Azione 01 del 3 gennaio 2022

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Anno LXXXV 3 gennaio 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A.  Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Apatia giovanile: la psicoterapeuta Carmen De Grazia spiega che cos’è e come combatterla

L’ozio è il padre dei vizi o un’occasione per mettere a frutto la nostra intelligenza?

L’inflazione crescente solleva timori di una spirale prezzi-salari, negli Usa come in Europa e in Cina

Al MASI una retrospettiva sull’opera e le collezioni del pittore Albert Oehlen

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Simona Dalla Valle

Radicofani, tra Papi e briganti

Simona Dalla Valle

Quella fiducia innata nel domani Peter Schiesser

Come giornalisti, siamo propensi a pensare ai passaggi di tempo, come da un anno all’altro, guardando ai tanti mondi che ci circondano. Raramente ci concediamo uno sguardo a mondi più intimi. Eppure, chi segue le vicende di Luigi di tanto in tanto su queste stesse colonne, dell’amico e collega Alessandro, sa che da ricordi semplici possono scaturire storie universali. Richiamano e fanno risuonare immagini comuni che offrono uno sguardo su chi eravamo, dove vivevamo, come vivevamo, mentre il grande mondo agiva con un suo spirito del tempo. Così, nei giorni fra il vecchio e il nuovo anno, ricordando eventi e tentando bilanci, cercando di far ordine in questo mondo incasinato, si è insinuato un ricordo lontano: i due nonni paterni, la nonna materna, noi quattro figli, padre e madre dopo cena riuniti nel salotto di casa alla vigilia del nuovo anno. È l’ora dei bilanci dell’anno trascorso. Non cifre, ma eventi, liete sorprese e occasioni perdute, quello che è stato e quello che avremmo voluto fosse. Come introduzione, nostro padre leggeva il suo resoconto, scritto di

suo pugno, gli occhiali da vista scuri inclinati per sottolineare la solennità. Lo chiudeva sempre con una nota di gratitudine per esserci ancora tutti, in salute. Premessa per accettare anche le avversità che la vita non gli risparmiava, di tanto in tanto. Seguivano i commenti dei nonni, noi ascoltavamo senza capire molto, ma anche un ragazzino di dieci anni poteva percepire quel senso di tempo lungo che traspariva dai loro ricordi e racconti: quell’anno aveva avuto la sua anima e veniva confrontato con quelli precedenti. Gli eventi di una vita venivano riordinati. La nonna materna Blanche aveva  anni quando scoppiò la prima guerra mondiale, viveva a Londra, da quattro anni in Inghilterra, emigrata per fare la cameriera dopo che i suoi non le avevano permesso di studiare pianoforte e canto al conservatorio, poiché una ragazza per bene non poteva fare l’artista – e i suoi ricordi sui dirigibili Zeppelin che bombardavano Londra, ripetuti a ogni anno che moriva, mischiati al ricordo dei timori di mia madre di essere separata dai genitori quando aveva  anni nel caso in cui

i tedeschi avessero occupato Basilea durante la seconda guerra mondiale, si sublimavano infine nella gratitudine per esserci e di avercela fatta un altro anno. Poi i discorsi cessavano a un’ora precisa: l’ora della commedia dialettale svizzero tedesca. Ci si inteneriva ai drammi, si rideva dell’ironia della vita. Era un tempo leggero fra il vecchio e il nuovo. L’atto finale, passando alla Tsi, erano i suoni delle campane delle chiese ticinesi che annunciavano a volte malinconiche, a volte festose la mezzanotte. Il giorno dopo, a pranzo dai nonni paterni per Capodanno, con le pietanze portate su un carrellino e servite su piatti decorati con scene di caccia inglesi in un blu aristocratico, in quella modesta e sonnacchiosa pensione al lago si sentiva già aria di nuovo. I discorsi degli adulti in abiti da festa (e noi col farfallino) erano di progetti per il nuovo anno, accompagnati da risate allegre. La torta di banane di nonna Marie era sublime. Il pomeriggio i nonni sarebbero sprofondati sul divano per godersi un telefilm davanti a un televisore in bianco e nero, cui un foglio

di plastica con i colori dell’arcobaleno applicato sullo schermo regalava l’impressione di essere a colori. La catarsi dell’anno vecchio era avvenuta, la fiducia nel nuovo prevaleva. I riti erano compiuti, e si sarebbero ripetuti ogni anno. Oggi, cinquant’anni dopo, nella realtà attuale quei riti, quei luoghi, quelle persone sono solo memoria. Ma è una memoria che custodisce una prospettiva storica. Il ricordo inconscio dell’essere umano di poter uscire dalle crisi più profonde. Che in questo momento può risultare molto utile per contrastare l’altro ricordo inconscio dell’umanità, quello dei traumi attraverso cui è passata. La pandemia li ha senza dubbio riattivati, la paura che ha scatenato, e specularmente la sua negazione, ne sono la prova. Ricordarci, in mezzo alla confusione della realtà, che siamo depositari anche di una fiducia innata nel domani può aiutarci a uscire da, o perlomeno a sopportare una condizione traumatica che un giorno sarà considerata passeggera. Consapevoli che ogni nuovo anno porta in sé il seme di qualcosa di nuovo.


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Anno LXXXV 3 gennaio 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

Regnare per un giorno? È possibile

Attualità ◆ La torta dei Re Magi vanta una lunga tradizione. Alla Migros è disponibile in quattro golose varianti per la gioia dei bambini – e non solo – che desiderano diventare re o regina La torta dei Re Magi è ormai diventata una componente essenziale e irrinunciabile del  gennaio, giorno dell’Epifania. Con o senza uvette, arricchita con del cioccolato o nella qualità a base di soli ingredienti di origine biologica, alla Migros ognuno trova la propria variante del dolce preferita da gustare con tutta la famiglia. A base di pasta lievitata di frumento chiara, possiede un aroma leggermente dolce e un caratteristico profumo di burro, mentre la sua forma è composta da sette pagnottelle che ricordano un fiore. La superficie è cosparsa di mandorle filettate e zucchero. La torta dei Re Magi è prodotta dalla Jowa, esclusivamente in occasione della festività che chiude il periodo natalizio. Come da tradizione, in una pagnotta del dolce si nasconde una piccola statuetta a forma di re magio. Quest’ultima dà diritto, a chi la trova, di regnare e farsi coccolare per un giorno intero dai propri cari, sfoggiando la coroncina dorata acclusa alla confezione. La tradizione della torta dei Re Magi nel nostro paese è stata rilanciata negli anni Cinquanta del secolo scorso dall’Associazione svizzera mastri panettieri-confettieri, traendo ispirazione da un’usanza dell’antica Roma dove, dopo la semina invernale, si teneva una grande festa in onore di Saturno, divinità delle sementi, in cui un fagiolo era nascosto in una torta. Chi lo trovava era designato re e poteva limitatamente governare per un giorno. La ricetta originale dell’attuale torta dei Re magi è stata creata dalla prestigiosa scuola professionale di panetteria-pasticceria-confetteria Richemont di Lucerna. Nel  il dolce venne pubblicizzato sulla stampa nazionale e dalle ’ torte vendute il primo anno si passò in pochi anni a decuplicarne le vendite e a consacrarne il definitivo successo.

Torta dei Re Magi 420 g Fr. 4.10; BioTorta dei Re Magi 420 g Fr. 4.70; Torta dei Re Magi al cioccolato 420 g Fr. 4.70; Torta dei Re Magi senza uvetta 420 g Fr. 4.10

Gusto e leggerezza

Dolci sorprese per l’Epifania

Dopo Natale e Capodanno, periodo in cui spesso ci si concede volentieri qualche capriccio alimentare in più, perché non iniziare l’anno nuovo in leggerezza, per esempio gustando delle pietanze particolarmente sane e a basso contenuto calorico? In questo caso il sushi è proprio l’ideale. Bello da vedere e buono da mangiare, il piatto di origini giapponesi negli ultimi anni ha conquistato sempre più estimatori fra la clientela Migros, e non solo giovani, tanto che per soddisfare la crescente richiesta nelle filiali di Lugano, S. Antonino, Locarno e Serfontana sono stati aperti dei sushi corner con produzione in loco. Il nostro assortimento comprende numerose varianti di sushi per ogni gusto e palato, i quali ogni mese vengono completati con una variante speciale. Il mese di gennaio è la volta del sushi Mutsuki. Perfetto per uno spuntino nutriente e saziante, il piatto è composto da nigiri al salmone e gamberetti, hoso-maki al cetriolo e chu-maki al surimi e chicken curry. Inoltre, inclusi nella vaschetta non possono mancare i tradizionali accom-

La calza o il sacchetto della Befana pieni di gustosissimi dolcetti sono da sempre una sorpresa amata da tutti i bambini. Secondo la leggenda, la simpatica vecchietta dall’inconfondibile naso curvo e mento aguzzo volerebbe di casa in casa la notte tra il  e  gennaio, riempiendo le calze lasciate appese sul camino o vicino alla finestra di dolciumi e do-

Attualità ◆ Concedetevi qualcosa di speciale dopo le feste, provate il nostro sushi del mese

pagnamenti quali wasabi, salsa di soia e zenzero. Tutto il sushi venduto alla Migros è prodotto dall’azienda Sushi Mania di Vuadens, nella regione friburghese della Gruyère. L’azienda, specializzata in cucina giapponese e gastronomia asiatica fin dal , produce giornal-

ni ai bimbi che durante l’anno sono stati buoni e carbone ai più monelli. I nostri articoli dedicati alla ricorrenza che «tutte le feste si porta via» mettono invece tutti d’accordo, bravi e meno bravi, perché contengono tanti dolcetti assortiti sotto forma di morbidi marshmallow, carbone dolce, caramelle gommose e monete di cioccolato.

mente qualcosa come oltre ’ sushi partendo da ingredienti freschissimi e di alta qualità. SUSHI DEL MESE DI GENNAIO Sushi MUTSUKI 270 g Fr. 15.90 Prodotto in Svizzera

Sacchetto della Befana 140 g Fr. 10.90

Calza Country 350 g Fr. 9.90


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SOCIETÀ

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Ragazzi apatici La psicoterapeuta Carmen De Grazia ci spiega che cos’è l’apatia giovanile e come combatterla

CSIA, 60 anni di creatività Il Centro scolastico per le industrie artistiche compie 60 anni: ne parlano gli allievi di oggi e di ieri

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Escursioni in Ticino Un libro ci guida alla scoperta della biodiversità e delle zone naturali protette del nostro territorio

Conoscere l’epatite L’epatite virale è una malattia grave che può cronicizzarsi: intervista all’epatologo Lorenzo Magenta

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Il linguaggio d’abuso genera assoggettamento e alienazione da sé. (Shutterstock)

Il linguaggio della violenza domestica

Intervista ◆ La linguista Raffaella Scarpa offre un approccio diverso da quelli tradizionali per comprendere gli abusi tra le mura di casa analizzando i discorsi e il dialogo quotidiano di 27 testimoni Stefania Prandi

«Dedico questo libro a chi non sa riconoscere l’intollerabile». Recita così l’introduzione de Lo stile dell’abuso, saggio di Raffaella Scarpa, docente di Linguistica (italiana e medica) all’Università di Torino. Il testo, pubblicato dalla casa editrice Treccani, offre un approccio diverso da quelli tradizionali alla violenza domestica – definita «una forma specializzata di tortura innestata in una sorta di stato d’assedio» – attraverso l’analisi dei discorsi di  testimoni,  donne che hanno subito abusi e  uomini maltrattanti. Due delle intervistate hanno sporto denuncia contro il partner, una è stata in seguito uccisa dall’ex marito. Professoressa Scarpa, nel suo libro analizza la violenza domestica dal punto di vista del linguaggio. Perché questa scelta? Per me è stata una scelta inevitabile e controcorrente. Mi ha sempre stupito constatare che quando si affronta il fenomeno della violenza domestica si parla di tutto ma non del linguaggio. Al di là delle manifestazioni di superficie come gli insulti, le contumelie, le offese e le urla, non si discute mai di come l’abusante si rivolga all’abusata nel dialogo quotidiano e quali siano le dinamiche dell’azione verbale tra i due. Io cerco di saturare questa gigantesca lacuna, o quanto meno di

iniziare a compensarla. È un vuoto da riempire che mi è apparso nella sua massima evidenza proprio durante le interviste. C’era qualcosa di non eclatante, ma di leggermente stonato, che toccava l’orecchio e che io stessa non riuscivo esattamente a intercettare. Come accade la violenza nel linguaggio? Per il senso comune, la violenza espressa nel linguaggio è legata fondamentalmente a fenomeni relativi al cosiddetto «linguaggio d’odio». Con questo termine intendo le modalità per cui si esercita una sorta di violenza attraverso le parole, usate come armi; quindi, gli affronti, gli attacchi personali, gli screditamenti, gli improperi e così via. Tutto ciò è chiaramente identificabile come il prodotto linguistico di una volontà di fare male, ferire, mettere all’angolo e ai margini. Da un lato è un’idea corretta, ma da un altro è straniante perché ci impedisce di capire appieno i meccanismi. Nel libro analizzo il sistema piuttosto complesso, a più direttrici, non in piena luce, della macchina per assoggettare e sopprimere attraverso il linguaggio. È un annientamento di fatto, un’alienazione da sé che il linguaggio d’abuso genera nella coscienza. Da lì, poi, si può arrivare, come sappiamo, all’annientamento reale, cioè alla morte.

Dalle interviste che ha raccolto emerge la percezione di irrealtà da parte delle donne che subiscono la violenza. Come mai è così difficile rendersi conto degli abusi domestici mentre avvengono? Il problema è che chi subisce violenza domestica tendenzialmente non si rende conto di ciò che sta vivendo. È una dinamica quasi sconcertante. Perché c’è una dispercezione tra ciò che si subisce e ciò che sta accadendo? Il linguaggio è una macchina di plagio, manipolazione, menzogna, coartazione e annichilimento. Tra gli obiettivi ha proprio di provocare l’incapacità di esercitare il giudizio su se stesse e sul mondo, attraverso una perpetrata e continua operazione di destabilizzazione. Uno dei primi effetti dello stile dell’abuso è annullare la capacità di percepire in maniera obiettiva quanto sta accadendo e di esercitare il giudizio. Tengo molto alla dedica: nell’abuso, e spesso nella vita, riconoscere ciò che è intollerabile – cioè che non deve essere tollerato – è una delle cose più difficili. Gli uomini maltrattanti come raccontano le violenze che hanno compiuto? Questo è un libro laico, realizzato attraverso l’analisi di numerose tipologie di testi. Ci tengo a dire che non

ci sono né i buoni né i cattivi, non ci sono mostri, è un lavoro scientifico per descrivere i meccanismi di un incastro di potere. Gli uomini maltrattanti raccontano le violenze agite attraverso una sorta di filtro: minimizzano la portata delle loro azioni, le normalizzano. Secondo loro le violenze, in fondo, non erano più che un litigio. Usano avversativi, come «ma», «però», oppure concessivi, «tuttavia», «sebbene», fino a una negazione implicita. È inquietante notare che nei pronto soccorso spesso la donna maltrattata arriva accompagnata dal compagno che l’ha picchiata e, allo stesso tempo, si interessa del suo stato, sollecitando gli operatori sanitari a intervenire. E l’uomo chiede anche cure per sé: la mano che colpisce si autorappresenta come vittima, in una specie di fusione dei ruoli. Secondo lei la violenza domestica dovrebbe essere rappresentata in maniera diversa dai media? Le immagini e le narrazioni mediatiche che rappresentano la violenza domestica hanno contribuito a creare un immaginario straordinariamente falsato intorno a un fenomeno ancora in buona parte incognito e non studiato. Ci accomodiamo su un’idea intuitiva non reale. I media vittimizzano la donna che subisce violenza,

rappresentandola come un soggetto debole, col volto in ombra, spesso coperto da capelli, a volte con ecchimosi o lacerazioni, talvolta con punti di sutura, e in una situazione in cui non c’è nessuno. La dimensione della solitudine, della paura, del ripiegamento e della disperazione generano un immaginario mistificante. In realtà la donna che subisce violenza è molto vitale, ha una personalità ancora nei pieni poteri di riprendere il controllo sulle cose. Dovremmo usare dei termini diversi per definire la violenza tra le mura di casa? La dicitura «violenza domestica» è effettivamente depistante perché implica un’azione prodotta da un soggetto su un altro in cui la lesione, l’offesa e l’aggressione siano estremamente evidenti. Sappiamo invece che spesso si tratta di un fenomeno occultato, non soltanto perché è chiuso nella capsula dello spazio della casa, nella maggior parte delle manifestazioni, ma anche perché agisce sottobanco e sottotraccia. Non è affatto detto che la violenza domestica sia chiaramente violenta. Quindi, usare la parola «violenza», secondo me, può essere fuorviante. Io ho codificato un’altra categoria, il «potere domestico»: mi sembra molto più produttiva.


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SOCIETÀ

L’apatia giovanile

Adolescenti ◆ La psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva Carmen De Grazia spiega che cos’è l’apatia dei ragazzi e a cosa prestare attenzione perché non diventi un disagio più serio

Alessandra Ostini Sutto

Svogliati, disinteressati, annoiati. Sono tre aggettivi nei quali non pochi genitori potrebbero riconoscere i propri figli adolescenti. L’apatia – intesa come «assenza di passione, sensibilità» – ha infatti un legame con questa fase della vita che trova la sua ragione d’essere a livello di sviluppo cerebrale. L’importante è che questa «indolenza fisiologica» non si trasformi in un disagio più serio. Rischio amplificato da alcuni tratti della nostra società, che non facilita, ad esempio, il processo di autonomia. A volte, neppure i mass-media sono d’aiuto, si pensi a certi modelli veicolati, assolutamente slegati dal concetto di fatica ed impegno. Da ultimo, ma non per importanza, l’uso – spesso l’abuso – degli schermi. Di questi argomenti abbiamo discusso con Carmen De Grazia, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva. Con la sua conferenza dal titolo Apatia giovanile: cos’è e come combatterla si è concluso il ciclo di incontri gratuiti «Un’ora parliamo di…», organizzati dalla Croce Rossa Svizzera, sezione Ticino, per il . Le conferenze (sostenute dal Dipartimento della Sanità e della Socialità del Cantone Ticino) nascono dall’idea di affrontare temi forti legati alla famiglia in modo puntuale e concreto, nell’arco appunto di un’ora, così da dare la possibilità a più genitori possibili di partecipare (gli appuntamenti previsti per il  si trovano sul sito www.crs-corsiti.ch). Dottoressa De Grazia, in grandi linee, cosa succede a livello cerebrale durante l’adolescenza? Nello sviluppo del cervello in questa fase c’è una concentrazione nelle aree legate al funzionamento logico-matematico, sequenziale, della memoria, nelle quali i ragazzi sono quindi concentrati ad acquisire competenze. L’area dedicata all’empatia, alla pianificazione, alla progettualità si sviluppa dopo. Quando parliamo quindi di ragazzi senza prospettive si tratta di una contraddizione in termini. A chi volesse verificare quanto affermato, propongo di dire una cosa ad un ragazzo e ripeterla l’anno dopo; la reazione sarà sicuramente diversa. Potrebbe definire che cos’è l’apatia giovanile? Innanzitutto va fatta chiarezza sui termini. Da una parte c’è l’apatia, che rientra nel Manuale diagnostico delle malattie mentali, al pari, per esempio, della depressione o la schizofrenia e ci sono i casi di ritiro sociale, oggi ritenuto la forma di disagio più rappresentativa del periodo adolescenziale. Dall’altra c’è quell’umore un po’ cupo, quelle ricorrenti lune storte negli adolescenti, perlomeno in certi periodi; è di questa seconda connotazione che vogliamo parlare.

