Anno LXXXV 21 febbraio 2022
Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura
edizione
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MONDO MIGROS
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SOCIETÀ
TEMPO LIBERO
ATTUALITÀ
CULTURA
Nel 2010 ha lasciato il lavoro e il Ticino per gli Stati Uniti: Francesco Somaini si racconta
In Luci sul mare si trovano tanti frammenti di storie: molti lampi sfavillano attorno ai fari scozzesi
In Ucraina uno scontro pieno di paradossi fra russi e americani passati dalla distensione alla rivalità
Al Museo del Novecento di Milano una grande mostra celebra il percorso di Mario Sironi
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L’emotività non dipende dal genere
Stefania Prandi
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La libertà sta oltre un muro Peter Schiesser
«La cosa più difficile da affrontare non è la prigionia ma il ritorno alla libertà». Mi sono ricordato di queste parole il febbraio, primo giorno di ritrovata libertà post-pandemica. Le aveva pronunciate decenni fa da un vecchio amico (pace all’anima sua) che aveva conosciuto la prigione. Allora non ne avevo colto il senso: non era possibile non scoppiare di felicità uscendo dal carcere a anni! Invece giovedì scorso infine lo capisco: prima di salire in ascensore dal parcheggio al negozio, mi sento un po’ a disagio, con un sottile senso di colpa, al non mettere la mascherina. Il riflesso è di infilare la mano in borsa per estrarne una, ma poi resisto, al pensiero che questa libertà ora mi spetta di diritto. D’altronde, è vero che la libertà non ti aspetta su una distesa pianeggiante bensì dietro ad un muro, ci vuole uno sforzo per scavalcarlo. Nel nostro caso è un muro mentale. Che è pur diventato fisico, limitandoci nelle scelte, nei movimenti, nel rapporto con il prossimo. Poi il gusto della libertà prende il sopravvento, c’è un’intima felicità di poter mostrare il volto
e riscoprire quello degli altri. A tal punto che rapidamente sorge un nuovo riflesso: di fronte a chi ancora porta la mascherina nasce la tentazione di dir loro che siamo di nuovo liberi di toglierla. Ma poi capisco che in alcuni questa nuova e improvvisa libertà genera insicurezza, fa emergere una vulnerabilità. D’altronde, è vero, la pandemia – o endemia, ora – non è finita d’incanto. C’è chi ancora si ammala seriamente, ci sono dei decessi, si capiscono sempre più le problematiche legate ad un long-Covid. E ironia della sorte, lo stesso giorno in cui il presidente della Confederazione Ignazio Cassis ha annunciato al paese la fine delle restrizioni, è stato testato positivo al Covid (senza sintomi). Ma certo la forza del virus, nella variante dominante attuale, si è smorzata e tra vaccinazioni, contagi asintomatici e guarigioni il Consiglio federale si è convinto che ormai esiste un’immunizzazione di gregge tale da poter togliere quasi tutte le restrizioni e restituire la responsabilità della gestione del virus ai singoli cittadini e ai Cantoni. Ora tocca a noi ricostruire la normalità. Riasse-
starci nella nostra quotidianità. Per me, giunge il momento di riportare in ufficio i due computer di lavoro (per Migros e per il giornale), dopo che per due anni avevano occupato in pianta stabile lo studio con la biblioteca e il tavolo della sala da pranzo, fra l’ammasso di giornali, riviste, libri, appunti. Mi viene un leggero senso di vertigine a pensare di dover staccare il mondo lavorativo dall’intimità della propria casa, sovrappostisi in una nuova normalità, per tornare alla vecchia normalità. Non ho mai abbandonato del tutto la redazione, trasportando di continuo da casa all’ufficio computer, giornali, documenti, ma tornare fuori casa per la maggior parte delle ore diurne mi fa strano: constato che un senso di «sindrome della tana» si era comunque impossessato di me. Un altro muro da superare. Per tornare alla scoperta del mondo esteriore, dell’umanità. Per avere scambi più continui con i colleghi di redazione (che gioia ritrovarli al lavoro quasi al completo giovedì), vivere la città con gli incontri fra conoscenti. Da quanto tempo non vado a teatro, a un concerto, al cine-
ma? Ogni pezzo ritrovato sarà una conquista. La prigionia si può imporre, la libertà no. Con le decisioni del febbraio si apre un cammino nuovo e psicologicamente delicato per la popolazione, che non sarà per tutti uguale, né avrà gli stessi tempi. Persone che prima si sentivano represse oggi possono assaporare la libertà, altre che si sentivano protette dalle misure e dalla mascherina ora si ritrovano vulnerabili. Sarà importante avere rispetto delle fragilità altrui, rispettare tempi e modi diversi di un ritorno alla normalità. Paradossalmente, i fronti precedenti si sfaldano e si ricompongono in forme diverse: se prima c’era una spaccatura fra chi ha deciso di vaccinarsi e chi no, ora nel momento del «liberi tutti» si ritrovano assieme i vaccinati ansiosi di vivere senza restrizioni e i no vax, divisi invece da chi ritiene troppo rapido questo ritorno alla libertà completa (o quasi). È un’ulteriore evoluzione di questa pandemia, di cui speriamo – ma non possiamo esserne certi – si stia scrivendo il capitolo decisivo. D’altronde, l’ottimismo è sempre stato un figlio prediletto della libertà.
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SOCIETÀ
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Il cinema ama il Ticino Intervista a Niccolò Castelli direttore della Ticino Film Commission
Ambasciatore dei boschi Il quercino si trova solo in Europa ed è scomparso da ampie parti della sua area di diffusione originaria
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Dalla retina al cervello Si deve a Richard Masland la più avanzata riflessione sul modo in cui funziona il nostro sistema visivo
Le ragazze e il loro corpo I cambiamenti fisici della pubertà possono destabilizzare le ragazze, come aiutarle?
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Le donne non sono più emotive degli uomini
Stereotipi di genere ◆ Un team di studiosi dell’Università del Michigan ha dimostrato che abbiamo vite emotive uniche e complesse. Intervista alla ricercatrice Adriene Beltz Stefania Prandi
Non è vero che le donne sono più emotive degli uomini. Un team di ricercatori dell’Università del Michigan ha scoperto che, contrariamente ai pregiudizi ancora diffusi, maschi e femmine provano le stesse emozioni. Nemmeno il ciclo mestruale ha un impatto decisivo: non risultano evidenze scientifiche per cui le donne, «in quei giorni», sarebbero più emotive. Eppure, il modo in cui gli individui manifestano quel che provano viene ancora percepito in maniera diversa in base al loro sesso di appartenenza. Questo significa, ad esempio, che se un uomo si agita, gridando e gesticolando, durante un evento sportivo, è considerato «appassionato» mentre una donna passa per «irrazionale». Intervista ad Adriene Beltz, professoressa di Psicologia, ricercatrice dell’Università del Michigan e coordinatrice dello studio pubblicato su «Scientific Reports». Adriene Beltz, nell’analisi delle emozioni di donne e uomini siete partiti dallo studio delle influenze degli ormoni ovarici femminili. Perché? Secondo una credenza molto diffusa, i cicli mestruali femminili porterebbero a variazioni delle emozioni e a oscillazioni del comportamento e della capacità di giudizio. Questo stereotipo è presente anche nel mon-
do scientifico al punto che le donne, per decenni, sono state escluse dalla partecipazione agli studi biomedici e psicologici. Gli scienziati sostenevano che la variazione degli ormoni ovarici, e quindi l’instabilità delle emozioni, avrebbe minato i risultati delle loro ricerche. Ad esempio, si credeva che le risposte fornite dalle donne non avrebbero riflettuto la «vera» relazione tra emozioni e capacità di giudizio a causa dei cambiamenti ormonali. Il nostro studio affronta con un approccio pratico questo problema. Per realizzare l’indagine abbiamo raccolto i dati delle esperienze emotive di uomini e donne, nell’arco di giorni, e in aggiunta i profili ormonali femminili, sia di chi aveva un ciclo naturale sia di chi usava contraccettivi orali. Perché le donne sono considerate più emotive degli uomini? Bella domanda. Il nostro studio si è ispirato a questa percezione fuorviante, ma non l’abbiamo indagata direttamente. Tuttavia, ci sono molte altre ricerche che dimostrano il ruolo importante giocato da preconcetti e stereotipi. Ad esempio, ai ragazzi e agli uomini viene insegnato a nascondere le proprie emozioni, considerate segni di debolezza. Inoltre, le persone dimostrano di avere dei pregiudizi quando interpretano i
comportamenti: la donna che durante una riunione di lavoro parla con rabbia appare «fuori controllo»; se l’uomo fa lo stesso, dà l’idea di essere «sicuro di sé». Come avete realizzato la ricerca? Abbiamo selezionato un campione di donne e uomini. Abbiamo preso in esame sia le donne con un ciclo mestruale regolare, e quindi presumibilmente con ormoni ovarici mutevoli, sia quelle che usavano tre tipi diversi di contraccettivi orali, cioè «la pillola», che si crede stabilizzi le variazioni ormonali naturali. Poi, ogni giorno, per un massimo di giorni, abbiamo chiesto a tutti i partecipanti di considerare un elenco di dieci emozioni positive (ad esempio, entusiasmo e orgoglio) e altrettante negative (ad esempio, spavento e irrequietudine), domandando di valutare la misura in cui le avessero sperimentate nelle ultime ventiquattro ore. Utilizzando i dati longitudinali intensivi, abbiamo quantificato la variabilità nelle emozioni quotidiane in tre modi diversi, per catturare il grado di alti e bassi emotivi sperimentati dai partecipanti di ciascun gruppo. Cosa avete scoperto analizzando il campione di persone? Abbiamo trovato più somiglianze che differenze tra uomini e don-
ne. Le emozioni dei due sessi hanno variato quasi nella stessa misura, nell’arco dei giorni. A quel punto, abbiamo confrontato le donne che ovulavano naturalmente con quelle che usavano contraccettivi orali e, ancora una volta, abbiamo trovato poche prove di differenze consequenziali. Se gli ormoni ovarici fossero stati davvero decisivi, allora le donne con un ciclo naturale avrebbero dovuto mostrare una maggiore variabilità rispetto a chi usava la pillola, ma non è successo. Quali sono le conseguenze del vostro studio? La nostra ricerca fornisce prove scientifiche che contraddicono, senza ombra di dubbio, l’idea che le donne siano più «emotive» degli uomini e che i cicli mestruali le predispongano, in maniera esclusiva, ad alti e bassi degni di nota. In altre parole, abbiamo dimostrato che le emozioni di tutti cambiano da un giorno all’altro e che abbiamo vite emotive uniche e complesse. Ci auguriamo che i risultati – anche magari solo in piccola parte – incoraggino i prossimi studi e aiutino a combattere gli stereotipi di genere, in modo che le donne siano libere di dire la propria, senza sentirsi giudicate, durante le riunioni di lavoro e gli uomini possano piangere liberamente quando sono al ci-
nema. Inoltre, è importante chiarire che cosa non mostrano i nostri risultati. Noi non mettiamo in discussione quanto è già stato dimostrato da altre ricerche, e cioè che gli ormoni ovarici hanno comunque un’influenza sulle emozioni; non neghiamo l’impatto ormonale. Le nostre scoperte indicano, però, che gli ormoni sono solo uno dei tanti elementi che contribuiscono all’aspetto emotivo; tra questi, per citarne alcuni, le esperienze stressanti di ogni giorno, il periodo dell’anno e il sonno. Se consideriamo tutti i fattori insieme, quindi, possiamo dire che uomini e donne sono simili nelle oscillazioni. Ci sono altre ricerche come la vostra, con gli stessi risultati? Esistono numerose ricerche sulle emozioni e sul sesso. Ce ne sono alcune, notevoli, sugli animali, gli ormoni sessuali e la variabilità fisiologica. La nostra indagine è da considerarsi unica nella misurazione della variabilità delle emozioni perché abbiamo seguito un campione di donne che assumeva diversi tipi di contraccettivi orali per giorni e abbiamo usato analisi statistiche avanzate. Speriamo di essere d’ispirazione per nuovi studi. * L’intervista è stata tradotta e in alcuni passaggi adattata dalla giornalista.
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Francesco, l’americano
Incontri ◆ Francesco Somaini era cronista al «Corriere del Ticino» poi nel 2010 la decisione di andare a vivere e a studiare negli Stati Uniti. Oggi è il responsabile del Dipartimento di Comunicazione della Central Washington University Matilde Casasopra
Jeans, giubbotto di pelle, borsa a tracolla. È arrivato da circa un’ora. Da Chiasso a Muzzano c’è sempre traffico. Finisce la riunione di redazione. Sono le .. L’urlo è il solito: «Radio! Cronache»! È in quel momento che, per qualcuno, inizia il turno di chiusura del giornale. Un giorno a me, un giorno a te. Non ricordo che giorno fosse esattamente. Quel giorno, però, era il giorno di Francesco Somaini. Ricordo gli occhi neri dietro gli occhiali. Ricordo il sorriso e quelle tre parole: «Ti posso parlare?». Apro la porta dell’acquario. Prima sta in piedi, poi si siede. Sceglie la sedia vicino alla finestra. La vista è sull’aeroporto. «Ho deciso che lascio il Ticino. Vado in Oregon, a Eugene. Se non lo faccio adesso non lo faccio più. Patrizia è d’accordo. Partiamo insieme. I miei genitori? Un po’ meno. Anzi, diciamo pure che non sono d’accordo per niente». Attimo di smarrimento. E cosa vai a fare (se posso chiedere)? «Certo che puoi! Mi iscrivo all’università per conseguire un dottorato nell’ambito dei mass-media. Mi sono accorto che se resto qui mi fermerò prima del tempo. Non è quello che voglio. Quello del giornalista è un lavoro che sta cambiando rapidamente. Voglio imparare e capire perché». Crisi. Il giovane Francesco, uno dei cronisti più promettenti del «Corriere del Ticino», tra i primi ad essersi laureato alla facoltà di Scienze della comunicazione dell’USI, ha deciso di andarsene. E poi? «Poi si vedrà. Impareremo a vivere in un altro paese o… torneremo in Ticino». Tutto ciò in un giorno del (che non ricordo esattamente quale fosse). Oggi, uno dei tanti giorni del , Francesco e Patrizia sono ancora negli States. Non più in Oregon, ma nello Stato di Washington dove «il Dr. Somaini è responsabile del Dipartimento di Comunicazione della Central Washington University». Come sta? Cosa sta facendo? Come ci vede guardandoci dall’altra parte dell’Oceano? Dr. Somaini – che d’ora in poi, se me lo consente, chiamerò semplicemente Francesco – ci spiega cosa significa essere responsabile del Dipartimento di Comunicazione? Quali i suoi compiti? Quali i suoi obiettivi? Il ruolo di responsabile di un dipartimento è di servizio agli insegnanti e agli studenti di quel dipartimento. Significa preoccuparsi di una miriade di compiti amministrativi tra cui coordinare e valutare il lavoro degli altri professori, programmare i corsi sulla base del numero di studenti, aggiornare e sviluppare il curriculum per tenerlo al passo coi tempi, gestire le spese correnti, rappresentare i colleghi coi piani alti, gestire conflitti tra studenti e docenti. In questo momento, l’obiettivo è sopravvivere alle difficoltà causate dalla pandemia che ci ha obbligati ad insegnare a distanza per un anno intero, che minaccia di rimandarci online dalla sera alla mattina e ha contribuito a ridurre il numero di iscritti nelle università di tutta America. Nel lungo termi-
ne, mi piacerebbe che riuscissimo a trovare le risorse per assumere nuovi professori e offrire corsi ancora più interessati per i nostri studenti. Poi chissà. Sono stato eletto capodipartimento dai miei colleghi. Non l’avevo programmato. Mi sembra di fare un lavoro utile: difficile ma che dà soddisfazioni. È un mandato quadriennale rinnovabile. Francesco, lei ha il doppio passaporto? Sì. Svizzero e italiano. Qui adesso ho la residenza permanente, che equivale al domicilio, la famosa carta verde. Che rapporto ha con i suoi studenti? Lavoro in un’università dove si fa molto insegnamento e, di conseguenza, relativamente poca ricerca. Da professore associato senza doveri amministrativi, insegnerei nove corsi all’anno. Come capodipartimento, ho uno scarico e ne insegno solo tre. A Central, come chiamiamo la CWU, abbiamo all’incirca diecimila iscritti, e una proporzione di una ventina di studenti per docente. Questo ci consente di sviluppare un rapporto più personale con loro, difficile da attuare se avessimo classi di centinaia di loro in aule auditorio. Presto li si conosce per nome e si ha l’occasione di accompagnarli nella carriera accademica e nella preparazione al mondo del lavoro, ciò che trovo essere l’aspetto più appagante del mestiere. Racconta loro (ai suoi studenti) di come vide (e visse) «la Merica» il primo anno nel quale vi si trovò a vivere? Sempre. E cerco spesso di informarli delle somiglianze e delle differenze con la Svizzera, di cui gli USA sono una gigantografia. O forse è il contrario: la Svizzera è un’America in miniatura. Poco importa. Tutti noi abbiamo bisogno di prospettiva per confrontarci in modo sano con noi stessi e col mondo in cui viviamo. E certe prospettive si riescono a trovare solo andando via dai luoghi a noi famigliari per un tempo sufficiente. Non basta un soggiorno linguistico di qualche mese. Raccomando a tutti i miei studenti, se ne hanno i mezzi, di partire per l’estero per almeno un anno. Cosa, allora, la mise maggiormente in difficoltà? Gli scarsi mezzi economici con cui mia moglie ed io ci lanciammo nell’avventura del mio dottorato. I soldi non fanno la felicità, ma con pochi soldi, si riesce a sopravvivere in modi che accentuano la nostalgia di casa. Però è stato estremamente salutare: per alcuni anni ci siamo liberati di un certo materialismo e abbiamo reimparato ad apprezzare le cose che contano davvero, come passare tempo insieme, condividere progetti e scoperte, pianificare la nostra famiglia, sognare. Cosa, allora, le diede la forza di continuare? La speranza di avere maggiori op-
portunità lavorative una volta diplomato. Finché non si è presentata l’opportunità di lavorare qui, l’idea era sempre stata di rientrare in Svizzera e cercare lavoro in patria forti di quel diploma e di un lustro di esperienza nella prima economia del mondo. Però ha aiutato molto anche la consapevolezza che studiare di nuovo, prendere un diploma in un altro paese e in un’altra lingua, è un percorso arricchente in sé e per sé. Non è solo funzionale a obiettivi economici e professionali. Si va a scuola anzitutto per diventare più consapevoli delle cose del mondo e della vita: per diventare persone e cittadini migliori e meno manipolabili.
Scheda Nato a: Mendrisio. Età: 44 anni (45 anni a marzo 2022). Abita a: Ellensburg, Stato di Washington, costa occidentale. Insegna a: Central Washington University (CWU). Hobby: rompere le scatole. Rimpianto: non avere studiato una delle scienze esatte o naturali. Sogno nel cassetto: essere ricordato come un buon papà e un marito decente. Amo: il mare. Non sopporto: l’ignoranza di certe cose. La mia foto preferita: l’immagine della felicità nel primissimo piano di mia figlia a 5 anni, sorridente, in un parco divertimenti californiano.
Lei Francesco, l’abbiamo detto, non partì solo. Con lei c’era – e c’è – Patrizia. Quanto importante fu – ed è – la sua presenza? Fondamentale. Questa avventura l’abbiamo affrontata insieme e per lei è stata molto più difficile perché, finché non mi è stato dato un permesso di lavoro temporaneo dopo aver conseguito il dottorato, non le era consentito di fare alcuna attività lucrativa e non avevamo i mezzi per farla studiare. Le cose sono cambiate radicalmente quando mi hanno assunto alla Central Washington University. Patrizia si è subito iscritta a psicologia, in meno di quattro anni ha finito il bachelor, premiata come prima studentessa del suo corso, e poi, in neanche due anni, nel marzo del ha completato un master in psicologia sperimentale; appena diplomata, ha avuto la sua prima pubblicazione accademica e pochi giorni fa una seconda. Nel frattempo, ha iniziato il programma di dottorato in psicologia sociale dell’Università di Berna, che la terrà occupata per i prossimi tre anni. Studia cose importanti, come il modo in cui la nostra percezione delle persone con un colore della pelle diverso influenza le nostre azioni nei confronti di quelle persone. Patrizia è una ricercatrice nata. Un talento naturale. Spiace dover dire che a permetterle di fiorire è stata la flessibilità del sistema di istruzione superiore statunitense mentre in Svizzera non sarebbe stato possibile. Ci aveva provato ma si era scontrata con una burocrazia rigidissima che di fatto considerava il suo diploma di maturità professionale commer-
ciale un certificato di inidoneità a studi universitari in materie diverse da quelle economiche. Lei oggi «vuol fare l’americano» o si sente «americano»? Nessuno dei due. Sono uno straniero, un immigrato europeo, di lusso, in terra americana. E come vede quel puntino che, sul mappamondo, è quel Ticino dal quale è partito? Con più consapevolezza che, nel bene e nel male, non è tanto diverso da alcuni luoghi che ho avuto modo di conoscere qui. Il mondo è pieno di ombelichi. Talvolta lo vedo con rabbia. Sempre con l’affetto che uno non può che provare per il luogo in cui è nato e cresciuto. Sua figlia parla l’italiano? Sì. Ha imparato prima l’italiano e poi l’inglese; adesso, fosse per lei, parlerebbe solo il secondo. Francesco, lei si è mai sentito un «cervello in fuga»? Piuttosto, un po’ di cervello mi è venuto fuggendo. Per restare in argomento, comunque, secondo me il problema non è tanto che i cervelli ticinesi fuggono. Se possono, i giovani ticinesi devono assolutamente lasciare il Ticino, e tornarci solo se vogliono dopo essere stati fuori il necessario. La domanda da porsi è: quanti e quali cervelli altrui attrae il Ticino? E perché attrae quelli? … e… tornerebbe in Ticino? Adesso no. Ma resta casa. Forse un giorno.
Tre momenti chiave di una vita Francesco, lei ha disposizione battute per illustrare tre momenti topici della sua vita: . Il primo scoop, per laRegione, nel , mi pare: dei genitori lanciavano una petizione per ripristinare il servizio dentario scolastico finito sotto la scure dei tagli. Bigiai lezio-
ne all’USI per andare in redazione a scrivere. La notizia fu ripresa. . settembre , giorno in cui Patrizia ed io decollammo da Kloten con le nostre vite in sei valigie sei e atterrammo a Eugene, Oregon. All’Ikea di Portland, con dollari arredammo il piccolo appar-
tamento che potevamo permetterci. . La prima lezione: davanti a studenti, nel , evidentemente in inglese. Ero in un bagno di sudore. Mi tremavano le mani e la voce. Realtà batte romanticismo dell’insegnamento -.
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Il Pane Passione
Pane della settimana ◆ Una croccante specialità ancora attorcigliata a mano a base di cereali coltivati esclusivamente in Ticino
Pane Passione Classico Nostrano 420 g Fr. 3.80
Gli amanti del buon pane da ormai molti anni apprezzano l’inconfondibile fragranza del Pane Passione. Lanciato sul mercato oltre dieci anni fa, dal è panificato solamente con cereali coltivati in Ticino secondo gli standard della produzione integrata IP-Suisse e macinati sotto la supervisione del Mulino Maroggia. La specialità, prodotta con passione artigianale dagli abili panettieri del panificio Jowa di S. Antonino, presenta una crosta dorata e croccante,
una mollica soffice e umida e una forma allungata e attorcigliata. L’impasto, a base di farina di frumento chiaro, viene lasciato lievitare oltre ore in modo che possa sviluppare il suo caratteristico aroma pronunciato e far sì che possa mantenersi fresco per più giorni. Date le sue qualità organolettiche, è un pane particolarmente versatile: è ottimo da solo per accompagnare minestre e insalate, imbottito con salumi e formaggi genuini si trasforma in corroboranti sandwich
o ancora, leggermente abbrustolito, diventa la base essenziale per stuzzicanti tartine dell’aperitivo da farcire a piacimento. Per vegetariani e non solo
Perché non utilizzare il Pane Passione per preparare uno spuntino vegetariano a base di ravanelli da gustare fuori casa o come leggero antipasto? Tagliate delle fette non troppo spesse di Pane Passione e mettetele da parte. Tagliate a striscioline alcune fo-
glie verdi di ravanelli e tenetene un po’ per guarnire. Mettete le restanti in una ciotola e aggiungete un filo d’olio, due cucchiaini di semi di sesamo e riducete il tutto in purea con il tritatutto. Salate e pepate. Spalmate le fette di pane con del formaggio fresco, cospargete con la purea di foglie di ravanelli e guarnite con delle fettine di ravanelli. Decorate con le foglie di ravanelli tagliate rimaste e condite a piacere con una spolverata di curry.
Sensodyne & Parodontax Novità
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Due nuove affermate marche di dentifricio per denti e gengive sensibili entrano a far parte dell’assortimento Migros
Avete la tendenza a soffrire di ipersensibilità dentale o gengive gonfie e sanguinanti? I noti prodotti terapeutici raccomandati da dentisti e igienisti Sensodyne e Parodontax possono essere dei validi alleati nella prevenzione e nella cura di questi disturbi. Con le sue formulazioni uniche, il marchio Sensodyne da oltre cinquant’anni sviluppa prodotti che aiutano a trattare la sensibilità dentale legata al freddo e a prevenire l’erosione dello smalto dentale. Al contempo offre le migliori soluzioni quotidiane per avere denti sani, un’efficace protezione dalla carie e un alito fresco. Parodontax, dal canto suo, da ottant’anni è considerato un vero «esperto» delle gengive. Le gengive sane normalmente non sanguinano, di conseguenza se si verificano dei sanguinamenti dopo l’utilizzo dello spazzolino o del filo interdentale essi possono indicare l’inizio di una malattia gengivale. Se il problema non viene trattato, può portare ad avere alito cattivo, arrossamento e gonfiore delle gengive, ritiro delle gengive e, infine, alla perdita dei denti. L’utilizzo giornaliero del dentifricio Parodontax contribuisce a ridurre il sanguinamento gengivale e a prevenirlo.
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Sensodyne & Parodontax sono in vendita nelle maggiori filiali Migros
1. Sensodyne Repair&Protect Protezione quotidiana in caso di ipersensibilità dentale. Fr. 6.95 2. Sensodyne Repair&Protect Whitening Protezione duratura contro la sensibilità dentale, con effetto sbiancante. Fr. 6.95 3. Sensodyne Rapid Sollievo immediato in caso di denti sensibili e protezione duratura. Fr. 7.95 4. Sensodyne ProSmalto Protezione quotidiana contro l’erosione dello smalto dentale. Fr. 5.20 5. Parodontax Fluoro Dentifricio al fluoro, aiuta a ridurre e prevenire il sanguinamento gengivale. Fr. 5.95 6. Parodontax Extra Fresh Dentifricio extra fresco per la prevenzione e riduzione del sanguinamento gengivale. Fr. 5.95
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Dolci tentazioni carnascialesche
Ariosi e delicati
Attualità ◆ I tortelli di carnevale sono una golosa tradizione che non può mancare sulle nostre tavole in questo periodo
Gli squisiti dolci della tradizione sono da sempre parte integrante della festa più colorata dell’anno. Grazie alla loro fragranza e morbidezza, i tortelli di carnevale sono delle specialità stagionali che riscaldano il cuore e deliziano il palato. Vengono preparati a mano ogni giorno freschissimi con ingredienti accuratamente selezionati dai pasticceri del laboratorio di pasticce-
ria artigianale di Migros Ticino, a S. Antonino. L’impasto a base di pasta bignè, anziché essere fritto nell’olio, viene cotto delicatamente in forno, con il vantaggio che i dolci bocconcini risultano più leggeri e digeribili. La farcitura è invece composta da una finissima crema chantilly aromatizzata al marsala. Sarà difficile resistere a tanta bontà!
Tortelli di carnevale 220 g Fr. 7.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros
In molte regioni della Svizzera i Berliner sono considerati tra i dolci tipici del carnevale, ma oggi ormai sono diventati un prodotto di culto in vendita tutto l’anno. Pensate che la Jowa annualmente produce qualcosa come milioni di questi delicati bomboloni. Disponibili nella classica variante con ripieno di confettura di lampo-
ni e stagionalmente alla crema, sono composti da un impasto di acqua, farina, margarina, zucchero e lievito. Le palline di pasta lievitata così ottenute, vengono fritte per alcuni minuti in olio vegetale. Dopo essere stati ben sgocciolati, i Berliner vengono infine farciti con la confettura e spolverati di zucchero a velo. Annuncio pubblicitario
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Un Ticino da film
Territorio ◆ Tra il Mediterraneo e le Alpi, il nostro territorio è apprezzato dalle produzioni cinematografiche: una risorsa artistica ma anche una questione di promozione economica regionale. Ne abbiamo parlato con Niccolò Castelli, direttore della Ticino Film Commission Guido Grilli
Avresti detto Hollywood, l’America. Invece no, anche il Ticino val bene un film. Il suo territorio, la sua varietà geografica – dai paesaggi mediterranei a quelli prealpini – possono offrirsi a location ideali per il cinema. Un territorio che tuttavia negli anni abbiamo in parte deturpato, rendendo sempre più rare e pertanto preziose quelle oasi in grado di conservare ancora intatte la loro natura incontaminata e al riparo da brutture architettoniche. E i luoghi, anche per la settima arte, sono tutto. Il territorio entra di diritto nella filiera cinematografica.
