Azione 13 del 28 marzo 2022

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Anno LXXXV 28 marzo 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Il Piano Wahlen e l’economia di guerra: storia dell’agronomo che diventò Consigliere federale

Tutte le tipologie di giochi di ruolo presuppongono l’uso dell’immaginazione e dell’inventiva

Pechino cerca di tenersi aperti gli accessi all’economia globale ma non vuole tradire Mosca

Gli anni svizzeri di Voltaire in un libro dedicato al suo esilio e ai suoi prolifici anni ginevrini

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Ti-Press

Siccità, cause e conseguenze

Sabrina Belloni

Nella nebbia della guerra Peter Schiesser

Niente di nuovo sul fronte orientale. La guerra continua, con il suo impatto devastante a cerchi concentrici. Si uccide, si distrugge, si fugge. E siccome l’esercito russo avanza di poco e solo a est, mentre attorno a Kiev arretra, distrugge ancora di più con missili e bombe, uccidendo e terrorizzando la popolazione. In realtà non si capisce che cosa sta succedendo: perché l’aviazione russa non ha il controllo dei cieli nonostante la superiorità assoluta? Perché aviazione, marina, truppe di terra sembrano condurre ognuno la propria guerra, tuttora senza coordinarsi? Dove sono finiti il ministro della difesa Sergei Shoigu e il capo dell’esercito Walery Gerassimov, spariti dall’11 marzo (precedentemente Shoigu era tutti giorni al telegiornale)? Chi sta guidando una guerra che ha colto impreparati anche i livelli superiori dell’esercito (Putin aveva condiviso la decisione solo con pochissimi intimi)? Si sente solo l’enorme rabbia dello zar, che brandisce le armi estreme: chimiche, batteriologiche, atomiche. Molto di nuovo sul fronte occidentale, per con-

tro. Ricordate il disprezzo dell’America di Trump per la Nato, che pure il presidente francese Macron aveva dichiarato trovarsi in stato di morte cerebrale? Era il 7 novembre 2019. Oggi la Nato dimostra un’unanimità di intenti e una volontà di contrapporsi alla Russia impensabile fino a pochi mesi fa. Sotto la guida di un’America diversa, sta agendo saggiamente, preparandosi al peggio ma evitando di provocare un’ulteriore escalation militare, che porterebbe diritti ad una terza guerra mondiale. Con la sua decennale esperienza in politica estera, Biden in questo momento è il presidente più adatto a gestire una crisi del genere: fermo e deciso nell’imporre sempre nuove sanzioni, alle quali tutto l’Occidente si è allineato, nel dettare la strategia della Nato, nel sostenere misuratamente l’esercito ucraino. E poi, di nuovo in Occidente c’è una mai vista ondata di solidarietà verso i profughi. Perché nelle madri e nei figli, negli anziani ucraini in fuga noi ci riconosciamo – ma soprattutto perché ci rendiamo conto che questa, in Europa, è la nostra guerra. Quando un giorno fi-

nirà, sarebbe bello se si facesse tesoro della consapevolezza delle tragedie che comporta qualsiasi guerra e si adeguassero le politiche d’asilo europee, poiché umanamente nulla distingue gli ucraini dagli afgani e dai siriani. Lo sappiamo, quando la guerra finirà ci saranno molte ferite e macerie. Bisognerà ricostruire l’Ucraina, ricreare le condizioni per un funzionamento normale dell’economia mondiale, reintegrare la Russia in un sistema di sicurezza europeo. Ci vorranno anni, nella migliore delle ipotesi. Ma in realtà oggi non sappiamo neppure quali altre devastazioni ci aspettano, in Ucraina e altrove, possiamo leggere solo i primi segnali che arrivano. Che mostrano quanto vasto è l’impatto di questa guerra sul mondo intero. La decisione di Putin di vendere gas e petrolio solo in rubli pone l’Europa di fronte al rischio di dover rinunciare all’irrinunciabile (per funzionare normalmente) o di contravvenire alle proprie sanzioni. Nel resto del mondo la decisione russa di non esportare grano e l’impossibilità dell’Ucraina di produrlo nelle consuete quantità (gli agricoltori

non hanno carburante, che serve all’esercito) crea un forte rischio di carestie. Il 30 per cento del grano mondiale è prodotto da Russia e Ucraina, 400 milioni di persone nei paesi arabi dipendono interamente dal loro grano. Contestualmente, in Cina andrà perso un terzo del raccolto di grano a causa di siccità e inondazioni provocati dai cambiamenti climatici, se ne dovrà quindi comprare di più altrove, mettendo ulteriormente sotto pressione i mercati. Una carenza mondiale di grano (e quindi di pane) innescherebbe delle rivolte popolari, destabilizzando altri paesi. Inoltre, Russia e Bielorussia sono importanti esportatori di fertilizzanti: la prima non può venderli, la seconda riduce la produzione a causa degli alti costi del gas naturale (componente essenziale), i raccolti mondiali saranno di conseguenza meno abbondanti. La possente macchina dell’economia globalizzata si era già inceppata con la pandemia, ora deve ridefinire i suoi confini (senza la Russia) e le sue catene di approvvigionamento. Nel frattempo il mondo tremerà e soffrirà come non mai, negli ultimi decenni.


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MONDO MIGROS

Il porcospino (blu) più simpatico del mondo Concorso

In palio alcuni biglietti per scoprire le nuove avventure cinematografiche dell’eroico Sonic, al cinema dal 7 aprile

©2021 PARAMOUNT PICTURES AND SEGA OF AMERICA, INC

Al cinema con «Azione»

Qualcuno (forse fra i più «grandi») lo ricorderà dalle partite al cardiopalmo giocate qualche decennio fa sulla consolle di Sega Mega Drive, altri (probabilmente i più piccoli) lo hanno scoperto nel 2020 grazie a SONIC, la produzione giapponese-statunitense diretta da Jeff Fowler. Ora, a distanza di due anni, il furbo e simpatico porcospino blu amato in tutto il mondo sta per ritornare al cinema con un’avvincen-

te e spettacolare avventura in Sonic 2 – Il film. Ma cosa è successo nel frattempo? Il tenace Sonic si è stabilito a Green Hills, e non vede l’ora di avere una nuova occasione per dimostrare di possedere tutto ciò che serve per essere un vero eroe. E poiché Sonic è per sua natura avventuroso, anche questa volta la sfida non si farà attendere: il terribile e perfido Dr. Robotnik è tornato. Questa volta al suo fianco troviamo

un nuovo e temibile alleato, Knuckles, intenzionato ad aiutarlo in una missione nefasta: i due vogliono trovare uno smeraldo che darà loro il tremendo potere di controllare la civiltà. Ecco dunque che è richiesto l’intervento di Sonic: accompagnato dal fido Talis intraprenderà un viaggio in giro per il mondo al fine di trovare lo smeraldo prima che cada nelle mani sbagliate e si compia il malefico desiderio di Dr. Robotnik.

Tutti nell’orto Lortobio

Con la primavera ritorna anche l’iniziativa degli orti didattici

La Paramount Pictures e Migros Ticino invitano lettrici e lettori di «Azione» a partecipare al concorso dedicato a SONIC 2, film per famiglie (adatto per bambini dai 6 anni) diretto nuovamente da Jeff Fowler al cinema dal 7 aprile. In palio 3 coppie di 4 biglietti ciascuna (validi in tutti i cinema della Svizzera dove è proiettato il film) e 1 gadget griffato del film. Per partecipare all’estrazione dei biglietti inviare una mail a giochi@azione.ch, oggetto «SONIC 2 – Il film».

Diretto dai creatori di The Fast and the Furious e Deadpool, SONIC 2 – Il Film nella versione originale in inglese vede il ritorno di James Marsden, Ben Schwartz come voce di Sonic, Tika Sumpter, Natasha Rothwell, Adam Pally e Jim Carrey, con una new entry del calibro di Shemar Moore, e con Idris Elba come voce di Knuckles e Co lleen O’Shaughnessey come voce di Tails. In Ticino il film sarà proposto nella versione italiana.

Dalla parte delle donne

Generando ◆ I nuovi appuntamenti con le differenze di genere

Un orto non è necessariamente un più o meno piccolo appezzamento privato o domestico in cui sperimentare e coltivare frutta e verdura. Se pensato più in grande, ma soprattutto se progettato con un occhio di riguardo verso la collettività e la condivisione, verso l’apprendimento e la scoperta, può trasformarsi in un’imperdibile occasione aggregativa e di crescita collettiva. Può diventare un punto di incontro in cui impegnarsi nella creazione di qualcosa di diverso, che oltre a mettere in luce l’importanza dei frutti della terra (e di quello che si fa poi nutrimento), lascia un segno in chi ha la fortuna di fare l’esperienza. È importante che anche i bambini, soprattutto se vivono lontani dalle

campagne e in un contesto urbano, abbiano l’opportunità di entrare in contatto con una simile realtà socio-ecologica. Quale occasione migliore, dunque, di quella offerta dal progetto di Lortobio? Mancano pochi giorni: il prossimo 2 aprile alle 9.30 riprenderanno le interessanti attività dei Giardinieri in erba, legate proprio a Lortobio (da quest’anno sostenuto anche da Bioterra). Ma di cosa si tratta? Di un orto biologico collettivo situato a Gudo, sul Piano di Magadino, che ogni primo sabato del mese accoglierà bambine e bambini tra i 5 e gli 11 anni al fine di creare un luogo di pratica orticola biologica, in uno spazio d’incontro, dove capire e sperimentare l’importanza di curare la terra

azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni

Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

in modo collettivo, con una particolare attenzione alla valorizzazione delle specie rare, alla produzione di semi e alla salvaguardia della biodiversità e della permacultura. Per appassionate e appassionati green un’occasione imperdibile per passare del tempo a contatto con la natura, facendo nuove amicizie e imparando grazie alla ricca proposta di attività dell’orto e a quelle organizzate dal gruppo di adulti preposto.

Lo scorso 8 marzo, in concomitanza con la giornata dedicata alle donne, ha preso il via il progetto Generando – Visioni di Genere, che intende stimolare la riflessione intorno alle questione di genere coinvolgendo diverse attrici e diversi attori presenti sul nostro territorio. Una serie di incontri che continueranno fino all’estate e vedranno alternarsi personalità provenienti da-

Dove e quando L’iscrizione è intesa per tutte le sette mattinate fra aprile e ottobre. Per iscrizioni o informazioni, scrivete un’email a info@lortobio.ch oppure telefonate ai numeri 079 9697766 o 078 8237149. Per informazioni sul Lortobio visitate il sito www.lortobio.ch. L’iniziativa è sostenuta da Bioterra e da Migros Ticino.

gli ambiti più disparati, toccando temi in qualche modo presenti nella vita di tutte/i noi, che spaziano dai desideri delle giovani donne, passando per il rapporto con il proprio corpo, senza dimenticare la storia, gli scioperi e le prospettive future. Nei prossimi due incontri, ci si chinerà sulle politiche al femminile e sui possibili congedi. Sabato 2 aprile, la giornalista ticinese corrispondente da Berna Simona Cereghetti, autrice del libro Schweizer Politfrauen, alla casa del Popolo di Bellinzona (ore 17.00) parlerà di «Politiche. Di potere, leadership e spazio pubblico». Martedì 5 aprile, invece, alla Filanda di Mendrisio (ore 20.00) avrà luogo una tavola rotonda sul tema dei diversi tipi di congedi maternità. Per maggiori informazioni www.generando.ch

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SOCIETÀ ●

L’associazione Amélie cresce L’esperienza di socializzazione e integrazione coinvolge una trentina di volontari e si fa conoscere anche all’estero

Contro il tumore all’intestino In Svizzera, il cancro colorettale è il secondo tumore maligno più frequente nelle donne, e il terzo negli uomini

Non basta un po’ di pioggerella La siccità inizia a farsi notare: poca la neve in montagna, fiumi in secca, aridità diffusa dei terreni

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Lo scienziato prestato alla politica Economia di guerra ◆ Sono trascorsi 80 anni da quando l’agronomo Friedrich Traugott Wahlen implementò il suo piano agricolo-alimentare per garantire cibo sano a sufficienza agli Svizzeri durante il secondo conflitto mondiale Matilde Fontana

Chiusure pandemiche e venti di guerra hanno fatto riaffiorare qua e là antichi termini caduti in disuso, spazzati via da decenni di pacifico benessere e dalla globalizzazione accelerata dei mercati. Autosufficienza, autarchia, nella memoria collettiva elvetica (sempre più labile per ragioni anagrafiche) si legano automaticamente all’ormai leggendario «Piano Wahlen», dal nome del suo inventore, l’agronomo Friedrich Traugott Wahlen, detto Fritz, che sarebbe divenuto consigliere federale nel 1958. Il piano agricolo-alimentare rientrava nella più ampia economia di guerra, e, come ricorda il Dizionario storico della Svizzera, prevedeva l’estensione delle superfici coltivate e l’aumento della produttività agricola al fine di garantire gli approvvigionamenti e l’autosufficienza alimentare durante la seconda guerra mondiale. Nell’iconografia popolare della seconda guerra mondiale, il Piano Wahlen viene associato perlopiù al cliché delle aiuole urbane seminate a patate. Nel giudizio degli storici non raggiunse gli obiettivi quantitativi pronosticati in ettari coltivati, ma agì piuttosto a livello psicologico nell’ambito della difesa spirituale, rafforzando il sentimento di coesione nazionale.

Wahlen lasciò la carriera internazionale per servire la Patria, nel 1942 fu insignito del premio Marcel Benoist e nel 1958 fu eletto Consigliere federale In realtà, riletto a 80 anni di distanza, il progetto del giovane scienziato appare anche come un lungimirante intervento su vasta scala di politica agricola e di educazione alimentare. Anche perché Fritz Wahlen non era un funzionario federale qualunque. Nato nel 1899 in un villaggio della campagna bernese, laureato ingegnere agronomo al Politecnico di Zurigo, si era addottorato nel medesimo ateneo in scienze tecniche prima di partire per il Canada, dove a 25 anni dirigeva già le 7 stazioni agricole

sperimentali nazionali. Nel 1929, a 30 anni, decise di rientrare in patria perché un ancor più alto incarico che gli era stato offerto dal governo canadese gli avrebbe imposto la rinuncia alla cittadinanza svizzera. Negli anni 30, alla testa della Stazione federale della sperimentazione agricola a Zurigo Oerlikon e come esponente del Partito degli agrari, ebbe modo di passare sotto la lente il mondo contadino svizzero e di costruire quel progetto che avrebbe presentato nel novembre del 1940 alla Società degli agricoltori svizzeri. In estrema sintesi, il suo piano prevedeva di correggere lo squilibrio tra produzione animale e produzione vegetale, per garantire cibo sano a sufficienza a 4 milioni di concittadini circondati dalla guerra. In particolare si trattava di riconvertire parte di quei terreni che nell’ultimo secolo erano passati dall’agricoltura all’allevamento: da una percentuale di 83 a 17, il piano Wahlen proponeva di ridurre i pascoli al 54 per cento e aumentare le coltivazioni al 46 per cento. Gli studi dicevano infatti che da un ettaro di pascolo per foraggio si otteneva annualmente cibo per 5 persone, mentre con un ettaro coltivato a cereali si sfamavano 9 persone all’anno, con patate e verdure addirittura 20 persone. Prima della guerra la superficie coltivata in Svizzera era di 183 mila ettari, la riconversione di parte dei pascoli avrebbe dovuto portare la superficie a 500 mila ettari, riducendo i capi di bestiame da 1 milione e 700 mila capi a 1 milione e 250 mila. Lo scetticismo iniziale venne ben presto superato dal progressivo accerchiamento degli eserciti in guerra, che aveva messo in evidenza la rischiosa fragilità della dipendenza dalle importazioni: prima della guerra la Svizzera importava 100 mila vagoni di cereali all’anno, il 60 per cento della farina per il pane quotidiano… Il dottor Wahlen venne quindi incaricato dal Consiglio federale di implementare il suo progetto, che dall’ambito della produzione agricola si estese ben presto anche alle scienze dell’alimentazione.

Friedrich Traugott Wahlen negli anni 30 era alla testa della Stazione federale della sperimentazione agricola a Zurigo Oerlikon. (Keystone)

Alla promozione del Piano diede ampio risalto anche «Azione». Nella sua edizione del 31 gennaio 1941 invitava alla lettura de «La battaglia agricola – I compiti della nostra agricoltura in tempo di guerra dal Piano autarchico dell’alimentazione del Dr. Fritz T. Wahlen». In prima pagina, su cinque colonne, si leggeva tra l’altro, che «nel settore più importante dell’economia di guerra, cioè la produzione delle derrate alimentari, il competente Ufficio aveva messo in campo i massimi esperti della moderna scienza dell’alimentazione per il calcolo delle razioni». La ricerca di un equilibrio alimentare in tempo di guerra produsse iniziative che oggi potremmo definire vere e proprie avanguardie dell’odierno proliferare delle consulenze dietetiche. Vale la pena allora dare un’occhiata al Cinegiornale del 18 giugno 1943 (pubblicato da Memoriav su memobase.ch), che presentava una novità assoluta per tutto il continen-

te: il «menu parlante», un servizio offerto dall’Officina del gas di Zurigo in collaborazione con l’amministrazione dei telefoni, con tanto di liste della spesa, ricette e consigli per il risparmio energetico. I consigli indirizzati alle massaie permettevano di preparare, nonostante il razionamento, dei pasti variati, nutrienti ed economici, riducendo al minimo le spese di cottura. Le solide basi scientifiche su cui aveva basato il suo piano di politica agricolo-alimentare, valse nel 1942 al dottor Wahlen il prestigioso premio Marcel Benoist, che dal 1920 a tutt’oggi mette in evidenza i migliori cervelli della ricerca svizzera, 11 dei quali sono stati onorati anche del Premio Nobel. L’onorificenza gli venne conferita come riconoscimento dell’eccellente contributo scientifico fornito in qualità di caposezione della produzione agricola all’interno dell’Ufficio federale dell’alimentazione di guerra nella preparazione, motivazione ed esecuzione dell’au-

mento delle colture richiesto dal Consiglio federale. Alla fine della guerra, archiviata la popolare missione dell’emergenza alimentare nazionale, il professor Wahlen si dedicò alla cattedra di agronomia al Politecnico di Zurigo fino al 1949, quando venne chiamato a occuparsi di fame nel mondo agli alti vertici della FAO, l’Istituto delle Nazioni Unite per l’agricoltura e l’alimentazione fondato in Canada nel 1945. Dapprima a Washington e poi a Roma, il celebre agronomo elvetico diresse dapprima la Divisione dell’agricoltura, poi il Programma tecnico e infine giunse la nomina a Direttore generale aggiunto. Ma il richiamo della Patria lo raggiunse nuovamente nel 1958, quando venne eletto Consigliere federale in sostituzione di Markus Feldmann, prematuramente scomparso. «Uno svizzero all’estero richiamato a Berna a fare il Consigliere federale» – commentò divertito in una delle ultime rare interviste.


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MONDO MIGROS

Voglia di pedalare

Attualità ◆ Da SportXX è iniziata la stagione della bici. Vieni a scoprire lo straordinario assortimento di biciclette, abbigliamento e accessori, oppure affidati al nostro servizio di manutenzione e riparazione per una sicurezza a tutto tondo

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Franklyn Sowatey Nelson, collaboratore di SportXX S. Antonino.

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Aromi in armonia con la natura

Attualità Le erbe aromatiche fresche non possono mancare in cucina. Meglio ancora se di qualità Demeter ◆

Basilico

È un’erba che ama il sole, ma andrebbe protetta dalla pioggia. Può essere essiccato o congelato. È indispensabile per preparare il pesto e insaporire pietanze come paste, pomodori, sughi, verdure, zuppe e molti altri classici della cucina mediterranea. Da sempre Migros promuove un’agricoltura naturale e sostenibile, offrendo alla clientela molti articoli ottenuti secondo rigorosi criteri di qualità. Tra essi figurano diversi prodotti contrassegnati con il marchio Demeter, sinonimo di un’agricoltura biodinamica particolarmente vicina alla natura e rispettosa dell’ambiente. Demeter è il marchio biologico più vecchio e con le direttive più severe riguardo la produzione di alimenti naturali e la loro trasformazione. Suolo, piante, animali ed essere umani sono in perfetta armonia e visti come parti di un circuito chiuso. Suolo fertile con compost della fattoria, utilizzo di sementi dell’ultimo raccolto, biodiversità, allevamenti adatti alla specie, rotazione delle colture, divieto di decornazione degli animali, divieto di trattamento UHT e omogeneizzazione nel latte sono solo alcuni esempi dei severi criteri di Demeter.

Azione 20%* *Su tutte le erbe aromatiche Demeter in vaso (erba cipollina, basilico, prezzemolo liscio e rosmarino) Fr. 2.80 invece di 3.50 dal 29.3 al 4.4.2022

Erba cipollina

L’erba cipollina andrebbe utilizzata fresca, perché cotta tende a perdere il suo caratteristico aroma. È ideale per insaporire uova strapazzate, verdure, pesce, insalate e formaggi freschi. Si consiglia di tagliarla con l’ausilio delle forbici per evitare la perdita dei preziosi succhi.

Prezzemolo liscio

Il prezzemolo liscio possiede un sapore intenso, leggermente pepato, ed è perfetto per insaporire sia piatti freddi che caldi come insalate, salse, brodi, pollo, uova e pesce. Inoltre favorisce la digestione e svolge un’azione depurativa dell’organismo.

Rosmarino

È una delle erbe aromatiche più versatili, indispensabile per condire carni, pollame, agnello, patate e pietanze alla griglia. Ama il sole e va annaffiato poco. È una pianta facile da coltivare sia in giardino che sul balcone. Si presta a essere essiccato.


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MONDO MIGROS

Ascolta, divertiti e colleziona

Attualità ◆ Il raccontastorie Faba non può mancare nella cameretta dei bimbi. È disponibile alla Migros con tanti personaggi da collezionare

Azione 30%* su tutto l’assortimento di giocattoli dal 31.3 al 3.4.2022

Divertente ed educativo, il raccontastorie Faba è un dispositivo audio sicuro e facile da usare in grado di sorprendere e stimolare l’immaginazione di ogni bambino. Esso permette di ascoltare non solo favole, fiabe, storie, filastrocche, ninnenanne… ma anche di riprodurre la musica preferita grazie al collegamento bluetooth. Possiede un audio di ottima qualità e funziona anche con le cuffiette. Riprodurre le storie è davvero semplicissimo: è sufficiente appoggiare uno dei personaggi sonori sulla cassa, accendere e ascoltare. Faba è dotato di una batteria a lunga durata ricaricabile tramite cavo USB. Per la massima sicurezza dei bambini non è collegabile alla rete WiFi. I materiali utilizzati per produrlo sono atossici. Il box iniziale è venduto con un personaggio incluso, «Ele l’E-

lefante», con al suo interno 15 appassionanti canzoni e storie. Tra gli altri personaggi sonori disponibili separatamente in vendita potrete ad esempio trovare «Peppa Pig», «Il Gruffalo», «Cappuccetto Rosso», «Il Piccolo Principe», «Baby Party», «Le Canzoni degli Animali», «Zompettando per il Mondo», «Masha» e «Canta e balla con Nino». Faba è adatto per tutti i bambini da 0 a 6 anni. Faba raccontastorie Box (un personaggio incluso) al pezzo Fr. 55.90* invece di 79.90 Faba raccontastorie, diversi personaggi al pezzo Fr. 12.50* invece di 17.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros Annuncio pubblicitario

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SOCIETÀ

Amélie cresce

Associazioni ◆ Dagli orti ai caffè passando dallo sportello d’aiuto e dalla casetta che anima il parco giochi: a Pregassona l’esperienza dei volontari dell’associazione Amélie continua e si fa conoscere anche all’estero Stefania Hubmann

Un centro di socializzazione dove si svolgono molteplici attività, orti condivisi all’esterno oltre a un’idea originale e innovativa: una casetta da giardino trasformata in luogo di ritrovo, aperta di regola nei pomeriggi del week-end nei pressi del rinnovato parco giochi. Tutto questo è parte della trasformazione di cui ha beneficiato negli ultimi due anni un comparto di Pregassona (quartiere della Città di Lugano) situato lungo il fiume Cassarate. Artefice di questo progetto di valorizzazione e integrazione sociale l’associazione Amélie, nata sulla spinta dell’impegno della locale Commissione di quartiere e sostenuta dalla Città come pure da sponsor privati. I due anni della pandemia sono stati per l’associazione, già premiata a livello nazionale per la sua attività che nasce e si sviluppa dal basso, un periodo di intenso lavoro di cui questi sono i principali risultati. Una trentina di volontari e un centinaio di partecipanti, in entrambi i casi rappresentanti di diverse nazionalità, sono i numeri di un percorso che in alcuni ambiti fa registrare il tutto esaurito. «Le venti cassette degli orti – spiega Marco Imperadore, presidente e cofondatore dell’associazione – sono tutte attribuite. La lista d’attesa si è formata anche per l’aiuto allo studio e il corso sull’utilizzo del cellulare nella terza età. Siamo all’ascolto della popolazione che manifesta i suoi bisogni ed è fonte di ispirazione. La Casetta Amélie ne è un esempio. Sono infatti i genitori dei bambini che frequentano il parco giochi i primi ad aver chiesto di utilizzarla come una sorta di bar all’aperto. Questo ci indica che il desiderio di ritrovarsi, di identificare un luogo conviviale, di animare il quartiere è vivo e può crescere a partire da piccole iniziative». Ne è un esempio la festa di carnevale del 1. marzo: corteo, musica, animazione e premi organizzati dal Gruppo Eventi Amélie, accompagnati dal servizio di caffè e bibite ai partecipanti. Una casetta pensata

