Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 8 agosto 2016
Azione 32
Società e Territorio La costruzione della pensilina in centro a Lugano ha apportato alla città un plus
Ambiente e Benessere Le vaccinazioni sono tra i mezzi più efficaci per proteggersi da malattie gravi: l’Ufficio della sanità rinnova la propria strategia nazionale
Politica e Economia Rafforzato dal fallito colpo di Stato, Erdogan si dimostra un alleato difficile per l’Occidente
Cultura e Spettacoli Dal 2007 il Canton Ticino si è dotato di un osservatorio culturale
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Keystone
Manifesta 11, il lavoro e il denaro
di Ada Cattaneo pagina 25
Bentornati a casa! di Peter Schiesser Atene sembra un’enorme distesa di lenzuoli bianchi stesi ad asciugare al sole del Mediterraneo. Dall’alto si indovina la collina dell’Acropoli e quella del Licabetto, le montagne del Peloponneso restano invisibili nella foschia che in questa mattina senza vento avvolge la capitale greca. Una luce lattiginosa ci accompagna per tutto il viaggio in aereo lungo la costa ionica greca e quella adriatica italiana. Ma se Atene pareva inquinata, quando all’orizzonte si intravvede la Lombardia fra il cielo azzurro e la terra si delinea una spessa cappa color marrone – come si dimentica in fretta di vivere in una delle regioni più inquinate d’Europa... Atterrati, lo smog nasconde ogni collina, solo Bergamo lassù è ancora visibile. Nessuno pare farci caso, ognuno assorto nelle sue faccende, perlopiù sprofondato nello smartphone. In attesa dell’autobus per Milano, tre addetti si scambiano impressioni di una recente vacanza: «f..., neppure un bar aperto, a mezzanotte in spiaggia, ma che spiaggia, c...! Solo rocce che sembrano vulcaniche, una m...». «Ma la natura sarà stata bella». «La natura? F..., ma quella
c’è dappertutto, se vado in vacanza, porco..., voglio divertirmi!». Ci chiediamo se i pacati discorsi, a noi incomprensibili, degli anziani di Aegina nel bar fronte mare avevano lo stesso tono sboccato, gli stessi vuoti contenuti, o se questo concentrato di alienazione ammantato di modernità sia un privilegio tutto nostro. Giunti alla Stazione centrale di Milano, ci dirigiamo verso la biglietteria. Non la troviamo. Forse c’è, ma veniamo dirottati da alcuni giovani di colore verso i distributori automatici. Ce n’è per tutti i gusti, ma gli sguardi perplessi dei viaggiatori incapaci di farli funzionare ci inducono ad affidarci ad un asiatico servizievole: «Dove andate? Lugano? Due biglietti? Seconda classe? Ecco, partenza alle 13.10, binario 3. Una piccola mancia?». Operazione durata meno di un minuto. Lo guardo ammirato allontanarsi sorridente in cerca di altri imbranati come me, cittadini incerti di una società ipertecnologizzata, lui forse giunto su un barcone in Italia ma intraprendente e a suo agio in questa nicchia tecnologica. Il TiLo se la prende comoda, ritarda di 15 minuti. Gente che sbuffa, accanto a me un giovane non alza lo sguardo dallo smartphone, batte nervoso i tasti, ad ogni invio un suono metallico. Quando
mi chiede quando arriviamo a Como, provo un piacere maligno nel rispondergli con un sorriso «non lo so». Nessuno guarda il paesaggio. Il viaggio è solo una noiosa attesa dell’arrivo, il presente un tempo inutile che ci separa da un futuro che rincorriamo. Como, poi Chiasso. Guardie di frontiera svizzero-tedesche che ispezionano il TiLo, scortano alcuni richiedenti l’asilo intercettati. Si riparte. Anche ora, una cacofonia di suoni di smartphone. Poi a Mendrisio sale un signore anziano, si regge su due stampelle. Siede dietro a me e all’improvviso lo sento parlare al telefono: «Sì, dottore, sto andando a Lugano, in perlustrazione, a fare un po’ di foto dall’alto. Tutto a posto, anche la mamma, sì, se sta bene lei sto bene anch’io, ormai siamo in collegamento. La saluto, ci risentiamo!». Una signora seduta di fronte a noi scoppia a ridere: «Lo conosco, sta all’ONC, fa finta di telefonare, ma si risponde da solo, è una sagoma!». Sbircio alle mie spalle, e mentre il signore riprende una «telefonata», vedo sullo schermo del suo smartphone solo una scritta: NON DIMENTICARE. Lo osservo: fra tutti i comunicatori virtuali mi sembra il meno ansioso, e forse quello più collegato con la propria realtà interiore. Bentornato a casa, mi dico.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 8 agosto 2016 ¶ N. 32
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Attualità Migros
M La collaborazione dà i suoi frutti Produzione di succhi di frutta L’industria della comunità Migros Bischofszell prodotti alimentari SA
produce la maggior parte dei succhi di frutta in linea con il commercio equo. Quanto stretto sia il contatto con i suoi produttori, viene ben mostrato dalla visita di una delegazione dal Brasile in loco
nold Graf, rappresentante di Bischofszell prodotti alimentari SA, che coordina il lavoro d’insieme con l’associazione contadina brasiliana ed è perciò spesso sul posto in Brasile. Anche per lui i contatti sociali e personali sono estremamente importanti.
Michael West* Il grande impianto di produzione fischia a intervalli regolari. Mischia il concentrato di arancia con l’acqua, pastorizza il succo e lo versa infine nei Tetra-Pak. Le macchine possono lavorare fino a 18’000 litri l’ora. Ci troviamo nelle aree di produzione dell’industria della comunità Migros Bischofszell prodotti alimentari SA. Alcuni collaboratori guidano un piccolo gruppo in visita all’interno dell’edificio e mostrano loro la catena di montaggio e la cisterna di acciaio cromato. I quattro visitatori hanno alle spalle un lungo viaggio: sono esponenti della cooperativa contadina brasiliana Coacipar e la città da dove provengono è situata a circa 2 ore e mezzo di volo a sud di São Paulo.
Nell’impianto di produzione della Bischofszell prodotti alimentari si lavorano fino a 18mila litri all’ora L’associazione brasiliana fornisce il concentrato per i succhi d’arancia Gold – e M-Classic (vedi box), che sono proprio quelli che vengono imbottigliati in questo momento. I brasiliani seguono il percorso della materia prima e visionano ora come questa viene lavorata in Svizze-
Coacipar ha il certificato Fairtrade: oltre a un prezzo minimo garantito, riceve anche un premio fisso
ra. «La Bischofszell prodotti alimentari è il nostro più importante acquirente» afferma Vanusa Gonçalves Toledo, la direttrice della cooperativa. «Anche per questo motivo la nostra visita qui è per noi molto importante». Da un anno e mezzo le industrie della comunità Migros acquistano concentrati da Coacipar. «È una collaborazione basata su interessi reciproci», spiega Ar-
Assortimento Migros – sempre più prodotti certificati Fairtrade Migros amplia continuamente la sua offerta di prodotti alimentari con il marchio Fairtrade Max-Havelaar. Nel 2015 il fatturato con questo tipo di prodotti ammontava a 113,8 milioni di franchi, aumentando così del 7,7 per cento rispetto all’anno precedente. Molteplici succhi Gold, succhi di arancia o multivitaminici di
M-Classic così come una gran parte dei succhi Sarasay sono certificati. Nuovo in assortimento si trova invece il succo di pompelmo Gold-Pink con il marchio Max-Havelaar. La Bischofszell prodotti alimentari ha stabilito per questo motivo relazioni commerciali con una cooperativa certificata in Messico.
La cooperativa ha il certificato Fair-trade. Questo significa che, oltre a un prezzo minimo garantito, l’associazione riceve dal compratore anche un premio fisso. In assemblee democratiche i contadini decidono poi in seguito come investire questi soldi. Di solito vengono impiegati localmente per progetti sociali, ma anche per il miglioramento della produttività. «Grazie a questi soldi possiamo per esempio sostituire con nuove piante alberi di arance poco produttivi e aumentare così il nostro utile», afferma Toledo. «Oppure compriamo macchine agricole che prima dovevamo prendere a noleggio». Sono importanti, sempre secondo l’opinione della direttrice, anche i progetti sociali. Viene perciò sostenuta per esempio una società che si occupa di offrire ai bambini provenienti da famiglie povere vitto e utili e funzionali attività nel tempo libero. Le ragazze e i ragazzi fanno per esempio musica, frequentano corsi di danza e imparano a usare il computer. «Con il certificato la nostra situazione si migliora del tutto», riassume Toledo. «Le persone giovani vengono in questo modo stimolate a rimanere e a non emigrare dalla città. Fairtrade crea quindi per noi tutti migliori prospettive future». E questo è proprio quello a cui vuole contribuire Migros.
La piantagione della cooperativa porta maggiori guadagni grazie ai programmi Fairtrade (sopra). Arnold Graf (a destra, in mezzo), esponente di Bischofszell prodotti alimentari e i rappresentanti della cooperativa (da sinistra): Pedro Antonio, Heloisa Toledo, Vanusa Gonçalves Toledo und Hercules Edemir. (Véronique Hoegger, Stephan Bösch)
* Redattore di Migros Magazin
Un milione di lettori
Una soluzione da premio
dell’interesse dei lettori per temi di benessere, sostenibilità e nuove tendenze sportive
Blévita Midor e la ricerca sugli imballaggi
Stampa Migros La rivista Vivai raggiunge 1’050’000 lettori, segno
«Vivai», la rivista Migros per il benessere e la sostenibilità, conta ormai oltre un milione di lettori. L’ultimo studio di mercato realizzato dall’istituto indipendente Publicom tra il 6 e il 24 giugno indica infatti che i lettori sono 1’050’000, vale a dire il 7 per cento in più rispetto all’anno precedente. Dal 2012, data del primo rilievo dei lettori, la rivista ha saputo conquistare un pubblico sempre più vasto. La rivista Vivai è dedicata a tutti i consumatori che desiderano essere informati in modo divertente su temi come alimentazione, tendenze spor-
tive, sostenibilità e benessere. Viene pubblicata sei volte l’anno in italiano, francese e tedesco con una tiratura di 249’492 esemplari. Il nuovo numero esce oggi, 8 agosto, con un dossier dedicato all’acqua. La rivista viene allegata al settimanale «Azione», così come, nelle versioni tedesca e francese, rispettivamente a Migros Magazin e a Migros Magazine. È possibile visionare online la rivista, oppure abbonarsi gratuitamente su migros.ch/ vivai, scrivendo a abbonamenti.vivai @mediamigros.ch o chiamando il numero 0800 180 180.
Azione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
L’azienda della comunità Migros Midor ha vinto lo «Swiss Packaging Award 2016» nella categoria Convenience. Con questo premio l’Istituto svizzero dell’imballaggio (SVI), organo dell’industria svizzera degli imballaggi, offre un riconoscimento all’impegno e alle soluzioni innovative nel settore. La giuria ha premiato Midor per la confezione maneggevole, comoda e facilmente utilizzabile
dei biscotti Blévita. La particolarità di questo nuovo imballaggio è la divisione dei biscotti in quattro singole parti, che in questo modo possono venir consumate a porzione e rimangono sempre fresche. Le piccole confezioni sono pratiche e possono essere portate con sé; trovano spazio infatti senza problemi sia nelle tasche che nelle borse da sport o in quelle scolastiche.
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Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
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Società e Territorio Very important person Alla scoperta dell’origine, dello sviluppo e del significato del famoso acronimo VIP
Una Galleria al posto di una chiesa A Bellinzona si può ammirare una delle più radicali trasformazioni di luoghi sacri destinati a nuove funzioni pubbliche pagina 8
Un terminal per ritrovarsi La costruzione della pensilina in centro a Lugano ha portato con sé numerosi vantaggi e agevolazioni ma c’è ancora molto da fare pagina 10
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Il grotto deve rimanere ancorato alla sua tradizione. (TI-Press)
Grotti ticinesi: è crisi?
Ristorazione I tipici grotti ticinesi, apprezzati sia dai locali che dai turisti, sembrano andare incontro
a un calo di visite. Numerose sono le proposte per cercare di rivalorizzarli in tutto il cantone
Paola Bernasconi In Ticino, dici estate e pensi al grotto. La pergola, il fresco quando fuori c’è il sole a picco, un salamino, il vino locale, magari una partita a carte con gli anziani. Era così anni fa, per i nostri nonni era abitudine, i nostri genitori ce lo raccontano, ma ora? In un mondo che evolve, il grotto che ruolo ha? Deve rimanere tipico o è costretto ad adeguarsi ai tempi? In Ticino, i grotti attualmente sono circa 200. Prima di tutto, c’è da dire che il fattore meteo è fondamentale e non c’è iniziativa turistica che possa cambiare questo dato di fatto. «Se non sei supportato dalla meteorologia, non c’è nulla da fare», ci ha detto, sconsolato, il gerente di un grotto del Sopraceneri, che abbiamo interpellato per parlare della problematica. «La gente se non può stare fuori a mangiare non viene, e col turismo, essendo in un luogo discosto, lavoro poco: il 90% della clientela è indigena». In cifre, aggiunge, si registra almeno il 75% di visitatori in meno. «La gente, purtroppo, ha meno soldi, e andare fuori a cena non rientra nei budget. Ci diamo da fare, creiamo offerte, ci facciamo pubblicità, ma se c’è la crisi…», aggiunge un altro gerente, questa volta del Sottoceneri. I tempi
cambiano, e rimanere tradizionali è difficile. «Posso dire che trasmissioni come MasterChef ci hanno rovinati, tutti si credono esperti di cucina. E con le nuove malattie e allergie che si sono diffuse negli ultimi anni, devi evolvere, non puoi più essere solo grotto in senso stretto». Contattiamo un terzo gerente di grotti. Concorda che d’estate serve solamente il bel tempo, «capace di far funzionare il grotto da solo», ma nelle altre stagioni bisogna ingegnarsi: «proponiamo dei menù, spaziando per esempio dal tartufo alla zucca, con proposte quasi da ristorante, creando una carta dedicata ai ciclisti e una per il mese di maggio». Qui, dunque, entrano in gioco le novità, rinnovarsi per continuare a esistere. «Purtroppo la maggior parte dei grotti si è dovuta adattare alle esigenze del turista creando un menù, cosa che normalmente non ci dovrebbe essere. In molti hanno creato una pagina Facebook o anche un proprio sito internet», ci spiega Stefano Serta, responsabile della guida online dei Grotti IGrot «Credo che utilizzare i mezzi mediatici e informatici per farsi conoscere e dare indicazioni sulla propria ristorazione non comprometta comunque il valore del grotto tradizionale, anzi se usati in
modo saggio possono valorizzarlo». La clientela, ci hanno detto i tre gerenti, è soprattutto locale o legata al turismo dalla Svizzera Interna. Val la pena cercare delle iniziative per farsi conoscere, facendo gioco di squadra? «Molti organizzano serate in musica, altri pubblicizzano i loro piatti con magari dei prezzi allettanti», aggiunge Serta. Al momento, però, ognuno agisce per conto proprio. Una nuova forma potrebbe essere unire la cena alle bellezze paesaggistiche, dal lago ai sentieri sino ai passi e alle montagne. È la filosofia che regge «Il giro serale dei grotti», organizzato da Società Navigazione del Lago di Lugano in collaborazione con Lugano Turismo, Grotti di Gandria, e Cantine di Gandria. «Con 10 franchi si fa andata e ritorno col battello, con la possibilità di fermarsi a mangiare», ci riassume l’idea Davide Bartolini della Società Navigazione del Lago. L’anno scorso l’iniziativa non era andata benissimo, ma viene riproposta «per rivitalizzare i laghi, e rilanciare i grotti che si trovano sull’altra sponda». Dodici mesi fa ne hanno usufruito svizzeri tedeschi, asiatici e qualche arabo, per cui «il grotto è importante, cercano i prodotti tipici dovunque vanno». Il grotto, dunque, a suo avviso deve rimanere ancorato alla
tradizione. «Semmai vedo di buon occhio aggiunte, come aperture ai menù vegani e vegetariani, ma i cibi tipici non devono mai mancare». Bartolini vorrebbe però attrarre il mercato locale, «persone che sono magari del Luganese eppure non salgono in battello da una decina d’anni…». Ticino Turismo, dal canto suo, è soddisfatto del numero di turisti che arrivano in Ticino e mangiano nei grotti. Attraverso il proprio sito Internet, l’enogastronomia, così come in ogni evento, è esaltata, e con essa la tipicità dei grotti. Il marketing verso l’estero, insomma, funziona, ma più vicina ai grotti è GastroTicino. Ce lo conferma uno dei nostri interlocutori, «sono contento di collaborare con loro, hanno sempre buone proposte». Abbiamo dunque chiamato in causa il direttore di GastroTicino Massimo Suter. «I grotti in generale stanno incontrando qualche difficoltà, a parte quelli radicati nel territorio da anni, che funzionano grazie alla fama. Data la crisi, molti si stanno adattando ed evolvendo, ma così secondo me perdono quella che è la loro realtà: se in un grotto mangi gamberoni e ostriche, a mio avviso rimani deluso perché non è ciò che ti aspetti. Servirebbero delle soluzioni per farli vivere così come
sono nati.». Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente. «Ci sono alpeggi che ricevono dei sussidi per il loro essere tipici, si potrebbe pensare a qualcosa di simile. I grotti vanno aiutati e lo stiamo dicendo alla politica. Il discorso è ancora embrionale, va trovato qualcuno che sposi la causa presentando magari una mozione in Gran Consiglio». Nel frattempo, portare i turisti, in particolare stranieri, a mangiare al grotto è difficile, conferma Suter. «Solitamente essi preferiscono rimanere nei centri come Lugano o Locarno, e i grotti sono discosti, infatti sono frequentati soprattutto da locali e da svizzeri tedeschi». GastroTicino, con le sue sezioni, cerca di coinvolgere i gerenti in iniziative, ma «ci vuole propositività anche da parte loro, ciascuno si concentra sul proprio orticello». Le difficoltà non finiscono qui, «anche per il personale lavorare in un grotto per 4-5 mesi l’anno, con il rischio che quando è brutto si tiene chiuso e lavorando in luoghi non comodamente raggiungibili, non è attrattivo, nonostante i salari siano in linea con quelli del resto del mondo della ristorazione». I temi e le problematiche, dunque, sono molti. In attesa che qualcuno della politica si attivi, non resta che sperare nel bel tempo…
La natura sa cosa fa bene.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 8 agosto 2016 ¶ N. 32
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Società e Territorio
I VIP, ovvero l’incerta nobiltà Etimologia A seguito del suo così frequente utilizzo nel linguaggio comune in tutto il mondo, è lecito chiedersi quale
sia realmente il significato di questo acronimo che ha riscosso enorme successo Massimo Negrotti Nonostante l’espressione VIP (very important person) sia molto diffusa, il suo riferimento sociologico è decisamente indefinito e ambiguo. Nato fra gli immigrati russi, che così definivano gli aristocratici fuggiti in vari Paesi europei perdendo il proprio titolo nobiliare, l’acronimo VIP ha goduto un successo crescente nel linguaggio giornalistico e in quello comune assumendo un significato al contempo generico e preciso. Generico perché «importante» è un aggettivo che, come tale, non indica alcun criterio attraverso il quale possa essere impiegato univocamente ma anche, a suo modo, preciso perché chiunque di noi riconosce che alcuni ruoli sociali – basti pensare ad un primo ministro, ad un sovrano, ad un premio Nobel o magari ad un noto attore – possono essere senza ombra di dubbio definiti come importanti. Tuttavia, a parte i casi citati e altri che si pongono al vertice, non è chiaro quali siano le proprietà personali che determinano la legittima definizione di qualcuno come VIP. In effetti, siamo di fronte ad una sorta di sociologia spontanea che si fonda sulla condivisione pubblica di un giudizio grazie al quale «tutti sanno» che Tizio è una persona importante mentre Caio non lo è. La notorietà, dunque, è il primo criterio di fatto che sta alla base dell’attribuzione collettiva del «titolo» che stiamo discutendo. Essa è una condizione necessaria, perché una persona perfettamente sconosciuta ai più non può certo ambire
ad essere citata come VIP, ma non sufficiente. Infatti, la notorietà deve essere accompagnata dal valore positivo che una persona rappresenta poiché nessuno indicherebbe come VIP un criminale o un terrorista anche se egli gode, si fa per dire, di vasta notorietà. Da qui in poi la posizione di VIP assume contorni incerti e per certi versi buffi. Intanto c’é la questione spaziale: la notorietà deve essere necessariamente mondiale oppure può essere nazionale, magari regionale o anche solo locale? Il sindaco di un piccolo paese di campagna è sicuramente notissimo, ma solo a chi vi abita. Più in generale, si può affermare che in ogni località, anche la più piccola, esiste sempre una gruppo di persone, potremmo dire un ceto, che, con o senza titolo nobiliare, si pone al livello più elevato della stratigrafia sociale del posto. In ogni località, dunque, esistono «VIP locali» che vanno dal già citato sindaco al professore, dal farmacista al proprietario terriero, dall’imprenditore al direttore del quotidiano, e così via. In qualche misura, dunque, i VIP, indipendentemente dalla dimensione spaziale della loro notorietà, potrebbero essere assimilati, nel loro insieme, alla categoria della élite. Tuttavia ciò non darebbe conto della loro estrema eterogeneità che, a differenza delle élite classiche le quali comprendono, grosso modo, i ruoli sociali sopra elencati, si estende agli ambiti più diversi, fra i quali lo sport, lo spettacolo, il cinema e gli stessi mass media, veri e propri sacerdoti del fenomeno VIP. A
La notorietà e la visibilità sono caratteristiche comuni ai VIP. (Keystone)
Los Angeles, le località di Malibù e di Bel-Air sono quasi monopolizzate da notissimi attori di Hollywood, incontestabilmente VIP, ma nessuno di loro potrebbe essere inquadrato nei ruoli sociali che abbiamo elencato sopra e, quindi, non costituiscono propriamente l’élite locale. Si tratta, semmai, di una élite del cinema così come a pochi passi, presso la Rand Corporation – un prestigioso centro di ricerca – dove lavorano vari premi Nobel, si può dire che sussista una élite scientifica o a Roma, in Vaticano, è concentrata l’élite cattolica. La categoria dei VIP è pertanto assai più vasta e generica di qualsiasi
definizione sociologica, poiché non si riferisce ad uno strato sociale, ad una classe, ad un ceto o ad una casta anche se vi sono sovrapposizioni notevoli. Si può insomma sostenere che, mentre l’appartenenza ad una classe, ad una casta o ad un ceto elevati conferisce quasi automaticamente il «titolo» di VIP, non è vero il contrario poiché essere VIP non significa necessariamente appartenere ad una classe sociale elevata. Può facilitarvi l’ingresso e l’accettazione ma, di per sé, siamo davanti ad un appellativo che prescinde da questioni sociologiche. Un atleta olimpionico vincitore di medaglie d’oro, che diven-
ta ipso facto un VIP, proviene spesso da classi sociali di basso o medio livello e, non raramente, vi rimane anche dopo il successo sportivo. Altrettanto, madre Teresa di Calcutta, che non si vorrà negare sia stata una persona eticamente importante, non ha fatto parte di alcun circolo sociale elevato né di quella high society che accoglie molti VIP e della quale altri vorrebbero far parte cercando di «arrampicarvisi» attraverso la nomina a VIP. Una nomina che, però, quando non discende dall’albero di famiglia o da elezioni formali, può dipendere solo dalla più effimera «visibilità» su giornali o canali televisivi, cosa che pone un nome e un cognome sulla bocca di tutti: un vero e proprio capitale che, se sapientemente amministrato, si autoalimenta, per cui uno è VIP poiché va spesso in televisione ma, poi, andrà in televisione perché è un VIP. Nella società cinese antica, i nobili portavano una sciarpa lunga che quasi toccava terra mentre i plebei ne portavano una corta. Dato che l’inchino era la modalità di saluto obbligata, il risultato era che, mentre il plebeo doveva piegarsi finché la sciarpa non toccava il selciato, al nobile bastava un piegamento impercettibile. Ma ai giorni nostri, in particolare in Occidente, simili espedienti non sono contemplati per stabilire le distanze sociali. Occorre invece, magari sgomitando e coltivando le giuste amicizie, apparire, possibilmente con qualche atteggiamento stravagante, in un evento ripreso dalla televisione, e il VIP è fatto. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 8 agosto 2016 ¶ N. 32
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Società e Territorio
Trasformazione radicale Il mondo segreto degli Yo-Kai
Architettura La Galleria Benedettini a Bellinzona rappresenta
un esempio unico di riconversione di spazi sacri
Videogiochi La nuova creazione invita
i giovani a far amicizia con curiosi animaletti
Attraversando la Galleria pedonale Benedettini le persone stanno in realtà percorrendo l’ex navata della chiesa di Santa Maria dello Spasimo. (Amm. stabili Galleria Benedettini)
Stefania Hubmann Chissà quante volte i cittadini di Bellinzona e numerosi visitatori attraversano la galleria pedonale che collega il viale della Stazione con l’antica via Codeborgo senza volgere lo sguardo verso l’alto, senza pensare all’origine di quel passaggio. In realtà stanno percorrendo l’ex navata della chiesa di Santa Maria dello Spasimo, demolita fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Una chiesa trasformata in passage è una vera e propria rarità, se non un unicum, anche a confronto dei celebri percorsi parigini, dove la tipologia si affermò a partire dagli anni Venti dell’Ottocento. La destinazione a nuovo uso di chiese non più adibite al culto è invece una realtà che nell’ultimo decennio si va affermando anche in Svizzera. Il primo numero di quest’anno della rivista «Arte + Architettura in Svizzera» (k+a), pubblicata dalla Società di storia dell’arte in Svizzera (SSAS), affronta il tema presentando alcuni casi esemplari. La Galleria Benedettini di Bellinzona è fra questi. Se il caso ticinese, analizzato dalla storica dell’arte Simona Martinoli, è davvero singolare e legato da un lato al fenomeno della secolarizzazione e dall’altro alla figura del visionario ingegnere Fulgenzio Bonzanigo, il dibattito nella Svizzera romanda sul futuro delle chiese protestanti è in corso già da alcuni decenni. Il calo dei membri e le fusioni a livello comunale e di conseguenza parrocchiale, impongono un ripensamento della funzione di questi ampi spazi, per la cui riconversione si tendono a privilegiare progetti di carattere sociale o culturale. In questo modo la funzione pubblica degli edifici è preservata. Esempi significativi provengono anche dalla Svizzera tedesca, sia nell’ambito della Chiesa evangelica riformata sia di quella cattolica. «Lo spunto per questa riflessione sulle chiese adibite a nuova destinazione – spiega Simona Martinoli, fino allo scorso giugno responsabile dell’Ufficio della Svizzera italiana della SSAS – è stato offerto dal convegno svoltosi lo scorso agosto a Berna. L’incontro di studiosi di più discipline (storia, storia dell’arte, teologia, sociologia) ha permesso di affrontare l’argomento da diverse angolazioni. Nel resto dell’Europa il tema è oggetto di dibattito già dagli anni Ottanta del secolo scorso e interessa soprattutto i centri urbani. In Ticino non è invece d’attualità. Sul nostro territorio si contano numerosi edifici sacri non più frequentati regolarmente, ma che conservano una vita propria in quanto monumenti, poiché ricchi di opere d’arte». Non a caso uno dei rari esempi di chiesa che su suolo ticinese ha cambiato destinazione, restando però luogo di culto, è l’ex cappella evangelica di Melide, venduta tre anni fa alla comunità ortodossa russa. Conferma la storica dell’arte: «Nella seconda metà del Novecento, soprattutto nelle grandi città, sono state costruite numerose chiese di fede evangelica riformata per offrire una sede alle comunità dei vari quartieri. Oggi stanno perdendo la loro funzione e generano
costi di manutenzione. Essendo molto sobrie, si prestano però con una certa facilità a essere riutilizzate». Gli esempi citati in «Arte + Architettura in Svizzera», come la chiesa di Saint-Luc a Losanna o quella di San Marco a Basilea, sono incoraggianti. D’altronde le riconversioni di spazi sacri – si legge nella rivista a proposito della tipologia di queste trasformazioni – non sono una novità. «Esistono da quando esistono le chiese. Sono espressione di un cambiamento della società, al quale le istituzioni ecclesiastiche non possono sottrarsi». Le transazioni odierne avvengono in genere en douceur: sono frutto di una riflessione, prediligono progetti garanti di un uso almeno in parte pubblico, sono basate su un dialogo fra le parti. Una trasformazione così radicale come quella del passage bellinzonese non sarebbe quindi più immaginabile. Nel suo contributo sulla Galleria Benedettini Simona Martinoli ne ripercorre la storia partendo dall’oratorio privato intitolato alla Madonna Annunciata fondato nel 1521. Negli Atti delle visite pastorali è denominato fin dal 1578 «chiesa di Santa Maria dello Spasimo». Le tappe salienti della sua storia sono in seguito rappresentate dalla presenza dei gesuiti e dei benedettini. Questi ultimi, a partire dal 1675, abbellirono e completarono la chiesa. Il campanile fu eretto nel Settecento e demolito nel 1927. Per alcuni anni la Galleria, aperta nel 1896, conservò quindi un’importante testimonianza della sua origine sacra. Da segnalare, che la residenza benedettina, sequestrata durante la Rivoluzione elvetica (1798-1803), il 20 maggio 1803 ospitò la prima seduta del Gran Consiglio ticinese. «Un’altra data fondamentale – prosegue l’autrice dello studio – è il 1848, anno in cui il governo radicale emanò la legge sulla soppressione degli enti religiosi e l’incameramento dei loro beni. Nel 1874 la chiesa venne sgomberata per essere utilizzata
come arsenale di artiglieria. È a questo punto che entra in scena Fulgenzio Bonzanigo acquistando gli stabili e aprendo la Galleria. Personaggio intraprendente e volitivo, autore della proposta di realizzazione del viale della Stazione, l’ingegnere con il passage ha probabilmente voluto marcare la profonda trasformazione che la città stava vivendo. Questo tema progettuale urbano – le gallerie pedonali, nate a Parigi per favorire il commercio, si erano già diffuse nelle maggiori città europee – contribuiva ad adeguare la cittadina di Bellinzona al suo nuovo ruolo di capitale stabile e nodo ferroviario». Da queste indagini sulla storia della Galleria Benedettini potrebbero nascere ulteriori approfondimenti. Precisa Simona Martinoli: «Il Klosterarchiv dei benedettini di Einsiedeln è ricco di documenti interessanti, così come molto interessante sarebbe poter compiere analisi stratigrafiche per accertare se sotto l’intonaco della Galleria sono identificabili dei dipinti». Per cercare di immaginare la chiesa al suo interno, è possibile unire la visione di alcuni pezzi custoditi in altre sedi, come ad esempio l’altare, che si trova nella cappella meridionale della chiesa parrocchiale di Lumino. Riguardo al futuro delle chiese «in eccesso», Simona Martinoli condivide la posizione dello studioso Johannes Stückelberger, promotore del convegno e autore nel dossier di k+a dell’analisi tipologica delle riconversioni. Per entrambi si tratta di privilegiare un nuovo uso vicino allo scopo originario della chiesa. I motivi sono da ricondurre alla possibilità di limitare l’intervento, di evitare di stravolgere l’edificio e soprattutto di conservare, almeno in parte, il suo carattere pubblico. Un centro di quartiere, una sala di lettura dell’università, uno spazio espositivo e una sala polifunzionale sono alcuni esempi realizzati con successo in diverse città svizzere come Lucerna, Friborgo, Zurigo, Basilea e Berna.
