Azione 12 del 21 marzo 2022

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Anno LXXXV 21 marzo 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A.  Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5 ●

SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Perché gli adolescenti amano i Manga? Ce lo spiega lo psicoterapeuta Alberto Rossetti

Simona de Agostini, sciatrice paraplegica: dalla Coppa del Mondo di sci al monoscibob

Un nuovo ordine, alternativo al nostro, tenta di farsi strada in mezzo al fragore delle bombe

A Palazzo Reale grandi capolavori pittorici raccontano la donna nella Venezia del Cinquecento

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Pagina 27 Simona Sala Pagina 29

Vincenzo Cammarata

Il bicchiere della staffa

Crepuscolo di uno zar

Peter Schiesser

Dopo tre settimane di guerra in Ucraina, il quadro è chiaro: l’esercito russo non è in grado di vincere. La schiacciante superiorità numerica di mezzi e soldati è stata annullata da falle comunicative, impreparazione logistica e tattica, scarso morale delle truppe (molti pensavano di partecipare a delle manovre, altri hanno portato l’uniforme da libera uscita anziché la tuta d’assalto, si legge nel mare di notizie), e nonostante una possente aviazione i russi non controllano lo spazio aereo. Aggiungiamoci la resistenza dell’esercito e dei volontari ucraini, la duttilità e la perfetta comunicazione fra le diverse forze, in grado di individuare esattamente dove stanno quelle nemiche per attaccarle, le armi anti-carro e i missili terra-aria forniti dall’Occidente, ed abbiamo un quadro chiaro della disfatta cui sta andando incontro l’esercito russo. Siccome non sa vincere sul terreno, ricorre alla tattica adottata in Cecenia e in Siria: cannoneggiare i civili, per spezzare la volontà di resistenza. Ma le perdite russe in mezzi e uomini sono altissime. Putin ha commesso due errori fatali, ha creduto

che la marcia corazzata su Kiev sarebbe stata accolta con fiori da alcuni e con terrore dagli altri e che l’Occidente si sarebbe limitato alle solite innocue sanzioni economiche. Perché ha ignorato quello che già negli ultimi mesi si poteva immaginare (e gli hanno pure detto gli americani), ossia che gli ucraini avrebbero resistito, anche per anni, con una guerra partigiana? È rimasto vittima della sindrome del dittatore che a un certo punto, attorniato solo da persone che rispecchiano la sua realtà, finisce per credere, e sentirsi dire, solo ciò che desidera? Angela Merkel, che lo incontrò dopo la guerra del , descrisse ad Obama un uomo che aveva perso il senso della realtà. Probabilmente oggi sa di essersi sbagliato: sembra indicarlo l’arresto ai domiciliari di Sergej Beseda, capo dei servizi segreti esterni dello FSB, e del suo vice (rivelato dai giornalisti russi Andrej Soldatow e Irina Borogan). Sergej Beseda era incaricato di preparare il terreno in Ucraina per l’installazione di un governo filo-russo, la sua lettura edulcorata della realtà locale lo rende ora un buon capro espiatorio.

Come ne uscirà, Putin? La settimana scorsa i colloqui fra le parti hanno fatto sperare che si possa arrivare ad un accordo, ma gli scettici temono che sia una mossa russa per raggruppare e portare in Ucraina altre forze. Difficile immaginare infatti – almeno nel Ventunesimo secolo – Vladimir Putin che stringe la mano a Volodymir Zelenski (il secondo voluto morto dal primo) dopo tutto quello che sta accadendo. Ma il presidente russo non riuscirà a mantenere il potere a lungo se viene sconfitto in Ucraina, per cui la situazione resta pericolosa: per la prima volta, anche il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha evocato il rischio di una guerra con armi nucleari, mentre con maggiore urgenza si temono attacchi con armi chimiche. Anche il coinvolgimento diretto della Nato resta un pericolo reale, già solo per le forniture di armi dall’Occidente agli ucraini, che si rivelano estremamente efficaci. Osando sperare che la sconfitta di Putin non trascini nel baratro l’intera Europa, tentando di guardare oltre il presente, cosa si può intravve-

dere? La guerra in Ucraina rappresentava l’Impossibile, il declino della Russia di Putin pure; la prima è avvenuta, il secondo diventa possibile. Non tanto perché ci sono forze interne pronte ad una rivoluzione, ma perché sul piano della potenza la Russia si è auto-declassata: se ammassi il  per cento del tuo formidabile esercito e non riesci a conquistare l’Ucraina, perché dimostri di non essere l’armata moderna, efficiente, motivata che dicevi di essere, perdi credibilità geopolitica. E proprio la sconfitta di un dittatore può essere il miglior antidoto per ridare slancio alle democrazie. Gli amici europei e americani di Putin, da Trump a Berlusconi, Salvini, Le Pen, Orban e tutti gli osannatori delle «democrazie illiberali» sono oggi screditati. Le popolazioni di un’Europa che aveva dimenticato i tuoni dei cannoni in casa propria, veleggianti in nuvole di virtualità, sono costrette ad atterrare bruscamente nella realtà e chiedersi qual è il modello di vita in cui intendono vivere, quale sistema garantisce loro le libertà acquisite e date fin troppo per scontate. E come difenderlo.


2 Settimanale di informazione e cultura

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SOCIETÀ

azione – Cooperativa Migros Ticino

Un’officina per la famiglia L’Associazione Comunità familiare ha inaugurato un nuovo spazio dedicato a genitori e figli

Anziani, nuova Pianificazione Il Cantone ha presentato la sua strategia per rispondere ai bisogni della terza e quarta età

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Il faggio, albero dell’anno A livello nazionale è la seconda specie forestale più importante per numero di esemplari

Equitazione all’aperto La Ftse torna a occuparsi della conformazione del nostro territorio per rapporto al cavallo

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I manga intercettano il desiderio di cambiamento degli adolescenti (Shutterstock)

Perché i ragazzi amano i manga

Il caffè delle mamme ◆ I fumetti giapponesi hanno conquistato gli adolescenti, lo psicoterapeuta Alberto Rossetti ha analizzato il fenomeno Simona Ravizza

Manga mania. Un po’ di spoiler per capire di cosa stiamo parlando a Il caffè delle mamme, stavolta dedicato ai fumetti giapponesi e agli anime (la loro versione video). In Tokyo Revengers, scritto e disegnato da Ken Wakui, il giovane Takemichi apprende dalla tv la notizia sconvolgente della morte di Hinata, sua fidanzata ai tempi delle medie, finita in mezzo a un attacco di una banda di teppisti. Con un viaggio all’indietro nel tempo Takemichi dovrà cercare di cambiare il succedersi degli eventi per fare in modo che non si verifichino più le condizioni che hanno portato all’uccisione di Hinata. In My Hero Academia di Kōhei Horikoshi il protagonista è un ragazzino di nome Izuku che rientra nel % di essere umani nati senza superpoteri: ma il suo sogno è di diventare un Hero. Lo diventerà perché il suo idolo, All Might, il supereroe che ha portato la pace nel mondo, deciderà di allenarlo e di consegnargli per via ereditaria il suo quirk (potere), vedendo in lui il suo possibile successore per il desiderio di farcela nonostante le avversità. In Jujutsu Kaisen di Gege Akutami il protagonista è come al solito un ragazzo liceale di nome Itadori che nonostante le proprie grandi capacità fi-

siche, decide di non unirsi alla squadra sportiva del liceo ma di fare parte del club dell’occulto: il suo corpo diventa il recipiente di una maledizione molto potente, soprannominata Ryomen Sukuna. Nonostante sia posseduto, Itadori è ancora in grado di mantenere l’autocontrollo, ma è destinato a morire quando avrà assorbito tutti i  frammenti dell’anima di Sukuna (ossia le sue  dita), così da esorcizzare definitivamente la maledizione. Given (storia di un amore omosessuale) di Natsuki Kizu racconta le vicende di una band musicale e dei suoi componenti. Ritsuka, chitarrista della band, incontra per caso Mafuyu, che sta dormendo abbracciato a una chitarra con le corde rotte, che si scoprirà poi appartenere al suo ex ragazzo, suicidatosi pochi giorni prima. Ritsuka gliel’aggiusterà, l’amicizia che si instaura tra loro porterà Mafuyu, con una voce bellissima, a entrare nella band e i due si scopriranno innamorati. Ne La forma della voce, film d’animazione tratto dal manga A Silent Voice, i protagonisti sono Shōya, un adolescente solo che ha tentato il suicidio, e Shōko, la compagna di classe sordomuta e da lui bullizzata: an-

che lei tenterà il suicidio, a tirarla su dal balcone da cui stava gettandosi e a salvarla sarà Shōya, pentito per come l’aveva trattata nel passato, ma nell’aiutarla cadrà lui e finirà in coma. Di fronte a questi racconti a Il Caffè delle mamme la domanda rimbalza da mesi: perché gli adolescenti prendono d’assalto le fumetterie e stanno inchiodati all’iPad per seguire storie violente, piene di mostri, intrise di protagonisti con superpoteri e maledizioni, scandite da piani suicidari e amori tormentati? Cosa c’è nei manga e negli anime che li interessa tanto al punto da rapire la loro attenzione? Finalmente tutte le risposte sono in un saggio uscito il  febbraio dal titolo Le persone non nascono tutte uguali (ed. Città Nuova). L’ha scritto lo psicoterapeuta Alberto Rossetti, convinto che capire questi contenuti possa anche aiutarci a comprendere come stanno vivendo i ragazzi degli inizi del Ventunesimo secolo, gli Gen Z: «Gli adolescenti – sottolinea Rossetti – formano la propria identità anche a partire da queste storie». E allora cosa vivono, pensano, sognano, e in cosa credono i nostri figli? Innanzitutto, Rossetti analizza le costanti che, pur nella diversità di

ogni storia, si ritrovano nei manga e negli anime. I manga si leggono al contrario, partendo dal fondo del volume e procedendo con lo sguardo da destra verso sinistra. Le vicende narrate sono dure, cruente, violente o assurde e partono da un evento che ribalta l’ordine delle cose. L’eroe è il più delle volte un debole e un perdente che riesce a mettersi in gioco e a compensare le proprie carenze grazie al coraggio e alla sete di giustizia. Il volto funziona come se fosse uno schermo vuoto su cui il disegnatore proietterà le emozioni del personaggio per permettere al lettore di identificarsi ed entrare in sintonia con lui. Il tempo spesso è sospeso in un avanti e indietro che segue esclusivamente l’esperienza soggettiva dei protagonisti. La sessualità viene raccontata senza falsi pudori. Comprese bene le loro caratteristiche, è più semplice capire perché gli adolescenti ne sono affascinati. Jean-Marie Bouissou nel libro Il manga scrive: «Li amano perché vi si riconoscono per come sono in realtà, con le loro domande sulla vita e sul mondo, i loro problemi, le paure e le parti più oscure della loro personalità, ma anche le loro speranze». Coraggio, impegno, sincerità e amicizia. Amore e

sessualità. Competizione. Ma anche giustizia e accettazione delle differenze. Adrenalina. Riflette Rossetti: «I manga intercettano il desiderio di cambiamento degli adolescenti, la loro voglia di essere diversi, e il bisogno di riscatto dalle situazioni difficili vissute nella vita». Il racconto è diretto: saranno loro a trarre le conclusioni, senza una morale preconfezionata. Le emozioni non sono nascoste, ma al contrario si fanno vedere sui volti dei protagonisti pronti a deformarsi a seconda di quel che provano. Il corpo è libero di esprimersi senza vincoli. Il male è raccontato senza filtri in quanto parte dell’esistenza dell’uomo e proprio per questo non facile da sconfiggere. Insomma: «Dentro quelle storie – ribadisce Rossetti –, c’è qualcosa che parla di loro. Leggerle, quindi, può aiutarci a conoscerli meglio incontrandoli su un terreno neutro. Non solo perché quelle storie parlano di loro definendo i confini dentro cui si muovono, ma perché è proprio a partire da quei confini che costruiscono le loro identità. Gli adolescenti, durante la lettura dei manga, scoprono anche che la crisi che attraversa la loro vita non solo è necessaria, ma può anche essere affrontata e risolta».


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Sabrina e la sua nuova vita

Incontri (2) ◆ Sabrina Piacente ha lavorato, per 27 anni, come segretaria in un ufficio. Nel suo cassetto c’è però sempre stato un sogno: occuparsi, a tempo pieno, di animali. Adesso l’ha realizzato ed è felice Matilde Casasopra

Paese che vai, usanze che trovi. Ci sono però fatti che accadono, con le medesime conseguenze, in ogni paese negli stessi periodi dell’anno. I gatti, ad esempio, tra primavera e inizio autunno vanno in calore. Non è un problema se Micio vive in casa. Diventa un problema quando Micio ha fatto, della strada, la propria casa. Una ventina d’anni fa, al comparire dei primi freddi, nelle città e nei villaggi, armati di accalappiagatti, arrivavano gli addetti comunali che provvedevano a raccogliere i «randagi». Determinante, per il destino di Micio, il suo stato di salute. È in questo contesto che si materializzano, anche in Ticino, le «gattare». È in questo contesto che, in un pomeriggio del , nel mio ufficio del «Corriere del Ticino» squilla il telefono. «Fattoria degli animali?» «Sì, buon giorno» «Vi interessa parlare di un progetto che stiamo realizzando in favore dei gatti randagi?» «Sì, certo. Qui in “Fattoria” abbiamo, diciamo così, un occhio di riguardo per i mici». «Bene. Allora le spiego brevemente il progetto e poi… Poi possiamo vederci (se vuole). Mi chiamo Sabrina Piacente e sono la coordinatrice del GAR (Gruppo aiuto randagi)». È così che incontro Sabrina, una forza della natura racchiusa in un corpo asciutto, apparentemente fragile. Energia, rabbia, volontà, ma anche amore incondizionato per tutti gli esserini pelosi definiti come «animali d’affezione». Non è facile relazionarsi con lei, donna determinata a cambiare, se non proprio il mondo intero, almeno quello di Micio e Fido. Il progetto era uno di quelli definiti «pilota». Il comune interessato: Miglieglia. Municipio e GAR, insieme, avevano dato il via al censimento della propria popolazione felina: mici padronali e mici… di strada. Obiettivo sterilizzare quelli «di strada» così da impedire una proliferazione eccessiva della colonia. Il progetto – con piena soddisfazione del Comune – riuscì. Per Sabrina & Co. iniziò un vero e proprio tour de force. La notizia finì addirittura in prima pagina sul «Corriere del Ticino». Altri Comuni seguirono l’esempio di Miglieglia, ma poi… le difficoltà ebbero il sopravvento. Sabrina, però, non si è data per vinta e, dopo una serie di battaglie, di lotte, di interventi ha deciso di cambiare: non il mondo, ma la sua vita. Ha lasciato il suo lavoro – il cosiddetto posto sicuro – si è iscritta alla SIUA (Scuola interazione uomo animale) del prof. Roberto Marchesini. Ha conseguito il diploma di educatore cinofilo e ha aperto «Mondocane». Ma come? Non stavamo parlando di gatti? Sabrina, come si arriva a cambiare vita? Semplicemente si apre il cassetto nel quale, anno dopo anno, si sono racchiusi i sogni. Ci si caccia dentro una mano. Si eliminano i sogni piccoli. Si mettono in fila quelli grandi e poi… poi si sceglie di realizzarne almeno uno. Io ho scelto il più im-

portante: occuparmi degli animali acquisendo una mia indipendenza personale e finanziaria. Dopo  anni ho lasciato il mio posto di lavoro e ho fatto una cosa che, quando avrei dovuto farla, proprio non m’interessava: studiare. È stata dura. È stato impegnativo, ma ci sono riuscita.

Sabrina con Kimy

Lei si è data molto da fare, in Ticino, per i gatti, ma… il suo centro si chiama «Mondocane», perché? Perché io, fin da bambina, sono «canara». Che vuol dire?… … che il mio animale preferito è il cane. Abbiamo sempre avuto cani in famiglia. Il mio primo cane me lo lasciò in eredità un cliente del bar gestito dai miei genitori. Io, bimbetta, intanto che lui chiacchierava con gli altri avventori, lo portavo a fare una passeggiata. Lo portavo a giocare. Un giorno quel signore non arrivò. Lo stesso giorno, nel pomeriggio, mi portarono il cane con la lettera nella quale mi indicava come sua referente umana. Forse il primo pezzetto del mio grande sogno è nato quel giorno lì. «Mondocane» è figlio di questo sogno. È il mio bambino, un bimbo che è il mio presente, ma soprattutto il mio futuro. Che ne è stato dei progetti come quello di Miglieglia? Uhi… Qui la cosa si fa complicata. Preciso subito che, dopo Miglieglia, ci siamo occupati dei randagi di Arbedo-Castione e che, anche con questo Comune, la collaborazione è stata ottima. Oserei dire più che ottima. Basti pensare che la convenzione che GAR e Comune avevano sottoscritto è in vigore ancora oggi. Dopo questi due Comuni ce ne sono stati molti altri, una quarantina. Una mole di lavoro decisamente importante. Ogni anno volontarie e volontari del GAR, tra catture, visite, censimento, sterilizzazione e gestione della colonia felina, si trovavano a interagire con  gatti. Il lavoro aumentava, ma aumentavano anche gli impegni dei volontari. Chi la famiglia, chi il lavoro, chi l’avanzare degli anni. Parallelamente diminuivano le persone disposte a impegnarsi in azioni di «volontariato felino». Così, dopo  anni, abbiamo deciso di invitare i responsabili dell’Ufficio del veterinario cantonale a subentrare nella gestione di questo progetto avviato e rodato. Risultato? Preferirei non entrare in materia. Posso solo dire che dopo anni passati a confrontarci con insulti, minacce e, qualche volta, anche con fucili spianati, dopo aver gestito migliaia di mici su tutto il territorio cantonale, vedere tutto il nostro lavoro riposto e dimenticato in un cassetto… beh, mi ha, ci ha, fatto male. E che ne è stato dei mici? Quelli che fanno parte delle colonie feline nate dall’azione congiunta GAR/Comune – sono restati  di mici sterilizzati – sono monitorati e accuditi dalle volontarie del GAR. E così sarà fino alla fine.

Torniamo a lei Sabrina. «Mondocane» è nato nel . Da quanto ci stava lavorando? Il mio percorso formativo è iniziato una ventina d’anni fa. In un primo tempo avevo pensato di iscrivermi a veterinaria. Poi ho fatto quattro calcoli e mi sono chiesta se davvero avrei potuto interagire nella modalità

Scheda Nata a: Bellinzona Età: 50 Abita a: Sementina Lavora a: presso me stessa, finalmente Hobby: Videogiochi, telefilm, studiare per il piacere di farlo Rimpianto: mai, nessuno. Una volta presa una decisione è quella e basta, senza ripensarci e qualsiasi sia il risultato Sogno nel cassetto: Ne ho milioni, in questo momento sviluppare pienamente tutto il potenziale professionale acquisito, riuscire a farlo in modo creativo e sempre umile Amo: I cani tutta la vita, anche i gatti li amo e ammiro perché non hanno bisogno di noi. Amo lavorare con le persone che a loro si accompagnano, per aiutarli a superare sé stessi Non sopporto: l’ipocrisia, la falsità e la slealtà La mia foto preferita: La foto con Kimy, un bellissimo ricordo

alla quale aspiravo – quella dell’interazione uomo-animale – come veterinario e così… ho riposto il sogno nel cassetto. Mi sono iscritta a una cinofila ticinese e ho imparato come ci si può (e ci si deve) relazionare con un cane. Poi, nel , l’ATRA (Associazione svizzera per l’abolizione della vivisezione) ha organizzato una conferenza-incontro con il prof. Roberto Marchesini. È in quell’occasione che annuncia l’apertura di un corso per educatore cinofilo SIUA a Lugano. Capisco che questa potrebbe essere la svolta. Mi iscrivo e, per mesi e mesi, finito il lavoro mi metto a studiare. È dura, ma… ce la voglio fare. Sostengo gli esami. Li supero. In seguito frequento anche il corso istruttore, presento la mia tesi e ottengo () il diploma di istruttore cinofilo. Non riuscirò mai a spiegare la gioia, profonda, che ho provato in quel momento. Posso chiederle quale fu il tema della sua tesi? Il percorso riabilitativo di Happy, un cane meraviglioso che, causa sordità, era diventato un problema per i suoi due umani. Happy, infatti, non potendo sentire, ogni volta che uno sconosciuto si avvicinava a entrambi o a uno dei due suoi… «famigliari», si avventava sul malcapitato azzannandogli le mani e le braccia. Problema da non sottovalutare visto che entrambi gli umani di Happy, per lavoro, si relazionano con molte persone. Il lavoro è stato lungo e io, piano piano, applicandola, ho ripassato, la

didattica (tutti gli studi fatti). Risultato: io mi sono diplomata e Happy è tornato ad essere un cane felice. La vita nuova di Sabrina potrebbe diventare un’altra vita ancora o… è arrivata al porto che voleva raggiungere? Diciamo che sono arrivata in un porto che mi consente di partire e tornare… a casa. Adesso – il  gennaio di quest’anno – ho superato l’esame finale della formazione di consulente della relazione felina sempre con «Approccio cognitivo zooantropologico alla psicologia felina relazionale». L’ho fatto perché penso che a «Mondocane» ci sia, e ci debba essere, anche uno spazio per i gatti e i problemi relazionali che anch’essi vivono con i rispettivi umani. Per il momento sto trattando solo un paio di casi, ma… ne arriveranno altri. C’è ancora un desiderio, un sogno nel cassetto di Sabrina? Questa mia nuova vita, come dicevo, è un punto di partenza. Già adesso mi sto impegnando nella zooantropologia didattica. Obiettivo consentire un’interazione corretta tra bimbi e animali. Un esempio? Come accarezzare un cane, ma soprattutto capire se il cane lo desidera. Poi c’è un super sogno: arrivare a occuparmi di cavalli. Il sogno massimo? Una casa in mezzo al bosco, completamente autosufficiente (energia e orto) e libertà. Insomma, il mio sogno è la totale indipendenza, ma… mi sa che questo sogno sarà per un’altra vita.

Tre momenti chiave di una vita Sabrina, lei ha disposizione  battute per illustrare tre momenti topici della sua vita: . L’entrata come attivista volontaria e poi membro di comitato dell’associazione ATRA. Lì ho potuto convogliare tutta la mia rabbia, sofferenza e delusione per quanto vedevo rispetto al trattamento che in generale l’umanità

riservava agli animali. Ho potuto con quel gruppo fantastico mettere tutta quella energia sprecata in qualcosa di buono, nello studio, nella progettualità, nell’azione diretta sul territorio per sensibilizzare e per cercare di dare agli animali il diritto all’esistenza. . L’esperienza di volontariato a l’Aquila nel , in aiuto degli animali

(e dei loro umani) terremotati. Quattro giorni incredibili che mi hanno fatto dire «farei questo tutta la vita». Avevo capito cosa volevo fare da grande . L’entrata in SIUA, la scuola di formazione che mi ha permesso di coltivare e realizzare il sogno di fare della mia passione la mia professione e di fatto di cambiare vita.


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MONDO MIGROS

L’assemblea delle colombe San Antonio

Attualità ◆ Le specialità del panificio Jowa di S. Antonino sono famose e apprezzate in tutta la Svizzera. Sugli scaffali trovate diversi formati del dolce pasquale, tutti prodotti in Ticino con ingredienti accuratamente selezionati

Colomba San Antonio 1 kg Fr. 11.60

Colomba Artigianale Sélection 500 g Fr. 17.50

Come ogni anno, sulla tavola di Pasqua non può mancare la colomba firmata dalla Jowa di S. Antonino, che delizia il palato di tutti i golosi grazie alla genuinità degli ingredienti utilizzati e all’ottimo rapporto qualità-prezzo. Migros offre un vasto assortimento di questa specialità festiva prodotta rigorosamente in Ticino e disponibile in tutti i supermercati della Svizzera. Ce n’è per tutti i gusti: dalla colombella da  g perfetta per la colazione o la merenda dei più piccoli; alle colombe in sacchetto nei formati da ,  e  grammi; fino alle classiche colombe in scatola da mezzo e un chilo ideali per omaggiare con un dolce pensiero parenti e amici. La gamma include anche una colomba senza canditi e la “colomba artigianale” Sélection, quest’ultima ulteriormente arricchita con varie tipologie di frutta secca come fichi, albicocche e noci.

frutto di una composizione degli ingredienti sapientemente dosata secondo un’antica ricetta, tramandata da oltre quarant’anni dai mastri panettieri-pasticceri dello stabilimento di S. Antonino. Come per quella del panettone, la produzione di una colomba si basa sulla lenta lievitazione dell’impasto, che avviene in modo naturale per almeno  ore con l’impiego di lievito madre, sostanza curata e «nutrita» dalla Jowa stessa. Questa peculiarità consente di ottenere dei prodotti che conservano più a lungo la loro freschezza e fragranza, come anche di sviluppare un sapore e un aroma caratteristici, ben equilibrati, dati dalla particolare microflora presente nel lievito naturale. Uguale attenzione viene prestata alla selezione degli altri ingredienti, semplici e genuini, come la farina di frumento, i profumati arancini canditi, le uova da allevamento al suolo e del buon burro indigeno. E siccome anche l’occhio vuole la sua parte, la superficie viene infine ricoperta con una glassa di mandorle e decorata con mandorle intere e granella di zucchero. Una volta aperta, la colomba San Antonio mantiene bene la sua freschezza ancora per alcuni giorni, a condizione di conservarla nel suo sacchetto originale ben chiuso e in un luogo fresco e asciutto.

Flavia Leuenberger Ceppi

Una lunga lavorazione

Per i clienti commerciali

La preparazione di una colomba Jowa si svolge sull’arco di ben  ore e implica molta artigianalità. Le fasi di lavorazione comprendono una preparazione basata su diversi rinfreschi dell’impasto, una lunga lievitazione, la spezzatura, la cottura in forno e il raffreddamento. Il sapore delicato e la soffice consistenza sono il

Attualità ◆ Grazie alla nuova carta MPRO le ditte e le associazioni o istituzioni pubbliche possono effettuare i loro acquisti alla Migros senza contanti in modo pratico e veloce

Da qualche mese Migros Ticino ha implementato un servizio destinato alle aziende o istituzioni pubbliche (grandi clienti) che effettuano regolarmente degli acquisti presso la Migros, con l’obiettivo di semplificare i loro acquisti: la carta MPRO. I detentori di questa carta possono beneficiare di una procedura di pagamento semplificata alla cassa, della massima trasparenza in qualsiasi momento sui propri acquisti e di uno sconto del % dall’ottenimento della carta. Il cliente riceve una fattura mensile conforme all’IVA con il dettaglio degli acquisti, in modo che le procedure amministrative siano semplificate.