«Non mi è quasi mai capitato di seguire ragazzi apatici senza che ci fosse di mezzo l’uso degli schermi». (Shutterstock)

Più concretamente, come si manifesta questo atteggiamento apatico nei giovani? Parlando di apatia giovanile in senso lato ci riferiamo a ragazzi un po’ musoni, che non hanno voglia di fare niente, che bisogna trascinarli per uscire. Atteggiamenti non solo nella norma ma, paradossalmente, riflesso di salute del cervello, in quanto testimoniano che il ragazzo si sta staccando dalla fase precedente, più spumeggiante e spensierata. In questo momento transitorio il giovane si deve poter distinguere e spesso la prima strada che trova è quella del distacco emotivo, visibile pure da un’inespressività facciale. Prima faceva la distinzione tra l’apatia appena descritta e un malessere più profondo e problematico; qual è il confine? Direi sia il caso di preoccuparsi se sono trascorsi oltre sei mesi e se il fenomeno è frequente e tocca svariati ambiti della vita. Nelle situazioni non patologiche, infatti, i ragazzi non hanno atteggiamenti apatici in qualsiasi situazione. Possono averli a casa, con gli insegnanti, a ginnastica ma poi li incroci con gli amici e li vedi allegri e brillanti, perché con loro sentono di poter esprimere sé stessi. Per questo motivo dico sempre ai genitori di non punire i figli togliendo le uscite, ma di prendere coscienza che la socializzazione è l’amica numero uno per aiutare i ragazzi che a casa vediamo apatici. Qual è il suo ruolo in questo tipo di situazioni, come le affronta? Un primo elemento che mi preme

mettere a fuoco è proprio in quali e quanti ambiti il ragazzo è apatico. Altra cosa che mi aiuta è vederlo con i genitori e poi da solo. Nell’approccio individuale in genere è più libero di parlare, di esprimersi e questo, ovviamente, non perché non si tratti di bravi genitori. Sta nel gioco delle parti, nel ruolo che i ragazzi hanno all’interno della famiglia nelle varie fasi della vita. In accordo con il ragazzo, il terapeuta può dire ai genitori di averlo visto che parla, ride, si diverte e questo, spesso, li tranquillizza molto. Una volta tornati a casa però la situazione resta, ovviamente, immutata. Cosa può fare un genitore? Ci sono, per esempio, delle tecniche di comunicazione che aiutano a fare domande più fertili. Spesso i genitori si ritrovano con risposte monosillabiche anche perché sono loro ad essere rigidi ed impostati. Essi devono da un lato imparare ad entrare nel mondo dei figli e dall’altro fungere da modello, mostrando come si comunica e facendo vedere anche un altro lato di sé, per esempio attraverso la frequentazione, comune, di persone al di fuori della famiglia. Osservare il genitore più rilassato ed estroverso aiuta infatti a percepirlo come una persona più affine, non unicamente quella che rompe le scatole con commenti del tipo «non hai raccolto questo», «non hai fatto il compito», «hai lasciato in giro quest’altro». Nell’intento di rinforzarne le risorse, spesso finiamo, infatti, per passare il tempo a criticare i ragazzi. L’obiettivo, in questo ambito, dovrebbe essere che ad ogni

commento che suona come una critica corrisponda almeno un’interazione verbale in cui si parli, ci si diverta, si faccia o si pianifichi qualcosa insieme. Restando in tema, c’è una relazione tra l’atteggiamento apatico e il tipo di famiglia in cui si cresce? Da quello che ho avuto modo di osservare, i ragazzi di cui stiamo parlando sono accumunati – tra le altre cose – da una certa incapacità di mettere delle parole sulle proprie emozioni e da una demotivazione dovuta alla paura del fallimento. Non si mettono cioè in gioco per evitare di sentire la sensazione, dolorosa ed angosciante, connessa al rischio di fallire; ciò è correlato agli stimoli ricevuti in famiglia. In che senso? La famiglia è un po’ come una palestra di vita per i figli, dove si dovrebbe allenare la diversità, in ogni senso, per esempio riferita ad ambienti e persone. Con questo non voglio incolpare i genitori, ma piuttosto renderli attenti sul fatto che non necessariamente sono i ragazzi a dover essere «aggiustati», ma pure noi a doverci mettere in discussione. In quest’ottica l’adolescenza del figlio è un’ottima opportunità. Prima parlava di tratti che si ritrovano nei ragazzi che mostrano più apatia; ve ne sono altri oltre a quelli già enunciati? Direi che si tratta di ragazzi molto sensibili, che vengono facilmente sovra-stimolati e si stancano rapidamente. Ragazzi per cui anche normali momenti della vita quotidiana

– come prendere un mezzo pubblico, con i suoni, il traffico, le persone – rappresentano una certa fatica. Abbiamo visto che il tipo di apatia di cui stiamo parlando è fisiologica; ci sono degli elementi nell’attuale società che contribuiscono ad accentuarla? Da un lato i modelli promossi dai social network, vincenti senza il minimo sforzo. Sempre sui social, i nostri stessi ragazzi hanno continuamente la possibilità di ricevere una soddisfazione immediata al loro desiderio, al loro stimolo. Facendo un paragone, se adesso si può guardare un’intera serie con un clic, noi dovevamo aspettare anche una settimana per vedere la prossima puntata della serie del momento. Nel frattempo però ci immaginavamo, ne parlavamo, costruendo così un pensiero e contribuendo anche alla costruzione della nostra psiche. L’attuale bombardamento di stimoli crea assuefazione. Degli studi condotti sul cervello hanno dimostrato che all’interno di esso si attivano gli stessi circuiti neuronali di fronte alle notifiche, all’utilizzo dei social network e più in generale degli schermi che nella dipendenza da cocaina. Lavoro con le famiglie dal  e posso affermare che non mi è quasi mai capitato di seguire ragazzi apatici dove non ci fosse di mezzo l’uso degli schermi. Di nuovo, cosa possono fare i genitori a riguardo? Io raccomando di parlare apertamente di cosa sia una dipendenza, di qualsiasi tipo. E poi mettersi d’accordo. I ragazzi sanno ragionare, sono svegli, brillanti, quando si riesce a parlare con loro. Si rendono conto che esagerano. Quando vengono in terapia chiedo di farmi vedere la statistica dell’utilizzo giornaliero dell’ultima settimana e spesso vedo cifre esorbitanti. Quello che consiglio è di stare sotto le tre ore monitorando il tempo di utilizzo attraverso delle app di controllo parentale. I genitori non devono avere paura di seguire i propri figli. In conclusione, in che modo la situazione che stiamo vivendo, in particolare i passati lockdown, hanno influito sul tema di cui ci stiamo occupando? Sicuramente ha influito il fatto che sia venuta meno la socializzazione che, come abbiamo visto, per i ragazzi è tutto. C’è poi un altro elemento che riguarda l’espressività facciale, di cui pure abbiamo parlato prima. È comune nell’adolescenza «nascondersi» con i capelli o sotto i cappucci. Ora hanno la mascherina che in questo senso è uno strumento in più per farlo. La mascherina contribuisce quindi ad esacerbare questa tendenza all’inespressività.

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SOCIETÀ

Sessant’anni di CSIA

Le merci attraverso il Gottardo

Scuola ◆ Il Centro scolastico per le industrie artistiche attraverso le esperienze di alcuni allievi di oggi e di ieri

Istantanee sui trasporti ◆ Il traffico di merci in transito predilige la ferrovia mentre quello per importazioni ed esportazioni sceglie la strada

Stefania Hubmann

Luci, colori e profumi del mondo dell’arte, da percepire e vivere ogni giorno dentro e fuori le aule, riflettono la passione di studenti e docenti del Centro scolastico per le industrie artistiche, più conosciuto come CSIA. Sono sensazioni che questa comunità di circa  persone desidera trasmettere ai visitatori e a chi passa vicino alla sede in via Brentani  a Lugano o magari vede allieve e allievi all’aperto a disegnare senza capire bene quale sia l’obiettivo della loro formazione. Eppure questa scuola – uno dei centri professionali cantonali coordinati dalla Divisione della formazione professionale del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport – festeggia nell’anno scolastico in corso  anni dalla fondazione,  anni durante i quali ha permesso a spiriti creativi di esprimersi con rigore proseguendo la carriera professionale in Ticino, nel resto della Svizzera e all’estero. Anche chi ora è affermato e vive lontano, ricorda con gratitudine l’esperienza scolastica al CSIA, dove ha trovato accoglienza, menti aperte e un coaching personalizzato. I rapporti con i compagni sono profondi, favorendo relazioni che si mantengono nel tempo. Abbiamo raccolto queste testimonianze direttamente nella scuola e interpellando un ex allievo grazie alla collaborazione del direttore Roberto Borioli nell’intento di dar voce a chi il CSIA lo vive o lo ha vissuto quotidianamente. A inizio dicembre la facciata del Centro è decorata con immagini che desiderano trasmettere il suo spirito. Sono il frutto di un progetto didattico al quale Noemi Menghetti di Tesserete, all’ultimo anno della formazione quale decoratrice D, ha contribuito personalmente. Le numerose iniziative che da settembre  a giugno  celebrano l’anniversario sono tutte ideate e realizzate in stretta collaborazione con gli studenti. «Abbiamo molte idee da esprimere e grazie alla scuola riusciamo a comprendere come realizzarle dando vita a progetti concreti», ci racconta con entusiasmo Noemi. «L’obiettivo è riuscire a trasformare le nostre passioni nella nostra professione. Le sezioni sono molto diverse fra loro, ma nell’insieme il principio è il medesimo». Da piccola scuola professionale di base, il CSIA è infatti diventato un istituto complesso che offre più corsi di formazione professionale di base (a tempo pieno e per apprendisti) come pure formazioni superiori. Noemi apprezza l’elevata percentuale di materie culturali che affiancano quelle prettamente professionali che spaziano, a dipendenza dei settori, dalla decorazione alla creazione di tessuti, dalla grafica alla comunicazione multimediale. Lo studio e il lavoro pratico sui progetti – quest’ultimo da svolgere anche a casa – si affiancano in «un percorso che ti fa sentire più sicuro, ti fa capire quale tipo di artista sarai in futuro». Quale sarà quindi il futuro di Noemi dopo il CSIA? «Desidero iscrivermi all’HEAD (Haute École d’art et de design) a Ginevra per seguire una formazione superiore di stilista». Mira invece ad entrare subito nel mondo del lavoro Anita Magrin, pure all’ultimo anno, ma della Scuola specializzata superiore di arte applicata. Anita ha  anni ed è giunta al CSIA da Verona dopo aver già conseguito un diploma e maturato esperienze professionali. A Lugano, dove vive la ma-

L’istituto offre corsi professionali di base, a tempo pieno e duali, ma anche formazioni superiori. (www.csia.ti.ch)

dre, ha trovato il tipo di formazione al quale ambiva: «Sono stata ammessa sulla base di portfolio, lettera di motivazione e colloquio in un percorso che mi ha attirato perché conciso (due anni). Amo molto anche lo spirito di gruppo che si è creato fra gli studenti, facilitato dal fatto che siamo solo in nove. Questo permette pure di essere ben seguiti dai docenti». Per Anita è inoltre essenziale l’aspetto tecnico, vale a dire la possibilità di entrare nel vivo di quella che sarà l’attività nel mondo del lavoro, così da essere immediatamente operativa al termine della formazione. Il percorso scolastico guida infatti ragazze e ragazzi dalla massima creatività espressa senza filtri al confronto con i limiti imposti dalla realtà produttiva, sia a livello di realizzazione, sia di budget da rispettare. Stages nelle aziende e lavori di diploma per committenti reali favoriscono questo confronto. «Collaboriamo intensamente con una ventina di aziende locali senza per questo entrare in concorrenza con i professionisti del settore, in larga misura formatisi proprio nel nostro istituto», spiega al riguardo il direttore del CSIA Roberto Borioli. «Questa interazione fa parte dell’essenza stessa della scuola da sempre. Il progresso tecnologico ha messo a disposizione nuovi strumenti di lavoro per esprimere e concretizzare le idee, ma il focus rimane il prodotto, ideato da esseri umani affinché sia utilizzato da altri esseri umani». Vicino agli studenti anche in qualità di docente di Marketing e Semiologia della forma, il direttore aggiunge: «Il CSIA non può insegnare ad avere buone idee. Il suo compito è quello di confrontare ragazze e ragazzi con le loro potenzialità, mostrando i metodi da seguire per poter giungere in modo strutturato al progetto e alla sua realizzazione. La centralità della persona è la forza di questo campo, confrontato, come d’altronde tanti altri, con un’agguerrita competizione e l’esigenza di un aggiornamento costante». Gli ex studenti dimostrano però che dal CSIA si esce con le competenze necessarie per raccogliere queste sfide. A Zurigo abbiamo raggiunto telefonicamente Luca Viglianti,  anni, Visual & Art Director D presso PKZ e copresidente dell’Associazione svizzera Polydesign D. Partito dopo l’apprendistato quale decoratore D per imparare il tedesco, il giovane ticinese è rimasto a lavorare e vivere nella città sulla Limmat, i cui sbocchi nel settore sono maggiori. Racconta Luca Viglianti: «Ho lavorato a lungo per Globus e per un’azienda internazionale di store design, contri-

buendo a progetti internazionali. La nostra professione è in continua evoluzione e attraverso l’associazione vogliamo impegnarci per migliorare la sua conoscenza da parte del pubblico e garantire una formazione al passo con i tempi». Dall’attenzione concentrata sulle vetrine il cliente è passato all’esperienza emotiva all’interno del negozio giungendo oggi – ci spiega il nostro interlocutore – alla ricerca dello sfondo «instagrammabile». Video e immagini da postare sui social da parte dei clienti condizionano quindi il lavoro dei decoratori. Luca Viglianti: «Il nostro ruolo è evoluto anche all’interno dell’organizzazione aziendale. Siamo in effetti chiamati a svolgere una funzione ponte fra il marketing e la vendita. La nostra presenza fisica negli spazi di vendita permette di offrire al primo feedback e nuovi input. Tutti i settori lavorano secondo una precisa visione che ciclicamente propone al cliente nuove storie nelle quali immergersi e provare emozioni, quali ad esempio il tema natalizio o quello estivo delle vacanze. Oggi i negozi offrono ambienti sofisticati, arricchiti di caffè o altri spazi riservati a esperienze che vanno oltre l’acquisto di un prodotto». Nella sua articolata attività professionale a Luca Viglianti capita ancora di contattare specialisti di altri rami ex compagni di scuola al CSIA. «Innanzitutto quanto imparato nei primi anni di formazione al CSIA mi è stato molto utile anche nelle tappe successive della carriera» precisa Luca. «Ricordo un mondo molto aperto che ha permesso alle mie prestazioni scolastiche di decollare. I docenti hanno sempre lasciato grande spazio alla nostra creatività, spronandoci in maniera positiva ad esprimere al meglio il nostro potenziale e trasmettendoci tanta forza. Grazie a un gruppo di studio ristretto, abbiamo potuto beneficiare di un coaching personalizzato e di legami fra pari che ancora oggi rappresentano validi contatti professionali». I  anni del CSIA vengono celebrati in questi mesi dentro e fuori la scuola, guardando insieme al passato e al futuro. Un’esposizione dedicata alla figura dello storico direttore Pietro Salati (-) è stata allestita lo scorso autunno negli spazi dell’atrio e della biblioteca, mentre una gigantesca caffettiera di metallo è stata restaurata e riposizionata all’entrata quale installazione informativa sugli eventi. La facciata che si rinnova, l’installazione urbana prevista in centro Città la prossima primavera, un concorso fotografico sono invece segni presenti e futuri del CSIA, scuola, ma prima ancora comunità animata dalla passione per l’arte e il design.

Riccardo De Gottardi

L’Ufficio federale dei trasporti conduce ogni cinque anni un rilevamento dettagliato del traffico merci attraverso le Alpi svizzere. Si possono così conoscere l’ammontare dei volumi trasportati, il mezzo di trasporto utilizzato, il genere di merce, il valico percorso, l’origine e la destinazione dei flussi. L’ultimo censimento è stato effettuato nel  e i risultati sono stati pubblicati lo scorso mese di aprile.

Ogni 5 anni l’Ufficio federale dei trasporti monitora nel dettaglio il traffico merci attraverso le Alpi svizzere, l’ultimo rilevamento è del 2019 e i risultati sono stati pubblicati lo scorso aprile È interessante soffermarci oggi sul genere di traffico che interessa il principale valico alpino svizzero, ossia il San Gottardo. Ne distinguiamo quattro: il traffico in transito, che attraversa la Svizzera da nord a sud in provenienza dall’Europa centro-settentrionale ed é diretto in Italia (e viceversa), il traffico interno, che si svolge tra il Ticino e il resto della Svizzera (e viceversa), il traffico legato alle importazioni (dall’Italia verso la Svizzera interna rispettivamente dall’Europa centro-settentrionale in Ticino) e infine il traffico relativo alle esportazioni (dalla Svizzera interna all’Italia rispettivamente dal Ticino all’Europa centro-settentrionale. Il traffico complessivo su strada e su ferro ammontava nel  a , milioni di tonnellate; il % era in transito, il % era traffico interno e un altro % era legato all’import-export. Queste proporzioni, che si sono mantenute pressoché stabili negli ultimi tre censimenti, ossia da quindici anni a questa parte, confermano quanto rilevante sia l’im-

portanza della via gottardiana nella geografia europea dei trasporti e quindi spiegano da un lato l’interesse dei Paesi confinanti a nord e a sud di disporre di un percorso efficiente attraverso la Svizzera, e dall’altro l’interesse della Svizzera a gestirlo al meglio. Un tempo questa gestione aveva soprattutto rilevanti ricadute economiche e costituiva una fonte significativa di introiti per le FFS e la BLS; con gli anni queste ricadute si sono ridimensionate, scivolando talvolta perfino nelle cifre rosse. Ha invece assunto vieppiù peso l’offerta di un servizio su ferro alternativo alla strada in grado di scongiurarne l’intasamento e garantirne la sicurezza. Uno sguardo un po’ più approfondito distinguendo tra le prestazioni del traffico su strada e quelle su ferro ci mostra le specificità di ogni mezzo di trasporto. La ferrovia svolge una funzione nettamente preponderante nel traffico di transito, che tocca l’% del suo volume complessivo di trasporto e risulta tendenzialmente in crescita dal ; per la strada la quota del transito raggiunge il %, e verte tendenzialmente al ribasso, in linea con la politica del trasferimento del traffico dalla strada alla rotaia perseguita dalla Svizzera. Questa ripartizione dei compiti spiega anche la tendenzialmente maggiore sensibilità dell’economia nazionale e cantonale alle condizioni del traffico stradale al San Gottardo. Queste ultime incidono in modo più diretto sugli scambi commerciali di loro immediato interesse, ossia quelli legati soprattutto all’import-export. Va comunque rilevato che nel traffico interno il ruolo della ferrovia è molto forte. Basti dire che nel  il volume di merci trasportate su ferro tra il Ticino e i Cantoni al nord delle alpi (e viceversa) ha raggiunto gli , milioni di tonnellate contro gli , milioni che hanno scelto la strada.

Traffico merci su ferrovia al San Gottardo nel 2019 per genere, in 1000 t 508.9; 3%

471.3; 3% 1673.1; 11%

import export interno transito

12458.7; 83%

Traffico merci su strada al San Gottardo nel 2019 per genere, in 1000 t

1280.5; 17%

import 3789.8; 51%

996.8; 13%

export interno transito

1384.3; 19%


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 3 gennaio 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ

A spasso nella biodiversità

Editoria ◆ In un libro tanti spunti per delle escursioni nelle zone naturali protette del Ticino, per incuriosire e per spiegare l’importanza della tutela degli ambienti naturali Elia Stampanoni

Passeggiare nella natura è un’attività sempre apprezzata e in tempi di pandemia ha assunto un ruolo ancor più importante, con molte persone che si sono ritrovate all’aria aperta forse anche un po’ per caso o per necessità. Il Ticino è d’altronde ricco di aree di svago e anche di zone naturali protette, dove la gita si fa ancora più interessante. Vi si può semplicemente transitare lasciandosi ammaliare dalle bellezze del paesaggio, ma è anche consigliabile soffermarsi, andando a scrutare nei vari ambienti, alla ricerca o alla scoperta delle specie animali e vegetali che vi abitano. Un valido spunto è il libro Alla scoperta della biodiversità, pubblicato nel  da Ivan Sasu, Eric Vimercati e Marcello Martinoni, un biologo, un ingegnere ambientale e un geografo-antropologo. Il testo propone di fatto  itinerari in alcune delle zone protette del Ticino, andando a toccare tutti i distretti e spaziando dall’alta montagna al fondovalle, dalle gite impegnative alle più facili camminate. La scelta dei luoghi, come spiega Martinoni, «è scaturita da un confronto tra la mappa dei vari ambienti protetti a livello federale e cantonale, con i luoghi in cui era bello fare delle passeggiate. Abbiamo pure considerato una distribuzione a livello territoriale e di tipologia di percorsi, con l’obiettivo di far scoprire la natura nella sua complessità, anche quella dietro l’angolo di casa». Per ognuna delle escursioni, gli autori hanno cercato d’illustrare, «con un linguaggio accessibile a tutti, le particolarità degli ambienti naturali e dei paesaggi che si percorrono», iniziando a raccontare l’itinerario, descrivendolo passo per passo. Il percorso scelto si può individuare abbastanza facilmente, sia appoggiandosi alla cartina e alle descrizioni inserite nel volume, sia poi seguendo le cartellonistiche esistenti sui luoghi, dato che le gite ripercorrono sostanzialmente delle vie già esistenti e parte della rete

sentieristica (a volte anche di altri percorsi naturalistici). Il libro è abbastanza corposo e il peso delle sue oltre  pagine supera di poco gli  grammi, ma un posto nello zaino glielo si può trovare. Le distanze e le difficoltà dei  itinerari sono come detto molto variabili: dalla gita alle Bolle di Magadino che può anche essere relativamente breve, fino alle circa otto ore di cammino da prevedere per le gite in Greina, in Val Malvaglia, in Valle Morobbia oppure ai Denti della Vecchia e Fojorina. Spesso ci sono delle varianti per allungare o accorciare i percorsi, sui quali il testo si sofferma con indicazioni su natura e paesaggio. Anche con il supporto di circa  immagini, che sono poi riprese nell’indice fotografico, gli autori segnalano gli aspetti caratteristici della zona frequentata, con indicazioni su flora, fauna e funghi. Nelle pagine d’introduzione si trovano inoltre alcune nozioni basilari d’approfondimento, per capire per esempio meglio cosa sono, quali peculiarità e quale importanza hanno le torbiere, le paludi, le zone golenali, i siti di riproduzione degli anfibi o i prati e i pascoli secchi. Non mancano i suggerimenti e le regole di comportamento per percorrere le gite, ricordando anche alcune precauzioni di sicurezza. In caso si volessero approfondire alcuni temi o vocaboli, un sintetico glossario nell’appendice spiega diversi termini, fenomeni o altre parole legate all’ecosistema, segnalate con un asterisco nel testo. Come per esempio nella gita di Gola di Lago, dove si parla anche di massi erratici, depositi morenici, torbe e altre particolarità da scoprire lungo il tragitto che, in circa cinque chilometri, permette di ammirare questa zona partendo dalle torbiere e paludi d’importanza nazionale. Ci sono anche qui delle varianti e delle altre attività, ma l’escursione ruota attorno a questi elementi naturali d’in-

La torbiera di Gola di Lago. (E. Stampanoni)

dubbio interesse, a cui s’aggiungono piante acquatiche e carnivore (insettivore) che, con un buono. spirito d’osservazione, un po’ di fortuna e le dovute conoscenze, il libro invita e aiuta a scoprire. Attorno a Gola di Lago non sarà una rarità poter osservare altre specie animali (come libellule o anfibi) o vegetali (come giunchi o altre erbacee), ma anche semplicemente compiere questo suggestivo circuito immersi nella natura, lasciandosi incuriosire dalla diversità del territorio e dei suoi abitanti. Un’altra gita proposta s’inoltra nelle Bolle di Magadino, forse una delle riserve naturali tra le più conosciute. In un’area relativamente ristretta e inserita tra le  zone umide d’importanza internazionale definite dalla Convenzione di Ramsar, ci sono di fatto siti di riproduzione per gli anfibi, corridoi faunistici, zone palustri e paludi, ma anche zone golenali, sempre d’importanza nazionale o almeno sovraregionale. Osservare gli uccelli, ascoltare il canto delle raganelle, ammirare le lucciole nelle cal-

de estati o semplicemente partecipare a una passeggiata alla scoperta di questi ambienti naturali, sono alcuni dei suggerimenti inseriti nel libro, che propone sia una gita partendo da Tenero (Bolle settentrionali), sia una da Magadino (Bolle meridionali). Una volta entrati in quest’ambiente, si viene effettivamente travolti e coinvolti dalla complessità della natura e, osservando i canneti, ci sono buone probabilità di scorgere la Cannaiola comune, un piccolo uccello che nidifica proprio attorno agli steli delle Cannucce di palude. Ogni gita si conclude quindi con delle curiosità e un approfondimento che vanno a toccare altri temi legati all’ambiente e alla biodiversità. Lo scopo, come sottolinea Martinoni «è incuriosire tutte le persone al valore della biodiversità e spiegare l’importanza della tutela degli ambienti naturali». Alla stesura del testo, oltre ai tre curatori già citati e a Davide Quacchia in redazione, hanno collaborato molti altri specialisti del settore, con contributi, fotografie e l’im-

portante lavoro di revisione. Per la realizzazione ci sono voluti quasi  anni, dall’idea iniziale alla stampa, anche se il lavoro concreto si è concentrato negli ultimi - anni, nei ritagli di tempo da parte degli autori e con l’apporto professionale di numerose persone. Un assaggio di quattro delle gite proposte si può visualizzare online sul sito dell’Associazione PROgetti non profit (A-Pro), entità senza scopo di lucro che ha per obiettivo la promozione della qualità di vita e di uno sviluppo sostenibile. A-Pro si è anche impegnata nella promozione del libro, alla cui realizzazione hanno collaborato e contribuito pure la Società ticinese di scienze naturali (STSN) e il Dipartimento del territorio del Cantone Ticino, oltre che altri sostenitori, tra cui una quindicina di comuni. Bibliografia Sasu I., Vimercati E. Martinoni M.: Alla scoperta della biodiversità; Salvioni Edizioni, 2021. www.a-pro.ch Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ

Epatite virale: attenzione alla mancata diagnosi Medicina

Episodi acuti di questa malattia possono insorgere inaspettati, cronicizzare ed essere a lungo asintomatici

Maria Grazia Buletti

«L’epatite virale acuta è un’infiammazione del fegato diffusa e causata da specifici virus epatotropi che usano diverse modalità di trasmissione». A parlare è l’epatologo e vicedirettore dell’Epatocentro Ticino Lorenzo Magenta che evidenzia così l’importanza di conoscere una patologia complessa per diversi aspetti: «Molti casi si risolvono spontaneamente, ma diversi altri progrediscono verso l’epatite cronica e, occasionalmente l’epatite virale acuta progredisce fino all’insufficienza epatica acuta (fulminante)». Tutto è pure complicato dal fatto che «ad oggi, sono noti ben  tipi di epatite virale, determinati dai cosiddetti virus epatici maggiori: A, B, C, D ed E». Dunque, le epatiti virali rappresentano ancora oggi uno dei principali problemi di sanità pubblica a livello mondiale e nel  l’OMS stima che  milioni di persone nel mondo vivono con un’infezione cronica da epatite B o C, e  milione e  mila persone muoiono a causa delle complicazioni a livello epatico causate da infezioni. «L’epatite A ha cause di tipo alimentare e, anche se può manifestarsi con una certa gravità, si risolve normalmente da sé; l’epatite D colpisce circa il  percento delle persone che hanno contratto un’infezione da epatite B, e la E è pure a trasmissione alimentare, soprattutto attraverso l’ingestione di acqua contaminata o fegato di maiale poco cotto». Il dottor Magenta spiega che è diverso il discorso per l’epatite B: «Si tratta di una delle più comuni infezioni croniche a livello mondiale, ed essendo un virus fortemente oncogenico, è la più importante causa di epatocarcinoma». Lo dimostrano i dati OMS: «Nel mondo, sono circa  milioni i portatori cronici che hanno un’infezione da epatite B (HVB); di questi si stima che solo il  per cento ne sia consapevole e l’OMS afferma che nel  sono morte circa  mila persone a causa delle conseguenze di epatite B».

