Azione 14 del 4 aprile 2022

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Anno LXXXV 4 aprile 2022

Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura

edizione

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MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

TEMPO LIBERO

ATTUALITÀ

CULTURA

Che cos’è il potere? Come ci cambia? Siamo corruttibili? Intervista al professore Brian Klaas

I gelidisti? Scaldaorecchie in testa, puntano dritti verso le acque di lago o fiume per vivere il freddo

La Germania punta ad aumentare le spese per la Difesa ma ci sono tre grossi problemi da affrontare

Rolando Raggenbass, l’artista filosofo che si percepiva come un raccolto, è in mostra ad Ascona

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Enrico Martino

El Hierro, aspra e irresistibile

Enrico Martino

La guerra impone una svolta Peter Schiesser

Non è facile reggere la follia della guerra. Le immagini e le testimonianze di distruzione, morte, dolore sono un incubo che spinge a voltare lo sguardo e coltivare l’ingenua speranza che presto torni la pace. E difficile è pure capire che cosa passa nella mente di colui che questa guerra l’ha voluta: Vladimir Putin. L’uomo la cui visione imperiale sta condannando la Russia a un futuro di Stato reietto. Con il senno del poi, abbiamo capito che i suoi piani strategici erano più che evidenti da anni, semplicemente non abbiamo voluto crederci. Ma oggi? Chi è questo uomo, come sta vivendo la disfatta del suo esercito, il crollo del suo sogno di grandezza secolare? Se ne rende conto? Secondo l’intelligence americana, Putin non viene informato compiutamente dai suoi ministri e consiglieri su come procede la guerra, fra il presidente e l’apparato militare ci sono forti tensioni. Questo preoccupa gli americani, poiché rende ancor più imprevedibile il leader russo: che cosa farà, quando si renderà conto della sconfitta? E possono avere successo dei negozia-

ti di pace finché lui crede di potere ancora vincere la guerra? Qualcosa deve pur aver capito, se l’obiettivo di occupare le grandi città (Kiev, Charkiv, Odessa) è stato ufficialmente abbandonato, per concentrare le operazioni militari nell’est e nel sud-est dell’Ucraina. Con brutalità accresciuta: Mariupol viene rasa al suolo, la sua popolazione affamata e cannoneggiata, a migliaia vengono deportati in Russia, le truppe russe vengono riposizionate per accerchiare e tentare di distruggere il grosso dell’esercito ucraino, situato nella parte orientale del paese. Gli ultimi sondaggi condotti in Russia indicano addirittura una popolarità accresciuta di Putin, grazie a un misto di propaganda e sentimenti patriottici. E lui si sente ancora tanto forte da portare lo scontro con l’Occidente a sua volta sul piano economico: giovedì scorso ha firmato un decreto in cui stabilisce (conferma) che dal 1. aprile i pagamenti per il gas russo devono avvenire su conti della Gazprombank tramutati in rubli – una decisione che Germania e Francia non accettano, poiché li obbligherebbe a violare

le sanzioni che hanno decretato. L’intenzione è chiara: spaccare il fronte occidentale e mettere l’Europa di fronte a difficoltà di approvvigionamento energetico. Non è chiaro quali ripercussioni immediate e a medio termine avrà questa decisione, né se verrà applicata in modo rigoroso. Ma lo spettro della crisi energetica si fa più concreto. È vero che sempre più Stati europei intendono liberarsi della dipendenza energetica dalla Russia, ma questo non può avvenire entro breve: ci vogliono anni per completare una transizione verso le energie rinnovabili, e ci vorranno mesi per organizzare un approvvigionamento alternativo di gas liquido, che sia il Qatar sia gli Stati Uniti sono disposti a fornire all’Europa, poiché non si creano dall’oggi al domani le infrastrutture necessarie. In caso di crisi energetica, l’Europa dovrà far capo di nuovo al carbone, al petrolio di altri paesi. Un’interruzione delle forniture di gas russo avrebbe un immediato impatto sulle economie europee, ma la vera crisi si avrebbe durante il prossimo inverno, quando le riserve saranno esaurite. In

quel caso probabilmente verrebbe toccata anche la Svizzera. Se Germania e Francia non dovessero trovare alternative in tempo, difficilmente potremmo evitare di dover razionare l’energia anche noi, secondo Werner Luginbühl, presidente della commissione federale dell’elettricità (Elcom). Che la Russia interrompa le forniture di gas e petrolio o che si scelga di rinunciarvi per propria scelta, l’Europa dovrà rivedere i suoi piani energetici e la sua strategia per la salvaguardia del clima, accelerando la transizione verso un’economia verde con maggiori investimenti nelle energie rinnovabili. Purtroppo a breve termine dovrà consumare più energie fossili per garantire il funzionamento dell’economia. Per l’Europa, questa crisi rappresenta di certo un’incognita a breve termine, ma sul lungo periodo la renderà più libera da dipendenze pericolose. Tuttavia, non illudiamoci: anche le materie prime che servono per un’economia green provengono da paesi che non possiamo definire democratici. Ma per la Russia il futuro è ancora più fosco.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

MONDO MIGROS

In arrivo la prima birra Migros

Votazione sull’alcol ◆ All’inizio di giugno i soci della cooperativa decideranno con il loro voto se la Migros potrà o non potrà vendere alcol. Per l’occasione la Migros ha sviluppato le sue prime birre: la «Oui» alcolica e la «Non» analcolica. Le 7 domande principali e le relative risposte Kian Ramezani

Di cosa si tratta? Da quasi 100 anni la vendita di birra, vino e distillati è vietata nelle filiali Migros. Con la prossima votazione generale, i soci della cooperativa Migros hanno la possibilità di cambiare questa pratica nelle rispettive cooperative regionali. Se almeno due terzi diranno sì, in futuro Migros venderà bevande alcoliche nelle sue filiali e nei suoi ristoranti e take-away. Se non si raggiungerà la maggioranza dei due terzi, tutto resta come oggi. Il divieto di vendita di tabacchi non è in discussione e resterà in vigore in ogni caso. Come si vota? A partire dall’inizio di maggio, le dieci cooperative Migros invieranno la documentazione di voto a casa dei propri soci. Poi, a partire dal 16 maggio, le schede di voto potranno essere rispedite per posta o consegnate di persona in una filiale della rispettiva cooperativa Migros. Per essere valido, il voto dovrà essere espresso entro e non oltre sabato 4 giugno (fa fede il timbro postale). A metà giugno Migros pubblicherà i risultati sul suo sito Internet e sul settimanale «Azione». Ogni cooperativa deciderà separatamente. Cosa succede dopo? Nelle cooperative in cui meno dei due terzi si saranno espressi a favore della vendita di alcolici, non cambierà nulla e si continuerà a non proporre bevande alcoliche. Dove invece più dei due terzi dei votanti si esprimeranno per la vendita di alcool, i nuovi statuti entreranno in vigore il 1° luglio 2022. L’unica ecce-

La «Oui» alcolica e la «Non» senz’alcool: le prime birre Migros come simbolo di questa votazione unica nel suo genere tra 2,3 milioni di soci della cooperativa.

Il voto sul futuro del divieto di vendere alcolici alla Migros si svolgerà separatamente in ognuna delle 10 cooperative regionali Migros.

Basilea NeuchâtelFriborgo

Zurigo Aare

Svizzera Orientale

Vaud

Ginevra

Vallese

riceveranno la documentazione a casa. Coloro che non sono ancora soci di una cooperativa Migros, ma che desiderano partecipare alla votazione, possono iscriversi gratuitamente al seguente indirizzo e approfittare di molti vantaggi: www.migros. ch/it/cooperative/diventare-soci-migros/svizzera. Chi non è sicuro di essere già socio Migros (non basta la carta Cumulus) può chiamare lo 0800 840 848.

zione prevista è Ginevra, dove sarà sufficiente la maggioranza semplice. L’introduzione dell’offerta di alcolici avverrà verosimilmente nel 2023. E cosa c’entra tutto questo con la birra? Le due varietà di birra sono il simbolo di questa votazione unica nel suo genere: a seconda dell’esito del voto, dal 2023 sugli scaffali delle rispettive

Lucerna

filiali arriverà la birra alcolica OUI oppure la birra analcolica NON. Comunque vada, si potrà festeggiare la prima birra con il marchio Migros. Le birre «Oui» e «Non» saranno prodotte per la Migros da una storica birreria svizzera.

La Migros è favorevole o contraria? Tra i quasi 100’000 dipendenti della Migros, su questo argomento c’è una gran varietà di opinioni. Alla fine, però, conta esclusivamente quel che pensano i soci della cooperativa. Migros applicherà la loro decisione, senza se e senza ma. Vi sono buoni argomenti sia a favore che contro, ne trovate una selezione e ulteriori informazioni su www.migros.ch/it/impresa/ la-birra-migros-sta-arrivando

Cosa devo fare per votare? Hanno diritto di voto 2,3 milioni di soci delle cooperative Migros, che

Cosa direbbe Gottlieb Duttweiler? Il fondatore della Migros è morto 60 anni fa, per cui sulla sua po-

Ticino

sizione in merito a questa votazione potremmo solo speculare. Però, sarebbe sicuramente contento che la questione venga regolata all’interno delle strutture sociali da lui create. Riguardo al tema alcool, una volta in un’intervista ebbe a dichiarare che magari un giorno la Migros avrebbe venduto anche il vino. E nel 1948 aveva acconsentito che si tenesse una votazione in merito. A ogni modo, la decisione spetta unicamente ai soci della cooperativa.

Partecipare Sulla pagina web dedicata alla votazione, sono riepilogate tutte le informazioni: www.migros.ch/it/impresa/ la-birra-migros-sta-arrivando. Non siete ancora soci? Su www.migros.ch/it/cooperative/ diventare-soci-migros/svizzera potete iscrivervi gratuitamente, partecipare alla votazione di giugno e approfittare di molti altri vantaggi.

Una mobilità grande e lenta, per stare insieme slowUp Ticino

Il dieci aprile, dopo due anni di pausa, ritorna la domenica senz’auto

Domenica 10 aprile 2022 torna l’atteso appuntamento con slowUp Ticino. Un evento gratuito e unico nel suo genere che prevede la chiusura al traffico motorizzato di un tracciato di 50 km tra Bellinzona e Locarno lungo il quale sono organizzate feste e punti di ristoro. Dopo due anni di assenza, siamo alla decima edizione di slowUp Ticino. E se la prima giornata, organizzata nel 2011, attirò 10’000 partecipanti, nel 2018 erano già 42’000. Dalle 10.00 fino alle 17.00 un circuito di 50 km tra Locarno e Bellinzona verrà interamente chiuso al traffico motorizzato per permettere ai partecipanti di spostarsi tranquillamente in bicicletta, coi pattini, a piedi o altri mezzi senza motore. Lungo il tracciato saranno presenti 13 punti di animazio-

ne, la maggior parte dei quali gestiti da associazioni ricreative locali che proporranno anche servizi di ristoro. Non mancheranno le «soste agricole», ovvero aziende agricole presenti sul percor-

azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Simona Sala, Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti Ivan Leoni

Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

so, che apriranno le loro porte ai partecipanti e organizzeranno attività per i più piccoli. Inoltre, presso il Centro S. Antonino, Famigros e Generazione M saranno presenti con divertimento

Un momento di un’edizione passata di slowUp.

e animazioni, nonché imperdibili grigliate. Il percorso toccherà Bellinzona, S. Antonino, Cadenazzo, Cugnasco-Gerra, Gordola, Tenero-Contra, Minusio, Muralto e Locarno. Sul sito www.slowUp.ch/Ticino si trovano informazioni per i partecipanti e consigli per i domiciliati lungo il percorso. Il percorso slowUp è completamente chiuso al traffico motorizzato per l’intera durata della manifestazione ed è proibito l’accesso di qualsiasi veicolo (esclusi i servizi di pronto soccorso). In caso di necessità di utilizzo dell’auto si consiglia di posteggiare al di fuori del tracciato la sera precedente l’evento. Lungo il percorso ci si potrà muovere liberamente e al proprio ritmo (è possibile percorrere anche solo parte del tracciato) seguendo la segnaletica e

la direzione di marcia. Se decideste di uscire dal percorso è importante ricordare che il traffico motorizzato è escluso unicamente sul tracciato ufficiale. slowUp è un evento gratuito ed è un concetto nazionale di promozione della mobilità lenta, della salute e del territorio promosso dalle organizzazioni nazionali SvizzeraMobile, Promozione Salute Svizzera e Svizzera Turismo e tra gli altri sostenuto da Migros e SportXX.

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11

Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

Maggiori informazioni www.slowUp.ch/ticino.Volantini informativi con all’interno il percorso dettagliato sono disponibili nelle cancellerie dei comuni coinvolti e presso i partner.

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938

Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano

Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie

Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– Estero a partire da Fr. 70.–


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SOCIETÀ ●

Archeologia e metal detector Una moda tra appassionati che preoccupa i Servizi archeologici cantonali

Scuola, la classe è flessibile Spazi aperti e confortevoli, dove gli allievi imparano a trovare autonomamente la concentrazione

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Cercasi interlocutori credibili Hubert Steinke spiega il calo di fiducia nelle istituzioni e nella scienza dopo la pandemia

Risparmio energetico Con piccoli accorgimenti si possono contenere i consumi domestici

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Che cos’è il potere

Intervista ◆ Brian Klaas, professore associato di Politica globale alla University College London, nel suo ultimo libro analizza la natura del potere e la personalità di chi ricopre posti di comando Stefania Prandi

Il potere corrompe? Oppure sono le persone corrotte ad esserne attratte? Come ci comporteremmo se ci trovassimo improvvisamente in una posizione di comando? In Corruptible: Who Gets Power and How It Changes (Scribner) (Corruttibile: chi ottiene il potere e come cambia), saggio scritto sulla base di oltre cinquecento interviste, Brian Klaas, professore associato di Politica globale alla University College London, indaga cos’è il potere e cosa succede a chi lo ottiene.

Il potere è una relazione nella quale una persona può costringere un’altra a compiere qualcosa che altrimenti non farebbe. (Shutterstock)

Professor Brian Klaas, che cos’è il potere? Il potere è tipicamente definito come una relazione nella quale una persona può costringere un’altra a compiere qualcosa che altrimenti non farebbe. Per scrivere questo libro, ho esaminato le strutture formali del potere, ovvero gli individui che hanno autorità su qualcun altro perché sono capi, presidenti, dittatori oppure allenatori sportivi. Ho cercato di capire se è vero che il potere corrompe oppure se, semplicemente, le persone corruttibili tendono a cercarlo. Quali sono le caratteristiche di chi cerca il potere e perché ci sono così tanti cattivi leader? C’è un numero sproporzionato di persone corrotte e corruttibili. Questa situazione è dovuta a diverse ragioni. In primo luogo, c’è un effetto di auto-selezione: è più probabile che siano le persone assetate di dominio e violente a cercare il potere. Ad esempio, nel primo capitolo, spiego come le lezioni del famoso esperimento psicologico, chiamato Stanford Prison Experiment, siano state probabilmente fraintese per decenni. Lo studio sembra dimostrare che il potere corrompe, assecondando l’idea che chiunque riceva un’uniforme oppure ottenga una qualche forma di autorità, diventi orribile e violento. Ma ricerche recenti attestano che, invece, chi gravita attorno a posizioni di potere ha maggiori probabilità di avere una personalità autoritaria, con i tratti della cosiddetta «triade oscura», e cioè narcisismo, machiavellismo e psicopatia. Ciò non significa che tutti i leader siano così, ovviamente, ma che le personalità problematiche sono sovrarappresentate nelle sale del potere. Tanta analisi e attenzione sono dedicate a ciò che fanno i potenti; dobbiamo destinare più tempo a pensare a chi lo diventa. Secondo, il potere corrompe; ci sono molte prove a dimostrazione del fatto che cambia le persone. Colpisce la loro psicologia, la loro empa-

importante che ci porta a conclusioni deprimenti: le persone peggiori sono le più attratte dal dominio; sono più brave a ottenerlo; è più probabile che siano violente una volta che ce l’hanno fatta. Ma non dobbiamo farci scoraggiare perché ci sono modi per sostituire il modello.

tia e modifica persino la chimica cerebrale a livello fisico. Gli studi ci dicono che questi effetti riguardano tutte le categorie, chiarendo che il potere agisce davvero come una droga. Douglas Adams una volta scrisse che «chiunque sia in grado di farsi nominare presidente non dovrebbe in nessun caso essere autorizzato a svolgere il lavoro». È un’intuizione

Come possiamo creare un sistema migliore? Nel mio libro propongo dieci diverse regole per migliorare la leadership. Riformare i sistemi è assolutamente cruciale per ottenere capi migliori. Le strutture marce attraggono e creano leader marci. I cambiamenti non sono impossibili. La rotazione del personale è un buon metodo per scoraggiare collusioni e abusi. Inoltre, bisogna reclutare in modo proattivo chi dimostra un curriculum di comprovata integrità piuttosto che aspettare che un individuo assetato di potere si proponga per una posizione. Gli strumenti ci sono. Ad esempio, i test di integrità randomizzati per mandare via le persone in posizioni di grande potere che si approfittano oppure abusano dei loro subordinati. Il problema è che la

maggior parte dei sistemi ha il pilota automatico. Fanno semplicemente ciò che è sempre stato fatto, senza pensare in modo proattivo a modifiche sostanziali per ottenere grandi differenze. In che modo l’era dei media digitali ha cambiato il nostro rapporto con il potere? Nel libro discuto il concetto di «distanza psicologica». Questa definizione si riferisce all’idea che l’abuso diventa più facile da commettere quando si considerano i sottoposti come semplici astrazioni piuttosto che come individui. I media digitali hanno reso più facile disumanizzare inavvertitamente gli altri. Basta pensare all’ultima volta che abbiamo visto un troll, su Twitter, insultare in modo violento qualcuno semplicemente perché non era d’accordo con lui. La dinamica si estende oltre i social network e potrebbe persino influenzare gli abusi sul posto di lavoro, facendo sembrare i colleghi più irreali di quando si interagisce con loro di persona. Maggiore è la distanza che sentiamo emotivamente tra noi stessi e qualcun altro, più

quella situazione può portare a comportamenti vili e offensivi. È uno dei motivi per cui è particolarmente preoccupante che così tanti amministratori delegati e politici vivano nelle loro «bolle», lontani dall’esperienza della gente la cui esistenza è influenzata dalle loro decisioni. Che cosa possiamo fare per prevenire la corruzione e gli abusi? Il potere attrae le persone corruttibili e il potere corrompe. Quindi, cosa si può fare al riguardo? Una volta che si è preso atto delle implicazioni, bisogna progettare sistemi per scoraggiare e rilevare gli abusi di autorità. Per creare leader migliori, dobbiamo temere il peggio, sperando per il meglio: ragionando sul peggior psicopatico violento assetato di potere, saremo più protetti una volta che qualcuno del genere finirà effettivamente in una posizione di comando. L’intero mondo del potere – dalla sala della guerra alla sala del consiglio – deve essere riconsiderato attentamente. Molti di noi sono costantemente delusi dai leader, ma come sostengo in Corruptible, un mondo migliore è possibile.


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MONDO MIGROS

Ricette raffinate per Pasqua

Attualità ◆ Scegliendo i prodotti della linea Sélection, potrete concedervi delle specialità genuine e autentiche che renderanno il periodo pasquale ancora più goloso. Questa linea gourmet della Migros offre un ricco assortimento di prelibatezze provenienti da tutto il mondo elaborate in modo delicato e con ingredienti di pregio. Inoltre, attualmente è l’occasione perfetta per assaggiarli: vi aspetta infatti il 20% di sconto su tutto l’assortimento Raffinata prelibatezza

Tenerissimo filetto di tonno pinne gialle ricoperto da una delicata panatura di semi di sesamo: questa specialità pronta in padella in pochissimi minuti è in grado di conquistare il palato di qualsiasi buongustaio.

Dolce tradizione

Il coniglietto pasquale al cioccolato scuro si caratterizza per il suo gusto unico dato da una percentuale di cacao pari al 72% e finissima granella di cacao. Una tentazione a cui è impossibile resistere.

20%* su tutto l’assortimento Migros Sélection

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fino all’11.4.2022

3 Tenero e succoso

L’entrecôte di manzo proviene da bovini irlandesi allevati al pascolo. L’alimentazione naturale e la frollatura all’osso di ca. 3 settimane regalano alla carne una succosità e tenerezza impareggiabili. 1

1. Entrecôte di manzo Sélection 100 g Fr. 7.–* invece di 8.75 2. Fragole Gariguette Sélection 250 g Fr. 4.75* invece di 5.95

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3.Coniglio Noir 72% Sélection 100 g Fr. 6.55* invece di 8.20

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4. Chips Salt & Vinegar Sélection 150 g Fr. 4.15* invece di 5.20

Sapori croccanti

Queste patatine all’aroma di sale e aceto sono un grande classico tra gli snack dei paesi anglosassoni. Una croccante bontà che arricchisce di gusto e originalità i vostri aperitivi festivi.

Aromatica bontà

Le fragole «Gariguette» sono un’antica e robusta varietà originaria della Francia che si caratterizza per le bacche dall’aroma intenso. Sono ideali per il consumo fresco, oppure per marmellate e dessert.

5. Filetto di tonno Sélection 100 g Fr. 5.50* invece di 6.90

Antipasto gourmet

Un’autentica squisitezza per gli amanti della buona tavola: le mini terrine al salmone con mousse di mascarpone e crème fraîche trasformano ogni antipasto in un momento di puro piacere culinario.

6. Mini terrine al salmone Sélection 9 x 15 g Fr. 6.35* invece di 7.95 I prodotti illustrati sono in vendita nelle maggiori filiali Migros

Colomba artigianale ticinese Voglia di gustare una colomba pasquale un po’ diversa dal solito? Prodotta con passione da un piccolo laboratorio di pasticceria della nostra regione? In questo caso la colomba al gianduia Dolce Monaco saprà accontentare la curiosità e la golosità degli ospiti grandi e piccini. Disponibile in tutti i supermercati di Migros Ticino, questo dolce artigianale è stato sviluppato qualche anno fa dal titolare della pasticceria locarnese Dolce Monaco, Marzio Monaco, già vincitore nel 2019 della medaglia d’argento alla Coppa del Mondo del Panettone. «Per ottenere una colomba di qualità bisogna prestare la massima attenzione a ogni fase della lavorazione e selezionare solo le migliori materie prime», afferma Marzio, che con questa specialità ha voluto proporre una variante decisamente «fantasiosa» della tradizionale colomba. «La colomba al gianduia si differenzia dalla classica per l’assenza di frutta candita, al posto della quale inseriamo dell’ottimo gianduia, preparato anch’esso nel nostro laboratorio con nocciole e zucchero tostati. Tra gli altri ingredienti utilizzati, tengo a segnalare il lievito madre fatto in casa e del buon burro d’alpe ticinese che regalano al prodot-

Flavia Leuenberger Ceppi

Attualità ◆ Migros Ticino ha diverse colombe della regione nel suo assortimento pasquale. Tra queste anche la colomba al gianduia della pasticceria Dolce Monaco di Losone to finito una fragranza, un aroma e una morbidezza inconfondibili». Come per gli altri dolci da ricorrenza firmati Dolce Monaco, anche l’impasto della colomba al gianduia viene fatto lievitare in modo naturale per almeno due giorni, ciò che contribuisce a rendere il prodotto finito particolarmente soffice e più facilmente digeribile. Ad aumentare ulteriormente la gradevolezza del dolce, la superficie è ricoperta da una delicata glassa, la cosiddetta «ghiaccia», composta da mandorle e nocciole intere. Per poter apprezzare idealmente il perfetto connubio di sapori della colomba al gianduia, Marzio Monaco consiglia di «conservarla a temperatura ambiente, all’asciutto e al riparo da fonti di calore, in modo che all’apertura possa sprigionare al meglio tutti i suoi aromi». Infine, segnaliamo che oltre alla colomba al gianduia Dolce Monaco, di produzione locale per Pasqua, Migros Ticino propone ancora la colomba Poncini di Maggia, quella Buletti di Airolo e la colomba ai marroni Cuoco direttamente dalla Mesolcina. Colomba al gianduia Dolce Monaco 500 g Fr. 21.50


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MONDO MIGROS

Graziosi centrotavola primaverili

Attualità ◆ Nei reparti Migros Florissimo trovate bellissime composizioni floreali per decorare la tavola pasquale e non solo. Per esempio quelle a base di variopinti ranuncoli

ni di colori: rosa-rosa vivo; rosa-crema o bianco; rosso-bianco; rosa-rosso; crema o bianco-rosa-rosso vivo; bianco-giallo-arancio. La tavola di Pasqua non spicca soltanto per le succulente pietanze servite durante il banchetto, ma anche per le belle decorazioni che appagano l’occhio di tutti gli invitati. Perché non sfoggiare degli addobbi naturali composti da variopinti bouquet di fiori primaverili? Oltre ai narcisi e ai tulipani, anche un bel mazzo di ranuncoli è molto apprezzato, tanto più che si caratterizzano per la loro fioritura duratura. I ranuncoli sono fiori che risaltano per i tanti magnifici colori e i fitti petali. Amano luoghi luminosi e non troppo caldi. Evitare di lasciarli in pieno sole e se possibile tenerli in un luogo fresco la notte. In questo modo possono durare anche cinque giorni. Prima di collocare il bouquet di ranuncoli recisi nel vaso, tagliare di netto il gambo in modo trasversale con l’ausilio di un coltello ben affilato secondo le dimensioni del contenitore. Non utilizzare le forbici. Rimuovere le foglie e i fiori dall’acqua e aggiungere la bustina di fertilizzante liquido fornita all’acquisto del mazzo di fiori. Nei reparti fiori Migros al momento sono disponibili bouquet di ranuncoli in diverse combinazio-

Migros Florissimo anche su Smood.ch

Un’ampia selezione di fiori dei reparti Migros Florissimo è disponibile anche sul portale Smood.ch: in meno di un’ora il bouquet floreale viene consegnato al destinatario di vostra scelta. Inoltre avete la possibilità di accludere all’ordine un biglietto d’auguri personalizzato. Le composizioni sono preparate sul momento dagli addetti dei reparti fiori Migros.

