La Migros fa di più per la Svizzera.
La Migros non è solo un luogo dove si fanno acquisti, bensì molto di più: è un’istituzione svizzera unica nel suo genere, che da quasi 100 anni si impegna a favore della società, della natura e dell’economia. Naturalmente non è sempre perfetta. Ma ogni giorno persegue con profonda dedizione una chiara missione: la Migros fa di più per la Svizzera.
Scopri ora tutti i campi in cui la Migros si impegna: svizzera.migros.ch
SOCIETÀ
I supercomputer come quello di Lugano avranno mai la possibilità di nominare e definire l’infinito?
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TEMPO LIBERO
Con l’autoritratto offriamo una nostra descrizione fisica mostrando però i nostri lati più reconditi
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«Azione», i primi 85 anni
ATTUALITÀ
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In Svizzera la destra avanza trainata dall’UDC e il pensiero vola alle Federali di ottobre
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edizione 15
MONDO MIGROS
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CULTURA
Intervista a Suad Amiry, architetta e intellettuale palestinese, autrice del romanzo Sharon e mia suocera
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Quei vecchi leoni che non mollano la poltrona
Carlo Silini
Mentre leggete queste righe non sappiamo come si sia evoluto lo stato di salute di Silvio Berlusconi, ricoverato giorni fa per una forma di leucemia che gli ha causato la polmonite, costringendolo ad affrontare a 86 anni la sua battaglia più difficile. Venerdì mattina, quando le pagine di Azione andavano in stampa, stava un po’ meglio e nessuno osava dire che potesse anche non farcela.
Per scaramanzia. O per l’ingenua convinzione che il Cavaliere sia una creatura magica e invincibile, considerando le battaglie mediche stravinte nel passato: dal tumore alla prostata nel 1997, alla statuetta del duomo di Milano scagliatagli in faccia nel 2009 che gli è costata parecchi interventi, alla rognosa forma di Covid poco più di due anni fa. Sulla sua presunta invincibilità fermiamoci qua, anche se molti l’estendono, non senza ragioni e/o ironie alla po-
litica, alle inchieste giudiziarie e alle vicende sentimental-sessuali, visto l’abisso anagrafico rispetto alle compagne (Francesca Pascale, nata nel 1985, e Marta Fascina, classe 1990) dopo il divorzio da Veronica Lario (lui è del ’36).
Berlusconi è un caso speciale e allo stesso tempo emblematico: trent’anni fa ha creato un partito politico, Forza Italia, e da allora non ha saputo o voluto preparare una generazione in grado di sfornare un vero successore. Per non parlare dell’impero economico. È il problema degli uomini-partito e degli uomini-azienda incapaci di mollare la presa quando sono ancora in forze. È giusto, per chi li segue, dipendere in tutto e per tutto da leader che, statisticamente, hanno dimezzato le energie rispetto ai tempi buoni?
Al di là del caso Berlusconi, davvero non riusciamo a creare classi dirigenti più fresche? Passi per le monarchie: un re o una regina – lo ab-
biamo visto di recente – non lo eleggi e non lo deponi per alzata di mano e quindi rischia di stare al trono vita natural durante. Ma già nelle chiese il discorso vacilla. Nel mondo cattolico i vescovi sono tenuti a dimettersi a 75 anni, e Ratzinger ha aperto la strada del buen retiro anche ai successori (papa Francesco giura che quando riterrà di non farcela più ne seguirà l’esempio). Per il resto, a voi non preoccupa che la più potente democrazia al mondo sia in mano a un signore di 81 anni, Joe Biden, e il suo possibile sfidante repubblicano, Donald Trump, l’anno prossimo ne compia 78? Giusto che l’età media dei politici sia matura (al Consiglio nazionale 51 anni e agli stati 57): ci vuole quel mix di forza e di esperienza nel quale le persone possono dare il meglio per la collettività. Ed è vantaggioso per tutti che diversi neopensionati si giochino qualche anno di energia
mentale e fisica per la cosa pubblica. Ma un sistema di potere gerontocratico è socialmente malsano: uccide le legittime ambizioni di carriera dei giovani e costringe moltitudini di cittadini a dipendere da individui che rischiano di sparire per una polmonite improvvisa. «Nel partito decido ancora io» spiegava Berlusconi al «Corriere della Sera» ancora poche settimane fa. C’è chi si è commosso elogiando la grinta del «vecchio leone» e chi si è indignato per l’assoluta incapacità del Cavaliere (e di altri politici super longevi) di farsi da parte. Il discorso, qui, non ha niente a che vedere con le simpatie politiche. Riguarda il buon senso. Lunga vita agli anziani che lottano strenuamente contro le malattie e l’usura degli anni, ma che bello se riuscissero anche a lasciare la presa a favore dei loro eredi politici e morali (e magari – che non guasta – a godersi la pace degli anni).
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
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Simona Sala Pagina 4
MONDO MIGROS
Da 85 anni in Azione
Speciale 90esimo ◆ Venerdì 8 aprile 1938 nasceva «Azione», il settimanale di Migros Ticino
Simona Sala
«Azione», settimanale di Migros Ticino, uscì per la prima volta cinque anni dopo la Fondazione di Migros Ticino; il panorama giornalistico del 1938, certamente meno complesso del nostro poiché ancora lontano da digitalizzazione e globalizzazione, presentava una diversificazione impressionante. «Azione» infatti, che nasceva sulla scia della fondazione di «die Tat» (nato nel 1935 come organo di informazione del partito di Duttweiler, L’anello degli indipendenti), doveva vedersela con l’«Eco di Locarno», «Gazzetta ticinese», «Libera Stampa», «Popolo e libertà», «Corriere del Ticino», «Giornale del popolo» ecc. Non stupisce dunque ritrovare questa consapevolezza nell’articolo numero uno di «Azione», riportato parzialmente qui sotto.
1938
AI LETTORI
«Un nuovo settimanale nel Ticino, potrebbe anche sembrare assolutamente superfluo, poiché ve ne sono già tanti e d’ogni tendenza.
Eppure abbiamo voluto presentarci al pubblico, onestamente convinti di aver qualcosa da dire, e convinti che un foglio aperto a tutti, senza differenze di parte, di classe o di regione, per trattare argomenti interessanti e le questioni vitali del nostro paese, soprattutto quelle che toccano da vicino la sua economia, può starci ancora».
L’inizio del saluto apparso sulla prima edizione di «Azione» (la cui redazione allora era in Via Pretorio, dove tornò anni dopo e ancora si trova), che era diretto da Goffredo Saiani e veniva stampato dalla Tipografia Grafica diretta dai «signori Materni e Torriani» a Bellinzona, sembra non avere perso smalto con il passare degli anni. Ancora oggi, infatti, il foglio vuole essere aperto a tutti senza differenze di alcun tipo.
Continuando nella lettura però, ci si accorge di come sia evoluto il mandato del settimanale, poiché laddove oggi è definito «di informazione e cultura», nel 1938 si voleva «trovare un piano di base, sul quale, nel nostro Cantone, uomini di tutti i partiti, che hanno nei loro programmi i principi e le finalità nazionali comuni alla maggioranza del popolo svizzero, possano trovarsi insieme per portare il loro contributo alla ricostruzione economica e civile del nostro paese».
Ed ecco che «Azione», attraverso testi fitti e qualche vignetta, si prefiggeva di farsi voce di coloro che attraversavano un momento di crisi, chinandosi sui problemi e sulle necessità di agricoltura e artigianato, e dedicando le proprie attenzioni alle regioni più discoste del nostro Cantone, al fine di assicurare loro uno sviluppo equo ed equilibrato. Ma ciò non poteva essere fatto unicamente attraverso un giornale, era appunto necessaria un’«Azione» concreta, da individuarsi nella «Società Coope-
rativa Lavoro Ticinese», di cui proprio in occasione del primo numero, il settimanale di Migros Ticino presentava gli statuti. Sotto il titolo Il lavoro ticinese già a partire dal secondo numero si illustravano i campi di intervento («contribuire a creare (…) occasioni di lavoro e di guadagno accessorio per le nostre popolazioni rurali»), come ad esempio «l’acquisto della produzione totale di lana filata a mano dell’opera delle filatrici malcantonesi».
1948
Nel 1948 la grafica della testata di «Azione» subisce il primo dei suoi numerosi cambiamenti. Il foglio rimane smilzo, tra le quattro e le sei pagine, è diretto dal carismatico intellettuale ticinese Vinicio Salati, e ancora si definisce «Organo della Società Cooperativa Lavoro Ticinese». Oltre alla natura variegata degli argomenti (dalla difesa del fondatore di Migros Duttweiler si passa a curiosità dal mondo, senza disdegnare le recensioni di concerti sentiti in radio o l’oroscopo), accanto al titolo della testata, sono riportate massime di personaggi celebri o anonimi, come «Questo lo diceva un campione a suo figlio: sappi perdere con il sorriso e vincere come fosse tua abitudine».
1958
Vent’anni dopo la sua fondazione «Azione» è diventato «Settimanale del giovedì indipendente di informazione», e a settembre (sulla copertina i coniugi Adele e Gottlieb Duttweiler davanti al lago) il redattore capo Salati annuncia con fierezza un importante cambiamento: le nuove dimensioni si rifanno all’«avanguardia tipografica» francese, con un formato più compatto ma «aumentato numero di pagine» – diventate 16. Le notizie, sempre di natura varia, spaziano dai consigli di bellezza alla cronaca di sentenze, senza dimenticare la promozione della Scuola Club (con corsi di lingue al prezzo di 6 Fr.) e dei vari prodotti in offerta alla Migros.
1968
Alla penna di Vinicio Salati nel 1968 si era affiancata quella di Luciana Caglio, e lo si respira tra le pagine di un settimanale che ha ormai superato le 30’000 copie: su «Azione» si parla di femminismo, con articoli dedicati all’emancipazione alternati alle
cronache modaiole e ai consigli «casalinghi». Lo sguardo giornalistico però si afferma e si consolida anche in altri ambiti, come ad esempio politica estera, sport e cultura. Fra i collaboratori anche Angelo Casè, il bravo poeta ticinese fratello dello scultore Pierre.
1978
Nel 1978 la grafica della testata (con colori diversi ogni settimana) è cambiata, si è fatta più sobria, e il giornale, ormai diretto da Luciana Caglio, è diventato «Settimanale del capitale a scopo sociale». Fra le figure di spicco che collaborano con la testata vi è Sergio Jacomella. La tiratura si avvicina alle 40’000 copie, e nel segno dell’attualità, stretta e meno stretta, che è sempre stato il marchio distintivo del settimanale, ad esempio nell’edizione di luglio ci si interroga sulla possibilità del cambiamento climatico. Le fotografie, seppur sgranate e con i limiti di certo bianco e nero stampato su carta da giornale, hanno un ruolo sempre più importante, rafforzando notizie e commenti.
1988
Negli Anni Ottanta la grafica è ancora più delineata, per cui di più facile leggibilità: gli articoli sono suddivisi in modo netto, gli ambiti di intervento più vasti, ma soprattutto, nel giornale sempre diretto da Luciana Caglio, appaiono firme che resteranno indissolubilmente legate ad «Azione», come quelle di Eros Costantini, Giovanni Orelli o Aldo Fraccaroli. La tiratura si aggira sulle 50’000 copie e cominciano a nascere le pagine internazionali, seguite da quelle nazionali e regionali, dalle scienze e dalle arti, per poi chiudere con le informazioni aziendali di Migros. Nel 1989 Ovidio Biffi subentra a Luciana Caglio.
1998
2008
Con la nuova veste del 2003 (anno del 70esimo di Migros Ticino e 65esimo di «Azione») Ovidio Biffi introduce il nuovo settore «Società e famiglia». Come dichiara per l’occasione l’allora direttore di Migros Ticino Lorenzo Emma: «Noi siamo orgogliosi di questa eredità che mantiene prioritaria la sua facoltà di indirizzare messaggi e informazioni relative all’attività commerciale. E la salvaguarderemo, affinché «Azione» rimanga un punto di riferimento nella vita culturale, editoriale ed economica del nostro cantone». Nel 2006 Peter Schiesser subentra a Ovidio Biffi e nel 2009 affida la nuova veste grafica allo studio CCRZ. Nel 2014 «Azione» si fa in tre, diventando anche sito web e giornale sfogliabile online su ISSUU.
2018
Il settimanale ha ormai raggiunto la soglia delle 100’000 copie e vanta di un ampio numero di collaboratori esterni oltre a quattro redattrici responsabili di settore e a un vicecaporedattore. «Azione» esce anche durante la pandemia, grazie al telelavoro. Nel 2021 Thomas Capponi disegna un layout più colorato. Dal 1. Gennaio 2023 il nuovo caporedattore è Carlo Silini, e forse, per concludere questo breve viaggio nel passato, non sarebbe fuori luogo riprendere il discorso del 1938 con cui abbiamo aperto l’articolo: «Il giornale ha però una sua ragione d’essere quale coordinatore e propulsore, raccoglitore e banditore di critiche, desideri, idee nuove. Tale lo vogliamo e tale sarà, specie se ci verrà concessa quella fiducia alla quale crediamo di avere diritto».
2023
Nel 1992 Ovidio Biffi introduce una grafica nuova e più compatta. La foto in prima pagina cattura gran parte della copertina in un mondo sempre più votato all’immagine. La tiratura ha ormai superato le 60’000 copie settimanali e le pagine sono raggruppate secondo linee tematiche ben definite. Nel 1999 un nuovo cambiamento grafico: alle pagine viene data più aria mentre nel titolo della testata appare la freccia che accompagnerà il giornale fino al 2003. Sempre più firme del giornalismo internazionale scrivono per «Azione», affiancando nomi di valore locali.
«Azione» ha potuto crescere e continua a farlo, in primis grazie allo spirito visionario e pionieristico di Gottlieb Duttweiler, che riusciva a vivere oltre il proprio tempo, e all’impegno di chi negli anni ci ha lavorato: non sono stati da meno i direttori di Migros Ticino e di «Azione», Charles e Ulrico Hochstrasser, Lorenzo Emma e ora Mattia Keller, i caporedattori Salati, Caglio, Biffi, Schiesser e l’attuale Silini, i tipografi e i tecnici che da 52 anni «creano» «Azione» al centro Stampa del «Corriere del Ticino» di Muzzano e, last but not least chi, settimana dopo settimana, mette a disposizione le proprie competenze scrivendo per noi. Infine, il ringraziamento più grande è rivolto a chi «Azione» lo legge, permettendoci di continuare a essere un importante osservatorio da ormai oltre 85 anni.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
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Hanno lavorato/lavorano nella redazione di Azione: Goffredo Saiani, Vinicio Salati, Luciana Bassi-Caglio, Florinda Balli, Carla Baroni, Ovidio Biffi, Monica Puffi Poma, Daniela Fabello, Simona Sala, Barbara Manzoni, Alessandro Zanoli, Peter Schiesser, Ivan Leoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Natascha Fioretti, Carlo Silini
Una storia di solidarietà
Da più di 40 anni l’Associazione Ticinese Famiglie Affidatarie si impegna nell’accoglienza di minori in difficoltà
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Medicina dello sport
Dalla prevenzione alla diagnosi precoce di patologie che inducono a una limitazione dell’attività
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All’intelligenza artificiale piacciono i supercalcolatori
Tecnologia ◆ Dopo «Piz Daint», al Centro svizzero di calcolo scientifico arriverà «Alps»
Posto in attività a Manno nel 1991 e poi trasferito alla periferia di Lugano nel 2012, il Centro svizzero di calcolo scientifico (CSCS) ha rinnovato con regolarità le sue risorse di calcolo, offrendo l’accesso ai ricercatori svizzeri e ai loro assistenti. Per gli addetti ai lavori è un User Lab perché mette a disposizione le sue risorse a soggetti che hanno necessità molto eterogenee, per esempio SwissMeteo che lo usa per le previsioni del tempo.
Nel corso del 2023, il supercomputer «Piz Daint», prodotto da Cray, sarà sostituito da «Alps», prodotto da Hewlett Packard Enterprise (HPE) assieme con NVIDIA allo scopo di creare le condizioni necessarie per realizzare i progetti di intelligenza artificiale sviluppati dal consorzio accademico MLPerf, al quale già si devono notevoli risultati in molti ambiti di ricerca: classificazione automatica di immagini, riconoscimento di oggetti, analisi di immagini biomediche, trascrizione automatica di registrazioni parlate, produzione di testi in linguaggio naturale, analisi cosmologiche eccetera. L’uso di «Alps», quindi, orienterà in maniera significativa le attività del CSCS verso lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale (AI). Leggendo le prestazioni di supercomputer come «Alps» viene il capogiro, tanto enormi sono i numeri che esprimono le sue potenzialità di calcolo. Probabilmente, anche gli stessi addetti ai lavori, talvolta, debbono arginare il senso di vertigine, creando nuovi termini linguistici per descrivere grandi quantità di dati e informazioni. Ad esempio, da qualche anno, si usano termini come «petabyte» o «exabyte» per descrivere quantità di dati enormi che superano la capacità di descrizione dei termini convenzionali come «gigabyte» o «terabyte».
Termini nuovi che tendono a sbigottirci, ponendoci davanti alle possibilità dei supercomputer come all’infinito leopardiano. Ma gli «interminati spazi» e i «sovrumani silenzi» di Leopardi, a noi di oggi, fanno venire anche in mente il viaggio dell’astronave Discovery alla volta di Giove, a tal segno che ci siamo rivolti alla più famosa intelligenza artificiale di questi giorni, ChatGPT (di recente oscurata in Italia), come ci saremmo rivolti ad HAL 9000 di 2001 Odissea nello spazio, chiedendole: «Ma, secondo te, per un supercomputer esiste l’infinito?»; ottenendo questa risposta: «In termini tecnici, i supercomputer sono in grado di elaborare numeri molto grandi, ma non possono elaborare l’infinito in senso matematico. La matematica definisce l’infinito come un concetto astratto che non può essere raggiunto o quantificato in modo preciso. An-
Scoprire le bellezze del territorio È stato da poco pubblicato un volume curato da Ivano Proserpi dedicato all’arte tra Valle di Muggio e Val Mara
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che i supercomputer più potenti sono limitati dalla capacità dei loro componenti hardware e dalle rappresentazioni matematiche utilizzate per elaborare i dati. Quindi, in un certo senso, i supercomputer non possono elaborare veramente l’infinito».
Supercomputer e Intelligenza artificiale hanno bisogno di enormi masse di dati – i big data – raccolti costantemente da fonti che si moltiplicano tutti i giorni, alcune delle quali, forse senza saperlo, sono sempre con noi –come per esempio gli smartphone. Invariabilmente, i più scettici si chiedono in che modo, queste masse di dati elaborate dall’IA, potrebbero essere utili nella nostra vita quotidiana. Gli esempi che si possono fare sono molti. La personalizzazione dell’esperienza, per esempio: i big data possono essere utilizzati per fornire suggerimenti personalizzati sui prodotti e i servizi che potrebbero essere di interesse per un individuo. Oppure la prevenzione delle malattie: i big data possono essere utilizzati per identificare e prevenire malattie su larga scala, analizzando i modelli di comportamento della popolazione e identificando eventuali fattori di rischio. Oppure ancora il miglioramento della sicurezza: i big data possono essere utilizza-
ti per identificare e prevenire crimini, incidenti e disastri, analizzando i modelli di comportamento e identificando eventuali fattori di rischio. Ma potrebbero anche essere utili per sviluppare nuove tecnologie e innovazioni, analizzando i dati e identificando opportunità per migliorare i prodotti e i servizi esistenti.
Se quelli elencati sono effetti tangibili per ognuno di noi, un po’ più astratto è l’uso per così dire «collaborativo» dell’IA, che non solo giocherà un ruolo importante nell’analisi dei dati raccolti dai supercomputer, ma che potrà anche essere utilizzata per identificare modelli e tendenze nei dati, effettuare previsioni e supportare il processo che conduce a prendere decisioni informate. Inoltre, l’IA potrebbe anche essere in grado di suggerire come orientare la strategia di raccolta dei dati. Ad esempio, l’IA potrebbe analizzare i dati raccolti finora e identificare aree in cui sono disponibili dati insufficienti o dove sarebbe utile raccogliere dati supplementari per migliorare la precisione delle previsioni e delle decisioni.
È importante tuttavia notare che l’IA non sostituirà completamente la necessità di esperti umani nella strategia di raccolta dei dati. La compren-
sione umana e la capacità di valutare i fattori sociali, culturali ed etici sono ancora fondamentali per determinare la direzione della raccolta dei dati e garantire che sia effettuata in modo responsabile ed etico.
Guardando film come 2001 Odissea nello spazio o altri, nei quali sono presenti supercomputer che interagiscono come esseri umani, vien spontaneo chiedersi come si crei un’intelligenza artificiale. Ebbene, l’IA viene creata utilizzando tecniche di apprendimento automatico e di sviluppo del software. I passi fondamentali sono questi: definizione del problema, raccolta dei dati, preparazione dei dati, scelta del modello, addestramento del modello, valutazione del modello, implementazione e utilizzo. Lo sviluppo di un’IA è un processo complesso che richiede competenze interdisciplinari e una comprensione approfondita di tecniche di apprendimento automatico, di sviluppo del software e di programmazione.
Siccome al CSCS si farà affidamento a uno specifico modello di intelligenza artificiale, non abbiamo resistito alla tentazione di fare una seconda domanda a ChatGPT: «È possibile che ci siano intelligenze artificiali in concorrenza?»; ottenendo
questa risposta: «Sì, è possibile che ci siano intelligenze artificiali in concorrenza. Ad esempio, diverse aziende o istituzioni possono sviluppare intelligenze artificiali indipendenti per risolvere lo stesso problema, creando una situazione di concorrenza. Inoltre, le intelligenze artificiali possono essere utilizzate in concorrenza tra loro, ad esempio in un gioco o in una competizione».
Dopo una pausa che ci ha ricordato le reticenze di HAL 9000, forse per rassicurarci, ChatGPT ha poi proseguito in questo modo: «Tuttavia, è importante notare che l’intelligenza artificiale non è un’entità autonoma che agisce con volontà e intenzioni proprie. L’intelligenza artificiale è solo un sistema software che utilizza algoritmi di apprendimento automatico per risolvere problemi specifici. La concorrenza tra intelligenze artificiali non è quindi simile alla concorrenza tra individui, ma piuttosto alla competizione tra sistemi software».
Se è vero che l’astuzia del diavolo consiste nel far credere che non esiste, allora, forse, anche l’astuzia di Matrix consiste nel non far capire che, supercomputer dopo supercomputer, con ammiccamenti rassicuranti, sta segretamente tessendo la sua trama.
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SOCIETÀ
Mike Mac Marketing
Lorenzo De Carli
Perfetti per regalare quel tocco di piccantezza caratteristico a pasta, pizza, bruschette, sughi, salse e a tante altre specialità della nostra cucina, i peperoncini sott’olio non possono mancare nella dispensa di chi ama il buon mangiare. Da qualche settimana nei principali supermercati Migros sono disponibili i peperoncini ticinesi sott’olio di girasole, un prodotto ideato alla Cofti.ch SA di Chiasso, azienda attiva nella promozione e commercializzazione di prodotti a base di erbe officinali. Intervista al suo direttore Simone Galli.
Peperoncini ticinesi sott’olio
Novità ◆ Un nuovo prodotto, ideale per insaporire molti piatti della tradizione mediterranea, entra a far parte dei Nostrani del Ticino
Vieni a scoprire le genuine specialità della nostra regione! Dall’11 al 24 aprile ti aspettano numerose promozioni e degustazioni sui prodotti firmati Nostrani del Ticino. In tutti i supermercati potrai inoltre partecipare al «Gratta e Vinci» con ricchi premi in palio.
mente dove li preferisco è sulla pizza! Anche solo una piccola quantità arricchirà di sapore e vivacità i vostri piatti.
Quanto è importante l’aspetto sociale e ambientale nei vostri prodotti?
L’aspetto sociale e ambientale è al centro del progetto. Oltre alla sostenibilità economica, che riguarda la tutela dei produttori locali e l’intenzione di assumere personale locale, il progetto è infatti attivo anche nell’ambito socioprofessionale grazie alla collaborazione con le fondazioni San Gottardo, Diamante, La Fonte e Caritas Ticino.
Peperoncini
Signor Galli, quando è nata e di cosa si occupa la Cofti?
La Cofti.ch SA viene istituita nel 2015. Il progetto nasce da un gruppo di investitori locali e dalla volontà di rilanciare la Cooperativa Cofit, una realtà storica della Val di Blenio specializzata nella coltivazione e lavorazione di prodotti a base di erbe officinali. Lo scopo è quello di salvaguardare le piantagioni nelle regioni di montagna, portando innovazione e creatività, ma restando ancorati alle tradizioni e al sapere locale e reinterpretando in chiave moderna l’idea del «chilometro zero».
Quali sono i vostri prodotti in vendita attualmente alla Migros?
I nostri prodotti attualmente in as-
sortimento a Migros Ticino sono: Tisana Olivone, Tisana Brumana, Tisana Monte Generoso, Saa ai erbétt e fióo e, appena introdotti, i Peperoncini sott’olio.
Come novità sono appunto arrivati i peperoncini sott’olio. Cosa caratterizza questo prodotto?
Il nuovo articolo introdotto alla Migros, ovvero la crema di peperoncini ticinesi, è la new entry della linea Erbe Ticino. Questo prodot-
130 g Fr. 10.90
In vendita nelle maggiori filiali Migros
to nasce da peperoncini coltivati in Ticino, più precisamente a Mezzana, grazie alla sinergia tra aziende locali, che rendono questo prodotto a km 0. I pochi ingredienti dai quali è composto, peperoncini ticinesi, olio di girasole ticinese e sale, e l’origine naturale delle sue materie prime, donano a questo prodotto un’ottima qualità e freschezza. Per gli amanti dei sapori decisi, è un prodotto essenziale da avere sempre nella dispensa. La sua piccantezza
offre un tocco di originalità e territorialità a ogni pietanza.
Come li apprezza lei personalmente?
