Azione 04 del 23 gennaio 2023

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Le sfide che attendono Elisabeth Baume-Schneider in materia di asilo e di libera circolazione

ATTUALITÀ Pagina 19

Senza filtro non mi piaccio

Si riguardi, signor Bonafede

Cercando di metabolizzare la notizia della cattura di Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa Nostra rimasto in latitanza per un trentennio, ho pensato al personale medico che si è occupato di lui nella clinica La Maddalena a Palermo. Ho immaginato l’infermiere, o più probabilmente l’infermiera, che l’accompagnava alla chemio. Me la sono raffigurata come una donna paziente che si prendeva cura con scrupolo e delicatezza dell’individuo che ai suoi picciotti confidava che avrebbe potuto riempire un cimitero con i corpi delle vittime che aveva ucciso di persona. Lo stesso uomo che durante la cura condivideva il numero di telefono con le signore che affrontavano accanto a lui la chemioterapia. Perché c’è una solidarietà segreta tra chi soffre dello stesso male e non c’è bisogno di sapere chi sei e di quali meriti o delitti sei portatore, per solidarizzare e condividere in silenzio i brividi della malattia e il timore della morte.

E lei, ignara, magari lo teneva per mano, chiedendogli «come sta oggi, signor Bonafede?» (Andrea Bonafede è il nome del signore a cui

il boss ha preso in prestito l’identità). Intanto, vigilava coscienziosa sulle macchine. Verificava che tutto filasse liscio, tranquillizzandolo con il contegno nobile dei migliori operatori sanitari che spiegano calmi il programma terapeutico, e preparano i pazienti agli eventuali effetti collaterali: «Non si spaventi se le succede questo o se proverà quest’altro, poi tutto torna come prima». Carezzevole e rassicurante con il tizio che – tra altre mostruosità – aveva fatto strangolare e sciogliere nell’acido un bambino di 12 anni. Sarebbe bello sapere come si sente oggi, quell’infermiera. Cosa pensa del signor Bonafede, lei che probabilmente si sobbarca turni infiniti e quando torna a casa avrebbe solo voglia di una doccia e lenzuola fresche, ma – tolto il grembiule verde-azzurro – attacca con le pulizie del monolocale o col turno non remunerato di mamma e moglie a tempo parziale. Perché c’è una vita fuori dalla clinica, da single o col marito affamato e i figli che girano attorno al tavolo rispondendo a monosillabi. Eppure, in un qualche modo, quella vita di corsa riem-

pie di senso i suoi giorni e la fa brillare nel buio della fatica.

«Madonna santa!», avrà pensato. «Guarda chi ho aiutato. Pensare che sembrava così… normale, come quasi tutti i malati oncologici: incerti e fragili. E invece…»

O forse no, forse per lei, l’anonima infermiera della clinica La Maddalena, un paziente è un paziente e non cambia nulla se nella vita è stato un santo o un assassino. È un problema suo. «Io in coscienza lo curo, poi s’arrangi lui con la propria, di coscienza». Perché le persone oneste ragionano così, non sono capaci di meschinerie. Fanno quello che va fatto anche se gli tocca far del bene a un farabutto.

Continuando questo sogno a occhi aperti potremmo chiederci se proprio il finale di corsa, la cattura in ospedale, non potrebbe avere incrinato il mostro a tutto tondo che ci descrivono i giornali. Non è un’ipotesi buonista o misericordiosa. È, o meglio, sarebbe, uno splendido contrappasso, una lezione che per un uomo come lui equivale a una pugnalata morale, la dimo-

I dipinti murali del Battistero di Riva San Vitale sono stati valorizzati da un importante restauro

CULTURA Pagina 29

strazione che trenta o quarant’anni di lussi ed efferati eccessi non valgono un minuto della vita «normale» della sua infermiera.

È stato «tradito» dal cancro, dicevano in molti lunedì scorso, perché soltanto una realtà che sfuggiva al suo spropositato dominio poteva metterlo in scacco e consegnarlo alle forze dell’ordine. Soltanto un male di questo tipo riusciva a terrorizzare chi aveva fatto del terrore la propria arma di ricatto sul mondo. Alla fine, quindi, ha vinto il più forte e anche lui si è dovuto chinare alla tenacia inossidabile degli inquirenti e al progredire anarchico delle metastasi. Da questa sconfitta potrebbe imparare qualcosa. Non la consapevolezza del male che ha fatto (è troppo tardi), ma la scoperta del bene che esiste in modo disinteressato, tra gente comune che campa a schiena dritta e può guardare serenamente negli occhi un boss della mafia per dirgli «Si riguardi, signor Bonafede», prima di andare a casa, felice della propria stanchezza, ad abbracciare i propri sogni e le persone amate.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 Cooperativa Migros Ticino edizione 04 ◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
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MONDO MIGROS
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TEMPO LIBERO Pagina 13 In Più grande di noi lo scrittore Raul Montanari racconta la sua passione per la pesca a mosca
SOCIETÀ Pagina 6 La zona di Valera a Mendrisio tornerà ad essere verde a beneficio di popolazione e agricoltura
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Simona Ravizza
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pexels.com

Il Gruppo Migros realizza nel 2022 un fatturato record

Nel 2022, il Gruppo Migros ha generato un fatturato record di oltre CHF 30 miliardi. Il principale fattore trainante è stata la ripresa in quei settori che più hanno risentito della pandemia, in primo luogo le attività legate ai viaggi, al tempo libero e alla gastronomia. Anche l’incremento costante nel settore online ha contribuito a questo sviluppo. Come previsto, dopo gli ottimi risultati degli anni segnati dal Covid, il commercio al dettaglio stazionario ha registrato una leggera flessione. Nel complesso, il Gruppo Migros ha consolidato la sua posizione di leader di mercato nel commercio al dettaglio svizzero, sia stazionario che online.

L’anno d’esercizio 2022 del Gruppo Migros è stato caratterizzato da una normalizzazione dell’andamento congiunturale. Dopo la revoca delle restrizioni per il coronavirus si sono ridotti gli effetti straordinari degli esercizi precedenti e con essi anche gli elevati fatturati dovuti alla pandemia nel settore degli alimentari e degli articoli per la casa. Tale sviluppo è stato avvertito soprattutto dal commercio al dettaglio stazionario. Il commercio online, caratterizzato già negli esercizi precedenti da elevati tassi di crescita, ha continuato a registrare un andamento positivo. Inoltre, l’allentamento delle restrizioni e un forte desiderio di recupero da parte della clientela hanno favorito la ripresa delle attività legate ai viaggi, al tempo libero e alla gastronomia. Il fatturato del Gruppo Migros ha registrato nuovamente un aumento e, per la prima volta nella storia del gruppo, ha superato la cifra record di 30 miliardi di franchi.

«Il Gruppo Migros è riuscito a evolversi con successo in un anno difficile, consolidando la sua posizione di numero 1 del commercio al dettaglio svizzero. Il buon risultato è merito delle nostre collaboratrici e dei nostri collaboratori in Svizzera e all’estero, che si sono impegnati ogni giorno con grande passione per il benessere e le necessità della nostra clientela», afferma Fabrice Zumbrunnen, presidente della Direzione generale della Federazione delle cooperative Migros.

Crescita vigorosa del segmento online e fatturato del commercio al dettaglio stabile Il fatturato del Gruppo è aumentato del 3,9% raggiungendo una cifra di 30,069 miliardi di CHF: un nuovo record. Con 23,115 miliardi di franchi, il fatturato nel commercio al dettaglio in Svizzera è rimasto stabile rispetto all’esercizio precedente (–0,2%). Nell’e-commerce, la Migros ha nuovamente registrato un forte incremento e rafforzato la sua posizione di leader del mercato svizzero. Nel

complesso, il fatturato nel commercio online ha compiuto un balzo in avanti del 15,3%, attestandosi a 3,737 miliardi di franchi; il fatturato del supermercato Migros online ha avuto una leggera flessione rispetto al forte incremento registrato nell’esercizio precedente (–0,7%), chiudendo a quota 328 milioni di franchi. Digitec Galaxus, il principale grande magazzino online della Svizzera, ha nuovamente registrato una forte crescita del 7,4%.

Commercio al dettaglio delle cooperative

Il fatturato netto delle dieci cooperative regionali Migros, comprese le affiliate, ha raggiunto i 15,901 miliardi di franchi, di cui 1,384 miliardi di franchi sono stati generati dalle attività all’estero. Come previsto, il fatturato generato dalle cooperative è rimasto al di sotto di quello dell’esercizio precedente (–2,0%), a causa del normalizzarsi della domanda in seguito alla cessazione delle misure contro il coronavirus.

I supermercati e gli ipermercati, compreso Migros online, hanno conseguito in Svizzera un fatturato di 12,276 miliardi di franchi, in leggera flessione rispetto all’esercizio precedente (–3,1%). Rispetto all’esercizio precedente la frequenza dei clienti nei supermercati e ipermercati è aumentata (+5,5%), si è ridotto tuttavia il paniere di merci per acquisto.

Nel 2022, i mercati specializzati Micasa, SportXX, Bike World, Do it

+ Garden, Melectronics e OBI hanno avvertito l’attenuazione della domanda di consumi. Dopo il balzo in avanti degli anni della pandemia da coronavirus, il fatturato è diminuito del 6,7%, attestandosi a 1,612 miliardi di franchi. La gastronomia, colpita negli anni precedenti dalle chiusure e restrizioni dovute alla pandemia, è riuscita a incrementare i fatturati del +46,5%, raggiungendo un risultato di 577 milioni di franchi.

Dipartimento Commercio: ancora in crescita

Il Dipartimento Commercio ha aumentato il proprio fatturato del 4,9%, salendo a 8,582 miliardi di franchi. Dopo la già forte crescita dei due esercizi precedenti, nel 2022 diverse imprese commerciali del Gruppo sono riuscite nuovamente a migliorare notevolmente il fatturato. Il fatturato del negozio online Digitec Galaxus, ad esempio, è aumentato del 7,4% fino a 2,206 miliardi di franchi, fondamentali a tale riguardo sono stati l’incremento ancora molto soddisfacente in Svizzera e gli elevati tassi di crescita in Germania (+78,6%). Il discount Denner è riuscito a incrementare le sue quote di mercato in un mercato globale in flessione, restando tuttavia, con un fatturato di 3,686 miliardi di franchi, al di sotto dell’anno precedente (–3,2%). Il fornitore del settore Convenience migrolino ha continuato a sviluppare con successo il suo percorso di crescita, raggiungendo un fatturato di 784

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

milioni di franchi (+5,1%). Grazie al forte aumento del prezzo del petrolio, Migrol ha incrementato il fatturato del 23,7% fino a 1,794 miliardi di franchi.

Migros Industrie: forte sviluppo all’estero Grazie alle sue imprese industriali, la Migros è uno dei maggiori produttori mondiali di marche proprie, inoltre fornisce prodotti anche a numerosi clienti terzi in Svizzera e all’estero. Nel 2022 Migros Industrie ha registrato una lieve crescita complessiva, raggiungendo i 5,786 miliardi di franchi (+0,7%): una crescita, questa, trainata dal forte sviluppo sui mercati esteri.

Hotelplan Group: forte desiderio di recupero

partire da Fr. 70.–

Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano

Salute:

in crescita

dopo l’allentamento delle misure contro il coronavirus

Il settore di attività Salute – Gruppo Medbase, Fitness (movemi), Bestsmile e Misenso – ha incrementato il proprio fatturato del 18,9% fino a 746 milioni di franchi. Nell’ambito di questo settore il Gruppo Medbase ha continuato il proprio percorso di forte crescita dell’esercizio precedente, raggiungendo i 523 milioni di franchi (+6,7%). Oltre a una crescita organica in tutti i settori di attività, hanno contribuito a tale sviluppo anche le acquisizioni. L’impresa nuova di servizi di fitness Movemi con i offerte fitness della Migros, ha regi-

Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch

Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Alimentata dall’allentamento delle restrizioni agli spostamenti e da un forte desiderio di recuperare, la propensione a viaggiare è decisamente aumentata a partire dalla primavera. I due marchi Hotelplan e Vacanze Migros hanno registrato nei mesi di luglio e agosto complessivamente più prenotazioni rispetto allo stesso periodo del 2019. Il servizio di intermediazione di case vacanza Interhome ha concluso il 2022 con il risultato migliore dei 57 anni di storia dell’azienda. In totale, Hotelplan Group ha registrato un fatturato netto di 1,435 miliardi di franchi (+122,5%). L’operatore turistico comunicherà nel dettaglio le proprie cifre d’affari il 26 gennaio 2023.

Banca Migros

La Banca Migros pubblicherà il suo risultato d’esercizio dettagliato il 24 gennaio 2023.

Conferenza stampa sul bilancio

La conferenza stampa sul bilancio della Federazione delle cooperative Migros (FCM) avrà luogo martedì 28 marzo 2023 a Zurigo.

Editore e amministrazione

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2
strato, insieme alle altre offerte fitness della Migros, un ottimo incremento del 23,2%.
Info Migros ◆ Si è registrata una forte ripresa in quei settori che hanno maggiormente risentito della pandemia, dunque soprattutto viaggi, tempo libero e gastronomia
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– / Estero a
azione
Redazione
Carlo Silini (redattore responsabile) Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni

Il futuro di Valera è verde

Il progetto di riconversione dell’area è stato approvato: sarà destinata allo svago e all’agricoltura

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La frontiera italo-svizzera

Il saggio La linea sottile di Francesco Scomazzon è dedicato al ventennio 1925-1945

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Liberiamoci dai filtri

La scienza già si spinge oltre

Nei nuovi esperimenti si mescolano organi, cellule e geni non solo tra animali ma tra uomo e animale

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Contro le isole di calore

In Ticino si cercano soluzioni nei centri urbani per far fronte alle prossimi stagioni canicolari

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Swipe da sinistra verso destra, si apre la fotocamera di Instagram, poi basta scorrere con il dito verso destra per vedere uno dopo l’altro i filtri: premendo il pulsante Cerca effetti c’è di tutto e di più per ritoccare la propria foto, eliminare le occhiaie, rendere la pelle senza un brufolo, gli zigomi rialzati e la bocca che neanche Jessica Rabbit. Maschi e femmine: ciascuno può trovare il filtro che preferisce e ci sono buone probabilità che i nostri figli che hanno uno smartphone quest’operazione la facciano abitualmente. Su Instagram oppure su TikTok o Snapchat. Di qui una sfida che a Il caffè delle mamme consideriamo prioritaria: aiutare gli adolescenti a imparare ad accettarsi senza i filtri social.

In una recente intervista ad «Azione» lo psicologo Dario Gennari spiega alla collega Stefania Hubmann che gli Gen Z corrono un rischio di scollamento fra immagine e realtà: abituati a manipolare le proprie foto prima di postarle, come possono poi accettarsi nella vita quotidiana senza gli effetti speciali che forniscono i social per eliminare i difetti e sembrare più belli? Io non avevo mai riflettuto

sull’importanza della cosa finché mi sono imbattuta per lavoro in una ricerca appena pubblicata dall’Università Vita Salute San Raffaele di Milano. Il titolo, Satisface, ruota intorno alla domanda: «Sono soddisfatto abbastanza del mio viso?». L’interrogativo è stato rivolto a un campione di 120 12-16enni dai ricercatori del Centro universitario di Statistica per le scienze biomediche, all’interno della facoltà di Psicologia e diretto da Clelia Di Serio, che ha progetti in corso anche con l’Università della Svizzera italiana. Il risultato ci dice che più i nostri figli stanno sui social, più manipolano gli scatti che li ritraggono e meno sviluppano autostima: una foto la possono rifare anche più di 10 volte prima di considerarla adatta a essere postata e usano abitualmente filtri per migliorare il proprio aspetto fisico con ricadute importanti sulla considerazione di sé nella vita fuori dai social.

Così a Il Caffè delle mamme abbiamo deciso di invitare Alessia Lanza, 22 anni, una delle creator più apprezzate proprio dagli Gen Z, che la seguono in 5 milioni. L’occasione è l’uscita lo scorso 29 novembre del libro

autobiografico Non è come sembra (ed. Mondadori Electa) in cui spiega esattamente cosa vuol dire per un adolescente manipolare la propria immagine spinto dall’ansia da like: «C’è stato un periodo, non molto tempo fa, in cui non riuscivo a postare foto sui social del mio profilo destro, perché si vedeva un neo che odiavo. Ma non era l’unico mio difetto che non sopportavo: cercavo di coprire, con i filtri di Instagram, anche l’asimmetria degli occhi. Mi truccavo moltissimo. Volevo che nelle foto scomparissero tutte le mie imperfezioni, altrimenti sarei sembrata una strega: storta per la scoliosi e pure con il neo sul naso. Così dovevo fare tantissimi scatti prima di trovarne qualcuno che mi convincesse davvero. Era diventata una sorta di ossessione e di missione, passavo ore a scattare e a controllare come ero venuta. Non mi piacevo quasi mai e ricominciavo. Più foto scattavo e meno mi piacevo, meno mi piacevo e più foto scattavo… e via così, in un circolo esasperante e infinito».

Dopo avere sperimentato in prima persona lo scombussolamento che l’effetto-filtri può creare, la creator ac-

cetta di diventare portavoce a Il caffè delle mamme di un messaggio controcorrente che, tramite lei, possiamo girare ai nostri figli: «Liberiamoci dai filtri, quel che conta davvero sono la semplicità e la spontaneità». Dice Alessia ad «Azione»: «È un po’ come quando hai una giornata “no” dove non ti piaci, non riesci a guardarti nemmeno allo specchio e qualcuno ti dice “ma smettila che stai bene/sei bella”. Per quanto possa farti piacere, è inutile: non è un commento che ti fa cambiare l’idea di te in quel momento. Finché non ti piaci tu, il resto non è importante. Ma si sa. Lo stesso discorso vale per i filtri: io anni fa li utilizzavo, appena usciti, perché sostanzialmente andavano a togliere le imperfezioni ed era quello a cui ambivamo un po’ tutti, essere perfetti e giusti gli occhi degli altri». All’inizio sembra quasi un gioco, ma di lì a poco l’ influencer capisce che non è così: «Quando qualcun altro mi chiedeva di fare una storia e il filtro non c’era mi innervosivo – confessa –. Con i filtri ti crei un’idea di te che non esiste e peggio ancora chi ti segue ti prende a modello». Di qui l’elaborazione,

anche grazie al suo manager e a una psicoterapeuta, che qualcosa non va: «Non ero io, anche perché pian piano i filtri nelle storie Instagram, e parlo di questi perché nelle foto non ho mai avuto questa fissazione, sono diventati sempre più finti, facevano la bocca più grande, gli occhi più chiari e stavo iniziando a piacermi solo nello schermo del mio telefono e non più allo specchio. Ti crei un’autostima sui social, ma una grandissima insicurezza nella realtà e questo è pericoloso, specialmente per chi è più piccolo».

La sua decisione, allora, è di togliere ogni cosa: i filtri dalle storie Instagram e i filtri colorati da TikTok. A sorpresa Alessia scopre che il suo successo non diminuisce, anzi: i video che vanno di più sono i più semplici, poco trucco e outfit come pigiami o tute. «I filtri ci allontanano dalle persone e da noi stessi perché arrivi ad un punto dove non sai più chi sei davvero – ribadisce Alessia –. Credo poi che essi diano soddisfazione solo sul momento, ma a lungo termine lasciano solo insicurezza». Un messaggio che, pensiamo a Il caffè delle mamme, è importante condividere con i nostri figli.

SOCIETÀ ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
Ritoccare la propria foto con i filtri prima di postarla crea soddisfazione sul momento ma c’è il rischio di non piacersi più nella vita fuori dai social. (Pexels.com) Il caffè delle mamme ◆ Una recente ricerca evidenzia che più i ragazzi manipolano gli scatti che li ritraggono meno sviluppano autostima: ne abbiamo parlato con la giovane creator Alessia Lanza Simona Ravizza

Il latte regionale biologico drink

Novità ◆ La bevanda fresca ticinese bio è ora disponibile anche nella variante a ridotto contenuto di grasso

«La nostra azienda possiede un’ottantina di vacche lattifere, delle quali ognuna produce tra i 20-25 litri di latte al giorno. Le principali razze allevate sono la bruna, la holstein e la pezzata rossa svizzera, esemplari particolarmente rinomati per la quantità e la qualità del latte prodotto», spiega Adrian. «Il foraggio è composto perlopiù da erba fresca e fieno – loietto ed erba medica – della nostra azienda, il quale viene completato in minima parte da concentrato di farine di frumento, mais, soia e insilato di mais, tutti certificati Bio Suisse».

Il nuovo latte fresco ticinese «drink» bio è ora in vendita insieme alla variante «intero»

Dopo il latte fresco ticinese biologico intero, lanciato con successo nel 2020, nei reparti latticini di Migros Ticino è ora arrivata la versione drink parzialmente scremata, vale a dire con un contenuto di grassi di latte del 2,6% (rispetto al 3,8% dell’intero), pertanto indicato per chi è particolarmente sensibile a tale sostanza.

Un’azienda di lunga tradizione Uno dei principali produttori ticinesi di latte bio è Adrian Feitknecht di Cadenazzo, che dal 2016 gestisce alla terza generazione l’azienda agricola di famiglia Masseria Ramello di Cadenazzo attiva fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Convertita totalmente alla produzione biologica da sei anni, oltre all’allevamento bovino la fattoria si occupa anche di campicoltura, foraggicoltura e allevamento suino.

Bontà e benessere quotidiani

Pioniera nei prodotti salutari, l’azienda italiana Galbusera offre ai consumatori snack, biscotti, cracker e fette biscottate che uniscono in modo armonioso bontà e benessere. Tutti i prodotti sono realizzati a partire da ricette equilibrate e con l’impiego delle migliori materie prime ottenute nel rispetto dell’ambiente. Galbusera utilizza farine poco raffinate che mantengono intatte le proprie caratteristiche e la ricchezza di nutrienti. L’azienda è stata una delle prime a impegnarsi nel miglioramento della quantità e qualità dei grassi nei suoi prodotti, per esempio scegliendo di non impiegare oli e grassi idrogenati che possono aumentare il livello di colesterolo nel sangue. Già a partire dagli anni ’90 vengono lanciati sul mercato alcuni prodotti contenenti esclusivamente oli vegetali, come quello di mais, mentre, a partire dal 2017, sostituisce quest’ultimo con

olio di girasole alto oleico. Altre specificità sono l’utilizzo di uova fresche italiane da allevamento a terra, sale marino integrale ottenuto da evaporazione dell’acqua di mare e l’impiego di grano 100% italiano. Inoltre, tutti i prodotti Galbusera sono esenti da olio di palma, ogm, emulsionanti di sintesi, conservanti e coloranti.

A ognuno il suo Nei maggiori supermercati di Migros Ticino sono disponibili oltre dieci articoli del marchio Galbusera, declinati in biscotti, wafer, cracker e frollini. Dai prodotti Zero Grano senza glutine né lattosio ai Buoni Così senza zuccheri aggiunti; dai Magretti a grassi ridotti ai leggerissimi Riso su Riso fino ai Più Integrali 100% integrali e ricchi di fibra… ognuno troverà il proprio prodotto da gustare in ogni momento della giornata.

Le vacche in estate sono libere di pascolare sui prati intorno all’azienda, mentre durante la stagione invernale dispongono di una corte esterna alla stalla sempre accessibile. La mungitura degli animali avviene attualmente ancora in modo meccanico due volte al giorno, al mattino presto e verso sera. «Grazie a importanti investimenti, a partire dalla prossima primavera potremo far capo a un «robot di mungitura», nel quale gli animali potranno entrare volontariamente per farsi mungere anche 3 o 4 volte al giorno secondo le necessità», aggiunge Adrian Feitknecht.

Il latte viene consegnato fresco alla LATI di S. Antonino, situata a pochissimi chilometri dall’azienda agricola, che mediante un moderno impianto lo sottopone a doppia bactofugazione, omogeneizzazione, pastorizzazione e, infine, al suo confezionamento.

Il nuovo latte fresco bio drink è disponibile da subito nella maggior parte dei supermercati in una pratica confezione con tappo richiudibile. Oltre al marchio dei Nostrani del Ticino, sul cartone compare anche il marchio con la «gemma» che contrassegna tutti gli alimenti biologici certificati secondo gli standard di Bio Suisse.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Attualità ◆ Il marchio Galbusera è da oltre 80 anni sinonimo di prodotti studiati per un’alimentazione equilibrata
Azione 20% Su tutti i prodotti Galbusera dal 24.1 al 30.1.2023
Latte fresco ticinese biologico Drink 2,6 % grasso di latte 1 l Fr. 2.–Flavia Leuenberger Ceppi
Adrian Feitknecht della Masseria Ramello di Cadenazzo.

Crema di pistacchio DOP

Crema di pistacchio di Bronte DOP 200 g Fr. 8.90

In vendita nelle maggiori filiali Migros

I più golosi non potranno più farne a meno! La nuova crema spalmabile al pistacchio «Piaceri Italiani» è prodotta con il famoso pistacchio verde di Bronte DOP (Denominazione di Origine Protetta). Una specialità vellutata e cremosa irresistibile su pane, fette biscottate, crostini, oppure è ideale per arricchire dessert, torte, crostate, gelati, yogurt e molte altre creazioni… o semplicemente così com’è, al cucchiaio direttamente dal vasetto. Questo prodotto di eccel-

lenza racchiude tutta l’essenza della Sicilia, grazie all’utilizzo del pistacchio certificato DOP coltivato ai piedi dell’Etna, dove il fertile terreno vulcanico dona al prodotto le sue straordinarie caratteristiche apprezzate in tutto il mondo. Con il suo aroma dolce e delicato senza eguali, la consistenza carnosa e il suo inconfondibile colore brillante smeraldo non c’è da meravigliarsi se questo frutto sia conosciuto anche con il nome di «oro verde».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 5 Hai bisogno di smaltire le abbuffate festive? Ora 100.di sconto!
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Finalmente Valera torna a verdeggiare

Territorio ◆ Il Mendrisiotto potrà recuperare un importante spazio a beneficio degli abitanti e dell’agricoltura. Una scelta importante che risponde alle richieste della popolazione formulate in una petizione nel 2012

Campagna Adorna. Potrebbe essere il titolo di una favola, quando le campagne del Ticino erano ancora inviolate. La piana del Mendrisiotto veniva definita adorna, abbellita dalla natura, campi fioriti, corsi d’acqua accompagnati da filari di piante. Storia passata, ormai la favola è finita. Il progresso ha avuto il sopravvento. Oggi il fondovalle è occupato da strade, autostrade, svincoli, capannoni, stabili industriali, officine, depositi, abitazioni di varia natura. Ma c’è stato anche di peggio. Fino al 2007 nella zona di Valera, un triangolo di terra tra i comuni di Rancate, Genestrerio e Ligornetto, erano stati costruiti una sfilza di depositi di idrocarburi. Benzina e nafta contenuti in una quarantina di serbatoi cilindrici enormi. Da una quindicina d’anni sono sparite le mastodontiche cisterne e si è cominciato a pensare a come utilizzare questi spazi.

