti, quindi uscì dalla stanza, iniziando già a dare ordini e disposizioni. Il viso di Bozus era strano e confuso quando l’uomo rientrò nella stanza dell’esule, reggendo fra le mani un gonfio sacchetto. Lo sguardo di ciascuno dei presenti ricadde immediatamente su di lui, una volta ch’egli ebbe aperto la porta. Dal era teso ed agitato sul suo giaciglio e, nel tempo che il gestore aveva trascorso fuori dall’appartamento, non aveva fatto altro che porre qualche breve domanda a Jago, ora fatto sedere sull’unica sedia della stanza.
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«Ragazzo, domani sera torni nell’arena» annunciò Bozus, confermando i suoi dubbi. «È troppo presto!» protestò vivamente Sali, mettendosi fra l’elfo e l’Umano «Concedigli il tempo di prender fiato!». Per tutta risposta, Bozus sollevò il sacco di fronte al viso della ragazza, senza darle ascolto. «Queste sono diecimila monete.» disse, ficcando una mano dentro al sacco ed estraendone una manciata abbondante «Ha pagato una cifra enorme per combattere». Sali non si mosse, seguendo automaticamente i gesti dell’Umano, incapace di parlare. Mai era capitato prima d’allora che qualcuno avesse pagato per battersi. «Tutti quei soldi sono soltanto un brutto segno.» sbottò Rok, avvicinandosi anch’egli al gestore «Forse è una trappola». «Potrebbe trattarsi di un pazzo» obiettò anche Ledini. «Non credo lo sia.» replicò tuttavia Bozus, abbassando nuovamente il sacco «Sembra un rispettabilissimo guerriero». «E se non lo è?» si decise a chiedere Dal, riuscendo ora a mettersi a sedere «Descrivimi questo sfidante ». L’uomo fu sul punto di rispondere, ma si bloccò di colpo, come se non avesse capito la domanda. Si passò una mano sul mento sbarbato più volte, senza parole. «Non ricordo…» ammise alla fine, anch’egli turbato da quella stranezza. «Come?» domandarono all’unisono gran parte dei gladiatori presenti. «Ho detto che non ricordo.» ripeté l’uomo, sforzandosi vanamente di trovare una giustificazione «Era un uomo alto, vestito con eleganti abiti neri, ma non riesco a ricordare il suo viso». Dal era il più perplesso di tutti: Bozus si era rimbambito di botto? O, molto più probabilmente, il misterioso sfidante aveva lanciato un qualche incantesimo su di lui? «Tu l’hai visto, Jago?» chiese allora Rok, voltandosi verso l’ex Signore delle Arene. Il gigante era nelle stesse condizioni del gestore, così come Nemorel: era fin troppo chiaro che qualcosa non andava per il verso giusto. «Ricordo che c’era un Elfo con lui.» rispose dopo alcuni istanti, la fronte aggrottata «Un Elfo con lunghi capelli biondi, come quasi tutti quelli della sua razza». Bozus e Nemorel convennero immediatamente su quel punto, aggiungendo qualche altro particolare di poca importanza, come il colore e la fattura delle sue vesti.
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«Beh, non sembrano aver a che fare con la Legione di Armalak, se non altro» borbottò Ledini, grattandosi la testa. «Comunque, è innegabile che siano interessati in particolar modo a Dal» disse Rok. «Inoltre, diecimila monete sono quasi il doppio della taglia sulla sua testa.» cercò di convincerli Bozus, additando l’elfo oscuro ed il denaro «Non sono interessati nemmeno ai soldi». «Non possiamo parlarne con questo guerriero?» propose Dal. Il gestore scosse il capo in segno di diniego. «È andato via con l’Elfo dopo avermi dato il denaro. Evidentemente, si aspetta che tu accetti». Per alcuni minuti, discussero fra loro su come era meglio agire: se declinare quella sfida, senza far caso all’offerta di Kanyu, che di sicuro sarebbe tornato a riprendersi i soldi (prospettiva che non allettava particolarmente Bozus), oppure affrontare quella sfida, confidando nella fortuna e nella speranza. Trascorso quel tempo, fu proprio Dal a trovare un accordo che soddisfacesse tutti. «Io posso anche affrontarlo.» disse, scrollando le spalle «Siamo in un numero abbastanza grande per impedirgli di commettere sciocchezze, dopotutto. Mentre io combatterò, voi lo terrete d’occhio, magari avvertendolo prima che il duello abbia inizio, in modo da farlo subito desistere dai propositi che può avere in serbo per me». Vi furono più poche opposizioni, fatta eccezione per Rok e Sali, che avrebbero continuato all’infinito pur di non farlo scendere nell’arena. Prima che ci ripensasse, Bozus fu però ben pronto a dichiarare chiuso il discorso e ad allontanarsi con i soldi, tirando un sospiro di sollievo una volta fuori dall’appartamento. «Come al solito, non ti capisco.» brontolò Melidan, quando lui ed il compagno furono un’altra volta sulle strade di Raidemark «Perché questa sfida? Ti avrebbe seguito senza dubbio». «Di questo non sarei così sicuro.» rispose Kanyu, spostandosi prudentemente in uno dei numerosi vicoli della zona «Non è facile rinunciare a tutto quello che si ha». «E allora cosa credi di ottenere, battendoti con lui? Vuoi umiliarlo?» ribatté aspro il sacerdote, seguendolo a pochi passi di distanza. «Intanto, indebolirò la fiducia che nutre verso il suo nuovo grado. Poi lo porterò via con la forza, se necessario». «Vuoi rapirlo durante un duello? Sei impazzito?».
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«È meno difficile di quanto credi» il tono della voce di Kanyu cominciò a farsi duro, chiaro segno che aveva commesso un errore, oltre al fatto che stava cominciando ad innervosirsi «Li intimorirò». «Allora era meglio entrare nel suo appartamento e parlare direttamente con lui.» puntualizzò l’Elfo «Non ti aiuterà, se lo tratterai così». «Non ho bisogno del suo aiuto!» esclamò di colpo l’altro, voltandosi rapidamente verso Melidan «Non ho mai detto di aver bisogno di quel ragazzino!». «È chiaro come il sole, però; altrimenti non avresti perso tanto tempo». Kanyu rimase immobile a lungo, i polsi tremanti, lo sguardo già alterato ora impregnato da una rabbia ancor più potente, eppure l’Elfo non si lasciò affatto impressionare: aveva previsto una reazione del genere, se l’aspettava. Sapeva per esperienza che non gli avrebbe fatto nulla, eccetto qualche minaccia. E invece, nemmeno quelle. Kanyu si voltò senza dire niente, riprendendo a camminare, i passi ancora cadenzati, indifferente ai commenti di Melidan. Le ore sembravano correre velocissime, beffarde: ogni secondo che trascorreva era un altro secondo che permetteva a Dal di fuggire sempre più lontano, pronto a far perdere le proprie tracce come già aveva fatto. Era lì, in quella città. Non doveva sfuggirli un’altra volta; non gliel’avrebbe permesso. Questo era quello che Lohidran, fratello maggiore del giovane esule, si ripeteva da quando maghi e soldati si erano dispersi per le strade di Raidemark, in cerca di un qualche indizio che almeno li gettasse sulla giusta pista. Solo quando il sole era ormai tramontato, le decine di Naigh-Moor che aveva inviato in massa tornarono e sui loro volti era impressa una delusione ed un timore sempre crescente. «Ebbene?» domandò al primo dei propri maghi, poiché nessuno si decideva a parlare «L’avete trovato o no?». Lo stregone annuì velocemente, come se fosse stato normale, scatenando inesorabilmente l’euforia del giovane principe. «Dov’è? Dov’è?» chiese con insistenza, afferrando l’interlocutore per le spalle magre. «In un’arena della città, ben saldo sulla propria posizione di campione.» rispose con una punta di malefica soddisfazione quello, irritato dai modi di Lohidran «Assieme ad un bel po’ di altri gladiatori». L’euforia del principe si spense di colpo, subito rimpiazzata da un rabbioso furore. «Faremo irruzione» ordinò senza lasciar andare il mago, anche se la sua frase sembrava più una domanda che altro.
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«Dimenticavo di dirvi che l’arena si trova nella città interna.» precisò lo stregone, divincolandosi con eleganza «Non possiamo entrare con la forza in un complesso del genere, non con tutti questi soldati». «Non importa!» gridò in risposta l’altro, portandosi verso il centro delle truppe ed alzando gradualmente il tono man mano che vi si avvicinava «Andrò io stesso in quell’arena, assieme ai guerrieri più fidati e validi! Trenta soldati, saremo più che sufficienti per quei quattro fenomeni da baraccone!». Vagò per il campo improvvisato, catturando rapidamente l’attenzione di tutti e sommando, come suo solito, promesse di laute ricompense per quanti l’avrebbero affiancato. Quando fu sicuro di aver inculcato nel cervello di ciascuno dei Naigh-Moor il concetto, si diresse a passi svelti verso l’edificio in cui si erano riuniti già una volta. «Che tutti gli ufficiali ed i volontari si radunino qua dentro!» concluse, voltandosi verso gli ancora incerti soldati «Ci mettiamo in marcia fra meno di venti minuti!». Detto questo, entrò nella casa in rovina, la lunga treccia bionda che ricadeva sul mantello ondeggiante. Insicurezza, tanto per cambiare. Lui era già pronto, giù nei sotterranei, e lo attendeva. Ma chi era questo “lui”? Dal si lambiccava di domande, d’ipotesi, di preoccupazioni. Non aveva un nome, un volto, una fama. Era come se non esistesse, eppure qualcuno c’era, in quell’arena. Rok, che era tornato di corsa nelle sue stanze, glielo aveva semplicemente descritto come un “tipo strano”, ma il Naigh-Moor aveva preferito appurarsi da solo della verità il più in fretta possibile, superando Rok senza troppi scrupoli. Sali non si era fatta viva, cosa che ultimamente succedeva fin troppo spesso. Dov’era finita quella ragazza tanto apprensiva che aveva conosciuto, che l’aveva condotto in situazioni che mai si sarebbe aspettato? Poteva rispondersi che era semplicemente ad incitarlo accanto ad un sorridente Goyl, certo, se solo fosse riuscito a non staccare gli occhi da un individuo di altezza smisurata, di cui non poteva ancora distinguere chiaramente i lineamenti. Tuttavia, il colore del volto lo aveva immediatamente inquietato, nonostante la distanza: gli pareva nero, completamente nero, così come tutto il suo abbigliamento. Che razza di mostro doveva fronteggiare? Lanciò un’occhiata al pubblico ed agli altri gladiatori, notando tra l’altro la presenza di Jago e Nemorel, il secondo in un vivo stato d’inquietudine ben più evidente di quello di tutti gli altri. Loro conoscevano la risposta? Gli sguardi perplessi che rivolgevano prima allo sfidante e poi a lui davano per scontata una smentita. Con le idee che non accennavano a schiarirsi in nessun modo, Dal raggiunse i cancelli del recinto, accorgendosi ben presto che qualcosa non andava: la rastrelliera era lì, non era stata rimossa come in ogni incontro. Fra i 202
dubbiosi borbottii dei presenti, volse il capo verso Ledini, come per ottenere una spiegazione. «Quale arma ha scelto?» domandò, quando vide che il padre di Sali non avrebbe parlato. L’uomo tacque per qualche istante, quindi gli indicò con un gesto rassegnato l’intera rastrelliera. «Ha detto che lascia scegliere a te.» disse, appoggiando una mano alla recinzione «Lui si adatterà». Dal inarcò un sopracciglio, sempre più colpito dal suo bizzarro avversario: era tanto sicuro di sé da ritenersi capace di sconfiggerlo con qualsiasi arma? Od era semplicemente un folle? Un folle senza problemi di denaro, però. «Beh, se davvero è così abile, non si lamenterà se utilizzerò la mia arma preferita» scherzò, scrollando le spalle e traendo a sé una spada lunga. Ledini non rispose nemmeno stavolta: la sua diffidenza verso quell’individuo traspariva come se nascosta dietro ad un vetro. L’elfo si assicurò che ogni precauzione fosse stata presa: ciascun gladiatore era pronto alla battaglia, nel caso lo sfidante avesse tentato qualche scherzo. Non ne avrebbe avuto l’opportunità, per quanto avesse potuto cercarla. Dal si lasciò i propri compagni alle spalle, bandendo i timori oltre quel fatidico recinto. Forse era la sua stessa vita ad essere messa in palio, ma era un rischio a cui ormai riteneva di essersi abituato. Chiunque fosse il suo avversario, avrebbe dovuto sudare per vederlo morto a terra. I cancelli si chiusero dietro di lui per l’ennesima volta, lasciandolo solo a contemplare uno snello individuo ben vestito il cui viso restava però invisibile, celato sotto una pesante maschera di cuoio scuro: quella che da lontano era parsa la sua faccia. Ma come mai nascondeva il suo volto, il suo sguardo, a quel modo? Persino gli occhi non si distinguevano in nessun modo, offuscati com’erano da una specie di sottile rete metallica. Una maschera di quel genere non doveva garantire una buona visibilità, oltre ad essere estremamente scomoda. Il suo portamento, i lunghi capelli corvini ricadevano sulle spalle con delicatezza, facevano a pugni col grottesco aspetto che gli conferiva la maschera: che fosse stato così orribilmente sfigurato da dover nascondere il viso? Dal intuiva che non era così, pur senza sapere il motivo. Kanyu avanzò verso di lui con un passo talmente leggero da stupirlo non poco. Sembrava quasi che levitasse, tanto era agile la sua andatura. «Una spada lunga.» mormorò con la voce contraffatta dalla maschera, quando gli fu di fronte «Una scelta comune». «Siete stato voi a dirmi di scegliere.» ribatté duramente Dal, sollevando la spada «Vogliamo cominciare?». Kanyu non indietreggiò di un passo, anzi incrociò le braccia, mostrandosi restio ad iniziare il duello così presto. 203
«Hai fretta?» disse, e a giudicare dal tono sorrise«Credevo tu volessi sapere almeno qualcosa di me». «Non avete detto niente a nessuno.» fu la secca replica dell’elfo oscuro «Perché dovreste dire qualcosa a me?». Kanyu si voltò lentamente, muovendo un solo passo in direzione opposta all’esule, quindi, quando il ragazzo si aspettava che si spostasse dall’altra parte dell’arena, si voltò nuovamente verso di lui. «Perché ti conosco meglio di chiunque altro, qua dentro.» rispose, e immediatamente Dal immaginò a che cosa alludesse «So chi sei veramente, dove e quando sei nato, perché sei scappato e tutti i dettagli della tua piccola fuga». Intorno a loro, il pubblico cominciò a lamentarsi: a loro importava decisamente poco di confessioni e biografie. Volevano vedere quel combattimento, e loro non glielo stavano offrendo. D’altra parte, a quelle parole Dal si era già dimenticato del duello. Un altro cacciatore di taglie desideroso di mettersi in tasca seimila monete? No, era assurdo, ne aveva pagate diecimila per combattere. «A che fine?» riuscì a chiedere, abbassando l’arma «Io non vi conosco». «Solo perché ho una maschera sulla faccia.» disse l’altro, indicandosi il viso «Ci siamo già incontrati. In una taverna, ricordi? “Il cervo”, si chiamava.» Dapprima il viso di Dal si fece lungi dal ricordare l’episodio che Kanyu stava rievocando, ma quando nella sua mente comparve l’immagine di una figura ammantata che mangiava con tranquillità mentre lui si riprendeva dalla rissa con Thodoran, non ebbe più dubbi sull’identità del suo sfidante. Tuttavia, sebbene si fosse tenuto sempre in ombra, quella sera non aveva indosso nessuna maschera, solo un semplice cappuccio. Perché adesso l’aveva, allora? Cos’aveva da nascondere? «Non portavate maschere» disse, guardandolo poco convinto. Kanyu coprì con pochi passi la breve distanza che li separava: ora Dal l’aveva davanti, lo vedeva in tutta la sua altezza ed imponenza. Persino Jago e Lokar sarebbero sembrati bassi, se confrontati a lui, e non l’avrebbero eguagliato nel senso d’inquietudine che causava in quelle vesti. «Vorresti che me la togliessi?» chiese, alzando le mani coperte perennemente da lunghi e rifiniti guanti neri fino al punto in cui la maschera occultava gli zigomi «Non è possibile, adesso». Dal arretrò nervosamente, stringendo d’istinto la spada con la destra. «Dimmi chi sei, allora» sussurrò, cercando di scrutare in quell’impenetrabile difesa che la maschera gli forniva. «Un amico, ti basti questo.» rispose Kanyu, abbassando le braccia «Un amico che vorrebbe che tu lo seguissi».
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Il Naigh-Moor si fece ancora più dubbioso sul proprio interlocutore, che sembrava essere una miniera di colpi di scena. «Per andare dove?» chiese, inclinando di poco il capo verso destra. «Sicuramente lontano da Nog Tuluth e dalla Legione di Armalak, molto prossima a catturarti» rispose Kanyu. «Non sanno nemmeno dove mi trovo». «Questo perché io stesso ho vigilato sulla tua salvezza.» il tono di Kanyu si fece gradualmente seccato «Ho eliminato dodici di loro, mentre tu conquistavi gli onori in questo buco». «Non mi dire!» esclamò ironico Dal, prendendola già sul ridere «E magari erano tutti potenti stregoni, vero?». Kanyu si sentì istantaneamente ribollire il sangue nelle vene, come mostrava chiaramente, nonostante la presenza della maschera. «Ragazzino, non è affatto il caso di scherzare.» ringhiò, avvicinandoglisi ulteriormente «Devi andartene da qui, ed in fretta». «Assieme a te.» puntualizzò annoiato l’elfo «Raidemark è la mia città e questa arena è il mio regno, adesso». «Bene!» sbottò l’altro, allontanandosi a gran passi «Allora ti mostrerò quanto è fragile il tuo regno». Non aveva ancora raggiunto il proprio posto che Bozus, sotto le pressioni di un pubblico vivamente impaziente, aveva già cominciato a presentarli: Nor Zalafeth contro “il guerriero senza nome”, come l’aveva banalmente battezzato. A Kanyu, però, non importava minimamente del nome che gli era stato affibbiato. Non aveva nessuna importanza, adesso. Dal non lo aveva ascoltato con le buone; non restava che passare indiscriminatamente alle cattive. Qualche secondo prima che lo scontro avesse inizio, sfoderò da un pregiato fodero un’arma che nessuno si sarebbe aspettato fosse lì contenuta. Era una specie di scimitarra, o un machete, molto primitivo, la cui seppur lucente lama era fissata ad un rozzo manico in legno con strette fasce e legacci. Non furono pochi quelli che si lasciarono andare a scherzosi commenti su quell’arma e sull’individuo che l’impugnava, tanto che Bozus si trovò ad esitare, anche se già aveva la mazza fra le mani. «Non vuoi un’arma più recente?» domandò Dal, palesemente divertito dalla situazione. «Questa va benissimo.» rispose Kanyu, digrignando i denti per la rabbia, voltandosi subito dopo verso il gestore «Vuoi muoverti, tu?». Bozus percosse il gong con una smorfia, borbottando qualcosa contro l’arroganza di quello sfidante: massì, Dal se ne sarebbe sbarazzato nel giro di un minuto. Kanyu puntò senza troppa fretta il proprio avversario non appena il suono riecheggiò per la stanza: non teneva una posizione di difesa, avanzava a 205
gran passi senza una parola, la spada in mano, la testa abbassata per poter fissare come meglio poteva gli occhi del ragazzo. Poi, non appena fu davanti a Dal, che ancora si teneva in difesa, vibrò un semplice colpo verso l’esterno. Troppo semplice per il Signore delle Arene. Il Naigh-Moor spostò la spada rapidamente, mandandola a cozzare contro quella di Kanyu, ora freddo ed impassibile. Dal era sul punto di compiere la sua mossa, quando la spada tremò di colpo nel suo pugno dolorante, spinta da una forza innaturale per un colpo del genere. Cercò di stringere ancor di più la presa, ma il solo risultato che ottenne fu un dolore sempre più lancinante. Costretto dalla violenza dell’attacco, allargò la mano, lasciando che l’arma finisse lontana un paio di metri, con un clangore che zittì l’intero sotterraneo. Prese la sua stessa mano nell’altra, soffocando un gemito di dolore: come aveva fatto? Nessun attacco poteva contenere una simile potenza, tanto meno se portato a termine con una lama del genere. Alzò gli occhi di scatto verso il proprio avversario, quanto gli bastò per intercettare un bagliore luminescente correre lungo la lama della sua spada. «Sei tu che dovresti cambiare arma.» annunciò con una smorfia Kanyu, abbassando di un poco la spada «Non obbligarmi a convincerti con la forza». Un inaudito boato coprì le sue parole, distogliendo l’attenzione di tutti dallo scontro. Come uno sciame di vespe, trenta soldati della Legione irruppero nei sotterranei, capeggiati dallo stesso principe di Armalak, ben visibile in testa alle sue truppe. Grida isteriche e bestemmie furono le uniche parole udibili in tutto l’edificio. Tutti i gladiatori dell’arena sguainarono le proprie armi come un sol uomo, aspettando soltanto un ordine, sebbene i Legionari fossero ben più numerosi di loro. Bozus, dall’alto della sua posizione, fu il primo ad accorgersi che lo scontro sarebbe stato impari, nonostante l’addestramento e l’abilità dei numerosi gladiatori. Lohidran, invece, fu il primo a parlare chiaramente. «Fermi!» impose, alzando le mani disarmate «Non siamo qui per fare una strage!». Non era affatto vero, ma il numero non certo limitatissimo degli avversari che non credeva si sarebbe trovato ad affrontare lo obbligava perlomeno a tentare di usare un po’ di diplomazia. «Come no?» borbottò Nemorel verso Jago, che adesso stringeva con rabbia la bastarda «Sono qui per guardare il duello, allora». Il suo compagno non fece in tempo a dire qualcosa che già il Mezzelfo era corso fra la folla terrorizzata. «Nemorel! Nemorel!» chiamò invano, mentre quello scompariva facilmente fra il pubblico, lontano dai Naigh-Moor. Bozus intanto sembrava meno convinto che lui: una trentina di soldati che entrano in un’arena non hanno intenzioni pacifiche, di solito. 206
«Se è così, fai uscire immediatamente i tuoi soldati da quest’edificio, elfo grigio!» esclamò in risposta. Lohidran strinse i denti, socchiudendo gli occhi, visibilmente alterati, ancor più sinistri del solito. «Siamo qui per il vostro campione!» controbatté, puntando l’indice verso Dal «Consegnatecelo e ce ne andremo immediatamente!». Bozus fu sul punto di scagliare i gladiatori contro il principe di Armalak, quando un’altra voce si frappose tra lui e Lohidran. «Il Signore delle Arene sono io, adesso.» disse senza emozioni Kanyu, facendo qualche passo verso i cancelli «È a me che dovete render conto». Lohidran lo guardò con aria disgustata, storcendo il naso; quindi si lasciò andare ad una piccola risata derisoria. «Credevo che questa fosse un’arena, non un circo.» sghignazzò, come fecero i suoi uomini «I vostri campioni sono tutti buffoni come te? O forse sei così brutto da dover nasconderti dietro quell’affare?». Kanyu non mosse più un passo; nel silenzio generale, spostò la sinistra sino alle due piccole fibbie metalliche che chiudevano la maschera attorno al suo viso, slacciandole senza una parola. Con gesti tranquilli, la lasciò poi cadere sul pavimento, suscitando continui bisbigli concitati fra tutti i presenti. Era di una bellezza arcana ed eternamente giovane, ma al contempo il suo pallore e i lunghissimi capelli corvini gli conferivano un aspetto inquietante. Il suo sguardo era quello di un uomo che non aveva mai conosciuto pace né requie. «Un Naigh-Moor.» mormorò svogliatamente Lohidran, intanto che lo fissava «A maggior ragione, se appartieni alla nostra razza dovresti tirarti indietro di fronte a me». «Solo questo, invece, sarebbe un buon motivo per tenere una maschera sulla faccia» replicò Kanyu con voce tranquilla, aggiustandosi le due lunghe ciocche che gli ricadevano inevitabilmente sul viso. Lohidran stava per contestare anche quell’affermazione, quando il grido di uno dei suoi soldati lo costrinse a voltarsi: questi aveva un’espressione non solo impaurita, ma del tutto terrorizzata, e le sue dita non facevano che indicare con orrore il pallido individuo. «Cosa diavolo ti prende?» sibilò scocciato l’ufficiale che gli era vicino, afferrandolo per il bavero «È solo un Naigh-Moor come te!». Nei sotterranei adesso non era possibile altra voce che quella dello stravolto soldato, che non accennava a fermarsi. «Gli occhi, signore, gli occhi!» ripeteva, facendo scaturire altre esclamazioni di paura e d’odio. Quando Lohidran si volse per esaminare a sua volta Kanyu, trattenne come gli altri il fiato, emozionato ed imbambolato al contempo. Gli immoti occhi 207
dell’oscuro guerriero non lasciavano intravedere alcun sentimento, silenziosi, con due iridi bianche e sinistre affondate nel più cupo nero delle sclere. Solo un Naigh-Moor al mondo possedeva quegli occhi. «L’Esule! l’Esule!» gridò infatti un altro sbalordito soldato, sguainando la propria arma. «Il Traditore!» lo seguì un altro, mentre altri nomi nascevano dal pubblico e dai gladiatori. «Kanyu…» balbettò lo stesso Dal, le braccia abbassate, come paralizzate. Nello stesso istante, Lohidran si umettò il labbro superiore con la lingua, sorridendo cinicamente. «L’Esule e lo schiavo che cercavamo in un sol colpo.» si disse, soddisfatto «Un bottino eccezionale, non c’è che dire: Kanyu, tu verrai con noi!». Sfoderò la spada senza esitazione, illuminandosi fiocamente il viso di una luce scarlatta, quando una fitta al petto lo arrestò di colpo, strappandogli un secco gemito. Nemorel stava appollaiato all’estremo della recinzione a quasi tre metri di altezza, l’arco ancora imbracciato, gli occhi socchiusi rivolti alla freccia conficcata nel corpo del nobile Naigh-Moor. «Maledizione!» imprecò quello, battendosi una mano sulla coscia «Due dita più in là e quel cialtrone avrebbe smesso per sempre di dire assurdità!». Lohidran indietreggiò comunque fra le proprie truppe, prontamente afferrato dalle mani dei soldati più vicini, intanto che il Mezzelfo scendeva prontamente a terra, bofonchiando qualcosa. Vi fu solo il tempo di qualche minaccia, prima che le grida infuriate del principe ferito e di Bozus portassero le due parti a scontrarsi. Non era ancora stato sferrato alcun attacco che Kanyu spinse con forza Dal verso la spada ancora a terra, sfoderando un istante dopo una scimitarra dall’aspetto molto più imponente, frastagliata e decorata, sulla cui lama era incastonata un’enorme gemma di un azzurro scintillante. Dal annaspò con le mani e con i piedi per raccogliere la spada lunga, correndo subito dopo verso i cancelli, già ostruiti da un pugno di combattenti. Il caos era totale: gladiatori e spettatori correvano da una parte all’altra dell’arena, chi impugnando un’arma, chi a mani nude; Bozus era sceso di gran fretta giù dalla propria postazione e si stava lanciando con una pesante mazza tra le mani verso il punto caldo della battaglia, lampi magici comparivano di tanto in tanto ad indicare la presenza di Goyl e Melidan da qualche parte. Lohidran si alzò in piedi a fatica, la freccia ancora piantata nel petto, spingendo i soldati verso la battaglia e cercando faticosamente di farsi largo verso l’odiato fratello. Il corpo sbalzato via di uno dei suoi soldati lo portò però a sbattere contro il muro, finendo a sedere per il forte dolore al torace. Si udì una forte bestemmia, mentre Rok piantava la sua grossa ascia nel cranio di un soldato sconfitto, voltandosi
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istantaneamente dopo per vedere uno degli allievi cadere, trafitto più volte dalla lama del proprio avversario. Dal cercava disperatamente di raggiungere il folto dei Naigh-Moor, ma quanti finivano a portata della sua spada lo fecero perché rotolavano lontano, morti o in procinto di esserlo. Poi, di colpo, una grossa fiamma scura guizzò nelle prime linee, ed un istante dopo Ledini ed altri corsero via, come impazziti. Dal incrociò lo sguardo di quelli che gli sfrecciavano accanto, inciampando e rialzandosi fra le grida sempre crescenti: erano stracolmi di paura, spaventati a morte. Vedere Ledini in quelle condizioni gli sembrava una sovversione dell’ordine naturale delle cose. Fra di loro, un gladiatore con cui l’elfo aveva a stento parlato in quei giorni lo travolse, facendogli perdere per la seconda volta la presa sulla spada. Gridò qualcosa, quindi si rialzò con entrambe le mani, in tempo per vedere quel capitano che aveva affrontato fuori dalle miniere guardarlo con aria beffarda da sotto il suo elmo scintillante, la grossa scimitarra a due mani avvolta da un fuoco magico, scuro e sinuoso come un Demone della lussuria. «Ci incontriamo di nuovo, schiavo! Sai quanto fanno paura tutti quei Bornock bavosi?» gridò, sollevando la spada «Ora avrai modo di saperlo!». Calò la lama con quanta forza avesse, finendo per urtare l’elegante scimitarra di Kanyu, incredibilmente pulita dal sangue dei guerrieri che erano già caduti per sua mano. «È destino che anche tu cada sotto la mia spada?» gridò isterico il soldato, ridendo come un pazzo «Assaggia il terrore! Assaggia il terrore!». Kanyu restava impassibile, nonostante la grigia fiamma avesse ripreso ad ardere minacciosamente; per incantesimo, essa prese infatti a spegnersi una manciata di secondi dopo, defluendo nella gemma incastonata sulla lama dell’Esule come fumo inghiottito da una presa d’aria. «Non è possibile!» sbraitò l’altro, premendo con più forza «Devi provare la paura!». Kanyu sorrise appena, alzando nel frattempo l’altra spada ed appoggiandola sul brillante elmo del capitano Naigh-Moor. «In effetti, sento un certo formicolio alle gambe» mormorò sarcastico, strappando uno strillo all’altro. Nemmeno il tempo d’aprir bocca ed aveva nuovamente sollevato di un poco l’altra spada, facendola poi ricadere con quanta forza aveva nel braccio. L’elmo magico si aprì a metà come una mela, assieme alla testa dello sventurato NaighMoor, che ebbe soltanto il tempo di balbettare qualcosa senza importanza, crollando poi sul davanti quando l’altro estrasse l’arma dal suo cranio. Prima che un nuovo nemico si facesse avanti, Kanyu raccolse come meglio poté la grossa arma dell’avversario, porgendola velocemente allo sbigottito Dal. Non l’aveva ancora veramente impugnata che la mano del compagno si strinse 209
attorno al suo polso, trascinandolo con sé. Corsero a perdifiato, scavalcando quanti giacevano a terra, con Kanyu che sferrava colpi feroci a coloro che gli paravano la strada. Lohidran, appena rialzatosi, riuscì a stento a vedere l’odiato Kanyu che gli sfrecciava davanti, seguito disordinatamente dall’ancor più disprezzato fratello, fino a raggiungere la botola al piano superiore. Fuori dall’edificio, nessuno sembrava essersi accorto di quanto stava succedendo là sotto. Stavano per riprendere a correre, quando Kanyu si voltò di colpo verso la porta. «Melidan!» esclamò, ricordandosi di colpo del sacerdote Elfo. In risposta a quel richiamo, una mano sottile spuntò fuori dal nulla, agguantandolo per un braccio. «Qui vicini e datemi la mano, svelti!» ordinò la voce di Melidan, mentre una seconda mano compariva e strattonava Dal. Pochi secondi e la figura dell’Elfo fu ben visibile ad entrambi, mentre il globo d’invisibilità si chiudeva anche attorno a loro, permettendogli di allontanarsi indisturbati dall’edificio. Pochi minuti dopo, Lohidran, scortato da un pugno di soldati sporchi e malconci, usciva rantolando in strada, la mano sinistra sulla ferita, la destra che ancora reggeva la spada, che nessuna vita aveva sottratto. «Torniamo al campo.» mormorò, sputando a terra «E riferite agli altri che la nostra incursione è fallita.» gettò un’ultima occhiata ai pochi superstiti, quindi chinò il capo, distanziandosi da quanti lo accompagnavano «Avvisate Yanis di tenersi pronto a Vathalar».
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XXII. Il peso dell’abbandono
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al non osò dir niente per tutta la durata della corsa. Allibito, riusciva solo a gettare occhiate ai due elfi alla sua sinistra, in special modo a Melidan, che ancora teneva per mano sia lui che Kanyu. Non aveva mai trovato interessante la magia, ma quando ti viene salvata la vita proprio per mezzo di essa, sei inoppugnabilmente destinato a cambiare idea. Abbassò lo sguardo per un istante, sino a scorgere con la coda dell’occhio la grossa scimitarra che lui stesso stava trasportando. Molto probabilmente, la magia avrebbe svolto un ruolo determinante per la sua sopravvivenza, che si trattasse di incantesimi sprigionati dalle sinuose dita di uno stregone o racchiusi in un freddo pezzo di metallo affilato. I loro piedi battevano e battevano sui ciottoli della strada, invisibili agli occhi di chiunque, finché Melidan non espirò con forza, arrestandosi di colpo e liberando le braccia dei due dalla sua stretta. Kanyu mosse soltanto un altro passo, ravvivandosi subito dopo i lunghi capelli come se non fosse mai esistita alcuna fuga, né tanto meno la battaglia di poc’anzi. «Siamo tornati visibili?» chiese con tono piatto all’ansimante Elfo. Melidan, piegato sul tronco, le mani sulle ginocchia per sorreggere il corpo esile, annuì fra un respiro e l’altro. «Siamo comunque abbastanza lontani.» garantì l’Esule «Possiamo procedere con calma, d’ora in poi». Dal si voltò torvo verso Kanyu, badando a mostrarsi il più distaccato possibile. «“Possiamo”?» domandò con una punta di veleno «E procedere per dove?». «Un posto sicuro» rispose con noncuranza Kanyu, prendendo già a camminare. «Ed immagino che poi dovrò seguirti senza scusanti». «Lo immagino anch’io». Dal si sentiva sull’orlo di assalire il suo salvatore: e se si fosse messo d’accordo con gli elfi oscuri? No, era impossibile. Dal aveva udito le parole sprezzanti di Kanyu sulla loro razza, lo aveva visto uccidere i soldati che gli si paravano davanti mentre attorno a loro gli uomini cadevano come mosche; addirittura aveva visto Lohidran venir ferito dalla freccia del compagno di Jago. Credeva che nessun Naigh-Moor avrebbe corso tanti rischi e subito tante perdite solo per scovare uno schiavo, e si sbagliava. Ma non sbagliava a pensare che nessun elfo grigio avrebbe stretto un’alleanza con l’Esule in persona, uno dei più acerrimi nemici del popolo di Nog Tuluth; come mai si trovasse lì e perché avesse deciso di aiutarlo restava però un mistero. Un mistero che Dal non gradiva affatto che rimanesse tale. «Come mai-» fece per chiedere, stavolta utilizzando un tono ben più cordiale. 211
«Parleremo una volta a destinazione» sentenziò Kanyu, irremovibile. Il ragazzo non ebbe il coraggio di disobbedire all’ordine del pallido Naigh-Moor, così serio ed intransigente nei modi di fare quanto micidiale con le armi, e si voltò in cerca d’aiuto verso lo sconosciuto Elfo che si frapponeva fra loro due. Ciò che scorse fu solo un’ombra di impotenza in fondo agli obliqui occhi grigi di Melidan. Dunque era normale che facesse così? Si sarebbero profilati tempi duri, in quel caso; eppure non riuscì a negare a sé stesso che destare interesse in una simile personalità era un privilegio non da poco. Ma chi si nascondeva dietro la facciata della celebrità e dell’eroismo? Per adesso, Kanyu gli sembrava unicamente un prepotente e scorbutico veterano della Grande Guerra, dotato per sua fortuna di un equipaggiamento da far invidia a chiunque. Ma c’era dell’altro. Stando alle voci che circolavano in tutta la penisola degli elfi oscuri, Kanyu proveniva da quella che era considerata la città gemella di Armalak, Thanisshar, alla cui famiglia regnante era appartenuta anche Zadra, consorte di Gadejli e madre di Dal. Poi, quando scoppiò la guerra che coinvolse quasi l’intero mondo conosciuto, fu mandato a combattere nella Terra del Toro, al confine occidentale dell’Impero, dove spiccò come brillante assassino. Come un fulmine a ciel sereno, Kanyu scelse però di disertare e di mettersi contro i suoi stessi fratelli, divenendo così il primo esule da quando gli elfi oscuri si erano insediati a Nog Tuluth, molti secoli addietro. Le sue imprese, arricchite di crudeli ed ignobili particolari, venivano ripetutamente narrate dalle femmine Naigh-Moor ai propri figlioletti, indicando loro l’Esule come il più malvagio traditore che avesse mai offeso la loro razza. Del resto, Kanyu era ben lieto di sbarazzarsi di quanti elfi grigi capitavano sul suo cammino, come aveva esplicitamente dimostrato quella sera. Decenni prima, Shadyla e Dal avevano avuto modo di parlare parecchio di lui, ma i commenti della nutrice erano ben lungi da quelli che il giovane elfo era solito sentire. Kanyu diventava l’unico Naigh-Moor con abbastanza fegato da rinunciare alla sua agiatissima vita per divenire un ribelle senza un tetto sopra la testa, costantemente braccato dai precedenti alleati e da quanti non riuscivano a credere che un elfo oscuro fosse capace di redimersi così radicalmente. Ed ora il tanto decantato eroe l’aveva difeso da un intero drappello di soldati, mettendosi per l’ennesima volta contro Nog Tuluth. Dal riuscì a riordinare i pensieri quando l’Esule si era ormai fermato davanti ad una piccola porta che aprì senza la minima esitazione. L’interno era buio e silenzioso, ma nessuno dei tre ebbe difficoltà ad individuare la scala a chiocciola posta in un angolo della stanza. Né l’Elfo né il giovane Naigh-Moor l’avevano ancora salita, che già Kanyu varcava un’altra soglia, muovendosi con disinvoltura nel buio pesto, abituato com’era a recarsi in quella saletta. Quando Dal e Melidan lo raggiunsero, ciascuna delle lampade ad olio era percorsa dai 212
ritmici guizzi della fiammella al suo interno. Il giovane rimirò la stanza in ogni suo dettaglio, chiudendo il gruppo: era tanto piccola da essere ritenuta inabitabile anche per due sole persone. Tuttavia, gli inquilini avevano trovato il modo di farci stare un paio di poltroncine al centro di essa, benché il mobilio ostruisse quasi completamente la libertà di movimento. Prim’ancora che Dal fosse riuscito a chiedere qualcosa, Kanyu si era appoggiato ad una bassa scrivania, facendogli elegantemente cenno di sedersi. Il sacerdote Elfo fu comunque assai meno impacciato di lui, in quanto si lasciò letteralmente cadere su una delle due poltrone, provato dalla tensione della fuga. «La prossima volta facciamo a modo mio» disse, intanto che Dal gli sedeva vicino, rivolgendo l’attenzione prima su di lui e poi su Kanyu. «Spero che non ci troveremo più in situazioni di questo genere.» ribatté però quest’ultimo, spostando poi il braccio verso l’Elfo, come a presentarlo «Melidan O’Laynahil, sacerdote di Braeyel». «La Regina Dorata.» puntualizzò questi «Dea dell’Armonia; dubito tu ne abbia mai sentito parlare, Dal Jin». «No, mai sentita, in effetti.» rispose Dal con sincerità «A quanto pare, io non ho bisogno di presentarmi». Melidan rispose con un piccolo sorriso che il suo compagno ebbe modo di smorzare in un sol istante. «Ti spiegherà nei giorni a venire chi è e cosa sa fare.» disse rapidamente quello, ottenendo il silenzio «Adesso vorrai sapere perché ti abbiamo portato sin qui». «Rapito, più che altro» replicò nervosamente Dal. «In un rapimento, alla vittima non viene salvata la vita: noi abbiamo rischiato la nostra pelle per la tua». Il giovane esule tacque, abbassando il capo: quanti erano caduti secondo quel principio, da quando aveva conosciuto Marcus? Stavolta, se non altro, questi due erano scampati a quell’ingrata sorte, anche se non si poteva dire la stessa cosa per molti di quelli che avevano combattuto fino a pochi minuti prima. «Sali!» si ricordò poi di botto, guardando a tratti l’Elfo e l’altro Naigh-Moor «Che ne è stato di lei?». Melidan parve incerto lontano un miglio: si voltò verso Kanyu, in cerca di una risposta. Congiunse i polpastrelli non appena l’Esule acconsentì senza entusiasmo, incrociando le braccia. Per secondi che sembrarono interminabili al ragazzo, il sacerdote mormorò alcune parole di cui soltanto lui conosceva il significato, facendo lentamente comparire la stessa sfera rossastra che già Fala Rhai aveva generato qualche settimana prima. Quando l’immagine fu ben visibile, i tre poterono scorgere la figura di Sali inginocchiata davanti ad uno dei molti corpi esanimi. «È viva!» esclamò Dal, ed i suoi occhi brillarono di felicità. 213
«Sta piangendo.» constatò però Kanyu, impassibile «E quello a terra è suo padre». Il ragazzo sgranò gli occhi, implorando che l’elfo oscuro avesse preso un abbaglio, solo per vedere la ragazza all’interno della sfera scostarsi un poco e lasciargli scorgere il cadavere immobile di Ledini, sul cui volto era ancora dipinto un terrore inimmaginabile. Non ebbe tempo di balbettare niente, che Melidan pronunciò qualche altra parola, sostituendo l’immagine magica con una visione molto più ampia dei sotterranei. «Il precedente Signore delle Arene è caduto anch’egli...» mormorò, dopo aver tratto un sospiro «Ma il Nano, il gestore ed il sacerdote sono sopravvissuti, però». Dal chiuse gli occhi, distogliendo lo sguardo dalla sfera: tutto il suo viso faceva intuire quale fosse il suo stato d’animo. Altri innocenti che si aggiungevano a coloro che avevano offerto la propria vita per proteggere la sua. Per quanto le cose sarebbero andate così? Quando avrebbe avuto modo di vendicare tutte quelle persone? Melidan fece sparire la sfera in silenzio, mordicchiandosi imbarazzato il labbro inferiore. «Mi dispiace, ragazzo» sussurrò poi, rialzando lo sguardo verso di lui. «Non dirlo.» ingiunse Kanyu con una freddezza tale che fece riaprire di scatto gli occhi a Dal «A cosa servirà mai dirlo? Li riporterà in vita? Li vendicherà come meritano?». Ora il giovane elfo oscuro si era voltato verso di lui, le labbra serrate, l’espressione per nulla rassicurante, ma decisa ad ascoltare il seguito del commento. «Sai benissimo chi è la causa della loro morte, Dal Jin.» continuò infatti Kanyu «E sai ancor meglio che il cammino che ti sei prefissato di affrontare sarà sempre più duro. Posso offrirti il mio aiuto, se vuoi, ma alle mie condizioni». Dal annuì piano, senza scacciare l’interesse che l’Esule gli aveva suscitato. «Sai cos’è un untore, vero?» gli domandò l’altro, certo della risposta che avrebbe ottenuto. «Mio padre lo era» fu quello che disse il ragazzo, realizzando le previsioni di Kanyu. «Sia io che Melidan abbiamo avuto a che fare con loro in circostanze molto spiacevoli: la setta degli untori, nota anche come il “Clan della Peste”, è il più grosso agglomerato degli esaltati fanatici di Junk Stok, il Signore dei veleni. Circa quaranta anni fa, ha sterminato intere città elfiche, grazie alla diffusione di un morbo chiamato “L’Artiglio del Nero”». «Mio padre li aveva già abbandonati molti anni prima» lo interruppe Dal, senza capire.
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«Non ha mai interrotto del tutto i contatti, da quanto ci risulta: questo è il motivo che ci ha spinti ad interessarci a te». Il ragazzo aggrottò la fronte, sempre più confuso da quelle parole e per nulla felice della piega che il discorso stava prendendo. «Io non ho mai avuto a che fare con gli untori» obiettò, perplesso. «La tua fuga è avvenuta quando stavamo sorvegliando magicamente tuo padre, in cerca di qualche indizio per arrivare agli uomini che tengono in mano le fila del Clan, quindi è normale che tu abbia carpito la nostra attenzione». «E ci hai impressionati molto favorevolmente.» s’intromise Melidan «Non ci aspettavamo che tu contenessi tanto potenziale». Dal trasalì, aspettandosi la proposta che sapeva sarebbe arrivata entro breve. «Ritengo che sia inutile perdere tempo in dettagli, a questo punto.» disse Kanyu, staccandosi dalla scrivania «Tu verrai con noi, Dal Jin; gli untori sono un nemico molto insidioso». «Neanche per sogno!» protestò il giovane Naigh-Moor, scattando in piedi «Non posso abbandonare Sali e l’arena dopo una notte come questa!». «Se questa notte tu, lei ed altri siete vivi, lo dovete a noi due.» lo smentì pacato l’Esule «Ed inoltre non puoi più restare a Raidemark, accetta la realtà dei fatti». «E quale sarebbe?» riprese però quello «Venire con te a caccia di lucciole? Sali è rimasta sola!». «Il sacerdote di Larillan si occuperà di lei» il tono di Kanyu andava già alzandosi. «Ha bisogno di me, non di Goyl!». Dal non riuscì nemmeno ad accorgersi del Naigh-Moor che estraeva un lungo pugnale, che già gli aveva afferrato un braccio, lo sguardo duro e sprezzante. «Questa» ringhiò, intanto che gli tracciava un solco sanguinoso sull’avambraccio «è Sali Elibam». Il ragazzo si divincolò con un grido dalla sua presa, ritraendosi di scatto, l’altra mano già a tamponare la ferita. «Melidan, curalo.» ordinò poi Kanyu, superando i due elfi «Ma dovrà restargli la cicatrice. Per ricordare». Dal alzò la testa verso di lui, senza comprendere il perché di quel gesto e di quelle parole, ma tutto ciò che riuscì a vedere fu la schiena dell’Esule mentre questi usciva dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé. «Non fargli caso.» borbottò il sacerdote, intanto che apprestava le prime cure al ragazzo «È più irascibile di chiunque abbia conosciuto». Dal serrò i denti, come a reprimere il dolore, nonostante l’incantesimo dell’Elfo stesse avendo il suo effetto, come confermava la potente luce che gli era comparsa attorno alla ferita.
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«Fai tutto quello che ti dice?» sibilò furioso, sentendo il desiderio improvviso di strangolare Melidan per la sua obbedienza all’Esule. L’altro chiuse gli occhi, inspirando a fondo. «Può sembrarti insensato, ma questa cicatrice ti garantirà il suo rispetto, un giorno.» rispose, allontanando le perfette mani dal giovane «Ogni cosa che fa ha un buon fine, credimi». «Io non lo vedo.» brontolò in risposta Dal, fissando il segno che gli era rimasto, ancora avvolto da un tenue bagliore «Già il suo racconto ha poco senso». «Ti assicuro che è veritiero.» l’Elfo tornò a sedersi «Anche se non ti ha detto molte cose». «Quali cose?». «Cose.» fu la semplice risposta di Melidan «Credi che Kanyu faccia tutto questo solo per la storia dell’epidemia?». «E per cosa lo fa, allora?». «Sarà lui stesso a dirtelo, col tempo. Ora cerca soltanto di perdonarlo. Ti fornirò io stesso tutto l’equipaggiamento di cui abbisogni». Il volto di Dal si contrasse in una smorfia dopo una manciata di secondi. «Ho tutto quello che mi serve.» disse, gettando un’occhiata alla porta «Devo solo tornare all’arena per recuperarlo». «Questo non te lo concederà: non possiamo correre il rischio che tu fugga». L’esule soppresse un’imprecazione, abbassando lo sguardo vero l’arma che era appartenuta al capitano Naigh-Moor. Ecco cosa gli rimaneva: un’arma magica, quello che era stato il suo sogno per tutta l’adolescenza. Perché adesso non riusciva a gioire? «Vai a dormire.» lo esortò Melidan, indicandogli uno dei due piccoli letti situati nella stanza «Un po’ di riposo ti farà bene». Dal non rispose, alzandosi senza fiatare e sedendosi sul corto materasso. «E se provo a scappare?» chiese poi aspramente. «Kanyu è qua fuori.» rispose pazientemente Melidan, dirigendosi anch’esso verso il proprio letto «Non fare sciocchezze, ragazzo». Dal rimase in quella posizione anche quando tutte le lampade furono spente, guardando fisso davanti a sé, la mente che cercava di valutare quale fosse la cosa migliore da fare. Soltanto quando comprese che nella posizione in cui si trovava non aveva possibilità di scelta, si decise a distendersi sul giaciglio, ripetendo fra sé una lunga sequela di maledizioni contro quella situazione. «Sonno agitato, ragazzo?» domandò Melidan all’alba, scuotendo il ragazzo con una mano. Dal si voltò assonnato verso il sacerdote, destandosi pian piano dalla quiete notturna. 216
«Non ho praticamente chiuso occhio» mentì con un’aria il più gelida possibile. «Su questo ho qualche dubbio» disse enigmatico l’Elfo, strizzandogli un occhio. Il Naigh-Moor non afferrò a cosa Melidan alludesse, come chiaramente diede a vedere; è vero, la stanchezza dovuta alla battaglia nell’arena ed i successivi eventi l’avevano stancato fino a farlo cadere vittima del sonno, ma il sacerdote non sembrava aver passato la notte in bianco ed essersi quindi accorto della verità. «Kanyu farà la sua comparsa tra non molto, ti conviene alzarti e prepararti.» Melidan cambiò discorso, senza dargli modo di approfondire quella questione «Ho pensato io stesso a ciò che dovrai portare con te: troverai tutto quello che ti serve in quello zaino e nel sacco accanto ad esso». Dal si alzò in piedi con uno sbuffo, già di cattivo umore. Certo che erano ben organizzati, qui due! Dovevano aver predisposto ogni cosa da tempo, era chiaro come il sole. Seppur assolutamente contrario all’idea di partire immediatamente, si vide costretto a fare buon viso a cattivo gioco e ad avvicinarsi alla roba che gli era stata assegnata. «Che cosa c’è dentro?» chiese con una smorfia, fissando lo zaino ed il sacco. «Controlla con i tuoi occhi» rispose allegramente Melidan, intanto che anch’egli si accingeva a far fagotto. L’elfo oscuro si chinò con un sospiro sulle ginocchia, slacciando le due cinghie che chiudevano lo zaino. Interessante: cibo, stracci, una fune, una pentola e qualche altra sciocchezza. Dal sentì la propria antipatia per quell’Elfo crescere a dismisura: che diavolo c’era da essere così sereni? Malcelò la propria frustrazione, mentre chiudeva con due strattoni lo zaino, scuro in viso. «C’è anche il sacco, non dimenticarlo» continuò il sacerdote, vivace e tranquillo. Anche il sacco, eh? In questo cosa avrebbe trovato? Calze e brache? Strinse i pugni, prima di aprire il sacco, non senza aver lanciato un’occhiataccia al cantilenante Elfo, che adesso si apprestava ad issarsi il proprio, piccolo zaino sulle spalle. Dal abbassò lo sguardo verso il sacco senza una parola e senza una parola rimase quando vide qualcosa di circolare e luccicante sopra del tessuto nero. Il diadema! Il mantello, i suoi vestiti! C’era tutto, compreso il vecchio pugnale che teneva da quando era uno schiavo. L’elfo oscuro riuscì a ritrovare un sorriso entusiasta anche quando tutto gli sembrava essere così negativo. «Non ho preso la spada, visto che adesso ne hai un’altra» si scusò Melidan, fiero del buon effetto della sua sorpresa. La spada? All’inferno la spada! Riaveva ciò che gli era più caro al mondo, questo importava. «Non so come ringraziarti» disse Dal, volgendosi verso l’Elfo «Ma come hai fatto a procurarti la mia roba?». Il sacerdote incrociò le braccia, sollevando innocentemente gli occhi al soffitto. 217
«Una buona dose di magia.» rispose, sorridendo «Dormivi come un sasso e sono sgattaiolato fino all’arena». Dal non se la sentì di dire un’altra bugia, felice com’era per aver ritrovato il suo equipaggiamento ed anzi non esitò a spogliarsi dei vestiti da combattimento, senza vergogna alcuna. Melidan si voltò comunque da un’altra parte con la scusa di dover recuperare alcuni oggetti lasciati da qualche parte, girandosi solo quando il ragazzo fu una snella figura in nero con un liscio mantello sulle spalle. «Quel mantello è rovinato.» gli fece notare, indicandoglielo «Non ne vuoi uno nuovo?». «No, voglio questo.» rispose con un sorriso beffardo il ragazzo, intanto che si rigirava il diadema tra i pollici «Ce l’ho da quando sono nato, sai?». Melidan preferì tacere, osservandolo mentre si adagiava il cerchio dorato attorno alla testa, esaminandosi poi nello specchio affisso alla parete. «Non l’avevo più messo, da quando Sali mi ha tagliato i capelli.» notò, sistemandolo nella giusta posizione «Lo avrò anche quando tornerò in questa città». «Sei sicuro di quello che dici? Se rinunci alla tua vendetta, Kanyu potrebbe anche arrendersi e lasciarti andare». Dal si rese conto di essersi sbagliato sul conto di quell’Elfo: non dava ordini, lo trattava da amico ed aveva recuperato ciò che sapeva avrebbe apprezzato sopra ogni altra cosa, in quel momento. Ora gli offriva un’opportunità per andarsene. «Non sei vittima di nessun rapimento, te l’ha detto anche lui.» gli ricordò, fermo sulla porta «So che può sembrarti burbero e scontroso, ma Kanyu non ti obbligherebbe a far niente... Anche qualora tu mentissi». L’elfo oscuro abbassò lo sguardo, fissando le punte dei suoi piedi: mentire, perché no? Non avrebbe più avuto alcun aiuto da offrirgli, gli avrebbe permesso di andarsene per la sua strada. Solo che non c’era più una strada. Restare a Raidemark sarebbe stato un puro suicidio e non sarebbe più potuto rimanere nell’arena. Ora che era stato localizzato, Lohidran sarebbe tornato con forze molto più numerose, prima o poi, e sarebbe stata la fine sua e di quanti lo avevano aiutato e gli erano stati vicini. Abbandonare Sali era la cosa più dolorosa, ma era anche tristemente inevitabile. Andarsene via, tornare solo quando ne sarebbe stato in grado. «Presto, molto presto» promise senza parlare, rialzando gli occhi verso Melidan. Nello stesso momento, la porta della stanza si aprì lentamente, permettendo al gigantesco Kanyu di fare il suo ingresso. Il suo aspetto già tetro era ancora più enfatizzato dai suoi vestiti: pantaloni in pelle, alti stivali, una corazza in cuoio perfettamente aderente da cui sbucavano due rigonfie maniche, lunghi guanti ed un elegante mantello in finissima stoffa. Tutto rigorosamente nero. Immancabili, fissati alla cintura, penzolavano i foderi delle scimitarre e di un 218
paio di pugnali, anche se molti altri coltelli più corti stavano saldamente fissati alle cosce e molto probabilmente in posti più reconditi. «Vedo che siete entrambi pronti.» constatò, squadrando attentamente i due e soffermandosi su Dal «Ed anche che tu hai della roba che dovrebbe trovarsi nella tua stanza, all’arena» e qui indirizzò il suo sguardo verso Melidan, assolutamente calmo. «Beh, che c’è?» domandò quello, serafico, dopo qualche secondo di silenzio «La mia magia mi permette di spostare semplici oggetti dove voglio». «Non ne dubito.» mormorò sarcastico l’Esule «Quanto a te, devi ancora metterti la corazza». «D’accordo, d’accordo, dammi un minuto» borbottò il ragazzo, muovendo un paio di passi verso l’armatura da gladiatore, che giaceva di fianco al letto, solo per essere bloccato dalla ferma voce dell’altro Naigh-Moor. «Non quella.» disse, uscendo per un secondo dalla stanza e rientrando con una leggera corazza in cuoio scuro fra le mani «Ma questa». Dal inarcò un sopracciglio: quella? E per quale motivo? «La mia è molto più resistente» cercò di controbattere, indicandola con un dito. «Ma non è per niente comoda e t’impaccia nei movimenti: mettiti questa». Si ritrovò ad obbedire senza ulteriori proteste: persino Kanyu sembrava gentile, per i suoi canoni. Quando l’ebbe indossata, la prima cosa che provò fu una sensazione di leggerezza che non aveva mai provato con l’altra armatura. Certo, non doveva proteggerlo come la precedente, ma, se non altro, gli garantiva molta più agevolezza. «Infine, questo è per la tua nuova arma.» e qui Kanyu gli porse un semplice sostegno, corredato di un paio di lacci per fissarlo al corpo, da fissare dietro la schiena «Ah, per la cronaca, credo che si tratti di una “Scimitarra di Fuoco d’Ombra”». Dal sistemò prudentemente l’arma come gli venne spiegato: la fiammella che aveva sprigionato era grigia, da lì doveva derivare il nome. «La magia che vi è contenuta non funzionerà più come dovrebbe.» dovette però dirgli il pallido elfo oscuro, facendolo voltare di scatto «Ben poche volte sortirà il suo effetto, ti avviso.» Il giovane esule rimase fermo dov’era. Quindi non era nemmeno una spada magica? L’aveva tanto desiderata e si ritrovava per l’ennesima volta con un pugno di mosche? E perché non avrebbe dovuto funzionare? «Ha perso gran parte del suo potere durante lo scontro di ieri sera.» gli disse Kanyu, intuendo quella domanda «Se non c’è altro, direi che possiamo partire subito».
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Non vi fu il tempo per altre repliche. Kanyu discese la scala a passi rapidi, seguito precipitosamente dagli altri due. Una volta fuori dall’edificio, fu nuovamente lui a prendere la parola. «Ci divideremo.» annunciò con stupore del sacerdote e del ragazzo «Dal non può recarsi a Vathalar, è il primo posto dove lo cercherebbero. Io e lui ci nasconderemo nella foresta di Deym, qua vicino». «E io?» chiese l’Elfo, indicandosi con il pollice. «Tu andrai a Vathalar; sei il meno conosciuto, cercherai un luogo sicuro per me e lui. Hai due mesi di tempo». «Due mesi? Posso trovarti un posto tranquillo in un tempo parecchio più breve». «Devo tener fede alla mia promessa, amico mio.» rispose inaspettatamente Kanyu, spostando gli occhi su Dal, che trasalì a vedersi puntato da quelle iridi candide «Devo addestrarlo».
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XXIII. Deym
L
a separazione fu estremamente sbrigativa. Melidan riuscì a formulare solo un paio di domande, dopodiché il suo compagno strattonò per un braccio il ragazzo, iniziando ad incamminarsi. Dal percepì appena la pacca d’incoraggiamento che il sacerdote gli aveva assestato su una spalla, augurandogli qualcosa che non riuscì a capire. Si volse indietro, recalcitrante al farsi trascinare via così, nella speranza che Melidan facesse qualcosa per aiutarlo: non erano ancora passati dieci secondi che l’Elfo era scomparso in un vicolo, senza una parola di congedo. Si liberò della mano di Kanyu quand’ebbe trovato la forza di avanzare da solo, resosi conto di non poter più tornare indietro, al punto in cui si trovava. Avrebbe dovuto inoltrarsi in quella foresta assieme al suo misterioso mentore senza protestare, se non voleva essere punito com’era già accaduto. Almeno, questo era quello che credeva. Quale fosse la verità, ne sarebbe venuto a conoscenza solo adeguandosi e prendendo nota dei risultati che ne avrebbe ricavato. Alzò lo sguardo da terra, cercando perlomeno d’orientarsi: le stesse porte della città che aveva oltrepassato con l’inganno tempo prima si ergevano solidamente a pochi metri da loro. Si fermò, senza nemmeno sapere il perché. Lo fece forse perché considerava quelle porte la fine di una seppur breve esistenza, così come aveva cambiato del tutto la sua vita, lasciando Armalak? Non ebbe nemmeno occasione di chiederselo: Kanyu l’aveva preso per un braccio, tirandolo a sé con mossa vigorosa. «Non c’è più tempo per i ripensamenti» lo avvisò, come se il ragazzo non lo sapesse. Dal annuì, rimettendosi nuovamente in marcia e tentando di apparire quantomeno conscio di ciò che stava per affrontare, anche se nemmeno lo immaginava. I bassi cancelli si aprirono ad un semplice segnale vocale della guardia sulle mura, spalancando l’uscita dalla zona più “calda” per i due NaighMoor. E improvvisamente, inaspettatamente, sentì come una voce dentro di sé: la libertà! Via dalla Legione, al sicuro con un eroe come quello al suo fianco! Sorrise di soddisfazione, quando di colpo qualcosa lo trattenne, come se il ragazzo fosse rimasto impigliato nelle sbarre dei cancelli. I freddi occhi di una guardia fin troppo conosciuta lo fulminarono non appena incrociarono i suoi. Dal sentì di colpo mancarsi il fiato. «Non sei entrato, eppure esci, ragazzino.» disse, accentuando la stretta sul mantello «Tutto questo è molto strano, non trovi?».
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Kanyu si voltò nel sentir pronunciare la prima frase, facendo immediato dietrofront ed affiancandosi al giovane, che, incapace di rispondere, restava immobile ed esterrefatto. «Ve ne stupite?» chiese, strappandolo senza patemi alla guardia «Sapete sicuramente meglio di me a quanto ammonta la sua taglia; credevate forse che un fuorilegge del genere non fosse in grado di farvela in barba?». L’uomo si accigliò notevolmente, rinunciando però ad avere la meglio sullo schietto elfo oscuro. «Lo condurrete al vostro campo?» osò, mentre Kanyu stava già per andarsene. «Non ce n’è bisogno.» rispose con calma l’altro, voltandosi verso l’ancor timoroso ragazzo «Lo scorterò personalmente in un luogo dove mi attendono i più alti comandanti della Legione di Armalak.». «Non ho mai sentito parlare di questa procedura» si contrappose imperterrito l’Umano, senza ritrarsi dal conflitto verbale. Un secondo dopo, la guardia sentì mancarsi il terreno sotto i piedi. Kanyu l’aveva sollevato sino al suo viso col solo braccio destro, come se la guardia e la sua corazza non avessero peso. Dal sentì il clangore provocato dall’armatura che cozzava contro quello dei cancelli e si sentì impietrito: mai avrebbe creduto un elfo in grado di possedere tanta forza. «Umano...» aveva intanto sibilato Kanyu, stringendo la mano attorno al collo della sentinella, incurante delle altre due, già scattate in allarme «Nessun Naigh-Moor deve rendere conto a te di ciò che fa, ovunque egli si trovi. Né tantomeno io. Ho piena libertà di portare il mio prigioniero dove voglio, indipendentemente da cosa ne pensi un pidocchio come te. Non la pensi così anche tu?». L’Esule alzò l’altra mano fino alle mascelle della guardia, muovendogli controvoglia il capo avanti e indietro, come se annuisse. Fatto ciò, lo lasciò cadere al suolo e tossire con forza, mentre lui, nuovamente impassibile, spostava l’attenzione sulla sentinella più vicina. «Come potete vedere, il vostro commilitone ha capito il suo errore e si è pentito di ciò che ha fatto» mormorò, e nella sua voce non si sentiva una sola punta di sarcasmo. Dal, ancora sbalordito, si sentì afferrare per un braccio per l’ennesima volta, tornato nelle mani del misterioso Kanyu. Era dunque destino finire a quel modo ogni volta che si trovava a dove fuggire da una città? Con un accompagnatore che malmenava le guardie? C’era solo da sperare che Kanyu non facesse la stessa fine di Marcus. Le uniche cose che l’Esule sembrava possedere a differenza dell’Umano erano la salute ed un armamentario sopraffino. Da parte avversa, avevano probabilmente molti più avversari da fronteggiare. Soldati di Armalak, guardie, untori... Un vero e proprio esercito capace di schiacciarli 222
senza troppa fatica. E questo lui certamente lo sapeva, anche se incedeva impassibile, all’apparenza ignaro di tutti i pericoli che quell’impresa avrebbe presentato. «Diffida sempre di guardie e soldati» disse ad un tratto, una volta imboccata una stradina secondaria. «Eh?» balbettò Dal. «Hai visto quanto marciume si cela dietro la loro facciata, no?» incalzò Kanyu. «Marciume?» «Marciume, squallore, corruzione: scegli pure il termine che preferisci.» fece una pausa, guardando poi il ragazzo nelle palle degli occhi «Questa ingenuità sarà una delle prime cose da cancellare». «Ingenuità? Cancellare?» continuava a ripetere Dal, ora con la foga di chi è stato ferito nell’orgoglio «Si può sapere di che stai parlando, una volta per tutte? Perché stiamo andando in quella foresta? E, soprattutto, cos’è questa storia dell’addestramento?». Kanyu accennò un sorrisetto a mezza bocca, scivolando poi nell’ombra di un edificio. «Sei pieno di domande, a quanto vedo.» ironizzò «La “storia dell’addestramento” è inclusa nel nostro patto, se non l’hai capito ». «Quale patto?» Dal si sentì di colpo raggirato. «Il mio aiuto in cambio del tuo. Non l’avremo scritto da nessuna parte, ma è un patto». «E sarebbe quello l’aiuto che vuoi fornirmi?» «Credi di essere in grado di poter rovesciare un’intera città? Credi di poter sconfiggere il tuo stesso padre in duello? E, soprattutto, credi di avere le idee abbastanza chiare per portare a termine un compito così arduo?». Il giovane Naigh-Moor tacque, abbassando il viso. «Dovrai imparare a conoscerti, innanzitutto.» riprese Kanyu «Scoprire i tuoi difetti ed eliminarli, sopravvivere da solo in ambienti ostili, distinguere il bene dal male e dominare le situazioni a tuo vantaggio». «Sono un bel po’ di cose» obiettò debolmente il ragazzo. «Ognuna di esse ne implica un’altra. Posso insegnartele, se avrai pazienza e costanza. Inoltre, la foresta è un ottimo luogo per imparare». «Se non ci scovano prima ». «Dubito che accadrà» Kanyu increspò le labbra, infilandosi una mano in tasca. Quello che ne estrasse destò la curiosità dell’altro elfo oscuro: sul palmo dell’Esule giaceva una pietra circolare del diametro di pochi centimetri, su cui era incisa una semplice runa rossastra.
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«Le chiamano “Pietre Nascondiglio”.» disse, rimettendola al suo posto «Annullano incantesimi d’individuazione come quello che hai visto lanciare a Melidan; ne hai una in fondo al tuo zaino». Dal si arrestò per un istante, piacevolmente stupito; il primo istinto che provò fu quello di aprire lo zaino e cercare la pietra magica, ma Kanyu non si era fermato. «Ovviamente, possono trovarci comunque, ma nella foresta siamo noi ad essere in vantaggio: due persone lì dentro sono come il proverbiale ago nel pagliaio. Così facendo, i nostri nemici si riducono alla sola foresta». «Che intendi dire?». «Che solo un pazzo oserebbe penetrare nella Foresta di Deym senza una ventina di guerrieri» rispose del tutto naturalmente l’altro. «E noi ci andiamo da soli?» Dal spalancò gli occhi. «Proprio così. Ho combattuto nella Grande Guerra contro stregoni, soldati di ogni esercito e tutte le aberrazioni che quel carnaio vomitò sulla terra. Credi che mi spaventi qualche albero?». Il ragazzo si ritrovò a fare silenzio una seconda volta. Per essere ancora vivo e così celebre, Kanyu doveva sapere il fatto suo: era escluso che lo stesse portando a morire. «Bene, ho risposto alle tue domande, se non sbaglio» disse alla fine l’Esule. «Direi di sì.» il viso del giovane ebbe come un guizzo di vitalità «Le altre questioni le discuteremo in futuro». «Quando avrai raggiunto la maturità» puntualizzò freddamente Kanyu. «Come?» l’espressione di Dal scemò in una sorta di deluso rammarico, come se la candela del suo ottimismo fosse stata spenta da un colpo di vento. Più e più volte tentò di convincere il suo mentore a fornirgli una spiegazione di quelle parole, ma non vi fu verso di fargli spiccicare una sola parola. Quando si decise a dire qualcosa, lo fece soltanto per presentare al ragazzo la verdeggiante Foresta di Deym. Erano trascorse la bellezza di quattro ore. «Deym Narem Lim Idilim.» annunciò, allargando di un poco le braccia «Meglio nota come Deym Narem, semplicemente». Dal guardò prima la foresta e poi l’Esule, ed entrambi i casi la sua faccia appariva piuttosto perplessa. «La Verde Foglia di Vita Immortale. Non conosci l’elfico dei primordi, ragazzo?». Il ragazzo scrollò le spalle. «È già qualcosa che uno schiavo conosca il linguaggio comune. Non sono proprio cresciuto nella bambagia» dichiarò con tono sprezzante, dovuto al lungo silenzio che aveva dovuto sopportare.
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«La tua arroganza è fuori luogo, Dal Jin. Avrai molte occasioni per sfogarla quando saremo dentro, non adesso» e riprese la marcia, lasciando che fosse soltanto la foresta ad emettere suoni e rumori. Il primo pensiero che Dal riuscì a formulare fu che il lungo nome del bosco fosse ampiamente meritato. Fieri alberi di qualsiasi misura erano cresciuti come secondo una precisa volontà superiore a qualsiasi mortale, formando snelli sentieri ed agevoli svolte. Qua e là, i due Naigh-Moor potevano scorgere alcune piccole radure ignare dell’esistenza di caos e disordine, fresche e vivaci nella loro semplicità. Tutta la foresta rideva con le squillanti voci di insetti ed uccelli, mai stanchi di ripetere i loro ritornelli mentre cambiavano ramo sul quale appollaiarsi. Stare lì dentro era come sentirsi irraggiungibili, sicuri fra le poderose braccia di esseri secolari nascosti sotto le nodose sembianze di possenti piante guardiane. Ogni intercapedine che dovevano affrontare non era altro che un ridicolo ostacolo, quasi... Piacevole. Ed il vento, poi. Quella soffice brezza che correva lungo le loro pelli, sfogliando la lunga chioma di Kanyu con gratificante leggerezza. Dal pensò addirittura che gli sarebbe piaciuto riavere i suoi capelli lunghi per la sola sensazione di sentirvi quella pura arietta giocarci infantilmente. Non come Kanyu, magari, ma rivoleva i suoi capelli. Nemmeno si accorse che la pace concessa da quel luogo lo aveva portato a dimenticarsi di tutti i problemi per riflettere su qualcosa d’insignificante come il taglio dei capelli. «È bellissimo qui» gli scappò perfino di dire, mentre guardava estasiato la foresta. «È infida.» lo spezzò però di colpo Kanyu, voltandosi verso il ragazzo: i suoi già lugubri occhi trasmettevano tutta la serietà di quell’avvertimento «Non mi credi? Allora lascia che ti ricordi che nessuno che si è inoltrato qui da solo è tornato indietro». «Secondo me stai esagerando» replicò comunque Dal, esaminando i particolari più rilevanti della foresta. L’altro non addolcì neanche minimamente la sua espressione. «Stanotte non sarai dello stesso parere. Come si dice, ti farò diventare un uomo o perire nel tentativo». Dal si sforzò di sorridere di fronte a quella alternativa. «Incoraggiante...» mormorò poi, mentre spostava un sasso privo d’importanza col bastone. Dopo che i loro stomaci ebbero brontolato a sufficienza, Kanyu acconsentì ad una sosta. Mangiarono senza parlare molto, concentrati sulle loro preoccupazioni: Dal non faceva altro che tenere d’occhio i movimenti del suo nuovo compagno, aspettandosi che da un momento all’altro il nervosismo 225
dipinto su quel pallido viso si trasformasse in un perentorio ordine di riprendere a camminare. Quello che invece vide fu Kanyu che, una volta terminato il frugale pranzo, portava davanti a sé il proprio zaino, slacciandolo e prendendo a rovistarci dentro, palesemente in cerca di qualcosa di ben definito. Dal vide schizzare fuori prima un paio di stivali, poi due lunghi guanti: di rigore, come al solito, il colore nero. «Per te.» disse poi, rimettendo a posto lo zaino «Ti faranno comodo». Il giovane elfo prese i guanti tra le mani, rigirandoli sui palmi: Kanyu ne portava d’identici, come vedeva, ma doveva far piuttosto caldo con quelli indosso. «Devo metterli adesso?» domandò, cercando di mostrarsi grato di quel dono, sebbene non ne vedesse l’utilità. «Preferirei che tu li conservassi.» rispose l’altro, riaggiustandosi dietro il lungo orecchio una ciocca scura «Sia quelli che gli stivali; sarò io a dirti quando metterli». Quand’ebbe pronunciato quell’ultima frase, si alzò senza fatica, solo per accucciarsi dopo un paio di metri, lo sguardo rivolto a terra, operazione che effettuò più volte. Faceva qualche passo e si chinava, restando fermo per alcuni secondi, prima di spostarsi nuovamente. «Che stai facendo?» gli chiese Dal, che ancora esaminava i doni ricevuti. Nessuna risposta, tanto per cambiare. Sollevò gli occhi al cielo, reprimendo il desiderio di porre una seconda domanda: Kanyu si stava rendendo più noioso di quanto non si aspettasse. Non rispondere a domande di quel genere non è che incrementasse la sua aura di mistero, tutt’altro. Ma quando, ancora accovacciato, si decise a far cenno al ragazzo di avvicinarsi, Dal ricacciò indietro quei pensieri. Si abbassò nella medesima posizione dell’Esule, come se quel dettaglio fosse fondamentale per diventare come lui, mentre il lungo dito dell’altro gli mostrava le piccole impronte che affioravano un po’ dappertutto. Ecco la cosa che fece trasalire Dal: tante impronte quanto i fili d’erba in un prato verde. Una scia di pericolo gli accarezzò la schiena con le sue gelide spire. «Riconosci queste orme?» gli chiese ad un certo punto Kanyu, ritraendo la mano. Dal scosse il capo in segno di diniego. «Teke.» l’Esule alzò lo sguardo verso il punto da cui provenivano «Un branco. Sai cosa sono, vero?». «Quella specie di grossi cani tigrati, no?». «Esattamente. Canidi aggressivi e veloci, molto grandi. Conoscevo tizi che li tenevano come animaletti domestici. La foresta pullula di belve come quelle: branchi che arrivano anche ai venti esemplari in cui comanda la femmina più imponente. Questo gruppo non è nemmeno molto grande, saranno una decina, soprattutto maschi». 226
Dal squadrò le impronte con espressione sbalordita: come poteva Kanyu aver capito quanti fossero? Terreno poco morbido, confuso... Era semplicemente impossibile immaginare quali e quanti animali avevano calpestato quel luogo. Il volto del ragazzo lasciò facilmente trapelare quella miriade di domande. «Dubbioso?» disse Kanyu con aria assente. «Un po’.» rispose con sincerità Dal, sorridendo incerto «Non è un po’ troppo trarre queste conclusioni?». «Non dire sciocchezze.» lo ammonì quello, per nulla lieto di essere contrariato «I Teke si dispongono sempre a semicerchio, quando si preparano ad attaccare. Capire quanti erano non è certo un problema, sapendo questo». Dal provò allora a seguire il percorso meno oscuro che si trovava davanti, solo per perdersi in una babele di grosse foglie: sì, per lui non era un problema! Immaginava quanti altri avrebbero anche solo osato pronunciare un discorso del genere. «Qui, dove siamo noi, è il punto in cui hanno raggiunto la loro preda.» aggiunse poi, posando la mano su uni spiazzo più scomposto del resto del prato «Forse un cinghiale... L’unico guaio è che probabilmente i Teke torneranno, e non so dirti quando». «Beh, possiamo sempre spostarci da un’altra parte; insomma, la foresta è grande». «Spiacente.» Kanyu si alzò in piedi con tutta calma «Questo posto è in pratica un angolo di paradiso, paragonato a quello che ci aspetta più all’interno. Darò un’occhiata qua intorno». Dal si alzò all’udire quelle parole, ma il palmo del pallido elfo, aperto davanti al suo naso, gli intimò di desistere dal suo proposito. «Tu resterai qui.» gli impose infatti Kanyu «Tieni gli occhi aperti e presta attenzione ad ogni rumore; non ci metterò molto». Il ragazzo rimase sulle prime interdetto, annuendo con poca convinzione quando capì che qualsiasi obiezione sarebbe stata respinta. E così lo guardò allontanarsi lungo il sentiero, l’andatura elegante e composta, una forma scura che andava vieppiù fondendosi con le ombre del bosco. Dal rimase solo. «Occhi aperti.» si disse, tirando un sospiro e sedendosi a terra «Non ci metterà molto». Prese a guardarsi attorno con circospezione, a voltarsi di scatto ogni qualvolta un rumore sospetto echeggiava piano nella tranquillità della foresta, a fissare ogni sagoma dall’aspetto inquietante. Era buffo vedere come il giovane era riuscito a farsi apparire minaccioso quel posto bellissimo. Aveva fatto tutto da solo: quello che prima l’avrebbe attratto, ora lo respingeva, lo metteva sull’attenti, lo faceva sentire ancora più insicuro. Più di una volta mise mano alla 227
grossa scimitarra, cercando perlomeno di difendersi dall’ipotetico nemico in avvicinamento e sempre fu smentito, magari da un uccellino o da un piccolo erbivoro che sbucava da un cespuglio a buona distanza. E il tempo passava, lentissimo ed inesorabile. Un’ora, due, tre... Dov’era Kanyu? Non un segnale da parte sua, solo fugaci apparizioni di qualcosa che lo faceva sembrare in avvicinamento. Ogni foglia, ogni filo d’erba, ogni pietra riluceva della luce di un sole indifferente ai timori del ragazzo. Doveva andare a cercarlo? Ma se non aveva la più pallida idea di dove cercarlo! E se poi fosse tornato mentre lui lo stava cercando? Dato il suo caratteraccio, non sarebbe stato piacevole. Ma poteva essere in pericolo, se non era morto... No, non poteva essere morto. L’aveva detto lui: un eroe della Grande Guerra che muore in un bosco? Chi poteva averlo ucciso? Una delle misteriose creature che popolavano le foreste nelle storie delle vecchie comari? No, era impossibile. Storie, null’altro. Nessun drago, nessun albero che camminava, nessun gigante. E allora dov’era? E cosa doveva fare, lui? Le ombre cominciarono ad allungarsi, mentre il cielo e la foresta stessa si tingevano di rosso, preannunciando l’arrivo di un imminente crepuscolo. E quando anche quello arrivò, Dal non ne poteva proprio più: era stanco, le palpebre gli si chiudevano e aveva perso ogni interesse per tutto quello che aveva attorno. Non avrebbe fatto una grinza nemmeno se un centinaio di Orchi gli fossero passati davanti a braccetto con altrettante splendide Elfe. Ma almeno le Elfe erano belle, per poterle definire splendide? Ma a che diavolo stava pensando, con Kanyu scomparso chissà dove e con i Teke che sarebbero potuti arrivare da un momento all’altro? Tirò l’ennesimo sbadiglio, sollevando le esili braccia per stiracchiarsi. Una ferrea mano gli tappò la bocca, mentre una brillante lama gli solleticava la pelle del collo. «Dovresti prestare più attenzione, Dal Jin» la voce era quella di Kanyu, inconfondibile, nonostante la mascherina sollevata sino al naso. Le due mani si allontanarono dal viso dello spaventato ragazzo, rimisero nel fodero il pugnale e presero le loro relative posizioni , ognuna sul suo braccio opposto. Dal era allibito. «Ma sei impazzito?» sbottò di colpo, furente «Vuoi farmi prendere un colpo? E perché ci hai messo tanto?». «Per insegnarti qualcosa.» rispose con una scrollata di spalle Kanyu. «E... E farmi prendere un infarto è il tuo aiuto? E non hai risposto! E-». «E non ho nessuna voglia di sentire le tue lamentele.» dichiarò l’altro, impassibile «L’autocontrollo è fondamentale, ricordalo sempre, al pari della pazienza. E tu sei venuto meno ad entrambe queste cose». «Cosa significa? Dove sono i Teke?» Dal continuava ad essere agitato. «I Teke? Che ne so. Io ho fatto solo un giro nel bosco, non ho incontrato alcun Teke». 228
«Ma... Ma...» balbettò il ragazzo, di fronte alla naturalezza con cui l’altro si spiegava. «Ora stammi bene a sentire.» la voce di Kanyu si fece rapidamente autoritaria «Devi imparare a controllarti e a non cedere, specialmente quando ti spetta un turno di vedetta come questo. Non ti sei accorto della mia presenza sin quando non è stato troppo tardi: chiunque avrebbe potuto liberarsi di te senza problemi. Domani ci addentreremo nella vera e propria foresta e quelli che qui sono semplici insegnamenti ti serviranno a sopravvivere». Dal non riuscì a dire nemmeno una parola in sua difesa: sia pur con metodi drastici, Kanyu gli aveva mostrato la presenza di una debolezza, qualcosa da cancellare ad ogni costo. «E... Il branco di Teke? Non è mai esistito?» tutto questo collideva con l’estrema difficoltà nel determinare quali e quanti animali avevano lasciato impronte su quel terreno. «Tutt’altro: saranno qui a momenti» rispose invece Kanyu, che era ancora incredibilmente calmo. «E me lo dici così?» esplose, sgranando gli occhi ed afferrando la scimitarra «Dobbiamo difenderci!». L’Esule scosse appena il capo, prendendolo per un braccio. «Non hanno alcuna colpa, sono solo animali» mormorò, freddo come un blocco di ghiaccio. «È un motivo per lasciarsi sbranare?». «No di certo, però non uccideremo nemmeno uno di loro». Dal credette di aver capito, come dimostrò il lampo che sembrava essergli comparso in fondo allo sguardo. «Cambiamo posto?» chiese, intanto che si sollevava in piedi. «No» la risposta di Kanyu lasciò il ragazzo dubbioso: perché doveva essere così difficile capire quello che il mentore intendeva? Tanto per cambiare, perché non rispose a nessun’altra domanda, limitandosi ad ergersi nello stesso punto in cui la preda doveva essere stata catturata la sera prima. Poi, Dal udì qualcosa. Una sorta di latrato, non molto distante, a cui seguì un rametto che si spezzava. Gli sembrava di sentire il fiato trattenuto dei Teke, pronti a lanciarsi all’attacco dei due sprovveduti Naigh-Moor. Qualcosa di piuttosto grosso attraversò un basso cespuglio, lasciando intravedere il suo pelame tigrato. Ora li sentiva davvero, anche se dovevano essere muti come pesci. Erano lì, tutt’attorno, gli occhi da cani fissi sull’alto elfo oscuro che estraeva in silenzio quella strana arma che aveva già utilizzato la sera precedente: la scimitarra frastagliata, lucida e brillante, al cui interno aveva brillato quella gemma azzurrina. Ora, essa era sprofondata in un plumbeo
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grigio, torbido e sgradevole. Il giovane si fece vicino al suo compagno, trattenendo il fiato mentre i secondi sfilavano via lentamente. Poi, attaccarono. Dal vide una decina di grossi canidi slanciarsi contro di loro, le fauci aperte, i movimenti rapidi come quelli di un felino. Al centro del semicerchio, un Teke ben più massiccio degli altri comandava il gruppo di attacco, indubbiamente la femmina. Quando si preparò a spiccare il balzo con cui sarebbe inevitabilmente piombata addosso a Kanyu, il pallido elfo oscuro abbassò di colpo la lama, mandandola a urtare contro una pietra ai suoi piedi. Assieme al clangore del colpo, una sorta di fuoco grigiastro balenò al di fuori di essa, disperdendosi fulmineamente tutt’attorno e dissipandosi sugli steli d’erba senza lasciar tracce del suo passaggio. I Teke rimasero immobili nelle loro posizioni, poi la grossa femmina guaì di colpo, fuggendo immediatamente in direzione opposta, la coda tra le gambe. Con la precisione di uno squadrone di cavalleria, tutto il branco la seguì, abbaiando e lagnandosi selvaggiamente. Quando l’ultimo guaito si estinse nel buio, Kanyu si decise a ringuainare la propria lama. Tutto il bosco era tornato placidamente tranquillo. Dal era letteralmente sbigottito. «Come... Come hai fatto a...?» domandò incredulo, la bocca semiaperta. «Alihamara.» rispose, appoggiando una mano sulla propria arma, ora sicura nel suo fodero decorato «Questo era l’incantesimo che possedeva la tua spada, quella che utilizzava quel Naigh-Moor, ieri sera. Alihamara è in grado d’impadronirsi degli incantesimi sferrati contro di me, sprigionandoli poi come ha fatto adesso. Questo priva molte armi magiche della maggior parte dei loro poteri, come ho fatto con la tua. Difficilmente riuscirai a scatenare di nuovo un terrore del genere con quella». Dal rivolse un’occhiata alla grossa scimitarra, prima di tornare sul tranquillo Naigh-Moor, che ora già si preparava ad accendere un fuoco per consumare la cena. Kanyu sembrava calmo, quella sera: dopo aver mangiato, si era disteso a terra, le braccia incrociate dietro la testa, e si era fermato ad osservare il cielo stellato, come se stesse ricordando qualcosa. Dal riuscì persino a notare il bagliore di un piccolo sorriso sulle sue labbra ben fatte, su quel viso che ora come non mai appariva bellissimo. Non sembrava affatto il dispotico avventuriero che il ragazzo si era ormai abituato a vedere in lui. «Kanyu...» si decise a mormorare Dal, sperando che fosse il momento per avere un’idea un po’ più chiaro della situazione. «Mh?» l’Esule aveva voltato appena il capo verso di lui e lo guardava incuriosito. «Mi chiedevo... Perché per te è così importante vendicarti degli untori? Dopo tutto questo tempo, poi». 230
L’altro sospirò, col fare di un padre che si prepara a rispondere alle domande di un figlio entrato da poco nell’adolescenza, così pieno di domande, volto a trovare quella maturità che fino a poco prima non poteva appartenergli. «Se sono ciò che ti trovi davanti, lo devo agli Elfi, Dal.» era la prima volta che lo chiamava così, utilizzando soltanto il suo primo nome «Essi hanno patito molto per mano degli untori. C’è stato un periodo in cui io stesso davo manforte agli elfi grigi, prima di disertare». «So che eri un assassino». «E l’indole di un assassino non è certo magnanima, come avrai imparato anche nella tua vita. Per questo, sono riuscito a trovare la volontà di vendicare gli Elfi solo poco tempo fa, quando ho conosciuto Melidan. Il suo villaggio fu forse il primo ad essere colpito dall’Artiglio del Nero, quarant’anni fa». «Ed è per lui che hai deciso di tornare sin qui?». «È uno dei molti motivi. Melidan ha perso i genitori e la sorella minore quando il morbo si diffuse. Lui e suo fratello Ithilkar furono fra i pochi superstiti, ma il secondo perse la ragione per il dolore; ancora adesso, è tenuto prigioniero in una cella delle province elfiche più vicine. Io ho visto il morbo colpire le città, Dal. Ho visto uomini morire combattendo un male invisibile, bambini nascere privi di vita o morire nella più tenera età. Ho visto fanciulle avvizzire e perdere tutta la loro grazia e bellezza, mentre l’Artiglio ghermiva le loro vite. Credevo che la Grande Guerra mi avesse preparato a simili orrori, ma nulla di ciò che ho visto mi è mai parso così... Atroce». L’Esule si era gradualmente rabbuiato: quella spensieratezza così rara sul suo viso aveva lasciato posto a cupi ricordi ed inestinguibili rimorsi. Dal si sentì in colpa come poche altre volte. «Kanyu...» provò nuovamente, cercando di scacciare quei ricordi dalla mente del compagno «Com’è fatta un’Elfa? Un’Elfa che non sia una Naigh-Moor, voglio dire». Non sapeva nemmeno lui perché aveva posto quella domanda: forse le parole dell’altro l’avevano ricondotto ad uno dei tanti pensieri insensati che aveva formulato quel giorno. «Non hai mai visto un’Elfa?» l’originalità di quella domanda sembrava aver sortito un certo effetto su Kanyu. Dal scosse il capo in segno di diniego. «Ho visto soltanto Elfi maschi. Lo so che sembra una domanda stupida» rispose imbarazzato. L’Esule abbozzò un piccolo sorriso, tornando poi a guardare il cielo con aria sognante. «Ah, le Elfe» lo sentì sussurrare Dal, anche se le sua labbra si erano mosse appena. 231
«Sono come le Naigh-Moor?» suggerì, avvicinandosi al mentore. «Le elfe oscure? Oh, no, ragazzo mio. Nessuna Naigh-Moor può raggiungere la bellezza di un’Elfa, di qualsiasi razza sia». «Perché, esistono più razze di Elfi?» Dal inarcò un sopracciglio, sorpreso. Kanyu sorrise ancora, sollevando poi le dita davanti al suo viso e prendendole una per una con l’altra mano. «Elfi comuni, Elfi delle Foreste, Elfi Ciechi, Elfi del Sud... Ed, infine, i Maltheran, gli Elfi Alati del Nord». «Non ho mai sentito parlare di nessuno di loro. Eccetto quelli che chiami Elfi comuni, credo». «Non importa. Nessuna Elfa può essere bella come una cosiddetta “Elfa comune”.» e qui Kanyu, si trovò addirittura a reprimere una risatina «Le Elfe delle Foreste sono basse e più rudi... Nei limiti di un’Elfa, s’intende. Le Elfe Cieche sono troppo alte e con occhi piccoli, da cui il nome; quelle del Sud hanno una carnagione troppo scura e le Elfe Alate sono arroganti e ottuse: non ho mai provato, ma immagino che volare ti alteri in qualche modo il cervello. Nessuna di esse può competere con la leggiadria e la gentilezza di un’Elfa vera e propria. Pelle chiara, liscia e delicata, morbidi capelli biondi… Ed occhi dai colori più profondi che tu possa immaginare». Dal restò a guardare l’espressione sul viso del proprio compagno: era estasiato, come se stesse vivendo un sogno ad occhi aperti. Quali ricordi gli aveva suscitato con quella domanda all’apparenza sciocca? «Hai una moglie Elfa?» riuscì infine a chiedergli, disegnando un piccolo sorriso con la bocca. A quella domanda, Kanyu sembrò farsi più vulnerabile: ora era soltanto una persona come tante, anzi. Un ragazzo troppo cresciuto, un uomo non più giovane che però non ha ancora aperto gli occhi sul mondo, che continua a vivere di sogni. «No, Dal. Ma non mi spiacerebbe, se può farti piacere.» rispose sinceramente dopo qualche secondo, spostando il capo verso di lui «Ora riposa, però; ci aspetta una dura giornata» e si voltò.