Data la versatilità dei peperoncini, li utilizzo davvero con tutte le pietanze. Possono infatti essere impiegati per molteplici piatti e pasti dando un tocco di piccantezza e di gusto allo stesso tempo: dal condimento di sughi all’accompagnamento di antipasti e primi/secondi piatti. Ma personal-
Allo stesso tempo una parte importante del progetto Erbe Ticino è rappresentata dalla sostenibilità ambientale, data in primis dall’autenticità dei prodotti tutti derivanti da erbe officinali certificate Bio Suisse, marchio di origine e qualità. A dimostrazione dei valori aziendali di Erbe Ticino e dell’impegno dedicato alle sopracitate tematiche, è stato recentemente pubblicato il nostro primo Rapporto di Sostenibilità, che evidenzia tutte le azioni passate, presenti e future volte al raggiungimento di una sostenibilità non solo ambientale ma anche sociale.
State lavorando a qualche ulteriore novità?
Ci piacerebbe molto oltrepassare i confini dell’utilizzo delle erbe officinali in ambito alimentare. Uno tra i tanti ambiti di nostro interesse è quello della cosmetica. Abbiamo la fortuna di vivere in un territorio favorevole alla crescita delle erbe aromatiche e grazie al clima ticinese, la qualità delle materie prima è molto elevata. Questo fa sì che risulti per noi interessante andare a scoprire nuovi mercati e nuovi prodotti, sempre però rimanendo fedeli alle tradizioni riviste in ottica moderna e innovativa. Speriamo di poter presto sviluppare qualcosa in questo settore.
Un «Gratta e Vinci»
Nostrano
Attualità ◆ Fino al 22 aprile in tutti i supermercati Migros in palio premi per un valore complessivo di CHF 35’000.-
Durante le due settimane dedicate ai prodotti dei Nostrani del Ticino, accanto alla possibilità di scoprire l’eterogeneo assortimento di specialità locali della Migros e di approfittare di diverse promozioni sugli stessi, è previsto anche un grande concorso con in palio fantastici premi. Con il «Gratta e Vinci» hai infatti la possibilità di portarti a casa giornalmente carte regalo Migros del valore di CHF 20.– o CHF 10.– e un ambitissimo premio finale sotto forma nientemeno di una vettura elettrica Dacia Spring del valore di CHF 20’000.–. Per prendere parte al concorso non devi fare altro che acquistare almeno un articolo regionale dei Nostrani del
Ticino (escluse frutta e verdura) e riceverai la cartolina di partecipazione direttamene alle casse Migros. Gratta le tre caselle presenti e scopri subito se hai vinto un premio: se trovi tre coccarde vinci un buono da venti franchi, mentre con due coccarde ti aggiudichi una carta regalo da dieci franchi. I premi potranno essere ritirati presso il servizio clienti dei supermercati Migros Ticino entro il 13 maggio 2023. E se non sei stato abbastanza fortunato non ti scoraggiare: compila la cartolina con i tuoi dati e imbucala nell’apposita urna per partecipare all’estrazione finale dell’auto elettrica.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 6
ticinesi sott’olio di girasole
Simone Galli responsabile progetto Erbe e Ticino
nostranidelticino.ch
Flavia Leuenberger Ceppi
La lattuga foglia di quercia è un’insalata rustica molto amata, disponibile nei colori rosso e verde. La sua forma con i bordi leggermente arricciati ricorda le foglie della quercia, da qui il suo nome. In Ticino è prodotta principalmente tra marzo e ottobre in tunnel o campo aperto. Possiede un ciclo di 70-90 giorni in inverno e 30 giorni in estate. È l’insalata più precoce e ha una buona resistenza al caldo.
Insalata dal Piano di Magadino
Attualità ◆ Le insalate raccolte sui nostri campi arrivano alle filiali Migros Ticino a poche ore dalla raccolta. La lattuga foglia di quercia biologica è una di queste
I cespi a rosetta della lattuga foglia di quercia posseggono un sapore molto delicato che ricorda quello della nocciola e sono particolarmente tenere.
Le foglie sono molto sensibili e vanno trattate con molta cura.
Per esaltare al meglio il suo sapore, si consiglia di condirla con un olio di noci.
Lattuga foglia di quercia bio Ticino, al pezzo Fr. 1.95 invece di 2.70
al 17.4.2023
L’insalata è un alimento delicato e dopo l’acquisto andrebbe consumata al più presto per preservare al meglio i preziosi sali minerali e le vitamine. Per evitare che deperisca velocemente, va conservata in frigorifero al massimo per un paio di giorni, preferibilmente avvolta in un panno umido.
In Ticino la lattuga foglia di quercia è coltivata secondo i dettami della produzione integrata e in modo biologico soprattutto sul Piano di Magadino. Nella coltivazione bio bisogna prestare particolare attenzione alla gestione del clima nei tunnel (per evitare l’insorgere di malattie e la pullulazione di insetti) e alle piante infestanti. I produttori bio inoltre non utilizzano fitosanitari chimici di sintesi né concimi minerali.
Insalata a foglie con erbe e feta (per 4 persone)
200 g di lattuga foglia di quercia, 3 cucchiai d’aceto alle erbe, 4 cucchiai d’olio di colza, 1 cucchiaio di miele, sale, pepe, 150 g di cetriolo, ½ mazzetto di erba cipollina, ½ mazzetto di prezzemolo, 100 g di lattuga romana, 40 g di rucola, 80 g di feta, 40 g di gherigli di noci. Procedimento: In una grande insalatiera mescolate l’aceto con l’olio e il miele. Condite con sale e pepe. Tagliate il cetriolo a fettine sottili, tritate grossolanamente l’erba cipollina e il prezzemolo. Tagliate la lattuga foglia di quercia e la lattuga romana a striscioline. Trasferite il tutto, insieme con la rucola nell’insalatiera e mescolate bene con il condimento. Distribuite la feta spezzettata sull’insalata e i gherigli di noci tritati grossolanamente.
Bevande di culto
Attualità ◆ Le gazose dei Nostrani del Ticino sono tra le bibite più amate della stagione calda
Impossibile resistere alla freschezza e naturalezza delle mitiche gazose nostrane di Migros Ticino. Disponibili in cinque aromi diversi per la gioia del palato di grandi e piccoli consumatori – lampone, limone, mandarino, sambuco e moscato – soddisfano la voglia di genuinità 100% ticinese da quasi vent’anni. Sviluppate secondo una ricetta tradizionale del Mendrisiotto, vengono prodotte dalla Sicas SA di Chiasso, azienda attiva da oltre 60 anni nel settore delle bibite e dei succhi di frutta. «La gazosa è una bibita leggera e rinfrescante da sempre strettamente legata al nostro territorio e ai suoi grotti», spiega Renzo Nespoli, direttore della dinamica azienda sottocenerina. «La variante al limone della nostra gazosa, la più classica e tipica per molti consumatori, è stata quella che ha fatto da pioniera: nell’autunno del 2006 è stata infatti la prima gazosa a entrare a far parte dell’assorti-
mento dei Nostrani del Ticino, seguita dopo qualche mese dall’aroma al mandarino. A distanza di qualche anno sono poi arrivate anche quelle considerate “meno tradizionali”, nella fattispecie sambuco, lampone e moscato». Tutte queste bibite, oltre a essere una pura delizia, permettono inoltre di dissetarsi in modo del tutto naturale. «La genuinità dei nostri prodotti è un criterio fondamentale che caratterizza tutta la nostra produzione. Nelle gazose utilizziamo solo ingredienti naturali, senza ricorrere a conservanti, edulcoranti o aromi artificiali. Insomma, la “gazusa nustrana” è una bevanda adatta a tutta la famiglia, ideale per rinfrescarsi con gusto in qualsiasi momento della giornata».
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Apri la tua casa a un bambino
ATFA ◆ L’associazione che si occupa di affidamento
cerca famiglie disponibili a ospitare bambini e ragazzi in difficoltà e sostiene due nuovi progetti: la Casa Famiglia e il Punto d’Incontro
Fabio Dozio
«L’accoglienza dei minori è sempre più complessa. Io sono all’Associazione Ticinese Famiglie Affidatarie (ATFA) da 19 anni. All’inizio un ragazzino di dieci o undici anni era gestibile, ora è tutto più difficile per una famiglia affidataria che accoglie un minore. Sicuramente la società è cambiata. I ragazzi necessitano di regole, spesso sono giovani un po’ allo sbando, dicono che sono abituati a fare ciò che vogliono perché i genitori sono sovente assenti. È quasi un paradosso: da una parte i ragazzi cercano regole perché hanno bisogno di sicurezza, dall’altra le rifiutano perché non sono abituati a rispettarle. Questo aspetto, all’inizio del collocamento, crea problemi e difficoltà. Negli ultimi anni è emerso un disagio psichico in molti minori; è sicuramente una problematica complessa, alla quale è difficile rispondere sia in ambito famigliare, sia a livello di strutture di accoglienza».
Con Andrea Milio, responsabile per il Sottoceneri dell’Associazione Ticinese Famiglie Affidatarie, facciamo il punto su questo prezioso lavoro di sostegno sociale alle famiglie e ai minori in difficoltà. Da più di quarant’anni si cercano persone disponibili ad assumere il ruolo di famiglia affidataria. Possono essere coppie sposate, conviventi, singoli, con o senza figli o omogenitoriali. Insomma, massima apertura verso chi desidera assumere questa responsabilità.
Le famiglie, sempre di più, sembrano abdicare al ruolo normativo. «Negli ultimi anni – sottolinea Milio – questo è l’aspetto più importante. Siamo confrontati con situazioni dove il padre non c’è o c’è pochissimo. Spesso ci sono donne sole in situazioni di fragilità, abbiamo tantissimi affidi in cui c’è solo la mamma naturale. L’assenza del padre, d’altra parte, è una costante: lo vediamo nel corso dei diritti di visita dove il minore vede solo la mamma».
Attualmente l’ATFA gestisce circa 150 famiglie affidatarie a lungo termine con 160 minori e una decina di famiglie SOS, che intervengono nei casi d’emergenza per brevi periodi –al massimo sei mesi – che ogni anno ospitano dai 25 ai 30 minori. «Le famiglie SOS sono pronte per accogliere minori quando, per esempio, la madre sola deve partorire o, peggio, quando una mamma viene ricoverata d’urgenza in clinica psichiatrica, o ancora in casi di maltrattamento e abuso sui figli», spiega Andrea Milio.
L’affidamento – chiarisce l’Associazione – è sempre preceduto da interventi di sostegno economico o educativo, sociale e psicologico, alla famiglia d’origine, allo scopo di evitare l’allontanamento del minore. Solo nelle situazioni in cui tali interventi non abbiano dato sufficiente risultato di tutela del benessere e della crescita del minore o vi siano seri motivi che facciano ritenere rischiosa per il minore la sua permanenza a casa, si fa ricorso all’affidamento famigliare.
L’affido classico può durare anni. Ci sono neonati che sono diventati maggiorenni nella famiglia affidataria. Tante belle storie di legami tra i figli affidati e la nuova famiglia, che diventa punto di riferimento per la vita.
«Lo scopo dell’affido – ci dice Milio – è fare un percorso insieme, che può durare a lungo, o può essere più breve e concludersi con il rientro nella famiglia d’origine perché non esiste più la situazione di disagio. Que-
Riflessioni e
dialoghi
Generando ◆ Nuovi incontri sul genere
sti sono casi rarissimi perché, quando siamo di fronte a patologie psichiatriche, a dipendenze o a una grave inadeguatezza genitoriale con maltrattamenti, il rientro non può avvenire».
Attualmente ATFA fa capo a 150 famiglie affidatarie a lungo termine e a una decina di famiglie SOS per casi di emergenza
Negli ultimi due anni ATFA ha messo in piedi due nuovi progetti: la Casa Famiglia e il Punto d’Incontro. La Casa Famiglia è nata nel 2020 grazie al finanziamento della Catena della solidarietà e della fondazione Medacta for life, oltre a una donazione privata. Si tratta di una coppia che accoglie nella propria abitazione al massimo quattro minori. La mamma affidataria è una professionista, un’educatrice con esperienza in istituti del cantone. Si tratta di un’accoglienza professionale in una casa che offre l’intimità di una famiglia.
Rachele e Niki sono i due genitori che gestiscono la casa, dove in questi due anni sono passati 13 ragazzi di età diverse. La coppia non ha figli, ma aveva già avuto un’esperienza con un bambino in affido. Poi, due anni fa, entrambi hanno deciso di lanciarsi come pionieri, nel progetto di Casa Famiglia, che offre un’intimità che gli istituti non sono in grado di garantire. «Ciò che ci contraddistingue rispetto alla famiglia affidataria classica – ci dice Rachele – è di avere contemporaneamente diversi tipi di ragazzi. O minori che possono restare a lungo, come la bambina che è con noi da una decina d’anni – o ragazzi accolti come SOS, per brevi periodi a causa di situazioni di emergenza. La nostra esperienza è positiva, siamo contenti e andiamo avanti». Alla fine dell’anno scorso il Dipartimento della Sanità e della Socialità (DSS) ha confermato che la Casa Famiglia è
un progetto utile e necessario e quindi viene riconosciuto e sostenuto finanziariamente. «Ai ragazzi fa bene vivere in questo piccolo gruppo – sostiene Niki – così vedono che non sono casi isolati, non sono gli unici confrontati con un disagio. Alcuni rimangono solo sei mesi, altri più a lungo. In tutti i modi ci rendiamo conto che lasciamo un segno».
Il Punto d’Incontro è partito nel gennaio dell’anno scorso. Si tratta di uno spazio neutro, un appartamento in cui i minori possono incontrare la famiglia d’origine. Nell’affido il momento dell’incontro con il genitore naturale è il più difficile, più faticoso, a livello emotivo, soprattutto per il bambino: questa fatica del minore si ripercuote anche sulla famiglia affidataria. «Il punto d’incontro ATFA – precisa Milio – è nato non solo per un’osservazione della relazione tra minori e genitori, ma per sostenere e accompagnare i genitori in modo attivo, con lo scopo di liberalizzare gli incontri».
L’ATFA ha un contratto di prestazione con il DSS e dal 2011 è finanziata nella misura del 93%. A loro volta, le famiglie affidatarie ricevono una retta, un rimborso spese per la cura del minore, vitto e alloggio e spese vive. Per gli affidamenti presso parenti, le famiglie ricevono 900 franchi al mese, per quelli extra famigliari 1500 e per gli affidamenti SOS 2000 franchi. A certe condizioni questi contributi possono essere aumentati fino a 400 franchi al mese. La questione del finanziamento è un punto delicato. «ATFA – ci dice Andrea Milio – è sovvenzionata per quasi la totalità dei costi, ma avendo una parte scoperta, siamo sempre alla ricerca di fondi. L’Associazione negli ultimi anni ha avviato due progetti importanti: la Casa Famiglia Professionale e il Punto d’Incontro. La Casa Famiglia proseguirà con il supporto del Cantone; invece, per quanto riguarda il Punto d’Incontro, non ne
abbiamo la certezza. Anche se lavora a pieno regime e abbiamo una lista d’attesa, è sempre molto faticoso ottenere fondi, lo Stato dovrebbe investire di più nel sociale».
L’ATFA è stata fondata nel 1981 grazie a un gruppo di genitori e di terapeuti. È nata in sordina e si è sviluppata man mano con fatica. È una storia identica a quella di tante associazioni nate in Ticino dalla società civile. Organizzazioni a sostegno delle famiglie con bambini portatori di handicap, antenne per offrire aiuto a chi soffre di dipendenze, servizi per le mamme lavoratrici, asili nido, eccetera. Una miriade di associazioni nate spontaneamente e solo in un secondo tempo riconosciute dallo Stato e sostenute finanziariamente. È una storia esemplare e significativa per il nostro Cantone, che fa onore a tutte quelle persone, all’inizio volontari, che hanno creato queste strutture socialmente indispensabili. C’è solo da augurarsi che anche in periodi di vacche magre, come quello che stiamo attraversando, lo Stato non sacrifichi il sostegno a queste associazioni, non tagli nel sociale. C’è da sperare che il direttore del DSS, Raffaele De Rosa, possa convincere i suoi colleghi di governo che «l’aumento del debito pubblico non dev’essere un tabù, in un Cantone con un Prodotto interno lordo da 30 miliardi di franchi», come ha dichiarato recentemente.
Intanto l’Associazione Ticinese Famiglie Affidatarie lancia un appello importante: è sempre alla ricerca di famiglie interessate a intraprendere questa esperienza, sicuramente impegnativa e intensa, ma che può far scoprire nuove relazioni e tessere legami ad alta intensità fra adulti e minori che non hanno relazioni famigliari: «Apri la tua casa e il tuo cuore a un bambino in difficoltà».
La rassegna «Generando» vuole schiudere nuovi orizzonti e invitare alla riflessione: sull’arco di alcune settimane propone iniziative ed eventi che favoriscono il dialogo sul tema del genere. Anche quest’anno la stagione è ricca di spunti di riflessione per una società più giusta e consapevole.
I prossimi appuntamenti
18 aprile 2023 (online, 18.00-20.00), Conferenza: La prospettiva di genere nei giochi dei bambini.
La serata vuole rispondere alle domande: Cosa significa il gioco per i bambini? Ci sono differenze nel gioco tra maschi e femmine? In quale modo questa differenza deve essere considerata in ambito educativo? Quali sono i giocattoli migliori da regalare ai bambini?
Relatori: Claudio Mochi, psicologo-psicoterapeuta, e Isabella Cassina, specialista in gioco terapeutico. Iscrizioni: info@play-therapy.ch
19 aprile 2023 (online, 20.0022.00), Conferenza/tavola rotonda: Medicina, linguaggio e genere.
In un’ottica interdisciplinare e Medical Humanities si chiarirà in che cosa consiste la medicina di genere e quali sono le sue applicazioni pratiche. Moderazione: Laura Lazzari Vosti, collaboratrice scientifica Fondazione Sasso Corbaro per le Medical Humanities. Interverranno: Vera Gheno, Bianca Iula, Lia Lombardi, Antonella Santuccione Chadha, Isabella Pelizzari Villa. Informazioni: generando.ch; sasso-corbaro.ch
Persone e cani per il soccorso
Forum elle ◆ Incontro dedicato a REDOG
L’organizzazione femminile Forum elle invita tutte le persone interessate a conoscere più da vicino REDOG, importante organizzazione attiva sia in Svizzera sia all’estero in caso di crisi e catastrofi per la ricerca di persone disperse in superficie o nelle macerie. Paola Poli, responsabile dell’istruzione e capo intervento REDOG TICINO, e un collega racconteranno le ultime operazioni d’intervento alle quali hanno partecipato, in modo particolare in occasione del recente, tragico terremoto in Turchia. L’appuntamento è per mercoledì 26 aprile 2023 al Suitenhotel Parco Paradiso (ore 17.30).
Iscrizioni: entro il 19 aprile 2023; contattare Simona Guenzani: simona.guenzani@forum-elle.ch Tel. 091 9238202.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 9 SOCIETÀ
Informazioni https://atfa.info affido@atfa.info
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Medicina dello sport fra prevenzione e cura
sanitaria trasversale, si può definire un «farmaco» per tutti
Maria Grazia Buletti
A fine novembre dello scorso anno l’atleta ticinese Marco Tadé, campione di Freestyle e Moguls, ha subito un grave infortunio durante un campo di allenamento in Finlandia: «Sono caduto rovinosamente e mi sono procurato importanti lesioni alla parte superiore del corpo, fratturandomi la clavicola e quattro costole, con la conseguenza di un pneumotorace». Dopo essere stato soccorso e portato all’ospedale di Kuusamo, il locarnese racconta di essere stato trasportato con la Rega a Lugano: «Il dottor Patrick Siragusa che, come medico dello sport, collabora con Swiss Ski ed è il mio punto di riferimento per qualsiasi problema, ha contribuito a organizzare il mio trasferimento; insieme abbiamo subito cercato di capire come pianificare il mio recupero e portare poi avanti la riabilitazione, affrontando step by step tutti quei controlli e gli esami per stabilire il miglior piano d’attacco per una riabilitazione in tempi ragionevoli, dunque efficace, senza andare troppo lentamente o troppo velocemente».
Tadé racconta di non essere nuovo agli infortuni che hanno caratterizzato più della metà della sua carriera di sportivo: «Infortuni minori, successi non necessariamente praticando sport». E parlando del medico dello sport spiega: «Mi ha affiancato negli ultimi due o tre anni, lavorando insieme sui miei infortuni: ad esempio, nel 2020 mi sono rotto la cartilagine di una costola proprio a ridosso della mia partecipazione ai Mondiali. Con Patrick abbiamo lavorato per superare il problema attraverso un programma di riabilitazione che mi permettesse di allenarmi anche con questa parte di costola infortunata».
Una strategia messa in atto anche per quest’ultimo grave infortunio del novembre scorso, e che ha dato i suoi frutti: «In questo momento sto lavorando col primo preparatore fisico per capire cosa posso e cosa non posso ancora fare; la riabilitazione è quasi terminata e due settimane fa ho preso
parte alle ultime due gare della stagione in Coppa Europa guadagnando due podi. Un successo, dato che era tanto che non sciavo». Risultato che l’atleta condivide con il suo medico dello sport del quale apprezza «l’insostituibile feedback medico come uno degli ingredienti che mi dà via libera su ciò che posso o non posso fare nella mia performance, favorendo anche una mia consapevolezza mentale che posso spingere al massimo e lasciare andare come prima dell’infortunio, malgrado altri fattori come il dolore o le limitazioni psicologiche».
Dal canto suo, il responsabile del Centro cantonale della medicina dello sport di Tenero EOC dottor Patrick Siragusa così riassume la Medicina dello sport: «È una branca della medicina che si interessa dello sportivo inteso come colui che svolge un’attività fisica e/o sportiva, non solo in forma agonistica, sorvegliandone e tutelandone lo stato di salute». Dunque, una medicina che si rivolge a tutti e si occupa di ogni aspetto di ordine medico che riguarda coloro che pratica-
Ora in azione
no attività sportiva, e che in aggiunta «comprende attività sanitarie di natura preventiva, curativa e riabilitativa –come spiega il medico sportivo Bruno Capelli, responsabile del Servizio di medicina sportiva e riabilitazione Cardiocentro Ticino – che hanno per oggetto la tutela della salute della popolazione sportiva».
Proprio in quella «natura preventiva» sta la chiave che permette di comprendere come la medicina dello sport abbracci tutta la popolazione, indipendentemente dall’età, dal grado di preparazione personale, dagli obiettivi più o meno agonistici o professionali e dallo stato di salute. A suffragio della sua importanza, i due medici osservano che «è pure ampiamente dimostrato che l’attività fisica intensa e lo sport sono in grado di palesare patologie misconosciute che potrebbero mettere a rischio la salute e talvolta la vita di chi le pratica».
Ciò dà ancora più valore al significato intrinseco di prevenzione della Medicina dello sport, che il dottor Capelli così riassume: «Parliamo di
Il medico sportivo Bruno Capelli, responsabile del Servizio di medicina sportiva e riabilitazione Cardiocentro Ticino e il dottor Patrick Siragusa, responsabile del Centro cantonale della medicina dello sport di Tenero EOC, con una paziente. (Vincenzo Cammarata)
una prevenzione primaria promuovendo stili di vita sani in cui l’attività fisica riveste un ruolo determinante.
Questa comprende anche la diagnosi precoce di patologie che inducono a una controindicazione o limitano l’attività sportiva. Mentre la prevenzione secondaria è volta al recupero, anche attraverso un’attività fisica personalizzata, di persone affette da patologie croniche o degenerative».
Ogni attenzione converge nell’obiettivo di tutelare la persona, sia essa praticante sport amatoriale, professionista o paziente in riabilitazione cardiocircolatoria o motoria, «dagli effetti negativi derivanti dall’attività in questione, mettendola in condizione di praticarla in totale sicurezza». In quest’ottica, l’esempio condiviso dallo sportivo Marco Tadé riporta a questa medicina come via per una riabilitazione dall’infortunio che, spiega Siragusa, abbraccia un ampio ventaglio di azione, a cominciare dalla prevenzione: «Le visite preventive dal medico sportivo mirano a riconoscere eventuali squilibri muscolari o fattori pre-
disponenti per infortuni o lesioni da sovraccarico che, se corretti, possono evitare infortuni acuti e migliorare la prestazione (se la macchina funziona bene, tutto va per il meglio). Si valuta pure il livello della persona, per indirizzarla verso l’attività sportiva a lei più consona, per accompagnarla dopo un infortunio al fine di recuperare il livello di condizione fisica precedente anche per l’amatore».
A tal proposito il dottor Capelli pone l’accento anche sull’età dell’infanzia e dell’adolescenza quando, prima dell’inizio di uno sport, è sempre auspicabile una visita generale: «Bisogna monitorare i bambini soprattutto nelle discipline sportive in cui l’attività fisica risulta intensa, come ginnastica artistica o nuoto: la posizione della Società di pediatria indica che fino ai 12-13 anni sarebbe ideale proporre un’attività poli-sportiva con una disciplina primaria e altri sport che permettano al corpo una crescita armoniosa». Infine, uno sguardo sulla prevenzione secondaria di cui egli è responsabile al Cardiocentro: «Parliamo della presa a carico di pazienti dopo un evento cardiaco (infarto, rivascolarizzazione coronarica anche elettiva, o post-intervento di cardiochirurgia): oggi è più strutturata di un tempo e questo evidenzia che la cardio-riabilitazione porta a una diminuzione di recidive degli avvenimenti cardiaci, con beneficio che ricade quindi pure sul contenimento dei costi sanitari».
I benefici di questo movimento fisico mirato sono chiari: «Garantisce un’attività fisica consona praticata in sicurezza, migliora la qualità della vita e l’umore mentale, e comporta un’ottimizzazione della terapia farmacologica». Il movimento, concordano, «è la miglior medicina perché ottimizza lo stato funzionale cardio-polmonare (quindi la maggior capacità di tolleranza allo sforzo), migliora i valori di diversi fattori rischio come glicemia, e migliorano i valori di infiammazione e colesterolo». Un vero «farmaco» per la salute.