«Abbiamo a disposizione degli incentivi finanziari per attirare le produzioni in Ticino, l’indotto economico si riversa a favore del territorio stesso» «Noi, certo, possiamo avere tutti i mezzi possibili, incentivi finanziari, grandi professionisti. Ma senza il territorio non faremmo niente. La maggior parte della produzione audiovisiva – film, serie, video, spot – ha come protagonista, oltre al volto dei personaggi, il luogo in cui viene girata». Ciak, si gira. Affrontiamo il tema del territorio ticinese accompagnati dall’occhio del regista e sceneggiatore luganese, Niccolò Castelli, anni, che ha sempre scelto di ambientare entro i suoi confini i suoi lungometraggi, compresa l’ultima pellicola, Atlas. «Sì. Io sono tornato a vivere in Ticino perché tengo molto al territo-
rio e alla mia cultura e volevo provare a dirmi, posso fare cinema anche qui. Per me è sempre stato molto importante, sin dalla scrittura della sceneggiatura, che i miei film fossero ambientati in luoghi che conoscevo. Ho spesso scelto ambienti unici, destinati a scomparire o a mutare, come per Atlas, per cui ho girato una parte delle scene allo spazio Morel di Lugano che adesso sarà abbattuto. Mi piace questo lavoro sul paesaggio. Mentre scrivo, spesso vado a cercare già i luoghi in cui potrà essere ambientato il mio film. Scatto foto per possibili scene. I luoghi possono ispirare idee». Pur tuttavia il Ticino non è più un Eden di luoghi incontaminati. «Bisogna essere realisti. Ci sono anche delle «brutture» – che altresì possono essere interessanti dal profilo cinematografico – però è ovvio che la maggior parte delle persone cerca il Ticino per le sue enormi peculiarità, che rischiamo di mettere a repentaglio, quell’anello di congiunzione tra paesaggio mediterraneo e continente prealpino. I produttori vedono nel Mendrisiotto la «Toscana», le alpi, qualcosa di unico. Però se si inizia a distruggere il territorio ne risente anche il cinema». Analizziamo «interni» ed «esterni», in termini cinematografici. «In Ticino ad essere messa a rischio è la difficoltà di trovare un luogo che sia ancora coerente. Tu cerchi una via per raccontare gli anni Trenta o Quaranta, ma basta una palazzina che si frappone tra due villette d’epoca a tradire il racconto di una certa atmosfera. Annuncio gratuito
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Sul set di Calcinculo, regia Chiara Bellosi, produzioneTempesta film Roma, Rai Cinema Coproduzione tellfilm Zurigo. (Central Productions Lugano)
Venendo agli interni, ci si rende conto che oggetti interessanti a livello architettonico ci sono ma sono sempre meno. La speculazione edilizia si avverte. E lo stesso vale per la natura: spesso e volentieri nel cinema si cerca qualcosa che non sia un’immagine da cartolina. Non necessariamente una bella immagine è la casetta con il giardino curato. Occorre che certi luoghi siano lasciati allo stato primordiale, selvaggio. Spesso sono questi i posti che raccontano di più. Ad esempio, se intendessi adattare una versione cinematografica de Il fondo del sacco di Plinio Martini e volessi trovare quel tipo di natura ruvida, lo potrei fare solo rintracciando delle valli che abbiano mantenuto intatte le loro caratteristiche. Per fortuna ci sono ancora luoghi, come la Valle Bavona, e sono straordinari per il cinema». Stanno dunque diminuendo questi spazi naturali e conservati nel loro splendore? «Qua e là sì. Per me è importante cercare di comunicare che questi luoghi si stanno riducendo – e non si tratta di fare “discorsi da Wwf ” – ne risentono non solo la natura e il paesaggio, ma anche le nostre risorse economiche, sociali e di cultura. Il ghiacciaio del Basodino, che era il più accessibile di tutti, oggi purtroppo è quasi morto ed è praticamente ridotto a una sassaia. È diventato un po’ meno interessante anche dal profilo cinematografico, fotografico ed estetico».
Questa trasformazione e alterazione paesaggistica rappresenta dunque un limite anche per il cinema? «Oggi con la tecnica digitale l’immagine brutta di un’industria posso anche cancellarla. Io nei miei film utilizzo anche luoghi che non sono propriamente belli ma perché è voluto e ricercato. Il bello cinematografico può essere anche un “brutto” comune». Dal Niccolò Castelli è direttore della Ticino Film Commission. Che cos’è, in concreto, e di cosa si occupa? «La Ticino Film Commission esiste dal ed è operativa dal . Il suo scopo si esplica principalmente nell’attirare e consolidare la produzione audiovisiva in Ticino. Significa far sì che la produzione che già esiste sia meglio coordinata, promossa, sviluppata e invogliare nuove produzioni a venire sul territorio. Tre sono i motivi: il primo è quello di creare un indotto economico, perché il cinema, oltre ad essere un’arte, rappresenta anche una forma di industria che io chiamo nomade, nel senso che porta un indotto laddove va a girare – un importante indotto, perché quando il cinema si muove spende tanto nel territorio nel quale si addentra. Spende in vari servizi, perché alla troupe vanno garantiti ristoranti, alberghi, elettricità, scenografie, collaboratori. Mille cose. Il cinema è interessante, poi, dal punto di vista dello sviluppo economico, perché si muove anche in regioni periferiche. E un aspetto non Moonflower, di Giovanni Bolzani Valenzano, cortometraggio, il set nei boschi di Carona. (REC Lugano)
meno importante è l’immagine turistica, perché facendo un film esportiamo l’immagine del Ticino all’estero: mostriamo zone del Cantone a un pubblico in modo emozionale, immagini che rimangono per sempre. Lo vedo anche personalmente: quando porto un film a un festival, in Canada o in Germania, Cina, Stati Uniti, la gente chiede dei posti in cui si è girato, che si contrappongono ai cliché comuni che hanno della Svizzera. Inoltre, una produzione cinematografica significa trenta persone che vengono dall’estero e sperimentano un film, del quale una volta a casa ne parlano, attori famosi che scattano foto sui set ticinesi, quindi un indotto impagabile… . Noi aiutiamo tutti i film, a livello di servizi secondo tutte le necessità, e il nostro ruolo è spesso quello di cercare i luoghi dei set, che valutiamo con l’occhio e il linguaggio del cinema». E in termini di mezzi economici? «Abbiamo a disposizione degli incentivi finanziari per attirare le produzioni in Ticino. Incentivi riconosciuti per coprire parte delle spese sostenute sul territorio, ma il cui indotto economico si riversa a favore del territorio stesso. Le cifre del rapporto dell’ultimo quadriennio indicano che abbiamo elargito incentivi per mila franchi negli ultimi quattro anni a fronte di una ricaduta economica per il Ticino di , milioni di franchi. Esempi di incentivi riconosciuti dalla Ticino Film Commission – che è fra l’altro finanziata dal Dipartimento dell’economia come progetto di sviluppo economico regionale – risalgono all’anno scorso per due opere cinematografiche girate in contemporanea a Lugano: il primo è un film d’autore, ospite della Berlinale, dove il Ticino non si riconosce quasi: si tratta di Calcinculo di Chiara Bellosi, che ha visto lavorare qui molti professionisti per diversi giorni. L’altro film è quello di Leonardo Pieraccioni, Il sesso degli angeli, un «blockbuster» che uscirà ad aprile con un potenziale di milioni di spettatori. Una grandissima pubblicità per Lugano, che accompagna in modo proattivo gli sforzi di promozione turistica».
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SOCIETÀ
Quercino dove sei? Mondoanimale
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Un progetto di «scienza partecipativa» alla ricerca di informazioni sui micro-mammiferi della Svizzera
Maria Grazia Buletti
Per Pro Natura, l’animale ambasciatore dei boschi selvaggi e dei paesaggi naturali è il quercino: un piccolo mammifero della famiglia dei Gliridi, agile roditore notturno dalla mascherina come Zorro che trascorre i mesi tra novembre e aprile in letargo, restando però molto attivo durante il resto dell’anno. «Occhi chiusi, orecchie abbassate, coda ritirata: il quercino assume questa posizione per trascorrere i mesi di letargo nel rifugio che ha allestito in fessure del suolo o delle rocce, in cavità all’interno degli alberi, in fienili, case di vacanza e cassette di nidificazione», spiega la responsabile del sodalizio Serena Britos che ne svela pure il risveglio: «Dopo il letargo (il risveglio in aprile coincide con la stagione degli amori), la sua vita riprende a pieno regime. Così, dopo tre settimane di gravidanza, la femmina partorisce da quattro a sei piccoli in un nido sferico di muschio, foglie erba e piume, mentre il maschio non si occupa minimamente della prole che, dopo un mese di allattamento, inizia ad andare alla scoperta dei dintorni al seguito della mamma». Scopriamo che il quercino assomiglia al ghiro, suo cugino più grande e più noto. «Ha però dei tratti distintivi tutti suoi: a partire dalla mascherina nera fino alla coda che termina con un ciuffo bianco e nero». È un piccolo roditore lungo appena - centime-
tri e, secondo la stagione, pesa tra e grammi: «Durante le scorribande notturne si concede spuntini vegetariani e piatti più sostanziosi a base di vertebrati: rane, lucertole o piccoli di uccello». Da buon onnivoro pare non disdegnare nulla, ma è a sua volta un bocconcino apprezzato da alcuni predatori: «Deve guardarsi dall’allocco, dalla volpe, dalla martora o dal gatto selvatico, ma in situazioni di pericolo estremo esso può staccare la pelle della coda: una strategia che talvolta può salvargli la vita». Il suo habitat è il bosco diversificato e ricco di legno morto, tronchi cavi, elementi rocciosi e cespugli: «Una rarità oramai in Svizzera, motivo per cui il quercino ha imparato a ovviare, fino ad alcuni decenni fa, trovando anche fuori dal bosco ambienti sostitutivi di suo gradimento, nel paesaggio rurale ricco di frutteti, siepi e fienili a lui facilmente accessibili». Queste ultime sono «residenze estive o invernali assai apprezzate dal quercino», che però non sempre raccolgono l’entusiasmo dell’uomo: «Chi si accorge di avere un ospite in casa ha molto più spesso a che fare con un ghiro», spiega Serena che sottolinea come «la gioia di condividere il tetto con il tenero animaletto è tuttavia spesso offuscata da rumori notturni, scorte di cibo rosicchiate e bisognini sparsi ovunque». Si sa che il quercino si trova solo in Europa ed è scomparso da ampie
Un esemplare di quercino. (Pro Natura)
parti della sua area di diffusione originaria, l’Europa orientale. «Anche in Svizzera è sempre meno presente; in vaste aree dell’Altopiano e in alcune altre regioni non si hanno più prove recenti della sua presenza». I motivi della scomparsa non sono ancora del tutto chiari: «Considerato che l’animale dell’anno è protetto dalla legge, una delle cause è sicuramente la perdita di habitat, mentre le altre possibili ragioni sono tutt’ora oggetto di ricerca, e un ampio progetto lanciato in Germania dovrebbe fornire alcune prime risposte durante questa primavera». Difficile da osservare per la natura molto schiva e per le abitudini pres-
soché crepuscolari e notturne, il quercino è una specie poco presente a sud delle Alpi, ma lo si trova in tutto il Sopraceneri oltre gli metri di altitudine. Questa presenza è il motivo per cui il sodalizio ha avviato un’azione votata a individuarlo. «Con la nostra iniziativa “Sulle tracce del quercino” vogliamo coinvolgere tutta la popolazione alla sua ricerca, con lo scopo di identificare i piccoli mammiferi che vivono attorno a noi: ghiro, moscardino e, ovviamente, il quercino». Sono le parole della nostra interlocutrice a indicare che questa proposta ha preso avvio a gennaio di quest’anno e si concluderà fra due anni, a fine ottobre : «Vi proponiamo di partire
alla ricerca del quercino e di raccogliere informazioni sui piccoli mammiferi in Svizzera». Un’iniziativa definita «di scienza partecipativa» a cui tutti possono aderire, sia individualmente sia in gruppo, che inizia dalla costruzione di un tunnel per impronte il cui materiale apposito si può richiedere direttamente a Pro Natura: «Costruisci un tunnel, fissalo a - metri dal suolo sul ramo di una siepe o di un boschetto di arbusti che producono bacche. Se hai un rustico o vai spesso in montagna, posiziona i tuoi tunnel nel bosco sopra gli metri di altitudine e avrai più probabilità di trovare il quercino». Basta verificare settimanalmente se un animale ha attraversato il tunnel: se si scoprissero delle impronte, bisogna segnalarlo a Pro Natura (https:// pronatura-ti.ch) con l’apposito formulario e l’invio dei fogli originali delle impronte. «Alla fine di quest’anno, Pro Natura e Nos voisin sauvages pubblicheranno una carta della Svizzera con i dati ottenuti dalle varie impronte ricevute, mentre una cartina con i risultati raccolti in due anni sarà pure pubblicata a fine », conclude la nostra interlocutrice che ribadisce di contare su ciascuno di noi, sulle classi scolastiche, sulla famiglia e sugli amici «per raccogliere moltissime impronte!», che consentiranno di ottenere diversi indizi e molte informazioni importanti sulla distribuzione dei Gliridi in Svizzera. Annuncio pubblicitario
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La terra inesplorata della visione Neuroscienze
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Grazie a Richard Masland conosciamo ogni neurone della retina: «ma chi vede, quando noi vediamo?»
La retina è la sola zona del cervello di cui conosciamo il funzionamento di ogni neurone e Richard Masland è stato il ricercatore al quale si deve l’esplorazione più meticolosa del nostro sistema visivo. Neuroscienziato che insegnò alla Harvard Medical School fino all’anno del suo decesso avvenuto nel , Masland inventò e mise in pratica tutta una serie di esperimenti che gli permisero di seguire i segnali percepiti dalle cellule della nostra retina, fino alle zone del cervello verso le quali si prolungano gli assoni che costituiscono il nervo ottico; e ancora oltre, verso le reti di neuroni, le quali collegano fra loro le varie zone del cervello che elaborano il segnale visivo. Allievo dello psicologo canadese Donald Olding Hebb, Masland è sempre stato guidato dalla regola secondo cui «due neuroni che scaricano assieme si potenziano reciprocamente», arricchendo le sue ricerche di stimoli che provenivano da tante diverse discipline, come i modelli sviluppati dall’intelligenza artificiale o gli esperimenti di genetica, giungendo nei suoi ultimi anni di vita a porsi il problema di «chi vede» quando noi vediamo. Una terra inesplorata, nella quale si avventurò, sintetizzando le ricerche di una intera vita di oftalmologo in un saggio intitolato: Lo sappiamo quando lo vediamo. Cosa ci dice la neurobiologia della visione su come pensiamo. I sensi del tatto e quello della vista – spiega Masland – hanno profonde analogie. Così come «le terminazioni di singoli neuroni tattili sono circondate da strutture cellulari specializzate, le quali inducono il neurone sensoriale a rispondere a diversi tipi di tocco», in modo simile «ciascuna fibra del nervo ottico riferisce al cervello relativamente a una piccola regione e a una caratteristica specifica della scena davanti a noi». L’insieme di cellule che chiamiamo «retina» è costituito da neuroni e quello che comunemente designiamo con «nervo ottico» sono gli assoni che lasciano la zona della retina per rag-
giungere il cervello, più precisamente gli assoni delle cellule gangliari, che hanno lo scopo di raccogliere le prime informazioni già elaborate dalla retina, che funziona come una sorta di microprocessore. Se il mondo davanti ai nostri occhi non ha soluzione di continuità, la retina funziona un po’ come una macchina fotografica digitale, dove ai pixel di questa, corrispondono i neuroni di quella. Ciò significa che, quando intercettato dai nostri occhi, il mondo esterno non è percepito come qualcosa di omogeneo bensì in maniera discontinua. È il cervello, che «interpreta la sinfonia di segnali in arrivo dalla retina», che fa emergere, dopo tutta una serie di passaggi tra reti neurali, un’immagine omogenea del mondo, e la ricerca di tutta una vita di Masland è stata orientata a seguire l’anfrattuoso circuito neurale che, partendo dai fotorecettori della retina, porta al cervello. In che misura ciò che vediamo è costruzione del nostro cervello lo possiamo intuitivamente comprendere se pensiamo a quanto debole è la nostra visione periferica. Siccome nella parte centrale della retina, la fovea, la densità dei neuroni è maggiore rispetto alla retina periferica, la nostra acuità visiva è massima quando orientiamo lo sguardo in un punto fisso. Al di fuori di questa zona, siamo quasi cechi. Se, ciò nonostante, siamo poco consapevoli della nostra scarsa visione periferica è – sostiene – Masland «perché abbiamo una memoria visiva degli oggetti nella scena, avendoli fissati prima con la nostra visione centrale». È un po’ come se, rapidamente, il nostro cervello fosse in grado di registrare quanto percepito dalla visione centrale, usando il ricordo di queste registrazioni per aiutare la visione periferica. Aver catalogato tutti i tipi di neuroni della retina e averne seguito il prolungamento verso la corteccia visiva primaria significa anche aver compreso a che punto di questo percorso acquisiamo un certo tipo d’informa-
Ben Bogart
Lorenzo De Carli
zione. Il lavoro di ricerca di Masland, per esempio, ha consentito di individuare le cellule neurali che «scaricano» in corrispondenza della percezione di un margine, scoprendo in tal modo le cellule selettive all’orientamento. Questo lavoro di «estrazione dei dati» provenienti dalla retina avviene nella zona che gli scienziati della visione definivano «corteccia visiva» fino agli anni Novanta del secolo scorso, nel frattempo diventata un patchwork di zone, alcune delle quali con compiti precisi, come per esempio riconoscere i volti. L’orientamento teorico di Masland, fortemente influenzato dalle reti neurali di Hebb, gli ha fornito i mezzi per comprendere come l’esperienza che facciamo del mondo addestra le nostre cellule attraverso il fenomeno del rinforzo per ripetizione. È in questo modo, per esempio, che ci sono cellule che apprendono a riconoscere la presenza di linee: gruppi
di neuroni che hanno ripetutamente «scaricato assieme» in presenza di linee, hanno finito per produrre «un’associazione cellulare che rappresenta una linea». Un meccanismo semplice ma anche potente, che secondo Masland spiega anche fenomeni molto complessi. È, certo, affascinante seguire le ricerche di Masland, quando, per esempio, taglia sottilissime fette di retina per identificarne i neuroni e sbrigliare la matassa degli assoni, così come quando, per esempio, con i suoi colleghi riesce a osservare, colorate e illuminate, le sinapsi che permettono la trasmissione d’informazioni dalla retina al cervello; ma è proprio là dove il terreno della scienza diventa più insicuro e inesplorato che Masland si espone di più, provando a dare una risposta alla domanda: «ma chi vede, quando noi vediamo?» L’idea che solitamente ci facciamo è che ciascuno di noi è un po’ come un
homunculus dentro il proprio cervello, e che da lì osserviamo il mondo e pilotiamo in nostro corpo. Per Masland si tratta di una illusione. Ciò che il neuroscienziato crede sia l’ipotesi più affidabile allo stato attuale delle ricerche è che non c’è nessuno, in verità, che vede. Che l’estesa rete neurale del nostro cervello, per un verso, apprende a vedere, a riconoscere il mondo e ad averne ricordo – esattamente come accade in tutti gli esseri viventi dotati di vista; e che, per l’altro verso, in virtù solo del suo grado di complessità, rende possibile l’emersione della sensazione di un punto di vista privato e soggettivo che s’illude di «essere l’osservatore». Insomma, l’evoluzione, che già aveva selezionato la vista perché tratto utile alla sopravvivenza e alla riproduzione dei viventi, in noi ha anche selezionato l’autocoscienza – accoppiando i due tratti in modo da darci l’illusione di essere i soggetti che vedono con i nostri occhi. Annuncio pubblicitario
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Il corpo delle adolescenti
Il caffè delle mamme ◆ Le ragazze a volte faticano ad accettare i cambiamenti fisici legati alla pubertà e il cammino verso un’equilibrata consapevolezza corporea può essere difficile
Simona Ravizza
Il corpo delle adolescenti, che dilemma! Cosa possiamo fare da genitori affinché le nostre figlie facciano amicizia con il proprio corpo e lo rispettino anche se non è uguale a quello delle loro amate influencer? A Il caffè delle mamme la domanda si impone anche perché siamo state invitate a partecipare su Zoom, la piattaforma su cui ormai si svolge la maggior parte degli incontri virtuali, a una serata informativa dal titolo «Consapevolezza corporea e disturbi alimentari». L’evento è rivolto a chi ha figlie di età compresa tra la quinta elementare e la terza liceo ed è condotto dalla psicoterapeuta Raffaella Vanzetta del Centro per i disturbi del comportamento alimentare (Infes) di Bolzano. In Cose da ragazze (ed. Sonzogno ), ormai la mia «bibbia» per capire quel corpo adolescenziale che improvvisamente suda, sanguina, a volte è percorso da brividi strani e si riempie improvvisamente di peli e brufoli, le dottoresse norvegesi Nina Brochmann e Ellen Støkken Dahl lo dicono senza giraci intorno: «Durante la pubertà, le ragazze mettono su più ciccia dei ragazzi. Gli estrogeni, cioè gli ormoni femminili, portano a depositare il grasso in zone nuove, cioè sul sedere, sui fianchi, sulle cosce e sulle braccia. Tutte le ragazze ingrassano durante la pubertà e l’adolescenza: sono le provviste del corpo per i tempi duri. Ma c’è chi non ama vedere il proprio corpo che cambia e pensa di avere qualcosa che non va o di dover dimagrire». Così le adolescenti che hanno un corpo normale, ossia un po’ diverso dai canoni estetici che rimbalzano sui social, sentono all’improvviso l’esigenza di camuffarlo: e, dopo i primi acquisti fatti da sole con le amiche rivendicando una comprensibile esigenza di autonomia, in casa spuntano maglioni extra-large, jeans di due taglie più grandi, magliette che in realtà fanno da miniabito. In spiaggia il costume resta nascosto sotto i pantaloncini. Il «Mamma, cosa mi metto?»
La pubertà per le ragazze è fatta anche da ore davanti allo specchio (Shutterstock)
che rimbalza da una stanza all’altra la mattina appena sveglie, non è più una domanda, ma diventa una sorta di imprecazione. Il confronto con modelli perfetti, il rischio di essere vittime dell’immagine. Quel corpo femminile che sboccia ma può essere rifiutato non è, però, solo una questione di estetica inquinata da Instagram o TikToK (ai nostri tempi lo era dalle copertine di Claudia Schiffer e Naomi Campbell!). Può diventare l’espressione di un disagio psicologico profondo: la difficoltà di volersi bene per quella che sei invece che per quella che vorresti essere, la paura di non essere accettate, la sofferenza del giudizio altrui. Per comprendere i pensieri che possono affastellarsi nella testa delle nostre figlie può essere utile leggere la confessione di Valeria Vedovatti, la content creator ticinese di Banco, frazione di Bedigliora, milioni di follower su TikTok, , milio-
ni su Instagram, mila su Youtube: «Ultimamente mi sveglio e non ho voglia di iniziare la giornata. Guardo la mia vita e sono felice, va tutto bene. Ma dentro di me sento il vuoto – racconta nel nuovo libro Per rinascere (ed. Rizzoli, giugno ), riferendosi a come si sentiva qualche anno fa –. Non mi ero mai soffermata sul mio aspetto, ma adesso quando mi guardo allo specchio mi sento brutta, inutile e insoddisfatta da me stessa. È come se per tutta la mia vita non avessi fatto altro che tentare di essere perfetta per gli altri, voti alti a scuola, quattro sport contemporaneamente… adesso non ce la faccio più. Non so cosa voglio, cosa mi piace, non sento più niente. Solo tanta confusione. E ho paura di deludere tutti. In particolare, i miei genitori, che ultimamente litigano spesso e io non so come aiutarli. Ho paura di essere un peso per chi mi sta intorno. Vorrei tornare a essere la
Valeria brava in tutto, ma sono stanca di tenere insieme i pezzi, e temo che se smetterò di essere brava le persone smetteranno di volermi bene». Non piacersi e la voglia di piacere. Sentirsi incomprese e non sapere che fare. L’autostima intaccata e il desiderio di essere magre per sentirsi giuste. La testa che deforma l’immagine dello specchio e l’ansia di sottoporre il corpo al giudizio degli altri. Inutile nasconderlo: come è successo a Valeria Vedovatti, tutti questi pensieri possono essere l’anticamera di disturbi alimentari: il più diffuso tra le adolescenti è l’anoressia che, come ricorda lo storico primario di pediatria dell’ospedale Civico di Lugano Valdo Pezzoli, colpisce giovanissima su . Mentre per - su il problema resta spesso sottotraccia: e, qui, dunque serve che i genitori siano particolarmente attenti a cogliere i segnali prima che la situazione degeneri.
Cosa può succedere lo spiega bene Fiorenza Sarzanini, vicedirettrice del «Corriere della Sera», nella nuova serie di podcast Specchio prodotta da Chora Media (disponibile sulle piattaforme Spotify, Apple Podcasts, Spreaker, Google Podcasts e su Choramedia.com): «Ti guardi allo specchio ma non vedi davvero com’è il tuo corpo. E allora vuoi cambiarlo. Vuoi fare capire a tutti quello che non riesci a dire: “Sto male”. Il corpo parla, diventa messaggio e dice quello che la testa nega». Da lì in avanti i giorni possono venire scanditi dalla bilancia, fino ad arrivare al cibo che non va più giù. Chiedere aiuto il prima possibile può salvare la vita: «Quel mostro è arrivato a togliermi tutto. Quel mostro si chiama “anoressia nervosa”, provo ancora paura nel nominare questo termine – confessa Valeria Vedovatti –. Mi ha tolto gli amici, la ginnastica, per un momento anche il rapporto con la mia famiglia, i sogni, il sorriso, le emozioni. E, infine, ha pure provato a togliermi la vita». Per la maggior parte delle adolescenti il disagio fortunatamente non diventa malattia, ma merita comunque grande attenzione. La sfida è aiutare le nostre figlie ad accettare il corpo e i suoi cambiamenti, la bellezza dei quali a quell’età non viene compresa. E aiutarle ad avere autostima. Come fare? Nella serata informativa a scuola la psicoterapeuta Raffaella Vanzetta offre alcuni consigli che a Il caffè delle mamme ci spingono a riflettere. Innanzitutto, possiamo dare il buon esempio: non lasciarci coinvolgere dallo stress di dovere essere magre a tutti i costi e non definire la bellezza attraverso la magrezza. «Siate curiose di chi le vostre figlie seguono sui social. Parlatene con loro, ma soprattutto ascoltatele – sottolinea poi Vanzetta –. Non criticatele per le loro scelte, ma cercate di capire i loro interessi. E chiedete loro come le fa stare seguire certe modelle e influencer».
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Viale dei ciliegi Michelle Robinson – Chris Mould Isabella e i ladri Nord-Sud (Da 5 anni)
Rubare non è bello, certo che no, «è una cosa che proprio non si fa»: ce lo ricorda con humour birbantesco questo divertente albo illustrato dal segno graffiante di Chris Mould, che ben accompagna il ritmo vivacissimo della storia – irriverente e molto etica – di Michelle Robinson. I due autori britannici raccontano la storia di Isabella (di cognome Ladri), nata in una famiglia di ladri, la quale però non era come gli altri Ladri. Non era una ladra, insomma. A lei rubare non pareva giusto, lei «non avrebbe mai infranto la legge». E la sua fermezza era inscalfibile, anche quando mamma Ladri le diceva: «Vado a svaligiare il negozio di giocattoli. Ti va di venire con me, amore?». La storia scorre con grazia malandrina e intelligente, schivando ogni luogo comune: ad esempio, Isabella è molto amata comunque dalla sua famiglia, che non fa una piega di fronte ai suoi dinieghi a unirsi ai furti (non è quindi la solita storia del ragazzino emarginato dal clan perché diverso); e poi
di Letizia Bolzani
il senso etico di Isabella non si affievolisce se chi subisce il furto è molto ricco, fosse anche la Regina, a cui la sua ineffabile famiglia ruba i gioielli della corona: «La Regina dev’essere tanto, tanto triste – pensava – Io sarei triste se mi rubassero qualcosa di prezioso». Perfetta esemplificazione – ma leggera, senza grevità moralistiche – del «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te», ma anche energico invito a ribellarsi alle consuetudini in nome dei propri ideali, il finale dell’avventura è costruito con grande, e semplice, maestria. E ci lascia con un sorriso, e tanta voglia di leggerla daccapo.
Marjorie Weinman Sharmat – illustrazioni di Marc Simont Il grande Nate Edizioni Il Barbagianni (Da 6 anni)
Nell’editoria per l’infanzia si assiste a un rifiorire di «gialli», e in particolare c’è una nuova attenzione nei confronti dei lettori più piccoli, per i quali finora c’erano poche proposte di storie d’indagine. Stiamo parlando di libri in italiano, perché invece, ad esempio negli Stati Uniti, esisteva sin dai primi anni Settanta una serie amatissima intitolata «Nate the Great», firmata da Marjorie Weinman Sharmat (-), la quale aveva due sogni da bambina: diventare un detective e diventare scrittrice. Diventò scrittrice di tantissimi libri, ma fu la sua serie sul piccolo detective Nate a regalarle il successo maggiore. C’era proprio bisogno di libri così: con una trama interessante, non banale, sufficientemente articolata, ma al contempo semplice, adatta a lettori ancora alle prime armi. Riuscire a coniugare questi due aspetti, di una trama che sia interessante e facile al contempo, è una delle cose più difficili per uno scrittore
per bambini, ma Marjorie Weinman Sharmat fu in grado di farlo, andando quindi a colmare un vuoto nell’editoria a lei contemporanea. E da un paio d’anni finalmente questi libri sono pubblicati in italiano, grazie all’editore Il Barbagianni, che ha nel suo catalogo, oltre a novità, anche delle preziose perle del passato, mai edite prima nella nostra lingua o da tempo fuori catalogo. Ma chi è Nate? È un bambino con la passione (oltre che per i pancake) per i casi da risolvere. Un aspirante detective? No, non aspirante, lui il detective lo fa: «faccio il detective. Lavoro per conto mio», mette subito in
chiaro sin dall’incipit con la simpatica baldanza che lo contraddistingue. E che importa se il crimine è «soltanto» un disegno rubato, come accade nel primo volume della serie, perché l’indagine è condotta in modo impeccabile, logico, con ritmo e humour, e la soluzione arriva impegnando con acume le abilità deduttive. Quelle di Nate, ma anche quelle dei piccoli lettori, che si sentiranno sollecitati a partecipare. Intorno a Nate si muovono altri deliziosi personaggi, come la sua amica Annie («Annie ha occhi e capelli marroni. E sorride un sacco. Mi piacerebbe Annie se fossi interessato a questo genere di cose»), la stravagante Rosamond, e altri ancora, senza contare i cani e i gatti vari che intervengono nelle avventure. L’editore Il Barbagianni pubblica i libri di questa serie (che l’anno scorso ha vinto il Premio Orbil, dell’Associazione Librerie Indipendenti) con il carattere ad alta leggibilità Easyreading®. Da sottolineare assolutamente anche il valore delle illustrazioni di Marc Simont, che collaborò sin dall’inizio con l’autrice, illustrando, dal al , i primi venti libri della serie.