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XXIV. Trame nel Baratro
E
dura lo fu veramente, la giornata successiva: appena albeggiò, Kanyu destò il ragazzo dal suo sonno in maniera drastica e sgarbata. Colui che Dal scorse quando si voltò era nuovamente l’austero e metodico Esule che aveva incontrato, il solito vendicatore che aveva dichiarato guerra agli untori. La sua espressione sembrava non permettere ritardi e contrattempi, il giovane Naigh-Moor l’aveva intuito, e non era quindi certo il caso di preoccuparsi di particolari meno importanti. Dieci minuti dopo erano in marcia, pronti a spingersi nella pericolosa foresta. E pericolosa ed infida (come aveva predetto Kanyu) lo stava veramente diventando, almeno agli occhi del ragazzo: tutti quei confortanti alberi che l’avevano protetto, i ridenti fiori che l’avevano rassenerato, la tenera erbetta che aveva calpestato, erano scomparsi come fumo al vento, lasciando posto agli scheletrici guardiani della vera foresta. Tronchi grigi e scuri di smisurata altezza, contorti, nodosi, si stringevano l’un l’altro, bloccando i rimasugli di sentieri che potevano essere scorti a terra. Non più il cinguettio degli uccelli, non più lo squittio degli scoiattoli; solo il silenzio e migliaia di occhi che sembravano esser presenti in ogni cosa, viva o inanimata che fosse. Perfino le pietre, ed ancor di più le piante, parevano intenzionate a seguire ogni loro movimento e talvolta le loro fattezze davano l’impressione che fossero davvero volti, facce scolpite nelle roccia e nel legno. Di tanto in tanto, un sordo mugolio o un brontolio di sottofondo si preoccupava d’incrementare la tensione e l’inquietudine dell’ambiente, ed ogni volta Dal si voltava indietro, guardandosi attorno e controllando persino il suolo su cui poggiava i piedi, come se potesse inghiottirlo da un momento all’altro. Kanyu, al contrario, procedeva spedito, richiamandolo scocciato quando restava fermo troppo a lungo. «Abituati.» gli disse addirittura, una volta «Dovrai passarci due mesi, qui dentro». Dal non trovava la prospettiva per nulla allettante. Quella mattina, Gadejli non poté attribuire al caldo la colpa del suo malumore. Era sì vero che Armalak somigliava più ad una fornace che ad una città, in quella maledetta estate, ma avrebbe comunque voluto spedire quel messo in fondo alle profondità del mare, anche se gli aveva accordato la libertà, temendo di far scoppiare qualcosa di troppo grande anche per lui. Netork, il suo fido luogotenente, si ergeva dietro di lui, le braccia conserte, il viso serio, l’abbigliamento come sempre curato ed impeccabile. Persino il suo aspetto 233
cinico e indifferente era intaccato da una seria preoccupazione nel vedere il tiranno così nervoso e, questo lo sapeva bene, pieno di ottime ragioni per mostrarsi turbato dalla notizia ricevuta. «Io sento puzza di guai, Netork.» confessava intanto il sovrano di Armalak, mentre camminava avanti e indietro, gesticolando con una mano «Non credi anche tu?». «Non lo nego, mio sire.» rispose il luogotenente, traendo poi un lungo respiro «Sono preoccupato quanto voi». «Ed allora cosa dovrei fare? Non posso venir meno ad una simile richiesta!» continuò, fermandosi dinnanzi al suo tavolo personale. «Infatti non lo farete». «E dovrò perciò recarmi a Thanisshar il prima possibile. Dire che la cosa non mi piaccia è usare un eufemismo». «Vostro suocero è ancora signore di quella città, non potete mancare. Tuttavia, comprendo benissimo che fra voi, maestà, e Feijin di Thanisshar non corra buon sangue, da un po’ di tempo a questa parte». «Dì pure che mi odia da quando Zadra è morta, troncando così la possibilità di unire i nostri due regni in uno solo, cosa alla quale il vegliardo teneva parecchio». «In effetti, è presumibile che mirasse a divenire sovrano di entrambe le città, mio signore». «Questo era scontato, Netork.» lo zittì con gesto seccato il tiranno, che non gradiva tornare sulla storia dell’omicidio della moglie: d’altronde, era ben consapevole però che il luogotenente sapeva tenere la lingua a posto tra i denti e che quindi non ci sarebbe stato nulla da temere, riguardo all’argomento «Il fatto che adesso mi abbia contattato mi fa pensare che voglia giocarmi qualche altro brutto tiro, forse addirittura a Thanisshar». «Questo lo impediremo: io stesso guiderò la vostra scorta, altezza, e potete tranquillamente escludere la possibilità di un agguato a Thanisshar o lungo la strada» Netork si era immediatamente fatto avanti, serio in viso. «Qualcuno dovrà pur governare in mia assenza» si oppose Gadejli, appoggiando le mani sul tavolo. «Ma non posso rischiare che voi cadiate in una trappola» insistette il luogotenente: “non ancora”, aveva probabilmente pensato, a giudicare dal breve luccichio che gli era comparso in fondo agli occhi. Il sovrano di Armalak tacque, immobile nella sua posizione: solo di rado non si trovava d’accordo con lui, sebbene sapesse che Netork teneva su la maschera del fedele servitore solo per trarne un guadagno. Ad ogni modo, non poteva certo dire che la cosa gli dispiacesse. Per un elfo oscuro, lo scaltro ed opportunista luogotenente era l’incarnazione perfetta dell’astuzia e della strategia: le due 234
virtù che più venivano tenute in conto a Nog Tuluth. I Naigh-Moor, in questo, avevano senz’altro molti estimatori anche tra le altre razze. «E sia.» convenne alla fine il tiranno, rialzando lo sguardo verso il suo consigliere «Lascerò la città in mano a qualcun altro, magari a Fala Rhai. Occupati di preparare una scorta consistente: partiremo il prima possibile». Kanyu si era finalmente fermato, permettendo così all’inquieto ragazzo di mangiare un boccone; non disse però una sola parola per confortarlo. Doveva abituarsi, inutile sprecare fiato. Presto avrebbe imparato che lì c’era ben altro da temere che alberi e pietre. Lui lo sapeva forse meglio di tutti che nelle favole raccontate dalle vecchie c’è sempre un fondo di verità, e quella foresta ne era la migliore dimostrazione. Anche se non lo lasciava trapelare, Kanyu stava sul chi vive, aspettandosi la comparsa da un momento all’altro di qualcosa di seriamente pericoloso. Certo, non riusciva ad ammettere che fosse pericoloso per lui, ma ce la faceva benissimo ad immaginarsi un Dal sanguinante tra i denti di un qualche orso affamato. Se avessero avuto la fortuna di imbattersi in un semplice orso. Quando si alzò in piedi, il ragazzo fu ben lesto a fare lo stesso, lo zaino già pronto, la grossa scimitarra ben allacciata. Era palese che Dal non aveva nessuna voglia di restare da solo, nemmeno per un istante. Questo era un male, come constatò quando gli impose di restare dove si trovava. «Darò un’occhiata ai dintorni» mormorò Kanyu, sistemandosi alla meglio il mantello. «Ma...» balbettò l’altro, dando segni di nervosismo «Vuoi di nuovo lasciarmi qui? Capirei nel punto dove eravamo ieri, ma qui-». «Non essere petulante.» fece in risposta, facendogli cenno di piantarla «Non c’è niente di terribile, qui, perciò smettila di piagnucolare. Non ho bisogno di codardi tra i miei compagni». Ignorò volutamente tutte le altre proteste che il ragazzo mosse a sua difesa e s’incamminò senza di lui, scomparendo in maniera estremamente rapida almeno, così sembrava a Dal - tra la fitta vegetazione. Il giovane esule si sentì di colpo piccolo come un insetto, pronto ad essere schiacciato dal più inoffensivo degli animali. Strinse convulsamente l’impugnatura della spada dietro la testa, le labbra serrata, quindi tornò a sedersi, disponendo accanto a sé l’arma e l’equipaggiamento. Dall’alto di una grossa pianta dai rami fittissimi, Kanyu nascose un sorrisetto, mentre si celava ancor di più con i rami, in modo da poter tenere d’occhio il ragazzo senza essere visto, magari in maniera un po’ più comoda. Lasciò penzolare le gambe nel vuoto, attingendo ad un sorso del liquore che portava nella borraccia, rassegnato ad un’altra giornata d’osservazione. D’altra parte, nemmeno a lui sarebbe piaciuto affrontare da solo una foresta come quella. 235
Era una notte calda e tranquilla, quella di Vathalar: solo di rado, la voce di qualche nottambulo o l’abbaiare di un cane permettevano di capire che la città era soltanto addormentata, anziché morta. Case e palazzi restavano spenti e silenziosi, ammantati dallo scialle di lucenti stelle che punteggiavano la nera cupola della notte. Un tenue chiarore lunare irradiava i tetti e le strade, tingendoli di un’argentea e delicata sfumatura, come una sottilissima patina d’irrealtà. E su quella pallida luminescenza posero i loro leggiadri passi due giovani dagli occhi socchiusi e brillanti come il sorriso che illuminava i loro visi. Camminavano l’uno accanto all’altra, mano nella mano, rivolgendosi veloci sussurri e regalandosi piccoli baci ogni volta che lo facevano. Talvolta, i loro corpi si avvicinavano, le mani si spostavano sui fianchi e sulle spalle, o magari correvano ad accarezzare gli scuri capelli. Più di una volta, una risata cristallina intramezzava quei gesti ed altrettanto spesso i ragazzi non riuscivano più a camminare ed a ridere in contemporanea e dovevano fermarsi, stringersi nel tepore di un abbraccio e scambiarsi un poco di passione con gli ardenti baci della gioventù. Quell’innocenza era ben diversa dalla perversa determinazione dell’elfo oscuro che li osservava all’ombra di una modesta abitazione, ma sarebbe stato un lavoro ben arduo stabilire quale dei due sentimenti fosse più vibrante. Giocherellava da minuti con quella sua treccia dorata, scrutando senza tregua ogni via davanti a sé. Dal Jin, lo schiavo, il ribelle, l’esule, il fratello minore del principe di Armalak si era preso gioco di lui, sfuggendogli dalle mani proprio quando era stato sul punto di catturarlo, e tutto questo solo grazie all’intervento di un personaggio che non avrebbe certo dovuto trovarsi lì. Indifferente alle precauzioni, Lohidran aveva lasciato il poco distante campo dei Naigh-Moor e superato le mura di Vathalar senza riscontrare problema alcuno, anche se nemmeno lui si era soffermato a chiedersi il motivo del suo stesso gesto. Ma suo fratello doveva pur essere da qualche parte e stava a lui, a lui soltanto, scovarlo. E questa volta non si sarebbe certo limitato a cercare di farlo prigioniero. La grigia ragnatela in cui Kanyu l’aveva lasciato si era fatta opprimente in breve tempo; i suoi lunghi arti, sottoforma di scarni e raggrinziti rami, correvano contorti verso il giovane elfo oscuro ad ogni soffio di vento. Volevano fuggire via, liberarsi del loro tirannico tronco che li teneva così stretti a sé, impedendogli di raggiungere quello spaventato bocconcino seduto a terra... Perché non riusciva a formulare qualche pensiero un po’ più serio? Gli alberi erano lì, inchiodati a terra da decenni o forse anche secoli, ed i loro rami rinsecchiti, per quanto potessero agitarsi, non erano altro che inerte legno al vento. Già, ma allora perché continuavano a farlo rabbrividire? In tutto il giorno aveva udito soltanto 236
strani versi in lontananza, ma nessuna creatura gli si era nemmeno lontanamente avvicinata. Come la sera prima. Se Kanyu avesse ritardato solo di qualche altro minuto, avrebbe dovuto affrontare i Teke da solo, ma era preventivamente comparso. Ma questo era accaduto appunto la sera prima. Cosa sarebbe stato di lui se stavolta non avesse fatto in tempo? Qualche bestia, magari anche più grossa e feroce, avrebbe mangiato bistecche di Naigh-Moor. Poi, seppur con qualche difficoltà, Dal tornò a calmarsi. Tuttavia sapeva che abbandonarsi del tutto a quella tranquillità gli si sarebbe potuto dimostrare fatale, come gli aveva provato il compagno. Lottò perciò con tutte le sue forze per mantenersi lucido e perfettamente cosciente, ignorando le costanti tentazioni di portare la propria attenzione su qualcos’altro, ma persino lui dovette arrendersi all’evidenza che la sua stabilità andava svanendo, mentre gli “attacchi” di distrazione si presentavano sempre più frequenti e duraturi. Provò a destarsi da quello stato, talvolta scuotendo vigorosamente il capo, senza pensare che più si preoccupava di quello e meno faceva attenzione ai rumori di sottofondo. E, soprattutto, sempre più permetteva al sonno ed alla stanchezza d’insinuarsi dentro di lui, di ottundergli i sensi, cominciando proprio dall’udito. Gli sbadigli seguirono agli sbadigli, finché il giovane elfo si rese conto che non poteva restarsene seduto un minuto di più: si stropicciò gli occhi con le mani, sollevandosi in piedi con un mugolio di protesta. Si guardò attorno svogliatamente, quindi si accorse di dover sottostare ad un impellente bisogno tutto naturale, cosa che non aveva ancora accontentato in tutta la giornata. Con uno sbuffo, s’inoltrò di un poco, per abitudine, nella maestosa foresta, come se lì dov’era avesse potuto vederlo qualcuno. Occasione che un altro paziente individuo stava aspettando da quando il ragazzo aveva cominciato a dare i primi segni di stanchezza. Si spostò pian piano dal grosso ramo sul quale si era appollaiato, apprestandosi a scendere rapidamente dall’albero in modo da non essere visto, quando un rumore, all’apparenza un semplice fruscio, lo indusse a fermarsi. Ruotò svelto sui talloni con l’equilibrio di una scimmia, distinguendo senza indugi il tonfo di qualcosa che cadeva, poco distante da lì. E vide. Dal usciva proprio in quel momento dalla foresta: scorse perciò facilmente Kanyu che correva a perdifiato, piegato di un poco sul tronco, il lungo mantello che rispondeva ad ogni movimento del proprietario. «Ero-» provò a scusarsi il ragazzo, ma la brusca spinta dell’alto Naigh-Moor gli troncò la frase sul nascere, indirizzandolo verso il suo equipaggiamento. «Sbrigati! “ gli intimò l’altro, trafelato, mentre raccoglieva in un secondo le sue cose «Prendi la tua roba, presto!». «Ma-» balbettò, seguendolo incredulo con lo sguardo.
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«Fai come ti ho detto!» gli urlò Kanyu in risposta, superandolo con lo zaino sulle spalle. Dal poté solo affrettarsi a fare lo stesso, tuffandosi poi al seguito dell’Esule nell’ombrosa foresta. Avevano percorso soltanto pochi metri, che il pallido Kanyu si era stretto con forza le cinghie dello zaino e si era voltato indietro un’ultima volta, prima d’inerpicarsi come un geco su un enorme e ramificato albero, all’apparenza una monumentale quercia. Dal tentò a sua volta di fare lo stesso, ma non appena si trovò sotto la grossa pianta, perse tutto il suo già scarso entusiasmo. Con cautela, posò allora un piede sul tronco, dando inizio alla scalata, semplice per molti, ma sin troppo impervia per il ragazzo, che mai in vita sua si era arrampicato su uno di quei colossali bastioni delle foreste. «Vuoi spicciarti?» gli sibilò a denti stretti Kanyu, molti metri sopra di lui. «Non ho mai scalato un albero, dammi tempo!» rispose scocciato e vergognoso Dal. Aveva terminato di pronunciare la frase da pochissimo che la ferrea stretta del compagno e mentore gli strinse il polso, sollevandolo con una forza per nulla propria di un elfo verso l’alto. Kanyu saliva con l’ausilio di un solo braccio, sballottando sotto di sé il ragazzo, che altro non doveva fare che appoggiarsi bene ai giusti appigli. Stavano per raggiungere la sommità della pianta, quando una sorta di colpo di vento attraversò per solo un attimo la foresta, accompagnato da un lento e ripetuto “tum-tum” come di massi che cadevano dall’alto, rovinando pesantemente a terra. «Cos’é?» sussurrò Dal, irrigidendosi come una statua di pietra. Senza fornirgli alcuna spiegazione, Kanyu lo strattonò con più forza, obbligandolo a riprendere la salita. Sotto, imperterrito, continuava a risuonare quel tum-tum, ora vicino, ora più lontano. Lento. Veloce. Lento. Veloce. Più veloce. Di nuovo lento. Poi, un possente rombo scosse l’ormai buia volta celeste, scemando successivamente in un chiaramente aggressivo brontolio. L’Esule raggiunse in quel momento un ramo assai largo, abbastanza da permettergli di sedersi comodamente, oltre da ospitare facilmente una seconda persona. Con un ultimo sforzo, issò lassù anche Dal, puntando poi un dito verso la radura che si erano lasciati alle spalle. «D’ora in avanti, lascia parlare solo me.» bisbigliò, una volta che furono entrambi in una posizione stabile «Guarda là, adesso». Il giovane seguì la direzione indicatagli da quel lungo, nero dito, lucido ed elegante nel suo guanto color pece; qualcosa si muoveva nella radura che avevano lasciato. Subito dopo, al di sopra delle fronde della foresta comparve un torreggiante collo biancastro e venoso che sorreggeva una testa delle dimensioni di una grossa botte. Dal socchiuse gli occhi e si restrinse nelle spalle come schiacciato da qualcosa, quando un bramito ancor più potente del precedente si 238
levò al di sopra di qualsiasi altro suono e la bestia schiuse ferocemente le fauci al cielo, facendo vibrare tutti i tronchi nei dintorni. Ora che aveva riaperto gli occhi, Dal poteva vedere le due mastodontiche corna ricurve che discendevano a fianco delle mandibole, pronte a straziare alberi e uomini sotto la loro travolgente carica, e il torace enorme che fremeva d’impazienza. Poi, di nuovo tutto si spense, lasciando che solo il pesante respiro della bestia echeggiasse nell’aria ancora scossa dalla furia dell’animale. «Un Mangiateschi a caccia.» disse Kanyu, badando a parlare sottovoce «Una creatura estremamente territoriale che è solita abitare nelle caverne che abbondano in questa zona. Li chiamano così perché mordono le prede alla testa per ucciderle. Visto che bocca si ritrova?». Dal annuì appena, lo sguardo fisso su quel testone che guardava a destra e a manca, spostando di tanto in tanto una delle quattro poderose zampe da elefante. Un violento tremito scosse la terra ed il brutto muso della creatura parve contrarsi in una smorfia innervosita. Nuovi colpi sempre più rabbiosi si aggiunsero agli assordanti versi della bestia, mentre questa si agitava freneticamente, come in preda alle convulsioni. «È affamato.» riprese Kanyu, approfittando di un momento di silenzio «Quando questi animali sono arrabbiati, sbattono la coda proprio come sta facendo il nostro amico; molto probabilmente, non trova niente di cui cibarsi». «Ma che diavolo mangia un simile bestione?» domandò Dal, incurante del monito dell’altro. Kanyu portò il dito indice alle labbra con aria grave, ricominciando poi a controllare il Mangiateschi, che dopo un ennesimo sbuffo pareva essersi finalmente deciso ad allontanarsi. Tornò a parlare solo quando ritenne che il gigantesco mostro non potesse più udirlo. «Animali della stazza di un uomo o, ancor meglio, di un Orco, se li trova. Se gli va molto bene, è anche in grado di ammazzare prede della sua stazza e di trascinarle poi nella sua tana». «Vuoi dire che in questa maledetta foresta ci sono altri colossi di questi dimensioni?» chiese Dal, sbarrando gli occhi. «Anche di più grandi: hai presente tutte quelle baggianate sulle Viverne che abitano le apparentemente tranquille colline dell’Impero o sugli spaventosi Basilischi che possono pietrificarti semplicemente incrociando il tuo sguardo? Sono vere». «E dovremmo essere al sicuro, qui? Gettarsi nel mezzo alla Legione disarmati era meno pericoloso, a questo punto! Si può sapere dove diavolo mi hai portato?». Kanyu non esitò un istante a girarsi verso il ragazzo, con la faccia di chi non è mai stato più sincero in vita sua. 239
«Qui vivono i giganti neri, ancor più temuti di quelli normali perché si dice abbiano stretto patti con i più abietti Demoni dell’entroterra; contro ogni roccia possono nascondersi i crudeli Sangihuan, bizzarri ominidi che trascinano attaccati al loro esile corpo quintali di pietre; Serpenti d’acqua e draghi marini popolano il Mulem, il grande fiume che taglia in due Deym Narem, rendendone impossibile l’attraversamento; Orchi, Troll e Goblin scorazzano indisturbati in queste terre, agglomerandosi nelle orde più pericolose di tutti i Principati di confine; qui i Bornock abbandonano le loro grotte per procurarsi il cibo ed i piccoli ma feroci Tegreschi pullulano come mosche. Dove ti ho portato, dicevi?» fece una pausa, il tempo di disegnare un sorrisetto sulle labbra «Nell’anticamera dell’Inferno».
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XXV. Il rifiuto
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cco, aveva trovato qualcosa di estremamente più scomodo della fredda pietra su cui aveva riposato più di una notte (o più di un giorno?) nelle buie miniere del Picco Muto. Dormire su un albero! La sola idea appariva a dir poco folle al giovane Naigh-Moor, ma, com’era evidente, solo a lui. Kanyu era sprofondato in un sonno tranquillo, le braccia dietro la testa, le gambe adagiate una sopra l’altra: per precauzione, una delle sue caviglie era saldamente legata al grosso ramo che occupavano. «C’è abbastanza spazio» aveva detto «ed è certo più sicuro che restare a terra, specialmente con simili bestie in giro». Per lui era tutto così facile? Pochi minuti dopo che i fastidiosi bramiti del Mangiateschi erano cessati, era scivolato nella sua piacevole incoscienza. O forse no? Dal non riusciva a credere che quello strano individuo che lo aveva salvato più di una volta fosse costantemente all’erta, ma sembrava che non si potesse mai essere certi di qualcosa con Kanyu. Da quanto tempo si dannava con quelle domande, cercando invano di trovare pace? Un’ora, due, tre... Chi era in grado di dirlo? L’unica cosa di cui si rendeva conto era il dolore alla schiena che cresceva implacabile, negandogli il sonno quando credeva di averlo trovato o ridestandolo crudelmente dall’oblio che annunciava il tanto agognato oblio dei sensi. «Dormi» la freddezza con cui Kanyu aveva proclamato quell’ordine non ebbe altri effetti che quello di allontanarlo ancor di più dal sonno. Fu però costretto ad annuire, mascherando come meglio poteva il disagio alla schiena ed al piede sinistro, anch’esso legato come quello del compagno. «Hai la testa piena di pensieri, ma per nessuno di essi vale la pena di rinunciare al sonno». «Riesci a leggere nella mia mente?» ribatté con stanco sarcasmo l’altro. «Posso solo dirti che da quando siamo partiti non hai mai pensato né a Sali né al passato». Dal si sentì il più lurido verme del pianeta. Thanisshar somigliava ad Armalak in tutto e per tutto, come lo stesso Gadejli riconosceva ogni volta che calcava il suolo della città gemella. Atmosfera cupa, alti palazzi in marmo scuro, molta gente riversata per le strade e, cosa di cui poteva gioire, nessun mendicante. Attraversò le strade fra lo stupore e l’adorazione generale alla sera del quarto giorno di viaggio, al comando di quasi un centinaio di soldati. Il suo volto appariva severo e glaciale, mentre superava 241
dopo poche parole i cortigiani inviati ad accoglierlo dal suocero Feijin, signore incontrastato di Thanisshar. La sua mente era logorata dai dubbi come poche altre volte: nemmeno il valente Netork si era mostrato utile, questa volta, ed il viaggio si era svolto senza il benché minimo incidente, anche se il timore di venire assaliti era stato considerevole. Adesso, mentre si dirigeva verso il palazzo del tiranno della città, questa paura non era cessata. La dimora di Feijin era forse l’unica cosa che rendeva Thanisshar dissimile da Armalak: basso e largo, circondato da una recinzione metallica finemente decorata in tutta la sua ampiezza, sembrava più un tempio che il palazzo di un regnante. Solamente una torre era presente e non era neppure molto alta: un invasore avrebbe ritenuto indubbiamente quell’edificio un facile bersaglio, ma Gadejli sapeva bene che la vera forza di quell’edificio stava nell’ampio spazio tutt’attorno e nei vastissimi sotterranei. Bestie di ogni sorta li abitavano, addomesticate dagli abili domatori del sovrano, pronte ad essere mandate sul campo di battaglia, dove avrebbero colto di sorpresa lo sbalordito nemico. Varcò i grandi cancelli della reggia con tutto il suo seguito, smontando da cavallo solo davanti al maestoso portone d’ingresso. Netork fece altrettanto, facendosi subito vicino al sovrano, forse per proteggerlo, forse per chissà cosa. Da una finestra del secondo ed ultimo piano, un viso vecchio e raggrinzito scostò una tenda, fissando il sovrano di Armalak ed i suoi accompagnatori. «Gadejli si è fatto scortare.» mormorò arcigno, mentre si tirava indietro e si avvicinava, barcollando, al ricco trono in oro massiccio al centro della sala «È stato previdente, per una volta». «Questo non significa niente, no?» una voce ben più giovane, quella di un Naigh-Moor maturo e nel pieno delle sue forze, si fece udire tranquillamente. «No, Velim, te l’ho già spiegato.» il vecchio si sedette con un gemito, aggiustandosi con una mano i corti capelli candidissimi, altro segno della sua età avanzata «Non ha nessuna importanza. Ora, esci alla svelta: conoscendo Gadejli, sarà qui in men che non si dica». L’altro ubbidì, chinando il bel viso in segno di rispetto: uscì rapidamente dalla stanza, il lungo mantello che ondeggiava silenzioso, in netto contrasto con la pesante armatura che portava. Camminava producendo lo stesso rumore di uno che porta con sé un forziere pieno di monete, tanto la sua complessa corazza tintinnava ad ogni passo. La sua chioma scura riluceva di tutti gli oli e gli unguenti che l’elfo era solito utilizzare per tenersi in ordine, tanto che avrebbe potuto far invidia al puntiglioso Netork. Non fece una decina di metri che già Gadejli e il suo luogotenente gli comparvero davanti. Il tiranno fu il primo a riconoscerlo ed a fermarsi. «Ah, Velim.» lo salutò, senza però mostrare il minimo rispetto per lui «Tuo padre è nella sala del trono?». 242
«Sì, vi aspetta con impazienza, nobile signore di Armalak» Velim fu invece costretto a sprofondare in un lungo inchino, tanto da poter vedere solo i suoi piedi. Non ottenne un solo ringraziamento: Gadejli e Netork lo superarono in silenzio, accompagnati soltanto dal risuonare dei loro stivali sul marmo del pavimento. Fecero velocemente i loro nomi alle due guardie alla porta, ottenendo praticamente subito il permesso di accedere alla ricca sala. Contrariamente a quella del palazzo di Armalak, questa era molto più luminosa, anche se quasi tutta la luce, attraverso un semplice, grosso vetro, andava a ricadere sul trono e su chi vi sedeva… Ovvero un vecchio che solo un minuto prima si sarebbe detto molto più in forze di adesso. Feijin alzò gli occhi stanchi verso i due nuovi entrati, sfoggiando un sorriso di benvenuto con la bocca ancora ricca di denti, com’è solito per qualsiasi razza di elfi. «Mio amato figlio!» esclamò con voce roca, allargando le braccia, coperte da ampie maniche chiare. «Padre» mormorò in risposta Gadejli, mentre s’inginocchiava, con Netork obbligatoriamente dietro: sia lui che il vecchio Feijin mentivano nel chiamarsi a quel modo, ma nessuno dei due pareva intenzionato a rompere la prassi. Tuttavia, il vecchio si risparmiò almeno l’abbraccio che avrebbe dovuto seguire al loro incontro, restando saldamente composto sul ricco trono: sia Netork che il suo signore si accorsero subito che qualcosa non andava per il verso giusto. Fra tutti i sovrani delle città Naigh-Moor, Feijin era forse quello più attaccato alle tradizioni ed alle loro imposizioni, eppure non aveva nemmeno accennato ad eseguirle. Restava seduto, un po’ chino in avanti, con gli occhi di uno che ha appena la forza per parlare. Gadejli era al contempo turbato e felice di quella situazione: certo non gli spiaceva vedere il suocero in quelle condizioni, ma doveva ammettere che non si aspettava di trovarlo così malconcio. «Ho ricevuto la tua lettera.» il tiranno di Armalak prese la parola per primo «A cosa devo questa convocazione?». «Figlio.» Feijin emise un lungo sospiro, chiudendo le dita sui bracciali del trono «Ci sono tristi novità». «Lo temevo.» Gadejli fece una smorfia, mentre si alzava in piedi assieme al luogotenente «Già questo fatto mi ha incuriosito: perché inviare una lettera, con gli abili stregoni di cui il tuo regno dispone? Il flusso di magia che li alimentava si è interrotto?». “Volessero gli dei che fosse così.” pensò Netork, nascondendo a stento un sogghigno “Potremmo impadronirci della città senza problemi!”. «Niente di tutto questo,» li smentì il vecchio, scuotendo il capo, prima di appoggiarsi lentamente allo schienale «ma era il modo più sicuro per evitare che mio figlio Velim s’insospettisse e fiutasse qualcosa». 243
«Fiutare cosa?» Gadejli cominciava già a seccarsi di tutti quei giri attorno alla questione in ballo. Di nuovo Feijin rimase in silenzio qualche istante, riprese penosamente fiato e dischiuse le labbra in quello che era poco più di un sussurro. «Io sto morendo» disse rassegnato, abbassando la testa. Tiranno e luogotenente si trovarono entrambi a corto di parole: morendo? Lui? Ma se aveva sempre avuto la salute e il cervello di un giovane all’acme della forma! Forse che gli anni avessero finalmente intaccato ed aperto una fessura nella sua corazza vitale? Gadejli arrivò pensino a domandarsi dove fosse la brutta notizia, in quel caso. «Sono stato colpito da un cancro troppo forte anche per me.» continuò nel frattempo Feijin con tono provato «Per quanto i migliori guaritori di Thanisshar possano sforzarsi, il mio destino è ormai deciso». «Padre mio...» Gadejli diede fondo a tutta la sua abilità di mentitore, facendosi addirittura vicino al suocero «Non devi dire questo: hai sempre posseduto tanta forza da piegare al tuo volere la terra e i cieli: nessun male può essere tanto letale da ammorbare e sconfiggere il tuo animo». «Può, può eccome, invece!» ribadì il vecchio, sollevando la testa canuta «Presto qualcun altro dovrà prendere il mio posto!». «Feijin.» il tiranno di Armalak si inginocchiò ai piedi del suo pari, prendendogli la mano destra nelle sue «Dimmi cosa posso fare per te ed io lo farò». Vi furono altri lunghi istanti di silenzio, in cui i due sovrani si fronteggiarono con lo sguardo, l’uno fermo e deciso, l’altro debole e tremante. «Lohidran» mormorò poi d’un fiato il vecchio, liberando occhi e mano dalla presa del genero. «Lohidran?» chiese l’altro, senza capire. «Tuo figlio Lohidran regnerà dopo di me» Feijin sembrava essersi tolto un gran peso, pronunciando quelle parole. «E Velim? Egli ha il diritto di salire sul trono di Thanisshar». «Velim è un incompetente!» ruggì l’altro, ritrovando qualche energia «Non posso mandare allo sbando la mia città per causa sua! Avevo già scelto secoli fa, ma sai bene cos’è accaduto... No, designerò piuttosto mio nipote, come erede!». «Stando così le cose, non posso oppormi… Ma ci vorrà del tempo perché possa insegnare a Lohidran a governare come si deve una grande città come Thanisshar». «Se non sarà lui, nominerò suo fratello minore, Dal Jin» Gadejli si ritrasse immediatamente nell’udire questo: il figlio che gli si era rivoltato contro al comando di una città potenzialmente in grado di sconfiggerlo? «Porta Lohidran al mio cospetto.» riprese Feijin, rilassandosi «Non so per quanto potrò ancora resistere». 244
Il sovrano di Armalak annuì con convinzione, dirigendosi verso Netork qualche attimo dopo. «Lohidran sarà qui entro pochi giorni» promise, voltatosi un’ultima volta verso Feijin. «Ci conto, figlio mio» ribatté con voce fioca quello. Nemmeno dieci secondi ed il vecchio era nuovamente solo, fatta eccezione per il sorrisetto che gli era comparso sulle labbra. Netork si rivolse al suo sovrano solo quando furono fuori dalla cinta del palazzo. «È una strana situazione.» mormorò, le braccia incrociate al petto «Temo che Feijin voglia giocarci qualche tiro mancino». «Può essere, mio fido, ma non posso venir meno a ciò che ho detto.» rispose nervosamente l’altro, già in marcia verso i cavalli, ben legati ad un’innumerevole fila di pali «Porterò con me Lohidran il più presto possibile, anche se protetto da una scorta uguale o superiore a questa». «Allora dovrete richiamarlo dalla sua missione: vostro figlio è ancora sulle tracce di Dal Jin». «Questione di poco conto, confrontato al problema che ci è capitato tra capo e collo; tornerò a preoccuparmi di lui in futuro». «Può rivelarsi pericoloso» si azzardò Netork. «Bah! Dal Jin ha solo la morte, come futuro! Hai letto anche tu la profezia ed entrambi abbiamo convenuto che il ragazzino non rappresenta alcun problema, no?». «Non l’ha mai rappresentato, a mio parere. Non dovreste essere così timoroso verso le sciocchezze d’indovine vagabonde». «Acqua passata, Netork. Concentriamoci su questo, adesso: ci occuperemo di Dal Jin in un secondo tempo». Feijin era ancora assiso sul trono col sorriso stampato sulla faccia, quando Velim ed un vecchio Naigh-Moor, la cui somiglianza con il vecchio sovrano era a dir poco impressionante, irruppero nella sala, con l’ansia dipinta sul viso. Il sovrano rivolse verso di loro uno sguardo vittorioso, reso ancor più efficace dalla luce che calava come una colonna su di lui. «Allora?» domandò l’impaziente Velim, intanto che il vecchio sconosciuto chiudeva sbrigativamente le doppie porte della stanza di lui. «Gadejli si è dimostrato lo stupido che è.» rispose Feijin, alzandosi trionfante in piedi, senza alcuna fatica «Mi chiedo come abbia potuto bersi la mia storiella». «Questo non ha importanza.» un sorriso increspava ora anche le labbra del principe «Ciò che conta è che il vostro piano abbia avuto successo. Lohidran verrà qui?». 245
«Suo padre ha garantito che lo condurrà qui il prima possibile; fino ad allora...» e qui il vecchio si sganciò la luminosa spilla che gli chiudeva il mantello «Gur Kiel mi impersonerà in tutto e per tutto». Si avvicinò con passi agevoli verso il vecchio dall’altro capo della stanza, giocherellando con il piccolo oggetto che teneva in mano. «Questo» disse, porgendogli la spilla col suo sigillo «è l’oggetto attraverso il quale ogni mago si basa quando decide di osservarmi. Potrebbe anche focalizzarsi sulla mia essenza, ma attraverso quest’oggetto farebbe molto prima». «Chi ci assicura che un veggente non si concentrerà proprio su di voi, anziché sull’oggetto, mio sire?» domandò Gur Kiel, dubbioso. «Maghi e stregoni sono tutto fuorché stupidi: puoi star tranquillo che terranno d’occhio solo il possessore di quest’oggetto, cioè tu. Per tal motivo, finché io stesso non ti darò un altro ordine, occuperai quasi costantemente il mio letto e prenderai il mio posto in tutte le mie apparizioni in pubblico. Bada di sembrare debole e stanco, dato che così sono ritenuto». «Contate pure su di me, altezza» Gur Kiel chinò rapidamente il capo, stringendo nelle dita la spilla. «Comincerai immediatamente.» ingiunse il sovrano, sollevando un dito verso una porta solida e ben ornata con glifi e rune d’arcana bellezza «Recati nella mia stanza: lì troverai svariate cortigiane che t’indicheranno che indumenti indossare e come comportarti. Va!». Gur Kiel raggiunse la stanza in pochi secondi, dopodiché la porta della camera fu accuratamente richiusa da un’elfa oscura all’interno. Feijin poté così tornare a voltarsi sul figlio. «Ricordati che la tua parte è fondamentale, Velim.» gli disse, ergendosi severamente davanti a lui «Non appena Lohidran verrà incoronato, dovrai dimostrarti offeso ed invidioso nei suoi confronti». «Non mi sarà difficile». «E sarai ancora tu a svolgere il lavoro più complicato: Lohidran non adora affatto suo padre, ma istigarlo all’omicidio potrebbe rivelarsi non facile. In quel caso, tu dovrai convincerlo; una mente giovane come la sua non dovrebbe essere un problema per noi». «Infatti non lo sarà.» Velim continuava a sorridere «Conosco bene Lohidran: lui e le sue ambizioni. Una volta che avrà l’opportunità di schiacciare Gadejli, lo farà senza esitazioni. E, una volta che suo padre sarà morto, saremo noi stessi a liberarci di lui». «Esattamente, figlio mio.» Feijin non nascose minimamente la sua soddisfazione «E così le due città gemelle apparterranno ad un’unica famiglia».
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Velim si avvicinò ad un lungo tavolo in un angolo, dove erano disposte alcune bottiglie dei più pregiati vini e liquori della penisola, oltre ad un gran numero di finissimi bicchieri in cristallo. Ne riempì attentamente due di essi con una bevanda rossastra, offrendone poi uno al ghignante sovrano accanto a lui. «Armalak sarà nostra, padre.» mormorò, intanto che portava il proprio bicchiere alle labbra «Ve lo giuro». Quel che fosse dover sottostare a qualcosa o a qualcuno Lohidran non aveva mai voluto apprenderlo. Il principe di Armalak non aveva superiori, diretti o indiretti che fossero: era libero di comandare a bacchetta qualsiasi abitante, soldato o mago che volesse solo per un suo capriccio. Eccetto suo padre, il tiranno stesso. Perciò, quando gli giunse alle orecchie quel comunicato, non seppe cosa fare. Quell’ordine era una delle più grandi offese che potessero essergli rivolte e di certo lo smacco più bruciante dei suoi quasi centodieci anni, persino peggiore del suo fallimento nell’assaltare l’arena di Raidemark. Il viso dei cinque stregoni davanti a lui tradivano meschinamente una certa soddisfazione nel vedere il loro arrogante principe così sistemato. Il capitano Yanis, dall’altro lato dell’opulenta tenda, restava in silenzio, all’apparenza tranquillo, ma le sue mani, che stavano spasmodicamente stritolando i polsi, erano un chiaro segno dell’inquietudine che la notizia gli aveva fatto germogliare nell’anima. «Gli ordini sono irrevocabili, signore.» annunciò l’incantatore alla testa del piccolo gruppo, incrociando le braccia «Non potete far altro che accettarli». Lohidran volse loro le spalle contrito, frustrato. Yanis provò solo un crescente timore riguardo alle reazioni del principe. «Dunque dovrei rinunciare alla caccia di mio fratello, tornare a Nog Tuluth ed attendere che il vecchio Feijin tiri le cuoia.» mormorò, voltandosi solo al termine della frase «E tutto questo mi è stato imposto da mio padre tramite un contatto magico? Per quanto ne so, potreste esservi inventato tutto». «Principe!» replicò stizzito lo stregone, facendo un passo avanti «Questo è un insulto alla nostra lealtà verso Armalak!». «Voi maghi vendereste vostra madre, se solo vi fruttasse un pugno di monete.» la frecciata di Lohidran fu lanciata con tanta freddezza da imporre il silenzio sull’invelenito stregone «So bene quanto è grande il rancore che provate nei miei confronti, così come voi sapete che io non ho nessuna simpatia nei vostri. Ho forse qualche motivo di fidarmi delle vostre parole mentitrici? Avvisate mio padre che invii un messo ufficiale, anziché usare questi giochetti da circo: se le cose stanno davvero come dite, potete star certi che lo farà».
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«I nostri messaggeri magici sono fra i più fidati di tutto il regno» bofonchiò un altro stregone, un vecchio che doveva avere più acciacchi che anni, a giudicare da come si reggeva a malapena al suo bastone. «Questo è indubbio, ma la fedeltà di un Naigh-Moor è solitamente pari alla sua umiltà o alla sua pietà...» riprese l’altro, che ormai aveva fatto di quella questione una ragione d’orgoglio «Cioè zero». «Tradimento contro l’intero popolo!» un forte brusio si associò all’esclamazione dello stregone, sottoscrivendola in pieno. Persino Yanis trattenne il fiato, facendosi ancor più agitato di prima. «Ora capisco perché mio fratello è fuggito!» continuava intanto Lohidran, fuori di sé «Era stufo di essere circondato da un branco d’imbecilli!». «Basta!» la voce del primo mago s’innalzò sopra tutte le altre, mentre questi si portava innanzi a Lohidran «Gli ordini di sua maestà il tiranno sono chiari e incontestabili! Richiamerete indietro le vostre truppe e torneremo ad Armalak!». «Informate mio padre che tornerò quando avrò messo le mani su mio fratello.» sibilò l’altro, adesso fermo; gli occhi verdi erano ora due gemme appena visibili sotto le sopracciglia schiacciate «Non ci vorrà molto tempo». «Siamo spiacenti, ma avete avuto la vostra occasione di mettere le mani su quello schiavo ed avete fallito.» il mago non era meno infuriato del suo principe «Non costringeteci ad usare la forza contro di voi». L’immobilità di Lohidran presagiva l’inevitabile: presto la furia si sarebbe riversata in lui come un fiume inarrestabile. Sebbene la maggior parte degli elfi oscuri si lasciasse andare a quella sensazione (il “Nor Zalafeth”, come l’aveva ormai ribattezzata Dal), pochi erano in grado di mantenere una lucidità tale da renderli ancor più pericolosi; Lohidran era uno di questi. «Yanis, bloccatelo» ordinò il mago, preferendo risparmiare i suoi preziosi incantesimi: se essi non avessero sortito l’effetto sperato, loro cinque sarebbero stati come bambini contro una tigre selvaggia. Il comandante in seconda della Legione non mosse però un solo muscolo, le gambe come inchiodate a terra, il volto inorridito. «Yanis!» urlò allora l’altro, arretrando. Il povero incaricato mosse qualche goffo passo verso il principe; strette tra le tremanti mani, teneva un grosso bracciale con cui avrebbe potuto bloccargli gli avambracci, impedendogli così di attaccarli. Lo sguardo inflessibile di Lohidran incrociò quello del soldato, raggelandogli il sangue nelle vene. Un attimo dopo, una traiettoria rossastra saettò attraverso l’aria, facendo cadere qualcosa ai piedi di Yanis: le sue mani giacevano a terra come quelle di un manichino. Appena il terreno si tinse di rosso, un grido di terrore scaturì dalle ugole di tutti i presenti. Lohidran scattò verso i maghi, lasciando in ginocchio l’agonizzante Yanis; 248
vampe di ogni colore saettarono dalle estremità dei bastoni e si schiantarono contro il giovane principe: il suo carnato divenne d’un mortale pallore, prima che gli stessi incantesimi evaporassero o schizzassero via come se fossero rimbalzati su una dura roccia. Una nuova scia scarlatta e metà testa del primo mago venne asportata con una semplicità che soltanto la Gloria Scarlatta, la lama magica, poteva consentire. I restanti maghi si dispersero fuori dalla tenda, mentre altri colpi sfrecciavano come lampi, mancando di poco un nuovo bersaglio. A sera, Lohidran era ancora nella sua tenda, nonostante i suoi capitani avessero tentato in più e più modi di convincerlo a partire con loro. Il principe di Armalak sarebbe rimasto l’unico Naigh-Moor sulle tracce del ribelle Dal Jin.
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XXVI. Vecchie alleanze
I
l tetto nebuloso sopra Armalak andava scurendosi, via via che la notte si preparava a sostituire il giorno. Strade deserte, finestre sbarrate, botteghe chiuse… E l’immancabile fumo che si levava da ogni fessura della torre degli incantatori di palazzo. Era ormai così normale udire boati, esplosioni e ruggiti di misteriose creature provenire dalle stanze degli stregoni che ormai nessun abitante della città ci faceva più caso, né si preoccupava di chiedersi perché quei rumori si presentassero solo quando quel poco di sole che era possibile scorgere sotto la grigia cappa che scaturiva dalla torre era ormai tramontato. Dopotutto, se gli stregoni preferivano passare notti insonni a gingillarsi con la loro magia anziché riposare, erano solo affari loro. Probabilmente l’avrebbero tutti pensata così finché il fallimento di un incantesimo non avesse sterminato metà popolazione o, che so, evocato una mostruosità direttamente dagli Inferi nella piazza principale. Così, mentre la città giaceva nei letti del sonno o della passione, decine di maghi s’intrattenevano con i loro esperimenti; Proprio come i suoi sottoposti, l’anziana maestra di tutti gli incantatori del regno, Fala Rhai, la strega, sedeva a gambe incrociate nella sua stanza, gli occhi chiusi, i lineamenti fermi e regolari. Si sarebbe detto che stesse dormendo o che fosse immersa in una profonda trance spirituale, quando invece si risollevò in piedi con naturalezza, cosa che nessun mago è in grado di fare appena abbandonata la propria meditazione. Un piccolo sorriso increspò le labbra della donna, quindi si avvicinò al grande e decorato specchio appoggiato ad una parete e si sistemò alla meglio i mossi capelli argentati con una bizzarra spazzola nera, che sicuramente in altre situazioni doveva fungere anche da strumento per chissà quale sortilegio. Poi fu il turno della lunga veste violacea: mai che una grinza potesse cesare le impeccabili bordature in purissimo argento o sminuire il corpo ancora sodo della donna. Le mani: pulite, prive dei segni della vecchiaia, lisce e delicate come quelle di una ragazza nel pieno della giovinezza. Le unghie nere e sode ticchettarono una ad una sullo specchio, prima di ammirarsi a loro volta nel suo immancabile riflesso. Solamente quando fu sulla porta, Fala si ricordò di un ultimo, insignificante particolare. Volse distrattamente gli occhi verso una lunga scatola al cui interno si era accumulata una discreta montagna di cera ormai secca, lo scomposto cadavere di quella che doveva essere stata una candela tutt’altro che minuta. Doveva essere notte fonda, a giudicare dalle condizioni del cero; la strega lo accettò con indifferenza. Ciò significava che solo un miracolo le
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avrebbe permesso di trovare Gadejli sveglio a quell’ora. L’elfa accennò ad una risatina, intanto che distoglieva lo sguardo dai resti della candela. «Pazienza» si rispose semplicemente, aprendo la porta. Aveva un piede ormai fuori dalla sua stanza, quando un altro particolare le venne alla mente, stavolta ben più importante. Con un sospiro, mise mano al suo bastone contorto, sollevandolo con grazia verso l’alto assieme all’altra mano, tenendo il palmo rivolto verso il basso: una litania di parole le uscì dalle labbra sottoforma di sibili e gorgheggi che chiunque avrebbe riconosciuto come gesti abituali. Stava ancora cantilenando il suo incantesimo che una specie nuvoletta grigiastra comparve dai suoi polpastrelli, abbracciandole soavemente il corpo, prima di venir risucchiata da ogni poro della pelle della donna. Con tutta calma, Fala portò quindi la mano libera all’elegante pugnale stretto alla coscia, sguainandolo con un gesto stizzito. Un innaturale chiarore si dipinse sulla lama dell’arma, convincendo l’incantatrice a portare ancora l’attenzione su di esso, come accadeva ogni volta che metteva mano al suo personale capolavoro. Settimane di fatica, ma quell’oggetto era ora tanto pregno di magia da risultare più micidiale di un fendente d’ascia. Senza altri indugi, l’espressione soddisfatta sul viso della maga mutò dopo un solo istante nella serietà più assoluta. Come in un rito blasfemo, impugnò la piccola arma con entrambe le mani, puntandola con decisione all’altezza del cuore. Un colpo netto e deciso. Fala osservò con rinnovata fierezza la sua arma e le sue braccia, costrette da una forza superiore a qualunque altra a deviare sul fianco, senza aver nemmeno sfiorato il corpo dell’elfa. Ripose il pugnale nel suo fodero, raccolse con la destra il bastone che aveva appoggiato poco prima al muro e varcò la soglia, chiudendosi alle spalle la robusta porta. L’incantesimo si era rivelato efficiente come al solito. E con Dal Gadejli la prudenza non era mai troppa. «Ora stai esagerando, Kanyu». Dal fece una smorfia, alzandosi in piedi: il suo viso sembrava però opaco e spento, per nulla percorso da rancore e risentimento. Kanyu, comodamente sdraiato sul tappeto d’erba verde, non somigliava nemmeno ad un essere vivente. Fermo come una statua, privo di emozioni o pentimenti e con quel già marmoreo viso colorato da una bassa sfumatura lunare, pareva esser del tutto ignaro dei sentimenti del ragazzo. O, molto più facilmente, non gliene importava niente. «Prova a negarlo, allora» mormorò comunque, sicuro di non poter ricevere una risposta. Dal non era uno stupido, e lui se n’era accorto. A sprazzi, era persino in grado di dimostrarsi maturo come un uomo ben avvezzo al mondo che lo circonda.
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«È stata solo una sorta di… Scottatura momentanea.» riprese col solito tono «Una breve relazione che non sarebbe mai potuta decollare». Il giovane rimase fermo com’era, senza nemmeno azzardare di voltarsi verso l’elfo oscuro disteso a terra. «E saresti tu a dirlo?» domandò poi con poca sicurezza, abbassando un poco il capo. Kanyu fece spallucce con indifferenza. «Vedi qualcun altro, qui?» il sarcasmo nella sua voce era ben percepibile. Dal non dovette sforzarsi molto per rinunciare al suo piccolo sorriso. Alzò gli occhi al cielo, come a cercare di ripescare in esso i suoi ricordi. Sali… La ragazza a cui a stento riusciva a dare un vero volto e nella quale non ce la faceva più a vedere quel qualcosa che l’aveva unito a lei. Corridoi, corridoi e corridoi. Nient’altro che corridoi! Quel palazzo era un vero strazio. Fala Rhai avrebbe dato chissà cosa per aver schierati davanti a sé gli “abili” costruttori che l’avevano progettato. E soldati ovunque, anche a quell’ora; l’unica cosa che variava erano le loro uniformi, man mano che ci si avvicinava alla camera del sovrano. Veniva da chiedersi quanto fosse vasta la scala gerarchica della Legione di Armalak. Comunque, una cosa era certa: qualunque fosse il grado dei soldati, tutti si scansavano di lato con ossequioso rispetto al suo passaggio. Faceva piacere vedere che nonostante tutto essere la Maestra degli Incantatori portava a qualcosa di utile anche quando serviva. Solo l’ultimo trio di soldati, i cosiddetti Custodi della Discendenza, si permise di sbarrargli la strada. Alti, poderosi, protetti da superbe corazze dai riflessi scintillanti, coi fini mantelli il cui orlo rasentava il pavimento; nei loro gelidi occhi si poteva leggere la loro manifesta determinazione nel proteggere il tiranno da qualsiasi aggressore, esterno od interno che fosse. Se non si fosse trattato di tre fanatici fino al midollo, la donna avrebbe addirittura provato ammirazione per loro. «Non è consentito disturbare sua maestà a quest’ora.» intimò il primo dei tre, muovendo un passo incontro alla strega «Siete pregata di presentarvi al suo cospetto solo domattina, Fala Rhai Elgemon». La maga inarcò un sopracciglio nell’udire venire pronunciato il suo cognome, solitamente trascurato. «Porto notizie di suo figlio, il principe Lohidran.» controbatté con fermezza la donna, ergendosi col bastone in pugno dinnanzi alla guardia «Notizie urgenti». «Sua maestà è occupato» replicò il soldato, irremovibile. «Non per me» l’incantatrice fece una smorfia, mosse appena il bastone ed il Naigh-Moor divenne irremovibile solo per sé stesso. Senza alcuna luce, senza un solo rumore, l’elfo era ora paralizzato come se l’avessero imbalsamato e Fala Rhai l’aveva aggirato, dandogli il peso di 252
un’inanimata colonna. Prima che gli altri due si fossero anche solo accorti del sortilegio, la donna aveva già ripreso la parola. «Ah, riguardo a voi…» puntò con noncuranza il bastone prima verso l’uno e poi verso l’altro, bisbigliando una semplice frase in una delle infinite lingue di sua conoscenza. Si fissarono l’un l’altro con espressione perplessa, ma ebbero solo il tempo di concedersi un fugace sguardo, perché subito dopo le pietre della parete parvero essere di gomma e si protrassero verso di loro, schiacciando le loro schiene contro il muro con la forza dell’intera fortezza. La strega li osservò venire immobilizzati senza batter ciglio, impaziente di vedere la piena riuscita del proprio incantesimo. «Tra pochi minuti tornerete a muovervi.» borbottò al termine, poggiando la lunga mano sulla maniglia della porta che conduceva alla camera del sovrano «Ve l’avevo detto che si trattava di notizie urgenti». Nella stanza del tiranno, buio e silenzio si prendevano la loro rivincita sul diurno ed illuminato caos che aveva regnato fino a poche ore prima: candelabri assonnati e sconfitti godevano del loro lungo riposo come pietrificate, scarne mani; mobili ed appendiabiti vegliavano muti nella loro penombra; ritratti e statuette parevano rilassare le loro false membra lontane dagli occhi dei curiosi. Al centro di tutta quell’immobile apparenza, un magnifico letto a baldacchino lasciava indovinare chi fosse disteso al suo interno. Nere le lenzuola, scuri i pesanti tendaggi che si chiudevano accuratamente attorno al materasso, in legno squisitamente intagliato le eleganti sponde. Fala Rhai vi si avvicinò con palese insofferenza, scansando le leggere tende: Gadejli dormiva in totale innocenza ed al suo lieve ronfare si aggiungeva il respiro della giovane che giaceva con la testa sul suo petto, disperdendo i lunghi capelli di fiamma sul robusto corpo del compagno. Lenta e capziosa, la mano del sovrano aveva raggiunto il fianco di lei, trovandovi un comodo appoggio. Nuovamente, Fala Rhai se ne disinteressò completamente. Cos’avrebbe dovuto fare, ora? Svegliarlo con un’affettuosa scrollata? Non era decisamente il suo atteggiamento preferito. Alzò gli occhi al soffitto, impugnando il bastone con ambo le mani, e sorrise malignamente mentre recitava una delle sue formule magiche. Sì, quello sarebbe stato divertente. Un boato echeggiò per tutto il palazzo, facendo scattare in piedi come molle l’intera corte. Gadejli schizzò a sedere come un fulmine, scansando come un pupazzo la propria concubina, gli occhi che strabuzzavano fuori dalle orbite. Fala ebbe tutto il tempo per scoccare qualche occhiatina maliziosa al suo corpo così poderoso per essere quello di un elfo, prima che il tiranno riuscisse a fare il punto della situazione. Gadejli ruppe il silenzio soltanto quando riuscì ad identificare con certezza la donna che aveva di fronte. «Fala Rhai?» esclamò, assottigliando gli occhi. 253
«Reco notizie importanti.» rispose con sobrietà la maga «Importanti e riservate». Gadejli storse la bocca, facendo un cenno di congedo alla cortigiana al suo fianco, che ora osservava l’incantatrice con la paura dipinta sul bel viso; non esitò neppure un istante a togliere il disturbo, coprendosi come meglio poteva i floridi seni ed i fianchi con un’elegante veste abbandonata sul grande letto, la stessa con cui la giovane si era probabilmente presentata al tiranno. Non era ancora uscita che già un'altra figura si precipitava nella stanza del sovrano. Netork era chiaramente trafelato, almeno a giudicare dalla lunga spada che reggeva nella destra e dall’elegante camicia da notte che indossava. «Che velocità…» ironizzò intanto Fala Rhai, rivolgendogli uno sguardo denigratorio «Siete per caso amanti, voi due?». Ecco un altro vantaggio derivato dalla carica di Maestra degli Incantatori: pieno potere di deridere praticamente chiunque. Il luogotenente non sembrava però in vena di scherzare. «Cos’è stato quel rumore?» chiese con un ringhio, tenendo l’arma pronta a colpire, se necessario. «Oh, un intervento divino, suppongo.» la maga scrollò le spalle con aria serafica «Un tuono d’immensa potenza ha provvidenzialmente destato il nostro signore proprio quando mi stavo accingendo a svegliarlo io stessa». Netork fece una smorfia al pari del suo sovrano, rinunciando però a replicare: maghi… Sempre la stessa storia. Normalmente, non avrebbe dovuto far altro che affidare a qualcuno il compito di punire l’imprudente stregone che aveva osato recare tanto disturbo al tiranno, ma con Fala Rhai le cose erano diverse, lo sapevano entrambi. Farsi nemica la terribile maga equivaleva ad un mucchio di rogne, oltre a giocarsi, forse, la migliore incantatrice di Nog Tuluth. Gadejli preferì non dilungarsi troppo in quella storia e chiuse i tendaggi attorno al letto; nel silenzio della stanza, la strega ed il luogotenente lo sentirono indossare la sua lunga vestaglia in seta finissima. «Dunque, Fala Rhai,» disse, intanto che si alzava in piedi, incedendo verso l’elfa «dopo tanto baccano, spero che le tue notizie siano veramente importanti». «Abbastanza.» rispose sintetica la Naigh-Moor e Netork fu certo che traeva una certa soddisfazione da ciò che stava per dire «Vostro figlio Lohidran si è rifiutato di obbedire al vostro ordine di tornare ad Armalak ed ha fatto una piccola strage fra maghi e soldati». Entrambi gli ascoltatori sbarrarono gli occhi; fu poi il tiranno a riprendere la parola. «Ma… Perché?» balbettò «Dovrebbe essermi grato di venir sollevato da un compito così noioso… Anche se mi pare di avergli fatto intendere che sarebbe stato vitale per lui». 254
«Vitale in tutti i sensi.» ribatté Fala Rhai «Desidera acciuffare suo fratello a tutti i costi: ne ha ormai fatto una questione di orgoglio». Gadejli imprecò qualcosa nella sua lingua madre, dando le spalle ai due. «La sua determinazione è ammirevole.» aggiunse Netork «Questo è un grande pregio». «Al momento mi dà solo problemi.» tagliò corto il sovrano «Lohidran deve tornare qui al più e presto e sa benissimo perché, così come sa che non ha niente da guadagnare comportandosi da testa calda. Darò ordine di trascinarlo ad Armalak con la forza». «Temo che non sia possibile.» intervenne Fala Rhai «Vostro figlio è perfettamente in grado di difendersi e trovereste ben pochi soldati disposti a rischiare la vita per catturarlo». Gadejli si trovò a sbuffare ed a trattenersi da una seconda imprecazione. Feijin aveva nominato Lohidran come erede al trono di Thanisshar, ma questo se ne stava a chilometri di distanza alla ricerca di Dal Jin. Eppure non poteva negare una simile richiesta all’anziano sovrano della città gemella, nonostante non fosse difficile immaginare che il vecchio stesse in realtà tramando qualcosa. «Potremmo affidare il compito a qualcuno di esterno alla Legione.» propose, raccomodandosi sul bordo del letto «Mercenari, membri delle gilde di Vathalar…». «Io credo che non ci sia motivo di riportare qui Lohidran così frettolosamente.» Fala Rhai scoccò un’occhiata ai due elfi «Ci sono guerrieri molto più letali dei vostri sgherri. Guerrieri che non avrebbero difficoltà ad eliminare Dal Jin e che non oserebbero di certo tirarsi indietro di fronte al suo nuovo protettore». «Protettore?» Netork sembrava il più interessato. La strega prese fiato, evidentemente per il solo gusto di far durare più a lungo quella loro attesa. «Kanyu, l’Esule» pronunciò poi, scandendo attentamente le parole. Gadejli ed il suo luogotenente sobbalzarono in egual misura. «Cosa diavolo ci fa quello stramaledetto traditore assieme a mio figlio?» sbottò di colpo il tiranno, scattando in piedi. Mentre questi cominciava a camminare avanti e indietro per il nervosismo, Fala Rhai notò che per la prima volta Gadejli aveva chiamato Dal “figlio”: possibile che si fosse interessato, anzi, allarmato a quella notizia, quando lo aveva trattato come uno schiavo per ottantacinque anni e gli aveva dato la caccia così a lungo? Come poteva preoccuparsi per lui? Forse, mentre si dava ad improperi e bestemmie, provava stima per quel figlio che aveva dato prova di un grande talento e di un’ancor più sfacciata fortuna. «Prima alludevi a Cenerdred, non è così?» le domandò intanto Netork, facendo voltare anche lo stesso sovrano; Fala Rhai annuì col capo. 255
«Cenerdred “Spira del Nero” da Vlara? Il Signore degli untori?» nella voce di Gadejli si leggeva la sua contrarietà a quell’opzione. «Non c’è nessuno che odi Kanyu più di lui.» spiegò la strega, incrociando le braccia «E il Clan della Peste è tanto potente da poter facilmente passare al setaccio l’intera zona circostante a Vathalar ed alle Terre Piagate». «Non mi fido di lui, sebbene abbia combattuto al mio fianco più di una volta.» mormorò il sovrano, abbassando un poco il capo «È un vecchio fanatico». «Questo non fa altro che giocare a nostro favore, però.» interloquì Netork, appoggiandosi al muro «Non si tirerà indietro finché non avrà la testa di Kanyu ai suoi piedi». Gadejli sospirò, tornando a sedersi; tutto il suo viso tremava visibilmente dai dubbi. Cenerdred da Vlara… Vivere con Kanyu a Deym fu estremamente diverso da come si aspettava. Aveva immaginato giorni e giorni di allenamento sulle armi, su tecniche offensive e difensive, battaglie contro le creature che infestavano la foresta ed invece Dal non vide una lama per un tempo che gli parve interminabile. Durante la prima settimana, tutto ciò con cui aveva a che fare era l’ambiente circostante: ascoltare la sua voce, percepire i suoi movimenti, come se fosse un unico, enorme essere vivente. Kanyu spariva al mattino e tornava alla sera, magari portando qualcosa da mangiare. Quanto a Dal, l’arena non l’aveva certo preparato ad un compito così noioso. Tuttavia, obbedì senza lamentarsi agli ordini del suo nuovo mentore, nella speranza che questo servisse a cambiare un po’ le cose tra loro. Segretamente, voleva che Kanyu si comportasse come qualche sera prima, anziché restarsene in disparte per il poco tempo che passavano assieme. Freddo come un pezzo di ghiaccio, pareva persino esser privo di un’anima. Quando gli chiese di lasciare il suo posto per andare in ispezione con lui, fu come tornare a respirare. Ora passavano tutte le ore di luce lungo stretti sentieri ed impervie salite: nel giro di due giorni sentiva già la mancanza di quell’ozio forzato. «Perché dobbiamo fare queste sciocchezze?» chiese acido una volta. «Sopportazione.» rispose asciutto l’altro «Ti servirà a molto». «Ah, sì? Eppure sento che della sopportazione ho ormai raggiunto il limite». «Non puoi farci niente, così come in molti altri momenti del futuro che ti aspetta. Se poi non ti basta… Beh, hai imparato a prestare un po’ più di attenzione a ciò che ti sta attorno». Kanyu gli rispose con una tale atonalità che Dal rinunciò a replicare ed anzi si chiuse in un cocciuto silenzio, parlando solo se interrogato. Al terzo giorno, dovette ricredersi. Si addentrarono sempre più a fondo nell’immensa foresta e più di una volta avvertirono la presenza di estranei nei paraggi. Alcuni erano 256
animali, altri piccoli mostriciattoli dal muso rugoso ed allungato che il ragazzo riconobbe come Tegreschi, altri erano mastodontiche creature da cui Kanyu teneva Dal prudentemente lontano. Percepire i loro passi, il loro respiro, la loro presenza: di certo non era l’impresa più facile del mondo; destare attenzione in una di quelle creature significò più di una volta la mera fuga attraverso rovi e spazi aperti, piccole radure e fossati melmosi. Nemmeno le armi potevano essergli d’aiuto, dato che il suo compagno si occupava personalmente di appurarsi che Dal non portasse con sé neppure un inutile temperino. Ed era lo stesso Kanyu ad indicargli in che direzione scappare; con costanza impressionante, compariva nei momenti più disperati, magari gettandogli nuove indicazioni dai più alti rami delle secolari piante o al riparo nelle ombre di qualche spuntone di roccia. Sembrava quasi un gioco, un insensato gioco di sadismo, ma era una cosa che andava fatta, se voleva evitare la rabbia del suo mentore e lasciare quell’improvvisato campo d’addestramento. Deym sembrava possedere innumerevoli aspetti, dagli squallidi acquitrini alle distese di pietra millenaria, dalla foresta talmente fitta da oscurare la vista agli splendidi prati stracolmi di fiori variopinti. Il fatto che Kanyu sembrava tollerare a fatica gli ambienti più tranquilli e rigogliosi non impediva al giovane di cadere in uno stato di pura estasi anche quando solo intravedeva uno di quegli spettacoli. Al contrario, il fetore di paludi e canneti ed i loro ripugnanti abitanti, oltre alle innumerevoli zanzare che sembravano esistere solo per dare fastidio agli incauti viandanti, li rendeva dei luoghi ai suoi occhi per niente piacevoli. Se poi si aggiunge il fatto che ogni volta che li attraversavano Kanyu riesumava qualche aneddoto sugli untori che vivevano nelle paludi a nord di Deym e Vathalar, il loro aspetto peggiorava ancor di più. Dover ripensare al cammino che gli era stato messo dinnanzi era tutto fuorché piacevole. Untori… I misteriosi individui che gli stavano insegnando a odiare. Certo, a sentir Kanyu, personaggi del genere non avevano alcun motivo di stare al mondo, se non quello di affliggere gli innocenti col loro desiderio di morte e pestilenza. Si dicevano tramiti tra la realtà e gli abissi di Junk Stok ed alcuni di loro pareva avessero addirittura visitato i folli reami del Nero e degli altri Principi degli Inferi; sebbene Dal fosse sempre pronto a definire “chiacchiere adatte a vecchie comari” quei discorsi, Kanyu era piuttosto sensibile sull’argomento. E così, per l’ennesima volta, il ragazzo si costrinse al silenzio. Quello che ottenne col tempo fu la dispensa di occuparsi della caccia: rapidi e aggraziati animali come lepri e giovani ungulati. Tutti dotati di un olfatto ed un udito superiori al suo. Beh, era un modo per far pratica con quella piccola balestra che Kanyu teneva nello zaino, no? Dopotutto, gli aveva già rivelato che la serbava per lui. E invece no: cacciare con un coltello ed armi improvvisate. Ce ne volle del tempo perché riuscisse a catturare qualcosa, ma ogni volta che 257
falliva, il suo compagno si assentava per pochi minuti e tornava con qualcosa da mangiare tra le mani, che si trattasse di carne o di quelle strane bacche nerastre che crescevano ai piedi delle piante. Costruire rudimentali trappole fu decisamente un passo avanti, anche se ci volle ancora del tempo perché la sua abilità si affinasse a tal punto da fruttargli qualche preda. Fin troppe volte i suoi lacci giacquero a terra, sciolti o strappati dalla frenesia di chi vi restava impigliato. Proprio in quella situazione si trovava Dal in quel momento. I resti della liana che aveva usato come una corda lo fissavano con impietosa impassibilità, fermi come li aveva lasciati una creatura troppo imponente perché potesse rimanerci impigliata così a lungo. Accosciato davanti alla sua misera trappola, il giovane abbassò per un attimo il capo, prima di sbattere il pugno chiuso contro il terreno incolpevole. Kanyu non era presente, altrimenti - e Dal lo sapeva - gli avrebbe rimproverato anche quel semplice gesto, proprio lui che si lasciava infiammare dalla rabbia con estrema facilità. Pareva che volesse farlo divenire l’esatto opposto di sé stesso, contrariamente a quello che ci si può aspettare da un maestro. Perché? Voleva qualcuno con cui litigare? La sensatezza di quell’atteggiamento era più dubbia di quel che si potesse immaginare. Dal si alzò in piedi trattenendo un’imprecazione, il viso ancora rivolto verso la sua sfortunata trappola. Poi, come un improvviso spiraglio di luce in una stanza buia, una scia scura saettò a pochi metri davanti a lui. L’esule sobbalzò sbigottito, mentre un improvviso battere di piedi si diffuse tutt’attorno a lui. Riuscì solo a intravedere qualcosa di scuro e deforme pararglisi innanzi, prima che un sordo dolore alla nuca gli ottenebrasse la coscienza come un pesante drappo di violenza. Il ruvido sandalo del Naigh-Moor calpestò il suolo arido e morto delle Terre Piagate. Un alito di vento sembrò volergli accentuare il carisma, sfogliandogli sinistro la lunga tunica verdastra, il cui unico ostacolo era la sottile cintura da cui pendeva una spada di corte dimensioni, come una daga. Curioso come l’impugnatura fosse una semplice sterpe legnosa, indurita e contorta come un serpente di pietra. Uno scranno che un tempo doveva essere stato un poderoso albero attendeva paziente l’elfo oscuro, offrendogli i suoi rami spinosi come scheletrici braccioli. Le sue membra magre vi si adagiarono perfettamente, incastrandosi in quella posizione che doveva aver già preso un’infinità di volte. D’istinto, le lunghe dita si spostarono facilmente verso la pesante gemma nera che teneva al collo, ticchettando con le unghie affilate sul suo liscio specchio di pece. Il suo viso, segnato da un numero incredibile di snelle cicatrici e sgargianti tatuaggi prima che dagli inconfondibili segni dell’età, non tremava di alcuna emozione, completamente indifferente. Senza abbassarsi il grande cappuccio 258
che copriva i lunghi capelli bianchissimi, Cenerdred da Vlara socchiuse gli occhi chiari. “La pazienza è il primo fondamentale: solo tramite essa è possibile raggiungere i fini perseguiti senza alcuno sforzo”. La saggezza tratta dagli insegnamenti del Nero scorreva dentro di lui come il sangue nelle vene. Attese. Pochi minuti dopo, un Umano di corporazione robusta, anch’esso col viso dipinto di un verde acceso, si presentò rispettosamente al suo cospetto, eseguendo tutti i gesti richiesti per poter parlare col Signore degli untori. S’inginocchiò, sputò davanti a sé e raccolse quella stessa terra in un’abbondante manciata, lasciandola cadere sopra il suo capo rasato. Cenerdred storse appena la bocca in un sorriso reso orrendo dai tagli che coprivano persino la sua bocca. «Spira del Nero» esordì l’Umano, ancora senza alzare gli occhi. «Dal Gadejli da Armalak richiede il mio aiuto.» concluse per lui l’elfo «So già cosa vuoi annunciarmi». L’uomo aprì gli occhi, trattenendosi a stento dal sollevare la testa. «Padrone,» osò, conficcando le dita nel terreno per la visibile emozione «il Signore dei Veleni vi ha parlato?». Cenerdred allargò il proprio sorriso, adagiandosi poi ancor meglio sullo scranno. «Il Maestro del Contagio mi ha annunciato tutto questo poco fa.» rispose, tornando ad assumere un’espressione fredda e distante «Gadejli ha timore di suo figlio. Pensa che voglia strappargli il trono e la vita». «Egli… È preoccupato per un’antica profezia» precisò con incertezza l’altro. Il vecchio si fece ancora più torvo, passandosi lo zigomo con l’unghia dell’indice; ogni untore delle Terre Piagate sapeva che quel gesto significava che Cenerdred era irritato da qualcosa. «Una profezia di poco più di ottant’anni può sembrare antica per la tua razza, omuncolo, non certo per un elfo oscuro.» commentò acido, facendo una lunga pausa «È dunque giunto il momento che il Nero mi aveva ordinato di attendere». A quelle parole seguì un lungo silenzio, rotto solo dal respiro agitato dell’Umano. «Maestro…» balbettò, lottando contro la tentazione di ritrarsi e chiudere così quella conversazione «Io… Non credo di capire». L’elfo grigio sbatté una mano sul proprio, ossuto ginocchio, palesemente adirato. «A te non è dato di capire!» la sua voce avrebbe imposto il silenzio su tutti gli untori della regione «Se questa fosse la volontà del Nero, avrebbe parlato a te, non a me!».
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L’Umano affondò la testa nelle spalle, chiudendo gli occhi con quanta forza aveva nelle vigorose braccia; Cenerdred nel frattempo sembrava essersi sensibilmente calmato. «Sei troppo ottuso per aspirare a comprendere i disegni dei Principi degli Inferi.» mormorò tagliente quello «Ringrazia la nostra magnanimità per averti accolto fra di noi nonostante la tua insulsa intelligenza.» Cenerdred ricordava perfettamente che l’ingresso di quell’Umano nel Clan era dovuto ai suoi muscoli prima che al suo cervello, ma sapeva ancor meglio che nessun untore avrebbe mai potuto opporsi ai giudizi che lui, in qualità di maestro, era libero di emettere «Convoca qui il Figlio dello Scorpione. Adesso». L’uomo toccò il terreno con la fronte un’ultima volta, prima di voltarsi ed allontanarsi con suo sollievo dalla presenza del Signore degli untori. Cenerdred congiunse i grigi polpastrelli dinnanzi agli occhi: un’altra regola del Nero, era quella di non contestare mai le sue direttive. Quando la sua possente voce aveva rombato nelle orecchie del Naigh-Moor, Cenerdred si era sentito come un bambino. Ogni sua parola era come oro colato, sublime nettare per l’animo del vecchio. Ma quando gli era stato richiesto di coinvolgere il Figlio dello Scorpione, era stato tentato di strapparsi dal collo la gemma che gli permetteva di udire gli ordini del Nero. Proprio sotto sua direttiva aveva conferito quella carica, la più alta dopo la sua, al misterioso Loto, così chiamato per i sinistri fiori appassiti tatuati sul petto e sul viso, nonostante Cenerdred avrebbe fatto volentieri a meno di qualsiasi assistente. Le leggi di Junk Stok non disapprovavano affatto chi raggiungeva il potere tramite la violenza e la prepotenza. E Loto, con quella nomina, avrebbe potuto aspirare alla sua posizione. Anche se era soltanto un pazzo pericolosamente violento: pazzo e violento anche per i canoni degli untori stessi. Costantemente instabile, a tratti freddo a tratti isterico, talvolta preda di convulsioni, feroce con i suoi stessi fratelli. La sua comparsa strappò il vecchio alle sue riflessioni, costringendolo a portare la sua attenzione su quel giovane che s’inchinava ai suoi piedi, ripetendo anch’egli i soliti movimenti. «Avete chiesto di me, Padrone» sussurrò con una sicurezza particolarmente irritante per Cenerdred. Loto non parlava quasi mai, limitandosi ad esprimersi attraverso sussurri e bisbigli, sempre con quell’arrogante sorrisetto convinto sulla bocca. I due Naigh-Moor si guardarono per qualche secondo, le iridi azzurre e ferme di Cenerdred e quelle rosate e scattanti del pazzo, prima che il vecchio sospirasse, evidentemente seccato. «L’ho fatto, Loto.» ribatté, poggiando le mani sui braccioli «Il tiranno di Armalak ha chiesto il nostro aiuto per catturare suo figlio». 260
«I problemi familiari di Gadejli da Armalak non ci riguardano, Padrone» il Figlio dello Scorpione sembrava divertito dalla cosa. «Ci riguardano, invece.» Cenerdred rimaneva seduto, come a voler considerare la sua predominanza sul giovane untore «Lo stesso Signore dei Veleni lo richiede». «Egli vi ha parlato?» dallo sguardo di Loto si sarebbe detto che era a conoscenza d’ogni dettaglio. «Il Nero mi aveva avvertito ottantasei anni fa di ciò che sarebbe dovuto succedere: ora attende che io adempia al mio compito». «Ovvero?». «Dal Jin da Armalak, il secondogenito di Gadejli, ha scelto di fuggire dalla città nera e di diventare un esule in base alla falsità di un’illusoria profezia. È sfuggito ai soldati di suo padre ed ora ha trovato aiuto da parte di Kanyu stesso, il Maledetto». Il sorriso sul viso di Loto si allargò ancor di più. «L’Esule marcerà contro di noi assieme a quel ragazzino ed io lo schiaccerò.» soggiunse eccitato «Perché è questo che accadrà, non è vero?». «È probabile. Il fatto che Kanyu abbia osato avvicinarsi così tanto alle Terre Piagate potrebbe significare che intenda attaccarci. Per quanto mi riguarda, Kanyu deve essere catturato e giustiziato al più presto». «Il vostro orgoglio è grande, maestro» Loto ridacchiò appena. «Il mio orgoglio è quello del Signore degli untori, i massimi adepti del sommo Junk Stok» ringhiò Cenerdred, stringendo le mani sui lignei braccioli. «E così deve essere.» il Figlio dello Scorpione si coprì nuovamente il capo con la polvere del suolo «E la profezia?». Il vecchio Naigh-Moor esitò un istante, restio com’era a trascinare quell’elfo nel suo progetto, quindi aprì la piccola borsa che teneva di fianco ad una grossa sacca che pareva muoversi di vita propria. Quel che ne estrasse fu una pergamena ingiallita che non doveva essere stata visionata molto spesso. «Queste parole alludono a Dal Jin come ad un traditore che rovescerà il regno di Armalak.» Cenerdred guardò la pergamena con un disinteresse che riuscì persino a smorzare per un secondo l’eterno sorriso di Loto «È solo un falso». «Cosa vi dà questa sicurezza, se posso chiederlo?» il giovane aveva di nuovo la sua espressione. Altri secondi di silenzio. «Sono stato io a scriverla.» spiegò alla fine Cenerdred, osservando la sua stessa calligrafia «Quando Zadra da Thanisshar aveva appena cominciato la gravidanza di Dal Jin». «Sotto richiesta del Nero?». Il vecchio annuì, arrotolando nuovamente il foglio di carta spessa e ingiallita. 261
«Ancora oggi non so perché mi diede quest’ordine, così come non so perché mi abbia detto di rivelarti tutto questo, Figlio dello Scorpione». «Questo è un immenso onore per me» disse, eppure la sua folle tranquillità pareva significare tutto il contrario. «Bada a te, Loto, perché la volontà del Maestro del Contagio è incontestabile. Egli ci ha ordinato di condurre qui Kanyu ed il suo protetto al più presto ed è nostro dovere non fallire» Cenerdred pronunciò quelle parole con austerità, intanto che riponeva al suo posto la pergamena. «Non temete, Maestro.» Loto sorrise ancor di più «Mi occuperò personalmente dei due traditori». Cenerdred trasse un profondo respiro, incrociando al petto le scarne braccia. «Dal Jin deve essere condotto qui vivo.» aggiunse «Questa è la volontà del nostro Signore». «E ad essa mi atterrò» promise Loto, chiudendo gli occhi. Cenerdred abbozzò a sua volta un sorriso, sollevando una mano verso il giovane. «Ora vattene, Figlio dello Scorpione. Mi occuperò io di dare disposizioni». Dopo un ultimo inchino, Loto riaprì gli occhi, sollevandosi in piedi nella sua lunga tunica. Cenerdred si sollevò dal suo scranno solo molte ore dopo.
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XXVII. Inesperienza
I
l cielo era di un grigio spento, cupo nei brontolii che faceva udire di tanto in tanto, ad avvisaglia di un prossimo temporale. Deym pareva spenta come un cimitero d’inverno; gli alberi agitavano al fresco vento le loro fronde appesantite, spargendo migliaia di foglie sulla terra già umida. Nell’afoso clima d’estate ormai al suo culmine, una giornata di pioggia era indubbiamente piacevole, ma l’unico pensiero che il Naigh-Moor formulava riguardo ad esso era che avrebbe cancellato le tracce molto più in fretta. Percorse attentamente quei rami così fitti da formare piccoli ponti da una pianta all’altra, quasi fossero cresciuti appositamente per quello scopo. Quel rumore improvviso che aveva udito era di umanoidi in corsa, non poteva essersi ingannato. Ma com’era possibile che fossero comparsi così all’improvviso, senza che un solo passo l’avesse annunciato? Poi, una sorta di grugnito: Orchi? I primi Orchi silenziosi, se non altro. Si mosse con ancor maggiore cautela, mentre come una tigre si faceva sempre più vicino. Respiri. Molti respiri. Ancora qualche passo. Dal giaceva a terra, ora poteva distinguerlo chiaramente, nonostante fosse accerchiato da una buona dozzina di grossi scimmioni dal ventre rigonfio: eccitati e impazienti, volgevano i loro tondi occhi verso una creatura che avanzava eretta tra le loro fila. Il folto pelo bruno dell’essere gli ricopriva gran parte del corpo, fatta eccezione per i flaccidi fianchi ed il pallido petto. Un lungo perizoma gli ricadeva sul davanti sino alle ginocchia, celandogli le rachitiche gambe come la sozza mantellina di maltenuta pelliccia, strappata brutalmente da qualche animale particolarmente sfortunato, faceva con le curve spalle. La sua evidente superiorità rispetto agli altri suoi simili era ben marcata nella vecchia e spropositatamente alta maschera bronzea che rendeva un’incognita il suo muso quadro. Le larghe labbra erano l’unica cosa che si potevano veder muoversi assieme a quelle braccia di smisurata lunghezza. La maschera tremolava piano ad ogni verso incomprensibile, chiaramente instabile sulla superficie piatta del muso di quell’essere. Kanyu sollevò il cappuccio sul capo e slacciò lentamente la balestra che gli pendeva dalla cintura, intanto che ripescava nella memoria l’identità di quelle creature: Yurumga, i cosiddetti uomini-scimmia. Creature tribali e primitive, capaci di spostarsi fra le piante con l’agilità di un primate e di costruire veri e propri villaggi con le loro dita abili e sottili. C’era chi li considerava una razza imparentata con gli Umani, sebbene questi avessero sostituito la forza e l’istinto con una superba ragione, tale da illuderli di aver conquistato la supremazia sul mondo intero. Gli arti scuri degli Yurumga dondolavano ora attorno all’esanime ragazzo, come quelli 263
di una marionetta. Senza sapere di offrire la propria nuca ai probabili dardi dell’Esule, un uomo-scimmia senza un particolare peso protese le sue mani allungate verso la testa di Dal. Questione di attimi: una sola mossa sbagliata e si sarebbe trovato con un buco in più, dietro al collo. E Kanyu si sarebbe gettato da solo contro tutte quelle bestie. Possibile? L’avrebbe fatto, non esitò un istante su quella decisione. Ma non si aspettava certo che lo Yurumga non facesse altro che sottrarre attentamente il diadema dorato dalla fronte del Naigh-Moor privo di sensi. A momenti se ne spiacque, dopo essersi tanto preoccupato. Vide l’uomoscimmia porgere onorevolmente l’oggetto a quella specie di sciamano mascherato, che subito prese a rigirarlo tra le dita ossute. Lo esaminò, ne stimò il peso sul palmo, provò invano a tradurne le iscrizioni, lo sottopose a tutte le sue analisi sotto agli sguardi poco intelligenti e alle brutte bocche dischiuse dei suoi compagni. Lo alzò poi sopra la sua testa, grugnendo qualcosa ad alta voce. Ci vollero pochi istanti perché lo sciamano si girasse sugli arti inferiori e si allontanasse, seguito dagli Yurumga che tenevano il corpo di Dal in alto sulle loro teste. Kanyu dovette mantenere una certa distanza per poterli pedinare senza suscitare allarme nell’olfatto che sapeva essere decisamente sviluppato in loro, ma al contempo dovette star dietro al rapido passo degli uomini-scimmia. Nulla di eccessivo per un assassino veterano della Grande Guerra, ma non la più semplice delle mansioni, se vi si sommava la posta in palio. Correvano ad ampi e calibrati zompi, con le braccia del ragazzo che ciondolavano come impiccati. Quasi si sarebbe potuto scambiare quegli esseri per gli gnomi di una favola. Ma erano reali, pericolosamente reali, e certo gli Yurumga non avrebbero condotto Dal da una principessa vestita di rose. Scavalcavano con naturalezza gli ostacoli che si presentavano dinnanzi, trattando tronchi caduti e ricoperti dai rampicanti come terreno aperto, balzando da massicce rocce sui rami più bassi e robusti, abbassandosi sotto le fronde che per poco non toccavano terra. Era comunque strano che Dal fosse stato solo stordito, senza che gli Yurumga si fossero curati anche solo di privarlo della grossa scimitarra ben fissata sulla schiena del ragazzo. Un guerriero inesperto avrebbe potuto credere che quelle bestie non avessero abbastanza cervello per un ragionamento del genere, ma se c’era qualcosa che aveva permesso agli uomini-scimmia di non estinguersi era proprio quella capacità così sviluppata di tutelare la loro sicurezza. Era semplicemente assurdo pensare che non si fossero accorti di una simile arma. Ma allora per quale motivo lo stavano portando con sé? Di colpo, gli balenò nella mente il terrore che gli Yurumga si garantissero la sopravvivenza nutrendo una creatura molto più grossa ed aggressiva. In quella foresta avrebbe potuto celarsi ogni mostruosità con un’intelligenza tale da permettere la concezione di schiavismo e sfruttamento di razze più deboli. Viverne, giganti, persino draghi di piccola taglia. Il rischio c’era, e Kanyu lo sapeva. Anche se il suo viso era 264
freddo e distaccato, lo sapeva. Con fare ormai abituale, tratteneva dentro di sé tutti quei timori, quei sentimenti, lasciando emergere soltanto un odio insofferente verso il Nemico, qualunque esso fosse. Ora il Nemico erano gli uomini-scimmia, ora erano loro a dover morire. Uno dopo l’altro. Sarebbe balzato a terra ed avrebbe dato loro quel che meritavano. Le loro membra immonde sarebbero ricadute a terra fra le urla stravolte di quelle bestie, imbevendo l’erba di un’estasiante rossore. Sbarrò gli occhi quando ormai teneva le spade tra le mani; gli Yurumga si erano intanto portati ancora più lontano, inconsapevoli del mare d’istintiva rabbia che stava allagando il cuore del Naigh-Moor. Scosse la testa furioso, saltando freneticamente da un albero all’altro. Si sarebbe detto che levitasse, che non avesse il già agile corpo di un elfo, ma di un tetro angelo dalle ali fantasma, capace di spiccare il volo ed atterrare senza un rumore. Fuggire, non inseguire. Fuggire perché doveva farlo, rifiutare i tributi di morte che gli imponeva il suo stesso sangue. Non era un elfo oscuro, aveva scelto di non essere più niente. Eppure l’odio ora lo richiamava a sé come un cagnolino, lo faceva lottare disperatamente. «Ecco cosa non farà mai il tuo coraggio!» sentiva urlarsi dentro da una voce incorporea, stridula «Ecco tutta la tua “esperienza”: la tua slealtà, il tuo tradimento!». Chiuse i pugni con tutta la sua forza, facendo gemere i sottili guanti come se provassero un vero dolore, gli occhi scavati dentro il bel viso marmoreo. Fuggire. Come se si potesse fuggire dai rimorsi, fuggire dal passato. Mentre tutto tornava gradualmente alla normalità, mentre il viso di Kanyu si distendeva pian piano, li sentì ancora parlare, un’ultima volta, dentro sé. «Io sarò sempre il tuo spettro» mormorò la sua consapevolezza, ormai solo con un filo di voce, repressa stoicamente dal presente. Soffocò un sospiro, riabbassando lo sguardo sugli Yurumga: correvano ancora, mentre le foglie cominciavano a tamburellare mestamente sotto la pioggia leggera. L’Esule badò a fare più attenzione, a evitare di cadere da quell’altezza, cosa che, se anche miracolosamente non gli avesse causato danni fisici, lo avrebbe fatto notare dagli uomini-scimmia. Gli alti stivali suonavano sulla legna umida, i guanti si bagnavano così tanto da risultare inutili dopo pochi minuti. Si calò a terra, tallonando senza sosta quelle infaticabili creature, col fiato che non chiedeva altro che di uscire dalla sua bocca come da uno stantuffo. E lo fece quando gli Yurumga si decisero a rallentare l’andatura. Le basse capanne del loro villaggio già grondavano acqua dai rozzi tetti di pelle, sterco o fitto fogliame, occultando decine di uomini-scimmia al loro interno. L’entrata nel villaggio della strana compagnia e del loro ancora più interessante carico destò fulmineamente tutti gli altri abitanti. Altri guerrieri, femmine dalle 265
mammelle gonfie e cadenti, vecchi dal pelame ingrigito dagli anni e cuccioli di pochi mesi uscirono strillando dai loro ripari, accalcandosi attorno ai portatori di Dal. Più d’uno, spinto da un’insana curiosità, si scagliò contro il gruppetto solo per venire bruscamente spinto indietro dai guerrieri che facevano scudo dello sciamano e del suo seguito. Tutta la folla si diresse confusamente verso il centro del villaggio in una per niente controllata euforia, coi quattro portatori rimasti che dovevano farsi largo con brutali spintoni e minacce fra gli esaltati Yurumga. L’ancora inconsapevole Dal fu disteso con cura di fronte al pittoresco sciamano fra gli schiamazzi che andavano lentamente svanendo. Kanyu lo teneva come sempre sott’occhio, nuovamente armato nel caso che le cose fossero precipitate. L’idea del sacrificio in dono a qualche improbabile divinità o ad un molto più realistico mostro capace di sottomettere gli Yurumga pulsava ora come non mai. Tuttavia, la situazione pareva essersi drammaticamente inasprita. Prima aveva una dozzina di avversari, ora un intero villaggio: agire prima sarebbe indubbiamente stato ritenuto più saggio. Un comportamento estremamente ardito, ma più saggio. Raggiungere quella consapevolezza non gli fu di alcun aiuto: non poteva tornare indietro. Non c’era una seconda opportunità. Attaccare adesso, con le probabilità di riuscita praticamente nulle non era neppure un’ipotesi da prendere in considerazione. Avrebbe dovuto attendere, che gli piacesse o meno. Sentì il dito indice gridare il bisogno di premere quel così debole grilletto, cancellare i dubbi con l’impulso. Nel frattempo, finalmente soddisfatto della calma in cui era versata la tribù, lo sciamano si era deciso a motivare tutta quell’attesa, mostrando il diadema dorato sopra la sua testa. Ci fu qualche secondo di assorto silenzio, quindi quei pochi che erano riusciti a capire cosa fosse quello strano oggetto esultarono con tutta la voce che avevano in corpo, travolgendo con la loro euforia il resto del villaggio. Tutto esplose in una stordente baraonda. Lo sciamano, completamente su di giri, spiegava a grugniti le motivazioni che l’avevano spinto a prelevare il diadema dalla fronte del Naigh-Moor, balzando a destra e a sinistra come un teatrante comico. Kanyu era semplicemente disgustato e seguiva con occhi torvi il grottesco esprimersi dello Yurumga; un dardo in pieno petto non gli pareva più un’ipotesi tanto deplorevole, di fronte a quello spettacolo. Poi, senza preavviso alcuno, lo sciamano si congedò dal resto del villaggio, portando con sé il cerchio dorato. In tutto quel marasma, Dal fu trascinato per le braccia sino ad una bassa gabbia ricavata da lunghi bastoni intrecciati tra loro: era piuttosto evidente che non doveva esser stata costruita per quello scopo. Forse un recinto per la piccola selvaggina o per tenervi il cibo raccolto. Sta di fatto che ora era vuoto ed era il miglior luogo dove tenere in custodia lo sfortunato elfo oscuro. Kanyu sembrò rinfrancarsi al pensiero che avrebbe molto probabilmente avuto tempo a 266
sufficienza per elaborare un piano per tirarlo fuori di lì. Facendo perno sull’ingenuità di quelle rozze creature, sarebbe stato ancora più facile. Un pugno di uomini-scimmia armati di bastoni appuntiti e clave presidiavano la gabbia, ringhiando feroci verso quanti si avvicinavano troppo al prigioniero. L’interesse per Dal divenne una forzata indifferenza nel giro di un’oretta. Nessuna bestia mostruosa si era fatta viva per reclamare il suo pasto e nemmeno uno Yurumga aveva osato alzare una mano verso il ragazzo. Kanyu intanto seguiva i gesti abituali di quei bizzarri esseri: mangiare, dormire, litigare tra loro e recarsi ad intervalli regolari al cospetto di una pila di pietre, come a venerarla. Sembrava assurdo pensare che qualcuno potesse considerare una divinità quella specie di ridicolo totem, ma da un popolo primitivo come quello ci si poteva aspettare ben altro. Qualunque cosa rappresentasse, la pila era tenuta in grande stima dagli Yurumga e gli sguardi che le sentinelle lanciavano prima all’elfo grigio e poi a quella catasta non lasciavano presagire nulla di buono. Rubargli il diadema senza togliergli le armi, relegarlo in quella sorta di gabbia e poi sacrificarlo ad un cumulo di sassi? Molte volte il comportamento di un essere arretrato risultava più imprevedibile di quello di una razza evoluta. Kanyu attorcigliò le gambe attorno al suo grosso ramo, appoggiando le spalle al tronco dell’albero. Alzò gli occhi al cielo, verso quelle nubi che avevano deciso di concedersi una sosta dopo la piccola pioggia che era caduta sino a pochi minuti prima. Pazientare. Quando Dal riaprì gli occhi, quel che vide non gli piacque per nulla. Scimmie pelose armate di lance primitive lo guardavano con astio, grugnendo con accento ben poco amichevole e, per quanto cercasse di muoversi, una rudimentale gabbia di un’opprimente bassezza gli impediva persino di sedersi. Oltre a questo, la testa gli doleva sino a rendergli impossibile concentrarsi su quel che gli stava accadendo. Sembrava in tutto e per tutto un brutto sogno, se non fosse per il fatto che c’erano un po’ troppi particolari per esserlo. Eppure, la testa era persino più leggera, nonostante rimbombasse come un tamburo. Quelle bestie gli avevano fatto ingoiare una qualche bevanda drogata? Mosse piano le dita sino alla fronte ed il contatto immediato con la pelle bagnata lo fece sobbalzare non tanto per la sua umidità ma per la mancanza di un oggetto metallico che era ormai abituato a portare. Il diadema di Shadyla! Dov’era finito? L’aveva perduto? Senza neanche rendersene conto, si stava preoccupando più di quello che della sua stessa salvezza. Rubato da quegli animali pelosi? Si sporse più che poteva verso una delle guardie, rischiando di essere colpito dalla bastonata che l’altro gli aveva sferrato contro. Si guardò attorno con aria spaesata, ritraendosi fulmineamente ed avvicinandosi ad un altro Yurumga, ottenendo nuovamente il medesimo risultato. Serrò le mani con 267
sgomento, lo sguardo sconvolto, i capelli appesantiti che gli ricadevano sul viso, ormai abbastanza lunghi da coprirgli gli occhi. Mosse disperatamente le mani attorno alla fronte, disegnandovi con le dita la forma del diadema senza ottenere alcun risultato dai selvaggi uomini-scimmia. Dal strinse gli occhi, graffiandosi le guance con le mani convulse. Perduto, era perduto. Lui e il diadema della madre. E Kanyu? Catturato o ucciso anche lui? Si aspettava da un momento all’altro di trovarsi accanto il cadavere, di vedere la sua testa reclinarsi senza vita verso di lui, di fissare le sue orbite bianche e rivoltate, le sue vesti lordate dal sangue e dal fango. E le mani di quei mostri, le loro lunghe dita che armeggiavano coi legacci della gabbia, sentire il freddo contatto delle armi sulla sua carne. Senza poter far niente. Fu così che si rese conto di non essere affatto impotente. La grossa scimitarra restava allacciata alla sua schiena, ancora nel fodero! Poteva liberarsi! E come? Sfoderando un’arma grande quasi quanto lui in una gabbia di quelle dimensioni, sotto gli occhi guardinghi dei suoi carcerieri? Di nuovo la sua energia si prosciugò. Accolse quasi con piacere l’acquazzone che si preparava a scoppiare. Forse un fulmine l’avrebbe colpito, avrebbe terminato quell’orrore. La pioggia cadde con forza ed intensità sempre maggiore, schiacciando sotto la sua violenza l’elfo e gli Yurumga attorno a lui. Cosa che non fu gradita agli uomini-scimmia. Non erano trascorsi pochi minuti che le sentinelle erano rimaste solo due, mentre i più furbi si erano velocemente riparati nelle loro capanne, maledicendo nel loro linguaggio lo straniero, lo sciamano ed un temporale che si scatenava in piena estate. Dal ritrovò pian piano la speranza. Forse, i due rimasti erano abbastanza stupidi da lasciarlo incustodito o uno se ne sarebbe andato come avevano fatto i suoi compagni, fidandosi dell’unico guardiano rimasto, ma le sentinelle rimasero dov’erano, ligie agli ordini dello sciamano. Il Naigh-Moor soffocò un’imprecazione, sbattendo un pugno sulla fanghiglia sotto di lui. Un istante dopo, un paio di piedi neri si schiantarono sulla gabbia, evitando miracolosamente di fracassarla con lui sotto. Con occhi sbarrati, osservò dal basso un paio di lame che schizzavano via con la rapidità di un fulmine, impattando nello stesso istante contro i musi sbalorditi dei due Yurumga. Rivoli di sangue gocciolarono sul suolo umido prim’ancora dei corpi flaccidi degli uomini-scimmia. Un attimo dopo, una scimitarra d’aspetto familiare si abbatté sui legni che costituivano il soffitto della piccola prigione, facendone volare i frammenti in ogni direzione. «Ragazzino inesperto.» furono le prime parole che udì «Ti sei fatto prendere come un pollo». Dal afferrò senza rispondere la mano protesa verso di lui, provando il piacere di essere nuovamente in piedi ed in compagnia di un mentore che non riusciva ancora ad odiare. 268
«Ne riparliamo una volta lontani da qui, mh?» mormorò, aggiustandosi i vestiti impiastricciati «Anche se una spiegazione non credo mi farebbe male». Kanyu parve stizzirsi ulteriormente a quella domanda. «Ti sei fatto catturare da un branco di Yurumga che volevano sacrificarti ad un cumulo di sassi.» rispose brevemente «Fine della spiegazione». «Che cosa?» esclamò Dal sbarrando gli occhi, ma subito l’altro gli strattonò rudemente il braccio, invitandolo a correre senza troppe storie. Sotto i tuoni e i fulmini di un temporale che andava sempre più prendendo forza, i due elfi si allontanarono dal villaggio degli Yurumga senza fiatare oltre, il primo che teneva ben stretto il braccio del secondo. D’un tratto, però, il ragazzo si fermò con una tale violenza da arrestare persino la corsa dell’altro. Kanyu si voltò con aria sorpresa di fronte a quell’improvviso guizzo di energia. Si era trascinato dietro un elfo o un Orco? Dal era fermo come una statua dietro a lui, lo sguardo rivolto all’indietro. «Il diadema…» sussurrò alla fine, voltandosi verso il compagno. Per una volta, fu Kanyu a restare senza parole. «Devo tornare a prenderlo» concluse immediatamente il ragazzo, già pronto a tornare indietro. «Sei pazzo?» l’Esule lo trattenne, di nuovo padrone della sua forza erculea «Vuoi infiltrarti in un villaggio di Yurumga per cercare un ricordino di famiglia?». «Non posso lasciarlo là! È troppo importante!» si oppose Dal con tono lamentoso. «Ed io non posso lasciare te là! A quest’ora si saranno accorti delle due sentinelle! Sono troppi anche per me!». «Posso combattere! Io sono ancora il Signore delle Arene!». «Nessun Signore delle Arene uscirebbe vivo da una trappola simile!» ora la voce di Kanyu superava persino il rombare dei tuoni. Fu questione di pochi attimi. Senza altre parole, Dal si divincolò dalla stretta del compagno con un ringhio che rifletté perfettamente nei suoi occhi infiammati, correndo con velocità fulminea in direzione opposta. Kanyu si diede all’inseguimento senza attendere, ma ebbe modo di capire quanta velocità potessero scatenare le magre gambe di quel ragazzino, specialmente se in quello stato. Ma nemmeno Dal si aspettava che Kanyu avesse abbastanza caparbietà da non sentire nemmeno la stanchezza, balzando come una lucertola su rami e tronchi caduti tanto da guadagnare terreno ogni volta che si presentava un ostacolo. Quando mancavano solo pochi metri all’entrata del villaggio degli Yurumga, il ragazzo sentì il peso dell’altro schiacciarlo e farlo finire a terra, dove slittò ancora quel che bastava per graffiargli quasi tutto il corpo. Provò a dibattersi, ma stavolta dovette arrendersi allo straordinario vigore di un elfo che 269
si sarebbe detto essere capace di trasformarsi in quello che preferiva. Si stava già preparando a ricevere un colpo o una predica, ma Kanyu restava immobile sopra di lui, lo sguardo serio rivolto altrove, verso la tribù Yurumga. «C’è silenzio.» mormorò, alzandosi in piedi: ora il cappuccio era caduto sulle sue spalle come uno straccio ed i capelli dell’elfo oscuro grondavano acqua, disponendosi automaticamente sul petto e sulla schiena. «E… Quindi?» balbettò Dal, sbigottito da quella reazione. «Quindi non devono essersi ancora accorti di nulla. Proveremo a recuperare il tuo diadema». Il ragazzo non sapeva se ringraziarlo o lamentarsi per quell’improvviso cambiamento d’idea, ma se c’era una cosa che aveva imparato è che non sempre c’è tempo per dubitare. Si alzarono ed insieme percorsero gli ultimi metri che li separavano dal villaggio, appiattendosi contro gli alberi quando fu ormai davanti a loro; Kanyu lo esaminava con gli occhi di un falco, cercando evidentemente qualcosa che aveva già visto ore prima. «Quella.» bisbigliò finalmente, indicando una tenda che sarebbe potuta sembrare maestosa solo in un contesto del genere «Ho visto lo sciamano che ti ha preso il diadema entrare lì dentro». Dal impiegò pochi secondi per fare la sua scelta. Anticipò l’altro senza una sola parola, scattando verso la capanna più vicina ed appoggiandosi di fianco ad essa. Doveva fare attenzione a non passare mai davanti all’entrata di uno di quei tuguri, se non voleva che i padroni di casa si accorgessero di lui e dessero l’allarme. Kanyu lo seguì con molta più cautela, sollevando nuovamente il cappuccio sulla testa e coprendosi il viso con la piccola mascherina che teneva attorno al collo. Dal scivolava da una parete all’altra, avvicinandosi sempre più alla tenda dello sciamano. Di tanto in tanto, si fermava, tratteneva il fiato e valutava se i suoi passi ed il suo respiro lo avevano tradito, quindi ripartiva verso la sua meta. Non ci volle molto perché arrivasse al suo obiettivo. Mentre Kanyu gli si faceva prudentemente accanto, sfoderò piano la grossa scimitarra, inspirò a fondo ed entrò nella tenda. Il fetore che vi si respirava era a malapena sopportabile, quasi vi stessero marcendo decine di carogne. Lo Yurumga dormiva sul fianco, le braccia abbandonate sulla terra che gli faceva da letto. Dal lo guardò con compassione: non lo odiava, non riusciva a odiarlo. Era una creatura arretrata e disgustosa, ma non per questo meritava la morte: già si era dimenticato che quell’innocente Yurumga aveva deciso di sacrificarlo ad un mucchio di sassi e che si era salvato solo perché Kanyu era intervenuto. Si guardò attorno con espressione vacua, individuando ciò che cercava nella spoglia miseria di quella capanna. Il diadema capeggiava su un mucchio di pietre in bilico, probabilmente per qualche significato che solo la religione Yurumga avrebbe 270
potuto svelargli. Si volse indietro un’ultima volta, notando la sagoma si Kanyu che lo attendeva fuori dalla tenda, facendo attenzione che non sopraggiungesse nessuno. Protese le mani verso il diadema, la lingua che spuntava dalle labbra per la concentrazione. Lo raccolse con i polpastrelli, portandolo al proprio petto con un sospiro di sollievo. Un attimo dopo, uno strillo furibondo si levò al cielo. Lo sciamano era in piedi e ruggiva senza tregua: Kanyu piombò all’interno senza perdere tempo. Dal sollevò la spada allarmato, preparandosi a colpire lo Yurumga. Ucciderlo prima che arrivino tutti? Stordirlo? Scappare, lasciandolo lì? Qualsiasi elfo oscuro se ne sarebbe sbarazzato in un attimo. Perché lui stava esitando? La risposta arrivò assieme al pomo di Alihamara, la scimitarra che Kanyu aveva utilizzato per spaventare i Teke settimane prima, che andò a sbattere contro la tempia dell’uomo-scimmia. «La stessa storia.» dichiarò sarcasticamente l’Esule, afferrando ancora Dal per un braccio «La tipica compassione che si prova quando si deve colpire qualcuno che non si odia: complimenti, sei tanto Naigh-Moor quanto un Elfo missionario». Il ragazzo non ebbe nemmeno modo di replicare: corsero fuori senza voltarsi indietro, con i grugniti degli Yurumga che si moltiplicavano. Appena furono oltre i confini del villaggio, cominciarono a udire il rumore delle quattro mani di quelle creature che battevano sul suolo bagnato, così numerose da essere percepibili nonostante il temporale. Arrabbiati come tori appena marchiati, urlavano come ossessi e saltavano fra gli alberi con la loro straordinaria agilità. Non ci sarebbe voluto un esperto per capire che la fuga dei due elfi oscuri sarebbe durata ancora poco. «Guadagnano terreno!» sbottò Dal, voltandosi indietro «Presto ci saranno addosso!». Kanyu non rispose, ringhiando come una tigre ferita. Combatterli tutti quanti era l’ultima cosa che voleva, ma che altro poteva fare? Dal, invece, temeva di rivivere la stessa esperienza di alcuni mesi prima, quando aveva attraversato quel piccolo deserto assieme a Marcus: avrebbe dovuto sacrificare anche Kanyu? La risposta arrivò nello stesso istante in cui si poneva la domanda. «Li combatteremo!» ringhiò l’Esule, fermandosi di colpo e voltandosi indietro. Il viso di Kanyu mostrava tutta la sua foga, ma a cosa sarebbe servita contro decine di Yurumga inferociti? «Ora sei tu il pazzo!» obiettò Dal, trovando la forza di strattonarlo a sua volta «Non possiamo farcela da soli!». Kanyu sollevò di scatto un braccio verso il ragazzo, pronto ad afferrarlo per il collo e gettarlo comunque nella mischia, quando un lampo di genio si dipinse sul suo viso.