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Finestre su un patrimonio artistico da scoprire
Territorio ◆ È stato da poco pubblicato un volume curato da Ivano Proserpi che racconta con rigore scientifico e taglio divulgativo le bellezze della Valle di Muggio e della Val Mara
Stefania Hubmann
Affreschi, statue, edifici sacri, artisti, reperti archeologici, ma anche cimiteri, architettura moderna e interventi di restauro. Sono alcune delle molteplici tracce legate alla presenza artistica tra Valle di Muggio e Val Mara ora racchiuse in schede puntuali che aprono però alla scoperta, che invitano a percorrere il territorio. Sono finestre – come indica il titolo del libro che le raccoglie – di un percorso il cui arco temporale spazia dall’antichità ai giorni nostri. All’origine dell’iniziativa il Museo etnografico della Valle di Muggio (MEVM), da oltre quarant’anni impegnato nella valorizzazione di questo comprensorio e affiancato per l’occasione dalla Fondazione Ticino Nostro e da Salvioni Edizioni. Il pregiato volume Finestre sull’arte tra Valle di Muggio e Val Mara. Dall’epoca romana a oggi analizza con rigore scientifico ma taglio divulgativo beni mobili e immobili, tecniche artistiche e altre tematiche, completando la presentazione con numerose fotografie. Non mancano, nelle quasi quattrocento pagine, nuove scoperte e studi inediti curati come ogni scheda da specialisti dei rispettivi settori. I contributi sul ricco periodo barocco sono in gran parte firmati dallo storico dell’arte Ivano Proserpi, curatore del volume, che ha rivelato ad «Azione» alcune peculiarità della pubblicazione e di questa zona del Mendrisiotto.
Le 58 schede del libro prendono in considerazione opere dall’epoca romana a oggi svelando anche curiose storie di famiglia
Il primo obiettivo del libro, edito a fine 2022, è di offrire uno strumento di conoscenza sia al pubblico, grazie a una presentazione succinta e accattivante, sia ai ricercatori, i quali possono valersi di circa 800 note e di un corposo apparato bibliografico. Una dozzina gli esperti che, fra ricerche passate e indagini mirate per il volume, ripercorrono la storia artistica delle due vallate dominate dalla presenza del Monte Generoso. In un testo introduttivo Giulio Foletti, già responsabile del Servizio inventario dell’Ufficio dei beni culturali, ripercorre le tappe che hanno segnato
dal punto di vista storico-artistico il territorio di cui si occupa il Museo, offrendone una visione cronologica d’insieme. Curioso il ritrovamento del reperto più antico: «…una torque, ovvero un collare di bronzo ritorto databile al 1800-1500 a.C., in una nicchia di una grotta recentemente scoperta nel massiccio calcareo del monte, sul versante roccioso e impervio affacciato sul lago di Lugano».
«Fra le tematiche molto diversificate delle 58 schede – spiega il curatore Ivano Proserpi – emergono, accanto a opere e artisti già noti, curiose storie di famiglia, figure il cui percorso è ancora da indagare, come pure i risultati di nuove ricerche mai pubblicate prima d’ora. Tra queste ultime spicca l’indagine di Nicola Navone sulle opere architettoniche (religiose e civili) di Luigi Fontana che dimostrano l’esistenza di una masseria a Campora (frazione di Castel San Pietro), tipo di edificio la cui presenza era finora accertata solo nella parte bassa della Valle. La scheda sul “pittore delicato e gentile” Francesco Antonio Silva, che ho curato con Edoardo Agustoni, ci svela invece come la sua presenza nel Mendrisiotto sia segnalata a più riprese, benché ancora poco conosciuta. Originario di Morbio Inferiore, il pittore ha intrapreso una carriera diversa da quella della tradizione familiare, essendo i Silva una nota famiglia di stuccatori, presentata in un’altra scheda».
Interessante anche la storia della famiglia Cometta di Arogno che rivive attraverso il monumento funebre situato nel locale cimitero. Lucia Pedrini Stanga spiega nella scheda dedicata a questa singolare tomba, eretta nel 1884 da Massimo Cometta, come la stessa rifletta «la vita di chi l’ha voluta e realizzata» ma pure quella «di un’intera comunità e di un giovane Cantone in cerca di identità, povero di mezzi e confrontato fin dalla nascita a una serie di ostacoli che ne complicarono lo sviluppo».
«I cimiteri – prosegue il curatore del volume – sono luoghi ricchi di opere e artisti meritevoli di attenzione, ma ancora poco studiati. Abbiamo quindi deciso di dedicare due schede a questo tema, in particolare all’architettura di quello di Castel San Pietro e ai monumenti funebri di una decina di cimiteri comunali». A
scomparire non sono però solo le persone, ma pure edifici di grande pregio, sovente vittime del fervore edilizio. Prosegue Proserpi: «Ci sembrava doveroso affrontare anche questo argomento, soprattutto riguardo a due ville prestigiose legate all’emigrazione ticinese. Riccardo Bergossi riunisce nella scheda “La cancellazione delle ville” la storia di Villa Chiesa a Vacallo e di Villa Fontana–Buenos Aires a Castel San Pietro, edifici scomparsi alcuni decenni or sono».
Se da un lato il territorio della Valle di Muggio e della Val Mara ha perso, come altre regioni del Ticino, importanti testimonianze della sua storia, dall’altro si è assistito anche in epoca recente a recuperi di qualità sia dal punto di vista architettonico, sia da quello funzionale. È il caso della Masseria Cuntitt sempre a Castel San Pietro, di cui ripercorre la «riattazione conservativa» la storica dell’arte e dell’architettura Ludivine Proserpi. Oggi la masseria funge di nuovo da centro aggregativo della località con spazi pubblici e residenziali che preservano l’«anima del luogo», preciso intento del progettista Edy Quaglia.
Non meno stimolante è aprire le finestre su artisti che hanno operato nella regione tra fine Ottocento e inizio Novecento o ancora tornare al presente con le interviste a Simona
Bellini, Giovanni Luisoni e Samuele Gabai, interviste raccolte da Mark Bertogliati e Silvio Bindella, rispettivamente curatore e presidente del MEVM. «Il progetto del volume era allo studio da diversi anni, quando ancora i curatori del Museo erano i coniugi Silvia e Paolo Crivelli», spiega il nostro interlocutore. La recente disponibilità di tempo di Ivano Proserpi, dal 2002 membro del comitato del MEVM, ha permesso negli ultimi tre anni di giungere alla stampa del volume, facile da consultare anche per il suo concetto grafico che porta la firma di Marco Zürcher dello Studio CCRZ di Balerna. Le immagini fotografiche sono invece in gran parte di Simone Mengani e Stefano Spinelli, i quali hanno lavorato assieme sul territorio su incarico del Museo. Oltre ai nomi già citati, fra i redattori figurano Paola Capozza, Nicoletta Ossanna Cavadini, Irene Quadri e Ilaria Verga. Con questa pubblicazione, che nell’ultima scheda si sofferma sulle caratteristiche del MEVM e della sua sede (Casa Cantoni a Cabbio), l’istituzione museale si conferma radicata nell’insieme del territorio. Finora concentrato per lo più sugli aspetti della vita rurale, lo sguardo viene ora esteso all’attività artistica. Pur non essendo concepito come guida, il libro invita, grazie anche a una mappa,
a muoversi lungo le due valli per scoprire piccole e grandi testimonianze in luoghi più o meno conosciuti, più o meno discosti. Se gli edifici e le opere di carattere religioso si distinguono anche per il loro numero, altrettanto di rilievo risultano per essenza, rarità, storia o rivelazione, gli altri oggetti e temi presentati nel volume. Promuovere l’esplorazione del territorio nei suoi molteplici aspetti rimane uno degli obiettivi principali del Museo etnografico della Valle di Muggio che da aprile a ottobre organizza a questo scopo diverse escursioni guidate. Ciò permette di visitare edifici aperti al pubblico a volte solo in rare occasioni e soprattutto di approfondire la conoscenza di oggetti che magari si notano, ma senza comprenderne appieno significato e valore. Può essere il caso del coperchio di sarcofago trasformato in fontana (a Caneggio) o di alcune residenze borghesi dell’Ottocento frutto del successo all’estero di migranti locali. Con queste iniziative annuali e la recente pubblicazione il MEVM compie pertanto anche un’azione di sensibilizzazione, indispensabile per assicurare in futuro la degna protezione di queste opere.
Informazioni www.mevm.ch
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Deir al Qaddis Antwân e i copti egiziani
Il monastero di Sant’Antonio si trova annidato nel deserto, in una terra di nessuno, evitata persino dagli ultimi pastori nomadi
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L’autoritratto non è un selfie
Fotografia ◆ Tra gli strumenti molto utili per eseguire uno scatto di noi stessi troviamo certamente il cavalletto, che però non basta a immortalare la nostra immagine così come vogliamo mostrarla
Mettiamo subito in chiaro: con questo articolo andremo solo a sfiorare l’argomento selfie, una tematica che meriterebbe senz’altro un approfondimento a sé, da fare però più pertinentemente con un taglio sociologico, se non psicologico, piuttosto che fotografico. In realtà, l’arte dell’autoritratto ha tutt’altro spessore e rilevanza rispetto a quegli autoscatti che ci vengono troppo spesso somministrati.
All’inizio strettamente derivato dalla tradizione pittorica, l’autoritratto fotografico col XX secolo si è da questa emancipata facendosi specchio, con la sua poetica, delle nuove tendenze artistiche – di cui sarà anche grande ispiratrice – e assorbendo gli sviluppi in atto nell’ambito scientifico, psicologico e filosofico. L’innovazione tecnologica non fu da meno nel permettere alla fotografia l’esplorazione di nuove prospettive.
Con l’autoritratto, partiamo da noi stessi per dare non solo una descrizione fisica della nostra persona in un dato preciso momento ma, soprattutto, per inscrivere in tale rappresentazione aspetti nostri più reconditi, che siano questi d’ordine interiore ma anche attinenti alla nostra condizione esistenziale, al nostro stare nel mondo e alle riflessioni che su questi portiamo. Possiamo in un qualche modo considerare l’autoritratto alla stregua di uno scritto autobiografico, in cui dipanare pensieri, sentimenti, stati d’animo, prese di posizione, avvalendoci dell’ingegno retorico e delle colorazioni stilistiche che meglio si prestano allo scopo.
Proprio in questo senso, per la sua fondamentale ovvietà, il selfie con questo discorso ha ben poco a che vedere. Se il selfie è una più o meno luccicante e piatta cartolina a colori, di ricordi e saluti, l’autoritratto in confronto è, metaforicamente parlando, un paesaggio tridimensionale, con le sue profondità, volumi, varietà di luci e di materie, che può portare a chiederci e a immaginare cosa s’insinui in quelle sue zone oscure, cosa si trovi oltre quei colli stagliati nello sfondo… In effetti, diciamocelo, tante volte ciò che conta non è quel che si vede, ma piuttosto quel che si lascia intuire.
L’autoritratto, mi ricordo, era stato il primo esercizio che ci venne proposto quando, decenni or sono, cominciai la mia formazione in fotografia. L’intento era quello di farci ragionare su come trasformare in immagine ciò che pensavamo di noi stessi, e dunque di confrontarci con il potenziale linguistico ed espressivo del mezzo fotografico e con i suoi limiti – mai assoluti ma sempre, a ben studiare, oltrepassabili. I risultati assolutamente eterogenei dei diversi studenti con cui
condividevo il corso ci diedero un primo panorama delle vaste e impensate possibilità che questo mezzo ci avrebbe potuto prestare. Oggi, questo esercizio lo propongo a voi.
Una rappresentazione dove, tante volte, ciò che conta non è quel che si vede, ma piuttosto quel che si lascia intuire
Da dove cominciare? Se a corto d’ispirazione, un valido aiuto lo potrete trovare sfogliando un buon libro di storia della fotografia – che, se già non avete, vi consiglio caldamente di acquistare. In esso troverete di sicuro tanti esempi di come l’autoritratto sia stato affrontato da vari fotografi. A partire da quello celebre di Hippolyte Bayard, in guisa d’annegato, o con le serie, ironiche – per non dire sarcastiche – di Cindy Sherman. O quelli surrealisti di Man Ray. I contesti di vita underground di Nan Goldin, le ombre e i riflessi specchiati di Lee Friedlander. I
frammenti del corpo di John Coplans o gli spazi interiori di Francesca Woodman, e così via. Sono solo pochi e celebri esempi di come la fotografia sia stata impiegata per raffigurare sé stessi e il proprio mondo, ma ne potrete trovare tanti altri, sorprendenti, talvolta geniali. Tra parentesi, non credo ci sia fotografo che prima o poi non si sia confrontato con tale impegnativo compito.
Questo per quanto concerne l’impostazione formale da dare all’autoritratto. Da un punto di vista invece più pratico, ci sono degli strumenti che, anche se non sempre e in assoluto necessari, vi possono facilitare di molto il compito. Il primo tra questi è il cavalletto. Chiaramente, la macchina fotografica potete sempre appoggiarla su qualche sostegno – un tavolo, una mensola, il tetto o il cofano di un’automobile o anche per terra – sta di fatto che un cavalletto vi darà modo di posizionare facilmente la macchina fotografica nel posto col punto di vista migliore da voi scelto per realizzare l’immagine.
Un altro strumento molto utile è lo scatto a distanza. Composto, un tempo, da un cordoncino dotato al suo interno di un filo metallico e di un pulsante all’estremità, oggi, con le apparecchiature elettroniche, consiste perlopiù in un telecomando con cui poter comodamente azionare lo scatto anche a distanza di parecchi metri. Certo, la sua mancanza può venir supplita, nel caso in questione dal meccanismo di scatto ritardato – o altrimenti, perché no, chiedendo a qualcuno di eseguire lo scatto: pur sempre di autoritratto si tratterebbe. Sta di fatto che con un telecomando possiamo decidere noi il momento esatto in cui scattare, e volendo, scattare più volte senza doverci muovere dalla posizione scelta.
Utile anche la possibilità di tenere sott’occhio la situazione, magari con uno specchio, ma ancora meglio, per poter verificare sul vivo l’inquadratura con noi stessi al suo interno, collegando la macchina fotografica a un monitor – ad esempio, a un computer portatile – rivolto verso di noi. Potremmo persino pensare di lasciare quello
schermo all’interno dell’immagine, mettendo in questo modo in evidenza la struttura del dispositivo di ripresa. Per questo tipo di fotografia avrete il soggetto – è il caso di dirlo – sempre a portata di mano. Vi potrete sbizzarrire in tantissimi modi. Come per una pièce teatrale, si tratterà dapprima di concepire in dettaglio la scena – ampia, contestuale, complessa, oppure più focalizzata sulla vostra figura, magari riprendendo anche solo dei frammenti del vostro corpo. Previsualizzate l’immagine che volete realizzare, cercate il luogo, le luci, gli accessori, le posizioni migliori e gli eventuali artifici tecnici da adottare, per poi tradurla in uno o più scatti. Immergetevi nella parte, alla stregua di un attore. Recitate o siate naturali, corazzati o vulnerabili: tali a un diario, non saranno comunque, queste, delle fotografie da mostrare necessariamente a tutti –e magari proprio a nessuno. Date allora libero sfogo alla fantasia e al vostro bisogno di esprimervi: chissà, potrebbe anche divenire un’utile pratica per conoscervi meglio.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 15
Il viaggio dell’artista in un mondo virtuale – Berlin, Potsdamerplatz. (Stefano Spinelli)
Stefano Spinelli
Le pietre viventi dei copti egiziani
Reportage ◆ Il monastero di Sant’Antonio, come altri, si trova nel bel mezzo di quel Deserto della Tebaide tanto amato dai primi eremiti
Enrico Martino, testo e foto
niverso religioso copto capace di attrarre ancora oggi aspiranti monaci assetati di ascetismo che in una vita precedente spesso erano intellettuali e professori universitari. «Accogliamo chiunque ma preferiamo chi ha studiato, per avere un comune sentire» spiega un altro monaco. È un universo umano molto diverso quello di oggi, rispetto a quello che popolava il monastero nel quarto secolo, eppure una continuità ininterrotta unisce questi mondi lontani, la stessa che continua ad attrarre i pellegrini che ogni giorno venerano con devozione incrollabile le spoglie del santo monaco Abuna Yostos, che li guarda impassibile da una teca di vetro.
Quello di Sant’Antonio, fondato nel IV secolo, è il più antico e grande dei monasteri copti; a sinistra, Delta del Nilo, il pellegrinaggio al monastero di Santa Damiana, tra el Mansoura e Damietta, è uno dei più importanti per i copti egiziani; a destra, pellegrini copti provenienti dall’Alto Egitto al monastero di San Paolo; in questo deserto nasce l’esperienza cristiana dei monaci e dei monasteri; sotto, a sinistra, il Monastero copto di Deir al-Baramous è il più settentrionale dei monasteri di Wadi Natrun e forse il più antico; a destra, fedeli durante la Santa Messa al Monastero copto di Sant’Antonio.
La striscia di asfalto taglia come un coltello uno scenario spettrale di montagne viola. Gli unici segni di vita sono il lontano blu del Mar Rosso scandito da una pipeline mobile di petroliere e uno scalcinato cartello che rassicura sull’esistenza di «Deir al Qaddis Antwân», il monastero di Sant’Antonio annidato in una terra di nessuno, evitata persino dagli ultimi pastori nomadi. «Una porta dell’Inferno più orribile di quella immaginata dalla fantasia di Dante» per Georg Schweinfurth, viaggiatore tedesco del diciannovesimo secolo, il posto perfetto, lontano dagli uomini ma più vicino a Dio, per il futuro Sant’Antonio «padre dei monaci e stella del deserto» come lo chiamavano i suoi contemporanei.
Forse era solo stanco di folle di fedeli che a quei tempi veneravano aspiranti santi e anacoreti come rockstar e così, anche se non era arrivato al punto di appollaiarsi in cima a un capitello corinzio come San Simeone, a oltre sessantadue anni se ne era andato in mezzo al deserto in cerca di disagi e privazioni, per non parlare di demoni in forma di serpenti, lupi, orsi, tori, leoni e scorpioni che secondo i biografi tormentavano le sue notti. Non era bastato neppure quello, e discepoli disposti a tutto lo avevano raggiunto anche nel bel mezzo di quel Deserto della Tebaide così amato dai primi eremiti – chiamati così proprio dal greco eremos, deserto – ma Antonio riuscì a trasformare quella bizzarra collettività in una sorta di prima comunità eremitica in cui i suoi seguaci vivevano vicini ma non insieme a lui.
Una notte senza tempo
Ancora oggi, quando gli ultimi raggi di sole muoiono nella luce azzurrina del deserto, il monaco guardiano spranga il grande portone che per secoli ha protetto Deir al-Qaddis Antwân dal resto del mondo, quando la storia scagliava contro le sue mura eserciti musulmani e razzie beduine. Una notte senza tempo avvolge le cupole degli edifici protetti da un guscio di mura color ocra che racchiudono un dedalo di stradine, chiese, mulini e ulivi. Più che un monastero sembra un villaggio-presepe autosuf-
ficiente, e proprio questo era un tempo, «ma adesso arriva tutto dal Cairo» sospira padre Zacharias che mi ha accolto con gentilezza ma visibilmente tormentato da qualcosa che gli rode dentro, fino a quando tira fuori la domanda fatale. «Non sarai per caso veneziano, uno di quelli che hanno rubato le ossa del nostro patriarca San Marco?», come se il fattaccio risalisse a pochi anni fa. In preda a un vago senso di vertigine temporale l’ho tranquillizzato sul fatto che non avevo neanche lontani parenti veneziani e lui, finalmente rilassato, mi ha portato all’antica cisterna.
La sua acqua arriva da gole bruciate da un sole che non perdona, ma da dove esattamente lo sanno solo i beduini che si tramandano la storia di una sorgente in cui avrebbe fatto il bagno la sorella di Mosé, Myriam, nei remoti tempi dell’Esodo. Padre Zacharias però di una cosa è sicuro, «Arriva da Dio, è Lui a mandarcela», aggiunge con granitica sicurezza, ma quelle che nei libri di catechismo spesso sembravano quasi fiabe un po’ irreali si trasformano in luoghi concreti.
Storie e leggende si mescolano in una narrazione epica dove tutto diventa possibile sotto una volta stellata così intensa da tagliare il respiro mentre Zacharias mi trascina verso la debole luce che filtra da una finestrella. All’interno, due monaci si affannano a preparare il pane per le comunioni sotto icone di santi vagamente minacciosi in un silenzio assoluto rotto solo dal sottofondo lontano di antiche preghiere. Sono i monaci diretti verso l’antica chiesa di Sant’Antonio per celebrare riti immutati dai primi secoli dell’era cristiana (ndr: la Pasqua dei copti egiziani avrà luogo il 16 aprile), quando da queste parti ci si ammazzava per divergenze sulla natura divina e umana di Cristo, e più prosaicamente sui rapporti di potere con l’impero bizantino.
Deir al-Qaddis Antwân
È sopravvissuto a tutto Deir al-Qaddis Antwân fondato ufficialmente nel 356 poco dopo la morte di Antonio, risorgendo ogni volta più forte, simbolico magnete di pietra per tutto l’u-
I più devoti salgono all’alba, prima che il sole diventi implacabile, gli oltre mille gradini che portano alla grotta dove Antonio passò gli ultimi venticinque anni della sua vita. Giù in basso un sentiero incerto svanisce tra le pieghe del deserto: secondo la tradizione sarebbe quello percorso dal santo dopo che una visione gli aveva rivelato l’esistenza oltre le montagne di un altro arzillo vecchietto, o forse era solo la stanchezza di una solitudine estrema. Così si sarebbe messo in marcia per raggiungere San Paolo l’Anacoreta, considerato il primo monaco cristiano, che visse in un completo isolamento per novant’anni, vestito solo di foglie di palma e scortato da due inseparabili leoni onnipresenti nelle ingenue raffigurazioni che incantano i pellegrini arrivati – con viaggi estenuanti dai loro sperduti villaggi – a Deir Anba Bolo, il monastero di San Paolo.
Macchie di rossi e di blu colorano il monocromatico ocra di torri, cupole e mura, sono i vestiti delle donne che in lunghe file con figli e mariti si affollano in cerca di una benedizione o di un consiglio davanti ai monaci, patriarchi o novizi poco importa. I religiosi dispensano enigmatici e rassicuranti sorrisi a tutti, probabilmente per non sbilanciarsi troppo sul futuro, con l’aria che tira verso la minoranza cristiana più numerosa del Medio Oriente, e presente in Egitto dal 49 dopo Cristo, colpevole – agli occhi
degli integralisti islamici più fanatici – di resistere all’Islam dal suo arrivo nel settimo secolo.
Ma chi sono i copti? Non è attraverso i luoghi o le classi sociali che si può tracciare una mappa della loro identità, ma soltanto quando, poco per volta, alla luce delle candele il «popolo copto» riempie i banchi delle chiese. Perché il vero significato della parola copto è semplicemente «egiziano» da Qibti, il nome con cui i conquistatori arabi chiamarono gli autoctoni, come testimonia la loro lingua che discende direttamente dall’egiziano antico, e ha permesso a Champollion di tradurre i primi geroglifici.
Pellegrini e fedeli
A molte centinaia di chilometri dal Mar Rosso altri pellegrini scendono da un bus blu di un improbabi-
le New York Travel per dirigersi con passo deciso verso la chiesa di Santa Damiana. «Questo monastero nasce dalla sua vita esemplare» attacca padre Hedra attorniato da un gruppo di assistenti in riverente silenzio, mentre mi racconta con lunghe pause ispirate la vita della santa senza risparmiarmi il più insignificante particolare, mentre santi e beati mi guardano con aria più arcigna che paterna dalle pareti, forse incattiviti dagli inni sparati da amplificatori che fanno vibrare l’aria rovente del Delta del Nilo.
Gli stessi inni e la stessa fede si respirano all’ombra delle chiese affrescate dei monasteri di Wadi El-Natrun nel deserto tra Il Cairo e Alessandria. Per i copti è Shi-Hyt, la «bilancia del cuore», una regione sacra dove tra il terzo e l’ottavo secolo sorsero più di cento monasteri, oggi ne rimangono quattro dove vivono circa cinquecento monaci, San Macario, il monastero dei Siriani, San Bishoi e
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Baramus, il più antico. «Noi usiamo le stesse musiche, le stesse melodie e la stessa lingua degli antichi egizi, per questo siamo i loro eredi diretti» spiega con orgoglio uno dei novanta monaci di Baramus che preferisce non dire il suo nome. Qui tutto è un simbolo a partire dalla croce copta, capace di riassumere nelle sue allegorie un’intera teologia.
Questi monasteri sono, per chi sa ascoltarli, remote schegge di storia che rivelano la tormentata vita dei cristiani d’Oriente, poco conosciuta in Occidente ma che ha profondamente permeato la nostra cultura. Una storia tutt’altro che secondaria ma soprattutto una chiave differente per comprendere meglio l’inestricabile groviglio di tensioni che da sempre attanaglia tutta l’area medio-orientale. Oggi però queste «pietre viventi», come spesso sono stati chiamati i monasteri delle chiese orientali, sono angosciate dall’incubo che in un futuro
non troppo remoto il cristianesimo si estingua proprio nella zona del mondo in cui nacque.
La difficile sopravvivenza
Oggi l’unico obbiettivo della Chiesa copta è sopravvivere in un Paese islamico, ma non è facile custodire e tramandare un’identità minacciata in Egitto non tanto, o non solo, da violenze quanto da una sottile ed efficace discriminazione nella vita di tutti i giorni. «Oggi per esempio è difficile passare inosservate all’Università» spiega una studentessa. «Fino a pochi anni fa la maggioranza delle ragazze musulmane non portava il velo. Oggi invece sono ostentatamente spinte a farlo. E questo sottile incrocio di moda e di obbligo spinge chi non lo fa a essere immediatamente percepita come cristiana. E non si è viste bene».
Zacharia, invece, aveva trovato lavoro presso un’impresa di proprietà di un integralista islamico. Il suo datore di lavoro si era fatto consegnare, come d’uso, la sua carta d’identità e gliela aveva restituita solo dopo molte insistenze. Con una singolare scoperta, la sua carta d’identità aveva subito una radicale trasformazione e Zacharia era diventato musulmano.
È anche così che si possono cambiare i dati sulle minoranze che poi appaiono nei censimenti ufficiali. Perché nelle statistiche i copti oscillano dal cinque al quindici per cento della popolazione a seconda delle fonti, senza contare la crescente emigrazione di chi se lo può permettere, perché in Medio Oriente i numeri di una minoranza cristiana sono un soggetto potenzialmente esplosivo per gli equilibri interni.