Fondatori e volontari dell’associazione Amélie formano assieme ai partecipanti alle attività un’affiatata comunità multietnica. Al centro il presidente Marco Imperadore, sulla sinistra il cofondatore Ihsan Alpen.

inizialmente quale ripostiglio è quindi diventata in breve tempo la nuova chicca dell’associazione. Attorno ad essa per la stagione estiva si desidera promuovere un festival culturale con appuntamenti due volte al mese così da riunire gli abitanti attorno a eventi che potranno spaziare dalla musica alla letteratura, dal teatro alla danza, ai laboratori. Il fulcro delle attività è però dallo scorso autunno la sede situata in via Ceresio 43. Spazi accoglienti e colorati permettono di offrire attività destinate ad adulti, giovani e bambini. Per i più piccoli è stato allestito un locale adeguato – Il mondo di Amélie – dove le mamme con figli da 1 a 3 anni possono socializzare tre mattine la settimana e per il quale si cercano volontari. La stanza più grande ospita i corsi ma può anche essere trasformata in sede di feste di compleanno e altri eventi. «Le nuove proposte hanno sempre bisogno di un po’ di tempo per trovare riscontro nella popolazione», spiega il presidente. «Contiamo sul passaparola e sulla distribuzione di volantini per incoraggiare le persone a partecipare. I bambini hanno maggiore facilità di

contatto e sono preziosi nel mobilitare i loro coetanei e persino gli adulti». Grazie al centro, per il quale è già previsto a breve un ampliamento con l’aggiunta di uno spazio esterno, le attività potranno essere consolidate. Due nuove proposte meritano particolare attenzione. Si tratta del Caffè Amélie e dello Sportello d’aiuto. Il primo risponde all’esigenza di persone di qualsiasi età di ritrovarsi in compagnia per un momento ricreativo, il secondo è invece finalizzato a un aiuto mirato. Durante la nostra visita nella sede dell’associazione abbiamo incontrato due volontarie che contribuiscono ad animare gli incontri del Caffè Amélie il venerdì pomeriggio dalle 14 alle 16.30. Loredana Maresca e Estefania Prados provengono da esperienze di vita diverse, ma sono accomunate dal desiderio di aiutare gli altri. «Manca ancora uno zoccolo duro che partecipi regolarmente – spiegano le due volontarie – però gli incontri sono sempre allegri. Se finora ci si è concentrati sull’aspetto conviviale, l’intenzione è di proporre in futuro anche attività creative, momenti di lettura, musica e canto, oltre ad appuntamenti infor-

Sempre meno auto

mativi legati in primo luogo alla salute e all’alimentazione». Se Loredana ha molto tempo da investire nel progetto e altre esperienze di volontariato alle spalle, Estefania lavora a tempo pieno quale docente di scuola speciale e investe una consistente parte del suo tempo libero nell’associazione. Ripagata – afferma – dai rapporti umani che si tessono tra i volontari e tra questi ultimi e i partecipanti, al momento per la maggior parte bambini e ragazzi coinvolti nello Spazio giovani, coordinato da Daniele Galdi, in sede e nello sport non agonistico. Céline Keles è un’altra volontaria, punto di riferimento dello Sportello d’aiuto che lei stessa ha promosso. Così spiega la sua iniziativa: «Durante la tesi per il Bachelor in Lavoro sociale che sto conseguendo alla SUPSI ho effettuato uno stage presso la Città di Lugano, potendo constatare come in particolare i residenti stranieri fatichino a sapere quali siano i loro diritti e doveri e a quali servizi rivolgersi. Una consulenza individuale può quindi orientare sulle prestazioni di cui possono beneficiare. Li aiutiamo nella redazione di lettere formali, accompagnandoli se

necessario ai servizi pubblici e privati preposti». L’appuntamento può essere fissato in ogni giorno della settimana chiamando prima lo 076 213 08 98 dalle 10 alle 17. Tutte le mansioni sono svolte da volontarie e volontari tranne le pulizie, impegno quotidiano per il quale ci si è affidati a una persona retribuita. «Ogni volontario è responsabile di un determinato settore – Loredana degli eventi, Stefania dei corsi, Céline del Caffè Amélie e dello Sportello d’aiuto, Daniele del Centro giovani – contribuendo comunque anche ad altre attività», precisa il presidente che nel comitato è affiancato dall’altro cofondatore, Ihsan Alpen. Marco Imperadore non nasconde che in questi due anni l’associazione ha conosciuto qualche assestamento, a livello di comitato come fra i volontari. «Desideriamo sviluppare una determinata visione del progetto che deve essere condivisa», afferma aggiungendo che al momento si punta soprattutto a consolidare quanto messo in campo finora, sempre in stretta collaborazione con le associazioni presenti sul territorio. Un impegno riconosciuto nel 2020 dalla Società svizzera di utilità pubblica che lo ha finanziato quale progetto pilota e da «engagement-locale» per il ruolo del volontariato nella promozione della coesione sociale. Sempre attuale è inoltre la volontà di fungere da esempio per altre realtà locali e non. Grazie all’intercessione di un membro del Comitato permanente sugli italiani nel mondo e la promozione del sistema Paese della Camera dei deputati, il progetto luganese prossimamente potrà essere presentato a Roma. Il favoloso mondo di Amélie, titolo del film francese del 2001 al quale è ispirato il nome dell’associazione in virtù della generosità della protagonista, non solo è approdato a Lugano, ma è destinato a farsi conoscere anche all’estero. Informazioni www.associazioneamelie.ch

Nuove immatricolazioni automobili secondo il carburante in Svizzera 400000

Istantanee sui trasporti ◆ La decrescita del parco automobili continua anche nel 2021 e le nuove immatricolazioni sono sempre più elettriche

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Riccardo De Gottardi

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Altri

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Elettrico

Puntualmente come ogni anno a fine gennaio l’Ufficio federale di statistica ha pubblicato i dati sull’evoluzione del parco delle automobili in Svizzera. Ci soffermiamo su due aspetti che emergono in modo chiaro per il Cantone Ticino. Un primo rilievo riguarda l’evoluzione del numero di automobili ammesse alla circolazione. Per il quarto anno consecutivo il loro numero diminuisce. Il parco comprendeva infatti circa 225’300 unità nel 2017 e ha toccato le 221’500 nel 2021, 3800 in meno, ossia una riduzione dell’1,7%. Si tratta di una contrazione non abbastanza grande per tramutarsi in un miglioramento delle condizioni generali di circolazione, ma sicuramente rappresenta un indizio interessante di un’evoluzione favorevole dal profilo della gestione della mobilità e dell’impatto ambientale. Le ragioni che spiegano questa tendenza sono probabilmente diverse e ciascun ruolo risulta ancora diffici-

le da quantificare. L’evoluzione demografica è in generale considerata un fattore-chiave nel determinare la crescita della mobilità. Dopo il 2016 la popolazione ticinese è diminuita, perdendo 3400 abitanti fino al 2020. Un altro fattore che è lecito ipotizzare è dato da un cambiamento nella scelta del mezzo di trasporto: si utilizzano maggiormente i trasporti pubblici e ci si sposta di più a piedi o in bicicletta. Il costante potenziamento delle prestazioni dei servizi pubblici da alcuni anni a questa parte e la significativa crescita dell’utenza che lo ha accompagnato lo lascia presagire, anche se una conferma è attesa nei prossimi anni quando il balzo in avanti delle prestazioni realizzato con la galleria di base del Ceneri aperta a fine 2019 avrà potuto esplicare i suoi effetti, convincendo magari anche qualche economia domestica a rinunciare alla seconda auto. Infine bisognerà capire se l’impatto della pandemia a partire dalla primavera del 2020 abbia

avuto ripercussioni durature oppure solo passeggere. Il brusco calo della circolazione stradale e dei viaggiatori sui trasporti pubblici osservato nel 2020 è stato in parte già recuperato nel 2021, ma probabilmente potrebbe aver modificato certe abitudini sia per gli spostamenti quotidiani, ad esempio a seguito della diffusione del telelavoro, sia per quelli di svago, ad esempio favorendo le mete di maggiore prossimità. Ciò può aver portato alla rinuncia o al differimento dell’acquisto o della sostituzione di un autoveicolo. Affaire à suivre. Un secondo aspetto che emerge dai dati appena pubblicati riguarda l’evoluzione delle nuove immatricolazioni, che sono in caduta libera dal 2015, con una forte accelerazione nel 2020 a seguito della pandemia da Coronavirus, smorzata nel 2021 senza tuttavia recuperare i valori osservati in precedenza. Tra le nuove immatricolazioni si registra una progressione della trazione elettrica. L’auto «verde» si rita-

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Ibrido Diesel

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Benzina 0 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021

glia uno spazio sempre maggiore nelle preferenze dei consumatori. Nel 2016 la quota dell’auto elettrica raggiungeva infatti appena lo 0,7% delle nuove automobili ammesse alla circolazione. Cinque anni più tardi la quota è salita al 10,1%. Un indizio significativo di un’evoluzione in linea con la strategia energetica e climatica elvetica, che punta alla sostituzione dei carburanti fossili con fonti pulite, rinnovabili e indigene. Il cammino per raggiungere l’obiettivo è tuttavia ancora lungo, poiché le auto elettriche non costituivano nel 2021 che l’1,3% del parco complessivo. Anche i veicoli ibridi (sia nelle versioni normali che ricaricabili) conoscono un elevato incremento. Hanno infatti raggiunto una quota del 33,7%

nelle nuove immatricolazioni ma, con un’incidenza del 5,6% sul parco complessivo, il loro ruolo rimane marginale. Che questa crescita sia virtuosa dal punto di vista energetico e climatico è tuttavia molto dubbio, vista la necessaria doppia motorizzazione e l’effettivo modesto se non irrilevante impiego della trazione elettrica nel complesso degli spostamenti. Un recente studio commissionato dal Canton Vallese conferma i dubbi e solleva parecchi interrogativi. Infine osserviamo un forte incremento dell’impiego della trazione 4x4, che va di pari passo con maggiori consumi ed emissioni. La quota di questi modelli nel complesso del parco automobili ha infatti raggiunto circa il 33%; nel 2005 era solo del 16%.


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SOCIETÀ

Una colonscopia può davvero salvare la vita

Medicina ◆ È fondamentale il riconoscimento precoce del tumore colorettale, soprattutto oggi che l’evoluzione chirurgica permette una prognosi sempre migliore Maria Grazia Buletti

«In Svizzera, il cancro colorettale è il secondo tumore maligno più frequente nelle donne, e il terzo negli uomini. Ogni anno 4500 persone se ne ammalano, di cui circa 1700 ne muoiono». Queste le cifre di Swiss Cancer Screening riguardo al tumore del colon-retto che il Vice primario di chirurgia dell’Ospedale Regionale di Lugano Dimitri Christoforidis così contestualizza nel nostro Cantone: «Secondo i dati del Registro cantonale dei tumori, in Ticino il tumore colorettale colpisce circa 240 persone all’anno; si stima che per 90 di queste esso porti al decesso». Dal canto suo, il Capo clinica del Servizio di Endoscopia e Gastroenterologia dell’Ospedale Regionale Bellinzona e Valli, Gianluca Lollo, definisce il profilo di questi pazienti: «Cinque persone su cento sviluppano il tumore nell’arco della loro vita; di queste, la metà ha meno di 70 anni. Anche se negli ultimi anni, si è visto un aumento significativo dell’incidenza di questo tipo di tumore fra i più giovani». È un tumore maligno relativamente frequente e piuttosto subdolo, spiega Christoforidis: «Origina quasi sempre dai polipi intestinali che crescono nel tempo e, nell’arco di 5-10 anni, possono assumere caratteristiche che ne favoriscono la trasformazione in tumore maligno asintomatico. Questo, a sua volta, può penetrare nella mucosa intestinale e si può diffondere negli altri organi attraverso i vasi ematici o linfatici, formando delle metastasi». Sono noti i fattori di rischio e predisponenti: «Possono essere legati allo stile di vita (alimentazione, sedentarietà, diabete, fumo e alcol), o a una predisposizione ad ammalarsi dovuta all’ereditarietà (il rischio di sviluppare un tumore colorettale è pari a 2-3 volte se fra i parenti di primo grado

ve n’è uno affetto da polipi dell’intestino o tumore colorettale)». Infine: «Malattie infiammatorie dell’intestino come la retto-colite ulcerosa o il morbo di Crohn possono pure predisporre a questa neoplasia; come per le sindromi ereditarie, i pazienti affetti si devono sottoporre a sorveglianza personalizzata». L’età è pure un fattore di rischio generico: «L’incidenza del tumore colorettale è 10 volte superiore tra le persone di età comprese tra i 60 e i 64 anni rispetto ai 40-44enni». Il gastroenterologo afferma che per contrastare questo tumore infausto si può agire efficacemente attraverso il programma di screening che propone un esame di colonscopia alle persone di età compresa tra i 50 e 69 anni, anche se non sono presenti i fattori di rischio sopraelencati: «La ricerca di sangue occulto nelle feci e la colonscopia sono due esami riconosciuti a livello nazionale e internazionale per lo screening del tumore colorettale, entrambi adottati nell’ambito del programma EOC di screening». L’esame endoscopico consente di studiare colon e retto attraverso un tubo flessibile dotato di una telecamera: «È pertanto possibile visualizzare direttamente la presenza di eventuali polipi e rimuoverli seduta stante. Così si riesce a scoprire pure un tumore. Non dimentichiamo che un’analisi delle feci alla ricerca di sangue occulto (ogni paio d’anni) o una colonscopia (ogni 5-10 anni circa) effettuate nelle persone dai 50 ai 69 anni, permettono di ridurre la mortalità legata a questa patologia». La campagna di prevenzione del tumore colorettale è, di fatto, uno dei punti cardine della strategia «Sanità 2020» da luglio del 2013, quando il Dipartimento federale dell’interno (DFI) ha deciso di inserire gli esami di riconoscimento precoce di questo

A destra, il gastroenterologo Gianluca Lollo, Capo clinica del servizio di endoscopia e gastroenterologia dell’Ospedale Regionale Bellinzona e (a sinistra) il Chirurgo Dimitri Christoforidis, vice primario di chirurgia ORL. (Stefano Spinelli)

tumore nel catalogo delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria delle cure medico sanitarie (LAMal) per le persone di questa fascia di età. Se durante l’esame di prevenzione il gastroenterologo dovesse riscontrare un tumore: «Saranno prelevati campioni per una biopsia e, se necessario, si marcherà la zona tumorale per aiutare nella localizzazione il chirurgo che dovrà rimuoverlo». Una colonscopia può davvero salvare la vita e, spiega Christoforidis, pure le cure del tumore colorettale hanno subito una notevole evoluzione: «Oggi la prognosi generalmente buona permette di affermare che il tumore colorettale è in generale curabile». La principale opzione terapeutica è rappresentata dalla chirurgia con intento curativo entro tempi ragio-

nevolmente brevi: «Accertamenti radiologici per valutare la presenza di metastasi e verificare l’operabilità del tumore precedono la sua rimozione chirurgica». Il chirurgo sostiene la presa a carico individuale e globale di questi pazienti, «in particolare, per quelli con tumori del colon e del retto, le indicazioni e i percorsi terapeutici sono delineati attraverso la collaborazione continuativa e integrata di molteplici specialità, fra le quali oncologia, gastroenterologia, radiologia, radioterapia, anatomia patologica». L’intervento della rimozione di un tumore colorettale ha lo scopo di essere quanto più radicale possibile, per questo «viene rimosso insieme a un tratto di intestino più o meno ampio, in base all’estensione della patologia e

alla necessità di garantire margini di resezione liberi da malattia». Il chirurgo spiega che, secondo la situazione, «se interessati dalla malattia per contiguità o continuità, completa l’intervento la rimozione dei linfonodi prossimi al tratto di intestino interessato, sempre per permettere la completezza della chirurgia e la stadiazione tumorale, quindi l’inquadramento di un’eventuale chemioterapia. Oggi la tecnica laparoscopica mininvasiva è diventata lo standard, mentre la laparotomia tradizionale è riservata a casi particolari. Da qualche anno si può operare anche mediante piattaforma robotica, dove il robot diventa l’estensione del gesto chirurgico, ancora più preciso ed efficace». Si tratta dunque di una presa a carico chirurgica associata a percorsi standardizzati di gestione clinica del periodo post-operatorio, con l’intento di offrire maggior sicurezza e minimizzare l’impatto della chirurgia sul paziente, ottimizzando recupero e ripresa delle sue attività abituali. Anche i dati ticinesi dimostrano che negli ultimi anni la prognosi è molto migliorata: «Una diagnosi precoce avvicina al 90 percento la probabilità di cura, anche, in presenza di metastasi, mentre in passato la speranza di sopravvivenza si limitava a 6-12 mesi. Adesso, se tumore e metastasi possono essere rimossi chirurgicamente (o con altre tecniche coadiuvanti) circa il 50 per cento di questi pazienti sarà vivo a cinque anni dall’intervento». Informazioni Mercoledì 30 marzo, alle 18.30, avrà luogo una conferenza pubblica virtuale sul tema «Prevenzione e cura del tumore colon-rettale», con il chirurgo Dimitri Christoforidis e il dottor Gianluca Lollo (link: https://bit.ly/3JmMn8q)

Il Pedibus diventa intergenerazionale In movimento

Collaborazione tra ATA e Pro Senectute per coinvolgere gli over 65 nell’accompagnare i bambini da casa a scuola

Alessandra Ostini Sutto

«I bambini che camminano verso scuola si appropriano del proprio territorio e ricevono le stimolazioni giuste, quelle che vanno alla velocità del loro principio di realtà. In un contesto come il Pedibus lo fanno anche nella sfera relazionale. Lo “stare con l’altro” è un grandissimo allenamento a quelle competenze che sono così importanti in età evolutiva». Così si esprime Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, in merito al progetto Pedibus, il sistema d’accompagnamento dei bambini sul percorso casa-scuola sotto la sorveglianza di adulti, approdato in Svizzera nel 1998. Presente in Ticino dal 2015, il progetto è stato ben accolto, basti pensare che dalla decina di linee degli esordi, concentrate in Capriasca, si è arrivati a quota 116. Se fin dalla sua creazione il progetto – promosso da ATA (Associazione traffico e ambiente), con il sostegno del Servizio di promozione e valutazione sanitaria del Cantone – veniva incentivato per gli aspetti relativi alla sicurezza sulla strada e alla salute, nel tempo è emersa la sua valenza sociale, l’importanza dello «stare con l’al-

tro» di cui parla Pellai. «Un aspetto importante del progetto, testimoniato anche dal fatto che durante il primo lockdown dovuto al Covid, numerose linee Pedibus hanno cercato modi alternativi per attivarsi e stare vicine tra di loro e alla popolazione», commenta Caterina Bassoli, coordinatrice Pedibus Ticino, la quale, riferendosi ancora al detto periodo, ricorda un elemento che l’ha fortemente segnato, e cioè la brusca battuta d’arresto del coinvolgimento degli anziani nella società, della quale questi ultimi hanno risentito molto. Anziani che, oggi, diventano invece protagonisti di un «progetto dentro il progetto», denominato Pedibus intergenerazionale, nato a livello nazionale anche per sopperire a una certa difficoltà nel trovare genitori-accompagnatori, dovuta al fatto che spesso sia mamma che papà lavorano. «Nell’ambito di una campagna di ATA, più sviluppata nella Svizzera romanda, che riguarda proprio gli anziani, abbiamo avuto modo di osservare come i più piccoli non conoscano le difficoltà, fisiche e mentali, delle persone di una certa età, le quali, a loro volta, non riconoscono più nei bam-

bini quello che loro erano un tempo – spiega Caterina Bassoli – questo è uno dei motivi per cui riteniamo importante un riavvicinamento tra le generazioni». Per il Pedibus intergenerazionale ATA collabora con Pro Senectute: «Vorremmo coinvolgere sempre più persone in età AVS, dando loro un motivo in più per uscire di casa, muoversi ma anche sentirsi utili, aumentando la coesione di quartiere e la socialità, certi che i vantaggi sa-

ranno molti e per tutti», spiega Caterina Bassoli, mentre Laura Tarchini, responsabile comunicazione e marketing di Pro Senectute, aggiunge: «Abbiamo aderito all’invito di ATA e, tramite diversi canali (volontariato, gruppi sport e corsi), cerchiamo persone in età AVS disponibili per questa attività nel loro quartiere. Da parte nostra si tratta di un progetto educativo per i più piccoli, che li sensibilizza all’importanza di muoversi a piedi,

e molto importante anche per le persone in età avanzata. Permette loro di avere un contatto con i bambini e al contempo di mantenersi in forma con il movimento». Il nuovo progetto è in fase di promozione. «Siamo partiti soprattutto con il passaparola e in breve tempo due persone sono già operative – commenta la coordinatrice di Pedibus Ticino, – di principio i volontari over 65 affiancano il o i genitori, perché si tratta di persone che i bambini non conoscono, ma anche per un discorso di socialità e interazione. Qualora si dovessero verificare le condizioni affinché un accompagnatore senior si possa occupare da solo di una linea, valuteremo la situazione, potrebbe essere un elemento positivo per la persona in questione, che si sentirebbe responsabilizzata e valorizzata». Per sottolineare l’importanza sociale del nuovo progetto, il coordinamento Pedibus Ticino ha in calendario una serie di atelier, eventi e iniziative, che ha preso avvio con un caffè narrativo, organizzato a Morbio Inferiore in collaborazione con Pro Senectute sul tema del percorso verso la scuola ieri e oggi.


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La siccità minaccia le nostre riserve idriche

Ambiente ◆ Nei nostri territori, la carenza di precipitazioni invernali è una consuetudine, anomale sono le temperature diurne quasi primaverili e l’autunno inverosimilmente arido Sabrina Belloni

L’acqua, in particolare quella potabile, è un bene inestimabile, il più prezioso, innanzitutto perché permette la vita sul nostro pianeta. Abituati da sempre alla sua presenza quasi ubiquitaria nel nostro Paese, spesso non riflettiamo quanto l’acqua sia importante e quanto la sua carenza ci renda vulnerabili. La mancanza di precipitazioni, unitamente a temperature insolitamente calde in questo periodo, è un fenomeno in aumento soprattutto in Ticino e desta preoccupazioni poiché, quando si prolunga per mesi, si verificano problemi di natura ambientale, sociale ed economica. La siccità inizia a farsi notare: poca la neve in montagna, fiumi in secca, aridità diffusa dei terreni. Il favonio, il cielo terso, il sole intenso e le temperature in rialzo hanno velocemente cancellato gli effetti della debole perturbazione di metà febbraio, favorendo la veloce evaporazione della scarsa acqua precipitata al suolo e anche la pioggerella di questi giorni non risolve la situazione. Sono ormai oltre tre i mesi di «secca», dato che precipitazioni degne di rilievo risalgono all’8 dicembre. Preoccupano le conseguenze connesse a una mancanza di accumulo della risorsa idrica, determinata in parte dall’autunno 2021 più mite del consueto e povero di precipitazioni, e dalle veramente scarse nevicate, di molto inferiori rispetto alla media. Per contro, incrementano i giorni di sole, le temperature diurne sono miti e il vento favonio (foehn) facilita sia l’evaporazione sia i repentini incrementi di temperatura (anche di oltre 10° C) soprattutto in pianura. Nei nostri territori, la carenza di

precipitazioni invernali è una consuetudine. Il clima subalpino infatti si caratterizza per le scarse precipitazioni durante l’inverno: i periodi secchi (assenza di precipitazioni per oltre 30 gg consecutivi) si verificano regolarmente, in media ogni quattro anni circa, e i periodi asciutti (mancanza di precipitazioni oltre i 60 giorni consecutivi) si verificano in media ogni 5-10 anni. L’anomalia sono le temperature diurne quasi primaverili e l’autunno inverosimilmente arido. MeteoSvizzera prevede che l’inverno 2021/22 terminerà con una temperatura di 1.8 °C superiore alla media degli anni 1991-2020, mentre il totale di precipitazioni dovrebbe attestarsi solamente al 22% della quantità attesa. Il ritardo nelle precipitazioni nevose a inizio inverno ne ha ostacolato l’accumulo e ne ha facilitato la fusione anticipata, soprattutto alle quote inferiori. I terreni montani esposti al sole si surriscaldano e la mancanza del manto nevoso impedisce la rifrazione dei raggi solari (albedo), che vengono pertanto assorbiti dal terreno. La variazione nella frazione di luce assorbita o riflessa incide direttamente sul bilancio energetico e quindi sul clima e sul meteo. Con il riscaldamento invernale e la conseguente risalita dell’isoterma di zero gradi verso quote più elevate, il numero di giorni annui con copertura nevosa nelle Alpi svizzere è diminuito di circa 20-30 giorni, a seconda della località considerata. L’Ufficio Cantonale di Statistica (Ustat) convalida tali dati e rileva che un inverno così mite e soleggiato non si verificava da circa 60 anni. Le conseguenze sul livello dei fiumi e dei

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Mansioni Condurre i collaboratori del giornale nelle attività necessarie al funzionamento della redazione; Assicurare il coordinamento con la Direzione, la comunicazione e il marketing di Migros; Redigere articoli in aderenza con la linea editoriale del giornale; Fungere da persona di riferimento in ogni ambito editoriale, organizzativo e finanziario relativo al giornale; Rafforzare e sviluppare la posizione di Azione nel panorama mediatico ticinese (fruibilità anche digitale e bacino di utenza). Competenze professionali Formazione accademica; Provata esperienza pluriennale nella professione giornalistica/editoriale, in particolare per stampa scritta e digitale e nella conduzione di un team; Ottime conoscenze dell’italiano e buone delle lingue nazionali; Approfondite conoscenze digitali (programmi di editing, trattamento immagini, pacchetto Office e Social Media); Spiccate competenze manageriali; Proprietà dialettiche e disinvoltura nell’esprimersi in modo chiaro e comprensibile; Resistenza a importanti picchi di lavoro. Offriamo prestazioni contrattuali all’avanguardia, ambiente di lavoro dinamico in un’équipe redazionale affiatata. Candidature da inoltrare in forma elettronica entro il 24.4.2022, collegandosi al sito www.migrosticino.ch, sezione «Lavora con noi» – «Posti disponibili» includendo la scansione dei certificati d’uso.