Il Dott. Lorenzo Magenta, epatologo e vicedirettore dell’Epatocentro Ticino, con una paziente. (S. Spinelli)

Dal canto suo, Magenta spiega che questo virus si trasmette da madre a figlio durante la nascita e il parto («purtroppo, l’- per cento dei bambini che contraggono l’infezione nel primo anno di vita cronicizzano»), come pure attraverso il contatto di sangue o altri fluidi corporei, inclusi i rapporti sessuali con un partner infetto, l’uso di droghe per iniezione che comporta la condivisione di aghi e siringhe. «Africa e Asia sono Paesi con la più alta incidenza di infezioni croniche (Paesi ad alta prevalenza) con più dell’ per cento di popolazione positiva e in cui la probabilità di contrarre l’infezione durante la vita supera il  per cento. L’Occidente è per contro un’area “a bassa prevalenza” perché la vaccinazione a tappeto è la migliore prevenzione di massa che si sia potuto attuare». Vaccinazione ad

alta efficacia e assolutamente consigliabile, «in quanto gli attuali trattamenti e le cure fino ad oggi a disposizione permettono un ottimo controllo della malattia, ma non l’eradicazione del virus che potrebbe manifestarsi nuovamente nel corso della vita». Se per l’epatite B esiste la potente soluzione del vaccino, non si può dire altrettanto per l’epatite C (HVC), «che è responsabile nel mondo di circa  mila morti per cause epatiche all’anno e più comune causa di epatite cronica, cirrosi epatica, carcinoma e trapianto epatico nei paesi occidentali». D’altra parte, con la sua campagna di sensibilizzazione lanciata a settembre dello scorso anno, Hepatitis Schweiz stigmatizza il fatto che «di questa malattia infettiva si parli poco», e conferma che l’epatite C è guaribile attraverso nuove e magni-

fiche terapie: «Anche se si stima che in Svizzera  mila persone convivano con questa patologia, fra le quali si contano  morti ogni anno». Le situazioni a rischio assomigliano a quelle dell’epatite B: «Parliamo di trasmissione ematica, per cui sono a maggior rischio le persone che hanno ricevuto unità di sangue in Svizzera prima del  (quando si è cominciato a testare le sacche di sangue e ad escludere la presenza del virus prima della trasfusione), e chi si inietta o inala droghe in condizioni di scarsa igiene». Poiché un tempo le infezioni erano più frequenti, il dottor Magenta fa notare che le persone nate tra i  e il  ne sono particolarmente colpite. Un fatto curioso riguarda gli immigrati di prima generazione provenienti dalla regione mediterra-

nea europea: «Sono gruppi particolarmente colpiti, come ad esempio gli italiani delle regioni a sud che sono stati infettati nei loro paesi di origine attraverso le misure paramediche in auge a quei tempi: pensiamo ad esempio alla signora che passava di casa in casa a fare le iniezioni, magari in condizioni igienico sanitarie non proprio ortodosse». A causa delle gravi conseguenze a cui una cronicizzazione dell’epatite C potrebbe condurre, il nostro interlocutore parla della strategia svizzera attuale che consiglia test HCV su iniziativa del medico, ma per ora solo nei gruppi a rischio: «Si tratta di test molto importanti, da fare soprattutto nelle fasce a rischio, perché parliamo di una patologia che si scopre spesso in fasi avanzate, quando il fegato presenta già una cirrosi o un tumore». Il vicedirettore dell’Epatocentro Ticino, attivo in prima linea su questo tema, spiega che «l’epatite C in Ticino è diventata una malattia rara proprio per questo tipo di approccio, a dimostrazione dell’importanza di vaccinarsi per l’epatite B, e di trovare l’infezione di epatite C in una fase precoce per permettere di attuare una terapia. In entrambi i casi si evita la cronicizzazione con le gravi conseguenze del caso». Dal canto suo, l’associazione Hepatitis Schweiz coordina la rete «Strategia svizzera per l’epatite» con l’obiettivo di eliminare l’infezione di epatite virale entro il : «Ciò significa una riduzione entro quell’anno del  per cento di nuove infezioni, morti, cancro al fegato e trapianti di fegato dovuti all’epatite virale». Allo stesso tempo, «il tasso di vaccinazione contro l’epatite B e il numero di diagnosi devono essere implementati». Questi obiettivi si basano su quelli globali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: l’eliminazione globale di queste patologie dalle possibili conseguenze che possono rivelarsi estremamente serie.

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Lo zafferano è un prodotto preziosissimo dalle molte virtù

Eliana Bernasconi

Per lo storico studioso di colonizzazione asiatica John Kead, è stata la ricerca di nuove strade per il commercio delle spezie, da Vasco de Gama a Magellano e Cristoforo Colombo, a spingere l’uomo alla conoscenza della geografia del pianeta. Dominare il mercato delle preziose spezie che oggi troviamo allineate sui banchi dei supermercati in tempi lontani significava potenza, ricchezza e prestigio. Da millenni lo zafferano, Crocus Sativus L, della famiglia delle Iridaceae, era usato come medicinale, condimento e profumo, gli si attribuivano virtù magiche e soprannaturali. Si racconta che Semiramide, leggendaria regina assiro babilonese, lo coltivasse nei giardini pensili per ricavarne essenze odorose. Le etimologie del nome sono ebraiche e arabe, pare che in persiano Za’faran significhi «chioma degli angeli». Oggi è chiamato «l’oro rosso» perché è la spezia più costosa del mondo, difficile stabilire il costo di un solo Kg , oscilla tra i  e i . franchi… Incidono sul prezzo provenienza, tempi e costi

della raccolta che si effettua cogliendo il bellissimo fiore violaceo ed estraendo con grande delicatezza gli stimmi (o fili) dai pistilli. «Fili» che vengono poi essiccati e macinati:  fiori producono un solo grammo di questa pregiata polvere! La pianta di Zafferano non cresce allo stato selvatico, giunge dal Medio

oriente. Originaria dell’Iran, dell’India e della Cina, è introdotta in Europa nel settimo secolo dagli Arabi; leggi severissime in Spagna prevedevano la condanna a morte per chiunque lo esportasse. Oggi è coltivato in alcune regioni di Italia, Svizzera e Ticino. È all’origine del celebre risotto alla milanese; un particolare pigmenCon 150 fiori si ottiene un grammo di prodotto finito. (Wikipedia)

to, la crocina, dona la tonalità giallo dorata agli alimenti con cui entra in contatto. La leggenda racconta che in occasione del matrimonio della figlia di Valerio di Fiandra, un maestro vetraio belga che realizzava le vetrate del Duomo, un suo giovane aiutante, complice il cuoco, escogitò lo scherzo di colorare con la polvere gialla il risotto del pranzo di nozze. Il risultato fu stupefacente e diede origine alla straordinaria ricetta della cucina italiana. Nella medicina ayurvedica e cinese lo zafferano aveva funzioni antidepressive: studi recenti hanno confermato le sue proprietà e evidenziato un miglioramento di memoria e apprendimento. Elementi contenuti negli stigmi, o stimmi, agiscono sugli ormoni responsabili del tono dell’umore e dei processi decisionali, la dopamina e la serotonina. Leggiamo con un certo scetticismo che lo zafferano potrebbe venire in aiuto della nostra vista, rallentando la degenerazione maculare della parte centrale della retina, la Macula, che si manifesta dopo

i  anni. Ne chiediamo conferma al Prof. Fabio Firenzuoli, autore di testi, medico esperto in Fitoterapia e Fitovigilanza, creatore del Centro ricerca in Fitoterapia dell’Ospedale universitario di Firenze. «Lo zafferano non è soltanto una spezia», ci rassicura, «ma una branca medicinale vera e propria. Ricerche e lavori clinici ne accettano l’uso: non crea effetti collaterali, non espone a rischi di interazione, è uno dei pochi strumenti che abbiamo a disposizione e nei casi non avanzati, per la sua attività di tipo antiossidante e preventiva, può contribuire a migliorare il tessuto nervoso. Può essere un supporto insieme ad altre terapie soprattutto per gli anziani: grazie a questa sua qualità di agire sulle cellule nervose viene considerato anche un integratore antidepressivo dell’umore». Occorre evidentemente personalizzare la terapia con una ricetta del medico, anche se come noto, ci informa ancora il nostro interlocutore, i costi dei prodotti che lo contengono non sono certo modesti.


12 Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 3 gennaio 2022

TEMPO LIBERO Il Veneto in bottiglia Un viaggio enologico attraverso una delle più ricche e rinomate regioni vitivinicole italiane

Idee gustose per vegani La zuppa calda aiuta ad affrontare i rigori invernali: ecco quattro appetitosi suggerimenti

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Il profumo delle orchidee Alcuni di questi bellissimi fiori sono conosciuti anche per il loro aroma delicato e raffinato

Bricolage Divertenti passatempi creativi per i pomeriggi delle vacanze: questa settimana la Befana portadolcetti

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Uno stile di vita rilassante e creativo Tra il ludico e il dilettevole

Se per alcuni l’amaca è un esercizio di pigrizia improduttiva, per altri è sinonimo di ozio ristoratore

Shutterstock

Sebastiano Caroni

Non c’è nulla di più estraneo al freddo stagionale, e alla brevità delle giornate invernali, dell’immagine di un’amaca stesa fra due alberi in una giornata estiva che trabocca di luce e che sembra non finire mai. Una simile immagine figurerebbe egregiamente su un manifesto o dépliant pubblicitario che invita a tuffarsi in un mondo da sogni, regalandosi un’indimenticabile vacanza. Perché tutti noi, chi più chi meno, avvertiamo il bisogno di viaggiare, anche solo un poco, o solo con l’immaginazione: a maggior ragione in questi tempi incerti, dove il viaggio è diventato quasi un lusso proibito. Anche in queste circostanze, l’immagine di un’amaca può portare una ventata di tranquillità e suggerire un’alternativa allo stress, alla pesantezza, e al grigiore di certe giornate. Storicamente, del resto, l’amaca è legata ai climi tropicali. Lo storico spagnolo Gonzalo Fernander de Oviedo Valdes sostiene che sia stato Colombo a portarla in Europa di ritorno dal Nuovo Mondo. A quelle latitudini, e in presenza di climi aridi e tropicali, gli indigeni

la usavano soprattutto per il confort e la praticità che garantiva: non è un mistero se, grazie alla sua tradizionale struttura a ragnatela, l’amaca consente di dormire comodamente all’aria aperta; e all’occorrenza è facile spostarla e risistemarla altrove, quando le circostanze lo necessitano. La possibilità di rimanere sospesi senza toccare il suolo la diffuse ben presto anche sulle grandi navi che solcavano i mari. Grazie ad essa i marinai poterono finalmente abbandonare le cuccette anguste e sporche delle stive, per trasferirsi sotto l’invitante cupola del cielo stellato.Al giorno d’oggi, l’amaca è molto ambita soprattutto da chi, nelle lunghe giornate estive, ama riposare all’aria aperta lasciando vagare i propri pensieri. Tuttavia, anche chi si adagia su queste comode ragnatele di corde è suscettibile di evocare idee e impressioni contrastanti. C’è chi guarda con sospetto coloro che osano affidare le proprie rêveries alla comodità di un’amaca. E c’è chi, all’opposto, riconosce i benefici fisici e mentali di un sano riposo in mezzo alla natura. L’amaca

è un dispositivo culturale che, come un quarzo colpito dalla luce, raccoglie e rifrange contrasti e contraddizioni tipici della nostra società, della nostra cultura e della nostra mentalità. In quanto a oggetto di uso comune, rinvia tanto all’idea, tristemente nota, secondo cui l’ozio è il padre dei vizi, quanto alla concezione, più positiva, dell’ozio come riposo rigenerante.

Sembra che questo particolare giaciglio sia stato importato da Cristoforo Colombo, di ritorno dai suoi viaggi È ben noto come, nella società contemporanea, l’ozio sia un tema controverso: spesso è visto come qualcosa di dannoso, dissipativo e improduttivo, altre volte gli si riconosce il ruolo di garante di un sano equilibrio fra corpo e mente. L’ozio è uno spreco di tempo inutile che dischiude un’insidiosa pigrizia, oppure è una risorsa di cui l’essere umano può giovarsi, che gli permette di realizzare alcune del-

le sue aspirazioni più profonde? Non è facile mettere d’accordo detrattori e sostenitori; è altresì probabile che alla base ci sia una spaccatura fra concezioni divergenti della parola e dell’esperienza dell’ozio. Che cosa è l’ozio, come va definito? L’ozio è pura passività oppure implica una certa qual forma di attività? L’ozio è produttivo, oppure è un tempo morto, improduttivo? Queste domande ci riportano al grande dilemma: l’ozio è un vizio o una virtù? Il sociologo italiano Domenico De Masi, noto per le sue riflessioni sul mondo del lavoro e per la sua predilezione per lo smart working, non ha dubbi: l’ozio non solo è una virtù, ma permette altresì all’essere umano di esprimere al meglio il suo potenziale creativo. Da qui il titolo di una delle sue pubblicazioni più note: Ozio creativo che – precisa il sociologo –, non equivale a «pigrizia o disimpegno» ma si manifesta in «quello stato di grazia, comune a molte attività intellettuali, che si determina quando le dimensioni fondamentali della nostra vita attiva – lavoro per produrre ricchezza,

studio per produrre conoscenza, gioco per produrre benessere – si ibridano e si confondono». L’ozio concepito in questi termini coincide con una sorta di pienezza creativa in cui l’essere umano si riconosce e si riscopre. All’opposto del lavoro alienante e disumanizzante, l’ozio si riconcilia pienamente con l’immagine dell’amaca, che De Masi esalta e eleva a emblema di uno stile di vita all’insegna del benessere: «puoi startene sdraiato per ore – afferma il sociologo –, mentre la tua mente lavora vorticosamente. L’amaca è l’opposto della catena di montaggio. E, forse, è l’oggetto più bello e più funzionale che sia mai stato creato dagli esseri pensanti». Visto così, l’ozio è certamente un’esperienza da coltivare, diffondere e proteggere. Non è impresa facile, in questi tempi di confinamenti, privazioni e limiti, nei quali ognuno si ingegna per trovare delle isole di tranquillità nell’oceano di incertezze che attraversiamo. La speranza è che poi, come sempre, l’estate torni più viva che mai, con le sue amache sospese nella luce accecante.


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Ghino di Tacco e la fortezza di Radicofani Reportage

Sulle tracce del famoso brigante toscano, in Val d’Orcia

Simona Dalla Valle

Vi sono luoghi così fortemente radicati nell’immaginario collettivo, che solo pronunciarne il nome scatena sensazioni di benessere e armonia. È il caso della Val d’Orcia, una zona rurale connotata da intensi flussi turistici legati a itinerari storici, religiosi ed enogastronomici. I sapori intensi del formaggio, dei salumi e dei raffinati vini locali, la natura rigogliosa con i caratteristici filari di cipressi, le tratte degli antichi viandanti oggi percorse con devozione e misticismo… ma è sempre stato così? Nel cuore del Medioevo, quando la celebre Strada Francigena (anche nota con il nome di Via Francesca o Romea, perché conduceva a Roma) era percorsa da militari, religiosi e mercanti, i pericoli erano sempre in agguato, ma già in tempi più antichi il monaco Bernardo il Saggio la descriveva come popolata da «homines mali, fures et latrones» (uomini malvagi, briganti e ladroni). In questo contesto sinistro si situa l’ambigua figura di Ghino di Tacco. Per presentarlo è necessario fermarci un attimo e parlare di Radicofani, un comune di un migliaio di abitanti in provincia di Siena che sembra esistere, con il nome di Callemala, almeno sin dall’anno . Il paese è dominato da un’altura di  metri, situata in una zona intermedia fra la Val di Chiana e il monte Cetona, delimitata a nord e a est dal corso dell’Orcia, a ovest dalla valle del Paglia e dal Monte Amiata e a sud dall’alto Lazio. Un luogo perfetto per avere il massimo controllo sul territorio, soprattutto su quei tracciati stradali che attraversano fin dall’antichità il distretto territoriale, localizzato su di un apparato vulcanico formatosi circa , milioni di anni fa. Sul paese si staglia una fortezza il cui anno di costruzione è ignoto, ma esistente già nel . La sua storia è dominata da aspre contese a causa della posizione strategica: lo sviluppo del borgo di Radicofani è legato all’importanza della Via Francigena, dal Medioevo il principale collegamento tra Roma e Firenze. La fama dell’itinerario fu legata per secoli a quella della florida abbazia di San Salvatore sul Monte Amiata; con il declino dell’abbazia, la Strada Francesca divenne mal frequentata e un poco losca, e gli abitanti del fondovalle si spostarono più in alto avvicinandosi alla rocca di Radicofani. Nel  Radicofani su sottomessa dalla Repubblica senese e nel , con l’avvento al potere di Cosimo I Medici, si realizzò in Toscana un efficiente sistema fortificato. La fortezza perse progressivamente di importanza militare e assunse il ruolo sempre crescente di zona di traffico commerciale, tanto che alla fine del Cinquecento i Medici eressero la Posta, un grande edificio-albergo che farà di Radicofani una delle tappe più importanti sul percorso tra Roma e Firenze – almeno fino all’avvento dell’automobile. Nel  Radicofani passò sotto il dominio dei Medici, che dedicarono grandi cure alla via Francigena al fine di dirottare la gran parte dei flussi commerciali attraverso i loro stati e di rendere più sicuro l’itinerario, divenuto ormai tristemente famoso a causa

La Fortezza di Radicofani si staglia sul borgo; qui sotto, la porta di accesso al paese, attraverso le antiche mura. Le origini del castello risalgono al IX secolo (sul sito www.azione.ch sono pubblicate altre immagini). (Simona Dalla Valle)

di svariati episodi di brigantaggio. La strada divenne la via di comunicazione più utilizzata per il transito fra Roma, l’Italia settentrionale e i maggiori centri europei. E qui arriviamo a Ghino. Nato al Castello della Fratta intorno al , rampollo della famiglia ghibellina Cacciaconti, Ghino di Tacco ebbe una vita rocambolesca. Nel  il padre e lo zio furono fatti catturare dal giudice Benincasa da Laterina e in seguito decapitati in Piazza del Campo a Siena. Il giovane Ghino fuggì dalla città e divenne a tutti gli effetti un bandito. La notte di Natale del , insieme a un gruppo di seguaci, Ghino conquistò il castello di Radicofani, allora di proprietà pontificia, dal quale diede il via a un’intensa attività di controllo su qualunque cosa transitasse sul percorso. Per vendicarsi di Benincasa, lo andò a cercare a Roma e lo uccise, decapitandolo, nei palazzi del Campidoglio. Portata con sé la testa a Radicofani, la gettò sulla torre perché la mangiassero i falchi. Nel VI Canto del Purgatorio, Dan-

te Alighieri fa citare l’episodio proprio a Benincasa, il quale si presenta così: «qui v’era l’aretin che da le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte». Braccia fiere: feroci o forti? Più probabile la seconda opzione: la simpatia per Ghino da parte dei letterati medievali era molta. Se Jacopo del-

la Lana ci tenne a sottolineare che la ferocia con cui aveva vendicato la morte del padre era del tutto eccezionale e anomala per il buon carattere di Ghino, Benvenuto da Imola, nel suo commento alla Commedia di Dante, lo descrisse come uno strano Robin Hood, prodigo verso i poveri

e gli studenti, che toglieva i denari ai ricchi, ma lasciava loro un asino per continuare il viaggio. Insomma, un vero bandito-gentiluomo. L’uccisione del giudice aveva reso Ghino un personaggio sgradito ai Romani e Papa Bonifacio VIII fu più volte sollecitato a prendere provvedimenti contro di lui. Ma in sua difesa si schierò l’abate di Cluny, uno degli uomini più potenti di Francia, che il Papa teneva in grande considerazione, soprattutto in quel periodo di aspri contrasti con Filippo il Bello. Per conoscere i motivi di tale simpatia bisogna fare riferimento al Decamerone di Boccaccio. Nella Decima Giornata si racconta di quando, tempo indietro, percorrendo la Francigena di Radicofani diretto alle terme di San Casciano per curare lo stomaco dagli eccessi di cibo e di buon vino, l’abate fosse stato rapito e rinchiuso in una cella del castello di Ghino, dove per alcuni giorni fu nutrito a fave secche, pane e vernaccia. Con quella dieta che Ghino sapeva essere benefica grazie ai passati studi di medicina, l’abate guarì. In seguito liberato e invitato a banchettare con i suoi uomini, l’abate rimase colpito dal bandito-gentiluomo. L’intercessione dell’uomo di Chiesa diede i suoi frutti: non solo Bonifacio VIII perdonò Ghino, ma lo chiamò a Roma per assegnargli una rendita e nominarlo priore dell’ordine cavalleresco degli Spedalieri di San Giovanni in Gerusalemme. Come tale, Ghino per tre anni si occupò della difesa del Papa e a settembre del  ad Anagni sventò una congiura contro il Pontefice. Il Papa, tuttavia, forse a causa dello stress per il pericolo corso o delle già precarie condizioni di salute, morì il mese successivo. Ghino decise dunque di rientrare a Siena, ma si racconta che poco dopo, all’età di  anni, fu colto in un agguato e ucciso nei pressi di Sinalunga. Radicofani ricorda la storia di Ghino di Tacco con una piazza e un monumento a lui dedicati.