La carta MPRO è valida in ogni supermercato o negozio specializzato di Migros Ticino (ad eccezione di OBI), ma può essere estesa su richiesta anche ad altre regioni della Svizzera. In qualità di cliente MPRO, il passaggio alla cassa avviene in modo pratico e veloce. Gli articoli vengono scansionati dalla cassiera e il pagamento viene effettuato direttamente con la carta, immettendo un codice PIN. Al termine dell’acquisto, il cliente riceve un bollettino di consegna che sostituisce lo scontrino di cassa. Per il pagamento ci si può rivolgere a qualsiasi cassa, ad eccezio-

ne della casse Self-scanning e Self-checkout. Si possono richiedere più carte per ogni azienda, come pure delle fatture separate. Le aziende interessate a MPRO possono rivolgersi ai contatti menzionati in calce. Riceveranno tramite posta un formulario d’adesione da riempire con le condizioni generali dettagliate del programma grandi clienti MPRO. Infine, ricordiamo che MPRO non è compatibile con la carta Cumulus. Per ulteriori informazioni Tel. 091 850 83 50 E-Mail: Mpro@migrosticino.ch


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MONDO MIGROS

La ciabatta 100% ticinese

Pane della settimana ◆ La ciabatta è un prodotto molto versatile, ottima sia come pane da tavola per la cucina quotidiana sia da farcire a piacere per la preparazione di squisiti sandwich

La ciabatta è uno dei pani più conosciuti e diffusi della tradizione gastronomica italiana. Originaria del Veneto, nasce agli inizi degli anni Ottanta come risposta alla sempre più diffusa baguette francese. Rispetto a quest’ultima, la ciabatta si distingue per il maggior tenore di idratazione dell’impasto: quasi tre quarti del peso totale è composto da acqua. Questa particolarità permette di ottenere una mollica dall’alveolatura (grandezza dei buchi) particolarmente pronunciata. Inoltre, anche la crosta della ciabatta risulta più croccante e dorata. La ciabatta firmata dai Nostrani del Ticino è panificata con farina di frumento chiara presso lo stabilimento della Jowa di S. Antonino. I cereali vengono coltivati in modo sostenibile sul Piano di Magadino e nel Mendrisiotto secondo i criteri della produzione integrata svizzera (IP-Suisse), vale a dire con metodi a basso impatto ambientale. La macinatura del frumento avviene sotto la supervisione del Mulino Maroggia. Che si tratti di un bel panino imbottito o di qualche fetta per accompagnare verdure, carni, formaggi o salumi, non ci sono limiti alla fantasia quando si tratta di gustare la ciabatta. Con l’arrivo della stagione più mite, potreste per esempio concedervi un piccolo pasto semplice ma saporito composto da un sandwich farcito con del ton-

no e dei peperoni. Per quattro persone tagliate per il lungo due peperoni e privateli dei semini. Arrostiteli in poco olio da entrambi i lati per qualche minuto. Salate e pepate. Frullate due uova sode con della maionese, alcune gocce di succo di limone e due spicchi d’aglio. Tagliate una ciabatta in quattro parti e quindi a metà. Spalmate sul pane la maionese all’aglio, farcite con qualche filetto di tonno sott’olio sgocciolato, i peperoni e delle foglioline di rucola. Coprite con l’altra metà del pane rimasto e gustate.

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SOCIETÀ

Uno spazio per la famiglia

Officina 13 ◆ È stato da poco inaugurato un nuovo centro nato dalla collaborazione tra Consultorio familiare e il Gruppo infanzia dell’associazione Comunità familiare

Guido Grilli

Era un’idea. Da qualche giorno rappresenta una realtà. Parliamo di Officina , un luogo interamente dedicato alla famiglia, in un contesto accogliente e competente, capace di offrire ascolto, condivisione, strumenti educativi e di proporsi anche quale sede di corsi specifici. Per conoscere contenuti e aspirazioni del progetto abbiamo avvicinato Federica Invernizzi Gamba, direttrice del Consultorio familiare dell’Associazione Comunità familiare, sodalizio che inaugura così un nuovo servizio. Partendo dal nome, Officina  – le due cifre derivano dalla sede di Comunità familiare situata appunto al numero  di via Trevano a Lugano – evoca riparazione, un luogo in cui si possa costruire e a un tempo ricostruire. È così? «Dopo un lungo periodo di incertezza – due anni di pandemia hanno reso tutto un po’ più difficile – ci siamo detti che mettere il focus sul nucleo centrale delle relazioni umane, la famiglia, fosse doveroso. Di qui l’idea di creare un progetto chiamato Officina , di un luogo dove costruire, assieme alle persone interessate – genitori e figli da  a  anni – i contenuti del fare famiglia. E quindi ci siamo immaginati un luogo che vedesse la presenza di “insegnanti” – persone con più esperienza – e di “allievi”. E insieme di perseguire un obiettivo comune: il benessere della famiglia. In questa Officina gli insegnanti non sono solo i professionisti del consultorio, bensì soprattutto i genitori stessi, che rappresentano i migliori esperti della famiglia e dei loro figli. Beninteso anche i figli possono essere in alcune situazioni dei maestri per i genitori. In questo progetto si lavora sia sulla costruzione della famiglia, dai suoi esordi, sia si ripara laddove la famiglia in un momento del suo percorso è andata incontro per esempio a delle rotture delle relazioni o a dei conflitti». Officina  risponde sia alle esigenze di uno spazio fisico sia simbolico. «Premetto che lo scorso anno Comunità familiare ha compiuto 

In viaTevano 13 esisteva già uno spazio per bambini, ora l’idea è stata ripresa e ampliata, con la presenza più strutturata di una consulente familiare.

anni e a causa della situazione pandemica non abbiamo avuto la possibilità di organizzare momenti celebrativi per l’anniversario. È comunque stata l’occasione per tracciare un bilancio e per rimettere al centro del nostro operato quello che rappresenta il valore fondante dell’associazione, ovvero l’impegno per il bene della famiglia. Un bene che si può raggiungere solo se si rende la famiglia partecipe e responsabile delle proprie scelte. Questa riflessione ci ha portato a rilanciare sinergie all’interno della nostra associazione, valorizzando  anni di esperienze: sia in quello che è la parte professionistica della consulenza e della mediazione del Consultorio familiare sia raccogliendo l’esperienza di tutti i volontari del Gruppo infanzia dell’Associazione Comunità familiare. Ecco che dalla sinergia di queste competenze è nato il progetto Officina , con la rivalutazione dei locali al ° piano della nostra sede di Lugano. Già prima della pandemia avevamo qui uno spazio bambini che aveva iniziato a sperimentare un centro di socializzazione dedicato all’età prescolastica (- anni) accompagnati da un genitore o un adulto che se ne occupa e diretto da una responsabile, da volontarie e da una consulente familiare.

L’idea del centro bambini è stata dunque ripresa, con la presenza più strutturata di una consulente familiare per un luogo in cui ci si possa confrontare non in un contesto di cura e di setting terapeutico, ma in un ambito informale, di socializzazione. I genitori presenti hanno da un lato la possibilità di sperimentare la socializzazione con i loro bambini, anche in vista di una maggiore istituzionalizzazione dal momento in cui inizieranno la scuola, in presenza anche delle volontarie e di una professionista nell’ambito familiare». Oltre a sede di socializzazione, Officina  rappresenta anche la sede di corsi dedicati a temi propri della famiglia. «L’idea è di proporre delle serate di confronto, a piccoli gruppi ( persone): sia rivolti alle coppie che stanno pensando di diventare famiglia, dunque ai futuri genitori, sia ai neogenitori. Le serate verteranno su tematiche che negli anni ci siamo trovati ad affrontare e che vedranno la presenza di professionisti – consulenti, mediatori familiari e infermiere pediatriche del Servizio cure a domicilio di Scudo. Fra i temi: “Mi sposo-non mi sposo”, in cui si affronteranno gli aspetti giuridici e non del matrimonio. Inoltre vi saranno serate sulla

relazione di coppia e su cosa cambia all’arrivo di un bambino, nonché sulla famiglia di origine e sui futuri papà. I corsi non intendono essere “ex cathedra” in cui si impartiscono lezioni, bensì cornici in cui i partecipanti possano portare le loro esperienze. Officina  offre inoltre incontri accompagnati per figli di genitori separati, alla presenza di un consulente e di un mediatore familiare, con l’intento di ricostruire delle relazioni genitori-figli che per varie ragioni si sono interrotte». A livello pratico, come viene gestito il nuovo servizio? «Il centro di socializzazione è aperto ogni martedì, giovedì e venerdì dalle . alle .. Coordinato da una responsabile, Barbara Albieri Ierace, insieme a una équipe formata da volontarie/i e da una consulente del Consultorio familiare accoglie fino a una decina di bambini da  a  anni accompagnati da un adulto. Lo spazio è aperto, non è necessaria una preiscrizione e il tempo di frequentazione è libero. Viene richiesto un contributo di cinque franchi a mattinata. Il centro si estende su un’ampia superficie composta da cinque locali e da un grande atrio completamente rinnovati. Contempla spazi per il gioco per i bambi-

ni, un locale dedicato al movimento, uno alle attività creative, e uno spazio più riservato ai genitori (salotto, tavolini e cucina)». Nel caso in cui emergesse il concreto bisogno di approfondire alcune specifiche difficoltà da parte delle famiglie potete garantire una presa a carico? «Ci siamo resi conto di come sia difficile per un genitore chiedere aiuto quando ha bisogno, soprattutto quando si tratta della relazione con il proprio bambino. Ci si sente magari sbagliati o in colpa. E a volte le difficoltà che si vivono non sono forzatamente legate all’educazione dei figli, ma alla relazione di coppia. Per quei genitori che reputano di voler approfondire determinati ostacoli siamo in grado di proporre loro una consulenza genitoriale al Consultorio familiare, insieme magari al partner. Il nostro non è assolutamente un luogo in cui ci sono delle valutazioni, giudizi o, peggio, delle segnalazioni, bensì un costruire insieme per il benessere della relazione all’interno della famiglia». Famiglia che negli ultimi anni è cambiata nei suoi modelli e generi. «Noi troviamo molto costruttivo, anche dopo la recente votazione Matrimonio per tutti, che si sia arrivati a parlare e riconoscere che le famiglie possono essere molto diverse fra di loro. Quello che le accomuna tutte è che se ci sono dei figli, i genitori costruiscono insieme il benessere dei figli. I nostri corsi per i neo genitori, così pure Officina , sono aperti a tutti i genitori e a tutte le persone responsabili di un bambino. Troviamo molto interessante poter accogliere varie espressioni di famiglia, che si tratti di genitori uomo donna, sposate o meno, o due mamme o due papà, il nostro centro è aperto a tutte le famiglie che hanno voglia di confrontarsi, di condividere degli spazi. Nel loro insieme rappresentano una preziosa rete di relazioni». Informazioni www.comfamilare.org.

Viale dei ciliegi Ruth Krauss-Marc Simont Il giorno felice Camelozampa. Da 2 anni.

Ci sono molti modi per raccontare l’arrivo della primavera, e molti di essi sono cardini della letteratura poetica di tutti i tempi. Ma si può anche raccontarla senza stemperare l’effetto meraviglia che ogni volta ci coglie al suo arrivo, in un modo minimo, semplicissimo, affidandosi solo a pochi verbi, a illustrazioni in bianco e nero, e alla narrazione essenziale del risveglio degli animali. Gli animali sono i topi di campagna, gli orsi, le chioccioline, gli scoiattoli, le marmotte. Prima dormono, poi aprono gli occhi e annusano, poi corrono fuori dalla tana. Dormono. Annusano. Corrono. Ogni verbo per ogni categoria di animale, elencate sempre in questa sequenza. Una sequenza che diventa immediatamente ritmica, un ritmo crescente, perché gli animali che escono dalle tane sono sempre di più, la loro corsa diventa sempre più veloce, le loro zampe, piccole e grandi, lasciano sempre più impronte nelle

di Letizia Bolzani

neve. Un climax narrativo e ritmico che sembra fatto per la lettura ad alta voce. Il culmine è raggiunto: «si fermano». È come un fiato sospeso nella lettura, perché gli animali si fermano in cerchio attorno a qualcosa, ma noi non vediamo ancora cosa, è una cosa piccola, nascosta dal grosso corpo degli orsi. E poi il ritmo riprende, leggero: «Si fermano. Ridono. Ridono. Danzano». Solo verbi, scanditi, e gli animali attorno a qualcosa. Ed eccola, la sorpresa, nella pagina finale. È spuntato un fiore nella neve. Una

sorpresa piccola, umile, che diventa però straordinaria per come è resa, con due tocchi, due soli sapienti tocchi, di testo e di immagine. Due tocchi capaci di farci cogliere il cambiamento, la meraviglia della vita che si rinnova, il respiro dell’universo. Il testo non è più descrittivo e diventa, per la prima e unica volta, un discorso diretto: «Oh! È spuntato un fiore in mezzo alla neve!» L’illustrazione non è più in bianco e nero ma viene illuminata, proprio al centro, dal giallo rilucente di una margheritina. Un capolavoro del  (Caldecott Honor Book), di due tra i più grandi autori per l’infanzia, ora fortunatamente proposto in traduzione italiana da Camelozampa. Cipì e Bandiera in scena!, sceneggiature originali di Mario Lodi, a cura di Giorgio Scaramuzzino, Einaudi Ragazzi. Da 7 anni.

Un secolo fa, o poco più, nasceva un quartetto di grandi maestri della letteratura per l’infanzia: nel  Gianni Rodari e Pinin Carpi, nel  Le-

le Luzzati, e nel  Mario Lodi. Quest’anno si celebra dunque il centenario di Mario Lodi, pedagogista innovatore, insegnante amatissimo dai suoi alunni, scrittore di racconti che sono diventati dei classici, a cominciare da quel Cipì, che nasce come esperimento in una prima elementare di Vho di Piadena nel , quando egli invitò i bambini ad aprire la loro prospettiva visiva oltre la finestra, e a liberare l’immaginazione. Ed ecco allora l’avventura del passerotto Cipì che (come l’infanzia) scopre il mondo,

tra gatti, margherite, sole, pioggia, farfalle. E tra amicizia, paura, gioia di vivere, libertà. E poi il racconto Bandiera, in realtà scritto un anno prima di Cipì, sempre dai bambini di Vho. L’idea della storia nasce dall’osservazione di una foglia di ciliegio che resiste sul ramo più alto: una foglia ribelle, che non vuole cadere perché è curiosa di sapere, di vedere… In occasione del centenario, Einaudi Ragazzi presenta in libreria un volume che raccoglie entrambi i racconti di Lodi, in versione teatrale. Lo stesso Lodi ne aveva tratto due copioni, che la figlia Cosetta ha scovato in un cassetto, e che ora vengono riadattati dal regista (nonché attore e drammaturgo) Giorgio Scaramuzzino, così che possano essere fatti rivivere e interpretati dai bambini di oggi. Un bel modo di proporre il teatro a scuola. O a casa, perché no? Sempre da Einaudi Ragazzi escono, per celebrare il grande maestro, anche una nuova edizione preziosa di Cipì e una nuova edizione di La mongolfiera con le illustrazioni originali di Angelo Ruta.


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SOCIETÀ

Più aiuti per rimanere a casa

Anziani ◆ Presentata la nuova Pianificazione cantonale per rispondere ai bisogni della terza e quarta età in collaborazione con gli enti attivi sul territorio Stefania Hubmann

Ogni cambiamento tende a rappresentare per la persona anziana una sfida e una fonte di ansia. Quando si vive ancora a casa propria per affrontare queste problematiche occorre sovente l’accompagnamento di familiari e/o servizi di appoggio. Un esempio attuale sono i nuovi bollettini di versamento con codice QR, sistema che diventerà definitivo a partire da ottobre. La Fondazione Pro Senectute Ticino e Moesano, verificato l’interesse dell’utenza della terza e quarta età, ha deciso di proporre (in collaborazione con la Posta e l’associazione GenerazionePiù) diversi incontri utili anche per chiarire il funzionamento dei servizi finanziari e postali online. Attenta alle nuove esigenze degli anziani, la Fondazione risponde tempestivamente ai piccoli e grandi mutamenti della vita quotidiana con l’obiettivo di permettere loro di rimanere al proprio domicilio il più a lungo possibile. Una tendenza in sintonia con la strategia del Cantone di cui la Fondazione, come altre organizzazioni, è partner sul territorio. Proprio di recente è stata presentata dal Dipartimento della sanità e della socialità (DSS) la nuova Pianificazione integrata per il decennio fino al , volta a rispondere in modo adeguato ai bisogni presenti e futuri di questa fascia della popolazione. Al di là delle difficoltà legate alla salute, la digitalizzazione è sicuramente una delle sfide più impegnative per chi si trova in età molto avanzata. Laura Tarchini, portavoce di Pro Senectute Ticino e Moesano, spiega che i giovani anziani sono invece sempre più aggiornati: «L’ultimo studio di Pro Senectute sui digital senior relativo al  conferma che la percentuale degli “anziani digitalizzati” è in continuo aumento e che circa l’% degli interpellati utilizza quotidianamente questi dispositivi. La pandemia ha inoltre intensificato tale pratica. Per quanto concerne il primo incontro dedicato alle fatture con codice QR, svoltosi lo scorso novembre a Lugano, numerosi erano i partecipanti muniti di tablet e

smartphone. In realtà il nuovo sistema facilita il pagamento digitale. Si tratta per gli anziani di capire come funziona e abituarsi alla novità. Va ricordato che sarà comunque possibile continuare a pagare le fatture allo sportello o a utilizzare il libretto di ricevute». I prossimi incontri saranno organizzati il  marzo e il  aprile a Sant’Antonino, il  aprile a Mendrisio, il  maggio a Solduno e il  giugno a Lugano. Anche altre questioni – rileva la nostra interlocutrice – necessitano tuttavia di supporti specifici per le persone anziane. «Uno dei cambiamenti più significativi è il trasloco. Disponiamo di un servizio ad hoc per aiutare chi deve cambiare casa. Per le questioni amministrative correnti abbiamo istituito il Servizio fiduciario che conta al momento una quarantina di utenti. Nel  parte inoltre il Servizio dichiarazione d’imposta. Questi servizi mirati vanno a sgravare la consulenza sociale sugli aiuti finanziari che segue ogni anno oltre  persone in età di pensionamento». L’impegno di Pro Senectute Ticino e Moesano – che comprende numerose altre attività come il servizio pasti a domicilio e i cinque Centri diurni terapeutici – rientra nel settore Mantenimento a domicilio dell’Ufficio degli anziani e delle cure a domicilio, il quale si occupa pure di Assistenza e cure a domicilio e delle Strutture per anziani sotto l’egida della Divisione dell’azione sociale e delle famiglie del DSS. Tre settori che nella Pianificazione integrata -, presentata alla fine dello scorso anno, per la prima volta sono oggetto di una visione unitaria. «Servizi di assistenza e cure a domicilio e Servizi di appoggio da un lato e Case per anziani dall’altro sono regolati da due leggi diverse», spiega il direttore della divisione Gabriele Fattorini. «Per i primi si tratta della Legge sull’assistenza e cura a domicilio (LACD, che include tutti i casi in cui è necessario un aiuto per facilitare la permanenza a domicilio), per le seconde della LAnz, specifica per la po-

È importante poter affiancare gli anziani anche nei piccoli mutamenti della vita quotidiana: Pro Senectute ad esempio propone degli incontri dedicati alle fatture con codice QR. (Shutterstock)

polazione residente in casa anziani. La nuova visione d’insieme permette una valutazione coordinata di tutte le prestazioni erogate a favore degli anziani con la possibilità di considerare gli effetti di un cambiamento in un settore sull’altro e viceversa. Vengono inoltre favorite la continuità della presa a carico delle persone e la funzionalità della rete dei servizi». Qual è il vantaggio di lavorare sul lungo termine? Risponde il direttore Fattorini: «Anche il periodo pianificatorio di dieci anni è una novità, perlomeno per i servizi di assistenza e cura a domicilio e di appoggio. In questo modo, attraverso aggiornamenti periodici, è possibile risolvere potenziali criticità che emergono con il tempo tenendo conto di nuove variabili. Sarà per esempio il caso della pandemia e del suo notevole impatto in questo delicato settore». Il DSS propone così una visione d’insieme della presa a carico della persona anziana secondo cinque principi ispirati, oltre che ai diritti contenuti nelle leggi in vigore, alla «Carta Europea dei diritti e delle responsabilità delle persone anziane bisognose di cure ed assistenza a lungo termine», il cui fine è preservare la dignità umana in ogni circostanza. Più precisamente si tratta di favorire l’autodeterminazione degli anziani tenendo presenti le ca-

ratteristiche e le esigenze di chi sarà in questa condizione fra alcuni anni, di trasformare i luoghi di cura in luoghi sociali senza peraltro venir meno alle risposte specifiche di cui determinate persone hanno bisogno e di assicurare prestazioni di alta qualità. Questo per quanto concerne direttamente i destinatari, mentre altri due punti riguardano il potenziamento della presa a carico domiciliare e la gestione integrata dell’offerta basata su reti di collaborazione regionali. Il funzionario evidenzia come in Ticino il principio «ambulatoriale prima di stazionario» sia già applicato da un ventennio. «La nuova pianificazione mira a uno sviluppo contenuto del settore stazionario compensato da un rafforzamento dei settori ambulatoriali. Rafforzamento che vede l’aumento più significativo nell’ambito dei servizi di appoggio». In quest’ultimo settore l’attenzione si concentra sui centri diurni terapeutici, i quali rispondono a tre obiettivi: preservare le risorse e le competenze residue degli utenti, sostenere il mantenimento a domicilio e sgravare i familiari curanti. Gabriele Fattorini: «Queste strutture – dieci in totale – sono presenti in modo piuttosto capillare sul territorio; quattro sono situate all’interno di case per anziani, sei in sedi autonome. Il fabbisogno a questo

livello risulta al momento scoperto se si tiene in considerazione quanto indicano, fra gli altri, i medici geriatri, per i quali un reale beneficio sul mantenimento delle funzioni cognitive necessita una frequenza di almeno tre giorni la settimana. Si vuole quindi portare la capacità ricettiva da quasi mila giornate a mila, introducendo una turnistica più ricettiva e/o l’apertura nei week-end. L’ampliamento degli spazi delle strutture esistenti viene considerato, senza necessariamente prevedere nuovi centri. Con queste modifiche si potrebbero accogliere anche le richieste delle persone affette da patologie somatiche croniche e neurodegenerative, mentre oggi i posti sono quasi esclusivamente occupati dai casi legati alle demenze». Altra questione importante è quella delle collaboratrici e dei collaboratori familiari che da una decina d’anni sono presenti nelle case delle persone anziane contribuendo a prolungare la loro permanenza a domicilio. Qui la Pianificazione desidera poter definire i parametri necessari per inserire queste figure nella rete di sostegno esistente. In questo modo mansioni e tariffe verrebbero uniformate e la prestazione potrebbe essere riconosciuta dalla LACD, facilitando l’accesso a questa forma di aiuto. Sfide personali e familiari da affrontare nella terza e quarta età e sfide dell’ente pubblico nel cercare di rispondere al meglio ai bisogni di questa fascia della popolazione. Sono le due facce di una stessa medaglia legata all’invecchiamento della popolazione. A fronte di un aumento del % di quest’ultima fra il  e il , le previsioni indicano un aumento del % delle persone con  o più anni, del % della fascia - e del % di coloro che supereranno i  anni. La Pianificazione integrata presentata dal DSS offre una strategia d’insieme flessibile pronta ad adattarsi all’evolvere della situazione e soprattutto a sfruttare tutte le possibili soluzioni per permettere alle persone anziane di continuare a vivere a casa propria. Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Leggete la storia di Youssef: caritas.ch/youssef-i

Youssef Ghanem, 43 anni, Libano, sprofonda sempre più nella povertà a causa del crollo dell’economia.


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SOCIETÀ

Un inchino al faggio, eletto albero dell’anno Natura

In Svizzera è la seconda specie forestale per numero di esemplari, preceduta solo dall’abete rosso

Marco Martucci

Presenza familiare quasi ovunque, non è difficile incontrarlo. È il faggio, Fagus sylvatica, eletto Albero dell’anno  dalla fondazione tedesca «Baum des Jahres», un’iniziativa divenuta tradizione e che supera i confini fra le nazioni, coinvolgendo anche la Svizzera. Lo omaggiamo oggi,  marzo, sottolineando così anche la Giornata internazionale delle foreste.