Davide Canavesi Il Giappone è un Paese affascinante. Si tratta di una cultura molto diversa da quella occidentale, forgiata da migliaia di anni di storia e tradizioni. Possiede una grande quantità di racconti, leggende e miti che ai nostri occhi possono apparire fantasiose e bizzarre. Non sorprende quindi che dal Paese del Sol Levante arrivino continuamente opere in grado di affascinare. Pensiamo ai film d’animazione del pluripremiato Studio Ghibli, ai cartoni animati che vediamo in televisione e all’enorme produzione di manga. A questi si aggiungono opere letterarie come Musashi di Eiji Yoshikawa, i film del regista Takeshi Kitano e il genio comico di Rumiko Takahashi. Autori diversissimi tra loro ma accomunati dalla loro fama, tanto in patria quanto nel resto del mondo. Il Giappone sembra non essere mai a corto di fantasia e ispirazione. Non stupisce che gli estimatori della cultura giapponese siano in gran numero anche alle nostre latitudini. Basti pensare alle migliaia di persone che ogni anno partecipano al festival di cultura giapponese Japan Matsuri di Bellinzona. Da questo Paese tanto affascinante quanto, a tratti, misterioso arrivano anche moltissimi videogiochi di successo. Citiamo la serie di Metal Gear dell’osannato Hideo Kojima e le infinite avventure di Super Mario. Impossibile anche non conoscere, almeno di nome, i Pokémon: piccoli mostriciattoli che quest’anno compiono vent’anni e che hanno generato centinaia di cartoni animati e decine di giochi. Tuttavia quest’oggi non vogliamo parlare di loro, ma di un titolo, per certi versi, affine. Parliamo di Yo-Kai Watch, gioco per Nintendo 3DS che vanta la collaborazione di Masami Suda, già disegnatore per la serie animata di Ken Il Guerriero. In Yo-Kai Watch impersoniamo Nate o Katie, due ragazzini come tanti alle prese con un compito scolastico: raccogliere insetti rari in un’afosa giornata estiva. La loro caccia non è molto fortunata e l’avvicinarsi della fine delle vacanze unita alla rivalità con Sandrone, un compagno di scuola, li spinge ad abbandonare la prudenza per avventu-
rarsi nei boschi del Monte Selvaoscura. La loro vita cambierà repentinamente quando incontreranno un fantasma di nome Whisper. I ragazzi scoprono l’esistenza degli Yo-Kai: piccoli esseri che vivono in un mondo parallelo a quello degli esseri umani, però celato ai nostri occhi. Grazie a Whisper e ad una speciale lente magica, i due si dimenticano ben presto del compito scolastico e iniziano a svelare i segreti di questi strani esseri. Il nostro compito, nei panni di Nate o Katie, sarà quello di fare amicizia con più Yo-Kai possibili, aiutarli ed impegnarci per migliorare la cittadina di Valdoro. Le similitudini tra Pokémon e YoKai Watch sono evidenti. In entrambi i giochi dobbiamo fare incetta di strane creature e farle combattere tra loro. Ciò che cambia in questo titolo è la semplicità e la volontà di renderlo più adatto ad un pubblico di giovanissimi. Ad esempio non catturiamo gli Yo-Kai ma facciamo amicizia. Anche i combattimenti sono più che altro fatti con l’intenzione di dimostrare loro di essere degni di fiducia e d’amicizia e mai con la volontà di far del male. Non per questo però il gioco si dimostra banale. Ci sono moltissime attività da portare a termine: dalla pesca alla raccolta di insetti. Aiutare gli abitanti della città compiendo piccole missioni e la possibilità di fare acquisti nei negozi della cittadina. Yo-Kai Watch è un titolo ben realizzato. Il look molto cartoonesco e i buffi personaggi sono molto azzeccati. Memorabile, ad esempio, l’incontro con Jibanyan, il gatto che cerca di fermare le auto coi pugni senza ottenere grande successo. Questo è solo un esempio di come spesso e volentieri ci ritroveremo a sorridere per lo strano umorismo del mondo di Nate e Katie. Yo-Kai Watch è un perfetto esempio delle produzioni nipponiche. In questo caso prende ispirazione dalle credenze della religione shintoista, per la quale il mondo è abitato da spiriti e divinità chiamati kami, per creare un universo tutto suo. L’idea potrà sembrarci un po’ bizzarra ma è indubbiamente parte del fascino di Yo-Kai Watch. Consigliato ai più giovani!
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 8 agosto 2016 ¶ N. 32
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Società e Territorio
La Pensilina come luogo di ritrovo
Urbanistica A distanza di quasi 15 anni dalla creazione del terminal dei bus in pieno centro città a Lugano,
si tirano le somme. Enorme il successo riscontrato ma c’è ancora ampio margine di manovra
Guido Grilli È divenuta una nuova agorà, dal nome con il quale nell’antica Grecia si indicava la piazza principale della polis. Cuore pulsante, se non proprio delle attività, del viaggiare, nel senso di giungere in un luogo, sostare e partire per altre ed altre destinazioni. Parliamo della Pensilina di Lugano, non solo un comune terminal dei bus, ma sempre più luogo di incontro e di riferimento, che il prossimo gennaio festeggerà i suoi primi 15 anni di significativa presenza nel centro cittadino. Giornalmente approdano a questo capolinea quasi mille corse per un totale di circa 20mila passeggeri – stima la direzione dei Trasporti pubblici luganesi (Tpl Sa). Tita Carloni aveva definito quest’opera uscita dalla creatività di Mario Botta, un «esempio di architettura civile».
La Pensilina nella sua semplicità architettonica assolve un compito urbanistico di «respiro» per il centro cittadino Ma quali sviluppi futuri potrà conoscere questo comparto urbano? Lo abbiamo chiesto al municipale Angelo Jelmini, capodicastero Sviluppo territoriale. «Sul tema Pensilina la Città ha la sua idea di programma. C’è il progetto Rete Tram che avanza, che porterà nella sua fase prioritaria il tram ad arrivare, giungendo da via Peri-Corso Pestalozzi, nella zona della Pensilina. Questo progetto, beninteso, non è imminente, si parla di anni. Un altro capitolo è la perizia, attesa per fine estate, da noi commissionata al Politecnico federale, sull’impostazione del Piano viario. Ci interessa conoscere, con questo studio, la “radiografia” dell’attuale assestamento del trasporto pubblico che è fortemente concentrato in Pensilina, per sapere se quella attuata è stata la scelta migliore o se può essere migliorata ulteriormente». Ancora Jelmini: «Un altro tema su cui ci attendiamo risposte dalla perizia è la sistemazione di via della Posta e di via Magatti che ci indurranno a riflettere in futuro anche sulla risistemazione dell’intera zona attorno alla Pensilina, penso al mercato, oggi presente il martedì e il venerdì nel piazzale antistante al terminal dei bus». Dunque la Pensilina potrebbe divenire in futuro ancora più piazza di quanto non appaia già ora e più luogo di scambio? «C’è un progetto che avevamo già presentato a suo tempo che è
Giornalmente alla Pensilina si contano quasi mille corse e circa 20mila passeggeri. (TI-Press)
quello elaborato da Buletti e Fumagalli delle “tre piazze”, ovvero: la sistemazione della parte di lungolago antistante al Municipio, comprensiva della Piazza Manzoni, della Piazza Rezzonico e della Piazza della Riforma. Quel che si vorrebbe realizzare è far confluire in sostanza queste tre piazze insieme sul lungolago per arrivare ad avere una grande piazza attorno al Municipio. Però elaborata in modo unitario». È ancora valida questa proposta? «Se lei mi trova i 30 milioni richiesti lo facciamo subito. Oggi non li abbiamo nel Piano finanziario, ma questa idea è positiva e quando si avranno i soldi per farlo, occorrerà attivarsi per concretizzarla». Riprende il capodicastero Sviluppo territoriale: «Questo per quanto riguarda il fronte lago. Dietro, invece, abbiamo una via della Posta e una via Magatti che conducono verso la Pensilina e la piazza del mercato, che vanno secondo me aggiunte per arrivare ad una zona complessiva pedonale, alla stessa stregua di Piazza Dante e via Peri. Lì non abbiamo però ancora sviluppato delle idee, perché è un tema che si dovrà affrontare probabilmente
con un concorso pubblico – così come richiesto a suo tempo dal Consiglio comunale – per trovare la soluzione ottimale». La Pensilina, nella sua semplicità architettonica, sembra assolvere un compito urbanistico di «respiro» per il centro cittadino. «È chiaramente un punto importante dal profilo del trasporto pubblico, lì si concentra molta gente durante il giorno, si arriva in centro da tante parti della periferia, basti pensare quanto tragitto percorre ad esempio la linea 7, lungo Cornaredo e fino a Pregassona; la stessa cosa si può dire per la linea 3 che scende dall’altra parte del Cassarate, giungendo entrambe alla Pensilina, con un numero importante di passeggeri». Tuttavia non mancano toni negativi: qualche scena di degrado la sera dequalifica il luogo. «Purtroppo. Ma questo non è colpa né di Botta né della Tpl. Ci sono alcuni punti attorno alla fermata dei bus in cui alcune persone sono poco rispettose, ma ci sono controlli di polizia e la videosorveglianza». E come valuta la Pensilina il suo creatore, Mario Botta, a distanza di
tre lustri dalla sua edificazione? Si era prefigurato, allora, un tale sviluppo? «No – risponde l’architetto – all’inizio no. Come sempre la vita è molto più forte delle idee degli architetti. Noi abbiamo cercato di rispondere alle esigenze della città. In un primo tempo io avevo dato l’idea di farla progettare a Santiago Calatrava (architetto strutturista di origine spagnola, progettista di numerose stazioni ferroviarie, ndr.) ma lui non poteva e riteneva l’opera troppo piccola, fuori misura e a quel punto l’Ufficio tecnico s’è rivolto a me e così io ho realizzato il progetto. Si tratta di un’opera modesta». Lei nel 2002 disse in occasione dell’inaugurazione, «La pensilina è un piccolo elemento di un grande progetto». Cosa intendeva? «Sono le speranze deluse. Lì doveva esserci uno sviluppo, cosa che la Città non ha fatto. Si continua a parlare del tram che dovrebbe arrivare lì. Sono tutti progetti solo sulla carta. Quando avevo lo studio a Lugano avevo fatto un progettino per il lungolago che se lo avessero fatto, oggi sarebbe stato realizzato e pagato, con la pedonalizzazione totale, l’ampliamento
uno studio gli utenti, che scaricano questa app sul telefono, ci spendono in media 43 minuti al giorno. Se a questi aggiungiamo il tempo che trascorriamo su Facebook, Whatsapp, Snapchat, Instagram: dove resta il tempo per guardare il mondo dalla finestra? Non di sfuggita ma dandoci il tempo, con la mente sgombra e gli occhi attenti, pronti a cogliere qualsiasi movimento o cambio di scenario improvviso? Può sembrare una banalità ma io per prima, nella vita di tutti i giorni, mi rendo conto di quanto sia sempre più difficile fare le cose semplici senza lasciarsi distrarre o cercare stimoli aggiuntivi. Stiamo perdendo la capacità di annoiarci, di ascoltarci, di stare in solitudine, quasi fosse un male terribile, colmiamo ogni buco della giornata con attività o impegni. Guai ad avere momenti
morti e doverlo pure ammettere su Fb. E quando guidiamo non vediamo neanche più i paesaggi che attraversiamo. Quando camminiamo non facciamo più caso agli sguardi che incrociamo, non sorridiamo a chi ci viene incontro, perché immersi come siamo nel nostro cellulare e in tutto ciò che emana e riflette, nemmeno lo vediamo. Quanti di noi sono ancora in grado di immergersi nel più totale silenzio e leggere per almeno 20 minuti senza prendere il telefono per vedere se qualcuno ha scritto, messo un like o se un Pokémon è appena passato da quelle parti? Io credo che dobbiamo stare attenti a non farci rubare il nostro tempo e la nostra attenzione. A diventare selettivi nel mare magnum di applicazioni e perditempo digitali. E non voglio credere che siamo diventati sedentari e disinteressa-
sul lungolago, le auto sotto. Invece niente». Per la Pensilina, ritiene che si possano immaginare altri sviluppi architettonici? «Credo che come spesso accade questa è un’opera puntuale che ha avuto particolare fortuna. Fortuna critica, di utilizzo, fortuna da parte della gente che ha un posto coperto, non insomma la solita pensilinetta: è quasi un salotto». Con pochi elementi, la Pensilina sembra qualificare l’intero centro cittadino. «Sì, ma è molto modesta. Non si può cambiare una città e il suo destino con una pensilina. Una cosa che mi piace è che si accende di notte, ogni stagione è un colore. Era per rendere attenti i fruitori del cambio delle stagioni, ricordare che siamo arrivati al solstizio, il 21 di giugno, e trac cambia un altro colore. È un po’ un divertissement». Sarebbe pensabile riprodurre un’altra pensilina in altre località ticinesi? «Nello spirito sì, ma non nella forma: una fermata del bus può diventare un luogo di interscambio, un nodo dove uno compra i fiori, compera il giornale. Mi pare, questo, un importante momento di vita della città».
La società connessa di Natascha Fioretti «Scusate, stavo giocando a Pokémon Go» Mi ero ripromessa di non parlare di Pokémon Go perché ne stanno parlando tutti e perché non mi sono mai piaciuti questi mostri giapponesi. Poi, sul settimanale italiano «l’Espresso», ho letto un articolo che ne dice un gran bene esaltandone in particolare una qualità e cioè che questo gioco interattivo e social di ultima generazione ha il merito di far alzare gli utenti dal divano di casa invogliandoli ad uscire e a socializzare. «Caspita! Siamo arrivati fino a questo punto...» è stato il mio primo pensiero, cioè per uscire di casa e conoscere altra gente abbiamo bisogno di andare in cerca di Pokémon. Un’immagine che a mio avviso ha del surreale e per diversi motivi. Negli Stati Uniti, il videogioco già proclamato il più
grande della storia per cellulari, oltre a dare qualche gioia sta provocando più di un guaio. A New York un uomo alla guida della sua auto è andato a sbattere contro un albero perché distratto dai Pokémon. Una ragazza della Pennsylvania, intenta a cacciare mostri gialli è invece stata investita mentre attraversava la strada senza guardare. Due poliziotti canadesi sono stati feriti da un auto che li ha tamponati. Il conducente è sceso al volo dicendo «scusate stavo giocando a Pokémon Go». Non sono bufale e non succede solo negli Stati Uniti. In Italia, come riporta il quotidiano italiano «la Repubblica», si contano già i primi incidenti Pokémon-correlati. Ma non è solo la nostra attenzione che pericolosamente questa caccia ai mostri cattura, è il tempo che, prima di tutto, ci ruba. Secondo
ti a tal punto da avere bisogno di dare la caccia ai Pokémon per decidere di girare una qualsiasi città e scoprirne gli angoli nascosti, visitare i musei o fare nuove amicizie. Sarà una moda del momento, ma nel frattempo, immersi come siamo nella modernità tecnologica, dobbiamo renderci conto che abbiamo un’importante sfida da raccogliere: elaborare una sana ed equilibrata convivenza tra il nostro essere analogico e il nostro essere digitale, un’identità non deve soffocare, sminuire o alterare l’altra. Ci vuole una certa coerenza e onestà nel coltivare e nutrire entrambe ricordandoci sempre che nessun Pokémon meriterà mai più attenzione di un sole al tramonto o di un albero sul nostro percorso. O di una vita che attraversa la strada mentre sopraggiungiamo in auto.
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Tradizioni e memoria collettiva Con la ricorrenza della festa nazionale mi è tornato in mente, con un sorriso, un ricordo del mondo scolastico. Mi era capitato di chiedere, a ragazzi della terza media, che cosa si festeggiava il 1. d’agosto. La risposta di un ragazzo è stata: «Allora… Sì, è il compleanno della Svizzera». Certo la semplificazione è un po’ rozza, ma in fondo, a prenderla come una metafora, non è tanto male; è comunque meglio di quanto mi è capitato di sentire ultimamente: «Ah, sì!... È la festa dei fuochi artificiali». Questa risposta recente mi ha fatto pensare a quanto scrive Eric Hobsbawm all’inizio del suo libro di maggior successo, Il secolo breve, dove lo storico accenna a quello che considera «uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento»: «La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto orga-
nico con il passato storico del tempo in cui essi vivono». Mi pare che non abbia torto e che, anzi, il fenomeno si rafforzi con il passare del tempo, estendendosi anche a chi non è più giovane. La memoria del passato si attenua, il tempo perde di spessore, si vive sempre più nel presente. Questa negligenza del passato provoca una sorta di scollatura tra le generazioni. Di fatto, è un fenomeno che ogni mutamento storico in qualche misura ha sempre comportato, ma che oggi si è radicalizzato per la velocità con la quale il mondo cambia. È un guaio? In fondo, si può dire, a che serve sapere la storia passata? Che importa sapere di Guglielmo Tell, o di Franscini, o di Dunant? È vero, dal punto di vista pratico non credo che serva (anche perché i rischi di essere bocciato se non lo sai sono quasi nulli). Ma, benché il mondo d’oggi tenda a valutare tutto in termini di
un’identità comune che stabilisce un legame, una sorta di affinità elettiva: e anche questa identità è affidata alla memoria, che consente la condivisione di ricordi, di modelli, di stili di vita, di una cultura comune. In altri termini, è la tradizione che costituisce l’identità di un gruppo, la sua storia condivisa. Ma la tradizione, appunto, si va perdendo. È vero, le cerimonie tradizionali, numerosissime, permangono o rispuntano anche nei singoli villaggi; ma si tratta di attaccamento alla tradizione oppure di un’attrazione turistica? Una tradizione è davvero tale quando parla al cuore e risveglia emozioni. A quante persone il Salmo svizzero fa ancora questo effetto? E le processioni storiche mendrisiensi, da quanti sono vissute come un rituale denso di significati emotivi e da quanti altri come uno spettacolo attraente? Così, quando leggo di iniziative parlamentari intese a introdurre l’educazio-
ne civica come disciplina obbligatoria (attualmente fa già parte del programma di Storia: rendendola una disciplina a se stante si vorrebbe valorizzarla), mi dico: perché no? Di certo, la conoscenza dell’ordinamento politico del Paese in cui si vive è essenziale per l’appartenenza e per la partecipazione democratica. E però, so anche che da un apprendimento nozionistico alla condivisione di una tradizione c’è un abisso. Oggi la scienza ci conferma che per fissare i ricordi nella memoria a lungo termine è necessario ancorarli ad un’emozione. Solo quando un brivido emotivo lega un’immagine, o una musica, o un episodio al soggetto che lo vive; solo allora il ricordo entra a far parte della persona, si radica nella sua storia e lo accompagna lungo la vita. Perciò, si può sperare che una tradizione sopravviva solo se la comunità riesce a trasmetterne la carica emotiva alle nuove generazioni.
calamita. Si notano subito, lungo il sentiero intorno al lago – inaugurato nel 2013 e creato dal signor Ugo Sartore e l’impresa Pervangher grazie alla fondazione Carlo Danzi – le sembianze vulcaniche delle sponde che scendono a imbuto. Del resto, il diciassette agosto 1850, il naturalista Lavizzari propone come etimologia, chiamandolo però « Tramorcio », la tramoggia. Ecco quattro pescatori di trote. Qui ci sono la fario, l’arcobaleno, la canadese, oltre al salmerino di fontana e all’ambitissimo salmerino alpino dalla fine carne rosea e gustosa. D’altro rosa, più estroverso, i cardi montani. A caccia del blu violaceo delle aquilegie alpine, mi accontento intanto del viola delle campanule. È però ancora il colore del Tremorgio a rubare la scena e ora, a metà giro, mi ricorda molto un blu delle matite acquarellabili Prismalo della Caran d’Ache. Tanto profondo da far fiorire nella credenza popolare un collegamento infernale – ma in realtà profondo fino a cinquantasette metri e
da novantanni sfruttato idroelettricamente – il Tremorgio ha una profondità di blu luminosa. Un po’ come il blu elettrico però più chiaro e misterioso. Scartando l’idea che ci sia un tubo con l’elettricità di ritorno a produrre un ipotetico blu idroelettrico, assente in altri bacini del genere, magari c’entra qualche filone sottacqua di pietre preziose rifrangenti. D’altra parte, negli anni Trenta, il mineralogista Taddei scopre qui un giacimento di scapolite a pelo d’acqua e più su, il Campolungo, si sa, è miniera di rari cristalli da due secoli. Duecento metri più in alto, sul sentiero che porta proprio all’alpe Campolungo, il blu del Tremorgio mozza il fiato. Questa è forse l’altezza giusta per assaporarlo in pieno. Il contorno è ondivago, come la corolla di un fiore disegnata in fretta da un bambino. Adesso il blu, visto che il blu elettrico trae il nome dal bagliore d’aria ionizzata dei lampi, mi sembra di colpo blu meteoritico. In cima mi sdraio sull’erba garbata della conca : la roccia
contorsionista lassù, verso il passo, abbaglia come lingue di neve. È un altro mondo, oltre alla dolomia bianca stordisce il fatto che qui oltre i duemila metri c’era un mare tropicale. Dopo un impagabile picnic frugale a base di cuore di bue dell’orto, pane nero, pezzo di Pesciüm, torno a guardare giù un frammento di quel blu che non mi stancherò mai di guardare. Sarà forse per la scarpinata di un’ora abbondante in una forma fisica così così, ma mi chiedo se quell’acqua non si ricordi del mare. Ora, grazie al sole, non ci sono santi, è proprio blu marino. Un’altra possibilità è la presenza in fondo al lago di un drago bianco a guardia di un tesoro di topazi. Un grido di marmotta segnala la presenza di un reporter matto per il blu Tremorgio. Tornerò a nutrirmi di questo blu che si vede già dai tavoli della capanna Tremorgio a un passo dalla funivia, dove sorseggiando una gazosa al mandarino, ho sentito favoleggiare del carpaccio di trota della nuova cuoca spagnola.
veloci e magari balordi, dall’altro, però, blocca l’accesso al nuovo che avanza. Che sta avendo gli effetti più vistosi proprio sul piano dell’anagrafe, non tutti positivi. Si vive più a lungo ma, paradossalmente, nei Paesi campioni di longevità, come il nostro, pochi ne approfitteranno. Perché calano le nascite e, quindi, i candidati al traguardo, teoricamente raggiungibile, dei cent’anni. Si tratta di uno scombussolamento che ha prodotto incessanti spostamenti sulla scala delle età. Lo conferma il nostro linguaggio, spia diretta della quotidianità. Si è adolescenti sin oltre i vent’anni, giovani a trenta, a quaranta e, finalmente, maturi sui cinquanta. Dopo di che si entra nella zona ibrida degli anziani, della terza e quarta età, evitando la parola vecchi che, tuttavia, rimane implicita. Sta dietro a quell’ancora che, comunque, confessiamolo, mette di malumore. Per quel che mi concerne, si riferiva, alle mie attività sportive: «Giochi ancora a tennis, nuoti
ancora?», mi sentii dire, forse una ventina d’anni fa, con una tollerante ironia. L’anziano che fa sport non disturba. Anzi, contribuisce ad alimentare il fiorente business del tempo libero e dei viaggi in torpedone. Il discorso, invece, cambia quando l’ancora si riferisce al lavoro, un ambito che rimane tabù: sia sul piano delle reazioni popolari, sia su quello aziendale e sindacale. Qui, infatti, c’è un forte ritardo e persistenti malintesi nei confronti di una tendenza che, intanto, cresce e chiede un proprio spazio e soprattutto un riscatto morale. «Continuare a lavorare sfidando l’età»: con questo titolo, già implicitamente polemico, il «Tages Anzeiger», del 2 agosto scorso, raccoglieva le testimonianze di una schiera di ultra sessantacinquenni, decisi a rimanere attivi, sia nel loro precedente posto, sia cambiando attività. Si tratta di un campionario che indica una tendenza in atto. Come osservava il sociologo Peter Gross: «In una società aperta e libera, che apprezza il valore della responsabilità individua-
le, il pensionamento non dev’essere un limite costrittivo generalizzato». Spetta ai singoli lavoratori decidere quando smettere. In Svizzera, si tratta di una collettività sempre più numerosa, e a suo modo controcorrente rispetto a timori di disoccupazione. Nel 2015, 172.000 over 65 , per due terzi uomini e un terzo donne, hanno continuato a recarsi al lavoro con motivazioni diverse. Prevale «il piacere per il lavoro», la sensazione di essere utili e in buona salute, e «il bisogno di contatti sociali» . L’aspetto finanziario si colloca in seconda linea. E la concorrenza a danno dei giovani? L’esperienza condotta a Zurigo sembra smentire ogni timore. Gli anziani occupano posti dove, appunto, conta una specializzazione basata sull’esperienza. Permane, tuttavia, un ostacolo d’ordine mentale che, d’altra parte, proprio in Svizzera si scontra con un fondamentale conservatorismo. Manca la flessibilità per accettare nuovi modelli di vita: anziani al lavoro, giovani che chiedono orari parziali.
utilità pratica e di peso monetario, occorre pur sempre ricordare che c’è una dimensione nella quale la conoscenza del passato serve: non la dimensione dell’avere, ma quella dell’essere – per riprendere una distinzione cara a Eric Fromm. In altri termini: ogni identità individuale è costruita sul proprio passato, sul vissuto, sulla memoria che conserva quel che siamo stati; perché è attraverso quello che abbiamo vissuto che siamo divenuti quel che siamo. Noi siamo la nostra storia: i casi di grave patologia della memoria provano indiscutibilmente che l’amnesia del proprio passato provoca una perdita d’individualità. Ma nessuna storia è mai esclusivamente individuale, nemmeno quella dei più ostinati eremiti. La storia di ognuno s’intreccia con le sue relazioni sociali. Ebbene, quel che vale per l’individuo vale, in certa misura, anche per una comunità. Essa è tale quando esiste
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il blu del laghetto Tremorgio Noto per la forma quasi rotonda e un colore speciale, il Tremorgio potrebbe essere nato per via di un meteorite. Non è una storia da bar, ma l’insolita teoria del professor Kurt Bächtiger del Poli di Zurigo. Pubblicata nel 1977 con il titolo Il bacino del lago Tremorgio (Canton Ticino) quale possibile cratere da impatto meteoritico del Quaternario nelle Alpi Svizzere, è strutturata, alla faccia della consueta erosione glaciale, in sei argomenti. Si parte dall’anomala struttura quasi circolare sotto gli occhi di tutti e si approda ai più criptici «plagioclasi deformati ». La leggenda vuole invece che la sua genesi sia dovuta all’arrabbiatura della befana. Figura bonaria in tutto il folklore ticinese, in Leventina annegava i bambini nel Ticino. In breve, la befana, sposato sotto mentite spoglie il luogotenente più spavaldo di Carlo Magno soprannominato Tremor, una volta scoperta, scatena il finimondo. Tremor aveva un castello dove c’è ora il Tremorgio e il divieto di vedere i piedi della sposa che
portava sempre gonne infinite come le fate di Vallorbe. Una sera decide di cospargere di cenere l’uscio. Un’orma di zampa d’oca rimane : è il segno della temuta befana leventinese. Crolla il castello e viene giù un temporale mai visto. Al mattino gli abitanti di Prato scoprono il laghetto dentro un cratere, mentre si racconta che Tremor sia stato tramutato nelle aquilegie alpine che ancora crescono attorno al Tremorgio (1830 m). Sono secoli che non vedo un laghetto alpino, così con occhi come nuovi, un mattino di buon’ora a inizio agosto, mi metto in viaggio. Da Rodi-Fiesso, cinque minuti di funivia e si scorgono già due dita di quel colore lacuale unico. Lo scampanìo bovino ha un effetto immediatamente calmante, mentre l’aria d’altura profumata dai larici è quasi meglio dello champagne. La flora alpina variopinta stimola poi la curiosità dello sguardo, ma è quel colore definito « d’inchiostro » dal geologo Filippo Bianconi nel libretto Laghi alpini del Ticino (1969), la vera
Mode e modi di Luciana Caglio Quando ti dicono «ancora» Prima o poi succede. Spesso, in anticipo rispetto alle tue intime aspettative. Ed è così che un avverbio, di per sé neutrale, assume il peso di un avvertimento, se non addirittura di un’offesa. Fatto sta che, quando ti senti dire quell’ancora, abbinato a un verbo che definisce gesti e abitudini normali, scatta una reazione d’incredulità che poi diventa autodifesa e riflessione. Giustamente, perché si tratta di un segnale rivelatore, di cui tener conto. Nostro malgrado, al di là delle illusioni affidate a un aspetto giovanile e a comportamenti disinvolti, qualcuno ci ha visto sotto una luce diversa: come una persona che potrebbe trovarsi al limite della piena indipendenza. Tanto da giustificare dubbi sulle sue capacità fisiche e mentali. Insomma: guidi ancora, esci ancora la sera, dormi ancora bene, fai ancora sport, viaggi ancora, e, soprattutto, lavori ancora, non sono domande campate in aria. Esprimono quel buon senso comune, considerato il depositario di una saggezza popolare
tradizionale, che continua a ispirare l’opinione pubblica, nelle sue manifestazioni spontanee, cosiddette di pancia. E gli «ancora», con cui ci assillano nel decennio spartiacque, fra i 50 e i 60, provengono da questo retroterra: a ben guardare ambiguo. Da un lato, sembra svolgere un’utile funzione protettiva nei confronti di cambiamenti troppo
Peter Brabeck, presidente di Nestlé: esempio di anziano in carriera. (Keystone)
Ricetta e foto: www.saison.ch
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Ingredienti 400 g di linguine, sale, 2 dl di panna semigrassa, 1 dl di brodo di verdura, 1 mazzetto di prezzemolo, 3 gambi d’aneto, 2 scatole di tonno da 160 g, 140 g di pomodori cherr y Preparazione Lessate le linguine al dente in acqua salata e scolatele. Fate ridurre la panna con il brodo per ca. 5 minuti. Unite la pasta, mescolate bene e continuate ancora per ca. 3 minuti a fuoco basso finchÊ la pasta è pronta. Tritate grossolanamente le erbe e aggiungetele alla pasta. Scolate il tonno in scatola, fatelo sgocciolare bene e spezzettatelo. Tagliate i pomodori in quattro. Mescolate il tutto con la pasta. A piacere guarnite con parmigiano grattugiato. Tempo di preparazione ca. 20 minuti Per persona ca. 32 g di proteine, 16 g di grassi, 90 g di carboidrati, 2700 kJ/650 kcal
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Ambiente e Benessere Profumi di Provenza Non è solo decorativa, ma anche curativa: scopriamo insieme le antiche proprietà della lavanda
Una su seicento La lunga storia della Dionaea muscipula, la prima specie di pianta carnivora scoperta
Appunti virtuali Molte nuove app, ancora poco conosciute, aiutano a dare una forma compiuta al racconto del nostro viaggio
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Giochi sporchi Ha ripreso il via la macchina delle Olimpiadi estive, e con esse sono ripartite le polemiche
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Mancato l’obiettivo nel 2015 di debellare il morbillo in Svizzera. (Keystone)
Vaccinazioni strategiche Medicina Il piano nazionale di vaccinazione mira a rafforzare la protezione della salute della popolazione Maria Grazia Buletti Sempre più sovente si sente discutere sulle vaccinazioni. E sempre di più alcuni dubbi sulla loro opportunità, sulla loro efficacia e sui loro effetti collaterali s’instillano nei neo genitori che sono chiamati a decidere sulla tabella vaccinale dei propri figli. Non possiamo dunque negare che vige una certa confusione e si percepisce una qual mancanza, nella popolazione, di strumenti adeguati per poter serenamente decidere di vaccinarsi e di vaccinare la propria prole. «Le vaccinazioni sono tra i mezzi più efficaci per proteggersi da malattie gravi come la difterite, il tetano, la poliomielite o il morbillo», così si esprime l’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp) che rende pure presente: «Proprio grazie a vaccini efficaci e a un’elevata percentuale di persone vaccinate, la diffusione di certe malattie è fortemente regredita, mentre altre patologie sono completamente scomparse». Le vaccinazioni rientrano dunque nelle misure mediche più efficaci (ma anche più economiche) e ciò sta alla base della Strategia nazionale di vaccinazione (Snv) elaborata dalla Confederazione, con l’appoggio dei Cantoni e di altri attori. La Strategia mira a migliorare ulteriormente la protezione della popolazione, soprattutto quella dei gruppi più
vulnerabili. Ciò rientra, tra l’altro, negli obiettivi della Strategia «Sanità 2020» del Consiglio federale che, entro la fine di quest’anno, dovrebbe approvare la Snv nella sua versione definitiva. I sondaggi sulla Strategia nazionale di vaccinazione sono iniziati nel periodo 2011-2012. «Allora, una prima bozza del documento aveva evidenziato importanti punti di forza del sistema di vaccinazione svizzero, come ad esempio l’elevata sicurezza dei vaccini e la chiarezza dei piani di vaccinazione nazionali», spiega l’Ufsp che però ne indica anche le lacune emerse: «I ruoli e le competenze dei diversi attori nell’ambito della vaccinazione si sono rivelati poco chiari e l’accesso alle vaccinazioni non sempre semplice, mentre tra la popolazione è stata percepita una certa insicurezza sul senso e l’efficacia delle singole vaccinazioni». La Strategia si basa sulla legge sulle epidemie in vigore dal 1° gennaio 2016 ed è da intendersi come una strategia quadro «che crea le condizioni per una somministrazione dei vaccini coordinata, efficace ed efficiente, al fine di proteggere la salute pubblica». A questo scopo, perseguito in modo puntuale dall’Ufficio federale della sanità, sono riconducibili «la riduzione della frequenza delle malattie, delle complicazioni e dei decessi, nonché l’eliminazione o l’eradi-
cazione degli agenti patogeni di singole malattie». La Snv è correlata strettamente con la strategia nazionale contro le resistenze agli antibiotici (StAR): «Infatti, più malattie si evitano grazie alle vaccinazioni, minore sarà il numero di antibiotici prescritti per la guarigione dei pazienti». E tornando alla Snv, essa comprende tre aspetti chiave, come indica l’Ufsp: «In primo luogo, gli attori sono invitati a un maggiore coinvolgimento nell’ambito delle vaccinazioni. In secondo luogo, l’informazione è ottimizzata affinché le persone possano decidere in merito ai vaccini con cognizione di causa e, infine, sarà più facile accedere agli stessi». L’Ufsp punta molto sulla corretta informazione e sulla sensibilizzazione della popolazione, come mezzo assolutamente imprescindibile perché tutti possano comprendere l’assoluta necessità di aderire alla Strategia nazionale di vaccinazione: «La popolazione avrà a sua disposizione informazioni mirate basate sui fatti, in modo che tutti possano decidere, lo ripetiamo, con vera cognizione di causa sulle vaccinazioni consigliate». La più fluida accessibilità all’offerta vaccinale è altresì uno degli obiettivi salienti per la riuscita della Strategia, «in questo modo si aumenta la protezione vaccinale della popolazione
stessa, riducendo il numero delle malattie evitabili, delle complicazioni e dei decessi». Per raggiungere tutti questi obiettivi sarà necessario dunque un ampio ventaglio di misure che possiamo suddividere in cinque punti: «Responsabilizzazione e sostegno degli attori», che comprende ad esempio i miglioramenti del calendario vaccinale svizzero, sia nell’elaborazione sia nella prestazione; «Misure di promozione per la popolazione», si intende un orientamento anche alla comunicazione e a un accesso facilitato alle offerte vaccinali; «Formazione e coordinamento», incentrati su professionisti della salute e sullo scambio di informazione ed esperienze fra i Cantoni; «Sorveglianza, ricerca e valutazione», che affronta la vaccinazione sistematica e l’analisi degli effetti; infine «Strategie specifiche», inteso per malattie che possono essere evitate con una vaccinazione. Con il lancio della Strategia nazionale di vaccinazione, l’Ufsp si dice assolutamente certo che in Svizzera la protezione contro le malattie infettive migliorerà ulteriormente: «In base alla nuova legge sulle epidemie, l’Ufficio federale della sanità pubblica ha elaborato questa strategia con l’obiettivo d’incoraggiare l’impegno di tutti gli attori coinvolti nell’informare in modo fonda-
to la popolazione sull’utilità delle vaccinazioni, garantendone un buon accesso». E per entrare brevemente nel concreto, potremmo portare ad esempio il morbillo, una malattia infettiva causata da un virus che preoccupa soprattutto a causa delle sue complicazioni («otite, polmonite e convulsioni febbrili, infezione al cervello – in un caso su mille – e infezione al cervello a decorso lento che si manifesta anni dopo aver contratto il morbillo e che conduce alla morte – in un caso su 100mila»). Altamente contagioso, e trasmissibile attraverso minuscole goccioline infette emesse con tosse o starnuti, il morbillo non dispone di una terapia specifica nota contro il virus e l’unico modo per evitare di contrarlo è la vaccinazione. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), attraverso la vaccinazione della popolazione, il morbillo si sarebbe dovuto debellare entro il 2015, cosa che non è ancora avvenuta. Nel 2011 in Ticino l’Ufficio del medico cantonale indicava che «per eliminare il morbillo, in Ticino e in Svizzera è necessario che entro il 2015 il 95 per cento della popolazione sia vaccinata con due dosi». Così non è stato e questo esempio concreto ci permette di ben comprendere, nel 2016, gli obiettivi della Strategia nazionale di vaccinazione da parte dell’Ufsp.