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«Non da soli» sussurrò, senza nascondere il perfido sorriso che gli era comparso sulle labbra. Un istante dopo, riprese a correre, spingendo innanzi a sé il ragazzo. «Corri!» ingiunse, liberando una spalla dallo zaino per poterlo poi poggiare a terra «Stai per costarmi almeno altre diecimila monete!». Frugò come un fulmine in fondo allo zaino, estraendo una statuetta d’ebano raffigurante una strana creatura alata. In un attimo, si rimise in spalla lo zaino, raggiungendo in poche falcate il giovane compagno. Quando gli fu accanto, soffiò un paio di volte sulla statuetta, lanciandola poi dietro di sé senza più curarsi di essa. «Mettiti al riparo, se vuoi goderti lo spettacolo!» esclamò, nuovamente illuminato da quel feroce sorriso. Dal non riusciva a capire cosa potesse significare quel discorso, ma non aveva alcuna voglia di restare vittima di un qualche effetto collaterale che avrebbe potuto evitare. Si accucciarono ambedue dietro una grossa macchia di cespugli, le mani comunque pronte sulle armi. I due elfi seguivano concitati la corsa furiosa degli Yurumga, l’uno spaventato, l’altro divertito. Gli uomini-scimmia si facevano sempre più vicini, avevano visto benissimo dove si erano nascosti e già pregustavano quella duplice cattura, così come Dal si preparava a essere recluso nuovamente in quella scomoda gabbia. In un solo secondo, tutta la foresta si tinse di rosso. Come un turbine, un enorme colonna di fuoco scaturì dalla piccola statuina, lasciando allibiti gli eccitati inseguitori. Videro quella fiamma attorcigliarsi su sé stessa, allargarsi e restringersi sino a prendere una forma netta e distinta, come se vi fosse un enorme essere di pura fiamma. Una nuova luce scarlatta dipinse gli alberi di Deym, mentre le braccia dell’essere si allargavano. Ora all’interno della fiamma ardeva un immenso corpo candido, coi muscoli scolpiti e massicci come mai si era visto. La testa della creatura terminava in due massicce corna che andavano anch’esse allungandosi, riflettendo le vampe che bruciavano tutto quel corpo. Spalancò a dismisura le enormi fauci, aprendo le mani che nascondevano gli aguzzi artigli neri. Come un sol uomo, tutti gli Yurumga strillarono con quanta voce avevano in corpo, calpestandosi l’un l’altro mentre fuggivano a gambe levate verso il villaggio. Il mastodontico essere dischiuse le fauci un’ultima volta, prima di calare come un’aquila sul branco di uomini-scimmia, lasciando una viva scia di fiamme dietro di sé. Gli Yurumga a terra corsero o rotolarono in ogni direzione, arrampicandosi sugli alberi tutt’attorno con versi disperati e frenetici, mentre le poderose braccia del mostro si allargavano ancora, carpendo miglia e miglia di Deym con naturale facilità. Dal era paralizzato dietro il suo cespuglio, la bocca aperta e gli occhi spalancati; Kanyu ridacchiava di gusto, appoggiato sulla mano destra. 272
«Ti ho detto che era uno spettacolo, no?» disse, intanto che stiracchiava i muscoli delle gambe. Il ragazzo non rispose, stringendo ancor di più le mani sulle grandi foglie del cespuglio che li nascondeva. «Chi… Cos’era?» la sua voce era ridotta ad un filo tremulo sopra l’incoscienza. L’altro scrollò le spalle, socchiudendo gli occhi. «Solo un’illusione. Non credo esistano Demoni del genere, nemmeno all’Inferno». Dal annuì debolmente, gli occhi che osservavano la foresta del tutto intatta in cui già riusciva a udire il rumore del temporale che andava ormai scemando.
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XXVIII. Mondi analoghi e opposti
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i sono momenti in cui tutto sembra immoto e conosciuto, come racchiuso in una limpida sfera di vetro a portata di mano. Spesso una simile prospettiva ci incanala in tunnel di superbia ed avidità, divorando pian piano il nostro giudizio; altre volte, in quei dieci minuti d’incanto, le mani possono vagare nell’universo senza alcun limite, catturando soli e stelle immaginarie nei pugni di un gigante. E quei suoni di sottofondo, chiari e pacati, l’uno a confermare l’altro, un fruscio di vento e lo strofinarsi assieme delle foglie. Ogni pensiero è focalizzato al giusto posto, proprio come i timori restano segregati in lontani anfratti della mente; allora, e solo allora, sai di poter comprendere apertamente il cuore degli uomini. Se morte e disgrazia gettavano i loro manti sui più svariati angoli del mondo, Dal godeva del tenue respirare di Deym, del sole che ora splendeva sulla terra ormai asciutta e si specchiava nel fiume poco lontano, ricoprendo le sue acque con uno strato acceso e brillante. Chi non si sarebbe sentito in armonia con quell’eden? Kanyu, ad esempio. Al posto della freddezza che era solito dipingersi addosso, covava un risentimento fin troppo ovvio. Le sottili sopracciglia si contraevano sulle buie orbite del viso perfetto e una punta di rabbia gli pizzicava di tanto in tanto le labbra serrate, come se l’Esule si trovasse di fronte ad una situazione scomoda. E proprio per questo, agli occhi incoscienti di Dal, era necessario parlargli e capire cosa non andasse. La sua incertezza si venne a creare sulla frase adatta per rompere il ghiaccio. Questa sua esitazione lo portò ad incrociare le candide, innaturali iridi del compagno. «Mi stai fissando» furono le sue parole, ma, stranamente, erano ben lontane dal gretto apostrofo che Dal si era immaginato. La serenità della foresta si spense comunque come una candela al vento. «Sembri… Arrabbiato» ribatté, facendosi coraggio. Kanyu torno a guardare davanti a sé, ignorando volutamente quell’osservazione. «Preoccupato è il termine più adatto» mormorò poi senza voltarsi. Di nuovo la curiosità pulsò nell’animo del giovane elfo. «Per cosa?» domandò. Altro breve silenzio. «Ho solo un brutto presentimento» rispose vago e, quando lo vide chinare il capo, Dal comprese che qualcosa stava oltrepassando la corazza d’indifferenza con cui il suo mentore era solito ripararsi. «Proprio non vuoi parlarmene?» insistette, appoggiando il mento al dorso della mano. 274
Non una risposta. Quanto erano profonde le verità che quell’individuo si portava dentro? Perché sapeva che nascondeva qualcosa. Lo aveva intuito quando stavano per separarsi da Melidan, proprio grazie al sacerdote Elfo. Lui aveva confermato i sospetti che ora il ragazzo nutriva, mettendolo su quella strada; al mosaico andavano poi ad aggiungersi i tasselli ottenuti durante la piccola conversazione ricavata la sera dell’attacco dei Teke. «Ho come una voce nel cervello… Forse un avvertimento.» ammise intanto Kanyu «O un ricordo». Altra fascine gettate sull’incendio: il Naigh-Moor continuava a tentarlo con ogni sillaba che pronunciava, con ogni occhiata elusiva gettata altrove. «Come se qualcuno ci seguisse» aggiunse l’Esule con non poca serietà. «Io non ho sentito niente» obiettò Dal. Un sorrisetto rassicurante percorse la bocca chiara del compagno. «Non hai vissuto abbastanza.» una nuova, enigmatica risposta «E comunque non far caso a quel che dico». Dal lo fissava confuso, aprendo e chiudendo senza forza le mani. «Non capisco dove vuoi arrivare» disse infine, sperando che quello bastasse a strappare una spiegazione. Un opaco bagliore di consapevolezza adombrò il volto del pallido elfo. «Meglio» concluse, ed in un attimo l’usuale Kanyu fu di nuovo al suo posto. Dal schiuse due labbra che parevano di cemento: avrebbe voluto arricciarle, storcerle, distogliere lo sguardo con un’espressione sdegnata. Nemmeno sapeva perché, ma si accorse che gli mancava la dignità per farlo. Sarebbe rimasto lì, come inebetito, a troncar rametti con le dita, senza neanche riuscire ad alzare gli occhi verso quell’individuo che parlava con l’autoritarismo di un imperatore. Terminati i rametti, si guardò intorno come un bambino in cerca del giocattolo giusto fra una miriade di altri. Curioso come una semplice zolla di terra lo riportasse indietro con gli anni. L’aveva già vista? Deym era come gli era parsa quando l’aveva osservata per la prima volta, non c’erano dubbi. Forse il classico eroe di mille racconti avrebbe potuto chiamare quel posto una seconda casa, ma per Dal era solo una foresta, ancora troppo grande e pericolosa. Non era Armalak, non possedeva la sua relativa sicurezza. Erba, l’erba di Nog Tuluth. No, non aveva il suo colore malato e appassito: era rigogliosa, fragrante, un invito a sedersi e lasciar scorrere le ore con un fiore in bocca. Eppure tutto quello che vedeva adesso erano solo le sue torri di pietra nera, un suolo arido e calpestato, alberi bassi e contorti o millenari pilastri saturi di oscurità. Fino a poco prima era tranquillo? Non lo ricordava. Vagamente, gli sembrava che le cose fossero diverse, ma non riusciva nemmeno a definirne l’intensità. Il cielo era di uno stagnante opaco, ottenebrato da nubi che gli avevano detto esser sempre state lì dove si trovavano. Se ne era chiesto l’origine tante volte, si era 275
chiesto come fosse possibile che gli stregoni riuscissero a creare tali nubi da soli. Ogni volta si era risposto che la cosa non gli piaceva; che, qualunque fosse il motivo, era soltanto un pericolo incombente sulla sua testa come una spada di Damocle. Nemmeno si meravigliava nel fare tutti quei collegamenti. Ora aveva abbassato lo sguardo, rivolto alla sua casa. La casa delle schiave, è vero, ma non c’erano schiavi trattati meglio delle concubine del tiranno. E lui, per quanto non svolgesse certo i loro compiti, non se la passava poi tanto male. Avrebbe sicuramente potuto sopportare ancora a lungo quella situazione, senza dover fuggire a quel modo. Lo evitavano, non poteva negarlo, lo guardavano anche di sbieco. Ma non lo maltrattavano. Non così tanto, almeno. Rinnegato o no, restava il figlio del tiranno. Ma perché non odiava nessuno, ora? Non Gadejli, non il suo popolo… Nemmeno suo fratello. Non gli avevano mai fatto niente, eppure era fuggito comunque, a scapito di tutti. Quasi senza rendersene conto, la voce gli affiorò dalle labbra attraverso un rauco mormorio: «Kanyu?». L’elfo oscuro si voltò senza parlare, con un’inespressività in viso da mozzare il fiato. «Tu sai come sono fuggito?» sussurrò il ragazzo, la testa china, nel mentre cercava altri inutili rametti. «Melidan l’ha ricostruito» rispose l’altro, atono. Ora era Dal a restarsene zitto, col solo respiro a fargli da compagnia. «Cominci a dubitare?» lo incalzò Kanyu, già immaginando dove il giovane voleva arrivare. Dal annuì con un breve, quanto veloce, cenno del capo. Avrebbe voluto sentirsi rincuorato, incoraggiato, nuovamente convinto di aver agito per il meglio. «Fai bene.» lo ammonì invece in tono grave l’Esule «Nelle tue condizioni, è stata una sciocchezza». Dal rialzò il capo, allibito. Una sciocchezza? Come poteva dirgli una cosa simile? L’aveva aiutato, fatto di lui un suo compagno. «Perché?» chiese, e ancora non trovava la forza di parlare in maniera decente. «Perché non eri ancora pronto. Nemmeno sapevi cosa stavi facendo.» c’era una serietà implacabile, durissima in quello che diceva «Hai agito d’impulso, proprio quando avresti dovuto riflettere più che mai su ciò che stavi facendo». «Quindi avrei sbagliato tutto?». «Senti, chiariamoci subito.» Kanyu puntualizzò quel discorso con un cinismo sempre crescente «Per quanto mi riguarda, sei un ragazzino che ha deciso di punto in bianco di lasciare tutto e tutti per un capriccio che d’intelligente ha ben poco. La tua nutrice ti ha lasciato andare perché evidentemente non ne poteva più di quella situazione o magari perché stava semplicemente invecchiando e, con la sua bellezza che svaniva, scomparivano anche le tue possibilità di 276
sopravvivenza ad Armalak. Non saresti andato da nessuna parte se non fosse stato per una fortuna a dir poco sfacciata, che ti ha fatto capitare per le mani di uomini che non avresti nemmeno mai sognato di incontrare. Ora sei qui per renderti utile perché, per pura casualità, la tua fuga può avere un senso: sei qui perché, bene o male, fuggire da Armalak renderà la tua vita solo migliore, che tu divenga ricco o povero. E, soprattutto, sei qui perché io ho scelto di aiutarti a patto che tu aiuti me. E mi sembra che sia principalmente tu quello che ci guadagna». Dal strinse le mani a pugno sul terreno, ingoiando rabbia ad ogni parola che il suo nuovo mentore pronunciava. Quando risollevò le braccia, numerosi fili d’erba vennero con lui. «Un moccioso incosciente, eh? Dì un po’, hai una seppur pallida idea di cosa significhi passare ciò che ho passato io?» sbottò di colpo, storcendo la bocca proprio come avrebbe voluto fare poco prima. Ringhiava, mentiva, faceva domande di cui non riusciva a trovare il senso nemmeno lui, ma non riusciva in nessun modo a starsene zitto. «Ho passato situazioni ben peggiori della tua.» fu la secca risposta di Kanyu «Ho disertato e tradito il mio esercito durante il più grande conflitto che la nostra storia ricordi, dopo la Guerra degli Dei. Ho scelto volontariamente come guadagnarmi da vivere al termine di quella carneficina. Ma mai, mai, ho scaricato su altri gli effetti nefasti delle mie azioni da esule. Da quando sei fuggito, quante persone sono morte per te? Uomini che non avevano nessun motivo di condividere il tuo destino, tra cui anche la donna che ti ha cresciuto». Dal voleva mordersi la lingua, strapparsela con un morso e sputarla sanguinante a terra: non aveva mai sentito così tanto veleno sulla lingua di Kanyu. «E non hai nemmeno una giustificazione per spiegare tutto questo!» continuava intanto quello, col candido viso che andava pian piano arrossandosi «Non hai una lacrima da versare per una lista di morti di cui nemmeno conosci la fine! Fossi al tuo posto, l’unica cosa che proverei per me sarebbe schifo! Ora vorresti prendertela con me? Io sono la tua prima, vera opportunità di vivere la tua scelta! Capirai, quando vedrai gli untori! E li vedrai, tranquillizzati, perché se non li cercherai tu, saranno loro a trovare te!». «Io non ho niente contro di loro» si oppose debolmente il ragazzo, e nel dirlo sentì che il corpo gli tremava tutto, dalla testa ai piedi. «Loro hanno qualcosa contro di me. Hanno qualcosa contro di te. Hanno qualcosa contro tutti gli esuli» Kanyu lasciò sbollire la sua ira in quella sorta di minaccia. «E contro di te hanno molto più di qualcosa, vero?» nemmeno sapeva come aveva fatto a porgli quella domanda: un pensiero ad alta voce, supponeva.
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Normalmente sarebbe rimasto in silenzio, inghiottendo il boccone amaro e cercando di riflettere su quel che gli veniva detto. Ma adesso non riusciva a sentirsi per niente normale. Ora voleva insistere, non fare caso alla coltre di paura che gli era calata addosso. «Vale per me come per qualsiasi altro disertore» si affrettò a ribattere l’altro, voltandosi con aria seccata. «Cos’hai fatto? Perché hai disertato?» Dal provava contemporaneamente l’istinto di mettersi a piangere e quello di continuare cocciutamente a far domande. «È una storia in cui non devi entrare.» «E pretendi di giudicarmi a questo modo? Rifiutando di rispondere?» il ragazzo accigliò il viso, la voce aspra che pungeva come le spine di una rosa «Mi hai sputato addosso tutti i tuoi giudizi e ora pensi di potertene restare zitto. Tu hai fatto una sciocchezza come l’ho fatta io, Kanyu, a prescindere da come siano andati i fatti; su questo non ho dubbi». Avvenne nel giro di un istante. Vide un movimento scattante, scuro, quindi un dolore bruciante alla guancia. Impiegò alcuni secondi per capire che Kanyu l’aveva colpito con un manrovescio. «Io l’ho fatto per una donna! Una donna! Non l’ho abbandonata al suo destino in una squallida bettola clandestina come hai fatto tu! Ho tradito la mia bandiera per lei! E non sapevo nemmeno come si chiamava! Neanche adesso lo so, e anche se sono trascorsi quattro secoli sono ancora qua a fare quello che va fatto!». Urlava come un disperato, chino sul ragazzo, il volto paonazzo, deturpato da una smorfia d’indicibile rabbia. Dal non ebbe bisogno di chiedergli niente per comprendere che il suo compagno alludeva all’Elfa di alcune settimane prima. Non disse altro, sigillando dentro di sé tutti i tumulti innescati in così pochi minuti. Il caldo all’interno della taverna era soffocante, un assillo continuo in quella torrida giornata d’estate. Fuori, Vathalar era persino meno caotica del solito ed i monelli che erano soliti scorazzare per le strade della città si godevano la debole frescura all’ombra dei più grossi alberi. Di quando in quando, uomini dal torace scoperto e sudato guardavano invidiosamente il rifugio dei bambini; altri, meno imbarazzati o forse più disperati, non esitavano ad attardarsi con loro ed a raccontare qualcosa pur di ripararsi un poco dal sole dardeggiante. Dentro alla taverna, una modesta costruzione vecchia almeno quanto il suo decrepito proprietario seduto dietro al bancone, alcuni avventori tentavano di sconfiggere la calura estiva con la birra fresca. Fra di essi, un Elfo dai lineamenti dolci e dalla pelle chiara pazientava, mentre il suo compagno di tavolo si scolava 278
a sue spese l’ennesima pinta. Quando questi ebbe terminato, lasciò ricadere il boccale con un sospiro soddisfatto, leccandosi poi la curata barba ingrigita per pulirla da eventuali residui. «Ogni volta mi domando come faccia il vecchio Enoch a servire birra fresca anche con questo caldo.» disse, ed i suoi occhi scuri brillarono vispi «Insomma… Non dovrebbe essere calda anche quella?». «Non so.» ammise l’Elfo, stringendosi nelle spalle e mostrando un sorriso falsamente tranquillo «Non m’intendo di birra». «E fai male, Meridian» ridacchiò l’altro, passandosi le mani sul ventre, satollo. «Melidan» precisò il suo interlocutore, sollevando appena un palmo della mano: sapeva che Harmi fingeva di sbagliare per il solo gusto di farlo innervosire, tronfio com’era, ma gli anni di sacerdozio di Braeyel, Dea dell’Armonia, gli avevano insegnato a controllare perfettamente il proprio stato d’animo. L’uomo fece un cenno disinteressato con la mano. «Sì, dicevo… È importante intendersi di birra. È buona, fresca, e ognuna di esse ha un sapore diverso. Questa, ad esempio, è la birra ideale per il primo pomeriggio» continuò, aggrottando la fronte. «Allora ne prenderò una anch’io… Dopo.» Melidan sottolineò quell’ultima parola. «Prendila adesso.» proseguì Harmi, strizzandogli l’occhio «Ti scioglie la lingua». «E annebbia i pensieri, amico mio. Spero che non l’abbia fatto anche con te». L’uomo ebbe un lieve sorriso, quindi appoggiò le mani al tavolo, stiracchiandosi i muscoli delle braccia. «Ci vuole altro per mandarmi al tappeto, Elfo. Ma a te servo ben sveglio, vero?» borbottò, tornando a mettersi comodo. «Abbastanza da saper contare» fu la replica di Melidan, seguita dal tintinnio di una saccoccia rigonfia sul legno scuro del tavolo. Harmi aprì la sacca con cautela, infilandovi poi una mano. «Vedo che conosci la procedura.» mormorò, nel mentre sollevava qualche moneta nel palmo per poi lasciarla ricadere nella saccoccia, richiuderla e farla scomparire dentro una molto più capiente «Che ti serve? Contrabbando o informazioni?». «Semplici informazioni.» rispose con calma Melidan, incrociando le braccia nel dondolarsi piano sulla sua sedia «Ho bisogno di una corporazione efficiente, disposta a coprire me e due miei amici per un tempo indeterminato». «Amici?» Harmi parve scettico «Quali amici?». «Due esuli: un ragazzo e un elfo grigio maturo». «Ricercati?». «Solo dai Naigh-Moor». 279
«È merce difficile da trattare, Elfo.» l’uomo si accarezzò pensieroso la barba «Ho sentito che c’è un drappello di Naigh-Moor in giro». «Queste voci sono giunte anche a me». «I loro nomi?». «Ti basti sapere che uno dei due è Kanyu.» Melidan non aveva nessuna intenzione di rivelare null’altro all’informatore «Un personaggio del genere dovrebbe ispirare una discreta fiducia». «Altroché!» Harmi sorrise, sorpreso «Ma un tizio del genere, non dovrebbe aver difficoltà a farsi mettere sotto protezione dalla guarnigione imperiale». «Ho bisogno di qualcosa meno in vista, amico mio. Se chiedessimo aiuto ai soldati, finiremmo per venire scoperti.» dissentì l’Elfo, smettendo di dondolarsi «Un piccolo clan di mercenari, una congrega magica… Qualcosa così». «Sì, ho capito dove vuoi arrivare.» l’uomo aggrottò le sopracciglia, tornando ad accarezzarsi la barba «Ma qui a Vathalar contano tutti sull’armata imperiale, purtroppo. L’unica gilda verso il quale potrei indirizzarti è la “Fratellanza della Nube”». Melidan inarcò un sopracciglio, incuriosito da quel bizzarro nome. «Maghi?» azzardò. «Ladri.» rispose l’altro, lo sguardo abbassato come per riflettere «Rispondono ad un certo Remond d’Askernil, una specie di nobile diseredato, credo. Finora tutto liscio sul suo conto». «Liscio in che senso? Harmi, accetterei d’invischiarmi fra dei ladri solo se non vi fosse altra soluzione» Melidan ora non aveva nessuna intenzione di nascondere il suo scetticismo. «Non ve ne sono altre, infatti. E per liscio intendo che non si è ancora macchiato né di tradimenti né di doppio gioco nei confronti delle persone che mi hanno fatto la tua stessa richiesta». Il silenzio calò attorno ai due, l’uno col viso rivolto verso l’altro, in attesa che si prendesse una decisione. Melidan era incerto: affidare la loro sicurezza a chi aveva fatto del furto e della menzogna uno stile di vita? Eppure doveva anche contare sul fatto che non sarebbero rimasti a Vathalar molto a lungo, probabilmente, e che comunque qualche soldo sarebbe bastato per assicurarsi il silenzio e la lealtà di quei tagliagole. Sì, forse la soluzione non era così brutta come gli era sembrata. «Dove posso trovarlo?» chiese infine, appoggiando il mento al dorso della mano. Harmi inspirò con calma, evidentemente in cerca di una risposta che soddisfacesse ampiamente il suo cliente.
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«Ti combinerò un appuntamento. Questa sera, al crepuscolo, lo incontrerai presso la piazza della gogna: sai dov’è?» l’uomo fissò con attenzione il viso dell’Elfo. «La trovo» rispose Melidan dopo alcuni istanti, annuendo piano col capo mentre nuovamente tornava a riflettere sull’accordo. In quello stesso momento, il piede di Dal calciava via un sassolino che aveva avuto l’ardire di mettersi sulla sua strada. Lui e Kanyu non avevano più riparlato dal loro litigio, ed anzi avevano evitato persino di guardarsi, ognuno barricato dietro ai propri pensieri e ai propri ricordi. Procedevano in silenzio, l’uno dietro all’altro: non c’era un effettivo motivo per il quale si erano messi in cammino, se non quello di terminare il più drasticamente possibile quella discussione. Entrambi sapevano quanto sarebbero potuti andare oltre, se l’avessero voluto, ma allo stesso modo erano consci di quanto sarebbe stato doloroso farlo. Avevano gettato la spugna, per quanto avrebbero potuto accampare centinaia di scuse: Kanyu aveva rinunciato alla propria calma e stabilità, Dal all’insistere. Ma, come ogni cosa matura e si trasforma col passar del tempo, una seconda, pressante curiosità si era aggrappata all’anima del ragazzo. Una voce suadente, melodica, lo spingeva ripetutamente ad osservare con attenzione il compagno dinnanzi a lui: Kanyu era il solito di sempre, con quell’espressione distante sul viso, le labbra serrate, i movimenti cadenzati, come musicali. Sì, era il solito Naigh-Moor che aveva conosciuto, compresa l’armatura psicologica con cui sperava di celare i suoi segreti più intimi. Armatura o no, sotto c’era tutto un universo da scoprire. E Dal doveva sapere cosa stesse cercando di nascondergli. Già prima di partire per Deym aveva ricevuto un incoraggiamento al dialogo col suo nuovo mentore. Era stato Melidan, ora lo ricordava chiaramente: lo aveva avvisato che Kanyu gli nascondeva qualcosa di cui presto sarebbe venuto a conoscenza. Dal intuiva che negli scorci aperti da Kanyu vi era la risposta ad ogni particolare della loro missione. Calcò il piede a terra e si accorse che gli tremavano le gambe dalla paura di prendere l’iniziativa. Fece un respiro. Contò fino a tre ed al tre rimase lì dov’era trascinandosi avanti col solo istinto. Prese nuovamente fiato. «Sembri un’anima in pena.» lo interruppe in quel momento Kanyu, facendolo sobbalzare: Dal non si era nemmeno accorto che lo osservava con la coda dell’occhio «Parla liberamente, non ti colpirò». Il giovane elfo oscuro fu sul punto d’immobilizzarsi e balbettare qualche scusa, ma non c’era la benché minima traccia di risentimento nelle parole di Kanyu. Solo una sfumatura leggera, malinconica. Deglutì, imbarazzato; tutta la sua curiosità si era dissipata al vento. L’altro continuava a guardarlo, spento, turbato come Dal non era mai riuscito ad immaginarselo. 281
«Mi rendo conto di aver lasciato a metà il nostro discorso.» continuò intanto quello, arrestandosi con un sospiro «Poni pure le tue domande». «Domande?» ripeté timidamente il ragazzo, ritrovandosi di colpo con le mani torte l’una nell’altra «No… Nessuna domanda.». Kanyu lo squadrò con gli occhi di chi vede oltre le mere apparenze e in quell’attimo Dal seppe che non era lui a voler parlare, ma il suo compagno, per quanto potesse sembrargli paradossale. Prese fiato, stavolta deciso a raggiungere il suo scopo. «Ero… Sono rimasto un po’ stupito da quel che mi hai detto.» disse, faticando comunque ad ogni vocabolo. «Già.» l’Esule stiracchiò un sorrisetto della durata di un secondo «Immagino sia comprensibile». Dal annuì, trattenendo il fiato. «È stata strana un’ammissione del genere» stava per aggiungere “da parte tua”, ma si dominò. «È strana tutta la storia.» concesse Kanyu, accarezzandosi le sopracciglia corvine col pollice «E… Sì, è stata un’incoscienza anche la mia. Una sciocchezza no, ma un’incoscienza sì». «Però alla fine si è risolto tutto, immagino» azzardò il giovane, passandosi le mani sulle cosce: notò che l’altro, sebbene paresse ben lontano dall’ira, non era affatto contento di tornare sull’argomento. «Ai fini della Grande Guerra, sì.» spiegò, abbassando la mano fino ai propri zigomi «Sono stato praticamente io a cacciare gli elfi oscuri dal Principato dell’Ovest». Dal pensò che in quel momento avrebbe dovuto vedere il gigantesco Kanyu per quel che era: un eroe consacrato, esperto e letale. Eppure, non gli sembrava nemmeno più alto. Era come se si fosse tramutato nella più vulnerabile delle creature. «E riguardo ai tuoi fini?» Dal ruppe il nuovo silenzio che andava formandosi, indietreggiando per potersi appoggiare al tronco di un albero. «Oh, beh.» era incerto, maldisposto al chiarimento: inchiodato lì dov’era, allargò debolmente le braccia «Ci ho guadagnato solo di fama. Contando poi che quella ora serve a rendermi solo un bersaglio meglio reperibile, non è stata una grande vittoria». «Però sembri ricco». «Oh, certo.» Kanyu ebbe un moto di disgusto «Credimi, quando ti accorgi di aver perso tutto quello che avevi, dei soldi non ti importa più assolutamente niente». «D’accordo…» il ragazzo incrociò le braccia, inspirando a fondo «Ti va di raccontarmi tutto dall’inizio?». 282
Inaspettatamente, l’altro sorrise, prendendo a ridacchiare poco dopo; Dal lo fissò perplesso. «È buffo, non trovi?» si giustificò l’altro, nel tornare alla normalità «Di norma, dovrei essere io a far sfogare te, vista l’età». «Forse non sei poi così vecchio.» ribatté l’altro con un’amichevole scrollata di spalle «O forse per certe cose non c’è età». Il pallido elfo tacque, sistemandosi distrattamente le due ciocche che gli ricadevano costantemente sul viso. «Sei strano, ragazzo mio.» commentò, riportando l’attenzione su Dal «A volte sembri ancora un bambino, ma altrettante dai prova di non essere del tutto stupido». «Immagino dipenda dall’argomento e dalla situazione». «Come io immagino di potermi fidare di te, dopotutto. Altrimenti non saremmo qui». Dal accennò ad un sorriso, prima di far cenno con un palmo al compagno di continuare: Kanyu esitò ancora, prima di iniziare il proprio racconto. «Fu una notte di quattro secoli fa, più o meno.» mormorò, mordicchiandosi il labbro inferiore in una pausa «Ero un assassino, allora, forse il migliore che i Naigh-Moor avessero portato con sé durante la Grande Guerra. Ed ero giovane.» abbozzò un nuovo sorriso, che si spense però nel giro di un secondi «Dopo quattrocento anni che vago lontano da Nog Tuluth, posso dirti che nemmeno sapevo cos’era, la giovinezza. Che cos’è, secondo te?». «Beh…» Dal inarcò un sopracciglio, incapace di capire dove l’altro volesse arrivare «È l’arco di vita che precede la piena maturità». «No, non in questo senso.» Kanyu aggrottò la fronte, indeciso sul come farsi capire «Concettualmente, che cosa rappresenta?». «Concettualmente?» il giovane apparve ancora più stranito. «Per cosa è indicata, diciamo.» «Ah.» Dal strinse i denti mentre rifletteva «È la fase più adatta per scegliere la propria strada, no?». «Già, ma in che senso?». «Nel senso che si può scegliere che cosa divenire. Un cittadino libero può diventare un soldato di fanteria, un arciere, un cavaliere… Oppure un mago, se risulti portato per quegli studi.» questa volta rispose prontamente, abituato com’era a sentire quella risposta «Dipende dalla famiglia in cui nasci. Uno schiavo ha il lavoro che gli viene assegnato». «Questo è quello che credevo anch’io, infatti» l’Esule abbassò le braccia, come se fosse rassegnato. «Questo è quello che è» lo corresse Dal, inclinando la testa.
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«No, ti sbagli. So che ti sarà difficile da comprendere, ma la giovinezza non riguarda come servire la tua patria in guerra, se non in minima parte. La gioventù è sì un momento di formazione, ma ciò che deve cambiare è il tuo cervello, non i tuoi muscoli». «La mia mente matura secondo quello che è meglio per la mia sopravvivenza» mormorò, grattandosi una tempia, incuriosito. «Matura per quel che è meglio per i tiranni di Nog Tuluth, Dal. Ti illudono di essere libero, quando ti trasformano solo in una macchina di morte, una pedina da sacrificare, se necessario». «Io non appartengo più a nessun tiranno». «E per tal motivo devi capire che questa non è la verità. Noi dobbiamo lottare per sopravvivere solo perché sono i Naigh-Moor a volerci morti, ma, là dove non ci sono elfi oscuri, i pensieri dei giovani sono giustamente rivolti lontano dall’educazione militare». «Ma, se venissero invasi, quei paesi sarebbero sconfitti». «È l’errore che hanno sempre fatto i Naigh-Moor. Nemmeno possono comprendere cosa significhi aver qualcosa in cui credere che non sia cieca ambizione. L’hanno scordato millenni or sono, illudendosi di sostituire i loro cuori con l’acciaio delle armi. Perché credi che io sia sopravvissuto fino ad adesso?». «Beh, perché sei più in gamba di loro. Sei un ottimo guerriero… Tanto da saper sfruttare la forza altrui a tuo vantaggio, forse?». «No!» Kanyu si sbatté un pugno sulla coscia, in mancanza di altri punti su cui colpire «Sono vivo perché posso attingere a qualcosa a cui i miei maledetti fratelli hanno rinunciato. Sono vivo perché ho qualcosa da salvaguardare che vale molto di più della mia vita: è questo che avrei dovuto capire quando ero giovane, Dal. Ed è quello che capirai anche tu, quando sarai libero di vivere la tua vita. Già adesso puoi renderti conto che, da quando sei fuggito, riesci a condurre la tua esistenza in base a scelte tue, non di altri». Il giovane tacque, osservando con ammirazione e timore quel suo nuovo mentore: ogni frase che pronunciava gli riecheggiava dentro, come se trovasse conferma in un’entità incognita nella sua anima, che era sempre stata lì ma non era mai riuscita a farsi sentire. Aveva desiderato la libertà fin da bambino, accettando punizioni su punizione per il suo testardo desiderio d’indipendenza. Fino ad allora non aveva ceduto, resistendo alle sferzate e le minacce, e neppure se ne rendeva conto. Fu sul punto di chiudere gli occhi per meglio armonizzarsi con quella nuova vita che gli pulsava nelle vene. «Io ero molto più legato di te ai miei compagni di battaglie: ero nobile, rispettato, privilegiato.» Kanyu aveva intanto ripreso a parlare, praticamente fra sé «Credevo di possedere tutto, quando giacevo con qualsiasi femmina volessi, 284
quando potevo sfogare ogni mio desiderio. Quando scoppiò la Grande Guerra, fui entusiasta di prendervi parte. Tutto il mondo avrebbe conosciuto il mio potere e avrebbe tremato nell’udire il mio nome: ecco cosa pensavo, allora. M’imbarcai con una drappello di untori e divenni il loro braccio, il loro assassino prediletto. Per anni, nessuno mi resistette». «Ma poi qualcuno lo fece» ipotizzò Dal, serio. «Ne ho uccisi a decine, forse a centinaia… Solo perché credevo di volerlo.» l’Esule socchiuse gli occhi con aria colpevole «Fu un attacco come tanti. Quattro esploratori Elfi, tanto inesperti dall’aver persino acceso un fuoco da campo. Per tutto il giorno li seguii, com’ero solito fare. Non mi capitava spesso di perdere le tracce di un gruppo, tanto meno di quattro inesperti guerrieri alle prime armi. Eppure li persi: non so spiegarti come, ma mi fermai almeno un paio di volte, restando a riflettere su mille assurde possibilità». «Forse era un incantesimo». «Ci ho pensato anch’io, ma ora sono certo che non lo era. Li raggiunsi a sera, quando stavano per coricarsi. Ero furioso per il mio fallimento, tanto che decisi di attaccarli senza la minima preoccupazione. Li trucidai come animali». Kanyu si passò una mano sul viso, indugiando per un istante sui propri, sinistri occhi. «Tutti quanti?» gli chiese intanto Dal a voce bassa: sapeva che il passato di Kanyu conservava ricordi del genere, ma avrebbe preferito non venirne a conoscenza. «Tre di quattro.» rispose sbrigativamente l’altro, scuotendo la testa con decisione «Lasciai fuggire l’ultimo rimasto». Il ragazzo ascoltava perplesso: non aveva detto che non lasciava in vita nessuno, che aveva sconfitto avversari a decine? «Le scivolò via il cappuccio che teneva sul capo.» sussurrò intanto l’alto NaighMoor «Avevo ucciso molte donne, prima di allora. Con lei non ci riuscii, per quanto mi sforzassi. Non parlò, non mi disse niente: stette solo a guardarmi con due occhi dell’azzurro più intenso che avessi mai visto, con i capelli d’oro che le incorniciavano un viso fresco, perfetto. “La fanciulla dai capelli d’oro”, la chiamo ancora così» accennò ad un sorrisetto triste, sfuggendo lo sguardo del ragazzo. «E per quell’Elfa…» balbettò Dal, sempre più sbigottito. «Sì.» rispose Kanyu, rialzando lentamente la testa «Per quell’Elfa che non conoscevo nemmeno e che avrei dovuto uccidere, disertai». «È… Pazzesco» si passò una mano sulla fronte, senza riuscire a distogliere lo sguardo dall’elfo che gli aveva fatto dono di una tale rivelazione. «L’ho cercata ovunque, in ogni angolo delle terre che ho visitato. Probabilmente è morta… Ma ancora quella fanciulla rimane lo scopo di tutta la mia esistenza. Se è morta, gli untori sono i responsabili di questo. Sono stato il primo esule, 285
ragazzo. Spetta a me il compito di vendicare tutti i morti di quell’inutile guerra, sia per loro che per redimere me». «Per questo dai loro la caccia.» ora il quadro appariva chiarissimo nella mente del giovane Naigh-Moor «Pensi che sappiano di quell’Elfa?». «Sanno che l’ho risparmiata.» replicò l’altro, gelido in viso «Ma dubito che sappiano dove si trova, adesso.» tirò un nuovo sospiro, prima di ergersi nuovamente in perfetta posizione eretta «Non importa. Hai avuto le tue risposte, ora rimettiamoci in cammino». «Ma… Aspetta un secondo, solo qualche altra domanda» tentò di controbattere Dal, protendendo istintivamente una mano verso l’altro. «Spiacente, ma dovrai accontentarti di queste» Kanyu si volse verso il sentiero, issandosi meglio lo zaino sulle spalle. Fece qualche passo, senza nemmeno aspettare il ragazzo che arrancava scompostamente verso di lui, quindi si fermò di colpo, alzando di scatto una mano a pugno; Dal obbedì cautamente, immobilizzandosi. In quelle settimane, aveva avuto modo di imparare, seppur in maniera ancora rozza, come sfruttare al meglio il proprio udito, percependo minuscole anomalie nel sistema nel quale si trovava. Ed ora avvertiva chiaramente la presenza di qualcuno a poca distanza da loro, qualcuno che, a giudicare dal leggero rumore di passi, non era solo. Il suo mentore aveva forse già intuito quanti uomini si stessero avvicinando loro, visto che in pochi istanti si era inerpicato su un albero, senza bisogno di far cenno alcuno al ragazzo per capire che anche lui doveva far lo stesso. I due Naigh-Moor scalarono la pianta facilmente, sebbene Dal pareva ancora sensibilmente impacciato; meno di un minuto ed i due compagni furono ben mimetizzati fra le grosse fronde, aggrappati ognuno ai propri rami. Aguzzarono lo sguardo come due predatori, fermi come statue: differentemente dal loro incontro col Mangiateschi, non parlavano né si scambiavano cenni, concentrati nella loro osservazione. Un attimo dopo, un basso vociare proveniente da poco lontano si fece udire: due voci scocciate di uomini maturi che borbottavano tra loro. D’un tratto si fermarono, e Dal intravide che uno dei due aveva arrestato l’altro con una mano, agitando con quel gesto una lunga tunica verdastra. Ora bisbigliavano chiaramente tra loro e il loro annuire silenziosamente aveva l’apparenza di una minaccia imminente. Si voltò verso Kanyu in cerca di una spiegazione sul suo viso: quel che vide lo fece quasi cadere dal suo solido ramo. L’elfo oscuro digrignava i denti, la faccia alterata, le mani avvinghiate rabbiosamente all’albero. Un attimo dopo, scese a capofitto dall’albero, e quel che a Dal sembrava impossibile era che le sue due micidiali armi sembravano essergli schizzate fra le mani di colpo, accompagnandolo vorticosamente nella discesa. Rivolse un’occhiata di scatto verso i due uomini, che ora fissavano il suo albero con orrore, quindi discese a sua volta, badando a far molta più attenzione 286
del compagno. Quando Kanyu toccò terra, lui era ancora a metà, ma sul viso dei due uomini era comparsa un’espressione di sgomento puro. Si separarono velocemente, impartendosi l’un l’altro ordini confusionari, sguainando le corte spade che tenevano al fianco. Dal atterrò più agilmente di quanto si aspettasse, approfittando dell’occasione per riprendere lo slancio e partire all’inseguimento di Kanyu, che ora correva come un pazzo verso i due, chino sulla vita. Lo imitò, sfoderando d’istinto la massiccia scimitarra, e le sue dita fremettero sull’elsa mentre guadagnava terreno sul compagno. Ora poteva distinguere chiaramente i propri avversari: due Umani, entrambi alti e ben piazzati, col viso deturpato da cicatrici e tatuaggi sgargianti. A momenti arretrò quando si rese conto che quelli erano i suoi nemici: gli untori che Kanyu aveva descritto più volte nei suoi racconti. Dal si gettò contro il più giovane dei due, cozzando appositamente la lama contro quella dell’altro, incerto sul da farsi. L’untore si sbilanciò per un attimo, voltandosi di scatto verso il suo compagno, un’esplicita richiesta di aiuto marchiata sul viso. Quel che vide furono solo le sue membra spezzarsi per l’impatto con una rude spada che pareva un machete da contadino, piuttosto che un’arma da guerra. Dal esitò ancora, restando a fissare con occhi sbarrati l’avversario che aveva messo in netta posizione di svantaggio con un solo colpo. Doveva ucciderlo, adesso. Ma sapeva ancora così poco su quegli uomini… Una lama ricurva e frastagliata trapassò la schiena dell’untore prima che il giovane potesse porsi altre domande. Vide quegli occhi roteare per un attimo, quindi bloccarsi di colpo, vitrei, morti. Kanyu allontanò malamente il corpo con un calcio, liberando la propria arma. «Già con gli Yurumga hai commesso un errore del genere.» ringhiò, scuotendo il sangue fresco dalla lama con un vibrante colpo a vuoto «Questa è l’ultima volta che intervengo: ricorda che non ci sarà mai pietà per queste bestie». Detto questo, si voltò stizzito, rinfoderando le armi senza prendersi nemmeno la briga di pulirle. Dal rimase così com’era fino a quando l’Esule non ebbe fatto qualche metro. «E… Adesso?» mormorò, abbassando tremante la Scimitarra di Fuoco d’Ombra. Kanyu si voltò un’ultima volta, osservandolo torvo. «Ce ne andiamo» rispose, e subito riprese a camminare. Melidan assottigliò gli occhi, inarcando piano un lungo sopracciglio: si era aspettato una forca pubblica, un patibolo o una ruota della tortura. Tutto quello che si trovava davanti era invece una locanda malmessa, tipica dei quartieri poveri di ogni città, sulla cui insegna si poteva scorgere, sempre che si fosse pulita bene dalla sporcizia, la grottesca immagine di un uomo impiccato. Torse il capo, scorgendo dietro le proprie spalle il sole che andava ormai eclissandosi dietro la linea dell’orizzonte. Sarebbe rimasto lì a vederlo tramontare, piuttosto 287
che riportare la sua attenzione sulle malevole ed ingorde occhiatacce che riceveva da ogni angolo della piazza: Harmi gli aveva garantito che questo fantomatico Remond sarebbe stato puntuale, ma nessuno di quegli uomini si faceva avanti verso di lui. Eppure non si era sbagliato, né sull’orario né sul posto. Borbottando fra sé, si avvicinò al primo ceffo che capitava, un tozzo Umano dalla folta barba riccia. Quello lo guardò annoiato, appoggiandosi con uno sbuffo alla parete della locanda. «Buonasera» salutò amichevolmente Melidan, chinando il capo in segno di saluto. L’altro rispose sollevando la testa e dischiudendo le vermiglie labbra, come se assentisse. «Avevo un appuntamento con un certo Remond, ma ancora non si è fatto vivo.» continuò comunque, pacato «Potete dirmi se l’avete visto?». L’Umano lo fissò con vivo stupore, squadrandolo come se si trattasse del primo cane parlante che aveva incontrato in vita sua, quindi accennò ad una breve risata. «Sei proprio un idiota, sai?» farfugliò, sfoggiando un sorriso derisorio. «E perché mai?» ribatté con un’inflessione allegra l’Elfo. «Perché?» l’uomo gracchiò quella parola, prima di lasciarsi andare ad una seconda risata «“Cerco Remond”, ah! E tu… Tu credi che qualcuno qui sia così imbecille da dirti dov’è? Ad un misero Elfo da solo, che deve temere che il vento lo porti via?». Qualche secondo dopo, proprio quando Melidan stava per riprendere la parola, un ragazzetto di una decina d’anni lo strattonò per la tunica, sfoggiando eccitato un sorriso non privo di qualche buco. «Sei tu che cerchi Remond?» gli domandò, assestandosi frettolosamente gli scompigliati capelli castani. L’Elfo si chinò tranquillamente sul ragazzino. «Già.» rispose, posandogli una mano sulla spalla «Sai dirmi dove si trova?». Il bambino annuì, indicando frettolosamente la porta della taverna. «Remond ha detto che un Elfo sarebbe venuto a cercarlo al tramonto. Mi ha detto di dirvi che vi attende in una stanza al piano superiore» rispose ubbidiente, congiungendo le piccole mani. «D’accordo.» Melidan si rimise in piedi con un sorriso «Fai strada». Il bimbo era già corso alla porta della locanda quando l’Elfo si arrestò di colpo, voltandosi accigliato verso l’uomo di poco prima. «Ah, dimenticavo.» mormorò, indirizzando con calma il lungo bastone che portava con sé in direzione dell’Umano «Vento come questo, dicevi?». Pronunciò una semplice parola mentre l’uomo rialzava il viso e d’un tratto un turbine fulmineo saettò dalla punta del bastone. Un attimo dopo, l’Umano 288
rotolava indietro di una dozzina di metri, trascinando con sé i sacchi d’immondizia ammucchiati sotto le finestre della taverna. Melidan non diede altra importanza allo sprovveduto, anticipando il ragazzino sbalordito all’interno della Gogna. Passarono attraverso tavoli colmi di uomini maleodoranti e donne volgari che sedevano al loro fianco poco vestite, ridendo chiassosamente. Quando raggiunsero le scale, l’Elfo dovette pure scavalcare un avventore addormentato che parlava e russava assieme, scosso talvolta da forti tremiti. Ai piani superiori, l’atmosfera sembrava la stessa: sporcizia, camere sigillate e osceni versi provenienti da esse, accompagnati da violenti colpi e risonanti bestemmie. «È questa.» annunciò intanto il bambino, facendosi educatamente da parte «Remond mi ha detto di dirvi che spera andrete d’accordo». Al sentir quelle parole, Melidan fu già di parere contrario. «Lo spero anch’io.» replicò con un sospiro, frugando in cerca di qualche moneta «Tieni queste.» abbassò il viso sul ragazzo, porgendogli un pugno di monete dorate «Divertitici». Il bambino aprì le mani a coppa e seguì adorante quel ben di Dio che vi si riversava dentro. Poi, infilò le monete in tasca frettolosamente, salutando l’Elfo con un sonoro ringraziamento. Quando fu sparito oltre le scale, Melidan bussò alla porta della stanza. Senza una risposta, questa si aprì velocemente, mostrando un volto attempato dal però giovanile sorriso; due guance rubiconde svettavano sotto gli squillanti occhi neri, colorando l’aspetto già amichevole dell’uomo sulla soglia. «Melidan O’Laynahil, immagino.» esordì con voce baritonale, spalancando la porta «Prego, entrate». L’Elfo acconsentì all’invito con circospezione, osservandosi attentamente attorno prima che l’altro chiudesse la porta: quella stanza sembrava l’unica cosa in ordine di tutta la Locanda della Gogna. Un mobilio sì semplice e spartano, ma stabile, pulito e ben organizzato: Remond doveva essere un visitatore assiduo. Sotto il cenno educato del proprio anfitrione, Melidan sedette su una piccola poltrona, attendendo che l’uomo si sedesse di fronte a lui. «Bene, bene, bene.» diceva intanto quello, mentre si metteva comodo «Dunque voi siete il mio nuovo ospite.» Melidan si trattenne dall’istinto di chiedergli quanto gli sarebbe costata quell’ospitalità «Io sono Remond d’Askernil». Il sacerdote fece per prendere la parola, sollevando appena una lunga mano, quando il ladro lo interruppe, sorridendo amabilmente. «Non c’è bisogno di dire niente, so già tutto.» affermò con ottimismo quello «E posso assicurarvi che la Fratellanza della Nube è a vostra completa disposizione».
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Melidan trattenne attentamente il fiato, soppesando ciò che stava per dire: stava andando tutto troppo bene. «Siete molto gentile. rispose alla fine, sforzandosi di sembrare sincero «Noi-». «Ammiro molto il vostro compagno, Melidan.» proseguì intanto Remond, accavallando le gambe «Egli è la dimostrazione di come un uomo sia libero di poter fare ciò che vuole». «E io vorrei esser libero di parlare, stupido buffone» fu sul punto di ribattere l’Elfo, inspirando a fondo per restarsene zitto. «Se non fosse stato per lui, forse la Grande Guerra avrebbe avuto ben altro esito. Tutti quanti gli siamo debitori» il ladro sembrava più un patriota che un mascalzone, quale in realtà doveva essere. «Vi ringrazio per i vostri complimenti, ma vedete-». «Non c’è niente di cui preoccuparsi.» Remond sorrise vistosamente, adagiandosi sulla poltrona «Otterrete tutta la discrezione che vorrete, oltre alla lealtà di ciascuno dei miei uomini». «Chiedo scusa.» pronunciò gravemente Melidan, vedendosi costretto ad alzare il tono per farsi udire «Ma quello che serve a me e ai miei compagni è solo una semplice copertura. Che garanzie potete offrirci?». «Tutte quelle che vorrete.» l’uomo allargò le braccia entusiasticamente «Nessuna guardia ha il coraggio di ficcare il naso negli affari della Fratellanza, tanto meno un’organizzazione esterna a Vathalar. Non c’è posto più sicuro in tutta la città». «E pensate che i vostri uomini sarebbero in grado di contrastare una rete di spionaggio come quella che potrebbe gravare sull’Esule in persona?» l’Elfo era palesemente scettico. «Ho piena fiducia nei miei Fratelli. Fratelli, sì, perché essi sono per me come dei parenti, tutte persone meritevoli di stima e rispetto» il sorriso sul viso di Remond si allargava sempre più. «Stima?» l’Elfo rifiutò spontaneamente ogni maschera comportamentale «Mi scuserete, ma la vostra non è un gilda di ladri?». «Per gli Dèi, non parlatene come se fosse una colpa.» si schermò l’altro, allargando le sopracciglia «Siamo solo una coalizione parallela alla guardia cittadina: essa ha le sue leggi e noi le nostre». «A cui noi dovremo sottostare» concluse per lui l’Elfo, freddo. «Oh, non credetemi un aguzzino. Io sono un uomo d’onore, Melidan, e, se vi garantisco che vi troverete come a casa vostra, potete credermi». «Staremo a vedere, Remond.» Melidan annuì con aria poco soddisfatta, prima di alzarsi in piedi «Avrete presto mie notizie». «Entro quanto?» domandò precipitosamente l’altro, imitandolo.
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«Qualche settimana.» rispose vago il sacerdote di Braeyel «Un mese, al massimo». «Aspetterò con ansia il vostro ritorno» asserì allegramente l’uomo, stringendo una mano che non gli era stata porta. Melidan represse un moto di paura: già si pentiva di aver dato ascolto ad Harmi.
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XXIX. La Cattedrale dei corvi
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utto era silente, come imbavagliato dai drammatici eventi, inorridito e omertoso, vergognoso spettatore di un orrore appena consumato. Gli alberi si rattrappivano su sé stessi, grottescamente contorti in espressioni di sdegno e timore. Forse l’aura dell’assassino li distorceva in quella terribile smorfia, appassiti dal tossico frutto dell’omicidio. Ma chi era il vero mostro? Loro, i tetri osservatori della foresta di Deym, induriti e falsamente inespressivi? L’assassino, così freddo e insensibile, privo di qualsiasi pentimento riguardo ai cadaveri che aveva lasciato dietro si sé? Le vittime, se si poteva definirle tali, esseri tanto depravati da far impallidire gli stessi Demoni? O il complice, che non aveva fatto niente per impedire tutto ciò? Dal non faceva che ripetersi queste domande mentre la foresta scorreva attorno a lui, identica a com’era prima dell’incontro con gli untori. Uno scenario impensabile, così colmo di sfumature da scaraventarlo da un’emozione all’altra. Ciò che prima era fascino e pace, ora era nuovamente orrore, sebbene nemmeno il vento fosse calato. Scosse il capo, stringendo gli occhi come un bambino: inconsciamente, pensava che si sarebbe abituato alla morte violenta. L’aveva incontrata da vicino già troppe volte, da quando era partito, sin dal primo istante. Marcus restava un incubo ricorrente, la prima immagine che gli si affacciava alla mente in ogni istante di distrazione. Ma cosa dire dell’elfo oscuro che aveva ucciso, dei pescatori di Shynastar, dei gladiatori di Raidemark? Era stato veramente fortunato a sopravvivere, a non esser stato colpito direttamente da ogni tragedia? E molti, molti avevano gioito per quelle morti. Lui stesso aveva assistito senza sdegno, senza distogliere lo sguardo, alle carneficine nelle arene e nelle piazze di Armalak. Cos’era quel vortice in cui era piombato più di una volta, come una belva in caccia? Era quello che significava essere un NaighMoor, lo sapeva. Quanti altri, brevi anni sarebbero bastati a renderlo come qualsiasi altro della sua razza? Ed era veramente possibile rinnegare il proprio sangue, rivoltarsi contro i suoi stessi istinti? Il viso di Kanyu pareva quello di qualsiasi guerriero elfo oscuro, gelido, distorto da un odio bruciante per tutto ciò che è vivo. Ma non vi era felicità, né la più scarna soddisfazione. Essere esuli significava condannarsi alla tristezza, alla vergogna. Era stato lo stesso per tutti quelli che avevano agito come lui. Ma c’era qualcosa, qualcosa che sapeva avrebbe potuto salvarlo, allontanarlo da un destino di solitudine. Era quell’intimo, ancora acerbo torpore che aveva respirato a Raidemark: uomini che conosceva a malapena si erano battuti per lui, per la sua sopravvivenza al 292
costo della loro. Assottigliò gli occhi, mentre abbassava lo sguardo. L’aveva detto anche Rok, non appena aveva fatto la sua conoscenza. Per l’onore. Per sentirsi degni di vivere. Una nube di polvere si sollevò dalla pietra su cui si era comodamente adagiata anni prima, scacciata da una nervosa carezza. L’uomo squadrò con schifo l’angusta caverna, passandosi e ripassandosi la mano destra sullo sfigurante solco che gli attraversava il viso. Per quanto riconoscesse l’utilità di un luogo del genere, mai, in tutti i suoi anni di servitù presso Cenerdred, era riuscito ad apprezzarlo. Accanto a lui, gente di tutte le razze taceva, fissando in religioso silenzio la figura del giovane al centro della caverna, che ondeggiava la testa da un capo all’altro, come un demente. Gli altri untori avevano imparato a fidarsi di quell’elfo oscuro incondizionatamente, senza far caso alle sue stranezze. Perché mai un uomo come Cenerdred aveva elevato quel pazzo al rango di Figlio dello Scorpione? Molti altri miravano a quella carica, certamente più affidabili di Loto. Proprio in quel momento, il giovane elfo si strinse le braccia attorno al petto, rivolgendo il suo classico sorrisetto perverso ai presenti. Gli tremavano le pupille per l’eccitazione, vive e brillanti nelle loro innocenti iridi rosa. «I rapporti?» chiese, incassando lentamente il capo nelle spalle. Una decina di uomini si fecero avanti, inginocchiandosi all’unisono e coprendo il loro capo con tutto ciò che trovavano per terra: terriccio, sassolini, polvere, qualsiasi cosa. Loto parve approvare la loro totale dedizione. «Nessuna traccia» annunciò il primo, immobile. Lo sguardo del Figlio dello Scorpione mostrò sempre più i segni di un’infantile delusione man mano che ognuno dei suoi Alti untori ripeteva le stesse parole. Solo quando il settimo alzò il viso con fierezza, una vena di bruciante curiosità percorse i lineamenti di Loto. «Due esploratori sono scomparsi» proclamò, attendendo una reazione. Il giovane si fiondò su lui come un lampo, afferrandolo per la veste verdastra. «Dove?» esclamò, sbattendo quasi la fronte contro quella dell’untore, gli occhi sgranati. «Nella foresta di Deym.» rispose prontamente l’altro, impassibile «Non riusciamo a individuarli in nessun modo». Loto volse di scatto il viso verso i rimanenti tre Alti untori. «Voi!» ringhiò, letteralmente infuocato «Novità?». «Nessuna» fu la loro risposta complessiva, pronunciata con un tale tempismo da sembrar frutto di recitazione. Il Figlio dello Scorpione scattò in piedi, sollevando i pugni in segno di vittoria con un sorriso fanaticamente ampio.
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«Fratelli!» gridò, ergendosi su un grosso macigno «Due esploratori cadono oggi, ma la loro dipartita ci mostra dove si celano i nostri nemici! Deym! Deym è il loro nascondiglio e presto diverrà la loro tomba!». Cori di approvazione si levarono tutt’attorno, risuonando caoticamente nella piccola caverna. Spade, pugnali e bastoni furono levati in alto, osannando le parole del Figlio dello Scorpione, che intanto scendeva dal suo improvvisato palco e si avvicinava all’untore che gli aveva dato una così buona notizia. «Un guerriero come Kanyu non sarà certo così stupido da restare in quella foresta.» mormorò, lucido come non era mai stato, lasciando che il suo sorriso si smorzasse fino a tornare alle dimensioni originarie «Batti Deym con gli adepti di meno conto e metti in allerta i nostri agenti». L’untore chinò il capo rispettosamente, incrociando le mani sul petto. «Sarà fatto» rispose compiaciuto tra il forte vociare. Un manto di stelle padroneggiava sulle luce diurna, offuscando le distanze con una densa sfumatura scura. Il volto candido di Kanyu spiccava su un corpo indefinito, a cui si avvolgeva la fluente chioma corvina, esaltata dai flebili raggi lunari. Come anche Dal si era aspettato, non aveva più parlato da quando si erano messi in marcia, molte ore prima, completamente assorto nei suoi rancori. Camminava senza dar segno di cedimento, con le lunghe gambe che scavalcano agilmente l’alta erba dei prati, le pietre sui sentieri meno battuti, i timidi rigagnoli che si mostravano di tanto in tanto. Deym non si vedeva nemmeno più, dimenticata miglia e miglia addietro: forse il Mangiateschi si era di nuovo gettato in caccia e, chissà come, era incappato nel branco di Teke. Pensarci non aveva più alcun senso: Vathalar sarebbe stata quasi sicuramente la prossima meta ed anche se non erano trascorsi i due mesi prefissi alla partenza da Raidemark, Dal era ansioso di poter ritrovare la compagnia di qualcuno che non fosse Kanyu. Melidan aveva probabilmente trovato una sistemazione ideale per loro due: ne era sicuro, sebbene non sapesse assolutamente niente di quell’Elfo. Già il fatto che non aveva preso posizioni discriminanti nei confronti di un Naigh-Moor lo confortava, assicurandogli una notevole fiducia nei confronti del sacerdote. Braeyel, poi, la Dea dell’Armonia, era la sua insegna, la divinità che l’Elfo aveva deciso di venerare e servire con tutto sé stesso. Curioso com’essa appariva a stento nei ricordi di Dal, oltretutto nel ruolo di un’astuta traditrice, la signora dei sotterfugi. Eppure, fin da piccolo, era stata Shadyla, la nutrice, a mostrargli aspetti per lui inimmaginabili in tutto ciò che lo circondava, e tra essi ci sarebbe stata, forse, una diversa identità di Braeyel. Una dea benevola, leale ed umile, volta a pacificare i popoli e le entità divine: certo non avrebbe svolto un ruolo determinante in una guerra, ma sarebbe stata lo spirito albergante in tempo di pace. Se poi i suoi sacerdoti fossero corrotti e 294
perversi, Dal non aveva mai avuto modo di appurarlo, ma i suoi brevi colloqui con l’Elfo l’avevano indotto a mettere a tacere i suoi dubbi. Certamente, l’influsso di Braeyel non sfiorava nemmeno lontanamente l’animo di Kanyu, ma quale armonia poteva regnare in un animo così disordinato? Sputava odio, ingoiava rancori, eppure nascondeva un timido istinto represso, tale da permettergli di vivere al fianco di un Elfo come Melidan. Evidentemente, c’era un modo perché quella flebile fiamma potesse brillare a sufficienza, e il sacerdote doveva averlo trovato. Correvano intanto i minuti, le ore, inseguendo stelle appena sorte, limitando la fatica imposta dal torrido clima estivo. Come a suggellare la speranza di un quieto cammino, un alito di brezza attraversò la pianura, agitando l’erba e le foglie degli alberi. Scosse con cautela i capelli degli elfi oscuri, gonfiando i mantelli e scivolando sulle fronti sudate, come un morbido panno di cotone. Ciò nonostante, Dal sentiva le gambe dolergli e lo zaino pesargli enormemente sulle spalle, minacciando ad ogni passo di farlo crollare: ansimava, sollevando continue occhiate al proprio compagno, nella speranza che ordinasse finalmente di arrestare la marcia. Fu solo a notte inoltrata che Kanyu alzò un braccio, bloccandosi sul posto. «Vathalar è in vista.» annunciò, senza mostrare la minima soddisfazione «Ci accampiamo qua». Il ragazzo non se lo fece ripetere, lasciandosi letteralmente andare al tronco di un’isolata macchiolina d’alberi, il fiato corto. Solo alcuni minuti dopo, mentre già il mentore preparava un fuoco per la cena, realizzò cosa gli era stato appena detto e si guardò attorno: in lontananza, appena distinguibile dagli acuti occhi di un elfo, si poteva notare il basso profilo di Vathalar, fusa nelle tenebre notturne. «Possiamo farcela anche adesso.» obiettò, voltandosi verso Kanyu: non aveva ancora finito di dirlo che già voleva mordersi la lingua. «Indubbiamente ci sarebbero meno pattuglie in giro, ma come faremo a trovare Melidan? Non sa che stiamo andando da lui» gli rispose però quello, intanto che disponeva esili legnetti sul terreno. Le gambe di Dal accettarono la giustificazione senza discutere. Sorgeva un sole rosato, quando i suoi occhi furono costretti ad aprirsi nuovamente; Kanyu lo stava scrollando senza molta grazia, ingiungendogli ordini ancora poco chiari per l’insonnolito giovane. Si era quasi abituato a dormire poco e male, ma, dopo l’estenuante marcia del giorno prima, quel risveglio gli appariva più amaro di qualsiasi altra prospettiva. Levare obiezioni era inutile, come si ricordò intanto che si tirava a sedere. Il viso del suo
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compagno, accigliato e inclemente, era rivolto verso Vathalar, sbiadita nella tremolante luce mattutina. «Sbrigati ad alzarti, tra non molto le guardie per le strade di Vathalar si raddoppieranno» gli intimò, scoccandogli un’occhiata nell’incrociare in un gesto nervoso le braccia. Dal gemette, sollevandosi in piedi per pura determinazione, gli occhi socchiusi di fronte al sole albeggiante. «Non saremo graditi, lì?» bofonchiò, barcollando sino a raggiungere un tronco d’albero. L’altro lo fissò gelidamente, inspirando prima di rispondere. «Nessun Naigh-Moor è gradito in una città imperiale, nemmeno io.» disse, sottolineando bene quell’avvertimento «E, poiché a Vathalar si trova un’intera Legione di quei fantocci, non ho la minima intenzione di ritrovarmi nei guai ancor prima di partire per le Terre Piagate». Dal annuì in silenzio, staccandosi dall’albero in modo da potersi sistemare alla meno peggio. «Ah, dimenticavo.» aggiunse inaspettatamente l’Esule, voltandosi verso di lui «Quei guanti e quegli stivali che ti ho regalato… Indossali, ti serviranno». Dal inclinò di lato il capo, osservando stranito il suo interlocutore. «Quelli che mi hai dato a Deym? Per quale motivo?» domandò, ripensando al dono che gli era stato fatto la prima sera, nella pericolosa foresta. «Perché le tue mani e i tuoi piedi saranno la cosa più importante in tutto il tuo corpo: la situazione sta precipitando anzitempo, è bene che tu ti prevenga il più possibile.» Kanyu si spiegò con un’ innaturale tranquillità «Non sono semplici capi d’abbigliamento, Dal. Te ne accorgerai non appena li avrai indosso». Il ragazzo lo guardò a lungo, chiedendosi quale volesse essere il significato di quelle parole, ma ben presto si arrese all’evidenza che l’unico modo per saperlo era fidarsi ancora del suo autoproclamato istruttore. Estrasse con attenzione i guanti e gli stivali dal proprio zaino, deponendoli sul terreno asciutto; la sola prospettiva di portare guanti e stivali pesanti in piena estate lo stordì immediatamente. «Con questi farà un bel caldo…» ammise, voltando lo sguardo verso il proprio compagno: come immaginava, non ottenne risposta. La sola consapevolezza che indugiare ancora sarebbe stato più che vano lo spinse ad infilare le mani dentro ai guanti, preparandosi a vederle soffocare dal caldo. Cosa che avvenne immediatamente, nello stesso istante in cui un formicolio improvviso gli corse fra le dita, scivolandogli sotto la pelle come milioni di ributtanti batteri. Trattenne d’impeto il fiato, protendendo le mani davanti a sé, come se quel gesto istintivo potesse impedire a quegli indumenti maledetti di corromperlo: il suo corpo schizzò inspiegabilmente in avanti, 296
facendolo barcollare come un ubriaco. Era come se non avesse avuto peso, come se tutto quanto fosse divenuto leggero e inconsistente, come se la prodigiosa forza di Kanyu adesso scorresse anche nelle sue braccia. Si voltò di scatto, ma il suo compagno guardava altrove, evidentemente disinteressato alla cosa. Dal si mosse con circospezione, piegandosi piano per potersi liberare dei suoi comuni calzari. Il primo volò lontano almeno un paio di metri, sollevando una massa di polvere, il secondo di pochi centimetri. «Niente da dire, sto migliorando» si disse, indossando gli altri stivali con ancora più cautela. Al contrario di quel che si aspettava, non successe niente. Un paio di stivali, indubbiamente comodi, ma semplici stivali. Fu solo quando si mosse per raccogliere i calzari che gli parve, dapprima in maniera appena percettibile, di avere un senso in più, di sapere automaticamente come muoversi. Ogni singolo passo era pestato nel momento giusto, senza che il cervello influisse minimamente sui propri piedi. Fece qualche metro avanti e indietro, sentendosi come un equilibrista sopra un filo, le membra che si rilassavano e si contraevano al momento ideale. «Sei pronto?» lo interruppe di colpo la voce di Kanyu, che ora lo fissava con la sua statuaria calma. Dal annuì dopo qualche secondo, issandosi senza fatica lo zaino sulle spalle. «Scavalcheremo le mura di cinta al momento giusto: normalmente ti sarebbe difficile, ma con quelli dovresti riuscirci senza troppi problemi. «Non ho dubbi in proposito.» ammise il giovane, fissando le sue mani con sguardo adorante i propri guanti «Con… Con questi sono potente come te?». L’Esule storse le labbra in un sorriso che aveva più l’aria di una smorfia che di altro. «Non verrà mai il giorno in cui basterà qualche gingillo ad eguagliare l’esperienza.» rispose, abbassando poi lo sguardo sulle magre gambe di Dal «Ad esempio, lo so che è un effetto degli stivali, ma puoi smettere di battere il passo come un soldato imbecille?». Mezz’ora dopo, le solide mura di Vathalar si stagliavano dinnanzi a loro, immense e minacciose, coi merli alti e torreggianti sul lungo serpente di pietra che attorcigliava la città. Tutto taceva, salvo qualche lontano latrato ed il malinconico fischiettio dei lavoratori più mattinieri. Kanyu intimò ripetutamente all’elfo oscuro di nascondersi il volto con il cappuccio del mantello e di sollevare fin sotto gli occhi una scura mascherina che aveva estratto da una tasca dei pantaloni. Quando entrambi furono pronti, guidò il giovane compagno per metri e metri dell’estremo baluardo del Principato dell’Est, scoccando continuamente sfuggenti occhiate agli spalti sopra di lui, 297
prudentemente seguito dall’altro Naigh-Moor. Di colpo, si appiattì contro le mura, facendo cenno al ragazzo di avvicinarglisi, scuro in viso. «Ci sono poche sentinelle a quest’ora e l’ultima è appena passata.» bisbigliò, indicando la sommità del loro estremo ostacolo con un dito «Scaleremo le mura e passeremo alle sue spalle. Vado io per primo». «A mani nude?» Dal sgranò gli occhi, fissando con scetticismo l’altezza degli spalti, che certo non era minore di sette o otto metri di grosse pietre. «Saranno più che sufficienti» furono le ultime parole di Kanyu, prima che questi si inerpicasse come un ragno, senza dar prova del minimo segno di sforzo. Il giovane indugiò fin quando l’Esule non fu almeno a metà del suo tragitto, quindi si attaccò incerto al primo appiglio, posando un piede su di una pietra sporgente di pochi centimetri: di colpo, gli parve di avere di fronte una colossale scala dagli ampi gradini, tanto sentiva il suo corpo ben equilibrato su quel semplice masso. Arrancò timidamente di qualche centimetro, ancora dubbioso sul da farsi, ma fu questione di pochi secondi perché la fretta gli ricordasse di quanto poco tempo avevano a disposizione e di come quei semplici calzari fossero sicuri. Quasi correva, se fosse possibile correre in verticale. Sorrise allegramente, balzando in una manciata di secondi sugli spalti delle mura. Cercò immediatamente Kanyu con lo sguardo, ma quel che vide fu solo una sentinella incuriosita che lo guardava a pochi metri di distanza, voltato di tre quarti verso di lui come se avesse appena udito un rumore sospetto. Dal vide la guardia sollevare la mano e richiamarlo con una certa inquietudine, palesemente incredulo. Un attimo dopo, Kanyu scattava sugli spalti dalla parte opposta del ragazzo, strappando un gemito sorpreso alla sventurata guardia. Lo scatto di un destro la fulminò sul posto, defraudandola dell’elmo e facendola barcollare come un ubriaco, crollando poi a terra con gran risuonare della sua armatura. Una sola occhiata dell’Esule bastò a Dal per seguirlo come un fulmine lungo la discesa all’interno di Vathalar, le labbra tremanti per lo spavento. Appena toccarono i ciottoli sotto di loro, Kanyu apparve subito tranquillizzato. Si drappeggiò con calma il lungo mantello sulle spalle e prese ad allontanarsi dalle mura come se nulla fosse; Dal lo seguì per puro istinto. «Non ci hanno visto.» spiegò il pallido elfo, avviluppandosi ancor più nelle sue scure vesti «Ma fai bene attenzione quando hai a che fare con la magia: essa ti inganna, ti illude di essere onnipotente e poi ti porta faccia a faccia con i tuoi errori. Più di un mago e infiniti avventurieri inesperti sono caduti per troppa fiducia nei loro incantesimi». «Io… Beh, sì… Maestro?» azzardò impacciato Dal, guardandosi attorno, ancora scosso. «Nessuno mi ha ancora nominato maestro di niente.» replicò sbrigativamente l’altro, brusco «Ora vediamo di fare ciò per cui siamo venuti qua». 298
Si aggirarono come due fantasmi per strade poco battute, il viso ben nascosto sotto il cappuccio e le sottili mascherine, nonostante il sole mattutino cominciasse già a tormentarli con la sua estiva implacabilità. Kanyu si fermò solo di fronte ad un mendicante raggomitolato in un angolo di un vicolo, la barba e i capelli sporchi e incolti da far invidia ai ratti del quartiere. Senza dire niente, lo scrollò con la punta dello stivale, sino a che l’uomo non si degnò di alzare la testa verso quel misterioso disturbatore. «Ho un lavoro per te, Umano» annunciò quello, fissandolo inespressivo. «Chi diavolo sei, tu?» borbottò accigliato il mendicante, portandosi una mano alla fronte affinché i raggi del sole non gli impedissero di identificare il suo interlocutore «E perché dici parolacce già di prima mattina?». «Non deve interessarti.» rispose il Naigh-Moor, mettendo mano ad una borsa che teneva nascosta in chissà quale piega del vestito «Cerca Melidan O’Laynahil, un Elfo, sacerdote di Braeyel. Voglio sapere dove si trova e in quali condizioni.» aprì con gesto rapido la borsa, traendone qualche moneta dorata e gettandola ai piedi del mendicante «Va’. Mi troverai al tramonto vicino alla Cattedrale dei corvi». L’Umano lo fissò con aria scettica, quindi raccolse le monete nella mano, alzandosi in piedi con un certo fastidio: dalla rapidità con cui aveva accettato quel compito, era chiaro che non doveva essere la prima volta che svolgeva una commissione del genere. Dal e Kanyu rimasero sul posto finché il mendicante non gli ebbe lanciato l’ultima occhiata, sparendo poi dietro una svolta. «La Cattedrale dei corvi?» domandò Dal «Che cos’è, un tempio?». «Che fu sconsacrato da una setta di seguaci dei Demoni, circa un secolo fa. Si dice che ci fu una tale carneficina che i corvi banchettarono con i caduti per mesi, il che spiegherebbe perché ce ne siano così tanti, anche adesso». Kanyu si rimise in marcia subito dopo aver pronunciato quelle parole, lasciando ad intendere che non era suo interesse fornire altre informazioni su quel luogo. Vagarono per l’intera mattinata, raccogliendo mendicanti per tutta Vathalar, talvolta invitando senza mezzi termini i più riluttanti a guadagnarsi qualche moneta. L’inesauribile borsa di Kanyu si sgonfiò lentamente, sino a quando l’elfo non decise di aver inviato abbastanza “agenti” per la città. «A sera sapremo dove recarci.» annunciò, appoggiandosi ad una parete «Sino ad allora, non usciremo allo scoperto». Acute strida e urla gracchianti si ammassavano disordinatamente, intramezzate da qualche arruffato sbatter d’ali: ovunque, sagome nere e scattanti si guardavano immotivatamente attorno, fissando con occhi d’ambra ogni piccolo particolare. Somigliavano in tutto e per tutto ad una commissione di tetri inquisitori, ritti sulle macerie, sui balconi invasi dall’edera, sulle braccia protese 299
di statue decapitate. Quanti artisti sarebbero rimasti abbacinati di fronte a un tale spettacolo? Migliaia di corpi eleganti, con le piume nere drappeggiate a tratti dall’infuocata luce del tramonto, magistralmente dipinta su ogni parete e affiancate con delizia da profonde zone d’ombra. Dal si sentiva come un bambino in un negozio di cristalli, che fissa con occhi adoranti quello che dev’essere il regno di una fata. Eppure avvertiva con chiarezza che qualcosa lo imprigionava, lo racchiudeva in un mondo secondo il quale un luogo tanto affascinante sarebbe stato solo sintomo di paura e, orrore. Kanyu, d’altro canto, era a casa. Glielo si poteva leggere negli occhi socchiusi, tranquilli, finalmente in pace con quell’animo ammalato. Nella Cattedrale dei corvi, l’Esule era parte integrante di quel tetro spettacolo. E Dal lo invidiava. Circa mezz’ora dopo, un ometto malvestito si avvicinava a passi rapidi alla Cattedrale, gettando continuamente occhiate nei dintorni. Evidentemente, voleva assicurarsi di esser solo, di non esser stato anticipato da nessun altro. Kanyu volse il capo verso l’individuo con tranquillità, coprendosi il viso con il mantello e la mascherina, subito imitato dal ragazzo. «Costui ha capito qualcosa.» mormorò appoggiando il mento al dorso della mano «È ansioso di recarci notizie perché spera in un ulteriore compenso». «E tu?» Dal inarcò un sopracciglio, alzandosi in piedi «Glielo concederai?». L’altro non rispose, tenendo lo sguardo fisso sul mendicante, che ora, di fronte all’immane spettacolo della Cattedrale, avanzava con passi molto più cauti. Era interessante vedere le reazioni di quell’uomo di fronte ad una turba infinita di uccelli eppure così indifferenti alla sua sorte: scansava percorsi, a tratti s’accucciava, si passava una mano sui capelli, come a volersi sincerare che nessun volatile si fosse appollaiato lì. Lanciò un grido quando una mano ferrea lo afferrò per il colletto, prendendolo alle spalle. «Urla come un animale.» osservò sarcastico Dal, a un paio di metri di distanza «Portalo a Deym, così vediamo se schiatta alla prima pianta che vede». L’uomo si voltò con un feroce imbarazzo, le membra scosse da un lungo brivido, solo per incontrare i frammenti di un volto candido e severo, la cui bellezza sembrava solo esser lì per fargli ancora più impressione. Fece per balbettare qualcosa, ma la voce di quell’essere gli spezzò le parole in gola. «L’hai trovato?» chiese soltanto, abbandonando la presa sulle malandate vesti del mendicante. Quello annuì velocemente, scoccando una veloce occhiata a Dal, che ora fissava la scena in silenzio. «L’Elfo è in città.» rispose, mordendosi fugacemente il labbro inferiore «Lo troverete al “Piatto d’avorio”». «Dov’è?» fu la replica istantanea del Naigh-Moor.
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L’uomo alzò con qualche esitazione un braccio, indicando un lato della città scostato dalle torri e i palazzi che spiccavano qua e là. «L-laggiù, nel quartiere dei lavoranti…» spiegò, prendendo nervosamente fiato «È una locanda modesta, per chi non ha molti soldi da spendere. La sera è affollata perché la cucina è buona e conveniente e-». «E non me ne importa un accidente. In che stanza alloggia?» continuò brusco l’altro, senza smettere di guardarlo. Le labbra del mendicante tremarono visibilmente a quella domanda. «Q-questo non lo so…» ammise e Dal si aspettò che i capelli dell’uomo divenissero di colpo bianchi per lo spavento. «Lo scopriremo da soli.» Kanyu troncò la conversazione con un veloce invito della mano ad andarsene «Togliti dai piedi, adesso». L’Umano rimase sul posto per qualche istante, probabilmente combattuto fra la tentazione di chiedere una ricompensa e le continue implorazioni delle sue gambe di andarsene, quindi accennò ad un goffo inchino e l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio. Quando l’uomo fu abbastanza lontano, Dal coprì la distanza che lo separava dal compagno. «Non sei stato molto gentile con lui» borbottò, aggrottando la fronte. Kanyu si volse verso di lui senza nemmeno troppa stizza. «Gli Dèi non mi hanno fatto generoso». La traversata di Vathalar fu più lunga di quello che il giovane elfo oscuro si aspettava: guardie di pattuglia, strade troppo esposte, piazze e luoghi di ritrovo comparivano di continuo, costringendo i due a prolungare di molto il loro tragitto. L’Esule si muoveva tuttavia con spiccata disinvoltura, facendo soste solo quando era strettamente necessario o indicando quale strada da prendere con l’abilità di un abitante del posto. Solo quando raggiunsero il quartiere dei lavoranti, le sue mosse si fecero assai più misurate: evitava qualsiasi persona notasse, tenendosi lontano dalle luci provenienti dalle finestre, persino dagli animali che dividevano con lui la strada. Quasi fu più lungo l’attraversamento del quartiere che quello del resto della città. Quando finalmente l’insegna sbiadita del “Piatto d’avorio” si presentò dinnanzi a loro, Kanyu fece una smorfia: l’interno del locale pullulava di persone sedute attorno a tavoli spartani intente a cenare. Si voltò inespressivo verso il ragazzo. «Non fare assolutamente niente che dia nell’occhio, una volta dentro.» l’ammonì, sollevando l'indice «Raggiungi il bancone con me e non fare niente senza il mio permesso. Anzi, non fare proprio niente». Dal annuì ad occhi bassi, ormai stufo di controbattere. Il loro ingresso nella locanda fu tutto fuorché inosservato: a decine si voltarono ad osservare quel gigante e il suo compagno, entrambi intabarrati a tal punto da 301
far venire caldo anche solo a vederli. Dal percepì chiaramente la frustrazione trasparire dal volto strenuamente indifferente del mentore. La tensione diminuì quando i due furono finalmente davanti al bancone, i gomiti appoggiati sul ripiano ligneo. Un ragazzotto con lunghi capelli scuri fu prontamente davanti a loro, salutandoli con un cenno del capo intanto che si puliva le mani con una piccola pezza. «Siamo vecchi amici di Melidan O’Laynahil, un Elfo che alloggia in questa locanda.» esordì Kanyu, prima ancora che il giovane potesse dire qualcosa «Abbiate la compiacenza di indicarmi in che stanza si trova». Il giovane rimase in silenzio qualche secondo, col viso che si rabbuiava vieppiù. Troppo, perché Dal non cominciasse a preoccuparsi. «Sir O’Laynahil è uscito.» rispose, appoggiando la pezza sul bancone «Affari urgenti, ha detto». L’Esule sorrise appena. «D’accordo, sei una persona fidata, hai risposto come ti ha detto di fare.» un’espressione di sorpresa comparve rapidamente sul volto del giovanotto «Ma noi due siamo veramente vecchi amici di Melidan da cui aspetta di ricevere una visita. So bene che è nella sua stanza, perciò che ne dici di dirmi in quale, adesso?». Il giovane rimase interdetto, le mani pietrificate sul bancone, quindi sollevò il pollice, additando alle scale. «Salite e seguite il corridoio. È la terza a sinistra» rispose, stiracchiando un sorriso inquieto. «Mille grazie» Kanyu fece un cenno col capo al giovane, prima di seguire la strada da lui indicata. Il corridoio era tranquillo e deserto, privo di qualsiasi decorazione, fatta eccezione per un grosso specchio appeso all’immediata sinistra: Dal ne approfittò per incrociare un viso smunto e provato che faticava a riconoscere come proprio. Una, due… Tre porte. Kanyu batté qualche colpo sull’uscio, finché un borbottio non rispose qualcosa d’incomprensibile dall’interno. Un breve rumore di chiavi e la giovane faccia dell’Elfo comparve in uno spiraglio fra lo stipite e la porta. «Potresti essere più veloce.» fu il saluto poco amichevole di Kanyu, che spinse con decisione la porta di fronte ad un esterrefatto Melidan; Dal lo seguì con una certa indecisione. «E tu sei in anticipo.» ribatté un attimo dopo Melidan, chiudendo la porta «Ma non nego che rivedervi mi fa decisamente piacere». «A me, invece, non fa affatto piacere rivederti così presto.» l’Esule si guardò intorno con aria disinteressata «Spero tu abbia trovato un riparo adeguato».