Parete di ghiaccio vista da sott’acqua con montagne sullo sfondo, Lago di Sassolo, Valle del Sambuco, Ticino, Svizzera. (Franco Banfi)

laghi sono purtroppo evidenti, con il Ceresio a meno di 270 metri sul livello del mare (che segna un record negativo) nonostante il livello sia regolamentato sin dal 1963 dallo sbarramento di Ponte Tresa. I dati resi noti da MeteoSvizzera (https://bit.ly/3IR2hYE) sono scoraggianti: alla stazione di Lugano il bilancio idrico degli ultimi tre mesi segna un preoccupante –53mm (alla stazione di Piotta –46mm) mentre tre indicatori di umidità del terreno (indice di siccità del terreno, deficit idrico del terreno e ARID ) su quattro sono costantemente in rosso. Solamente il deficit idrico della vegetazione non desta preoccupazione per ora, poiché nella stagione invernale la vegetazione è in stato di riposo e non consuma le risorse idriche di cui invece avrà necessità in primavera, con la ripresa dell’attività vegetativa. Se il meteo degli ultimi mesi dovesse continuare nei prossimi, le colture all’aperto e la crescita dell’erba da foraggio dovranno essere alimentate con acqua dell’acquedotto o prelevata dai pozzi freatici e dai bacini lacustri. Tali prelievi dovranno però essere regolamentati, stante il già citato abbassamento del livello dei bacini di raccolta dovuto alla mancata fusione della scarsa neve. Nel periodo invernale i consumi di acqua sono bassi e pertanto ora non si manifesta alcuna carenza nella distribuzione idrica. Tuttavia il livello di acqua nelle sorgenti e nelle vasche di stoccaggio si sta abbassando e deve essere monitorato attentamente. Si auspica che in primavera ci siano

precipitazioni costanti e non violente, che consentano ai terreni di assorbire l’acqua meteorica, filtrarla e alimentare le sorgenti. Se invece le piogge saranno intense e violente, l’acqua scorrerà sulla superficie dei terreni senza percolare nel substrato. Fenomeni impetuosi (oltre a non consentire l’alimentazione delle sorgenti) creano dilavamento dei terreni, frane, esondazioni dei fiumi, trasporto di detriti a valle, pertanto una serie di eventi concatenati che interessano varie attività, dalla produzione dell’energia idroelettrica, all’agricoltura e all’allevamento. Come recentemente ha ricordato Marold Hofstetter (direttore di OFIMA) lo scioglimento del manto nevoso è ottimale per riempire i bacini artificiali poiché la portata d’acqua è costante, mentre i temporali estivi di estrema violenza causano più danni che benefici. Quando ci sono difficoltà, l’essere umano si ingegna e cerca soluzioni, spesso creando sinergie in settori anche antagonisti. Nel recente pas-

Energie alternative Il primo impianto eolico realizzato in Ticino è quello del San Gottardo, entrato in esercizio nell’autunno del 2020. L’energia eolica (la cui produzione è maggiore nei mesi invernali) è perfettamente complementare a quella fotovoltaica, che al contrario garantisce maggiori rese in estate.

sato è stata incentivata la produzione di energia da fonti rinnovabili (fotovoltaico ed eolico in primis; vedi quadretta) che seppur quantitativamente insufficiente a soddisfare i bisogni della popolazione attuale e generando perplessità sull’effettiva sostenibilità ambientale degli accumulatori e dei pannelli, ha aperto una strada alternativa alla produzione energetica dall’idroelettrico, dal termoelettrico, dal nucleare e dallo sfruttamento delle fonti fossili (carbone e idrocarburi), con l’auspicato abbattimento delle emissioni di CO2 e gas serra, a beneficio di un rallentamento delle variazioni climatiche. Per sottolineare la giornata mondiale dell’acqua (svoltasi il 22 marzo) è stata posta particolare attenzione alle acque di falda, cioè quelle sotterranee, il nostro bene più prezioso. L’Associazione acquedotti ticinesi (Aat; https://bit.ly/3tBlPd1) ha organizzato una campagna di sensibilizzazione denominata «Conosci la tua acqua» e uno stand itinerante presso alcuni licei del cantone con lo scopo di sollecitare la sensibilità dei giovani verso un uso consapevole della risorsa. Nell’immediato futuro infatti, proteggere e utilizzare in modo sostenibile le acque sotterranee sarà determinante per far fronte ai cambiamenti climatici e soddisfare i bisogni di una popolazione in costante crescita. Approfondimento Un nuovo studio di MeteoSvizzera e del Politecnico di Zurigo è consultabile all’indirizzo: https://bit.ly/3pFEoLR

Il territorio pensato Architettura

Raffaele Cavadini parlerà del proprio lavoro a Balerna

«Un’architettura austera che non lascia spazio alla seduzione», così Luigi Snozzi, con cui collaborò a lungo, definisce il lavoro architettonico di Raffaele Cavadini, che sarà ospite di una conferenza a Balerna nei prossimi giorni. A Cavadini, che potremmo definire un «disegnatore di spazi» sui generis, sono ascrivibili alcune scelte

di materiale e di linee che ne delineano la coerenza e la necessità di seguire una propria idea creativa, lontana dalle mode e dalle scelte del momento, all’instancabile ricerca di una verità. In questo modo quella di Cavadini si trasforma in un’architettura senza tempo, ma dove lo spazio e la luce diventano protagonisti indiscussi,

e dove i materiali, e fra tutti spicca la pietra, dettano il ritmo al discorso formale. Dove e quando Architetture. Raffaele Cavadini. Balerna, Sala della Nunziatura, ore 20.00. Per informazioni: www.balerna.ch


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SOCIETÀ

Conoscersi al museo

Tandem al museo ◆ Il progetto sostenuto dal Percento culturale Migros incoraggia le persone a visitare un museo in compagnia Ada Cattaneo

Arrivo al MASI di Lugano per un appuntamento con Veronica Carmine, coordinatrice per la Svizzera Italiana del progetto «TaM – Tandem al Museo». Non ho trovato nessuno che curasse il mio bimbo di quattro anni e, con qualche riserva, decido di portarlo con me. Ad aspettarci, insieme a Veronica, c’è Julia. Sarà lei ad accompagnarci durante la visita. Mentre ci avviamo scopro qualcosa in più su di lei: ha origini rumene e da molti anni vive in Ticino; non si è mai occupata d’arte e ha sempre lavorato come segretaria. Almeno fino al momento in cui motivi di salute non le hanno più permesso di svolgere il suo lavoro. Lo racconta con grande dignità, ma anche con evidente rimpianto. Non voglio chiedere di più, ma scopro che ha cominciato a prendere parte al progetto «TaM – Tandem al Museo» proprio in questa nuova fase della sua vita, quando ha considerato che la cultura poteva essere un alleato prezioso in questo suo nuovo percorso di vita. Entriamo nel museo, ma ho un momento di imbarazzo: dovremmo cominciare con l’incontro vero e proprio, affinché io possa scrivere il mio articolo con cognizione di causa, ma mio figlio è alquanto agitato. Eppure, inaspettatamente, le cose si risolvono: Julia capisce presto la situazione

e, invece che interloquire con me, si rivolge proprio al mio bambino. Presto diventa lui il protagonista di questa dimostrazione del progetto TaM, venendo coinvolto, con grande soddisfazione di tutti, nella creazione di storie di fantasia a partire dai quadri della collezione permanente del MASI, fra cui la tartaruga dipinta dal pittore tedesco Richard Seewald e la veduta di Venezia dipinta da Augusto Giacometti. Alcuni anni fa, leggendo di «TaM – Tandem al Museo», lo avremmo annoverato fra i molti progetti di apprendimento attivo in ambito museale. Ma dopo il lungo intervallo della pandemia – Julia, la nostra Guida, la chiama «Pandemonio» – le cose sono diverse. Tutti i contatti sociali, per questo difficile periodo, si sono trasformati in una minaccia e organizzare un’attività di condivisione è diventata un’operazione delicata. Veronica Carmine, responsabile del progetto per la Svizzera italiana, racconta: «Dopo l’inverno 2020 abbiamo deciso di attivarci subito per trasformare i musei in luoghi dove superare l’isolamento causato dall’emergenza sanitaria. Avevamo già sperimentato questo formato con persone di generazioni diverse, indirizzandoci in particolare agli anziani, invitati da guide più giovani con il

progetto GaM – Generazioni al Museo. Ma ora la situazione è diversa ed è tutta la società civile ad avere bisogno di vicinanza con l’altro. Il museo è un luogo dove potersi sentire bene, a proprio agio. Perciò stiamo provando a creare una comunità coesa, che abbia il museo al proprio centro e sia sempre più legittimata a sentire il patrimonio conservato come proprio». Un museo per sua natura ci permette di ampliare le nostre conoscenze. Ma la consueta visita è per lo più solitaria. Sarà allora possibile in questo momento trasformare il museo in catalizzatore sociale grazie alla persona che ci affiancherà nella visita? Questa è la sfida che sottende a «TaM – Tandem al Museo», promosso in tutta le Svizzera da Kuverum, associazione che si occupa di formazione in mediazione culturale nei musei, Percento culturale Migros e Fondazione Beisheim. Due persone provenienti da esperienze di vita differenti visitano insieme un museo: la Guida TaM si fa promotrice dell’incontro e invita alla visita una persona che conosce poco (o per nulla) e che di norma non frequenta questi luoghi di cultura. Il museo che partecipa all’iniziativa offre l’entrata alla Guida e al suo ospite, che insieme sceglieranno un oggetto esposto e da qui partiranno per ideare e raccontare una storia. La lo-

ro esperienza e la narrazione scaturita dall’osservazione dell’oggetto sarà pubblicata sulla piattaforma MIS – Musée Imaginaire Suisse (mi-s.ch). Come fare per prendere parte a questo percorso di volontariato culturale? Le persone interessate possono contattare Veronica Carmine che spiega: «Chiunque può diventare Guida TaM. Il compito consiste nell’invitare una persona non abituata a frequentare i musei e insieme partire per raccontare pensieri e immaginare storie che un’opera, un documento o un manufatto storico fanno scaturire in noi. Si tratta di un modo per rompere il ghiaccio e per poi continuare a scoprire mostre e collezioni permanenti dell’istituto in cui ci troviamo». Anche nel nostro cantone alcuni spazi sono già partner dell’iniziativa. Si tratta di musei di vario tipo: si va da quelli afferenti alla Rete etnografica del Canton Ticino, come la Walserhaus di Bosco Gurin e il Mu-

seo della civiltà contadina del Mendrisiotto, al MASI di Lugano, che ha appena deciso di partecipare al progetto. Naturalmente il progetto non vuole in nessun modo escludere le mediatrici e i mediatori professionisti. Anzi, piuttosto ambisce ad allargare la rete di coloro che hanno consuetudine e familiarità con il museo. Non si tratta quindi di sviluppare un’attività didattica, quanto piuttosto di costruire un’esperienza di condivisione fra due individui, che si confrontano alla pari, guardandosi negli occhi o, come esprime al meglio la bellissima espressione tedesca, auf Augenhöhe. Informazioni carmine@tim-tam.ch www.tim-tam.ch In collaborazione con

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SOCIETÀ / RUBRICHE

Approdi e derive

di Lina Bertola

Sentire e pensare la pace ◆

Sofferenze che ci feriscono nel profondo, che violentano ogni espressione della dignità umana e trafiggono la coscienza della nostra comune appartenenza. Tutto questo dolore, nell’immane tragedia che si sta consumando in Ucraina, non pensavamo di doverlo ancora vivere e condividere. Siamo tristi, addolorati, a volte increduli. Invochiamo la fine della guerra. Parliamo di pace, anche se poi, a volte, ci rassegniamo pensando che la natura umana non è per la pace e che aveva ragione Hobbes quando parlava della guerra di tutti contro tutti. Nel corso della storia, l’idea di natura umana è sempre stata pensata come un punto di riferimento necessario per comprendere, giustificare, e a volte anche legittimare i nostri comportamenti. Così, rovesciando la visione cruenta dell’homo homini lupus, Jean Jacques Rousseau aveva sostenuto che l’umanità è naturalmente buona: è la vita in società che la corrompe.

Sono solo due esempi di come, da sempre, abbiamo bisogno di rappresentare noi stessi. È il pegno storico del conosci te stesso. Questo bisogno di comprendere noi stessi indica l’unica cosa forse certa riguardo alla nostra natura, ovvero che noi non viviamo semplicemente tra i puri fatti realmente esistenti, ma piuttosto tra i significati che attribuiamo a questi fatti. Ci chiediamo «perché?». Riflettiamo sul senso del vivere e del convivere. Siamo animali culturali: la trasmissione genetica delle caratteristiche biologiche è nutrita dalla trasmissione di comportamenti, valori, idee. Contro ogni determinismo, che vorrebbe liquidare il discorso con un bel «siamo fatti così!», non solo fiducia nel valore della cultura: anche le neuroscienze sembrano suggerire che perfino il cervello è plastico, può modificarsi, anche in base alle nostre esperienze. Un bell’incoraggiamento a percepire forme di libertà per il nostro agire, a

sperimentare la vita come un progetto: a divenire ciò che siamo, insomma, a educarci. Queste considerazioni sulla natura culturale e riflessiva dell’uomo mettono in luce l’importanza di quel sentimento di interiorità che abita in ciascuno di noi, quello stare in contatto con noi stessi, in quel luogo intimo in cui i fatti che accadono assumono per noi significato e valore. In questo luogo intimo possiamo sentire, e pensare, anche la pace, tanto invocata in questo periodo. Perché pace non è parola che sappia raccontare solo ciò che accade nel mondo. Pace non è solo una parola oggi prigioniera di un immaginario collettivo che ci spinge a pensare dentro il linguaggio della guerra. E non è nemmeno solo una parola calpestata e offesa da un potere che mortifica e distrugge anche i sentimenti dei suoi cittadini. Pace è parola che ha a che fare anche con il nostro mondo interiore, con il no-

stro modo di sentire la vita. Cambiamo dunque orizzonte. In questo momento di grave disumanità, proviamo a scavalcare l’imponenza terrificante dei carri armati e a ritornare alle radici dell’umano da cui ci apriamo al mondo. Torniamo a noi stessi per chiederci se, in questa immane tragedia, almeno dentro di noi, nello spazio dell’anima, questa pace tanto agognata riesce ancora a trovare un posto, un luogo di senso. Chiediamoci se, al di là delle vicende di guerra che ne urlano al mondo l’assenza, la pace sappia far sentire la sua voce in luoghi intimi, lontani sia dai cannoni sia dalle colombe. In verità la parola pace non ha voce, ma anche se non pronunciata può lasciarsi sorprendere e intercettare nei gesti, negli sguardi, nelle parole. Allontanandoci per un momento dagli scenari cruenti, vorrei suggerire a ciascuno di noi di mettere il desiderio di pace allo specchio del nostro vive-

re. Di interrogarci sul nostro modo di stare al mondo. Riusciamo a vivere e a convivere dentro spazi e atmosfere che sappiano accogliere e lasciar fiorire le alterità e le differenze, senza annullarle? Riusciamo ad abitare il tempo dell’accoglienza che garantisce a ogni situazione conflittuale la sua umanità, nel reciproco rispetto? Siamo disposti ad accogliere il volto dell’altro che ci interpella e ci chiede di guardarlo con fiducia? Siamo capaci di ascoltare il silenzio che precede ogni gesto e ogni parola, quel silenzio creativo che rende parole e gesti più nostri, più veri, più vivibili? Infine, siamo pronti a immaginare, a desiderare e a pensare in prima persona un altrove possibile, in cui chiusure e incomprensioni potrebbero incontrare nuove aperture? Prendersi cura del nostro modo di sentire la vita, prestarle attenzione, forse non basta a fermare le guerre ma di certo aiuta a sperare in un mondo migliore.

Terre Rare

di Alessandro Zanoli

Per un digitale sostenibile ◆

Se permettete, comincerei con l’inventare una parola: «inform-etica». In realtà, Google ci dice che esiste già, è addirittura il nome di un’azienda, ma noi utilizzeremo il termine in un senso più circostanziato. La definizione che ne spiega il significato potrebbe essere la seguente: «disciplina che osserva l’informatica per individuarne aspetti legati a un suo uso sostenibile e ragionevole, e ciò sia in termini economici, di manifattura, e di usabilità pratica, sia in quelli che hanno a che fare con la psicologia dell’utente e i suoi rapporti con l’ambiente che lo circonda. Il fine di questa osservazione è la definizione di “buone pratiche”, che possano contribuire a rendere sostenibile, in senso ecologico e sociale, l’interazione tra l’uomo e i dispositivi elettronici». L’intento di questa nuova rubrica vor-

rebbe dunque essere quello di promuovere una riflessione «inform-etica» su un uso attento delle tecnologie digitali. Il suo titolo prende spunto da quei materiali preziosi utilizzati per la produzione di componenti elettroniche, elementi relativamente rari in natura e per questo molto importanti, tanto più che la diffusione delle tecnologie digitali ne richiede un uso sempre maggiore, con un impatto ambientale (ma anche politico e sociale) non indifferente. Forse, ragionando sulla qualità del nostro fare, possiamo influire sulla quantità, evitando degli sprechi… Riflettere sull’«inform-etica» ci sembra utile. Non fosse altro perché il mondo delle tecnologie digitali è spesso circondato da un’enfasi modernista a cui bisogna giocoforza adattarsi, aderire con entusiasmo, per non

La nutrizionista

far brutte figure. Ora, la realtà delle cose sta mostrando, a una ventina d’anni dall’apparizione massiccia dei computer nella nostra vita, che oltre a risolvere indubbiamente una serie di problemi, la tecnologia ne ha creati alcuni altri. Vale la pena di tenerli d’occhio. Senza peccare di scetticismo di ritorno, senza rimpiangere i bei tempi andati, si tratta di osservare criticamente l’impatto di certe nuove abitudini che abbiamo contratto, e soprattutto di mantenere un allenamento mentale a mettere sui piatti della bilancia i pro e contro della nostra esposizione a un mondo indubbiamente affascinante, ma proprio per questo anche capace di farci perdere l’equilibrio. Checché ne dica Mr. Facebook, nel «metaverso» viviamo ormai da tempo e vale la pena di guardare con at-

tenzione gli aspetti utili e meno utili di questa inclinazione alla virtualità elettronica. Insomma, senza buonismo opportunista ma anche senza ostinata e cieca resistenza, cercheremo in queste colonne di proporre piste di esplorazione, spunti di riflessione per continuare a mantenere un atteggiamento aperto e curioso attorno al mondo informatico. Il proposito è contrapporre all’intelligenza artificiale delle macchine un buonsenso artigianale dell’utente. (Questo testo è stato scritto sul blocco di appunti di uno smartphone: avete mai pensato che un telefono può essere usato anche per tenere un diario? Come quelli di una volta, da redigere in perfetta solitudine, prima di dormire, o al mattino presto, prima di alzarsi. Lo fareste? Visto con humour, è un modo di fare entrare un po’ di

umanità tra circuiti integrati e righe di codice di programmazione). Comunque, per iniziare la nostra esplorazione proviamo a riflettere partendo da questo suggerimento: ce lo propone C.G. Jung, ed è tratto da una sua conferenza degli anni 40: «Il nuovo è sempre problematico e va messo alla prova. Il nuovo infatti può anche essere un male. Per questo un vero progresso è possibile solo quando ci sia maturità di giudizio. Un giudizio ponderato però richiede un punto di vista saldo, che può basarsi soltanto su una profonda conoscenza di ciò che è stato. Chi, ignaro della continuità storica, perde il legame con il passato, rischia di soggiacere alle suggestioni e agli abbagli che tutte le novità creano. È la tragedia di ogni innovazione il fatto che con l’acqua sporca si getti via anche il bambino».

di Laura Botticelli

Esiste una dieta per prevenire i calcoli biliari? ◆

Gentile Laura, arrivo subito al dunque. Tendo a produrre calcoli. Mi hanno già asportato la cistifellea. Ma rischio di avere ancora problemi. Senza dilungarmi troppo sul mio caso particolare, potrei chiederle se esistono cibi o bevande da evitare? O meglio: l’alimentazione ha qualcosa a che vedere con la produzione di calcoli? Grazie. / Patrizia M. Gentile Patrizia, la ringrazio per la domanda. Effettivamente qualche ulteriore dettaglio mi sarebbe stato utile per risponderle in maniera più personalizzata ma non si preoccupi, le riporto tutte le informazioni possibili per fornire un quadro generale e che possa comunque esserle d’aiuto. Mi permetto una piccola parentesi di anatomia per far capire meglio il contesto. La cistifellea è un piccolo organo simile a una sacca che si trova sotto il fegato. Il suo scopo principale è

quello di immagazzinare e concentrare la bile. La bile, dal canto suo, è un liquido prodotto dal fegato per aiutare a digerire i grassi, passa dal fegato alla cistifellea attraverso una serie di canali noti come dotti biliari. La bile viene immagazzinata nella cistifellea e, nel tempo, diventa più concentrata, il che la rende migliore nella digestione dei grassi. La cistifellea rilascia la bile nel sistema digestivo quando è necessario. Si pensa che i calcoli biliari si sviluppino a causa di uno squilibrio nella composizione chimica della bile all’interno della cistifellea. Nella maggior parte dei casi i livelli di colesterolo nella bile diventano troppo alti e il colesterolo in eccesso si trasforma appunto in calcoli. I calcoli di colesterolo rappresentano l’85% dei calcoli colecistici dei paesi occidentali. Un’altra tipologia sono i calcoli neri pigmentati formati dalla bili-

rubina. I calcoli biliari di solito non causano alcun sintomo. Ma se un calcolo biliare blocca uno dei dotti biliari, può causare un dolore addominale improvviso e grave, noto come colica biliare. In generale si stima che nei paesi sviluppati circa il 10% degli adulti e il 20% delle persone sopra i 65 anni siano portatori di calcoli biliari. I principali fattori di rischio per la litiasi della colecisti (la presenza di calcoli) comprendono il sesso femminile (soprattutto se ha avuto figli, sta assumendo la pillola anticoncezionale combinata o se si assume una terapia di estrogeni ad alto dosaggio), se si è in sovrappeso od obeso, se si hanno 40 o più anni, se si segue una dieta di tipo occidentale ricca di grassi, se si ha avuto una rapida perdita di peso, se si hanno casi in famiglia o se si soffre di morbo di Chron o di intestino irritabile (IBS). Se si rientra in qual-

cuno di questi casi, consiglio di parlarne col proprio medico di famiglia. Il trattamento dei calcoli è molto personale e se sono arrivati a toglierle la cistifellea probabilmente è perché ha avuto sintomi gravi e frequenti. È possibile condurre una vita normale senza cistifellea, il suo fegato produrrà ancora la bile per digerire il cibo, ma la bile non avrà più un luogo dove accumularsi e gocciolerà continuamente nell’intestino tenue. Dalle limitate evidenze disponibili, modifiche alla propria dieta possono aiutare a prevenire i calcoli biliari. Nello specifico, poiché il colesterolo sembra avere un ruolo nella formazione di calcoli biliari, è consigliabile evitare di mangiare troppi cibi con un alto contenuto di grassi saturi. I principi dell’alimentazione equilibrata, cioè l’assunzione di molta verdura, frutta e cereali integrali sono importanti anche in questo caso così come

mangiare regolarmente noci, arachidi, anacardi e via elencando. L’essere in sovrappeso, in particolare essere obesi, aumenta la quantità di colesterolo nella bile e, per l’appunto, il conseguente rischio di sviluppare calcoli biliari. Se fosse il suo caso sarebbe opportuno rivolgersi a una dietista per ridurre il peso in maniera graduale e seguendo una dieta sana, leggermente ipocalorica e facendo molto esercizio fisico regolare. Si sconsigliano le diete fortemente ipocaloriche perché studi dimostrano che possono alterare la chimica della bile e aumentare il rischio di sviluppare calcoli biliari. Spero di esserle stata utile. Informazioni Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch


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TEMPO LIBERO ●

Prima tappa lombarda Continua il viaggio alla scoperta dei luoghi di produzione dei vari vitigni offerti dal locale panorama ampelografico

Le guardie di Caterina la grande Gli scantinati dell’Hermitage di San Pietroburgo possono essere visitati per onorare la loro eroica colonia di gatti

Crea con noi L’albero di Pasqua fatto con i rami di nocciolo ritorto è una decorazione fiorita che porta la primavera in casa

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Fingere di essere qualcun altro Tra il ludico e il dilettevole