Ufficialmente protetti dalla Costituzione e dal Governo, i copti fronteggiano una strisciante ostilità che si
manifesta soprattutto con una sottile e continua discriminazione. Se nelle grandi città la situazione non è drammatica, il quadro è più complicato nelle campagne del Medio Egitto, dove i copti spesso devono praticare la propria religione in condizioni molto difficili anche se gli anni più duri sembrano essere passati. «Se i monasteri e le chiese sono forti è forte anche la fede», ripete saggiamente padre Zacharias, ma il rischio che in un fu-
turo non troppo remoto il cristianesimo si estingua proprio dove è nato è sempre più reale.
Oggi in molti villaggi del Medio Egitto è in corso solo una guerra di decibel tra gli altoparlanti del minareto e quelli del campanile cristiano. Per ora, ma domani?
Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
Cristian i d’Oriente, un arcipelago di Chiese
Ancora oggi in Medio Oriente vivono circa sedici milioni di cristiani ma molte comunità temono di scomparire in un futuro non troppo remoto. La crescita del fondamentalismo islamico e i numerosi conflitti hanno indubbiamente accentuato le tensioni, ma non sono le sole cause di questo declino le cui ragioni variano da Paese a Paese.
I copti egiziani, la più consistente minoranza cristiana del Medio Oriente, secondo la tradizione traggono origine dalla nascita nel 49 d.C. della Chiesa di Alessandria fondata da San Marco. Per capirne la storia e le radici bisogna addentrarsi nella complicata e un po’ fumosa storia teologica cristiana e risalire al lontano anno 451 quando, dopo avere inventato gli eremiti e il monachesimo, i copti si separano da Roma rifiutando le conclusioni del concilio di Calcedonia che sanciva l’unità della natura divina e umana di Cristo. Da allora, la parola copto prende il significato attuale, etnico in opposizione agli invasori arabi, religioso in contrasto con la religione islamica e la chiesa di Roma e linguistico perché la lingua copta discende diretta-
mente dall’egiziano antico. Tra le più importanti chiese cristiane del Medio Oriente ci sono anche i greco-ortodossi che celebrano i propri riti in arabo e sono profondamente radicati in questo mondo e i siro-ortodossi che usano come lingua liturgica il siriaco, molto vicino all’aramaico parlato da Gesù Cristo, mentre gli armeni del Medio Oriente sono i pochi superstiti del genocidio perpetrato dai turchi durante la Prima guerra mondiale.
Tra i cattolici la più forte comunità è quella maronita del Libano nata nel quinto secolo sotto l’impulso del monaco Maro; invece i greco-cattolici, conosciuti anche come melkiti, seguono la tradizione bizantina con sacerdoti sposati nelle parrocchie di campagna e celibi nelle città.
Si pensa alle comunità cristiane orientali come a un mondo di anacoreti fuori dal tempo, isolati nei loro deserti. Invece, o forse proprio per questo, il web rivela una realtà sorprendentemente viva di siti ricchi di informazioni e scambi culturali, dalla liturgia a edificanti vite dei santi, ma anche attualità e una miniera di informazioni aggiornate.
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La ghirlanda con i bucaneve
Crea con noi ◆ Un’idea facile da realizzare per salutare l’arrivo della primavera e dare il benvenuto agli ospiti
Giovanna Grimaldi Leoni
Due eleganti bucaneve sbucano da una corona in salice scelta dall’assortimento Do-it & Garden per annunciare l’arrivo della bella stagione.
I fiori protagonisti di questo tutorial si creano riciclando i cartoni delle uova e sono perfetti per dare il benvenuto alla bella stagione e ai vostri ospiti sulla porta di casa.
Procedimento
Dalla confezione delle uova estraete, facendo attenzione a rimuoverli senza danneggiarli, i coni centrali più alti.
Fate un taglio di qualche cm sui 4
spigoli e sempre con le forbici date ad ogni lato la forma arrotondata di un petalo (vedi fotografia). Con la pittura acrilica bianca dipingete il vostro fiore internamente ed esternamente. Se necessario date una seconda passata: è importante che il colore risulti ben coprente. Lasciate asciugare. Dal coperchio della confezione delle uova rimuovete le etichette, quindi ricavate delle foglie dalla forma allungata. Dipingetele di verde. Dipingete anche i bastoncini per le orecchie di giallo e quando saranno asciutti ta-
Giochi e passatempi
Cruciverba
Girando per supermercati
gliateli in due (divideteli in maniera asimmetrica) e formate, con del nastro adesivo, 2 mazzetti da 3 pistilli ognuno. Seguendo le misure riportate sul cartamodello, che trovate su www. azione.ch, preparate le bandierine. Stampate la parola SPRING, decorate la parte bassa con il washi tape e tagliate verticalmente i vari tasselli. Inserite il filo di cotone, piegate le bandierine a metà e incollate le due parti. Tagliate la «smerlatura».
Assemblate i bucaneve. Rivestite con il filato verde due spiedini in legno di diverse misure (posizionateli nella corona per stabilire le altezze). Sulla sommità dello spiedino incollate un pulisci pipa, avvolgetelo qualche giro attorno alla cima dello spiedino quindi inseritelo nel fiore.
Tagliate il pulisci pipa in eccesso e ripiegate il resto su sé stesso fissando con la colla. Incollate anche i pistilli gialli creati in precedenza.
Componete la corona. Inserite gli steli nella corona e con la colla fissateli insieme alle foglie.
Fissate la ghirlanda con la scritta annodandola ai rami intrecciati. Aggiungete un nastro per appenderla e decorate ulteriormente a piacere con nastri o altri elementi.
Materiale
• Una corona in salice
• Confezione vuota di uova (per questo tutorial ho utilizzato quelle celesti delle uova Svizzere vendute da Migros Ticino: è importante che all’interno abbiano la parte centrale più alta)
• Pittura acrilica bianca, verde e gialla e pennelli
• 2 spiedini in legno
• 3 bastoncini per le orecchie
• Filo di cotone verde
• Confezione di nastri assortiti nei toni del verde
• Forbici e colla a caldo
• Stampi con lettere e inchiostro (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
La vostra corona decorativa è pronta per essere appesa e dare il benvenuto alla primavera. Buon divertimento! Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Sudoku
Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
(Frase: 3, 4, 2, 5, 1, 2, 9)
ORIZZONTALI
1. Un peso del pugilato
5. Vicini al cuore
9. Uno dei laghi più estesi del mondo
10. Un dente
11. Tuo a Parigi
12. Regalati
13. Le iniziali dell’attore Solfrizzi
14. Articolo spagnolo
15. Central European Summer Time
17. Il nome dello Williams di «Patch Adams»
18. Quello nero è liquido
19. Da soli non valgono nulla
21. Le iniziali dell’attrice Finocchiaro
22. Letta al contrario non cambia
23. Andato... alla latina
24. Dio greco dell’amore
25. Un’anatra... reale
VERTICALI
1. Il padre... di Cicerone
2. Si spazientisce facilmente
3. Pupazzo rosa animato della TV negli anni 80
4. 1050 romani
5. Preposizione
6. Pronti, attivi
7. Assieme al risconto in bilancio
8. Opera di Mascagni
10. Mosé senza fine
12. Un’espressione d’arte
14. Avverbio di luogo
16. Un fan a San Siro
18. Non è sempre legale
20. Una consonante
21. Dio egizio
23. Saliera senza sale
24. Le iniziali della cantante Marrone
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
Soluzione della settimana precedente FORSE NON TUTTI SANNO… – Che la capra… Resto della: …HA LE PUPILLE RETTANGOLARI.
I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 18
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ti sarai accorto che la spezia… Termina la frase leggendo a soluzione ultimata le lettere evidenziate.
Viaggiatori d’Occidente
Franco Rosso e altri uomini fuori dal comune
Io lo conoscevo bene.
La morte di Franco Rosso, una decina di giorni fa, ha risvegliato in me tanti ricordi. Dopo aver ceduto ad Alpitour nel 1998 l’azienda turistica che ancora oggi porta il suo nome, Franco Rosso trascorreva molto tempo a Lugano, dove vive parte della sua famiglia, attiva nel settore alberghiero. E vent’anni fa frequentava spesso il mio maestro, Vittorio Dan Segre, l’ebreo fortunato, quando Segre insieme a un altro industriale illuminato, Luigi Bosca, aveva creato presso l’USI l’Istituto Studi Mediterranei, un piccolo quanto dinamico incubatore di nuove idee (a cominciare per esempio dal Master in International Tourism, il primo in Svizzera, che festeggia proprio quest’anno il ventesimo anniversario).
Ogni tanto coglievo qualche scampolo delle loro conversazioni, storie affascinanti che per me restavano sempre
un po’ incerte nei dettagli di luoghi, date, persone. Nonostante le frequentazioni internazionali, Segre e Rosso parlavano spesso di Cuneo, da dove venivano e dove, dicono i piemontesi (un poco esagerando), ci sono i soldi veri; lì si deciderebbe quello che poi viene messo in scena a Torino, capitale regionale tutta di facciata. Non a caso, del resto, anche il principale tour operator italiano, Alpitour, fu fondato proprio a Cuneo nel 1947, col nome di Alpi Viaggi. Appresi così che dopo la promulgazione delle leggi razziali (1938) il giovane Vittorio Segre era fuggito in Israele, mentre il padre Arturo, ufficiale di cavalleria durante la Prima guerra mondiale e sindaco del paese, si era dato alla vita di strada, fingendosi venditore ambulante di oggetti d’uso quotidiano, protetto soltanto dall’affetto e dal silenzio dei suoi concittadini. L’anziana madre rimase
Passeggiate svizzere
La torre del tè di Champel
In compagnia di due involtini primavera, trovati prima per caso, per strada, in un posto irreale di nome traiteur Saigon tenuto da una vecchietta di almeno centoventi anni, seduto su una panchina, ammiro ai primi di aprile, la torre del tè di Champel (419 m). Quartiere residenziale di Ginevra dove per un paio di anni ha abitato Louis-Ferdinand Céline e che un amico cileno con cui giocavamo a calcio una vita fa pronunciava ciamppèll. A bocca aperta mi ha lasciato, appena l’ho vista contro il cielo mutevole, la torre neogotica al limite delle falesie. Chiamata un tempo torre Moriaud e oggi solo torre di Champel, viene costruita nel 1877 come torre del tè per gli ospiti dell’assurdo stabilimento idroterapeutico basato sulle acque glaciali dell’Arve che scorre qui sotto. E mentre vado più vicino per raccontarvela come si deve,
adesso s’innalza stravagante nel cielo minaccioso-calmante come negli ottocenteschi racconti cupi inglesi a proposito di fantasmi. Desiderata da David Moriaud (1833-1898), avvocato-imprenditore-dandy-autore di un libro di poesie per gli amici e ideatore folle di Champel-les-Bains, innanzitutto stupisce la sua struttura sofisticata. Attribuita a Charles Ellès (1836-1891), questa bislacca e bellissima torre-rovina alta diciassette metri inizia a pianta quadrata poi diventa ottagonale: il tocco finale è una fine garitta di vedetta innestata in cima. Avvicinandomi, con la colonna sonora dello stridìo straniante dei gabbiani in sottofondo, smarrisco lo sguardo che vaga nel potpourri di mattoni antichi. Un miscuglio sapiente di mattoni recuperati da case ginevrine medievali demolite. «Rovina moderna» destinata a meta–belvedere delle passeggiate dei
Sport in Azione
La rivoluzione è donna
Non saprei dire se i grandi cambiamenti vengano dal basso o dall’alto. Oppure se non sia necessario un accerchiamento asfissiante e globale nei confronti dei detentori del potere. Lo sport è inequivocabilmente un fenomeno maschile. Non dal punto di vista di chi lo pratica, ma per chi lo dirige e chi ne trae profitto. Servirebbe una rivoluzione per cambiare paradigma. Ci sono oasi virtuose, come tennis e sci alpino, in cui la parità uomo-donna è lì da vedere. Steffi Graf e Venus Williams hanno poco da invidiare alla triade Roger-Rafa-Nole quanto a mediatizzazione e guadagni. Idem per Mikaela Shiffrin nei confronti di Marco Odermatt. Nelle altre discipline, sia pure con le necessarie sfumature, e alcuni «distinguo», la posizione delle donne è di gran lunga subalterna. Il calcio, nonostante alcuni incoraggianti segnali relativi alla copertura mediatica e alla fruizione dei grandi
però nella casa di famiglia e fu salvata da una retata grazie proprio ai Rosso, che corruppero la milizia fascista (o erano i nazisti?) con pneumatici della loro ditta di trasporti.
E ancora: nonostante Franco Rosso avesse viaggiato (e fatto viaggiare) in tutto il mondo, della sua lunga carriera ricordava soprattutto gli umili inizi. Nel 1953 aprì a Torino l’Ufficio Turistico Franco Rosso. E quando gli antenati di Alitalia istituirono il primo volo diretto da Roma a Torino, Franco Rosso organizzò un pullman per l’aeroporto. All’arrivo dell’aereo, dopo che i passeggeri erano sbarcati, i buoni borghesi torinesi salivano a bordo, percorrevano il corridoio centrale e scendevano dall’altra parte; dopo un rinfresco, tornavano a casa senza aver mai staccato i piedi da terra. Ammirare i nuovi, lucenti aerei americani Douglas bastava a giustificare un viaggio.
di Claudio Visentin
Questi modesti programmi erano la conseguenza della guerra perduta naturalmente, ma anche espressione di un turismo che, dopo oltre un secolo di vita, conservava ancora dimensioni tutto sommato assai ridotte. Nel 1950 i turisti internazionali erano solo venticinque milioni (per fare un paragone, prima della recente pandemia il loro numero si aggirava intorno al miliardo e mezzo).
Negli anni Settanta Francorosso portò gli italiani in Kenya con voli charter, soprattutto a Malindi. Era una novità assoluta anche se, curiosamente, molti italiani erano già stati nel Paese africano, ma in altra forma. Il padre di Franco Rosso per esempio aveva lavorato come capocantiere in Africa nel periodo tra le due guerre, quasi certamente nell’Africa orientale italiana (Etiopia, Eritrea, Somalia); l’impero coloniale proclamato da Benito Mussolini con toni altisonanti nel 1936 e
durato cinque anni appena. Dopo la sconfitta militare, alla fine del 1941, ben centomila italiani, tra civili e militari, erano stati internati in Kenya. Vittorio Segre amava raccontare la straordinaria impresa di un giovane funzionario coloniale, il triestino Felice Benuzzi. Insieme a due compagni di prigionia Benuzzi fuggì dal campo al solo scopo di piantare la bandiera italiana sul Monte Kenya (5199 metri), la seconda vetta del continente africano dopo il Kilimangiaro (5895 metri). In precaria forma fisica, con pochi viveri e un’attrezzatura di fortuna, i tre evasi compirono la straordinaria impresa alpinistica, per poi riconsegnarsi ai loro carcerieri, considerata l’impossibilità di raggiungere un Paese neutrale. La loro storia sarà poi raccontata in inglese nel libro No Picnic on Mount Kenya (in italiano Fuga sul Kenya, Corbaccio editore). Ricordi di uomini fuori dal comune.
pazienti dell’hotel Beau-Séjour come si scopre tra le pagine di Le dossier de Raimbaud (1882) di Marc Monnier. Sorprendente romanzo d’amore epistolare sconosciuto (del quale mi vanto di essere uno dei pochissimi lettori contemporanei) scambiato dalla Treccani per un saggio su Rimbaud, svolto tutto nello stabilimento idroterapeutico dove questa torre neogotica panoramica svolge un ruolo principale. Tra lettere alla zia scritte lì, incontri fugaci, sorsi di tè, e teatro di un suicidio scampato. Leitmotiv di tutto il libro, quasi una via di fuga dagli improbabili bagni curativi nelle acque provenienti dal ghiacciaio del Monte Bianco, a proposito dei quali, l’autore, dopo aver passato una vita a Napoli con gite a Ischia, non può non avere un tono scettico-ironico. Mentre uno scrittore più famoso ma forse meno divertente, Guy de Maupassant, su consiglio del filoso-
fo e storico Hippolyte Taine guarito in quaranta giorni, scappa da Divonne-les-Bains per venire qui. E affidarsi al termalismo controcorrente del dottor Glatz, autore di Dyspepsies nerveuses et neurasthénie (1889). Sento lo scrosciare dell’Arve – «con il quale non ho ancora fatto amicizia» scrive Monnier – che forma una cascatella all’altezza dei campi di calcio del Bout du Monde dove giocavo ai tempi con i miei amici e penso che devo aver avuto le fette di salame sugli occhi o la testa tra le nuvole per non notarla, questa torre svettare strana, al di là del fiume. Trovo, timida, la viola mammola. Ai piedi della falsa rovina di castello, di gran moda all’epoca tra gli spiriti romantici. È orientata verso il traiteur Saigon che sembra uscito da un film con scene di fumerie d’oppio. E s’ispira di sicuro alla prima torre-rovina – capolavoro di Sanderson Miller, esperto di follies e pio-
nere del revival gotico – della storia, eretta a Hagley, Worcestershire, 1747. Registrata ai tempi nel catasto come «torre d’osservazione» e aperta non solo ai passeggiatori termali, oggi una porta metallica chiusa e graffitata ne impedisce l’accesso. Un capitolo chiuso l’andirivieni di ragazzini intrepidi del quartiere che fino agli anni ottanta salivano su in cima con il batticuore. Benché restaurata anni fa, è sostenuta da due pali di ferro e ha diverse finestre orrendamente murate. Recintata da uno steccato di legno tipo giardinetti d’altri tempi, la torre del tè è allietata da alcuni narcisi e dall’edera che si arrampica sui mattoni di molassa lacustre di diverse tonalità. Anche le inaspettate finestre guelfe, giocano il loro ruolo nello stupire. Però, per il reale effetto negotico stordente, bisogna allontanarsi, vederla da un certa distanza. Meglio ancora se in movimento, camminando.
eventi, è l’emblema della disparità. Il ciclismo, dal canto suo, sta muovendo i primi e importantissimi passi verso il tentativo di livellamento.
Da alcune stagioni le squadre World Tour si sono dotate di un settore femminile, conglobato nel gruppo. Le pedalatrici beneficiano di attenzioni e assistenza non dissimili da quelle dei loro colleghi. Le loro corse trovano sempre più spazio nei palinsesti televisivi. Molto rimane da fare sul piano promozionale e salariale. Ma per questo servirebbe una vera e propria rivoluzione culturale. In Svizzera un importantissimo impulso lo potrebbe dare l’organizzazione degli Europei del 2025, che pochi giorni fa l’Uefa ha attribuito al nostro Paese. In questo panorama, che si muove tra la ricerca delle pari opportunità e la bieca conservazione dello status quo, il Ticino si ritrova piuttosto su questo secondo fronte. Nel mondo lavorativo
nazionale le donne ticinesi sono quelle che hanno il maggiore divario da colmare. Secondo le statistiche circa il 20%. Ebbene, nello sport il gap è abissale. Da noi le atlete – salvo rarissime eccezioni, Lara Gut-Behrami su tutte – vivono una realtà in cui i compensi sono semplicemente un miraggio, oppure dei piccoli rimborsi-spesa. Capita anche che il loro sogno si infranga, nonostante la disponibilità ad autofinanziare la loro attività. È capitato alcuni mesi fa alle ragazze del FC Lugano. Ancora peggio è andata –storia di poche settimane fa – alle loro colleghe dell’hockey su ghiaccio, le celeberrime Lugano Ladies, che si sono viste chiudere in faccia un progetto che durava, con successo, da decenni. «Un club, una città, una passione». Il sito ufficiale si mostra ancora agli utenti con questa incoraggiante dichiarazione d’intenti. Ma poco sotto, il 16 marzo, il racconto assume tinte
fosche: «Non ci sono più i presupposti per continuare (…) termina qui la storia delle Ladies». Non sta a me sindacare sulle ragioni. Del resto, le cifre sulla scarsissima presenza di spettatori sulle tribune sono desolanti. Anche in questo caso si imporrebbe una sorta di rivoluzione culturale. Due importanti realtà sportive femminili frustrate nel giro di pochi mesi. Aggiungiamo anche la pallacanestro, che fino a pochi anni fa vantava Riva e Bellinzona nella massima categoria, e che ha dovuto fare un passo indietro. Non resta che formulare i migliori auguri a chi ancora è rimasto sul campo di battaglia. Penso alle ragazze del Lugano Volley, che in questa stagione hanno sfiorato la gloria, giungendo vicinissime a uno storico trionfo in Coppa e in Campionato. Penso alle HCAP Girls, reduci da un sofferto e tribolatissimo primo campionato in Serie A. Anche dopo queste riflessioni non sa-
prei dire da dove possa partire il vento nuovo. Nel calcio – quello continentale, sia maschile, sia femminile – si sta profilando una donna che vuole dare l’assalto all’Uefa. Lise Klaveness, ex calciatrice, avvocata, presidente della Federazione norvegese, punta alla poltrona occupata dallo sloveno Aleksander Ceferin dal 14 settembre del 2016. Sarà musica del futuro e Klaveness dovrà lottare mettendo sul tavolo tutti i suoi atout. Come spesso accade in queste circostanze, la logica del lobbismo potrebbe prendere il sopravvento su quella dei valori e della qualità. Un cambiamento radicale di orientamento gioverebbe al mondo dello sport. Se non altro per la speranza che il vento nuovo possa quanto meno spazzare vie le nubi grigie e nere create da generazioni di dirigenti uomini, spesso impegnati a difendersi nelle aule dei tribunali, invece che nei loro uffici a promuovere i valori dello sport.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 19 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
di Giancarlo Dionisio
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ATTUALITÀ
No ai compiti scolastici
Alcuni istituti della Svizzera interna vogliono abolirli: «I giovani devono avere più tempo libero»
Trump incriminato, e adesso?
Di cosa è accusato esattamente
l’ex presidente degli Stati Uniti e quali scenari si aprono
Dietro l’attentato in Russia
Daria Trepova è l’eroina della resistenza antiputiniana o una vittima sacrificale di un complotto?
Beluci vessati in Pakistan
La storia di Mahal, torturata vicino ai suoi figli a Quetta, e più in generale il dramma del Belucistan
Vento in poppa per la destra, trainata dall’UDC
Prospettive ◆ Le principali indicazioni emerse dalle ultime elezioni cantonali in vista del voto federale del 22 ottobre
Marzio Rigonalli
Siamo a sei mesi dalle elezioni federali di autunno. Pochi politici e osservatori ne parlano, ma molti ci pensano, soprattutto trovandosi confrontati con i risultati di alcune consultazioni cantonali. È successo chiaramente una settimana fa, quando si sono svolte le ultime tre elezioni cantonali di questa legislatura. Il caso ha voluto che le tre consultazioni avvenissero in tre regioni linguistiche diverse: in Ticino, a Lucerna, a Ginevra. È successo anche due mesi fa – il 12 febbraio – quando si svolsero due elezioni cantonali, a Zurigo e Basilea Campagna. L’appuntamento elettorale zurighese soprattutto aveva suscitato vivo interesse. Nel Cantone sulla Limmat vi è la capitale economica del Paese, la sua popolazione rappresenta un quinto della popolazione nazionale e il suo panorama politico, con qualche eccezione, è simile a quello nazionale. Sono caratteristiche che portano quasi sempre a guardare oltre i confini del Cantone. I risultati delle elezioni cantonali hanno soprattutto una valenza regionale, perché ogni Cantone ha caratteristiche storiche, politiche, economiche, culturali proprie e rappresenta un’entità che gode di una certa autonomia nella sua azione e nei suoi orientamenti. I risultati danno però anche informazioni sullo stato di salute dei principali partiti e consentono di individuare alcune tendenze della scena politica nazionale, nonché di abbozzare i possibili futuri scenari.
Prima di guardare all’appuntamento elettorale nazionale del prossimo 22 ottobre, conviene soffermarci su almeno due importanti risultati delle elezioni di una settimana fa, due esiti che superano le frontiere cantonali. Il primo riguarda la presenza femminile nei Governi cantonali. Prima degli ultimi tre appuntamenti elettorali, c’erano ancora cinque Cantoni con Esecutivi senza (purtroppo) nessuna donna: Ticino, Lucerna, Argovia, Vallese e Uri. Adesso ne rimangono ancora tre. Marina Carobbio Guscetti è stata eletta nel Governo cantonale ticinese e ha preso il posto dell’uscente Manuele Bertoli. Carobbio è la quarta donna a far parte del Governo ticinese, dopo Marina Masoni, Patrizia Pesenti e Laura Sadis.
Nel Governo lucernese è stata eletta Michaela Tschuor (Il Centro), che al primo turno ha ottenuto il terzo miglior risultato. A Ginevra, infine, nessun candidato al Governo ha ottenuto la maggioranza assoluta. Il secondo turno si svolgerà il 30 aprile e le donne candidate hanno buone prospettive di successo. Nella migliore delle ipotesi potrebbero addirittura ottenere la maggioranza in
Governo, con quattro rappresentanti su sette. I risultati dei tre Cantoni consentono di migliorare leggermente la percentuale delle donne presenti negli Esecutivi cantonali, portandola dall’attuale 28,6% a oltre il 30%. La percentuale rimane comunque bassa ed è simile a quella della presenza femminile nel Consiglio degli stati.
I risultati in Ticino, a Lucerna e Ginevra consentono di migliorare la percentuale delle donne negli Esecutivi cantonali
Il secondo risultato, che ha sorpreso un po’ tutti, è arrivato da Ginevra, con il ritorno sulla scena politica di Pierre Maudet. L’ex membro del Governo ginevrino ed ex candidato al Consiglio federale è stato condannato dal Tribunale federale nel novembre 2022 per accettazione di vantaggi in relazione a un costoso viaggio ad Abu Dhabi, compiuto nel 2015 su invito della Casa reale. Maudet mentì pubblicamente sul finanziamento del suo viaggio e, infine, venne espulso dal Partito liberale radicale. Adesso è stato eletto in Gran consiglio, è arrivato sesto tra i candidati al Gover-
no e ha una reale possibilità di venir eletto nell’Esecutivo al secondo turno. Maudet guida una nuova formazione, denominata Libertés et Justice sociale, che ha ottenuto ben dieci seggi nel Parlamento cantonale che ne conta cento. Un vero fulmine a ciel sereno per la politica ginevrina, costretta ora a rivedere le alleanze e a mettere in secondo piano ferite e rancori che sono emersi e che si sono annidati negli ultimi anni.
