Azione 2 del 9 gennaio 2023

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MONDO MIGROS Pagina 4

SOCIETÀ Pagina 2

Incontro con Andrea Della Neve che ha portato nelle scuole ticinesi gli spettacoli di Pop Economix

Ice climbing, arrampicarsi sul ghiaccio: il talento e la forza di Petra Klingler

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Non dimentichiamole

Donna, vita, libertà è forse lo slogan più importante da salvare di questo 2022 che per molti versi ci ha lasciato un mondo in frantumi. Tre sostantivi giustapposti che, se per noi figlie dell’Occidente democratico sono poco più di uno slogan, per le donne iraniane rappresentano tutto ciò che è loro proibito: donna non possono esserlo e ogni rimando alla propria appartenenza di genere (capelli, forme del corpo) dev’essere nascosto brutalmente dal velo e da tuniche informi; vita non ne hanno, se non possono vivere ciò che sono per nascita; e libertà, beh, quale prigionia maggiore è possibile immaginare, oltre a quella di non potere essere?

Era il 16 settembre quando la giovane Mahsa Amini, diventata il volto simbolo delle vittime dell’atroce repressione iraniana, fu portata via a suon di bastonate su uno dei famigerati mezzi delle forze dell’ordine. Rea, come tutti sappiamo, in linea diretta dell’infamante crimine di non avere indossato il velo come da precetto, indirettamente del fatto di essere una donna e di non vergognarsene, rifiutandosi di rinunciare al

suo genere biologico, di nascondere ciò che rende bella ogni ventenne di questa terra: la luminosità e la speranza negli occhi, le labbra pronte a sorridere, l’irriverenza di un’innocente ciocca che ricade sul volto.

Dopo decenni in cui la società iraniana è stata costretta ad adattarsi a un’esistenza divisa tra vita interiore e vita esteriore, vita pubblica e privata (in casa capelli sciolti, musica, studio e risate; fuori l’abdicazione immediata alla propria voglia di femminilità sotto gli occhi affilati di forze dell’ordine armate di bastone e «guardiane» delatrici votate al sistema, agghindate come funebri cornacchie), le barbare modalità dell’assassinio di Mahsa Amini sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso, spingendo donne e uomini a tagliarsi una ciocca di capelli in un primo momento e poi a riversarsi per le strade e protestare.

E la reazione istituzional-religiosa non si è fatta attendere: è esplosa la barbarie dello Stato verso le proprie figlie e i propri figli, le madri e i padri, le sorelle e i fratelli, con esecuzioni, stupri anche su bambine e torture di violenza inenarrabile.

La storia della pietra di Unspunnen che ancora oggi si trova nelle mani dei separatisti giurassiani

ATTUALITÀ Pagina

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Raggelati dagli eccessi climatici

«Se non è una rivoluzione, cos’è?», si chiedeva l’attivista per i diritti umani e vincitrice del Nobel per la pace iraniana Shirin Ebadi sulle pagine del «Tages Anzeiger» a fine dicembre, cogliendo anche l’occasione per domandarsi perché il Consiglio federale non abbia aderito alle sanzioni dell’UE nei confronti dell’Iran (domanda peraltro più che lecita). Berna è evidentemente inibita dal proprio ruolo di mediatrice internazionale per l’Iran, ma è comunque necessario che una rivoluzione si compia e la vita sia preservata, dunque – come ribadisce Shirin Ebadi – non possiamo dimenticarci di loro, ma dobbiamo continuare a tenere, giorno dopo giorno, l’attenzione desta. Parlandone, scrivendone, facendo circolare video e foto. Così come, dall’Iran, lo chiedeva anche una anonima ragazza il 14 dicembre scorso sul «Corriere della sera» quando, a proposito delle e dei giovani in carcere, diceva «siate la loro voce!». Ci stanno provando i parlamentari del gruppo interpartitico svizzero Free Iran attraverso un’azione di padrinato (avviatasi anche in Austria e in Germania) e giorna-

A colloquio con Kim de l’Horizon, la giovane star svizzera della letteratura

CULTURA Pagine 22-23

liste del calibro di Federica Sciarelli di Rai3, che in una finestra di Chi l’ha visto, insieme a Marina Borrometi e Francesca Carli, ogni settimana propone un reportage che nasce e cresce grazie a social come Twitter e Telegram, ad esempio nel profilo @1500tasvir o in quello della giornalista e attivista iraniana Masih Alinejad, in cui iraniane e iraniani di colpo hanno un volto, una storia e un destino.

È arduo indagare laddove i giornalisti sono imbavagliati, in un luogo dove il sangue scorre ogni giorno e la morte non fa più notizia, ma grazie al lavoro certosino delle tre giornaliste italiane scopriamo storie struggenti come quella della madre che picchia il pugno sul portone del carcere chiedendo indietro la figlia perché le hanno già ucciso il figlio, o della dottoressa che operava i manifestanti feriti fino a essere arrestata e assassinata con una serie di sevizie difficilmente narrabili. A tutte e tutti noi, in questo 2023, spetta dunque il compito di non dimenticarle, le iraniane, che insieme alle loro cugine afghane sognano solamente una vita in cui essere donne e libere.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 Cooperativa Migros Ticino
02 ◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione
TEMPO LIBERO Pagina
Sabrina Belloni Pagina 3
Franco Banfi

Motori: l’elettrico conquista il fuoristrada Si chiama Solterra, è il nuovo SUV di Subaru, totalmente elettrico ma fedele alla tradizione della casa automobilistica che privilegia la trazione integrale

Mendrisio e le pari opportunità È il primo Comune ticinese a essersi dotato di un dicastero dedicato alle politiche di genere, ne parliamo con la municipale Françoise Gehring Amato

Raccontare il mondo con il teatro

Ci sono materie ostiche che governano il mondo: l’economia, di cui tanti di noi non capiscono molto, l’informatica, di cui quasi tutti siamo digiuni, l’etica, che è difficilissima ma che riguarda ogni scelta politica, tecnologica, commerciale e così via. In altre parole: ci sono argomenti molto importanti che ci riguardano ma a volte noi non abbiamo gli strumenti per esprimere una nostra opinione.

Ecco perché è nato undici anni fa in Italia Pop Economix, un progetto non profit di informazione, teatro, editoria, educazione e comunità. Qui in Ticino è arrivato dal 2019 grazie al suo referente, Andrea Della Neve, educattore di professione, cioè persona che coniuga l’educazione al lavoro dell’attore teatrale. Incontriamo Andrea per farci raccontare questo progetto, che da alcuni anni nel nostro Cantone ha già portato gli spettacoli di Pop Economix nei teatri e nelle scuole superiori per una trentina di repliche (molte, calcolando che negli ultimi due anni l’attività è stata rallentata a causa del Covid). «Anni fa avevo visto uno spettacolo di Pop Economix che mi aveva emozionato e colpito molto», ci racconta. «Il principio di quello che si chiama “teatro civile” o anche “spettacolo-conferenza” è questo: se racconto in modo avvincente, creando emozioni, lo spettatore ricorderà, ragionerà, sarà coinvolto. Si porterà a casa di più. Questi spettacoli parlano di economia, intelligenza artificiale, etica, insomma affrontano temi grandi e complessi, ma lo fanno non come in una conferenza, spiegando; lo fanno illustrando, impersonificando, raccontando storie».

Il teatro civile educa attraverso l’emozione e non solo diverte ma può spingere a una cittadinanza più attiva

Quello che più conta è che le informazioni veicolate siano ineccepibili, quindi per la stesura del testo teatrale i drammaturghi si avvalgono di un team di esperti che li aiutano a reperire i dati e a verificarli. Non c’è dunque nulla di inventato, la magia sta solo nel modo in cui si decide di narrare i fatti e la democrazia sta nel linguaggio semplice e accessibile a tutti. «Noi crediamo che ciascuna persona sia responsabile di un pezzetto di questo mondo: nessuno è completamente impotente e anche le piccole scelte quotidiane possono incidere sui processi economici. Per questo bisogna capire alcuni meccanismi di base dell’economia di oggi, che guidano chi prende le grandi decisioni, per eventualmente provare a correggerne il tiro. In fondo

questa è la funzione dell’arte: restituire la realtà dandole un senso».

Ma non solo: Pop Economix desidera ricordare a ognuno di noi che possiamo fare qualcosa. «Ci rechiamo nelle fabbriche, negli oratori, nelle piazze, nelle scuole, e persino nei centri commerciali. Oltre che nei teatri, dove ci sono persone già sensibilizzate, andiamo dove qualcuno ci ascolta per la prima volta e pensa: questa storia riguarda anche me».

Per ora Pop Economix propone tre spettacoli, con un quarto in arrivo. Sono tutti divertenti, pieni di risate, ma alternate a momenti di grande concentrazione, perché mentre si sta ancora gustando la battuta precedente, di colpo ci si trova di fronte a una complessità, a qualcosa che ci siamo sempre chiesti e cui non abbiamo trovato risposta, oppure a qualcosa che abbiamo sempre dato per scontato e che ora per la prima volta si trasforma in dubbio amletico. Gli spettacoli intrecciano storie diverse, seguono dei personaggi e attingono al mondo della poesia, della biologia, della mitologia per arricchire la visione della Storia e dell’attualità.

Per esempio il primo spettacolo, Pop Economix Live Show, racconta la crisi globale che ci ha investito, attraverso la storia comica e drammatica di Jack, l’americano medio che ha creduto nel sogno del mutuo per tutti;

è anche la storia di un patto segreto, nella Grecia dei nostri giorni; e naturalmente quella della famosissima banca Lehman Brothers. Ma è pure la storia di un signor Mario Rossi, insegnante, che, per guadagnare quanto certi manager in quegli anni di crisi, avrebbe dovuto cominciare a insegnare all’epoca dei Sumeri.

Poi c’è lo spettacolo Blue Revolution, adatto anche per le quarte medie, che parte dalle teorie espresse da Adam Smith, fondatore di alcuni concetti chiave per l’economia mondiale occidentale, e arriva fino a una start up americana che ha lanciato l’economia circolare, quella in cui niente viene buttato e che, anzi, mentre produce cerca di migliorare il pianeta sul quale viviamo; in mezzo, c’è l’avventura; l’avventura di alcuni grandi sognatori e anche l’avventura amara di chi a volte perde i suoi orizzonti già in tenera età e si adegua al mondo, pensando che tanto a cosa serve provarci, se poi le cose vanno sempre nel verso dell’egoismo. I bravissimi attori di Pop Economix fanno rivivere quella notte di Natale in cui nel 1924, proprio il 25 dicembre, i 30 rappresentanti delle 30 compagnie elettriche più importanti di Europa, a Ginevra, si trovano in segreto per parlare di affari. Dopo che ognuno si è vantato di costruire le lampadine elettriche che durano di più, ecco che proprio quella

notte qualcuno fa notare che questo è un grande affare… per il consumatore, e non per il venditore. Viene dunque deciso che ormai non saranno più in gara per chi brevetta la lampadina più longeva e resistente, bensì che ci sarà il cartello Febus, che multerà tutte le compagnie elettriche che faranno durare le lampadine più di 1000 ore. È tutta una nuova filosofia che ne nasce: quella di costruire oggetti che si rompono e che ci danno la facoltà di vivere sempre come a Natale, comprando cose nuove, più belle e scintillanti. Spendendo e creando rifiuti.

Un terzo spettacolo, Adamo ed Etica, verte sull’intelligenza artificiale e le varie questioni che vi ruotano attorno; per ogni automatizzazione, è l’uomo che deve dire alla macchina come ragionare, bisogna quindi che i costruttori le «riempiano» di buon senso e pensiero morale, ma… non è sempre così semplice decidere cosa sia sensato e conforme all’etica. Il quarto spettacolo, quello che arriverà a breve, sarà invece incentrato su cambiamento climatico e disuguaglianze sociali.

«Ci chiamano soprattutto scuole superiori, università, licei e scuole professionali», spiega Andrea Della Neve. «A volte sono gli allievi stessi che prendono contatto con noi, più spesso sono i professori di economia, storia, civica, per invitarci a scuola. Facciamo un’ora di spettacolo e poi ci

prendiamo un’altra ora per discuterne insieme. Possiamo anche tornare per un laboratorio specifico, per esempio per approfondire un tema, una delle storie dello spettacolo, o per interagire con i ragazzi, creando situazioni simulate, rispondendo alle loro domande e così via».

Andrea ha adattato alcuni pezzi di spettacolo, pensati per il pubblico italiano, al nostro Paese e dopo gli spettacoli va a incontrare il suo pubblico. «Ho trovato i ragazzi abbastanza preparati sull’impatto ecologico e sensibilizzati sulle questioni del clima. Invece in ambito finanziario, ci sono molte più lacune: con i tuoi soldi, cosa puoi fare? Chiediamo. Come si investono? Cosa ne fa la tua banca? È molto bello vedere come il pubblico, anche molto giovane, si appassioni alla scoperta del mondo. Loro saranno i manager di domani, i politici, i consumatori. Un conto è essere idealisti oggi e un altro è mantenersi idealisti domani. Ci vuole molta cultura e fiducia nella partecipazione. E poi l’emozione: se riusciamo tramite l’arte a emozionare le persone, sappiamo che quello che si impara viene ricordato meglio. Il teatro civile non solo diverte, ma può spingere a cambiare la vita di tutti i giorni. Può spingere a una cittadinanza più attiva, magari anche solo ad andare a votare la prossima volta. E non è poco».

● ◆ 2 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino
SOCIETÀ
Andrea Della Neve dopo gli spettacoli incontra sempre il pubblico e propone anche laboratori specifici per i ragazzi. Incontri ◆ Andrea Della Neve, educattore di professione, ha portato nelle scuole ticinesi gli spettacoli di Pop Economix, un’esperienza di teatro civile che affronta temi legati all’economia, all’intelligenza artificiale, all’etica, al cambiamento climatico
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Sara Rossi Guidicelli
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La tempesta perfetta

Ambiente ◆ Nel 2022 abbiamo assistito a una serie di anomalie ed eccessi climatici, l’ultima in ordine di tempo è stata la bufera artica nel nord America, ecco cosa l’ha causata

Il vortice polare Elliott ha scaraventato bufere di neve e freddo estremo in Canada e in molti stati USA, fino al confine con il Messico. È stata la tempesta di Natale più fredda registrata nella storia moderna in molti Stati americani, una drammatica apocalisse di neve, ghiaccio e venti gelidi. Lo stato di New York e la zona dei Grandi Laghi, particolarmente le città di Buffalo e Fort Erie, sono state le aree più colpite con temperature fino a 40°C sotto zero, in grado di causare sintomi di congelamento dopo pochi minuti. I residenti hanno dovuto affrontare muri di neve ghiacciata a bloccare totalmente gli edifici e frequenti lunghe interruzioni della corrente elettrica. Persino l’enorme flusso di acqua (oltre 3000 tonnellate al secondo) che alimenta le cascate del Niagara si è parzialmente congelato, evento occorso solamente altre cinque volte nella storia.

Tuttavia il 2022 appena concluso sarà classificato come uno degli anni più caldi mai documentati. Il 22 dicembre, mentre il termometro nel Montana segnava –59°C, a Florida city venivano registrati +27°C. Spiega Giulio Betti (meteorologo e climatologo del Consorzio Lamma-CNR e di Ampro, Associazione meteorologi professionisti) che «all’origine di questa tempesta c’è in realtà un’anomalia di caldo al Polo Nord». È stato proprio un potente anticiclone, cioè una situazione di bel tempo, sull’Artico a causarla, eccezionale per intensità, ma di breve durata. Perché? «Per loro natura, gli anticicloni nell’Artico liberano delle propaggini di aria gelida verso sud. In Europa ce ne accorgiamo meno, perché siamo avvolti dall’Atlantico e dal Mediterraneo caldi, e diverse catene montuose ci riparano dai venti settentrionali. Ma per il Nordame-

azione

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rica sono situazioni ricorrenti». Il caldo record registrato anche in Svizzera in queste festività ha analogie con il gelo che ha colpito l’America del Nord orientale, tanto che i due fenomeni sono considerati due facce della stessa medaglia. «Sono le conseguenze del cosiddetto jet-stream – chiarisce il climatologo Bernardo Gozzini (direttore del Consorzio Lamma-CNR) – la naturale circolazione d’aria ad andamento sinuoso che a 9-12 km di altitudine attraversa tutto il Pianeta, influenzando il posizionamento dei sistemi di alta e bassa pressione».

Normalmente il vortice polare resta in posizione grazie alla jet-stream, la corrente a getto che si genera a causa della differenza di temperatura tra il polo, gelido, e le zone temperate, meno fredde. Si tratta di una grossa massa d’aria a bassa pressione, una corrente estremamente intensa che ruota attorno al Polo Nord e che, come una barriera, separa l’aria fredda dell’Artico e l’aria più mite a sud. Quando il vortice si affievolisce o muta, sconfina a latitudini per lui insolite, determinando freddo intenso.

Nell’immagine qui di seguito (© NOAA) a sinistra è illustrato un vortice polare stabile che contiene l’aria fredda all’interno del circolo polare artico. A destra, l’aria calda che si insinua nel flusso del vortice polare e che determina una mutazione e uno spostamento sinuoso e irregolare verso sud della tempesta artica. Uno degli elementi che causa le modifiche nel vortice polare è l’aumento delle temperature nell’Artico, con conseguente riduzione delle aree innevate e incremento dell’evaporazione dell’acqua dagli oceani, che si stanno riscaldando. Un motivo per cui i Poli, così come i ghiacciai, si stanno riscaldando a

una velocità maggiore che il resto del Pianeta è la riduzione delle immense estensioni bianche che riflettono e rimandano nell’atmosfera i raggi e il calore solari (effetto albedo), cosicché le radiazioni solari sono assorbite dalla superficie terrestre libera dai ghiacci. La maggiore quantità di energia termica in atmosfera, unitamente alla rapida alterazione del clima dell’ultimo decennio, devia il flusso delle correnti e modifica la traiettoria del getto, provoca un’anomalia dei venti e quindi l’ingresso di aria polare an-

che a latitudini più basse. A fronte di un riscaldamento globale del pianeta e particolarmente dei Poli, in alcune regioni delle medie latitudini, come l’Asia centrale e la Siberia orientale, negli ultimi decenni si registra una riduzione delle temperature invernali. Il cambiamento climatico determina mutazioni radicali nel ciclo dell’acqua ed è fortemente alimentato da tali variazioni.

Il 2022 è stato un anno di eccessi climatici. La bufera artica nel nord America è stata l’ultimo eccesso in

ordine di tempo, ma numerosi eventi hanno determinato conseguenze ben più gravi e durature. La siccità estrema che ha interessato la Cina e l’Europa per quasi nove mesi. La penuria di precipitazioni che ha ridotto ai minimi storici gli accumuli di neve nelle Alpi e determinato il quasi prosciugamento di molti fiumi e significativamente il Po. Similmente anche il Mississippi, dove è intervenuto l’esercito a costruire argini per evitare che l’acqua salata del Golfo del Messico risalisse il fiume. Le ondate di calore che si sono susseguite in Europa nei mesi estivi, facendo rilevare temperature di oltre 40°C nel Regno Unito per la prima volta nella storia. L’eccezionale portata d’acqua dei monsoni asiatici, che ha causato apocalittiche inondazioni in Pakistan, dove un terzo del territorio è stato invaso dall’acqua. Anche l’Argentina e il Paraguay hanno vissuto un peggioramento dei cambiamenti climatici, mentre le ondate di calore record hanno continuato a bruciare l’Australia, il Brasile, la California e ad alimentare una crescente crisi umanitaria in Africa orientale. Il tifone Noru che si è abbattuto sulle Filippine, passando da tempesta tropicale di grado 1 ad uragano forza 5 nell’arco di 12 ore, così come l’uragano Ian che ha colpito i Caraibi, Cuba e la Florida.