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TEMPO LIBERO

Nella terra dell’Amarone Bacco giramondo

Le colline del Garda e della Valpolicella-Veneto – Prima parte

Davide Comoli

Alcuni reperti fossili di ca.  milioni di anni fa, rinvenuti nella «pescaia» di Bolca di Vestenanova sui Monti Lessini, avevano fissato nella roccia l’immagine di alcune foglie ed infiorescenze delle Ampelidee, progenitrici dell’odierna Vitis vinifera sativa. L’uomo non era ancora comparso sul pianeta e per ritrovare altri segni degni di nota sul nostro tema, si deve arrivare all’era delle palafitte, lungo le coste del lago di Garda, sia sulla sponda bresciana, sia a Peschiera e Lazise nel Veronese, dove furono rinvenuti vinaccioli ed utensili collegati «forse» a rudimentali processi di vinificazione. Questo testimonia l’intenso legame che il Veneto ha con la viticoltura. Forse è proprio in virtù di questa secolare tradizione che il territorio di questa regione si presenta molto vario e ricco dal punto di vista ampelografico. Intorno al  a.C. i Veneti si insediarono nella regione, seguiti tra il VII e V sec. a.C. dagli Etruschi e dai Reti Arusmati, il loro incontro portò un certo successo nell’arte della vinicoltura. La fama del vino Retico arrivò con la dominazione romana e più tardi con le invasioni barbariche, che portarono alla decadenza la coltura della vite. Intorno all’anno  la coltura della vigna pare diventare l’attività prevalente, prosperando sotto la Serenissima Repubblica di Venezia. Tra momenti di alta produzione e altri più drammatici come l’inverno del  e la «filossera» del secolo scorso, oggi il Veneto è la principale regione italiana per quantità di uva prodotta, ma anche per la produzione di vini, quasi  milioni di ettolitri, su di una superficie vitata di ca. ’ ettari, dove un ruolo di particolare rilevanza per la penetrazione nei vari mercati, è stata data dal «fenomeno» Prosecco, ma è il Soave, con le sue varie tipologie di vini e i suoi  ettari collocati sulle colline della parte orientale di Verona, che detiene la palma del «più esteso vigneto d’Europa». I quasi ’ kmq del territorio

San Giorgio nella Valpolicella. (Wikipedia)

Veneto, vengono occupati dal ,% da pianura, ,% da montagna e il ,% da collina, sui quali predomina un clima temperato subcontinentale, dove l’azione mitigatrice del Mar Adriatico e la protezione dai venti freddi del nord data dalle Alpi, svolgono un ruolo molto importante. Il Veneto presenta dei terreni molto variegati che permettono ai vari vitigni di esprimersi su diversi livelli di qualità. Sulle sponde limitrofe al lago di Garda (sponda veronese), troviamo due diverse zone, dove i vitigni come il Corvina, Rondinella, Molinara, Rossignola e Corvinone, si esprimono in modo diverso. Sui terreni morenico-glaciali della zona di Bardolino, troviamo vini freschi e fruttati, mentre in Valpolicella con i suoli ricchi di argilla, arenaria e calcare, danno vini ricchi di colore, corpo, speziatura e mineralità. Per ottenere vini più ricchi di profumi è diffusa la pratica «dell’uvaggio», la Corvina assicura colore, profumi fruttati, floreali e acidità, la Rondinella apporta corpo, profumi speziati e armonia, la Molinara acidità e un gusto delicatamente amarognolo. Uscendo dalla A provenienti da Milano, usciamo a Peschiera del Gar-

da e bordeggiando il lago arriviamo a Lazise, piacevole borgo lacustre, dove ci concediamo una piccola pausa concedendoci un buon bicchiere di Lugana, qui chiamato Turbiana, dai piacevoli profumi di fiori bianchi, agrumi e albicocche, la sua struttura suggerisce di abbinarlo ad un piatto locale come la «tinca con polenta». Questa è una terra tutta da bere, dove i vini si sposano a meraviglia con i piatti della tradizione scaligera. Proseguiamo in direzione nord, verso Bardolino, celebre per l’omonimo vino rosso. I suoli morenici e l’escursione termica tra il giorno e la notte, permettono di ottenere un vino dai sentori di ciliegia, frutti di bosco e una piacevole speziatura. Il Bardolino Superiore Classico è stato il primo vino rosso veneto ad ottenere nel  il riconoscimento D.O.C.G. Il rosa intenso, il frutto rosso quasi di macedonia e i profumi leggermente floreali del Bardolino Chiaretto che abbiamo gustato nella pausa di mezzodì, è stato il giusto abbinamento alla nostra «insalata estiva di pesci di lago». La Valpolicella è la zona collinare che si estende a nord di Verona, solcata dai corsi d’acqua di tre torren-

ti (qui chiamati «progni»), che dai Monti Lessini scendono verso l’Adige, formando  valli parallele, dove il paesaggio è dominato dai vigneti e da eleganti dimore. Qui allevati con la classica «pergola veronese» i vitigni sopracitati e in misura minore la Forselina, la Negrara e l’Oseleta, danno vini di prestigio come: il Valpolicella Superiore, il Ripasso della Valpolicella, l’Amarone e il Recioto. Arrivando da Bardolino, entriamo in quella che viene definita la zona Classica di produzione dei vini della Valpolicella, caratterizzata da  aree geografiche che producono vini dalle caratteristiche organolettiche differenti. A Sant’Ambrogio, famoso anche per il suo marmo rosso, su terreni calcarei, si ottengono vini longevi, strutturati e di una contenuta acidità. Scendendo a valle lungo il torrente, arriviamo a Fumane, i vigneti si trovano su rocce calcaree stratificate e i vini ottenuti hanno delle note floreali, morbidi, di corpo e una buona longevità in cantina. Salendo la Valle del progno Marano, raggiungiamo il villaggio che porta lo stesso nome, è questa una delle zone più coltivate, situata tra i - m, i suoli sono costituiti da vulcaniti basaltiche, i vi-

ni prodotti sono molto eleganti, con intensi profumi di ciliegia e prugna secca, con una buona acidità. In loco abbiamo provato tra l’altro un Recioto della Valpolicella Classico , dal colore rubino molto concentrato, al primo impatto olfattivo ci ha colpito il sentore di erbe officinali, seguito subito da profumi di confettura di frutta matura, con un finale che ci ha avvolto in un abbraccio di cacao e spezie, lo abbiamo provato con i «bussola», delicati biscotti con pinoli, canditi, mandorle, cioccolata a pezzi, pepe e noce moscata, il ricordo dei quali ci fa tornare l’acquolina in bocca. Forse il moderno Recioto è l’erede prodotto più di  anni fa con uve appassite. Scendendo una piacevole vallata bordata da colline di cipressi, arriviamo nel tardo pomeriggio a Negrar. Questa zona vanta la produzione dei «cru» più prestigiosi: su un suolo argilloso-limoso, le uve danno vini di grande struttura e longevità, con un’eleganza fuori dal comune. Nel tardo pomeriggio passando da Pedemonte, dove visitiamo la Villa Serego-Boccoli (XVI sec.), progettata dal Palladio, attraversiamo San Pietro in Cariano, storico centro politico e amministrativo della Valpolicella, dove su terreni alluvionali chiude a sud la zona Classica, producendo vini dalle note balsamiche e speziate. Con gli amici Piero ed Ercole, alla sera ci fermiamo a Pescantina, dove in località Ospedaletto siamo ospiti della famiglia Tommasi, nel complesso seicentesco di Villa Quaranta. I «bigoli (specie di grossi spaghetti) con il sugo d’anatra», vengono innaffiati da un’intrigante e fresco Valpolicella Superiore, mentre la classica «pastissada de caval» (stufato di cavallo con pomodoro), viene esaltata da un magnifico Amarone de Buris , una vera eccellenza, quasi impenetrabile alla vista, con un’incredibile concentrazione di frutta rossa: un vino grandioso che raggiunge i vertici dell’eccellenza, che il nostro anfitrione ha voluto con grande signorilità condividere con noi. Annuncio pubblicitario

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TEMPO LIBERO

Quattro zuppe per vegani Gastronomia

Sotto le Feste può succedere di avere ospiti a tavola che non desiderano prodotti di origine animale nel piatto

sare, regolate eventualmente di sale. Intanto lessate il riso nero in abbondante acqua salata al bollore per il tempo indicato sulla confezione. Disponete il riso in  ciotole e versate la zuppa. Servite ben caldo. Zuppa di tofu e noodles. Mettete  g di noodles di riso in ammollo in acqua fredda. Scaldate un filo di olio di semi in una casseruola, aggiungete uno spicchio di aglio tritato,  porro tagliato a rondelle sottili e  g di tofu (tipo solido asiatico oppure tipo conservato) tagliato a cubetti e saltate a fuoco vivace per qualche minuto. Unite  g di germogli di soia, erba cipollina tagliuzzata con le forbici, i noodles scolati dall’acqua,  cucchiai di salsa di soia,  cucchiaino di zucchero e  tazze di acqua di ammollo dei noodles e cuocete pochi minuti. Togliete dal fuoco e unite  g di anacardi tagliati grossolanamente e un peperoncino rosso tritato. Zuppa di tofu e cicerchie. Ammollate  g di cicerchie secche per  ore in acqua fredda. Mettetele in una casseruola e copritele a filo con acqua. Portate a ebollizione e cuocetele per un’ora o fino a quando non sono ben morbide, poi scolatele. Sbucciate  spicchi di aglio e  cipolla e tagliateli a rondelle. Scaldate un filo di olio in una casseruola e soffriggete gli spicchi di aglio, la cipolla e zenzero tritato a piacere. Unite le cicerchie e saltatele a fuoco vivace per insaporirle. Versate nella casseruola mezzo litro di brodo bollente vegetale, profumate con un cucchiaio di curry in polvere. Mescolate e fate cuocere a fuoco dolce per  minuti, regolate di sale. Tagliate  g di tofu (tipo solido asiatico oppure tipo conservato) a cubetti e aggiungetelo alla zuppa. Mescolate e proseguite la cottura per  minuti. Fuori dal fuoco cospargete con prezzemolo tritato.

Come si fa?

U. Wolf

Succede. Hai ospite un’amica vegana e quindi prepari piatti vegani, anche se sei un carnivoro impenitente. Ecco le zuppe che ho preparato un paio di settimane fa. Le ricette le avevo messe a punto da tempo, nel mio database, dove archivio tutte le ricette che ho scritto in più di  anni: ne ho moltissime di vegane. In due c’è il tofu, che, anche se non è il massimo del sapore, è un must proteico per i vegani, col vantaggio che, essendo insapore, si lega a tutto senza problemi. Tutto questo detto, posso o essere apprezzate da chiunque durante le feste abbia ecceduto un po’ con la carne. Sono per  persone. Zuppa di zucca e amaranto allo zenzero. Preparate un soffritto con un filo di olio e uno scalogno tagliato a fettine. Unite  g di polpa di zucca tagliata a cubetti e  cucchiaio di zenzero fresco tritato. Saltate brevemente, versate sulla preparazione  dl di brodo vegetale bollente e cuocete per  minuti. Frullatene metà e riportate a bollore. Aggiungete  g di amaranto dopo averlo ben sciacquato sotto acqua corrente e proseguite la cottura per altri  minuti o fino a quando l’amaranto non sia lessato del tutto, unendo poco brodo se necessario. Servite la zuppa ben calda, regolata di sale e di pepe e irrorata con un giro di olio. Zuppa di sedano, topinambur e riso nero. Mondate  g di sedano e tagliatelo a dadini. Lavate  topinambur e tagliatelo a dadini. Scaldate mezzo litro di brodo, unite il sedano e il topinambur e cuocete per  minuti. Mescolate  cucchiai di aceto di riso,  cucchiaio di zucchero,  cucchiaio di salsa di soia e  peperoncino tagliato a rondelle. Unite il composto al brodo, mescolate e cuocete ancora per  minuti. Stemperate  g di maizena in acqua fredda, unite anch’essa al brodo e lasciate adden-

Shutterstock

Allan Bay

Come si sa, c’è sempre un problema con i ravioli: come condirli, dopo averli lessati. La tradizione italiana dice burro e salvia, ma di burro se ne deve usare tanto. Una soluzione per quelli di carne è quella che vi descrivo in questa ricetta, utilizzando puntine, ma potete utilizzare qualsiasi tipo di carne, cuocendola il

necessario: ma se la carne è magra, occorre aggiungere un po’ di salsiccia sbriciolata. Vediamo come si fa. Ravioli di puntine al pomodoro. Per  persone. Disponete  puntine in una casseruola antiaderente, copritele con  g di salsa di pomodoro,  abbondante punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua, un mazzetto guarnito di alloro, gambi di prezzemolo e altro e  mestolino di acqua e cuocetele per  ore, unendo acqua bollente quando necessario. Intanto, mondate e spezzettate  cipolla, cuocetela con poca acqua per  minuti. Eliminate il mazzetto, togliete dalla casseruola la carne, privatela degli ossi e frulla-

tela con la cipolla, legate il tutto con  uovo leggermente sbattuto e poco grana grattugiato; regolate di sale. Tirate  g di pasta fresca all’uovo e, con la farcia formate dei ravioli, stendeteli su un vassoio infarinato. Cuoceteli in abbondante acqua bollente salata al bollore per  minuti e scolateli nella casseruola antiaderente, dove avrete fatto scaldare la salsa di pomodoro rimasta dalla cottura delle puntine; regolate di sale, unite abbondante prezzemolo tritato e profumate con pepe, peperoncino o paprika. Scaldate i ravioli, mescolando delicatamente per  minuto, unendo se necessario un poco dell’acqua di cottura, e servite.

Ballando coi gusti

Oggi due paste con verdure, piuttosto ricche, se volete aumentate un po’ le dosi e diventano quasi piatti unici.

Mezze maniche con cavoli e castagne

Gratin di pasta con zucchine, pisellini e carote

Ingredienti per 4 persone: pasta tipo mezze maniche o altra corta g 320 – cavolo g 400 – castagne lesse g 150 – 1 spicchio di aglio – 2 foglie di alloro – burro – olio di oliva – sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: pasta corta formato a piacere g 320 – besciamella g 200 – formaggio tipo crescenza g 100 – 1 porro – 2 zucchine – 2 carote – pisellini decongelati g 80 – latte – grana grattugiato – olio di oliva – sale e pepe.

Tagliate i cavoli finemente e lessateli per  minuti, scolateli e strizzateli. In una padella soffriggete lo spicchio di aglio e l’alloro in olio e burro, unite i cavoli e bagnateli con poca acqua. Aggiungete le castagne e portate a cottura fino a quando i cavoli non saranno morbidi e le castagne tenderanno a rompersi. Regolate di sale e di pepe, eliminate l’alloro. Cuocete le mezze maniche in abbondante acqua salata e scolatele  minuti prima del tempo consigliato. Calatele nella salsa di cavoli e mescolate, bagnate con acqua di cottura fino a terminare la cottura della pasta. Servite ben caldo.

Tagliate il porro e le carote a rondelle sottili e le zucchine a cubetti. Scaldate l’olio, unite il porro e rosolatelo unendo poca acqua. Aggiungete le carote e portateli a cottura per  minuti. Unite le zucchine e i pisellini, mescolate e cuocete per altri  minuti. Lessate la pasta e scolatela molto al dente. Versatela nella padella, aggiungete il formaggio ammorbidito in poco latte e la besciamella. Regolate di sale e di pepe e mescolate con cura. Trasferite la pasta in una pirofila leggermente unta. Irrorate la preparazione con poca acqua di cottura e cospargetela con il grana. Gratinate in forno a ° per  minuti, lasciate leggermente intiepidire e servite.


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Anno LXXXV 3 gennaio 2022

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TEMPO LIBERO

La Vanilla Planifolia. (Wikipedia)

Paroliere animalesco

Giochi ◆ Per giocare a Boggle, ci vogliono dadi alfabetici e una griglia con sedici caselle Ennio Peres

Mondoverde ◆ Alcuni di questi fiori, famosi per la loro bellezza, possono sprigionare aromi molto gradevoli di vaniglia o di violetta

Anita Negretti

Acquistate per la bellezza e l’eleganza dei loro fiori, alcune specie ed ibridi di orchidea hanno anche un aroma squisito, come quella di Vanilla planifolia, un’orchidea messicana conosciuta da tutti per via dei suoi frutti, largamente utilizzati in pasticceria per il gusto vaniglia. La famiglia delle orchidee è forse la più numerosa tra le piante fiorite da poter coltivare in casa, conta ben ’ specie fino ad ora catalogate e più di ’ tra ibridi e varietà creati da vivaisti. Tra le più semplici da trovare in vendita vi è la Miltonia spectabilis dai grandi fiori ed originaria del Brasile; in particolare la varietà «Moreliana» ha fiori viola acceso con il labello più chiaro, striato di bianco ed un persistente profumo di violetta. Tra le più apprezzate vi sono le orchidee del genere Dendrobium, che si distinguono per le note di profumo fresco e non richiedono troppe cure: calore, sole non diretto ed una corretta umidità per evitare che si disidratino. La sera siete abituati a fare le ore piccole? Allora adottate una Angraecum sesquipedale, più conosciuta con il nome di «orchidea di Darwin», che di

notte diffonde dai suoi candidi fiori a stella dalle note aromatiche con l’intento di attrarre le farfalle notturne. Nativa del Madagascar, questa orchidea venne a lungo studiata dal celebre naturalista, che ipotizzò una connessione stretta tra il lungo sperone nettarifero di questa bella e profumata orchidea, con un insetto dalla spiritromba lunghissima per poter raccogliere il nettare. Solo dopo ben  anni dalle osservazioni di Darwin e a sua morte avvenuta, studiosi e naturalisti hanno potuto confermare la sua teoria: la falena sfingide Xanthopan morganii (conosciuta come «sfingide di Morgan»), è l’impollinatore di questa orchidea a fiore particolare. Un’altra orchidea che profuma di notte è Rhyncholaeliana Digbyana, nome quasi impronunciabile per questa bella pianta originaria di Honduras, Guatemala, Messico e Costa Rica, dai fiori enormi, che arrivano quasi a  cm e molto profumati. I boccioli si aprono da maggio fino ad agosto ed in natura cresce aggrappata su altre piante, esposta in pieno sole, necessità da ricreare anche in casa per poterla vedere in fioritura. Per chi invece ha abitudini diurne

ed ama avere sulla propria scrivania o tavolo da pranzo dei fiori colorati, consiglio di acquistare la regina delle orchidee, la Cattleya, che oltre all’aroma intensa e sempre piacevole dei suoi fiori, racchiude una lunga storia vivaistica e commerciale. All’inizio del , quando i collezionisti di piante erano largamente finanziati per girare il mondo alla ricerca di particolarità, un certo signor Swainson, che si occupava di reperire muschi e licheni in Brasile per poterli spedire ai vivaisti europei, mandò accidentalmente in Inghilterra delle radici di Cattleya ad un famoso orticoltore, William Cattley, che riuscì sia a farle fiorire, sia a darle da studiare al celebre botanico inglese Lindley, che la classificò come genere nuovo, dandogli il nome di Cattleya in omaggio al possessore della pianta. Nei decenni successivi queste orchidee divennero molto richieste dai collezionisti che le acquistavano a prezzi altissimi, ammaliando vivaisti e ricchi nobili con i loro grandi fiori dai colori sgargianti. Facili da coltivare, richiedono bagnature frequenti, senza ristagni di acqua, umidità elevata e luce in abbondanza.

– PROGETTI, perché la E, situata nella casella in alto a sinistra, non confina con alcuna T (fig. ); – PROTESTE, perché la relativa concatenazione di lettere passa due volte sulla stessa E (fig. ).

Fig. 

Fig. 

Fig.  Applicando correttamente tali regole, cercate di estrarre dal seguente schema x la parola ANIMALI e il maggior numero di nomi di animali, composti da almeno  lettere.

si potrebbe estrarre in maniera valida, tra le altre, la parola: RIGIDITÀ (fig. ). Non sarebbero, invece, accettabili le parole: Soluzione Alcuni nomi estraibili dallo schema assegnato (non necessariamente tutti…) sono i seguenti. BOA – OCA – ALCA – ALCE – CANE – IENA – LAMA – RANA – DAINO – FAINA – FALCO – LINCE – MUCCA – TARMA – ANATRA – BALENA – CERNIA – FALENA – LONTRA – LUCCIO – MAIALE – OTARIA – FALCONE – LUCCIOLA – LUCERTOLA (E: ANIMALI…).