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SOCIETÀ

Caccia al tesoro

Territorio ◆ I ritrovamenti archeologici sono testimonianze significative e preziose del passato. Assieme ai professionisti si dedicano alla ricerca anche gli appassionati con metal detector, un fenomeno che preoccupa i Servizi archeologici cantonali Fabio Dozio

Si comincia da piccoli a giocare alla caccia al tesoro e a qualcuno resta la voglia. Cercare qualcosa di nascosto ha il suo fascino. Se poi s’immagina di poter scoprire cose antiche e di valore il gioco diventa attrattivo anche per gli adulti. Ovvero, piccoli Indiana Jones crescono e si avventurano alla ricerca di monete d’oro o di altri tesori perduti. Per soddisfare questi desideri, da anni ci sono ricercatori dilettanti che usano il metal detector per scoprire oggetti antichi rimasti nascosti sottoterra. È un fenomeno che preoccupa in particolare i Servizi archeologici cantonali. «A nostro modo di vedere, in Canton Ticino, come nel resto della Svizzera, – ci spiega Rossana Cardani Vergani, responsabile del Servizio archeologico cantonale – l’uso del metal detector appassiona molte persone interessate al passato, che ritengono importante ritrovare reperti in metallo – monete, medaglie, utensili, monili, residui militari e altro – che possano parlare della nostra storia meno recente. Questo particolare hobby può essere letto come una specie di caccia al tesoro, da condividere in famiglia o con gli amici. Un hobby che purtroppo non migliora le conoscenze storiche, bensì distrugge in modo irreparabile preziose testimonianze, a volte uniche. In questi ultimi anni l’uso del metal detector è diventato una moda. Il Servizio archeologico cantonale spesso viene sollecitato da cittadini comuni, che desiderano sapere se in Ticino questo tipo di ricerca è permesso, quali siano le pratiche da intraprendere per avere un’autorizzazione, se necessaria, e dove si possono acquistare questi strumenti di rilevamento. Più

di una volta, la domanda ci è stata posta per uso personale, oppure in funzione di un regalo particolare da offrire a parenti e amici». In Svizzera ha fatto discutere la storia di un abitante di Prêles, nel Giura bernese, che risale al 7 ottobre del 2017. Un uomo, accompagnato da un amico, grazie al suo metal detector ha fatto una scoperta definita eccezionale: una mano di bronzo risalente a 3500 anni fa. Oltre alla mano l’uomo ha trovato anche una lama di pugnale di bronzo e una costola umana. Il ricercatore ha consegnato i reperti immediatamente, ma è stato denunciato e quindi condannato al pagamento di una multa di 2500 franchi. «Sono stato onesto e non mi pento» ha detto l’aspirante archeologo, aggiungendo: «Se trovo l’altra mano, la porto al servizio archeologico cantonale». La sanzione non sembra esser stata sufficiente per farlo desistere. «Non sempre i ritrovamenti sono eccezionali come la mano di bronzo ritrovata “casualmente” a Prêles da un cittadino comune con particolare familiarità nei confronti degli apparecchi di rilevamento. – ci dice Rossana Cardani – Il ritrovamento di Prêles ha fatto storia anche dal punto di vista giudiziario: il tribunale di Berna ha infatti giudicato lo scopritore colpevole di infrazione alla Legge cantonale sulla protezione del patrimonio. Questo perché il riportare alla luce oggetti archeologici senza il necessario accompagnamento scientifico reca danno alla conoscenza e impedisce di comprendere il contesto del ritrovamento». Anche in Ticino le ricerche di antichi reperti è vietata, ma la leg-

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Tasso occupazionale 80/100%

Data d’inizio 1 ottobre 2022

Mansioni Condurre i collaboratori del giornale nelle attività necessarie al funzionamento della redazione; Assicurare il coordinamento con la Direzione, la comunicazione e il marketing di Migros; Redigere articoli in aderenza con la linea editoriale del giornale; Fungere da persona di riferimento in ogni ambito editoriale, organizzativo e finanziario relativo al giornale; Rafforzare e sviluppare la posizione di Azione nel panorama mediatico ticinese (fruibilità anche digitale e bacino di utenza). Competenze professionali Formazione accademica; Provata esperienza pluriennale nella professione giornalistica/editoriale, in particolare per stampa scritta e digitale e nella conduzione di un team; Ottime conoscenze dell’italiano e buone delle lingue nazionali; Approfondite conoscenze digitali (programmi di editing, trattamento immagini, pacchetto Office e Social Media); Spiccate competenze manageriali; Proprietà dialettiche e disinvoltura nell’esprimersi in modo chiaro e comprensibile; Resistenza a importanti picchi di lavoro. Offriamo prestazioni contrattuali all’avanguardia, ambiente di lavoro dinamico in un’équipe redazionale affiatata. Candidature da inoltrare in forma elettronica entro il 24.4.2022, collegandosi al sito www.migrosticino.ch, sezione «Lavora con noi» – «Posti disponibili» includendo la scansione dei certificati d’uso.

In questi ultimi anni l’uso del metal detector è diventato una moda. (Shutterstock)

ge prevede eccezioni con la possibilità di concedere a terzi concessioni di scavo. «La Legge sulla protezione dei beni culturali in materia archeologica è chiara. – spiega Rossana Cardani – Entrata in vigore il 13 maggio 1997, la legge sancisce che il Cantone ha la responsabilità e la competenza esclusiva sugli scavi archeologici e di conseguenza è vietato a terzi eseguire scavi, vale a dire: prospezioni, scavi preventivi e d’emergenza, scavi scientifici ordinari, sondaggi e ricerche con apparecchi di rilevamento. Unica eccezione, quanto indicato nell’articolo 36, ossia che se importanti interessi archeologici lo esigono, il Consiglio di Stato, sentito il preavviso dell’Ufficio e della Commissione dei beni culturali, può accordare a terzi concessioni per tempo limitato e in un sito limitato, se sono date le credenziali richieste dalla legge. In Ticino sono state rilasciate negli anni alcune concessioni di scavo a istituti universitari e ad associazioni di categoria, che hanno presentato progetti dettagliati, garantendo le capacità professionali e la copertura finanziaria per tutta la durata della ricerca di terreno fino alla consegna dei materiali e di tutta la documentazione prodotta all’Ufficio dei beni culturali». Il codice civile svizzero prevede fin dal 1907 che «le curiosità naturali e le antichità che non appartengono a nessuno e che rappresentano un interesse scientifico sono proprietà del Cantone sul cui territorio sono stati rinvenuti». Se qualcuno trova materiali archeologici e lo rivela all’autorità, cosa succede? Chiediamo alla responsabi-

le del Servizio archeologico cantonale. «Quando una persona ritrova materiale archeologico è tenuto a comunicarlo all’autorità competente, in base alla Legge sulla protezione dei beni culturali: il ritrovamento deve essere notificato all’Ufficio dei beni culturali e al Municipio del luogo di rinvenimento, che a loro volta daranno immediata comunicazione al competente Dipartimento. Chi ritrova e consegna reperti archeologici e rispetta pertanto la legge può venire anche ricompensato in base al Codice civile svizzero. Al proposito, posso ricordare il ritrovamento del tesoro monetale di Orselina avvenuto nel dicembre del 2014: cinquemila sesterzi in bronzo di epoca romana, che rappresentano un unicum a livello europeo per numero, tipologia e rarità di alcuni conii. In questo caso i proprietari del terreno in cui è avvenuto il ritrovamento, durante lo scavo per la posa di una tubatura, hanno avvisato il competente Municipio che, a sua volta, ha chiamato il Servizio archeologico cantonale per mettere in sicurezza i reperti. La prontezza di reazione, la sensibilità e il rispetto della legge di questi cittadini è stata ricompensata dal Consiglio di Stato con un equo indennizzo. Oggi questo tesoro monetale fa parte della ricca collezione archeologica del Canton Ticino e un progetto di studio e valorizzazione è in corso di elaborazione in collaborazione con l’Inventario dei ritrovamenti monetali svizzeri, istituto di Berna competente in materia». La legge che proibisce l’uso del metal detector è severa, perché ha l’obiet-

tivo di proteggere e salvaguardare i reperti archeologici. Resta un dato di fatto che chi disobbedisce, come nel caso di Prêles, può contribuire a scoprire oggetti di interesse notevole. La mano di bronzo è considerata la più antica scoperta in Europa. «Per essere efficace – spiega Jean Terrier, già archeologo cantonale a Ginevra – questa politica, che possiamo definire repressiva, deve necessariamente essere accompagnata da campagne pubbliche di sensibilizzazione. I servizi archeologici cantonali e i musei hanno un ruolo essenziale nella prevenzione. L’archeologia va presentata come una disciplina scientifica che può far sognare, ma senza insistere sulla spettacolarità e sul sensazionalismo che finiscono per aumentare la curiosità». Il servizio archeologico cantonale ticinese è in continua attività. In materia di indagini archeologiche, nelle prime settimane del 2022 sono ripresi gli scavi a Claro in un terreno già oggetto di ricerca lo scorso anno. Le vestigia che si stanno riportando alla luce testimoniano la rilevanza di Claro nel periodo compreso tra la preistoria e il medioevo. Sono stati identificati un luogo di culto megalitico, un sito fortificato di età del ferro all’imbocco dei passi alpini, oltre alle già note necropoli. L’archeologa cantonale Rossana Cardani Vergani guarda avanti: «Diverse sono le sorveglianze in corso da parte del competente Servizio cantonale, in attesa di potere aprire presto cantieri già programmati in Valle Maggia e nel Bellinzonese».

Quei caffè in cui si parla Formazione

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Alcuni sconosciuti seduti intorno a un tavolo. La moderatrice rompe il ghiaccio e comincia a parlare, qualcuno si fa coraggio e dice la sua, un altro partecipante segue, e di colpo la discussione si anima. Si sorride, si ride, e nasce la complicità. Il tutto in poche manciate di minuti, grazie alla geniale formula del caffè narrativo, «comunità temporanea» che «si crea quando un gruppo di persone che non si conoscono si incontrano in un luogo e si raccontano reciprocamente

aneddoti ed esperienze della loro vita, in relazione a un determinato tema. (…) È uno scambio arricchente che rafforza la reciproca comprensione, l’autostima e che contribuisce alla coesione sociale». Chi avesse voglia di dare vita a un incontro prezioso come quello del caffè narrativo è invitato a partecipare a un momento introduttivo volto a comprenderne i meccanismi e gli aspetti organizzativi. L’appuntamento è per giovedì 14 aprile, dalle ore 16

alle 18.30 nella sala multiuso di Breganzona (Via Dott. Giov. Polar 46, 6900 Lugano). Modereranno l’incontro Marcello Martinoni e Valentina Pallucca Forte. Per iscriversi info@caffenarrativi.ch o www.caffenarrativi.ch


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La classe diventa flessibile

Scuola ◆ La classe flessibile è uno spazio aperto, conviviale e confortevole dove gli allievi in maniera autonoma imparano a trovare concentrazione e attenzione ascoltando il proprio corpo Valentina Grignoli

Chi ha detto che il movimento è nemico della concentrazione? È anche su questo assunto che si basa il concetto delle classi flessibili. Da un’idea nata nel Nord America, tra Stati Uniti e Canada, si è passati a un vero e proprio modello di insegnamento, che ha conquistato rapidamente il mondo francofono europeo per giungere fino alle nostre latitudini. Ma in cosa consiste una classe flessibile? Chiudete gli occhi e provate a immaginare… pouf, materassini, cuscinoni, sgabelli girevoli, sedie normali, tavoli bassi e alti, grossi palloni, librerie colme di materiale condivisibile, isole di lavoro formate da più banchi messi insieme, un’amaca… e la cattedra… dov’è la cattedra? Insomma, una classe pensata su misura dove al centro non c’è più l’insegnante ma l’autonomia degli allievi. Anarchia totale? No, il tutto è supportato da regole precise, dall’accompagnamento di un docente con una formazione specifica e da un periodo di transizione per la classe. Il principio generale è quello di disporre l’aula in modo tale da permettere agli studenti di trovare la posizione che darà loro maggior concentrazione e comodità per le attività da svolgere. Gli alunni hanno infatti la libertà di scegliere dove e come lavorare: da soli, in coppia o in gruppo, su cuscini, palloni, un banco. È stato provato che il movimento in classe migliora la capacità di apprendimento e questo tipo di sistemazione aiuta gli studenti a incanalare, spostandosi, la propria energia, ma anche a lavorare in modo collaborativo, comunicare e impegnarsi nel pensiero critico. L’autonomia è fondamentale, così come l’imparare a conoscere i propri bisogni. Una realtà questa che è arrivata anche da noi, grazie alla lungimiranza della Direttrice dell’istituto scolastico Bellinzona (zona gialla) Leonia Menegalli, che insieme all’ergoterapista Lietta Santinelli ha introdotto questa metodologia in alcune classi nel territorio e soprattutto nella formazione continua. Un legame deter-

minante quello con Lietta che grazie alla sua professionalità dà spessore e possibilità di realizzazione alle idee innovatrici portate dalla direttrice di ritorno da un congresso in Canada nel 2018. «È uno spazio scolastico conviviale, aperto e confortevole – ci racconta Leonia Menegalli –. Il contesto educativo della classe flessibile si distingue per due aspetti: la disposizione fisica, logistica e la pratica pedagogica che ne consegue. Gli allievi sono così autonomi e concentrati nell’apprendimento. Questo concetto si inserisce nella tendenza della scuola del XXI secolo che prende in considerazione non solo la riuscita scolastica ma anche quella educativa, sviluppando una serie di competenze trasversali». Lietta Santinelli spiega poi che «concretamente, la classe flessibile è organizzata in modo che l’allievo possa scegliere anche gli stimoli sensoriali che lo aiutano a concentrarsi. Si tratta di quattro postazioni diverse: in piedi, seduto al banco, seduto per terra e sdraiato al suolo. L’allievo deve sentire quali sono gli indicatori che il corpo manda quando è concentrato, e quindi regolarsi. Questo è possibile a seguito di un grande lavoro nei primi mesi di scuola tra insegnante e allievi». Un bel dire, in una scuola che prevalentemente, ancora oggi, impone agli studenti di stare composti al proprio posto, seduti tutto il giorno. «Le ricerche effettuate in questo senso però – ribatte la direttrice Menegalli – ci dicono che rimanere per troppo tempo nella stessa posizione provoca effetti negativi». «Il mobilio a scuola ancora oggi sembra dire – commenta Santinelli – se non sto fermo non mi concentro. Ma attenzione, perché anche per gli adulti è impossibile resistere in una posizione composta per molto tempo». Va sottolineato poi che gli allievi di oggi non sono quelli di ieri. Osserva la Direttrice scolastica: «hanno difficoltà ad attivare l’attenzione volontaria: oggi dobbiamo prendere in considerazione gli aspetti

Un esempio di classe flessibile dove si ha anche una riorganizzazione degli spazi comuni e dell’ordine del materiale.

legati al mondo dei media, dei giochi elettronici, e la mancanza di una serie di esperienze motorie. Sono bambini che hanno maggior bisogno di potersi muovere per ritrovare l’attenzione volontaria». Già nei corsi di formazione legati all’ergoterapia, Lietta Santinelli metteva l’accento sull’importanza degli stimoli sensoriali, del movimento. Oggi questo concetto è parte della formazione di cui Leonia Menegalli è responsabile, il modulo dedicato alla gestione positiva della classe. Un percorso che tutti gli anni tocca circa 80 adulti in formazione continua al DFA. Conseguenza principale? «Certe scuole, su proposta dei docenti e grazie anche all’interesse della direzione, sposano questa visione e chiedono incontri supplementari per la realizzazione concreta», racconta l’ergoterapista. Continua Leonia Menegalli «abbiamo voluto focalizzarci sulla nostra realtà, si sono aperte ricerche e studi. Ora collaboriamo con una studentessa dell’USI, che ha intrapreso una ricerca per la sua tesi di Master sulla base di sei classi tici-

nesi per cercare di capire gli effetti sui giovani allievi e sui docenti, in un’ottica di miglioramento del benessere». Come detto in precedenza, non c’è anarchia, «semplicemente il bambino aderisce in modo maggiore – sottolinea Lietta Santinelli –. Ci sono delle piccole libertà, certo, ma all’interno di regole ben chiare, si costruisce il comportamento con gli allievi. Si conta sulla partecipazione, si discute molto: cosa significa essere concentrato? Quali sono gli indicatori che provengono dal nostro corpo? Conoscere alcuni segnali favorisce il recupero della calma dei bambini che sanno dove andare per regolare la propria attenzione. E per ognuno è diverso! Ci sono allievi che si sentono concentrati lavorando al banco classico. L’importante è che imparino ad ascoltarsi, ad avere coscienza di sé». Questo è favorito anche dalla riorganizzazione degli spazi comuni e dell’ordine del materiale: si definisce insieme ai ragazzi quali sono le necessità per un buon lavoro e si realizzano cassettiere e spazi collettivi, come per esempio una libreria al centro

dell’aula, o isole di lavoro. La direttrice insiste sulla struttura: «C’è un programma del giorno, il bambino sa che c’è la determinata attività e si prepara di conseguenza». Classi quindi dove non è più l’insegnante al centro, dove la cattedra può essere sostituita da un armadio con i materiali didattici, dove i piccoli allievi sempre più autonomi non hanno più bisogno di essere seguiti passo per passo. Ma come può un bambino, da solo, capire cosa sia meglio per lui? Lietta Santinelli ci spiega che sono state sviluppate «una serie di attività per aiutarlo ad acuire la sensibilità verso i segnali che il proprio corpo trasmette». La direttrice Menegalli conclude sottolineando ancora una volta l’importanza dell’autonomia: «L’allievo viene accompagnato affinché capisca da solo come regolarsi, come essere consapevole delle proprie necessità. Il docente che deciderà di realizzare una classe flessibile sa che dovrà mettere a disposizione un tempo di lavoro, di discussione, di insegnamento, facendo del progetto una vera e propria materia da insegnare».

Viale dei ciliegi Arnold Lobel Favole Babalibri (Da 5 anni)

«Non potrei immaginare un lavoro più bello che fare libri per bambini»: una naturalezza, quasi un continuo stato di grazia, sembra scaturire dalla matita di questo grande autore americano di origini ebraiche, che grazie all’editore Babalibri viene opportunamente ricordato nella sua vasta produzione, di cui i racconti di Rana e Rospo sono forse la parte più nota. Due amici, Rana e Rospo, dove Rana è quello estroverso e in gamba, mentre Rospo è più introverso, problematico e imbranato. Nevrotico come noi, «just your normal everyday neurotic», come ebbe a dire lo stesso Lobel, che trascorse la sua vita (1933-1987) illustrando e narrando piccoli mondi di profonda saggezza e surreale poesia, apparentemente quieti eppure segnati dalle quotidiane turbolenze dell’animo dei suoi personaggi, specchio di tutti noi. È uno dei pochi autori ad aver vinto sia il Newbery Honor

di Letizia Bolzani

(1971 e 1972), sia la medaglia Caldecott (1981). Oltre a Rana e Rospo sempre insieme, Babalibri ha pubblicato, di Lobel: Gufo, è ora di dormire; Maialino in fuga, e ora Favole. Queste deliziose Favole hanno vari animali come protagonisti, ognuno alle prese con le proprie quotidiane idiosincrasie: c’è il coccodrillo che trova la pace interiore ammirando i fiori belli ordinati della tappezzeria della sua stanza; il granchio fin troppo prudente che, sollecitato dall’aragosta, si lancia in una piccola avventura; il babbuino

alle prese con un ombrello che non riesce a chiudere, e molti altri. Tutti i volumetti di Lobel sono usciti, in stampatello maiuscolo, nella collana «Superbaba», dedicata alle prime letture. Favole si distingue per il formato più grande e per la copertina rigida. Inoltre, al suo interno contiene un codice QR per ascoltare i testi letti dall’attrice Alessia Canducci (ma non tralasciate di leggere personalmente ai vostri bambini, non importa se non siete attori, la lettura ad alta voce è una questione di relazioni affettive!). Emma Carlson Berne – Ilaria Urbinati Le avventure di Edith bibliotecaria a cavallo EDT Giralangolo (Da 5 anni)

Idea interessante e illustrazioni meravigliose: un connubio perfettamente riuscito per questo bellissimo albo illustrato, che racconta la storia di una di quelle giovani, audaci, bibliotecarie del Kentucky che negli anni Trenta galoppavano in sella ai loro cavalli,

su e giù per sentieri impervi e scoscesi e valli profonde, attraversando fiumi pericolosi, con tutti i tempi – grandine, neve e ghiaccio inclusi – allo scopo di portare libri alle persone che vivevano in posti remoti, e non altrimenti raggiungibili, dei Monti Appalachi. Edith, protagonista di questa storia, è un personaggio immaginario, ma le giovani donne (spesso ancora adolescenti) che coraggiosamente trasportavano libri in sella ai loro cavalli, con il sostegno del governo degli Stati Uniti, furono persone vere, a cui l’autrice americana Emma Car-

lson Berne rende omaggio con questo libro, nato dopo approfonditi studi storici. «I libri venivano trasportati con qualunque cosa ci fosse a disposizione – ci racconta l’autrice nella Nota – sacchi per il grano, federe da cuscino, o bisacce». Queste ragazze credevano fermamente nel potere delle storie, e consegnavano anche molti libri illustrati, per i bambini, o per gli adulti che non sapevano leggere, e che così potevano guardare le figure. Anche noi lettori di questo albo ci incantiamo guardando le figure di Ilaria Urbinati, che ci trascinano dentro l’avventura, facendoci galoppare con Edith, tra le montagne, tra mille pericoli, fino alla casa, lontana molte miglia, del piccolo William, al quale aveva promesso un racconto d’avventura. E dopo gli immensi, selvaggi, spazi aperti eccoci nel calore della baita di William e della sua famiglia, dove Edith, fradicia per la pioggia e il temporale, può riscaldarsi, e dove racconta, incantando chi l’ascolta, storie avventurose. Anche questo libro incanta, e anche questa è una storia avventurosa.


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Fiducia nella medicina picconata dalla pandemia Intervista ◆ Hubert Steinke, direttore dell’Istituto di storia della medicina dell’Università di Berna, spiega i pericoli della neonata diffidenza Luca Beti

Possiamo già fare un bilancio di questa pandemia e confrontarla con quelle del passato? È ancora presto per un’analisi approfondita. Già oggi si possono però indicare due elementi che si differenziano sostanzialmente dalle epidemie passate. Il primo è l’ampia discussione pubblica sulle misure per contenerla e sulle informazioni scientifiche. È stato un dibattito che ha interessato anche la medicina. Il secondo elemento è la velocità con cui questo virus si è diffuso in tutto

il mondo e la rapidità con cui siamo riusciti a sviluppare un vaccino.

può invece dimostrare che una persona non ha contratto il virus perché era vaccinata.

Se la società è stata colta di sorpresa, gli epidemiologi e i virologi avevano già lanciato l’allarme sul rischio che un agente patogeno sconosciuto potesse diffondersi in tutto il mondo. La pandemia non era del tutto inattesa. Sì, molti esperti l’avevano vista arrivare a causa dell’elevata mobilità della società. La nostra epoca è caratterizzata dall’emergere di nuove epidemie che si possono diffondere come questa o in maniera diversa. Rispetto al passato, abbiamo però molte più possibilità per contrastarle. Eppure, in questi due anni di pandemia, proprio la medicina viene messa sempre più in discussione. Con quali conseguenze? Dal mio punto di vista, in questo periodo storico siamo confrontati con una grande sfida perché viene parzialmente messa in discussione una delle colonne portanti della medicina: la fiducia nella medicina. Senza fiducia, la medicina non può funzionare. Sarebbe davvero un grosso problema se la società non dovesse più fidarsi della medicina. Ho l’impressione che questo fenomeno, come lo viviamo oggi, abbia raggiunto una nuova dimensione. Le incertezze rispetto a un virus che era pressoché sconosciuto hanno forse minato tale fiducia? La medicina è in continua evoluzione e capita a volte che nuovi studi vengano discussi pubblicamente anche se non sono ancora assodati e sicuri. Può succedere quindi che tali conoscenze scientifiche vengano confutate da altre ricerche, generando un certo disorientamento nella società. Va ricordato che è difficile spiegare alla gente le incertezze con cui è confrontata la scienza e la medicina. Per la popolazione è difficile comprendere la comunicazio-

Pxhere.com

Società e politica hanno deciso che la pandemia è finita. Si ha voglia di ritornare alla vita di prima. Dal punto di vista sanitario, considerati i contagi e i morti a livello nazionale e internazionale, la pandemia è tutt’altro che terminata. In questa crisi, gli appelli alla prudenza delle esperte e degli esperti sono rimasti spesso inascoltati. A volte, le loro previsioni allarmistiche sono state smentite dalla prova dei fatti. I dubbi nei confronti della scienza si sono fatti strada nella popolazione, favoriti anche da quel sottobosco di informazioni che popola i social media. Prima della pandemia, una persona su due aveva grande fiducia nelle informazioni scientifiche e delle istituzioni. All’inizio della crisi, tale fiducia è addirittura aumentata. Un fenomeno che la psicologia sociale indica come rally round the flag. In una situazione di pericolo, le persone si riuniscono attorno alla bandiera e guardano con fiducia alle autorità politiche affinché le guidino fuori dalla crisi. Oggi, i sondaggi presentano un quadro ben diverso e indicano un calo significativo della fiducia nei confronti di tutte le istituzioni e delle esperte e degli esperti. Una crisi di fiducia che ha toccato anche la medicina. «Non possiamo perdere la fiducia nella medicina. La fiducia è fondamentale», indica Hubert Steinke, direttore dell’Istituto di storia della medicina dell’Università di Berna.

ne scientifica, a volte contraddittoria, com’è stato con le mascherine o con la durata della protezione del vaccino. Il mondo scientifico deve quindi uscire dalla sua torre d’avorio e insegnare alla gente che la scienza non è infallibile, che non è onnisciente. Deve comunicare chiaramente che quel sapere è quello più esatto in quel momento e che ci si deve basare su quel sapere, anche se incompleto, per prendere delle decisioni. Il sottobosco informativo della rete e dei social media, certo non aiuta a rafforzare la fiducia nella scienza. E poi, le autorità e la scuola insistono affinché l’individuo pensi con la propria testa. Non ci deve quindi sorprendere se le persone mettono in dubbio le conoscenze scientifiche o il giudizio del dottore. Sì, è vero. Vogliamo una popolazione critica. Non vogliamo più dei pazienti che, come avveniva negli anni Settanta del secolo scorso, fanno senza battere ciglio tutto ciò che dice loro il dottore, considerato un semidio con il camice bianco. Però non possiamo permettere che la critica ci faccia perdere la fiducia nella medicina. La fiducia è fondamentale. Nes-

suno, neanche i dottori conoscono tutti i dettagli, le statistiche, le nuove ricerche sul coronavirus. Anche i dottori devono quindi fidarsi dei virologi e degli epidemiologi. E nemmeno la società può controllare tutto ciò che viene scritto e pubblicato sul Covid-19. Alla fine si tratta di avere fiducia nella base scientifica. Durante la campagna vaccinale si è percepita questa sfiducia nella medicina e nella scienza di una parte della popolazione. Anche se la vaccinazione è lo strumento più efficace per sconfiggere una pandemia, la medicina è confrontata con un grosso problema. Non è facile spiegare i vantaggi di una vaccinazione. È molto più semplice dimostrare gli effetti positivi di una terapia farmacologica. Quando si ha la febbre, basta prendere un medicamento per abbassare la temperatura. L’effetto positivo è immediato e dimostrabile. Con la vaccinazione ci viene invece chiesto di iniettarci qualcosa anche se siamo perfettamente sani. Inoltre dopo l’iniezione si vedono solo gli effetti collaterali o che una persona si ammala anche se è vaccinata. Non si

I pazienti vogliono essere coinvolti e accompagnati nel processo decisionale da interlocutori credibili. I medici di famiglia possono assumere questo ruolo? In generale, la società è più critica nei confronti delle informazioni e delle decisioni delle istituzioni o delle autorità. Tale evoluzione ci obbliga ad adeguare il nostro sistema sanitario. Ad esempio, i dottori devono prendersi il tempo necessario per chiarire i dubbi e le incertezze dei pazienti. A differenza della comunicazione istituzionale, che usa le statistiche e un linguaggio impersonale, i medici di famiglia fanno capo alle esperienze personali, a un rapporto di fiducia che questa pandemia e le discussioni intorno al Covid-19 non hanno per fortuna minato, come indicano le statistiche. Finora le campagne di salute pubblica sottolineavano l’importanza dell’alimentazione salutare e di uno stile di vita sano. Con la pandemia questi elementi sono finiti in secondo piano. Con quali conseguenze per la gestione della crisi? In passato, ci si è concentrati sulle malattie non trasmissibili, come il diabete, il cancro o i problemi cardiovascolari. Alle persone è stato chiesto di assumere comportamenti salutari, di seguire uno stile di vita sano. Ciò ha incoraggiato la responsabilità individuale e l’individualizzazione. Un processo che interessa la società, non solo la salute. Con la crisi causata dal coronavirus, all’individuo è stato ora chiesto di essere solidale, di non considerare solo il proprio benessere, ma quello di un’intera società. È stato così insidiato un valore fondamentale della nostra società; l’autodeterminazione. Un cambiamento di paradigma, difficile da comunicare e da accettare. Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Leggete la storia di Youssef: caritas.ch/youssef-i

Youssef Ghanem, 43 anni, Libano, sprofonda sempre più nella povertà a causa del crollo dell’economia.