Le testimonianze dell’accelerazione delle mutazioni climatiche sono evidenti e non devono essere percepite solamente come fatti occasionali. Sono realtà che colpiscono direttamente l’esistenza di milioni di persone, e indirettamente la vita dell’intero Pianeta.

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch
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In alto, a temperature estreme, la superficie dei grandi laghi ghiaccia e crea vere e proprie banchise; qui accanto, moto ondoso e venti di burrasca frantumano le banchise e creano sculture di ghiaccio. (Franco Banfi)

Nuova vita per gli alberelli di Natale

sin dal 1907. Ci occupiamo di aggregare i pescatori del locarnese, e tra le attività associative ci occupiamo di salvaguardia dell’ecosistema lacustre, ripopolamento di specie autoctone e sensibilizzazione del pubblico alle tematiche legate alla pesca. Organizziamo inoltre eventi facenti parte della tradizione locarnese come la primaverile Sagra del Pesce al Burbaglio di Muralto.

A cosa servono gli alberi di Natale? La posa degli alberelli di Natale nel Verbano è un’occasione straordinaria di dare una seconda vita ad alberi che hanno abbellito le nostre case o che sono rimasti invenduti nei negozi dopo le feste. Gli alberi vengono privati di ornamenti e sostanze nocive, poi grazie al prezioso lavoro della Società Sommozzatori di Muralto, vengono posati a rotazione in oltre una quindicina di punti strategici per il ripopolamento del lago, agganciati a grosse catene, dove serviranno da ecosistema di riproduzione protetta dai predatori naturali per alcune specie locali. Tengo a segnalare che chiunque può donare il proprio albero entro metà gennaio portandolo presso il Cantiere Nautico Di Domenico a Locarno e contribuire alla salute del nostro lago anche attraverso piccoli gesti.

Come vengono sfruttati dai pesci questi alberelli?

Gli alberi permettono ai pesciolini appena nati di rimanere protetti e svilupparsi nella vegetazione fitta sino a quando non saranno grandi abbastanza da ripopolare il lago. La specie che ha il maggior vantaggio dalla posa degli alberi è il pesce persico, che trova un habitat ideale direttamente per la deposizione delle uova tra i rami, al riparo dalle bocche dei loro predatori naturali. Tuttavia, anche altre specie trovano riparo nella loro fase da avannotti (ovvero quando sono piccoli), quali alborelle, trote, gardon ecc.

La stagione di riproduzione del pesce persico inizia a marzo e dura fino alla fine del mese di aprile. Per questo motivo, l’attività di posa degli alberi si fa serrata dalla fine di gennaio alla fine di febbraio. Una volta controllato che non siano rimaste decorazioni, sostanze tossiche spruzzate o altro, i sub della Società di Muralto si occupano di portarli in profondità dove vengono ancorati a catene poste a 15-20 metri rispetto alla superficie, a seconda della morfologia del fondale, dove poi i pesci li ritroveranno nei mesi successivi per depositare le uova.

Quanto rimangono sott’acqua?

La durata degli alberi è di circa 3 anni, talvolta di più, a dipendenza della quantità dei depositi di alghe e limo che si sedimenta tra i rami in quantità variabile. Ciò dipende anche dai sedimenti che arrivano dalle valli, specialmente in concomitanza degli spurghi delle dighe che riversano quantità di detriti fuori dalla norma rispetto a quelli portati costantemente dai fiumi. Ogni anno fa parte del progetto occuparci anche di ripulire i rami dai vari sedimenti lacustri.

Cosa l’appassiona della pesca e quali sono i pesci che apprezza particolarmente?

La pesca mi permette di provare un mix di sensazioni per me incredibilmente speciali, quali la calma dell’attesa e la contemplazione del lago con l’emozione della cattura e della lotta, dalla quale talvolta anche il pescatore esce sconfitto, tra fughe del pesce, rotture del filo, maltempo e altri imprevisti. Si tratta di un’attività che mi rilassa e sin dall’infanzia mi ha insegnato una certa pazienza che ancora oggi mi accompagna nella vita di tutti i giorni. Mi ha insegnato anche a rispettare gli animali e gli ecosistemi dai quali attingiamo risorse, senza mai eccedere nello sfruttamento del territorio; una delle mie regole personali è di non pescare mai più di quel che posso consu-

mare con la mia famiglia e di fare il possibile per mantenere in salute il lago che poi ci darà così tanto, anno dopo anno. I pesci che mi piacciono di più pescare sono la trota lacustre e il pesce persico, ma anche il luccio, il lucioperca e le alborelle (quando non erano specie protetta) sono molto appassionanti da pescare e buoni da mangiare.

Com’è lo stato di salute del lago Maggiore?

Lo stato del lago attualmente non è dei più floridi. Gli spurghi dei bacini, l’inquinamento e il prelievo eccessivo del patrimonio ittico senza un adeguato ripopolamento successivo si ripercuotono sulla riproduzione naturale della maggior parte delle specie locali, già ampiamente provate dall’introduzione incontrollata di specie alloctone (non originarie della zona) quali il siluro, pesce attualmente molto problematico visti i suoi numeri in rapidissima crescita. Diversi progetti della nostra associazione tenteranno di intervenire su altri fronti nell’arco dei prossimi due anni; tuttavia, per ora continuiamo la preziosa opera di ripopolamen-

to proprio per frenare il pericoloso disequilibrio nell’habitat. La nostra storica Sagra del Pesce serve inoltre a finanziare in toto l’attività di salvaguardia degli ecosistemi riproduttivi, grazie al contributo di fedeli sostenitori e partner, tra cui da quest’anno

Informazioni www.pescasantandrea.com

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Attualità ◆ Gli abeti recisi invenduti della Migros vengono donati all’Unione Pescatori Sant’Andrea di Muralto con lo scopo di favorire il ripopolamento dei pesci. Intervista al presidente Giorgio Cossi Signor Cossi, di cosa di occupa l’associazione di cui è presidente? L’associazione di cui sono Presidente è l’Unione Pescatori Sant’Andrea di Muralto, realtà radicata nel territorio Quando e come vengono posati nel lago maggiore? proprio Migros con la donazione di numerosi alberi che stimiamo duplicheranno il numero di interventi che saremo in grado di fare.
CdT/Chiara Zocchetti
Gli alberelli di Natale vengono posati nel lago per favorire la riproduzione dei pesci. Nelle foto alcune fasi dell’operazione e le uova di pesce deposte sui rametti.

L’elettrico con le capacità di un fuoristrada

Motori ◆ Subaru presenta la sua nuova Solterra: un SUV totalmente elettrico a trazione integrale che garantisce le tradizionali prestazioni all terrain dei veicoli della casa di produzione giapponese

Sole e Terra. In Subaru hanno creato la crasi Solterra. Così si chiama il primo BEV (Battery Electric Vehicle) della casa giapponese. Un mezzo alimentato esclusivamente a batterie, che si muove, quindi, solo in modalità elettrica, a zero emissioni. Subaru è il più grande costruttore di veicoli 4x4, sulla trazione integrale si basa la sua storia. Mezzi particolarmente apprezzati da chi per ragioni geografiche e climatiche si trova ad affrontare durante l’anno fondi a scarsa aderenza. A differenza di quanto avviene per altre aziende automobilistiche, il sistema di trazione integrale non è un optional ma una parte integrante della vettura.

La Casa delle Pleiadi, questo il significato di Subaru tradotto dal giapponese e richiamato nel logo dove si mostrano le sei stelle visibili che fanno parte della costellazione del Toro, persegue gli obiettivi di riduzione delle emissioni ormai stabiliti a livello internazionale. Lo ha fatto con l’ibridizzazione di modelli di successo come Forester, Impreza e XV e continua ora con Solterra: 100% elettrica. Per ottenere questi risultati ha unito le sue competenze nel campo delle 4 WD a quelle di Toyota, da anni all’avanguardia nel mondo delle vetture elettriche. Diciamolo subito, la scelta tecnica adottata è la stessa della Toyo-

ta bZ4X. Solterra quindi utilizza due motori elettrici sincroni trifase a magneti permanenti ciascuno della potenza di 80 kW e da 168,5 Nm di coppia per complessivi 218 cavalli. Uno trasmette il moto alle ruote anteriori e l’altro a quelle posteriori. La gestione della potenza, della coppia e della trazione sulle quattro ruote motrici è stata resa del tutto simile a quella di un tradizionale SUV Subaru AWD con motore alimentato a benzina.

Sono garantite le prestazioni all terrain che ci si aspetta dagli altri modelli della casa giapponese. Dedicato all’off-road è il tasto X-Mode: attiva una serie di sistemi che hanno come obiettivo il mantenimento della stabilità e della trazione in particolari situazioni come neve, fango, sabbia, ciottolato e superfici a bassa aderenza. In pratica un mezzo in grado di andare quasi ovunque senza però dimenticarsi, come su tutte le auto elettriche, della necessità di trovare una colonnina per ricaricare le batterie. L’autonomia non è male: 465 chilometri. Il merito va al pacco batterie di grande capacità: 71,4 kWh. Sappiamo bene, però, che è molto difficile riuscire a percorrere realmente questa distanza dato che il consumo aumenta al variare delle condizioni di guida. Il freddo, tanto per dirne una, la diminuisce, ma così anche l’utilizzo di

dispositivi elettrici di bordo come il climatizzatore, i tergicristalli e anche le luci. Insomma va detto: l’autonomia alla fine è sempre minore di quella dichiarata. Ecco perché siamo certi che nei prossimi tempi grazie a batterie più performanti e motori maggiormente efficienti l’autonomia aumenterà e di molto.

Ad oggi l’ideale sarebbe avere almeno 600-650 chilometri e Solterra non li ha ancora. Insomma va benissimo se si ha la possibilità di caricare

a casa durante la notte o magari sul posto di lavoro. È perfetta se la si usa percorrendo anche qualche centinaio di chilometri al giorno, ma se si decide di affrontare un bel viaggio con la famiglia bisogna pianificare delle soste adeguate per caricare le batterie. Quest’ultime possono essere caricate in tre differenti modalità: AC (Corrente alternata) da una normale presa domestica a 220 V, che è in grado di assicurare la ricarica completa in circa dieci ore; DC (Corrente continua)

dai punti di ricarica rapida distribuiti sul territorio, che consentono di raggiungere l’80% della capacità totale in circa 30 minuti e AV (Corrente continua) dagli impianti a grande potenza presenti ad esempio presso le stazioni di rifornimento o nei centri commerciali, in grado di erogare fino a 32 A, che ricaricano completamente le batterie in circa 5 ore. Un buon risultato per la prima auto totalmente elettrica della Casa delle Pleiadi. Il prezzo? A partire da 55’900 franchi.

di smaltire

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Le pari opportunità per una città più inclusiva

Territorio ◆ Mendrisio è il primo comune ticinese a essersi dotato di un dicastero specifico dedicato alle politiche di genere

Leggere la realtà comunale nelle sue molteplici sfaccettature nell’ottica di genere a favore di una società più inclusiva, più armoniosa, più forte. È quanto sta compiendo la Città di Mendrisio, unico comune in Ticino ad avere un dicastero dedicato in modo specifico alle politiche di genere. Frutto di un lungo lavoro iniziato nel 2016, è attivo dall’inizio della legislatura 2021-2024 in risposta a una visione condivisa a livello interpartitico. Visione che si è dapprima concretizzata nell’allestimento del Bilancio di genere (2020) per valutare la situazione di partenza. Il Dicastero Politiche sociali e Politiche di genere ha da parte sua presentato l’estate scorsa il Piano di azione che sta entrando nel vivo con iniziative concrete in linea con il Piano di azione cantonale per le pari opportunità, la Strategia Parità 2030 adottata dal Consiglio federale nel 2021 e l’Agenda 2030 dell’ONU. Sul ruolo di un dicastero dedicato al genere e sui relativi sviluppi abbiamo intervistato la municipale di Mendrisio Françoise Gehring Amato, capo dell’innovativo dicastero.

Signora Gehring Amato, quali sono gli obiettivi di un dicastero incentrato sulle Politiche di genere? Uno degli obiettivi principali è creare una Città più inclusiva, attenta alle pari opportunità per tutti, indipendentemente dal genere. A questo scopo ci si dota degli strumenti necessari per osservare con gli occhiali di genere servizi, bisogni, necessità, risorse, criticità e margini di manovra. In questo modo si possono creare i presupposti per stimare la domanda di servizi da parte di cittadine e cittadini. Attraverso questa lettura e attenzione al genere la Città di Mendrisio aspira a un cambiamento sostanziale a livello delle politiche, fungendo nel contempo da stimolo per altri settori sul territorio affinché adottino l’ottica di genere come prassi usuale. A livello cantonale Mendrisio viene spesso portata ad esempio per le politiche attente alle pari opportunità e ai processi

partecipativi legati alla responsabilità sociale, processi che partono già dall’infanzia.

Un dicastero specifico dedicato al genere è quindi una necessità per promuovere le pari opportunità? Attraverso un dicastero specifico si sottolinea l’importanza del tema, favorendo quel lavoro interdisciplinare e interdipartimentale che caratterizza le tematiche di genere, attraverso un coordinamento unico ma sinergico. Le politiche di genere vanno infatti a toccare settori diversi a cominciare dall’educazione. Gli studi di genere confermano quanto i diversi atteggiamenti di maschi e femmine siano appresi e come l’educazione abbia un ruolo fondamentale nell’indirizzare bambine e bambini verso percorsi di maggiore o minore parità. Vi sono poi le questioni legate al rischio di fragilizzazione economica e alla conciliabilità famiglia e lavoro. Quest’ultima interessa sempre più anche le giovani generazioni di uomini. La prima invece è emersa fra le criticità messe in luce dal Bilancio di genere. I dati relativi all’utenza dell’Antenna sociale mostrano che le donne sole o a capo di famiglie monoparentali o ancora in età avanzata sono maggiormente esposte alla precarietà economica.

Come è stato accolto il Piano di azione delle Politiche di genere presentato lo scorso giugno? Il Piano in questa prima fase è stato presentato in vari settori dell’Amministrazione dove ha suscitato interesse come pure concrete collaborazioni su obiettivi e azioni comuni. Si tratta anche in questo caso di una prima a livello ticinese e, benché le politiche di genere meritino di essere ambiziose, abbiamo deciso di partire da punti molto tangibili, in particolare riguardo alla conciliabilità famiglia e lavoro. Alla luce dei risultati scaturiti dal primo Bilancio di genere, stiamo analizzando l’attuale situazione delle offerte di accoglienza dell’infanzia e le relative esigenze delle famiglie.

Viale dei ciliegi

Conoscete il Signor Panda? È il più simpatico insegnante di buone maniere e comportamenti adeguati che si possa proporre ai bambini. Calmo, gentile, ma fermo e risoluto. Se c’è da dire un no lo dice, mette limiti e paletti dove servono, ma senza moralismi né sovrabbondanza di parole. Leggerezza e semplicità. Le sue storie sono umoristiche e non scontate, con un immancabile guizzo ironico finale. L’autore e illustratore britannico Steve Antony ha pubblicato molti libri, ma è forse con la serie dedicata a Mr Panda (più di un milione di copie in tutto il mondo, tradotte in 17 lingue) che si è fatto conoscere maggiormente a livello internazionale. In italiano, per le Edizioni Zoolibri sono usciti: Per favore, Signor Panda; Buonanotte Signor Panda; Ti amiamo, Signor Panda ; e ora questo Le mani, Signor Panda , molto opportuno per non abbassare la guardia in post-pandemia. Il tema,

come si può ben intuire, è l’importanza di lavarsi le mani: la storia lo afferma con decisione e ne insegna con chiarezza il motivo e le modalità pratiche: acqua, sapone, strofinio («cica-cica-bum»!), risciacquo, asciugatura. Il Signor Panda espone tutto non direttamente al bambino lettore, ma – ottimo espediente per evitare la pedanteria – ai suoi amici animali, i quali ricorrono in tutte le storie: il lemure, l’ippopotamo, il topino… Nessuno di loro si è lavato le mani, però si sono lavati la coda, il sedere, le orecchie… Adesso che ne hanno capito l’importanza, si laveranno an-

A Mendrisio la volontà di implementare le pari opportunità è condivisa a livello politico. Ciò si traduce in un consenso anche a livello di Amministrazione e popolazione?

Nell’ambito della parità, come testimonia la storia delle conquiste in Svizzera, occorre perseveranza e, per certi versi, anche pazienza. Ogni passo conquistato va inoltre difeso tenacemente. Ciò detto, all’interno dell’Amministrazione di Mendrisio sono già numerose le persone attente alle questioni delle pari opportunità e con regolarità vengono organizzati momenti formativi. Per quanto riguarda la popolazione, se penso alla risposta allo sciopero delle donne del 2019, posso dire che la parità è un tema cha fa breccia. Spetta comunque all’Ente pubblico un ruolo attivo nell’implementazione delle pari opportunità.

Oltre alla conciliabilità famiglia e lavoro, quali altre azioni sono già

state messe in atto o sono previste a breve termine?

Stiamo lavorando molto sul tema dei familiari curanti che è centrale, perché riveste pure un’importanza sociale. Il primo passo in questa direzione è costituito da momenti di formazione all’interno dell’Amministrazione. La questione della conciliabilità famiglia e lavoro si pone anche a questo livello, per cui vorremmo allestire una campagna di informazione e di sensibilizzazione all’indirizzo delle aziende del territorio affinché siano orientate a recepire i recenti cambiamenti normativi e le opportunità offerte a livello cantonale per il supporto in questo specifico settore. Abbiamo inoltre avviato, nell’ambito dell’educazione di genere, un percorso conoscitivo e formativo con l’Istituto scolastico comunale, collaborando con le/i docenti delle scuole materne ed elementari sugli stereotipi di genere; attraverso un sondaggio abbiamo raccolto le loro opinioni e l’anno prossimo saremo pronti con momen-

ti formativi ad hoc per le/i docenti interessati.

Riguardo ai tre assi strategici del Piano di azione, ci sono priorità da evidenziare?

I tre assi strategici sono: pari opportunità nell’Amministrazione comunale, nella sfera professionale e nel contesto formativo. Tutti e tre sono importanti, ma nel 2023 è intenzione della Città rafforzare in modo particolare la sfera delle pari opportunità nell’Amministrazione comunale grazie anche all’assunzione di un/a responsabile delle Risorse umane con la/il quale il Piano di azione verrà rivisto e ampliato. È inoltre prevista l’introduzione di altre figure chiave quali la/il delegata/o per le politiche di genere e una «persona di fiducia» in caso di molestie e mobbing. Detto in precedenza del tema della conciliabilità famiglia e lavoro, un’attenzione speciale sarà riservata anche al contesto formativo. Oltre a una collaborazione con le scuole, il Dicastero intende proporre progetti e approfondimenti su questioni essenziali come la violenza di genere e il linguaggio inclusivo. In tal senso stiamo definendo delle possibili collaborazioni sul piano cantonale.

Qual è oggi il problema maggiore da affrontare in una prospettiva di genere?