Le orchidee profumate

Come ho avuto modo di affermare, qualche anno fa su queste pagine, Boggle è il nome internazionale di un popolare gioco di parole, ideato nel  dallo statunitense Alan Turof. Con il nome di Paroliere, ha cominciato a essere distribuito dall’Editrice Giochi, verso la fine degli anni , in Italia e nel Canton Ticino. Nella sua versione più semplice, questo gioco si effettua utilizzando  dadi speciali, recanti su ogni faccia una lettera dell’alfabeto. All’inizio di ogni mano i  dadi devono essere agitati all’interno di uno speciale bussolotto che reca sul fondo una griglia composta da x cavità. Quando tutti i dadi si sono sistementi regolarmente nella griglia, i giocatori devono cercare di formare delle parole di senso compiuto, utilizzando le  lettere visibili, nel rispetto delle seguenti due regole basilari: – ogni parola deve essere formata da una concatenazione di lettere poste, in caselle confinanti (in qualsiasi direzione: orizzontale, verticale, o diagonale); – ciascuna concatenazione non può passare per una stessa casella più di una volta. Ad esempio, dal seguente schema:

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TEMPO LIBERO

La befana vien di notte… Crea con noi

Un’idea originale per creare un simpatico porta dolcetti aspettando l’Epifania

Giovanna Grimaldi Leoni

La befana vien di notte con le scarpe tutte rotte, con la scopa di saggina: viva viva la nonnina! Sono svariate le versioni di questa filastrocca per bambini che annuncia l’arrivo per l’Epifania della befana, ma tutte iniziano con la medesima frase che prevede scarpe o calze rotte. E allora perché non creare un bricolage a tema proprio partendo da loro? Ecco una simpatica befana porta dolcetti creata con vasetti della marmellata, calze rotte e cartoncino, da preparare in attesa del passaggio della buona nonnina che la riempirà di piccoli doni!

lasciando alle estremità qualche cm per creare un anello. Ecco le mani! Incollatelo al vasetto con  punti di colla a caldo. Dietro e sui lati. Incollate sulla carta da pacco gli occhietti semovibili e la perlina per creare il volto della nonnina. Prendete un foglio A di cartoncino nero (g). Avvolgetelo su sé stesso in obliquo e formate un cono. Stringete/allargate per adattare il cono alla circonferenza del coperchio e quando avrete trovato la misura ideale fissate i lembi con la colla. Decorate il cappello infilando pezzi di calzini sovrapposti e infilate all’estremità un pennacchio che avrete creato con un rettangolino di cartoncino arancione tagliuzzato su tutta la lunghezza e avvolto su sé stesso (vedi foto). Tagliate ora una striscia di cartoncino arancione lunga ¾ della circonferenza del vasetto e alta ca. cm. Praticate dei tagli ogni mm su tutta la lunghezza come in fotografia e con la forbice arricciate e date forma a queste striscioline che diventeranno la capigliatura della nostra nonnina. Andate a incollare la striscia sul bordo del tappo e avvitate lo stesso sul barattolo in modo che l’apertura dei capelli coincida con il viso. Disegnate due belle guance arrossate dal vento notturno e se volete un bel sorriso. Con uno spiedino di legno e un po’ di carta da pacco o paglia formate una piccola scopa, e la vostra

Procedimento Pulite e asciugate bene i vasetti che devono avere una forma il più possibile cilindrica. Evitate quelli troppo decorati o con forme particolari. Tagliate una striscia alta circa  cm di carta da pacco e lunga qualche cm in più rispetto la circonferenza del vasetto. Incollatela attorno al vasetto nella parte alta appena sotto l’attaccatura del coperchio. Ora tagliate ca cm dal gambaletto di nylon scartando la parte del piede, e infilate questo semplice vestito alla vostra befana. Prendete un pulisci pipe, piegatelo a metà e attorcigliatelo su sé stesso

Giochi e passatempi Cruciverba

L’aeroporto di Barra nell’Arcipelago delle isole Ebridi Esterne in Scozia, è l’unico al mondo che utilizza la... Termina la frase leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 8, 4, 5, 3, 3, 5)

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Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Befana è pronta per accogliere dolcetti, frutta secca o altri piccoli doni che questa ultima festività vorrà regalare ai più piccini. Buona Epifania! Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

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22. Nella mitologia greco-romana erano dei semidei 23. Le iniziali dell’attrice Elia 24. Arte latina 25. Privi di vita VERTICALI 1. La spigolatrice di una nota poesia 2. A vantaggio 3. Due vocali 4. Privo di colore 5. Rosse in una canzone di Ranieri

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ORIZZONTALI 1. Punge 5. Emanazioni di luce 9. Misura agraria di superficie 10. Simboli sul pentagramma 12. Fiume italiano 13. Causata da difficoltà 14. Simbolo chimico del tantalio 15. Generi teatrali 16. Un libro della Bibbia 17. Linguaggio proprio di un popolo 19. Mare del Mediterraneo 20. L’impugnava Robin Hood

• Vasetti di vetro • Cartoncino nero e arancio formato A4 • Resti di carta da pacco • Occhietti semovibili • Pulisci pipe neri, verdi o arancioni • Una perlina rossa per il naso (in alternativa potete disegnarlo). • Calze smesse in tinta (benissimo i gambaletti in nylon) • Forbici, pennarelli nero e rosa • Pistola colla a caldo

Vinci una delle 2 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta delle 2 regalo carte da regalo 50 franchi da 50 franchi con il sudoku con il sudoku

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Materiale

6. Sono utili solo nascosti 7. In genere... sono estremi 8. Pervaso da furore 11. Manifestano il buon umore 13. Sofferenze, tormenti 14. Possessivo 15. Antica imbarcazione a remi 16. Le iniziali del pittore Guttuso 18. Consegnar 21. Danneggiati, offesi 22. Epoche della Terra 23. Il braccio degli inglesi 24. Preposizione articolata

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Soluzione della settimana precedente Per la sua capacità di adattamento climatico l’orzo è il… Resto della frase: …QUARTO CEREALE PIÙ COLTIVATO AL MONDO.

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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ATTUALITÀ

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Le lezioni del 2021 L’assalto al Congresso a Washington, la fuga dall’Afghanistan, il semi-fallimento del vertice sul clima: gli eventi da non dimenticare

L’ultimo dei padri del Sudafrica moderno Con la morte di Desmond Tutu, scompare l’ultima figura che con Mandela ha segnato maggiormente la fine del regime dell’Apartheid

La sfida dell’inflazione Evitare una spirale di aumenti prezzi-salari diventa una priorità per gli Stati Uniti, ma anche per la Cina e l’Europa

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Una via bilaterale da reinventare

Svizzera-Ue ◆ Dopo l’abbandono dei negoziati sull’accordo quadro, Bruxelles chiede proposte concrete a Berna, ma il Consiglio federale non scopre le sue carte

Marzio Rigonalli

Il passaggio da un anno all’altro offre lo spunto per riflettere sui fatti e gli eventi più recenti e, soprattutto per guardare al futuro, per individuare le sfide che le autorità di un paese dovranno affrontare nell’anno nuovo. Quali saranno allora i temi che domineranno l’attività del Consiglio federale nel ? Per la sua importanza in termini di difesa della salute pubblica e di salvaguardia del tessuto economico, la lotta contro la pandemia sarà probabilmente ancora dominante e farà slittare in secondo piano un buon numero di dossier importanti. Tra questi, uno merita una particolare attenzione: sono i rapporti tra la Svizzera e l’Unione europea, rapporti che incidono in maniera significativa sia sulla posizione internazionale della Svizzera che sulla sua situazione interna.

Oltre alle relazioni con l’Ue, il tema dominante per il Governo nel 2022 sarà ancora la pandemia, con la salvaguardia dell’economia Come sono oggi le nostre relazioni con l’UE? Sono in uno stato desolante. Dopo lo scorso  maggio, giorno in cui il Consiglio federale decise di porre fine al negoziato in vista di un accordo istituzionale, tra Bruxelles e Berna è emerso un periodo d’incomprensione, di sfiducia e d’incertezza. Gli attuali accordi bilaterali non vengono aggiornati ed eventuali nuovi accordi non vengono né negoziati né conclusi. I settori della ricerca e della formazione sono esclusi dai programmi europei, con gravi danni per tutti gli operatori dei due settori. L’accordo sul reciproco riconoscimento dei prodotti della medicina non è stato rinnovato: il settore deve così far fronte a ritardi ed a spese supplementari che danneggiano le sue esportazioni sul mercato unico europeo. La situazione rende insicura l’economia, che comincia a studiare la possibilità di fare investimenti all’estero, e rischia di erodere rapidamente il tessuto costruito con le intese bilaterali, trasformando così la Svizzera in uno Stato terzo nei suoi rapporti con l’UE, con uno statuto simile a quello dei paesi europei periferici che non fanno ancora parte dell’Unione. Di fronte a questa situazione, il Consiglio federale ha intrapreso ben poco di sua iniziativa. Ha cercato di riprendere la legislazione europea là dove era possibile, in modo da evitare possibili fonti di conflitto. Alcune settimane or sono ha dato mandato

Il Consiglio federale e il cancelliere WalterThurnherr nella foto ufficiale del 2022. Nell’anno della sua presidenza Ignazio Cassis vuole porre l’attenzione sulla coesione nazionale, ma non potrà evitare di occuparsi anche di Europa. (© Stefano Spinelli – Cancelleria federale svizzera)

al segretario di stato Mario Gattiker, fino alla fine del  responsabile della Segreteria di stato della migrazione, di approfondire l’analisi delle differenze normative fra la Svizzera e l’UE. Con l’intento di compensare il vuoto creato con l’UE, il governo ha pure concluso un accordo finanziario con Londra e un accordo di cooperazione nella ricerca con Washington. Le due intese non sono però tali da sostituire il rapporto fondamentale e strategico che la Svizzera intratteneva fino a poco tempo fa con l’Unione europea. Infine, per risolvere le future controversie, il Consiglio federale sembra ora voler rinunciare ad un accordo unico globale, come prevedeva il progetto di accordo istituzionale, e optare per singole soluzioni da trovare all’interno di ciascun accordo bilaterale. Davanti all’assenza di azioni concrete da parte del governo sono fiorite

le iniziative di partiti, associazioni e privati. Michael Ambühl, ex segretario di stato per gli affari esteri e oggi professore al Politecnico di Zurigo, ha proposto un’azione destinata a sfociare nei cosiddetti Bilaterali III. L’Operazione Libero ed i Verdi hanno dichiarato di voler lanciare un’iniziativa popolare per costringere il Consiglio federale a trattare con Bruxelles. La Commissione di politica estera del Consiglio nazionale ha tentato, ma senza successo, di far raddoppiare dalle Camere federali il miliardo di coesione destinato a finanziare progetti nei paesi meno sviluppati dell’UE. L’intento era di ottenere in cambio l’associazione della Svizzera ai programmi europei di ricerca e di formazione. Dal canto suo, il partito socialista, il più attivo tra i partiti di governo nel settore europeo, ha fatto una proposta in due fasi, la prima centrata sul quadro entro il quale do-

vrebbe svolgersi il dialogo politico con Bruxelles, la seconda sulla ricerca di soluzioni ai punti controversi. Lo scorso  novembre,  mesi dopo la rottura del negoziato sull’accordo bilaterale, un lume di speranza si è acceso a Bruxelles. Il capo della diplomazia elvetica, il consigliere federale Ignazio Cassis si è incontrato con il vicepresidente della Commissione europea Maros Sefcovic, detentore del dossier Svizzera. Sefcovic chiese a Cassis di fare proposte concrete sulle divergenze rimaste in sospeso dopo l’interruzione del negoziato e di presentarle in un incontro previsto a gennaio durante il Forum economico di Davos. Il Forum è stato rinviato, ma Bruxelles chiede che le proposte vengano comunque presentate entro la fine di gennaio. Quali saranno le aperture del Consiglio federale? È difficile fare previsioni. Per trovare una via d’uscita che

salvi la via bilaterale, ci vuole molta volontà politica e tanto coraggio. Non si può continuare a guadagnare tempo e, come alcune voci affermano, scegliere di rinviare il tutto a dopo le elezioni nazionali del . E non si può contare sull’aiuto dei principali paesi confinanti con la Svizzera. La Germania, l’Italia e la Francia, che da gennaio assumerà la presidenza semestrale europea, hanno governi molto impegnati in difesa dell’integrazione europea e poco inclini a fare concessioni a paesi non membri dell’Unione. Occorrono quella volontà e quel coraggio che sono mancati fin ora e che possono aiutare a difendere gli interessi dell’economia, delle aziende, degli istituti universitari, dei ricercatori, degli studenti e, in fin dei conti, di tutta la popolazione, attraverso il tenore di vita e la consapevolezza che molti hanno di essere una parte integrante del continente europeo.


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ATTUALITÀ

Un’eredità che non va dimenticata

2021 ◆ Dall’assalto al Congresso a Washington alla fuga dall’Afghanistan fino al semi-fallimento della conferenza sul clima di Glasgow: sono lezioni su cui costruire il futuro Alfredo Venturi

Un  da dimenticare, si diceva un anno fa affidando al  la speranza e l’auspicio di un futuro migliore. In particolare un futuro che confinasse nel passato la tremenda esperienza internazionale della pandemia. Ma perché cancellare il ricordo di esperienze che possono farci vedere con più chiarezza le situazioni critiche, così da affrontarle più razionalmente evitando errori e malintesi? Ora anche il  ha superato il capolinea proiettandoci in un nuovo anno, mentre la pandemia non solo non appartiene al passato ma continua a oscurare il nostro presente conservando una sgradevole priorità fra i mille problemi del mondo. Dimenticare l’anno deludente che si è appena concluso? O piuttosto cercare di decifrarne le contraddizioni, e tutti quegli elementi di fatto che ci possono aiutare a capire il nostro tempo e il nostro mondo, i nostri problemi e le possibili soluzioni? Historia magistra vitae, dicevano gli antichi, e proprio per questo la memoria non va ignorata né cancellata. In fondo anche l’anno  dell’era volgare è ormai storia e dunque può insegnarci qualcosa.

È stato un anno di delusioni, di crisi, di eventi enigmatici e carichi di imprevedibili sviluppi, nella cornice della pandemia È stato un anno di delusioni, di crisi, di eventi enigmatici e carichi di imprevedibili sviluppi. A cominciare dalla pandemia e dalla sua gestione a volte non proprio cristallina, troppo spesso approssimativa e contraddittoria. È stata come una doccia scozzese: sembrava nell’estate che il morbo cominciasse a regredire ma poi è arrivato l’autunno e sono arrivate una dopo l’altra le varianti del virus ed è parso che l’incubo non dovesse finire mai. La prima cosa che dobbiamo chiedere al neonato  è che si faccia chiarezza sulla reale portata di questa peste del ventunesimo secolo, e anche sul misterioso rapporto fra l’ovvia necessità di difenderci e gli stratosferici interessi commerciali delle multinazionali farmaceutiche. Dobbiamo pretendere l’avvio di una fase nuova, in cui le risorse conoscitive e tecnologiche offerte dalla modernità vengano applicate, al netto delle speculazioni, a una situazione non certo inedita. Non è forse vero che le grandi pandemie hanno attraversato la storia? Il  è stato inaugurato da un evento clamoroso e del tutto inaspettato, che ha gettato un’ombra sul futuro della democrazia. Infatti sfogliando l’album dei dodici mesi trascorsi il primo avvenimento significativo in cui ci s’imbatte è il furibondo assalto dei sostenitori di Donald Trump alla sede del Congresso

6 gennaio 2021, sostenitori di Trump danno l’assalto alla sede del Congresso a Washington (Shutterstock). Sotto, iTalebani occupano il palazzo presidenziale a Kabul, il 15 agosto. (Keystone)

nel cuore di Washington. Erano convinti che Joe Biden, il vincitore delle elezioni presidenziali che di lì a pochi giorni avrebbe prestato giuramento e sarebbe entrato in carica, dovesse il successo a una perfida frode elettorale, e che dunque il loro beniamino dovesse restare alla Casa Bianca. Era il mattino del  gennaio, il Senato stava esaminando i ricorsi contro l’esito del voto in alcuni Stati, come l’Arizona, nei quali il successo democratico era stato di stretta misura. Proprio su quel dibattito i manifestanti intendevano esercitare la loro pressione. Attraverso i social Trump li aveva incoraggiati all’azione: andate a Capitol Hill, fate sentire la vostra voce! Altro che la loro voce, la situazione

sfuggì di mano agli organizzatori, accanto ai complottisti di QAnon frange di fanatici e di neonazisti si erano infiltrate nella folla dei fedelissimi di Trump, alcuni agitando simboli hitleriani e bandiere della Confederazione sudista. Travolgendo facilmente una struttura difensiva che non era stata calibrata per una situazione di simile portata che nessuno avrebbe potuto prevedere, fecero irruzione nell’edificio parlamentare. Si sentirono colpi di arma da fuoco, si scatenò la caccia a Mike Pence, il «traditore» di Trump che guidava come presidente i lavori del Senato, e a Nancy Pelosi, la speaker democratica dell’altra Camera. A questo punto, sempre ricorrendo ai social, Trump invitò i suoi a tornarse-

ne pacificamente a casa, ma ormai era tardi. Finì con gravi devastazioni, la morte di alcune persone, il ferimento di molte altre, la constatazione di un vulnus senza precedenti alla struttura democratica degli Stati uniti. Che altro, fra i mille eventi che hanno riempito le cronache, si può considerare come elemento caratterizzante del ? Ecco, è stato anche l’anno della grande fuga dall’Afghanistan, eufemisticamente chiamata disimpegno. Accadde nell’estate: mentre il mondo registrava con sollievo l’apparente ritirata del coronavirus, le truppe americane e i contingenti alleati lasciarono in tutta fretta il Paese che avrebbero dovuto pacificare. Il ritiro americano era stato negoziato con i rappresentanti dei talebani dall’amministrazione Trump, ma Joe Biden decise di rispettare il programma limitandosi a ritardarne di qualche mese l’esecuzione. Non fu un bello spettacolo quello dei soldati dell’Occidente che si accalcavano all’uscita, dopo che la diplomazia americana si era garantita l’assenso dei talebani. L’operazione non fu nemmeno incruenta, un micidiale attentato nei pressi dell’aeroporto di Kabul fece strage di civili e militari. A lanciare il brutale messaggio erano stati i terroristi dell’Isis, avversi anche ai talebani che invece erano stati ai patti e si preparavano a prendere possesso del Paese e ripiombarlo nel medioevo. I reparti in fuga portarono in salvo molti collaboratori afghani minacciati di letali ritorsioni, mol-

ti altri ne lasciarono alla mercé della vendetta talebana. Infine a concludere l’anno, marchiandolo come decisamente infausto, il disastro della diplomazia ambientale. Si sperava molto dalla Cop, la ventiseiesima conferenza delle parti celebrata a Glasgow fra la fine di novembre e i primi giorni di dicembre. In particolare si sperava che sulla falsariga dei risultati già raggiunti nei lunghi anni del negoziato ambientalista i rappresentanti dei duecento Paesi partecipanti avrebbero adottato le misure necessarie per guarire la grande febbre della Terra. Ci voleva un rilancio del patto di Parigi del , che aveva stabilito un limite vincolante all’aumento della temperatura media, dunque alle emissioni di gas a effetto serra, i principali responsabili del surriscaldamento, e ci voleva un impegno di rinuncia al carbone, la più inquinante fra le fonti energetiche. Sarebbe stato un passo decisivo, capace di avviare il grande salvataggio del pianeta. Si sperava in questi sviluppi nonostante i dubbi di Greta Thunberg, la giovanissima paladina svedese della rivoluzione ambientale, che temeva il solito ritornello di chiacchiere vane. Purtroppo aveva ragione, e in quello che doveva essere l’anno della svolta ecologica si è registrato nient’altro che un nuovo passaggio sostanzialmente interlocutorio. Qualche passo avanti è stato fatto, ma troppo poco di fronte all’incalzare dell’emergenza. Alcuni fra i Paesi che producono, consumano e esportano carbone non hanno voluto rinunciare a questa risorsa, nemmeno nel lungo termine. Dunque gli obiettivi fissati a Parigi restano una chimera nonostante i limitati progressi della conferenza di Glasgow, che riguardano solo una parte del mondo mentre riguarda tutti l’inquietante prospettiva che sovrasta il nostro domani. Gli effetti del cambiamento climatico dovuto al surriscaldamento, a cominciare dal rapido sciogliersi dei ghiacciai e dal conseguente innalzamento del livello dei mari, rischiano ormai di superare il punto di non ritorno. Aree litoranee, città costiere, interi Stati insulari rischiano di scomparire fra le onde, mentre il clima impazzito investe il resto del pianeta. Eppure questa partita rimane aperta, la diplomazia ambientalista avviata a Rio de Janeiro nel lontanissimo  va avanti. È in programma a novembre la Cop a Sharm elSheik, la località turistica egiziana sul Mar Rosso, e in quella sede la tendenza potrebbe essere ancora corretta, se non altro grazie all’evidenza dei disastri climatici che flagellano il mondo. Assieme al governo della pandemia, è uno dei gravosissimi compiti che il  riceve in eredità dagli anni irresponsabili che lo hanno preceduto. Annuncio pubblicitario

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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

L’ultimo dei giganti del nuovo Sudafrica Desmond Tutu

Scomparso a 90 anni l’arcivescovo e premio Nobel per la pace, instancabile avversario dell’apartheid e dei corrotti

Pietro Veronese

Sette giorni di lutto nazionale. Ognuno dei quali, alle dodici in punto, le campane della cattedrale di San Giorgio a Città del Capo hanno suonato a morto per dieci minuti. La salma esposta nella cattedrale  ore più del previsto, per smaltire la lunga coda e consentire a tutti di renderle omaggio. A sera, Table Mountain, la grande montagna che domina la città dal lato opposto al mare, illuminata di viola per ricordare l’abito vescovile del defunto. Bandiere a mezz’asta in tutto il Paese fino al giorno del funerale, sabato primo gennaio. Nessuno, da quando circa trent’anni fa il Sudafrica si liberò dal giogo della segregazione razziale, aveva ricevuto in morte onori paragonabili a quelli tributati all’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, spirato a  anni la mattina del  dicembre. Unica eccezione, nel , Nelson Mandela, il padre della nuova patria sudafricana. Ci sono molte buone ragioni per spiegare la coralità di questo lutto. In primo luogo, certamente, la grandezza del personaggio. Primo vescovo nero nella storia del Sudafrica, premio Nobel per la pace nel , protagonista indiscusso della lotta contro il sistema di segregazione razziale chiamato apartheid, al quale si è sempre opposto senza ambiguità né timore. Dal pulpito lo ha condannato definendolo «immorale» e «malvagio», dando voce a milioni di neri privati di ogni diritto. Senza mai scendere direttamente nell’arena politica, ma mantenendo un’inscalfibile autorità morale. Altro motivo del grande cordoglio collettivo che ha circondato la scomparsa di Desmond Tutu è l’animo pesante dei sudafricani in questi tempi di Covid. Il Paese è stato particolarmente colpito dalla pandemia: si contano ’ morti su una popolazione più o meno pari a quella dell’Italia, e gravissimi costi sanitari e sociali.