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SOCIETÀ / RUBRICHE ●
L’altropologo
di Cesare Poppi
La Sfida è dietro ogni angolo ◆
Anche La Sfida, quella contemporanea che ancor oggi ci riguarda, fu inventata nel Regno Unito degli Anni /. L’Altropologo c’era. Anche lui attore di quella globalizzazione antelitteram (in quegli anni quella «vera», attuale, si affacciava appena all’orizzonte) che aveva trasformato la culla dell’Impero in un incerto coacervo di etnie, usi e costumi, preferenze sessuali laddove complessità ovvero confusione diventavano (sono pronto a testimoniarlo) eleganti Teorie del Caos nella testa dei Filosofi, dei Sociologi ed Economisti intenti a dimostrare che anche nel caos c’è una sorta di ordine. Senza considerare che, essendo le stesse teorie una la smentita dell’altra (come sempre nella testa dei filosofi) il Caos, da benevola levatrice della complessità, restava comunque confusione. A mettere ordine ci avrebbe pensato ancora una volta quella protagonista
della svolta liberista globale che fu la Lady di Ferro. Venne, vide e vinse. In pochi anni smantellò i pilastri dello Stato Sociale che avevano fatto del Regno Unito postbellico, assieme ai Beatles e alla minigonna, il Faro del Sol dell’Avvenire continentale. Giù tutto: i sindacati, i trasporti, l’Università e la sua etica, la Sanità… Cadevano come sugli alberi le foglie – o, meno poeticamente, come birilli: fate voi. In un amen tutto ciò che fino ad allora era sembrato solido e consolidato, dunque intoccabile, diventò un problema. Le certezze dilemmi, le regole ostacoli da rimuovere, gli accordi «rinegoziabili» allalucedegliultimieventi. E, soprattutto, «a causa della Sfida del Presente». In quegli anni molto di quanto era fino ad allora problematico, ostico, controverso, discusso e discutibile – magari un potenziale problema che fosse ancora
nebbioso, indefinito, indeciso perché forse indecidibile diventava una Sfida. Obiettiva, ineluttabile, inevitabile come un terremoto. E le sfide, ohibò, vanno accettate. Pena la codardia e la fellonia – stavolta non più contro Sua Maestà ma contro un Soggetto nebuloso e senza nome: «Almeno una volta aveva un nome e lo chiamavano il Diavolo» sostenne l’Altropologo in una seduta del Senato Accademico che gli costò il sedere in Senato stesso. Finita la lotta di classe (che almeno ci si guardava negli occhi e nei portafogli), impantanati in un relativismo che troppo spesso equivale ad un «me ne f…o basta che non succeda sul mio divano», pronti a scatenare l’Avvocato al guinzaglio ogni tre per quattro, ci confronta ora un Nemico Oscuro, un Avversario Accusatore (così l’etimo del semitico «Satana») che non si sa da dove venga e dove vada. Ma che dobbiamo comunque
combattere «accettando le Sfide dei nostri tempi» pancia in dentro e petto in fuori, baldi, marziali. Innocenti gladiatori senza nemici particolari che altro non sia la vita cinica e bara. Un Pericolo cronico che sempre c’è e che aumenta esponenzialmente paure e insicurezze. Uno stare in guardia continuo. Sospetto nei confronti dell’Altro. Guardarsi le spalle. La Sfida è dietro ogni angolo. Tutto ciò, altropologicamente parlando, ha i suoi riscontri nella cultura di massa postmoderna. Il Grande Fratello, sciagurata riconfigurazione della favola di un Orwell nella quale non si narra mai di Me, di Te e di Noi, ma del Potente nelle tenebre là fuori in possesso di una Razionalità che gli permette di ottenere tutto e il suo contrario sfidando ogni giorno il mio diritto alla libertà ovvero a fare quello che mi pare. Il Complotto dei Savi di Sion. Il Codice da Vinci, Il Gla-
diatore e Spiderman che ci vendicano come quando era tana per tutti a nascondino, i pipistrelli dei gourmand cinesi, SUV aggressivi e rap violenti senza cineforum – e poi l’italica Corsa al Colle, la Sfida per la Presidenza della Repubblica (ve li immaginate Berlusconi e Mattarella?), cosa sta tramando veramente Putin, e via di complotto in challenge (ah, l’inglese!) a botte di improbabili equazioni del cui prodest. E grazie al cielo è terminato lo spazio della Rubrica. Si conclude qui allora (si rinfranchino i fedelissimi dell’Altropologo) l’indebita incursione in temi di stretta attualità che ha visto lo scivolone pandemico infettarsi poi con la Realtà ridotta a Narrativa. Oggi si chiude con le Sfide, certi che vincerà il peggiore. L’Altropologo tornerà ad interrogare, pur sempre in quella chiave di lettura, la Storia. La quale, per noi sopravvissuti, è almeno divertente.
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La stanza del dialogo
di Silvia Vegetti Finzi
Se le regole diventano ossessioni ◆
Cara Silvia, non ci conosciamo, non ci siamo mai incontrate ma sono una collega. Ho letto quasi tutti i libri che ha scritto e ogni tanto li consulto. Ma ora mi rivolgo direttamente a lei perché sono in crisi e nessuno, come sappiamo, è terapeuta di se stesso e dei suoi cari. Sposata, due figli maschi, Filippo di anni e Michele di , un lavoro che amo (psicoterapeuta per la coppia e la famiglia), una vita familiare serena. Solo recentemente, dall’inizio dell’anno scolastico, il minore dei ragazzi, Michele, timido e introverso, sta esagerando in gesti, che per se stessi sarebbero normali, anzi auspicabili, ma ripetuti con accanimento diventano nocivi. Mi spiego meglio. I ragazzi arrivano insieme a casa per pranzo, quando tutto è pronto (siamo molto precisi) per essere portato in tavola. Ma, mentre Filippo si precipita a tavola con la voracità dei suoi tredici anni, il fratello si chiude in bagno e rimane a lavarsi le mani per più di
venti minuti. Lo chiamiamo, lo supplichiamo, lo sgridiamo, cerchiamo di ingolosirlo con la descrizione delle bontà che lo attendono, ma non c’è niente da fare. Si sente il rubinetto che scoscia e quando finalmente esce ha le mani arrossate e le unghie un po’ consumate. So che è una forma di ossessività, una rupofobia provocata anche dalle martellanti richieste di igiene indotte dal Coronavirus. Ma forse non è solo questo e, senza dirle le mie ipotesi, vorrei conoscere le sue. Grazie. Virginia Cara Collega, difficile parlare di una persona senza conoscerla. Ma cerchiamo di considerare il problema di Michele in generale e di comprenderlo senza alcuna pretesa di curarlo. Intanto c’è nella lettera che mi ha inviato un’annotazione brevissima ma significativa: «siamo molto precisi». Probabilmente la precisione non riguarda solo i tem-
Mode e modi
pi del pranzo ma immagino rispecchi l’arredamento, le azioni quotidiane e le relazioni familiari. In questo quadro di perfezione è facile che qualcuno, di solito il più fragile, si senta inadeguato. Michele, come secondogenito, ha dovuto sin dall’infanzia misurarsi con la superiorità del fratello più grande. Di fronte alle abilità di Filippo deve essersi sentito inadeguato, incapace di raggiungere quell’ideale. Spesso la relazione tra due maschi inizia con conflitti, litigi, dispetti e ripicche e si conclude solo quando è chiaro chi comanda. Invece il carattere timido di Michele deve averlo sconsigliato di affrontare il rivale in una competizione aperta, preferendo chiudersi in se stesso e confrontarsi con una impossibile perfezione. In questa forma di autogestione, si è dato delle regole e sin qui niente di male ma queste regole prive di relazione e di confronto, in un momen-
to di difficoltà come quello che stiamo attraversando, gli sono sfuggite di mano provocando comportamenti ossessivi. Certo Michele non è consapevole di essere preso in un ingranaggio che non controlla, ma la ripetizione è un rito e il rito svolge sempre un’azione protettiva e consolatoria. Come riconosce Franco Maiullari, neuropsichiatra, psicoterapeuta e letterato di fama internazionale, nel suo ultimo libro Esploratori di ossessioni, ed. S. Paolo, l’ossessività è un tratto caratteristico dell’umanità. Da sempre, quando ci sentiamo fragili e vulnerabili di fronte a una natura ostile e minacciosa, chiediamo soccorso a rituali magici. È un modo per evocare, con l’immaginazione, l’onnipotenza della prima infanzia. Prevedo che, quando la pandemia sarà debellata e cesserà questo clima di sospetto e di paura, anche le ossessioni diminuiranno. Per ora però Michele ha biso-
gno di trovare autostima, fiducia in se stesso mettendosi alla prova nella realtà. Oltre che nella famiglia e nella scuola potrebbe, a seconda delle sue inclinazioni, trovare sostegno nell’esercitare uno sport, come le arti marziali, competitivo ma non troppo, muscolare senza essere violento, libero di esprimere pulsioni ed emozioni all’interno di un sistema di regole esplicite e condivise. Non so, cara collega, se ho aggiunto qualche cosa alla sua diagnosi, ma l’importante è aprirsi al dialogo e qui, in questa Stanza, non facciamo altro. Grazie a nome di tutti i lettori. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
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di Luciana Caglio
Scrivere per sé o per gli altri? ◆
Dopo decenni di domeniche trascorse, in gran parte, sui campi di tennis o in piscina, l’età mi ha imposto la ragionevole conversione a un’attività sedentaria: la lettura prolungata dei giornali, i quotidiani ingrossati dai supplementi festivi. È diventato un rito, termine che di solito spetta a una liturgia religiosa. E, nel mio caso, lo è: dato che la lettura s’inizia con la colonnina del «Breviario» di Gianfranco Ravasi, in prima pagina sulla «Domenica» del «Sole Ore». Tuttavia, a scanso di equivoci, proprio nei confronti del cardinal Ravasi, presidente della Commissione culturale del Vaticano, sarebbe fuori posto ogni sospetto di clericalismo. Nessuna chiusura, insomma, verso la società laica, di cui non si sente un giudice che emana sentenze, bensì un cittadino che cerca di individuarne vizi e virtù.
Nella puntata di domenica febbraio, è stata la volta di un tema che mi concerne da vicino, o meglio concerne una categoria professionale, in cui ho militato a lungo, qual è il giornalismo: il mestiere di scrivere per informare, svolgendo una funzione di servizio. Ora, sotto il titolo Semplicità, Ravasi denuncia «Una malattia del nostro secolo: amare ciò che è complicato e considerare come profondo il discorso confuso e indecifrabile». A denunciare «questa sindrome», precisa Ravasi, fu il dottor Albert Schweitzer, uomo di grande cultura, musicista raffinato, che aveva scelto la dedizione missionaria affidata alla semplicità. Oggi, più che mai, la parola è esposta al rischio di malintesi. Può sembrare punitiva per chi coltiva ambizioni letterarie, partendo, come spesso succede, dal giornalismo, strumento
innanzitutto di divulgazione e comunicazione. Ravasi che, come divulgatore nel aveva ricevuto il premio Montanelli, insiste sulla semplicità, sinonimo di chiarezza, indispensabile per «donare agli altri la sapienza». Evitando di rinchiudersi «nella fortezza del sapere altezzoso» che, del resto, può avere effetti insidiosi. Non ultimo, il ridicolo e poi la noia. Fatto sta che, al terzo aggettivo da dizionario, il lettore abbandona l’impresa. Con ciò, malgrado i pericoli che comporta, la scrittura rimane una tentazione diffusa, sia come hobby sia come mestiere. Nel primo caso, un passatempo privato, nel secondo un’attività destinata al pubblico. Spesso, però, gli obiettivi si sovrappongono. Chi scrive, per proprio conto, romanzi, poesie o commenti vari, lo fa per tenersi compagnia, tanto più quando i compagni mancano,
com’è successo nell’era Covid. Ma su questa riservatezza, non di rado, avrà il sopravvento il bisogno di misurarsi con gli altri. Dal computer casalingo i testi passano alle stampanti di una casa editrice e diventano un libro. Ed è, rispetto all’articolo di giornale, un salto di qualità che proietta nell’ambito letterario e promuove a scrittori. I due settori sono, del resto, strettamente collegati. I giornali italiani, attraverso la terza pagina che, fino a qualche decennio fa, era riservata alla cultura, ospitarono le grandi firme della letteratura, da Pirandello alla Deledda, a Verga, a Montale, pure loro in cerca di notorietà. Anzi popolarità, parola persino sospetta, che apre interrogativi imbarazzanti anche sul piano politico. Quale giudizio spetta alla letteratura cosiddetta popolare, quella delle grandi tirature che procurano ric-
chezza e fama agli autori? Giustamente, i nostri critici mettono in guardia dalle derive nella banalità per conquistare lettori e ascolti. Tuttavia, anche dietro le alte tiratura può esserci un’insospettata sensibilità, la consapevolezza dei propri limiti. Come traspare dalla confessione di Stephen King, che, in On Writing. Autobiografia di un mestiere, pubblicata nel , spiega il significato del lavoro dei «proletari della letteratura»: «Prendiamo a cuore il linguaggio, nei nostri modesti limiti, preoccupati con passione dell’arte e delle tecniche con cui raccontare storie sulla carta». Storie per tutti, all’insegna della semplicità, per tornare al punto di partenza delle nostre riflessioni. Certo che dal cardinale Ravasi al re del brivido King, il nesso può sembrare azzardato.
Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 21 febbraio 2022
TEMPO LIBERO Sua altezza Strelitzia reginae La pianta tropicale il cui nome onora una regina d’altri tempi è anche detta «uccello del paradiso»
Ai confini della Lapponia I finlandesi, amanti della vita all’aria aperta, sono statisticamente i custodi del segreto della felicità
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Peccaminosa e irresistibile Pasta fragrante e un ripieno di panna al cioccolato guarnita con cioccolato amaro liquido
Viaggio alla fine del mondo Un’escursione ai monti sopra Mergoscia, con le memorie di Gino, verzaschese dei tempi duri
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L’avventurosa solitudine dei fari narrativi
Letture per esplorare il mondo ◆ Al vasto repertorio di libri dedicati alle torri luminose, si aggiunge l’ultima opera di Claudio Visentin: Luci sul mare, reportage di un viaggio dalla Scozia alle isole Orcadi e Shetland Manuela Mazzi
«Stare in cima al faro durante una notte di bufera è terribile: il rumore del vento è assordante, l’intera torre oscilla per l’urto di tonnellate d’acqua sui muri, ogni onda provoca un boato, i piatti tremano nella dispensa, le finestrelle restano chiuse per giorni». Si intitola Luci sul mare – Viaggio tra i fari della Scozia sino alle isole Orcadi e Shetland (Ediciclo Editore, febbraio ), l’ultimo libro scritto dal nostro collaboratore Claudio Visentin, con disegni di Alessandro Alghisi. Di viaggi si occupa Visentin – non solo per le pagine di «Azione» – ma anche di storie, perché un viaggio senza una storia forse non può dirsi davvero tale. Questo libro, va detto, contiene tanti frammenti di storie, quanti lampi di luci sfavillano nelle torri scozzesi. E non sono poche («Ogni faro ha una luce diversa»): per quattro generazioni, otto membri di un’unica famiglia, quella degli Stevenson, progettarono e costruirono lungo le coste della Scozia ben novantasette fari (dei enumerati in una pagina in rete), tra il e il . Di questi sparsi in tutto il territorio che batte bandiera azzurra crociata, ovviamente il libro ne contempla solo una minima parte. Per la precisione, sette sono quelli visitati e descritti; sufficienti comunque per permettere all’autore di tracciare la cronistoria dalla nascita alla fine del mestiere di custode, che non vide il nuovo millennio: «A Fai Isle South, il marzo , l’ultimo guardiano dei fari di Scozia, Angus Hutchinson, lasciò il suo lavoro. Con lui, dopo oltre due secoli di onorata attività, si estingueva questo mestiere», ma non il ruolo delle torri luminose: «… un capitano di nave una volta mi disse: “Se guardo gli strumenti elettronici mi dicono dove pensano che io sia, ma se guardo al di là del vetro e vedo un faro, io so dove sono” […] La luce del faro ti ripete che anche in mezzo al mare non sei mai completamente solo, qualcuno veglia su di te» e sui relitti di antichi affondamenti. Di storie, si è detto, e soprattutto di lotte perse contro la forza della natura. Il faro di Rattray Head, ad esempio, «sorge su uno scoglio a poca distanza dalla costa sabbiosa, tra le dune si possono ancora vedere i relitti di precedenti naufragi». E poi storie di arrembaggi, di sciacalli che attendevano solo l’inclinarsi di una nave ferita da uno scoglio: «Nel l’ultimo pirata scozzese fu impiccato e il vapore cominciò gradualmente a prendere il posto della vela». Di pirati ne sa qualcosa anche l’unico Stevenson che non abbracciò la tradizione famigliare di costruire fari, ma che di terre emerse in mezzo
Il faro di Rattray Head. (Pixabay.com)
a oceani e mari ne scrisse. Parliamo dell’abbiatico del costruttore capostipite, Robert Louis Stevenson, grande autore di romanzi indimenticabili come per l’appunto L’isola del tesoro. D’altro canto, l’immaginario comune ha sempre pensato ai fari come luoghi «avventurosi»: «“Ieri ero in mare aperto, a Bell Rock, oggi sono qui, davanti a questo faro così… urbano”. Michael scuote la testa: “È perché avete tutti un’idea romantica in mente, pensate sempre a fari su un’isola remota o su uno scoglio battuto dal-
le tempeste, come Bell Rock nel celebre dipinto di Turner”». Minimizzano i protagonisti del libro, uomini delle Highlands e delle Shetland, loro che forse un po’ ci sono abituati al vento del Nord, a quel mondo selvaggio che emerge dalle pagine di Luci sul mare, non meno di quanto si respiri nei gialli di Peter May, autore della riuscita trilogia dell’isola di Lewis, di cui viene in mente il primo romanzo, L’isola dei cacciatori di uccelli (Einaudi Stile libero Big, ), leggendo la descrizione del paesaggio quando
l’autore, Claudio Visentin, avvista il faro di Mackle Flugga («l’isola dei grandi uccelli» in norvegese). Imperdibile per chi ama i fari e la Scozia, sempre di Peter May, è Il sentiero (Einaudi Stile libero Big, ), un romanzo ambientato a Eilean Mòr dove si trova un faro degli Stevenson – guarda caso – che, a un anno dalla sua accensione, correva il , vide scomparire nel nulla i suoi due guardiani… Ogni parola scritta da Peter May si materializza in colori, odori, sensazioni, creando atmosfere che
stregano la mente, ma soprattutto che restituiscono al lettore l’immaginario di una terra battuta dalla natura feroce, e da una solitudine frastornante, come quella suggestionata dai fari, che tanto piace ai viaggiatori, quanto agli scrittori. Lo sa bene Paolo Rumiz, altro grande esploratore e stimato narratore, che ha scritto Il Ciclope (Feltrinelli, ). Triestino affamato di incontri e di umanità, Rumiz negli occhi porta la meraviglia delle stelle, del mare e… dei fari: «Ho affrontato la mia prima esperienza in solitario qualche anno fa quando mi sono chiuso in un faro su un’isola deserta. Ero partito con tutte le paturnie e le ansie di chi teme di finire in una crisi depressiva – disse durante un incontro (organizzato a Lugano nel proprio da Visentin) raccontando il viaggio racchiuso in questo suo libro – non era neanche estate, era la fine delle tempeste invernali, era aprile, ero arrivato lì il venerdì di Pasqua chiedendomi come sopravvivrò solo con me stesso, con le tempeste, il mare, il vento, e tutti gli altri elementi naturali; mi ero portato oltre sessanta chili di viveri, anche venti chili di libri che… non ho mai letto. Anzi, più stavo con me stesso e più scoprivo di navigare dentro me stesso mille volte meglio che mai. Ricordo una notte in cui, dopo tre giorni di tempesta, mi resi conto che fuori dalla finestra c’era una stellata da deserto del Sahara, perché quando il cielo è perfettamente pulito vedi stelle che non hai mai visto, erano le tre di notte, quadrante sud, quello che cambia continuamente, aprile, guardo il cielo e vedo una costellazione mai vista prima […] sembrava un orecchino da donna, o un gancio. Sono uscito. Ho dimenticato il faro. Sono sceso a piedi nel cuore della piccolissima isola, lunga un chilometro e duecento metri, e larga trecento, un fazzoletto di terra, ho piantato i piedi sulla brughiera e l’ho guardata e le ho urlato “dimmi chi sei”, e in quel momento, ricordando che il toponimo di quel posto, là dove ero, quella parte dell’isola si chiamava Salamandra, mi sono detto che se la Salamandra ha una coda forse anche quella era una coda, e alla fine ne ho avuto la certezza assoluta: era la costellazione dello scorpione». Il Ciclope insegna quante parole possono descrivere un luogo isolato, un viaggio fermo, come lo ha chiamato Paolo Rumiz. Anche senza incontri. Anche senza un orizzonte. Anche su un isolotto deserto. Così come fanno anche molti libri dedicati ai fari: ognuno di questi arricchisce i nostri immaginari con nuove storie di viaggi avventurosi.
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TEMPO LIBERO
Una bella Strelitzia reginae. (Pixabay.com)
La carta ubbidiente Giochi di prestigio ◆ Per stupire il pubblico basta solo un po’ di colla... Ennio Peres
L’uccello del paradiso Mondoverde
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La regale strelitzia è simbolo di fedeltà, premura e affetto
La premessa. Questo gioco di prestigio è di grandissimo effetto. Da un punto di vista matematico, può considerarsi un’applicazione pratica del concetto di moltiplicazione per l’unità negativa. Per effettuarlo, dovete procuravi un normale mazzo di carte francesi (composto da cinquantadue carte numerali e da due Jolly) e controllare se la confezione contiene anche due carte spurie, analoghe alle seguenti (come accade, ad esempio, nelle versioni da Bridge).
Anita Negretti
Dalla singolare bellezza ammaliante, la strelitzia è una pianta d’appartamento di origini sudafricane ed è forse il fiore tropicale più conosciuto. Il suo nome è un omaggio che il naturalista, e all’epoca direttore dei Royal Botanic Gardens di Kew, Joseph Banks, ha voluto fare alla regina britannica Carlotta di Meclemburgo-Strelitz, appassionata di botanica e collezionista di piante esotiche, nonché moglie di re Giorgio III d’Inghilterra. In onore della regina, il nome completo di questa pianta tropicale è Strelitzia reginae e nei luoghi d’origine raggiunge i - centimetri di altezza, mentre da noi, venendo coltivata quasi esclusivamente in vaso per poter essere ricoverata in locali caldi durante l’inverno, si assesta sui centimetri. Le foglie, lunghe, di colore verde intenso e a forma di lancia, si accompagnano ai fiori, vera particolarità: simili al lungo becco di un airone, sono composti da cinque-otto fiori color arancione sgargiante e da tre tepali blu notte, che quando sbocciano prendono la forma simile a un uccello tropicale in volo. Grazie a questi colori accesi e al-
la fioritura che si protrae per mesi, da vari anni viene acquistata per decorare le abitazioni: lasciata in vaso nei giardini o terrazzi, al pieno sole per tutta l’estate; in seguito, basterà riportarla in casa a partire dal mese di settembre, per ritrovarla pronta a fiorire da novembre in poi. Simbolo di fedeltà, premura e affetto, è una pianta dalle poche cure: luce in abbondanza, temperature sempre superiori ai °C, terriccio ben drenato con annaffiature settimanali, dove è bene bagnare anche le foglie per una soddisfacente umidità della pianta. Durante l’estate bagnatele la sera, dopo il tramonto, per evitare bruciature, mentre d’inverno, se non volete nebulizzarle, basterà passare uno straccio umido sulle foglie. Durante l’autunno-inverno, le piante adulte, cioè quelle che hanno più di cinque anni di vita, dovranno essere concimate una volta al mese con un prodotto liquido, ricco di potassio e con quantità ridotte di fosforo, mentre in estate, tra giugno e luglio, quando entrano in riposo vegetativo e devono essere bagnate poco, si ridurrà anche la concimazione. Nei primi anni di vita delle piante, è preferibile utilizzare invece un
prodotto molto ricco di potassio, che dovrà essere quasi il doppio rispetto alla percentuale di azoto e molto scarso di fosforo. A inizio autunno si può intervenire anche con un ammendante a base di chelati di ferro, per correggere l’apporto di calcare nel terreno. Un trucco, per averle sempre in forma e ricche di fiori, consiste nel lasciare le piante adulte nello stesso vaso per molti anni, come succede per altre piante tropicali usate in appartamento, come ad esempio la Clivia. In primavera basterà togliere qualche cucchiaiata di terriccio nella parte più superficiale del vaso e metterne altro nuovo. Solo quando il vaso sarà completamente colmo di radici si potrà procedere al rinvaso, eseguendo anche la divisione del cespo: lo si svasa, si divide a metà o in più porzioni la radice, trapiantandole con un buon terriccio fertile, miscelato all’interno con letame maturo e qualche manciata di sabbia, mentre sulla base non va scordato lo strato di argilla espansa. Un’ultima curiosità: oltre alla Strelitzia reginae, dai fiori arancioni, esiste anche la S. nicolai, azzurra e lilla e la S. alba o augusta, con fiori bianchi.
Se il mazzo le contiene, incollate con cura queste due carte tra loro, faccia contro faccia, in modo da ottenere un’unica carta a doppio dorso. In assenza di carte spurie, potreste incollare tra loro i due Jolly, o anche due carte qualsiasi. In tal caso, però, il mazzo risultante non sarebbe più utilizzabile per i giochi tradizionali. Vediamo ora come giocare: basterà seguire i punti di questa modalità di esecuzione. . Senza farvi notare, ponete la carta a doppio dorso, in fondo all’intero mazzo. . Mescolatelo più volte, facendo attenzione a non spostare la carta a doppio dorso. . Sventagliate il mazzo, tenendolo in mano a facce in basso e chiedete a uno spettatore di prelevare una carta qualsiasi, di guardarla e metterla da parte (supponiamo che abbia preso la donna di cuori, come qui di seguito evidenziato).
. Ricompattate tutte le altre carte e (senza farvi notare…) ribaltate il mazzo così composto; la carta a doppio dorso finirà in alto e lo spettatore avrà l’impressione che tutte le carte siano disposte a faccia in basso. . Continuate a tenere il mazzo strettamente compatto e chiedete allo spettatore di inserirvi la sua carta. in un punto qualsiasi. . Ribaltate di nuovo il mazzo (senza farvi notare…); la carta a doppio dorso finirà in basso e tutte le altre, tranne quella inserita dallo spettatore, ritorneranno a faccia in basso. . Sventagliate sul tavolo l’intero mazzo, badando a non scoprire quella inserita dallo spettatore. . Dichiarate di non essere assolutamente in grado di individuare la carta che aveva preso lo spettatore; per cui non vi rimane che chiedere a essa di rivelarsi da sola. . Ordinate alla carta di emergere spontaneamente dal mazzo. . Distanziate le carte tra loro, creando spazi sempre più ampi, fino a scoprire proprio la carta scelta dallo spettatore!
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TEMPO LIBERO
Una casa rossa e un campo di patate Reportage
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In Finlandia, mitologia e sacro sono il fondamento di una profonda e secolare relazione con la natura
Francesca Mazzoni, testo e foto
Le guance sono arrossate e gli occhiali appannati dal mio respiro: è l’unico rumore assieme al fruscio delle ciaspole. Mi trovo sui confini tra le regioni della Lapponia, l’Ostrobotnia settentrionale e la Russia. A queste latitudini l’inverno è senza mezze misure: abbondanti nevicate coprono il paesaggio con il loro manto, le temperature crollano di oltre venti gradi sottozero, sole per pochissime ore al giorno.
Cottage rosso; Anne Murto e sua figlia con una renna; i cani da slitta, e in basso, l’aurora boreale della Lapponia.
In tutta la nazione ci sono più di tre milioni di saune, un terzo del totale mondiale, in cottage, piccoli appartamenti, e perfino in biblioteca Nonostante tutto, questa stagione è molto apprezzata dai finlandesi, ferventi fautori della vita all’aria aperta e custodi del segreto della felicità (nel , per la quarta volta consecutiva, la Finlandia sarebbe il paese più felice al mondo secondo il World Happiness Report). Tra le ragioni di tanta felicità potrebbe esserci l’inalienabile diritto di ogni persona a godere della natura, il jokamiehenoikeus, caposaldo del sistema normativo. Sono con Federica, un’italiana che si è trasferita qui due anni fa e lavora come operatrice shiatsu. Con il suo fisico esile salta come uno stambecco su e giù per queste colline. «Non sopportavo il grigiore di Helsinki in inverno», mi spiega. Ora vive con suo marito in un cottage di massicci tronchi di Kelo, il pino secolare della Finlandia e della Russia, uno dei legni più resistenti e profumati al mondo. «Un antico proverbio dice che per essere felici basta una casa rossa in campagna e un campo di patate. Ci sei quasi», le dico sorridendo. «I finlandesi hanno il dono della semplicità. Si accontentano di quello che hanno e rifuggono il lamento. Non so se sono davvero un popolo felice, di certo io lo sono», risponde porgendomi una tazza di tè bollente. Dio benedica i thermos, soprattutto nell’Artico. Dalla cima del parco nazionale di Riisitunturi lo sguardo si apre sulle foreste boreali e sul lago Kitka. È il luogo migliore in Europa per assistere al fenomeno della galaverna (tykky in finlandese): per effetto delle temperature estreme, dei forti venti e degli sbalzi termici l’umidità si cristallizza in spessi strati di ghiaccio che ricoprono gli alberi. Sono così ricurvi da sembrare tutt’altro, ed è divertente riconoscervi le più diverse forme. Il tramonto arriva in un battibaleno, prima con tonalità rosa pastello che abbracciano le sculture di neve, poi con una placida oscurità bluastra che se le inghiotte una a una. Ma scopro presto che i finlandesi si divertono anche al buio. Certo senza troppo calore: qui il distanziamento sociale dev’essere materia scolastica. Faccio timidi tentativi di socializzazione nell’unico karaoke-bar di Ruka. Il karaoke è il secondo passatempo nazionale (dopo la sauna ovviamente!) e ogni anno a Helsinki si svolge il campionato mondiale della specialità. Sembra essere il solo modo per trasformare la riservatezza in espansività, anche se solo per poco tempo. Prendo coraggio e affronto il palco cantando l’Italiano di Toto Cutugno, passepartout in ogni luogo del mondo e specialmente in Finlandia, dove ne hanno addirittura realizzato una versione autoctona, Olen Suomalainen,
cioè Sono finlandese. È il degno finale di questo mio primo giorno finnico. Le successive giornate le dedico alle attività all’aperto nei dintorni, dalle camminate alla slitta trainata dagli husky. Nel giro di pochi chilometri si trovano ben tre parchi nazionali e un’ampia rete escursionistica, compreso uno dei più noti sentieri della nazione, il Karhunkierros o sentiero dell’orso. Per intanto, armata di pas-
samontagna, sfreccio con la motoslitta in mezzo a file di altissimi alberi innevati, attraverso laghi ghiacciati e salgo sulla montagnola di Kuntiivaara. Fa freddo, ma per fortuna le manopole del manubrio sono riscaldate. La Russia è davanti a me sull’altro lato, mi sembra quasi di sentire lo scalpiccio dei cosacchi. Al rientro in paese è di rigore il rito della sauna. In tutta la nazione ce
ne sono più di tre milioni, un terzo del totale mondiale, in immensi cottage ma anche in piccoli appartamenti, perfino in biblioteca e in un Burger King. Nella cultura finlandese la sauna non è solo benessere fisico. Quei pochi minuti tra gli ottanta e i cento gradi sono un’esperienza quasi mistica, bruscamente conclusa quando la signora accanto a me mi invita a uscire nuda per gettarmi sulla neve.