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SOCIETÀ

Come risparmiare elettricità in casa Consigli utili ◆ Con alcuni piccoli accorgimenti quotidiani è possibile migliorare i consumi a favore di ambiente e contabilità domestica Rocco Bianchi

Brutte notizie per i consumatori sul fronte energetico in questo 2022: in vista ci sono infatti aumenti delle bollette e, forse, anche una penuria negli approvvigionamenti, ciò che fatalmente finirà a riversarsi sulle bollette dei cittadini sotto forma di ulteriori aumenti. Non solo: una ricerca condotta dalla SRF (Schweizer Radio und Fernsehen) ha mostrato come a causa di lockdown e telelavoro durante i primi mesi di pandemia nel 2020 il consumo di energia elettrica delle economie domestiche è aumentato del 1012 per cento. Possibilità di intervento? Non tantissime. Metodi per contenere le fatture ci sono, ma non c’è da aspettare grandi risparmi. I calcoli sono presto fatti: gli esperti hanno quantificato per le famiglie in Svizzera il potenziale di risparmio solo per l’energia elettrica tra i 400 e i 500 milioni di franchi l’anno (Svizzera energia parla di 160 milioni eliminando unicamente la funzione stand by dagli apparecchi elettronici); essendo gli abitanti della Confederazione circa 8,5 milioni, il potenziale di risparmio è quindi tra i 59 e i 47 franchi a persona, 19 circa solo con gli stand by. Non una fortuna, ma probabilmente abbastanza per compensare i previsti aumenti, fors’anche qualcosina in più. Eppure, risparmiare è necessario, non solo o non tanto per le nostre bollette, quanto per l’ambiente e, appunto, per prevenire un possibile blackout energetico (dunque economico e sociale). Le cifre dei consumi da questo punto di vista sono impressionanti: nel 2020 nel mondo si sono consumati 23mila terawatt/ora di elettricità, ossia mille miliardi di watt moltiplicati per 23mila. Di questi, 56 terawatt/ora sono stati consumati in Svizzera, un terzo dei quali nelle case private. Cifre impressionanti, appunto, e per di più destinate a crescere, dato che in futuro si prevede di elettrificare un numero sempre maggiore di servizi energetici. La buona notizia è che si possono ridurre i consumi quasi senza fa-

tica, poiché le nostre case sono spesso colme a nostra insaputa di apparecchi energivori. La tecnologia, unita a un po’ di indispensabile buona volontà, aiuta. Iniziamo dall’illuminazione. Per quanto strano possa sembrare, questo particolare settore del consumo energetico non è tra i più importanti: in un’economia domestica tipo occupa infatti solo il 10 per cento dei consumi. Comperare le lampadine a risparmio energetico comunque conviene (le LED sono quelle che consumano meno di tutte e durano molto), ma conviene soprattutto scegliere la lampadina giusta per ogni tipo di locale. Il sito italiano Altroconsumo.it ha stilato una lista, che parte dai 15-20 W per i soffitti dei locali che devono essere più illuminati anche perché più utilizzati, come bagno, cucina e salotto, passa dai 10 W delle camere da letto e dei luoghi di lavoro e finisce ai 5 delle varie lampade da tavolo, come quelle di comodini e scrivanie. Non solo: è bene anche fare attenzione ai lumen, ossia l’intensità della luce che una lampadina riesce a emettere (una vecchia lampadina da 40 W ne emetteva circa 600-800), e ai kelvin, l’unità di misura della temperatura della luce: bianco caldo (tra 2700 e 3000), bianco neutro (4000) e bianco da luce diurna (6500). I primi sono preferibili in salotto e camere, il secondo in bagno e il terzo negli ambienti di lavoro. Ma per risparmiare davvero? Occorre concentrarsi sugli apparecchi elettronici e di ufficio, che occupano circa il 30 per cento dei nostri consumi. Qui il risparmio energetico come visto è importante, e lo si ottiene unicamente solo eliminando, o limitando, la modalità stand by, che non serve assolutamente a nulla (misteri dell’industria più che della tecnologia, pare addirittura che ci siano apparecchi che consumano di più in questa modalità rispetto a quando sono attivi). Basta poco: anzitutto là dove si può è bene collegare questi apparecchi a una ciabatta multipresa con interrut-

tore incorporato, in modo da poter eliminare la funzione stand by ogni volta che non li adoperate. Se si è troppo pigri o troppo distratti per spegnere la presa o ricordarselo, la tecnologia come detto aiuta: sul mercato ormai ci sono decine di app che lo fanno al nostro posto. Inutile, ad esempio, tenere accesa anche quando si dorme la WIFI o perennemente pronti all’uso tv, pc, stampante e apparecchi vari: spegnere tutto, gioverà sia all’ambiente sia al portafoglio. Bene sarebbe anche lasciare acceso il PC quando si va in pausa pranzo (spegnerlo significherebbe fargli eseguire processi di memorizzazione piuttosto complessi e dunque energivori), non ne vale la pena: basta metterlo in modalità riposo. Da non confondere tuttavia con il salvaschermo, che lascia il computer attivo e dunque funzionante alla massima potenza. Inoltre, per quanto strano possa sembrare, anche il caricatelefonino consuma energia quando è collegato a una presa. Se non viene usato, meglio dunque staccarlo. Piccola ulteriore annotazione: in generale il consumo energetico di un apparecchio elettronico di intrattenimento durante il suo ciclo di vita è inferiore rispetto all’energia necessaria alla sua produzione e al trasporto; pertanto, è bene cercare di contenere la nostra ansia consumistica da ultimo modello sempre più performante e utilizzarli il più a lungo possibile. In una casa, tuttavia, quasi il 50 per cento dei consumi elettrici proviene dalla cucina e dalla lavanderia: forni, frigoriferi, lavastoviglie e affini sono infatti estremamente energivori. Difficile qui effettuare grandi risparmi, anche perché sono tutti apparecchi a torto o a ragione ritenuti oggi indispensabili. Indispensabile quindi è acquistarli consapevolmente, ossia il più possibile efficienti (per questo tutti sono dotati di etichetta energetica) oltre che adatti alle nostre esigenze, e soprattutto utilizzarli correttamente. In alcuni è pure prevista una funzione

«eco», più lunga ma paradossalmente meno energivora. Alcuni consigli comunque si impongono. In cucina, ad esempio, sono da preferire le cotture a bassa temperatura rispetto a quelle ad alta, e il forno consuma di meno se ventilato anziché in modalità statica (sopra e sotto). Sia per le cotture in padella/ pentola che per quelle al forno si può inoltre spegnere l’apparecchio qualche minuto prima, in modo da sfruttare il calore residuo. Il coperchio inoltre è sempre consigliato: risparmia energia ed evita un eccessivo rilascio di odori, grassi e vapori nell’ambiente (la nostra cappa aspirante, e di conseguenza i suoi consumi, ringraziano). Il frigorifero va impostato attorno ai sette gradi centigradi (-18 il freezer), ché di meno è inutile, ed è meglio refrigerare gli alimenti quando non sono più caldi/tiepidi e, al contrario, farli scongelare in frigo e non all’aria aperta: nel primo caso usate meno energia,

nel secondo, oltre a rispettare un’elementare regola igienica, sarà sfruttata la bassa temperatura dell’alimento per raffreddare l’elettrodomestico, che dunque lavora con meno energia. Lavastoviglie e lavatrici vanno usate come detto il più possibile a pieno carico e seguendo programmi a bassa temperatura e/o «eco»: durano probabilmente un po’ di più, ma consumano meno e il risultato finale non cambia (anzi c’è pure chi afferma che è migliore). Per gli altri elettrodomestici (macchina per il caffè, frullatore, aspirapolveri, robot di vario tipo, microonde eccetera) vale invece una sola raccomandazione: devono essere collegati solo quando sono adoperati. E se proprio, come di solito si fa ad esempio con la macchina per il caffè e il forno a microonde, restano perennemente attaccati a una presa, per lo meno sarebbe utile non tenerli in stand by. Davvero, ne vale la pena.

Dal vento alla Folgore Motori

Entra a far parte della storia Maserati una cento per cento elettrica che completa la gamma delle suv Grecale

Mario Alberto Cucchi

Folgore. Dal latino Fulgur. Un altro modo per dire fulmine. Una scarica elettrica che parte dal cielo e può arrivare a toccare terra. Folgore è anche il nome che Maserati ha dato alla versione cento per cento elettrica con tecnologia a 400 volt che andrà a completare la gamma del nuovo suv Grecale svelato al mondo a fine marzo (vedi foto). La storia di Maserati viene da lontano. Era il primo dicembre del 1914 quando Alfieri, Ettore ed Ernesto Maserati aprono a Bologna la «Società Anonima Officine Alfieri Maserati». Una semplice autofficina. Per vedere il logo del tridente bisogna aspettare una decina di anni, esattamente l’inverno del 1926 in cui nasce la loro prima creazione, la Tipo 26. Era la prima auto a portare il nome Maserati. Un fil rouge nella storia della Maserati è dato proprio dai nomi delle auto che non sono mai apparsi scon-

tati e banali. Nomi di venti utilizzati per auto veloci proprio come il vento. Si parte con Mistral, il nome francese del Maestrale, per una coupé e una spider vendute sino al 1970. E poi Bora, un vento che soffia nella par-

te settentrionale del mar Adriatico ma anche una Maserati disegnata da Giugiaro e venduta tra il 1971 e il 1978. Ghibli, venduta per la prima volta nel 1966, come il vento caldo e asciutto che arriva da sud-est da noi

conosciuto come Scirocco. Chi è stato in Nord Africa sa che Khamsin è un vento proveniente da sud-est che trasporta grandi quantità di sabbia ma è anche una Maserati coupé disegnata da Gandini per Bertone e venduta dal 1974. Karif è invece un vento caldo che soffia durante i monsoni estivi in Arabia ed è il nome di una coupé costruita in poco più di 200 esemplari dal 1988. E poi ci avviciniamo ai giorni nostri con Levante, il vento che soffia forte nello Stretto di Gibilterra e che ha dato il nome al primo suv del tridente. Oggi è il momento di Grecale, suv compatto che porta il nome di un vento mediterraneo proveniente da nordest. Una storia fatta di successi e che continua a gonfie vele. Nel 2021 ha registrato una crescita del 41% nelle vendite globali rispetto al 2020 arrivando a consegnare in tutto il mondo ben 24’269 auto. Risultati importanti frutto di un rilancio del marchio e

di progetti ambiziosi come avere una gamma completamente elettrificata entro il 2025. La strategia Maserati fa parte del piano strategico Dare Forward 2030 di Stellantis annunciato il 1. marzo. Tutti i nuovi modelli della Casa di Modena saranno sviluppati, ingegnerizzati e prodotti al 100% in Italia. Questi adotteranno sistemi con propulsione elettrica in grado di fornire l’innovazione e le prestazioni tipiche del DNA Maserati. Tornando all’ultima nata, Grecale, unisce lusso e innovazione in un’auto dalle elevate prestazioni. Aspettando l’arrivo di Folgore, oggi Grecale è disponibile in tre versioni: GT spinta da un quattro cilindri benzina mild hybrid da 300 cavalli, Modena con analogo motore MHEV da 330 cavalli e Trofeo, dotata di un V6 benzina da 530 cavalli derivato dal motore Nettuno della MC20. Non solo cavalli ma anche un’auto fruibile nella quotidianità senza scendere a compromessi.


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 4 aprile 2022

SOCIETÀ / RUBRICHE

L’altropologo

15

azione – Cooperativa Migros Ticino

di Cesare Poppi

Quattromila Pezzi da Otto ◆

Alle prime luci dell’alba del 5 marzo 1821, nelle acque della Boca del Inferno, uno stretto passaggio a Nord della Bahia de Jobos, a Nord di Porto Rico, la vedetta del brigantino pirata Anne lancia l’allarme: vela in vista! Il comandante Roberto Cofresi sale in coperta. Forte di un’esperienza ormai decennale e di innumerevoli vittoriosi combattimenti, identifica subito la sua prossima preda come nave da carico e ordina all’equipaggio di preparare il ponte per l’arrembaggio. Cofresi non è un sanguinario: come molti dei suoi colleghi preferisce terrorizzare le sue vittime con la fama della ferocia leggendaria dei pirati e un’apparenza che lo fa sembrare un demone uscito dall’inferno (anche se lui personalmente quando è fuori servizio preferisce abiti eleganti all’ultima moda) ed evitare così scontri dal risultato sempre incerto. Non per niente Anne è conosciuta nelle taverne della costa col nome di El Mosquito, La Zanzara. Leggera e

veloce, dotata di soli sei cannoni di medio calibro e armata con il maneggevole armo bermudiano (quello, per intenderci, che ha dato il nome al pratico armo da diporto attuale) manovrato da tredici uomini di equipaggio, è concepita per ronzare attorno al bottino tirando due golpes de canon mentre sciorina il sempre efficace Jolly Roger: arrendersi o morire. Poi si sale a bordo con ghigno feroce, qualche minaccia e un paio di schiaffoni e il gioco il più delle volte è fatto. Dovesse andar male, non appena si vedano far cucù dai boccaporti cannoni un po’ troppo lunghi e fitti, si vira di bordo, si alzano i tacchi e ci si fionda dentro una delle innumerevoli baie delle quali è piena la costa sfruttando il basso pescaggio dell’Anne e la sua grande manovrabilità. Semplice, provato ed efficace. Solo che questa volta colui che è stato l’incubo della marineria commerciale delle Bermude ci casca come un pollo. Quello che Cofresi cre-

La stanza del dialogo

de essere un grosso, goffo e grasso mercantile altro non è che lo schooner San Josè y Las Animas: per ironia della sorte il San Josè era già stato una volta arrembato e preso da Cofresi e i suoi per poi essere rilasciato ché troppo complicato da gestire. E dunque la nemesi: dopo il primo scambio di cannonate, visti tre dei suoi cadere sul ponte colpiti da palle di moschetto, Cofresi si dà alla fuga. Fa arenare la Anne sulla spiaggia: lui stesso è ferito e ordina ai suoi di sbandarsi e disperdersi nella foresta per dividere le forze dei loro inseguitori. Il giorno dopo viene intercettato dalla milizia del governatore spagnolo. Si batte ma viene sopraffatto assieme al suo fedele schiavo africano Enrique. Entrambi vengono imprigionati a Guayama dove mano a mano vengono rinchiusi anche tutti gli altri membri dell’equipaggio di Cofresi. Nelle settimane che seguirono il Governatore de la Torre riuscì a im-

porre che il processo si tenesse secondo il codice militare e non secondo il codice civile. Nella confusa, complicatissima, rognosa e delicata «Questione della Sovranità delle Bermude», che vedeva in campo potenze internazionali come la Spagna, la Danimarca e i nascenti Stati Uniti (e persino la Colombia), secondo i codice civile il Nostro avrebbe potuto invocare lo status di privateer, ovvero di «pirata» abilitato alla Guerra di Corsa – e dunque Nobile Corsaro e non vile Pirata – che agiva secondo una Patente accordatagli da un legittimo sovrano per «combattere», pur per motivi privati e personali (e, s’intende, previo un accordo per la spartizione del bottino fifty-fifty con chi gli dava la Patente Salvacondotto/Salvapelle) i nemici del Sovrano sottoscritto nel documento di Patente. Speriamo che sia chiaro: in caso di cattura, in sostanza, il nostro Corsaro doveva essere trattato come un prigioniero civile e per-

tanto non poteva essere giustiziato. Cosa che invece – paradossalmente – poteva permettersi un tribunale militare avendo dimostrato, s’intende, che l’accusato si fosse comportato da macellaio in violazione delle vivaddio cavalleresche regole di guerra. Resosi conto della mala partita, Cofresi negò di aver mai ucciso chicchessia spiegando nei dettagli le sue tattiche «se non puoi mordere fuggi». Quindi provò a corrompere i suoi carcerieri offrendo quattromila Pezzi da Otto – i favolosi dobloni d’argento spagnoli. Poi però, vista l’inutilità degli sforzi, decise di entrare nella parte e uscire di scena con stile. Era il 29 marzo 1825. Mentre lo legavano alla sedia per essere fucilato, Roberto Cofresi y Ramirez de Arellano, triestino della piccola nobiltà di antica ascendenza mitteleuropea, rifiutò di essere bendato: «Ho ucciso almeno quattrocento persone con le mie mani! Figuratevi se ho paura della morte. Fuoco!».

di Silvia Vegetti Finzi

La solitudine felice

Gentile dottoressa, la leggo sempre eppure mai avrei pensato di scriverle, anche perché non ne avrei avuto tempo. Sino all’anno scorso infatti lavoravo come operatore finanziario e mi dedicavo totalmente alla professione. Soltanto di recente, da quando sono andata in pensione, mi accorgo di essere sola, di non avere amici, di non sapere come ammazzare il tempo. Le giornate stanno diventando lunghe e, sbrigate le faccende quotidiane, mi attendono ore vuote. Ho molti interessi culturali per cui leggo, guardo la Tv, sento musica, vado al cinema, ma sempre da sola. So che lei consiglia, a chi si trova nella mia situazione, di fare volontariato ma ho già lavorato tanto che non mi sento di ricominciare. Vorrei piuttosto riflettere con lei sulla possibilità di una solitudine felice. Grazie della risposta che mi darà. / Sara

Cara Sara, finora il suo rapporto col tempo è stato quasi esclusivamente negativo. Scrive infatti di non averne mai avuto e ora che è in pensione di non sapere «come ammazzarlo». Evidentemente la dedizione totale alla professione le ha impedito di ascoltare il tempo interno, quello che Sant’Agostino chiama «tensione dell’anima». Sottomettere tutte le proprie risorse a un unico scopo, nel suo caso la professione, impoverisce l’esistenza e la rende vulnerabile. Come sa ogni giocatore d’azzardo, non bisogna mai puntare tutta la posta su un unico numero. Riducendo l’esistenza a una sola dimensione, la sua identità sessuale non si è mai definita per cui, non a caso, si presenta come un «operatore finanziario» piuttosto che come una «operatrice finanziaria». E le parole non sono mai insignificanti. Se parliamo

Mode e modi

di un soggetto maschile, nessuno ha mai avuto dubbi che per «diventare uomo» è necessario imparare a stare soli con sé stessi. Per noi invece la solitudine è una conquista recente. Virginia Woolf ne tesse l’elogio nel breve saggio Una stanza tutta per sé del 1929. Per secoli le donne, escluse dalla vita sociale, si sono affidate ai legami affettivi nella continua paura del disamore e dell’abbandono. In questo senso lei è stata libera e indipendente, anche se ora ne coglie le conseguenze negative. Ma non è mai troppo tardi. Soprattutto per le donne, è sempre possibile convertire l’isolamento in solitudine attiva, dare nuovi indirizzi alla mente, rendersi disponibili a nuovi incontri. Passioni, interessi e curiosità rimangono risorse recuperabili. Dobbiamo tuttavia riconoscere che la modernità non aiuta. Viviamo nella «società degli individui», una comunità dove non

si è mai isolati ma sempre soli. Ci sentiamo parti di una folla anonima, dove ciascuno procede per la strada senza guardare chi gli sta vicino, senza chiedersi da dove venga e dove stia andando. Ma le occasioni non mancano e lei, esperta di solitudine, è approdata qui, nella Stanza del dialogo, un luogo di carta stampata in cui, da quindici anni, convergono mille voci per sottoporre problemi, scambiare riflessioni, avanzare richieste di aiuto. L’insieme di questa corrispondenza – da me raccolta nel libro La stanza del dialogo: Riflessioni sul ciclo della vita, editore Casagrande di Bellinzona – costituisce un archivio della vita pubblica e privata del Canton Ticino. Della solitudine, soprattutto nella terza età, abbiamo sempre parlato ma ora il problema si è aggravato perché il lockdown ci ha costretti a chiuderci in una «cella d’isolamento» da cui, anche ora che le

porte si sono aperte, è difficile uscire. La grande psicoanalista francese Françoise Dolto, riflettendo su di sé, sul suo invecchiamento, scrive Una solitudine felice, ove dialoga con le presenze interne, con le figure che animano la sua memoria. Questa risorsa, che apre alla relazione, può diventare una spinta a creare nuovi rapporti nel mondo esterno. Non si tratta di lavorare ancora ma di partecipare, secondo i suoi interessi, a occasioni d’incontro dove la vicinanza si può trasformare in appartenenza. Informazioni Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

di Luciana Caglio

Dostoevskij non c’entra ◆

Nomen omen: proprio l’autore di Delitto e castigo, capolavoro della letteratura mondiale, rappresenta, come icona simbolica, l’alto livello della cultura russa, di ieri e di oggi e nei più svariati ambiti. Nulla da contestare, figurarsi. Ciò che, invece, sconcerta è l’uso che se ne sta facendo, in questa strana guerra. Se ci ha risparmiati sul piano materiale, ha però inciso sulle mentalità, sui sentimenti o risentimenti, risvegliando vecchi fantasmi, nostalgie ideologiche comprese. Ecco che nei confronti della Russia riemergono le simpatie da parte di ex militanti sul fronte della guerra fredda, schierati con l’est sovietico e contro l’ovest americano. E adesso, senza dichiararsi apertamente dalla parte di Putin, volto impresentabile, mettono in guardia dalla demonizzazione della Russia ricorrendo all’arma

della cultura, come se fosse una garanzia di buon governo e l’esclusiva di quel grande paese, sin dall’epoca zarista. E poi proseguita con l’avvento dell’URSS, come dimostra lo stesso Stalin che, a modo suo, amava la cultura, sempre che l’artista gli andasse a genio. Non durò a lungo la predilezione per il compositore e pianista d’avanguardia Dmitri Shostakovich, poi condannato per deviazionismo nel 1948. Una sorte che spettò a una folta schiera di celebrità. Insomma, riabilitare l’URSS, perché ha alle spalle un bagaglio culturale ammirevole, non deve far dimenticare i gulag. Alla stessa stregua, la Germania di Hitler rimane pur sempre quella di Kant, Bach e degli artisti innovatori del Bauhaus, costretti a emigrare negli Stati Uniti. E qui, citando questo nome, si

tocca un punto fermo: il chiodo fisso dell’antiamericanismo. Gli eventi in corso l’hanno rilanciato. Mentre si attenua la commozione spontanea di fronte alle sofferenze e alle distruzioni vissute ormai in diretta, grazie a testimoni in loco, si fanno i conti con le cause, le responsabilità del disastro: di chi la colpa? Siedono in prima fila, sul banco gli imputati NATO e USA, mentre lo stesso premier Zelensky perde consensi. L’epoca è volatile, sul filo di mode che non concernono soltanto beni di consumo, divi e svaghi, ma correnti di pensiero, a volte insensate, che provengono proprio da laggiù. Clamoroso il caso della cancel culture che, da decenni, imperversa nelle università diffondendo un messaggio dagli effetti aberranti. Per migliorare il mondo attuale bisogna eliminare tutti quelli precedenti, civiltà che

hanno lasciato segni, presi di mira da rivoluzionari che si battono per il nulla, nel senso letterale del termine. E così si distruggono statue, dipinti, libri, insomma le testimonianze di secoli di storia da buttare. Ora, paradossalmente, la guerra ha aperto un nuovo campo di battaglia ai cancellatori che stanno dilagando in Europa, dove si assiste al fenomeno «Censura e castigo», come titola «il Foglio», quotidiano italiano fuori dal coro. Nell’edizione del 28 marzo scorso, documenta su più pagine le conseguenze dell’assurda «caccia al russo» che colpisce manifestazioni culturali ad ampio raggio. Festival cinematografici, concerti, mostre d’arte, conferenze, lezioni universitarie, e via enumerando eventi in cui i protagonisti sono di origine russa e come tali condannabili. E come sempre succede in operazioni del

genere si rischia persino il ridicolo. Fra le vittime figurano russi dichiaratamente ostili a Putin. Ciò nonostante, quest’inattesa russofobia ha attecchito in nazioni fieramente democratiche: Inghilterra, Danimarca, che ha interrotto i rapporti con l’Ermitage di San Pietroburgo (non posso fare a meno di ricordare che ospita un ritratto di Vinicio Salati, opera di Otto Dix che ho visto e fotografato). Anche in Svizzera, a Ittingen è stato annullato il concerto del pianista Selim Abdelmoula, di origini russe. Parafrasando il nostro titolo, anche Putin non c’entra. Sta di fatto che, se la pandemia non ci ha reso migliori, come molti speravano, neppure la guerra ci riesce. Intanto, però, l’accoglienza profughi sta rivelando un Ticino generoso e senza pregiudizi.