Viene da dire che sono tutti problemi maggiori. Penso che la libertà di poter scegliere e di autodeterminarsi sia fondamentale. In questo senso il contrasto a ogni forma di discriminazione e violenza mi sembra urgente, perché entrambe generano tantissima sofferenza. In questa società estremamente competitiva ognuna/o deve poter trovare una strada da poi riuscire a seguire autonomamente. La formazione, l’istruzione e l’educazione devono pertanto garantire pari opportunità di partenza, pari strumenti, pari diritti per il proprio sviluppo personale. Si tratta di riconoscere la dignità di una pluralità di esperienze, senza prevaricazioni né discriminazioni, né giudizi di valore.

che le mani, altrimenti non potranno avere le famose ciambelle del Signor Panda, quelle che ritroviamo nei risguardi dei suoi libri, o sul suo pigiamone, e il particolare carino è che anche i risguardi di questo Le mani, Signor Panda le richiamano, le ciambelle colorate, pur nelle rotondità azzurre delle bolle di sapone che ci accolgono appena lo apriamo, e che dai risguardi proseguono, gocciolando, fin nelle pagine successive, quelle del frontespizio. Poi la storia si svolge, ognuno si laverà per bene le mani, e finalmente potrà gustarsi le mitiche ciambelle… non senza averle chieste «per favore»!

senso, una nuova vita, appunto, illuminandone altre possibilità di esistere e di essere raccontati. Una sorta di grammatica della fantasia per immagini, sulla scia di Bruno Munari, con sperimentazioni analoghe a quelle di altri artisti contemporanei, come ad esempio Massimiliano Tappari. Del resto è ciò che i bambini fanno ogni giorno, quando giocano a «facciamo che era», e allora una forchetta può diventare una principessa con i capelli un po’ punk, e un tappo può essere una macchinina che sfreccia sul tavolo. Questa «vacanza» degli oggetti dal loro uso stereotipato è possibile grazie

a uno sguardo fresco, creativo, capace di illuminarli di inedito, di sorprendente, di nuovo. E questo sguardo è lo sguardo dei bambini e degli artisti.

La Balducci è artista a tutto tondo: le sue creazioni combinano linguaggi, in particolare quello fotografico e quello del disegno, e quello materico, tridimensionale, sul bidimensionale della pagina.

«Ogni tanto succede che gli oggetti si stanchino di essere quello che sono sempre stati e decidano di prendersi una vacanza»: comincia così La vita nascosta delle cose, libro in cui l’artista riminese Marianna Balducci, disegnando su fotografie che ritraggono oggetti comuni, dà loro un nuovo

Il viaggio di Piedino (Bacchilega), Premio Nati per Leggere 2018, l’ha fatta conoscere al grande pubblico, recentemente ha ottenuto molti apprezzamenti anche L’ammiraglio si è preso il cielo (Clichy), ma ci sembra importante segnalare, tra i vari suoi libri, sempre di qualità, almeno questo La vita nascosta delle cose, uscito nel 2020, in cui a ogni doppia pagina troviamo, sulla destra, l’oggetto nella sua nuova vita (ad esempio un temperino diventa un portone verso l’ignoto, un pennino diventa una canoa, un cavatappi un aereo, illustrazione questa, tra l’altro segnalata ed esposta a Lucca Comics and Games), mentre nella pagina di sinistra c’è una breve narrazione ispirata a questa vita segreta, ora svelata.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
di Letizia Bolzani Steve Antony Le mani, Signor Panda Zoolibri (Da 3 anni) Marianna Balducci La vita nascosta delle cose Sabir Editore (Da 4 anni) La municipale di Mendrisio Françoise Gehring Amato è a capo del Dicastero Politiche sociali e Politiche di genere del Comune.

Approdi e derive

Nuovo anno o anno nuovo?

Entrati nel duemilaventitré dovremo imparare in fretta ad aggiungere un’unità alla conta del tempo. L’inizio dell’anno ci chiede di prestare rinnovata attenzione al numero con cui diamo un nome ai giorni, mentre il nuovo conteggio del tempo per tutti noi significherà anche la consapevolezza, non sempre piacevole, di avere un anno in più. Queste prime esperienze del nuovo si presentano come un’aggiunta, come l’aumento di una quantità. Siamo nell’orizzonte dell’avere, proprio come quando parliamo di un vestito appena acquistato, o di un nuovo libro, o di una nuova automobile. Sempre rimanendo in questo orizzonte di senso, possiamo anche iniziare un nuovo lavoro, o trovare un nuovo amico. Queste novità che si aggiungono al calendario, al guardaroba, alla biblioteca, agli oggetti o agli affetti, esprimono le molte sfaccettature del nostro modo di abitare

Terre Rare

la vita e di raccontarla, in una forma in cui tutto può essere contato e misurato. Il nostro modo di stare al mondo, il nostro esserci, il nostro camminare nelle vicende della vita spesso concede al linguaggio dell’avere il compito di esprimerne il senso e di mostrarne il valore. Così, da pochi giorni abbiamo un nuovo anno in cui avremo nuove cose, in cui potremo visitare nuovi luoghi e in cui ci aspettiamo di vivere nuove esperienze. Ma il nuovo anno saprà anche essere un anno nuovo? La domanda non pare inopportuna perché la parola «nuovo» è ambivalente e suggerisce anche la possibilità di sottrarsi alla misura e alla conta delle sue apparizioni. Suggerisce anche la possibilità di accoglierlo come espressione di un darsi originario e inatteso che fa risuonare in noi la percezione di un rinnovamento. Il nuovo può darsi anche come esperienza che tocca

Cominciamo dalle piccole cose

Esiste ancora qualcuno che apre gli occhi sul nuovo anno esprimendo dei buoni propositi? Chi scrive vorrebbe avanzare qui una sua modesta proposta, nel caso ci si trovasse a corto di idee. In una delle varie serate di festa passate in compagnia di amici e parenti, ci è capitato di essere seduti a capo di una lunga tavolata, proprio a fianco di un giovanissimo famigliare. Come da tradizione, sono proprio i più piccoli a essere un po’ messi in disparte in queste occasioni: verso la fine della mangiata conviviale i grandi si chiudono nel loro mondo di chiacchiere e i piccoli devono arrangiarsi per sopravvivere alla noia. Il ragazzino in questione, come molti suoi coetanei, risolveva il problema con lo smartphone del padre. A chi scrive è capitato quindi per la prima volta di vedere da vicino le abitudini di navigazione di un undicenne annoiato.

Vi è già successo? Se siete genitori probabilmente sì. Per chi scrive, genitore ormai pensionato, la cosa è stata abbastanza spaventosa. Si trattava di una normalissima sessione su TikTok: il pollice del ragazzino faceva scorrere il rotolo verticale dei contributi postati sul social. Video velocissimi, di per sé stessi, sfogliati alla velocità di due o tre al secondo. I momenti in cui l’attenzione del bambino si fermava su un filmetto appena un poco più simpatico degli altri erano abbastanza rari. Lo «sfogliamento veloce» era imperterrito e meccanico, ed è durato, diciamo, oltre venti minuti. Con un calcolo molto approssimativo saranno passati davanti agli occhi del piccolo navigatore attorno ai 2000 video. Avete idea di quanti sono? L’insieme costituisce una sorta di film allucinatorio e turbinoso senza capo né coda, alla ricerca della pu-

Le parole dei figli

Sei brutta

«Io sono la figlia brutta», è l’incipit di un video pubblicato su TikTok a metà dicembre e diventato virale con 2,7 milioni di visualizzazioni che contiene le Parole di una figlia , Jolanda, 18 anni, che tutti noi genitori vorremmo sentire e che tutti i nostri figli dovrebbero ascoltare. I tre minuti di discorso della diciottenne sono l’antidoto migliore sia contro il bullismo fuori dalla Rete sia contro l’odio online, armi di massa che possono colpire chiunque e la cui potenza è amplificata dai social dove gli Gen Z vivono. Una lezione di vita che può essere d’ispirazione per gli adolescenti che – e sono un’infinità – sono schiacciati quotidianamente dalla cattiveria.

Jolanda interviene su TikTok, visibilmente emozionata e con in braccio un cagnolino quasi a darle la forza, dopo avere visto un video che la riguarda che è un condensato

di commenti di hater contro il suo aspetto fisico. La sua risposta contiene quattro passaggi su cui riflettere. Il primo: Jolanda ammette di essersi sentita ferita come qualsiasi altro adolescente al suo posto si sarebbe sentito. «“Sei brutta” è una cosa che mi dico sempre fin da piccola. Quando mi vedo allo specchio, quando mi vedo nelle foto mi dico “sei brutta”, “hai il naso brutto”, “il sorriso brutto”, “il neo brutto”, “le gambe brutte”, tutto brutto. In realtà, io in quel video mi sono imbattuta per caso e devo dire che all’inizio ci sono rimasta male, molto male».

Il secondo: la diciottenne reagisce chiedendosi scusa. «Al posto di dirmi così, ho deciso di chiedermi scusa. Scusa perché ho dato alle parole di queste persone tanta importanza». Il terzo, il più importante: la giovane spiega come è arrivata alla consapevolezza che quelle parole non la

l’essere, che parla di ciò che siamo, non tanto di ciò che abbiamo. Anche nell’idea di rinnovamento potrebbe però nascondersi una versione promozionale del linguaggio universale dell’avere, dell’aggiungere, dell’accumulare. Pensiamo, ad esempio, al continuo rinnovarsi dei prodotti dalla tecnologia. Come più volte mi è capitato di osservare, nelle continue novità tecnologiche c’è in realtà solo un potenziamento di ciò che già esiste: nulla di veramente nuovo, solo telefonini, o elettrodomestici più performanti, che non fanno che aumentare le loro prestazioni. In questo caso si resta prigionieri della prospettiva dell’avere in cui il nuovo è pura ripetizione: è ripetizione della solita realtà, ma aumentata. Il nuovo dunque come un «di più», un valore aggiunto. Dentro queste gabbie del pensiero, nel continuo ripetersi delle novità, facciamo fatica a percepire l’altro

possibile volto del nuovo; facciamo fatica a coglierne altre possibili risonanze. L’altro volto del nuovo, quello che sa parlare al nostro mondo interiore, può rendersi visibile solo quando abbandoniamo il mantra della conta e della misura e ci mettiamo invece in ascolto della voce discreta della nostra esperienza intima del vivere. In questo intimo contatto con il nostro esserci, il nuovo riesce allora a sottrarsi alla misura di ciò che si ripete nel tempo e può mostrare la sua qualità originaria, e proprio per questo mai misurabile: può diventare esperienza di trasformazione, di rinascita alla vita.

Magari non ce ne rendiamo conto, ma è spesso questo il significato che nutre le nostre parole e i nostri sentimenti quando ci scambiamo gli auguri per l’anno che verrà. Il nuovo anno diventa allora veramente nuovo. In queste atmosfere, l’inizio dell’anno, come ogni inizio, ci parla

in prima persona, interpella il nostro cuore, perché, come ricorda sant’Agostino, è proprio nel sentimento di interiorità che riusciamo a percepire il senso del vivere e la possibilità di stare in un tempo sempre nuovo, sempre inaugurale.

Ogni inizio può rimettere in movimento il desiderio di rinascere alla vita: una rinascita che della vita stessa esprime il significato più intenso, il continuo camminare tra le radici terrene dei giorni e i cieli dell’eternità. Anche in queste belle parole del poeta Khalil Gibran la delicata potenza del rinascere si offre a noi come una amorevole carezza del tempo: «i fiori della primavera sono i sogni dell’inverno raccontati, al mattino, al tavolo degli angeli». Il mio augurio è che il duemilaventitré riesca a essere davvero nuovo, e ci consenta, nel mentre attraversiamo i suoi giorni, di continuare a rinnovare l’aurora dell’anima.

ra emozione immediata. Di nuovo, non ci si stupisce più nel notare come questa scansione di fotogrammi indiavolati sia molto simile a quella dei programmi TV con cartoni animati per bambini, caratterizzati da un montaggio caleidoscopico e furibondo, in cui un’inquadratura non dura mai più di due-tre secondi. I nostri piccoli sembrano abituati a un frame rate molto alto.

Questa scena ci è tornata in mente leggendo negli scorsi giorni un articolo pubblicato su «Repubblica», in cui si commentavano i risultati di uno studio compiuto da una commissione del Senato italiano, quella di Istruzione pubblica e Beni culturali, ricerca volta ad analizzare «l’impatto degli strumenti digitali sugli studenti». I risultati della ricerca, compiuta sull’arco di due anni tra il 2019 e il 2021 sono abbastanza spaventosi. Pur con-

siderando che comprende nel suo arco temporale di analisi il periodo fortemente digitalizzato del lockdown epidemico, il quadro che dipinge sugli effetti che l’uso dei media elettronici producono sulla mente e il fisico dei nostri ragazzi sarebbe davvero grave. Evito, di proposito, di entrare nel dettaglio. L’unico accenno riassuntivo che ne riporto è che, dal punto di vista neurologico e psicologico, sui bambini i sintomi della dipendenza da smartphone somigliano molto a quelli dati, sugli adulti, dalla cocaina. Detto ciò, vorrei che il proposito per l’anno nuovo si concentrasse proprio su questo tema. Le buone pratiche che, al termine dello studio italiano, i professionisti dell’educazione vogliono sollecitare è una maggiore attenzione dei genitori alle abitudini dei loro figli. Una conclusione banale, ripetuta da anni, ma che sembra non

si riesca sempre a implementare. Siamo proprio noi, infatti, a non avere ben chiara la misura della complessità della questione, probabilmente perché siamo anche i primi a soffrire della dipendenza da periferiche digitali e, per questo, portati a sottostimarne l’impatto. Occorre invece prenderne coscienza, senza falsi moralismi ma con pragmatica disponibilità. Alla prossima riunione di famiglia, non dimentichiamo di portare con noi un bell’album da disegno e dei colori, una piccola scatola di costruzioni, un paio di macchinine, qualche bel libro illustrato. Il nuovo problema si risolve forse alla vecchia maniera. Si tratta davvero di esercitare un poco di resistenza verso la «pigrizia digitale», un annesso non previsto della «rivoluzione» a cui siamo esposti da tempo e dalla quale non abbiamo ancora imparato a difenderci.

devono ferire e racconta ciò che per lei davvero conta nella vita. «Il mio sogno per fortuna non è essere bella e neanche la sosia dei miei genitori (l’attrice Ambra Angiolini e il cantante Francesco Renga, ndr). In realtà il mio desiderio più grande nella vita è fare delle cose che contano, cose importanti: mi piacerebbe tentare di migliorare un po’ il mondo. Sono felice e anche orgogliosa di me stessa perché posso dire che ogni giorno nel mio piccolo cerco di fare qualcosa e cerco di dare il massimo in quello che faccio e penso che questo mi renda una bella persona. Ho sempre pensato che le cose importanti siano quelle che non si possono vedere. Quindi tengo molto di più alla mia anima che alla mia faccia, al mio aspetto. Perché questo non resterà per sempre, invece il mio cuore e la mia anima saranno quelli per tutta la vita e quindi preferisco che

siano loro a essere belli e puliti. Penso che finché la cosa peggiore che si dice di me è che sono brutta, allora posso stare tranquilla perché sono abbastanza sicura che non si può dire di me che sono cattiva, egoista, insensibile».

Il quarto: Jolanda si rivolge ai suoi coetanei. «Vorrei parlare a quelli che si sentono come me e dirvi che siete tanto speciali e finché avrete sempre cura e rispetto degli altri, brillerete sempre di una luce diversa. Le persone buone, gentili, sono belle davvero. Non permettete a quelle persone di cambiare questa parte così speciale e unica e imparate invece ad apprezzarla e renderla un punto di forza».

In un’intervista Timothée Chalamet, 27 anni, l’attore americano mito degli Gen Z, lo dice chiaramente: «Essere giovani oggi non è affatto semplice. Cresciamo perennemente

esposti agli occhi e ai giudizi della gente attraverso i social». Le parole di Jolanda, che sarebbe bello diventassero le Parole dei nostri figli, sono la dimostrazione che alzare la testa contro i giudizi degli altri è possibile. Bisogna solo imparare a farlo. E come lo fa Jolanda può essere d’esempio per tutti. P.S. Il video di Jolanda rimbalzato ovunque sul web scatena a sua volta numerosi commenti: intervengono i suoi genitori giustamente orgogliosi della figlia e numerose boomer che commentano: «Sei bellissima» oppure «Non è vero che sei brutta». È la dimostrazione di quanto per noi adulti stessi sia difficile prescindere dai giudizi sull’aspetto fisico. Ma come possiamo, poi, insegnare agli adolescenti ad amarsi così come sono? Così, come spesso accade, Le parole di una figlia possono essere più potenti delle nostre.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ / RUBRICHE 8 ◆ ●
di Lina Bertola
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di Simona Ravizza
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di Alessandro Zanoli

Itinerari

Una collezione da brindisi

Le

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Petra Klingler, la signora dei ghiacci

La

C’è modo e modo di arrampicare. Dalla cordata classica, in parete, all’arrampicata senza corda, il free climbing, passando per tutta un’altra serie di varianti che contemplano ad esempio il bouldering. Ma c’è anche la variante 2.0, probabilmente la più estrema di tutte, rappresentata dall’arrampicata sul ghiaccio. L’ ice climbing

Tutto, o quasi, comincia da Walter Cecchinel, un francese che a tutt’oggi è ritenuto una sorta di padre dell’arrampicata sul ghiaccio moderna. Fu lui, infatti, che a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta sviluppò una tecnica rivoluzionaria per affrontare le pareti verticali innevate o addirittura ghiacciate. Non più, come fin lì si era soliti fare, «fianco a monte» ma «faccia a monte», impiegando una piccozza per ciascuna mano e ramponi chiodati pure sul davanti in modo da poter procedere verticalmente. Nasceva così il piolet traction, tecnica per quei tempi rivoluzionaria, che permise di andare oltre i limiti che fino a quel momento sembravano invalicabili, scalando pareti altrimenti inviolabili per la loro ripidità.

Quando il respiro si fa affannoso, non tanto (o non solo) per lo sforzo, ma perché il freddo pungente trasfor-

scala le pareti scivolose come nessun’altra

ma quasi in una lama pungente l’aria che entra nei polmoni, e le dita si fanno intirizzite, allora tutto si amplifica. E quella parete ghiacciata diventa un muro ancora più impervio da scalare. Ma loro non demordono. Gli ice climber, anzi, proprio in queste situazioni al limite, mostrano tutte le loro abilità di scalatori provetti.

Per affrontare una parete così ci vuole una buona dose di coraggio, oltre che una grande sicurezza nei propri mezzi. Petra Klingler, 31enne lucernese, di queste caratteristiche ne ha una buona riserva. Forgiate in anni e anni passati in cordata, a scalare pareti, normali ma appunto anche ghiacciate, per cimentarsi in quello che a tutti gli effetti è da classificare come uno sport estremo: l’ ice climbing

La via rigorosamente in verticale che l’ha condotta alle vette ghiacciate passa anche dal Ticino. È infatti qui che da bambina Petra Klingler, in compagnia dei suoi genitori, pure loro grandi appassionati di arrampicata, ha trascorso molte vacanze («fino a due-tre volte l’anno»), prima di farci ritorno, lo scorso autunno, per il Red Bull Dual Ascent, la scalata della diga della Verzasca. «Sì, spesso venivamo qui per arrampicare. In particolare a Ponte Brolla, ma pure in parecchie

altre località, di cui francamente non ricordo il nome. Ma ricordo che erano tutte comunque ottime palestre naturali per affinare la tecnica. Ogni volta che venivo era una magia: vivere in una città come Lucerna e imboccare il tunnel per ritrovarsi immersi nella natura è qualcosa di straordinario, soprattutto per un’appassionata delle arrampicate come me. Poi, ovviamente, non c’erano solo le pareti di roccia in quei giorni. Molte volte, dopo una mattina spesa tra moschettoni, corde e imbracatura, si finiva la giornata a fare il bagno nella Maggia e a costruire torri con i sassi sulla spiaggia! Una tradizione che perpetriamo ancora, anche se la mia passione per l’arrampicata ha preso altre vie, in particolare quella del bouldering e dell’ ice climbing. Beninteso, in Ticino ci sono tornata anche per allenarmi al Centro sportivo di Tenero con la nazionale di arrampicata».