Lo scorso settembre il Gran Consiglio ha approvato il progetto di riconversione del Comparto Valera e ha stanziato 16,9 milioni

Lo scorso settembre c’è stato un piccolo miracolo. Il Gran Consiglio ha approvato, con un solo voto contrario, il progetto di restituire agli abitanti del Mendrisiotto la piana di Valera all’originario carattere agricolo, creando un polmone verde bonificato e risanato. Si è giunti a questa decisione grazie alla complementarietà di alcuni fattori: la mobilitazione dei cittadini, della società civile, l’impegno delle autorità comunali e la volontà del Dipartimento del territorio. Bel risultato, frutto dell’ascolto, da parte delle autorità, degli interessi e dei bisogni della popolazione, cosa non sempre scontata.

Nel luglio del 2012 era stata consegnata a Bellinzona la petizione «Restituiamo Valera all’agricoltura» con 6850 firme, lanciata dal Comitato per il ritorno dell’agricoltura di Valera, composto dalla Società agricola del Mendrisiotto, dall’Unione Contadini Ticinesi e dai Cittadini per il territorio. I firmatari chiedevano in particolare che «il Cantone promuova la riconversione dell’intera area di Valera con lo scopo di restituirla all’agricoltura, che la bonifica dell’area sia finanziata dal Cantone e che le superfici agricole bonificate siano equamente ripartite fra le aziende agricole famigliari della regione che ne faranno richiesta».

Nello «Studio strategico Alto Mendrisiotto», pubblicato nel 2007 per promuovere le aggregazioni comunali, si legge: «Tra il 1985 e il 1997 sono scomparsi ben 140 ettari di territorio agricolo (ovvero il 14%), mentre

le superfici d’insediamento sono aumentate al ritmo di oltre 2 mq ogni dieci minuti. Ciò che preoccupa, in prospettiva, sono le riserve di terreni edificabili già oggi esistenti che consentirebbero il raddoppio della popolazione». I Cittadini per il territorio sottolineavano che a questa espansione urbana senza regole e senza coerenza pianificatoria bisognava porre un freno. Pure la Società agricola del Mendrisiotto esprimeva la preoccupazione «per l’enorme pressione esercitata dalla speculazione edilizia sul territorio agricolo. Anche il continuo aumentare del traffico nel distretto e il peggioramento della qualità di vita della nostra popolazione meritano maggiore attenzione».

La rivendicazione espressa dalla petizione era semplice e chiara: l’area di Valera era stata sottratta all’agricoltura per lo stoccaggio strategico di idrocarburi. Smantellata questa attività, «vale il principio che impone il ripristino della situazione originale, ossia un ritorno all’agricoltura».

«L’importante numero di firme raccolte fu il risultato della collaborazione tra Cittadini per il territorio e altre associazioni ambientaliste e gli agricoltori, – ci dice Grazia Bianchi, coordinatrice dei Cittadini – la popolazione ha sostenuto con convinzione la necessità di uno spazio verde sul fondovalle del Mendrisiotto, ma soprattutto si è opposta alle conseguenze negative che avrebbe avuto una nuova zona industriale nel cuore della Campagna Adorna».

Dall’inizio degli anni duemila si è cominciato a ragionare sul destino dello spazio che si sarebbe liberato con la rimozione dei serbatoi di idrocarburi. Poi nel 2009 e nel 2013 ci sono state le aggregazioni: Rancate, Ligornetto e Genestrerio sono diventati quartieri di Mendrisio. La Città ha sottoposto al Dipartimento del territorio (DT) una proposta di riqualifica che prevedeva una possibile edificazione nella zona alta. Il Dipartimento ha fatto un passo avanti, decidendo di destinare l’intero comparto a zona verde. «L’obiettivo per questo territorio – scrive il DT – è pertanto divenuto quello di riqualificare questa importante area libera per le funzioni agricole, naturalistiche e di svago per la popolazione». Si è così elaborato nel 2019 il «Piano di utilizzazione cantonale» (PUC) di Valera, che prevede un polmone verde di circa 190 mila metri quadrati complessivi, equivalenti a 27 campi da calcio.

Il PUC Valera può essere di esempio, perché propone un cambio di paradigma: porre la difesa e la valorizzazione del paesaggio, quindi l’interesse pubblico prima di quello privato. «Le aree libere da costruzioni e infrastrutture, – annota il rapporto –

3 notti con mezza pensione

contrariamente a quanto avveniva in passato, non possono più essere considerate come delle risultanze, dei resti di ciò che non viene occupato, ma vanno riconosciute come unità territoriali che meritano la massima attenzione e che vanno dunque pianificate con logiche che ne mettono in risalto il loro potenziale: elementi che strutturano il paesaggio, corridoi e habitat per flora e fauna, aree di svago di prossimità per la popolazione».

Il Cantone ha deciso a favore del bene comune in un contesto favorevole. Nel 2013 il popolo svizzero ha approvato la Legge federale sulla pianificazione del territorio e anche il Ticino l’ha sostenuta con 47’507 voti favorevoli contro 38’376 no. Una legge importante che impone una maggiore salvaguardia del paesaggio. Inoltre alla fine del 2014 è stata consegnata l’iniziativa «Spazi verdi per i nostri figli», promossa dai Cittadini per il territorio del Mendrisiotto assieme all’Unione dei contadini ticinesi e ad Agrifutura. Una proposta volta a modificare la Legge cantonale sullo sviluppo territoriale, proponendo di tutelare le zone verdi di fondovalle non edificabili e di trasformarle in zona agricola. «L’iniziativa Spazi verdi – ci spiega Ivo Durisch, primo firmatario dell’iniziativa – vuole dare la possibilità ad altre zone agricole o golenali nei fondovalle di tutto il Cantone di mantenere le loro attuali caratteristiche. È un’iniziativa importante per la tutela del nostro paesaggio, delle zone agricole e delle

5 notti con mezza pensione

zone di svago di prossimità. L’iniziativa è ferma nella Commissione ambiente e territorio, che ha designato una relatrice. A quanto mi è dato sapere il rapporto dovrebbe essere in dirittura di arrivo e mantenere pressoché intatto il testo dell’iniziativa. Auspico che il Parlamento voti l’iniziativa al più presto nell’interesse di tutta la popolazione, ma anche delle generazioni future».

Intanto, lo scorso settembre il Gran Consiglio ha approvato il progetto di riconvertire Valera. «Il PUC di Valera è un atto di coraggio civico, un atto di responsabilità morale nei confronti dei nostri figli. È un primo, concreto tentativo di salvare il salvabile, un pezzetto alla volta. Vuole essere un punto di svolta nel modo di concepire la pianificazione del territorio in Ticino. Vuole dire basta a soluzioni di compromesso, in cui è sempre il territorio a pagare il prezzo. Per una volta sono i cementificatori a perdere e il paesaggio e la popolazione a vincere». Non è l’argomentare di un ambientalista radicale, sono le parole di Claudio Zali, consigliere di Stato, che deve aver stupito parte dell’uditorio. «Va dato atto al Dipartimento del territorio, e al suo direttore, – ci dice Grazia Bianchi – di aver recepito l’importanza di mettere a disposizione dell’agricoltura e dello svago di prossimità un’area facilmente raggiungibile, sia con i mezzi agricoli sia in bicicletta e a piedi. Valera è parte integrante del Parco del Laveggio e molti abitanti della regione potranno

7 notti con mezza pensione

arrivare a Valera in pochi minuti, magari proprio lungo il fiume».

Valera è salva. La campagna Adorna, mortificata per decenni, può ricuperare un piccolo ma significativo spazio verde. Il progetto, dopo l’approvazione del Legislativo cantonale, era consultabile alla cancelleria del comune di Mendrisio fino al 20 gennaio. Un ultimo passo per poi cominciare a realizzare il polmone verde. Ci saranno, verosimilmente, delle vertenze giudiziarie per l’espropriazione di alcuni terreni. Poi si dovrà procedere all’abbattimento di costruzioni e alla bonifica dei terreni. Ci vorrà tempo prima di veder tornare verde tutta la zona. Il Gran Consiglio ha stanziato 16,9 milioni di franchi per finanziare queste opere. La legge sugli espropri prevede che il Consiglio di Stato possa pretendere l’anticipato possesso dei fondi, prima della stima e prima del pagamento dell’indennità, così da evitare eccessive perdite di tempo.

Anche Espace Suisse (già ASPAN) ha applaudito al risultato del processo che ha portato alla salvaguardia di Valera e si augura che «anche in altre parti del Cantone e in situazioni di una certa importanza ed entità, il Cantone si faccia parte attiva nel risanare scelte pianificatorie errate decise in passato e se ne assuma i costi». Se, come ha detto Claudio Zali in parlamento, la riconversione di Valera è un «punto di svolta» e un «primo tentativo di salvare il salvabile», il paese può solo sperare (o pretendere?) che ve ne siano altri in futuro.

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Gli accolti e i respinti sulla linea di confine

Pubblicazioni

L’attraversamento di un confine o di una frontiera è esperienza ordinaria: la associamo a sbarre, garitte, controlli, guardie occhiute. Ma se si va a scavare sotto la superficie dell’esperienza quotidiana si scopre una realtà stratificata, un cumulo di sedimenti ereditati dalla storia. Non per nulla, in questi ultimi anni, è tornata d’attualità la geopolitica, disciplina che intende proprio mettere in luce l’intreccio tra il dato spaziale e le strategie di volta in volta adottate dalle forze in contrasto: espansione o ripiegamento, guerre lampo o precipitose ritirate, campagne militari per accaparrarsi nuove risorse, oppure chiusure nel segno dell’autarchia.

A partire dal delitto Matteotti nel 1924 la frontiera diventa vieppiù una membrana destinata ad assorbire ogni provvedimento liberticida varato dal regime fascista nei confronti dell’opposizione

Che cos’è, allora un confine, queste cicatrici che attraversano i secoli? Per rispondere, lo storico Francesco Scomazzon nella sua ultima ricerca invita ad interrogare le relazioni italo-svizzere nel periodo che va dal 1925 al 1945: vent’anni, un periodo relativamente breve, ma densissimo di avvenimenti, di attori, di conflitti e drammi umani. A partire dal delitto Matteotti (1924), la frontiera diventa vieppiù una membrana destinata ad assorbire ogni provvedimento liberticida varato dal regime fascista nei confronti dell’opposizione. In principio fuggono gruppi di comunisti, socialisti e repubblicani, seguiti da un’umanità eterogenea, composta anche da disertori, renitenti alla leva, migranti in cerca di lavoro, delinquenti ricercati. Nel-

Viale dei ciliegi

Un mese dopo Natale è troppo tardi per segnalare un bel romanzo con il Natale nel titolo? No, certamente no, anche perché questo non è un bel romanzo di Natale, ma un bel romanzo. Tout court. E il colmo è che il Natale qui non c’entra niente, il titolo è una scelta dell’editore italiano (forse per richiamare i romanzi natalizi e di successo dell’autore, o forse perché effettivamente Miika vive a Elfhelm, tra elfi, renne e magia), ma il titolo originale è semplicemente Un topo chiamato Miika ( A Mouse Called Miika).

L’autore è Matt Haig, e di lui sappiamo che non sbaglia un colpo. Soprattutto quando si rivolge al pubblico dei giovani lettori. Con romanzi «natalizi» (ma per ogni giorno dell’anno) come Un bambino chiamato Natale, o La bambina che salvò il Natale, o non natalizi, come Essere un gatto (leggetelo, se ancora non l’avete fatto) o con quello che già si

va dal 1925 al 1945

la maggior parte dei casi, la meta finale di questi flussi, almeno di quelli più politicizzati, non è la Confederazione, ma Parigi, dove opera la Concentrazione antifascista. Ma con il passar degli anni i movimenti si intensificano e si diramano, come conseguenza di leggi e di «ordini di ser-

vizio» emanati da entrambi gli Stati. Sia il fascismo sia le autorità elvetiche mirano a rafforzare la linea di confine per impedire, o quanto meno, scoraggiare i movimenti attraverso i valichi. La Svizzera repubblicana teme di diventare una piattaforma di cospiratori antifascisti; il Duce mo-

bilita accanto ai corpi regolari temuti drappelli di guardie confinarie formate da camicie nere. Durante la guerra civile spagnola (1936-1939) aumentano i passaggi di volontari diretti al fronte; nel 1938, l’«anno infame» delle leggi razziali, prende il via in Italia una sistematica persecuzione delle comunità ebraiche, destinata a durare fino al termine delle ostilità in Europa. Il periodo bellico è quello più tragico e vessatorio. Se prima la frontiera si apriva e chiudeva a mantice, lasciando varchi sfruttati da contrabbandieri e passatori, dopo, durante la guerra, queste possibilità diminuiscono fino a cessare quasi del tutto. L’inasprimento della vigilanza porta a calafatare i confini, a chiudere ogni fessura, e a scarnificare anche il diritto d’asilo fino a quel momento difeso dalla Svizzera umanitaria pur tra mille eccezioni e restrizioni. I rivolgimenti del 1943 (sbarco degli alleati in Sicilia, arresto di Mussolini, governo Badoglio nelle terre meridionali liberate, proclamazione al Nord della Repubblica sociale al servizio dei tedeschi) innescano nuove ondate di espatri, specie all’indomani dell’8 settembre, con lo sfaldamento dell’esercito italiano. Entrano i militi regolarmente inquadrati, ma per i civili l’accoglienza rimane vincolata a condizioni che per moltissimi ebrei comporteranno il respingimento e la deportazione nei campi di sterminio nazisti.

Scomazzon, in questo suo saggio frutto di meticolose ricerche in archivi svizzeri e italiani, osserva la frontiera nel suo essere bifronte: la definisce una «linea sottile», quella che corre «tra accoglienza e respingimento, labile confine tra vita e morte, il filo tenace che porta migliaia di profughi, in quell’ultimo frangente di guerra, a guardare la Confederazione come unico possibile appiglio di salvezza». Come non riudire, in queste parole, l’eco dei sommersi e dei salvati di Primo Levi, qui rein-

carnati nelle figure degli accolti e dei respinti, con sullo sfondo la parabola del ventennio fascista e le reazioni della Confederazione, alle prese con una neutralità problematica e una politica d’asilo tutt’altro che coerente. Inevitabile, per l’autore, imbattersi in Giuseppe Motta, il titolare del Dipartimento politico (oggi affari esteri) che non cela la sua ammirazione per il Duce, il quale ricambia le cortesie con apprezzamenti da lingua biforcuta. Sia Roma che Berna cercano in ogni modo di moderare i toni e di spegnere le proteste dei giornali, a partire dalla socialista «Libera Stampa». Tuttavia il confine rimane una fascia brulicante di vite precarie, in cui convergono interessi meschini e atti di pietà, espulsioni disumane e iniziative di solidarietà promosse dalla popolazione locale e dal clero. Tra le maglie scivolano uomini, donne, anziani, bambini, come pure borse di denaro destinate alle associazioni impegnate a soccorrere i fuggiaschi. Ma non tutti ce la fanno, per molti la «frontiera della speranza» svanisce alla vista di guardie inflessibili in un comprensorio che si estende dalla val d’Aosta alla Valtellina.

Dopo i lavori di Elisa Signori, Carlo Musso, Renata Broggini e, più recentemente, di Adriano Bazzocco, questa ricerca di Francesco Scomazzon aggiunge un nuovo capitolo allo studio di un’epoca altamente infausta, ma che è bene, per la nostra coscienza civica, non lasciar cadere nell’oblio. Perché si sa che il passato prima o poi… ripassa, presentandoci il conto.

Bibliografia

Francesco Scomazzon, La linea sottile. Il fascismo, la Svizzera e la frontiera (19251945), presentazione di Massimo Castoldi, prefazione di Fabrizio Panzera, Donzelli editore, Roma, 2022.

faceva apprezzare agli esordi, La foresta d’ombra . Bene, anche con questo recentissimo, non natalizio e dedicato al topo Miika, la poesia della trama di Haig c’è tutta, e così pure il calore, venato di humour, della sua scrittura. Miika è un topino convinto di essere pauroso, codardo e anche ladro, visto che da piccolo, spinto dalla fame, aveva rubato un fungo dalla tana della sua famiglia e si era incamminato nel mondo – peraltro senza che nessuno della sua famiglia di innumerevoli topi si accorgesse del-

la sua mancanza – giungendo a Elfhelm, e trovando ospitalità nella casa della Fata della Verità. Miika è anche convinto di essere una «patetica creatura intermedia», né vero topo né vera creatura magica, perché a Elfhelm, per salvargli la vita, una bambina gli aveva fatto l’incantesimo «strasogno», donandogli dei poteri magici, il cui potenziale però sarà tutto da scoprire. Ma queste deprimenti immagini di sé gli vengono principalmente da ciò che gli dice Bridget l’Audace, una topina proterva e opportunista che Miika tuttavia cerca in ogni modo di compiacere. Fino a capire, dopo una mirabolante avventura tra troll e formaggi rubati, che «il coraggio non voleva dire non avere paura. Voleva dire avere paura e andare avanti lo stesso», e che ti devi liberare da «amicizie» che ti rendono succube e ti spingono a fare cose in cui non credi. E lui «aveva creduto nel profondo di essere un ladro e un codardo. Ma non doveva esserlo per forza. […] Voglio essere una creatura gentile. E a volte la cosa più coraggiosa è essere chi si vuole».

Una storia buffa sulle distorsioni comunicative, i «bias» cognitivi, come si definiscono tecnicamente, il capire Roma per toma, se vogliamo farla semplice. Gli abitanti del bosco della nostra storia riportano informazioni errate sulla base di cose orecchiate (è il caso di dirlo, visto che tra loro ci sono topi e leprotti!) superficialmente, riferendo brandelli di conversazione non contestualizzati nel discorso complessivo.

Il piccione si rivolge al topino con un’affermazione soggettiva: «È un po’ di tempo che non vedo in giro la talpa». Il topino risponde con un’ipotesi: «Hai ragione! Magari è partita». Un altro topino sente solo l’ultima parte della frase e la trasforma in asserzione oggettiva, comunicandola al riccio: «Hai sentito che la talpa è partita?» Il riccio reagisce con disappunto, «poteva almeno salutare!». Lo scoiattolo, che dall’alto di un albero ha sentito solo quest’ultima parte, si precipita a dire al coniglio che la talpa è partita senza salutare, e il coniglio a sua volta formula un’ipotesi – sarà dovuta scappare – che viene poi divulgata come un’informazione accertata. E così via, di animale in animale, in questo telefono senza fili boschivo e chiacchierone. Le notizie vengono talmente gonfiate che si arriva ad affermare che la talpa è andata in America a fare un film. Il finale, come si può ben immaginare, è molto meno sensazionale, ma proprio per questo è divertente. E attraverso il divertimento i lettori impareranno fin da piccoli a intercettare le fake news e a diffidare del «sentito dire».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
di Letizia Bolzani Matt Haig Miika, il topolino di Natale Illustrazioni di Chris Mould, Salani (Da 8 anni) Mariapaola Pesce – Martina Tonello Ho sentito dire che… Terre di Mezzo (Da 4 anni) ◆ Lo storico Francesco Scomazzon nel suo ultimo saggio indaga il ruolo della frontiera e le relazioni italo-svizzere nel periodo che La fotografia scelta per la copertina: profughi entrano clandestinamente in Svizzera nei pressi di Stabio dopo l’8 settembre 1943. (ASTi, fondo Christian Schiefer)
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Le chimere uomo-animale esistono già

Ricerche scientifiche ◆ La possibilità di impiantare cellule nervose umane in cervelli animali a scopo di studio solleva dubbi scientifici ed etici

La chimera è un mostro leggendario della mitologia greca, romana ed etrusca formata con parti del corpo di animali diversi. Oggi le chimere non sono più un mito ma una realtà, costruite dai biologi assemblando – in un unico essere vivente – geni, cellule, organi di animali di specie diverse.

Da decenni gli scienziati hanno messo assieme parti di embrioni di differenti animali per studiare i meccanismi dello sviluppo embrionale e, in anni più recenti, hanno anche usato elementi umani come organi, cellule e geni per chimere uomo-animale. Lo scopo è quello di capire meglio come funzionano i sistemi biologici o di sperimentare cure per le malattie: in oncologia, per esempio, si trapiantano tumori umani nei ratti e nei topi per studiarne lo sviluppo o testare farmaci antitumorali. Una trentina di anni fa, gli scienziati hanno creato – per studi sperimentali di immunologia – topi con un sistema immunitario umano. Sempre con la tecnica delle chimere biologiche, si possono far crescere in animali come i maiali organi «umanizzati» a scopo di trapianto.

Negli ultimi cinque anni, la ricerca ha inventato tecniche, ancora in via di sviluppo, per realizzare chimere con cellule nervose umane (neuroni) impiantate in animali, le cosiddette chimere neurali. Per ottenere le chimere neurali, si usano due tipi di cellule staminali umane: le cellule staminali embrionali – ottenute da ovuli fecondati in provetta e non utilizzati per la procreazione – o cellule staminali pluripotenti indotte (IPS) che possono essere derivate da cellule umane adulte (per esempio della pelle o delle mucose) e «riprogrammate» per farle ritornare a uno stato quasi embrionale. Entrambi i tipi di staminali – ma soprattutto le IPS, scoperte dal giap-

ponese Shin’ya Yamanaka, Nobel per la medicina nel 2012 – hanno la capacità di dare origine a qualsiasi tipo cellulare, neuroni compresi.

La tecnica più semplice per costruire una chimera neurale è quella di trapiantare pochi neuroni per volta nel cervello di un embrione animale e studiarne lo sviluppo e la funzione per un certo numero di settimane o mesi: in tal modo è possibile capire come crescono parti del cervello di un feto umano. Questo è stato fatto con trapianti in ratti neonati o allo stato embrionale: i neuroni umani hanno impiegato il loro tempo consueto per svilupparsi, da 6 a 12 mesi rispetto alle cinque settimane impiegate da quelli murini. Anche nell’ambiente del cervello di topo, i neuroni umani hanno mantenuto il loro comportamento e questo suggerisce che il tempo per svilupparsi è geneticamente stabilito e non influenzato dal nuovo ambiente Nel corso di un esperimento, si è visto che neuroni umani si sono integrati, connessi nel circuito visivo del ratto, rispondendo agli stimoli luminosi.

La percezione visiva, in questo caso, è stata modificata in senso umano? In nessuna sperimentazione è stato verificato ciò, la visione è rimasta quella tipica di un ratto, senza alcuna umanizzazione. Del resto, i ricercatori sono unanimi nel ritenere che poche cellule nervose trapiantate non possano orientare il cervello di un animale a sviluppare funzioni simil-umane. Che i neuroni umani messi in un cervello estraneo si integrino e funzionino normalmente ha destato sorpresa e questo suggerisce che trapianti di cellule possano essere usati in futuro anche nell’uomo per riparare parti di cervello danneggiate da malattie.

Altri esperimenti hanno mostrato che i neuroni trapiantati si sono

sviluppati in raggruppamenti grandi come una lenticchia: le connessioni nervose si sono formate soprattutto fra i neuroni umani, ma ci sono anche connessioni con le cellule della corteccia cerebrale del ratto e, inoltre, si sono formati vasi sanguigni. In questo modo, il piccolo ammasso di neuroni umani si è sviluppato per cinque mesi – la durata dell’esperimento –crescendo come in un cervello fetale umano e funzionando normalmente.

Un team di ricerca ha trapiantato

Celeste come una… cavalletta

dei neuroni umani sani in cervelli di ratti con una predisposizione genetica alla malattia di Alzheimer. Il lavoro ha mostrato che, in questo ambiente, i neuroni umani degenerano, mentre quelli del ratto no. Questo conferma non solo che i neuroni umani sono particolarmente vulnerabili alla malattia, ma hanno anche dato ai ricercatori l’opportunità di studiare la progressione della malattia.

Lo sviluppo delle chimere neurali ha naturalmente sollevato la questio-

Mondoanimale ◆ La Oedipoda caerulescens è l’ambasciatrice di Pro Natura per il 2023

Celeste come il fiocco del primo bambino nato a inizio anno in Ticino: è il colore che spicca nell’animale scelto da Pro Natura come ambasciatore dell’anno 2023. «Per la verità, dobbiamo parlare di un’ambasciatrice: la cavalletta celeste (ndr : il suo nome scientifico Oedipoda caerulescens è meno poetico e più complicato). Potenzialmente minacciata e protetta a livello nazionale, è stata scelta per attirare l’attenzione sull’importanza di tutelare e ripristinare i suoi ambienti di vita originari naturali che sono in mutamento: paesaggi golenali, prati e i pascoli secchi, e alcune zone urbane specifiche come siti ferroviari o parchi cittadini». Così la portavoce del sodalizio, Serena Britos, introduce il nostro viaggio alla scoperta di questo Ortottero che «padroneggia l’arte del mimetismo ed è maestro di comparse ad effetto».

«Di modeste dimensioni (il maschio va dai 20 ai 29 millimetri e la femmina dai 13 a un massimo di 23), vive solo pochi mesi e sverna sotto forma di uovo. Quando è in volo spicca la particolarità delle sue ali posteriori celesti con un’evidente fascia trasversale nera, mentre quando è al suolo presenta un colore talmente ben adattato al terreno che è davve-

ro difficile individuarla persino a distanza ravvicinata. Finché non ci si avvicina troppo, perché allora la cavalletta celeste balza in aria spiegando le sue ali turchesi e nere». È un attimo fuggente: «Nemmeno il tempo di rendersene conto e ammirare il sorprendente gioco di colori dai quali prende il nome, e l’insetto torna a terra venendo letteralmente inghiottito dal paesaggio, in un gioco mimetico da prestigiatore».

In Svizzera è diffusa soprattutto in Vallese, lungo il versante meridionale del Giura e nel nostro Cantone: «Ma la si può incontrare anche in altre regioni a differenti altitudini, dai fondovalle fino a circa duemila metri. Non dimentichiamo però che si tratta di un animale protetto che si può catturare solo per scopi di formazione e ricerca con l’emissione di un’autorizzazione cantonale».

Da noi la cavalletta celeste è in buona compagnia: «Grilli e cavallette (Ortotteri) presenti in Svizzera sono suddivisi in circa 115 specie: solo un piccolissimo gruppo delle circa 30mila specie di insetti fino ad ora descritte e presenti nel nostro Paese». Una diversità di specie e un numero di individui da decenni in forte calo, puntualizza Britos: «Le popolazioni di

Ortotteri sono uno specchio fedele di questa drammatica perdita che ci permette di prendere coscienza del fatto che oggi il 60 per cento delle specie di insetti è minacciato».

La storia sembra ripetersi per ogni specie cosiddetta «a rischio», mentre le responsabilità ricadono a cascata sempre sull’essere umano e sui suoi comportamenti sovente inopportuni nei confronti dell’ecosistema. Per quanto attiene alla cavalletta celeste, scarseggiano sempre più i paesaggi golenali ricchi di specie con ampie distese di ghiaia, vittime dello sfruttamento idroelettrico e delle opere di

correzione dei corsi d’acqua. Non va meglio per prati e pascoli secchi: «Negli ultimi cento anni, cementificazione, concimazione e avanzata del bosco ne hanno ridotto la superficie del 95 per cento».