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«Io… Beh, nulla di estremamente sicuro, ma qualcosa c’è.» disse con tono evasivo «E voi? Come mai siete già qui?». Kanyu non rispose; al contrario, si accomodò sull’unica sedia della stanza, lo sguardo rivolto verso la finestra che dava sulla città imperiale. «Dal Jin?» domandò allora l’Elfo, voltandosi preoccupato verso il ragazzo. Dal prese fiato, spostando gli occhi verso il mentore solo per non trovare alcun consiglio. «Untori» disse alla fine, e in un attimo si accorse che tutti e tre avevano paura di quella parola.
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XXX. Prede consapevoli
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anyu sedeva nella stanza dell’Elfo, le braccia conserte, gli occhi bassi, lontani e distaccati dalla tensione che vibrava negli animi dei suoi due compagni. Dal si tratteneva, inchiodato com’era su un duro materasso, imponendosi di non muovere nemmeno un muscolo, sebbene il suo sguardo tradisse tutta la sua agitazione. Ad ogni modo, se Kanyu appariva così tranquillo, a sua volta lui doveva mostrarsi lucido e pacato, nonostante trovasse curiosamente più ragionevole il continuo passeggiare di Melidan. Questi non tentava neppure di inibire le sue sensazioni, spostandosi ossessivamente da un lato all’altro della stanza: ora in un angolo, ora di fronte alla finestra, ora appoggiato alla parete, vi si staccava con sospiri e gesti nervosi. In ogni occasione, le lunghe sopracciglia convogliavano puntualmente sui grandi occhi, schiacciandoli in un’espressione contrariata. Più volte aveva provato ad avviare una conversazione, a protestare, ma ogni sua questione otteneva solo risposte laconiche pronunciate poco volentieri. «È una sciocchezza.» diceva, mentre cambiava posizione «È semplicemente assurdo fidarsi di un uomo di quel genere». Seguivano attimi senza che nessuno dei tre riuscisse a parlare, quindi Kanyu mormorava qualcosa con la strascicata pazienza di un padre verso un bambino che non vuole capire. «È questione di poco tempo, solo qualche settimana, dopodiché ce ne andremo.» nemmeno alzava il capo «Inoltre, non c’è posto più sicuro, da quanto mi hai detto». A quel punto, Melidan si rinchiudeva nel suo silenzio di qualche minuto, prima di ricominciare da capo, variando appena la forma del discorso. Dal chiuse gli occhi, inspirando a fondo: nemmeno a lui piaceva quella prospettiva, ma si trovava costretto a dar ragione all’Esule. Per quanto il sacerdote di Braeyel si fosse opposto, quella era l’unica via d’uscita per tutti e tre. Un chiaro bussare si fece udire proprio quando Melidan stava per riprendere la parola: la stanza si congelò a quel semplice rumore, sprofondando in un’atmosfera senza spazio né tempo. Era come esser muti, ciechi e immobilizzati al suolo. Ma l’udito, l’unica cosa che ancora funzionava, aveva recepito il bussare alla porta. D’un tratto, l’Elfo spezzò la tensione, agguantando il bastone con mossa repentina: senza di esso, sarebbe stato una persona come tante ed in quel momento era l’ultima cosa che voleva. Aprì uno spiraglio tra il corridoio e la stanza, scrutando la persona sulla soglia, con occhi che mai un sacerdote della Dea dell’Armonia deve avere. Remond d’Askernil teneva le 304
braccia lungo i fianchi, con le dita che accarezzavano il bordo di un mantello decisamente fuori luogo, con quel clima. Sul viso, spiccava il suo sorriso sereno. «Buonasera, sacerdote O’Laynahil.» pronunciò, chinando velocemente il capo in un saluto gentile, ma ben poco formale «Avete richiesto la mia presenza?». Melidan non fece altro che aprire la porta e farsi da parte, il pugno ancora ben serrato sul bastone. Remond entrò nella stanza con un rapido ringraziamento e subito il suo viso si volse verso quello di Kanyu, che ora lo guardava inespressivo. Un’esplosione di emozioni attraversò l’Umano, intanto che Melidan chiudeva la porta dietro di lui, esaminando per precauzione il corridoio vuoto. «Dunque, è vero.» disse con notevole soddisfazione l’uomo, allargando il proprio sorriso «L’Esule in persona ha chiesto accoglienza nella mia umile gilda». Kanyu impietrì immediatamente il viso in una smorfia ben lungi dall’essere allegra. «Non sono venuto sin qui per essere esposto come trofeo da un tizio che nemmeno conosco» ribatté. «Chiedo scusa, ma per me incontrarvi è un onore immenso.» tese la mano verso l’elfo oscuro, che ricambiò senza entusiasmo «Sono Remond d’Askernil, il Signore della Fratellanza della Nube». «Curioso come fra fratelli esista un Signore.» osservò l’altro, lasciando la stretta dell’Umano. Remond accennò una piccola risata, senza scomporsi per la frecciata che gli era stata appena lanciata. «Beh, la Fratellanza riguarda tutti gli altri membri.» chinò appena il capo, sorridendo con calma «Io sono un po’ il padre della “famiglia”». «E quindi esigete rispetto dai vostri adorati figlioli. E dagli ospiti?». «Dipende dagli ospiti, ovviamente: nel vostro caso, non avrete però nulla da temere. Sarete il benvenuto e verrete trattato come il Signore stesso della Fratellanza». «Già, certo.» Kanyu annuì scettico, sollevando il pollice verso il giovane NaighMoor dietro di lui «Peccato che non sia solo». Remond esitò per un attimo, osservando con curiosità Dal, che, tutto sommato, riusciva a trattenere la sua agitazione. «Oh, il vostro protetto, sì.» disse dopo qualche attimo e tutta la sua esuberanza non si seppe che fine fece «È vostro figlio?». «No, e sarebbero comunque affari miei.» rispose brusco il pallido elfo; Dal ebbe per un attimo la sensazione che Kanyu avrebbe comunque voluto aggiungere qualcosa in proposito «Come sistemerete lui e Melidan?».
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«Beh, qualcosa troveremo di certo, anche se non potrò permettermi un alloggio come il vostro» rispose qualche secondo dopo l’Umano. «Ah, a lui un castello e a noi uno sgabuzzino?» interloquì stizzito Dal, osservando aspramente Remond. L’Esule si volse senza fretta verso di lui, fulminandolo con un’occhiata rovente. «Non avrai bisogno di nulla di più di un letto.» lo zittì, spostando poi gli occhi verso il Signore della Fratellanza «Vi chiedo che il ragazzo prenda parte alle attività della gilda fintanto che io sarò vostro ospite: sarà il mio pagamento per la vostra cortesia». Dal spalancò gli occhi, fissando prima l’elfo oscuro e quindi l’Umano, che appariva non meno colpito di lui. «Non vedo perché dobbiate pagare per la mia ospitalità.» disse, quest’ultimo grattandosi distrattamente la nuca «E poi la Fratellanza ha già tutti i membri che le servono». «Uno in più non può che farvi bene.» troncò immediatamente Kanyu «È in gamba: mettetelo in coppia con qualcuno dei vostri migliori ladri, gli fornirà un ottimo supporto». Remond si morse con incertezza il labbro inferiore, quindi si decise a dare una risposta al suo interlocutore. «Il compagno di Erdelen, uno dei miei giovani più promettenti, si trova altrove per una questione esterna alla gilda. Il vostro protetto lo rimpiazzerà finché non sarà di ritorno.» stabilì, valutando l’esile stazza dell’elfo grigio «Spero che sia davvero bravo come dite, Kanyu». «La mia parola è una sola, Remond. Sono io a sperare che ai vostri giovani promettenti non saltino in testa idee poco salutari per loro» l’Esule sottolineò quelle parole con un tono tagliente come un rasoio. «Naturalmente, naturalmente.» replicò senza farsi attendere l’uomo, tornando a sorridere «Beh, se non avete altri dubbi, invierò qualcuno che vi guidi ai vostri alloggi senza dare nell’occhio». «Nessun problema.» Kanyu accavallò le gambe con gesti agili, appoggiandosi allo schienale della propria sedia «Dateci solo il tempo di preparare la nostra roba». Remond annuì con un sorriso, dirigendosi verso la porta. «Conto di avervi come ospiti entro stanotte.» disse con entusiasmo, premendo sulla maniglia «Mi spiacerebbe farvi passare una notte in questa camera». «Come preferite» rispose con noncuranza l’Esule, nuovamente impassibile. Remond indugiò ancora un istante, quindi porse un distinto saluto ai tre ed aprì la porta, uscendo dalla stanza. Melidan fu più che sicuro di aver letto una traccia di sollievo sul suo viso.
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Il Naigh-Moor morse nervosamente il pezzo di carne, ingoiando silenziosamente un amaro boccone dietro l’altro, accovacciato scomodamente tra due forzieri divorati dai tarli. Quanti giorni era che andava avanti a quel modo? Non lo ricordava, aveva perso da un pezzo la voglia di tenere il conto. Pensare che fino a poco prima aveva sotto di sé decine di maghi e soldati… Ora la sua unica compagnia non era altro che qualche ratto e fastidiosi insetti. L’idea di tornare indietro aveva provato più volte a inculcarsi nella sua mente, a tratti si era imposta su tutte le altre, ma ogni volta un getto di rabbia l’aveva soppressa, ricordandogli quanto desiderasse raggiungere la sua ambizione. Scostò la treccia con uno scatto del capo, mettendo in mostra i denti per l’ira che provava ogni volta che qualsiasi cosa, dalla più semplice alla più catastrofica, si frapponevano a qualsiasi suo volere. Sputò senza patemi un brandello di carne che non era di suo gradimento e riprese avidamente a mangiare. Come a cercare conforto, la mano sinistra accarezzò il fodero della propria, temibile spada. Avrebbe atteso anche mille millenni, ma il sangue del fratello sarebbe stato suo. Soltanto suo. Il piccoletto procedeva spedito con qualche metro di vantaggio rispetto ai tre elfi incappucciati, rivolgendo di tanto in tanto qualche sfuggente saluto a individui poco raccomandabili ai lati della strada; ovunque, regnava disordine e un cattivo odore di sporcizia e putrefazione. Dal respirava regolarmente, senza staccare gli occhi dalle strade che il Mezzuomo imboccava e fingendo di trovarsi a suo agio in quell’ambiente. Nemmeno a Raidemark, quando combatteva come gladiatore nell’arena di Bozus, aveva mai incontrato un tale degrado ed ora era tutt’altro che felice di trovarcisi. «È la vera faccia dei miraggi.» gli aveva detto un giorno Kanyu, in uno delle sue rare comparse di umanità «Quasi tutte le persone che si trasferiscono in una città lo fanno in cerca di fortuna e altrettante si ritrovano in queste condizioni». Non era difficile da immaginare, ma non si aspettava che la miseria potesse avere una simile faccia, neppure con i suoi precedenti da schiavo. Ad Armalak, non vi erano liti fra mendicanti, bestemmie che si levavano al cielo o carogne di animali gettate malamente fra cumuli d’immondizia. Tutto era regolato da una legge ferrea e spietata che non accettava la benché minima eccezione. Per quanto potesse sembrare assurdo, quel sistema era riuscito a regolare la vita della città nera per secoli, senza presentare il benché minimo intoppo, fatta eccezione per gli esuli, i quali, sebbene fossero estremamente pochi, non accennavano a diminuire. Tastò tristemente il marchio di schiavo sulla spalla destra, la runa di Snathiir, schiavo, che l’avrebbe identificato come tale per tutta la sua vita. Gli anelli deboli del terribile ingranaggio Naigh-Moor avevano di fronte a loro solo due possibilità: la morte o la fuga verso un miraggio. Si guardò
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attorno un’ultima volta: questo era quello che lo aspettava? Forse morire sarebbe stato meglio. «Si è fermato» annunciò Melidan, che teneva gli occhi fissi sul Mezzuomo: davanti a lui, si ergeva un imponente edificio in mattoni rossi, davanti al quale svettava ben redatta l’insegna di una comune bottega di spezie. Il Mezzuomo vi entrò con calma, scoccando un’occhiata d’intesa ai tre alle sue spalle; Dal, Melidan e Kanyu non si fecero attendere oltre. Quel che trovarono all’interno fu appunto un normalissimo negozio di spezie, anche piuttosto provvisto: centinaia di sacchi e barattoli costellavano la stanza e troneggiavano su un bancone assieme ad un individuo dai folti baffi neri. Come li vide entrare, il Mezzuomo allargò le braccia a indicare la bottega. «Questa è la nostra copertura, la “Bottega di Mac”.» disse col fare di una guida, prima di spostare l’attenzione sull’uomo al banco «E quello è appunto Mac, la più eclatante faccia di bronzo di tutta Vathalar». «Nonché il perno fondamentale di tutta questa fratellanza di buffoni.» aggiunse l’uomo, prendendosi il viso fra le grosse mani «Sono l’informatore principale della gilda: se avete bisogno di sapere qualcosa, potete chiedere tranquillamente a me». «D’accordo, ora puoi condurci ai nostri alloggi?» domandò spazientito Kanyu, osservando il Mezzuomo. Mac parve offendersi, ma subito dopo accettò la brusca replica del Naigh-Moor con una scrollata di spalle; persino il piccoletto davanti a loro si disinteressò senza problemi alla cosa e si diresse verso una porta situata dietro al bancone, proprio alle spalle dell’informatore. Oltre quella soglia, non esisteva più niente che potesse essere anche solo lontanamente legato al commercio di spezie: facce da galera, tizi in abiti stravaganti e ragazzini con occhi da adulti indirizzarono verso di loro occhiate di dubbia fiducia, prima di tornare ai loro passatempi e mansioni. I tre elfi ed il Mezzuomo vi passarono in mezzo come pioggia sui tetti, senza che il minimo intoppo potesse arrestarli. A quello scenario ne seguirono altri simili per molti aspetti, poi scale via via più raffinate, sino ad una porta in legno lucido e accuratamente pulito. Lì il Mezzuomo riprese la parola, intanto che girava la chiave nella serratura: «Questa è la vostra stanza, sir Kanyu. Remond ha disposto per voi la migliore che aveva. Se volete darci un’occhiata…». «Va benissimo.» mormorò l’Esule, spingendo di lato il Mezzuomo ed entrando nella stanza: un attimo dopo, la porta si chiuse con un colpo. Il piccoletto si voltò con aria basita verso l’Elfo ed il giovane Naigh-Moor, fermi accanto a lui. «Non preoccupatevi.» lo rassicurò il sacerdote, smorzando l’agire del compagno con un leggero sorriso «Il mio amico è solo molto stanco». 308
«Dite?» borbottò l’altro, accarezzandosi con la destra il corto collo «A me sembrava furioso». «È l’impressione che dà a tutti quelli che non lo conoscono.» spiegò con calma Melidan «Non temete, non vi farà niente di male». «Me lo auguro sinceramente» il Mezzuomo si passò due dita sul naso, sospirando mentre tornava a scendere le scale. «Il vostro appartamento non è qui vicino.» disse, trascorsi alcuni secondi «Remond si scusa, ma, come vi aveva già detto, la Fratellanza non ha bisogno di altri membri e le stanze sono tutte occupate». «Però aveva detto che io avrei fatto coppia con un ladro momentaneamente senza compagno.» s’intromise Dal, aggrottando la fronte «Non posso usare la sua camera?». «Dubito che avrebbe piacere che uno sconosciuto potesse frugare indisturbato fra le sue cose» rispose brevemente il Mezzuomo, stiracchiandosi le braccia. Un lungo corridoio di porte si stendeva ora davanti a loro, non dissimile da quello a cui si collegavano le stanze dell’arena: certo, non ci voleva un genio per immaginare che la qualità delle camere fosse ben inferiore a quella assegnata a Kanyu. Oltretutto, da alcune porte socchiuse si intravedevano mobili e brande spoglie, il minimo indispensabile per trascorrere una notte e celarsi da sguardi indiscreti. Esattamente come nell’arena. Ci vollero altre due rampe di scale perché i tre raggiungessero un ulteriore uscio, recentemente e malamente spolverato. Dietro di esso, una stanza semplice e rustica, probabilmente adibita di recente ad appartamento, si preparava ad accogliere Melidan e Dal. «Ecco qua.» annunciò il Mezzuomo, invitandoli ad entrare «Venite pure dentro». Dal si accorse che, pur essendosi mostrato cordiale in ogni cenno, l’Elfo stringeva con forza il proprio bastone. «Non è il massimo, ma è già meglio di molti altri alloggiamenti.» disse il piccoletto, una volta che furono dentro «Se avete qualche problema, potete rivolgervi a Mac all’ingresso: vi organizzerà inoltre un incontro con Remond, se lo vorrete». «Ah, pensavo che venisse a offrirci il benvenuto» obiettò il Naigh-Moor, portando una mano alla cinghia del proprio zaino. «Purtroppo, gli affari della Fratellanza gli lasciano ben poco tempo libero. Ad ogni modo, se vorrete conferire con lui, non incontrerete alcuna difficoltà». Dal annuì fra sé, prima di mettersi a sedere su uno dei due giacigli. «Potete andare, gentile Mezzuomo» disse per lui Melidan, sorridendo verso la propria guida, che non se lo fece ripetere e chiuse la porta, lasciando i due soli nella loro nuova stanza.
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Tutti i presentimenti dell’Elfo si affollarono di colpo sul suo viso ovale; Dal lo guardò con preoccupazione. «Qualcosa non va?» domandò, appoggiando le braccia stanche sulle cosce magre. Melidan stiracchiò un sorriso teso. «Questo posto non piace nemmeno a te, vero?» gli chiese per tutta risposta, voltandosi a guardarlo: Dal scosse leggermente la testa. «C’è qualcosa che non va, qui dentro.» sussurrò il ragazzo, esaminando la stanza, come se vi cercasse alcuni occhi a spiarli «Non so dirti cosa, ma ho il timore che questo posto sia pericoloso quanto gli untori stessi». «Se non è direttamente in combutta con loro.» lo corresse l’Elfo, sedendosi a sua volta «Ci sono molti particolari che i nostri occhi vedono ma a cui non fanno caso: affina i tuoi sensi, ragazzo mio. Prova a pensare al nostro viaggio attraverso questo edificio e valuta se trovi delle incongruenze». Dal si rabbuiò, socchiudendo gli occhi e appoggiando la schiena alla sponda del letto per meglio pensare. «Quel Mezzuomo è stato troppo vago. A tratti gentile e di colpo enigmatico.» stabilì alla fine «Soprattutto quando gli parlavo io. Forse non vede di buon occhio gli elfi oscuri». «O forse le tue domande colpivano nel vivo. Non hai notato nulla di strano nel corridoio di sopra?» Melidan parlava col tono di chi già conosce la risposta, e certo non era felice di questo. «Beh, era silenzioso, per essere quest’ora, ma dopotutto questa è una gilda di ladri, no?». «Troppo silenzioso, Dal. Praticamente nessuno si trovava nella propria stanza. Inoltre, ho visto bene che nelle camere di sopra c’erano anche due o tre letti assieme. Tutta la gente che abbiamo incontrato stasera non basterebbe a riempire la metà di quelle stanze». «Però può anche darsi che siano quasi tutti usciti. Non sarebbe stranissimo». «Già, ma chi vivrebbe in una stanza che puzza di muffa e di chiuso?» osservò di colpo Melidan, sollevandosi in piedi, la mano ad accarezzare il mento. Dal inarcò un sopracciglio, senza capire. «Non ci vuole un gran naso per sentire quell’odore: l’intero corridoio ne è pregno ed esso si accresce vicino a quelle porte chiuse.» continuò, appoggiando poi le mani sui fianchi «In quelle stanze non dorme nessuno, assolutamente nessuno. Però hanno preferito ospitarci in una stanza il più lontano possibile da quella di Kanyu. Capisci cosa voglio dire?». Dal spalancò sempre più gli occhi, drizzando la schiena, punto sul vivo da una tremenda paura. «È una trappola?» chiese, a conferma dei propri timori «Lo attaccheranno?». 310
«Non ne ho idea. Ci sono innumerevoli possibilità dietro a questo modo d’agire, ma è palese che la Fratellanza della Nube ha degli interessi particolari dietro alla presenza di Kanyu qui. Bisogna poi aggiungere che si tratta di un’organizzazione di mezza tacca, in quanto ne sono venuto a conoscenza troppo tardi perché fosse effettivamente pericolosa. Può darsi che vogliano solo usarlo come una specie di fenomeno da baraccone, magari illudendosi di aumentare la propria fama: tenendoci lontani, Remond può far credere che Kanyu abbia deciso di offrire chissà quale aiuto alla sua debole gilda. Anche solo esser presi in considerazione da un individuo di tale notorietà può significare moltissimo per questo covo di tagliagole». «Ma potrebbe anche non essere così, vero? Potrebbero essere intenzionati a consegnarci agli untori o a mio fratello». «Tuo fratello non è nei dintorni; comunque… Sì, c’è questo rischio». «Dobbiamo avvisare Kanyu e andarcene, allora.» dichiarò Dal «Non possiamo rischiare di cadere in un tranello degli untori, giusto?». «Kanyu ha già capito tutto.» lo tranquillizzò Melidan, sollevando un palmo «Anzi, credo che il suo scopo sia proprio quello di istigare Remond ad agire al più presto. Lui non sa che noi sospettiamo che possa tradirci, perciò compirà inevitabilmente l’errore di agire alla leggera: viste tutte le tracce che ha lasciato dietro di sé, è indubbiamente troppo stupido per aspettarsi una nostra reazione». «E se non lo fosse?». «Staremo all’erta, ad ogni modo. Pensi che Kanyu abbia chiesto che tu ti unisca a un ladro della gilda per niente?». Dal trattenne il fiato, sollevando gli occhi verso l’Elfo. «Devo fare la spia, in pratica?» domandò, ben poco allegro «Tenere d’occhio il mio compagno e capire se c’è veramente qualche trama sotto». «Esatto. Il tuo primo vero compito per ricambiare il nostro aiuto.» Melidan parve tranquillizzarsi subito dopo quell’ammissione «E poi penso che a Kanyu faccia piacere che tu abbia modo di imparare qualche trucco da ladro: anche lui lo ha fatto, come ben saprai». «Preferirei usare mezzi più diretti che ricorrere a tutti questi sotterfugi. Non ho mai amato la prospettiva di vivere degli espedienti di un tagliaborse». «La vita è fatta di esperienze che uno nemmeno si immagina, ragazzo mio. E, credimi, sei fortunato ad avere un istruttore come quello: saresti invidiato da tutti, sai?». «Non mi interessa degli altri.» Dal ebbe una smorfia, tornando ad appoggiarsi «Voglio soltanto che questa dannata storia finisca il prima possibile. Da quando me ne sono andato da Armalak, non trovo un minuto di tregua».
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«Tregua?» Melidan rise appena «Se tu ti concedessi una tregua, nelle tue condizioni, non otterresti altro che consegnarti da solo alla morte. Hai idea di quanto sia difficile la vita, fuori dalla tua città, per un Naigh-Moor? Personalmente, non conosco altri esuli, eccetto Kanyu, e non si può dire che lui non abbia sofferto per raggiungere un risultato tra l’altro molto discutibile. No, ragazzo, tu non potrai tirare il fiato e rilassarti sino a quando non avrai la certezza di poter sopravvivere da solo, e questo accadrà quando avrai regolato i tuoi conti col passato.» prese fiato, quindi abbassò lo sguardo con espressione colpevole «Cosa che io, ad esempio, non sono ancora riuscito a fare». Dal lo guardò, chiuso nel suo silenzio: Melidan non avrebbe aggiunto altro a nessun costo.
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XXXI. Vita da ladro
L
’indomani, Dal si destò dopo una notte infinitamente lunga: ogni pensiero nascondeva un pericolo, ogni scelta una trappola troppo attentamente architettata. Fuggire ancora? Se la Fratellanza era effettivamente legata agli untori, forse fuggire sarebbe significato trovarsi stretti in una morsa accuratamente disposta per tutta Vathalar. Ma com’era possibile che in quella città, un secolare bastione contro gli elfi oscuri, si fosse insidiato sino a quel punto il seme del Clan della Peste? A cosa serviva quella possente armata di cui aveva sentito tanto parlare? Era assurdo che vi fossero varchi così enormi. Eppure lui e Kanyu erano riusciti a oltrepassare la cortina delle mura e, anche se ora qualcuno li stava per forza cercando, quali informazioni avrebbe potuto fornire una guardia che li aveva intravisti nel giro di una manciata di secondi, prima di ricevere un pugno in faccia? Senza contare che Vathalar era veramente enorme, almeno agli occhi di Dal: da quel poco che aveva visto in una giornata già gli sembrava immensa, se paragonata ad Armalak. Mai avrebbe potuto pensare che nell’Impero esistessero città tali da far sembrare Vathalar poco più che un villaggio. Persino a Nog Tuluth, Vlara, la capitale della nazione Naigh-Moor, superava di gran lunga le dimensioni di quella città, ma uno schiavo nato e cresciuto entro le solide mura di Armalak non avrebbe mai potuto concepire una cosa del genere. Nessuno, nella città nera, si sarebbe mai osato di tradire, ben conscio di quale sarebbe stata la sua sorte per una mossa tanto avventata; a Raidemark, Dal aveva provato sulla sua pelle quanto gli uomini erano ben disposti a vendersi, pur di guadagnarci qualcosa. Avevano cercato di fermarlo assieme a Kanyu: per quale motivo a Vathalar le cose avrebbero dovuto essere diverse? Forse in una grande città le leggi erano più ferree e autoritarie o magari tutto il contrario? Si infilò i propri vestiti con le membra che sussultavano, quasi il giovane fosse in procinto di cadere in un attacco epilettico; Melidan, svegliatosi con qualche minuto di anticipo, si stava allacciando gli stivaletti in tutta calma. «Sarà meglio recarsi da quel tipo, l’informatore» mormorò l’Elfo, quando entrambi furono pronti. «Mac?» domandò sospettoso il ragazzo, drappeggiandosi il mantello sulle spalle «Pensi che lui possa confermare i nostri sospetti? Mi sentirei di escluderlo». «No, semplicemente è il nostro unico punto di riferimento.» Melidan non batté ciglio «Devi fra coppia con un altro ladro, no? E, soprattutto, devi tenerlo d’occhio e riferire a me o a Kanyu qualsiasi stranezza».
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Dal annuì: d’altronde, il pericolo gravava comunque sulle loro teste, tanto valeva darsi da fare per togliere l’incomodo il più in fretta possibile. Le stanze della gilda giacevano in un tranquillo silenzio, vuote da far quasi impressione: Melidan aveva probabilmente ragione. C’erano altre stanze disponibili, ma forse Remond voleva soltanto evitare che i suoi due ospiti dovessero spartire l’appartamento con le urla e la baldoria proveniente dalle camere accanto. Mac fu l’unica presenza che incontrarono in tutto l’edificio, e certo nemmeno lui scoppiava di vitalità. Sedeva su uno sgabello dietro all’imponente bancone, scacciando granelli di polvere dalla canottiera che indossava. Quando li notò, non diede a vedere null’altro che un leggero sorriso. «Spero che il letto sia stato di vostro gradimento.» salutò, voltandosi verso gli elfi «Qui non siamo abituati ad avere ospiti, facciamo ciò che possiamo». «Eccellente, non preoccupatevi.» ribatté Melidan col suo eterno sorriso. «Spero che non sia una gentile bugia.» Mac accennò ad una piccola risata «Andate in città?». «Veramente, il ragazzo doveva far la conoscenza con un giovane momentaneamente senza compagno.» l’Elfo indicò con la mano Dal «Immagino che voi possiate esserci in qualche modo d’aiuto». Mac si adombrò solo un istante, sforzandosi di ricordare. «Vi riferite ad Erdelen, giusto?» azzardò, accarezzandosi i baffi con la destra. «Mi pare che il nome fosse quello.» assentì Melidan, appoggiandosi il bastone su una spalla. «A quest’ora starà dormendo, come minimo. Ad ogni modo, vi consiglio di aspettarlo nella sala comune, ovvero quella da cui venite. Lo manderò a chiamare il prima possibile». L’Elfo ringraziò con un cenno del capo, quindi si volse verso il giovane NaighMoor, ammiccando alla porta appena varcata. Una volta nella sala comune, Dal tirò un sospiro e si mise a sedere su un divanetto per nulla intonato col resto dell’arredamento. «Spero di non doverlo aspettare sino all’ora di pranzo» bofonchiò con aria sprezzante. «Il nostro Erdelen lavora di notte, come ogni ladro che si rispetti.» osservò Melidan, preferendo restare in piedi «Ho sbagliato a portarti subito qui». «Bah.» Dal scrollò le spalle «Sempre meglio che dormire». E quasi si addormentarono, nelle tre ore che seguirono: la sala restava vuota, noiosa, priva anche solo di un particolare che attirasse l’attenzione. Tra uno sbadiglio e l’altro, tentavano d’impostare una conversazione, ma, con quella atmosfera, ogni discorso era destinato a spegnersi entro breve tempo. D’un tratto, un ragazzotto biondo dai bei lineamenti fece il suo ingresso nella stanza, ancor intento a sistemarsi un vestito verdastro e poco rifinito. 314
«Siete voi ad aver chiesto di me?» domandò con voce chiara, passandosi una mano fra i corti capelli a malapena pettinati. «Tre ore fa» rispose Dal, tirandosi in piedi con un gemito, intanto che Melidan si staccava dalla parete. «Dovete scusarmi.» il giovane uomo si grattò la nuca con aria imbarazzata «Non ero al corrente di niente e sono rientrato tardi». «Acqua passata.» lo rassicurò con un sorriso Melidan «Remond ha detto che il mio amico dovrebbe rimpiazzare temporaneamente il tuo compagno». «Sì, mi hanno spiegato tutto.» Erdelen squadrò il Naigh-Moor coi suoi occhi grigi «Cosa sai fare?». «Non ne ho la più pallida idea.» ammise Dal «Cos’è che dovrei fare?». Erdelen rimase a guardarlo piuttosto perplesso. «Non fare quella faccia.» s’intromise Melidan, posando una mano sulla spalla dell’elfo oscuro «Kanyu l’ha addestrato personalmente: posso garantirti che sa fare molto più di quello che dice». Dal lo guardò poco convinto: era vero, ma nessuno gli aveva mai detto come rubare. «La fama dell’Esule attraversa il mondo intero.» asserì Erdelen, sorridendo a Melidan «Tuttavia, mi permetterò di giudicare da solo di cosa ha bisogno e in cosa può essermi utile». «Nessun problema.» l’Elfo si massaggiò il collo con una mano «Quand’è così, vi lascio: immagino che abbiate molto da dirvi». Dal fissò il sacerdote un’ultima volta, quindi gli rivolse un cenno di saluto e tornò sul giovane. «Mi auguro d’incontrarvi nuovamente» disse Erdelen, chinando il capo rispettosamente. «Più spesso di quanto tu creda, non preoccuparti» e con queste parole ed il suo solito sorriso sulle labbra, Melidan si allontanò dai due. Alcuni attimi di esitazione seguirono a quella separazione, spezzati ben presto dalla voce del giovane Umano. «Un maestro invidiabile, già. Chiunque, qua dentro, ha sognato di trovarsi sotto la sua protezione» Erdelen incrociò le braccia, esaminando con occhio critico l’elfo oscuro. «Com’è che a me non era mai passato per la testa, invece?» Dal ricambiò le sue occhiate con una buffa espressione. «E io che ne so cosa frulla nella testa dei Naigh-Moor? Sei tu quello con le orecchie a punta» il ragazzo si lasciò allegramente andare ad una risata sommessa. «Dubito che i nostri cervelli siano tanto diversi» obiettò Dal, spacciandosi per offeso. 315
«Meglio, così non avrò difficoltà a spiegarti il mestiere». Erdelen non perse la benché minima traccia della sua serenità ed anzi appoggiò una mano sulla spalla del ragazzo, invitandolo con l’altra mano a seguirlo: non gli ci volle molto per notare la grossa scimitarra che l’elfo teneva allacciata dietro la schiena «E quello spiedo a che ti serve?» gli domandò «Mica devi affrontare un esercito in campo aperto». «Beh, tu ti separeresti dalla tua arma in un covo di ladri?» ribatté l’altro, sorridendo debolmente. «Stai tranquillo: lo spauracchio dei tuoi tutori basta e avanza perché nessuno si avvicini alla tua roba.» il giovane furfante continuava a essere spigliato e tranquillo «Però devi capire che non puoi fare il ladro portandoti dietro uno spadone così ingombrante. Ti serviranno… Al massimo un pugnale, uno stiletto, roba leggera, insomma». «L’unico pugnale che ho non è proprio nelle migliori condizioni.» Dal inarcò un sopracciglio scettico «Posso capire il tuo ragionamento, ma devi dirmi dove trovare quello che dici». «A questo penserò io, non preoccuparti. Archi? Balestre?». L’esule si strinse nelle spalle e scosse velocemente il capo. «Allora ti farò avere anche una balestra: non sia mai che rischi la vita di un nostro ospite.» ed Erdelen, che aveva lentamente condotto l’altro sino ad una delle tante porte, la aprì, mostrando agli scarlatti occhi del Naigh-Moor una sorta di magazzino tutt’altro che spartano, per quanto fosse nascosto agli occhi di tutti. «Bind!» esclamò subito il ladro, guardandosi attorno «Esci fuori dal tuo buco, se hai voglia di mettere assieme qualche soldo!». Ci volle qualche secondo perché un uomo sulla quarantina spuntasse da una stanza attigua, il torace nudo e robusto. «Buongiorno a te, Erdelen.» borbottò, avvicinandosi al ragazzo «A giudicare da come urli, direi che ti sei svegliato». «Cosa ti aspettavi? Che mi infilassi fra tutto il ciarpame che hai lì dietro?» il viso del ladro non fece una grinza dinnanzi alle parole dell’uomo. «Se tu lavorassi, anziché bighellonare di notte, ammasseresti forse più “ciarpame” di me.» replicò quello, passandosi una mano tra i corti riccioli scuri che gli si rizzavano sulla testa come malferme torri «Cosa ti serve?». «Per prima cosa, urge che tu faccia la conoscenza di Dal Jin, temporaneamente assegnato al mio fianco.» Erdelen aggirò con naturalezza l’uomo, lasciando scoperta la sagoma dell’elfo oscuro «Dal Jin, questa faccia da canaglia è Bind, fabbro armaiolo della Fratellanza». L’uomo mosse appena il capo in segno di saluto all’elfo. 316
«Ho sentito parlare di te, Naigh-Moor. Sei il servitore di Kanyu, no?» chiese, pulendosi le mani a uno straccio bianco. «Non sono il servitore di nessuno, Umano.» rispose acido Dal, accigliando lo sguardo «Voi invece chi siete, lo schiavo di Remond?». L’uomo rimase impietrito sul posto per un istante, prima di reagire allo scherno del ragazzo. «Modera i termini, moccioso. Non m’interessa se quel capoccione di Kanyu bada a te come a un cane, ma tu vedi di chiudere quella bocca o pulirò per terra con la tua faccia». Come una belva, Dal scattò in avanti con una sequela di improperi, più che deciso a far pentire Bind delle sue parole: fiocamente, due flebili luci infiammarono le iridi dell’elfo, prima di spegnersi di colpo non appena Erdelen s’intromise tra i due. «Penso che possa bastare per entrambi.» mormorò, torvo in viso come l’esule non se lo sarebbe mai immaginato «Dal Jin, vedi di calmarti e fai qualche passo indietro». Istintivamente, come incantato da ogni parola, Dal ubbidì, senza tuttavia rinunciare a scoccare occhiatacce al fabbro. «Quanto a te, Bind,» proseguì Erdelen «mi servono un gladio, un pugnale e una balestra, assieme ad una ventina di quadrelli». «Sono per lui?» domandò quello, ammiccando nervosamente verso Dal. «Sono oggetti che devi farmi avere, se vuoi continuare a prestare servizio nella Fratellanza» ribatté rapidamente il giovane uomo, parandosi davanti all’elfo grigio. Bind grugnì irritato, quindi scomparve nella stanza da cui era venuto: quando ne tornò, portava con sé ciò che gli era stato richiesto. «Fanno nove monete.» rispose sbrigativamente, poggiando la roba su una botte poco distante «Ma levati dei piedi senza farmi perdere altro tempo, e che il tuo amico non si faccia più rivedere nella mia bottega». Dal avvertì nuovamente il sangue ribollirgli nelle vene. «Prendi i soldi e chiudi la bocca, Bind» Erdelen non disse altro, quindi porse al fabbro una cospicua manciata di monete e raccolse senza indugi la roba, mentre l’altro stava ancora controllando i soldi. Un altro rapido scambio di occhiate fra Dal e Bind ed i due giovani furono finalmente fuori dalla stanza. «Non preoccuparti di quello che ha detto quell’idiota.» disse immediatamente il ladro, porgendo la roba al compagno «Bind non conta niente e certo non avrai più bisogno di lui per tutta la tua permanenza». «Ti sono debitore» replicò però l’elfo, mentre riceveva le armi.
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«Sei un ospite, Dal Jin, ed è un piacere per me offrirti queste poche cose.» lo tranquillizzò Erdelen con aria disinteressata «Tranquillizzati, qui non è tutto come sembra». «Ti credo sulla parola.» Dal ebbe la forza di sfoggiare un piccolo sorriso «Ad esempio, non avrei mai pensato di trovare un negozio all’interno di una gilda di ladri». «E dove pensi che finisca la merce che accumuliamo? Per quel che costano gli oggetti qua, non vale certo la pena di rischiare la vita». «Sorprendente» e, detto questo, Dal si lasciò scappare una breve risata. «Tienila più alta, non devi azzoppare nessuno.» spiegava con calma Erdelen, seduto comodamente su una cassa accanto al giovane elfo oscuro «Appoggia il calcio tra la spalla e il petto e fai sfilare l’occhio fino al mirino». «Come una biglia?» ribatté quello, dopo aver abbozzato un sorriso. «Più o meno, ma non cavarti un occhio.» rispose l’altro, indicando con un braccio il bersaglio «Tieni la mano più ferma che puoi e scocca verso il cuore». Dal annuì in silenzio, sforzandosi di racchiudere nel piccolo mirino il cuore dell’obiettivo; la mano gli tremava più di quanto avesse immaginato, schiacciata sotto il peso dell’eppur leggera balestra. Serrò di scatto il dito sul grilletto e, in un sibilo feroce, il dardo corse verso il bersaglio. La paglia dietro il cartello si lasciò trapassare passivamente ad almeno quattro dita dal punto scelto. Dal si lasciò andare a un sospiro triste non appena allontanò il viso dalla balestra. «Non c’è male.» disse invece Erdelen, avvicinandosi al ragazzo «Devi solo essere meno nervoso, quando tiri. Sii rilassato, non c’è nessuno che ti vuole uccidere». «Non adesso.» replicò con una smorfia Dal «Ma immagino che mi capiterà, vero? E allora sarò sicuramente più teso di quanto possa esserlo ora». «In quel caso, starà a te metterti in una posizione vantaggiosa, dopotutto.» Erdelen sollevò le spalle con tranquillità «Fai in modo di avere la sua schiena davanti a te, anziché la faccia, e sarai tranquillo». «Alle spalle?» obiettò scettico il Naigh-Moor, tornando con la mente ai tempi ancora recenti in cui aveva combattuto con Rok e gli altri: tempi che parevano ormai lontani decenni «Non è onorevole». La risposta stupì visibilmente il ladro. «Scusami tanto, ma se hai un tizio che ti vuole ammazzare, perché dovresti rischiare la pelle affrontandolo faccia a faccia? È tutta una questione di sopravvivenza, Dal!». L’elfo oscuro lasciò cadere l’argomento con un falso sorriso sulle labbra. «Ora appoggia il piede in quell’affare in cima all’arma e tira la corda a te.» riprese subito Erdelen, indicandogli la testa della balestra «Incocca il quadrello e tira di nuovo». 318
Dal obbediva senza discutere, osservando a tratti con ammirazione quel giovane ladro: un fratello maggiore, ecco cosa già gli sembrava. Nonostante tutti i suoi timori, non poté fare a meno di provare stima e simpatia per uno sconosciuto che si dedicava pazientemente alla sua educazione. Educazione da borseggiatore, certo, ma non si aspettava altro. E presto dovette accorgersi di aver ragione a fidarsi di lui: esattamente, quando il suo dardo si conficcò a solo un dito dal cuore del bersaglio. «Vedi che va meglio?» gli chiese l’Umano. Dal sorrise compiaciuto mentre staccava la testa dall’arma. Quel che accadde nei giorni seguenti parve coronare l’aura d’empatia con cui aveva circondato il suo nuovo compagno d’avventure. Contrariamente a quanto si aspettava, le lezioni apprese a Deym valevano ampiamente anche in un ambiente totalmente diverso come le strade cittadine, le taverne o persino le abitazioni di ricchi mercanti e oziosi nobili. Quando prima doveva far attenzione a foglie, ramoscelli e radici, ora doveva soltanto evitare con la più totale indifferenza sguardi e gesti che avrebbero potuto tradirlo, muovendosi con circospezione o con naturalezza a seconda dell’occasione. E, certamente, un morbido tappeto sotto i piedi era molto meno rumoroso di un terreno cosparso di legnetti e pietrisco. Erdelen parlava estremamente poco quando lavoravano e, quando lo faceva, non era mai per biasimare il Naigh-Moor, bensì per spiegargli brevemente cosa avrebbe dovuto fare, quali strumenti utilizzare e che cosa ignorare. Dire le giuste parole per distrarre qualche avventore mezzo ubriaco, in modo che il giovane ladro potesse approfittarne per sfilargli la sacca delle monete; fare i giusti cenni per indicare qual era il momento adatto per colpire; restare immobile in una posizione sicura, studiando con cura le mosse di ogni possibile bersaglio. Il tutto senza mai rivelare la propria identità, nascondendo la propria pelle grigia sotto strati di creme e cerone e celare con bende o cappucci gli incriminanti occhi. Indubbiamente, sarebbe stato più facile d’inverno che non sul finire dell’estate, ma Erdelen pareva trovare ogni volta una giusta motivazione per un tale abbigliamento: oggi uno sfigurato, domani un ammalato di qualche strano e disgustoso morbo, dopodomani uno squilibrato venuto da chissà dove. Tuttavia, quando il pericolo che Dal venisse riconosciuto cominciò a farsi pressante, i due dovettero abbandonare la via del borseggio. Arrampicarsi su finestre e balconi, scassinare serrature ed evitare rumori inconsulti divennero attività all’ordine del giorno. Dal a stento si rendeva conto del pericolo che rasentavano tutte le volte che Erdelen si arrestava, puntando silenziosamente un dito verso un particolare apparentemente normale della stanza e aggirando prudentemente quella che doveva essere una trappola. 319
Curiosamente, Dal non avvertiva nessuna protesta provenire da dentro di sé: rubavano, sì, ma nessuna delle loro vittime sembrava avere un grosso bisogno di soldi. D’altronde, era pur vero che rubare ad un povero avrebbe reso ben pochi vantaggi. Inoltre, non aveva mai avuto bisogno di usare quelle armi che Erdelen lo aveva obbligato a portare con sé, convincendolo inoltre ad allenarsi ad usarle. «Un ladro che sa combattere può disorientare un avversario quanto basta per fuggire.» gli aveva ripetuto sino alla nausea, mentre gli illustrava le tecniche più dispersive e rapide che conosceva «Due piccole armi possono vorticare fra te e lui come un tornado, disarmandolo con una prontezza che non si aspetta; una balestra, poi, può far desistere un drappello di guardie dall’avanzare, in special modo se non sanno da dove tiri». «Dovrei ucciderle?» aveva domandato Dal con una nota d’incertezza «Dopotutto, non sono loro a commettere un crimine». Erdelen aveva scrollato le spalle con indifferenza. «Allora non ucciderle, basta che le spaventi: dal canto mio, ho ottenuto la libertà e non sarà certo qualche leccapiedi dei potenti a privarmene, a nessun costo». Dal aveva abbassato la testa senza rispondere: non era la prima volta che l’Umano si esprimeva sulla libertà e non poteva certo negare che tale valore fosse caro anche a lui. Però, la “libertà” di Erdelen era diversa dalla sua e se ne rendeva facilmente conto. Il suo concetto era esteso, ampio, tanto da sorvolare qualsiasi esempio di moralità. Aveva ridacchiato, quando Dal gli aveva parlato di Sali e gli aveva mostrato la cicatrice sul braccio che Kanyu gli aveva causato. «Il tuo amico ha ragione, mio ingenuo compagno.» aveva detto «Non c’è nessun motivo per cui tu debba incatenarti a una donna, tanto meno di quel genere». «Genere?» aveva replicato aspramente l’elfo oscuro, risistemandosi la manica. «Massì, una ragazza con le idee… Confuse, diciamo.» Erdelen non aveva ancora perso il suo sorriso «Non dico una puttana, ma non è certo una donna matura con cui iniziare un rapporto serio, sempre che si debba iniziare». «Era una ragazza come tante» le labbra di Dal erano storte in una smorfia cupa. «È proprio questo il problema, ragazzo mio. Tu sei ancora acerbo, ma quando capirai come funzionano le cose, ti renderai conto di aver fatto una sciocchezza. E poi, scusami, ma non dovresti trovarti un’elfa grigia come te?». «Penso di esser libero di scegliermi la compagna che preferisco». «Oh, certo.» Erdelen aveva scosso la testa con una risatina «Così ti troverai una compagna vecchia e raggrinzita quando tu sarai ancora giovanissimo. Dal, sei un elfo! Cercatene almeno una che campi quanto te! Poi, se sono due o tre, è anche meglio…». «Ti ho mai detto che sei disgustoso?» il giovane Naigh-Moor l’aveva guardato con un sorriso ironico sulle labbra.
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«Solo perché ho voglia di saltare di albero in albero? Il mondo è pieno di graziose pulzelle e io dovrei incatenarmi ad una sola?» il ragazzo aveva chiuso la discussione con una sorta di sorrisetto malizioso. Dal pareva esser rimasto tanto dubbioso dopo quel discorso che, l’indomani, Erdelen decise che era giunto il momento per spiegare qualche nozione di base al suo nuovo compagno. «Per prima cosa,» gli disse, mentre camminavano per una strada molto poco transitata «mostra ciò che hai, non quello che ti manca. Parlaci qualche minuto, fai vedere che non sei un mollaccione e poi portala in camera da letto». «Erdelen, ma che stai dicendo?» Dal sgranò gli occhi, ancora ignaro delle intenzioni dell’amico. «Ti porto da alcune signorine che non si fanno scrupoli per il colore della tua pelle, è semplice» il giovane ladro affondò innocentemente le mani nelle tasche. «Un momento, chi sarebbero?» l’elfo oscuro si fermò lì dov’era, prendendo l’Umano per un braccio. «Donne disponibili.» rispose quello, passandosi una mano fra i capelli biondi «Almeno ti insegno anche un modo per spender bene i tuoi soldi». Dal rimase inchiodato a terra, gli occhi fissati con un’espressione ebete verso il compagno. «Ma sei scemo?» gli chiese qualche secondo dopo, inclinando di lato il capo. «No, perché dovrei?» Erdelen non si scompose, divincolandosi senza fretta e riprendendo a camminare «Penso di aver diritto a spendere i miei soldi come preferisco. Mica le obbligo, in fondo». Dal lo seguì per qualche passo senza parlare, la fronte corrugata, quindi si decise a riprendere la parola. «Non mi interessa, Erdelen.» disse con un sorriso stiracchiato «Ho altro per la testa». «Guarda che non ti sto chiedendo di tradire nessuno, se non vuoi. È un modo come un altro per cogliere i migliori frutti degli Dèi». «Lo so cos’è, ma non mi interessa, sul serio» Dal rivolse senza neanche pensare il capo alla sua destra, da dove sentiva provenire un odore tutt’altro che invitante, seguito da un suono per lui molto familiare. Senza aggiungere altro, alzò gli occhi verso l’insegna di una stalla scalcinata, fermandosi di fronte all’entrata. «Erdelen, aspetta un attimo.» mormorò, fissando con occhi rapiti la malandata struttura «Voglio dare un’occhiata qui». «Come?» l’altro sbarrò gli occhi, riconoscendo il luogo «Io ti porto a donne e tu preferisci una stalla puzzolente?». «Ho lavorato in una stalla per almeno vent’anni, ad Armalak. Come credi che abbia imparato a cavalcare secondo te?» Dal guardò il compagno con aria sicura 321
«Certo, era più ampia e lussuosa di questa, ma mi è suonato una sorta di campanellino nella mente, a vederla». «Perché sei suonato, appunto.» Erdelen scosse la testa con rassegnazione «Cosa vuoi trovare, qui dentro? Ci saranno solo ronzini mangiati dalle mosche e muli mezzi morti di fame». Dal ignorò volutamente i commenti dell’amico, sistemandosi alla meglio cappuccio e mascherina sul viso troppo poco truccato per mascherare altrimenti la sua razza. Fatto ciò, entrò con calma nella stalla, spostando gli occhi da un animale all’altro. Dal si trovò a dover dare ragione ad Erdelen dopo solo una manciata di secondi; tuttavia fu proprio lui a battergli una mano sulla spalla, spingendolo a voltarsi. «Quello non è proprio un mulo…» sussurrò il ladro, indicando con un braccio verso il fondo della stalla. Davanti a loro si ergeva colossalmente una bestia che pareva esser uscita direttamente da una leggenda, col manto corvino rilucente sotto uno spiraglio di luce proveniente dal soffitto. Agitava ripetutamente una criniera selvaggia, quasi fosse posseduta da uno spirito che scagliava fiamme attraverso ogni muscolo della poderosa creatura. La testa superba nemmeno li considerava, ergendosi possente sopra il corpo del cavallo più gigantesco che i due avessero mai visto. Poi, come un’emanazione dall’essenza prorompente della bestia, una figura emerse dalle ombre, facendo sobbalzare i giovani. «Buonasera, signori.» si pronunciò, sorridendo sotto una barbaccia incolta «Desiderate una rapida cavalcatura? Un mulo robusto? O un poderoso bue per il vostro aratro?». «Ah, noi…» balbettò Erdelen, straordinariamente a corto di parole. «Chiedo scusa,» disse Dal, badando a tenere il capo chino e allontanandosi di qualche passo dall’uomo «ma questo fenomeno ci aveva decisamente distratti». «Oh, siete interessati all’acquisto?» gli occhi dello stalliere rilucevano di una luce scintillante «Posso vendervi questo animale a un prezzo decisamente più basso di quel che possiate immaginare». «Vi credo.» Dal si piegò di lato, abbastanza per poter esaminare con attenzione la bestia, che ancora non rinunciava a sbuffare e ad agitare con vigore quella cascata di crini neri «È una femmina. Quanti anni ha?». «Oh, beh…» l’uomo si grattò la testa, imbarazzato «Di preciso non lo so, ma avrà tre o quattro anni. Posso però garantirvi che una simile bestia può battere qualsiasi cavallo più giovane». «Non è vostra?» domandò Dal, facendosi coraggiosamente più vicino alla cavalla. «No, l’abbiamo catturata… Beh, non da queste parti.» tagliò corto lo stalliere «Allora, la prendete o no?». 322
«Non abbiate fretta.» lo rassicurò Erdelen, sorridendo tranquillo «Al mio amico piace studiare molto la merce che intende acquistare. Ma, ditemi, è sempre così nervosa?». «Lo è perché è una possente bestia.» rispose prontamente l’uomo, intanto che il giovane ladro si voltava verso l’animale «Degna di un grande cavaliere». «Un cavaliere imperiale, per caso?» domandò pungente Erdelen, congiungendo le mani dietro la schiena: Dal lo fissò con aria interrogativa. L’uomo si bloccò di colpo, rimanendo in silenzio per alcuni secondi, come congelato. «Beh, è possibile…» bofonchiò alcuni secondi dopo, sfregandosi nervosamente le mani. «Infatti quello è un marchio imperiale.» continuò Erdelen, indicando la stilizzata rappresentazione di un’aquila posta su una coscia della bestia «Credo che vi convenga dirci dove l’avete trovato, amico mio». Dal rimase come pietrificato, gli occhi piantati sul simbolo marchiato a fuoco sull’animale; lo stalliere, intanto, aveva assunto un’espressione arcigna, ma allo stesso tempo rassegnata: era evidente che si aspettava un tale riconoscimento. «Sentite, me l’hanno portata alcuni miei amici, io mi occupo solo di venderla.» borbottò, incrociando le braccia al petto «L’hanno trovata da sola lungo la costa di Nog Tuluth». «Nog Tuluth?» esclamò Dal, drizzandosi di scatto sulla schiena, il braccio destro puntato verso l’animale «Non era in queste condizioni!». «Questo animale è in ottime condizioni.» precisò l’uomo, torvo in viso «Anche troppo buone, vista la fatica che è costata ai miei amici per portarla qui e quella per strigliarla a dovere». «Ma non era così come adesso!» insistette Dal, sotto lo sguardo preoccupato di Erdelen «Aveva qualcos’altro, per forza! Una ricca sella, degli ornamenti, roba del genere!». «Una bardatura.» replicò asciutto lo stalliere, guardando la cavalla «Ed anche molto ricca, con tanto di pietre preziose. Roba da pezzi grossi, insomma. È l’unica cosa che sono riuscito a vendere, visto che nessuno è mai stato capace di domare quella maledettissima furia». Dal si volse verso la cavalla come in un sogno, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi. Un generale dell’Impero, una cavalla instancabile trovata a Nog Tuluth… Marcus aveva una cavalla, gliel’aveva confessato durante il loro primo incontro. Possibile che fosse sopravvissuta? Poteva trattarsi di qualsiasi altro animale, ma non aveva mai saputo che i Naigh-Moor l’avessero catturata, e certo un animale come un cavallo generalesco sarebbe stato riportato come trofeo ad Armalak. Se solo fossero riusciti a prenderlo, però. Dal socchiuse gli
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occhi, avvicinandosi nuovamente alla cavalla. Com’era che si chiamava? L’aveva nominata, ne era certo. «Thalya» sussurrò, come abbacinato: l’animale lo fissò solo alcuni secondi, prima di riprendere a scalciare e sbuffare senza tregua. Un attimo dopo, Erdelen prese il compagno per un braccio, salutando brevemente lo stalliere: senza dir nulla, Dal si lasciò trascinare fuori dalla stalla, il viso ancora rivolto verso la cavalla. «E quello sarebbe un prezzo di favore?» borbottò il giovane ladro, quando furono fuori «Dovrei smettere di mangiare per almeno due anni, per risparmiare quella somma». «Q-quanto vuole?» Dal si volse finalmente verso Erdelen. «Troppo, per noi comuni mortali.» il ragazzo accigliò lo sguardo, prima di osservare in viso il compagno «Prima che tu possa pensarlo, non sono un ladro di cavalli. Soprattutto, non sono un ladro di quel cavallo». «Perché no?» chiese l’elfo oscuro, lasciandosi trascinare dai piedi. «Perché quella bestia è una furia della natura e nitrirebbe come una dannata, mentre noi cerchiamo di portarla fuori.» rispose secco Erdelen, scuotendo il capo «E poi come pensi di domarla?». «Mi basterebbe farla uscire di lì…» la voce di Dal era ridotta a un debole sussurro. «Tu vuoi farmi finire nei guai, amico mio. Perché mai, poi?». «Perché anche lei ha diritto ad avere la sua libertà. Non è certo lì dentro che la può ottenere». «Senti, Dal, io non sono un liberatore di cavalli. Ti ho chiesto di uscire per accompagnarti a sfogare un po’ d’istinti, non per farci finire entrambi in galera. Ora, vuoi venire con me o no?». L’esule non rispose, abbassando lo sguardo al suolo. «D’accordo, è un no.» arguì con una smorfia Erdelen «Torna alla gilda, allora. Io vado a divertirmi un po’». Dal annuì senza una parola, ma tutto quello che fece fu fermarsi in una stradina poco distante, chiuso nelle sue riflessioni sotto la pioggerellina che iniziava pigramente a cadere.
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XXXII. Simmetrie
E
rdelen sedeva tranquillamente sopra il grosso tavolo della mensa, lo sguardo pensieroso rivolto verso il pavimento mentre ascoltava senza troppa attenzione le preoccupazioni di Dal. «Non voglio immischiarmi in faccende del genere, cerca di capirlo» diceva il Naigh-Moor, tornando ad appoggiarsi per la millesima volta alla parete. «Ti capisco, ti capisco» il ladro dava idea di aver compreso il concetto, ma, al contempo, di non essere troppo interessato ad ascoltare repliche. «Kanyu non mi ha mai preparato a cose del genere e a me non interessa entrarci.» spiegò Dal, senza neanche rendersi conto che si stava rivolgendo a sé stesso, anziché al compagno «Perché proprio noi, dopotutto? È un compito che richiede delle responsabilità». «A parte il fatto che me ne sono assunte di ben peggiori,» precisò Erdelen, rialzando lo sguardo «è un compito facile, ordinaria amministrazione». «Per te, forse.» il Naigh-Moor storse la bocca «Questa è un’operazione criminale in piena regola». «E con questo?» l’Umano scrollò le spalle con disinteresse «La legge conta qualcosa solo per chi la rispetta, non di certo per un ladro. Dal, è questione di scaricare qualche cassa e controllare che sia tutto a posto. Non è nessuna “operazione criminale” in grande stile». «Io lo chiamo contrabbando» ribatté nervosamente l’elfo, tornando a staccarsi dal muro. «Chiamalo come vuoi, ma è semplicemente una pratica per acquistare armi a un prezzo inferiore, senza che stupidi controlli ci succhino via tempo e denaro.» Erdelen continuava ad apparire tranquillissimo «Non devo niente a nessuna legge, quindi perché rispettarla?». «Perché altrimenti rischiamo la gogna, ecco perché» Dal si portò una mano al collo in un gesto seccato. «Esagerato. E poi parla uno che si è messo contro una razza intera» il ladro non aggiunse altro, ben consapevole che quelle parole non potevano mancare il segno. Dal infatti taceva, limitandosi a guardare con aria torva il giovane; un attimo dopo, si lasciò scappare l’imprecazione di chi sa di esser stato incastrato. «Bene, ora che siamo d’accordo…» mormorò Erdelen con un sorriso, congiungendo le mani sopra il suo ginocchio «Tutto quello che ti chiedo è di essere puntuale e veloce: alla prima ora della notte, dovremo essere quasi dall’altra parte della città, scaricare le casse e nasconderle in un magazzino della 325
Fratellanza. Nei prossimi giorni, gli altri si occuperanno di prelevarle e portarle qui senza dare nell’occhio». «Non c’è il rischio di finire in gabbia?» domandò con scetticismo Dal, ancora restio ad intraprendere quell’impresa. «Assolutamente no.» il ladro scosse il capo con sicurezza «La Fratellanza ha svolto la transazione perfettamente, come sempre». L’elfo oscuro tacque, accarezzandosi il mento senza che una sola grinza sfiorasse il suo viso. «Stanotte?» chiese infine, indirizzando uno sguardo severo verso Erdelen. L’Umano annuì con la sua immortale tranquillità. «Approfitta del pomeriggio per riposarti» gli disse inoltre, senza schiodarsi dalla sua posizione. Dal non aggiunse altro, prendendo immediato commiato dal compagno, con una smorfia tesa sulle labbra. Lungo i corridoi che lo conducevano alla sua stanza, ebbe abbastanza tempo per pensare a quanto gli era stato appena detto, evitando con disinteresse cenni e sguardi di quanti si trovavano sulla sua strada, chiuso nelle sue riflessioni: eppure, per quanto si arrovellasse, non riusciva a trovare una scusa per scansare il compito che gli sarebbe spettato quella stessa notte. Istintivamente, sentiva un rifiuto a pelle per quell’azione, quasi gli stessero torcendo le viscere. Non che fosse un tipo a cui piacesse prendere ordini, ma non vedeva niente di sbagliato nel vietare, da parte della legislazione di Vathalar, qualcosa del genere. D’altronde, per quanto potesse simpatizzare per Erdelen, Dal non era un ladro, né un contrabbandiere: semplicemente, aveva bisogno della Fratellanza della Nube per poter perseguire i propri scopi. Che in realtà erano quelli di Kanyu. Si chiese per un attimo se non si stesse facendo manipolare dai due elfi come una marionetta, pronta per essere gettata via non appena danneggiata. Ma il giovane Naigh-Moor aveva visto con i suoi occhi sia la lealtà di Melidan sia la profonda passione che bruciava l’animo di quello che era noto solo come il glaciale Esule. L’aveva visto uccidere senza la minima esitazione, sì; però, benché lo spaventasse anche solo l’idea di dover fare lo stesso con gli untori, che nemmeno conosceva, anche Dal aveva fatto la medesima cosa solo poco tempo prima. Curioso come non ripensasse più all’esploratore che aveva ucciso nel deserto, a quanti aveva condannato fuori dal Picco Muto e alle vite cancellate nell’arena. Caducità dei viventi, si disse. Non aveva potuto impedirlo: l’avevano cercato e l’avrebbero ucciso. Cos’altro avrebbe dovuto fare? Aveva fatto quanto poteva per salvare la vita sua e quella altrui, senza aver mai infierito su chi non avesse cercato a sua volta di togliergliela. Kanyu pareva aver fatto altrettanto: non aveva ucciso né i Teke né gli Yurumga, sebbene avrebbe potuto seminare grossi vuoti fra entrambe le fila, e questo lo sapeva anche lui. In Kanyu, Dal poteva 326
leggere chiaramente un desiderio di pura redenzione, nonostante il suo sangue di Naigh-Moor dovesse ribollirgli nelle vene più che a chiunque altro. Kanyu non avrebbe approvato quell’ingrato compito e, anzi, forse avrebbe intercesso per il ragazzo con Remond, chiedendogli di assegnare a qualcun altro quella faccenda. Ma Dal non voleva chiederglielo: sarebbe significato dipendere da qualcuno, ora lo capiva, e, finché sarebbe stato in grado di risolvere qualcosa da solo, non avrebbe mai più chiesto aiuto a nessuno. Era tanto orgoglioso di quel sentimento che sentiva nascere dentro di lui, che a momenti andò a sbattere contro la porta del proprio appartamento. Si passò due dita sugli occhi per allontanare la stanchezza e girò la maniglia, entrando nella stanza. La figura di Melidan s’incurvava su un vecchio scrittoio nel pasticciare qualcuna delle sue infinite pergamene: non appena notò che la porta si stava aprendo, si drizzò sulla schiena, scorgendo finalmente la figura di Dal. «Oh, il giovane avventuriero torna presto, oggi.» commentò con un sorriso «Tutto a posto?». «Nulla di strano» mentì, richiudendo la porta dietro di sé: quasi immediatamente, Melidan tornò sulla sua pergamena. «Ma i tuoi guanti che fine hanno fatto?» domandò l’Elfo, intanto che il ragazzo si sdraiava sul proprio letto, le braccia incrociate dietro la testa. «Fa troppo caldo per quella roba.» rispose atono, gli occhi al soffitto «Già si scoppia così bardato». «Kanyu non sarebbe esattamente contento, se lo sapesse» lo ammonì il sacerdote, voltandosi a squadrarlo. «Per quel che devo fare, posso farne a meno.» puntò svogliatamente un dito verso un mucchio dove Dal teneva tutto il suo equipaggiamento «E poi sono lì da qualche parte, non li ho persi». «Sarà, ma io ti consiglio di metterli» concluse Melidan, spostandosi quindi una ciocca dei lunghi capelli biondi per riprendere a scrivere. L’elfo oscuro rimase in silenzio per alcuni istanti, intanto che si sfilava dai piedi gli stivali che Kanyu gli aveva donato assieme a quei fantomatici guanti. «Stanotte devo fare un lavoro con Erdelen» annunciò infine, socchiudendo gli occhi. «Aha.» Melidan non staccava gli occhi grigi dalla carta «Cerca di non svegliarmi, quando esci… A proposito, che mi dici di quel ragazzo? È veramente affidabile come dicevi?». Dal arricciò le labbra con aria vaga. «Mah, a me pare di sì.» rispose semplicemente «Forse tutti i nostri timori erano infondati». «Tu continua a tenerlo d’occhio, non si sa mai» Melidan accigliò lo sguardo mentre rileggeva poco convinto un passaggio. 327
«Lo sto già facendo, non ti preoccupare» Dal chiuse gli occhi, rilassando i muscoli con un sospiro. Eppure, nonostante tutte le premure di Melidan, quel giovane ladro gli si era dimostrato più vicino di quello che si sarebbe aspettato: era vero che non si erano mai addentrati nei reciproci passati, ma la loro convivenza proseguiva spedita, senza la necessità di svelare personali segreti. Erdelen lo stava facendo vivere come un Umano, e il cambiamento gli sembrava giocare assolutamente a suo vantaggio. Dal non aveva però la minima intenzione di continuare a fare il ladruncolo: più i giorni passavano e più quelle mansioni lo disgustavano, in particolar modo se si facevano più complesse. «Kanyu non può aver cominciato così…» sussurrò fra sé, gli occhi obliqui socchiusi. Melidan sembrò immobilizzarsi sul suo scrittoio. Era impossibile che un giovane Elfo come lui non l’avesse sentito. «Così come?» domandò infatti, e nella sua voce si leggeva una nota di rammarico «Come ladro?». «Come borsaiolo.» precisò il Naigh-Moor «È diverso». «Non ne ha mai avuto bisogno, ed anche questo è diverso.» ribatté il sacerdote «Un nobile elfo oscuro non ruba qualche spicciolo.» fece una pausa, voltandosi verso il ragazzo sul letto «Impara a uccidere, non a rubare». Dal rimase interdetto: era questo che voleva anche lui? Uccidere? «E non fu certo un guerriero d’alti precetti.» Melidan smentì ogni suo pensiero «Era un assassino al servizio di assassini più crudeli di lui. Uccideva volentieri donne e bambini. Rubare un pugno di monete a un ubriacone distratto è molto meglio, non trovi?». «Ma poi è cambiato» disse Dal, come a voler cancellare le orrende immagini che gli erano subito comparse nella mente. «Per sua e nostra fortuna.» Melidan tirò un sospiro di sollievo «Forse la Grande Guerra avrebbe avuto un esito diverso, se non l’avesse fatto. Ma ricorda bene, ragazzo mio: per quanto si sia sinceramente riabilitato davanti al mondo, le sue spalle devono sorreggere pesi che finiranno per schiacciarlo, se non cambierà vita». «Kanyu è divenuto un guerriero onorevole.» Dal era più che sicuro di questo «Ed ha scelto di consacrare alla giustizia la propria vita». «Kanyu è solo un uomo senza pace.» lo corresse con una strana acidità Melidan, torvo in viso «Più gli starai accanto e più te ne accorgerai». L’esule decise che era il caso di restare in silenzio.
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Quella stessa notte, Dal si incontrò con Erdelen nella stanza della mensa, la stessa in cui si erano separati qualche ora prima. L’Umano pareva più serio del solito e i suoi rari sorrisi sparivano in un batter di ciglia. «Hai una brutta faccia» gli disse l’elfo grigio, non appena lo vide. «Con questo vuoi dire che sono brutto?» replicò con un teso sarcasmo il giovane, sistemandosi le maniche della casacca. Dal ingollò come un boccone amaro la battuta del compagno. «Volevo dire che sembri nervoso» sottolineò, sollevandosi il cappuccio sulla testa: quanto odiava doversi camuffare a quel modo ogni volta, con il caldo che c’era! «Ho paura di far tardi.» rispose sbrigativamente, assicurando una piccola balestra alla cintura «Hai preso la tua?». «Naturale.» Dal accarezzò il calcio dell’arma con la destra «Dovremo usarle?». «Semplice precauzione» Erdelen tastò le proprie piccole armi e si diresse verso una delle tante porte, seguito puntualmente dal compagno. Vathalar sonnecchiava placidamente, lasciandosi sfuggire di tanto in tanto solo qualche urlaccio volgare in lontananza o il miagolio dei gatti sui tetti delle abitazioni. Erdelen lo guidò comunque attraverso i soliti vicoli paralleli, gettando occhiate intorno a sé e fermandosi talvolta nei pressi degli incroci con le strade principali. Ogni movimento felpato del giovane insospettiva maggiormente Dal, che più d’una volta fu sul punto di chiedere informazioni al ladro, ma la fredda espressione che il suo viso conservava lo fece ripetutamente desistere. Se un tipo come lui, che non si preoccupava mai di nulla, si comportava in un modo tanto strano dovevano esserci precisi motivi; motivi che Erdelen non voleva assolutamente rivelargli. Fidarsi di lui si era rivelato provvidenziale sino ad allora, pertanto Dal continuò a seguirlo con la stessa cautela, tenendo per sé i propri dubbi. Mezz’ora dopo, i due scorgevano in lontananza un grosso carro trainato da due cavalli che il Naigh-Moor avrebbe detto provenire dalla stalla scalcinata in cui si agitava la maestosa Thalya. «Eccolo.» disse infatti Erdelen, e finalmente un sorriso comparve sul suo viso «Avviciniamoci senza dare nell’occhio e lascia parlare me». L’esule annuì con un breve cenno del capo, grato di vedere quell’espressione sul viso dell’amico. Erdelen si mosse con la sua risorta calma, le mani affondate nelle tasche, fingendo con l’abilità di un istrione di essere lì per pura casualità. Due ragazzotti dall’aria poco raccomandabile lo seguivano con gli occhi, fumando da una lunga pipa, le spalle appoggiate al carro: ora che Dal poteva vederlo, capì che le sue condizioni non erano migliori di quelle dei due ronzini che lo trascinavano. Di colpo, Erdelen deviò bruscamente direzione, ormai al sicuro da occhi indiscreti, scambiandosi qualche rapida occhiata coi due.
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«Veniamo da parte della Fratellanza» si annunciò, indicando col pollice il Naigh-Moor, che nel frattempo si era avvicinato. «Conciato così, si nota di più che nudo» disse con un ghigno uno dei due, puntando un dito verso il cappuccio di Dal. «Devo mettermi a urlare che siete qua dietro?» replicò in risposta il NaighMoor, senza tuttavia scoprire i propri lineamenti. L’Umano si bloccò di scatto, quindi il suo compagno gli pose una mano sul petto, facendo un passo avanti. «Cerchiamo di fare una cosa veloce, siamo tutti sulla stessa barca.» tagliò corto, fissando seccato Dal «Le casse sono nel retro, diamoci una mossa». L’elfo oscuro fu ben lieto di interrompere quella conversazione. «Siete solo voi due?» chiese Erdelen, dando un’occhiata alle dimensioni del carro. «Nostro fratello è andato a dare un’occhiata in giro.» rispose il solito ragazzo, avviandosi verso il carro «Sarà qui a momenti». Appena aprì il telone del carro, Dal rimase sbigottito dalla quantità di casse che avrebbero dovuto scaricare: ovunque posasse lo sguardo, ne vedeva in grande quantità, ammassate alla meglio una addosso all’altra. Gettando un’occhiata di lato, notò inoltre che accanto al carro sorgeva un edificio a prima vista abbandonato, con tanto di finestre sprangate: quello doveva essere il magazzino di cui gli era stato parlato. Preso un bel respiro, salirono così sul carro e cominciarono a lavorare alacremente, ignorando il sudore che cominciò immediatamente a scorrere sul loro corpo e la leggera protesta delle membra. In un attimo in cui Dal ed Erdelen furono soli, l’elfo oscuro ne approfittò per porgli la domanda che gli ronzava nella testa già da qualche minuto: «Come diavolo hanno fatto a passare attraverso le mura con tutta questa roba?». «E come vuoi che abbiano fatto?» rispose il ladro, scrollando le spalle «Basta ungere un po’ la mano alle guardie, specialmente se le conosci». «Fino a questo punto?» Dal inarcò scettico un sopracciglio «Questo carro è zeppo di merce abusiva». «Ma una guardia costa meno di un dazio commerciale, molto meno» concluse Erdelen, raccogliendo una cassetta e scendendo dal carro. Il giovane esule non poté fare a meno di ripensare a quando era fuggito da Raidemark e al “marciume” di cui aveva parlato Kanyu. «Fino a questo punto?» si chiese nuovamente fra sé, intanto che riprendeva il lavoro. Erano giunti pressappoco a metà del lavoro, quando un’ombra spuntò in corsa da una strada stretta, tanto fulmineamente da indurre Dal ed Erdelen a posare le casse che reggevano e portare le mani all’impugnatura delle proprie armi. 330
«Non temete.» li tranquillizzò uno dei due scaricatori «È solo nostro fratello di ritorno». Infatti, ora che potevano vederlo bene, i due compagni notarono distintamente che quello che si avvicinava era un ragazzetto di sì e no quindici anni, basso e un po’ sovrappeso. Ma l’espressione sgomenta che il ragazzino portava sul viso fece tutto fuorché diminuire il loro allarmismo. «Soldati!» esclamò con fin troppa foga, ansante, mentre si fermava dinnanzi al carro «Qualcosa è andato storto!». In un attimo, tutti e quattro i giovani furono raccolti attorno alla spaventata sentinella, bestemmiando in ogni lingua e tracciando maledizioni contro gli dei e la Legione di Vathalar. «Devono aver ricevuto una soffiata!» spiegò il ragazzino, allargando le braccia «Li ho visti dal tetto, saranno almeno una dozzina!». Erdelen era l’unico a mantenere sul viso un’espressione per nulla stupita. «Dov’erano? Sei sicuro che siano diretti qui?» domandò uno dei ragazzotti, stringendo il fratello minore per le braccia. «Saranno qui tra meno di un quarto d’ora, ne sono sicuro!» piagnucolò quello, prendendosi la testa tra le mani cicciotelle. L’altro si drizzò con una sonora bestemmia, intanto che l’ultimo dei tre si faceva avanti. «Non possiamo lasciare qui la roba, controlleranno il magazzino e sequestreranno tutta la merce.» ringhiò fra sé, rivolgendosi poi a Dal ed Erdelen «Dobbiamo rimettere tutto sul carro e filarcela». L’elfo fece per dirigersi verso il magazzino, ma la voce del compagno lo arrestò come un fulmine a ciel sereno. «Devi essere impazzito.» disse in tutta tranquillità «Ci vorrebbe troppo tempo». «Ma se lo lasciamo lì perderemo almeno metà della merce!» ribatté con rabbia il fratello maggiore «Saremmo rovinati!». «Questi sono affari vostri.» Erdelen parlava con una disarmante calma «Avevo sentito in giro voci di una possibile filtrazione di informazioni». I tre fratelli restavano immobili, come paralizzati. «E non ci avete detto niente?» sbraitò di colpo il solito, stringendo i pugni «Avremmo potuto preparare tutto per un altro giorno!». «È stata la Fratellanza a decidere» Erdelen non perse tempo a fornire ulteriori spiegazioni. «Ma non possiamo lasciarli qui!» sbottò d’un tratto Dal, sentendosi istintivamente vicino ai tre fratelli «Non ce la faranno a caricare tutta quella roba da soli!».
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«Non “possiamo”, amico… Dobbiamo. E io non posso nemmeno permettere che tu faccia la sciocchezza di aiutarli» fra tutto il vociare che si era generato, le parole di Erdelen sembravano schiacciare qualsiasi opposizione. Senza attendere oltre, volse le spalle ai tre e si allontanò rapidamente dal luogo. Incurante delle proteste dei tre, si volse persino a richiamare Dal, ricordandogli con quel gesto il caos che sarebbe sorto fra Kanyu e la Fratellanza. Dal lo fissò con un astio che da tempo non scuoteva le sue ossa, permeandolo sino al midollo. Quegli occhi, che erano giaciuti silenziosamente nel torpore della quiete, ora bruciavano di una zampillante fiamma scarlatta, puntati verso Erdelen. Tuttavia, attraverso il fiume di furia che gli scorreva nelle vene, Dal riuscì a scorgere la consapevolezza che quel che diceva il ladro era drammaticamente vero. Mentre le luci nelle sue iridi andavano spegnendosi, l’elfo oscuro poté solo rivolgere un’occhiata impotente verso i tre fratelli, prima di correre via, in odio con sé stesso e con il mondo intero. Mentre tornavano alla sede della Fratellanza della Nube, Dal provò più volte a riallacciare il rapporto con Erdelen, ma tutto quello che incontrò fu solo il pacato pragmatismo del giovane ladro. Fin troppe analogie fusero assieme Erdelen e la gente di Nog Tuluth, facendo franare il territorio sotto i piedi dell’esule. Chiuso nelle sue tacite riflessioni, rientrò nella sua stanza senza far parola con nessuno dell’accaduto. L’indomani, venne a sapere che tre fratelli, di cui uno di appena quindici anni, erano stati catturati dalle guardie cittadine assieme a un ingente carico d’armi.
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XXXIII. Decisioni di convenienza
I
raggi di un sole morente si spandevano oziosamente lungo i muri e le dimenticate vie, accarezzando romanticamente le sagome di uomini incurvati, e le loro ombre si stendevano afflosciate sui ciottoli rossicci, troppo esauste per non farsi trascinare stentatamente dai loro provati padroni. Ragazzini scalzi strillavano tra gli interminabili sgambettii, quasi la loro spregiudicata fanciullezza si fosse imposta sulla maturità dei lavoratori che per ultimi tornavano alle loro case; solo qualche ora dopo, la notte avrebbe spento qualunque vociare e le pretese avrebbero ceduto il passo al languido sonno dei vinti. Ma ora, nel quieto affresco che il pittore non avrebbe potuto fare a meno di sognar suo per sempre, miriadi di placide scie correvano dall’orizzonte, sciogliendosi serene attraverso pietre e fenditure. Figlie del fuoco, partorite nel ventre della terra e da essa soffiate delicatamente sul mondo, come fate che vedevano lentamente consumate le proprie ali e, nella loro ricerca di un rifugio, non avessero abbandonato il capriccio di godere di quell’ultima estasi. Una di esse si aggrappò senza sforzo all’embrice di una finestra, mostrandosi nella sua irraggiungibile sfumatura a quel cupo avventore che sedeva taciturno dinnanzi a un’adornata scrivania. Soccorse per qualche secondo il suo viso, indugiando innamorata sui bei lineamenti, tanto da destarlo dal torpore e spingerlo a voltarsi verso di lei. Mai nient’altro avrebbe potuto dipingere quella candida pelle di un colore similmente affascinante, tanto che il solo pensiero di tanta bellezza indusse l’avventore ad alzarsi. Il solo compiere quel gesto avrebbe potuto condannarlo, ma le sue gambe non obbedivano che alla malia di quel tramonto, conducendolo con impeccabile eleganza sino alla finestra socchiusa. Spinse via i battenti con la cautela di chi maneggia il più sottile dei cristalli, ritrovandosi gradualmente immerso in un oceano di luce e torpore, dove nuvole dai contorni brucianti parevano scappare dall’immancabile fine del giorno. Non aveva scelto di sorridere, la sua mente era infinitamente lontana da quel pensiero, ma le sue labbra non potevano ascoltarlo e disegnarono su quel volto tanto austero una serenità che pochissimi potevano dire di aver visto. Fu allora che Kanyu decise di seguire le pennellate dei raggi, perdendo il proprio sguardo oltre i palazzi, oltre la città, oltre le mura, sino alle vaste piane che si allargavano attorno ad essa. Là avrebbe trovato il destino che lo attendeva, l’ennesimo avversario da combattere per procedere nel suo lungo cammino senza meta. E là sparì quell’espressione docile, ricadendo di nuovo nella buia impassibilità. Diede due rapide occhiate intorno, quanto gli bastò per accorgersi che nessuno
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aveva fatto caso a lui, e richiuse la finestra, salutando con malinconia quella tanto sognata visione. Solo nel lussuoso appartamento a lui riservato, l’Esule si accarezzò il mento liscio e tornò a sedersi al suo posto, srotolando una robusta pergamena sulla scrivania. L’unico aspetto favorevole che quella gilda doveva avere, ovvero una discreta capacità di ottenere informazioni, si era rivelato del tutto inesistente. Sospettosamente inesistente. Aveva pagato profumatamente quelli che, a sentir dire, erano i migliori membri della Fratellanza, richiedendo espressamente di scoprire in quale maledetto nascondiglio delle Terre Piagate si celassero gli odiati untori: tutti quanti, dal primo all’ultimo, erano tornati a mani vuote o, al massimo, recando con sé indicazioni di uso comune. C’era qualcosa che non quadrava, e Kanyu ne era perfettamente cosciente: la Fratellanza non era certo una grossa organizzazione, ma in essa vi erano indubbiamente spie capaci di scoprire qualcosa su di un pericolo spaventosamente vicino, quali erano gli untori. Quanto era forte la loro influenza? Kanyu aveva visto persone tremare di fronte al solo citarli, a miglia e miglia di distanza. Era fuori discussione che a Vathalar la paura fosse molto più diffusa. Allo stesso modo, era spaventoso come un pugno di pazzi potesse tenere in mano il coraggio di così tanti uomini: se Kanyu aveva deciso di muoversi contro di loro praticamente da solo, era perché sapeva di trovarsi contro un avversario considerato infinitamente più pericoloso di quanto non fosse realmente. Sfogliò con occhio critico un fascicolo di poche pagine che aveva già letto innumerevoli volte, riassumendo dentro di sé i passaggi fondamentali di quel breve testo. In passato, qualsiasi setta del Clan della Peste che si era diffusa nell’Impero degli Umani ed era stata scoperta, era caduta nel caos in seguito alla perdita del loro Maestro: stando a quel che si diceva, questo accadeva perché solo il Maestro era in grado di comunicare con Junk Stok, il Signore dei Veleni, e, privi della guida del Demone, gli altri membri del Clan piombavano nella confusione più assoluta. L’Esule assottigliò gli occhi nello staccarsi dalla scrivania: spezzare Cenerdred era fondamentale, dunque. Kanyu l’aveva conosciuto durante la Grande Guerra, quando già era l’incontrastato e anziano Maestro della setta. Nonostante fossero trascorsi quattro secoli, l’aveva riconosciuto immediatamente, non appena l’aveva visto attraverso una sfera magica, mesi prima. Rughe, cicatrici e tatuaggi si fondevano assieme in una faccia ormai orrenda, contornata da lunghi capelli bianchi come la neve: non c’era modo di sbagliarsi. Almeno fosse stato possibile scoprire anche dove quel dannato si nascondesse, o perlomeno trovare un indizio, un punto di riferimento. Tutto ciò che aveva scorto era un accampamento spartano immerso in un ambiente arido e monotono. Dietro ad esso, un incredibile groviglio di rami, tronchi, pietre e mura si spandeva come le pieghe di un cervello, soffocato 334
in una fetida atmosfera: quelli erano i labirinti del Maestro, oltre il quale egli, e soltanto egli, poteva nascondersi in caso di pericoli. Come facesse ad orientarsi ogni volta in quell’immenso dedalo di trappole e cunicoli restava un mistero. «Quello che importa è che non riesca a barricarvisi.» mormorò fra sé con chiaro disprezzo «Vorrà stare in prima fila, come sempre, e lì dovrà restare». Sarebbe stata un’impresa tutt’altro che facile, visto che Cenerdred non era divenuto Maestro degli untori per puro caso, ma grazie ad un miscuglio di intrighi, vile diplomazia e abilità di stregone. Tutte doti che gli untori tenevano in alta considerazione e miravano a possedere. Kanyu alzò appena lo sguardo, notando una busta di carta pregiata, chiusa con un sigillo recante un simbolo sconosciuto nell’Impero. Trattenne il fiato, indeciso, quindi raccolse la busta e la nascose per precauzione dentro al proprio zaino. Dal accavallò le gambe per la frustrazione, fissando il pavimento per non incrociare gli occhi del giovane che sedeva dinnanzi a lui, comodamente spaparanzato sul basso divano. «Devi continuare a tenermi il muso ancora a lungo?» chiese Erdelen, osservando senza troppo interesse la propria mano, aperta davanti al viso. L’elfo oscuro non gli rivolse una sola occhiata in risposta. «Senti, amico,» riprese allora il ladro, staccando malvolentieri la schiena dal divano «sono normali inconvenienti nelle vita di un ladro, non c’è niente di cui strabiliarsi». «Bella vita, allora» ribatté stavolta con forte sarcasmo l’altro, voltando altrove il viso scavato. «Non sarà la migliore delle vite, ma è la meno peggio, secondo me.» Erdelen si sistemò svogliatamente la spettinata zazzera bionda «Sono cose che capitano, Dal. Non faranno piacere, ma capitano». «Vallo a dire a quei tre disgraziati» sol ora il Naigh-Moor incrociò gli occhi dell’Umano col proprio disprezzo. «E tu vallo a dire ai martiri di una guerra. Ogni scelta ha le sue ripercussioni: o loro o noi». «A me sembravi preoccupato esclusivamente per la tua pellaccia» Dal avrebbe voluto troncare quella discussione il prima possibile. «Questa storia comincia a seccarmi.» Erdelen sbuffò con aria nervosa, corrugando la fronte «È quasi una settimana che la fai lunga». «Tu invece hai fatto in fretta a decidere: neanche ti sei chiesto se potevamo fare qualcosa per quei poveretti». «Poveretti?» il ladro inarcò un sopracciglio «Ma non erano criminali, fino ad una settimana fa? Contrabbandieri spietati e ingiustificabili?». 335
Dal avvampò in viso, resosi conto del paradosso, ma ciò che aveva visto compiere da Erdelen quella notte andava al di là del semplice campo della giustizia, sconfinando in quel codice etico che l’elfo non riusciva ad ignorare. «Kanyu avrebbe trovato una soluzione» mormorò con incertezza qualche attimo dopo. «Ah, certo! Kanyu!» l’Umano allargò le braccia in un gesto teatrale «Chiedo scusa per non essere Kanyu e non possedere la facoltà di salvare capra e cavoli in qualsiasi casino. La prossima volta che ci ritroveremo nei guai fino al collo, fagli un fischio!». «Se ci avessimo veramente provato, avremmo trovato una soluzione» tentò di smentirlo Dal, con evidente mancanza di convinzione. «O, molto più probabilmente, avrebbero catturato anche noi. E dopo sì che sarebbero stati guai seri». Seguì un lungo silenzio in cui i due giovani rimasero dov’erano, l’uno torcendosi le mani e l’altro tornando a mettersi comodo. «Ascolta, Dal,» disse allora Erdelen «ho fatto la cosa che credevo fosse più giusta per tornare sani e salvi alla gilda». «E quei tre sono stati catturati» aggiunse Dal, osservandolo con aria sconfitta. «E quei tre sono stati catturati, d’accordo. Lasciandoli soli, abbiamo evitato di causare gravi danni ad un numero molto maggiore di persone, ovvero tutti i membri della fratellanza». «Un lauto scambio, già.» l’elfo tornò ad essere sarcastico «Tre condanne a dei ragazzi per evitare di stanziare chissà quanti soldi per insabbiare la cosa». «Andiamo, Dal! Quei tre diranno di essere dei semplici corrieri inconsapevoli! Senza prove, potranno al massimo fargli scontare qualche pena minima e rimetterli in libertà!». «Ma se li hanno trovati con le mani nel sacco!» l’elfo sollevò lo sguardo con impotenza. «Esistono le pure casualità, Dal. E finché non ci saranno prove certe, cioè mai, quei tre non dovranno subire praticamente niente». L’elfo non appariva minimamente convinto: la logica di Erdelen si incrinava ad ogni svolta che chiunque avrebbe potuto imporre. Senza ombra di dubbio, non ci sarebbe voluto molto per far crollare con un soffio il fragile castello di carte del ladro. Tuttavia, se c’era una cosa che Dal aveva provato sempre maggiormente durante quella settimana, era la profonda mancanza del giovane Umano al suo fianco. Sapeva che poteva smascherarlo e forse anche punirlo per il suo manifesto menefreghismo, ma ogni uomo compie degli errori, in fondo. Condannare una persona che gli si era sempre dimostrato amico, pur dal suo singolare punto di vista, per uno sbaglio? Neanche lui aveva saputo cosa fare, durante quello sciagurato avvenimento. Cos’era che lo distingueva dagli altri 336
Naigh-Moor, quella massa infinita di ignobili elfi? Shadyla gli aveva parlato di quel concetto, anni prima: si chiamava perdono. Dal abbassò il capo con un profondo sospiro. «E va bene.» concesse, rialzando il viso «Mettiamoci una pietra sopra». «Questo è parlare, vecchio mio.» Erdelen sfoderò finalmente uno dei suoi migliori sorrisi «Vedrai che non ti darò più motivo di lamentarti». Dal non ne dubitava affatto. Nello stesso istante, Melidan varcò la soglia dell’appartamento di Kanyu notando con suo dispiacere che non vi era alcunché sulla scrivania. L’elfo oscuro era sempre stato un tipo attento e previdente: se non c’era niente da vedere a primo acchito sul suo scrittoio, voleva dire che non era giunto a nessuna nuova conclusione. «Hai badato che nessuno ti seguisse?» gli chiese velocemente il gigantesco Esule, dopo aver richiuso con attenzione la porta. «Sono stato attento, non ti preoccupare.» Melidan diede qualche occhiata all’appartamento, che capitava per la prima volta sotto i suoi occhi «Ti hanno sistemato bene». «Credo che ci abbiano conciato per le feste, invece» disse con aria truce Kanyu, sedendosi sulla sua poltrona prediletta. «È per questo che mi hai convocato?» chiese il sacerdote, accomodandosi di fronte a lui. «Prima di tutto, faremo un riepilogo della situazione. Devi dirmi con esattezza come stanno trattando te e Dal Jin» l’Esule congiunse i polpastrelli delle mani, entrando nel vivo. «Per quanto mi riguarda, ho poco da dire.» l’Elfo appoggiò il viso sul dorso della mano «Niente di indiscreto, e tu sai bene quanto io faccia caso a queste cose; non mi vedono di buon occhio, ma questo era scontato. Per quanto riguarda il ragazzo,» fece una pausa, come per ricordare «sembra che si sia ambientato bene con il suo compagno di squadra… Un certo Erdelen. Ho fatto qualche domanda in giro, ma me l’hanno descritto come un tizio con la testa a posto». «Fra ladri, uno “con la testa a posto” è il peggior elemento che puoi incontrare.» gli fece notare Kanyu, anche se la cosa non parve sconvolgerlo «Se fosse per i giudizi altrui, né tu né io saremmo qui». «Lo rammento bene.» Melidan parve infastidito, punto nel vivo «Ad ogni modo, pare vadano d’amore e d’accordo e, che possa consolarti o meno, Dal non diventerà un ladro». «Cosa te lo fa pensare?» Kanyu si alzò in piedi con calma, dirigendosi verso il piccolo mobile degli alcolici.