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Ambiente e Benessere
La profumata lavanda Fitoterapia Tra leggende e proprietà curative Eliana Bernasconi Fin dagli albori della coscienza umana, scrive il filosofo Duccio Demetrio, la natura fu causa prima di ogni ispirazione creativa. Quando il linguaggio si fece evoluto, le parole iniziarono a raccontarne le meraviglie, costruirono canti, poesie, narrazioni mitologiche: alla stessa pianta medicinale da tempi immemorabili, popoli diversi attribuirono innumerevoli storie e leggende. Un’antica favola persiana ad esempio racconta l’origine della Lavanda: il re di Persia aveva destinato in sposa la bellissima figlia a un potente sultano, ma l’aveva anche affidata alle cure di un giovane tutore dagli occhi infinitamente azzurri. I due erano perdutamente innamorati ma la ragion di Stato avrebbe soppresso il loro amore. Affinché ciò non avvenisse il dio della luce Aura-Mazda li trasportò fra le stelle del cielo e al loro posto restò questa pianta. Sembra che da allora fossero impregnate di lavanda le stanze dove nascevano i re di Persia. Nella Francia meridionale si racconta invece che la fata Lavendula, bionda e dagli occhi azzurri, come quelli della maggior parte delle ragazze provenzali, dal cielo cercava un luogo dove stabilirsi. Scoperte le terre aride e abbandonate della Provenza, si intenerì e le sue lacrime sparse resero queste lande azzurre, fertili e profumate. E ancora: nella mitologia greca la lavanda era dedicata a Ecate, misteriosa dea lunare, e naturalmente a Venere dea della bellezza e della seduzione amorosa. Immancabile in epoche successive l’uso della lavanda nella fabbricazione di filtri d’amore. Appartenente alla famiglia delle Labiate, la Lavandula angustifolia, conosciuta anche come Lavandula vera o Lavandula officinalis, è facilmente confusa con la Lavanda latifolia (spigo). È un piccolo arbusto perenne che può raggiungere anche ottanta centimetri di altezza, dalle foglie vellutate e strette di un delicatissimo verde cinerino, dai fiori di un inconfondibile colore tra il lilla e il celeste raccolti al termine dei fusti in lunghe spighe di 5-15 cm. Originaria delle regioni mediterranee, è diffusa in tutto il Sud Europa dove cresce anche spontanea. Commercialmente è coltivata su larga scala.
Famosa è la fioritura nell’alta Provenza, dove il vento porta il suo profumo dalle note dolci e acute e lo spettacolo dei prati azzurri sterminati è indimenticabile. I raccoglitori con falcetti e sacchi iniziano a tagliare le sommità fiorite: la raccolta si esegue da luglio ad agosto-settembre, nella calma del mezzogiorno o verso sera quando la pianta contiene più oli essenziali. I fiori puri, dal caratteristico profumo inebriante, sono staccati prima della completa apertura, liberati dal peduncolo, seccati rapidamente all’aria e all’ombra e conservati. L’etimologia del nome Lavanda deriva dal latino «lavare», da tempo immemorabile mazzolini e sacchetti evocano immagini di pulizia e freschezza, di bianche lenzuola asciugate al sole, di cassetti e armadi dove venivano o vengono ancora collocati. Nella medicina popolare il macerato di fiori in olio o acquavite si massaggiava sul-
le tempie per lenire le cefalee e si frizionava su punture di insetti, morsi di animali, scottature, contusioni e parti doloranti. Jean Valnet, medico fitoterapeuta del XX secolo racconta di avere visto nelle Alpi francesi i cacciatori stropicciarsi della lavanda sulle dita e poi sfregarle sui cani morsi dalle vipere, questo per neutralizzare immediatamente il veleno. Mesué il Vecchio (777-857 d.C.) scrive che la lavanda «solve la melanconia e la flemma, modifica e conforta il cervello, i nervi e tutte le membra, cura le epilessie e tutte le infermità rigide». Ildegarda di Bingen consigliava un decotto nel vino o in acqua e miele per «mitigare i dolori epatici e polmonari, contrastare l’asma e procurarsi conoscenza pura e puro intelletto». Il terribile Paracelso, nato a Einsiedeln nel 1493, che lasciò detto che ogni prato, campo o collina può essere considerato una farmacia, lodava la lavanda come
«rimedio nobile contro i mali della testa, del cervello e dei nervi, che rinforza, ristora e riscalda». E infine i romani mettevano i sacchetti nell’acqua delle terme. Per la moderna Fitoterapia, l’infuso di fiori è calmante e bechico (cura la tosse), carminativo, disinfettante e antispastico mentre la tintura madre è usata negli stati infiammatori dell’apparato gastroenterico. Con il metodo di distillazione in corrente di vapore delle sommità fiorite fresche si ottiene l’olio essenziale o essenza, ricavata dalla Lavanda angusti foglia, (la migliore cresce nei luoghi montani). L’essenza è una sostanza chimicamente molto complessa: fino ad oggi sono stati identificati ben 160 costituenti, variabili a seconda della provenienza della pianta. René Maurice Gattefossé, a cui pare si deve il termine «aromaterapia», anche se gli oli essenziali erano peraltro usati per il corpo almeno 2000 anni
prima di Cristo, scoprì casualmente la notevole capacità di quest’essenza, considerata tra le più versatili, presente in cosmesi e nella fabbricazione dei profumi, ossia quella di guarire in breve tempo le ustioni. Le si riconoscono proprietà analgesiche, antibiotiche, antireumatiche, cicatrizzanti, diuretiche, insettifughe. Va usata solo con la prescrizione di persone competenti. Il suo profumo può aiutare ad esempio nei disturbi del sonno e negli stati di leggera inquietudine. Varie ricerche hanno dimostrato che lo stimolo gustativo e olfattivo determinato dalle sue molecole attiva alcune regioni del sistema limbico cerebrale, stimolando il rilascio di endorfine ad attività tranquillante e antispasmodica. Bibliografia
Gabriele Peroni, Driope – Trattato di Fitoterapia, Nuova Ipsa Editore. Annuncio pubblicitario
Fare la cosa giusta
Quando la povertà mostra il suo volto Scoprite di più su Franka e suo figlio: www.farelacosagiusta.caritas.ch
Franka Alimocan (17 anni), un’apprendista dell’Uganda
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Ambiente e Benessere
Una vistosa foglia di Dionaea mostrante la denticolazione che attua la cattura della preda; 25 millimetri. (Stefano Zucchinali)
La carnivora Dionaea Biodiversità Darwin: «La più straordinaria pianta esistente sulla Terra» Alessandro Focarile Molti milioni di anni or sono, gli antenati delle attuali piante carnivore si evolsero in ambienti umidi e in zone paludose come le torbiere ricche di sfagni (muschi). Sicuramente, qualche dinosauro zampettava in quei luoghi, dove l’azoto necessario per la vita e costituente l’elemento fondamentale per la produzione delle proteine, era scarsamente o per nulla disponibile. Le piante che si trovavano a vivere in regioni povere di azoto dovettero quindi inventare un sistema di approvvigionamento che non dipendesse dalle radici, e dunque dai terreni che ne erano privi.
Collinson: «La grande meraviglia del mondo vegetale è una specie sensitiva, sconosciuta e curiosa» «Da tempi immemori, la terra assisteva alla battaglia per la sopravvivenza tra gli organismi erbivori e le piante. Questo conflitto infinito rappresenta una straordinaria spinta selettiva che modella l’evoluzione sia delle piante che degli insetti, e ne guida la loro distribuzione nel tempo e nello spazio». (Mancuso e Viola – 2015). Attualmente sono conosciute circa 600 specie di piante carnivore. E la storia della Dionaea muscipula, la prima specie scoperta, vale certamente la pena di essere raccontata. Il 24 gennaio 1970 Arthur Dobbs - ricco proprietario terriero della Carolina (Usa)
e governatore della colonia allora inglese dal 1754 al 1766 – descriveva in una lettera inviata al botanico inglese Peter Collinson (1694-1768), membro della Royal Society, una nuova meravigliosa pianta, che aveva la capacità di acchiappare le mosche. «Ma la grande meraviglia del mondo vegetale è una specie sensitiva, sconosciuta e molto curiosa. Si tratta di una pianta nana le cui foglie assomigliano allo stretto segmento di una sfera. Quest’ultimo di due parti, simili alla cima di un borsellino: il lato concavo verso l’esterno, ognuna delle quali ha il bordo ripiegato, con i margini dentellati, come una tagliola per le volpi. Le foglie si chiudono istantaneamente, proprio come fosse una trappola su qualsiasi cosa le tocchi, o cada tra esse, e imprigionano qualunque insetto vi capiti in mezzo. Produce un fiore bianco. A questa sorprendente pianta ho dato il nome di sensitiva acchiappamosche (Fly-Trap Sensitive)» Collinson consegnò i primi campioni di questa meravigliosa pianta, arrivati in Europa, a John Ellis, che battezzò la specie Dionaea muscipula.
E nel 1769 Ellis, il quale aveva intuito la sua natura carnivora, scrisse al sommo Linneo inviando una dettagliata descrizione corredata con un minuzioso e corretto disegno. La Dionea è la più famosa pianta carnivora, definita da Darwin «la più straordinaria pianta esistente sulla Terra». Ha radici molto corte, non oltre 10-15 centimetri, e porta una rosetta basale di foglie prossima al suolo. Ogni foglia è composta da due lamine. I bordi di ciascuna lamina (foto) sono verdi, mentre la parte interna è coperta con ghiandole rossicce che rendono possibile la secrezione degli enzimi digestivi. Fintanto che la foglia non è stimolata dall’arrivo della preda, essa non reagisce e nessuna secrezione viene prodotta. Alla base di ciascuna mezza foglia sono insediati tre lunghi peli rigidi che provocano un’immediata chiusura a scatto, come si trattasse di un micidiale coltello a serramanico. Le denticolazioni sui bordi combaciano perfettamente, creando una trappola senza scampo, e l’insetto viene digerito grazie agli enzimi secreti dalle ghiandole. Dopo
Piante carnivore o insettivore? Quando furono scoperti, studiati e descritti, questi vegetali dagli insoliti appetiti, vennero definiti «insettivori», in quanto la preda catturata e digerita era costituita da insetti. In seguito, furono scoperte piante con appetiti più variati: scheletri di topolini, piccoli anfibi e uccellini furono trovati nelle foreste pluviali in alcune
singolari trappole che caratterizzano il genere Sarracenia. Tutti animaletti che chiaramente non erano «insetti». Per tale ragione fu proposto e adottato il termine più realistico «piante carnivore». La Dionaea muscipula è l’unico fiore al mondo, le cui foglie sono in grado di digerire anche il tuorlo d’uovo.
Il corpo del coleottero: Otiorhynchus sulcatus (10 millimetri) l’oziorinco del lauroceraso, catturato e digerito dalla pianta. (Alessandro Focarile)
il pasto, le foglie si riaprono in attesa di un nuovo banchetto. A seguito di diverse chiusure (ne sono state contate fino a quindici), che possono avvenire anche per la caduta di una goccia di pioggia, oppure di qualche detrito, la nostra Dionea si stanca, soprattutto quando la stimolazione non si concretizza con un pasto. Questa sofisticata e conturbante creatura è monospecifica: esiste una sola specie in tutta la flora a livello mondiale, a conferma della sua molto remota origine. Il suo areale naturale si trova nella Carolina settentrionale, Stato degli Usa collocato sul versante Atlantico con clima sub-tropicale, ricco di stagni e paludi, in una ristretta area di appena 60-75 miglia quadrate intorno alla città di Wilmington (Schnell 1976). In virtù di numerose operazioni di trasloco ad opera di floricoltori e
studiosi, la Dionea ha visto espandersi notevolmente il suo areale, ed è diventata una famosa e richiesta pianta nel commercio dei fiori, fino in Europa (è venduta anche alla Migros). Bibliografia
Charles Darwin, Insectivorous Plants, John Murray (London), 1875, 465 pp. (non consultato) Pierre Jolivet, Interrelationships Between Insects and Plants, CRC (Boca Beton, London, New York, Washington), 1998, 309 pp. Stefano Mancuso e Alessandra Viola, Verde Brillante, Giunti Editore (Firenze, Milano), 2015, 140 pp. Donald Schnell, Carnivorous Plants of the United States and Canada, John Blair Publisher (Winston-Selen, USA), 1976, 125 pp.
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Ambiente e Benessere
Nella rete dei ricordi
Un’avventura sudamericana
Viaggiatori d’Occidente Una selezione di nuove app per raccontare il viaggio
Bussole Inviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin Un viaggiatore silenzioso non s’è mai visto. Viaggiare e raccontare sono i due volti della stessa esperienza. Raccontiamo a noi stessi, prima ancora che agli altri, per chiarirci quel che abbiamo visto e vissuto. Raccontiamo per ammantarci di quell’alone di fascino e mistero che il viaggio dona. Raccontiamo per divertire, incuriosire e informare chi ci vuole ascoltare.
«Come molti ansiosi, non ho mai avuto grande spirito d’avventura. Però la mia ansia universale è a tal punto onnicomprensiva che a un certo punto mi è venuta l’ansia di non avere vissuto abbastanza avventure. Ho pensato che a trent’anni la mia finestra di opportunità si stava chiudendo, e improvvisamente la mia zona di comfort mi ha fatto venire la claustrofobia. Allora ho deciso di partire per un’avventura: un viaggio zaino in spalla in Perù…».
Per un tempo quasi infinito l’esperienza del viaggio e della sua narrazione è stata sempre uguale. Il viaggiatore si muoveva in terre lontane senza contatti con chi aveva lasciato a casa. Viveva nuove esperienze, diverse dalla sua vita abituale, e le annotava nei suoi taccuini. Al ritorno, basandosi su queste note, cercava un filo rosso che collegasse tutto quel che aveva visto, il senso profondo del viaggio, distinguendo l’essenziale dall’accidentale. Poi è arrivata la tecnologia e tutto è cambiato. Lo smartphone è diventato il principale strumento per catturare i luoghi. Possiamo fare fotografie o video, registrare suoni (una divertente opportunità spesso trascurata dai viaggiatori), scrivere brevi testi. Inoltre, attraverso lo smartphone, anche in viaggio siamo collegati con la nostra comunità di origine: riceviamo consigli e indicazioni che ricambiamo con immagini, notizie, momenti del nostro viaggio. Si tratta solo di fare buon uso di queste potenzialità. Evitiamo per esempio quei post di cattivo gusto nei quali mostriamo spiagge incantevoli e alberghi di lusso solo per sollecitare l’invidia di chi è rimasto a casa (o peggio in ufficio). Più interessante, e gentile, condividere la nostra esperienza. I social network si prestano bene a un racconto attraverso piccole notazioni: il colore di una casa, l’insegna di un negozio, il volto di un passante ecc. Una serie di impressioni che, dettaglio dopo dettaglio, compongono un quadro di piacevole lettura. Per esempio, rispetto alla macchina fotografica, con lo smartphone è più facile cogliere al volo qualche imma-
Vincenzo Cammarata Fosphoro
Grazie alla tecnologia la nostra storia, avventura, esperienza, iniziamo a raccontarla quando ancora siamo in viaggio
gine spontanea, senza che gli altri se ne accorgano (con gli ovvi limiti imposti dall’educazione). E così, quando ancora siamo in viaggio, già raccontiamo la nostra storia, per esempio su Instagram. Al ritorno vorremmo dare una forma compiuta al racconto della nostra esperienza. Un tempo avremmo stampato le fotografie e, dopo aver scelto le meglio riuscite, le avremmo incollate su un album, scrivendo a penna le didascalie. Era come vivere il viaggio una seconda volta e questo aiutava a imprimerlo nella memoria. Da questo punto di vista molti rimpiangono il passato. I viaggi contemporanei spesso lasciano dietro di sé solo infiniti frammenti digitali e centinaia di immagini indicate da sigle incomprensibili, dimenticate in qualche scheda di memoria e infine perdute quando cambiamo smartphone. Per fortuna la stessa tecnologia che crea il problema ci offre anche qualche soluzione. Molte nuove app, ancora poco conosciute, ci aiutano a dare una forma compiuta al racconto del nostro viaggio. Hanno tutte
in comune la semplicità d’uso e la grafica pulita; incoraggiano a concentrarsi sui contenuti piuttosto che sulla forma. Un buon esempio è Steller (steller.co, il cui slogan è «Ognuno ha una storia da raccontare»): offre la possibilità di impaginare gradevolmente una storia raccontata con parole, fotografie e video. Altrimenti potreste utilizzare Medium (medium. com, «Fa avanzare il pensiero»). ThingLink (www.thinglink.com) può essere utile soprattutto a chi scatta molte fotografie e vuole arricchirle di informazioni, link, brevi testi, trasformando ogni immagine in un piccolo racconto. StoryMap JS (storymap.knightlab.com, «Mappe che raccontano storie») può essere utile quando vogliamo rendere più evidente il nostro itinerario e la dimensione spaziale delle storie raccontate. Grazie a questa applicazione, possiamo associare a ogni tappa una slide con vari contenuti. Simile Tripline (www.tripline. net, «Le tue mappe sono le tue storie»), particolarmente adatta nella
fase di preparazione del viaggio. La prima mappa verrà poi rifinita strada facendo e arricchita con immagini e testi. Tripline trasporta in digitale quel che molti già facevano coprendo di fitte annotazioni una carta geografica tradizionale (cfr. «Azione» n. 24 del 13 giugno 2016). Senza dubbio queste applicazioni aiutano a dare una forma coerente e gradevole al nostro viaggio, ma chi garantisce che potremo conservare i nostri ricordi nel tempo? In qualche caso è possibile salvare su disco il proprio lavoro, ma i creatori di queste app confidano piuttosto nella condivisione sui social network, soprattutto Facebook e Twitter. Più persone leggeranno e condivideranno i nostri contenuti, maggiore sarà la loro possibilità di durare nei meandri della rete dove – si dice – nulla viene veramente dimenticato. La prova del tempo ci dirà se è davvero così. Nel frattempo potrebbe essere una buona idea tenere in vita la tradizione e affidare comunque le foto più belle al buon vecchio album con la copertina rigida, nel terzo cassetto del mobile in salotto…
Anche se lontano da casa il senso dell’umorismo trova spesso modo d’esercitarsi alle prese con abitudini diverse dalle nostre, pochi riescono a scrivere un libro di viaggio divertente. Tra loro Sara Porro, giornalista milanese specializzata nel cibo, il filo conduttore di questa buona collana EDT (Allacarta) che negli ultimi anni ha proposto diversi titoli convincenti. Pagina dopo pagina si raccontano le peripezie di una ragazza di buona famiglia palesemente inadeguata alla ruvidezza di un viaggio sudamericano («“È mortale?” chiedo, e mi accorgo che è la domanda che faccio più spesso da quando siamo partiti, applicata di volta in volta a automobili scalcagnate, bacche selvatiche, aeroplani di epoca precolombiana, tisane di erbe, e ora animali della giungla»). La viaggiatrice però si rende simpatica per una certa fondamentale onestà: non si dà arie ma al tempo stesso, nonostante timori, tremori, non si sottrae a nessuna esperienza, gastronomica o meno. Racconta un Perù inevitabilmente turistico ma non per questo insignificante, dove i locali cercano naturalmente di ricavare quanto più possibile dalle stravaganti richieste dei ricchi occidentali, ma riescono comunque a stabilire un dialogo, nonostante gli inevitabili fraintendimenti ed equivoci, intorno a un piatto di ceviche o di chicharrones de pescado. Bibliografia
Sara Porro, Manuale di sopravvivenza amazzonica per signorine di città, EDT, 2016, pp. 128, € 8,90.
Effetti notevoli Giochi di parole Calcoli letterali o formule magiche? due cifre per uno di una sola cifra e aggiungere uno zero in fondo al prodotto ottenuto (46x3 = 138; 138 → 1380). ■ A questo punto, non dovete far altro che aggiungere al risultato ottenuto il quadrato della cifra delle unità di X (82 = 64; 1380+64 = 1444; in effetti: 382 = 1444). Questo procedimento deriva dal fatto che, essendo: X²–Y² = (X+Y) (X–Y), si può scrivere: X² = (X+Y)(X– Y)+Y². La stessa formula può essere utilizzata per realizzare un gioco di magia matematica, di semplice esecuzione, ma piuttosto sorprendente, come il seguente. 1. Scrivete il numero «1» su un foglio, senza mostrarlo al pubblico; ripiegatelo e inseritelo in una busta. 2. Fornite ai vostri spettatori le seguenti istruzioni collettive, specificando che
ognuno di loro dovrà eseguirle in maniera indipendente, senza consultarsi con gli altri, aiutandosi eventualmente con una calcolatrice tascabile: a) scegliete tre numeri interi consecutivi, di valore grande a piacere, che per comodità chiameremo, nell’ordine: A, B, C (ad esempio: A = 853; B = 854; C = 855); b) moltiplicate A per C (853x855 = 729’315); c) elevate al quadrato il numero B (854x854 = 729’316); d) sottraete da questo risultato il numero che avevate ottenuto al passo precedente (729’316 – 729’315 = 1). 3. Al termine di queste istruzioni, chiedete che, a un vostro via, ogni spettatore dica ad alta voce, insieme agli altri, il risultato che ha ottenuto. 4. Date il via e, con un certo stupore, tutti gli spettatori diranno in coro: «1»!
5. Aprite la busta contenente la vostra predizione e mettete in evidenza che avevate previsto esattamente il risultato che sarebbe stato ottenuto, nonostante aveste lasciato libero ogni spettatore di scegliere la terna di numeri che preferiva. Sapete spiegare perché questo trucco funziona sempre?
Soluzione
In algebra, vengono chiamati prodotti notevoli i risultati di alcune moltiplicazioni tra polinomi che acquistano una particolare importanza, per l’uso frequente che se ne fa. I prodotti notevoli, vengono solitamente imparati a memoria, perché consentono di svolgere più rapidamente i passaggi algebrici, rispetto all’applicazione diretta delle regole del calcolo letterale. Uno dei prodotti notevoli più ricorrenti afferma che il prodotto tra la somma e la differenza di due numeri interi (X e Y) è uguale al quadrato del primo termine meno il quadrato del secondo, ovvero: (X+Y)(X–Y) = X²–Y². Un risultato del genere si può giustificare facilmente, nel seguente modo:
(X+Y)(X–Y) =X²–XY+XY–Y² = X²–Y². Questa particolare formula induce delle applicazioni necessariamente scolastiche. Tra l’altro, consente di calcolare rapidamente a mente il quadrato di un numero intero di due cifre. Se volete cimentarvi in un’impresa del genere, potete procedere nel seguente modo. ■ Chiedete a un vostro amico di scegliere un numero X di due cifre (ad esempio: 38). ■ Ricavate subito mentalmente altri due numeri: il primo, sottraendo da X la sua cifra delle unità (38–8 = 30) e il secondo aggiungendo a X la stessa cifra (38+8 = 46). ■ Calcolate il prodotto tra i due numeri così ottenuti (30x46 = 1380); questa operazione è relativamente semplice da compiere a mente, perché consiste, in pratica, nel moltiplicare un numero di
Nel caso in esame, possiamo porre: A = B-1 e C = B+1. Quindi, il risultato delle operazioni richieste può essere così indicato: R = B2–(B+1)(B–1). Siccome: (B+1)(B–1) = (B²–1²) = (B²–1), si ha: R = B²–(B+1)(B–1) = B²–(B²–1) = B²–B²+1 = 1, indipendentemente dal valore di B.
Ennio Peres
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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana
Drink ai ribes e alla menta Cocktail analcolico Ingredienti per 8 dl: 1 limetta · 500 g di ribes rossi · 80 g di zucchero · 3 dl d’acqua · 1 mazzetto di menta · ghiaccio tritato.
Dimezzate la limetta. Spremetene una metà e tagliate l’altra a fette. Staccate i ribes dai rametti, trasferiteli in un padellino con lo zucchero e schiacciateli. Aggiungete l’acqua, il succo di limetta e le foglie di menta, quindi portate a ebollizione. Filtrate il succo attraverso un colino a maglie fini e lasciate raffreddare. Distribuite il ghiaccio tritato e le fette di limetta nei bicchieri, poi riempiteli con il succo di ribes e menta. Un esemplare gratuito si può richiedere a: telefono 0848 877 869* fax 062 724 35 71 www.saison.ch * tariffa normale
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Orari d’apertura: lun.–mer. + ven.–sab. 8.00–18.30 / gio. 8.00–21.00 tel.: +41 91 605 65 66
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Ambiente e Benessere
Scandali e politica ai Giochi
Sportivamente Le Olimpiadi estive di Rio de Janeiro seguono il solito solco fatto di polemiche, raggiri e grandi
interessi finanziari, ovviamente per i più ricchi
carissimo e costringeranno a prendere altre pesanti decisioni finanziarie, la macchina olimpica, quasi infischiandosi di tutto questo, si è messa in moto, come sempre. I soldi anche per lei sono soldi. Ma soldi che finiscono nelle proprie casse, e non in quelle dei poveri brasiliani, della stessa Rio dove molti sono decisi a far festa, chi facendo finta di nulla, chi cercando di calmare le acque.
Alcide Bernasconi È più importante e atteso il Mondiale di calcio, oppure suscita maggiore curiosità e passioni il torneo olimpico del pallone? Sulla risposta non penso ci sia dubbio alcuno. E ancora: un corridore di punta vorrebbe avere sul suo albo d’oro la vittoria a un Tour de France o un titolo olimpico? Beh, se possibile entrambi. Ma il Tour è una corsa di prestigio, mentre la corsa in linea di alcune ore, su tracciati che possono soddisfare atleti che si adattano meglio a quella prova e danneggiarne altri, può lasciare il tempo che trova. I Giochi Olimpici lasciano sempre qualche perplessità e non di poco conto. Nel 1996 ad Atlanta nella corsa individuale su strada, aperta per la prima volta anche ai professionisti, si impose lo svizzero Pascal Richard. Di sua iniziativa il vodese, tornato a casa, si fece confezionare una maglia sulla quale apparivano in bella mostra i cinque cerchi olimpici. Soprattutto per ricordare al pubblico di non essere un corridore qualsiasi (aveva già collezionato parecchie vittorie di tappa in piccoli e grandi giri). Ma il Comitato olimpico internazionale (CIO) disapprovò quella scelta sostenendo che il regolamento olimpico non poteva approvarla. La spiegazione: nessun fregio doveva distinguere la maglia del campione olimpico. Né la Federazione ciclistica svizzera, né il Comitato nazionale olimpico difesero le ragioni di Richard, il quale venne minacciato allora da parte del CIO di dover pagare una multa di 450mila franchi qualora egli avesse continuato a indossare quella maglia. Chiaramente Richard ripose nel cassetto quelle maglie speciali che potevano garantirgli qualche franco in più da parte della sua squadra, ma in cuor suo si sentì tradito e con tristezza si rese conto che in Svizzera, forse per-
Con la solita festosa cerimonia d’apertura sabato notte (per noi) sono iniziate le Olimpiadi estive
ché sospettato di doping, nessuno l’amava veramente, come ci confidò durante una visita in Ticino. Insomma, campione olimpico sì (era pur sempre una medaglia d’oro per il bilancio svizzero, dal medagliere spesso piuttosto povero ai Giochi estivi), ma spinto dagli eventi a lasciar perdere il resto. Mentre il programma dei Giochi continua ad allargarsi, tanto da dover iniziare il torneo calcistico di Rio de Janeiro un paio di giorni prima dell’apertura ufficiale dell’evento, mi sono tornate alla mente le confessioni del nostro indimenticato cronista radiotelevisivo Giuseppe Albertini il quale era decisamente contrario all’entrata del calcio professionistico (c’era il torneo dei dilettanti), i cui Mondiali superavano di gran lunga le passioni e l’interesse dei Giochi olimpici. Il
prestigio delle olimpiadi era difeso un tempo dall’atletica leggera e dalla ginnastica artistica, con atleti e ginnasti non professionisti (salvo che nei Paesi dell’Est, a cominciare dall’ Unione Sovietica) i cui rappresentanti, sostenuti dallo Stato, erano retribuiti per il loro «lavoro» di competitori. Ora che la Russia è stata accusata di doping di Stato, al termine di una lunga e seria inchiesta da parte del Comitato mondiale antidoping, abbiamo assistito a un vero balletto (un bruttissimo balletto, diremmo, invece che bello e buono), con la complicità di vari dirigenti, fra chi sosteneva l’esclusione senza tante storie dell’intera delegazione russa e chi era pronto a fare delle – giuste – eccezioni. Infatti, atleti che erano sempre risultati puliti, non meritavano di gettare al vento anni di
preparazione. Ciò nonostante un’accusatrice quale Yulia Stepanova (ottocentista di valore che fece pure uso di doping), insieme al marito Witali, ha fornito molte prove all’Agenzia mondiale antidoping di un vero e proprio doping di Stato. La dirigenza del CIO ha cercato allora di cavarsela lasciando libertà alle varie federazioni di prendere una decisione anche riguardo ai propri atleti. Ma le opposizioni nei confronti di un debole presidente del Comitato internazionale, Thomas Bach, sono state tali che in pratica sono stati annullati tutti gli anni di lavoro dell’Agenzia mondiale antidoping. Questo anche a causa della diatriba fra stampa favorevole (Paesi dell’Est) e stampa accusatrice. Vedremo come andrà a finire. Così, mentre i Giochi costeranno
Orizzontali 1. Una consonante 3. Pronome 7. Un numero 9. Il nome del romanziere olandese
Sudoku Livello facile
Con false promesse e vecchie storie purtroppo sempre attuali, anche in Brasile non sarà scritta l’ultima pagina delle Olimpiadi. Basta pensare ai Giochi del 1984 di Los Angeles. Tra l’altro, a quell’edizione la Russia non partecipò, in risposta agli americani che quattro anni prima a Mosca non si presentarono per via dell’invasione dell’Afghanistan, tanto che la qualità di parecchie gare fu priva di significato. Ebbene, in piena Olimpiade, i laboratori che controllavano i test sul doping notificarono al CIO che parecchi atleti di primo piano erano stati trovati positivi ai controlli. La Commissione medica, presieduta dal principe Alexandre de Mérode insabbiò quello che sarebbe stato un grandissimo scandalo, di cui si seppe la verità solo dieci anni dopo, quando gli scienziati di allora raccontarono i fatti a giornalisti della BBC. Allora non si volle mettere in imbarazzo il presidente USA, Ronald Reagan, e si temette la probabile dura reazione americana. Anche queste storie, come i Giochi, continueranno a tornare, ogni quattro anni.
Giochi Cruciverba Sai qual è il libro più venduto al mondo dopo la Bibbia e il Corano? Lo scoprirai risolto il cruciverba e leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 6, 3, 8, 3, 7)
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Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti in numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
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categoria sportiva 4. Le iniziali del cantante di «Attenti al lupo» 5. Pronome personale 6. Un frutto 8. Lo Jacopo foscoliano 11. Due nella foresta 14. Con «terno» fanno... dentro 17. Scrisse «Il Corsaro Nero» (Iniz.) 18. Il «battesimo» della nave 19. Fino in fondo 20. Se sono buoni vengono... rifiutati 21. Il Clapton compositore e chitarrista inglese 23. Strato esterno della Terra 27. Prefisso che vuol dire sangue 29. Può bilanciare il contro 31. Sono appesi a un filo 33. Le iniziali del Limiti della Tv 34. Una mezza idea 36. Le iniziali della Tatangelo
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Verticali 1. Indica qualcosa di indefinibile 2. Seguita da un numero indica una
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Doolaard 10. Elemento di parole composte che significa acqua 12. Le iniziali della cantante Grandi 13. Motti, massime 15. Fanno rima con ma 16. Gas per uso bellico 22. Le iniziali dell’attore Stallone 24. Segue il «così» liturgico 25. Podista senza pista 26. Nota musicale 28. Le iniziali di Pindemonte 30. Pappagallo americano 32. Disuguale 35. Celebre moschea di Gerusalemme 37. Scrisse «Le avventure di Pinocchio» 38. Andati per Cicerone
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INCREDIBILE! – A 18 anni Verdi, per una scorretta postura delle mani, non fu … Resto della frase: … AMMESSO AL CONSERVATORIO DI MILANO.