Nel frattempo è scesa la notte ed è perfetta per osservare l’aurora boreale. M’incammino verso il laghetto poco sotto il mio alloggio. Non è la prima volta per me, ma l’emozione è sempre la stessa. Una luce verde comincia a muoversi nel cielo stellato, sempre più rapida e colorata. «La chiamiamo Revontulet, i fuochi della volpe», mi spiega una coppia di fotoamatori. Secondo il folklore, infatti, l’aurora boreale si deve a questo animale che scorrazza nel cielo strofinando la coda contro le montagne imbiancate, generando scintille che volano sempre più in alto. In Finlandia la mitologia e il sacro sono ancora vivi e sono il fondamento di una profonda e secolare relazione con la natura. Qui a Kuusamo lo sanno bene, soprattutto Anne Murto, ex modella di Helsinki attivista da più di vent’anni contro lo sfruttamento minerario della zona. Mi spiega che «per i finlandesi il bosco non è solo una risorsa economica, ma anche una galleria d’arte per saziare la sete di bellezza, un tempio per rigenerarsi spiritualmente e una palestra per il benessere fisico. Si porta beneficio alle piccole comunità locali senza distruggere l’ambiente». È la via finlandese a una selvaggia felicità. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica
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Anno LXXXV 21 febbraio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
Ricetta della settimana - Bignè alla cioccolata ●
Ingredienti
Preparazione
Iscriviti ora!
Per 4 persone (circa 20 pezzi)
1. Tritate finemente la metà del cioccolato, unitelo alla panna e portate a ebollizione mescolando continuamente. Fate raffreddare, coprite e mettete in frigo per circa 4 ore. 2. Scaldate il forno a 200 °C. 3. Portate a ebollizione l’acqua con il latte, il burro, lo zucchero e il sale. Versate la farina in un colpo solo e mescolate energicamente con un mestolo di legno, a fuoco medio, finché la pasta non si stacca dal fondo della padella in un unico blocco. Fate intiepidire l’impasto fino a raggiunge la temperatura corporea. 4. Incorporate un uovo dopo l’altro. L’impasto dev’essere morbido, omogeneo e lucido. 5. Riempite una tasca da pasticciere con bocchetta tonda di circa 1 cm di diametro con l’impasto per bignè. Su una teglia foderata con carta da forno, formate dei mucchietti di pasta di circa 3 cm di diametro, sufficientemente distanti l’uno dall’altro. 6. Cuoceteli al centro del forno per circa 25 minuti. Fateli riposare 10 minuti nel forno spento con lo sportello leggermente aperto, poi trasferiteli su una griglia e lasciateli raffreddare. 7. Tagliate i bignè a metà in senso orizzontale. Montate la panna al cioccolato e trasferitela in una tasca da pasticciere con bocchetta liscia. Spruzzate la panna sul fondo dei bignè e copriteli con l’altra metà. 8. Spezzettate il cioccolato rimasto e fatelo fondere lentamente a bagnomaria. Decorate i bignè col cioccolato fuso.
I membri del club Migusto ricevono gratuitamente la nuova rivista di cucina della Migros pubblicata dieci volte l’anno. migusto.migros.ch
120 g di cioccolato fondente 2 dl di panna intera 0,5 dl d’acqua 0,5 dl di latte 40 g di burro 10 g di zucchero 2,5 g di sale 80 g di farina bianca 2 uova piccole
Preparazione: circa 45 minuti. Refrigerazione: circa 4 ore. Per persona: circa 9 g di proteine, 39 g di grassi, 35 g di carboidrati, 530 kcal/2200 kJ.
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TEMPO LIBERO
Si direbbe che il mondo finisca qui Itinerari
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Un’escursione tra Mergoscia e i suoi monti rievocando memorie di paese
Romano Venziani
«To’ – mi fa il Sigi, allungandomi sopra il tavolo uno spesso plico di fogli – dai un’occhiata, magari ci trovi qualcosa d’interessante». Sono decine di pagine fitte fitte, scritte con una calligrafia ordinata e pulita, direi quasi d’altri tempi. «Le memorie di mio padre – dice – ricordi della sua giovinezza a Mergoscia. Li ha scritti durante i numerosi soggiorni in ospedale, per riempire le giornate». Luigi, detto Gino, papà di Silvano «Sigi» Giannini, se n’è andato sette anni fa, novantenne. Nato nel , ultimo di una nidiata di dieci fratelli e sorelle, il Gino non ha avuto vita facile. Ha passato infanzia e giovinezza lassù, in quel suo paese aggrappato alle falde del Madone, che vanno giù, a balzi, verso il fondo della Verzasca, nella «strozzatura infernale» dove allora scorreva libero il fiume e dove ora riluce l’acqua blu del lago di Vogorno. A Mergoscia, come nella maggior parte dei villaggi delle vallate alpine, allora si tirava avanti con un’economia di sussistenza, spesso insufficiente a sfamare le bocche di tutti. E fin dalla più tenera età, ragazzi e ragazze dovevano darsi da fare per aiutare la famiglia. Così il Gino si fa le ossa rincorrendo capre sui monti e sugli alpi e grattando la terra trattenuta a forza da chilometri di muri a secco, in cui si coltivavano segale, frumento, granoturco, patate e altri ortaggi o su cui cresceva la vigna formando lunghi pergolati. Da grande, dopo aver iniziato un apprendistato di macellaio (mestiere che non gradisce), grazie al suo carattere schietto e allegro e a una spiccata facilità a relazionarsi con il prossimo, gli offrono un posto di assicuratore, professione che lo terrà occupato con successo per tutta la vita. Una vita segnata anche dalla sofferenza, dopo che un intervento a dir poco sciagurato ne minerà la salute. «Era andato alla Clinica universitaria di Zurigo, per cercare una soluzione a un suo problema medico – mi racconta Silvano – ma i professori non hanno trovato di meglio che testare su di lui e una ventina di altri poveri pazienti i primi trattamenti a base di cobalto. Quelle radiazioni, che devono durare tre secondi, ne erano durati trenta facendo uscire tutti “crivellati”, con gravi lesioni interne, che ne avrebbero poi causato la morte». Gino sopravvive, ma avrà la vita distrutta e sarà costretto a lunghi periodi di ospedalizzazione. Ed è lì che inizia a scrivere, a mettere nero su bianco i suoi ricordi, le sue emozioni. «In queste interminabili notti di dolori e insonnia, nella corsia d’ospedale, nella mia povera mente passa quello che vorrei definire il nastro della vita passata, con tutti i suoi ricordi, dalla più tenera infanzia, all’adolescenza, alla giovinezza. Ricordi dei nostri cari monti, Bietri, Faedo, Lego, Caürga, Cresta, Fossèi…, dove ho passato i giorni più belli della mia giovinezza, povero in canna, ma pieno di gaiezza e felicità fatta di niente». Quando Sandro Ghisla, oggi sindaco del paese, impegnato nella raccolta di dati e testimonianze per il volume su Mergoscia (AAVV, Repertorio toponomastico ticinese n.. Mergoscia, Centro di dialettologia e di etnografia, Bellinzona, ), si rivolge a lui quale fonte autorevole per la conoscenza del territorio, delle vecchie famiglie e, in generale, della vita dei Mergoscesi, il Gino rinasce e si mette a disposizione con entusiasmo. I suoi racconti, sommati a quelli di er Rosign
La mappa della passeggiata tra Mergoscia e Bresciàdiga; sotto: la chiesa di Mergoscia domina il paesaggio. (Romano Venziani)
(Rosina Ghisla, -), andranno a formare buona parte del corpus di informazioni raccolto nella pubblicazione. E a me, hanno dato lo spunto per quest’escursione. A Mergoscia non ci arrivi per caso. Lo vedi lassù, il paese, con i suoi nuclei e le decine di costruzioni sparpagliate sulla montagna sopra la diga di Contra, e questo potrebbe bastare a incuriosirti e a solleticare la voglia di imboccare la strada tortuosa che sale da Tenero. La prima volta che ci sono stato erano gli anni Ottanta, quando ancora non c’era la galleria (inaugurata nel dicembre del ), che ha poi permesso di by-passare la Valle del Crosone, fonte di disagi e pericoli per la viabilità del collegamento stradale di fine Ottocento. Lo si vede bene, il vecchio tracciato, dal sagrato della chiesa. Una lunga ruga sinuosa incisa sul fianco della montagna. A una curva, la sagoma chiara della Cappella di Peritt, tirata su nel dai figli di Giuseppe e Marianna Perini in memoria dei genitori, dove i passanti si dissetavano con una sorsata d’acqua sorgiva, che zampillava da una fontana al suo interno. Lo sguardo è poi risucchiato dalla valle, lì sotto, con il lago di Vogorno, che trasuda riflessi argentei. Più lontano, il baluginare del Verbano, i primi lembi del Piano di Magadino e la sponda ombrosa del Gambarogno. Bagnata dalla luce pulita di questa tranquilla giornata d’autunno, la
chiesa parrocchiale dei Santi Gottardo e Carpoforo è un invito a soffermarti un attimo in ammirazione prima di metterti in cammino. Il tempio, che al suo interno conserva un pregevole affresco con la Madonna del latte, pazientemente strappato da una casa della frazione di Lissói, si affaccia su uno splendido sagrato, uno dei più autentici rimasti nelle nostre valli. In un angolo c’è poi l’ossario e, dirimpetto, il campanile con il portico che dà accesso al cimitero. «Si direbbe che il mondo finisca qui, in una pace stanca e felice», scriveva Piero Bianconi (nel suo Croci e rascane, Armando Dadò editore, Locarno , pg. ) a proposito del paese dei suoi antenati, ma quando arrivi alla fine della strada ti rendi conto che qui si aprono tante vie per altri mondi e per immergerti nell’intimità di quello che, a ogni piè sospinto, ti regala una miriade di segni, grandi e piccoli, lasciati dalla civiltà rurale, quella sì «stanca» e rassegnata, o in quello avvolgente di una natura rigeneratrice e «felice». Mi avvio sulla lunga scalinata, che mi porta a Benitt, una delle quattro frazioni di Mergoscia. Un mucchietto di case silenziose e cariche di anni, con le finestrelle orlate di bianco, i ballatoi tra sole e ombra, animati dal lieve sfarfallare delle foglie di vecchie viti. Sopra una porta, un povero Cristo in croce, affiancato dalla Madonna e da San Giovanni, con la data, , e un cartiglio su cui tale Jacomo
Papino ricorda d’aver fatto fare l’opera per «devotione a nome dei suoi eredi». Buona parte degli edifici, un tempo umili e dimessi, sono ora riattati e curati e, in generale, domina un buon gusto fatto di muri in pietre squadrate, una distesa grigia di tetti in piode, fantasiose decorazioni e piante ornamentali. Quasi quasi ti sembra impossibile che, fino a un secolo fa o anche meno, qui si viveva di stenti e spesso si pativa la fame. Lo ricordano, tra le altre, le pagine del Gino, quando parla della gente del posto e dei suoi avi, come il nonno Pietro, morto nel Venti, spazzacamino in Italia a partire dai sei anni. Quando torna, gli dicono che «el pa’ è là dietro alla chiesa da tre mesi», ammazzatosi cadendo da una pianta di castagno. Orfano, ma non rassegnato, lui torna a raspar fuliggine dai camini, poi, diciottenne decide di emigrare in Australia. Sono anni di fame, e la madre, per mettere nel piatto un surrogato di polenta, polverizza cortecce di faggio nella pila, rudimentale mortaio scavato nella pietra, visibile ancora tra le cascine di Faedo. Una sera lui le dice, «vado a dormire, se domani, quando mi sveglio non ho niente da mettere sotto i denti poco bella sarà», intendendo, meglio farla finita subito, che morir di fame. Il mattino dopo trova sul tavolo di cucina un piatto di polenta, di quella vera. Dove sua madre fosse riuscita a racimolare quella manciata di farina, lui non lo saprà mai, ma, prima di emigrare, le prepara un piccolo orto da seminare a granoturco e poi prende la via del mare. In molti, tra Otto e Novecento, lasceranno il paese in cerca di fortuna, tanti non torneranno più e tanti torneranno poveri come prima e continueranno a sfaticare sui monti e sugli alpi, a sfruttare i boschi, a tirar su stalle e cascine (ce ne sono a centinaia sparse sulla montagna) e muri a secco, come quelli che incontro sul sentiero per Perbiói, restaurati dalla Pro Mergoscia ricreando gli originali terrazzamenti. L’associazione, nata nel con lo scopo di salvaguardare e valorizzare il patrimonio naturale e culturale del villaggio, ha promosso vari progetti, ripristinando, tra l’altro, il for-
no, il mulino, il torchio, e le vecchie colture abbandonate, come la vigna su pergolato o le selve castanili. Tante tessere del mosaico di quel paesaggio antropizzato «messe in rete» tramite un sentiero culturale e naturalistico. Progetti che, se da un lato vogliono creare concretamente «delle opportunità economiche legate al turismo locale e alla formazione», dall’altro servono a non dimenticare e a tributare un doveroso omaggio a chi, quassù, ci ha preceduti. Nella conca di Perbiói si respira la pace, gli alberi attendono in silenzio di scrollarsi di dosso le ultime foglie e l’acqua immobile dello stagno riflette la sagoma bianca del Pizzo Vogorno. Ormai non è più la stagione dei voli d’insetti nell’aria, del gracidare monotono delle rane o dei battiti delle ali dagli occhi dorati delle baccanti (la baccante, Lopinga achine, è una farfalla con le ali bordate da una fila di «occhi» dorati) e nemmeno delle danze arcane delle Crüsc, le streghe, che l’autunno scendevano qui dalle loro spelonche di Porchèsc (Porchesio, nucleo di insediamenti montani adagiato sotto il crinale, tra le valli di Mergoscia e di Corippo). Poco più su, ecco i monti di Cortói, un’azienda agricola e manciate di cascine sparpagliate nei prati e riattate con cura. Alcune abitate tutto l’anno, altre gestite dalla Cooperativa Campo Cortói, fondata nel , che organizza soggiorni di vacanza e attività varie per giovani, scolaresche o famiglie. Tra viottoli e vecchi muri, oggi la vita qui è declinata in tedesco, quasi a voler rappresentare un compendio dell’evoluzione demografica di Mergoscia degli ultimi decenni, che ha visto il declino dell’elemento indigeno, a favore di chi è calato da nord a comprare casa. D’altronde lo Schwyzerdütsch mi segue lungo tutto il cammino. Scendendo da Cortói e passando da Fossèi, incontro un basilese che mi apre sotto il naso un cartoccio pieno d’uova fresche e mi indica un cascinale in fondo al prato, caso mai ne volessi comprare anch’io. Più in là, continuando verso Caürga, qualcuno sta bruciando sterpaglie e anche il denso fumo che inghiotte il sentiero mi porta lontane inflessioni teutoniche. A Bresciàdiga, invece, odo solo echi di belati e il risuonare monotono di campanacci. Alcune decine di capre brucano tranquille in mezzo ai prati. Mentre mi riposo sotto un maestoso faggio, che si alza nel cielo come una vibrante fiammata, osservo, nell’ombra della Valle di Mergoscia, il ripido Bosco di Faedo, regno un tempo dei boscaioli bergamaschi. «Era la fine dell’Ottocento – annotava il Gino – e uno di questi era un Salvi, di Valsecca. Aveva con sé la moglie, che faceva la carbonaia e alimentava con piccoli pezzi di legna il poiàtt, la catasta in cui “cuoceva” il carbone». La donna era agli ultimi giorni di gravidanza e, venuto il momento, non fece in tempo a scendere al piano, così partorì il figlio proprio lì, sotto la Sprüga Taragna, il grande masso che serviva da rifugio di fortuna ai boscaioli. Lo chiamarono Antonio, il bambinello, che da grande divenne prete, fu parroco di Gordevio per trentasei anni e tornò spesso a Mergoscia, dove da tutti era simpaticamente chiamato il Gesù Bambino del Faèd. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
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Anno LXXXV 21 febbraio 2022
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TEMPO LIBERO
Con Aloy verso l’ovest proibito Videogiochi
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L’attesissimo Horizon Forbidden West è un’avventura appassionante, obiettivo: salvare la vita sulla terra
Horizon Forbidden West è uno dei giochi più attesi su PlayStation in questo inizio di . Sequel diretto di Horizon Zero Dawn, datato , trasporterà il giocatore in un mondo post apocalittico in cui umani e macchine occupano gli stessi spazi. A differenza, però, della solita ambientazione post catastrofica con un mondo arido ed inquinato, il mondo di Forbidden West è una biosfera rinata e purificata. Peccato che diverse forze cospirino per distruggere il nuovo paradiso terrestre. Protagonista del gioco è Aloy, una cacciatrice della tribù Nora. Nel primo gioco abbiamo avuto l’occasione di scoprire perché il mondo è ritornato ad uno stato selvaggio, dove sia finita l’umanità e perché sia ora popolato da enormi robot che sembrano animali e dinosauri. La giovane donna vive in un mondo in cui l’umanità, rinata ma senza conoscenza della propria storia, ha iniziato a venerare le macchine robotiche a causa di una visione distorta e ignorante. Tribù si sono formate, creando nuove culture e tradizioni che hanno spezzettato la popolazione in fazioni dalle credenze molto diverse e, come facilmente intuibile, in conflitto tra loro. Le vicende del primo gioco sono piuttosto estese e complesse ma, in poche parole, l’umanità ha distrutto sé stessa creando robot da guerra in grado di riprodursi e di alimentarsi assorbendo qualsiasi genere di biomassa. Nel giro di pochi mesi tutta la vita sulla terra fu consu-
Guerrilla Games
Davide Canavesi
mata. Ma l’umanità perdurò grazie ad un progetto segreto chiamato Zero Dawn che piantò i semi di una futura ricostruzione. Un rinnovamento messo in serio pericolo dalla liberazione di una IA impazzita, chiamata Efesto, che ha tentato in ogni modo di spazzare via ogni forma di vita. Salvati tutti quanti dalla prima minaccia, ora Aloy dovrà vedersela con nemici vecchi e nuovi e scoprire nuove verità sul passato del pianeta. Dietro invito di Sylens, un losco figuro che i fan del gioco ben ricorderanno da Zero Dawn, Aloy decide di partire, lasciare le terre che conosce così bene e avventurarsi verso l’ovest proibito. Una terra che si stende dalle montagne fino a quel che rimane della città di San
Francisco, abitata da una tribù molto numerosa e sanguinaria, i Tenakth. In particolare, una guerriera della tribù Tenakth farà di tutto per fomentare rabbia e violenza, come se non bastassero enormi macchine impazzite e pesantemente armate. Tuttavia c’è una minaccia ancora più grande, più definitiva e infinitamente più potente che aspetta la nostra eroina al varco, un pericolo che i giocatori dovranno scoprire però da soli. Horizon Forbidden West è un gioco d’avventura e azione a mondo aperto che offre una trama molto coinvolgente, una costruzione del mondo ricchissima di dettagli e un quantitativo di opzioni davvero imponente. Per terminare la storia principale, cimentan-
Giochi e passatempi Cruciverba
Ieri la mia compagna mi ha lasciato un postit attaccato al frigo con scritto: «Non funziona, me ne vado di casa!» Non capisco… Troverai il resto della frase a cruciverba risolto leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 6, 2, 11, 1, 10) ORIZZONTALI 1. Cibo semi digerito 5. Strumenti musicali 9. Luogo dove si trebbia 10. Nome maschile 12. Due quarti di luna 13. Sono lieti senza lei 14. Periodi di vacanza 15. Giudice per le indagini preliminari 16. Tipo di ricamo 17. Un anagramma di irti 18. Antica moneta spagnola 19. Nome femminile 21. Capitale del Massachusetts 23. Non fitto 24. Di alta rappresentanza sono blu 25. Pubblicata 28. Articolo 29. Princìpi
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30. Un Carlo scrittore 31. Le iniziali del filosofoDiderot 32. Azione militare rapida e improvvisa 33. Il nonno del re Saul 34. Figlio di Anchise ed Afrodite 35. Nome maschile VERTICALI 1. Un gioiello di Cornelia 2. Parade delle canzoni più vendute 3. Coda di paglia 4. Tragedia di Shakespeare 5. Non fa il monaco 6. Cattive 7. Le iniziali di un Angela della TV 8. Unità monetaria dell’India 11. Le figlie di Temi
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12. Il suo simbolo chimico è «Li» 14. Respiro 15. Nome femminile 16. Intrattenimento gioioso 17. Azioni illegali 18. Voce del pugilato 20. L’indimenticabile Fabrizio presentatore TV 21. Un noto Pippo 22. Carme funebre 26. Dice... in francese 27. Romano... a Roma 29. Isola a Parigi 30. Il celebre Hur 32. Le iniziali dell’attrice Nielsen 33. Ti... seguono in cantina
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Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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ricchissimo di dettagli, non solo per quanto riguarda gli elementi narrativi ma anche per quelli di decorazione. Il tutto è davvero organico in com’è rappresentato. Di norma nei videogiochi di questo genere, con un vasto mondo esplorabile, c’è la necessità tecnica di ridurre il dettaglio complessivo del mondo che altrimenti sarebbe troppo complesso da gestire per una console casalinga. In Forbidden West però abbiamo spesso l’impressione di essere in un mondo più vero, più pieno di dettagli. Che si tratti del sottobosco o di una radura, il mondo creato da Guerrilla Games, lo studio olandese dietro questo gioco, è più verosimile perché più denso, più completo. Una completezza che va a toccare anche altri aspetti del gioco, come le nuove capacità di attraversamento del mondo di Aloy che ora può scalare in modo più efficiente, planare dalle altezze, usare rampini e altri aggeggi per rendersi la vita più semplice. Horizon Forbidden West è un’avventura appassionante, un degno sequel del gioco del . Ci sono alcuni dettagli che andrebbero migliorati, come alcune imperfezioni nella grafica in certi punti ma, nonostante la dimensione del gioco, la qualità è molto alta. Avremmo forse preferito un finale che ci lasciasse meno in sospeso perché sarà dura aspettare ancora anni per sapere come andranno a finire le vicende di Aloy. Per ora comunque siamo molto più che soddisfatti.
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dosi in un buon numero di missioni secondarie e terziarie, richiederà non meno di ore di gioco. Per terminarlo in ogni sua componente, nettamente di più. In compagnia di Aloy saremo invitati a scoprire antiche rovine, tentando di carpire segreti perduti oramai da un migliaio di anni e precedenti la caduta dell’umanità. Saremo anche chiamati ad aiutare i tanti personaggi in cui ci imbatteremo nelle nostre peregrinazioni: storie di perdita, di ricongiungimento, di vendette e di semplice curiosità che ci trascineranno per lunghe sessioni di gioco. Le missioni vengono continuamente sbloccate, sia parlando con i personaggi che incontreremo sia semplicemente prendendoci il tempo per esplorare la mappa. Scopriremo città sotterranee, bunker perduti, vette innevate, deserti, foreste e l’oceano. Potremo cavalcare macchine volanti e terrestri, immergerci nelle profondità degli specchi d’acqua e scalare le montagne. Saremo sempre equipaggiati per l’avventura avendo a disposizioni archi, frecce, lance, trappole. Grazie a un rinnovato e più profondo sistema di gestione, Aloy ora può davvero specializzarsi in diversi approcci e potenziare abilità di combattimento, di cura, di gestione delle macchine e così via. Horizon Forbidden West esce su PlayStation e PlayStation e, su quest’ultima console, è davvero spettacolare. Il mondo che ci circonda è
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Soluzione della settimana precedente UN PO’ DI ORNITOLOGIA – Risposte risultanti: Il nome del volatile è: CODIROSSO – Le uova della femmina sono color: BLUASTRO. C O B R A
O S A R E
R D A E A I B L E R E I G E
I R G L O R O C U C G I A R A T A E T T F I O R
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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ATTUALITÀ
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C’era una volta la distensione In 37 anni Usa e Russia sono passati dalla fine della Guerra fredda a una potenziale guerra
L’America latina vira a sinistra L’elezione di Lula a presidente del Brasile potrebbe spostare del tutto l’asse politico del continente
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Oro nero nemico dei mari La marea nera sulle coste del Perù è solo l’ultimo di tanti incidenti avvenuti negli ultimi decenni
Gioiello in vendita La fine di un’epoca: Berlusconi pronto a vendere «il Giornale» fondato da Indro Montanelli
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Esercitazione militare russa presso Rostov: pressione psicologica o preparativi per una vera guerra? Immagine tratta da un filmato diffuso dal ministero della difesa russo. (Keystone)
Una partita ricca di paradossi
Ucraina ◆ Il contenzioso fra russi e americani verte sull’ingresso del paese nella Nato, un’eventualità inattuale, in realtà in gioco c’è una nuova architettura di sicurezza europea Lucio Caracciolo
La partita per l’Ucraina fra Russia e America (più Nato) è piena di paradossi. Il principale è che il contenzioso verte su qualcosa di totalmente inattuale: appunto l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Per i russi da evitare a ogni costo, per gli americani possibilità da tenere sempre aperta. In verità, in gioco c’è molto di più: l’architettura di sicurezza europea. Con i russi che vorrebbero costruirne una nuova, più o meno sul modello di un’organizzazione di sicurezza collettiva, quindi con loro dentro e in un ruolo di speciale rilievo; e gli americani che invece non intendono recedere dal modello attuale, ovvero dal sistema Nato, struttura del loro informale impero europeo. Questa partita maggiore coinvolge e divide gli europei. La faglia passa grosso modo per quella che era la bipartizione della guerra fredda, ma a parti invertite. Gli ex satelliti di Mosca non vogliono saperne di integrare la Russia nella sicurezza europea. Da concepire anzi contro il Cremlino. Il loro motto potrebbe essere quello ce-
lebre del primo segretario della Nato, Lord Ismay: Americans in, Russians out, Germans down. Gli ex e in parte ancora attuali satelliti di Washington, ormai liberi di muoversi più ampiamente causa crisi della presa americana sull’Europa, affermano invece che la Russia debba essere coinvolta nella gestione collettiva del continente. Per dirla con Scholz, non ci può essere pace da noi senza la Russia. Su questa linea anche francesi, italiani, spagnoli. Tali paradossi confermano l’importanza straordinaria della posta in gioco. Ma con notevoli asimmetrie. Putin si gioca tutto. Per lui, per il suo regime e per la Federazione Russa è questione di vita o di morte. Washington considera importante riportare la Russia a più miti consigli, ma non vede in gioco interessi vitali. Di qui anche la retorica piuttosto traballante di Biden, che mentre evoca il rischio della terza guerra mondiale avverte che in tal caso gli Stati Uniti vi parteciperanno con delle sanzioni. La prima vittima di tanta tensione
è ovviamente l’Ucraina. La pressione militare e diplomatica russa e l’enfasi americana sul rischio di guerra aperta hanno prodotto in queste settimane fughe di capitali e di capitalisti (oligarchi) che stanno pesando fortemente sulla qualità della vita degli ucraini e sulle prospettive del loro fragile Stato. Se poi la guerra del Donbass dovesse entrare in una nuova fase, più acuta, questa tendenza diventerebbe sempre più grave. Putin ha detto di non volere la guerra annunciata dagli americani. Non ha infatti alcun interesse a invadere il vicino e consanguineo Stato ucraino, dove vivono fra l’altro centinaia di migliaia di cittadini russi, più milioni di russofoni più o meno russofili. Ma se Kiev, appoggiata da americani, britannici e altri occidentali, decidesse di aumentare la pressione sulle repubblichine pro-russe di Luhansk e di Donetsk, il Cremlino reagirebbe rafforzando i suoi satelliti locali. E tenendo sempre di riserva la carta del riconoscimento/annessione delle repubbliche ribelli.