La morte dell’arcivescovo ha offerto a tutti l’occasione di lasciarsi andare al pianto. Come osserva il comunicato delle due fondazioni che portano il suo nome, «questo diluvio d’amore compensa almeno in parte le restrizioni anti-Covid che impediscono di dare al nostro amatissimo arcivescovo l’addio che meriterebbe». Vengono poi ragioni più profonde, che agiscono in maniera magari invisibile nell’inconscio collettivo della nazione sudafricana, la «nazione arcobaleno», come lo stesso Tutu l’aveva definita per sottolinearne la grande diversità etnica. Tra le straordinarie caratteristiche che hanno reso unica la storia del Sudafrica nella seconda metà del XX secolo, c’è sicuramente la statura dei suoi leader. Straordinaria non era soltanto l’ingiustizia del sistema dell’apartheid, in vigore dal  al , che riservava ogni privilegio alla minoranza bianca relegando tutti gli altri allo stato di manodopera di seconda classe. Anche coloro che con estremo coraggio personale affrontarono minacce, percosse, prigione, spesso la morte, per opporvisi, furono dei giganti. Primo fra tutti Nelson Mandela, l’uomo che dopo una detenzione durata  incredibili anni uscì alla luce del sole senza un rancore, anzi tendendo la mano ai suoi aguzzini per riconciliare il Paese e avviarlo senza traumi né vendette, ma con giustizia, su una nuova strada. Poi, con il nuovo secolo, uno dopo l’altro i giganti se ne sono andati. I compagni di prigionia di Mandela a Robben Island, segnati da decenni di privazioni; i leader politici dell’esilio, che resistettero in miseria e in solitudine nelle capitali africane dove erano stati accolti; le loro mogli, vessate, confinate, perseguitate. Oggi quei grandi uomini e donne sono nomi di aeroporti, di università, di fondazioni benefiche. Desmond Tutu era rima-

Desmond Tutu e Nelson Mandela, i due storici volti della lotta all’apartheid in una foto d’archivio. (Keystone)

sto più o meno l’ultimo: e lascia una nazione orfana, a sentirsi senza più padri, senza guida. In tempi difficili, con troppe promesse non mantenute e un ceto dirigente composto in eccessiva quantità di arricchiti, speculatori, profittatori indifferenti alle sorti della maggioranza. Così l’arcivescovo viene pianto come si piange un passato che si allontana sempre più. Infine, i sudafricani sanno benissimo che Desmond Tutu è stato sì grande come i suoi pari, ma diverso da tutti gli altri. Se durante i lunghi decenni dell’apartheid non esitò mai a far sentire la sua voce per condannare quel mostruoso sistema di discriminazione, non ha taciuto nemmeno nei decenni successivi, ogni volta che ha ritenuto che i nuovi leader del Sudafrica stessero tradendo gli ideali che li avevano portati al potere. E le occasioni non sono manca-

te. Scandali, vergognosi esempi di nepotismo, clamorosi casi di corruzione, rinuncia a lottare contro la crescente disuguaglianza economica e sociale. La gente comune ha continuato a sentirlo come uno dei suoi; ma molti dei nuovi potenti gliel’hanno giurata. Specie quando nel , sotto la nefasta presidenza di Jacob Zuma (oggi in prigione, travolto dagli scandali), dichiarò che non avrebbe più votato per l’African National Congress, il partito di Nelson Mandela, che aveva guidato la lotta contro l’apartheid e governa il Paese dall’avvento della democrazia nel . Tra Tutu e Mandela, compagni di lotta e amici da una vita, si scavò un solco; Mandela morì quello stesso anno, e il solco rimase. Per non parlare degli insulti, dileggi, sarcasmi di cui l’arcivescovo fu bersagliato. È questa onestà d’animo e libertà di pensiero, questa for-

za e rettitudine morale, che probabilmente i sudafricani piangono mentre danno l’addio a The Arch, il diminutivo di Archbishop con cui viene familiarmente chiamato. Un uomo, come ha detto una donna interpellata dai giornalisti, «che è sempre stato dalla parte degli angeli». Il presidente del Sudafrica è oggi Cyril Ramaphosa, che cerca come può di riconnettere il partito che guida al suo glorioso passato. La sua leadership non è screditata come quella di Zuma, ma il compito è immane, e la pandemia non lo sta aiutando. Per mettere le cose in chiaro, lo Stato è rimasto escluso dai preparativi funebri per le esequie dell’arcivescovo. Se ne occupano la Chiesa anglicana e le due fondazioni create da Tutu. Al funerale, il presidente e tutto il notabilato dell’African National Congress saranno soltanto ospiti.

Dove la blasfemia è ancora punita con la morte Pakistan

L’uccisione di un cittadino srilankese riporta alla ribalta una legge sanguinaria, usata pure contro nemici e oppositori

Francesca Marino

Si chiamava Priyantha Kumara Diyawadana. Aveva quarantanove anni ed era padre di due bambini. Cittadino dello Sri Lanka di religione buddista, si trovava a Sialkot, in Pakistan, da undici anni per lavorare come ingegnere civile. È stato massacrato da una folla che lo ha torturato, picchiato a morte e dato alla fiamme. E mentre la folla si accaniva sul suo corpo, ai margini del massacro altri sinistri individui facevano selfie con le fiamme sullo sfondo e li postavano su Twitter. La sua colpa? Aver stac-

cato dai muri del suo posto di lavoro, che dovevano essere ridipinti, alcuni manifesti a contenuto religioso. Alcuni tra i lavoratori della fabbrica hanno gridato alla blasfemia e chiamato i miliziani del Tehrik-e-Labaik Pakistan, partito fondamentalista religioso tristemente noto sia in Pakistan che all’estero, che delle leggi sulla blasfemia ha fatto il suo cavallo di battaglia: bandito qualche tempo fa e di recente riammesso sulla scena politica dopo essersi accordato con il premier Imran Khan. Una veglia in memoria di Pryiantha Kumara a Lahore, Pakistan. (Keystone)

Il Tlp, tanto per capirci, è il partito che anni fa difese, facendo piovere petali di rosa a ogni sua uscita pubblica dalla galera al Tribunale, l’assassino dell’ex-governatore del Punjab Salman Taseer, ammazzato per aver parlato contro le leggi anti-blasfemia e per aver difeso Asia Bibi, condannata a morte senza colpe e liberata poi dieci anni dopo. È lo stesso partito che l’anno scorso chiedeva l’interruzione di ogni rapporto diplomatico con la Francia, l’espulsione dell’ambasciatore francese in Pakistan e l’interruzione dei rapporti commerciali con il paese «colpevole» di aver consentito la pubblicazione e la ri-pubblicazione delle famose vignette su Maometto apparse sul giornale satirico «Charlie Hebdo». I membri e l’allora presidente del partito Khadim Hussain Rizvi, morto qualche tempo dopo, chiedevano anche via social media la decapitazione di Macron e di tutti gli occidentali blasfemi. Mentre su YouTube e su Facebook imperversava, senza che nessuno ne richiedesse la censura, un video di Rizvi che diceva testualmente: «La Francia ci sta sfidando. C’è un motivo per cui il governo del

Pakistan ha la bomba atomica. Che la usi, e dichiari la jihad… Il primo ministro e gli altri politici continuano a dire che l’Islam è una religione di pace, ma abbiamo il dovere di dire al mondo che l’Islam ammette la jihad contro coloro che si macchiano di blasfemia. Dichiaro la jihad contro gli infedeli». E non era l’unico: tanto che che nessuno si è sognato di arrestare Rizvi per incitamento all’odio religioso. In settembre, a Lahore, è stato condannato a morte un cittadino di religione cristiana, sempre per blasfemia, mentre un altro, a Peshawar, è stato ucciso all’interno del tribunale che lo stava giudicando. Il Parlamento Europeo, in aprile, ha emanato una risoluzione che chiedeva la revisione dei rapporti commerciali con il Pakistan citando a motivo «l’uso allarmante delle accuse di blasfemia e l’incremento esponenziale degli attacchi contro giornalisti e attivisti». Per come la legge anti-blasfemia è formulata, difatti, chiunque può essere accusato da chiunque anche per gesti apparentemente insignificanti, come rimuovere dei manifesti da un

muro. Non soltanto ormai da anni la blasfemia viene adoperata come mezzo per sistemare questioni territoriali con i vicini o liti di condominio, ma è diventata ormai lo strumento principale per silenziare attivisti, oppositori o giornalisti. Con il pieno consenso della maggioranza della popolazione, che pur dichiarandosi scioccata per episodi come quello di Priyantha, è pienamente convinta che la blasfemia dovrebbe essere punita e ha molto poco da obiettare contro le leggi in vigore. Così, sempre secondo i dati del Parlamento Europeo, nell’ultimo anno si è registrato in Pakistan il più alto numero di accuse di blasfemia mai registrato: «la situazione si è sempre più deteriorata, visto che il governo ha sistematicamente provveduto a inasprire le leggi sulla blasfemia mancando contemporaneamente di proteggere le minoranze religiose dagli abusi, causando una crescita esponenziale nel numero di omicidi, accuse di blasfemia, conversioni forzate e incitazioni all’odio nei confronti di cristiani, hindu, sikh e altre confessioni musulmane come Shia e Ahmadi».


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MONDO MIGROS

VITAMINE AL CHILO

A gennaio, Migros offre ogni settimana una selezione di verdura e frutta a solo un franco: per cominciare, un chilo di arance bionde o di patate. Potrai così preparare un’insalata agrodolce, un pranzo veloce o una cena leggera

Le arance regalano alle insalate piccanti una nota sorprendentemente fruttata.

Insalata di patate alle arance Piccolo pasto per 4 persone 500 g di patate resistenti alla cottura 30 g di olive nere snocciolate 1 cipolla rossa ½ mazzetto d’erbe aromatiche, ad es. prezzemolo o erba cipollina 3 arance ½ limone 6 cucchiai d’olio d’oliva 1 cucchiaino di sale pepe

Foto: Pia Grimbühler

Preparazione

1 Arance bionde 1 kg Fr. 1.– 2 Patate resistenti alla cottura 1 kg Fr. 1.– Le offerte sono valide dal 4 al 10 gennaio

1. Lessa le patate con la buccia per ca.  minuti. Nel frattempo, taglia le olive ad anelli e le cipolle a fette. Trita le erbe. Pela due terzi delle arance a vivo, tagliale a metà poi a fette. Per la salsa, spremi l’arancia rimasta e il limone, mescola il succo con l’olio, sale e pepe. 2. Sbuccia le patate ancora calde e tagliale a fettine sottili. Mescolale con la salsa, le erbe, le olive e i pezzetti di arance. Servi l’insalata tiepida o fredda.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

It’s the economy, anzi l’inflazione

Nuovi scenari ◆ Il rincaro del costo della vita è una delle ragioni principali del calo dei consensi di Biden, ma evitare una spirale di aumenti dei prezzi e dei salari diventa ormai una priorità mondiale

Federico Rampini

Chi ricorda gli anni Settanta sa che un’inflazione elevata può alimentare insicurezza, tensioni sociali, instabilità. Molti giovani, dai Millennial alle Generazioni X e Z, non l’hanno mai sperimentata nell’arco della loro vita e quindi si addentrano in un territorio sconosciuto. Nel  infatti l’inflazione può trasformare gli scenari politici nel mondo intero. America, Europa, Cina, devono incorporare questa novità nelle previsioni dell’anno nuovo. Se a Washington fra un anno avremo un Congresso a maggioranza repubblicana, se nel Nord Europa avrà rialzato la testa il partito frugale dell’austerity, lo dovremo anche all’aumento dei prezzi. Pechino è costretta a esportare inflazione, ma lo fa a suo rischio e pericolo.

Da 30 anni le importazioni a basso costo dall’Asia calmavano i prezzi. Oggi la Cina è diventata più lontana e più cara Il rincaro del costo della vita negli Stati Uniti (,% a novembre, ai massimi da  anni) è in testa alle ragioni del calo di consensi di Joe Biden. Lo scenario è familiare per un uomo della sua generazione. Una delle cause dietro l’impennata dei prezzi è un forte recupero salariale, in particolare nelle fasce più basse del mercato del lavoro. Almeno su questo fronte Biden sta mantenendo le promesse. L’eccezionale generosità degli aiuti pubblici alle famiglie americane durante la pandemia ha momentaneamente ridotto le disuguaglianze; ha creato un cuscinetto di risparmi; ha rafforzato il potere contrattuale dei lavoratori. Dietro il fenomeno della «grande dimissione» – quattro milioni di dipendenti che lasciano il posto di lavoro ogni mese, per lo più sbattendo la porta perché insoddisfatti – c’è questo dato positivo. Sono protagonisti i mestieri più pesanti e meno remunerati, quelli dove la manodopera scarseggia e i datori di lavoro devono competere per attirare i nuovi assunti. I salari crescono più velocemente proprio per camerieri e fattorini, commesse e addetti ai magazzini. Nel settore della ristorazione gli aumenti delle buste paga sfiorano il %. Cresce anche la conflittualità sindacale, a livelli che non si vedevano da decen-

ni. Ma le aziende reagiscono cercando di trasferire il maggior costo del lavoro sui consumatori. Ci sono i primi segnali che potrebbe ripartire una spirale prezzi-salari, una rincorsa che fu un tratto distintivo degli anni Settanta. La lotta per la ripartizione del reddito nazionale tra capitale e lavoro, tra profitti e salari, può scaricarsi sui prezzi. Il carovita minaccia di cancellare i guadagni salariali e genera insicurezza. La Federal Reserve ha già annunciato che rialzerà i tassi d’interesse per tre volte nel . Il rincaro del costo del denaro in genere frena la ripresa. Due banche centrali europee, nel Regno Unito e in Norvegia, hanno già inaugurato i primi rialzi dei tassi senza aspettare l’anno nuovo. In controtendenza c’è la banca centrale cinese, che riduce il costo del denaro per reagire a un rallentamento della crescita. Alle origini dell’attuale inflazione c’è anche la fine dello «sconto cinese». Dagli anni Novanta l’invasione del made in China aveva favorito il potere d’acquisto dei consumatori: le importazioni a basso costo dall’Asia erano un calmiere sui prezzi. Oggi la Cina è diventata al tempo stesso meno vicina e più cara. Gli shock geopolitici e sanitari costringono a rivedere le catene logistiche troppo dilatate. Dalla guerra fredda Usa-Cina ai lockdown, dalle penurie di semiconduttori ai rincari dei noli marittimi, avere fornitori dall’altra parte dell’oceano è diventato rischioso. La Cina stessa ha subito uno shock energetico che rincara i suoi prodotti. Inoltre i salari degli operai cinesi sono in aumento da anni; e si è rivalutata la moneta nazionale, il renminbi. Xi Jinping deve gestire due crac immobiliari giganteschi limitando i traumi sociali; riduce l’autonomia della sua banca centrale e vara una politica monetaria più espansiva. Anche per questa via la Cina esporta inflazione, l’esatto contrario di quel che fece negli ultimi trent’anni. Deve usare cautela perché l’ultimo periodo di iperinflazione cinese coincise con le tensioni sociali del , che sfociarono nelle proteste di Piazza Tienanmen. Le conseguenze politiche potranno contagiare l’Europa. L’inflazione sul Vecchio Continente al ,% è ai massimi dal . In Germania è ancora più alta. Sul fronte energetico i rincari sono ben più pesanti. L’Euro-

Evitare una spirale prezzisalari è la principale sfida del 2022 per il presidente della FED Powell e per il presidente Biden. (Keystone)

pa è vulnerabile soprattutto per la sua dipendenza dalle importazioni di gas naturale, i cui prezzi sono sestuplicati. Il gas naturale è una delle principali fonti di energia per le centrali elettriche europee. L’utente finale in alcuni casi viene protetto perché diversi paesi europei cercano di esentare dai rincari delle bollette della luce le famiglie a basso reddito. Qualcuno però paga. Le imprese, in particolare, sono danneggiate dalla stangata energetica e ne risente la loro competitività. L’opinione pubblica e la classe dirigente tedesca hanno storicamente poca tolleranza per l’inflazione. L’incubo di una spirale prezzi-salari come quella degli anni Settanta oggi si applica a un contesto più vulnerabile. In mezzo secolo la società europea è invecchiata molto. I pensionati hanno tutto da perdere con il ritorno dell’inflazione. Gli anziani perdono su due fronti: perché le pensioni non godono sempre di una protezione adeguata contro il carovita; e perché attualmente i buoni del Tesoro danno un rendimento negativo. Anche su questo fronte le banche centrali finiran-

no sotto pressione: la loro politica dei tassi zero, inferiori all’inflazione, impoverisce il risparmio. Un’impennata dei prezzi fornirà argomenti a quelle forze che nel Nord Europa vogliono mettere fine all’audace esperimento del Next Generation EU. La finestra di opportunità per l’Italia potrebbe chiudersi rapidamente. Del resto non fu eterno il Piano Marshall per la ricostruzione nel dopoguerra: durò cinque anni scarsi. La stessa dinamica si vede all’opera negli Stati Uniti. Biden deve ancora far passare al Congresso il più ambizioso dei suoi piani di spesa pubblica, gli oltre duemila miliardi di investimenti decennali nel Welfare e nella sostenibilità. L’opposizione repubblicana, e alcuni moderati del suo partito, accusano l’inondazione di denaro pubblico di alimentare l’inflazione. Il vento sta cambiando. L’unico grande piano che Biden è riuscito a fare approvare al Congresso sono i mille miliardi di investimenti in infrastrutture. Quel che rimane dell’agenda di riforme ha ricevuto un colpo formidabile. Un senatore democratico moderato, Joe Manchin, ha negato il suo voto – decisivo – al

Build Back Better, il maxi-piano da duemila miliardi per la transizione a zero emissioni e per costruire un Welfare «europeo». La vicepresidente Kamala Harris è stata interpellata da un celebre conduttore televisivo afroamericano, Charlamagne Tha God, con una domanda sferzante: «Chi governa l’America? Biden o Manchin?». La Harris è andata su tutte le furie, mesi fa sarebbe stata considerata lei la vera leader in pectore dietro l’ombra di Biden. Il veto di Manchin segnala un fenomeno più ampio, con ricadute potenziali sul mondo intero: nel partito democratico è cominciata la riscossa dei centristi ed è finita l’epoca della spesa pubblica facile. L’America ha fatto scuola a tutti i paesi occidentali, per le immense risorse pubbliche mobilitate durante la pandemia. La ripresa americana, e la rinascita dell’inflazione, portano il segno di quelle politiche keynesiane adottate con perfetta continuità da Donald Trump e Biden. Ora quel capitolo si chiude. La lotta all’inflazione diventa la priorità della banca centrale. I democratici devono riconvertire il loro messaggio.

«Come moltiplico il mio capitale?»

La consulenza della Banca Migros Ho  anni e verso nel ° pilastro e su un conto di risparmio. Su quest’ultimo non ricevo praticamente più alcun interesse. Che consiglio può darmi per investire il mio denaro senza complicazioni? Se sul conto disponi di una somma per le situazioni di emergenza pari a due o tre salari mensili e se stai già provvedendo alla vecchiaia, i presupposti sono ottimali per investire ulteriori risparmi in modo più redditizio. Prima di procedere, devi però riflettere sui seguenti aspetti: per cosa vuoi risparmiare, per quanto tempo e quale importo puoi mettere da parte regolarmente per la durata

Esistono molte forme di investimento, tutto dipende dalla propensione al rischio

prestabilita. Dovresti chiederti inoltre che rischio vuoi assumerti: riesci a dormire bene anche se la borsa è altalenante oppure questo fattore ti mette in ansia? Rifletterci bene ti aiuta a scegliere il tipo di investimento. La scelta è vasta. Azioni: possono generare rendimenti elevati, ma sono soggette a fluttuazioni. Obbligazioni: hanno un valore stabile, ma nella situazione attuale non rendono nulla o addirittura generano interessi negativi. È possibile anche investire in valute estere, materie prime e via dicendo. L’importante è diversificare, ovvero fare investimenti misti. Per chi sceglie la facilità, il piano di risparmio in fondi è una soluzio-

Angelique Schweizer, consulente clienti Banca Migros Svizzera nordoccidentale, esperta d’investimenti.

ne pratica nella misura in cui si è disposti a risparmiare per più di  anni, cosa che ti consiglio vista la tua età. I fondi vengono investiti in diverse attività, settori e regioni e possono contenere più o meno azioni. A volte è importante la quota di obbligazioni e in genere contengono valute estere e altri investimenti. Con un piano di risparmio puoi versare regolarmente le rate prescelte. Il versamento scaglionato consente anche di ridurre il rischio. Il momento in cui si effettua l’investimento svolge infatti un ruolo importante. A seconda della banca, è possibile versare in un piano di risparmio in fondi importi mensili già a partire da  franchi.

La Banca Migros offre diversi fondi strategici per i quali puoi scegliere una quota di azioni tra lo  e l’% a seconda del tuo obiettivo di risparmio e la tua propensione al rischio. Su bancamigros.ch/piano-di-risparmio-in-fondi puoi calcolare il rendimento possibile. A seconda dell’importo, della durata e della strategia di risparmio, di solito il rendimento è maggiore di quello di un conto risparmio. Consiglio: fatti consigliare dalla tua banca e per i fondi controlla le variabili come commissioni, tasse, rendimenti dei dividendi o data del lancio del fondo. Così facendo puoi vedere l’evoluzione degli anni passati.


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Anno LXXXV 3 gennaio 2022

Buon Veganuary!