E L I O S
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Politica e Economia Storia dell’ISIS Nella terza puntata, la battaglia interna al jihadismo che ha portato all’ascesa di al-Baghdadi
Inchiesta sulla globalizzazione L’entrata della Cina nel WTO e l’apertura dell’economia dell’India, unite alla spinta alla delocalizzazione da parte delle industrie occidentali, mutano radicalmente il quadro economico mondiale
Imposte dedotte dal salario? La proposta lanciata da un economista svizzero non trova il consenso del mondo economico, anche se è pratica diffusa in altri Paesi pagina 22
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Il presidente turco Erdogan ha ripreso il pieno potere, qui viene applaudito dai vertici economici turchi nel suo palazzo presidenziale. (AFP)
Alleato controverso e imprevedibile Turchia Il fallito colpo di Stato ha approfondito le divergenze tra il presidente turco Erdogan e l’Occidente,
i legami restano importanti ma non sono più così saldi come in passato Lucio Caracciolo Dove sta andando la Turchia? Fino a che punto è possibile ancora considerarla un affidabile partner Nato? E che ne sarà del suo rapporto con i Paesi dell’Unione Europea? Questioni di primario rilievo strategico, che meritano un’analisi aggiornata. Siamo abituati a considerare la Turchia avamposto atlantico per il contenimento della Russia e dell’Iran. Insieme, cuscinetto deputato ad assorbire le turbolenze mediorientali – profughi di guerra inclusi – che premono verso l’Europa. Dopo il fallito golpe del 15 luglio contro Erdoğan e il finora riuscito controgolpe del sultano contro i suoi oppositori nello «Stato profondo» e nella società civile, entrambe le certezze vacillano. Peggio: a vacillare è la Turchia stessa. Il rischio della guerra civile, che a colpo di Stato riuscito sarebbe risultato certezza, aleggia all’orizzonte. La dietrologia che si è scatenata attorno al pronunciamento abortito di alcuni reparti delle Forze armate, trattandolo da geniale autogolpe di Erdoğan per liquidare i suoi nemici, suppone il controllo totale del presi-
dente su Stato e società turca. Non è così. Intanto, nessun leader al mondo può calcolare tutte le conseguenze di una sollevazione militare. Come le strategie di guerra, i progetti di golpe o di autogolpe cessano di valere al primo scontro, quando entrano in gioco variabili imprevedibili, che a loro volta ne produrranno altre, ancor meno controllabili. Nello specifico, tradimento militare e conseguenti epurazioni intervengono nel contesto di una crisi geopolitica, economica e istituzionale, figlia soprattutto della megalomania e delle incoerenze di Erdoğan. Negli ultimi mesi, preso dall’urgenza di uscire dal vicolo cieco in cui il suo avventurismo – a partire dal mancato rovesciamento del regime siriano – ha costretto la Turchia, il presidente ha cercato di correggere il tiro. Sul fronte esterno, riallacciando i rapporti con Russia, Israele e Iran. E rinunciando, almeno per ora, alle velleità di espansione in Siria e in Iraq, per concentrarsi sulla guerra al Pkk e nel soffocamento di qualsiasi tipologia di Stato curdo fuori e dentro i confini nazionali (la crescita demografica curda e il contemporaneo declino del tasso di
fecondità turco contribuiscono a suscitare allarme). In casa, sbarazzandosi dei collaboratori infidi (Davutoğlu) e scatenando l’epurazione finale nelle Forze armate, nella magistratura, nell’intellettualità e nei media. Su questo sfondo, il disperato quindi dilettantesco colpo di Stato con cui un gruppo di ufficiali amici di Washington – più o meno collegati all’imam Fethullah Gülen, autoesiliato in Pennsylvania – ha cercato di anticipare l’offensiva del sultano, assurge a «dono di Dio» (parola di Erdoğan). Probabile riferimento al «fortunato incidente»: la rivolta dei giannizzeri che nel 1826 consentì al sultano Mahmud II di sbarazzarsi di truppe ingombranti e politicizzate, salvo poi mettere fuori legge la connessa confraternita sufi dei bektaşi. Sostituisci i golpisti ai giannizzeri e i gulenisti ai sufi e hai un perfetto parallelo con l’attualità. Ma come la soppressione del glorioso corpo d’élite non salvò l’impero ottomano dal declino, così le purghe di Erdoğan potrebbero accelerare la crisi della repubblica turca. Gettandola nel caos. Noi europei saremmo i primi a scontarne le conseguenze. Anzitutto sotto il profilo migratorio. Il patto Merkel-Erdoğan è vicino al punto di
rottura. In particolare per la contestata clausola di libero accesso dei cittadini turchi all’Unione Europea, senza necessità di visto, che in questi mesi ha inasprito il negoziato turco-comunitario. A fine luglio, il governo turco ha annunciato che l’UE ha tempo fino a ottobre per concedere ai suoi cittadini l’accesso allo spazio comunitario senza visto, altrimenti addio accordo sui migranti. Intanto, il 2 luglio il presidente turco aveva annunciato la «buona novella»: i quasi tre milioni di «ospiti» siriani in fuga dalla guerra, dei quali molti vorrebbero procedere verso l’Europa, potranno chiedere la cittadinanza turca. Risultato: i siriani che la Merkel voleva respingere dalla finestra, nei prossimi anni potrebbero entrare in Germania dalla porta principale, in quanto turchi. Ma è tutto l’impianto negoziale turcoeuropeo a traballare. Le purghe di massa e l’evocazione della pena di morte, inammissibile nella koinè comunitaria, minacciano di affondare ciò che resta dell’infinito negoziato sull’ingresso della Turchia nell’UE, frutto delle reciproche ipocrisie. Le conseguenze geopolitiche e securitarie sono persino superiori.
Erdoğan è convinto che dietro il golpe ci fosse lo zampino degli Stati Uniti. Di certo le relazioni turco-americane sono al minimo storico. Non bastasse, l’umiliazione dei militari golpisti scredita le Forze armate turche. Forse non saranno più una minaccia interna, ma nemmeno un credibile strumento di proiezione strategica nella regione. Il secondo esercito della Nato è in pezzi. Proprio mentre fra atlantici e russi spira vento di guerra, non per forza fredda. Sicché il recente, peloso riavvicinamento fra Turchia, Russia e Iran, per quanto tattico, inquieta americani ed europei. Nessuno dei quali intende però rompere con Erdoğan, spingendolo magari a rendere operativa la richiesta di entrare nell’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai, adombrata nel 2013 davanti a Putin. Per sigillare la svolta a est della geopolitica turca. Divisi da antichi antagonismi e da interessi concreti, russi e turchi – ricorda l’analista Fëdor Luk’janov – «sono uniti da una cosa: il fatto di essere due grandi potenze storicamente, culturalmente e geograficamente connesse a un’Europa che non le ha mai del tutto accettate come proprie».
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Politica e Economia
Doppi giochi e guerre per procura Storia dell’Isis Lo Stato Islamico nasce nel contesto di un’alleanza di varie correnti jihadiste che si richiamavano
ad al Qaeda, poi dissoltasi in aperti conflitti tra le diverse fazioni per la supremazia in Iraq e in Siria, da cui nel 2013 è uscito vincitore l’autoproclamato califfo Abu Bakr al Baghdadi - 3. puntata
Marcella Emiliani Quando si riflette sugli errori compiuti, in genere si cerca di correggerli in maniera tale da abbandonare le strade che ci hanno portato in un vicolo cieco. Abu Bakr al Baghdadi, invece, una volta divenuto leader dell’Isi (Stato islamico dell’Iraq) nel 2010, fece l’esatto contrario. L’organizzazione era ormai isolata e arroccata nella provincia irachena di al-Anbar per la ferocia con cui aveva innescato lo scontro sunnitisciiti, gli sceicchi sunniti della medesima provincia dal 2007 collaboravano con gli Stati Uniti per arrivare ad una pacificazione del Paese e a un più equo power-sharing tra le maggiori comunità etnico-confessionali, e con tutto ciò il nuovo capo dell’Isi decise di esasperare la violenza con cui al-Zarqawi, il defunto leader di al-Qaeda in Iraq (Aqi), aveva cercato di imporla sullo scenario politico del dopo-Saddam. Così – usando prevalentemente attentati di kamikaze - prese di mira in primo luogo militari o funzionari del neonato Stato «democratico» iracheno, ma soprattutto i sunniti che non intendevano sottomettersi alla sua autorità, accusandoli di empietà (takfir). Questa non era una novità perché lo stesso alZarqawi l’aveva fatto, ma Abu Bakr al-Baghdadi non solo rese funzionale l’accusa di empietà alla lotta per il potere in Iraq, ma la presentò come la fase n.1, la «fase della purificazione», per la risoluzione di un problema a suo dire ben più grave: la decadenza dell’Islam su tutto il pianeta, che andava affrontata con metodi e tattiche precise per impedire che divenisse irreversibile. Al-Baghdadi, insomma, alzò la cloche, impostò la sua lotta a un livello millenaristico, che da una parte tentava di far scordare agli iracheni che gran parte delle loro sofferenze era stata causata, tra l’altro, dall’Aqi prima, dall’Isi poi; dall’altra questa «cosmesi teologica» gli serviva per qualificarsi come «sapiente» dell’Islam che aveva a cuore la sorte universale del proprio credo. Stava, insomma, già costruendo la propria statura di califfo.
È il fallimento della «primavera siriana» a permettere ad al Baghdadi di rafforzarsi e di amplificare l’appello alla guerra santa per salvare l’islam Il compito gli venne facilitato dalla morte di Osama bin Laden il 2 maggio 2011, ucciso dai navy seals americani ad Abbottabad in Pakistan dove se ne stava rintanato. La leadership della casa-madre di al-Qaeda passò così al suo braccio destro, il medico egiziano Ayman al-Zawahiri che non aveva né il carisma, né la disponibilità finanziaria del suo predecessore. Soprattutto Abu Bakr al-Baghdadi, come al-Zarqawi prima di lui, non intendeva seguire pedissequamente i consigli o gli ordini del suo virtuale capo in testa, nascosto chissà dove. Lui era sul territorio e valutava diversamente le priorità da seguire in Iraq. E la sua priorità – ripetiamo – era colpire i simboli del nuovo Stato e i sunniti locali ostili all’Isi, dunque «nemici vicinissimi», non realizzare spettacolari attentati contro gli Stati Uniti o qualsivoglia «nemico lontano». Ufficialmente però manifestava ad alZawahiri rispetto e onori, attraverso discorsi diffusi via web, nella miglior
Le truppe del califfo al Baghdadi entrano trionfalmente a Raqqa e ne fanno la loro capitale, nel giugno del 2014. (Keystone)
tradizione islamica della taqiyya ossia della menzogna cui far ricorso quando in ballo c’è la sopravvivenza propria e della propria fede. Ma il 2011 offrì all’aspirante califfo un’altra occasione storica irripetibile: lo scoppio della primavera araba che dalla Tunisia si diffuse a macchia d’olio in Egitto, Siria, Yemen, Libia e Bahrein. In attesa di verificare quale sarebbe stato l’esito delle rivolte, di attentato in attentato, Abu Bakr al-Baghdadi procedette a ristrutturare l’Isi dall’interno, da una parte irachizzandolo al massimo (nominando cioè ai gradi superiori solo iracheni) e dall’altra trasformandolo in un vero e proprio esercito, con l’aiuto cruciale degli ex militari di Saddam Hussein. Nel giro di appena due anni però militanti dell’Isi ed ex ba’athisti entrarono in rotta di collisione. In fondo avevano fatto lo stesso gioco: sfruttare l’altro per raggiungere i propri obiettivi, ma in ultima analisi quegli obiettivi erano profondamente diversi. Sebbene «incipriati» di ideologia islamica, infatti, gli ex militari delle forze armate di Saddam in maggioranza rimanevano legati al vecchio panarabismo e soprattutto mal tolleravano che giovani fanatici li scalzassero dalla guida della resistenza all’«occupante» americano. Ma furono i jihadisti dell’Isi a mettere fuori gioco gli ex ba’athisti anche se, senza di loro l’Isi non sarebbe mai riuscito nell’impresa di volgere a proprio vantaggio il fallimento della primavera araba nel Paese confinante con l’Iraq, la Siria. Era il 6 marzo 2013, lo ricordiamo, quando l’Isi riuscì a conquistare Raqqa nel nord-est della Siria e appena un mese dopo si ribattezzò Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante o della Siria). Ma Abu Bakr al-Baghdadi il doppio gioco lo fece anche con la casa-madre di al-Qaeda. Col beneplacito del suo nuovo leader, Ayman al-Zawahiri, infatti, fin dal 2011 inviò due emissari, Abu Mohammed al-Jawlani (o al-Julani) e Mullah Fawzi al-Dulaimi, nei governatorati (province) siriani più poveri, Deir al-Zur e al-Raqqa, i più facili da raggiungere seguendo il corso dell’Eufrate verso nord, per creare una cellula jihadista che combattesse contro il regime di Bashar al-Assad. La battezzò Jabhat al-Nusra (Fronte del soccorso al popolo di Siria) e per un anno provvi-
de a fornirla di armi e uomini, mentre al-Julani e al-Dulaimi si alleavano sul terreno con altri gruppi siriani, laici o islamici, che tentavano di rovesciare il regime di Damasco e di contrastare la violenza inaudita con cui Bashar aveva represso fin dall’inizio la protesta pacifica. Dalla loro, al-Nusra (e quindi l’Isi) ebbero fin dall’inizio l’esperienza maturata in Iraq, ma soprattutto i finanziamenti che cominciarono ad arrivare alle opposizioni siriane quando fu evidente che ormai la primavera si era trasformata in una guerra di tutti contro tutti. L’anno di svolta fu senza dubbio il 2012 quando venne ufficialmente annunciata via internet la creazione di alNusra. In quell’occasione al-Julani non fece il minimo accenno né ad al-Qaeda né all’Isi, ma presentò il Fronte come una creatura dei mujahideen (guerriglieri) siriani, dunque come espressione della legittima opposizione siriana. Nello stesso 2012 Arabia Saudita, Qatar e Turchia iniziarono a spedire armi e finanziamenti a quanti intendessero abbattere il regime minoritario alauita (dunque sciita) che massacrava la maggioranza sunnita del Paese. Dietro tanta munificenza c’era il tentativo da parte di Riyad, Doha e Ankara di strumentalizzare al-Nusra e dunque l’Isi ai loro fini. Per l’Arabia Saudita si trattava di contrastare l’espansionismo nella regione dell’Iran che ufficialmente appoggiava non solo gli sciiti iracheni, gli Houthi sciiti in Yemen e l’opposizione al regime minoritario sunnita in Bahrein, ma soprattutto Bashar al-Assad
permettendogli di sopravvivere con l’aiuto dei vecchi clienti di Teheran, gli Hezbollah libanesi. Il piccolo Qatar intendeva invece ingaggiare il suo personale braccio di ferro con la suddetta Arabia Saudita per aumentare il proprio peso politico tra gli emirati del Golfo. Quanto alla Turchia, l’immarcescibile Erdoğan sperava che fossero i jihadisti a sbaragliare i curdi siriani per conto suo. Se, come era già successo ai curdi dell’Iraq, anche i curdi siriani avessero raggiunto la piena autonomia nelle convulsioni della transizione (come poi è effettivamente successo), si sarebbe indebolita la sua posizione nei confronti dei curdi di Turchia, i più numerosi, che attraverso il Pkk (Partîya Karkerén Kurdîstan, Partito del popolo del Kurdistan) da decenni miravano e mirano ancora all’autonomia se non all’indipendenza a suon di attentati. E sempre in quest’ottica Erdoğan ha permesso che attraverso la frontiera turca arrivassero ai jihadisti armi e foreign fighters provenienti dall’Europa e dai Paesi mediorientali. In tutti i casi il fallimento della primavera siriana ha permesso all’Isi di rafforzarsi, di regionalizzare il suo operato e di amplificare l’appello al jihad nella sua accezione peggiore con un uso abilissimo e spettacolarizzato del web. In questo contesto di strumentalizzazioni incrociate è quasi inutile dire che la conquista di Raqqa il 6 marzo 2013 non fu opera del solo Isi, ma di un’azione congiunta del Libero esercito di Siria, di al-Nusra e di un altro gruppo
L’ISIS è oggi il più temibile avversario del presidente siriano Assad. (Keystone)
jihadista, Ahrar al-Sham (Uomini liberi della Grande Siria) che ai tempi era presente con le proprie unità nei governatorati di Idlib, Hama e Aleppo. I primi ad essere estromessi dalla città furono i combattenti del Libero esercito, poi iniziò la resa dei conti tra i gruppi jihadisti. A uscirne vittorioso fu l’Isi ribattezzato Isis, che fece di Raqqa la sua «capitale» siriana quando ancora non ne aveva una irachena. Tutto questo costò all’Isis non solo il rapporto con al-Nusra, ma anche con la casa-madre di al-Qaeda. Con al-Nusra lo scontro si focalizzò soprattutto sul radicamento nel territorio. In effetti al-Julani era stato estremamente abile a cooptare mujahideen siriani e a crearsi un consenso in Siria, nascondendo la natura estremista del Fronte, tant’è che quando gli Stati Uniti nel dicembre 2012 lo avevano iscritto nella lista delle formazioni terroristiche, diversi gruppi di opposizione moderati a Bashar al-Assad resero nota una petizione di protesta, convinti com’erano che al- Nusra fosse dei loro. Al-Julani vide in questa reazione una reale possibilità di crearsi una sorta di proprio emirato in Siria e quando, dopo la conquista di Raqqa, l’Isis gli scippò l’impresa e rivelò apertamente che il Fronte era una creatura dell’Isis, ripudiò l’atto di bayah (alleanza-sottomissione) che aveva fatto ad Abu Bakr al-Baghdadi. Nell’aprile 2013, rinnovò invece quello ad Ayman al-Zawahiri che – dopo aver tentato per due mesi di mediare tra le due formazioni, invano – proclamò Jabhat al-Nusra unico braccio armato di al-Qaeda in Siria e ripudiò ufficialmente l’Isis «per aver disubbidito agli ordini della leadership di al-Qaeda» ed aver alimentato la fitna, la temuta guerra intestina in campo jihadista. Per tutta risposta Abu Bakr al Baghdadi gli mandò a dire che non era ai leader che bisognava ubbidire, ma a Dio, e cominciò ad attaccare in armi sia al-Nusra sia gli altri gruppi jihadisti siriani. Dal canto suo al-Nusra è rimasta fedele ad al-Qaeda madre fino al 28 luglio scorso quando al-Julani ha annunciato la scissione e la rifondazione del gruppo col nuovo nome di Jabhat Fateh al-Sham, Fronte per la conquista del Levante - o della Siria). Da tutto ciò si evince una cosa importante: i peggiori nemici dei jihadisti sono gli altri jihadisti.
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Politica e Economia
I vincenti stanno altrove Inchiesta sulla globalizzazione Con l’ingresso della Cina nella World Trade Organization nel 2001,
seguita dall’apertura ai mercati dell’India, gli assetti economici mondiali cambiano. Chi ne approfitta è il ceto medio dei Paesi emergenti, oltre che le classi abbienti dell’Occidente - 2. parte
Federico Rampini Bernie Sanders ha finalmente compiuto il grande passo. Il senatore del Vermont, l’unico politico americano ad auto-definirsi un «socialista», martedì 12 luglio ha dato in modo esplicito e formale il suo «endorsement» a Hillary Clinton. Si chiude così in modo ufficiale la lunga gara per la nomination democratica, anche se in realtà Hillary aveva già conquistato alle primarie la maggioranza dei delegati. Ma perché c’è voluto così tanto tempo, dalla fine delle primarie, prima che Sanders concedesse apertamente il suo appoggio alla Clinton? Perché Sanders ha voluto negoziare il prezzo del suo appoggio. È un appoggio prezioso e lui lo sa bene. Durante la campagna delle primarie, l’anziano senatore ha suscitato un entusiasmo notevole tra i suoi seguaci, soprattutto giovani. Pur non essendo affatto carismatico, Sanders ha ripetuto in parte il «fenomeno Obama»: una candidatura capace di far sognare, di mobilitare anche chi ha perso fiducia nei politici tradizionali. Come Trump lo è a destra, Sanders è stato a sinistra il candidato anti-establishment. Il suo appoggio a Hillary sarà cruciale da qui a novembre, per portare alle urne i giovani, una fascia demografica tradizionalmente assenteista alle elezioni americane. Dunque Hillary ha bisogno di un suo appoggio non solo formale ma convinto, militante, impegnato. E lui in cambio ha ottenuto, oltre che tanti gesti di riguardo, anche uno «spot» alla convention di Philadelphia (dal 24 al 28 luglio) con un intervento sui temi che gli sono più cari. Ha parlato di diseguaglianze sociali, di un Sogno Americano dirottato a vantaggio dei ricchi, di una democrazia corrotta dal denaro delle lobby. E al di là del suo discorso, alcuni dei suoi obiettivi favoriti saranno recepiti nella piattaforma elettorale del partito democratico e quindi della candidata Hillary Clinton. Tra questi: un salario minimo federale di 15 dollari all’ora, una carbon tax antiinquinamento, l’università gratuita per i figli di famiglie con un reddito inferiore a 125.000 dollari annui, una correzione della riforma sanitaria di Obama per includervi l’opzione di un servizio sanitario pubblico. Tutto questo significa che l’appoggio a Sanders sposta a sinistra l’asse del partito democratico. Un partito che ai tempi in cui era presidente il marito di Hillary, abbracciò con molta convinzione il
Bernie Sanders alla Convention democratica: le sue posizioni antiglobalizzazione hanno fatto breccia all’interno del partito . (Keystone)
Operai al lavoro nella fabbrica Foxconn, a Shenzhen, in Cina, che produce telefoni e computer per Apple e altri giganti occidentali, i quali, secondo la prassi favorita dalla globalizzazione, delocalizzano la produzione nei Paesi emergenti. (Keystone)
credo economico neoliberista. Ancora più significativo è il fatto che Hillary alla convention di Philadelphia ha dovuto prendere le distanze dai trattati di libero scambio, ma senza denunciare esplicitamente il Tpp, l’accordo sulle liberalizzazioni raggiunto con l’area dell’Asia-Pacifico, perché questo trattato (sempre in attesa di ratifica al Congresso) porta la firma di Barack Obama. Ma il linguaggio di Hillary è stato critico. E questo dà la misura dell’immensa distanza politico-culturale che separa i democratici di oggi da quelli degli anni Novanta. Gli anni Novanta si chiusero con Bill Clinton alla Casa Bianca e un passaggio-chiave nella storia della globalizzazione: il vertice-simbolo a Seattle. Un evento che già allora incontrò forti resistenze, ma che porta le impronte della leadership democratica. 30 novembre 1999: quel giorno Seattle è sotto assedio. Un summit tra capi di Stato deve varare i nuovi negoziati mondiali sulla liberalizzazione degli scambi. Protagonista è la World Trade Organization (Wto), Organizzazione del commercio mondiale, arbitro e cabina di regia della globalizzazione. Ma a Seattle converge la «madre di tutte le proteste»: 40.000 manifestanti, in una serie di cortei dove si fondono i sindacati operai, le Ong ambientaliste, i primi black-bloc. Irrompe sulla scena il movimento no-global. Il vertice finisce nel caos: molti leader dei governi assediati negli alberghi non riescono neppure a raggiungere il centro congressi, avvolto in nuvole di lacrimogeni, le forze dell’ordine sono sopraffatte. L’81.esima Brigata della Washington State Patrol batte in ritirata. Si dimette il capo della polizia di Seattle. Bill Clinton deve chiamare la Guardia Nazionale. Quel giorno viene scritto un copione che si ripeterà in molti summit successivi, raggiungendo l’apice al G8 di Genova nel 2001 (un morto negli scontri, strascichi di denunce e di processi per le violenze di polizia che dureranno fino ai nostri giorni). Perfino il World Economic
Forum di Davos, l’esclusivo ritrovo dei Vip ad ogni fine gennaio sulle montagne dei Grigioni, dopo i precedenti di Seattle e Genova è costretto a blindarsi con misure di protezione prima sconosciute. Seattle lancia temi che sono attuali oggi: gli effetti della globalizzazione sui salari occidentali; i danni per l’ambiente e la salute dei consumatori; lo strapotere delle multinazionali. 17 anni fa è già vivace quella critica che oggi prende di mira una nuova generazione di trattati, il Tpp tra America e Asia-Pacifico, il Ttip tra Stati Uniti ed Unione europea. Ma la vera ragione per cui fallisce il vertice di Seattle è un’altra: 40 delegazioni governative venute dall’Africa e dall’America latina respingono l’accordo; sono i Paesi dell’emisfero Sud a far saltare le trattative, allora, perché si ritengono sopraffatti dagli interessi del capitalismo occidentale. Il movimento noglobal condivide questa narrazione. Anche in Occidente gli avversari della globalizzazione pensano che nel nuovo assetto economico mondiale i perdenti saranno i Paesi in via di sviluppo. Il tema dell’ingiustizia viene declinato lungo l’asse Nord-Sud. Lo stesso vale per i primi guru teorici del no-global. Il più celebre è Joseph Stiglitz, che vince il Nobel dell’economia nel 2001, dopo avere «divorziato» dall’ortodossia liberale: negli anni Novanta era stato consigliere economico di Bill Clinton e capo economista della Banca Mondiale. Il suo libro La globalizzazione e i suoi oppositori (2002) è un attacco al «consenso di Washington»: le dottrine a base di austerity e privatizzazioni che la Casa Bianca e il Fondo monetario internazionale impongono ai Paesi del Terzo mondo. I progressisti in Occidente sono convinti che la globalizzazione sia un nuovo capitolo dell’imperialismo post-coloniale. È nel 2001, con l’ingresso della Cina nel Wto, che la storia imbocca una svolta improvvisa e dalle conseguenze inattese. La «cooptazione» del-
la Repubblica Popolare, la più grande nazione del pianeta e una superpotenza comunista, è un progetto made in Usa. Il capitalismo americano ha già articolato la sua strategia delle delocalizzazioni: spostare il manifatturiero dove i costi del lavoro sono più bassi, delegare alla periferia dell’impero le produzioni più inquinanti, concentrarsi sulle attività ad alto valore aggiunto. La Silicon Valley californiana ha capito per prima i vantaggi di una simbiosi con la Cina, la catena produttiva di Apple voluta da Steve Jobs è esemplare: gli ingegneri del software stanno a Cupertino, gli operai a Shenzhen.
Il vento sta cambiando: dietro la spinta di Bernie Sanders, anche Hillary Clinton è costretta ad un atteggiamento più critico verso la globalizzazione Sul versante politico i protagonisti sono quattro presidenti: Bill Clinton e George W. Bush da una parte, Jiang Zemin e Hu Jintao dall’altra. In Cina vince l’ala tecnocratica e pro-business del partito comunista, emarginando un’opposizione interna che rifletteva le stesse paure dei no-global occidentali: l’ala sinistra cinese era convinta che il Wto sarebbe stato il cavallo di Troia per la colonizzazione del Paese ad opera delle multinazionali occidentali. Nel dicembre 2001 la Cina entra a tutti gli effetti a far parte del «nostro mondo». Come membro del Wto le si spalancano nuovi mercati. Ha inizio una storia spettacolare di decollo trainato dalle esportazioni. Sarà uno shock storico. Il miracolo cinese si produce su dimensioni che non hanno precedenti. Dopo la Cina tocca all’India di Sonia Gandhi e Manmohan Singh; anche «l’elefante addormentato» si risveglia alla cresci-
ta con una terapia di liberalizzazioni (sia pure meno radicali di quelle cinesi e corrette da robuste dosi di protezionismo). Ben presto la geografia dello sviluppo si allarga, l’economista di Goldman Sachs Jim O’Neill inventa l’acronimo dei Brics, aggiungendo a Cindia anche Brasile Russia e infine Sudafrica. Ironia della sorte, quella sigla dei Brics nata nell’ufficio studi della Goldman Sachs finisce per materializzarsi in una realtà geopolitica, coi leader di quei cinque Paesi che si riuniscono periodicamente in summit appositi dai quali l’Occidente è escluso. In un quarto di secolo nasce nei Paesi emergenti un ceto medio di 800 milioni di persone, un mercato immenso. Per loro, la globalizzazione ha un segno positivo. Non a caso il regime autoritario di Pechino riesce a consolidare il consenso, e così smentisce brutalmente le profezie ottimiste di Clinton e Bill Gates, sull’inevitabile transizione alla democrazia che avrebbe dovuto accompagnare il capitalismo. L’economista Branko Milanovic nel suo studio Global Inequality oggi ci apre gli occhi davanti a questa contraddizione: la globalizzazione ha reso il mondo meno ineguale nel senso che ha accorciato le distanze Nord-Sud; ma all’interno di ogni nazione ha divaricato la sorte dei ricchi da quella di tanti altri. «All’interno dei nostri Paesi – dice Milanovic – a coloro che sono stati impoveriti non possiamo rispondere che i cinesi stanno meglio: non è una consolazione». Il premio Nobel Angus Deaton, un altro studioso delle diseguaglianze, aggiunge un’autocritica personale che si estende a molte élite intellettuali: «Mentre in America aumentano i suicidi dei nuovi poveri, io come molti accademici faccio parte dei beneficiati dalla globalizzazione: ha allargato il mercato per i miei servizi. Quelli fra noi che esprimono giudizi su questi fenomeni economici, non sono gli stessi che ne subiscono i costi». È un’autocritica di un esponente illustre delle élite, che non viene pronunciata spesso.
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Politica e Economia
Dedurre le imposte dallo stipendio?
Dibattiti Secondo l’economista Marcus Veit sarebbe anche un mezzo per combattere l’indebitamento dei contribuenti
verso lo Stato. I datori di lavoro però non ci stanno
do cui meno si ha, meno si spende. Ma il fenomeno dell’indebitamento ha ragioni ben più complesse. Quindi è possibile che qualche effetto positivo lo si possa avere – ammette lo stesso Veit – sicuramente in modo limitato.
Ignazio Bonoli Parecchi cantoni, in Svizzera, si lamentano del fatto che non riescono a incassare un buon numero di imposte, né con le emissioni di acconti, né e – a quanto pare – soprattutto con i conguagli. Il canton Zurigo – per esempio – dice di dover emettere precetti esecutivi per 300 milioni di franchi ogni anno, a causa di oltre 60’000 partite d’imposta emesse e non pagate. Si tratta di somme considerevoli, che – nel migliore dei casi – provocano spese e anche notevoli ritardi nelle entrate fiscali. Situazioni analoghe si verificano in molti cantoni e nella stessa Confederazione.
Il prelievo di imposte alla fonte è praticato in diversi Paesi e in Svizzera è applicato ad alcune categorie di lavoratori stranieri Situazione che sostanzia le richieste, sempre più frequenti, di procedere a un prelievo mensile sullo stipendio dei dipendenti, da parte dei datori di lavoro. Idea che recentemente ha avuto il sostegno dell’economista Marcus Veit, partner di una ditta di consulenze, specializzata nelle analisi del comportamento economico. In pratica si tratta di introdurre un sistema generalizzato di prelievo delle imposte alla fonte, come in vigore già in altri Paesi e anche in Svizzera per alcune categorie di lavoratori stranieri. Veit tiene però a distinguere un concetto fondamentale del sistema proposto: lo scopo sarebbe principalmente quello di
Marcus Veit è del parere che con un reddito disponibile minore si spenda e ci si indebiti automaticamente meno Soltanto nel canton Zurigo, ogni anno vengono emessi precetti esecutivi per 300 milioni di franchi, a causa di imposte non pagate. (Keystone)
ridurre l’indebitamento delle persone nei confronti dello Stato. Se oggi si deve giungere al precetto esecutivo per l’incasso delle imposte, si provocano molte spese e si scatenano fenomeni di tipo sociale altrettanto costosi. Infatti, chi è colpito da una procedura esecutiva per debiti ha difficoltà nel trovare un alloggio e avvia una spirale pericolosa dalla quale è poi difficilissimo uscire. Come si può ridurre questa spirale negativa e con quali conseguenze? Veit risponde – in generale – che la persona che dispone di un reddito minore (cioè dedotte le imposte) spende e si indebita anche meno. Si tratta effettivamente di un rilevante problema sociale, prima ancora che fiscale. Lo testimoniano, per esempio, il crescente
indebitamento delle fasce giovanili della popolazione o anche le difficoltà che incontrano le persone anziane, spesso al momento del pensionamento. Ma, secondo Veit, il problema è più vasto e concerne anche persone benestanti, il cui comportamento non è razionalmente giustificabile, ma che esiste, come dimostrano gli studi specifici sull’economia comportamentale. È però appurato che il fenomeno concerne un numero limitato di persone. La maggior parte dei contribuenti paga regolarmente le proprie imposte. Ci si chiede se sia giusto in questo caso introdurre un sistema generalizzato per un numero limitato di casi. Veit crede però di poter risolvere questo problema garantendo un diritto di ricorso contro
l’applicazione del prelievo alla fonte, oppure la possibilità di scegliere liberamente la soluzione. Secondo le esperienze maturate nel tempo, tra il 20 e il 40 per cento degli interessati sceglierebbe questo sistema, se gli viene data la possibilità. Non solo, ma oggi, con emissioni d’imposta in ritardo di mesi o anni, il contribuente non sa più di quanto denaro può disporre. Affermazione comunque limitata dall’obbligo di pagare gli acconti entro i tempi fissati. Anche questa, come alcune altre affermazioni dell’economista, non sembrano tener sufficientemente conto di questa realtà. Diventa quindi quasi utopico pensare che questo prelievo alla fonte possa ridurre l’indebitamento della popolazione. Ovviamente la tesi parte dalla considerazione secon-
Rimane però anche un altro aspetto molto discutibile. Il datore di lavoro deve sostituirsi al fisco per prelevare gli acconti d’imposta. Benché le intenzioni siano quelle di farlo nel modo più semplice e meno burocratico possibile, i datori di lavoro hanno già reagito dicendo che sono già stracarichi di oneri amministrativi per conto dello Stato (vedi anche «Azione» del 18.4.2016) e che non sarebbe proprio il caso di aggiungerne un altro. Si potrebbe ovviare – pensa Veit – con un’attività rimunerata e differenziata da azienda ad azienda, per non incidere troppo sulle piccole e medie aziende. Infine, si può considerare che il sistema chiede al cittadino di anticipare i soldi delle imposte allo Stato, il che mette in una nuova luce i termini del rapporto Stato – cittadino in Svizzera. Per evitarlo, alcuni cantoni stanno esaminando la possibilità di introdurre il sistema su base volontaria. Anche a livello federale è pendente una mozione in tal senso. Il Consiglio federale la respinge adducendo che si tratterebbe di una complicazione del sistema dell’imposta alla fonte. D’altro canto alcuni cantoni offrono già la possibilità di pagare mensilmente le proprie imposte.