L’obiettivo russo è di trovare una soluzione basata sugli accordi di Minsk, stipulati quando l’Ucraina si trovava in grave difficoltà. In particolare, tali accordi mediati da francesi e tedeschi prevedono un notevole grado di autonomia per le regioni dell’Ucraina orientale di tono essenzialmente filo-russo. In questo modo Mosca otterrebbe, senza sparare un colpo, di avere una quota di influenza notevole a Kiev, dove oggi comandano i filo-occidentali, o meglio gli anti-russi. Alla fine dei conti, l’Ucraina che Putin vuole sarebbe di fatto neutralizzata, con tendenza a rientrare progressivamente nella sfera imperiale moscovita. È importante anche considerare che dentro l’Ucraina disegnata nei confini sovietici, diventata indipendente nel , vi sono diverse mini-Ucraine. Una delle quali, di speciale rilievo strategico, è la Crimea, con la base navale di Sebastopoli, fondamentale per l’accesso al Mediterraneo via Mar Nero. Infatti presa da Putin nel marzo . Base che i russi po-
trebbero evacuare solo dopo aver combattuto e perduto una guerra mondiale. Sul fronte opposto c’è la Galizia, regione occidentale e fortemente russofoba. La sua capitale è Leopoli, città di tono e architetture centro-europee, già integrata nell’impero asburgico e nella Polonia. Qui dominano i nazionalisti ucraini, comprese formazioni estremiste, alcune di segno neonazista. La scelta americana, britannica, olandese di trasferire a Leopoli il personale delle loro ambasciate che ha lasciato Kiev nei giorni di massima tensione russo-americana, possiede un evidente significato simbolico. Prepariamoci a una lunga fase di tensione fra Russia e America, quindi di divisioni dentro la Nato. In questo periodo sarà interessante notare quanti e quali assetti i paesi atlantici sposteranno verso est, e viceversa i russi verso ovest. Mentre sottobanco continuerà il negoziato strategico fra russi e americani. Destinato a saltare se la tensione supererà la soglia di guardia. Ciò che i falchi, su entrambi i fronti, ardentemente sperano.
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ATTUALITÀ
Una lenta parabola discendente Usa-Russia
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Dal periodo di distensione inaugurato da Reagan e Gorbaciov al muro contro muro degli ultimi anni
Alfredo Venturi
Finché si tratta non si spara, dice un vecchio adagio diplomatico. Già, ma che dire se la trattativa appare inconcludente, trascinata soltanto per consentire alle parti di ricavarne qualcosa da poter vantare come un successo presso le rispettive opinioni pubbliche? All’inizio di questo ci sono stati diversi incontri fra Russia e Stati Uniti, fra Russia e Alleanza atlantica e infine fra Russia e Occidente in sede di Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione in Europa: sul tappeto la spinosissima questione dell’Ucraina, sullo sfondo l’eterna questione degli armamenti fuori controllo. Dialogo fra sordi: da una parte l’Occidente accusa Mosca di preparare l’invasione, dall’altra i russi negano la circostanza ma chiedono l’impegno occidentale a non cooptare l’Ucraina nella Nato. Intanto scandiscono il negoziato rumorosi preparativi di guerra, mentre l’Europa guarda con profonda inquietudine a quella che ne sarebbe una fra le inevitabili conseguenze: l’interruzione del flusso di gas metano proveniente dalle steppe siberiane. È uno dei momenti più difficili nella lunga storia delle relazioni diplomatiche fra le due superpotenze, che pure ha conosciuto anche momenti di grazia. Per esempio come dimenticare il clima euforico che si registrò a Ginevra, in quei tre giorni di novembre del . Fu allora che il presidente americano Ronald Reagan e il leader sovietico Michail Gorbaciov celebrarono quella che veniva entusiasticamente interpretata come la fine della guerra fredda. Gorbaciov portava sul Lemano l’immagine e la visione di una Russia completamente rinnovata rispetto alla lunga esperienza sovietica. Il nuovo segretario del partito aveva riassunto con due parole d’ordine, glasnost e perestroika, il disegno davvero rivoluzionario di pilotare il Paese verso una ristruttu-
razione all’insegna della trasparenza. Quanto a Reagan, ormai deposto l’anatema contro l’«impero del male», intendeva approfittare di un’occasione irripetibile per indurre la controparte ad applicare il nuovo corso a una sostanziale riduzione degli armamenti atomici. Tutto sembrava possibile, in quel glaciale novembre di trentasette anni fa, e la storia turbinosa degli anni successivi avrebbe dato temporaneamente ragione al grande ottimismo ginevrino. Il Muro di Berlino sarebbe caduto, l’Unione sovietica, travolta dalla slavina di un riformismo inarrestabile, ben oltre le intenzioni del suo leader sarebbe arrivata al collasso. Il trionfo del liberalismo occidentale sembrava garantito e presto uno studioso americano, Francis Fukuyama, avrebbe dedicato un saggio alla «fine della storia». Che la storia in realtà fosse tutt’altro che conclusa, che in realtà la storia non possa concludersi mai, il mondo lo imparerà presto a sue spese, ma intanto torniamo a quel magico . Ecco Reagan che accoglie Gorbaciov salutandolo con una lunga stretta di mano, eccolo accompagnarlo appoggiandogli l’altra mano sulla spalla all’interno della villa dove si svolgerà il primo incontro, eccoli che sorridono seduti davanti a un caminetto crepitante. I due affettano una grande familiarità, si atteggiano a vecchi amici e così le first ladies Raissa e Nancy che secondo tradizione animano la cornice mondana dell’evento. Dopo Ginevra Reagan e «Gorbi» si vedranno tre volte ancora: prima a Reykjavik, dove negozieranno in solitudine alla sola presenza degli interpreti, quindi a Washington e infine a Mosca. Il presidente americano terrà sotto pressione il suo interlocutore sovietico, come quando nel giugno , parlando a Berlino, lo inviterà apertamente ad
Ginevra 1985, Ronald Reagan e Michail Gorbaciov inaugurano una nuova fase nei rapporti fra le superpotenze che porterà alla fine della Guerra Fredda. (Keystone)
«abbattere questo Muro». Mentre alla insistente richiesta di rinunciare alla SDI (Strategic Defense Initiative), meglio nota come scudo spaziale, risponderà sempre con un diniego: non si tratta forse di un sistema puramente difensivo? Grazie al nuovo clima instaurato a Ginevra si farà invece un decisivo passo avanti nella riduzione dei vettori a medio raggio: nel dicembre , durante il loro terzo incontro bilaterale, Gorbaciov e Reagan firmeranno a Washington il trattato INF (Intermediate-range Nuclear Forces), che eliminerà un’intera categoria di armi atomiche e accantonerà la lunga crisi degli euromissili. Un destino davvero amaro, quello del trattato INF: presto le due parti, non più Stati Uniti e Unione sovietica ma Usa e Russia, cominceranno a scambiarsi reciproche accuse di violazione. Nel secondo decennio di que-
sto secolo un nuovo missile a medio raggio, il temibile SSC-, arricchirà l’arsenale russo: otto lanciatori capaci di liberare ciascuno dodici testate nucleari andranno in dotazione a due reparti delle truppe d’élite. Mosca parla a sua volta di violazioni americane. Spinta anche dalla necessità di contenere la minaccia cinese, Washington si ritira definitivamente dall’accordo nell’estate del . Ormai lo spirito di Ginevra si è dissolto nel nulla, le due potenze si guardano in cagnesco come negli anni più bui della guerra fredda, quando la pace era affidata all’equilibrio del terrore nucleare basato sulla formula MAD, Mutual Assured Destruction. Una garanzia di distruzione reciproca dalla sigla quanto mai eloquente. Si arriva così allo scenario che difficilmente Gorbaciov e Reagan avrebbero potuto immaginare: la
Russia ormai confinante con la Nato sulle frontiere delle repubbliche baltiche, quello che fu il Patto di Varsavia, l’organizzazione militare guidata da Mosca, quasi interamente approdato al campo avversario, e ora la prospettiva che anche l’Ucraina sia tentata dal grande passo verso Occidente. Mosca dispiega le sue forze e la sua flotta a ridosso della Repubblica già scossa al suo interno dalla rivolta della minoranza russa, gli Stati Uniti alzano la voce, l’Europa trema pensando alla guerra in casa e alle incerte forniture di gas metano. Sullo sfondo l’inquietante attivismo della Cina che ha sconvolto per sempre lo schema bipolare, dominatore della storia nella seconda metà del Novecento. Comunque vada a finire, le immagini di Reagan e Gorbaciov sorridenti davanti al caminetto di Ginevra sembrano appartenere a un’altra epoca.
Una guerra che non conviene a nessuno Usa-Ucraina
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Per evitare il conflitto voci autorevoli cominciano ad immaginare quali concessioni fare al presidente russo Putin
Federico Rampini
Dopo la pessima figura fatta in Afghanistan, in Ucraina Joe Biden affronta la sua seconda crisi internazionale: un occasione per rinsaldare credibilità, a condizione di fare le mosse giuste. Nelle prime fasi di questa crisi ha mostrato dei muscoli più virtuali che reali: soft power, strategia delle alleanze, e guerra dell’informazione. Ma dietro le quinte sarebbe già pronto a trattare con Putin. Perché la via del compromesso può essere quella più conveniente per gli Usa. Gli americani sono stufi di fare i gendarmi mondiali. Biden lo sa, per questo ha sempre escluso di mandare soldati a combattere in Ucraina. Questo è giusto, è razionale, e tuttavia inevitabilmente riduce il suo potere negoziale con Putin. Il leader russo sa che gli americani sono pronti a colpirlo con sanzioni ma non interverranno militarmente in nessun caso, eccetto l’invasione di paesi Nato. Nell’analisi che viene fatta a Washington, una guerra in Ucraina non conviene a nessuno. Neanche a Putin. Il leader russo preferisce vincere senza combattere. Una guerra vera ha tante incognite anche per lui. No-
nostante l’inferiorità militare ucraina, non sarebbe una tranquilla passeggiata fino all’occupazione di Kiev. Potrebbe esserci una resistenza prolungata, con vittime in un popolo fratello che lo stesso Putin descrive come parte della grande famiglia slava. Poi ci sono le conseguenze diplomatiche ed economiche. Come vedono gli americani il periodico rilancio – retorico – di una difesa comune europea? Sentono parlare di una difesa comune europea dai tempi di Mitterrand-Kohl (anni Ottanta). Oggi la Germania è ancora meno affidabile di allora nel suo atlantismo, tentata dalla finlandizzazione cioè da una neutralità funzionale ai suoi interessi mercantili e ad un progressivo scivolamento geopolitico verso Oriente. Il Regno Unito non è più nell’Unione europea. L’unico che parla di difesa europea avendo un esercito degno di questo nome è Macron. Troppo poco. Con un ex cancelliere tedesco, il socialdemocratico Gerhard Schroeder, che è a libro-paga di Putin ed è il più importante lobbista filo-russo per l’energia, la coesione europea è problematica. L’energia è il tallone d’Achille degli
Joe Biden farà le mosse giuste? (Keystone)
europei, questo messaggio lo hanno mandato Barack Obama, Donald Trump, e ora Biden: «Vi siete privati della vostra autonomia strategica verso Mosca consegnandovi alla dipendenza al gas russo». Comunque vada a finire la crisi in Ucraina, a guadagnarci potrebbe essere la Cina. Putin è andato a omag-
giare Xi Jinping alle Olimpiadi di Pechino e ha firmato un comunicato congiunto che per il % riprende le posizioni della diplomazia cinese. Se la Russia finirà sotto nuove sanzioni economiche occidentali, questo la costringerà a «s-dollarizzarsi» ancor più, spostandosi verso quel sistema economico-finanziario alternativo che ha il centro a Pechino. Non è una prospettiva entusiasmante per Putin, diventare il partner minore e più debole in una grande coalizione sino-russa, ma al momento la logica delle cose lo sta spingendo in quella direzione. La Cina ci guadagna materie prime, energia, armi di qualità. Non è un bilancio esaltante, dal punto di vista americano. Biden ha un piano B per evitare la guerra in Ucraina? Voci autorevoli cominciano a immaginare quali concessioni potrebbero placare Putin e inaugurare un periodo di tregua in Europa. Tra i fautori di un compromesso si segnalano l’ex ambasciatore di Barack Obama in Russia. Michael McFaul, che fu ambasciatore a Mosca per Obama, sostiene che «solo un grande patto con Putin può evitare la guerra». L’ex diplomatico non è ot-
timista, considera inaccettabili le richieste della Russia: cioè che la Nato chiuda per sempre le sue porte all’Ucraina, e tolga truppe e armi dai paesi che vi hanno aderito dopo il maggio . Si tratterebbe di una ritirata atlantica dall’Europa dell’Est, una restituzione di quei paesi alla sfera d’influenza che fu sovietica. Quelle richieste sono così estreme che possono sembrare «giustificazioni per la guerra, più che basi per un negoziato». McFaul lancia l’idea di un «Helsinki », un grande accordo multilaterale che offra garanzie reciproche ai russi e agli europei. Sulla stessa lunghezza d’onda si esprime Dmitri Trenin, autorevole analista russo che dirige l’ufficio di Mosca del Carnegie Endowment for Peace. Per lui l’obiettivo di Putin non è conquistare l’Ucraina, ma cambiare gli equilibri nell’Europa dell’Est in senso meno sfavorevole agli interessi russi. È essenziale che rimangano fuori dalla Nato per un tempo lungo Ucraina Georgia e Moldavia; e vuole fuori dalla portata i missili intermedi Usa. Con questi risultati Putin potrebbe presentarsi trionfalmente alla rielezione nel .
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ATTUALITÀ
Il ritorno di Lula
Adiós Comandante
Angela Nocioni
Angela Nocioni
America Latina ◆ Diversi paesi hanno già virato a sinistra, se in ottobre dovesse seguirli il Brasile l’ondata izquierdista travolgerebbe il continente
Tira aria di virata a sinistra in America latina. A fine ben sei governi, dei sei Paesi che insieme producono il per cento del Pil continentale, potrebbero essere schierati decisamente a sinistra. Quattro già lo sono. Cile, Argentina, Perù e Messico, con ovvie e consistenti differenze, hanno al momento presidenti di sinistra più o meno radicali. La svolta politica definitiva è attesa per le elezioni brasiliane e colombiane. In Brasile, dove si vota ad ottobre, è favorito l’ex presidente Lula da Silva. In Colombia, primo turno il maggio, i sondaggi danno per vincente l’izquierdista Gustavo Preto. A questa inversione di tendenza continentale non sono estranei gli effetti di due anni di emergenza Covid sulle crisi sociali in incubazione. L’allargarsi della forbice tra ricchi e poveri e la fragilità dei sistemi sanitari e scolastici non hanno retto l’impatto della pandemia e hanno creato un terremoto economico e sociale. È cresciuta la parte di popolazione che chiede protezione allo Stato e per questo si butta (o ritorna) a sinistra. Esplosioni sociali e vere e proprie rivolte erano avvenute già prima del diffondersi dell’epidemia in Colombia, in Nicaragua, in Cile, in Bolivia e nella Repubblica domenicana. Nei mesi della prima emergenza Covid rivolte ci sono state anche in Perù, a Cuba, ad Haiti e in Guatemala.
L’ex presidente brasiliano Lula da Silva: i sondaggi lo danno per favorito alle prossime presidenziali. (Keystone)
ovunque ed è stata questa forse la misura che ha colpito negativamente in forma quasi uguale tutti i ceti sociali: milioni di alunni in America latina al momento hanno la frequenza scolastica ancora sospesa. In nessuna altra area del mondo le scuole sono state chiuse tanto a lungo. In questi anni di incertezza e caos il Brasile di Bolsonaro ha assistito all’espandersi dell’emergenza Covid ormai fuori controllo e al costante deteriorarsi del suo tessuto sociale, oltre che a una crisi economia che non dà tregua. È proprio in Brasile che si attende la più esplicita e clamorosa inversione di tendenza politica. Se nelle elezioni di ottobre si verificherà quel che prevedono i sondaggi, dopo una campagna elettorale all’ultimo sangue tra estrema destra e vecchia sinistra si andrà al ballottaggio tra l’uscente Jair Bolsonaro, un pistolero ultraconservatore che ha tentato di superare la propaganda di Trump a destra, e il redivivo ex presidente Lula da Silva, riferimento politico dell’intera area progressista latinoamericana. Secondo l’ultimo sondaggio di Datafolha di dicembre al ballottaggio vincerebbe Lula con il %. Sarà in ogni caso uno scontro epico, una corsa tra due candidati davvero radicalmente opposti ed una campagna totalmente polarizzata. Un terzo nome pesante in grado di creare suspence al primo turno al momento non c’è. Il più popolare tra i possibili candidati rimane Sergio Moro, l’ex giudice che fece arrestare Lula alla vigilia delle ultime presidenziali alle quali l’ex presidente era dato come favoritissimo. Moro era stato poi nominato superministro della giustizia da Bolsonaro appena eletto, che non avrebbe mai vinto se Lula non fosse stato tolto di mezzo da quel provvidenziale arresto. Moro, superstar del governo Bolsonaro, ha poi voltato la faccia al suo presidente, se ne è andato
dal governo e da mesi sta acquattato in attesa di capire come capitalizzare il consenso popolare di cui ancora gode. Datafolha lo dà come terzo al primo turno con il %. Dietro di lui vengono il governatore Joao Doria e l’ex ministro Ciro Gomes. L’intera America latina guarda a questo appuntamento elettorale perché è lì che si giocherà la parte sostanziale della partita dei prossimi equilibri regionali. Lula sta preparando un grande attacco per scommettere di poter vincere già al primo turno, miracolo che finora in Brasile è riuscito solo una volta all’ex presidente Fernando Henrique Cardoso. La mossa geniale di Lula, la carta che se giocata potrebbe permettergli di annettere tutta l’area di destra moderata oltre che di centro, è in preparazione. Mossa difficile ma strategica: presentarsi agli elettori con a fianco il suo ex rivale, l’ex governatore Geraldo Alckmin. L’uomo forte di Sao Paulo, quello che ha sempre coagulato l’appoggio della finanza e delle imprese sottraendolo in gran parte al Pt lulista. Faceva parte del popolare e dalla sinistra sempre detestato Psdb, il partito tradizionalmente alternativo al Pt di Lula. Alckmin intanto dal Psdb se ne è andato. Potrebbe essere il segno che la sua disponibilità a Lula l’ha già data. Andasse in porto il ticket per la candidatura, sarebbe la coppia politica del secolo. L’ex sindacalista simbolo della sinistra che si presenta con a fianco un vice popolare quanto lui ma a destra. Comunque vada, sarà un grande spettacolo di politica dispiegata. E comunque vada, segnerà i prossimi anni della regione. C’è un detto che funziona sempre nell’analisi politica latinoamericana: guarda da quale parte va il Brasile e scopri dove andrà poi in seguito il resto dell’America latina.
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La pandemia ha avuto un impatto devastante sulle fasce sociali più fragili; i lavoratori in nero e i precari, ossia la maggioranza dei lavoratori latinoamericani, sono usciti frantumati La pandemia ha avuto un impatto devastante sulle fasce sociali più fragili. Il lavoratori in nero e i precari – ossia la sostanziale maggioranza dei lavoratori latinoamericani – sono usciti frantumati dall’emergenza. Nell’incertezza economica globale ha ripreso quota la eterna illusione latinoamericana, l’idea che la vendita di materie prime possa sempre essere l’ancora di salvataggio generale. A svantaggio della economia produttiva. La terribile e mai risolta «maledizione delle materie prime». Secondo la Cepal, la Commissione economica per l’America latina dell’Onu, le esportazioni di materie prime sono ormai in America latina quattro volte superiori a quelle del resto del mondo, idem per l’estrazione e vendita all’estero di minerali. Ciò non aiuta lo sviluppo e nei periodi di crisi impoverisce chi già vive in povertà perché riduce le opportunità di lavoro. Gli ospedali mal ridotti negli ultimi due anni sono collassati e chi ha pagato più cara l’assenza di una reale sanità pubblica sono stati i poveri. Le scuole hanno chiuso quasi
Nicaragua ◆ Morto in cella Hugo Torres, il guerrigliero sandinista che salvò la vita ad Ortega
«Ho rischiato la mia vita, quarantasei anni fa, per liberare dal carcere Daniel Ortega e altri nostri compagni detenuti politici. Così sono le giravolte della vita, quelli che allora scelsero di battersi per dei princìpi, li hanno traditi. Il regime di Ortega oggi è peggiore di quello di Somoza allora». Lo dice con voce calma in un video registrato otto mesi fa, poco prima di essere arrestato dalla polizia speciale nicaraguense, Hugo Torres, il Comandante Uno, generale storico della rivoluzione sandinista, morto il febbraio da detenuto politico nel centro di tortura di El Chipote a Managua. Daniel Ortega ha arrestato e fatto morire in cella, senza processo, a anni, l’uomo che gli salvò la vita e senza il quale la rivoluzione sandinista (-) di cui Ortega fu il capo politico mai avrebbe preso il potere. Torres è il primo detenuto politico, tra quelli di cui si conosce l’identità, a morire nelle celle di regime di Ortega che, da quando è tornato nel tramite elezioni a capo del Paese, ha instaurato una dittatura atroce coperta formalmente dal voto popolare al quale gli avversari non possono partecipare perché preventivamente sbattuti in galera. Torres era stato portato via dalla sua cella il dicembre scorso con un’infezione alle gambe che non gli consentiva più d’alzarsi – hanno fatto sapere alla famiglia altri detenuti – ed è morto in ospedale senza che i figli riuscissero a sapere dove fosse, se non in punto di morte. Dopo esser stato capo della direzione politica dell’esercito sandinista durante la rivoluzione fino al , da Ortega tornato al potere non ha accettato né incarichi, né privilegi. Il Comandante Uno è figura leggendaria del sandinismo. Fu l’unico guerrigliero a partecipare, dirigendole tra l’altro, alle due principali operazioni militari che permisero al Fronte sandinista di liberazione nazionale di travolgere la dittatura di Somoza. La prima è un evento rimasto insuperato per spettacolarità delle insurrezioni latinoamericane, la «Operación Diciembre victorioso»: l’assalto alla villa di José Maria Castillo, amico di Somoza, dove era in corso una festa di alti funzionari del regime, sequestrati e liberati alla vigilia di Natale del in cambio della scarcerazione di tutti i detenuti politici, tra loro Daniel Ortega, messi su un aereo diretto all’Avana dove furono ricevuti come eroi e protetti in esilio fino a che tornarono a Managua per travolgere definitivamente Somoza. La seconda è l’Operación Canchera, l’assalto al Palacio nacional nel raccontato nei dettagli da una cronaca di Gabriel Garcia Márquez per l’agenzia spagnola Efe che comincia così: «Il piano sembrava una pazzia. Si trattava di prendere il Palazzo nazionale di Managua in pieno gior-
no e con solo uomini, sequestrare i membri della Camera dei deputati e ottenere come riscatto la liberazione dei prigionieri politici. Oltre al Senato al primo piano e la Camera dei deputati al secondo, lì stanno il ministero dell’industria, l’ufficio di governo e la direzione generale delle entrate, si tratta cioè del più importante e più popoloso di tutti gli edifici pubblici di Managua. Per questa ragione c’è sempre un poliziotto armato di mitragliatrice ad ogni porta, ci sono altre due guardie nelle scale del secondo piano e numerosi pistoleros di ministri e parlamentari per ogni dove. In orario d’ufficio, tra impiegati e pubblico, tra solai, uffici e corridoi ci sono almeno tremila persone. Eppure la direzione del Fronte sandinista di liberazione nazionale non ha considerato che l’assalto di quel mercato burocratico fosse, in realtà, una pazzia, ma tutto il contrario: un azzardo magistrale». Dell’aura rivoluzionaria che copriva le operazioni antisomoziste di allora non è rimasto nulla neanche agli occhi dei vecchi guerriglieri, ormai quasi tutti contrari al regime (o esiliati o in cella) e la violenza di cui il sandinismo si servì per abbattere la dittatura è ora l’architrave che regge il regime di Ortega. Nonostante l’abitudine al sopruso, l’opinione pubblica in Nicaragua sembra scossa dalla clamorosa notizia della morte in cella di Hugo Torres. C’è chi giura sia questo il passo falso di Ortega. Ma un ex militare dice a «El Confidencial», sito di dissidenti che il regime non è ancora riuscito ad oscurare: «Nonostante già il solo arresto del Comandante Uno abbia avuto una grande risonanza e creato un notevole malessere nell’esercito, il messaggio inviato da Ortega con la morte in cella di Torres a tutto il sandinismo e ai critici occulti nascosti nelle file dei ministeri chiave della Difesa e degli Interni è che nessuno può considerarsi al riparo dalla ferocia del governo. È un messaggio di odio. Non folle: è funzionale al terrore che vogliono imporre».
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Il Comandante Uno fu protagonista delle più spettacolari azioni contro il regime di Somoza. (Keystone)
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ATTUALITÀ
L’oro nero che avvelena i mari
Disastri ambientali ◆ La marea nera che ha investito le coste peruviane dopo lo tsunami provocato dall’eruzione vulcanica a Tonga è solo l’ultimo di una lunga serie di incidenti che coinvolgono petroliere e piattaforme petrolifere – Una minaccia che resterà presente anche in futuro Fredi Sergent
Ci mancavano solo le eruzioni vulcaniche, per versare petrolio in mare. Lo scorso gennaio una spaventosa esplosione ha scosso il vulcano sottomarino Hunga Tonga, un gigante che dopo avere sonnecchiato per secoli sotto le onde del Pacifico era riemerso in seguito a un’eruzione nel aggiungendo un’isoletta all’arcipelago delle Tonga. Ora quell’isoletta è scomparsa, il risveglio del vulcano, che ha portato distruzione nell’arcipelago, lo ha di nuovo seppellito nel mare. Ma non senza che un micidiale tsunami si levasse da quel punto zero propagandosi in tutte le direzioni: non solo verso le isole Samoa, la Nuova Zelanda, l’Australia, il Giappone, ma anche verso il continente americano. Ecco l’onda alta due metri che alla velocità di ottocento chilometri l’ora s’inoltra nell’immensità oceanica, divora i diecimila chilometri che separano le Tonga dal Sudamerica, si abbatte sulla costa peruviana. In quel momento a Callao, il porto di Lima, la petroliera italiana Mare Doricum si sta alleggerendo del suo carico di greggio. Nessuno avverte del pericolo incombente, eppure lo tsunami è in marcia di avvicinamento da alcune ore. L’onda investe la nave, la fa inclinare, trancia i tubi che stanno trasferendo il petrolio alla vicina raffineria. Prima che il travaso possa essere fermato seimila barili di greggio, più di ottocento tonnellate, finiscono in mare, le correnti distribuiscono quella melma nerastra lungo la costa, arrivando fino alla riserva naturale di Punta Guaneras. I danni alla fauna e alla flora sono ingenti. Lo tsunami è penetrato per un centinaio di metri nell’entroterra coprendo mila chilometri quadrati.
Gli inquinamenti da petrolio colpiscono tutti gli oceani, ma ancor più gravi sono le conseguenze se avvengono in mari chiusi come il Mediterraneo Non è la prima volta che ci tocca vedere quelle sconvolgenti immagini di morte: pesci agonizzanti sulle spiagge nere, gabbiani intrisi di petrolio, una natura che grida vendetta. Anche se stavolta la causa scatenante del disastro peruviano è stata del tutto naturale, un’esplosione vulcanica, una pesantissima responsabilità grava su chi non ha ritenuto d’interrompere un’operazione evidentemente a rischio, dopo l’allerta tsunami, come quella che ha continuato a svolgersi nel porto di Callao mentre l’onda si avvicinava. Del resto è lunghissimo l’elenco di questo genere di disastri: una parte non indifferente del petrolio estratto dalle viscere della terra finisce in
19 novembre 2002, la petroliera Prestige si spezza al largo delle coste della Galicia, Spagna; fuoriescono 60mila tonnellate di petrolio greggio. (Keystone)
mare. È accaduto centinaia di volte, la quantità di greggio dispersa fra le onde è in molti casi ben superiore ai seimila barili che hanno devastato la costa del Perù. Per esempio furono oltre mila, secondo certe stime addirittura più di un milione, le tonnellate di petrolio che avvelenarono le acque del Golfo del Messico quando un guasto in un pozzo sottomarino distrusse la piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum. Era l’aprile del e la marea nera raggiunse un arco costiero che andava dal Messico al Texas e oltre, fino alla Florida. Dopo lunghe negoziazioni la BP si impegnò a pagare risarcimenti per oltre diciotto miliardi di dollari. A volte il disastro deriva da incidenti di navigazione, come quando nel marzo del una superpetroliera, la Exxon Valdez, andò a sbattere contro uno scoglio al largo dell’Alaska. Dal fianco squarciato della nave fuoriuscirono un quarantina di tonnellate di petrolio che inquinarono un lungo tratto di costa dell’Alaska e il vicino litorale canadese. Come se tutto questo non bastasse, i mari di tutto il mondo hanno subito le conseguenze dei conflitti armati. La guerra è devastante anche per l’ambiente: si pensi alle migliaia di navi militari e commerciali affondate durante il secondo conflitto mondiale, che hanno trascinato in fondo al mare combustibili, esplosivi, veleni chimici. O alle scorte di gas che l’Armata rossa sequestrò negli arsenali della Wehrmacht durante la vittoriosa avanzata
verso Berlino, non trovando di meglio che gettarle nel Mar Baltico. Soltanto una parte di quelle sostanze è già stata rilasciata, prima o poi quei relitti e quei bidoni di gas deteriorati dal tempo si faranno sfuggire il resto. È una bomba inesplosa in attesa dell’inevitabile scoppio ritardato. Accadde proprio in un contesto bellico il più grave fra i tanti disastri che hanno invaso le cronache. Era il gennaio del e infuriava la prima guerra del Golfo. In quei giorni un mare di greggio si mescolò alle acque del Golfo Persico, a seconda delle stime fra le mila e il milione e mezzo di tonnellate. Le due parti in conflitto, l’Iraq di Saddam Hussein e la coalizione internazionale, si scambiano reciproche accuse. Secondo le fonti occidentali gli irakeni versarono in mare oltre mila tonnellate al giorno di petrolio per una settimana, allo scopo di ostacolare il temuto sbarco dei marines sulla costa del Kuwait. Per fermare il flusso tre cacciabombardieri americani distrussero l’oleodotto che portava il greggio dai pozzi al terminale costiero. Del tutto diversa la versione irakena: Baghdad respinse l’accusa sostenendo che l’inquinamento fu provocato da aerei americani che avevano bombardato e distrutto due petroliere a pieno carico attraccate al terminale. Conflitti militari a parte, il fenomeno del greggio disperso fra le onde riguarda tutti i mari del mondo, danneggiando i più diversi ecosistemi. Nell’aprile del il cargo ci-
nese Sheng Neng fece naufragio sulla barriera corallina vicino alla costa australiana. Fortunatamente fuoriuscì soltanto una parte del carico, ma quel migliaio di tonnellate di petrolio fu più che sufficiente per colpire a morte un lungo tratto della barriera. Nel novembre del la petroliera Prestige affondò nel Golfo di Biscaglia provocando una marea nera di oltre mila tonnellate che devastò le coste spagnole della Galizia mettendo in crisi la locale industria della pesca. Particolarmente grave la situazione quando il greggio finisce in un mare chiuso come il Mediterraneo, che non ha la stessa possibilità di diluizione degli oceani. Nell’aprile del la superpetroliera cipriota Haven fu squassata da un’esplosione mentre si trovava davanti a Genova. Lo scoppio provocò l’incendio del combustibile, che finì in mare continuando a bruciare. Poi la nave dal ventre in fiamme fu trainata al largo, fortunatamente il mare era calmo e in alcuni giorni, prima che la Haven affondasse, l’incendio esaurì la maggior parte del petrolio che aveva a bordo. Il bilancio fu comunque pesantissimo: oltre mila tonnellate di greggio finite in acqua, i fondali di quel tratto di Mar Ligure tuttora privi di vita. Bisogna infatti considerare che i danni ambientali provocati da questi disastri tendono a protrarsi nel tempo. Sono ferite che è molto difficile rimarginare, forse addirittura impossibile. Essendo più leggero dell’acqua, il petrolio forma una pellicola superficiale che impedisce l’ossigenazione in
profondità. Questo comporta la morte del plancton, l’anello iniziale della catena alimentare. Il piumaggio degli uccelli intriso di greggio perde la sua funzione termoprotettiva e gli animali muoiono per ipotermia. Inoltre cercano di rimuovere quella fanghiglia col becco ingerendo petrolio. A volte squadre di volontari si adoperano per salvare il salvabile, cercando di portar via il greggio che ricopre spiagge e scogliere o di ripulire gli animali sottraendoli a una fine atroce, ma è come lottare contro un nemico invincibile. Inoltre c’è un rapporto inaccettabile fra la permanenza del danno e la rapida tendenza a dimenticarlo. Così come troppo facilmente si dimentica che i ricorrenti disastri in mare dovrebbero affiancarsi alla ragione principale, l’eccesso di emissioni di gas a effetto serra, per ridurre il più possibile l’uso dei combustibili fossili. Per limitare gli effetti di queste ferite inferte all’ecosistema ci vogliono anni di costosissime operazioni di bonifica. Intanto il trasporto intercontinentale del greggio non cessa di mettere a rischio l’ambiente, navi a volte prive della precauzione del doppio scafo continuano a solcare i mari, i cantieri di mezzo mondo sfornano superpetroliere sempre più grandi. Aggrediti anche dalle plastiche, gli oceani si avvicinano al punto di non ritorno oltre il quale, nonostante gli apporti idrici dovuti al surriscaldamento che minacciano isole e litorali ma almeno diluiscono i veleni, non potranno più rigenerarsi. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 21 febbraio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
ATTUALITÀ
In vendita il giornale di famiglia?