Già, perché oltre che una grande appassionata, Petra Klingler è anche una delle migliori interpreti di questo sport in Svizzera. Prova ne è il titolo mondiale di bouldering vinto nel 2016 a Parigi, a cui si è aggiunto fresco fresco (in tutti i sensi) quello di ice climbing vinto nel febbraio dell’anno scorso a Saas Fee. «Il titolo iridato vinto

a Parigi nel 2016 è stato uno dei successi più belli della mia carriera. Poi ci sono state le Olimpiadi, a Tokyo, le prime con le competizioni di arrampicata all’ombra dei Cinque cerchi, ed è stata un’esperienza altrettanto magnifica. Per preparare al meglio i Giochi avevo un po’ messo da parte l’arrampicata sul ghiaccio, per questo ai Mondiali di Saas Fee non mi presentavo con grandissime aspettative. Ma appunto per questo il fatto di essere riuscita a vincere anche quel titolo è stato qualcosa di straordinario, di veramente eccezionale!».

Il freddo lo si sente scalando? «Dipende dai casi. Le competizioni si disputano in grandi arene, che sono comunque almeno in parte riscaldate, per cui non hai particolari problemi. In parete, invece, le cose cambiano, anche se è vero che in Svizzera le temperature non sono così rigide, almeno non tanto da superare la tensione della scalata ed entrarti nelle ossa. Ma ho già vissuto situazioni ben più estreme, come in Corea, con temperature attorno ai –30 gradi: lì non è stato evidente scalare, soprattutto perché dopo un po’ di tempo in parete iniziavi a sentire un certo pizzicore alle mani per il freddo».

Hai mai avuto paura di qualcosa,

in parete? «Beh, sì, mi succede spesso, devo ammettere. Soprattutto sulle pareti più imponenti. Non è lo stesso timore che può provare chi non ha mai praticato questa disciplina, ma una certa ansia la provo comunque sempre; è un po’ come avere rispetto della parete che ti sta di fronte. So perfettamente che c’è una corda a sorreggerti, ma anche così la sensazione che provi quando cadi non è mai piacevole».

Qual è allora la cosa che spaventa maggiormente Petra Klingler? «Gli infortuni, soprattutto per una sportiva come me che partecipa alla gare. Vedere vanificati i tuoi sforzi di mesi per un incidente, magari banale, è una delle peggiori cose che possano succedere. A me è capitato un infortunio quando sono tornata sul ghiaccio dopo le Olimpiadi. Tanto io quanto i miei allenatori eravamo perfettamente coscienti che un certo rischio lo comportava tornare a preparare una disciplina impegnativa come l’ ice climbing e per giunta farlo con un obiettivo così ambizioso come i Mondiali, e dunque alzando non poco l’asticella. Ma è andata tutto sommato bene: recuperata la salute dopo l’infortunio, la mia preparazione è proseguita in modo ottimale».

TEMPO LIBERO ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 9
Petra Klingler. (Drew Leiterman – Red Bull Content Pool) Adrenalina ◆ 31enne lucernese e nel 2016 ha vinto il titolo mondiale di bouldering Deliziosi ossibuchi brasati Succo e polpa dell’arancia sanguigna regalano freschi aromi alla salsa con pastinache, cipolle e aglio colorate capsule metalliche che ricoprono i tappi delle bottiglie di Champagne: Marta ci parla della sua originale passione Pagina 10 Accompagnati dal pastore Fiorenzo Zenoni ripercorriamo i sentieri dell’alta valle Calanca fino al Sass de la Scritüra

Arrampicarsi fino al Sass de la Scritüra

Itinerari ◆ In alta valle Calanca sulle tracce di antichi pastori di origine bergamasca con un loro discendente

«Mio nonno quando ero piccolo mi ha regalato un agnellino. Chissà perché… Forse voleva che mi prendesse la passione per le bestie e facessi il pastore, come lui…».

Fiorenzo rimane un attimo come assorto, si passa una manona sulla barba ispida, spilla un bicchiere di rosso da un contenitore di Negroamaro posato sul tavolo e si accende una sigaretta. Poi mi fa, come a voler metter fine a una conversazione, che in realtà andrà avanti ancora per un paio d’ore, «l’ho tirato su bene, l’agnellino, è diventato una bella pecora e io un pastore. Come mio nonno. Non è una tradizione di famiglia –continua – mio padre ha fatto il boscaiolo per trent’anni in Francia. Mi ha portato là da ragazzino, ma lavorare con la legna non mi diceva niente. Ero destinato a un’altra strada. Ho preso tutto dal nonno e sono l’unico nipote ad aver seguito le sue tracce».

Osservo perplesso la brace del mozzicone, che tra poco, penso, gli brucerà le dita. Lui lo spegne e l’ultima boccata di fumo sale lenta avvolgendosi in bianche volute, attraversa un reticolo tremolante di ragnatele appese alle travi e s’infila tra gli interstizi del tetto della cascina. Fuori un sole da non crederci in quest’estate balorda e zuppa di pioggia un giorno sì un giorno no. È l’agosto del 2021. Da settimane mi sfianco sulle montagne calanchine con l’amico fotografo Roberto Buzzini, raccogliendo materiali per un libro sul Sentiero alpino Calanca1

La cascina dell’alpe Calvaresc de Sora, a 2131 metri di quota sopra Rossa, se ne sta lì acquattata su un pianoro erboso, poco sotto il famoso lago del cuore. È una costruzione in sasso, piuttosto spartana, con un focolare aperto, pacchi di riso e pasta, bottiglie e altre vettovaglie appoggiate in un angolo e un giaciglio sospeso su lunghe gambe di legno. Primordiale, ma sempre meglio della tenda o delle notti passate sotto le stelle, estate e inverno, a cui è abituato Fiorenzo.

Fiorenzo Zenoni viene dalla Val Seriana, in provincia di Bergamo. È un omone massiccio, con una zazzera riccioluta e la fronte disegnata da un ghirigoro di rughe, come quei vecchi larici sferzati dalle intemperie che si incontrano quassù. Fa il pastore da una vita e guida le greggi sui pascoli di Grigioni, Ticino e altri sperduti angoli della Svizzera. «Adesso ho qui settecento pecore – mi dice – non sono mie ma di uno zurighese».

Dopo gli alpi di Pindeira e Lughezzòn, in territorio di Soazza, ha scavalcato la Bocchetta de Calvaresc, da dove il gregge è sciamato sul versante sinistro della Calanca come una valanga lanosa, che si è poi sciolta nelle centinaia di macchioline bianche ora intente a ruminare lassù, in alto, tra i dirupi.

Se non per la famiglia di Fiorenzo, quello del pastore è un mestiere tramandato di generazione in generazione tra la gente della sua terra, che lo ha fatto sì per motivi economici, ma anche per un profondo senso di identificazione nella professione e nelle sue tradizioni.

A partire dal dodicesimo secolo i pastori bergamaschi, di fronte alla scarsità di pascoli locali, iniziano a praticare una transumanza a lungo raggio. S’incamminano a tarda primavera, attraversano le Alpi Orobie, scendono in Valtellina e Val Chiavenna, superano valichi e bocchette d’al-

ta quota e portano le loro pecore sugli alpeggi engadinesi e nelle vallate del Grigioni italiano. Una vera e propria invasione ovina verrebbe da dire, a giudicare dai numeri: oltre centomila le pecore che pascolano a quei tempi nei Grigioni, almeno diecimila in Mesolcina e Calanca.

Con il forte incremento delle bocche da sfamare nelle città del nord Italia, sempre più popolose a partire dall’anno Mille, i terreni sfruttati dalla pastorizia sulla Pianura Padana sono dissodati per la coltivazione dei cereali. Allo stesso tempo sugli alpeggi lombardi il bestiame bovino prende il posto delle pecore e i pastori si vedono costretti a questi interminabili vagabondaggi in cerca di nuovi pascoli.

Ma come mai si spingono fin nella remota valle Calanca? Ce lo spiega, a saperla interpretare, l’architettura delle sue montagne, per usare un termine caro a Élisée Reclus, geografo e libertario francese dell’Ottocento2 Buona parte del territorio della sponda sinistra della valle appare infatti piuttosto impervia e inadatta ai bovini e così i Comuni affittano ai pastori bergamaschi gli alpeggi più discosti e inutilizzati e prelevano una tassa per ogni animale. Inoltre la presenza di vari collegamenti trasversali, conosciuti e utilizzati fin dall’antichità, tra la Lombardia e la Mesolcina e tra quest’ultima e la Calanca, rende relativamente «facile» la transumanza delle greggi tra il sud e il nord o perlomeno ne accorcia il viaggio.

Una transumanza, quella dei pastori bergamaschi e le loro pecore, praticata per secoli nonostante il decreto del 1491 che proibisce ai forestieri di caricare gli alpi di Mesolcina e Calanca, e che sarà interrotta solo nel 1914 a causa di un’epidemia del bestiame3

I «Bèrgum» continueranno però a frequentare queste montagne a loro familiari non più con le loro greggi, ma come custodi di quelle altrui.

«Venivano a causa della fame –sbotta Fiorenzo – erano anni di magra. Qualche pastore l’ho conosciuto, di persona o attraverso il racconto di figli e nipoti».

S’interrompe per salutare alcuni escursionisti diretti alla capanna Buffalora, poi riprende. «Una volta una donna ha partorito sua figlia sulle creste, mentre stavano facendo il passo. Forse la figlia c’è ancora, avrebbe sui novant’anni. Erano in diciassette fra sorelle e fratelli. Ho trovato anche dei nomi e delle date su qualche cascina. E poi c’è il Sass de la Scritüra. Lo conosci?». Sì, faccio io, e ripenso a quell’interminabile camminata di un giorno di settembre dell’anno prima.

Lassù, nell’estremo lembo della Calanca, all’imbocco del grande anfiteatro dove la valle e il suo fiume nascono, generati dagli impressionanti bastioni rocciosi dello Zapporthorn, del Pizzo de Stabi e del Puntone dei Fraciòn, incorniciato da un tappeto di erbe lucenti pettinate dal vento e un po’ nascosto da arbusti d’ontano, c’è un affioramento di pietra ollare. Ver-

degrigio scuro, con evanescenti riflessi azzurri, come altri che si incontrano sulle Alpi. Questo però è diverso e sorprendente. Ha lo straordinario potere di essere una «roccia parlante», che racconta oltre tre secoli di storia della pastorizia su queste montagne. E lo fa con decine di date (la più vecchia è del 1656) e di nomi incisi dai pastori, la cui origine bergamasca appare subito chiara. Si chiamano Cominelli, Cossali, Imberti, cognomi molto diffusi nei paesi della Val Seriana.

Mi par di vederli, mentre se ne stanno lì seduti di fianco alla grande roccia, ogni tanto danno un’occhiata alle pecore aggrappate ai ripidi pascoli, mangiano un boccone, se sono più di uno, forse, giocano alla morra, picchiando i pugni sull’erba e gridando a squarciagola i numeri, la cui eco distorta rimbalza da un versante all’altro della valle. Se uno è solo, magari, sfila un coltellaccio dalla cinta e incomincia pian piano a incidere la pietra morbida con la punta affilata per lasciare un segno del suo passaggio e del suo esistere, come a voler esorcizzare la sconfinata solitudine che altrimenti potrebbe carpirgli l’anima.

Non si concede facilmente e non a tutti, il Sass de la Scritüra, perso in uno degli angoli più remoti della valle. Si erge proprio lì, poco sopra i duemila metri di quota, accanto all’impalpabile linea di confine, che separa il territorio di Mesocco da quello di Rossa, incuneata nel canalone che scende dalla cima del Rodond e va a gettarsi nella Calancasca. È un mondo a sé, questo, riservato a camminatori esperti, con gambe buone, un altrettanto buon senso dell’orientamento in montagna e un equipaggiamento adatto alle alte quote.

Ricordo il giorno di settembre in cui ci sono stato, con Roberto. Un’aria limpida da ferirti gli occhi, il cielo una tovaglia azzurra senza un ricamo di nuvole, su cui si stagliano la corona chiara di creste e l’alternarsi di vette, molte oltre i Tremila. Dopo Valbella, l’ultimo nucleo della Calanca, con le sue cascine ordinate che si animano nella bella stagione, si penetra nel cuore più selvaggio della valle, dove sembra impossibile incontrare anima viva. Il fiume spumeggiante scorre impetuoso, ritagliandosi un passaggio tra una congerie di enormi maci-

gni levigati dalle sue acque e dal rotolare nelle piene. Poco sotto l’Alp de Alögna, l’alveo si allarga, la Calancasca sembra tirare un sospiro di sollievo, ma è solo un’impressione, subito smorzata alla vista del caos rabbioso di depositi alluvionali, da cui sbucano enormi tronchi divelti, con un garbuglio di radici che si allungano verso il cielo come braccia scheletriche.

Il paesaggio, affogato in un pozzo d’ombra, ha un fascino inquietante. Riemergiamo nel sole imboccando la Val di Passìt, antico collegamento trasversale tra la Calanca e San Bernardino, un tempo utilizzato dagli emigranti che lasciavano la valle in cerca di miglior fortuna. Dopo pochi passi, però, dobbiamo abbandonare il sentiero e prendere una traccia che sale infilandosi nel Bosch del Mina per poi continuare in un lungo falsopiano fin sotto l’Alp Rodond. Laggiù in fondo a tratti s’intravvede il fiume, la cui voce è ormai un lontano mormorio. Sul lato opposto della valle, meno scosceso e striato dalla schiuma di innumerevoli ruscelli, le cascine e i pascoli dell’Alp de Revi, invasi sempre più dal bosco, con una sparuta mandria di mucche, che brucano sotto giovani larici.

Con uno strappo che toglie il fiato, il sentiero si alza lungo una cengia e sbuca sull’Alp Rodond. Da qui in avanti bisogna farsi segugi, con il naso a fiutare tra le erbe e le pietre in cerca di un segno di passaggio, un vecchio solco ricoperto da macchie di erica e ginepro nano o il minuscolo cerchio blu, che qualcuno ha dipinto qua e là sui sassi. Dopo una lunga traversata del terrazzo panoramico, che si apre su un paesaggio di selvaggia bellezza, ritroviamo un sentierino che va giù, scivoloso, nel canalone ingombro di alte felci e arbusti di ontano, lo risale per qualche metro per poi scorrere in bilico su una cornice d’erba. Ed eccolo lì, il Sass de la Scritüra Quasi quasi non lo vedo, concentrato come sono su dove poso i piedi.

Forse è un bene, che si trovi in questo posto sperduto, che lo preserva dai mali del mondo, conservandolo come una preziosa testimonianza di vita passata.

«L’idea rimane quella di garantire un approccio rispettoso a questo oggetto», mi risponde Giulia Pedrazzi, vicedirettrice del candidato Parco regionale Val Calanca, a cui ho chiesto se è loro intenzione proporre visite guidate. «Non so se lo faremo, ma ciò che vogliamo è assicurare un buon equilibrio tra promozione e tutela di un luogo, che sia questo o altri che ci sono in valle».

Affinché, aggiungo io prendendo in prestito le parole dell’abate Kasimir von Haeffelin, il nostro andare in montagna «rassomigli al volo degli uccelli di passo, che tagliano l’aria con le loro ali leggere e non lasciano traccia alcuna del loro tragitto»4

Note

1. Roberto Buzzini, Romano Venziani, La prima via. Il sentiero alpino Calanca, ed. Salvioni, 2021.

2. Élisée Reclus, Storia di una montagna, ed. Tararà, 2008.

3. Anna Carissoni, Pastori. Studi, documenti, testimonianze sulla pastorizia bergamasca Edizioni Villadiseriane, 1985.

4. Kasimir von Haeffelin, Discours de l’influence des voyages sur les progrès des arts, Mannheim, 1775.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 10
Lo straordinario affioramento di pietra ollare detto Sass de la Scritüra, in Calanca. (Foto e disegno dell’itinerario, in alto, di Romano Venziani)

Ricetta della settimana - Ossobuco con arance rosse

Ingredienti

Piatto principale Ingredienti per 4 persone

4 ossibuchi di vitello di circa 250 g ciascuno sale

3 c d’olio d’arachidi 15 g di farina

0,5 dl d’aceto di vino bianco

4 dl di brodo di carne

2 pastinache medie 200 g di cipolle per salsa

4 spicchi d’aglio

2 rametti di timo

4 arance sanguigne pepe nero macinato fresco

Preparazione

1. Sala gli ossibuchi e rosolali nell’olio per circa 5 minuti. Estraili. Aggiungi la farina al fondo di cottura e falla tostare brevemente. Sfuma con l’aceto e il brodo poi mescola bene fino a sciogliere completamente i grumi di farina. Accomoda gli ossibuchi sul fondo.

2. Infila al centro del forno, accendi a 180 °C e cuoci coperto per circa 50 minuti.

3. Taglia le pastinache in quattro per il lungo. Dimezza le cipolline.

4. Aggiungi le verdure, l’aglio e il timo alla carne.

5 Togli il coperchio e continua la cottura in forno per circa 45 minuti.

6. Taglia la metà delle arance a fette di circa 1,5 cm. Spremi l’altra metà delle arance, aggiungi succo e fette agli ossibuchi e continua ancora per circa 15 minuti. Regola di sale e pepe.

Consigli utili

Una delizia da accompagnare con la polenta. Quando le arance sanguigne non sono più di stagione puoi utilizzare anche arance bionde.

Preparazione: circa 20 minuti; cottura in forno: circa 90 minuti.

Per persona: circa 46 g di proteine, 15 g di grassi, 33 g di carboidrati, 490 kcal/2050 kJ.

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Champagne: non solo bollicine e tappi

Quando parliamo del collezionismo di oggetti legati alle bevande pensiamo subito a uno degli oggetti di maggior richiamo rappresentato dal «tappo a corona»: quel piccolo cerchio in alluminio o in plastica con cui sono sigillate le bevande gassate. Nato per praticità, il tappo a corona ha catturato la gioia dei veri collezionisti (i cosiddetti «capsaholic»), tanto che i marchi produttori ne rinnovano il design ogni anno, per la gioia degli appassionati disposti a fare carte false per ottenere un articolo mancante alla loro collezione: chi si specializza in una bevanda specifica come la birra, la Coca Cola, l’acqua minerale o i succhi di frutta, e chi privilegia un determinato arco di tempo e la relativa produzione.

Ad ogni modo, sebbene abbia a che fare con una nota bevanda, non è questa la collezione che ci siamo trovati dinanzi sul tavolo di Marta. Complici i brindisi di fine e inizio anno, questa volta puntiamo su di un tema «frizzante». Anzi, sul «cappello» dei suoi tappi che ha uno strano perché e per come. «Anni fa ho visitato la regione dello Champagne-Ardenne, un Dipartimento francese che si trova a circa 160 chilometri da Parigi, dove tutto il territorio è un’infinita distesa di vigne e cantine per la produzione dello Champagne», così esordisce Marta, rovesciando sul tavolo una marea di capsule metalliche

di tappi di champagne scintillanti e coloratissime, evidente bottino della passione che dice essere nata un po’ per caso durante le sue molteplici visite in quella regione di cui si è innamorata. «La capitale, Troyes, è una delle prime cose che ho scoperto e che ha letteralmente permesso alla mia curiosità di estendersi dal vino al tappo della sua bottiglia.Troyes ha un passato ricco di storia medievale (vi si svolgevano le foires de Champagne, le fiere) tanto da essere definita città d’arte e di storia per le sue case a graticcio risalenti al XVI secolo, per le chiese e per le caratteristiche stradine strette. Ma quello che più mi ha colpita è il nucleo del centro la cui forma precisa è di un tappo di champagne! E questa è una cosa davvero curiosa e unica al mondo».