Titoli di Stato: nuova palestra per giocatori d’azzardo La consulenza della Banca Migros
Albert Steck Il mercato obbligazionario è ormai del tutto fuori controllo. I rendimenti sprofondano, mentre i titoli di Stato svizzeri, ritenuti poco brillanti, ottengono profitti stratosferici superiori al 70 percento. Il problema è che, con il secondo pilastro, siamo tutti esposti su questo mercato selvaggio.
Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
Domanda: com’è possibile ottenere un utile del 75 percento in soli due anni? La risposta giusta non è con un’azione rischiosa o un prodotto a leva speculativo, bensì con un solido titolo di Stato svizzero. Concretamente si tratta dell’obbligazione della Confederazione a 50 anni con una cedola del 2 percento, emessa nell’estate del 2014 (v grafico). Le quotazioni sono salite in seguito al calo dei tassi. Il problema sta proprio qui: il fatto che fluttuazioni così estreme delle quotazioni si verifichino perfino con i conservativi titoli di Stato svizzeri dimostra quanto sia precario lo stato del mercato obbligazionario. Chi acquista le suddette obbligazioni della Confederazione al prezzo attuale, rinuncia a qualsiasi rendimento fino al 2064 (!), pur pagando tasse sulla cedola. E chi investe 1000 franchi in un titolo di Stato svizzero a dieci anni riceve appena 934 franchi alla fine del 2026, sempre al lordo delle tasse. Per i tesorieri delle casse statali, invece, sono cominciati tempi d’oro. Con il proprio debito pubblico i Paesi potrebbero addirittura guadagnare denaro.
Un utile stratosferico del 75 percento in due anni 80% 70% 60% 50% 40% 30% 20% 10% 0% Juni Giu 2014 2014
Aug. Ago
Okt. Ott
Dez. Dic
Febr. Feb 2015 2015
Apr. Apr
Juni Giu
Aug. Ago
Okt. Ott
Dez. Dic
Febr. Feb 2016 2016
Apr. Apr
Juni Giu
Evoluzione della quotazione dell’obbligazione statale svizzera con una durata di 50 anni dall’emissione, avvenuta nel giugno del 2014.
Non conta che, ad esempio, il debito del Giappone ammonti già al 250 percento del prodotto interno lordo. Anche lì i rendimenti di gran parte dei titoli di Stato sono scesi sotto lo zero. Un importante fattore di tali sviluppi è da ricercare nelle banche centrali. La Banca centrale europea (BCE) e la Bank of Japan (BoJ) stanno acquistando obbligazioni complessivamente per 1800 miliardi di dollari l’anno. Questi
programmi sono di portata gigantesca, al punto che alcuni titoli di Stato stanno già scarseggiando, nonostante i rendimenti negativi. In Giappone il 41 percento di tutti i titoli di Stato è nelle mani della banca centrale. Una politica monetaria così estrema provoca massicce distorsioni dei rendimenti sui mercati obbligazionari mondiali. Questa emergenza sul fronte degli investimenti colpisce soprattut-
to gli istituti di previdenza e le casse pensioni e, in ultima istanza, tutti noi. Solo attraverso il secondo pilastro gli Svizzeri hanno investito 300 miliardi di franchi nel mercato obbligazionario. Una somma enorme, che non frutta niente. Ma così sarà sempre più difficile finanziare le rendite correnti e future. Attualità su blog.bancamigros.ch: Le azioni sono meglio delle obbligazioni?
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Voto dei giovani, voto doppio? L’estate è stagione povera di notizie. Ma quando la cronaca di notizie vere ne dà poche crescono quelle inverosimili. Così in estate possono nascere discussioni che svaniscono non appena le vacanze finiscono e si ritorna a lavorare. Come per esempio quella sorta attorno alla proposta di una consigliera di Stato socialista del Cantone Zurigo di raddoppiare il valore del voto dei giovani per incitarli, penso, a partecipare alla vita politica, ma anche per dare loro una maggiore incidenza sulle decisioni importanti che si dovranno prendere in futuro e che già oggi vengono designate sotto il termine generico di «conflitto tra le generazioni». In generale la proposta della politica zurighese non è stata presa sul serio. In qualche caso ha invece suscitato commenti inviperiti di persone che reputano che, in democrazia, per quel che riguarda il voto, possa valere solo la regola a ogni cittadino un voto. Questa potrebbe essere la norma laddove vige il diritto di voto universale. La storia del diritto di voto nella nostra democrazia ci dice però che non è mai stato così. Prendiamo per esempio il caso del Canton Ticino. Se
prendiamo come indicatore dell’universalità di applicazione di questo diritto il rapporto tra aventi diritto di voto e popolazione residente, ci accorgiamo che (si veda il grafico) solo nel secondo dopoguerra mondiale il valore di questo rapporto è salito sopra al 50%. Le ragioni di questa impennata sono tre. In ordine di importanza la prima è data dall’estensione del diritto di voto alle donne, la seconda dall’invecchiamento della popolazione e la terza dall’abbassamento dell’età per votare dai 20 ai 18 anni. Quando il Ticino diventò indipendente, nel nostro Cantone potevano votare però solo gli uomini con più di 30 anni e con una sostanza superiore ai 500 franchi. Si trattava, come indica il grafico, di meno del 10% della popolazione. Riducendo l’età per poter votare e abbandonando le condizioni legate al censo si ottenne, durante l’Ottocento, un aumento progressivo del rapporto illustrato fino al 20%. Naturalmente in quel periodo l’emigrazione Oltremare, che interessava soprattutto gli uomini, frenò una maggiore universalizzazione del diritto di voto. Ciò nonostante anche oggi, in Ti-
dimostrare. È invece probabilmente vero che nelle questioni nelle quali, come nelle votazioni sul sistema pensionistico, si sta oggi profilando un vero e proprio conflitto tra le generazioni, dare ai giovani maggior potere decisionale potrebbe contribuire a facilitare le riforme che, in seguito all’invecchiamento progressivo della popolazione, si renderanno necessarie.
cino, solo 6 abitanti su dieci hanno il diritto di voto. E questo soprattutto perché gli stranieri residenti non lo possiedono. L’universalità del diritto di voto non è quindi un dogma. È il riflesso di una realtà economica e sociale che continua ad evolvere. Per buona parte della storia del Ticino indipendente, meno della metà della popolazione ha posseduto il diritto di voto. Teoricamente niente esclude che, in futuro, si possa pensare ad introdurre modalità di voto ponderate, per esempio per la categoria di età. Si farebbe sicuramente un torto minore a quello che è stato fatto alle donne, fino alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo. È vero altresì che considerare il voto dei giovani con un valore doppio di quello degli anziani significherebbe introdurre un nuovo concetto di democrazia nel quale l’età potrebbe venir considerata come una discriminante nell’esercizio dei diritti politici. Detto in parole più semplici avremmo due categorie di cittadini: quelli col voto semplice e quelli col voto doppio. Una realtà difficile da immaginare che solleverebbe poi decine di altre questioni come, per fare un solo
esempio, quella del diritto di essere eletto. La proposta di fissare un’età massima per i candidati alle elezioni, che è già stata fatta da diverse parti, non sarebbe che il corollario della svalutazione del voto delle persone anziane. Che raddoppiare il voto dei giovani possa incitarli ad elevare la loro partecipazione alle votazioni o, addirittura, ridurre il conservatorismo del nostro elettorato resta tutto da
della «working class» che ha determinato l’ascesa di figure politiche anti sistema e sempre meno globaliste, come Sanders e Trump (anche l’Europa vive la stessa crisi)? In Listen, liberal, saggio pubblicato durante le primarie, il sociologo Thomas Frank sostiene che l’élite del Partito democratico ha del tutto dimenticato la classe dei lavoratori, e che la presenza di Sanders nel dibattito della compagine ha finora permesso di non ignorarla per sempre. Nel 2004, Frank pubblicò un saggio abbastanza celebre dal titolo What’s the Matter With Kansas?, un viaggio nel conservatorissimo Kansas (in cui lui è nato) che dimostrava come la politica liberale dei primi anni di George W. Bush avesse trascurato la classe media per favorire soltanto i ricchi. Frank ritorna su questo tema – il distacco «élite vs people» – ma questa volta si avventura in Stati superliberal e ricchi, gli Stati
dell’Ivy League per intenderci, e tratteggia l’incapacità del Partito ora di Clinton di parlare con quella «working class» che pure risulta determinante nella scelta dei leader politici. Secondo Frank, che ha un tono polemico più che descrittivo, la frattura tra l’élite politica e l’elettorato non è affatto nuova, ma il fattore diseguaglianza – che lui preferisce definire, come nel Diciannovesimo secolo, «questione sociale», cioè «il mistero di come vogliamo vivere tutti insieme» – ha esacerbato, soprattutto a sinistra, un conflitto di classe preesistente. Il «partito del popolo», come era definito il Partito democratico, non ha più niente a che fare con il popolo, è diventato un’associazione di professionisti più facoltosi e ben istruiti della media. Questa stessa rappresentazione ricorre nel saggio Limousine Liberal, scritto da Steve Fraser, che riprende una definizione concepita alla fine degli anni Sessanta ora di nuovo
molto attuale: l’unica differenza tra i due racconti è che Fraser pensa che lo stesso problema, pur se in forme diverse, vista la natura differente dell’elettorato delle due compagini, riguardi anche il Partito repubblicano. Hillary Clinton, che vuole rivendersi come il presidente dell’unità di fronte a un elettorato frammentato e arrabbiato, ha l’infausto compito di recuperare il voto della «working class» sia più radicale sia più moderata. Due mondi che si guardano con sospetto, ma che potrebbero trovare casa presso Hillary in nome di un patto sociale a loro più favorevole. La concorrenza trumpiana è in questo senso molto accattivante, ed è per questo che il compito della Clinton, naturalmente più adatta a parlare a un pubblico riformatore e cosmopolita, è parecchio complesso. A maneggiare la rabbia è sicuramente più bravo Donald Trump.
Museo nazionale ha fatto la sua parte, proponendo esposizioni che hanno riacceso il dibattito sul passato e il presente della Confederazione, in sinergia con il Forum per la storia svizzera di Svitto. Ma il direttore del Museo Spillmann ha anche sostenuto che «la storia è sempre politica». Benedetto Croce soleva dire che ogni storia è sempre storia contemporanea. Qui tocchiamo il cuore della questione. Sempre ogni generazione guarda al passato con lo sguardo del presente, con le ansie, la curiosità, le preoccupazioni imposte dalla cronaca. Da qui si parte per cercare risposte agli assilli quotidiani, da qui si interrogano carte ingiallite e documenti spiegazzati, mossi dalla speranza di trovare un’indicazione illuminante se non proprio delle certezze. Probabilmente la storia non offre le risposte che da lei ci attendiamo, ma non esiste società che non coltivi un suo patrimonio genetico cui guardare nelle fasi di smarrimento. Il post-moderno ha levato le incrostazio-
ni mitologiche e ideologiche che molte scuole storiografiche avevano sovrapposto «a posteriori» per giustificare le scelte politiche del momento. Questo secolare approccio è stato anch’esso consegnato agli archivi. Ora prevalgono le analisi disincantate e l’adozione di metodologie multidisciplinari. I campi d’indagine si sono allargati, fino ad includere tematiche che fino a qualche anno fa sarebbero state ritenute astruse, bizzarre, se non addirittura inopportune come la mentalità o la sessualità. Rimane da vedere quale sia oggi il posto della «storia patria» nei programmi scolastici e all’università, e quale debba essere la sua relazione con l’insegnamento della civica: argomento questo molto dibattuto in Ticino. Qui sembra più difficile valutare le sue ricadute, sebbene gli sforzi per divulgarla non manchino, dal Dizionario storico della Svizzera al nuovo manuale per le medie pensato e redatto da docenti attivi nei nostri licei. Purtroppo molta parte dell’opinione
pubblica, e anche della politica, appare ancora prigioniera di una concezione tradizionale, diciamo pure conservatrice, delle vicende elvetiche: un’infilata di nomi, gesta eroiche, battaglie, leggende; una cronistoria da assimilare come le mosaiche tavole della legge. Invece, proprio il Museo nazionale dimostra che si può percorrere una strada diversa, molto più arricchente perché reticolare, esito di intrecci e rimandi che finiscono per scavalcare i confini angusti del localismo o del cantonalismo. Osservava l’avvocato e pubblicista bleniese Brenno Bertoni oltre un secolo fa: «Ora io trovo giustissimo che nelle scuole superiori ticinesi si studi la storia del risorgimento italiano e più ancora la storia dell’italiana letteratura, ma a condizione che ciò non avvenga in modo da lasciare supporre che al confronto la storia svizzera non sia altro che la storia di un branco di mandriani maneschi e che la Svizzera rappresenti una specie di Beozia dell’Europa centrale».
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Affari Esteri di Paola Peduzzi Hillary e la «questione sociale» L’ala radicale della sinistra americana ha messo sotto assedio la candidatura di Hillary Clinton, che pure tira sempre verso il suo territorio d’elezione, che è il centro moderato e riformatore, in questo 2016 rimasto orfano della concorrenza di destra, vista la deriva trumpiana del Partito repubblicano. I sanderisti, seguaci del candidato «socialista» Bernie Sanders che ha perso le primarie, non vogliono che la loro rivoluzione sia dimenticata, e non ascoltano più nemmeno il loro leader, quello stesso Sanders che dice che la battaglia continuerà, ma dopo che un democratico si insedierà, nuovamente, alla Casa Bianca. Appena possono, i sanderisti fanno sentire il loro disaccordo nei confronti della Clinton, assumendo spesso toni che sono propri della retorica trumpiana, con quegli eccessi tipo «mettetela in galera» che sono risuonati anche nei consessi ufficiali dei democratici. Come ha scritto «The
Economist», in una sua recente storia di copertina, lo scontro politico oggi segue linee di frattura diverse da quelle tradizionali: non si parla più di destra e sinistra, ma di chiusura e di apertura, di protezionismo e liberismo, di muri e accoglienza. La Clinton è rimasta la candidata dell’apertura, per quanto pure lei abbia dovuto cedere – in modo talmente opportunistico che il prezzo della giravolta potrebbe essere più alto del previsto – alle sirene del protezionismo, dichiarandosi contraria al Ttp, il trattato di libero scambio transpacifico negoziato da Barack Obama con i Paesi dell’area del Pacifico. Si tratta però di un’eccezione in una retorica che conta sulla calma – o sull’aggressività ridotta – dell’elettorato più radicale e che piuttosto va a pescare nel voto indipendente e moderato che vive al centro. Il brand clintoniano, del resto, è da sempre questo. Ma che ne è dell’insofferenza
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti La storia patria rispolverata La storia è sulla cresta dell’onda, «Geschichte hat Hochkonjunktur»: parola del direttore del Museo nazionale Andreas Spillmann. La nuova ala del Landesmuseum, inaugurata lo scorso primo agosto, promette bene, è luminosa ed ariosa, anche se il progetto degli architetti Christ & Gantenbein ha dovuto incassare numerose critiche fin dal primo schizzo. D’altra parte non c’è proposta che non sia esposta a contestazioni, anche aspre. È normale: l’architettura non si nasconde, è sotto gli occhi di tutti e tutti ritengono di dover esprimere un giudizio estetico. Oltre un secolo fa le cose non andarono diversamente. L’edificio disegnato da Gustav Gull – un castello pseudo-medievale con tanto di torrette e guglie – non raccolse solo reazioni positive (correva l’anno 1898 e lo stile medievaleggiante era di moda). A ciò si aggiunsero subito problemi di statica e di spazio. Anche l’imponente affresco «La ritirata di Marignano», opera del pittore Ferdinand
Hodler, divise profondamente pubblico e critica. Collocare l’esordio nel Medioevo era obbligatorio. A quei secoli risalivano i principali fatti d’arme, i patti stretti tra le terre forestali, le battaglie vinte dai montanari contro i cavalieri asburgici, le notizie raccolte dagli scribi e subito trasformate in racconti da tramandare ai discendenti. Ora tutto questo è diventato materia di studio scientifico: la mitografia ha ceduto il passo alla critica delle fonti, all’archeologia, alla filologia. Ai nostri antenati la narrazione tardomedievale bastava. Nutriva a sufficienza l’edificante idea che un piccolo popolo di rudi allevatori e boscaioli fosse riuscito ad affermare la propria indipendenza di fronte alle principali casate aristocratiche d’Europa. Tutto il resto era orpello, dettagli da lasciare alle dispute tra dotti. Il «lungo Novecento» ha cambiato le carte in tavola, ha aperto il baule dei miti e rimesso in discussione ciò che sembrava acquisito una volta per tutte. Anche il
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 8 agosto 2016 ¶ N. 32
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Cultura e Spettacoli Musei nel deserto I Paesi del Golfo sono sempre più spesso protagonisti della scena internazionale dell’arte
Antiche olimpiadi In Grecia l’importante non era partecipare, ma vincere – come spiega l’ultima puntata della serie sulle Olimpiadi nell’antichità
Il più grande fra i piccoli I momenti di spicco del nostro fiore all’occhiello, il Festival di Locarno
Un Parsifal insolito A Bayreuth è andato in scena un allestimento a tratti deludente della celebre opera di Wagner pagina 32
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Fra i luoghi della città in cui si svolge Manifesta non poteva mancare il Cabaret Voltaire. (Keystone)
Cosa facciamo per soldi? Arte L’undicesima edizione dell’appuntamento culturale Manifesta, quest’anno per la prima volta in Svizzera,
si occupa del tema delle professioni e dei soldi ad esse legati
Ada Cattaneo Manifesta rappresenta fin dai suoi esordi un campo di sperimentazione per le pratiche di curatela delle esposizioni e, continuando sulla stessa linea, quest’anno è un artista – Christian Jankowski – ad essere stato scelto per tenere le fila dell’evento. Cosa fa la gente per soldi? Una scelta non casuale per il contesto svizzero, anche se il tema non è stato declinato sui risvolti economici e finanziari della questione. L’interrogativo di partenza ha invece condotto partecipanti e pubblico a riflettere sul tema del lavoro e, di conseguenza, sul contrasto fra sfera personale e professionale, fra mondo pratico e poetico e, ancora, fra vita privata e pubblica. La considerazione che sottende a gran parte della mostra è: a mestiere diverso corrisponde una diversa prospettiva sul mondo. Il tentativo è stato quello di fare dialogare questi differenti sguardi sulla realtà, mettendo in contatto mondi professionali molto lontani fra loro. L’organizzazione di Manifesta ha perciò posto le condizioni per creare delle vere e proprie «Joint-ventures»: gli artisti hanno potuto scegliere una professione fra le mille e più svolte entro i confini della città (a quanto risulta da un censi-
mento svolto dalla Facoltà di sociologia dell’Università di Zurigo). In una seconda fase ogni artista ha fatto conoscenza e iniziato a sviluppare un’opera insieme ad un cittadino che di quel mestiere avesse fatto la propria occupazione principale. L’unica condizione richiesta era che le persone selezionate non avessero alcun legame professionale con il mondo dell’arte. Tutte le nuove opere presentate al pubblico in questi mesi, da giugno a settembre, sono quindi il frutto di queste collaborazioni, fra i 30 artisti invitati e altrettanti cittadini zurighesi. Come si poteva presagire, gli artisti sono stati spesso affascinati proprio da quei mestieri fortemente inusuali che di rado si trovano ad essere sotto i riflettori della scena artistica. È il caso del pastore del Grossmünster che ha lavorato con l’artista Evgeny Antufiev o dell’olandese Jennifer Tee che ha coinvolto il responsabile dell’ufficio cimiteri della città. Teresa Margolles, invece, a Zurigo ha continuato la propria indagine sul mondo della prostituzione, già iniziata in Messico. E ancora, è dell’americano Mike Bouchet la scultura ideata insieme all’ingegnere a capo di un impianto di depurazione delle acque reflue della città. Per realizzare quest’opera monumentale è
stato usato il materiale organico raccolto dal sistema nella sola giornata del 24 marzo 2016: il risultato è un reticolato di cubi terrosi, dalle forme estremamente equilibrate e minimaliste quasi a sottolineare il contrasto con la materia (maleodorante). I nuovi lavori così creati sono visibili presso la Löwenbräukunst e la Helmhaus e presentati in dialogo con la cosiddetta «Esposizione storica», costituita da opere realizzate negli ultimi cinquant’anni, anch’esse a vario titolo connesse al tema del lavoro. I parametri allestitivi che organizzano produzioni vecchie e nuove sono volutamente variabili. Si passa quindi da aree ordinate secondo una logica tematica a spazi monografici dedicati a singoli artisti. La lettura non è quindi semplice, né lineare. Un aiuto può venire però dai molti momenti di mediazione culturale e dalle visite guidate offerte al pubblico gratuitamente, così come il biglietto per i mezzi pubblici della città che si riceve all’acquisto del pass giornaliero, tanto più utile se si considera che, oltre alle due sedi espositive citate, molte delle opere sono visibili nei cosiddetti spazi «satellite». Sono questi i luoghi di lavoro di tutti quei professionisti
che hanno collaborato con gli artisti e che si prestano a diventare temporanei spazi espositivi. Il visitatore è qui esplicitamente invitato a prendere consapevolezza delle sollecitazioni esterne e a considerare come questi ambienti influenzino la visione dell’opera in modo molto diverso da quanto accadrebbe in uno spazio museale. Si può così avere accesso a siti che di norma rimarrebbero preclusi, così come il Commissariato di polizia, i cui agenti hanno partecipato a laboratori teatrali prima di prendere parte al video di Marco Schmitt, o entrare in una clinica privata per consultare i risultati del check-up a cui si è sottoposto Michel Houellebecq (che con l’immaginario della sanità svizzera si era già confrontato nel libro La carta e il territorio del 2010). Altri due luoghi si aggiungono. Il Cabaret Voltaire sottolinea l’importanza del Dada nella riflessione sul connubio fra arte e vita, ricordando che la scelta di Zurigo per Manifesta non è casuale, a cento anni dalla nascita del movimento. Lo storico locale è in questa occasione sede della «Corporazione degli artisti», inventata ispirandosi alla tradizione delle «Zünfte» zurighesi. Non da ultimo, il Pavillon of Reflections è la struttura
che ha avuto più risonanza nel corso di questa Manifesta: progettato in collaborazione con la classe del professor Tom Emerson dell’ETH, ospita la proiezione dei film realizzati da allievi delle scuole di Zurigo per documentare le 30 «Jointventures», a fronte lago. Le regole per la creazione dei video sono state stabilite da Christian Jankowski insieme a JeanLuc Godard per garantire che il risultato finale fosse quanto più lontano possibile dal prototipo di documentario d’arte. A prescindere dalla forse eccessiva ricerca di leggerezza, va dato merito a Manifesta di avere creato un’opportunità: autori di rilevanza europea ed internazionale si sono soffermati ad osservare il contesto svizzero, offrendoci l’esito delle loro riflessioni. L’analisi artistica per sua natura non ambisce all’obiettività di un’indagine statistica o sociologica. Ma, con l’ironia o la gravità, lo stupore o il lirismo che di volta in volta la caratterizzano, sa restituire al meglio le molte sfaccettature del nostro Paese. Dove e quando
Manifesta 11, Zurigo, vari luoghi della città. Fino al 18 settembre 2016. www.m11.manifesta.org/
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Cultura e Spettacoli Il Louvre di Abu Dhabi di Jean Nouvel (qui in versione modellino) è da anni al centro di accese polemiche. (Keystone)
L’importanza del passato Meridiani e paralleli Fino al 12 agosto
un’interessante mostra alla Salita dei Frati Giovanni Orelli
Musei nel deserto, parte del futuro è là Arte Il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti: i piccoli e ricchissimi Stati
del Golfo alla conquista del mondo e del mercato dell’arte e di una loro identità culturale con musei superlativi
Emanuela Burgazzoli La gigantesca cupola del nuovo Louvre di Abu Dhabi è visibile a chilometri di distanza; il futuristico edificio, firmato dalla stella dell’architettura francese Jean Nouvel sarà in parte sommerso dall’acqua e l’ultima fase di «inondazione» è appena cominciata. Il museo, concepito come una città-isola con le fondamenta in mare, sfrutterà infatti l’acqua e il vento che attraverserà il caleidoscopio metallico della cupola, formando così un microclima. Dettaglio non secondario in una città dove le temperature possono sfiorare d’estate i 48 gradi. Il Louvre di Abu Dhabi – 640 milioni di dollari, 41mila metri quadri – è soltanto uno dei progetti faraonici che stanno sorgendo sull’isola Saadiyat; oltre a hotel di lusso e a una filiale della New York University sorgeranno anche un Guggenheim Museum, progettato dal canadese Frank Gehry (già ideatore del controverso Guggenheim di Bilbao) e il Zayed National Museum dal britannico Norman Foster (suo per esempio il progetto della cupola del nuovo Reichstag di Berlino), altro nome di richiamo dell’architettura internazionale. A fare concorrenza alla capitale degli Emirati arabi, lì a due passi, un altro emirato del petrolio, il Qatar che sta per costruire nella sua capitale quello che sarà con i suoi 80mila metri quadrati di superficie il più grande museo del mondo; si chiamerà «the Art Mill», perché situato nella zona del porto di Doha, dove un tempo sorgevano i silos. Nel bando di concorso per la progettazione si legge che il nuovo museo dovrà essere «dinamico, sostenibile, contemporaneo» e soprattutto che la sua struttura architettonica dovrà dirsi «memorabile». Il messaggio è chiaro: si tratta di stupire il mondo e
superare i vicini di casa in questa corsa a candidarsi centro artistico e culturale di richiamo internazionale, con un progetto iperbolico, firmato possibilmente da una celebrità dell’architettura – fra gli studi che hanno superato la seconda selezione per Doha, quelli di Renzo Piano, David Chipperfield e Eduardo Souto de Moura. Il Qatar è un pioniere nella costruzione di musei: già nel 1975 infatti ha aperto un suo Museo nazionale – e che sta per essere sostituito da un modernissimo edificio –, e il suo Museo per l’arte islamica del cinese Pei nel 2008 è stato il primo esempio di «architettura iconica». Doha ha già fatto parlare di sé negli ultimi anni soprattutto per la direttrice dei suoi nove musei, la sorella dell’emiro del Qatar, Sheikha Al Mayassa, che nel 2013 guidava la classifica delle 100 persone più potenti nel mondo dell’arte. Motivo? Un budget per gli acquisti che sfiora il miliardo di franchi all’anno e con il quale si è già aggiudicata un Gauguin per la cifra record di 300 milioni di dollari e un Cézanne per 250 milioni. Un potere d’acquisto al quale è impossibile opporsi: ne sa qualcosa il governo inglese che aveva posto (invano) il veto di esportazione per una tela di Picasso acquistata da Al Mayassa: nessun collezionista né museo britannici poteva permettersi infatti di sborsare i 50 milioni già pagati dal Qatar. Ma in quale contesto artistico e culturale sorgono questi giganteschi musei? E per costituire una collezione museale sono sufficienti ingenti somme di denaro? Doha – come l’ha definita l’architetto Pei – è per certi versi «vergine», priva di un autentico contesto culturale. Il Qatar, fino al 1971 sotto dominio britannico, conta 1,8 milioni di abitanti, di cui soltanto il 13 per cento è originario dell’emirato: da un punto di vista storico-culturale può dunque
definirsi un «non luogo». Un non luogo dalle enormi contraddizioni sociali e politiche: nove musei in un Paese dalla religione iconoclasta, un’enorme moschea accanto al più grande museo del mondo, una televisione di Stato fedele al regime e l’emittente «all’occidentale» Al Jazeera. Analogo il caso degli Emirati arabi: uno Stato giovanissimo – 43 anni – senza alcuna eredità artistica contemporanea, al di fuori della tradizionale calligrafia islamica, che in un paio di decenni si è letteralmente trasformato: a Dubai per esempio è sorto un vero e proprio quartiere di gallerie d’arte, fra queste alcune delle più importanti del mondo arabo, la città ha ormai una consolidata fiera d’arte, e vi si trovano le filiali delle maggiori case d’asta. Un boom, confermato dagli investimenti, alimentati anche dalle esigenze di una facoltosa clientela, in crescita, che si trova a dover arredare appartamenti e alberghi di lusso e da collezionisti della regione che investono nell’arte. Anche i grandi musei nascondono grandi contraddizioni: a questi enormi cantieri lavorano infatti operai stranieri sottopagati e sfruttati, mentre l’aggressiva politica di acquisizione di queste istituzioni preoccupa il mondo culturale occidentale. La prima a reagire è stata la Francia, che in cambio del marchio «Louvre» e dei prestiti di opere ha ricevuto un assegno di quasi 800 milioni di dollari dagli Emirati arabi. Preoccupati per la tendenza a cedere a una «commercializzazione sfrenata del patrimonio pubblico» con il sistema sempre più diffuso dei prestiti di opere a pagamento, i 4500 firmatari della petizione lanciata nel 2007 non si dicono contrari alle forme di mecenatismo, ma chiedono semplicemente che i beni culturali non siano trattati come beni di consumo.
Ho il sospetto che, con il crescere dei libri «nuovi» (i «freschi di stampa») si leggano meno libri del passato, compresi quelli già consacrati dal Signor Tempo il quale ha già fatto le sue selezioni. Un avviso importante non solo per i luganesi, ma per gli abitanti della Svizzera italiana e per gli svizzeri tutti che amano il bel libro: dice (quell’avviso) che fino al 12 agosto si potranno ammirare, nella Biblioteca Salita dei Fati (non lontana, a piedi, dalla stazione di Lugano) splendide Edizioni di Basilea del secolo XVI a sud delle Alpi. Nella fase di preparazione, o di consuntivo, non è per niente da trascurare il Catalogo dell’esposizione, a cura del Centro di competenza per il libro antico. Il lettore non dovrebbe saltare l’editoriale con il meritatissimo elogio per editori del secondo Cinquecento e poi (è una pagina sola ma intensa di Valerio De Giorgi) la Prefazione (due pagine) con la sicura guida «tecnica» di Valentina Sebastiani. Dice la Sebastiani nella conclusione della sua guida: «L’impatto che la produzione di questo secolo d’oro della stampa nella città sul Reno ebbe sul mercato dell’Europa della prima età moderna si può misurare sulla base delle numerose copie sopravvissute e finemente rilegate che risultano oggi possedute da centinaia di istituti di conservazione libraria sparsi in tutto il mondo, tra i quali rientrano le biblioteche dei conventi e delle parrocchie ticinesi e i loro pregiati esemplari esposti nella mostra». Cartine e fotografie portano aiuto alle parole. Ciò che fa la preziosità e l’utilità del catalogo sono tra l’altro le riproduzioni delle copertine e di alcune pagine dei libri «famosi». Con relativi commenti. Ma nessuno di noi che ha sfogliato questa stimolante guida potrà ostentare di conoscere le Enarrationes in psalmos «raccontate» da quel «fenomeno» che fu Sant’Agostino per il Froben, Basilea 1529, curate da un grandissimo del Cinquecento come Erasmo. Il 12 luglio si sono ricordati i 530 anni dalla morte dell’umanista olandese; ma non a torto la rivista afferma che «Erasmo avrebbe ben potuto assumere il soprannome di Basiliensis invece di quello di Roterodamensis» tanto la sua attività di umanista si svolse a Basilea (v. il ricordo di Stefan Zweig, p. 35): in quei tempi «Basilea divenne rapidamente una delle capitali dell’industria tipografica, con ventisei officine attive nel 1480» (p. 51). Il secondo «ritratto» è per Alfonso Cor-
rado o Corradi e il suo In Apocalypsim commentarius, Basilea, 1560, stampatore Pietro Perna, «uno dei grandi diffusori della cultura italiana verso il nord». È opera all’Indice dal 1580, perché (dicevano!) «piena di invettive e di maldicenze contro il Romano Pontefice». Salto il ritratto di Ludovico Ricchieri per indugiare mezzo minuto con Ambrogio da Milano e la sua Opera Omnia, sempre Basilea, Froben, 1538: Ambrogio fu nella vita «sempre abile nel fronteggiare i numerosi contrasti religiosi, soprattutto tra ariani e cattolici, a vantaggio però di questi ultimi...». L’elegante pag. 49 della rivista, dedicata al Divi Ambrosii episcopi mediolanensis mostra come il frontespizio dell’antico volume sia stato deturpato da un rozzo funzionario «moderno» che ha aggiunto due «bolli» circa le attuali «proprietà». Dove rozzezza batte filologia. Nel catalogo si passa poi a descrivere i volumi conservati dal Collegio dei Gesuiti poi Benedettini di Bellinzona, istituto di cui si occupò il benemerito Virgilio Gilardoni (p.53). Per Luciano di Samosata e i suoi Saturnalia, non trascuri il lettore la «scheda tecnica». Di questo «nostro» sconosciuto Luciana Pedroia dice che «è considerato uno dei maggiori scrittori satirici di tutti i tempi». Non si trascuri la Nota su Erasmo da Rotterdam e il destino delle sue edizioni di Jean Claude Lechner, il quale dice: «Erasmo, principe degli eruditi (...) si adoperò perché Lutero fosse ascoltato, e perché gli fosse riservato un trattamento equo. Il suo atteggiamento gli valse però il sospetto di essere cripto-luterano e quindi un traditore della causa romana» (p. 56). Il lettore legga la scheda dedicata alle Note a Galeno di Giulio Alessandrini (pp. 60-1), ma guardi anche a p. 65 il frontespizio della Bibbia in latino ed ebraico del 1534. Anche nell’intervento per il Convento dei Frati Cappuccini di Lugano (p. 68-9) si fanno nomi di studiosi luganesi che arricchirono la raccolta libraria. Curioso il commento alle Orationes di Gregorio di Nazianzo per certe «avversità» (...) e il commento a Erasmo sul quale Gregorio Nazianzo trionfa, per così dire, alle pp. 70-1, ma vince Erasmo con le Annotationes in Novum Testamentum. Per finire alla p. 99 si presenta l’Opera omnia di San Gerolamo, 1516. Tanto nomini...: «Egli è noto soprattutto per la revisione della traduzione latina della Bibbia (Vulgata), che correda di commenti, e che accosta con interessi filologici...»; ma vedano i curiosi il resto.