Mangiare vegano per un mese è facile, perché molti dei tuoi piatti preferiti sono già disponibili in versione vegana. I nostri consigli ti aiutano a prepararti al cambiamento, che sia solo per il mese di gennaio o per un periodo più lungo

azione – Cooperativa Migros Ticino

Corona dei re Magi vegana Ingredienti per 8 persone 70 g

di margarina vegana

500 g

di farina

1 cucchiaino di sale 80 g

di zucchero

20 g

di lievito fresco

2,5 dl

di bevanda vegetale, ad es. drink di riso alle mandorle tiepido

50 g

d’uva sultanina farina per impastare

Consiglio Registrati ora su veganuary.ch per iniziare il  all’insegna dell’alimentazione vegana, ordina il libro di cucina vegana digitale e prova questo tipo di alimentazione insieme ad altri.

Consiglio Non hai voglia di cucinare? Le app HappyCow e VanillaBean ti dicono dove trovare ristoranti vegani nelle vicinanze.

1

mandorla

3 cucchiai

di panna di soia da montare

1 cucchiaio di mandorle a scaglie 1 cucchiaio di granella di zucchero 2 cucchiai

di sciroppo d’acero

1. Fai fondere la margarina. Mescola la farina con il sale e lo zucchero e forma al centro un incavo. Sciogli il lievito nella bevanda vegetale poi versalo nell’incavo con la margarina. Impasta gli ingredienti per ca.  minuti fino a ottenere una massa liscia e morbida. Incorpora l’uva sultanina. Copri l’impasto con un canovaccio umido e lascialo lievitare in un luogo caldo per - ore, finché raddoppierà di volume. 2. Misura ca.  g di pasta e modella una palla su poca farina. Accomodala al centro di una teglia foderata con carta da forno. Dividi il resto dell’impasto in  pezzetti uguali e forma delle palline. Inserisci una mandorla in una pallina. Sistema le palline intorno alla più grande lasciando poco spazio tra una e l’altra. Copri la corona dei re Magi e lasciala lievitare per  minuti. 3. Scalda il forno a  °C. Spennella la corona con la panna di soia. Cospargila con le mandorle a scaglie e la granella di zucchero e cuocila al centro del forno per - minuti. Sforna, spennella la corona ancora calda con lo sciroppo d’acero e lasciala raffreddare.

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CULTURA

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La pelliccia sospetta Rahel Senn ha scritto un romanzo basato sulla vita di Iris Von Roten avvocata femminista basilese

Un autore dirompente Al MASI di Lugano una retrospettiva sull'opera e le collezioni di Albert Oehlen

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Intensità ed energia Una mostra a Winterthur si concentra sulla storia dell'Espressionismo in Svizzera

Sotto il cielo di Nut Il suggestivo e affascinante Pantheon egiziano ricostruito al Museo archeologico di Milano

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Shutterstock

Un’autobiografia surreale Letteratura

Mircea Cartarescu nel suo romanzo di formazione Solenoide fonde la propria biografia e quella della sua patria

Stefano Vastano

Ci sono romanzi così avvincenti che li leggi in un soffio. E ci sono opere in cui fatichi ad entrare, perché hanno più piani e diverse porte d’accesso, ma alla fine ti lasciano dentro molte immagini, e da pensare. L’opera letteraria del rumeno Mircea Carterescu appartiene alla seconda e più rara categoria di romanzi. E Solenoide, la sua ultima fatica, tradotta magistralmente da Bruno Mazzoni e pubblicata dal Saggiatore è il suo capolavoro. È la storia a tratti triste, a volte grottesca, di un giovane poeta di Bucarest che, già ai tempi dell’università compone il suo poema-assoluto, nei cui versi ha spremuto lo scibile umano, o quasi. Ma il classico Prof universitario, e i suoi studentelli, gli rifiutano il poema, lo deridono, e da quella fatidica serata lui passa un’esistenza grama e solitaria ai margini di Bucarest. Si tiene a galla insegnando letteratura in una improbabilissima scuola di periferia. E come un novello Stephen Dedalus di Joyce abita una casa-torre, una navicella spaziale stregata che solo a lui poteva capitare in affitto. Sopra il letto il nostro sfigatissimo poeta-scrittore (che appunta febbrilmente le sue memorie, sapendo di non pubblicarle mai) ha scoperto un pulsante che, in azione, consente a lui

e alla sua bella – insegnante di matematica nella stessa sgangherata scuola – di lievitare amabilmente, scivolando dall’atto erotico al mondo dei sogni. «Il protagonista di Solenoide» ci dice Mircea Cartarescu sorridendo, «è ovviamente un alter ego, e il mio è un romanzo di formazione in cui si tratta di un percorso per conoscere se stessi». E dopo un attimo di riflessione Cartarescu aggiunge: «abbiamo conquistato il mondo in tutti i suoi dettagli ed angoli, ma stiamo perdendo la cosa più importante: la conoscenza di noi stessi». Ecco perché questo ispirato romanzo di  pagine appartiene alla seconda categoria di testi, a quella letteratura «surreale» in cui conoscenza personale, le leggi della fisica, le formule della matematica, le più strane figure della storia e politica (non solo rumena) e la passione per il mondo degli insetti (dei più mostruosi parassiti in specie) si intrecciano in un caleidoscopico mix in ogni capitolo. «La prima radice del surrealismo» ci spiega Cartarescu che abbiamo incontrato a fine agosto al festival «Moby Dick» in Toscana, «sono i romantici tedeschi come Novalis, Hoffmann e Tieck che ci hanno spalancato le vie del sogno». E Cartarescu è uno che ai trip onirici, alle visioni ed allucinazioni ci tiene moltissi-

mo. «Scrivendo mi sono appropriato anche dei sogni di mia madre», ci confida, «ma l’altra radice del surrealismo è la psicoanalisi. Mentre l’artista che sento più vicino è chiaramente Giorgio De Chirico». Su questa immensa miniera «surrealista» però nelle sue pagine si innestano le biografie e ricerche di scienziati di varie discipline. In Solenoide ad esempio si ricostruisce l’intricato mondo matematico di Charles Howard Hinton, uno dei geni inglesi della logica moderna (le cui teorie dell’Iper-cubo portano, fra l’altro, al famoso giocattolino del «cubo magico»). «Un terzo del mio tempo lo passo a leggere letteratura, spiega Cartarescu, poi leggo di tutto. È un peccato che oggi scienza e letteratura abbiano divorziato. Un autore per me importante è ad esempio il fisico Carlo Rovelli». Ma al di là dell’amore per le scienze (dalla logica all’entomologia) c’è un punto su cui Cartarescu ritorna in ogni discorso e romanzo: «la letteratura, come ricorda Salinger, non è solo una professione come altre, ma un atto di fede, una religione. Una visione del mondo che, nella sua complessità, ti consente di vedere fra le crepe delle altre forme di sapere. Sì, letteratura è poesia, e la poesia è la vetta della conoscenza».

Da anni si vocifera di un premio Nobel per Cartarescu, a cui sono già stati conferiti il Thomas-Mann-Preis, il premio von Rezzori o quello dello Stato austriaco per la letteratura. Sarebbe un Nobel meritato se pensiamo ai decenni di umiliazioni che lui e i suoi genitori hanno vissuto a Bucarest, la città che ama perché è la fonte (inquinata) della sua poesia, ma che in certo senso odia. «È la città più triste e melanconica del mondo, nata» ripete «come capitale in rovina o delle rovine». Tanto che nelle ultime pagine di Solenoide la vediamo tutta intera questa benedetta/maledetta Bucarest spiccare il volo e sparire dalla Terra. È una delle funzioni a cui i canali dei Solenoidi sparsi nella città servivano, oltre a far lievitare l’anima del povero poeta. «Ai tempi della dittatura del corrottissimo Ceaușescu, dicevamo di vivere nel regime delle F» ricorda lui «la Fame, il Freddo e la Fifa, la paura delle denunce e repressioni dell’apparato dei servizi». Carterescu se li ricorda ancora i giorni della rivoluzione rumena dell’ in cui lui, come tutti i bucarestini erano in piazza, nonostante il freddo, la fame e la fifa, a gridare «Libertà». «Per questo sono un europeista convinto» riassume lui «e penso che la data dell’ingresso del-

la Romania nell’Unione europea dovrebbe diventare il giorno di festa nazionale per noi rumeni». All’epoca del crollo del Muro di Berlino, un po’ tutti eravamo arrivati a sognare «la fine della Storia», per dirla con il politologo americano Francis Fukuyama, e l’inizio di un’era di democrazie globali. «Oggi la situazione si è capovolta rispetto a  anni fa» spiega Carterescu, «siamo accerchiati da Stati illiberali in Oriente e da Paesi antidemocratici nell’Europa dell’Est. La gente ha di nuovo paura, paura del futuro, e si aggrappa di nuovo alla ideologia dell’Uomo forte». Anche per queste derive ultranazionaliste e sovraniste, il poeta di Solenoide ritorna con la memoria alle vili repressioni subite nel regime asfittico di Ceaușescu. «Per quanto totalitaria ogni dittatura» – conclude – «ha un punto vulnerabile e se lo tocchi tutto il suo castello di repressioni viene giù. È l’autostima, l’amore della propria dignità il punto debole di ogni regime». E in fondo è a questa scintilla di libertà interna che la grande letteratura, e la sua poesia, mirano in ogni pagina. Bibliografia Mircea Cartarescu, Solenoide, Il Saggiatore, 2021.


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CULTURA

«La sete di vita ha fatto di me una femminista» Pubblicazioni

Rahel Senn nel suo romanzo Ozelot ricostruisce la vita e la figura di Iris von Roten

Natascha Fioretti

Metti una pianista di fama internazionale, classe , nata a Zurigo da padre svizzero e madre asiatica, che non ancora ventenne si trasferisce a Singapore per poi tornare in Svizzera dopo essere stata nominata nel  Young Steinway Artist e da Forbes nel  annoverata tra le donne più influenti. Metti una femminista e una donna straordinaria come Iris von Roten che nel secolo scorso ha lottato per i diritti delle donne e per il suffragio femminile. Uniscile, et voilà, ne esce un romanzo dal titolo Ozelot uscito in tedesco per l’editore Zytglogge e firmato dalla talentuosa Rahel Senn. Musicista e scrittrice, ha già pubblicato un romanzo sulla storia di Eduard Einstein, figlio di Albert. Sul suo sito si presenta così: «Sono cresciuta parlando sette lingue in un paese che non era effettivamente il mio. Spesso mi sono sentita incompresa; nella musica ho finalmente trovato la mia lingua. Grazie ad un pianoforte Steinway ho trovato la mia voce e il modo di esprimere la mia anima vagabonda». Il perché del titolo ci viene svelato subito nelle prime righe che ci portano dritti al centro della storia, una sera del  dicembre . Quel giorno, a quell’ora, a Zurigo viene arrestata una donna che afferma di essere un’avvocata. Indossa un pantalone di velluto verde e un cappotto di pelliccia di Ozelot. Manca il cappello ma non il Annuncio pubblicitario

Carnevale di Basilea, anno 1959: ci si prende gioco del libro e dell’ideologia di Iris von Roten. (Keystone)

rossetto rosso. Per i due poliziotti di pattuglia non vi sono dubbi, si tratta di una «E Trottoiramsle», in dialetto basilese una prostituta. Le chiedono i documenti: «Perché? Non sono obbligata a portare con me una carta d’identità». Detto da una donna equivale ad un affronto. Lei per evitare altre seccature dà il suo indirizzo: Iris von

Roten, Oberer Heuberg , Basilea. Gli agenti non sono soddisfatti. Vogliono sapere dove è diretta, dove starà per la notte. «Come vi viene in mente di chiedermi dove pernotterò? Sono libera di non pernottare affatto e di camminare se ne ho voglia per tutta la notte fino a Ziegelbruecke». Le chiedono il biglietto del treno e Iris von

Roten glielo mostra. Ancora non basta, insistono sul chiederle dove è diretta e quando si rifiuta di rispondere la minacciano di portarla al comando di polizia. Le chiedono cosa fa di mestiere, dice loro che fa la giornalista e l’avvocata. Scoppiano a ridere. Una telefonata ai colleghi conferma però la versione della donna, moglie dell’ex Consigliere nazionale Peter von Roten e madre di una bambina di due anni. Dopo averne confermato l’identità si apre allora un’altra questione: chi si occupa della bambina mentre questa donna si prende la libertà di passeggiare per le strade della città a quest’ora di notte? Il marito ha dato il suo consenso? A nulla valgono le proteste di Iris von Roten, alle . la polizia telefona a casa per farsi confermare dai domestici che la signora von Roten è uscita di casa diretta a Zurigo. I domestici confermano. Iris viene liberata solo alle prime ore del mattino. Nel rapporto si legge che il comportamento e il modo di presentarsi della persona arrestata erano singolari a tal punto da far sospettare che fosse fuggita da un manicomio. Un episodio che passerà alla storia come il «caso Panthermantel». Cose da pazzi se pensiamo che sono accadute solo  anni fa. D’altra parte a quei tempi le donne non potevano accettare un posto di lavoro o aprire un conto, prelevare dei soldi senza la firma del marito e in caso di morte del congiunto non erano tutelate. Per non parlare di cosa poteva capitargli se non vivevano in modo conforme alle regole della società e a quelle coniugali. Rahel Senn ci racconta di Lydia, figlia dell’imprenditore e politico Alfred Escher che dopo la morte del padre sposa con riluttanza Friedrich Emil Welti per poi, di lì a poco, innamorarsi dell’artista Karl Stauffer. La relazione extraconiugale finisce male, il suocero per punirla la rinchiude in un manicomio. È questo il motivo che ha spinto Rahel Senn a rendere omaggio a Iris von Roten, mostrare quanto questa donna sia stata coraggiosa e all’avanguardia in tempi in cui le donne dovevano accudire figli e marito e pensare al focolare domestico. Per ricordarci le ingiustizie e le angherie, gli affronti che ha dovuto subire perché bella, colta, intelligente, rea di aver alzato la voce per rivendicare ciò che alle donne spettava di diritto. E per ricordarci che se oggi possiamo vivere la vi-

ta che vogliamo, scegliere il percorso di studi e la professione, lo dobbiamo a chi ha lottato prima di noi. Iris, ad esempio, il femminismo ce lo aveva nel sangue. Meta von Salis (), famosa femminista, sorella del bisnonno, appartenente a una famiglia dell’aristocrazia grigionese, sin dai suoi anni giovanili si oppose al volere del padre e scelse di studiare filosofia e storia all’Università di Zurigo. Nel  in un articolo sulla stampa divenuto famoso chiese ciò che nessuno prima di allora aveva mai osato fare nella Svizzera tedesca: l’introduzione del diritto di voto e di eleggibilità delle donne. Hortensia Gugelberg von Moos (-), conosciuta come Hortensia von Salis, figura straordinaria del suo tempo, esperta di terapie naturali, si occupò di religione, medicina e botanica e mise la sua istruzione e la sua cultura al servizio della causa per la parità delle donne. Ecco le antenate di Iris von Roten e se il passaggio di testimone tra loro ha funzionato, nel romanzo succede anche con la piccola Vittoria di sei anni, voce narrante, che viene a conoscenza della storia di Iris von Roten attraverso la madre, segretaria dell’Alleanza delle società femminili svizzere. La stessa che all’uscita di Frauen im Laufgitter: offene Worte zur Stellung der Frau nel  volterà le spalle a Iris. La piccola Vittoria in Ozelot parla di una riunione di crisi del comitato dell’ASF alla quale partecipano anche le redattrici del «Frauenblatt», storica testata nata nel  per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione politica, economica e sociale della donna e promuovere il suffragio femminile. Vittoria sente tutto. «Questa donna è un affronto per il nostro Paese! Senza riguardo … vi ricordate del caso Panthermantel? Terribile, semplicemente terribile» dice una. Un’altra prova a placare gli animi «Non esageriamo…», la terza risponde «Altro che! Non fa altro che mettersi in mostra! Nessun rispetto per tutte quelle donne che da decenni lottano con strategia e diplomazia per i diritti femminili.» E all’indomani delle votazioni del  non perdono tempo ad addossarle tutta la responsabilità della sconfitta. Quando nella realtà, come ci racconta la splendida lumaca che nel  sfila al corteo organizzato all’interno dell’Esposizione nazionale svizzera del lavoro femminile (SAFFA), l’unica verità è stata la lentezza consapevole e ingiusta della politica nel riconoscere alle donne un diritto tanto fondamentale che le sorelle tedesche avevano ottenuto nel , quelle inglesi nel  e l’Italia nel . Rahel Senn dunque intreccia due storie e due punti di vista, quello di Iris e di Vittoria, usando la tecnica del montaggio. Rafforza il primo con dei passaggi tratti dall’opera di Iris che tanto fu osteggiata. Eppure per lei il principio di tutto era tanto semplice quanto lineare: «A fare di me una femminista è stata la semplice sete di vita. Tutto ciò che il cuore desiderava: avventure selvagge, orizzonti lontani, prove di forza avvincenti, indipendenza, libertà – la vita pulsante insomma, tutto ciò che nei fatti, nelle parole e nella scrittura sembrava essere riservato soltanto agli uomini». Peccato aver capito tutto troppo tardi. Bibliografia Rahel Senn, Ozelot, Basilea, Zytglogge Verlag, 2021.


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CULTURA

Oehlen, la belva

Mostre ◆ Al MASI di Lugano viene proposta una retrospettiva di opere e collezioni dell’artista tedesco

Ada Cattaneo

Autore dirompente, Albert Oehlen ha la sua fase più alta negli anni Ottanta. Se si prova a classificarlo, il suo lavoro viene annoverato fra quello dei «Neue Wilde» (o Nouveaux Fauves, «nuove bestie», su calco della corrente del Fauvismo affermatasi in Francia a inizio del XX secolo). Si tratta di autori di origine tedesca che dipingono tele di grande o grandissimo formato, da leggere in risposta al minimalismo degli anni Sessanta e Settanta, dove prevalgono i colori sgargianti, stesi in gesti violenti e accompagnati da riferimenti continui alla storia dell’arte o alla cultura visiva di massa. Fra di essi, Georg Baselitz e Martin Kippenberger. Ma la tendenza che si afferma in Germania non è isolata ed esperienze analoghe si ritrovano in altri paesi europei – si pensi alla Transavanguardia italiana – o in America, con autori come Julian Schnabel. Presto molti di loro saranno protagonisti di un improvviso quanto smodato successo economico: il record segnato dalla vendita di un’opera di Oehlen (un autoritratto del ) sfiora gli otto milioni di dollari. Eppure, i valori di mercato non garantiscono necessariamente valori formali altrettanto duraturi, tanto che alla prova del tempo il lavoro di alcuni di questi artisti sembra non comunicare più un effettivo senso di attualità.

Originale la scelta di chiedere all’artista stesso di curare una sezione dell’esposizione con opere da lui raccolte La rilevanza della mostra in corso a Lugano dall’ironico titolo Grandi quadri miei con piccoli quadri di altri si colloca su un versante partico-

Albert Oehlen, Senza titolo, 2005 / 1997, olio su tela, 210 x 300 cm. (Lothar Schnepf © 2021, ProLitteris, Zurigo)

lare, quello cioè dell’artista curatore e collezionista. Spesso gli artisti sono raccoglitori ed accumulatori, che amano sistemare il frutto delle loro ricerche in collezioni sistematiche. Si può trattare di oggetti delle più varie tipologie, dalle miniature di opere d’arte di Rachel Whiteread agli «Harems» – questo il nome delle sue mille collezioni, da quelle di cucchiaini e di marmi a quella di biglietti da visita – di Mike Kelley. Il senso di quest’attività non è fine a sé stessa, bensì si connota come vera e propria forma di espressione. Gli oggetti (più o meno preziosi in senso assoluto, ma quasi sempre dal grande significato personale) vanno a costituire un archi-

vio dell’autore: questi può decidere di conservarli per sé, senza renderli pubblici, utilizzandoli come fonte d’ispirazione, oppure può scegliere di inserirli nelle proprie opere, anche rielaborandoli. È quest’ultima una pratica che si diffonde ampiamente nell’arte contemporanea. Si pensi al collage dei Surrealisti o all’assemblage di Nouveaux Réalistes come Tinguely, dove il collezionismo dell’artista fornisce non soltanto una serie di modelli, ma un vero e proprio inventario di elementi che, se combinati dall’artista, concorrono alla creazione dell’opera. Diverso è il caso della collezione di opere artistiche realizzate da altri

autori: spesso sono coloro che li hanno accompagnati nel percorso professionale e creativo, perciò le opere sono testimonianza di affetti, oltre che possibile fonte d’ispirazione. In altri casi, invece, l’artista si comporta alla stregua di un qualsiasi altro collezionista, ricercando il pezzo mancante in una serie riunita negli anni. Sempre, però, si può disegnare attraverso le collezioni una vera e propria mappa delle influenze reciproche fra autori. Si aggiunge poi un’altra questione, cioè la pratica diffusa negli ultimi anni da parte delle istituzioni museali di invitare artisti in veste di curatori di esposizioni collettive. In al-

cuni casi, come quello di Oehlen a Lugano, ad essere esposte sono proprio le collezioni d’artista appena citate, proposte in un allestimento ideato dallo stesso proprietario. Finora il Museo d’arte della Svizzera Italiana non aveva ancora ospitato eventi di questo genere. Il valore di questi episodi risiede, oltre che nella possibilità di osservare oggetti solitamente mantenuti privati, nel poter ricercare il filo rosso che collega le opere in mostra alla personalità del loro proprietario. In Svizzera, si possono citare i casi di Olivier Mosset o di John Armleder, che hanno esposto le proprie collezioni private. C’è poi il caso peculiare dell’artista belga Francis Alÿs, che nel corso degli anni ha raccolto un grande numero di immagini di Santa Fabiola, raffigurata sempre secondo la stessa iconografia di ritratto femminile di profilo, con un manto rosso a coprire il capo, per poi esporle tutte a distanza ravvicinata, realizzando così una vera e propria installazione. A Lugano la selezione di Oehlen riunisce autori storicizzati di prim’ordine, come Gino De Dominicis, Duane Hanson, Willem de Kooning, con autori più marginali (come quelle del fratello Markus), testimoniando quindi i vari livelli di significato ai quali una collezione di artista può assolvere, dai modelli storicizzati ai legami affettivi. Sono poi esposte anche alcune tele delle stesso Oehlen, che in quest’occasione si leggono alla luce della fitta rete di contaminazioni reciproche fra autori del Novecento. Dove e quando Albert Oehlen – Grandi quadri miei con piccoli quadri di altri. MASI LAC, Lugano. Fino al 20.02.2022.