In Svizzera, il faggio è raro in Vallese, a causa del clima secco, ma è ben presente sull’Altopiano, e in estese aree boschive del Ticino A livello nazionale è la seconda specie forestale per numero di esemplari, preceduta solo dall’abete rosso. Anche nel resto d’Europa è una delle specie forestali più importanti. I limiti della sua diffusione sono determinati, oltre che dalla presenza dell’uomo, soprattutto dalle condizioni climatiche. Il faggio preferisce infatti climi piuttosto umidi e non eccessivamente freddi né caldi. In Scandinavia lo troviamo solo nelle pianure meridionali, in Sicilia sulle pendici dell’Etna. In Svizzera il faggio è raro in Vallese, a causa del clima secco, ma è ben presente sull’Altopiano. In Ticino occupa aree boschive estese un po’

ovunque, particolarmente nel Sottoceneri, in Vallemaggia, Onsernone e Centovalli mentre sono quasi assenti in Leventina e in Valle di Blenio. La gran parte delle faggete le troviamo fra i  e i  metri di quota su ogni tipo di suolo, da quello calcareo del Monte Generoso al siliceo della Valcolla, tanto per fare qualche esempio. Per familiarizzare con questa specie non c’è di meglio che osservarla dal vero e attraverso le varie stagioni, con una gradevole e salutare passeggiata in una faggeta. L’inverno è la stagione migliore per ammirare il portamento del faggio e la tipica corteccia grigia e liscia. Nei cosiddetti meriggi, gruppetti isolati di faggi secolari fornivano e forniscono ombra al bestiame, i rami partono dalla base del tronco e l’albero assume forma tondeggiante. In posizioni esposte. il faggio prende un portamento cespuglioso. Nel bosco, i tronchi sono più alti e slanciati, simili a colonne e l’inserzione della chioma può essere ad altezze che superano i venti metri. Toponimi come Faido o Faedo in Val Bavona testimoniano l’importanza storica della faggeta nel nostro territorio, sia per la produzione di legna da ardere, da carbone e da costruzione, per lo strame e il pascolo ma anche per la protezione contro frane e scoscendimenti. La faggeta ospita un gran numero di animali di

Maestoso antico faggio al Monte Boglia, un tempo forse solitario, ora circondato dal bosco. (Marco Martucci)

specie diverse, cinghiali, cervi, uccelli. Il suolo, in assenza di neve, è coperto da un fitto strato di foglie secche e pare non esserci vita. Ma è solo un’illusione. Sia la lettiera sia il legno marcescente di faggio accolgono decine di specie d’insetti come la stupenda Rosalia alpina, uno dei nostri

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più grandi e bei coleotteri, che trascorre da due a tre anni della sua vita dentro il legno di cui si nutre. In primavera, prima dello spuntare delle tenere e verdi foglie, il sottobosco si colora con diverse fioriture, come quella dell’anemone bianca, Anemone nemorosa. Presto, però, la fitta chioma degli alberi toglierà la luce e molti fiori spariranno. Il faggio sopporta la propria ombra ma fa concorrenza alle altre specie e poche riescono a resistere, come fa l’agrifoglio. Verso l’estate, il faggio fiorisce, presentando fiori maschili e femminili sullo stesso albero. In autunno, invece, le foglie prendono colori stupendi, dapprima il giallo e poi il rosso-bruno, prima di cadere. Nel frattempo, il sottobosco diventa il regno dei funghi, molti dei quali vivono in simbiosi con il faggio. Dai fiori femminili, intanto, si sono formati i frutti, le faggiole o faggine. In numero di due sono racchiusi in una cosiddetta cupola, una sorta di riccio non pungente che ricorda la parentela botanica con castagno e quercia, tutte specie della stessa famiglia, le Fagacee. Le faggiole hanno forma triangolare, color marrone e contengono semi ricchi di olio. Sono apprezzato nutrimento per molti animali e commestibili anche per noi. La quantità di faggiole varia di anno in anno, come per tanti alberi della foresta, fra cui querce e abeti. Le annate ricche di faggiole, di ghiande, di pigne, sono chiamate annate di «pasciona» dall’usanza di lasciar pascolare (pascere) i maiali sotto le querce per farli ingrassare, diventar pasciuti. La «pasciona» è una festa per tanti altri abitanti del bosco, la cui popolazione aumenta grazie all’abbondanza di cibo. È una strategia degli alberi per saziare i predatori, lasciando un più grande numero di semi che, nella primavera successiva, germineranno rinnovando il bosco. Le pascione sono spettacoli affascinanti: i rami dei faggi arrivano a piegarsi sotto il peso delle abbondanti faggiole. Si ripetono nel tempo a intervalli variabili più o meno lunghi e coinvolgono non solo piccoli gruppi di alberi ma foreste di grande estensione. È come se gli alberi si mettessero d’accordo per sincronizzare la loro produzione di frutti. La «pasciona» di faggio più recente risale al , un’altra, molto abbondante,

avvenne nel . Per indagare sulle «pascione» e scoprirne le cause, un gruppo internazionale di cui facevano parte anche i ricercatori dell’Istituto federale di ricerca WSL di Cadenazzo, ha raccolto dati sulle annate di «pasciona» di faggio e abete rosso degli ultimi  anni in tutta Europa. Per il Ticino, ci spiega Marco Conedera del WSL, si sono prelevati pollini di faggio contenuti negli strati del fondo del Ceresio, presso Caslano. I risultati della ricerca, pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica «Nature Communications», sono stati sorprendenti. A mettere in moto le «pascione» europee è un fenomeno climatico di vasta portata, che avviene molto lontano, l’Oscillazione Nord Atlantica NAO, che nasce dalla differenza di pressione tra la depressione d’Islanda e l’Anticiclone delle Azzorre. La NAO influirebbe sulla fioritura, durante l’inverno e nell’estate, prima della maturazione dei semi. Fattori determinanti sarebbero l’accumulo di sostanze nutritive, la formazione di gemme a fiore nell’anno precedente la «pasciona» e l’efficace impollinazione favorita dal vento. È impressionante scoprire che anche i faggi ticinesi – fra i quali quelli delle antiche faggete valmaggesi – delle Valli di Lodano, Busai e Saladino, inseriti l’anno scorso nel Patrimonio mondiale dell’Unesco, possano ricevere un segnale che parte dal bel mezzo dell’oceano. Informazioni www.wsl.ch; www.mastweb.ch


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SOCIETÀ

I sentieri dei cavalli Mondoanimale

La modifica della Legge sui percorsi pedonali e sentieri escursionistici sotto la lente del mondo equestre

Maria Grazia Buletti

«Il cavallo è un animale che per sua natura necessita di muoversi all’aria aperta a imprescindibile beneficio del suo equilibrio psicofisico. Per questo, dovrebbe continuare a poter percorrere strade e sentieri preferibilmente sterrati, liberi da ostacoli architettonici come scalinate e barriere posati in luoghi tranquilli e poco trafficati». A parlare è la presidente della Federazione ticinese degli sport equestri (Ftse) Ester Camponovo. E non fa che ribadire la tutela del cavallo che ricorda essere «un animale da sempre appartenente al nostro territorio rurale. L’equitazione di campagna è utile agli amanti del cavallo, animale del quale ribadisco l’importanza di tutelare il benessere, come d’altronde indica chiaramente la Legge federale sulla protezione degli animali. Cionondimeno, cavalcare in campagna offre a cavalieri e amazzoni la pratica di uno sport molto salutare, quello equestre del tempo libero all’aria aperta, che coniuga attività fisica con amore per la natura e l’ecosistema in senso lato». Oggi la Ftse torna con urgenza a occuparsi della conformazione del nostro territorio per rapporto al cavallo e alla pratica dell’equitazione all’aperto, in ragione del fatto che le autorità preposte hanno avviato una procedura di consultazione relativa alla Modifica della Legge sui percorsi pedonali e i sentieri escursionistici (Lcps). Queste le ragioni dell’accorato interesse: «In Ticino possiamo contare

alcune migliaia di cavalli e un numero ancor più grande di appassionati: uno sport in crescita soprattutto fra i giovani, eccellente per i bambini perché favorisce la crescita psicomotoria e rafforza autostima e senso di responsabilità. Uno sport assai completo che a livello prettamente fisico allena resistenza, forza muscolare, coordinazione motoria, agilità ed equilibrio. Per non parlare del grande giovamento del rapporto che si crea tra essere umano e cavallo a cui egli dovrà assicurare il massimo benessere psicofisico osservandone le esigenze (in primis quella di potersi muovere quotidianamente in ampi spazi)». D’altra parte, la presidente Ftse

analizza le caratteristiche del territorio ticinese: «Ha una conformazione notoriamente caratterizzata da zone montagnose e fondovalle, con la conseguente concentrazione degli agglomerati urbani e delle principali vie di comunicazione proprio sul fondovalle». Ne deriva che: «A differenza di altri Cantoni elvetici, gli spazi verdi che possono essere sfruttati per scopi ricreativi sono quelli che non hanno ancora ceduto il passo all’urbanizzazione, oramai piuttosto ridotti e contesi con altri importanti attori, tra i quali pure il settore agricolo». Da quest’analisi scaturisce l’urgenza di tutelare il cavallo nell’ambito della riorganizzazione territoriale: «Il

nostro Cantone offre una rete di sentieri e percorsi escursionistici molto ricca e molto interessante per le varie utenze del tempo libero. È chiaro che per quanto attiene al cavallo, la tipologia di suolo incide in maniera importante sulla percorribilità della rete escursionistica: ad esempio, un terreno in asfalto (o altro materiale simile) può limitare estremamente la pratica dell’equitazione, poiché nuoce alle articolazioni del cavallo e ne limita in ogni caso la naturale andatura. Un fondo che andrebbe bene per altre utenze, ma che risulterebbe molto pericoloso per il cavallo perché sdrucciolevole, e per il cavaliere stesso perché troppo duro in caso di caduta». Camponovo identifica un suolo naturale come percorso ideale al cavallo: «Si addice all’anatomia e fisiologia dell’equino e alle sue andature». Purtroppo, spiega che oggi il nostro territorio è sempre più permeato di ostacoli come asfalto, barriere architettoniche, traffico stradale e divieto di circolazione per i cavalli: «La moderna concezione delle vie di comunicazione non tiene più regolarmente conto delle esigenze del più antico mezzo di trasporto (ndr. per l’appunto: il cavallo), e ciò nuoce fortemente alla percorribilità in sella della rete escursionistica». È quindi storia recente l’impegno capillare della Commissione cavallo e ambiente (Cca) della Ftse nella sensibilizzazione di autorità e opinione pubblica sugli aspetti legati alla via-

bilità e alle necessità di considerare il cavallo in ambito di pianificazione del territorio: «Si è evidenziato come la corretta tenuta del cavallo rappresenti un valore aggiunto per il territorio, e apporti un contributo molto positivo al paesaggio e all’ecosistema di cui è una naturale componente». Oltre alla promozione di campagne di divulgazione delle buone regole di comportamento nell’incontro fra cavalli e le diverse categorie di utenza del territorio, oggi la Cca ha presentato le proprie osservazioni nella procedura di consultazione relativa alla Modifica della Legge sui percorsi pedonali e i sentieri escursionistici: «Sono osservazioni di carattere generale e puntuale – spiega la presidente della Cca, Valentina Matteuzzi – ponendoci sempre nell’ideale di una pacifica convivenza tra tutte le utenze, e nel contempo portando l’attenzione sulla nostra voce, a sottolineare come il cavallo non sia finora stato in nessun modo preso in considerazione, malgrado sia parte del territorio e della sua percorrenza». Fondamentale rimarranno la difesa di interessi e delle esigenze del cavallo. «Se esso potrà continuare a occupare il posto che ha sempre meritato e merita nel territorio dipenderà dalla nostra collettività, verso la quale noi cavalieri e amazzoni portiamo la responsabilità di difendere e preservare la cultura di questo magnifico animale» conclude Camponovo. Annuncio pubblicitario

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 21 marzo 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

SOCIETÀ / RUBRICHE ●

L’altropologo

di Cesare Poppi

Nonostante Pocahontas ◆

Così aveva parlato Powathan, il Capo dei -. Indiani Algonchini che già ai primi del ’ si erano trovati a fare i conti con l’aggressività dei coloni di Jamestown, Virginia: «Voi non siete venuti qui per commerciare, ma per invadere il mio popolo e conquistare la mia terra… ho già visto morire tutta la mia gente per tre volte e conosco la differenza fra pace e guerra meglio di ogni altro. E so anche che se dovessi entrare in guerra allora Capitan Smith non mi darebbe tregua né per mangiare né per dormire cosicché i miei uomini per quanto stanchi dovrebbero costantemente vegliare per dare l’allarme ogni volta che sentissero rompersi un filo d’erba perché vorrebbe dire che arriva Capitan Smith e Powathan dovrebbe allora fuggire nemmeno lui sa dove finché terrorizzato non ponga fine alla sua vita miserabile…». John Smith era la bestia nera di Powathan. Governatore della co-

lonia dal , commerciava strumenti di metallo con gli indigeni in cambio di vettovaglie che nella crescente città risultavano sempre scarse. Presto al commercio si erano aggiunti scambi forzati e poi vere e proprie razzie. Interi insediamenti erano stati rasi al suolo mentre gli Algonchini iniziavano a rifiutarsi di cedere cibo e altre merci di sopravvivenza. I guerrieri Algonchini avevano finito per stringere d’assedio Jamestown e molti coloni erano morti di stenti nell’inverno del . Indotto a più miti consigli, John Smith si era reso conto che l’unica maniera per salvare il salvabile fosse di tornare a pacifiche relazioni commerciali con gli aborigeni. Ma altri leader dei coloni la pensavano diversamente: per i Thomas Dale e i Thomas Gates della Virginia l’unico indiano buono era un indiano morto. Nel luglio del  Gates (non Bill) attirò il grosso dei guerrieri algonchini con la scusa di tenere

una festa di pace con musica e danze e li massacrò fino all’ultimo uomo. In seguito all’agguato, nel caos che seguì, gli Inglesi presero prigioniera Pocahontas, la figlia di Powathan e pretesero che questi liberasse tutti i prigionieri e restituisse le armi conquistate in cambio della vita della figlia. Ma, come certo sapranno i romanticissimi lettori dell’Altropologo, a questo punto, sull’orlo della catastrofe, amor omnia vincit: Pocahontas incontrò John Rolfe, forse il primo colono a guadagnare una fortuna commerciando tabacco e Capuleti e Montecchi si trovarono costretti a fare la pace. Pocahontas imparò l’inglese e fu battezzata Rebecca per poi convolare col suo John, il quale a sua volta ebbe a scrivere: «Non lo farò per dar sfogo alle furie dell’amore carnale, ma per il bene della colonia e la gloria di Dio. Possa questo matrimonio portar pace fra gli Inglesi e Powathan, così come soddisferà il desiderio di Po-

cahontas». E così coloni e indigeni vissero insieme felici e contenti per quasi una decade idilliaca durante la quale si invitavano l’un l’altro a cena e addirittura dormivano ospiti nelle rispettive dimore. Poi il diavolo ci mise la coda. Morto Powathan, gli succedette il fratello Opitchapam – lui stesso un anziano già avanti con gli anni, mite e acciaccato e certo felice di poter andarsene nei pascoli del cielo con calma e dignità. Il Grande Vecchio aveva però alle calcagna, scalpitante e ambizioso di fargli le scarpe, il giovane fratello Opechancanough. Questi, a sua volta si era scelto come compagno d’avventura e consigliere quell’altra testa calda che era Nemattanew. Era questi un giovane capo guerriero che era diventato famoso per scendere sul campo di battaglia coperto di penne, a mo’ dei Guerrieri-Aquila Aztechi. Si favoleggiava che potesse volare e si attribuiva a questo il fatto che non fosse

mai stato ferito in battaglia. Di lui sono passate alle storia svariate – e forse svarionate – res gestae. Convinti della malvagità dei coloni e della propria invincibilità, i due giovani capi cominciarono a sviluppare contatti per un’insurrezione generale di tutta la Virginia. Opechancanough depose il vecchio imbelle fratello nel . Poi però un colono gli uccise l’amico Nemattanew in uno di quegli incidenti che incendiano la Storia: era la primavera del . Ormai i giochi erano fatti e il dado era tratto. Il  marzo  gruppi di Algonchini si presentarono in varii insediamenti in tutta la Virginia carichi di derrate alimentari e altra mercanzia. Invitati dai coloni a trattarne l’acquisto, attesero il momento propizio: al segnale si scagliarono sugli shoppers e ne fecero strage. Al tramonto si contarono  morti ammazzati: un quarto degli immigrati inglesi in Virginia. Requiescant.

La stanza del dialogo

di Silvia Vegetti Finzi

Le paure dei bambini ◆

Gentile dottoressa, sono la mamma di Giulio, un bambino di  anni che non ci ha mai dato problemi ma da qualche tempo dorme male, si sveglia di notte e vuole venire a dormire nel lettone. Va all’asilo volentieri, scende e risale con lo scuolabus senza problemi ma si rifiuta di venire con me e il papà a fare le passeggiate nel bosco con il cagnolino come abbiamo sempre fatto. Dice che ha paura e che preferisce stare in casa. Abbiamo cercato di tranquillizzarlo ricordandogli che, come sa anche lui, lungo il sentiero non ci sono pericoli, ma sembra di parlare al vento. Non ci ascolta. Mio suocero, il nonno, che è un uomo di una volta, dice di non fare tante storie e di ordinare a Giulio di venire con noi, come se fosse un soldatino. Secondo lui stiamo dando ai ragazzi troppa libertà. Ai suoi tempi questi capricci non esistevano e si evitavano tante discussioni inutili. Lei, dottoressa, cosa ne pensa e cosa ci consiglia? Grazie / Maria Teresa.

Gentile Maria Teresa, il nonno è certamente in buona fede ma si rifà alla sua esperienza come se nel frattempo non fosse successo niente. Ma i tempi cambiano e il «mondo di ieri» non assomiglia più a quello di oggi. La famiglia patriarcale era organizzata come un piccolo esercito con a capo il padre e alla «patria potestà» si sottoponevano passivamente moglie e figli. L’educazione era prima di tutto un’educazione all’obbedienza, senza sì e senza ma. Ora, nella famiglia affettiva e paritaria, che ha sostituito quella autoritaria, non c’è nessuno che può affermare «si fa così perché lo dico Io!». I genitori stanno insieme per convinzione, non per costrizione. E i bambini lo sentono. È vero che Giulio, quando di notte s’infila nel lettone, chiede come un tempo aiuto e protezione ma, da sveglio, esprime la sua

opinione e si attende di essere ascoltato e compreso. La paura è un sentimento che caratterizza questa generazione perché, oltre alle paure di sempre, quelle tramandate dalle fiabe, si sono aggiunti altri più evidenti pericoli: prima un Virus aggressivo come il Covid  e ora i bombardamenti di una guerra lontana ma, per l’egocentrismo dei piccoli, sempre vicina. Non credo sia giusto e opportuno obbligare Giulio, con ordini perentori, ricatti affettivi o punizioni, ad affrontare a forza il timore del bosco, che all’immaginario collettivo è sempre apparso come un luogo misterioso e minaccioso. Ma non mi convince neppure il contrario, cioè concedergli la libertà di scegliere dicendogli semplicemente: «noi andiamo, seguici se vuoi». A cinque anni un bambino, affidato a se stesso, si sente abbandonato. Non è ancora pronto per l’autono-

mia e ha bisogno, di fronte a minacce incollocabili, di sentirsi innanzitutto amato e protetto. Perciò stategli accanto, abbracciatelo quando è in crisi, rassicuratelo che siete lì per proteggerlo e soprattutto ascoltatelo. Fategli raccontare i suoi incubi e, dopo avergli procurato larghi fogli bianchi, una tavolozza di colori, matite, pennarelli, plastilina fatelo disegnare e modellare spontaneamente, senza suggerimenti, gli spettri della pandemia e della guerra che tanto lo turbano. Controllate poi che non assista da solo a trasmissioni televisive che possano sconvolgerlo come bombardamenti, famiglie in fuga, militari feriti, bambini rimasti soli. Dovesse accadere, spiegategli che tutto avviene lontano lontano, che molte persone stanno accogliendo i profughi e che, alla fine del conflitto, i bambini ucraini torneranno nella loro città e ricostruiranno le loro case. Le fiabe, anche quelle più

spaventose, si concludono sempre con il lieto fine e i bambini lo attendono. Se possibile, fate sì che Giulio si senta attivo, capace di fare qualcosa di buono, scegliendo con lui un dono, un giocattolo, un abito da portare nei centri di raccolta. Più gli avvenimenti diventano oggettivi e collettivi meno suscitano fantasie ed emozioni negative. Sono tempi duri ma anche le difficoltà, se elaborate e condivise, aiutano a crescere, a diventare persone migliori superando il narcisismo della società dei consumi, centrata sull’Io e sul Mio, per pensare e vivere sotto il segno solidale del Noi. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi

di Luciana Caglio

Con i luoghi è questione di sentimenti ◆

Dimmi dove vai e ti dirò chi sei. Nella sua banalità, da quiz televisivo, l’interrogativo è invece pertinente e rivelatore. In un’epoca che ha favorito, persino imposto la mobilità, conoscere le necessità e i gusti dei viaggiatori è un’esigenza vitale per gli addetti ai lavori dell’industria turistica in ripresa, dopo la pausa covid. Smentito l’illusorio buonismo del «non saremo più come prima», cioè liberati dall’ossessione viaggi. Insomma, quando, come e dove trascorreranno vacanze e weekend i nomadi contemporanei rimangono temi attuali. L’astinenza forzata non è servita da lezione, come ragionevolmente ci si poteva aspettare. Del resto, sono rimasti lettera morta i richiami alla saggezza lanciati da antropologi e filosofi, quali Jean-Didier Urbain e Duccio Canestrini, impegnati nella denuncia

dell’irragionevole andare per andare. Ora proprio la parola ragionevole sembra estranea in un ambito in cui è questione, innanzi tutto, di sentimenti. Sia chiaro, il vocabolo non va inteso in termini negativi, definisce la reazione che scatta spontaneamente incontrando persone, muovendosi in città, paesaggi diversi o assistendo a fenomeni naturali insoliti. Ed è così che nascono le predilezioni per determinati luoghi: quelli del cuore. E come ogni innamoramento, esposti al rischio dell’infedeltà. Cioè all’impatto di nuove mode. Ultima della serie, il soggiorno di tipo salutista in un ambiente cosiddetto naturale che propone diete esotiche e tecniche di ricarica spirituale. Mentre, in altri casi, si offre la possibilità di cimentarsi in imprese rischiose in luoghi impervi.

Al di là di queste frange alternative, la stragrande maggioranza dei viaggiatori continua a rispettare la tradizione, scegliendo destinazioni risapute: le grandi capitali, le città d’arte, i siti archeologici, i musei progettati dalle archistar. E via enumerando mete che appartengono al nostro bagaglio educativo e culturale, valori acquisiti e intoccabili. Rivive, in forma popolare e velocizzata, l’esperienza del Grand Tour che, nel XVIII e nel XIX secolo spettava ai rampolli della nobiltà inglese. Nell’era del turismo facilitato per tutti, permane, tuttavia, un’incognita che sembra inspiegabile. Concerne le predilezioni o le antipatie nei confronti di località, paesaggi, monumenti storici. Tanto da creare veri e propri gruppi di sostenitori e oppositori. «E tu di che capitale sei?»:

la domanda è diventata un gioco, dagli effetti rilevanti per l’industria turistica. La città «in» del momento è Berlino, preferita dai giovani. Purtroppo, gli avvenimenti, di cui siamo sconcertati testimoni, ha portato alla ribalta Kiev. E mi sia concesso, in proposito, un ricordo, personale. Che risale a mezzo secolo fa. Nell’ottobre , partecipai, con un gruppo di turisti svizzeri, a un viaggio in URSS che partiva, appunto, da Kiev, capitale dell’Ucraina, allora sovietica, e, in pari tempo, capitale della Chiesa ortodossa, di cui portava l’impronta. La cupola dorata della cattedrale di Santa Sofia ne era l’emblema. Altri simboli, le catacombe, visitabili alla stregua di curiosità turistiche, che sarebbero diventate rifugi, durante i bombardamenti. Rispetto ad altre città russe, Kiev

sembrava un’isola a sé stante. Faceva sentire a proprio agio, per la bellezza dei monumenti, e per un’inattesa piacevolezza, che invitava a quattro passi in libertà. Incuriosita, entro in un supermercato, e guarda caso, l’altoparlante diffonde una canzone italiana. «Celentano», commento a voce alta. Un distinto signore, puntando l’indice ammonitore mi corregge: «No, Toto Cutugno». L’episodio, in apparenza modesto, confermava una normalità, chissà se recuperabile. Non mi stanco di raccontarlo, come fosse una mia esperienza esclusiva. Invece segno dei tempi, il tassista che mi porta a casa, è reduce da Odessa e la parrucchiera partirà per il Mar Rosso, guerra permettendo. Intanto alle nostre latitudini, ci attende la prova profughi.


Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 21 marzo 2022

TEMPO LIBERO Le orme del grande scrittore A cent’anni dalla nascita di Jack Kerouac, un reportage dalla New York della Beat Generation

Per gli amanti del pesce Un piatto semplice a base di tonno con un topping di fagioli bianchi, olive, erbe aromatiche e parmigiano

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azione – Cooperativa Migros Ticino 11

I gradini di Napoli Le scale uniscono mondi e persone che in un’altra città resterebbero lontani tra loro

Teheran negli anni Settanta Una storia che parte da Venezia e, attraverso Jugoslavia, Bulgaria, e Turchia, raggiungerà infine l’Iran

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Il ritorno in pista da paraplegica Altri campioni

Simona de Agostini, dalla Coppa del Mondo di sci al monoscibob

Davide Bogiani

È un inverno sportivo che fa parlare molto di sé, vuoi per il clima ballerino, vuoi per i grandi appuntamenti; Giochi Olimpici e Paralimpici. Si chiacchiera di sport invernali, di sfide, di vittorie, di momenti difficili e anche di rivincite. Noi lo abbiamo fatto con Simona de Agostini, a casa sua, Airolo, suo paese natale.

bob – continua Simona – è formato da una scocca in carbonio. Al suo interno la superficie è liscia e imbottita, affinché non si creino punti di pressione che potrebbero causare delle piaghe da decubito. L’ammortizzatore invece attutisce i dossi similmente alle ginocchia. L’impostazione e quindi la conduzione precisa delle curve viene invece garantita da due piccoli pattini oltre che dalla carvatura dello sci». Rientrata in Ticino, con l’aiuto del suo fisioterapista, Simona inizia un grande lavoro con l’obiettivo di migliorare le capacità di stabilizzazione e le abilità di reazione e coordinazione del tronco, delle spalle e delle braccia, utili per fare dei progressi nel monoscibob ma anche nell’ambito più quotidiano della prevenzione. «Per noi persone paraplegiche, rimanere in buona salute è molto importante. Si tratta però di un “compito” molto difficile, che richiede grande disciplina e costanza. Ogni piccolo muscolo intatto e funzionante è un grande dono. Aver cura del nostro corpo è fondamentale. Una trascuratezza potrebbe innescare una serie di problemi che in alcuni casi andrebbero a scapito della propria autonomia».