Un antico torchio tipografico riprodotto su Edizioni di Basilea.
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Cultura e Spettacoli
Osservare la cultura
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Politica culturale Nel 2007 il nostro cantone
si è dotato di un osservatorio che analizza e cataloga le iniziative del territorio
Laura Di Corcia Per impostare una politica culturale seria, che tenga in considerazione le potenzialità del territorio e le sue eventuali lacune, al di là dei pure importanti interrogativi su cosa sia utile o meno e su quali aspetti sia giusto focalizzarsi, servono i dati. Qui da noi c’è chi svolge da anni con cura e con dedizione un lavoro certosino di raccolta e cernita: si tratta di Marco Imperadore, redattore della pagina web dell’Osservatorio culturale del canton Ticino, affiancato in questo compito da Barbara Fibbioli. Tutti i giorni i due redattori si occupano di segnalare sul sito gli eventi culturali che hanno luogo sul nostro territorio – eventi che si attestano sulle 10mila unità, più o meno – e di pubblicare i concorsi e le novità in questo ambito. Da quest’anno il sito ha cambiato veste, però: la differenza più macroscopica è che il layout è stato uniformato e appare simile a quello degli altri siti dell’amministrazione cantonale. Non solo: prima si accedeva direttamente all’agenda, ora invece all’utente appare una pagina che presenta i progetti, i dati statistici, le leggi e le pubblicazioni. «Abbiamo voluto dare una maggiore impronta documentale e statistica alla pagina per sottolineare il concetto che questi sono i compiti principali dell’Osservatorio culturale – spiega Marco Imperadore. «Soprattutto la statistica riveste un ruolo preponderante – continua il redattore – visto che serve per monitorare il panorama culturale del cantone». L’agenda registra un afflusso di 500-600 visite al giorno in media. «Si tratta di un’utenza fedele – specifica Imperadore. «Non sono solo i privati a visitare la pagina, ma anche i colleghi degli istituti cantonali, gli operatori culturali stessi, i giornalisti e gli studenti. Sul sito tutti gli eventi hanno pari visibilità e quindi usufruiscono della stessa possibilità di essere evidenziati. Una distinzione viene invece operata per quelli organizzati dagli istituti cantonali, presenti con una vetrina separata segnalata sulla homepage». Quello svolto dai due redattori è un lavoro redazionale vero e proprio, che passa per il monitoraggio di mail e giornali e per l’aggiornamento continuo e preciso della pagina web dedicata all’agenda, i cui contenuti sono arricchiti con fotografie e immagini.
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«La raccolta delle informazioni è soprattutto un lavoro attivo e costante di ricerca – aggiunge Barbara Fibbioli. «Contiamo naturalmente sulla preziosa interazione con gli operatori che ci avvisano via e-mail o attraverso il formulario delle segnalazioni: il suo utilizzo è ancora poco sfruttato, speriamo aumenti anche grazie alla nuova grafica user friendly». Quella dell’Osservatorio culturale non è l’unica agenda di eventi online in Ticino, ma, come sottolinea Barbara Fibbioli, «c’è una differenza sostanziale. La nostra agenda non serve soltanto a segnalare agli utenti le proposte culturali: parte delle informazioni raccolte all’interno della scheda serve infatti all’estrapolazione di dati e all’elaborazione di statistiche utili per l’analisi della realtà culturale ticinese e per lo sviluppo di una politica culturale più legata alle necessità del territorio». Tra le mansioni dei due redattori bisogna anche annoverare l’implementazione e l’aggiornamento della banca dati degli operatori culturali, che conta oltre 1400 indirizzi, così come la selezione di una documentazione specifica proveniente non solo da altri istituti (ticinesi, federali e internazionali), ma anche dall’Osservatorio culturale stesso, che opera monitoraggi e statistiche, elaborati da Imperadore e Fibbioli insieme ai loro colleghi Andrea Plata e Danilo Bruno – il tutto con la supervisione del Comitato scientifico dell’Osservatorio e della Divisione della cultura e degli studi universitari. Come sottolinea Paola Piffaretti, responsabile dell’Osservatorio, è imminente la presentazione del «Rapporto statistico 2015» e del «Censimento cantonale dei musei e degli istituti analoghi» (dati 2014). «Nel primo il focus sarà centrato su eventi e operatori culturali del Ticino e della Svizzera italiana nel 2015, con uno sguardo più esteso nel quadriennio 2012-2015 – spiega Piffaretti – mentre il secondo è frutto di un’approfondita indagine che offrirà una fotografia del settore a dieci anni dal primo rilevamento e appena poco prima dell’apertura del LAC e dell’arrivo di Alptransit. Un sondaggio importante, che verrà riproposto tra 5 anni per verificare se e quali cambiamenti siano intercorsi nel frattempo». Di lavoro l’Osservatorio, che è nato nel 2007, ne ha da fare ancora tanto.
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Marco Imperadore, instancabile redattore dell’Osservatorio culturale del Canton Ticino.
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Condizioni di partecipazione: Termine di invio: 29 agosto 2016. Il concorso è aperto a tutte le persone domiciliate in Svizzera, eccetto le collaboratrici e i collaboratori della federazione dei Produttori Svizzeri di Latte (PSL). I premi non sono corrisposti in contanti. Sul concorso non si tiene alcuna corrispondenza. Il ricorso è escluso. Partecipando al concorso, Lei autorizza la federazione dei Produttori Svizzeri di Latte (PSL) e i suoi partner a utilizzare i dati per eventuali scopi di marketing. I dati saranno trattati con la necessaria confidenzialità.
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Cultura e Spettacoli
L’importante non è partecipare, ma vincere Olimpia rivive a Rio Ottava e ultima parte. La celebrazione della vittoria agonale Elio Marinoni A differenza di quanto accade nelle moderne olimpiadi, nell’antichità solo il vincitore veniva premiato: il concetto di «piazzamenti d’onore» era estraneo all’uomo greco. Il secondo classificato era perciò accomunato nella sconfitta alla sorte di tutti gli altri concorrenti: quella di affrontare – come afferma Pindaro (Olimpica VIII, 69) – «un odiosissimo ritorno in patria e una fama ignominiosa». A Olimpia, così come nelle altre città sedi di agoni sportivi o d’altro genere, si andava per vincere, non per partecipare: con buona pace del barone De Coubertin e del suo motto. Le onoranze riservate al vincitore di una gara olimpica (olimpionico) facevano della vittoria uno straordinario veicolo di promozione sociale, talora politica e nei tempi più recenti anche economica. A quelle curate dall’organizzazione dei giochi si aggiungevano le onoranze promosse dall’olimpionico stesso e quelle tributategli dalla città natale al suo ritorno in patria. Queste ultime potevano comprendere, oltre al diritto di sedere in prima fila nelle pubbliche adunanze (proedría), anche quello di essere nutrito a spese pubbliche (sítesis). Talvolta l’olimpionico poteva essere venerato, dopo la morte, come un eroe: è il caso del pugile e pancraziasta Teogene di Taso, documentato dai ritrovamenti archeologici. L’espressione oraziana secondo cui la polvere di Olimpia, sollevata dalle ruote dei carri, innalza i vincitori «fino agli dei» (Orazio, Odi, I, 1, 3-6) non può dunque essere liquidata come una semplice iperbole.
Le onoranze a cura dell’organizzazione dei giochi consistevano nell’esecuzione del cosiddetto «inno di Archiloco», un componimento, detto anche Callinico («per la bella vittoria»), in onore di Eracle attribuito al poeta lirico di questo nome (VII secolo a.C.), subito dopo ogni proclamazione di vittoria; e nell’incoronazione con una corona di ulivo (kallistéphanos, «bella corona») intrecciata con un ramoscello spiccato da un ulivo sacro del santuario dell’Altis. L’olimpionico, da parte sua, poteva provvedere a far erigere nel recinto dell’Altis una statua con l’iscrizione del proprio nome (Pausania afferma di averne contate, nel suo sopralluogo sul sito degli agoni nel II secolo d.C., non meno di 192); e a far eseguire nella sua patria un’ode corale trionfale, detta epinicio ossia «canto per la vittoria», da lui commissionata a un poeta specialista. Naturalmente solo i grandi aristocratici, vincitori per lo più delle corse con i carri, potevano permettersi l’onere di una tale committenza, che oltre al compenso per la creazione artistica comprendeva le spese per l’istruzione, il mantenimento e l’esecuzione del coro e quelle per l’allestimento dello spettacolo, nonché per il viaggio e il soggiorno del poeta e dei coreuti. Il prezzo più alto era ovviamente quello per il poeta: dai commentatori antichi sappiamo che Pindaro ricevette un onorario di 3000 dracme d’argento per un epinicio celebrativo della vittoria conseguita nel pancrazio da Pitea di Egina ai Giochi Nemei: un prezzo molto alto, pari alla metà dello stipendio annuale accordato nello stesso periodo dalla città di Egina al famoso medico Democede di Crotone (cfr. Erodoto, Storie, III, 131, 2).
Simonide, Bacchilide, e Pindaro, vissuti tra la metà del VI e i primi decenni del V secolo a.C., sono gli autori che resero famosa questa forma poetica. Se in Simonide l’atleta è raffigurato come un «superuomo», vicino agli eroi e agli dei (ai quali tuttavia si contrappone per la precarietà dell’umano), e Bacchilide ne loda soprattutto le qualità fisiche, Pindaro esalta nell’atleta la kalokagathía, concetto tipicamente greco che indica la perfetta fusione di doti fisiche (come la bellezza, in greco kállos) e di doti morali. L’epinicio pindarico prende le mosse dall’attualità della performance, rievoca un mito (legato alla patria del vincitore o alla sua stirpe o a Olimpia, ai suoi giochi e ai suoi culti) nella sezione centrale e all’attualità ritorna in quella conclusiva.
Fra le committenze più onerose vi era anche l’ode corale trionfale, ossia un canto per la vittoria In questi componimenti trionfali la vittoria agonale è vista come il frutto di una sinergia tra doti naturali, che non si esauriscono nella sola prestanza fisica, ma investono altresì l’ambito del carattere e della formazione morale, e l’assiduità di una corretta preparazione atletica, che richiede spirito di sacrificio e l’accettazione della fatica (la cui eticità è simboleggiata dalla saga delle dodici fatiche di Eracle, uno dei fondatori mitici delle Olimpiadi) come viatico verso la gloria.
Il celebre pugile a riposo in bronzo risale al IV sec. a.C. ed è attribuito allo scultore e bronzista Lisippo.
A partire dalla seconda metà del V secolo a.C. l’epinicio decadde, mentre si diffusero progressivamente altri tipi di onoranze, come le iscrizioni onorarie o commemorative e le monete coniate dalla zecca della città dell’olimpionico. Se nell’epinicio e nelle iscrizioni agonistiche la celebrazione della vittoria è affidata alla parola, che Pindaro contrappone orgogliosamente all’immobilità delle statue per la sua capacità di diffondersi nello spazio (Nemea V, 1 ss.), la statuaria, la pittura vascolare e le raffigurazioni su monete celebrano l’atleta attraverso l’immagine. L’atleta vi è raffigurato in allenamento o nello svolgimento della prestazione atle-
tica o subito dopo di essa o durante la premiazione. A seconda del momento prescelto, il corpo è raffigurato nella sua (quasi) immobilità, stante come l’apoxiómenos oppure anche seduto, come nel caso del pugile di Lisippo, o invece è colto nel dinamismo della performance, che si tratti della torsione che precede il lancio del disco come nel famoso discobolo di Mirone, o del momento del sorpasso nella corsa veloce o di quello che precede l’atterramento nel salto in lungo. Come simboli della vittoria compaiono: la Nike (Vittoria) alata, la corona vegetale e la tainía, un nastro con cui cingere il capo del vincitore. Parola e immagine contribuivano così a idealizzare la figura dell’atleta, fondando un sistema di valori destinato a perpetuarsi nelle future ideologie sportive. Glossario: atleta, atletica
All’origine di queste parole d’origine greca, presenti con poche varianti grafiche nelle principali lingue europee, sta il sostantivo neutro gr. âthlon, che indica propriamente il «premio» per una lotta e poi, per metonimia, la «lotta» o «gara» stessa, accezione condivisa dal maschile âthlos. Da questi sostantivi derivano il verbo athléo, «lotto, combatto» e il sostantivo athletés, «lottatore, atleta», a partire dal quale si forma poi l’aggettivo athletikós, é, ón, che sopravvive in italiano nell’aggettivo atletico e nel sostantivo atletica (da athletiké, sottintendendo téchne, «arte», dunque letteralmente «arte di gareggiare»). Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Gemma Arterton, (a sin.) e Sennia Nanua, protagoniste di The Girl with all the Gifts durante la serata inaugurale a Locarno. (Keystone)
Christie troppo dura per il cinema Letteratura e cinema Il celebre Dieci piccoli
indiani fu edulcorato per il grande schermo Nicola Mazzi
Due perle in Piazza Festival di Locarno Segnaliamo due imperdibili film realizzati
da due maestri del cinema come Ken Loach e Abbas Kiarostami
Fabio Fumagalli Vi scriviamo all’avvio, dopo quello che per alcuni è stato un discreto e insolito colpo allo stomaco, l’esordio in Piazza con The Girl with all the Gifts di Colm McCarthy. Parte dell’abituale, strabordante platea non ha gradito l’inaugurazione con un film di zombie. Opinione condivisibile perlomeno in termini di marketing, ma dopotutto non è scritto da nessuna parte che si debba aprire le danze con Babbo Natale. Tratto dal romanzo accolto benissimo di Mike Carey (autore di graphic novel e sceneggiatore del film) il film può essere sia apprezzato sia relativizzato. La storia di un’umanità confinata in pochi sobborghi sconquassati di Londra e circondata da una moltitudine di mortiviventi che si risvegliano al minimo sentore di carne (preferibilmente umana) è costruita con savoir faire scenografico ma poca competenza nella progressione drammatica. Bravi e ben diretti gli attori, specie l’esordiente Sennia Nanua, la ragazzina trattenuta dalla propria affettività, ma che ha già compiuto un passo verso quell’aldilà più o meno futuribile. Il film risulta più significativo proprio in quella che è la sua maggiore ambizione, ossia quella di allontanarsi da certe convenzioni dell’horror. Si privilegiano infatti alcuni interrogativi appartenenti a un presente già di per sé carico d’incertezze: quanta fiducia siamo in grado di concedere a chi è diverso da noi, come affrontare il solco che separa la pietà dalla ragione? Locarno 2016, l’abbiamo detto, è più che mai un festival da scoprire. Ma per chi vuol andare sul sicuro due film nei prossimi giorni s’impongono. Recente il primo di Ken Loach, in Piazza Grande giovedì 11 agosto, e fra i più acclamati a Cannes. Addirittura d’archivio il secondo (venerdì 12 agosto), ne avevamo infatti parlato su «Azione» del 27 settembre 1990, quando il mondo del cinema intuiva ciò che Abbas Kiarostami (Pardo di bronzo di quell’anno) sarebbe diventato.
disperato, non solo indignato come quelli che lo hanno preceduto. I protagonisti di tutti i film di Ken Loach lottano quasi sempre invano, per ritrovarsi ai piedi di un muro. Si tratta sempre di un ostacolo invalicabile eretto dal sistema sociale in cui vive anche l’uomo animato dalle migliori intenzioni. Daniel Blake (Dave Johns, Palma d’Oro) è fra questi. Falegname sessantenne a dir poco onesto, deve ricorrere all’assistenza sociale per una rendita d’invalidità. Ma poiché si tratta della prima volta, la trafila burocratica non gli è chiara; né tantomeno l’uso ormai tassativo del computer. Scadono così i termini del suo tentativo. Eccolo allora costretto, nell’attesa altrettanto laboriosa dei risultati dell’appello contro quella decisione, di fingere di cercare un lavoro. Ma, come potrà accettarlo – ammesso di trovarlo – quando è il suo medico stesso a proibirgli di lavorare? Daniel è animato da una fede totale nelle istituzioni del proprio Paese: ma si accorgerà presto di ritrovarsi in un circolo vizioso. Ogni sua iniziativa non farà che creare nuovi ostacoli. Mai miserabilista, fino all’ultimo possibilista, a tratti addirittura comico per la straordinaria umanità del protagonista, l’atto di accusa di Ken Loach nei confronti di un sistema progressivamente fallimentare fra le spire della crisi globale (e al quale non «conviene» che liberarsi dei pesi morti), è terribile. E così indoviniamo in ogni istante lo sconforto del protagonista, alleviato soltanto dai piccoli ma immensi gesti di solidarietà che nascono fra i derelitti e i disarmati. Ecco allora il giovane vicino (immigrato...) che traffica su internet con l’amico cinese; o ancora la giovane ragazza-madre con due figli, che si vede negato l’aiuto sociale per essere giunta cinque minuti in ritardo a una convocazione. Qualcuno ha detto che è un film encomiabile ma di un’altra epoca: siamo di fronte a uno stile dal realismo datato? No di certo, perché è un grido a sostegno della dignità umana, contro un liberalismo sfrenato che ha ormai superato ogni ipocrisia. Un film dai contenuti così forti da offuscare ogni svolazzo dialettico.
*** I, Daniel Blake, di Ken, Loach, con
Dave Johns, Hayley Squires, Briana Shann (Gran Bretagna 2016) ll più grande fra i cineasti politici e sociali l’aveva promesso dopo il deludente Jimmy’s Hall di un anno fa: sarebbe stato il suo ultimo film. E questo a 80 anni, dopo 25 film dall’indiscutibile impegno umanistico. C’è voluto I, Daniel Blake perché Loach cambiasse idea. E il suo è un film
**** Dov’è la casa del mio amico?,
di Abbas Kiarostami, con Babak Ahmadpur, Ahmed Ahmadpur, Khodabakash Defai (Iran 1989) Chi non ha mai visto questa meraviglia fa ancora in tempo a precipitarsi a Locarno dove il film iraniano, Leopardo di bronzo nel 1989, viene ripresentato nell’ambito dell’omaggio a uno dei mae-
stri del cinema moderno, appena scomparso. Il film di Kiarostami è semplice (meglio: è uno dei massimi esempi di come si possa essere semplici e grandi al tempo stesso), diretto e sincero, proprio come il suo titolo. Il soggetto è presto raccontato: un bambino di un villaggio di campagna si accorge che il compagno di banco ha dimenticato – una volta ancora – il suo quaderno con i compiti da fare a casa. Poiché il piccolo amico è già in disgrazia col maestro, egli si sforza di raggiungerlo nel villaggio vicino, per consegnargli l’oggetto ed evitargli la punizione. Fedele alla regola che dice che un soggetto piccolo arrischia di volare più in alto di quello magniloquente, e parimenti fedele a quell’altra norma che vuole un film riuscito se solo riesca ad accordare la vicenda all’ambiente che le fa da sfondo, Dov’è la casa del mio amico?, dovrebbe essere proiettato una volta alla settimana in ogni scuola di cinema. E, aggiungiamo, una volta al giorno in quelle dei Paesi dal cinema povero (come il nostro, made in CH...). Poiché è la dimostrazione, tranquillamente strabiliante, di come con due soldi, duemila idee, e un cuore da poeta si possa fare ciò che è impossibile, in una vita intera, a un trombone dell’immagine: avvincere con una progressione drammatica, commuovere e provocare con uno sguardo posato sul documento, trascendere la dimensione del contesto. Per uscire a rivedere le stelle della poesia. Già in quel suo modo di farlo correre, il ragazzino, sul filo del sentiero che collega i due villaggi, come lungo una traccia lasciata dal tempo, Kiarostami idealizza un itinerario (schematizzando sullo schermo, un po’ come faceva Hitchcock con i suoi spazi calcolati al millimetro). E questo itinerario guiderà ormai il film, imprimendo alla rincorsa del bambino una tensione, addirittura una suspense, che l’umiltà del raccontino mai avrebbero lasciato presagire. Ma il regista iraniano non si limita a questo: come in un documentario descrive contrade lontane, costumi, psicologie diverse. Poi, come in certe ballate del cinema dell’Est, mette in bocca ai personaggi dialoghi intrisi di humour, e risposte che sono un controsenso. Che magari, stranianti come sono, complicano la vita al nostro ragazzino, ma allo stesso tempo finiscono per spedire Dov’è la casa del mio amico?, a metà strada fra la terra, così dura da vivere da quelle parti, e la luna. Che un po’ della sua luce la riserva pur sempre a tutti.
È interessante ricordare che tra la pubblicazione del romanzo e la prima proiezione del film ci sia stata la II Guerra mondiale. Agatha Christie diede infatti alle stampe Ten Little Niggers nel 1939 (e da allora il romanzo, tradotto in Dieci piccoli indiani, vendette più di 110 milioni di copie). Da parte sua il regista francese René Clair (trasferitosi a Hollywood durante il periodo bellico), proiettò per la prima volta nel 1945 la pellicola che si era ispirata al libro della Christie. Ed è particolarmente emozionante rammentare che l’anno successivo, durante la prima edizione del Festival di Locarno, che si svolse nel parco del Grand Hotel, il film vinse il Pardo d’oro. Di questo classico della giallista inglese sono state diverse le trasposizioni cinematografiche, ma indubbiamente quella di Clair fu la migliore per alcune piccole, ma intelligenti invenzioni, e anche per una cifra stilistica che fece del film un’opera distinta dal libro e lo rese originale. Certo, la storia è la stessa. Otto personaggi vengono invitati da un misterioso signor Owen, su un’isola, per passare il fine settimana. Ad accoglierli solo una coppia di domestici. A uno a uno gli ospiti vengono uccisi e la villa che li accoglie diventa così una trappola mortale dalla quale non è possibile fuggire e dove quello che si dice non è mai quello che si pensa veramente. Il lavoro di René Clair è basato su uno stile diverso dal romanzo. Se per la Christie l’importante fu la caccia all’assassino, un gioco che elaborò in modo magistrale e contro il quale il lettore va a cozzare, per Clair questo gioco non è fondamentale. È presente, ma manca l’alone serio e serioso del racconto. Il regista ha voluto sdrammatizzare le situazioni e ha tolto quella patina di gravità che contraddistingue il racconto. Il cinema, rispetto alla scrittura, offre anche la possibilità di lavorare col suono. E Clair lo fa molto bene. La filastrocca che racconta come vengono uccisi i dieci piccoli indiani è suonata al pianoforte da uno degli ospiti ed è poi ripresa nella colonna sonora ogni volta che viene compiuto un omicidio. Non mancano tuttavia alcuni cliché nel film. René Clair è cosciente di lavorare a Hollywood e quindi sa che deve operare entro regole precise. Per esempio nel romanzo la villa è «bassa, quadrata, modernissima, con grandi finestre che lasciavano penetrare molta luce. Una casa pienamente all’altezza di ogni aspettativa». Mentre nel film è una specie di castello oscuro e baroccheggiante costruito a picco sulla scogliera. Il classico luogo in cui tutti si aspettano venga commesso un delitto.
Un secondo cliché è legato alla messa in scena. Il film inizia con una serie di inquadrature del classico mare agitato che accoglie gli ospiti della casa. Un mare che viene riproposto diverse volte in alcuni momenti chiave. Un aspetto non presente nel romanzo, nel quale i personaggi si incontrano e prendono forma su un treno. Sono invece molto interessanti alcuni dettagli visivi che il regista aggiunge di sua mano. Una scena, in particolare, evidenzia la sua maestria e nel contempo, ne definisce il tono divertito. I personaggi si osservano l’un l’altro dal buco della serratura. In un gioco di rimandi e sospetti che cozzano quando, alla fine della sequenza, si trovano nel corridoio tutti insieme. Sempre osservando i dettagli visivi Clair abbina sapientemente alcuni oggetti ai suoi personaggi. Il gomitolo di lana (simbolo di Emily) che cade dal primo piano e che annuncia la sua morte; la fiaschetta del medico che viene trovata abbandonata sulla spiaggia a rappresentare la sua fine; oppure la confidenza del giudice verso il gatto di casa che dimostra come vi sia una relazione precedente a quella vissuta in quel weekend. Il finale mostra la differenza più importante tra romanzo e film. La scrittrice non salva nessuno. Inventa una lettera con la quale il colpevole spiega le ragioni di questi omicidi. Ed è solo alla fine della missiva, con la firma in calce, che si scopre il nome dell’assassino. René Clair – anche perché costretto dalla censura dell’epoca che non permetteva all’assassino di farla franca – modifica lo status di due personaggi (Vera e Lombard) e li salva. Ed è a loro che l’assassino si svela, prima di uccidersi. Laddove Agatha Christie si prese la massima libertà, con una lettera sulla natura umana degna di un testo psicologico: «Provo sempre un piacere sadico nel vedere o nel causare la morte. Ricordo alcuni esperimenti fatti con le vespe, con vari insetti nocivi dei giardini... Fin dall’infanzia, ho provato la voluttà di uccidere. Al tempo stesso, era vivo in me un elemento contrastante: un forte senso della giustizia. Mi ha sempre fatto orrore l’idea che una creatura innocente dovesse soffrire o morire per un mio atto. Ho sempre auspicato il trionfo della giustizia»; René Clair – imbrigliato dalle regole hollywoodiane – deve limitarsi a una semplice confessione del colpevole basato sul solo desiderio di giustizia, sdrammatizzato subito dall’arrivo del barcaiolo e dalla sua battuta finale. «Buongiorno, siete pronti a partire? Sono pronti anche gli altri?» «Provi a chiamarli…», risponde uno dei due sopravvissuti.
La versione italiana della locandina del film di René Clair, uscito nel 1945. (Wikipedia)
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Cultura e Spettacoli
Parsifal a Mosul Musica Al Festival di Bayreuth fa discutere la nuova produzione di Parsifal Sabrina Faller Non è facile parlare della nuova produzione di Parsifal, opera scritta da Richard Wagner per il suo teatro di Bayreuth e suo ultimo capolavoro. Tra mille cambiamenti e difficoltà, non da ultimo le misure di sicurezza messe in atto dentro e fuori dal Festspielhaus già da prima dei tragici attentati in Francia e Germania, il festival mette in scena un Parsifal molto diverso da ciò che prometteva di essere in principio, quando ne fu annunciata la produzione, almeno quattro o cinque anni fa. Doveva essere allestito da Jonathan Meese, genialoide artista tedesco che nel 2014 ha abbandonato la produzione (e che metterà in scena il suo Parsifal nel 2017 a Vienna). Doveva essere diretto dal lettone Andris Nelsons, che a Bayreuth è stato lanciato grazie a una magnifica direzione di Lohengrin (il cosiddetto Lohengrin «dei topi») che gli ha dato fama nel mondo. Ma purtroppo, a fine giugno e a prove iniziate, a meno di un mese dalla «prima», anche Nelsons ha deposto la bacchetta e lasciato il podio del Festspielhaus, assai probabilmente per divergenze con il direttore musicale Christian Thielemann. E così oggi andiamo ad assistere a un altro Parsifal, quello allestito dal regista Uwe Eric Laufenberg, con una lunga carriera alle spalle nei teatri della Germania, e quello diretto dal «veterano» Hartmut Haenchen, di Dresda, con molti Parsifal al suo attivo sulle scene europee. L’idea del regista è quella di situare il «puro folle» di Wagner e la vicenda della comunità del Graal nella contemporaneità, prendendo spunto da
Un momento del Parsifal in scena a Bayreuth. (Bayreuther Festspiele, foto di Enrico Nawrath)
fatti, anche tragici, degli ultimi anni. Una comunità di monaci vive arroccata in un monastero in Iraq nei pressi di Mosul, la cosiddetta roccaforte dell’Isis. Offre rifugio e ospitalità ai civili che fuggono dalla guerra, indipendentemente dalla loro religione. Questo mostra la prima scena dello spettacolo, quando si apre il sipario – già sul preludio – sul risveglio dei rifugiati nella chiesa del monastero. Lo spunto è interessante, del resto nel libretto di Wagner è presente il conflitto tra mondo cristiano e mondo arabo, ma nello sviluppo registico, lungo il percorso della vicenda, le cose comin-
ciano a non funzionare. In particolare, in questo contesto, assume toni decisamente kitsch la risoluzione del rito del disvelamento del Graal nel rinnovarsi del sacrificio di Amfortas, che nutre letteralmente la comunità cristiana con il suo sangue. E, con un tocco umoristico piuttosto «dark», bevuto dagli adepti direttamente alla spina, come fosse birra! L’incontro tra un Parsifal in assetto di guerra e le fanciulle-fiore nel secondo atto avviene in un bagno arabo, le fanciulle indossano il niqab, sotto hanno costumi da odalische, mentre Klingsor, circondato da crocifissi nel suo ufficio, si
flagella nel vano tentativo di conquistare la grazia divina. Nel terzo atto il monastero in rovina è invaso dalla natura, piante e foglie enormi, che si arrampicano sui muri o addirittura li sfondano, in attesa del ritorno «a casa» di Parsifal con la lancia riconquistata. All’interno della vicenda si muovono Gurnemanz, Amfortas, Kundry, Titurel. Ho nominato Gurnemanz per primo perché è il suo interprete Georg Zeppenfeld la vera star della produzione, lui che interpreta magnificamente qui a Bayreuth anche il ruolo di re Marke in Tristan und Isolde, un basso dai toni am-
brati, voce sicura che incanta. Il debutto di Klaus Florian Vogt, già Lohengrin amatissimo dal pubblico tedesco, nei panni del «puro folle» fila liscio, come era da prevedere. Amfortas è l’americano Ryan Mc Kinny e Titurel è Karl- Heinz Lehner, due buone presenze vocali e sceniche. Elena Pankratova è una Kundry vocalmente dotata ma poco sfumata e, a tratti, «gridata». E la bacchetta di Haenchen? Pare che diriga la colonna sonora di un film, non l’«azione scenica sacra», secondo la definizione di Wagner per il suo dramma finale. Dal golfo mistico non escono profondi significati, questo è un dramma di guerra sembra dire Haenchen, che, seguendo l’allestimento di Laufenberg, sceglie di accompagnare quasi cinematograficamente le immagini. Ma l’esito finale è l’amaro in bocca di un’occasione mancata, per la regia e per la direzione musicale. Il pubblico, alla prima replica di Parsifal cui ho assistito, ha applaudito con grande generosità, senza manifestare segni forti di dissenso nei confronti della regia. Se avete il tempo di gironzolare un po’ per la città, nello storico negozio di pianoforti Steingraeber è allestita una piccola ma deliziosa mostra, Puccini in Bayreuth, promossa dall’Archivio Ricordi, dal Museo Wagner e dal Festival Puccini di Torre del Lago. Vuole documentare l’amore del compositore lucchese per il grande tedesco e i suoi frequenti viaggi al Festival di Bayreuth dal 1888 al 1912. Con una chicca poco nota: il manifesto che pubblicizza l’allestimento di Madama Butterfly al Festspielhaus nell’estate del 1946, in un dopoguerra carico di tensioni ma anche di voglia di ricominciare. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Bracciale in oro a cerchio aperto proveniente dal Kurdistan (VI sec. a.C.). (Gianluca Baronchelli)
Il nonno, Robert e Sebastian Cartoline musicali Il musicista Fabio
Martino ci manda i saluti con la fisarmonica Zeno Gabaglio Fabio «Mago» Martino
Storie infinite di leoni e di tori Mostre Ad Aquileia si celebrano i tesori e la storia dell’antica Persia Marco Horat Visitando la mostra di Aquileia, colpiscono alcuni oggetti di grande bellezza, primo fra tutti il famoso rhyton che rappresenta un leone alato con il corpo a forma di calice, una testa dalle fauci spalancate e la lingua sporgente, finemente scolpita fin nei minimi dettagli; oppure un pugnale anch’esso in oro massiccio con decorazioni a soggetto animale e uno spettacolare bracciale ritorto che termina con teste leonine. Oltre alle suppellettili in oro sono esposti anche resti architettonici di quella che doveva essere la porta di ingresso del palazzo reale di Dario, come suggeriscono i frammenti di un capitello in guisa di testa equina, vasi e piatti in argento con scene di caccia, oltre a sigilli reali e altri oggetti d’arte che facevano parte dell’arredo della corte. Testimonianze che vogliono illustrare una storia secolare svoltasi in una delle regioni del mondo in cui si è sviluppata la civiltà, come attestano anche le riforme civili e sociali emanate da Dario I detto il Grande, Re di Persia dal 550 al 486 a.C. Ma facciamo un passo indietro. L’epopea di Gilgamesh, mitico re di Uruk in Mesopotamia, per tre quarti divino e per un quarto umano, è molto più antica. Pare che una prima forma scritta, seppure frammentaria, che tramanda le sue gesta avventurose alla ricerca del senso ultimo della vita, sia databile al II millennio a.C. e, dunque mille anni prima dei componimenti omerici. Nel testo l’eroe vagabondo Gilgamesh uccide alcuni leoni sorpresi a giocare al chiarore della luna indossandone poi la pelliccia; sui sigilli reali l’episodio verrà riprodotto frequentemente e noi pensiamo subito alla figura di Eracle/Ercole rivestito con la pelle del Leone di Nemea prima stordito con la clava e poi strangolato a
mani nude. In un altro episodio Gilgamesh in compagnia dell’amato Enkidu, con il quale si era precedentemente battuto con «furia taurina» dice un testo, uccide e smembra il feroce «Toro del Cielo», creatura mostruosa inviata sulla terra dal Regno dei morti per vendicare un torto dell’eroe ai danni di una divinità femminile. Questi aneddoti di origine sumerica (a proposito suggeriamo L’epopea di Gilgamesh a cura di N.K. Sandars, Adelphi) vogliono sottolineare come nella tradizione di molti popoli il leone e il toro rappresentino da una parte la forza e il coraggio, dall’altra il conflitto tra natura e cultura con il quale l’uomo è confrontato da sempre. Ed è appunto di leoni e di tori che racconta la mostra al Museo nazionale archeologico di Aquileia sui tesori archeologici dei musei iraniani di Teheran e di Persepoli. La mostra illustra due periodi importanti della storia del Paese, quello dominato dalla dinastia degli Achemenidi (VI-IV sec. a.C.) che con Ciro il Grande, Cambise, Dario e Serse conquistò mezzo mondo dalle sponde del Mediterraneo al Mar Nero e al Mar Caspio, dal Golfo Persico all’India; e quello della Dinastia Sasanide (IIIVII secolo d.C.) che consolidò l’impero multietnico realizzando ovunque grandi opere urbanistiche quali città, palazzi, ponti, canali, dighe, strade e templi, e producendo opere d’arte come sculture in pietra, vasellame in argento e in vetro, ceramica e tessuti. Tra questi due periodi floridi c’è l’ingombrante presenza di Alessandro Magno – che anticipa l’arrivo di Romani e Parti – il quale sarà fortemente influenzato dalla cultura persiana. Ma fu proprio Alessandro che nel 330 a.C. distrusse Persepoli, andandosene con un bottino, racconta Plutarco, caricato su 20.000 muli e 5.000 cammelli! Il dato fa comprendere quale doveva essere
la ricchezza e lo splendore di quella che era considerata la città più grande mai costruita dall’uomo, una delle cinque capitali dell’Impero achemenide, città di rappresentanza la cui costruzione durò settant’anni e mai fu terminata. Lo spettacolo doveva essere di maestosità tale che Alessandro pensò bene, per ragioni politiche, di cancellarlo. Alla stessa stregua alcuni secoli più tardi Aquileia, importante centro commerciale dell’Impero romano e porta d’occidente, fu saccheggiata da Attila. Il 18 luglio 452 il condottiero degli Unni calò sull’Italia in cerca di gloria e, si racconta, sparse sale sulle rovine della città veneta affinché ne fosse cancellata perfino la memoria. Due città con un comune destino, che ci fa riflettere sulla fragilità delle imprese umane: sic transit gloria mundi, si affermava una volta, che fa dire agli organizzatori della mostra che di «archeologia ferita» si tratta, anche pensando alle drammatiche vicende che si svolgono attualmente nella regione. Come se la storia si ripetesse. La mostra vuole essere figlia della nuova politica di apertura dell’Occidente all’Iran dopo la cessazione delle sanzioni antinucleari. Ma bisogna ricordare che vi è un precedente che fa onore al nostro Paese: pensiamo alla grande mostra di Basilea del 2003 dopo lunghe trattative con le autorità iraniane, nella sede dell’Antikenmuseum diretto da Andrea Bignasca, intitolata 7000 anni di arte persiana.