I risultati delle ultime elezioni cantonali danno almeno tre indicazioni in vista delle elezioni federali del 22 ottobre. La prima riguarda i partiti che formano il Consiglio federale. L’UDC è l’unico partito che sembra avere il vento in poppa. A livello parlamentare ha guadagnato un seggio nel Canton Zurigo, 4 seggi nel Canton Ginevra, 5 seggi nel Canton Lucerna e 2 seggi in Ticino. È un trend molto positivo che contrasta con le perdite subite nei primi anni della legislatura e che consente ai dirigenti di questo partito di guardare al futuro con ottimismo. Gli altri tre partiti di Governo, il PLR, il PS e Il Centro, alternano risultati positivi e risultati negativi, senza staccarsi in maniera decisa dal loro consueto bacino elettorale. La seconda
indicazione tocca i Verdi, un partito che vorrebbe volentieri far parte del Consiglio federale. Nelle Federali del 2019 ottennero un risultato storico, raggiungendo il 13,2% dei voti. L’aumento fu allora del 6,1% e venne registrato come un record mai realizzato da nessun partito dopo l’introduzione del proporzionale nel 1919. Questo slancio sembra ora esaurirsi e lascia spazio a una serie di risultati negativi. Negli ultimi due mesi i Verdi hanno perso seggi parlamentari nei Cantoni Zurigo, Basilea Campagna, Lucerna e Ticino. Solo nel Canton Ginevra sono riusciti a difendere i loro 15 seggi. Questa tendenza non apre le porte all’ottimismo in vista dell’appuntamento elettorale federale e potrebbe togliere forza negoziale alla futura rivendicazione di un posto in seno al Consiglio federale.
L’ultimo segnale importante chiama in causa gli equilibri politici, in particolare la contrapposizione destra-sinistra. Il momento è favorevole alla destra, trainata dall’UDC. A Ginevra, per esempio, quattro partiti di destra, in due giorni, hanno creato un’alleanza, mai riuscita in passato, con l’obiettivo di raggiungere la maggioranza in seno al Governo cantonale, dopo il secondo turno. La
sinistra, invece, risente delle difficoltà cui fanno fronte i Verdi. La maggior parte dei voti persi dai Verdi nelle ultime elezioni cantonali non è andata verso il partito socialista, bensì verso i Verdi liberali e altre formazioni. Le tendenze emerse negli ultimi due mesi, nei cinque Cantoni menzionati, vengono confermate anche dal primo barometro elettorale della SSR, realizzato nei primi mesi del 2023. Anche secondo questo sondaggio i partiti di destra uscirebbero vincitori, mentre a sinistra emergerebbero un leggero vantaggio per il Partito socialista e una perdita consistente, del 2,5%, per i Verdi.
Mancano comunque ancora sei mesi all’appuntamento elettorale nazionale. È un lasso di tempo non trascurabile, che ci ricorda che i risultati cantonali e i sondaggi ci danno un quadro della situazione attuale. Una situazione che può però ancora cambiare, sotto la spinta di diversi fattori, dall’evoluzione della situazione economica al protrarsi della guerra in Ucraina, dalle emergenze climatiche all’immaginazione e all’inventiva dei partiti immersi nella campagna elettorale. C’è dunque ancora spazio per i cambiamenti di rotta e sicuramente anche per le sorprese.
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Manifesti elettorali a Kriens, nel Canton Lucerna. (Keystone)
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Abbasso i compiti, i ragazzi sono in «multi-crisi»
La questione ◆ Alcuni istituti della Svizzera interna propongono di abolirli: i giovani devono avere più tempo libero a disposizione
Roberto Porta
«Più compiti, professor Ferrara, più compiti!», così tuonò il direttore della nostra scuola a causa di un «comportamento deplorevole» dell’intera classe che si era permessa di saltare a ranghi completi le ultime due ore di lezione del giorno precedente. A quell’ordine il nostro docente rispose con un perentorio «Provvederemo!» che si tradusse in una cascata di esercizi supplementari, in aggiunta ai compiti canonici che erano già stati assegnati. Erano gli ormai lontani anni Ottanta del secolo scorso e i compiti stavano alla scuola come le equazioni alla matematica, nolens volens facevano parte della quotidianità di ogni allievo o studente, perlomeno fino al termine delle scuole superiori. Da allora di tempo ne è passato parecchio, la scuola continua a trovarsi confrontata con un processo di riforme perenne e anche con discussioni politiche a volte decisamente tortuose. Non solo in Ticino. E di questi tempi, in particolare nella Svizzera tedesca, i dibattiti e anche le polemiche che tengono banco – tra i banchi… – ruotano proprio attorno al tema dei compiti.
Con una proposta che arriva, dritta dritta, dalla stessa scuola. A Zurigo, Andreas Niklaus, direttore delle Medie e del Liceo Zürich Nord, ritiene che i compiti vadano aboliti. Né più, né meno. A suo dire i compiti devono far parte dell’insegnamento, e quindi essere integrati nelle lezioni e nella griglia oraria dei ragazzi.
Ogni giorno la metà degli allievi dell’istituto Zürich Nord dedica due ore ai compiti scolastici, quattro durante il fine settimana
Sul tema è stato condotto anche un sondaggio interno a questa scuola, che a livello cantonale è una delle più grandi del nostro Paese, con oltre 2200 allievi. Realizzato negli scorsi mesi, questo sondaggio ha messo in evidenza che ogni giorno la metà degli allievi di questo Gymnasium dedica due ore ai compiti scolastici, con punte che raggiungono le quattro ore durante il fine settimana. Un carico troppo elevato, a detta del direttore Niklaus, che di recente ha voluto portare questa problematica all’attenzione dei suoi colleghi e dell’opinione pubblica. A causa di questo tipo di impegno i ragazzi decidono di sacrificare
i loro hobby, c’è chi per esempio abbandona la pratica di uno sport o chi invece rinuncia alle lezioni di musica. E questo, ritiene sempre il direttore di questa grande scuola zurighese, non va per niente bene. «I ragazzi e le ragazze devono anche poter avere del tempo libero a loro disposizione», ha dichiarato alla «NZZ am Sonntag».
Va detto che su questa scacchiera le pedine si stanno muovendo anche altrove. Sempre a Zurigo pure la Scuola media e il Liceo Hohe Promenade, dove studiano circa 800 ragazze e ragazzi, hanno condotto un sondaggio sul tema dei compiti. E anche in questo caso gli studenti hanno fatto capire che il carico di lavoro dovuto ai compiti a casa è esagerato, soprattutto nei periodi in cui ci sono anche altre cose da fare, come la preparazione degli esami, per esempio, o la redazione di ricerche su temi specifici. La problematica non è solo di natura scolastica, in un contesto in cui aumentano sempre di più le preoccupazioni per la salute mentale dei giovani. Secondo l’Ufficio federale di statistica, le ospedalizzazioni per disturbi psichici dei
ragazzi hanno conosciuto una vera e propria esplosione nel periodo 20202021, in particolare tra le ragazze e le giovani donne, con un aumento del 26% rispetto al biennio precedente. Tra i maschi l’incremento è stato solo del 6%.
Le cause sono multiple, infatti gli esperti parlano di disturbi dovuti a quella che viene chiamata una «multi-crisi», in cui si intrecciano e si sommano la pandemia, la guerra in Ucraina, i cambiamenti climatici e la crisi energetica. Per la direttrice di Pro Juventute, Katja Schönenberger, «questa multi-crisi impatta sullo sviluppo psichico dei bambini e dei giovani. Hanno paura, non riescono a capire cosa possa ancora capitare nel prossimo futuro». Emergenze a getto continuo, dunque, che fanno da cornice ad una quotidianità segnata dalla scuola e dalle sue richieste. E i compiti fanno di certo parte di ciò che i docenti esigono dai loro studenti. Da qui l’idea dei due Licei di Zurigo – il Gymnasium inizia in questo Cantone appena dopo le scuole elementari – di togliere i compiti o perlomeno di ridurli di pa-
recchio per diminuire la pressione sui ragazzi. E per evitare di allungare la lista di chi soffre di stress, di depressione o di disturbi alimentari. L’idea è al vaglio di speciali gruppi di lavoro e ha già fatto parlare di sé anche tra le autorità scolastiche, pure oltre i confini del Canton Zurigo.
In diverse altre realtà della Svizzera tedesca si sta discutendo del tema «compiti», tra chi li vorrebbe togliere, chi ridurre e chi invece ritiene che siano uno strumento pedagogico indispensabile, per irrobustire le conoscenze dei ragazzi ma anche per accrescere le loro capacità organizzative. Il lavoro individuale, a casa, serve anche a questo, è stata da varie parti ricordato in queste ultime settimane. Inevitabilmente anche la politica è scesa in campo, a tal punto che nel canton Basilea Campagna una deputata UDC, Caroline Mall, ha già presentato un atto parlamentare per sollecitare il Governo cantonale a presentare delle alternative ai classici compiti scolastici. A suo dire «non è provato che i compiti possano effettivamente accrescere le competenze dei ragazzi».
Già in passato, va ricordato, i Cantoni di Basilea città e campagna avevano però rinviato al mittente richieste simili, sicuri che i compiti hanno ancora una loro utilità. Sul tema si è inserito anche chi si occupa di formazione professionale, facendo notare che gli apprendisti lavorano, vanno a scuola e fanno i compiti, senza che questo apparentemente abbia delle influenze negative sulla loro salute psichica. Insomma, il tema ha fatto e farà ancora discutere, perché di fatto è vecchio come la scuola. Anche se i compiti, sotto forma di castigo, come negli anni Ottanta, forse non ci sono più, o molto meno. Si preferiscono il dialogo e il confronto con gli allievi. Senza dimenticare che l’avvento di ChatGPT e di simili tecnologie che si basano sull’intelligenza artificiale potrebbero davvero mettere fuori gioco lo strumento del compito, così come lo abbiamo conosciuto finora. E ciò ci porta a concludere – a mo’ di battuta – con una frase di un regista francese del secolo scorso, Jacques Tati, che ebbe a dire «se la vita è una scuola per favore lasciatemi la ricreazione».
In pensione conviene rimborsare per intero l’ipoteca
dell’appartamento di proprietà?
La consulenza della Banca Migros ◆ È sempre consigliabile conservare fondi sufficienti per coprire spese impreviste
Sto per andare in pensione. È più sensato ammortizzare il prima possibile l’ipoteca del mio appartamento di proprietà oppure prorogare il finanziamento?
Dipende dall’ammontare delle sue riserve e dalla pensione che percepirà. Spesso, a fronte delle spese che aumentano con l’età, l’importo della rendita è inferiore del 30%-40% rispetto al reddito da lavoro. Ecco perché è consigliabile preventivare fondi sufficienti per coprire, ad esempio,
delle spese sanitarie impreviste. Utilizzare l’intero patrimonio per l’ammortamento potrebbe comportare difficoltà finanziarie in seguito.
Vi sono poi altri motivi a sfavore di un rimborso più consistente: è vero che riducendo i debiti si pagano meno interessi, ma in tal modo si dispone di un capitale inferiore da investire, il che significa rendimenti minori. L’ammortamento conviene solo quando gli interessi ipotecari risparmiati sono superiori al
possibile rendimento di titoli o altri investimenti, il tutto calcolato al netto delle imposte. Bisogna inoltre ricordare che i proprietari e le proprietarie immobiliari possono dedurre gli interessi debitori dal reddito imponibile, quindi un’ipoteca con importo maggiore conviene anche per questo motivo.
Tenga inoltre presente che la successiva ricostituzione dell’ipoteca in genere non è così semplice, anzi in alcuni casi è persino impossibile. L’inferiore rendita pensionistica,
infatti, non garantisce lo stesso grado di sostenibilità finanziaria dell’attuale, superiore reddito da lavoro.
L’ammortamento ha comunque il vantaggio di ridurre il rischio di un indebitamento eccessivo. Infatti, se il valore dell’immobile della proprietà abitativa diminuisce, aumenta in percentuale la quota dell’ipoteca sul valore complessivo. La perdita di valore incide meno nel caso in cui l’abitazione di proprietà le appartenga già in larga parte.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 23
Marcel Müller, consulente alla clientela della Banca Migros ed esperto in ipoteche.
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La fine o il rilancio di Donald Trump?
Stati Uniti ◆ Come interpretare l’incriminazione dell’ex presidente e quali conseguenze potrà avere
Federico Rampini
L’incriminazione di un ex presidente, Donald Trump, è un fatto senza precedenti nella storia degli Stati Uniti. Come interpretarlo e quali conseguenze potrà avere? Provo a darvi gli elementi essenziali di questa vicenda sotto forma di domande e risposte.
Al centro c’è il rapporto con la pornostar Stormy Daniels e i 130mila dollari pagati per il suo silenzio, ma l’incriminazione di Trump non riguarda solo questo: di cosa è accusato esattamente l’ex presidente degli Stati Uniti e quali sono le imputazioni più gravi?
Pagare una ex-amante perché stia zitta non è un reato. Il procuratore generale di New York, Alvin Bragg, deve tentare di dimostrare che questa fu solo la premessa per commettere reati veri. Accusa Trump di avere falsificato la giustificazione di questa spesa nei bilanci della sua società. Anche questo però non è un reato penale bensì un’infrazione, punibile solo con una multa. Di conseguenza il procuratore cerca di provare che Trump violò la legge sui finanziamenti elettorali e inoltre commise un reato fiscale. I 34 capi d’accusa o d’imputazione che sono stati comunicati a Trump il 4 aprile sembrano tanti, in realtà si riferiscono ad altrettante voci contabili nei bilanci della società.
È spuntata un’altra donna, anche lei avrebbe avuto una relazione con Trump e sarebbe stata pagata per comprare il suo silenzio. È una novità?
No, la storia di Karen McDougal, star di «Playboy», era nota come quella di Stormy Daniels cioè ormai da sette anni. La stampa se ne occupò ampiamente durante la prima campagna elettorale di Trump, nel 2016. McDougal tra l’altro non fu pagata da Trump bensì da un tabloid «amico» di Trump. Il collegamento è ancora più difficile da dimostrare.
Adesso che cosa può accadere? Può andare in carcere? Esiste una legge che gli potrebbe impedire di ripresentarsi alle elezioni? Quali sono gli scenari possibili?
Il processo non comincerà prima del 2024. Nessuna legge gli impedisce di ripresentarsi alle elezioni, neppure nell’ipotesi in cui venisse condannato o perfino qualora venisse chiuso in carcere. In teoria per alcuni capi d’accusa lui rischia fino a quattro anni di carcere. In realtà una condanna al carcere è molto improbabile. Autorevoli giuristi anche in campo democratico esprimono da tempo dei dubbi su questa istruttoria, tant’è che dei procuratori ai livelli superiori della giustizia americana (federale) avevano abbandonato questa pista. Gli scenari sono soprattutto politici: ci s’interroga sull’impatto che la vicenda può avere in primo luogo sulla gara per la nomination repubblicana. In generale l’impressione è che si tratti di un regalo politico per Trump.
Trump ha avuto un trattamento speciale? Se sì, perché?
L’unico trattamento speciale glielo hanno riservato i media con una pubblicità da «processo del secolo». E poi naturalmente c’era la scorta del Secret Service in aula, come prescrive la legge per la protezione di tutti i presidenti ed ex-presidenti. Per il
resto la prassi era quella normale per una incriminazione di questo tipo, dove l’imputato non è accusato di reati gravi.
Lui però è accusato anche di cospirazione. Questo non è molto più grave?
In questo caso il termine cospirazione allude semplicemente a una trama per violare la legge, avvalendosi dell’aiuto di altri, che forse andrebbe tradotto con «associazione a delinquere». Non c’entra affatto l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2022 che appartiene a un altro filone d’indagine, non all’istruttoria newyorchese. Ci sono inchieste più serie contro Trump, anche quella che riguarda il suo tentativo di manipolare il risultato dell’elezione presidenziale nello Stato della Georgia. Ma l’istruttoria Bragg si occupa solo dei pagamenti alle ex-amanti.
Perché la figura del procuratore di New York è controversa?
Alvin Bragg è un magistrato eletto nelle liste del partito democratico. Appartiene a quella parte della magistratura americana che viene scelta dagli elettori sulla base di una piattaforma politica. Lui è noto per le sue posizioni di estrema sinistra. Ha promesso di svuotare le carceri, e considera molti criminali come vittime di un sistema sociale ingiusto, razzista. Quando la polizia arresta dei delinquenti in flagranza di reato, spesso vengono liberati senza cauzione su direttiva di Bragg. Alcuni di questi hanno compiuto omicidi dopo essere stati rimessi in libertà. La politica di Bragg viene associata al forte
peggioramento della criminalità e al degrado della sicurezza a New York. Il sindaco della città Eric Adams, afroamericano e democratico come Bragg, ne aveva chiesto le dimissioni e lo critica continuamente. Perciò nel processo a Trump qualcuno vede un tentativo del procuratore di diventare una star nazionale per tacitare le critiche dei newyorchesi.
La democrazia americana esce rafforzata o indebolita da questa vicenda?
A prima vista, rafforzata. L’incriminazione del 4 aprile è la prova che nessuno è al di sopra della legge, neppure un ex presidente. Una parte degli americani ci vedrà la conferma che siamo in uno Stato di diritto dove le regole valgono per tutti. Ma altri ne ricavano una lezione diversa. Molti giuristi autorevoli, anche di sinistra, considerano l’istruttoria sul caso della porno-star come un azzardo. Anche per la personalità poco credibile dell’accusatrice. C’è il rischio che finisca tutto nel nulla, e sarebbe un disastro. Va ricordato che già due tentativi di impeachment contro Trump sono falliti. Lo scandalo del Russia-gate non è mai stato dimostrato. Quello sui documenti top secret finiti dalla Casa Bianca alla tenuta di Mar-a-Lago si è sgonfiato quando si è scoperto che anche a casa di Joe Biden ci sono documenti coperti dal segreto. Anziché ricavarne una prova di buona salute della democrazia americana, si rischia di avere l’effetto opposto almeno in una parte dell’opinione pubblica: l’impressione di un accanimento giudiziario fondato su prove pretestuose.
Bragg sta dando un pessimo esempio a tanti altri magistrati elettivi come lui. Domani potrebbe essere Biden da pensionato a finire sotto le grinfie di qualche procuratore repubblicano. Il 2023 rischia di essere ricordato come l’anno in cui le vendette incrociate da parte di magistrati politicizzati sono state legittimate. Aggiungo che per molti elettori repubblicani la ricerca di una scorciatoia giudiziaria da parte della sinistra allude a qualcosa di più vasto: una tendenza a vedere non il solo Trump come un criminale ma gran parte del popolo di destra come un branco di fascisti, razzisti, sovversivi, da mettere al bando con qualsiasi mezzo e a qualsiasi prezzo.
Allora è tutta una manovra del partito democratico? Aiuta Biden a farsi rieleggere?
Il Partito democratico non è la Spectre, non ha una cupola ai vertici che sia capace di dare ordini a tutti i propri seguaci, inclusi i giudici. Bragg si colloca all’estrema sinistra del partito, non nel centro moderato di Biden. Non è un caso se il Dipartimento di giustizia di Biden si è tenuto alla larga da questa vicenda. Il che non toglie che Biden potrebbe ricevere un aiuto oggettivo per la sua rielezione. Lui è convinto che Trump sia l’avversario più facile da battere.
Che cosa cambia nel Partito repubblicano?
Questo processo costringe gli altri repubblicani a schierarsi in difesa di Trump, lo rimette al centro di tutto, gli regala nuovamente una visibilità enorme. Bragg danneggia i candidati alternativi.
Ci sono implicazioni per la politica estera americana?
Biden ha tenuto insieme la NATO e i suoi alleati (inclusi Giappone, Australia, Corea del Sud) nella risposta a Putin dopo l’invasione dell’Ucraina. Trump ribatte che se ci fosse stato lui, Putin non avrebbe mai scatenato la guerra. Ma Trump ha sempre avuto una vena isolazionista. Tutti gli alleati dell’America in questo momento sono costretti a porsi delle domande sulla strategia futura dell’Occidente, qualora il trumpismo dovesse tornare a condizionare il Partito repubblicano.
Sergio Romano, La democrazia militarizzata Longanesi, 2023.
Il fenomeno Donald Trump, scriveva Sergio Romano cinque anni fa, potrebbe concludersi non con un impeachment, bensì con «una guerra civile». A qualcuno questa affermazione era sembrata eccessiva ma l’insurrezione del 6 gennaio 2021 e la marcia dei rivoltosi su Capitol Hill hanno dimostrato che l’ipotesi di Sergio Romano era corretta (la previsione era contenuta nel saggio Trump e la fine dell’American Dream, 2017).
Nel suo nuovo libro, l’ex ambasciatore italiano a Mosca e alla NATO torna su questi temi analizzando cosa succede quando un regime parlamentare si militarizza. Secondo l’autore, non è necessario assistere all’irreggimentazione di una società per vedere consumarsi dei soprusi. La democrazia ha normalizzato la lotta per il potere portandola entro canali istituzionali, ma questo non ha impedito ai candidati elettorali di ricorrere a mezzi volti ad adulterare i risultati delle consultazioni. Mezzi come la compravendita dei voti o come il tentativo di impedire agli elettori di votare tramite il finanziamento di scalmanati o la promulgazione di leggi concepite con questo scopo. Per esempio, scrive Sergio Romano, «in uno Stato nordamericano (la Georgia) è stata approvata una legge che proibisce di portare acqua agli elettori quando aspettano in fila il loro turno. In uno Stato in cui le temperature sono alte, gli elettori spesso afroamericani e le procedure di voto piuttosto lunghe, la legge cerca, con un provvedimento sostanzialmente razziale, di scoraggiare gli elettori».
Questo in tempi normali. Ci sono poi momenti in cui la politica si «militarizza», cosa per la quale occorrono condizioni storiche particolari, come quelle seguite alla fine della Prima guerra mondiale. Quest’ultima aveva prodotto in tutt’Europa masse di disadattati: «Molti elettori avevano trascorso lunghi periodi in caserme, accampamenti o trincee, o addirittura, se catturati, in un campo di concentramento nemico. Molti avevano subito ferite, erano mutilati, stentavano a riprendere i ritmi di una vita consuetudinaria, ricordavano persino nostalgicamente il campo di battaglia. Nelle elezioni, i candidati a cui davano i loro voti erano spesso quelli che avevano un piglio militare e proponevano mutamenti radicali da realizzare, se necessario, con i metodi appresi durante il conflitto».
Per lo storico, comunque, il Paese che ha offerto al mondo i primi due esempi di politica «militarizzata» è stata l’Italia. Il primo è la conquista di Fiume ideata e capitanata da Gabriele D’Annunzio nel settembre 1919; il secondo è la Marcia su Roma, organizzata da Benito Mussolini nell’ottobre del 1922, con un linguaggio e un approccio che si rifanno esplicitamente e inequivocabilmente al mondo dell’esercito. La militarizzazione della politica si è diffusa a macchia d’olio in Europa, con milizie volontarie e dittature. Ma questo fenomeno, sottolinea Sergio Romano, non è limitato nel tempo e nello spazio. Ed è quindi «utile ricordarlo in un momento in cui le democrazie, dopo la fine della Guerra fredda, attraversano momenti difficili e nella maggiore democrazia del mondo, gli Stati Uniti, un uomo politico, Donald Trump, dopo un mandato presidenziale, non ha rinunciato a tentare la conquista del potere con le armi».
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 25
Stormy Daniels. (Keystone)
Trump parla da Mar-a-Lago a Palm Beach, in Florida, il 4 aprile scorso. (Keystone)
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Eroina antiputiniana o vittima sacrificale?
che
Nella cella di vetro dell’aula del tribunale, Daria Trepova bisbiglia parole incomprensibili, tenendo gli occhi abbassati su qualcosa che vede solo lei. Il nuovo giallo politico russo ha il volto di una ragazza bionda, con un profilo Instagram dove si dichiarava omosessuale e postava foto in cui si atteggiava a principessa, una fedina penale con due arresti per manifestazioni contro il regime e contro la guerra in Ucraina, e una militanza femminista che ha già spronato alcuni esponenti della Duma a chiedere la messa al bando dell’ideologia del femminismo come «estremista». Intanto Daria è stata rinchiusa con l’accusa di «terrorismo», dopo aver donato al blogger nazionalista Vladlen Tatarsky una statuetta che pochi minuti dopo è esplosa uccidendolo e ferendo altre trenta persone, in un bar di San Pietroburgo, noto come ritrovo dei sostenitori più oltranzisti della guerra in Ucraina. Per ora non rischia l’ergastolo, che la legge russa risparmia alle donne, ma dal Parlamento e dai media sono già arrivate voci che chiedono di reintrodurre la pena di morte, oppure di mandare i «nemici del popolo» al nord, «senza diritto di grazia, a scavare il ghiaccio e venire seppelliti sotto i binari della ferrovia quando crepano». Lo propone Sergey Gurulyov, deputato siberiano della Duma.
Il grido «li uccideremo tutti» che ha reso famoso Tatarsky sembra essere diventato il motto di questa ondata reazionaria
Non è ancora chiaro se la 26enne ex studentessa che vendeva abiti vintage online sia la nuova eroina della resistenza antiputiniana, oppure una vittima sacrificale di un complotto più grande di lei. Negli ambienti dell’estrema destra militarista russa, quelli che scelgono come loro simbolo la Z dipinta sui carri armati che hanno invaso l’Ucraina, Daria era conosciuta come Nastya, e sotto falso nome conduceva anche una chat su Telegram nella quale inneggiava alle glorie dell’esercito putiniano. Difficile immaginare questa fragile ragazza bionda come una spia abile nel doppio gioco, ma non si riesce nemmeno a considerarla soltanto una ignara corriera della bomba, che qualcuno aveva cinicamente usato mettendo a rischio la sua stessa vita. Difficile però ignorare quanto Daria sia l’alter ego perfetto della sua omonima Daria Dugina, la figlia del filosofo neonazista russo uccisa da una bomba a Mosca l’anno scorso, in quella curiosa coincidenza che vede il terrorismo politico colpire in Russia quasi esclusivamente esponenti della destra più estrema. Trepova sembra l’identikit perfetto della giovane oppositrice delle grandi città: liberale, pacifista, femminista, che scendeva in piazza per Alexey Navalny e contro la guerra. Tutto quello che gli ideologi del putinismo odiano e considerano nemico, in quella guerra civile che ha anche un forte aspetto generazionale – solo un terzo degli under 25 sostiene l’invasione dell’Ucraina – del quale gli ultrasettantenni al Cremlino sono perfettamente consapevoli, mandando i giovani al fronte (o costringendoli alla fuga in esilio).