Ed ecco l’ennesimo appello: «È imperativo rinaturare i fiumi, preservare le golene, passare a un’agricoltura più rispettosa della natura, usare e curare adeguatamente gli ambienti creati dall’uomo diventati habitat sostitutivi per la cavalletta celeste e altre specie». Infatti, ogni specie vive e si sviluppa in un ambiente a lei confacente ed essa non fa eccezione: «Le piace il caldo che però non deve essere eccessivo; per il fatto che è ectotermica (ndr : la sua temperatura corporea dipende da quella dell’ambiente esterno), è essenziale che possa trovare riparo sotto un leggero strato di vegetazione per evitare di surriscaldarsi. Inoltre, un ambiente temperato è essenziale pure per proteggere dalla disidratazione le uova deposte al suolo, mentre il tetto verde funge anche da mensa perché la nostra cavalletta segue una dieta sostanzialmente vegetariana, senza disdegnare una carogna di tanto in tanto».

Fra le responsabilità umane parrebbe esserci un risvolto positivo che

ne dell’eticità di simili esperimenti, anche da parte di alcuni scienziati. Maiali con tessuti umani di reni o fegato sono una cosa, mentre impiantare neuroni umani in cervelli animali può destare perplessità e rifiuto nell’opinione pubblica. Nel 2019, in Giappone è stato tolto il divieto di usare fondi statali per la ricerca con embrioni chimerici umano-animali. In molti Paesi, inclusi gli USA e la Gran Bretagna, la ricerca che mescola cellule nervose umane con quelle di animali è permessa. In Svizzera, vale la legge LPAn del 2005: tutti gli esperimenti su animali sono sottoposti a controlli federali e cantonali.

Anche se gli esperimenti finora realizzati hanno mostrato che la presenza di piccoli frammenti di cervello umano in animali non possono dare origine a una umanizzazione di qualche genere, le perplessità rimangono. Un esempio: se si creassero chimere neurali uomo-scimmia, attualmente vietate? Chi fa esperimenti del genere dovrebbe avere cura di spiegare in termini comprensibili al pubblico come questi esperimenti si fanno, per quale scopo e se non ci sono alternative. E anche considerare se questa condizione può essere di disturbo per l’animale, nel senso del comportamento o della sofferenza.

Se si usano staminali umane, sarebbe inoltre opportuno un consenso da parte del donatore per il loro uso. Chi le dona deve sapere se le sue staminali – prelevate e riprogrammate per diventare cellule nervose – saranno impiantate nel cervello di un animale e per quale scopo. Certo, di fronte alla prospettiva di poter avere, in questo modo, una terapia per malattie ancora oggi incurabili come l’Alzheimer può essere di incentivo a un consenso per queste sperimentazioni.

attiene al riscaldamento globale, ma si tratta solo di un fuoco fatuo: «La cavalletta celeste ama il caldo così come molte altre specie di insetti; se da un lato l’aumento delle temperature permetterebbe a specie come questa di occupare nuovi ambienti adatti a essa, d’altro canto il riscaldamento globale non si rivela essere affatto positivo a causa di una serie di difficoltà che comporterà come, ad esempio, una carenza di acque pulite e fresche necessarie alle larve per il loro sviluppo: cosa che continua a essere una delle principali cause della perdita di specie, ambienti ed ecosistemi».

Una minaccia seria, motivo per il quale l’associazione sostiene che le due crisi, quella della biodiversità e quella climatica, possono essere affrontate e risolte solo tutti insieme. Nell’accendere i riflettori sulla cavalletta celeste, Pro Natura ricorda il proprio impegno a favore delle riserve («Ne gestiamo a tutela più di 700 in ogni regione elvetica, alcune delle quali racchiudono paradisi naturali effimeri che offrono casa alla nostra ambasciatrice 2023»), insieme alla propria dedizione all’educazione ambientale nelle scuole e nelle attività con adulti alla scoperta e nel rispetto di tutte le specie.

10 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
Gustave Moreau - The Chimera, 1867. (G. Starke)
F. Perseke

Ma che caldo fa(rà) in questa città

Ambiente ◆ La Regione-Energia Verbano ha presentato uno studio che contiene anche quattordici misure per mitigare il riscaldamento climatico nei centri urbani

Mentre parte dell’Occidente cerca di resistere alla stretta polare, in Ticino si cercano soluzioni per le prossimi stagioni calde per far fronte a un problema sempre più pressante.

Si chiamano isole di calore, ma non sono oasi piacevoli. Stiamo parlando di quelle zone urbane che, durante il periodo estivo, fanno registrare un caldo insopportabile, creando anche disagi o problemi alla popolazione. Le giornate afose, infatti, come hanno potuto subire molti abitanti della Svizzera la scorsa estate, e in quelle precedenti, sono sempre più frequenti e intense. Una sensazione che si percepisce maggiormente alle basse quote e ancor di più nelle città o negli agglomerati, dove determinati aspetti accentuano l’effetto delle isole di calore.

Tra questi aspetti si annoverano alcune caratteristiche non solo architettoniche: se da una parte troviamo, infatti, elencati materiali e rivestimenti esterni degli edifici e delle vie di comunicazione, o la forma e la disposizione delle costruzioni, dall’altra sono denunciate anche l’assenza di acqua, di zone verdi o di aree ombreggiate.

Come detto, tali «espressioni urbane» sommate a estati più calde, all’aumento delle giornate di canicola e delle notti tropicali, così come a periodi prolungati di siccità, rendono sempre più roventi i centri abitati. Conseguenza enfatizzata da alcuni processi tipici dell’urbanizzazione: l’aumento di superfici impermeabilizzate che assorbono il calore, la maggiore densità degli stabili che limitano la circolazione dell’aria, il calore generato dal traffico e dalle industrie, eccetera. Un’intera «macchina» che crea un tale accumulo di calore diurno da risultare sempre più faticoso da smaltirsi nelle ore notturne.

Questi e altri aspetti sono emersi nello studio promosso dalla Regione-Energia Verbano (REV), voluto proprio per indagare l’influsso della struttura urbana sulle isole di calore. Lo studio comprende anche interessanti linee guida per provare a mitigarne gli effetti. I risultati e le relative proposte sono stati illustrati da Simona Piubellini e Luca Solcà della CSD Ingegneri. Per tale indagine è stata creata una mappatura del territorio, individuando le quattro zone centrali dei quattro comuni coinvolti: Ascona, Locarno, Minusio e Muralto. Ciascuna di queste misura tra il mezzo e il chilometro quadrato di

estensione. Grazie all’impiego di droni equipaggiati con termocamere, sono stati rilevati diversi dati ambientali, poi incrociati con gli elementi della struttura territoriale. A sintetizzare le misure volte ad alleviare gli effetti dei cambiamenti climatici negli agglomerati urbani è quasi uno slogan: più alberi e acqua, meno cemento.

Dalle osservazioni è emerso in modo chiaro come le aree verdi, i fiumi e le zone acqua aperte hanno un effetto importante sul refrigerio, mentre, al contrario, le superfici dure e non drenanti, assieme all’assenza di alberature, creano le condizioni più sfavorevoli. È stato per esempio osservato che, in due zone adiacenti, una adibita a posteggi, l’altra a prato verde, la differenza di temperatura misurata alle 22 di sera è stata fino a 5°C (in estate, in una giornata calda ma non ancora di canicola). Stessa situazione riscontrata anche tra aree con o senza alberature, con o senza presenza di acqua oppure tra superfici scure (che assorbono il calore) o chiare (che invece lo riflettono).

Lo studio ha dunque evidenziato le situazioni critiche, ma anche sottolineato i possibili interventi. Provvedimenti che possono essere di carattere costruttivo a breve termine ma pure a medio-lungo termine, con degli adattamenti sul modello di urbanizzazione. Tra gli accorgimenti di maggior efficacia rientrano le pavimentazioni

Più alberi e acqua, meno cemento

Sono una trentina le Regioni-Energia in Svizzera, di cui cinque nella Svizzera italiana: Bellinzonese, Energia A BM, Grono-Lostallo-Soazza. Malcantone Ovest e appunto quella del Verbano (REV) che, dal 2021, coinvolge i comuni di Ascona, Locarno, Minusio e Muralto.

A caratterizzare queste entità è una contiguità territoriale e la collaborazione nel realizzare progetti nei settori delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica. Con il programma Regione-Energia, l’Ufficio federale dell’energia sostiene pertanto i comuni, i quali beneficiano di una consulenza specialistica e possono anche accedere a interessanti sovvenzioni

economiche. Come indicato nel sito di Svizzera Energia, grazie alla collaborazione intercomunale, le Regione-Energia perseguono obiettivi di politica energetica congiuntamente ai propri abitanti, alle aziende e alle organizzazioni presenti sul proprio territorio, riuscendo a ottenere risultati migliori con uno sforzo collettivo. Sono già diversi i progetti realizzati, avviati o previsti dalla REV, tra cui la partecipazione a quello per la messa a disposizione di biciclette condivise (Bike Sharing ), uno studio sulla mobilità ciclabile o sull’efficienza energetica nel settore alberghiero, senza dimenticare quello presentato a Muralto sulle Isole di calore.

drenanti, la creazione di aiuole e isole spartitraffico inverdite e, di certo, la piantumazione di viali alberati o, in caso di impossibilità, anche di strutture ombreggianti artificiali. Anche l’acqua, è stato detto, gioca un ruolo fondamentale e pertanto l’accesso

a zone aperte è auspicabile, così come l’utilizzo di materiali chiari e riflettenti (invece di scuri e assorbenti) per il rivestimento delle superfici, per esempio nei parchi giochi.

Le linee guida sono oggi uno strumento per i Comuni che potran-

no così intervenire e regolamentare i possibili provvedimenti. Le quattordici misure presentate dallo studio ricalcano i concetti sottolineati, ossia rendere più verdi e meno grigie le città, in modo che l’accumulo di calore durante le giornate di canicola venga mitigato.

Oltre ai provvedimenti già citati, realizzabili dai Comuni ma pure dai privati, il catalogo propone anche di vegetalizzare le facciate o di sviluppare parchi pubblici diversi, dove ci siano le condizioni per un clima favorevole. In quest’ottica rientrano anche una migliore accessibilità e migliore fruibilità degli spazi d’acqua, siano essi fiumi, fontane, erogatori o altro.

Lo studio ha pure proposto dei possibili incentivi per favorirne l’attuazione e accelerare così il processo di adeguamento degli spazi urbani. Un cambiamento che dovrebbe avvenire anche con il coinvolgimento della popolazione, sia tramite iniziative individuali, sia tramite progetti pilota, i quali sarebbero un esempio da seguire, come per altro già avvenuto in altre città della Svizzera, dove il tema delle isole di calore è pure d’attualità.

Link utili Svizzera Energia: www.local-energy.swiss/it/#/

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 11 SOCIETÀ
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L’altropologo

Tempo di (s)bilanci

Ora che l’Epifania tutte se le è portate via è tempo di bilanci. Nei due anni della pandemia, tutte le forme di socialità e soprattutto quelle conviviali avevano giocoforza rallentato ritmi e partecipazione. Cartelloni e programmi saltati, stadi deserti (siete mai entrati in uno stadio deserto? Vi aleggia un senso di pace, ultraterrena tregua, che altroché il monastero di San Gallo) almeno fino alla vendetta delle resse balneari da sbarco in Normandia dei concerti ecologici dei Jovanotti di questo mondo – quelli che hanno messo a ferro e fuoco al di qua delle Alpi i nervi di fine estate.

In quel clima, profeti e indovini, oracoli, sociologi, terapeuti psico – e non, e commentatori di ogni sorta di militanza – a volte anche intelligenti –avevano chi pronosticato, chi predetto, chi augurato e chi tutti e tre,

rivoluzioni epocali nei nostri usi e costumi, pentimenti, confiteor e mea culpa e de profundis di ogni risma. Il mondo, il nostro mondo intimo, familiare, borghese, poverino – si vaticinava – non sarebbe mai più stato lo stesso, sconvolto dalle restrizioni sull’affollamento in discoteca e allo stadio (meno nelle chiese dove le distanze di sicurezza sono da mo’ voragini) e dalla riduzione degli orari di apertura dei centri commerciali. Passata a’ nuttata il Santo Subito si trova come sempre gabbato: non è successo niente di che. Un bonus natalizio al personale sanitario che da Eroe Collettivo consacrato dai media è diventato scomoda Cassandra e via andare. Che niente sarebbe più stato come prima già lo si sapeva almeno perché è sempre stato così – giorno dopo giorno e non se ne sbaglia uno –

La stanza del dialogo

Confronti da evitare

Cara Professoressa, non è vero che tutte le Feste sono festose. C’è molta retorica in proposito. Spente le luci, riposto l’albero di Natale, consumate le scorte di cibi tanto costosi quanto indigesti, resta solo la realtà quotidiana, con tutte le differenze che questo comporta.

Siamo due sorelle e, dato che la casa di Enza, la maggiore, è più grande e confortevole, ci rechiamo sempre da lei. Tra figli, genitori, nonni e parenti vari siamo in 14-16 convitati.

In questi casi i confronti sono inevitabili perché è innegabile che c’è chi è più sano e più malato, chi è invecchiato di più e di meno, chi ha incrementato il reddito e chi si trova a fare i conti con un costante aumento dei prezzi.

Come avrà già capito mi trovo dalla parte del «meno», soprattutto per quanto riguarda i figli. Quelli di mia sorella (due maschi) sono nati con la camicia: a scuola sono sempre stati i primi della classe, negli sport hanno vinto

varie competizioni, sanno già cosa faranno all’università: ovviamente facoltà che garantiscono reddito e successo professionale. Per giunta sono molto popolari tra i coetanei e hanno entrambi deliziose fidanzatine.

Nulla di tutto ciò per i miei figli (una femmina e un maschio), bravi ragazzi, affezionati, obbedienti, seri e studiosi ma che non emergono in niente, non sanno cosa faranno da grandi e non mi danno nessuna soddisfazione. Che delusione! / Adele

Cara Adele, comprendo il suo sfogo ma non la sua delusione. Dell’essenziale non le manca nulla e il successo dei nipoti nulla toglie al benessere dei figli.

La vita, dice Aristotele, uno dei più grandi saggi dell’antichità, si valuta dalla fine, non dall’inizio.

Il successo scolastico fa sempre piacere ma non garantisce una vita pienamente realizzata. Nelle biogra-

La nutrizionista

da quando Homo Erectus, quello della postura da hombre vertical antropocenica (oggi i geologi ci istruiscono si dica così) ma anche tanto antropogenica. O forse è troppo presto per dirlo e occorre aspettare di vedere fino in fondo gli esiti a lungo termine della peste nera del 1348 e quelli dello tsunami storico della Rivoluzione francese gli effetti della quale – ammoniva il Grande Timoniere ben prima che la Cina indicasse al mondo le vere coordinate del Sol dell’Avvenire –è troppo presto per valutare. Restiamo disponibili.

L’A ltropologo, però, che ha fretta di chiudere i conti perché già intravvede lo striscione del Traguardo – finalmente perché l’antropologia (anch’Ella triste scienza) non è mai stata in grado di insegnare al mondo alcunché al contrario della fisica atomi-

ca – è rimasto ad osservare dal suo osservatorio privilegiato. Mascherina FP4 regolamentare e taccuino degli appunti alla mano, siamo ora in grado di annunciare che non è successo niente. Dopo tutto e come conseguenza di un sempiterno Dopo Prima per cui – adamantina – l’Antropocenico Protagonista si avvale della facoltà di non ricordare. Dopo Prima, Dopo Dopo, Dopo per Sempre. Presi in mezzo ogni tanto ci tocca, governo ladro, una brutta nottata che ha visto lupi pattugliare strade deserte e cervi e caprioli sfidarsi a machocornate sulle piste dei ponti senza traffico… Cinghialazzi alfa stravaccati al sole sulle panchine di parchi pontifici senza pensionati e abbandonati mentre Sora Cinghialona fa shopping al supermercato per i cucciolotti che sono così teneri (ops…).

Una visione terribile e destabilizzante della jungla antropocenica prossima ventura, non più primordiale ma terminale, allegramente. Dove una Jane emancipata attende il suo novello e riformato Tarzan. Nella fattispecie Esploratori che siano stavolta, al contrario dei loro avatar, scrutinati e vaccinati come politically correct al passo/cadenza/passo (op/due/passo/ bum) coi tempi. Tutti allineati e coperti. Poiché ahimè l’A ltropologia è una scienza (trista) suo malgrado engagé che fa l’Indiana – non Jones – ovvero in sostanza fifona. Il tutto nella speranza, over certezza, che niente ci cambierà la vita. Ovvero. Cioè… un momento..

Auguri urbi et orbi di un Buon Anno dal Fronte Orientale, averaged medioevo interminabile: passato futuro prossimo venturo.

fie dei grandi uomini si incontrano spesso, come nel caso di Albert Einstein, incredibili bocciature. Ma non vuol dire nulla. Il corso della vita è lungo, tortuoso, e molto dipende da opportunità e incontri imprevedibili. Perché non sospendere il giudizio e attendere gli eventi?

Credo, in ogni caso, che i paragoni siano inutili e sbagliati. Ciascuno è unico, esclusivo e confrontabile solo con sé stesso. I suoi figli hanno il dovere di realizzare nel modo migliore le loro potenzialità, i loro talenti. Non per compiacere la mamma, ma per sé stessi, per essere, per quanto possibile, umanamente felici. Temo che lei si senta in colpa per non garantire ai figli il successo dei cugini. Ma, come sostiene la psicoanalista Françoise Dolto, rivolgendosi ai genitori: non avete il dovere di far felici i vostri figli, ma di aiutarli a crescere, a diventare grandi. Se poi saranno felici, tanto meglio.

Latte e miele per i mali di stagione

Buongiorno Laura, in queste vacanze ai miei nipoti (4 e 7 anni) è venuto male alla gola e tosse, quindi gli ho fatto bere latte e miele, rimedio della mia adorata madre contro questo malanno. Poiché mia cognata non sembrava molto convinta di questa cura casalinga – preferisce dargli lo sciroppo – volevo chiedere a lei se questo vecchio rimedio abbia un fondamento di verità. La ringrazio molto. / Giulia

Buongiorno a lei, Giulia, mi dispiace per il male alla gola e per la tosse dei suoi nipoti, spero sia passato in fretta. Sinceramente, latte e miele è anche il «rimedio» di casa mia per questo malanno di stagione ma ammetto che non avevo mai approfondito la questione… Ho cercato di farlo per lei, volentieri, ma ho scoperto che non ci sono articoli scientifici che spieghino come mai la combinazione latte e miele sia ideale contro il male alla gola con tosse.

Il latte non viene mai menzionato, il miele però sì. Sembra infatti che mescolare due cucchiai di miele in un bicchiere d’acqua calda o tè può dare veramente sollievo al mal di gola con tosse. Lo consigliano addirittura i «Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie» (CDC), l’organismo di controllo sulla sanità pubblica degli Stati Uniti d’America, che ha come obiettivo principale proteggere la salute e la sicurezza pubblica attraverso il controllo e la prevenzione di malattie, infortuni e disabilità negli Stati Uniti, e nel mondo. Il miele è composto principalmente da zucchero, ma fornisce piccole quantità di diverse vitamine e minerali ed è ricco di antiossidanti, tra cui acidi fenolici e flavonoidi. È stato celebrato fin dall’antichità per le sue proprietà salutari e terapeutiche. Attualmente è stato al centro di molte ricerche mediche, inclusa una re-

censione del 2018 sulla rivista scientifica «Molecules» che riconosce al miele proprietà per l’appunto antiossidanti e antinfiammatorie, ma pure capacità antimicrobica, attività antitumorale, proprietà antivirali, proprietà antimicotiche e proprietà antidiabetiche.

Una revisione di diversi studi su miele e tosse nei bambini ha messo in evidenza che il miele sembra essere efficace quanto il destrometorfano, un comune ingrediente presente nei farmaci anti tosse dei tipici prodotti farmaceutici. Inoltre, un’altra revisione ha rilevato che due cucchiaini miglioravano la qualità del sonno; e si sa quanto sia fondamentale per il bambino e pure per il genitore riposare bene. Visto che il miele è abbastanza economico, ampiamente disponibile, naturale e senza effetti collaterali, potrebbe valere la pena provare a curare il male alla gola e tosse con esso. Tuttavia, se il male

I confronti esistenziali sono da evitare perché spesso suscitano l’invidia, che rende auspicabile il male dell’altro.

Le nostre risorse abitano in noi stessi e spesso vengono attivate dalle difficoltà, dagli inciampi. Ma sarà una grande soddisfazione constatare che, nonostante tutto, ce l’abbiamo fatta con le nostre forze. Accade invece che i genitori si sentano così responsabili da confondere le loro aspirazioni con quelle dei figli e tendano, per tutelarli da ogni delusione, a prenderne il posto, a sostituirli. In questi casi, saranno loro a decidere il corso degli studi, gli sport, le amicizie, gli interessi dei ragazzi, sempre nell’ottica del successo. Ma il successo è, per definizione, raggiungibile da pochi. Se consideriamo la vita una competizione sportiva, pochi saranno i vincenti, molti i perdenti. Meglio che ognuno si confronti con le sue capacità e potenzia-

lità per ottenere il meglio dalle proprie risorse.

Certi periodi storici, come l’ultimo dopoguerra, sono particolarmente favorevoli alla promozione sociale. Si pensi, in Italia, al «miracolo economico», quando l’ascensore sociale era disponibile a molti, se non a tutti. Ora viviamo in tempi oscuri e il futuro, avaro di promesse, rende auspicabile quella che gli antichi definivano una aurea mediocritas, una moderazione dei desideri e delle aspettative capace di evitare il peggio senza indurci a ottenere, a tutti i costi, il meglio.

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni

a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901

Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

non passa entro pochi giorni o appaiono altri sintomi come febbre eccetera è sempre buona prassi rivolgersi al pediatra.

Va in ogni caso ricordato che il miele non dovrebbe mai essere somministrato ai bambini di età inferiore a un anno. Il miele può trasportare infatti batteri, come il Clostridium botulinum, che possono essere particolarmente pericolosi per i bambini così piccoli.

È molto importante verificare anche la qualità del miele: sarebbe meglio evitare quello pastorizzato perché l’elevato calore della pastorizzazione è vero che migliora il colore e la consistenza, uccide il lievito indesiderato, rimuove la cristallizzazione e prolunga la durata di conservazione, ma può anche distruggere molti dei nutrienti benefici. Il miele grezzo invece viene in genere solo filtrato prima del confezionamento, conservando la maggior parte delle sue

proprietà. Personalmente leggerei bene l’etichetta verificando l’origine del miele e sceglierei i prodotti nostrani. In Svizzera il miele per essere di qualità non deve essere riscaldato sopra i 40 gradi; ragione per cui possiamo essere certi che mantiene tutte le proprietà positive.

Per concludere e rispondere alla sua domanda sì, esiste un fondamento di verità, non so perché alle nostre quote il miele sia associato al latte, forse per renderlo più nutriente visto che i bambini con male alla gola e tosse tendono a mangiare poco? Questo non lo so, comunque ha fatto bene a proporlo ai suoi nipoti… o almeno, di sicuro non ha fatto male!

Informazioni Avete domande su alimentazione e nutrizione?

Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ / RUBRICHE 12 ◆ ●
di Laura Botticelli
di Silvia Vegetti Finzi
◆ ●
di Cesare Poppi

Le cave della Valle del Lanza

Cattedrali naturali sepolte nel verde rigoglioso dei boschi prealpini, luoghi selvaggi e magici

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Alle porte dell’Africa

Da torbido ricettacolo di spie e gente ambigua, Tangeri potrebbe diventare la Dubai del Marocco

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L’introvabile Streptocarpus Originaria del Madagascar, Sudafrica e Thailandia è conosciuta con il nome di «primula del Capo»

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Un pescatore innamorato della vita

Voglia di lucine e di verde Due tutorial per trasformare le lattine di alluminio in candele o in contenitori per piante grasse

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«La pesca è la vita come dovrebbe essere: un universo in cui l’esperienza conta più della tecnologia». Più grande di noi – Confessioni di un pescatore a mosca di Raul Montanari è uscito qualche mese fa nella nuova collana Pennisole a cura di Dario Voltolini, per la Hopeful Monster di Torino. Editore che un po’ ha che fare con la Svizzera, essendo diretto da Beatrice Merz, che pure presiede la Fondazione intitolata a suo padre, l’artista d’origine elvetica Mario Merz (1925-2003), del quale porta la firma L’uovo filosofico installato nel 1992 alla stazione di Zurigo.

Ma torniamo al bel libro autobiografico di Montanari: «Il lago è più grande di te, è più grande di noi. È più forte di noi», scrive l’autore, aggiungendo però che è il fiume «la vera palestra del pescatore d’acqua dolce»: «C’è un consenso generale sul fatto che la pesca in acqua corrente sia la più affascinante, oltre che la più difficile. […] E poi scoprii che la corrente ha qualcosa di misterioso. Nasconde il pesce al pescatore e il pescatore al pesce», scorrere d’acqua che l’autore definisce una vera e propria quarta dimensione, dopo lunghezza, larghezza e profondità: «Un metro quadrato d’acqua corrente era capace di riprodurre e anzi moltiplicare gli enigmi che si nascondevano in cento metri quadrati di acqua ferma».

Bergamasco d’origine, Montanari ricorda come da ragazzo prese ad appassionarsi a questo sport che iniziò a praticare sulle sponde del Sebino, il lago d’Iseo, che lui definisce nel libro «grembo di acqua scura, imperscrutabile».

Il lettore viene così introdotto all’arte alieutica attraverso la descrizione di telai, lenze di nylon, piombi e galleggianti di sughero in aggiunta alla prima cannetta di bambù, divenuti poi ben altro, e infine si parlerà anche di esche, dalle larvette ai pesci finti in balsa provenienti dalla Finlandia, per arrivare alle mosche che non sono quelle che per prime ci vengono in mente: «Con questo termine generico (traduzione dell’inglese fly) si indicano alcune grandi famiglie di insetti che hanno la caratteristica di deporre le uova sul fondo di fiumi, laghi e torrenti: effimere, fringanee, plecotteri».

E se da una parte affascina la pesca a fondo notturna alle anguille, per diventare un buon moscaiolo occorre umiltà, spirito d’osservazione e competenze entomologhe tali da «instillare nel pescatore una mentalità ecologica».

Di fatto: «La pesca a mosca sta alla pesca in generale come gli scacchi stanno agli altri giochi da tavolo: è l’unica ad avere una cultura», con tanto di tradizioni, scuole, feroci polemiche tra i puristi della mosca secca e

quelli che ammettono l’uso di esche come la sommersa e la ninfa

Tra materiche descrizioni ambientali, emerge anche l’amore che il pescatore Montanari ha per i pesci stessi: scardole, «squadriglie di persici, cavedani in formazioni più sciolte, lucci solitari, trote enormi e favolose» a caccia delle alborelle che formano «vasti banchi stratificati che si estendono fino a varie decine di metri dalla sponda», e ancora le tinche, «preda all’apice dei miei desideri, pesce pigro nell’abboccare, robusto nel combattimento».