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azione – Cooperativa Migros Ticino 17

TEMPO LIBERO ●

Reportage da El Hierro Soprannominata Isla del Meridiano è la più piccola e la più lontana a sud e a ovest delle isole Canarie

Carré d’agnello al forno Servito con contorno di patatine, spugnole e spinaci, è un piatto che scalderà il cuore di tutti gli ospiti

Quando un solo gufo non basta Rappresentato quasi sempre come un animale saggio ed erudito, pare essere un uccello che porta molto fortuna

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Quattro bracciate in pieno inverno

Adrenalina ◆ Si chiamano «gelidisti», e sono i cultori delle acque ghiacciate, di cui anche alle nostre latitudini esiste un’associazione. Ma c’è anche chi questa passione la coltiva in solitaria, o in piccoli gruppi Moreno Invernizzi

Il consiglio degli esperti? «La regola dice: “un minuto per ogni grado di temperatura dell’acqua”». Ovvio, non è una regola scritta, ma la risultanza di quanto provato sulla propria pelle. E, quella pelle, è di quelle temprate, capace di resistere ammollo nell’acqua a temperature che superano di poco gli zero gradi. In… arte, li chiamano i gelidisti, ossia quelli che amano stare appunto immersi in acque gelide. Talvolta, nei casi più estremi, magari in una pozza dopo averne tagliato la superficie ghiacciata. C’è chi lo fa per sport – con tanto di gare e campionati mondiali veri e propri –, ma anche chi pratica per pura passione. O per trovare un po’ di refrigerio in una giornata… invernale. Non si pensi che questa sia una passione tipicamente nordica, perché anche alle nostre latitudini i gelidisti sono parecchi. Al punto che è pure stata creata una vera e propria associazione: i Gelidisti del Ticino. E, accanto a loro, molti altri che vivono questa passione in forma più o meno individuale. Ne abbiamo appunto incontrati alcuni.

È una domenica mattina di fine inverno. Benché in cielo il sole splenda, l’aria è invero ancora un po’ cruda. Sul lungolago di Locarno qualcuno azzarda un passo di footing per riscaldarsi. Poco più in là, sulla sabbia della riva, un uomo di mezza età, in accappatoio, sta misurando la temperatura dell’acqua. «Otto gradi… Mi sa che sarà uno degli ultimi bagni, qui. Poi, per rinfrescarci un po’, ci toccherà optare per il fiume». Lui è Giuseppe. E come diversi altri appassionati, da autunno inoltrato a primavera, si ritrova per il classico bagno. «Lago o fiume che sia, poco importa: l’importante è che si possa fare qualche bracciata. Per tenersi allenati e per rinfrescarsi. Ma senza esagerare: la regola, appunto, dice un minuto per ogni grado. Più, ovviamente, il tempo necessario al corpo per abituarsi allo choc termico». Ma non definitelo gelidista: «Sì, è vero, ho sentito che le persone che praticano quest’attività vengono definite così, ma noi preferiamo definirci appassionati di questa attività». Che, poi, a volerla dire tutta, è nata quasi per caso: «A dire il vero prima di tutto, è stato il piacere di ritrovarci, di condividere un momento in compagnia. Così, per trovare una sorta di “escamotage” al tutto chiuso del primo lockdown, è nato il rituale del brunch in riva al lago, anche in in-

Daniela B.

«La regola dice: “un minuto per ogni grado di temperatura dell’acqua”»

verno. Poi, da cosa nasce cosa: prima un piede in acqua, poi anche l’altro e in men che non si dica ci siamo ritrovati a fare il bagno. In piena stagione fredda. Consuetudine che stiamo portando avanti da due anni; ormai è quasi una tradizione». Quella domenica, in acqua a fargli compagnia ci sono anche Enea ed Eliana. A riva, ad attenderli, c’è la moglie di Giuseppe. «Io? No, io preferisco guardarli dalla riva. Ma mi piace far parte del gruppo. Questa volta, per vari impegni, siamo in forma ridotta, ma talvolta ci ritroviamo in una decina. E fra questi si aggiungono a volte i nostri figli». Pericoloso? «No, di base non ha controindicazioni, a patto che ognuno

presti la massima attenzione alla reazione del proprio corpo: non c’è una regola fissa per tutti; ogni persona ha un suo modo di adattarsi alle basse temperature», puntualizza Enea. La nuotata in acque gelide, del resto, secondo alcuni studi, rinforzerebbe il sistema immunitario e ridurrebbe infiammazioni, favorendo nel contempo il recupero muscolare (c’è chi cura l’artrosi con la crioterapia). «Be’, se effettivamente nuotare nell’acqua fredda ha così tanti benefici non saprei, ma di certo da quando lo faccio non ho più grossi problemi, niente più raffreddore. Anche se dal Covid ci sono passato pure io… In ogni caso, nuotare nelle acque gelide male non fa». A parlare così è Giulio, 44enne di Orselina, che dal canto suo ha scelto di praticare questa attività in solitaria. «Tutto è nato quasi per gioco. Non ho mai amato particolarmente l’acqua troppo calda, e così, un giorno di ottobre mi sono ritrovato a fare il bagno nella Maggia, al Merisc. È stato l’inizio di una lunga storia d’amore, tra me e le acque fredde. Durante l’inverno ci torno regolarmente due volte la settimana per una nuotata rigenerante, oppure mi tuffo nelle acque del lago, a Minusio». Poi, d’estate, Giulio cambia… lidi: «La mia stagione… balneare va da autunno a primavera. Beninteso, capita anche di fare un bagnetto in estate, ma di per sé mi gusto assai di più le nuotate da ottobre in avanti». Ad affascinarlo non è solo la sensazione dell’acqua fredda a contatto con la pelle. «No, affatto. È tutto il contesto a essere spettacolare. In inverno il panorama che ti trovi tutt’attorno è decisamente diverso da quello estivo. Spesso sei avvolto dal silenzio, circondato dall’acqua: sei solo tu, i tuoi pensieri e il fascino genuino della natura. Quando nuoti al lago, magari all’imbrunire, con le papere che ti nuotano accanto, è qualcosa di unico». E quando non c’è tempo per il fiume o il lago? Niente paura: Giulio una soluzione l’ha trovata: «Non è sempre evidente conciliare il lavoro, la vita privata e questa mia passione. A volte ho come l’impressione di sottrarre del tempo per stare con la mia famiglia, per cui mi sono anche attrezzato con una piccola vasca esterna qui a casa, dove posso rifugiarmi quando non ho il tempo di andare al lago o al fiume». La misuri la temperatura dell’acqua? «Un tempo sì, lo facevo, curioso di vedere fino a dove potevo spingermi. Mi ricordo una volta attorno ai 2 gradi, alla pozza di Tegna. Ora no, non lo faccio più: non è quello il mio scopo, ma di darmi una bella rinfrescata. Anche perché sono persuaso che sotto i dieci gradi, le reazioni del tuo corpo sono grossomodo le stesse».


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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 4 aprile 2022

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azione – Cooperativa Migros Ticino

TEMPO LIBERO

El Hierro, una fine del mondo sostenibile Reportage

È selvaggia, l’anima ambientalista della piccola falce di terra appartenente all’arcipelago delle Canarie

Enrico Martino, testo e foto

Un microcosmo atlantico di correnti oceaniche e venti sahariani che reinventano ogni giorno nebbie irlandesi, paesaggi lunari, ginepri aggrovigliati da un vento già africano e un’esplosione vegetale di pinete e brughiere. Basta cliccare «El Hierro» sul sito delle Canarie per capire che a questa piccola falce di terra, a vaga forma di boomerang e a doverosa distanza dal resto dell’arcipelago, bastano sole, vento e acqua, «Centri di svago. Spiacenti, nessun risultato trovato. Ritenta, di sicuro troverai quello che fa per te».

Il Mirador de la Peña si trova a un’altitudine di 740 metri sul livello del mare ed è stato progettato dal famoso artista di Lanzarote César Manrique; (sotto a sn) All’eco-museo de Guinea è possibile vedere i famosi Lagartos Gigantes, le lucertole giganti di El Hierro; (a ds) El Golfo con il villaggio di Frontera e Roques de Salmor. In basso, El Golfo, scogliera di Punta Grande. Soprannominata Isla del Meridiano El Hierro è la più piccola e la più lontana a sud e a ovest delle isole Canarie.

Un’isola riserva della Biosfera UNESCO, Geoparco Europeo, e persino «Best in Travel 2021» della Lonely Planet Neanche pappagalli o canarini avvolti da tempeste di neve nelle palle di vetro d’ordinanza, o file di cammelli che nelle altre isole aspettano pazienti qualche compratore su uno scaffale. Una Cenerentola per chi ama crogiolarsi al sole su una spiaggia ma «Cuando cae la noche, El Hierro tambièn se despierta» ridono gli isolani, si sveglia a modo suo però regalando notti sfrenatamente romantiche tappezzate di stelle, amate anche dagli astronomi per la loro lontananza da qualsiasi inquinamento luminoso. Una «Fine del Mondo» lo è stata ufficialmente fino alla scoperta del continente americano, da quando Tolomeo nel secondo secolo avanti Cristo collocò il Meridiano Cero, il «Meridiano Zero» come lo chiamano qui, all’estremità occidentale dell’isola. Un privilegio durato fino al 1884 quando El Hierro fu detronizzata dalla britannica Greenwich; ma gli abitanti però si consolano con altri primati, dall’hotel più piccolo del mondo appollaiato sulla scogliera di Punta Grande alla Lucertola Gigante, la Gallotia simonyi, rettile autoctono dell’isola. Gli ultimi esemplari esistenti furono scoperti nel 1975 dallo studioso tedesco Werner Bings, ristretti a settanta centimetri di lunghezza ma sopravvissuti a terremoti, gatti, uccelli predatori e conquistatori spagnoli del quindicesimo secolo, a differenza dei Bimbaches, una popolazione di origine berbera che popolava le isole e ha lasciato solo pochi petroglifi slavati dal tempo. Riserva della Biosfera UNESCO, Geoparco Europeo, «Best in Travel 2021» della Lonely Planet per l’anima ambientalista, la sostenibilità come punto di forza è una scelta quasi obbligata per un’isola aspra, con pareti verticali che si arrampicano fino a 1500 metri, praticamente priva di spiagge, una scommessa che ha trasformato El Hierro. Alla base di tutto c’è un innovativo progetto di energia sostenibile integrata per valorizzare quello che non le è mai mancato, vento e acqua. Il cuore del sistema è la Central hidroeólica de Gorona del Viento che utilizza i surplus dell’energia eolica per azionare pompe che alzano l’acqua marina da un bacino al livello del mare a uno più alto situato in un cratere vulcanico, generando una cascata che crea un flusso di energia idraulica stabile. Oggi El Hierro è un laboratorio di soluzione dei problemi energetici per le piccole isole di tutto il mondo con oltre il 60 per cento di energie rinnovabili, un’agricoltura sempre più sostenibile, coltivazioni di banane bio

incluse, e programmi per abbattere i costi della desalinizzazione. Vento e acqua come motore del mondo hanno già cambiato la vita di Sabinosa, il villaggio più occidentale della Spagna accucciato ai piedi di una parete rocciosa che ogni pomeriggio si mangia il sole, dove fino agli anni Settanta la luce la vendeva un falegname, l’unico a possedere un generatore. Probabilmente un progetto simile poteva nascere solo in un’isola in cui persino il nome, «Il Ferro», ha un’origine incerta perché

qui di ferro non ne hanno mai trovato. Forse arriva dallo spagnolo antico esero, «forte», legato alla ruvidità di un’isola-isola, «uno di quei posti tutto o nulla, per funzionare devi innamorartene». Per Enrica Baudino è stato un vero colpo di fulmine che l’ha spinta a lasciare un lavoro di medico a Torino per creare, con il marito Paolo, Atlantidea, un progetto di ecoturismo legato alla scoperta dei sentieri e della natura dell’isola. «El Hierro prima o poi ti mette alla prova con la sua asprezza

circondata da un mare padre, non un mare mamma come il Mediterraneo, capace di infinita dolcezza ma anche di rivoltarsi, soprattutto quando meno te lo aspetti. Qui la terra ti offre i suoi frutti ma solo e quando lo decide lei, perché questa è ancora un’isola per raccoglitori come ai tempi dei Bimbache». Chi viene qui però sa benissimo cosa cerca, una wilderness quasi inimmaginabile in un piccolo fazzoletto di lava perso in mezzo all’Atlantico, un mare che scolpisce al ritmo delle sue onde scogliere di lava nere come la pece, gli alberi di El Sabinar trasformati dal vento in contorte installazioni di arte contemporanea, muretti che ricordano l’Irlanda persi fra nuvole perennemente arroccate intorno al cuore verticale dell’isola, le sfumature di verde dei boschi di pini. Una stradina che serpeggia tra vento, mare e rocce raggiunge il faro di Orchilla, il punto più a ovest della Spagna, e anche se siamo davanti all’Africa va bene lo stesso perché a El Hierro c’è sempre qualcosa di «più occidentale di tutta la Spagna». Per una vista a volo d’uccello c’è il Mirador de la Peña sospeso sul mare, che si trova settecento metri più in basso, il belvedere più famoso dell’isola da-

vanti a un piccolo e intrigante edificio in vetro e pietre laviche creato da Oscar Manrique, artista e nume tutelare delle Canarie. Qui il primo semaforo risale al 2005 e la microscopica capitale di Valverde, unico capoluogo dell’arcipelago che non si affaccia sul mare, raggiunge a stento i duemila abitanti, meno di un quarto dei diecimila che popolano l’isola, ma gli herreños sul loro fazzoletto di terra ci stanno benissimo, badando bene a tenere in vita radici simboleggiate da un paio di grandi facce di pietra bianca all’entrata di Valverde. Rievocano la Bajada che ogni quattro anni accompagna con una folla di fedeli la Virgen de los Reyes che trasloca per qualche settimana dal suo eremo tra le colline alla chiesa di Santa Maria de la Concepciòn prima di tornarsene a casa, probabilmente frastornata dalla travolgente vita di Valverde. Un inafferrabile e straniante senso di isolamento che rende uniche certe isole, deve essere il segreto che ancora oggi rende El Hierro un oggetto di irresistibile desiderio. Informazioni Su www.azione.ch trovate una più ampia galleria fotografica.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

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TEMPO LIBERO

Ricetta della settimana - Carré d’agnello con spugnole e spinaci ●

Ingredienti

Preparazione

Iscriviti ora!

Per 4 persone

1. Ammorbidite le spugnole nell’acqua per circa 30 minuti. Scaldate il forno statico a 200 °C. Praticate degli intagli verticali distanti circa 2 mm su tutta la lunghezza delle patate, senza però tagliarle del tutto. Accomodatele su una teglia foderata con carta da forno. Spennellatele con la metà dell’olio e cospargetele con fleur de sel. Dimezzate la testa d’aglio in senso orizzontale e accomodatela sulla teglia delle patate. Cuocete al centro del forno per circa 40 minuti.

I membri del club Migusto ricevono gratuitamente la nuova rivista di cucina della Migros pubblicata dieci volte l’anno. migusto.migros.ch

60 g di spugnole secche 600 g di patate piccole resistenti alla cottura, ad esempio Amandine 6 c d’olio di girasole fleur de sel 1 testa d’aglio 2 carré d’agnello di circa 400 g ciascuno 2 c di ras el hanout olio per cuocere 2 scalogni 3 c di burro 500 g di spinaci novelli

2. 20 minuti prima della fine cottura delle patate, condite il carré con il ras el hanout. Scaldate l’olio in una padella e rosolate il carré da ogni lato a fuoco medio per circa 3 minuti. Trasferite il carré in forno e continuate la cottura assieme alle patate per 11 minuti. Sfornate il carré, avvolgetelo in un foglio di carta alu e lasciate riposare per 5 minuti. 3. Nel frattempo, scolate le spugnole. Tritate gli scalogni e soffriggeteli con le spugnole nel burro per circa 5 minuti. Unite gli spinaci e fateli appassire. Condite con fleur de sel. Spacchettate il carré e versate il succo raccoltosi eventualmente nella carta alu sugli spinaci. Cospargete la carne con un po’ di fleur de sel. Servite con le patate e le verdure. Suggerimento per intagliare le patate in modo regolare: appoggiate sul tavolo due cucchiai di legno con i manici della stessa grandezza o due taglieri di legno alti 5 mm e ponete in mezzo la patata per poterla tagliare a fettine senza arrivare alla base. In questo modo, otterrete tagli di uguale profondità su tutte le patate. Preparazione: circa 20 minuti. Cottura in forno: circa 40 minuti. Per persona: circa 42 g di proteine, 35 g di grassi, 39 g di carboidrati, 640 kcal/2800 kJ. Annuncio pubblicitario

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azione – Cooperativa Migros Ticino

TEMPO LIBERO

Una casa piena di gufi Collezionismo

Secondo la credenza popolare sono portatori di fortuna e saggezza

Un gufo di stoffa dai curiosi occhi strabici è appeso alla porta d’entrata della casa di Prisca Cortesi (nella foto con la sua collezione) che da una decina di anni ne colleziona di ogni genere. Tutto ha avuto origine dall’affetto che la locarnese nutriva per una sua cara amica, la quale, «ne aveva tanti, tantissimi, in ogni angolo della sua casa. Oggi lei non c’è più, e credo di aver cominciato a pensare ai gufi proprio per onorare il suo ricordo». Nella tradizione fiabesca il gufo è rappresentato quasi sempre come un uccello saggio ed erudito, che si prodiga a diffondere la sua sapienza a tutti gli altri animali. Spesso associato a maghi e indovini, esso simboleggia la comprensione, la luce dopo la soluzione di un problema. E, in fondo, la nostra interlocutrice spiega che la sua collezione di gufi si è sviluppata proprio così: con il primo, minuscolo gufetto che raggiunge a malapena un paio di centimetri d’altezza ed è pure un po’ ammaccato: «L’ho comperato cinque anni fa nel negozietto sotto casa. Quel giorno mi era stata diagnosticata una malattia per la quale ho dovuto curarmi cinque lunghi anni. Sono entrata nel negozio, ho scelto questo gufetto che aveva in una mano una candela e nell’altra un orsacchiotto, e me lo sono sempre tenuto in tasca, ovunque andassi: era sul mio letto in ospedale quando sono stata operata, lo tenevo in mano durante le sedu-

te di radioterapia e veniva a ogni visita medica di controllo». Tutto questo fino all’ultimo giorno dei cinque anni di cura: «È andato tutto bene e sono convinta che questo gufetto mi abbia portato tanta fortuna! La cosa strana è che proprio il giorno in cui ho terminato la radioterapia il gufetto ha perso la candelina che teneva in mano: l’ho interpretato come un segno di ottimo auspicio e adesso lo lascio riposare qui in casa, insieme a “mamma e papà”: due gufi che mi sono stati regalati da mia figlia e dal mio compagno». Anche secondo una leggenda nordeuropea, il gufo è considerato l’uccello portafortuna delle principesse discendenti dalla misteriosa dinastia Clementinum, insediatasi in Scandinavia attorno al 340 d. C. ma proveniente dal Mediterraneo. Pure in Brasile, più in generale in Sud America e in Spagna sono convinti che porti sempre bene tenere un gufetto in casa o in tasca come ha fatto Prisca. Perciò, a chi si reca in questi paesi si consiglia sempre di comprare un gufetto in ceramica da portare a casa. E un gufetto brasiliano infatti non manca alla collezione di Prisca: «Mi è stato regalato da una persona che sapeva della mia mania di collezionare gufi». Intanto sul tavolo appaiono gufi d’ogni genere, che sono sparsi per tutta la casa della nostra collezionista, la quale ci racconta la storia di ciascu-

Vincenzo Cammarata

Maria Grazia Buletti

no di essi, uno a uno: «Il mio compagno mi ha regalato quella borsa con sopra tutti i gufi, poi ho uno zainetto di cui sono molto gelosa che, come vedete, ha la stoffa disegnata con gufi su gufi; ho una lampada gufo che mi è stata regalata da una cara amica e che emette diverse luci (ora è sul blu che è il mio colore preferito), e ne ho uno poggiato su un pezzo di tronco a cui tengo pure parecchio». Ogni gufo di Prisca ha una sua storia più o meno avvincente e quel-

Giochi e passatempi Cruciverba

Nell’antichità il pepe nero era molto pregiato. Come veniva chiamato? E come veniva anche utilizzato? Rispondi alle domande leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 3, 4 – 4, 5, 2, 7)

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lo sul tronco non fa eccezione: «Era all’esterno di una casa demolita: stranamente non aveva riportato neanche un graffio. Allora, ho chiesto il permesso di portarmelo a casa ed eccolo qui, poggiato sul tronco di quella betulla che sarebbe andata buttata insieme a lui». E ancora: gufi appesi a ghirlanda sulla finestra della cucina, sulla parete della sala… e poi quel gufo dallo sguardo strabico sulla porta d’entrata: «L’ho scelto in un negozio fra tan-

ti altri, proprio perché ho pensato che non l’avrebbe comprato nessuno con quello sguardo che aveva; così l’ho salvato io e me lo sono portato a casa». L’anima della nostra interlocutrice si divide quindi in due, da una parte li colleziona per la profonda convinzione che ciascuno porti fortuna, dall’altra per «salvarne qualcuno fra quelli che nessuno avrebbe mai voluto» perché difettato o rotto. Secondo gli psicologi, a volte si può collezionare anche per non perdere dei ricordi e, non di rado, la collezione acquisisce un tono emotivo da non sottovalutare. Capita così che, proprio come nella storia di Prisca, si può raccogliere per non dimenticare, per testimoniare, per trasmettere agli altri la propria passione, il legame, l’apprezzamento di qualcosa in una dinamica di desiderio, possesso e perfezionamento che ne sono le spinte principali: «Sono molto gelosa dei miei gufi dai quali non mi separerò mai, e vorrei che quando non ci sarò più non andassero buttati ma li custodissero le mie figlie». Dal più significativo a quello dallo sguardo obliquo, a quelli comprati, ricevuti in dono, utili o meno, di materiali, dimensioni e forme differenti, fino al gufo a lei più caro: quel gufetto piccolo piccolo con la candela spezzata, ma che per Prisca ha rappresentato una grande grande fortuna: la salute recuperata.

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

ORIZZONTALI 1. Singolari copricapi 6. Le ha grandi l’elefante 10. Si è fatto largo nella vita... 11. Scarsa, insufficiente 12. Grosso volume 13. Lo avvolge il pericardio 14. Punteggio per giocatori di scacchi 15. Si preparano verso sera 16. Le iniziali dell’attore Douglas 17. Una consonante 18. Qualità dell’immaginazione 19. Si sottopone a sperimenti scientifici 20. Immagine poetica 21. Le iniziali della giornalista Gruber 22. La iniziali di una Rodriguez della TV 23. Inclinato rispetto a un piano VERTICALI 1. Si mangia a San Silvestro 2. Piccole offerte 3. Nome maschile 4. Audace 5. Stanno in coda... 6. Rinomanza negativa 7. Altari pagani 8. Le iniziali del ballerino Todaro 9. Misura lineare inglese 11. Mostro della mitologia greca 13. Piccole insenature 15. Filo elettrico 16. La smania meno sana 18. Alberi ad alto fusto 19. «Center» per chiamate telefoniche 22. Un poco di buono

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Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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azione – Cooperativa Migros Ticino 25

ATTUALITÀ ●

È battaglia anche sul piano religioso Mosca, la più popolosa tra le chiese ortodosse, rischia di rimanere senza la parte occidentale di quelli che considera i suoi «territori canonici»

Energia, l’Europa guarda a ovest Quali saranno le conseguenze geopolitiche della nuova strategia di Bruxelles, sempre più protesa verso l'Atlantico?

Migros sulla via della crescita Nonostante le perdite nella gastronomia e nei viaggi, nel 2021 il fatturato del gruppo sfiora i 29 miliardi con un utile di 668 milioni

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In arrivo il super esercito tedesco Il punto

Ci sono però tre problemi sulla via del ritorno di Berlino al rango di soggetto militare di peso. Ecco quali

Lucio Caracciolo

Della guerra russo-ucraina una conseguenza fondamentale è il riarmo tedesco. Annunciato domenica 27 febbraio davanti al Bundestag dal cancelliere Olaf Scholz, senza aver informato quasi nessuno prima. Una svolta rivoluzionaria, considerando lo stigma di paese sconfitto e di patria del nazismo che per decenni ha pesato sulla Repubblica federale. E di proporzioni enormi: 102 miliardi di fondo speciale il primo anno, di cui 68 per progetti nazionali e 34 per iniziative multinazionali, tipo eurodroni. Fondo da inscrivere nella Costituzione. Non operazione straordinaria, una tantum, ma progetto di lunga lena. Tanto che Scholz ha precisato di considerare il 2% del Pil come contributo minimo alle spese per la Difesa negli anni a venire. La scelta del cancelliere è stata clamorosa e soprattutto rapidissima rispetto alla causa scatenante. Appena tre giorni dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina il cancelliere era in grado di presentare un progetto abbastanza strutturato al suo parlamento. Ciò che autorizza a pensare si tratti di un piano di emergenza tenuto fi-

nora nei cassetti del Ministero della difesa, da lanciare in caso di necessità. E naturalmente induce a considerare che del piano fossero informati, magari solo al livello di intelligence, anche l’America in quanto potenza «protettrice», che mantiene sul territorio tedesco il massimo schieramento di truppe in Europa e le principali basi, tra cui Ramstein.