«Da quel momento in poi, per me è iniziata una vera e propria lotta alla “sopravvivenza” alla dura riconquista della mia seconda vita e della mia nuova autonomia»

È durante il percorso riabilitativo a Nottwil che Simona ha scoperto di poter tornare a sciare su un monoscibob

Associazione svizzera dei paraplegici

Sono questi i luoghi della sua spensierata gioventù: Pesciüm, è stata la palestra che ha acceso in lei il fuoco sacro per lo sport. «Per chi nasce ad Airolo – racconta Simona – è naturale uscire di casa a giocare nella neve e affrontare i primi “passi” sugli sci in quel di Lüina. È qui dove, a due anni e poco più, ho voluto a tutti costi raggiungere le mie due sorelle più grandi per imitarle. E così, un po’ per gioco, qualche anno più tardi ho svolto le mie prime gare con gli amici dello sci club, fino a raggiungere le selezioni dei quadri nazionali giovanili, per poi approdare alle gare di Coppa Europa e in seguito alla tanto ambita Coppa del Mondo. Un traguardo voluto e sognato con tutte le mie forze per molto tempo, e nel frattempo una realtà piena di insidie, spietata e competitiva. È stata un’esperienza certamente molto ricca, che però mi ha portata a fare delle profonde riflessioni su ciò che volevo veramente nella vita. Il mio grande bisogno di realizzarmi anche attraverso una formazione professionale, che però ben difficilmente si sarebbe conciliata con lo sport di punta, mi ha portata, forse un po’ prematuramente, a porre temine alla mia attività agonistica per intraprendere la formazione di fisioterapista». È il  febbraio di  anni or sono, quando Simona decide di trascorrere una giornata di svago sulle piste di Airolo. La visibilità era purtroppo ridotta e malgrado sciasse prudentemente e a bassa velocità, l’airolese si fece sorprendere da un piccolo dosso a bordo pista. «I miei sci si sono bloccati all’improvviso, sganciandosi dagli scarponi. In una piccolissima frazione di secondo mi sono ritrovata in aria e, flettendo di istinto il capo verso il tronco, sono atterrata sulle spalle. Subito dopo l’impatto sono rimasta vigile e presente e ho capito la gravità dell’incidente. Ho percepito sin dall’inizio che non avrei mai più camminato e che mi sarebbero aspettati sei mesi di dura riabilitazione presso il Centro Svizzero per paraplegi-

ci a Nottwil, lontano da mio figlio e dai miei affetti più cari, dovendo rinunciare per sempre a una parte di me stessa. Per tutti i miei famigliari è stato un momento durissimo e difficile da accettare. Da quel momento in poi, per me è invece iniziata una vera e propria lotta alla “sopravvivenza”

alla dura riconquista della mia seconda vita e della mia nuova autonomia». È durante il percorso riabilitativo a Nottwil che Simona ha scoperto di poter tornare a sciare su un monoscibob. «Nemmeno un anno dopo il mio incidente, grazie agli istruttori specializzati del centro di Sörenberg,

mi sono ritrovata di nuovo proiettata in pista. L’emozione era a mille, un po’ come da bambina quando cominciavo a muovere i primi passi con la gioia della scoperta di tutto ciò che è nuovo. Una gioia immensa, un vero riscatto verso il destino. Una vera rinascita. L’attrezzo, ovvero il monosci-

E così, con impegno e costanza, le curve in sella al monoscibob sono diventate sempre più eleganti, rotonde e simmetriche, aumentando nel contempo anche il grado di sicurezza della sciata; questo nel tempo le ha permesso di lanciarsi in sfide sempre più impegnative. «Con il passare degli anni però gli obiettivi sono cambiati – afferma Simona. Ora il sogno più grande è quello di poter sciare su piste un po’ più semplici, sperando di farlo il più a lungo possibile, così da poter godere ancora molti di questi attimi di gioia immensa scivolando sulla neve a stretto contatto con la natura. Negli anni, il monoscibob mi ha fatto inoltre capire quanto sia importante l’aspetto mentale, non solo nel gesto sportivo, ma anche per accettare le sfide difficili e per credere in sé stessi e nelle proprie capacità». E non da ultimo, Simona esprime la sua gratitudine per essere disabile in questa nuova era tecnologica. L’impiego di apparecchi e attrezzature innovative non solo facilita la vita delle persone disabili nella quotidianità, ma permette loro di svolgere anche innumerevoli attività che in passato sarebbero rimaste praticamente inaccessibili come, ad esempio, il ritorno in pista da paraplegici.


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TEMPO LIBERO

La New York di Kerouac Reportage

«L’amata, vecchia Manhattan», la chiamava l’autore di On The Road, che l’adorò e la detestò con lo stesso impeto

Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni, testo e foto

È la musa prediletta, bella e dannata. Lo è stata ieri e continua a esserlo oggi. New York da sempre seduce artisti e creativi, frastornandoli con le sue «mille luci», elettrizzandoli con la sua inspiegabile energia. La sua silhouette resta ricordo indelebile nell’anima di chiunque le abbia poggiato gli occhi addosso almeno una volta nella vita. «L’amata, vecchia Manhattan», la chiamava lo scrittore Jack Kerouac, che l’adorò e la detestò con lo stesso impeto. Il padre di On The Road e della Beat Generation – di cui il  marzo si è celebrato il centesimo anniversario dalla nascita – ci era arrivato nel ’, ragazzino fresco di diploma. In tasca una borsa di studio per la prestigiosa Columbia University, conquistata grazie al talento come giocatore di football. Nonostante siano passati oltre ottant’anni, a New York aleggia ancora lo spirito libero e anticonformista di Kerouac. La città nel tempo è cambiata, ovviamente; c’è sempre meno spazio per gli artisti in cerca di fortuna, con pochi spiccioli in tasca e tanti sogni nel cuore; il capitalismo si è spinto all’estremo. Ma resta intatta, per chi avesse voglia di scoprirla, la stessa anima, magari solo un po’ ammaccata, che ammaliò Kerouac e molti suoi coetanei. La ritroviamo in quasi tutti i posti che il giovane Jack amava frequentare: in certi angoli delle strade e dei bar del Greenwich Village, tra i fili d’erba dei prati di Washington Square Park.

«Capitava che andasse in un bar e che qualcuno lo riconoscesse e gli offrisse da bere. La serata finiva sempre in rissa» Quando arrivò a Manhattan, Kerouac scappava da Lowell, cittadina cattolica del Massachusetts troppo angusta e provinciale, per inseguire il fascino della metropoli. E New York gli cambiò la vita, accogliendo le radici di un’attività letteraria straordinaria, che l’avrebbe consegnato alla storia come uno degli scrittori più influenti del Ventesimo secolo. Qui incontrò Allen Ginsberg e William Burroughs. Il cuore della controcultura Beat iniziava così a battere, alimentato da irresistibili slanci poetici e da fiumi di alcool e droghe. Prima che il fulcro del movimento si spostasse a San Francisco, sulla costa ovest, fu questo il polo della rivoluzione letteraria. «Girovagavo per le strade, i ponti, Times Square, i caffè, il porto, andavo a trovare tutti i miei amici poeti e beatnik, e vagabondavo con loro, ho avuto storie d’amore con le ragazze del Village, provavo per tutto quella gioia folle che ti prende quando torni a New York City», scriveva Kerouac in Lonesome Traveler, la raccolta dei suoi diari di viaggio. «Un viaggio nella New York di Kerouac non può non iniziare alla Columbia University. È lì che si formò il sodalizio da cui scaturì la Beat Generation», ci spiega Bill Morgan, il più importante archivista della Beat Generation, nonché autore del best-seller The Beat Generation in New York. Lo splendido ateneo – membro della Ivy League, la lega delle otto più prestigiose università private americane – sorge nell’Upper West Side di Manhattan. Fondata nel , è l’istituzione universitaria più antica

Il Café Wha? amato dai Beat: molti famosi musicisti, tra cui Jimi Hendrix e Bruce Springsteen, hanno suonato tra queste mura.

Ancora oggi i clienti di Caffè Reggio possono ammirare non solo l’originale macchina dell’espresso, ma anche gli splendidi dipinti che omaggiano il Rinascimento.

della città. Il campus storico – con i suoi eleganti giardini, le meravigliose sculture e le ricchissime biblioteche – ancora oggi ospita le menti più brillanti del mondo che qui vengono a perfezionarsi. Tra gli ex allievi ci sono presidenti (come Barack Obama), personalità di spicco e decine di premi Nobel. Si trova nel quartiere di Morningside Heights, zona in forte sviluppo, immersa nel verde. Jack Ke-

rouac frequentò l’università solo per un breve periodo, finché un infortunio lo costrinse a ritirarsi dalla squadra di football. Lo scrittore ebbe con la metropoli «un rapporto di amore e odio», racconta Morgan. «La verità è che non era a suo agio sia che si trovasse in campagna, in paese o in città; cercava sempre un altrove». Solo in età più matura decise di allontanarsi dalla vita Chelsea, in questo quartiere visse Jack Kerouac con la seconda moglie Joan Haverty.

cittadina, tornando a Lowell e poi in Florida dove morì nel , a  anni. Inquieto, non riuscì mai a dominare i lati bui della sua personalità. «Capitava che andasse in un bar e che qualcuno lo riconoscesse e gli offrisse da bere. La serata finiva sempre in rissa». E ne frequentava tanti di locali, soprattutto nell’amatissimo Village. Se oggi questo quartiere sta cedendo inesorabile il passo alla gentrificazione con la chiusura di tanti negozi e locali storici, a causa del caro affitti, negli anni Cinquanta fu casa di scrittori, artisti e musicisti in cerca di ispirazione, ma anche di abitazioni a prezzi accessibili. È dai bar e dai caffè di questo quartiere che la Beat Generation iniziò a scandire il nuovo ritmo della rivoluzione culturale che da New York sarebbe arrivata in tutto il mondo. Nonostante solo i più ricchi si possano ora permettere di vivere in una delle tipiche brownstone, le strade non hanno perso l’animo bohémien che sempre le contraddistingue. Perché se è vero che gli artisti squattrinati alloggiano altrove, in questi luoghi tornano sempre, facendo anche lunghi tragitti in metropolitana. Washington Square Park, ad

esempio, è un teatro a cielo aperto. Sotto l’arco di trionfo e intorno alla spettacolare fontana, ogni giorno, si ritrovano musicisti, ballerini, giocolieri, studenti (della vicina New York University), ragazzi sullo skateboard. Ognuno fa il suo show, per esercizio o per lavoro. Al tempo, i poeti Beat si riunivano qui, discutendo di letteratura e filosofia. Come a quel tempo, non mancano bottiglie di alcolici vuote (anche se ora è illegale negli spazi pubblici) accanto alle panchine o lungo il bordo del fontanone. In questo quadrato di verde e creatività, lo strappo alle regole è più che tollerato. Il Greenwich Village smetterebbe di essere il «Village», poi, senza i suoi locali storici. Come Caffe Reggio (al  di MacDougal St.), rimasto pressoché intatto, sin dai tempi in cui Kerouac e compagni venivano a rifocillarsi. Questa caffetteria è stata la prima a servire in America il cappuccino, grazie alla lungimiranza del proprietario Domenico Parisi. Ancora oggi i clienti, che spesso vengono qui a lavorare con i loro computer, possono ammirare non solo l’originale macchina dell’espresso, ma anche gli splendidi dipinti che omaggiano il Rinascimento. Sulla stessa strada c’è ancora anche il Café Wha? (al  di MacDougal St.) in cui, nei primi anni Sessanta, si esibì una delle prime volte a New York un semisconosciuto Bob Dylan. Molti famosi musicisti, tra cui Jimi Hendrix e Bruce Springsteen, hanno suonato tra queste mura. Oggi continuano quelle che saranno le prossime star: la qualità degli spettacoli è sempre garantita. Poco distante, si trova Minetta Tavern (al  di MacDougal St.) un ristorante originariamente italiano che ha servito molti scrittori nel corso degli anni, inclusa la combriccola Beat. Durante il proibizionismo, ristorò Ernest Hemingway e John Dos Passos. Qui è difficile trovare un posto senza aver prenotato giorni prima. Un’istituzione per la sua storia appunto, ma anche per il famoso hamburger. Le serate dei Beat si concludevano spesso alla White Horse Tavern (al  di Hudson St.). Al bancone in legno, si accomodò anche Dylan Thomas, che morì dopo aver bevuto qui fino allo sfinimento. Per un periodo, Kerouac visse in un appartamento di fronte al locale. Secondo la leggenda, date le lunghe permanenze innaffiate da litri di alcool, pare che qualcuno avesse scritto sui muri della toilette l’invito «Jack go home!», va’ a casa. Non solo bar. Nella mappa della New York di Kerouac, non manca una chiesa: Nostra Signora di Guadalupe (al  West di th Street) in cui spesso lo scrittore – devoto cattolico – trovò conforto. Bisogna spostarsi a Chelsea, però, per ammirare la casa di mattoni rossi (al  West di th Street) dove Kerouac visse con la seconda moglie Joan Haverty. Tra queste mura (oggi abitazione privata) nel  in tre febbrili settimane, imbottito non di droghe ma di caffè, Kerouac batté su un unico rotolo di carta lungo  metri la prima bozza del suo capolavoro, On the Road (Sulla strada). «Sono andato veloce – disse all’amico Neal Cassady, che ispirò il protagonista del romanzo – perché la strada è veloce». Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.


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TEMPO LIBERO

La ricetta - Tagliata di tonno con topping alla mediterranea ●

Ingredienti

Preparazione

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Per 4 persone (piatto principale)

1. Il giorno prima, mettete a bagno i fagioli in abbondante acqua fredda e lasciate riposare per tutta la notte.

1 c di pepe tricolore in grani 1 cc di semi di finocchio ½ limone 4 bistecche di tonno di circa 120 g ciascuna 2 c d’olio d’oliva 60 di rucola fleur de sel

2. Il giorno della preparazione scolate i fagioli, sciacquateli con acqua fredda e fateli sgocciolare. Lessateli al dente per circa 50 minuti.

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Topping 100 g di fagioli bianchi secchi 1 cipolla piccola 70 g di olive farcite di peperoni ½ mazzetto d’erbe miste, ad esempio prezzemolo, erba cipollina, origano 6 c d’olio d’oliva 40 g di parmigiano in un pezzo sale pepe

3. Tritate finemente la cipolla e tagliate le olive ad anellini. Tritate le erbe e mescolatele con le olive e la cipolla. Tritate grossolanamente i fagioli e uniteli. Mescolate con l’olio. Incorporate il parmigiano grattugiato a scaglie. Insaporite con sale e pepe e lasciate riposare. 4. Versate il pepe e i semi di finocchio in un mortaio. Unite la scorza di limone grattugiata finemente e pestate il tutto. Spremete il limone e mettete da parte. 5. Condite il tonno con la miscela di spezie. Rosolatelo da entrambi i lati nell’olio restante a fuoco medio per circa 6 minuti. Fate riposare brevemente e tagliate a fette. Disponete nei piatti assieme alla rucola e al topping. Insaporite con poco fleur de sel e un po’ di succo di limone. Se avete fretta: usate dei fagioli già pronti in scatola invece di quelli secchi. Accompagnate il piatto con pane, riso o un gratin di patate. Ammollo: per tutta la notte. Preparazione: circa 25 minuti; Cottura: circa 50 minuti. Per persona: circa 45 g di proteine, 33 g di grassi, 16 g di carboidrati, 550 kcal/2300 kJ.

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Anno LXXXV 21 marzo 2022

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TEMPO LIBERO

Saliscendi napoletano

Itinerari ◆ Lungo strettoie tra case popolari e palazzi nobiliari, dal sottosuolo alla superficie, dal mare alla collina, dai vicoli ai belvedere Angelo Laudiero

La vita è fatta a scale, si sa. Sarà pure un luogo comune, ma nessun proverbio è più azzeccato per Napoli, città a strati, sospesa, luogo di ascensione per antonomasia. Lunghe o brevi, ripide o quasi piane, le oltre duecento scalinate di Napoli − tra rampe, calate e cupe − sono una diversa dall’altra, arterie che pulsano sangue, storie, emozioni e ricordi. Su questi scalini la vita scorre con un ritmo diverso rispetto al centro cittadino. In uno spazio stretto tra le case popolari e i palazzi nobiliari, tra il giallo del tufo e il grigio del piperno, si passa senza soluzione di continuità dal sottosuolo alla superficie, dal mare alla collina, dai vicoli ai belvedere. Le scale uniscono mondi e persone che in un’altra città resterebbero lontanissimi tra loro. Lungo questi gradini, nobile e popolano, reale e surreale, sacro e profano, tragico e comico suonano come parole vuote, dai contorni sfumati. Le salite discendono: è questa la doppia verità della città obliqua. Le scale di Napoli restano uno spazio di frontiera nel quale quotidianamente gli abitanti scendono a compromesso con la fatica, la sorte, il calcare e la pomice. Svelano una Napoli insolita, conducono nelle viscere di una città che nasconde sempre più di quanto non riveli. Charles Baudelaire ha soggiornato proprio qui e in uno di questi palazzi, Marguerite Yourcenar ha ambientato il suo racconto più bello, Anna, soror, «una storia d’amore nella Napoli spagnola di fine Cinquecento» spiega Silvia, guida turistica locale, salendo affannosamente i gradoni della Pedamentina di San Martino, che s’inerpica, impervia e imponente, dalla Pignasecca (uno dei mercati più antichi, nel quartiere Montecalvario) al possente Castel Sant’Elmo, sulla collina del Vomero. Oltre quattrocento gradini, in un’alternanza di passaggi e strettoie, uniscono mondi distanti, dal labirinto di volti, voci, pietre e ombre del centro storico alle amene e silenziose alture della collina. Dal tempo della sua costruzione nel XIV secolo, la Pedamentina ha visto trasformarsi i quartieri dell’Arenella e del Vomero. La distesa di monasteri, casali e campi coltivati è stata aggredita dalla speculazione edilizia degli anni Sessanta del Novecento. Orti e giardini resistono in qual-

Le scale del Petraio; di fianco, in alto, Napoli, sullo sfondo il Vesuvio, panoramica dalla Pedamentina di San Martino; in basso, la scalinata di Villa Floridiana. (Natalino Russo)

che anfratto nascosto − come la vigna di San Martino − a ricordare che cemento e modernità non si sono ancora impadroniti di tutto. «Secondo la leggenda, lungo queste scale vagano gli spettri dei prigionieri uccisi dalle guardie reali nel forte di Sant’Elmo. Nei pressi di un vecchio cancello, sulla prima rampa, di notte qualche passante ha visto i fantasmi entrare e uscire dalle mura, altri hanno sentito urla e il tintinnio delle catene» conclude a effetto Silvia. Intanto, in una casa vicino alle scale del Petraio, la signora Anna sta cucinando il ragù in vista del pranzo della domenica. «Osservo rispettosamente la tradizione. Faccio pippiare il sugo almeno quattro ore a fuoco lento perché assorba tutto il sapore della carne». Lo sbuffo del ragù e il suo profumo avvolgente invadono le scale del Petraio, costruite nel XVII seco-

lo, che scendono a capofitto dal Vomero a Chiaia, uno dei quartieri più eleganti della città. Una lunga scalinata con corrimano centrale divide una serie di edifici dai colori vivaci: mura rivestite di edera verde, ringhiere bianche dai disegni liberty, palazzi rosso pompeiano si stagliano sullo sfondo azzurro del mare, creando un superbo contrasto cromatico. Su un muro un’effige di Maradona, santo proletario, convive con un’edicola votiva dedicata a San Gennaro, amico fraterno del popolo nel cui sangue si è incarnata l’anima della città. Il silenzio della mattina invernale riempie l’aria, tra piante di limoni, immagini sacre, vicoli senza uscita, balconi con gl’immancabili panni stesi. Pian piano i gradoni si fanno meno ripidi, lasciando penetrare un filo di luce del sole. «A me, invece, piace percorrere il Petraio di notte» − mi confida

il professor Grimaldi che vive qui da sempre − «c’è silenzio, luci soffuse, finestre aperte dalle quali escono voci». L’abitazione di don Antonio si affaccia invece sulla Calata San Francesco: «Durante la guerra e fino agli anni Cinquanta qua si appartavano le prostitute» ricorda l’anziano mentre fuma dal suo balcone, indicando la porta di una casa. «Adescavano i clienti, salivano i gradini e li portavano là dentro». La Calata San Francesco collega il mare di Mergellina alla città alta, borghese. Una scalinatella perpendicolare dà il nome al sentiero, correndo dal lungomare alla collina in un alternarsi di scenari e profumi. Miseria e nobiltà si mischiano fino a confondersi, come nella Napoli Milionaria di Eduardo De Filippo. I bassi offrono la loro vita al passante che sbircia, imbarazzato e al tempo stesso incuriosito, dentro il priva-

to degli indifferenti inquilini, ormai abituati a quella pacifica intrusione. «Sto aspettando Salvatore, il ragazzo della salumeria che mi porta la spesa. Sennò come ci arrivo là ’ngopp?» dice in vestaglia, sull’uscio del suo basso, la signora Matilde. Dietro di lei cucina, salotto e stanza da letto formano un unico ambiente. Salendo incontro preziosi giardini mediterranei di aranci, olivi e fichi, ritagliati tra i terrazzi dei palazzi aristocratici. Si riemerge in superficie dopo un’apnea nell’intestino di Napoli fatto di solchi, anfratti e incavi: a poco a poco i gradoni si fanno gradini e lo sguardo si volge all’indietro per scorgere il golfo e il dolce profilo delle isole. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica. Annuncio pubblicitario


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TEMPO LIBERO

La distanza tra il sogno di una ribellione e la realtà Bussole, letture per esplorare il mondo per il viaggio della sua vita

La Persia degli anni Settanta vissuta da una giovane veneta partita

Manuela Mazzi

«Isabella spera di vedere il confine. Il cambiamento. Invece il buio scende inesorabile. Le guardie jugoslave salgono a controllare i passaporti, è questo l’unico segnale del passaggio». Siamo negli anni Settanta, in un periodo di forti contestazioni. La Seconda guerra mondiale è alle spalle, ma tira aria rivoluzionaria; in Italia, battagliavano le Brigate rosse, ma anche nel resto del mondo si respiravano moti di ribellioni. Le università erano diventate fucine di contestazioni, c’erano le occupazioni, e il mondo dei giovani sperava in un cambiamento drastico, al ritorno di una vita più autentica, e meno borghese; era pure il periodo in cui si facevano avanti i movimenti femministi. In questo contesto sociopolitico, l’incontro con l’altro, per la nuova generazione che oggi è ultrasettantenne, è parte del cambiamento che prevede un aprirsi allo straniero, al mondo, attraverso l’abbattimento dei confini e delle distanze culturali. E dunque attraverso il viaggio. La misura della distanza, titolo del romanzo di Gabriella Bampo (Laurana Editore, ), si riferisce proprio, e anche, a questo tentativo di liberare il mondo dai confini, poco importa che sia il mondo sociale, politico, culturale, sentimentale, individuale, parentale, o religioso della protagonista, importa che la stessa, giovanissima,

decide di ribellarsi invertendo i poli di Occidente e Oriente. E lo fa, Isabella, intraprendendo un viaggio che definirlo coraggioso, ancora oggi, sembra minimizzante. Basato su una storia realmente vissuta dall’autrice, La misura della distanza ha il pregio di poter essere letto sia come narrazione, sia come storia di conflitti passionali, parentali, culturali, geografici, politici e di genere, e anche, come abbiamo voluto fare noi, ponendo lo sguardo sulla scoperta di nuovi luoghi, costumi, attitudini e limiti, di speranze e distanze, di sogno e realtà. Perché si fa presto a dire Persia, per finire in una fiaba da Mille e una notte, ma è altra cosa trascorrervi sei anni come ha fatto Gabriella Bampo, o Isabella per lei. La protagonista si trova a Venezia quando incontra e si innamora di Farid – universitario in architettura, figlio di un ingegnere iraniano – in Italia solo per finire gli studi. Contro ogni disperazione espressa dai famigliari, Isabella decide di partire, scappare, con il fidanzato per andare a conoscerne la famiglia. Farà avanti e indietro qualche volta, saggerà la malinconia della distanza, non solo geografica, che si porrà tra lei e l’uomo che ama e che infine sposerà, raggiungendolo a Teheran dove deciderà di stabilirsi «per sempre»; città che in quegli anni è sotto il potere dello Scià di Persia, Mohammad Re-

Architettura di Shiraz (Mostafameraji)

za Pahlavi. Resterà incinta, Isabella, e partorirà il primogenito di Farid. Questa è la trama che inizia a srotolarsi sui binari di un treno, mentre Isabella affronta il primo incredibile viaggio che solo l’amore condito dalla ribellione le permetterà di sopportare. «La storia comincia a Venezia a bordo […] dell’Orient Express, o quel che ne rimaneva. Un giorno di agosto del ». La protagonista attraverserà la Jugoslavia, poi la Bulgaria, e la Turchia per raggiungere l’Iran. «A Belgrado il treno si ferma. È una stazione tetra e imponente. Il controllore grida che devono scendere per un cambio». Al pari di un vero e proprio reportage, questo romanzo trascina con sé il lettore «per pianure assolate» su va-

Giochi e passatempi

delle strade!» – «Fossi!» Scoprite la risposta dell’amico, a cruciverba ultimato, leggendo le lettere in evidenza. (Frase: 5, 2, 4, 5, 1, 5) 2

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ORIZZONTALI 1. Paese nel sudovest dell’America 4. Superbe, altezzose 10. Fu amato da Cibele 11. Lago dell’Asia 12. Negazione inglese 13. Odiare senza dire 14. Residui di lavorazione industriale 16. Simbolo chimico del nichelio 17. Un tipo di triangolo 19. Non deve mai mancare in auto 21. Inventò la pila elettrica (iniz.) 22. Fanno rima... con ma

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23. Restano sempre ancorate 25. Andati per Cicerone 27. Il vertice della nobiltà 28. Termine di paragone 30. Insenature della costa 32. Associazioni vegetali formate da funghi e alghe 35. Santa... in Argentina 36. È sotto questo chi non può reagire 38. Nota attiva... 39. Prezzo della colpa 41. Antico vaso per liquidi

Bibliografia La misura della distanza, Gabriella Bampo, Laurana Editore, 2021

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Cruciverba Tra amici: «Se io sarei sindaco sistemerei tutte le buche

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goni maleodoranti e stracolmi di gente di ogni dove, a bordo di un treno che «ogni tanto fischia» e altre volte «avanza lentissimo», tanto che si lascia affiancare da un asino «accompagnato da un vecchio col bastone», per finire poi, a Istanbul, su un pullman che traghetterà quel corpo stanco, tra gli altri, lungo corridoi di terra desertica in un lunghissimo vagare dietro orizzonti sconosciuti, sino ad arrivare in una casa che non è la sua. Qui imparerà a proprie spese quanto sia difficile integrarsi in una realtà tanto diversa da quella conosciuta, pure se armati di voglia di conoscere, passione e apertura mentale: «Ahmad abbassò il capo. Si mise una zolletta fra i denti, versò un po’ di tè dal bicchiere nel piat-

tino di vetro e cominciò a sorbirlo. “Vedi, io bevo il tè alla maniera nostra. Ciò ha una ragione. Raffreddo il tè bollente nel piattino e lo bevo attraverso la zolletta che tengo tra i denti”. “Si può fare solo con le zollette artigianali, spezzate a mano”, assentì Isabella, riprendendo il sorriso, “quelle industriali si sciolgono subito e ti riempi la bocca di zucchero”. “Appunto. Ogni cosa va adeguata all’ambiente. I metodi occidentali della democrazia non possono essere riportati di pari passo nel nostro ambiente. Non ora, almeno”». Molti i paesaggi, molti i confronti inevitabili, i temi politici e di genere. Molti i personaggi utili a comprendere le diverse culture. Più che un romanzo è di fatto un insieme di immagini nitide di ciò che dovevano essere quelle terre lontane, poi finite nella morsa della rivoluzione che costrinse lo scià ad abbandonare l’Iran per evitare un bagno di sangue. Correva il . Cambiava un’epoca. Non come sognava la generazione di quegli anni, sogni messi alla prova, in questo libro, da un’ottima macchina narrativa, dato che alla fine tutti cambiano, non solo i propri sogni. Persino i luoghi diventano altro. E non è forse questo il vero unico risultato del viaggiare…?