I giochi di ruolo permettono di sperimentare con immaginazione e creatività

Sebastiano Caroni

A tutti voi sarà capitato di recarvi in un luogo per il solo piacere di socializzare, per trascorrere dei momenti preziosi con gli amici attorno a un tavolo, o semplicemente per stare assieme. Trovarsi con gli amici, consumare un pasto, magari guardare un film o passare la serata a discutere, fra ricordi comuni e pettegolezzi dell’ultima ora. Succede spesso anche nelle sitcom e serie TV: in modo particolare in quelle che, in maniera corale, ruotano attorno a un gruppo di amici come Friends, Sex and the City, o The Big Bang Theory. Stando al noto adagio secondo cui «chi si assomiglia si piglia», la scelta dei passatempi con cui trascorrere la serata varierà a seconda delle affinità che saldano il gruppo. Ecco che allora le serate di Chandler, Monica e della loro compagnia saranno in linea con il loro stile di vita di giovani professionisti nella New York di fine anni Novanta; quelle delle amiche di Sex and the City – pure ambientate nella «Grande Mela» –, perennemente in bilico fra aspirazioni pseudo-femministe, edo-

nismo diffuso, e consumismo olistico. Per i giovani ricercatori di The Big Bang Theory, ogni occasione sarà invece propizia per sfoderare le loro passioni di nerd nella California della Silicon Valley. I ragazzi di The Big Bang Theory, forse lo sapete, amano sedersi attorno a un tavolo e passare lunghe ore a giocare a Dungeons and Dragons, uno dei più noti e più longevi giochi di ruolo in circolazione. Secondo un noto sito specializzato in materia, un gioco di ruolo è, molto semplicemente, «un gioco in cui i partecipanti fingono di essere qualcun altro» ambientando delle vicende immaginarie in mondi fantastici. Esistono varie tipologie di giochi di ruolo: cartacei, online, dal vivo e sotto forma di videogiochi per pc. Comune a queste tipologie è la parte di invenzione che viene introdotta dai giocatori, la possibilità di improvvisare concessa da un canovaccio flessibile. La dimensione collettiva e collaborativa dei giochi di ruolo è fondamentale, anche se spesso è assente nei videogiochi per pc, che

vanno generalmente affrontati individualmente. Imprescindibile è la teatralità che il gioco di ruolo prevede, incoraggia, e permette, e che consiste nel mettere in scena dei personaggi, delle situazioni, dei mondi alternativi. Particolarmente visibile nei giochi di ruolo cartacei, e dominante in quelli dal vivo, la teatralità è meno manifesta nei giochi online e per pc, dove viene trasferita alla dimensione più propriamente descrittiva e narrativa che la parola scritta – contrariamente al gesto fisico – comporta. Rimane comunque il fatto che, come detto, tutte le tipologie di giochi di ruolo presuppongono l’uso dell’immaginazione e dell’inventiva: ovvero, la capacità di costruire situazioni nuove a partire da schemi più o meno prestabiliti. Tanto quando l’inventiva passa dalla teatralità del gesto fisico (gioco di ruolo cartaceo e dal vivo), che quando viene suscitata dalle parole e dalle descrizioni scritte (giochi di ruolo online e per pc), stiamo sempre e comunque parlando della capacità di creare delle finzioni. Il legame con la finzione, con l’im-

maginazione e l’invenzione, ci permette altresì di considerare i giochi di ruolo al di là del loro aspetto puramente ludico. Sono infatti diffusi anche in ambiti quali la psicologia, dove vengono impiegati a scopo terapeutico, e godono di una certa popolarità nei seminari aziendali, dove fungono da risorsa per lavorare sullo spirito di gruppo. Grazie ad attività ispirate a questo tipo di giochi gli impiegati, costretti a sperimentare un ruolo che non è quello che rivestono abitualmente, abbandonano la loro zona di confort per esplorare come ci si sente nei panni dei colleghi. Non dimentichiamoci che tanto la parola «gioco» (pensiamo al francese jouer, al tedesco spielen, e all’inglese play) quanto la parola «ruolo» rimandano, ancora prima che ai giochi di ruolo contemporanei, al teatro e alla sua portata metaforica, ben sintetizzata dalla formula shakespeariana secondo cui «tutto il mondo è un teatro». La sociologia, dal canto suo, attinge felicemente al mondo del teatro parlando di «attori» e «ruoli» sociali,

alludendo al carattere convenzionale, ritualizzato e coreografato dell’agire umano. Non è un caso se uno dei classici della sociologia, firmato dal grande sociologo americano Erving Goffman, si intitola La vita quotidiana come rappresentazione. Anche il filosofo francese Jean-Paul Sarte era affascinato dalla dimensione teatrale della vita. Per il giovane esistenzialista, agire a viso aperto voleva dire essere creativi, indeterminati, imprevedibili: ingaggiare la propria identità sul palcoscenico del mondo. Il teatro, la sociologia, la psicologia e la filosofia ci mostrano come, spesso, fra persona e personaggio il passo è breve. Sembra strano, ma a volte l’evasione in un mondo di finzione ci conduce dritti nel cuore della realtà. E, ancora una volta, non possiamo esimerci dal constatare che dietro l’apparente disimpegno e la leggerezza che definiscono, tradizionalmente, i passatempi, si profila un potenziale conoscitivo insospettato. L’abbiamo notato scrivendo di hobby, di ozio, di parchi dei divertimenti e, ora, di giochi di ruolo.


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TEMPO LIBERO

Dal lago di Como al lago d’Iseo Bacco Giramondo

Arriva in Lombardia il percorso tra le regioni d’Italia alla ricerca dei vini locali più interessanti

Davide Comoli

Il poeta Virgilio (Mantova 70 a.C. – Brindisi 19 d.C.) scriveva: «tra fiumi, laghi, olivi, viti e bionde messi d’oro…» con tutta probabilità si riferiva alla terra in cui aveva avuto i natali, e cioè alle colline che fanno da contorno al lago di Garda. Luogo in cui oggi la viticoltura è una fonte importante di reddito. Le colline che si affacciano sulla Pianura Padana godono, infatti, di condizioni favorevoli alla coltura della vite grazie al clima continentale, con estati calde, inverni rigidi e stagioni intermedie spesso piovose. E proprio in corrispondenza degli anfiteatri morenici del lago di Garda e d’Iseo, laddove i rilievi prealpini lambiscono la fertile pianura, ritrovamenti risalenti all’età del bronzo (III millennio a.C.), dimostrano come in questi luoghi la coltivazione della Vitis vinifera silvestris fosse già praticata. I circa 23mila ettari vitati della regione sono disposti soprattutto in collina, ma le diverse zone vitivinicole, richiedono forme di allevamento molto diverse avendo differenti caratteri pedoclimatici. Molto diffusi nell’Oltrepò Pavese i sistemi «Guyot singolo» o «multiplo», nel bresciano e nel bergamasco, la «pergola trentina» e il «Sylvoz», sui rilievi collinari si possono ancora trovare vigneti allevati a spalliera, mentre sulle terrazze della Valtellina, dove regna la vera viticoltura «eroica», è molto diffuso il Guyot. Il 54 % del vigneto lombardo è occupato da vitigni a bacca rossa e trova l’Oltrepò Pavese come maggiore produttore (55 %) dei più di 1’300’000 ettolitri di vino annuali. Le principali zone vitivinicole sono: le colline del lago di Garda e quelle mantovane di origine morenica, la Franciacorta, il Bergamasco, l’Oltrepò Pavese e la Valtellina, da dove inizieremo il nostro itinerario alla scoperta dei luoghi di produzione dei vari vitigni che il panorama ampelografico lombardo ci offre. Uscendo da Como imbocchiamo la S340 dove lungo le rive del lago

Valgella di Teglio. (Arnaldo Zitti)

omonimo si alternano lussuose residenze trasformate in hotel, ville con ombrosi giardini e villaggi con accoglienti porticcioli, quasi alla fine della sponda occidentale ci fermiamo a Domaso, villaggio dai gloriosi passati vitivinicoli e che oggi, grazie a qualche piccolo produttore, sta cercando di tornare agli antichi fasti con la produzione del Domasino Rosso (Sangiovese-Merlot-Rossela) e l’ottimo Domasino Bianco (con l’autoctono Verdesa, Sauvignon e Trebbiano), da bersi accompagnandolo con piatti di pesce di lago con risotto. Dopo esserci lasciati il lago di Como alle spalle, imbocchiamo la veloce superstrada che dopo Morbegno e Talamona, ci porta – oltre l’Adda, il fiume che scorre per tutta la Valle – ad Ardenno sulla sponda destra, da dove sulle soleggiate pendici scoscese ricomincia per più di 40 km l’incredibile terrazzamento costituito da muri di pietra che sostengono il patrimonio vitivinicolo valtellinese, uno spettacolo che un amante del dono di Bacco

non può perdere. 1200 ettari di vigneto posizionati tra i 300/700 m s/lm, dove la pendenza oscilla dal 45 al 65 %: pensate al sudore che da secoli le generazioni di viticoltori hanno versato per creare questo territorio che non ha eguali al mondo. Qui tutte le operazioni vengono eseguite manualmente; è solo con tanta fatica che l’uomo riesce a trasformare i rigonfi grappoli di Chiavennasca in purpureo vino. Siamo di fronte a una vera «viticoltura eroica». Oltre alla Chiavennasca (è il nome locale del Nebbiolo), vengono coltivati la Pignola, vitigno di notevole vigoria, la Rossola e la Brugnola, ma è dalla Chiavennasca quasi in purezza che si ottengono i pregiati D.O.C.G. del Valtellina Superiore. Coltivato nelle sottozone di Maroggia nel comune di Berbenno, il Sassella prende il nome della chiesetta omonima nel comune di Castione (ovest di Sondrio), mentre il Grumello prende il nome dall’omonimo Castello (nord-est di Sondrio); l’Inferno, invece, potrebbe derivare dalle al-

te temperature estive che si possono raggiungere sui terrazzamenti ricavati nelle rocce; infine, troviamo la Valgella, che è la zona più estesa, circa 164 ettari, nei comuni di Chiuro, Teglio e Tresenda (nord-est di Sondrio). Dopo una giornata passata tra vigneti e degustazioni varie, accompagnate dagli immancabili stuzzichini di salumi vari e formaggi come il Bitto e il Casera, la sera ci trova ospiti dall’amico Angelo, dove la sorella Ilde ci prepara i suoi famosi pizzoccheri accompagnati da un morbido Sassella. Davanti al fuoco di un camino, con Angelo ricordiamo i tempi passati, mentre centelliniamo a brevi sorsi un mitico Sfurzat, il re dei vini di questa terra, prodotto con uve appassite: è un vino dai grandi profumi e potenza, dove le note tostate incalzano quelle di frutta rossa, con un finale che desta meraviglia. Al mattino di buon’ora imbocchiamo la S39 del passo dell’Aprica fino a Edolo, dove prendiamo la S42 che ci porta a sfiorare la parte nord de lago

d’Iseo e puntiamo verso la Valcalepio, l’area viticola della provincia di Bergamo, situata sui rilievi delle Prealpi, dove si stanno facendo conoscere eccellenti produttori di bianchi realizzati con uve Chardonnay e Pinot Bianco. Degni di nota sono però i rossi di carattere, prodotti da uve Cabernet e Merlot, come quello gustato a pranzo con risotto e salsiccia a Scanzorosciate, dove siamo venuti a gustare il Moscato di Scanzo D.O.C.G. (la più piccola denominazione italiana). Il Moscato di Scanzo è un vino con una lunga storia alle spalle, apprezzato già dai Visconti e dagli Sforza, signori di Milano, era molto gradito alla corte degli Zar di Russia. Questo vino sta avendo un secondo risorgimento dopo qualche anno passato in letargo. Il dolce nettare che stiamo gustando, profuma di note intense di rosa canina, incenso e spezie, date dall’appassimento, ed è il complemento ideale alla nostra mousse di cioccolato bianco e alla piccola pasticceria secca che ci è stata servita. A Seriate entriamo per un breve tratto sulla A4 per uscire poco dopo a Palazzolo in provincia di Brescia. Risaliamo verso nord seguendo il fiume Oglio in uscita dal lago d’Iseo e arriviamo a Capriolo, uno dei 19 comuni che formano il territorio della Franciacorta. Scendiamo quindi ad Adro e, immerso nei vigneti, arriviamo a Erbusco, dove sosteremo in questa splendida isola vitivinicola estesa su circa 900 ettari di colline di origine morenica. Le fresche brezze dopo aver attraversato il lago d’Iseo provenienti dalla Val Camonica, creano un microclima ideale, impedendo la formazione di nebbie invernali e umidità estive, dove lo Chardonnay 80% della superficie vitata, il Pinot Nero 15% e il Pinot Bianco, vendemmiati precocemente fanno della Franciacorta il «leader» italiano dei vini spumanti metodo classico, una terra caratterizzata da imprenditori seri e motivati che hanno saputo valorizzare questo territorio. Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Leggete la storia di Youssef: caritas.ch/youssef-i

Youssef Ghanem, 43 anni, Libano, sprofonda sempre più nella povertà a causa del crollo dell’economia.


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TEMPO LIBERO

I gatti di San Pietroburgo

Reportage ◆ Una volta all’anno, il 28 marzo, viene organizzata una festa, il Cat Day, per omaggiare i felini di Caterina la Grande, ai quali si deve la salvezza di tesori inestimabili Luigi Baldelli, testo e foto

Le opere d’arte esposte al museo Hermitage di San Pietroburgo fanno sicuramente parte di una delle collezioni più importanti al mondo: Caravaggio, Leonardo da Vinci, Matisse, Picasso, Van Gogh e altri ancora. Ci si perde nei suoi corridoi e nelle sue sale, avvolti e cullati dalla bellezza dei quadri. Museo voluto e realizzato dall’Imperatrice Caterina la Grande nel 1764 accanto al Palazzo d’Inverno, qui solo lei e pochi amici potevano ammirare le tante opere d’arte che comprava in tutta Europa. Numero che crebbe sempre di più, tanto da rendere necessario realizzare altri palazzi per contenere tanta bellezza. Di queste opere, oggi ne sono esposte più di sessantamila, un’enormità sebbene l’Hermitage, o museo statale, ne possiede addirittura più di tre milioni.

Sono un centinaio i gatti che ancora oggi vivono negli scantinati del museo Hermitage per concessione dell’imperatrice Conservare e mantenere in perfetta forma queste collezioni non è stato però facile. Anche perché oltre agli agenti atmosferici e l’incuria, un nemico ancora più subdolo e infido minacciò sin da subito le collezioni d’autore dell’imperatrice Caterina la Grande; stiamo parlando dei topi. Topi che si aggiravano nelle cantine, nelle stanze del palazzo e che arrivavano molto probabilmente dal fiume Neva che scorre lì vicino. Fu così che l’imperatrice decise che l’unico modo per limitare i danni o eliminare completamente i roditori fosse quello di mettere a guardia dei quadri i loro storici nemici: i gatti. Si fece portare i felini da tutte le parti della Russia, soprattutto dalla Siberia, così che fossero liberi di muoversi in tutto il palazzo per proteggere la sua collezione privata.

Per anni, in quei saloni sfarzosi, dove sui muri erano appese stupende opere d’arte ammirate da Zar e Zarine, i gatti, a cui era stato dato lo status di guardie reali, proteggevano un tesoro inestimabile. Da allora, i gatti hanno alloggiato nelle cantine e nei saloni dell’Hermitage. Durante il periodo dell’Unione Sovietica questi felini erano stati quasi dimenticati e il loro numero era sceso drasticamente. Fino al 1995, quando il direttore del Museo, sceso negli scantinati, scoprì una colonia di gatti, malnutriti e trascurati, che ancora abitavano i sotterranei. Così, ricordandosi della loro storia, decise insieme alla sua assistente di non abbandonarli. Certo, oggi non possono più girare nelle sale del museo, ma un gruppo di appassionati si prende cura di loro. Addirittura sono stati messi dei cartelli stradali intorno all’Hermitage che avvisano di fare attenzione all’attraversamento dei felini. Sono circa un centinaio quelli che vivono negli scantinati del museo. Luoghi che un paio di volte all’anno si possono visitare per vedere la colonia dei gatti dell’Hermitage e per apprezzare il lavoro di chi spontaneamente viene ad accudirli. Sui pavimenti dei cunicoli illuminati dalle luci al neon ci sono le ciotole sempre piene di crocchette mentre agli angoli sono presenti gli affila unghie. Appesi alle pareti, fotografie e disegni. I gatti si muovono liberamente, salgono sui tubi dei condotti dell’aria calda o si rannicchiano nei cuscini sopra i tavoli. Docili ma sempre indipendenti, si fanno accarezzare dai visitatori, guardano con curiosità la gente passare e accettano di farsi fotografare. «I gatti sono stati importantissimi per la salvaguardia delle opere del museo» mi istruisce Olga, una pensionata che fa parte dei volontari e che viene qui due volte a settimana per prendersene cura. «Se la Grande Imperatrice non avesse avuto l’illuminazione di usare i gatti contro i topi,

molte opere d’arte oggi non ci sarebbero più, divorate o rovinate dai roditori. E secondo me – continua Olga, mentre prepara il mangiare per i felini – noi Russi dobbiamo essere riconoscenti a questi piccoli e dolci felini». I gatti le si radunano intorno, hanno sentito il profumo del cibo e lei li chiama per nome, li riconosce tutti. Poi, mi racconta che dai tempi di Caterina la Grande a oggi, solo due volte non ci sono stati i gatti all’Hermitage: la prima durante l’assedio della Seconda guerra mondiale, quando erano quasi spariti dall’edificio perché la

gente li aveva mangiati per non soffrire la fame. E la seconda volta, negli anni Sessanta, quando si decise di usare prodotti chimici per eliminare i roditori. Ma fu un totale insuccesso e così si fecero ritornare i gatti. Oggi tutto è cambiato e con circa tre milioni di persone che ogni anno visitano il museo e le nuove tecnologie per la conservazione delle opere, i gatti dell’Hermitage possono vivere tranquilli, godendosi le cure amorose dei volontari e dei veterinari. Ma anche se non devono più svolgere il loro compito di salvaguardia delle opere

d’arte, la popolazione e il museo non li hanno dimenticati. Un monumento raffigurante due gatti di bronzo è stato eretto a loro onore nella via Sadovaya. Mentre sono più di 25 anni che esiste una campagna di raccolta fondi intitolata «Un rublo per un gatto». E per finire una volta all’anno, il 28 di marzo, viene organizzata una festa, il Cat Day, che coinvolge soprattutto i bambini della città. Ognuno di loro porta un disegno o una fotografia che ha come soggetto i gatti. Fuori, nel cortile del complesso museale la banda militare suona musica allegra, mentre grosse e bianche sagome di gatto, realizzate con il legno, vengono posizionate ai bordi e lasciate decorare dai bambini con i colori della fantasia. Poi, accompagnati dai genitori, scendono nelle cantine ad ammirare da vicino i gatti; anche loro li chiamano per nome e li prendono in braccio. È una grande festa in onore dei felini, un omaggio gentile, una riconoscenza per quello che altri gatti, prima di loro, hanno fatto: proteggere un valore inestimabile. Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica


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TEMPO LIBERO

Pasqua fiorita Crea con noi

I rami di nocciolo ritorto diventano una decorazione pasquale che porta la primavera in casa

Giovanna Grimaldi Leoni

Tipico simbolo della tradizione nordica, l’albero di Pasqua pur non essendo conosciuto come quello di Natale sta diventando di uso comune anche alle nostre latitudini come decorazione per le festività pasquali e per portare una ventata di primavera in casa. Ecco allora la proposta per realizzarne uno, decorando dei rami di nocciolo ritorto con dei coloratissimi fiori, ricavati dai cartoni delle

na però dovreste riuscire a ricavare 6 fiori utilizzando i 6 vani in cui appoggiano le uova o 2 fiori allungati utilizzando la 2 parti centrale (vedi foto) Ritagliate i vari involucri, quindi con le forbici date forma ai petali. Cercate di fare fiori con petali diversi, alcuni più allungati e altri meno, per creare un vero e variopinto giardino fiorito. Una volta data forma ai fiori scegliete i colori che preferite e dipingeteli. Alcune confezioni hanno dei colori già molto belli, potete lasciarle «al naturale». Ora si tratta di assemblare i vari fiori, sovrapponetene uno o più di quelli ricavati, tono su tono o variando i colori. L’idea è di creare tanti fiori diversi, lasciatevi guidare dalla fantasia e una volta unite le varie parti aggiungete a piacere bottoni, piccoli pon pon, perle in legno o in polistirolo. Una variante ai bottoni da utilizzare anche in associazione a quest’ultimi è ricavare dal coperchio del cartone delle uova anche dei piccoli tondi che una volta dipinti possono essere collocati al centro dei fiori per creare dei vivaci contrasti. Ora non vi resta che incollare con la colla a caldo i vostri fiori su alcuni rami di nocciolo ritorto. Se alcuni fiori risultano troppo pesanti potete aggiungere sul retro un

uova che così largamente vengono utilizzate nei menù di questa festa. Un bricolage al quale può partecipare tutta la famiglia in alternanza alla tradizionale decorazione delle uova. Procedimento Dalle confezioni delle uova cominciate con il ricavare i vostri fiori. Le varie confezioni spesso hanno caratteristiche/forme diverse, in ognu-

Giochi e passatempi Cruciverba

Forse non tutti sanno che la lumaca ha… Troverai il resto della frase a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 7, 4, 3, 3, 9, 3, 3, 7)

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Materiale

• Confezioni di cartone delle uova • Forbici (meglio se piccole) • Tempere o colori acrilici (colori a scelta) • Pennelli piatti • Per decorare: Zip Bag di pon pon, bottoni, palline piccole in polistirolo • (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

tondino di cartone in modo che il ramo risulti tra il fiore e il tondino e resti ben fermo. Se desiderate potete aggiungere qualche ramo fiorito. Buon divertimento! Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

ORIZZONTALI 1. Caratteristica positiva 7. Prescelto da Dio 8. Le iniziali del regista Rossellini 9. Si legge «uan» 10. Più spagnolo 11. In mezzo alla stazione 12. Epiteto di Mussolini 13. Si raccolgono nel frutteto 14. Restituite 18. Un genere letterario 20. Rivela ostacoli invisibili 21. La magia delle streghe 22. Le gobbe del deserto 23. Le quindici sul quadrante 24. Un sacchetto di tessuto 26. Colpiscono il naso 27. Custodite dalle vestali VERTICALI 1. Risultato della divisione 2. Capeggiati da Attila 3. Fu scacciata dall’Olimpo 4. Così finisce lo scapolo 5. La traccia... dell’inglese 6. Bruciate 10. Talvolta è maestro 12. Prefisso che vuol dire dieci 13. Porto di Atene 14. Erano girini 15. Pianta sempre verde 16. Iniziali dell’attore Accorsi 17. Serpe... in seno 19. Si scrive fra due fattori 20. Semplici, grezzi 22. Il «lo» tedesco 24. Un indimenticabile Dario attore 25. La città del Vasari (sigla)

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente TRA AMICI – «Se io sarei sindaco sistemerei tutte le buche delle strade!» – «Fossi!» Risposta risultante: «CERTO, VA BENE, ANCHE I FOSSI» C A O S B A F F I

I T A C A N E I N

L E I A S C A L E V R I T I S E S C A O S E T

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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TEMPO LIBERO / RUBRICHE

Viaggiatori d’Occidente

di Claudio Visentin

Turista, rifugiato o profugo?