Tra le catture più difficili, resta comunque il cavedano che, secondo Montanari, è il pesce a noi più affine: astuto, è «il pesce d’acqua dolce più simile all’uomo per intelligenza! Adattabile, versatile, onnivoro, predatore all’occasione, opportunista sempre, capace di ingoiare e metabolizzare anche il guano lasciato cadere in acqua da svassi e gabbiani, frequentatore impudente dello scarico della macelleria e della fogna, onnipresente in ogni tipo di acqua: torbida, cristallina, stagnante, corrente, densa di alghe ed erbe o sgombra e pulita, dal fondo fangoso o ciottoloso, sabbioso o cosparso da rocce. Abitatore sornione dell’imbarcadero e del lungolago dove il cibo viene soprattutto dall’uomo

e lui dell’uomo mica ha paura: si scosta di un metro o due ma rimane nei paraggi perché sa che da quelle sagome alte affacciate dietro le ringhiere spesso arriva cibo. Non come la trota che appena ti vede fila via a nascondersi sotto un sasso. Ma il cavedano è anche il gran signore dell’acqua aperta, maestro della navigazione pelagica. Gregario in giovane età, sempre più solitario man mano che gli anni avanzano e capisce che dagli altri possono arrivare solo tradimenti. Uguale a noi, giuro. Identico».

Non è l’unica personificazione che viene agita all’interno di questo bel libro, dove la natura si fa umana e l’umano si fa animale. Se il lago è infatti l’equivalente del liquido amniotico, la culla materna, il fiume è di fatto il «liquido seminale, l’urgenza, la pulsione che cerca sfogo». Così il fiume diventa anche «luogo in cui si potrebbe morire presi a tradimento da una natura ancora forte e insidiosa – non spegnersi nell’orrore delle lenzuola bianche e dell’odore di disinfettante ma annegare nella corrente, sprofondare nel fango. Cadere in uno strapiombo. Essere punti, morsi, sbranati come bestie da altre bestie».

Questo memoir ha insomma quattro livelli di lettura, come li ha la pesca nei fiumi: la realtà-terrena

(lunghezza); la realtà-acquatica (profondità), il sogno (ampiezza, delle immaginazioni); l’inconscio (la corrente), che più di tutti crea mistero. Nel capitolo dedicato alla cattura (il nono, dei 14 elencati nel sommario) prende avvio infatti un approfondimento che va oltre la messa alla prova delle tecniche, e che ha che fare con una riflessione più ampia sui motivi per cui l’autore è animato da questa passione. Termine, ci verrebbe da dire, non usato a caso, se prendiamo in considerazione il suo significato più biblico che racchiude in sé una sofferenza, quella che porta alla crocifissione e quel che ne segue, dove la resurrezione pare equivalere alla rimessa in libertà del pesce che torna alla vita. Vita che il pescatore sente agitarsi tra le mani: «Questa creatura che pare fatta d’acqua… acqua che si è fatta muscoli, nervi, fauci e pinne e volontà di sopravvivere. Voglio riempirmi gli occhi di questa vita, almeno per qualche istante, e poi restituirla al suo mistero».

In Svizzera e in Germania tale pratica sportiva, detta catch & release, che prevede il rilascio della preda viva dopo la cattura, è proibita perché si ritiene che o si pesca per procurarci cibo, oppure «è immorale che la specie vincente (siamo sempre noi) si diverta ai danni di specie inferiori».

Non si sottrae tuttavia, Montanari, alla sua responsabilità di uomo in rapporto alle forze della natura: «L’uomo non è solo la specie vincente, è un predatore-parassita ingombrante, invasivo, che ha inflitto alla Terra ferite di ogni tipo. Siamo riusciti ad avvelenare aria, acqua e suolo, a modificare il clima, a sconvolgere le stagioni. L’uomo sta nel mondo in modo violento». Si interroga, rispondendosi come può: «Non uccido il pesce, lo libero. Compio un atto di solidarietà fra esseri viventi, di armonia creaturale». Dopo i primissimi anni di pratica, infatti, la svolta: non mangiandoli più tutti, l’autore decise di iniziare a liberarli, per guardarli guizzare via: «Io vado a pesca per catturare i pesci. Non per ucciderli o mangiarli, perché ormai da trent’anni li libero con tutta la gentilezza possibile affinché a loro, dell’incontro con me, non rimanga nemmeno il ricordo».

E si torna così al senso dell’acqua che sta all’origine della vita, al liquido amniotico, al distacco dalla madre, dove la pesca con il rilascio sembra suggerire un parallelismo con la messa al mondo, o la rimessa al mondo: come se la lenza fosse il cordone ombelicale e, tagliato questo, il pesce rigettato in acqua facesse l’esperienza di una forma di rinascita. Come Dio, in questo mondo al rovescio, anche il pescatore ridona la vita al pesce in un atto di amore.

Montanari si definisce, guarda caso, pescatore innamorato, sebbene abbia un solo modo per amare queste creature: «È questa la maledizione dell’uomo: il suo amore per creature diverse da lui arriva sempre accompagnato da un pizzico di prepotenza –capita a chi mette morso e redini al cavallo che pure adora, a chi mette il guinzaglio al cane che considera il suo compagno e amico fedele. E il mio amore per i pesci si può esprimere nella sua massima intensità solo così. Voglio catturarli». Si pacifica, infine, sicuro di far parte lui stesso dell’ecosistema; non per nulla i pescatori sono spesso definiti «sentinelle dei fiumi»: grazie alle loro profonde conoscenze, grazie alle loro denunce di discariche abusive, dell’uso di pesticidi nelle coltivazioni, e di altri abusi, che determinano intorpidimenti dell’acqua fino alla scomparsa di una specie o di un’altra, i fiumi restano in salute: «Il pescatore è la tassa che il fiume paga per essere difeso».

Bibliografia

Raul Montanari, Più grande di noi – Confessioni di un pescatore a mosca, collana Pennisole a cura di Dario Voltolini, Hopeful Monster Editore, di Torino, 2022.

TEMPO
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 13
LIBERO
L’autore Raul Montanari a pesca, gli stivali nelle acque dell’Adda manzoniana. Editoria ◆ L’autore bergamasco Raul Montanari nel suo ultimo libro, Più grande di noi, confessa le ragioni della sua grande passione per la pesca a mosca, che va molto al di là dello sport Manuela Mazzi

Il vuoto creato dagli scalpellini è un capolavoro

Il vuoto, a volte, è un capolavoro. Strano, a pensarci. Di solito avviene il contrario, prendi del materiale –poniamo delle pietre – e le assembli per realizzare qualcosa che prima non c’era: una scultura, una scala, i fregi di un camino, i capitelli di una colonna… A chi verrebbe in mente che, nel frattempo, proprio lì dove hai creato il buco per estrarre la pietra si realizza un’altra meraviglia? Che a volte il vuoto è più bello del pieno, circola l’aria, la luce, si espandono le ombre, si stemperano le sfumature? E dentro a quello scavo nella terra e nella roccia, dentro quel vuoto immenso, ti senti una briciola, un animaletto delle caverne.

Le hanno scavate gli scalpellini, appunto. Venivano estratti dei blocchi con uno strumento molto semplice, una bacchetta di ferro infilata dall’alto

Ho provato queste sensazioni in modo quasi violento la prima volta che sono entrato, del tutto casualmente, nelle gigantesche cave di Molera tra Malnate e Cagno, percorrendo un sentiero naturalistico che partiva dai campi di santa Margherita di Stabio e si inoltrava per alcuni chilometri tra boschi e ruscelli dentro un polmone verde che a noi ticinesi, abituati a spingerci nel Varesotto solo per qualche acquisto transfrontaliero, quasi sempre sfugge. Un’ora, un’ora e mezza di cammino, per trovarmi di colpo in una valle misteriosa che ricorda i libri di Jules Verne, a due passi dal confine, lungo l’argento tortuoso di un ruscello che unisce il Mendrisiotto alla Lombardia. Quasi un passaggio «segreto» tra Svizzera e Italia. Ci sono tornato qualche tempo fa perché Fabio Facetti, un signore cortese e baffuto che avevo incontrato strada facendo nei pressi di un antico mulino (e che poi ho scoperto essere una sorta di sacro custode di quel regno di mezzo) mi aveva mandato un SMS avvisandomi che tra quei buchi nella roccia era stata scoperta, anzi riscoperta, una nuova cava. «Se ti fa piacere ti ci porto».

Facciamo un passo indietro: di quali spettacolari vuoti stiamo parlando? Delle enormi cave scavate nei secoli dagli scalpellini per ottenere la pietra che sarebbe stata utilizzata all’inizio nell’edilizia e in un secondo tempo nell’economia alimentare. Sono disseminate lungo il sentiero che costeggia il fiume Lanza, all’interno del «PLIS» (Parco Locale di Interesse Sovracomunale) Valle del Lanza, a cavallo delle province di Como e Varese. «Le prime escavazioni risalgono al 1400 e sono durate più o meno fino al 1920», spiega Facetti. «Qui c’è molta Gonfolite, una roccia di natura sedimentaria, e queste sono cave di arenaria (l’arenaria è una pietra composta di granuli dalle dimensioni di un granello di sabbia). Perché dove ci troviamo, 25 milioni di anni fa c’era il mare».

Erano i tempi in cui sul Monte San Giorgio guizzava il Ceresiosauro, di cui ammiriamo i resti fossili nel museo di Meride (cfr Azione del 16 gennaio a pag. 7). Molti milioni di anni dopo, gli uomini hanno estratto meraviglie dal fondo di quel mare ancestrale. E son nate le cave. «Cave, non grotte. Le hanno scavate gli scalpellini, appunto. Venivano estratti

dei blocchi con uno strumento molto semplice, una bacchetta di ferro infilata dall’alto. Venivano squadrati qui sul posto. Poi con dei falsi carri venivano portati verso il fondovalle e da lì mandati verso Castiglione Olona e Castelseprio. Qui erano usati per costruire muri, camini, lavori ornamentali». L’arenaria è molto facile da lavorare perché è friabile, fondamentalmente è antica sabbia compressa. A Castiglione è presente, ad esempio, nella Collegiata e nella Chiesa di Villa. «La usavano anche alcuni scultori, soprattutto di origine toscana per la somiglianza con la pietra tiburtina estratta dalle cave lungo il Tevere». Nell’area si contano una dozzina di cavità principali e molte altre di minori dimensioni, oggi quasi tutte raggiungibili dal sentiero di fondovalle.

E così, dopo i rettili preistorici, furono le pietre a scivolare lungo i corsi d’acqua. «In un viaggio ipotetico a partire dalle nostre cave – leggiamo nel sito www.ateinsubriaolona.it – i grandi blocchi di pietra vengono trasportati con carri fino al lago di Varese. Dal lago via nave lungo il torrente Bardello e nuovamente via carro fino al Lago Maggiore. Da qui sempre via nave lungo Ticino e Naviglio Grande potevano raggiungere Milano. Tra il XVI e il XVIII secolo le cave lombarde fornirono materiale da costruzione per cascine, palazzi nobiliari, piccole chiese e basiliche».

Un altro storico utilizzo dei materiali estratti è legato, a partire dal 1870, alla produzione di mole per affilare lame e utensili vari (pietre da mola, da cui “molera”) Poi, nei primi decenni del ’900, è arrivato lo smeriglio,

assai più duro e resistente, a sua volta soppiantato da abrasivi sintetici e le Cave di Molera chiusero definitivamente. Con l’abbandono dell’arenaria, gran parte delle maestranze vennero infine impiegate nell’industria delle piastrelle che divenne fiorente. «A Malnate, che è capofila del parco, ci sono ancora tre ditte che sono leader mondiali per la produzione di mole abrasive. E all’inizio del Novecento la ditta Conti ha iniziato a produrre le presse sia per le piastrelle delle chiese che per i mosaici», osserva Fabio Facetti. Per moltissimi anni gli antichi vuoti, scavati dagli scalpellini, sono stati dimenticati o – peggio –utilizzati in modo dissennato. «Vero. Negli anni Sessanta e Settanta queste cave venivano prese come discariche. Al confine tra Malnate e Cagno le riempivano di robaccia che veniva poi incendiata. Non era tempo di sensibilità ecologica». Ne troviamo qualche traccia all’esterno di alcune cave, copertoni e lamiere malamente interrate rappresentano gli ultimi indizi di quello scempio. Poi, per fortuna, qualcuno si è accorto della loro bellezza e nel 2002 è stato creato il Parco che, tra l’altro, sarà facilmente percorribile anche dal Ticino grazie alla ciclopista TI CICLO VIA, un sistema di mobilità ciclistica trasfrontaliera nei territori delle valli dell’Olona, del Lanza e del Mendrisiotto.

Ora che non ci lavora più nessuno le cave sono diventate muti monumenti al lavoro, all’ingegno e al sudore di generazioni e generazioni di nostri antichi vicini di casa, cattedrali naturali sepolte nel verde rigoglioso dei boschi prealpini, luoghi selvaggi e

magici dove tra una parete e l’altra riecheggia l’eco di chi si lascia sfuggire grida di meraviglia. Lo facciamo anche noi affacciandoci alla cava «nuova», scoperta qualche mese fa e che raggiungiamo inerpicandosi nel bosco una cinquantina di metri sopra quelle già note.

Qui e in tutti gli anfratti la sensazione è la stessa: le volte e gli antri sono impressionanti, vi si leggono per linee orizzontali gli strati di estrazione.

In altre cave la luce del giorno piove da enormi spaccature di roccia da cui precipitano liane e rampicanti. Enormi occhi di cielo ti scrutano dall’alto, i raggi filtrano tra i rami come dal rosone di una chiesa gotica. Fuori dal cerchio di luce è già penombra, venti passi in là e domina il buio fitto. Il bambino che c’è in noi sogna di trovarci, da qualche parte, il tesoro dei pirati. «In una grossa cava c’è quella che da piccoli chiamavamo “la nave”», spiega del resto la nostra guida, «una formazione rocciosa che vista dal davanti sembra una prua che fende il mare». Ma qui tutto sa di preistoria e non ti stupiresti se dall’oscurità uscisse un peloso mammut sollevando nuvole di polvere. Deve averlo pensato anche il tizio che in tempi recentissimi ha inciso con un tizzone su una delle pareti le sagome nere di omini a caccia di bisonti. «Sì, osserva Facetti, «ogni tanto si nota qualche parete imbrattata. Alcuni venivano qui anche per dei riti più o meno esoterici. Ma oggi le cave sono abbastanza frequentate e controllate. Il vero problema sono i crolli. Ce n’è stato uno importante nel 2013. La volta di quella più grossa, a Malnate, ha avuto un cedimento; in quella di Cagno il 6 maggio 2016 c’è stato un altro brutto crollo. Per motivi di sicurezza tutte le cave sono state transennate». Solo il cordoncino di sicurezza teso all’ingresso di questi mondi nascosti (li abbiamo potuti scrutare anche grazie all’aiuto di un drone liberato come una libellula negli spazi interni) ci separa dai capolavori di vuoto che l’uomo, la luce, le infiltrazioni d’acqua e gli agenti atmosferici hanno plasmato segretamente nei secoli, appena a due passi dal confine svizzero.

Indicazioni pratiche Altre foto su www.azione.ch; Info: https://parcovallelanza. mailchimpsites.com/

Da sapere

Il

percorso

Il percorso si sviluppa a due passi dalla Svizzera, lungo il sentiero tra Malnate (VA) e Cagno (CO) e costeggia il fiume Lanza, all’interno del Parco Valle del Lanza. A monte del sentiero si trovano le antiche C ave di Molera. A piedi vale la pena di percorrere il sentiero transfrontaliero che parte dai campi di Santa Margherita di Stabio, costeggia l’antico sedime della ferrovia, passa dalla vecchia stazione della Valmorea e giunge al Mulino del Trotto, a Cagno. Tra partenza e arrivo calcolate 5/6 km di percorso. Le cave principali si trovano a qualche centinaia di metri dal Mulino, sopra il sentiero che porta alla Folla di Malnate.

Le cave

Ma come si sono formate le cave? Grazie al lavoro dell’uomo. Qui, infatti, tra il ’600 e il ’900 venivano estratte e lavorate le macine per la brillatura del riso, così come vari tipi di elementi architettonici: ad esempio capitelli, mensole, frontalini, stipiti, coprimuri e pilastri. Nel comune di Malnate ce n’erano sette e vi si estraeva pietra arenaria. Secondo gli storici, nel 1873 davano lavoro a una trentina di persone. La paga degli operai ammontava a 2 lire e al giorno (il doppio rispetto a quella dei manovali). Ogni anno vi si producevano un migliaio di «brille da riso». Dal 1870, su iniziativa di Gaetano Ermoli la pietra cavata venne utilizzata anche per realizzare mole per affilare lame di falci, coltelli e utensili vari. Nei primi decenni del ’900 lo smeriglio e poco dopo gli abrasivi sintetici decretarono la fine delle cave.

Il mulino È facile raggiungere le cave dal Mulino del Trotto. È un mulino a tre ruote, ancora ben conservate, collocato sulla riva sinistra del Lanza a Cagno (CO). Si chiama così per via di un affittuario del ’600, Antonio Mina, detto «il trotto», membro di una dinastia di mugnai attivi fino al secolo scorso. Al Mulino sono visibili alcune opere di uno scultore piuttosto noto, Felice Mina (1912-1976). L’artista realizzò, tra le altre cose, il crocifisso astile impugnato da Paolo VI nel viaggio nelle Filippine e la medaglia di Papa Giovanni XXIII, portata in orbita attorno alla Luna dagli astronauti americani, oggi esposta nei Musei Vaticani. L’antico opificio non è più in funzione ma è visitabile grazie alla disponibilità di volontari che lo aprono su richiesta.

Il parco Valle del Lanza

Il parco si trova in un’area protetta di interesse sovracomunale (PLIS) e si sviluppa attorno al letto del torrente Lanza, che attraversa il parco dal confine con il nostro cantone a nordest fino all’immissione nell’Olona a sud-ovest, tagliando una stretta valle all’interno di un territorio collinare. A Nord ecco i due principali rilievi: il colle di San Maffeo (515 m s.l.m.) a Rodero e a Bizzarone il Colle dell’Assunta (533 m s.l.m.), proprio in faccia al sistema dei monti Casnione e Morone (rispettivamente 492 m s.l.m. e 498 m s.l.m.) nella parte centro-meridionale.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 14
Itinerari ◆ Suggestioni dalle cave di Molera, nella selvaggia Valle del Lanza, ad appena due passi da Stabio

Tangeri è l’altra colonna d’Ercole. Con le sue enormi banchine spalancate sull’altrove e le mille case bianche, si erge orgogliosa dirimpetto alle vicine coste spagnole, con tutto il suo carico di storie, contraddizioni e inconfessabili segreti, che nemmeno il perenne scorrere delle correnti attraverso lo stretto di Gibilterra è mai riuscito a cancellare.

Inondata dalla luce riflessa dall’Atlantico, eclettica e spudorata, Tangeri è la porta che apre all’Africa. Nel suo tumultuoso passato è stata fenicia, cartaginese, romana, vandala, bizantina, araba, portoghese, spagnola e britannica, persino covo di pirati; dal 1923 al 1956 anche zona internazionale neutrale. Il risultato? Una mescolanza di stili, lingue, sapori, architetture e stravaganti personaggi. Il più conosciuto è il grande viaggiatore berbero Ibn Battuta: qui nacque e da qui partì alla volta del mondo, facendovi ritorno (giusto per qualche giorno) dopo ben venticinque anni di peregrinazioni; ma si racconta anche del passaggio di Garibaldi, che a Tangeri soggiornò in esilio per un anno; e di Matisse, che dalla camera 35 del Grand hotel Villa de France –tutt’oggi visitabile – scoprì la luce e il blu inquietanti del Marocco.

Inutile tentare di comprendere questa mutevole città. Meglio sfogliarla come un libro, pagina dopo pagina, racconto nei racconti, senza mai domandare né cadere nella fretta del (pre)giudizio. Meglio accostarsi a lei dal mare, lentamente, passeggiando lungo la sua promenade. Qui i ragazzini galoppano a pelo di cavallo sulla spiaggia, le donne lavano i panni col favore della corrente e gli eternamente stanchi si addormentano al limitare della battigia, in barba all’alta marea. Ma è a ridosso dei bastioni cittadini che Tangeri ritrova la sua energia, tra accaniti venditori di hashish, arrotini in bicicletta che molano lame a colpi di pedale, cambiavalute dell’ultima ora, improvvisati banditori di pesce e imbonitori pronti ad approfittarsi della buona fede (o distrazione) altrui.

Tangeri mette alla prova. Alla prima svolta si resta subito intrappolati in un labirintico sistema di vicoli dove è facile perdere l’orientamento e ritrovarsi assediati da sguardi indiscreti. Per uscirne basta seguire l’aroma

di glassa e di carne allo spiedo che segna la strada verso il centro, fino alla caotica Place Petit Socco, con il suo storico Café Tingis, dove si accampava lo scrittore americano Paul Bowles, autore del troppo citato Il Tè nel deserto. Truman Capote, Gore Vidal e Tennessee Williams invece alternavano il Café Central al Gran Café de Paris, mentre gli scrittori beatnik Allen Ginsberg, Jack Kerouac e William Burroughs preferivano il Café Hafa. «Nessuno qui è esattamente ciò che sembra. Tangeri è una vasta colonia penale», scriveva quest’ultimo. E a ragion veduta: la città in quegli anni era infatti un torbido ricettacolo di spie e ambigui diplomatici, blasonate ereditiere e rifugiati, artisti incompresi e viziate star del cinema.

Sovraccarica di racconti, Tangeri è una città di voci, richiami a perdifiato e carretti a rotta di collo nel

frenetico zigzagare della Medina. Impossibile evitarli. E subito ci si ritrova avvolti nei più disparati miasmi, che esalano da ogni dove nei meandri del suq : agrumi, frittura, sigarette, cuoio, pesce (più o meno fresco), argan, vello di capra, urina, verdura marcia, muschio, sandalo, sudore, ambra, gelsomino. Ma soprattutto menta: giunge a sera inoltrata dentro enormi sacchi di iuta da quindici chili, portati faticosamente a mano dai facchini fin sulla soglia dei negozi, lasciando dietro di sé una lunga scia aromatica che perdura per tutta la notte.

L’abbondanza di mercanzie che il suq è in grado di offrire è da Mille e una notte: stoffe pregiate, spezie remote, vertiginose essenze di rosa damascena e tappeti di lana tessuti a mano e tinti esclusivamente con colori naturali (tranne il nero, per il

quale si ricorre alle rare pecore nere dell’Atlante). Strani incontri accadono tra queste anguste vie. Per esempio con il vecchio Mohammed Aloui, che sostiene di discendere in linea diretta dalla famiglia di Maometto. O con la piccola Jasmine, del ristorante Kebdani, che a soli sei anni già aiuta la mamma in cucina e serve ai tavoli, sorridendo ai commensali e facendosi pagare con un’eloquente sfregata di dita.

C’è sempre un oltre, a Tangeri. All’infinito, senza tregua. Il raffinato quartiere bohémien è un angolo di quiete ben lontano dal cicaleccio cittadino, dove gli artisti francesi hanno aperto botteghe, laboratori e atelier. Poco distante il Dar el Makhzen, seicentesco palazzo del sultano tutto fontane in marmo, decorazioni moresche e legni intagliati, vigila imponente dalla vetta della città, nella

vecchia kasbah, un dedalo di stradine dove vive la gente comune, tra porte azzurre, pareti rosse, gatti randagi e murales variopinti al limite del lisergico.

Per lungo tempo Tangeri si è quasi vantata del suo declino, vittima compiaciuta della dissolutezza e di una pessima reputazione. Da alcuni anni a questa parte però il morale della città sembra essersi risollevato. Il re Mohammed VI infatti ha progetti avveniristici per il futuro; un investimento di dieci miliardi di dollari potrebbe trasformare Tangeri in una sorta di Dubai del Marocco. Del resto un antico adagio tuareg dice che «se c’è una meta, anche il deserto diventa una strada».

Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

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e spudorata Tangeri Reportage ◆ Apre le porte dell’Africa mettendo alla prova i turisti più ingenui, che restano comunque incantati dai suoi misteri Emanuela Crosetti, testo e foto
Eclettica
Giochi d’acqua al tramonto, lungo la promenade; a destra, attimi fuggenti tra i vicoli della medina; sotto, i vicoli nel quartiere popolare.

Ricetta della settimana - Salmone con pastinache e burro alla limetta

Ingredienti

Piatto senza glutine Ingredienti per 4 persone 800 g di pastinache sale 80 g di burro

2 limette 4 filetti di salmone con la pelle di 180 g fleur de sel pepe

2 c d’olio d’oliva 200 g spinaci per insalata

Preparazione

1. Tagliate le pastinache a fette sottili. Lessatele in acqua salata per circa 20 minuti o cuocetele al vapore. Scolate l’acqua, lasciandone solo 1 dl.

2. Aggiungete la metà del burro e riducete tutto in purea con uno schiacciapatate. Tenete in caldo.

3. Prelevate la scorza delle limette e tagliatela a striscioline. Le limette tagliatele invece a fette.

4. Dimezzate i pezzi di salmone e conditeli con sale e pepe. Rosolateli sul lato della pelle nel resto dell’olio per circa 6 minuti, girandoli una volta. Terminate la cottura sul lato della pelle.

5. Unite il resto del burro e irrorate il salmone con quello fuso.

6. Quindi unite la scorza delle limette e servite il salmone con la purea irrorando il tutto con il burro.

7. Saltate brevemente gli spinaci in padella, finché si aff losciano, e servite anche questi come contorno del salmone, senza dimenticare le fette di limetta.

Preparazione: circa 45 minuti.

Per persona: circa 44 g di proteine, 49 g di grassi, 27 g di carboidrati, 740 kcal/3100 kJ.

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La fascinosa primula del Capo

Mondoverde ◆ Se trova la posizione ideale, questa elegante pianta d’appartamento fiorirà per tutto l’anno, anche d’inverno

Quando vivevo in Inghilterra e lavoravo in un grande vivaio alle porte di Londra, avevo il compito di allestire un’area della serra principale con le più belle varietà di Streptocarpus, una graziosissima pianta d’appartamento dall’aspetto tropicale. Originaria del sud Africa, Madagascar e Thailandia è conosciuta con il nome di «primula del Capo», in omaggio alla sua scoperta presso Città del Capo, capitale del Sudafrica.

Non conoscendole bene, prima di svolgere concretamente il mio incarico mi dovetti documentare. È grazie a questa preziosa esperienza che iniziai a collezionarle, facilitata dal fatto che la primula del Capo, almeno all’epoca, era una pianta molto di moda oltremanica.

Pianta molto di moda oltremanica, la Streptocarpus è invece più rara e di difficile reperibilità dalle nostre parti

Da noi invece si trova purtroppo con una certa difficoltà, ed è un vero peccato poiché è davvero una bella pianta, caratterizzata da grosse foglie di color verde chiaro dalla forma lanceolata, solitamente ricoperte da una sottile peluria, che formano una rosetta dalla quale escono i grandi fiori campanulati sui toni dell’azzurro e del rosa; fiori peraltro composti da cinque petali, e che possono crescere isolati o a gruppi, sempre portati da esili fusticini che si elevano dal centro della rosetta di foglie. Molto

spesso i fiori di questa allegra piantina che non supera i 35-40 centimetri d’altezza, producono frutti dall’aspetto attorcigliato e contorto, da cui l’origine del nome greco: streptos (contorto) e karpós (frutto).