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«Non è mai eccitato quando torna alla gilda e molto difficilmente si esprime sui compiti che lui e quell’Erdelen svolgono. Anzi, le uniche volte che l’ho sentito veramente interessato a qualcosa, è stato quando quel tipo gli ha insegnato ad usare la balestra, i coltelli ed a sfruttare il buio a proprio vantaggio». «Non ne starà facendo un assassino, spero». «Ti dirò, questo dubbio è sorto anche a me.» il sacerdote incrociò le braccia dietro la testa «Ma, da quello che mi ha raccontato, ci vorrebbero venti anni prima che Dal possa imparare da quel tipo qualcosa che vada oltre una conoscenza a dir poco superficiale. Spero vivamente che entro quel periodo saremo lontani da qui». L’Esule non fece una piega di fronte alla battuta del compagno, sedendosi alla stessa poltrona con un bicchiere colmo di un liquore nerastro nella mano. «Quindi, tutto a posto» riassunse il Naigh-Moor, portando successivamente il bicchiere alle labbra. «A dir la verità, no: negli ultimi tempi, l’ho visto parecchio giù di morale». «Melidan, non m’interessano i suoi sbalzi d’umore» ingiunse un seccato Kanyu. «Ho ragione di credere che sia successo qualcosa circa una settimana fa.» continuò l’Elfo, sporgendosi in avanti «Mi aveva accennato di un lavoro da svolgere con il compagno, quella notte: da allora, non è più uscito in coppia con lui». «Conosci il motivo?». «Succedono parecchie cose in questa città, ma i problemi tra Dal ed Erdelen paiono bizzarramente non interessare a nessuno. È il colmo che non circolino informazioni in una gilda di ladri». «Chiedile direttamente a lui» suggerì Kanyu, per nulla felice di quel silenzio. «Non ce n’è bisogno. Posso dirti con certezza che il ragazzo ha iniziato a conoscere la vita di un ladro per quello che è, e la cosa non gli è piaciuta affatto. Erdelen l’ha deluso in maniera cocente, e non è importante sapere su cosa». «Come fai a dire questo? Che l’abbia deluso è logico, ma il resto?». «Si mostra disgustato di fronte a qualsiasi discussione che riguardi furti e criminalità in generale: precisamente da quella sera» Melidan sollevò le sopracciglia con l’aria di chi sa di aver ragione. «Ho imparato a fidarmi della tua abilità nel giudicare le persone, sacerdote di Braeyel. Questi scontri giocano a nostro favore» Kanyu parlava in sincerità, sorseggiando a tratti il proprio liquore. «Dev’essere un dono di famiglia» l’amarezza con cui l’Elfo pronunciò quelle parole lasciò chiaramente capire all’altro che si stesse riferendo al proprio fratello maggiore, Ithilkar. Senza che nessuno dovesse aggiungere niente su quella questione, il discorso tornò rapidamente nel suo fulcro. 338
«Ora tocca a me.» dichiarò d’un tratto Kanyu, prendendo la parola «E quello che ti dirò io sarà molto più preoccupante: il nostro anfitrione scocciatore ha bruscamente deciso di cambiare piano d’azione». «In che senso?» Melidan appariva confuso. «Nel senso che non me lo trovo più tra i piedi, il che, paradossalmente, è un brutto segno. Ti dirò di più, non riesco nemmeno a contattarlo. Sai niente del precedente compagno di Erdelen?». L’elfo scosse il capo, incuriosito. «Neanch’io. E immagino tu abbia fatto caso al corridoio delle stanze dei ladri». «Sì, appena siamo arrivati. Questo edificio è praticamente vuoto e le nostre camere sono isolate.» Melidan assottigliò lo sguardo «Dove vuoi arrivare?». «Solo a farti notare una cosa che il caro Remond si è lasciato sfuggire: tutti i ladri che dovrebbero occupare quelle stanze, stando a lui, sono in missione fuori da Vathalar. Nessuno di essi è ancora tornato.» Kanyu si fece più serio del solito «Voglio arrivare a dirti che siamo in una trappola. Mobilita anche Dal Jin: cerchiamo di capire dove diavolo si trovano le basi degli untori entro pochissimi giorni. Il silenzio di Remond può voler dire molte cose, e nessuna di esse è positiva». «Potremmo spiare lui stesso: è sicuramente quello che ne sa più di tutti, se davvero è in combutta con Cenerdred» propose l’Elfo, pensoso. «È rischioso.» dovette ammettere l’altro «Però è l’unico modo che abbiamo per ottenere qualcosa. Tu tieni d’occhio la gilda, io rivolterò questa città come un calzino: è tempo di metter via la diplomazia». «Ci penso io, non ti preoccupare.» Melidan annuì col capo «Ma nel caso che ci trovassimo in preoccupante inferiorità numerica?». Kanyu aprì lo zaino e porse la busta attentamente chiusa al compagno. «Questa compenserà il nostro svantaggio.» spiegò, disegnando con le labbra un ghigno poco raccomandabile. Melidan si lasciò scappare un’esclamazione di ammirazione. «Se arriva a destinazione, puoi star certo che metteremo questo buco a ferro e fuoco.» disse, ricambiando il suo sorriso «Sempre che la Fratellanza non intercetti questa lettera». «Non la intercetterà.» Kanyu prese la busta dalle mani dell’Elfo «Me ne occuperò personalmente». «Così ha detto.» terminò Melidan, appoggiando le mani alle ginocchia «Tieni gli occhi aperti e cerca di far caso al comportamento delle persone attorno a te». Dal lo osservò con aria incerta, grattandosi la testa. «Ma siete sicuri che esista davvero, questo complotto?» domandò «A me non sembra che stia accadendo nulla di strano». 339
«Solo perché tu sei l’anello meno importante della catena, per quanto possa irritarti.» ribatté l’Elfo «Forse gli untori non sanno nemmeno che viaggi con noi». «Di questo non sarei tanto certo» si limitò a controbattere il giovane NaighMoor. «Ad ogni modo, ti ho spiegato qual è il tuo compito. Presto saremo costretti a lasciarci alle spalle questa città, nel bene o nel male; se però ti accorgi di un pericolo imminente sopra le nostre teste, ci toglieremo da qui molto più in fretta e senza rimetterci niente». «Posso provare a fare qualche domanda in giro». «Dal, cerca di capirmi.» Melidan prese fiato, abbassando per un istante gli occhi azzurri «La nostra sicurezza è tutt’altro che garantita e non possiamo permetterci il minimo errore. Tu sei ancora molto giovane, non sei in grado di estrapolare simili informazioni». «Questo è tutto da vedere.» sbottò il ragazzo, per nulla contento di quell’osservazione «Se tu mi dessi modo di provare-». «Se non ci è riuscito Kanyu, non ce la farai nemmeno tu.» Melidan parlava con tono calmo, per nulla incline alla lite «Domani invierà una richiesta d’aiuto diretta verso i regni del Nord: se uno come lui chiede soccorso, vuol dire che la situazione è critica». Dal non disse altro, costretto com’era ad accettare quelle condizioni. Non che pensasse di rimpiangere quell’ambiente, ma, sicuramente, avrebbe accusato la mancanza di quel giovane ladro con cui era appena riuscito a riappacificarsi. «Forse potrei chiedere ad Erdelen.» mormorò, speranzoso «Magari saprebbe dirmi qualcosa di più». Melidan alzò gli occhi con stupore. «Erdelen?» ripeté, inarcando il lungo sopracciglio «È anche lui un membro di questa gilda». «Con lui è diverso.» il giovane si rabbuiò in un batter d’occhi «Posso fidarmi di lui, davvero». «No, Dal.» il tono di Melidan, pur nella sua compostezza, non ammetteva repliche «Capisco che tu possa provare della simpatia per quel ragazzo, ma non sappiamo niente di lui, se non che è un ladro, e quindi un individuo su cui è impossibile fare affidamento. È leale, almeno?». L’elfo oscuro rifletté rapidamente su quelle parole: istintivamente, avrebbe voluto mentire, rispondere di sì, solo per difenderlo dalle accuse che uno sconosciuto gli stava gettando contro, ma, se davvero correvano un così grave pericolo, era davvero il momento di dire il falso? «Più o meno» rispose alla fine, chiaramente per nulla sicuro di quello che diceva. 340
«Allora ringraziaci, se ti allontaniamo da lui.» l’Elfo gli posò una mano delicata sulle spalle «Perché, credimi, quel giovane ti darebbe un dolore tanto grande da non poter essere dimenticato».
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XXXIV. Io devo fare i miei interessi
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al Jin rimase dubbioso per quel pugno di giorni che seguirono, guardando di sbieco sia Erdelen sia i due compagni che gli avevano fatto una tale rivelazione. Tutto quanto stava nuovamente sgretolandosi, rischiando di collassare com’era già avvenuto fin troppe volte. Ogni esperienza sembrava essere condannata a rivelarsi un fallimento, un nuovo, inaspettato dolore. Ma allora come si poteva ottenere la felicità? La risposta pareva lì, a portata di mano: non farsi domande inutili, come Erdelen. Lui era tranquillo, felice. Perché non avrebbe dovuto esserlo anche lui? Strinse una mano al petto, come a trattenere un improvviso dolore. Il respiro sembrò sfondargli i polmoni, lunghi e ripetuti brividi gli scossero la schiena con violenza, tanto da costringerlo a piegarsi su sé stesso. Sbarrò gli occhi, dischiudendo istintivamente le labbra; un attimo dopo, tutto era tornato alla calma. Eppure, lontano, nelle sue viscere, il Naigh-Moor sentiva chiaramente contorcersi la propria anima. In quel momento, Dal conobbe il ripudio per una vita che non avrebbe più potuto contraddistinguerlo. O confonderlo? L’elfo socchiuse gli occhi, allontanando la mano dal petto. «Dal? C’è nessuno in casa?». Il giovane esule sbatté le palpebre, voltandosi stupito verso quella voce: Erdelen lo fissava con una vivida perplessità. «Che ti prende?» gli domandò in risposta l’elfo, tornando bruscamente coi piedi per terra. «È quello che dovrei chiedere a te.» l’Umano incrociò le braccia al petto «Sembrava ti fosse preso un coccolone e non mi rispondevi nemmeno». Dal non l’aveva minimamente sentito. «Scusa, non lo so bene neanch’io.» si passò una mano sugli occhi, soffocando un debole mugolio «Devo essere un po’ stanco». Erdelen assentì col capo, spostandosi senza fretta verso la finestra della sala ricreativa. «E anche quest’estate sta finendo.» mormorò, stiracchiandosi le braccia «Peccato che sia durata così poco». «Ti dispiace perché non devi camuffarti.» l’elfo gli si avvicinò, sollevandosi le maniche della maglia sino ai gomiti «Qua sotto fa caldo, cosa credi?». «Bah, non è colpa mia se sei un elfo oscuro». Dal notò una piccola punta di veleno in quelle parole, ma si limitò a voltarsi da un’altra parte, per nulla compiaciuto. Di colpo, Erdelen lo afferrò per un braccio, tirandolo verso la finestra. Dal si volse di scatto a osservarlo: gli occhi 342
del giovane ladro brillavano di eccitazione, mentre gli faceva cenno col capo di guardare dalla finestra. Fuori, il vicolo era quasi totalmente sgombro: una sola figura incedeva sicura, facendo tintinnare gioiosamente la semplice sacca che teneva nella mano destra. Nonostante la distanza, Dal notò con facilità che quello era un Elfo con tanto di classici capelli biondi, che dal suo ben ricamato vestiario si deduceva appartenesse ad una casta gerarchica piuttosto alta. Un attimo dopo, Erdelen lo tirò via dalla finestra, correndo a rotta di collo verso l’uscita. «Sheynt!» Dal digrignò i denti, perdendo quasi l’equilibrio «Si può sapere che diavolo ti salta in testa?». «Piantala di farmi domande e seguimi» gli ingiunse rapidamente il ladro, facendogli cenno di seguirlo. L’elfo oscuro perse un solo istante per imprecare nella propria lingua, prima di correre dietro ad Erdelen. Quando furono fuori dall’edificio, il ladro si acquattò all’ombra del muro, stringendo con forza l’avambraccio del compagno. «Ora ascoltami e non perdere tempo, non posso parlare molto perché quel tipo ha l’udito fino e presto sarà in grado di sentirci. Tu bada che non arrivi nessuno, io gli prenderò la borsa dei soldi e scapperemo» bisbigliò, facendo veloci cenni con le mani per rendersi più chiaro. «Rapinarlo?» Dal sgranò di scatto gli occhi «Ma perché, chi accidenti è?». «Un esattore, e di quelli più spietati.» spiegò l’Umano, cupo in viso «Ma dopo una bella lezione si ammorbidirà, credimi. Dai, sbrigati!». Senza che il Naigh-Moor avesse tempo per porre altre domande, si trovò nel mezzo alla strada, bisognoso di un nascondiglio. Si guardò attorno in un lampo, quindi si mise al riparo sotto il portico dell’edificio di fronte, il cappuccio ben tirato sul viso. Pochissimi secondi dopo, l’Elfo apparve oltre l’angolo della strada, abbandonando in breve tempo la sua calma. Evidentemente, era consapevole che quei paraggi erano tutt’altro che sicuri ed ora avanzava con cautela, gettando ripetute occhiate a destra e sinistra. Il cuore di Dal batteva all’impazzata, stringendogli la gola come una morsa: certo, aveva imparato già da tempo a comportarsi con naturalezza, a dispetto del suo aspetto e del vestiario insolito, ma adesso il suo intero corpo fremeva per la paura, mentre il giovane stringeva con forza i pugni nelle proprie tasche. Poteva vedere distintamente che l’Elfo l’aveva notato, e di tanto in tanto gli scoccava qualche occhiata poco convinta, senza smettere tuttavia di avvicinarsi. Quando fu a un paio di metri da lui, il suo passo rallentò ancora; Dal si sforzò di non deglutire. Ora lo guardava di sottecchi, fino a quando non decise di farsi un po’ più vicino. «Buongiorno» disse d’un tratto, e nel suo tono gioviale l’elfo oscuro non riuscì a riconoscere lo spietato esattore.
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Alzò gli occhi con imbarazzo, appena in tempo per vedere l’Elfo voltarsi di scatto verso un Erdelen che con gesto ferino gli calava il pomo della propria daga sulla testa, facendolo crollare a terra nel giro di pochi istanti. «Perfetto.» Erdelen sorrideva soddisfatto, intanto che già liberava la sacca del denaro dalla mano inerte dell’Elfo «Ora via, alla gilda!». Un minuto dopo, Erdelen sedeva già con aria di vittoria, contando i soldi contenuti nella borsa. «Ottimo lavoro, amico mio.» ammise, rivolto al compagno «L’hai distratto perfettamente». «Ha fatto tutto da solo» Dal se ne stava in piedi nell’angolo più buio della stanza, per nulla fiero di quell’impresa. “Buongiorno”, aveva detto, ed era svenuto. «Ed è anche un gran bel gruzzolo.» continuava intanto Erdelen, lasciandosi scivolare le monete tra le dita «Sta tranquillo che la tua parte sarà ben congrua». «Non la voglio» Dal alzò lo sguardo al soffitto: vedere i gesti del compagno di colpo lo disgustava. Gli sembrava persino che stesse sguazzando le mani nell’urina, anziché in una borsa colma di denaro. «Oh, piantala.» Erdelen continuava ad essere allegro e soddisfatto «Ce n’è per entrambi, qui». «Allora tienili tu, Kanyu non ha certo bisogno di soldi» e di sicuro, il NaighMoor avrebbe preferito essere in compagnia dell’Esule, piuttosto che del ladro. «Quello è un tirchio, cosa vuoi che ti scucia?» l’Umano ridacchiò, pesando con la mano la sacca «Almeno questi puoi spenderli come vuoi». «Erdelen, piantala» il tono dell’elfo era tagliente come la lama di un rasoio: forse, in quel modo, avrebbe ottenuto qualche spiegazione sul malessere che gli pervadeva l’animo. «Va bene, va bene, va bene.» il ladro non fece alcuna grinza, contento come un bambino «Li tengo io, tu fatti pure mantenere dal tuo amico». Dal sentì le parole di Melidan che gli rimbombavano nelle orecchie: era dunque questo il dolore? Fingendo un’improvvisa stanchezza, si ritirò nel suo appartamento, praticamente senza obiezioni. L’elfo oscuro chiuse la porta della stanza con stizza, battendo in seguito un ulteriore colpo sull’uscio ormai chiuso. Dov’era quel dannato sacerdote, proprio ora che serviva? Di nuovo quel soffocante senso di nausea lo costrinse a dimenticare qualsiasi proposito ed a fasciarsi l’addome con le proprie braccia. Una malattia, ne era sicuro. Un morbo dovuto alla punizione di qualche Dio inflessibile, ben deciso a punirlo per il suo comportamento. O gli untori? Dal 344
sapeva benissimo la loro capacità di diffondere malattie a piacimento. L’avevano infettato! Condannato! Scosse la testa bruscamente, sbattendo le palpebre: non c’era alcun dolore, alcun fastidio. Si tastò il corpo con cautela, poggiando poi la fronte sulla mano. «Ma che sto facendo?» mormorò fra sé, rialzando il capo. L’unica cosa che avvertiva dentro di sé erano i bacilli di una nuova, possibile esplosione emotiva. Più si sarebbe avvicinato alla Fratellanza e più dolore avrebbe provato, sino a quando non avrebbe smarrito completamente sé stesso. Questa certezza, nella totale ignoranza in cui si accorse di aver vissuto, brillava saldamente sopra un cumulo di ombre, come una torcia incendiata. Una fiamma che si esternava dalla scabra sopravvivenza e illuminava debolmente il profilo dell’anima. Per qualche misera ora, Dal si sentì sollevato, fiducioso in sé stesso e, ingenuamente, in tutto ciò che lo circondava. I piedi scalzi dell’Umano si strascicarono faticosamente uno dietro l’altro, ignari dei fastidiosi sassolini dispersi al suolo. Dopo decenni di camminate in quelle condizioni, non sarebbero bastate pietre aguzze come pugnali per incidere un solco sugli spessi calli che si erano pian piano formati. L’uomo si grattò con gesto sgarbato la barba ispida, scuotendo pulviscolo vecchio di ormai qualche giorno, senza alcun riguardo per quanti lo osservavano disgustati da una certa distanza. Borbottò qualche maledizione contro gli Dèi e l’attuale Imperatore, quindi rivolse il proprio sguardo verso una strada che aveva imboccato sin troppe volte, sbadigliando di pura noia. Tutto si poteva dire, ma non certo che la vita di un mendicante fosse divertente o emozionante. Più avanti, se non altro, avrebbe trovato la solita compagnia di disgraziati come lui, col quale sarebbe stato possibile scambiare qualche discorso e inventarsi qualche storiella divertente, abbastanza da far sembrare la vita meno grama. Già intravedeva le sagome in lontananza e le sconcezze pronunciate levarsi al cielo come un avvertimento. Attenzione: zona sconsigliata per gli imbecilli con la puzza al naso. Ridacchiò fra sé di quell’ispirazione momentanea, spuntando nel bel mezzo della folla. Qua e là si udirono saluti più o meno accesi annunciare l’arrivo di un altro compagno di sventure, mentre l’Umano si faceva allegramente largo tra i mendicanti. Sedette tra loro al suo solito posto, proprio accanto alla grata delle fogne. A chi gli chiedeva perché si sedesse sempre lì, dove l’aria era più fetida, rispondeva: “il tanfo degli abitanti di questa lurida città fa sembrare un toccasana quello dello sterco”. Tutti sapevano che ormai ripeteva quel gesto per difendere la propria, ossessionante presa di posizione nei riguardi di qualsiasi cosa riguardasse l’autorità, solo per spostarsi due minuti dopo, diffondendo peraltro la puzza ovunque si recasse. Quando anche questa volta fece per alzarsi, 345
la prima cosa che sentì, però, fu una gelida stretta sulla testa: un attimo dopo, la sua faccia sbatteva violentemente contro la grata delle fogne, interrompendo con quel sonoro rumore l’attività dei mendicanti. Come un sol uomo, una dozzina di sguardi indagatori si rivolsero verso il compagno aggredito. Accanto a lui, un giovane elfo oscuro che quasi tutti riconobbero era comparso dalle ombre, come uno spirito, e la sua treccia bionda pareva prender fuoco assieme al tramonto. «Mi sembrava di avervi pagato profumatamente per trovare quell’esule.» pronunciò con convinzione, abbassando lo sguardo sdegnato sull’Umano, che ora si contorceva dal dolore al volto «Dunque tutto quello che sapete fare è intascare i soldi e scappare». Vi fu un lungo periodo di silenzio, tanto da indurre Lohidran a riprendere la parola. «Voglio sapere dov’è Dal Jin» disse, restandosene immobile. Qualcuno, riparato dai compagni, ebbe l’ardire di sussurrare all’orecchio di un altro: «Allora quel porco dalla pelle grigia riesce ad attraversare la città. E meno male che non poteva farlo, secondo voi». Il principe di Armalak voltò lentamente il bel viso verso il punto da cui proveniva il sussurro. «Ed ha anche buone orecchie, al contrario di voi bastardi cenciosi.» soggiunse, portando la destra al pomo dell’elegante arma fissata alla cintura «E meno pazienza». Subito, il più coraggioso dei mendicanti si fece avanti, allargando le braccia in segno di impotenza. «Ehi, amico, qui nessuno voleva prenderti per il culo.» precisò, sommando alle già rozze parole una voce sgradevole «Gli amici hanno solo scherzato un po’, ma ora lo troviamo». Un attimo dopo, una striscia rossastra comparve come una saetta tra le mani dell’elfo oscuro, tranciando qualsiasi ostacolo vivente si permettesse di porsi dinnanzi al principe di Armalak. Vi furono urla di sgomento, strilla di dolore e implorazioni selvagge, mentre quel turbine scarlatto continuava a seminare sangue e morte tra i mendicanti. L’Umano che soleva sedersi accanto alla grata delle fogne si rialzò in piedi, intontito, accorgendosi di colpo che l’ignaro assassino gli dava le spalle. Avrebbe potuto fuggire, ma il dolore ancora vivo sulla faccia vibrava, strepitando furiosa vendetta. Con un balzo saltò addosso all’elfo grigio, cingendogli le braccia attorno al corpo snello. «Adesso, gente!» urlò con foga, stringendo l’avversario con tutta la forza che possedeva «Addosso, dategli addosso!».
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Aveva appena fatto a tempo a terminare la sua incitazione, che quello che doveva essere un bersaglio incapace di difendersi si sciolse dalla presa del mendicante come un serpente, rivolgendo all’indietro la punta della propria lama. Nemmeno si udì il grido di dolore dell’uomo, mentre la lama lo trapassava e poi correva verso l’alto, come attraverso il burro, troncando a metà l’impulsivo mendicante dall’ombelico in su. Lohidran si portò come una pantera in posizione di difesa, tornando a fissare i mendicanti: nessuno si era fatto avanti, nonostante un altro loro compagno fosse stato ucciso sotto i loro occhi. Anzi, continuavano a urlare, dimenarsi, urtandosi per scappare il più velocemente possibile. «E ora aprite le vostre sudice orecchie!» esclamò rabbiosamente l’elfo, stringendo l’impugnatura della lama con forza, unico suo appiglio per evitar di precipitare nella furia omicida che sentiva pregarlo di lasciarla libera «Vi concedo al massimo due giorni per scoprire dove si sia rintanato Dal Jin! Dopodiché vi troverò tutti, anche in capo al mondo!». Silente com’era venuto, Lohidran rinfoderò la Gloria Scarlatta e corse via, svanendo tra le ombre come un fantasma. Per quanto caos potesse esserci nell’accampamento, ogni mendicante aveva compreso le sue parole. Chiacchiere e rumore di sedie smosse senza troppa grazia: quanto armonicamente quei suoni si mescolavano tra loro, scivolando nel cuore del Naigh-Moor come una grazia salvatrice! Tutto era tranquillo, pacifico. Quel clima vivace si spandeva liberamente attorno alla tavola, fra confuse discussioni e improvvise esclamazioni volgari. Forse un uomo onesto avrebbe ritenuto che quel covo di pendagli da forca fosse l’ultimo posto in cui recarsi, ma Dal non riusciva ad accettare una realtà diversa da quella che vedeva. Forte delle proprie convinzioni, si sarebbe elevato senza parlare sopra quei ladri, dimenticando le esperienze che l’avevano condizionato finché aveva agito con loro. Erdelen gli si fece però vicino sin dall’inizio. «Ti è passata la sbronza?» domandò, battendogli un debole pugno sul braccio «Guarda che se adesso la vuoi, la tua parte, non c’è problema». Dal fece cenno di no con la testa, ma non si dimostrò in disaccordo col ladro, per quanto avrebbe volentieri ribadito la sua posizione. Erdelen non sembrò per nulla dispiaciuto di quella scelta. «Beh, il mondo è pieno di matti.» commentò con noncuranza «Tu devi essere uno di quelli». «Può darsi» rispose l’elfo, e stavolta fu lui a non dar peso alle parole del compagno. Stava lasciandosi comparire sulle labbra un sorriso rassicurato, che un ombra ben nota li sovrastò con un bonario richiamo. I folti baffi neri di Mac 347
incorniciavano la risata dell’informatore e falso commerciante di spezie. Tra le ruvide mani, l’Umano reggeva un grosso boccale di birra spumeggiante. «Brindo ai furboni più sfacciati dell’intero Principato dell’Est!» proclamò, alzando in alto il proprio boccale. «Potrei prenderla come un’offesa, vecchio mio.» Erdelen ridacchiò in risposta, prendendo a sua volta un bicchiere dalla tavola imbandita «Mi fai sentire una canaglia, se dici così». «Bah, e credi ancora di spacciarti da santarellino?» Mac continuava ad apparire divertito «Sei capace di togliere il pane dalla bocca di un bambino affamato». «Ti fai troppi scrupoli, amico» Erdelen quasi perse il proprio sorriso, suscitando così la curiosità del Naigh-Moor. «Certo meno di te.» l’informatore allargò le braccia in un gesto teatrale, sorseggiando subito dopo un abbondante sorso di birra: era fin troppo evidente che l’uomo aveva decisamente ecceduto con l’alcol «Però è stato un colpo da maestro, diavolo! Sappiamo bene a quanti altri faceva gola il denaro di quell’idiota di un sacerdote!». Dal fece un passo indietro, sgranando gli occhi. «Sacerdote?» domandò immediatamente, sbigottito «Erdelen, mi avevi detto che era un esattore…». «Lo è» ribatté rapidamente il ladro, chiaramente scocciato da quelle osservazioni. «Oh, certo che lo è!» confermò Mac, ridendo di gusto «Va in giro per le case a chiedere offerte per qualche moccioso senza famiglia di cui si prende cura, e solo gli Dèi sanno quanti imbecilli sborsano un mucchio di soldi! Tu come lo chiami uno così? Io lo chiamo… Boh… Un esattore!». Per un attimo, Dal vide tutto appannato, intanto che i suoi propositi svanivano come il fumo. Poi, avvertì nuovamente quella sensazione allo stomaco, ma stavolta quella nausea parlava tutt’altro linguaggio. «Sei un miserabile!» gridò di colpo, scagliandosi come una fiera su Erdelen, che si trovò fulmineamente agguantato per il bavero da un Dal che non aveva mai visto. A nulla valsero tutte le parole che il ladro potesse cercare di mettere assieme, contro quella belva che lo scuoteva come un ramoscello al vento. «Mi hai reso complice delle tue porcherie!» urlò ancora il Naigh-Moor, avvicinandolo al proprio viso. «Dal, maledizione!» sbottò di colpo Erdelen, agitando inutilmente il proprio corpo «Io devo fare i miei interessi!». Un urlo disumano pervase tutta la sala, mentre l’esule sollevava di peso il ladro, sbattendolo contro il tavolo con tale violenza da sbalzare via tutti i piatti e i bicchieri. 348
«Dovrei cavarti gli occhi, figlio di cagna!» urlava, stringendo con una forza innaturale le mani attorno al vestito dell’altro. Erdelen trattenne il fiato, terrorizzato: sopra di lui ora s’agitava un demonio con due fiamme brillanti nelle orbite, schiumante di rabbia come non aveva mai visto nessuno. «Toglietemelo! Toglietemelo!» prese allora a gridare, sgambettando a vuoto mentre attendeva che quell’essere che a stento riconosceva compisse ciò che gli urlava in faccia. Dal però continuava a sbatterlo selvaggiamente contro il tavolo, tanto che nel giro di qualche secondo il commensale più vicino gli fu addosso, cercando di tirarlo via da Erdelen. All’elfo furioso sarebbe bastata una semplice scrollata per liberarsi di quell’individuo, ma, prima che potesse muoversi, altri gli furono attorno, separandolo a forza dal rivale. «Tenetelo buono!» gridò qualcuno, mentre l’elfo, ora a mani libere, si preparava già ad attaccare come poteva quanti lo bloccavano in quel groviglio di braccia e gambe. Dal riconobbe a stento un ragazzo che doveva avere quanto Erdelen, con una barba appena accennata: l’aveva visto qualche volta nei corridoi, senza tuttavia averci mai parlato. Nel giro di un attimo lo vide farsi più vicino, fino a quando non avvertì il dolore del pugno che gli veniva sferrato nello stomaco. Sentì il fiato mancargli, poi il dolore pervadergli tutto il corpo mentre una folla indistinta gli si scagliava contro con colpi, minacce e imprecazioni. Non riuscì a vedere se Erdelen era parte di quella tempesta di colpi, così come non distinse Mac, ma non gli ci volle molta lucidità per capire che, se non intervenivano, non erano certo contrari a quel pestaggio. Lentamente, divenne tutto sempre più scuro, fino a quando non riuscì più ad avvertire nemmeno il contatto con tutte quelle membra che lo bloccavano o lo urtavano, preda dell’incoscienza. Tutto quello che intravide quando si riprese fu una visione distorta e offuscata della stanza della mensa in pieno disordine. Si passò faticosamente una mano sugli occhi, solo per sentirne il gonfiore e accarezzare un liquido che doveva essere il suo stesso sangue. Chiuse gli occhi una seconda volta, ripiombando in una nebbia in cui gli parve di essere sollevato e trascinato in qualche modo via.
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XXXV. L’ira di Kanyu
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al riaprì gli occhi con una certa fatica, distinguendo chiaramente una tenue luce azzurrina spandersi lungo il suo volto ed il suo corpo. Le membra gli dolevano, ma non tanto da impedirgli di muoversi. Volendo, avrebbe potuto dibattersi e sfuggire a quello strano bagliore, ma si guardò prima attorno con curiosità. «Dovresti stare più attento, figliolo» mormorò la voce di Melidan, oltre la debole coltre magica. Dal sbarrò gli occhi, mentre le immagini sfocate acquistavano man mano nitidezza: non gli ci volle molto per capire che l’Elfo l’aveva portato sino al loro appartamento e là lo stava medicando. Sorrise appena, sorprendendosi di sé stesso per una tanto pacata reazione. «C’è poco da essere allegri.» lo reguardì il sacerdote, spostando appena il bastone fino a sfiorargli l’addome martoriato «A me non piace affatto la gente che viene così facilmente alle mani». Dal tornò a chiudere gli occhi, passandosi una mano sulla fronte su cui ancora poteva avvertire le tracce di una contusione. «Mi ci vorrà qualche minuto per rimetterti in sesto un minimo.» disse Melidan, notando quel gesto «Quanti erano?». L’elfo oscuro scosse appena il capo. «Non li ho contati» rispose sinceramente, ripensando alla massa di ombre che aveva visto piombargli addosso da un momento all’altro. Il sacerdote emise un sospiro di chiara disapprovazione. «C’era una strana atmosfera per tutta la gilda, un gran viavai di persone. Quando ho chiesto notizie, molti hanno fatto finta di non avermi udito ed altri hanno accennato a disordini nella stanza della mensa: c’è voluto un bel po’ per capire che c’eri coinvolto tu». «Immagino con quale gentilezza ti abbiano avvisato» commentò sarcastico il giovane. «Le parole non sarebbero importanti, vista la nostra situazione qui. Non siamo certo benvoluti.» la luce azzurrina scomparve per un attimo, per riapparire subito dopo, a seguito di un veloce movimento del bastone del sacerdote «Ma ci terrei a sapere cos’è effettivamente successo». «Ah, non ti hanno detto niente?» Dal riaprì un occhio, stupito. «A dire il vero, no. Solo parole come “rissa”, “disordine” e qualche bestemmia. Immagino che tu possa darmi una spiegazione più esauriente… E sincera, altrimenti puoi solo sperare che non mi accorga che stai mentendo». 350
Dal spiegò ciò che era accaduto, a partire dall’aggressione al sacerdote sino allo scontro con Erdelen e il successivo pestaggio, senza omettere nulla. Anzi, più di una volta l’Elfo dovette mitigarlo perché non si lasciasse nuovamente trascinare dalla rabbia che l’aveva spinto ad attaccare il ladro così spregiudicatamente. Quand’ebbe finito, si tirò a sedere, notando i vestiti imbrattati qua e là del proprio nero sangue e impregnati di sudore. «Quelli dovrebbero essere l’ultimo dei tuoi problemi.» osservò Melidan, appoggiandosi il bastone sull’esile spalla «Devi imparare a tenere a bada i tuoi istinti. Non sei più un Naigh-Moor, sei un esule». «La mia carne è identica a quella di qualsiasi elfo oscuro» replicò sprezzante il ragazzo, battendosi una mano sul petto. «Kanyu ha fatto affidamento su di te. Molto affidamento.» il tono del sacerdote era piatto, irrevocabile «Ti sta offrendo la possibilità di uscire definitivamente dal Baratro: cerca di collaborare». «E piantatela con questo “Baratro”.» Dal fece un gesto stizzito col braccio «Ormai sono abbastanza lontano da Nog Tuluth». «Se lo sei, lo devi a noi, questo ricordalo bene. E credi davvero di essere al sicuro? Tuo padre può assoldare qualsiasi banda di briganti per darti la caccia, lo sai?» Melidan fece una pausa, così da lasciar riflettere il giovane «Ti chiediamo soltanto di reprimere degli istinti che ti rendono più simile ad una bestia che ad un elfo: qualsiasi esule prima di te, in special modo Kanyu, ha dovuto fare i conti col proprio sangue per sopravvivere. Se tutto questo fosse accaduto fuori dalla gilda, non avrebbero esitato a metterti alla gogna solo per il colore della tua pelle». Dal non controbatté, chinando il capo. Seguirono alcuni momenti di silenzio, in cui Melidan ripose il bastone magico e si sedette su una sedia, di fianco al ragazzo ormai ristabilito. «Grazie per la medicazione» mormorò quello, accarezzandosi con una mano il busto di colpo illeso. «Dovere. Ho sacrificato la mia vita ai bisognosi.» l’Elfo non si scompose, sistemandosi la tunica «Certo che è strano…». Dal inarcò un sopracciglio, voltandosi verso il compagno. «Di che parli?». «Del loro comportamento: le camere vuote, le assenze di Remond, decine di ladri in missione che non tornato… E oggi ti picchiano a sangue. Ragiona! Se davvero la Fratellanza fosse in combutta con gli untori, perché reagire a quel modo? Devono mantenere la segretezza dell’affare, no?». «Beh, immagino di sì.» Dal scrutò in viso il compagno, incrociando le gambe «Vuoi dire che Kanyu si è sbagliato? Che non esiste nessun complotto?».
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«Tutte quelle stranezze possono essere dovute a qualcos’altro.» l’Elfo appoggiò il mento alla propria mano «Eppure Kanyu aveva convinto anche a me…». Dal si grattò la testa, riflettendo per conto proprio. «Penso che dovrei parlarne con lui» annunciò d’un tratto il sacerdote, annuendo piano tra sé. «E se, invece, il complotto esistesse?» obiettò l’elfo grigio, come se un’illuminazione l’avesse colpito «Ti terranno d’occhio. E magari riusciranno ad udire la tua conversazione con Kanyu, se non ci stanno ascoltando già adesso». Melidan si rizzò di scatto in piedi, colpito da quell’osservazione, dirigendosi a passi svelti verso la porta, che aprì di scatto. Si guardò intorno con tutta l’attenzione di cui era capace. Nessuno. Neppure il suo finissimo udito percepiva qualcosa. Richiuse la porta con un chiaro sollievo, tornando a sedersi di fianco al Naigh-Moor. «Nessuno ci stava ascoltando.» lo rassicurò, anche se dubbioso in viso «Ma non possiamo negare che potrebbero origliare ciò che io ho intenzione di dire a Kanyu. Anzi, è probabilissimo che lo facciano per il semplice timore che faccia avere loro qualche fastidio». «Tuttavia, potrebbero anche essere assurde paranoie, le nostre.» dovette ammettere il Naigh-Moor «Sono solo supposizioni, in fondo». «Anni fa, non diedi retta a un consiglio di Kanyu, Dal.» disse rapidamente il sacerdote «Se non sono morto, lo devo al fatto che intuì le mie mosse e mi salvò appena in tempo da un’altrimenti sicura fine. Per tal motivo, non me la sento di scartare le sue ipotesi, per quanto mi possano sembrare infondate, e, siccome non possiamo parlare con lui, sta a noi due cercare di sbrogliare questa matassa. Per cominciare, perché ti hanno malmenato?». «Perché ho aggredito Erdelen, te l’ho già detto.» Dal fece una smorfia «Immagino che aspettassero l’occasione per farlo… O volessero semplicemente vendicare le scodelle finite sul pavimento». «Impulsività.» Melidan riassunse tutto in quella parola, con sua somma soddisfazione «Sono dei ladri di mezza tacca, ecco perché ti hanno assalito. Non pensavano nemmeno a quello che sarebbe potuto succedere, sempre che ne sappiano qualcosa». «È una diagnosi un po’ azzardata» borbottò il ragazzo, poco convinto. «Ma l’unica accettabile: solo dei ladruncoli da quattro soldi ruberebbero le elemosine». «Erdelen non mi è mai parso un ladruncolo da poco, Melidan» Dal sapeva di non star difendendo nessuno, se non loro stessi, con quell’affermazione. «Lui forse no, ma l’ambiente che lo circonda non è certo formato da cime di intelligenza, specialmente se si esaltano per un furtarello del genere. No, figliolo, è stata un’azione impulsiva, proprio come la tua». 352
«Mi stai dando dell’idiota?» l’elfo oscuro accigliò lo sguardo: d’altronde, era stato lui a scatenare la rissa. «Tu avevi sicuramente più motivi di loro per attaccare Erdelen. Senza contare che non l’hai nemmeno colpito, a quanto mi hai detto. Evitiamo liti inutili, per favore». «D’accordo, d’accordo.» ribatté spazientito il ragazzo, facendosi d’un tratto serio in viso «Mi è venuto un presentimento, però». Melidan gli rivolse un’occhiata sospettosa. «Ho il timore che questo pestaggio si ritorcerà contro di noi.» continuò intanto il giovane, congiungendo le mani tra le gambe «Io non potrò certo far coppia con Erdelen, e non so quali altri ladri siano disposti ad accettarmi come compagno, salvo l’intervento di Kanyu. Questo significa che sfuggo al loro controllo, in quanto non ho più nessuno che mi tenga d’occhio, oltre a metterci in cattiva luce tutti e tre». «Un modo per tenerti d’occhio lo troveranno, poco ma sicuro» replicò Melidan, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Posso immaginarlo, ma, presupposto che il complotto esista, se tu fossi in Remond, non cercheresti di accelerare i tempi? Già possiamo immaginare che ci resti poco tempo…». «Non dire altro.» lo interruppe l’altro, alzandosi nuovamente in piedi e raggiungendo lo scrittoio, su cui si curvò immediatamente «Scrivo qualche esauriente spiegazione per Kanyu, poi svuoterò questa gilda da cima a fondo.» lo sguardo del placido sacerdote divenne una maschera di nervosa preoccupazione «Aggiungerò che Kanyu ti raggiunga qui e gli metterò questa busta sotto la porta, badando che nessuno mi veda. Se entro domattina non sarò di ritorno, fuggite da qui senza remore». Dal balzò in piedi come una molla, sbalordito. «E fammi il favore di non muovere obiezioni, figliolo. Sono anni che faccio questa vita, ed è necessario che qualcuno si occupi di questo problema, per la salvaguardia di tutti.» Melidan continuava a scrivere senza pausa, vergando le proprie istruzioni senza la minima esitazione «Tu non ti muovere da qui: Kanyu non tarderà a raggiungerti, lo conosco bene». Il giovane esule non ebbe la forza di ribattere in alcun modo: sapeva che qualunque opposizione avrebbe farfugliato non avrebbe ottenuto effetto, contro la determinazione del sacerdote. Ebbe solo la forza di mormorare due parole, a stento udibili, quando l’Elfo fu ormai in piedi: «Buona fortuna». Melidan rispose con un sorriso tanto teso che Dal strinse le lenzuola fra i pugni non appena il sacerdote fu uscito dalla stanza, con una veloce preghiera sulle labbra rosee. 353
Pochi minuti dopo, la porta della stanza si aprì nuovamente, mostrando lo sguardo raggelante dell’Esule, altero e inconfutabile. Dal alzò la testa ansiosamente, senza trovare quel sollievo che sperava il compagno gli avrebbe potuto concedere. Kanyu chiuse la porta alle sue spalle in silenzio, lasciando quindi ricadere il proprio zaino sul materasso libero. «È un bel po’ che non ci vediamo» provò a dire il ragazzo, pronto a negare l’evidenza della loro preoccupazione, pur di non dover sopportare più quella tensione. «Non è una visita di piacere.» lo smentì subito l’altro, aprendo lo zaino e controllandolo rapidamente «Saluta tutti: quando Melidan avrà finito, toglieremo le tende. Qualsiasi cosa accada». L’Elfo strisciò silenziosamente lungo il fantomatico corridoio delle stanze vuote, stringendo vigorosamente il bastone nella destra. Da quando aveva lasciato il proprio appartamento, non aveva trovato un solo ladro in giro per la gilda: l’intero edificio era silenzioso, come disabitato. Sporse il capo all’interno di una delle porte socchiuse. Buio, niente suppellettili, mobili spogli. L’odore di muffa gli arrivò immediatamente al naso, tanto da stordirlo per un istante. Nessuno dormiva in quelle stanze da mesi, se non anni: dunque li avevano veramente relegati in quella sorta di magazzino per il solo scopo di tenerli lontani da Kanyu. Superò una nuova rampa di scale, ritrovando la stanza del compagno. La porta era ancora chiusa, ma non un solo rumore proveniva dall’interno, segno che Melidan accolse con un piccolo sorriso: se non altro, Kanyu doveva aver prestato fede alla lettera che gli aveva infilato sotto la porta poco prima. Fattosi ancora più cauto, si accinse a salire quella che doveva essere l’ultima scalinata. I passi leggeri dell’Elfo si udivano appena nell’atmosfera di abbandono che avvolgeva la gilda. Drizzò le orecchie quando gli parve di udire una voce di fronte a sé, indistinta. Gli ci volle qualche secondo per comprendere che era Remond, il capo della Fratellanza, a parlare. La lussuosa porta che si stagliava, chiusa, di fronte a lui confermò i suoi sospetti. Melidan si fece più vicino, quasi appoggiando il capo al legno pregiato, e lì rimase, ignorando il vibrante pulsare del proprio cuore e il leggero tremolio che gli raggiungeva le gambe. Tutta l’esperienza acquisita negli anni trascorsi parve svanire, lasciando un semplice, esile Elfo a fronteggiare un’impresa del tutto inaspettata. Socchiuse gli occhi, inspirando a fondo per ridarsi un contegno, e si preparò ad ascoltare quanto Remond stava dicendo. Un leggero torpore gli accarezzò il corpo. «Rischi di mandare a monte tutto per la tua sconsideratezza» Remond parlava con aria di rimprovero, rivolto a qualcuno all’interno.
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«È stato lui ad assalirmi.» la voce che gli rispondeva era quella di un giovane uomo «Chiedete pure a tutti i presenti». Melidan non dovette sforzarsi per capire che l’altro presente fosse Erdelen. «Tutto è nato a causa della tua stupida idea di assalire quel sacerdote.» riprese Remond, con tono altezzoso «Quel Dal Jin non è un ladro e non è venuto qui per diventarlo. Sai bene con quale cervello ragionano quelli al di fuori della gilda, e meno quell’elfo oscuro impara da noi e meglio è». Melidan inarcò un sopracciglio: per quale motivo? Gli sembrava impossibile che Remond potesse preoccuparsi di quel poco che Erdelen avrebbe potuto trasmettere a Dal. «Non gli ho insegnato che il minimo indispensabile per operare con me, figuriamoci se è diventato un pericolo per la nostra sicurezza» le parole del giovane ladro spiegavano molte cose. «Conosco per fama il tuo “minimo indispensabile”, ragazzo, ed è fin troppo. Dovevi solo tenerlo buono e all’oscuro di tutto, non gettare dubbi sulla nostra lealtà. Quei tre non devono capire cosa abbiamo in serbo per loro». Melidan fu tentato di mettersi a ridere: Erdelen non doveva gettare dubbi, quando lui stesso stava scodellando tutta la verità? Cominciava a capire perché tutte quelle possibilità che avevano valutato per dimostrare l’innocenza della gilda fossero state ignorate velocemente da Kanyu. Remond era un colossale imbecille. «Dal Jin non ha mai sospettato alcunché» replicò Erdelen con tono sicuro. «Lui forse no, ma puoi star sicuro che gli altri due l’hanno fatto, con tutti gli errori che hai compiuto» il capo della gilda doveva essere veramente convinto di non avere responsabilità su quello che sarebbe successo. «Io non ho mai parlato di untori» ribatté aspramente Erdelen, alzando la voce. Untori! Melidan scattò in piedi, allarmato. Dunque era tutto vero, era una trappola, come aveva immaginato subito e di cui si era sempre ripromesso di diffidare. All’interno, Remond aveva imposto ad Erdelen di abbassare la voce. Non c’era altro da ascoltare. D’un tratto, la porta si socchiuse, lasciando intravedere il volto magro di un umano che Melidan aveva intravisto numerose volte. Un membro della fratellanza. Doveva aver aperto la porta per sicurezza, aspettandosi che nessuno fosse fuori, a giudicare dall’espressione sbigottita che gli comparve sul viso. Allargò la bocca ed accennò a gridare qualcosa, ma non riuscì a completare neanche la parola “allarme”, che già il bastone del sacerdote lo urtava sotto la mandibola, scaraventandolo indietro, con la mano ancora stretta sulla maniglia. La stanza si dispiegò di colpo davanti a Melidan: Remond era in piedi al centro, Erdelen era a pochi metri dalla porta, voltato verso di essa con prontezza. Melidan agitò il bastone tra le mani come se si trattasse di un serpente, prendendo a recitare frettolosamente una formula magica, l’unica che 355
gli sembrasse adatta in quel momento. Remond lo additò con la destra, spaventato. «Fatelo tacere! Ammazzatelo!» urlò, e un attimo dopo un pugno di ladri si scaraventò contro il sacerdote. Un attimo dopo, si trovarono sbalzati lontano, travolti da un’onda d’urto che Melidan aveva generato attorno a sé. «Erdelen!» gridò intanto lo stesso Remond, agitando di nuovo il braccio. Melidan riuscì a vedere il giovane balzargli addosso come una belva e scagliarsi contro il suo bastone, anziché contro di lui. L’Elfo sgranò gli occhi, resosi conto di cosa il ladro avesse intenzione di fare, quindi sentì la pianta del piede del giovane sbattere contro il suo addome e il bastone magico sfuggirgli dalle lunghe mani. Indietreggiò per la spinta, udendo il riecheggiare del bastone contro il pavimento, lontano da lui. Quando riportò l’attenzione sul giovane, vide che Erdelen stringeva nella destra una corta daga. La lama saettò in un fulmineo affondo, solo per mancare il bersaglio, che era già scartato a destra con l’agilità propria di qualsiasi Elfo. Seguì un frustrato e impreciso fendente, di nuovo a vuoto, mentre Melidan balzava da un lato all’altro, scansando gli attacchi scoordinati ma frenetici del giovane. Quando si trovò con le spalle allo stipite della porta, dovette prendere l’iniziativa: sbatté la propria mano contro l’avambraccio destro dell’avversario, allontanando da sé la daga che si era nuovamente preparata a colpire. Vedendosi sbilanciato, Erdelen appoggiò la sinistra al muro, e, un attimo dopo, scattò in avanti con la testa, colpendo di striscio la fronte dell’Elfo. Melidan soffocò un gemito, intontito, sentendo che il braccio del ladro si liberava della sua mano. Un attimo dopo, la lama penetrava nelle sue carni, raggiungendogli lo stomaco. Melidan avvertì subito che Erdelen aveva raggiunto un punto vitale. In un secondo, sentì il sangue fluirgli attraverso la ferita, la vista si annebbiò e la mente cercò rifugio nell’incoscienza; non c’era modo, per lui, di sottrarsi a quell’ultima avventura. Ma per altre due persone sì. Alzando gli occhi, gli parve forse di vedere Braeyel, severa come mai l’aveva pensata, ingiungergli di compiere il suo ultimo dovere. Gridò furiosamente, allontanando con le ultime forze Erdelen e la sua daga da sé. A stento ci vedeva, ma sapeva che ciò che avrebbe fatto sarebbe riuscito. Sollevò con immane dolore il ginocchio, urtando l’inguine del ladro e fiaccandolo in un attimo. Poi, senza voltarsi, corse via da lì. Udì la voce di Remond intimare ad Erdelen di inseguirlo, e ben presto la voce e i passi del ladro lo seguirono come un animale da preda. Melidan osservò il corridoio di porte che ondeggiava di fronte a lui, come una barca durante la tempesta. Allargò gli occhi chiari, come a ricordarsi cosa doveva fare.
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Qualche secondo dopo, Erdelen raggiunse lo stesso corridoio, trovandolo completamente vuoto. Con una mano ancora sull’inguine, si lasciò sfuggire un sorriso. «E tu credi che non ti trovi?» sghignazzò, rallentando la propria andatura «Non puoi essere lontano, perciò è inutile che ti nascondi dietro queste porte!». Tenendo nella destra la propria arma, si avvicinò alla prima stanza socchiusa, inspirò a fondo e spalancò la porta con uno scatto. L’appartamento era completamente vuoto. Un attimo dopo, udì un rumore di passi e si voltò verso il corridoio. Melidan era uscito dall’ultima porta, lasciando tra lui ed Erdelen l’intero corridoio. Il ladro corse verso di lui, vedendolo scendere dalle scale come un felino, saltando i gradini nonostante la ferita che gli stava dilaniando lo stomaco, quando lui faticava a correre dopo la sola ginocchiata del sacerdote. Avrebbe potuto raggiungerlo, c’era ancora tempo. Ma prima che potesse essere a portata della sua arma, Melidan aveva già percorso un gran numero di scalini e la porta del suo appartamento era troppo vicina perché l’Elfo non potesse raggiungerla. Erdelen si arrestò rabbiosamente, vedendo la propria preda fiondarsi all’interno della stanza. Deglutì, preparandosi alla reazione sia di Remond che di Kanyu, e corse verso la stanza del capo della gilda, più velocemente di quanto avesse fatto durante il suo inseguimento. Melidan crollò a terra non appena ebbe varcato la soglia della propria camera. Kanyu e Dal si voltarono come un sol uomo verso di lui, scattando subito in suo soccorso. «Melidan!» esclamò l’Esule, sollevandolo quel tanto che gli bastò per notare lo squarciò all’addome: pronunciò una bestemmia, quindi si voltò verso il giovane Naigh-Moor «Dal! Il mio zaino, dammi il mio zaino!». Melidan intanto balbettava freneticamente, accolto supino e tremante tra le braccia di Kanyu. «Untori.» ripeté, ansimando «Remond è con loro… Erdelen mi ha ucciso… Scappate, scappate, scappate!». «Vuoi star zitto e smetterla di agitarti?» gli urlò in faccia Kanyu, col bel viso sconvolto. Agguantò lo zaino che gli veniva porto, frugandolo rabbiosamente alla ricerca di un qualche rimedio. «Dal…» mormorava intanto Melidan, la bocca socchiusa, sporca di sangue «Portalo via… Via da qui…». Il ragazzo rimase immobile a guardarlo, inorridito, terrorizzato: non era il primo morto che vedeva, ma mai aveva avvertito una tale tragicità in qualcuno. Strinse gli occhi con forza, ancora incapace di rendersi conto di cosa stava accadendo. Kanyu estrasse di scatto una boccetta dal proprio zaino, stappandola e 357
conducendola in un lampo alle labbra dell’Elfo. Un liquido azzurrino sgorgò dalla fiaschetta, scivolando dai lati della bocca immobile di Melidan. Il corpo del sacerdote era già divenuto rigido. Gli occhi color cenere, vitrei, fissavano il vuoto. Kanyu si lasciò sfuggire dalle mani tremolanti la boccetta, che riversò pigramente buona parte del suo contenuto sul pavimento. La stanza cadde nel più totale silenzio. L’Esule strinse debolmente la tunica intrisa di sangue del compagno, serrando i denti bianchissimi. Tutto il suo corpo pareva tremare nel sollevare il corpo del sacerdote e deporlo su uno dei due letti. Abbassò le palpebre sbarrate dell’amico, scacciando poi qualcosa dai propri occhi con le dita. Quando allontanò la mano, sul suo viso era apparsa una freddezza da far accapponare la pelle, quel gelo che celava l’incendio che stava scoppiando nelle sue vene. Si caricò il proprio zaino in spalla in un batter d’occhi, aprendo la porta della stanza. «Dove vai?» domandò Dal, fissando sgomento quel volto terribile. Per tutta risposta, Kanyu sguainò le scimitarra che portava alla cintura, uscendo dalla stanza. Dal scattò verso la propria roba, raccogliendo frettolosamente la sua pesante arma, la balestra e il proprio zaino. Corse rapidamente dietro a Kanyu, raggiungendolo mentre già aveva salito la prima rampa di scale. L’Esule pareva una tigre a cui avessero appena ucciso i cuccioli: le due scimitarre snudate parevano inchiodate alle sue mani, il mantello danzava alle spalle dell’alta figura, rendendolo ancora più spaventosa: un principe venuto dall’Inferno stesso si preparava a vendicarsi dell’affronto subito. Quando raggiunsero la porta di Remond, Kanyu non esitò a mandarla in frantumi con un solo colpo della rozza lama che teneva nella destra ed entrare nella stanza. I due Naigh-Moor si trovarono di colpo di fronte ad una ventina di individui armati di tutto punto, molti dei quali vestiti con lunghe tuniche verdastre. Dal riconobbe in ognuno di loro gli untori di cui Melidan aveva parlato: in un attimo, si accorse di come fosse naturale odiarli. E di come loro due non avrebbero avuto nessuna possibilità di uscire vivi da lì. Resse la maestosa scimitarra con ambo le mani, sollevandola di fronte a lui. Un magro elfo oscuro si fece avanti tra gli untori, agitando allegramente i numerosi ciuffi in cui aveva raggruppato i propri capelli rossastri. «Trasferimento magico di massa.» annunciò con un inchino, allargando follemente gli occhi rosati «Loto, Figlio dello Scorpione, vi dà il benvenuto». «E io ricambio i saluti» replicò Kanyu, facendosi subito avanti, senza un’ombra di paura sul viso perfetto: sarebbe morto, pur di portare a termine quanto si era prefissato. Poi, di scatto, agguantò il compagno per il colletto, scaraventandolo attraverso la finestra più vicina. Dal non riuscì nemmeno a gridare, mentre sentiva il
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terreno mancargli sotto i piedi e stringeva invano l’arma, come se essa avesse potuto in qualche modo salvarlo.
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XXXVI. Autonomia
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al toccò terra un attimo dopo, quando si trovò ad impattare con la dura pietra, troppo in fretta perché potesse trattarsi del selciato di Vathalar. Sbatté un paio di volte le palpebre, mentre il dolore si spandeva velocemente lungo tutto il suo corpo, come un’inesorabile condanna. Strinse i denti, sollevandosi faticosamente in ginocchio; una grandinata di frammenti di vetro lo accompagnò, ricordandogli contro cosa Kanyu l’aveva schiantato. Ancor meglio, si rese conto di quante piccole schegge gli si erano conficcate nelle braccia e nelle gambe. Fortunatamente, nessuna di esse era abbastanza grande da arrecargli un serio danno, né la caduta era stata dannosa come aveva creduto. Si guardò intorno, udendo il clamore di una battaglia che si apprestava a cominciare sopra di lui. Un balcone! Kanyu sapeva della sua esistenza e l’aveva scaraventato dalla finestra con la consapevolezza di non correre grossi rischi. Dal alzò gli occhi, scorgendo la finestra infranta. Doveva tornare dentro, aiutare Kanyu… Ma quale supporto avrebbe potuto offrirgli? E, se l’avesse voluto al suo fianco, perché allontanarlo tanto bruscamente dalla stanza? Si scosse i vetri da una spalla, ritrovandosi inaspettatamente la grossa scimitarra nella mano destra. Dunque non l’aveva persa, così come non aveva perso la balestra, che restava fissata alla sua cintura. Non era inerme. L’ordine che Remond gridò un attimo dopo sembrò condurre al culmine le speranze di Dal. «Erdelen! Occupati di quell’altro!». Il Naigh-Moor sorrise con un’amarezza che non riusciva a scuotere via. L’assassino di Melidan correva tra le sue braccia. Come un felino, Dal si sporse oltre il balcone e balzò agilmente giù, atterrando sull’identico terrazzo al piano di sotto. E di corsa, sino a sparire nelle ombre. Erdelen scavalcò i vetri aguzzi della finestra con più incertezza, notandone i resti sul balcone appena sotto. Di Dal, neanche l’ombra. Sputò a terra, impugnando la corta balestra e schiacciandone la testa a terra con la punta del piede. Trasse a sé la corda e inserì un dardo affusolato, avvicinandosi quindi al bordo del terrazzo. Non gli ci volle molto per realizzare dove la sua preda si fosse cacciata. Con cautela, si aggrappò con una mano alla ringhiera e scivolò facilmente sino al secondo balcone. Toccò terra con la mano libera e catturò in un’occhiata l’intera notte. Ancora nessuno. Strinse il pugno sinistro con rabbia, e di nuovo un balzo, verso il terzo terrazzo, l’ultimo. Atterrò con meno grazia, lasciando quasi partire il dardo. Accovacciatosi e terra con maggior attenzione, udì uno scalpiccio troppo breve e lontano perché potesse capire nitidamente da 360
dove provenisse, ma, certo, la preda era nei dintorni. Le scale collegate al balcone scendevano direttamente sino ad un vicolo secondario, lo stesso in cui aveva scorto il sacerdote degli orfani. Corse giù dalle scale, appiattendosi contro la parete dell’edificio. Un silenzio assoluto lo circondava, come se tutta Vathalar avesse trattenuto di colpo il fiato. Una goccia di sudore gelato gli scorse lungo le spalle. Erdelen saettò con gli occhi lungo la polverosa strada. Un vento che gli parve impossibilmente freddo gli agitò le vesti e i capelli. D’un tratto, un riflesso squillante giunse sino ai suoi occhi: un minuscolo triangolino di vetro, per terra. Erdelen lo fissò incredulo per qualche istante. Era troppo lontano perché fosse causa della distruzione del vetro molti piani sopra. La sua preda l’aveva perso, dopo esserselo ignaramente trascinato per tutti quei balconi. Gli si avvicinò con circospezione, proseguendo poi nella stessa direzione, ben vicino al muro ed alle sue tenebre. La sua balestra produsse uno scricchiolio che lo spaventò. Danneggiata? La prese con entrambe le mani. No, impossibile. Perché allora quel sinistro rumore? Perché quel vento ghiacciato che soffiava ogni volta che ci pensava? Alzò l’arma all’altezza del viso, percorrendo qualche nuovo metro. Un altro pezzetto di vetro. Sorrise di sollievo, felice di trovarsi sulla strada giusta. Poi, qualcosa lo distrasse. Quella porta, quel cornicione. Li conosceva bene. E ringhiavano muti contro di lui. Lì aveva colpito quel dannato sacerdote. «Erdelen!». Il ladro strabuzzò gli occhi, voltandosi verso l’angolo che la strada faceva contro l’edificio della gilda. Là dove si era acquattato lui quello stesso giorno, si ergeva solitaria la sinistra figura di un giovane dai capelli lunghi, con un mantello malridotto che smetteva di agitarsi, infine, assieme al vento. Un secondo dopo, uno schiocco, e il rumore del dardo che si conficcava facilmente nel petto del giovane umano. In un punto vitale; non aveva sbagliato di nemmeno un dito. Erdelen sentì il proprio cuore spaccarsi letteralmente in due. Un debole gemito e crollò a terra. Il tintinnio delle monete che cadevano dalla sua borsa e si disperdevano nella strada dominò il silenzio della città. «Io non attacco alle spalle» mormorò Dal nell’abbassare la propria balestra. Qualche secondo dopo, il Naigh-Moor svaniva furtivamente nelle ombre della città e il sottofondo di Vathalar tornava a farsi udire. Remond allargò le proprie braccia un’ultima volta, prima di rifugiarsi alle spalle dei suoi numerosi alleati. «Erdelen!» gridò, prendendo il giovane per un braccio «Occupati di quell’altro!». Kanyu vide la figura dell’Umano scattare attraverso le fila degli untori e avvicinarsi alla finestra tra un caos di maledizioni che andava innalzandosi. Abbassò per un istante il capo: già un amico l’aveva lasciato. Quest’altro avrebbe 361
dovuto farsi valere, riscattando il suo onore e quello di Melidan. Rialzò lo sguardo, fissando la turba di avversari che attendeva solo un ordine del folle Loto per attaccare. Alzò le due scimitarre davanti al suo corpo, lasciando che le loro punte si sfiorassero per un fugace istante. «Un tempo, un solo Naigh-Moor tranciò il braccio del vostro Dio.» disse, avvicinandosi a passi misurati al nemico di un’intera esistenza «Un mortale Maltheran uccise suo figlio. Qualcosa può impedire a me di liberarmi di voi?». Loto sorrise fanaticamente, accarezzandosi la lunga guancia con l’indice. «Una netta superiorità numerica, forse?» domandò, chiaramente divertito. Kanyu chinò nuovamente il capo, scuotendolo debolmente in segno di diniego. «Non è questo il mio tempo di morire» ribatté con una certa rassegnazione. Neanche alzò gli occhi. Tutti seppero che la furia degna del più grande elfo oscuro aveva incendiato il suo animo. Il gigantesco Naigh-Moor si precipitò tra gli untori come un coltello nel burro. Un delirio di sangue e orrore sbaragliò le loro fila, e la scimitarra della Zanna, quella rudimentale arma che il Naigh-Moor stringeva nella destra, impattò violentemente contro un corpo, smembrandolo come avrebbe fatto una palla di cannone. Un fantasma d’ombra danzò una ballata secca e tagliente, facendo scattare braccia e lame ovunque, anche dove non sembrava che sarebbe potuto arrivare. I lunghissimi capelli si agitavano come serpenti d’inchiostro e quella sinuosa striscia di stoffa alle sue spalle che era il mantello. Dall’altro lato, una tempesta di braccia si abbatteva contro Kanyu, solo per mancare con stupore il bersaglio. L’urlo assassino dell’Esule risuonava nella stanza, sovrastando quelli di dolore, dl terrore, le ossa che si spezzavano e i corpi che ricadevano immobili a terra. Loto osservava deliziato da quell’orgia di carne, sangue e violenza. Fu però questione di poco tempo, perché quella marea di tuniche e corte mannaie si stringesse attorno al possente elfo oscuro. D’un tratto, una di esse colpì con decisione il braccio sinistro dell’Esule. Si udì un ringhio, quindi la Zanna ruotò freneticamente, scacciando da sé sangue e atterriti untori. Kanyu intravide in quell’istante lo spiraglio che aveva creato. Corse via come un leopardo, agitando vorticosamente le due scimitarre attorno ai suoi fianchi. Raggiunta la finestra infranta, si gettò all’esterno con un balzo. Quanti accorsero alle sue spalle, videro solo una sagoma indistinta scomparire oltre il tetto più vicino. Ciò che susseguì la gioia della vendetta fu il più immenso senso di smarrimento che Dal avesse mai conosciuto. Si fermò all’ombra di un porticato, stringendo nel pugno destro i propri capelli. Ancora un volta, forse definitivamente, aveva perso tutto. Melidan era morto, ucciso dalla lama di quel ladro che Dal aveva provato più volte a difendere. Kanyu, scomparso nel nulla, forse ucciso anche lui. L’ultimo ricordo di quello straordinario individuo era uno strattone, una 362
marea di sicari in veste verde e lui che restava solo a fronteggiarli. Un’intera notte, poi un’intera vita in questo misterioso silenzio? Dal ansimò, benché non si sentisse per niente stanco. Vinto, ecco cos’era. Ma non da Erdelen, né dagli untori, ma da una realtà inconcepibile, assurda, che sembrava divertirsi a ripercorrere le solite tappe, ogni volta in ambiti diversi. Una scelta, una speranza, una disillusione. E, ogni volta, una perdita. Marcus, Ledini e chissà quanti altri… Ora Melidan e Kanyu. Dal si morse con forza il labbro inferiore per la frustrazione: l’unico elemento in comune che sconvolgeva e distruggeva le loro vite era lui. Lui, il ragazzino impulsivo che si era messo in testa di scappare, che non accettava ripensamenti, se non quando era troppo tardi. Se si fosse consegnato immediatamente, se avesse rinunciato a quegli incoscienti propositi, niente sarebbe accaduto. Questo pensava, in completo disaccordo con quanto aveva appreso da quando aveva scelto di fuggire, e lo sapeva bene. Ma, questa volta, non c’era disgusto troppo grande da tranciargli il fiato, se non quello che provava per sé stesso. Vagò come un’anima perduta per l’intera notte, acquattandosi nel buio ogni volta che scorgeva una presenza vivente, uomo o animale che fosse. L’alba gli annebbiò del tutto la mente. Si lasciò cadere tra la sporcizia, in un angolo recondito dal mondo. Il giusto posto per lui. La stanza di Remond non aveva mai conosciuto un simile, macabro caos: mobili rovesciati, corpi senza vita, arti inerti al suolo. Ovunque, odore di sangue e morte, corollato da lamenti, imprecazioni e pazze preghiere. Lui sedeva sulla sua poltrona, troppo agghiacciato per riuscire a smuoversi da quella posizione. Osservava nel panico quanto si svolgeva attorno a lui, schivava i volti sfregiati che lo guardavano con occhi irragionevoli, ripugnava le interiora e i tranci umani e Naigh-Moor che adornavano macabramente la sua stanza. In un attimo, il suo mondo era precipitato in una dimensione nuova, aberrante. Cosa peggiore di tutte, Erdelen era stato trovato morto appena fuori dalla gilda e Kanyu era scampato alla trappola. Pur nella sua limitatezza, comprendeva che gli untori non avrebbero più avuto bisogno di lui e non avrebbero fatto una piega se i due elfi oscuri avessero deciso di ucciderlo. Anzi, l’avrebbero usato come possibile esca per attirarli. Remond deglutì, rinnovando il proprio timore a quel pensiero. La voce del folle Figlio dello Scorpione risuonò nella stanza. «Fratelli! Vi chiedo il silenzio! Il nostro Signore deve essere informato di quanto è accaduto» ordinò e, come Remond notò facilmente, non v’era traccia di pazzia in ciò che diceva: solo una chiara antipatia per quel dovere e la consapevolezza di essere responsabile dell’accaduto. Tutti i presenti caddero in un silenzio spaventoso, persino i moribondi smisero improvvisamente di gemere, alzando il capo tremante verso quel bizzarro elfo 363
oscuro. Le arcane parole che mormorò ed i gesti rapidi delle sue lunghe mani furono perciò seguiti da tutti, senza alcuna eccezione. Un piccolo specchietto ellittico nacque tra i palmi distanti del Naigh-Moor, crepitando per pochi secondi di lucente magia. Poi, come in una polla d’acqua, comparve la figura distorta di Cenerdred, assiso sul suo trono di sterpi, che andava sempre più definendosi. Presto, il viso scarno e vecchio, stravolto da tatuaggi e cicatrici, mosse le sottili labbra, parlando con voce ovattata, ma per nulla priva di emozione. «Quali novità mi porti, Figlio dello Scorpione?» chiese «È giunto il momento di mostrare la nostra potenza?». «Quel momento è già giunto.» rispose Loto, senza darsi pena per come la fiducia nella loro “potenza” si fosse rivelata infondata «Questa notte, ho teso un agguato a Kanyu e a Dal Jin da Armalak. Melidan, il sacerdote Elfo della fiacca Braeyel, è perito prima di esso». Il viso del Signore degli untori si fece torvo. «La tua abilità nel giustificarti è piuttosto dubbia, Loto.» proclamò arcigno «Se Kanyu fosse morto, non perderesti tempo a parlare di quell’insulso sacerdote. Dov’è, ora, il Maledetto? Dov’è Kanyu?». «Fuggito, come l’altro.» ribatté senza incertezze il Figlio dello Scorpione «Si nascondono da qualche parte in questa città». «Avresti dovuto avvertirmi, prima di effettuare il tuo “agguato”!» ruggì l’inviperito Cenerdred «Credi forse di intenderti più di me di queste cose? Ricordati che sei mio subalterno perché il Maestro del Contagio parla per mio voce e mi suggerisce la strada da prendere! Egli ti ha scelto come suo braccio, non per comandare le sue forze! Se avesse voluto assegnarti il comando, saresti qua, dove sono io!». Loto storse le labbra, trattenendo il proprio risentimento: se veramente Cenerdred era così intimo con l’immenso Nero, perché Egli non l’aveva avvisato di ciò che stava per accadere? «Faccio ammenda per il mio errore, mio Signore.» rispose servilmente Loto, chinando il capo per nascondere la propria espressione divertita «Quali sono le vostre disposizioni, dunque?». Il vecchio untore rimase in silenzio, prendendosi il mento nella mano ossuta. «Tenetevi pronti a tornare nelle Terre Piagate.» rispose, con un tono che chiuse brevemente la discussione «Quanto al figlio di Dal Gadejli… Sapete cosa fare». La luce pigra del giorno ormai fatto stordì Dal molto più che la vibrante voce del soldato. «Tirati in piedi» gli intimava, reggendo nella mano destra una lunga alabarda, ben rifinita e perfettamente bilanciata. 364
L’elfo aprì prima un solo occhio, quindi li sgranò entrambi, allarmato. Una guardia imperiale di Vathalar. Solo per un brevissimo istante sperò di ottenere aiuto da quell’uomo, poi, capì. Qualsiasi cosa avesse detto, era un Naigh-Moor, non importava se esule o meno. Uno come lui era un nemico e una minaccia per qualsiasi cittadino dell’Impero. «Mi hai sentito, elfo grigio?» la rapida bastonata che la guardia gli assestò confermò le sue paure «In piedi, sporco bastardo. Ecco qua quello che ha stordito la sentinella, qualche settimana fa… O ci sono altri rifiuti come te?». Dal si alzò, accusando non tanto il leggero dolore dovuto all’asta dell’alabarda, ma il tono con cui quell’uomo, che nemmeno lo conosceva, gli si rivolgeva: e dire che, sino a poche ore prima, l’avrebbe accettato quasi volentieri. «Sono solo» mentì sbrigativamente il giovane, fronteggiando la guardia con dignità. «Sappiamo che siete due, invece.» lo contraddì non senza compiacenza il soldato, impugnando l’alabarda con entrambe le mani «Ma è già qualcosa che tu conosca la lingua comune. Voltati lentamente e tieni le mani bene in vista, elfo grigio». Dal già immaginava cosa sarebbe accaduto ed indugiò, annaspando nel cercare una rapida soluzione a quell’impaccio mentre, automaticamente, dava la schiena alla guardia. Tutto quello che riuscì a fare fu scansare appena il capo quando qualcosa di duro e contundente, ovvero lo stesso manico dell’alabarda, lo colpì alla nuca, col chiaro intento di stordirlo. Arte della sopravvivenza, l’aveva chiamata Kanyu, un giorno, a Deym. Finse di cadere privo di sensi come il migliore dei commedianti, senza che un sussurro gli uscisse dalla bocca. Udì il commento soddisfatto del soldato, quindi si accorse che le sue armi gli venivano velocemente sottratte. Certo, quella posizione gli impediva di reagire, oltre a renderlo cosciente del dolore che gli batteva nella testa, intontendolo più di quanto si sarebbe aspettato. Non fece perciò resistenza quando si sentì sollevare da terra e caricare sulla robusta spalla della guardia. Sentì il suo fiato farsi pesante mentre trascinava dietro di sé la scimitarra, facendola stridere e rimbalzare sui ciottoli della strada. Una cosa di cui si accorse subito fu che non udì le grida di sgomento dei cittadini di Vathalar, né sentì il sole illuminargli la schiena nelle ampie piazze. No, il soldato si spostava attraverso viuzze secondarie, fermandosi ad ogni incrocio. Come un ladro, né più né meno. D’un tratto, fu costretto a chiudere gli occhi, udendo l’ormai esausto Umano aprire una porta. Ci fu un attimo di silenzio, quindi il soldato chiuse la porta e subito una voce stroncò quell’atmosfera di tensione. «E quello? Per tutti gli inferni, è un elfo oscuro!» esclamò la voce, presumibilmente un’altra guardia «Dove l’hai trovato?».
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Il soldato si liberò di Dal come se si trattasse di un sacco di concime, mettendo a dura prova la sua recitazione. «Vagava per la città.» disse, e ne seguì il rumore delle armi che porgeva al commilitone «So che ce n’è un altro, in giro». «Un altro?» replicò sbalordito l’altro «E perché diavolo l’hai portato qui? Qui mandano solo pesci piccoli, mentre questo potrebbe essere una spia!». «Non è una spia.» la risposta del soldato stupì più Dal che l’altro legionario «E lo lascio qui perché sei un amico, Flint». L’interlocutore senza volto tacque qualche istante, quindi scoppiò in una piccola risata. «Cos’è, un altro modo per gonfiare ancora la tua borsa?» domandò Flint. «La nostra borsa, vecchio mio. Basta che lo tieni dentro sino a stasera, poi lo condurremo in una baracca di periferia. Non ho ben capito chi lo cerca, credo altri elfi grigi come lui, ma so per certo qual è il posto. E pagano molto bene, anche perché hanno molta premura di averlo tra le mani nel giro di due o tre giorni». «Puoi star tranquillo.» seguì un breve rumore di passi «E ora dove vai?». «Te l’ho detto. Ce ne sono due, là fuori… Qualcosa mi dice che non sarà difficile acchiappare anche l’altro». La porta si aprì e si richiuse in un baleno, il soldato doveva aver parecchia fretta. Dal poté finalmente riaprire gli occhi e sorridere leggermente. Kanyu non era morto e, se alle sue calcagna mettevano imbecilli come quel tipo, sarebbe stato libero ancora per un bel pezzo. Tuttavia, il martellare impietoso della sua testa gli strappò il sorriso sul nascere: la vista restava appannata come se portasse un paio di lenti sporche e tutta quanta la prigione oscillava al punto da far credere che si sarebbe capovolta nel giro di un secondo. Dal assottigliò gli occhi, intanto che almeno le forme riprendevano la loro naturale consistenza, giusto in tempo per notare l’altra guardia avvicinarglisi e bloccarsi a pochi metri da lui. Questi ora lo fissava con i suoi piccoli occhietti, tenendosi a distanza di sicurezza dal Naigh-Moor, che, com’era facile da intuire vedendolo in viso, doveva essere per lui spaventoso quanto l’uomo nero delle favole. «Ah… Sei sveglio?» domandò, e l’insicurezza risuonava nella sua voce giovanile. Dal lo guardò ancora qualche istante, muovendo piano il capo contuso: quella domanda era stata posta con la speranza che lui non rispondesse, dimostrandosi meno cosciente di quanto non fosse. Inoltre, pur nella sua confusione mentale, l’elfo riconobbe facilmente nel soldato un giovane umano, dell’età di Erdelen, se non inferiore: due aspetti che avrebbero potuto tornargli utili, se solo la sua testa gli avesse permesso di restare su due gambe.
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«Oh, sì, sei sveglio.» realizzò Flint, indugiando, nonostante le armi che lui portava e di cui il Naigh-Moor era sprovvisto «Andiamo, non farmi perdere tempo e alzati». Dal accennò ad un secondo, piccolo sorriso. «Cos’è, hai paura di toccarmi?» domandò, divertito, restandosene comodamente seduto a terra. Come conseguenza, Flint gli si avvicinò indispettito, tirandolo senza delicatezza in piedi, senza neanche sospettare quanto questo fosse gradito all’esule. «E non tentare scherzi, elfo grigio» lo ammonì preventivamente, non appena cominciò a trascinarlo con sé per la stanza, diretto verso l’arco che delimitava l’inizio del breve corridoio delle celle. Dal avrebbe voluto commentare anche quella frase e sottolineare la propria frastornazione, ma tacque, badando solo a restare in piedi meglio che poteva. Non dovette mantenere l’equilibrio per molto, visto che Flint lo condusse fino alla prima celletta, spingendolo dentro con la stessa cautela con cui si maneggia un serpente. L’elfo appoggiò immediatamente la destra alle pietre della parete, voltandosi a fatica verso il legionario, che già chiudeva frettolosamente la serratura, barricandolo al di là di una stretta fila di sbarre metalliche, impossibili da smuovere o piegare a mani nude. Dal attese che l’Umano sparisse dalla sua vista, prima di dirigersi verso la parete opposta alle sbarre e lì sedersi, gli occhi chiusi e il capo appoggiato alla nuda pietra. Fece una smorfia quando il bernoccolo sfiorò la parete, procurandogli una fastidiosa fitta alla nuca. Tirò un sospiro, come se quella prigionia fosse un sollievo di cui godere. Tutto questo era già accaduto in fondo: al posto degli Yurumga, vi erano uomini, e la prigione era di pietra, anziché di legno, ma Kanyu era vivo e lui non aveva nulla da temere, perché l’avrebbe tirato fuori da quell’impaccio. Poi, in un attimo in cui la mente offuscata gli permise di pensare, Dal capì che le cose non andavano propriamente così. Kanyu poteva essere benissimo gravemente ferito, impossibilitato a difendersi, e, se anche così non fosse stato, non sapeva che lui era stato catturato addirittura da quelli che dovevano essere i suoi alleati, che in realtà agivano dietro sovvenzione degli untori. In qualunque modo stessero le cose, non era così facile che l’eroico Esule arrivasse in tempo per condurlo via da lì. Allora sopraggiunse ancora una volta lo sconforto: avrebbe dovuto pensarci prima, cercare un modo di sfuggire a quella guardia che l’aveva stordito, anziché accettare passivamente che lo imprigionassero. Piegò le gambe, appoggiandovi le braccia come sua abitudine. Strinse i pugni, lo sguardo provato, eppur feroce. Recriminarsi, ecco l’ultima cosa che doveva fare, se voleva salvarsi. Pensare, benché gli riuscisse molto difficile. Aveva qualche ora: presto, la vista si sarebbe stabilizzata e il cervello avrebbe scacciato le nebbie che lo opprimevano. Uscire 367
da quella cella era possibile, come era riuscito a fuggire dalla più sicura Armalak con un Umano al suo seguito. Il silenzio era totale, attorno a lui, segno che era solo. Il suo viso si distese, mentre il giovane elfo oscuro riprendeva a respirare regolarmente. Pensare. Quattro ore più tardi, un rumore improvviso spaccò in due l’apatica atmosfera del piccolo carcere. Flint, che sedeva comodamente sulla propria sedia, quasi cadde, tanto che dovette reggersi con le mani ai braccioli di legno. Qualcosa sembrava esser stato sbattuto contro le sbarre della cella, forse nel tentativo di sfondarle. Rabbrividì, stringendosi convulsamente alla sua postazione. Un nuovo colpo, ancora più fragoroso, gli fece balzare il cuore in gola. Afferrò disordinatamente la spada che aveva posato sul tavolo, assicurandola goffamente alla cintura, quindi si affrettò a raggiungere il corridoio delle celle. Come vi fu arrivato, vide qualcosa di grosso e legnoso impattare contro le sbarre, facendolo balzare verso il muro, lontano dalla parete. Ripresosi dallo spavento, guardò dentro la cella: il secchio adibito a soddisfare i bisogni del prigioniero giaceva a terra, mezzo fracassato, vicino alle sbarre. L’elfo oscuro si ergeva in piedi, fissandolo senza il minimo timore. Flint si fece coraggio, staccandosi dalla parete. «Che diavolo stai facendo?» esclamò, simulando decisione, la mano destra all’impugnatura della spada. Il Naigh-Moor si strinse nelle spalle, sorridendo serico: il dolore alla testa sembrava del tutto svanito in lui, cosa che la guardia riteneva impossibile. «Impossibile per un Umano» pensò Flint, che aveva l’impressione di aver di fronte a sé un Demone, anziché un comunissimo mortale. «La tua ospitalità non è delle migliori.» rispose intanto l’elfo oscuro «Così mi sono concesso questo divertimento». La sentinella sgranò gli occhi, restando immobilizzata sul posto. «Sbattere un secchio sulle sbarre?» chiese, senza capire. «Eccome!» il giovane elfo esplose in un’intensa risata, che nulla aveva di rassicurante «Mi fa pensare alla fine che farà la tua testa quando i miei compagni saranno qui». Flint sobbalzò: compagni? Altri come quello? «Di che stai parlando?» la voce del legionario si era assottigliata sino a divenire un debole sussurro. L’elfo al di là delle sbarre apparve stupito. «Non mi dirai che pensavi che fossi venuto qui da solo, vero?» domandò quello, muovendo un paio di passi verso il legionario «Cioè… Secondo te, io avrei messo piede in questa fogna senza un motivo?». Flint parve interdetto, confuso. 368
«Il mio amico ha detto che altri come te hanno messo una taglia sulla tua testa» affermò, cercando di imporre ciò che aveva sentito dall’altra guardia sui ragionamenti dell’elfo. «Su di me?» il Naigh-Moor ora appariva sbalordito «Ragazzo, tu non hai capito niente! Sai perché sono qui? Perché questo è il luogo più sicuro di tutta Vathalar. Pensa: non è un vero carcere ed è l’ultimo luogo dove qualcuno potrebbe venire a cercarmi. E il tuo amico, quello di cui ti fidi tanto, non ha fatto altro che recitare la sua parte in cambio del lauto compenso che riceverà, stupido Umano!». Il legionario si sentì raggelare: era già capitato che lui e il suo compagno avessero accettato incarichi fuori dalla giurisdizione imperiale, ma mai si erano macchiati di un così spudorato tradimento verso quella che, in fondo, era la loro patria. «Menzogne!» sbraitò di colpo, pronto a estrarre la spada: il tremore delle sue mani era visibile a occhio nudo. L’intero mondo della giovane guardia andava frantumandosi. L’ennesima risata e la malvagia tranquillità dell’elfo oscuro lo scossero sino alle fondamenta del suo animo. «E questo, allora?» il Naigh-Moor si sfilò il diadema dorato dalla fronte, avvicinandosi a passi svelti alle sbarre, mostrando l’oggetto prezioso come prova: sopra, Flint vi riconobbe facilmente delle scritte, seppur in caratteri che non riconosceva «Guarda, se non ci credi!». Il legionario rimase fermo dov’era, con la mano ben stretta attorno alla propria arma: fissava con occhi spiritati l’elfo, incapace di decidere cosa fare. «E guarda!» insistette quello, ora vicino alle sbarre, con il braccio proteso verso il soldato attraverso di esse: nella mano, stringeva il cerchio dorato. Flint mosse qualche passo verso la cella, il viso spaventato inchiodato verso la mano dell’elfo oscuro. Sfiorò la superficie del diadema, cercando cautamente di sottrarglielo. Un attimo dopo, l’altra mano di Dal saettò attraverso le sbarre, afferrando il soldato per il polso. Flint abbozzò ad un piccolo urlo isterico. Cercò di piantare le mani contro un appiglio, ma, un attimo dopo, il braccio dell’elfo oscuro lo strattonò violentemente, sbattendolo con furia contro le sbarre della cella. L’altra mano dell’elfo oscuro si strinse attorno i suoi capelli, mentre e lo schiacciò con violenza e ripetutamente contro le sbarre. Uno schizzo di sangue raggiunse il viso del Naigh-Moor e il corpo di Flint divenne improvvisamente pesante;lLa faccia della guardia sembrava esser stata schiacciata da una frana. Dal lasciò andare il corpo inerte, asciugandosi il viso con la manica della maglia. Si chinò su Flint, tirandolo a sé attraverso le sbarre e rivoltando le sue membra come calzini, fino a che non raggiunse la sua cintura. Lì, un lampo di soddisfazione illuminò il suo volto: il mazzo delle chiavi era lì, a portata di 369
mano! Lo sfilò dalla cintura della guardia con avidità, provando nella serratura metallica un numero di chiavi che gli parve infinito. Quando la porta si aprì con uno scatto, Dal si sentì incredibilmente capace di qualsiasi impresa. Lanciò un’occhiata a Flint, quindi decise di trascinarlo nella cella, ridacchiando mentre poi richiudeva la porta. «È una vita che sogno di farlo» ammise, ripensando all’umiliante servizio svolto nel carcere di Armalak. Corse rapidamente verso la stanza della guardia, ritrovandovi le proprie armi, che fissò saldamente alla sua cintura. D’un tratto, la testa ridivenne però pesante come un macigno, e la luce abbandonò per un attimo i suoi occhi. Fingersi lucido per tutta quella recita era stato più faticoso di quanto avesse temuto. Appoggiò la fronte alla destra, scuotendo il capo. Un attimo dopo, si lasciò sfuggire un ultimo, autentico sorriso. «Certo che se la Legione imperiale è fatta da fessi come questo hanno più di un motivo per temere l’invasione da Nog Tuluth» si disse, sistemando alla meglio il proprio equipaggiamento. Un attimo dopo, corse via dalla prigione: fuori, il pomeriggio era nel suo pieno fulcro, e la città era nel pieno della sua attività. Dal si trattenne dall’imprecare, ripensando a come gli fosse costato caro non badare alla segretezza della sua identità. Si tirò il cappuccio sul viso e corse nei vicoli, più che deciso a tenersi ben nascosto sino a quando non avrebbe avuto notizie di Kanyu.
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XXXVII. Anche l’ombra piange
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anyu portò il frugale pasto alla bocca, senza alzare gli occhi dal piatto: il braccio sinistro ricadeva inerte sul fianco, come quello di una marionetta, ma il viso del Naigh-Moor era improntato esclusivamente da un rigoroso distacco. Sedeva nello stesso silenzio in cui si era racchiuso per tutta quella lunghissima giornata, impiegata a trovare un nascondiglio adatto per coprire la sua fuga. Eppure, sebbene quella cantina disabitata gli avesse assicurato la salvezza, l’elfo non dava alcun segno di rassicurazione. Di fronte a lui, Dal aveva già terminato il suo pasto, senza lamentarsi per la minuscola dimensione delle porzioni. A tratti alzava il capo verso l’Esule, solo per riabbassarlo sconsolato, prendendo a giocherellare con il coltello nel piatto vuoto. Un senso d’impietosa colpevolezza lo schiacciava più di quel luogo angusto: non c’era bisogno di possedere particolari poteri per capire che Kanyu non aveva vinto la sua battaglia e Dal non poteva fare a meno di sentirsi causa di quella tragedia. «Ma continueremo, vero?» domandò, intanto che si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore. Kanyu alzò la testa senza una vera curiosità in viso. «Con gli untori, intendo» precisò il giovane elfo, e la sua voce ebbe un tremito tale da farlo arrossire. Il compagno riabbassò il capo, accennando solo qualche secondo dopo ad annuire; Dal non riuscì a sentirsi gratificato come sperava. «Magari riuscirò a rendermi più utile.» insistette dunque «Sono fuggito da solo, in fondo…». Kanyu posò il proprio piatto su un barile mezzo marcio, incrociando le braccia. «Sei stato in gamba» concesse al giovane: le sue parole mancavano di qualsiasi forma di entusiasmo. Dal si sentì sull’orlo di crollare. «Ma non copro il suo vuoto» aggiunse, e già si passava la destra sul viso, corrugando la fronte. Quando allontanò la mano, trovò Kanyu nella stessa posizione, gli occhi bassi, colmi di una tristezza come mai aveva visto in un uomo. «Melidan non vorrebbe che ci riducessimo così.» mormorò ad un tratto «Siamo guerrieri, Dal Jin: portiamo troppa morte con noi, perché non possa farci visita». Dal deglutì a vuoto, sbattendo velocemente le palpebre.
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«Ma questo non è piacevole neanche per un guerriero» sussurrò, togliendosi di mano piatto e posate, come se scottassero. Kanyu rialzò il viso regolare per qualche attimo, quanto bastò per lasciar involontariamente intravedere un piccolo luccichio in fondo agli innaturali occhi. «Non lo è mai» aggiunse, quindi si alzò: la sua lunga mano accarezzò per un attimo la ferita al braccio sinistro. Dal lo udì sospirare un paio di volte, nel silenzio della cantina: ricordò facilmente gli stessi sospiri che l’Esule si era lasciato scappare, quando si erano ritrovati. Era apparso all’improvviso, come un fantasma senz’ombra. Quasi gli sembrò di risentire la sua mano sulle spalle, poi il suo viso austero, così addolcito nel dolore. Gli aveva chiesto di seguirlo senza alcuna imposizione: lui non si era tirato indietro, nemmeno ora che poteva riscattare la sua libertà da qualsiasi guida. E ora, lì, in quell’antro di angosce, la solitudine dell’Esule era anche la sua. La mancanza di Melidan e il senso di lacerante frustrazione erano suoi. Condividevano assieme la loro disfatta. Nel cuore, la medesima volontà di andare sino in fondo. Ora, al perché Kanyu combattesse per quella causa, Dal poteva dare una drammatica, ma inconfutabile, risposta. E ora, assieme a quella consapevolezza, il giovane elfo oscuro scorse in fondo all’anima del mentore un nuovo, maturato rispetto per lui. Una linea di disgusto percorse il viso del tiranno, perfettamente illuminata dalla tenue luce dei candelieri. La sua pelle conteneva a stento l’energia che si agitava in quel corpo, il sangue che andava a gonfiare la vena sulla sua fronte cinerea. Accennò a portare i polpastrelli alle tempie, riabbassandoli subito dopo con una rabbia che tutti, ad Armalak, sapevano era bene evitare. Agli altri lati della sala, Netork e Fala Rhai tacevano, gettandosi ogni tanto occhiate d’intesa: se il tiranno avesse perso il controllo di sé, sarebbe stato fondamentale bloccarlo prima che scagliasse la sua ira su di loro. «Fuggito!» esclamò, fissando con astio la strega, che gli aveva portato la notizia «Sfuggito all’agguato di venti untori!». «Mio sovrano, capite anche voi che la protezione di Kanyu è un grosso ostacolo» spiegò la Maestra degli Incantatori, senza scomporsi. «Come se non bastassero già i problemi che abbiamo.» sbottò Dal Gadejli, riprendendo a camminare avanti e indietro «Di lui potevamo fare anche a meno». «Però dovete ammettere che è un grosso incentivo per la caccia a vostro figlio.» intervenne nuovamente la maga «Gli untori non hanno mai perdonato il suo tradimento.»