L’esercito, come le altre forze armate, è in condizioni pietose. Lo ha ricordato il suo stesso capo, generale Alfons Mais, la mattina dell’attacco russo Vero che la Bundeswehr in ricostruzione parte da molto in basso. L’esercito, come le altre forze armate, è in condizioni pietose. Lo ha ricordato il suo stesso capo, generale Alfons Mais, la mattina dell’attacco russo: «Nel quarantunesimo anno del mio servizio in pace, non avrei mai pensato di sperimentare una nuova guerra. E la Bundeswehr, l’esercito che mi

è concesso comandare, è più o meno a pezzi». Ci vorranno anni, almeno una decina, per portare la Germania al grado delle maggiori potenze militari. Quanto a risorse, con l’annuncio del 27 febbraio la Germania si colloca sul podio mondiale, dietro solo a Stati Uniti e Cina, ben davanti a Russia, Inghilterra e Francia. Tre problemi sulla via del ritorno di Berlino al rango di soggetto militare di peso. Primo, pratico. Una cosa è annunciare, altra spendere bene. Già è partita la corsa all’oro tra le industrie della difesa tedesche, che offrono armi in quantità sulla base di progetti spesso obsoleti. Il rischio è che per fare in fretta si perda di vista la qualità. La Germania remilitarizzata si troverebbe altrimenti fra un decennio con sistemi d’arma antiquati. Inoltre le burocrazie statali non sono il massimo della garanzia quanto ad allocazione delle risorse. Infine una quota di quei 102 miliardi andrà probabilmente alla cooperazione internazionale e ad altri capitoli di spesa più o meno duali. Non solo Panzerdivisionen. Secondo, culturale. I tedeschi sono

un popolo specialmente amante della pace. Con una differenza fra est e ovest. Nella ex Ddr prevale un fondo neonazionalista, con toni anche militaristi, tendenzialmente russofilo, capace di tenere insieme gruppi socialmente e ideologicamente diversi (dalla AfD a parte della Linke). Mentre la Bundesrepublik originaria è modello di società post-storica, economicistica, con tinte cosmopolite. Quel che manca quasi completamente è la cultura strategica. E una legittimazione popolare dello strumento militare. Ciò che limita molto l’impiego delle forze armate. Terzo, geopolitico. Gli alleati non sono propriamente entusiasti del riarmo tedesco. Da Washington ci si complimenta, ma allo stesso tempo ci si interroga su che cosa voglia fare Berlino con un super esercito, considerando il riflesso neutralista che distingue la traiettoria geopolitica della Germania occidentale dal 1949 a oggi. I meno contenti sono ovviamente i francesi, per i quali questo rischia di svelarsi l’ultimo decennio del loro primato continentale in fatto di armamenti. Certo, Parigi ha la bomba

atomica. Ma da tempo anche in Germania si discute di se e come dotarsene, magari in improbabile partnership con la Francia. Alla decisione tedesca faranno presto eco altri paesi europei e non solo, considerando il clima di guerra vigente dal 24 febbraio. Data che Scholz ha infatti battezzato Zeitenwende, svolta epocale. Già ora polacchi e nordici stanno investendo molti denari nella difesa. Di sicuro la mossa di Scholz contribuirà a spostare il baricentro della Nato verso est. Perché i tedeschi si preparano a uno scontro con la Russia, che sperano di evitare, ma che nessuno può escludere. A Berlino si discute già di una sfera di responsabilità tedesca in ambito Nato nei paesi intermedi, o presunti tali, dal Baltico al Mar Nero. Con occhio speciale ai Balcani, alla Moldova e naturalmente all’Ucraina. Si è parlato molto in questi mesi di difesa europea. In attesa che si materializzi – e l’attesa si annuncia eterna – avremo intanto una vera difesa tedesca. Qualcosa su cui riflettere. Anche nella Svizzera ormai costretta a togliersi la maschera della neutralità.


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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Guerra e religione

Putin come Hitler

Giorgio Bernardelli

Alfio Caruso

Kirill, a destra, ha benedetto con parole imbarazzanti la guerra di Putin, a sinistra. (Keystone)

Ha definito «una pazzia» la scelta dei Paesi Nato di aumentare al 2% del Pil la spesa per gli armamenti. Per poi alzare ulteriormente l’asticella, aggiungendo che non solo questo conflitto nel cuore dell’Europa, ma l’idea stessa della guerra dovrebbe essere cancellata dall’agenda del mondo, «prima che sia lei a cancellare l’umanità». In questo mese segnato dalla drammatica scia di sangue e distruzione innescata dall’invasione russa dell’Ucraina, papa Francesco non ha risparmiato gli appelli. Lontano per storia personale dal profilo di «cappellano dell’Occidente» che qualcuno vorrebbe per il papato, sta investendo tutto il suo prestigio morale nel tentativo di fermare l’estendersi a macchia d’olio di quella che lui per primo – con un’intuizione geopolitica interessante – già anni fa aveva definito la «terza guerra mondiale a pezzi». Al punto da essere in questo momento l’unica icona ancora minimamente spendibile per il mondo pacifista, in un conflitto che ha minato molte certezze. Ancora una volta – però – Bergoglio si trova ad affrontare questa nuova sfida da una posizione di estrema debolezza. Perché mai quanto in questa guerra le religioni – e, in particolare, le divisioni stesse tra le Chiese – hanno un peso importante in quanto sta succedendo. Dopo gli anni del cosiddetto «scontro di civiltà» si è tornati a combattere una guerra piena di croci ostentate in entrambi i campi di battaglia. Terreno quanto mai lontano da quella fraternità al di là di ogni barriera che papa Francesco non si stanca di descrivere come il cuore di ogni messaggio religioso. La guerra in Ucraina è una profonda sconfitta anche personale per Francesco, il pontefice che nel 2016 era riuscito a raggiungere a Cuba un risultato storico impossibile per i suoi predecessori: l’incontro con Kirill, il patriarca di Mosca, la terza Roma, la Chiesa rimasta più lontana dal Vaticano, soprattutto negli anni del pontefice polacco. Proprio in questi mesi era in preparazione un secondo faccia a faccia: lo si era ipotizzato per il mese di giugno. Alla fine Francesco e Kirill si sono già parlati in videoconferenza, ma nel mezzo di una guerra che il patriarca di Mosca aveva appena benedetto con parole imbarazzanti infarcite di identitarismo e invettive contro

l’Occidente, con il corollario degli attacchi ai movimenti per i diritti Lgbt. In Ucraina, del resto, il conflitto tra le Chiese ha ampiamente preceduto quello sanguinoso sul campo: sull’onda della «rivoluzione di piazza Maidan» uno degli effetti più vistosi a Kiev era stato il riaffiorare dell’istanza dell’autocefalia, cioè la richiesta di indipendenza dal patriarcato di Mosca degli ortodossi locali. Un tema che aveva fatto naufragare nel 2016 il Concilio panortodosso di Creta, che Bartolomeo – il patriarca di Costantinopoli – avrebbe voluto come storico momento di incontro tra tutte le Chiese ortodosse. La spaccatura con Mosca era stata poi sancita nel 2018, quando lo stesso Bartolomeo aveva consegnato al metropolita di Kiev Epifanyj il «Tomos», il documento con cui Costantinopoli riconosceva il distacco definitivo dell’Ucraina dal «territorio canonico» della Russia. In sostanza una dichiarazione di guerra a Kirill. Non tutti gli ortodossi in Ucraina avevano però accettato l’autocefalia. Una parte maggioritaria delle Chiese e dei monasteri era rimasta comunque sotto la giurisdizione dell’altro metropolita Onufryj, che a livello ecclesiale si era rifiutato di seguire la strada indipendentista per rimanere invece fedele al patriarcato di Mosca. E molte delle altre Chiese ortodosse nel mondo avevano accuratamente evitato di prendere posizione tra Epifanyj e Onufryj per evitare di inimicarsi i russi o Costantinopoli.

L’invasione del 24 febbraio ha cambiato tutto. Molti monasteri ucraini, che fino a ieri si sentivano in tutto e per tutto parte della Chiesa russa, oggi non riconoscono più Kirill L’invasione del 24 febbraio ha cambiato completamente le carte in tavola anche a livello ecclesiale. Di fronte alle omelie di Kirill a sostegno dei carri armati, anche il metropolita Onufryj ha preso apertamente le distanze da Mosca. Molti monasteri ucraini, che fino a ieri si sentivano in tutto e per tutto parte della Chiesa russa, oggi non riconoscono più Kirill. E lo stesso sta avvenendo anche in tante altre comunità di ortodossi russi fuori dai

confini nazionali, come ad esempio in Estonia. Dal punto di vista religioso, dunque, Mosca – che è di gran lunga la più popolosa tra le chiese ortodosse – rischia di rimanere senza la parte occidentale di quelli che considera i suoi «territori canonici». Una parte che, tra l’altro, è la più devota tra gli ortodossi di tradizione russa. Se infatti le statistiche ufficiali riferite alla Federazione russa parlano di 80 milioni di ortodossi, in realtà a frequentare realmente chiese e monasteri non sono più di 5 milioni di fedeli. Al contrario, più della metà dei 15 milioni di ucraini ortodossi russi fino a ieri legati al patriarcato di Mosca vanno in chiesa regolarmente; a cui poi vanno aggiunte le alte percentuali dei 6 milioni di ortodossi autocefali (appartenenti cioè alla chiesa di Epifanyj) e dei 3 milioni di greco-cattolici, anch’essi di tradizione ortodossa ma uniti con Roma. In questo contesto Francesco lancia appelli con parole ogni giorno più forti contro la guerra. Ma vive tutta l’impotenza di chi non riesce a promuovere un’iniziativa comune di pace neppure tra quei leader cristiani locali che in teoria dovrebbero essere i suoi primi interlocutori. Tocca con mano i danni prodotti da quello schiacciamento della religione sugli interessi politici nazionali che lui ha sempre denunciato. Però anche il suo invito incondizionato al dialogo svicola dal problema di fondo: come opporsi da cristiani a un regime totalitario che attraverso la violenza e una dura repressione sta perseguendo i suoi obiettivi? Ed è un tema che non riguarda solo la Russia. Sullo sfondo per il Vaticano c’è anche la questione della Cina, con la quale Francesco ha fortemente voluto lo storico accordo sulla nomina dei vescovi, che di fatto prova a riunificare la Chiesa cattolica in Cina. Ma il prezzo pagato è il silenzio sulla durissima repressione a Hong Kong, dove in carcere in questi ultimi due anni in nome della legge sulla sicurezza nazionale sono finiti anche diversi leader cattolici. Il papa che ha capito la «guerra mondiale a pezzi» oggi non può andare oltre gli appelli. In Ucraina prima o poi il cessate il fuoco arriverà, ma il mondo che lascerà in eredità non sarà decisamente quello sognato da Francesco.

Russia ◆ La Storia segnala inquietanti coincidenze tra il Führer e il nuovo Zar

Il presidente della Russia, Vladimir Putin, pare ossessionato dal nazismo che sarebbe tollerato da una nazione, l’Ucraina, guidata dall’ebreo Volodymyr Zelensky e in cui il partito che s’ispira a Hitler – Svoboda – nelle elezioni del 2019 ha raccolto circa l’1,5% dei voti (non superando la soglia di sbarramento). Dentro il mazzo dei reprobi con venature naziste Putin ha poi infilato anche l’Occidente, accusato di voler distruggere la cultura russa: «L’ultima volta sono stati i nazisti in Germania a condurre una tale campagna di distruzione della cultura indesiderabile» e ha aggiunto di ricordare bene le immagini dei libri bruciati nelle piazze. Viceversa, nel suo ciclico andirivieni, la Storia ci segnala che le inquietanti coincidenze avvengono proprio tra il Führer e lo zar di Mosca. Eppure il tanto deprecato Occidente ha applaudito l’insediamento di un reduce del Kgb alla testa della Russia, mentre avrebbe impedito con ogni mezzo l’insediamento di un reduce delle SS alla testa della Germania. Hitler attribuiva, non a torto, i 10 anni di profonda crisi economica della Germania alle pesantissime clausole del trattato di pace stipulato a Versailles nel 1919. Putin ha definito la scomparsa dell’Urss la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo, addossandone la responsabilità al partito comunista sovietico incapace di avviare una transizione democratica, ma con il retropensiero che la Nato ne abbia approfittato in tutte le maniere. Hitler aveva anticipato nel Mein Kampf i micidiali propositi in seguito attuati, tuttavia non fu preso sul serio, in molti casi perché nessuno aveva dedicato la minima attenzione al suo supponente libretto. Putin già nel 2007, durante la conferenza di Monaco, aveva annunciato di ritenere il modello unipolare, cioè americano, inaccettabile e «generalmente impossibile»; aveva rinfacciato agli Usa di non possedere il potenziale necessario per imporre la propria opinione al mondo; aveva sostenuto che la Nato si fosse espansa all’est violando gli accordi; e per niente farsi mancare, aveva imputato all’Occidente di lottare contro la povertà nei paesi del Terzo mondo soltanto per ottenere benefici. Una posizione assai netta, volutamente ignorata dai diretti interessati troppo solleticati dai tanti affari con la Russia e fiduciosi nell’evoluzione democratica di Putin. Ma che la Russia mai avrebbe somigliato ai sistemi parlamentari con pesi e contrappesi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna lo stesso Putin l’aveva anticipato nel Natale del 1999, durante il suo primo discorso da capo del governo, Eltsin ancora presidente. Anzi, aveva precisato che «per i russi lo stato forte non è un’anomalia di cui liberarsi. Al contrario, essi lo considerano una fonte e una garanzia di ordine,

l’iniziatore e la principale forza dietro ogni cambiamento». Hitler giunse al potere sulla spinta degli oltre 17 milioni di voti (quasi il 44%) raccolti nelle elezioni del 1933. I tedeschi lo volevano alla cancelleria di Berlino, incuranti degli psicopatici dei quali si era circondato e dei tanti crimini sanguinari già commessi. Putin è un prodotto del Kgb, messosi in mostra a San Pietroburgo grazie anche all’alleanza con una consorteria mafiosa. Il suo trasferimento a Mosca, l’ascesa nella cerchia di Eltsin, la direzione del Fsb (i servizi segreti), la nomina a capo del governo e infine la vittoria nelle presidenziali del 2000 hanno rappresentato la rivincita dell’ala dura del Kgb, come magistralmente raccontato da Catherine Belton in Gli uomini di Putin. Al pari di Hitler, pure Putin gode di largo consenso popolare soprattutto negli strati più poveri, da decenni abituati a trovare conforto nel sogno imperiale, ci sia lo zar, il soviet o l’autocrate. Hitler ambiva alla creazione del Reich millenario e voleva avviarlo con l’annessione della natia Austria, bloccata dall’Italia nel ’34 e accettata, invece, dagli Stati europei nel ’38. Gli austriaci lo accolsero in delirio lanciando fiori dai balconi; soltanto in pochissimi capirono che si trattava di una sottomissione. Putin accarezza il sogno della Grande madre Russia e il suo primo passo è stato, nel 2014, l’annessione della Crimea, da oltre due secoli territorio della Russia e dove la stragrande maggioranza è filorussa. Nel 1954 era stato l’ucraino Kruscev, fresco successore di Stalin al comando dell’Urss, a regalarla ai compatrioti per far dimenticare i milioni di morti durante la carestia architettata proprio da Stalin per eliminare i kulaki. In ogni caso, però, la Russia ha compiuto un sopruso. Europa e Usa l’hanno subito per evitare il peggio, come detto da Obama ai dirigenti ucraini. Nella conferenza del ’38, anch’essa a Monaco, Hitler si fece consegnare i Sudeti dagli imbelli Chamberlain e Daladier con la promessa di non avanzare ulteriori pretese. Invece si prese anche la Cecoslovacchia e cominciò a preparare il resto. Allo stesso modo Putin ha tentato di far credere che gli sarebbe bastato rimettere i confini a posto con l’Ucraina per ritenersi soddisfatto. E se Hitler scatenò il secondo conflitto mondiale con l’invasione della Polonia, sicuro che Francia e Gran Bretagna non avrebbero mosso un dito, pure Putin ha minacciato la Polonia («ci basta mezzora per distruggere Varsavia»), però ha compreso che non gliela farebbero passare liscia. E confidiamo che il sadico divertimento della Storia si fermi qui, senza giungere all’ultima, irrimediabile similitudine.

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Prospettive ◆ In Ucraina il conflitto tra le Chiese ha preceduto quello sanguinoso sul campo. Mentre Bergoglio mostra la sua impotenza


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Anno LXXXV 4 aprile 2022

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azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ

Energia, la svolta atlantica dell’Europa

L’analisi ◆ Bruxelles inizia a girarsi, molto lentamente e dolorosamente, verso ovest anche per il proprio approvvigionamento. Con quali conseguenze geopolitiche? A quali condizioni l’Occidente potrà tornare ad avere relazioni serene con la Russia? Federico Rampini

Se tutte le strade portavano a Roma, quasi tutti i gasdotti portano a Mosca. E in futuro? Per riflettere sulle conseguenze della nuova politica energetica europea, abbozzata nel corso dei vertici con Biden a Bruxelles, è bene partire dal significato profondo di un antico proverbio. «Tutte le strade portano a Roma», lo abbiamo appreso da bambini, lo ripetiamo senza sempre riflettere sull’origine della frase. Le infrastrutture fisiche creano legami forti, una dipendenza da cui è difficile liberarsi. I romani lo sapevano bene. La grande cura con cui costruirono strade e ponti, molti dei quali rimasero in piedi per secoli o addirittura fino ai nostri giorni, non fu solo un exploit di abilità ingegneristica. Dietro c’era anche una strategia geopolitica. Costruendo reti di strade che irradiavano dalla capitale dell’impero alle periferie, creavano canali preferenziali di comunicazione, per il transito di beni e persone. Le loro magnifiche infrastrutture facilitavano e rendevano fluidi i traffici tra le colonie e il centro; al tempo stesso «obbligavano» le economie periferiche a rivolgersi verso Roma. C’era anche la funzione militare, le strade venivano percorse dalle legioni.

Le infrastrutture fisiche creano legami forti, una dipendenza da cui è difficile liberarsi. I romani lo sapevano bene Il modello romano è quello cinese. Questa funzione delle infrastrutture è ben nota ai dirigenti di Pechino che hanno pianificato i progetti titanici delle Nuove vie della seta (ufficialmente Belt and road initiative) pensando anche a quello: la costruzione di imponenti reti infrastrutturali di trasporto e comunicazione crea solidi legami di dipendenza reciproca da cui poi diventa difficile prescindere. Il network di gasdotti e oleodotti fra la Russia e l’Europa ha una funzione simile. Crea dipendenza, sempre reciproca come quasi tutte le dipendenze: l’Europa ha bisogno dell’energia russa, Mosca ha bisogno della valuta europea e anche del know how tecnologico occidentale per il buon funzionamento della propria industria energetica. Queste infra-

Nord Stream 2, costruito con importanti investimenti tedeschi, resta congelato e inutilizzato, una «cattedrale nel deserto», ma non scompare. (Shutterstock)

strutture sono pesanti in molti sensi, hanno richiesto investimenti cospicui e anni di costruzione. Alcune risalgono alla prima guerra fredda: per quanto i rapporti est-ovest fossero tesi, non impedirono importanti progetti di cooperazione che traversavano la cortina di ferro. Anche allora la Germania aveva il ruolo di uno snodo nevralgico, con la sua Ostpolitk che promuoveva gli scambi commerciali con il blocco avversario. Il segretario del Partito comunista sovietico Leonid Brezhnev e il cancelliere socialdemocratico tedesco Willy Brandt, fautore della Ostpolitik, dialogavano nel periodo più buio della guerra fredda. Per molti decenni le turbolenze del Medio Oriente fecero apparire l’Unione Sovietica e poi la Russia come un partner ben più affidabile e sicuro rispetto alla Libia o all’Iraq. Nel primo shock petrolifero (1973) l’intero mondo arabo si era accanito contro l’Occidente per castigarci dell’appoggio a Israele. L’Urss con i suoi contratti di fornitura a lunga scadenza era meno imprevedibile.

Vladimir Putin sta distruggendo quel che i dirigenti sovietici non eliminarono mai: un cordone ombelicale. L’Europa inizia – molto lentamente e anche dolorosamente, con costi elevati – a girarsi verso l’Atlantico anche per il proprio approvvigionamento energetico. Ci vorrà tempo perché l’Unione europea costruisca nuovi rigassificatori per usare il gas americano, però certe scelte e certi investimenti avviati oggi daranno frutto in qualche anno. Viene sbloccato anche un gasdotto che era incompiuto, EastMed, collegamento fra Italia e Israele. L’azienda italiana Snam forse riuscirà ad affittare navi che fungono da rigassificatori, per agevolare importazioni da paesi come gli Stati Uniti o perfino l’Australia. Per il petrolio la riconversione geografica delle fonti è un po’ più facile perché già oggi buona parte del greggio viaggia su navi. Arabia Saudita ed Emirati hanno ampie capacità inutilizzate. Si delinea un futuro più «atlantico» con tutto quel che comporta. Una volta avviati questi investimenti per la riconversione geografica del-

le forniture, si creano una nuova realtà, nuovi interessi materiali. Tutte le strade portavano a Mosca, in futuro una parte delle strade dell’energia traverseranno l’Atlantico e altri mari. Le infrastrutture costruite, per esempio i nuovi rigassificatori, costituiranno altrettanti vincoli e condizionamenti. Putin avrà reso l’Europa più atlantica non solo in senso politico, ma anche per l’orientamento delle sue infrastrutture energetiche.

Putin è un prodotto delle antiche patologie russe. Guarirne non è impossibile: il modello è la Germania post-nazista Non è una svolta repentina e neppure totale. Nessuno andrà a distruggere con cariche di dinamite i gasdotti esistenti che collegano alla Russia. Nord Stream 2, costruito con importanti investimenti tedeschi, resta congelato e inutilizzato, una «cattedrale nel deserto», ma non scompare. E se cambiasse il regime di Mo-

sca? In futuro una parte dei flussi di energia potranno tornare lungo la direttrice est-ovest. Ma quale cambiamento politico sarebbe necessario per rassicurare l’Europa? Non basta immaginare un golpe di palazzo che porti al Cremlino qualche altro ex dirigente del Kgb; forse neppure una rivoluzione popolare, se questa dovesse sfociare in una democrazia nazionalista. La risposta deve guardare con lucidità al passato della Russia e dell’Europa. La nazione russa è malata da secoli, la sua ossessione dell’accerchiamento ha fatto pagare prezzi insopportabili ai suoi vicini. Ha fallito molti tentativi di modernizzazione (inclusi quelli dei due grandi zar Alessandro e Caterina); ha sempre cercato rivincite e compensazioni in avventure imperiali di conquista. Ha accumulato territori di una vastità unica, eppure si è sempre sentita vulnerabile alle invasioni (e talvolta ne ha subite di devastanti). Ha reagito alla propria insicurezza con una cultura del risentimento, ha voluto rassicurarsi a spese dei vicini, ha costruito un culto della propria missione messianica, cristiana o comunista. Questi sono mali profondi dai quali la nazione Russia dovrà prima o poi curarsi. Putin non è un’anomalia, Putin è un prodotto delle antiche patologie russe. Guarirne non è impossibile: il modello a portata di mano è la Germania post-nazista, che ha costruito una nuova cultura nazionale, liberaldemocratica e pacifista, rispettosa dei vicini. Così come l’Unione europea nasce dalla riconciliazione franco-tedesca, allo stesso modo un giorno andrà costruita una riconciliazione russo-ucraina. A patto però che la Russia in quanto nazione riconosca le sue colpe storiche, così come la nazione tedesca è stata capace di farlo. Anche noi avremo un ruolo, l’Occidente potrà agevolare questo processo: a suo tempo l’America agevolò la costruzione di una liberaldemocrazia tedesca. Il grosso del lavoro dovranno farlo i russi, però. Non li si aiuta affatto indulgendo nelle narrazioni vittimistiche secondo cui «è tutta colpa dell’Occidente». Al contrario chi si ostina a colpevolizzare l’Occidente continua a rinviare la presa di coscienza che la nazione russa dovrà affrontare. Annuncio pubblicitario

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ATTUALITÀ

Migros prosegue sul cammino della crescita

Federazione Cooperative Migros ◆ Nonostante le perdite nella gastronomia e nel settore viaggi dovute alla pandemia, il Gruppo è cresciuto ulteriormente nel 2021 – Il fatturato sfiora i 29 miliardi di franchi, l’utile raggiunge i 668 milioni di franchi

Il Gruppo Migros continua a essere leader di mercato nel commercio al dettaglio svizzero addirittura superando i valori dell’anno precedente, già estremamente positivi. Grazie alle riduzioni di prezzo e alle innovazioni riguardanti prodotti e servizi, ha reso ancora più interessante per la clientela fare acquisti. Il fatturato consolidato del Gruppo è aumentato su base rettificata del 2,3% portandosi a 28,932 miliardi di franchi. L’utile del Gruppo ha raggiunto 668 milioni di franchi. Questo nonostante il fatto che importanti settori come quelli dei viaggi, della gastronomia e delle attività per il tempo libero abbiano subito nuovamente delle battute d’arresto. Con il suo impegno sociale, Migros ha sostenuto numerosi progetti per la cultura, la formazione, il tempo libero, il vivere assieme, le iniziative pionieristiche e di sviluppo con un totale di 160 milioni di franchi. Nel 2021, la pandemia di COVID-19 ha influito nuovamente sulla performance commerciale del Gruppo Migros. Se, da un lato, le attività legate ai viaggi, al tempo libero e al settore gastronomico hanno subito un crollo, il core business del commercio al dettaglio ha registrato uno sviluppo soddisfacente. Il Gruppo Migros è stato in grado di superare il già alto livello dell’anno precedente. Di questo risultato, bisogna ringraziare i collaboratori e le collaboratrici del Gruppo Migros. «Sono davvero colpito di come i colleghi e le colleghe lavorino ogni giorno davanti e dietro le quinte per la nostra clientela, con tanta perseveranza e unendo le forze. Vi ringrazio molto per questo grande impegno», afferma Fabrice Zumbrunnen, Presidente della Direzione generale della Federazione delle cooperative Migros.

Numero 1 nel commercio al dettaglio svizzero Nel 2021 il Gruppo Migros si è concentrato sui settori di attività strategicamente importanti confermando la sua posizione di leader di mercato nel core business del commercio al dettaglio svizzero, sia presso i punti vendita che online. Ha promosso la diversità regionale con nuovi prodotti e sedi aggiuntive. L’attenzione si è concentrata anche sulla sostenibilità e su offerte nuove e attraenti per la clientela. Nei supermercati, i clienti hanno beneficiato di riduzioni di prezzo pari a circa 190 milioni di franchi, ovvero a una media dell’1,7%. Denner ha conosciuto uno sviluppo positivo nel conteso settore dei discount, registrando un fatturato pari a 3,808 miliardi di franchi (+1,2%). L’offerente di prodotti convenience migrolino ha cavalcato l’onda del successo dell’anno precedente aumentando il fatturato a 747 milioni di franchi (+4,3%).

Performance finanziaria migliorata Nell’anno precedente, il fatturato del Gruppo è aumentato, su base comparabile e al netto delle vendite di partecipazioni e di immobili, del 2,3% raggiungendo 28,932 miliardi di franchi. La rettifica comprende essenzialmente le quote di fatturato e i proventi generati dalle cessioni di Globus, del grossista nel settore gastronomico Saviva e del centro commerciale Glatt

Obiettivi climatici ambiziosi

Fabrice Zumbrunnen, presidente generale della direzione FCM, e Isabelle Zimmermann, nuova responsabile del Dipartimento finanze della FCM. (Keystone)

nel 2020. Il fatturato del commercio al dettaglio di tutte le aziende Migros ammontava, rettificato, a 24,744 miliardi di franchi netti. (+2,3%). I maggiori fattori di crescita sono stati, oltre alle attività online, i settori Convenience, Discount e Salute. L’utile al lordo di interessi e imposte (EBIT) è cresciuto su base rettificata dell’11,4% portandosi a 800 milioni di franchi. La performance operativa è quindi migliorata per il quarto anno consecutivo. Nel complesso, l’utile del Gruppo nel 2021 ammontava a 668 milioni di franchi, con una crescita pari al 20,4% (anno precedente: 555 milioni di franchi prima della rettifica del portafoglio). Il capitale proprio è aumentato di 654 milioni di franchi, portandosi a 21,142 miliardi di franchi.