Appartiene alla famiglia delle Gesneriaceae, ed è una parente stretta della violetta africana. La sua temperatura minima di coltivazione è di 16 gradi, quindi la vita in appartamento da fine settembre a inizio giugno è l’ideale. Detta in altre parole: nei mesi freddi, come quelli che sono ormai iniziati, deve essere ricoverata in casa, mentre in estate può esser lasciata all’aperto in zona luminosa ma all’ombra.

Che sia inverno o no, è importante evitare sempre, durante le frequenti bagnature, di far cadere l’acqua sulle foglie o sui fiori, per non rischiare di farli marcire (basterà inumidire la terra). Molto importante è anche l’apporto di un concime liquido ricco di fosforo, potassio e microelementi, da somministrarsi ogni 15-20 giorni. A tal proposito, essendo amante dell’umidità, non tollera la vicinanza ai termosifoni o caminetti. Per contro, se le trovate la posizione ideale, fiorirà continuamente per tutto l’anno e i fiori recisi si conservano a lungo in un bel vaso d’acqua.

Con la crescita andranno rinvasate, meglio se in primavera, utilizzando un terreno per acidofile mischiato con sabbia fine e un fondo di argilla per favorire un ottimo drenaggio.

Tra gli ibridi di Streptocarpus è facile imbattersi in esemplari che hanno petali screziati di bianco, con la gola dei fiori striati, ciò che dà ori-

gine a contrasti sempre nuovi e ammalianti. Gli ibridatori hanno inoltre ottenuto molte piante con colorazioni differenti incrociando S. rexii, la specie più comune, dai bei fiori bluastri, con le altre specie, ottenendo fiori alti fino a quaranta centimetri, con colorazioni sgargianti e fiori grandi e vistosi. Di queste varietà, la più co-

mune è forse la «Constant Nymph», un ibrido perenne, con foglie lunghe trenta centimetri e deliziosi fiori blu scuro con la gola giallo pastello.

La specie a mio parere più estrosa è invece la S. dunnii perché presenta un’unica foglia, lunga quasi un metro, dalla forma oblunga e lanceolata, che si piega verso il basso. Dalla base

della foglia in primavera sbocciano le infiorescenze tubolari, che danno vita a fiori rosa vermiglio.

Se avete la fortuna di trovare alcuni esemplari di questo fiore, non fateveli sfuggire: posizionati in un grande cesto o all’interno di vasi dalle forme moderne, non sfigureranno di certo.

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Leonora Enking

Angolo verde in lattina

Crea con noi ◆ Una semplice idea per riciclare le lattine di alluminio e trasformarle in contenitori per piante grasse o candele

Le feste si sono concluse e abbiamo riposto le decorazioni natalizie nelle loro scatole.

La voglia di lucine e dell’atmosfera di calore che creano però in noi non si è spenta.

Ecco allora un duplice tutorial che vuole nobilitare le lattine di alluminio trasformandole in candele o in contenitori per piante grasse.

Riunite su di un vassoio creeranno il vostro personale giardino casalingo. Un tocco di verde benaugurale per iniziare questo nuovo anno.

Procedimento

Lavate bene le lattine e passate sui bordi una carta abrasiva così che non risultino più taglienti.

Scegliete degli scampoli di stoffa che si abbinino piacevolmente tra loro,

misurate la circonferenza delle lattine basse e aggiungendo 2 cm fate un segno sulla stoffa come riferimento. Applicate su questa lunghezza la striscia di biadesivo facendo aderire bene. Con il taglierino ricavate quindi delle strisce dell’altezza necessaria. Procedete così per tutte le lattine.

Per le lattine alte potete mettere il biadesivo direttamente sul barattolo, non sarà necessario coprire tutta la superficie, vi basterà metterne alcune strisce verticalmente.

Come base per la vostra composizione potete utilizzare un vassoio sia rettangolare sia rotondo, oppure crearne uno rivestendo un semplice cartone di riciclo. Tagliate un rettangolo di stoffa lasciando un margine di 4 cm tutto attorno al cartone. Sul retro posizionate delle strisce di biadesivo da 2

cm. Posizionate il cartone al centro del tessuto con il retro rivolto verso di voi e tendendo bene la stoffa risvoltate prima i lati lunghi e poi quelli corti tagliando il tessuto in eccesso negli angoli. Rifinite i bordi con le forbici, e se necessario applicate un nastro adesivo di carta o plastica.

Candele in lattina Per le candele mettete a sciogliere a fuoco medio la cera in una lattina che farete scaldare a bagnomaria. Mentre

la cera si scioglie preparate gli stoppini, fissandoli sul fondo con un po’ di cera liquida e tenendoli diritti avvolgendo la cima attorno a uno stecchino in legno. Io per maggior sicurezza ho fissato lo stecchino in legno tra delle mini mollette in modo restasse esattamente nella posizione desiderata. Versate la cera liquida nelle lattine e lasciate raffreddare. Quindi regolate lo stoppino.

Piante grasse in lattina

Per coltivare le vostre piante grasse invece riempite le latte con del terriccio umido, a questo punto andate a fare una bella passeggiata e raccogliete le piantine che più vi piacciono. Se fate attenzione tra i sassi e i muretti ne troverete di tantissime varietà.

A qualche lattina aggiungete dei piedini incollando alla base 3-4 perle in legno. Questo vi permetterà di avere altezze diverse e rendere la composizione più interessante.

Posizionate le lattine preparate sulla base. Il vostro piccolo giardino di piante grasse è pronto.

Naturalmente se vorrete accendere le candele (qui presentate per dare due diverse idee di riciclo) allontanatele dalle piante che altrimenti ne soffrirebbero.

Buon divertimento!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Materiale

• L attine di alluminio basse (4-5 pezzi)

• L attine di alluminio alte (1-2 pezzi)

• Scampoli di stoffa nei toni del bianco e nero

• Biadesivo da tappezziere

• Perle in legno da 2 cm e da 1 cm

• Pistola colla a caldo

• Forbici/taglierino

Per le piantine grasse:

• Terriccio, piantine

Per le candele:

• Cera d’api o resti di cera da far sciogliere

• Stoppini per candele

• Pinza per reggere la lattina

• L attina vuota in cui far sciogliere la cera

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente

1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17
la pubblicazione
del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la
cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P.
ORIZZONTALI 1. Ispessimento della cute 5. Con i capelli tagliati a zero 10. Collisione 11. Ci sono quelli sportivi 12. Le iniziali del noto Arbore 13. Si dice di Dio 15. Un numero 17. Raganella arborea 19. Le custodivano le Vestali 20. Indumento per religiosi 21. Fiume dell’Asia meridionale 23. Sono formate da trefoli 24. Pronome dimostrativo 25. Una machine nei locali pubblici 27. Tace sempre 28. Signora dell’Olimpo 29. Il prefisso che dimezza 31. Vi risiede la regina d’Olanda 32. Indumenti femminili 34. Due vocali 35. Violazione della legge 37. Il nome dell’astronauta Armstrong 39. Medesimi 40. Pubblicata VERTICALI 1. Vi si radunava il senato romano 2. Uno dei laghi più estesi del mondo 3. Le iniziali di Tolstoj 4. Scampò alla distruzione di Sodoma 5. Le cavie di Galvani 6. Si conficca in gola 7. Iniziali di Pinco Pallino 8. Vigoroso, robusto 9. Parte dell’intestino tenue 11. Nome maschile 14. Non fitti 16. Passano mormorando... 18. Facilitare, agevolare 20. Aggettivo possessivo 22. Piccolo difetto 23. Un pasticcio in cucina 24. Avverbio di luogo 25. Collina anatomica 26. Piccolo spazio verde 27. Si stacca dal tutolo 28. Elargite dalla natura 30. Meito senza fine 32. È molto espansivo 33. La fine degli inglesi 36. Iniziali di Salgari 38. Le iniziali della conduttrice Isoardi Cruciverba «Ma tu lo reggi il vino?» – «Ma certo!». Trova la risposta dell’amico leggendo a cruciverba ultimato le lettere evidenziate. (Frase: 6, 7, 1, 6, 2, 6, 9) Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate. Soluzione della settimana precedente La statua dell’Unità è la statua più alta del mondo, si trova: IN INDIA ed è alta: CENTOTTANTADUE METRI. 1 2 3 4 5 67 8 9 10 11 12 1314 15 16 17 18 19 20 2122 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 3536 3738 39 40 I NN I NITI D I S A C T E NUE T OM S OLDO TA L T ARLI DEL ESE N TE M ANO OSTE D UNT E M E N E TAL AU REL IO 419 5 4 1 9 2 7 5 6 7 38 1 9 53 2 8 4 2463 875 19 9574 126 38 1389 652 47 8 9 5 6 4 3 7 2 1 6731 298 54 4127 589 63 7 6 9 5 3 4 1 8 2 3812 764 95 5248 913 76 Giochi e passatempi Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o
cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome,
premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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La Cina punta sull’UE

Pechino al WEF: siamo di nuovo sul mercato globale. Ma la fiducia nei suoi confronti è crollata

Pagina 20

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In Francia sono iniziate le agitazioni contro il progetto di riforma delle pensioni

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L’educazione e i segreti del boss mafioso arrestato in Italia la scorsa settimana

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Due rompicapi per Baume-Schneider

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Pagina 25

La neoeletta consigliera federale giurassiana dovrà lottare parecchio per riuscire a trovare compromessi dignitosi in tema di asilo e di libera circolazione delle persone. Il 2022 è stato un anno record per il numero di profughi in arrivo in Svizzera

Berna ◆

Il miglior giorno nella vita di un consigliere federale è il primo, quello della sua elezione. Non senza un pizzico di amara ironia, tra gli ex ministri del nostro Paese sono in molti a vederla in questo modo. Per i neoeletti dopo il clamore della nomina –e il ricevimento nel proprio Cantone d’origine – la luna di miele finisce, e finisce alla svelta. Ben presto, solitamente pochi giorni, inizia il lavoro. Sulla nuova scrivania si accumulano i nodi da sciogliere e gli avversari, in Governo e nel Paese, non tardano a palesarsi.

Ne sa di certo qualcosa Albert Rösti – da poco responsabile del Dipartimento dell’ambiente, dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni – finito nelle critiche già prima di cominciare il suo lavoro per essere stato un lobbista delle auto e del petrolio. Ma il consigliere federale dell’UDC sta ora facendo discutere anche per la scelta del suo nuovo segretario generale. Yves Bichsel, questo il suo nome, solleva parecchie perplessità perché considerato molto (troppo?) vicino a Christoph Blocher e perché le sue posizioni vengono ritenute poco sensibili al clima e all’ambiente. «Siamo in Governo per rimanere tra gli 8 e i 12 anni», ha fatto sapere lo stesso Bichsel, come a dire «il cammino è ancora lungo, lasciateci lavorare e poi giudicateci».

L’altro neoeletto consigliere federale Albert Rösti è stato criticato per essere stato un lobbista delle auto e del petrolio

Apparentemente meno ardui sono stati invece i primi giorni in Governo dell’altra neoeletta consigliera federale, la socialista Elisabeth Baume-Schneider. La prima giurassiana in Governo a Berna ha finora avuto un inizio tutto sommato morbido, ma si intravedono già diverse nuvole cupe all’orizzonte. Per lei in particolare due grandi temi da affrontare, con la prospettiva di dover battagliare parecchio per riuscire a trovare un compromesso dignitoso.

Il primo tema è quello dell’asilo, argomento sempre politicamente scottante. E ancor più in questo momento. Il 2022 è stato un anno da primato per il numero di profughi che sono arrivati nel nostro Paese, comprese le oltre 61mila persone che hanno ricevuto uno «Statuto S» perché in fuga dall’Ucraina. E qui, nella gestione di questa emergenza, la ministra giurassiana dovrà guardarsi soprattutto dall’UDC, sempre pronta, soprattutto in un anno elettorale come questo, a far leva su quello che non

esita a chiamare il «collasso totale del sistema asilo», anche se la situazione al momento rimane tutto sommato sotto controllo. Uno scenario che ricorda quello del 2015, altro anno di elezioni federali, in cui il tema dell’asilo, con cifre allora ancora più elevate, aveva permesso ai democentristi di accrescere il proprio successo elettorale.

Una gatta da pelare anche per Alain Berset, confrontato con la questione dei cosiddetti «Corona-Leaks»

La seconda patata bollente è quella dell’immigrazione di forza lavoro, in particolare quella in arrivo dall’Unione Europea. Argomento che chiama direttamente in causa gli accordi bilaterali e in particolare la libera circolazione delle persone. Va detto che in questo contesto Elisabeth Baume-Schneider (chiamata sempre più spesso anche EBS) è, tra i sette ministri svizzeri, quella che ha maggiormente a che fare con l’UE, anche più di Ignazio Cassis, capo della nostra diplomazia. Da ministra della giustizia partecipa regolarmente agli incontri dei suoi omologhi europei e degli altri Paesi terzi che fanno parte dello Spazio Schengen/Dublino (i trattati sulla mobilità transfrontaliera interna e sull’asilo). Vertici in cui si discute anche – e per la Svizzera soprattutto – di libera circolazione delle persone. Questo è l’accordo che più di ogni altro incarna le nostre relazioni con l’Unione europea e che al momento rappresenta il principale nodo da sciogliere per dare un futuro stabile ai rapporti tra Berna e Bruxelles. Per EBS è, e sarà, un vero rompicapo. Nell’affrontarlo, lei e l’insieme del Consiglio federale dovranno vedersela con due fronti ben distinti e su questo tema ormai ben collaudati. Da una parte troviamo l’UDC e, in Ticino, anche la Lega che già da settimane agitano lo spauracchio della «Svizzera a nove milioni di abitanti», soglia psicologica che il nostro Paese dovrebbe raggiungere nel corso del 2023, sommando popolazione residente e altre categorie di persone, come i richiedenti l’asilo. L’UDC mira a rimettere di nuovo in discussione la libera circolazione delle persone, con una nuova iniziativa popolare anti-immigrazione già annunciata.

Dall’altra parte c’è invece il fronte sindacale, politicamente vicino alla ministra socialista. Sindacati che finora hanno sempre osteggiato qualsiasi tipo di concessione sulle misure di accompagnamento, il pacchetto di provvedimenti adottato per pro-

teggere il mercato del lavoro svizzero dai possibili effetti negativi della libera circolazione, dumping salariale in primis. Due fronti a cui va aggiunta l’ala più europeista della sinistra svizzera, in gran parte romanda e che di certo ha votato Elisabeth Baume-Schneider nel giorno della sua elezione in Governo. E che da lei si aspetta un riavvicinamento a Bruxelles. Trovare un compromesso in un contesto del genere appare compito arduo. La libera circolazione delle persone rischia pertanto di rimanere il terreno di scontro più acceso nel riformulare la nostra politica europea, finita in un vicolo cieco dopo la bocciatura da parte del Consiglio federa-

le dell’accordo quadro con l’UE. Era la primavera del 2021.

Per la ministra giurassiana ci sono poi altre problematiche da affrontare: l’accesso al passaporto svizzero, i diritti civili, la parità uomo-donna o la lotta alla criminalità. Con una necessità che riguarda anche il suo partito: evitare i passi falsi, in particolare in un anno come questo che culminerà in autunno con le elezioni federali.

Il partito socialista è già alle prese con i guai che stanno sempre più accerchiando Alain Berset. L’altro ministro del PS in Governo è infatti confrontato con la questione dei cosiddetti «Corona-Leaks», la fuga di notizie che sarebbe stata orche-

strata in piena pandemia dal suo ex portavoce Peter Lauener, fornendo informazioni confidenziali al gruppo editoriale Ringier. Un’inchiesta è in corso, non riguarda lo stesso ministro, ma questo caso rischia di pesare molto sull’anno presidenziale di Berset e sulla sua eventuale rielezione il prossimo dicembre. Le polemiche non accennano a diminuire e per il suo partito si tratta di una grana di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Per lo stesso Berset è la conferma di quanto affermano di tanto in tanto i suoi ex colleghi di Governo: il primo giorno rimane a conti fatti il migliore – e di sicuro il più spensierato – nella vita di un consigliere federale.

ATTUALITÀ ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 19
La consigliera federale socialista Elisabeth Baume-Schneider e, sullo sfondo, Alain Berset. (Keystone) Roberto Porta

Pechino ammicca all’Unione Europea

Al WEF di Davos la Cina ha portato un messaggio chiaro: sono tornata. Ma la fiducia nei suoi confronti è crollata Giulia Pompili

«La Cina è tornata sul mercato globale ed è pronta a fare la sua parte». Dopo tre anni di isolamento dovuto alle rigide politiche «zero Covid», la scorsa settimana una delegazione cinese è arrivata al Forum economico mondiale di Davos (WEF) portando un messaggio chiaro agli economisti, ai politici e agli investitori globali, ma soprattutto a quelli europei. Il problema è che Liu He, vicepremier e zar dell’economia cinese, è stato costretto a pronunciare il suo atteso discorso quando a Pechino l’Istituto nazionale di statistica aveva da poco diffuso due notizie poco rassicuranti. Da un lato la crescita economica del Paese nel 2022 si è fermata al 3%, un calo significativo rispetto alla previsione del 5,5%. Inoltre, per la prima volta da sessant’anni a questa parte, la popolazione cinese è in calo, il numero dei morti supera quello dei nati, e il Paese più popoloso del mondo sarà costretto a prendere provvedimenti per evitare i danni economici della decrescita demografica.

La fiducia nei confronti della Cina è crollata. La situazione è peggiorata con la politica «zero Covid» e la crisi ucraina

«Gli investimenti stranieri sono i benvenuti in Cina e la nostra porta si aprirà ulteriormente», ha detto Liu, un fedelissimo del leader Xi Jinping che però, a marzo, dovrebbe andare in pensione. Il vicepremier ha spiegato che l’economia cinese si rafforzerà grazie alle lezioni imparate durante gli anni di crescita, utilizzando i meccanismi di mercato, sostenendo un ambiente globalizzato, e «governando secondo lo stato di diritto, compresa la protezione della proprietà intellettuale, e promuovendo l’innovazione». In linea di principio il discorso di Liu è stato apprezzato dai partecipanti al WEF ma nessuno ha accolto le sue parole come avrebbe

fatto qualche anno fa: la fiducia nei confronti della seconda economia del mondo è infatti crollata e la situazione è perfino peggiorata con la politica «zero Covid», repressiva e inutilmente punitiva, e dopo l’inizio della guerra della Russia contro l’Ucraina.

La Cina di Xi nel febbraio dello scorso anno ha sancito un’amicizia senza limiti con Vladimir Putin e non ha mai aderito alle sanzioni occidentali, portando avanti invece numerose collaborazioni, sia in campo economico sia militare, con la Russia. Da questo isolamento, epidemiologico e diplomatico, soprattutto con l’Occidente, Pechino adesso è costretta a uscire perché per far correre l’economia, l’innovazione e l’influenza diplomatica ha bisogno dei partner occidentali più ricchi. E ci sono una serie di segnali che dimostrano questa direzione intrapresa da Pechino.

Il dialogo con l’America, dopo mesi di gelo, si è riaperto, ed è stato proprio Liu He a raggiungere mercoledì scorso a Zurigo, per un bilaterale, la segretaria del Tesoro americana, Janet Yellen. La conversazione tra i due sarebbe stata «franca» e produttiva, nonostante le «molte aree di disaccordo». Ma se in America la politica del sospetto nei confronti della Cina è ormai bipartisan, cioè condivisa sia dai democratici sia dai repubblicani, e l’Amministrazione Biden sta lavorando ormai da mesi per rendersi indipendente dal mercato cinese, è sull’UE che punta la Cina. Perché l’Unione si muove ancora in ordine sparso nei rapporti con Pechino, ogni Paese membro con un suo approccio scoordinato dagli altri, e per rafforzare i rapporti bilaterali, Pechino ha lanciato un’offensiva diplomatica dimostrata dalla presenza di Liu He al WEF e poi, a febbraio, da un’inattesa visita in Germania e Belgio dell’ex ministro degli Esteri e membro del Politburo Wang Yi. La Germania del cancelliere Olaf Scholz in particolare, che più dipende economicamente dalla Cina, è stata molto criticata

per aver posto le questioni economiche prima di quelle politiche.

«Dobbiamo concentrarci sulla riduzione del rischio piuttosto che stac-

carci dalla Cina», ha detto a Davos la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in un discorso pressoché tutto incentra-

Tra guerra, economia e ambiente

Dal 16 al 20 gennaio a Davos, nei Grigioni, è tornato il Forum economico mondiale (WEF) in versione «classica» dopo due anni sconvolti dalla pandemia. Martedì 17 si è parlato soprattutto di guerra. Presente la first lady ucraina Olena Zelenska, mentre Zelensky è intervenuto in videocollegamento. «La posizione della NATO non è cambiata, l’Ucraina diventerà un Paese membro», ha dichiarato dal canto suo il segretario generale dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg. Giovedì il WEF ha ospitato capi di Stato (come il presidente della Corea del sud), leader di Governo presenti (l’ir-

landese Varadkar e il greco Mitsotakis) e passati (Tony Blair), personalità politiche di alto profilo e numerose figure del mondo scientifico, dell’economia e della società civile, tra cui l’attivista svedese per il clima Greta Thunberg. La Svizzera lascia Davos con una speranza riguardo al dossier europeo. La presidenza svedese dell’Unione Europea ha infatti invitato Berna a una riunione informale dei ministri degli Esteri e della Difesa a maggio. «È una novità assoluta», ha dichiarato il consigliere federale Ignazio Cassis. «Si tratta di un’opportunità d’oro», di «un segnale da non sottovalutare». / Red.

to sulla dipendenza economica europea da Pechino. Riduzione del rischio significa mettere in sicurezza l’economia senza per forza abbandonare completamente i rapporti con Pechino. «Quando il commercio non è equo, dobbiamo rispondere in modo più deciso», ha affermato von der Leyen. «La competizione deve basarsi su condizioni di parità. La Cina ha incoraggiato le aziende in Europa e altrove a delocalizzare tutta o parte della loro produzione. Lo fa con la promessa di energia a basso costo, bassi costi di manodopera e un ambiente normativo più facile. Allo stesso tempo, però, la Cina sovvenziona pesantemente la sua industria e limita l’accesso al suo mercato per le aziende dell’UE». E la reciprocità non è tutto, perché nel suo discorso la presidente della Commissione apre anche il capitolo della dipendenza su settori che hanno a che fare con la sicurezza strategica. «Per quanto riguarda le terre rare», ha osservato, «fondamentali per la produzione di tecnologie chiave come la generazione di energia eolica, l’immagazzinamento dell’idrogeno o le batterie, oggi l’Europa dipende per il 98% da un solo Paese, la Cina. Dobbiamo quindi migliorare la raffinazione, la lavorazione e il riciclaggio delle materie prime qui in Europa».

Diversamente dalla dipendenza energetica europea dalla Russia, il problema con la Cina è molto più profondo, interconnesso ed esteso, il che significa che una modifica della politica estera europea nei confronti del gigante asiatico avrà conseguenze enormi sui flussi commerciali, sulle catene del valore e su interi settori industriali. Sarà un processo lento, dicono a Bruxelles, ma non si può tornare indietro: l’èra della pax economica è stata definitivamente archiviata. Liu He e la delegazione cinese, a Davos, avevano una missione: cercare di convincere i partner occidentali che Pechino è tornata, come se non fosse successo nulla. Ma quasi nessuno gli ha creduto.

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Il vicepremier cinese Liu He a Davos. (Keystone)

In Francia è battaglia

Il punto ◆ I sindacati intendono bloccare il Paese per fermare il progetto di riforma delle pensioni promosso dal presidente Emmanuel Macron

Francia è entrata in una fase delicata, con scioperi, manifestazioni popolari in tutte le grandi città, un alto grado di litigiosità e la prospettiva di un Paese bloccato e paralizzato in tutti i settori della società. Una prima giornata di protesta si è già svolta. Altre seguiranno. All’origine di questa nuova fase c’è la riforma delle pensioni che il presidente Emmanuel Macron vuol portare a buon termine entro la fine dell’anno e che costituisce il dossier più importante del suo secondo mandato.

Quali sono le tre principali novità della riforma? Innanzitutto l’età della pensione, che passerà gradualmente dagli attuali 62 a 64 anni entro il 2030. Poi i contributi necessari per avere una pensione completa, che saliranno dagli attuali 42 a 43 anni. Infine la soppressione dei regimi pensionistici speciali, ossia quei regimi che consentono a determinate categorie professionali – in particolare nei settori del gas, dell’elettricità e dei trasporti – di andare in pensione prima dei 62 anni. Per addolcire la pillola, il Governo guidato da Élisabeth Borne ha previsto alcuni miglioramenti, come il possibile prepensionamento di chi svolge lavori usuranti o l’aumento della pensione minima a 1200 euro al mese, e si è dichiarato pronto a negoziare ulteriori concessioni.

L’Esecutivo considera necessaria la riforma, perché i francesi vivono più a lungo, perché i contributi di chi lavora non riescono più a finanziare la pensione di chi ha smesso e perché, senza un rapido intervento, il sistema sociale rischia di non essere più sostenibile dal punto di vista finanziario. La riforma viene respinta dalle forze politiche di opposizione, ossia dalla sinistra e dall’estrema destra del Rassemblement National, nonché dai principali sindacati che sono riusciti a trovare un’intesa e a definire i tempi e le modalità di una reazione comune. Secondo i sondaggi, anche l’opinione pubblica è contraria e non vuol cambiare il sistema pensionistico attuale. L’opposizione si scaglia soprattutto sul fatto che in futuro bisognerà lavorare di più e sul rischio, per alcune categorie, di perdere alcu-

ni privilegi che il sistema attuale consente ancora. A ciò si aggiunge anche una sempre più diffusa opinione che la riforma non è equilibrata e che colpisce i ceti più modesti, coloro che non possiedono diplomi, che spesso svolgono lavori umili e che hanno cominciato presto a lavorare. È un’opinione che alimenta la collera sociale di alcune classi e che coinvolge per esempio i funzionari, i commercianti e gli artigiani. Tutti i partiti politici d’opposizione e i principali sindacati chiedono al Governo di rinunciare alla riforma.

La posta in gioco politica risiede nei vantaggi che i vari schieramenti potrebbero trarre dallo scontento popolare

La situazione attuale racchiude pericoli immediati per il Paese e una posta in gioco politica a breve e a medio termine. In passato tutti i Governi che hanno tentato di riformare il sistema pensionistico francese si sono scontrati con una valanga di scioperi, manifestazioni e alla fine vi hanno rinunciato. Fu così nel 1995, nel 2010 e nel 2020. L’ultima volta la rinuncia è stata imposta anche dall’irrompere della pandemia. Il timore di una forte partecipazione popolare nelle strade e nelle piazze, il ricordo sempre vivo delle violenti manifestazioni provocate dai gilet gialli prima della pandemia e la paura che le Reti sociali scatenino movimenti incontrollati, creano un’atmosfera tesa, dominata dall’incertezza. E sullo sfondo sorge lo spettro di un Paese che potrebbe ritrovarsi bloccato, che non sarebbe più in grado di garantire i rifornimenti di energia, di materie prime e di prodotti alimentari necessari per consentire l’attività sociale ed economica, e che costringerebbe il Governo ad adottare misure forti e impopolari.