Qualcuno la paragona già a Vera Zasulich, la rivoluzionaria socialista che nel 1879 sparò al general-gover-
natore di Pietroburgo Trepov e venne prosciolta da una giuria liberale, sia in positivo sia in negativo: la capa della propaganda del Cremlino Margarita Simonyan esulta che la Russia di Putin non è quella degli zar, e non ci saranno giurati a processare Trepova. È una curiosa svolta della storia, in una Russia dove oggi anche molti moderati sono convinti che la Rivoluzione del 1917 – considerata da liberali e reazionari egualmente un disastro nazionale – non sarebbe accaduta se la monarchia fosse stata ancora più repressiva. Il grido «li uccideremo tutti» che ha reso famoso Tatarsky sembra essere diventato il motto di questa ondata reazionaria, che vuole proibire alle femministe di parlare di emancipazione e aborto, perseguita i gay e condanna un padre, Aleksey Moskalyov, a due anni di carcere perché sua figlia Masha, di 12 anni, ha fatto a scuola un disegno pacifista. Un caso surreale e terribile, con una svolta sorprendente: la notte prima della sentenza l’imputato è evaso dagli arresti domiciliari, e la notizia è stata accolta dall’aula con un applauso che fa pensare che i simpatizzanti della dittatura in realtà non siano più numerosi in Russia dei tempi di Zasulich, portata fuori dal tribunale in trionfo dalla folla.
Di tutte le ipotesi nate subito dopo l’omicidio di Tatarsky – un ex minatore del Donbass che, dopo essere finito in carcere per una rapina, ha aderito alla guerriglia filorussa, ed è diventato celebre inneggiando a «uccidere e rapinare tutti» in Ucraina durante una importante cerimonia al Cremlino in presenza di Vladimir Putin – quella meno accreditata era forse proprio quella della resistenza russa. Un fenomeno talmente poco visibile da sembrare quasi inesistente, in un Paese dove venire condannati a sette anni per un post contro la guerra su Facebook è ormai normale, e dove milioni di dissenzienti hanno preferito fuggire invece che scendere in piazza. Il dubbio che Daria Trepova sia stata usata come pedina da qualcuno – servizi segreti russi, intelligence ucraina oppure qualche clan della destra estrema in lotta con i concorrenti per l’attenzione e i finanziamenti dal Cremlino – resterà probabilmente irrisolto a lungo, ma il fatto che le autorità russe hanno immediatamente approfittato del suo arresto per accusare
l’opposizione russa legata a Navalny di agire insieme agli ucraini indica una paura non solo propagandistica di una quinta colonna interna. Qualcuno continua ad appiccare fuoco a fabbriche militari, caserme e commissariati militari, qualcuno continua a sabotare i binari ferroviari
sui quali passano i convogli carichi di armi diretti verso l’Ucraina, qualcuno continua a scrivere sui muri «No alla guerra». Qualcuno ha aiutato Moskalyov a fuggire, insieme a tanti altri attivisti e dissidenti. E l’attenzione che suscita nei media, governativi quanto indipendenti, ogni fil di
fumo che si leva, sempre più frequentemente, sopra un ufficio governativo o un impianto militare, fa pensare che la paranoia dell’infiltrato ucraino non sia l’unica preoccupazione di Mosca, nonostante i sondaggi che invariabilmente mostrano in aumento il sostegno alla guerra.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 27
◆ Daria Trepova
Tatarsky
Russia
ha donato al blogger nazionalista Vladlen
una statuetta
è esplosa, uccidendolo Anna Zafesova
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Daria Trepova in tribunale, Mosca. (Keystone)
La storia di Mahal, torturata vicino ai suoi figli
Diritti umani ◆ Continua l’operazione di annientamento della minoranza beluci da parte delle autorità pakistane
Francesca Marino
L’azione si svolge a Quetta, Belucistan (regione del Pakistan). Fa ancora freddo, a febbraio, e la notte è scura e più silenziosa del solito. Siamo nella modesta casa di una giovane vedova che vive con i suoi tre figli e con la madre del suo defunto marito. Se fosse un film, ma si tratta purtroppo di realtà, la musica a questo punto salirebbe d’intensità e si farebbe drammatica. All’improvviso, gente alla porta. Confusione, urla, paura. A irrompere dentro alla casa addormentata non sono ladri né criminali. O, almeno, non del genere fuorilegge. Si tratta delle truppe del locale Dipartimento antiterrorismo, che trascinano via la famigliola addormentata. La giovane vedova si chiama Mahal Baloch. Suo marito Nadeem faceva parte del Fronte di liberazione del Belucistan, un gruppo di guerriglia che lotta contro le forze dell’ordine pakistane, ed è stato ammazzato nel 2016. Da quel giorno Mahal è diventata un’attivista che protesta contro l’occupazione illegale del Belucistan da parte del Pakistan e contro la pratica ormai dilagante delle sparizioni forzate.
Scrive il Consiglio per i diritti umani del Belucistan: «L’antiterrorismo ha fatto irruzione nella casa di Mahal, l’ha perquisita, ha preso tutti i soldi e ha portato via Mahal e i suoi tre figli, la suocera e una vicina. Tutti i membri della famiglia, compresi i bambini, sono stati bendati e portati in una stazione di polizia. I piccoli sono stati interrogati in assenza di un tutore e dopo messi in una stanza da dove potevano sentire le urla della madre che veniva “interrogata”. A Mahal è stato negato un avvocato e durante gli interrogatori è stata brutalmente torturata. Secondo i familiari, Mahal è
stata presentata davanti a un tribunale locale, dove è crollata in stato di incoscienza a causa delle gravi torture fisiche e psicologiche. I suoi figli e le altre due donne sono stati in seguito rilasciati». Mahal è ancora in custodia, nonostante gli attivisti per i diritti umani abbiano protestato in tutto il mondo per il suo rilascio e nonostante il ministro degli Interni del Belucistan abbia annunciato pubblicamente che le accuse sarebbero cadute e che Mahal sarebbe stata presto rilasciata. Le accuse sono difatti false, inventate dallo stesso Dipartimento antiterrorismo.
Secondo gli investigatori, Mahal sarebbe stata arrestata in un parco pubblico vicino a Satellite Town, a Quetta, mentre trasportava un giubbotto da kamikaze in una borsa da computer. Delle due una: o disponeva di un laptop gigante, o hanno inventato i giubbotti da kamikaze slim-fit. Anche il Fronte di liberazione del Belucistan (FLB) ha rilasciato una dichiarazione ai media, chiarendo che Mahal Baloch non è in alcun modo affiliata al gruppo. Aggiungendo: «Siccome le forze di sicurezza pakistane non sono in grado di arrestare gli effettivi combattenti del FLB, ricorrono all’arresto di civili innocenti facendoli passare per militanti». Il rapimento di donne e bambini in Belucistan non è una novità, anzi. In passato ci sono stati casi, diversi casi, di donne rapite, detenute e torturate, usate come schiave sessuali dai militari e poi gettate via. Tuttavia è difficile avere dei numeri perché, come sempre accade in questi casi, le donne si vergognano di raccontare. Ci sono voluti anni e anni per portare alla luce gli orrori degli stupri di massa durante la guerra in Bangladesh (sempre da
parte dell’esercito pakistano), e ci vorranno anni, quando e se tutto questo sarà finito, per fare luce sugli orrori subiti dalle donne in Belucistan. Nel 2022, su 787 vittime di sparizioni forzate, 101 erano donne. Nel 2017 il senatore del Partito Popolare Pakistano (PPP) Farhatullah Babar ha dichiarato che esistono «celle segrete di tortura» in tutto il Paese. Ha inoltre affermato che «nessuno, compresi il Parlamento e la Corte Suprema, sa quante siano queste celle di tortura, il numero di persone che vi sono presenti e il numero di persone che sono morte durante gli interrogatori». E ci sono prove che molte donne beluci sono state portate in que-
ste celle di tortura. Ali Arjumand, un cittadino norvegese «scomparso» per 12 anni in queste celle, ricorda molto bene le donne violentate e torturate, e una di loro lasciata morire dissanguata davanti alla sua cella. «Noi, le organizzazioni che rappresentano il popolo del Belucistan e i gruppi di attivisti per i diritti umani, abbiamo redatto questa lettera per richiamare l’attenzione sul continuo abuso dei diritti delle donne beluci da parte delle forze armate pakistane. Negli ultimi anni le donne che protestavano contro le sparizioni forzate sono state minacciate, attaccate e fatte sparire. Sono state tenute in celle di tortura dell’esercito dove molte hanno subi-
to abusi sessuali». La lettera, firmata da Baloch Voice Association, Voice for Baloch Missing Persons e Baloch Peoples Congress e indirizzata al Comitato sulle sparizioni forzate e al Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate o involontarie, è stata inviata di recente. L’ennesima. Perché, nonostante l’indefesso lavoro delle organizzazioni umanitarie e dei gruppi per i diritti umani, nonostante le proteste a Ginevra per cercare di attirare l’attenzione sul problema, la questione delle donne del Belucistan, e del Belucistan in generale, non riceve quasi mai attenzione a livello internazionale. Fino a che, tra non molto, sarà troppo tardi.
Di buon senso, preparata e col piglio glaciale
Potentissime ◆ Il ritratto di Riikka Purra, leader dei Veri finlandesi, partito di destra che alle ultime elezioni è arrivato secondo
Cristina Marconi
C’è una nuova sovranista inflessibile nel panorama della destra europea, in Finlandia, Paese che settimana scorsa è diventato il 31esimo membro della NATO. Si tratta di Riikka Purra (nella foto), la leader del Partito dei finlandesi (conosciuto anche come Veri finlandesi) che alle ultime elezioni è arrivato secondo con il 20,1% dei voti, a un soffio dai conservatori, al 20,7%, e davanti a quello della premier uscente, la socialdemocratica Sanna Marin, venerata all’estero ma, nonostante l’ottima performance su Covid e Ucraina, meno apprezzata in un Paese in cui a contare sono soprattutto le questioni politiche più pratiche, come l’aumento del debito al 73% del PIL rispetto all’obiettivo del 60%. È stato questo il tema centrale di una campagna elettorale che ha visto la 45enne Purra riconquistare il terreno che il partito dei Veri finlandesi sembrava aver leggermente perso negli ultimi anni. Anche secondo i parametri di una Nazione di personalità politiche poco espansive –la stessa Marin, danze a parte, è molto austera e razionale nel suo approccio –Purra appare chiusa, difficile da capire, algida e non carismatica. Però ha studiato e nei dibattiti è efficace, nonostante la durezza delle sue posizioni (o forse proprio grazie al fatto di essere poco incline alle sfumature). Nella
Finlandia rurale e tra le fasce più umili va fortissimo. A differenza di tanti colleghi e colleghe europei, a partire da Marine Le Pen e Giorgia Meloni, sembra fare del sovranismo più una questione di razionalità che di valori. Parla alla testa degli elettori, non ai loro cuori, non ha una retorica incendiaria né fa leva sulla nostalgia. E soprattutto sta bene attenta a evitare di circondarsi dell’aura messianica dei suoi predecessori, come Timo Soini (cofondatore ed ex leader dei Veri finlandesi), e di mantenere il più possibile il piglio pragmatico e «secchione» con cui ha condotto finora la sua scalata. Leader di una formazione politica figlia anche della grande crisi dell’euro del decennio passato, e della lotta tra Paesi rigoristi del nord e Paesi lassisti e indebitati del sud Europa, al giornalista di «la Repubblica» che le chiedeva se si sentisse vicina a Giorgia Meloni, Riikka Purra ha risposto: «Non è sufficiente essere donne di destra». Niente prospettive di alleanza o di sorellanza sovranista, almeno per il momento, in una Bruxelles vista innanzi tutto come terra nemica.
Anti-europeista convinta (ma come tutti ben attenta a mantenere la retorica senza correre il rischio di scontrarsi con la realtà, in stile Brexit), con 46 deputati, ossia 7 in più rispetto alla
legislatura precedente, Purra potrebbe finire parte di un Governo di coalizione, dove i Veri finlandesi sono già stati dal 2015 al 2017. Però tutti gli altri partiti, a parte i conservatori, si sono detti contrari a governare con i Veri finlandesi, e Marin li ha definiti «razzisti». Il programma di Purra è incentrato sul taglio dell’immigrazione non europea e sulla lotta alla criminalità. Con il suo piglio glaciale, la leader di ultradestra ha raccontato di come fosse difficile per una giovane donna negli anni Novanta convive-
re con gli immigrati di Tampere, che la seguivano, le facevano commenti per strada e la molestavano. Una storia che l’ha segnata e da cui avrebbe tratto la conclusione dell’impossibilità di ogni integrazione. Da qui il suo avvicinamento alla politica, avvenuto quando era già vicina ai 40 anni. È deputata dal 2019. Il prestigioso «Helsingin Sanomat» ha pubblicato un profilo intitolato, con un gioco di parole sul suo cognome, Trapano preciso, ripercorrendo le sue posizioni: per lei il calo demografico è qualcosa che
non va contrastato con l’immigrazione, ma prendendo atto del fenomeno e tagliando la spesa.
Il suo oltranzismo si manifesta anche altrove e in particolare nell’impegno ambientale. Purra ha iniziato la sua carriera politica militando tra i Verdi e il suo programma è rigoroso sulle misure di lotta al cambiamento climatico e sulle politiche energetiche. Il suo profilo Instagram sembra quello di una foodblogger vegana. Purra, infatti, non fa altro che postare insalate e dolci dalle invitanti armonie cromatiche e bibitoni verdi fatti in casa. Lei appare sempre sola, al massimo c’è il cane, le foto dei suoi due figli, avuti dopo una serie di aborti spontanei, sono rare e discrete. Non usa la retorica della mamma – lei la sua l’ha persa a 12 anni per un attacco di cuore conseguente all’alcolismo – ma quella della donna di buon senso e vedute non troppo ampie. Quando uscirono i video di Sanna Marin che ballava scatenata a una festa, Purra fu la prima a chiedere che le venisse fatto un test tossicologico. I compagni di partito e gli amici si dicono preoccupati del fatto che rida poco, non si rilassi mai, che sia troppo presa e travolta dal lavoro. Tutte strategie di comunicazione che però sembrano funzionare molto bene, fin troppo.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 29
La questione delle donne del Pakistan, e del Belucistan in generale, non riceve quasi mai attenzione a livello internazionale. Nel riquadro in alto: Mahal Baloch. (Keystone/Consiglio per i diritti umani del Belucistan)
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Il Mercato e la Piazza
La geografia dell’invecchiamento
La popolazione ticinese è una popolazione di vecchi. Si tratta però di un’affermazione con portata relativa. È vero che il tasso di invecchiamento della popolazione nel Cantone è superiore alla media nazionale. A sua volta è vero che la Svizzera figura tra le Nazioni più invecchiate d’Europa. Siamo però lontani dal tasso di invecchiamento di una nazione come il Giappone. Che cosa determina l’invecchiamento di una popolazione? Molti fattori. Tra questi figura, in modo preminente, l’attrattività economica. La popolazione giovane (sempre più scarsa) converge verso quelle località che possono offrire posti di lavoro interessanti e ben remunerati. Si tratta di solito delle località urbane e di quelle che le stanno a ridosso. Quest’ultime, inoltre, possono rimanere attrattive anche quando non dispongono di un’offerta di posti di lavoro significativa. Perché la loro popolazione resti giovane
In&Outlet
basta che siano attrattive dal profilo residenziale. È lì che trovano il loro domicilio i lavoratori pendolari. Per queste ragioni, e anche per l’influenza di altre, la geografia dell’invecchiamento del Canton Ticino è come una pelle di leopardo. Se accettiamo il ragionamento esposto qui sopra dovremmo trovare i tassi di invecchiamento maggiori nei Comuni che non dispongono di un’offerta di lavoro dinamica. Quando però scorriamo l’elenco dei Comuni con i tassi di invecchiamento più alti ci accorgiamo che, in Ticino, l’attrattività del mercato del lavoro non è tutto. Vi sono infatti Comuni che, pur essendo attrattivi dal profilo delle possibilità di lavoro, possiedono un tasso di invecchiamento superiore alla media. Sono comuni turistici del Locarnese come Brissago, Ascona, Muralto, Orselina e Brione s/Minusio nei quali si sono insediate colonie di pensionati prove-
L’antifascismo: la scelta giusta
Via Rasella è una delle strade più strette del centro di Roma. La parte finale è in ripida salita. Luogo perfetto per un’imboscata. È l’una di pomeriggio del 23 marzo 1944 quando Rosario Bentivegna, partigiano comunista, si avvia verso via Rasella, travestito da spazzino. Il carrettino, carico di tritolo, è pesante. Bentivegna suda per spingerlo nelle salite del centro della città dei sette colli, e ancora di più per trattenerlo nelle discese: il carretto non ha freni. E poi c’è la tensione. Per essere fucilati, basta che ti trovino addosso la copia di un foglio clandestino. Figuriamoci 18 chili di tritolo. Bentivegna sale fino a Piazza del Quirinale. Qui incrocia due spazzini veri. I due lo fermano e gli chiedono chi è, che ci fa nella loro zona. Bentivegna risponde che sta facendo un carico di cemento. Gli spazzini si mettono a ridere. Credono di capire che quel collega stia lì fuori zona per fare la borsa
nera. Scherzando gli dicono: «Ma che cemento, facce vede’ i presciutti!». E fanno per aprire il cassonetto. Bentivegna però ha la prontezza di spirito di mandare i due colleghi a quel paese e proseguire per la sua strada. I due spazzini se ne vanno via ridendo convinti di aver pizzicato un loro collega non troppo ligio alle regole. Ormai sono le 14 e i tedeschi del battaglione Bozen, vittime designate dell’attacco partigiano, dovrebbero arrivare. Ma passano 10 minuti, ne passano 20, ne passano 30, e i tedeschi non arrivano. La tensione cresce. Bentivegna inizia a fumare nervosamente. Ma deve stare attento. Il tabacco della sua pipa è quello che gli serve per accendere la miccia. Sono ormai passate le tre. È più di un’ora che il partigiano è fermo. Per non destare troppi sospetti impugna la ramazza e si mette a spazzare la strada. Ma si rende conto che i suoi gesti, vuoi per la tensio-
Il presente come storia
nienti dal resto del Paese e dall’estero. Un buon indicatore dell’invecchiamento di una popolazione è la quota della stessa con più di 65 anni. In Ticino questa quota ha raggiunto il 23,1%. Vi sono però 38 Comuni nei quali, già oggi, il tasso di invecchiamento ha superato il 25%. Di questi 28 sono nel Sopraceneri e 10 nel Sottoceneri. Come dire che la popolazione delle valli invecchia più rapidamente di quella degli agglomerati urbani. Il Comune con il tasso di invecchiamento più elevato è Cerentino che ha una quota delle persone con più di 65 anni del 40% della popolazione totale. Si tratta di una percentuale vicina a quelle del Giappone, il Paese maggiormente invecchiato del mondo. In 13 altri Comuni poi, il tasso di invecchiamento ha già superato il 30%. Per questi Comuni la situazione comincia quindi a farsi critica. Critica perché? Perché di solito la popolazione anziana, pensio-
di Angelo Rossi
nata, gode di un reddito inferiore al reddito della popolazione che continua a lavorare. Il Comune nel quale la quota di popolazione anziana è elevata è quindi spesso anche il Comune che incassa meno imposte e conosce difficoltà finanziarie. Tra i Comuni con un tasso di invecchiamento superiore al 30% questa correlazione è evidente. Più elevato è il tasso di invecchiamento e più elevato è anche il moltiplicatore del Comune. A questa regola fanno eccezione solo due Comuni. Bosco Gurin ha un moltiplicatore al 100% e un tasso di invecchiamento appena superiore al 30%. Orselina, da parte sua, è il secondo Comune per quel che riguarda il tasso di invecchiamento (39,5%) ma possiede un moltiplicatore relativamente basso. L’immigrazione di vecchi pensionati, così caratteristica in questo Comune, ha avuto effetti positivi e non negativi per le sue finanze. Non tutte le persone an-
ziane, quindi, sono contribuenti poco interessanti.
Questa costatazione è quella che ha probabilmente indotto i responsabili del Comune leventinese di Bedretto a fare dell’invecchiamento della popolazione l’asso nella manica della loro politica di sviluppo demografico, puntando su un moltiplicatore basso. Con un moltiplicatore pari al 60%, Bedretto ha così ottenuto, in un decennio, grazie all’immigrazione di pensionati abbienti, un aumento della popolazione domiciliata eccezionale, superiore al 50%. È vero che si tratta di piccoli numeri – Bedretto conta oggi un centinaio di abitanti – ma gli effetti di un moltiplicatore basso per Comuni di piccola taglia sono, in questo caso, tangibili. In conclusione si può quindi affermare che, in Ticino, l’invecchiamento è un fenomeno complesso le cui dimensioni e i cui effetti vanno esaminati quasi caso per caso.
ne, vuoi perché quel lavoro lui non l’ha mai fatto, sono talmente goffi e impacciati che rischiano di farlo scoprire. E allora si rimette lì, fermo dietro il carrettino in attesa. Stanno per scoccare le quattro quando il segnale arriva: Bentivegna vede un compagno, Franco Calamandrei, che lo guarda da in fondo alla via, e si leva il cappello. Qualche istante dopo il battaglione Bozen svolta da via del Tritone e inizia a salire per via Rasella. La miccia ha una durata di 50 secondi, calcolati al centesimo per fare esplodere la bomba quando la testa del plotone arriverà all’altezza del civico 134. Bentivegna lascia la miccia nel carrettino e si affretta verso la salita accanto al plotone che risale. L’impatto è devastante. La detonazione è resa ancora più deflagrante dall’esplosione delle bombe a mano che i militari tedeschi portano alla cintura. È un’ecatombe. I morti sono 33. Ogni tedesco, 10 italia-
La versione elvetica del Quarantotto
Il Museo nazionale svizzero (Landesmuseum Zürich) festeggia con una mostra documentaria i 175 anni dello Stato federale, appoggiandosi alla sua carta fondamentale, la Costituzione promulgata il 12 settembre del 1848, «allo scopo di rassodare la lega dei Confederati, di mantenere ed accrescere l’Unità, la Forza e l’Onore della Nazione Svizzera». A quell’impresa aderirono i cittadini (maschi) dei 22 Cantoni sovrani, anche se dal Ticino giunse un secco rifiuto, giacché trasferiva alla Confederazione gli introiti doganali (art. 23). Il Paese si era appena lasciato alle spalle la guerra civile del Sonderbund, che se fosse sfuggita di mano con l’intervento di monarchie estere avrebbe portato alla dissoluzione della Lega. Questo, per fortuna dei costituenti, non avvenne perché un po’ ovunque – dalla Francia all’impero asburgico, dagli Stati tedeschi a quelli italiani – gli abitanti delle
principali città insorsero per reclamare libertà, democrazia, ordinamenti repubblicani. Fu un vero «Quarantotto» che per alcuni mesi mise a ferro e fuoco l’intera Europa centrale.
L’epicentro della «primavera dei popoli» fu Parigi. Ieri come oggi, verrebbe da dire, considerando la sequela di manifestazioni e di scioperi che da mesi sta mettendo a soqquadro l’intera area metropolitana. Quel Quarantotto sulle barricate fu però ben peggiore, con migliaia di morti e feriti, «operai abbattuti come animali selvaggi». Anche l’insurrezione di Milano fu stroncata da Radetzky dopo cinque giorni di guerriglia urbana. Uno dei protagonisti, Carlo Cattaneo, decise di rifugiarsi prima a Lugano e poi a Parigi, dove redasse una prima versione della rivolta milanese, intitolandola L’insurrection de Milan en 1848. In quel medesimo anno due rivoluzionari tedeschi, Marx ed Engels,
diedero alle stampe un loro Manifesto su incarico della Lega dei comunisti: e sappiamo quale fortuna avrebbe avuto, e non solo nel vecchio Continente, quell’esile opuscolo di sole ventitré pagine. Nei Cantoni confederati l’anno della rivoluzione assunse le sembianze di una rifondazione dei patti federali precedenti, con l’obiettivo di dare alla Confederazione un assetto giuridico moderno e coerente. Alla vecchia Dieta subentrò un Governo di 7 membri (il Consiglio federale), sorretto da un potere legislativo bicamerale (Consiglio nazionale e Consiglio degli Stati). La nuova carta stabiliva diritti e doveri, come pure l’esigenza di meglio coordinare la difesa nazionale. L’art. 44 garantiva il libero esercizio di culto delle confessioni cristiane (cattoliche e riformate), mentre quello successivo, l’art. 45, assegnava lo stesso grado di libertà alla stampa (salvo un utilizzo abusivo della medesima). Il refrattario
ni: 335 italiani, 5 in più per zelo o per errore, saranno trucidati per rappresaglia il giorno dopo nelle cave sulla via Ardeatine: le Fosse Ardeatine. È utile ricordare tutto questo per capire la polemica che ancora attraversa la politica italiana. È falso quel che ha detto di recente Ignazio La Russa, presidente del Senato, seconda carica dello Stato: le vittime dell’attacco non erano «una banda musicale di semi-pensionati»; erano poliziotti che appartenevano alle truppe di occupazione naziste. È falso che gli attentatori non siano stati coraggiosi, che avrebbero potuto salvare la vita dei fucilati se si fossero presentati ai tedeschi: «L’ordine (della rappresaglia) è già stato eseguito», informò l’agenzia del regime fascista, la Stefani, in un comunicato pubblicato su «Il Messaggero». Si può certo discutere se l’attacco di via Rasella sia stato o meno opportuno. Una rappresaglia era inevitabile; il calcolo secondo
cui sarebbe servita a inasprire la popolazione locale contro i tedeschi è senz’altro un calcolo cinico; ma si era in guerra, gli americani chiedevano azioni di disturbo nelle retrovie, e quando la notizia arrivò al nord il capo partigiano liberale Edgardo Sogno commentò: «Finalmente anche a Roma si sono svegliati». Comunque la si pensi, resta il fatto che era giusto attaccare i nazisti occupanti. E che nella guerra civile c’era una parte sbagliata, quella che sosteneva i nazisti, e una parte giusta, quella che ai nazisti resistette. Eppure in Italia questa ovvietà non convince una parte vasta dell’opinione pubblica, secondo cui essere antifascisti significa essere comunisti, dimenticando la Resistenza liberale, cattolica, monarchica. Alle Fosse Ardeatine caddero 12 carabinieri, il colonnello dell’esercito Giuseppe Montezemolo, e un sacerdote, don Pietro Pappagallo; e certo non erano comunisti.