Quando è scoppiata improvvisa la guerra in Ucraina, l’industria turistica ha avvertito con forza la tentazione di voltarsi dall’altra parte. È comprensibile; gli operatori stanno rialzando la testa solo ora, dopo anni davvero difficili. Inoltre per il turismo, una guerra è meno grave di una pandemia. Certo un conflitto su larga scala semina inquietudini e incertezze ma, a differenza del virus ubiquo, non intacca il punto di forza del settore, ovvero la sua varietà geografica: per un Paese in guerra ce ne sono decine dove mandare i turisti in tutta tranquillità. Alla fine il turismo ha risposto con generosità alla sfida della guerra. L’episodio più noto riguarda Airbnb: attraverso una campagna non ufficiale sui social, migliaia di utenti hanno prenotato stanze su Airbnb in Ucraina (sessantamila solo tra il 2 e il 3 marzo) per far giungere denaro agli abitanti. Airbnb ha rinun-

ciato alla sua percentuale su queste transazioni, gli host hanno promesso di onorare l’impegno in futuro, se appena sarà possibile. Ancora Airbnb sta fornendo alloggi a breve termine per centomila rifugiati in Polonia, Ungheria, Romania e cerca sempre nuovi spazi di accoglienza. Non è la sola. Compagnie di trasporto aereo o su gomma (Wizz Air, Flixbus, Eurostar) hanno offerto migliaia di posti gratuiti. Altri operatori hanno mandato i loro minibus ai valichi di frontiera tra Ucraina e Polonia. Oltre duecento compagnie in venti Paesi hanno aderito a Hospitality for Ukraine, offrendo alloggio gratuito; è la stessa missione di organizzazioni come Hospitality Helps ed Every Bed Helps, attive anche nel nostro Paese. Altre aziende destinano agli ucraini una percentuale delle entrate (per esempio il 5%) o raccolgono prodotti di prima necessità. La maggior par-

Passeggiate svizzere

te naturalmente ha sospeso le attività in Russia. Potremmo chiederci se è etico andare in vacanza mentre intere città sono sotto le bombe. La risposta logica sembrerebbe essere no, ma la forza della nostra economia − la stessa che ci permette di imporre sanzioni così efficaci – dipende anche dal turismo… Ovviamente in queste settimane i viaggiatori girano al largo dai Paesi vicini alla scena di guerra, anche se non sono in realtà pericolosi né formalmente proibiti. Kaunas in Lituania, una delle capitali europee della cultura 2022, ha sospeso il previsto Festival della felicità, davvero poco in sintonia coi tempi, sostituendolo con eventi legati al conflitto, ma non ha sospeso tutte le attività. E l’ufficio del turismo polacco invita a non cancellare i viaggi nel loro Paese. Un funzionario ha dichiarato: «Andando in vacanza in Polonia aiutate il Paese che aiuta l’Ucraina». Naturalmente

in alternativa è sempre possibile fare volontariato. La Polonia orientale è in prima linea. In città come Lublino, a meno di cento chilometri dal confine con l’Ucraina, l’atmosfera sonnolenta da bassa stagione è stata sconvolta dall’arrivo di decine di migliaia di profughi. Alcuni alberghi hanno alzato i prezzi di tre o quattro volte ma altri, come la catena Arche Hotels, con maggiore sensibilità si sono trasformati in centri di prima accoglienza. I dipendenti si sono ingegnati anche come traduttori o babysitter a tempo pieno. Passata la prima emergenza, si progettano visite guidate della città per i nuovi arrivati e percorsi culturali per i bambini nei musei e nelle gallerie; servono anche distrazioni. Con un vicino come Putin domani potrebbe toccare a noi, hanno pensato i polacchi; ed è un’ottima riflessione. Lo scorso novembre la Bielorussia di Lukashenko, oggi schierata al fian-

co di Putin, concesse il visto turistico a decine di migliaia di migranti, per lo più iracheni e siriani, per mettere pressione sull’Unione europea. Infatti Bruxelles aveva appena imposto alla Bielorussia delle sanzioni in seguito alle contestate elezioni presidenziali del 2020, alla successiva persecuzione degli avversari politici e al dirottamento forzato di un volo Ryanair che trasportava un giornalista dell’opposizione. In quel caso ai polacchi − gli stessi che oggi accolgono a braccia aperte gli ucraini − toccò la parte dei cattivi: mobilitarono diecimila soldati lungo il confine e respinsero i nuovi arrivati con cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e filo spinato. Non c’è da stupirsi. Nel mondo di oggi i ruoli sono in continua trasformazione: da un giorno all’altro puoi essere un turista, un rifugiato o un profugo. E poi ancora l’una o l’altra condizione, accomunate solo dalla mobilità e dalla precarietà.

di Oliver Scharpf

Le vetrate di Brian Clarke a Romont ◆

Mai stato in tutta la mia vita a Romont – sempre solo fermato con il treno un milione di volte, pensando subito, ogni volta, al sadico di Romont, il peggior serial killer svizzero – e adesso mi ritrovo, nel giro di poco tempo, per la terza volta a Romont. Una badessa con dottorato in fisica nucleare e un artista inglese con passato da punk modaiolo sono i protagonisti principali dell’ultima puntata della mia serie di pezzi sulle migliori vetrate moderne da questi parti. A due chilometri neanche dalla stazione, nell’aria frizzante di fine marzo tra la sesta e la nona, vale a dire, secondo la liturgia delle ore, tra mezzogiorno e le due e un quarto, seguo il corso – appena riemerso da sotto la trafficata route de Fribourg – del Glaney. Poco prima del punto in cui questo torrentucolo sonnolento si getta nella Glâne che scorre indolente tra i campi aridi,

dal 1268 sorge l’abbazia Fille-Dieu. Abbazia cistercense la cui badessa dell’epoca, Hortense Berthet (19232004), soprannominata, un po’ per i suoi studi un po’ per la sua personalità colma di amore e humour, «Mère atomique», in occasione del restauro della chiesa dove arrivo ora davanti, sulla scelta di Brian Clarke, definito dal «The Guardian» la «rockstar della vetrata», ha avuto l’ultima parola. Oltre a darne, senza tante storie, il tema: la speranza. All’una meno cinque spingo la porta dell’abbaziale e un bagliore diffuso che sgorga dall’alto, avvolgendo di gioia la semplicità delle vecchie mura beige con frammenti affrescati color sinopia, strega ai primi passi. Le quindici vetrate di Brian Clarke posate nell’agosto 1996 qui a la Fille-Dieu (690 m) di Romont, proiettano un’ombra colorata capace di tagliare tutto il mondo fuori, complice

Sport in Azione

il silenzio assoluto dell’edificio restaurato da Tomas Mikulas con soffitto in legno che attutisce e ovatta. A stento penetrano i cinguettii primaverili, mentre seduto su un banco di quercia, m’immergo nella trama a quadratini blu della terza vetrata sud che inonda lo spazio di luce aranciata ottenuta dalla griglia, graduata a tratti, grazie a un decrescendo verso il celeste. In mezzo galleggia una figura amorfa verde sfumato. Effetto sopraffino, superiore, di un vetro boemo antico, soffiato, proveniente dalla Glashütte Lamberts di Waldsassen, vicino al confine con la Cechia. Al quale, oltre l’immaginazione dell’artista classe 1953 nato a Oldham, sobborgo nord-est di Manchester, è aggiunta la sapienza della prestigiosa vetreria Franz Mayer di Monaco risalente al 1847. Mi alzo e giro, sperimentando nuove angolature e studiando l’effetto

vetrata deambulando. Il rigore calmo delle trame a quadratini e la corrispettiva griglia, richiama l’ordine sobrio delle antiche vetrate cistercensi: non figurative, quasi incolori, con motivi geometrici. Le figure astratte delle vetrate, eteree, ottenute con incisione all’acido su vetro e colori ceramici, ricordano foglie morte nelle fontane. Nelle cinque vetrate a nord, le più piccole e timide, da cui entra meno luce perché danno su un chiostro e sono tutte a quadratini blu e azzurri, le forme amorfe in rosso e giallo o verde asparagi, sembrano petali volanti di fiori estrosi tipo gigli o iris. Voli di uccelli all’imbrunire, pappagalli indistinti, foglie d’edera in controluce tra i ruderi. Mi risiedo, su un banco più avanti. Credo abbia ragione Madre Hortense: «non saprei dire altro se non che le trovo belle e le amo». Di certo il tema speranza è centrato in pieno e le

monache (famose per la loro senape in vendita qui nel negozietto accanto) che si riuniscono qui sette volte al giorno per cantare le preghiere, non possono lamentarsi. Una in particolare, quella laggiù in fondo al coro, è la mia favorita. Un po’ per il trilobo e i due quadrilobi del traforo, l’unico di tutte e quindici, ma soprattutto per quella trama a quadratini blu elettrico che interseca quella azzurro nontiscordardimé, sfondo ideale per esigue figure rosse-arancio-giallino evanescente, che salgono in volo, a spirale, come petali o foglie o ali o niente di tutto questo, verso il cielo. Per non parlare della luce mistica blu, provocata anche dalle due finestre invisibili a sud, che aleggia lì sospesa, in quest’angolo irraggiungibile se non con lo sguardo. O colpisce, quasi con effetto Tyndall, con riflessi incantevoli, attorno l’altare in pietra di Tavel, il pavimento.

di Giancarlo Dionisio

I destini incrociati di Ambrì Piotta e Juventus ◆

Sono le 09.02 di giovedì 17 marzo. Mi metto al computer. Nella mia testa lievitano un paio di certezze. Ma frullano soprattutto dubbi e perplessità. Per l’ennesima volta mi dico che lo sport sottostà a una logica scientifica, fatta di dati, cifre, elementi quantificabili. Ma nel retrobottega del cervello campeggia il solito insondabile concetto. Mistero. Di certo so che ieri sera la Juventus ha lasciato la Champions League, sconfitta a Torino per 3 a 0 dal Villareal. Sono pure certo del fatto che domani sera a Losanna, dopo aver conquistato i pre-play off, l’Ambrì Piotta darà l’assalto anche ai play off. Quando leggerete questo articolo la fase a eliminazione diretta del campionato di hockey su ghiaccio sarà già a uno stadio avanzato. Con o senza Lugano e Ambrì Piotta? Chi lo sa. Perdonatemi. Non ho capacità divinatorie. E perdonate pure il fatto

che mi concentri sui biancoblù e non sui bianconeri, il cui accesso, quanto meno ai pre-play off, mi è sempre parso più che scontato. E ora cominciano le rogne. I dubbi che rodono. Quelli che sorgono dopo una semplicissima domanda. Perché? Perché dopo una serie infinita di successi la Juventus di Massimiliano Allegri crolla in 12 minuti nella partita più importante della stagione, dopo aver dato la sensazione, nel primo tempo, di potersi sbranare gli spagnoli come se fossero una forchettata di plin? Perché l’Ambrì Piotta, spacciato da tutti fuorché dalla matematica, risorge dalle proprie ceneri, sconfigge quasi tutte le grandi del campionato e risale da un baratro che sembrava incolmabile? Mi rifiuto di credere che l’arrivo della saracinesca Juvonen a difesa della gabbia sia l’unica risposta. Il portie-

rone finlandese ha senza dubbio offerto il suo indispensabile contributo, ma le ragioni sono altre. Si nascondono nella testa di ognuno degli interpreti. Si annidano nelle alchimie di gruppo. Nella capacità da parte di allenatore, presidente, direttore sportivo, mental coach, o capitano, di pronunciare la parola giusta al momento giusto. Qualcuno di questi deve essere in grado di cortocircuitare il pensiero negativo. Di resettare il sistema. Di implementare in un amen una nuova filosofia. Sono sfumature che possono modificare, se non il corso della storia, per lo meno quello di una sfida sportiva. Ieri sera allo Juventus Stadium, dopo il primo calcio di rigore trasformato dagli spagnoli i volti raccontavano storie. Di paura e di smarrimento su quello dei bianconeri. Di furore sacro su quello dei ragazzi diretti dal basco

Unai Emery. Non è un caso che in pochi minuti si sia consumato il tracollo della Juventus. Torniamo entro i nostri confini per tentare di spiegare il miracolo compiuto dai leventinesi. Dopo un avvio di campionato molto incoraggiante (stranieri compresi), dovuto verosimilmente all’euforia di giocare nella nuova casa, la squadra di Luca Cereda è sprofondata in un abisso che ha provocato rabbia e imbarazzo. La rabbia di coloro che volevano un avvicendamento sulla panchina. L’imbarazzo di chi non riusciva a capire come si potesse chiudere il secondo periodo in vantaggio, a volte anche ampio, vedi il 4 a 0 contro lo Zugo, per poi cascare come fichi maturi negli ultimi 20 minuti. Sono certo che neppure il più folle degli ottimisti, anche sotto gli effetti di sostanze psichedeliche, avrebbe predetto la rimonta dell’Am-

brì Piotta sul Berna. Eppure c’è stata. Pagherei profumatamente chi fosse in grado di darmi una risposta convincente. Anche perché non credo ci sia. Ci sono momenti e gesti in cui ognuno pensa di intravedere l’anima di un gruppo. Dominic Zwerger che pattina sotto la curva brandendo e baciando la maglia all’altezza del cuore, mi convince di più di un trattato di psicologia di gruppo. Ad ogni modo sono felice che simili episodi accadano. Godo quando una piccola batte una grande. Quando l’elemento sorpresa sta dalla parte di chi ha meno risorse finanziarie. Sarò forse masochista, ma dopo un primo momento di sbigottimento, mi capita anche quando a farne le spese è una squadra per la quale simpatizzo. Il piacere di constatare che nello sport a volte i soldi non sono tutto, compensa ampiamente le delusioni del tifoso che c’è in me.


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ATTUALITÀ ●

La guerra vista dallo spazio Quali sono le conseguenze della crisi ucraina su lanci di satelliti e attività di ricerca nel cosmo

Il ritorno all’atomo Si pensa al nucleare per rispondere all’inasprimento della crisi energetica provocata dal conflitto

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Chi conquisterà l’Eliseo? Stando ai sondaggi, e come nel 2017, la principale avversaria di Macron è Le Pen

Lotta all’inflazione Gli Usa danno inizio al rialzo dei tassi direttori. Cosa faranno le altre banche centrali?

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Gli esercizi di equilibrismo del Dragone L’analisi ◆ Pechino cerca di tenersi aperti gli accessi all’economia globale ma non vuole tradire Mosca. Intanto persegue un ordine mondiale alternativo Federico Rampini

La missione di Joe Biden in Europa è avvenuta in un contesto tragico e al tempo stesso rassicurante. La carneficina di Vladimir Putin in Ucraina prosegue; un suo effetto collaterale però è quello di rinsaldare l’Occidente. La Nato si rafforza sul versante est con l’invio di truppe nei paesi più vicini alla Russia. Le sanzioni economiche diventano sempre più stringenti. Si cerca anche un approccio comune per convincere la Cina a non aiutare – o almeno, non troppo – la folle avventura di Putin. Basterà? C’è stata una correzione di rotta nella strategia americana verso i due grandi rivali, Russia e Cina. Ancora pochi mesi fa una corrente di realisti della geopolitica consigliava a Biden di ricucire con Putin per sottrarlo all’abbraccio cinese. La recente telefonata fra il presidente americano e Xi Jinping segnala l’approccio opposto: si cerca un’intesa con la Cina per isolare Mosca. La Casa Bianca non si fa troppe illusioni sull’aiuto di Pechino. Però spera di spostare Xi su posizioni di neutralità vera, non fasulla.

La Casa Bianca non si fa troppe illusioni sull’aiuto di Pechino. Però spera di spostare Xi Jinping su posizioni di neutralità vera, non fasulla L’argomento americano è forte perché fa leva sull’equivalente finanziario dell’arma nucleare: la soverchiante egemonia del dollaro. Il messaggio di Biden è chiaro. La Cina è una grossa azionista dell’economia globale, ha immensi interessi in Occidente, dove trova i suoi principali sbocchi commerciali. La Pax americana le ha consentito un trentennio di crescita spettacolare. Ora l’economia cinese subisce uno shock energetico, un rallentamento della crescita e una diffidenza sempre più forte presso gli occidentali. Non ha interesse ad appiattirsi sulle dissennate azioni di Putin. Le aziende cinesi subirebbero danni enormi, se i loro affari con la Russia le mettessero nel mirino delle sanzioni occidentali, escludendole dal circuito universale del dollaro. Xi è consapevole dei rischi che corre. Compie un esercizio di equilibrismo. Cerca di non chiudersi gli acces-

si all’economia globale. Ma non vuole tradire Putin a cui lo lega un rapporto stretto, cementato dalla comune analisi sulla debolezza dell’Occidente. Più crescono le difficoltà dell’armata russa in Ucraina, più i media di Stato cinesi smorzano i loro appoggi a Putin: forse è un segnale che Xi si sta cautelando. Però la sua sintonia con Putin resta forte ed è confermata dall’antico proverbio cinese che Xi ha proclamato a Biden: «Spetta a colui che ha messo il sonaglio al collo della tigre, il compito di toglierlo». È una linea ripetuta più volte, Xi abbraccia la teoria putiniana dell’accerchiamento e quindi dice: siete voi occidentali ad avere allargato la Nato in modo da attentare alla sicurezza russa, ora ne pagate le conseguenze, dovete risolvere voi una crisi che avete creato. Nel frattempo la Cina persegue un ordine mondiale alternativo. A cominciare dall’architettura finanziaria. È significativo il negoziato con l’Arabia saudita, per convincere Riad ad accettare renminbi cinesi invece dei dollari come pagamento per le forniture di petrolio. Il cammino verso una globalizzazione sino-centrica sarà lungo. La supremazia del dollaro non è soltanto un retaggio del secolo americano, un effetto collaterale della leadership militare ed economica dell’impero calante. Dietro l’accettazione del dollaro c’è l’affidabilità di uno Stato di diritto, la certezza delle regole, l’imparzialità dei tribunali. I valori dell’Occidente, in questo caso, hanno una funzione rassicurante per tutti gli operatori economici. Xi non vuol dare per sconfitto il suo compare e alleato. Sulle forniture di armi cinesi all’armata russa? Dice che sono di routine, non specifiche richieste per massacrare il popolo ucraino. Sull’effetto delle sanzioni occidentali, Pechino ricorda che il regime degli ayatollah in Iran è sopravvissuto ai tentativi di strangolamento economico. L’indebolimento oggettivo di Mosca si trasforma in opportunità. La Cina ha già firmato contratti per 118 miliardi di dollari di gas, ha fatto incetta di cereali russi, e gli investitori di Shanghai si avventano su aziende russe in liquidazione. L’esodo in massa delle multinazionali occidentali da Mosca e San Pietroburgo viene considerato un’opportunità per le loro concorrenti cinesi. È in atto

Xi Jinping è consapevole dei rischi che corre. (Keystone)

una colonizzazione che non dispiace a Xi, è la rivincita sul periodo in cui l’Urss dominava e «modernizzava» i compagni maoisti. In questi giorni respiro un certo trionfalismo americano sull’efficacia delle sanzioni economiche per mettere in ginocchio Putin e costringerlo a concessioni sostanziali, accorciando la carneficina in corso in Ucraina. Ad attenuare il coro ottimista interviene un documentato articolo del «Wall Street Journal» che ricostruisce il modo in cui sopravvive un altro Stato-canaglia, Stato-paria, Stato-reietto sottoposto a sanzioni pesanti e prolungate: l’Iran. Avendo io stesso viaggiato a lungo in Iran qualche anno fa, quando già il regime delle sanzioni americane era in vigore da tempo, ricordo i disagi innumerevoli nella vita quotidiana della popolazione. Tanti prodotti stranieri erano introvabili a Teheran e nelle città di provincia. Il cambio di valuta straniera avveniva soprattutto al mercato nero, in un contesto di forte svalutazione e inflazione. Le comunicazioni con l’estero erano ostacolate, a tal punto che

per un turista europeo fare un bonifico per pagare un hotel o un’agenzia viaggi era quasi impossibile. Eppure il regime reggeva, e regge. Inefficiente e corrotto ma politicamente solido. La massa degli iraniani soffrivano (soffrono tuttora) per le sanzioni, ma almeno i più poveri venivano assistiti da qualche forma di assistenzialismo islamico, gestito dalla macchina di potere dei pasdaran. A loro volta arricchiti con vari traffici legati al mercato nero.

L’Iran ha stabilito un sistema finanziario clandestino per gestire decine i miliardi di dollari di commercio estero proibito dalle sanzioni occidentali A monte di questa economia, malata ma non al punto da minacciare la stabilità del regime, c’era la ragnatela di transazioni segrete messa in piedi all’estero. «L’Iran – come ricostruisce nei dettagli il Wall Street Journal – ha stabilito un sistema bancario e finan-

ziario clandestino, per gestire decine i miliardi di dollari di commercio estero, proibito dalle sanzioni occidentali. Questo sistema ha consentito a Teheran di sopportare l’assedio economico e di conservare un potere negoziale anche sul dossier nucleare. Il sistema include conti presso banche straniere, compagnie-ombra con sedi sociali e nazionalità estere, società che coordinano il commercio vietato, coordinate da una clearinghouse (camera di compensazione) all’interno dell’Iran. Così il paese ha resistito alle pressioni di diverse amministrazioni americane». Senza entrare in tutti i dettagli, si tratta di una finanza parallela, un sistema bancario clandestino ma appoggiato presso piazze internazionali, non troppo dissimile in fondo dal modus operandi della grande criminalità organizzata. Dopotutto anche i narcos, come l’Iran da anni e oggi la Russia, sono fuorilegge. Anche i narcos, o la camorra, o la mafia russa, hanno imparato come si possono gestire attività economiche colossali pur avendo le polizie di tutto il mondo alle calcagna.


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ATTUALITÀ

Gelo spaziale tra Europa e Russia Prospettive

L’attacco di Mosca all’Ucraina ha conseguenze pesanti anche sul lancio di satelliti e nel campo della ricerca

Loris Fedele

Sono moltissime le implicazioni delle sanzioni europee alla sconsiderata azione della Russia contro l’Ucraina, che hanno scatenato ritorsioni e contro-ritorsioni messe in atto o minacciate da entrambe le parti. Si stanno mettendo a rischio pratiche consolidate e programmi internazionali di cui beneficiano tantissime persone e che muovono ingenti capitali. Nel campo della ricerca e dei lanci spaziali, per esempio, la collaborazione diretta tra Europa e Russia stava fiorendo da oltre un decennio, ora è vittima di forti tensioni. Non c’è solo l’Europa. Anche gli Stati Uniti sanzionano la Russia e non dimentichiamo l’importantissima presenza operativa della Stazione spaziale internazionale (Iss) gestita in primis proprio da Usa e Russia, con il coinvolgimento di Europa, Canada e Giappone. Lo Spazio come lo intendiamo adesso non sarà più lo stesso. Dall’ottobre 2011, nello spazioporto europeo di Kourou, nella Guyana francese, era diventata operativa una base di lancio per i razzi russi Soyuz, che partivano a un ritmo di 2 a 4 lanci l’anno. L’Agenzia spaziale europea (Esa) non ha mai lanciato persone nello spazio ma, tramite l’associata azienda Arianespace, ha sviluppato il suo razzo Ariane per entrare nel mercato dei satelliti, nel quale è diventata leader mondiale. Ariane dal 1979 si è migliorato negli anni, diventando sempre più grande e potente. Nella sua versione attuale, Ariane 5, lancia fino a 20 tonnellate in orbita bassa e 11 tonnellate in orbita geostazionaria (a 36 mila km da terra). Dal 2012 si è aggiunto alla flotta un lanciatore più piccolo e agile, che si chiama Vega, impiegato per missioni con piccoli satelliti, fino a 1,5 tonnellate in orbita bassa. Ancor prima di adottare anche questo modello si era sentita la mancanza di un lanciatore di potenza intermedia ed era sembrata una buona idea quella di coinvolgere i russi, che disponevano del razzo Soyuz ereditato dalla disciolta Unione Sovietica, e

che utilizzavano partendo da Baikonur nel Kazakistan per tutte le loro missioni. Un razzo del genere, partendo da Kourou, avrebbe portato fino a 3 tonnellate in orbita geostazionaria e parecchio di più in orbita bassa. Quindi era proprio la misura intermedia di lanciatore che faceva al caso dell’Europa spaziale. Si firmò nel 2004 un accordo con l’Agenzia spaziale russa (Roscosmos) e quindi l’Esa destinò un’area all’interno della base di Kourou per l’edificazione da parte russa di una rampa di lancio per il razzo Soyuz. Sia gli europei sia i russi potevano approfittarne: la gestione dei lanci sarebbe rimasta in mano ai russi, anche se concordata con Arianespace. Inoltre gli europei avrebbero potuto lanciare alcune loro missioni su vettori Soyuz da Baikonur. Nel 2011 il primo lancio Soyuz da Kourou portò in orbita i primi due satelliti della serie Galileo, la versione europea del Gps americano. Da allora una trentina di lanci hanno portato in orbita satelliti soprattutto di osservazione terrestre e per la navigazione. Purtroppo l’offensiva militare del 24 febbraio scorso, con l’invasione russa dell’Ucraina, ha preso la connotazione di una guerra in Europa e una minaccia diretta. Il Consiglio dell’Agenzia spaziale europea, riunitosi a Parigi il 17 e 18 marzo 2022, in qualità di organizzazione intergovernativa finanziata dai Paesi membri (22 Stati tra i quali la Svizzera), non ha potuto fare altro che deplorare le tragiche conseguenze dell’azione russa. Inoltre, pur riconoscendo l’impatto sulla esplorazione scientifica dello Spazio, si è allineata con le sanzioni imposte alla Russia dai suoi Stati membri, richiamando il rispetto dei valori dell’Europa. La missione ExoMars 2022, avviata da anni dall’Esa insieme con la Russia e che prevedeva il lancio di un robot su Marte il prossimo autunno, è stata sospesa. Si è riconosciuta l’attuale impossibilità di portare avanti la collaborazione con l’Agenzia russa Roscosmos.

Decollo di Soyuz con la navicella che trasporta la 67esima spedizione alla Stazione spaziale internazionale, Baikonur, 18 marzo 2022. (AFP)

Al direttore generale dell’Esa è stato dato «il mandato di intraprendere rapidamente uno studio industriale per trovare le migliori opzioni disponibili per condurre a termine la missione ExoMars». La collaborazione con Roscosmos stava già scricchiolando fin dall’inizio del mese quando i russi avevano deciso di togliere il proprio personale (una novantina di tecnici) dalla base di lancio della Soyuz nello spazioporto europeo. Senza i tecnici russi ogni lancio al momento è bloccato. Un lancio per due nuovi satelliti della serie di geolocalizzazione Galileo era in programma il 5 aprile. A questo punto si impone una drastica decisione dell’Esa da sottomettere agli Stati membri, che stabilisca delle potenziali alternative per questi lanci, eventualmente coinvolgendo nel programma il nuovo razzo Ariane 6 che sta per essere collaudato. Dal canto suo Roscosmos, il 4 marzo scorso, per rappresaglia contro l’Inghilterra allineata alle sanzioni, ha bloccato il lancio di 36 satelliti

della britannica OneWeb, già montati su un razzo russo a Baikonur, missione già pagata. Si tratta di satelliti di telecomunicazione destinati a portare l’accesso mondiale a internet. Arianespace sta cercando di sbrogliare la matassa ma, per non illudere la controparte, ha annunciato che si attiene rigorosamente alle sanzioni decise da Ue, Usa e Regno Unito. In ottica di ricerca spaziale vi è infine la questione Stazione spaziale internazionale sulla quale dall’inizio del secolo convivono americani e russi per ricerche individuali e collettive. Né il segmento americano né quello russo possono essere gestiti in autonomia. La parte adibita a tutte le manovre di controllo dell’assetto e di posizionamento per l’intera stazione sono governate dai russi, mentre le sezioni americane assicurano la produzione di energia e il sistema di supporto vitale. È impensabile dividere la Stazione che, in ogni modo, si pensava già di tenere in vita non oltre il 2028. I russi, gli americani e, in minor

misura, gli europei saranno costretti a vivere nei rispettivi moduli da separati in casa. Apparentemente per ora c’è ostentata armonia. Il 18 marzo sono arrivati sulla Iss tre nuovi inquilini russi, vestiti con una tuta gialla e blu che ha suscitato parecchi commenti. Sono stati accolti dall’abbraccio di due connazionali, quattro americani e un tedesco. Ma il futuro è incerto. È appena stata annunciata una variazione della rotazione degli astronauti a bordo della Iss. Samantha Cristoforetti, che dovrebbe salire ad aprile con la Crew-4 di Space X nella missione Expedition 68, non incontrerà quelli della missione precedente, che scenderanno prima. Inoltre la sua permanenza nello spazio è stata accorciata. In più non sarà comandante della Iss come era previsto. Ricoprirà invece il ruolo di responsabile dell’Usos, cioè di tutti i segmenti che non sono russi. È una guerra psicologica o dobbiamo aspettarci intoppi scientifici importanti? In ogni caso non è un bel segnale.