La posta in gioco politica risiede nei vantaggi che i vari schieramenti potrebbero trarre dallo scontento popolare. Lo scontro più diretto oppone l’estrema destra alla sinistra. Il Rassemblement National non parte-

ciperà alle manifestazioni e cercherà di bloccare, perlomeno di modificare, il progetto durante il dibattito all’Assemblea nazionale. Forte dei suoi 89 deputati e del suo elettorato sempre più popolare, il partito di Marine Le Pen ha adottato una strategia che tende a renderlo una forza politica simile ad altre, accettabile, priva di posizioni estreme. L’obiettivo finale è la conquista dell’Eliseo nel 2027, dopo gli ultimi tre tentativi falliti. Per questo ha bisogno di attirare le simpatie di nuovi elettori. La sinistra, invece, anima gli scioperi e le manifestazioni popolari. Dopo aver fallito l’obiettivo di ottenere la maggioranza all’Assemblea nazionale alle ultime elezioni legislative, i partiti riuniti nella Nupes (Nouvelle Union populaire écologique et sociale) puntano a riguadagnare un po’ di terreno, sia attirando una parte degli elettori di sinistra che hanno votato per il presidente Macron, sia riducendo il consenso popolare di cui gode l’estrema destra.

Il personaggio centrale di questa fase delicata rimane comunque Macron. La riforma delle pensioni viene presentata come la madre delle riforme. Se passerà, il presidente potrà esibire un successo che gli offrirà almeno due vantaggi. Il primo è di poter affrontare in futuro altre riforme riguardanti per esempio l’immigrazione, la sanità e le energie rinnovabili. Pur nella stretta che pongono i gravi ostacoli derivanti dalla guerra in Ucraina, dalla crisi energetica, dall’inflazione e dall’assenza di una maggioranza parlamentare.

Il secondo vantaggio, più personale, è di poter entrare nella storia, lasciando una traccia come presidente riformatore. Se la riforma verrà ritirata o bocciata in Parlamento, Macron avrà perso e la sua sconfitta si ripercuoterà in modo negativo sui prossimi quattro anni del suo mandato, bloccando altre possibili riforme e accentuando la lotta per la successione. La sua permanenza all’Eliseo non avrà allora altri particolari meriti, al di là della futura gestione di eventi importanti come le elezioni europee e i Giochi olimpici previsti a Parigi l’anno prossimo.

Polonia in ascesa

L’analisi ◆ La Nazione è sulla cresta dell’onda a causa del conflitto tra Russia e Ucraina

In Europa è nata una nuova stella. Si chiama Polonia e si avvia a essere la prima potenza militare del Continente. Questa Nazione, che appare e scompare dalle carte geografiche a vantaggio o svantaggio degli imperi russo e/o germanico, è di nuovo sulla cresta dell’onda, forse come non lo è mai stata prima. Deve questa sua repentina ascesa al conflitto in Ucraina, nel quale Russia e Germania appaiono oggi i principali perdenti. Mosca perché si è lanciata in un’avventura militare senza sbocco strategico positivo. Berlino perché, del tutto impreparata alla guerra, ha perso d’un colpo l’interdipendenza energetica con la Russia e vede ridotta la sua relazione economica speciale con la Cina, mentre il suo nanismo militare ne diminuisce la taglia complessiva nella classifica delle potenze.

Di più: nello scontro con la Russia Varsavia è essenziale per gli Stati Uniti. Perché di sicura fede antirussa e antigermanica, per conseguenza filoamericana fino all’eccesso. Sicché risponde alla perfezione al paradigma atlantico, basato sul trittico «Americans in, Russians out and Germans down». Tradotto quindi in «Poles up». Elementare Watson? Sì, ma vero proprio perché elementare. Vediamo come la Polonia si è conquistata il suo nuovo peso dopo il 24 febbraio 2022, rara data discriminante fra una fase storico-geopolitica e l’altra.

Nello scontro con la Russia Varsavia è essenziale per gli Stati Uniti perché di sicura fede antirussa e antigermanica

In primo luogo si è proposta come retrovia dell’Ucraina invasa. Ospitando milioni di cittadini ucraini in fuga. E accogliendoli con grande fervore. Se consideriamo l’ostilità che nel passato recente ha diviso Kiev e Varsavia, la prestazione appare specialmente notevole. In secondo luogo si è affermata come canale di transito privilegiato, quasi obbligato, dei trasferimenti di armi occidentali alle truppe di Zelensky. Senza questo flusso continuo, efficiente e crescente, Kiev sarebbe oggi probabilmente rientrata nei ranghi imperiali russi. Oltre alle armi e alle munizioni, quello polacco è anche il percorso da cui transitano i volontari che a migliaia vanno al fronte per combattere i russi. Tra cui moltissimi soldati polacchi, esentati dall’obbligo di servire solo la patria. Anche perché, dal punto di vista del Governo di Varsavia, la stanno non ufficialmente servendo. In terzo luogo

perché in questo modo la Polonia si qualifica leader di uno schieramento antirusso esteso dalla Scandinavia al Mar Nero, nel quale brillano svedesi, finlandesi, norvegesi, baltici, cechi, slovacchi e romeni, perfino i bulgari. Eccezione fanno gli ungheresi, a conferma che nell’Alleanza atlantica (NATO) si può stare in diversi modi, financo strizzando l’occhio al nemico e trafficando serenamente con esso. In quarto luogo perché i tre punti precedenti consentono agli americani di guardare alla Polonia come perno del loro informale impero europeo. D’intesa con i britannici, perfettamente in sintonia con le altre Nazioni russofobe dell’est.

Per rispettare gli schemi, Varsavia manifesta insieme alla sua inconcussa fede antirussa una altrettanto ferma germanofobia. Mentre combatte armi alla mano in Ucraina contro i moscoviti, la Polonia pretende dalla Germania enormi riparazioni di guerra per i danni e gli orrori subìti nella seconda guerra mondiale (si riserva di chiederli anche ai russi, ma evidentemente non ha troppo tempo da perdere quindi rinvia la pratica). Autorevoli voci polacche accusano l’establishment tedesco di voler recuperare i territori che la Polonia ha acquistato a scapito del Reich dopo il 1945, abitati per secoli da vari ceppi germanici.

Il ritmo del riarmo militare polacco è nettamente superiore a quello tedesco. Non solo in termini materiali, grazie anche al rapporto privilegiato con l’America, alla cui industria della difesa (o dell’attacco) attinge con decisione e successo, ottenendone armi di punta, moderne e temibili. Soprattutto in termini culturali: la popolazione polacca si percepisce di fatto in guerra. Nelle scuole si svolgono esercitazioni militari. I media riflettono questo clima senza troppi fronzoli né remore alla tedesca o all’italiana. Come sempre, il conseguente profilo geopolitico e strategico polacco espone il Paese al rischio di perdere tutto. Ma anche alla speranza di vincere su tutti i tavoli che contano. Se la Russia perderà, nessun altro Paese ne trarrà altrettanto beneficio di status e di potenza. Se Mosca vincerà, per l’America Varsavia diventerà ancora più importante.

Il radicalismo geopolitico che da sempre distingue la Polonia, elevandola a esempio su scala europea, le impone una partita piena di pericoli e di trappole. Ma nessuno fra gli europei sa, come i polacchi, giocare questo genere di match. Dove tutto è in gioco. Tra la vita e la morte la Polonia ha scelto l’America. E non può fare marcia indietro.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 21
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I segreti di Matteo Messina Denaro

Italia ◆ Un ritratto del boss mafioso arrestato settimana scorsa dopo quasi trent’anni di latitanza e qualche interrogativo sul futuro

Gli piacciono le donne (uno dei primi delitti fu per i favori di una bella austriaca), lo champagne Chrystal, gli orologi Rolex Daytona, le sigarette Merit, i videogiochi, il fumetto «Diabolik». Matteo Messina Denaro – il boss arrestato settimana scorsa, il 16 gennaio, dopo quasi trent’anni di latitanza – ha provato a prolungare il mito, fasullo, di una mafia antica, quella che si spacciava per onorata società e pretendeva di definire i propri adepti «uomini d’onore». Malgrado abbia ucciso per futili motivi, commissionato stragi indiscriminate e ordinato di sciogliere nell’acido un ragazzino, Messina Denaro sosteneva di sentirsi un capro espiatorio, si paragonava a Malaussène, il protagonista di Pennac, ci teneva a esibire le proprie letture, si pentiva di non essersi laureato.

A differenza di Riina e Provenzano, semianalfabeti provenienti da una povertà assoluta, Messina Denaro è nato nell’agiatezza. Una famiglia, la sua, in cui il nonno e soprattutto il padre, Ciccio, ne avevano elevato il tono e le conoscenze. E quelle genitoriali andavano dai vecchi compari, che avevano stretto legami fortissimi con Cosa Nostra americana, ai D’Alì, potentissimi imprenditori del trapanese, un membro nel consiglio d’amministrazione della Mediobanca di Cuccia, per mezzo secolo il cuore del capitalismo italiano. Ciccio Messina Denaro ne era diventato l’uomo di fiducia, colui che per conto loro gestiva gli sterminati possedimenti. E non a caso un D’Alì, che nei Governi Berlusconi fu sottosegretario agli Interni, è stato nei mesi scorsi condannato con sentenza definitiva a sei anni di galera proprio per i rapporti con Matteo Messina Denaro.

Lui fin dall’infanzia ha respirato sopraffazione e impunità. La mafiosità è stata la sua educazione: accumu-

lare soldi e potere, incutere un terrore crescente nel prossimo, pretendere il servo encomio, incunearsi nei salotti impudenti, dove i «piccioli» contano più della morale. Allora ecco una delle quattro sorelle sposare un Guttadauro della Palermo capace di mescolare politica, imprenditoria, mafia. Da quasi un secolo i Guttadauro esprimono onorevoli nazionali e regionali, professionisti di grido, boss di alto rango. L’ultimo esponente, Giuseppe, è stato un chirurgo e soprattutto il capo del mandamento di Brancaccio-Ciaculli, fra i più rinomati.

Investigatori e inquirenti hanno fatto il vuoto attorno a Messina Denaro. Nei decenni in cui gli è stata data la caccia sono stati arrestati oltre 300 favoreggiatori; sequestrati e confiscati beni per un paio di miliardi di euro. Non c’è un suo familiare che non sia finito in galera, che non ab-

bia rimediato una condanna per proteggerlo, che non abbia visto il proprio patrimonio buttato all’aria. Si è salvata la donna, Francesca Alagna, anch’essa con parentele di peso, dalla quale nel ’95 ebbe una figlia, Lorenza. Per riuscirci si è dovuta appartare in una condizione quasi monacale, dare il proprio cognome a Lorenza, che divenuta madre si è ben guardata dal dare il nome Matteo al figlio. Un gesto molto patito da Messina Denaro cresciuto nel culto del padre: morto in latitanza fu fatto ritrovare con il vestito più elegante, onorato con un funerale, in cui il sacerdote lo definì un pubblico esempio di civiche virtù, ricordato a ogni anniversario con il necrologio sul «Giornale di Sicilia».

Messina Denaro ha baciato tutte le mani che non poteva tagliare. È stato a disposizione di Riina e Provenzano. Li ha assecondati non per riceverne le

insegne del comando, bensì per avere uno spazio di manovra nel territorio natio. Ha sempre saputo che la mafia non si comanda da Trapani, meno che mai dalla provincia (loro sono di Castelvetrano). Finché hanno dominato i corleonesi, li ha spalleggiati in ogni scelta, ha ammazzato e tramato, ha provato a uccidere il conduttore televisivo Maurizio Costanzo, ha pedinato Falcone per sparargli. Mantenendo però una snobistica distanza: loro erano i «viddani», lui era, e più ancora si credeva, un predestinato. Loro frequentavano rozzi parvenu, lui borghesi all’apparenza integerrimi, imprenditori di successo, rappresentanti delle istituzioni, vincitori di elezioni politiche. Il tutto all’ombra della massoneria, che a Trapani gioca in casa, in grado d’influire su ogni nomina, su ogni affare. Così si spiega un patrimonio calcolato in oltre 4 mi-

liardi, frutto degli oculati investimenti nell’eolico, nel turismo, nella grande distribuzione.

Avendo esercitato una supremazia piena di volenterosi esecutori e priva di collaboratori non lascia eredi né di sangue né di militanza. Ha rappresentato un unicum, che le cosche, in special modo dopo l’azzeramento dei corleonesi, hanno subìto, non apprezzato. Nonostante il male e la soperchieria sparsi a piene mani senza mai un pentimento, nella classifica del peggio verrà sempre dietro Riina, Bagarella, Provenzano. Uno schiaffo inaudito per chi nelle lettere scambiate con un agente provocatore dei servizi segreti scriveva: «Un uomo non può cambiare il proprio destino, l’importante è viverlo con dignità, io sono a posto con la coscienza e sono sereno».

La sua cattura sembra frutto di una cristallina indagine intessuta di tanta perizia e di altrettanta tenacia. Ma nell’Italia con il culto della dietrologia la si dipinge, invece, come il malsano accordo fra un malato terminale, cosciente di avere pochissimo da vivere, e apparati che, al riparo della grande impresa, preparano l’ennesima stortura. Per dimostrare la propria buona fede a Messina Denaro si chiede di collaborare con lo svelamento di presunti documenti scottanti. Un castello fin troppo arzigogolato, che dà per scontata l’ipotetica trattativa fra Stato e mafia negli anni Novanta. Viceversa, sono altri i segreti dei quali Messina Denaro potrebbe essere detentore: dall’identità degli insospettabili che appoggiarono gli attentati di Capaci e via D’Amelio, a quella dei complici eccellenti dentro il mondo affaristico. Ma nel modello mafioso seguito fin qui dal boss, chi parla è un infame. Se poi fosse vero che starebbe messo male con i tumori, dove risiederebbe la convenienza?

J.K. Rowling può tirare un sospiro di sollievo. La riforma della normativa di genere voluta dalla premier Nicola Sturgeon, volta ad agevolare in Scozia la procedura legale per il cambio di sesso, non s’ha da fare. Almeno per il momento. La celebre scrittrice inglese – autrice della saga di Harry Potter –si era infatti opposta con forza all’iniziativa, poi approvata a larga maggioranza lo scorso mese ad Edimburgo. Ma il Governo britannico è venuto in soccorso dei numerosi detrattori della riforma bloccando il controverso provvedimento. E lo ha fatto invocando per la prima volta nella storia la «Section 35», la quale impedisce la convalida reale delle leggi di Holyrood se ritenute in conflitto con quelle di Westminster. Sturgeon ha già annunciato che si rivolgerà ai giudici, definendo l’azione «un attacco frontale al democraticamente eletto Parlamento scozzese». Ma quella della premier scozzese si preannuncia già una battaglia persa.

La riforma – passata lo scorso dicembre con 86 voti favorevoli e 39 contrari – prevedeva che una semplice autocertificazione, e il compimento dei 16 anni di età, fossero sufficienti per legalizzare il cambio di genere in Scozia. Non solo. Oltre alla rimozione del requisito della diagnosi medica

della disforia di genere – come invece prescritto nella legislazione di Inghilterra e Galles – per ottenere il Gender Recognition Certificate (il Certificato di riconoscimento del genere), sarebbe stato sufficiente avere avuto il genere acquisito per appena 3 mesi (innalzato a 6 mesi per sedicenni e diciasettenni) e non più 2 anni come richiesto nel resto del Regno Unito dal Gender Recognition Act, la legge che nel 2004 ha sancito il diritto per i transgender di ottenere il suddetto certificato in Gran Bretagna.

Questo significa che qualunque persona over 16 in Scozia avrebbe in sostanza avuto il diritto di divenire legalmente uomo o donna affermando meramente di esserlo, a prescindere dal sesso biologico o diagnosticato dal medico. La riforma della normativa sul riconoscimento dell’identità di genere era stata voluta con forza dalla leader del Partito Nazionalista Scozzese (SNP) per rendere più facile il cammino «verso la vita desiderata», di quella che descrive come una minoranza emarginata. Secondo Sturgeon, infatti, la riforma denominata Gender Recognition Reform Bill, non avrebbe riconosciuto diritti nuovi alle persone trans, ma «semplificato procedure esistenti».

Di tutt’altro avviso J.K. Rowling che ha dichiarato: la premier è «una distruttrice dei diritti delle donne» e la sua riforma è «il singolo più grande attacco ai diritti delle donne e delle ragazze scozzesi» che abbia mai visto nel corso della sua vita. La scrittrice, che vive ad Edimburgo e in gioventù è stata vittima di stupro, teme che la revisione della normativa possa consentire a predatori sessuali di accedere più facilmente a spazi e servizi riservati solo alle donne con la scusa del cambio di genere. Anche perché, seppure la riforma preveda che sia reato

rendere una falsa dichiarazione sulla propria identità sessuale, non precisa come debba essere appurata la veridicità o meno della stessa. Secondo Rowling, inoltre, c’è un’oggettiva carenza di servizi a tutela delle donne vittime di violenza in Scozia: la maggior parte dei centri anti-violenza includono i trans e si rivolgono a entrambi i sessi.

Da qui la decisione di fondare e finanziare una struttura a Edimburgo riservata esclusivamente a donne che hanno subito abusi, con personale al 100% femminile. Si chiama Beira’s Place, dal nome della dea scozzese dell’inverno, Beira, che rappresenta «saggezza, potere e rigenerazione femminili». Nel consiglio di amministrazione dell’ente privato siedono oppositrici alla riforma come Isabelle Kerr, ex responsabile di un centro anti-violenza a Glasgow. «La violenza contro donne e ragazze è un problema che si riscontra in tutte le culture, classi e religioni», ha affermato Kerr, ricordando come «i crimini di genere siano per la stragrande maggioranza perpetrati da uomini e subiti da donne».

Rape Crisis Scotland, che ha 17 centri anti-violenza in Scozia, ha accolto con favore l’iniziativa di Rowling, ma ha anche sollecitato l’apertura di Beira’s Place a persone trans e non bina-

rie, puntualizzando come in 15 anni di attività dell’associazione non ci siano mai stati abusi del servizio. Il centro edimburghese dell’associazione, in linea con la sua linea inclusiva, è guidato fra l’altro da una donna trans, Mridul Wadhwa, la quale lo scorso anno aveva accusato le donne che si oppongono a ricevere aiuto da persone nate maschio di avere pregiudizi, esortandole a rielaborare il loro trauma. «In quanto reduce da violenza sessuale io stessa, so bene quanto sia importante per chi ha subito la stessa esperienza avere l’opzione di ricevere assistenza solo da donne in un luogo riservato alle donne in un momento così delicato», ha ribattuto l’autrice di Harry Potter.

Tornando a Sturgeon – che si professa femminista fino al midollo – le vere minacce ai diritti delle donne non provengono dalle donne trans, ma da quei Governi che legiferano sulla capacità riproduttiva femminile e da regimi oppressivi come quello iraniano o afgano; i suoi detrattori invece la accusano di anteporre i diritti della minoranza trans a quelli delle donne. Alla fine spetterà quasi certamente ai giudici stabilire chi ha ragione e accertare se la dibattuta normativa scozzese è effettivamente incompatibile con quella vigente nel resto del Regno o meno.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 23
Cambio di sesso agevolato: Londra dice no Scozia ◆ Westminster si pronuncia su una riforma voluta dalla premier Sturgeon e contestata anche dall’autrice di Harry Potter
Manifestazione nelle vicinanze del Comando dei Carabinieri di Palermo dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro. In primo piano una donna mostra la foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. (AFP) Barbara Gallino J.K. Rowling abita ad Edimburgo. (Keystone)
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Vietnam, la fine di una sporca guerra

Sono passati cinquant’anni da quel giorno di gennaio (il 27) del 1973 che vide il mondo tirare un sospiro di sollievo. Il consigliere americano per la sicurezza nazionale Henry Kissinger, futuro segretario di Stato, e il diplomatico vietnamita Le Duc Tho avevano sottoscritto a Parigi gli accordi che spianavano la strada verso la fine del più sanguinoso fra i conflitti seguiti alla Seconda guerra mondiale. Ma quel sollievo era prematuro: è vero che gli Stati Uniti si erano disimpegnati, ma fra le foreste e le risaie dell’Indocina le cruente ostilità fra i comunisti del nord e i loro avversari del sud continuarono. Si dovette aspettare la primavera del 1975 perché cadesse Saigon e il trionfo annessionista del nord consegnasse alla storia un Paese unito sotto le insegne di Ho Chi Minh. Il leggendario capo militare e politico era venuto a mancare nel pieno della lunga guerra in cui aveva impersonato una caparbia volontà di resistenza. Non a caso l’ex capitale sudista prenderà il suo nome.

Dunque un sollievo prematuro, quello che mezzo secolo fa salutò gli accordi di Parigi. I due negoziatori ricevettero il premio Nobel per la pace, ma soltanto Kissinger lo accettò. Le Duc Tho declinò il riconoscimento perché, nonostante quel successo diplomatico, il suo Paese continuava a essere dilaniato dalla guerra. Il fatto è che dal punto di vista americano il negoziato parigino era parte di una più ampia exit strategy (strategia di uscita). Gli Stati Uniti intendevano porre fine alla più impopolare fra le guerre che mai avessero combattuto, costata quasi sessantamila morti e un’impressionante quantità di risorse finanziarie, ma al tempo stesso volevano salvare il Governo alleato del Vietnam meridionale e quindi continuarono a rifornirlo di armi e denaro. Era quello che Kissinger, abile creatore di formule, chiamava vietnamizzazione del conflitto, passata alla storia come «Dottrina Nixon».

Washington aspirava a un dignitoso disimpegno, ma un amaro destino era in agguato: la caduta di Saigon il 30 aprile 1975 avrebbe completato una umiliante sconfitta americana.

Washington aspirava a un dignitoso disimpegno, ma la caduta di Saigon completò un’umiliante sconfitta americana

Quel bilancio impietoso di ragazzi falciati dalla guerra e spese militari senza fondo era lo scotto imposto dalla «Dottrina Truman», la missione geopolitica che gli Stati Uniti si erano attribuiti, sull’onda retorica del manifest destiny, dopo che l’alleanza con l’Unione Sovietica ebbe raggiunto il suo scopo, cioè la distruzione del nazismo.

La dottrina elaborata dal successore di Roosevelt si poneva come scopo il contenimento dell’espansione comunista nel mondo e mirava in particolare a impedire l’effetto domino, il rischio che l’instaurazione di un regime rosso in un determinato Paese potesse contagiare i Paesi confinanti e dunque allargarsi a intere aree geopolitiche. Per questo, dopo che i vietnamiti si furono sbarazzati dell’occupazione coloniale francese, la Casa Bianca favorì la divisione del Paese, che mirava a confinare nel nord l’ideologia filo-sovietica e filo-cinese di Ho Chi Minh e ad affidare al sud la funzione di baluardo anticomunista.

Ma il baluardo non ebbe vita faci-

le. Hanoi, la capitale del nord del Vietnam, affiancava al verbo marx-leninista la rivendicazione nazionalista, e dunque puntava alla riunificazione del Paese. La guerra civile cominciò ben presto e l’impegno degli Stati Uniti, inizialmente limitato al sostegno finanziario e alla fornitura di armi, scivolò sempre più rapidamente verso il diretto coinvolgimento militare. Intanto un crescente numero di soldati dell’esercito nordvietnamita andava a integrare e addestrare le formazioni vietcong, i partigiani del sud. Mentre a Washington si avvicendavano presidenti democratici come Kennedy e Johnson e repubblicani come Nixon e Ford, tutti ugualmente sostenitori della «Dottrina Truman», ormai la storia imponeva i suoi ritmi inarrestabili.

Una parola imposta dai generali americani, escalation, invase le cronache internazionali nei primi anni Sessanta, dopo che il vicepresidente Johnson ebbe preso il posto di Kennedy assassinato a Dallas. Stava a significare che la risposta militare andava sistematicamente adeguata al livello del potenziale offensivo nemico. Dai primi consiglieri militari mandati per addestrare le forze sudvietnamite, non più di 16mila nel 1963, si passò all’invio di intere unità di combattimento, portaerei e bombardieri strategici. Il presidente Johnson aveva chiesto e ottenuto l’autorizzazione del Congresso a combattere senza paralizzanti formalità quali la dichiarazione di guerra.

E così l’escalation venne rapidamente accelerata. Sempre nuove unità vennero inviate al fronte: fra forze terrestri, aeree e marittime i militari impegnati in battaglia crebbero fino ai 550mila del 1968. Applicando la tattica denominata search and destroy, ricerca e distruzione, che implicava lo scontro diretto con il nemico, subirono un altissimo tasso di mortalità e vulnerabilità in azione. Furono complessivamente coinvolti circa tre milioni di cittadini degli Stati Uniti, tanti furono gli americani che si avvicendarono sul campo. Escalation anche di forza distruttiva: si calcola che le incursioni aeree e navali scaricarono sul Vietnam sette milioni e mezzo di tonnellate di bombe, il doppio del carico esplosivo sganciato nella seconda guerra mondiale. Furono bombardati non soltanto gli obiettivi militari ma anche le cit-

tà e i villaggi: alla fine della guerra le vittime vietnamite superarono, secondo stime locali, i tre milioni fra militari e civili.

Ancora prima che si arrivasse a questo, la guerra indocinese aveva provocato un terremoto nella società americana. Soprattutto i giovani, chiamati

alle armi per essere spediti in quell’inferno, animarono un vasto movimento di protesta. Il mondo della cultura prese massicciamente posizione a favore dei gruppi pacifisti, mentre l’opposizione al conflitto veniva esacerbata non solo dai troppi lutti ma anche dalle notizie dei crimini commessi da

alcuni reparti americani a danno di civili, come il massacro di My Lai. La pressione dell’opinione pubblica fu determinante per indurre la presidenza Nixon a cercare la via della pace. Che fu, inevitabilmente, anche la via della sconfitta: una volta ancora Golia dovette arrendersi davanti a Davide.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 25
Storia ◆ Cinquant’anni fa vennero sottoscritti a
Però le
ostilità tra
comunisti del
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Parigi gli accordi che spianavano la strada verso la conclusione del conflitto.
cruente
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Henry Kissinger, a sinistra, e il diplomatico vietnamita Le Duc Tho a Parigi nel 1973. (Keystone) Annuncio pubblicitario

UN RINFORZO ALLE DIFESE IMMUNITARIE

In inverno il sistema immunitario è messo a dura prova. Muoversi all’aria aperta, dormire a sufficienza e seguire una dieta equilibrata sono fattori importanti per la nostra salute. Gli integratori alimentari e altri prodotti possono fornire un ulteriore supporto al benessere dell’organismo e al buon funzionamento delle difese immunitarie.

Te ne presentiamo alcuni

Le compresse effervescenti Kneipp con succo concentrato di sambuco possono essere sciolte in acqua fredda o calda. Con vitamina C e zinco, contribuiscono alla normale funzione del sistema immunitario e proteggono le cellule dallo stress ossidativo. Modalità di assunzione: una compressa al giorno, sciolta in acqua.