42. Si divide in games 43. Una classe di animali 44. Conteneva l’olio VERTICALI 1. Confusione 2. L’isola di Nessuno 3. Diede i natali ad Amedeo Modigliani (sigla) 4. Particolari... sedili 5. Poco meno che unico 6. Eliminano i cigolii 7. Le iniziali dell’attore Nero 8. Particelle atomiche 9. Filosofia morale 11. Sono alberi 14. La protagonista de «La Ciociara» (iniz.) 15. Fenomeno acustico 18. Sigla per donatori di sangue 20. Al lato della colonna vertebrale 23. Caprone 24. Quelli del gatto si chiamano vibrisse 26. Possessivo francese 27. Ci sono anche quelli di mare 29. L’inferno a Parigi 31. Negazione tedesca 32. Ultimo a Londra 33. Simbolo chimico dell’olmio 34. Contrario al dittongo 37. Isola dell’arcipelago delle Bahamas 40. Le prime dell’Oscar 42. Nota musicale

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Soluzione della settimana precedente IL MAMMIFERO CON LE SCAGLIE – L’animale nella foto si chiama: PANGOLINO e dato che non ha denti per triturare il cibo: INGOIA I SASSI

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A D I R A A T R I E S C

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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ATTUALITÀ

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Ucraina, scenari futuri Forse vi sarà tregua, ma non una vera pace, con rischi di dissoluzione sia in Ucraina sia in Russia

Quel bisogno di petrolio Il Regno Unito inseguiva la svolta verde ma la crisi ucraina ha rimesso tutto in discussione

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Dentro l’inferno ucraino Le voci di chi ha deciso di restare a difendere il proprio paese e l’incertezza che grava sul futuro

Pioggia di sanzioni L’Occidente ha sanzionato e isolato la Russia per colpire il regime, ma pagherà anche la popolazione

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È la fine della globalizzazione? Prospettive

Un nuovo ordine, alternativo al nostro, tenta di farsi strada in mezzo al fragore delle bombe sganciate da Mosca

Federico Rampini

È la quarta volta in quattordici anni che sentiamo decretare da molti pulpiti: la globalizzazione è finita. Sarà questa la volta buona, per colpa di Putin che invadendo l’Ucraina ha costretto l’Occidente a varare sanzioni economiche senza precedenti per la loro durezza? Le grandi manovre della Cina per salvare il leader russo senza incorrere a sua volta nelle sanzioni sono emblematiche della strettoia in cui ci troviamo. Ma anche la notizia clamorosa che l’Arabia Saudita potrebbe mollare il dollaro e passare al renminbi cinese per le sue vendite di petrolio a Pechino, è sintomatica di un «nuovo ordine» (alternativo al nostro) che tenta di farsi strada in mezzo al fragore delle bombe.

Il 2021 si conclude con un record storico assoluto nell’attivo commerciale cinese verso il resto del mondo La prima Apocalisse annunciata fu dopo la crisi sistemica della finanza, causata nel  dallo schianto dei mutui subprime a Wall Street. Lo shock fu davvero forte, la più grave recessione globale dal dopoguerra. L’Eurozona si fabbricò in casa un prolungamento di quella crisi americana, infliggendosi un’austerity di bilancio con conseguenze funeste. Il trauma fu tale che nacquero spinte politiche divaricanti: negli Stati Uniti movimenti di radicalizzazione a sinistra e a destra che destabilizzano tuttora il sistema politico. La Brexit inglese e Donald Trump sono figli di quello shock. Il  segna una brutale disillusione sugli effetti della globalizzazione: ampie fasce di elettorato popolare si convincono di essere state beffate dalle élite. L’ideologia globalista comincia a perdere quota, chi predica i benefici delle frontiere aperte (ai movimenti di beni e servizi, ai capitali, alle migrazioni) viene visto come un impostore al servizio dell’establishment. Ma non scatta un cambio di paradigma. Anche perché, nel disastro del , spicca una grande assente: la Cina non ha avuto una recessione, si è salvata manovrando le leve della spesa pubblica, il suo capitalismo di Stato ha superato la prova. Nasce lì una dottrina sulla superiorità del sistema cinese e Xi Jinping comincia la sua ascesa. La Cina resta attaccata al suo ruolo di fabbrica del pianeta, ha bisogno di sbocchi globali per i suoi prodotti e sempre più per i suoi investimenti. La globalizzazione si salva perché c’è un chiaro interesse di Pechino a salvarla, d’intesa con l’establishment capitalistico americano. La seconda morte annunciata avviene con la doppietta Brexit-Trump nel -. Il Regno Unito am-

puta l’Unione europea che è il più vasto esperimento di mercato unico. Con Trump vince un sovranista che predica il protezionismo, e lo applica. I dazi americani sui prodotti cinesi – e su qualche prodotto europeo e canadese – cominciano a salire già dal -. La maggior parte degli economisti, che sembrano diventati millenaristi, seguaci delle profezie sulla fine del mondo, prevedono catastrofi. Tutte le loro previsioni vengono smentite clamorosamente. Londra non s’inabissa nel Mare del Nord. L’economia Usa sotto la presidenza Trump accelera la sua crescita e si avvicina al pieno impiego. La terza morte della globalizzazione viene preannunciata con la pandemia. Ancora una volta le previsioni della maggioranza degli economisti falliscono miseramente. La recessione da pandemia si rivela breve, i suoi effetti sull’occupazione sono pesantissimi ma corti perché vengono curati con iniezioni di spesa pubblica e liquidità monetaria senza precedenti. L’America fra Trump e Biden ci mette . miliardi di dollari di aiuti a famiglie e imprese; più gli . miliardi di moneta generata dalla Banca centrale. Certo la pandemia crea strozzature, penurie, blocchi nella catena produttiva e logistica di molte merci. Stavolta sì, l’inflazione s’incendia (l’ultimo dato Usa sfiora l’% di aumenti dei prezzi). Però malgrado i sospetti sulla Cina, e tutte le sacrosante ragioni che avremmo per riportare vicino a casa nostra le produzioni di tanti beni essenziali, non avviene un vero cambio sistemico. Il  si conclude con un record storico assoluto nell’attivo commerciale cinese verso il resto del mondo. La globalizzazione ha il fiato grosso – come si vede da certe scarsità settoriali – ma gli intasamenti dei porti stanno a ricordare che le merci viaggiano sempre, e quelle made in China restano indispensabili. La quarta profezia dell’Apocalisse è di questi giorni. Guerra «novecentesca» di Putin contro l’Ucraina. Sanzioni economiche pesantissime. Russia espulsa dal sistema dei pagamenti Swift, sia pure con l’esclusione del gas. Rublo che crolla, default sovrano imminente per Mosca. Per quanto la Russia abbia una piccola economia, con un Pil inferiore all’italiano, tuttavia il suo ruolo è sostanziale su alcuni mercati: energia fossile, cereali, metalli per usi industriali. Se tante volte nel passato abbiamo creduto di sfiorare un’Apocalisse che non c’è stata, proviamo a immaginare cosa potrebbe riprodurre un salvataggio in extremis della globalizzazione. La Cina è l’indiziato numero uno. Ha un formidabile interesse a tenere in piedi un sistema di scambi internazionali da cui ha rica-

Treno della ferrovia CinaLaos, uno dei progetti di punta della Belt and road initiative o Nuova via della seta. (AFP)

vato vantaggi enormi per trent’anni. Ha un potere d’influenza su Putin. Ha conservato le sue porte aperte con l’America e l’Europa nonostante il clima di contrapposizione tra blocchi. La Cina in questi giorni sembra scommettere che l’Apocalisse non ci sarà, almeno se guardiamo a un suo comportamento fattuale: investe. Fa quello che fecero Goldman Sachs e compagnia nei momenti più bui del : compra attivi svalutati. Approfitta delle difficoltà di Putin per comprare aziende russe in particolare nei settori dell’energia, a quanto pare. Per scommettere così bisogna avere almeno un briciolo di fiducia nel futuro. Ho scritto dopo una settimana trascorsa negli Emirati. Tra Dubai e Abu Dhabi un’altra idea di Oriente avanza lungo un asse che unisce il sud-est asiatico (con nazioni musul-

mane come l’Indonesia e la Malesia), l’Oceano Indiano, il Golfo arabico-persico, fino a lambire le coste del Corno d’Africa e del Mediterraneo meridionale. Entro un raggio di cinque ore di volo dal Golfo vivono tre miliardi di persone con un età media di  anni, e una natalità ancora dinamica. Economia e demografia riportano in primo piano quell’idea di Oriente che per noi europei fu identificato molto a lungo con l’Islam. Lungo quelle coste i mercanti cinesi trafficavano già ben oltre duemila anni fa. La sensazione che riporto da questo viaggio è che nuove forme di globalizzazione, con altri attori protagonisti, diversi sistemi di regole, prendono forma a nostra insaputa. È probabile che le nostre imprese multinazionali debbano restringere i loro orizzonti, entrare in una logica di blocchi contrapposti, accettare cri-

teri di sicurezza geopolitica che impongono di arretrare, cancellare dalle proprie mappe geografiche la Russia e qualche suo alleato. Se mettiamo in fila i quattro shock in quattordici anni, possiamo dichiarare defunta l’ideologia del globalismo, quella dell’Uomo di Davos. Però ricordiamoci che le Vie della seta, già capaci di collegare l’Estremo oriente al Mediterraneo tremila anni fa, sopravvissero a shock come la caduta dell’Impero romano o l’avvento dell’Islam. Sopravvissero adattandosi: l’Europa del basso Medioevo precipitò per secoli in una povertà che deprimeva gli scambi; ma altrove fiorivano un Impero romano d’Oriente e altre realtà geopolitiche. Scambi commerciali, flussi finanziari, relazioni politiche, sono come fiumi carsici: capaci di scomparire a lungo nel sottosuolo per poi sgorgare altrove, dove non te l’aspetti.


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ATTUALITÀ

Guerra in Ucraina, i possibili scenari

Boris, il petrolio e l’ansia ecologista

Lucio Caracciolo

Cristina Marconi

L’analisi ◆ Da Kiev alla mercé di Mosca a un nuovo Afghanistan, tutto può succedere mentre i principali attori europei restano esclusi dai negoziati

Un volontario delle Forze ucraine di difesa territoriale aiuta una signora a Kharkiv. (Shutterstock)

Le trattative segrete fra russi e ucraini, supportate da vari mediatori, tendono a incagliarsi ogni volta che si affronta il tema dei temi: la smilitarizzazione dell’Ucraina che residuerà dalla guerra. La ragione di fondo che ha spinto la Russia all’invasione è infatti impedire che il territorio ucraino diventi un avamposto militare americano a poche centinaia di chilometri dalla Piazza Rossa. Le informazioni che giungevano da anni sul tavolo di Putin circa la situazione ucraina confermavano il crescente flusso di armamenti, addestratori e volontari stranieri, inglesi, americani e non solo, verso l’Ucraina. I generali dell’Armata russa avevano informato il presidente che la finestra di opportunità prima che il grado degli armamenti a disposizione del ricostruito esercito ucraino raggiungesse un livello tale da rendere l’Ucraina una minaccia esistenziale si stava chiudendo. L’accelerazione data dal Cremlino alle manovre militari ai confini dello Stato ucraino era quindi segno non solo di pressione psicologica e politica, ma preparazione dell’invasione che Putin e una ristrettissima élite intorno a lui trattavano ormai da necessità, non da scelta. Ecco perché la propaganda russa insiste tanto sulla smilitarizzazione, oltre che sulla «denazificazione», della Repubblica Ucraina. Tutto il resto è controverso, certo, ma trattabile. Per quanto riguarda i territori, Putin potrebbe accontentarsi del Donbas allargato – le due repubblichette di Donetsk e Luhans’k portate fino ai confini dei rispettivi distretti amministrativi ucraini – oltre che della Crimea e di Sebastopoli, portate a casa nel . Ma non è escluso che voglia trattenere anche Odessa, in modo da chiu-

dere a Kiev l’accesso al mare. A quel punto l’Ucraina, devastata e spopolata, sarebbe uno Stato fallito, alla mercé della Russia. Esito possibile solo in seguito a una sconfitta devastante dell’esercito ucraino. Quanto allo status di neutralità, è importante ma non sufficiente a dirimere la partita. Intanto perché ovviamente revocabile. Poi perché dovrebbe essere garantito da potenze esterne, come nel caso del Trattato di Stato austriaco del . Ma quali sarebbero questi soggetti? Potrebbe decentemente la Russia promettere di rispettare la neutralità ucraina? E gli Stati Uniti, che hanno immediatamente dichiarato di non voler morire per Kiev, muoverebbero un dito se fra qualche tempo Mosca decidesse di infliggere il colpo finale all’Ucraina? E quale altra potenza potrebbe eventualmente rassicurare Kiev?

È possibile che si arrivi a un compromesso. Sarebbe però una tregua, certo non una pace stabile, forse nemmeno di lunga durata È possibile che nei prossimi giorni si arrivi comunque a un compromesso (le riflessioni sono state scritte giovedì scorso). Sarebbe però una tregua, certo non una pace stabile. Forse nemmeno di lunga durata. Occidentali e russi potrebbero mirare a destabilizzare la parte di Ucraina assegnata all’avversario con punture di spillo nemmeno troppo coperte. Attacchi cibernetici, sabotaggi, attentati, fino alla guerriglia. A questo scenario si stanno già preparando reparti di contractors e volontari accorsi a difesa di Kiev. Un Af-

ghanistan ucraino è il loro obiettivo. Con il finale già scritto: come nel caso afghano, i russi dovrebbero un giorno, esausti, ripiegare le bandiere per riacquartierarsi nelle caserme di origine. Per gli americani, sarebbe comunque accettabile continuare nella pressione e nella guerriglia piuttosto che occupare un territorio impoverito e instabile. I russi resterebbero così impantanati nella «Piccola Russia», a smaltire definitivamente la sbornia imperiale. D’altronde già nel decennio - la resistenza ucraina si batté valorosamente contro l’Unione Sovietica, mettendo in seria difficoltà l’Armata Rossa. Dai negoziati che contano sono di fatto esclusi i principali attori europei. Francia e Germania hanno giocato e continuano a giocare un ruolo secondario, ma quando si toccano le materie decisive sono fuori gioco. Dell’Italia, neanche a parlarne. Non vanno invece trascurati polacchi e baltici, che insieme agli inglesi premono su Washington perché non lasci scampo a Mosca. Nella crisi ucraina questi paesi storicamente russofobi leggono l’occasione unica e forse non ripetibile di azzerare la potenza russa, quindi lo Stato russo. Ma è proprio la decomposizione della Russia, con le sue migliaia di testate atomiche, che gli Stati Uniti preferirebbero evitare, ultra-falchi a parte. Perché gestire un buco nero di proporzioni così colossali sarebbe quasi impossibile. E perché la Cina non perderebbe l’occasione per impadronirsi della Siberia e di trasferirvi milioni di propri cittadini, in un’operazione di sapore neocoloniale. A quel punto la sconfitta della Russia non sarebbe una vittoria dell’America, ma del suo nemico numero uno. Paradossi della geopolitica.

Regno Unito ◆ Il Paese rincorreva la svolta verde ma la crisi ucraina ha sparigliato le carte

Come si affronta il cambiamento climatico? Ci si affida alle giovani generazioni, educandole a una sensibilità diversa in materia ambientale, o si punta tutto su una politica industriale radicale per azzerare le emissioni di gas serra entro il ? Nel dubbio, il Regno Unito stava procedendo su entrambi i fronti con misure piuttosto decise quando la guerra in Ucraina e la necessità di trovare rapidamente una nuova fonte di energia per sostituire il gas russo ha sparigliato tutte le carte. E ha rimesso il premier Boris Johnson, tra le altre cose, davanti al rischio di riaprire quella crisi politica profondissima che stava per costargli il posto e che era riuscito ad aggirare nelle ultime settimane. Infatti dando il via libera alle esplorazioni di petrolio e di gas al largo delle coste britanniche per la prima volta da tre anni a questa parte si è ingraziato l’ala destra dei Tories, che a questo punto gli chiedono di fare un passo in più e di riaprire anche alle estrazioni di gas di scisto per accelerare l’emancipazione energetica dalla Russia. Col rischio, mai del tutto sopito, di spaccare il partito.

Nell’arena dell’antiambientalismo si è lanciato anche il più opportunista di tutti, ossia Nigel Farage, ex leader dell’Ukip Ma Johnson, sposato con l’ambientalista Carrie, punta molto sulle sue credenziali verdi e certo non fa bene alla sua politica del net zero, ossia dell’azzeramento delle emissioni di gas serra da qui al , il fatto di iniziare con una deroga e un ritorno alle trivellazioni. Per rendere credibile il suo obiettivo, che costerà . miliardi di sterline e sarà molto impegnativo per le aziende del paese, deve essere innanzi tutto deciso, anche perché deve vedersela con un’opposizione seria. Non solo c’è un gruppo che si chiama Zero net scrutiny group e che è formato da deputati conservatori decisi a chiedere una modifica dell’obiettivo zero net, ma nell’arena dell’anti-ambientalismo si è lanciato anche il più opportunista di tutti, ossia Nigel Farage. La nuova crociata dell’ex leader dell’Ukip (UK Independence Party), l’uomo che con la sua retorica insidiosa ha di fatto determinato l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, riguarda un referendum sulle misure vincolanti volute da Boris. Visto che nella sua lunga carriera politica non si è mai perso un’occasione di militare dal lato dell’irresponsabilità e del disdegno per il benessere collettivo, dopo aver ammiccato ai movimenti contro le misure anti-Covid negli ultimi anni, Farage ha lanciato un nuovo

movimento, chiamato Britain means business, a difesa dello status quo e delle piccole imprese che non hanno nessuna intenzione di innovare. «La classe politica di Westminster ha preso una decisione per conto di tutti noi senza che ci fosse mai un dibattito pubblico», ha scritto in un articolo sul «Mail on Sunday» Farage, che non è mai riuscito a farsi eleggere al Parlamento nazionale e deve la sua popolarità solo a una lunga carriera da eurodeputato. Ma la portata dell’argomento populista, in un momento in cui l’economia si sta a malapena riprendendo dalla lunga crisi del Covid e in cui la guerra fa paura anche se il paese importa solo il % della sua energia dalla Russia, è forte anche tra chi è più moderato. Fatto sta che tutto questo avviene mentre in  scuole elementari del paese è stato inserito nel programma ufficiale anche lo studio di temi come il veganesimo e l’impatto della moda usa e getta sull’ambiente, sul modello di quanto avviene già in altri paesi come la Nuova Zelanda. L’iniziativa, che punta a raggiungere  mila istituti in tutto il paese, viene dal Ministero dell’istruzione ecologica, un’organizzazione di insegnanti e professori con una fortissima coscienza ambientalista, decisi a rivoluzionare programmi scolastici giudicati obsoleti rispetto a un fenomeno in rapida evoluzione. E a rispondere a domande come: «Cos’è davvero rinnovabile? La risposta è nella natura? Quanta roba è sufficiente? Le cose spariscono mai del tutto? Il clima è prossimo al collasso?». Questioni importanti, certo, che però vanno a gravare su una generazione di piccoli che già deve vedersela con l’esperienza diretta di una pandemia, con una guerra vicina e sentita, con gli eventi estremi di un cambiamento climatico abbondantemente manifesto, tra alluvioni e temperature estreme. Equipaggiarli «sia nella vita professionale che in quella privata a mettere il pianeta al centro di tutto» è un bene, se la politica si ricorda di fare la sua parte, visto che i comportamenti personali, per quanto virtuosi, difficilmente possono compensare la mancanza di un approccio politico ambizioso e coerente. Certo, immaginare dei cittadini abituati a scrivere ai propri rappresentanti politici per protestare per gli sprechi nei supermercati, per le inefficienze nella raccolta differenziata o per la qualità dell’aria traccia un’immagine bella di un futuro in cui tutti si sentano responsabili dell’ambiente. E in cui i cittadini terranno in particolare considerazione i piani dei loro politici per migliorare l’ambiente. È ingiusto però che siano solo loro, i ragazzi, a soffrire della cosiddetta eco-anxiety, l’ansia ecologista.

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ATTUALITÀ

«Stiamo difendendo i confini d’Europa» Ucraina

La guerra ha stravolto anche le vite di Alina e Vassily che sono rimasti per amore del loro paese

Francesca Mannocchi

La storia dell’invasione ucraina è anche una storia di famiglie spezzate, fratture profonde che stanno lacerando comunità, dividendo i figli dai padri, fratelli e sorelle. Che parlano lingue diverse e non si capiscono. Crepe che c’erano già, volutamente dimenticate, e che la guerra ha fatto esplodere con la complicità della violenza delle armi. Famiglie come quella di Alina, che ha ventisei anni, è un’attivista a Dnipro, città popolosa al centro dell’Ucraina. Vive con sua nonna. Sua madre trasferita altrove con un nuovo marito, suo padre nella stessa città ma a tifare Putin. Quando è iniziata la guerra, il  febbraio, l’ha chiamata e le ha detto: preparati ad accogliere l’esercito che ci libererà. Alina era incredula, sulle prime. Ma ancora non riusciva ad essere arrabbiata. Era sempre suo padre, d’altronde. Poi sono passati i giorni, e con i giorni hanno cominciato a circolare immagini drammatiche: le vie di comunicazione distrutte, gli ospedali colpiti così come le scuole, gli asili, i teatri, le cliniche di maternità. Si cominciavano a contare gli edifici residenziali danneggiati dai razzi e dalle bombe e insieme alle case distrutte si contavano i morti civili. Per dieci giorni a Dnipro le sirene antiaeree non hanno suonato mai, la città – la terza del paese per estensione e popolazione – era stata risparmiata dalla tensione, dalla preoccupazione e dal dramma. Poi una notte Alina e sua nonna sono state svegliate dal suono ormai familiare che avverte della presenza del pericolo dai cieli, sua nonna ha pianto, e poi singhiozzato. Alina l’ha tenuta per un braccio e accompagnata nella brandina in cantina, il seminterrato che avevano predisposto come rifugio. L’ha aiutata a stendersi e le ha detto che tutto sarebbe andato bene. La mattina dopo, a pericolo scampato, suo padre l’ha chiamata di nuovo per chiedere se fosse preoccupata, in salvo, e cosa avesse intenzione di fare. Lei ha detto solo una frase: «Resto qui, slava Ukraina». Gloria all’Ucraina. Ha poi chiuso la conversazione e da allora non si sono più sentiti. Né più, crede Alina, si sentiranno in futuro.