Dal viaggio su Marte al business stellare L’esperta

Anche in Europa vi è una forte spinta verso la commercializzazione del settore spaziale. Largo alla new space economy

Romina Borla

La crisi ucraina ha portato tra le altre cose alla sospensione della missione ExoMars, progettata da europei e russi per scoprire eventuali tracce biologiche su Marte (il lancio del rover era previsto per settembre 2022). Le sanzioni contro Mosca colpiscono infatti anche le collaborazioni scientifiche, ha sottolineato l’Agenzia spaziale europea (Esa), la quale prevede di poter portare a compimento il progetto non prima del 2026 (ricordiamo che l’Esa ha 22 Stati membri tra cui la Svizzera). «Ora si tratta di lavorare con l’industria per studiare in dettaglio quali componenti dei veicoli russi potranno essere sostituiti da parte dell’industria europea, oppure di quella statunitense», ha dichiarato il direttore generale dell’Agenzia spaziale, Josef Aschbacher. Ma perché si progettano viaggi su Marte? «Rispondo con Dante Alighieri e l’espressione di Ulisse: Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». A parlare è Elisabetta Lamboglia – esperta

dell’Esa in ingegneria spaziale e ingegneria dei costi, relazioni internazionali, valutazione programmatica e tecnologica – che continua: «Scienziati e ingegneri hanno trovato e continuano a trovare in Marte una destinazione affascinante. A parte sogni futuristici sui nostri vicini marziani, molto ben rappresentati da scrittori e cinematografia, il pianeta Marte è effettivamente il più accessibile in termini di distanza, in combinazione con le sue condizioni ambientali, le più simili alle nostre fra tutti i pianeti del Sistema solare». Ma il sogno di conquistare il Pianeta rosso è solo uno dei tanti progetti dell’Esa, le cui attività si stanno adattando a un nuovo modo di intendere lo spazio. Ci riferiamo ai progetti new space, derivati in un certo senso da un allargamento degli orizzonti. «Con new space si intende in primo luogo un coinvolgimento molto maggiore, rispetto a missioni standard, di piccole e medie imprese nei contratti assegnati all’industria spaziale, includendo ca-

si di primes non appartenenti ai grandi consorzi spaziali europei. Questo cambiamento di tipo industriale riguarda anche l’assegnazione di attività non solo nella fase di progetto, ma anche di operazioni e segmenti di terra (ad esempio la gestione delle stazioni terrestri di monitoraggio dei satelliti). Una vera e propria no-

Chissà quando un rover potrà atterrare sul Pianeta rosso. (Shutterstock)

vità. Il risultato? Una commercializzazione di tutto il business del settore spaziale, con la conseguente creazione di posti di lavoro». Inoltre – spiega l’esperta – il settaggio new space può implicare sviluppi di implementazione più compressi, un’accelerazione nei tempi di sviluppo, qualifiche e processi meno ridondanti e impiego di componenti commerciali. Insomma, invece di «sfinirsi» con una catena di controlli di qualità, talvolta ripetitivi, si assumono dei rischi, magari utilizzando dei prodotti già presenti sul mercato, che costano di meno. «L’agenda Esa 2025 enfatizza insomma l’esigenza di rinforzare la commercializzazione delle attività spaziali. Un esempio in tal senso è il nuovo accordo per l’assistenza dell’Esa all’Italia in merito alla costellazione di Osservazione della Terra, che favorirà l’adozione da parte del mercato dei servizi geospaziali a livello nazionale, stimolando la creazione di un mercato e lo sviluppo di piccole start-up distribuite sul territorio na-

zionale». Tutta questa industriosità ha però un rovescio della medaglia. L’ufficio Onu per gli affari dello spazio (Unoosa) e l’Esa nel 2020 catalogavano circa 2700 satelliti operativi e 8800 tonnellate di detriti spaziali. Si sta cercando di correre ai ripari? «È il momento di agire – dice Lamboglia – perché l’inquinamento orbitale è un problema urgente. Si stima che nei prossimi 3 anni verranno lanciati più satelliti di quanti ne siano stati lanciati negli ultimi 60. Clean space è l’ufficio Esa che si occupa del problema. Il team di esperti segue due strategie complementari: mitigare detriti spaziali e rimuovere attivamente scorie spaziali. Come? Mitigare controllando che determinati requisiti vengano rispettati per tutte le missioni future in modo da limitare i detriti e rimuovere quelli già in orbita, ad esempio con Clearspace-1». Missione in cui la Svizzera, in particolare l’impresa ClearSpace today, spin-off del Politecnico federale di Losanna, giocherà un ruolo di primo piano.


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ATTUALITÀ

Il rilancio dell’energia atomica

Prospettive ◆ L’imprevista messa in discussione del gas russo ha fornito un nuovo argomento a chi vede nel nucleare l’unica soluzione praticabile per continuare a far marciare il pianeta negli anni della transizione

La guerra d’Ucraina chiama in causa due volte l’atomo. Lo stallo delle operazioni militari ha generato un’ipotesi terrificante, che la Russia per trarsi d’impaccio mobiliti le armi nucleari. Ma c’è anche un’altra prospettiva, molto meno apocalittica ma non per questo meno controversa: il rilancio del nucleare civile come risposta alle cupe prospettive aperte dall’inasprimento della crisi energetica provocato dal conflitto. Il dibattito è particolarmente vivace in Francia dopo che il presidente Emmanuel Macron ha annunciato l’intenzione non solo di prolungare la vita dei reattori esistenti ma anche di costruire sei nuove centrali. Le polemiche sono stimolate dall’imminenza del voto presidenziale e dal desiderio dei candidati di catturare gli umori popolari. L’aspetto singolare di questa disputa consiste nel fatto che i fautori e gli oppositori del nucleare civile si aggrappano entrambi all’argomento, assai sentito nell’opinione pubblica francese, della sovranità energetica.

Il ricordo della tragedia di Chernobyl e il disastro di Fukushima rendono impopolare l’energia ricavata dalla fissione Macron sostiene che la Francia non può continuare a dipendere dalle forniture di metano russo e dunque al momento non c’è alternativa allo sviluppo delle centrali elettronucleari. Gli ecologisti e l’opposizione di sinistra segnalano che le ingenti quantità di uranio necessarie per far funzionare i reattori vengono in buona parte importate da ex repubbliche sovietiche gravitanti nell’orbita russa, come il Kazakistan e l’Uzbekistan. Dunque la sovranità energetica va cercata altrove: nel vento, nel sole, nell’idroelettricità, nella geotermia, nelle maree, tutte risorse che evidentemente non occorre procurarsi oltre frontiera. La risposta di chi la pensa diversamente è che per arrivare a questo occorre molto tempo e dunque la domanda di elettricità resterebbe insoddisfatta troppo a lungo: di qui la necessità di puntare sull’energia prodotta dall’atomo. In realtà si parla di questo possibile rilancio ben da prima che la guer-

ra irrompesse nell’attualità con tutte le sue angoscianti prospettive. Il nucleare era considerato da molti la sola possibile risposta alla coesistenza di due fenomeni: la crescente domanda di elettricità e la necessità di ridurre il ricorso ai combustibili inquinanti, in primo luogo carbone e petrolio. È vero che il ricordo della tragedia di Chernobyl, riproposto dalle cronache ucraine che ci parlano di combattimenti attorno alla centrale dismessa, e quello più fresco del disastro di Fukushima rendono impopolare l’energia ricavata dalla fissione, ma si assicura che la tecnologia ha compiuto decisivi passi avanti in materia di sicurezza. Dunque l’atomo produce senza rischi energia pulita. Replica degli ecologisti: è vero che i reattori non emettono fumi tossici, ma non è così facile tenere sotto controllo la radioattività, per non parlare dell’ingombro delle scorie… Sono attive complessivamente sul pianeta 440 centrali elettronucleari, disseminate in una trentina di Paesi, che producono un decimo dell’energia elettrica consumata nel mondo. Dopo Chernobyl la costruzione di nuovi impianti è andata scemando, ma non nei Paesi dalle economie in rapida crescita come l’India e la Cina. Altri hanno rinunciato al nucleare civile come l’Italia o hanno programmato di farlo come la Germania, dove si è deciso di mantenere in attività le centrali senza rinnovarle né sostituirle alla loro scadenza tecnica. Con l’incalzare della crisi climatica e gli impegni assunti da quasi tutti i Paesi a ridurre l’immissione nell’atmosfera di gas capaci di accentuare l’effetto serra e dunque di accelerare il surriscaldamento planetario, si è fatta strada in Europa e altrove una strategia per così dire binaria: da una parte investire nelle fonti rinnovabili, dall’altra integrare con l’impiego del metano, inquinante sì ma molto meno del petrolio e soprattutto del carbone, la domanda di energia nei tempi necessariamente lunghi della transizione verde. Il metano, dunque, è stato scelto come risorsa provvisoria in attesa del giorno, che ci si augura reale e non utopistico, in cui finalmente il mondo potrà funzionare facendo ricorso alla sola energia che non inquina. Ma poi è arrivata la guerra d’Ucraina, e a

Shutterstock

Alfredo Venturi

questo punto la dipendenza di tanti Paesi dalle forniture provenienti dalla Russia deve fare i conti con i noti problemi politici e strategici. L’imprevista messa in discussione del gas russo ha fornito un nuovo argomento a chi vede nel nucleare l’unica soluzione praticabile per produrre l’energia necessaria a far marciare il pianeta negli anni della transizione. L’urgenza di trovare comunque fonti temporanee ha indotto alcuni fra i Paesi che si sono impegnati a ridimensionare le emissioni nocive a riscoprire addirittura le centrali a carbone, riproponen-

do così nell’emergenza il più inquinante dei combustibili fossili. E così la lotta contro la crisi climatica viene rallentata mentre il punto di non ritorno è sempre più vicino. Alla base della nuova strategia, sempre più largamente condivisa anche al di fuori della Francia e dell’Europa, figura dunque un matrimonio non certo d’amore fra l’energia ricavata dall’atomo e le rinnovabili. Ma i tempi previsti sembrano contraddire l’efficacia di questa soluzione: infatti anche l’applicazione della formula nucleare, non diversamente dalla coEmmanuel Macron ha annunciato l’intenzione di prolungare la vita dei reattori esistenti e di costruire sei nuove centrali. (Shutterstock)

pertura della domanda di elettricità con le sole fonti sostenibili, richiede molti anni. Poiché si tratta di materia assai delicata per la sensibilità delle opinioni pubbliche, nei Paesi democratici il rilancio della produzione di energia attraverso la fissione atomica presuppone il consenso popolare. Per esempio in Francia sarà preceduto da un’ampia consultazione nazionale nella seconda metà di quest’anno, cui seguirà un approfondito dibattito parlamentare nel 2023. Intanto i progettisti sono all’opera, i lavori per la costruzione delle nuove centrali francesi verrebbero avviati nel 2028, il primo reattore entrerebbe in attività sette anni più tardi. Bisognerà dunque aspettare tredici anni, un intervallo durante il quale il prolungamento della vita delle centrali esistenti dovrebbe garantire un adeguato approvvigionamento energetico. Ma c’è chi ne dubita e dunque il problema rimane aperto. In ogni caso si studia il modo di estendere l’operatività dei vecchi reattori oltre i 50 anni, garantendo che nessuna centrale sarà fermata se non per ragioni di sicurezza. Nonostante questa rassicurazione insorge l’intransigenza ecologista: colorare di verde il nucleare, dicono i difensori dell’ambiente, non è che un ingannevole espediente. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

Un’anomala corsa all’Eliseo Il punto

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«La donna? L’angelo del focolare»

Il 10 aprile è previsto il primo turno delle elezioni francesi. Ecco la rosa dei favoriti

Marzio Rigonalli

Le bombe e i missili che tutti i giorni vengono lanciati sull’Ucraina, i crimini di guerra commessi dall’esercito russo e l’eroica resistenza delle forze militari e del popolo ucraino, hanno fatto slittare in secondo piano l’elezione presidenziale francese. La gravità delle notizie che arrivano da Kiev, l’afflusso in Occidente dei rifugiati ucraini, le conseguenze per gli occidentali delle sanzioni economiche decise contro la Russia, e il timore di un’estensione del conflitto, hanno lasciato poco spazio ai tradizionali meeting e dibattiti elettorali, e hanno ridotto l’interesse che di solito una campagna elettorale arriva a suscitare. L’appuntamento del 10 aprile rimane comunque importante, perché avviene soltanto ogni cinque anni e perché i poteri che detiene l’inquilino dell’Eliseo sono rilevanti e determinanti per la politica interna ed estera francese. Dodici sono i candidati che affrontano questa sfida elettorale. Più della metà provengono dall’estrema destra o dall’estrema sinistra, ma soltanto cinque possono aspirare a qualificarsi per il secondo turno, in programma il 24 aprile. Nella sua veste di presidente uscente, Emmanuel Macron ha dimostrato di saper gestire crisi gravi e di uscirne senza dover sopportare troppi danni. La guerra in Ucraina e le sue implicazioni europee sono la terza crisi che deve affrontare. La prima fu la mobilitazione dei gilet gialli, iniziata nel novembre 2018 e protrattasi per mesi con blocchi a Parigi, agli incroci stradali e intorno a città secondarie. La seconda fu la pandemia di coronavirus, diffusasi a partire dal 2020 e da cui non siamo ancora completamente usciti. Il bilancio dei suoi cinque anni di presidenza presenta luci e ombre. Il bilancio economico è positivo, con una buona crescita economica e un significativo calo della disoccupazione. I suoi avversari l’accusano però di aver favorito le classi più agiate e di non aver portato a termine le riforme promesse. Con il suo partito La République en marche, Macron ha ora proposto un programma che s’iscrive nella continuità, con alcune riforme importanti, come per esempio l’innalzamento dell’età di pensionamento a 65 anni, e soprattutto con un impegno crescente a favore della sovranità e dell’indipendenza della Francia e dell’Europa in tutti i settori, da quello militare a quelli eco-

Stando ai sondaggi, e come nel 2017, la principale avversaria di Emmanuel Macron è Marine Le Pen. (Shutterstock)

nomico ed energetico. I sondaggi lo danno come favorito sia al primo che al secondo turno. Sempre stando ai sondaggi, la principale avversaria di Macron è Marine Le Pen, la presidente del Rassemblement national, il partito di estrema destra creato da suo padre Jean-Marie Le Pen, che fino al 2018 si chiamava Front national. Nel 2017 Marine Le Pen venne sconfitta da Macron al secondo turno. Ottenne il 34% dei voti. In questi ultimi cinque anni ha cercato di allargare la sua base elettorale, ammorbidendo le sue posizioni estreme. E ci è riuscita, perché una buona parte delle classi popolari voterà per lei. I punti centrali del suo programma sono la lotta contro l’immigrazione, con drastiche misure destinate a bloccarla quasi completamente, e il rifiuto dell’Europa. Non uscendone come voleva alcuni anni or sono, ma boicottandola all’interno, con iniziative destinate a bloccare qualsiasi passo verso una maggiore integrazione. Su una linea analoga si muove Eric Zemmour, l’altro rappresentante dell’estrema destra. Ex giornalista, polemista, autore di varie pubblicazioni, Zemmour è sceso nell’arena politica l’autunno scorso, dichiarandosi candidato all’Eliseo e fondando un nuovo partito denominato Reconquête. È ossessionato dalla grande sostituzione,

ossia dall’arrivo di un grande numero di musulmani che prenderebbero il posto dei francesi. Si schiera dunque contro l’immigrazione, il multiculturalismo e la globalizzazione della società francese. Sul piano internazionale ha avuto molte difficoltà a distanziarsi dal dittatore russo dopo l’invasione dell’Ucraina, è contro l’integrazione europea ed è favorevole all’uscita della Francia dalla Nato. La destra moderata, rappresentata dal partito I Repubblicani, presenta Valérie Pécresse, presidente della regione Île-de-France. La sua designazione è avvenuta dopo una lunga selezione interna. A lei vengono attribuite molte qualità, ma lo spazio politico di cui dispone è molto ristretto. Il suo programma deve distinguersi sulla sua sinistra dal programma di Macron, che gode del sostegno di molti repubblicani, e sulla sua destra da quello di Marine Le Pen e di Zemmour, che trovano molte simpatie in quella destra che è sensibile alle questioni che riguardano l’immigrazione e l’identità. È un esercizio difficile che, almeno per ora, non trova molti riscontri positivi nell’elettorato. L’ultimo candidato che potrebbe superare il primo turno è Jean-Luc Mélenchon. Secondo i sondaggi, il leader della France insoumise arriva in testa tra i candidati di una sinistra

divisa in più partiti e mai così debole come in questa occasione. Il totale delle preferenze a sinistra rischia di non superare il 30%. È la terza volta che Mélenchon si candida alle presidenziali. Il suo programma prevede l’uscita della Francia dalla Nato, il non allineamento, la pensione a 60 anni e una nuova Costituzione che dovrebbe far nascere la VI Repubblica. L’obiettivo è di ridurre i poteri del presidente e di accrescere quelli del parlamento e del popolo con maggiori possibilità di controllo e di ricorso al referendum. Dietro alla lunga lista di candidati si profila una società frammentata, che negli ultimi anni si è spostata a destra. Una società che vive male l’immigrazione di altre culture e di altre religioni, non per un eccessivo numero di immigrati, ma perché non è mai riuscita a condurre una vera politica d’integrazione. Una società senza una personalità forte, capace di entusiasmare i francesi e di riunirli intorno a un ambizioso progetto. I sondaggi dicono che Macron verrà confermato per un secondo mandato. È probabile. La prudenza, però, rimane di rigore. La storia c’insegna che soltanto tre degli otto presidenti che la V Repubblica ha avuto finora sono riusciti a svolgere due mandati. L’ultimo fu Jacques Chirac.

Novák ◆ La prima presidente ungherese Luisa Betti Dakli

È stata eletta con 137 voti su 193 ed è la prima donna presidente dell’Ungheria. Si chiama Katalin Novák, ha 44 anni, due lauree, tre figli, ed è stata ministra degli Affari familiari e vicepresidente del partito governativo Fidesz. Una fedelissima del premier Viktor Orbàn, il quale ha voluto una donna a capo dello Stato per assicurarsi il voto femminile alle prossime elezioni del 3 aprile che metteranno a dura prova il suo mandato dopo 12 anni; 3 aprile in cui gli ungheresi saranno chiamati anche ad esprimersi riguardo al referendum sulla legge, approvata lo scorso giugno, che vieta la «promozione dell’omosessualità ai minori» contro cui la Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione. Nel suo primo discorso da neopresidente, Novák ha deplorato l’invasione russa dell’Ucraina. «Un altro virus devastante si è scatenato nel mondo», ha detto annunciando di volere andare in Polonia per valutare la crisi umanitaria. Giurista ed economista multilingue, Novák succede a János Áder – anche lui orbaniano di ferro, presidente per due mandati – ed è una convinta sostenitrice della «famiglia tradizionale», oppositrice di ogni «ideologia di genere». È a favore delle politiche sull’incremento della natalità e contro l’immigrazione di persone di fede non cristiana. Ma soprattutto, pur essendo donna, Novák è in linea con il rifiuto della Convenzione di Istanbul per il contrasto alla violenza maschile sulle donne redatta dal Consiglio d’Europa, che l’Ungheria ha respinto senza mezzi termini. A quelli che l’accusano di essere «una marionetta» nelle mani di Orbàn, risponde dicendo che «degradano non me personalmente ma le donne in generale». Intanto le sue politiche di genere sono di fatto sempre state inesistenti: come ministra ha sempre promosso l’immagine tradizionale della donna «angelo del focolare» e ha infiammato gli animi dichiarando al Congresso mondiale delle famiglie, dove ha più volte rappresentato il suo Paese, che «un uomo e una donna sono necessari e sufficienti per formare una famiglia». Annuncio pubblicitario


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ATTUALITÀ

Contesto difficile per le banche centrali

Politica monetaria ◆ La Federal Reserve americana ha dato inizio al rialzo dei tassi direttori per combattere l’inflazione. Le banche centrali europee potranno o dovranno seguirla con misure analoghe a breve scadenza? Ignazio Bonoli

Con un tasso di inflazione di quasi l’8%, gli Stati Uniti sono una delle economie più colpite, tra quelle più avanzate. Non sorprende quindi che la Federal Reserve abbia rotto gli indugi e annunciato un primo aumento dei propri tassi direttori, nonché ulteriori sei aumenti nel corso dell’anno. Aumenti che, dopo il primo limitato allo 0,25%, dovrebbero essere ogni volta piuttosto contenuti.

La guerra in Ucraina ha il potenziale di frenare le principali economie e un aumento dei tassi potrebbe acuire le difficoltà, ma il pericolo maggiore oggi è l’inflazione La decisione non è stata presa senza tener conto della situazione che l’economia mondiale sta vivendo a seguito della guerra in Ucraina, ma anche delle sanzioni che Stati Uniti ed Europa hanno decretato contro la Russia. I tassi di crescita delle principali economie dovrebbero subire un serio contraccolpo, perché è sempre delicato decretare una stretta nella politica monetaria, in un momento in cui si dovrebbe procedere proprio in senso contrario. Tuttavia, per il momento, vista la tendenza all’aumento dei prezzi di molte materie prime, semilavorati e componenti, compresi gas e petrolio, il pericolo maggiore è proprio quello di attizzare ulteriormente una fiammata inflazionistica che sarà molto difficile contenere. Altrettanto difficile è però cercare sostegno, sul piano teorico, nelle varie teorie monetarie fin qui sperimentate. Da quella (Friedmann e altri) che ha cercato di stabilire un nesso costante fra moneta in circolazione, economia e inflazione, alla celebre «curva di Phillips» che metteva in relazione il tasso di disoccupazione, dapprima con la crescita dei salari, ma poi con l’inflazione.

Studi che si basavano su analisi di lungo periodo del passato e che, oggi, non sono più di aiuto ai responsabili delle politiche monetarie, in un mondo economico completamente cambiato. Al punto che il confronto fra politiche monetarie, prezzi e crescita economica non regge più. Oggi le economie di molti paesi sono state inondate da una montagna di liquidità (il «Quantitative easing»), senza provocare inflazione e anche permettendo di affrontare una crisi epica come quella del Covid, senza danni eccessivi, ma senza ottenere il risultato previsto di un 2% di inflazione. Anzi, le banche hanno potuto concedere un gran numero di crediti a interessi bassissimi (anche sotto zero) per poi essere costrette ad applicare interessi negativi sui conti in deposito. Uno scenario che ha poco a che vedere con un corretto funzionamento dei mercati finanziari e che ha sconvolto anche le teorie sul ruolo delle banche centrali, nel sostenere lo sviluppo dell’economia, senza provocare inflazione. Non solo, ma al momento di dover decidere un netto cambiamento di politiche, ci si è trovati confrontati con la guerra in Ucraina, con le sanzioni contro la Russia e un’accelerazione dei prezzi dell’energia, buona parte della quale in Europa viene importata proprio dalla Russia. Oggi ci troviamo di fronte a nuovi dilemmi. Da un lato le banche che sono state costrette a dotarsi di capitale proprio elevato, ma hanno concesso molti crediti all’economia e altri anche per combattere gli effetti della crisi pandemica, e tutto questo senza considerare l’importanza centrale delle aspettative inflazionistiche. Di colpo però l’inflazione si è presentata, a causa soprattutto del rincaro delle materie prime e dell’energia, ma anche di quelle componenti il cui commercio mondiale è stato ostacolato. Si presenta perciò una situazione

Come si comporterà la Banca Nazionale Svizzera? Sotto, il presidente della FED Jerome Powell. (Keystone)

di rallentamento della crescita economica, ma con la necessità di combattere i forti rincari: quella che gli economisti definiscono stagflazione.

Situazione in cui le banche centrali si trovano confrontate con due varianti di per sé incompatibili: sostenere un’economia che rallenta, combattendo però l’inflazione. La scelta della Federal Reserve è quella di un ritorno graduale al compito primario della stabilità dei prezzi, ma con molta attenzione all’evoluzione dell’economia e della politica mondiale. Per la Banca Nazionale svizzera il problema si pone in termini un po’ diversi. Il tasso di inflazione è ancora piuttosto basso e l’economia non sembra risentire troppo dell’incertezza della situazione. La BNS si è mossa bene in passato, sorvegliando il tasso di cambio del franco, con le conseguenze che sappiamo sull’import-export, e quindi anche sull’occupazione. Ora il franco diventa bene

rifugio e subisce le pressioni al rialzo della forte domanda. Il bilancio della BNS ha però raggiunto cifre esorbitanti in divise estere e, dopo un lieve rallentamento, potrebbe riprendere a pieno regime. Difficile prevedere che cosa potrà fare finché durerà l’attuale situazione. Più difficile ancora per l’Europa, dopo il celebre «whatever it takes» di Mario Draghi, allora presidente della Banca centrale europea. E, infatti, le varie banche centrali hanno fatto tutto quello che hanno potuto, ma senza sapere quanto nuovo denaro sarebbe stato necessario e quali sarebbero stati gli effetti a lunga scadenza. Sarà necessario cambiare, ma come e quando? La FED ha dato un primo segnale, ma il momento, in Europa, è più difficile che in America.

Che impianto di riscaldamento devo installare?