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Anche le gustose gommine al limone contengono vitamina C, utile al buon funzionamento del sistema immunitario. Modalità di assunzione: masticare una gommina al giorno.

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Un aiuto naturale alla salute nei periodi in cui il rischio di infezione delle vie respiratorie è più elevato: le pastiglie da succhiare creano una barriera fisica protettiva sulle mucose del cavo orale. Al gusto di menta e frutta. Modalità di assunzione: per gli adulti, sciogliere in bocca 3-6 pastiglie distribuite lungo l’arco della giornata; per i bambini a partire dai sei anni di età, una pastiglia al giorno.

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La vitamina D contribuisce al normale funzionamento del sistema immunitario e alla salute delle ossa. Modalità di assunzione: versare tre gocce al giorno su un cucchiaino e assumerle senza diluire.

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Grazie all’effetto depot, la vitamina C e lo zinco vengono rilasciati nell’organismo gradualmente. Modalità di assunzione: una compressa al giorno, da assumere con acqua.

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Oltre a prezioso estratto di Echinacea purpurea, le capsule Echinavit di Axamine contengono vitamina C e zinco, utili alla normale funzione del sistema immunitario. Modalità di assunzione consigliata: una capsula al giorno, da assumere con acqua.

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Oltre alla vitamina C, gli stick Immun Plus contengono zinco e selenio. Lo zinco contribuisce alla buona funzionalità del sistema immunitario. Modalità di assunzione: uno stick al giorno, da assumere senz’acqua.

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Una distesa di rose

La Galleria Buchmann omaggia l’artista americano Lawrence Carroll scomparso nel 2019

Pagina 31

Contradditorio Harry Styles

Una riflessione sull’icona pop britannica e il suo stile gender fluid più di facciata che di sostanza

Pagina 32

Hate Radio

Andata in scena al LAC, l’opera di Milo Rau che testimonia la storia del genocidio ruandese lascia il segno

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Jean-Guihen Queyras

In vista del suo concerto luganese, il violoncellista racconta i suoi esordi e l’influenza di Rostropovich

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Nuova luce per il Battistero di Riva San Vitale

L’Università della Svizzera italiana (USI), con la sua Accademia di architettura, e la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI), con il suo Dipartimento ambiente costruzioni e design, hanno contribuito a valorizzare e restituire nella sua interezza alla visione degli esperti e del grande pubblico quel piccolo gioiello che è il Battistero di Riva San Vitale.

Siamo in presenza del più antico monumento cristiano ancora eretto e conservato in Svizzera, che risale probabilmente al V secolo. Un edificio a pianta ottagonale iscritta in un quadrato, costruito con pietra del luogo in blocchetti squadrati. Quello che vediamo oggi è il frutto di diversi restauri succedutisi nel tempo, con rappezzi vari e interventi di modifica. Ma dell’originale resta ancora molto. Alcune tracce rimaste sul suolo fanno pensare che l’edificio potesse essere all’origine circondato da un deambulatorio. Entrando all’interno si nota subito, al centro, una enorme vasca circolare di pietra, ricavata da un solo blocco, di quasi due metri di diametro. È il fonte battesimale medioevale, posato dopo il decimo secolo, quando si decise di abbandonare la pratica del battesimo per immersione scegliendo altre forme. Proprio qui si rende evidente la ricchezza degli strati storici di questo battistero. Perché sotto il manufatto medioevale è ancora presente, e ben conservato, il fonte battesimale d’origine scavato nella pavimentazione, risalente al V o VI secolo. Di forma ottagonale, profondo circa 60 cm, vi si accedeva per due gradini. I battezzandi entravano dalla porta nord dell’edificio, indossando la rituale tunica bianca, e si immergevano nella vasca che aveva anche una nicchia, un lato dove il battezzando si poteva avvicinare di più, permettendo così al vescovo, che presumibilmente stava all’asciutto, di completare il rito del battesimo per immersione. Poi uscivano come persone nuove dal lato meridionale del battistero e, rivestiti i panni usuali che avevano lasciato nel deambulatorio, potevano finalmente entrare in chiesa. Quest’ultima doveva trovarsi dove c’è la chiesa attuale, che è della metà del 1700.

Come detto, l’edificio del battistero attuale porta i segni di vecchi interventi. Bisogna ricordare che attorno al 1920 l’edificio era ancora inglobato dentro altre costruzioni. A quell’epoca risalgono le prime indagini archeologiche: l’architetto Albert Naef, allora presidente della Commissione federale dei monumenti storici (CFMS), nel 1925 fece un’accurata pianta acquarellata del Battistero, nella quale appare anche il ritrovato pavimento formato da piastrelle di marmo, bianco e nero, disposte a ro-

sette. Poi, negli anni Quaranta, si cominciò a demolire le costruzioni attorno e a intervenire sulle facciate del battistero.

«Dal punto di vista tecnico è uno dei cantieri più complessi che abbiamo affrontato. Perché le pitture sono molto delicate e la pellicola che le ricopre è molto tenace e difficile da eliminare»

La mostra dal titolo Il battistero di San Giovanni a Riva San Vitale. Storia e restauri passati e recenti che l’Accademia di architettura di Mendrisio ha presentato nei mesi scorsi (nella Sala del Torchio di Riva, un altro luogo da vedere) è stata l’occasione per valorizzare il lavoro fatto e illustrarlo al pubblico. L’ho visitata con uno dei curatori, l’architetto Marco di Nallo. A proposito del fonte battesimale mi ha ricordato la ricchezza del suo sistema idrico. La vasca aveva un sistema di scarico che serviva alla vuotatura della stessa. È stato ritrovato addirittura un rubinetto originale di piombo. Esistono due canali, uno in mat-

toni per la vuotatura e uno che serviva a raccogliere l’acqua che durante l’immersione dei catecumeni poteva debordare dalla vasca. È probabile che l’acqua per il rito fosse caricata con dei secchi che attingevano al vicino pozzo, che è ancora presente. Un altro aspetto interessante è quello della copertura del battistero, con la sovrapposizione di tutte le sezioni esistenti, dei lavori di restauro degli anni Cinquanta (documentati in un diario di cantiere dall’architetto Guido Borella) e con i rilievi effettuati dagli studenti. Ogni elemento confluirà, arricchito da altri contributi scientifici, in un libro di prossima pubblicazione. Ma non c’è solo l’USI. Da un paio d’anni gli allievi del Corso di laurea in conservazione e restauro della SUPSI stanno materialmente operando sulle preziosissime pitture murali che si trovano all’interno del battistero di San Giovanni. L’architetto Giacinta Jean, responsabile del sunnominato corso, ci racconta il lavoro fatto dagli studenti insieme con le assistenti Giulia Russo e Francesca Reichlin. «Dal punto di vista tecnico è uno dei cantieri più complessi che abbiamo affrontato. Perché le pitture sono molto delicate e la pellicola che

le ricopre è molto tenace e difficile da eliminare. Vi potete immaginare la difficoltà di rimuovere uno strato duro da qualcosa che invece è morbido».

Nel battistero di Riva San Vitale, nelle nicchie, vi sono affreschi romanici del secolo XII: rappresentano la Natività di Cristo, l’Assunzione, il Giudizio universale, il Cristo giudice e i simboli degli evangelisti. Nell’abside una crocifissione, presumibilmente del X-XI secolo. Tutti sono arrivati a noi relativamente ben conservati. «Delle pitture romaniche solitamente possiamo vedere solo pochi frammenti», annota la professoressa Jean, «invece a Riva San Vitale abbiamo un tessuto pittorico ancora esteso e ben riconoscibile, che però ha dei problemi: quelli di conservazione, perché l’intonaco è staccato dal supporto e la pellicola pittorica tende a cadere; poi quelli di visibilità, perché le superfici sono attualmente ricoperte da un velo bianco. Dove siamo riusciti a levare queste patine e queste croste abbiamo recuperato le pitture originali, di un colore brillante, molto belle». I risultati sono evidenti.

Anche con l’antichissima Crocifissione, nell’abside, sulla quale si è intervenuti con tecniche sofisticatis-

sime, compreso il laser, si è riusciti a non danneggiare lo strato sottostante e a restituirci un Cristo in croce, che appare raffigurato sorprendentemente con gli occhi aperti. In tutte le operazioni sul battistero si è deciso di mantenere l’intervento di restauro del pittore Mario Rossi, che è degli anni Cinquanta del secolo scorso, operando soprattutto in modo conservativo. Ma negli anni le pitture di Rossi si sono alterate. Ora si cerca di recuperare le cromìe originali. Dove le pitture e l’intervento di Rossi sono stabili ci si limita a pulire. Ma alcune sue stuccature devono essere rimosse. Non si rimuoverà tutto quanto. Prima di intervenire sui fenomeni di degrado è fondamentale capirne le cause. Sulle tecniche di restauro, sulle scelte dei prodotti consolidanti da usare, legati alle loro proprietà e alla risposta che si sta cercando, siamo stati inondati di informazioni. Così come dei test effettuati in laboratorio e sul campo: quando per esempio ci si imbatte in una malta che si decompone, e quindi non è più coesa.

Potremmo parlarne a lungo, il lavoro del restauratore anche agli occhi del profano appare affascinante e l’entusiasmo di chi opera è contagioso.

CULTURA ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 29
Un dettaglio dei lavori di restauro a opera degli studenti. (© SUPSI)
Conservazione ◆ USI e SUPSI hanno compiuto un importante lavoro di restauro dei dipinti murali dell’edificio
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La pittura di Lawrence Carroll che porta il peso della vita

Sono trascorsi tre anni dalla prematura scomparsa di Lawrence Carroll. Artista statunitense di origine australiana, è considerato tra le figure di riferimento della scena internazionale contemporanea per aver saputo iniettare nuova linfa nel concetto di pittura, ridefinendone i confini in maniera peculiare.

La Galleria Buchmann, che rappresenta Carroll dal 1994, fino al 4 febbraio espone un lavoro particolarmente significativo della sua ricerca artistica, volta a saggiare le infinite potenzialità creative scaturite dalla commistione di espressioni formali diverse. L’opera, che consiste in una distesa di rose cosparse di pigmenti e polveri, si chiama Untitled ed è stata realizzata dal maestro americano nel 2015, in occasione dei quarant’anni di attività della galleria. Attorniata anche da fotografie e da alcuni dipinti di piccolo formato eseguiti dall’artista poco prima di morire, questa installazione racchiude in sé i tratti distintivi dell’indagine di Carroll, primo fra tutti la sperimentazione di nuove possibilità di coniugare valori emozionali a un’estetica minimalista.

Da quando, negli anni Ottanta, incomincia a produrre le sue «scatole pittoriche», associando la bidimensionalità della pittura alla tridimensionalità dell’oggetto, Carroll è riuscito a trasformare le proprie creazioni in spazi pregni di sentimento e di lirismo, in luoghi contemplativi dove lo sguardo si sofferma su ogni particolare per scovarne la precisa ragion d’essere. Carroll ha sempre interrogato gli strumenti dell’arte, tagliando e ricombinando porzioni di tela per poi dipingerle e inserire nel corpo della pittura elementi organici e inorganici quali fiori, foglie, polveri, scarpe o lampadine, ampliando così le valenze simboliche dell’opera. Attraverso la combinazione di linguaggio pittorico e scultoreo Carroll ha dato vita a lavori stratificati che rivelano più livelli di lettura e che ci appaiono nel loro poetico contrasto di imponenza e leggerezza.

Nato a Melbourne nel 1954, Carroll trascorre la sua infanzia in California per poi stabilirsi a New York all’inizio degli anni Ottanta, dove fin da subito percorre una traiettoria artistica autonoma caratterizzata da una profonda dedizione alla pratica pitto-

rica. Proprio il suo procedere al di là delle scuole e delle teorie del momento per consacrarsi a una dimensione più intima e personale della creazione deve aver fatto presa sul curatore svizzero Harald Szeemann, che nel 1989 invita Carroll a partecipare, insieme ad altri otto giovani artisti americani, a Einleuchten, l’importante mostra collettiva allestita al Deichtorhallen di Amburgo.

Sebbene la cifra stilistica di Carroll non sia mai stata riconducibile a una tendenza specifica, non significa che l’artista non abbia raccolto stimoli e suggestioni dal lavoro di altri colleghi. Le influenze che si possono rintracciare nelle sue opere vanno dal contesto statunitense, con tematiche e modalità desunte da figure quali Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Donald Judd e Mark Rothko, all’altrettanto stimolante scenario europeo, con una particolare sensibilità che lo avvicina alle esperienze di Joseph Beuys, di Alberto Burri e di Giorgio Morandi. Procedendo a ritroso nel tempo, l’attenzione di Carroll si rivolge anche a Giotto, agli affreschi pompeiani e, nondimeno, alle sculture greche e romane, spesso ammirate al Metropolitan Museum of Art di New York, importanti per avergli insegnato la bellezza dell’imperfezione.

È da questi antichi manufatti che Carroll apprende che l’opera può essere frammentaria e che, anzi, proprio dalla sua incompletezza e dalla sua condizione indefinita può erompere un’arte profondamen-

te umana: i rattoppi, le cuciture, le sovrapposizioni, i materiali sottratti all’esistenza e le forme mutevoli dei suoi lavori servono all’artista per allontanarsi da un’estetica impeccabile, eroica, e accostarsi invece alla vulnerabilità dell’individuo.

Lo stesso processo creativo a cui Carroll sottopone ogni sua opera, sempre lento e meditato, è espressione della volontà dell’artista di concentrarsi sul valore del tempo e del silenzio, al fine di trovare una dimensione più prossima all’uomo. I temi ricorrenti, il linguaggio sempre fedele a sé stesso che avanza per piccole variazioni e l’uso di una tavolozza dalle «gradazioni morandiane» che tocca le tante sfumature del bianco, i grigi chiari, i gialli tenui, i verdi pallidi o i rosa impalpabili rendono i lavori dell’artista narrazioni sull’esistenza sospese in un’atmosfera nostalgica e metafisica. «Mi piace l’idea che la pittura possa portare un po’ del peso della vita», diceva Carroll in un’intervista di qualche anno fa. E nell’intimità del gesto che si fa incarnazione della memoria, le sue opere, fragili eppur ieratiche, tragiche eppur liriche, concedono allo spettatore un appagante momento di quiete.

Dove e quando

Lawrence Carroll. Buchmann Via della Posta 2, Lugano. Fino al 4 febbraio. Orari: ma-ve 13.00-18.00, sabato su appuntamento. www.buchmanngalerie.com

Le nuove povertà

Feuilleton ◆ Riprende il romanzo di Lidia Ravera per «Azione». Sul nostro sito www.azione.ch sono disponibili tutte le puntate

Poiché Tom non rispondeva, Betta entrò nel bagno che le parve ancora più angusto per l’inevitabile confronto con quello di Casa Von Arnim. Si spogliò, prese dal cassettone, dipinto di rosso a testimonianza di trascorse allegrie, la biancheria, un paio di jeans, un maglione.

Aprì al massimo la doccia. Ma la pressione dell’acqua era debole e il calcare aveva tappato parte dei fori del soffione.

Non c’era niente di rigenerante in quello sgocciolio miserabile.

Pensò di nuovo al bagno annesso alla camera da letto della defunta signora Von Arnim.

Doveva essere rassicurante svegliarsi ogni mattina in quella casa spaziosa, dove ogni oggetto ogni arredo ogni sfumatura sembrava partecipare d’un idea di bellezza, di classe, di gusto, di stile.

Le tornò alla mente sua madre, quando raccontava del Castello di un certo barone monegasco che si era invaghito di lei.

Le salivano alla gola gli stessi aggettivi: classe, gusto, stile.

I saloni, i salottini, l’estensione delle camere da letto che anch’esse avrebbero potuto essere saloni, o salottini.

I domestici con la livrea. I vassoi sempre carichi di coppe di champagne.

L’aveva visto soltanto una volta, sua madre, il Castello, prima che il padre le vietasse di proseguire nella carriera della bellezza.

Mille volte l’aveva raccontato.

Quando Tom spalancò la porta Betta si stava spazzolando i capelli con un vigore nervoso.

«Non mi parlerai mai più?», gli chiese, fermando la mano che stringeva la spazzola.

Per tutta risposta Tom le porse il sacchetto bianco con l’abito da sera di seta rossa.

«L’ha portato un domestico di colore», disse, fiero della sua calma.

Betta buttò il sacchetto per terra, stizzita.

«L’avevo detto che non lo volevo. Adesso glielo butto dalla finestra».

Tom prese l’abito dal sacchetto bianco e lo osservò tenendolo con due mani.

Poi lo avvicinò al viso e lo annusò.

Sentì il profumo di Betta, quelle due gocce di Poison, Dior che met-

teva tutti giorni all’interno dei polsi. Glielo regalava a ogni ricorrenza Esther, e lei ne faceva un uso oculato, ma quotidiano.

La sua pelle di bruna lo tratteneva e lo intensificava.

Era il suo profumo ed era sull’abito da sera che il vecchio le aveva regalato.

Quindi l’aveva indossato.

«Hai fatto un defilé per lui», disse Tom.

Betta rivide se stessa con l’abito addosso mentre si aggirava per i bui corridoi di quell’appartamento enorme e ne provò vergogna.

Abbassò gli occhi, si strinse nelle spalle.

«Pensa quello che vuoi», disse, «Mi sono provata il vestito, gliel’ho restituito, gli ho detto che non andrò alla festa»

«Piuttosto contraddittorio, non credi? Rifiuti l’invito a una festa, ma vai a dormire a casa sua. Capiti nel suo scannatoio verso sera e ne esci…»

Betta lo interruppe:

«Mi hai chiusa fuori, stronzo! È colpa tua se sono andata dal vecchio»

«Io non ti ho chiusa fuori, sei tu che sei scappata come una deficiente senza prenderti le chiavi!»

«Quando hai visto che non avevo preso né le chiavi né il cellulare potevi restare a casa invece di…»

«Certo. La signora scappa come se la inseguisse il demonio per una frase, una frase, tre parole e il povero stronzo resta a casa ad aspettare che torni o magari addirittura la insegue come nel finale di un film per dementi…»

«Tu quelle tre parole che hai detto non le dovevi nemmeno pensare, brutto pezzo di merda!»

«Ah no, certo. La signora è al di sopra di qualsiasi sospetta prostituzione!»

«Ma come ti permetti…»

«Mi permetto eccome. Mi permetto e mi permetterò finché tu non mi spieghi come mai avevi improvvisamente i soldi per portare Sara al ristorante, per comprare il pesce spada, per pagare il conto del negozio dove pigliamo roba a credito da due mesi? Me lo vuoi spiegare? Non credo che sia il pagamento di una tua lucrosa prestazione professionale come hai detto a nostra figlia. Non c’è stata nessuna prestazione professionale. Tu non guadagni un euro da un secolo».

(31 – Continua)

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 31
Annuncio pubblicitario Untitled, l’opera allestita alla galleria luganese. (Antonio Maniscalco, Courtesy Buchmann Galerie Lugano and the estate of the artist)

Harry Styles, ci sei o ci fai?

Costume ◆ L’icona pop e il suo stile gender fluid sollevano alcune perplessità

Diciamolo pure, Harry Styles, classe 1994, cantautore e attore britannico, è conosciuto più per i suoi abbigliamenti stravaganti e baroccheggianti che per la sua musica. Una sorta di Bowie mainstream osannato dalle folle per la sua attitudine apparentemente rilassata nei confronti di una mascolinità espressa attraverso abiti volutamente androgini che sembrano prendersi gioco del binarismo di genere. Al di là delle apparenze, quello che conta davvero sono le rivendicazioni (o la loro assenza) che animano la messa in scena di un corpo diventato inevitabilmente pubblico, un corpo che seppur lottando per la propria autonomia non rinuncia ai privilegi e al glamour dello show business L’intento, sia chiaro, non è mettere a nudo la sua vita privata violando così un diritto alla privacy che dovrebbe in ogni caso essere garantito, ma piuttosto scovare quanto di sincero e spontaneo si celi dietro un’attitudine queer mai chiaramente rivendicata.

Il personaggio Harry Styles nasce nel 2010 con la boy band One Direction, quintetto che incarna una mascolinità inoffensiva e mansueta da bravi ragazzi. Elemento chiave di questo gruppo creato a tavolino, Harry Styles si presenta al pubblico vestito da baby rocker, avviluppato in eleganti completi Saint Laurent firmati Hedi Slimane che gli donano un aspetto al contempo intrigante (per le

adolescenti che lo osannano) e rassicurante (per le loro madri). Superata la fase adolescenziale, Styles si reinventa incarnando un nuovo personaggio più maturo e sicuro di sé. Questo porta con sé un cambio radicale d’immagine che gli permette di attirare un pubblico nuovo, più vasto ed esigente. È proprio in questo momento cruciale della carriera che il suo look si trasforma in quello che conosciamo oggi: un misto di androginia, colori eclatanti ed eleganza seducente dal sapore beatnik. Una trasformazione profonda che gli permette di liberarsi dalla cappa soffocante della boy band e forgiarsi una nuova immagine (potremmo quasi parlare di brand ) più adatta al suo percorso da solista: libera, ingenua e ammiccante nei confronti del mondo LGBTIQ+ e dei suoi codici estetici (boa di struzzo, una manicure sapientemente messa in scena o ancora un trucco che ricorda i momenti gloriosi del glam rock).

Certo, Styles non è la prima pop star che decide di «sporcare» la sua immagine con lo scopo di rilanciare la propria carriera (David Bowie o Prince ne sono un esempio emblematico) ma è stato forse quello che ne ha tratto i maggiori benefici. Le grandi marche, Gucci in primis, hanno immediatamente saputo approfittare di questo cambiamento di stile descritto come rivoluzionario e controcorrente, una miniera d’oro per un merca-

to della moda alla ricerca costante di nuove icone. Non bisogna dimenticare che nel 2020 Harry Styles è stato il primo uomo ad apparire sulla copertina di «Vogue America» e l’ha fatto agghindato con un vestito a balze dal sapore vittoriano. Il suo look ha suscitato un’ondata di reazioni da parte dei media e del pubblico ma anche di alcuni politici preoccupati per il futuro della mascolinità (egemonica ovviamente).

A difendere Styles ci ha pensato la ex fiamma Olivia Wilde presentandolo come un uomo «moderno, privo di mascolinità tossica, icona della sua generazione e quindi del futuro del mondo». Nientemeno! A questo punto è lecito chiedersi cosa si nasconda davvero dietro le sue scelte sartoriali che pretendono di iflettere una nuova mascolinità queer e fluida. Basta forse l’abito per cambiare gli stereotipi e i preconcetti legati al genere e alla sessualità? Indubbiamente ciò che Styles mette in scena è una performance di genere, la rappresentazione di un personaggio che sembra abbattere gli stereotipi legato al binarismo senza però intaccarne l’essenza profonda. Nell’articolo pubblicato da «Vogue America», l’ex One Direction, riferendosi al suo stile, alla sua immagine, sessualmente ambigua, parla in effetti spesso di «gioco» e di «divertimento», un «costume da super eroe» che lo difende dal mondo: «Voglio che

le cose abbiano un certo aspetto. Non perché mi fanno sembrare gay, o etero, o bisessuale, ma perché penso che sia cool. E soprattutto, non so, penso che la sessualità sia qualcosa di divertente. Onestamente? Non posso dire di averci pensato più di tanto».

Che significato bisogna dare ad affermazioni tanto disinvolte pronunciate da un uomo cisgender e presumibilmente etero (Styles non ha mai affermato né negato di esserlo) che si impossessa però dell’estetica queer? Cosa significa per lui questa parola e quale legame intrattiene con la comunità LGBTIQ+? Le sue affermazioni ci spingono a credere che il queer non sia per lui che un gioco, un modo cool di presentarsi al mondo senza però pagare il prezzo di una diversità che non ha mai veramente rivendicato. Il suo ridurre le rivendicazioni delle minoranze sessuali e di genere a un gioco ludico senza grande sostanza dimostra, attraverso una certa imma-

turità con ampio margine di crescita, quanto l’immagine di sé che vuole dare al mondo sia ancora vacillante e controllata da uno star system che si nutre della diversità senza incarnarne le lotte. Indubbiamente, rompere gli stereotipi legati alla moda «maschile», proporre un’immagine alternativa della rock star è lodevole per non dire necessario, ma non bisogna dimenticare cosa significa infrangere davvero le regole, qual è il prezzo (salato) che molti e molte hanno pagato per la loro diversità. Styles ha certamente liberato la parola (e arricchito il guardaroba di molti) ma se si vuole davvero trovare dei modelli alternativi alla mascolinità egemonica è sicuramente meglio cercarli altrove. Alok Vaid-Menon, Lauren John Joseph, Jonathan Van Ness (in un contesto più mainstream), Ivo Dimchev, Krassen Krastev o Yougo Girl (per restare in Svizzera) ne sono un esempio emblematico. Tocca a noi ora fare la nostra scelta.

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Ca˘rta˘rescu, scrittore del mito e della melancolia

Pubblicazione ◆ Dopo il successo di Solenoide (2021), l’autore rumeno ci regala un nuovo romanzo

Melancolia, l’ultimo libro di Mircea Cărtărescu pubblicato da La nave di Teseo è uscito in lingua italiana con la stupenda traduzione di Bruno Mazzoni. Un titolo che svetta tra le numerose uscite editoriali degli ultimi mesi.

La potenza immaginifica, la coerenza stilistica nonostante la vastità semantica, l’acume evidente e la qualità dei sentimenti espressi ne fanno uno dei più grandi scrittori viventi. Leggendolo troverà soddisfazione chi cerca autonomia e personalità nelle opere letterarie. È uno scrittore del mito e in questo sta la sua vertigine. Non fa belle o brutte copie. Ci dona l’inedito autentico delle espressioni umane originarie, arcaiche, e ricorda alcune caratteristiche non negoziabili del mito, come il principio verso cui dimostra una fede incrollabile (che si traduce in tenuta per tutto il testo), della necessità di salvare o condannare. Qualcosa a cui non siamo abituati.

Tutto viene immerso nel pensiero tragico, pare una condanna e invece è purificazione e anche lo sguardo del bambino si rivela

E il mito che ha creato è il più alto fra tutti, quello dell’uccisione dell’ego. La lotta col Guardiano, nel primo capitolo, è degna del Minotauro di Dürrenmatt per esattezza di rivelazione. Del mito rispetta il fatto – in-

cubo per ogni antropologo che ne riconoscerebbe tuttavia il fondamento per quanto attiene la storia dell’uomo primitivo – che unità di pensiero e unità di osservazione, come le chiama Viktor Turner, coincidono: l’esperienza ci autorizza a pensare di aver trovato una verità, un modello mentale. Il mito è allora il mondo antropologico perfetto, dove ogni esperienza è così ottimizzata da restituire con la sua simbologia un significato sopra tutti, riallacciando col lettore un dialogo possibile sull’evidenza come non se ne ascoltavano da tempo, una lezione perfetta di cognizione emotiva. Nel mito, un antropologo vedrebbe applicate e verificate tutte le osservazioni della sua scienza, e al culmine dell’orgasmo morirebbe, assorbito dal paesaggio. Il paesaggio, nel mito, coincide col pensiero di chi osserva. Se Dürrenmatt ha fissato per sempre la natura umana a quella dell’animale destinato alla sofferenza che sta nel fare i conti con l’illusione delle percezioni come specchi che riconducono sempre all’Io, Cărtărescu uccide quell’Io per consunzione, per sfregamento, per lotta corporea e concreta con la propria interiorità, una lotta che il personaggio ingaggia tra le sue due metà speculari fino a quando quella razionale, portata qui allo sfinimento, accetta che nessuna strategia ci mette al riparo dai nostri limiti e dalla nostra condizione di esseri deformi nelle intenzioni e sdoppiati nella coscienza, e tanto ci dimeniamo ottusamente che la comprensio-

ne, quando arriva, è trasformazione della lotta con la vita in danza, questa sì capace di scardinare il corpo e i suoi limiti ancestrali.