Ticino ottenne un posto nel Governo centrale, nella persona del leventinese Stefano Franscini, un politico-educatore che aveva acquisito una certa notorietà anche oltralpe sulla base delle sue indagini socio-statistiche (Statistik der Schweiz, 1929). In proposito, il massimo storico del «Bundesrat», Urs Altermatt, ha parlato di un «Mythos Franscini» tuttora evocato e celebrato non solo nel suo Cantone natale. Quale indirizzo si volle dare alla Svizzera con la nuova Costituzione? I pareri degli storici divergono. Alcuni, ad esempio Cédric Humair, hanno esaltato il ruolo dell’élite liberale urbana, da tempo ostile ai vincoli politici e ai lacci amministrativi che ostacolavano la crescita del Paese, soprattutto nel campo dello sviluppo dell’industria e dei trasporti; altri – come Olivier Meuwly, che ha appena pubblicato da Alphil un breve profilo di storia costituzionale – contesta inve-
ce questa interpretazione fondata su una presunta egemonia dell’elemento borghese, determinata, a sua volta, dall’interesse economico. A suo giudizio saremmo qui in presenza di un approccio riduttivo che ignora i passaggi liberal-progressisti del documento, che all’epoca potevano anche togliere il sonno alle teste coronate. Insomma, non una semplice «carta», quella adottata nel 1848, ma un compendio della storia nazionale, del suo passato e delle successive tappe, culminate in due profonde revisioni: la prima nel 1874, la seconda nel 1999. Specchio dell’evoluzione politica, civile e giuridica del nostro Paese, ma anche motore e stimolo per riformulazioni e riforme. Nella successione degli articoli è possibile seguire il circospetto passo dello Stato federale, le innovazioni come le esitazioni, i frutti delle conquiste sociali come i ritardi e le lacune. Speriamo che le scuole raccolgano l’invito.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 31 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
di Aldo Cazzullo
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di Orazio Martinetti
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Il Rijksmuseum omaggia Vermeer Fa il tutto esaurito la retrospettiva coinvolgente sull’opera del pittore olandese che chi non ha il biglietto può visitare anche online
Le narrazioni di vita di Pierre Casè Allo Spazio Officina di Chiasso una mostra racconta l’artista da poco scomparso che ha interpretato lo spirito della nostra regione
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L’OSI suona il Rodolfo di Oscar Bianchi Incontro con Oscar Bianchi, autore di Rodolfo, una composizione realizzata ad hoc per l’OSI che la suonerà in prima assoluta il 20 aprile
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Suad Amiry, architetta e scrittrice resiliente
Intervista ◆ «Quando si tocca il fondo può solo andare meglio», dice l’intellettuale palestinese sulla situazione attuale nel suo Paese
Suad Amiry (nella foto) è una scrittrice e intellettuale palestinese vissuta ad Amman, Beirut, il Cairo, e laureata in architettura alla Michigan University, perfezionando i suoi studi a Edimburgo. Tornata in Palestina nel 1981 ha insegnato per molti anni all’Università di Bir Zeit. Tra il 1991 e il 1993 ha fatto parte delle delegazioni palestinesi per la pace in Medio Oriente agli incontri negli Stati Uniti. Il suo romanzo Sharon e mia suocera (Feltrinelli), un diario autobiografico, è stato un successo internazionale tradotto in undici lingue.
Suad Amiry, lei ha iniziato a scrivere nel 2002 quando gli israeliani hanno occupato Ramallah, costringendo la popolazione a un coprifuoco di 44 giorni. La sua scrittura nasce come forma di resistenza, o come l’ha definita meglio di resilienza, quella del popolo palestinese. Quel diario diventò il suo primo libro Sharon e mia suocera (Feltrinelli), un testo che racconta il dramma del suo popolo però con un irresistibile humor.
Ho iniziato a scrivere quando le forze israeliane hanno rioccupato la città. Occuparono anche la sede del presidente Arafat, e a quel tempo mia suocera di 91 anni viveva sola, grazie a dio, proprio vicino alla Muqataa, il suo quartier generale. A seguito del coprifuoco di 44 giorni imposto dagli israeliani, sono stata obbligata a portarla a vivere con me. E da quel momento ho vissuto due occupazioni: una interna e civile a casa da parte di mia suocera, e una esterna da parte dell’esercito israeliano del generale Ariel Sharon. Grazie alla pressione di entrambe queste occupazioni si è rivelata la scrittrice che è in me. Così è nato il mio primo libro di guerra: Sharon e mia suocera
I luoghi, che sia Gerusalemme, Jaffa, o Ramallah, sono molto importanti nei suoi libri e nella sua scrittura. Attinge molto spesso all’autobiografia, come in Damasco (Feltrinelli), dove intreccia la storia di sua nonna e di sua madre con l’insurrezione palestinese del 1929 e con le successive rivolte.
Sì, essendo un architetto prima di tutto, quartieri, mercati, edifici e abitazioni giocano una parte importante nella costruzione dei miei libri, dove eventi personali o pubblici trovano un loro contesto. Città come Gerusalemme, Damasco e Jaffa si presentano in maniera molto forte. Per esempio, in Damasco racconto la città di mia madre e dove sono nata, le storie umane e personali della mia famiglia materna però allo stesso tempo sono anche la storia di un mondo arabo aperto e senza
confini che ora non esiste più. E nel mio ultimo libro Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea (Mondadori), racconto la città di mio padre, Jaffa. È una storia d’amore personale tra due giovani palestinesi, Subhi e Shams, ma è anche la storia di un’intera nazione che è stata espropriata, cacciata dalle proprie case, città, villaggi, fattorie, spogliata delle attività commerciali. La mia famiglia era tra quelle che hanno subito questa violenza.
Ogni suo libro incrocia inevitabilmente un momento della storia del suo popolo, che lei racconta attraverso le vicende intime, personali, nello spazio privato, ricostruendole dalla memoria famigliare, dalle emozioni e dai ricordi violati, come in Golda ha dormito qui (Feltrinelli), un libro sul trauma della perdita della casa a Gerusalemme (molti palestinesi furono dichiarati «proprietari assenti» dopo che gli israeliani presero il possesso della città) ma anche delle radici violate.
Golda ha dormito qui si focalizza sui quartieri e sulle case arabe, in quello che divenne poi l’ebrea Gerusalemme Ovest. Il libro fondamentalmen-
te racconta delle case rubate, dove politici israeliani come il primo ministro israeliano Golda Meir hanno vissuto una volta e dove ricche famiglie israeliane vivono oggi, parla di cosa significa per qualcuno perdere la propria abitazione, quali sono gli effetti psicologici o il trauma di dover lasciare per sempre la propria dimora.
Anche il suo ultimo libro edito in Italia, Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea (Mondadori), ha un fondale storico ed è ambientato nel 1948 quando l’esercito israeliano bombarda Jaffa e la occupa.
Sì, il mio ultimo libro che è dedicato a mio padre, morto prima di ritornare a casa, racconta della sua città: Jaffa. Il libro si occupa del momento più difficile della nostra storia, «la Nakba», dove il 90 per cento dei palestinesi furono cacciati dalle proprie case per la creazione dello Stato ebraico. Il romanzo, che copre il periodo che va dal 1947 al 1952, mostra la città prima di quell’evento, vivace e cosmopolita, la sua distruzione e lo spostamento dei suoi abitanti, il prezzo umano che i palestinesi hanno dovuto pagare per la costruzione dello Stato di Israele.
Lei è architetta, insegnante, ma anche direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah, che si propone di conservare l’identità del popolo palestinese attraverso l’architettura con il restauro del patrimonio culturale e la creazione di spazi di aggregazione alternativi alle moschee. Prima di tutto sono un architetto della conservazione che si preoccupa della protezione dell’ambiente, della natura e del patrimonio culturale sia di siti archeologici sia architettonici. Questo non solo in Palestina, ma anche in altre parti del mondo. Ecco da dove arriva il mio amore per l’Italia. Anche se agli italiani piacerebbe pensare che io ami l’Italia per il cibo, io la amo per il suo patrimonio culturale. Tuttavia, nel caso della Palestina la situazione è differente a causa del pericolo verso tutto ciò che è «palestinese». Non dimentichiamo che tra il 1984-1952 l’esercito israeliano ha raso al suolo circa 420 villaggi che costituivano il 50 per cento dei nostri insediamenti storici. È da qui che nasce il mio interesse nel proteggere il patrimonio culturale, in aggiunta al mio amore per questo campo in generale, ed è
per questo che nel 1991 ho fondato a Ramallah il Riwaq, il Centro di conservazione architettonica (www. riwaq.org).
Ha affermato che la situazione di conflitto in Cisgiordania può risolversi solo dando uno Stato ai palestinesi, ma anche dopo l’uscita di scena di Trump sembra un’idea molto lontana, anzi la situazione pare molto estremizzata con il nuovo governo Netanyahu, forse il più antipalestinese della storia. La situazione attuale è molto pericolosa e triste. In Israele abbiamo il governo più razzista e fondamentalista religioso possibile, personaggi come Bezalel Smotrich, ministro delle finanze, il quale afferma apertamente che non esistono i palestinesi e fa vedere mappe dello stato di Israele che non includono soltanto l’occupata West Bank e la striscia di Gaza, ma anche parte della Giordania! Ma, come diciamo noi in arabo: quando si tocca il fondo può solo andare meglio, significa che il mondo ora ci vede, spero, perché condannare le politiche colonialiste di Israele non ha niente a che fare con l’antisemitismo, cosa di cui è accusato chiunque le critichi.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 33
CULTURA
Angelo Ferracuti
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Un irripetibile Jan Vermeer fa il tutto esaurito
Mostra ◆ Al Rijksmuseum la più completa monografica sul pittore olandese
«La più grande, eccezionale, irripetibile, imperdibile, passerà alla storia…», aggettivi e locuzioni iperboliche abbondano sulla stampa europea e internazionale. E tutto per soli 28 dipinti di piccolo formato e una mostra dal titolo che più breve non si può: Vermeer. La mostra al Rijksmuseum di Amsterdam ha assunto sin dalla presentazione un carattere cosmopolita e, al di là delle sfiziose e un po’ malevoli considerazioni sulla cultura di massa (solo cassa?), ha davvero l’aria di essere irripetibile. I promotori sono riusciti a far confluire ad Amsterdam 28 dei 37 quadri riconosciuti alla mano del genio di Delft. Mai prima d’ora sono stati esposti insieme così tanti Vermeer, nemmeno il pittore stesso ha potuto godere di simile abbondanza nella sua bottega perché i dipinti presero presto il largo e oggi li troviamo nei grandi musei a Dresda, New York, Berlino, Francoforte, Dublino, Washington, Londra, Edimburgo, Parigi e Tokyo, città che li hanno dati in prestito per l’esposizione attuale. Nei Paesi Bassi ne rimasero solo sette: quattro appartengono alla collezione del Rijksmuseum – La Lattaia, Donna in blu che legge una lettera, Stradina di Delft e Lettera d’amore – che ovviamente sono in mostra così come Diana e le sue Ninfe, Veduta di Delft e il celeberrimo La ragazza con l’orecchino di perla provenienti dal Mauritshuis dell’Aja. In poche parole, oggi agli appassionati d’arte si presenta l’incredibile possibilità di ammirare in un solo luogo tre quarti dei capolavori di Vermeer ma, ahinoi, è già stato annunciato il tutto esaurito fino alla chiusura del 4 giugno malgrado l’estensione degli orari dalle 9.00 alle 23.00.
Fatta eccezione per gli scorci paesaggistici in Veduta di Delft e Stradina di Delft della seconda sala, i suoi dipinti sono sempre ambientati in in-
La verità, vi prego, su Lidia Poët
Biografia ◆ Pasquale Tammaro e Ilaria Iannuzzi fanno luce sulla prima avvocata italiana
Federica Alziati
terni domestici, a volte spogli, altre ricchi di elementi come i preziosi tappeti con funzione di tovaglia, il tendaggio che dà profondità alle scene, i copricapi e le perle che testimoniano gli scambi commerciali con l’Oriente. Tutte le sue opere emanano un grande senso di quiete, di serenità, è un mondo permeato dal silenzio che contrasta un poco con la folla di visitatori accorsi alla mostra. Tali sensazioni sono accentuate da una fonte di luce caravaggesca che fissa morbidamente l’istante sulla tela: la serva che versa il latte, una donna che legge o scrive una lettera, un’altra che pesa le perle o che suona, il geografo che misura con il compasso, il giovane che paga La mezzana per appartarsi con una prostituta, La merlettaia con il filo ben teso mentre ricama. In questo modo, normalissimi gesti di vita quotidiana diventano straordinari, diventano arte e catturano l’attenzione dei presenti. Le sue splendide figure, quasi tutte femminili, ci rendono testimoni della vita signorile di quattro secoli fa, degli oggetti di uso comune, dell’arredamento, delle abitudini. Con un perfetto utilizzo della luce, quasi sempre proveniente da finestre poste sulla sinistra, il maestro di Delft riesce a dare profondità agli interni e a focalizzare il nostro sguardo sull’essenza del dipinto, come le lettere scritte o lette dalle donne. La padronanza della prospettiva e il suo realismo danno «la sensazione che tu sia lì, assieme a quella persona, in quella stanza» (Taco Dibbits, direttore del Rijksmuseum) a vivere l’intimità della casa.
Vermeer proveniva da una famiglia della media borghesia calvinista e si era convertito al cattolicesimo per sposare Catharina Bolnes; non era ricco, anzi è morto pieno di debiti, viveva con l’amata consorte e undici figli a suo carico nel ghetto cattolico di
Silini (redattore responsabile)
Delft, ciò nonostante non ha mai risparmiato sui materiali utili alla sua arte, come il lapislazzuli dell’Afghanistan, una pietra più cara dell’oro che macinata genera il blu oltremare che usava per gli splendidi azzurri de La lattaia, della Donna in blu che legge una lettera o del turbante turco sulla Ragazza con l’orecchino di perla, la «Monna Lisa olandese» dal morbido volto che ci lancia un’occhiata penetrante mentre sostiamo nella sua stanza. Questo artista del pennello amava anche curare minuziosamente i dettagli delle sue tele tanto da farle sembrare ai nostri occhi un’istantanea fotografica ante litteram: un vaso finemente decorato, il calice e gli altri simboli della religione in Allegoria della fede cattolica, la perla all’orecchio, la bilancia in mano, la carta geografica alla parete, il pane nella cesta, gli strumenti musicali ben caratterizzati… un piacere per la vista. Vermeer piace per il senso che i suoi quadri infondono, per la luminosità e i colori vivaci, per lo stile fotografico e la cura dei dettagli, «per la bellezza, una bellezza per cui mancano le parole, una bellezza capace di fermare il tempo, qualcosa di incredibilmente attuale perché, proprio in un momento così velocizzato, sentiamo sempre di più il bisogno di rallentare il nostro tempo» (T. Dibbits). Non possiamo dire se sia la mostra del secolo su Vermeer ma è senza dubbio una retrospettiva coinvolgente e a chi non si è affrettato a prendere i biglietti consigliamo una visita sul sito dove la sezione dedicata Closer to Johannes Vermeer offre un’immersione digitale nella mostra.
Dove e quando Vermeer, Rijksmuseum, Museumstraat 1, Amsterdam. Fino al 4 giugno 2023. www.rijksmuseum.nl
Nata il 26 agosto 1855, in un villaggio alpino piemontese, tra le prime signorine ammesse ai corsi accademici nel novello Regno d’Italia, nel 1881 Lidia Poët si laureò in Legge a Torino discutendo uno Studio sulla condizione della donna rispetto al diritto costituzionale ed al diritto amministrativo nelle elezioni, nel quale rivendicava per lo meno il diritto di dibattere seriamente la questione del suffragio femminile: ci sarebbero voluti quasi settant’anni perché il tema trovasse soluzione in Italia (e se si guarda al di qua del confine, l’anticipo è pressoché secolare), ma Lidia conseguì infine di esprimere il proprio voto, ormai ultranovantenne, a partire dal referendum del 2 giugno 1946. La sua figura merita di profilarsi nitidamente nella storia dell’emancipazione femminile per una ragione ben precisa: divenuta la dottoressa Poët, Lidia non rinunciò a condurre al suo logico compimento il percorso intrapreso varcando le soglie dell’Università, tra la benevola curiosità di compagni, docenti e cronisti. Ciò significa che assolse l’obbligo del praticantato, sostenne con successo l’esame di abilitazione all’avvocatura e il 28 giugno 1883 presentò un’inedita ma regolare domanda di iscrizione all’Albo degli Avvocati di Torino. Il pronunciamento iniziale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del capoluogo piemontese innescò una sequela di ricorsi, rinvii a giudizio e sentenze, coinvolgendo le istituzioni giuridiche e politiche, ma anche gli organi di stampa e l’opinione pubblica. Per alcuni anni, il confronto sulla possibilità che una donna fosse ammessa a esercitare l’avvocatura fu acceso, con prese di posizione a favore o contrarie da parte di giuristi, intellettuali, politici e femministe. Dirimere la trama delle questioni legali, sociali e culturali sollevatesi attorno alle aspirazioni di Lidia Poët richiede di considerare con competenza e senza filtri anacronistici i margini di interpretazione delle leggi e delle aspettative della società italiana al volgere dell’Ottocento: una prospettiva lontana dalle esigenze di semplificazione della scrittura seriale, specie se la sceneggiatura predilige eroine solitarie e seducenti, dedite quasi soltanto ad assecondare la passione per il giallo del grande pubblico. L’invito è di affiancare alla serie Netflix che ha avuto tanta attenzione mediatica (e di cui si è parlato nel numero 12 di «Azione») la ricostruzione storico-biografica confezionata con cura intelligente e cognizione di causa da Pasquale Tammaro e Ilaria Iannuzzi, corredata di tutti gli atti processuali relativi al caso e di gustosissimi estratti dalle pubblicazioni a stampa dell’epoca.
Sarebbe semplicistico limitarsi a ricordare che la Corte d’Appello di Torino, seguita dalla Corte di Cassazione, nell’autunno 1883 impose la cancellazione di Lidia Poët dall’Albo sulla ba-
se della convinzione che «l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto dai maschi, e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine» (p.182); o lamentare che Lidia continuò a lavorare nell’ombra dello studio legale del fratello fino al 1920, quando, in ottemperamento a nuove normative, all’età di sessantacinque anni fu finalmente riammessa alla professione. La professionalità dell’avvocato Poët invita a penetrare nel vivo dei dibattimenti, per saggiare (con l’aiuto dei curatori) le ragioni da lei addotte contro l’opinione diffusa dell’implicita esclusione delle donne da un ufficio le cui norme non prevedevano requisiti di genere.
Non le mancarono mai argomenti validi, mentre i suoi avversari opponevano obiezioni «più rettoriche che giuridiche, ispirate a ragioni di sentimento e non a que’ principi di diritto e a quella ragion positiva che soli possono e debbono essere invocati» (p. 159). E aiuta a comprendere le radici di alcuni fronti ancora oggi tutt’altro che pacificati scoprire che, tra le righe del suo ricorso, il Procuratore Genera-
le di Torino lasciò cadere un’allusione al fatto che nella «letterale disposizione della legge» si parlasse sempre «di avvocati e non di avvocate», costringendo Lidia a replicare che «sarebbe davvero troppo comoda teoria […] il considerare come escluse le donne da tutte le disposizioni dove una espressione di genere maschile indica i diritti e gli oneri dei cittadini dinanzi alla legge». Vien da sorridere leggendo come la Procura propugnasse «in modo assoluto la incapacità del sesso debole alle funzioni» in questione per «la deficienza […] di adeguate forze intellettuali e morali, fermezza, costanza, serietà» (pp. 168-170) e come la sentenza della Corte di Appello ne accogliesse i propositi, adducendo tra i motivi anche il sospetto che i signori magistrati si sarebbero potuti facilmente piegare «in favore della parte per la quale ha perorato un’avvocatessa leggiadra» (p. 183). Così vanno spesso le logiche del mondo; voglio dire, così andavano nel secolo decimonono.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 35 azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– / Estero a partire da Fr. 70.–Redazione Carlo
Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie ●
Tommaso Stiano
Bibliografia
Wikipedia
Pasquale Tammaro e Ilaria Iannuzzi, Lidia Poët. La prima avvocata, Le Lucerne, Milano, 2022.
Veduta di Delft, Johannes Vermeer, 166061, olio su tela. (Mauritshuis, The Hague)
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Pierre Casè tra radici, materia ed essenza
Mostra ◆ Lo Spazio Officina di Chiasso omaggia l’artista da poco scomparso con una rassegna che lui stesso aveva pensato
Alessia Brughera
Pierre Casè è stato senza dubbio uno degli artisti svizzeri più significativi dell’ultimo mezzo secolo. Pochi sono riusciti a lasciare un segno profondo come il suo nella nostra cultura. Intimamente legato alla propria terra, con la sua fecondità creativa Casè ha interpretato appieno lo spirito della nostra regione per farsi portatore di messaggi universali. E lo ha fatto attraverso opere che sono vere e proprie narrazioni di vita, nate da materiali che trasudano la storia e la memoria dei luoghi da cui provengono ma che diventano altresì simboli dell’ovunque.
Casè si è spento lo scorso agosto all’età di settantotto anni e nella sua densa esistenza ha percorso traiettorie originali, ha fatto scelte controcorrente, ha saputo dialogare, disapprovare e osare, forte di un pensiero critico onesto e trasparente che non lo ha mai fatto soggiacere alle imposizioni della società.
Per questo la sua vita di fatiche e sacrifici è stata anche ricca di gratificazioni e riconoscimenti. Da ragazzo vorrebbe iscriversi all’Accademia di Brera ma con la madre rimasta vedova deve rinunciarvi per motivi economici. Casè allora impara sul campo: visita quasi ogni giorno l’atelier del pittore Bruno Nizzola, da cui apprende i segreti dei pigmenti, frequenta lo scultore Max Uehlinger, che gli insegna a plasmare la materia, e affianca il restauratore Carlo Mazzi, da cui impara a recuperare i dipinti antichi, cosicché già dai primi anni Settanta il lavoro artistico di Casè si fa molto intenso, grazie anche all’aiuto del fratello maggiore Angelo, poeta e scrittore.
Pacato ma autorevole e determinato, l’artista ticinese si impegna con passione e competenza anche nella mediazione culturale, rivestendo numerose cariche di spicco nella realtà cantonale e svizzera. Un’attività, questa, che si interrompe nel 2000, quando, dopo un infarto e un grave ictus, Casè decide di concentrarsi sulla propria produzione artistica. Tra i tanti ruoli di prestigio ricoperti ci basti
citare la direzione della Pinacoteca Casa Rusca di Locarno, un periodo d’oro in cui l’artista organizza esposizioni memorabili, come quelle che hanno omaggiato Alberto Burri, Antoni Tàpies e Marino Marini.
La rassegna è molto ricca e ben concepita, ripercorre mezzo secolo di attività dell’artista attraverso oltre duecento opere
Uno degli ultimi progetti a cui il maestro ha lavorato nei mesi che hanno preceduto la sua morte è stata la mostra a lui dedicata ospitata in questi giorni allo Spazio Officina di Chiasso: una rassegna che assume un valore ancor più pregnante proprio per il fatto di aver visto la partecipazione diretta dell’artista all’elaborazione del concetto espositivo. Con l’entusiasmo che lo caratterizzava, Casè aveva infatti accettato volentieri di presentare le sue opere a Chiasso, la città in cui nel 1985, presso la Sala Diego Chiesa, aveva tenuto la sua prima personale in uno spazio pubblico.
La rassegna è molto ricca e ben concepita, ripercorre mezzo secolo
Le nuove povertà
di attività dell’artista attraverso oltre duecento opere, tra grafiche e lavori materici di diversi formati. Risulta subito evidente quanto la produzione sia indissolubilmente connessa alle sue radici. Il paesaggio e l’architettura della Vallemaggia, infatti, terra di provenienza della madre e frequentata dall’artista sin dalla tenera età, sono stati la fonte d’ispirazione primaria per le sue opere. Questa regione alpina, sotto molti aspetti rimasta ancora rurale e arcaica, diventa per Casè un luogo dello spirito in cui sprofondare per ritrovare le proprie origini. L’artista, in netta contrapposizione alla tendenza comune di quel periodo a spostarsi verso le città, vi si stabilisce negli anni Ottanta lasciando Locarno, per poter vivere quotidianamente questo territorio in prima persona e riuscire così a catturarne l’anima per poi trasporla nei suoi lavori.
Con la Vallemaggia Casè ha stretto non solo un legame figurativo, scaturito da un riferimento costante al patrimonio di immagini a essa riconducibile, ma anche materico, con l’utilizzo sempre più marcato degli elementi naturali o creati dall’uomo che appartengono a questa terra e alla sua storia. Il dialogo serrato dell’artista
con l’universo valmaggese dà vita a opere in cui la memoria del passato, con la sua forza prorompente, indica a ogni individuo ciò che vale davvero la pena ricordare.
Sabbia di fiume, ghiaia, gneiss, cera d’api, cenere ma anche filo spinato, catrame, chiodi e lamiere arrugginite sono i materiali che Casè trova nella valle e che porta nel proprio atelier per riconsegnarceli in veste di manufatti artistici che si fanno metafora del trascorrere del tempo. È così che i lavori dell’artista, siano essi dipinti, incisi o assemblati, ci appaiono come icone evocative, lucidamente ancorate alla realtà, che si propongono al nostro sguardo sotto forma di un alfabeto simbolico di segni e di materia capace di ricondurci alla nostra essenza.
Ad accoglierci a inizio mostra è l’opera grafica di Casè, una produzione che non è mai stata presentata al pubblico prima d’ora nella sua totalità e che risulta particolarmente importante poiché accompagna l’artista nel suo intero percorso. In questa inedita sezione della rassegna sono esposte serigrafie, acqueforti e acquetinte che nello stile rivelano i contatti di Casè con le ricerche più all’avanguardia in
ambito svizzero tedesco nonché la sua vicinanza a figure di alta levatura, come Alberto Burri. Tra le cartelle grafiche spicca per la grande raffinatezza l’opera dal titolo Tre Crani composta da tre incisioni e da tre poesie di Edoardo Sanguineti, dove i temi della memoria e della conoscenza vengono sviluppati in maniera peculiare, legati come sono alla tragica esperienza dell’ictus vissuta dall’artista.