Il libro d’arte prossimo futuro Editoria

Mauro Valsangiacomo e i suoi progetti alla Biblioteca cantonale di Lugano fino al 15 gennaio

Eliana Bernasconi

Il «Libro d’Arte» o «Libro D’Artista» è un genere artistico ben preciso che attraversando epoche e avanguardie ha raggiunto l’era del web. Da sempre è un oggetto unico privilegiato e da sempre, come ogni forma d’arte, è inseparabile dal suo valore di mercato. La mostra attualmente in corso alla Biblioteca cantonale Vals. La mia idea di libro. Da Fluire ai libri d’artista condivisi «copyleft» sottopone questo concetto a critica radicale. Si tratta di un’esposizione multipla che contiene parecchi messaggi e spinge a riflessioni fondamentali. Ci avverte, ad esempio, nel caso qualcuno non ne fosse ancora edotto, che già siamo entrati nell’era del digitale, dove le immagini d’arte e la parola poetica continueranno a esistere ma dove irreversibili mutazioni e forme di condivisione ci attendono. Vals sostiene che il Libro d’Arte non dovrebbe essere un oggetto acquistabile solo da pochi privilegiati ma accessibile gratuitamente in rete da chiunque usi la stampante di casa. Dovrebbe cioè, essere libero dal celebrato «copyright», il veto posto dai diritti d’autore. La moneta di scambio non dovrebbe essere il denaro ma qualcosa di diverso e più prezioso, la quantità di tempo di cui ognuno di-

Mauro Valsangiacomo. (Youtube)

spone. Con ciò Vals non vuole contrapporsi, sarebbe vano, all’irrompere delle nuove tecnologie, ma vuole osservarne le modalità e, come vedremo, all’occorrenza utilizzarne alcune con sapienza. L’esposizione ha due percorsi: nel primo sono presentate le opere di Valsangiacomo pittore, nel secondo l’esperimento editoriale «Alla Chiara Fonte» e la rivista di poesia digitale «Fluire». Mauro Valsangiacomo, ha recentemente ricevuto il premio cul-

turale internazionale Masciadri, per la sua attività di artista pittore e la costante promozione di opere poetiche e autori di poesia. Dopo Brera, ha praticato pittura, mosaico, ceramica e incisione, fatto interventi e installazioni in luoghi pubblici. Alla Biblioteca cantonale luganese presenta alcuni lavori di grande formato realizzati a stampa digitale su alluminio e le sue ultime opere in forma cartacea create esclusivamente con l’ausilio di programmi di disegno informatico «open source» scaricate a stampa digitale su carta riciclata. Sono  libri d’artista che riproducono alcuni versi di poeti, da Vincent Alexander a Rainer Maria Rilke, da Eduard Mörike a Katherine Mansfield o Pedro Salinas. Nel candore della superficie del foglio la parola poetica emerge nello spazio vuoto, evidenziata da delicati e soavi sfondi colorati che sembrano evocare l’infinito, accompagnata da un nitido segno dalla linearità graffiante e da violente impronte nere di sapore espressionista. Ne risultano immagini assolutamente incantevoli, come ad esempio in «E dov’è la salvezza, tu lo sai?», che riproduce alcuni versi tratti da un’opera di Pedro Salinas. Per questi Libri d’arte è stata scelta la mo-

dalità «copyleft» il che significa che i fruitori possono diffonderli e scaricarli senza dover pagare diritti. Proprio con questa operazione ci si pone in alternativa al sistema economico e finanziario che governa anche l’arte. Valsangiacomo sta lavorando alla creazione di un progetto collettivo di Libri d’Arte che lui stesso inaugura con queste opere e che sarà condiviso con altri artisti. Scaricando questi lavori e seguendo poche semplici direttive si arriva alla costruzione manuale di bellissimi Libri d’Arte. Il secondo percorso della mostra presenta l’attività di Valsangiacomo editore. Poiché, come egli afferma «l’uomo non può essere senza la poesia e senza il desiderio di andare verso gli altri», questa seconda parte documenta la produzione di ciò che lui definisce: «esperimento editoriale estetico senza scopi di lucro» cioè la casa editice «Alla Chiara Fonte edizioni» che negli anni  ha creato con la moglie Chiara, in forma solo cartacea inizialmente. Vi troviamo pubblicazioni di autori noti e molto seguiti, collane di prestigiosi testi di poesia e ricerca letteraria e a fianco i recenti  numeri di «Fluire», una nuova concezione di rivista poetica questa volta puramente

digitale, iniziata a ottobre , che ogni  mesi rivolge la sua attenzione e ospita  autori di poesia, anche sconosciuti, poiché, Vals afferma, e noi condividiamo, che molti poeti celebrati (e, noi aggiungiamo ancora, anche attentissimi e abili nel proporsi e vendersi) non sono interessanti come il poeta della porta accanto. Anche in questo caso, come proposto per il Libro d’Arte, scaricando e seguendo direttive divertenti come un gioco in poco tempo si procede alla confezione artigianale di un bellissimo piccolo volume. Come spesso succede, l’artista è spesso un sensibile sismografo, un’antenna che registra e rispecchia prima di altri le mutazioni in atto. Il futuro in cui Vals ci chiede di credere sarà necessariamente collaborazione e cultura della partecipazione, condivisione e trasversalità: non più il libro d’Arte oggetto commerciale quindi, ma prodotto di una pratica artistica alternativa libera dalla logica del profitto. Informazioni http://poesiaallachiarafonte. ch/librid-arteweb/librid-arte/ http://poesiaallachiarafonte. ch/Fluire/


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CULTURA

L’Espressionismo e la Svizzera

Mostre ◆ Al Kunstmuseum di Winterthur un’esposizione in corso fino al 16 gennaio ripercorre la fortuna elvetica di questo movimento artistico Elio Schenini

«In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, stragi ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù». Che la famosa battuta di Orson Wells nel Terzo uomo sia basata su un falso storico è risaputo. A dare i natali al celebre orologio con l’uccellino che scandisce le ore è stato infatti un orologiaio della Foresta Nera. Eppure, a dispetto della sua imprecisione filologica, la battuta di Wells ha avuto grande fortuna perché riflette una visione, indubbiamente stereotipata, ma ancora molto radicata del nostro paese. Un’immagine edulcorata, che gli svizzeri stessi hanno contribuito a costruire a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, forgiando l’idea di Willensnation che ben conosciamo a partire da alcuni miti fondativi radicati nel mondo contadino alpestre. Sono i miti dell’operosità laboriosa, dell’affidabilità, della discrezione, della precisione, della puntualità e soprattutto della neutralità. Tuttavia, che l’immagine pacificata e bucolica di un paese autosospesosi dalla storia sia in gran parte una mistificazione posticcia, utile più che altro ad addomesticare allo svilup-

Albert Müller, Interno, 1924, olio su tela. (SIK-ISEA, Zurigo)

po industriale le rudi e selvatiche popolazioni rurali, lo dimostra l’ampio successo che ha avuto l’Espressionismo in Svizzera agli inizi del Novecento. Un successo che ci viene raccontato da un’esposizione in corso, ancora fino al  gennaio, al Kunstmuseum di Winterthur.

Attraverso un centinaio di opere, la mostra documenta la penetrazione e la rapida diffusione in tutte le aree del paese, grazie a precursori come Cuno Amiet e Giovanni Giacometti, di questo movimento che anteponeva l’interiorità dell’artista a qualsiasi fedeltà ottica e che si rifaceva in egual

misura al Fauvisme francese e agli espressionisti tedeschi della Brücke e del Blaue Reiter. La lezione di Van Gogh, di Gauguin, di Munch e di Kirchner si coglie infatti in maniera più o meno evidente, e spesso simultaneamente, in molti di questi dipinti dominati dal tratto nervoso e febbrile delle pennellate e dagli accordi cromatici acidi e dissonanti e soprattutto incongrui rispetto al soggetto rappresentato. Da questo innesto di sperimentalismo avanguardistico e di reminiscenze arcaiche sul tronco dell’arte locale è scaturita una produzione artistica tagliente e impietosa che ha saputo cogliere con acutezza il «disagio della civiltà» che in quegli anni Freud andava teorizzando. Un’arte che è riuscita ad evitare sia le svenevolezze da souvenir di un mondo rurale ormai diventato miniatura di se stesso, che la vacuità decorativa di certa astrazione geometrica che nel secondo dopoguerra, con la rapida crescita finanziaria del paese, ha finito per assurgere al ruolo incontrastato di ideologia artistica ufficiale. Altro che pacchiani orologi a cucù, dunque. Il mondo messo in scena dagli espressionisti svizzeri, soprattutto quello inciso vigorosamente negli anni Venti dalla triade Epper, Pauli e Schürch, è un mondo in cui si avver-

te la tragedia, in quel momento sempre più incombente, della modernità e nel quale la parola suissitude sembra veramente la crasi, come aveva osservato qualcuno tempo fa, di suicide e solitude. Se un limite la mostra ce l’ha è proprio quello di non avere saputo approfondire e attualizzare in maniera sufficiente questo aspetto, come appare evidente fin dall’elementarità paratattica di un titolo che affianca semplicemente i sostantivi Svizzera ed Espressionismo senza provare ad articolarli sintatticamente. A differenza della mostra del , tenutasi sempre a Winterthur, che è stata la prima occasione per riscoprire e scandagliare le tendenze espressioniste nel nostro paese, e da quella del , curata da Pietro Bellasi a Ferrara e Locarno, che aveva offerto un’originale lettura del panorama culturale svizzero del XX secolo a partire dalla nozione di Espressionismo, quella attuale risulta forse più estemporanea, ma, vista la qualità delle opere esposte, non per questo meno degna di essere visitata. Dove e quando Expressionismus Schweiz Kunst Museum Winterthur Reinhart am Stadtgarten Tel. +41 52 267 51 62 www.kmw.ch Annuncio pubblicitario

Genio dimenticato

Editoria musicale ◆ Uscito di recente da Zecchini il nuovo studio di Giuseppe Clericetti Il libro nasce sotto gli auspici della Fondazione Bru, che gestisce il Centro di musica romantica francese ospitato nel Palazzetto Bru Zane di Venezia, e che sostiene le ricerche in questo particolare periodo della storia musicale francese. Sotto la stessa egida Clericetti ha già pubblicato negli scorsi anni i suoi due importanti lavori dedicati a Camille Saint-Saëns. E proprio come questi ottimi predecessori, il volume dedicato a Reynaldo Hahn (musicista, critico e compositore di cui «Azione» si è già occupata tempo fa parlando del volume di Lorenza Foschini, Il vento attraversa le nostre anime. Marcel Proust e Reynaldo Hahn. Una storia d’amore e d’amicizia) ci fa compiere un tuffo nella Parigi della Bella époque. Verrebbe da dire «nella Parigi musicale della Bella époque» ma, in realtà, la vita culturale e sociale di quel periodo era talmente intessuta dalle produzioni musicali da rendere superflua la precisazione. Hahn, in effetti, nel corso della sua carriera è stato un personaggio influente e importante nell’assecondare e anche in un certo senso nel determinare il gusto di quel periodo. E se è ricordato oggi proprio per la sua (breve) relazione amorosa con Proust, il suo ricchissimo catalogo di composizioni (di cui Clericetti cerca di dare un elenco ancora iniziale e tutto da completare) e i suoi scritti critici si conoscono molto meno. In altre parole se, per quanto riguarda la sua notorietà, Clericetti nota che «la loro fama è inversamente proporzionale allo scorrere del tempo: quando si incontrano Proust è sconosciuto mentre Hahn è il musicista del momento, apprezzato dal Tout-Paris, più

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33% Tutti i NIVEA Doccia curativo ammirato di Debussy», oggi la figura di Hahn è poco conosciuta, e la stessa sorte tocca alla sua musica. Gran parte della sua produzione più originale del resto appartiene a generi oggi scarsamente eseguiti. Da un lato le «mélodies», composizioni per pianoforte che venivano suonate nei salotti delle case borghesi, in cui come ci fa notare l’autore «l’ottanta per cento dei dilettanti in musica è costituito da donne, e l’istruzione musicale è giudicata sacrosanta nella buona educazione femminile, soprattutto per quanto riguardo lo studio del pianoforte e della voce». D’altro canto, la consacrazione di Hahn come compositore si può senz’altro assegnare alle sue operette, genere musicale di grande successo nella Parigi del primo dopoguerra, «sezione conclusiva ed entusiasmante», nelle parole di Clericetti, della sua carriera di compositore. Il libro è rigoroso ma di lettura scorrevole e avvincente. /AZ

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 3 gennaio 2022

35

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CULTURA

La locandina della mostra. (www.museo archeologico milano.it)

Da Olivone al podio Musica

Luca Pfaff si racconta in un libro

Enrico Parola

Mostre ◆ Al Museo Archeologico di Milano una esposizione ci introduce nella complessa e affascinante cosmogonia dell’antico popolo del Nilo

Alessandro Zanoli

Viviamo in un tempo ipertecnologizzato, proiettato sul futuro, in cui la riflessione sul passato sembra sempre un po’ superflua. Eppure visitando la mostra al Museo Archeologico di Milano il fascino potente delle cosmogonie antiche ci viene incontro e ci tocca. La mostra Sotto il cielo di Nut, aperta fino al  gennaio, è un’occasione interessantissima per entrare in contatto con la cultura dell’antico Egitto, e soprattutto per riconoscerne dei tasselli fondamentali, quelli legati alla sua religione. Confrontati con le fisionomie del pantheon egiziano una volta di più ci rendiamo conto della sua complessità e della sua profondità. Viene da ringraziare di nuovo il grande Champollion il quale, decrittando il sistema di scrittura geroglifica, ha aperto per noi un mondo pieno di narrazioni e di pensieri che mostrano l’incredibile grado di ricchezza spirituale di quella civiltà. Il titolo della mostra prende spunto proprio da una delle divinità egiziane, Nut, una figura femminile azzurra che rappresenta l’arco della notte. Nut ci accompagna nella visita all’esposizione perché per comprendere il suo valore simbolico occorre ripercorrere e osservare da vicino l’«organigramma» della religione egiziana. In questo senso l’esposizione è stata strutturata con un intento didattico molto lodevole, che permette (non solo ai bambini) di entrare in contatto con precisione e immediatezza con questa complessa struttura di suggestive immagini divine. Ognuno di noi conosce certamente le raffigurazione del dio dalla testa di coccodrillo, di quello con le sembianze dell’ibis, oppure conosce la grande diffusione di figure legate alla simbologia dello scarabeo, e magari ha già

sentito parlare dello sciacallo Anubi, ma far diventare tutti questi concetti disparati come elementi di un disegno completo è certo qualcosa che va ben oltre le competenze di un «homo sapiens tecnologicus» odierno. Nella mostra, curata da Anna Provenzali, il percorso espositivo guida progressivamente attraverso una presa di contatto con i vari dei, le loro raffigurazioni, e con i rituali che legano la loro presenza alla vita quotidiana dell’Antico Egitto. La raccolta di reperti attinge alla collezione del Museo, ricca delle donazioni raccolte nel corso di molti decenni. Le raffigurazioni delle varie divinità (alcune delle quali mostrano incredibili collegamenti con quelle del cristianesimo che conosciamo bene, come nel caso delle «Iside che allatta», un’immagine che non può non ricordare le nostre «Madonne del latte») sono collocate in un percorso che, come detto, tocca vari aspetti della vita quotidiana, in cui un particolare risalto è dato al ruolo degli animali sacri: la dea Bastet, dalle fattezze di una gatta, o Sobek, dalla testa di coccodrillo, oppure Horus, dalla testa di falco, e ancora Api, il toro che trasporta i defunti nell’Aldilà. Ognuna di queste figure, potremmo dire, ci è familiare in modo generico, ma in questa esposizione, grazie a una sistemazione schematica molto ben visualizzata, riusciamo, forse per la prima volta, a collocarla in un contesto generale e ad apprezzarne meglio il valore simbolico e magico. Il percorso espositivo propone dunque un vero e proprio viaggio attraverso i fondamentali della religione egiziana e conduce inevitabilmente alla presa di contatto anche con il modo con cui venivano affrontati i temi

della morte e della vita ultraterrena. Non dobbiamo dimenticare del resto che gran parte delle nostre conoscenze su quella civiltà deriva da oggetti e da testi che accompagnavano le sepolture dei Faraoni. La parte conclusiva dell’esposizione ci mette in contatto dunque con la suggestiva serie di rituali che accompagnavano la deposizione dei defunti. Bellissimo in questo senso poter vedere letteralmente srotolato davanti ai nostri occhi un rotolo di papiro che contiene il famoso Libro dei morti, testo rituale che spiega le varie fasi del trapasso, tra cui la «pesatura del cuore», esame in cui veniva valutata dagli dei la qualità in vita di ogni essere umano e sulla base del quale veniva deciso il suo destino nell’oltretomba. Proprio in questa ultima sezione sta il sarcofago di Peftjauauiaset, sul cui coperchio interno si è ritrovata, dipinta a braccia levate, la dea Nut. Ecco che in conclusione, quindi, la mostra si riaggancia al suo inizio e svela quanta importanza venisse data a questa dea, che garantiva il ciclo delle infinite rinascite del sole. È proprio grazie a Nut se l’astro luminoso riesce ad attraversare indenne la notte, per ripresentarsi all’alba di un nuovo giorno. In questo senso, il ciclo solare e quello vitale dell’uomo trovavano un’affascinante analogia e stimolavano una riflessione che era religione, ma che per noi oggi è bellissima poesia. Dove e quando Sotto il cielo di Nut. Egitto divino. Milano (Corso Magenta 15), Civico Museo Archeologico. Orari: da martedì a domenica: 10.00 – 17.30. c.museoarcheologico@comune. milano.it

Wikipedia

La dea con il corpo di stelle

Un chef d’orchestre entre deux siècles. Il titolo che ha scelto per il suo recente libro mette a tema l’elemento determinante la biografia, non solo artistica, di Luca Pfaff: per il musicista ticinese (è nato a Olivone  anni fa) il podio è stata una predestinazione suggerita da una voce interna più che segnata da circostanze o incontri. «Mio padre era ingegnere, ma amava il pianoforte; dopo il lavoro si metteva alla tastiera e così conobbi Schubert, Schumann, le sonate di Beethoven. Quando ci trasferimmo a Locarno andavamo ai concerti delle Settimane Musicali, ma al tempo non c’erano orchestre. Mi piacevano i solisti e i gruppi da camera, ma ancor più un disco che avevamo in casa, un  giri con i valzer di Strauss, quelli del Capodanno di Vienna; non avevo mai visto neanche alla televisione un’orchestra o un direttore, ma, avevo  o  anni, giocavo a dirigerli». Così fu anche nel percorso di studi: «Iniziai col violino, ma non riuscivo a sopportare le note stridule che producevo, così virai sul pianoforte: posso suonare un fa invece di un mi, ma almeno è un fa intonato. Nelle intenzioni di mio padre doveva essere un passatempo, così iniziai medicina a Basilea, ma dopo cinque semestri capii che la mia strada era la musica. Grazie a Giulio Cesare Sonzogno incontrai il direttore del Conservatorio di Milano; mi disse che a  anni sarebbe stato troppo tardi per uno strumento, ma per la direzione si poteva fare». Il talento emerse subito: Pfaff bruciò le tappe e dopo quattro anni era a Vienna da Swarowski, mito del podio; suoi compagni di corso furono personalità come Sinopoli. Tornò a insegnare, ma solo per sei mesi; intanto Pfaff era andato a Roma da un altro grande didatta, Franco Ferrara. Fu lì che iniziarono i concerti pubblici. «Dell’Ongaro (oggi direttore artistico di Santa Cecilia, ndr.) e Zaccagni avevano creato Spettro Sonoro, ensemble dedito alla musica contemporanea; poi arrivarono gli ingaggi dai compositori francesi come Dusapin ospitati a Villa Medici; e da Santa Cecilia». Progetti indimenticabili «come

l’opera omnia di Nietzsche, una quarantina di minuti di musica orchestrale che presentammo assieme agli scritti del filosofo; la collaborazione con Fellini per Casanova; soprattutto il rapporto profondo con Giacinto Scelsi, nobile di famiglia e compositore di cui incisi varie opere. Però, dopo quattro anni, questa attività iniziava ad essere ripetitiva. Mi venne spontaneo accettare gli inviti dei francesi e andai a Parigi con la mia ragazza, ospitati da un amico». La carriera di Pfaff è continuata concentrandosi soprattutto sul repertorio novecentesco e contemporaneo, ovviamente affrontando anche il grande repertorio, Beethoven e i romantici, interpretati a capo di gruppi prestigiosi come Tonhalle di Zurigo, London Sinfonietta, Orchestre Nationale de France e l’Ensemble Intercontemporain fondato da Boulez. Sono tante le serate memorabili vissute sul podio, tutte segnate da un climax emotivo: «Il grande direttore è quello che durante il concerto riesce a creare un crescendo di intensità per poi scemare verso la fine; pensiamo alle sinfonie di Mahler dirette da Abbado a Lucerna, magiche. Delle mie, ricordo alcune sinfonie di Sibelius, in particolare la quarta e la settima. È un po’ come andare in montagna: c’è l’ascesa, cambiano le sensazioni, la percezione di sé e di ciò che sta intorno, poi si ridiscende e si torna alla normalità». Per Pfaff la metafora alpinistica non è casuale: «Esser nato e cresciuto a Olivone mi ha reso familiare la dimensione della montagna. Con tre amici sono andato in Himalaya; campo base a mila metri, volevamo arrivare a  ma a  abbiamo capito di essere al limite: basta poco per avere un enfisema polmonare e morire, e basta scendere di appena  metri e rimettere tutto a posto. Quando sei così in alto cambiano le percezioni: l’aria è così rarefatta che tutto sembra vicino, a due ore di cammino, e dopo due ore la distanza non sembra essere diminuita affatto. Scelsi mi evocò l’Himalaya per spiegarmi come dovesse suonare un suo brano che avevo inciso e che stavamo ascoltando a casa sua: voleva che le trombe suonassero forte anche se non l’aveva scritto in partitura perché doveva avere l’effetto dell’immensità degli spazi himalayani. Anche Messiaen scrisse Et expecto resurrectione mortuorum per soli fiati e percussioni perché aveva in mente il ghiacciaio della Meije; ho cercato tre volte di portare l’orchestra sul ghiacciaio per eseguirlo, ma il tempo non è mai stato favorevole. E la montagna va rispettata oltre che amata. Come la musica». Bibliografia Luca Pfaff, Un chef d’orchestre entre deux siècles. Entretiens avec Jean-Charles Golomb et Jean-Michel Douille, Ed. Delatour, Parigi, 2021. Annuncio pubblicitario

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