L’Ucraina non ha ancora fatto i conti né col trauma post-sovietico né con gli effetti di Euromaidan, la rivoluzione del 2014 Quando cammina per le vie di Dnipro, che sono sotto attacco, piene di check point, barricate di sacchi di sabbia circondate da bottiglie molotov, Alina dice che non potrebbe vivere altrove. È la sua città, è nata lì, la vede splendida sotto la neve, luminosa quando si accende la primavera. Indica l’università in cui ha studiato, il suo locale preferito, ormai chiuso e che arreca sulla porta d’entrata il menu del giorno, fermo al  febbraio, il giorno prima dell’invasione. Alina è la generazione post sovietica di cui Putin ha paura. Di quell’epoca ormai lontana, le restano i ricordi e la scissione della sua famiglia, una madre che guarda a ovest e sostiene l’attuale governo, e un padre che guarda a est e vorrebbe che il paese tornasse sotto l’influenza di Mosca. Non è cieca, tuttavia, lo sguardo che pone sulla sua comunità è lucido e saggio. Sa che il suo non è un paese perfetto, ma sa che la storia e i suoi processi hanno

Gli Stati Uniti guardano al Venezuela Distensione ◆ Interessa il petrolio di Caracas Angela Nocioni

Bombe a Dnipro. (Shutterstock)

tempi lunghi che non si esauriscono in una o due generazioni, e che l’Ucraina non solo non ha ancora fatto i conti col trauma post-sovietico, non ha ancora fatto i conti con gli effetti di Euromaidan, la rivoluzione del  che ha dato l’avvio alla guerra. Guerra che, lo ricorda Alina, con forza, non è iniziata un mese fa: «siamo in guerra da otto anni, è bene che l’Occidente questo lo ricordi». Alina ha già pianto amici al fronte e si prepara a piangerne altri. Gli uomini dai  ai  anni, lo ricordiamo, non possono lasciare il paese, Zelensky ha invitato non solo tutti i suoi concittadini ad armarsi e difendere l’Ucraina, ma ha lanciato un appello anche ai combattenti stranieri, affinché arrivino nel paese a fianco del suo esercito. Così in ogni città, da ormai un mese, ci sono centri di reclutamento dove gli uomini e i ragazzi possono iscriversi e rendersi disponibili a raggiungere il fronte e si stanno rafforzando le Unità di difesa territoriale. Molto si è detto sulla straordinaria tenuta delle truppe di Kiev, ma

In partenza per il fronte. (Shutterstock)

è certamente utile ricordare quanto, negli ultimi otto anni, questo esercito sia cambiato e si sia evoluto anche grazie all’aiuto occidentale. Talmente cambiato e talmente evoluto da aver nei fatti arenato l’avanzata russa, pensata come un’operazione lampo, che rischia invece di diventare un pantano. Otto anni fa, nel , l’esercito ucraino era in rovina. In meno di un decennio, grazie alla riforma delle forze armate del  e all’arrivo di milioni di dollari di aiuti occidentali ed equipaggiamento militare, oggi Kiev ha un esercito professionale e molto equipaggiato. Ha missili anticarro Javelin, missili Stinger, unità speciali addestrate dagli americani nella base di Yavoriv. Ma ad aggiungersi a questi elementi va anche la struttura di uno spirito patriottico che, a partire dall’inizio della guerra in Donbass nel , è andato costantemente crescendo. La parte armata di questo spirito patriottico sono le Unità di difesa territoriale, gruppi di volontari accorsi e formatisi in tutto il paese a partire, appunto,

dal  per combattere i separatisti. E se all’inizio il loro intervento al fronte era disomogeneo, poco strutturato e caotico, oggi queste decine di migliaia di volontari vantano anni di addestramento militare e arrivano alla guerra con cognizione. Il primo gennaio scorso, per organizzare meglio le unità di volontari, il Parlamento di Kiev aveva approvato una legge per rendere le Difese territoriali un ramo autonomo ma all’interno dell’esercito, numeri alla mano dovrebbero essere  mila soldati professionisti e  mila riservisti divisi in venti o trenta brigate. Una riforma in divenire in parte sospesa e in parte gioco forza accelerata dal conflitto. Anche l’esistenza di Vassily è stata accelerata e deviata dal conflitto. Ha  anni e nella vita di prima – quella fino al  febbraio – era un consulente per le aziende che si occupano di trasporti internazionali in est Europa. Oggi si addestra alla guerra, con una mimetica e un fucile. Vassily, che non ha neppure fatto il militare perché esonerato dagli studi all’estero, ha fondato una brigata con il suo amico di infanzia Serghei, l’hanno chiamata «Freedom island», come chiamano il pezzo di città in cui vivono e dove sono nati e cresciuti. Vorrebbero più armi dal governo e dall’Occidente perché, dicono, «non stiamo difendendo solo i nostri confini, ma anche i confini d’Europa». Si sentono pronti a combattere ma esitano quando pensano che la guerra significhi rischio di morire ma anche di uccidere. Erano civili fino a un mese fa, oggi dicono di sé di essere civili-soldato. Non si interrogano più sul perché di questa invasione, né sulla sua evoluzione. Pensano all’oggi, mandare fuori dal paese le loro famiglie e fare di tutto per difendere la terra che amano. Ci metti poco, dicono, a capire che o uccidi o muori. Il problema, per tutti gli uomini come loro, e tutti noi che stiamo a guardare al di là dei confini dell’Ucraina, è come rimetteremo in ordine quello che la guerra ha travolto e sta travolgendo e come torneranno a essere normali civili, questi uomini trasformati dalla sera alla mattina in combattenti.

Recuperare petrolio e spazio politico in Venezuela. È stato questo l’obiettivo di lavoro di un’équipe del Dipartimento di Stato statunitense nelle ultime settimane. Obiettivo raggiunto come effetto collaterale caraibico della guerra in Ucraina e celebrato da un viaggio di una delegazione Usa a Caracas per riunirsi con Nicolás Maduro, entusiasta di riprendere le relazioni interrotte nel  dall’allora presidente Trump con annessa chiusura dell’ambasciata americana a Caracas ed embargo al petrolio venezuelano, petrolio pesante, shale oil, costoso da estrarre e da raffinare, ma oro nero sicuro, raffinato da decenni in impianti statunitensi secondo il modello di «apertura petrolera». Le relazioni dopo l’arrivo di Trump si erano così deteriorate che nel  il Dipartimento di giustizia americano ha accusato Maduro e una dozzina di dirigenti venezuelani di reati di narcotraffico. Maduro è felice all’idea di poter riannodare i rapporti con gli Usa. Vuole tornare a vendere petrolio agli americani per poter approfittare del rialzo dei prezzi e rimpiazzare le entrate costruite negli anni attraverso il sistema finanziario russo. Dopo la chiusura dei contratti voluta dall’amministrazione Trump, Maduro s’era infatti presentato col cappello in mano sulla Piazza Rossa. Quando Washington ha imposto sanzioni efficaci alla vendita di petrolio raffinato venezuelano, l’impresa statale russa di petrolio Rosneft s’è mobilitata per moltiplicare le esportazioni di barili venezuelani nel mercato asiatico. Due mesi dopo, quando le voci su una possibile precipitazione armata dell’eterno conflitto venezuelano s’erano fatte più insistenti del solito, due aerei con a bordo tecnici militari russi sono spuntati sulla pista dell’aeroporto Simon Bolívar, l’aeroporto internazionale di Caracas. Maduro ha anche trasferito la sede europea della petrolifera statale Petróleos de Venezuela da Lisbona a Mosca, nella speranza di aggirare così almeno in parte eventuali sanzioni europee contro il regime venezuelano. Una nuova società è stata iscritta nei registri pubblici. Compare con data di nascita  agosto  come compagnia che offre servizi di consulenza in commercio e gestione per il business di petrolio e gas. Nella nuova società c’è anche capitale cubano per il %. Ora Maduro si ritrova con il problema di fare il processo inverso per non rimanere incastrato dalle sanzioni contro Mosca. Putin a Caracas ha interessi russi pubblici e privati (oltre sessantamila milioni di dollari già investiti solo nel petrolio). I capitali russi in Venezuela sono cresciuti molto discretamente dopo l’arrivo di Chávez al potere nel . C’è denaro russo ovunque. Dal  esiste un consorzio di imprese petrolifere russe (Rosneft, Lukoil, Gazprom Neft, TkkBp e Surgutneftegaz) per fare affari in Venezuela. Dal  il consorzio ha creato Petromiranda, una joint venture dal capitale per il % russo e per il % venezuelano, per utilizzare l’area petrolifera Junin . Il consorzio l’ha creato Igor Sechin, ex Kgb, direttore della russa Rosneft. Spedito da Putin ai funerali di Chávez insieme a Serguéi Chémezóv, altro veterano del Kgb, direttore della corporazione russa Rostechnologia per l’esportazione della tecnologia militare russa.


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ATTUALITÀ

La scure economica sulla Russia

Guerra in Ucraina ◆ L’Occidente ha imposto sanzioni senza precedenti, ma l’impatto potrebbe ricadere soprattutto sulla popolazione e meno sul regime Marzio Minoli

Di solito si dice che quando si tocca qualcuno sul portafoglio, si ottengono i migliori risultati. Le sanzioni economiche alla Russia, decise da quelli che sono già stati definiti «alleati», quindi soprattutto Stati Uniti e Unione Europea, hanno questo scopo. Le notizie di accavallano e non è facile districarsi tra queste. Quando si scrive qualche cosa, rischia di essere superato. Alcune cose però sono dei punti fermi, già decisi. Vediamo quali sono e le conseguenze che potrebbero portare.

Per piegare il regime occorre rinunciare all’acquisto di petrolio e gas, ma questo non è possibile senza danneggiare l’Europa Prima comunque un po’ di numeri, anche per meglio inquadrare di chi stiamo parlando. La Russia ha un’economia non delle più forti. Il suo PIL è di circa  miliardi di dollari, non molto. Il doppio di quello svizzero, inferiore a quello italiano o tedesco. Le sue fonti d’entrata maggiori sono le materie prime, petrolio, gas ma anche agricoltura. Assieme all’Ucraina conta per il % del fabbisogno mondiale di cereali. Ha un debito pubblico basso, il % del PIL e le riserve della sua Banca centrale ammontano a  miliardi di dollari. Meno della Svizzera, che arriva a circa  miliardi. Passiamo alle sanzioni. La più discussa è quella che riguarda l’esclusione della Russia dallo SWIFT, ovvero il sistema di trasmissione di dati tra banche internazionali, tramite il quale si regolano i pagamenti. Al momento sono sette le banche escluse, ma non alcune tra le più grandi come Sberbank e Gazprombank. Come mai? Semplicemente perché al momento se l’Europa vuole il gas e il petrolio russo, li deve poter pagare, altrimenti si rischia la chiusura dei rubinetti da parte di Mosca. Senza contare

che molte banche soprattutto italiane, francesi e austriache sono esposte in Russia per circa  miliardi di dollari. Senza SWIFT non riceverebbero più indietro i loro soldi. La seconda, e forse più importante sanzione riguarda la Banca centrale russa. Le riserve come detto ammontano a  miliardi di dollari, ma di dollari non ce ne sono molti. Infatti, proprio per non dover dipendere troppo dagli Stati Uniti, la Russia ha accumulato soprattutto euro e oro. Queste riserve non sono tutte in Russia. Più della metà sono in banche occidentali, USA, Regno Unito e Germania soprattutto, e quindi bloccate. Nei forzieri a Mosca c’è molto oro, difficilmente utilizzabile per i pagamenti, e Yuan cinesi, moneta non ancora accettata per i pagamenti. Cosa significa bloccare i fondi di una banca centrale? In primis non si può controllare il corso della propria moneta attuando politiche monetarie con questo scopo. Il rublo ha perso circa il % del suo valore contro dollaro, e questo nello spazio di un mese. Inoltre, non può aiutare l’economia, come ad esempio supportare le aziende che devono importare dai paesi occidentali. E come ha reagito la Russia? In primis ha alzato i tassi d’interesse, dal , al % per attirare capitali, in rubli. Ha imposto il controllo dei capitali. Agli investitori stranieri è vietato vendere gli attivi che detengono in Russia e imposto alle aziende esportatrici di farsi pagare in valuta forte. Fino al  settembre poi, non sarà possibile acquistare valute estere. Inoltre Putin ha firmato un decreto che permette ai debitori russi di pagare i loro debiti in dollari o euro, in rubli. E questo riguarda anche il debito pubblico russo emesso in valuta estera. Abbiamo visto dunque che le sanzioni sono, come dire, poco drastiche. Basteranno comunque per piegare la Russia? Non a breve termine. Come detto il sistema SWIFT è bloccato solo parzialmente, quindi i flussi finan-

Le aziende occidentali, compresi i marchi di lusso, lasciano la Russia: negozio Dior a Mosca. (Keystone)

ziari con le banche maggiori, quelle che gestiscono le vendite di gas e petrolio, rimangono aperti. Si calcola che ogni giorno dalla vendite di queste due materie prime, Mosca incassi tra i  milioni e  miliardo di euro. Si parla anche di un sistema diverso dallo SWIFT a disposizione della Russia. Che possa agganciarsi a un sistema cinese di pagamento. Tutto vero, ma al momento non sono soluzioni efficienti e non è dunque da considerarsi un’alternativa. Per quel che concerne il blocco delle riserve della Banca centrale, anche qui al momento possono essere superate grazie a un elemento chiave: le vendite di gas e petrolio all’Europa. E questo è il punto centrale della questione. La Russia esporta il % del suo gas in Europa, esportazioni che contano per il % del budget federale. E qui arriva un altro punto importante: come si finanzia la Russia? Gli Stati utilizzano molto il sistema del debito pubblico a questo scopo. La Russia ha un debito pubblico del %. Un debito che ultimamente l’agenzia

di rating Fitch ha declassato di ben sei «scalini» portandolo a C, ovvero obbligazioni spazzatura. E anche le altre due grandi agenzie, Moody’s e Standard& Poor’s, lo classificano su questo livello. Un problema per la Russia? Putin non sembra preoccuparsi. Ha già detto che potrebbe rimborsare questo debito in rubli. Inoltre, essendo, come detto, non troppo alto, un suo eventuale default potrebbe anche non essere così drammatico, come invece si è visto in passato con altri paesi. E anche i mercati finanziari hanno già «scontato» un eventuale default. Come tagliare i viveri a Mosca dunque? Rinunciare a gas e petrolio russi, fermare queste importazioni e mettere Mosca in ginocchio. Ma non è possibile. Perché se la Russia esporta molto in Europa, a sua volta l’Europa conta per il % del suo fabbisogno sul gas russo. Quindi è un gatto che si morde la coda e nel breve termine non sembra esserci una soluzione. Senza dimenticare che non tutti sono d’accordo su sanzioni come un embargo a gas e petrolio russi. Gli Stati Uni-

ti, che importano l’% del loro fabbisogno di petrolio dalla Russia, hanno già bloccato le forniture. L’Europa no in quanto dipende maggiormente dalle fonti energetiche di Mosca. A breve termine dunque la via dell’embargo è difficile da applicare. Fino a qui le sanzioni e le reazioni dei governi. Ma le società private cosa fanno? Molte se ne vanno per due ragioni: il rischio morale e il rischio economico. Il rischio morale è quello al quale sono esposti i grandi marchi internazionali, dalla Coca Cola a McDonald’s, ma anche Swatch. Per queste società rimanere in Russia non è eticamente accettabile e il rischio di boicottaggio a livello mondiale è alto. Come Shell, la quale ha chiuso tutto e ha anche chiesto scusa all’Ucraina per la decisione tardiva. E anche BP ha venduto la sua quota del % in Rosneft. Rimanere in Russia potrebbe non piacere a azionisti, impiegati e clienti. Il rischio economico invece riguarda le ritorsioni che Putin potrebbe mettere in campo (e in parte ha già messo, come il divieto di esportare grano). Limitazioni alle attività e dell’accesso al sistema bancario, il rischio di una nazionalizzazione delle aziende e chissà quali altre contro-sanzioni per gli investitori esteri potrebbero arrivare. La situazione è in continua evoluzione. L’arma economica funzionerà? Si deve trovare il modo di fare più male alla Russia di quanto la Russia possa farne agli «alleati» (Svizzera compresa). La storia ci dice che spesso le sanzioni non sono servite a nulla, troppo deboli, troppo alla mercé di gruppi di pressione. Ma anche quelle dure non hanno cambiato le leadership dei paesi. Iran, Venezuela e Cuba sono gli esempi più lampanti. La speranza è che tutto finisca presto, perché alla fine, a farne le spese, è sempre la gente comune, soprattutto laddove il rispetto per le persone è praticamente assente. Annuncio pubblicitario

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BANCA MIGROS

Leasing, abbonamento o acquisto?

Quale variante conviene? ◆ Abbiamo messo a confronto le automobili più vendute in Svizzera. Il conducente che viaggia molto compra, quello occasionale si abbona… e chi ama la comodità sceglie un leasing Il mercato dell’auto si trova in una fase di transizione. Un’autovettura nuova su sette immatricolate in Svizzera è a propulsione completamente elettrica. Lo scorso anno, Tesla è stata l’auto più venduta nel paese. Oltre ai tanti modelli, ci sono anche sempre più varianti del modo in cui si può possedere (o non possedere) un’auto. Le possibilità sono tante: acquisto, condivisione, abbonamento e leasing. E anche quest’ultimo non è più quello di una volta. Oggi, infatti, si può ordinare un’auto anche solo premendo un tasto e pagando una tariffa forfettaria mensile che comprende assicurazione, tasse, manutenzione, pneumatici e garanzia.

Uno dei primi offerenti online di pacchetti tutto compreso è gowago.ch. Per il finanziamento, questa società che distribuisce migliaia di veicoli, un terzo dei quali elettrici, collabora con la Banca Migros. «Grazie alle grosse quantità riusciamo a comprimere i costi per gli pneumatici, le assicurazioni e le riparazioni. I risparmi ottenuti li riversiamo ai nostri clienti», afferma il Ceo di gowago.ch Rutger Verhoef. In questo modo il leasing all-inclusive diventa più economico. Ciò però non significa che il leasing sia la soluzione migliore per tutti gli automobilisti, ma «dipende dalle esigenze, dalle abitudini e dal modello di vettura».

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 21 marzo 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

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ATTUALITÀ / RUBRICHE ●

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

I costi sociali del frontalierato ◆

Ogni tanto mi capita di scambiare opinioni con gli amici economisti ticinesi su questo o quel problema. Tra quelli che si discutono più di frequente c’è quello della apparente inarrestabile crescita dell’effettivo di lavoratori frontalieri occupati nel Cantone. Stando ai dati più recenti i frontalieri occupati nella nostra economia sarebbero ’, il che dovrebbe rappresentare qualche cosa come il % dell’occupazione totale. Ci stiamo rapidamente avvicinando alla situazione in cui  occupato su tre della nostra economia sarà frontaliere. Siccome né l’effettivo dei lavoratori svizzeri, né quello dei lavoratori stranieri domiciliati, né, tanto meno, il livello della produttività aumentano, nel corso degli ultimi anni, il grande merito dei lavoratori frontalieri è stato quello di assicurare, con la progressione dei loro effettivi, un tasso di crescita positivo – in

media superiore all’% – del prodotto interno lordo reale del Cantone. Senza l’aumento dei frontalieri non ci sarebbe stata crescita economica in Ticino, negli ultimi dieci anni. Se questo non è un merito…! Ma come ogni fenomeno economico anche il frontalierato ha i suoi costi. Senza voler entrare nei dettagli di un calcolo costi-benefici che, finora, nessuno si è arrischiato a fare, possiamo ricordare che i frontalieri sono all’origine di costi sociali importanti, tra i quali, i più conosciuti, sono quelli determinati dalle lunghissime code sulle nostre autostrade e strade nelle ore di punta delle giornate lavorative. Sono difficoltà queste che devono sopportare tutte le regioni che ricorrono ai frontalieri. È evidente che i costi sociali del traffico frontaliero aumentano con il crescere degli effettivi, rispettivamente della proporzione che gli stessi

hanno rispetto alla popolazione o all’occupazione della regione esaminata. Nessuno si sorprenderà apprendendo che il Liechtenstein, piccolo principato con ’ abitanti che dà però lavoro a ’ persone delle quali ’, ossia il %, sono frontalieri, ha, in materia di costi sociali del traffico veicolare problemi anche maggiori del Ticino. Siccome il principato dispone di poca superficie, la soluzione di allargare le strade non sembra più praticabile. Qualcuno ha quindi suggerito di introdurre il «road pricing» facendo, in un certo senso pagare l’ingresso ai lavoratori frontalieri. È come se si introducesse un sistema di razionamento dell’uso delle strade, o per lo meno di quelle che attraversano la frontiera con la Svizzera e con l’Austria. Apriti cielo! La reazione è stata come quella che ha accolto, a suo tempo, la tassa di collegamento in

Ticino. Sulle possibilità tecniche e su quelle politiche di introdurre una tassa d’entrata nel Principato si può discutere a lungo. Non si può invece negare che i flussi giornalieri di frontalieri che vi si recano, con la propria automobile, per esercitarvi la loro attività lavorativa non siano all’origine di costi sociali consistenti quando, come nel caso del Liechtenstein, nel paese circolano più automobili di frontalieri che automobili dei suoi abitanti. Il «road pricing» potrebbe effettivamente essere una misura efficace per internalizzare questi costi, ossia per esigere, da chi li provoca, che ne sopporti almeno una parte. In Ticino, dove i costi sociali dei flussi di traffico provocati dai frontalieri rappresentano sicuramente un multiplo di  o di  di quelli del Liechtenstein nessuno ha pensato fin qui di chiamare i frontalieri alla cassa. Si cerca di alle-

viare il problema aumentando la capacità delle strade. I costi delle nuove infrastrutture li sopporteranno i contribuenti svizzeri e ticinesi. Non c’è però che da aspettare: se i flussi di frontalieri anche in Ticino dovessero raggiungere le proporzioni di quelli del Liechtenstein, si realizzerebbe una situazione che potrebbe effettivamente suggerire soluzioni nuove. Se, per esempio, l’effettivo di frontalieri raddoppiasse e salisse a ’ unità, una tassa che internalizzerebbe i costi sociali del traffico a loro attribuibili, potrebbe addirittura consentire di giustificare il finanziamento di due linee di metro: la prima da Camerlata a Rivera e la seconda da Porlezza a Ponte-Tresa Italia. Aspetto ora con interesse le reazioni dei miei amici economisti. Se la città Ticino avrà bisogno di un metrò questo dovrà di sicuro attraversare la frontiera con l’Italia.

Affari Esteri

di Paola Peduzzi

Quel candidato della pace filorusso ◆

L’invasione russa dell’Ucraina ha travolto la campagna elettorale francese, consolidando il presidente «di guerra» Emmanuel Macron, che è attorno al % dei consensi, e marcando ancora una volta, e in modo più drammatico che in passato, le differenze tra le varie anime della sinistra. Come si sa questo non è un problema soltanto francese: tutte le sinistre occidentali si dividono quando si parla di atlantismo, Nato, Russia. Ma poiché la Francia va al voto – il primo turno è il  aprile – ogni candidato è continuamente esposto e interrogato sulle proprie posizioni, e l’ambiguità delle dichiarazioni equidistanti sul conflitto scatenato da Vladimir Putin in Ucraina è molto più visibile. La prima cosa da notare, e questa non è una conseguenza della guerra, è che la gauche francese si è già presentata divisa alla contesa elettorale ed è il motivo per cui i nomi dei candidati si trovano solo guardando la parte più

bassa dei sondaggi. Il primo esponente di sinistra – una sinistra insoumise, radicale, antieuropeista e antiatlantica – nei sondaggi è Jean-Luc Mélenchon, ora all’-% dei consensi, appaiato più o meno al candidato di estrema destra Eric Zemmour e più avanti rispetto alla candidata gollista Valérie Pécresse (al secondo posto delle intenzioni di voto c’è Marine Le Pen; il probabile ballottaggio al secondo turno delle presidenziali è uguale a quello del ). Dopo Mélenchon, a metà dei suoi consensi, cioè tra il -% c’è Yannick Jadot, il candidato ecologista, su cui molti ripongono da tempo tante speranze perché tante speranze sono risposte sulla transizione ecologica in tutta Europa. Ma la guerra in Ucraina, come si sa, ha cambiato (anche) i connotati della battaglia ambientalista, e questo fa annaspare ancora di più Jadot che comunque già prima non procedeva affatto solido. Nel pulviscolo di mi-

ni-candidati che chiudono la classifica dei sondaggi bisogna citare la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, che di ambizioni ne aveva moltissime e che ha tentato prima di unire la sinistra poi di occupare la sinistra, finendo in un pasticcio enorme. Ora è al ,% nei sondaggi. La situazione è talmente disperata che da giorni non si fa che parlare della possibilità che l’ex presidente socialista François Hollande, l’ultimo e unico presidente di sinistra di questo secolo, possa buttarsi nella contesa elettorale: si è preparato, dicono i retroscenisti, a fare la parte del salvatore. Ma molti ribattono: salvare che cosa? Poiché di fatto la gauche francese non esiste più, resta il dibattito ideologico, ancora più rilevante se il primo della compagine scalcagnata è proprio Mélenchon, che lascia sempre intendere di essere molto sottovalutato, come a dire: vi regalerò sorprese. Alle manifestazioni organizzate a sostegno

del popolo ucraino ognuno è andato per conto proprio, o meglio Mélenchon è per conto proprio. I suoi sostenitori gridano: «La guerra è una gran scemenza!», cosa condivisibilissima, così come lo sono i cartelli a favore della pace. Ma il leader della France insoumise è, ancora oggi, a favore dell’abolizione della Nato, mentre sui social rimbalzano le sue dichiarazioni filo putiniste del passato. Mélenchon era a favore dell’azione del presidente russo in Siria (quella dei bombardamenti su civili, corridoi umanitari, ospedali e quella che ha inaugurato il modello russo di affamare le città prima di sottometterle). Quando Putin fece l’annessione della Crimea, Mélenchon disse «meglio così». All’inizio dell’invasione russa in Ucraina Mélenchon si è unito al coro di chi condannava l’aggressione, ha fatto parte di chi aveva bisogno di riposizionarsi nel giro di pochi giorni (come Marine Le Pen che ha cestinato tutti i volan-

tini con una sua foto insieme a Putin), ma poi subito ha seguito il proprio istinto. Così ha scelto la strada dell’equidistanza, né con Putin né con la Nato, ma con un’evidente propensione a schierarsi, nel caso, con il primo. Poiché la materia russa è incandescente ovunque in Europa, ancor più se la guerra prosegue e se lo shock energetico e finanziario diventa oltremodo costoso, Mélenchon si è accomodato sul divano più comodo: quello della pace. Se dici pace sei inattaccabile, chi non è per la pace? Se dici pace puoi evitare di fare distinzioni tra aggressori e aggrediti, puoi anzi iniziare a magnificare le tue doti di negoziatore, aspirando a un accordo consensuale tra le parti, magari organizzato proprio da te, in qualità di presidente. I rilevamenti dicono che la manovra di Mélenchon è riuscita: se dici pace e chiedi chi è il candidato della pace, moltissimi citano il leader filorusso della France insoumise.