Italia ◆ Secondo «La Stampa» di Torino, è imminente la cessione del «Giornale» fondato da Indro Montanelli da parte del clan Berlusconi – Si chiude un’epoca che ha segnato la politica e il giornalismo della penisola Alfio Caruso
Era il giugno . Nell’albergo vicino alla stazione Centrale di Milano si palesò all’ora di pranzo un elegantone con le scarpe dal tacco smisurato, i capelli lunghi fino alle spalle a compensare quelli mancanti sul cranio. Si chiamava Silvio Berlusconi: nella piccola folla d’invitati a festeggiare il terzo genetliaco del «Giornale», lo conoscevano soltanto il direttore-fondatore Indro Montanelli e pochissimi altri. Berlusconi aveva appena rilevato il per cento delle quote azionarie, fin lì detenute, in misura diversa, dai cinquantaquattro giornalisti. Alla nascita del «Giornale» Montanelli aveva voluto ripetere la formula del parigino «Le Monde» con l’azionariato diffuso fra i redattori. Gli era servito per offrire un’attrattiva in più a quanti lasciavano un posto sicuro, la pattuglia più rilevante giungeva dal «Corriere della Sera», per correre un’avventura, che veniva pronosticata di pochi mesi. Un banchiere aveva presentato Berlusconi a Montanelli. Il quarantenne Silvio cominciava a crescere nella Milano dei re di denari grazie alla mega operazione immobiliare di Milano , super residenza per ricchi con laghetto incorporato e servizio di sorveglianza. Montanelli era invece alla ricerca di finanziatori per la sua creatura: la Montedison, il gigante pubblico della chimica che ne aveva consentito l’iniziale sopravvivenza con miliardi di lire garantiti per tre anni dalla pubblicità, aveva battuto in ritirata per la fuga dall’Italia del suo dominus, Eugenio Cefis. Berlusconi aveva annusato la possibilità di balzare finalmente sul proscenio. In quel modo era incominciata la sua avventura nell’editoria: un anno dopo sarebbe seguito l’acquisto di Tele Milano , all’epoca la rete via cavo di Milano , presto trasformata in Canale , e il resto, dalla compera delle altre emittenti alla compera della Mondadori, lo trovate ormai nei libri di storia. Il «Giornale», adesso formalmente del fratello Paolo, è stato sempre de-
25 giugno 1974, Indro Montanelli sfoglia la prima edizione de «il Giornale». (Keystone)
finito da Berlusconi il quotidiano di famiglia dall’incalcolabile valore sentimentale. Il valore economico, viceversa, dev’esser stato calcolato, se nel mondo dei media si dà per avvenuta la cessione ad Antonio Angelucci, l’ex portantino abruzzese divenuto il monarca della sanità romana e già proprietario di due altre testate, il «Tempo», che si edita a Roma, e «Libero», che si edita a Milano. Nei piani di Angelucci, da alcune legislature deputato di Forza Italia, dovrebbe formarsi un polo della stampa moderata con riflessi sugli introiti pubblicitari e anche sui costi accorpando un bel po’ di servizi. Sembra che a spingere Berlusconi, e più ancora i figli Marina e PierSilvio impegnati nella gestione della holding, siano stati i costi e i debiti del «Giornale», coinvolto nella debacle italiana delle vendite in edicola. Dalle mila copie dei tempi d’oro alle mila attuali con pochissimo supporto dagli abbonamenti sul digitale. Tutto il contrario di quanto accaduto al «Corriere della Sera» precipitato da
mila copie a mila, ma con quasi mila abbonamenti digitali. Il crollo delle vendite, e conseguentemente dei ricavi pubblicitari, ha comportato per il «Giornale» l’impossibilità di tenere i conti in ordine, malgrado i giornalisti siano stati ridotti a poco più di un terzo. In ogni caso finisce una simbiosi che ha caratterizzato le vicende nazionali degli ultimi quarant’anni. Berlusconi difatti acquisì la maggioranza sostanziale del «Giornale» nel : sborsando circa miliardi di lire (, milioni di euro) rilevò un altro , per cento del capitale con opzione sul restante. Al momento della firma Montanelli tenne a precisare: «Tu sei il proprietario, io sono il padrone almeno fino a che rimango direttore. La vocazione del servitore non ce l’ho». Per meglio esplicitare il proprio ruolo, Montanelli usò spesso il «controcorrente», la velenosa rubrica di poche righe e di maggior successo. Ci pizzicava gli amici politici di Berlusconi o quelli che domandavano una maggiore attenzione: la vittima per
eccellenza divenne l’allora segretario della Democrazia Cristiana, Flaminio Piccoli. Berlusconi si rassegnò a non avere voce in capitolo sulla prima pagina, in cambio, pretese campo libero nelle pagine della televisione e degli spettacoli. Nella sua sfera d’interesse erano infatti entrati anche il teatro e il cinema. Sul palcoscenico del Manzoni l’avevano folgorato le grazie straripanti della giovanissima Veronica Lario. In un nugolo di fidanzate ne fece la compagna stabile. Venne ingaggiata, strapagandola, Lina Wertmüller perché le cucisse addosso un film. Nell’ uscì Sotto…sotto… strapazzato da anomala passione con musiche di Paolo Conte, protagonista maschile il comico di maggior successo del momento, Enrico Montesano. Il «Giornale» aveva purtroppo l’abitudine di dare voti e pagelle agl’interpreti dello spettacolo. Sogghignando Montanelli aveva sibilato: «Ragazzi miei, qui vi voglio. Con la fiamma del Berlusca ve la sbrigate voi». Alla vigilia della prima il critico cinematografico si
dette malato, mentre il vice si rese irreperibile. Fu necessario ricorrere al sorteggio per trovare chi firmasse recensione e pagelle. La Wertmüller aveva girato la pellicola, un poco plausibile amore omosessuale tra due donne, con la mano sinistra: il prodotto era mediocre, i voti oscillarono tra e (note italiane). A parte queste eccezioni legate al talamo, l’interesse di Berlusconi stava ovviamente concentrato sulle pagine televisive. Il suo disinteressato suggerimento era di parlare benissimo dei programmi di Canale, Rete e Italia, le tre reti della real casa, e malissimo dei programmi della Rai. Non ebbe partita vinta, ma alla lunga il responsabile della redazione preferì dimettersi. Questi guidava anche lo sport e Berlusconi, assurto pure a presidente del Milan, aveva spiegato che se la squadra avesse vinto il merito sarebbe stato dei consigli da lui dati all’allenatore Liedholm, mentre se avesse perso la colpa sarebbe stata di Liedholm, che non aveva ascoltato i suoi consigli. E si era pure stupito nel vedere disattesa tale lapalissiana verità. In pochi anni Berlusconi conquistò alla causa aziendale alcuni dei principali collaboratori di Montanelli. La rottura maturò incomprensione dopo incomprensione, compreso il rifiuto del secondo di essere seppellito nel mausoleo preparato dal primo dentro la residenza di Arcore («Domine, non sum dignus», la sua frase). La spinta conclusiva giunse dalla discesa in politica di Berlusconi nel ’ con Montanelli nettamente contrario. A differenza della vulgata corrente, Berlusconi non aveva alcuna intenzione di trattenere Montanelli: per lui rappresentava un ostacolo alle sue ambizioni. Il grande Indro colse la palla al balzo per rimarcare che lui sotto padrone non lavorava. Morendo nel si è almeno risparmiato la metamorfosi del foglio editato per ospitare, tra gli altri, Aron, Ionescu, Pelikan, Burgess e finito a parlar bene di tanti impresentabili. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 21 febbraio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
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ATTUALITÀ / RUBRICHE ●
Il Mercato e la Piazza
di Angelo Rossi
Una svolta nelle pratiche del pendolarismo ◆
I pendolari sono quei lavoratori che svolgono la loro attività lavorativa in un comune diverso da quello nel quale sono domiciliati. Con il diffondersi della motorizzazione privata, a partire dall’inizio degli anni Cinquanta dello scorso secolo, l’importanza dei loro flussi non ha fatto che aumentare. Detto questo occorre precisare che i flussi in questione concernono solamente i lavoratori domiciliati in Svizzera. I frontalieri che, oggi, rappresentano di fatto la componente più importante del pendolarismo, vengono, nelle statistiche, considerati a parte. Difficile quindi farsi un’idea precisa del numero di lavoratori che giornalmente lasciano il proprio comune, nel cantone, in un altro cantone o in un comune della fascia di frontiera italiana, per andare a lavorare in un altro comune del canton Ticino. Difficile? Non proprio. Per farsi un’idea della consistenza di questi flussi
basta in effetti percorrere una strada del Sottoceneri o salire su un treno suburbano che congiunge il Sottoceneri con il Sopraceneri in un’ora di punta. Sappiamo che il pendolarismo è una delle pratiche che generano i maggiori costi sociali nel cantone. Questi vengono misurati come ore di lavoro andate perse che i pendolari, a causa delle difficoltà del trasporto, accumulano, all’andata, nel corso dell’anno, o delle ore di tempo libero che gli stessi perdono, al ritorno, per la stessa ragione. Agli stessi occorrerebbe aggiungere anche i costi generati dalle immissioni provocate dal traffico di automobili. Nel corso degli ultimi anni sembra che la tendenza all’aumento della quota di pendolari nel totale degli occupati si sia bloccata. La pandemia del Covid potrebbe addirittura aver avviato un processo di riduzione della stessa. Questo almeno se le opi-
nioni che emergono da ricerche svolte recentemente dovessero affermarsi anche tra gli impiegati del settore terziario del nostro cantone. Per esempio un’inchiesta tra gli impiegati, svolta da Mc Kinsey nel gennaio del , a livello mondiale, ha messo in luce un vero cambiamento di opinione. Prima della pandemia di Covid il % degli impiegati interrogati si erano espressi per un esercizio della loro attività nell’azienda che li impiegava e solo l’% per lavorare a casa. Dopo l’inizio della pandemia, quando quasi tutti gli interrogati avevano potuto fare almeno una breve esperienza di «home-office», la quota di coloro che continuavano ad esprimersi per esercitare la loro attività in azienda era scesa al %, mentre quella di coloro che volentieri avrebbero continuato a lavorare a casa era salita al %. Il terzo gruppo di partecipanti all’inchiesta si era espresso per un’attività mista, in
azienda e a domicilio. Notiamo che, dopo l’inizio della pandemia, questo gruppo era diventato maggioritario. La sua quota era infatti salita dal al %. Ovviamente ci si può chiedere se questo cambiamento continuerà a manifestarsi anche una volta che la pandemia sarà terminata. Gli esperti pensano di si. È tuttavia evidente che l’evoluzione del lavoro a domicilio dipenderà largamente anche dall’opinione dei responsabili delle aziende. Ora, in una seconda inchiesta, del maggio del , Mc Kinsey è proprio andato a chiedere l’opinione dei capi-azienda. A loro è stato chiesto quale poteva essere la durata ideale della presenza degli impiegati in azienda. L’interrogato poteva scegliere tra una delle seguenti tre varianti: , , o più giorni. Mentre prima della pandemia i capi-azienda si pronunciavano, in modo quasi unanime, per una settimana di lavoro in azien-
da (% del campione), dopo l’inizio della stessa questa quota era calata al %. Un po’ più di un terzo dei capi-azienda (%) poteva ora concepire di ridurre la presenza degli impiegati in azienda a giorni. Un % accettava addirittura una presenza di soli giorni in azienda. Difficile dire quali sono i fattori che possono influire sull’opinione degli impiegati e dei capi-azienda rispetto alla presenza in ufficio o al lavoro a casa. Secondo noi, tuttavia, uno di questi fattori potrebbe essere però la durata del trasferimento tra casa e posto di lavoro. In paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti dove percorsi pendolari della durata di due e più ore non sono rari è probabile che la quota dei pendolari e anche dei capi-azienda che si esprimono per lo «home-office» sia nettamente più elevata che in paesi come la Svizzera dove la durata del percorso dei pendolari non supera, di solito, i minuti.
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Affari Esteri
di Paola Peduzzi
Una questione di leadership ◆
«Non ho alcuna intenzione di andarmene, penso di aver guidato negli ultimi cinque anni una sostanziale riforma della Polizia metropolitana di Londra», ha detto Cressida Dick la mattina del febbraio, in un’intervista alla Bbc. Poche ore dopo, la Dick, che è il capo della Metropolitian Police (Met) inglese dal dopo una lunga carriera interna (è sempre stata una poliziotta), è stata convocata dal sindaco di Londra, il laburista Sadiq Khan, che supervisiona il lavoro della polizia nella capitale. Ma la Dick non si è presentata e, anzi, si è dimessa, «con grande rimpianto e tristezza»: la fiducia nella mia leadership, ha detto, è stata messa in discussione e infine si è incrinata in modo irreparabile. La Dick ha esplicitamente detto che a perdere la fiducia in lei è stato il sindaco Khan, e in parte aveva ragione: il ministro dell’Interno, Priti Patel, che ha il compito di nominare il capo della Met e che aveva prolungato qualche
settimana fa di altri due anni l’incarico della Dick, non era stata avvertita, e pare che se la sia un po’ presa. Ma a parte i disequilibri politici, Cressida Dick aveva perso la fiducia di buona parte dell’opinione pubblica. Prima donna e prima omosessuale a guidare la polizia inglese, era stata nominata nel con un ampio consenso soprattutto per ciò che rappresentava: l’ambizione di un nuovo modo di controllare la città. Aveva cominciato come «bobby» nel , poi aveva cominciato la sua carriera dentro alle istituzioni, con il suo modo calmo, rassicurante e aggraziato, capace di trovare la sintesi tra i simboli – apertamente gay, la sua compagna lavora nella Polizia – e l’esperienza. Nel , la Dick era a capo della unità di antiterrorismo che uccise per errore un uomo brasiliano, Jean Charles de Menezes, che fu preso per un attentatore suicida pur non essendolo. Erano gli anni degli attentati, l’allerta
e la paranoia anche erano ai massimi, la Dick riuscì a gestire quella crisi con molta abilità, mantenendo la fiducia dei leader politici che videro in lei una prospettiva per il futuro. Da quando quella prospettiva è diventata realtà, con la nomina nel , è cominciato il disastro. Non si può imputare alla Dick tale disastro, ma l’incapacità di correggerlo ed emendarlo sì. Il caso che ha travolto la sua credibilità è stato l’assassinio di Sarah Everard, trentatré anni, per mano di un poliziotto. Wayne Couzens, dipendente della Met, ha aggredito, rapito, stuprato e ucciso Sarah mentre lei stava tornando a casa dopo una cena da amici. Couzens ha strangolato Sarah con la cintura della sua uniforme d’ordinanza e ha cercato di occultare il cadavere dentro a un frigorifero. Nei giorni successivi all’omicidio, la polizia è intervenuta per vietare o contenere delle manifestazioni organizzate per Sarah: in piazza c’era-
no soprattutto donne, che denunciavano Couzens, ma anche la Dick. A dicembre, due poliziotti sono finiti in prigione per aver fatto dei selfie con i cadaveri seminudi di due sorelle ammazzate e per averli condivisi con altri colleghi su Whatsapp. Altri cinque poliziotti, di cui tre a Londra, sono stati espulsi per aver scambiato materiale razzista e misogino con lo stesso Couzens, nel . Un paio di settimane fa, è stato pubblicato il rapporto di un’inchiesta interna della polizia: riguardava fatti accaduti nel , in varie stazioni di polizia nel paese, ed è quasi impubblicabile per quanto è brutale e crudele. La Dick ha cercato di affrontare questa crisi permanente in due modi: isolando i casi come «mele marce» e attuando delle riforme interne per eliminare sul nascere, con una formazione più attenta, le derive razziste, omofobe e misogine dentro alla forza di polizia. Nessuna delle due strategie
ha funzionato: l’opinione pubblica si è convinta, in una stagione in cui i poliziotti sono sotto accusa anche altrove, che non si trattasse di mele marce ma di esponenti di una cultura che aveva preso piede nella polizia inglese. E le riforme sono andate avanti in modo altalenante, di pari passo con la mancanza di fiducia in Cressida Dick. La percezione pubblica ha vinto sulla volontà della politica che avrebbe voluto continuare il suo investimento sulla Dick. Ma anche la politica, in questo momento, nel Regno Unito soffre di una assenza di credibilità, a causa dello scandalo delle feste a Downing Street, la sede del premier Boris Johnson, ma non solo. La Dick ha pagato le aspettative alte, il suo primato e il simbolismo che da sempre accompagna la sua carriera, ma per quanto molti dicano: da una donna ci aspettavamo che la misoginia fosse debellata, questa non è una faccenda di gender, è una questione di leadership.
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Zig-Zag
di Ovidio Biffi
Ascoltando il suono delle sirene ◆
Il tiepido pomeriggio mi invita a uscire sul balcone dove vengo sorpreso dalla prova delle sirene: stesso giorno, stessa ora, stesse modulazioni e in pochi minuti viene verificato che siano operanti in tutti i comuni della Svizzera. Anche le sirene della Protezione Civile fanno parte del nostro immaginario collettivo e sono un’emblema della «svizzeritudine». Non perché ci ricollegano con l’uso dei corni in auge ancora oggi sugli alpeggi o di quelli dei nostri primitivi su palafitte o nelle caverne, ma in primo luogo perché con il loro servizio ci offrono una prova di come il nostro ordinamento costituzionale continui a funzionare. Inoltre, anche se il suono delle sirene è rapportabile a pericoli ed emergenze, esso conferma quanto importante siano certezza e veridicità di un messaggio che riguarda sì il singolo, ma anche tutta
la popolazione. Sembra anacronistico che nel terzo millennio il semplice suono delle sirene conservi ancora l’efficacia di un sistema di allarme, in grado non solo di allarmare, ma anche di ricordare alla popolazione che basta poco per trovarci di fronte a catastrofi o emergenze causate dalla natura o da altri inattesi eventi. Tanto che qualcuno vorrebbe che si studiasse il passaggio dal suono delle sirene ad allarmi digitali sfruttando internet e la rete degli smartphone che praticamente tutti hanno in tasca. Ma alla fine prevale la continuità: meglio le sirene, perché gli allarmi digitali suggerirebbero in chi li riceve sorpresa più che sicurezza, istillando in tutti il dubbio di qualche sbaglio o magari di un «fake qualcosa» inviato da chissà chi per confonderci. Finite le prove, getto uno sguardo sulla strada sottostante a una delle
cassette delle lettere de La Posta disseminate nei quartieri di Massagno. Non che mi diverta a curiosare tutto il giorno chi la usa, ma ammetto che, vedendo chi arriva a piedi, in motorino o in auto per affidare la sua corrispondenza a quella bucalettere, sovente attira la mia attenzione. Svaghi banali di un pensionato che ogni tanto sprigionano anche qualche grammo di orgoglio, come quando penso ai destinatari di quelle missive, contenti o soddisfatti (non importa se con abitudinaria disattenzione) che il servizio postale sia ancora efficiente. Una conferma l’ho avuta alcuni mesi fa dal mio sodale di Cham, sorpreso di ricevere al mattino la pagina di un giornale che gli avevo indirizzato il pomeriggio precedente, dopo avergli menzionato un articolo durante un colloquio telefonico: «Bello vedere che la Svizzera funziona sempre»
mi disse. Sarà così anche nell’immediato futuro? Me lo sto chiedendo da qualche settimana, da quando ho scoperto qualcosa che mi ha contrariato. Dovendo spedire una lettera sono sceso in strada per imbucarla e, alzando lo sportellino della cassetta, ho notato che l’ora di ritiro della corrispondenza, da tempo immemore serale e fissata alle ., ora presentava un mattiniero .. Calcolo obbligato e sbalordimento: cavolo, la mia lettera ora rimane in questa buca per ore e sarà recapitata se va bene solo fra due giorni! Infatti una scritta al centro della cassetta spiegava che chi vuole che la corrispondenza parta il giorno stesso dovrà ora rivolgersi alla filiale. In altre parole, «qualcuno» – a Berna, o Dagmersellen, o da qualche altra parte – deve aver deciso che il servizio pubblico per le cassette delle lettere periferiche de La Po-
sta doveva cambiare. Volendo tentare una giustificazione opterei per questa versione «bernese»: il governo federale ha dimezzato a soli centesimi l’aumento richiesto per le tariffe di «Posta A»? Noi per risparmiare eliminiamo il servizio serale delle cassette periferiche, tanto una passeggiata fino alla più vicina (o meno lontana) delle nostre filiali farà bene all’utente. Lasciando il balcone mi balena una domanda maligna: ci saranno mai allarmi, se non proprio sirene, in grado di allertare soprattutto gli anziani sui pericoli di questi «risparmi unilaterali» imposti nell’ambito di «miglioramenti presunti» dei servizi pubblici («Ci troviamo anche noi davanti al fatto compiuto» mi ha confessato una buralista a cui chiedevo lumi sulle cedole di versamento con codice digitale, studiate per aiutare… le banche)?
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 21 febbraio 2022
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Ricordando Remo Beretta Riscoprire il capolavoro I giorni e la morte a cento anni dalla nascita del suo autore
Saggia anzianità L’arte della vecchiaia nelle opere e nel modo di vivere del compositore tedesco Richard Strauss
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A Berlino con l’Orso Anche alcuni svizzeri tra i premiati della prestigiosa kermesse cinematografica
Sovversioni romande Inclusività, ribellione, musica e tanto futuro all’edizione 2022 del Festival Antigel
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Mario Sironi, sintesi e grandiosità Mostre
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Più di cento opere regalano una lettura inedita dell’uomo e dell’artista
Ada Cattaneo
Leggendo la vicenda di Mario Sironi sembra di potere scorgere una persistente tensione, che ritorna nelle tante fasi della sua vita, fra senso del rigore ed esigenza di libera espressione artistica. A sessant’anni dalla morte il Museo del Novecento di Milano ne ripercorre il percorso artistico con opere estremamente eterogenee, in grado di raccontare il continuo lavoro di ripensamento che egli ha svolto sulla propria poetica. Emerge chiaro il suo personale modo di aderire e al contempo distanziarsi dalle molte correnti artistiche che hanno determinato la scena italiana nella prima metà del Novecento, dal Futurismo alla Metafisica, da Novecento alla pittura monumentale. Fin dagli anni della formazione, prima nella nativa Sardegna e poi a Roma, quella tensione si intravede già. Quando il padre ingegnere avrebbe desiderato la stessa strada di studi tecnici per il figlio, sarà una forte crisi depressiva – episodio non isolato – a impedire che le cose vadano come previsto. Sironi si trova così a dovere fare i conti con le sue inclinazioni artistiche. Si iscrive alla Libera accademia del nudo di Via Ripetta a Roma: qui avviene l’incontro con Giacomo Balla che sarà il suo maestro e che segnerà in maniera determinante l’esordio di Sironi nell’arte figurativa. Balla aveva avuto modo di trascorrere un lungo periodo a Parigi e di raccogliere le novità artistiche che andavano affermandosi nella capitale francese: era il e la città stava diventando la meta prediletta dagli artisti. Si stava allora determinando quell’irripetibile costellazione di nomi che di lì a poco avrebbe dato luogo alle Avanguardie. Balla riporterà per esempio in Italia le novità nel campo della fotografia e le riflessioni sulla percezione del colore avvenute nell’ambito del Divisionismo, recepite anche dal suo allievo. Dal infatti Sironi frequenta Balla anche al di fuori del contesto scolastico: nel suo studio incontra anche Gino Severini e Umberto Boccioni. Eppure, di lì a poco, nel non sarà fra i firmatari del Manifesto del Futurismo: pur accogliendo molti spunti stilistici e frequentando quello stesso mondo, l’estetica di Sironi ha delle radici profonde nella classicità. Spesso questa si ritrova anche in termini di soggetti, ma soprattutto di armonia delle forme nella rappresentazione del corpo umano: la scultura greca, con la riflessione sulle proporzioni che essa comporta, sarà sempre fra le sue grandi passioni. Il culto della perfezione antica, invece, non è certo contemplato da Marinetti e dagli altri che scrivono: «Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli! Perché dovrem-
mo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri». Sironi partecipa alla Prima guerra mondiale, dal al , combattendo in prima linea. L’esperienza lo porterà a modificare in maniera sostanziale la sua idea di uomo soldato, passando dalla rappresentazione di un eroe intrepido a quella di un individuo che è al contempo vittima e fautore di strazio e distruzione. Al termine del conflitto, rientrando a Roma viene per la prima volta in contatto con la Metafisica, influsso che determinerà il suo lavoro degli anni Venti e ancora negli anni Trenta. Subito però decide di spostarsi a Milano, che tanto lo attrae: per quanto la città sia spigolosa e dura, costringendolo almeno inizialmente a condizioni di grande povertà, è un luogo di profonda ispirazione. Ci arriva solo, lasciando per ora la famiglia a Roma: è un autore noto ancora solo fra la ristretta cerchia degli amici, che non può contare su di un proprio mercato di collezionisti e fatica a mantenersi. Eppure è proprio dall’osservazione e dalla permanenza a Milano che nasceranno i «Paesaggi urbani», fra le produzioni più famose di Sironi. Periferie quasi deserte dove l’autore si concentra sulla descrizione delle strade vuote e degli edifici, diventati semplici volumi geometrici, vere presenze in grado di comunicare il senso di tutto ciò che è assente. Proprio come avviene nella Metafisica, resta familiare solo la corporeità delle cose, mentre il ruolo e il senso sembrano all’improvviso del tutto ignoti. Sironi ha compreso che è proprio Milano il luogo del fermento culturale più stimolante di quegli anni. Qui trova Tommaso Marinetti, fondatore e teorico del Futurismo, e anche un’altra figura per lui determinante. Margherita Sarfatti, intellettuale e critica d’arte, per Sironi avrà sempre una speciale considerazione, sostenendolo anche economicamente ogni qual volta sia necessario. Sarà lei nel a presentarlo a Mussolini, grazie al quale ottiene dapprima l’incarico di disegnatore per il «Popolo d’Italia», organo ufficiale del Partito fascista, e in seguito quello di illustratore principale de «La Rivista illustrata del Popolo d’Italia». In questa veste, nonostante Sironi venga da qualcuno considerato autore reazionario e poco incline al rinnovamento, si distingue per un approccio alla grafica molto moderno, affiancato da autori come Munari e Depero. Sono questi gli anni della nascita di Novecento, il movimento nato nel che propone un’estetica del ritorno all’ordine e una moderna classicità che permetta di superare gli «eccessi» raggiun-
Mario Sironi, Il camion giallo, 1919. (© by SIAE 2021)
ti dalle Avanguardie. Eppure, privatamente abbandona presto gli ideali classicheggianti finendo per imbattersi in una crisi di stampo espressionista, probabilmente dovuta anche alla scoperta di autori come Rouault e Kokoschka. Di lì a poco si sarebbe allontanato dalla pittura da cavalletto, dedicandosi invece alle opere murali: mosaici, rilievi e dipinti di grande formato. Soprattutto per questa sua attività viene oggi ricordato a livello internazionale. Si tratta di un genere estremamente connotato politicamente. L’idea è infatti di creare opere più orientate alla comunità, accessibili a un numero molto più ampio di quanto avverrebbe per esempio con una tela di piccolo formato, fruibile solo a chi può permettersi di acquisirne una per la propria collezione. Elena Pontiggia, che da anni studia le vicende di Sironi, racconta che di fronte a questa nuova deriva il suo gallerista Vittorio Barbaroux arrivò addirittura a fargli
causa, stanco di vedere l’artista produrre un numero tanto esiguo di opere vendibili, peraltro sempre renitente alla partecipazione alle mostre, anche alle più importanti, come la Biennale di Venezia. Pur essendo ospitate in edifici pubblici commissionati in epoca fascista, le opere murali non sono mai davvero delle opere di propaganda: il suo stile non è mai realista e non si presta a una rappresentazione ideologica e il suo senso dell’arte prevale sulle esigenze di partito. Se la prima parte della mostra di Milano è dedicata alle pitture su tela nei molti periodi della sua produzione, l’allestimento si conclude proprio con le opere murali. Sironi realizza il murale nell’aula magna della Sapienza a Roma, il mosaico che oggi è visibile sulla facciata del Palazzo dei Giornali di Milano, ma anche quello per il Palazzo di Giustizia della città progettato da Piacentini. Sono forse proprio queste le stanze più interessanti della mostra.