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«Nessuno l’ha mai fatto.» replicò duramente il tiranno «Ripetimi come ha fatto Dal Jin a scappare». «Dunque…» Fala Rhai appoggiò le vecchie ossa ad una colonna, prendendosi in una mano le lunghe dita «Kanyu l’ha scaraventato giù da una finestra, sotto alla quale c’era un balcone. Da lì è scappato ed ha presumibilmente teso un agguato all’Umano che gli era stato messo alle costole». «Un colpo di balestra, avevi detto?» interloquì il tiranno, voltandosi verso la maga. «Un dardo al cuore» rispose l’elfa, studiando la reazione del sovrano. Gadejli, infatti, si era lasciato andare ad un cinico sorriso, prima di voltarsi. Netork meglio di tutti sapeva cosa significava: segretamente, il tiranno aveva sempre badato al progresso dei suoi figli, in special modo del maggiore, a cui avrebbe lasciato quel regno. Ora, nel constatare come il suo secondogenito si era sbarazzato di un inseguitore, Gadejli non poteva fare a meno di essere soddisfatto, per quanto quel ragazzo si fosse dichiarato apertamente come suo nemico. «Ma questo incidente complica ulteriormente la nostra situazione.» il sovrano aveva ripreso ad essere autorevole e irremovibile «Lohidran non tornerà qui finché suo fratello non sarà stato catturato o ucciso, e io non posso mobilitare metà Legione in territorio nemico per mettermi sulle tracce di un ragazzino traditore!». «Le condizioni di Feijin?» domandò Netork, rivolto alla maga. «Stazionarie.» rispose quella «Non dà segno né di peggioramento, né di miglioramento». «Quel vecchio imbecille.» sibilò Gadejli, andando a sedersi sull’alto trono «Il suo cancro letale sta diventando una piaga infinita… Altro che malato, quello è sano come un pesce!». «Se mi è concesso, mio sovrano…» il consigliere prese servilmente la parola «Feijin passa principalmente le giornate a letto, salvo qualche presenza in pubblico. Può darsi che il suo male sia minore di quello che crede, ma, in quel caso, perché insistete tanto a volere Lohidran qui ad Armalak?». Il tiranno si fece immediatamente torvo in viso, offeso dalla domanda. «In primo luogo, Lohidran è mio figlio: se io gli do un ordine, lui deve obbedire senza discutere.» il tono del sovrano era tagliente «Inoltre, è il principe di Armalak, e il suo posto è qui, in questo regno!» fece una pausa, socchiudendo gli occhi «E questa storia… Le tradizioni di Nog Tuluth mi impongono di farlo tornare, senza contare la possibilità che Feijin sia veramente ammalato di un morbo mortale, cosa che porterebbe la discendenza di Armalak a divenire la più potente di tutta la penisola».
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«E se optassimo per Dal Jin, invece?» propose d’un tratto Fala Rhai, guardando i due allibiti elfi oscuri «Ha dimostrato di avere la stoffa del guerriero, in fondo. Gli manca l’esperienza, ma la stoffa c’è». «Devo rammentarti che quel moccioso è scappato dalla città?» domandò sarcastico il luogotenente «Che è diventato un esule ed ha Kanyu che lo tiene sotto la sua ala protettiva?». «Non ce n’è bisogno, sono io che l’ho tenuto d’occhio.» rispose con tranquillità la strega «Ma il suo potenziale è comunque grande, e magari se ne è persino accorto. Se gli proponessimo di tornare qui, assicurandogli una posizione d’onore, può darsi che ci dia ascolto». «Chiedo scusa, ma mi sembra un’assurdità.» controbatté Netork, volgendosi verso il tiranno per convincerlo delle sue teorie «Quel ragazzino vi ha tradito e tutto quello che vuole è non mettere più piede qui, se non per vendicarsi: e noi dovremmo affidargli la dirigenza di Thanisshar? Lohidran ha provato ripetutamente la sua fedeltà ad Armalak!». «Su questo hai completamente ragione.» concordò il tiranno «Però stiamo uscendo dal seminato: l’unica cosa che voglio, adesso, è che Dal Jin venga catturato e Lohidran torni al posto che deve occupare, ma, a quanto vedo, nessuno di voi ha un’idea degna di esser presa in considerazione». Un alone di silenzio si diffuse nella sala del trono del palazzo. «Molto bene.» concluse il tiranno, trattenendo a stento la furia che tornava a pervaderlo «Allora vedete di tenere a bada i tumulti che rumoreggiano in città. I nobili sanno delle condizioni di Feijin e nessuno di loro deve avere l’ardire di prendere iniziative contro di me, mi sono spiegato? Non posso permettere che le piccole famiglie mettano in dubbio la mia posizione per un vecchio malato». «Probabile che vogliano accaparrarsi le migliori posizioni nella futura gerarchia di Thanisshar.» commentò Netork, staccandosi dalla colonna. «Non m’interessa ciò che vogliono.» lo zittì di scatto il sovrano, sporgendosi in avanti «M’interessa che la finiscano. Ora sparite» e suggellò quelle parole con un brusco cenno della mano. Erano già vicini alla maestosa porta, quando il tiranno riprese la parola. «Ah, Fala Rhai.» disse, inducendo l’incantatrice a voltarsi «Voglio che tu continui a seguire Dal Jin, chiaro? Ogni movimento». La strega chinò il capo in segno di riverenza. «Per me sarà un vero piacere». Un torbido cielo spruzzato di nubi accolse degnamente il cupo novilunio di quella notte: ciò che era stato carico di luce e colori si celava ora come sotto un pesante tendaggio che scivolava dai miseri tetti sino alle strade vuote. Senza saperlo, in quell’inospitale notte, Vathalar dava l’addio a due ombre che 374
apparivano e sparivano di tenebra in tenebra, grate che quel buio potesse celare al meglio la loro presenza. Kanyu faceva strada con sicurezza, procedendo praticamente senza soste, neanche quando un altro individuo, più timoroso e meno esperto, avrebbe temuto di incappare in qualche spiacevole sorpresa, come guardie corrotte o i ben più pericolosi untori, che ora sapevano essere da qualche parte in città. Dal lo seguiva da vicino, esaminando con vivo rancore ogni edificio della città imperiale. Quanto dolore gli trasmetteva quella vista… Ogni muro, ogni ciottolo per strada, ogni persona che scorgeva a debita distanza gli portavano alla mente ricordi sempre più drammatici. Melidan, poi, ucciso brutalmente e morto davanti ai suoi occhi, vittima del suo desiderio di mettere in sicurezza i compagni. Se a questo si aggiungeva l’aver dovuto lasciare il suo corpo nelle mani dei loro nemici, pronto ad essere profanato e divenire valvola di sfogo della frustrazione di Remond ed untori… Kanyu aveva taciuto quando Dal si era ricordato di quel particolare, ma la smorfia che aveva adombrato il suo viso lasciava trapelare tutto l’odio che l’Esule provava. Ora se ne andavano, diretti verso il cuore putrescente di tutta quella storia, senza neanche sapere dove si trovasse veramente: le Terre Piagate. C’è chi diceva che erano il luogo più fetido e nauseabondo del mondo intero, fatta eccezione per le Paludi Nere, esattamente a sud di Vathalar. Deym, almeno, era verdeggiante, lussuosa nelle sue incantate radure, nonostante tutti i pericoli che celasse. Le Terre Piagate, invece, non avevano niente di piacevole a vedersi: fiumi avvelenati, paludi o suoli aridi come nei deserti di Nog Tuluth. Come sopravvivere in quell’inferno di miseria? Kanyu aveva risposta bruscamente che, se gli untori avevano trovato il modo di viverci, l’avrebbe trovato anche lui. La stessa durezza Dal se l’era aspettata quando gli aveva detto di aver lasciato il proprio zaino nell’appartamento della Fratellanza: si trattava soprattutto di viveri, gli oggetti che Erdelen gli aveva consegnato (fatta eccezione per la balestra, che ancora portava con sé) e altra roba trascurabile. Ma, nascosti chissà dove, Dal ricordava anche che lì teneva i guanti che gli erano stati donati, quegli incredibili indumenti che gli avrebbero donato una forza straordinaria, e di cui avrebbe avuto bisogno nell’affrontare quegli untori, anche solo per abituarsi a maneggiare a dovere la grossa scimitarra. Kanyu, inaspettatamente, non aveva commentato, guardandolo soltanto con un certo fastidio. Dal era ancora turbato da quel particolare, quand’ecco che rallentò il passo, riconoscendo un edificio fra i tanti che avevano superato. Kanyu si fermò dopo qualche secondo, quando si accorse che il giovane era fermo dietro di lui, lo sguardo puntato verso una malandata stalla. «Muoviti, ragazzo.» gli ingiunse, già sul punto di riprendere a camminare «Questa città è terra bruciata, per noi». «Solo un istante» balbettò il ragazzo, fissando ora le porte chiuse ora il mentore. 375
«Senti, Dal, capisco cosa tu voglia dire, ma un cavallo nelle Terre Piagate è solo un impaccio.» replicò spazientito l’Esule «Finirebbe per mettere una zampa in fallo, rompersela e magari anche affogare in una palude». Il giovane non si schiodava dalla sua posizione, sino a quando non si avvicinò alle porte della stalla. «Devi aiutarmi.» disse, e nel suo tono basso c’era però una forte decisione «C’è un cavallo che non deve restare qua dentro». «Un cavallo?» Kanyu era ora visibilmente seccato, mentre si avvicinava frettolosamente a Dal «Ma figurati cose me ne importa di un cavallo, maledizione. Questa è una stalla, poi, che c’è di strano?». «Quel cavallo è Thalya, la bestia di Marcus!» Dal alzò poco prudentemente la voce, con uno sgomento che Kanyu mai si sarebbe aspettato «L’hanno catturata e portata qui. Non posso lasciare che la vendano, dopo quello che Marcus ha fatto per me!». Il pallido Naigh-Moor rimase come interdetto, immobile nel guardare in faccia l’impulsivo Dal Jin. Sospirò nervosamente, scansando poi con la destra il ragazzo. «Levati» ordinò, e già estrasse il suo lungo coltello, avvicinandolo alla logora catena della porta: Dal ubbidì con un leggero sorriso sulle labbra. Un attimo dopo, la catena cedette come se fosse fatta di spago, emettendo un secco rumore di protesta. «Spero almeno che tu sappia quello che fai» sussurrò, buttando a terra l’inutile pezzo di ferro e rinfoderando il coltello. «Non preoccuparti» rispose Dal con un cenno d’intesa, quindi assieme spinsero le ante del portone. All’interno, regnava solo il pesante respiro dei cavalli addormentati, ritti come statue e inconsapevoli di quanto stava accadendo: in fondo alla stalla, troneggiava la gigantesca cavalla nera, racchiusa nel rudimentale recinto. Dal l’additò con la destra ad un esterrefatto Kanyu: certo non si aspettava che la bestia fosse così grossa, dubitando persino che potesse appartenere veramente al generale Umano di cui il giovane elfo oscuro gli aveva parlato. Ma lì, tra muli e cavalli pelle ossa, quella superba bestia spiccava persino nel buio della stalla. Si avvicinarono cauti al destriero, con gli stivali che celavano quasi totalmente i loro passi felpati, eppure, quando furono a un paio di metri, Thalya riaprì gli occhi, immediatamente sveglia. Come quando Dal l’aveva vista per la prima volta, prese subito a sbuffare e scalciare, facendo ondeggiare il testone dai corvini crini. «Cerca una cavezza e un laccio.» ordinò l’Esule, fissando il muso del magnifico animale «Tirarla fuori di qui non sarà facile».
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Dal annuì con una certa esitazione, lasciando il compagno a fronteggiare da solo la cavalla. Kanyu la fissava con una certa perplessità, inclinando di lato il capo: il marchio imperiale era ben visibile, chiaro segno che quel glorioso animale doveva essere appartenuto a un legionario d’alto rango, a giudicare dalla sua superba prestanza, probabilmente proprio un generale. Tuttavia, quel carattere impetuoso preoccupava particolarmente l’Esule che, pur sapendo cavalcare, non aveva mai adorato quelle bestie. Quando Dal fu di ritorno, gli prese dalle mani la cavezza, osservandola con attenzione. «Speriamo che non sia stretta. Non ho mai visto un cavallo così grosso.» ammise, guardando Thalya «Sei sicuro che sia quello dell’Umano?». «È di Marcus, puoi scommetterci la testa. Mi disse che non sapeva che fine avesse fatto e che era una bestia molto possente.» rispose con convinzione Dal, guardando poi l’animale «Thalya. È così che ti chiami, vero?». La bestia non rispose: li fissava immobile, chiudendo a tratti gli ancora stanchi occhi. Neppure la lunga coda ondeggiava: si sarebbe detto che la cavalla fosse sotto l’influsso di un incantesimo. «Dal, abbiamo poco tempo» replicò velocemente l’Esule, osservando l’animale senza ben sapere da dove cominciare: il recinto era piccolo, troppo perché potesse tentare manovre per distrarla e scampare così ai suoi probabili morsi. Però l’animale restava fermo, senza lasciarsi scappare nemmeno un brontolio: Kanyu la fissò con pazienza, quindi ebbe l’ardire di sollevare una mano verso il grosso muso dell’animale. Thalya rimase ferma, guardando con improvvisa mitezza il guanto nero del Naigh-Moor. «È pazzesco…» sussurrò, quando la sua mano addirittura si posò sui marcati lineamenti di quel muso; la cavalla si faceva accarezzare benevolmente, senza che un solo movimento increspasse quella calma. Quando alzò la cavezza verso di lei, Kanyu si preparò a ritrarre la mano al primo segno di ribellione da parte dell’animale. Ancora però non fece una grinza, sporgendosi addirittura per farsi meglio sistemare le fibbie dell’oggetto. Dal, reduce da anni passati tra i cavalli, stava a bocca aperta, fissando la scena con occhi sgranati. Kanyu ora fissava il laccio alla cavezza, strappando a stento una sorta di debole borbottio all’animale. Aprì con facilità il recinto malandato e tirò a sé il gigantesco animale. La cavalla obbedì senza lamentarsi, facendo risuonare i pesanti zoccoli sulle pietre fuori dal recinto. «Come diavolo hai fatto?» domandò alla fine Dal, osservando il tranquillo animale che ancora guardava l’Esule senza dar prova di astio alcuno. Kanyu scosse le spalle con aria incapacitata. «Non ne ho la più pallida idea» mormorò, guidandola con assurda docilità fuori dalla stalla.
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L’anziano capitano fumava tranquillamente dinnanzi ai cancelli di Vathalar, seduto al proprio comodo posto di guardia. Fissava la notte con gli occhi stanchi, ritrovando le stelle al solito posto dove le aveva lasciate una, dieci, migliaia di notti prima, quindi ripercorreva i profili dei tetti come un gatto solitario, soffermandosi su alcune in cui sapeva abitassero persone note, vecchi amici o membri dell’alta società. Lanciò in alto una boccata di fumo, osservandola sfaldarsi magicamente. «Ecco.» pensava, come ogni volta che ripeteva quel gesto «Ora dove andrà quella minuscola, insignificante nebbiolina aromatica? Forse, un giorno, qualcuno sentirà quell’odore e ripenserà a quel vecchio capitano che era sempre di guardia alle porte della città». Sorrise come ogni sera, riabbassando il capo e lisciandosi i baffi grigi. Sulle mura, una sentinella diede una leggera gomitata al suo compagno. «Ora ha pensato dove andrà a finire il fumo e chi ripenserà a lui quando sentirà quell’odore» commentò, scuotendo piano il capo. «Il capitano è un sentimentale» rispose l’altro, accennando ad una risata sommessa. «Guarda che ti ho sentito.» fu la risposta del capitano, ancora fermo nella sua posizione «Come ogni sera». «Comandi, signore?» ribatté l’altra sentinella con un leggero ghigno. «Uno solo:» il vecchio capitano alzò l’indice destro «vai a quel paese». Una nuova risata rallegrò per un attimo l’atmosfera. Il capitano portò nuovamente la pipa alle labbra, sorridendo sinceramente: sarebbero potuti passare cento anni, ma tutti sapevano che lui non avrebbe rinunciato a quel tanto scomodo compito, come i suoi uomini non avrebbero rinunciato a lui. Rialzò gli occhi, osservando la città senza troppo interesse, quando di colpo inarcò un sopracciglio, notando alcune figure in avvicinamento: due uomini incappucciati e un cavallo, un gran bel cavallo. Dal e Kanyu raggiunsero i cancelli della città in un baleno, con Thalya che ubbidiva pazientemente ai loro ordini. Il capitano si alzò in piedi con curiosità, mentre le due guardie si sporgevano oltre il parapetto delle mura. «Non sono molti quelli che decidono di lasciare la città in piena notte.» commentò, quando gli avventori furono dinnanzi a lui «Chi siete?». «Viaggiatori.» rispose semplicemente Kanyu, senza dar troppo peso al capitano delle guardie «Potete aprire le porte?». «Siamo qui per questo.» rispose il capitano, che, di corta statura, pareva un impotente bambino, di fronte al gigantesco Esule «Ma ci sono stati dei disordini in città e si teme che vi siano infiltrazioni di Naigh-Moor, sapete?». «Noi non stiamo entrando, stiamo uscendo.» ribatté Kanyu, lasciando scivolare il cappuccio oltre il capo «E non abbiamo nulla da nascondere». 378
Il vecchio capitano sobbalzò per un attimo, tanto che a momenti la pipa gli scivolò di mano, nel notare la pelle candida e quegli occhi così inquietanti. Un Naigh-Moor, senza ombra di dubbio, benché non ne avesse mai visti con quelle sinistre fattezze. Ma, di sicuro, ne aveva sentito parlare. «Mi venisse un colpo!» esclamò, sorridendo rassicurato «L’Esule in persona a Vathalar!». «Vedo che mi conoscete.» ribatté con calma Kanyu, chinando il capo in cenno di saluto «Ma devo chiedervi di non spargere la voce». «Oh, dunque non siete qui in visita di cortesia.» arguì l’Umano, alzando il capo verso le mura «Sentito, voi due? Se vengo a sapere che avete spettegolato qua e là, vi appendo per i pollici al di là delle mura, chiaro?». «Signorsì, signore!» fu la pronta risposta dei due, che però non accennavano a staccarsi dalle mura, troppo emozionati da quello spezzarsi della routine. Il capitano si volse verso i due Naigh-Moor con un sorriso sereno, portando la pipa alla bocca. «Non fate loro caso: sembrano cretini, ma sono bravi ragazzi.» disse, osservando poi la figura del ragazzo dietro Kanyu «E quello, se posso chiederlo? Vostro figlio?». Dal ebbe come un sussulto al cuore, nell’udire quella domanda. «No, un mio discepolo» rispose però subito Kanyu, senza scomporsi. «Hai un buon maestro, ragazzo.» commentò il vecchio, ammiccando con la pipa verso il giovane «Ma immagino che non avrete troppa voglia di perdervi in chiacchiere con un vecchio legionario: avrete una missione da compiere, beati voi! Vi apro subito i cancelli» e fece un cenno verso le due sentinelle sopra le mura. «Beh, un paio di cose potreste anche farle, per noi» disse d’un tratto l’Esule, prendendosi il mento nella mano, mentre i due sopra cominciavano ad aprire i cancelli. Il vecchio capitano si voltò nuovamente verso il Naigh-Moor, sorpreso. «Sembrate un buon diavolo, capitano.» continuò quello, osservandolo in viso «Dovete sapere che un’organizzazione criminale cittadina, la Fratellanza della Nube, in accordo con gli untori delle Terre Piagate, ha messo una taglia sulla mia testa e su quella di questo ragazzo». «Untori in città?» sbottò di colpo il capitano, per nulla piacevolmente sorpreso: le due sentinelle interruppero l’apertura delle porte di colpo, fiondandosi contro le guglie delle mura. «Cercavano noi due, capitano; Vathalar non corre pericoli. Ad ogni modo, alcuni soldati della Legione imperiale si sono fatti comprare, il che, come comprenderà, è pericoloso per la vostra sicurezza».
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«È più che pericoloso.» commentò acido il capitano, a metà strada fra il pallore e la rossa ira «È tradimento. Sapete chi è implicato in questo affare?». «Un certo Flint, un giovane a guardia di un piccolo carcere dei sobborghi, è in combutta con un altro soldato, che aveva catturato me.» rispose stavolta Dal, sentendosi tirato in causa «Se fate in fretta, lo troverete ancora in una delle celle della sua stessa prigione». «Voi elfi oscuri siete un po’ drastici, eh?» il capitano ridacchiò, comprendendo immediatamente come avesse fatto a finire lì «Darò personalmente un’occhiata, allora. Potete star tranquilli che non gliela farò passare liscia». «Ci conto.» mormorò l’Esule, chinando ancora la testa «E, una cosa importante.» quando Kanyu rialzò il viso, era cupo e spento come poche altre volte «Capisco che sia per voi un problema, ma, nella sede della Fratellanza della Nube, c’è il corpo di un Elfo, Melidan O’Laynahil, sacerdote di Braeyel: sarei lieto se lo portaste fuori di lì e lo seppelliste nel cimitero del tempio della città». «State tranquillo.» il capitano annuì col capo, mostrando il proprio dispiacere «Tutti, a Vathalar, sanno dov’è il nascondiglio di quei ladri, ma nessuno se ne preoccupa. Fanno comodo, in certi ambienti. Non preoccupatevi, non lasceremo quel corpo nelle loro mani». «Ve ne sono grato» concluse Kanyu, facendo poi un cenno col capo a Dal. Le due guardie sulle mura, scambiandosi occhiate meste e commenti su quanto avevano udito, ripresero ad aprire i cancelli, spalancandoli dinnanzi ai due elfi oscuri. Kanyu non fece in tempo a salutare il vecchio capitano, che, di colpo, Thalya nitrì con forza, strappandosi con un balzo alla presa del Naigh-Moor. Tutti quanti spalancarono gli occhi, mentre la cavalla filava come il vento attraverso i cancelli, sbattendo a un ritmo frenetico i pesanti zoccoli sul terreno, una furia che sfrecciava con i lunghi crini al vento, più velocemente di quanto ci si potesse aspettare da un comune cavallo. «Maledizione, quel fenomeno corre come un fulmine!» esclamò il vecchio capitano, torcendosi i baffi «Volete che mandi qualche cavaliere a riprenderla? Non so se riuscirebbero a tenere il passo, però». Dal scosse appena il capo, inspirando poi a pieni polmoni. «No.» rispose, mentre un sorriso si allargava sulle sue labbra «È venuta fin qui solo per questo. Ha avuto ciò che voleva». Kanyu gli batté un mano sulla spalla, prima di salutare degnamente il capitano e allontanarsi dai cancelli, richiusi solo dopo qualche lungo secondo di esitazione. Sulle mura, le due sentinelle continuarono a fissare i due elfi che si allontanavano, silenti. La voce dell’anziano soldato riempì la solitudine della notte.
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«Il più veloce di voi due corra al comando… Che mandino qualcuno a sostituirci» ordinò, guardando verso l’alto. «Comandi, signore?» domandò una dei due soldati, stavolta seriamente confuso dalle parole del capitano. «Non vorrete starvene lì in eterno, spero!» esclamò il vecchio, mordicchiando la propria pipa «Stanotte avete occasione di guadagnarvi una medaglia e una promozione, ragazzi miei.» quindi li guardò fieramente, mentre si osservavano l’un con l’altro, titubanti «Beh, che fate ancora lì? Muovere quelle gambe, soldati!». Il più audace dei due partì come una lepre lungo la scala che conduceva giù dagli spalti.
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XXXVIII. Nelle Terre Piagate
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al rimase decisamente stupito dalla brevità del viaggio: aveva immaginato un lungo peregrinare attraverso piane sconfinate, montagne aguzze e taglienti come rasoi, fiumi rigonfi come mai ne aveva visti. Invece, in nemmeno due giorni la terra si era inaridita, rattrappendosi in sé stessa come una fronte rugosa, tra spaccature cariche di polvere e pietre vecchie di millenni. Lì, in una desolazione assoluta, sulla quale aleggiava solo il silenzio e le casuali raffiche di vento, si stendevano le Terre Piagate. «Mai un nome sarebbe stato più azzeccato» pensò fra sé il giovane elfo, seguendo in silenzio il compagno. Socchiuse gli occhi, tornando a far caso all’andatura barcollante che Kanyu aveva da quella mattina, appena si erano messi in cammino: era curvo, come invecchiato, pendeva sempre più a sinistra, dove quel lungo braccio rimaneva quasi inerte. A tratti, l’aveva visto accarezzarsi con l’altra mano il petto, poco distante dal cuore, come se fosse stato colto da un’improvvisa malattia, ma aveva evitato di far domande appena aveva intravisto i suoi occhi, più cupi del solito. Dal tornò quindi a guardare attorno a sé, scorgendo finalmente tracce di una vita che sembrava completamente bandita in quel luogo. Lunghi alberi affusolati si protendevano verso l’alto, le foglie ancora verdi, sebbene il loro colore apparisse spento e offuscato, quasi l’autunno fosse arrivato in anticipo per loro. Pian piano, il suolo si fece più molle e fresco, perdendo gradualmente l’aspetto desertico che prima lo caratterizzava. Le piante si moltiplicarono, in un crescendo di tronchi, felci ed insetti. Qua e là, ora si udiva anche il gracchiante canto di qualche uccello d’acqua dolce e il gracidio delle rane: le Terre Piagate acquisivano una vitalità sgradevole, ma pur sempre confortante, rispetto al vuoto appena trascorso. «L’ambiente è ricco di paludi, anche se non lussureggianti come questa» spiegò Kanyu, rallentando l’andatura. “Lussureggiante?” stava per chiedere Dal, ma si limitò a inarcare un sopracciglio. «È anche una zona poco battuta dagli untori.» proseguì l’Esule, con la sua naturale calma «Loro vivono nel centro delle Terre Piagate, proprio dove l’aria è più fetida». «Pessimi gusti, oserei dire» commentò il giovane, storcendo le labbra ben modellate.
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«Gli untori sono l’antitesi di qualsiasi forma di bellezza. Per loro, più una cosa è disgustosa e più la trovano interessante. E l’ambiente si confà alla divinità che venerano, non ti pare?». Dal non rispose, continuando a guardarsi attorno, senza più molta convinzione di intraprendere quell’avventura: il disgusto per quell’ambiente sorvolava quasi il suo personale desiderio di chiudere onorevolmente la faccenda. «E qui noi ci fermeremo» concluse Kanyu, sfilandosi lo zaino e posandolo a terra con attenzione. Il giovane Naigh-Moor rimase con un palmo di naso, immobile come uno stoccafisso. «Come sarebbe?» si oppose, risoluto «E la caccia agli untori?». «Verrà il tempo anche per quella.» rispose l’Esule, sedendosi ai piedi di una delle snelle piante «Ma c’è bisogno di provviste e, soprattutto, devi imparare ad usare a dovere quell’arma» ed indicò la grossa scimitarra di Dal. «So usarla quanto mi basta» ribatté spazientito il giovane, pur sapendo che Kanyu l’avrebbe facilmente smentito. «Non ricordo che tu abbia mai veramente combattuto con quell’affare.» egli infatti incrociò le braccia, per nulla consenziente a ulteriori proteste «Siccome hai perso i tuoi guanti, poi, per te sarà molto stancante maneggiarla adeguatamente». Dal sbuffò debolmente, osservando con la coda dell’occhio l’impugnatura della scimitarra: effettivamente, anche solo portarla in giro non era stato piacevole, sebbene non avesse lo zaino con sé. E pensare che una semplice guardia si era caricato lui sulle spalle, oltre a quella ingombrante arma! Ma quanto lunga doveva ancora essere la strada? «Ti hanno abituato con armi leggere, ragazzo.» sentenziò il suo mentore «E non hai mai avuto un maestro come si deve: non faremo miracoli, ma perlomeno ti insegnerò qualcosa per mantenere intatta la pelle». «Va bene, va bene.» tagliò corto Dal «E le provviste?». «Li senti questi versi?» Kanyu alzò il braccio destro con naturalezza «In prossimità degli stagni troverai dei grossi uccelli; il resto l’hai già imparato a Deym». Il giovane esule tese le orecchie ai rumori circostanti, riconoscendo senza difficoltà la presenza di qualche volatile. Lanciò un’occhiata al compagno, quindi, abituato com’era a distinguere il suo volere dalle espressioni del viso, slacciò la balestra dalla cintura, avventurandosi attraverso la “lussureggiante” palude. Perché i mendicanti di Vathalar si affaccendassero di colpo, quel giorno, era un mistero a cui nessuno sapeva dare una vera risposta. Si vociferava ovunque di 383
possibili editti emanati dalle autorità cittadine contro di loro, di un improvviso esodo in carovana, dello spandersi di un’epidemia nei bassifondi. Addirittura, si parlava di una rivoluzione organizzata dai ceti più bassi di Vathalar. Qualcuno giurava persino di aver visto legionari incatenati da altri soldati e trascinati verso la roccaforte. Eppure, in quel clima di tensione e foschia, nessuno aveva ipotizzato che la causa di tutto quel trambusto fosse un giovane elfo oscuro, sconosciuto all’intera popolazione e che, dietro di lui, si celassero ombre minacciose di untori e Naigh-Moor. In particolare, che i mendicanti fossero in subbuglio perché minacciati dal principe di Armalak, che si aggirava per i vicoli sporchi come un serpente velenoso, in barba alle guardie imperiali. Ora, trasandato e dimagrito, insisteva nel mantenere intatta la nobiltà del suo sangue nell’incedere e nell’atteggiarsi, come un signore decaduto senza più terre né denari. E lì, di fronte a quegli uomini vestiti di stracci e invasi dal terrore, il suo aspetto sembrava rifiorire. «Fuggito, mi dite.» mormorò sprezzante, osservandoli come si squadrano delle reclute «Per la terza volta». I mendicanti restavano in silenzio, guardandosi l’un l’altro. Quanti erano morti, qualche giorno prima? L’elfo oscuro aveva dimostrato appieno il suo potere e la sua crudeltà. Ora, di fronte alla frustrante verità, in che modo avrebbe reagito? «Non sappiamo da dove venga, signore.» rispose uno dei tanti «Solo che è fuggito da qui due giorni fa, dai cancelli che danno sulle Terre Piagate, assieme a un gigante vestito di nero». «Da qui non doveva scappare!» esclamò di colpo il principe, facendoli indietreggiare come un sol uomo «Ero così vicino, stavolta!». Per qualche attimo, non si udì altro che il respiro strozzato dei mendicanti, che, con le membra tremanti, non sapevano se darsi alla fuga o restare lì dov’erano. Lohidran ora non parlava, coprendosi il bel viso con la mano destra. «Sparite.» ordinò ad un tratto, abbassando il braccio «Che nessuno di voi abbia più l’ardire di comparirmi di fronte.» quindi, poiché i mendicanti non si muovevano e si limitavano a rumoreggiare impauriti tra loro, si lasciò strappare un grido «Via!». La folla sciamò via come un esercito in rotta, spingendosi indelicatamente per allontanarsi il prima possibile dal temibile elfo oscuro. Lohidran richiuse gli occhi, colto dallo sconforto. Riaprendoli, si trovò dipinta in viso la sua ossessione, la sua cieca determinazione e l’insopprimibile bisogno di non cedere nemmeno allora. Sempre più solo, sempre più isolato dal mondo, ma ancora non avrebbe rinunciato alla sua caccia. Neanche se l’avesse condotto nel cuore delle Terre Piagate.
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Dal, al contrario, nemmeno immaginava che suo fratello fosse ancora sulle sue tracce, né di certo che sapesse dove si trovava in quel momento. Credeva che quelle paludi, così intricate e inospitali, lo segregassero lontano da ogni sorta di civiltà. E lì, più di una volta, quando sedeva e rimirava il sole tramontare sempre più in fretta, gli capitava di pensare che, forse, anche la sua vita si sarebbe conclusa lì. Una tenue nebbiolina cominciava a scendere la sera e la mattina presto, sinistro presagio dell’avvicinarsi dell’autunno. Pure Kanyu scrutava attraverso quell’aria con odio, restando per lunghi minuti ad osservare i contorni sfocare. E lì prendeva ad accarezzarsi il braccio sinistro e, come posava la mano sulla ferita, Dal vedeva una smorfia di dolore deturpargli il volto. Poi socchiudeva gli occhi, e ritornava a immergersi nella nebbia. «Pensa.» gli disse una volta, senza voltarsi a guardarlo «Non riusciamo a godere di questa vista, con quest’odio che ci permea l’anima, con la mente che ci impone di pensare al nostro scopo». Il giovane elfo alzò gli occhi con stupore, fermandosi per un attimo a guardare la palude. Quindi tacque, incrociando lo sguardo vacuo del mentore. «Lo so cosa stai pensando… O cosa sei abituato a pensare. Questo è un luogo squallido, sporco, uno degli ultimi posti dove vorresti vivere. Ma prova a guardare, ad assottigliare gli occhi ed a spingerti oltre, o meglio, attraverso queste nubi: ogni cosa può nascondersi dietro di esse». Dal provò ad obbedire, sforzandosi come meglio poté per tornare a distinguere nitidamente le forme. «Non riesco a vedere oltre» si trovò a dover concludere, senza capire. «Difficilmente un poeta pagherebbe per questo scenario.» continuò l’altro, allargando appena il braccio destro «Una notte stellata permetterebbe al tuo spirito di fluttuare liberamente, di schiudersi all’infinitamente esteso, mentre qui sei racchiuso tra mura inesistenti, ma pur sempre mura. Non è così?». Il giovane rimase un momento a pensare, alternando la vista della nebbiolina al terreno sotto di lui. «Librarsi in alto sarebbe più facile, come sarebbe più facile osservare la notte o, ancor meglio, un prato illuminato dalla luce» rispose, quasi prendendosi un secondo per pensare tra ogni parola. Kanyu annuì leggermente, visibilmente soddisfatto, come testimoniava il rarissimo sorriso sulla sua bocca. «Non è un’osservazione stupida.» concesse «E se qualcuno desse vita a un luogo come questo? Se, bloccato in questa palude, trovasse il modo di glorificarla in un poema? Se fossi proprio tu a farlo?». Dal scosse piano il capo, abbozzando un chiaro sorriso. «Non sono un poeta» disse infine, alzando nuovamente la testa.
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«Già. Siamo guerrieri… Ma quando usciremo da qui e racconteremo di ciò che abbiamo vissuto, non sarà come evocare una poesia? E, se un menestrello comporrà una ballata su di noi, non saremmo anche noi creatori di essa?». «Vuoi dire “se usciremo da qui”» il sorriso del ragazzo si spense rapidamente, lasciando spazio alla drammatica realtà. Kanyu non disse altro, lasciando ricadere piano la testa sul petto. E la nebbia tornò ad essere solo nebbia. Un attimo dopo, portò ancora la mano al braccio ferito, ma stavolta il suo dolore si fece ben più lampante. L’Esule storse le labbra in una sorta di ghigno sofferto, chiudendo inutilmente la mano attorno al braccio, che anzi parve dargli una scossa ancora più vibrante. Un sibilo di dolore gli sfuggì dai denti serrati, chiaramente udibile sopra qualsiasi starnazzare d’anatra in lontananza. Dal aprì gli occhi, come se si fosse svegliato di soprassalto. Kanyu era piegato sulla vita ed emetteva ringhi continui e laceranti. Il giovane balzò in piedi, correndo fulmineamente al suo fianco. «No!» l’urlo del compagno spaccò in due la nebbia, il suo sguardo furioso e impotente congelò Dal lì dove si trovava. Arrancò sulle lunghe gambe, sputando un’imprecazione velenosa contro il cielo offuscato dalle nubi. Poi, senza troppa grazia, si drizzò sulla schiena, allontanando affannato la mano dalla ferita. Dal vide il sudore imperlare la pelle bianca, cadendo poi a terra dalla punta del dritto naso; tuttavia, il volto di Kanyu, seppur provato, pareva ora lontano dal dolore. «Che cos’hai?» riuscì finalmente a chiedere Dal, facendoglisi vicino e osservando il braccio del mentore. «Non lo so.» ribatté l’Esule, avvicinandosi al proprio zaino a passi scombinati «Questa ferita dovrebbe essere già guarita, ormai». Dal lo seguì con lo sguardo, senza nascondere la propria preoccupazione. «Non sarà mica stata un’arma avvelenata?» domandò, smarrito «Gli untori le usano?». Kanyu annuì col capo, però nella sua espressione non vi era né sorpresa né interesse per quel particolare. «Da sempre, ma non devo preoccuparmene.» rispose frettolosamente, sedendosi a terra con un tonfo «È impossibile che mi avvelenino». «E perché no?» Dal gli si sedette accanto, combattuto fra l’ansia per il mentore e la curiosità per quell’affermazione «Non puoi esserne… Immune». «Posso e lo sono» tagliò corto l’altro, sfilandosi i lunghi guanti neri. Con attenzione, prese quindi a sollevare la manica dello scuro corpetto, lasciando intravedere il braccio candido e affusolato. Dal notò immediatamente l’infinità di lunghe cicatrici che lo attraversavano, tutte attentamente tracciate. «E quelle?» insistette, inorridito «Sheynt, ti hanno torturato?». 386
«Una per ogni compagno perduto.» fu la secca risposta dell’Esule, che non smetteva di scoprire il braccio «Ora sta zitto». Dal seguì quei movimenti con un palpitare crescente. Migliaia di pensieri gli balenavano nella mente, un turbine infinito e inarrestabile. Le cicatrici che aveva sul braccio, proprio come la sua per Sali. Il dolore, così inutile e ripetuto. Il ricordo, come se ogni taglio fosse un cassetto. Un Melidan per ogni ferita. Ma intanto Kanyu aveva scoperto del tutto il braccio, e quello che Dal vi trovò fu abbastanza da scacciare ferocemente ogni altro pensiero. Un’ampia crosta nera, molle e fragile, si era formata attorno alla ferita, gonfia e incancrenita come non ne aveva mai viste. Il taglio della lama ancora si intravedeva, scolpito perfettamente. Aprì la bocca per parlare, per urlare che quello che vedeva non poteva essere normale, né naturale, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono, se non un gemito di disgusto. Frattanto, Kanyu aveva messo mano al suo lungo pugnale, anch’egli nauseato da ciò che vedeva. Nel silenzio dei loro respiri trattenuti, incise la crosta come se fosse stata burro, lasciando che si staccasse debolmente, portando con sé un rivolo di pus. Una sorta di squittio si udì subito dopo, facendo loro gelare il sangue nelle vene. Entrambi gettarono poi un grido di orrore, nell’osservare la ferita, lì dove una sorta di piccola piovra agitava i nerissimi tentacoli, saldamente fissata ai muscoli dell’elfo. Kanyu represse un moto di sgomento, sbarrando gli occhi. La mano destra saettò sul parassita d’impulso, strappandolo brutalmente dal suo appiglio. L’Esule avvertì per una frazione di secondo il viscidume della creatura, poi fu costretto a mollare la presa, portando con un grido la mano al braccio ferito e sanguinante. Dal seguì per un attimo con gli occhi il parassita, mentre sentiva il suo stomaco rivoltarsi. Osservò il compagno piegato accanto a lui, con tutto quel sangue che gli sgorgava dal braccio. Per qualche secondo, fu in bilico tra il desiderio di aiutarlo e quello di vomitare. «Non startene lì impalato, idiota!» urlò un fiaccato Kanyu, guardando in viso il giovane «Prendi delle bende nello zaino, muoviti! Qualcosa per arrestare l’emorragia!». Dal si riprese in un istante, comprendendo l’importanza di aiutare il compagno in quel momento, e i conati scomparvero improvvisamente, così come erano venuti. Ansimò freneticamente nello svuotare quello zaino, trovando finalmente le bende che cercava. Si avvicinò a Kanyu come in una carica, ma questi gli strappò le bende di mano e le ficcò nel braccio sconquassato con cruenta drasticità. Dal lo vide contorcersi, lo sentì urlare come mai aveva immaginato, ma quel tampone restava lì, per quanto le forze stessero abbandonando palesemente l’elfo oscuro. Poi, tra gli affanni e la mente offuscata dal dolore, Kanyu avvolse con mano tremante le bende attorno alla ferita ancora zampillante. 387
«È fatta» concluse alla fine, senza l’ombra di un sorriso sul viso distorto dal dolore e dalla fatica. Dal rimase con le labbra tremanti ancora qualche secondo, incapace di gioire per lo scampato pericolo. «Ma… Che cos’era?» balbettò infine, gli occhi aperti a dismisura. «Un parassita di non so che genere.» rispose lo spossato Esule, il capo chino «Dovevano esserci dei bacilli sulla lama di quell’untore. Sapevano che il loro veleno sarebbe stato inutile, così devono essere ricorsi a questo metodo». Dal aprì la bocca come per far cenno di aver capito, lasciandosi cadere in ginocchio. Subito dopo, Kanyu prese a girare vorticosamente, poi si appannò e scomparve dalla sua vista. Riaprendo gli occhi, la prima cosa che avvertì fu un pulsante mal di testa, poi un senso di confusa vertigine, un po’ come se fosse appiccato per i piedi al di sopra di un baratro. Qualcuno lo stava scrollando senza troppa forza, assestandogli di tanto in tanto qualche rapido scapaccione. Quando distinse la voce di Kanyu, era ormai trascorso qualche minuto da quando si era ritrovato in quello stato. «Sono io quello che si portava quella bestiaccia in un braccio, non tu» diceva, e intanto gli mollava un’altra sberla, stavolta accusata molto più chiaramente. «Sto bene, sto bene!» esclamò allora il giovane, sebbene rintronato dallo svenimento e dagli schiaffi. Kanyu lo lasciò andare, tirandosi in piedi e osservandolo dall’alto. «Stomaco debole, eh?» commentò «Abituati a questi spettacoli, se non vuoi ritrovarti sempre in queste condizioni». Dal annaspò come meglio poteva, mettendosi confusamente a sedere. Alzò lo sguardo, notando che Kanyu sembrava non aver avuto nulla, se non fosse stato per quel braccio che ora portava comodamente al collo. «Su, forza.» ordinò velocemente l’altro, allontanandosi «Entro un’ora ti voglio nuovamente in piedi. Svelto, che abbiamo da fare!». Meno di un’ora dopo, il giovane, seppur ancora stordito, stringeva nelle mani la grossa scimitarra, osservando con un certo timore l’Esule, armato della semplice Zanna nell’unico braccio utilizzabile. «Come puoi combattere a quel modo?» domandò, per nulla sicuro di quello che l’altro intendeva fare. «Pensa per te, ragazzo, e tieni come si deve quello spiedo tra le mani» fu la brusca risposta di Kanyu, il quale si molleggiava agevolmente sulle punte dei piedi. «Ma non puoi parare con un braccio solo, avanti!» protestò nuovamente Dal «Dovresti riposare, in quelle condizioni!». 388
Non aveva finito di parlare, che l’alto Naigh-Moor era già scattato in avanti, preparandosi a colpire con rapida mossa il disorientato avversario. Dal si vide costretto a piegare di lato l’enorme arma, mandandola a impattare contro la corta scimitarra dell’Esule. Sentì come una scarica nelle mani, una forza ineguagliabile, tale da strappargli l’impugnatura dalle dita eppur serrate. Dal rimase attonito, intanto che Kanyu reggeva la spada di fronte al suo addome, ritraendola solo dopo qualche secondo. «Raccogli l’arma.» gli intimò, indicando la scimitarra con la lama «Avresti già dovuto aver imparato che non abbiamo tempo da perdere nel riposo. Muoviti!». Dal si chinò e obbedì. Indietreggiò di appena un passo, mettendosi stavolta in corretta posizione di guardia, come gli era stato insegnato nell’arena. Subito dopo, si attaccarono, facendo cozzare assieme il metallo delle armi.
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XXXIX. Insospettabile compagnia
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anyu non smise mai di sorprendere Dal nei giorni che seguirono: mai diede segno di debolezza per via del braccio malconcio, né le sue labbra emisero un respiro d’affanno, nonostante l’allenamento massacrante a cui sottoponeva il giovane. Ogni mattina, come si levava il sole, dovevano essere già in piedi, pronti a svolgere i compiti basilari della giornata, come trovare cibo o acqua potabile, quindi si doveva passare a quello che sarebbe stato necessario all’interno delle vere e proprie Terre Piagate. Maneggiare degnamente la spada e la balestra, abituarsi a sostenere tappe forzate ed essere subito pronto a combattere, affinare ancor di più vista e udito. Tutto questo in un ciclo interminabile e sfiancante. Se la grossa scimitarra era troppo pesante, Kanyu non esitava a caricare il giovane di pesi ancora maggiori, tali da fargli tremare le gambe. «Non importa se il tuo fisico non è in grado di reggere ad un tale sforzo.» diceva «Devi imparare ad andare oltre la comune soglia della sopportazione, sia materiale che mentale. È troppo facile rinunciare al primo sentore di stanchezza». «Ho i miei limiti» aveva bofonchiato Dal in risposta, che ogni sera si sentiva le braccia dolergli sempre più. «È come trattenere il fiato.» ribatteva semplicemente l’altro «Hai mai provato? Quando credi che la riserva d’aria sia finita, ce n’è ancora molta da utilizzare; non è diverso dallo sforzo fisico». Dal sopportò, seppur malvolentieri, e dovette ammettere che la logica del mentore non era sbagliata. Quando poi calava la sera, sedevano l’uno di fronte all’altro, e Kanyu parlava a lungo di quelle terre, degli untori e delle loro strategie. Raramente trattava argomenti estranei alla loro missione, un po’ perché voleva mantenere la concentrazione su ciò che stavano facendo ed un po’ perché, come ben si notava, provava un certo fastidio. Per Dal accadeva tutto il contrario: insisteva sui particolari più lontani dagli untori, sul mondo fuori dal Baratro, come gli aveva insegnato a chiamare le terre di Nog Tuluth, le sue genti, i suoi variegati costumi. Pensare agli untori serviva solo a rievocare immagini di morte e di speranze infrante, l’immenso ostacolo che lo separava dalla vera libertà. Kanyu interrompeva volutamente le sue delucidazioni, quando si accorgeva che il giovane cominciava a divagare, spaziando con la fantasia tra confini immaginari. «Quando avremo finito, sarai libero di fantasticare. Ora troppe vite attendono la giusta vendetta» e, detto questo, taceva sino al mattino dopo. 390
In una sola settimana, la mente di Dal conobbe uno sviluppo che il giovane elfo oscuro non ricordò pari a nessun altro insegnamento; eppure Kanyu non si atteggiava da insegnante, bensì lo spingeva a provare di prima persona la realtà e le sue avversità. Ogni giorno era un’esperienza, un dovere astratto che si concretizzava, imponendo una reale risoluzione. La debolezza, l’incompetenza su un vero campo di battaglia, l’indipendenza: ognuna di esse doveva essere affrontata e superata, con lo scopo non solo di sopravvivere, ma di trovare prima il perché di ogni azione che intendeva compiere. Così le parole di Kanyu divennero chiare: per ottenere qualcosa occorreva volerlo profondamente, e con radicate convinzioni. Valeva per trattenere il fiato o sollevare un peso ingente, proprio come aveva detto. Ma, soprattutto, valeva per uscire vivi da lì. Proprio quando sentiva di aver raggiunto quella consapevolezza, Dal si rese conto che l’umore di Kanyu era nuovamente cambiato, versando in un’indisponente freddezza. Non parlava, se non per dargli svogliati ordini, e passava le giornate a camminare avanti e indietro, gettando a tratti occhiate furtive verso la nebbia. Dal lo assecondava, obbedendo a quelli che sapeva sarebbero stati i suoi ordini. Si alzò pertanto col sole ancora basso, trovando, come sempre, il compagno già in piedi. Passati un pugno di minuti lo osservò per un attimo; poi, quando l’altro si voltò, gli rivolse un cenno col capo. «Andiamo a cercare qualcosa da mangiare?» chiese, pur consapevole che la maggior parte del lavoro avrebbe dovuto farla lui. L’Esule annuì senza interesse, precedendolo nelle paludi. Fu quando il sole era ormai alto, che Dal si rese conto di averlo perduto. Si guardò intorno con ansia, di colpo solo, in mezzo all’umida vegetazione, riprendendo però rapida padronanza di sé. Conosceva quel posto, un acquitrino costeggiato da un basso rilievo, l’ideale per appostarsi ed attendere qualche preda incosciente. Si alzò sulle punte dei piedi, cercando di scorgere la testa del compagno oltre il canneto e dietro le grosse piante, senza successo. Nessun problema: poco più avanti, in quel grosso spiazzo oltre l’acquitrino, in cui si erano soffermati così spesso, avrebbe potuto godere di una panoramica migliore. Accelerò il passo, facendo ben attenzione a controllare ogni angolo della palude, qualora avesse intravisto il pallido Naigh-Moor. Con un sospiro soddisfatto, giunse in prossimità dello spiazzo, da cui poteva sentire nitidamente un brusio che nulla poteva essere, se non Kanyu. Sorrise rassicurato, voltando l’ultimo angolo e notando subito la lunga ombra sul terreno. Poi, di colpo, quasi si scontrò con qualcosa di ben più massiccio e corpulento di quanto si aspettasse. Il sangue gli si gelò nelle vene, come se l’improvvisa paralisi che l’aveva colpito avesse raggiunto ogni sua arteria. Dritto dinnanzi a lui, col grugno sporgente segnato da profonde cicatrici e due sanguigni occhi rossi, una colossale creatura lo fissava, anch’essa colta alla sprovvista. Dal vide per un attimo il torace possente dell’essere ingrossarsi sotto 391
il respiro, il suo corpo verdastro gonfiarsi e la mandibola socchiudersi, mettendo meglio in evidenza due robuste zanne da cinghiale in una smorfia feroce. Il giovane balbettò per qualche istante, quindi indietreggiò inorridito con un balzo, mettendo mano alla grossa scimitarra. «Orchi!» urlò, benché ne avesse di fronte solo uno «Orchi!». La bestia, vedendo la reazione, non esitò a muoversi, facendo comparire con un guizzo un’enorme mazza fregiata di simboli e pendagli, ben stretta nelle possenti mani. Qualche secondo dopo, si udì il solito brusio, chiaramente un borbottio concitato, e una figura più tozza si fece avanti, facendo rumoreggiare una scolpita corazza di piastre. Un Nano, con tanto di barba e baffi biondi perfettamente raccolti in lunghi ciuffi, un’ascia intarsiata nella destra e un massiccio scudo circolare nella sinistra. Dal sgranò nuovamente gli occhi, senza capire che diavolo ci facessero due tipi del genere in un luogo dimenticato dagli dei come quello. «Oh, guarda! Un elfo oscuro! Elfo oscuro, elfo oscuro!» canticchiava allegramente il piccoletto, ondeggiando senza senso l’ascia «Vieni qua che io sono più duro!». Dal inarcò un sopracciglio, squadrando allibito la bizzarra coppia: due lunghe corna rivolte verso il basso danzavano assieme al Nano, ben fissate ad un elmo carico di rune, mentre l’Orco rimaneva fermo, con l’unico ciuffo di capelli rossastri del cranio altrimenti calvo che gli ricadeva in parte sul brutto muso. Dal era incerto se dovesse attaccarli o gettare una monetina ai piedi del Nano che si improvvisava poeta: Kanyu aveva detto che nelle Terre Piagate si potevano trovare solo untori. Quasi l’avesse chiamato con quel pensiero, anziché col baccano che andavano facendo, l’Esule comparve di colpo, la scimitarra della Zanna impugnata nell’unica mano utilizzabile. E lì, dov’era spuntato, rimase, anch’egli attonito dalla scena. «Oh, un Naigh-Moor spilungone!» esclamò il Nano, notando la presenza di Kanyu, e distese il braccio che teneva l’ascia «Riposo, truppa!». Dal, senza riuscire a capacitarsi, vide l’Orco abbassare la gigantesca mazza, facendo tintinnare gli amuleti e i ciondoli saldamente fissati al manico. «Wagrat Manodituono.» commentò l’Esule, scuotendo piano la testa «Sei senza speranza…». «Il “senza speranza” viene qui per portarla!» replicò il Nano, accennando ad una risata sotto i lunghi baffi «Oppure, volendo, cerco un modo originale per suicidarmi». «Ora che sei qui, questo mi pare molto più probabile» ironizzò Kanyu, rinfoderando con naturalezza la scimitarra.
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«Sacripante! Offendere così chi ti offre aiuto.» borbottò l’altro, voltandosi ora verso Dal e squadrandolo con curiosità «Ho detto “chi ti offre aiuto”, ragazzotto: metti giù quell’affare!». Il giovane si volse poco convinto verso Kanyu, rimettendo a posto l’arma solo quando questi gli annuì, tranquillo. «Non è molto sveglio, eh?» sghignazzò il Nano, indicando Dal con il pollice «Beh? È questo il modo di accogliere un prode combattente reduce da un lungo viaggio?». «Dove sono i tuoi compagni?» gli domandò in risposta l’Esule, poco allegro. «Non li vedi?» il Nano fece un ampio cenno del braccio, presentando il corpulento Orco «Groargh Spaccadenti. Il nome è tutto un programma». «Lui?» intervenne Dal, fissando con scetticismo il taciturno gigante «Un Orco? Ma non avevi detto che per questa missione servivano intelletti fini?». Il giovane elfo sentì un urlo assordante e si voltò verso un Groargh Spaccadenti di colpo furioso, appena in tempo per vedere il braccio poderoso agguantarlo per la gola e sollevarlo da terra come un ramoscello secco. Il Nano seguì con lo sguardo l’improvvisa elevazione dell’elfo oscuro, senza intervenire. Solo dopo che l’Orco l’ebbe dimenato per un po’ in aria, si decise a intervenire. «È anche particolarmente permaloso, sai?» disse, lasciando apparire l’ombra di un ghigno «Non sopporta che lo si ritenga stupido». Dal annaspò freneticamente, scalciando a vuoto fino a quando il suo viso non divenne cianotico: in quel momento, le dita dell’Orco finalmente si aprirono, lasciando cadere il Naigh-Moor come un sacco di stracci. «Tu non dimostri intelligenza.» sentenziò seccato Groargh, con accento scolastico «Non io». Fatto ciò, l’Orco si rivolse a Kanyu, pronto ad una seconda dimostrazione di forza bruta, se importunato. L’Esule restava però impassibile, osservando il giovane tossire faticosamente e strabuzzare gli occhi. «Non capisco nemmeno io, a dire il vero.» ammise alla fine, squadrando quel Nano che gli superava a stento la vita «Perché un Orco? Ti avevo chiesto di portare qualche membro dei Maestri d’Ascia. E non mi risulta che fra Nani ed Orchi sia mai corso buon sangue». «Il motivo per cui non odio questo Orco coincide col perché non ho portato Maestri d’Ascia con me.» rispose con tranquillità il Nano «Ho lasciato l’Ordine da qualche mese: ora sono di nuovo Wagrat Ludarnen, non più Manodituono». «Hai lasciato l’Ordine?» chiese, incredulo, il Naigh-Moor «E porti di nuovo il cognome originario? Vuol dire che sei stato bandito!». «Oh, loro mi hanno bandito solo dopo che io li avevo abbandonati. Sembra una cosa scema, ma è così.» Wagrat scrollò le spalle «Ma di questo riparleremo, ti va? Ora ho voglia di farti uscire dal casino in cui ti sei infilato». 393
Kanyu accennò ad un piccolo sorriso, incamminandosi poi verso la strada percorsa prima da Dal; Wagrat gettò un fischio acuto verso l’Orco che, rudemente, afferrò Dal per il mantello e lo tirò in piedi come un manichino. «Andiamo» brontolò imperiosamente Groargh, dall’alto della sua stazza, superiore forse anche a quella di Kanyu. Dal lo seguì da una certa distanza. Wagrat non la smise di parlare nemmeno per un istante, indifferentemente dall’argomento della conversazione: ora formidabili avventure, perlopiù inventate, ora lamentele sulla carenza di indizi che Kanyu si era lasciato dietro e che gli erano costati un paio di giorni di ritardo, ora semplicemente sul tempo e le nuvole. Il suo compagno Orco, d’altro canto, non fiatava, osservando con occhio diffidente l’ambiente circostante. Il Nano non se ne stupiva, sebbene a volte si voltasse verso Groargh, aspettandosi un commento per l’ennesima, pietosa battuta, che però non arrivava. Kanyu taceva allo stesso modo, rivolgendo solo qualche sporadica domanda a Wagrat: cibo, equipaggiamento ed eventuali informazioni acquisite. Dal chiudeva la fila, tenendosi distante dai due sconosciuti e, di conseguenza, dall’altro elfo oscuro, che guidava il piccolo drappello. Non si aspettava che sarebbe giunto qualcuno in loro aiuto, né tanto meno comprendeva perché un Nano e un Orco viaggiassero fianco a fianco. Era dominio comune l’odio che le due razze provavano l’una verso l’altra: da un lato, il Karkanak, ovvero i reami montuosi dei Nani, dall’altro le immense praterie e le steppe dei feroci Orchi. I primi, una razza orgogliosa e nobile, antica quasi quanto gli Elfi, fiera di tradizioni millenarie e del primato nell’organizzazione delle truppe corazzate; i secondi, nulla più che barbari selvaggi, primitivi, organizzati in tribù in costante conflitto tra di loro che a volte si radunavano in grosse orde, scagliandosi contro le montagne degli arcigni rivali. La faida durava da sempre, per quel che si ricordava, e a Dal sembrava assurdo che si fosse giunti ad una tanto spudorata alleanza. Poi, quando furono seduti di fronte a un basso fuoco e il succulento pollo di Wagrat fu cotto a puntino, la situazione cominciò a farsi più chiara. «Ora, io sono di pattuglia assieme alla mia squadra, no?» diceva il Nano, agitando concitato una coscia di pollo in aria «La solita storia, controllare le città e le campagne, fare un po’ sfoggio delle nostre belle uniformi… Dico, non succede mai un accidente, mica ci sono orde da fronteggiare, lì. E cosa ti trovo? Un Orco giovane e massiccio, ma stanco e denutrito come non ne avete mai visti!» e indicò il taciturno Groargh, che nemmeno alzò la testa da un pezzo di carne cruda che stava letteralmente sbranando «Non come adesso, che mangia quanto un maiale».
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«Ti ricordo che quel pollo è il tuo terzo pranzo» sentenziò per la prima volta l’Orco, sputando un avanzo per terra. «Secondo!» il Nano alzò una mano con aria truce «Abbiamo stabilito che il piccione non contava». «Contava, contava» ribatté l’altro senza scomporsi, tornando sulla sua carne. Wagrat si schiarì la voce, scocciato. «Dicevo, un Orco denutrito.» riprese, storcendo il grosso naso «Ma in assetto da battaglia, eh! Come ci vide, tirò fuori quella specie di colonna che si porta dietro. E allora, cos’ho pensato?» e qui stuzzicò Dal con la solita coscia di pollo «Eh, cos’ho pensato?». Il giovane aggrottò la fronte per un attimo, tirandosi d’istinto indietro di qualche centimetro. «Er… Che era una spia?» tentò, più che altro per porre fine all’imbarazzo. «No! Troppo poco!» sbottò il Nano, contrariato «Che era un’invasione, e di quelle toste!». «Hai visto me in condizioni pietose e hai pensato a un’invasione?» s’intromise Groargh, sul punto di sputare tutto il pasto in una roca risata «Che succedeva, se vedevi addirittura una banda di “ben” cinque Orchi? Ti arrendevi?». «Prima si mandano avanti gli esploratori e poi il resto dell’armata, come si conviene a ogni esercito» brontolò Wagrat, agitando la maledetta coscia come uno stendardo da battaglia. «Una spia, allora» insistette Dal, che cominciava a trovare divertente la situazione. «Un esploratore! Ma insomma, lo volete sapere perché mi porto dietro questo coso puzzolente o no?» sbraitò di scatto il Nano, fissando a tratti i tre presenti. Groargh accettò le sue parole con una scrollata delle larghe spalle. Quando fu soddisfatto del silenzio, Wagrat riprese la parola: «Un esploratore, penso, e gli esploratori vanno catturati, così andiamo tutti in carica e lo accerchiamo. Poi stringiamo il cerchio» il Nano mimò la situazione con una pantomima di gesti furtivi «e lo prendiamo! Allora comincio a interrogarlo senza tante storie, e cosa vengo a sapere? Che è stato bandito dalla sua tribù! E il nemico di un nemico è un amico». Qui rimase per un breve tempo in silenzio, ingurgitando senza mezzi termini il pollo. «E il motivo per cui è stato bandito?» domandò Dal, osservando intanto il pacato Groargh. «Ah, perché gli Orchi non sanno usare né questi» e si indicò gli occhi azzurri, schiacciati sotto le folte sopracciglia «né questa!» e si batté un pugno sull’elmo «A meno che non serva a piantare un chiodo in una tavola… Dì un po’, ma l’hai mai sentito un Orco che parla così bene il linguaggio comune?». 395
Dal avrebbe voluto replicare che non aveva mai sentito parlare un Orco nemmeno in vaghissimo linguaggio comune, in quanto non ne aveva mai visto uno dal vivo, prima di allora. «Due mesi.» lo anticipò però il Nano «Solo due mesi per insegnargli a parlare in maniera decente, prima si esprimeva solo a frasi sconnesse. E, probabilmente, sa anche contare meglio di te! Vuoi sapere perché l’hanno bandito?» Wagrat ebbe un ghigno «Perché è troppo intelligente per loro, è ovvio! Sa usare il cervello e per questo non può vivere tra un branco di bestioni che a stento capiscono la differenza fra maschi e femmine». «Però quella la capiscono bene.» disse l’Orco, prendendo nella mano la mazza e pulendola dalla terra che vi era rimasta attaccata «Basta vedere quanti Mezzorchi ci sono in giro. Hai mai visto dei Mezzo-Nani?». «I Nani sono Nani e tali rimangono.» brontolò Wagrat, come indignato «Ad ogni modo, potete immaginare la reazione dell’Ordine quando si venne a sapere che Wagrat Manodituono intendeva difendere un Orco. Saltarono su come se qualcuno gli avesse messo delle spine tra le chiappe! Ma che dovevo fare? Quelli lo volevano morto solo perché ha le zanne e la pelle verde! Che importava se, oltre a potersi rivelare un potenziale alleato, non era altro che un gigante sperduto? Ma a me non importa proprio nulla se era un nemico per razza! Per quanto mi riguardava, era solo un disgraziato come tanti, che ora doveva essere giustiziato senza nemmeno un valido motivo!». Ne seguì un silenzio di rispetto: pur nella sua rozza retorica e nei suoi modi spicci, Wagrat aveva dimostrato di saper superare un barricata che esisteva da centinaia di anni. E, quello che era strano, il Nano non sembrava dare importanza alla cosa più di quanto fosse fiero di aver salvato quell’Orco. «Oltretutto,» aggiunse, poco disposto al tacere «ho persino dovuto trascinarlo fuori per mano dalle prigioni, prima che mi vietassero di farlo. Ecco, allora sì che io ho abbandonato l’Ordine! Il giorno dopo, mi comunicarono che ero bandito: e due! Prima Groargh e ora io! Così me lo sono tirato dietro per qualche tempo, anche perché non si è levato spontaneamente dai piedi». «Ho un debito di vita.» spiegò l’Orco, alzando la grossa testa «È giusto che ti accompagni e ti aiuti». «Ah, vedi come si somigliano Nani ed Orchi, ragazzo?» Wagrat chiamò in causa Dal con una risatina «Pensa che queste usanze le abbiamo anche noi. Come dicevo, non mi sono ancora pentito della mia scelta, nossignore! Se tutti gli Orchi fossero come questo, non ci sarebbe più nemmeno la guerra. Ma su, dove dobbiamo andare?». Kanyu riprese allora la parola, senza entusiasmo. «Non sappiamo dove siano gli accampamenti degli untori, quindi rivolteremo le Terre Piagate come un calzino.» rispose il Naigh-Moor, appoggiando la schiena 396
ad una pietra «Punteremo verso il centro della regione, è il luogo più logico dove trovarli». «Adoro andare alla cieca.» ironizzò il Nano, stiracchiando le robuste braccia «Così sommiamo ai pericoli anche quello di perderci e di morire di fame. Quando ci mettiamo in marcia?». «Il tempo di controllare ciò che abbiamo con noi.» impose l’Esule, accarezzando il braccio ferito «Questo guarirà da solo; abbiamo indugiato sin troppo a lungo nei soliti posti e non ho intenzione di vedermi piombare addosso quei maledetti: è già un miracolo se non ci hanno assaliti subito». «La fortuna aiuta gli audaci.» concluse il Nano, alzandosi in piedi «Forza, truppa audace! Una lunga strada si apre davanti ai nostri piedi!». Dal non aveva preso alla lettera le parole di Wagrat tanto che, quando a sera inoltrata si fermarono e si rese conto che la vegetazione era tale e quale a come l’avevano lasciata, credette che avessero girato in tondo. Kanyu lo guardò malamente, quando gli espose il suo dubbio, suscitando le risa dell’allegro Nano. «Tu non hai proprio idea di quanto siano estese queste paludi!» esclamò quello, mentre si apprestava a mettere assieme un rudimentale campo «Forse, tra un paio di giorni, queste erbacce cominceranno a diradarsi, ma certo non prima; non siamo ancora in vista del fiume!». Il giovane si trattenne invano dall’arrossire d’imbarazzo ed ira, ma si sforzò di concentrarsi sulle ultime parole. «C’è un fiume?» domandò allora, avvicinandosi per dare una mano. «Il Tungernives.» rispose puntualmente l’altro «Nasce nel Principato dei Fiumi, come moltissimi altri, ed attraversa per lunghezza le Terre Piagate, ma non aspettarti lo spettacolo che troveresti altrove: in questi luoghi, non conserverà certo la sua limpidezza». «E quanto è distante?». «Oh, fra due o tre giorni, appunto. Se raggiungiamo il Tungernives di mattina, a sera cominceremo già a trovarci nella vera e propria desolazione, e quello sarà uno spettacolo peggiore anche di queste paludi: un luogo arido, deserto, immerso nel silenzio assoluto: l’unica cosa che lo rompe è il rumore del vento che agita quelle lunghe canne che vi crescono, come tante lance conficcate per terra». «Una vista ben deprimente» commentò il giovane, alzando un sopracciglio. «E pensa a quei mattoidi che ci vivono da non so quanti secoli!» aggiunse Wagrat «In un buco praticamente senza risorse! Come diavolo fanno a sopravvivere?».
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«Come gli Orchi.» interloquì Groargh, che si era sistemato una sorta di branda distanziata dagli altri tre «Accumulando con attenzione ogni bene indispensabile e consumandone solo il minimo necessario». «Oppure saccheggiando qualche villaggio, quando non ne hanno più voglia.» ribatté il Nano, scrollando le spalle «Un po’ vivaci, non trovi?». Dal abbozzò ad un sorrisetto, ricordandosi poi di Groargh, che però non appariva minimamente toccato da quelle affermazioni. «I turni di guardia?» domandò invece, massaggiandosi la grossa spalla. «Il grande capo pelle-bianca ha deciso che farà il primo, poi toccherà a me e infine a Groargh.» rispose Wagrat, sistemando il proprio giaciglio. Il giovane Naigh-Moor fu sorpreso dal non essere stato incluso in quei turni. «E io?» domandò allora, osservando i due «Posso fare la mia parte anch’io, no?». Ci fu un silenzio di pochi secondi, seguito dall’atona voce di Groargh. «Se non te ne hanno ancora assegnati, significa che l’elfo oscuro non si fida ancora abbastanza di te, ragazzo.» notando l’espressione delusa sul viso del giovane, lo guardò con un brutto sorriso, che ebbe però l’efficacia di confortarlo «Non prenderla male: sta solo cercando di proteggerti». Dal accettò la consolazione con un sospiro, guardandosi attorno senza trovare il suo posto fra quelli che gli sembravano al contempo una buona compagnia e dei perfetti sconosciuti. «O, più probabilmente, ha paura che non mi accorga di eventuali pericoli» mormorò, scuotendo piano il capo. «Se ti ha portato con lui, vuol dire che ha dei progetti per te» lo corresse senza patemi l’Orco, slacciandosi intanto la robusta corazza di cuoio. Dal lo osservò distrattamente mentre si liberava degli ampi spallacci coperti di aguzzi spunzoni, posandoli accanto al giaciglio; quando poi ebbe liberato anche il torso, l’elfo fu colto da uno strano senso d’inquietudine. Sulla schiena segnata, tra i muscoli ben scolpiti, era ben visibile l’immagine di un possente leone alato, con tanto di artigli minacciosi ed un’orgogliosa testa d’aquila. Per quanto la mente gli dicesse che non c’era nulla di strano per una razza tanto bellicosa di portare un tatuaggio così sgargiante, Dal sentiva uno strano sentimento ruggirgli nell’anima, come se quella creatura rappresentata fosse in totale contrasto con quel corpo. «Che cos’è?» domandò, senza riuscire più a tenere a freno la propria curiosità e quello strano senso di disagio. Groargh si voltò a guardarlo come stupito, poi, con un’espressione d’improvviso distacco sul viso, socchiuse gli occhi. «Un grifone» disse sinteticamente, con un tono tanto aspro da non accettare repliche. 398
Dal, tuttavia, rimase ad osservarlo per qualche istante, prima di avvicinarsi di soppiatto al Nano, fingendo di dargli una mano. «Cos’è un grifone?» bisbigliò, scagliando poi un’occhiata in direzione di Groargh, che però restava in disparte. «Hai visto il tatuaggio, eh?» il tono di Wagrat era lo stesso del Naigh-Moor, e, stranamente, parecchio severo «Non starebbe a me dirlo, Dal Jin, ma posso dirti che il grifone è un animale nobile, molto spesso addestrato dagli imperiali o, in casi particolari, anche dai Nani. Aveva già quel tatuaggio addosso, quando lo conobbi». «Un Orco con un simbolo nemico, dunque?» obiettò l’elfo, grattandosi la chioma castana. «Groargh è stato bandito, Dal Jin.» Wagrat osservò il giovane con una certa compassione «La sua storia non dev’essere molto diversa dalla tua o da quella di Kanyu. Quanto al tatuaggio… Beh, immagino che, quando vorrà parlarti di sé, sarà lui stesso a farlo». «Con te l’ha fatto?». Il Nano si accarezzò nervosamente la barba bionda, inspirando a fondo. «Con me è stato costretto a farlo, ma ognuno di noi ha i suoi mostri personali da combattere, ragazzo.» detto questo, Wagrat batté una pacca sul braccio dell’elfo «Col tempo, immagino che tutti sapremo qualcosa di più sugli altri, se vivremo abbastanza e saremo pazienti. E Groargh non ti trova antipatico». «Il mio collo non è dello stesso parere» replicò, accarezzandosi la pelle che ricordava ancora bene la stretta dell’Orco. «Considerando che non ti ha strozzato direi anzi che è animato dalle migliori intenzioni» Wagrat tornò a ridacchiare, liberandosi anch’egli dell’ingombrante corazza. Dal si allontanò dal Nano col sorriso sulle labbra, rivolgendo un’ultima occhiata al gigantesco Groargh Spaccadenti che riposava in disparte, con la coperta ben avvolta attorno al corpo.
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XL. Cosa c’è dopo
I
l mattino dopo, Dal venne destato come al solito senza troppa grazia, trovando attorno a sé i compagni già intenti a sistemare corazze ed equipaggiamento. Si tirò a sedere senza farsi pregare, nonostante le vive proteste dei suoi muscoli indolenziti dalle marce forzate e dal poco riposo concesso. Udì Wagrat borbottare qualche pessima battuta, ignorata senza fatica dagli altri due, e la stanchezza lo aiutò a non far caso alle scempiaggini che il Nano andava dicendo. Snebbiò i pensieri con una brusca scrollata della testa e si decise ad alzarsi del tutto in piedi: un cigolio di ossa accompagnò quel movimento e Dal si morse il labbro, infastidito. «Mi sento a pezzi» brontolò, e in quel momento alzò gli occhi verso il sole, aspettandosi che quella visione potesse almeno dargli conforto. Rimase di stucco quando, invece, si accorse che il cielo non era ancora schiarito: un attimo più tardi, il canto di qualche uccello notturno gli confermò che l’alba doveva essere ancora lontana. «Ma che… È ancora buio!» protestò, accarezzandosi i capelli scompigliati e fissando con occhi appiccicati Kanyu. Per tutta risposta, l’Esule gli fece rapido cenno di tacere, dandogli poi le spalle e riprendendo a prepararsi con la fretta che l’unico braccio utilizzabile gli permetteva. Dal lo osservò ancora per qualche secondo, incapace di comprendere quanto stesse accadendo, fino a quando la grossa mano dell’Orco si posò sulla sua spalla. «Sbrigati.» gli ingiunse con voce roca «Questo campo non è sicuro». Fu come se qualcuno l’avesse gettato sotto una gelida cascata senza il minimo preavviso. Fece per ribattere, ma anche stavolta non incontrò altro che la schiena del compagno. Si affrettò a raccogliere le sue poche cose, trascurando il tremolio che gli scosse le gambe e le dita magre. S’infilò i morbidi stivali e la stanchezza si spense del tutto, mentre tutto il suo corpo gli sembrava ora più leggero e sciolto. Quasi danzò fra i passi leggeri e calibrati e, prima ancora che avesse sistemato adeguatamente la scimitarra, si misero in cammino. Si allacciò la massiccia arma alle spalle, affiancandosi a rapidi passi a Wagrat il quale, loquace com’era, avrebbe forse potuto fornirgli una spiegazione su quanto stava accadendo: si chinò attentamente sulla vita, per essere meglio inteso dal guerriero.
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«Cosa diavolo succede?» bisbigliò e Dal vide le lunghe orecchie dell’Esule, in testa al gruppetto, drizzarsi immediatamente, chiaro segno che il Naigh-Moor aveva udito quel sussurro, pur senza intervenire. Il volto del Nano era asciutto, senza traccia del sorriso che compariva solitamente sotto i suoi folti baffi: lo squadrò con gli occhi chiari per qualche attimo, quindi riprese a seguire con lo sguardo Kanyu. «Un manipolo di una decina di persone, poco lontano.» rispose, tenendo il medesimo tono «Li ha individuati Groargh». Dal sentì le proprie gambe irrigidirsi a tal punto che rimase indietro di un metro abbondante, i denti serrati dietro la bocca chiusa. Accelerò perciò l’andatura, riportandosi alla sinistra del Nano. «Untori?» osò, evitando sorprendentemente che la sua voce tremasse. Wagrat annuì gravemente, ondeggiando le maestose corna come la testa di una cavallo al passo. «Tieni gli occhi aperti» gli intimò, e batté in segno di sfida un debole colpo d’ascia sul grosso scudo. Dal si volse verso l’Orco, ritrovando nel suo volto attento la stessa fiera determinazione del Nano e la stessa agitazione nella possente mano stretta attorno al manico della mazza. Il giovane si morse il labbro inferiore e liberò l’elsa della scimitarra dal suo sostegno, avvertendone la pesantezza quando l’ebbe nei pugni chiusi. Trattenne il fiato, chiudendosi nel silenzio e mantenendo i sensi all’erta, scrutando a fondo in ogni ombra sospetta. La minaccia giaceva là, al riparo dai loro occhi, pronta a comparire in ogni momento di disattenzione. Eppure, l’alba sopraggiunse quietamente e gli unici segnali che poterono udire furono quelli del giorno che si risvegliava, irradiando la soffocante palude. Dal gettava sempre più occhiate in direzione dell’Orco, che chiudeva imperturbabile la compagnia, e si domandò se non si fosse ingannato. Tuttavia, neanche gli altri due accennavano a dubitare dell’avvertimento di Groargh, e Wagrat cozzava ancora l’arma e lo scudo, farfugliando minacce e imprecazioni sommesse. Col sole ormai chiaro nel cielo biancastro, Dal colse improvvisamente un rumore appena percettibile: passi pesanti, come strascicati, e una bestemmia appena mormorata. Si affrettò a render noto quel particolare al Nano, provando la soddisfazione di esser stato l’unico ad accorgersene, e ciò accrebbe la sua tensione nello stringere la scimitarra. L’allarme si diffuse facilmente fra i quattro, e rapidi segni d’intesa furono ripetutamente scambiati, facendo nascere il nervosismo in ogni animo. Quando poi nessun altro segnale si fece presente, Dal perse rapidamente stima nella sua convinzione, ritrovandosi ad abbassare deluso la scimitarra, ma quel che lo stupì fu che gli altri rimanevano concentrati, mostrando sincero rispetto verso il giovane Naigh-Moor. Dal si scoprì a sorridere leggermente, lieto per quella 401
semplice dimostrazione di fiducia: la serenità che quei tre sconosciuti piombati senza alcun preavviso nella sua vita gli trasmettevano lo sbalordiva. D’un tratto, tutti si voltarono verso una macchia d’intricati cespugli e felci, nel mezzo al quale torreggiavano robuste piante. Uno scalpiccio frenetico piegò il silenzio a metà, seguito rapidamente da un vociare confuso. «Principianti.» l’aspro commento dell’Esule mostrò intatto tutto il disprezzo e l’arroganza dell’elfo oscuro «In guardia!». Un turbine di metallo s’agitò come una furia nel piccolo gruppo, e le armi brillarono lucenti al primo sole. Un urlo acuto tagliò in due l’armonia del mattino, seguito da altri sempre più numerosi. Volti sfregiati apparvero fulmineamente dalle ombre e tuniche verdi sfrecciarono tra le sterpaglie, tagliando l’aria con corte lame. L’urlo dell’Orco e del Nano si fusero in un coro rabbioso e i due caricarono come tori in avanti. Lo schianto dello scudo contro gli scarni corpi degli untori tuonò vibrante e si unì al rumore delle ossa fracassate quando Groargh anticipò il suo avversario, raggiungendolo in pieno petto con la micidiale mazza. Dal sentì il sangue ribollirgli nel calderone delle vene e gli occhi sbarrati di chi correva verso di lui furono anche i suoi; lo spirito della sua razza gli scosse le membra fino all’ultimo. In un brevissimo istante si rese conto di quanto stava per esplodergli nell’anima. Sbatté le palpebre e digrignò i denti, sollevando in posizione di battaglia la scimitarra: improvvisamente, quell’istinto si dipanò in ogni fibra del suo corpo, rinnovando l’energia come un elisir miracoloso, e l’inconscio di Naigh-Moor si chinò a servire onorevolmente la sua mente. Urlò con quanto fiato avesse in corpo, scattando in avanti e calando con violenza l’arma contro quella dell’avversario: lo stridio delle lame svettò sopra il caos della battaglia e la mano dell’untore mollò la presa, sopraffatta dal dolore. Senza esitare, Dal sentì gli occhi incendiarglisi e girò polso e spada, sollevandola fino a farla impattare selvaggiamente contro il cranio dell’avversario. Si voltò in cerca di un secondo nemico, scorgendo Kanyu deviare con il solo braccio utilizzabile un paio di attacchi, prima di sorprendere le difese dell’untore e sbalzarlo via con un solo colpo della Zanna. Wagrat agitava senza tregua l’ascia contro i suoi tre oppositori che, forti del numero, si erano illusi di poter sovrastare facilmente il Nano, solo per trovarsi ad indietreggiare sbigottiti. Di Groargh poteva udire solo grugniti e ringhi, oltre al rumore dell’impatto contro la mazza di individui che venivano spazzati via come fuscelli. Dal rimase fermo un solo istante, quindi si gettò contro il più vicino degli assedianti di Wagrat, colpendolo alla sprovvista alla spalla destra e gettandolo di lato, dando al Nano modo di rifiatare. Il giovane elfo lo osservò cadere a terra, incombendo quindi su di lui con la crudele arma nelle mani. Kanyu ed un altro untore si accanivano l’uno contro l’altro e Dal li seguì con lo sguardo finché non vide il compagno avere la meglio. 402
«Sbrigati!» la schiena dell’Orco lo urtò mentre questi indietreggiava, prima di sferzare ripetutamente l’aria, facendo capitombolare all’indietro un minuto avversario che Dal riconobbe come un Goblin. Scorse a stento la striscia di fuoco che saettò dalla mano sinistra del ferito a terra, scartando intuitivamente appena in tempo per sentire il calore rovente sfiorargli la spalla e finire lontano. Alzò furiosamente la spada in alto, lasciandola poi impattare contro il petto scoperto dell’untore; il sangue nero che scorse dalla ferita gli rivelò che il suo nemico era un Naigh-Moor, esattamente come lui. Estrasse la spada velocemente, evitando un improvviso fiotto di sangue che sgorgò dal cadavere. «Fagli vedere chi è più grosso!» urlò in quel momento Wagrat in direzione di Groargh, e Dal si trovò a fissare prima il Nano e poi l’Orco, abbastanza in tempo per notare anche un ennesimo untore farsi avanti, stavolta brandendo una pesante catena irta di spine. Scorse poi accanto a lui una creatura mostruosa, una sorta di enorme insetto che si reggeva su due zampe. Sollevava al cielo gli arti superiori, e le chele affilate tagliavano l’aria, dimenando i resti, ancora saldi attorno ai suoi polsi, delle catene che l’untore maneggiava come un’arma. La bestia puntò verso Groargh senza esitazione, levando in alto uno strillo acuto. Dal si ritrovò a fronteggiare l’untore e la sua catene: fece un salto all’indietro quando quell’arma improvvisata serpeggiò verso di lui, evitandola senza troppo sforzo, ma senza sapere come controbattere quegli attacchi. L’Orco girava intanto con agilità straordinaria attorno alla bestia, tanto imponente da farlo sembrare poco più di un bambino, nonostante la sua mole considerevole. Le chele taglienti fendettero l’aria inutilmente, tranciando agevolmente ogni sorta di felce o ostacolo naturale che si frapponesse fra loro ed il suo bersaglio. Cogliendo uno di quegli attimi, Groargh strinse i robusti pugni e si abbatté ruggendo contro la creatura protesa in avanti. Si udì un rumore secco, quindi la creatura ondeggiò impazzita all’indietro, con una sorta di linfa fosforescente che schizzava dall’avambraccio spezzato brutalmente, che ora dondolava immobile, rimasto appeso solo per un tenue filamento. L’Orco, fattosi coraggio, si scagliò contro la creatura, solo per rotolare via appena si accorse che la sua chela stava per raggiungerlo. Un sottile taglio si disegnò sul suo braccio: Groargh continuò a tenere la distanza, fin quando non fu abbastanza sicuro da mettersi in piedi. La creatura attaccò senza tregua, tanto che in un impeto di foga scagliò via l’arto inerte dal resto del corpo, bagnando della propria linfa il terreno paludoso. L’Orco approfittò dello sbilanciamento continuo del mostro, attendendo il momento giusto per spingerlo indietro con la testa dell’arma: appena vi riuscì, la mazza disegnò un arco verso l’alto, raggiungendo il mento e le zanne sporgenti della bestia. L’attimo dopo,Groargh colpì la fronte scoperta della creatura, ponendo fine alla sua agonia.
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Dal invece indietreggiava ripetutamente, deviando i colpi senza fatica, ma ogni attacco tentava risultava impreciso e fiacco, incapace di danneggiare l’untore. Quell’arma improvvisata lo mandava continuamente fuori tempo, negandogli la possibilità di controbattere. Si stava stancando, e il suo avversario ne avrebbe presto potuto approfittare. Senza un motivo apparente, però, l’untore crollò improvvisamente in avanti, finendo faccia a terra con una rapidità fulminea, la schiena distrutta da un’oscena ferita. Kanyu osservò in viso il giovane, reggendo nella destra la Zanna, ancora intrisa del sangue della sua vittima. «Abituati a combattere contro armi fuori dal comune» gli disse, col volto così distorto dall’odio che Dal temette di aver di fronte un altro nemico. Quando poi si voltò su sé stesso, in cerca di avversari, la sua espressione si raddolcì lentamente, tornando alla sua solita freddezza. Groargh gli si affiancò col volto provato, cercando il Nano con lo sguardo: scorgendolo, tutti e tre ebbero un sussulto di sorpresa, quindi lo osservarono con un misto di sdegno e ironia sul viso. «Cucù!» esclamò Wagrat, facendo capolino con la testa oltre lo scudo, rannicchiandovisi dietro appena prima che la lama dell’ultimo untore rimasto si abbattesse contro di esso. La scena si ripeté ancora per un po’, mentre Dal sedeva a terra con le mani tra i capelli e gli altri due scuotevano il capo, sconcertati. «Wagrat!» urlò ad un tratto Kanyu, troppo rattristato da quella vista «Piantala di giocare, dobbiamo muoverci!». L’untore si voltò più stupito di tutti verso l’Esule, accorgendosi solo allora di essere rimasto l’unico a combattere quell’avversario che si faceva beffe di lui. «Uffa.» brontolò il Nano, approfittando di quella disattenzione per conficcare l’ascia in pieno viso dell’untore «Non ci si può mai divertire, con te!». Quella sera si concessero di interrompere la marcia prima del previsto, in modo da poter discutere con calma come agire e recuperare il sonno perduto quella notte. Le loro membra provate gioirono, quando infine godettero di un vero riposo, comodamente abbandonate sul terreno. Wagrat si era lasciato cadere senza neanche togliersi la corazza e il gonnellino rivestito d’acciaio, giustificandosi come quello che aveva combattuto più di tutti. Questo non era effettivamente vero, ma era innegabile che fosse più affaticato, bardato come si trovava. Sbuffò esageratamente, fissando l’imbrunire del cielo. Gli altri abbandonarono i loro oggetti tutt’intorno, aspettando che qualcuno che non fosse il Nano prendesse la parola. Prepararono un flebile fuoco, sufficiente a scaldare a malapena la carne, poiché l’agguato di quel giorno restava un vivo ricordo e nessuno di loro aveva intenzione di indicare la posizione del loro 404
campo agli untori. Ringraziarono tacitamente la nebbiolina delle paludi, che, se non altro, mascherava in parte il fumo del piccolo bivacco. Wagrat su tirò a sedere con qualche fatica, arrancando poi verso il timido fuoco e lì rimase, borbottando di tanto in tanto qualche consiglio per evitare che la fiamma si spegnesse. Si sedettero in cerchio attorno alla cena appena cotta e ognuno prese la razione che riteneva sufficiente per sé, senza polemizzare su quanto di cibo in più servisse a un Orco rispetto ai due elfi oscuri. Dal mangiava senza parlare, perso nel fissare l’esigua strisciolina arancione che danzava sopra la brace, scomparendo piano piano. Ogni volta che aveva pensato alla morte, ad Armalak, aveva immaginato il fuoco e il suo lento estinguersi, osservando le persone invecchiare in silenzio, indebolendosi ogni giorno che passava, e non provava pena alcuna. Era normale, d’altronde: prima o poi, a tutti sarebbe accaduto di morire. Ma, da quando aveva lasciato la sua città, non v’era stata morte che non fosse violenta, mandando a farsi benedire ogni bella metafora. Persone nel pieno delle loro forze un minuto prima divenivano stracci afflosciati, nulla più che carcasse martoriate. Non era giusto. Perché uccidere uno sconosciuto? Perché uccidere una persona che appartiene al tuo stesso popolo, come era successo quell’oggi? Già, ma lui non era più considerato un Naigh-Moor, e proprio quel concetto di diversità lo teneva in piedi. Ma, se non era un elfo oscuro, cos’era? Dal Jin, esule di Armalak. Null’altro. Era stato forse lui a versare il primo sangue? L’avevano assalito, anche in quell’agguato, senza che lui non avesse fatto nulla per provocarli. Se lo facevano con lui, che non era niente per loro, l’avrebbero fatto anche con chiunque altro. Come accadeva ogni volta che ci pensava, si stupì fra sé di come anche la morte assumesse un concetto di giustizia. «È un bene che ci abbiano attaccato oggi» esordì ad un tratto Wagrat. Dal rialzò la testa di soprassalto, ritrovandosi attorno al fuoco ormai spento, assieme agli altri tre. «Se vi assalivano ieri, sarebbe stato un bel problema» continuò il Nano, che non si era accorto della distrazione del giovane. «Erano una semplice pattuglia. Forse erano in giro proprio per cercare l’Intagliatore» ribatté Kanyu, massaggiandosi il braccio ferito con attenzione. «Chi?» interloquì Dal, inarcando un sopracciglio. «Quella bestia che mi hanno mandato contro» disse Groargh. «Un epiteto piuttosto volgare, ma il nome che gli hanno dato gli studiosi è impronunciabile.» spiegò l’Esule «Taglia gli alberi con le sue chele allo scopo di crearsi delle tane che sembrano fortini, con la legna aguzza conficcata tutt’attorno. Un animale ingegnoso e piuttosto aggressivo, specialmente se tenuto distante dalla sua tana». Dal annuì, ripensando a quanto dovesse essere variegato il mondo. 405
«Ad ogni modo, erano degli sprovveduti.» riprese Kanyu, inflessibile «Ci hanno girato attorno senza motivo, forse mossi dalla paura, ed hanno tralasciato luoghi mille volte migliori per effettuare quello che doveva essere un attacco a sorpresa». «Sareste stati comunque in due, senza di noi. E tu puoi utilizzare un solo braccio» obiettò il Nano, strizzando scettico un occhio. «Tieni per te le tue conclusioni.» rispose tagliente il pallido elfo, fissandolo truce «Non sottovalutarmi, Wagrat. Nemmeno immagini quanto sia grande l’odio che provo per quei maledetti e tanto mi sarebbe bastato. Non avrei certo consentito ad un branco di imbranati di schiacciarmi come tu credi.» fece una pausa, osservando i tre compagni «Non c’è sentimento più letale dell’odio, sul campo di battaglia». Dal scorse il baluginio negli occhi del mentore e, di nuovo, sentì il suo stomaco contorcersi, storcendo la bocca. Immediatamente, il giovane distinse la stessa smorfia sul volto dell’Esule, mentre questi si alzava in piedi e prendeva le distanze da loro. Dal scoprì in quell’istante che Kanyu mentiva e quella menzogna gli faceva più male di quanto fosse disposto ad ammettere. Sul campo scese uno spettrale silenzio. «Sai perché lo fa?» sussurrò allora Wagrat al giovane, badando che Kanyu fosse abbastanza lontano. Dal scosse il capo, senza capire. Il Nano si passò la grossa mano fra i capelli corti. «Molte persone sono morte, a causa degli untori e del suo desiderio di… Redimersi, se così si può dire.» socchiuse gli occhi, e Dal trovò drammatica la sua serietà, solitamente a lui così estranea «Vendetta, non vuole altro. Senza un nemico da combattere, Kanyu è perduto». «Trovi che sia sbagliato?» gli chiese il giovane. «Oh, no, al contrario.» replicò severamente Wagrat «La vendetta è nobile cosa; non sarei un vero Nano, se non vi credessi fermamente.» poi, il suo tono si abbassò, facendosi malinconico «Tu hai assistito alla morte di Melidan, vero?». Dal trattenne il fiato e subito si ritrovò quella scena davanti, reale e cruda com’era stata. Annuì vigorosamente, stringendo gli occhi per scacciare quel ricordo. «Dunque puoi capire cosa proviamo io e Kanyu.» il Nano prese a tirarsi nervosamente la folta barba «Anch’io lo conoscevo, sebbene non a fondo come lui, e mi dispiace molto per la sua morte, a dispetto della sua razza». «Non dire mai “mi dispiace”.» lo corresse il giovane, abituato a sentirsi ripetere quella frase dal mentore «Non serve a niente». Wagrat rimase interdetto, quindi sfoggiò un mesto sorriso, posando entrambe le mani sulle gambe. 406
«Beh, se non altro, qualcosa da Kanyu l’hai preso.» ammise «Ragazzo, hai visto la brutalità di quegli… Quegli esseri, perché non so chiamarli in altro modo. Nessuno di noi apprezza la giustizia sommaria, ma è giusto che Melidan e tutte le persone che hanno sofferto a causa di quei maledetti siano vendicate. Gli untori uccidono indiscriminatamente, al solo scopo di render gloria a un demonio. Almeno lo facessero per brama di denaro… No, la loro è solo follia, follia ingiustificabile e pericolosissima anche per le persone che non sanno nemmeno che esistono». Terminato quel discorso, Wagrat si fece torvo e congiunse le grosse braccia, chiudendosi nel mutismo dove, com’era tipico per la sua razza, avrebbe potuto crogiolarsi meglio nel rancore. Groargh lo ascoltò finire, poi si voltò verso Dal, spento come poche altre volte. «Gli Orchi non sono molto diversi da questi nemici, in genere.» disse, chiudendo a pugno la poderosa mano e alzandola davanti al naso dell’elfo «Tra di noi, contava solo questa. Più forte il tuo pugno riesce a infrangersi contro l’avversario e più sei rispettato». «Come succede col denaro, in altri popoli.» commentò Dal, certo della veridicità di quel paragone «Più ne hai e più sei potente. Accadeva a Nog Tuluth come accade ovunque». L’Orco abbassò il capo quasi interamente calvo, abbruttendo ancora il suo grugno in un’espressione smarrita. «Mi è ancora molto difficile vivere in questo vostro mondo.» sussurrò l’Orco «È tutto così… Estroso?». «Estraneo» lo corresse il Nano, senza un tono di rimprovero. Groargh annuì brevemente, rialzando poi la testa ed il volto fiero. «Estraneo, sì.» si corresse «Ma molto meno di un anno fa. Uno di noi non era niente, se non pensava solo alla guerra. Un guerriero forte era prezioso, ma non per gli altri Orchi. Solo per quello che ci comandava e ci mandava in guerra. Lui otteneva gloria comandandoci, usandoci senza ritegno. Se qualcuno non lo seguiva, doveva scegliere se strappargli il potere o essere ucciso. Peggio ancora, in alcuni casi veniva bandito. Non pensare era l’unico modo per farsi strada». «Peggio ancora?» domandò Dal, confuso «Se vieni bandito, sei comunque vivo… È sicuramente meglio che morire». «Tu credi?» Groargh incassò la testa nelle massicce spalle «Un Orco lontano dalle sue terre è nemico di tutti. Nemico dei Nani, degli Umani, degli Elfi e degli Orchi stessi, che lo hanno scacciato. Il suo destino è quello di morire, evitato da tutto e da tutti». «Tu però sei vivo» gli ricordò Wagrat, che aveva intanto messo mano alla sua lunga pipa.