Zig-Zag

di Ovidio Biffi

La canzone è solo vecchia o è morta? ◆

Mi sono riproposto di stare alla larga dalle angosce della nuova infodemia. Faccio allora un rewind sino all’ultima serata del festival di Sanremo e arrivo all’interrogativo del titolo: la canzone esiste ancora? È una domanda che da un po’ di tempo mi si ripresenta sovente, sospinta da una curiosa e banale osservazione mattiniera. Mentre preparo colazione e mi accorgo che musica (ricordate l’ultima volta che avete sentito un brano non cantato alla radio? Allora avete buona memoria) o canzoni hanno posto fine ai sempre più stucchevoli chiacchiericci da… «pallinsesto», con gli occhi corro alla segnalazione digitale che sul display, assieme a nome del cantante e titolo, annuncia anche l’anno dell’uscita del brano musicale proposto. È proprio a quel ripetuto messaggio digitale che risale la mia scoperta di quanto i brani del

passato siano sempre più incontrastati in ascolti e preferenze musicali. A dirla tutta credo che, a chi è un po’ in là con gli anni, questa tendenza faccia piacere. Ma non credo che il motivo della rievocazione perpetua possa essere legato solo a date e generazioni. Il trend non cambia e le scalette musicali continuano a proporre brani sempre più datati. Addirittura era riscontrabile anche pochi giorni dopo il magma di nuove canzoni al festival di Sanremo e continua a essere costantemente presente anche in trasmissioni chiaramente rivolte a un pubblico assai più giovane. Allora perché ad avere successo sono autori, cantanti e brani musicali che risalgono agli anni ,  e  del secolo scorso? E ancora: non è che questo fenomeno, che dura ormai da anni, sta anche impedendo a nuovi artisti (cantautori, cantanti o gruppi) di

emergere e soprattutto di guadagnare visibilità e affermarsi negli ascolti, in modo da conquistare il pubblico? Alla ricerca di risposte e spiegazioni nelle scorse settimane ho ricevuto una serie di aiuti insperati: alcuni illustri esperti del settore della musica leggera sono approdati anch’essi più o meno alle stesse domande. Ovviamente hanno saputo analizzare il fenomeno con maggior perizia e con argomentazioni assai più confacenti rispetto alle mie (necessariamente limitate, anche perché in pratica riferite solo ad ascolti radiofonici). Lo spazio mi obbliga a limitarmi a un articolo apparso sulla rivista statunitense «Atlantic» e dedicato in prevalenza a quanto commercializzazione e mercato stiano dettando. Ma qualche input mi è giunto anche da un articolo che sul mensile del «Foglio» – «Review» – di febbraio si è sof-

fermato principalmente sulla qualità mutata e sull’impatto causato dai mutamenti dei testi degli artisti (oggi i brani musicali sono infinitamente più tristi di una volta). Al contrario l’analisi che giunge dalla rivista americana tocca tutto il caravanserraglio che gravita attorno a produzione e consumo musicale confermando che anche negli Usa le nuove canzoni raggiungono solo un  –  % del consumo totale di musica leggera. Lo si è stabilito controllando non solo gli ascolti radiofonici, ma anche e soprattutto il traffico digitale di Spotify e iTunes, le piattaforme da cui i giovani di tutto il mondo scaricano i brani. I dati assicurano anche che non si tratta di un fenomeno collegato solo ai gusti generazionali e includono, grazie anche agli immancabili algoritmi, anche l’influenza delle scelte industriali. Ted Gioia,

che scrive regolarmente di musica per il magazine americano, dopo aver interrogato esperti che «vedono» le canzoni come prodotto industriale prima ancora che come espressione artistica, sintetizza così la situazione: «Il problema non è la carenza di nuova musica di qualità, è che l’industria musicale non è più progettata per scoprirla e alimentarla». E poi precisa che «Mai prima d’ora nella storia i nuovi brani hanno raggiunto lo status di hit generando così poco impatto culturale». In altre parole siamo al cane che si mangia la coda: i successi del passato hanno una marcia in più (qualità, valori, sentimenti ecc.) e l’industria musicale non investe più in nuove produzioni condannandole a sparire subito dalle classifiche di ascolti e dai download dal web. Insomma – e ritroviamo Sanremo – situazione da… brividi!


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Anno LXXXV 21 marzo 2022

CULTURA

azione – Cooperativa Migros Ticino 27

Al Bar Pace di Chiasso Storia e curiosità di un locale d’altri tempi, luogo di musica, incontri e cultura, e del suo istrionico proprietario Gianni Ferrazzini

Florence Aubenas Dentro il new journalism di Florence Aubenas, giornalista e scrittrice francese, in libreria con il suo ultimo lavoro Lo sconosciuto delle poste

Praticare il femminismo Per la casa editrice Tamu è uscita una nuova edizione della guida femminista di bell hooks, filosofa, docente e attivista statunitense

Pagina 29

Pagina 31

Pagina 33 ◆

La querelle des femmes e le donne di Tiziano Mostra

La donna del Cinquecento ritratta in alcuni capolavori del maestro protagonista a Palazzo Reale di Milano

Gianluigi Bellei

Durante il Rinascimento le dispute erano all’ordine del giorno. La teologia rivaleggiava con la filosofia, le arti con le lettere, la medicina con la giurisprudenza e naturalmente la scultura con la pittura. Vi è poi una disputa meno conosciuta, un po’ strabiliante ma cui vale la pena accennare: in Francia è conosciuta come querelle des femmes. In sostanza la contesa si svolgeva sul quesito basato sul fatto che le donne siano superiori agli uomini o viceversa. Come rileva Margaret L. King ne La donna nel Rinascimento la querelle si è svolta in latino e in volgare in Italia, in Francia, in Inghilterra, fra cattolici, protestanti ed ebrei. La scintilla è l’attacco contro le donne nel Roman de la rose di Jean de Meung del XIII secolo. Il volume viene spedito a Cristina de Pisan, veneziana trapiantata a Parigi. La reazione è immediata, come i dibattiti nei cenacoli parigini. De Pisan è sicuramente la più famosa fra le scrittrici dell’epoca; suoi sono la Cité des dames, dove le donne vivono in una città autosufficiente o il Livre des trois vertus del  dove si tracciano le linee per un’educazione delle donne di ogni ceto sociale. È un periodo fertile per le letterate; citiamo Isotta e Ginevra Nogarola, Laura Cereto, Cassandra Fedéle, Alessandra Scala e Olimpia Morata. La tradizione femminista riprende nel XVI secolo con Moderata Fonte la quale esalta l’indipendenza femminile ne Il merito delle donne del ; Lucrezia Marinella con La nobiltà et l’eccellenza delle donne del  che sostiene la loro superiorità. Poi Angela Tarabotti, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Franco, una delle «principali et più onorate cortigiane di Venezia» ricorda Montaigne, e la francese Louise Labé. Anche diversi uomini si sono schierati accanto alle donne per i loro diritti, come quello allo studio; il principale è sicuramente Cornelius Heinrich Agrippa von Neetesheim il quale sosteneva che l’unica differenza tra uomini e donne era di carattere anatomico. Poi l’inglese Sir Thomas Elvot che era favorevole al diritto delle donne a governare. Insomma di donne, di amori e di erotismo si discuteva parecchio da Boccaccio ad Agnolo Firenzuola, da Pietro Bembo a Baldassarre Castiglione fino a Pietro Aretino. Ed è proprio «l’infame Aretino» che pubblica le oscene Sei giornate. Nel Dialogo nel quale la Nanna il primo giorno insegna alla Pippa, sua figliola, a esser puttana, scrive al gentile e onorato messer Bernardo Valdaura che si sforza di ritrarre «le nature altrui con la vivacità che il mirabile Tiziano ritrae questo o quel volto». Ed è proprio Tiziano al centro di una mostra a Palazzo Reale di Milano che presenta l’immagine della donna nella Venezia del Cinquecento attra-

Susanna e i vecchioni, olio su tela, realizzato nel 1555-1556 da JacopoTintoretto. (Vienna, Kunsthistorisches Museum)

verso un centinaio di opere sue e di suoi contemporanei. Quell’immenso Tiziano che Bernard Berenson associa a William Shakespeare perché entrambi «costituirono ciascuno la più alta e completa manifestazione del proprio tempo». Molte sono state le esposizioni monografiche a lui dedicate e al suo prolifico lavoro: otto decenni e circa  opere… Quest’ultima è dedicata all’immagine della donna, perché, come sottolinea la curatrice Sylvia Ferino-Pagden in catalogo, «l’atto creativo di Tiziano avrebbe la medesima intensità dell’atto d’amore», come descrive Antonio Persio nel Trattato dell’ingegno dell’uomo del . Sappiamo che Tiziano era un donnaiolo anche se si sa ancora poco dei nomi delle sue amanti e modelle. La prima moglie si chiamava Cecilia e gli ha dato due figli; la seconda un’altra figlia, Lavinia. Da un’altra ancora ha avuto una figlia illegittima di nome Emilia. In ogni caso dipinge dei nudi meravigliosi, tanto che Lodovico Dolce scrive a proposito di Venere e Adone (una delle versioni è in mostra) che è difficile trovare un uomo che vedendola «non la creda viva… e che non si senta riscaldare, intenerire e commuoversi nelle vene tutto il sangue».

L’esposizione propone alcuni quesiti della storia dell’arte. Uno pare importante: l’analisi dei tanti dipinti raffiguranti fanciulle che si scoprono il seno a partire dalla Laura di Giorgione del . Diverse le interpretazioni; la più banale è che rappresentino delle cortigiane (ovvero delle prostitute di lusso) il che non è possibile perché in realtà queste amavano presentarsi come gentildonne. Altri le considerano delle amanti con i conseguenti problemi del marito fedifrago che vuole appendere il quadro a casa; altri ancora credono che rappresentino l’idealizzazione della bellezza femminile. Infine, la tesi esposta in catalogo da Enrico Maria Dal Pozzolo, coadiuvato da altri studiosi è che queste fanciulle rappresentino delle promesse spose. Dopo diverse citazioni Silvia Gazzola butta l’asso nella manica: Giovanni Bonifacio che nel  ha scritto L’Arte dei cenni, un preziosissimo dizionario enciclopedico, nel quale ha descritto minuziosamente ogni piccolissimo significato dei gesti corporei. Dopo aver delineato un itinerario che parte dal piano fisico definendo l’oggetto «le poppe», si avvia verso quello affettivo con «il seno» per terminare con quello etico «il petto». Perciò «aprirsi i panni dinanzi al petto sarà gesto

di voler mostrar il cuore e così di realtà et sincerità». Laura di Giorgione, oltretutto, è contornata da un copiosissimo lauro che ne indica verginità e pudicizia. Ci sono poi le Belle veneziane ma anche Venere e gli amori degli Dei, le eroine e le sante. Undici le sezioni della mostra fra dipinti, sculture, stampe, libri, perché proprio a Venezia in quegli anni operavano quasi la metà degli stampatori di tutta Italia. Guardate la Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna edita da Aldi Manutii nel . Il racconto del percorso «arduo e mirifico – scrive Mino Gabriele nell’introduzione alla versione edita da Adelphi – di Polifilo e del pellegrinaggio dell’anima verso il corpo» in una sorta di curiositas-voluptas. Due i dipinti sui quali soffermarsi lungamente: la versione della Danae del Kunsthistorisches Museum di Vienna del  così provocatoria e orgogliosa e soprattutto Tarquinio e Lucrezia dell’Akademie der bildenden Künste di Vienna. Opera tarda, dipinta fra il  e il , nella quale la violenza diventa movimento, azione con i personaggi che nuotano all’interno di un disfacimento della materia fra colori indistinti ricchi di sfregazzi e velature. Capolavoro della seni-

lità così vivo, vitale, impressionista, crepitante di fantasmagoria, violenza e dolore. Allestimento con giochi di luce e penombra in un contrasto tra «luce d’accento e ambiente in penombra» organizzato dallo Studio Lisa Marchesi. Bel catalogo, utilissimo per la bibliografia di riferimento. Per cercare questi gustosi libri antichi, se vi interessa acquistarli, andate su www. vialibri.net. PS: Dopo la recente vile aggressione della Russia di Putin all’Ucraina e le relative sanzioni per cercare di fermarla (compreso l’invio di armi a un paese che vuole combattere l’invasore) l’Ermitage di San Pietroburgo ha chiesto il ritiro dei dipinti prestati all’estero, compresi i due della mostra milanese. A seguito di intense trattative la decisione è stata poi ritirata. Il mondo dell’arte è in subbuglio e spuntano i primi distinguo per sganciarsi dai crimini di guerra che sempre più caratterizzano l’operato dell’armata russa. Dove e quando Tiziano e l’immagine della donna nel Cinquecento veneziano. A cura di Sylvia Ferino-Pagden. Palazzo Reale, Milano. Fino al 5 giugno.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 21 marzo 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

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CULTURA

A Chiasso, dal Gianni Incontri

A colloquio con Gianni Ferrazzini, da 61 anni istrionico proprietario e gerente del Bar Pace di Chiasso

Simona Sala

Uno dei segreti del suo successo, che si misura in decenni, è senza dubbio l’atmosfera autenticamente rétro. Un locale senza insegne e quasi nascosto nel cuore di una casa di inizio  attanagliata dall’edera. Il bancone a forma di elle, l’ingresso dalla strada, più sfacciato, e quello dal retro, in sordina. Il microscopico giardinetto, la moquette, i divanetti e certi sgabellucci, gli abat-jour negli angoli, i giornali di sport e di cultura, e il vecchio pianoforte ormai in disuso. Il soffitto con l’allinearsi dei quadrati azzurri vintage, che già solo guardarli è un tuffo nel passato, il tutto nel gusto inconfondibile del suo progettatore, Angelo Andina, che pensò il locale nel . Alle pareti, qua e là sbreccate, foto di miti della musica, jazz in primis, si alternano a foto di amici, di parenti, di chi ha eletto questo ritrovo a ideale zona franca, una no man’s land familiare e ovattata, dove i silenzi, mai imbarazzati, sono colmati dalla musica, e dove ancora, a discorsi di politica se ne accavallano altri, di tempi andati e di arte, da quale sia il libro più bello di Colm Tóibín, alla Gilda del Mac Mahon di Testori, andata in scena a Milano qualche mese fa con Laura Marinoni. La musica è indiscussa protagonista di un bar che in qualche modo è ed è stato molto di più di un semplice ritrovo. Da Lugano in giù, soprattutto a chi ha già superato i quaranta, «Il Pace», o «Dal Gianni», sono due concetti molto chiari. Il riferimento è al Bar Pace di Chiasso, in Via Soldini, dall’altra parte della ferrovia che taglia a metà la cittadina di confine. E «il Gianni» è Gianni Ferrazzini, da  anni istrionico protagonista di ogni singola serata del Bar che amministra, gestisce e governa dal  (dopo averlo ereditato dal padre, che lo aprì nel ) con poche, chiare e semplici regole. L’apertura non è mai prima delle , giacche e mantelli vanno appesi, non si lasciano in giro oggetti, il decoro è d’uopo in ogni momento, anche quando la serata rischia di protrarsi. Eppure, nonostante il suo nome (probabilmente in voga dopo la fine del Secondo conflitto mondiale e che è condiviso con altri trenta ritrovi in Svizzera, basti pensare al De la Paix di Lugano e all’Osteria Pace di Sessa), il Bar Pace e il suo proprietario non sono sempre stati al riparo da critiche e giudizi, soprattutto dopo il Sessantotto, quando lo si reputava un

covo di comunisti, drogati e gay, come ricorda Gianni con il sorriso soddisfatto di chi ci aveva visto lungo. D’altronde, lui di problemi non se ne è fatti mai, elevando a credo esistenziale la sua idea di parità, e così come negli Anni  guardava con ammirazione alla studentessa Ursula, fra le uniche donne a frequentare il Bar da sola quando rientrava da Brera, negli Anni , decenni prima dell’esplosione del movimento LBGT+, accoglieva e frequentava in amicizia alcune trans, come la brasiliana Loma, o la splendida genovese Amanda (che, ricorda Gianni con grande trasporto, «alla Romantica faceva un bellissimo numero cantando Michèle Torr, una specie di Mina francese, amavo sentire quelle parole, che raccontavano la solitudine di una cantante che, quando si spengono i riflettori, resta sola…»). Anche Fernanda Pivano passava dal Gianni, «tenendo tutti in piedi fino alle ore piccole per parlare degli autori della beat e dei loro vizi, lei che beveva solo Coca Cola». Erano altri tempi, è vero, come ricorda Gianni, Chiasso era ancora una cittadina di confine vivace, dove fiorivano traffici e affari di ogni tipo, dove la mobilità delle persone, affaccendate in tutte quelle attività che contraddistinguono i confini, creava un’inconfondibile identità condivisa: «gli esercenti di Chiasso erano tutti amici tra di loro. Giravano a loro volta nei bar, e si portavano dietro la clientela! Tutte le ditte avevano un rappresentante che passava ogni settimana, un giorno era quello delle sigarette, un altro quello del whisky dalla Svizzera tedesca, poi quello con lo champagne…»

Il Bar Pace è una sorta di no man’s land dove però, grazie a Gianni Ferrazzini ci si sente un po’ come in famiglia Un tempo, inoltre (e Gianni non è il solo a lamentarlo), i bar erano popolati da macchiette note a tutti e le cui vestigia di provincia si tramandavano per generazioni, perché intorno a loro nascevano piccole leggende metropolitane. Oggi invece i clienti sono sempre più spesso chini sul telefono: «Ricordo la rivalità tra Nardo Bizzozzero e Ulisse Valsangiacomo. Nardo da giovane era andato a Vienna perché amava il teatro, mentre Ulisse, che era un raffinatissimo gay,

Gianni Ferrazzini nel suo regno chiassese oggi (foto di Vincenzo Cammarata), e, in basso, all’età di vent’anni.

non si perdeva una prima alla Scala ed era amico del grande sarto di Roma Schuberth. Questi gli aveva fatto addirittura la scritta “Viavai” sulla porta del negozio. A Chiasso, quindi, c’erano quelli che parteggiavano per Ulisse, e quelli che erano per il Nardo, che andò in giro per tutta la vita con gli zoccoli, i pantaloni di velluto, il dolcevita nero, un cappotto, la parrucca e l’immancabile cerone da teatro. Nardo ci faceva recitare all’oratorio, sotto l’egida di Don Willy, e da lui imparammo molte cose». Gianni si alza, con il suo passo felpato si dirige verso l’angolo della musica, dove ognuno delle centinaia di vinili e cd, di cui molti autografati, possono essere raccontati dal loro proprietario nei minimi dettagli. Sì, raccontati, dall’anno di uscita alla storia del cantante, dal genere di concerti a un aneddoto che l’ha visto coinvolto in prima persona… All’improvviso gli brillano gli occhi: sventola davanti a tutti il  giri dell’inarrivabile, quella Juliette Greco cui al Festival Leo Ferrè di San Benedetto del Tronto, in camerino, disse, «Madame j’ai fermé mon bistrot pour venir jusqu’ici». E lei, toccandogli la mano, quella stessa mano che aveva accarezzato le mani di Brel e Brassens (un luccichìo gli attraversa gli occhi), disegnò un cuore sulla copertina del disco, dedicandogli la scritta «Mon tendre». Gianni sospira con lo sguardo trasognato mentre ripone il disco. Gianni Ferrazzini la musica l’ha sempre inseguita con l’ardore di chi la ama in modo istintivo e con un trasporto viscerale. Sin da quando, ancora ragazzo, ad Altdorf dai Benedettini, il mattino alle cinque si alzava per vedere i monaci che intonavano canti gregoriani, «nei loro cappucci e vestiti a pieghe, ci anda-

vo matto!» o il giovedì pomeriggio, quando invece di approfittare del pomeriggio libero, seguiva Padre Philip e suo fratello Benno Gut (primo cardinale benedettino a Roma) che al Konzertsaal si esibivano nei Lieder di Schubert. Quando poi si trasferì a Soletta, per studiare commercio e approfondire il tedesco, la sera girellava cercando di capire quali bar gli piacessero («ce n’erano di belli con gli abat-jour»), bevendo Martini a  centesimi, «per darsi delle arie». Da Nordmann, poi, al primo piano c’era un pianobar analcolico, dove un bicchiere di latte costava  centesimi. A Soletta esplose anche l’amore per il teatro (e, forse di riflesso, anche per la teatralità), grazie a un professore di tedesco che portava la sua classe a vedere La visita della vecchia signora a Basilea, parlava di jazz e in classe spronava i ragazzi a recitare. Chiasso però, nonostante la vivacità della gente, non era in grado di soddisfare la fame di cultura, teatro, musica e letteratura di Gianni Ferrazzini, anche se qualche sporadica emozione la dava anche il nostro cantone, come quando il night club Cecil ospitò Fred Buscaglione («che beveva Campari Soda e andava dal Solcà quando aveva problemi con l’auto»), che Ferrazzini diciassettenne riuscì a vedere. Per fortuna da Chiasso alle . partiva un treno per Milano, che egli prendeva quasi tutte le domeniche. Nella capitale lombarda degli Anni  c’era la vertigine della scelta, del tempo che si faceva scoperta continua, i minuti correvano e ogni serata si concludeva con la corsa perdifiato verso la Stazione Centrale, dove alla . partiva l’ultimo treno per Chiasso, il lunghissimo Bari-Lecce che proseguiva fino a Stoccarda. Nasceva così una specie di vita parallela

tra la cittadina di confine e Milano, ma di cui Gianni non è mai stato geloso, condividendo le sue scoperte e le «spedizioni culturali» con amici e clienti – che in fondo sono spesso la stessa cosa. Dopo alcuni anni a vedere le stesse facce, anche in un luogo grande come Milano, si finiva per forza per conoscere tutti. E così, grazie a guide come Umberto Simonetta, che gli proponeva una città non ancora da bere, ma luminosa e autentica, Gianni scopriva locali e personaggi affascinanti per un curioso e coraggioso ragazzo di provincia: al Giamaica erano di casa Pomodoro e Bianciardi, e lavorava «la Lina» di Vacallo, morta una ventina di anni fa, che restò dietro al bancone a pulire coltelli fino all’età di novant’anni; al Santa Tecla suonavano due giovani Enzo Jannacci e Giorgio Gaber, mentre al Nebbia Club di Via Canonica, con la sua puzza di muffa, si esibivano l’immenso Franco Nebbia e una sconosciuta Gabriella Ferri. All’Olimpia di Piazza Castello gestita dal direttore d’orchestra e musicista Gorni Kramer, ogni tanto Gianni andava con Chet Baker (conosciuto a Chiasso, dove l’artista era in cura da un medico «che gli prescriveva anche certi medicamenti, ma questa è un’altra storia, di cui non sapevo nulla, scoprii le sue vicende solo più tardi quando nel  lo arrestarono a Viareggio e mio padre mi disse: “Begli amici che hai, però!”)». E che emozione andare al Santa Lucia e aspettare che a mezzanotte arrivassero gli attori. I baffi di Ferrazzini vibrano, mentre ricorda, «Gianni Santuccio con la sua sciarpa e il cappello era un narcisista, ma così bravo… si guardava in giro per vedere la gente che lo guardava. Poi Tino Carraro: gli passavo accanto mentre era seduto a mangiare e gli dicevo, “Buona sera, Maestro”». Chiasso è stata una delle prime città del cantone a dotarsi di un Ufficio cultura che in questi anni di attività ha portato a Chiasso nomi di prestigio. Gianni scuote la testa e si alza. Di colpo lontano con il pensiero, canticchia una melodia tra sé e sé. Si dirige verso la consolle e fa partire un brano di Fabrizio De Andrè. «Non basta», ripete, «non basta». Forse perché la cultura è in qualche modo diventata sterile, a suo dire ormai fine a sé stessa, avendo perso il suo contorno: mancano i bar, i ristoranti, luoghi in cui fare piccoli concerti. Forse è la condanna di una scena artistica iperstrutturata come la nostra. Gianni è stanco, si siede brevemente sul bancone. Circolavano voci inquietanti, ma non così insolite, di questi tempi: allo scadere del  il Bar Pace avrebbe chiuso definitivamente i battenti. Poi, nel corso dei nostri incontri, la versione è cambiata, rassicurando i presenti: Gianni va avanti, finché ce la fa, finché con il suo aplomb se la sentirà di servire drink, noccioline e bastoncini salati, preparati con lo stile e la classe delle grandi città: «Io credo di continuare qui finché posso, finché non mi vedrete morto». All’improvviso con voce intonata accenna a «Non più andrai, farfallone amoroso, giorno e notte dintorno cantando delle belle turbando il riposo narcisetto», dalle Nozze di Figaro, un velo pare attraversargli lo sguardo. Allora si alza e va, verso il cliente che aspetta di pagare.


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CULTURA

La penna chirurgica e poetica di Florence Aubenas Personaggio

Il new journalism della scrittrice e giornalista francese rapita in Iraq nel 2005, autrice de Lo sconosciuto delle poste

Sandra Sain

ll new journalism, formula inaugurata e teorizzata da Tom Wolf nel , non è più una novità ed è, anzi, parte integrante e consolidata del panorama letterario contemporaneo. I principi cardine enunciati da Wolf per definire questa, allora, inedita fusione tra letteratura e giornalismo, sono quattro: la storia deve essere costruita attraverso una sequenza di scene successive senza un narratore/cronista a fare da esplicita guida; le descrizioni devono essere dettagliate; i dialoghi, anche se «ricostruiti» devono avere ampio spazio per generare coinvolgimento e moto empatico; ogni scena va presentata dal punto di vista interiore del personaggio. Su questi pilastri si sono edificati e si reggono centinaia di romanzi reportage, spesso libri di grande successo che hanno influenzato e continuano a influenzare la narrativa contemporanea evidenziando una grande passione per i fatti di cronaca e per il lato oscuro della psiche. Florence Aubenas è francese, ha  anni, e dalle nostre parti divenne involontariamente famosa quando nel  venne rapita a Baghdad e tenuta ostaggio insieme al suo fixer iracheno per  mesi. Giornalista, ha esordito a «Libération», si è costruita una solida esperienza di reporter fino ad approdare a «Le Monde» nel . Che si tratti di Siria o di Gilets Jaunes, il suo sguardo scava delle piste che attraversano conflitti e fenomeni sociali tramite un processo im-

CONCORSO Al LAC con «Azione» «Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto dell’Orchestra della Svizzera italiana al LAC di Lugano diretto da Markus Poschner in programma giovedì 31 marzo alle 20.30. Si suoneranno Parsifal preludio (Richard Wagner), Prélude à une nuit américaine (Mathilde Whatenaar), Prélude à l'après-midi d’un faune (Claude Debussy) e Sinfonia n. 2 in do minore op. 17 (Piotr Il’ičČajkovskij). Per partecipare al concorso inviare una mail con oggetto «Poschner» all’indirizzo giochi@azione.ch con i propri dati (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono) entro le 24.00 di mercoledì 23 marzo.

mersivo. Con Le quai de Ouistreham, caso editoriale nella Francia del , confeziona un reportage-diario che racconta dei  mesi trascorsi come donna delle pulizie sui traghetti, con contratti precari, una paga inferiore al salario minimo, sfruttata e circondata da persone che lottano per mantenere aperta una prospettiva sul futuro. Un lavoro del quale si è molto discusso anche all’ultimo Festival di Cannes dove ad aprire la Quinzaine des réalisateurs è stato proprio Ouistreham, il film tratto dal suo libro (in italiano è uscito per Piemme dal titolo La scatola rossa) con la regia di Emmanuel Carrère. Nel suo ultimo libro Lo sconosciuto delle poste, pubblicato da Feltrinelli, la Aubenas esce di scena, non è più in alcun modo protagonista della narrazione e la storia che ci racconta, un caso di cronaca, un assassinio nella provincia francese del , è osservata come attraverso la lente di una telecamera. Le scene si susseguono, l’obiettivo si sofferma su lunghi primi piani, la messa a fuoco è minuziosa e l’adesione ai principi del New Journalism è totale. La storia. Il  dicembre  nel piccolo ufficio postale di Montréalla-Cluse, ai confini con la Svizzera, viene ritrovato il cadavere di Catherine Burgod. Unica impiegata, incinta, viene uccisa con  coltellate. Indiziato principale è Gérald Thomassin, giovane attore, vincitore di un César come promessa del cinema, una vita

CONCORSO Al Teatro di Locarno con «Azione» «Azione» mette in palio alcuni biglietti per Il silenzio grande, commedia di Maurizio De Giovanni con gli attori Massimiliano Gallo, Stefania Rocca e Pina Giarmanà guidati dall’intensa e originale regia di Alessandro Gassmann. Lo spettacolo andrà in scena il 31 marzo alle ore 20.30 al Teatro di Locarno. Per partecipare al concorso inviare una mail con oggetto «silenzio grande» all’indirizzo giochi@ azione.ch con i propri dati (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono) entro le 24.00 di mercoledì 23 marzo.