10’000 prodotti «Aus der Region. Für die Region.», «De la région» e «I Nostrani del Ticino»

Le dieci cooperative Migros regionali, con le loro società affiliate in Svizzera e all’estero, hanno realizzato un fatturato netto di 16,364 miliardi di franchi. Il loro sviluppo è stato quindi leggermente inferiore rispetto a quello particolarmente positivo dell’anno precedente. In quest’ambito, le rinnovate restrizioni a seguito della pandemia di COVID-19 hanno avuto un impatto evidente, soprattutto nel settore della ristorazione e nelle strutture per il tempo libero e il fitness. Il fatturato nel settore gastronomico è sceso del 9,5% a 394 milioni di franchi. I supermercati e gli ipermercati, compresa l’attività Migros Online, hanno realizzato un fatturato di 12,674 miliardi di franchi (–0,4%), sviluppandosi quindi in modo stabile. I negozi specializzati Micasa, SportXX, melectronics, Do it + Garden e OBI sono riusciti a mantenere lo slancio dell’anno precedente. Il loro fatturato è aumentato dello 0,9% raggiungendo 1,730 miliardi di franchi, e questo nonostante riduzioni complessive di prezzo del 2,2%. La varietà regionale di Migros con le offerte dei produttori locali ha avuto ancora una volta un peso maggiore. Le cooperative hanno lanciato circa 500 prodotti supplementari «Aus der Region. Für die Region.». La clien-

tela può ormai scegliere tra una vasta gamma di prodotti di questo importante marchio. Anche la domanda di prodotti sostenibili, già nettamente aumentata l’anno precedente, è rimasta immutata. Il fatturato relativo ai generi alimentari biologici è aumentato del 3,0%, i prodotti con valore aggiunto ambientale o sociale hanno registrato una crescita dello 0,7%, raggiungendo 3,404 miliardi di franchi.

Numero 1 anche nel commercio svizzero online Nell’e-commerce, il Gruppo Migros ha superato ancora una volta il già solido risultato dell’esercizio precedente. Il fatturato delle vendite al dettaglio online ha varcato per la prima volta la soglia dei tre miliardi. In tutti i segmenti, nel 2021 si è registrato un aumento del 15,5% fino a raggiungere 3,242 miliardi di franchi. Il commercio online rappresenta ormai più di un decimo del fatturato totale del Gruppo Migros. Negli ultimi cinque anni, le vendite online sono cresciute complessivamente del 67%. Con le sue piattaforme come Migros Online e Digitec Galaxus, il Gruppo Migros è l’indiscusso numero 1 nel commercio svizzero online. Migros Online (fatturato +24,5%) ha aggiunto ulteriori prodotti Migros all’assortimento e consente alla clientela di fare acquisti comodamente da casa o in viaggio. Digitec Galaxus (+17,7%) ha oltrepassato la soglia dei due miliardi di fatturato e si è concentrata sulla trasparenza dei prezzi e sulla sostenibilità. La clientela compensa sempre più spesso le emissioni di CO2 dei suoi acquisti.

Ampliamento dell’offerta Salute La società affiliata Medbase, attiva nel settore medico, dentistico e farmaceutico, ha ampliato la sua rete locale contribuendo a fronteggiare la pandemia di COVID-19 con centri di vaccinazione e di test. Il format Misenso specializzato in ottica e apparecchi acustici, lanciato l’anno precedente, nel 2021 è stato ampliato nella Svizzera tedesca con altri sette negozi specializzati.

Nel campo della sostenibilità, il Gruppo Migros ha conseguito importanti risultati. Ha optato per obiettivi climatici ambiziosi che sono compatibili con l’Accordo di Parigi sul clima e mirano a limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C. Tutte le aziende del Gruppo Migros si sono imposte traguardi ambiziosi per raggiungere al più tardi entro il 2050 l’obiettivo zero netto, la cui linea di fondo è fare in modo di eliminare l’emissione di gas serra. La tappa intermedia consisterebbe nel ridurre le emissioni di gas serra dei singoli settori del Gruppo Migros entro il 2030 del 70% rispetto al 2019. Gli obiettivi sono stati approvati nell’ambito della riconosciuta Science Based Targets Initiative (SBTi). Nel 2021, il Gruppo Migros ha ridotto le emissioni di gas serra del 51,6% rispetto al 2019. Nello stesso periodo, il consumo energetico è sceso del 2,1%.

160 milioni di franchi per il bene comune

Il più grande datore di lavoro privato in Svizzera

Da decenni Migros presta svariati contributi per rafforzare la coesione sociale in Svizzera. Nel 2021 i tre pilastri dell’impegno sociale del Gruppo Migros sono stati riuniti sotto la categoria unificatrice «Impegno Migros». Tra questi, troviamo il Percento culturale Migros, che esiste dal 1957, il Fondo pionieristico Migros e il Fondo di sviluppo Migros. Nel 2021 sono stati sostenuti progetti nei settori vivere insieme, cultura, formazione, salute, tecnologia ed etica, nonché clima e risorse con un totale di 160 milioni di franchi (2020: 159 milioni).

Nel 2021, Migros ha impiegato 97’541 collaboratori (2020: 99’155). La diminuzione nel numero del personale è riconducibile alla vendita di Globus e Saviva SA nonché alla flessione nel comparto Viaggi. Allo stesso tempo, il Gruppo Migros ha creato più di 1000 nuovi posti di lavoro, in particolare nel commercio online e nel settore sanitario. Oltre 3600 giovani hanno completato la loro formazione di base in oltre 60 professioni diverse all’interno del Gruppo Migros. Migros si conferma come il maggior datore di lavoro privato della Svizzera. Annuncio pubblicitario

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Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 4 aprile 2022

azione – Cooperativa Migros Ticino

ATTUALITÀ / RUBRICHE

Il Mercato e la Piazza

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di Angelo Rossi

La Grande Zurigo genera i redditi più alti ◆

Recentemente sono stati resi noti i dati per il 2020 dell’Indagine sui redditi e le condizioni di vita. Si tratta di un ampio ventaglio di informazioni su come evolve il reddito delle famiglie ticinesi. Al contrario dei dati sul prodotto interno lordo pro-capite, che, purtroppo, viziati dal contributo dei frontalieri, sopravvalutano le disponibilità dei residenti, queste informazioni, raccolte per inchiesta, si riferiscono solo a chi abita in Ticino. Sono quindi più precise, hanno inoltre il vantaggio di essere pubblicate anche per sei altre grandi regioni della Svizzera, il che consente di fare comparazioni sull’evoluzione del benessere materiale tra una regione e l’altra del nostro paese. Cominciamo dal 2020. In quell’anno il reddito mediano (ossia quello della quota maggiore di popolazione) era in Ticino pari a 47’620 franchi ed era il più basso tra i redditi pro-capite del-

le grandi regioni svizzere. La regione di Zurigo, che possedeva il reddito pro-capite più elevato, lo superava di quasi 10’000 franchi (57’402 franchi per l’esattezza). Il reddito mediano pro-capite di Zurigo era quindi del 20% superiore a quello del Ticino. Siccome la distribuzione del reddito è rappresentata da un’iperbole, c’è da aspettarsi che le regioni con un reddito superiore alla media nazionale siano poche. In effetti, nel 2020, solo la regione di Zurigo e quella della Svizzera centrale possedevano un reddito mediano pro-capite superiore alla media nazionale. Le altre 5 regioni si trovavano invece al disotto della stessa. Ora è interessante calcolare anche la distanza che separa il Ticino dalla regione più ricca di queste cinque orfanelle. Nel 2020 si trattava della Svizzera Nord-Occidentale (ossia della regione con i Cantoni di Argovia e Basilea) e possedeva un reddito pro-capite

Affari Esteri

mediano superiore di appena il 3,5% a quello ticinese. In altre parole: quando in Svizzera si parla di disparità di reddito tra le regioni, di fatto si dovrebbe intendere la differenza nel reddito pro-capite che separa le regioni del paese dal reddito pro-capite mediano della metropoli zurighese. Negli anni Quaranta dello scorso secolo il geografo francese Jean François Gravier aveva pubblicato un libro dal titolo significativo: Paris et le désert français. Oggi, partendo dalla concentrazione di potere di acquisto che descrivono i dati sul reddito disponibile pro-capite potremmo parlare di Zurigo e del deserto svizzero. Questo anche perché l’unica altra regione che dispone di un reddito mediano pro-capite superiore alla media nazionale è la Svizzera centrale che, nel corso degli ultimi due decenni, si è rafforzata proprio perché è diventata un’appendice della metropoli zurighese.

I dati della nuova statistica sul reddito disponibile ci dicono ancora che, nel corso degli ultimi dieci anni, la tendenza in materia di disparità regionali, è andata verso la concentrazione di potere di acquisto in poche regioni. Nel 2010, infatti, si contavano ben quattro regioni con un reddito pro-capite mediano superiore alla media nazionale: la regione di Zurigo e quella della Svizzera centrale, ovviamente, ma anche quella del Lemano (con Losanna e Ginevra) e quella della Svizzera nord-occidentale. Nel deserto dell’Altipiano, quindi, si contavano allora ancora un paio di oasi che, nel frattempo hanno visto il loro reddito mediano passare sotto la media. In termini di indici, la Svizzera Nord-Occidentale ha perso 9,3 punti, la regione del Lemano 8,1 punti. Anche la regione ticinese è tra quelle perdenti: -7,2 punti. A guadagnare sono state la regione di Zurigo, con +2,7

punti e, soprattutto, la regione della Svizzera centrale con un +8,1 punti. Questa evoluzione può leggersi in diversi modi. Le variazioni sono dovute alla ristrutturazione delle banche che ha fatto perdere ricchezza alle tre piazze che seguivano immediatamente Zurigo nella classifica nazionale, ossia Ginevra, Basilea e Lugano. Oppure si può pensare che anche da noi si stia manifestando la tendenza al rafforzamento delle grandi metropoli come nel resto dell’Europa. Questa lettura di quanto sta succedendo suggerirebbe poi che la Svizzera centrale si rafforza perché è stata praticamente integrata nella metropoli zurighese. Infine un’altra spiegazione potrebbe essere rappresentata dal fatto che le tre regioni che più hanno perso nella classifica del reddito mediano pro-capite sono quelle nelle quali si ritrovano gli effettivi più importanti di lavoratori frontalieri. Potete scegliere!

di Paola Peduzzi

La leadership di guerra più agguerrita d’Europa ◆

Boris Johnson, premier britannico con uno spiccato senso dell’umorismo, scatta una fotografia precisa della propria leadership in questo momento: sono più popolare a Kiev che a Kensington. Gli ucraini dicono che il premier inglese è il più deciso nel campo della solidarietà, i russi osservano che è il più ostile a loro di tutti gli occidentali, gli abitanti (e i parlamentari) del Regno Unito affermano che Johnson deve prendere in considerazione le dimissioni. È ripartito infatti il famigerato «partygate», lo scandalo legato alle feste a Downing Street ai tempi del Covid: almeno venti persone dell’ufficio del premier sono state multate, secondo quanto riportato dalla polizia, per aver violato le regole anti-pandemia. Non ci sono i nomi, la responsabilità di Johnson è comunque materia di dibattito dal dicembre scorso, da quando cioè sono uscite le foto dei festini

e il politico ha adottato una strategia talmente ondivaga da non poter nemmeno essere definita tale. L’invasione russa dell’Ucraina è cominciata quando il «partygate» era nella sua fase definibile di «cospirazione imminente»: i conservatori si contavano per capire se c’erano i numeri per ribaltare Johnson. Intanto fantasticavano su leadership alternative, si facevano cene cosiddette «di corrente», si chiacchierava moltissimo delle ambizioni del cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, e di quelle della ministra degli Esteri, Liz Truss. Poi Vladimir Putin ha cambiato le priorità e i dibattiti politici di tutto il mondo, così anche Johnson ha potuto mettere nell’angolo la lavagna dei conteggi e tirare fuori i piani militari e di difesa, su cui in effetti il suo atlantismo senza sfumature si esprime al massimo. Inevitabilmente sono cambiati anche gli equilibri nel gover-

no ed è emerso l’alleato del premier più solido in questa fase: il ministro della Difesa Ben Wallace. Cinquantuno anni, un breve periodo da maestro di sci in Austria quando ancora doveva decidere che fare nella vita, Wallace è un militare di carriera, ha lavorato in Irlanda del nord durante i «Troubles», per le Guardie scozzesi, poi si è innamorato della politica, anzi potremmo dire che si è innamorato della politica di Johnson ed è sempre rimasto al suo fianco. Il premio, e pareva quasi un premio personale, è stata la nomina di Wallace al Ministero della difesa, il sogno per un militare come lui. L’invasione russa in Ucraina ha fatto capire che questa nomina non era stata un favore o il sigillo di un’alleanza: Wallace ha denunciato la strategia di Putin con grande vigore, riprendendo l’intelligence americana sui preparativi dell’invasione quando il resto del mondo diceva che

questo allarmismo era un po’ isterico, e riprendendo anche il saggio che il presidente russo aveva scritto nel luglio dello scorso anno, il suo manifesto di guerra. Quel che vuol fare Putin è scritto qui, ha detto Wallace: se vogliamo ignorarlo ne pagheremo le conseguenze. La sintonia tra il ministro e il premier ha fornito le basi per quella che è considerata la leadership di guerra più agguerrita d’Europa. Una settimana prima dell’effettiva invasione russa dell’Ucraina, gli inglesi avevano avviato il ponte aereo per rifornire di armi l’esercito ucraino, in particolare per rifornirli dei lanciamissili anticarro portatili Nlaw. «Grazie a sua maestà!», dicono gli ucraini quando li usano. La retorica britannica è sempre stata molto chiara: dobbiamo fare di tutto per sostenere l’Ucraina contro l’aggressione e Londra è diventata l’unica capitale occidentale in cui la discussione sulla

no fly zone a difesa degli ucraini non è stata un tabù. Ogni giorno esperti e ministri valutano se quel che è stato fatto è sufficiente, si discute delle armi nuove che servono all’Ucraina e Johnson lavora anche perché non si sfaldi l’unità occidentale nell’isolare la Russia. Insiste sul fatto che Putin continuerà a «rigirare il coltello» contro gli ucraini e che l’Occidente non deve abbassare la guardia, deve restare volitivo e compatto. Poi, certo, c’è stato uno scivolone quando Johnson ha dichiarato che la resistenza ucraina somiglia alla resistenza inglese contro l’Europa, la Brexit insomma. La ferita del divorzio del Regno Unito dall’Ue sanguina ancora, ma il premier britannico ha mostrato che la sua eurofobia non ha nulla a che fare con i valori occidentali: sono rilevanti per lui in egual misura, se non forse di più, rispetto agli altri leader europei.

Zig-Zag

di Ovidio Biffi

Qualcuno ce l’aveva già detto ◆

Il 20 marzo, assieme alla notizia che quest’anno la primavera iniziava prima, su web e media si poteva trovare la dichiarazione di un diplomatico greco che rientrava in patria dopo essere rimasto intrappolato a Mariupol, da settimane assediata e bombardata dall’esercito russo. Manolis Androulakis, console generale della Grecia nella città ucraina, arrivato all’aeroporto di Atene dopo una rischiosa evacuazione, ha dichiarato che «come Guernica, Stalingrado, Grozny o Aleppo, anche Mariupol figurerà sulla lista delle città del mondo completamente distrutte dalla guerra». Questa ennesima testimonianza dell’insensata brutalità che sempre più contraddistingue l’invasione russa dell’Ucraina conferma la determinazione del presidente Putin di proseguire la sua sfida commettendo gli stessi crimini già perpetrati nel Caucaso e in Siria. Del leader che ormai da un venten-

nio comanda in Russia avrete già avuto modo di leggere o seguire sui social ritratti vari. Aggiungere qualcosa è decisamente arduo. Nel mio archivio ho però due cammèi che meritano di essere evocati. Il primo l’ho trovato in una magnifica recensione di alcuni anni fa di Paola Peduzzi del libro Fascismo. Un avvertimento (Chiarelettere), scritto dall’ex-segretario di Stato americano Madeleine Albright, scomparsa nei giorni scorsi. Facendo un lungo riepilogo di dittatori «lievitati» nell’ideologia fascista, citati Hitler, Stalin e Mussolini, la Albright approda sino a Milosevic, Chavez, Erdogan, Orban e, alla fine, anche a Vladimir Putin, da lei incontrato quand’era ancora semisconosciuto nel gennaio del 2000: «Putin è piccolo e pallido, così freddo che potrebbe essere un rettile. (…) È imbarazzato per quel che è accaduto al suo paese ed è determinato a restaurarne la grandezza».

Il secondo ritratto è invece reperibile nella biografia Una terra promessa, scritta dall’ex presidente americano Barack Obama. A partire da pagina 528 e dopo un preciso istoriato di quel che accadde in Russia con la caduta del muro di Berlino e la disintegrazione del vecchio ordine comunista, dedica alcune pagine al leader del Cremlino. Con una chiarezza di giudizio oggi arricchita da chiaroveggenza – il libro è stato scritto tra il 2018 e il 2020 – Obama tratteggia l’ascesa di Putin evidenziando la strategia del suo disegno politico. Dopo aver parlato di un «Putin (…) non interessato a un ritorno al marxismo-leninismo» anche se «la sua Russia assomiglia sempre più alla vecchia», l’ex-presidente Usa alza il tiro ricordando che Putin ha dapprima conquistato le leve economiche con una rete di oligarchi fedeli (chi si dissociava veniva subi-

to privato di beni e influenze o sottoposto a procedimenti giudiziari), poi ha preso il controllo assoluto dei mezzi di informazione in parallelo a una durissima serie di coercizioni per reprimere ogni forma di dissenso. Obama conferma che sono queste le leve che hanno consentito a Putin di deviare il paese verso un nazionalismo di vecchio stampo volto a «riportare la Grande Russia ai fasti di un tempo», placando così la frustrazione del crollo e degli smarrimenti delle vecchie generazioni. Secondo l’ex-presidente americano «Putin aveva un unico problema: la Russia non era più una superpotenza»; anzi, pur possedendo un arsenale nucleare, era priva di alleanze, produceva poca ricchezza e inoltre aveva corruzione e disuguaglianze sociali importanti (include persino «un’aspettativa di vita per gli uomini inferiore a quella del Bangladesh»). In conclusione,

rispondendo a un consigliere (David Axelrod) che gli chiedeva un giudizio su Putin, Obama dice di averlo trovato simile a uno di quei boss di quartiere che in passato avevano guidato il Partito democratico di Chicago o Nuova York: «individui freddi, scaltri e spietati che della vita conoscevano soltanto ciò che avevano appreso dalle loro limitate conoscenze e che ritenevano clientelismo, corruzione, ricatto, frode e ogni tanto la violenza strumenti leciti del mestiere (…) Per loro, come per Putin, la vita era un gioco a somma zero». La serie «Qualcuno ce l’aveva già detto» è arricchita da una dichiarazione fatta dal presidente Obama durante il suo ultimo vertice Nato (Cardiff 2014): «Gli Usa sono stanchi di pagare per tutti (…) Ogni Paese deve contribuire alla difesa dell’Occidente e entro il 2024 portare il proprio contributo alla Nato al 2%». Otto anni dopo…


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Anno LXXXV 4 aprile 2022

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Anno LXXXV 4 aprile 2022

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Una messa per la nazione Storia del progetto di Giuseppe Verdi per la Messa da Requiem di Rossini che mirava a sottolineare l’idea acquisita di nazione

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L’artista-filosofo Rolando Raggenbass ad Ascona Mostre

Il Museo Comunale d’Arte ripercorre il cammino creativo sui generis dell’artista ticinese

Alessia Brughera

Con il suo percorso caratterizzato da una forte impronta personale, Rolando Raggenbass è stato una figura del tutto peculiare nel panorama artistico ticinese della seconda metà del Novecento. Ciò che difatti ha contraddistinto il suo lavoro fin dagli esordi è stata la capacità di guardare alle esperienze e ai linguaggi a lui contemporanei rimanendo sempre ben ancorato a una sensibilità incondizionata, fondata sull’integrità e sulla risolutezza della sua ispirazione. Solitario, riservato, molto curioso ma anche estremamente critico nei confronti della società postmoderna che aveva ormai palesato tutti i suoi limiti e i suoi inganni, Raggenbass si è mosso con circospezione tra i tanti stimoli del suo tempo, maturando una sorta di sfiducia nelle elaborazioni programmatiche collettive. Questo lo ha portato ad avvicinarsi invece ad alcuni singoli artisti la cui ricerca era da lui considerata affine al proprio sentire. Nato nel 1950 a Balerna e scomparso poco più che cinquantenne nel 2005, Raggenbass viene annoverato tra gli esponenti di quel «ritorno alla pittura» originario degli anni Ottanta come reazione al concettualismo dei decenni precedenti che giudicava superati i tradizionali mezzi espressivi. Inserita in questa ampia cornice identificativa, l’attività dell’artista ticinese manifesta però tutta la sua carica di indipendenza seguendo un cammino creativo sui generis che riesce a essere ben coeso nonostante l’assenza di un criterio rigoroso che lo determini. Questa mancanza di sistematicità della sua produzione può essere letta come frutto della predisposizione caratteriale di Raggenbass, scettico per natura e avvezzo a dubitare delle fittizie rassicurazioni che la società propina all’uomo, convinto che la ricerca della verità parta proprio dalla diffidenza e dalla consapevolezza che il senso che diamo alle cose sia mutevole e precario. Ecco allora che questo atteggiamento si traduce in un assiduo lavoro di meditazione su sé stesso e sul

proprio operato, senza il timore di mettere in discussione ogni volta i risultati raggiunti: per Raggenbass fare arte non significa imboccare una traiettoria lineare e priva di ostacoli bensì condurre un’indagine sempre aperta alla disincantata esplorazione dell’uomo che presuppone inizi, pause, riprese, esitazioni e cambi di rotta, specchio della complessità e della frammentazione dell’esistenza. Non stupisce che per una personalità del genere, così propensa al continuo interrogarsi sul nostro essere nel mondo, le speculazioni intellettuali abbiano costituito un elemento fondamentale. Artista-filosofo, non a caso, era l’appellativo che Raggenbass si era guadagnato per il suo profondo interesse per le dottrine dei grandi pensatori, intese come «giardini immaginari da frequentare senza paura». Agli studi presso l’Accademia di Brera aveva affiancato i corsi del teoreta triestino Fulvio Papi all’Università di Pavia, cosicché pratica pittorica e riflessione filosofica sono state per lui due universi in perenne relazione. A omaggiare il singolare percorso di Raggenbass è la mostra allestita fino a metà di maggio al Museo Comunale d’Arte di Ascona, una rassegna che avrebbe dovuto vedere la luce nel 2020 in occasione dei settant’anni dalla nascita e dei quindici dalla morte dell’artista ma che la pandemia ha fatto slittare a oggi. I dipinti riuniti nelle sale asconesi sono una quarantina circa e si presentano al pubblico secondo un ordine cronologico che documenta tutte le fasi del lavoro di Raggenbass, dai primi anni Ottanta agli inizi del Duemila. Emblematicamente collocata all’inizio dell’itinerario espositivo è un’opera su carta del 1982 in cui viene rappresentato un funambolo, figura, questa, che incarna bene la concezione del mondo dell’artista: l’equilibrista che cammina sulla corda tesa diventa per lui il simbolo dell’uomo contemporaneo intrappolato in uno stato di incertezza e di smarrimento costante. I lavori dell’artista ticinese risalenti agli anni Ottanta, riconducibili a un contesto NeoPop e influenzati da autori quali Jim Dine, Mario Schifano e David Hockney, attingono spesso al grande serbatoio di immagini messo a disposizione dalla società dei consumi per restituire una realtà in cui l’individuo appare disorientato e confuso. Oggetti quotidiani, considerati segni visibili di una condizione solo apparentemente privilegiata, vengono avvolti in una dimensione intimistica che riflette lo spaesamento dell’io. Come quell’appariscente cravatta nera a pois rossi che campeggia in un’opera del 1985 a evocare un uomo che esiste solo attraverso le cose che lo circondano.