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«Per ora.» controbatté debolmente l’Orco «Ma tu non puoi stare in esilio per tutta la vita». «Ah, piantala.» sbottò il Nano, facendo un brusco cenno con la destra «Vedrai che ci riabiliteremo tutti e due, col tempo, e quegli idioti che ci danno la caccia si chineranno per lustrarci gli stivali, ah! Propongo una fumata alla faccia loro!». Dal non riuscì a sorridere: lentamente, le nuvole che emetteva la pipa di Wagrat si spensero, assieme all’ultima scintilla del fuoco ormai morto. Infagottato nelle sue coperte, il giovane si agitò a lungo prima di prendere sonno. Cos’era lui, separato da Nog Tuluth? Nulla di diverso da un Orco lontano dalle sue terre.
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XLI. Un’occasione da non perdere
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ue giorni si erano susseguiti a due notti, vuoti, accarezzati solo dalle chiacchiere della piccola compagnia. Prodigioso come la pace delle loro anime rinasceva facilmente, dimentica dell’agguato di due giorni prima. Eppure, il brivido del timore sfiorava talvolta le loro schiene, e si sorprendevano a guardarsi attorno con gli occhi dilatati. Ciascuno cercava di mascherare il senso di pericolo con una battuta, una breve osservazione, sviando l’attenzione dai ricordi ancora freschi. Kanyu era più distante di quanto non lo fosse mai stato, quasi una macchina, e non faceva altro che controllare il terreno, cercare un orientamento, una strada alternativa per mettere quanto prima fine a quell’avventura. C’era qualcosa di animalesco in lui, ben oltre l’istinto del cacciatore e il desiderio di vendetta: Dal non si sarebbe stupito di vederlo annusare il suolo e ringhiare come un cane affamato, ma il volto dell’Esule restava immobile, scolpito come una statua immortale. I suoi occhi emanavano però bagliori ferini, inumani e fissi sempre davanti a sé, senza che alcun particolare potesse distrarre quei cristalli d’un bianco spaventevole. Dal indugiava nell’osservarlo e, stranamente, questi sembrava non accorgersene: forse fingeva. O magari era talmente concentrato su una minaccia nascosta da non fare caso alle occhiate del giovane elfo oscuro. Quando alzò imperiosamente il braccio destro, ordinando una sosta non prevista, Dal sentì il sangue raggelarsi nelle vene. Gli altri due non ebbero tuttavia quell’impressione ed anzi si affiancarono all’alto Naigh-Moor, in piedi su una piccola altura del terreno. I tre borbottarono qualcosa tra loro, quindi Wagrat si volse verso il giovane, facendo un allegro cenno di avvicinarsi; Dal gli si fece appresso senza fretta. «Il fiume.» annunciò il Nano «Ora entriamo nelle vere Terre Piagate». Il Tungernives scorreva placidamente, gonfio d’un color stagnante e malsano, ed un tanfo persistente aleggiava sopra le sue acque poco profonde. La carenza di pioggia estiva doveva essersi fatta sentire particolarmente e, certo, i primi scrosci non bastavano a ridare pieno vigore al fiume, cosa che giocava a favore della piccola compagnia. Chissà quanto avrebbero dovuto camminare, altrimenti, per trovare un guado, in quel luogo così spoglio. Dal seguiva il corso delle acque in silenzio e il suo sguardo risaliva verso la loro provenienza, oltre quella svolta che celava l’origine del fiume con un ampio canneto. Là il suo spirito si perdeva ancora, e la sete d’avventura e conoscenza tornava a bruciargli nelle viscere.
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«Faremo una piccola pausa.» stabilì Kanyu, guardando in viso i tre «Io ne approfitterò per liberarmi questo braccio dall’impaccio e lavare la ferita». Dal si mostrò immediatamente refrattario. «Non sarebbe più prudente tenerlo a riposo ancora per un po’?» obiettò «Non è molto che ti sei liberato di quell’affare». «Sto benissimo.» replicò subito l’Esule, e la sua durezza saettò truce contro il giovane «Se pensi che abbiamo il tempo per una lunga convalescenza, levatelo dalla testa» e diede loro le spalle, discendendo dall’altura. Dal rimase così spiazzato da quella reazione che non seppe come ribattere. Sino a pochi giorni prima, Kanyu aveva mostrato di sé tutt’altra facciata, senza nascondere la profondità del suo animo tormentato. Ora, si richiudeva nuovamente dietro una barriera irta di spine acuminate, negando senza giustificazioni l’accesso ai suoi segreti. Il giovane chinò il capo, mettendosi svogliatamente a sedere a terra. «Non te la prendere.» mormorò Wagrat nel posargli la tozza mano sulla spalla «Ormai hai imparato a conoscerlo, no? Lo sai com’è fatto». Groargh si sedette più lontano, estraniandosi dai due. «Vorrei solo capire perché si comporta così» disse il Naigh-Moor, prendendosi il capo tra le mani. «Questa avventura lo rende nervoso, ragazzo» il Nano si sistemò vicino al giovane con un sospiro, mettendo a riposo le forti gambette. «Dì pure che ogni cosa lo rende nervoso.» Dal si concesse un sorrisetto, osservando il compagno «Solo, non riesco a spiegarmi questi suoi bruschi cambi d’umore. Anche qualche giorno fa avrebbe dovuto essere irascibile, eppure sembrava calmo come poche altre volte l’ho visto. Possibile che adesso sia di nuovo intrattabile?». Wagrat rimase in silenzio, aggrottando la fronte sotto l’elmo di metallo. «Probabilmente la vicinanza del nemico lo turba. Credi… Credi di esser sicuro di voler conoscere qualcosa in più su Kanyu?». Dal si volse verso il Nano: egli esitava, guardando in basso, pensoso. Lentamente, il giovane annuì, cercando di scorgergli un indizio sotto le folte sopracciglia bionde. «Allora va di nascosto sulla riva del Tungernives e spialo» disse quello, togliendosi di capo il pesante elmo, mostrando i corti capelli disordinati. «Non ci penso nemmeno!» sbottò di colpo Dal, indietreggiando con una breve risata: in cuor suo, sperava che il Nano stesse veramente burlandosi di lui. «Hai detto che vuoi capire qualcosa di Kanyu, no?» insistette però l’altro, serio come il giovane l’aveva visto solo nel momento del pericolo «Allora vai. Ti spiegherà molte cose».
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Dal rimase inorridito, fissando perplesso il compagno: spiare qualcuno che si lavava? Nemmeno si trattasse di una bella donna! La logica di Wagrat gli suonava oscura e incomprensibile, ma la sua fiera ostinazione lo contagiava, avviluppandolo sino nelle ossa. Si morse con un velo d’incertezza il labbro inferiore e si alzò in piedi, volgendosi verso il fiume. Dal scese cautamente dall’altura, badando che l’impazienza non facesse franare il fragile terreno sotto i suoi piedi, rivelando la sua presenza. Sapeva poco di quello che faceva; lo faceva e basta, semplicemente perché gli sembrava assurdo che Wagrat avesse deciso d’ingannarlo con un trucco neanche troppo intelligente. Da quel poco che sapeva di lui, poteva affermare che si trattava di un burlone, ma, sicuramente, non provava piacere nel generare scismi tra i membri del gruppo. E quell’espressione sincera, come rassegnata e convinta al contempo, gli si era impressa nella memoria, tanto che si domandava se l’avrebbe più dimenticata. Discese gli ultimi metri del crinale, acquattandosi appena l’acqua gli lambì le punte degli stivali. Kanyu era particolarmente lontano, almeno duecento metri, evidentemente desideroso di metter maggiore distanza possibile tra lui e gli altri. Perché quella decisione? Per una semplice osservazione su una brutta ferita? Kanyu era tipo da prendersela per qualsiasi cosa, ma non da appartarsi a tale distanza, come un cane randagio. Dal notò che era ancora in piedi, completamente vestito, e scrutava al di là del Tungernives, assorto probabilmente in pensieri riguardanti la missione. Si domandò anche se qualcuno gli avesse commissionato quel compito pagandolo profumatamente, visto l’ardore con cui vi si gettava dentro. Il giovane elfo si avvicinò allora di soppiatto, sapendo che i sensi dell’Esule erano affinati oltre le concezioni di un comune Naigh-Moor. Quel poco che aveva imparato durante la sua permanenza nella foresta di Deym e il minor lasso di tempo nelle paludi gli aveva però insegnato a coprire adeguatamente ogni rumore, fermarsi al momento giusto e riprendere poi nella sua marcia furtiva. Di tutto questo, per assurdo che fosse, non ebbe minimamente bisogno: Kanyu non pareva badare minimamente a lui, ed ora si occupava solo di liberarsi del mantello e di altri indumenti superflui, per poi tornare a guardare avanti. Dal rabbrividì al pensiero che il parassita di Kanyu potesse aver addirittura corroso i suoi sensi e intaccato così il suo valore. Nell’agguato aveva però sbaragliato facilmente i suoi assalitori con un solo braccio, senza dar segno di una grande fatica. Ora che poteva distinguere il suo viso, Dal si accorse che la concentrazione del mentore era ancora enorme, ma totalmente rivolta verso l’esterno. Ignorava volutamente il resto della compagnia: le uniche cose che esistevano, in quel momento, erano lui e il nemico. Dal non seppe se essere fiero della fiducia dell’Esule, offeso dalla sua indisponenza o dubbioso di tutti i suoi 411
ragionamenti. Il giovane vide il compagno sospirare e abbassare il nobile capo. Poco dopo, cominciò a svestirsi, avvicinandosi all’acqua solo quando fu nudo sino alla cintura. L’attenzione di Dal corse subito al braccio sinistro, ove riconobbe la viva impronta della ferita, quando l’Esule si fu liberato della sporca fasciatura. Aveva ragione, non si era completamente rimarginata, e i movimenti stentati del Naigh-Moor gli diedero ragione. Kanyu si avvicinava tuttavia ora al fiume, dritto come un fuso, fiero come se fosse completamente sano. Dal non riuscì a nascondere un sorriso di compiacimento, quando capì che non si sarebbe tirato indietro neanche stavolta, indipendentemente dalle ferite che aveva riportato. Allora lo squadrò con attenzione, e in quel corpo perfetto riscoprì la stessa dignità del bel viso. Provò anche una punta d’invidia nel notare quanto i suoi muscoli s’aderissero magistralmente sul torso elegante, una dimostrazione di come la sua forza si collegasse squisitamente con la fluidità dei movimenti. Poteva essere ricco, poteva possedere un inventario interminabile di armi e oggetti fantastici, ma il suo corpo testimoniava che la sua abilità era tutto fuorché artificiale. E lì, sulla pelle bianca, Dal intravide un’infinità di cicatrici ancor più chiare. Ognuna era un amico perduto, un amore infranto. Ricordò immediatamente le parole dell’Esule, e il dolore sull’avambraccio segnato dalla sua lama penetrante, quando si era separato da Sali, dopo la battaglia dell’arena. Dal provò una gran pena per quello che era noto alla gente comune solo come un grande eroe o un feroce assassino, senza interessarsi a quanto il suo passato potesse essere travagliato. Eppure, per quanto sentisse vivida quella compassione nell’anima, un particolare indefinito stonava con quell’elfo alto e imponente. Perché gli occhi del giovane fissavano tanto quel corpo? Non era la sola ammirazione. C’era qualcosa che gli sfuggiva, qualcosa che aveva spinto Wagrat a dargli quello strano consiglio. Seguì con lo sguardo la schiena dell’Esule che si piegava, mentre questi attingeva alle acque e ripuliva alla meglio il braccio menomato. Le sfiguranti cicatrici si muovevano assieme al suo corpo, perfettamente coordinate come un disegno voluto, programmato. Ebbe come un rigurgito in fondo all’anima, un senso d’oscenità che gli faceva tremare gambe e braccia. Avvertì un senso di confusa vertigine, quando s’aspettò che il compagno improvvisamente gli balzasse addosso, e nella sua foga immaginaria rivide un volto distorto, con orrendi segni che incorniciavano ogni sua smorfia d’odio. In quell’attimo, rivide i volti atroci degli untori dell’agguato. Soffocò un rantolio di terrore, finendo quasi per inciampare. D’improvviso, il corpo dell’Esule vibrò e scattò in piedi. Le mani nude sguainarono la sola Zanna, che pendeva ancora dalla sua cintura. «Chi è?» esclamò minaccioso, fissando il punto esatto in cui Dal si nascondeva. 412
Dal sentì il proprio corpo smarrire le energie e il suo sangue gelarsi. Pareva volesse divenir tutt’uno con il fiume e il silenzio, ma sapeva che nemmeno questo l’avrebbe salvato dai sensi troppo acuti del mentore. Non fece neanche in tempo a prendere una decisione che la scimitarra tranciò sibilando la bassa barriera di canne dietro cui si era riparato. Kanyu gli si erse davanti come una belva pazza di furia. «Tu?» urlò, sbigottito, vedendo quel ragazzo rincantucciato come un ranocchio sul pantano del Tungernives. L’urlo si profuse in un ringhio furente, per poi tornare a sperdersi in uno stupore improvviso. L’espressione che il giovane gli lesse sul viso un attimo dopo era una paura assurda, inconcepibile su quei lineamenti superbi. Kanyu corse come una lepre verso i suoi vestiti, gettando a terra la scimitarra come li ebbe raggiunti. Dal, con le gambe ancora molli, riuscì ad alzarsi faticosamente in piedi. «Inutile, inutile!» gridò, trovando in quei gesti la riprova di quanto aveva sospettato «Maledetto te, perché?». L’Esule non rispondeva, affaccendandosi con la rapidità di un gatto per rivestirsi. Dal tornò a sentire il calore del proprio sangue e gli pulsò così vivo nelle tempie che neanche si accorse di quando la sua mente ne fosse completamente allagata. «Dannato! Dannato anche tu!» strepitava, stringendo i pugni nel farsi avanti, con quel viso incendiato dai due rubini roventi «Un untore! È questo che sei! Perché, maledetto? Perché fingere?». Lo strattonò con forza e lo vide traballare per rimanere in piedi: tutta la potenza dell’Esule pareva scemata. La sua casacca elegante restava aperta sul davanti, mostrando i segni infamanti. «Sei un untore! Un ignobile, miserabile assassino!» urlò ancora Dal «Mi hai portato qui perché uccidessi i tuoi compagni! Tradirai anche me, adesso? Sei falso, maledetto! Mi hai tenuto nascosto tutto questo!». «Sapevi già che ho combattuto nella Grande Guerra a fianco del mio popolo» controbatté con minor impeto Kanyu, che ora aveva rinunciato ai suoi tentativi di coprirsi, fissando orgogliosamente il giovane. «Non mi hai mai detto di essere un untore! Hai tradito il tuo popolo e sei un untore! Perché sei qui, veramente?» Dal abbassò i pugni serrati lungo i fianchi, protendendo il volto distorto dalla rabbia «Vendetta? Vendetta per cosa?». «Ho abbandonato la strada del Clan oltre trecento anni fa!» gridò ora l’altro, pronto a difendere strenuamente la propria dignità «Ho scelto di redimere i miei omicidi! Di vendicare coloro che ho ucciso quando sono stato il braccio di Cenerdred! Traditore? Tu hai tradito Nog Tuluth come l’ho fatto io, e senza un motivo!». 413
«Io non ho mai lasciato cadaveri innocenti!». «Perché non eri capace di uccidere come sapevo farlo io! Non eri un privilegiato! Non eri conteso da ogni città, da ogni fazione! Tradire Cenerdred è stata la miglior scelta che potessi fare!». «Quanti sono morti per il tuo tradimento? Trecento anni dopo torni qui, assoldando disperati per portare a termine una causa che riguarda solo te!». «Tutto il mondo può esser vittima di questi assassini!» Kanyu avanzò contro di lui come un toro, e la forte mano lo afferrò per il bavero, strattonandolo con una forza immensa «Siete tutte vittime! Tutti quanti! Ho salvato lei trecento anni fa e da allora ho fatto ciò che potevo per salvarvi tutti da loro!». «Ah, lei! Certo!» lo canzonò irosamente Dal «Hai salvato la tua Elfa, ma hai ucciso tutti i suoi compagni! E credi di essere un eroe? Sei un assassino, hai ucciso allora e ucciderai anche adesso!». Fulmineo, Dal avvertì il pugno dell’Esule infrangersi contro la sua mascella, sbattendolo al suolo come una foglia in autunno. «Allora vattene, se non vuoi restare!» gli urlò contro l’altro, mentre la vista sfocata del giovane tornava nitida «Vattene, se pensi che questa sia una battaglia sbagliata!». Lo lasciò lì, agguantando la propria roba e risalendo a grandi passi l’altura. Quando Dal si decise a rialzarsi e tornare al punto in cui si era separato da Groargh e Wagrat, li trovò ad attenderlo, con la preoccupazione dipinta in faccia, ma la fiducia in quei cuori che battevano sotto le loro corazze. Proprio quella fu la causa di tutti gli interrogativi che il giovane si pose nei giorni successivi. Kanyu si era estraniato senza una parola da tutti gli altri, scostando ogni tentativo di conversazione o scoppiando in scatti d’ira furente contro ogni battuta poco felice. Dal si rivolgeva di tanto in tanto a Wagrat, insistendo sempre sulla solita cosa: il passato dell’Esule, il consiglio che il Nano gli aveva dato e i risultati di tale gesto. Wagrat evitava l’argomento, facendosi serio e maldisposto ad approfondimenti: forse si sentiva colpevole del disastro tra i due Naigh-Moor o magari voleva semplicemente starne fuori. Stava di fatto che Dal non rinunciava a tenere d’occhio il collerico compagno, neanche quando si appostava il più lontano possibile dal resto della compagnia. Quanto c’era realmente da fidarsi di quell’ambiguo individuo? Un untore che aveva tradito la sua bandiera ed ora ci si lanciava contro. Perché? Davvero tutta questa furia poteva risalire alla fantomatica “fanciulla dai capelli d’oro” di cui Kanyu gli aveva parlato a Deym? Mai, a quanto pareva, il possente elfo oscuro si era avventurato nelle terre che un tempo erano state la sua casa, da quando aveva scelto di redimersi; l’idea di quella sorta di crociata doveva averlo ossessionato sino a segnarlo profondamente. 414
In ogni scontro, in ogni accenno rivolto agli untori, l’odio dell’Esule gorgogliava visibilmente, per poi esplodere in quella spietata freddezza che ormai tante volte anche Dal aveva provato in battaglia. Dimentico di dolore e sentimenti, non ci voleva niente per trasformarlo in un sanguinario automa, deciso solo a sradicare i Demoni che turbavano la sua coscienza. Ma, dentro di lui, quanto restava del malvagio Clan della Peste? Chissà che, una volta di fronte ai suoi antichi compagni, non provasse rimorso per la sua scelta e scatenasse contro i tre che lo accompagnavano una cieca rappresaglia? «Non è possibile viaggiare così.» commentavano spesso sia l’Orco che il Nano «In una compagnia, non sono ammesse separazioni di questo genere». Tutte le volte che lo sentiva dire, Dal ci rimuginava sopra, logorato dal tarlo del dubbio. In cuor suo, per una rara volta, si sentiva una semplice vittima degli eventi, in quanto non aveva scelto lui di avvicinarsi al maledetto fiume mentre Kanyu si lavava. Anzi, se avesse immaginato che la nuda realtà fosse così sconvolgente, si sarebbe astenuto volentieri dal porre qualsiasi domanda al compagno. Ma ora era lui a dover cercare di riappacificarsi con l’Esule. Poteva immaginarsi patetici abbracci, una tanto sperata comprensione reciproca, però non si schiodava dalla sua posizione. Era consapevole che quella situazione si sarebbe risolta solo quando uno dei due avrebbe fatto la fatidica mossa di avvicinarsi a capo chino all’altro e, appunto, aspettava impazientemente che fosse Kanyu a farlo. Il suo orgoglio protestava ogni qualvolta la ragione gli faceva notare che l’Esule, probabilmente, non si sarebbe mai smosso dalla sua posizione, avvezzo com’era a fare un principio di ogni questione. Inoltre, era facile a immaginarsi che il passato del compagno e mentore nascondesse ancora innumerevoli segreti; alcuni, magari, peggiori di quello. Prima di avvicinarsi a lui, l’Esule avrebbe dovuto farsi un’onesta analisi di coscienza, elencare tra sé tutti quei segreti che non aveva ragione di tener nascosti e quindi, deciso a mettere pace nel suo animo, rivelare quanto più poteva al giovane. Dal sapeva che questo non sarebbe mai avvenuto, tanto meno in quel frangente. Cocciutamente, restava però dov’era, smentendo puntualmente ogni logica supposizione a favore dell’orgoglio, che, vivido e battagliero, rinunciava di piegarsi nuovamente al volere di Kanyu. Quello, nel frattempo, continuava a distaccarsi bruscamente dai tre compagni, come se fossero loro la causa di tutta la rabbia e il dolore accumulati nei secoli. La vita non gli era mai parsa tanto lunga e carica di rancore, inutile come reputava ora il suo desiderio di sincera redenzione. Odiava gli untori, sì, ma odiava innanzitutto sé stesso ed il giovane che si era permesso di ricordargli quel che era stato.
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«Lo sconfesso! Sconfesso ogni briciola del mio passato!» la sua collera gli urlava muta nelle orecchie, rombandogli tumultuosa nel cranio per lunghissimi minuti, talvolta ore. Nemmeno si chiedeva quanto la sua permalosa ostinazione stesse compromettendo la sua missione; gli bastava soltanto arrivare all’epilogo di quella faccenda, spiccare la testa di Cenerdred con la sua scimitarra e chiudere completamente l’argomento. Non avrebbe riportato in vita le sue vittime, non avrebbe eliminato dal passato i solchi che il rimorso ci aveva scavato crudelmente, ma, forse, il suo animo avrebbe trovato un granello della pace che cercava. Tolto di mezzo Cenerdred, quanto tempo ci sarebbe voluto perché gli untori si riorganizzassero? Qualche anno, indubbiamente, e molti avrebbero colto l’occasione per fuggire, o farsi scannare dal primo pazzoide bramoso di sedere sul trono di sterpi del Signore degli Untori delle Terre Piagate. Senza Cenerdred, avrebbe potuto agire liberamente, portare lì anche un manipolo di soldati e far piazza pulita del Clan una volta per tutte. Si guardò intorno con rinnovata ferocia: il Tungernives era scomparso alle sue spalle già da quasi due giorni e, assieme a lui, la rigogliosa vegetazione palustre. Ora, tutto ciò che si stendeva sino a perdita d’occhio era una terreno brullo, arido, dove si levavano verso il cielo notturno solo delle specie di felci contorte e quelle alte, quanto fitte, canne di legno chiaro, che Kanyu sapeva affondassero nella terra morta sino a una decina di metri di profondità, dove trovavano finalmente il nutrimento adatto per la loro sopravvivenza. Allora crescevano vigorose, sino a quando il loro magro fusto non si piegava sulla cima, fino a spezzarsi e a lasciare al suolo i cadaveri ormai nodosi delle loro vette, costituendo un rumoroso tappeto dove i piedi affondavano anche per una decina di centimetri. Il panorama appariva identico per chilometri e chilometri, ma la cosa non costituiva più un problema. Scrollò le spalle con un gesto di stizza: certo, riconosceva alcuni luoghi, ma gli accampamenti degli untori venivano cambiati di posizione ogni circa vent’anni, senza lasciar indizi sulla nuova ubicazione. L’unico a restare lì dov’era sempre stato era quello principale, di cui l’Esule, nonostante il suo rango all’interno del Clan, aveva solo sentito parlare. La ricerca entrava ora nella parte più difficile e richiedeva la massima lucidità da parte di tutti i suoi membri. Proprio adesso quel maledetto ragazzino doveva decidere di darsi una risposta a quel modo? E Wagrat? Sapeva che era stato lui ad inviarlo al fiume: era l’unico dei tre a conoscenza di parte dei suoi segreti. Aveva urlato contro di lui in tutte le lingue che conosceva, solo per sbattere contro la decisa, impertinente determinazione del Nano, irremovibile sulle sue scelte. Solo! Ecco come avrebbe dovuto avventurarsi in quelle terre maledette. Strinse i pugni con forza, abbassando la testa. A cosa serviva stare di guardia, con quel fuoco che gli bolliva nell’animo e 416
trascinava la sua mente lontana dai problemi più immediati? Menò un colpo nervoso a vuoto, ricordando a sé stesso che il suo turno stava per finire. Il verso squillante di un uccello notturno gli fece rialzare la testa, scrutando il fosco cielo nero. Avrebbe voluto avere per le mani quel dannato pennuto che si permetteva involontariamente di distrarlo dai suoi moti di rabbia contro i compagni, solo per avere qualcuno su cui scagliare contro la propria frustrazione. Incrociò quindi le braccia al petto, furente. Qualche secondo dopo, sgranò gli occhi, colto da un improvviso sentore di pericolo. Una civetta! Ecco cos’era. Kanyu fece per girarsi, ricordandosi d’un tratto che in quei luoghi non si era mai vista una civetta. Sentì le sue membra farsi pesanti, poi tutto il corpo s’intorpidì e una nebbia gli calò sul capo. Non ebbe nemmeno il tempo di maledire la sua ingenuità. Cadde a terra con un tonfo che non udì e tutto quanto fu nero come il cielo. Dal sedeva sulla nuda terra, grattandosi il capo e tirandosi nervosamente i capelli castani. Presto, Kanyu sarebbe arrivato a svegliare uno di loro e gli avrebbe assegnato il secondo turno di guardia. Consumato dai dubbi, il giovane non era ancora riuscito a trovare il sonno, nonostante il suo corpo si fosse abituato da tempo a dormire a dispetto della paura e dello scomodo giaciglio. Con un sospiro, si alzò sulle sue gambe e raccolse il suo equipaggiamento: inutile attendere che Kanyu venisse a destare qualcuno, quando lui era sveglio più di quanto avrebbe voluto essere. Si allacciò la grossa spada sulle spalle e sistemò la balestra alla cintura, sistemando poi il resto dei suoi oggetti in una sacca di cui gli aveva fatto dono Groargh e che ora pendeva dal suo fianco. Si bilanciò il carico sul corpo ossuto e si avviò verso il punto in cui il compagno si era appostato, badando di fare meno rumore possibile, così da non svegliare l’Orco e il Nano. Dovette faticare per trovare il posto anche solo a distanza di pochi metri, tanto l’ambiente gli pareva ripetitivo, specialmente nelle ombre indistinte della notte. Infatti, quando lo raggiunse, la prima impressione che ebbe fu quella di essersi sbagliato. Pur sapendo di dover mantenere il maggior silenzio possibile, chiamò il nome del mentore, ottenendo come risposta soltanto un silenzio più che totale. Si guardò intorno con aria smarrita e gli occhi gli caddero verso il basso, sul terreno morto e segnato. Segnato? Avvertì un battito del cuore particolarmente forte e si chinò: due strisce tagliavano il suolo come le lame di un coltello, tracciando un sentiero facilmente riconoscibile. Nel mezzo ad esse, tutto appariva confuso, come se qualcosa di grosso e pesante vi avesse lasciato numerose tracce. Il volto del giovane assunse immediatamente un’espressione di spavento, ancora maggiore quando riconobbe poco distante, su un angolo di terreno più morbido, la nitida impronta di un piede. Un piede che non portava gli stivali di Kanyu. Alzò di 417
scatto il capo, seguendo le tracce verso il vuoto notturno: non s’intravedeva nulla da nessuna parte. Fissò con attenzione il suolo, trovando impronte più vaghe, tutte rivolte verso est. La direzione presa era chiara. Dal ebbe un sussulto e neanche lui seppe quanta fatica gli costò alzarsi in piedi. Rapito. O forse era andato via di sua volontà. Il giovane guardò verso lo spiazzo dove sapeva di trovare i compagni ancora addormentati e in quell’attimo seppe che, qualsiasi cosa fosse accaduta, il pericolo gravava su di loro. Le tracce erano recenti, ma potevano avere anche due o tre ore. Non c’era il tempo di svegliare nessuno, né di attendere Wagrat, che l’avrebbe suo malgrado rallentato. Un brivido gli corse lungo la spina dorsale. Dal strinse i denti e sfiorò con le dita il legno della balestra. Un secondo dopo, le lunghe e forti gambe lasciarono il vuoto dietro di sé ed il giovane Naigh-Moor si lanciò verso la direzione presa dai misteriosi assalitori. Il buio avvolgeva d’una scura cappa la carovana che attraversava a svelti passi le Terre Piagate, guardandosi attorno con aria circospetta. Gli individui sembravano quattro, tutti ammantati delle loro tuniche verdastre, col capo nascosto dai gonfi cappucci, e, in mezzo a loro, un gabbione su quattro ruote, trainato da una specie di enorme insetto che, pur arrancando ventre a terra, riusciva a tenere facilmente il passo con gli untori. All’interno della gabbia l’Esule, ancora incosciente, giaceva scompostamente sdraiato, evidentemente gettato all’interno in fretta e furia, privo di qualsiasi oggetto che non fossero i suoi vestiti. Le armi e lo zaino erano state allacciate alla meglio sul dorso corazzato della creatura che, obbediente, si faceva indirizzare a suon di calci verso la destinazione da colui che pareva guidare il gruppo. Dal inghiottì il suo affanno con sforzo sovraumano, indugiando per riprendere fiato quando li intravide in lontananza. Quattro contro uno. Cinque, se l’insetto si fosse rivelato ostile. Stavolta non avrebbe potuto contare nemmeno sull’Esule, a quanto pareva. Il giovane fu sul punto di lasciarsi prendere dallo sconforto, sollecitato, oltretutto, dalla scarsa fiducia che nutriva ora nei confronti del compagno. Eppure si rendeva perfettamente conto che sarebbe stato lui il traditore, se non avesse tentato di liberarlo. Attese quindi con pazienza l’occasione giusta e, quando vide uno dei folti canneti, si precipitò come un fulmine al suo interno, badando di essere a distanza sufficiente da non essere scorto o udito. Si districò come meglio poteva da quella prigione legnosa, saltando come un acrobata da uno spazio all’altro, tentando di attutire alla meglio il secco rumore che produceva. Nel buio della notte, l’unico suo riferimento all’interno di quel labirinto erano solo le orecchie, che a stento captavano il cigolare della gabbia di Kanyu. Annaspò freneticamente, intravedendo per puro caso da uno spiraglio la figura lontana dell’untore che chiudeva la carovana. Strinse i denti, facendosi 418
silenzioso come un felino sul sentiero di caccia, scivolando cautamente tra le canne più esterne. Allargate le ultime sottili colonne nodose, li ebbe vicini, così vicini che avrebbe potuto assalirli senza preavviso. Fu sul punto di farlo, ma dovette prender atto della soverchiante superiorità numerica del nemico. Assottigliò quindi gli occhi, portando la destra alla cintura. I quattro procedevano rapidamente, ancora esaltati dalla vittoria riportata sul più terribile avversario. Il fiato cominciava a farsi provato, eppur continuavano nella loro marcia, ansiosi di mostrare la loro preda al resto del Clan. Il penultimo della fila, tuttavia, incedeva con una certa preoccupazione, prestando più volte orecchio ai sussurri dell’ombrosa notte, celati dai versi del Denok e dall’ondeggiare della gabbia del Traditore. La mano stringeva sempre la corta mannaia e l’occhio dell’untore calava spesso sulla sua lama, osservando la striscia scura sulla sua punta, il letale veleno che l’avrebbe protetto da qualsiasi avversario, con l’aiuto della profonda fede nella ricompensa del Nero. Sfoggiò un piccolo sorrisetto, abbassando l’arma. In quell’istante, gli giunse chiaro all’orecchio una sorta di schiocco. «Mi è parso di sentire qualcosa…» ammise, voltandosi verso il compagno che lo seguiva, che lo osservò con un certo scetticismo. Un attimo dopo, qualcosa schioccò nuovamente dal canneto a sinistra e l’untore seguì con lo sguardo la scia di un rapido dardo che si ficcava in pieno nelle spalle del compagno, abbattendolo all’istante. Indietreggiò con sgomento, fissando la sagoma ancora tremante a terra: un grido d’orrore gli proruppe dalle labbra. I suoi compagni si volsero verso di lui, una coppia di volti macellati dai solchi nella carne e coronati di sinistri tatuaggi che esprimevano ancor più il loro stupore. Nemmeno si accorsero del primo cadavere, fin quando un secondo dardo schizzò fuori dal canneto, conficcandosi nel petto dell’untore che aveva urlato, sbattendolo all’indietro come un tronco abbattuto, ancora cosciente della vita che lo abbandonava. «Siamo attaccati!» gridò il capo del ridotto gruppetto e, con mossa fulminea, agguantò l’unico rimasto per la tunica, riparandosi dietro la gabbia, appena prima che di nuovo la balestra ignota facesse la sua comparsa, mancando di poco il bersaglio. Un silenzio carico di tensione seguì quella mossa e i due untori rimasero dietro il Denok che, ignaro di tutto, si era fermato a riposare le sue sottili zampe. Il respiro affaticato dei due si mescolò al gemito soddisfatto dell’animale. Il più alto in grado, un elfo oscuro che doveva aver già visto numerose stagioni, assestò un violento spintone all’altro, gettandolo quasi a terra. «Buttati in quel canneto e vai a vedere!» gli intimò nel mentre metteva mano alla sua corta spada «Muoviti!». 419
Il poveretto, dapprima si accovacciò nuovamente dietro la creatura, quindi, vista la chiara intenzione del compagno di finirlo lui stesso se non avesse obbedito, corse come un pazzo verso il canneto, gettandosi rocambolescamente nel suo seno. Se non altro, lì, fra tutte quegli ostacoli, una balestra doveva risultare piuttosto inefficace e, preso coraggio, l’untore mise anch’egli mano alla sua arma, avanzando cautamente. Un istintivo desiderio di sopravvivenza lo spingeva a scappare, lasciarsi quell’assassino alle spalle, ma quanto sarebbe valsa la testa di un altro nemico, assieme alla cattura del maledetto Kanyu? Un sorriso d’ambizione gli si disegnò sul viso distorto e l’untore scostò un mucchio di cannicci con un braccio, preparandosi a colpire se lì si fosse nascosto il suo avversario. Niente, nessun suono, neanche un sussurro in lontananza. Procedette ancora, gli occhi assottigliati che scrutavano attraverso ogni possibile nascondiglio. Di colpo, notò qualcosa di grande e scuro attraverso i rami, che sembrava muoversi appena, dando segni di vita. Non esitò nemmeno un istante, caricando il nemico e sollevando in alto la mannaia. Sorrise mentre calava con forza la lama intrisa di veleno, ma si accorse di botto di non aver colpito altro che un mantello nero che qualcuno aveva fissato ad una delle tante canne. Ciò che vide dopo fu solo un volto agguerrito, un diadema dorato ed un’enorme scimitarra che tranciava ogni ostacolo, prima di raggiungerlo al torso scoperto. L’urlo del compagno spezzò di colpo l’atmosfera grave della notte e l’untore trasalì, stringendo con entrambe le mani il corto manico della sua arma. Un nuovo silenzio accompagnò i secondi che seguirono. Dall’interno della gabbia provenne un mormorio confuso e, quando alzò il capo, si accorse che l’Esule doveva essere sul punto di riprendersi: poco male. Tra loro due restavano ancora delle solide sbarre. Resosi conto della drammaticità della situazione, estrasse dalla sua sacca una pergamena giallastra, mormorando qualche parola in un linguaggio arcano. Non aveva ancora finito di leggerla che tra le sue mani trovò soltanto una polvere vecchia di secoli, che si dissolse immediatamente ad una folata di vento. Si alzò in piedi con facilità e le sue braccia gli apparvero forti e solide come mai avrebbero potuto essere, pervase da un potere inarrestabile. Passandosi una mano sul viso, udì lo stesso rumore che avrebbe potuto causare sfregando due pietre e si rese conto che il suo incantesimo era perfettamente riuscito. Quel dannato assalitore gli era costato il suo asso nella manica, di cui si vantava spesso con i suoi sottoposti, ma adesso avrebbe avuto quel che si meritava. D’altronde, i suoi sottoposti non erano più nel mondo dei vivi, quindi aveva perso meno di quello che pensava. «Esci fuori!» tuonò con una voce inasprita dagli anni e dall’odio feroce «Vieni qui ad affrontare il tuo destino, pazzo!».
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Un ennesimo dardo rispose al suo urlo, solo per infrangersi con uno stridio contro il petto dell’untore, improvvisamente della stessa consistenza della pietra. Una folle risata seguì quel rumore e l’untore aprì le braccia, come una vittima pronta al sacrificio. «Prova ancora, dai!» gracchiò, facendosi più vicino al canneto «Per te ci sarà solo morte! Morte!». E, appunto, un ulteriore dardo saettò contro di lui, per ottenere il solito risultato. Di nuovo, l’untore rise di gusto, sollevando nel pugno destro la propria arma. «Le tue armi sono inutili, idiota! Niente e nessuno potrebbe mai trapassare il mio corpo duro come un macigno!» e batté un pugno roccioso contro l’altrettanto solido petto, come a testimoniare la propria invulnerabilità «Esci fuori e affronta il tuo destino!». Non vi fu risposta, neanche un altro inutile dardo sprecato. L’untore attese qualche secondo, quindi osservò con un certo divertimento il canneto. «Non hai il fegato, eh?» strillò e quindi si prese il volto nella mano, puntando l’arma contro il canneto. Dal udì la voce dell’avversario pronunciare spavaldamente un linguaggio incomprensibile e notò un globo rossastro comparire sulla punta del suo machete. Un secondo dopo, una sfera di puro fuoco s’infranse contro il canneto, trovando facile territorio in cui appiccarsi. Nel giro di pochi secondi, l’intero canneto era una fornace, rossa di vendetta e calda come il peggior inferno. Dal fissò con terrore la veste dell’avversario da lui ucciso incendiarsi ed ardere brutalmente assieme alle carni del cadavere, chiaro segno del rispetto reciproco tra gli untori. Chiuse gli occhi allarmato, mentre balzava fuori dal canneto, fracassando tutto ciò che trovava dinnanzi con le mani incrociate dinnanzi al viso. Si guardò quindi intorno mentre si rialzava, la scimitarra stretta nei pugni vigorosi, appena in tempo per notare una sorta di luce candida sfrecciargli accanto ed esplodere qualche metro dietro di lui. Kanyu era seduto, chiaramente intontito e incapace di capire dove si trovasse. Non un momento da perdere. Dal corse verso il suo avversario come una belva, sorprese facilmente la sua difesa e lo raggiunse alla spalla sinistra, solo per udire un forte stridio e rimbalzare come un fantoccio, perdendo l’equilibrio e cadendo di schiena a terra. Niente! Neanche la massiccia scimitarra aveva qualche effetto contro quell’untore dalle carni dure e chiare come il granito. Non fece a tempo a udire le sue parole, solo un fulmine improvviso che crepitò contro di lui. Rotolò sulla destra, avvertendo il tremolio del suolo e la scossa violenta che gli raggiunse tutto il corpo, drizzandogli i capelli sul capo. «Dal! La mia roba!» sentì urlare oltre il fracasso e gli ci volle qualche secondo per capire che quella era la voce di Kanyu. 421
Si alzò in piedi senza riuscire a pensare, indietreggiando a balzi mentre l’untore sferzava attacchi selvaggi contro di lui, costringendolo a difendersi disperatamente. Al primo sbilanciamento del rivale, corse però indietro, verso la gabbia e l’insetto, che lo fissava con espressione poco propensa ad accettare la sua vicinanza. Un secondo fulmine nacque dalla lama dell’untore e Dal saltò in più lontano possibile, avvertendo il gemito dell’insetto mentre veniva raggiunto dalla saetta. Una puzza indescrivibile, sommata all’odore di bruciato che proveniva dall’incendio a sinistra, lo raggiunse alle narici. Il giovane si girò quindi verso l’animale freddato sul colpo, notando l’equipaggiamento del compagno fissato sul suo dorso. «Che farci, che farci?» si domandò, mentre vi si avvicinava. Senza pensare, scagliò la maestosa spada contro l’untore, ottenendo perlomeno di distrarlo dall’ennesimo incantesimo che si preparava a invocare. Afferrò la prima cosa che vide, la scimitarra della Zanna, sfoderandola goffamente dal fodero allacciato all’insetto. Strinse gli occhi, balzando lontano dalla creatura, che tuttavia non avrebbe potuto reagire nemmeno volendo. Vide con la coda dell’occhio l’untore farsi avanti ancora una volta e si girò in corsa verso di lui, impattando selvaggiamente la Zanna contro di lui. Udì un rumore sordo, poi vide un pezzo del fianco dell’avversario staccarsi di netto, facendo sgorgare uno schizzo infinito di sangue. Sentì l’untore urlare con una potenza inaudita, indietreggiando con le mani rocciose sul fianco massacrato. Reprimendo il disgusto che quella vista gli trasmetteva, Dal chiuse gli occhi, colpendo ripetutamente il rivale dal torso in su. Quando finalmente un colpo andò a vuoto e sentì il tonfo dell’untore che crollava silenziosamente a terra, Dal non si soffermò a guardare i risultati di quel macello. Si avvicinò di corsa alla gabbia di Kanyu, trovando un pesante lucchetto che oppose ben poca resistenza ad una pressione della Zanna. L’Esule, chino sulla vita, uscì come meglio poteva dalla sua prigione a quattro ruote, appoggiandovisi anche quando ne fu fuori. «Ma che diavolo è successo?» domandò alfine Dal, posando una mano sulle sbarre della gabbia, esausto. «Immagino di esser stato catturato.» borbottò l’altro, scuotendo con vigore il capo e sbattendo le palpebre «Devono avermi stordito con la magia». «Ti sei fatto sorprendere?» continuò il giovane elfo, che riteneva estremamente necessaria una spiegazione per tutto quel tafferuglio. «A quanto pare.» si limitò a rispondere l’Esule, notando solo ora, con spavento e stupore, le fiamme che divampavano dinnanzi a loro, senza però trovare altro da ardere che il canneto «E questo casino?». Dal ansimò, mettendosi a sedere con un sospiro. «Ho visto dal vivo la mia prima, maledetta palla di fuoco» rispose, ben memore di quell’esperienza. 422
Kanyu storse le labbra, strappando poi dalle mani del giovane la propria scimitarra. «Complimenti» mormorò, avvicinandosi con una certa fatica al cadavere dell’insetto. «Un grazie è troppo, eh?» protestò Dal, seguendo il compagno con lo sguardo e soffermandosi sulla creatura «Ah, quello cos’è?». «Un Denok.» rispose atono l’altro, liberandolo degli oggetti con cui gli untori l’avevano caricato «Li usano spesso come animali da carico. Sono solitamente innocui». Dal trasse un profondo respiro, chiudendo gli occhi e lasciando finalmente riposare le proprie ossa: ora sì che avrebbe dormito volentieri. Kanyu, intanto, si aggirava tra i cadaveri, assestando loro deboli calci per assicurarsi della loro morte. Di tanto in tanto, si chinava, rovistando tra i loro oggetti, per poi rialzarsi con espressione torva. Stava compiendo quel lavoro già da un po’ quando, dal cadavere del comandante del drappello, estrasse qualcosa che gli strappò un’esclamazione di vittoria. Dal si volse a guardarlo senza entusiasmo, troppo provato per poter gioire di qualcosa. «Che c’è?» chiese, senza nemmeno alzarsi. Kanyu gli si avvicinò con aria esaltata, mettendogli sotto il naso un foglio di pergamena. «Una mappa!» esclamò, mostrando con un dito inguantato i chiari disegni sul foglietto «Questo è un accampamento, vedi?». Dal osservò la piccola mappa con attenzione: era vero, era tutto limpido, tanto che non gli era difficile immaginare dove si trovasse in quel momento e quanto fosse distante il campo della compagnia. «Possiamo coglierli di sorpresa.» concluse Kanyu, prendendo nuovamente la mappa e infilandosela in tasca «Sbrigati, dobbiamo andare». «Adesso?» sbottò Dal, spalancando gli occhi «Sheynt, Kanyu! Pensi che sia stato facile liberarti? Ci possiamo andare domani, no?». «Domani saranno in allerta perché la loro squadra non sarà rientrata.» tagliò corto l’Esule, avvicinandosi alla scimitarra del giovane e raccogliendola «Dal, è un’occasione unica» e gli porse la scimitarra, osservandolo severamente. Il giovane esitò qualche istante, il respiro non più rotto dalla fatica, ma le membra ancora indolenzite sia dallo sforzo che dal fulmine che l’aveva raggiunto di striscio. «Io sono stanchissimo e tu ti sei comportato da incosciente.» mormorò, prendendo nelle mani la scimitarra «Tienine di conto». L’Esule annuì con calma, quindi batté una pacca sulla spalla dell’altro e si incamminarono verso l’accampamento segnato sulla mappa.
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L’ambiente parve farsi sempre più scarno, privo persino di quei canneti che abbondavano in ogni altro luogo delle Terre Piagate, eppure ai due non ci volle più di un quarto d’ora per raggiungere l’accampamento. Sembrava che la presenza stessa degli untori facesse morire ogni forma di vita attorno a loro, seccando la terra e inaridendola come la sabbia del deserto. Quando Kanyu e Dal giunsero in vista della costruzione, si acquattarono il più possibile distanti dall’entrata: un rudimentale steccato era tutta la protezione che quel luogo offriva contro i due Naigh-Moor. All’interno, Dal poteva notare facilmente che le sole strutture presenti erano delle tende raccogliticce, ognuna di uno stile ed una dimensione diversa dalle altre. Sembrava un accampamento di mendicanti, tanto era il disordine che vi regnava: un’accozzaglia malriuscita di legna, fango e pelli di animali. Il giovane si domandò come gente di quel genere potesse mettere in ginocchio una nazione. «Non farti ingannare.» gli spiegò l’Esule «Il Clan della Peste possiede ricchezze spropositate, contrariamente a quello che può sembrare. A questi pazzi importa solo di compiacere il Nero e tutto il loro denaro viene speso per comprare spie, corrompere ufficiali e radicare il loro male anche all’interno della società.» si volse a guardarlo con un’espressione truce «A Vathalar ne hai avuto la conferma». In effetti, Dal ricordava nitidamente come gli untori si erano infiltrati facilmente all’interno della città, a dispetto di tutte le difese che questa di vantava di avere. «Però sembra deserto» notò il giovane, aguzzando lo sguardo verso l’accampament0 privo della luce anche solo di una candela. «Può darsi che stiano riposando e che quei quattro abbiano deciso di testa propria di catturarmi. Per loro sarei motivo di grande prestigio, tale da valere le più alte cariche». Dal annuì, continuando tuttavia a guardare con scetticismo l’accampamento. «Su, andiamo» sussurrò quindi l’Esule ed i due si avvicinarono furtivamente allo steccato, le armi in pugno e i sensi all’erta. Dal non sentiva più niente, neanche il tremolio delle gambe: una volta, Kanyu l’aveva salvato dagli Yurumga in una situazione analoga e l’aveva aiutato ad impossessarsi nuovamente del diadema. Adesso era il momento di ricambiare quel favore. Senza fiatare, scivolarono lungo le ombre dello steccato, penetrando quindi con attenzione all’interno del campo silenzioso. L’Esule sentiva il fuoco della vendetta bruciargli nelle vene, quella vendetta che ora era tanto vicino a realizzare. Erano lì, incapaci di difendersi, contro la furia dei loro nemici, nella stessa condizione in cui avevano costretto gli altri durante la Grande Guerra. Misurò i suoi passi già cadenzati verso la prima tenda che vide, facendo cenno al giovane di seguirlo. Un istante dopo, un lampo luminoso brillò nel centro 424
dell’accampamento, seguito da un rumore assordante di voci umane. Kanyu si ritrasse di scatto, facendo indietreggiare Dal, e si rese conto di aver commesso il suo secondo errore. Decine di untori erano comparsi dalle tende, da dietro delle casse accatastate: ogni ombra celava un nemico e una spada pronta a colpire. I due elfi oscuri bestemmiarono impunemente, portandosi in posizione di guardia, pronti ad aprirsi una via di fuga con ogni mezzo. Il sangue pulsava nelle loro tempie con violenza, l’improvvisa paura andava già sostituendosi da un cieco desiderio di fuga. Lentamente, una figura a loro ormai nota si fece avanti, dondolando allegramente il proprio machete ed i ciuffi rossastri in cui aveva legato i capelli. Il sorriso folle abbondava sul viso tatuato del Figlio dello Scorpione. «Miei adorati signori, che piacere riavervi con me!» esclamò, allargando le scarne braccia «Ho temuto che non vi avrei più rivisto, l’ultima volta!». «Sei fuori strada se credi che ci avrai al tuo cospetto per molto» ribatté con la sua sorprendente calma l’Esule, fermo in posizione di difesa. «Oh, questo sarà da vedersi.» Loto sorrise, continuando col suo atteggiamento da pazzo «Caro, caro Kanyu… Ti credi tanto più intelligente di noi, vero? Perché pensi che ti abbia mandato quei quattro imbecilli con la mappa?». Dal provò la tentazione di togliere quel sorriso dalle labbra dell’untore assieme alla sua testa. «Dimenticavo della stima che avete dei vostri sottoposti.» mormorò, chinando appena il capo «Ma tu dimentichi che la stima che provo per te è addirittura minore». «Libero di provare.» il Figlio dello Scorpione scrollò le spalle, mentre il cerchio degli untori si faceva più soffocante attorno ai due «Più ti avvicini a me e più ti avvicini alla morte». Sia Dal che Kanyu strinsero con maggior forza le proprie armi, quindi il giovane avvertì facilmente il sussurro del compagno: «Corri via per primo, svelto». Dal non se lo fece ripetere due volte: diede le spalle al compagno con un grido, scagliandosi contro i primi che gli si strinsero attorno, con le armi pronte ad affondare nelle sue carni. A stento si rendeva conto di Kanyu che gli copriva le spalle, arginando selvaggiamente quanti gli si facevano sotto. Il giovane strinse i denti in un disperato tentativo, fendendo l’aria e scoraggiando quanti gli si facessero direttamente contro, poi sbatté con forza contro qualcosa che gli si conficcò nel braccio destro, togliendogli per un istante la luce dagli occhi. Eppure ancora correva, come un Demone infuriato, vibrando fendenti con vigore bestiale, indifferente del sangue che schizzava ovunque e del braccio che gli doleva, come un ricordo remoto della realtà. Dietro di lui, le lame sferragliavano furiosamente, fiumi di luci si scagliavano contro l’Esule, 425
dissipandosi contro la mente temprata dell’eroe, schiantandosi contro Alihamara o esplodendo con un fragore che stordiva le orecchie. Poi, senza che Dal si fosse reso effettivamente conto di quanto era successo, si ritrovarono oltre lo steccato a deflettere i colpi di quanti si facevano troppo vicini, a calpestare serpenti e insetti dispersi improvvisamente ovunque, a scansare alla meglio fiamme d’incantesimi, mentre gli untori li inseguivano berciando, sollevando le tuniche per non essere impacciati nei movimenti, con Loto che strillava furiosamente sopra ogni altra voce. La terra tremò ripetutamente, la notte si tinse di scie colorate. Stanchi, feriti, ansimanti, si trovarono poi soli, con le voci degli untori ormai scemate dietro di loro, separate in pochi minuti dalla superiore potenza delle gambe degli inseguiti. Dal non riusciva più a capire niente: il mondo gli vorticava attorno, assaliva il suo cervello sfinito e gli rallentava le gambe molli. «Continua a correre!» gli urlava Kanyu, più avanti «Non ti fermare!». E lo sventurato correva, sentiva i muscoli sul punto di strappargli la pelle, il cuore pulsargli come un tamburo dentro il petto fragile. Le forze gli scemavano però con rapidità impensata, i piedi non trovavano più l’appoggio. Di colpo, crollò a terra con un gemito. Fece per rialzarsi e si accorse solo allora che il braccio destro non rispondeva più a nessun comando. In un delirio di febbre, riconobbe la sagoma sfocata di Kanyu avvicinarglisi, tirarlo su di peso e portarlo via in tutta fretta.
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XLII. Nelle fauci del mostro
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uel che gli apparve del campo della compagnia fu solo un mucchio scomposto di colori spenti, voci ovattate che riempivano la notte in un vaneggiamento di tuoni e vibrazioni. Pioveva o era il sudore a bagnargli il viso? Una folata di vento lo intirizzì sino alle ossa, facendolo tremare più di quanto la sua debolezza gli permettesse di percepire. Il gelo gli era penetrato nelle carni, gli ghiacciava il sangue in ogni vena. Si sentì deporre con delicatezza, scorgendo a fatica Kanyu che lo adagiava alla meglio sul terreno scabro e gli posava una coperta sul corpo. Distinse dopo qualche secondo anche i volti di Groargh e Wagrat, e in quella dispersione di forme e colori gli pareva che i loro volti si deformassero emaciati in smorfie d’un orrore spettrale. Fece per aprire la bocca e parlare, ma si accorse confusamente che le sue labbra erano già dischiuse ed i soli versi che ne uscivano erano sussurri incomprensibili e aliti dolorosi. Lasciò ricadere la testa indietro con un tonfo, voltando il capo di lato, là dove i cannicci parevano danzare come una turba di scheletri. Sbatté le palpebre e rivoltò gli occhi di colpo, travolto da un’irresistibile ondata di caos. Qualcosa lo afferrò per un polso, ma lui non se ne accorse. «È vivo.» disse un trafelato Wagrat, lasciando andare con attenzione il braccio freddo del giovane «Non so per quanto, però». «Spogliatelo» ordinò sbrigativamente l’Esule e, assieme ai due, liberò il torso sudato di Dal. «Cos’è?» domandò il Nano, notando immediatamente il taglio superficiale al braccio destro del Naigh-Moor. «Sheynt!» esclamò in un ringhio Kanyu, e immediatamente portò le sua bocca alla ferita, succhiando da essa con quanto fiato aveva, per poi sputare il nero sangue al suolo. Freneticamente, ripeteva quell’operazione e l’assenza di reazioni da parte del giovane gli confermavano però la feroce realtà. L’Orco prese l’Esule per un braccio, distogliendolo dai suoi isterici gesti con un brutale scossone. «È tardi, qualunque cosa tu voglia fare!» urlò, staccandolo a forza dal giovane elfo «È in circolo, ormai!». Kanyu si alzò in piedi con foga, rompendo il contatto con Groargh grazie ad un violento dibattere delle lunghe braccia. «Ma che è successo, dannazione?» urlava intanto Wagrat, fissando il gigantesco Naigh-Moor che, di spalle ai due, si torturava i lineamenti del viso con la forte mano.
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«L’ho condannato, l’ho condannato! Ammazzato come un cane!» sbraitò, osservando quasi con odio il moribondo «L’ho portato in una trappola! Direttamente in un accampamento di untori!». «Sei impazzito?» urlò in risposta il Nano, senza osar credere a quello che gli veniva detto «Ti ha dato di volta il cervello? Voi due soli contro tutti!». «Taci!» fu la violenta risposta dell’Esule, che ora pareva del tutto contrario a farsi ricordare il proprio tragico errore. Un silenzio angosciato si abbatté sopra quello scenario. Wagrat rimase ad osservare Kanyu, mentre questi si voltava e si agguantava i lunghi capelli con rabbia. «Ci sarà pure un modo» grugnì l’Orco, inginocchiandosi accanto a Dal, il brutto grugno rivolto verso il torace che si espandeva e si restringeva dolorosamente. «Un antidoto!» continuò per lui il Nano «È poco più che un graffio, maledizione! Deve esserci un modo per fare qualcosa!». Di nuovo, non vi fu risposta. Groargh fissava senza parlare il corpo del giovane, accarezzandogli con la mano callosa la spalla nuda. Sino a pochi mesi prima, non avrebbe mai pensato di provare tanta empatia, tanto dolore per la morte di un elfo oscuro pressoché sconosciuto, giovane e ancora pieno di pregiudizi. Ora però quell’esile figura se la sentiva stretta attorno alle viscere, pronta a soffocarlo nella sua morsa implacabile. Mai nessuna orrenda cicatrice lo aveva tanto indotto a gettarsi contro il mondo intero. Respirava a fondo, le labbra dischiuse per lasciar scappare un gutturale senso di rabbia, una sorta di ruggito minaccioso che pareva pronto ad offuscare la razionalità dell’Orco. Il suo pugno faceva sempre una maggiore pressione sul suolo robusto. Wagrat obbediva invece al cupo rammarico di Kanyu, le mani piantate sulle robuste cosce. Solo allora l’Esule si volse a loro, prima di osservare con decisione l’ombra del Dal che aveva conosciuto, distesa a terra. «Gli untori sapranno come guarirlo.» disse infine, controllando di avere tutto il suo equipaggiamento con sé «Torno al loro campo». I volti dei due compagni si diressero senza di lui, non senza stupore. «E che farai?» chiese il Nano, temendo che l’Esule potesse fare una nuova pazzia. «Rapirò e porterò qui uno dei loro Maestri.» spiegò brevemente «Non ho tempo da perdere, voi badate a lui». «Non ha senso.» ribatté l’Orco, con una voce che sembrava uscita dagli inferi del rancore «Qui non possiamo far nulla per lui» e rapidamente si alzò in piedi, avvicinandosi a passi pesanti alla grossa mazza. «In tre avremo più possibilità.» aggiunse freddamente il Nano, imitando il compagno e avvicinandosi alla sua ascia «È un accampamento, no?».
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«È distante.» replicò sprezzante il Naigh-Moor, per nulla desideroso di perdere tempo «Non posso fermarmi ad aspettarti». «Ed io non ho bisogno di altro che questa!» sbottò ostinato Wagrat, sollevando al cielo la grossa ascia «Pensi che le mie gambe non riescano a star dietro alle tue, senza un’armatura addosso?». Groargh si avvicinò rapidamente all’Esule, immediatamente affiancato dal Nano. «Fai strada.» ringhiò truce, e la sua mano massiccia strofinò la pesante testa dell’arma. Kanyu si era appostato nel medesimo punto del primo assalto, freddo e calcolatore più di quanto non fosse mai stato. Al riparo da occhi indiscreto, puntava i dischi bianchi dei suoi occhi verso l’accampamento, animato a dismisura, dopo il tafferuglio che l’aveva travolto quasi un’ora prima. Quanto aveva corso quella notte? Ancora non si era concesso un attimo di riposo, se non quello fornitogli dallo stordimento. Tutto questo avrebbe dovuto attendere ulteriormente: adesso, la vita di un giovane esule confidava soltanto in lui per essere risparmiata. Il fallimento non era ammissibile in nessuna forma, tanto meno dopo che, quella stessa notte, l’inesperto elfo oscuro aveva salvato da morte certa lui, il presunto eroe più che decorato. Il senso del dovere s’incatenava al suo personale desiderio di aiutare quel giovane che lui stesso aveva trascinato in quell’avventura. Dietro di lui, Wagrat ansimava per la fatica che gli era costata tenere il passo con i due ben più alti compagni. Lo stesso Kanyu avvertiva i propri muscoli dolergli insistentemente, ancor più stimolati dallo scontro ancora recente. Gettarsi nuovamente nelle fauci del mostro dopo una simile sconfitta era una follia, e questo lo sapeva. Coordinazione perfetta, velocità d’esecuzione e una pronta dipartita. Questo era ciò di cui necessitavano ardentemente e che le loro condizioni fisiche cercavano ostinatamente di vietare. D’altronde, il tempo era il più grande nemico: occorreva agire il più in fretta possibile, in modo da apportare le prime cure a Dal appena possibile. Sempre che non fosse già morto… Kanyu scosse il capo con vigore ed osservò in viso i due compagni. «Entrare senza farci notare è impossibile, in queste condizioni.» dovette ammettere «Staranno controllando ogni uscita. Ci serve un diversivo». «Posso distrarli io.» si offrì subito il Nano, deciso «So come tenere a bada una mandria di quegli idioti». «No, vado io.» s’intromise autorevolmente Groargh, adocchiando verso l’accampamento «Sono più veloce di te. E poi ho già una mezza idea in testa». Wagrat fu sul punto di ribattere, ma Kanyu annuì fiducioso, troncando sul nascere ogni opposizione. 429
«Tu verrai con me: avrò bisogno di un palo, mentre cercherò il bersaglio adatto» disse. Il Naigh-Moor si soffermò quindi ad osservare l’Orco, che ora mostrava un ghigno brutale da cui fuoriuscivano umide le grosse zanne: non attendeva altro che l’occasione di poter sfogare la propria furia animalesca. «Molto bene.» concluse l’Esule, confidando nella potenza fisica del compagno «Tu andrai a destra, noi a sinistra. Sai contare?». «Fino a cento» rispose senza imbarazzo l’altro. «Appostati e comincia a contare. A cento, fatti sentire» concluse il Naigh-Moor e, assestata una pacca al Nano, prese a correre verso l’accampamento, badando di tenersi ben piegato sulla vita. Ancora distanti dall’esser notati, al riparo nelle tenebre amiche, scorsero appena la muscolosa sagoma dell’Orco sfrecciare dove stabilito, sparendo dalla loro vista in un baleno. Si fecero poi più cauti, quando, acquattati nell’ombra, distinsero chiaramente un individuo pattugliare il lato frontale dell’accampamento. Kanyu fece una veloce serie di gesti al compagno, indicando la figura con la mano e tracciando un semicerchio nell’aria. Entrambi si tennero quindi ben lontani dal campo, girandoci attorno sino a quando il lato sinistro, felicemente sgombro, non si parò dinnanzi a loro. Certo, non sarebbe stato così facile, però: non era difficile immaginare che vi fossero sentinelle appostate anche dove non riuscivano a scorgerne, pronte a far la loro inaspettata comparsa. E, infatti, non ci volle molto per scorgerne almeno un’altra, sul fronte opposto all’entrata. Una persona più prudente avrebbe trascorso qualche minuto ad osservare ogni movimento, facendo caso a quando le sentinelle si alternavano, ma non era affatto l’occasione per essere troppo puntigliosi. Corsero più veloci che poterono verso il centro di quel lato, il capo chino, le armi strette nei pugni e pronte ad essere utilizzate senza pietà, proprio come sarebbero state usate contro di loro. Il contatto delle loro schiene con il ruvido legno dello steccato apparve loro come una liberazione. Trassero il fiato solo un istante quindi, di comune accordo, si avvicinarono agli estremi di quel lato dello steccato. Kanyu scivolava come un’ombra silente, invisibile a qualsiasi occhio che se lo trovava dinnanzi: silente e rapido, guizzò sino al punto in cui lo steccato faceva angolo con l’altro lato, attendendo come un predatore che il suo nemico si avvicinasse. Un debole rumore di sandali lo avvisò infatti di quanto il momento fosse propizio. Non ebbe bisogno di riflettere troppo su quel che stava facendo: impara l’arte e mettila da parte, si era ripetuto molte volte. Loro gli avevano insegnato a uccidere e lui ora non si faceva scrupoli di ripagarli con quella stessa moneta. Intravide il volto dell’untore, un volto del tutto sconosciuto, familiare solo per lo sguardo freddo, come se venisse da un altro mondo. Neanche portava segni 430
evidenti che lo riconoscessero come tale: forse un nuovo membro del Clan, forse un assassino come lui. Appena i suoi piedi si girarono su sé stessi, pronti a ripetere la stessa ronda, due robuste mani gli avvinsero il capo come i tentacoli di una piovra e lo sbalzarono indietro con un mugolio sorpreso. Un attimo dopo, l’unico rumore che emise fu quello secco del collo che si spezzava. All’altro capo del lato sinistro, Wagrat non poteva vantare una tradizione di silenzioso assassino. Semplicemente, restava appoggiato al legno, aspettando come l’altro che l’untore di pattuglia si avvicinasse e ripartisse nella direzione opposta. Cosa che la sua inconsapevole vittima fece, ma senza venir di colpo assalito da un fulmineo gesto del Nano. Wagrat, invece, si sporse a guardare solo quando il suo rivale fu almeno a tre metri di distanza da lui. Imprecando nei suoi confusi pensieri, gli corse alle spalle senza più nascondersi, inducendolo a voltarsi quasi subito. Ma tre metri erano pur sempre solo tre miseri metri. L’ascia del Nano lo raggiunse prima che potesse comprendere veramente cosa stava succedendo, penetrandogli nella carne come un rasoio affilato. Anche questo rimase in silenzio, nonostante le due metà del corpo si stessero separando di netto. Qualche secondo più tardi, si riconciliò a Kanyu, segnalando che non c’era più alcun pericolo, almeno all’esterno. L’Esule non esitò ad inerpicarsi sullo steccato come un leopardo, restandovi a cavalcioni solo per un paio di secondi, il tempo necessario a protendere il braccio verso il compagno e sollevarlo con l’erculea forza mentre il Nano stava ancora studiando come salire anche lui. Wagrat si abbrancò alla cima della palizzata come meglio poteva, lasciandosi poi cadere dall’altra parte quando l’altro già era in piedi, intento a guardarsi intorno; un tonfo sordo annunciò l’arrivo del Nano. Subito, i due furono costretti a rannicchiarsi nelle ombre e a trattenere il fiato: per loro fortuna, non si udì alcun segnale d’allarme, però poterono scorgere con viva preoccupazione le decine di untori che camminavano senza sosta per l’accampamento, stringendo nei pugni delle torce pericolosamente luminose. «Non possiamo buttarci allo scoperto.» bisbigliò il Nano, ancora tutto ammaccato «Dovremo entrare in una di queste tende». «Cercherò di capire quale sia quella adatta da fuori. Dammi solo qualche secondo» ribatté l’Esule, che faticava a distinguere qualsiasi segno, dall’oscurità in cui si trovava. Un attimo dopo, un urlo di guerra, palesemente orchesco, risuonò nella notte: cento. Una confusione indescrivibile si diffuse in tutto l’accampamento e decine e decine di tuniche si agitarono forsennatamente. Molti furono gli untori che schizzarono fuori dalle loro tende: uno di questi, come Kanyu notò facilmente, portava delle rozze insegne che attestavano il suo grado. Fatto un cenno al Nano, corsero verso di lui, tenendosi lontani dall’attenzione che convergeva improvvisamente verso il lato opposto del campo. Nei dintorni del loro 431
nascondiglio, come speravano, non si vedeva più anima viva. Eccetto l’untore in questione, tuttavia: un Naigh-Moor che restava lì dov’era, il machete in pugno, abbaiando qualche ordine confuso o cercando di agguantare quanti gli passavano vicino, con lo scopo di capire cosa stava succedendo. «E muoviti, maledetto bastardo.» ringhiò fra sé l’Esule, seguendo di nascosto i suoi movimenti «Tornatene nella tenda… È solo un Orco». Wagrat, alla sua destra, cercava di far caso ad ogni rumore e movimento nelle vicinanze, sentendosi per nulla al sicuro nella loro nuova e più esposta posizione. In cuor suo, poteva solo pregare che la richiesta di Kanyu venisse rapidamente esaudita. Quello che ottenne, invece, fu solo di udire un rumore di gambe che si agitavano dentro una lunga tunica, avvicinandosi pericolosamente alla loro posizione. Per un attimo, rimase impietrito. Arrivavano. E non c’era neanche il tempo di voltarsi. Istintivamente, seppe che la prova che si apprestava ad affrontare avrebbe richiesto tutto il suo sangue freddo. Inspirò temerariamente, stringendo l’ascia. «Quack» fece poi, imitando alla meglio il verso di un’anatra: Kanyu lo fissò con gli occhi dilatati, sbigottito. Quello che Wagrat si trovò di fronte un secondo dopo fu lo sguardo decisamente sorpreso di un untore che si sporgeva incuriosito a controllare, un Umano che doveva avere una trentina d’anni. Mezzo secondo più tardi, la traiettoria dell’ascia saettò verso la sua testa, mozzandola senza difficoltà. Sotto lo stupore del Naigh-Moor, il Nano benedisse a bassa voce il genio che gli aveva insegnato, anni prima, quella ridicola tecnica per colpire a sorpresa un avversario. Kanyu preferì tornare a seguire il suo untore, piuttosto che lasciarsi prendere dallo sconforto. Dall’altro lato dell’accampamento, un untore che si riteneva fortunato per essere il primo ad accorrere sulla scena, si trovava a fronteggiare un Orco alto e imponente, col volto contraddistinto da una furia assassina senza pari. In un attimo, la sua testa finì schiacciata selvaggiamente dall’enorme mazza del feroce essere. Subito dopo, altri ignari untori comparsero in massa, le armi sguainate, pronte a bere il sangue del misterioso aggressore. Groargh ruggiva continuamente, sommando ai cadaveri che si lasciava alle spalle la brutalità del suo assalto. D’ un tratto, gettò a terra la mazza, avvicinandosi a un palo dello steccato senza farsi pregare. La facilità con cui lo divelse parve una dimostrazione di una possenza ancora maggiore di quella che sembrava: pochi riuscirono a notare che il grosso legno era già stato scalzato in precedenza. Furente, sollevò quindi il palo sopra la sua testa e bestialmente lo scagliò come un rametto contro la folla che avanzava, arrestando le loro prime fila con una facilità disarmante. Un attimo dopo, l’Orco si chinava a raccogliere la mazza, 432
preparandosi ad affrontare quelli che osavano farsi avanti. Strinse gli occhiacci rossi e serrò la mandibola prominente, occupandosi principalmente di difendersi e ricacciare indietro alla meglio quanti si avvicinavano. Vampe colorate comparvero quasi immediatamente, radici saettarono da terra come serpenti: persino una sorta di lupo comparve poco distante, gettandosi contro di lui, la bocca crudele spalancata. Groargh, con tutti quegli avversari e impedimenti, si appellò a quanto vigore aveva in corpo: liberatosi di ogni impiccio, agitò come una belva ferita l’enorme arma, causando esclusivamente un disordinato indietreggiare dei ben più fragili untori, fatta eccezione per la creatura evocata, che finì a terra con una sorta di guaito. Ovunque, comparivano visi sfregiati, lame corte e spesse, lunghe tuniche e fiamme magiche. L’Orco capì che non aveva più tempo da perdere: afferrato per la collottola il malconcio lupo, se ne servì come proiettile da usare contro quanti avanzavano. Subito dopo, si diede ad una corsa zigzagante, la testa bassa a deviare eventuali attacchi. Dentro all’accampamento, Kanyu attese solo pochi secondi, prima di sfoderare la Zanna e creare una lunga e sottile apertura nella pelle della tenda. L’untore era rientrato, infine; una volta all’interno della sua misera abitazione, sembrava non aver emesso più alcun suono. Come un essere incorporeo, Kanyu sgusciò nella tenda attraverso l’apertura e si materializzò fulmineo alle spalle dell’untore, notando la sua pelle grigia solo quando questi si voltò, a causa di un insolito alito di vento alle sue spalle. L’Esule non si fece domande neanche stavolta: calò il pomo della scimitarra sulla testa dell’avversario e lo agguantò mentre, intontito dal colpo, cominciava a traballare, destinato a trascinare nella sua caduta un po’ del ciarpame di cui la tenda era stipata. Con un bieco sorriso di soddisfazione, Kanyu fece per uscire da dov’era entrato, ma dovette prima badare a trovare qualcosa che potesse aiutare il moribondo Dal. Riconosciuta la sacca che ogni untore era solito portare con sé, se la passò attorno alla vita ed attraversò l’apertura creata assieme al Naigh-Moor catturato, ancora inconsapevole. Appena fuori, porse il corpo fiaccato al Nano, correndo poi verso il punto in cui avevano già scavalcato lo steccato. Kanyu lo saltò nuovamente senza difficoltà, agguantando dapprima l’untore per la tunica e quindi il braccio del compagno. Quando entrambi furono finalmente fuori dall’accampamento, superò anche lui l’ultimo ostacolo e si caricò il prigioniero sulle spalle, correndo a più non posso lontano dall’accampamento. Trovarono Groargh che correva sulla stessa strada circa dieci minuti dopo: illeso, ma decisamente provato, l’Orco li osservava comunque con imperturbabile freddezza, rivolgendo occhiate dubbiose al fardello che si 433
portavano dietro. Tacquero per tutto il viaggio di ritorno, risparmiando ogni alito per la loro folle corsa: fradici di sudore, distrutti dalla fatica e dal dolore dei muscoli, raggiunsero infine il campo. Groargh fu il primo ad avvicinarsi a Dal, che era rimasto esattamente immobile come l’avevano lasciato. Un tragico presentimento si strinse nel petto dei tre. Solo quando l’Orco si voltò verso di loro con un sorriso distrutto poterono tirare il fiato. «È vivo» confermò quello, prendendo il polso del giovane e stringendolo con forza tra le dita. «Ora resta da vedere se questo verme collaborerà» obiettò il Nano, nel mentre si lasciava cadere sfinito accanto al moribondo. In quel momento, Kanyu gettò senza ritegno a terra il corpo dell’untore. «Collaborerà» garantì, e per sottolineare la sua convinzione assestò un calcio alla sua preda, ancora nel mondo dei sogni. Dinnanzi ai suoi deboli segni di risveglio, l’Esule reagì chinandosi e scuotendo con vigore l’ossuto untore. «Sveglia, cane!» esclamò e, prima che l’untore potesse dimostrare la sua lucidità, un violento schiaffo lo raggiunse sulla guancia, lasciando un segno violaceo tale da nascondere il tatuaggio che vi era stato disegnato. L’untore aprì in quel momento gli occhi scarlatti, carpendo in uno sguardo appannato le tre figure che incombevano sopra di lui. «Oh, il signorino si sveglia» sghignazzò il Nano, sistemandosi per la prima volta in tutta la nottata la barba bionda. «Sei un Maestro?» gli domandò a bruciapelo l’Esule, girando il volto del suo terrorizzato interlocutore verso il suo che, stanco e adirato, appariva ancor più terribile di quanto se lo sarebbe aspettato. «Ma… Dove… Dove sono?» chiese l’untore, sgambettando per ritrovare quell’equilibrio che la sua posizione semi sdraiata non gli dava, se non per la ferrea stretta di Kanyu sul colletto della tunica. «Qui le domande le faccio io, scarto di fogna.» rispose sprezzante quello, senza staccargli di dosso lo sguardo penetrante «Sei un Maestro?». L’untore esitò un solo secondo, prima di sputare con disprezzo sul volto pallidissimo dell’Esule. Lo schiaffò che ne seguì arrivò prima che l’interrogatore si fosse asciutto dal viso la sua saliva. «M’importa poco dei tuoi sputi, mi fa già abbastanza schifo guardarti. Sei un Maestro o no?». L’untore strinse i denti per il dolore e l’odio, poi si convinse che una risposta non avrebbe compromesso i suoi rapporti col Clan, di cui del resto gli interessava assai meno che della sua vita. «Un Maestro Istruttore del Nero» disse, ma quel titolo onorifico parve anche a lui privo di significato, tra le mani del suo peggior nemico. 434
«Di questo non mi frega niente.» replicò infatti l’altro, trascinandolo come una larva sino al corpo di Dal «Lo vedi? È stato ferito da uno dei vostri coltellacci infami». «Se quel coltellaccio fosse stato in mano tua, costui ora sarebbe morto, vero?» lo canzonò il prigioniero, portando entrambe le mani alla stretta dell’Esule, divincolandosi senza successo. «Non pensare a questo. Pensa piuttosto che ho strumenti molto peggiori per fare a pezzi te, anziché lui» Kanyu assestò all’altro un ennesimo strattone, portando il viso dell’untore vicino alla ferita del giovane, che proprio ora sembrava riprendere un po’ di conoscenza. Boccheggiava ripetutamente, rantolando ad ogni respiro mozzato, e le membra prima fredde avevano preso a bruciare di febbre, tremando di continuo. «Lo vedi? Tu puoi curarlo, lo so benissimo. Puoi e lo farai.» Kanyu tirò a sedere il prigioniero «Giusto?». Quello che gli venne risposto fu una debole risata. «Non sono così pazzo da servire uno schifoso traditore, Kanyu» sibilò a denti stretti. «La mia è una semplice offerta.» detto questo, portò la mano al lungo coltello legato al retro della cintura, che porse con noncuranza al Nano «Wagrat, accendi un fuoco: voglio quella lama arroventata entro dieci minuti». «Sei impazzito?» strillò l’untore, dibattendosi come un’anguilla, senza ottenere neanche stavolta risultati. «L’hai detto tu che aiutarmi è da pazzi, no?» l’Esule portò il volto del prigioniero quasi a contatto col suo «Se non ti va il coltello, posso chiedere al mio amichetto di spezzarti tutte le articolazioni.» e ammiccò all’Orco che, a quelle parole, non fece altro che impugnare con ambo le mani la sua mazza «Anzi, penso proprio che lo farò». «Fermo! Fermo!» urlò l’altro, coprendosi il volto con le braccia scarne. «Fermo? No, caro mio, la tua agonia durerà esattamente quanto quella di quel ragazzo, porco!» Kanyu sembrava letteralmente fuori di sé, mentre scansava le mani dell’untore senza sforzo «Pensi che io provi del risentimento a trattare così uno come te? O che i miei metodi siano più gentili di quelli dei tuo compari?». Il prigioniero fissò con sgomento quel viso carico d’odio per qualche secondo, tanto furioso da non avere il minimo ripensamento a ridurlo in polvere. «C-cosa ci guadagno, se lo salvo?» domandò, facendosi piccolo tra le feroci mani del suo aguzzino. «Ti lascio libero di tornartene dai tuoi senza torcerti un capello, ma solo quando vedrò che quel ragazzo si sarà ripreso» e indicò con decisione il giovane. «Voglio la tua parola!» esclamò allora l’untore, per nulla sicuro.
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«Cosa vuoi che me ne importi di un pidocchio come te, idiota? Ti ho detto una cosa e sarà quella. E ora muoviti!» senza ulteriori patemi, Kanyu scagliò il rapito a terra, porgendogli poi la sacca che aveva sottratto nella tenda. Per tutto il resto della notte, l’untore si occupò di applicare impacchi sulla ferita, preparare infusi e disegnare segni arcani sul terreno, controllato a vista dai suoi tre carcerieri, imperterriti nella loro decisione di sorvegliarlo con dovizia, indifferentemente dalla stanchezza. Dal si svegliava di tanto in tanto, spesso lamentandosi e gran voce e dibattendosi, in preda al delirio ed all’effetto, come almeno diceva l’untore, delle cure che gli venivano apportate. Kanyu aveva visto molte volte scene del genere in passato, tanto da mostrarsi piuttosto fiducioso nell’operato del prigioniero che, atterrito com’era, non reputava capace di fare sciocchezze quando la sua stessa vita era in ballo. Al mattino, l’untore prese le distanze dal giovane ed alzò con odio il viso verso l’Esule, inginocchiato accanto a lui. «Più di così non si può fare. Il vostro ragazzino sarà in piene forze tra qualche giorno… Che possa prendervi il Nero tutti quanti!» ringhiò, in un improvviso scatto d’ira. «Risparmia i complimenti per un’altra occasione.» lo schernì Kanyu, giocherellando col suo coltello «Sembra che tu abbia fatto un buon lavoro». Effettivamente, la pelle di Dal era chiaramente più fresca, il suo respiro si era fatto più regolare ed il sudore non imperlava più la sua fronte. Groargh e Wagrat poterono tirare anch’essi un sospiro di sollievo. «Avrei preferito approfittare dell’occasione per tagliargli i testicoli e farteli ingoiare, Traditore!» insistette l’untore, mostrando i denti gialli. «E con cosa? Non hai nemmeno uno spillo con te» l’Esule sfoggiò uno dei suoi beffardi sorrisi. «L’avrò ben presto.» minacciò l’untore, stringendo i pugni «Comunque, io ho fatto quello che volevate. Posso andare, ora?». Appena terminata la frase, il coltello dell’Esule penetrò tra le sue labbra, sforando oltre la nuca con la punta acuminata. «No» rispose con indifferenza Kanyu, intanto che lo squarcio si allargava sino al collo per le proprietà magiche del pugnale. Con un calcio, lasciò poi cadere di schiena il corpo ancora boccheggiante dell’untore.
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XLIII. Abbandonare la nave!
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Assolutamente inaccettabile!» ribadì aspramente il Signore degli untori, stroncando così ogni ipotetica obiezione da parte del Figlio dello Scorpione. Loto tacque di fronte al volto furente di Cenerdred, che pareva sul punto di uscire di colpo dal disco magico di comunicazione. Strinse le mani ossute, maledicendo fra sé quel vecchio che si ostinava a criticare, senza mai occuparsi veramente di qualcosa. «Farvelo sfuggire come pivelli! Un’intera guarnigione messa in crisi da due elfi oscuri e da un solo Orco!» proseguì Cenerdred, imperterrito «Combattete contro quattro scalzacani e questi sono i risultati? Dovreste soverchiarli solo con il vostro numero!». «Il Clan della Peste non corre alcun rischio di essere debellato da così pochi avversari» si schermò il Figlio dello Scorpione, rialzando con risolutezza il capo. «Non di essere debellato!» inveì l’altro «Ma Kanyu e i suoi sgherri minano considerevolmente le basi del Clan! Che immagine forniamo di noi, se ci facciamo giocare da così pochi avversari? È inammissibile!». «E allora cosa dovremmo fare? Attaccarli? Con quel demonio di Kanyu, c’è da temere che elimini mezza guarnigione fra trappole e imboscate». «Temere? Dunque è questo, il problema: tu lo temi!» ringhiò un sempre più accigliato Cenerdred, eppure Loto fu certo di intravedere una sorta di soddisfazione in quello sguardo «E pretendi che metta i miei migliori untori nelle mani di un pavido? Adesso basta! Ti sollevo dal tuo incarico: qualsiasi adepto risponderà soltanto a me, d’ora in avanti!». Loto sentì nascere dentro di sé un impeto di rabbia incontrollabile, tale da fargli nascere il desiderio di correre dal vecchio e staccargli la testa a calci. Era questo che voleva sin da principio, senza ombra di dubbio, ma non poteva strappargli Kanyu dalle mani a quel modo: non avrebbe rinunciato al divertimento di sfidare un così valido avversario. Tuttavia, chiuse improvvisamente gli occhi, riaprendoli solo poco dopo, con un’incredibile calma e il suo folle sorriso sulle labbra. «Come disponete, mio signore.» proferì, destando il sospetto di Cenerdred «Allora, quale sarà il prossimo ordine?». Il vecchio rimase spiazzato, a disagio dall’innaturale cambio d’umore del Figlio dello Scorpione, ma non gli ci volle molto ad elaborare una teoria logica: quell’aria spavalda lo invitava spudoratamente a dimostrare la sua superiorità, il suo diritto di sedere sul trono di sterpi. Loto aspirava innegabilmente al suo 437
posto. L’avrebbe scannato come un animale inutile, scuoiato con le sue stesse mani! Neanche il Nero gli avrebbe negato questo piacere, vista l’incapacità del suo prescelto. «L’unico che possa esser considerato intelligente.» disse, socchiudendo gli occhi «Ordino che tutti gli untori delle Terre Piagate raccolgano i loro oggetti e si trasferiscano nell’accampamento principale. Lo trasformeremo in una fortezza inespugnabile e quel dannato Traditore non potrà attaccarci». «Così facendo, lasceremmo molti campi vuoti e limiteremmo il nostro raggio d’azione, mio signore» si limitò a far notare Loto, senza cambiare atteggiamento. «Non potranno starci addosso in eterno, né possono immaginare dove si trovi l’accampamento principale. Quanto ai nostri accampamenti, non lasceremo là nulla di compromettente, né armi che potrebbero essere usate contro di noi.» il vecchio si concesse un sorriso di compiacimento «Voglio proprio vedere cosa faranno, da soli, sperduti nel nostro regno. Dovranno allentare la guardia, prima o poi, e allora colpiremo». «E se se ne andassero?» domandò ancora Loto «Potreste perdere l’occasione per mettere le mani su Kanyu». «Il verme è ostinato: non rinuncerà ad assalirci neanche se lo trascinassero via a forza. E ora sbrigati! Voglio il Clan riunito qui al più presto!». Loto riuscì a stento ad effettuare un inchino di saluto che il disco magico si era già dissolto assieme al viso rugoso di Cenerdred. Chiuse il pugno sul petto, torcendo la veste con la giovane mano. Inspirò a fondo e sul suo viso il sorriso si fece sempre più largo, fino a manifestare spudoratamente la pazzia che l’aveva reso tanto famoso tra gli untori. Cenerdred poteva far eseguire tutti gli ordini che voleva, ma quel sussurro che gli fischiava nelle orecchie in quel momento lo rassicurava, accrescendo la sua euforia. Che quel vecchio si godesse il suo illusorio trionfo su di lui, per quel che se ne poteva fare. All’accampamento centrale? Non poteva fare una scelta migliore. E chissà che non fosse stata la stessa vocina a dargli quel consiglio. A quel punto, Loto non seppe trattenere le sue scroscianti risa. Nessuno fece caso all’ennesimo scoppio di ilarità di un folle fuori controllo. C’era stata una sorta di nebbia, prima. Come affogare nei fumi delle paludi, ma immensamente più intensi. A tratti, tutto mutava in ombre acri e soffocanti, poi in luci accecanti, in un delirio infinito di colpi di colore. L’incoscienza era una salvezza, un vuoto momentaneo che riposava la mente tra un assalto e l’altro. E lì c’era la madre, un uomo con la barba di cui non ricordava il nome, vecchi agricoltori, Nani, Elfi, decine e decine di volti, molti dei quali senza identità. Li conosceva? La sua anima gli rispondeva di sì, ma era tanto lontana dal 438
riconoscerli. Frammenti di memoria, sprazzi sfumati di ricordi. Recenti? Forse. Poi gli parve di essere sotto una pioggia turbinante di fuliggine. Una macchia bianca e miriadi di coriandoli neri. Sbatté le palpebre un paio di volte e sparirono, senza lasciare traccia. Il vento le aveva scacciate via, ma come aveva fatto, se la sua pelle non ne era stata neanche lontanamente accarezzata? Mugolò senza volerlo, riconoscendo la macchia chiara sopra di lui come il cielo delle Terre Piagate. La prima vera sensazione che provò fu quella del freddo e della rigidità che gli avvolgeva tutto il corpo. Tremò, con un secondo gemito. Qualcosa di pesante gli crollò su una spalla, inducendolo a voltarsi. Ed era una gran brutta faccia quella che si trovò dinnanzi. «Stupido Naigh-Moor.» disse quell’essere verdastro, mostrandosi apparentemente di buon umore «Guai a te se ci fai prendere un altro colpo del genere». Dal rimase ad osservarlo per qualche istante, silenzioso e incuriosito. «Eh?» riuscì solo a sussurrare, riconoscendo finalmente il muso di Groargh e la sua mano come il macigno posato sulla spalla. «Fatti una dormita» gli impose quello spostando la mano sugli occhi dell’elfo. Senza rendersi veramente conto di quel contatto, Dal crollò di nuovo nel sonno. Il giovane era ancora intontito, quando riaprì definitivamente gli occhi. Da quel che vide, erano tutti felici per qualche motivo che lo riguardava, visto che gli si avvicinavano e lo studiavano sin nei minimi particolari, trattenendosi attorno a lui come davanti al fuoco della cena. Confabulavano allegramente tra loro, più di quanto Dal li avesse mai visti fare da quando si erano incontrati. Gradualmente, poi, immagini di dolore e fatica delinearono i loro contorni nella mente del giovane, che a stento si riconobbe ferito, visto il solo graffio riportato alla spalla destra. Solo quando si sentì la mente abbastanza schiarita da non essere soltanto un mero oggetto di osservazioni e felicitazioni, prese la parola. «Scusate la domanda cretina…» mormorò con voce roca, provando inutilmente a mettersi seduto «Ma si può sapere che è successo?». Ne seguì un secondo di incredulo silenzio, accompagnato poi da fragorose risate, che ebbero il solo risultato di rendere Dal ancora più confuso e insicuro. Solo Kanyu restava in silenzio, in piedi, le braccia incrociate al petto, come di consueto. «È successo che ho ricambiato il favore.» spiegò proprio questo, osservandolo dall’alto in basso «Tu mi hai salvato la vita e io l’ho salvata a te». Non aggiunse altro, se non mostrare un piccolo sorrisetto sulle labbra nivee. Date le spalle ai tre, si allontanò elegantemente verso la sua postazione d’avvistamento.