Musicista, compositore, tecnico del suono e docente, è stato membro fondatore degli Yo Yo Mundi e dell’Ensemble di Musiche Possibili, con i quali ha pubblicato quindici album e tenuto oltre mille concerti in tutta Europa. Ha collaborato con artisti quali Violent Femmes, Lella Costa, Teresa De Sio, Ivano Fossati e Giorgio Gaber (è sua la fisarmonica nel brano Io non mi sento italiano). Parallelamente è cresciuto come tecnico del suono e produttore artistico, lavorando nel corso della carriera a più di 100 album. Dal 2013 vive in Ticino ed è entrato a far parte dei The Vad Vuc. Docente di fisarmonica presso l’Accademia Vivaldi di Muralto, collabora come tecnico del suono con il Teatro Paravento di Locarno e con l’associazione Locarno Folk. A settembre inaugurerà il suo studio di produzione musicale a Monte Carasso. Cartoline
Il nonno Armando Una mia immagine sul palco, inginocchiato di fronte a un bel pubblico. La spedisco a mio nonno, fisarmonicista e compositore, che in tempo di guerra alleggeriva l’anima della gente e dei suoi compagni a suon di musica. Per poter suonare era spesso costretto a nascondersi, ma fortunatamente dalla prigionia in Russia è riuscito a tornare, passo dopo passo, con la sua fisarmonica in spalla. Ti sono grato per avermi trasmesso questa grande passione, che è poi diventata la mia vita. Non ho potuto dirtelo di persona e quindi lo faccio ora: grazie di cuore, nonno Armando.
Dove e quando
Leoni e tori dall’antica Persia ad Aquileia, Aquileia (prov. Udine), Museo nazionale archeologico. Fino al 30 settembre 2016. www.museoarcheologicoaquileia.beniculturali.it o www. fondazioneaquileia.it Il musicista Fabio Martino.
Johann Sebastian Bach A costo di risultare monotono, a Bach spedisco l’immagine di una fisarmonica. Caro Giovanni Sebastiano, ho sempre considerato le tue composizioni geniali ed irraggiungibili. Con il tempo è nata in me una curiosità, diventata poi rammarico: quali brani meravigliosi avresti composto per fisarmonica, se solo fosse stata inventata un paio di secoli prima? Con il mio trio Ensemble di Musiche Possibili abbiamo voluto renderti omaggio trasponendo un tuo brano per fisarmonica, flauto e contrabbasso. Come ti è sembrato, da lassù? Robert Smith (leader dei The Cure) Disintegration dei The Cure è stato l’album che ha accompagnato l’inizio della mia carriera musicale. Scritto interamente da Robert Smith, per me è stato il ponte tra gli anni ’80 e i ’90 e le sue atmosfere intimiste, dark e malinconiche ben rappresentavano il mio stato d’animo: quello di un adolescente in balìa di tutti i suoi (in)comprensibili dubbi esistenziali. Così come il ricordo di quei momenti, conservo ancora il desiderio di poterti incontrare, Robert, anche solo per fare quattro chiacchiere e bere una birra insieme. Massimo Carlotto Una cartolina voglio inviarla a uno dei massimi esponenti della letteratura noir italiana contemporanea. I tuoi romanzi generano dipendenza, appena ne inizio uno non riesco a darmi pace finché non l’ho finito. Leggo mangiando, mentre passeggio, prima di dormire e in ogni minuto libero. Spesso, in sogno, mi ritrovo immerso in intrighi internazionali, intrecci improbabili e avventure mozzafiato che abitano le tue storie. Quando mi raccontasti la storia della tua vita capii definitivamente qual è la tua primaria fonte di ispirazione. Leggere Il fuggiasco per credere. francisco La mia ultima cartolina va a «francisco», il mio nuovo progetto musicale che debutterà in autunno, con il disco di esordio intitolato Truco Blues. In coppia con il mio brò, meraviglioso chitarrista e produttore Fabrizio Barale, ho fondato questa scatola musicale che raccoglie tutte le nostre idee, passioni, sogni e che rappresenta per noi il futuro. In questa cartolina c’è l’immagine di una lunga strada, che si perde all’orizzonte. L’augurio è quello di un bel viaggio, da fare rigorosamente con occhi, orecchie e narici aperte, assaporando appieno le meraviglie che la vita ci sa donare. E mi viene spontaneo congedarmi da voi con un augurio: lasciatevi sorprendere.
Parliamone di Simona Sala I treni di T2
In questi anni abbiamo visto molti prequel mentre alcuni blockbuster si sono trasformati in film a puntate con qualche variazione sul tema e attori di richiamo certo. Perché parlarne allora? Forse perché spesso, grazie ai sequel, ci rendiamo conto che è giunto il momento di (ri) vedere i film culto. Ma anche perché, a distanza di molti anni, al valore artistico iniziale di un film capita che se ne aggiungano altri, come quello storico o sociale. È il caso dell’annunciato T2 (liberamente tratto da Porno,
dello scozzese Irvine Welsh), ossia il sequel, a vent’anni di distanza, del celebrato Trainspotting. Gli attori, per la gioia di chi già nel 1996 in Ewan McGregor aveva intravvisto il grande futuro poi toccatogli, non sono cambiati. Alla regia c’è nuovamente Danny Boyle, i treni sono sempre quelli scozzesi e anche la «fame di vita», Lust for Life, nonostante tutto, sarà sempre la stessa, come ancora canta, sempre nervoso, Iggy Pop nel trailer. Per vedere cosa cambierà non resta che pazientare fino a gennaio del 2017.
Passione di Napoli
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Il nemico del cuore Avere un nemico aiuta. Tonifica i pensieri e li indirizza verso un unico bersaglio, contrastando la tendenza a disperderli in mille rivoli. Avere un nemico significa svegliarsi la mattina riflettendo sulle mosse migliori per neutralizzarlo e ogni sera fare un bilancio sull’efficacia di quelle azioni. Il problema perciò non è se convenga avere un nemico ma quale nemico convenga avere. Credo di avere trovato il nemico che fa per me, dopo anni di tentativi: il gambero rosso della Louisiana. Come tanti, ho sperimentato nemici molto popolari: lo spreco alimentare, il consumo del suolo, i test sugli animali dei prodotti di bellezza... Tutto finiva con l’adesione a un appello diffuso online. Non lo faccio più da quando ho saputo che il mio gesto disinteressato serviva a classificarmi nei Big Data, venduti al miglior offerente. Con il candidato alle elezioni pronto a inviarmi una mail personalizzata mettendo in primo piano nel suo programma la lotta allo spreco alimentare; a un altro firmatario di appelli di idee opposte alle mie lo stesso candidato scrive illustrando la
sua proposta di legge per insegnare ai bambini l’uso delle armi fin dall’asilo. Ora il nemico che fa per me ce l’ho. La sua scoperta è stata una vera e propria epifania in un giorno particolarmente afoso dello scorso mese di luglio sulle rive di uno dei sette laghi di origine glaciale ai piedi dell’anfiteatro morenico che si stende fra le città di Ivrea e di Biella, in Piemonte. Il lago di Candia è un parco naturale; alimentato da sorgenti sotterranee del monte Bianco, è lungo 2350 metri e largo 1800; sono vietati i motori a scoppio. Il battello ancorato a riva è mosso da un motore elettrico silenzioso: è bianco, rettangolare, ha la forma di una scatola da scarpe e il fondo piatto, ai quattro lati sono disposti dei comodi sofà; appartiene all’associazione «Vivere i parchi», formata da giovani laureati in biologia e in scienze naturali che organizzano visite guidate. Saliamo a bordo e, scivolando silenziosi sull’acqua, ci inoltriamo in quello che ai nostri occhi appare come un piccolo paradiso terrestre. La nostra guida, manovrando il battello, inizia a spiegare: sul lago, diventato una tappa
di sosta nelle rotte migratorie fra il Nord Europa e l’Africa, sono state censite 250 specie di uccelli. Disturbiamo un cormorano che inizia a correre sul pelo dell’acqua sbattendo furiosamente le ali: «le sue penne si impregnano d’acqua, è l’unico uccello acquatico che non secerne un grasso che le renda impermeabili, perciò deve ogni volta sbatterle per farle asciugare». Più in là ecco un airone cinerino mentre pesca, poi due folaghe: «maschio e femmina sono uguali ma loro per fortuna si vedono diversi». La voce della nostra guida rompe l’incanto: «un tempo tutta la superficie del lago era ricoperta da ninfee e da castagne d’acqua». Pausa. «Le ha mangiate lui, il nostro nemico mortale, il gambero rosso della Louisiana». A seguire una dettagliata descrizione delle sue armi: è onnivoro, ha la fortuna di non avere un predatore naturale, la femmina è l’unico crostaceo che trattiene sotto il ventre le uova fino a che non si schiudono, perciò i pesci non possono nutrirsene. È grande il doppio del nostro gambero d’acqua dolce e gli trasmette il
virus della «peste del gambero» di cui è portatore sano. Il pensiero corre ai nativi del Centro America decimati dai virus portati dagli europei conquistadores. Come ha fatto ad arrivare fin qui dagli Stati Uniti? Lo hanno importato per allevarlo. Secondo la versione più accreditata, si trovava nel lago di Massaciuccoli vicino a Massarosa, quando un’alluvione ha fatto sversare le acque e il gambero ha iniziato a diffondersi in giro per l’Italia. Come fa un gambero ad arrivare dalla Toscana al Piemonte? Eravamo rimasti all’idea, dai giochi infantili, che il gambero cammina all’indietro: «Regina, reginella, quanti passi devo fare?». Se lei rispondeva: quattro da gambero, si retrocedeva di quattro passi. Invece questo della Louisiana può stare molto tempo fuori dall’acqua, si nutre di tutto, viaggia tranquillo nelle fogne, scava nidi nel fango. Una soluzione ci sarebbe, farlo diventare un oggetto del desiderio gastronomico; siamo riusciti a sterminare il tonno rosso, cosa ci vuole a promuovere la grigliata di gambero rosso della Louisiana? Troppo tardi,
sono stati vietati l’allevamento e il commercio perché la carne può contenere tossine pericolose per l’uomo. È da presumere che gli allevamenti siano stati smantellati buttando nelle acque più vicine il gambero diventato immangiabile. Questa storia ci appassiona: possibile che non ci sia un animale ghiotto di gamberi rossi? Ci sarebbe l’anguilla ma la Regione Piemonte vieta di introdurre anguille nei laghi. Perfetto sarebbe l’alligatore ma chi ha il coraggio di proporre l’immissione di una coppia di coccodrilli? Non mancano le nutrie, altro animale importato e senza predatori, che scavando tane sugli argini li fa crollare. Ci sono poi le tartarughe gettate nel lago dalle famiglie che le avevano comprate a Natale e ora se ne disfano per andare in vacanza. In questo caso per fortuna le cornacchie mangiano le uova delle tartarughe. Quello che credevamo all’inizio del viaggio un eden pacificato si è rivelato un teatro di feroci lotte di sopravvivenza. Forse sarebbe stato meglio per noi ignorare cosa succede sotto il pelo dell’acqua.
depositi della neve e ai serbatoi della grandine? E dunque: puoi tu catturare il Leviatano? (che si deve intendere come un primordiale fortissimo coccodrillo) Nessuno ha mai penetrato la sua doppia corazza, ha mai aperto i battenti della sua bocca attorno ai suoi denti terrificanti, «davanti a lui ogni sicurezza viene meno, al solo vederlo si resta abbattuti». Questo è lo Stato di Hobbes, un essere in grado di spaventare, padrone e giudice degli uomini, così costretti a obbedire e a trattenere l’istinto rapace. Sono trascorsi da allora quasi quattrocento anni, nel mondo ci sono ancora Leviatani, molti si radunano verso est, per esempio a Istanbul o a Mosca. Ma abbiamo nel frattempo trovato altre forme di governo, imperfette, sempre a rischio, che prevedono la partecipazione dei cittadini, la salvaguardia di diritti basici, che tendono a un miglioramento. Abbiamo anche scoperto che non si nasce cattivi, che lo si diventa, perché l’istinto predatore, che
appartiene nel profondo alla nostra natura animale, è solo uno degli istinti, che la ragione e la volontà possono decidere se esaltare o reprimere a favore di altri atteggiamenti: la cura, l’empatia, la collaborazione. Non è vero che «il mondo va così, è sempre andato così, cambia solo il titolo di chi comanda i sottoposti», come si sente dire da chi desidera scrollarsi dalle spalle ogni coinvolgimento, per potersi dare a una vita di spensierato godimento, peraltro pallida copia delle esagerazioni di calciatori e figlie di albergatori. Nella melassa liquida che rende tutto questo mondo vicino e lontano, connesso e però sfuggente, perché tutto scivola via, si sente il bisogno di qualcuno che sappia puntare i piedi, opporsi al morbido e nauseante abbraccio di chi vuole che noi ci si lasci solo andare, deponendo la libertà ai piedi di chi ci vuole convincere che, intanto, non l’abbiamo mai avuta, quella libertà, perciò smettila di puntare i piedi, lasciati andare.
di materiali edili del Kazakistan, la Sagra dell’Aragosta di Siena e la Fiera dell’Astice del Maine. Tutte rigorosamente in contemporanea con il Salone del Libro di Torino (e di Milano). Purché non si parli di libri. La condizione che hanno posto gli organizzatori del nuovo Salone milanese e i grandi editori è che nei numerosi incontri con personaggi pubblici, scrittori e intellettuali non si parli assolutamente di libri per non compromettere l’affluenza. Si parli di politica, di riforme costituzionali, di cronaca nera, di femminicidio, di social media, di tecnologia, di migrazioni, di cinema, di televisione, di teatro, di calcio, ma per carità non di libri, di cultura, di letteratura perché non sarebbe giusto annoiare il pubblico con argomenti sgraditi. È il modello dei festival di letteratura di maggior successo: invitare attori, cabarettisti, cantanti, ballerini, giornalisti, politici, imprenditori, e scrittori
solo a patto che non rompano le scatole con le loro storie. O meglio, accennino pure alle loro storie purché siano uno spunto per passare immediatamente ad altro. Scoraggiare il potenziale lettore dall’acquisto e soprattutto dalla lettura è la strategia. Scoraggiarlo dal frequentare le librerie. Non servono. L’anno scorso, presentando un mio libro in un festival letterario nel Lazio, il presentatore ha aperto l’incontro con questa ammissione: «Non ho letto il tuo libro ma lo leggerò presto: volevo comunque farti qualche domanda…». Non so che cosa mi abbia trattenuto dall’andarmene, ma poi in fondo le domande erano abbastanza oneste e pertinenti. Come, alla fine, quelle del pubblico, che ovviamente del libro non sapeva nulla né forse aveva voglia di saperne. I saloni, le fiere, i festival del libro sono, da trent’anni, un buon metodo (molto riuscito) per risparmiare al possibile lettore la fatica di andare in libreria o, per carità, di leggere.
Postille filosofiche di Maria Bettetini Puntare i piedi per la libertà Il contrasto in estate si nota ancora di più. Scorrete un sito di news, con le sue foto. Naufragi, efferatezze, bambini maltrattati, femmine uccise. Mannaie nello zainetto, pistole in mano a squilibrati, morti, incidenti. Poi: festa per i settant’anni dell’attrice romana, matrimonio tra due politici, il calciatore anzianetto va a giocare in Cina ma prima deve sbancare il casinò di Ibiza, a proposito, i cinesi non intendono pagare più di settanta milioni per quell’altro calciatore. Gente che balla, gente che beve, anche quando l’età non è più o non ancora adeguata. Che noia, direte, dov’è lo scandalo? Da sempre i ricchi piangono meno dei poveri e danno al popolo ghiotte immagini di esagerazioni, così per distrarli. Da sempre qualcuno balla e beve su uno yacht, e altri, in quelle stesse acque, sono arrivati su una zattera, un gommone, o hanno faticosamente pescato con le reti. La differenza, si dice sbrigativamente per chiudere lo spinoso argomento, sta nel fatto che noi,
adesso e sempre di più in futuro, vediamo più cose e più in fretta, sappiamo di più, quindi ci sembra che il mondo sia più brutto e cattivo perché ne abbiamo più prove, e saltano agli occhi con maggior forza i contrasti tra i capricci delle starlette e la fatica di vivere delle madri africane, siriane, di tante nazionalità; tra i vizietti del ricco di famiglia ciccione e la fame di chi non ha mai avuto e mai avrà problemi di linea, perché per ingrassare si deve mangiare. Ora lo vedi su tanti schermi e tutto il giorno, ora ti senti più in colpa. Ma non è colpa di nessuno, così va il mondo eccetera. E no! Questa storia della jungla, dell’homo homini lupus non basta più. Non è vero che siamo delle bestie, i cui istinti predatori vengono solo arginati e controllati dalle regole sociali e dalle leggi. Così voleva Thomas Hobbes, tra XVI e XVII secolo, ma: il filosofo politico aveva allora tutti i diritti per cercare soluzioni alla cattiveria del mondo, mentre gli Stati si sopraffacevano l’un
con l’altro, e tante conquiste erano di là da venire. Diritti umani, libertà di scelta religiosa e civile, bene comune, parole ancora non ascoltate. Però quest’uomo, nato matematico come quasi tutti i filosofi a lui contemporanei, una soluzione la seppe trovare. Noi possiamo, forse dobbiamo, storcere il naso davanti al Leviatano (1651), metafora di uno Stato assoluto e inviolabile, padrone di vita e di morte del cittadino, emanatore di leggi indiscutibili. Il Leviatano è una figura mostruosa (e anche un po’ misteriosa) che compare nel Libro di Giobbe. Dopo che il povero Giobbe ha inveito contro l’esser nato, prostrato dalle prove divine, Dio stesso interviene e gli descrive le potenze della natura, precedute dalla domanda retorica «eri tu presente» mentre io ponevo le fondamenta della terra, chiudevo tra due porte il mare? Hai mai passeggiato nel fondo dell’abisso, sai dove dimorano le tenebre per ricondurle dentro i loro confini, sei mai giunto ai
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Torino o Milano, purché non si legga Una appassionante discussione (2) ha accompagnato il mese di luglio, tale da renderci ansiosi di correre in edicola, tutte le mattine sotto il sole cocente dell’estate, per impossessarci della nuova puntata. Il tema era il seguente: il Salone del Libro deve rimanere a Torino o trasferirsi a Milano? Capirete che sono di quegli argomenti arrovellandosi sui quali il cittadino (italiano e forse europeo), assalito dall’angoscia, non dorme la notte. Infatti, in corrispondenza di questa irresistibile querelle, la vendita di tranquillanti e neurolettici ha registrato un picco storico. Milano o Torino? Torino o Milano? Lingotto o Rho Fiera? Rho Fiera o Lingotto? Sindaci, presidenti regionali, ministri, assessori, direttori, ex direttori, vertici politici ed editoriali, scrittori hanno fatto sentire la loro voce difendendo l’una o l’altra sede. Il Salone di Torino a Milano? Già, ha detto qualcuno, sarebbe come spostare la Mole all’ombra della Madonnina e il
Colosseo a Cremona. Fatto sta che Milano ha vinto. L’Associazione degli editori (1) ha deciso che, dopo quasi trent’anni di fiducia al capoluogo piemontese, darà il suo sostegno alla Fiera di Rho. E se il Salone di Torino (5-) continuerà, come sembra, a vivere, quello di Milano si farà in contemporanea, a maggio. Così avremo due fiere editoriali nella stessa settimana o quasi a 150 chilometri di distanza. Del lettore non importa niente a nessuno: si sdoppi, se vuole, altrimenti vada alla Fiera Internazionale della Zootecnica a Foggia o del Marmo di Carrara che si tengono più o meno nello stesso periodo di maggio. Si sarebbero scorticati vivi, i grandi gruppi editoriali (Longanesi, Mondadori-Rizzoli…), pur di avere a Milano la loro fiera. I piccoli si sono dissociati, alcuni si sono dimessi dall’Associazione degli Editori (Aie) per manifestare la propria contrarietà. Il trasloco forzato a Milano è stato accolto come uno scippo
e soprattutto come un atto di protervia: a Torino i piccoli editori si sono sempre sentiti rispettati e ben rappresentati con i loro spazi. A Milano chi lo sa. Il timore è che la Fiera di Milano diventi una mega bancarella del bestseller come già è la gran parte delle librerie italiane: entri e vieni travolto dai titoli che già sono in classifica. Il resto è introvabile e lo sarà per sempre. Dunque, il Salone di Torino a Milano. Se avrà successo, pare che a Milano si trasferiranno anche, nei prossimi anni: la Buchmesse di Francoforte, la London Book Fair, il Salon du Livre di Parigi, la Fiera del Libro del Cairo, quelle di Teheran, di Hong Kong, di Città del Messico, di Taipei, di Guadalajara, di Buenos Aires, le Giornate Letterarie di Soletta, il Festival del Cinema di Locarno, la Fiera francese del Cavallo, la Fiera del Bovino da Latte di Cremona, la Fiera di Elettronica e Informatica degli Emirati Arabi, la Fiera della Calzatura di Tokio, quella
Ricetta e foto: www.saison.ch
Polpette al sugo Piatto principale per 4 persone Ingredienti 1 cipolla, 1 salsiccia di maiale, per. es. luganighetta di 200 g, 400 g di carne macinata di manzo, 1 uovo, sale, pepe, paprica dolce, 2 cucchiai d’olio di colza HOLL, 1 scatola di pelati triturati di 280 g, ½ mazzetto di timo
20% 4.80 invece di 6.– Pomodori tritati Longobardi in conf. da 6 6 x 280 g OFFERTA VALIDA SOLO DAL 9.8 AL 15.8.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
Preparazione Tritate grossolanamente la cipolla. Incidete la salsiccia per il lungo ed estraete la carne. In una scodella mescolate la metà della cipolla con la carne della salsiccia, la carne macinata e l’uovo. Condite l’impasto con sale, pepe e paprica. Con le mani inumidite, formate delle polpette di ca. 50 g. Scaldate l’olio in una padella. Rosolatevi bene le polpette a fuoco medio per ca. 5 minuti. Unite la cipolla restante e rosolate brevemente. Unite i pelati e la metà del timo. Lasciate sobbollire a fuoco basso per 10 minuti. Condite il sugo con sale e pepe. Guarnite con le foglioline di timo restanti. Tempo di preparazione ca. 40 minuti Per persona ca. 30 g di proteine, 37 g di grassi, 5 g di carboidrati, 1900 kJ/460 kcal
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shopping Un Ticino a stelle e strisce
Mostra fotografica Dal 9 al 20 agosto il Centro S. Antonino
ospita una serie di scatti della giovane fotografa Flavia Leuenberger incentrati sull’emigrazione ticinese negli Stati Uniti
Soledad, California, 2015. (Flavia Leuenberger)
“La mostra presenta una serie di miei ritratti a famiglie di discendenti ticinesi emigrati tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento. Le fotografie sono state realizzate durante due viaggi negli Stati Uniti, nel Montana e in California. Questa idea è nata inizialmente da una vacanza. Nel 2013 avevo infatti in programma un viaggio negli Stati del Nord America e, vista l’occasione, volevo trovare una tematica fotografica da portare e proporre in Ticino al mio rientro. Lavorando come freelance spesso ci si deve infatti creare il lavoro o i progetti. Successivamente ho proposto il servizio al settimanale «Ticinosette», che ha deciso di pubblicarle. L’esperienza del 2013, dove ho fatto tappa nel Montana, è stata molto interessante, e infatti a distanza di 2 anni ho voluto riprendere in mano il progetto e concentrarmi stavolta prevalentemente
sulla California. Cosicché l’anno scorso ho avuto modo di incontrare diverse famiglie che con entusiasmo mi hanno aperto la porta di casa per raccontarmi le loro storie. Le fotografie rappresentano l’ultima parte del progetto, in quanto nei mesi precedenti alla mia partenza mi sono dedicata alla ricerca delle persone, un po’ rintracciando famiglie con i cognomi che leggevo sui volumi di Giorgio Cheda (quelli in cui vengono raccolte le lettere che gli emigrati scrivevano alle loro famiglie rimaste in Ticino) e un po’ facendo ricerche su internet. In seguito ho spedito un centinaio di lettere a queste famiglie sperando che qualcuno aderisse al progetto. Coloro che hanno risposto si sono dimostrati molto entusiasti e orgogliosi di poter raccontare le sfide che dovettero affrontare i propri familiari nella nuova terra. Entrando nelle loro case sono rimasta colpita dalle
Tempo di grigliate: le salsicce Serie I consigli dell’esperto Senza dubbio la luganighetta la fa da padrona, seguita dalle luganighe, ma anche le specialità d’oltralpe sono molto apprezzate, in primis i bratwurst di vitello ed i cervelat. Inoltre c’è gente che in autunno congela i cicitt di capra per gustarseli alla griglia durante l’estate.
prodotto, a tal punto che ogni volta prima di metterla sulla griglia mi tolgo lo sfizio di mangiarne un boccone crudo! Quest’anno si è aggiunta la salsiccia al whiskey nella mia classifica delle preferite: essendo un appassionato di questo distillato ho trovato l’abbinamento con la salsiccia un’ottima idea, un connubio davvero azzeccato!
Cosa propone l’assortimento di Migros Ticino?
Come si ottengono delle salsicce perfette sul grill?
Abbiamo un vasto assortimento di salsicce per tutte le esigenze e i palati. Oltre a quelle già citate, abbiamo in assortimento pure la cipollata con pancetta, delle ottime salsicce di maiale al whiskey, i cervelat con formaggio Appenzeller e la salsiccia con pepe della Vallemaggia, giusto per citarne alcuni. Inoltre per la clientela che preferisce evitare la carne di maiale abbiamo le varianti con carne di pollo svizzera.
Bisogna cuocerle a fuoco piuttosto sostenuto. Siccome sono già saporite, non è necessario condirle. Il tempo di cottura varia dal tipo di salsiccia: un bratwurst in una decina di minuti è pronto, la luganighetta cotta a me piace piuttosto croccante, quindi la lascio sulla griglia anche venti minuti, finche è ben abbrustolita e si forma una crosticina marrone molto saporita. Un consiglio in generale: tenete sempre d’occhio la griglia, girando regolarmente le salsicce con una pinza, in modo da non bucarle, ed evitate il contatto diretto con la fiamma qualora dovesse attizzarsi a causa del grasso che fondendo cola sulla brace.
Patrick Dodi, quali sono le salsicce più apprezzate dai ticinesi?
Qual è la sua salsiccia preferita?
Mi aggrego alla maggioranza dei ticinesi prediligendo la luganighetta. Mi piace la speziatura caratteristica di questo
Patrick Dodi, responsabile assortimento carne e salumeria Migros Ticino.
La fotografa Flavia Leuenberger.
molteplici manifestazioni d’affetto verso la Svizzera, evidenziate dalla presenza di elementi come oggetti e richiami ticinesi all’interno di un contesto americano. Circa 27mila ticinesi sono emigrati in California per lavorare come mungitori di mucche o rancieri. Molti di loro sono poi diventati proprietari terrieri, come molte delle persone che ho incontrato. Questo progetto fotografico è tuttora in corso, sono infatti appena tornata da un altro viaggio negli USA dove anche questa volta ho avuto l’occasione di far visita a due famiglie”.
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Idee e acquisti per la settimana
Migros Sementina premia!
Nuova pasta Delverde
Premiazione Festeggiata la vincitrice del concorso indetto
in occasione dell’apertura del nuovo negozio Migros di Sementina
Da sinistra, Stefano Scricciolo (Responsabile merceologico SportXX per il Ticino), la fortunata vincitrice Donatella Guidotti e Stefano Barbi (Responsabile Migros Sementina). (Giovanni Barberis)
È Donatella Guidotti di Monte Carasso la vincitrice della magnifica E-Bike del valore di 2’980 franchi, premio unico messo in palio in collaborazione con SportXX Migros in occasione del concorso che, lo scorso 7, 8 e 9 luglio, ha
caratterizzato il “lancio” della nuova filiale Migros di Sementina; un negozio di paese che sin dalle prime ore dall’apertura ha riscontrato un alto grado di apprezzamento da parte della clientela. Su una superficie di vendita di circa 280
metri quadri, questo nuovo punto vendita sta rispondendo egregiamente alle necessità della spesa quotidiana. Ricordiamo che esso è aperto dal lunedì al venerdì dalle ore 8.00 alle 18.30, mentre il sabato fino alle 18.00.