Monomotel, 1987-88, Tecnica mista su tela, 150 x 130 cm. Collezione privata. (Alexandre Zveiger, Lugano). Foto piccola, Senza titolo, 1984, Acrilico su tela, 120 x 113 x 40 cm. Collezione privata. (Alexandre Zveiger, Lugano)

A poco a poco le composizioni si fanno sempre più rarefatte e le figure umane si trasformano in profili esili e appena sbozzati che si disperdono sulla superficie pittorica insieme a graffiti e scarabocchi. Adesso i riferimenti più evidenti sono Cy Twombly, Gastone Novelli e Jean-Michel Basquiat. I corpi schizzati sommariamente sembrano vagheggiare un aspetto compiuto che non sono in grado di raggiungere, espressione dell’impossibilità dell’artista di riprodurre il reale. Nei primi anni Novanta la ricerca di Raggenbass subisce un cambiamento importante: le tele affollate di segni vengono ora sostituite da opere in cui si delineano sagome ampie e solitarie dalle tinte bianche, nere, marroni e grigie che rimandano a sem-

bianze organiche. Ne è un esempio Senza titolo, del 1992, dove l’assenza di figurazione permette all’artista di affidare al solo colore la narrazione delle sue emozioni. Questi lavori fanno da preludio alla produzione degli anni successivi in cui, dapprima, grandi forme nere, come monoliti scuri e impenetrabili, si appropriano dell’intera superficie del dipinto, poi, macchie filamentose di color rosso sangue, imprigionate sotto fogli di plastica trasparenti, si addensano sulla tela come fossero i brandelli di un corpo lacerato, estremo tentativo da parte dell’artista di sviscerare in profondità l’essere umano. A conclusione del percorso di mostra troviamo gli Elfimilza, sculture che Raggenbass realizza inseren-

do in collant femminili di nylon della schiuma di poliuretano e lasciando poi che questo materiale si espanda in maniera autonoma al loro interno: abbandonate a un destino formale privo del controllo dell’artista, tali opere assumono una fisionomia ibrida, incerta, sospesa tra l’organico e l’inorganico, potente metafora dell’incapacità dell’uomo di esprimere appieno la propria identità. Dove e quando Omaggio a Rolando Raggenbass (1950-2005). Museo Comunale d’Arte Moderna, Ascona. Fino al 15 maggio 2022. Orari: masa 10.00-12.00/14.00-17.00, do e festivi 10.30-12.30, lu chiuso. www.museoascona.ch


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CULTURA

Il primo romanzo horror di Daniel Kehlmann Pubblicazioni

Pur attingendo a un vecchio arcano, quello della casa stregata, Te ne dovevi andare convince la critica

Luigi Forte

Daniel Kehlmann non manca mai di sorprenderci. Lo scrittore, bavarese di nascita ma viennese d’adozione, classe 1975, nel suo ultimo romanzo Te ne dovevi andare, che Feltrinelli presenta nell’ottima traduzione di Monica Pesetti, si è intrufolato tra le pagine di Stephen King quasi volesse parodiare una certa atmosfera surreale. E c’è riuscito alla perfezione, come un classico maestro della letteratura horror. Del resto già nel suo bestseller La misura del mondo (Feltrinelli 2006), si era divertito con molta irriverenza alle spalle di due geni come l’enciclopedico Alexander von Humboldt e il matematico Friedrich Gauss sorpresi in un fantomatico incontro nella Berlino del 1828. E più tardi in Fama. Romanzo in nove storie aveva messo in scena una realtà bizzarra e coatta zeppa di gerghi ipertecnologici, di esistenze virtuali, di storie improbabili: una sorta di abbecedario dei rituali contemporanei per raccontare che l’esistenza non ha più identità. Forse è quello che a un certo punto pensa anche, con sgomento, il protagonista di Te ne devi andare, uno sceneggiatore che per una breve vacanza si è ritirato con la moglie Susanna, attrice, e la figlioletta Esther di quattro anni in una casa isolata fra i monti per scrivere il seguito del suo film di maggior successo. Una situazione che richiama il personaggio di Jack Torrance nel romanzo di King, Shining, isolatosi con la famiglia fra le montagne del Colorado a molti chilome-

tri di distanza dal più vicino centro abitato. Difficile dimenticarlo dopo la grandiosa interpretazione di Jack Nicholson nel film omonimo diretto da Stanley Kubrick nel 1980. La mente di Jack vacilla fino a trasformarlo in un assassino, mentre il protagonista di Kehlmann sembra smarrire se stesso in una realtà sempre più inafferrabile e fantasmatica. Anche prima, del resto, non tutto filava liscio. Lui ama Susanna e non vorrebbe una vita diversa, ma poi alla fine i due litigano in continuazione. Forse la vacanza in mezzo alla natura, lontani dal mondo, servirà a rilassarli. Se non fosse per quella casa dove c’è il rischio di perdersi e si hanno spesso strane sensazioni. Per non parlare dei sogni popolati da terrificanti visioni. Quando lui scende in paese per la spesa una piccola donna con enormi occhiali da sole gli consiglia di andare via alla svelta da quel posto, e più tardi il negoziante gli racconta che in passato era scomparsa della gente proprio lassù dove in origine c’era forse una torre costruita dal diavolo, che uno stregone «ha distrutta con l’aiuto di Dio». Kehlmann crea intorno ai personaggi un’atmosfera sempre più inquietante popolata da visioni, miraggi, scambi d’identità, dissolvenze con suggestioni che richiamano storie di fantasmi. Il protagonista non vede più sé stesso riflesso sulla vetrata della stanza, mentre dalle pareti sono scomparse foto e immagini. Sogna di

Dettaglio della copertina del libro.

essere all’aperto nel freddo della notte, ma al risveglio, angosciato, rabbrividisce davvero e gli pare di essere rimasto fuori casa. Non ci sono più dubbi: in quell’ambiente c’è qualcosa che non quadra. Così decidono di partire, ma poi l’uomo scopre sul cellulare della moglie i messaggi appassionati di un certo David e la situazione si fa incandescente. Fra urla e pianti lei fugge via in macchina e lascia il marito solo con la piccola Esther, che nemmeno più le favole riescono a distrarre. Intanto il produttore lo assilla con la sceneggiatura che va a rilento, perché lui ormai non pensa che ad an-

notare gli assurdi eventi di quelle ore. «Devo scrivere per non diventare pazzo», confessa a sé stesso. Poi da qualche parte si ode una voce umana e di lì a poco gli pare di scorgere una strana figura piegata sul letto della figlia. È un incalzare di impressionanti sensazioni che lo inducono a fuggire via con Esther per cercare altrove riparo e aiuto. Scendono per la strada di notte per raggiungere il fondo valle e finalmente scorgono in lontananza una luce, ma la delusione è immensa quando si accorgono che è ancor sempre la loro casa. Kehlmann gioca con la sua stessa storia e la carica di eventi irreali,

trasformando la vacanza di una coppia in crisi in un claustrofobico gabinetto degli orrori, uno spazio aperto sull’improbabile, dove anche il lettore perde il senso della realtà e affonda in un mare di dubbi. È una sensazione che l’autore sa abilmente trasmettere anche attraverso la struttura del racconto che alterna brevi scene della sceneggiatura che il protagonista sta scrivendo, con le annotazioni sul suo terribile soggiorno e i fatti reali. Sono angolazioni diverse, prospettive sospese, tracce di una finzione che riportano la storia narrata a una sorta di divertimento letterario. Dove non solo la realtà, ma l’identità stessa del personaggio si frantuma. Il protagonista si rivolge a sé stesso come fosse qualcun altro: «Forse posso farmi sentire oltre lo sciabordare degli abissi del tempo e dirgli: Vai via. Posso gridargli: Vai via prima che sia troppo tardi». Ma di là partirà solo sua figlia, che la madre è tornata a prendere. Vorrebbe andarsene anche con il marito a cui assicura che quel David non conta nulla per lei. Tutto potrebbe tornare come prima se lui riuscisse a riconquistare la propria realtà. Ma si sente spaccato in due, estraneo a ogni affetto. Forse è veramente troppo tardi per riprendere quella vita che gli è sfuggita incomprensibilmente di mano. Bibliografia Daniel Kehlmann, Te ne dovevi andare, Milano, 2022, Feltrinelli.

Omaggio a Carmelo Bene, geniale poeta-attore Pubblicazione

A vent’anni dalla scomparsa di Carmelo Bene esce un saggio firmato dall’amico Jean Paul Manganaro

Daniele Bernardi

Ricordato da Carmelo Bene (Campi Salentina, 1937 – Roma, 2002), nella sua autobiografia-intervista scritta a due mani con Giancarlo Dotto, come «il caso più eclatante di alta femminilità» mai riscontrato in un uomo e «unico, vero, grande amore della (…) vita», Jean Paul Manganaro dedica oggi, a vent’anni dalla morte del geniale poeta-attore, un libro che vuole essere, al contempo, saggio critico e filosofico, percorso biografico per accenni, gesto d’affetto e commemorazione. Oratorio Carmelo Bene, questo il titolo apparso di recente per i tipi de Il Saggiatore, è infatti un’opera in cui tali elementi, con costanza, si intrecciano attraverso un’indagine speculativa, a tratti poetica, di grande complessità. Studioso e traduttore – sue, in italiano, versioni da Artaud e Deleuze così come, in francese, l’opera omnia dello stesso Bene – per chi non lo sapesse Manganaro ebbe un ruolo importante nel percorso dell’artista: fu lui, infatti, nel 1977, all’affacciar-

si di CB sulla scena francese tramite le repliche di Romeo e Giulietta e del suo S.A.D.E., a combinare gli incontri con alcune personalità dell’epoca: fra questi Pierre Klossowski e il sopraccitato Deleuze, entrambi, poi, personalmente coinvolti nel percorso di CB attraverso la stesura di opere a lui dedicate (non per nulla, in Oratorio Carmelo Bene, un intero capitolo è incentrato proprio su Il teatro di Carmelo Bene e la «cultura» francese). Qualche spettatore televisivo di buona memoria, poi, non dimenticherà certo la storica puntata di «Mixer» – programma Rai degli anni Ottanta-Novanta a tema culturale – che nel 1988 vide confrontarsi con toni accesi – e a mio avviso con esiti infelici soprattutto per i primi – i critici Guido Almansi, Guido Davico Bonino, Giovanni Raboni e Renzo Tian con Carmelo Bene, lo studioso Maurizio Grande e lo stesso Manganaro. Come in passato già fatto da altri, ora, con questo suo nuovo contributo

Manganaro mette in luce le peculiarità e le questioni dell’operare di Bene sulla scena prendendone in esame alcuni aspetti specifici. Ad esempio, l’uso costante – minimamente variato – a partire dal Riccardo III (opera

del 1977, ricordiamolo, accompagnata in creazione proprio da uno scritto di Deleuze) di un quasi frac come costume o, meglio, dispositivo di scena che, da un lato, rimanda «all’insieme degli attori che hanno recitato i ruoli shakespeariani nel XIX secolo», dall’altro «rinvia al dandismo, al disperato delle musiche romantiche, alla nostalgia di un tempo mai vissuto». Oppure quel continuo «mettere in difficoltà il corpo», devastandolo attraverso un proliferare di ostacoli, di prove, di trappole e tortuosità che in cinema come in teatro (si pensi al rapporto con le vesti o alle tante corazze che limitavano i movimenti dei suoi personaggi) sembra segnalare più che un martirio un attacco a «un sapere organizzato, capace solamente di ripetere la lettura e la lettera del corpus e non di ricrearne di nuove». O, ancora, il confronto incessante con Shakespeare che, a partire dalla figura di Amleto, si fa luogo di riflessione sull’attore e il teatro stesso.

Estremamente discreto, poi, Manganaro, rimescolando con la sua scrittura proteiforme memoria e creazione, riporta solo brevemente qualche ricordo della sua amicizia con Bene, ma senza concedere nulla al voyeurismo: leggiamo quindi del dolore che colse l’artista all’annuncio della morte di Sandro Penna, o della sua fiera soddisfazione quando, al termine di una replica di Lorenzaccio, annunciava in camerino che da cinquanta minuti lo spettacolo era passato a quarantotto. A concludere il libro, infine, il lettore trova il toccante scritto che l’autore pronunciò al Teatro Valle di Roma nel marzo del 2002 (il brano apparve successivamente sulle pagine de «L’Unità»): «Egli era amore del teatro», vi si legge, «un amore tanto passionale da essere violentemente eccessivo e incontrollabile, eccedente. (…) Carattere antico e arcaico che guarda e distrugge per verità, una verità senza problemi, senza dialettiche, senza aforismi, senza metafore». Annuncio pubblicitario

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CULTURA

«Insieme costruiamo un rapporto che cresce nel tempo con una sua profondità e leggerezza» Feuilleton

La casa editrice Diogenes festeggia i suoi primi settant’anni e agli Eventi Letterari riceverà il Premio Enrico Filippini

Natascha Fioretti

«Era una domenica, eravamo a casa e poco prima di andare a tavola ricevo una telefonata. Friedrich Dürrenmatt nel suo dialetto bernese disse: “Mi vuoi con te?”». L’editore Daniel Keel, fondatore nel 1952 della casa editrice Diogenes, non aspettava altro. Quel gennaio del 1979 non segnò solo l’inizio di un importante sodalizio, ma annoverò Diogenes nell’olimpo della Weltliteratur e dopo la grande narrativa irlandese di Frank O’ Connor e quella americana di Patricia Highsmith finalmente accolse un grande autore svizzero. Più avanti arrivarono Ugo Loetscher e Urs Widmer, oggi Diogenes pubblica Martin Suter e Charles Lewinsky. Oggi a guidare una della più grandi case editrici di narrativa tedesca dalla vocazione internazionale è Philipp Keel, editore e artista che abbiamo intervistato in vista della premiazione agli Eventi Letterari sabato 9 aprile alle 11.00 al Monte Verità. Ho visto che ha un profilo su Instagram. Cosa posta? Per quanto concerne il digitale temo di essere una persona non tanto moderna, di fatto in passato non me ne sono mai voluto interessare. Mi piace l’idea del gioco ma preferisco farlo senza che tutti gli altri mi guardino. Il mio account Instagram è nato un giorno per puro divertimento perché una mia amica appassionata dei social mi disse che ci dovevo provare. Ora che ho il mio account personale, pur potendomi rallegrare del numero di follower, mi sento ridicolo. Sa, da artisti si è sempre severi e critici con sé stessi, ma è anche vero che oggi sono in molti a esporsi sui social media, così tanti che vien da chiedersi quanta arte il mondo possa sopportare. Faccio arte da tanti anni e credo che dovrei sforzarmi a trovare più piacere nel mostrare quotidianamente, come si fa con un diario, i miei lavori. Ammiro quegli artisti che hanno la disciplina per farlo. Quanto conta la comunicazione sui social per la sua casa editrice? È sempre più importante e inizia a piacermi. Grazie alla nostra attività su Instagram abbiamo raddoppiato i follower rispetto a due anni fa. Da questo si evince che sono molto più interessato alla presenza sui social come editore che non come artista. La nostra è una presenza legata alle molte persone che ci seguono, in particolare lettori e librerie ma anche altri fan di Diogenes. Certo, il fatto che a postare gli interventi sia un gruppo di persone variegato, fa sì che la nostra presenza su Instagram sia piuttosto vivace e poco unitaria. Mi chiedo sempre se dobbiamo curare maggiormente l’estetica o fare più attenzione alla vivacità dei nostri contenuti. Se puntiamo tutto sull’estetica il risultato può essere molto noioso ma fare la cosa giusta è come stare in equilibrio su una corda, si può solo puntare a fare meglio. Credo che abbiamo ancora molto da imparare su quale sia il modo migliore di presentare arte e letteratura. La sfida sta nel saper ridurre tutto all’essenziale e, personalmente, trovo che l’essenzialità sia la forma più interessante, anche nella vita. Quando si parla di editoria si tende a mettere in luce le difficoltà che il settore attraversa. Voglio invece

Primo piano dell’editore e artista Philipp Keel. (Maurice Haas / © Diogenes Verlag). In basso, nella foto in bianco e nero, i festeggiamenti per il 60. compleanno di Hugo Loetscher al ristorante zurighese Kronenhalle. Da sinistra a destra Daniel Keel, Charlotte Kerr, Friedrich Dürrenmatt, Anna Keel, un giovanissimo Philipp Keel e Hugo Loetscher. (Keystone)

chiederle degli aspetti positivi, come ci si sente oggi a essere editore? La cosa più bella è che non si ha mai a che fare con persone noiose. Non c’è ripetitività o conformità in questo mestiere e ritengo un grande privilegio poter scegliere come fare le cose e con chi farle. Dalle collaborazioni nascono sempre delle belle storie e c’è sempre di che essere allegri, scoppiare in una risata. Da queste relazioni può anche nascere un’amicizia, ma prima di ogni cosa viene il libro. E poi la nostra indipendenza, per la quale, questo lo posso dire, mi sono battuto, senza tensioni ma con una certa giocosità. Per farlo ho potuto contare su un team folle con cui condivido una grande passione, una passione che non si può spiegare. Nello showbusiness, e dunque nell’editoria, non sai mai quale sia la ricetta per riuscire. Si possono fare tutte le supposizioni e le previsioni del caso, in verità non vi è nulla di certo. Anche questo rende il mestiere interessante. Tempo fa in un’intervista disse: «Non credo che avrei preso in mano la casa editrice se non avessi avuto la possibilità di continuare a fare arte». Riesce a fare tutto? Ho avuto la fortuna di crescere in una delle epoche più belle quando ogni cosa, dall’arte, alla musica, alla moda, alle invenzioni stava fiorendo. Un tempo in cui le persone volevano essere libere e di fatto lo erano. Erano tempi in cui si poteva speri-

mentare senza essere giudicati, anzi sperimentare veniva visto di buon grado. Molte cose nate da questo spirito del tempo oggi caratterizzano ancora il mondo dell’intrattenimento, dell’arte, della moda, del design e della tecnica. Sono estremamente grato – con tutte le complessità della mia famiglia, come quelle di ogni altra – di essere diventato ciò che sono. Voglio dire che nella mia esistenza non è stato tutto bello e divertente, ho vissuto anche momenti difficili. Alla fine però la mia infanzia mi ha plasmato profondamente come artista e soprattutto come uomo e questo regalandomi una dose di ironia, di entusiasmo e un certo senso della bellezza. Non importa di quale pasta siamo fatti, tutto sta nell’iniziare e in questo ognuno di noi si ritrova davanti a un foglio bianco. Il famoso foglio bianco su cui scriviamo un testo, facciamo uno schizzo, disegniamo un’immagine o portiamo in scena qualcosa al cinema o a teatro. È proprio da questa dimensione che scaturiscono poi cose straordinarie. Dalle dinamiche in cui sono cresciuto ho sempre cercato di cogliere i lati positivi spinto dalla mia vena artistica e da un affetto, un’inclinazione per quelle persone che frequentavano casa nostra. In verità mi disturbavano anche un po’ perché rubavano l’attenzione dal mio nido famigliare. Resta il fatto che gli scambi avuti con personalità così brillanti sono stati una immensa fonte d’ispirazione.

Nella ricerca dell’equilibrio tra il suo essere al contempo artista e editore, cosa ha imparato? Aver ritrovato, in quanto artista, la strada verso le altre arti, dopo un lungo viaggio di scoperta, mi ha dato nuova linfa. Certo è anche un difficile gioco di equilibrio quello di essere artista, editore, produttore di film, padre di due bambini… È un compito ardito quello di vivere vite diverse, indossare tanti cappelli, ma ne sono davvero felice. Alla fine, se osservo tutto in modo pragmatico, tra la mia attività di artista e il tempo in cui mi metto a disposizione degli altri, c’è un equilibrio. So quali sono i desideri dell’artista e dello scrittore. Quello che loro mi chiedono è la presenza, che io ci sia per loro, per la loro opera e che nel nostro fare insieme ci sia una continuità. Insieme costruiamo un rapporto che abbia una sua profondità ma anche una certa leggerezza che cresce nel tempo man mano che ci si conosce meglio. Nel 2019 Benedict Wells presentò la sua mostra a Zurigo dal titolo Last Summer. Come mai scelse lui? Allo scrittore Benedict Wells, che ammiro profondamente, perché così giovane ha raggiunto traguardi notevoli, mi lega un rapporto di lunga data. Sono affascinato dai suoi libri e dalle sue storie, ammiro la distanza con la quale riesce a raccontare. Ci unisce una storia particolare. Da editore quando hai un autore talentuoso come Benedict Wells ti aspetti che sforni un libro nuovo ogni anno, magari ogni due. Quando arrivò nella nostra casa editrice, Benedict mi disse subito che ci sarebbero voluti molti anni prima che mi avrebbe consegnato il nuovo libro. Deglutii forte e gli dissi di non preoccuparsi, di prendersi il tempo necessario. Per sette anni ha lavorato al romanzo, un tempo che mette paura a qualsiasi editore, perché nel frattempo ti chiedi se ti piacerà. Me lo ha inviato pochi giorni prima del mio viaggio a Los Angeles e l’ho conservato per la traversata in aereo. L’ho letto tutto d’un fiato. Non voglio dire di averlo finito

nel momento in cui abbiamo toccato terra ma ci è mancato poco. Sapevo che dopo una prima notte insonne di jet lag lo avrei chiamato per dirgli che era un capolavoro e sarebbe diventato un bestseller. Lo avrei anche ringraziato per avermi tolto la paura. Gli dissi proprio questo quando lo chiamai alle cinque del mattino e nel frattempo Vom Ende der Einsamkeit ha venduto 600mila copie. Così a un certo punto della nostra collaborazione ho desiderato che intervenisse in uno dei miei progetti e l’occasione si è presentata con la mostra Last Summer in cui a giocare un ruolo importante erano la malinconia e il destino. Ho pensato che nessuno meglio di lui poteva condensare il concetto, rendere l’idea di quella nostalgia che si prova guardando indietro all’ultima estate trascorsa. La cosa andò benissimo, il suo intervento fu più breve di una pagina e mi piacque per la sua sincerità. In questi giorni avete pubblicato Die Jagd (La caccia), il thriller di Sacha Filipenko. Cosa apprezza di questo autore bielorusso? Credo che non si possa ammirare a sufficienza quanto questo giovane autore abbia sostenuto e attraversato. Le condizioni politiche in Bielorussia, lo sappiamo, sono scandalose ma non è questo il problema più grave. Sacha Filipenko è un perseguitato, questo è davvero tragico ed è una condizione ora accentuata dalla guerra in Ucraina. Mi ha molto colpito vedere come un autore, che stimo non soltanto da un punto di vista letterario ma anche umano, sia in grado di raccontare le sue esperienze autobiografiche senza mai puntare il dito, senza muovere accuse. Gli è perfettamente riuscito nei suoi libri e sono profondamente commosso dal fatto che perseveri a scrivere nella sua condizione di senza dimora e che la sua famiglia abbia deciso di seguirlo. Anche noi della casa editrice gli abbiamo dato riparo, gli abbiamo fatto sentire che qui ha un appoggio e può trovare un po’ di calma. Ad aiutarlo sono state in particolare la responsabile e le collaboratrici dell’ufficio stampa, ma tutti noi abbiamo a cuore il benessere dell’autore e della sua famiglia. È questo lo spirito della nostra casa editrice, lo spirito che ci rende così orgogliosi. Ci sono così tanti autori e autrici, anche del passato come Dürrenmatt e Andersch, che lo alimentano e lo hanno alimentato. Si pensi soltanto al nuovo libro di Bernhard Schlink, Die Enkelin. Sono davvero fiero di poter lavorare con persone capaci di raccontare le più profonde ferite della storia, della politica e della loro vita personale e di farlo senza filtri, in modo diretto attraverso il linguaggio o una storia che non appesantisca il lettore e non sia pretenziosa. Questa è l’arte nel suo senso più elevato che colgo nelle opere di autori come per esempio Bernhard Schlink. Concorso «Azione» mette in palio dei biglietti per l’incontro con l’editore Philipp Keel. Per partecipare inviate una mail a giochi@azione.ch, oggetto «Diogenes» con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono) entro le 24.00 di mercoledì 6 aprile.


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SALMONE BIO, UN JOLLY IN CUCINA Il salmone è considerato il pesce per eccellenza. Alla sua carne rosa-arancione, tenera come burro, tengono testa in pochi. Ti spieghiamo quali tagli sono particolarmente adatti a quale piatto

Il salmone è uno dei pesci commestibili più popolari nel nostro paese. La sua caratteristica carne rosa-arancione ha persino dato il nome a un colore o, meglio, a una serie di gradazioni cromatiche che vanno, appunto, dal rosa pallido all’arancio. Tenera e burrosa, la carne di salmone può essere preparata e gustata nei modi più diversi. È ottima lessata, cotta in padella, affumicata e persino cruda. Il salmone è ricco di proteine e di preziosi acidi grassi.

Pesce intero in qualità bio La Migros importa salmoni interi, che i suoi esperti del banco del pesce tagliano poi secondo esigenza. Dei pesci interi è anche più facile verificare la freschezza, per esempio controllando occhi e branchie. I salmoni bio in vendita alla Migros vengono allevati in Norvegia secondo le rigorose norme di qualità e rispetto dell’animale previste dalla normativa UE. Tra le altre cose, la quota vegetale del mangime deve provenire da fonti bio.

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I TAGLI DI SALMONE

Filetto con la pelle 1

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Un filetto di salmone intero fa colpo per le dimensioni e, allo stesso tempo, è semplice e versatile nella preparazione: si può cuocere in padella, affogare, lessare e affumicare, e gustare sia caldo sia freddo. Il filetto affumicato in casa, in particolare, è un trionfo di aromi che si sciolgono in bocca. La cottura alla griglia e una marinata in stile asiatico lo trasformano in un’esotica scorribanda per il palato. Privato della pelle, invece, è perfetto per il risotto agli edamame con dadi di salmone (vedi sopra).

Lombo 1

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Il cuore di filetto è, praticamente, il filetto di salmone prelevato prima che la linea del pesce si assottigli in direzione della coda. Vanta struttura compatta, giusto spessore e un rapporto ideale tra carne e grasso, tutte caratteristiche che lo rendono perfetto per praticamente qualsiasi tipo di cottura e preparazione – affogato o affumicato, alla griglia o bollito, il lombo è sempre squisito. Da provare anche sotto forma di sushi o a cubetti in un’esotica poke bowl, oppure a mo’ di bistecca. A proposito: a seconda della preparazione (fatta eccezione per quelle a crudo) si può mangiare anche con la pelle, che con una saltata in padella o sulla griglia diventa croccante e deliziosa.


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MONDO MIGROS

Illustrazione: Rolf Joray, foto: Migusto

Risotto agli edamame con dadi di salmone Per il risotto agli edamame i dadi di salmone vengono marinati in salsa di soia e miele e cotti in forno. Ricetta su migusto.ch

Servizio al banco

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I nostri esperti del banco del pesce sono felici di aiutarti a scegliere il pesce giusto per una ricetta particolare e ti consigliano volentieri sulle dosi ideali. Ma i servizi a disposizione della clientela non finiscono qui: Le marinate A seconda dei gusti e dell’occasione puoi scegliere tra pesce già marinato e filetti di pesce al naturale. Taglio su misura al momento I pesci, già puliti e sfilettati da Micarna, vengono porzionati al banco davanti ai tuoi occhi.