Con le dita cerca e gioca con qualcuna di queste capsule metalliche, tanto che chiediamo come è arrivata a collezionarne così tante: «Dal centro città a forma di tappo di Champagne alle cantine dove ho imparato pian piano a intuire le differenze di produzione, composizione e qualità dei diversi champagne, ho capito che esistono una varietà di capsule che ne ricoprono il tappo in sughero. Parecchie erano davvero belle, altre meno originali, comunque diverse per ogni produttore».

Ci mostra la sua prima capsula che rappresenta una mongolfiera,

spiegando il significato di molte altre fra quelle che abbiamo sotto i nostri occhi. «Molti produttori di vini personalizzano le loro capsule con il proprio logo o con un’immagine per loro significativa, legata al mondo dell’enologia. Dalle varie cantine ho così scoperto che nel corso degli anni ne sono stati prodotti migliaia di tipi diversi, risvegliando l’interesse di vari collezionisti che hanno addirittura creato siti e fiere di vendita e scambio». Però Marta tiene a puntualizzare che quelli da lei mostrati appartengono tutti a una bottiglia di Champagne aperta e bevuta negli anni: «Non ho mai pensato

di acquistarne e nemmeno di cercare quelli mancanti di una cantina o di un’altra: la particolarità di questa collezione che, per ovvie ragioni, va un po’ a rilento, è che ogni capsula viene da una mia bottiglia, col ricordo di quella cantina dove l’ho comperata o di quello Champagne che mi è stato donato e magari è stato bevuto in occasioni particolari». Non è una collezione sterile e superficiale perché è legata sempre a un ricordo personale.

Belle sì, ma queste capsule sono nate per necessità, spiega Marta: «Perché una bottiglia di Champagne conservi la sua qualità e le sue bollicine è essenziale che il tappo sia

di qualità e ben chiuso. Ho scoperto che inizialmente la legatura del tappo era eseguita con uno o due fili di ferro semplicemente attorcigliati, fissati con l’aiuto di apposite cesoie, ma aprire le bottiglie comportava una certa difficoltà. Allora nasce dapprima la gabbietta che tutti conosciamo. Finché nel 1844 il produttore di champagne di Châlon en Champagne Adolphe Jacquesson deposita il brevetto di una placca di lamierino preformata, liscia o con scritto in rilievo Champagne che consente di coprire meglio e abbellire il tappo». Una soluzione vincente che nel tempo ha dato i suoi frutti fino ai giorni nostri in cui le capsule sono personalizzate da ogni produttore e diventano così oggetto di interesse per gli estimatori come Marta, alla quale chiediamo quante varietà ne esistano in commercio, pensando che forse non sia facile rispondere. Ma, in questo nostro viaggio storico e frizzante, ancora una volta restiamo sorpresi: «È un numero difficile da determinare, ma si stima che siano diverse decine di migliaia, con Spagna e Francia in testa per la produzione di circa 40mila capsule diverse ciascuno».

Incontriamo Marta di mattina, quindi ci congediamo senza condividere un vero brindisi. Altrimenti questa volta la capsula della bottiglia sarebbe stata nostra, così, per avere un ricordo di questa bizzarra collezione.

di

della storia italiana e con quante reti si è aggiudicato il primato? Scoprilo a soluzione ultimata leggendo nelle caselle evidenziate.

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Svizzera. ORIZZONTALI 1. Colossi 7. Diaframma dell’occhio 8. Un tipo di vendita 9. Il regista Avati (iniz.) 10. Strada francese 11. Ripetuto in un famoso ballo 12. Capatina in centro 13. Scudo osseo delle tartarughe 18. Immagini sacre 20. Aggettivo dimostrativo 22. Cassette con telai mobili 24. Colpevoli 25. Strumenti per esplorazioni 27. Aggettivo possessivo 29. L’attrice Argento 30. Nome maschile VERTICALI 1. Grosso recipiente di terracotta 2. Coperti da peli ispidi 3. Brevi viaggi di piacere 4. Una villa di Roma 5. A fin di bene 6. Nome femminile 9. Capi d’abbigliamento tahitiani 11. Ci sono quelle di fucile e di bambù 13. Fune, cavo 14. Tra la «o» e la «erre» 15. Dorate 16. Comunità Economica Europea 17. La crema della società 19. Sono lieti di avere dei padroni 21. Isabella per gli amici 23. Il prefisso che dimezza 26. Le iniziali dell’attore Sharif 28. Satellite di Giove Cruciverba Qual
3) Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate. Soluzione della settimana precedente BANDIERE AL VENTO – La bandiera più antica del mondo è: QUELLA DELLA DANIMARCA 1 2 345 6 7 8 9 10 11 12 13 1415 1617 1819 20 21 22 23 24 2526 2728 29 30 Q UI V E LA LI US SET A D ER ACCUSA LODI IRO TRIS S LOIR A O DIO C ASO S N I M A OCA DI I RAN O CLAR A 1 4 72 8 459 3 4 1 8 6 1 79 8 3 973 61 56 3491 675 28 1864 527 93 2759 834 61 8 2 4 7 3 9 6 1 5 9136 458 72 6578 213 49 7 9 8 3 1 6 2 5 4 5312 749 86 4625 981 37
e passatempi Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto
il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito
Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un
iscritto.
a
in
è il miglior marcatore
calcio
(Frase: 4, 4 – 12,
Giochi
Collezionismo ◆ Dalla scoperta di un mondo particolarmente «frizzante» a una raccolta singolare il passo è breve
Vincenzo Cammarata
Una sfilza di risparmi 11.95 invece di 19.95 Salmone affumicato dell'Atlantico, ASC d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 300 g 40% 3.30 invece di 6.60 Evian 6 x 1,5 l conf. da 6 50% 1.10 invece di 2.10 Carne di manzo macinata M-Classic Svizzera, per 100 g, in self-service 47% 7.70 invece di 11.–Wienerli M-Classic Svizzera, 5 x 4 pezzi, 1 kg conf. da 5 30% Tutto l'assortimento Handymatic Supreme (sale rigeneratore escluso), per es. All in 1 in polvere, 1 kg, 4.50 invece di 8.95 a partire da 2 pezzi 50% 6.–invece di 10.–Petit Beurre con cioccolato al latte o fondente, per es. al latte, 4 x 150 g conf. da 4 40% Fazzoletti di carta e salviettine cosmetiche Tempo, Linsoft o Kleenex in confezioni multiple o speciali, per es. Tempo Classic, FSC®, 56 x 10 pezzi, 8.80 invece di 14.70 40% 1.30 invece di 1.70 Peperoni misti Spagna, in busta da 500 g 23%
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Berna nel Consiglio di sicurezza

Come membro non permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la Svizzera potrebbe subire il pressing di Russia e Cina

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L’oro è un buon investimento

Il metallo prezioso è davvero un «bene rifugio» per gli investitori? Risponde una consulente alla clientela di Banca Migros

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Quel masso della discordia rubato

Quando un masso riesce a scrivere un pezzo di storia svizzera. A tanto è riuscita la pietra di Unspunnen, l’Unspunnenstein, che racchiude in sé storia, valori simbolici e anche sfide sportive per marcantoni delle Alpi, chiamati a lanciare il più lontano possibile questo masso di oltre 80 chili di peso. Ma l’aspetto più significativo e controverso di questa pietra è di certo quello che la lega a doppio filo con la «questione giurassiana», con la nascita nel 1979 del canton Giura, separatosi dal canton Berna dopo tensioni e scontri anche armati.

Può sembrare inverosimile ma c’è proprio tutto questo nella pietra di Unspunnen, utilizzata nell’Oberland bernese nelle popolari competizioni di lancio della pietra. Un masso che è tornato a far parlare di sé a margine dell’elezione in Consiglio federale della prima ministra giurassiana nella storia del nostro Paese. L’arrivo in Governo di Elisabeth Baume-Schneider potrebbe, infatti, stemperare le tensioni tra Giura e Berna che da quasi quarant’anni si sono simbolicamente cristallizzate attorno a questa storica pietra bernese, che oggi si trova ancora nelle mani dei separatisti giurassiani. I Béliers l’hanno rubata per ben due volte e la nascondono da qualche parte lassù tra le verdi valli del ventiseiesimo Cantone elvetico. E

qui occorre fare qualche passo a ritroso, per ripercorrere a grandi balzi la storia di questo masso. Un emblema carico di significato per i bernesi. Originariamente il lancio della pietra venne pensato come momento di incontro e di riconciliazione tra la città di Berna e le terre dell’Oberland bernese. Negli anni della Repubblica elvetica, tra il 1798 e il 1803, l’Oberland divenne infatti un Cantone indipendente. L’Atto di mediazione del 1803 mise fine a questo esperimento e le terre delle montagne bernesi persero la loro sovranità, non senza malumori e risentimenti a tal punto che il lancio della pietra venne sospeso per quasi un secolo, dopo le prime due edizioni del 1805 e del 1808. Si riprese nel 1905, con competizioni che si intrecciano con quelle della lotta svizzera, con grande richiamo di pubblico nei pascoli di Unspunnen, a due passi da Interlaken. Tutto filò liscio fino al 1984, quando la pietra venne rubata dai Béliers che riuscirono a penetrare nel Museo del turismo di Interlaken e a portare a casa il prezioso bottino. Una «presa in ostaggio», dissero allora, con la quale chiedevano la riunificazione completa delle terre giurassiane. Per i separatisti, il territorio del canton Giura va completato con i tre distretti francofoni – le Jura bernois –rimasti all’interno del Canton Berna

anche dopo il 1979. Il furto della pietra di Unspunnen era stato orchestrato proprio con questo scopo: una pietra, dal forte valore simbolico, in cambio dei tre distretti contesi. Questo era il riscatto – decisamente velleitario –chiesto dagli «arieti» giurassiani.

Della pietra si persero poi le tracce per ben 17 anni. Di tanto in tanto voci incontrollate e mai confermate parlavano di un suo avvistamento fortuito nel canton Giura o persino all’estero. Poi nel 2001 il colpo a sorpresa, la restituzione dell’«ostaggio». Durante il Marché Concours di Saignelégier, la grande festa equestre che si svolge ogni anno sull’altopiano delle Franches-montagnes, le gros bonbon, così lo chiamarono i separatisti giurassiani, fu consegnato in un ristorante a una signora americana, Shawne Fielding, ex miss Texas e allora moglie dell’ambasciatore svizzero a Berlino, Thomas Borer. All’esterrefatta signora Fielding toccò il compito di scartare quella grande caramella e di scoprire tra il clamore dei presenti che si trattava della pietra più ricercata del Paese. L’Unspunnenstein fu subito presa in consegna dalla polizia giurassiana per evitare altri brutti scherzi e consegnata ai legittimi proprietari, la società di ginnastica di Interlaken. La restituzione della pietra sollevò discussioni e polemiche tra i sepa-

Un mite teologo di ferro

Chi era Benedetto XVI, un Papa poco mediatico e molto concentrato sulle sfide filosofico-intellettuali del nostro tempo

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ratisti giurassiani, visto che avvenne senza il passaggio al Canton Giura dei tre distretti francofoni contesi. La pietra però non era più del tutto intatta. I Béliers ci avevano inciso sopra le stelle della bandiera europea, la data del rifiuto popolare allo Spazio economico europeo – il 6 dicembre del 1992 – e il loro emblema. Il masso era più leggero rispetto al passato e gli organizzatori delle gare di lancio decisero di continuare le competizioni con una copia che con cura avevano trovato dopo il primo furto lungo i fiumi dell’Oberland bernese (masso che viene conservato nei forzieri di una banca di Interlaken per evitare un altro clamoroso furto).

La calma attorno alla pietra durò ben poco, perché i Béliers tornarono presto alla carica e nel 2005 penetrarono nell’albergo Victoria Jungfrau di Interlaken, dove il masso originale era stato posto in bella mostra, in una vetrina sigillata con lucchetto e catena. Misure di sicurezza che servirono a ben poco, i separatisti riuscirono a riconquistare la pietra con un’operazione da furfanti professionisti. Da allora il destino dell’Unspunnenstein è avvolto nel mistero. Nel frattempo è però cambiato anche il contesto politico. Nel 2013 i cittadini dei distretti francofoni hanno deciso con il 70% dei voti di rimanere nel Can-

ton Berna. Da questo punto di vista la «questione giurassiana» può essere considerata chiusa, anche se a livello di singoli Comuni le bocce non sono ancora del tutto ferme. La popolazione del capoluogo Moutier ha deciso dopo due tumultuose votazioni di lasciare il Canton Berna e di passare al Giura. Cambio di bandiera che deve però ancora essere realizzato, data prevista il primo gennaio 2026. Viste così le rivendicazioni dei Béliers sembrano pertanto superate e anche per questo si succedono gli appelli in favore della restituzione della pietra di Unspunnen.

L’arrivo in Consiglio federale della giurassiana Elisabeth Baume-Schneider è da più parti visto come il tassello decisivo per una riconciliazione completa tra Berna e Giura. Non per nulla qualche giorno dopo l’elezione di Baume-Schneider il presidente del Governo giurassiano David Eray ha chiesto ai separatisti un gesto di buona volontà e la restituzione del maltolto. Ma c’è anche un’altra carta da giocare: in Consiglio federale è stato appena eletto anche Albert Rösti, originario proprio dell’Oberland bernese, la terra che ha fatto da culla alla pietra di Unspunnen. Insomma ci sono tutte le condizioni per un’azione di alta diplomazia e per il ritorno a casa dello storico masso bernese.

ATTUALITÀ ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 15
Shawne Fielding-Borer accanto alla pietra di Unspunnen nell’agosto del 2001. (Keystone) Oberland bernese ◆ La storia della leggendaria pietra di Unspunnen che ancora oggi si trova nelle mani dei separatisti giurassiani
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Pressing russo e cinese su Berna?

Il punto ◆ La Svizzera diventa membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU, gli scenari che si prospettano

Il 2023 si è aperto con una grande novità per la diplomazia elvetica. Il primo gennaio la Svizzera è diventata membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Ha conquistato uno dei dieci seggi attribuiti agli Stati membri non permanenti, che in seno al Consiglio operano accanto ai cinque Stati membri permanenti, che sono gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, la Francia e la Gran Bretagna. È la prima volta che la Svizzera assume questo ruolo nel più importante organo delle Nazioni Unite, chiamato a promuovere e difendere la pace e la sicurezza internazionali. Un ruolo che assumerà per due anni, fino alla fine del 2024.

Nonostante il bilancio negativo sulla promozione e la difesa della pace, il Consiglio di sicurezza può far fronte ad altre importanti sfide

Quale potrà essere la posizione di un piccolo Paese neutrale in un organo che, almeno sulla carta, ha un raggio d’azione e ambizioni mondiali? Il Consiglio di sicurezza è l’espressione del mondo sorto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Assegna un ruolo preferenziale alle potenze vincitrici del conflitto ed è sovente paralizzato dall’uso del diritto di veto, cui possono ricorrere gli Stati membri permanenti. Le tensioni e i contrasti tra le potenze occidentali da una parte, la Russia e la Cina dall’altra, sono profondi ed emergono costantemente. Quello che è successo con la guerra in Ucraina è l’esempio più recente. Mosca ha bocciato tutte le risoluzioni che condannavano l’uso della forza da parte dei russi e le Nazioni Unite sono rimaste praticamente impotenti di fronte alle numerose violazioni del diritto internazionale e alla tragedia umana che ne è scaturita.

Nonostante il bilancio negativo sulla promozione e la difesa della pace, il Consiglio di sicurezza può far fronte ad altre importanti sfide internazionali provocate dall’urgenza climatica, dalla pandemia, dalla crisi economica, dalla protezione dei civili nelle regioni in guerra oppure dalle migrazioni. In questi settori la Svizzera può essere presente e dare un suo contributo. Soprattutto quando assumerà la presidenza del Consiglio di sicurezza. Succederà due volte, du-

rante il mese di maggio 2023 e durante il mese di ottobre 2024.

Il raggiungimento di un seggio di Stato membro non permanente è stato l’epilogo di un lavoro politico e diplomatico durato una decina d’anni. La Svizzera fa parte dell’ONU dal 2002 e si è candidata a un seggio nel Consiglio di sicurezza nel 2011. Cominciò allora un’opera di convincimento sul piano internazionale e, soprattutto, sul piano interno, dove emersero le resistenze più forti. L’UDC ritenne che la candidatura fosse incompatibile con la neutralità e potesse mettere in pericolo il ruolo di mediatore internazionale della Svizzera, nonché i suoi buoni uffici. Cercò di bloccarla, ricorrendo ad alcuni atti parlamentari. Nel 2016 presentò una mozione con la quale chiese l’abbandono della candidatura. La mozione venne però respinta dal Parlamento e la stessa sorte toccò a una seconda analoga mozione, presentata ancora dall’UDC nel 2018. Il 9 giugno 2022 l’Assemblea generale dell’ONU ha attribuito alla Svizzera un seggio non permanente per due anni, con 187 voti su 192.

La questione della compatibilità con la neutralità rimane comunque

importante in un Paese molto diviso nel dibattito su questo principio fondamentale di politica estera. Un dibattito in cui non trova sufficiente spazio la distinzione tra il diritto della neutralità, fissato nella Convenzione dell’Aja del 1907, e la politica della neutralità, ossia quelle misure che uno Stato neutrale può adottare per garantire la propria sicurezza e per tener conto dei bisogni della solidarietà internazionale e del mantenimento della pace. Un dibattito che tornerà ancora più d’attualità quando andrà in votazione l’annunciata iniziativa popolare voluta da Christoph Blocher. L’anziano leader dell’UDC è favorevole a una neutralità integrale, iscritta nella Costituzione federale e che impedisca, per esempio, di adottare le sanzioni economiche che il mondo occidentale ha decretato contro la Russia.

Nel 2015 il Consiglio federale ha pubblicato un rapporto in cui sostiene che l’essere membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non è incompatibile con la neutralità. La sua tesi si appoggia sulla recente evoluzione di questo principio e sulla presenza nel Consiglio di alcuni Stati neutrali. L’Irlanda e la Norvegia fanno parte del Consiglio di sicu-

rezza. L’Austria e la Svezia sono già state membri del Consiglio; la Svezia addirittura quattro volte, l’ultima nel 2017-2018. Ogni Paese ha la propria storia e la propria tradizione e, probabilmente, definisce e applica in modo diverso il principio di neutralità. Toccherà alla Svizzera trovare una strada che le consenta di difendere la neutralità senza danneggiare le decisioni comuni e ritrovarsi isolata.