La consulenza della Banca Migros ◆ In molti luoghi non è più possibile installare un nuovo impianto a olio combustibile, oggi due terzi dei nuovi impianti di riscaldamento sono pompe di calore, più pulite ed efficienti benché più care

Devo sostituire l’impianto di riscaldamento della mia casa unifamiliare. Che cosa devo fare? Qual è l’opzione più conveniente? Occorre innanzitutto chiarire alcune questioni. Quale fonte energetica si intende utilizzare: legna, gas, olio combustibile, elettricità, collettori solari, teleriscaldamento o pompe di calore? Quali sono le proprie aspettative sui costi? Quali direttive vigono nel cantone in cui si vive? La strategia di molti cantoni è quella di abbandonare le fonti energetiche fossili a favore di quelle rinnovabili. Pertanto in molti luoghi non è nemmeno più possibile installare un impianto di riscaldamento a olio combustibile. Due terzi degli impianti di riscaldamento di nuova installazione in Svizzera sono pompe di calore, che offrono il vantaggio di ottenere energia pulita dall’ambiente, ricavandola dall’aria o dal suolo mediante

una sonda geotermica. Quest’ultima offre prestazioni superiori in termini di efficacia. Inoltre, le pompe di calore sono efficienti, perché sono in grado di moltiplicare l’energia aggiunta. Il trend a favore delle pompe di calore ha anche motivi economici. Una pompa di calore per case unifamiliari costa, a seconda dell’attrezzatura e della situazione, da 35’000 a circa 80’000 franchi, un prezzo elevato rispetto a quello di altri impianti di riscaldamento. Un sistema di riscaldamento a olio combustibile o a gas nuovo è realizzabile a partire da 20’000 franchi. Gli investimenti supplementari possono essere ammortizzati nell'arco di un periodo pari a 15 anni del ciclo di vita dell'impianto, mentre i costi annuali relativi al funzionamento della pompa di calore sono paragonabili a quelli di altri impianti di riscalda-

mento. Per una pompa di calore di una casa unifamiliare con un fabbisogno di 14’400 KWh possono esse-

Marcel Müller, specialista in ipoteche e consulente alla clientela della Banca Migros.

re messi in conto, a seconda dell’elettricità consumata, 2800 franchi all’anno (https://blog.migrosbank. ch/riscaldamento). Per i sistemi di riscaldamento a olio combustibile o gas i costi sono di solito superiori di 1000 franchi, soprattutto in considerazione del fatto che i prezzi dell’olio combustibile e del gas recentemente sono nettamente aumentati e sono volatili. E se per azionare la pompa di calore si utilizza l’energia solare accumulata dai pannelli solari sul tetto di casa, la sua alimentazione elettrica è gratuita. Nella maggior parte dei casi, ai prezzi energetici attuali, un impianto solare può essere ammortizzato in meno di 15 anni. Anche sotto il profilo ecologico, le pompe di calore evidenziano buone prestazioni, con emissioni annue di CO2 comprese tra i 400 e i 500 chilogrammi. Per fare un confronto, un riscaldamen-

to a pellet di legno emette 710 chilogrammi di CO2 all’anno, mentre quello a olio combustibile 4680 chilogrammi all’anno. Esiste tuttavia un limite: se la casa unifamiliare ha già qualche anno e non è ben isolata termicamente, con la pompa di calore potrebbe essere difficile raggiungere la temperatura ideale. A questo proposito, la pompa di calore con sonda geotermica offre prestazioni leggermente superiori rispetto a quella ad aria. In questi casi, è consigliabile prima risanare la casa. Informazioni Su https://www.helion.ch/it/ riscaldamenti-a-confronto/ è possibile confrontare i tipi di riscaldamento e calcolare quello che fa al caso proprio. Banca Migros è partner finanziario di Helion nel settore delle energie rinnovabili.


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ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

di Angelo Rossi

Una buona occasione mancata ◆

Dal primo gennaio 2021, le società svizzere quotate in borsa devono avere una quota del 30% di donne nei consigli di amministrazione e una del 20% negli organi direttivi. Per intanto è troppo presto per dire se questa disposizione, introdotta dalle Camere federali durante la revisione del diritto azionario, abbia dato o no risultati tangenti. Abbiamo comunque indicazioni che ci dicono che, nel corso degli ultimi dieci anni, anche senza questa disposizione, le quote femminili nei livelli più alti delle gerarchie aziendali sono aumentate. Per quel che riguarda il management, nel 2021, a livello svizzero, la quota delle donne era pari al 27,1%. Rispetto alla situazione di dieci anni prima aveva segnato un aumento di 4 punti percentuali. È tanto o è poco? Secondo chi scrive è decisamente poco. Tuttavia questo avanzamento costituisce sempre qualche cosa di positivo.

Più scabrosa la situazione nei consigli di amministrazione. Qui la quota femminile era pari al 20.1% nel 2011 ed è aumentata al 23.2% nel 2021. Ovviamente attorno a queste medie nazionali si distribuiscono a ventaglio le quote cantonali. Il nord della Svizzera, in particolare i Cantoni di vecchia industrializzazione della Svizzera tedesca, sono quelli che possiedono le quote più elevate. In coda vengono invece, con una sola eccezione, solo Cantoni cattolici. Il Ticino, in questa classifica delle quote femminili – è un’informazione che non sorprenderà nessuno – occupa il quartultimo posto. Dietro, vengono solo Zugo, Vallese e Neuchâtel. Se le quote femminili nei posti di responsabilità delle aziende del settore privato ticinese sono basse non è perché da noi manchino le candidate che potrebbero occuparli. Molto più probabilmente alla carriera delle donne si oppone, nel settore privato

ticinese, la scarsa dimensione delle aziende. È provato infatti che la quota di donne con posti di responsabilità è molto più elevata nelle aziende di grandi dimensioni che nelle piccole. Non si può poi escludere che in un Cantone cattolico e conservatore come il nostro la donna in carriera incontri più difficoltà che in Cantoni maggiormente urbanizzati, o con una lunga tradizione industriale e tassi di attività femminile più elevati. E non è che il settore pubblico e quello para-pubblico, che ospitano le aziende più grandi del Cantone, diano il buon esempio. Apparentemente la quota di donne nei posti di responsabilità dell’amministrazione cantonale sarebbe pari al 15,2%. Nel nostro Cantone, dunque, il pubblico, rispetto alle possibilità di carriera per le donne, è addirittura in ritardo rispetto al privato. Recentemente il Gran Consiglio è stato chiamato a pronunciarsi su una

mozione di un consigliere socialista che chiedeva di introdurre una quota del 30% per una serie di gremi i cui membri sono nominati dal governo cantonale. Il 30%, lo ricordiamo, è la quota che, a livello federale, è stata fissata per i posti nei consigli di amministrazione delle aziende che vengono quotate in borsa. Contro la mozione, nel dibattito granconsigliare, sono stati portati i soliti argomenti di principio che, da decenni, vengono presentati quando si discute della possibile introduzione di quote. Un rapporto di 30 a 70 in favore degli uomini, nei posti di responsabilità del settore pubblico, è stato addirittura definito discriminatorio nei confronti del sesso maschile. Immaginiamoci! Altri hanno argomentato che una quota per le donne di fatto costituiva un oltraggio alle stesse. Era come se si dichiarasse che venivano nominate ai posti alti dell’amministrazione per il loro

sesso e non per le loro competenze. Meglio quindi la situazione attuale nella quale le donne non hanno nessuna chance di fare carriera. Altro bell’esempio di logica parlamentare! Così la mozione per l’introduzione di una quota femminile nei posti di responsabilità dell’amministrazione cantonale è stata respinta con 43 voti contro e 38 in favore. La piccola differenza nell’esito della votazione è per lo meno un segnale incoraggiante. Per il momento comunque le ragazze ticinesi con formazione terziaria, se vorranno fare carriera nel settore pubblico e diventare, che so, cape della polizia, direttrici di musei, ospedali e centri di ricerca, direttrici di dipartimenti importanti dell’amministrazione pubblica come quello dell’ecologia o delle politiche sociali, direttrici dei trasporti pubblici o di un’azienda elettrica cittadina o cantonale, dovranno purtroppo fare le valigie.

In&Outlet

di Aldo Cazzullo

Quell’odio che resta dopo la guerra ◆

La situazione in Ucraina si fa ogni giorno più drammatica. Altro che operazione speciale: è una guerra senza quartiere, compresi i crimini contro i civili, in particolare contro le donne. Una guerra in cui comincia ad accumularsi un odio da cui sarà difficile uscire, un male sottile da cui sarà quasi impossibile guarire. Due popoli fratelli, imparentati tra loro, dalle storie intrecciate, rischiano di diventare due popoli nemici. Come israeliani e palestinesi. A maggior ragione serve una soluzione diplomatica, che non può essere una resa senza condizioni dell’Ucraina, ma – purtroppo – non può neppure essere una resa senza condizioni di Putin, per il quale il potere coincide con la vita. Il satrapo di Mosca ha paura di fare la fine, se non di Gheddafi, di Mubarak: privato del potere, messo sotto processo, costretto a una morte avvilente e solitaria. Una via d’uscita andrà pur trovata. La battaglia di Mariupol con-

ferma che l’Ucraina non può resistere a lungo in campo aperto all’esercito russo; può pensare di logorarlo con l’imboscata e con la guerriglia. E Putin non ha alcun interesse a farsi logorare sine die, senza sapere se e quando finirà. Forse si comincia a intravedere un punto di equilibrio, sia pure parziale e instabile. Putin potrebbe accontentarsi di conquistare la striscia che congiunge la Crimea al Donbass, facendo del mare d’Azov un mare russo, ma lasciando Zelensky al potere. In questo modo entrambi potranno sostenere di aver vinto: Putin aggiungerebbe al suo immenso Stato un pezzo di Ucraina; Zelensky salverebbe l’indipendenza della gran parte del suo Paese, oltre che il posto e la pelle. Sarebbe comunque un’ingiustizia. Sarebbe un compromesso: una pace armata, uno stallo non certo indolore – ci sono posti nel Mediterraneo, dal Kosovo al Libano, dove senza una forza di interposizione internaziona-

Il presente come storia

le le ostilità riprenderebbero il giorno dopo – ma preferibile alla strage quotidiana. Se invece Putin non si accontenterà, e continuerà ad attaccare nella speranza di ottenere una conquista simbolica – Kiev e Odessa – se non di deporre Zelensky e instaurare un governo fantoccio, allora i tempi si prolungherebbero ancora, e potrebbe accadere qualsiasi cosa, a Kiev come a Mosca. Ma nessuna persona raziocinante potrebbe augurarsi uno scenario del genere. C’è poi un altro aspetto interessante. La guerra in Ucraina è anche il fallimento dell’intelligence di mezzo mondo. A cominciare dall’intelligence russa, dalle cui fila proviene Putin. Che ora ha fatto fuori il generale Sergej Beseda, capo della sezione dell’Fsb – i servizi russi – che si occupa dei Paesi dell’ex Unione sovietica, accusato di aver sottovalutato la resistenza ucraina e di aver indotto Putin in errore. Va detto però che l’intelligen-

ce americana aveva previsto da tempo l’invasione. Sono gli stessi americani ad aver armato e addestrato le forze armate ucraine. Al punto da accreditare un’ipotesi: che l’amministrazione Biden avesse non solo previsto, ma che avesse non diciamo auspicato o assecondato l’invasione, bensì che vi si fosse preparata. Se fosse autentica questa interpretazione, Putin si sarebbe infilato in una trappola. Ora la strategia Usa sarebbe di logorare la leadership dello zar e il suo esercito. Al punto che a breve potrebbe essere Putin, e non Zelensky, il duellante più bisognoso di una tregua. A meno che lo zar non torni ad agitare lo spettro delle armi chimiche, se non nucleari. A questo punto tutto diventa possibile. Ma non ci voglio neppure pensare. Mi limito a far notare che mai, neppure nei giorni peggiori della guerra fredda, si sono sentite parole tanto minacciose da parte dei governanti e della propaganda. L’altro

giorno alla tv russa un commentatore ha minacciato la Polonia, ricordando che «in 30 secondi non resterebbe nulla di Varsavia» se i russi usassero l’arma nucleare per punire i polacchi dall’aiuto fornito all’Ucraina. Ma se c’è qualcosa da raccontare ai confini tra Ucraina e Polonia è la marea di profughi costretti dall’aggressione russa a lasciare la loro terra e a cercare scampo verso Occidente. Certo, ci sono anche armi che passano dalla Polonia all’Ucraina. Ma armare un popolo che resiste è giusto; proprio come era giusto da parte degli inglesi e degli americani armare i resistenti italiani, tra il 1943 e il 1945, quando c’era da resistere all’invasione nazista. La storia non si ripete mai uguale a sé stessa, ma le categorie dell’aggressore e dell’aggredito, dell’invasore e dell’invaso, quelle sì restano le stesse. Per questo l’Occidente ha una parte da cui stare. Ed è quella del popolo ucraino.

di Orazio Martinetti

Rivitalizzare lo spazio pubblico ◆

La miccia già guizza nel campo della politica, dai piani alti (Europa) a quelli intermedi (nazionali) fino al pianterreno (Ticino). Tra poco, il 10 aprile, inizia la Francia, con le presidenziali (ballottaggio il 24 aprile). Nella primavera del prossimo anno, salvo colpi di scena (sempre possibili), toccherà agli italiani rinnovare il parlamento, per la prima volta drasticamente ridotto nei suoi effettivi. Il 2023 sarà agitato anche da noi, con le cantonali (in programma il 2 aprile) e le federali (22 ottobre). Le inchieste sociologiche – l’ultima quella condotta dall’Osservatorio della vita politica di Losanna – dicono che la curva dell’astensionismo cresce di anno in anno, e che appare difficilmente arrestabile. Politici e cittadini fanno vieppiù fatica a parlarsi e a intendersi. Due mondi sepa-

rati, che hanno cessato di comunicare tra loro come nei film di Antonioni. La destra continua a premere sul pedale del sovranismo, in base alla collaudata triade fede, patria e famiglia tradizionale; sull’altra sponda opera una sinistra scheggiata, che non sa bene se il sistema capitalistico vada superato o semplicemente rimesso in carreggiata come consigliava Olof Palme: tosare la pecora senza ucciderla. Molti osservatori contestano però lo schema binario destra/sinistra ereditato dalle culture politiche otto-novecentesche. Ritengono infatti che non colga più l’essenza dei mutamenti in atto: un moto tellurico che ha disarticolato classi sociali e orizzonti ideali, scarnificato le ideologie, messo sotto naftalina le subculture liberali, democristiane, socialiste e comuniste.

Precisiamo: congedo dal passato non vuol dire svuotamento dello spazio politico. La protesta corre su altri binari, a lato dei canali consueti e delle liturgie condivise. Si svolge perlopiù fuori dal Palazzo, nelle strade e nelle piazze; nasce per contrastare balzelli giudicati iniqui, com’è accaduto in Francia, o per reclamare misure più incisive per combattere il riscaldamento climatico. A volte degenera in scontri tra fazioni opposte, spesso aizzate da gruppuscoli di provocatori di oscura provenienza: ma sono fenomeni che prendono fuoco nelle grandi città, non nei nostri piccoli centri ove tutti si conoscono. Sono minoranze, avanguardie attive, soprattutto giovanili. Che vanno prese sul serio e ascoltate, e senza montare in cattedra per denigrarle. Poi c’è l’ampia area del disinteres-

se, della sfiducia, della disaffezione. Un collettore di frustrazioni sempre più ampio che deve giustamente preoccupare tutte le componenti vitali della società: partiti, associazioni, istituzioni, informazione, scuola. L’astensionismo cronico è veleno per tutte le democrazie; se la partecipazione al voto decresce al punto di farsi valanga è fatale che alla fine comanderanno in pochi (oligarchia) e probabilmente i peggiori (oclocrazia). Lo sappiamo, non sarà facile arrestare la caduta. Risalire la china? Un’impresa improba. E tuttavia bisognerà provarci, pena la disidratazione della società civile. Mancano ancora diversi mesi all’appuntamento elettorale, tempo che va sfruttato per riguadagnare il capitale più prezioso dell’agire politico: la fiducia. Ma per riconquistarla occorrerà

mettere in campo una robusta batteria metodologica composta di «immaginazione», «progettazione», «discussione». La scommessa consiste nel ricostruire la democrazia dal basso, nell’attivare le «intelligenze collettive» presenti nella società civile, evitando le derive che negli ultimi decenni hanno inquinato e deviato verso binari morti il cammino del confronto pubblico. Qualche segnale incoraggiante c’è già. Pensiamo al ruolo dell’associazionismo civico preoccupato per la dilagante aggressione al territorio, oppure al percorso, testé iniziato, che porterà all’adozione del Piano Direttore comunale di Lugano (PDcom). Un insegnamento di metodo per i partiti che si apprestano a varare le loro piattaforme programmatiche in vista delle elezioni in agenda il prossimo anno.


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CULTURA ●

Intervista a Bernhard Schlink Considerato uno dei maggiori scrittori tedeschi contemporanei sarà ospite degli Eventi Letterari

Scianna e le sue ossessioni In mostra con le sue opere a Monte Carasso fino al 24 aprile il fotografo siciliano si racconta

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Il nostro saluto a Carlo Ciceri Compositore fuori dagli schemi è stato una figura importante per il Conservatorio e la scena musicale

All The Good Times È uscito il nuovo disco di Gillian Welch e David Rawlings nel segno della migliore tradizione folk

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Voltaire, un turbine in Romandia Pubblicazione

Un saggio racconta gli anni svizzeri del filosofo, drammaturgo e scrittore francese

Pietro Montorfani

Non ho mai nascosto la mia predilezione per la collana I Cristalli dell’editore Dadò, che da un quarto di secolo offre regolarmente in italiano i migliori titoli della produzione francofona e germanofona, contribuendo come poche altre iniziative culturali ad alimentare, alle nostre latitudini, lo spirito confederale. Al di qua del San Gottardo tendiamo infatti a guardare troppo spesso a sud, e non senza ragioni, dimenticando quanto pesi – in termini identitari e di consapevolezza storica – l’apporto fornito nei secoli dalle altre lingue nazionali (il romancio meriterebbe un discorso a parte). Che questa continua operazione di mediazione linguistica e culturale, simile alla spoletta di un telaio meccanico (un Alptransit di carta!), abbia un valore non solamente per noi ma per l’intera italofonia è testimoniato dal fatto che l’ultimo libro della serie si è meritato, lo scorso 13 febbraio, la prima pagina della Domenica del «Sole 24 Ore». Le 800 pagine dedicate agli anni in Svizzera di François-Marie Arouet, più noto come Voltaire, sono in effetti qualcosa di eccezionale, e non soltanto per la mole del volume. All’ampio saggio storico di Franco Monteforte, che non teme di scendere fin nei dettagli più minuti e che scrive, di fatto, un libro a sé, fanno seguito 135 lettere selezionate tra le oltre 4000 spedite da Voltaire nei pochi anni del suo soggiorno elvetico (175460), curate e tradotte per l’occasione da Carlo Caruso. Numeri da capogiro, direbbe un cronista sportivo, che ben rispecchiano il ruolo che il carismatico personaggio aveva saputo assumere nella società dell’epoca, entro la quale era costantemente in movimento tra Parigi, la Prussia, la Svizzera e la Lorena, in cerca di una patria sufficientemente liberale e moderna – cioè laica o presunta tale – da poter accogliere un pensatore per certi versi ancora troppo spregiudicato. Era tale la «massa» che si spostava ogni volta assieme alla figura di Voltaire, da innalzare inevitabilmente il livello delle acque tutt’attorno: ne sanno qualcosa le tranquille cittadine lacustri di Ginevra e Losanna, che non uscirono indenni dall’incontro-scontro con il grande scrittore. Giunto in Romandia in seguito a un bando di Luigi XV, che non gli aveva perdonato gli elogi del suo predecessore (Le Siècle de Louis XIV, 1751), Voltaire si divise per alcuni anni tra la residenza ginevrina delle Délices e quella losannese di Le Montriond. Nei due comuni, poiché poteva permetterselo, ricreò un ambiente intellettuale ed estetico all’altezza della sua personalità estrosa, sfruttando nel contempo le caratteristiche che i due capoluoghi gli offrivano: a

Voltaire mentre si alza dal letto nella casa di Ferney, 1772 ca., in un ritratto di Jean Huber (1721-1786). (Keystone)

Ginevra la presenza di una vivace industria tipografica e di un’oligarchia protestante «illuminata» (meno però di quanto lui sperasse), a Losanna invece la possibilità di mettere in scena opere teatrali, un genere ancora proibito nella città di Calvino. A interrompere l’idillio, inaugurando una serie di incomprensioni che lo avrebbero opposto anche a Rousseau, fu la lunga voce «Ginevra» che Voltaire suggerì e quasi dettò a D’Alembert per il settimo volume dell’Encyclopédie: una vera e propria strategia ideologica per promuovere il borgo sul Lemano come la nuova «capitale europea della ragione e della filosofia», capace di unire «le virtù repubblicane della libertà a quelle morali della tolleranza e della religione razionale» (così Monteforte a pagina 138). Senza forse avvedersene, l’autore di Candide aveva finito per proietta-

re sulla società ginevrina del tempo, e soprattutto sui suoi pastori, i propri ideali deistici e la propria idiosincrasia anti-sacerdotale, in una misura certamente eccessiva rispetto alla realtà dei fatti. Aveva insomma forzato la mano, fino al punto di mettere in discussione la stessa fede protestante e la radicata tradizione calvinista della città, un cristianesimo da lui inteso soltanto in termini razionali e ridotto a un nucleo di precetti morali universalmente condivisibili. Il desiderio di portarvi il teatro, principale motivo di scontro con Rousseau, fu la goccia finale prima del suo definitivo trasferimento a Ferney, pochi metri di là dal confine, ma ad anni luce di distanza. Chi abbia voglia di compulsare le lettere riportate in appendice, vi troverà tutta la caustica e brillante ironia cui Voltaire non rinunciava mai, nemmeno quando si trattava di feli-

citarsi per un lieto evento: «Faccio i miei complimenti, mio caro signore, all’umanità in generale, e a Losanna in particolare, se la vostra opera vi somiglia. Vi ringrazio di mettere al mondo dei filosofi: presto bisognerà che lasci questo mondo maledetto dove ve ne sono così pochi. Mi consolerò sapendo che voi ne continuate la stirpe» (a Clavel de Brenles, 29 marzo 1755). Per non dire degli scambi epistolari con l’amato-odiato Rousseau, cui non si perita di dire: «Ho ricevuto, signore, il vostro libro contro il genere umano, e ve ne ringrazio. Piacerete agli uomini: ai quali dite delle verità che li riguardano, ma senza correggerli. […] Mai si è impiegato tanto spirito per volerci rendere bestie: a leggere la vostra opera vien voglia di mettersi a camminare a quattro zampe» (30 agosto 1755, ringraziandolo a modo suo per il Discorso sulla disuguaglianza).

Ma l’apoteosi del cinismo volteriano, nutrito del suo proverbiale anticlericalismo, si toccò probabilmente il 24 novembre di quell’anno, in una lettera a Jean-Robert Tronchin ispirata come il poema omonimo al recentissimo terremoto di Lisbona: «Centomila formiche nostre vicine, schiacciate d’un colpo nel formicaio, la metà morente senza dubbio fra dolori indicibili in mezzo ai detriti […]. Che triste gioco d’azzardo è il gioco della vita umana! Che diranno i predicatori, soprattutto se il palazzo dell’inquisizione è rimasto in piedi? Mi lusingo di credere che almeno i reverendi padri inquisitori saranno rimasti schiacciati come tutti gli altri». Amen, con tanti saluti alla carità cristiana. Bibliografia Carlo Caruso (traduttore) e Franco Monteforte (curatore), Gli anni in Svizzera, Locarno, Dadò, 2021.