Top loin 1

Il lombo superiore, alias cuore di filetto o, per dirla all’inglese, top loin, è considerato la parte più nobile del salmone e si presta alle più svariate preparazioni fra cui (previa rimozione della pelle) il sashimi, delizia assoluta per chi ama il pesce crudo

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CULTURA

La Messa da Requiem per Rossini Musica

L’infernale banalità del male

Storia del progetto verdiano che mirava a sottolineare l’idea acquisita di nazione

Carlo Piccardi

«L’Istoria musicale dovrà un giorno registrare che nella tal epoca, alla morte di un Uomo celebre, tutta l’arte italiana si riunì per eseguire nel San Petronio di Bologna una Messa da morto composta espressamente da molti Maestri, il cui originale si conserva sotto sigillo nel Liceo di Bologna». Con queste parole Giuseppe Verdi, rivolto ad Angelo Mariani, commentava il suo progetto di una Messa da Requiem in morte di Rossini (13 novembre 1868), maturato non solo come omaggio a un grande maestro dell’arte operistica, ma come celebrazione da parte dell’arte musicale italiana del suo maggior rappresentante attraverso sé stessa. Affidato da Verdi all’editore Tito Ricordi e a una commissione appositamente insediata a Milano, il progetto prese effettivamente corpo. Prima della scadenza del primo anniversario della morte del Pesarese già era possibile riunire le tredici parti del lavoro collettivo di altrettanti compositori rappresentanti l’Italia in tutte le sue regioni: Antonio Buzzolla, Antonio Bazzini, Carlo Pedroni, Antonio Cagnoni, Federico Ricci, Alessandro Ninni, Raimondo Bucheron, Carlo Coccia, Gaetano Gaspari, Pietro Platania, Lauro Rossi, Teodulo Mabellini e naturalmente lo stesso Verdi. All’esecuzione tuttavia non si giunse mai, per una serie di motivi non del tutto chiari e comprensibili ma che lasciano perlomeno capire come una parte non indifferente del mancato successo dell’impresa artistica fosse motivato dall’inconciliabilità tra due diverse visioni in cui si sviluppava la dialettica politico-culturale dell’Italia da poco unificata. Il progetto verdiano cioè mirava a sottolineare l’ormai acquisita idea di nazione, in un senso che però tendeva a radicarne il senso e il significato nel

Giuseppe Verdi (1813-1901) durante le prove di una messa all’Opera Comique di Parigi. incisione di Morin da Martin. (Keystone)

concetto di continuità con la tradizione, di cui Rossini era considerato come il garante dal punto di vista musicale. Di qui l’idea del musicista di fare della Messa un monumento, escluso dall’utilizzazione occasionale e rigorosamente destinato alle celebrazioni rossiniane, consegnato alla città di Bologna affinché lo conservasse come una specie di mausoleo musicale con cui avrebbero dovuto misurarsi gli slanci artistici di un’Italia nuova che Verdi tuttavia concepiva solo in un rapporto fecondo con il proprio passato. Il destino invece dispose diversamente. L’impresario del teatro bolognese rifiutò di mettere a disposizione cantanti, coro e orchestra. La giunta municipale della città non seppe fare di meglio che trincerarsi dietro cavilli contrattuali che la pretendevano nell’incapacità di fare pressioni sull’impresario. Dietro tut-

to ciò si agitava però la realtà di un teatro che stava giocando le sue carte dalla parte dei giovani maestri del rinnovamento: Dall’Argine, Marchetti, Boito, Faccio, maestri non a caso esclusi dall’omaggio a Rossini. Vi era poi la realtà di un’amministrazione comunale che si batteva per il progresso, per le industrie, per la riforma agraria, decisa a scrollarsi di dosso le pastoie che la legavano al passato e che, nello slancio verso il futuro, stava appunto già predisponendo il terreno a quella «musica dell’avvenire» invocata nel nome di Wagner che di lì a poco – la prima rappresentazione del Lohengrin è del 1871 – avrebbe fatto di Bologna la città wagneriana d’Italia. La Messa per Rossini non fu quindi mai eseguita e non divenne fatto storico. Dovette passare più di un secolo per vederla approdare in una chiesa o in una sa-

la da concerto, come avvenne a Stoccarda e a Parma nel 1988, in pregevoli esecuzioni dirette da Helmuth Rilling, a rivelare proprio ciò in cui Verdi credeva, cioè la forza di una tradizione, di una scuola di musica sacra solidissima e non languente, non in balìa dell’accademismo ma capace di innestare sull’impianto della tradizione concertante, che sta alla base di tutti gli autori e di tutti i brani, quel quoziente lirico largamente collaudato nel teatro e che la musica di chiesa ormai accoglieva come spinta al rinnovamento. Tuttavia dal nucleo del «Libera me» di propria mano che concludeva il suo progetto Verdi, qualche anno dopo, maturò l’idea della Messa da Requiem dedicata alla memoria di Alessandro Manzoni, eseguita nel 1874 al Teatro alla Scala nel primo anniversario della morte del grande scrittore.

In scena ◆ Dialogo immaginario tra Hannah Arendt e Adolf Eichmann Giorgio Thoeni

Le sale teatrali di Locarno e Chiasso hanno ospitato Eichmann. Dove inizia la notte di Stefano Massini, con Ottavia Piccolo e Paolo Pierobon diretti da Mauro Avogadro. Penna di grande intuizione drammaturgica e spessore contenutistico, l’atto unico di Massini costruisce un dialogo immaginario fra la filosofa ebrea Hannah Arendt e Adolf Eichmann, il gerarca nazista che organizzò la tempesta devastante (la biblica Shoa), lo sterminio del popolo ebraico durante la Seconda guerra mondiale. Un’architettura testuale che l’autore costruisce attingendo da La banalità del male, il celebre libro della Arendt pubblicato nel 1963 a seguito del processo al criminale nazista, ma anche sulla base dei verbali degli interrogatori e degli atti del dibattimento. Da tutto ciò, ricordando soprattutto l’opera dell’intellettuale tedesca, emerge prepotentemente l’assenza di un pensiero critico in Eichmann a cui aggiungere la totale mancanza di un’assunzione di responsabilità nei confronti dell’atrocità consumata adducendo il miope rispetto di ordini ricevuti. Insomma, è il ritratto di un povero mentecatto inserito in un meccanismo infernale di dimensione epocale. Lo stesso ci porta a un accostamento fra la banalità del personaggio e l’orrore dei nostri giorni osservando scenari di guerra fra vit-

L’Ucraina spiegata dalla cinematografia Cinema

Una piccola guida per individuare le pellicole che possono aiutarci a leggere l’attualità

Nicola Mazzi

Anche i film, in particolare i documentari, possono aiutarci a comprendere meglio il conflitto in Ucraina. Il materiale, per chi volesse approfondire il tema, non manca, dunque può essere utile una piccola guida per capire cosa guardare e dove. Winter on Fire (2015) di Evgeny Afineevsky (su Netflix), descrive la rivoluzione (altri la definiscono il colpo di Stato) di piazza Maiden a Kiev. Per ben 93 giorni, da novembre 2013 a febbraio 2014, migliaia di manifestanti occuparono il centro della città per protestare contro il premier Janukovyc che, dopo aver promesso in campagna elettorale l’inizio delle trattative per aderire all’Ue, cambiò idea e spostò lo sguardo verso la Russia di Putin. Un racconto molto drammatico che non risparmia nulla allo spettatore anche grazie a uno stile da reporter. La macchina da presa a spalla, usata dall’interno delle manifestazioni e durante gli scontri con la polizia speciale, rende il tutto molto realistico. Il regista intervalla sapientemente la concitazione di quei tragici momenti con le interviste ai protagonisti di quei giorni. Il tutto in un crescendo di tensione e drammaticità. Un documentario dal quale emergono diversi aspetti interes-

santi come la netta divisione tra l’allora classe dirigente ucraina e i cittadini. E, soprattutto, fa capire a noi occidentali quello che sta dimostrando il popolo ucraino in queste settimane: la grande tenacia, l’attaccamento a una terra e l’orgoglio verso una bandiera riapparsa con l’indipendenza nel 1991, dopo lo sgretolamento dell’URSS.

Dettaglio della locandina del film I testimoni di Putin.

Un altro tassello importante ce lo offre I testimoni di Putin (2018) di Vitali Mansky, regista ucraino famoso anche per aver realizzato dall’interno della Corea del Nord e in modo clandestino Under the Sun, uno dei pochi documenti su quel misterioso Paese. Disponibile sulla piattaforma PlaySuisse I testimoni di Putin filma il passaggio di consegne tra Eltsin e Putin. Il punto di vista è molto particolare e ci fa entrare nella stanza dei bottoni russi, infatti, Masky all’epoca era il regista di regime ed era stato incaricato di filmare la campagna elettorale del nuovo presidente. Grazie a questo materiale d’archivio, a distanza di anni, ha costruito un documentario molto critico verso il nuovo Zar. Il suo pensiero è esplicitato dal commento fuori campo che ricorda quelle settimane e ne mette in luce alcuni aspetti premonitori. Soprattutto quando lo stesso Putin si confronta con il regista e gli spiega alcuni suoi pensieri, anticipatori di una politica drammaticamente attuale. Per esempio, in una chiacchierata informale, Putin rimprovera a Mansky di non capire la sua decisione di tornare al vecchio inno sovietico. Per l’allora nuovo presidente russo questo aspetto

era fondamentale per ricostruire la fiducia nello Stato in una società ancora nostalgica della stabilità dell’ultimo periodo sovietico. Sulla stessa linea anche il documentario (su Arte) Putin e la nostalgia dell’URSS, un reportage realizzato nel 2021 nel quale si dà spazio alla festa del 9 maggio (la data della vittoria nella Seconda guerra mondiale) come quelle effettuate nel Parco dei Patrioti, nella periferia di Mosca. I numerosi cittadini che vi partecipano celebrano con fierezza e nostalgia l’epoca sovietica, mentre a pochi chilometri di distanza l’inaugurazione di un sito che ricorda le vittime dello stalinismo viene snobbata. Su PlaySuisse troviamo un altro documentario di tutto rispetto: Le combattenti del Donbass, reportage realizzato per Temps Présent. In questo caso si seguono alcune donne ucraine impegnate a combattere contro i separatisti filorussi. Già tre anni or sono si potevano intuire tutti gli elementi scatenanti di questo conflitto e soprattutto, come si diceva all’inizio, si comprende ancora una volta la volontà di un popolo che non si vuole arrendere e usa tutte le forze a disposizione per difendere il proprio territorio.

Gli attori Ottavia Piccolo e Paolo Pierobon in un momento dello spettacolo.

time innocenti. Chiunque infatti potrebbe ancora agire in modo analogo nascondendosi dietro la maschera dell’obbedienza declinata in una dimensione demoniaca, perversa, invasiva, devastante, capace di annegare il mondo nella notte del male. Il dialogo dello spettacolo può farci riflettere anche su questo nel gioco fra le domande asciutte, dirette della Arendt e le narrazioni di Eichmann che snocciola le tappe della carriera di un uomo senza qualità, mediocre, ambizioso e opportunista, il cui unico grande sogno era quello di obbedire al suo meglio per farsi apprezzare dal Führer. La regia di Avogadro sottende una teatralità debitrice del peso di una struttura verbale perfetta per la statura attoriale di Pierobon accanto alla figura volutamente opaca della Piccolo: uno spettacolo intenso e necessario.


Settimanale di informazione e cultura

Anno LXXXV 4 aprile 2022

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CULTURA / RUBRICHE

In fin della fiera

47

di Bruno Gambarotta

Gli artisti non pensano mai al domani ◆

Non comparendo quasi più nella scatola televisiva, sono entrato in una sorta di paesaggio nebbioso, dai contorni indefiniti, che andrà avanti chissà per quanto tempo. Sto vivendo la stagione di uno che lentamente evapora. Non sono tanto i giovani a preoccuparmi, loro per fortuna hanno smesso di guardare la televisione e in ogni caso hanno di meglio da fare che sforzarsi di attribuire un nome a un volto nella folla; penso ai miei coetanei, gli anziani, vorrei trovare un modo per soccorrerli senza offenderli. Stanno passeggiando in coppia sul lungo mare, incrociano un tale che vagamente richiama qualcuno alla loro memoria; uno dei due s’impianta di colpo, spiazzando l’altro che per inerzia prosegue ancora per qualche metro. Nelle rughe sempre più fitte della fronte, negli occhi strizzati, nella bocca semi aperta, leggo il pensiero: «Questo qui lo conosco, ma dove

l’ho già visto? Come si chiama? Povero me, sto perdendo la memoria e dire che il geriatra si è tanto raccomandato di tenerla in esercizio!» Provo l’impulso di andargli incontro, di dirgli il mio nome, tranquillizzarlo, dirgli che non è colpa sua, succede a tutti e poi sono io che sto svanendo. Ma come si fa? Potrei andare in giro con un cartello appeso al collo, con nome e cognome in stampatello e un succinto curriculum. Mi dicono che negli Stati Uniti è una pratica comune nei congressi. Preferisco aver a che fare con quelli che mi interpellano e in uno scambio di battute arrivano a mettere insieme un brandello di ricordo. Se due anziani coniugi mi sottopongono al terzo grado, hanno l’occasione per una bella litigata. Come questa coppia di villeggianti sani, abbronzati, felici, seduti di fronte a me sull’autobus di linea che percorre la via Aurelia lungo i paesi del Po-

Un mondo storto

nente Ligure. In una prima fase i due confabulano a bassa voce. Terminata la consultazione lui esorta la moglie: «Dai chiediglielo!». La prima mossa spetta sempre alla donna: «Scusi, con mio marito abbiamo fatto una scommessa: vero che lei è quello della TV e che si chiama Barbagallo?». «Mi dispiace deluderla, ma non mi chiamo Barbagallo, però non mi dispiacerebbe portare un cognome così illustre». Un velo di diffidenza e di sospetto cala sul volto della signora: «Ma se lei non è Barbagallo come si chiama, scusi?». Allungo la mano destra: «Piacere. Mi chiamo Bruno Gambarotta». Il marito trionfa: «Vedi? Avevo ragione io! È Bruno Gambacorta». «Non per fare il pignolo a tutti i costi, ma Bruno Gambacorta non sono io, lui è un bravo giornalista, conduceva su Rai Due la rubrica Eat Parade sul cibo». Il marito incassa la puntualizzazione: «Certo. Lui sì che è bra-

vo. E lei invece come mai è sparito? Sono almeno vent’anni se non di più che non la vediamo alla tele. L’hanno cacciata via? Non faceva più audience? L’hanno scoperta con le mani nella marmellata?» Il mio primo impulso è quello di domandargli: «Non ha mai pensato di farsi una bella flebo di cazzi suoi?» Mi frena il pensiero che forse ignora il significato della parola «flebo». Cerco di parare il colpo: «Veramente qualche passaggio me l’hanno ancora fatto fare… Mi chiamano quando si tratta di rievocare la radio dei tempi di Marconi». Non mi lascia continuare: «Come no. Mi ricordo quella reclame della pasta adesiva per le dentiere. Lei faceva la parte della suora». La moglie vuole riprendere in mano il pallino e rimbecca il marito: «Ti sbagli! La suora la faceva Elio Pandolfi!». Il marito sembra punto da una vespa: «No! Pandolfi faceva la gallina!» Tento una mediazio-

ne: «Forse era una gallina che si faceva suora». La moglie non si arrende: «Comunque non era lui! Questo Barbagallo qui è molto più vecchio del tuo Pandolfi!» Il vicino di posto che ha avuto la bontà di riconoscermi si volta verso di me, mi scruta a lungo ed emette la sua diagnosi: «Certo che visto dal vivo, senza il trucco, sembra molto più vecchio. Magia della tivù». Devo avere inalberato un’aria abbacchiata perché la signora s’informa con una certa delicatezza sulla mia situazione economica: «Ma voi attori, quando non vi fanno più lavorare, c’è qualcuno che vi paga?» La mia risposta è netta: «No! Perlomeno io non sono pagato». Insiste: «Neanche nel caso delle repliche?» «Meno che mai». Diventa severa: «Doveva pensarci, pretendere un contratto per le repliche. Tutti così, voi artisti, non pensate al domani. Almeno ce l’ha qualcosa da parte per la vecchiaia?».

di Ermanno Cavazzoni

Il teatro della vita

Una persona vive 70, 80, 90 anni, su per giù, lo sappiamo fin dall’inizio che non siamo eterni. Anzi, uno viene al mondo senza essere consultato, se preferiva restare nel vuoto o venire al mondo. Nel vuoto non si deve star male, niente angosce né orari, nessuno ti scoccia, e soprattutto non si pensa, e quindi non si sa niente, non solo di storia, geografia, aritmetica, uno non sa neppure d’essere nel vuoto, o d’essere lui stesso un nulla. Mica male! Perché se ad esempio un funzionario addetto alle nascite ti chiedesse: «vuoi venire al mondo?», l’interrogato non solo si stupirebbe che ci sia un mondo, l’interrogato non capirebbe la frase, per quanto il funzionario, la dovesse ripetere: «vuoi venire o no?». Non ci sarebbe risposta, perché di fatto il funzionario non saprebbe a chi chiederlo, essendoci davanti a lui solo il vuoto indifferenziato, e anche il funzionario

non so da dove l’ho tirato fuori, era solo un’ipotesi. Quindi uno dal nulla cade in mezzo a uno spettacolo in corso, e non c’è modo di sottrarsi, perché anche il sonno fa parte dello spettacolo, e uno magari ne approfitta per dormire davvero, se no sarebbe difficile tirare avanti, e anche quando si sveglia e recita la colazione, uno il caffè lo beve davvero e ci mangia dietro una brioche o del pane imburrato. Ma la cosa incredibile è che l’attore stesso deve procurarsi caffè e brioche, non c’è un impresario che li fornisca; una situazione indecorosa, ti hanno ingaggiato tirandoti fuori dal vuoto, ti hanno messo sul palcoscenico, ma per il resto ti devi arrangiare. «Ma alla fine pagano? C’è il successo? La fama?» No niente, si sa solo che a un certo punto finisce, uno recita una malattia o un incidente, e poi buio, niente applausi, niente fiori, non

ci sono camerini dove struccarsi e fare autografi, niente, gli attori ogni tanto spariscono, e ne vengono dei nuovi, un cast colossale. «Ma chi paga?» mi chiedo; «è un mecenate che vuole buttare via i soldi? Che ama l’arte?» anche se di arte non ne vedo tanta, sono più i cani che i bravi attori. «O c’è uno scopo educativo?» Recitiamo per le scuole, per qualche parrocchia, che però non si è mai vista; e quando me ne sto sdraiato sul divano a non fare niente, che spettacolo è? Non è certo educativo, né divertente. C’è qualcosa in questa faccenda che non mi convince. A meno che siano solo dei turni, ottant’anni di spettacolo e ottant’anni di riposo. Ma il riposo dove lo si va a fare? Perché se ad esempio lo si passa al mare, ottant’anni su una spiaggia al sole, a me, anche sotto l’ombrellone, non piacerebbe, e neanche l’aria condizionata dell’albergo, ottant’anni di aria condizionata!

Con la cervicale, no, dico no, meglio il vuoto. Quindi riassumo: tante cose di questo grande spettacolo vanno contro i diritti elementari della persona; l’ingaggio forzato è schiavismo. Poi il tempo determinato; nessuna garanzia sindacale; ad esempio non si può entrare di ruolo nella commedia e avere il posto fisso; no, niente, sempre nell’incertezza, nell’ansia; «per quanto mi tengono ancora?» Non ti riconoscono la professionalità maturata negli anni, anzi! Più conosci la parte che reciti più sei prossimo al licenziamento definitivo. Ed è tutto lavoro in nero, qualcuno ci guadagnerà. «E se facessimo sciopero?» Difficile anche questo, perché ad esempio se uno sta fermo, catatonico, in un angolo buio, e non parla mai, beh, anche questa è una recita, nel grande copione la chiamano depressione grave, non si scappa. C’è chi dice che non si do-

vrebbero più fare figli; dopo cent’anni non ci sarebbe più nessuno, il teatro vuoto, vediamo un po’ come rimedierebbero. Ma è uno sciopero difficile da concordare, negli attori ci sono sostanze chimiche (secondo me illegali) come il testosterone, l’ossitocina, che rendono l’individuo insensibile ai programmi sindacali e a qualunque sciopero contro il sesso e la riproduzione. Con queste droghe uno ha sempre in mente di montare una femmina, e la femmina di farsi montare, con la conseguenza di produrre nuovi attori, cioè nuova manodopera a costo zero, e lo sciopero va subito in vacca. A meno che sia tutto teatro d’avanguardia, quegli spettacoli incomprensibili che durano giorni e giorni, anche quando gli spettatori sono scappati, ma la recita continua. C’è chi dice non sia altro che il Vero Incessante Teatro Animato, in acronimo, la VITA.

Voti d’aria

di Paolo Di Stefano

Anna, Serhji, la realtà ◆

Se qualcuno non ha letto La Russia di Putin di Anna Politkovskaja quando uscì da Adelphi nel 2005, può leggerlo adesso più comodamente ripubblicato in edizione tascabile. Il 7 ottobre 2006 la giornalista del giornale moscovita «Novaja Gazeta» fu uccisa con quattro colpi di pistola, uno in testa. Era il giorno in cui Putin compiva 54 anni e qualcuno sostiene, con ottime ragioni, che quello fu il suo regalo di compleanno. La settimana scorsa il Cremlino ha ordinato di chiudere il più famoso giornale indipendente russo su cui scriveva Anna Politkovskaja e su cui scriveva il premio Nobel per la Pace Dimitri Muratov. Letto oggi, alla luce della guerra in corso, La Russia di Putin, risulta ancora più agghiacciante e spiega il terrore, le torture, le guerre sanguinose a scopo personale, il carcere e il veleno per gli oppositori, eccetera. Scrive la

Politkovskaja: «Siamo solo un mezzo, per lui. Un mezzo per raggiungere il potere personale. Per questo dispone di noi come vuole. Può giocare con noi, se ne ha voglia. Può distruggerci se lo desidera. Noi non siamo niente» (niente voti d’aria né d’acqua né, tanto meno, di fuoco). La giornalista definiva il suo libro non un’analisi politica ma un «libro di appunti appassionati» sulla vita a Mosca, a San Pietroburgo, in Cecenia, in Siberia, eccetera: «Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo». Si può dunque morire perché si scrive ciò che si vede. Infinite sono le storie raccontate, alcune di una brutalità impressionante, ma non c’è invenzione, Politkovskaja ha davvero visto ciò che raccontava: i massacri, i pianti, certe decapitazioni in Cecenia, le morti per fame e per assideramento, la terribile strage di Beslan, i genitori straziati dopo l’eccidio nel teatro Dubrovka che la televisione

di Stato ha completamente offuscato. Giustamente, Mattia Feltri (5½), nella rubrica Buongiorno sulla «Stampa», fa notare che quel libro spaventosamente esplicito è uscito poco prima che Putin venisse incoronato per la seconda volta: e quando fu eletto, ricevette il plauso se non l’entusiasmo di Blair, Berlusconi, Chirac, Schroeder, Bush jr: quasi tutti, ricorda Politkovskaja, erano andati a omaggiare l’«imperatore» per il tricentenario di San Pietroburgo, le cui facciate vennero tinteggiate per l’occasione in modo sconsiderato a beneficio degli illustri ospiti. È probabile che i lettori di «Azione» abbiano già letto mille volte queste cose, ma vale la pena ripeterle a scanso di amnesia. Quando si dice: per non dimenticare… Ecco, il consiglio è di leggere La Russia di Putin. Ma anche uno scrittore ucraino come Serhji Žadan, performer, poeta, pole-

mista, cantautore classe 1974, che da oltre un mese è impegnato a difendere il suo paese. La casa editrice Voland, di Roma, ha tradotto tre suoi romanzi: Mesopotamia, La strada del Donbas, Il convitto. Quest’ultimo (5+) è l’attraversamento di una città mentre infuria la guerra tra spari, macerie, morti e fame: siamo nel 2015 e il protagonista, un insegnante, deve andare a recuperare il nipote epilettico in un convitto per riportarlo a casa. Ci vogliono tre giorni perché riesca a portare a termine la sua missione angosciosa, una sorta di tragica odissea joyciana. Sia pure così diversi tra loro, Politkovskaja e Žadan ci invitano, anche, a una seria riflessione sulla letteratura cosiddetta di realtà. Che cosa significa racconto di realtà, di cui tantissimo si parla in questi anni? Significherebbe raccontare spostandosi dalla scena e lasciando spazio alle persone o ai personaggi.

Non c’è una sola pagina di Politkovskaja o di Žadan che faccia sorgere il dubbio di una loro esibizione narcisistica dentro la narrazione: è troppo urgente il racconto delle storie altrui per pensare a sé stessi. Se c’è l’io, è un io che miracolosamente scompare in mezzo alla folla, non ha mai nulla di autocelebrativo o di compiaciuto. Ecco cosa manca ai tanti cosiddetti «racconti di realtà» che leggiamo dalle nostre parti: la voglia di fare un passo indietro dalla scena narrata. Provate a leggerli. Un ego esorbitante, traboccante a ogni riga. Intendiamoci, non sto negando la legittimità del romanzo autobiografico, che ha una tradizione gloriosa: sto parlando di un’opera che si presenta come il racconto di una realtà che scorre sotto i nostri occhi, a cui partecipiamo, di cui siamo testimoni ma di cui non siamo gli attori protagonisti.


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30.03.2022 15:16:37


Pesce e frutti di mare

Salmone e altre prelibatezze dal mare

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI Al banco del pesce trovi una vasta scelta di pesce e frutti di mare bio. Ogni varietà è accompagnata da preziosi consigli per la preparazione e informazioni utili. Su richiesta è possibile far marinare e confezionare i filetti sotto vuoto oppure far filettare pesci interi.

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20% Filetti di sogliola limanda selvatico, Atlantico nord-orientale, per 100 g, al banco a servizio e in self-service

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Gamberetti tail-on cotti bio d'allevamento, Ecuador, in conf. speciale, 240 g

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Salmone dell'Atlantico affumicato, ASC d'allevamento, Norvegia, in conf. speciale, 300 g

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20% Pesce fresco bio salmone, orata e branzino, in self-service e al bancone, per es. filetto di salmone con pelle, d’allevamento, Norvegia, in self-service, per 100 g, 4.45 invece di 5.60

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Pane e prodotti da forno

Soul food dal forno 20% Tutti i sushi e tutte le specialità giapponesi per es. Maki Mix, tonno: pesca, Oceano Pacifico occidentale; salmone: d'allevamento, Norvegia, 200 g, 6.95 invece di 8.95

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Ticinese rustico, IP-SUISSE 400 g, confezionato

Pacific Prawns ASC o frutti di mare misti Costa prodotti surgelati, in conf. speciali, per es. Pacific Prawns, ASC, 800 g, 19.95 invece di 29.90

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Pane alle noci, IP-Suisse 400 g, confezionato

Tutte le trecce precotte per es. treccia al burro, IP-SUISSE, 400 g, 2.60 invece di 3.30

Filetti di salmone dell'Atlantico Pelican, ASC surgelati, 3 x 2 pezzi, 750 g

20% Baklava Bujrum con noci o pistacchi, per es. noci, 600 g, 5.– invece di 6.40

Migros Ticino

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Berliner con ripieno di lamponi in conf. speciale, 6 pezzi, 420 g

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20% Pasta fresca Garofalo ravioli ricotta e spinaci o tortellini prosciutto crudo, in conf. speciale, per es. ravioli, 500 g

Tutto l'assortimento Mister Rice bio per es. Carnaroli, 1 kg, 3.90 invece di 4.90

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Pizze M-Classic

nere denocciolate o verdi con peperoni, per es. verdi con peperoni, 400 g

surgelate, Margherita o Toscana, in confezione speciale, per es. Margherita, 3 pezzi, 825 g, 5.60 invece di 7.50

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g e da 5 0 0 d n a r g e n o Confe zi fan de l le noc i pe r i

Bevande

Dissetante della settimana

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Ripieno per vol-au-vent M-Classic Forestière o con funghi prataioli e carne, per es. Forestière, 3 x 400 g, 8.75 invece di 10.95

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Tutte le bevande Biotta non refrigerate

disponibili in diverse varietà, per es. piselli e carote, fini, 4 x 260 g, 5.40 invece di 6.80

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Dolce e salato

Bontà che scalda il cuore

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Biscotti Oreo Original, Double Cream o Golden, per es. Original, 3 x 154 g

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Cornetti Fun alla vaniglia e alla fragola

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Tacos Farmer Special Edition, 144 g

Mochi Little Moons surgelati, al frutto della passione e mango, al cioccolato e nocciola o alla vaniglia, per es. al frutto della passione e mango, vegani, 6 pezzi, 192 g, 5.95

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Bellezza e cura del corpo

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(sale rigeneratore escluso), per es. Classic, 44 pastiglie, 8.– invece di 9.95

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