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Dal avrebbe fatto volentieri a meno di essere portato in braccio come un bambino dall’Orco, durante le lunghe marce della compagnia, ma quelle gambe malferme lo tradivano dopo un’ora di camminata. Non era piacevole sentirsi un impedimento per gli altri tre, ma nessuno di loro si mostrava particolarmente preoccupato o severo verso le sue debolezze. «Fai finta di esserti azzoppato, ragazzo.» gli disse Wagrat, fissandolo con allegria «È già qualcosa che tu sia sopravvissuto al veleno: mica possiamo lasciarti qui, dopo quello che abbiamo patito per salvarti la pellaccia». «Ah, grazie del pensiero.» commentò sarcastico l’elfo oscuro, dalla sua comoda ma umiliante posizione «Fa piacere sentirsi così benvoluti». «Oh, piantala!» sbottò il Nano «Ma siete tutti così permalosi, voialtri NaighMoor? Mi ricordi quel rompiscatole che ci costringe a stare in questo posto puzzolente.» Kanyu finse fin troppo palesemente di non aver sentito «E poi cambiamo posizione proprio per mantenerti vivo: che altro pretendi? Gracilino come sei, basterebbe un alito di vento a buttarti per terra». «Gracilino?» Dal si dibatté come un ossesso, tentando di scendere a terra «Groargh, fammi scendere! Voglio riempire di calci il posteriore di quel tappo, giusto per farlo crescere di qualche centimetro!». «Sta buono o ti pianto a testa in giù nella prima pozzanghera di pantano che troviamo» rispose paziente l’Orco, che non trovava per nulla difficile tenere a bada il giovane elfo. Segretamente, anche lui sapeva però di quanto quelle gare d’insulti e frecciate fossero ciò che entrambi volevano, e lo testimoniavano i ghigni e le risate sommesse che seguivano solitamente sia da un lato che dall’altro. Con gesto imperioso, Kanyu impose di tacere, ricordando loro la pericolosità di quei paraggi. Improvvisamente, il silenzio ridiscese sulla piccola compagnia. Dal, provato dalla fatica, si lasciò andare contro il petto dell’Orco, sospirando. Null’altro gli parve mai più fraterno di quei semplici gesti. Quella sera, la cena non fu altro che carne cruda, consumata in silenzio tra le ombre di uno di quei ripetitivi canneti dove i quattro si erano rifugiati. Kanyu, come suo solito, era il primo a montare la guardia ed il più restio ad abbandonarla, consapevole di quanto sbaragliante poteva essere l’attacco di tutti quegli untori che aveva affrontato assieme al suo giovane allievo. L’espiazione della sua colpa, di quell’errore che aveva quasi portato alla morte di un altro compagno, non era ancora lontanamente completa e certo non lo sarebbe stata fino a quando Dal non fosse riuscito a tornare padrone di tutte le sue energie. C’era stato del fermento, quel pomeriggio: passi uditi in lontananza e alcuni rumori che potevano essere quelli di umanoidi, quindi per forza di miserabili untori. D’altro canto, era pur vero che non erano solo loro gli abitanti 440
delle Terre Piagate: forse qualche Intagliatore, o una banda di qualche creatura bipede. Era però vero che solitamente gli esseri che infestavano quelle zone erano tanto pericolosi quanto gli untori, se non di più. In allarme, la compagnia aveva allora badato a ogni singolo dettaglio, senza concedersi neanche un attimo per rilassarsi. Dal, più di tutti, stringeva nelle mani l’armata balestra: lui era la causa di quelle lunghe soste, sebbene i quattro girassero costantemente in tondo, tenendosi molto larghi rispetto all’infido accampamento. Se fosse successo qualcosa, spettava a lui dimostrarsi capace di non essere un infermo, di poter difendere i suoi compagni, nonostante la sua debolezza. Ciascuno di loro avrebbe fatto lo stesso, al suo posto. Addentava perciò con voracità la sua carne, seduto, le spalle appoggiate ad un paio di canne abbastanza resistenti. Groargh appariva il più calmo dei quattro, tanto da tenere a freno la sua fame con morsi stranamente misurati, per un membro della sua razza. Alzava a volte la testa al cielo e fissava le stelle per alcuni secondi, assorto: quando la riabbassava, lo faceva scuotendo il capo e i pochi capelli rossastri. Dal, contrariamente a tutti i suoi fermi propositi di veglia, finiva per farsi attrarre da quel comportamento e scrutava a lungo l’Orco quando questi non poteva vederlo, cercando di cogliere nel suo sguardo un indizio che lo portasse a comprendere cosa gli prendesse. Vi indugiò tanto che il massiccio compagno alla fine lo notò e lo fissò imbronciato, inghiottendo nervosamente l’ultimo boccone del suo pasto. «Ti domandi a cosa penso?» gli chiese, quand’ebbe finito. Dal abbassò la balestra, imbarazzato, ma la curiosità andava oltre il rossore che infiammava le sue guance. Annuì, senza lasciarsi scappare parola. «A quante volte ho rischiato di morire per qualcun altro.» rispose onestamente l’Orco, muovendo rozzamente il prominente labbro inferiore «Non è la prima volta». «Oho, tempo di rivelazioni.» s’intromise il Nano, arrancando verso gli altri due con fare saputello «Il nostro Groargh vuole raccontarti qualcosina di sé…». Il grugnito scocciato dell’Orco fece svanire quell’espressione dal volto di Wagrat con una facilità inaspettata. «Va bene, va bene.» si affrettò a scusarsi il Nano, sollevando le poderose braccia «Anche se è quello che farai». Groargh distolse lo sguardo sdegnato, congiungendo le mani venose. «Dicevi?» lo incalzò un ben più serio Dal, non senza aver lanciato un’occhiata di disappunto a Wagrat. L’Orco osservò il Naigh-Moor con scetticismo e sbuffò, ancora irritato dall’intrusione inadeguata del Nano. «Prima di conoscere Wagrat, quando ancora vivevo fra i miei simili, non c’era un odio così violento, tra me e gli altri Orchi. Ci sopportavamo.» disse, 441
assottigliando le fessure rossastre «Io ero, forte, sì, ma nulla di… Straordinario.» sillabò la parola con attenzione, annuendo poi dopo essersi accorto di averla pronunciata correttamente «Ero rispettato, però. Avevo una capanna e un’arma adeguata. Capitava che io e i miei compagni ci avventurassimo sino ai confini dei nostri territori. Una volta, trovammo un Elfo dei boschi… O così ci disse di essere. Parlava bene la nostra lingua, non so come mai». «Un Elfo dei boschi?» Dal inclinò il capo, di colpo completamente dimentico delle Terre Piagate, degli untori e di tutto il resto «Com’è fatto?». Groargh agitò le braccia con aria incerta, come a voler modellare l’Elfo di fronte ai compagni. «Non lo so… Un Elfo. Con la pelle più rosea e pieno di tatuaggi.» disse brevemente «Disse che si era perso e lo facemmo prigioniero. Era una sorta di trofeo esotico.» fece una pausa, grattandosi la nuca liscia «Mi occupai di sorvegliarlo e cominciò a parlarmi di cose che nemmeno immaginavo di sentire, da un prigioniero: mi raccontava dei viaggi che aveva fatto, della concezione che il suo popolo aveva della natura e di ciò che li circondava… E mi parlava della sua famiglia, della sua città, dei suoi amici, senza il minimo timore di non rivederli. Quando gli chiesi perché non aveva paura, mi rispose che non temeva il suo destino». «Sempre ammesso che esista» obiettò Dal, storcendo le labbra. «Diceva anche che non avrebbe fatto resistenza.» riprese l’Orco, che non aveva fatto caso a quanto gli era stato appena detto «E che però non capiva perché dovesse venire ucciso… Come io non capivo lui. Proprio su questo fece perno: cominciò a dire che il mio destino non era quello di uccidere senza motivo, ma di usare la mia mente, di godere la mia libertà. Mi convinse che avevo trovato qualcuno in grado di ascoltarmi più di quanto i miei simili potessero fare. Lo feci fuggire». «Non è molto diverso da quello che ho fatto io con un generale Umano di nome Marcus Darnissor.» disse il Naigh-Moor, fissando il terreno arido ai suoi piedi «È morto durante la nostra fuga». «Quell’Elfo no.» ribatté sprezzante Groargh, improvvisamente stizzito «Mi disse che saremmo andati entrambi nell’Impero e lì avrebbe garantito per me. Sembrava assurdo, ma mi dava fiducia. Una sera, gli chiesi di incidermi un tatuaggio come i suoi e lui disegnò quel grifone sulle mie spalle. Disse che era un animale che simboleggiava l’onore e, quindi, perfetto per me. La mattina dopo, era scomparso, lasciandomi in mano dei miei precedenti compagni. Mi bandirono, la cosa peggiore che potessero farmi». L’Orco si lasciò andare ad un nuovo sospiro, incrociando le grosse gambe l’una con l’altra. Dal rimase ad osservarlo senza dire nient’altro: a quanto pareva, 442
c’erano persone più sfortunate di lui, tanto da aver essere abbandonati anche dalle loro guide. «Non mi piace mostrare questo tatuaggio perché simboleggia l’inganno delle mie speranze. Dubito che ne andrò mai fiero.» aggiunse cupo Groargh, indicandosi le spalle con il pollice destro «Chissà che questo viaggio non mi causi qualche altra cicatrice da ricordare». «E di quelle saresti fiero?» chiese il giovane, scrutando a fondo il volto dell’Orco. Groargh si astenne dal rispondere, la testa bassa. Si alzò lentamente e si voltò verso il luogo dove Kanyu sorvegliava la zona, chiudendo i grossi pugni. «Credo di sì» disse alla fine, allontanandosi per dare il cambio all’Esule. Dal si appisolò prima che il pericolo venisse scongiurato, appena un paio d’ore dopo: Groargh gli accennò di malavoglia che i rumori uditi erano causati da un branco di strane bestie con le corna, dirette verso tutt’altra parte, e che quindi non c’era da preoccuparsi. Il giovane, appena destato, non ebbe nemmeno la forza di domandare come si potesse trovare normale che, viaggiando, uno incontrasse branchi di “strane bestie con le corna”. Annuì lentamente e, come il suo capo fu di nuovo basso, ricadde nel sonno interrotto. I giorni che seguirono furono inaspettatamente tranquilli: neanche il più piccolo sospetto di pericolo venne confermato e le giornate si susseguirono sempre più piatte e monotone. Le provviste, che non avevano mai rappresentato un problema, presero pian piano ad esaurirsi, sino a costringere la piccola compagnia a darsi ad una caccia piuttosto difficile, vista la scarsità di specie commestibili che si potevano trovare in quei luoghi. Kanyu vi aveva però passato parte della sua giovinezza e, per quanto il cibo che procurava si poteva a fatica definire mangiabile, era pur sempre qualcosa che riempiva lo stomaco. Erbe, rettili, grosse radici simili a patate… E le infinite lamentele di Wagrat. Dal non sapeva se gioire per i progressi della sua guarigione o maledire il tempo ancora necessario per poter tornare quello di un tempo. Per sua fortuna, non era il solo ad essere stufo di quella snervante attesa: di punto in bianco, tre giorni dopo, Kanyu stabilì che era il momento di muoversi. «Per fare cosa?» dovette domandare il Nano, prendendo tra le dita la coda di un’insipida lucertola con sei zampe. «Abbiamo indugiato troppo e il nemico non si è fatto vivo: molto probabilmente, tramano qualcosa.» rispose, prendendosi il sottile mento tra le dita, lo sguardo perso lontano dal piccolo campo «Andremo all’accampamento e cercheremo di capire qualcosa».
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«Se hai intenzione di tentare un altro attacco disperato, dimmelo subito, così ti do una bastonata sulla testa» brontolò l’altro, gettando via disgustato i resti dell’animaletto. «Il nostro obiettivo non è quello di sbaragliare l’accampamento, dove ormai attenderanno il nostro ritorno.» lo smentì, inchiodandogli sul viso un’occhiataccia di disappunto «Dobbiamo trovare delle indicazioni per l’accampamento principale: è lì che si trova Cenerdred ed è lui che deve morire.» si volse quindi verso il giovane Naigh-Moor, fissandolo con severità «Questo è un lavoro per gente più cauta di un Orco o un Nano: te la senti?». Dal avvertì una punta di rabbia e vergogna salirgli sino al petto. «Da quando mi fai domande del genere?» replicò senza gentilezza «Mi credi così rammollito, per caso?». «No, ti crede mezzo avvelenato.» disse il Nano, piantandosi sulla testa l’elmo «E sarei tentato di ricordare a tutti che questo nobile Nano si è dimostrato perfettamente all’altezza di chiunque altro, nell’intrufolarsi in quell’accampamento». Ma non aveva ancora finito di parlare che Kanyu aveva annuito, congiungendo le braccia al petto. «Mezz’ora di pausa per riorganizzarci.» decise, senza attendere che Wagrat finisse di parlare «Poi partiremo tutti assieme. Io e Dal cercheremo qualche informazione; voi due ci coprirete le spalle». Giunsero in vista dell’accampamento in meno tempo di quanto il giovane elfo avesse sperato: mostrarsi così ardito non era stata la più saggia delle mosse, forse. Non poteva dire di sentirsi ancora debole, visto che le sue gambe resistevano senza dargli fastidi alle lunghe marce abituali. O, perlomeno, resistevano allo sforzo fisico: il riposo non aveva attenuato il loro tremolio e, ora che si avvicinavano nuovamente a quel luogo, supplicavano pavidamente il loro padrone di tornare indietro. Ad ogni metro, la paura si presentava più forte e violenta, rallentando considerevolmente la sua andatura. Ma all’inferno la sua anima fiacca! Non aveva combattuto la debolezza fisica per cadere in quella mentale. Colmò con lunghi passi il breve distacco che si era formato fra lui e il resto della compagnia, alzando la testa. Doveva esser grato di quanto stava per succedere: quanti giovani ottenevano la loro maturità in un modo così diretto, per un così giusto fine? Non c’era bisogno di essere troppo intelligenti per capire che, ovunque si sarebbe recato, avrebbe dovuto combattere con la spada ed il carattere, per poter vivere degnamente. La spada l’aveva e la sapeva usare: ciò che gli serviva, ora, era la forza di non sfoderarla se non fosse stato strettamente necessario, e quella di trattenere dentro di sé la paura di affrontare il mondo. E se fosse morto in quell’impresa avrebbe potuto urlare sino all’ultimo di aver 444
vissuto onorevolmente quanto gli era stato concesso. L’impeto della giovinezza gli bruciava le carni come un’altissima fiamma e non bastò la debole pioggia che cominciava a cadere a placare quanto si stava agitando dentro di lui. Pochi minuti dopo, furono in vista dell’accampamento; Kanyu stese un braccio, arrestando la compagnia dietro di sé, quindi si volse verso di loro. «Qui ci dividiamo.» annunciò, fissando a turni gli occhi di ciascun suo compagno «Io e Dal avanziamo sul lato destro. Voi fatevi più vicino che potete. Chiaro?» i tre annuirono all’unisono, preparandosi a separarsi «Andiamo». Dal si trovò ad avanzare furtivamente dietro a Kanyu quasi senza rendersene conto. Silenzioso e immoto, l’accampamento nemico si faceva sempre più vicino, un gigante addormentato da non destare per non perdere la vita. «Sicuro, allora?» chiese un’ultima volta Kanyu, quando si trovavano ancora lontani dalla palizzata. «Sicuro» rispose Dal: la sua mente, tuttavia, non sapeva dirgli se sapeva veramente cosa stava facendo. Ogni ripensamento venne però bandito quando l’Esule gli diede la schiena, avvicinandosi a passi svelti alla palizzata: immediatamente, si arrestò di fronte allo stato di totale abbandono dell’accampamento. «Sembra che non ci sia nessuno…» osservò Dal, stupito. «È assurdo» sussurrò fra sé l’altro, facendosi ancora più vicino: niente. Kanyu si sforzò di guardare attraverso una fessura tra un palo e l’altro, solo per incappare nello stesso risultato. Completamente in silenzio, spoglio di qualsiasi oggetto che non fossero le vuote tende degli untori, il campo appariva solo come lo scheletro di quello che era stato poche notti prima. «Assurdo.» ripeté l’Esule, allontanando il viso dalla palizzata «Scavalchiamo e fai attenzione. Può essere una trappola». Atterrarono con un piccolo tonfo all’interno del campo, acquattandosi velocemente dietro la prima tenda che trovarono. Vuoto, del tutto vuoto. Kanyu si tirò in piedi stralunato e avanzò per un poco al riparo da sempre più improbabili occhi nemici. Senza notare nulla, si azzardò anche a portarsi nel centro dell’accampamento, seguito a ruota dall’allievo. «Non sembra una trappola» osservò timidamente il giovane, portando comunque la destra all’impugnatura della scimitarra. «Dì pure che non c’è davvero nessuno, e non certo da stamattina.» ammise il pallido elfo, guardandosi attorno «Se ne sono andati, portando con sé tutto quello che potevano». «E dove?» la mano del giovane si rilassò, allontanandosi dall’arma. «Non sono un indovino. Raggiungi le porte dell’accampamento e fai segno agli altri di farsi pure avanti: si saranno accorti anche loro che non c’è nessuno e potrebbero esserci utile per capirci qualcosa». 445
Per l’appunto, Groargh e Wagrat si avvicinarono con viva perplessità, quando notarono Dal sbracciarsi, completamente solo, davanti all’accampamento. Ne seguirono alcuni minuti di discussione, in cui tutti e quattro si trovarono più che altro a ripetere le stesse osservazioni, anziché intuire cosa potesse essere accaduto. «A questo punto,» concluse Kanyu «l’unica cosa da fare è rivoltare senza esitazione questo accampamento: possiamo solo sperare di trovare un indizio». «E se non ne troviamo?» chiese Dal, piuttosto dubbioso. «Mi venga un colpo se abbandonerò queste Terre sino a quando non avrò fatto ciò che devo» ringhiò sbrigativamente l’Esule, confermando senza saperlo l’ipotesi di Cenerdred. Guardatisi in volto un’ultima volta, stabilirono le zone dell’accampamento da perlustrare, apprestandosi a farlo senza troppa convinzione. Di tanto in tanto, qualcuno esclamava di aver trovato qualche pergamena o una boccetta di liquido misterioso, ma nessuna traccia di quanto poteva essere accaduto. Groargh arrivò persino a capovolgere le tende e rovesciare ogni cassa o baule che incontrava, alquanto seccato dalla loro vana ricerca. D’un tratto, Wagrat richiamò l’attenzione di tutti c0n vive esclamazioni, giunto ad una tenda perfettamente anonima. Quando tutti furono accorsi, non poté fare a meno di mostrar loro quanto aveva trovato: in bella mostra, su un basso tavolino era disposta una sorta di vasta mappa, senza che nessuno si fosse curato di portarla via. Kanyu scansò rudemente il Nano, piantando le mani sulla preziosa pergamena: sgranò gli occhi, seguendo con il dito un percorso accuratamente tracciato. «Ma è una mappa delle Terre Piagate!» quasi urlò, mentre gli altri tre si accalcavano alle sue spalle «E guardate qua, è perfettamente dettagliata!». Un coro di giubilo si levò dalle bocche della compagnia, arginato solo dallo sguardo tutt’altro che allegro di Kanyu. «C’è poco da felicitarsi.» fece loro notare «Guardate qua, questo non può che essere l’accampamento principale… E questo è il punto da cui siamo partiti». «E non dovremmo essere contenti?» Dal si fece accanto all’elfo, esaminando a sua volta la mappa «Questo è un colpo di fortuna!». «Ti pare normale che, quando tutto è stato portato via con la massima attenzione, questa mappa sia stata dimenticata qui?» Kanyu chiuse il pugno, assottigliando lo sguardo «Non ti è bastato finire avvelenato una volta?». «Magari il proprietario della tenda è morto.» propose Groargh, che si era messo in disparte «Qualche cadavere ce lo siamo lasciato dietro». «No, è impossibile.» insistette l’Esule «Questa è la tenda di un adepto senza particolare peso… Qualora fosse morto, non poteva sapere dove si trovasse l’accampamento principale: nemmeno io l’ho mai saputo». 446
«Quindi?» chiese Dal, riportando l’attenzione sulla cartina: mai ne aveva viste di così dettagliate, particolare che dava ragione a Kanyu. «Quindi…» Kanyu si drizzò sulla schiena, guardando verso i compagni «Questa mappa è stata lasciata qui intenzionalmente. Qualcuno ha voluto che la trovassimo». Tre paia d’occhi spalancati si rivolsero verso l’Esule. «Allora è un trappola» disse Wagrat, accarezzandosi la barba «Nel punto in cui è marcato l’accampamento principale, troveremo magari una ventina di draghi alti quanto una torre ad attenderci». Kanyu si concesse un sorriso rilassato nell’udire quell’osservazione. «Quanto fatalismo, vecchio mio.» commentò, incrociando le braccia «A parte il fatto che gli untori disprezzano apertamente i draghi, dubito che troveremmo una così imponente difesa. No, sarebbero troppo stupidi a credere di poterci ingannare col solito trucco dell’altra notte. Nemmeno un pazzo irromperebbe nuovamente attraverso un accampamento, dopo la batosta che abbiamo subito». «Io non ho voglia di badare di nuovo a una signorina ammalata» aggiunse Wagrat, osservando con aria innocente il più giovane della compagnia. «Dubito che accadrà.» continuò l’Esule «Innanzitutto, sono riuscito a recuperare alcune boccette di antidoto dall’accampamento. Io non ne ho bisogno, visto che non c’è veleno che possa scalfirmi; un Orco, poi, ne ha forse meno bisogno di me… Quanto a voi, dividetevi le boccette». Dal osservò incuriosito Kanyu: nessun veleno poteva scalfirlo? E quel parassita nel braccio? «Gli untori sono protetti da sempre con cicatrici rituali, oltre che con vaccini contro ogni tipo di veleno.» spiegò l’Esule, colta sul viso di Dal una sfumatura di sfiducia «Eccezione fatta per le entità organiche, come ho avuto modo di provare. Ma non c’è da preoccuparsi: mi basterà incidere ogni ferita il prima possibile ed eviterò che una di quelle schifezze possa danneggiarmi». «E gli Orchi?» domandò il giovane Naigh-Moor. Groargh scrollò le spalle con noncuranza. «Solo una ferita profonda potrebbe superare le nostre difese naturali.» l’Orco si batté una mano sulla robusta corazza «Abbiamo la pelle troppo dura per voi». «Al di là di questo,» Kanyu riprese la parola con calma «la mia opinione è che qualcuno abbia tradito segretamente il Clan, forse per fini personali». «Tipo prendere il posto di Cenerdred?» domandò il Nano con sagacia. «Probabile. Quel tipo che si fa chiamare Loto è il Figlio dello Scorpione, una sorta di prescelto di Junk Stok: non mi stupirei se volesse liberarsi dell’attuale Signore degli untori».
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«Il che significa che dobbiamo eliminare anche lui?» Dal si immaginò quella prospettiva come tutt’altro che rosea. «A quanto pare.» rispose l’Esule, voltandosi per arrotolare la cartina «Bene o male, dobbiamo raggiungere l’accampamento principale». «Con prudenza» brontolò Wagrat, contrario a tanta impulsività. «Con più prudenza di quanta ne abbia di solito un Nano.» sottolineò Kanyu «In una parola: silenziosamente».
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XLIV. Torrenti d’emozioni
S
trano a dirsi, Wagrat si mostrò più obbediente e taciturno del dovuto. Il suo solito entusiasmo scemò nel volger di poche ore, accartocciando il suo volto in una cupa espressione di evidente nostalgia. Marciare a testa alta contro un nemico tanto più grande portava come conseguenza continui ripensamenti a tempi più felici, senza ombra di dubbio, ma quanto un Nano di quel temperamento poteva risentirne? Non c’era timore nel suo incedere, né insicurezza, come aveva dimostrato già in ogni altra occasione. Solo il suo viso trasmetteva un dolore che andava oltre la dura scorza del guerriero: sembrava non avvertire niente, neanche quando le punzecchiature di Dal e Groargh si facevano più feroci. Da parte sua l’Orco, che conosceva il Nano da più tempo, non si scomponeva nel vederlo così remissivo all’allegria, contrariamente al giovane, che indugiava sul Nano con un misto di compassione e curiosità. Se anche Wagrat si rendeva conto di questo, nemmeno si voltava, preferendo proseguire per la propria strada, sia con i piedi che con la mente. La scena per l’elfo oscuro aveva del penoso; l’intera compagnia marciò però senza arrestarsi sino a sera quando, come al solito, tutti e quattro ebbero modo di sedersi e riempirsi lo stomaco. Dal teneva gli occhi fissi sul Nano, notando la fretta e la mancanza di appetito nei suoi atteggiamenti nervosi. Prima ancora che gli altri fossero a metà del pasto, Wagrat era già seduto in disparte, intento a frugare nella propria sacca. Groargh accennò solo ad un’occhiata verso il compagno, quindi riprese tranquillamente a mangiare. Kanyu, invece, non aveva occhi che per la mappa: la apriva e chiudeva con un lampo in quegli occhi solitamente tanto freddi, concludendo sempre con la solita soddisfazione. «Avanziamo nella giusta direzione» diceva, e a quel punto prendeva ad osservare il terreno scabro e immenso attorno a lui, scalpitando dal desiderio di riprendere subito la marcia. Poche ore prima, tutti si erano dimostrati entusiasti a quella notizia: ora, si limitavano ad annuire o non facevano neanche quello, cercando di arginare l’euforia del Naigh-Moor. In special modo, Dal era troppo occupato ad osservare Wagrat. Un uomo che scrive è una delle cose che più attira attenzione al mondo e, quando il Nano tirò fuori dalla sacca carta, pennino e calamaio, il giovane elfo non resistette alla tentazione di farglisi vicino. Wagrat lo squadrò con una sola, lunga occhiata, prima di rimettersi a scrivere, la pergamena adagiata sulle gambe incrociate.
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«Cosa vuoi?» gli chiese, mentre il magro elfo si sedeva al suo fianco, sistemandosi poi con attenzione i resti di quel mantello che testardamente si ostinava a portare. «Sapere cosa scrivi» rispose semplicemente il giovane, confidando che il Nano non avesse perso di colpo la sua generosità in cambio di un’improvvisa riservatezza. La prima espressione che comparve sul volto di Wagrat fu quella di uno sdegno irritato, che si addolcì però non appena gli occhi chiari del Nano si posarono sulle parole appena vergate. «Scrivo a mia moglie.» disse allora, tornando a intingere la penna nel calamaio «Alla mia famiglia». Dal venne colpito da quella dichiarazione così banale come da una doccia fredda. «Hai una famiglia?» domandò, con una netta punta d’incredulità. «È tanto strano?» Wagrat accennò ad un sorriso che si scioglieva teneramente in un distillato di pura dolcezza paterna. «Beh… No» spiazzato, l’elfo si grattò i folti capelli sulla nuca. «E invece sì, posso immaginarlo.» il Nano socchiuse gli occhi, tracciando qualche runa incomprensibile per il compagno «Ti è difficile capire che un padre e un marito sia tanto distante da casa, vero?» e alzò la testa verso l’elfo. Dal esitò ancora qualche secondo, prima di annuire, ritrovando finalmente piena padronanza di sé. «Voi non siete Nani. Ogni uomo si allontana molto presto dalla famiglia per difendere i confini del Karkanak da tutte le insidie che lo minacciano.» mormorò Wagrat, riprendendo con un sospiro a scrivere «Riusciamo a stare insieme durante i mesi di licenza, poi ognuno torna alle sue mansioni». «Non dev’essere facile.» commentò onestamente il giovane «Che senso ha una relazione così?». «Se non difendessimo i nostri confini, non ci sarebbe più una famiglia in cui tornare, ragazzo.» replicò duramente il Nano «Quando il nostro popolo sarà al sicuro, potremo vivere come millenni fa. Può darsi che io non veda mai quel giorno, ma farò in modo che lo vedano i miei figli». «Un nobile impegno». Wagrat ridacchiò, osservando dagli occhi ristretti a fessure il volto sorpreso dell’elfo. «Ma che razza di Naigh-Moor sei, tu? Un Kanyu in versione ridotta?». Dal si concesse un sorriso nell’abbassare la testa. «Queste sono cose che si sentono dentro, no?» disse, senza guardare il Nano «Immagino che il colore della pelle non conti».
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«Bella frase, me la segnerò.» Wagrat tornò alla sua lettera con rinnovata nostalgia «Ci teniamo in contatto come meglio possiamo, io e mia moglie… Quando mi trovavo all’Ordine era più facile, bastava mandare un messaggero». «E qui? Perché scrivi?». «Le manderò queste lettere appena saremo fuori da questo Inferno… Se mai ci saremo. Ognuna di esse riflette il mio stato d’animo in un determinato momento, e da ogni diverso stato d’animo trapela la mia vita e la mia anima». «Questa dovrei segnarmela io, invece. Hai un foglietto?» ironizzò Dal, ottenendo in risposta il tacito assenso del Nano «Non hai paura che lei…» e lì s’interruppe, torcendosi le scarne mani. «Che mi tradisca?» inaspettatamente, Wagrat continuava a sorridere «Non accadrà, Dal. Sia io che mia moglie eravamo consapevoli di quello che stavamo facendo, quando ci siamo sposati. Credimi, non accadrà». Dal lo osservò ancora per un attimo: il Nano non stava parlando per convincere sé stesso, né nessun altro: sapeva quel che diceva. Pochi secondi dopo, il giovane si alzò in piedi, lasciando con serenità il compagno a rievocare immagini di felicità. Lui poteva, in fondo. Il truce cipiglio del vecchio passò in rivista per l’ennesima volta gli attoniti individui che presidiavano incessantemente l’ampio accampamento: nessuno di loro si era mai trovato in condizioni tali da trovarsi assediati, tanto meno da un nemico così inferiore di numero. Cenerdred lo sapeva, proprio come condivideva il disagio dei suoi. A lungo aveva ripensato alla decisione presa, riflettendo a ragion veduta sull’eccessiva prudenza manifestata da quel gesto. Ma adesso, con l’enorme potenziale difensivo fornitogli dall’eccezionale numero di guerrieri presenti, nessuno avrebbe potuto anche solo pensare di sopraffarlo. E Loto non sarebbe riuscito a usurpare alcun trono, se era questo ciò in cui il giovane Naigh-Moor sperava. Il Signore degli untori congiunse le mani dietro la schiena ossuta, seguendo con lo sguardo l’interminabile palizzata di robusta legna, rinforzata opportunamente con barricate più o meno basse di pietra o fittissime sterpaglie, alimentate attentamente da un’energia magica costantemente rinnovata dai massimi Maestri del Clan della Peste. Neanche una mandria di bufali inferociti sarebbe riuscita a trapassare indenne quelle difese. Un paio di giovani adepti si diedero il cambio di fronte all’unica entrata dell’accampamento che, come qualsiasi altro campo degli untori, conservava la stessa struttura di ogni altra fortificazione nelle Terre Piagate, piccola o grande che fosse. Salvo per un’eccezione. Cenerdred accarezzò gelosamente il ciondolo nero che pendeva dal suo magro collo, il medaglione che lo identificava inequivocabilmente come la più alta autorità del Clan ed il solo, vero prescelto di Junk Stok. L’aveva udito ancora, 451
con la sua voce roca che di colpo diveniva tuonante e potente come l’onda del mare che di colpo scroscia contro gli irti scogli. Il Nero era con lui! In quel momento, così come lo sarebbe stato nella battaglia finale, nella definitiva vittoria contro il più fiero ed ardito oppositore che la storia degli untori ricordasse. Distorse il volto sfregiato in un sorriso nell’avvicinarsi al lato opposto dell’accampamento, arrestandosi di fronte ai pali che si scostavano di colpo, piegati dalla forza dei più forti e nodosi rovi che si fossero mai visti. Un lungo e stretto sentiero di sterpi si apriva magistralmente davanti al vecchio, invitandolo a penetrarvi. Cenerdred fu tentato ancora una volta di avanzare dentro a quel dedalo di feroci rampicanti irti di spine, di stringere nel suo pugno il medaglione e chiudere gli occhi chiari, lasciandosi guidare dai sussurri del suo padrone. Il Nero aveva cura dei suoi figli prediletti. Nessun individuo era mai riuscito a superare quell’inestricabile labirinto che si diceva esistesse da millenni e millenni, quando gli Dèi si diedero guerra sui campi del mondo ed edificarono le loro fortezze. Junk Stok aveva eretto quel labirinto, colmandolo d’infiniti trabocchetti e popolandolo di creature pari per aggressività ai Demoni stessi. Non c’era luogo più pericoloso in tutte le Terre Piagate, né nascondiglio più sicuro. Il Nero gli avrebbe indicato la via, se il pericolo si fosse fatto imminente, e nessuno sarebbe mai penetrato in quel labirinto, senza la prodigiosa pietra nera. Il vecchio si ritrasse con impazienza, continuando a fissare la lunga strada di fronte a lui. Là, nel suo accampamento, nemmeno Kanyu avrebbe potuto nulla contro il suo potere. «Maestro!» gridò d’un tratto una voce a lui sconosciuta, inducendolo a voltarsi: un adepto senza alcuna importanza, addirittura un infimo Umano, gli correva incontro, inchinandosi solo quando fu ai suoi piedi, dimentico di ogni regolare procedura. L’ira dovuta ad un tale affronto salì subitanea alla testa del vecchio Cenerdred, rigido sino alle ossa. «Che ti prenda una morte atroce, maiale!» imprecò, assestando un calcio contro la testa abbassata dell’adepto, facendolo rotolare immediatamente sul fianco «È questo il rispetto che porti per il tuo Signore? Prega che tu non mi abbia interrotto per niente o sarai il primo a finire scuoiato come l’animale che sei!». «Perdono, Maestro, perdono!» si scusò brevemente l’adepto, osando addirittura di alzare la testa verso colui che prima di chiunque altro aveva diritto di vita o di morte su di lui «Ma li hanno avvistati, Maestro! Un esploratore!». «Hanno avvistato chi?» ruggì il vecchio, chinandosi sino ad afferrare l’irruente untore per i capelli. «Kanyu, Maestro!» rispose l’altro, osservandolo con la disperazione sul viso «Kanyu e i suoi compagni!».
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«Cosa?» Cenerdred non esclamò altro, lasciando bruscamente andare la chioma dell’adepto mentre lo superava a gran passi «Dov’è Loto? Voglio quel dannato pazzo di fronte a me tra meno di un minuto!». Lo stesso Figlio dello Scorpione si fece avanti a quel richiamo, onorando tuttavia il rango del Signore degli untori con i dovuti gesti. Chinatosi dinnanzi a lui, si coprì la bizzarra acconciatura con la solita manciata di terra, presentandosi di fronte al proprio Maestro in tutta umiltà. «Il vostro debole servo si prostra come sempre dinnanzi alla vostra persona, sebbene l’intero campo sia in fermento» annunciò, piantando il magro punto al suolo. Ogni untore, infatti, dal primo all’ultimo, s’agitava e rumoreggiava confusamente, accalcandosi attorno a quanti parevano essere in possesso di qualche notizia certa sull’accaduto. Cenerdred ci fece a stento caso, continuando a fissare con astio l’elfo oscuro inchinato. «Figlio dello Scorpione,» disse, mantenendo intatti i formalismi «puoi confermare quanto è stato appena detto?». «Se vi riferite all’avvistamento del Traditore e dei suoi infami accompagnatori…» rispose prontamente Loto, atono «Sì. Stanno marciando chiaramente verso il nostro accampamento». «Figlio d’una cagna!» il vecchio scoppiò di colpo in uno scatto di funesta rabbia «Com’è possibile che ci abbiano trovati in così poco tempo? Avevo dato ordine di non lasciare la minima traccia negli altri accampamenti!». «A quanto pare, qualche incosciente ha trasgredito ai vostri ordini, mio signore.» la calma del Figlio dello Scorpione, per nulla turbato dalla sua abituale follia, era impressionante «Un gravissimo incidente. Ancor peggio, purtroppo, è il non poter individuare il colpevole». «E questo chi lo dice? Tu?» inveì furente il vecchio «Scannerò chiunque puzzi di tradimento! Se anche non troverò il colpevole, gli farò salire così tanto terrore che ci penserà due volte, prima di commettere nuovamente un’altra fesseria del genere!». «Con tutto il dovuto rispetto, mio Signore, con Kanyu alle porte dell’accampamento sarebbe uno sbaglio reprimere duramente un sospetto traditore, quando il loro arrivo qui potrebbe essere dettato da molti altri motivi. Non possiamo permetterci di fiaccare da soli le nostre difese». Cenerdred chiuse i pugni, serrandoli con una forza impensabile per un elfo della sua età, e fissò con odio rovente quel dannato che si ostinava a tenere la testa bassa: non c’era bisogno di magia per intuire che Loto stava sorridendo, così come per immaginare che fosse stato lui a lasciare a Kanyu gli indizi necessari a trovare l’accampamento principale. Ma se credeva che bastassero quattro avventurieri a far collassare il suo potere, si sbagliava di grosso. Senza una 453
parola di congedo, si avviò verso la più ampia capanna, esattamente al centro dell’accampamento circolare, svanendo tra le ombre formate dalle solide pareti. Un attimo dopo, Cenerdred riappariva su una sorta di spartano terrazzo, appoggiando le mani sulla rigida balaustra. Tutti, sotto di lui, correvano da un lato all’altro come formiche impazzite, lasciandosi andare ad urla d’ogni genere, dalla sfida alla disperazione, coi volti lacerati dalla sorpresa e dall’impazienza. Gli ci vollero alcuni minuti e parecchio fiato per riuscire ad imporsi su ogni presente, convincendo i più restii a suon di bastonate da parte dei più severi e tirannici membri del Clan. Quando tutto fu finalmente immerso in un silenzio accettabile, la sua voce provata dai secoli piombò sull’accampamento. «Avete udito, figli del Nero, la notizia!» tuonò, scrutando arcignamente i visi di quanti gli parvero più impauriti «Ho visto il vostro fermento, l’ansia e il terrore dentro ognuno di voi! Ma io vi dico, fratelli miei: rallegratevi!» il vecchio batté un forte pugno contro il legno, ignorando stoicamente il dolore che gli percorse tutto il braccio come un saetta «Se voi avete paura, sappiate che quei vermi che intendono strisciare sin qui ne hanno più di noi! Quattro! Quattro pazzi contro la nostra incontenibile forza! E dovremmo noi aver paura?». Un enorme coro di “no!” seguì ferocemente quelle parole, accompagnato da urla fanatiche e lame alzate al cielo, sguainate alla luce del sole pomeridiano. Cenerdred lasciò ai suoi modo di dar sfogo al loro lato più bestiale, mostrando poi il palmo in segno di silenzio. «Lasciate che il sangue scorra nelle vostre vene con la furia di un vulcano!» esclamò, riottenendo l’attenzione senza fatica «Perché presto di sangue ne verseremo a fiumi!». E intanto che la folla tornava ad acclamare il suo leader, il vecchio lanciò un’occhiata superba al silenzioso Loto, che si limitava ad applaudire vivamente con un largo sorriso sulle labbra. «Ti dico che ci hanno visto!» insistette il Nano, agitando teatralmente la braccia forzute. «E se anche fosse?» ribatté rilassato Kanyu, senza smettere di camminare. «Ti va di essere attaccato da un centinaio di assassini sbavanti?» domandò sarcastico l’altro, punto dall’arroganza del compagno. «Non vedo perché dovrebbe accadere: sono più sicuri là dove si trovano, piuttosto che fuori.» l’Esule lanciò un’occhiata verso quel puntino lontano che aveva identificato come l’accampamento «Era chiaro come il sole che ci avrebbero visti». «Senti un po’, genio di tattica:» sbottò il Nano, storcendo le rosse labbra «un po’ di cautela in più non avrebbe guastato, anziché puntare come incoscienti verso un bersaglio che potrebbe essere chissà cosa». 454
«Quello è l’accampamento principale» replicò l’elfo, che, stranamente, non appariva vicino a nessuna sfuriata isterica, sebbene Wagrat lo stesse tempestando di lamentele da almeno mezz’ora. «Perché lo dice la tua mappa! Non siamo affatto certi che sia autentica!». «Lo è, dai retta a chi è stato un untore. Ad ogni modo, se ti sembra così strano, sei libero di abbandonare questa compagnia, come chiunque altro». «Pensavo di non poterlo fare.» s’intromise Dal, che aveva ascoltato attentamente il battibecco tra i due «Credevo di non aver possibilità di scelta». «Infatti è così.» lo smentì senza alterarsi l’Esule «Ciò non toglie che puoi andartene con le tue gambe». Il giovane inarcò un sopracciglio, sorpreso dall’ambiguità di quella risposta più che dall’aperto invito rivolto al Nano. «Non mi sembra che abbia un senso» borbottò alla fine, abbassando la testa con ostinazione. «È più semplice di quello che sembra, Dal: sei ormai liberissimo di prendere la tua roba e andartene da qui, scappare e lasciarti questa storia alle spalle.» spiegò l’Esule «Però il tuo desiderio, la tua anima stessa ti tiene incatenato qui; non c’è bisogno che te lo chieda per capirlo. E adesso…» Kanyu si tolse lo zaino dalle spalle, posandolo a terra ed arrestandosi «Lo sarà ancora di più. Ci fermiamo: il terreno vicino ad un accampamento è sempre ricco di fauna o flora commestibile. Il nostro scopo, d’ora in avanti, sarà quello di spiare il nemico e cercare un modo per entrare». «Come mai così presto, quest’oggi?» disse allora Dal, lasciando cadere la questione ancora aperta. «È inutile viaggiare troppo in tondo: cambieremo spesso luogo per il nostro campo, senza seguire alcun ordine prestabilito. Questo dovrebbe servire a confondere gli untori quel tanto che basta per permetterci di ideare un piano.» il pallido Naigh-Moor si fece tuttavia torvo nel riflettere su questa prospettiva «Che nessuno sia mai da solo». «Sbaglio o non sappiamo nemmeno da che parte cominciare?» la voce di Wagrat era piatta, priva di umorismo o una qualsiasi forma di incriminante pessimismo. «Gli Dèi mi fulminino se presto non troverò il modo di ricacciare Cenerdred nell’inferno da cui è venuto» affermò in risposta l’Esule, tirando nervosamente le sottili corde della propria sacca. A quanto pareva, il destino non si era mostrato però benigno con Kanyu e la sua compagnia. Questo era esattamente ciò su cui Dal stava riflettendo, mentre si allontanava dal campo a fianco del taciturno Orco. Nei giorni precedenti erano state esposte numerose soluzioni al problema, ma nessuna di esse riusciva a 455
scacciare a sufficienza le perplessità dei quattro. Kanyu si rodeva il fegato con insistenza, spostando il campo da un posto all’altro, allontanandosi e avvicinandosi incessantemente, nella speranza che il suo cervello partorisse una plausibile ipotesi di successo. Gli altri tacevano, scambiandosi occhiate da cui trapelava tutta l’incertezza di quei momenti. Abbandonare tutto, adesso che potevano e il nemico se ne stava barricato nella sua tana, forte del suo numero e della posizione avvantaggiata. Almeno avessero sorpreso qualche adepto sprovveduto in giro per le Terre Piagate, qualcuno in grado di fornire informazioni sulle difese dell’accampamento. Era bastato avvicinarsi una notte per notare quanto la guardia fosse consistente, lo steccato alto e solido, e come i fuochi all’interno fossero perennemente accesi. Non sarebbe bastato un gigante, per fare irruzione in un presidio del genere. Dal si rigirò la balestra tra le mani, alzando lo sguardo verso il grosso Orco. A seguito di un cenno silenzioso, si separarono, aprendo la loro ennesima battuta di caccia. Dal cominciava a non sopportare più quel ritmo, quel cibo e quell’apatia che s’impossessava giorno per giorno della compagnia. Attaccare, bisognava attaccare, trovare una falla nel perfetto sistema difensivo del nemico. Tutta la loro vita, in quel momento, era una caccia serrata e continua contro una creatura furba e immensamente forte, paziente e rapida. Un dardo poteva trafiggere un uccello, una capra o anche il più robusto degli uomini, ma cosa poteva contro una bestia che contava i suoi guerrieri a decine, se non a centinaia? Una follia, ecco cos’era. Ma una follia che tutti e quattro affrontavano lucidamente, chi per un motivo e chi per un altro. Si alimentava della loro paura, dei loro dubbi, accrescendo di vigore per ogni proposta sbagliata, per ogni silenzio inconcludente. Strinse l’impugnatura della balestra, pregando selvaggiamente in una preda, il suo immaginifico e crudele avversario. Lì, davanti ai suoi occhi, molto più che un’ombra, la sua preda ignara cercava di procurarsi il cibo quotidiano. Drizzò le orecchie, irrigidendosi di colpo, ogni senso all’erta. Una bassa macchia di arbusti si stendeva pochi metri oltre e crepitava al pari di una fiamma che consuma il legno. D’un tratto si era arrestata, mettendosi chiaramente in allarme. Si era fermata, non c’era il minimo dubbio. La preda attendeva una risposta, un altro rumore che confermasse la minacciosa presenza del cacciatore. Dal rimase fermo finché non udì un nuovo rumore, molto più cauto del primo, ma non per questo irraggiungibile dal suo fine udito. La preda c’era davvero, allora. Osservò con la coda dell’occhio l’alto canneto alla sua destra. Doveva essere veloce e silenzioso, come si addice ad un vero cacciatore. Quel canneto non doveva, dopo tanta fatica, fornire un riparo a quella sfuggevole preda. 456
Concentrò i propri sensi sui rumori che potessero uscire dalla bassa macchia di arbusti: di fianco ad essa, un breve spazio di nemmeno tre metri costituiva per la preda il ponte tra un salvezza provvisoria e quella definitiva. Sempre che qualche altro predatore non avesse portato a termine quel compito al posto suo. No! Era lui che aveva bisogno di quel sangue! Lo bramava come un nettare squisito, degno solo del più grande cacciatore. I suoi sensi ammorbati dalla noia si risvegliavano come un improvviso declamare. Un altro veloce alternarsi di passi. Piantò il calcio della balestra contro la spalla, appoggiandovi poi lo zigomo destro. Era questione di attendere solo pochi secondi. E colpire al momento giusto. Non appena si sarebbe incautamente esposto al suo animalesco desiderio. Distintamente colse quei rumori: ecco, ora la preda usciva allo scoperto, sperando di sfuggire alla sua acuta mira. Il cuore gli rimbombò in petto come una scarica di droga. Era il momento tanto atteso! Dal tirò non appena scorse una sagoma schizzar fuori dalla bassa macchia di arbusti, vedendola dibattersi prima ancora che potesse allontanare il capo dal calcio dell’arma. Un altro di quei lucertoloni insipidi si torceva attorno al suo dardo dolorosamente, rifiutando testardamente di spirare. Staccò la testa dalla balestra, senza muovere un solo passo. Ora culminava la caccia! Dal avvertì in un istante un peso opprimente sulle spalle, tale da farlo cadere rovinosamente in avanti. Qualcosa lo strattonava febbrilmente, intanto che lui cercava di capire cosa gli stava accadendo. Una striscia fulva danzò per un istante davanti ai suoi occhi: una treccia. Sgranò gli occhi, mentre il principe di Armalak lo ribaltava brutalmente. «Guardami!» urlò Lohidran, con quegli smeraldi brillanti e immensi in un volto scavato, tormentato dalle fatiche della lunghissima caccia al fratello «Guarda in faccia chi ti ammazzerà!». Una scintilla rossastra divampò davanti a lui e Gloria Scarlatta, la temutissima spada, si disegnò nel pugno dell’assalitore. Dal aprì la bocca con un urlo che fu di tutto fuorché di paura. La mano destra si levò come un maglio contro il viso del fratello, portando con sé la robusta balestra. Lohidran rotolò all’indietro come un sacco di ossa, evitando accuratamente il colpo ferino. Rialzò lo sguardo inebriato verso Dal Jin tirandosi in piedi, simile ad uno scheletro riesumato da una strega. Suo fratello fece lo stesso, lasciando cadere l’arma improvvisata. «Degnamente, sino alla fine!» ringhiò Lohidran, tirandosi dietro le spalle il mantello violaceo: in quel gesto, ogni ombra di debolezza parve svanire e di
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nuovo il nobile principe di Armalak si erse superbamente di fronte al suo nemico «Come si addice a un vero avversario!». L’attimo seguente, Dal liberò velocemente la grossa scimitarra dal suo sostegno e la impugnò con entrambe le mani, chino sulla vita, le spalle rinforzate dalle fatiche e due fiamme ardenti sotto il ricco diadema; il risplendere di quei due rubini confluiva nell’altero bagliore degli scintillanti smeraldi. Il loro corrersi incontro al pari di due cervi battaglieri innalzò al cielo grigio il duello fratricida. Lohidran colpiva con la maestria del perfetto guerriero, con la grazia del suo braccio, e lo seguivano l’agitarsi del ricco mantello e il risuonar della preziosa armatura. La sua sottilissima abilità impattava contro un muro di titanica freddezza e le sue urla di furia trovavano come risposta i respiri frementi e i gemiti a denti stretti. Per ogni superficiale ferita che infliggeva al fratello, la destra gli doleva maggiormente per i fendenti attentamente parati. Danzò di fronte ad una brutale spazzata, rifuggendo acrobaticamente all’indietro. Dal sentì l’iniziativa farsi sua e giocare sulla sua lama. Rinnovò i suoi assalti come una macchina di morte, senza che le proteste degli arti martoriati dai tagli giungessero al suo cervello. Lohidran indietreggiò ancora; scartò sulla destra proprio quando il fratello girò fulmineamente su sé stesso, abbattendosi contro il lato verso cui l’avversario aveva riparato. Per un istante, i loro lunghi mantelli si ricongiunsero come il loro stesso sangue. Lohidran storse la bocca con stizza nel sentire uno spallaccio che veniva strappato via dalla finissima armatura e impattava contro il suo viso; in compenso calciò al momento giusto, come il suo istinto d’elfo oscuro gli suggeriva, e raggiunse facilmente il fianco del fratello. Dal ondeggiò, ma rimase fermo sulle sue gambe, insistendo con la foga dei suoi attacchi, ora però allontanati da quella mossa. E ancora i loro animi di guerrieri si affrontarono, deturpando con le lame assassine corazze e carne, immortalando in quell’attimo l’apoteosi combattiva della loro razza. Dal colpì nuovamente, minacciò con più forza di togliere la spada di mano dal fratello con l’agitare continuo e calcolato dell’imponente arma. Lohidran inflisse affondo su affondo, balzò via al momento più opportuno, calò come una pantera sul rivale quando l’occasione gli si mostrò. Le loro lame corsero l’una sul filo dell’altra, stridettero e tremarono, unica barriera tra i volti sudati dei due duellanti. La scimitarra di Dal schiacciò infine la più esile spada del fratello, riconducendo la sua punta omicida verso il terreno. Lohidran si trasse via proprio nell’attimo di maggior pressione, lasciando Dal proteso in avanti, tanto sbilanciato che il rapidissimo calcio al viso lo rispedì indietro gonfio di stordimento; la chiave di quell’epico scontro. La fine. Del duello, dell’inseguimento, di fughe e ossessioni. Qualcosa levò improvvisamente un urlo assordante al cielo, strappò il drappo di feroce maestà che avvolgeva i fratelli di sangue e una massa poderosa si abbatté 458
travolgente sul fianco di Lohidran, facendo volare il giovane Naigh-Moor pochi metri più avanti. Il principe si tirò in piedi in un baleno, appena in tempo per riconoscere nell’assalitore il gigantesco Orco tanto attentamente evitato nei giorni precedenti. Maledisse la durata del loro duello intanto che scivolava via dalla mazza roteante, e l’ultima cosa che vide prima di rifugiarsi nel canneto fu lo sguardo lucido e fiero del fratello, il quale aveva abbassato la scimitarra e lo fissava senza emozioni, coperto di nero sangue dalla testa ai piedi. «Ed è scappato.» concluse Groargh, osservando il silente giovane che si sedeva faticosamente, vinto dal dolore delle abbondanti ferite «Ha detto che si trattava di suo fratello». «Lohidran» mormorò Kanyu, le braccia incrociate, il volto gelido e riflessivo. «Un tipo ostinato» commentò Wagrat, che si era avvicinato con la propria sacca a Dal. «Un ottimo principe per il suo popolo.» lo definì l’Esule, dopo un esame accuratamente calcolato «Una rimarchevole determinazione». Nessuno rispose a quel commento, sebbene né Groargh né Wagrat riuscissero a vedere qualcosa di positivo in quell’individuo appena conosciuto. Dal, al contrario, non mancò di esprimere il proprio assenso a quell’affermazione con un lento movimento del capo: l’aveva definito un verme, mesi prima. Ora, quando l’aveva attaccato, solo e denutrito, esattamente nelle condizioni in cui lui stesso si era ridotto, tutto appariva diverso. Quella fraternità maledetta, che ancor più doveva esser stata negata dal loro astio reciproco, mutava verso un rispetto sconfinato. «Forza, butta giù questa.» Wagrat gli portò un boccetta verdastra alle labbra «È una pozione di guarigione che abbiamo recuperato all’accampamento». Dal avvertì una sensazione d’immediato benessere mentre il liquido dolciastro gli scivolava nella bocca, come un’ondata di tiepido piacere lungo tutto il suo corpo malridotto. Quando ebbe vuotato completamente il miracoloso elisir, il Nano se lo gettò alle spalle senza interesse. «Ne ho altre con me, qualora ti dovessero servire.» disse, battendogli una pacca sulle spalle nel rialzarsi «Il problema è averle a portata di mano al momento giusto». Dal non rispose, ancora inebetito dall’immediato effetto del liquido ingerito. Si tastò con le dita tremanti i tagli sulla veste, trovandoli ancora bagnati di sangue, ma avvertendo chiaramente una sensazione di benessere lungo tutta la pelle al di sotto di essi: completamente liscia e asciutta. Confuso, si prese i capelli tra le mani, chiudendo gli occhi. Riaprendoli, vide Kanyu chino su di lui, con uno strano lampo negli occhi.
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«Hai detto che è fuggito? Quanti colpi hai menato con la tua scimitarra?» gli domandò, torturandosi le lunghe gambe con le mani. Dal sbatté un paio di volte le palpebre, senza capire. «N-non lo so…» balbettò, abbassando gli occhi verso la grossa arma, posata a terra «Parecchi, credo». «Ah, questo è semplicemente fantastico» Kanyu si alzò gongolante in piedi, non prima di aver preso nelle mani la scimitarra di Dal ed averne accarezzato il tagliente filo. Rimase in silenzio alcuni istanti, soppesando la grossa lama tra le sue mani, quindi si volse con un sorrisetto riuscito verso il giovane allievo. «Dal…» soggiunse, raccogliendo l’attenzione di tutti con il suo fare curioso «Occorre che tu sia pronto a morire». Lohidran abbatté la schiena contro la prima grossa pietra che incontrò durante la sua fuga. Ansimò selvaggiamente, a metà tra la fatica ed il frustrante dolore del fallimento. Strinse gli occhi, sbattendo il pomo della scimitarra contro il terreno arido, i denti serrati. Quanto ancora sarebbe durata? Fece per alzarsi, posando la mano tremante sulla pietra. Un ruggito animalesco proveniente dalle imminenti vicinanze gli scosse le membra sino all’ultima. Voltò piano il capo verso il punto da cui era sorto quel rumore, frattanto che risollevava spossato Gloria Scarlatta.
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XLV. Accadde in una notte
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i era alzato un vento potente, quella notte, abbastanza da indurre tutti quanti a rinunciare all’abituale cappuccio tirato sul capo. Spirava e soffiava come un Demone piangente, agitando lungo le sue invisibili mani drappi e vesti. Qualcuno, ironicamente, profetizzava che avrebbe divelto l’accampamento e l’avrebbe scaraventato qualche chilometro più distante, magari dentro gli inestricabili labirinti. Il falò al fianco dell’untore vibrava sofferente, protendendosi spasimando all’indietro. Un cane alla catena: quella fu il primo paragone che gli corse alla mente. Un cane alla catena spaventato dagli urli di quel suggestivo Demone, tanto piacevole da immaginarsi per chi avrebbe voluto cogliere qualcosa di poetico in una comune notte ventosa. Non che fosse il suo caso, visto che sentirsi il vento in faccia era una delle cose che meno sopportava, ma al suo animo impaziente l’ombra di un nemico da combattere era una prospettiva tutt’altro che sgradita. Si strinse al collo la veste avviluppata come un sudario attorno al suo esile corpo, alzando gli occhi sulle irte punte del robusto steccato, salendo poi alle nubi che coprivano la sottile falce di luna calante. Il divampare della fiamma gli dipingeva il viso di striature roventi, insinuandosi lungo i piccoli tatuaggi disegnati sul suo viso di elfo oscuro: che bisogno c’era di luce lunare, quando l’intero campo era illuminato a giorno dai fuochi e dalle torce accese ovunque? Quel senso di piena visibilità lo tranquillizzava, molto meno che l’incombente buio attorno all’accampamento, impossibile da scacciare nemmeno con una guardia mille volte più fitta. In fondo, non era scritto da nessuna parte che un untore dovesse amare la scarsa visibilità. Socchiuse gli occhi, sondando per l’ennesima volta le tenebre circostanti: un punto più chiaro guizzò attraverso le ombre per un istante, facendolo sobbalzare. Sbatté le palpebre quando si fu ritratto di un passo. Non ebbe bisogno di mettere a fuoco alcun dettaglio per scorgerlo nuovamente, già più grande di quello che si aspettava. Qualcosa su due gambe si avvicinava, senza badare a nascondersi. Un esploratore fuori dall’accampamento a quell’ora non poteva essere di certo. Appena raggiunta quella conclusione, la figura divenne più chiara e definita. Un elfo… Anzi, un elfo oscuro. Con una grossa spada in mano. Correva come un fulmine verso l’accampamento, solo, armato di una grossa arma che reggeva con entrambe le braccia. Soffocò un’imprecazione nel riconoscerlo come uno dei compagni di Kanyu, il più giovane. Estrasse la corta spada nel volger di un istante, levando alto l’urlo di allarme al cielo bruno, un grido che penetrò nel globo del silenzio come un pugnale affilato. Una marea di 461
volti si affacciarono ad ogni apertura, frugando la notte con occhi avidi e sbalorditi alla ricerca dell’atteso avversario e solo pochi riuscirono a scorgere quel pazzo che avanzava completamente solo, divorando i metri sotto di lui ad una velocità incosciente, il capo chino cinto dalla striscia dorata di una sorta di corona. L’untore si guardò indietro una sola volta, domandandosi se aveva atteso troppo a lungo prima di dare l’allarme. Gridare subito, al primo sentore di pericolo! Aprì il palmo davanti a lui, pronunciando l’unico incantesimo che il breve tempo rimasto gli concedeva per difendersi da quella scarna figura che si faceva precipitosamente avanti. Sentì una scarica di energia correre dalla spada sino al suo braccio e vide senza ombra di errore la striscia di fiamme proiettarsi come su un filo di combustibile verso il Naigh-Moor e disfarsi letteralmente contro una barriera morbida e argentata che brillò per un attimo attorno al suo corpo. Come quella belva si scagliò ruggendo attraverso le fiamme, il suo fendente scattò fulmineo: in punto di morte, l’untore avrebbe potuto dire soltanto che due rubini scintillavano come fari sotto le sopracciglia del suo assalitore. Dal si lanciò con tutta la sua energia in quella carica disperata, aggirando il cadavere prima ancora che esso potesse definirsi tale. Un rivolo di sudore ghiacciato gli corse lungo la tempia nell’emergere verso una realtà ancor peggiore, dove un crescendo di lame e vivaci colori si fondeva con le urla, le bestemmie e la rabbia con cui gli si gettavano addosso, cento contro uno. Dal aveva inarcato un sopracciglio, poco rassicurato, nel sentirsi fare quella proposta. «Pensavo che lo fossimo tutti, ormai.» aveva ribattuto al mentore, appoggiando una mano a terra «Qualche idea?». «Una, molto semplice e molto valida.» aveva risposto l’Esule, chinandosi ad osservare il giovane mentre gli porgeva la grossa scimitarra «Farai irruzione da solo nel campo». Il giovane non aveva neanche sbarrato gli occhi, troppo sorpreso da un piano così assurdo e folle per poter replicare o avere anche solo una reazione spaventata sul momento. «Dì, ma stai scherzando?» aveva detto, ridendo d’un riso nervoso. «Ti sembra il caso di scherzare?» aveva replicato Kanyu, rialzandosi in piedi, sotto gli sguardi altrettanto esitanti degli altri due compagni «No, andrai tu da solo. Wagrat, tu avevi una pozione d’invulnerabilità, no?». Il Nano aveva annuito senza convinzione, incrociando le grosse braccia come chiaro segno della sua indisposizione a dare il suo consenso senza chiarezza sul piano.
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«Avrà un effetto solo momentaneo.» aveva spiegato Kanyu nel tornar ad osservare il giovane «Approfittane per sbaragliare le prime difese». Dal si buttò in mezzo alla mischia con l’impeto di una bestia inferocita, pregando in cuor suo di riuscire solo a fare in tempo, giusto per non venir fatto a pezzi prematuramente. Neanche s’accorgeva di quanti lo raggiungevano con bastoni e lame affilate. Tutto ciò che vedeva era il vorticare di armi assassine e i bagliori accecanti di quanti incantesimi impattavano contro di lui. Ogni volto si sovrapponeva ad un altro, quali sfregiati, quali solo distorti dall’orrore della febbre omicida e le loro tuniche verdastre di muovevano come bandiere in una bufera. Fendette l’aria con la forza della maestosa arma, frantumando ogni corpo che si affastellava attorno a lui, una marea immensa che s’incrementava sempre più. Sentiva le braccia dolergli per ogni colpo menato, le gambe fremergli per lo sforzo e per un terrore così grande che mai l’aveva provato prima. Urlava senza udire la propria voce, sommersa dal caos insopprimibile attorno a lui, una baraonda infinita tanto violenta da non esser nemmeno definita. Quanti non morivano crollavano comunque a terra, incapaci di parare un colpo quando decine di altre armi si frapponevano nel bel mezzo dell’incredibile mischia. In un attimo, un lampo grigiastro, come una fiamma indicibile che sovrastò qualsiasi luce generata dai fuochi balenò nella notte, avvampò in un attimo attorno al giovane. La confusione che ne seguì fu inenarrabile: chi correva, chi urlava, chi si orinava addosso mentre rimaneva impietrito e finiva atterrato e calpestato dai suoi simili. Altri invece, seppur storditi, restavano fermi, provando in tutti i modi di colpire quell’invincibile ragazzetto, solo per venir trascinati lontano dal loro obiettivo dalla massa impazzita. Dal si fece largo sulla sinistra, falciando l’unico che si frapponeva fra lui ed un provvisorio riparo. Con un balzo, saltò dietro la prima tenda che trovò, riparandosi dietro una catasta di casse. «Dovrai colpire quanti più avversari possibile: non ti sarà difficile, con la calca che si formerà accanto a te.» aveva proseguito Kanyu «Naturalmente, dovrai fare questo con la tua scimitarra». «Un momento, è una follia!» aveva protestato Dal, allargando le braccia inorridito «Non puoi costringermi a farmi ammazzare! Appena finirà l’invulnerabilità come potrò difendermi da così tanti avversari? Mi aiuterete voi tre?» e aveva sottolineato l’ultima parola, fissando scettico i suoi compagni. «A parte quello che, sì, faremo.» Kanyu si era preso il mento nella mano, guardando con attenzione il suo allievo «Ricordi che proprietà magiche possedeva la tua arma, ragazzo?».
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Dal aveva alzato gli occhi per qualche secondo, riflettendo su quanto gli era stato appena detto. «Sì, le hai usate anche per spaventare i Teke, quella volta.» aveva risposto «Può fare paura, no?». «Detta in maniera molto elementare, sì.» Kanyu aveva annuito con decisione «È una Scimitarra di Fuoco d’Ombra, come viene comunemente chiamata. Può instillare il panico nell’avversario… O anche in più di uno, se c’è qualcun altro vicino». «Poteva, vorrai dire.» l’aveva corretto con una smorfia il giovane Naigh-Moor «Tu stesso mi dicesti di aver assorbito la sua magia con la tua arma, ricordi?». «Perfettamente: per questo ti dico di sferrare quanti colpi puoi. Il duello con tuo fratello e gli altri scontri dovrebbero averla stimolata, ormai. Presto scaricherà l’energia accumulata, ma bada che lo farà una sola volta, almeno stanotte: in seguito, avrà bisogno di “ricaricarsi”, proprio come ha fatto sinora». «E sei sicuro che lo farà mentre starò combattendo gli untori?». «Conosco le armi indebolite da Alihamara. Lo farà, lo farà». Cenerdred saltò in piedi come una molla nell’udire un simile frastuono diffondersi per l’accampamento. Sgranò gli occhi, afferrando il medaglione posato sul basso e ruvido mobile di fianco alla sua branda ed il lungo pugnale esattamente alla sua sinistra. Non v’era già più traccia di sonnolenza nei suoi anziani occhi, ma un giovanile riflesso d’irruenza ed agitazione che contrastava pienamente con il suo corpo malandato. S’infilò il medaglione al collo, sistemando la sua semplice arma nel fodero di pelle cucito attorno alla sua spessa cintura. Salì le poche scale che davano al suo terrazzo nello stesso momento in cui l’ondata di terrore era esplosa appena alle porte dell’accampamento. Tutti i suoi uomini scemavano come topi, scavalcandosi egoisticamente l’un l’altro, senza alcun rispetto per i tassativi ordini che il loro Signore gli aveva dato giorni prima. Resistere sino all’ultimo uomo, aveva detto, e già fuggivano. Batté un pugno contro la solita balaustra, sibilando arcane maledizioni contro quanti stavano in quel momento fuggendo. «Kanyu! Dove sei, maledetto bastardo?» urlò contro il rumore assordante che si era diffuso ovunque. Troppo era però il disordine perché il vecchio potesse distinguere eventualmente l’Esule in mezzo a quella folla atterrita. Cenerdred chiuse gli occhi dinnanzi a quell’umiliante scena, solo per riaprirli lucidi di ferocia un attimo dopo. «Quanto credi che possa influire questo contro un nemico cinquanta volte più grande, pazzo?» urlò, levando le braccia al cielo, muto testimone dell’impari battaglia «Quanto credi che tu possa fare contro me?» e solo allora interruppe le 464
proprie esclamazioni, tuonando funesto una litania che avrebbe sciolto le ossa dall’orrore a quanti l’avessero udita in un degno silenzio. Dal ringraziò intimamente tutte le divinità che conosceva per poter finalmente tirare un sospiro di sollievo. Sporse la testa oltre il suo fragile riparo, appena in tempo per riconoscere una sagoma massiccia spiccare oltre gli esili untori e approfittare della situazione per travolgerli brutalmente con un mazza grossa quanto il più lungo dei loro arti. Groargh entrava in azione con l’impeto della sua razza, scagliando in alto come rametti informi quanti osavano di bloccargli la strada. Rapidamente, l’Orco si fece strada verso il compagno, arrestandosi solo quando gli fu davanti, tenendo pronta la rudimentale arma contro quanti sapeva si sarebbero avvicinati. Dal non attese di ottenere da Groargh alcun cenno, appoggiando la scimitarra a terra per poter estrarre dalla cinghia una lunga e sottile bacchetta eburnea, soppesandola con reverenziale timore nella mano destra. «E prendi questa.» gli aveva detto ore prima l’Esule «Quando sarai al sicuro, puntala verso le tende più grandi che vedrai: per ognuna di esse, strofina la placchetta azzurra». Dal fissò il piccolo ovale incastonato sulla bacchetta, deglutendo mentre si guardava freneticamente attorno. Un tenda grande, una tenda grande… Ma qual era la più grande? «Groargh, non so che tenda scegliere!» ammise, fissando implorante la schiena del monumentale Orco. L’Orco si voltò a guardarlo soltanto per un attimo, prima di concentrare l’attenzione su un paio di individui che si facevano contro di lui, ben decisi a non lasciare impunita la loro intrusione. «Una a caso, dannazione a te!» sbraitò, e di corsa si lanciò verso i suoi assalitori, che si erano arrestati per mormorare probabilmente un incantesimo. L’elfo oscuro passò un’ultima volta in rassegna le innumerevoli tende, fissandole con quei grossi occhi intimoriti. Strinse gli occhi mentre strofinava vivamente la placca azzurra, la testa della verga puntata su una tenda completamente ornata di glifi. Un secondo dopo, sentì il suo braccio vibrare come la terra durante un sisma: aprì gli occhi, appena in tempo per vedere una notevole sfera di fuoco gonfiarsi come una bolla e schizzare con fragore verso la tenda. Non fece a tempo ad abbassare il braccio che la tenda, avviluppata dalle fiamme, esplodeva furiosamente, scaraventando ovunque residui di boccette e stralci di pergamene.
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«Gli untori tengono nelle loro tende ogni genere di porcheria, molto spesso infiammabile o esplosiva.» gli aveva detto Kanyu «Fai attenzione alle reazioni a catena». Un susseguirsi di esplosioni seguì al divampare delle fiamme, tale da assordare la notte intera: per tutto l’accampamento, era un continuo di tuniche che finivano a terra, di grida di terrore, coronate ancor meglio dalle fiamme impetuose. Persino Groargh traballò, per quanto fosse lontano dal luogo della detonazione. «Così!» lo incitò quello, facendoglisi vicino «Falle saltare tutte in aria!». Senza esitazione, Dal sfregò nuovamente la placca della bacchetta, ignorando le vampate di calore che gli arrivavano al viso dall’aria di colpo soffocante. Kanyu e Wagrat irruppero proprio quando le esplosioni iniziavano a susseguirsi. Abbassarono come un sol uomo la testa, buttandosi contro quanti si guardavano attorno spaesati, sparpagliati dall’inaspettata distruzione che si era verificata in così pochi secondi. Il Nano ringhiava come un mastino e avanzava con lo scudo a difesa della bassa figura, udendolo risuonare contro le saette brucianti che vi si scagliavano. La terra tremava, gemeva squassata a causa dell’ordine impostogli da qualche untore più potente: ovunque, sul terreno, piccoli parassiti oltrepassavano i corpi dei più sfortunati, in cerca dei loro avversari. Altrettanti venivano sbalzati in aria dalle esplosioni, da far credere che il campo fosse invaso da uno sciame di locuste. Kanyu saltava da un lato all’altro, trovando ogni volta il giusto appoggio per spiazzare alla meglio i suoi avversari, piombando sempre là dove loro non si aspettavano minimamente di essere assaliti. Era spaventoso osservare come due soli guerrieri riuscissero a farsi strada in mezzo a così tanti rivali e, per quanto fossero diversi sotto ogni aspetto, i loro attacchi apparivano coordinati sino al più minuto dettaglio. Gelidi come esecutori, si facevano avanti senza domandarsi dove stessero andando, cercando solo di trovare un angolo di pace per poter ragionare lucidamente. In un attimo, Kanyu alzò gli occhi, individuando il suo bersaglio in piedi sopra un rudimentale terrazzo, le braccia alzate al cielo come un perfetto obiettivo. Saltò via senza una parola, rinfoderando con gesti estremamente abituati le sue due armi. Una tigre nera come la notte, col volto candido da cui scaturiva la sua furia: ecco cosa sembrava, intanto che s’inerpicava su un palo dello steccato, restandovi seduto a cavalcioni sulla sommità. Senza paura, si poneva in una posizione ideale per essere ucciso, eppure il suo unico pensiero fu quello di slacciare la sua fida balestra, incoccare il dardo e appoggiare il calcio alla spalla. Nello stesso istante, Cenerdred abbassava le braccia con gesto fulmineo. «Cane maledetto!» ringhiò fra sé l’Esule, mentre prendeva la mira: con decisione, premette il grilletto, lasciando scoccare la freccia. 466
Cenerdred abbassò le braccia velocemente, fissando con feroce delizia il risultato del suo lungo sforzo. Allargò le mani magrissime con rabbia, voltandosi allora verso le tende in fiamme, là dove un’intera metà del campo stava divenendo polvere e minacciava di compromettere l’intero accampamento. Neanche si accorse che fu quel gesto a salvarlo: qualcosa si conficcò a fondo nella sua spalla destra, togliendogli per qualche secondo la luce dagli occhi chiari. Crollò a terra con un rantolo, stringendosi la spalla ferita nell’altra mano, sino a sentire sotto i polpastrelli il solido legno del dardo. Un rivolo di bava gli scivolò dalle labbra. «Kanyu…» il vecchio digrignò i denti, scivolando sul legno del terrazzo, al riparo della balaustra «Tu sia dannato!». Imperterrito, si tirò a sedere, levando a fatica il braccio sinistro verso il cielo coperto di nubi, stringendo nella mano il secco manico di sterpi del suo pugnale. «Questo è il mio regno!» urlò, indugiando in quella posizione, con la mente che correva lungo il suo braccio e il filo del pugnale, per poi perdersi nelle infinità della volta notturna. Non dovette far altro che pronunciare una sola parola perché la pioggia cominciasse a cadere, sempre più selvaggia. Dal annusò l’aria con un certo disgusto. Storse il naso, abbassando per un solo attimo la bacchetta magica. Un fumo acre si levava al cielo, ma il vento lo spingeva lontano, e certo non poteva nausearlo a quel modo. D’un tratto, la tenda dietro cui si era riparato si ribaltò improvvisamente, facendolo rotolare via con dei riflessi che nemmeno credeva di possedere. Il suolo sotto di lui si spaccò sensibilmente, correndo oltre la sua postazione e rovesciando ogni cosa che incontrava. La puzza si fece improvvisamente insopportabile: un odore di marcio, di putrefazione. Dal fu sul punto di vomitare l’anima, ma si turò il naso, socchiudendo gli occhi per lo sforzo. Dinnanzi all’entrata, la terra si aprì come un vulcano in eruzione, scagliando in aria detriti, pietre e frammenti di persone in uno scenario pazzesco, reso ancor più tremendo dal tanfo persistente. Un corpo pallido emerse da quella fossa che si era creata, coi lunghi arti che penzolavano inerti lungo il suo scarno corpo. Ogni sua parte appariva cadente, putrida, e s’allungava sinistramente sino ad una inverosimile lunghezza. Ciò che più colpì Dal fu il suo volto: quegli occhi immensi, verdi come l’acido e socchiusi come se non riuscissero ad aprirsi in alcun modo. E quella bocca chiusa, serrata in una smorfia di orrore da qualcosa che sembrava filo d’acciaio. Il suo odore cancellava qualsiasi altra sensazione, ottundeva i sensi e distorceva la vista. La fredda pioggia gli bagnò la pelle come un rivolo osceno che splendeva sul suo
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carnato malsano. La creatura spostò il suo sguardo impassibile verso il giovane, individuandolo con naturalezza dove altri avevano faticato a trovarlo. «Oh, Dèi!» esclamò Dal, quando lo vide osservarlo: un secondo dopo, la creatura avanzava con rapidità incredibile verso di lui, strascicando il corpo flaccido come se muovesse degli stracci. Il giovane lasciò cadere la bacchetta con orrore, affrettandosi a raccogliere la propria scimitarra: e già sapeva che non avrebbe fatto a tempo. Kanyu scese dalla sua postazione con un’esclamazione di imprecazione. Vivo! Un’occasione simile non si sarebbe ripresentata! S’accucciò ferinamente a terra, appena in tempo per rimettere a posto la balestra e sfoderare nuovamente le due scimitarre. La sua rabbia era incontenibile, resa ancor maggiore dal desiderio di porre fine alla vita dell’odiato nemico. Tagliò via dalla sua strada il primo oppositore che incontrò, sbalzandolo all’indietro come una marionetta senz’anima. Una folla numerosa gli si fece attorno in un attimo, scoraggiandolo dal continuare la sua avanzata. Qualcuno elevò una nenia mortale sopra ogni altro suono, e un turbine improvviso si materializzò in mezzo alla bufera che andava nascendo. Da ogni luogo sorgevano volti mostruosi e creature d’ogni aspetto: s’alzavano da terra i compagni morti, pronti a brandire nuovamente le armi pur nella loro innaturale vita, scorpioni grandi quanto lupi spuntavano dalla terra con prontezza insospettabile. L’Esule balzò via da quel campo di orrori, agitando le armi contro quanti si avvicinavano a lui. Una luce verdastra lo raggiunse e lo fece sobbalzare, ma una seconda fu prontamente intercettata dalla magica scimitarra. Alihamara saettò contro la prima creatura che si fece innanzi ed un piccolo fulmine del medesimo colore sfrecciò lungo il corpo anchilosato di quest’ultimo, facendolo rotolare via in preda alle convulsioni. Kanyu saltò oltre il primo ostacolo che trovò, ribaltando una tenda con un violento colpo di entrambe le armi. Riparatosi dietro di essa, agguantò alla meglio dalle sue tasche un numero indefinito di statuine, gettandole nel bel mezzo della mischia. «E ora via» sussurrò fra sé, correndo lontano, mentre dal niente nascevano creature altrettanto spaventose, lanciandosi nel folto del combattimento senza rimpianto, senza un volere che non fosse quello dell’Esule. Groargh si buttò contro il misterioso essere non appena lo vide puntare il compagno: un mugolio di protesta si udì quando la mazza intercettò il suo addome, sbalzando indietro come un elastico la mostruosità. «Va via!» urlò l’Orco, senza neanche voltarsi verso il giovane «Ci penso io!». Dal si alzò in piedi e corse più in fretta che poté, lontano da quell’essere e dal suo fetido odore. Groargh allontanò l’arma dall’addome della creatura 468
velocemente, levandola alta sopra la sua testa. Fissò il suo viso deforme con odio, allargando la grande bocca prima di sferrare il colpo. «E con questo chiudiamo il conto, bastardo!» grugnì, calando l’arma contro il capo del mostro. La testa della mazza impattò vigorosamente contro il cranio della creatura, trovandolo più molle di quanto l’Orco si sarebbe aspettato: l’acciaio penetrò a fondo nella testa, distorcendone i lineamenti del viso senza difficoltà. In silenzio, la creatura alzò senza troppa fatica le mani, stringendo con le lunghissime dita la mazza. Groargh rimase sbalordito: freneticamente, tentò di disincagliare l’arma, solo per trovare una strenua resistenza da parte dell’eppur così esile bestia. Un ringhio gli sfuggì dalle labbra quando uno dei suoi lunghi arti lo colpì al viso, buttandolo supino a terra: la sua mazza crollò a terra al suo fianco, mentre la creatura lo fissava con gli occhi resi obliqui dal colpo. Groargh scalciò con l’enorme piede, riuscendo se non altro ad allontanare il misterioso ed osceno avversario da lui. Un grido di guerra accompagnò il calare di una lama d’ascia sul lungo braccio della creatura, ed essa si voltò senza un gemito verso il suo nuovo nemico. Come il suo braccio cadde a terra, un nugolo di mosche si levò dalla sua ferita, facendo indietreggiare il Nano per il disgusto. «Ma che schifezza sei?» esclamò, alzando lo scudo dinnanzi al viso. Come una risposta, l’arto a terra cominciò immediatamente a decomporsi, mentre il moncone gradualmente si riformava, senza che la creatura apparisse in qualche modo colpita. Wagrat bestemmiò senza ritegno, abbassando le sue difese quel tanto che gli bastava per osservare la bestia. «Un Esangue menomato!» gridò «I peggiori Demoni di Junk Stok! Groargh, muoviti!». Prima che l’Orco fosse in piedi, l’Esangue menomato era avanzato fulmineamente verso il Nano, tentando di colpirlo con l’arto ancora intero, urtando fortunatamente contro il suo scudo. Groargh lo colpì con un violenta mazzata alla schiena, senza che quello si degnasse anche solo di voltarsi. «Tieni gli occhi aperti!» lo avvertì il Nano, intanto che si apprestava a difendersi dagli attacchi della creatura «Ci sono anche tutti gli altri, oltre a lui!». Groargh voltò lo sguardo verso l’accampamento in pieno fermento: se non altro, sarebbe stato un bel luogo per morire. Dal si guardò attorno durante la corsa: nonostante tutti gli orrori che aveva visto, mai si sarebbe aspettato che avrebbe assistito ad una cosa del genere. Ovunque corpi, membra, fiamme e polvere facevano da pavimento ad un combattimento incessante, una guerra continua di quattro disperati contro un nemico così tanto più potente. Che trucchi rimanevano ora? Dov’era Cenerdred? 469
Se solo avessero trovato e ucciso lui, sarebbe finita. Alla sua destra, bestie di cui non aveva mai immaginato l’esistenza s’azzannavano l’un l’altra e lampi ed urla si susseguivano di continuo in quella folle cacofonia. Un untore ancora preda del panico si affacciò dinnanzi a lui, il suo volto devastato da una paura immotivata. Dal lo seguì con lo sguardo mentre lo oltrepassava urlando sguaiatamente: quando tornò a guardare davanti, una scintilla bionda gli annebbiò la vista e le sue braccia si fecero più pesanti, come se la sua forza si fosse dimezzata in un solo attimo. Oltre quella coltre lucente, un altro untore, l’ennesimo di quella notte infinita, si fece contro di lui, il bastone pronto a tramortirlo e un sadico sorriso sulle labbra. «No!» fu in quell’urlo che, senza sapere come, Dal risollevò la spada con la sola forza della sua volontà, arrestando definitivamente la corsa e la vita di quel nuovo avversario. L’affanno gli tagliò le gambe, più potente di qualsiasi altro incantesimo. Alzò la spada a fatica, fissando freddamente quel corpo a terra: avrebbe voluto urlargli contro, mostrargli anche da morto quanto il suo semplice desiderio di sopravvivenza superava ogni magia o trucco mentale, ma non ne ebbe la forza. Alzò gli occhi bagnati di sudore all’udire un distinto battito di mani davanti a lui: dov’era ogni altro suono, adesso? Perché quel solo battito di mani raggiungeva le sue fini orecchie? Strinse nei pugni la scimitarra, riconoscendo la sola figura nota fra tutti i suoi nemici. «Vedo che te la sai cavare, giovanotto.» commentò il Figlio dello Scorpione, sorridendo di gusto «Non mi piacciono le frasi banali, ma Kanyu ti ha addestrato bene». L’unica immagine che affiorò davanti agli occhi del giovane elfo fu quella del corpo senza vita di Melidan. Non c’era altro nella sua mente, se non un invincibile desiderio di vendetta. «Assassino» sussurrò soltanto, incassando il capo nelle spalle, dimentico delle condizioni del proprio corpo; una nuova detonazione si udì alle sue spalle, come a dimostrare che la sola pioggia non bastava a contenere la sua furia. «Non mi risulta di aver ucciso nessuno.» rispose serenamente Loto, estraendo tuttavia lo spesso machete «Al massimo, ho dato l’ordine di farlo». «Assassino!» ripeté Dal e tutto ciò che fece fu coprire la distanza che lo separava dal nuovo avversario, abbattendo su di lui tutta la sua furia per mezzo della grossa scimitarra. «No, no, non ci siamo.» ribatté tranquillamente l’altro, saltellando come un funambolo davanti ai colpi andati a vuoto dell’avversario «Non hai capito». Evitò ancora un paio di attacchi bestiali, prima di farsi avanti e abbattere il suo ben più debole machete contro la lama abbassata dell’esule. Con una risatina allegra, aggirò il piede dell’avversario con il proprio, tirandolo poi a sé per farlo 470
cadere sulla schiena. Un secondo dopo, Dal si trovò sulla terra bagnata, ad osservare le gocce di pioggia che cadevano maligne sul suo viso, come una penitenza. Loto si affacciò ai suoi occhi con calma, rivolgendo la punta della lama alla gola del giovane. «Quanta foga, amico mio.» commentò con un risolino, mentre poggiava il proprio sandalo sporco sull’addome dell’avversario vinto «Non ti pare di esagerare?». Dal ritrasse la testa astiosamente, senza rispondere: fissava impotente il suo carnefice, ma dal suo viso non lasciava trasparire alcuna parvenza di paura. «Se devi ammazzarmi, fallo ora, bastardo d’un untore.» gli disse in faccia «Un verme come te non avrà vita lunga». «Oh, ma è proprio qui che ti sbagli.» Loto ridacchiò divertito, avvicinando il proprio viso a quello del rivale «Né tu né io moriremo: il mio padrone ha molti progetti per te». Detto ciò, tolse il piede dal corpo dell’avversario, ritraendo la lama allegramente: allargò le braccia amichevolmente, quindi sparì di corsa oltre la sua visuale. Dal rimase nella posizione in cui l’aveva lasciato, inorridito. «Il suo… Padrone?» balbettò, sbattendo confuso le palpebre «Cenerdred?». Pochi secondi dopo, la sua attenzione riuscì a tornare alla battaglia in corso ed il suo primo pensiero venne rapito da una voce familiare. «Dal! Dal! Sei vivo?» urlava Kanyu, correndo verso di lui. Il giovane voltò il capo verso il mentore, tirandosi faticosamente a sedere: l’Esule appariva in una condizione pietosa, coperto di sangue e pioggia in ogni centimetro di pelle, come un macellaio. Gran parte di quel sangue gli apparteneva, a giudicare dalle molteplici ferite che si sforzava di ignorare. «S-sì.» rispose incerto Dal, guardando il compagno in viso «Sto bene». «Sbrigati, allora!» esclamò il mentore, tirandolo bruscamente in piedi «Cenerdred è da solo! Dobbiamo prenderlo!». Un senso di gelido torpore lo irrigidì all’udire quel nome, ma la mano dell’Esule lo strattonava senza gentilezza, e lo tirò in piedi prima che potesse riflettere a mente lucida su quanto gli era stato detto. Kanyu corse come un fulmine oltre le mani e le lame che si protendevano verso di lui, superando i lamenti e le minacce che gli venivano sputate contro. Dal lo seguì con altrettanta fretta, inghiottendo il desiderio di guardare la folla feroce che li inseguiva, ben sapendo che sarebbe solo servito a instillare il panico nella sua anima. D’un tratto, una sorta di raggio iridescente lo fece scartare di lato, separandolo dal mentore. «Là!» urlò quello, additando con la Zanna una figura scarna. Dal seguì quell’indicazione, notando per la prima volta quel tanto terribile nemico, e l’unica cosa che vide fu un vecchio, curvo per gli anni, che provava a correre verso una barriera di alte piante ormai morte. 471
«I labirinti!» Kanyu parve colto da una tremenda folgorazione «Maledizione! Muoviti, Dal! Non deve raggiungerli!». «Labirinti?» replicò il giovane, voltando solo per un attimo lo sguardo verso il compagno. In quello stesso momento, una sorta di frusta spinosa emerse dal suolo travagliato, levandosi contro di lui con le sue spire taglienti: Dal sentì la pelle del viso e del busto venire graffiata da quella sorta di sterpe animata e le sue gambe furono raggiunte da una dolorosa e serrata stretta attorno ai polpacci. Gridò di dolore mentre nuovamente toccava terra, piantando le mani sul terreno per evitare di restare stordito. Kanyu fu su di lui in un istante e la Zanna recise velocemente quella specie di tentacolo uncinato, facendolo tornare da dove era venuto. L’Esule ringhiava tra le imprecazioni, mentre liberava i piedi del giovane allievo e intanto fissava Cenerdred, sempre più vicino al suo traguardo. Un secondo raggio scaturì dalla figura in fuga, costringendo Kanyu ad abbassarsi: il suo mantello andò in brandelli infinitesimali, dissolvendosi nell’aria come se non avesse consistenza alcuna. Quando riuscirono entrambi a rialzarsi, la loro corsa fu molto più faticosa di quanto entrambi volessero ammettere: guadagnavano facilmente terreno, ma per ogni metro che guadagnavano, un nuovo incantesimo si scatenava, costringendoli a rallentare la propria corsa. A meno di dieci metri dal loro bersaglio, entrambi lo videro distintamente penetrare tra le mura di solidi arbusti. Cenerdred sorrise felicemente, stringendo la mano attorno al medaglione del Nero. Avanzò velocemente, tenendo gli occhi socchiusi per la concentrazione. «Il Signore dei Veleni è con me.» mormorò con soddisfazione, superando i primi metri dei letali labirinti «Indicami la strada». Il silenzio che ne seguì fu peggiore di qualsiasi altro rumore il vecchio potesse udire. Spalancò gli occhi, rallentando il proprio incedere. Quando si volse verso l’entrata, i suoi inseguitori lo fissavano ardentemente dall’ingresso, ma Kanyu stava già mettendo mano alla balestra. «No!» urlò Cenerdred, correndo disperatamente verso il centro del labirinto «No!». Il suo urlo si levò alto, intanto che Kanyu incoccava velocemente il dardo. Un attimo dopo, il terreno si spalancò sotto i suoi piedi. Cenerdred gridò d’orrore e la sua voce si mutò immediatamente in un rantolo di dolore quando il suo vecchio corpo rimase trafitto nelle letali lame che fuoriuscivano dalla trappola. Il rumore della sua agonia si protrasse ancora qualche secondo, mentre l’Esule riabbassava la balestra, gelido in viso. Dal fece per muovere un passo avanti, ma fu subito fermato dalla mano del compagno.
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«È morto.» disse semplicemente quello «Presto lo saremo anche noi, se non ce ne andiamo. Forza, corriamo.» «E Wagrat? E Groargh?» domandò spaventato Dal, fissando in viso il mentore: rapidamente, le voci degli inseguitori si avvicinarono in un crescere di rabbia. «Non pensare a loro!» lo zittì l’altro, prendendolo per un braccio «Se la caveranno! Ora sbrighiamoci, prima che ci blocchino ogni via d’uscita!». Corsero via con tutte le energie che possedevano, tenendosi il più possibile al riparo dietro i resti dell’accampamento. Vi fu un attimo di vantaggio, in cui gli inseguitori non seppero più dove si erano nascosti, ma ben presto la situazione si ribaltò. I due elfi, spossati da una lotta tutt’altro che facile, avvertivano la stanchezza più dei freschi untori e le loro gambe si muovevano sempre più lentamente. L’unica chiave per la salvezza consisteva proprio nella speranza, nel desiderio impellente di abbandonare quel luogo di morte. Quando furono di fronte all’uscita, un secondo drappello di avversari si trovava lì, le armi ancora in pugno, chiaramente indecisi sul da farsi. Non appena li scorsero, si riversarono come un fiume straripante alle loro calcagna. Dal ebbe solo modo di vedere qualcosa di deforme e letteralmente maciullato a terra, con le lunghe braccia piegate innaturalmente all’indietro e il corpo frantumato a suon di violentissimi colpi ancora scosso dagli spasmi. Spremettero le ultime energie con spietata efficienza, superando lo steccato nonostante la loro debolezza. «E adesso?» esclamò Dal, tra un affanno e l’altro «Non possiamo scappare per sempre!». «C’è una grotta qua vicino!» rispose l’Esule, indicando una direzione con la destra «È sicura!». Senza porsi ulteriori domande, il giovane corse furiosamente verso il punto indicato dal mentore: il cuore gli rimbombava nel petto come mille tamburi, i polmoni battevano sulle sue spalle con impietosi martellamenti, le gambe tremavano per la paura folle e la stanchezza. Dietro di loro, gli inseguitori si facevano vicini, pronti a sovrastarli con il loro ancora immenso numero. «Di qua!» urlò ad un certo punto Kanyu, strattonando alla meglio il compagno «La grotta!». Una piccola caverna, i resti forse dell’erosione di un’antichissima collina, sorgeva infatti dall’arida terra come niente più che un irregolare cono di roccia. Quando riuscirono a raggiungere l’entrata, Kanyu era ormai indietro rispetto a Dal di almeno un paio di metri. «Guarda là in fondo!» gli ordinò comunque, socchiudendo le palpebre pesantissime «Il cunicolo!». Dal, infatti, non ebbe fatica a notare uno stretto passaggio, poco più stretto del budello in cui aveva strisciato per entrare nel Picco Muto.
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«Entraci dentro!» esclamò l’Esule e, prima ancora che lui stesso potesse raggiungere l’apertura, Dal vi si era già infilato, prendendo a strisciarvi come una serpe. Là, tra i graffi e le ecchimosi che lo scomodo passaggio gli causava lungo tutto il corpo, udì nuovamente la voce del mentore levarsi più alta del coro urlante degli untori. «Abbi cura di te, ragazzo mio!» disse, guardando nel cunicolo «E, quando potrai, fai visita a Ithilkar, il fratello di Melidan!». «Eh?» Dal provò faticosamente a voltarsi, ma lo stretto cunicolo gli concesse a stento quel semplice gesto «Che stai dicendo?». L’unica cosa che riuscì a distinguere fu la lama della Scimitarra della Zanna abbattersi contro il basso soffitto del cunicolo e farlo crollare, chiudendo l’accesso al passaggio. Qualche minuto dopo, col volto impiastrato di fango e lacrime, Dal riemerse dall’uscita del cunicolo, sentendosi gelare dalla fredda solitudine in cui era stato relegato. Si strinse le mani attorno alle braccia, rabbrividendo tra i singulti e gli ansimi. «Dal». Sentì pronunciare il suo nome con un senso di terrore e sorpresa che lo scosse fin nel profondo. Volse tremante gli occhi verso la voce, riconoscendo il volto del Nano, sporco e tumefatto, al suo fianco. Poco distante, Groargh si appoggiava alla sua mazza, respirando a fatica. «Vi abbiamo visti correre verso il labirinto e ci siamo guadagnati l’uscita» disse brevemente Wagrat. «Non potevamo vincere.» aggiunse l’Orco «Ma a quel punto toccava a voi». «Stanotte abbiamo spezzato quel che non potevamo uccidere. Era ciò che dovevamo fare». «C’era un prezzo da pagare. Noi lo sapevamo, ma tu no». «Ed era qui che ti avremmo dovuto aspettare. Come aveva già deciso lui.» mormorò Wagrat, e un sorriso debole comparve sulle sue labbra macchiate di sangue «Ora sei veramente libero». Dal si drizzò sulla schiena, lasciando che le proprie braccia potessero distendersi finalmente lungo i fianchi. Col sangue di un altro, ancora una volta. Ma libero.
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EPILOGO
L
ohidran crollò disfatto a sedere con un sospiro distrutto. Lasciò cadere Gloria Scarlatta senza una parola, udendo l’acciaio della lama tintinnare contro un pietra lì vicina. La sua mano si posò sul fianco martoriato, accarezzando con un gemito il sangue che impiastrava le bende improvvisate con cui aveva fasciato la ferita. Chiuse gli occhi, solo per avvertire una fitta dolorosa sul viso, segnato dall’unghiata che lo aveva attraversato dalla fronte al mento. Accanto a lui, le mosche cominciavano ad affollarsi sul cadavere di quella gigantesca bestia pelosa. Agitò una gamba per scacciarle, sguainando il suo corto coltello da viaggio. Con attenzione, tagliò un pezzo di carne dall’animale, spellandolo alla meno peggio. Addentò il crudo pasto con la bocca dolorante, strappandone avidamente un brano e inghiottendolo. «Neanche lui ce l’ha fatta a uccidermi.» si disse, fissando il cadavere «Come tu non mi farai desistere dalla mia caccia, schiavo». Il principe di Armalak alzò gli occhi verdi alla notte. «Non sarai mai libero». Molto più lontano, mentre Cenerdred cadeva nelle trappole da cui sperava di salvarsi, un Naigh-Moor col viso ricamato da fiori appassiti si ergeva nella solitudine, dimentico della bufera attorno a lui. Si concesse un’ennesima risatina, immaginando quale sorte stesse aspettando in quel momento il suo Maestro. Divertito, soppesò l’autentico medaglione del Nero nella mano. Poi se lo mise al collo, allontanandosi sempre più dall’ormai distante accampamento.
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Cos’era quel vortice in cui era piombato più di una volta, come una belva in caccia? Era quello che significava essere un NaighMoor, lo sapeva. Quanti altri, brevi anni sarebbero bastati a renderlo come qualsiasi altro della sua razza? Ed era veramente possibile rinnegare il proprio sangue, rivoltarsi contro i suoi stessi istinti? Il viso di Kanyu pareva quello di qualsiasi guerriero elfo oscuro, gelido, distorto da un odio bruciante per tutto ciò che è vivo. Ma non vi era felicità, né la più scarna soddisfazione. Essere esuli significava condannarsi alla tristezza, alla vergogna. Era stato lo stesso per tutti quelli che avevano agito come lui.
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