La questione della compatibilità con la neutralità rimane cruciale in un Paese diviso nel dibattito su questo principio di politica estera

Quali saranno i punti di maggiore interesse che caratterizzeranno l’azione della Svizzera nel Consiglio di sicurezza? Il Consiglio federale ha definito quattro priorità tematiche: la difesa e la promozione della pace, la protezione della popolazione civile nelle regioni dove ci sono conflitti armati, il sostegno delle iniziative in favore del clima e l’appoggio alle misure che possano agevolare la riforma del Consiglio di sicurezza e rendere più effica-

«Mi conviene investire in oro adesso?»

ce la sua azione. È un vasto programma chiamato a rendere molto intensa l’azione che svolgerà la delegazione elvetica guidata dall’ambasciatrice Pascale Baeriswyl. Il Consiglio federale ha pure indicato le procedure che verranno seguite per preparare, in tempi brevi, le prese di decisione. A seconda dell’importanza dei temi discussi verranno coinvolti il Dipartimento degli esteri, il Consiglio federale e, nei casi più importanti o più gravi, anche le commissioni di politica estera del Parlamento. Influenzeranno il processo anche le situazioni che sorgeranno in futuro e sulle quali oggi è possibile tratteggiare solo delle ipotesi. È probabile, per esempio, che la Russia e la Cina eserciteranno pressioni sulla Svizzera, per condizionarne le prese di posizione, per mettere alla prova la sua neutralità. Non è però possibile prevedere fin dove arriveranno queste pressioni. Infine conviene tener presente l’evoluzione della situazione internazionale e le sue ripercussioni. In particolare come terminerà la guerra in Ucraina, il sorgere di possibili nuovi conflitti generati dalle ambizioni cinesi su Taiwan e il protrarsi delle rivalità tra democrazie liberali e regimi autarchici.

La consulenza della Banca Migros ◆ Una scelta idonea alla conservazione del capitale, ma con qualche accortezza

A causa dell’inflazione e delle crisi politiche sono preoccupato per il mio patrimonio. L’oro è davvero un «bene rifugio» per gli investitori, come si sente dire spesso?

L’oro si è guadagnato la reputazione di «valuta di crisi» per due motivi: in primo luogo perché in tempi di crisi il suo prezzo aumenta repentinamente a colpo sicuro e in secondo luogo per via della cognizione, basata sull’esperienza, che l’oro mantiene il suo potere d’acquisto nel lungo periodo. Sebbene a volte subisca fluttuazioni anche notevoli, il valore del nobile metallo tende sempre a rag-

giungere nuove vette nel giro di un paio d’anni.

In un contesto di inflazione elevata come quello di quest’anno l’oro non è riuscito a soddisfare appieno le grandi aspettative di «porto sicuro» per il capitale, ma ha comunque registrato una performance nettamente migliore rispetto ad altre classi di asset come le obbligazioni o le azioni. Pertanto è una scelta idonea alla conservazione del capitale e chi desidera tutelare il proprio patrimonio contro l’inflazione o le crisi politiche dovrebbe includerlo nel proprio portafoglio d’investimenti. La quota consigliata è del 3-5%.

L’oro non è tuttavia un investimento classico: a differenza delle azioni o delle obbligazioni non produce un rendimento continuo. Per ricavarne profitto bisogna quindi venderlo a un prezzo maggiore di quello d’acquisto. In questo senso si raccomanda un orizzonte d’investimento più lungo. Inoltre la detenzione di oro è soggetta a tassazione e, a seconda della forma d’investimento, ci sono diversi rischi da considerare. Fondamentalmente si può scegliere tra oro fisico (lingotti e monete) e oro finanziario, tipo derivati e certificati. Questi ultimi si limita-

no a replicare il prezzo dell’oro. Ciò significa che gli investitori dipendono dalla solvibilità dell’emittente. In caso di insolvenza o fallimento di quest’ultimo i derivati o i certificati rischiano di diventare carta straccia. Questo rischio non sussiste se si acquista oro fisico o si investe in fondi auriferi.

Suggerimento

Chi fosse interessato agli ETF sull’oro o ai titoli auriferi negoziati in Borsa dovrebbe assicurarsi che il fondo sia interamente sostenuto da oro fisico.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 17
Angie Schweizer, consulente alla clientela Banca Migros, esperta per i temi d’investimento. Pascale Baeriswyl alla testa della delegazione elvetica all’ONU. (Keystone)
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Papa Benedetto XVI, un mite teologo di ferro

Chiesa cattolica ◆ Impegnato da sempre nella battaglia contro la secolarizzazione dell’Occidente, Joseph Ratzinger ha stupito il mondo col suo carisma da intellettuale tra due pontefici altamente mediatici

Il 2022 si è portato via quel mite teologo di ferro che rispondeva al nome di Joseph Ratzinger. Più teologo (nel senso di intellettuale di riferimento) che Papa (nel senso di pastore e amministratore della Chiesa cattolica), il prelato bavarese si è dovuto confrontare con la presenza o l’eredità di un altro Papa. Quando è morto Giovanni Paolo II, lui, tendenzialmente discreto, si è trovato a succedere a un talento mediatico mondiale, un «frontman» che amava rapportarsi alle folle oceaniche. Intanto, alle sue spalle, lui tesseva e ricuciva la trama di una dottrina che a suo modo di vedere (ma anche secondo il Papa polacco) era minacciata da questa o quella corrente sospetta. Una macchina da guerra dogmatica, il duo Wojtyla-Ratzinger: il primo incendiava i popoli e il secondo tracciava le geometrie teoriche della riconquista di un Occidente secolarizzato. Semplificando: il leader carismatico e l’intellettuale.

Nulla da stupirsi, quindi, che diventato Papa fosse più professore che leader e che, nelle adunate di massa, per esempio coi giovani, il sorriso e la gestualità tradissero una sorta di intimidito stupore di fronte allo tsunami affettivo dei ragazzi. Non si sentiva il physique du rôle per questi avvenimenti. Era nella riflessione analitica, nelle erudite ricostruzioni della storia del pensiero, nel confronto tra filosofie e teologie che Ratzinger brillava. Come professore universitario, influente inviato al Concilio Vaticano II, potentissimo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, pontefice regnante e, infine, come Papa emerito, Joseph Ratzinger si è profilato per l’acume dei propri interventi scritti, ragionati, glossati, finissimamente argomentati. Le sue idee potevano essere condivise o respinte, ma nessuno tra i suoi avversari poteva sottrarsi al fascino delle sue costruzioni.

Già. Le sue idee. È stato disegnato come il campione cattolico della tradizione negli anni del post-Concilio, marcati dalle aperture al mondo laico

e secolarizzato. C’è chi l’ha contrapposto a un altro gigante del pensiero cattolico di fine Novecento: il cardinal Carlo Maria Martini. Un’opposizione forse più immaginaria che reale, ma è vero che Ratzinger e Martini hanno rappresentato per decenni le due principali anime del cattolicesimo. Ratzinger, tuttavia, fu troppo raffinato per essere ridotto a una caricatura del tradizionalista puro e duro, nemico della modernità e dell’Islam.

Un esempio emblematico può essere rintracciato nelle polemiche attorno a una sua citazione nel discorso di Ratisbona nel 2005: «Mostrami ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai solo delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere la fede per mezzo della spada». Si riferiva a una frase dell’imperatore Manuele II Paleologo e, tolta dal contesto generale del discorso, sembrava un attacco frontale ai musulmani, mentre il bersaglio non era l’Islam, ma tutte le religioni che si al-

lontanano dalla natura di Dio nella misura in cui si allontanano dalla ragione.

Altro esempio: la sua presunta ostilità viscerale nei confronti dell’Illuminismo, alle origini del disprezzo del sacro in Occidente. In un discorso del 2005 a Subiaco Benedetto XVI spiegava che «l’Illuminismo è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il Cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato. Nonostante la filosofia, in quanto ricerca di razionalità (…) sia sempre stata appannaggio del Cristianesimo, la voce della ragione era stata troppo addomesticata». E aggiungeva: «È stato ed è merito dell’Illuminismo aver riproposto questi valori originali del Cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce».

Insomma, bandiera dei cattolici più conservatori sì, ma nemico della modernità no. Il nodo, per lui, sem-

mai, è stato il Concilio Vaticano II che fino alla fine considerava in continuità con la dottrina tradizionale cattolica, quasi un completamento logico del Concilio di Trento. Il discorso è tecnico ed è meglio limitarsi a un concetto, peraltro non semplicissimo: Ratzinger era un convinto fautore dell’ermeneutica della continuità tra la dottrina cattolica passata e quella del Vaticano II. Come se non ci fosse stata una rottura (che invece per molti teologi ci fu) con idee quali l’impossibilità della salvezza al di fuori della Chiesa cattolica e molte altre. C’è da chiedersi se questa sua lettura non nascondesse un «pentimento» di fronte alle spinte «progressiste» del Concilio.

Amato dai politici di destra più che da quelli di sinistra, papa Benedetto era in realtà del tutto in linea con il magistero dei predecessori e del successore sulla questione sociale. Nella sua visione, esplicitata nell’enciclica Caritas in veritate, non c’è nessu-

Quando l’allora cardinale visitò Lugano

na «mano invisibile» del mercato che risolve i problemi di disparità, ma solo le decisioni politiche degli uomini che impediscono all’economia di stritolare chi non sta al suo passo.

E siamo alle stupefacenti dimissioni del 2013. Benedetto non amava la ribalta e, paradossalmente, questa scelta lo consegnava all’esposizione mediatica più straordinaria, quella del Papa che, per varie ragioni, non ce la fa ad andare avanti. Una mossa che il suo predecessore non ebbe la forza, la volontà o la lucidità di compiere, e infatti il pontificato di Giovanni Paolo II si spense nell’altalena dei bollettini medici e della malattia. Ma è arduo credere che l’addio di Ratzinger fosse dovuto esclusivamente al mancare delle energie. Mentre scriveva e insegnava dalla cattedra di San Pietro si è trovato immerso in almeno due battaglie d’immagine che, con tutto l’acume accademico, non era in grado di affrontare: lo scandalo della pedofilia nel clero e l’opaco capitolo delle fughe di notizie dalla Curia romana, passato alla storia come «Vatileaks». A dirla tutta Benedetto XVI si è mosso subito e assai vigorosamente per debellare l’ombra infamante degli abusi sessuali e dei loschi traffici di soldi e potere nella casa di Dio. Ma probabilmente la dimensione mondana e avvelenata di questo genere di problemi era davvero insostenibile per un uomo di testa come lui. Magagne che le sue energie mentali e spirituali non riuscivano a estinguere.

Ecco quindi la retromarcia e l’arrivo di un Papa, Francesco, dallo stile completamente diverso: popolare, diretto, pastorale. La coesistenza di Papa emerito e Papa regnante ha generato leggende e film e segna un capitolo anomalo nella storia della Chiesa. I due però sono la faccia opposta della stessa medaglia: più concentrato sulle sfide filosofico-intellettuali il primo, più attento ai drammi sociali e materiali della gente comune il secondo. Da Caritas in veritate a Veritas in caritate insomma.

Ricordi ◆ Il religioso – in Ticino nel 1984 e nel 2002 – espresse le sue idee sull’Europa, i valori, il fondamentalismo e lo scetticismo

Nel 2002 Joseph Ratzinger – allora cardinale – giunse a Lugano in occasione del convegno Per una convivenza tra i popoli: emigrazione e multiculturalità a cui parteciparono altre figure di spicco quali Francesco Cossiga, Cesare Romiti, Angelo Scola (Palazzo dei congressi). Troviamo traccia dei suoi interventi negli articoli di giornale dell’epoca. In particolare sul «GdP» dell’8 marzo, p. 33, don Italo Molinaro – giornalista e attuale parroco della Chiesa del Sacro Cuore di Lugano – proponeva ai lettori le risposte del futuro Papa emerito a domande sull’Europa, sui valori, sulla presunta «superiorità» del Cristianesimo, sul fondamentalismo e sull’indifferenza religiosa. «Noi cristiani – osservava il cardinale – siamo convinti che il fondo di verità che appare nella fede cristiana è più profondo, quindi in un certo senso superiore, ma dobbiamo anche riconoscere che la realizzazione di questo fondo di valori non è sempre stata vissuta con la stessa dignità. Ci sono stati re-

ali oscuramenti di questi valori nella storia concreta. (…) Dobbiamo dire comunque che il valore del matrimonio monogamo, la libertà della donna e altri elementi dimostrano una superiorità di sviluppo culturale rispetto all’Islam. D’altro canto loro possono

indicare la decadenza dell’Occidente, la crisi dei valori, l’uomo che diventa materia di esperimento, la clonazione… Oggi il mondo islamico si sente forte nei confronti dello scetticismo occidentale e della riduzione della forza etica e religiosa del nostro mondo».

Ma che cosa è più pericolosa: l’indifferenza religiosa o il fondamentalismo? «È difficile dirlo perché le situazioni possono essere diverse», sottolineava Ratzinger. C’è un fondamentalismo che crea violenza. «Il pericolo qui è di alterare l’essenza della religione, trasformandola da un’apertura a Dio e alla sua creatura umana, in un’opposizione che distrugge l’umanesimo essenziale». Vedi 11 settembre 2001 e suicidi collettivi di certe sette. Ma c’è poi in America –continuava – una parte di mondo protestante che si definisce fondamentalista: «non è fanatica o violenta» ma cerca di «salvare nell’oceano dello scetticismo, la fermezza della moralità e della religione». Anche per quel

che riguarda l’indifferenza religiosa bisogna fare dei distinguo. Esistono «un’indifferenza che nasce dall’incapacità di trovare l’evidenza della verità, ma si sente obbligata a mantenere i grandi imperativi umani» e «un’indifferenza che diventa lassismo, mancanza di convinzioni, arroganza. Quest’ultima è una minaccia per l’umanità».

Il cardinale ribadiva: «lo Stato ha bisogno della Chiesa, che certo è molto più di una istituzione di moralizzazione, ma una conseguenza della sua missione è quella di creare le condizioni perché gli uomini si accettino reciprocamente e perché la ragione abbia la libertà necessaria per trovare le soluzioni adeguate ai problemi tecnici». Infine esprimeva la sua ammirazione per Eugenio Corecco (il convegno cadeva nel settimo anniversario della morte di quello che fu il vescovo di Lugano dal 1986 al 1995): «mi aveva impressionato la sua bontà naturale e la purezza di cuore che si vedeva in lui», «un uomo dalla pro-

fonda vita interiore e dalla fede vera e intensa», «un fine pensatore».

Ratzinger arrivò a Lugano anche nel maggio 1984. Citiamo l’articolo Don Willy Volonté ricorda le due visite di Ratzinger in Ticino (www.catt. ch): «nessuno dimentica il risotto alla milanese che allestì in fretta e furia mia madre in una casa privata, dal momento che il cardinale preferiva cenare in famiglia piuttosto che in un anonimo ristorante luganese». Erano i tempi caldi del dibattito teologico intorno alla Teologia della liberazione – afferma l’ex rettore del Seminario della Diocesi di Lugano – «e di conseguenza della libertà del teologo nel ricercare l’innesto della fede nel nuovo contesto socio-politico e culturale». Il futuro Papa emerito parlò di questi argomenti al Palazzo dei Congressi, su invito di mons. Corecco.

Informazioni

Per la biografia di Ratzinger vedi www.vatican.va/content/ benedict-xvi/it.html

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 19
Ratzinger era nato in Baviera nel 1927. (Keystone)
Keystone
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Per un nuovo genere (anche letterario)

A colloquio con Kim de l’Horizon, star indiscussa del panorama letterario germanofono, presto in libreria anche in italiano

L’uomo che visse tre volte

A volte, imprevedibili esperienze di vita conducono una persona a intraprendere un percorso completamente diverso da quello seguito fino a quel momento. Succede, allora, che mutando la traiettoria della propria esistenza, di riflesso, nell’arco del percorso terreno, cambi anche il modo in cui una persona tocca e influenza gli altri.

Il caso di Hans Ruesch, individuo pressoché impossibile da classificare o incasellare, è un esempio magistrale di come sia possibile reinventarsi sulla base di convinzioni profonde e sincere per «fare la differenza». Bell’uomo dalla mascella volitiva e lo sguardo determinato, Ruesch aveva infatti tutte le qualità dell’avventuriero – un personaggio quasi da romanzo, destinato a sicura popolarità; eppure, oltre la facciata dell’affascinante poliglotta e cosmopolita «cittadino del mondo», Hans celava ben altro, come dimostrato dalla rocambolesca parabola che la sua vita avrebbe finito per seguire.

La fama raggiunta come pilota nel circuito internazionale sembrava non bastare al giovane e irrequieto Ruesch che aveva altre ambizioni

Nato nel 1913 a Napoli da padre svizzero e madre italiana, Ruesch trascorse l’infanzia in una bella villa sul Golfo, rispondendo al nome di «Giovanni» fino al momento in cui non si trasferì a Zurigo per studiare, divenendo per tutti Hans. Parallelamente al cambio d’identità, sarebbe giunto il primo momento di svolta nella vita del giovane Ruesch: passato dalla facoltà di giurisprudenza a quella di giornalismo e poi di medicina, trascurò gli studi per effettuare lunghi viaggi in Africa e, al ritorno in Svizzera, sviluppò una prevaricante passione per le automobili da corsa, inanellando una serie di impressionanti risultati nelle più svariate competizioni internazionali. In poco tempo, sarebbe divenuto uno dei principali piloti confederati, passando dalle scuderie MG – il suo primo ingaggio – a quelle Alfa Romeo e Ferrari, e vincendo una gara dietro l’altra (ben 27 solo nel decennio degli anni ’30, tra cui l’ambito Gran Premio d’Inghilterra del ’36).

La fama raggiunta all’interno del circuito internazionale sembrava però non bastare al giovane e irrequieto Ruesch che aveva altre ambizioni: dopo aver firmato nel 1953 Il numero uno (romanzo incentrato proprio sul mondo delle corse automobilistiche e da poco ristampato dalla Fucina Editore di Milano), progettò

di dedicarsi a tempo pieno alla letteratura; ispirandosi anche a esperienze personali, firmò così diversi romanzi d’avventura (da lui stesso in seguito tradotti in italiano), che presto resero il suo nome noto al pubblico mondiale. Del resto, aveva mosso i primi passi in questo mondo già nel 1950 con la sua opera prima, Paese dalle ombre lunghe, ripubblicato da Einaudi nel 2021.

Hans fu fortunato: entrambi questi romanzi vennero opzionati da Hollywood, divenendo film d’autore interpretati da attori del calibro di Kirk Douglas e Anthony Quinn – poi seguiti, nel 2011, da un’altra opera dalle tematiche intense quale Il principe del deserto, di Jean-Jacques Annaud (tratto da Paese dalle ombre corte, sull’effetto deleterio che lo sfruttamento esercitato dalle compagnie petrolifere occidentali ebbe sulle tribù arabe dei primi del Novecento).

Eppure, nonostante le innegabili soddisfazioni professionali, la storia di Hans stava per cambiare radicalmente, in modo inaspettato e non poco traumatico: rientrato in Italia nel ’46 (durante la guerra aveva abbandonato l’Europa per gli Stati Uniti), Ruesch rimase coinvolto in un grave incidente d’auto, nel quale un carabiniere perse la vita. Sconvolto dall’accaduto, abbandonò le corse automobilistiche: e fu proprio questa scelta a preparare il terreno affinché una nuova, grande passione – in realtà, una missione – dominasse la sua vita.

Poiché il relativo flop di Ombre Bianche (1960), visionaria versione cinematografica del suo romanzo d’esordio, sembrava avergli fatto perdere lo sfuggente status di bestsellerista, Hans aveva deciso di accontentarsi di lavori più umili – come quello di editor per una collana medica italiana. E fu proprio durante le ricerche intraprese in quest’ambito che si rese conto della portata di quella che avrebbe definito come «la grande frode della vivisezione»: ovvero, l’eliminazione sistematica di milioni di cavie da laboratorio, sacrificate ogni anno sull’altare della medicina senza che nessun reale vantaggio ne derivasse. Ruesch fu infatti uno dei primi ad affermare che la sperimentazione sugli animali fosse da considerarsi ingiustificabile sia da un punto di vista etico sia scientifico, principalmente per il fatto che l’organismo di qualsiasi cavia da laboratorio è diverso a tal punto dal nostro che i test condotti su animali non possono in alcun modo rispecchiare le possibili reazioni dei soggetti umani.