Il biscotto dei bambini
Il già noto assortimento di pasta Delverde di Migros Ticino si amplia con un formato particolarmente apprezzato con i sughi più saporiti: le fettuccine a nido all’uovo. Come tutta la pasta Delverde, anche le fettuccine sono fatte secondo la grande tradizione pastaia abruzzese. I grani migliori sono trafilati al bronzo ed essiccati lentamente a bassa temperatura affinché la pasta possa acquisire la tipica ruvidezza e un inconfondibile gusto
delicato al palato. Non da ultimo, per la lavorazione della pasta Delverde utilizza pura e preziosa acqua di sorgente del fiume Verde, situato all’interno del Parco nazionale della Maiella. L’azienda italiana è infatti l’unico pastificio ubicato in un parco naturale. Delverde Fettuccine a nido all’uovo 250 g Fr. 1.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros
All’aria aperta senza zanzare Antisciaridi 9 compresse Fr. 9.50 In vendita da Do it + Garden Migros
Ricco di importanti vitamine e sali minerali, prodotto in Italia con ingredienti attentamente selezionati e controllati, privo di coloranti, conservanti e uova: queste sono le caratteristiche del celebre biscotto Plasmon. Indicato per bambini a partire dal
sesto mese di età compiuto, è friabile al punto giusto e possiede un gusto inconfondibile. Inoltre si scioglie facilmente nel latte e in bocca, aspetto fondamentale nelle prime fasi dello svezzamento. Fin dalla sua fondazione, nel 1902, Plasmon accompagna il
bambino nelle diverse fasi di crescita grazie a prodotti nutrizionalmente adatti al suo fabbisogno. Plasmon Biscotti dal 6° mese 360 g Fr. 4.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Grazie al trattamento biologico specifico contro gli sciaridi e le zanzare potrete godervi pienamente le serate estive in giardino o sul terrazzo. Questo prodotto sotto forma di compresse combatte efficacemente le larve degli insetti in modo duraturo. I batteri attaccano solamente le larve nocive senza intaccare altri esseri viventi. Il suo utilizzo è semplice: come antisciaridi,
sciogliere 1 compressa ogni litro d’acqua d’annaffiatura. Ripetere dopo 14 giorni. Contro le zanzare: all’arrivo delle prime zanzare trattare le superfici d’acqua all’aperto sciogliendo 1 pastiglia ogni litro d’acqua. Un trattamento basta per 25m2. Ripetere l’operazione dopo 14 giorni. Prima dell’uso leggere attentamente le indicazioni riportate sul prodotto.
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Exelia
sugli ammorbidenti Green Spring, Blue Splash e Tropical Fresh fino al 15 agosto
Per una biancheria super morbida I tre nuovi ammorbidenti Exelia si presentano in veste sgargiante. Conferiscono al bucato una gradevole morbidezza, regalandogli al contempo un intenso profumo. Tropical Fresh è la variante esotica dalla freschezza fruttata al profumo di pesca, frutto della passione, mela, pompelmo rosa e gelsomino. Particolarmente fresco e frizzante è l’ammorbidente Blue Splash con la sua profumazione a base di limone, mela, pesca, gelsomino, rosa e legno di cedro. Infine, un guardaroba dall’inconfondibile fragranza primaverile è garantito dalla variante Green Spring al mughetto, mandarino e fiori acquatici.
Exelia Green Spring 1 l* Fr. 6.50
Exelia Blue Splash 1 l* Fr. 6.50
Foto Getty Images
Azione 20X Punti Cumulus
Exelia Tropical Fresh 1 l* Fr. 6.50
*Nelle maggiori filiali L’M-Industria produce numerosi prodotti Migros, tra cui anche gli ammorbidenti Exelia.
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Il filetto di manzo è davvero tenero.
Questo è un uomo baciato dalla fortuna!
Tesoro, nessuno ti griglia la carne e la verdura come me. Lo sai, vero, che sono il maestro del grill!
La carne sembra eccellente. Cosa prendiamo?
Il capo-macellaio del bancone della carne presenta a Simon le tante specialità e lo consiglia.
Fabian Kühne della Migros di Burgdorf (BE) consegna a Simon le carte regalo.
Le auguro una stupenda festa di matrimonio. Buon appetito!
Gli spiedini torcette marinati con le spezie sono già pronti per la griglia.
I buoni-acquisto bastano per tutta la spesa.
Già pregusto la tenerezza di questa carne.
Mmmm… mi viene l’acquolina in bocca!
Una coppia di «fortunelli»: ha iniziato Sandra vincendo un viaggio in Finlandia, durante il quale Simon le ha chiesto la mano. Poi lui stesso ha vinto la carne e gli ingredienti per la festa di matrimonio. Maggiori informazioni su: www.laveraestate.ch
Concorso grigliate
Sposati alla fortuna Il 23 giugno Sandra (27 anni) e Simon (29) di Ersigen (BE) si sono detti il fatidico «sì». Lo stesso giorno hanno celebrato il loro matrimonio con una festa in giardino fra pochi intimi. La fortuna ha voluto anche che vincessero la grigliata del valore di 450 franchi in palio al concorso «La vera estate» della Migros. Proprio quel che ci voleva per invitare i loro familiari a festeggiare con loro questo momento di felicità Testo Sonja Leissing; Foto Marco Zanoni
Poi facciamo un altro giro!
Che grigliata geniale! Un brindisi all’amore.
Vincitori
Vincere una grigliata Nell’ambito della campagna «La vera estate», la Migros ha estratto a sorte 10 grigliate, ognuna del valore di 450 franchi. Ci congratuliamo con: ¶ ¶ ¶ ¶ ¶ ¶ ¶ ¶ ¶ ¶
Simon K., Ersigen BE Veronika H., Oberkirch LU Corinne B., Bülach ZH Tobias M., Münchenstein BL Pierre B., Nyon VD Nadja W., Appenzello Alessandro P., Ascona TI Christophe B., Sion VS Sophie M., Cottens FR Giovanna F., Carouge GE
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1 Gamberetti con salsa di pomodoro e limetta Preparare una salsa mescolando dadini di limetta, cipolle, pomodorini cherry di vari colori, coriandolo e prezzemolo tritati; aromatizzare e servire coi gamberetti.
Prodotti della pesca sostenibili
Bontà dalle profondità marine
2 Insalata di calamari Scongelare gli anelli di calamaro, tagliare a pezzi quelli più grandi. Cuocere delle patate a dadini, alla fine cuocere assieme gli anelli di calamari per un paio di minuti. Scolare e condire a caldo con succo di limone, olio d’oliva e olive; mescolare e aromatizzare. Guarnire con finocchio crudo finemente affettato, scorze di limone e pepe grezzo.
1
3 Tonno su pane croccante Tostare delle fette di pane, ricoprirle con foglie d’insalata e sistemarvi sopra l’insalata di tonno. Decorare a piacere con erbe aromatiche, pomodorini cherry e anelli di cipolla.
4
4 Spaghetti con frutti di mare Scongelare i frutti di mare e asciugarli. Rosolare aglio e frutti di mare in olio d’oliva e aromatizzare. Versare sugli spaghetti cotti assieme ad abbondante prezzemolo liscio.
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3
5 Bocconcini di salmone affumicato con olio di erba cipollina Sistemare i bocconcini su fette di pumpernickel tagliate a rondelle. Pestare finemente nel mortaio erba cipollina tagliuzzata, olio d’oliva e poco Fleur de sel e servire con ibocconcini.
Testo Heidi Bacchilega
5
Da anni gli esperti magnificano i vantaggi del pesce dal punto di vista specificamente alimentare, mentre gli ambientalisti lanciano avvertimenti a proposito della pesca eccessiva che starebbe svuotando gli oceani. Nutrirsi in modo equilibrato e rispettoso delle risorse non è sempre semplice. Pesci e frutti di mare andrebbero considerati delle prelibatezze da inserire solo sporadicamente nel menu. Pro-
prio adesso, nella stagione estiva, la cucina a base di pesce offre un’alternativa gustosa e leggera alla carne. Chi acquista pesce fresco, frutti di mare e altri prodotti a base di pesce badando al marchio di sostenibilità non rende un servizio solo al suo benessere, ma anche all’ambiente. Già oggi il 99 per cento di tutti i pesci e i frutti di mare venduti alla Migros provengono da fonti sostenibili.
MSC è simbolo di pesca certificata, sostenibile. I pesci e i frutti di mare provengono sempre da pesca selvatica.
Migros Bio è simbolo di un allevamento di pesce rispettoso della natura, sostenibile, controllato e certificato da istituti indipendenti.
Migros Bio Gamberetti cotti per 100 g Fr. 5.50
Sélection Bocconcini di salmone affumicato per 100 g Fr. 5.90
Costa Anelli di calamari cotti surgelati, 500 g Fr. 8.40
Costa Miscela di frutti di mare cotti surgelati, 500 g Fr. 9.50
Mimare MSC Insalata di tonno Mediterranea 225 g Fr. 3.20
Parte di
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Cibi avanzati
Piatti rigenerati
Gli avanzi di pesce cotto, verdure grigliate e frutta troppo matura si possono trasformare facilmente in nuove pietanze.
Tutti sono ormai sazi e sul tavolo restano frutta, verdure grigliate e interi tranci di pesce cucinato. Cosa fare di questi avanzi? Vi mostriamo come trasformarli in gustosi stuzzichini e frappè
Suggerimenti
1+2
Di nuovo in tavola La frutta troppo matura è adatta per preparare croccanti torte streusel e crostate o anche composte calde, che si possono guarnire a piacimento con zenzero grattugiato o baccelli di vaniglia. I frutti di bosco riscaldati forniscono un aroma particolare alla Panna cotta.
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Crostini con quark alle verdure grigliate Aperitivo per 4 persone Ingredienti 12 fette di pane di ca. 20-25 g ciascuna ca. 200 g di verdure grigliate, ad es. zucchine, peperoni, pannocchie di granturco ca. 120 g di quark, formaggio fresco o ricotta sale, peperoncino di Cayenna o pepe 150-300 g di carne grigliata, ad es. bistecche di maiale o spiedini ½ mazzetto di erbe, ad es. basilico oppure origano
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Testo Sonja Leissing; Foto Lukas Lienhard; Illustrazione Rahel Eisenring; Ricette Janine Naininger
2
Preparazione Tostate le fette di pane. Tagliate le verdure a dadini e mettetene da parte alcuni. Mescolate il resto con il quark. Condite con sale e pepe. Tagliate la carne a fettine sottili. Spalmate il quark alle verdure sul pane. Farcite con il resto dei dadini e le fettine di carne. Guarnite con le foglioline di erbe aromatiche e servite.
Tempo di preparazione ca. 20 minuti
La verdura grigliata si può trasformare in un antipasto mediterraneo, mischiandola con olio d’oliva, succo di limone e aglio spremuto. Tagliate a fette sottili, le zucchine e le melenzane si possono usare in insalata o per farcire le frittate. La verdura cotta si conserva in frigorifero per due giorni. Gli avanzi di carne cotta come i petti o le cosce di pollo sono indicati per farcire wraps e burritos. Con una forchetta sfilacciate per il lungo la carne con la pelle. Poi mischiatela con guacamole e fette di pomodori, infine spalmatela su una tortilla che avvolgerete su se stessa. I pezzetti di bistecche di manzo sono una leccornia nell’insalata. Un trancio d’arrosto di vitello affettato molto sottile si trasforma in carpaccio. E cosparso di salsa al tonno diventa un vitello tonnato.
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Frappè alla frutta Per ca. 6 dl Ingredienti ca. 300 g di bacche o di frutta matura ca. 1 dl di latte o di gelato, ad es. di vaniglia 0,5-2 dl di succo di frutta
Preparazione Pulite la frutta e, se necessario, tagliatela a pezzettini. Mettetela in un misurino insieme con gli altri ingredienti e frullate. Servite a piacere il frappè con cubetti di ghiaccio.
Tempo di preparazione ca. 20 minuti
Parte di
Ricette di Su www.generazione-m.ch/cucinare-con-gli-avanzi troverete un video con le istruzioni per queste e altre ricette con i resti di cibo.
www.saison.ch
Generazione M rappresenta l’impegno della Migros a favore della sostenibilità.
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Cartoleria
Imparare diventa facile
Penne biro blu, 10 pezzi Azione 50% di sconto Fr. 3.15 invece di 6.30 Fino a esaurimento scorte Il quaderno speciale con la linguetta mobile è un ausilio utilissimo per imparare nuovi vocaboli in un’altra lingua.
L’ampio assortimento di cartoleria offre tutto l’occorrente per la quotidianità scolastica. Con lo schedario o il quaderno speciale, imparare a memoria diventa facile ed efficace. Nel quaderno speciale si scrivono i vocaboli nella lingua madre e in quella straniera nelle rispettive colonne. La linguetta mobile, impenetrabile allo sguardo, permette di interrogarsi senza l’aiuto di altre persone. Se un vocabolo non vuol proprio saperne di restare in mente, c’è un trucchetto: scriverlo su un post it e incollarlo in un posto dove ci si sofferma spesso.
Quaderno speciale A5, FSC, 70 fogli Fr. 7.90
Post it 76 x 76 mm, FSC, 4 colori da 50 fogli Fr. 2.90
Schedario A8, FSC, 200 pezzi Fr. 2.40
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Handymatic
Brillantezza garantita Oltre alle tabs, alla polvere e al gel, Handymatic propone ulteriori prodotti ideali per la cura della lavastoviglie e delle stoviglie. Ne fanno parte tra l’altro il sale rigenerante e il brillantante. Anche chi utilizza i prodotti «All in one», con una durezza dell’acqua di oltre 35°fH* non dovrebbe rinunciare ad aggiungere del sale rigenerante e del brillantante. Come novità ora esiste il brillantante Supreme che, grazie al maggiore contenuto di tensioattivi, risulta ancora più efficace. *Durezza dell’acqua nella vostra regione: www.trinkwasser.ch
Foto Heiko Hofmann
Evitano le macchie d’acqua sulle stoviglie: i brillantanti Handymatic.
Handymatic Brillantante Classic 500 ml Fr. 3.50 Ancora più potente, asciuga velocemente le stoviglie e neutralizza gli odori Handymatic Brillantante Supreme 500 ml Fr. 4.50 Nelle maggiori filiali
L’M-Industria produce molti prodotti Migros, tra cui anche Handymatic.
Assicura pulizia e igiene utilizzandolo regolarmente tutti i mesi Handymatic Prodotto trattante 250 ml Fr. 7.20
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Manella
*Azione 20% sui detersivi per stoviglie Manella, edizione speciale “Bella Italia”, confez. Tripla fino al 22 agosto
Rigovernare all’insegna dell’italianità I nuovi detersivi per stoviglie dell’edizione speciale «Bella Italia» ricordano non solo visivamente i nostri vicini del sud. Grazie alle loro proprietà pulenti e sgrassanti assicurano pulizia e lucentezza a bicchieri, piatti, pentole e posate. Inoltre, con i loro profumi fruttati, portano una nota mediterranea in cucina. L’edizione speciale limitata annovera le varianti «Mela Verde», «Pesca Bianca» e «Anguria». I detersivi per stoviglie Manella sono delicati sulla pelle e a pH neutro.
Manella Bella Italia Pesca Bianca Trio 3 x 500 ml Fr. 7.40* invece di 9.30
Manella Bella Italia Anguria Trio 3 x 500 ml Fr. 7.40* invece di 9.30
Manella Bella Italia Mela Verde Trio 3 x 500 ml Fr. 7.40* invece di 9.30
L’M-Industria produce molti prodotti Migros, tra cui anche i detersivi per stoviglie Manella.
I detersivi Manella facenti parte dell’edizione speciale «Bella Italia» sono limitati in una confezione da tre pezzi, disponibili in una sola varietà oppure assortiti.
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Blévita
Per quel certo languorino Con l’ultima creazione di Blévita i cracker alla spelta si arricchiscono di un irresistibile ripieno di crema alle nocciole e al cacao. Questa varietà va a completare la linea Sandwich del marchio Migros. Nuovi sugli scaffali sono pure i Blévita Crispy’s. Questi snack croccanti sono disponibili nella versione vegana Spelta-Quinoa come pure in quella particolarmente saporita Formaggio-Semi di zucca. Le tre novità sono lo spuntino ideale quando si è fuori casa e comincia a farsi sentire un certo languorino. Confezionate in modo pratico, sono ricche di fibre e forniscono energia all’organismo.
Azione 20X Punti Cumulus
Blévita Sandwich Cioccolato/Nocciole 4 x 60 g* Fr. 5.30
per le novità Blévita fino al 15 agosto
Blévita Crispy’s Spelta & Quinoa 110 g* Fr. 2.60
Anche in nuovi Blévita non contengono né coloranti né conservanti.
Blévita Crispy’s Formaggio & Semi di zucca 110 g* Fr. 2.60
*Nelle maggiori filiali
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Anna’s Best
Ma con Hummus, per favore! Avete in programma un bell’aperitivo estivo all’aperto? Anna’s Best vi offre allora tutto quello che occorre per portare in tavola irresistibili intingoli e bocconcini. Come novità, la selezione di specialità mediterranee e orientali è completata da un Hummus al gusto di curry e una leggera nota di aglio. Questa mousse a base di ceci è particolarmente apprezzata con della focaccia oppure degli stick di verdura cruda. Completata con olive marinate, altre varianti di Hummus, guacamole, pomodori secchi e tapenade, la scelta di aperitivi sarà gustosamente ricca e varia.
Grazie al variegato assortimento di antipasti Anna’s Best ce n’è per tutti i gusti.
In Medio Oriente la nutriente purea di ceci viene servita quotidianamente. Pasta di sesamo, olio d’oliva e succo di limone le conferiscono una consistenza cremosa. Come condimento si utilizza aglio, cumino e paprica. L’Hummus è ottimo anche spalmato sul pane.
Anna’s Best Vegi Hummus Curry 175 g Fr. 3.60 Nelle maggiori filiali
Anna’s Best Vegi Hummus Nature 175 g Fr. 3.40
Anna’s Best olive con formaggio morbido 150 g Fr. 4.30
Anna’s Best Vegi Guacamole 200 g Fr. 3.70 Nelle maggiori filiali
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Idee e acquisti per la settimana
Bella Italia – Rio Mare
O Tonno mio! Con il tonno si possono preparare rapidamente piatti raffinati, come il vitello tonnato e i crostini, diventati ormai dei classici della gastronomia internazionale. Oppure piatti popolari della cucina italiana, come l’insalata o la pasta al tonno Testo Sonja Leissing; Foto e Styling Claudia Linsi; Illustrazioni Anja Denz; Ricette Katja Näf
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… percento dei tonni Rio Mare sono pescati all’amo con una lenza lanciata da bordo. Questo metodo tradizionale e selettivo è sostenibile e viene incoraggiato dal WWF e da Greenpeace. È, infatti, uno dei metodi di pesca più rispettosi dell’ambiente.
100 … percento delle scatole di tonno Rio Mare sono tracciabili: tutte le informazioni, dalla cattura del pesce (regione, metodo e data) alla sua lavorazione, sono consultabili su www.riomare.ch
Alessandro Gassmann, testimonial di Rio Mare: «Come italiano sono fiero di diffondere l’eccellenza della nostra cucina in tutto il mondo».
… percento dei tonni sono inscatolati a Cermenate nella vicina provincia di Como, dove Rio Mare possiede il più grande e moderno stabilimento per la lavorazione del tonno esistente in Europa. La produzione ammonta a tre milioni di scatole al giorno. Dal 1970 Rio Mare è leader del mercato italiano.
Foto zVg
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 8 agosto 2016 ¶ N. 32
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Idee e acquisti per la settimana
Rio Mare Tonno al naturale 112 g Fr. 3.80
Noce di vitello con salsa al tonno Piatto principale per 4 persone Ingredienti 2 mazzetti di erbe miste, ad es. prezzemolo e basilico 600 g di noce di vitello, ad es. noce rotonda sale, pepe 1 scatola di tonno da 160 g 50 g di mousse di rafano 3 cucchiai di panna sale, pepe Preparazione Tritate finemente le erbe. Ricoprite una parte della superficie di lavoro con un foglio di pellicola trasparente e spargetevi sopra le erbe tritate. Condite la carne con sale e pepe e passatela nel trito di erbe. Avvolgete la carne prima nella pellicola trasparente, poi nella carta alu e sigillate bene le estremità. Cuocete la carne a bagnomaria, appena sotto il punto di ebollizione per ca. 50 minuti. Fate sgocciolare il tonno, mescolatelo con la mousse e la panna e frullate. Condite con sale e pepe. Estraete la carne dall’acqua e spacchettatela. Tagliate la noce di vitello a fettine sottili e servitele con la salsa. Suggerimento Accompagnate con un’insalata a foglia. Tempo di preparazione ca. 25 minuti + cottura ca. 50 minuti Per persona ca. 45 g di proteine, 9 g di grassi, 3 g di carboidrati, 1150 kJ/ 270 kcal
I gabbiani volteggiano attorno al peschereccio. I loro acuti garriti preannunciano da lontano l’arrivo del pesce fresco.
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Idee e acquisti per la settimana
Con il tonno in scatola si possono preparare in un attimo bocconcini per tutta la famiglia.
Rio Mare
Aperitivo di pesce
Rio Mare in Svizzera vende esclusivamente tonno della specie Skipjack. Esso raggiunge in media un peso da tre a quattro chilogrammi. Le sue caratteristiche biologiche (crescita veloce, vita breve) lo rendono più resistente alla sovrappesca.
Il tonno in scatola contiene le stesse sostanze nutritive del tonno fresco ed è ricco di proteine, fosforo e calcio. Il tonno è una delle specie ittiche più nutrienti. Per la salsa del vitello tonnato bisogna frullare il tonno con maionese, sardine e capperi: Rio Mare Tonno al naturale Azione 20% di sconto sulla confezione tripla 3 x 112 g* Fr. 9.10 invece di Fr. 11.40 Dal 9 al 15 agosto
Gustosi antipasti: ottimo direttamente sulla pasta calda oppure con qualche goccia di limone come antipasto: Rio Mare Per Pasta Napoletana 160 g* Fr. 3.80
Per un’insalata nizzarda bisogna mischiare il tonno con patate lesse, fagioli, capperi, uova sode e sardine: Rio Mare Tono all’olio d’oliva Azione 20% di sconto sulla confezione tripla 3 x 104 g* Fr. 9.10 invece di Fr. 11.40 Dal 9 al 15 agosto
Crostini al tonno Aperitivo per 6 persone o antipasto per 4 persone Per ca. 12 crostini Ingredienti 1 baguette del forno di pietra di ca. 260 g 2 cipollotti 200 g di tonno in scatola 2 cucchiai di capperi sale, pepe Preparazione Tagliate il pane a fette e tostatelo da entrambi i lati in un tegame. Tagliate le cipolle a fette. Versate il tonno in un colino, lasciatelo sgocciolare e mescolatelo con i capperi. Condite con sale e pepe e distribuite il tonno sui crostini. Guarnite con gli anelli di cipolla e servite. Tempo di preparazione ca. 10 minuti Per persona, calcolato su 6 ca. 13 g di proteine, 4 g di grassi, 24 g di carboidrati, 800 kJ/190 kcal
Tartare di tonno Antipasto per 4 persone Ingredienti 1 cipolla rossa 1 avocado 1 scatoletta di tonno aglio e peperoncino da 160 g 1 limetta sale, pepe dal macinapepe qualche foglia di coriandolo
e mescolate. Tagliate la limetta a metà e spruzzate qualche goccia di succo sul tartare. Condite con sale e pepe. Tagliate la limetta rimasta a spicchi. Servite il tartare, usando a piacimento un anello per dargli forma. Guarnite con gli spicchi di limetta e le foglie di coriandolo.
Preparazione Tritate la cipolla. Dimezzate l’avocado, snocciolatelo, staccate la polpa dalla buccia e riducetela a dadini. Versate il tonno, insieme con la cipolla tritata e i dadini di avocado, in una scodella
Tempo di preparazione ca. 10 minuti
Sbriciolate con una forchetta il tonno sulla pasta o sull’insalata. Più semplice di così!: Rio Mare Per Pasta Aglio + Peperoncino Azione 20% di sconto sulla confezione tripla 3 x 104 g* Fr. 9.10 invece di Fr. 11.40 Dal 9 al 15 agosto
Per persona ca. 12 g di proteine, 19 g di grassi, 2 g di carboidrati, 950 kJ/230 kcal *Nelle maggiori filiali
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Idee e acquisti per la settimana
Bella Italia – Longobardi
Il sole in una scatola Siamo in piena stagione dei pomodori. E Longobardi conserva il nuovo raccolto per poterlo assaporare durante tutto l’anno. Interi, triturati o concentrati, i pelati in scatola sono ideali per sughi, ripieni o minestre
0 … percento di coloranti o conservanti nei prodotti Longobardi. Vengono lavorati esclusivamente pomodori provenienti da colture controllate e selezionate. La loro qualità è analizzata e garantita da una squadra di esperti indipendenti.
Pizzette di polenta Piatto principale per 4 persone Ingredienti 1 l di brodo di verdura 250 g di semola di mais macinata fine sale, pepe dal macinapepe 200 g di salsa al pomodoro e basilico 100 g di champignon 300 g di mozzarella 2 rametti di origano
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… anni sono trascorsi da quando Longobardi ha iniziato a imprigionare il sole d’Italia all’interno di lattine e a portarlo sugli scaffali della Migros. In questo modo non vanno perse le preziose sostanze nutritive dei pomodori.
2. Scaldate il forno ventilato a 220 °C. Con la polenta formate 3 pizzette a testa di ca. 10 cm Ø e accomodatele su teglie foderate con carta da forno. Distribuite la salsa di pomodoro sulle pizzette. Tagliate gli champignon a fettine e distribuitele sulla salsa. Spezzettate la mozzarella e accomodatela sulle pizzette. Cuocete nella parte inferiore del forno per ca. 20 minuti. Sfornate e guarnite con le foglie d’origano. Condite con una macinata di pepe grosso e servite subito. Foto Lorenzo Maccotta/Contrasto
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Aniello Longobardi dà grande valore alla raccolta a mano dei pomodori da destinare alla lavorazione.
Preparazione 1. Portate a ebollizione il brodo. Versate la semola di mais in un colpo e mescolate continuamente per ca. 4 minuti. Togliete la pentola dal fuoco e lasciate riposare la polenta per ca. 10 minuti. Condite con sale e pepe.
… percento della produzione di prodotti Longobardi è destinata all’esportazione mentre il restante 20 percento resta in Italia ed è utilizzata per preparare sughi per pasta e pizza.
Tempo di preparazione ca. 25 minuti + cottura in forno ca. 20 minuti Per persona ca. 22 g di proteine, 17 g di grassi, 53 g di carboidrati, 1900 kJ/460 kcal
Longobardi Sugo al Basilico 700 g Fr. 2.55
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Idee e acquisti per la settimana
Longobardi Pomodorini 240 g Fr. 1.40
Zucchine al forno Piatto principale per 4 persone Ingredienti 700 g di zucchine 2 cucchiai d’olio d’oliva 300 g di mozzarella 240 g di pomodori cherry in scatola ½ mazzetto di basilico sale, pepe 30 g di parmigiano in un pezzo Preparazione Scaldate il forno a 220 °C. Con una mandolina, tagliate le zucchine per il lungo a fette spesse ca. 2 mm. Oliate una pirofila grande. Scaldate l’olio rimasto in un tegame e rosolatevi brevemente le zucchine, poche per volta, da entrambi i lati. Estraetele. Dimezzate la mozzarella e tagliatela a fette. Fate sgocciolare bene i pomodori. Usate il succo per preparare altri piatti. Tritate finemente il basilico e mescolatelo con i pomodori. Condite con sale e pepe. Piegate le fette di zucchina a metà e accomodatele nella pirofila alternandole alle fette di mozzarella. Distribuite i pomodori sulle zucchine. Grattugiate il parmigiano sulle zucchine. Cuocete al centro del forno per ca. 30 minuti. Tempo di preparazione ca. 30 minuti + cottura in forno ca. 30 minuti Per persona ca. 21 g di proteine, 23 g di grassi, 7 g di carboidrati, 1350 kJ/320 kcal I pomodori ciliegino danno quel tocco speciale alle pietanze al forno.
Davvero rilassante: andare al mercato a bordo di una vecchia Cinquecento.
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Idee e acquisti per la settimana
In ambito botanico i pomodori sono delle bacche. Il loro sapore acidulo, dolce e fruttato ne fa un jolly in cucina. Longobardi
Il jolly in cucina
Il concentrato di pomodoro è la base per insaporire sughi, minestre e brasati: Longobardi Concentrato di pomodoro 140 g Fr. –.65 Senza salsa di pomodoro gli spaghetti, la piccata o le polpette non sarebbero così gustosi: Longobardi Passata di pomodoro 360 g Fr. 1.10 Nelle maggiori filiali
Fantastici per dare un accento fruttato al sugo della pasta: Longobardi Pomodori triturati Azione 20% di sconto sul pacco da 6 pezzi 6 x 280 g Fr. 4.80 invece di Fr. 6.– Dal 9 al 15 agosto
Indicato anche per essere servito come zuppa fredda: Longobardi Sugo di pomodoro al basilico 700 g Fr. 2.55
Ideali per le pietanze al forno e per condire la pizza: Longobardi Pomodorini 240 g Fr. 1.40
Perfetti per sughi, lasagne e spaghetti alla bolognese. Longobardi Pomodori pelati diverse grandezze, per es. 560 g Fr. 1.70
I pomodori tipo Roma sono noti soprattutto in versione pelati interi. Contengono poco liquido e sono impareggiabili per i sughi.
I pomodori ciliegino sono croccanti e zuccherati. Cotti brevemente in aceto balsamico sono deliziosi come contorno delle grigliate.
Oltre che per la pizza è ideale per condire melenzane e polenta: Longobardi Pizza Sauce al basilico 200 g Fr. –.85 Nelle maggiori filiali
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Idee e acquisti per la settimana
Bella Italia – Beretta
Fornitore di sapore Le varie specialità di salumeria della Beretta hanno seguaci in tutto il mondo. La mortadella finissima, il saporito salame o la bresaola stagionata all’aperto sono ingredienti essenziali per molte ricette italiane
200 … tonnellate di salumi italiani sono acquistate ogni anno dai clienti Migros. Tra loro ci sono la bresaola della Valtellina, la mortadella di Bologna, il salame e la coppa, il prosciutto di Parma e quello di San Daniele.
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Vittore Beretta è impegnato a favore del benessere degli animali.
… anno è trascorso da quando Beretta ha iniziato a produrre secondo le prescrizioni svizzere in materia di protezione degli animali e a impegnarsi a favore del loro benessere. A questo specifico scopo Beretta ha costruito un allevamento di suini in Nord Italia.
Foto Jacopo Farina/Contrasto
15 … chilogrammi è il peso di un prosciutto di Parma stagionato. La stagionatura dura almeno un anno, nel corso del quale il prosciutto perde il 25% del peso. Salato a mano, il prosciutto viene conservato al fresco per 100 giorni, prima di essere messo a stagionare con metodi naturali. La qualità è testata da enti indipendenti.
L’insalata di melone fa diventare un piatto estivo perfino il risotto.
Risotto al parmigiano Piatto principale per 4 persone Ingredienti 1 cipolla 4 cucchiai d’olio d’oliva 300 g di riso per risotto, ad es. Carnaroli 8 dl di brodo di verdura 120 g di parmigiano in un pezzo 2 cucchiai di mascarpone sale, pepe 1 cucchiaio di succo di limone ½ melone retato 250 g di pomodori datterini 100 g di prosciutto crudo o bresaola a fette Preparazione 1. Tritate finemente la cipolla. Scaldate la metà dell’olio in una padella ampia. Soffriggete la cipolla. Aggiungete il riso e tostatelo. Unite la metà del brodo. Mescolando di tanto in tanto, fate sobbollire il riso per ca. 15 minuti, aggiungendo poco alla volta il brodo rimasto. Grattugiate il parmigiano e incorporatelo al risotto con il mascarpone. Regolate di sale e pepe. 2. Emulsionate il succo di limone con l’olio rimasto. Condite con sale e pepe. Tagliate il melone a pezzetti. Dimezzate i pomodori. Aggiungete il melone e i pomodori al condimento. Spezzettate il prosciutto o la bresaola. Mescolatene la metà con il risotto e servite il restante sui piatti di risotto. Servite l’insalata di melone e pomodori con il risotto. Tempo di preparazione ca. 30 minuti Per persona ca. 25 g di proteine, 30 g di grassi, 66 g di carboidrati, 2700 kJ/640 kcal
Beretta Bresaola della Valtellina I.G.P. Italia, 100 g Fr. 6.20 invece di 7.80 Azione 20% di sconto fino al 15 agosto Nelle maggiori filiali
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 8 agosto 2016 ¶ N. 32
Idee e acquisti per la settimana
Involtini al salame Piatto principale per 4 persone Ingredienti 12 fettine di lonza maiale di ca. 50 g ciascuna sale, pepe 120 g di salame a fette, ad es. Milano olio per rosolare 3 cipollotti 150 g di sedano 20 olive nere 10 pomodori secchi sott’olio, sgocciolati 2 dl di brodo di verdura Preparazione Battete bene le fette di lonza e conditele con sale e pepe. Accomodate 2 fette di salame su ogni fetta di carne e arrotolate ben stretto. Fissate gli involtini con degli stuzzicadenti. Scaldate l’olio in un tegame. Rosolatevi gli involtini per ca. 5 minuti, poi toglieteli. Nel frattempo, tagliate i cipollotti e il sedano a fettine sottili. Tagliate i pomodori a fette. Mettete le verdure nella padella in cui avete rosolato gli involtini. Unite il brodo, le olive e gli involtini. Regolate di sale e pepe. Fate cuocere a fuoco basso per ca. 15 minuti. Tempo di preparazione ca. 40 minuti Per persona ca. 41 g di proteine, 27 g di grassi, 2 g di carboidrati, 1750 kJ/410 kcal
Degustazione Il 12 e 13 agosto 2016, in alcune filiali Migros potrete assaggiare le specialità italiane. Inoltre, estrarremo a sorte un viaggio in Italia del valore di Fr. 1000.– e altri allettanti premi immediati. Maggiori informazioni al sito www.laveraestate.ch/bellaitalia