Eppure negli anni ’ Sironi dovrà tornare a opere di formato più piccolo: lo Stato è al collasso e non è certo più in grado di commissionare opere. Per Sironi, che non nasconderà mai la propria adesione al Fascismo, si tratta di una crisi artistica e politica. Alla fine della guerra, per una curiosa quanto fortunata coincidenza, sarà Gianni Rodari, allora partigiano, a salvarlo dalla fucilazione: pur non conoscendolo di persona, quando vede nella lista dei condannati a morte il nome del celebre pittore, intercede per salvare quell’artista tanto combattuto quanto fondante per la stagione artistica del primo Novecento. Dove e quando Mario Sironi. Sintesi e grandiosità, Museo del Novecento, Piazza Duomo 8, Milano. Orari: ma-meve-sa-do 10.00-19.30; gio 10.0022.30. Fino al 27 marzo 2022. www.museodelnovecento.org
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 21 febbraio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
CULTURA
Remo Beretta, scrittore riservato e sublime
Blob, sempre attuale e necessario
Pietro Montorfani
Marco Züblin
Anniversari ◆ Nasceva cento anni fa a Leontica l’autore di I giorni e la morte, romanzo rimasto nei cassetti per decenni
Inizio, se posso, tirando un po’ di acqua al mio mulino, o meglio a quello di una piccola istituzione culturale che festeggia proprio in questi giorni i suoi primi anni di vita, e che mi sono ritrovato tra le mani senza tanti meriti nell’oramai lontano : la rivista (e le edizioni) «Cenobio». Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, sulla testata fondata da Pier Riccardo Frigeri e condiretta all’epoca da Piero Chiara si pubblicavano i contributi più diversi, a proposito di letteratura, cinema, filosofia, non senza qualche chicca come, nella primavera del , la prima traduzione italiana di Ex Ponto di Ivo Andrić, Premio Nobel da pochi mesi. Gli scritti di autori di casa la facevano naturalmente da padrone ed è in quel contesto che nel fascicolo di maggio, in bella posizione proemiale, si offriva ai lettori il racconto Antivigilia di Pasqua, firmato da un misterioso quanto sconosciuto «Martino Della Valle». Che il soprannome non nascondesse chissà quali segreti era dichiarato in una nota in calce: «pseudonimo adottato per questo e prossimi lavori. Remo Beretta». Nato a Leontica nel , docente di formazione, Beretta aveva già pubblicato sin lì alcune traduzioni poetiche (da Eliot, Keats, Goethe,…), un fortunato saggio su Mario Luzi e molte pagine di critica d’arte, dedicate per lo più ad artisti contemporanei come Ubaldo Monico, Giovanni Genucchi, Gualtiero Genoni e Filippo Boldini. Quell’esordio nell’ambito della narrativa non sarebbe stato isolato: nel breve volgere di pochi mesi «Cenobio» ospitò ben nove prose di Martino Della Valle, di cui sette furono raccolte in volume nel dalla medesima casa editrice. Alle pagine di Beretta – così fitte di riferimenti alla realtà locale nonostante lo schermo di un periodare complesso, analitico, di non immediata comprensione – sotto il cappello «Paese mio» fecero seguito numerosi interventi di scrittori ticinesi di quella generazione, da Mario Agliati a Giovanni Bonalumi, da Giorgio Orelli a Giuseppe Curonici e molti altri. La Svizzera italiana aveva ripreso a riflettere su sé stessa attraverso lo strumento prezioso della letteratura.
Remo Beretta in Leventina nei primi anni Sessanta.
Nessuno sapeva che al momento di pubblicare i suoi racconti Beretta aveva già ultimato un romanzo folgorante, significativamente intitolato I giorni e la morte, ispirato alla malattia del giovane fratello Sandro, pure lui un valido scrittore (sua la raccolta postuma Era nato in casa d’altri, Gesù, , poi rinominata L’aria dal basso, Casagrande, e ). Fedele a un’esistenza schiva e priva di eventi maggiori, Remo Beretta continuò la sua attività di docente, al ginnasio prima e al liceo poi, fino all’età del pensionamento, non senza pubblicare qui e là altri interventi critici e nuove traduzioni (principalmente in dialetto), e tenendosi però ben stretto il dattiloscritto di questo capolavoro, la cui esistenza era nota soltanto ad alcuni amici come Gilberto Isella, Manuela Camponovo e Fabio Soldini. Soltanto sul finire della propria vita si convinse ad anticiparne alcuni capitoli in rivista, demandando alle figlie la decisione sulla sua pubblicazione integrale. A trattenerlo era stato soprattutto il timore di urtare la sensibilità di alcune delle persone cui il romanzo aveva dato magistralmen-
te corpo e voce, con una tecnica polifonica simile a quella di un Giovanni Verga trapiantato nel Ticino di metà Novecento. Scomparso Beretta nel , I giorni e la morte uscì finalmente nel da Armando Dadò, per le cure della nipote Sofia Marazzi e con una bella introduzione di Soldini. Chi ha avuto la pazienza di leggerlo dall’inizio alla fine, con tutta l’attenzione che merita, non può che essere giunto alla mia stessa conclusione: si tratta di un carico da novanta, di quelli che appaiono raramente in un ambito circoscritto come quello della letteratura svizzera di lingua italiana. Rimasto nel cassetto per cinquant’anni, evidentemente non ha potuto agire – in termini di sedimentazione culturale e ispirazione sulla produzione successiva – come è invece accaduto ad altri piccoli capolavori quali L’anno della valanga di Giovanni Orelli, Il fondo del sacco di Plinio Martini o Albero genealogico di Piero Bianconi. Ma anche così, con questo ritardo un po’ artificioso, è inevitabile che finirà per lasciare il segno. Il tempo ne decreterà il giusto valore.
Smart TV ◆ Punti forti di un programma che è un po’ porto cacofonico, un po’ spazio riflessivo
Tra le cose buone viste (penso anche al bel colloquio con Luciano Canfora, in Quante storie Rai del settembre, appena replicato), parliamo di qualcosa di vecchio, addirittura di antico, ma che sembra sempre fresco come un ovetto di giornata; quindi merita che se ne parli ogni tanto, una specie di atto piacevolmente dovuto, e che lo si riveli a qualche giovane utente, o lo si rammemori a qualche distratto. Sto parlando di Blob, che dal produce ogni giorno editoriali in immagine su eventi di attualità, con una puntualità e una adeguatezza che sorprendono sempre; un programma assai paradossale, che replica apparentemente la modalità un po’ isterica e volubile della fruizione televisiva dopo l’odiosamata invenzione del telecomando. Paradossale perché nel rincorrersi di spunti da fonti diverse, sovrapposte e a prima vista disorganizzate, costruisce una drammaturgia unitaria per il tramite dell’immagine e offre chiavi di lettura «politica» del reale, e quindi stimoli per una riflessione di respiro ben più ampio. Con qualche perla che allude alla patologica genialità dei curatori che si alternano al montaggio, curatori che intuiamo vagamente monomaniaci consumatori – e organizzatori intelligenti ed enciclopedici – di materiali visivi; i rinvii sono sempre precisi, puntuali, spesso poetici ed emotivamente coinvolgenti (penso alle immagini della tragedia dei migran-
ti o, si parva licet, al «Tutu» di Miles Davis regalatoci qualche settimana fa alla memoria del grande statista scomparso). Insomma, un cacofonico porto di quiete e spazio di riflessione costruito nell’accumulo e nella giustapposizione non casuale di stimoli visuali e auditivi diversi; che ci dice, con una sua forza tranquilla, come sia possibile anche in questi tempi un po’ stupidi e ciechi essere resilienti, essere seri e attenti, prendersi il tempo per cavalcare l’onda senza farsi sommergere, anzi trovando in essa la forza di resistere e di affermare il tempo antico, lento e giusto del pensiero. La proposta ha una evidente, onesta e conclamata, impronta «ideologica», ma va bene così; meglio di certo un programma che ci interroga offrendosi senza infingimenti né conclamata (e disattesa) obiettività, per farsi un’opinione propria nel confronto e nella dialettica, piuttosto che la melassa indistinta e illeggibile – e comunque «ideologica» anch’essa – che un po’ ci ammorba dei palinsesti. È anche un modo curioso, obliquo e appunto paradossale, per permetterci di riappropriarci dei fatti, del reale «vero» (qui Kant mi perdonerà…), nell’epoca della loro scomparsa e sostituzione con narrazioni strumentali che si accampano con apodittica violenza come realtà alternative (e qui ci sta un consiglio gratis: guardatevi Dont’ Look Up apologo disincantato e ironico, e istruttivo, sulla società dei media e del fake).
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 21 febbraio 2022
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CULTURA
Richard Strauss e l’arte della vecchiaia Musica
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Ritratto del compositore che fu compiacente con il regime nazista e abile comunicatore
Carlo Piccardi
Nei suoi ottantacinque anni di vita Richard Strauss si trovò a essere testimone dell’ascesa e della caduta della Germania, dapprima come affermazione e scomparsa dell’impero bismarckiano, poi come sopraffazione del potere da parte di Hitler e della relativa disfatta. Contemporaneamente – sul versante estetico – egli si trovò investito dalla rivoluzione dei musicisti radicali che, da un giorno all’altro, relegarono un «moderno» come egli era stato alla condizione di esponente conservatore della tradizione. In verità, impegnato fino alla fine nelle strutture musicali istituzionali, aggrappato alla necessità di fare della sua musica un messaggio integrato alla vita sociale, il compositore bavarese subì senza sottrarvisi tutte queste accelerazioni in un difficile equilibrio tra le ragioni della necessità e l’affermazione di un proprio modello estetico ritenuto valido al di fuori del tempo, al quale non mancò mai di fedeltà e nel quale si fonda la sua grandezza. Le sue ultime opere nacquero nel periodo della guerra – quando ormai il musicista, che in qualche modo aveva aderito al nazismo, si rendeva conto del disastro a cui stava per essere condotta la Germania – e dell’immediato dopoguerra, quando l’occupazione della Baviera da parte degli Americani, con i sospetti che gravavano sulla sua persona, lo indussero a lasciare l’amata Garmisch e a emigrare per un certo tempo in Svizzera, a Baden, a Ouchy (Losanna), a Pontresina, dove portò a termine le straordinarie opere che siglano non solo il suo congedo dal mondo, ma anche la coscienza del tramonto della cultura tedesca che, assolutizzata in una forma chiusa su sé stessa e incapace di sciogliersi dall’unilateralità dello sguardo retrospettivo, sembrava soccombere insieme col regime che in modo de-
Richard Strauss nel suo studio in un’immagine non datata. (Keystone)
lirante e tragico l’aveva spinta verso l’abisso. Fu anche a Lugano per qualche mese nella primavera del dove apparve in concerto con la locale orchestra radiofonica alla quale dedicò il Duett-Concertino op. per clarinetto, fagotto e orchestra d’archi più arpa, eseguito in prima mondiale nel sotto la direzione di Otmar Nussio a Radio Monte Ceneri. Se considerassimo le Metamorfosi op. per archi () dedicate al basilese Paul Sacher e i Vier Letzte Lieder (), vi troveremmo conferma di quella dimensione dell’arte della vecchiaia che lo accomuna all’ultimo Beethoven, alla cupa astrazione di un linguaggio ermetico (distillazione della musica ridotta alla sua essenza vitale, pensando a una sua vita al di fuori del tempo). Viceversa Richard Strauss era mol-
to legato alla vita. La facilità con cui venne a patti con i regimi era proprio l’indice della sua incapacità di vivere ai margini, fuori del contesto sociale. Fu così che assunse la funzione di presidente della Reichsmusikkammer, una specie di consiglio superiore della musica compiacente con la dittatura, nonché quella di presidente dal al del Conseil Permanent pour la Coopération internationale des Compositeurs de Musique creato quando Goebbels impose l’uscita della Germania dalla Società Internazionale di Musica contemporanea accusata di promuovere le forme «degenerate»di musica. Stefan Zweig – librettista della sua opera Die schweigsame Frau che riuscì a far rappresentare nel ottenendo direttamente ed eccezionalmente da Hitler che il suo nome, in quanto ebreo, non fosse cancellato ne-
gli stampati – così ne tratteggiò il ritratto: «Nel suo egoismo artistico, che egli sempre e apertamente confessava, ogni regime gli era in ultima analisi indifferente». Egli fu un grande comunicatore: fu moderno in quanto attribuiva valore al gesto di sfida, non in quanto si accontentasse di gettare in mare il messaggio in una bottiglia, implicante il rischio di non mai giungere al destinatario. Vi è quindi un altro aspetto della sua arte di vecchiaia, quello della nostalgia delle epoche in cui la musica era riuscita a svilupparsi in un modo perfettamente aderente al tessuto sociale, in cui l’artista non era messo in discussione nel suo ruolo, in cui la dimensione dell’artigiano aveva acquisito alta dignità. Eccolo quindi a subire la tentazione delle forme trasparenti, proprio di quelle composizioni (i concerti solistici) che alla ricerca di comunicazione diretta sono di stimolo all’interprete di levatura a dare la stura al suo eloquio strumentale, ancorandosi ancor più al rapporto col pubblico: Secondo Concerto per corno e orchestra (), Concerto in re maggiore per oboe e piccola orchestra (). Tuttavia Strauss è tentato da questa via non ripercorrendo l’ovvietà del virtuosismo plateale ottocentesco, bensì stabilendo una testa di ponte con il Settecento, con le forme mozartiane, di un’epoca più lontana e non più ripristinabile nei termini originali. Il Mozart rococò a cui fa riferimento nei suoi ultimi concerti solistici è uno specchio della nostalgia riflettente un magistero in cui pulsa l’espressione felice di modi dove la dimensione dell’ornamento fine a sé stesso è ancora possibile, funzionante, ma che al sorriso intreccia l’ombra di un dolore, di una sofferenza, carica della memoria di tutto ciò che paralizza l’immagine del passato.
Un teatro leggero e inclusivo In scena ◆ Le proposte in cartellone a Lugano Giorgio Thoeni
Proposte all’insegna della leggerezza e dell’impegno. Sono quelle che recentemente hanno contraddistinto il cartellone luganese. Da Il delitto in via dell’Orsina sul gran palco del LAC al Teatro Foce con L’indulgenza del latte e I compagni di scuola di mio figlio. Il primo titolo, nonostante fosse di un Labiche poco noto, ha avuto il pregio di provare a rimettere in pista il vaudeville con una regia di livello (Andrée Ruth Shammah) e buoni attori (Massimo Dapporto e Antonello Fassari): un genere che potrebbe ridare lustro all’umorismo teatrale d’antan se solo venisse frequentato più spesso dalle produzioni. Nel secondo caso, con un’operazione drammaturgica collettiva della compagnia Carolina Reaper invitata alla rassegna MAT, si è voluto offrire una lettura non convenzionale, leggera, giovanile e provocatoria del mondo LGBT: una positività ironica e in buona dose sovversiva che non guasta mai per far riflettere. Un similare fronte di inclusione il terzo titolo che, proposto dalla Compagnia del Teatro Paravento, si inserisce in un ambito didattico di sensibilizzazione dove la conoscenza del prossimo e dei diversi contesti culturali di provenienza sono fattori determinanti nella lotta contro il razzismo. Stimolano la reciproca comprensione del passato e delle origini di ognuno,
Botte, bottone e bottino La lingua batte
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L’etimologia è una scienza curiosa e in grado di svelarci molte cose
Laila Meroni
Le parole a volte si prendono gioco di noi. Come diavoletti dispettosi se la ridono vedendo quanto ci possono disorientare certe curiosità lessicali, certe somiglianze, se solo ci prendiamo un attimo per fermarci a osservarle da vicino. Guardiamo bene alla parola bótte, intesa come contenitore per il vino: sappiamo che la lettera deve essere pronunciata chiusa, perché se invece la articoliamo come aperta (bòtte) finiamo dritti in un altro significato, ossia quello di «colpi». Teniamo ora la medesima radice e applichiamo il suffisso che di regola accresce le dimensioni, ad esempio di un oggetto: avremo così bottone, che tuttavia per nostra fortuna grande non lo è mai oltre un ragionevole limite. Alla stessa base applichiamo ora un suffisso che dovrebbe invece ridurre la taglia dell’oggetto in questione, trasformando così la nostra parola in bottino: è l’oggetto dei desideri del ladro, il sogno del pirata, lo scopo che spinge il condottiero a mettere a rischio la propria vita in guerra… Come si è arrivati ai significati odierni? Da dove sono partite queste parole così apparentemente simili fra di loro?
In questa rubrica ci occupiamo senza pretese soprattutto della lingua italiana, e il nostro idioma offre tantissimi esempi come quelli appena citati. Prendiamo ancora l’aggettivo concio, attributo certo non fra le nostre aspirazioni estetiche… Eppure se vogliamo far bella figura per un’occasione speciale puntiamo anche sull’acconciatura. Come è successo che concio, originariamente sinonimo di «concime», sia finito con l’assumere un significato legato invece alla
bellezza? E ancora: quale percorso ha seguito il sostantivo turba (dal latino «folla» e «disturbo») per finire poi con l’odierna turbina o addirittura turbo? Affascinante. C’è da perdersi per ore nel labirinto della lingua. Ecco perché lo studio dell’origine delle parole, della loro storia e dunque della loro vita – l’etimologia – non è materia solo per i linguisti, è capace per contro di attrarre molti parlanti comuni mossi da pura curiosità e sana sete di sapere. Ecco perché i dizionari etimologici sono strumenti anche oggi molto popolari, che non passano di moda, ma al massimo vengono aggiornati con nuove teorie, e ormai sono consultabili comodamente grazie a internet. «L’etimologia è patrimonio di tutti», ha dichiarato più di un linguista: lo scopo è quello di arrivare a meglio comunicare con gli altri e comprendere meglio noi stessi, proprio attraverso la storia delle parole che è anche la nostra storia. Scavare nel passato della nostra lingua non è dunque operazione fine a sé stessa, ma è riconoscere di avere tra le mani un patrimonio vivo e vivace, in continua evoluzione, arrivato a noi dopo mille peripezie e viaggi
tortuosi, attraverso popoli oggi lontani nel tempo ma anche nello spazio; storie di elevazioni o di inciampi, di dignità acquisita o di capitomboli nel linguaggio più basso. Per il linguista, applicarsi allo studio etimologico di una parola comporta un approccio di carattere scientifico con fine didattico, divulgativo, anche sociologico e addirittura filosofico (accadeva già nell’antica Grecia, la materia piaceva in particolare ai Sofisti). Eppure interessarsi alle origini delle parole può anche trasformarsi in un gioco: divertirsi e appassionarsi a quelle lettere che si mettono insieme, certo non ci cambia la vita, magari ci aiuta a risolvere più facilmente qualche cruciverba; tuttavia se lo facciamo con entusiasmo e con un briciolo di curiosità, potremmo anche scoprire un mondo fantastico, di misteri che si svelano, di trame che si dipanano. Utilizziamo ogni giorno centinaia di parole, ma è facile che di loro non sappiamo quasi niente. Invece ci potrebbero condurre a nuovi significati, a sfumature inaspettate, a nuovi tesori per il nostro linguaggio quotidiano. Un bel bottino, a disposizione di chiunque voglia mettersi a cercarlo.
Luisa Ferroni e Laura Zeolla in I compagni di scuola di mio figlio.
ciò che la superficialità tende a considerare differenze ma che, in realtà, sono facce di un’unica medaglia: il genere umano. I compagni di scuola di mio figlio parla di tutto ciò inserendosi in un contesto narrativo elementare, immediato. Un progetto destinato alle scuole e incentrato su domande create per avvicinare percorsi e tradizioni che ci accomunano nella diversità in un unico processo di integrazione. Il testo e la regia di Miguel Angel Cienfuegos sono la linfa che anima la rappresentazione che vede in scena Luisa Ferroni e Laura Zeolla. L’azione inizia con la preparazione del pane, un ingrediente che troviamo sotto varie forme accompagnato dall’adagio: siamo grano, siamo acqua, siamo terra. Mentre cuoce e la fragranza si diffonde in sala, le due attrici raccontano le testimonianze dei ragazzi di scuola media e storie tratte da una leggenda africana, dal libro sacro dei Maya e da un racconto valmaggese. Un lavoro di pregio che si unisce agli sforzi istituzionali volti all’integrazione.
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Anno LXXXV 21 febbraio 2022
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CULTURA
Un festival anomalo, convincono i film in gara Berlinale
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Un’edizione ancora segnata dalle restrizioni pandemiche, bene la Svizzera con due premi e una menzione
Nicola Falcinella
L’Orso d’oro alla Spagna, diversi riconoscimenti alla Svizzera e solo uno collaterale all’Italia. È stato un esimo Festival di Berlino anomalo, quasi surreale, con una partecipazione limitata, regole molto stringenti per contenere la pandemia e una selezione abbastanza buona, soprattutto da Europa e Asia. Il premio più ambito, tra i lungometraggi in gara, è stato assegnato ad Alcarràs della catalana Carla Simòn, già nota per l’incantevole Estate del . La famiglia allargata Solé coltiva il podere del titolo da generazioni, da quando il proprietario, il signor Pinyol, gliene aveva dato l’usufrutto come riconoscenza per averlo nascosto e protetto durante la guerra. Ora l’erede vuole sostituire le coltivazioni con un mega impianto di pannelli solari e ha annunciato lo sfratto alla fine della stagione. La fine di un mondo si annuncia nella prima bellissima scena: i tre bambini, capeggiati dalla decisa e fantasiosa Iris, giocano dentro una vecchia automobile quando arriva la ruspa a interrompere tutto. Simon allestisce un dramma familiare in un ambiente rurale, dove c’è posto e affetto per tutti, tra lavoro, giochi, feste, preoccupazioni e tensioni. Il film ci trasporta dentro un microcosmo arioso, minacciato dagli speculatori, dove si può stare tutti insieme pur nelle differenze o nei contrasti. C’è un sentimento simile, con le
ruspe che mettono ai margini i contadini poveri, nel cinese Return to Dust di Li Ruijun, altra pellicola notevole che purtroppo è rimasta fuori dal palmares. Le famiglie impongono il matrimonio combinato al «quarto fratello» e a una donna disabile che nessuno accetta. Cacciati più volte, perché gli edifici vanno demoliti per costruirne di nuovi di maggior valore, mettono in piedi da soli una casa partendo dai mattoni e faticando per coltivare frumento e verdure. Un film asciutto e formalmente impeccabile, con tanti echi del cinema di Ermanno Olmi.
In questa edizione quasi surreale del festival, la Svizzera si è vista assegnare diversi riconoscimenti La giuria presieduta da M. Night Shyamalan ha assegnato un doppio riconoscimento al tedesco Rabiye Kurnaz vs. George W. Bush di Andreas Dresen: orsi per la sceneggiatura di Laila Stieler e per la travolgente Meltem Kaptan come migliore interprete protagonista. Meritato l’Orso d’argento gran premio della giuria a The Novelist’s Film del coreano Hong Sangsoo, un autore prolifico già premiato che torna spesso sugli stessi temi e realizza
Michael Koch (a sinistra) e gli attori Simon Wisler e Michèle Brand protagonisti del film Drii Winter. (Keystone)
gioiellini con situazioni in apparenza semplici e ripetitive inserendo trovate deliziose. È un film fresco, surreale e quasi azzardato il bel Leonora addio del novantenne Paolo Taviani, per la prima volta senza il fratello Vittorio, vincitore del Premio Fipresci della stampa. Una doppia vicenda pirandelliana, prima l’odissea decennale delle sue ceneri, poi il suo racconto Il chiodo, passando dal bianco e nero al colore e raccontando con efficacia la Seconda
guerra mondiale utilizzando spezzoni di altri film come Paisà. Buono pure Peter von Kant di Francois Ozon, che ha omaggiato Rainer Fassbinder rileggendone in chiave biografica uno dei capolavori, con Denis Menouchet nella parte del grande cineasta tedesco. La Svizzera ha ricevuto due premi nella sezione parallela Encounters con Unruhe – Unrest di Cyril Schäublin e À vendredi, Robinson di Mitra Farahani. Il primo ricostruisce il sog-
giorno nelle valli del Giura, tra le fabbriche di orologi, del geografo russo Pyotr Kropotkin nel e la sua adesione all’anarchia. Il secondo è incentrato sul dialogo a distanza, una mail ogni venerdì, tra due grandi vecchi del cinema, Jean-Luc Godard e l’iraniano Ebrahim Golestan. Menzione speciale allo svizzero Drii Winter di Michael Koch, dramma sulle montagne del Canton Uri che per atmosfere guarda al capolavoro Höhenfeuer – Fuoco alpino () di Fredi Murer. Annuncio pubblicitario
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 21 febbraio 2022
azione – Cooperativa Migros Ticino
CULTURA
Antigel, il festival ribelle che esplora territori inediti In scena
◆
Alto gradimento per la dodicesima edizione ginevrina
The Guilty, meglio l’originale di Möller Netflix
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Non convince il remake di Fuqua
Muriel Del Don
Alessandro Panelli
Malgrado un’edizione stravolta nel profondo, Eric Linder e Thuy-San Dinh, cofondatori del Festival Antigel di Ginevra, continuano a credere nella forza della loro manifestazione. Ribelle, inclusivo e accattivante, il festival esplora territori sconosciuti con programmazioni qualitative e audaci e fa delle arti performative, in particolare della musica e del clubbing, i suoi cavalli di battaglia. Malgrado l’assenza di alcuni grandi nomi statunitensi come Henry Rollins (dei Black Flag) o Goodspeed You! Black Emperor, l’edizione di quest’anno è stata marcata da un’innegabile sete di vita notturna e di arte (in senso lato). Il pubblico di Antigel non si è fatto pregare e ha accettato, con l’apertura mentale che lo contraddistingue, di prendere parte a un rituale condiviso in nome della cultura. Nel campo delle arti sceniche, la compagnia Cocoondance è riuscita, grazie allo spettacolo Hybridity, a unire thai boxe e balletto romantico, due forme di movimento agli antipodi tanto sul piano concettuale quanto culturale. L’impresa è riuscita grazie alla bravura dei sei ballerini e ballerine della coreografa Rafaëla Giovanola che sul palcoscenico si dibattevano e resistevano a una forza dominante con movimenti vorticosi riuscendo a decostruire e a fondere insieme gli opposti. Sempre nell’ambito delle arti sceniche, impossibile non citare Benjamin Kahn che con il suo Sorry, But I Feel Slightly Disidentified, interpretato con potenza e maestria dalla performer e coreografa olandese originaria del Suriname, Cherish Menzo, ha sfidato le soffocanti convenzioni legate al binarismo di genere e all’origine etnica. Lontana anni luce dall’incarnare gli stereotipi di una «femminilità» che tende pericolosamente a considerare come innata, Cherish Menzo ci mostra un corpo libero, indomito e fiero che domina la scena facendola sua, un corpo in lotta perenne che non intende fermarsi.
Un thriller già vecchio alla sua uscita, The Guilty, pellicola del diretta da Antoine Fuqua, distribuita da Netflix, si vanta di un grande attore protagonista: Jake Gyllenhaal, già noto per Prisoners, Animali Notturni e Lo Sciacallo. Il film è interamente ispirato all’omonima opera danese diretta da Gustav Möller uscita nel , dunque soltanto qualche anno fa. The Guilty ci cala nei panni dell’ufficiale di polizia di Los Angeles Joe Baylor, incaricato di rispondere alle chiamate del durante una tragica notte in cui un incendio minaccia la città. Fin da subito Joe ci viene presentato come instabile, imprevedibile, stressato e irrazionale. Nel momento in cui riceve una telefonata da una donna presumibilmente rapita dal suo ex marito, l’agente di polizia farà di tutto per portarla in salvo, come se dovesse redimersi da un peccato commesso in precedenza. Per tutta la durata del film seguiremo le azioni di Joe al centralino durante la notte, in una sola e lineare pista narrativa, con pochissimi inserti di flashback o flashforward fino a immedesimarci totalmente. Tutto ciò che vediamo sono Joe, qualche comparsa, e il telefono, unico mezzo per salvare la vittima. Sulla falsariga di film come In linea con l’assassino di Joel Schumacher (), The Guilty di Antoine Fuqua coinvolge lo spettatore negli stati d’animo di ansia e di stress provati dal
HYBRIDITY by CocoonDance. (© Alessandro De Matteis)
Insolente e decisamente fashion anche il progetto inclusivo Happy Hype del Collectif Ouinch Ouinch, selezione ufficiale degli Swiss Dance Days . Ispirato all’Hype Call, principio chiave della cultura krump, danza nata presso la comunità afro-americana nei sobborghi di Los Angeles negli anni ’, la creazione della compagnia ginevrina ha spinto il pubblico a partecipare a un rituale condiviso nel quale domina sovrana la potenza della danza. Numerose anche le perle musicali che hanno stuzzicato i timpani del pubblico ginevrino avido di novità. Tra queste l’intrigante e maestosa Anika, ex giornalista politica trasformatasi musicista di sonorità e arti gotiche che ricordano la memorabile Nico (periodo post Velvet Underground). Undici anni dopo il suo primo album culto Anika, la musicista anglo tedesca ha presentato al Groove di Ginevra il suo secondo lavoro Change, un condensato di synth pop sperimentale arricchito da tocchi oscuri e magnificamente inquietanti di electrodub e post-punk. Altro momento forte è stato il concerto degli ormai mitici Sleaford Mods, duo punk formato a Nottingham, che ha elevato lo Spoken word a rango di opera d’arte. Sleaford Mods porta con fierezza la bandiera della rivolta sociale e anticapitalista
espressa attraverso una scarica di parole dal sapore nichilista, gridate, squarciate e metamorfizzate. Incorruttibili, integerrimi e taglienti come coltelli, Jason Williamson (canto) e Andrew Fearn (musica) salgono sul palco soli, accompagnati unicamente dal loro laptop che si trasforma in arma di distruzione di massa. I loro inni Spoken word accompagnati da sonorità elettroniche travolgenti e falsamente cheap ricordano i tempi d’oro dei Prodigy imponendosi al pubblico in tutta la loro potenza rivoluzionaria. I nostri due antieroi hanno trasformato la sala dell’Alhambra in una sauna nella quale dimenarsi in un catartico esorcismo condiviso. Maestosi anche i concerti degli scozzesi Mogwai e Ryoji Ikeda, fenomeno della musica sperimentale elettronica giapponese. Mostri da palcoscenico, fan dei Jesus and the Mary Chain e Slint, i Mogwai non smettono di stupire grazie a melodie irresistibili, al contempo affascinanti e violente, inquietanti e salvifiche. Ryoji Ikeda, artista faro dell’avanguardia giapponese, ha invece incantato il pubblico con uno show sconvolgente animato da sonorità sperimentali contaminate da musica techno e d’ambiente. Insomma, che si tratti di arti sceniche, musica o clubbing, Antigel ci dimostra che, con o senza mascherina, la notte ha ancora molto da offrire.
protagonista. Attraverso accattivanti e frequenti primissimi piani lo confronta con i suoi traumi e i suoi demoni, senza tuttavia mai spiegarne origini e cause. Proprio questa lacuna nell’approfondire la psicologia e la personalità di Joe tende a far storcere il naso durante i titoli di coda. Piuttosto che rendere il personaggio misterioso e drammaticamente attraente, Fuqua lo inchioda al ruolo di un isterico poliziotto incapace di accettare il proprio passato, risultando talvolta persino frustrante agli occhi dello spettatore. Tuttavia l’interpretazione di Gyllenhaal è eccezionale e il film si segue con piacere grazie a un ritmo che fin da subito ci proietta nel vivo dell’azione e non concede tregua fino alla fine. Una nota di merito va al direttore della fotografia Maz Makhani per aver creato dei notevoli piani in grado di suscitare forti emozioni, più di quanto riesca a fare la trama. Detto questo, il film era già vecchio alla sua uscita, in quanto non apporta alcuna novità al genere thriller, preferendo rifarsi ai film del genere dei primi anni senza introdurre particolari elementi originali rispetto alla pellicola di Möller. Viene da chiedersi perché vi fosse la necessità di fare il remake di un film più convincente sotto tutti i punti di vista. Il mio consiglio: se la trama vi piace andate a vedervi l’opera originale di Möller.