Di particolare interesse sono le grandi Atmosfere arcaiche, spazi saturi di materia dove Casè fa confluire le suggestioni del suo paesaggio montano, così come i piccoli Ex voto, affollate composizioni dal sapore ancestrale in cui l’artista compendia il sapere popolare, e soprattutto le quattordici stele collocate una accanto all’altra, che con il loro arcano linguaggio composto di segni e di manufatti stratificati emanano un’aura sacrale, trasformandosi in silenziose testimonianze di una saggezza antica da non smarrire.
Imbattersi nell’imponente Bestiario, opera dal forte impatto visivo costituita da dieci pannelli disposti in semicerchio, significa ancora una volta entrare nell’intensità emotiva e nella straordinaria concretezza di Casè: crani umani fissati alla sommità di bastoni e attorniati da lastre di metallo arrugginito e da filo spinato ci ricordano i debiti dell’umanità nei confronti di una natura tradita e ci insegnano come l’arte debba avere un valore etico ancor prima che estetico.
L’artista stesso descriveva il suo fare arte come il tentativo di «raccogliere e narrare la storia variabile e ricorrente di noi che attraversiamo la vita lungo un ideale muro su cui lasciare un’impronta che testimoni e giustifichi il nostro passaggio». E che dia un senso al futuro.
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La luce, il profumo della legna, il calore.
Fanny abbracciò prima Thomas e con maggiore trasporto, faceva parte di un rituale a cui teneva molto, quella ostentata predilezione per la persona che si occupava di Von Arnim e che, nella sua esistenza rarefatta, rappresentava «il popolo».
Il sottotesto era sempre lo stesso: tu che hai bisogno del maggiordomo, la tua vita di grande borghese, tu che hai bisogno di un badante, la tua vecchiaia di pusillanime.
Non si vedevano da due anni, ma
Fanny non era cambiata: la pelle tesa delle donne grasse, arrossata quasi fosse appena tornata da una corsa al freddo, era illuminata da due occhi di taglio orientale, verdi come cocci di vetro, ironici e duri.
Si era truccata accuratamente ciglia e palpebre, l’ampia tunica di velluto nero occultava ed esaltava la scomparsa del suo corpo. Non indos-
sava mai altro che quelle tuniche, erano lunghe ed erano larghe e si trasformavano, con il suo incedere lento, in un manto regale.
Von Arnim si sentì felice d’essere lì. Chissà quanti altri incontri restavano da vivere a entrambi. Fanny aveva due anni meno di lui, ma la sua salute non era altrettanto buona. Non se ne doveva parlare, naturalmente. Era una forma terminale di civetteria quell’apparente disprezzo per lo stato dei suoi organi interni. Il polmone ridotto chirurgicamente di proporzioni, per combattere un enfisema che non l’aveva fatta smettere di fumare, non andava nominato, ma la tosse secca, simile al prolungato frullo di piatti di un virtuoso della batteria, quella la esibiva senza provare a soffocarla, anzi, con un certo gusto.
Le piaceva scorgere nello sguardo di Von Arnim un lampo subito represso di preoccupazione per lei.
Le piaceva che lui fosse lì, seduto
davanti al fuoco, che avesse apprezzato la polenta con i funghi porcini, bevuto Brunello di Montalcino Riserva Case Basse (755 euro la bottiglia), che stesse sorseggiando, gli occhi socchiusi per gustare senza essere distratto da altri sensi, un cognac Hennessy Ellipse dal vago sapore di rosa selvatica.
Le piaceva accendersi davanti a lui, uno dei suoi sigari panciuti. Così densi nel fumo da competere con la legna che bruciava nel camino.
Non sapeva in preda a quale dispiacere il suo antico marito aveva percorso i 688 chilometri che li separavano ormai da 14 anni, per confessare quale sconfitta si era arrampicato su per la montagna (2250 metri sul livello del mare) fino alla Baita. A cena non avevano messo mano ad altro che a quella schiuma di superficie che caratterizza la conversazione dei vecchi: il resoconto ciascuno delle sue idiosincrasie, illuminato da qualche spiegazione intelligente che l’uno porgeva
all’altra come scegliendola da un vassoio di prelibatezze.
In genere, a quel livore per così dire sociologico, faceva seguito la disamina divertita ciascuno dei vizi dell’altro.
Lui accusava lei di essersi nascosta agli occhi del mondo dal giorno in cui lo specchio le aveva rimandato l’immagine di una donna di settant’anni. Le carni allentate nell’adipe, la schiena incurvata dalla cifosi, la rarefazione di quel piumaggio sensuale che ornava il sesso, le ascelle e il cranio delle donne.
Non aveva saputo virilizzarsi, operazione necessaria quando la tua carriera di femmina volge al termine.
Aveva preferito scomparire che cambiare genere.
Non era fluida, lei.
Era una donna che amava essere amata dalle donne.
E non aveva ancora smesso il lutto per la grazia perduta.
Aveva buttato via tutte le fotografie che la ritraevano al tempo della sua bellezza.
Compreso il servizio che un rotocalco d’epoca aveva dedicato al loro matrimonio. (Su un’isola minuscola, nell’Oceano Indiano, comprata e poi rivenduta, perdendoci parecchio).
Lei accusava lui di non saper fare a meno di specchiarsi negli occhi di qualunque imbecille pur di recuperare un’immagine di sé che non aveva mai imparato a fornirsi da solo.
Lo accusava di giocare continuamente, e se quest’attitudine era divertente fino a quando era stato il ritratto vivente del privilegio (maschio bianco nobile ricco intelligente e gentile) oggi, che la «livella» aveva spinto anche lui verso il gran boulevard del fine vita, era ridicolo come un Peter Pan all’ospizio.
Si inchiodavano, ridendo, ciascuno al suo destino. (36 – Continua)
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 11 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 37
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Una copertura iperbolica?
SmartTV ◆ Sguardo sulle maratone elettorali
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Iperbole informativa nella «repubblica dell’iperbole»: così si potrebbe dar conto delle elezioni cantonali ticinesi e della copertura che le televisioni hanno dedicato all’evento.
Rodolfo , una suite per l’OSI
Concerto ◆ Diretta da Markus Poschner l’Orchestra della Svizzera italiana suonerà in prima assoluta l’opera composta da Oscar Bianchi
Enrico Parola
«Quando mi hanno proposto questo progetto mi è subito piaciuta l’idea che il brano contemporaneo non fosse un cammeo prima di un brano noto, di repertorio, ma fosse parte integrante di un programma unitario e intimamente intrecciato».
Un programma che proprio per questa sua origine si propone come originale e di indubbio interesse: Markus Poschner dirigerà l’Orchestra della Svizzera Italiana nel Manfred di Ciajkovskij, tappa del percorso che la formazione ticinese sta compiendo nell’universo sinfonico del musicista russo, e in locandina vi figura accanto la prima assoluta di Rodolfo, commissionata appositamente a Oscar Bianchi, quarantasettenne compositore italo-svizzero assai richiesto a livello internazionale e che sette anni fa aveva già dedicato all’Osi Exordium. «Questa volta osiamo qualcosa di diverso e più originale: la mia opera non costituisce una pagina a sé stante, da eseguirsi integralmente prima o dopo Ciajkovskij, ma vi si intercala: Rodolfo è una sorta di suite le cui parti, oltre ad aprire e chiudere la sinfonia, si inseriscono tra i suoi quattro movimenti». Una scelta ardita, che potrebbe risultare invisa ai puristi: «Infatti. Quando ne parlai con un editore commentò: “Attento, sei stato invitato al festival di Sochi, hai attirato le attenzioni del Mariinskij Teatr di San Pietroburgo e di altre istituzioni, guarda che se osi toccare Ciajkovskij non ti faran-
Con «Azione» al LAC
«Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto diretto da Markus Poschner con l’OSI al LAC giovedì 20 aprile alle 20.30.
Per partecipare al concorso inviate una mail a giochi@azione.ch, oggetto «Rodolfo » con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo, no. di telefono) entro domenica 16 aprile alle 24.00.
no più suonare in Russia”. Purtroppo ci ha pensato la guerra a troncare i miei legami musicali con la Russia; quando è scoppiata mi trovavo appunto a Sochi e dovetti abbandonare rapidamente il festival; fu un viaggio fortunoso e complicato, passai in treno dalla Finlandia. Inutile dire che il dolore è grande: certo la guerra è qualcosa di enorme, ma penso sia un errore cancellare i ponti culturali che uniscono culture e mondi; in questo, per fortuna, mi sembra che in Europa non si sia giunti agli eccessi che si sono potuti vedere ad esempio in America».
«Potessi trascorrere il fantomatico pomeriggio con un gigante dei secoli scorsi, sceglierei Debussy, un genio dei colori sonori e della creatività»
Bianchi non solo ha «ripreso temi e certe soluzioni d’orchestrazione di Ciajkovskij», ma ha anche «aggiunto all’originale un soprano e un coro di voci bianche che intonano un testo in italiano. Non è una sovrapposizione, ho cercato di entrare nelle fibre della partitura ciajkovskiana: ad esempio l’archivista mi ha fatto notare che avevo dimenticato di segnare la parte dell’harmonium cui è assegnato il sostegno armonico, ma proprio in quel punto, senza volerlo, avevo creato la stessa armonia con le voci!».
Se l’operazione « Manfred – Rodolfo » è stata coraggiosa, non da meno è stata la scelta di dedicarsi alla composizione da parte di Bianchi. «Farlo oggi può sembrare una follia e forse in parte lo è; per questo sostengo che più che una scelta sia una necessità: uno fa il compositore perché sente di doverlo fare, vi si sente spinto da un impulso, un’esigenza irrinunciabile. Io, da teenager, strimpellavo il pianoforte, ma senza studiarlo troppo seriamente, però mi divertivo già a comporre; a sedici anni avevo scritto un musical che ebbe un certo apprezzamento e allora nacque in
me il desiderio di conoscere gli strumenti e le tecniche a disposizione di un compositore. Mi iscrissi in Conservatorio, a Milano, immergendomi nell’amata musica classica e scoprendo i linguaggi e le estetiche della musica contemporanea».
Proprio i linguaggi e le estetiche sviluppatesi nella seconda metà del Novecento costituivano un ulteriore deterrente, un possibile ostacolo: spesso e a lungo, negli ultimi decenni, i compositori sono stati accusati di essersi ritirati nella loro «torre d’avorio» creando opere cervellotiche, incomprensibili per i non «addetti ai lavori» e, francamente, brutte. Un riferimento assoluto come Helmut Lachenmann è arrivato addirittura a invitare i colleghi e sé stesso a «smettere di scrivere opere punitive per le orecchie del pubblico». «Si tratta di una fase che forse è stata necessaria; dopo gli orrori delle due guerre mondiali ci si chiedeva se fosse ancora possibile fare poesia, e allo stesso modo la musica volle rompere con un certo passato, con un certo mondo e le sue espressioni culturali. Oggi, ma è un percorso che si sta delineando ormai da vari anni, questa necessità di rottura non è più percepita, e quindi la musica contemporanea si sta riavvicinando al pubblico, sta ritrovando il senso del comunicare e dell’emozionare». Compositori come Sciarrino, che è stato anche maestro di Bianchi, o Lachenmann, non sono stati abiurati: «Alcune loro scoperte, ad esempio sulle sonorità ottenibili da certi strumenti o da un determinato uso dell’orchestra, sono interessantissime; l’importante è non riprenderle come mera, sterile citazione, bensì integrarle organicamente nella propria personale cifra espressiva». Se potesse confrontarsi con qualche Grande del passato, Bianchi non avrebbe dubbi: «Potessi trascorrere il fantomatico pomeriggio con un gigante dei secoli scorsi sceglierei Debussy, un genio dei colori sonori e della creatività, e Mozart: secondo me era davvero un pazzo scatenato».
Per quanto riguarda TeleTicino, si è rimasti in sintonia con il profilo dell’emittente; programmazione fluviale, con un alternarsi implacabile tra le dirette e la loro replica, qualità né meglio né peggio del solito. L’idea di base era che il pubblico non fossero i divanisti in astinenza da politica, ma gente che domenica ha fatto soprattutto altro e che doveva potersi inserire nel flusso non perdendosi nulla di quanto era passato in precedenza. Una scelta non sbagliata, neppure a livello di impegno finanziario. La copertura televisiva della TSI (in particolare la domenica) ha invece optato per una maratona articolata, complessa e costosa; affidata al vellutato cerimoniale di Reto Ceschi, ben affiancato da una presenza femminile (Sharon Bernardi e Sandy Sulmoni) più spigliata e tonica rispetto alle passate edizioni. Si è cercato, spesso con avvertibile fatica, di ammobiliare tempi morti, eterni a causa delle solite inefficienze dello spoglio. La crescente angoscia, venata di rassegnazione, per i ritardi nei risultati ha reso penosi alcuni momenti; imbarazzo palpabile ma gestito da professionisti, con ospiti in studio e fuori, e i soliti collegamenti dalle postazioni enogastronomiche dei vari partiti. Poi dibattiti-vetrina in cui gli intervenuti sciorinavano le quattro righe preparate prima, spesso fregandosene della domanda per la quale avevano ricevuto parola. Si è sentita crudelmente la mancanza della seconda domanda che mettesse l’interlocutore in minimo imbarazzo. Nessun intervallo per rifiatare, salvo i siparietti di Casolini; nemme-
no un Colombo, buonanima. Le vele della diretta sbattevano nella bonaccia, e ci si è dovuti aggrappare a tre temi. Il crescente astensionismo, che ha suscitato nei politici qualche preoccupazione di facciata ma un sovrano disinteresse di fondo. Poi la grancassa per il successo assai prevedibile di un «nuovo» movimento e la preoccupazione corrucciata per la «frammentazione» del quadro parlamentare. Interessante è il paragone con le sorelle SSR impegnate su fronti simili; là una copertura sobria e fattuale, nonostante dinamiche elettorali interessanti (Ginevra), nessuna maratona. Il motivo della diversità è semplice, sembra si consideri la RSI non un medium di lingua italiana, e per italofoni, ma un’emittente della Svizzera italiana, addirittura del Ticino. Così non è: la chiave di riparto concede alla RSI mezzi importanti proprio per essere elemento di coesione tra italofoni in Svizzera e all’estero. Sugli eventi elettorali gioverebbe quindi una copertura più modesta, congrua all’attuale qualità delle proposte politiche e di coloro che le incarnano.
La Genesi in diretta
Evento ◆ Borghi e Blumer insieme al San Materno
Lo scultore Paolo Borghi (nella foto) e il direttore dell’Accademia di architettura di Mendrisio Riccardo Blumer dialogheranno insieme domenica 16 aprile al Teatro San Materno di Ascona. Dalla terra alla carne, questo il titolo dell’incontro, sarà un momento di scoperta del lavoro e della poetica di Borghi tra i segreti e le sto-
rie che i materiali sussurrano alle mani dell’artista ma anche un momento di riflessione sul suo lavoro.
Lo scultore comasco, figlio di un rinomato orafocesellatore che nella sua bottega lo ha iniziato al percorso artistico, per il piacere del pubblico trasformerà dal vivo un blocco di terra in corpo umano.
Con «Azione» al Teatro San Materno
«Azione» mette in palio alcuni biglietti per l’incontro di Paolo Borghi e Riccardo Blumer domenica 16 aprile alle 17.00 al Teatro San Materno di Ascona.
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© Philippe Stirnweiss
Uno degli sfondi usati negli studi di Comano durante la copertura elettorale.
© Paolo Borghi
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Offerte valide solo dall’11.4 al 17.4.2023, fino a esaurimento dello stock. Migros Ticino Con carne svizzera 8.95 Chicken Nuggets bio prodotto surgelato, 300 g 20x CUMULUS Novità Fettine di pollo Optigal Svizzera, al naturale e marinate, per es. al naturale, per 100 g, 2.85 invece di 3.40, in self-service 15% 1.35 invece di 2.10 Carne di manzo macinata M-Classic Svizzera, per 100 g, in self-service 35% 2.–invece di 2.75 Spiedini Grill mi, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 27% Consiglio: con insalata di patate e senape dolce, un abbinamento perfetto 2.60 invece di 3.30 Spalletta affumicata e cotta bio Svizzera, per 100 g, in self-service 20% 1.80 invece di 2.70 Prosciutto di coscia arrotolato Quick M-Classic, affumicato e cotto Svizzera, per 100 g, in self-service 33% 9.90 invece di 16.50 Nuggets di pollo Don Pollo prodotto surgelato, in conf. speciale, 1 kg 40% 2.70 invece di 3.40 Spezzatino di manzo, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 20% 6.60 invece di 8.30 Fettine fesa di vitello fini, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 20% 14.–invece di 17.50 Hamburger di manzo, IP-SUISSE 2 x 300 g conf. da 2 20%
Pesce e frutti di mare
Nella rete della bontà
conf. da 3
30%
14.55
invece di 20.85
Con tante proteine e acidi grassi omega-3
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12.60
invece di 18.–
Orata reale M-Classic, ASC d'allevamento, Croazia, in conf. speciale, 720 g
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10.–
invece di 15.–
Migros Ticino
Filetti di trota affumicati bio d'allevamento, Danimarca, 3 x 100 g
Da pesca
sostenibile
Filetti di limanda Anna's Best, MSC Francia, in conf. speciale, 400 g
20%
Filetto di passera per es. filetto di passera MSC, selvatico/Oceano Atlantico nord-orientale, per 100 g, 2.65 invece di 3.35, in self-service
conf. da 2 40%
8.85
invece di 14.80
Filetti Gourmet à la Provençale Pelican, MSC Prodotto surgelato, 2 x 400 g
Buono da mangiare, buono da pensare
LO SAPEVI?
Nanimale punta sistematicamente su ingredienti vegetali, dimostrando così che non servono prodotti di origine animale per fare un gelato bestialmente buono. I gelati Nanimale sono prodotti in Svizzera con ingredienti naturali e tanto amore. Sulle vaschette di ogni varietà di gelato è raffigurata come ambasciatrice del marchio una specie animale minacciata.
3.95
A base di svizzeraavena
20x CUMULUS Novità
3.65
filiali
8.90
Prodotti vegetariani e vegani Offerte valide solo dall’11.4 al 17.4.2023, fino a esaurimento dello stock.
20x CUMULUS Novità
Nanimale pistacchio prodotto vegano, surgelato, 120 ml
20x CUMULUS Novità
3.95 Vegan Garlic Sauce Thomy 300 ml
20x CUMULUS Novità
3.95 Nanimale Gianduja Praliné prodotto vegano, surgelato, 120 ml
20x CUMULUS Novità
3.95 Nanimale nocciola prodotto vegano, surgelato, 120 ml
Emmi beleaf Alternativa vegetale al formaggio piccante circa 180 g, per 100 g, prodotto confezionato, in vendita nelle maggiori
Hit
Mini Springrolls Vegi Asia-Snacks in conf. speciale, 20 pezzi, 500 g
Bontà da sgranocchiare
Confezioni XL
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2.95 invece di 3.90
Snacketti o Filu Zweifel disponibili in diverse varietà, per es. Paprika Shells Snacketti, 2 x 75 g
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4.95 invece di 6.40
Farm Chips alle erbe svizzere, al naturale o al rosmarino, in confezione speciale, 300 g
20%
Tutte le tavolette di cioccolato Lindt (confezioni multiple escluse), per es. al latte finissimo, 100 g, 2.– invece di 2.50
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Tutto l'assortimento Ben & Jerry's prodotto surgelato, per es. Cookie Dough, 465 ml, 7.95 invece di 9.95
30%
Biscotti Créa d'Or
croccantini alle mandorle, kipferl alla vaniglia o florentin, per es. croccantini alle mandorle, 3 x 103 g, 7.95 invece di 11.40
20x CUMULUS Novità
6.95 MegaStar al caramello prodotto surgelato, 4 x 90 ml
e salato Con certificazione Fairtrade
Dolce
conf. da 2
a partire da 2 pezzi
conf. da 3
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33%
Un brindisi alla primavera
da 6 30%
Coca-Cola Classic o Zero, per es. Classic, 6 x 1,5 l, 8.80 invece di 13.80
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Tutte le birre analcoliche per es. Non, 330 ml, –.90 invece di 1.20
20x CUMULUS Novità
6.95 Vanille Cornets aha! prodotto surgelato, 6 x 120 ml
Tanto gusto anche con intolleranze
20x CUMULUS Novità
7.95 Gelato alla panna Vanille aha! prodotto surgelato, 1 l
conf.
6
da 6 33%
40% Evian in confezioni multiple, per es. Sport, 6 x 750 ml, 4.40 invece di 6.60
Da agricoltura biologica
Bevande Offerte valide solo dall’11.4 al 17.4.2023, fino a esaurimento dello stock.
Succo di mele bio 75 cl o 33 cl, per es. 75 cl, 3.50
20x CUMULUS Novità conf.
conf.
Tutto l'assortimento Prego! per es. Regular, 6 x 1,5 l, 6.90 invece di 11.50 3
da
conf.
Porzioni Blévita sesamo, timo e sale marino o Gruyère, AOP, per es. Gruyère, AOP, 3 x 228 g, 7.90 invece di 11.85
Tutte le bevande Biotta, non refrigerate bio, per es. mirtilli rossi Plus, 500 ml, 3.95 invece di 4.95
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Da gustare in ordine sparso
Dasostenibileproduzione
conf. da 3 20%
Pasta o spätzli alle verdure freschi Anna's Best Fiori limone e formaggio fresco, spaetzli alle verdure o ravioli di manzo Eringer, in conf. multiple, per es. fiori, 3 x 250 g, 11.75 invece di 14.85
Tutti i sughi per pasta e le conserve di pomodoro bio (prodotti Alnatura esclusi), per es. pomodori pelati tritati, 400 g, 1.– invece di 1.25
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Pizze Anna's Best al prosciutto o margherita, per es. al prosciutto, 4 x 400 g, 14.95 invece di 21.60
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Pancho Villa Nacho Chips o Soft Tortillas, per es. Nacho Chips, 2 x 200 g, 6.– invece di 7.60
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Fette di ananas Sun Queen Fairtrade, in confezioni multiple, per es. 6 x 140 g, 5.50 invece di 6.90
Scorta
a partire da 2 pezzi 20%
Offerte valide solo dall’11.4 al 17.4.2023, fino a esaurimento dello stock. Barrette alla mandorla rivestite di caramello Fagottini di cereali ripieni di crema
Caramel Almond & Sea Salt Be Kind 3 x 30 g 20x CUMULUS Novità
Kellogg's Tresor Cookie & Cream 410 g 20x CUMULUS Novità
Core Vanilla Cheesecake Chiefs o Core Peanut Butter Chiefs 40 g 20x CUMULUS Novità 1.50 Gallette di ceci Alnatura 100 g 20x CUMULUS Novità Tutto l’assortimento di tisane Klostergarten per es. foglie di ortica biologica, 20 bustine, 1.50 invece di 1.85 a partire da 2 pezzi 20% 8.95 Barrette Chiefs Crispy Cookie o Salty Caramel in confezioni multiple, 3 x 55 g 20x CUMULUS Novità Tutti i tipi di caffè istantaneo Nescafé per es. Gold bio, Fairtrade, 180 g, 10.65 invece di 13.50 21% Tutto l'assortimento di müsli Farmer per es. Croc mela e cannella, 500 g, 3.60 invece di 4.50 a partire da 2 pezzi 20%
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e l’umore Varie Per colori brillanti 19.–invece di 23.90 Detersivo per capi delicati Yvette in conf. di ricarica, per es. Color, 2 x 2 litri conf. da 2 20% 6.60 invece di 8.80 Tutti gli shampoo e i balsami Elseve per es. shampoo Color-Vive, 2 x 250 ml conf. da 2 25% Carta igienica Tempo asciutta o umida, FSC® in confezioni multiple o speciali, per es. Premium, 24 rotoli, 17.50 invece di 29.20 40% Tutto l'assortimento L’Oréal Paris (confezioni da viaggio e confezioni multiple escluse), per es. mascara Volume Million Lashes, il pezzo, 18.75 invece di 24.95 a partire da 2 pezzi 25% Cestelli o detergenti per WC Hygo in confezioni multiple o speciali, per es. Flower Clean, 2 x 750 ml, 6.– invece di 7.60 conf. da 2 21% 9.95 invece di 12.60 Rasoio usa e getta Gillette Blue II Plus Slalom 2 x 10 pezzi conf. da 2 21% 4.95 Smacchiatore Total Expert 50 ml 20x CUMULUS Novità Tutto l'assortimento Nivea Sun e Hawaiian Tropic (confezioni multiple escluse), per es. Silk Hydration Sun Lotion IP 30 Hawaiian Tropic, 180 ml, 9.– invece di 12.–a partire da 2 pezzi 25%
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11.95 Fantasmini per bambini disponibile in diversi colori e misure
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Tutti i tipi di latte di proseguimento e Junior Aptamil (latte Pre, latte di tipo 1 e Confort esclusi), per es. Pronutra 18+, 800 g, 20.– invece di 24.95
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14.95 Bicchieri primaverili Cucina & Tavola 35 cl, 4 pezzi
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Tutto l'assortimento di alimenti per cani e gatti Edgard & Cooper per es. alimenti per cani a base di manzo, bio, 100 g, 1.55 invece di 1.95
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Kalanchoe a fiori pieni disponibile in diversi colori, in vaso, Ø 10 cm, per es. fucsia, il vaso
13.95 Bouquet di rose M-Classic, Fairtrade disponibile in diversi colori, mazzo da 30, lunghezza dello stelo 40 cm, per es. rosa e fucsia, il mazzo
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Fiori e giardino Offerte valide solo dall’11.4 al 17.4.2023, fino a esaurimento dello stock.
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Tulipani Arlecchino M-Classic disponibile in diversi colori, mazzo da 18, per es. rosso-rosa-bianco, il mazzo
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per es. olive nere spagnole, snocciolate, 150 g, 1.60 invece di 2.60, offerta valida dal 13.4 al 16.4.2023
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In vendita nelle maggiori filiali Migros. Da questa offerta sono esclusi gli articoli già ridotti. Offerta valida solo dall’11.4 al 17.4.2023, fino a esaurimento dello stock.
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