Dagli anni ’70 in poi, Hans divenne il maggiore paladino dell’opposizione europea alla vivisezione e una vera e propria spina nel fianco per le aziende farmaceutiche: fondatore, nel

’74, del Centro Informazioni Vivisezionistiche Internazionali Scientifiche (CIVIS, con sede a Zurigo), pubblicò diversi lavori sull’argomento, di cui il più celebre e controverso, Imperatrice nuda (ritirato dall’editore Rizzoli poco dopo la pubblicazione, nel ’76) costituisce tuttora una vera «bibbia» per le associazioni formatesi nel mondo nel tentativo di porre fine a una pratica ritenuta inumana.

E certo si può dire che quando, nel 2007, il 94enne Hans Ruesch morì nella propria casa di Massagno, il suo più grande lascito sia stato proprio la lunga militanza nel movimento contro la sperimentazione animale e l’influenza che il suo lavoro ha avuto sull’opinione pubblica: un lascito pagato a caro prezzo, dato che Ruesch venne trascinato più volte in tribunale a causa delle proprie afferma-

zioni e convinzioni. Eppure, questo era ciò che egli stesso aveva voluto: una volta abbracciata la causa, nulla di tutto ciò che aveva fatto parte della sua vita precedente (né la carriera letteraria, né, tantomeno, gli spericolati exploit da pilota) rivestì più per lui la minima importanza. Il che, in fondo, resta prova ultima e definitiva tanto della sua abnegazione quanto della sua onestà morale e intellettuale.

CULTURA ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 21 Pagine 22-23 Pagina 26
Ottanta vite in ottanta scatti È uscito recentemente il volume Scatti, raccolta di ottanta fotografie in bianco e nero realizzate dall’occhio esperto del ticinese Marco D’Anna Un vittorioso Hans Ruesch alla fine di una gara automobilistica negli anni Trenta. (Keystone)

Sangue, gender e storie di vita

«Volevo raccontarti della costante paura del mio corpo: di condividere la stessa coperta con il peggiore dei mostri che si trovano sotto il letto. Solo che non è una coperta, ma la mia pelle. Una paura come quando si vive in una capanna fatiscente e sopraggiunge una tempesta. Solo che la tempesta non arriva, ma è qui: sempre, ovunque, senza via di scampo. A volte la sensazione che sia ok vivere in questa capanna. E a volte, a fasi alterne, la sensazione di essere sbagliat* – il terrore abissale, disgregante di essere sbagliat* fino all’ultima cellula. Il desiderio di estirpare con una sottile pinzetta ogni singola cellula da me e di dissolverla nell’acido». (Blutbuch)

Risulta fin troppo facile sparare addosso a Kim de l’Horizon, soprattutto se si ci si limita al momento della sua consacrazione letteraria nel mondo germanofono, quando, lo scorso 17 ottobre, dopo essere stato definito autore del miglior libro dell’anno in lingua tedesca, in barba ai benpensanti e in ossequio alla propria fluidità di genere, è salito sul palco avvolto in una lunga gonna tempestata di paillettes, un top trasparente con appliqué di ciuffi d’erba e un rossetto sgargiante e, cantando in preda alla commozione, si è rasato alcune ciocche in onore delle martiri iraniane.

Ma quando si finisce la lettura di Blutbuch («libro di sangue», ma basta aggiungere una «e» e abbiamo Blutbuche, quel faggio rosso protagonista, insieme alla Grossmeer-nonna, di tante pagine) quel che resta è una leggera vertigine. Come quando si raggiunge una vetta a piedi, oppure si scende da un giro di giostra. Si sente l’orgoglio per avercela fatta, la gratitudine per avere riso e pianto. Blutbuch di Kim de l’Horizon, vincitore oltre che del Deutscher Buchpreis

anche del premio per il miglior libro svizzero, di quello della Fondazione Jürgen Ponto e di quello della città di Zurigo, se da una parte è infatti un’opera epica, dall’altra è epocale, simbolo di una generazione che fa i conti con il presente (quello della nostra società, del nostro tempo e anche dei nostri cuori), ma con un occhio dissacrante e di denuncia verso parte di quello che è stato il passato in terra elvetica, soprattutto per le donne, in una società dominata dal patriarcato: «Io spezzo il cerchio dei figli che uccidono i propri genitori per essere liberi, per diventare sé stessi. Io non uccido i miei genitori. Io metto al mondo le mie madri» (Blutbuch).

Come ha dichiarato la giuria tedesca, «attraverso un’enorme energia creativa la figura letteraria non-binaria del romanzo di Kim de l’Horizon cerca una propria lingua. Quale tipo di narrativa esiste per un corpo che si sottrae alle rappresentazioni correnti di genere?».

Kim de l’Horizon, e il nome in qualche modo già lo anticipa, per sfuggire all’eterna dicotomizzazione uomo-donna con le sue gerarchie prestabilite, non si riconosce in nulla, non sapendo attribuirsi (sé stesso e il suo corpo) a nessuno dei due generi binari, optando invece per una terza via, consistente in una ricerca che fa di questo romanzo d’esordio un capolavoro, una perla audace e più brillante delle altre in un orizzonte letterario di un’autoreferenzialità quasi paralizzata. L’auto-fiction di Kim infatti è di una potenza tale da togliere il fiato, in un’alternanza di stili unica nel suo genere e che a sua volta si fa stile: si passa dall’autobiografia romanzata a documenti, autentici e meno autentici, senza tralasciare elenchi, lettere e piccoli saggi, il tutto in ben tre lingue diverse. Nemme-

no la nota biografica in quarta di copertina si sottrae a questo complesso e ludico gioco di specchi: de l’Horizon afferma infatti (pur essendo originario di Ostermundigen, nel Canton Berna) di essere nato nel 2666 a Gethen, in quello che è un doppio omaggio allo scrittore cileno Roberto Bolaño e alla scrittrice e glottoteta statunitense Ursula K. Le Guin.

«Forse è questo che significa autofiction: attraversare il regno della realtà secondo i propri ritmi, obiettivi e modalità. Io sono semplicemente andato più veloce». (Blutbuch)

Giacca oro, eye-liner, smalto sbeccato e un’inconfondibile dolcezza, Kim affronta l’ennesima giornata di interviste poco lontano dalla Langstrasse di Zurigo, in un mondo che l’ha catapultato sotto i riflettori e dove tutti sembrano volersi confrontare con la sua eccentricità e, perché no, con il suo coraggio. Kim accetta l’attenzione mediatica di buon grado, d’altronde è anche performer, come dimostrano le sue letture, durante la quali canta brani ricercati come Night Call di Kavinsky o si spende in riti sciamanici.

Kim, perché durante i tuoi reading senti la necessità di appoggiarti alla musica?

Perché la musica è un prolungamento della scrittura. Raccontare e cantare sono due modalità espressive finemente intrecciate, ed entrambe necessitano di fattori come corpo e respiro. In questi anni ho trasformato il mio corpo in uno strumento con cui scrivo e con cui canto.

In Blutbuch ci sono molti riferimenti alla stregoneria e si percepisce una specie di urgenza di riabilitazione di queste donne. Assolutamente sì. Alcune ricerche

effettuate qui a Zurigo mi hanno permesso di scoprire che circa un quinto delle persone giustiziate per stregoneria era rappresentato da uomini, ossia persone che oggi definiremmo queer, e che dunque sono state perseguitate e condannate per le loro relazioni omosessuali. Anche se oggi non veniamo più uccise/i, il tentativo da parte del patriarcato di controllare i nostri corpi resiste. Eppure in altre culture troviamo molti esempi di come i generi possano essere vissuti in modo diverso – basti pensare ai femminielli di Napoli – ma da noi questo aspetto è stato cancellato fra le altre cose dal cristianesimo. Credo che la suddivisione in generi binari sia da imputarsi anche ai colonizzatori, per i quali uomo e donna dovevano essere l’uno il contrario dell’altra, concetto sfruttato per dare un’immagine più civilizzata di sé. Si tratta di codificazioni per sganciarsi dalle quali è necessaria una presa di coscienza, rappresentata per me dai rituali: essi permettono infatti di formulare un’intenzione consapevole. Durante i miei rituali di purificazione – a casa, nel bosco o in un fiume – formulo le mie intenzioni, poi sfrego delle foglie bagnate sulla pelle, cercando di lavare via ciò che mi è di peso. Coniugare le proprie intenzioni ad azioni concrete ha una grande efficacia: si fa chiarezza sulla direzione da prendere e si asseconda il desiderio di sentirsi più leggeri.

Il recupero di antichi riti e la riabilitazione delle streghe rappresentano un rimescolamento tra passato e presente, e ci portano all’importante concetto di tempo: per una vita intera immaginiamo noi stessi e la storia muoversi lungo una fantomatica linea temporale, tu invece ne metti in discussione l’esistenza.

A un certo punto nel libro affermi che: «Non siamo forse tutti interconnessi nelle nostre storie, le nostre storie non sono una matrioska, non sei forse nella mia pancia, mamma, e nonna è nella tua, e così via? E poi, chi mette al mondo chi, qui?».

Il tempo è semplicemente un costrutto. Lo stesso costrutto fallace secondo cui in futuro le cose non potranno che andare meglio: in realtà si tratta di un’illusione, e lo vediamo in molti ambiti. Pensiamo al diritto all’aborto: l’avevamo dato per assodato nel momento in cui fu legalizzato, ma ora vediamo che non è così. Anche la narrazione del progresso dell’umanità risponde ai meccanismi del costrutto; nel libro ad esempio c’è la figura di Barbara, la levatrice che nel 1500 si trasferisce a Francoforte, dove all’epoca la medicina fioriva e le donne godevano di una certa autonomia. Anche là le cose cambiarono da un momento all’altro, e le donne di colpo si ritrovarono di nuovo alla mercé del volere maschile. Anche il passato è un costrutto: non credo sia davvero passato, e per questo è importante ricordarsi in modo consapevole di quanto vi è successo, poiché esso possiede un grande potere anche sul presente. Se non si sceglie questa modalità di riflessione e di ricordo, il passato riuscirà a influenzarci in modo inconscio, inconsapevole, con il rischio di giungere addirittura a manipolarci. Io definisco ciò che faccio «stregoneria queer femminista», ciò che conta per me è entrare in relazione con sé stessi, con il proprio corpo e con la propria community

Restando nel tema del passato, cosa pensi della cancel culture? Mi disturba il modo in cui se ne parla. Quando si parla di cancel culture ci

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Incontri ◆ A colloquio con il nuovo enfant prodige della letteratura svizzera Kim de l’Horizon Kim de l’Horizon. (© Anna Schwarz)

si riferisce soprattutto all’idea secondo cui si debbano abbattere le statue che magnificano personaggi storici controversi ai nostri occhi moderni. Ma perché non considerare invece chi propone approcci più creativi, come ad esempio lo spostamento delle statue dai punti centrali delle città ai margini o la creazione di progetti artistici intorno a un determinato monumento?

In un raffinato e a tratti ipnotico processo narrativo de l’Horizon mescola autofiction, ricerca, storia e considerazioni personali

Fai un uso sapiente e anticonvenzionale della lingua: usi il dialetto bernese, un ottimo Hochdeutsch e affidi interi passaggi del libro all’inglese.

Ad affascinarmi delle lingue è il fatto che sono molto personali, ma allo stesso tempo uno degli aspetti più collettivi dell’umanità, poiché ogni lingua rappresenta una cultura, e contiene le persone che la parlano. Attraverso la lingua cerchiamo di esprimere le nostre cose più intime, appoggiandoci però al medium più collettivo che esista. La pagina scritta a mio avviso sta da qualche parte tra l’apice dell’intimità e quello della collettività. Ho un rapporto difficile con l’Hochdeutsch, che rappresenta la lingua dei grandi. Noi svizzeri, che per contro siamo piccini, lo dobbiamo imparare a scuola e lo usiamo solo (e malvolentieri) nelle occasioni speciali. In Svizzera non abbiamo mai avuto un’aristocrazia e quindi nemmeno un palazzo reale, luogo per sua definizione deputa-

to alla promozione della cultura alta, ed è proprio questa tradizione che ci manca, perciò dobbiamo appoggiarci all’Hochdeutsch. L’inglese invece è una via di fuga, mi serve per esprimere la contemporaneità e il presente, e inoltre prevede meno differenziazioni di genere!

Credo che la lingua sia sempre magica, e magia e forza siano necessarie per cambiare il mondo. La lingua è capace di creare universi: mi spiego, quando ci riferiamo a qualcuno usando degli attributi come «è grasso» o «sarà un maschietto», carichiamo la realtà di rappresentazioni e aspettative, creando una sorta di profezia. Ma se è vero che la lingua chiude determinate porte, attraverso di essa se ne possono aprire altre, a patto che ve ne sia consapevolezza.

Parliamo di fluidità: non solo Kim è fluido, ma anche tutto il tuo mondo, in cui rimescoli le carte di società, passato, storia e lingue. La fluidità ci apre un ventaglio di possibilità, poiché l’assenza di binarietà ci rende più liberi di svilupparci e di essere creativi. Eppure, e ce lo insegni tu, la binarietà è ovunque: i generi sono binari, il tempo si suddivide in passato e presente, le tue lingue sono lo svizzero tedesco e l’Hochdeutsch…

Ci troviamo in un momento di crisi e cerchiamo di aggrapparci alle certezze. Per rivolgersi a ciò che è nuovo ci vuole impegno, ma poi si aprono tante possibilità. Poiché ho cercato di scrivere anche con il corpo, la fluidità – in questo senso l’acqua – ha dovuto in qualche modo sostenermi: in fondo noi (animali e piante compresi) non siamo che contenitori

d’acqua, respiriamo, beviamo, sudiamo… viviamo cioè in una situazione di costante scambio con gli elementi che ci circondano. Tutta la vita e ogni forma di vita sono in un costante flusso.

Anche il sangue che impregna il tuo libro, dalla copertina al titolo fino ai contenuti, è parte di questo incessante flusso?

Il sangue è una delle acque di cui siamo fatti.

Se da una parte è vero che la fluidità è una fonte di possibilità, dall’altra devi riconoscere che si possa provarne paura, poiché la binarietà, riducendo lo spettro delle scelte possibili, dà delle certezze. Ne sono convinto e per questo so-

no necessari libri da cui imparare che esistono anche altre possibilità. La vita è un costante processo di apprendimento, ma se ci si ribella alle trasformazioni nascono le frustrazioni.

La nostra memoria, anche in funzione della sopravvivenza a certi traumi, per sua natura opera una selezione dei ricordi. Nel tuo libro però ti spingi oltre, aggiungendo un’ulteriore memoria, più consapevole, che si esprime attraverso la scrittura. Dove si situa Kim? Esiste il Kim rappresentato dal mio «io» privato cui si aggiungono il personaggio del libro e il Kim-autore, e si tratta di entità diverse. La figura protagonista di Blutbuch, se da una parte è il risultato di una scelta dei ricordi di cui scrivere, dall’altra deriva da un processo di fictionalizzazione. In fondo ogni volta che cerchiamo di ricordare siamo in divenire, risultando in ultima istanza dalla nostra narrazione. Nel mio caso il processo è stato forse più consapevole, poiché ho fictionalizzato la mia biografia. In Blutbuch faccio anche «critical fabulation», una fiction che interviene in caso di «vuoti» della narrazione storica, basandosi però su ricerche molto precise. Un concetto sviluppato dalla scrittrice statunitense Saidiya Hartman per raccontare la storia della schiavitù.

Qual è dunque il tuo rapporto con la storia e con le modalità con cui viene trasmessa o insegnata a scuola? Anche se si sostiene che la storia sia una materia neutrale, essa è il risultato di scelte politiche. Trovo che la scienza della storia sia molto vicina a

quella della letteratura. Non voglio dire che la storia racconti delle falsità, ma essa parte solamente da ciò che si sa ed è assodato. Se analizziamo ad esempio la schiavitù o la persecuzione delle streghe in una prospettiva storica, oggi sappiamo che possiamo leggere il fenomeno anche in modo diverso dal passato, e ciò dimostra come di mezzo vi sia sempre la narrazione.

In questo libro è centrale il rispetto verso le espressioni di diversità, natura compresa. Il tuo profondo rapporto con la natura è uno dei capisaldi del libro. Femminismo ed ecologia appartengono alla stessa corrente?

Considero molto importante l’ecofemminismo. Prendendo di nuovo ad esempio il colonialismo, la natura veniva contemplata come qualcosa di femminile da conquistare, combattere e penetrare. Non a caso si parla di «madre terra». Parlare della terra al femminile però crea di nuovo una binarietà: perché la terra dovrebbe avere un sesso o un genere? Scegliendo un modello binario sono sempre necessari entrambi gli aspetti, e se la terra è femminile, quale sarebbe allora il suo corrispettivo maschile? L’aria forse?

Per concludere, cos’è la bellezza? È vero che la bellezza salverà il mondo?

Vivere la bellezza forse vuol dire aver la possibilità di essere qui e ora. Essere sfiorati violentemente, ma senza violenza.

Bibliografia

Kim de l’Horizon, Blutbuch Colonia (D), DuMont Verlag, 2022.

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Concentrato di potenza tutta elvetica: Ricola e lo sciatore svizzero Niels Hintermann insieme verso il successo.

Esplosiva coppia rossocrociata

Con l’inizio di questa stagione sciistica, Niels Hintermann e Ricola hanno festeggiato una prima assoluta: per la prima volta il velocista gareggia nelle discese di Coppa del Mondo con il nuovo casco «targato» Ricola. Per i prossimi quattro anni Ricola sarà infatti orgoglioso sponsor di Niels Hintermann.

Una cooperazione multiforme Niels Hintermann è uno dei pilastri della squadra svizzera di velocità. Ha già vinto due gare di Coppa del Mondo e con la vittoria a Kvitfjell nel marzo 2022 non ha lasciato dubbi sulle sue ambizioni per la nuova stagione. Per Niels Hintermann la cooperazione con Ricola è una novità. «È per me un enorme piacere legare il mio nome a un’azienda svizzera così ricca di tradizione e prestigio. Entrambi siamo sinonimo

di Swissness e vogliamo tenere alta la bandiera elvetica nel mondo dello sci. Il fatto di essere il primo sciatore con cui Ricola ha stretto una simile collaborazione mi fa immensamente felice e mi riempie di orgoglio».

le gare di sci nel paesaggio innevato, con le Alpi svizzere sullo sfondo, sono perfette: lì Ricola è di casa, non potrebbe esserci cornice migliore! Crediamo fortemente in Niels Hintermann, come sportivo e come ambasciatore del marchio, perché nessuno meglio di lui incarna l’elveticità di cui anche Ricola è fiera portatrice. Siamo felici di sostenere Niels e lo sport svizzero».

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Per Thomas P. Meier, CEO di Ricola, la collaborazione con Niels Hintermann è una vantaggiosa opportunità per entrambi i partner. «Lo sport connette e libera le emozioni. Le immagini del-

Ogni anno un evento di spicco nel calendario sciistico: il Trofeo del Lauberhorn Anche nel fine settimana del 13-15 gennaio 2023 le storiche gare di sci che si disputano annualmente a Wengen saranno, come sempre, uno spettacolo incomparabile per atleti, abitanti del luogo e ospiti. E Ricola si augura ovviamente di vedere Niels sul podio.