Uno scatto che ritrae una giovane Florence Aubenas. (Keystone)

ai margini e nel disagio che trova nel cinema d’autore spazio d’espressione per un talento fuori dal comune. La trama di questa storia è come la trama delle vite dei personaggi di questo dramma: drammaticamente normale, intessuta di insoddisfazioni, slabbrata di frustrazioni, ferita dagli eventi, da relazioni violente e da psicosi. Su tutti si erge con l’incomprensibilità del mito fragile Gérald Thomassin. Un’infanzia di violenze subite in famiglia, dalle famiglie affidatarie o nelle comunità per minori in cui viene inserito. Nel  Jacques Doillon inizia i casting per il suo nuovo film, Le petit Criminel, e non vuole assolutamente «un parigino piccolo borghese che interpreti un proletario» e si mette a scandagliare i centri per minori di Parigi. «Jacques Doillon resta fulminato davanti al ragazzino. Gli piace tutto di lui, perfino lo strano modo di camminare, un po’ meccanico. Ondeggia, sembra stia per cadere. E invece no, riparte con una sorta di ancheggia-

mento alla Charlie Chaplin nelle sue scarpe troppo grandi, un misto di grazia e goffaggine insieme. La differenza è che Thomassin cammina sempre così, anche quando le videocamere si spengono. Ha una gamba più corta dell’altra perché quando era piccolo lo investì una macchina. Nessuno pensò di portarlo all’ospedale. È proprio questo squilibrio ciò che Doillon cerca nei suoi film». È da qui che inizia la carriera cinematografica di Thomassin e che, paradossalmente, il suo squilibrio si complica. A cavallo tra due mondi non troverà mai un punto di equilibrio. Droga, alcool e psicosi si impastano con una sensibilità estrema e un’ingenuità disarmante. Thomassin viene travolto dall’inchiesta: abitava nella «grotta», un appartamentino mezzo interrato di fronte all’ufficio postale di Montréal-la-Cluse, capro espiatorio ideale, resta impigliato per  anni in un processo tutto indiziario. E proprio quando la magistratura stava per proscioglierlo, scompare. L’ipotesi più probabile, avanzata dalla

stessa Sezione del riesame che lo proscioglierà definitivamente nel  è che «convocato nuovamente dalla giustizia nel , undici anni dopo i fatti, non abbia potuto sopportare questa prospettiva e si sia suicidato». Oggi c’è un altro processo in corso, un altro indiziato, questa volta con prove a carico e testimonianze. La giustizia farà il suo corso. Florence Aubenas ha una penna chirurgica e poetica insieme. La sua ricostruzione dei fatti è impeccabile, ha dedicato  anni a questo caso, incontrando i protagonisti e le comparse. Il ritmo è dirompente, le frasi spesso brevi, gli aggettivi scarni ma indispensabili. Gli ambienti e le personalità sono resi con pochi infallibili tocchi che riverberano potentemente, creando un affresco tutto chiaroscuri, illuminando il buio e rendendolo palpabile. Terminata la lettura un interrogativo però emerge. Ed è una domanda fondamentale. In Finzioni occidentali Gianni Celati scriveva a proposito dei romanzi realistici contemporanei che questi sono il frutto di una immaginazione «insanabilmente ridotta al credo occidentale di abolire tutte le illusioni in nome della cosiddetta realtà». Allievo di Enzo Melandri, si ritrovava nel suo pensiero e temeva una letteratura contemporanea sempre più tesa «a rimuovere ogni trauma dietro una facciata di belle parole professionali». Se si dice spesso, con approssimazione ma cionondimeno con un buon grado di verità, che le arti, letteratura in primis, sono sempre più ombelicali, dedite all’esplorazione dell’individuo, incapaci di aprire l’orizzonte o compiere balzi fantastici, cosa rappresentano queste storie? Perché le amiamo e cosa ci dice di noi il successo del new journalism? Siamo certi che portare alla luce crimini e misfatti non sia parte di un processo di sofisticata rimozione? Nessun giudizio morale, sia chiaro. Florence Aubenas ha scritto un libro notevole. Notevole anche proprio perché arriva a sollevare domande fondamentali sulla natura della letteratura contemporanea. Le risposte? Forse possiamo solo continuare a leggere… Bibliografia Florence Aubenas, Lo sconosciuto delle poste, Milano, Feltrinelli, 2021, pp. 240 Annuncio pubblicitario

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CULTURA

Il femminismo è per tutti, parola di bell hooks Pubblicazione

La sua guida pubblicata per la prima volta nel 2000 è uscita ora anche in italiano

Laura Marzi

Bell hooks (pseudonimo di Gloria Jean Watkins), la filosofa e docente femminista scomparsa a novembre dello scorso anno, sosteneva apertamente che questo libro lo aveva scritto prima per gli uomini e poi per le donne, perché nella società tutti e tutte dovevano poter comprendere e praticare il femminismo. Non a caso il testo, che è stato tradotto in italiano nel  da Maria Nadotti per Tamu Edizioni, si intitola Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata. Nella prefazione alla nuova edizione bell hooks si domanda se non sia stato controproducente negli Stati Uniti lo sviluppo così rapido e capillare dei women’s studies, prospettando in questo modo una situazione diversa da quella del continente europeo, dove questo ambito accademico non è ancora molto sviluppato. Secondo la filosofa il rischio negli USA è stato che un approccio principalmente universitario abbia allontanato il grande pubblico dal femminismo, anche se è consapevole che grazie ai dipartimenti di women’s studies moltissimi studenti e studentesse hanno potuto avere un inquadramento teorico ben solido e molto utile. L’attivista non esita infatti a dire che «tutto ciò che facciamo nella vita si fonda sulla teoria» e che il femminismo è prima di tutto pensiero e poi una pratica politica, che ha come fondamento la lotta contro ogni forma

bell hooks (19522021) è stata una scrittrice, attivista e femminista statunitense. Lo pseudonimo, che secondo la scrittrice va riportato in minuscolo, deriva da quello della bisnonna materna, Bell Blair Hooks. © Writing on Glass – Femcyclopedia

di dominio e di ingiustizia di genere, razziale e di classe. Per questo, nel corso del testo, che è suddiviso in capitoli, ognuno dedicato a un argomento fondamentale (il matrimonio, la sessualità, la violenza…), bell hooks entra in profondità, fornendo un punto di vista molto raro, specialmente di questi tempi. Stabilendo che «rappresentando il femminismo come uno stile di vita o un bene di consumo si oscura automaticamente l’importanza della politica femminista», sgombra il campo rispetto a una pratica molto in voga in questo momento. Si sa che il femminismo è diventato anche un brand e sebbene questo abbia degli aspetti positivi, è evidente che comporta anche dei rischi. È molto meglio, infatti,

Icona patafisica di un dittatore In scena

Ubu Re al Teatro Foce di Lugano

Giorgio Thoeni

Quando si parla di teatro non è facile prendere le distanze dalla tragica attualità di questi tempi. Soprattutto considerando che il teatro non è mai un territorio neutrale ma luogo di conflitto per aspri, violenti o sottili contrasti spesso animati dalla brama di sopraffazione. Dalla tragedia classica al teatro elisabettiano, Shakespeare in primis, sulla scena si sono consumate trame amorose, faide cruente, dolorosi tradimenti. Su un piano squisitamente surreale, ritroviamo queste dimensioni nel capolavoro assoluto e antesignano di Ubu Re, testo nato alla fine dell’ a opera di un geniale liceale quindicenne, Alfred Jarry, che verrà considerato come un’ideale anticipazione dell’avventura delle avanguardie del XX secolo. Immaginato come testo per marionette, Ubu roi ha faticato a conquistarsi una fortuna teatrale laddove lo stesso autore l’avrebbe volentieri immaginato con attori appesi a dei fili… Una storia immersa nel suo originale fascino patafisico della ribellione contro le convenzioni sociali che non ha segnato la memoria del palcoscenico. A far riecheggiare in platea «Merdre!», la leggendaria interiezione di Padre Ubu, ci ha però pensato Emanuele Santoro riproponendo lo spettacolo in un riuscito adattamento di cui ha curato anche la scenografia e la regia. Affiancato da Patrizia Schiavo, Santoro ha ricostruito la dimensione del capolavoro di Jarry attraverso un’intelligente rilettura della parodia burlesca contro le convenzioni ridimensionando il testo cucito su due

che essere femministe oggi sia considerato cool a differenza di ciò che accadeva fino a qualche tempo fa, quando le femministe venivano tacciate dalla vulgata di essere delle donne frigide o cripto-lesbiche. È anche vero però che il femminismo non si può ridurre a un nome stampato su una maglietta o su delle scarpe alla moda. L’attivista ricorda come il movimento sia nato dalla teoria, certo, ma anche dalla partecipazione condivisa di donne di estrazione sociale e di appartenenza etnica diverse e che invece a trarre profitto dalla brandizzazione del femminismo sono per lo più donne bianche di classe sociale medio alta. Un altro rischio dal quale mette in guardia è che il femminismo del-

le pari opportunità non pone in discussione il sessismo interiorizzato delle donne, che quindi nei rapporti con le altre inevitabilmente agiscono dinamiche patriarcali e non solo. Bell hooks sottolinea come ad avere portato l’attenzione mediatica e pubblica sulla violenza domestica sia stato il femminismo. Ciò non toglie che senza una riflessione profonda e senza una pratica politica e filosofica consapevoli, la violenza domestica resta violenza patriarcale. Ciò significa che le donne che non affrontano il proprio sessismo interiorizzato possono agire la loro prepotente volontà di dominio sui bambini, per esempio. La scrittrice statunitense non ha paura di affrontare con sguardo luci-

do anche gli argomenti più delicati, per esempio la sessualità e il conflitto intervenuto nel movimento negli anni ’, tra femministe lesbiche ed eterosessuali. Oppure l’aborto, rispetto al quale ribadisce l’importanza di non fossilizzare il dibattito sull’embrione, ma sulla vita delle donne: quando l’aborto è illegale esso viene comunque praticato, ma i rischi per la salute delle donne diventano incalcolabili e la loro libertà sessuale gravemente limitata. Il testo è scritto a partire da un punto di vista didattico: è molto chiaro ed è formulato con l’obbiettivo di fare luce su tematiche complesse e fondamentali, mostrando in che modo una prospettiva femminista favorisca la trasformazione della società in direzione di maggiori libertà e giustizia per tutte e tutti. Questo compendio di agile lettura ha il merito di riportare il baricentro della discussione tra i femminismi su argomenti e questioni urgenti, che non si limitino alle battaglie, certo legittime, sui diversi orientamenti sessuali o all’odio, insensato, contro gli uomini. Il pensiero di bell hooks rimette il femminismo al suo posto, quello che gli appartiene: di un pensiero e di una pratica politica rivoluzionari. Bibliografia bell hooks, Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata, Napoli, 2021,Tamu Edizioni. Annuncio pubblicitario

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personaggi principali: Padre e Madre Ubu. Una riscrittura che non ha tolto freschezza al senso di avidità dittatoriale, allo sfrenato e insensato e vile egoismo di Padre Ubu, ambientandone la narrazione su una zattera in balìa del suo assurdo iconico universo circondandolo di un’accozzaglia di oggetti. La clownesca figura di Padre Ubu è l’ideale cassa di risonanza per le acrobazie vocali di Emanuele Santoro, efficace incarnazione e maschera degli infantili e crudeli appetiti del tiranno. Patrizia Schiavo sfodera la sua esperienza ritagliandosi momenti di grande bravura nel calderone della parodia con una brillante e regale ironia. Un pubblico divertito e plaudente ha salutato i due bravi interpreti, visibilmente e meritatamente soddisfatti.

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CULTURA / RUBRICHE ●

In fin della fiera

di Bruno Gambarotta

Le misteriose polpette antiuomo ◆

L’umanità si divide in due fazioni: quelli che odiano i regolamenti e quelli che li amano. Io mi schiero fra i favorevoli perché penso che se vogliamo che le cose funzionino devono essere governate da regole rigide e indiscutibili. Anche per questo motivo Torino è la mia città ideale. I nostri Savoia erano una dinastia militare, fino alla fine del ’ la città era una grande caserma e quel modello ha improntato l’edificazione della città fabbrica e la nascita della Fiat. I regolamenti scritti come si deve hanno un fascino impagabile, le scuole di scrittura creativa dovrebbero prevedere un corso specializzato per i regolamenti e già che ci sono farne un altro per i bugiardini delle medicine. Dai lontani anni in cui ho usufruito della mensa del centro di produzione della sede Rai di Torino la ricordo inquadrata in un capolavoro di regolamento. Pagando un prezzo politico indi-

visibile convenuto con i sindacati, hai diritto a un primo, a un secondo e a un contorno. Il resto, pane, bevande, dolci, frutta, è a parte. Puoi scegliere fra quattro primi, quattro secondi e quattro contorni. Nessuno dei quattro primi nel menù di quel giorno ti garba? Nessun problema: al posto del primo puoi prendere un altro contorno. Facciamo qualche esempio: si può prendere un contorno di patate arrosto e uno di pomodori, oppure costine e fagioli, oppure ceci e insalata verde. Naturalmente uno è libero di prendere due volte lo stesso contorno ma gli anziani Rai, che la sanno lunga, sconsigliano questa pratica per tre fondamentali motivi. Primo: è bene variare. Secondo: le signore addette al servizio mensa tendono a metterne di meno nel piatto che in quel caso è lo stesso. In altre parole il doppio contorno non è mai come la somma di due contorni separati, non so se è chiaro. Terzo: è

anche una questione d’immagine, di look. Uno che a mensa si spara in vena due contorni uguali fa un po’ la figura di un lavandino. All’ufficio del personale sulla scheda di valutazione di ogni dipendente c’è anche la colonna dedicata alle caratteristiche negative. Sulla quale non è raro purtroppo leggere: «è stato visto più volte a mensa mentre raddoppiava lo stesso contorno». Passiamo ai secondi che, abbiamo detto, sono quattro. Ci sono i cosiddetti secondi indivisibili: il bollito, l’arrosto, la bistecca ai ferri, la braciola di maiale, la milanese e così via. Ci sono però i secondi congegnati in modo tale che si può prenderne solo metà. È il caso delle polpette dette affettuosamente «le misteriose», conosciute anche come «le polpette antiuomo». Tre sono nel mondo i misteri ancora insoluti: cosa c’è nella Nutella, cosa c’è nella Coca Cola, cosa c’è nelle polpette della mensa

Rai di Torino. C’era anche un altro mistero, quello conosciuto in tutto il mondo come il Terzo Segreto di Fatima, ma che per il nostro regolamento è schedato come il Quarto. Un bel giorno si è dissolto. È successo quando alla mensa è venuto in visita l’arcivescovo di Torino. Era venuto per registrare un’intervista al telegiornale regionale, poi ha espresso il desiderio di visitare gli altri ambienti del palazzo. Quando Sua Eminenza è entrata nel salone della mensa Rai, scoccavano le dodici e trenta. Il nostro amato direttore del centro: «Eminenza, ci farebbe un grande onore se accettasse il nostro invito a consumare il pranzo». Quel sant’uomo: «Grazie, perché no? Cos’hanno preparato di buono le nostre cuoche?» Purtroppo quel giorno il menù prevedeva anche le «polpette antiuomo». «Belle quelle polpette, mi ricordano quelle della nonna. Posso prenderle?» Per fortu-

na, mentre stava per mettere in bocca la prima polpetta gli è apparsa la Madonna di Fatima e l’ha dissuaso. Torniamo al nostro regolamento. Se un commensale opta a suo rischio per le polpette gliene spettano due. Ma già una non è un azzardo da poco. Vuoi sfidare il rischio? Prendine una sola, l’equivalente di mezzo secondo. La casella del mezzo secondo rimasto libero si può riempire con un altro contorno che diventa perciò il terzo. La logica ci insegna che, se il primo mezzo secondo vale un contorno, anche il secondo mezzo secondo vale a sua volta un altro contorno. Che perciò diventa il quarto. Riassumiamo: il primo contorno, o contorno istituzionale, va col secondo, il secondo contorno va al posto del primo, il terzo contorno sostituisce il primo mezzo secondo, il quarto contorno è al posto del secondo mezzo secondo. Tutto chiaro o devo ripetere?

Xenia

di Melania Mazzucco

Islam ◆

Un borgo dell’Italia centrale, fra i boschi inselvatichiti dell’Appennino. Mura sgretolate, chiese medievali, palazzi già vescovili o nobiliari, qualche torre, un convento, case di pietra. Il tempo è fermo come l’orologio sul campanile. Finché una sera non arriva lo straniero – magrolino, moro, taciturno – e si insedia, furtivo, in una casa all’ingresso del paese, di fronte all’unico bar. Appartiene agli eredi dei gestori del negozio di scarpe, già chiuso prima della loro morte. Gente di città, ormai vivono sul mare, non tornano mai, nemmeno a mettere fiori sulla tomba. Lo straniero però ha le chiavi della casa, deve averla presa in affitto. Apre le finestre, arieggia le stanze, sbatte un tappeto. Accende anche il camino, perché dopo vent’anni il fumo erutta dal comignolo. Lavora a una trentina di chilometri di distanza, nell’unica fabbrica della valle. Prende la corriera la mattina pre-

sto, torna che è già buio. Non fa acquisti nell’unico negozio rimasto in paese – che spaccia pane, carne, gastronomia e cartoline per i turisti di ferragosto: le buste della spesa recano il logo del supermercato sulla statale. Non va nemmeno in chiesa, o in Comune per questioni burocratiche, non ha occasione di conoscere gli indigeni. Si sparge la voce che sia pakistano. E che si chiami Islam. Nome allarmante, in quanto identico a quello della sua religione, che i vecchi conoscono solo dal telegiornale, e sempre in relazione a esplosioni e sgozzamenti. L’anno dopo, a marzo, dalla corriera scende una donna minuta, involta in un pastrano scuro, troppo leggero per il clima dell’Appennino. Ha un copricapo sui capelli e il volto velato. Dietro di lei, tre ragazzini eccitati trascinano le valigie. Si fanno strada nella viuzza in salita, scivolando nelle pozze di nevischio. Ha portato la fami-

A video spento

glia! Si sbalordiscono tutti. Questo fatto non piace. Dove andremo a finire? Le case qui sono tutte vuote. Se si sparge la voce, ne verranno a decine. Odori pungenti di spezie ignote e aglio bruciato esalano ora dal comignolo, infastidiscono l’olfatto degli abitanti. Paga l’affitto, scrolla le spalle il sindaco, ha un lavoro, è una brava persona, lasciatelo in pace. I tre maschietti – fra i cinque e i dodici anni – sono vivaci come grani di pepe. Corrono, sguazzano nel torrente, giocano sugli scivoli del parco, frequentato solo d’estate dai figli dei villeggianti. Salutano sempre, sorridono, osano qualche parola in italiano. Sono scuri, educati, carucci. La scuola elementare ha una sola pluriclasse, con otto allievi. Il più grande però a settembre andrà alle medie a fondovalle. La maestra conosce le norme del Ministero: nonostante le deroghe per le scuole di montagna,

questa verrà chiusa perché non raggiunge più il numero minimo. Lei verrà trasferita nel capoluogo. Niente negozi, niente parroco (vive giù e sale solo per la messa), ora pure niente scuola: diventerà un paese fantasma. Il pakistano viene rivalutato. Lo salutano tutti adesso; lo invitano (invano) a giocare a briscola, o a scopa, che è più facile, a bersi un goccio al bar. Nessuno si lamenta più del chiasso né della puzza. Le donne cercano di avvicinare la moglie, che però non esce mai: la maestra le manda una torta salata, la barista un corredo di guanti di lana fatti a maglia (qua l’inverno picchia duro). Alla fine il marito della maestra, disoccupato che anni prima gestiva la seggiovia alla pista di sci, chiusa pure quella, abborda il pakistano: deve iscrivere i ragazzini a scuola. Gli dispiace, risponde Islam, pacato. Lui ci sta bene qui. È tutto bello, e l’aria buona. Ci resterebbe volentieri.

Ma sono troppo soli. Non c’è la loro gente. Fai venire i parenti, azzarda il marito della maestra che ha saputo che alla fabbrica lavorano due fratelli di Islam, e pure un cugino. Ci sono tante case vuote, l’affitto costa poco. Vi sistemate tutti. Grazie, dice Islam. Ma ci spostiamo dove ci sono i nostri. A settembre i ragazzini caricano le valigie sulla corriera. Sul piazzale del parcheggio torna il silenzio. Adesso il pomeriggio si sentono solo i corvi. La scuola viene trasformata in magazzino dell’ente parco. In paese restano in cinquanta – i seicento residenti sono solo nomi sui registri, buoni per tenere in vita il Comune e i suoi impiegati, anime di carta. Ogni tanto, quando giocano a scopa, i vecchi al bar guardano la casa del pakistano. Il cartello VENDESI scolorisce sotto la pioggia, ma nessuno la comprerà. Il paese è morto, dice la maestra, e si mette a piangere.

di Aldo Grasso

The Marvelous Mrs. Maisel ◆

La questione femminile può avvantaggiarsi anche grazie alla comicità? La comicità ci aiuta a capire il ruolo della donna? «Perché le donne devono fingere di essere qualcosa che non sono? Perché dobbiamo fingere di essere stupide quando non lo siamo? Perché dobbiamo fingere di essere indifese quando non lo siamo? Perché dobbiamo fingere di essere dispiaciute quando non c’è nulla di cui dobbiamo essere dispiaciute? Perché dobbiamo fingere di non avere fame quando abbiamo fame?». Con un ritorno a un tema caro, Amy Sherman-Palladino, figlia del comico Don Sherman, firma The Marvelous Mrs. Maisel, giunto intanto alla quarta stagione. Siamo di fronte a uno straordinario manifesto di empowerment femminile, ma anche di comicità. : Midge è la classica housewife della borghesia ebraica dell’Upper West Side, ha due figli e un bel marito. Sulla loro vita idilliaca incombe il peso di

due famiglie invadenti (il padre di lei insegna matematica alla Columbia, quello di lui confeziona vestiti). Midge si comporta da moglie perfetta, Joel lavora in ufficio ma la sera infila un dolcevita nero da esistenzialista, sognando di fare il comico in un mitico locale del Greenwich Village, il Gaslight Cafe (la coffee house è apparsa anche in un episodio di Mad Men e nel film dei fratelli Coen A proposito di Davis; Bob Dylan vi ha suonato per la prima volta A Hard Rain’s A-Gonna Fall). Midge scopre che come comico il marito è un mezzo cialtrone, in più la sta tradendo con la segretaria. Rimasta sola scova la sua vera personalità. Sale sul palco al posto di Joel, mezza ubriaca, i capelli arruffati e nessuna intenzione di censurarsi. E all’improvviso capisce di essere lei la grande comedian. Raffinata e ironica, The Marvelous Mrs. Maisel è una commedia che aiuta a riflettere su come uscire dal proprio

guscio di solitudine e infelicità, trovando nelle passioni e nella progressiva ricerca di autostima la forza per superare i propri limiti. Ma è anche una serie che, con inesorabile spietatezza, riporta alle responsabilità delle proprie scelte su sé stessi e sugli altri e alle perfidie e bassezze del dorato mondo dello spettacolo. Sferzante e delicata allo stesso tempo, la serie coinvolge per i suoi ritmi torrentizi, per le battute serrate che si susseguono in una batteria di dialoghi fulminanti e inattesi, per una narrazione che prosegue per piccoli passi spesso surreali. Dentro questo schema consolidato emerge la chimica perfetta tra la protagonista e la sua agente Susie; il rapporto professionale è anche rapporto umano profondo fatto di complicità, incomprensioni, reciproco sostegno. The Marvelous Mrs. Maisel introduce anche un elemento non secondario che puntella contesto e periodo in que-

stione: quello delle persone di colore, del difficile travaglio di una condizione sospesa tra la diffidenza e il tentativo di scardinare i pregiudizi e rimuovere gli ostacoli. Seguendo la storia di Midge vediamo invece come una delle grandi forze della serie sia di fatto l’identificazione totale tra la vera personalità della protagonista e quella del personaggio che porta sul palco. È proprio lei ad andare in scena, proprio lei racconta la sua vita, prende in giro il suo vero marito e i suoi genitori, facendo collassare i due livelli in uno, quello reale. Come avviene, tecnicamente, l’identificazione tra persona e personaggio? «Un concetto fondamentale nella storia dell’umorismo – scrive Jacopo Cirillo su “RivistaStudio” – è quello della comic persona, la rappresentazione che il comico decide di dare di sé sul palco, perché non è detto che debba, o possa, essere sempre davvero sé

stesso. Una specie di personaggio con cui l’artista si identifica, di cui costruisce un background che gli permette di delineare una cornice comica attorno a ciò che dice al suo pubblico. L’idea di comic persona funge da spartiacque nella storia dei monologhi umoristici: prima la comicità consisteva in una serie di one-liner una di fila all’altra, le classiche battute a raffica, mentre dalla fine degli anni Cinquanta in poi è il punto di vista dell’artista che costituisce la comicità; ciò di cui si ride è direttamente legato a come il comico decide di rappresentare la società attorno a lui, a partire dal personaggio che si è creato e che può più o meno coincidergli». Attraverso l’espediente narrativo della comic persona, il personaggio di Midge ci regala la più formidabile idea di emancipazione femminile nel mondo dello show business ancora saldamente gestito dagli uomini.


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