Nell’istante della resa all’idea di non poter combattere il Guardiano, si assiste a una divisione perfetta del divino dall’umano, del sempiterno dalla miseria della storia, ma questa separazione è tanto marcata quanto più gli elementi dell’uomo si mescolano alla geometria segreta del movimento, alle leggi di natura, alle idee del Legislatore. Davvero l’uno non esiste senza l’altro. Non necessariamente è il dio cristiano. In questo nuovo mito, il dio è tutti gli dei, l’uomo è tutti gli uomini. E così deve essere per essere mito. È chiara l’abilità dell’autore nell’utilizzare tutti i registri che stati mentali tanto diversi si portano dietro, solitamente avviene separando l’antico dal moderno, lo spirito dalla

materia, l’esperienza dell’uomo adulto da quella del fanciullo. Qui no. Nella casa in cui per anni vive un bambino da solo, dove la morte della mamma è «aver dimenticato di tornare a casa», così realisticamente costruito che viva da solo, oltre ogni senso, e però magicamente credibile, l’autore ha persino il cuore di fare metaletteratura, cioè dirci quale operazione sta facendo mentre la fa: sui ripiani delle librerie ci sono quei ninnoli di ceramica vuoti all’interno, che sotto hanno un buco in cui puoi infilare un dito «uguali al fuori, ma al rovescio. Solo che l’interno era più ruvido, senza lo smalto».

Il resto del libro è un mito rovesciato, cioè ancora mito, reso più ruvido dalla vita reale, dalla biografia che è ingombro ma che ci tocca vivere rincuorati dal fatto che la nostra vita non è veramente nostra. Una verità universale che stavolta va rintracciata

La verità artistica di Milo Rau al LAC

tra le righe del tempo presente. Questo è il compito vero dello scrittore di oggi, attraverso il vergare le pagine, nascondere e proteggere ciò che sopravvive al significato: l’inattualità di ciò che è vero da sempre, che persiste nell’umano da prima che ci fosse dato di prendere parte al gioco della vita e quindi, in fondo, la conduce. Tutto viene immerso nel pensiero tragico, pare una condanna e invece è purificazione e anche lo sguardo del bambino si rivela: perché possiamo riconoscerlo, dobbiamo prima attendere che il sentimento che lo anima attraversi tutti i corridoi e l’aria buia della nostra coscienza e lasciarlo poi precipitare nell’abisso del nostro bisogno di consolazione.

Bibliografia

Teatro ◆ Hate Radio ha portato in scena la storia del genocidio ruandese, uno spettacolo che ha lasciato il segno Giorgio

Milo Rau è tutto tranne che un visionario. La sua idea di teatro, così concreta e tangibile, non è da confondersi con una lucida visione ma è una meditato esercizio per rivivere la Storia attraverso il teatro facendocela sentire parte di un’esperienza attuale. L’inconfondibile traccia dei suoi lavori è una cifra stilistica che Rau ha sempre costruito con severa e puntuale coerenza.

Un teatro di attivismo politico? Anche. Sebbene, come sostiene, il suo teatro voglia cambiare il nostro atteggiamento. Certamente non vuole che il suo teatro venga etichettato come documentario. Perché è molto altro. Ci aiutano a capirlo le radici culturali che legano Rau a una formazione sociologica appresa all’università cui s’accompagna una solida esperienza giornalistica costruita fra le pagine della «Neue Zürcher Zeitung». Un rigore, quello sì, che è ormai parte nel DNA culturale delle sue regie.

Come per Hate Radio, spettacolo del 2011, fra i più conosciuti dei suoi lavori, che il pubblico luganese ha finalmente potuto vedere nella Sala Teatro del LAC dopo essere stato cancellato dal cartellone per la pandemia. Una platea suddivisa in due ali assi-

ste alla ricostruzione di uno studio radiofonico allestito al centro del palco e ricostruito fedelmente. Lo spettacolo rievoca il ruolo che la stazione radio RTLM/Radio-Télévision Libre des Mille Collines ha avuto durante il genocidio del 1994 in Ruanda ad opera degli Hutu contro la minoranza Tutsi.

Rau si tuffa dapprima nel cuore della vicenda ricorrendo a testimonianze di sopravvissuti: racconti terribili per la crudeltà con cui si è consumato un genocidio sistematico a colpi di machete. Il pubblico viene quindi immerso in una dimensione d’ascolto con tanto di cuffie per il programma radiofonico riproposto dalla scena. Ai microfoni, tre estremisti Hutu e un belga dalle origini italiane. «Nel racconto del genocidio ruandese – ha raccontato il regista – c’è un’iconografia “imponente”. Si vedono sempre teschi, soldati, bambini morti che non volevo però utilizzare. Io volevo mostrare ciò che non si era mai visto: quella stazione radio: l’invisibilità del genocidio attraverso la sua retorica. Ho chiesto così a dei sopravvissuti, che in seguito sono diventati attori, di partecipare alla ricostruzione scenica di quello studio. Era ciò che per me rappresentava la legittimità»

Lo spettacolo si sviluppa sull’arco di un’ora e cinquanta minuti che volano letteralmente. È un ascolto fitto, intriso di violenza, di incitazioni all’odio, all’eliminazione dei Tutsi, «scarafaggi», come li chiamano in tono sprezzante gli animatori, inter-

pretati in modo assolutamente credibile dagli attori. «Ciò che maggiormente mi interessava – ha proseguito Rau – era de-africanizzare l’azione. Così ho invitato un attore bianco a interpretare un belga che aveva fatto veramente parte di quel programma

ma che ha reso la cosa subito molto difficile. È come fare un film sui nazisti e avere un soldato nero delle SS… occorre spiegarlo! E ci si rende così conto di essere di fronte a un genocidio globale dove l’esempio della radio calza perfettamente (…) Abbiamo voluto rappresentare – ha aggiunto – la verità della Storia, della Memoria. (…) Ho inventato i dialoghi, parte dei personaggi… e la musica, anche quando viene trasmessa Rape Me dei Nirvana». Un fiume di voci e suoni e una ricostruzione aderente all’ideologia razzista con un’esattezza emotiva che gli stessi spettatori ruandesi hanno riconosciuto come verità. Una verità che insegue la Storia e che, come per altre sue ricostruzioni sembra rispecchiarsi nella banalità del male descritta da Hannah Arendt. La stessa che ha alimentato l’odio interetnico e le umiliazioni inflitte, i frutti di uno scellerato passato coloniale. Con quella verità artistica e con Hate Radio Milo Rau ci offre un teatro dal realismo globale in una ricostruzione riconducibile al suo decalogo (2018) dove «l’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 23 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 33
Mircea Ca˘rta˘rescu, Melancolia, La nave di Teseo, Milano, 2022. Un’immagine del minotauro raffigurato su una Kylix conservata al Museo archeologico nazionale di Spagna. (© Marie-Lan Nguyen / Wikimedia Commons) Al microfono la moderatrice Valérie Bemeriki (Bwanga Pilipili). (Zeno Graton © IIPM)

Applaudito pochi giorni fa a Lugano Musica, Jean-Guihen Queyras torna a Lugano nella doppia veste di direttore e solista: con l’OSI accosterà il primo Concerto per violoncello di Haydn e quello in la maggiore di Carl Philipp Emanuel Bach, alla Sinfonia n. 13 sempre di Haydn e Ramifications di Ligeti, omaggio al compositore ungherese nel centenario dalla nascita.

«Haydn e Bach sono due mondi diversi. Haydn creò il primo vero concerto per violoncello se consideriamo non tanto la forma, col dialogo tra solista e orchestra, quanto piuttosto l’indagine sulle possibilità espressive e timbriche che potevano essere ottenute da questo strumento all’interno di una forma orchestrale. Il suo insistere ora sulle note più acute, con alcune melodie intonate ad altezze prima di lui neppure pensabili – ora su un continuo salto dal registro acuto a quello grave, proiettarono il violoncello in una nuova dimensione. Bach era un cembalista e il concerto che si suona a Lugano fu scritto in tre versioni: oltre a quella per violoncello, anche per clavicembalo, l’originale, e per flauto. La scrittura talvolta non è immediata tecnicamente, ma musicalmente ha sempre una fantasia, un’originalità e una vitalità che conquistano. Il terzo movimento non è mai costruito simmetricamente – otto battute più otto, sei più sei, per esempio – ma le corrispondenze tra temi musicali e battute cambiano continua-

mente, dando un’impressione di schizofrenia che però non è disordine ma sorpresa, disorientamento sempre corroborato da ironia e leggerezza».

A differenza di altri strumenti, il violoncello impone al solista di voltare le spalle all’orchestra, e se il solista deve essere anche direttore, come in questo caso… «si fa come nei grandi quartetti» sorride Queyras. «Durante le prove bisogna costruire l’intesa e la fiducia; quartetti come l’Alban Berg provavano ponendosi ai quattro angoli della sala, rivolti al muro, così da non vedersi e imparare a comunicare solo attraverso i respiri, il fraseggio, le dinamiche. Così dobbiamo fare questa volta, anche se ho un jolly: il primo violino, con cui possiamo scambiarci gli sguardi; ed è lui, come anche nelle grandi orchestre sinfoniche, il tramite tra il direttore e tutti gli altri musicisti». Accanto a Haydn e Bach, Ramifications di Ligeti.

«Da sempre ho amato spaziare tra generi ed epoche: mi sono cimentato nella musica barocca suonando strumenti dell’epoca, con corde di budello invece che con quelle moderne in metallo; allo stesso tempo già in Conservatorio ero come affetto da una tale bulimia verso la contemporanea che, sparsasi la voce, venivo letteralmente inseguito dagli studenti di composizione: sapevano che qualunque cosa avessero scritto per violoncello io gliela avrei suonata».

Forse profetica fu quella prima settimana col violoncello, senza ancora conoscere le note né le posizioni delle dita sulle corde: «Lo strumento mi arrivò una settimana prima di prendere la prima lezione e lo strimpellai per il puro gusto di sentire i suoni – non ancora note! – che poteva produrre; in effetti, talvolta, me lo sono ricordato studiando certi brani di contemporanea». Non era piccolissimo, aveva «già» nove anni: «Può sembrare tardi rispetto a tanti altri concertisti, ma fu a quell’età che lo ascoltai per la prima volta: sono nato in Canada da genitori francesi, a cinque anni la famiglia si trasferì in Algeria, poi a otto potemmo finalmente prender casa in Provenza. Fu lì che lo vidi e lo ascoltai per

la prima volta: lo suonava un bambino di undici anni, assieme a mio fratello che era violinista. Rimasi stregato, iniziai ad assillare i miei genitori finché

Con «Azione» al Concerto

«Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto con il violoncellista Jean-Guihen Queyras giovedì 2 febbraio alle 20.30 all’Auditorio Stelio Molo RSI. Per partecipare al concorso inviate una mail a giochi@azione. ch, oggetto «Haydn» con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo, no. di telefono) entro domenica 29 gennaio.

non cedettero; ci volle un mese perché mi arrivasse, un mese in cui probabilmente fui insopportabile… Quando lo ebbi tra le mani ero incantato dalle sue dimensioni: tutto era grandioso, monumentale. Abitavamo in una zona rurale, non era facile trovare scuole di musica; dopo una settimana, finalmente, mi iscrissero in un istituto a Manosque, a una quindicina di chilometri da casa».

Il suo modo di intendere e vivere il concertismo è stato segnato dal più carismatico violoncellista del Novecento, Rostropovich: «Mi colpì profondamente perché quando era su un palco dava l’impressione che per lui suonare fosse una questione di vita o di morte. Una volta, a Parigi, stava suonando il terzo Concerto di Schnittke, una quantità spaventosa di note difficilissime; a un certo punto dimenticò la parte, e non per un istante, ma per qualche secondo; non si fermò, ma suonò le corde vuote del violoncello in “fortissimo”: sembrava un leone circondato dai predatori – l’orchestra. Mi spiazzò vedere un mito vivente non cercare di nascondere l’errore, ma quasi condividerlo col pubblico; mi insegnò che noi esecutori non siamo perfetti, e siamo transeunti. Questo ha smussato e non poco il desiderio, credo naturale per un concertista, di piacere e di essere amato dal pubblico. Da quel momento più che di piacere al pubblico ho cercato solo l’interpretazione più vera per me».

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grande
Rostropovich, il violoncellista Jean-Guihen Queyras suonerà a Lugano il 2 febbraio
◆ Influenzato dal
maestro
Ritratto. (© Jean-Guihen Queyras)

In fin della fiera

«Questo va avanti a suonare, che faccio?»

Aprile 1962, inizio a lavorare come cameraman al centro di produzione della Rai a Torino. Lo studio televisivo al quale sono stato assegnato si prepara a ospitare il concerto di Arturo Benedetti Michelangeli. È il primo – e sarà anche l’ultimo – che il grande pianista abbia accettato di registrare per una televisione italiana nata solo otto anni prima e per ora in bianco e nero. Tutto il personale impegnato nelle riprese viene preparato al grande evento dal nostro direttore: il maestro è sensibilissimo, è un grande artista, il più grande pianista vivente, ha più volte interrotto dei concerti per il colpo di tosse di uno spettatore. Fate silenzio assoluto, state immobili e se proprio dovete muovervi fatelo in punta di piedi e mai quando il maestro sta suonando. Vi saranno date delle pantofole; indossatele solo nello studio e ricordatevi di restituirle al termine delle riprese. Si lavora dalle 14 alle 19. È un

Voti d’aria

lunedì, tutto è pronto, il maestro si presenta puntualissimo: siamo in aprile, fa caldo ma lui indossa un maglione nero dal collo alto. Un modello diventato di moda quando due anni prima Umberto Orsini ne La dolce vita ne aveva indossato uno bianco. Una vistosa sciarpa gli avvolge la gola, i suoi due capi gli scendono sul petto e sulla schiena, le punte toccano il pavimento. Gli uscieri aprono solleciti le porte al maestro che avanza con passo deciso fino al centro dello studio, si guarda attorno, individua il suo interlocutore nel nostro direttore che accorre sollecito. I due confabulano. Il maestro si volta e imbocca la strada del ritorno. Il direttore ci spiega che il grande pianista ha mal di gola e che in quelle condizioni non può certo dare il meglio di sé. A domani. Nessuno di noi osa dare voce al pensiero che il pianoforte lo suoni con le mani e non con la gola. Il giorno dopo, martedì, alla stessa

ora, il maestro ha la medesima tenuta, senza la sciarpa ma con un vistoso paio di occhiali scuri. Si replica l’ingresso. Si replica la scena. I due confabulano. Il maestro conosce ormai la strada del ritorno. Il direttore: il più grande pianista di tutti i tempi è afflitto da un fastidioso orzaiolo che lo tormenta e gli impedisce di dare il meglio di sé. A domani. A domani.

Terzo giorno di studio, mercoledì. Arturo Benedetti Michelangeli arriva e questa volta non cerca con lo sguardo il direttore ma va direttamente al pianoforte. Il «suo» pianoforte, uno Steinway&Sons da Gran Concerto che il «suo» accordatore ha messo a punto in dieci ore di accanito lavoro, saltando anche il pranzo. Solleva il coperchio della tastiera e inizia a saggiare lo strumento. Fa delle scale, prova la pedaliera, batte e ribatte sui tasti estremi della destra, le note più acute. Tratteniamo il fiato. Il maestro scuo-

La «Lollo» e il desiderio di rinascere

Certo che parlare di Gina Lollobrigida, morta la settimana scorsa, non è facile, perché la donna di spettacolo degli anni 50, almeno in Italia, era davvero donna da fantasie maschiliste o semmai puro cliché da fotoromanzo ormai decisamente fuori tempo. Si usciva dalla guerra e, come ha scritto sul «Foglio» Alberto Mattioli (5½), dopo tanta povertà e sciagura si imponeva l’ideale dell’abbondanza, anche fisica, carnale: così l’edizione 1947 di Miss Italia fu il trionfo delle forme femminili. In un colpo solo balzarono sulla scena Lucia Bosè, Gianna Maria Canale, Eleonora Rossi Drago, Silvana Mangano e la ventenne Gina Lollobrigida. Ha detto Natalia Aspesi sulla «Repubblica» cose che solo Natalia Aspesi (6–) può permettersi di dire sulle donne: «Eravamo tutte brutte per la fame e malvestite per la guerra, ma Miss Italia scoprì che esisteva-

no ragazze bellissime come forse non ce ne sarebbero state più». Vinse Bosè, Gina arrivò terza, ma fu tutt’altro che una sconfitta. Sarebbe stata lei, con Sofia Loren, a incarnare la bellezza italiana nel mondo creando una delle leggendarie rivalità tipo Coppi-Bartali, Tebaldi-Callas, Mazzola-Rivera. Quel tipo di bellezza era allora il «desiderio di rinascere» (l’ha fatto notare Walter Veltroni), era la luce che contrastava l’orrore cupo della guerra appena vissuta. Era allegria e speranza. Nel novembre 1957, Carlo Emilio Gadda (6+ tendente al 7), spaesato dall’imprevisto successo del Pasticciaccio, scriveva a un amico: «Sono diventato una specie di Lollobrigido, di Sofio Loren, senza avere i doni delle due impareggiabili campionesse». Notare la successione: prima la Lollo e poi Sofia. Fatto sta che le «impareggiabili campionesse» aveva-

A video spento

Il mistero di Odradek

All’inizio del nuovo anno, dopo 25 anni ha chiuso la libreria Odradek di via dei Banchi Vecchi 57 nel centro storico di Roma. Ne hanno dato notizia i due proprietari con alcune amare riflessioni: «Il problema è che sempre meno lettori entrano in libreria. Muoiono anziani e accaniti lettori e non c’è il ricambio. Le nuove generazioni non vivono più nella “civiltà della carta”. Il processo irreversibile di digitalizzazione impone a tutti un ripensamento sulle forme di accesso alla conoscenza e ai saperi che una volta venivano trasmessi esclusivamente su carta. Il libro non scomparirà, ma non è più l’unico strumento di alfabetizzazione. Lo sviluppo delle reti rende sempre più complicata la costruzione di progetti economici sostenibili intorno al Libro. Le forme della lettura cambiano velocemente e con loro anche i costumi e gli atteggiamenti nella vita quotidiana». Come non condividere queste amare osservazioni!

Ma perché quella libreria si chiamava Odradek? Per intuire l’inquietudine implicita nelle cose, occorre riandare a un’enigmatica invenzione di Franz Kafka in un racconto del 1917, Il cruccio del padre di famiglia, in cui si parla di una specie di rocchetto di legno parlante chiamato Odradek. Ecco un frammento del racconto: «Gli uni dicono che la parola Odradek derivi dallo slavo e cercano in questo modo di rintracciare la formazione della parola. Altri invece pensano che derivi dal tedesco, e sia soltanto influenzata dallo slavo. L’incertezza di questi due pareri però lascia forse concludere a ragione che nessuno dei due sia giusto, soprattutto che con nessuno dei due si riesca a trovare un significato della parola. Naturalmente nessuno si occuperebbe di simili studi, se non ci fosse davvero un essere che si chiama Odradek. Sulle prime ha l’aspetto d’un rocchetto di spago piatto a forma di stella, e infatti sembra

no per Gadda «doti» certo non morali. Marcello Marchesi (5½ tendente al 6–) definì la Lollobrigida, lanciata verso Hollywood, «il petto atlantico». Per lei fu inventato un sostantivo che sarebbe passato alla storia: la «maggiorata», neologismo che divenne famoso sulla bocca di Vittorio De Sica in un episodio del film di Blasetti Altri tempi. Nelle vesti di un avvocato-trombone dalla retorica vecchio stampo, durante l’arringa, mostrando ai giudici (maschi) la scollatura vertiginosa dell’imputata (la Lollo), De Sica (5+ tendente al 5½) urla con enfasi: «Se la legge prevede l’assoluzione dei minorati psichici, perché non dovrebbe essere assolta una maggiorata fisica!?». Era il 1952 e l’anno dopo sarebbe arrivata a cavallo di un asino una giovane campagnola detta la Bersagliera, in Pane amore e fantasia di Luigi Comencini, liquidazione del neorea-

te più volte il capo. Non va, non va. È impensabile suonare su uno strumento in quelle condizioni. Il sublime interprete di Debussy richiude il coperchio e se ne va. Domani, domani sarà la volta buona. Uscendo passa davanti a un operaio. È un uomo tutto d’un pezzo, di vecchio ceppo piemontese. Lascia che il maestro si allontani, scuote la testa e sentenzia: «Quello lì non è mica capace di suonare il piano». Per la cronaca, il maestro, giunto al quarto giorno, ha poi suonato senza problemi. Non solo. Terminate le riprese, ha continuato a pestare sui tasti. Sarei rimasto ad ascoltarlo ma il direttore ha imposto a tutti di abbandonare lo studio e di non disturbare l’artista. Che ha proseguito per ore. Alle 23 il portiere ha telefonato al direttore: «Questo va avanti a suonare, io devo chiudere, cosa faccio?». Per l’amor del cielo no! Stia fermo, le paghiamo tutti gli straordinari. Ha poi chiuso

il coperchio pochi minuti prima di mezzanotte.

Il Nostro è diventato una leggenda non solo per la sua immensa bravura ma anche per i tanti episodi veri o leggendari costruiti attorno alla sua figura. Uno fra i tanti suscita la nostra simpatia. Siamo sempre a Torino. Dopo il concerto all’Unione Musicale nella sala del Conservatorio, il Maestro è invitato a una cena organizzata in suo onore in una villa in collina dalla moglie di un grande industriale. Dopo il dessert e i caffè la padrona di casa si alza, va verso il fondo della sala, tira via un sipario nero che teneva nascosto un pianoforte e annuncia: «Adesso il maestro ci delizierà con la sua arte sublime». Arturo Benedetti Michelangeli si alza, tira fuori dalla tasca il portafoglio, ne estrae un biglietto da dieci mila lire, lo posa sul tavolo dicendo: «Questo è per la cena». E se ne va.

lismo verso la commedia all’italiana. Un’interpretazione, quella della Lollo, che le stava addosso «come un vestito su misura»: «pastorella d’Arcadia», ancora dentro tutti i cliché della popolana superba e impertinente. In realtà, Lollobrigida era figlia della buona borghesia imprenditoriale romana caduta in disgrazia per via dei bombardamenti bellici. Riuscì a iscriversi all’Accademia delle Belle Arti con la passione della scultura e del canto, e l’arte – con la fotografia – rimarrà l’attività della vecchiaia.

Il talento e l’intelligenza della diva, acclamata ovunque dalle folle in delirio e osannata anche all’estero, passavano, allora, in secondo piano: contavano di più gli amori e i flirt reali e presunti, nazionali e internazionali (Fidel Castro, Barnard…). «Il suo viso – ha osservato Alberto Moravia nel 1953 – non è mai vuoto, mai iner-

te», e ne lodava il «carattere sentimentale, ingenuo e al tempo stesso indispettito, infatuato e sensuale». Bella serie di aggettivi (5+). Ma il carattere della Lollo non era solo sentimentale, se è vero che scatenò uno scandalo quando ruppe il contratto con Antonioni per La signora delle camelie, sentendosi offesa dal suo ruolo nel film. Ci volle Italo Calvino per dare (quasi) totale dignità all’attrice al di là di ogni stereotipo. Infatti, nel settembre 1954, recensendo La romana, le riconobbe «una presa di coscienza risentita e generosa». Era un complimento che tradiva però una sorta di stupore. Aspesi: «Erano decenni primitivi, ancora fascisti nel giudizio sulle donne: o eri bella e scema o eri intelligente e brutta…». Le due qualità insieme venivano considerate molto rare. E oggi? Siamo sicuri che quel tempo sia del tutto passato?

anche che sia rivestito di spago; certo devono essere soltanto pezzi di spago strappati, vecchi, annodati insieme, o anche pezzi di spago di colore e specie diversissimi messi insieme. Non è poi soltanto un rocchetto, ma dal centro della stella sporge un bastoncino di traverso e a questo bastoncino se ne unisce ad angolo retto un altro. Con l’aiuto di questo ultimo bastoncino da una parte e di una delle irradiazioni della stella dall’altra l’insieme può camminare diritto come sopra due gambe».

Il mistero si infittisce, quel nome di incerta origine si carica di oscuri significati: è il nome di un oggetto sconosciuto, senza radici e senza scopo che si esprime attraverso un sussurro simile a un fruscio di foglie; è un oggetto che infastidisce il padre di famiglia perché è impossibile avere con lui una conversazione. Ancora Kafka: «Del resto nemmeno queste risposte si possono sempre ottenere; spesso re-

sta muto a lungo, come la legna cui assomiglia. Invano mi domando che cosa sarà di lui. È sottoposto a morire? Tutto ciò che muore, prima ha avuto una specie di mèta, una specie di attività, e in essa si è consumato; nel caso di Odradek questo non si avvera. È dunque destinato magari a srotolarsi giù per le scale davanti ai piedi dei miei figli e dei loro figli trascinando dello spago dietro di sé? È palese che non nuoce a nessuno; però l’idea che debba ancora sopravvivere anche a me, mi è quasi dolorosa».

Che cos’è Odradek? Che cosa rappresenta questa singolarissima figura (inserita da Borges nel Manuale di zoologia fantastica), dall’insieme assurdo ma compiuto, capace di parlare e di ridere, ma la cui risata risuona come un fruscio di foglie cadute? Una domanda legittima, spontanea, naturale, ma destinata a restare, drammaticamente, senza risposta. Forse è una divinità nascosta, forse è l’inconosci-

bile, forse è una macchina dei desideri irrealizzabili.

Nel 1959, Elémire Zolla pubblica il suo saggio più famoso, Eclissi dell’intellettuale: allora non solo gli intellettuali non si erano eclissati, ma godevano di un credito assoluto oggi assolutamente inimmaginabile. Nelle pagine di quel libro parla anche di televisione: «Impercettibilmente il nostro sguardo devia, per disattenzione, verso lo schermo, e avvinto senza che se ne avveda, si posa su di esso, non perché vi sia qualcosa da osservare che non sia un’immagine quando non degradata superflua e filistea della realtà, ma perché si è indotti a rivolgere a Odradek-televisione la stolida domanda: – chi sei? –, per ottenere la stolida risposta: – Odradek –, quasi fosse un canto di sirena». Kafka aveva previsto gli effetti della televisione? Una libreria evoca il nome di chi la soffocherà? Queste domande sono solo un fruscio di foglie cadute?

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