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Settimanale di informazione e cultura
Anno LXXXV 21 febbraio 2022
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CULTURA / RUBRICHE ●
In fin della fiera
di Bruno Gambarotta
Sacri misteri e utilità dei sondaggi ◆
Sarò sincera, ogni volta che vedo comparire all’orizzonte un sondaggio mi propongo di saltarlo, ma poi la tentazione di andare a vedere fino a che punto di scemenza sono arrivati è troppo potente. E pensare che la mia forza di volontà è proverbiale fra i miei amici. Sono capace di girare tutta Torino per cercare un paio di sandali che ho notato nel film di un regista iraniano esule in Patagonia. Ma per i sondaggi è più forte di me. Lo sapevate che il % degli uomini che si trovano soli alla guida di un’auto, quando sono fermi al semaforo, per ingannare il tempo si dedicano a ricerche petrolifere dentro le cavità nasali usando il dito indice come sonda e depositando il prezioso materiale estratto sotto il cruscotto dopo averlo attentamente esaminato? Percentuale che nel caso di noi donne scende al %? Come avranno fatto a determinare queste percentuali? Non penso l’abbiano fat-
to ricorrendo ai soliti questionari, tipo: «Lei, quando è al volante da solo si scaccola ai semafori?». Ancor più mi intriga conoscere il metodo di rilevamento di quest’altro sondaggio da cui risulta che il % degli uomini, al mattino, nei primi cinque minuti da che si sono levati dal letto, si dà una veloce ma voluttuosa grattata a una chiappa. Nell’universo dei grattugianti il % preferisce la chiappa sinistra e solo il % quella destra. La notevole discrepanza fra destra e sinistra ha una sua spiegazione perché il % degli uomini mentre si grattano fanno anche qualcos’altro, in pratica il % sorbisce il primo caffè della giornata e il % fuma la prima sigaretta. Essendo il % della popolazione maschile composta da mancini il conto torna. Come avranno fatto a rilevare questi dati? Piazzando un incarico nelle camere da letto dei soggetti scelti a fare da campione? Usando come infor-
matrici le compagne dei suddetti? E quelli che vivono, e soprattutto dormono, soli? A loro chi ci pensa? Sono i sacri misteri dei sondaggisti. Il sondaggio che ha maggiormente attirato la mia attenzione ci rivela che il % dei maschi italiani si eccita nei musei. E che, se solo disponesse di un minimo di comodità, gradirebbe staccare sul luogo la cedola dell’eccitazione per evitare che, una volta usciti dal museo, l’effetto svapori. Per il ministero della Cultura, sempre alla ricerca di fondi per finanziare le mostre, si aprono interessanti prospettive. In fondo per i musei si tratterebbe solo di affiancare agli spazi espostivi delle camere a ore. Con un minimo di avvedutezza, naturalmente: eviterei di utilizzare il Museo Egizio di Torino. Il professor Massimo Cicogna, che ha promosso il sondaggio, ha chiamato questo fenomeno «sindrome di Rubens», in analogia con la «sindrome di Stendhal» che
colpisce i turisti sopraffatti dall’eccesso di bellezza dei luoghi che stanno visitando. Rubens, come tutti sanno, predilige nei suoi quadri donne maestose, lardellate, cosce come tronchi e glutei vasti come latifondi. Risulta che l’artista non abbia mai tratto ispirazione da una sfilata di moda. Sempre secondo il professor Cicogna, i musei più eccitanti sono quelli piccoli e in cima all’hit parade dei musei galeotti c’è il palazzo del principe Doria a Genova. A Torino svetta in questa speciale classifica la Galleria d’Arte Moderna. Non tanto credo per le pecore di Fontanesi quanto per i nudi di Grosso. Per quanto anche le pecore hanno i loro estimatori. Il mio interesse nasce dal fatto che sono fidanzata da quindici anni con uno che è tanto un bravo ragazzo ma da quel lato lì, della sindrome di Rubens, mi fa sempre venire in mente le due specialità di Cherasco, la pace e le lumache. Così gli ho chie-
sto di accompagnarmi a visitare il Museo d’Arte Contemporanea al castello di Rivoli. Non c’ero mai stata e, visitandolo, m’è venuto il dubbio che forse quello non era il museo giusto. C’erano tende, massi di pietra sistemati sul pavimento a fare un cerchio (magico? Chissà). Blocchi di fango spiccicati contro la parete, due sedie accostate con un bastone appoggiato allo schienale di una delle due, due tronchi d’albero scarnificati, una gabbia appesa al soffitto, piena di pezzi di polistirolo, una sala piena di badili appoggiati alle pareti e dipinti con stemmi nobiliari. Il mio fidanzato è entusiasta, vuole ritornarci tutte le domeniche, sostiene che quelle opere d’arte e quelle installazioni lo fanno sentire in sintonia con i tempi moderni, lo mettono in pace con sé stesso. Lui appartiene all’% dei maschi che non si eccitano nei musei e che, non dimentichiamolo, sono pur sempre la maggioranza.
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Xenia
di Melania Mazzucco
Josè, cacciatore di foche e di guanachi ◆
Il agosto del , a Genova, all’Esposizione delle missioni cattoliche americane, nel giardino adiacente la galleria della mostra si inaugurò il villaggio fuegino: un agglomerato di capanne di rami intrecciati e foderate di pelli, con tanto di lago artificiale dove gli indigeni – fino a quel momento alloggiati all’ospizio salesiano di Sampierdarena – potevano dimostrare la loro abilità come pescatori. I missionari di don Bosco operavano dal nella remota Patagonia: inizialmente per convertire gli indigeni e salvare la loro anima. Per testimoniare l’opera delle missioni, i padri salesiani avevano portato con sé a Genova esponenti di varie tribù, fra cui gli Ona e gli Alakaluf. Il settembre uno scrittore (anonimo) della «Rivista» ne intervistò quattro. Allo scrittore era stato detto che gli Alakaluf sono «mansi» – mansueti, ma poco socievoli. Stanno per conto
loro, non parlano volentieri. Quando erano ancora nomadi, gli Alakaluf, tra cui Daniel, si muovevano in canoa: la moglie di Daniel, affascinata dall’idea di salire su una grande nave, avrebbe dovuto accompagnarlo nel viaggio transoceanico, ma non era sopravvissuta al clima uruguagio, ed era morta a Montevideo. Daniel non l’aveva pianta né mai più nominata. È possibile che per gli Alakaluf – come per molti altri popoli – sia tabù nominare i morti. Ma lo scrittore non lo sapeva, e l’ostinato silenzio di Daniel sulla consorte gli parve segno di durezza e crudeltà. Del resto prima di convertirsi al cattolicesimo i patagoni erano «cannibali». E da «cannibale» aveva conosciuto i bianchi il quarto intervistato, Josè. Era un Ona – indios cacciatori di foche e di guanachi noti come formidabili arcieri. Quel giorno d’agosto aveva appena nove anni. Una cicatrice gli
solcava la fronte: era dovuta al morso di un cane. Tuttavia non il cane ma gli uomini gli avevano inflitto la ferita più profonda. Tre anni prima, a Parigi, aveva vissuto sei mesi in gabbia, come una bestia feroce. Insieme ad altri nove sfortunati Ona era stato rapito sulla Terra del Fuoco, l’isola maggiore dello Stretto di Magellano, imbarcato su una nave e scaricato in Francia per partecipare all’Esposizione Universale del . Quella della Tour Eiffel, quella del trionfo del progresso. L’Expo inaugurò il maggio. Le nazioni del mondo celebravano se stesse in padiglioni di accattivante architettura, a volte ispirate alle tradizioni locali (templi egizi o maya): l’Argentina si presentava invece come nazione moderna e nuovissima. Ma il pubblico si accalcava intorno al palazzo coloniale, sull’Esplanade des Invalides. Si incolonnava in lunghe file, e atten-
deva ore e ore per accedere al «villaggio negro» dove, protetti da fragili recinti, disorientati africani importati dalle colonie si esibivano in fasulle rappresentazioni della loro vita quotidiana. Salvo qualche indicazione generica (senegalese, kanako) ai visitatori non veniva fornita alcuna guida o spiegazione circa la loro provenienza o i loro usi e costumi. Ogni giorno, fino alla chiusura, il ottobre, i malcapitati ciondolarono tra le false case dei loro falsi villaggi in quelli che erano in effetti degli zoo umani. Fra le principali attrazioni esotiche figuravano i selvaggi «cannibali», detti anche «neri rossi» per via del sangue che li copriva. Fra gli antropofagi, i dieci patagoni con gli occhi piccoli e obliqui e le facce piatte. Il più giovane di essi era proprio Josè. I bianchi che si pigiavano davanti ai recinti ne ammiravano e disprezzavano la diversità irriducibile. Alla fine dell’Ottocento l’Altro
era concepibile solo come selvaggio. Quando l’Expo chiuse i battenti, i patagoni furono rispediti alla fine del mondo. Josè fu raccolto dalla missione di padre Beauvoir, dove imparò lo spagnolo e ricevette un’educazione. Potrebbe essere suo uno dei quaderni esposti nel museo di Punta Arenas e descritto da Chatwin, sul quale un giovane indio aveva ricopiato il versetto: «il Salvatore era qui e io non l’ho riconosciuto». Lo scrittore della «Rivista» registrò senza commenti l’esperienza parigina del bimbo fuegino esposto come «bestia feroce». Non sappiamo cosa accadde a Josè quando chiuse l’Esposizione di Genova. Probabilmente il piccolo ospite rientrò alla missione coi suoi compagni e col suo buon padre Beauvoir, e vi morì, come tutti gli altri: nel giro di pochi anni gli indios della Patagonia si estinsero. Ammansito, domato, l’Altro era stato annientato.
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A video spento
di Aldo Grasso
L’intellettuale, cultore dell’eccellenza ◆
«Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che si sa o che si tace, che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero e coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero». Così Pier Paolo Pasolini definiva sulle pagine del «Corriere della Sera», il novembre , il mestiere dell’intellettuale. Ma a tanti anni di distanza la definizione è ancora attuale? Tanti studiosi pronosticano la morte di questo ruolo, insieme alla morte della modernità, della storia, della politica, della verità e delle ideologie. Altri sostengono che dell’intellettuale come «coscienza critica» ce ne sia ancora bisogno e che la sua estinzione minerebbe la
democrazia. Una figura, oggi, dal profilo sbiadito, ambiguo. Un termine talmente abusato, da risultare quasi insignificante. È da poco uscito dall’editore Raffaello Cortina, un libro di Franco Brevini: Abbiamo ancora bisogno degli intellettuali? La crisi dell’autorità culturale. Al centro dell’indagine di Brevini, storico della letteratura e critico letterario (e valente alpinista), ci sono alcuni temi fondamentali del dibattito contemporaneo, come il tramonto degli intellettuali, la disfatta della scuola, i social e le nuove tecnologie. La disintermediazione caratteristica della rivoluzione informatica, insieme alla disponibilità di sconfinati giacimenti di conoscenza a portata di click, ha assestato il colpo di grazia al vecchio edificio della conoscenza. Nel libro si discute di crisi dell’autorità culturale e disfatta della scuola. E, alternando riferimenti storici
a concreti esempi tratti dalle cronache di ogni giorno, emerge tutta la preoccupazione per l’avanzata dei social network e il dominio del digitale, terreno fertile per una conoscenza sempre più veloce e per questo distratta ed effimera. Brevini coglie l’occasione per spiegare cosa intende per intellettuale: «L’intellettuale è una figura moderna, che nasce nella seconda metà dell’Ottocento ai tempi dell’affaire Dreyfus. Da allora è diventato sinonimo dell’uomo di cultura. Ma uno dei punti che mi sembrano rilevanti nel mio discorso è che io vado oltre il tormentone novecentesco degli intellettuali e affronto il rapporto tra i colti e chi non lo è, risalendo all’Antichità. Questo mi serve per far capire che il conflitto non è nato ieri, che talune gerarchie privilegianti l’eccellenza, l’elezione, la qualità, rispetto a ciò che vi si contrappone, sia esso
la quantità o l’ugualitarismo, hanno una lunga storia». Per contrasto, torna alla mente un saggio di Tomás Maldonado, Che cos’è un intellettuale edito da Feltrinelli nel , dove gli intellettuali vengono dipinti come dei guerriglieri della penna: «Per eterodossi si deve intendere tutti coloro che, in un modo o nell’altro, agiscono in contrapposizione ai dogmi, ai corpi dottrinali, ai modelli di comportamento, agli ordinamenti simbolici, e anche agli assetti di potere esistenti. Tutta gente che voleva fare cose nuove. Ribelli, oppugnatori, antagonisti, trasgressivi, insomma dissidenti per vocazione, e in certi casi apertamente eversivi, rivoluzionari. La tradizione degli eterodossi è sicuramente la tradizione degli intellettuali». Del resto, l’intellettuale si porta dietro la scomunica inflittagli nel dal filosofo francese Julien Benda: Il
tradimento dei chierici. Il titolo del libro è divenuto emblematico per indicare l’atteggiamento fazioso degli intellettuali che rinunciano alla loro funzione più elevata di guide super partes. Ancora oggi, il testo rappresenta un riferimento imprescindibile nelle discussioni sul ruolo degli intellettuali nella società, sulla crisi della civiltà occidentale e sulla decadenza della cultura. A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, i «chierici» hanno cominciato a schierarsi nelle lotte politiche, propagandando dottrine pericolose come il nazionalismo, il razzismo, la lotta di classe o le «filosofie sociali» di Nietzsche e Sorel. Secondo Brevini, la pandemia ha ridefinito gli equilibri del mondo e sembra avere riaperto nuove chance al sapere e alle élite. Purché l’intellettuale sappia riconquistare il suo antico e fondamentale ruolo di cultore dell’eccellenza.
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Rosolare i cordon bleu per circa 10 minuti, a seconda dello spessore, finché la panatura non avrà assunto un colore dorato. Diventano particolarmente croccanti, se cotti in abbondante burro per arrostire. I cordon bleu sono come fatti in casa e il ripieno varia da regione a regione. Trovi altri consigli e informazioni al bancone della carne.
per 100 g, in self-service
ora a t i d n e In v nc one al b a
20% 2.40 invece di 3.05
Migros Ticino
Tutti i cordon bleu in vendita al banco per es. lonza di maiale, IP-SUISSE, per 100 g
Offerte valide solo dal 22.2 al 28.2.2022, fino a esaurimento dello stock.
Formaggi, latticini e uova
Una delizia dal reparto frigo Prodot to da case ifici ad al meno 10 00 m di al tit udine
20% 2.80 invece di 3.50
21% 2.25 invece di 2.85
Parmigiano Reggiano bio, trancio ca. 250 g, per 100 g, confezionato
Parmigiano Reggiano, DOP 700/800 g, per 100 g, confezionato
a partire da 4 pezzi
20% Tutti gli yogurt bio (yogurt di latte di pecora e di bufala esclusi), per es. moca, Fairtrade, 180 g, –.70 invece di –.85
Migros Ticino
21% 1.25 invece di 1.60
15% 1.70 invece di 2.–
Asiago pressato, DOP per 100 g, imballato
20% Formaggio di montagna disponibile in diverse varietà, per es. formaggio di montagna dei Grigioni piccante, ca. 250 g, per 100 g, 1.75 invece di 2.20, confezionato
conf. da 2
Formaggella ticinese 1/4 grassa per 100 g, confezionata
20% 4.– invece di 5.–
Emmentaler e Le Gruyère grattugiati, AOP 2 x 120 g
conf. da 6
–.50 di riduzione
2.50 invece di 3.–
Flan vaniglia, caramello o cioccolato, per es. vaniglia, 6 x 125 g
Pesce e frutti di mare
Voglia di salmone & Co?
30%
1.50
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5.90 invece di 7.40
Uova svizzere da allevamento all'aperto
Fondue Caquelon Noir
aromat ic o o z z u l r e m File t t o di c he t ta di al l uminio ne l la v as c ot t ura al for no pe r l a
11.50
invece di 15.50
2 x 600 g
conf. da 3
20% Caffè Latte Emmi Macchiato, Espresso o Double Zero, per es. Macchiato, 3 x 230 ml, 4.65 invece di 5.85
Migros Ticino
d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 300 g
20%
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20% invece di 25.90
invece di 19.95
Salmone dell'Atlantico affumicato, ASC
15 x 53 g+
conf. da 2
20.70
13.95
Filetti di trota salmonata con pelle d’allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 2 pezzi, 380 g, in self-service
20%
Tutto l'assortimento di pesce fresco in vaschetta per la cottura al forno (prodotti Grill mi esclusi), per es. filetto dorsale di merluzzo con mandorle e pistacchi, pesca, Pacifico, MSC, 360 g, 11.65 invece di 14.60, in self-service
20%
Tutti i sushi e tutte le specialità giapponesi
Tutto il pesce fresco, MSC
per es. Maki Mix, tonno: pesca, Oceano Pacifico occidentale; salmone: d'allevamento, Norvegia, 200 g, 6.95 invece di 8.95, in self-service
per es. filetto di passera, Atlantico nord-orientale, per 100 g, 2.45 invece di 3.10, al banco a servizio e in self-service
Offerte valide solo dal 22.2 al 28.2.2022, fino a esaurimento dello stock.
Scorta
Irresistibili delizie in qualsiasi momento della giornata e A l t e r nat iv le l v e g e t a l i a a r ne ic p o l pe t t e d conf. da 3
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Vegetarian Balls o Veggie Carré Garden Gourmet per es. Balls, 2 x 200 g
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Tortelloni Anna's Best ricotta e spinaci o di manzo, per es. ricotta e spinaci, 3 x 300 g
a partire da 2 pezzi
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Tutti i tipi di pasta M-Classic
Tutte le salse Salsa all'Italiana
per es. fusilli, 500 g, 1.50 invece di 1.80
per es. Napoli, 250 ml, –.90 invece di 1.30
conf. da 3
20% Pizze Buitoni surgelate, caprese, al prosciutto o alla diavola, per es. caprese, 3 x 350 g, 11.50 invece di 14.40
conf. da 2
30% Pommes Duchesse o Pommes Rissolées M-Classic Delicious prodotto surgelato, per es. Rissolées, 2 x 600 g, 4.45 invece di 6.40
a partire da 2 pezzi
20% Tutti i ketchup Heinz per es. Tomato, 500 ml, 2.40 invece di 2.95
conf. da 2
30%
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Cappelli di spugnole o porcini, secchi per es. cappelli di spugnole, 2 x 20 g, 14.70 invece di 21.–
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Minestre in bustina Knorr disponibili in diverse varietà, per es. vermicelli con polpettine di carne, 3 x 78 g, 4.55 invece di 5.70
Consig lio: è ada tt o anch alle e rbe fatt o ine pe r il burro casa
Fette d'ananas Sun Queen, Fairtrade in confezioni multiple, per es. 3 x 490 g, 6.60 invece di 8.25
o de l U n c l a s si c l i quo r e un Giappone: e r un g ust o spe ziat o p romat ic o do l c e e a
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Novità
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Tutte le spezie bio
Saitaku Mirin senza alcol 150 ml, in vendita nelle maggiori filiali
(prodotti Alnatura esclusi), per es. erbe per insalata, 58 g, 1.80 invece di 2.25
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20% Tutti i cereali e i semi per la colazione bio (prodotti Alnatura esclusi), per es. fiocchi d'avena integrali fini, 500 g, 1.– invece di 1.20
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Tutte le capsule Delizio
Noci miste Sun Queen in conf. speciale, 500 g
Pe r un'aria di v acanza: le nuov e v arie tà di tè dolc e me nte fruttate
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(prodotti M-Classic e bio esclusi), per es. Lungo Crema, 12 capsule, 4.75 invece di 5.30
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Novità
Novità
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Tisana Messmer Miami Vibes o Hawaii Kiss, per es. Miami Vibes, 20 bustine, in vendita nelle maggiori filiali
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Difesa naturale Yogi Tea bio, 17 bustine
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Dolce e salato
Per le pause e altri momenti di felicità
n farina Spunt ino c o ripie no di spe lta e e cc he alle pe re s
a partire da 2 pezzi
20% Fagottini di spelta alle pere bio, bastoncini alle nocciole e fagottini alle pere per es. fagottini di spelta alle pere bio, 3 pezzi, 225 g, 2.75 invece di 3.40, prodotto confezionato
20% 2.45 invece di 3.10
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Popcorn M-Classic al cioccolato o al caramello, in conf. speciale, per es. al cioccolato, 300 g
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Berliner con ripieno di lamponi in conf. speciale, 6 pezzi, 420 g
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Tavolette di cioccolato Lindt Excellence disponibili in diverse varietà, per es. 85% cacao, 3 x 100 g
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Yogurette in conf. multipla, 4 x 8 barrette, 4 x 100 g
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Chips Burt
Pancho Villa
Baked Zweifel
Sea Salt, Sea Salt & Malt Vinegar o Sweet Chilli, per es. Sea Salt, 150 g
Nacho Chips o Soft Tortillas in conf. da 2, per es. Nacho Chips, 2 x 200 g, 5.75 invece di 7.20
cracker alla paprica, pita e pretzel, per es. cracker alla paprica, 190 g, 4.45 invece di 5.60
Bevande
Salute! 50% 3.70 invece di 7.40
Succo d'arancia Anna's Best 2l
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Ice Tea Bio Magdalenas M-Classic marmorizzate o al limone, per es. marmorizzate, 2 x 225 g
tè alle erbe alpine o tè della felicità, 6 x 1 l, per es. tè alle erbe alpine, 6.70 invece di 8.40, in vendita nelle maggiori filiali
20% Tutte le bevande Biotta non refrigerate per es. mirtilli rossi Plus, 500 ml, 3.80 invece di 4.80
Una propost a di una c lie nte Mig ro rice tta di s ino su mig ipe dia.c h lt rata conf. da 3
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Biscotti Créa d'Or bretzeli, croccantini alle mandorle o snack al burro, per es. bretzeli, 3 x 100 g, 5.35 invece di 7.65
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Coca-Cola Classic, Light o Zero, 6 x 1,5 l, per es. Classic
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Stecche Blévita
Acqua minerale Valais
Tutto l'assortimento Perrier
al sesamo, Classic o Original, per es. al sesamo, 2 x 295 g, 4.95 invece di 6.60
in confezioni multiple, per es. 6 x 750 ml, 3.40 invece di 5.80
per es. 6 x 500 ml, 4.– invece di 6.–
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Bellezza e cura del corpo
L’ideale per il corpo e per il portafoglio
CONSIGLIO SUI PRODOTTI Con la crema depilatoria Express di I am è possibile rimuovere facilmente i peli in 3 minuti. La crema è indicata per gambe, braccia, ascelle e zona bikini. Applicare con l'apposita spatolina, lasciar agire e sciacquare accuratamente con acqua calda. Prendere nota delle indicazioni sulla confezione.
a partire da 3 pezzi
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Tutto l'assortimento Le Petit Marseillais
Tutto l'assortimento Nature Box
(confezioni multiple e confezioni da viaggio escluse), per es. docciacrema ai fiori d'arancio, 250 ml, 2.35 invece di 3.50
per es. gel doccia all'avocado, 385 ml, 3.75 invece di 4.95
Raf for za lo ie smalt o g raz al fluoruro
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25% Tutto l’assortimento per la depilazione I am (prodotti e gel per la rasatura e confezioni multiple esclusi), per es. crema depilatoria Express, 150 ml, 4.95 invece di 6.60
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pH balance
Collutori Listerine
(saponette e salviettine escluse), per es. sapone liquido in conf. di ricarica, 2 x 500 ml, 6.70 invece di 8.40
per es. protezione per gengive Total Care, 2 x 500 ml, 8.80 invece di 11.80
Fiori e giardino
Det er sione part ic olarmente delic ata pe r pe lle e cape lli
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20% Tutto l'assortimento Lavera per es. gel doccia Hydro Feeling, bio, 200 ml, 4.75 invece di 5.90
Tulipani mazzo da 24, disponibili in diversi colori, per es. rosso-gialli, il mazzo
tolle rano Le orc hide e non cqua i ri stag ni d 'a
20% Tutto l'assortimento Secure, Secure Discreet e Tena per es. Secure Ultra Normal, FSC, 20 pezzi, 4.70 invece di 5.90
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Miscela basica Actilife al gusto di limone 30 bustine
Salviettine umide per bebè Milette, FSC per es. con pantenolo, 4 x 72 pezzi
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Phalaenopsis, 2 steli vaso Ø 12 cm, disponibili in diversi colori, per es. fucsia, il vaso
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Sagrotan per es. igienizzante, 2 x 1,5 l, 13.90 invece di 19.90
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Carta per uso domestico Twist Deluxe o Recycling, in confezioni speciali, per es. Recycling, 16 rotoli, 9.60 invece di 14.40
disponibile in diverse fragranze, per es. Care, 2 x 2 l
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Vanish
per es. gel, 3 x 750 ml, 19.– invece di 28.50
in confezioni multiple o speciali, per es. spray pretrattante Oxi Action, 2 x 750 ml, 13.55 invece di 19.40
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Detersivi per piatti Handy
Tutto l'assortimento Handymatic Supreme (sale rigeneratore escluso), per es. All in 1 in polvere, 1 kg, 3.95 invece di 7.90
Lemon, Orange o Original, per es. Original, 3 x 750 ml, 4.55 invece di 5.40
Pratico, ig ie nico e 10 0% compost abile
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Cestino Rotho Country
Sacchetti per il compostaggio
disponibile in diversi formati, per es. A5, il set, 12.70 invece di 15.90
5 l o 9 l, per es. 5 litri, 3 x 10 pezzi, 4.70 invece di 6.30
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Cleverbag Herkules 35 l, 5 x 20 pezzi
e Sost enibile: bicc hier in doppio ve tro pe r il caffè To Go
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Bottiglia di vetro Simax 500 ml, il pezzo
Tazza Cucina & Tavola disponibile con diversi soggetti, il pezzo
Bicchiere da caffè 300 ml, il pezzo
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30% Bicchieri Bormioli Rocco disponibili in versione trasparente, blu o rosa, per es. rosa, il set
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Tutto l'assortimento di set da tavola, tovaglie e strisce centrotavola Cucina & Tavola (prodotti Hit esclusi), per es. set da tavola in bambù, tessuto, il pezzo, 4.85 invece di 6.95
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35% Cartucce filtranti per acqua Duomax Cucina & Tavola
Tutto l'assortimento di borse e valigie nonché di accessori da viaggio per es. trolley Glider nero, il pezzo, 35.90 invece di 59.90
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Cartucce filtranti per acqua Brita Maxtra+ 3 x 3 pezzi
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59.95 Sistema di riciclaggio 2 pezzi, il set
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Stampante multifunzione HP DeskJet 4122e Stampante a getto d'inchiostro per stampare/scansionare/ fotocopiare e inviare fax, alimentazione automatica dei documenti, installazione con app HP Smart, il pezzo
30% Tutto l'assortimento di alimenti per gatti Gourmet per es. Perle, Piaceri del mare, 4 x 85 g, 3.35 invece di 4.75
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Verde e bianco, prezzo basso.
Validi gio.– dom. Prezzi
imbattibili
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weekend
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2.50
Dadini di pancetta di pollo M-Budget Svizzera, 2 x 60 g
Cottage Cheese al naturale M-Classic 500 g
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Succo d'arancia M-Budget 1l
Müesli alla frutta M-Budget
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il pezzo, offerta valida dal 24.2 al 27.2.2022
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Prosciutto crudo dei Grigioni surchoix affettato
invece di 1.55
invece di 10.80
1 kg
Avocado
Svizzera, in conf. speciale, 153 g, Offerta valida dal 24.2 al 27.2.2022
conf. da 4
2.–
Funghi prataioli M-Budget Paesi Bassi, vaschetta da 500 g
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Mele M-Budget Svizzera, sacchetto da 2,5 kg
41% Caffè Boncampo Classico, in chicchi o macinato per es. in chicchi, 4 x 500 g, 13.– invece di 22.40, offerta valida dal 24.2 al 27.2.2022
Fino a esaurimento scorte.