Con la forza delle erbe attraverso la stagione fredda Soprattutto nella stagione fredda, le erbe alpine svizzere contenute nelle pregiate caramelle Ricola sono una preziosa fonte di energia tutta naturale – e a partire dall’acquisto di due prodotti Migros ti offre attualmente il 20% di sconto sull’intero assortimento Ricola . Non lasciarti sfuggire l’occasione e approfitta della ricca gamma Ricola!

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«Mi interessa quello spazio tra la vista e la visione, dove andare alla ricerca di una soggettività – nell’immagine – che non riproduca semplicemente in maniera meccanica la realtà, ma che mi porti bensì a interpretarla», confessava il fotografo Marco D’Anna in un’intervista di parecchi anni or sono. Un concetto essenziale per distinguere la foto d’autore dalle dilaganti immagini (leggi smartphone&selfie) di cui faremmo volentieri a meno, che diventa però molto impegnativo se applicato a quel particolare settore che forse troppo frettolosamente definiamo ritratto: che realtà possiamo interpretare di fronte all’immagine di un singolo soggetto? Ci aiuta a sciogliere l’arcano il talento di D’Anna. Dietro o dentro il ritratto possiamo cogliere sentimenti e stati d’animo, gioie, inquietudini, perplessità e quant’altro. Non è la prima volta che D’Anna si occupa di ritratti: si era già cimentato ad es. nella serie «Gente di vino» (nel libro Merlot, voluto dalle Edizioni Matasci in occasione del centenario del vitigno che ha reso celebre l’enologia nostrana), proponendoci primissimi piani di viticoltori sorridenti. Nella sua ultima pubblicazione, Scatti, ci offre 80 ritratti, stavolta però allargando il suo sguardo e sistemando i soggetti in ambienti e situazioni che indicano chiaramente sia la loro principale attività (il gommista, il

popolare marunatt di Piazza Dante a Lugano, l’orologiaio), sia le loro rispettive passioni, talvolta così impegnative e particolari che definirle hobby sarebbe un affronto (l’aviatore col suo biplano, il collezionista di trattori d’epoca). Rimane tuttavia qualche unità d’intenti: tutte le immagini sono in bianco e nero, i soggetti mantengono la stessa distanza dall’obiettivo, che resta il medesimo per tutti gli Scatti o, ancora, l’illuminazione è discreta e non gioca troppo coi contrasti di luce.

In questo lavoro, caratterizzato da ottanta ritratti di ticinesi, D’Anna è andato alla ricerca della soggettività

«È vero – conferma D’Anna – ho scelto un approccio se vogliamo classico della ritrattistica fotografica che sta forse scomparendo: ho fatto ricorso al cavalletto, che ormai sembra caduto in disuso. La sfida è stata quella di trovare un equilibrio tra la persona e il suo contesto, che trovo per così dire al buio e solo al momento del fatidico clic».

Nel libro, pubblicato da Artphilein Editions e sponsorizzato da BancaStato (grazie al personale interessamento di Bernardino Bulla, presidente del CdA dell’istituto ban-

cario e grande appassionato di fotografia), è lecito cogliere un po’ d’ironia? Pensiamo a Fra Martino, che regge una pagnotta gigantesca o a Felix Karoubian, steso sui suoi tappeti, che sembra ribadirci il suo slogan «Sa vedum»…

«Non direi. L’ironia, professionalmente parlando, non è tra le mie corde. Ho soprattutto voluto mettere sotto i riflettori persone che solitamente non lo sono, sottolineando il

loro impegno quotidiano. Ho sempre avuto il massimo rispetto per i miei soggetti, un atteggiamento che forse si trovava già nel mio DNA, ma che senz’altro si è affinato durante i miei viaggi».

Ricordiamo che D’Anna si è a suo tempo lanciato sulle tracce di Hugo Pratt e del suo Corto Maltese, in una ricerca durata quasi quindici anni e che l’ha portato in ogni parte del globo. «La fotografia è stata lo strumen-

to che mi ha permesso dapprima di conoscere e poi di entrare in stretto contatto con un altro che ho incontrato vuoi in Cina, vuoi in Sudamerica, vuoi tra le tribù indigene africane. Stavolta ho avuto la possibilità di avvicinare persone che abitano e lavorano in Ticino». Tra queste, Lorenzo Albrici, colto pensieroso sulla soglia della sua Locanda bellinzonese in una splendida immagine costruita con un gioco di specchi e riflessi. L’ultima foto, quasi una mise en abîme, ritrae D’Anna felice nel suo nuovo atelier di Paradiso, ricavato dall’ex piscina coperta del palazzo (sono rimaste le scalette per scendere in acqua).

D’Anna si schermisce quando gli facciamo notare che l’ottimo risultato di questi Scatti nasce anche dalla sua simpatia e dalla sua naturale empatia. Del resto ben conosciamo la sua modestia: non si è mai montato la testa, nemmeno dopo aver esposto in parecchie tra le più importanti gallerie internazionali o quando alcune sue istantanee sono state acquisite dall’American Polaroid Collection, figurando accanto ai nomi prestigiosi di Walker Evans, Andy Warhol e David Hockney. Guarda caso proprio grazie a una serie di ritratti di anziani ticinesi.

Bibliografia

Marco D’Anna, Scatti, Lugano, Artphilein Editions, 2022.

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Fotografia ◆ Una serie di intensi ritratti realizzati dal ticinese Marco D’Anna
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La
dell’altro
Le gemelle Karina e Milda Dauksyte. (© Marco D’Anna)

In fin della fiera

Due gemelli e un pianoforte

Con un amico rievochiamo la leggenda che accompagna i celebri fratelli Ambrosio. Cognome fittizio, adottato per rispettare la patologica brama di riservatezza di uno dei due. Gemelli monozigoti, cresciuti uguali in tutto e per tutto. Aldo e Alfredo li ha voluti chiamare la loro previdente mamma, affinché avessero l’identico monogramma da ricamare sul loro corredo. Altre urgenze premevano. In primis il pianoforte, o meglio i pianoforti, per soddisfare una passione divorante per la tastiera, manifestatasi prestissimo. Forse propiziata dal fatto di aver dato ai figli il nome di due celebri pianisti (Alfred Brendel e Aldo Ciccolini). Uno strumento per due sarebbe stato più che sufficiente, viste le dimensioni dell’appartamento. Fu una battaglia persa; mentre Alfredo era portato a suonare qualsiasi musica purché uscisse dal gesto di percuotere tasti bianchi e neri, per Aldo era impen-

sabile posare le dita su uno strumento toccato da un altro, fosse pure suo fratello gemello. A meno che ogni volta si facesse venire in casa un accordatore. Cominciava quell’ossessione per la purezza del suono che gli avrebbe estenuato l’anima e stremato le forze. Con il senno di poi i genitori e la sua prima maestra di piano si sono interrogati se fosse stato giusto assecondarlo o non viceversa contrastarlo anche con il rischio di soffocare sul nascere una grande promessa. I ripetuti trionfi, il delirio delle folle osannanti, i trenta e più minuti di applausi seguiti a ogni rara esibizione, non ripagheranno mai a sufficienza il tormento degli anni di formazione, quando in casa non si poteva produrre il minimo rumore, non camminare, non respirare, non sfogliare le pagine di un libro durante le interminabili ore in cui Aldo si esercitava, sempre scontento del risultato ottenuto. Alfredo invece non solo suona

Un mondo storto

Programmazione umana

Prendiamo una formica: quando nasce sa già tutto, non c’è bisogno di educazione e di scuole, né di corsi accelerati, sa camminare, cercare cibo, sa prenderlo con le sue pinzette e trascinarlo al nido, e immagazzinarlo secondo una disposizione razionale, sa seguire le tracce olfattive, riconoscere amici e nemici, sono tutte azioni complesse, e non parlo delle meraviglie di certe formiche, che allevano gli afidi e poi li mungono come fossero mucche, che cuciono le foglie, basta prendere un trattato di mirmecologia per rimanere impressionati. Ma è così per tutti gli animali, la natura non ama la pedagogia, li fa nascere che sanno già stare al mondo, un cavallo entro un’ora dopo la nascita si alza e galoppa, e un gatto anche allevato in appartamento sa ricoprire i suoi escrementi con la segatura usando la zampetta. Tutte cose automatiche, come se la natura preferis-

Xenia

Yaya

Arriva per una sostituzione. La titolare ha subito un’operazione delicata, la terapia la debilita, e dovrà proseguirla per parecchi mesi per sconfiggere la brutta malattia che l’ha colpita: così la segretaria dello studio comunica la novità ai pazienti. Al dispiacere si mischia lo spavento: destabilizza sapere malato chi ti cura. Tuttavia c’è anche sollievo, la ricerca è stata lunga. La dottoressa Carla è medico di base in un paesotto del nord: un migliaio di abitanti sparsi fra il centro storico, le aziende agricole della pianura e le frazioni di collina. Molti anziani, qualche coppia giovane che ha scommesso sul ritorno alla natura, mattoidi e rari bambini. Niente treno, collegamenti scomodi, strada secondaria. Prospettive di carriera zero. Una tomba. Insomma, nessuno accettava. Così alla fine sono stati costretti a prendere Yaya.

se fornire a ogni animale una scheda comportamentale dettagliata, simile a quella che ha una lavatrice. Non dico che un animale è una macchina, sono troppo elementari le nostre macchine; dico però che hanno una scheda programma completa. Anche un essere umano ha una scheda, quando nasce sa varie cose, gridare se ha fame, che significa usare il fiato per produrre un suono, come se uno nascesse sapendo suonare la tromba; poi sa succhiare, cioè creare tra la lingua e il palato un vuoto pneumatico in modo da far defluire il latte dal seno o dal biberon; che, se lo si dovesse insegnare, sarebbe lungo e difficile, e intanto il neonato morirebbe di fame. E poi? e poi la scheda non dà molte altre istruzioni precise. Per camminare a due zampe ci vuole un addestramento, altrimenti l’umanità gattonerebbe, cioè saremmo quadrupedi approssimativi.

in qualsiasi condizione e su qualsiasi pianoforte che gli capita a tiro, ma si direbbe che vada ricercando di proposito i modi per degradare e contaminare il suono, quasi voglia rimarcare tutto ciò che lo differenzia dal fratello. «Studiare» è un verbo sconosciuto nel lessico di Alfredo, per lui l’esecuzione risulta più genuina alla sua prima lettura dello spartito insieme al pubblico. Sua madre nei primi tempi trascorreva ore a ripulire il pianoforte dopo ogni esecuzione di Alfredo, per togliere la cenere dei sigari, i cerchi dei bicchieri, i frammenti di pizza, le pelli di salame, le bucce di banana, una volta persino le mutandine di una devota fan. Allergico alle teorie e ai rituali che pretendono di fare della musica una religione e degli interpreti i sacerdoti consacrati al suo culto, reagisce con gesti di pura provocazione, come quella volta che raccattò una prostituta che batteva nel parco di fronte al Conservatorio e la

fece sedere accanto a sé sullo sgabello durante il concerto, chiedendole di voltare di tanto in tanto le pagine di uno spartito immaginario. O quando, non riuscendo a regolare l’altezza dello sgabello, lo scagliò dietro le quinte e suonò la ballata numero 3 di Chopin inginocchiato. I cronisti propendono tutti per Alfredo, disposti a perdonargli ogni eccesso, scrivono che nelle sue esecuzioni soffia lo spirito vitale, che l’ascoltatore condivide il germinare dell’idea musicale allo stato nascente, sostengono che sotto le sue mani spartiti imbalsamati da troppe esecuzioni canoniche tornano a nuova vita. La verità è che la purezza e la tendenza all’esecuzione assoluta, tipiche di Aldo, intimidiscono quando non fanno paura. E poi, come si fa a raccontare la perfezione? Il pubblico invece è nettamente diviso in due fazioni, i partigiani di Aldo non possono soffrire quelli di Alfredo e viceversa. Le discussioni feroci

fra i componenti dei due clan alimentano il mito dei fratelli Ambrosio e più di un osservatore è arrivato a sospettare che la rivalità tra i fratelli sia frutto di un’abile campagna di marketing. Io che ho la fortuna di conoscere e di frequentare entrambi, per la verità più Alfredo che l’inarrivabile Aldo, posso garantire che non è così: solo con la somma dei pregi e dei difetti dei due fratelli si otterrebbe un pianismo perfetto, così restano due metà incomplete. L’amico vuole sapere della voce che ha preso a circolare: sarebbe imminente l’annuncio che suoneranno insieme. Gli ho assicurato che noi amici di entrambi i fratelli faremo di tutto affinché il sogno si realizzi. Pezzo forte sarà la celebre Sonata in Re Maggiore per due pianoforti Kv 448 di W.A. Mozart. Per convincerli faremo leva sul desiderio della mamma di vederli insieme sul palco almeno una volta prima di morire.

I requisiti – laurea, specializzazione, esperienza – ce li aveva, ma la sua domanda era stata scartata. Yaya, alta, dalla voce stentorea, originaria dell’Africa occidentale, è veramente nera. Aveva prevalso il timore che fosse troppo nera. Ma risulta simpatica. Sulla quarantina, parla un italiano elegante, con un seducente accento francese, e ha un sorriso contagioso. Avrebbe una storia istruttiva da raccontare (è arrivata dal Togo via Libia su un barcone, incinta e sola, la sua richiesta di asilo è stata accolta ma ha vissuto anni nell’indigenza e solo Dio, lei dice, l’ha salvata), ma tutti si limitano a notare i suoi denti perfetti e candidi, le forme e la statura: il corpo ingombrante di femmina. Yaya prende possesso dello studio con gioia irrefrenabile. Nonostante sia in Italia da vent’anni, questo è il suo pri-

Per tutto il resto ci vuole l’insegnamento; innanzi tutto per il linguaggio. Sulla scheda mentale c’è solo un trattato di fonologia e una grammatica universale, che cioè va bene per ogni lingua. Ma poi qualcuno deve insegnarti una lingua, inglese, francese, nessuno nasce con l’inglese innato; ci vogliono anni. Ma poi con la lingua si possono insegnare tante altre cose, cioè pressoché tutto. Per questo siamo sociali, perché dobbiamo imparare. Un essere sempre vissuto in solitudine forse al massimo saprebbe portarsi il cibo alla bocca, ma non distinguere il cibo buono da quello cattivo, per cui masticherebbe anche i sassi, la paglia, e si estinguerebbe. E se nessuno gliel’ha spiegato non credo che un uomo o una donna indovinerebbero la complicata tecnica dell’accoppiamento. Ossia nella romantica ipotesi di un giovanotto e una ragazza abbandonati nu-

di e da soli su un’isola, se non hanno avuto istruzioni precise dai compagni di classe, dal sessuologo, o da un filmino porno, è molto probabile che non arrivino ad accoppiarsi; saranno in smania, ci saranno erezioni generiche e inspiegabili, perché nella scheda programma sono previste automaticamente, ma poi è difficile immaginare dove il membro va messo, sotto un’ascella? Tra i cespugli di un eucalipto? Quindi più probabile il giovanotto si sbagli; essendo già nudi neppure la curiosità per le parti celate lo guida, l’olfatto è debole; siccome sanno più o meno parlare i due si consulterebbero, potrebbero intendere la fregola come un prurito, ognuno se lo risolverebbe da solo, perché in genere a un prurito noi si rimedia grattando. Un cavallo annusa, sale sulla cavalla e fa i movimenti che ha nel programma. Un giovanotto invece nel programma non ha

niente di preciso, girerebbe attorno alle palme, tenterebbe anche con una noce di cocco, che è sbagliato, notoriamente, neppure nei siti porno più estremi si impiega una noce di cocco, che è problematica, non ha ingressi, anche nel caso la ragazza venisse in aiuto e tentasse di manovrarla, ma sull’isola c’è poco altro, c’è molta sabbia, ci sono i granchi, questi meglio però lasciarli stare, che non venga in mente a lui o a lei di usarli per grattare il prurito, su certe isole ci sono granchi capaci di rompere le noci di cocco con le pinze, se applicati al prurito sarebbe una carneficina. Quindi la razza umana, non ci fosse una didattica porno specifica, non ci fossero i compagni di scuola che spiegano ed esemplificano nel chiuso riservato dei cessi scolastici, che sono luoghi dove si apprendono i fondamenti della cultura, la razza umana si estinguerebbe.

mo lavoro nel pubblico: finora ha trovato impiego solo a contratto, in qualche RSA.

Alla fine del primo giorno la segretaria la trova pietrificata alla scrivania, lo sguardo fisso sullo schermo del computer. Non me lo merito, dice. Vorrebbe piangere, ma si controlla. Esce in dignitoso silenzio. La spiegazione rimbalza dal bar ai social. Si sono già cancellati in dieci dall’elenco: non si faranno mai curare da una negra.

Di solito nello studio c’è la ressa. Molti residenti sono invalidi o malati cronici. Sono anche soli e lì si incontrano, trovano attenzione. Invece, nelle prime settimane, dalla dottoressa Yaya non viene quasi nessuno. Solo i disperati che hanno urgenza di una ricetta e non sanno usare la posta elettronica. Visite a domicilio nemmeno richieste. Yaya

chiede consiglio alla segretaria. Forse dovrebbe appendere la sua laurea sul muro? Non l’aveva fatto per non toccare le cose della dottoressa Carla. Ne ha due. Una presa in Togo, prima della fuga. L’altra all’università di Torino. Aiuterebbe, ammette la segretaria, mortificata. L’ostilità si manifesta con paroline, sussurri, proteste. Chi critica l’incompetenza, chi l’odore. C’è chi chiede verifiche alle autorità competenti, come se Yaya fosse un impostore. Yaya resiste tre mesi, poi rassegna le dimissioni. Non sono pronti, spiega alla segretaria, non riescono ad accettare che proprio una negra sia la persona che può salvargli la vita. Ci vorranno anni, ma io vivo qui adesso, e non posso aspettare. Alla ASL cercano di dissuaderla. Minimizzano. Le suggeriscono di cercare di capirli. Sono vecchi. Non

abituati. Le nere le accettano come badanti, che gli puliscono il sedere, o peggio, quando si vendono sulla statale per dieci euro. Ma hanno bisogno di lei, non li abbandoni. Yaya torna a casa dubbiosa e arrabbiata, chiedendosi perché sia lei a doversi sentire in colpa.

Al funerale della dottoressa Carla piangono tutti, anche Yaya. Spero che le diano il posto da titolare, le dice il figlio. Sa, quarant’anni fa, quando arrivò mia madre, fu la stessa cosa. Non volevano farsi curare da una donna. Sapesse i rospi che ha dovuto ingoiare. Ma era brava. E ce l’ha fatta. Ora tocca e lei. Non si arrenda. Le cose cambiano.

La dottoressa Yaya è rimasta. Lei dice: il giuramento di Ippocrate. Non potevo violarlo. Non sono miei nemici. Ma anche se lo fossero, io li curerei. E li curerò.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 9 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 27 CULTURA / RUBRICHE ◆ ●
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Come far fiorire le orchidee regolarmente: una volta che lo stelo è sfiorito, reciderlo 2 cm sopra il secondo ispessimento. Bagnare e concimare la pianta per sei settimane e successivamente porla per circa 20 settimane in un luogo fresco (15 gradi) e luminoso. Quando il nuovo stelo di fiori raggiunge una lunghezza di 20 cm, si può riportare la pianta in soggiorno.

Phalaenopsis, 2 steli disponibili in diversi colori, in vaso, Ø 12 cm, per es. bianche, il vaso

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