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CULTURA

«La guerra non mi ha colto di sorpresa» Incontro ◆ Bernhard Schlink, giurista e scrittore tedesco, autore del bestseller mondiale A voce alta è tra gli ospiti della nuova edizione degli Eventi Letterari dal titolo Le nostre Odissee Natascha Fioretti

Toccante, delicato, acuto nel descrivere il fenomeno delle colonie nazionaliste in Germania, pervaso da un grande spirito letterario, l’ultimo romanzo di Bernhard Schlink Die Enkelin (La nipote) conquista chi già conosce e ama la sua penna sopraffina. Tra i grandi ospiti degli Eventi Letterari ci siamo fatti raccontare la storia di Kaspar, libraio di Berlino che resta senza la sua amata Birgit e scopre di avere una nipote. Svenja vive con i genitori in una colonia nazionalista fuori città, è stata educata al razzismo e al negazionismo dell’Olocausto. Kaspar la inizierà alla musica classica e alla letteratura, le farà sentire Chopin e le farà prendere lezioni di pianoforte. Sullo sfondo dell’intenso e commovente legame tra nonno e nipote, emergono le spaccature storiche e sociali del secolo scorso di cui la Germania porta ancora i segni. Lei vive tra gli Stati Uniti e Berlino: ci racconti due angoli di queste città che ama particolarmente e nei quali torna sempre volentieri. Di Berlino amo in particolare le sue piazze, quella in cui abito, il Viktoria-Luise-Platz, il Bebelplatz dove si trova la Facoltà di giurisprudenza e dove lavoro, il Gendarmenmarkt con i suoi due duomi, quello francese e quello tedesco e il Konzerthaus. Di New York invece amo Central Park e sono felice di abitare proprio nelle sue vicinanze. Nel 2010 tenne un discorso alla Boston University dal titolo «La presenza del passato» nel quale espresse questo concetto: «Il passato ha affinato la nostra comprensione della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia… siamo stati profondamente influenzati dai ricordi del Terzo Reich e dell’Olocausto». Il passato ci sta raggiungendo? Libertà, uguaglianza e giustizia non sono a rischio soltanto da oggi ma a partire dal 1945 lo sono state ripetutamente. In questo senso il passato non ci sta raggiungendo ma ci accompagna da sempre. Qualche settimana fa il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha detto che la guerra russa contro l’Ucraina rappresenta un punto di svolta in politica estera. Avrebbe mai pensato, lei e più in generale la sua generazione, di vivere una guerra in Europa? Mi sembra di poter dire, questa almeno è la mia impressione, che la guerra in Ucraina ha colto di sorpresa più le giovani generazioni che non la mia. La mia generazione, quella nata attorno al 1945, è cresciuta con l’immagine delle città distrutte, la memoria e i racconti dei genitori sulla guerra, la guerra di Corea, la guerra calda e fredda. La guerra in Europa non mi ha colto di sorpresa. Veniamo al romanzo che ci riporta ai tempi della DDR e presenta diversi tratti autobiografici: Kaspar aiuta Birgit a scappare, la porta a Berlino ovest. Anche lei, giovane studente a Berlino, ai tempi del muro aiutò un’amica, come andarono le cose? Negli anni sessanta studiavo a Berlino ovest e nel 1964 presi parte al raduno di Pentecoste della Libera Gioventù Tedesca a Berlino est dove

Primo piano dello scrittore Bernhard Schlink, nato a Bielefeld nel 1944, ospite degli Eventi Letterari Monte Verità sabato 9 aprile alle 21.00. Per info sul programma: www. eventiletterari. swiss. (Gaby Gerster © Diogenes Verlag)

Con «Azione» agli Eventi Letterari Monte Verità «Azione» mette in palio alcuni biglietti per l’evento di apertura degli Eventi Letterari in programma giovedì 7 aprile alle 18.00 al PalaCinema di Locarno che vedrà lo scrittore algerino Yasmina Khadra dialogare con il giornalista Gad Lerner. Per partecipare inviate una mail a giochi@azione.ch, oggetto «Khadra», con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono) entro le 24.00 di mercoledì 30 marzo.

La bella cioccolataia, quadro di Jean-Étienne Liotard (Keystone)

avevo degli amici e una compagna. La aiutai a scappare procurandole dei documenti falsi e raccogliendo 5000 marchi. Come sarebbero andate le cose se Birgit fosse rimasta nella DDR, che tipo di persona serebbe diventata? Questa domanda nel romanzo riecheggia in continuazione e mette in luce quanto sia stato difficile per le persone, allora e dopo la riunificazione, vivere una vita diversa.

Alla ricerca di nuovi equilibri

Spettacoli ◆ Eutopia, piace il teatro partecipativo di Trickster-p Giorgio Thoeni

Le cose si sarebbero potute fare diversamente? Oggi in Germania ci sono cittadini di prima e di seconda classe? Con la domanda, chi sarebbe diventata se fosse rimasta nella DDR, Birgit si confronta nei suoi disegni ed è contenta di essere fuggita. Personalmente conosco solo pochi tedeschi dell’est che non sono contenti della riunificazione. Ma anche questo non cambia lo stato delle cose e cioè che per loro la convivenza con i tedeschi dell’ovest resta complicata. La fattura dei tedeschi dell’est influenzata da decenni di vita nella DDR resta incomprensibile ai tedeschi dell’ovest e difficile da accettare. Anzi, il fatto che i tedeschi dell’est dopo essersi liberati del regime della SED, non siano come i tedeschi dell’ovest, viene visto con alienazione, o addirittura, con indignazione. Chi sono le colonie nazionaliste? Sono un segmento interessante del grande spettro della destra. Si vestono secondo tradizioni del passato, vivono in campagna a stretto contatto con la natura, fanno una vita contadina, mescolano insieme nello stesso calderone il verde con il sangue e la terra, il razzismo e il nazionalismo. I genitori dei bambini di queste colonie sono sempre disponibili quando si tratta di dare una mano nelle scuole, essere presenti o fare dei dolci. Non hanno la mentalità delle bande violente e attaccabrighe tipica di altre destre. Ma possono arrivare a incendiare una stalla se vogliono allontanare qualcuno dal loro villaggio perché si pone in modo conflittuale rispetto alle loro visioni. Come in altri suoi racconti anche qui c’è il tema del congedarsi dalle persone che amiamo. In proposito c’è una frase nel libro che mi ha particolarmente colpita: «Sapevo che non si può sfuggire a sé stessi, che ci si porta sempre con sé ovunque. Ma non sapevo che portiamo sempre con noi anche gli altri». Se penso ai miei nonni, mi sembra una cosa bella, il portare dentro di noi, sempre, le persone che abbiamo amato e non ci sono più. Per me, come per lei, è bello sape-

re che i miei nonni svizzeri, con i quali da bambino ho trascorso delle vacanze felici, sono con me. Tutto dipende da ciò che ci mette in comunicazione, in relazione con chi ci accompagna. Se è qualcosa di bello, questo portarli con sé lo è altrettanto, se invece lo associamo a qualcosa di brutto, diventa un peso. Da giovane rimase affascinato da un quadro del pittore svizzero Ernst Stueckelberg La bambina con la lucertola. Qui nel romanzo compare invece un altro quadro La bella cioccolataia di Jean-Étienne Liotard. Come mai questa scelta? È Paula a scegliere la cartolina con questa immagine e a inviarla a Birgit perché La bella cioccolataia le ricorda Svenja, la figlia di Birgit. Svenja è stata educata ad adeguarsi, fa ancora ciò che deve e ci si aspetta da lei ma il suo viso già mostra distanza e avversione. Kaspar ama le poesie, molte le conosce a memoria, una di queste la condivide con noi ed è Abendlied (Canzone della sera). In quale relazione sta con il romanzo? E lei, Bernhard Schlink, ama le poesie? Kaspar recita a Birgit un verso tratto dalla Canzone della sera di Matthias Claudius perché si sposa perfettamente con l’atmosfera del momento. Descrive il silenzio notturno, la speranza di una vita senza la morsa dei problemi e quel sentimento nostalgico per cui in cuor nostro speriamo che si risolveranno. Canzone della sera è un componimento magnifico e una delle mie poesie preferite. A voce alta uscì nel 1995, diventò un bestseller e un film da Oscar. Dopo un tale successo non è stato difficile continuare a scrivere romanzi? Il successo avuto con A voce alta l’ho vissuto come un grande regalo. Ricevere un regalo così grande una volta nella vita è una cosa meravigliosa e al tempo stesso sufficiente. Semplicemente mi piace scrivere e sono contento che i miei libri incontrino lettori e lettrici. Bibliografia Bernhard Schlink, Die Enkelin, Zürich, Diogenes Verlag, 2021.

Dalla fruizione individuale a quella collettiva e ludica con una marcata impronta partecipativa. È questo il salto di qualità operato da Trickster-p, la compagnia ticinese residente al LAC che con Eutopia, nuova produzione dal fresco debutto, segna un ulteriore punto a suo favore nella ricerca di un linguaggio che si smarchi della scena tradizionale imprimendo un ulteriore slancio nel contesto di una ricerca drammaturgica che deve praticamente tutto alla rinuncia della presenza attoriale intesa nella sua tradizionale accezione. Una caratteristica che, privilegiando la dimensione individuale, dalle prime produzioni indipendenti come H.G., B e Sights fino a quelle nate in collaborazione con il polo luganese come Book Is a Book is a Book (2020) e Estado Vegetal (2021), con Eutopia, la compagnia di Cristina Galbiati e Ilija Lünginbühl oltre a meritarsi prestigiosi riconoscimenti ha potuto approfittare della sua originale formula a declinazione plurilingue facendosi apprezzare in tutta la Svizzera e all’estero. Eutopia rilancia dunque la posta accogliendo un massimo di 15 persone per cinque gruppi di un gioco a squadre attorno a un tavoliere, una sorta di scacchiera. Dopo ogni giro, i giocatori devono occupare le caselle con tessere colorate, pescate rispettivamente e a caso, che rappresentano l’insieme delle piante, degli animali, degli umani, dei funghi e delle spore. Biodiversità che sono in relazione fra loro nella catena alimentare: gli umani si cibano di animali, piante e funghi; le piante di funghi e spore, ecc. Messi a contatto, gli insiemi possono trasformarsi in nutrimento e rafforzarsi oppure indebolirsi fino all’estinzione perché in quantità insufficiente a soddisfare il ciclo nutrizionale. Una scacchiera che così si modifica continuamente nell’ipotesi di un ecosistema alla ricerca dell’equilibrio nella convivenza in cui i giocatori investono responsabilità, strategie e discussioni verso una difficile e spesso improbabile soluzione per costruire un mondo ideale. Ma è davvero partecipazione o è meglio parlare di coinvolgimento? Entrambe sono ipotesi plausibili. E se la dinamica drammaturgica del non-luogo di Eutopia è la messa in gioco della vita sulla terra, siamo anche nel cuore di una matrice teatrale alle sue origini. Hanno collaborato Zeno Gabaglio per le musiche, i dramaturg Simona Gonella e Yves Regenass, il grafico e architetto Paolo Cavalli e il docente di game design dell’Università Milano Bicocca Pietro Polsinelli.

La locandina dello spettacolo in scena al Teatrostudio fino al 27 marzo.


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CULTURA

«Se c’è un leitmotiv nella mia vita è la fortuna» Mostra

Incontro con il fotografo «letterario» Ferdinando Scianna, allo SpazioReale di Monte Carasso fino al 24 aprile

Manuela Mazzi

Nato in Sicilia, a Bagheria, nel 1943, appassionato di fotografia sin da adolescente, figlio della cultura realista italiana, a cambiargli la vita è stato l’incontro nel 1963 con Leonardo Sciascia, con il quale pubblica nel 1964 il suo primo libro Feste religiose in Sicilia. Si trasferisce poi a Milano dove lavora per «L’Europeo» e poi a Parigi, dove conosce il suo grande amico-maestro, Henri Cartier-Bresson, scrive per «Le Monde Diplomatique» e «La Quinzaine Litteraire». Da Parigi, parte per il mondo con lo scopo di gettare il suo sguardo oltre il reportage di denuncia e ambire alla costruzione di racconti espressivi ed eticamente rilevanti realizzati con stile, rifiutando qualsiasi messa in scena finzionale. Alla soglia degli ottanta, dopo aver lavorato in 23 paesi per quasi sessant’anni, Scianna non ha esaurito la passione che riversa nei suoi progetti e che ritroviamo anche nei suoi scatti esposti nella mostra dal titolo Dormire, forse sognare. Le sue fotografie dialogano spesso con i testi, come agisce tale binomio in questo progetto? Sono molto affezionato a questo lavoro, anche al libro, proprio perché è il risultato della mia ossessione frustrata per la letteratura, il tentativo di adottare un linguaggio in cui le parole non siano didascalie delle immagini e le immagini non siano illustrazione delle parole, una sorta di nuova letteratura. Qui ho raccolto un’antologia di testi letterari e fotografie. E poi è un lavoro anomalo per rapporto agli altri miei: io non sapevo di avere questo progetto, non sapevo di questa ossessione inconsapevole di fotografare la gente che dorme. Ci sono voluti vent’anni per portarlo a termine, dalla presa di coscienza alla mostra. E altri dieci anni mi sono serviti per fare il libro… Cartier-Bresson, mio maestro e amico, diceva che il tempo ti restituisce il rispetto con cui tu lo tratti. Quali elementi prevalgono, la creatività o la progettualità? La verità o la rappresentazione? Quando le ossessioni sono consapevoli hanno una progettualità, quando non sono consapevoli ti raccontano di te stesso molto più di quanto tu non sappia. Abbandonarsi al sonno in pubblico è un po’ affidarsi alla benevolenza dell’umanità. Non è quel che ha fatto lei quando lasciò la Sicilia per fare il fotografo? Guardi non so, essendo siciliano, se per retaggio ancestrale io abbia mai creduto alla benevolenza dell’umanità… Tutti lasciano qualcosa, di solito la parte peggiore di sé. Se c’è un leitmotiv nella mia vita non è l’amorevolezza, ma la fortuna, quella che si incontra come si incontra un talento, che peraltro non è un merito. È come avere gli occhi azzurri o gli occhi neri. Ho imparato a fare il fotografo dopo il mio primo libro, quando mi hanno riconosciuto un talento. Infatti, mi sono sempre chiesto, ma chi ha fatto le foto di Feste religiose in Sicilia? La passione, l’istinto, la fame di vita, mi hanno fatto fare cose che andavano al di là della mia capacità di fare, ma solo dopo ho imparato il mestiere. È vero però che se io vado a guardare quelle foto, capisco che tutti i semi di quello che io poi ho fatto, sia nei temi sia nelle cadenze formali, erano già tutti lì.

Ferdinando Scianna. (Manuela Mazzi)

È questo il talento… Il caso! La storia. Gli incontri. Che cosa ha fatto sì che quel signore – che cominciava a diventare uno importante (ndr.: Leonardo Sciascia) – davanti alle mie prime fotografie provasse interesse o aberrazione, e che cosa gli ha permesso di vedere in quella mostra, cose importanti che poi mi ha riferito rivelando addirittura a me stesso quello che io stavo facendo senza rendermene conto? A volte la passione induce alla fortuna, agli incontri, e gli incontri sono la discriminante della vita. Ci sono tante persone che tu ammiri, però ogni tanto incontri un maestro e qualche volta questo maestro diventa tuo amico, e un amico maestro è quello che ha nelle sue mani il tuo destino. «Fotografo, uno che ammazza i vivi e resuscita i morti» così le rispose suo padre quando gli confessò cosa avrebbe fatto da grande. Mio padre alludeva a vicende di paese; io ho dovuto leggere Roland Barthes, Oliver Wendell Holmes e altri… ho dovuto leggere molte cose per scoprire la relazione forte tra la fotografia e la morte. …e il dormire. Sì, è un’altra ragione per cui sono tanto affezionato a questo tema. Perché è una faccenda ambigua. Non c’entra con la morte, il dormire. Quell’uomo che dorme è immobile ma è vivo. Più precisamente i poeti e gli scrittori sempre ci hanno visto morte e sogno, nel dormire, quindi non una sospensione ma un allargamento della vita; è una specie di sfida alla fotografia che uccide il momento di vita; lì, fotografi una persona immobile che probabilmente sta vivendo qualcosa di molto più straordinario della sua immobilità, cioè il sogno. Che è qualcosa di molto intimo. Lei dice spesso che la massima aspirazione di una foto è quella di finire in un album di famiglia: ha fotografie così intime che custodisce con gelosia e non vorrà mai mostrare al pubblico? Guardi, io sono uno spudorato mostratore. Non farei il fotografo se non avessi l’arroganza e l’illusione di credere che i frammenti salvati tra un milione e più di scatti realizzati, non abbiano qualche cosa da raccontare. Per cui le dico di no, perché non c’è niente di più intimo di tutte le fotografie che ho fatto, perché quello sono io.

Non artista, non ritrattista, non paesaggista, non antropologo… ma nemmeno fotografo narratore? È certo di essere «solo» un fotografo, come dice a volte? Mi appassiona il ritratto, trovo sia difficilissimo, ma trovo che il ritratto sia una delle forme più complesse e affascinanti della fotografia. Se non c’è racconto non c’è nulla: che lei faccia il cuoco o lo scultore, se in quello che produce non c’è un racconto, non c’è niente. Mi importa raccontare storie.

Avesse fatto il narratore, avrebbe scritto racconti, romanzi o poesie? Tutti i miei più importanti amici – ho avuto la fortuna di averne tanti e meravigliosi – sono soprattutto scrittori. Forse perché io ho una nostalgia: non ho nessuna intenzione di ripeterla, una volta basta e avanza, però se avessi avuto un’altra vita, nascere con il talento dello scrivere mi sarebbe piaciuto. Dunque, sicuramente sarei stato un raccontatore, ma non è che tutti quelli che raccontano scrivono ro-

manzi. Io ho molto scritto di fotografia ma non solo di fotografia. Mi ha salvato la scrittura, quando il corpo non mi ha più permesso di fare il fotografo. Ho trovato in essa momenti di appagamento e di riflessione. Essendo siciliano, così come lo era Pirandello che ha capito che vivere significa anche guardarsi a vivere e riflettere sul vivere, mi interessa insomma riflettere su quello che faccio, e riflettere sulla fotografia è una maniera per raccontare quello che ti racconto. «Artista sarà lei!». Porre l’etichetta di opera d’arte sopra una fotografia significa «togliere senso storico al lavoro del fotografo». Lo pensa ancora nell’era delle visual art, in cui le fotografie sono così manipolate in postproduzione da generare prodotti altri, penso a David LaChapelle o, per restare in Italia, a Patrizia Burra? Non è la mia tazza di tè, come dico io. L’artista e il fotografo sono due cose incompatibili. È facilissimo oggi ritoccare una foto: forse questo la rende più suggestiva, però non è la foto di tua madre che ti metteresti nel portafoglio. Siamo nell’ambito dell’illustrazione fantastica. E questo, come dice il mio amico Berengo Gardin, è perché non credono nella fotografia. Tu devi fare la scommessa che il reale sia tutto il tuo fantastico. Annuncio pubblicitario

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 28 marzo 2022

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azione – Cooperativa Migros Ticino

CULTURA

Carlo Ciceri, uomo e musicista di rara intensità Musica

Ci ha lasciati troppo presto il giovane compositore tra le figure più attive della musica contemporanea svizzera

Enrico Parola

Veniva dal mare, si è spento sulle nevi elvetiche, ed è quasi un simbolo della sua parabola artistica. Lunedì scorso Carlo Ciceri, quarantunenne compositore di La Spezia (ne avrebbe compiuti 42 a maggio) è stato vittima di un grave incidente mentre sciava. Ligure, era ormai divenuto una figura tra le più attive nella musica contemporanea svizzera e nella formazione musicale ticinese: le sue opere, già premiate alla Biennale Musica di Venezia e presentate a Milano Musica, sono state commissionate a Zurigo, Basilea, dall’Osi. Al Conservatorio della Svizzera Italiana era divenuto il responsabile della rassegna 900 Presente e della Postformazione-Formazione continua, nonché delegato per i progetti strategici della Fondazione CSI e membro della Commissione di Direzione. La lettera che il direttore generale della Fondazione Christoph Brenner ha mandato a tutto il personale coglie con icastica lucidità che cosa significasse la presenza di Ciceri nella vita del Conservatorio: «Con Carlo perdiamo una persona e una personalità insostituibili: competente negli aspetti musicali, grande conoscitore del repertorio contemporaneo e nei più svariati campi della cultura, abile nelle relazioni umane e carismatico, in possesso di uno spirito imprenditoriale, avverso alla burocratizzazione, capace di pensare in maniera stra-

tegica. Carlo è stata una di quelle persone rare capaci di ragionare out of the box senza ideologie e senza preconcetti, senza preoccupazioni di potere o di gloria personali. Ha portato avanti i progetti del Conservatorio con passione, determinazione e successo, senza rinunciare a un sano senso dello humor, anche e volentieri un po’ anarchico, che bene s’inseriva nel team del Conservatorio. Siamo tutti molto scossi e provati per l’accaduto. Lascia in chi ha avuto il piacere di poter lavorare con lui, un grande senso di vuoto e di sgomento». Uno dei più recenti saggi del suo «spirito imprenditoriale, avverso alla burocratizzazione» era stata la creazione, nell’aprile 2020, di una «Borsa di studio di emergenza» con la quale aiutare gli studenti in difficoltà economica. Ciceri era consapevole di come per vari allievi, magari provenienti da Spagna, Italia, Paesi dell’Est e quindi gravati anche dalle spese di affitto, l’unica entrata finanziaria fossero i concerti che già tenevano e di come la loro sospensione sarebbe risultata esiziale quando anche le famiglie non avrebbero potuto sostenere gli studi dei figli. Per questo motivo aveva ideato una procedura snella (lo studente compilava un formulario, cui seguiva un colloquio telefonico per approfondire le questioni più delicate di carattere economico), rapida, che non si basava sul talento

dei richiedenti, e che nelle prime tre settimane aveva già fatto fronte a 30 delle 40 richieste, grazie al coinvolgimento dei privati da cui erano già arrivati oltre 60mila franchi. Il senso dello humor Ciceri lo applicava innanzitutto a sé; più di una volta, anche in interviste pubbliche, si era divertito a definirsi «una cavia del Conservatorio» per essere stato il primo diplomato del corso di composizione. Il musicista spezzino infatti era approdato a Lugano già per completare la sua formazione, seguendo i corsi di Direzione di ensemble per la musica contemporanea con Giorgio Bernasconi e di Composizione con Nadir Vassena. E ancor prima di Lugano era stata Basilea ad accoglierlo quando, neodiplomato in Musicologia, vi si era recato per perfezionarsi. Come raccontato in un’intervista rilasciata alla RSI, aveva incontrato la musica «a cinque anni e mezzo, la settimana prima del primo giorno di scuola, quando i miei mi portarono a provare il pianoforte da un maestro cieco»; fu una folgorazione: «In casa avevo solo una pianola Bontempi, su un tavolino: ci passavo le serate, i miei si insospettirono e iniziarono a pensare che ci fosse qualcosa di serio». Nel 2000 il diploma in pianoforte, quindi il passaggio alla musicologia e a Basilea «il pianoforte diventò lo strumento con cui leggere partiture per altri strumenti e per orchestra; da lì l’in-

Una bella immagine di Carlo Ciceri, compositore eclettico fuori dagli schemi, persona generosa e solare. (© Conservatorio della Svizzera italiana)

teresse per la contemporanea e poi il tentativo di essere io stesso a crearla». Ragionava out of the box anche da compositore: spaziava dalla rilettura di Schubert per riflettere sul tema

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Settimanale di informazione e cultura

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CULTURA

La carica emotiva dei bei tempi andati Musica

In un disco di gran classe, Gillian Welch e David Rawlings tornano agli amori di sempre

Benedicta Froehlich

Da quasi trent’anni, Gillian Welch e il compagno David Rawlings sono tra gli esponenti più validi e apprezzati del rarefatto universo folk-rock d’oltreoceano – un mondo che, oggi solo apparentemente anacronistico, rappresenta in realtà la vera, più autentica eredità culturale che gli Stati Uniti abbiano mai donato al resto del globo: un microcosmo ancora fortemente legato agli essenziali e scarni arrangiamenti tipici della cosiddetta musica «roots» della tradizione a stelle e strisce, fonte preziosissima alla quale innumerevoli artisti si sono abbeverati. Nel corso degli anni Gillian e David hanno davvero fatto tesoro della preziosa lezione di mostri sacri quali Pete Seeger e la Carter Family, e dato vita a un repertorio irresistibilmente demodé, in cui l’intensità dell’interpretazione dona un valore aggiunto a liriche ispirate all’immaginario tradizionale delle radici, per essere ulteriormente impreziosita dalle armonie vocali della coppia e dagli assoli di banjo della Welch. Dopo un periodo difficile segnato dal biennio pandemico, dal tornado che, nella primavera del 2020, devastò Nashville allagando lo studio di registrazione personale della coppia e la cancellazione delle tournée dal vivo, il duo è ora uscito con un nuovo

album All The Good Times (Are Past & Gone), approssimativamente traducibile come «i bei tempi sono ormai una cosa del passato», titolo di un brano chiave del repertorio roots. I due si sono dedicati all’incisione di sole cover fornendo così l’occasione di rivisitare alcuni pezzi molto cari alla loro formazione personale e artistica.

All the Good Times è un album toccante e struggente, intriso di speranza e vibranti emozioni La genialità di quest’album si riscontra nella scelta dei brani da reinterpretare – basata non tanto sulla loro popolarità, quanto sulla carica emotiva; lo dimostra una gemma come la ballata Señor, brano anni ’70 a firma di Bob Dylan, certo incluso in virtù della sua forza drammatica, reminiscente dei capolavori della tradizione americana. Ma la Welch e Rawlings si dedicano anche a un altro pezzo di Dylan: Abandoned Love, del decennio successivo, qui presentato in una versione contraddistinta dai delicati arabeschi intessuti dalle due chitarre. Rimanendo in tema di classici,

Dettaglio della copertina dell’album.

non stupisce l’inclusione di un duetto quale Jackson, reso immortale negli anni ’60 da Johnny Cash e June

Carter. Risultano, tuttavia, più intriganti altri «classici» inclusi nella tracklist di All The Good Times: ca-

pisaldi del repertorio folk quali Fly Around My Pretty Little Miss e Poor Ellen Smith, o, ancora, la suggestiva title track dell’album; e soprattutto, Hello In There – pezzo incentrato sulla solitudine a cui la società costringe i propri membri, reso celebre dal compianto John Prine e oggi attuale più che mai. Per non parlare di Oh Babe It Ain’t No Lie, che vede Welch e la Rawlings rivisitare il blues della grande Elizabeth Cotten, riuscendo a rimanere fedeli alla semplicità dell’originale; e del «gran finale» dell’album, la trasognata country ballad di Arlie Duff, Y’All Come. È chiaro che il rischio maggiore insito in un disco come questo risiedeva proprio nella natura «minimalista» delle incisioni ma è un pericolo mirabilmente aggirato grazie alla raffinatezza e ricercatezza delle armonie vocali intessute dalla coppia, nonché all’eleganza degli assoli di chitarra e banjo. In tal senso, All The Good Times si può definire un successo: un album di volta in volta toccante e struggente, eppure, allo stesso tempo, intriso di speranza e vibranti ambizioni, che riesce nell’impresa di attualizzare brani datati senza, tuttavia, tradirne lo spirito – proprio secondo le antiche, tacite regole del miglior folk d’annata. Annuncio pubblicitario

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